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September 9, 2017 | Author: marco | Category: Pythagoras, René Descartes, Mathematics, Physics & Mathematics, Reason
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Mario Livio Dio è un matematico Rizzoli Proprietà letteraria riservata © 2009 by Mario Livio © 2009 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-60109-9

Titolo originale dell'opera: IS GOD A MATHEMATICIAN? Edizione originale Simon & Schuster, Inc. In copertina: progetto grafico di Meg Paradise per Mucca Design Traduzione di: Carlo Capararo e Andrea Zucchetti. Realizzazione editoriale: Studio Editoriale Littera, Rescaldina (MI).

www.rizzoli.eu Come è possibile che un prodotto della mente umana, pur essendo indipendente dall’esperienza, si accordi tanto bene agli oggetti della realtà fisica? Se lo chiedeva, tra gli altri, Einstein pensando alla matematica, una disciplina che almeno dai tempi dei pitagorici ha assunto un’aura di divinità per le sue caratteristiche di perfezione e trascendenza. Man mano che le nostre conoscenze tecniche si sviluppano, scopriamo che le formule e le forme geometriche, elaborate sullo slancio della speculazione pura, descrivono con precisione il mondo che ci circonda e spesso anticipano scoperte ben più tarde. Qual è il mistero di tanta “irragionevole efficacia”?

Per rispondere a questa domanda, Mario Livio ripercorre con vivace curiosità le avventure, i pensieri e gli accesi dibattiti delle grandi menti del passato: geni che non a caso furono insieme matematici e mistici, astronomi, fisici, sociologi e alchimisti. Così, tra le leggi della gravitazione universale di Newton, le geometrie non euclidee di Riemann e il teorema d’incompletezza di Gödel, nel racconto trovano spazio anche le Osservazioni fatte sui bollettini di mortalità con cui nel Seicento il merciaio londinese John Graunt aprì la strada al trionfale ingresso di numeri ed equazioni nelle scienze sociali per mezzo della statistica. Secoli di interrogativi, conclude l’autore, non sono bastati a dissipare il mistero della perfetta corrispondenza tra speculazione matematica e realtà fisica, ma ci hanno regalato almeno una certezza: se Dio esiste, di sicuro è un matematico integralista. MARIO LIVIO, astrofisico di fama internazionale, lavora dal 1991 presso lo Space Telescope Science Institute, che coordina l’attività del telescopio spaziale Hubble, di cui ha diretto la divisione scientifica. Appassionato d’arte e di storia della matematica, ha già pubblicato per Rizzoli La sezione aurea (2003) e L’equazione impossibile (2005). dedica A Sofie Prefazione Quando si lavora nel campo della cosmologia – lo studio del cosmo nel suo complesso –, una delle certezze della vita diventa l’arrivo a scadenza settimanale di una lettera, un’e-mail o un fax inviati da qualcuno (invariabilmente un uomo) che vuole esporvi la propria teoria dell’universo. Il più grosso errore che possiate commettere è rispondere gentilmente dicendo che vi piacerebbe saperne di più. Il risultato immediato sarà un interminabile fuoco di fila di messaggi. Come si può dunque prevenire l’attacco? Una tattica che ho trovato particolarmente efficace (a parte la scortesia di non rispondere affatto) è di far presente un fatto incontestabile: fintantoché una teoria non è formulata in maniera precisa nel linguaggio della matematica, è impossibile valutarne la validità. Questa risposta blocca all’istante la gran parte dei cosmologi dilettanti. La verità è che senza matematica i cosmologi moderni non avrebbero potuto progredire nemmeno di un passo nel loro

tentativo di comprendere le leggi della natura. La matematica fornisce la solida impalcatura che tiene insieme ogni teoria dell’universo. Può darsi che ciò non appaia così sorprendente finché non ci si rende conto che la natura della stessa matematica non è del tutto chiara. Come ha affermato una volta il filosofo inglese Sir Michael Dummett, «Le due discipline intellettuali più astratte, la filosofia e la matematica, fanno sorgere la stessa perplessità: di che cosa trattano? La perplessità non nasce soltanto dall’ignoranza: anche coloro che si occupano professionalmente di queste materie trovano difficile rispondere alla domanda». In questo libro cercherò umilmente di chiarire sia alcune caratteristiche essenziali della matematica sia la natura del rapporto tra la matematica e il mondo che osserviamo. L’intento non è quello di stilare una storia generale della matematica: quello che faccio è piuttosto seguire l’evoluzione cronologica di alcuni concetti che hanno risvolti diretti per capire il ruolo della matematica nella nostra comprensione del cosmo. Nel corso di un lungo periodo di tempo, molte persone hanno contribuito, direttamente e indirettamente, alle idee presentate nel libro. Vorrei ringraziare Sir Michael Atiyah, Gia Dvali, Freeman Dyson, Hillel Gauchman, David Gross, Sir Roger Penrose, Lord Martin Rees, Raman Sundrum, Max Tegmark, Steven Weinberg e Stephen Wolfram per i proficui scambi di opinioni. Sono grato a Dorothy Morgenstern Thomas per avermi permesso di consultare il testo completo del resoconto di Oscar Morgenstern dell’esperienza avuta da Kurt Gödel con il Servizio di immigrazione e naturalizzazione statunitense. William Christens-Barry, Keith Knox, Roger Easton e in particolare Will Noel sono stati tanto gentili da offrirmi spiegazioni dettagliate sui loro tentativi di decifrare il palinsesto di Archimede. Un ringraziamento speciale va a Laura Garbolino per avermi fornito materiali fondamentali per la mia ricerca e documenti rari riguardanti la storia della matematica. Ringrazio anche i dipartimenti collezioni speciali della Johns Hopkins University, della University of Chicago e della Bibliothèque nationale de France (Parigi) per aver trovato alcuni manoscritti rari per me. Sono grato a Stefano Casertano per l’aiuto nelle difficili traduzioni dal latino, e a Elizabeth Fraser e Jill Lagerstorm per la loro impagabile assistenza bibliografica e linguistica (offerta sempre con il sorriso).

Devo un ringraziamento speciale a Sharon Toolan per la sua assistenza professionale nella preparazione del manoscritto per la stampa, e a Ann Feild, Krista Wildt e Stacey Benn per aver realizzato alcune delle figure riprodotte nel libro. Qualsiasi autore dovrebbe essere riconoscente del sostegno continuo e paziente che io ho ricevuto da mia moglie Sofie durante il lungo periodo della stesura del libro. Infine, vorrei esprimere la mia sincera gratitudine alla mia agente, Susan Rabiner, senza il cui incoraggiamento questo libro non sarebbe mai esistito. Sono anche profondamente riconoscente al mio editor Bob Bender per la sua attenta lettura del manoscritto e i suoi commenti penetranti, a Johanna Li per la sua preziosa assistenza nella produzione del libro, a Loretta Denner e Amy Ryan per la revisione finale del testo, a Victoria Meyer e Katie Grinch per la promozione del libro, e all’intero staff di produzione e di marketing della Simon & Schuster per il loro lavoro indefesso. 1 Un mistero Qualche anno fa tenni un discorso alla Cornell University. Su una delle mie diapositive PowerPoint apparve la scritta: «Dio è un matematico?». Sentii uno degli studenti seduti in prima fila esclamare: «Oh Dio, spero di no!». Quella mia domanda retorica non era né un tentativo filosofico di definire Dio per il mio pubblico né un’astuta macchinazione per intimidire le persone affette da fobia per la matematica. Stavo semplicemente presentando un mistero in cui da secoli si dibattono alcune tra le menti più originali: i poteri in apparenza onnipresenti e onnipotenti della matematica, caratteristiche che in genere si associano soltanto a una divinità. Come disse una volta il fisico inglese James Jeans (1877-1946), «Sembra che l’universo sia stato progettato da un matematico puro».[1] Sembra, insomma, che la matematica sia quasi troppo efficace per descrivere e spiegare non solo il cosmo in generale, ma persino alcune delle attività umane più caotiche. I fisici che tentano di formulare teorie dell’universo, gli analisti di borsa che si rompono la testa per prevedere il prossimo crollo dei mercati, i neurobiologi che costruiscono modelli del funzionamento del

cervello, gli esperti di statistica dell’intelligence militare che cercano di ottimizzare l’allocazione delle risorse, tutti costoro utilizzano la matematica. E, anche se si servono di formalismi elaborati in differenti branche matematiche, fanno tutti riferimento a un unico sistema matematico globale coerente. Che cosa dà alla matematica questi incredibili poteri? «Come è possibile» si chiese una volta Einstein «che la matematica, un prodotto della mente umana che è indipendente dall’esperienza [il corsivo è mio], si accordi in maniera tanto eccellente agli oggetti della realtà fisica?»[2] Questo senso di assoluta meraviglia non è nuovo. Già alcuni filosofi dell’antica Grecia, Pitagora e Platone in particolare, manifestavano il loro stupore di fronte all’apparente capacità della matematica di dar forma all’universo e di governarlo, e di esistere, a quanto sembrava, al di sopra del potere degli uomini di alterarla, dirigerla o influenzarla. Anche il filosofo inglese Thomas Hobbes (1588-1679) non riusciva a nascondere la sua ammirazione. Nel Leviatano, l’imponente opera in cui espose ciò che considerava il fondamento della società e del governo, Hobbes individua nella geometria il paradigma del ragionamento razionale: Se allora tale verità consiste nel giusto ordinamento dei nomi nelle nostre affermazioni, un uomo che cerca la verità precisa deve ricordarsi per che cosa sta ogni nome che utilizza e posizionarlo di conseguenza, altrimenti si troverà intrappolato nelle parole, come un uccello in un rametto di vischio, che più cerca di divincolarsi e più rimane invischiato. E così in geometria (che è l’unica scienza che Dio ha voluto finora donare al genere umano) gli uomini cominciano con lo stabilire i significati delle loro parole, chiamando definizioni questa sistemazione di significati e collocando tali definizioni all’inizio del calcolo.[3] Millenni di ricerche matematiche portentose e di speculazioni filosofiche erudite hanno contribuito relativamente poco a far luce sull’enigma del potere della matematica. Anzi, in un certo senso il mistero si è addirittura infittito. Il noto fisico matematico di Oxford Roger Penrose, per esempio, oggi identifica addirittura un triplo mistero. Penrose distingue tre «mondi»: il «mondo delle nostre percezioni coscienti», il «mondo fisico» e il «mondo platonico delle forme matematiche».[4] Il primo mondo è la sede di tutte le nostre immagini mentali: come percepiamo i volti dei nostri figli, come

godiamo di un tramonto mozzafiato o come reagiamo di fronte a orripilanti immagini di guerra. È anche il mondo che contiene l’amore, la gelosia e i pregiudizi, le nostre percezioni della musica, degli odori del cibo e della paura. Il secondo mondo è quello che in genere chiamiamo realtà fisica. Oggetti reali come fiori, pastiglie di aspirina, nuvole bianche e aviogetti appartengono a questa categoria, così come vi appartengono galassie, pianeti, atomi, cuori di babbuino e cervelli umani. Il mondo platonico delle forme matematiche, che per Penrose è altrettanto reale quanto quello fisico e mentale, è la patria della matematica. È qui che troveremo i numeri naturali 1, 2, 3, 4..., tutte le figure e i teoremi della geometria euclidea, le leggi newtoniane del moto, la «teoria delle stringhe», la «teoria delle catastrofi» e i modelli matematici del comportamento dei mercati finanziari. E a questo punto, osserva Penrose, sorgono i tre misteri. Primo, il mondo della realtà fisica sembra obbedire a leggi che risiedono nel mondo delle forme matematiche. Era questo il mistero che lasciava perplesso Einstein. Il Premio Nobel per la Fisica Eugene Wigner (1902-1995) ne era altrettanto sbalordito: Il miracolo dell’idoneità del linguaggio della matematica alla formulazione delle leggi della fisica è un dono meraviglioso che non comprendiamo né meritiamo. Dovremmo esserne grati e sperare che rimarrà valido nella ricerca futura e che si estenderà, nel bene e nel male, per il nostro piacere e forse anche per il nostro sconcerto, a vaste branche del sapere.[5] Secondo, la stessa mente che percepisce – la sede delle nostre percezioni consce – è emersa in qualche modo dal mondo fisico. Come ha fatto la mente a nascere, in senso letterale, dalla materia? Saremo mai in grado di formulare una teoria della coscienza che sia coerente e convincente quanto lo è, per fare un esempio, la teoria dell’elettromagnetismo? Alla fine, ed è il terzo mistero, il cerchio si chiude. Quelle menti che percepiscono sono state capaci di accedere al mondo matematico scoprendo o creando ed esprimendo una raccolta preziosa di forme e concetti matematici astratti. Penrose non offre una spiegazione per nessuno dei tre misteri. Conclude invece laconicamente: «Senza dubbio i misteri non sono tre ma uno, la cui vera natura al momento non riusciamo nemmeno a intravedere». Questa è un’ammissione molto più umile della risposta

data dal preside nella commedia Forty Years On (scritta dall’autore inglese Alan Bennett) a una domanda in qualche modo simile: Foster: Sono ancora un po’ confuso riguardo alla Trinità, signore. Preside: Tre in uno, uno in tre, assolutamente chiaro. Per qualsiasi dubbio al riguardo rivolgiti al tuo professore di matematica. Il mistero è ancora più intricato di quanto ho appena esposto. Ci sono in realtà due facce della capacità con cui la matematica riesce a spiegare il mondo che ci circonda (una capacità che Wigner chiamava «l’irragionevole efficacia della matematica»), e sono una più straordinaria dell’altra. In primo luogo, c’è un aspetto che si potrebbe definire «attivo». Quando i fisici si aggirano per il labirinto della natura, fanno uso della matematica per illuminare la strada: gli strumenti che adoperano e sviluppano, i modelli che costruiscono e le spiegazioni che trovano sono tutti riconducibili alla matematica. Questo, in apparenza, è in sé un miracolo. Newton osservò una mela che cadeva, la Luna e le maree sulla riva del mare (non sono nemmeno sicuro che vide mai queste ultime!), non delle equazioni matematiche. Eppure, da tutti quei fenomeni naturali riuscì a ricavare leggi matematiche della natura chiare, concise e incredibilmente precise. Allo stesso modo, quando il fisico scozzese James Clerk Maxwell (18311879) ampliò la cornice della fisica classica per includervi tutti i fenomeni elettrici e magnetici che erano noti attorno al 1860, lo fece per mezzo di quattro equazioni matematiche soltanto. Rifletteteci solo un attimo. La spiegazione di un insieme di risultati sperimentali sull’elettromagnetismo e sulla luce la cui descrizione in precedenza aveva richiesto interi volumi, si riduceva a quattro equazioni succinte. La teoria generale della relatività di Einstein è ancora più stupefacente: è l’esempio perfetto di una teoria matematica straordinariamente precisa su qualcosa di tanto fondamentale quanto lo è la struttura dello spazio e del tempo. Ma c’è anche un lato «passivo» nella misteriosa efficacia della matematica, ed è un aspetto così sorprendente che quello «attivo» impallidisce al confronto. I concetti e le relazioni che i matematici studiano per ragioni puramente teoriche – senza assolutamente valutare un’eventuale applicazione pratica – si rivelano a distanza di decenni (a volte di secoli) come soluzioni inaspettate a problemi che hanno le loro basi nella realtà fisica! Com’è possibile? Consideriamo il buffo caso di Godfrey Harold Hardy (1877-1947), un eccentrico matematico inglese.

Hardy era così orgoglioso del fatto di lavorare esclusivamente nell’ambito della matematica pura che proclamò con enfasi: «Nessuna mia scoperta ha aggiunto qualcosa, né verosimilmente aggiungerà qualcosa, direttamente o indirettamente, nel bene e nel male, alle attrattive del mondo».[6] Indovinate un po’? Si sbagliava. Uno dei risultati da lui ottenuti si reincarnò con il nome di legge di HardyWeinberg – in onore di Hardy e del fisico tedesco Wilhelm Weinberg (1862-1937) –, un principio fondamentale da cui hanno attinto i genetisti per studiare l’evoluzione delle popolazioni.[7] Semplificando, la legge di Hardy-Weinberg stabilisce che se in una popolazione numerosa gli accoppiamenti avvengono in modo totalmente casuale (e in assenza di influenze esterne quali migrazioni, mutazioni e selezioni), allora la composizione genetica della popolazione resta costante nel passaggio da una generazione all’altra. Persino l’opera apparentemente astratta che Hardy compì nell’ambito della «teoria dei numeri» – lo studio delle proprietà dei numeri naturali – trovò applicazioni inattese. Nel 1973, il matematico inglese Clifford Cocks si servì della teoria dei numeri per ottenere un progresso rivoluzionario nel campo della crittografia, l’elaborazione di codici cifrati.[8] La scoperta di Cocks rese obsoleta un’altra affermazione di Hardy. Nella sua famosa Apologia di un matematico, pubblicata nel 1940, Hardy aveva proclamato: «Nessuno ha ancora scoperto un uso bellico della teoria dei numeri». Ancora una volta, Hardy era in errore. I codici cifrati sono assolutamente fondamentali per le comunicazioni militari. Persino Hardy, dunque, una delle voci più critiche nei confronti della matematica applicata, fu «trascinato» (probabilmente scalciando e strepitando, se fosse stato ancora in vita) a produrre teorie matematiche utili a livello pratico. Ma questa è solo la punta di un iceberg. Keplero e Newton scoprirono che i pianeti del nostro sistema solare percorrono orbite di forma ellittica, curve che erano state studiate dal matematico greco Menecmo (circa 350 a.C.) due millenni prima. Le geometrie di nuovo tipo che Georg Friedrich Bernhard Riemann presentò per la prima volta durante l’esame di abilitazione all’insegnamento del 1854 si rivelarono proprio gli strumenti di cui Einstein aveva bisogno per spiegare la struttura del cosmo. Un linguaggio matematico chiamato «teoria dei gruppi», elaborato dal giovane prodigio francese Évariste Galois (18111832) al solo scopo di determinare la risolvibilità delle equazioni

algebriche, è diventato oggi il linguaggio adottato da fisici, ingegneri, linguisti e persino antropologi per descrivere tutte le simmetrie del mondo.[9] Oltretutto, il concetto di forme matematiche di simmetria ha, in un certo senso, capovolto l’intero procedimento scientifico. Per secoli, il percorso seguito per comprendere i meccanismi di funzionamento del cosmo era cominciato con una raccolta di fatti sperimentali e osservativi a partire dai quali gli scienziati, procedendo per tentativi ed errori, cercavano di formulare le leggi generali della natura. La procedura era quella di iniziare da osservazioni locali e di costruire il puzzle tassello per tassello. Nel XX secolo, con il riconoscimento del fatto che alla base della struttura del mondo subatomico ci sono motivi matematici ben definiti, i fisici moderni hanno cominciato a seguire il percorso opposto. Hanno messo al primo posto i princìpi matematici di simmetria, sostenendo che le leggi della natura e gli stessi costituenti fondamentali della materia dovrebbero seguire determinati modelli, e da questi requisiti hanno dedotto le leggi generali. Come fa la natura a sapere di obbedire a queste simmetrie matematiche astratte? Nel 1975 Mitchell Jay Feigenbaum, all’epoca giovane fisico matematico presso il Los Alamos National Laboratory, stava giocando con la sua calcolatrice tascabile HP-65. Mentre esaminava il comportamento di una semplice equazione, notò che una sequenza di numeri che comparivano nei calcoli si approssimava sempre più a un valore particolare: 4,669... Quando esaminò altre equazioni, si accorse con stupore che quello strano numero si ripeteva nuovamente. Di lì a poco Feigenbaum giunse alla conclusione che la sua scoperta rappresentava qualcosa di universale, qualcosa che, in qualche modo, segnava il punto di transizione dall’ordine al caos, anche se non era in grado di darne una spiegazione.[10] In principio, come prevedibile, i fisici si mostrarono scettici. In fin dei conti, perché mai lo stesso numero avrebbe dovuto caratterizzare il comportamento di quelli che apparivano come sistemi decisamente diversi? Dopo sei mesi di valutazioni da parte di esperti, il primo articolo scientifico di Feigenbaum sull’argomento fu rifiutato. Non molto tempo dopo, tuttavia, alcuni esperimenti mostrarono che quando l’elio liquido viene riscaldato dal basso si comporta esattamente come previsto dalla soluzione universale proposta dal fisico matematico. Né quello, si scoprì, era l’unico sistema che sottostava alla scoperta di Feigenbaum.

Il sorprendente numero di Feigenbaum faceva la sua comparsa nella transizione di un fluido da un flusso ordinato a un moto turbolento e persino nel comportamento dell’acqua che gocciola da un rubinetto. L’elenco di tali «anticipazioni» matematiche su ciò che generazioni dopo risulterà necessario in svariate discipline è molto lungo. Uno degli esempi più affascinanti dell’interazione tra matematica e mondo (fisico) reale lo fornisce la storia della «teoria dei nodi», ovvero lo studio matematico dei nodi. Un nodo matematico è simile a un comune nodo di corda i cui due capi sono uniti. In altre parole, un nodo matematico è una curva chiusa senza estremità libere. Per quanto strano, l’impulso principale all’elaborazione della teoria dei nodi venne da un errato modello dell’atomo sviluppato nel XIX secolo. Una volta che quel modello fu abbandonato, appena due decenni dopo il suo concepimento, la teoria dei nodi continuò a evolversi nella forma di una branca relativamente oscura della matematica pura. Il fatto sorprendente è che questo studio astratto ha trovato inaspettate applicazioni moderne in ambiti che spaziano dalla struttura molecolare del DNA alla teoria delle stringhe, che tenta di conciliare il mondo subatomico con la gravità. Tornerò su questa notevole vicenda nel Capitolo 8, poiché la sua circolarità rappresenta forse la miglior dimostrazione di come alcune branche della matematica possano emergere da tentativi di spiegare la realtà fisica, si perdano poi nel regno astratto della matematica e alla fine ritornino inaspettatamente alle loro origini ancestrali. Scoperti o inventati? Già la breve descrizione che ho dato fin qui fornisce prove schiaccianti del fatto che l’universo o è governato dalla matematica o, come minimo, è suscettibile di essere analizzato tramite la matematica. Come questo libro mostrerà, anche molta parte dell’attività umana, se non tutta, sembra emergere da una struttura matematica sottostante, persino dove meno ce lo si aspetta. Esaminiamo un esempio tratto dal mondo della finanza, la formula di Black-Scholes per il calcolo del prezzo delle opzioni.[11] La formula valse il Premio Nobel per l’Economia ai suoi creatori (Myron Scholes e Robert Carhart Merton; Fischer Black morì prima che il premio fosse assegnato). L’equazione chiave del modello consente di comprendere come si assegna un prezzo alle opzioni azionarie (le opzioni sono strumenti finanziari che permettono di acquistare o vendere azioni in un momento futuro a un

prezzo concordato). C’è però un fatto sorprendente. Al cuore di questo modello sta un fenomeno che i fisici studiano da decenni: il «moto browniano», lo stato di agitazione che manifestano minuscole particelle sospese nell’acqua, come il polline, o nell’aria, come le particelle di fumo. Per di più, come se non bastasse, la stessa equazione si applica al moto delle centinaia di migliaia di stelle che formano un ammasso stellare. Non è, per attingere al linguaggio di Alice nel paese delle meraviglie, qualcosa di «stranissimo, e sempre più stranissimo»? Dopotutto, quale che sia il comportamento del cosmo, gli affari e la finanza sono mondi creati dalla mente dell’uomo. Consideriamo ora un problema ben noto ai costruttori di circuiti stampati e ai progettisti di computer. Costoro usano trapani laser per ricavare decine di migliaia di fori nelle loro schede. Per minimizzare i costi, i progettisti di computer vogliono impedire che i loro trapani si comportino come «turisti per caso». Il loro problema è trovare il «tour» più breve tra i fori, quello che permetta di visitare una sola volta ciascun punto da perforare. Il fatto è che i matematici studiano questo stesso problema, noto come il «problema del commesso viaggiatore», fin dagli anni Venti del secolo scorso. In sostanza, se un venditore, o un politico impegnato in una campagna elettorale, ha bisogno di visitare un certo numero di città spendendo il meno possibile, e se il costo del viaggio tra ciascuna coppia di città è noto, allora il viaggiatore deve trovare un metodo per calcolare il modo più economico di far tappa in tutte le città e tornare al punto di partenza. Il problema del commesso viaggiatore fu risolto per il caso di 49 città degli Stati Uniti nel 1954. Nel 2004 è stato risolto per il caso di 24.978 città della Svezia.[12] In altre parole, l’industria elettronica, le imprese di corrieri che utilizzano furgoni e persino i costruttori giapponesi di macchinette pachinko (che devono inserirvi migliaia di chiodi) si devono affidare alla matematica per compiti semplici come ricavare dei fori, programmare un itinerario o progettare fisicamente un computer. La matematica è penetrata persino in aree che tradizionalmente non vengono associate alle scienze esatte. Per esempio, il «Journal of Mathematical Sociology» (che nel 2006 è giunto al suo tredicesimo volume) è orientato a uno studio matematico di strutture sociali, organizzazioni e gruppi informali complessi. Gli articoli della rivista si occupano di argomenti che partono da un modello matematico per

predire l’opinione del pubblico a un altro per prevedere le interazioni all’interno di gruppi sociali. Procedendo nella direzione opposta – dalla matematica verso le scienze umanistiche – il campo della linguistica computazionale, che in origine coinvolgeva soltanto scienziati informatici, oggi è un’attività di ricerca interdisciplinare che riunisce linguisti, psicologi cognitivi, logici ed esperti di intelligenza artificiale, tutti impegnati nello studio della complessità delle lingue che si sono evolute per via naturale. È un perfido trucco di cui siamo vittime? Un trucco tale per cui tutti i tentativi umani di comprensione conducono alla fine a scoprire i campi sempre più raffinati della matematica in base ai quali sono stati creati l’universo e le sue complesse creature, ovvero noi stessi? La matematica è davvero, come amano ripetere gli educatori, il manuale nascosto, quello che il professore usa per insegnare mentre ai suoi studenti dà una versione molto più modesta in modo tale da apparire più saggio? O, per usare una metafora biblica, in un certo senso la matematica è il frutto ultimo dell’albero della conoscenza? Come ho fatto notare brevemente all’inizio di questo capitolo, l’irragionevole efficacia della matematica ci pone di fronte a interessanti enigmi: la matematica ha un’esistenza che è completamente indipendente dalla mente umana? Noi stiamo semplicemente scoprendo delle verità matematiche, esattamente come gli astronomi scoprono galassie in precedenza ignote? Oppure la matematica non è altro che un’invenzione umana? Se davvero la matematica esiste in un mondo astratto, quale rapporto c’è tra quel mondo mistico e quello fisico? Come fa il cervello umano, con i suoi limiti, a ottenere accesso a quel mondo immutabile, che sta al di fuori dello spazio e del tempo? D’altra parte, se la matematica è una mera invenzione umana che non esiste al di fuori delle nostre menti, come si spiega il fatto che l’invenzione di tante verità matematiche abbia dato miracolosamente risposte in anticipo a domande sul cosmo e sulla vita dell’uomo che non sono nemmeno state poste se non molti secoli dopo? Non sono interrogativi facili. Come mostrerò esaustivamente in questo libro, anche matematici, scienziati cognitivi e filosofi moderni non concordano sulle risposte. Nel 1989, il matematico francese Alain Connes, vincitore di due dei più prestigiosi premi matematici, la Medaglia Fields (1982) e il Premio Crafoord (2001), espresse con chiarezza la sua opinione in proposito:

Prendiamo per esempio i numeri primi [i numeri divisibili solo per uno e per se stessi], che a mio parere costituiscono una realtà più stabile della realtà materiale che ci circonda. Il matematico impegnato nella propria attività può essere paragonato a un esploratore che si mette in marcia per scoprire il mondo. L’esperienza rivela fatti fondamentali. Facendo semplici calcoli, per esempio, ci si rende conto che la serie dei numeri primi sembra proseguire senza fine. Compito del matematico, allora, è dimostrare che esiste un’infinità di numeri primi. Si tratta, naturalmente, di un vecchio risultato ottenuto da Euclide. Una delle conseguenze più interessanti di questa dimostrazione è che se un giorno qualcuno dovesse sostenere di aver trovato il più grande numero primo, sarà facile mostrare che si sbaglia. Lo stesso vale per ogni dimostrazione. Dunque noi ci imbattiamo in una realtà che è altrettanto incontestabile quanto la realtà fisica.[13] Anche Martin Gardner, famoso autore di numerosi testi di matematica ricreativa, sposa l’idea della matematica come «scoperta». Per lui non ci sono dubbi: i numeri e la matematica hanno un’esistenza propria, indipendentemente dal fatto che gli uomini ne siano o meno a conoscenza. «Se due dinosauri raggiungessero altri due dinosauri in una radura» ha osservato con arguzia, «ci sarebbero quattro dinosauri anche se non ci fossero uomini a osservarli e gli animali fossero troppo stupidi per saperlo.»[14] Connes ha sottolineato che secondo i sostenitori dell’idea della «matematica come scoperta» (che, come vedremo, è conforme alla concezione platonica), una volta che un concetto matematico, per esempio quello di numeri naturali 1, 2, 3, 4..., è stato compreso, allora ci si trova davanti a dati innegabili, quali 32 + 42 = 52, a prescindere da quello che ne pensiamo. Ciò ci dà l’impressione, come minimo, di essere in contatto con una realtà esistente. Altri non sono d’accordo. Recensendo un libro in cui Connes presentava le sue idee, il matematico inglese Sir Michael Atiyah (che ha vinto la Medaglia Fields nel 1966 e il Premio Abel nel 2004) ha osservato: È probabile che qualsiasi matematico simpatizzi con Connes. Tutti noi abbiamo la sensazione che i numeri interi o i cerchi esistano realmente in un senso astratto e che la visione platonica [che sarà descritta in dettaglio nel Capitolo 2] sia estremamente seducente. Ma possiamo davvero difendere tale concezione? Se l’universo fosse stato unidimensionale o addirittura discreto, è difficile immaginare come si

sarebbe potuta evolvere la geometria. Potrebbe sembrare che nel caso degli interi ci si muova su un terreno più solido, e che contare sia un concetto realmente primordiale. Immaginiamo però che l’intelligenza non avesse trovato sede nell’uomo ma in una enorme medusa solitaria e isolata, sprofondata negli abissi dell’Oceano Pacifico. Questa creatura non avrebbe alcuna esperienza degli oggetti individuali, solo dell’acqua che la circonda. Movimento, temperatura e pressione le fornirebbero i dati sensoriali fondamentali. In un continuum così perfetto, il concetto di discreto non nascerebbe, né ci sarebbe nulla da contare.[15] Perciò, secondo Atiyah, «L’uomo ha creato [il corsivo è mio] la matematica idealizzando e astraendo elementi del mondo fisico». Della stessa idea sono il linguista cognitivista George Lakoff e lo psicologo Rafael Núñez. Nel loro libro Da dove viene la matematica, concludono: «La matematica è una parte naturale dell’uomo. Nasce dal nostro corpo, dal nostro cervello, e dalle nostre esperienze quotidiane del mondo». Il punto di vista di Atiyah, Lakoff e Núñez fa sorgere un’altra domanda interessante. Se la matematica è un’invenzione interamente umana, è davvero universale? In altre parole, se esistesse una civiltà extraterrestre, avrebbe inventato la stessa matematica? Carl Sagan (1934-1996) pensava che la risposta a quest’ultima domanda fosse sì. Nel suo libro Cosmo, quando discute del tipo di segnale che una civiltà intelligente trasmetterebbe nello spazio, conclude: È estremamente improbabile che un qualsiasi processo fisico naturale possa trasmettere messaggi radio che contengano soltanto numeri primi. Se ricevessimo un siffatto messaggio ne dedurremmo l’esistenza di una civiltà lontana che quanto meno aveva una passione per i numeri primi. Ma è un fatto certo? Nel suo recente libro A New Kind of Science, il fisico matematico Stephen Wolfram afferma che quella che chiamiamo «la nostra matematica» potrebbe rappresentare solo una possibilità tra una ricca varietà di «sapori» della matematica. Per esempio, invece di usare regole basate sulle equazioni matematiche, potremmo adottarne altre di diverso tipo, rappresentate da semplici programmi per computer. Inoltre, di recente alcuni cosmologi hanno discusso della possibilità che il nostro universo sia soltanto un membro di un «multiverso», un gigantesco insieme di universi. Se questo multiverso esiste davvero, ci dobbiamo aspettare che gli altri universi posseggano la nostra stessa matematica?

I biologi molecolari e gli scienziati cognitivi mettono sul tavolo un’altra prospettiva ancora, basata sugli studi delle facoltà cerebrali. Per alcuni di questi ricercatori, la matematica non è molto differente dal linguaggio. A detta loro, in questo scenario «cognitivo», dopo che gli uomini trascorsero un tempo lunghissimo a osservare due mani, due occhi, due seni, nella nostra specie è emersa la definizione astratta del numero 2, in modo molto simile a quello in cui la parola «uccello» ha finito per rappresentare molti animali volanti dotati di due ali. Scrive il neuroscienziato francese Jean-Pierre Changeux: «Secondo me il metodo assiomatico [che si impiega, per esempio, nella geometria euclidea] è l’espressione di facoltà cerebrali legate all’uso del cervello umano. Ciò che distingue il linguaggio, infatti, è proprio il suo carattere generativo».[16] Ma se la matematica è semplicemente un altro linguaggio, come possiamo spiegare il fatto che mentre i bambini apprendono facilmente le lingue, molti di loro trovano tanto difficile studiare la matematica? La bambina prodigio scozzese Marjory Fleming (1803-1811) descrisse in maniera deliziosa il tipo di difficoltà che gli scolari incontrano con la matematica. La Marjory, che non visse abbastanza a lungo per festeggiare il suo nono compleanno, lasciò dei diari che comprendevano più di novemila parole di prosa e cinquecento versi poetici. A un certo punto si lamenta: «Adesso vi racconterò l’orribile e tremenda afflizione che mi dà la tabella pitagorica; non potete immaginarla. La cosa più diabolica è 8 x 8 e 7 x 7; è una cosa che la natura stessa non può tollerare».[17] Alcuni degli elementi delle complesse questioni che ho presentato possono essere riformulati in modo diverso: esiste una qualche differenza di tipo fondamentale tra la matematica e altre espressioni della mente umana come le arti visive o la musica? E se non ci sono, perché la matematica mostra una coerenza e una consequenzialità grandiose che non sembrano appartenere a ogni altra creazione umana? La geometria di Euclide, per esempio, rimane valida oggi (dove si applica) quanto lo era nel 300 a.C.; rappresenta «verità» che ci sono imposte. Al contrario, non siamo obbligati ad ascoltare la stessa musica che ascoltavano gli antichi greci né ad accettare l’ingenuo modello del cosmo di Aristotele. Sono molto poche le odierne discipline scientifiche che fanno ancora uso di idee vecchie di tremila anni. D’altro canto, le ricerche matematiche più recenti possono far riferimento a teoremi pubblicati da

un anno o da una settimana, ma possono anche far ricorso alla formula per calcolare l’area della superficie di una sfera, che fu dimostrata da Archimede attorno al 250 a.C.! Nel XIX secolo il modello dell’atomo basato sulla teoria dei nodi sopravvisse per due decenni scarsi perché nuove scoperte dimostrarono che era infondato. È così che la scienza progredisce. Newton attribuì il merito della sua grandiosa visione (o forse no! Si veda il Capitolo 4) ai giganti sulle cui spalle stava. Forse avrebbe dovuto anche chiedere scusa a quei giganti di cui aveva reso obsoleta l’opera. Per la matematica è diverso. Anche se cambia il formalismo necessario per dimostrare certi risultati, i risultati matematici non cambiano. In effetti, come ha detto una volta il matematico Ian Stewart, «C’è una parola nella matematica per definire i risultati del passato che sono cambiati: quella parola è errori».[18] E questi errori sono giudicati tali non a causa di nuove scoperte come avviene nelle altre scienze, ma di un’applicazione più attenta e rigorosa delle stesse vecchie regole matematiche. Ciò fa della matematica la lingua madre di Dio? Qualora pensiate che comprendere se la matematica fu inventata oppure scoperta non sia importante, considerate quanto diventa insidiosa la differenza tra «inventato» e «scoperto» nella seguente domanda: «Dio è stato inventato o scoperto?». O, ancor più provocatoriamente, nella domanda: «Dio creò gli uomini a sua immagine, oppure gli uomini inventarono Dio a loro immagine?». In questo libro proverò ad affrontare molti di questi interrogativi (e parecchi altri) e le loro allettanti risposte. Allo stesso tempo, passerò in rassegna ciò che abbiamo compreso grazie all’opera di alcuni dei più grandi matematici, fisici, filosofi, scienziati cognitivi e linguisti dei secoli passati e di quello attuale. Mi affiderò anche alle opinioni, agli ammonimenti e alle riserve di molti pensatori moderni. Questo viaggio eccitante inizia dalla prospettiva pionieristica di alcuni dei più antichi filosofi. 2 Mistici: il numerologo e il filosofo Il forte desiderio di comprendere il cosmo è da sempre insito nell’uomo. Gli sforzi per trovare una risposta alla domanda «Che cosa significa tutto ciò?» sono stati di gran lunga superiori a quelli necessari

per la mera sopravvivenza, per il miglioramento delle condizioni economiche o della qualità della vita. Ciò non significa che tutti si siano impegnati attivamente nella ricerca di un ordine naturale o metafisico. Le persone che lottano per sbarcare il lunario di rado possono permettersi il lusso di pensare al significato della vita. Nella galleria di coloro che hanno dato la caccia a regolarità nascoste sotto la complessità dell’universo percepito, poche figure si sono distinte in maniera predominante. Per molti, il nome del matematico, scienziato e filosofo francese Cartesio (1596-1650) è sinonimo della nascita della filosofia e della matematica dell’era moderna. Cartesio fu uno dei principali architetti del passaggio da una descrizione del mondo naturale in termini di proprietà percepite direttamente dai nostri sensi a spiegazioni espresse attraverso quantità ben definite dal punto di vista matematico.[1] Invece di impressioni, odori, colori e sensazioni, Cartesio voleva spiegazioni scientifiche per indagare a livello più fondamentale attraverso il linguaggio della matematica: Non conosco altra materia delle cose corporee che quella che i geometri chiamano la quantità e che prendono per oggetto delle loro dimostrazioni [...]. E poiché può rendersi ragione, in questo modo, di tutti i fenomeni della natura, io non credo che si debbano ammettere altri princìpi nella fisica, e nemmeno che si abbia ragione di desiderarne altri.[2] È interessante notare che Cartesio escludeva dalla sua grandiosa visione scientifica i domini di «mente e pensiero», che considerava indipendenti da quel mondo della materia che si può spiegare tramite la matematica. Se è indubbio che Cartesio sia stato uno dei pensatori più influenti dei quattro secoli passati (e sulla sua figura tornerò nel Capitolo 4), non fu però il primo a conferire alla matematica una posizione centrale. Che ci crediate o meno, idee di ampia portata su un cosmo permeato di matematica e governato dalla matematica – idee che in un certo senso andavano persino oltre quelle di Cartesio – erano già state espresse, seppur con forte tono mistico, due millenni prima. Il personaggio a cui la leggenda attribuisce il concetto secondo cui l’animo umano «fa musica» quando è impegnato nella matematica pura fu l’enigmatico Pitagora. Pitagora

Probabilmente Pitagora (572-497 a.C. circa) fu il primo a essere al contempo un influente filosofo naturale e un carismatico filosofo spirituale: uno scienziato e un pensatore religioso. A lui si attribuisce l’introduzione dei termini «filosofia» (amore per il sapere), e «matematica»: le discipline dotte.[3] Anche se non sono sopravvissute opere di Pitagora (sempre ammesso che siano esistite, considerato che la maggior parte dei suoi insegnamenti veniva trasmessa oralmente), possiamo avvalerci di tre sue biografie dettagliate, seppure solo in parte attendibili, risalenti al III secolo.[4] Una quarta, anonima, era conservata tra gli scritti del patriarca e filosofo bizantino Fozio (829891 d.C. circa). Il problema principale che si presenta quando si tenta di stabilire quali siano i contributi personali di Pitagora, sta nel fatto che i suoi seguaci e discepoli – i pitagorici – gli attribuiscono invariabilmente tutte le loro idee. Di conseguenza, persino Aristotele (384-322 a.C.) ha difficoltà a identificare i passaggi della filosofia pitagorica che possono essere attribuiti con sicurezza a Pitagora in persona, così che di solito parla di «pitagorici» o di «cosiddetti pitagorici».[5] Tuttavia, considerata la fama di cui godette Pitagora nelle epoche successive, in genere si ipotizza che fu l’autore di almeno una parte delle teorie pitagoriche verso cui Platone e persino Copernico si sentirono in debito. Ci sono pochi dubbi sul fatto che Pitagora nacque all’inizio del VI secolo a.C. sull’isola di Samo, non lontana dalla costa dell’attuale Turchia. Probabilmente viaggiò a lungo nella prima fase della sua vita, soprattutto in Egitto e forse a Babilonia, dove avrebbe ricevuto almeno una parte della sua istruzione matematica. Alla fine emigrò in Magna Grecia, nella piccola colonia di Crotone, dove un gruppo di discepoli entusiasti si raccolsero rapidamente intorno a lui. Lo storico greco Erodoto (485-425 a.C. circa) lo definì «uno dei più saggi tra i greci»,[6] e il filosofo e poeta presocratico Empedocle (492432 a.C. circa) affermava ammirato: C’era tra essi un uomo di straordinaria sapienza, che possedeva davvero ricchezza immensa d’ingegno, e valentissimo era in opere varie e sapienti, sì che quando tendeva con ogni potenza la mente, facilmente ciascuna delle cose vedeva, che son nel corso di dieci, venti età umane.[7] Non tutti però erano altrettanto impressionati. In alcuni commenti che sembrano nascere da una certa rivalità personale, il filosofo Eraclito

di Efeso (535-475 a.C. circa) riconosce le vaste conoscenze di Pitagora, ma si affretta ad aggiungere parole denigratorie: «Il sapere molte cose non insegna ad avere intelletto; altrimenti lo avrebbe insegnato a Esiodo [un poeta greco vissuto attorno al 700 a.C.] e a Pitagora». Pitagora e i primi pitagorici non erano né matematici né scienziati nel vero senso del termine. Al cuore delle loro dottrine c’era una concezione filosofica metafisica sul significato dei numeri. Per i pitagorici i numeri erano entità viventi e princìpi universali che permeavano ogni cosa, dal cielo all’etica umana. I numeri possedevano due aspetti distinti e complementari: da un lato avevano un’esistenza fisica tangibile; dall’altro erano precetti astratti su cui si fondava ogni cosa. Per esempio la «monade» (il numero Uno) era interpretata sia come la generatrice di tutti gli altri numeri – un’entità reale quanto l’acqua, l’aria e il fuoco che faceva parte della struttura fisica del mondo – sia come un’idea, l’unità metafisica all’origine della creazione.[8] Lo storico della filosofia Thomas Stanley (1625-1678) descrisse magnificamente (seppur nell’inglese del XVII secolo) i due significati che i pitagorici associavano ai numeri: Il numero è di due tipi, l’Intellettuale (o immateriale) e lo Scienziale. L’Intellettuale è quella sostanza eterna del Numero che nel suo Discorso riguardante gli Dei Pitagora asseriva fosse il principio più provvidenziale di tutto il Cielo e la Terra, e della natura che è intra esse [...]. Questo è ciò che è chiamato il principio, fontana e radice di tutte le cose [...]. Il Numero Scienziale è quello che Pitagora definisce l’estensione e la produzione in atto delle ragioni seminali che sono nella Monade, o in una moltitudine di Monadi.[9] Perciò i numeri non erano semplicemente strumenti per denotare quantità o grandezze. I numeri dovevano essere scoperti, e rappresentavano gli agenti formativi attivi in natura. Ogni cosa nell’universo, dagli oggetti materiali come la Terra ai concetti astratti come quello di giustizia, era numero da cima a fondo. Il fatto che qualcuno trovi il mondo dei numeri affascinante non è poi così sorprendente.[10] Dopotutto, persino i numeri ordinari che si incontrano nella vita quotidiana possiedono proprietà interessanti. Considerate il numero dei giorni che ci sono in un anno: 365. Potete facilmente verificare che 365 è uguale alla somma di tre quadrati consecutivi: 365 = 102 + 112 + 122. Ma non è tutto: è anche uguale alla somma dei due quadrati seguenti (365 = 132 + 142)! E provate a

esaminare il numero di giorni di un mese lunare: 28. Questo numero è uguale alla somma di tutti i suoi divisori: 28 = 1 + 2 + 4 + 7 + 14. I numeri caratterizzati da questa speciale proprietà sono detti «numeri perfetti» (i primi quattro sono 6, 28, 496, 8218). Notate anche che 28 è la somma dei cubi dei primi due numeri dispari: 28 = 13 + 33. Anche un numero largamente usato nel nostro sistema decimale qual è 100 presenta le sue peculiarità: 100 = 13 + 23 + 33 + 43. D’accordo, abbiamo stabilito che i numeri possono essere affascinanti. Ma, ci si potrebbe comunque chiedere, quale fu l’origine della dottrina pitagorica dei numeri? Come nacque l’idea che non solo tutte le cose possiedono un numero, ma anche che tutte le cose sono numeri? Dato che Pitagora non lasciò nulla di scritto o che le sue opere sono andate distrutte, non è facile rispondere a questa domanda. L’impressione che sopravvive sul modo di ragionare di Pitagora si basa su un piccolo numero di frammenti preplatonici e su alcune discussioni molto più tarde e meno attendibili, per lo più di filosofi di scuola platonica e aristotelica. Il quadro che emerge mettendo insieme i vari indizi suggerisce che l’ossessione dei pitagorici per i numeri potrebbe trovare una spiegazione nel loro interesse per due attività in apparenza non collegate: esperimenti di musica e osservazioni delle sfere celesti. Per capire come si materializzarono queste misteriose connessioni tra i numeri, le sfere celesti e la musica, dobbiamo partire da una considerazione essenziale: i pitagorici erano soliti raffigurare i numeri per mezzo di sassolini o punti. Per esempio, disponevano i numeri naturali 1, 2, 3, 4... in forma di triangolo usando dei ciottoli (figura 1). In particolare, il triangolo costruito a partire dai primi quattro interi (disposti in un triangolo di dieci ciottoli) era chiamato «tetraktis» (che significa tetrade, o «quattricità»). Figura 1 La tetraktis fu scelta dai pitagorici per simboleggiare la perfezione e gli elementi che la compongono. Lo documenta una storia sui pitagorici dell’autore satirico greco Luciano (120-180 d.C. circa). Pitagora chiede a un uomo di contare. Mentre quest’ultimo conta: «1, 2, 3, 4» Pitagora lo interrompe: «Vedi? Quello che a te sembra 4 è 10, il triangolo perfetto, il nostro giuramento».[11] Il filosofo neoplatonico Giamblico (250-325 d.C. circa) ci dice che il giuramento dei pitagorici era in effetti questo: Io giuro su colui che scoprì la Tetraktis,

che è la sorgente di tutta la nostra saggezza, la radice perenne della fonte della Natura.[12] Perché la tetraktis era così venerata? Perché, agli occhi dei pitagorici del VI secolo a.C., racchiudeva in sé l’intera natura dell’universo. In geometria – il trampolino dell’epocale rivoluzione del pensiero dei greci – il numero 1 rappresentava un punto, il 2 una linea , il 3 una superficie e il 4 un solido tridimensionale tetraedrico . Perciò sembrava che la tetraktis comprendesse tutte le dimensioni percepite dello spazio. Ma questo era solo l’inizio. La tetraktis fece inaspettatamente la sua comparsa persino nell’approccio scientifico alla musica. A Pitagora e ai pitagorici si attribuisce di solito la scoperta del fatto che dividendo una corda in semplici quantità intere consecutive si producono intervalli armoniosi e consonanti, il che si manifesta in ogni esecuzione di un quartetto d’archi. Quando due corde simili sono pizzicate simultaneamente, il suono risultante è piacevole se tra le lunghezze delle corde c’è un rapporto semplice.[13] Per esempio, corde di uguale lunghezza (rapporto 1:1) producono un unisono; un rapporto 1:2 produce l’ottava; 2:3 dà luogo alla quinta perfetta e 3:4 alla quarta perfetta. Oltre ai suoi attributi di spazio, perciò, si poteva anche concludere che la tetraktis rappresentasse i rapporti matematici alla base dell’armonia della scala musicale. Questa correlazione, quasi magica, tra spazio e musica produsse un simbolo per i pitagorici e diede loro l’idea di un’«harmonia» (accordo) del «kosmos» (l’ordine delle cose). E come entrano le sfere celesti in tutto ciò? Nel campo dell’astronomia Pitagora e i pitagorici ebbero un ruolo che, pur non potendo definirlo cruciale, non fu nemmeno trascurabile. Furono tra i primi a sostenere che la Terra avesse forma sferica (probabilmente perché percepivano la superiorità matematica ed estetica della sfera). E, verosimilmente, furono anche i primi ad affermare che i pianeti, il Sole e la Luna si muovono di moto proprio da ovest a est, nella direzione opposta alla rotazione quotidiana (apparente) della sfera delle stelle fisse. A queste appassionate osservazioni del cielo notturno non potevano sfuggire le proprietà più ovvie delle costellazioni: la loro forma e il numero delle loro stelle. Ciascuna costellazione si identifica grazie al numero delle stelle che la compone e alla forma geometrica che le stelle disegnano. Ma queste due caratteristiche erano proprio gli ingredienti essenziali della dottrina pitagorica dei numeri, esemplificata

dalla tetraktis. Il fatto che le figure geometriche, le costellazioni stellari e le armonie musicali dipendessero dai numeri estasiava i pitagorici al punto che i numeri divennero tanto i mattoni per la costruzione dell’universo quanto i princìpi alla base della sua esistenza. Non stupisce perciò che Pitagora affermasse con enfasi che «Tutto è numero». Troviamo una testimonianza di quanto i pitagorici prendessero seriamente questa massima in due commenti di Aristotele. In un passo della raccolta di trattati intitolata Metafisica, egli scrive: «I cosiddetti Pitagorici [...] per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire, e, nutriti delle medesime, credettero che i princìpi di queste fossero princìpi di tutti gli esseri». In un altro passo Aristotele descrive in maniera vivida la venerazione dei pitagorici per i numeri e il ruolo speciale che assegnavano alla tetraktis: «Eurito [discepolo del pitagorico Filolao] cercando di stabilire quale numero appartenesse a ciascuna cosa, ossia, per esempio, questo numero all’uomo, quest’altro al cavallo, disponeva i suoi sassolini in modo da ottenere le figure degli animali e delle piante [...] alla maniera di coloro che mettono i numeri in forma di triangolo o di quadrato». L’ultima frase («in forma di triangolo o di quadrato») allude sia alla tetraktis sia a un’altra affascinante costruzione dei pitagorici: lo «gnomone». La parola gnomone[14] (indicatore) trae origine dal nome di uno strumento astronomico babilonese, simile a una meridiana, di cui ci si serviva per misurare il tempo. A quanto pare quello strumento fu introdotto in Grecia dal maestro di Pitagora, il filosofo naturale Anassimandro (611-547 a.C. circa). Non possono esserci dubbi sul fatto che l’allievo fu influenzato dalle idee del suo mentore nel campo della geometria e dalla loro applicazione alla «cosmologia», lo studio dell’universo nel suo complesso. In seguito lo gnomone cominciò a essere usato per denotare uno strumento con cui disegnare angoli retti, simile alla squadra di un carpentiere, oppure la figura ad angolo retto che, quando la si aggiunge a un quadrato, produce un quadrato più grande (figura 2). Notate che se si aggiungono a un quadrato 3 x 3 sette sassolini disposti in modo da formare un angolo retto (ovvero uno gnomone), si ottiene un quadrato composto da sedici (4 x 4) sassolini. Si tratta di una rappresentazione grafica della seguente proprietà: nella serie degli interi dispari 1, 3, 5, 7, 9..., la somma di un qualsiasi numero della serie preso in successione (a partire da 1) produce sempre un

numero quadrato. Per esempio, 1 = 12; 1 + 3 = 4 = 22; 1 + 3 + 5 = 9 = 32; 1 + 3 + 5 + 7 = 16 = 42; 1 + 3 + 5 + 7 + 9 = 25 = 52, e così via. In questo stretto rapporto tra lo gnomone e il quadrato che «cinge», i pitagorici riconoscevano un simbolo della conoscenza in generale, in cui l’atto di conoscere «abbraccia» il conosciuto. Perciò secondo i pitagorici i numeri non fornivano soltanto una descrizione del mondo fisico, ma erano anche alla radice dei processi mentali ed emotivi. Figura 2 È possibile che i numeri quadrati associati agli gnomoni siano stati anche i precursori del ben noto «teorema di Pitagora». Questo celeberrimo enunciato matematico stabilisce che per ogni triangolo rettangolo (figura 3), il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sui cateti. La scoperta del teorema è stata «documentata» in modo umoristico in una vignetta del fumetto Frank and Ernest (figura 4). Come mostra lo gnomone della figura 2, l’aggiunta di un numero quadrato dello gnomone, 9 = 32, a un quadrato 4 x 4 dà come risultato un nuovo quadrato 5 x 5: 32 + 42 = 52. Perciò i numeri 3, 4, 5 possono rappresentare le lunghezze dei lati di un triangolo rettangolo. I numeri interi che possiedono questa proprietà (per esempio 5, 12 e 13, dato che 52 + 122 = 132) sono chiamati «terne pitagoriche». Figura 3 Figura 4 Pochi teoremi matematici godono dello stesso «riconoscimento immediato» del teorema di Pitagora. Nel 1971, quando la Repubblica del Nicaragua scelse le «dieci equazioni matematiche che hanno cambiato la faccia della Terra» come tema per una serie di francobolli, il teorema di Pitagora comparve sul secondo francobollo (figura 5; sul primo francobollo era raffigurata l’equazione «1 + 1 = 2»). Figura 5 Fu veramente Pitagora il primo a formulare il teorema che gli viene attribuito? Di certo alcuni degli antichi storici greci credevano fosse così. In un commentario agli Elementi di Euclide (325-265 a.C. circa), il filosofo greco Proclo (411-485 d.C. circa) scriveva: «Se diamo retta a coloro che desiderano raccontare la storia antica, possiamo trovare qualcuno che attribuisce questo teorema a Pitagora, e che afferma che egli sacrificò un bue in onore della scoperta». [15]Tuttavia alcune triple pitagoriche si possono già trovare nella tavoletta cuneiforme babilonese

nota col nome di Plimpton 322, che risale grossomodo all’epoca della dinastia Hammurabi (1900-1600 a.C. circa). Inoltre, costruzioni geometriche basate sul teorema di Pitagora sono state trovate in India, correlate all’edificazione di altari. Chiaramente queste costruzioni geometriche erano note all’autore del Satapatha Brahmana, il commentario sugli antichi testi sacri indiani, che probabilmente fu scritto almeno qualche secolo prima di Pitagora.[16] Ma indipendentemente dal fatto che sia stato Pitagora l’artefice del teorema oppure no, è indubbio che le ricorrenti connessioni che furono trovate per intrecciare insieme numeri, forme e l’universo avvicinarono di un passo i pitagorici a una dettagliata metafisica dell’ordine. Un altro concetto che rivestì un ruolo fondamentale per i pitagorici fu quello degli «opposti cosmici». Poiché lo schema degli opposti era il principio fondante della primissima tradizione scientifica ionica, era del tutto naturale che Pitagora, ossessionato dall’idea di ordine, lo adottasse. In effetti Aristotele ci racconta che anche un medico di nome Alcmeone, che visse a Crotone all’epoca in cui Pitagora aveva lì la sua famosa scuola, abbracciava l’idea secondo cui tutte le cose trovano equilibrio a coppie. La coppia principale di opposti era formata dal «limite», rappresentato dai numeri dispari, e dall’«illimitato», rappresentato da quelli pari. Il limite era la forza che introduce ordine e armonia in ciò che è casuale, fuori controllo, illimitato. Si riteneva che tanto le complessità dell’universo in generale quanto quelle della vita umana, a livello microcosmico, consistessero di e fossero dirette da una serie di opposti che in qualche modo combaciavano. Questa visione del mondo decisamente in bianco e nero era riassunta in una «tavola degli opposti» conservata nella Metafisica di Aristotele: Limite Illimitato Dispari Pari Unità Pluralità Maschio Femmina Quiete Movimento Retto

Curvo Luce Oscurità Buono Cattivo Quadro Oblungo La filosofia di base espressa dalla tavola degli opposti non era confinata all’antica Grecia.[17] Lo yin e lo yang cinesi, con lo yin che rappresenta la negatività e l’oscurità e lo yang che è il principio luminoso, dipingono lo stesso quadro. Convinzioni non molto diverse si trasferirono nel Cristianesimo, attraverso i concetti di paradiso e inferno (e persino in dichiarazioni dei presidenti americani quali: «O siete con noi o siete con i terroristi»). Più in generale, è sempre stato vero che la morte illumina il significato della vita e il paragone con l’ignoranza quello della conoscenza. Non tutti gli insegnamenti pitagorici avevano direttamente a che fare con i numeri. Lo stile di vita nella compatta scuola pitagorica si basava anche sul vegetarianismo, su una forte credenza nella metempsicosi (l’immortalità e la trasmigrazione dell’anima) e sulla misteriosa proibizione a mangiare fave. Sono state avanzate molte spiegazioni su quest’ultimo punto: dalla somiglianza della forma delle fave a quella dei genitali al fatto di paragonare il loro consumo a quello dell’anima vivente. Stando a questa seconda interpretazione, il meteorismo che spesso segue l’assunzione di fave sarebbe stata la prova di un respiro soffocato. Il libro Philosophy for Dummies[18] riassume così la dottrina pitagorica: «Tutto è fatto di numeri, e mangiare fave vi farà fare un brutto numero». La più antica storia che ci sia stata tramandata su Pitagora riguarda la credenza nella reincarnazione dell’anima in altri esseri.[19] Questo racconto quasi lirico è in effetti opera di un poeta del VI secolo a.C., Senofane di Colofone: «Si dice che una volta, passando, [Pitagora] vide percuotere un cane e avendone pena parlò così: “Basta, non picchiarlo più, che lì c’è l’anima d’un mio amico, lo so perché ho riconosciuto la sua voce”». Le inconfondibili impronte digitali di Pitagora si trovano non soltanto negli insegnamenti dei filosofi greci che vennero subito dopo di lui ma, proseguendo nel tempo, fino nei programmi delle università

medievali. Le sette materie insegnate si dividevamo nel trivium, cioè dialettica, grammatica e retorica, e nel quadrivium, che comprendeva le quattro discipline preferite dai pitagorici: geometria, aritmetica, astronomia e musica. La celeste «armonia delle sfere» – la musica che si pensava eseguissero i pianeti nelle loro orbite e che, secondo i suoi discepoli, solo Pitagora poteva udire – ha ispirato poeti e scienziati. Il famoso astronomo Keplero (1571-1630), che scoprì le leggi del moto dei pianeti, scelse il titolo Harmonices Mundi per una delle sue opere più importanti. Nello spirito pitagorico, elaborò persino dei piccoli «motivi» musicali per i diversi pianeti (così come fece tre secoli dopo il compositore Gustav Holst). Dal punto di vista delle questioni che sono al centro dell’interesse di questo libro,[20] una volta che alla filosofia pitagorica è stato tolto il suo rivestimento musicale, lo scheletro che resta è ancora un’importante affermazione sulla matematica, sulla sua natura e sulla sua relazione tanto con il mondo fisico quanto con la mente umana. Pitagora e i pitagorici furono i progenitori della ricerca di un ordine cosmico. Possono essere considerati come i fondatori della matematica pura perché, a differenza dei loro predecessori – babilonesi ed egizi –, si dedicarono alla matematica come disciplina astratta, avulsa da ogni finalità pratica. La questione diventa più spinosa quando si afferma che i pitagorici abbiano anche fatto della matematica uno strumento alla mercé della scienza. È indubbio che associassero tutti i fenomeni ai numeri, ma furono i numeri stessi, non i fenomeni o le loro cause, a diventare il fulcro dei loro studi, e questa non era una direzione particolarmente fruttuosa da intraprendere per la ricerca scientifica. Ciò non toglie che per la dottrina pitagorica fosse fondamentale la fede implicita nell’esistenza di leggi naturali generali. Questa fede, divenuta il pilastro su cui si fonda la scienza moderna, ha forse avuto le sue origini nel concetto di fato, che è proprio della tragedia greca. Ancora nel Rinascimento, questa fede ardita nell’esistenza reale di un corpus di leggi in grado di spiegare tutti i fenomeni procedeva con largo anticipo su qualsiasi prova concreta, e solo Galileo, Cartesio e Newton la trasformarono in una proposizione che poggiava la sua validità su basi induttive. Un altro contributo apportato dai pitagorici fu la scoperta che la loro stessa «religione numerica» era, in effetti, pateticamente inefficace. I numeri interi 1, 2, 3... non sono sufficienti per costruire la matematica,

e tanto meno per descrivere l’universo. Esaminiamo il quadrato della figura 6, il cui lato è di lunghezza pari a un’unità e dove d indica la lunghezza della diagonale. Applicando il teorema di Pitagora a uno qualunque dei due triangoli rettangoli in cui è diviso il quadrato, possiamo calcolare la lunghezza della diagonale. In base al teorema, il quadrato della diagonale (l’ipotenusa) è uguale alla somma dei quadrati dei cateti: d2 = 12 + 12, ossia d2 = 2. Figura 6 Una volta noto il quadrato di un numero, per trovare il numero si estrae la radice quadrata (per esempio, se x2 = 9, allora il valore positivo di x = v9 = 3). Perciò, d2 = 2 implica d = v2 unità. Dunque il rapporto tra la lunghezza della diagonale e quella del lato del quadrato è il numero v2. Ma a questo punto una scoperta sconvolgente demolì la filosofia pitagorica dei numeri discreti, costruita con tanta meticolosità. Uno dei pitagorici (forse Ippaso di Metaponto, che visse nella prima metà del V secolo a.C.)[21] riuscì a dimostrare che è impossibile esprimere la radice quadrata di 2 come rapporto tra due numeri interi. In altre parole, anche se esistono infiniti numeri interi tra cui scegliere, la ricerca di due numeri interi il cui rapporto sia uguale a v2 è destinata a fallire. I numeri che si possono esprimere come rapporti tra due interi (per esempio 3/17; 2/5; 1/10; 6/1) sono chiamati «numeri razionali». I pitagorici dimostrarono che v2 non è un numero razionale. In effetti, subito dopo quella prima scoperta ci si rese conto che non sono numeri razionali nemmeno v3, v17, né la radice di qualsiasi numero che non sia un quadrato perfetto (come 16 o 25). Le conseguenze furono di enorme portata: i pitagorici dimostrarono che all’infinità dei numeri razionali siamo costretti ad aggiungere un’infinità di un nuovo tipo di numeri, che oggi chiamiamo «numeri irrazionali». È impossibile esagerare nel ritenere fondamentale questa scoperta per il successivo sviluppo della matematica. Inoltre, nel XIX secolo essa portò a riconoscere l’esistenza di infiniti «numerabili» e «non numerabili».[22] Ma per i pitagorici la crisi filosofica fu così tragica che, narra il filosofo Giamblico, l’uomo responsabile della scoperta dei numeri irrazionali e di aver svelato la loro natura a «chi non era degno di conoscere la teoria» fu «oggetto di un tale disprezzo che non solo venne bandito dalla comunità e dalle consuetudini di vita [dei pitagorici], ma gli fu eretta una tomba, come se non facesse più parte della comunità dei vivi».[23]

Più importante ancora della scoperta dei numeri irrazionali fu forse il fatto che i pitagorici furono i primi a porre l’accento sulla dimostrazione matematica, una procedura basata interamente sul ragionamento logico che permette, partendo da alcuni postulati, di stabilire senza ambiguità la validità di qualsiasi proposizione matematica. Prima dei greci, nemmeno i matematici nutrivano il minimo interesse per gli sforzi mentali che li conducevano a una particolare scoperta. Se una soluzione matematica funzionava – se, per esempio, permetteva di spartire equamente un terreno – questo bastava. I greci, d’altra parte, volevano spiegare perché la soluzione funzionava. Probabilmente fu Talete di Mileto (625-547 a.C. circa) a introdurre il concetto di dimostrazione matematica, ma i pitagorici furono coloro che trasformarono quella pratica in uno strumento infallibile per appurare verità matematiche. La portata di questa conquista nel campo della logica fu enorme. Le dimostrazioni tratte dai postulati posero immediatamente la matematica su fondamenta molto più salde di ogni altra disciplina studiata dai filosofi dell’epoca. Una volta presentata una dimostrazione rigorosa, basata su passi logici che non lasciavano scappatoie, la validità dell’affermazione matematica diventava inattaccabile. Anche Arthur Conan Doyle, creatore del detective più famoso al mondo, riconosceva l’unicità della dimostrazione matematica. In Uno studio in rosso, Sherlock Holmes dichiara che le sue conclusioni sono «infallibili al pari dei teoremi di Euclide». Quanto alla questione: «La matematica fu scoperta o inventata?», Pitagora e i pitagorici non avevano dubbi: la matematica era reale, immutabile, onnipresente e più sublime di qualsiasi cosa potesse mai emergere dalla debole mente dell’uomo. I pitagorici radicavano letteralmente l’universo nella matematica. In effetti per loro Dio non era un matematico, ma la matematica era Dio![24] L’importanza della filosofia pitagorica non sta solo nel suo valore reale, intrinseco. Preparando la strada, e in certa misura il programma, per la successiva generazione di filosofi – di Platone in particolare – i pitagorici stabilirono una posizione di dominio nel pensiero occidentale. Nella caverna di Platone Il famoso matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead (1861-1947) osservò una volta che «l’affermazione generale più sicura

che si può fare sulla storia della filosofia occidentale è che si tratta soltanto di una serie di note a margine su Platone».[25] In effetti Platone (428-347 a.C. circa) fu colui che per primo riunì campi che andavano dalla matematica, la scienza e il linguaggio, alla religione, l’etica e l’arte, e che li considerò come un tutt’uno e, in sostanza, definì la filosofia come disciplina. Per Platone la filosofia non era una materia di studio astratta, separata dalle attività quotidiane, ma piuttosto la guida fondamentale che indica agli uomini come vivere, riconoscere le verità e condurre la politica. In particolare, Platone sosteneva che la filosofia può darci accesso a un mondo di verità che si trova ben oltre ciò che siamo in grado di percepire con i nostri sensi o anche di dedurre attraverso il semplice buonsenso. Chi era questo instancabile ricercatore della conoscenza pura, del bene assoluto e delle verità eterne?[26] Platone, figlio di Aristione e di Perittione, nacque ad Atene o a Egina. La figura 7 mostra un’erma romana di Platone che, con tutta probabilità, è la copia di un originale greco più antico, risalente al IV secolo a.C. In entrambi i rami della sua famiglia spiccano personaggi di prestigio, quali Solone, il famoso legislatore, e Codro, l’ultimo re di Atene. Carmide, zio di Platone, e Crizia, cugino di sua madre, erano vecchi amici del famoso filosofo Socrate (470-399 a.C. circa), e ciò influenzò sotto molti aspetti la formazione della mente del giovane Platone. All’inizio Platone intendeva dedicarsi alla politica, ma una serie di violenze perpetrate dalla fazione che lo corteggiava a quell’epoca lo dissuase. È possibile che più tardi quell’iniziale repulsione per la politica abbia spinto Platone a tratteggiare ciò che egli considerava l’educazione fondamentale per i futuri custodi dello Stato. In un caso, tentò anche (senza successo) di fare da tutore al signore di Siracusa, Dionisio II. Figura 7 Dopo l’esecuzione di Socrate nel 399 a.C., Platone intraprese un lungo viaggio che terminò soltanto nel momento in cui decise di fondare la sua rinomata scuola di filosofia e scienza – l’Accademia – attorno al 387 a.C.; Platone diresse l’Accademia – ne fu lo scolarca – fino alla morte, dopodiché gli succedette suo nipote Speusippo. A differenza degli odierni istituti universitari, l’Accademia raggruppava una cerchia informale di intellettuali che, sotto la guida di Platone, si dedicavano a diverse discipline. Non c’erano tasse scolastiche,

programmi di studi definiti e nemmeno veri e propri docenti. Eppure sembra che ci fosse un «requisito d’ingresso» piuttosto insolito. Stando a un’orazione dell’imperatore Giuliano l’Apostata, vissuto nel IV secolo d.C., sopra l’ingresso dell’Accademia di Platone era inscritta una frase lapidaria.[27] Il testo non è citato nell’orazione, ma lo si può trovare in un’altra annotazione marginale del IV secolo. L’iscrizione diceva: «Non oltrepassi la soglia chi è digiuno di geometria». Poiché ben otto secoli separano la fondazione dell’Accademia dalla prima descrizione della frase, non possiamo avere la certezza che l’iscrizione esistesse davvero. È però indubbio che il sentimento espresso da quel difficile requisito riflettesse l’opinione personale di Platone. In uno dei suoi famosi dialoghi, il Gorgia, Platone scrive: «L’uguaglianza geometrica è di grande importanza presso gli dei e gli uomini». In genere gli «studenti» dell’Accademia avevano di che mantenersi, e alcuni di loro – il grande Aristotele per esempio – vi rimanevano anche per vent’anni. Platone considerava questi prolungati contatti tra menti creative il miglior veicolo per la produzione di nuove idee in discipline che andavano dalla metafisica astratta e la matematica all’etica e alla politica. La purezza e le qualità quasi divine dei discepoli di Platone sono state colte magnificamente in un quadro intitolato La scuola di Platone del pittore simbolista belga Jean Delville (18671953). Per mettere in evidenza la spiritualità dei discepoli, Delville li dipinse nudi, con un aspetto androgino, perché si riteneva che tale fosse lo stato degli uomini primordiali. Scoprire che gli archeologi non sono mai riusciti a individuare i resti dell’Accademia platonica per me è stata una gran delusione.[28] Durante un viaggio in Grecia nell’estate del 2007, ho cercato un luogo che gli è secondo per importanza. Platone parla della Stoà di Zeus (un portico costruito nel V secolo a.C.) come uno dei luoghi da lui preferiti per discorrere con gli amici. Ho trovato le rovine di questa stoà sul lato nordoccidentale dell’antica agorà di Atene (il centro della vita civile della città all’epoca di Platone; figura 8). Devo dire che, benché la temperatura superasse i 45 gradi, fui scosso da un brivido mentre camminavo lungo lo stesso percorso che quel grand’uomo aveva compiuto centinaia, se non migliaia, di volte. Figura 8 La leggendaria iscrizione posta sopra l’ingresso dell’Accademia esprime con grande chiarezza l’atteggiamento di Platone nei confronti

della matematica. Di fatto, nel IV secolo a.C. gran parte della ricerca matematica significativa fu compiuta da uomini associati in un modo o nell’altro all’Accademia. Eppure lo stesso Platone non era un matematico dotato di grande abilità tecnica, e i suoi contributi diretti alle conoscenze matematiche furono probabilmente irrisori. Era piuttosto uno spettatore entusiasta, una fonte di sfide e di motivazioni, un critico intelligente e una guida ispiratrice. Il quadro che ne fa al proposito Filodemo, storico e filosofo del I secolo, è chiaro: «A quel tempo si assistette a grandi progressi nella matematica, con Platone che fungeva da architetto proponendo problemi e i matematici che li studiavano con impegno».[29] E il filosofo e matematico neoplatonico Proclo aggiunge: «Platone [...] fece progredire molto la matematica in generale e la geometria in particolare a causa del suo entusiasmo per quegli studi. È noto che i suoi scritti sono disseminati di termini matematici e che egli tenta ovunque di suscitare l’ammirazione per la matematica tra gli studenti di filosofia».[30] In altre parole Platone, le cui conoscenze matematiche erano in linea di massima aggiornate, era in grado di conversare alla pari con i matematici e di sottoporre loro problemi, anche se personalmente non ottenne mai significativi risultati in questa disciplina. Un’altra prova evidente del fatto che Platone apprezzasse la matematica ci è fornita da quella che è forse la sua opera più compiuta, La Repubblica, una fusione vertiginosa di estetica, etica, metafisica e politica. Nel libro VII, Platone (per tramite del personaggio centrale di Socrate), tratteggia un ambizioso piano educativo per creare un’utopistica figura di governante. Questo curriculum rigoroso, per quanto idealizzato, prevedeva una formazione precoce nell’infanzia impartita attraverso il gioco, i viaggi e la ginnastica. Dopo aver selezionato coloro che si dimostravano promettenti, il programma continuava con non meno di dieci anni di matematica, cinque anni di dialettica e quindici anni di esperienza pratica, che comprendeva l’assunzione del comando in tempo di guerra e altri incarichi «adatti ai giovani». Platone spiega in modo chiaro perché ritiene che questa sia la formazione necessaria per i potenziali uomini dediti alla politica: Al governo devono andare persone che non amino governare. Altrimenti la loro rivalità sfocerà in contesa [...]. Chi dunque costringerai ad assumersi la guardia dello Stato se non coloro che meglio conoscono quali sono i modi per la migliore amministrazione di

uno Stato, e che possono avere altri onori e una vita migliore di quella politica?[31] Corroborante, vero? In effetti, se probabilmente un programma tanto impegnativo era irrealizzabile già al tempo di Platone, anche George Washington riteneva che una formazione matematica e filosofica non fosse una cattiva idea per i futuri politicanti: In una certa misura la scienza dei numeri non è solo un requisito indispensabile in ogni percorso della vita civile; l’indagine sulle verità matematiche abitua la mente al metodo e alla correttezza del ragionamento, ed è un’attività particolarmente adatta all’essere razionale. In uno stato d’esistenza indistinto, in cui sono tante le cose che appaiono dubbie alla sconcertata ricerca, le facoltà razionali trovano il fondamento su cui poggiare. Dal terreno elevato della dimostrazione matematica e filosofica, siamo condotti senza rendercene conto a speculazioni molto più nobili e a meditazioni più sublimi.[32] Per la questione sulla natura della matematica, più importante ancora del Platone che fa matematica o stimola a farla è il Platone filosofo della matematica. In quest’ambito, le sue idee innovative non solo lo posero al di sopra di tutti i matematici e filosofi della sua generazione, ma ne fecero una figura influente per i millenni a seguire. La concezione espressa da Platone su che cosa sia davvero la matematica è in stretta relazione con la sua famosa allegoria della caverna, a cui fa riferimento per sottolineare la dubbia validità delle informazioni ottenute attraverso i sensi. Ciò che percepiamo come mondo reale, dice Platone, non è più reale delle ombre proiettate sulle pareti di una caverna.[33] Quello che segue è lo straordinario passaggio sull’allegoria nella Repubblica: Dentro una dimora sotterranea a forma di caverna, con l’entrata aperta alla luce e ampia quanto tutta la larghezza della caverna, pensa di vedere degli uomini che vi stiano dentro fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo. Alta e lontana brilli alle loro spalle la luce d’un fuoco e tra il fuoco e i prigionieri corra rialzata una strada. Lungo questa pensa di vedere costruito un muricciolo, come quegli schermi che i burattinai pongono davanti alle persone per mostrare al di sopra di essi i burattini [...]. Immagina di vedere uomini che portano lungo il muricciolo oggetti di ogni sorta sporgenti dal margine, e statue e altre figure di pietra e di

legno, in qualunque modo lavorate [...]. Credi che tali persone possano vedere, anzitutto di sé e dei compagni, altro se non le ombre proiettate dal fuoco sulla parete della caverna che sta loro di fronte? Secondo Platone, noi uomini non siamo diversi da quei prigionieri nella caverna che confondono le ombre con la realtà (l’incisione del 1604 di Jan Saenredam riprodotta nella figura 9 illustra l’allegoria della caverna). In particolare, sottolinea Platone, le verità matematiche non si riferiscono ai cerchi, ai triangoli e ai quadrati che si possono disegnare su un papiro o tracciare sulla sabbia, ma a oggetti astratti che risiedono in un mondo ideale, sede delle vere forme e perfezioni. Questo mondo platonico delle forme matematiche è distinto dal mondo fisico, ed è in esso che le proposizioni matematiche come il teorema di Pitagora hanno validità. Il triangolo rettangolo che potremmo disegnare su un foglio di carta non è che una copia imperfetta – un’approssimazione – del vero triangolo astratto. Un altro argomento fondamentale che Platone analizzò in dettaglio riguardava la natura della dimostrazione matematica come procedimento basato su «postulati» e «assiomi». I postulati sono asserzioni elementari la cui validità si dà per scontata. Per esempio, il primo postulato della geometria euclidea è il seguente: «Tra due punti è possibile tracciare una retta». Figura 9 Nella Repubblica, Platone combina in modo affascinante il concetto di postulato con la sua idea del mondo delle forme matematiche: Tu sai, credo, che coloro che si occupano di geometria, di calcoli e di simili studi, ammettono in via di ipotesi il pari e il dispari, le figure, tre specie di angoli e altre cose analoghe a queste, secondo il loro particolare campo di indagine; e, come se ne avessero piena coscienza, le riducono a ipotesi e pensano che non meriti più renderne conto né a se stessi né ad altri, come cose a ognuno evidenti. E partendo da queste, eccoli svolgere i restanti punti dell’argomentazione e finire, in piena coerenza, a quel risultato che si erano mossi a cercare [...]. E quindi sai pure che essi si servono e discorrono di figure visibili, ma non pensando a queste, sì invece a quelle di cui queste sono copia: discorrono del quadrato in sé e della diagonale in sé, ma non di quella che tracciano [...] per cercar di vedere quelle cose in sé che non si possono vedere se non con il pensiero [il corsivo è mio].

Le idee di Platone costituirono la base di ciò che, nella filosofia in generale e nelle discussioni sulla natura della matematica in particolare, ha preso il nome di «platonismo».[34] Nel senso più ampio del termine il platonismo abbraccia l’idea che esistano realtà astratte eterne e immutabili che sono completamente indipendenti dal mondo effimero percepito dai nostri sensi. Secondo il platonismo, l’esistenza reale delle entità matematiche è un fatto oggettivo tanto quanto l’esistenza dell’universo stesso. Non solo esistono i numeri naturali, i cerchi e i quadrati, ma anche i numeri immaginari, le funzioni, i frattali, le geometrie non euclidee e gli insiemi infiniti, così come una grande varietà di teoremi su queste entità. In breve, tutti i concetti matematici o le asserzioni «oggettivamente vere» (la cui definizione verrà data in seguito) che siano mai stati formulati o immaginati, e un’infinità di concetti e asserzioni non ancora scoperti, sono entità assolute, ovvero universali, che non è possibile creare né distruggere. Esistono indipendentemente dalla conoscenza che noi ne abbiamo. Inutile dire che tali oggetti non sono fisici; vivono in un mondo autonomo di entità eterne. Il platonismo considera i matematici come esploratori di terre sconosciute: essi possono solo scoprire verità matematiche, non inventarle. Così come l’America esisteva ben prima che Colombo (o Leif Eiríksson) la scoprisse, i teoremi matematici esistevano nel mondo platonico prima che i babilonesi inaugurassero lo studio della matematica. Per Platone, le sole cose che hanno un’esistenza vera e completa sono queste forme e idee matematiche astratte, poiché solo nella matematica, sosteneva, possiamo raggiungere una conoscenza assolutamente certa e oggettiva. Di conseguenza, la matematica è strettamente associata al divino.[35] Nel dialogo Timeo, il dio creatore usa la matematica per plasmare il mondo, e nella Repubblica la conoscenza della matematica è considerata una tappa fondamentale nel percorso verso la conoscenza delle forme divine. Platone non si serve della matematica per formulare leggi della natura che siano verificabili attraverso esperimenti: il carattere matematico del mondo è semplicemente una conseguenza del fatto che «Dio geometrizza sempre». Platone estese le proprie idee sulle «forme vere» ad altre discipline, in particolare all’astronomia. Sosteneva che nella vera astronomia «dobbiamo lasciar perdere i corpi celesti» e non cercare spiegazioni alle disposizioni e ai moti apparenti delle stelle visibili.[36] Al contrario

Platone considerava la vera astronomia come una scienza che riguardava le leggi del moto in un mondo ideale, matematico, di cui il cielo osservabile è una mera rappresentazione (allo stesso modo in cui le figure geometriche disegnate su un papiro sono solo rappresentazioni delle vere figure). I suggerimenti di Platone per la ricerca astronomica sono considerati controversi anche da alcuni dei più devoti platonici. Coloro che difendono le sue idee sostengono che ciò che davvero intende Platone non è che la vera astronomia dovrebbe occuparsi di un cielo ideale che non ha nulla a che fare con il cielo osservabile, ma che dovrebbe occuparsi dei moti reali dei corpi celesti invece che dei loro moti apparenti visti dalla Terra. Altri fanno però notare che un’accettazione troppo letterale del dettato platonico avrebbe seriamente ostacolato lo sviluppo dell’astronomia osservativa come scienza. Quale che sia l’interpretazione del pensiero platonico sull’astronomia, il platonismo è diventato uno dei dogmi più importanti in relazione ai fondamenti della matematica. Ma il mondo platonico della matematica esiste davvero? E se esiste, dove sta esattamente? E che cosa sono questi enunciati «oggettivamente veri» che risiedono in quel mondo? O forse i matematici che aderiscono al platonismo esprimono semplicemente la stessa credenza romantica che è stata attribuita a Michelangelo? Secondo la leggenda, Michelangelo riteneva che le sue magnifiche sculture esistessero già dentro i blocchi di marmo e che il suo compito fosse semplicemente quello di portarle alla luce. I platonici moderni (ebbene sì, esistono, e delle loro concezioni si parlerà nei capitoli successivi) insistono ad affermare che il mondo platonico delle forme matematiche è reale, e offrono quelli che considerano esempi concreti di enunciati matematici oggettivamente veri che hanno sede in quel mondo. Considerate la seguente proposizione: ogni numero intero pari maggiore di 2 può essere espresso come somma di due numeri primi (numeri che sono divisibili solo per uno e per se stessi). Questo enunciato in apparenza semplice è noto come «congettura di Goldbach», poiché una congettura equivalente compare in una lettera scritta il 7 giugno 1742 dal matematico dilettante prussiano Christian Goldbach (1690-1764). Potete facilmente verificare la validità della congettura per i primi numeri pari: 4 = 2 + 2; 6 = 3 + 3; 8 = 3 + 5; 10 =

3 + 7 = 5 + 5; 12 = 5 + 7; 14 = 3 + 11 = 7 + 7; 16 = 5 + 11 = 3 + 13; e così di seguito. L’enunciato è così semplice che, come disse il matematico inglese G. H. Hardy, «Qualsiasi idiota avrebbe potuto intuirlo». Il grande matematico e filosofo francese Cartesio aveva in effetti formulato la congettura prima di Goldbach. Dimostrarla, tuttavia, non si è rivelato molto semplice. Nel 1965 il matematico cinese Chen Jingrun fece un passo decisivo sulla strada di una dimostrazione. Riuscì a provare che ogni numero intero pari sufficientemente grande è la somma di due numeri, uno dei quali è primo mentre l’altro ha al più due fattori primi. Alla fine del 2005, il ricercatore portoghese Tomás Oliveira e Silva ha dimostrato che la congettura è vera per tutti i numeri fino a 3 x 1017 (trecento milioni di miliardi). Eppure, nel momento in cui scrivo, una dimostrazione generale continua a sfuggirci. Nemmeno l’incentivo di un milione di dollari offerti tra il 20 marzo 2000 e il 20 marzo 2002 (per pubblicizzare un romanzo intitolato Zio Petros e la congettura di Goldbach) ha prodotto il risultato sperato.[37] Ma è proprio questo il nocciolo del significato di «verità oggettiva» in matematica. Supponete che nel 2016 verrà formulata una dimostrazione della congettura. Questo ci consentirebbe di poter affermare che l’enunciato era già vero quando Cartesio lo concepì per la prima volta? Quasi tutti penserebbero che si tratta di una domanda sciocca. È chiaro che, se si dimostra che la proposizione è vera, allora è sempre stata vera, anche prima che fosse dimostrata la sua validità. Consideriamo un altro esempio in apparenza innocente: la «congettura di Catalan».[38] I numeri 8 e 9 sono interi consecutivi ed entrambi sono potenze perfette, ovvero 8 = 23 e 9 = 32. Nel 1844 il matematico belga Eugène Charles Catalan (1814-1894) congetturò che, tra tutte le possibili potenze di numeri interi, l’unica coppia di numeri consecutivi (escludendo 0 e 1) è composta da 8 e 9. In altre parole, potete passare la vita a scrivere tutte le possibili potenze dei numeri interi e non troverete mai, a parte 8 e 9, altri due numeri di questo tipo che differiscano solo di un’unità. Già nel 1342 il filosofo e matematico ebreo francese Levi Ben Gerson (12881344) aveva dimostrato in parte la congettura, ovvero che 8 e 9 sono le sole potenze di 2 e di 3 la cui differenza sia 1. Un importante passo avanti fu compiuto dal matematico Robert Tijdeman nel 1976. Ma la dimostrazione della congettura di Catalan nella sua forma generale ha frustrato le migliori menti matematiche per più di centocinquant’anni. Finalmente, il 18 aprile 2002, il matematico romeno Preda Miha?ilescu

ha presentato una dimostrazione completa della congettura. La sua dimostrazione è stata pubblicata nel 2004 e oggi la sua validità è stata accettata. Di nuovo possiamo chiederci: quando è diventata vera la congettura di Catalan? Nel 1342? Nel 1844? Nel 1976? Nel 2002? Nel 2004? Non è forse ovvio che l’enunciato è sempre stato vero, anche se noi non sapevamo che lo fosse? Sono queste le verità che i platonici definirebbero «verità oggettive». Ci sono matematici, filosofi, scienziati cognitivi e altri «utenti» della matematica (come gli informatici) che considerano il mondo platonico come un parto dell’immaginazione di menti troppo sognatrici (parlerò in dettaglio di questo punto di vista e di altri dogmi nel Capitolo 9). Nel 1940, il famoso storico della matematica Eric Temple Bell (1883-1960) fece la seguente previsione: Secondo i profeti, l’ultimo seguace dell’ideale platonico avrà fatto la fine dei dinosauri nell’anno 2000. Spogliata dei suoi epici indumenti di eternalismo, la matematica verrà allora riconosciuta per ciò che è sempre stata, una lingua costruita dagli uomini, inventata per scopi ben definiti e stabiliti dagli uomini. L’ultimo tempio di una verità assoluta sarà svanito insieme al nulla che custodisce.[39] La profezia di Bell si è dimostrata errata. Se è vero che sono emersi dogmi che sono diametralmente opposti al platonismo (ma che puntano in diverse direzioni), tali dogmi non hanno conquistato completamente le menti (né i cuori!) di tutti i matematici e di tutti i filosofi, che oggi rimangono più divisi che mai. Ma immaginate che il platonismo l’avesse spuntata, e che tutti noi fossimo diventati platonici convinti. Il platonismo spiegherebbe effettivamente l’«irragionevole efficacia» con cui la matematica descrive il nostro mondo? Non proprio. Perché mai la realtà fisica dovrebbe obbedire a leggi che risiedono nell’astratto mondo platonico? Dopotutto, questo è uno dei misteri proposti da Penrose, e Penrose è un platonico convinto. Perciò per il momento dobbiamo accettare il fatto che, anche se dovessimo abbracciare il platonismo, l’enigma dei poteri della matematica rimarrebbe irrisolto. Come scrive Wigner, «È difficile sottrarsi all’impressione che ci troviamo di fronte a un miracolo, un miracolo che nella sua straordinarietà è paragonabile a quello della mente umana che mette in fila mille argomentazioni senza finire in contraddizione».

Per apprezzare appieno la portata di questo miracolo, dobbiamo scavare nella vita e nell’eredità di alcuni di coloro che lo hanno realizzato: le menti a cui si deve la scoperta di alcune delle incredibilmente precise leggi matematiche. 3 Maghi: il maestro e l’eretico A differenza dei Dieci comandamenti, la scienza non fu consegnata al genere umano su maestose tavole di pietra. La sua storia è la storia dell’ascesa e della caduta di numerose argomentazioni, ipotesi e modelli. Molte idee apparentemente ingegnose si sono rivelate false partenze o hanno portato a vicoli ciechi. Alcune teorie che un tempo erano considerate a prova di bomba, quando sono state sottoposte alla verifica rigorosa degli esperimenti e delle osservazioni si sono dissolte, divenendo completamente obsolete. Nemmeno le straordinarie capacità intellettuali di alcuni pensatori hanno reso i loro concetti immuni dall’essere soppiantati. Il grande Aristotele, per esempio, riteneva che le pietre, le mele e gli altri oggetti dotati di peso cadessero verso il basso perché cercavano di raggiungere la loro sede naturale, il centro della Terra. Man mano che si avvicinavano al suolo, sosteneva Aristotele, la loro velocità aumentava perché erano lieti di tornare alla loro dimora. L’aria (come il fuoco), d’altra parte, si muoveva verso l’alto perché sua sede naturale erano le sfere celesti. A tutti gli oggetti si poteva assegnare una natura in base alla loro relazione con i costituenti più fondamentali: terra, fuoco, aria e acqua. Scriveva Aristotele: Delle cose che esistono, le une sono da natura, le altre da altre cause. Da natura sono [...] i corpi semplici, come per esempio la terra, il fuoco, l’aria e l’acqua [...]. E tutte le cose sopra richiamate è chiaro che sono differenti rispetto alle cose che non esistono da natura. È manifesto, infatti, che tutte le cose che sono da natura, hanno il principio del movimento e del riposo in se stesse [...]. Allora la natura è principio e causa dell’essere in movimento e dello stare in riposo di ciò cui essa appartiene originariamente [...]. Tutte queste cose sono «secondo natura», e sono tali anche quelle cose alle quali compete per sé questo attributo, come per esempio al fuoco compete la proprietà di essere spinto in alto.[1]

Aristotele tentò anche di formulare una legge quantitativa del moto. Affermò che gli oggetti più pesanti cadono più rapidamente, con una velocità che è direttamente proporzionale al peso (cioè un oggetto che pesa il doppio di un altro dovrebbe cadere a velocità doppia). Benché l’esperienza quotidiana potesse far apparire questa legge abbastanza ragionevole – se si facevano cadere un mattone e una piuma dalla medesima altezza, si osservava il mattone raggiungere prima il suolo –, Aristotele non analizzò mai il suo enunciato quantitativo in maniera più precisa. Non pensò mai, o non lo ritenne necessario, di verificare se due mattoni legati insieme cadessero effettivamente a una velocità doppia rispetto a un solo mattone. Galileo Galilei (1564-1642), che era molto più orientato verso la matematica e gli esperimenti e non provava alcun rispetto per la felicità di mattoni e mele che cadevano, fu il primo a osservare che Aristotele era completamente fuori strada. Ricorrendo a un ingegnoso esperimento mentale, Galileo riuscì a dimostrare che la legge di Aristotele era priva di senso, dato che era incoerente dal punto di vista logico.[2] Galileo ragionò come segue: immaginiamo di legare insieme due oggetti, uno più pesante dell’altro. A quale velocità cadrà l’oggetto composto rispetto a ciascuno dei suoi componenti? Da un lato, stando alla legge di Aristotele, si può concludere che dovrebbe cadere a una velocità intermedia, dato che l’oggetto più leggero rallenterebbe il più pesante. D’altro canto, dato che l’oggetto composto è più pesante dei suoi componenti, dovrebbe cadere con maggior velocità del più pesante dei due, il che ci pone di fronte a una palese contraddizione. La ragione per cui una piuma cade più lentamente sulla terra rispetto a un mattone è che la piuma subisce una maggior resistenza dell’aria; se li lasciassimo cadere dalla stessa altezza nel vuoto, i due oggetti raggiungerebbero il suolo simultaneamente. Questo dato è stato dimostrato in numerosi esperimenti, nessuno dei quali più spettacolare di quello compiuto dall’astronauta dell’Apollo 15, David Randolph Scott. Scott – il settimo uomo a mettere piede sulla Luna – lasciò cadere nel medesimo istante un martello da una mano e una piuma dall’altra. Poiché la Luna praticamente non possiede atmosfera, il martello e la piuma colpirono il suolo lunare contemporaneamente. Ciò che sorprende della falsa legge del moto di Aristotele non è tanto che fosse errata, quanto il fatto che fu ritenuta valida per quasi duemila anni. Com’è possibile che un’idea sbagliata abbia goduto di una tale longevità? Fu un caso di «tempesta perfetta»: tre distinte forze che si

combinarono per creare una dottrina inattaccabile. Primo, c’era il semplice fatto che in assenza di misure precise la legge di Aristotele sembrava in accordo con il senso comune fondato sull’esperienza: i fogli di papiro indugiavano nell’aria mentre i blocchi di piombo no. Ci volle il genio di Galileo per sostenere che il senso comune poteva essere fuorviante. Secondo, c’era il peso colossale della reputazione e dell’autorità quasi senza pari di cui godeva Aristotele come erudito. Dopotutto, era l’uomo che aveva posto molte fondamenta della cultura intellettuale occidentale. Che si trattasse dell’indagine su tutti i fenomeni naturali o di etica, di metafisica, politica o arte, Aristotele ne scrisse letteralmente i libri base. E non è tutto. In un certo senso, intraprendendo i primi studi formali di logica, Aristotele ci insegnò anche come pensare. Oggi quasi tutti gli studenti sanno riconoscere un «sillogismo» (approfondiremo ampiamente questa e altre strutture logiche nel Capitolo 7), il sistema di inferenza logica introdotto da Aristotele: Tutti gli uomini sono mortali; Tutti i greci sono uomini; Dunque, tutti i greci sono mortali. La terza ragione dell’incredibile persistenza dell’errata teoria di Aristotele è che la Chiesa la adottò come parte della sua dottrina ufficiale, il che rappresentò un deterrente contro gran parte dei tentativi di contestare le affermazioni di Aristotele. A dispetto dei suoi grandiosi contributi alla sistematizzazione della logica deduttiva, Aristotele non è passato alla storia per la sua matematica. Per quanto sia forse sorprendente, all’uomo che in sostanza fece della scienza un’attività organizzata non interessava molto la matematica (certo non tanto quanto interessasse a Platone) e le sue conoscenze erano piuttosto limitate nel campo della fisica. Anche se riconobbe l’importanza dei rapporti numerici e geometrici nelle scienze, Aristotele considerava la matematica una disciplina astratta, avulsa dalla realtà fisica. Di conseguenza, benché non sussistano dubbi sulla sua genialità, Aristotele non è incluso nel mio elenco di «maghi» della matematica. In questa sede uso il termine «mago» per riferirmi a quei personaggi che furono capaci di estrarre letteralmente un coniglio da un cappello; a coloro che scoprirono connessioni tra la matematica e la natura che non erano mai state individuate in precedenza, che furono in grado di

osservare fenomeni naturali complessi e di estrarne leggi matematiche ben definite. In alcuni casi, questi eccelsi pensatori ricorsero anche a esperimenti e osservazioni per compiere progressi in matematica. La questione dell’irragionevole efficacia della matematica per spiegare la natura non sarebbe mai sorta se non fosse stato per questi maghi. L’enigma nacque direttamente dalle intuizioni miracolose di questi ricercatori. Non è possibile rendere giustizia in un solo libro a tutti i superbi scienziati e ai matematici che hanno contribuito a farci comprendere l’universo. In questo capitolo e nel prossimo intendo concentrarmi soltanto su quattro di questi giganti dei secoli passati, il cui status di maghi non può essere messo in dubbio: sono la crème de la crème del mondo scientifico. Il primo mago del mio elenco è ricordato per un episodio davvero insolito: ha attraversato le strade della sua città completamente nudo. Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo Quando lo storico della matematica Eric Temple Bell dovette decidere chi porre ai primi tre posti nel proprio elenco di matematici, concluse: Qualsiasi elenco dei tre «grandissimi» matematici della storia deve comprendere il nome di Archimede; gli altri due nomi che gli vengono abitualmente associati sono Newton (1642-1727) e Gauss (1777-1855). Alcuni, considerando la ricchezza (o povertà) delle scienze matematiche e fisiche nelle rispettive età di questi giganti e valutandone l’opera in rapporto al loro tempo, metterebbero Archimede al primo posto.[3] Archimede (287-212 a.C.; la figura 10 mostra un busto le cui fattezze si attribuiscono ad Archimede ma che probabilmente ritrae un re spartano) fu in effetti il Newton o il Gauss della sua epoca; uomo dotato di un genio, un’immaginazione e un intuito tali che sia i suoi contemporanei sia le generazioni successive pronunciavano il suo nome con ammirazione e reverenza. Anche se è conosciuto soprattutto per le sue ingegnose invenzioni di ingegneria, Archimede fu in primis un matematico, e in questa particolare disciplina era in anticipo di secoli sul proprio tempo. Purtroppo sappiamo ben poco delle sue origini e della sua infanzia. La sua prima biografia, scritta da un certo Eracleide,[4] non è sopravvissuta, e i pochi dettagli che conosciamo sulla sua vita e la sua morte violenta vengono per lo più dagli scritti

dello storico romano Plutarco (46-120 d.C. circa). In realtà Plutarco era più interessato alle imprese militari del generale romano Marcello, che conquistò Siracusa, la città di Archimede, nel 212 a.C.[5] Fortunatamente per la storia della matematica, Archimede aveva procurato un tale mal di testa a Marcello durante l’assedio di Siracusa che i tre storici più importanti del periodo, Plutarco, Polibio e Tito Livio, non poterono ignorarlo. Archimede nacque a Siracusa, una colonia greca in Sicilia.[6] Stando alla sua testimonianza, era figlio dell’astronomo Fidia, di cui si sa poco a parte il fatto che aveva stimato il rapporto tra il diametro del Sole e della Luna. È anche probabile che Archimede fosse in qualche modo imparentato con il re Gerone II, a sua volta figlio illegittimo di un nobile e la sua schiava. Indipendentemente da quali fossero i suoi legami con la famiglia reale, il re e suo figlio Gelone tennero sempre in alta considerazione Archimede. In gioventù egli trascorse un periodo ad Alessandria d’Egitto,[7] dove studiò matematica prima di far ritorno a Siracusa per condurre una vita di ricerche. Figura 10 Archimede fu veramente un cultore della matematica in se stessa. Secondo Plutarco, egli riteneva ignobile e servile l’interessamento «per la tecnologia e ogni arte che tien conto delle necessità pratiche» e «riservava il suo impegno a quelle sole discipline delle quali la superiorità e la bellezza non si mescolano con la necessità quotidiana». A quanto pare l’assillo di Archimede per la matematica astratta e il grado con cui ne era divorato andavano ben oltre l’entusiasmo mostrato di solito da coloro che praticano tale disciplina. Scrive ancora Plutarco: Lusingato continuamente da quella disciplina che era come una sirena, privata e domestica, si dimenticava di mangiare e di curare il proprio corpo; per conseguenza, trascinato spesso a forza a fare un bagno o a farsi ungere, era solito delineare sul pavimento figure geometriche, e sul corpo unto di olio tracciava con il dito delle linee, tanto era posseduto da un gran piacere e dominato dalle Muse. A dispetto del suo disprezzo per la matematica applicata, e della poca importanza che lui stesso assegnava alle proprie idee di ingegneria, le sue geniali invenzioni gli valsero la fama che tuttora detiene. La leggenda più nota su Archimede accresce ulteriormente la sua immagine stereotipata di matematico con la testa tra le nuvole. Questo aneddoto divertente, raccontato per la prima volta dall’architetto

romano Vitruvio nel I secolo a.C., narra quanto segue: il re Gerone voleva dedicare una ghirlanda d’oro agli dei immortali. Quando la ghirlanda gli fu consegnata, risultò dello stesso peso dell’oro fornito per la sua realizzazione. Ma il re sospettava che una certa quantità del prezioso metallo fosse stata sostituita con una quantità equivalente d’argento. Incapace di avvalorare i propri sospetti, il re si risolse a chiedere consiglio al maestro della matematica, Archimede. Un giorno, prosegue la leggenda, mentre era assorto nel problema di come scoprire la potenziale frode della ghirlanda, Archimede entrò nella vasca da bagno. Mentre si immergeva nell’acqua, si rese conto che il suo corpo spostava un certo volume d’acqua, che traboccava dai bordi della vasca. Immediatamente la soluzione gli si presentò alla mente. Sopraffatto dalla felicità, Archimede saltò fuori dalla vasca e corse nudo per la strada gridando: «Eureka, eureka!».[8] Un’altra famosa esclamazione di Archimede, «Datemi un punto d’appoggio e vi solleverò il mondo», appare oggi (in varie versioni) su oltre 150.000 pagine web. Questo audace proclama, che sembra quasi lo slogan programmatico di una grande multinazionale, è stato citato da Thomas Jefferson, Mark Twain e John F. Kennedy, e compare persino in un poema di Lord Byron.[9] A quanto pare la frase esprimeva il culmine degli studi di Archimede sul problema di muovere un determinato peso applicandovi una determinata forza. Plutarco ci racconta che quando re Gerone gli chiese di dare una dimostrazione pratica della sua capacità di maneggiare un grande peso con una piccola forza, utilizzando un sistema di carrucole Archimede riuscì a mettere in mare una nave con tutto il suo carico. Plutarco aggiunge ammirato che «lievemente e senza sobbalzi la tirò a sé, come se volasse sul mare». Versioni leggermente modificate dello stesso aneddoto compaiono in altre fonti. Se è difficile credere che Archimede fosse realmente in grado di spostare una nave con i congegni meccanici di cui poteva disporre a quel tempo, la leggenda lascia poco spazio al dubbio riguardo al fatto che egli diede una dimostrazione impressionante di un’invenzione che gli consentiva di muovere grandi pesi. Archimede inventò molti altri oggetti utili in ambito civile, come per esempio una vite idraulica per sollevare l’acqua e un planetario in grado di mostrare i moti dei corpi celesti, ma nell’antichità raggiunse la notorietà soprattutto per il ruolo che ebbe nella difesa di Siracusa contro i romani.

Le guerre non sono mai sfuggite ai resoconti storici. Di conseguenza, gli eventi dell’assedio dei romani a Siracusa negli anni 214-212 a.C. sono stati raccontati con dovizia di particolari da molti storici. Il generale romano Marco Claudio Marcello (268-208 a.C. circa), che all’epoca godeva di una notevole fama come uomo d’armi, prevedeva una vittoria rapida. A quanto sembra omise di tenere in considerazione la caparbietà di re Gerone, che era assistito da un genio della matematica e dell’ingegneria. Plutarco ci offre una descrizione vivida del caos che le macchine di Archimede produssero tra le forze romane: Ma Archimede mise in opera le macchine e contrastò i fanti nemici con frecce di ogni genere e sassi di smisurata grandezza che cadevano con incredibile velocità e fracasso, e poiché nulla resisteva al loro peso, abbattevano tutti quelli che stavano di sotto, scompigliando le file; nello stesso tempo delle barre, protese all’improvviso dalle mura sulle navi, battendone alcune dall’alto con un peso massiccio, le sprofondavano nei gorghi, altre invece le tiravano su da prora con mani di ferro o qualcosa di simile ai becchi delle gru, le rizzavano sulla prua e poi le affondavano, oppure, facendole girare mediante funi che tiravano in senso contrario, le sbattevano sugli spuntoni di roccia che si trovavano sotto il muro, con grande strage di marinai che in tal modo venivano sfracellati. La paura di fronte ai marchingegni di Archimede si diffuse così rapidamente tra i soldati romani che «se solo vedevano una funicella penzolare dal muro o un piccolo pezzo di legno sporgere da esso, se ne fuggivano gridando che Archimede stava movendo una macchina contro di loro». Persino Marcello rimase profondamente impressionato, tanto che se ne lamentò con i propri ingegneri militari: Ci sarà una conclusione del combattimento contro questo geometra Briareo [un gigante dalle cento braccia, figlio di Urano e Gaia] che si serve delle nostre navi per attingere acqua dal mare [...] e supera i mitici centimani scagliando nello stesso tempo contro di noi così tanti dardi? Secondo un altro aneddoto molto diffuso che apparve per la prima volta negli scritti del medico greco Galeno (129-200 d.C. circa), Archimede utilizzò una combinazione di specchi che focalizzavano i raggi solari per incendiare le navi romane. L’architetto bizantino del VI secolo Antemio di Tralle e numerosi storici del XII secolo ripresero questa storia fantastica, anche se la reale fattibilità di una tale impresa

rimane incerta.[10] Ma, nell’insieme, tutti questi racconti quasi mitici ci forniscono una ricca testimonianza sulla venerazione che «il sapiente» ispirò nelle generazioni a lui successive. Come ho già detto, lo stesso Archimede – il «Briareo geometra» che godeva di tanta stima – non attribuiva alcuna importanza ai suoi giocattoli bellici; li considerava sostanzialmente piacevoli distrazioni dalla geometria. Purtroppo questo atteggiamento distaccato gli costò probabilmente la vita. Quando alla fine i romani conquistarono Siracusa, Archimede era così intento a disegnare le sue figure geometriche su un vassoio ricoperto di polvere che non si accorse del tumulto dei combattimenti. Stando ad alcune cronache, quando un soldato romano gli ordinò di seguirlo da Marcello, il vecchio geometra ribatté indignato: «Tu, stai lontano dai miei disegni».[11] La risposta fece infuriare il soldato al punto che, disobbedendo ai precisi ordini impartitigli dal suo comandante, sguainò la spada e trafisse il più grande matematico del mondo antico. La figura 11 mostra la riproduzione (del XVIII secolo) di un mosaico scoperto a Ercolano che si presume ritragga gli ultimi istanti della vita del «maestro». La morte di Archimede segnò, in un certo senso, la fine di un’epoca straordinariamente vibrante nella storia della matematica. Come ha osservato il matematico e filosofo inglese Alfred North Whitehead: La morte di Archimede per mano di un soldato romano è il simbolo del cambiamento enorme che avvenne nel mondo [...]. I romani furono una grande razza, ma erano afflitti dalla sterilità comportata dalla praticità [...]. Non erano abbastanza sognatori da giungere a nuovi punti di vista che avrebbero potuto dare un controllo superiore delle forze della natura. Nessun romano perdette mai la vita perché era assorto nella contemplazione di un diagramma matematico.[12] Figura 11 Per fortuna, se i dettagli sulla vita di Archimede sono scarsi, molti dei suoi magnifici scritti (seppure non tutti) sono giunti fino a noi. Archimede aveva l’abitudine di inviare note sulle sue scoperte matematiche ad amici matematici e a persone che teneva in grande stima. L’elenco esclusivo di coloro con cui intrattenne scambi epistolari comprendeva (tra gli altri) l’astronomo Conone di Samo, il matematico Eratostene di Cirene e il figlio del re, Gelone. Dopo la morte di Conone, Archimede fece pervenire alcune note a Dositeo di Pelusio, discepolo dell’astronomo.

L’opera di Archimede copre una gamma strabiliante di argomenti matematici e fisici.[13] Quello che segue è un parziale elenco dei tanti risultati da lui ottenuti. Archimede introdusse dei metodi generali per trovare le aree di figure piane e i volumi di porzioni di spazio delimitate da ogni genere di superfici curve: l’area del cerchio, dei segmenti di parabola e di una spirale, e i volumi di segmenti di cilindri, coni e di altre figure generate dalla rotazione di parabole, ellissi e iperboli. Dimostrò che il valore del numero p, il rapporto tra la circonferenza di un cerchio e il suo diametro, deve essere maggiore di 310/71 e minore di 310/7. In un’epoca in cui non esistevano metodi per rappresentare numeri molto grandi, ne inventò uno che non solo gli permetteva di scrivere numeri di ogni ordine di grandezza, ma anche di manipolarli. In fisica, Archimede scoprì le leggi che governano i corpi galleggianti, fondando così la scienza dell’idrostatica. Calcolò anche i centri di gravità di molti solidi e formulò le leggi meccaniche delle leve. In astronomia fece osservazioni volte a stabilire la lunghezza dell’anno e le distanze dei pianeti. Le opere della maggior parte dei matematici dell’antica Grecia erano caratterizzate da originalità e attenzione per i dettagli. Eppure i metodi di ragionamento di Archimede lo differenziano da tutti gli scienziati del suo tempo. Permettetemi qui di presentare solo tre esempi significativi che danno l’idea dell’inventiva di Archimede. A prima vista non sembra nulla più di una divertente curiosità, ma a un esame più attento rivela la profondità della mente indagatrice di Archimede. Gli altri due esempi dei suoi sistemi mettono in luce un modo di ragionare così avanti nei tempi che elevano immediatamente Archimede a quello che ho definito status di «mago». A quanto pare Archimede era affascinato dai grandi numeri. Ma i numeri molto grandi sono difficili da esprimere quando li si scrive nella notazione comune (provate a scrivere per esteso su un assegno 8,4 miliardi di dollari, il debito pubblico statunitense nel luglio del 2006, nello spazio destinato alla cifra in numeri). Così Archimede elaborò un metodo che gli permetteva di rappresentare numeri con 80.000 miliardi di cifre. Usò poi questo sistema in un originalissimo trattato intitolato Arenario per dimostrare che il numero totale di granelli di sabbia del mondo non è infinito.

Persino l’introduzione del trattato è così illuminante che ne riporterò qui un passaggio (l’intera opera era indirizzata a Gelone, figlio del re Gerone II): Alcuni pensano, o re Gelone, che il numero [dei granelli] della sabbia sia infinito in quantità: dico non solo quello dei [granelli di sabbia] che sono intorno a Siracusa e nel resto della Sicilia, ma anche di quello [dei granelli di sabbia] che sono in ogni regione, sia abitata sia non abitata. Vi sono poi alcuni che ritengono che quel numero non sia infinito, ma che non si possa nominare un numero che superi la sua quantità. È chiaro che se coloro che così pensano si rappresentassero un volume di sabbia di grandezza tale quale quella della Terra, avendo riempito tutti i mari e tutte le depressioni fino a raggiungere l’altezza delle più alte montagne, molto meno comprenderebbero che si possa nominare un numero che superi quella quantità. Ma io tenterò di mostrarti, per mezzo di dimostrazioni geometriche che tu potrai seguire, che, dei numeri da noi denominati ed esposti negli scritti inviati a Zeusippo, alcuni superano non soltanto il numero [dei granelli] della sabbia aventi [nell’insieme] grandezza uguale alla Terra riempita come abbiamo detto, ma anche grandezza uguale al cosmo [intero]. Tu sai che dal più gran numero di astrologi vien chiamata cosmo la sfera il cui centro è il centro della Terra, e il [cui] raggio è uguale alla retta compresa tra il centro del Sole e il centro della Terra: questo l’hai appreso dalle dimostrazioni scritte dagli astrologi. Aristarco di Samo, poi, espose per iscritto alcune ipotesi, secondo le quali si ricava che il cosmo è più volte maggiore di quello suddetto. Suppone infatti che le stelle fisse e il Sole rimangano immobili, e che la Terra giri seguendo la circonferenza di un cerchio, attorno al Sole, che sta nel mezzo dell’orbita.[14] Questa introduzione chiarisce due punti fondamentali: 1) Archimede era disposto a contestare anche credenze molto popolari (come il fatto che esistano infiniti granelli di sabbia) e 2) Archimede considerava con rispetto la teoria eliocentrica di Aristarco (più oltre nel trattato, a dire il vero, Archimede corresse una delle ipotesi di Aristarco). Nell’universo di Aristarco la Terra ruotava attorno a un sole stazionario che era situato al centro (tenete presente che questo modello fu proposto 1800 anni prima di Copernico!). Dopo queste note preliminari, Archimede inizia ad affrontare il problema dei granelli di sabbia, procedendo attraverso una serie di passi logici. Per prima cosa stima quanti granelli

di sabbia, disposti uno accanto all’altro, sarebbero necessari per ricoprire il diametro di un seme di papavero. Poi, quanti semi di papavero starebbero sulla larghezza di un dito; quante dita in uno stadio (circa 185 metri); e così via fino a dieci milioni di stadi. Mentre procede, Archimede inventa un sistema di indici e un tipo di notazione che, combinati, gli consentono di classificare i suoi giganteschi numeri. Partendo dall’ipotesi che la sfera delle stelle fisse sia inferiore per grandezza a dieci milioni di volte la sfera contenente l’orbita del Sole (come la si osserva dalla Terra), Archimede calcolò che il numero di granelli in un universo riempito di sabbia fosse inferiore a 1063 (uno seguito da sessantatré zeri). Quindi concludeva il trattato rivolgendo parole deferenti a Gelone: Queste cose poi, o re Gelone, ritengo che sembreranno incredibili ai molti [che siano] imperiti nelle matematiche, ma che saranno credibili, mediante le dimostrazioni, a coloro che son versati [nelle matematiche] e che abbiano meditato sulle distanze e sulle grandezze della Terra, del Sole, della Luna e di tutto il cosmo: perciò ho ritenuto che fosse bene che tu conoscessi queste cose. L’originalità dell’Arenario sta nella facilità con cui Archimede passa dagli oggetti della quotidianità (semi di papavero, sabbia, dita) alle entità astratte dei numeri e della notazione matematica, e poi di nuovo da questi al sistema solare e all’universo nel suo insieme. È evidente che Archimede possedeva una flessibilità mentale tale da permettergli di usare agevolmente la matematica per scoprire proprietà sconosciute dell’universo e di attingere alle caratteristiche del cosmo per presentare concetti matematici. Il secondo elemento che permette di rivendicare il titolo di «mago» per Archimede deriva dal metodo che egli utilizzò per arrivare a molti dei suoi straordinari teoremi. Su questo metodo e sul suo procedimento mentale si sapeva molto poco fino al XX secolo. Il suo stile stringato rivelava pochissimi indizi. Poi, nel 1906, una scoperta sensazionale aprì una finestra sulla mente di questo genio. Le vicende di questa scoperta assomigliano a tal punto ai gialli storici di Umberto Eco che mi sento obbligato a compiere una piccola diversione per raccontarla.[15] Il palinsesto di Archimede In un momento imprecisato del X secolo,[16] un anonimo amanuense di Costantinopoli (l’odierna Istanbul) copiò tre importanti opere di Archimede: Il metodo, Stomachion e Sui corpi galleggianti.

Ciò rientrava probabilmente in un interesse generale per la matematica greca accresciuto grazie al matematico del IX secolo Leone geometra. Ma nel 1204 i partecipanti alla Quarta crociata furono persuasi a saccheggiare Costantinopoli dalla promessa di un sostegno finanziario. Negli anni seguenti la passione per la matematica si affievolì, mentre lo scisma tra Chiesa cattolica a Occidente e Chiesa ortodossa a Oriente diveniva un fatto compiuto. In una data precedente al 1229, il manoscritto che conteneva le tre opere di Archimede fu sottoposto a un riciclaggio catastrofico: fu liberato dalla rilegatura e ripulito in modo tale che i fogli di pergamena potessero essere riutilizzati per un libro di orazioni. L’amanuense Ioannes Myronas terminò di copiare il libro di orazioni il 14 aprile 1229.[17] Fortunatamente la cancellatura dell’originale non ne eliminò completamente il testo. Nella figura 12 si può vedere una pagina del manoscritto, con le linee orizzontali che rappresentano il testo delle preghiere e le linee verticali i contenuti matematici. Nel XVI secolo il palinsesto – il documento riciclato – finì in Terra Santa, nel monastero di San Saba, a est di Betlemme. All’inizio del XIX secolo la biblioteca del monastero possedeva non meno di mille manoscritti. Tuttavia, per ragioni che non sono ancora del tutto chiare, il palinsesto di Archimede era stato portato nuovamente a Costantinopoli. Poi, negli anni Quaranta dell’Ottocento, il famoso biblista tedesco Kostantin von Tischendorf (1815-1874), scopritore di una delle copie più antiche della Bibbia, visitò il Metochion, la biblioteca del Santo Sepolcro di Costantinopoli, che dipendeva dal patriarcato greco di Gerusalemme, e individuò il palinsesto. Tischendorf dovette trovare davvero interessante il testo matematico seminascosto dalle preghiere, perché strappò una pagina dal manoscritto e la rubò! Gli esecutori testamentari di Tischendorf vendettero quella pagina alla Cambridge University Library nel 1879. Figura 12 Nel 1899 lo studioso greco Papadopoulos-Kerameus catalogò tutti i manoscritti che erano conservati nel Metochion, e nel suo elenco assegnò il numero 335 al palinsesto di Archimede. PapadopoulosKerameus riuscì a leggere alcune righe del testo matematico e, comprendendone forse la potenziale importanza, pubblicò quelle righe nel suo catalogo. Fu un punto di svolta nella saga del manoscritto. Il testo matematico riportato nel catalogo fu segnalato al filologo danese Johan Ludvig Heiberg (1854-1928). Resosi conto che quel testo era di

Archimede, Heiberg si recò a Istanbul nel 1906, esaminò e fotografò il palinsesto, e un anno più tardi annunciò le sue sensazionali scoperte: due trattati di Archimede inediti e uno noto in precedenza solo nella traduzione latina. Heiberg riuscì a leggere e in seguito a pubblicare parti del manoscritto nel suo libro sulle opere di Archimede, ma rimanevano lacune consistenti. Purtroppo, dopo il 1908 il manoscritto scomparve da Istanbul in circostanze misteriose, per poi riapparire, altrettanto misteriosamente, nelle mani di una famiglia parigina che sosteneva di possederlo dagli anni Venti. Conservato in maniera impropria, il palinsesto aveva subìto danni irreversibili provocati dalla muffa, e tre pagine trascritte in precedenza da Heiberg erano andate perdute. Inoltre, dopo il 1929 qualcuno aveva realizzato miniature in stile bizantino sopra quattro pagine. Alla fine la famiglia francese che ne era in possesso vendette il manoscritto a Christie’s che lo mise all’asta. La proprietà del palinsesto fu oggetto di una disputa giudiziaria presso la corte federale di New York nel 1988. Il patriarcato greco ortodosso di Gerusalemme rivendicava il fatto che il manoscritto era stato rubato da uno dei suoi monasteri negli anni Venti, ma il giudice diede ragione a Christie’s. Così il palinsesto fu messo all’asta il 29 ottobre 1998 e un anonimo compratore se lo aggiudicò per due milioni di dollari. Il nuovo proprietario affidò il manoscritto di Archimede al Walters Art Museum di Baltimora, dove è tuttora sottoposto a un’intensa opera di conservazione e ad approfondite analisi. Oggi gli scienziati che si occupano di elaborazione d’immagini possiedono strumenti di cui in passato i ricercatori non disponevano. Luce ultravioletta, immagini multispettrali, e persino fasci monocromatici di raggi X (a cui il palinsesto è stato esposto presso lo Stanford Linear Accelerator Center) hanno già contribuito a decifrare parti del manoscritto che in precedenza non erano state rivelate. Nel momento in cui scrivo, lo studio meticoloso del manoscritto di Archimede da parte degli esperti è ancora in corso. Ho avuto la fortuna di incontrare il team di scienziati che investiga sul palinsesto: la figura 13 mi ritrae accanto all’apparato sperimentale che illumina una pagina del manoscritto a varie lunghezze d’onda.[18] Le vicende che si sono svolte intorno al palinsesto si confanno perfettamente a un documento che ci offre uno sguardo inedito sul metodo del grande geometra. Figura 13

Il metodo Quando si legge una qualunque opera di geometria scritta nell’antica Grecia, non si può fare a meno di rimanere impressionati dalla sobrietà stilistica e dalla precisione con cui più di duemila anni fa i teoremi venivano enunciati e dimostrati. Ciò che questi preziosi volumi in genere non fanno, tuttavia, è fornire indicazioni chiare sul modo in cui i teoremi venivano concepiti. Quell’eccezionale documento che è Il metodo di Archimede riempie almeno in parte questa lacuna, rivelandoci come lo stesso Archimede si convinceva della validità di certi teoremi prima ancora di sapere come dimostrarli. Ecco un brano tratto da ciò che egli scrisse al matematico Eratostene di Cirene (276194 a.C. circa) nell’introduzione al Metodo: Di questi teoremi ti mando le dimostrazioni, avendole scritte in questo libro. Vedendoti poi, come ho detto, diligente ed egregio maestro di filosofia, e tale da apprezzare anche nelle matematiche la teoria che [ti] accada [di considerare], decisi di scriverti e di esporti nello stesso libro le caratteristiche di un certo metodo, mediante il quale ti sarà data la possibilità di considerare questioni matematiche per mezzo della meccanica [il corsivo è mio]. E sono persuaso che questo [metodo] sia non meno utile anche per la dimostrazione degli stessi teoremi. E infatti alcune delle [proprietà] che a me dapprima si sono presentate per via meccanica sono state più tardi [da me] dimostrate per via geometrica, poiché la ricerca [compiuta] per mezzo di questo metodo non è una [vera] dimostrazione: è poi più facile, avendo già ottenuto con questo [metodo] qualche conoscenza delle cose ricercate, compiere la dimostrazione, piuttosto che ricercare senza alcuna nozione preventiva.[19] Qui Archimede tocca uno dei punti più importanti nella ricerca scientifica e matematica: spesso è più difficile scoprire quali sono le questioni o i teoremi di portata decisiva di quanto non sia trovare le soluzioni a questioni note o le dimostrazioni di teoremi già formulati. Come faceva dunque Archimede a scoprire nuovi teoremi? Usando la sua padronanza concettuale della meccanica, dell’equilibrio e dei princìpi delle leve, metteva a confronto mentalmente solidi o figure piane di cui stava tentando di determinare il volume o l’area con quelli che già conosceva. Dopo aver stabilito in questo modo quale fosse l’area o il volume sconosciuto, trovava molto più facile dimostrare la correttezza di quel risultato per via geometrica. Perciò Il Metodo inizia

con un certo numero di affermazioni sui baricentri e solo in una fase successiva passa alle proposizioni geometriche e alle loro dimostrazioni. Il metodo di Archimede è straordinario per due aspetti fondamentali. Primo, Archimede ha sostanzialmente introdotto il concetto di «esperimento concettuale» nella ricerca scientifica. Fu il fisico del XIX secolo Hans Christian Ørsted a battezzare questo strumento – un esperimento immaginario condotto al posto di uno reale – Gedankenexperiment (esperimento condotto nel pensiero). In fisica, dove quest’idea si è rivelata estremamente fruttuosa, gli esperimenti concettuali si usano o per intuire qualcosa prima di eseguire esperimenti reali oppure nei casi in cui non è possibile compiere esperimenti reali. In secondo luogo Archimede liberò la matematica dalle catene in qualche modo artificiali che Euclide e Platone le avevano messo, poiché per loro c’era uno e un solo modo di fare matematica. Era necessario partire dagli assiomi e procedere per mezzo di un’inesorabile sequenza di passaggi logici, per mezzo di strumenti ben definiti. Con il suo spirito libero, d’altra parte, Archimede utilizzava ogni tipo di munizione che riusciva a concepire per formulare nuovi problemi e risolverli. Non esitava a esplorare e a sfruttare i nessi tra gli oggetti matematici astratti (le forme platoniche) e la realtà fisica (solidi e superfici reali) per progredire nella sua matematica. Un ultimo esempio che rafforza ulteriormente lo status di mago di Archimede è la sua anticipazione del «calcolo integrale e differenziale», una branca della matematica che sarebbe stata elaborata formalmente da Newton (e indipendentemente dal matematico tedesco Leibniz) solo alla fine del XVII secolo.[20] L’idea fondamentale alla base del procedimento di integrazione è piuttosto semplice (una volta che lo si sia rilevato!). Supponete di dover determinare l’area di un segmento di ellisse. Potete dividere la superficie in molti rettangoli di uguale larghezza e sommare le loro aree (figura 14). È evidente che quanti più rettangoli userete tanto più vi approssimerete alla corretta area del segmento di ellisse. In altre parole, l’area del segmento è uguale al limite a cui tende la somma delle aree dei rettangoli quando il numero dei rettangoli tende all’infinito. L’operazione che permette di trovare quel limite prende il nome di «integrazione». Archimede ricorse a una versione del metodo che ho appena descritto per calcolare i volumi e le aree delle superfici della

sfera, del cono, di alcuni ellissoidi e paraboloidi (i solidi che si ottengono facendo ruotare ellissi e parabole intorno ai loro assi). Figura 14 Uno degli scopi principali del «calcolo differenziale» è invece quello di trovare la pendenza di una linea retta che è tangente a una curva in un dato punto, ovvero la linea che tocca la curva soltanto in quel punto. Archimede risolse questo problema nel caso particolare di una spirale, preannunciando parzialmente in tal modo l’opera futura di Newton e Leibniz. Oggi, i campi del calcolo differenziale e integrale e quelli a essi associati formano la base su cui si costruisce la maggior parte dei modelli matematici, tanto in fisica quanto in ingegneria, economia, o dinamica delle popolazioni. Archimede cambiò in modo sostanziale il mondo della matematica e la percezione del rapporto tra matematica e cosmo. Con la sua strabiliante combinazione di interessi teorici e pratici, egli produsse le prime prove empiriche, invece che mitiche, dell’esistenza di un apparente progetto matematico in natura. L’idea che la matematica sia il linguaggio dell’universo, e di conseguenza l’idea che Dio sia un matematico, nascono nell’opera di Archimede. Eppure c’è una cosa che Archimede non fece: non discusse mai dei limiti che i suoi modelli matematici presentano quando li si applica a circostanze fisiche reali. Le sue analisi teoriche delle leve, per esempio, partivano dal presupposto che fossero infinitamente rigide e prive di peso. Di conseguenza, Archimede aprì la porta, in una certa misura, all’interpretazione dei modelli matematici come qualcosa «che salva le apparenze», ovvero che i modelli matematici possono rappresentare soltanto ciò che gli uomini osservano invece di descrivere la realtà fisica reale e concreta. Il matematico greco Gemino (10 a.C.-60 d.C. circa) fu il primo ad analizzare più approfonditamente la differenza tra la costruzione di modelli matematici e le spiegazioni fisiche in relazione al moto dei corpi celesti.[21] Gemino distingueva tra astronomi (o matematici) che, a suo modo di vedere, dovevano soltanto suggerire modelli che riproducessero i moti osservati nel cielo, e fisici, che dovevano trovare delle spiegazioni per i moti reali. Questa netta separazione sarebbe giunta a un drammatico punto di rottura al tempo di Galileo, e vi tornerò ancora in questo capitolo. Può sembrare bizzarro, ma Archimede considerava uno dei suoi risultati più importanti la scoperta del fatto che il volume di una sfera

inscritta in un cilindro (figura 15) è sempre pari a 2/3 del volume del cilindro. Era così soddisfatto di questo risultato che chiese che fosse inciso sulla sua lapide.[22] Figura 15 Ben centotrentasette anni dopo la morte di Archimede, il famoso oratore romano Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C. circa) individuò la tomba del grande matematico. Quello che segue è il commovente racconto del ritrovamento: Quando ero questore [in Sicilia] scopersi il suo sepolcro, tutto circondato e rivestito di rovi e pruni, di cui i Siracusani ignoravano l’esistenza, anzi escludevano che ci fosse. Ricordavo di alcuni senari di poco conto, che sapevo trovarsi iscritti sulla sua tomba; dicevano che sulla sommità del sepolcro era posta una sfera e un cilindro. Un giorno scrutavo ogni angolo con lo sguardo [fuori della porta sacra a Ciane c’è un gran numero di sepolcri] e scorsi una colonnetta che non sporgeva molto dai cespugli, su cui stava l’effigie di una sfera e di un cilindro. Subito dissi ai Siracusani [si trovavano con me i più ragguardevoli cittadini] che pensavo si trattasse proprio di ciò che cercavo. Si mandò molta gente con falci e il luogo fu ripulito e sgombrato. Quando fu aperto l’accesso, ci avvicinammo al lato frontale del piedestallo: si vedeva un’iscrizione quasi dimezzata, in cui i versi si erano corrosi verso la fine di ciascuno. Così una fra le più celebri città della Grecia, e una volta anche fra le più dotte, avrebbe ignorato l’esistenza della tomba del suo più geniale cittadino, se non gliel’avesse fatta conoscere un uomo di Arpino.[23] Cicerone non esagerava nel descrivere la grandezza di Archimede. In effetti, ho posto così in alto lo sbarramento per l’assegnazione del titolo di «mago» che, se si procede oltre il gigante Archimede, bisogna fare un balzo in avanti di circa diciotto secoli per incontrare un uomo di statura simile alla sua. A differenza di Archimede, che affermava di poter muovere la Terra, questo mago sosteneva che la Terra si stesse già muovendo. Il miglior allievo di Archimede Galileo Galilei (figura 16) nacque a Pisa il 15 febbraio 1564.[24] Suo padre Vincenzo era un musicista e sua madre, Giulia Ammannati, era una donna brillante ma piuttosto astiosa che non tollerava la stupidità. Nel 1581 Galileo seguì il consiglio di suo padre e si iscrisse alla facoltà delle Arti dell’Università di Pisa per studiare Medicina. Il suo interesse

per le scienze mediche si affievolì però quasi subito per lasciar posto a quello per la matematica. Così, durante le vacanze estive del 1583, convinse il matematico della corte dei granduchi di Toscana, Ostilio Ricci (1540-1603), a incontrare suo padre e a convincerlo che lui, Galileo, era destinato a diventare un matematico. La questione fu sistemata di lì a poco, poiché quel giovane entusiasta rimase letteralmente stregato dalle opere di Archimede. «E vie più parrà a quelli che le sottilissime invenzioni di sì divino uomo tra le memorie di lui aranno lette ed intese» scrisse, «dalle quali pur troppo chiaramente si comprende, quanto tutti gli altri ingegni a quello di Archimede siano inferiori, e quanta poca speranza possa restare a qualsisia di mai poter ritrovare cose a quelle di esso simiglianti.»[25] A quel tempo Galileo non sapeva di essere lui stesso il possessore di una delle poche menti non inferiori a quella del maestro greco. Ispirato dalla storia leggendaria di Archimede e della ghirlanda del re, nel 1586 Galileo scrisse un libriccino intitolato La bilancetta, su una bilancia idraulica che lui stesso aveva inventato. In seguito fece di nuovo riferimento ad Archimede in una lezione di letteratura che tenne all’Accademia fiorentina e in cui parlò di un argomento decisamente insolito: la posizione e le dimensioni dell’Inferno nel poema dantesco. Figura 16 Nel 1589 a Galileo fu affidata la cattedra di Matematica presso l’Università di Pisa, in parte grazie alla forte raccomandazione di Cristoforo Clavio (1538-1612), uno stimato matematico e astronomo cui Galileo aveva fatto visita nel 1587 a Roma. L’astro del giovane matematico era ormai in decisa ascesa. Nei tre anni successivi Galileo espose i suoi primi pensieri sulla teoria del movimento. Questi saggi, che sono chiaramente influenzati dall’opera di Archimede, contengono un’affascinante miscela di idee interessanti e asserzioni false. Per esempio, insieme all’inedita scoperta del fatto che è possibile verificare le teorie sulla caduta dei gravi usando piani inclinati per rallentare il movimento verso il basso, Galileo vi sostiene erroneamente che quando si lasciano cadere dei corpi da una torre, «il legno si muove più veloce del piombo all’inizio del movimento».[26] Le propensioni e il modo di ragionare di Galileo in questa fase della sua vita sono stati travisati in certa misura dal suo primo biografo, Vincenzo Viviani (1622-1703). Viviani creò l’immagine popolare di uno sperimentatore meticoloso e concreto che riusciva a comprendere cose nuove esclusivamente per

mezzo di osservazioni attente dei fenomeni naturali.[27] In realtà, fino a quando non si trasferì a Padova nel 1592, l’orientamento e la metodologia di Galileo furono soprattutto matematici. Egli si affidava per lo più agli esperimenti concettuali e a una descrizione archimedea del mondo in termini di figure geometriche che obbedivano a leggi matematiche. La sua critica ad Aristotele era che il grande filosofo «ignorava le profonde e più oscure scoperte della geometria, ma anche i più elementari princìpi della scienza».[28] Inoltre, Galileo riteneva che Aristotele si fosse basato troppo sulle esperienze sensoriali, «poiché esse offrono a prima vista una certa parvenza di verità». Galileo proponeva al contrario «di impiegare sempre il ragionamento invece che gli esempi [poiché noi cerchiamo le cause e gli effetti, ed essi non vengono rivelati dall’esperienza]». Il padre di Galileo morì nel 1591, e ciò indusse il giovane, che ora doveva mantenere la sua famiglia, ad accettare un incarico a Padova, dove il suo stipendio sarebbe stato triplicato. I diciotto anni successivi furono i più felici della vita di Galileo. A Padova ebbe inizio la sua lunga relazione con Marina Gamba, che non sposò mai ma che gli diede tre figli: Virginia, Livia e Vincenzo.[29] Il 4 agosto 1597 Galileo scrisse una lettera personale al grande astronomo tedesco Giovanni Keplero in cui ammetteva di aver adottato «da molti anni» la dottrina di Copernico, aggiungendo di aver trovato nel modello eliocentrico copernicano le spiegazioni di svariati fenomeni naturali che con la dottrina geocentrica non si potevano raggiungere. Lamentava però il fatto che Copernico rimanesse «oggetto di ridicolo e derisione». Quella lettera segnava una spaccatura sempre più profonda tra Galileo e la cosmologia aristotelica. Cominciava a prendere forma l’astrofisica moderna. Il messaggero celeste La sera del 9 ottobre 1604, alcuni astronomi a Verona, Roma e Padova osservarono con sbigottimento una nuova stella che divenne rapidamente più luminosa di tutti gli altri astri del firmamento. Anche il meteorologo Jan Brunowski, funzionario imperiale a Praga, la notò il 10 ottobre e, in preda a una forte agitazione, informò immediatamente Keplero. Le nuvole impedirono a Keplero di vedere la stella fino al 17 ottobre, ma, una volta riuscitoci, egli continuò a registrare le sue osservazioni per circa un anno e alla fine pubblicò un libro sulla «stella nova» nel 1606. Quell’evento, che oggi noi definiamo «supernova di

Keplero», provocò grande sensazione a Padova. Galileo riuscì a vedere la nuova stella con i propri occhi verso la fine di ottobre e, in seguito, nei mesi di dicembre e di gennaio, tenne due lezioni pubbliche davanti a grandi platee. Appellandosi alla conoscenza invece che alla superstizione, Galileo fece notare che l’assenza di uno spostamento apparente («parallasse») nella posizione della nuova stella (rispetto allo sfondo delle stelle fisse) dimostrava che essa doveva trovarsi al di là della regione lunare. La portata di quell’osservazione era enorme. Nel mondo aristotelico tutti i mutamenti per così dire celesti avvenivano esclusivamente al di qua della Luna, mentre la sfera molto più lontana delle stelle fisse era ritenuta inviolabile e immune al cambiamento. Il superamento del concetto di sfera immutabile era cominciato già nel 1572, quando l’astronomo danese Tycho Brahe (1546-1601) aveva osservato un’altra esplosione stellare oggi nota come «supernova di Tycho». L’evento del 1604 fu un altro duro colpo per la cosmologia aristotelica. Ma la vera rivoluzione nella comprensione del cosmo non derivò né dal regno della speculazione teorica né dalle osservazioni a occhio nudo. Fu invece la conseguenza di semplici esperimenti compiuti con lenti di vetro convesse e concave: se se ne scelgono due appropriate e le si dispone a una distanza di trentatré centimetri circa l’una dall’altra, si ottiene uno strumento che fa apparire come per magia gli oggetti lontani più vicini. Nel 1608 questi cannocchiali cominciarono a fare la loro comparsa in tutta Europa, tanto che un fabbricante di specchi olandese e due fiamminghi ne chiesero il brevetto. Notizie di quel miracoloso strumento giunsero al teologo veneziano Paolo Sarpi, che nel maggio del 1609 ne informò Galileo. Ansioso di avere una conferma di quelle voci, Sarpi scrisse anche a un amico parigino, Jacques Badovere, per chiedergli se le informazioni che circolavano fossero vere. Stando alla sua stessa testimonianza, Galileo fu «preso dal desiderio di quel bellissimo oggetto». In seguito descrisse quegli eventi nel libro Sidereus Nuncius, che apparve nel marzo 1910: Circa dieci mesi fa ci giunse notizia che era stato costruito da un certo Fiammingo un occhiale, per mezzo del quale gli oggetti visibili, pur distanti assai dall’occhio di chi guarda, si vedevan distintamente come fossero vicini; e correvan voci su alcune esperienze di questo mirabile effetto, alle quali chi prestava fede, chi no. Questa stessa cosa mi venne confermata pochi giorni dopo per lettera dal nobile francese Iacopo Badovere, da Parigi; e questo fu causa che io mi volgessi tutto a

cercar le ragioni e ad escogitare i mezzi per giungere all’invenzione di un simile strumento, che poco dopo conseguii, basandomi sulla dottrina delle rifrazioni.[30] Qui Galileo dimostra di possedere un modo di procedere creativo e concreto del tutto simile a quello di Archimede: una volta saputo che era possibile costruire un telescopio, non gli ci volle molto per scoprire come poteva fabbricarsene uno lui stesso.[31] Ma c’è dell’altro: tra l’agosto 1609 e il marzo 1610, Galileo si servì della sua inventiva per migliorare il telescopio portandone il potere d’ingrandimento da otto a venti. Era una grande conquista tecnica di per sé, ma la vera grandezza di Galileo stava per rivelarsi non nella sua abilità tecnica, quanto nell’uso che fece del suo tubo per migliorare la visione (che egli chiamò «perspicillum»). Invece di spiare le navi al largo del porto di Venezia o esaminare i tetti di Padova, Galileo puntò il suo telescopio sul cielo. Ciò che seguì fu qualcosa che non aveva precedenti nella storia della scienza. «In circa due mesi» scrive lo storico della scienza Noel Swerdlow, «dicembre e gennaio [del 1609 e del 1610 rispettivamente], egli fece più scoperte che cambiarono il mondo di chiunque altro prima o dopo di lui.»[32] In effetti il 2009 è stato scelto come Anno internazionale dell’astronomia per celebrare il Quattrocentesimo anniversario delle prime osservazioni di Galileo. Ma che cosa fece Galileo per diventare un eroe della scienza di queste dimensioni? Quelli che seguono sono solo alcuni dei risultati sorprendenti che egli ottenne con il suo telescopio. Puntando lo strumento verso la Luna ed esaminando in particolare il terminatore – la linea che divide la parte illuminata del disco lunare da quella oscura –, Galileo scoprì che quel corpo celeste aveva una superficie irregolare, con montagne, crateri e grandi pianure.[33] Osservò che nella parte della Luna velata dall’oscurità apparivano dei punti luminosi e che quei puntini si allargavano e si estendevano come accade con le cime delle montagne sulla Terra al sorgere del Sole. Usò persino la geometria di luci e ombre per determinare l’altezza di una montagna, che risultò superiore a 7000 metri. Ma non era tutto. Galileo notò che anche la parte oscura della Luna (nella fase crescente) era debolmente illuminata, e ne concluse che ciò era dovuto alla luce del Sole riflessa dalla Terra. Così come la Terra è illuminata dalla Luna piena, affermò Galileo, la superficie lunare è circonfusa di luce riflessa dalla Terra.

Alcune di queste scoperte non erano del tutto nuove, ma la forza delle prove fornite da Galileo elevava il dibattito a un livello completamente inedito. Fino all’epoca di Galileo, c’era stata una netta distinzione tra «terrestre» e «celeste», «mondano» e «divino». La differenza non era soltanto scientifica o filosofica. Attorno a questa separazione tra Cielo e Terra era stato intessuto un ricco arazzo di mitologia, religione, poesia romantica e sensibilità estetica. In contrapposizione alla dottrina aristotelica, Galileo pose la Terra e un corpo celeste (la Luna) su un piano molto simile: ambedue avevano superfici accidentate e riflettevano la luce del Sole. Spingendosi oltre la Luna, Galileo si mise a osservare i pianeti, termine coniato dagli antichi greci per indicare gli astri «vagabondi» del cielo notturno. Dirigendo il suo telescopio su Giove il 7 gennaio 1610, scoprì con grande stupore tre nuove stelle disposte lungo una linea che attraversava il pianeta, due a oriente e una a occidente. Nelle notti seguenti, le nuove stelle cambiarono posizione rispetto a Giove. Il 13 gennaio Galileo vide comparire una quarta stella. Dopo circa una settimana dalla prima osservazione, Galileo giunse a una conclusione stupefacente: le nuove stelle erano in realtà satelliti che orbitavano attorno a Giove, esattamente come la Luna orbita attorno alla Terra. Una peculiarità che accomuna le personalità che hanno avuto un impatto significativo sulla storia della scienza è la loro capacità di comprendere al volo quali sono le scoperte che davvero possono fare la differenza. Un altro tratto che contraddistingue molti scienziati influenti è il modo in cui riescono a rendere comprensibili agli altri le loro scoperte. Galileo era un maestro in tutti e due questi ambiti. Preoccupato che qualcun altro potesse individuare i satelliti gioviani, Galileo si affrettò a rendere noti i risultati ottenuti: già nella primavera del 1610 il suo trattato Sidereus Nuncius veniva pubblicato a Venezia. Galileo, che in quel momento della sua vita era ancora politicamente accorto, dedicò il libro al granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, e chiamò i satelliti di Giove «stelle medicee». Due anni più tardi, dopo quella che egli definì una «fatica atlantica», Galileo fu in grado di determinare i periodi orbitali – il tempo necessario a ciascuno dei quattro satelliti per compiere una rivoluzione attorno a Giove – con uno scarto di pochi minuti. Sidereus Nuncius ebbe un successo immediato: le sue cinquecento copie iniziali andarono rapidamente esaurite, rendendo Galileo famoso in tutto il continente.

La scoperta dei satelliti gioviani fu di vasta portata.[34] Non erano solo i primi corpi celesti a essere aggiunti al sistema solare dai tempi delle osservazioni degli antichi greci, ma la loro mera esistenza eliminava in un sol colpo una delle più serie obiezioni alla teoria copernicana. Gli aristotelici sostenevano che era impossibile che la Terra orbitasse intorno al Sole, dato che la stessa Terra aveva la Luna che orbitava intorno a sé. Com’era possibile che l’universo avesse due distinti centri di rotazione, il Sole e la Terra? La scoperta di Galileo dimostrava inequivocabilmente che un pianeta poteva avere satelliti che gli orbitavano intorno pur seguendo la propria traiettoria attorno al Sole. Un’altra scoperta di fondamentale importanza che Galileo fece nel 1610 fu quella delle fasi del pianeta Venere. Secondo la dottrina geocentrica, Venere si sarebbe dovuto muovere lungo un piccolo cerchio («epiciclo») sovrapposto alla sua orbita intorno alla Terra. Il centro dell’epiciclo avrebbe dovuto trovarsi sempre sulla linea che congiunge la Terra al Sole (come nella figura 17a, che non è in scala). In questo caso ci si aspetterebbe che Venere, osservata dalla Terra, appaia sempre come una falce di ampiezza variabile. Nel sistema copernicano, d’altra parte, l’aspetto di Venere dovrebbe cambiare passando da un piccolo disco luminoso quando il pianeta si trova dal lato opposto del Sole rispetto alla Terra, a un disco grande e quasi completamente oscuro quando Venere si trova dallo stesso lato della Terra. Nelle posizioni intermedie tra questi due punti, Venere dovrebbe passare attraverso una sequenza completa di fasi simili a quelle della Luna. Figura 17 Su questa differenza tra le predizioni dei due modelli cosmologici, Galileo tenne una corrispondenza con un suo ex studente, Benedetto Castelli (1577-1644), e tra l’ottobre e il dicembre del 1610 compì le osservazioni decisive, il cui verdetto era chiaro: esse confermavano in maniera inequivocabile le predizioni del modello copernicano, dimostrando che Venere orbitava attorno al Sole. L’11 dicembre, un Galileo in vena di burle inviò a Keplero un oscuro anagramma in latino: «Haec immatura a me iam frustra leguntur o y» (Queste cose premature da me sono lette invano o. y.).[35] Keplero cercò senza successo di decifrare il messaggio nascosto nell’anagramma e alla fine vi rinunciò.[36] Nella lettera seguente, datata 1° gennaio 1611, Galileo gli

fornì la soluzione: «Cynthiae figuras aemulatur mater amorum» (La madre dell’amore [Venere] imita le figure di Cinzia [la Luna]). Tutte le scoperte di cui ho parlato fin qui riguardavano pianeti del sistema solare – corpi celesti che orbitano intorno al Sole e riflettono la sua luce – oppure satelliti che ruotano attorno a questi pianeti. Ma Galileo fece anche due scoperte relative alle stelle, corpi celesti che brillano di luce propria, come il Sole. Nella visione aristotelica del mondo, il Sole avrebbe dovuto simboleggiare la perfezione e l’immutabilità ultraterrene. Immaginatevi quale sbigottimento produsse lo scoprire che la superficie solare è tutt’altro che perfetta, che presenta macchie e punti oscuri che compaiono e scompaiono mentre il Sole ruota attorno al proprio asse. La figura 18 riproduce alcune immagini delle macchie solari. Su quei disegni il collega di Galileo Federico Cesi (1585-1630) scrisse che «si gustano per la meraviglia dello spettacolo, e per la diligenza dell’espressione». In realtà Galileo non fu il primo a vedere le macchie solari e nemmeno il primo a scriverne. Un trattatello in particolare, Tres epistolae de maculis solaribus, scritto dallo scienziato gesuita Cristoph Scheiner (1573-1650), irritò a tal punto Galileo che egli si sentì obbligato a pubblicare una risposta articolata. Secondo Scheiner, non era possibile che le macchie si trovassero sulla superficie del Sole. La sua tesi si basava in parte sul fatto che, a suo modo di vedere, le macchie erano troppo scure (pensava che fossero più scure delle parti in ombra della Luna) e in parte sul fatto che non sempre sembravano ricomparire nelle stesse posizioni. Di conseguenza Scheiner riteneva che fossero piccoli pianeti in orbita attorno al Sole.[37] Figura 18 Nella sua Historia e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, Galileo confutò sistematicamente le argomentazioni di Scheiner a una a una. Con una meticolosità, un’arguzia e un sarcasmo che avrebbero fatto balzare in piedi ad applaudire Oscar Wilde, Galileo dimostrò che le macchie non erano affatto oscure, ma che apparivano tali rispetto alla luminosa superficie del Sole. Inoltre, l’opera di Galileo dimostrava incontrovertibilmente che le macchie si trovavano proprio sulla superficie solare (ritornerò su questo argomento più avanti in questo capitolo). Le osservazioni di altre stelle compiute da Galileo rappresentarono a tutti gli effetti la prima escursione dell’uomo nel cosmo al di fuori dei

confini del sistema solare. Galileo scoprì che, a differenza di quanto accadeva con la Luna e i pianeti, il suo telescopio non ingrandiva le immagini delle stelle. Le implicazioni erano chiare: le stelle erano molto più lontane dei pianeti. Già questa era una deduzione stupefacente, ma il dato davvero sbalorditivo era il mero numero delle nuove, deboli stelle che il telescopio aveva rivelato. Soltanto in una piccola regione della costellazione di Orione, Galileo scoprì non meno di 500 nuove stelle. Quando il pisano rivolse il suo telescopio sulla Via Lattea – il nastro irregolare di debole luce che attraversa il cielo notturno – andò incontro alla sorpresa più grande. Persino quella macchia luminosa d’aspetto omogeneo si frantumava in una quantità innumerevole di stelle che nessun uomo aveva mai visto prima. L’universo diventava di colpo molto più grande. Galileo riferì la sua scoperta con il linguaggio spassionato di uno scienziato: Quello che in terzo luogo osservammo, è l’essenza o materia della Via Lattea, la quale attraverso il cannocchiale si può vedere in modo così palmare che tutte le discussioni, per tanti secoli cruccio dei filosofi, si dissipano con la certezza della sensata esperienza, e noi siamo liberati da sterili dispute. La Galassia non è altro che un ammasso di innumerabili stelle disseminate a mucchi; ché in qualunque parte di essa si diriga il cannocchiale, subito si offre alla vista un grandissimo numero di stelle, parecchie delle quali si vedono abbastanza grandi e molto distinte, mentre la moltitudine delle piccole è affatto inesplorabile. La reazione di alcuni contemporanei di Galileo fu entusiastica. Le sue scoperte accesero l’immaginazione di scienziati e non, in tutta Europa. Il poeta scozzese Thomas Seggett compose versi appassionati: Colombo diede all’uomo terre da conquistare col sangue, Galileo nuovi mondi che a nessuno recano danno. Chi è migliore?[38] Sir Henry Wotton, ambasciatore inglese a Venezia, riuscì a entrare in possesso di una copia del Sidereus Nuncius il giorno stesso in cui comparve. Lo spedì immediatamente a re Giacomo I d’Inghilterra, accompagnato da una lettera che diceva tra l’altro: Invio con la presente a sua Maestà la notizia più strana (come posso a buon diritto chiamarla) che ella abbia mai ricevuto dalla mia parte del mondo; si tratta del libro annesso (uscito questo stesso giorno) del professore di matematica di Padova che con l’aiuto di uno strumento

ottico [...] ha scoperto quattro nuovi pianeti che girano intorno alla sfera di Giove, oltre a molte altre stelle fisse sconosciute.[39] Si potrebbero scrivere interi volumi (e infatti sono stati scritti!) su tutto quello che scoprì Galileo, ma ciò esula dagli scopi di questo libro. Qui intendo limitarmi a esaminare l’effetto che alcune di queste scoperte sbalorditive ebbero sulle idee di Galileo riguardo all’universo. In particolare, quale relazione colse Galileo, se ne colse, tra la matematica e il cosmo smisurato che gli si dispiegava davanti. Il grande libro della natura Il filosofo della scienza Alexandre Koyré (1892-1964) osservò una volta che la rivoluzione del pensiero scientifico si può ridurre a un elemento essenziale: la scoperta che la matematica è la grammatica della scienza. Mentre gli aristotelici si accontentavano di una descrizione qualitativa della natura e, anche per quella, si appellavano all’autorità di Aristotele, Galileo affermava che gli scienziati avrebbero dovuto ascoltare la natura stessa e che le chiavi per decifrare il linguaggio dell’universo erano le relazioni matematiche e i modelli geometrici. Le differenze inconciliabili tra queste posizioni sono esemplificate dagli scritti di esponenti di spicco delle due concezioni. Ecco le parole dell’aristotelico Giorgio Coresio: «Concludiamo, dunque, che chi non vuole camminare alla cieca, bisogna che si consigli con Aristotele, ottimo interprete della natura».[40] Un altro filosofo aristotelico, il pisano Vincenzo di Grazia, aggiunge: Avanti che veniamo a considerare le dimostrazioni del Sig. Galileo, ci è paruto necessario il dimostrare quanto sieno lontani coloro dal vero che con ragioni matematiche vogliono dimostrare le cose naturali, de’ quali se io non m’inganno è il Sig. Galileo. Dico dunque che tutte le scienze e tutte l’arti hanno i propri princìpi e le proprie cagioni per le quali del proprio oggetto dimostrano i propri accidenti. Quindi è che non è lecito con i princìpi d’una scienza passare a dimostrare gli effetti d’un’altra [il corsivo è mio]. Onde grandemente vaneggia colui che si persuade di voler dimostrare gli accidenti naturali con ragioni matematiche, essendo queste due scienze tra di loro differentissime; imperciocché lo scientifico naturale considera le cose che hanno per propria e naturale affezione il movimento, laddove il matematico il proprio soggetto astrae da ogni movimento.[41] La compartimentazione ermetica delle branche della scienza era proprio il tipo di concetto che faceva infuriare Galileo. Nella bozza del

suo trattato sull’idrostatica, Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono, egli presentò la matematica come un motore potente che offre agli uomini la capacità di penetrare i segreti della natura: Qua io m’aspetto un rabbuffo terribile da qualcuno de gli avversarii; e già parmi di sentire intonar negli orecchi che altro è trattar le cose fisicamente ed altro matematicamente, e che i geometri doveriano restar tra le lor girandole, e non affratellarsi con le materie filosofiche, le cui verità sono diverse dalle verità matematiche; quasi che il vero possa esser più di uno; quasi che la geometria a i nostri tempi progiudichi all’aqquisto della vera filosofia, quasi che sia impossibile esser geometra e filosofo, sì che per necessaria conseguenza si inferisca che chi sa geometria non possa saper fisica, né possa discorrere e trattar delle materie fisiche fisicamente. Conseguenze non meno sciocche di quella di un tal medico fisico, che, spinto da un poco di livore, diceva che il medico Aqquapendente [Hieronymus Fabricius di Acquapendente (1537-1619)], essendo grande anatomista e chirurgo, doveva contentarsi di star tra i suoi ferri ed unguenti, senza volersi ingerire nelle cure fisiche, come se la cognizione di chirurgia destruggesse e fosse contraria alla fisica.[42] Un semplice esempio del modo in cui questi diversi atteggiamenti nei riguardi dei risultati osservativi potevano alterare completamente l’interpretazione dei fenomeni naturali è dato dalla scoperta delle macchie solari. Come ho già detto, l’astronomo gesuita Christoph Scheiner osservò le macchie con competenza e attenzione. Fece però l’errore di lasciare che i suoi pregiudizi aristotelici sulla perfezione dei cieli condizionassero le sue conclusioni. Quindi, quando scoprì che le macchie non facevano ritorno nella stessa posizione e nello stesso ordine, si affrettò ad annunciare che era in grado di «liberare il Sole dalla ferita delle macchie». La premessa di un’immutabilità celeste pose un limite alla sua immaginazione e gli impedì di considerare la possibilità che le macchie potessero modificarsi fino a diventare irriconoscibili.[43] Perciò dedusse che le macchie dovevano essere astri in orbita attorno al Sole. Il percorso seguito da Galileo per affrontare la questione della distanza delle macchie dalla superficie del Sole era completamente diverso. Egli individuò tre osservazioni che necessitavano di una spiegazione. Primo, le macchie apparivano più sottili quando erano vicine al bordo del disco rispetto a quando si

trovavano al suo centro. Secondo, la distanza tra esse sembrava aumentare quando si avvicinavano al centro del disco. Infine, le macchie sembravano muoversi più rapidamente in prossimità del centro che vicino al bordo. Con una sola costruzione geometrica, Galileo riuscì a dimostrare che la sua ipotesi, e cioè che le macchie fossero adiacenti alla superficie del Sole e si muovessero insieme a essa, era in accordo con tutti i fatti osservati. La sua dettagliata spiegazione si basava sul fenomeno visivo dello «scorcio» su una superficie sferica, ovvero sul fatto che delle sagome disegnate su una sfera appaiono più sottili e meno distanti quando sono vicine al bordo (la figura 19 mostra l’effetto nel caso di sagome circolari). La dimostrazione di Galileo per la costruzione del procedimento scientifico era di enorme portata. Le stesse osservazioni potevano portare a interpretazioni dubbie, a meno che non le si interpretasse in un più ampio contesto teorico. Figura 19 Galileo non si tirava mai indietro di fronte all’opportunità di un’accesa contesa. L’esposizione più articolata delle sue idee sulla natura della matematica e sul suo ruolo nella scienza compare in un’altra pubblicazione di carattere polemico, Il saggiatore. Questo brillante trattato, scritto magistralmente, raggiunse una tale popolarità che il papa Urbano VIII se ne faceva leggere delle pagine mentre consumava i suoi pasti. Ciò che stupisce è che la tesi centrale esposta da Galileo nel Saggiatore era completamente sbagliata. Galileo cercava di sostenere che le comete erano fenomeni causati da qualche scherzo della rifrazione ottica nel mondo sublunare. L’intera vicenda del Saggiatore dà quasi l’impressione di essere stata tratta dal libretto di un’opera italiana.[44] Nell’autunno del 1618 apparvero tre comete in successione. La terza, in particolare, restò visibile per quasi tre mesi. Nel 1619 Orazio Grassi, matematico gesuita del Collegio Romano, pubblicò anonimamente un pamphlet nel quale descriveva le sue osservazioni di quelle comete. Calcando le orme del grande astronomo danese Tycho Brahe, Grassi giungeva alla conclusione che le comete si trovavano tra il Sole e la Luna. Probabilmente il pamphlet sarebbe passato inosservato, ma Galileo decise di replicare alle argomentazioni addotte da Grassi, poiché aveva sentito che alcuni gesuiti vedevano nella pubblicazione del matematico un colpo alla teoria copernicana. Galileo fornì la sua risposta sotto

forma di letture (in gran parte scritte da Galileo stesso) che furono tenute da Mario Guiducci, un suo discepolo.[45] Nella versione scritta di queste letture, che fu pubblicata con il titolo Discorso sulle comete, Galileo attaccava direttamente Grassi e Tycho Brahe. Adesso era il turno di Grassi di risentirsi. Con lo pseudonimo di Lotario Sarsi, e facendosi passare per uno dei propri studenti, Grassi pubblicò una risposta caustica, in cui criticava senza mezzi termini Galileo (la risposta era intitolata Bilancia astronomica e filosofica, con la quale si esaminano le opinioni sulle comete di Galileo Galilei, esposte all’Accademia Fiorentina da Mario Guiducci). A difesa della sua applicazione dei metodi di Tycho per calcolare le distanze, Grassi (parlando come se fosse il suo studente), argomentava: Via, si conceda pure che il mio maestro aderì a Ticone [Tycho Brahe]. Che gran delitto è infine questo? Chi seguire di preferenza? Tolomeo [l’astronomo alessandrino che aveva perfezionato il modello geocentrico]? i cui seguaci Marte, fatto già più vicino, minaccia alla gola con la spada sguainata? Copernico? ma chi è religioso allontanerà piuttosto tutti da lui, e un’ipotesi or ora condannata, ugualmente condannerà e respingerà. Ecco che solo tra tutti rimaneva Ticone, perché lo potessimo prendere a guida per le vie ignote degli astri.[46] Questo brano mostra magnificamente la sottile linea sulla quale erano costretti a procedere i matematici gesuiti all’inizio del XVII secolo. Da un lato, la critica che Grassi muoveva a Galileo era pienamente giustificata ed estremamente penetrante. Dall’altro, non potendo compromettersi con il modello copernicano, Grassi si era autoimposto una camicia di forza che pregiudicava la sua argomentazione generale. Gli amici di Galileo erano così preoccupati dalla possibilità che l’attacco di Grassi minasse l’autorità del maestro che lo sollecitarono a controbattere. Ciò portò, nel 1623, alla pubblicazione del Saggiatore (il cui titolo completo spiega che nell’opera «con bilancia esquisita e giusta si ponderano le cose contenute nella Libra astronomica e filosofica di Lotario Sarsi Sigensano). Come ho già osservato, Il saggiatore contiene l’affermazione più limpida e avveniristica di Galileo sul rapporto tra la matematica e il cosmo. Eccone uno straordinario passaggio: Parmi, oltre a ciò, di scorgere nel Sarsi ferma credenza, che nel filosofare sia necessario appoggiarsi all’opinioni di qualche celebre

autore, sì che la mente nostra, quando non si maritasse col discorso d’un altro, ne dovesse in tutto rimanere sterile ed infeconda; e forse stima che la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo, come l’Iliade e l’Orlando furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero. Signor Sarsi, la cosa non istà così. La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi [io dico l’universo], ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto [il corsivo è mio].[47] Non è stupefacente? Secoli prima che ci si ponesse la questione del perché la matematica fosse uno strumento così efficace per spiegare la natura, Galileo pensava di conoscere già la risposta! Per lui, la matematica altro non era che il linguaggio dell’universo. Per comprendere l’universo, sosteneva, era necessario parlare quella lingua. Dio altro non era che un matematico. L’intera gamma delle idee che Galileo espone nei suoi scritti dipinge un quadro ancora più dettagliato delle sue opinioni sulla matematica. Innanzitutto, dobbiamo tener presente che per Galileo essa significava fondamentalmente geometria. Di rado era interessato a misurare valori in numeri assoluti. Descriveva i fenomeni soprattutto per mezzo di rapporti tra quantità e in termini relativi. Anche in questo Galileo era un autentico discepolo di Archimede, del cui principio della leva e del cui metodo della geometria comparativa si servì efficacemente e ampiamente. Un’altra questione degna di nota, che si manifesta soprattutto nell’ultima opera di Galileo, è la distinzione che l’autore fa tra i ruoli della geometria e quelli della logica. L’opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze,[48] è scritta nella forma di vivaci discussioni tra tre interlocutori, Salviati, Sagredo e Simplicio, personaggi le cui parti sono definite in modo chiaro. Salviati è a tutti gli effetti il portavoce di Galileo. Sagredo, l’aristocratico appassionato di filosofia, è un uomo la cui mente si è già sottratta alle illusioni del senso comune aristotelico e che dunque può essere convinto dalla forza delle argomentazioni della nuova scienza matematica. Simplicio, che nell’opera precedente di Galileo era ritratto come un personaggio succube dell’autorità di Aristotele, qui appare

come un erudito di ampie vedute. Durante il secondo giorno di discussioni, Sagredo ha un interessante scambio di idee con Simplicio: Sagredo: Che diremo, signor Simplicio? non convien egli confessare, la virtù della geometria essere il più potente strumento d’ogni altro per acuir l’ingegno e disporlo al perfettamente discorrere e specolare? e che con gran ragione voleva Platone i suoi scolari prima ben fondati nelle matematiche? Simplicio sembra trovarsi d’accordo e introduce il paragone con la logica: Simplicio: Veramente comincio a comprendere che la logica, benché strumento prestatissimo per regolare il nostro discorso, non arriva, quanto al destar la mente all’invenzione, all’acutezza della geometria. Poi Sagredo affina la distinzione: A me pare che la logica insegni a conoscere se i discorsi e le dimostrazioni già fatte e trovate procedano concludentemente; ma che ella insegni a trovare i discorsi e le dimostrazioni concludenti, ciò veramente non credo. Qui il messaggio di Galileo è semplice: riteneva che la geometria fosse lo strumento per mezzo del quale si scoprono nuove verità. La logica, d’altra parte, per Galileo serve a valutare e criticare scoperte già compiute. Nel Capitolo 7 esamineremo una prospettiva diversa secondo cui tutta la matematica scaturisce dalla logica. Come giunse Galileo all’idea che la matematica fosse il linguaggio della natura? In fondo, una conclusione filosofica di questa portata non poteva essersi materializzata all’improvviso dal nulla. In effetti le radici di questo concetto si possono far risalire fino agli scritti di Archimede. Il maestro greco fu il primo a far uso della matematica per spiegare fenomeni naturali. Poi, in un tortuoso percorso che passava attraverso alcuni matematici medievali e delle corti rinascimentali italiane, la natura della matematica si guadagnò lo status di argomento degno di discussione. Alla fine, anche alcuni dei matematici gesuiti del tempo di Galileo, Cristoforo Clavio in particolare, riconobbero che forse la matematica si poneva a metà strada tra la metafisica (i princìpi filosofici sulla natura dell’essere) e la realtà fisica. Nei prolegomeni all’edizione da lui commentata degli Elementi di Euclide, Clavio scrisse: Poiché le discipline matematiche concernono cose che sono considerate separate da ogni materia sensibile, sebbene siano immerse

nelle cose materiali, è chiaro che esse occupano un posto intermedio tra la metafisica e la scienza naturale, se consideriamo il loro oggetto di studio. L’idea della matematica come mero trait d’union non soddisfaceva Galileo. Egli compì un ulteriore e audace passo in avanti equiparando la matematica alla lingua madre di Dio. Quest’identificazione, tuttavia, sollevava una grande contraddizione, che avrebbe avuto un effetto drammatico sulla vita di Galileo. Scienza e tecnologia Secondo Galileo, nel progettare la natura Dio parlava il linguaggio della matematica. Secondo la Chiesa cattolica, Dio era l’«autore» della Bibbia. Come giudicare dunque quei casi in cui le spiegazioni scientifiche fondate sulla matematica sembravano contrapporsi alle Scritture? Nel 1546, i teologi del Concilio di Trento risposero senza mezzi termini: Nessuno, basandosi sulla propria saggezza, negli argomenti di fede e di costumi, che riguardano la dottrina cristiana, piegando la Sacra Scrittura secondo i propri modi di vedere, osi interpretarla contro il senso che ha [sempre] ritenuto e ritiene la santa madre Chiesa, alla quale spetta di giudicare del vero senso e dell’interpretazione delle sacre scritture. Di conseguenza, quando nel 1616 furono chiamati a rendere pubblica la loro opinione sulla cosmologia eliocentrica copernicana, i teologi conclusero che essa era «formalmente eretica, per essere espressamente contraria alla Sacra Scrittura». In altre parole, l’elemento davvero centrale delle obiezioni mosse dalla Chiesa al copernicanesimo di Galileo non era tanto la rimozione della Terra dalla sua posizione al centro dell’universo, quanto piuttosto il fatto che sfidasse l’autorità della Chiesa nell’interpretazione delle Scritture.[49] In un clima in cui la Chiesa cattolica romana si sentiva già in pericolo a causa delle controversie con i teologi della Riforma, Galileo e la Chiesa erano chiaramente in rotta di collisione. Gli eventi cominciarono a evolversi rapidamente verso la fine del 1613. Benedetto Castelli, ex allievo di Galileo, presentò le nuove scoperte astronomiche al granduca di Toscana e alla sua corte. Come era prevedibile, fu sollecitato a spiegare le evidenti discrepanze tra la cosmologia copernicana e alcuni racconti biblici, per esempio quello in cui Dio ferma il Sole e la Luna nel loro tragitto per permettere a Giosuè

e agli israeliti di portare a termine la vittoria sugli amorei nella valle di Aialon. Anche se Castelli difese con energia la teoria copernicana – «Mi diportai da paladino», riferì –, Galileo rimase piuttosto turbato dalla notizia di quello scontro e si sentì obbligato a esprimere le proprie opinioni sulle contraddizioni tra la scienza e le Sacre Scritture. In una lunga lettera a Castelli datata 21 dicembre 1613, Galileo scrive: Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura.[50] Quest’interpretazione del significato della Bibbia era chiaramente in contrasto con quella di alcuni dei teologi più intransigenti. Per esempio, il domenicano Domingo Báñez aveva scritto nel 1584: «Lo Spirito Santo non solo ispirò tutto ciò che è contenuto nella Scrittura, ma dettò e suggerì anche ogni parola con cui essa fu scritta».[51] Ovviamente Galileo non ne era convinto. Nella sua lettera a Castelli aggiunse: Io crederei che l’autorità delle Sacre Lettere avesse avuto solamente la mira a persuader a gli uomini quegli articoli e proposizioni, che, sendo necessarie per la salute loro e superando ogni umano discorso, non potevano per altra scienza né per altro mezzo farcisi credibili, che per la bocca dell’istesso Spirito Santo. Ma che quel medesimo Dio che ci ha dotati di sensi, di discorso e d’intelletto, abbia voluto, posponendo l’uso di questi, darci con altro mezzo le notizie che per quelli possiamo conseguire, non penso che sia necessario il crederlo, e massime in

quelle scienze delle quali una minima particella e in conclusioni divise se ne legge nella Scrittura; qual appunto è l’astronomia, di cui ve n’è così piccola parte, che non vi si trovano né pur nominati i pianeti. Una copia della lettera di Galileo arrivò alla Congregazione del Sant’Uffizio a Roma, dove si giudicavano le questioni relative alla fede, e in particolare nelle mani dell’influente cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621). La prima reazione di Bellarmino alla teoria copernicana era stata abbastanza moderata: egli considerava l’intero modello eliocentrico come un modo «per salvar l’apparenze, o simil cose, alla guisa di quelli che hanno introdotto gli epicicli e poi non gli credono». Come altri prima di lui, anche Bellarmino trattava i modelli matematici proposti dagli astronomi come semplici stratagemmi ideati per descrivere ciò che gli uomini osservavano, ma non ancorati in alcun modo alla realtà fisica. Questi accorgimenti «per salvar le apparenze», sosteneva il cardinale, non dimostrano che la Terra si muova veramente. Di conseguenza Bellarmino non vedeva alcuna minaccia immediata nel libro di Copernico (il De revolutionibus), anche se si affrettava ad aggiungere che sostenere che la Terra si muovesse non avrebbe soltanto rischiato «d’irritare tutti i filosofi e theologi scholastici, ma anco di nuocere alla Santa Fede con rendere false le Scritture Sante». Tutti i dettagli del resto di questa tragica vicenda esulano dallo scopo e dall’interesse principale di questo libro, perciò qui ne darò solo una breve descrizione. La Congregazione dell’Indice mise al bando il libro di Copernico nel 1616. Gli ulteriori tentativi di Galileo di appoggiarsi a numerosi passi tratti dall’opera del più rispettato tra i primi teologi – sant’Agostino – per la sua interpretazione del rapporto tra le scienze naturali e le Scritture non gli guadagnarono molte simpatie.[52] A dispetto delle sue articolate lettere incentrate sulla tesi secondo cui non c’era disaccordo (se non superficiale) tra la teoria copernicana e i testi biblici, i teologi dell’epoca consideravano le argomentazioni di Galileo un’intrusione non gradita nella loro sfera di competenze. Con cinismo, quegli stessi teologi non esitavano a esprimere opinioni su questioni scientifiche. Mentre all’orizzonte si addensavano nubi minacciose, Galileo continuava a credere che la ragione avrebbe prevalso: un gravissimo errore quando si sollevano dubbi su materie di fede religiosa. Galileo pubblicò il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo[53] nel

febbraio del 1632 (la figura 20 mostra il frontespizio della prima edizione). Figura 20 Quest’opera polemica è la più minuziosa esposizione delle idee copernicane di Galileo. Oltretutto, nel libro Galileo sosteneva che se gli uomini praticano la scienza usando il linguaggio dell’equilibrio meccanico e della matematica, possono comprendere la mente di Dio. In altre parole, quando una persona trova la soluzione di un problema usando la geometria proporzionale, le intuizioni e la comprensione che ne ricava sono di natura divina. La reazione della Chiesa fu rapida e risoluta. La circolazione del Dialogo fu vietata già nell’agosto dell’anno della pubblicazione. Il mese successivo Galileo fu convocato a Roma per difendersi dall’accusa di eresia. Il processo ebbe inizio il 12 aprile 1633 e Galileo fu giudicato «veementemente sospetto di eresia» il 22 giugno 1633. I giudici dichiararono Galileo colpevole «d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e Divine Scritture, ch’il sole sia centro della terra e che non si muova da oriente a occidente, e che la terra si muova e non sia centro del mondo». La sentenza fu dura: Ti condaniamo al carcere formale in questo S.o Off.o ad arbitrio nostro; e per penitenze salutari t’imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali: riservando a noi facoltà di moderare, mutare o levar in tutto o parte, le sodette pene e penitenze.[54] Distrutto, il settantenne Galileo cedette alla pressione. Con l’animo a pezzi presentò una lettera di abiura in cui si impegnava a «lasciar la falsa opinione che il sole sia centro del mondo e che non si muova e che la terra non sia il centro del mondo e che si muova». E concludeva: Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione.[55] L’ultima opera di Galileo, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, fu data alle stampe nel luglio del 1638. Il manoscritto fu portato clandestinamente fuori dall’Italia e pubblicato a Leida, in Olanda. Il contenuto del libro esprimeva appieno e con forza

il sentimento simboleggiato dalle famosissime parole «Eppur si muove». Questa frase di sfida, che in genere viene messa in bocca a Galileo alla conclusione del processo, probabilmente non fu mai pronunciata. Il 31 ottobre 1992, la Chiesa cattolica ha infine deciso di «riabilitare» Galileo. Ammettendo che lo scienziato aveva sempre avuto ragione, ma astenendosi ancora dal muovere critiche dirette all’Inquisizione, papa Giovanni Paolo II dichiarò: Paradossalmente, Galileo, sincero credente, si mostrò su questo punto [le evidenti discrepanze tra la scienza e le scritture] più perspicace dei suoi avversari teologi [...]. La maggioranza dei teologi non percepiva la distinzione formale tra la Sacra Scrittura e la sua interpretazione, che li indusse a trasporre indebitamente nel campo della dottrina della fede una questione di fatto appartenente alla ricerca scientifica. I giornali di tutto il mondo festeggiarono l’evento. «È ufficiale: la Terra gira attorno al Sole, anche per il Vaticano» proclamò il «Los Angeles Times». Ma molti non trovarono la cosa tanto divertente. Qualcuno considerava questo mea culpa della Chiesa davvero troppo modesto, eccessivamente tardivo. Lo studioso di Galileo Antonio Beltrán Marí osservò: Il fatto che il papa continui a sentirsi un’autorità legittimata a dire qualcosa di importante su Galileo e la sua scienza dimostra che, da parte sua, nulla è cambiato. Il papa si sta comportando esattamente come i giudici di Galileo, il cui errore adesso riconosce.[56] Va precisato, per esser giusti, che il papa si trovava in una situazione senza via d’uscita. Qualsiasi decisione avesse preso, tanto quella di ignorare il problema e lasciare la condanna di Galileo in giudicato, quanto quella di riconoscere finalmente l’errore della Chiesa, è probabile che avrebbe comunque subìto delle critiche. Eppure, in un’epoca in cui si tenta di presentare il creazionismo biblico come teoria «scientifica» alternativa (sotto il velo sottile della definizione di «disegno intelligente») è bene ricordare che Galileo ha già combattuto questa battaglia quasi quattro secoli fa. E che l’ha vinta. 4

Maghi: lo scettico e il gigante In uno dei sette episodi del film Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere, Woody Allen interpreta la parte di un buffone che si esibisce in numeri comici per un re medievale e la sua corte. Bramando i favori sessuali della regina, il giullare le dà un afrodisiaco sperando di riuscire a sedurla. In effetti la sovrana finisce per sentirsi attratta dal buffone ma, ahimè, un enorme lucchetto chiude la sua cintura di castità. Trovandosi di fronte a questa situazione frustrante nella camera da letto della regina, il giullare commenta nervosamente: «Devo pensare in fretta a qualcosa, prima che arrivi il Rinascimento e finiamo tutti dipinti in un quadro». A parte gli scherzi, questa parodia è una descrizione comprensibile degli eventi che accaddero in Europa nel XV e XVI secolo. In effetti il Rinascimento ha prodotto una tale abbondanza di capolavori di pittura, scultura e architettura che queste straordinarie opere d’arte costituiscono ancora oggi parte importante della nostra cultura. Quanto alla scienza, il Rinascimento fu testimone della rivoluzione eliocentrica in astronomia, una rivoluzione alla cui testa si posero Copernico, Keplero e soprattutto Galileo. La nuova visione dell’universo offerta dalle osservazioni compiute da Galileo con il telescopio e le rivelazioni ottenute grazie ai suoi esperimenti di meccanica ispirarono forse più di ogni altra cosa i progressi matematici del secolo seguente. Mentre si avvertivano le prime avvisaglie del crollo della filosofia aristotelica e si muovevano le prime critiche aperte all’ideologia teologica della Chiesa, i filosofi iniziavano a cercare nuove fondamenta su cui erigere la conoscenza umana. La matematica, composta com’era da verità apparentemente certe, forniva quella che sembrava la base più solida per un nuovo inizio. L’uomo che intraprese il compito decisamente ambizioso di scoprire una formula che in qualche modo avrebbe imposto un ordine all’intero pensiero razionale e unificato tutta la conoscenza, la scienza e l’etica, era un giovane ufficiale e gentiluomo francese di nome René Descartes o – nella forma italianizzata – Cartesio. Un sognatore Molti considerano Cartesio (figura 21) sia il primo dei grandi filosofi moderni sia il primo biologo moderno. Se a queste grandiose credenziali si aggiunge il fatto che il filosofo empirista inglese John Stuart Mill (1806-1873) definì uno dei risultati ottenuti da Cartesio nel

campo della matematica «il più gran passo che sia stato mai fatto nel progresso delle scienze esatte»,[1] si comincia a capire quanto immenso fosse il potenziale del suo intelletto. Cartesio nacque il 31 marzo 1596 a La Haye, in Francia.[2] In onore del suo cittadino più illustre, nel 1801 la città fu ribattezzata La HayeDescartes e, a partire dal 1967, è chiamata semplicemente Descartes. All’età di otto anni Cartesio entrò nel collegio gesuita di La Flèche, dove studiò latino, matematica, lettere classiche, scienze e filosofia scolastica fino al 1612. A causa della salute relativamente fragile, era esentato dalla brutale sveglia alle cinque e aveva il permesso di trascorrere le ore del mattino a letto. In seguito continuò a dedicare la prima parte del giorno alla meditazione e una volta confessò al matematico Blaise Pascal che il solo modo che aveva per rimanere in buona salute ed essere produttivo era di non alzarsi mai prima di sentirsi nelle condizioni di spirito di farlo. Come vedremo tra poco, quell’affermazione si rivelò tragicamente profetica. Figura 21 Dopo La Flèche, Cartesio si laureò in Legge all’Università di Poitiers, ma non praticò mai la professione. Irrequieto e ansioso di vedere il mondo, decise di arruolarsi nell’esercito del principe Maurice d’Orange, che in quel momento era di stanza a Breda, nelle Province Unite (la futura Olanda). Un incontro casuale in quella città si rivelò cruciale per lo sviluppo intellettuale di Cartesio. Si narra che, mentre se ne andava a spasso per le viuzze della città, Cartesio notò un cartellone affisso che sembrava proporre un difficile problema matematico. Chiese alla prima persona che passava di tradurne il testo dall’olandese in latino o in francese. Poche ore dopo aveva risolto il problema, convincendosi così di essere veramente portato per la matematica. L’uomo che aveva tradotto il testo altri non era che lo scienziato e matematico olandese Isaac Beeckman (1588-1637),[3] che per anni avrebbe esercitato la sua influenza sulle indagini «fisico-matematiche» di Cartesio.[4] I nove anni seguenti videro Cartesio alternarsi tra il trambusto della vita parigina e il servizio in vari eserciti. In un’Europa in preda a conflitti politici e religiosi e mentre infuriava la Guerra dei Trent’anni, per Cartesio non era difficile trovare battaglie da combattere o spiegamenti di soldati in marcia a cui unirsi, a Praga come in Germania o in Transilvania. Eppure per tutto quel periodo rimase,

per citare le sue stesse parole, «completamente immerso nello studio della matematica». Il 10 novembre 1619 Cartesio fece tre sogni che non solo ebbero conseguenze decisive sul resto della sua esistenza, ma segnarono forse anche l’inizio del mondo moderno.[5] In seguito, raccontando l’episodio, Cartesio scrisse in uno dei suoi appunti: «Ero pieno d’entusiasmo per aver trovato i fondamenti di una scienza meravigliosa». Su cosa vertevano quei sogni tanto importanti? In realtà, due furono veri e propri incubi. Nel primo Cartesio si trova preso in un turbine di vento che lo fa roteare con violenza sul piede sinistro. A terrorizzarlo è anche la sensazione di cadere a ogni passo. Poi compare un vecchio che tenta di porgergli un melone proveniente da un Paese straniero. Anche il secondo sogno è una visione terrificante: Cartesio è intrappolato nella sua stanza tra tuoni minacciosi e scintille che gli volano tutt’intorno. In netto contrasto con i primi due, il terzo sogno è un’immagine di calma e meditazione. Mentre scruta la stanza, Cartesio posa il suo sguardo su un tavolo sopra il quale ci sono libri che appaiono e scompaiono. Tra questi c’è un’antologia poetica intitolata Corpus Poetarum e un’enciclopedia. Cartesio apre l’antologia a caso e l’occhio gli cade sul primo verso di un componimento di Ausonio, un poeta romano del IV secolo. «Quod vitae sectabor iter?» (Quale strada seguirò nella vita?) recita il verso. Dal nulla appare come per miracolo un uomo che cita un altro verso: «Est et non» (È e non è, Sì e no). Cartesio vuole mostrargli il verso di Ausonio ma l’intera visione svanisce all’improvviso nel nulla. Di solito l’importanza dei sogni non sta tanto nel loro contenuto reale, che è spesso sconcertante e bizzarro, quanto nell’interpretazione che il sognatore sceglie di darvi. Nel caso di Cartesio, l’effetto di quei tre sogni enigmatici fu stupefacente. Egli giudicò che l’enciclopedia stesse a significare la conoscenza scientifica collettiva e che l’antologia poetica rappresentasse la filosofia, la rivelazione e l’entusiasmo. Interpretò il «Sì e no» – i famosi opposti pitagorici – come la rappresentazione del vero e del falso. (Come prevedibile, alcune interpretazioni psicoanalitiche hanno suggerito connotazioni sessuali legate al melone.) Cartesio era assolutamente convinto che quei sogni gli avessero indicato la direzione per unificare l’intera conoscenza umana per mezzo della ragione. Si congedò dall’esercito nel 1621 ma per altri cinque anni continuò a viaggiare e a studiare matematica. Tutti

coloro che conobbero Cartesio durante quel periodo, e tra questi una carismatica guida spirituale come il cardinal Pierre de Bérulle (15751629), rimasero profondamente colpiti dall’acutezza e dalla lucidità del suo pensiero. Molti lo incoraggiarono a pubblicare le proprie idee. Con qualsiasi altro giovane quel saggio consiglio paterno avrebbe probabilmente avuto lo stesso effetto controproducente di quell’unica parola – «Plastica!» – che il personaggio interpretato da Dustin Hoffman si sente rivolgere nel film Il laureato come consiglio sulla carriera da intraprendere, ma Cartesio era diverso. Dato che si era già impegnato nell’obiettivo di cercare la verità, si lasciò convincere facilmente. Si trasferì in Olanda, che all’epoca sembrava offrire un ambiente culturale più tranquillo, e nel corso dei vent’anni successivi si produsse in un tour de force dietro l’altro. Cartesio pubblicò il suo primo capolavoro sul fondamento della scienza, il Discorso sul metodo, nel 1637 (la figura 22 riproduce il frontespizio della prima edizione). Figura 22 Accompagnavano il trattato tre eccezionali appendici, sull’ottica, la meteorologia e la geometria. Poi venne la sua opera filosofica, Meditazioni metafisiche, nel 1641, e quella sulla fisica, I principi della filosofia, nel 1644. Ormai il pensiero di Cartesio aveva raggiunto tutta l’Europa, e annoverava tra i suoi ammiratori una principessa in esilio, Elisabetta di Boemia (1618-1680), con cui lui intratteneva una feconda corrispondenza. Nel 1649 Cartesio fu invitato a impartire lezioni di filosofia alla pittoresca regina Cristina di Svezia (1626-1689). Avendo sempre avuto un debole per i reali, Cartesio accettò l’incarico. In effetti, la lettera che inviò alla regina era così ricolma di auliche espressioni di deferenza tipiche della prosa del XVII secolo che oggi ci appare decisamente ridicola: «Oso qui affermare a Vostra Maestà che Ella non saprebbe mai comandarmi niente di così difficile che io non sia sempre pronto a fare tutto il possibile per eseguire; e che se fossi nato Svedese o Finlandese non potrei esserlo con maggiore sollecitudine, né più perfettamente di quello che sono». Quella regina ventitreenne dalla volontà di ferro voleva a tutti i costi che Cartesio le tenesse le sue lezioni a un’ora impossibile: le cinque del mattino. In un Paese così freddo che, come scrisse Cartesio a un amico, persino i pensieri congelavano, quell’incombenza si dimostrò letale. «Qui non sono nel mio elemento» scrisse Cartesio, «e non desidero altro che tranquillità e

riposo, beni che i più potenti Re della Terra non possono dare a coloro i quali non sanno prenderseli da soli.»[6] Dopo aver affrontato per pochi mesi il rigido inverno svedese in quelle buie ore mattutine che era riuscito a evitare per tutta la vita, Cartesio contrasse una polmonite. Morì a cinquantatré anni, l’11 febbraio 1650, alle quattro del mattino, come se avesse voluto evitare di essere svegliato ancora una volta. L’uomo le cui opere preannunciarono l’era moderna cadde vittima del proprio snobismo e dei capricci di una giovane regina. Cartesio fu sepolto in Svezia, ma le sue spoglie, o almeno una loro parte, furono trasferite in Francia nel 1667.[7] Dopo essere stati spostati più volte, il 26 febbraio 1819 i resti mortali di Cartesio furono tumulati in una delle cappelle della cattedrale di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi. Figura 23 La figura 23 mi ritrae accanto alla semplice lapide nera che lo commemora. Il suo presunto teschio passò di mano in mano in Svezia finché non fu acquistato da un chimico di nome Berzelius che lo trasportò in Francia. Quel teschio si trova attualmente al Museo di Scienze Naturali, che fa parte del Musée de l’Homme, a Parigi. Spesso viene esposto di fronte al teschio dell’uomo di Neanderthal. Un moderno L’etichetta di «moderno», quando viene applicata a un essere umano, si riferisce in genere a quegli individui che potrebbero tranquillamente conversare con i loro pari del XX (o, ormai, del XXI) secolo. Ciò che rende Cartesio un vero moderno è il fatto che egli osò mettere in discussione tutte le affermazioni filosofiche e scientifiche che erano state fatte prima della sua epoca.[8] Una volta osservò che la sua istruzione formale era servita solo ad aumentare la propria perplessità e a renderlo consapevole della propria ignoranza. Nel suo celebre Discorso sul metodo, scrisse: «Della filosofia dirò soltanto che, vedendo come essa sia stata coltivata dagli intelletti più eccellenti di ogni tempo [...] ciò nonostante non c’è in essa nulla di cui non si seguiti a disputare come di cosa ancora dubbia». Se è vero che il destino di molte delle idee filosofiche dello stesso Cartesio non sarebbe stato molto diverso, visto che i filosofi a lui successivi hanno messo in evidenza i notevoli limiti delle sue proposizioni, il suo impudente scetticismo, persino nei confronti dei concetti più basilari, lo rende certamente moderno in tutto e per tutto. Più importante nell’ottica di

questo libro è il fatto che Cartesio riconoscesse che i metodi della matematica producevano esattamente il tipo di certezza che mancava alla filosofia scolastica precedente alla sua epoca.[9] Cartesio lo dichiarò con chiarezza: Quelle catene di ragionamenti, lunghe, eppure semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni, mi diedero motivo a supporre che nello stesso modo si susseguissero tutte le cose di cui l’uomo può avere conoscenza [il corsivo è mio], e che, ove si faccia attenzione di non accoglierne alcuna per vera quando non lo sia, e si osservi sempre l’ordine necessario per dedurre le une dalle altre, non ce ne fossero di così lontane alle quali non si potesse arrivare, né di così nascoste che non si potessero scoprire. Questa audace asserzione va, in un certo senso, oltre le concezioni di Galileo. Non è solo l’universo fisico a essere scritto nel linguaggio della matematica: tutta la conoscenza umana ne segue la logica. Nelle parole di Cartesio, «Tale disciplina infatti deve contenere i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi alle verità che si possono trar fuori da qualsiasi soggetto; e, a dirla apertamente, io son persuaso che essa sia più importante di ogni altra cognizione a noi data umanamente, essendo quella che è fonte di tutte le altre». L’obiettivo di Cartesio divenne perciò quello di dimostrare che il mondo della fisica – per lui una realtà descrivibile per mezzo della matematica – poteva essere rappresentato senza affidarsi alle nostre percezioni sensoriali spesso fallaci. Sosteneva che la mente dovrebbe filtrare quello che gli occhi vedono e tradurre le percezioni in idee. In fondo, argomentava Cartesio, «non vi sono segni abbastanza certi che permettano di distinguere nettamente la veglia dal sonno». Ma, si chiedeva Cartesio, se tutto ciò che percepiamo come realtà potrebbe di fatto essere solo un sogno, come facciamo a sapere che anche la Terra e il cielo non sono che «illusioni e inganni» impressi nei nostri sensi da un potentissimo «cattivo genio»? Per dirla alla Woody Allen, «E se tutto fosse un’illusione, se nulla esistesse? Ma allora avrei pagato uno sproposito per quella mia moquette». Un tale diluvio di dubbi inquietanti produsse quello che è diventato l’assunto più memorabile di Cartesio: Cogito ergo sum.[10] In altre parole, dietro i pensieri deve esserci una mente conscia. Paradossalmente, forse, è dell’atto stesso di dubitare che non si può dubitare! Cartesio cercò, partendo da questa osservazione

apparentemente esile, di costruire un sistema completo di conoscenze attendibili. Si cimentò in filosofia, ottica, meccanica, medicina, embriologia, meteorologia, e in ognuna di queste discipline ottenne risultati di rilevanza non indifferente. Eppure, a dispetto della sua insistenza sulla capacità umana di ragionare, Cartesio non credeva che la logica da sola potesse portare alla luce verità fondamentali. Giungendo sostanzialmente alle stesse conclusioni di Galileo, osservò che «i sillogismi e la maggior parte dei precetti della logica servono piuttosto a spiegare agli altri le cose che già si sanno» che non ad apprendere «le cose che uno ignora». Egli cercò invece, in tutto il suo eroico tentativo di reinventare – o di stabilire – le fondamenta di intere discipline, di servirsi dei princìpi che aveva distillato dal metodo matematico, in modo da essere sicuro di procedere su un terreno solido. Descrisse queste rigorose direttive nell’opera Regole per la guida dell’intelligenza. Sarebbe partito da verità su cui non nutriva dubbi (simili agli assiomi della geometria euclidea); avrebbe cercato di scomporre i problemi difficili in altri più abbordabili; avrebbe proceduto dal rudimentale al complesso; e avrebbe ricontrollato tutta la procedura seguita per esser certo di non aver ignorato alcuna potenziale soluzione. È inutile dire che anche questo sistema rigoroso, realizzato con tutte le precauzioni, non poteva rendere le conclusioni di Cartesio immuni da errori. Di fatto, benché egli sia più noto per le sue monumentali conquiste nel campo della filosofia, i suoi contributi più durevoli sono stati ottenuti in quello della matematica. Adesso concentrerò l’attenzione in particolare su quell’idea di splendida semplicità che John Stuart Mill definì «il più gran passo che sia stato mai fatto nel progresso delle scienze esatte». La matematica di una cartina di New York Date un’occhiata alla cartina parziale di Manhattan nella figura 24. Se vi trovaste all’angolo tra la 34a Strada e l’8a Avenue e doveste incontrarvi con qualcuno all’angolo tra la 59a Strada e la 5a Avenue, non avreste alcun problema a individuare il vostro percorso, giusto? Era questa l’essenza dell’idea di Cartesio per una nuova geometria. La espose per sommi capi in un’appendice di 106 pagine al suo Discorso sul metodo intitolata La geometria.[11] È difficile a credersi, ma questo concetto straordinariamente semplice rivoluzionò la matematica. Cartesio partì dalla constatazione quasi banale del fatto che, proprio come mostra la cartina di Manhattan, una coppia di numeri determina la

posizione di un punto sul piano senza ambiguità (come accade, per esempio, con il punto A nella figura 25a). Figura 24 Quindi utilizzò questo dato di fatto per elaborare una teoria delle curve estremamente efficace: la «geometria analitica». In onore di Cartesio, la coppia di linee rette che si intersecano per fornirci il sistema di riferimento da lui inventato prende il nome di «sistema di coordinate cartesiane». Per consuetudine, la retta orizzontale è chiamata «asse delle x», la retta verticale «asse delle y» e il punto di intersezione «origine». Il punto indicato con A nella figura 25a, per esempio, ha una coordinata x pari a 3 e una coordinata y pari a 5; in simboli lo si rappresenta con la coppia ordinata di numeri (3,5). L’origine è rappresentata dalla coppia (0,0). Adesso supponete di voler definire in qualche modo tutti i punti del piano che si trovano a una distanza esatta di cinque unità dall’origine. Naturalmente questa altro non è che la definizione di un cerchio centrato sull’origine e con un raggio di lunghezza pari a cinque unità (figura 25b). Se si prende il punto (3,4) su questo cerchio, si scopre che le sue coordinate soddisfano l’equazione x2 + y2 = 52. In effetti è facile dimostrare (attraverso il teorema di Pitagora) che le coordinate di un qualsiasi punto del cerchio soddisfano quest’equazione. Inoltre, i punti che giacciono sul cerchio sono i soli punti del piano per i quali l’equazione x2 + y2 = 52 è valida. Ciò significa che l’equazione algebrica x2 + y2 = 52 definisce in maniera precisa e univoca quel cerchio. Cartesio dunque scoprì un modo per rappresentare una curva geometrica per mezzo di un’equazione algebrica, vale a dire tramite numeri, e viceversa.[12] Figura 25 Forse il caso di un semplice cerchio non appare particolarmente esaltante, ma ogni grafico che vi sia mai capitato di vedere, che si tratti del saliscendi settimanale del mercato azionario, della temperatura al Polo Nord durante il secolo scorso o della velocità di espansione dell’universo, si basa su questo geniale apporto di Cartesio. Di colpo la geometria e l’algebra non erano più due branche separate della matematica ma due rappresentazioni delle stesse verità. L’equazione che descrive una curva contiene implicitamente ogni proprietà immaginabile di quella curva, compresi, per esempio, tutti i teoremi della geometria euclidea. E non è tutto. Cartesio asserì che era possibile tracciare diverse curve sullo stesso sistema di coordinate e trovare i loro

punti di intersezione semplicemente trovando le soluzioni comuni alle rispettive equazioni algebriche. In questo modo Cartesio riuscì a sfruttare i punti di forza dell’algebra per porre rimedio a quelli che considerava i preoccupanti limiti della geometria classica. Per esempio, Euclide definiva un punto come un’entità priva di parti e di dimensioni. Questa definizione alquanto oscura divenne del tutto obsoleta una volta che Cartesio definì un punto nel piano semplicemente come una coppia ordinata di numeri (x,y). Ma anche la comprensione di questi nuovi dati rappresenta solo la punta dell’iceberg. Se due quantità x e y possono essere messe in relazione in modo tale che a ogni valore di x corrisponda un solo valore di y, allora costituiscono una «funzione», e le funzioni si trovano dappertutto. Quando controllate quotidianamente il vostro peso durante una dieta, o l’altezza di vostro figlio, o il modo in cui l’autonomia della vostra auto dipende dalla velocità a cui viaggiate, i dati possono essere rappresentati tramite funzioni. Le funzioni sono il pane quotidiano degli scienziati, degli statisti e degli economisti moderni. Molti esperimenti o osservazioni scientifiche ripetute producono le stesse interrelazioni espresse da funzioni, tanto che esse possono acquisire il rango di «leggi della natura», descrizioni matematiche di un comportamento a cui tutti i fenomeni naturali obbediscono. Per esempio, la legge della gravitazione universale di Newton, su cui torneremo più avanti in questo capitolo, stabilisce che quando la distanza tra due masse puntiformi raddoppia, l’attrazione gravitazionale tra esse diminuisce di quattro volte. Dunque le idee di Cartesio aprirono la porta alla matematizzazione di quasi tutto, il che è poi l’essenza stessa dell’idea secondo cui Dio è un matematico. Dal lato puramente matematico, stabilendo l’equivalenza di due distinte prospettive che in precedenza venivano considerate disgiunte (l’algebrica e la geometrica), Cartesio allargò gli orizzonti della matematica e spianò la strada alla moderna arena dell’«analisi», che permette ai matematici di passare senza problemi da una sottodisciplina all’altra. Di conseguenza, non soltanto divenne possibile descrivere una gran varietà di fenomeni tramite la matematica, ma la matematica stessa divenne più ampia, ricca e unificata. Per citare le parole del grande matematico francese Joseph-Louis Lagrange (1736-1813), «Finché l’algebra e la geometria procedettero su terreni separati, il loro progresso fu lento e le loro applicazioni limitate. Ma quando queste

scienze si unirono, trassero l’una dall’altra nuova vitalità e da allora procedettero con rapido passo verso la perfezione». Per quanto importanti furono i risultati ottenuti in matematica, Cartesio non limitò i suoi interessi scientifici a questa disciplina. La scienza, disse, è come un albero le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami principali la meccanica, la medicina e la morale. A prima vista la scelta dei rami può apparire piuttosto sorprendente, ma in effetti essi simboleggiano molto bene i tre campi fondamentali in cui Cartesio intendeva applicare le sue nuove idee: l’universo, il corpo umano e il modo di condurre la vita. Cartesio dedicò i primi quattro anni del suo soggiorno in Olanda – dal 1629 al 1633 – alla stesura del suo trattato sulla cosmologia e sulla fisica, intitolato Il mondo.[13] Proprio quando il volume era pronto per essere dato alle stampe, tuttavia, egli si preoccupò per notizie che aveva ricevuto. Espresse il suo rammarico in una lettera al filosofo naturale Marin Mersenne (1588-1648), suo amico e critico: Mi ero proposto di inviarvi il mio Mondo per queste festività; e non più di quindici giorni fa ero ancora assolutamente deciso a inviarvene almeno una parte, se non fosse stato possibile trascriverlo interamente in questo lasso di tempo. Ma vi dirò che avendo fatto cercare in quei giorni a Leida e Amsterdam se ci fosse il Sistema del Mondo di Galilei, giacché mi sembrava di aver sentito che era stato stampato in Italia l’anno scorso, mi si è fatto sapere che era vero che era stato stampato, ma che tutti gli esemplari erano stati bruciati a Roma contemporaneamente, e lui condannato a qualche ammenda; ciò mi ha sconcertato a tal punto che mi sono quasi deciso a bruciare tutte le mie carte o, almeno, a non lasciarle vedere a nessuno. Infatti, non sono riuscito a immaginare per quale motivo egli, che è italiano e, come sento, pure benvoluto dal Papa, abbia potuto essere incriminato se non perché avrà senz’altro voluto stabilire il movimento della Terra, che so bene esser stato censurato altre volte da qualche Cardinale. Pensavo però di aver sentito dire che da allora non si smetteva di insegnarlo pubblicamente, anche a Roma. Ora confesso che, se è falso, lo sono anche tutti i fondamenti della mia filosofia [il corsivo è mio]: esso viene, infatti, dimostrato in modo evidente per mezzo [di tali fondamenti] ed è talmente legato a tutte le parti del mio trattato che non potrei scorporarlo senza rendere mancante tutto il resto. Ma siccome, per niente al mondo, vorrei che da me uscisse un discorso in cui si

trovasse la minima parola che fosse disapprovata dalla Chiesa, preferisco allora sopprimere il mio trattato piuttosto che farlo uscire storpiato. Cartesio abbandonò Il mondo (il manoscritto incompleto fu poi pubblicato nel 1664), ma inserì gran parte delle conclusioni a cui era giunto nei Principi della filosofia, che comparvero nel 1644. In questa dissertazione sistematica, Cartesio presentò le leggi della natura e la teoria dei vortici. Due di quelle leggi assomigliavano molto alle famose prime due leggi del moto di Newton, ma le altre erano errate.[14] Secondo la teoria dei vortici, il Sole era al centro di un turbine creato nel continuum della materia cosmica. I pianeti erano trascinati da questo vortice come foglie in un mulinello formato dalla corrente di un fiume. A loro volta, essi creavano vortici secondari che trasportavano con sé i satelliti. Per quanto fosse palesemente sbagliata – come in seguito Newton sottolineò senza pietà – la teoria dei vortici di Cartesio era comunque interessante, poiché era il primo tentativo serio di formulare una teoria dell’universo nel suo complesso che si basasse sulle stesse leggi che si applicavano sulla superficie della Terra. In altre parole, per Cartesio non c’era alcuna differenza tra fenomeni terrestri e celesti: la Terra faceva parte di un universo che obbediva a leggi fisiche costanti. Purtroppo, elaborando una teoria dettagliata che non poggiava le sue fondamenta né su una matematica coerente né sulle osservazioni, Cartesio ignorò i princìpi da lui stesso stabiliti. Nondimeno lo scenario da lui immaginato, in cui il Sole e i pianeti perturbano la materia omogenea dell’universo che li circonda, conteneva alcuni elementi che molto tempo dopo divennero la pietra angolare della teoria della gravitazione di Einstein. Nella teoria della relatività generale, la gravità non è una forza misteriosa che agisce attraverso le immense distanze dello spazio. Sono invece i corpi dotati di grande massa come il Sole che incurvano lo spazio circostante, proprio come una palla da bowling farebbe incurvare un tappeto elastico. Perciò i pianeti altro non fanno che seguire la traiettoria più breve possibile in questo spazio incurvato. Ho deliberatamente scelto di escludere da questo sunto delle idee di Cartesio quasi tutti i suoi apporti in materia filosofica, poiché ciò ci avrebbe condotti troppo lontano dal centro del nostro interesse: la natura della matematica. (Più avanti in questo capitolo tornerò su alcuni dei suoi pensieri riguardanti Dio.) Non posso però esimermi dall’inserire nel testo il divertente commento che segue. A scriverlo fu,

nel 1908, il matematico inglese Walter William Rouse Ball (18501925): Quanto alle teorie filosofiche [di Cartesio], sarà sufficiente dire che egli discusse gli stessi problemi di cui si è dibattuto negli ultimi duemila anni e di cui probabilmente si dibatterà con identico zelo nei prossimi duemila. È quasi inutile aggiungere che questi problemi sono di per sé importanti e interessanti, ma per la natura del caso nessuna soluzione che sia mai stata proposta è in grado di darne una dimostrazione o una confutazione rigorose; tutto quel che si può fare è rendere una spiegazione più probabile di un’altra, e ogni volta che un filosofo come Cartesio crede di aver infine risolto una questione una volta per tutte, i suoi successori hanno avuto la possibilità di mostrare la fallacia delle sue ipotesi. Ho letto da qualche parte che la filosofia si è sempre interessata principalmente alle interrelazioni tra Dio, la Natura e l’Uomo. I primi filosofi erano antichi greci che si occupavano soprattutto dei rapporti tra Dio e la Natura, e separatamente dell’Uomo. La Chiesa cristiana era così assorbita dal rapporto di Dio con l’Uomo da trascurare completamente la Natura. I filosofi moderni, infine, si interessano principalmente ai rapporti tra l’Uomo e la Natura. Qui non m’importa di discutere se questa sia una corretta generalizzazione storica delle concezioni che di volta in volta hanno prevalso, ma l’affermazione relativa all’ambito di interesse della filosofia moderna contrassegna i limiti degli scritti di Cartesio. Figura 26 Le parole con cui Cartesio conclude il suo trattato sulla geometria sono: «Spero che i posteri mi giudicheranno con benevolenza, non solo per le cose che ho spiegato, ma anche per quelle che ho intenzionalmente omesso, così da lasciare ad altri il piacere della scoperta» (figura 26). Non poteva saperlo, ma un uomo che aveva soltanto otto anni quando lui morì avrebbe fatto compiere un enorme passo avanti alle sue concezioni della matematica come cuore della scienza. Quel genio ineguagliato avrebbe avuto più opportunità di provare il «piacere della scoperta» di chiunque altro nella storia del genere umano. E fu la luce Il grande poeta inglese Alexander Pope (1688-1744) aveva trentanove anni quando Isaac Newton (1642-1727) morì (la figura 27

mostra la tomba di Newton nella cattedrale di Westminster).[15] In un famoso distico Pope tentò di compendiare le imprese di Newton: Nature and Nature’s laws lay hid in night: God said, Let Newton be! And all was light. [La natura e le leggi di natura giacevano nascoste nella notte Ma Dio disse, Sia Newton! E tutto fu luce.] Quasi cent’anni dopo la morte di Newton, Lord Byron (1788-1824) aggiunse due versi al suo poema epico Don Giovanni: And this is the sole mortal who could grapple, Since Adam, with a fall or an apple. [E questo è il solo mortale che, dai tempi di Adamo, poteva aggrapparsi alla caduta di una mela.] Figura 27 Per le generazioni di scienziati che gli succedettero, Newton è stato e rimane una figura di proporzioni leggendarie, persino per chi non dà importanza ai miti. La famosa frase di Newton «Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti» viene spesso presentata come un modello di quella generosità e umiltà che gli scienziati dovrebbero manifestare nei confronti delle proprie scoperte. In realtà Newton la scrisse forse come risposta sarcastica sottilmente velata a una lettera di un personaggio che egli considerava il suo nemico giurato in ambito scientifico: il prolifico fisico e biologo Robert Hooke (1635-1703).[16] In più occasioni Hooke aveva accusato Newton di avergli rubato le idee, prima sulla teoria della luce e, in seguito, sulla gravità. Il 20 gennaio 1676 Hooke, adottando un tono più conciliatorio, scrisse in una lettera personale indirizzata a Newton: «I vostri progetti e i miei [riguardo alla teoria della luce] suppongo mirino entrambi alla stessa cosa, che è la scoperta della verità; e suppongo che voi e io possiamo entrambi sopportare di ascoltare delle obiezioni». Newton decise di stare al gioco. Nella sua risposta alla lettera di Hooke,[17] datata 5 febbraio 1676, scrisse: «Quello che Des-Cartes [Cartesio] ha compiuto è un buon passo [il riferimento è alle idee di Cartesio sulla luce]. Voi avete aggiunto molto e in diverse maniere, specialmente prendendo in considerazione filosofica i colori delle lamine sottili. Se ho visto più lontano è perché stavo sulle spalle di giganti». Poiché, lungi dall’essere un gigante, Hooke era molto basso ed era affetto da una grave scoliosi, la frase più celebre di Newton probabilmente esprimeva soltanto la sua convinzione di non dovere assolutamente nulla a Hooke. Il fatto che

Newton non perdesse occasione di offenderlo, che affermasse che la propria teoria distruggeva «tutto ciò che [Hooke] ha detto» e che si rifiutasse di dare alle stampe il proprio trattato sulla luce, l’Ottica, prima della morte del rivale, indica che quest’interpretazione della sua frase non è forse troppo campata per aria. L’ostilità tra i due scienziati raggiunse l’apice in seguito, quando l’oggetto della disputa divenne la teoria della gravità.[18] Quando Newton venne a sapere che Hooke aveva sostenuto di essere il padre della legge di gravità, cancellò in modo meticoloso e implacabile ogni riferimento al suo nome dall’ultima parte del proprio trattato. Il 20 giugno 1686 Newton scrisse al suo amico astronomo Edmund Halley (1656-1742): [Hooke] avrebbe dovuto piuttosto scusarsi a cagione della sua incapacità. Poiché è chiaro dalle sue parole che non sapeva come mettervi mano. Non è divertente? I matematici che scoprono, risolvono e portano a termine l’opera si devono accontentare di non essere che aridi esecutori di calcoli e sgobboni, mentre chi non fa nulla e pretende di capire tutto finisce per portarsi via l’intera creazione, tanto di quelli che lo seguiranno quanto di quelli che l’hanno preceduto. Qui Newton chiarisce bene perché pensava che Hooke non meritasse alcun credito: non era in grado di formulare le sue idee nel linguaggio della matematica. In effetti, la qualità che davvero distingueva le teorie di Newton – la caratteristica insita che le trasformava in ineluttabili leggi della natura – era proprio l’esprimerle in forma di relazioni matematiche cristalline e coerenti. Al confronto, le idee teoriche di Hooke, per quanto fossero geniali, non sembravano altro che una raccolta di intuizioni, congetture e speculazioni.[19] Per inciso, le minute vergate a mano della Royal Society relative al periodo compreso tra il 1661 e il 1682, per molto tempo considerate perdute, sono inaspettatamente ricomparse nel febbraio del 2006. Il fascicolo, che contiene più di 520 pagine scritte dalla mano di Robert Hooke, è stato trovato in una casa nello Hampshire, in Inghilterra, dove si ritiene sia rimasto per cinquant’anni chiuso in un armadio. Le minute del dicembre 1679 riportano la corrispondenza tra Hooke e Newton, in cui i due discutono di un esperimento in grado di confermare la rotazione della Terra. Tornando al colpo di genio scientifico di Newton, egli prese la concezione di Cartesio – secondo cui è possibile descrivere il cosmo tramite la matematica – e la tradusse in una realtà operativa. Nella

prefazione alla sua monumentale opera intitolata I principi matematici della filosofia naturale (Philosophiae Naturalis Principia Matematica), o più semplicemente Principia, Newton afferma: Per questa ragione proponiamo questi nostri principi matematici di filosofia. Sembra infatti che tutta la difficoltà della filosofia consista nell’investigare le forze della natura a partire dai fenomeni del moto e dopo nel dimostrare i restanti fenomeni a partire da queste forze. A questo mirano le proposizioni generali delle quali abbiamo trattato nel libro primo e secondo. Nel terzo libro, invero, ho esposto un esempio di ciò al fine di spiegare il sistema del mondo. Ivi, infatti, dai fenomeni celesti, mediante le proposizioni dimostrate matematicamente nei libri precedenti, vengono derivate le forze della gravità, per effetto delle quali i corpi tendono verso il sole e i singoli pianeti. In seguito da queste forze, sempre mediante proposizioni matematiche, vengono dedotti i moti dei pianeti, delle comete, della luna e del mare.[20] Quando ci si rende conto che nei Principia Newton ha realizzato tutto quello che aveva anticipato nella prefazione, la sola reazione possibile è quella di meravigliata ammirazione. Era inequivocabile, poi, l’insinuazione sulla superiorità dei Principia rispetto all’opera di Cartesio: Newton scelse di intitolare il suo volume Principi matematici in contrapposizione ai Principi della filosofia cartesiani. Adottò un ragionamento e una metodologia matematici dello stesso tipo anche nell’Ottica, l’impresa letteraria che più di ogni altra si basava su esperimenti.[21] L’Ottica si apre con le seguenti parole: «Il mio scopo in questo libro è di spiegare le proprietà della luce non mediante ipotesi, bensì di proporle e di provarle mediante la ragione e gli esperimenti. In ordine a ciò premetterò le seguenti definizioni e i seguenti assiomi». Dopodiché Newton procede come se il suo fosse un trattato sulla geometria euclidea, con definizioni e proposizioni concise. Infine, concludendo il libro, per dare ancora più enfasi al concetto, aggiunge: «Come in matematica, così nella filosofia naturale lo studio delle cose difficili, mediante il metodo analitico, dovrebbe sempre precedere il metodo sintetico». I risultati raggiunti da Newton con il suo corredo di strumenti matematici furono davvero miracolosi. Questo genio, che per una coincidenza storica era nato proprio nell’anno della morte di Galileo, formulò le leggi fondamentali della meccanica, decifrò quelle che descrivono il moto dei pianeti, eresse le basi teoriche dei fenomeni

relativi alla luce e ai colori e fondò lo studio del calcolo integrale e differenziale. Tutto questo sarebbe bastato a far ottenere a Newton un posto d’onore nella galleria degli scienziati più famosi. Ma fu la sua opera sulla gravità che lo fece salire in cima al podio dei maghi, nel posto riservato al più grande scienziato che fosse mai vissuto. Quell’opera colmò il divario tra il Cielo e la Terra, fuse i campi dell’astronomia e della fisica e pose l’intero cosmo sotto un unico ombrello matematico. Come nacque quel capolavoro che furono i Principia? Cominciai a pensare alla gravità che si estende fino all’orbita della luna Il medico e studioso di antichità William Stukeley (1687-1765), un amico di Newton (nonostante li separassero quarant’anni di età), sarebbe diventato il primo biografo del grande scienziato. Nelle sue Memoires of Sir Isaac Newton’s Life[22] troviamo il racconto di una delle leggende più famose della storia della scienza: Il 15 aprile 1726 feci visita a Sir Isaac Newton presso i suoi alloggi negli edifici Orbels a Kensington, pranzai con lui e passai con lui l’intera giornata, da solo [...]. Dopo pranzo, poiché faceva caldo, andammo in giardino a bere il tè all’ombra di alcuni meli, lui e io soli. Tra le altre cose, mi disse che si trovava proprio nello stesso posto quando, tempo addietro [ovvero nel 1666, quando Newton era tornato a casa da Cambridge per fuggire alla peste], aveva concepito l’idea della gravitazione. A occasionarla era stata la caduta di una mela, mentre egli sedeva in uno stato d’animo meditativo. Perché, aveva pensato tra sé e sé, la mela cade sempre perpendicolarmente al suolo? Perché non si muove di lato o verso l’alto ma invariabilmente verso il centro della terra? Senza dubbio la ragione è che la terra l’attira. Deve esserci una forza d’attrazione nella materia; e la risultante della forza d’attrazione presente nella materia della terra deve essere nel centro della terra e in nessun’altra sua parte. È per questo che la mela cade perpendicolarmente, ovverosia verso il centro. Se dunque la materia attrae la materia, ciò deve avvenire in proporzione alla sua quantità. Perciò la mela attrae la terra così come la terra attrae la mela. C’è una forza, quella che chiamiamo gravità, che si estende per l’universo intero [...]. Fu così che nacquero le scoperte strabilianti per mezzo delle quali egli eresse la filosofia su solide fondamenta, con grande meraviglia dell’Europa intera.

Indipendentemente dal fatto che nel 1666 l’episodio si sia verificato davvero,[23] l’aneddoto della mela non rende giustizia al genio di Newton e all’inarrivabile profondità del suo pensiero analitico. Se è indubbio che il primo manoscritto di Newton sulla teoria della gravità fu precedente al 1669, egli non aveva certo bisogno di vedere una mela cadere per concludere che la Terra attrae gli oggetti vicini alla sua superficie. Né l’incredibile intuizione che lo portò a formulare una legge universale della gravità poteva scaturire dalla semplice vista di una mela che cade. In effetti ci sono indizi che fanno ritenere che alcune idee fondamentali di cui Newton aveva bisogno per poter enunciare l’esistenza di una forza gravitazionale universale non furono concepite prima del biennio 1684-1685. Un’idea di tale portata è così rara negli annali della scienza che anche una persona dotata di una mente fenomenale qual era Newton doveva arrivarci attraverso una lunga serie di tappe intellettuali. Probabilmente tutto cominciò quando Newton era ancora giovane,[24] con l’incontro non proprio felice con gli Elementi, il monumentale trattato di geometria di Euclide. Stando alla testimonianza dello stesso Newton, all’inizio lesse «solo i titoli delle proposizioni», poiché le trovava così facili da capire che si chiese «come qualcuno si potesse divertire a scriverne le dimostrazioni». La prima proposizione che lo indusse a soffermarsi e a inserire alcune linee nelle figure del libro fu quella che recitava: «In un triangolo rettangolo il quadrato costruito sull’ipotenusa è uguale alla somma dei quadrati costruiti sugli altri due lati», il teorema di Pitagora. Per quanto sorprendente, se è vero che Newton lesse alcuni testi di matematica mentre era al Trinity College di Cambridge, tuttavia non furono pochi i volumi disponibili all’epoca che studiò. Evidentemente non ne aveva bisogno. Il libro che esercitò forse la maggiore influenza sul pensiero matematico e scientifico di Newton fu nientemeno che La geometria di Cartesio. Newton lo lesse nel 1664 e lo rilesse varie volte, finché «per gradi non ne acquistò una completa padronanza». La flessibilità offerta dal concetto di funzioni e dalle loro variabili libere sembrava aprirgli infinite possibilità. Non solo la geometria analitica preparò la strada alla creazione da parte di Newton del calcolo infinitesimale e allo studio a esso associato delle funzioni, delle loro tangenti e curvature, ma lo stesso spirito scientifico che animava Newton ne fu letteralmente

infiammato. Fine delle noiose costruzioni geometriche fatte con riga e compasso; il loro posto veniva preso da curve arbitrarie che potevano essere rappresentate per mezzo di espressioni algebriche. Poi, tra il 1665 e il 1666, Londra fu colpita da una terribile epidemia di peste. Quando il tributo settimanale di vite umane raggiunse le migliaia, fu necessario chiudere le università. Costretto a lasciare il Trinity College, Newton tornò a casa nello sperduto villaggio di Woolsthorpe. Lì, nella tranquillità della campagna, Newton fece i suoi primi tentativi di dimostrare che la forza che tratteneva la Luna nella sua orbita attorno alla Terra e la gravità terrestre (la forza che faceva cadere la mela) erano, in realtà, esattamente la stessa cosa. Newton descrisse quei primi tentativi in un appunto scritto verso il 1714: E lo stesso anno [il 1666] cominciai a pensare alla gravità che si estende fino all’orbita della Luna, e avendo scoperto come calcolare la forza con cui [un] globo che ruota all’interno di una sfera preme contro la superficie della sfera, dalla Legge di Keplero dei periodi dei Pianeti che sono in proporzione sesquialtera con le distanze dal centro delle loro Orbite, dedussi che le forze che trattengono i Pianeti nelle loro Orbite devono [essere] reciproche ai quadrati delle loro distanze dai centri attorno a cui ruotano: e così paragonai la forza richiesta per trattenere la Luna nella sua Orbita con la forza della gravità sulla superficie della Terra e trovai che esse corrispondevano piuttosto bene. Tutto ciò avvenne nei due anni della peste del 1665 e del 1666, poiché in quegli anni ero nel fiore della mia età creativa e mi dedicavo alla Matematica e alla Filosofia più di quanto abbia mai fatto in seguito.[25] Qui Newton fa riferimento alla sua importante deduzione (tratta dalle leggi di Keplero sul moto dei pianeti) del fatto che l’attrazione gravitazionale di due corpi sferici varia in modo inverso al quadrato della loro distanza. In altre parole, se la distanza tra la Terra e la Luna si triplicasse, la forza d’attrazione gravitazionale che la Luna subirebbe sarebbe nove volte (32) più piccola. Per motivi che non sono del tutto chiari, Newton abbandonò praticamente ogni ricerca sulla gravitazione e sul moto dei pianeti fino al 1679.[26] Poi, due lettere del suo avversario per antonomasia Robert Hooke risvegliarono il suo interesse per la dinamica in generale e i moti planetari in particolare. I risultati di questa rinata curiosità furono sensazionali: utilizzando le leggi della meccanica che aveva formulato in precedenza, Newton dimostrò la seconda legge di Keplero sul moto

dei pianeti, ovvero che mentre un pianeta percorre la sua orbita ellittica intorno al Sole, la linea che lo congiunge al Sole spazza aree uguali in uguali intervalli di tempo (figura 28). Dimostrò inoltre che per un «corpo che orbita lungo un’ellisse [...] la legge dell’attrazione nella direzione di un fuoco dell’ellisse [...] è inversa al quadrato della distanza». Erano due importanti pietre miliari sulla strada che condusse ai Principia. Figura 28 I Principia Nella primavera o estate del 1684 Halley si recò a Cambridge per far visita a Newton. Da un po’ di tempo l’astronomo stava discutendo delle leggi di Keplero con Hooke e con il celebre architetto Christopher Wren (1632-1723). In quelle conversazioni da caffè, sia Hooke sia Wren sostenevano di aver dedotto la legge della gravità da qualche anno, ma non erano in grado di costruire una teoria matematica completa a partire dalle loro deduzioni. Halley decise di porre a Newton la domanda cruciale: sapeva quale forma avrebbe dovuto assumere l’orbita di un pianeta su cui agiva una forza d’attrazione che variava inversamente al quadrato della distanza? Con suo stupore, Newton rispose di aver dimostrato alcuni anni prima che l’orbita avrebbe dovuto essere un’ellisse. Il matematico Abraham De Moivre (1667-1754) narra l’episodio in questi appunti (una pagina dei quali è riprodotta nella figura 29):[27] Nel 1684, il dottor Halley lo venne a trovare a Cambridge e, dopo essere stati un po’ insieme, gli chiese quale pensasse fosse la curva che i pianeti descriverebbero supponendo che la forza di attrazione verso il Sole fosse inversa al quadrato della loro distanza. Sir Isaac gli rispose immediatamente che sarebbe un’ellisse, e il dottore pieno di gioia e sorpresa gli chiese come facesse a saperlo. Perché, gli rispose [Newton], l’ho calcolato, al che il dottor Halley gli chiese subito il calcolo, ma Sir Isaac guardando tra le sue carte non riuscì a trovarlo. Promise però di rifarlo e di mandarglielo. Halley tornò a trovare Newton nel novembre dello stesso anno. Tra le due visite Newton lavorò a ritmi frenetici. De Moivre ce ne offre un breve resoconto: Figura 29 Sir Isaac, per mantener fede alla sua promessa, si mise di nuovo all’opera, ma non riuscì a giungere alla conclusione che pensava di aver

analizzato con cura in precedenza. Tentò tuttavia una nuova strada che, benché fosse più lunga, lo ricondusse alla conclusione originaria, poi studiò attentamente quale poteva essere la ragione per la quale il calcolo che aveva intrapreso in precedenza non si era dimostrato corretto, e [...] riuscì a far quadrare entrambi i calcoli. Da questa asciutta sintesi non è nemmeno lontanamente possibile intuire ciò che Newton aveva compiuto nei pochi mesi intercorsi tra le due visite di Halley. Aveva scritto un intero trattato, De Motu Corporum in Gyrum, in cui dimostrava gran parte delle proprietà dei corpi che si muovono lungo orbite circolari o ellittiche e tutte e tre le leggi di Keplero, e inoltre aveva trovato una soluzione al problema del moto di una particella in un mezzo resistente (come, per esempio, l’aria). Halley era sbalordito. Con sua grande soddisfazione, riuscì almeno a convincere Newton a pubblicare tutte le sue incredibili scoperte: i Principia stavano finalmente per tramutarsi in realtà. All’inizio Newton aveva concepito l’opera semplicemente come una versione ampliata e più approfondita del De Motu. Quando cominciò a lavorarci, tuttavia, si rese conto che alcuni argomenti richiedevano un’ulteriore riflessione. Due punti in particolare continuavano ad assillarlo. Uno era il seguente: in origine Newton aveva formulato la sua legge dell’attrazione gravitazionale considerando il Sole, la Terra e gli altri pianeti come se fossero masse puntiformi, punti matematici privi di dimensioni. Naturalmente sapeva che non era così, e perciò considerava i suoi risultati applicati al sistema solare come un’approssimazione. Qualcuno ipotizza persino che abbandonò di nuovo le sue ricerche sul tema della gravitazione dopo il 1679 perché insoddisfatto dello stato delle cose.[28] La situazione era anche peggiore nel caso della forza che agisce sulla mela, in cui le parti della Terra che si trovano direttamente sotto la mela sono chiaramente a una distanza molto più breve di quelle che si trovavano dal lato opposto del pianeta. Come si doveva calcolare l’attrazione risultante? L’astronomo Herbert Hall Turner (1861-1930) descrisse lo sforzo intellettuale di Newton in un articolo apparso sul «Times» di Londra il 19 marzo 1927: All’epoca in cui concepì l’idea di una forza d’attrazione che varia con l’inverso della distanza, vedeva serie difficoltà per una sua completa applicazione, difficoltà di cui menti inferiori alla sua erano inconsapevoli. La più importante di esse non la superò che nel 1685 [...]. Era quella di mettere in relazione l’attrazione della Terra su un

corpo distante quanto la luna alla sua attrazione su una mela vicina alla sua superficie. Nel primo caso le diverse particelle che compongono la terra (e a ciascuna delle quali Newton sperava di estendere la sua legge, così da renderla universale) si trovano a distanze dalla luna che non sono molto diverse né in valore assoluto né in direzione; le loro distanze dalla mela, al contrario, variano in maniera cospicua tanto in grandezza quanto in direzione. Come vanno sommate o combinate in un’unica risultante le singole forze d’attrazione nel secondo caso? E in quale «centro di gravità», se ne esiste uno, potrebbero concentrarsi? La svolta arrivò infine nella primavera del 1685, quando Newton riuscì a dimostrare un teorema fondamentale: per due corpi sferici, «l’intera forza, per effetto della quale una di tali sfere attrae l’altra, è inversamente proporzionale al quadrato della distanza dei centri». In altre parole, l’azione gravitazionale dei corpi sferici si esercita come se essi fossero masse puntiformi concentrate nei loro centri. L’importanza di questo magnifico teorema fu messa in evidenza dal matematico James Whitbread Lee Glaisher (1848-1928). Nel discorso pronunciato in occasione delle celebrazioni per il bicentenario dei Principia di Newton (1887), Glaisher disse: Non appena Newton ebbe dimostrato il suo superbo teorema – e noi sappiamo dalle sue parole che non si aspettava affatto un risultato così bello finché non emerse dalle sue indagini matematiche – tutta la meccanica dell’universo gli si spalancò di colpo davanti [...]. Quanto diverse dovettero sembrare quelle proposizioni agli occhi di Newton quando si rese conto che quei risultati, che aveva ritenuto solo approssimativamente corretti se applicati al sistema solare, erano in realtà esatti! [...] Possiamo immaginare l’effetto che questa improvvisa transizione dall’approssimazione all’esattezza ebbe per stimolare la mente di Newton a compiere sforzi ancora più grandi. Adesso aveva la possibilità di applicare l’analisi matematica con assoluta precisione al vero problema dell’astronomia.[29] L’altra questione che apparentemente angustiava ancora Newton quando scrisse la prima bozza del De Motu era quella di trascurare l’effetto delle forze d’attrazione esercitate dai pianeti sul Sole. Per dirla in altro modo, nella sua prima formulazione Newton riduceva il Sole a un mero centro di forza immoto del tipo che «difficilmente esiste», per citare le sue stesse parole, nel mondo reale. Questo schema contraddiceva la terza legge del moto da lui stesso formulata, secondo

la quale «le azioni dei corpi attraenti e attratti sono sempre mutue e uguali». Ciascun pianeta attrae il Sole esattamente con la stessa forza con cui il Sole lo attrae. Di conseguenza, aggiungeva Newton, «se i corpi sono due [come la Terra e il Sole], non può giacere in quiete né il corpo attraente né quello attratto». Questa contraddizione in apparenza poco rilevante costituiva in realtà un gradino importante sulla strada che conduceva al concetto di gravitazione universale. Possiamo provare a ipotizzare quale sia stata la linea di pensiero seguita da Newton: se il Sole attira la Terra, allora anche la Terra deve attirare il Sole, e con uguale forza. Ciò significa che la Terra non ruota semplicemente attorno al Sole, ma sia l’una sia l’altro ruotano intorno al loro comune centro di gravità. E non è tutto. Anche tutti gli altri pianeti attraggono il Sole, e ciascun pianeta non subisce solo l’attrazione del Sole ma anche quella di tutti gli altri pianeti. Lo stesso tipo di logica si poteva applicare a Giove e ai suoi satelliti, alla Terra e alla Luna e persino a una mela e alla Terra. La conclusione è strabiliante nella sua semplicità: c’è un’unica forza di gravità, che agisce tra ogni coppia di masse, ovunque nell’universo. Questo era tutto ciò di cui Newton aveva bisogno. I Principia – 510 fitte pagine scritte in latino – furono pubblicati nel luglio del 1687. Newton compì osservazioni ed esperimenti con un’accuratezza di appena il 4 per cento e ne trasse una legge matematica della gravitazione che si rivelò più precisa che al milionesimo. Unì per la prima volta spiegazioni di fenomeni naturali al potere di predire i risultati delle osservazioni. Tra fisica e matematica si formò un intreccio che non si sarebbe più sciolto, mentre divenne inevitabile la rottura definitiva tra scienza e filosofia. La seconda edizione dei Principia, ampiamente rivista da Newton e dal matematico Roger Cotes (1682-1716), fu pubblicata nel 1713 (la figura 30 ne riproduce il frontespizio). Newton, che non è passato alla storia per la sua cordialità, non si prese nemmeno il disturbo di ringraziare Cotes nella prefazione del libro per il suo magnifico lavoro. Ma quando Cotes morì per una febbre violenta a trentatré anni, Newton manifestò una certa stima per lui: «Se fosse vissuto, avremmo appreso qualcosa». Curiosamente, alcuni dei commenti più memorabili di Newton su Dio comparvero solo come appendici aggiuntive nella seconda edizione dei Principia. In una lettera a Cotes del 28 marzo 1713, meno di tre

mesi prima del completamento della seconda edizione, Newton inserì questa frase: «Sicuramente compete alla filosofia naturale di disquisire di Dio a partire dai fenomeni [della natura]». In effetti Newton espresse le proprie concezioni di un Dio «eterno e infinito, onnipotente e onnisciente» nello Scolio generale, la sezione dei Principia che considerava come il tocco finale alla sua opera. Figura 30 Ma il ruolo di Dio restava immutato, in questo universo sempre più matematico, oppure veniva percepito sempre più come un matematico? Dopotutto, fino alla formulazione della legge di gravitazione universale i moti dei pianeti erano stati considerati come inequivocabili opere di Dio. Che cosa pensavano Newton e Cartesio di questo spostamento dell’enfasi verso un’interpretazione scientifica della natura? Il Dio matematico di Newton e Cartesio Così come gran parte dei loro contemporanei, Newton e Cartesio erano entrambi credenti. C’è una celebre frase dello scrittore francese noto con lo pseudonimo di Voltaire (1694-1778), che su Newton scrisse molto: «Se Dio non esistesse, bisognerebbe inventarlo». Per Newton, l’esistenza stessa del mondo e la regolarità matematica del cosmo osservato erano prove della presenza di Dio.[30] Questo tipo di ragionamento causale fu elaborato per la prima volta dal teologo Tommaso d’Aquino (1225-1274 circa) e rientra nelle categorie filosofiche generali dell’«argomento cosmologico» e dell’«argomento teleologico». In altre parole, secondo l’argomento cosmologico, poiché il mondo fisico in qualche modo deve esser nato, deve esserci una Prima Causa, vale a dire un Dio Creatore. L’argomento teleologico, o «argomento del disegno intelligente», tenta di fornire la prova dell’esistenza di Dio ricorrendo all’apparente esistenza di un disegno del mondo. Ecco come Newton esprimeva la sua opinione in proposito nei Principia: «Questa elegantissima compagine del Sole, dei pianeti e delle comete non poté nascere senza il disegno e la potenza di un ente intelligente e potente. E se le stelle fisse sono centri di analoghi sistemi, tutti questi, essendo costruiti con un identico disegno, saranno soggetti alla potenza dell’Uno». La validità degli argomenti cosmologico, teleologico e simili è da secoli oggetto di dibattito tra i filosofi.[31] La mia impressione personale è sempre stata che i teisti non abbiano bisogno di queste spiegazioni per convincersi e che gli atei non se ne lascino persuadere.

Newton aggiungeva un altro elemento ancora, un elemento basato sull’universalità delle sue leggi. Considerava il fatto che l’intero cosmo fosse governato dalle stesse leggi e apparisse stabile come ulteriore prova dell’esistenza della mano divina a guidarlo, «soprattutto in quanto la luce delle stelle fisse è della stessa natura [il corsivo è mio] della luce del Sole, e tutti i sistemi inviano la luce verso tutti gli altri. E affinché i sistemi delle stelle fisse non cadano, a causa della gravità, vicendevolmente l’uno sull’altro, questo stesso pose una distanza immensa fra di loro». Nell’Ottica, Newton affermò con chiarezza di non credere che le leggi della natura fossero sufficienti in sé a spiegare l’esistenza dell’universo, ma che Dio fosse colui che aveva creato e sosteneva tutti gli atomi che compongono la materia del cosmo: «Infatti, spettò a colui che le creò disporle in ordine. E se questo avvenne, non è da filosofi cercare di trovare una qualunque altra origine del mondo o pretendere che esso sia potuto nascere dal caos per effetto di semplici leggi naturali». Per Newton Dio era (tra le altre cose) un matematico non solo metaforicamente, ma quasi in senso letterale: il Dio Creatore che aveva generato un mondo fisico governato da leggi matematiche. Per Cartesio, che era molto più incline alla filosofia rispetto a Newton, riuscire a dimostrare l’esistenza di Dio costituiva un problema preoccupante. Per lui, la strada che dalla certezza della nostra stessa esistenza («Cogito ergo sum») conduceva alla capacità di realizzare un affresco di scienza oggettiva doveva passare attraverso una prova inattaccabile dell’esistenza di un Dio di perfezione suprema. Questo Dio, asseriva Cartesio, era la fonte ultima di ogni verità e il solo garante dell’attendibilità del raziocinio umano. Quest’argomento di sospetta circolarità (noto come «circolo cartesiano») veniva già criticato all’epoca di Cartesio, soprattutto dal filosofo, teologo e matematico francese Antoine Arnauld (1612-1694). Arnauld pose una domanda che nella sua semplicità appariva destabilizzante: se abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza di Dio per avere la certezza della validità del processo del pensiero umano, come possiamo credere a quella dimostrazione, che è essa stessa un prodotto della mente umana? Cartesio compì alcuni tentativi disperati di fuggire da quel circolo vizioso di ragionamento, ma molti dei filosofi che vennero dopo di lui non giudicarono i suoi sforzi particolarmente convincenti. La «prova supplementare» cartesiana dell’esistenza di Dio era altrettanto

discutibile: rientra nella categoria filosofica generale dell’«argomento ontologico». Il teologo e filosofo sant’Anselmo d’Aosta (1033-1109) fu il primo a formulare, nel 1078, questo tipo di ragionamento che da allora è riaffiorato sotto diverse spoglie. La sua struttura logica è più o meno la seguente: Dio, per definizione, è così perfetto che non si può concepire un essere più grande di lui. Ma se Egli non esistesse, allora sarebbe possibile concepire un’entità ancora più grande, che, oltre a essere dotata di tutte le perfezioni divine, esiste anche. E ciò contraddirebbe la definizione di Dio come il più grande essere concepibile; perciò Dio esiste. Nelle parole di Cartesio, «l’esistenza non può essere separata dall’essenza di Dio più di quel che dall’essenza di un triangolo rettilineo l’equivalenza dei suoi tre angoli a due retti». Questo tipo di stratagemma logico non convince molti filosofi, i quali sostengono che per stabilire l’esistenza di qualsiasi cosa abbia un peso nel mondo fisico, e in particolare di qualcosa di così immenso come Dio, la sola logica non è sufficiente.[32] Stranamente Cartesio fu accusato di incoraggiare l’ateismo e nel 1667 le sue opere finirono nell’Indice dei libri proibiti dalla Chiesa cattolica. Era un’accusa ben singolare, alla luce dell’insistenza con cui il matematico affermava che Dio era l’estremo garante della verità. Lasciando da parte le questioni puramente filosofiche, l’aspetto più interessante per quelli che sono i nostri scopi è l’opinione di Cartesio secondo cui Dio creò «tutte le verità eterne». In particolare, egli affermò «che le verità matematiche, che voi chiamate eterne, sono state stabilite da Dio e ne dipendono interamente, come fanno tutte le restanti creature». Dunque il Dio cartesiano era più di un matematico, nel senso che era creatore tanto delle verità matematiche quanto del mondo fisico, che si fonda a sua volta interamente sulla matematica. Stando a questa concezione del mondo, che alla fine del XVII secolo stava diventando prevalente, è evidente che gli uomini scoprono soltanto la matematica, non la inventano. Più importante è il cambiamento profondo che le opere di Galileo, Cartesio e Newton hanno apportato al rapporto tra la matematica e le scienze. Primo, gli sviluppi esplosivi della scienza diedero un forte stimolo alle ricerche matematiche. Secondo, attraverso le leggi di Newton, campi matematici ancora più astratti come il calcolo infinitesimale divennero l’essenza delle spiegazioni della realtà fisica. Infine, ed è forse l’aspetto più degno di nota, il confine tra la

matematica e le scienze divenne nebuloso fino a risultare irriconoscibile, quasi al punto da produrre una completa fusione tra le intuizioni matematiche e ampie aree di territorio da esplorare. Tutti questi sviluppi produssero un entusiasmo per la matematica a cui forse non si assisteva più dal tempo degli antichi greci. I matematici avevano la sensazione che il mondo fosse la loro terra di conquista, e che offrisse possibilità di scoperta illimitate. 5 Statistici e probabilisti: la scienza dell’incertezza Il mondo non sta fermo. Gran parte delle cose che ci circondano o è in movimento o in cambiamento continuo. Persino la Terra che sembra immobile sotto i nostri piedi in realtà ruota sul proprio asse, orbita attorno al Sole e – insieme al Sole – attorno al centro della nostra galassia, la Via Lattea. L’aria che respiriamo è composta da milioni di milioni di molecole che si muovono senza sosta in modo casuale. Nel frattempo le piante crescono, le sostanze radioattive decadono, la temperatura atmosferica sale e scende durante il giorno in base alle stagioni, e l’aspettativa di vita dell’uomo non cessa di crescere. Tutta questa irrequietezza cosmica, tuttavia, non ha disorientato la matematica. Newton e Leibniz introdussero la branca della matematica chiamata «calcolo infinitesimale» proprio per permettere un’analisi rigorosa e una descrizione precisa mediante modelli tanto del movimento quanto del cambiamento.[1] Oggi, questo incredibile mezzo è diventato così indispensabile e onnicomprensivo che vi si può attingere per esaminare problemi diversissimi, dal moto dello space shuttle alla diffusione di una malattia infettiva. Come un film può catturare il movimento suddividendolo in una sequenza di singoli fotogrammi, così il calcolo infinitesimale può misurare il cambiamento su un reticolo tanto capillare da permettere di calcolare quantità dall’esistenza effimera, come la velocità, l’accelerazione o il tasso di variazione istantanei. Seguendo i passi da gigante compiuti da Newton e Leibniz, i matematici dell’Età della Ragione (che va dagli ultimi decenni del XVII fino a tutto il XVIII secolo) ampliarono il calcolo infinitesimale aggiungendovi la nuova branca ancora più importante e universale delle «equazioni differenziali». Muniti di questa nuova arma, gli scienziati

erano ora in grado di proporre precise teorie matematiche di fenomeni che variavano dalla musica prodotta dalla corda di un violino al trasporto del calore, dal moto di una trottola al flusso di liquidi e gas. Per un certo periodo, le equazioni differenziali divennero lo strumento d’elezione per compiere progressi nella fisica. Alcuni dei primi esploratori dei nuovi panorami aperti dalle equazioni differenziali appartenevano alla leggendaria famiglia dei Bernoulli.[2] Tra la metà del XVII secolo e la metà del XIX, la famiglia produsse non meno di otto matematici di spicco. Queste personalità di talento erano quasi altrettanto note per le feroci rivalità che le dividevano quanto per la loro straordinaria matematica.[3] Se le liti tra i Bernoulli riguardavano sempre la lotta per la supremazia matematica, alcuni dei problemi su cui si accapigliavano oggi probabilmente non appaiono così rilevanti. Eppure, la soluzione di quei complicati rompicapi preparò la strada a conquiste matematiche più spettacolari. Nel complesso, non ci sono dubbi sul fatto che i Bernoulli ebbero un ruolo decisivo per fare della matematica il linguaggio atto a descrivere una varietà di processi fisici. Un episodio può aiutare a far comprendere la complessità degli intelletti di due dei più brillanti tra i Bernoulli: i fratelli Jakob (16541705) e Johann (1667-1748). Jakob Bernoulli fu uno dei pionieri della «teoria della probabilità» e su di lui torneremo più avanti in questo capitolo. Ma nel 1690 Jakob era impegnato a riesumare un problema che era stato studiato per la prima volta due secoli prima da Leonardo da Vinci, l’uomo del Rinascimento per antonomasia: quale forma prende una catena flessibile ma inestensibile sospesa a due punti fissi (figura 31)? Leonardo aveva disegnato alcuni schizzi di questo tipo di catene nei suoi taccuini. Il problema della «catenaria», come finì per essere chiamato, fu anche sottoposto a Cartesio dal suo amico Isaac Beeckman, ma non ci sono tracce di un suo tentativo di risolverlo. Galileo pensava che la forma assunta da una catenaria fosse parabolica, ma il gesuita francese Ignace Pardies (1636-1673) dimostrò che si sbagliava. Tuttavia Pardies non fu all’altezza del compito di trovare una soluzione matematica per la forma corretta. Figura 31 Solo un anno dopo che Jakob Bernoulli aveva proposto il problema, suo fratello minore Johann lo risolse per mezzo di un’equazione differenziale. Giunsero alla soluzione anche Leibniz e il fisico e

matematico olandese Christiaan Huygens (1629-1695), ma Huygens fece ricorso a un metodo geometrico più astruso.[4] Il fatto che Johann fosse riuscito a risolvere un problema che aveva frustrato i tentativi di Jakob, suo fratello e maestro, continuò a essere fonte di enorme soddisfazione per il più giovane dei Bernoulli, anche trent’anni dopo la morte di Jakob. In una lettera del 29 settembre 1718 al matematico francese Pierre Rémond de Montmort (1678-1719), Johann non riusciva a celare la propria soddisfazione: Voi dite che fu mio fratello a proporre questo problema: ebbene, è vero, ma ne consegue che egli ne ottenne una soluzione? Nient’affatto. Quando propose il problema su mio suggerimento (perché fui io il primo a pensarci), né l’uno né l’altro di noi fu in grado di risolverlo; disperavamo anzi di riuscirci, considerandolo insolubile, finché il signor Leibniz diede notizia pubblica nel giornale di Lipsia del 1690, p. 360, di aver risolto il problema ma di non averne pubblicato la soluzione per dare il tempo ad altri analisti di provarci, e fu questo che ci incoraggiò, mio fratello e io, a impegnarci di nuovo.[5] Dopo essersi attribuito senza vergogna persino la paternità della proposizione del problema, Johann proseguiva con palese autocompiacimento: I tentativi di mio fratello non ebbero successo; quanto a me, fui più fortunato, poiché trovai l’artificio (lo dico senza vantarmene, perché dovrei nascondere la verità?) per risolverlo completamente [...]. È pur vero che mi costò meditazioni che mi privarono del riposo per una notte intera [...] ma la mattina seguente, pieno di gioia, corsi da mio fratello, che stava ancora lottando miseramente con quel nodo gordiano senza venir a capo di nulla e continuava a pensare come Galileo che la catenaria fosse una parabola. Fermatevi! Fermatevi! gli dissi, non torturatevi più per cercare di dimostrare un’identità tra la catenaria e la parabola dove non ne esiste alcuna [...]. Ma ecco che voi mi sorprendete giungendo alla conclusione che mio fratello trovò un metodo per risolvere quel problema [...]. Vi chiedo, pensate davvero che se mio fratello avesse risolto il problema in questione, sarebbe stato così gentile nei miei riguardi da non comparire tra i solutori, così da concedermi la gloria di comparire da solo sul proscenio in qualità di primo solutore, insieme con i signori Huygens e Leibniz? Casomai vi dovessero servire prove del fatto che i matematici sono, in fondo, esseri umani, questa vicenda ne fornisce in abbondanza. Ma la

rivalità famigliare non toglie nulla ai risultati che i Bernoulli ottennero. Negli anni che seguirono l’episodio della catenaria, Jakob, Johann e Daniel Bernoulli (1700-1782) non solo continuarono a risolvere altri problemi simili relativi a funi sospese, ma anche a far progredire la teoria delle equazioni differenziali in generale e a trovare soluzioni per il moto di proiettili in un mezzo resistente. L’episodio della catenaria serve a dimostrare un’altra sfaccettatura del potere della matematica: anche per problemi di fisica apparentemente banali esistono soluzioni matematiche. Per inciso, la forma della catenaria continua a deliziare i milioni di visitatori del famoso Gateway Arch di Saint Louis, nel Missouri. L’architetto americano di origine finlandese Eero Saarinen (1910-1961) e l’ingegnere strutturista americano di origine tedesca Hannskarl Bandel (1925-1993) progettarono questa struttura iconica in una forma simile a quella di una catenaria rovesciata. Lo stupefacente successo delle scienze fisiche nello scoprire le leggi matematiche che governano il comportamento del cosmo in generale suscitò una domanda inevitabile: c’era la possibilità che princìpi analoghi fossero alla base dei processi biologici, sociali o economici? La matematica è soltanto il linguaggio del mondo naturale, si chiedevano i matematici, o è anche il linguaggio di quello umano? Anche nel caso in cui non esistano princìpi davvero universali, si potrebbero usare gli strumenti della matematica almeno per costruire modelli di comportamento sociale e conseguentemente di spiegarli? Inizialmente molti matematici erano convinti che «leggi» basate su una qualche versione del calcolo infinitesimale sarebbero state in grado di predire tutti gli eventi futuri, grandi o piccoli che fossero. Era questa l’opinione, per esempio, del grande fisico matematico Pierre-Simon Laplace (1749-1827). I cinque volumi della Mécanique Céleste di Laplace fornirono la prima soluzione sostanzialmente completa, seppur approssimativa, dei moti dei corpi del sistema solare. Inoltre Laplace rispose a una domanda che aveva lasciato perplesso persino il grande Newton: come si spiega la stabilità che caratterizza il sistema solare? Newton pensava che, a causa dell’attrazione reciproca, i pianeti fossero destinati a cadere sul Sole o a disperdersi nello spazio profondo, e invocava la mano di Dio a sostegno dell’integrità del sistema solare. Il punto di vista di Laplace era decisamente diverso. Invece di affidarsi all’intervento di Dio, diede una dimostrazione matematica del fatto che

il sistema solare è stabile per periodi di tempo molto più lunghi di quelli previsti da Newton. Per risolvere questo complesso problema, Laplace introdusse un nuovo formalismo matematico, noto col nome di «teoria delle perturbazioni», che gli permise di calcolare gli effetti cumulativi di molte piccole perturbazioni sull’orbita di ciascun pianeta. Infine, a coronamento di tutto questo, propose uno dei primi modelli per l’origine stessa del sistema solare: secondo la sua autorevole «ipotesi nebulare», il sistema solare si formò dalla contrazione di una nebulosa gassosa. Considerate tutte queste sue imprese grandiose, non è sorprendente che nel suo Saggio filosofico sulle probabilità, Laplace affermasse con baldanza: Tutti gli avvenimenti, anche quelli che per la loro piccolezza sembrano non ubbidire alle grandi leggi della Natura, ne sono una conseguenza necessaria, come lo sono le rivoluzioni del Sole. Ignorando i legami che li uniscono al sistema intero dell’Universo, li si è fatti dipendere dalle cause finali o dal caso, a seconda che si manifestassero e si succedessero con regolarità oppure senza ordine apparente [...]. Dobbiamo dunque considerare lo stato presente dell’Universo come l’effetto del suo stato anteriore e come la causa del suo stato futuro. Un’intelligenza che, per un dato istante, conoscesse tutte le forze da cui è animata la Natura e la situazione rispettiva degli esseri che la compongono, se, per di più, fosse abbastanza profonda per sottomettere questi dati all’analisi, abbraccerebbe nella stessa formula i movimenti dei più grandi corpi dell’Universo e dell’atomo più leggero: nulla sarebbe incerto per essa e l’avvenire, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi. Lo spirito umano offre, nella perfezione che ha saputo dare all’astronomia, un pallido esempio di questa Intelligenza.[6] Nel caso ve lo stiate domandando, quando Laplace parlava di quest’ipotetica «intelligenza» suprema, non si riferiva a Dio. A differenza di Newton e di Cartesio, Laplace non era credente. Quando regalò una copia della sua Mécanique céleste a Napoleone Bonaparte, quest’ultimo, avendo saputo che nell’opera non c’erano riferimenti a Dio, commentò: «Signor Laplace, mi dicono che avete scritto quest’enorme libro sul sistema dell’universo senza tuttavia mai menzionare il suo creatore». La replica di Laplace fu immediata: «Non ho avuto bisogno di fare tale ipotesi». Napoleone, divertito, riferì quella

risposta al matematico Joseph-Louis Lagrange, che esclamò: «Ah! Eppure è una magnifica ipotesi, che spiega molte cose». Ma la vicenda non finisce qui. Quando venne a sapere della reazione di Lagrange, Laplace commentò seccamente: «Quest’ipotesi, signore, in effetti spiega tutto, ma non permette di predire nulla. Come studioso, io devo fornirvi opere che permettano di fare predizioni». Nel XX secolo, lo sviluppo della «meccanica quantistica» – la teoria del mondo subatomico – ha dimostrato che le speranze di un universo totalmente deterministico erano troppo ottimistiche. La fisica moderna ha provato che non è possibile prevedere l’esito di un esperimento, nemmeno in linea di principio. La teoria può predire soltanto le probabilità dei diversi esiti. Nel caso delle scienze sociali, la situazione è resa evidentemente ancora più complicata dalla presenza di una molteplicità di elementi interdipendenti, molti dei quali sono nel migliore dei casi estremamente incerti. Gli scienziati del XVIII secolo compresero presto che la ricerca di princìpi sociali universali precisi simili alla legge della gravitazione di Newton era condannata a fallire già in partenza. Per un po’ sembrò che, quando si inserivano nell’equazione le complessità della natura umana, diventasse praticamente impossibile compiere previsioni certe. E la situazione appariva ancor più disperata quando a essere coinvolte erano le menti di un’intera popolazione. Ma, invece di abbandonarsi al fallimento, alcuni geniali pensatori svilupparono un nuovo arsenale di strumenti matematici innovativi: la «statistica» e la «teoria della probabilità». Le probabilità oltre la morte e le tasse Lo scrittore inglese Daniel Defoe (1660-1731), noto soprattutto per il romanzo d’avventura Robinson Crusoe, elaborò anche un saggio sul soprannaturale intitolato Satana. Storia politica del diavolo. In quest’opera Defoe, che vedeva ovunque indizi della presenza del diavolo, scrisse: «Alle cose certe quanto la morte e le tasse si può credere con maggior fermezza». A quanto pare, Benjamin Franklin (1706-1790) sposava lo stesso punto di vista riguardo alla certezza. All’età ottantatré anni, in una lettera al fisico francese Jean-Baptiste Leroy, scrisse: «La nostra Costituzione è entrata in vigore. Tutto sembra promettere che durerà; ma in questo mondo non si può dire che nulla sia sicuro, a parte la morte e le tasse». In effetti il corso delle nostre vite appare imprevedibile, esposto ai disastri naturali, soggetto agli errori umani e influenzato dal puro caso. Espressioni come «Che

vuoi farci? È la vita» sono state coniate proprio per esprimere la nostra vulnerabilità di fronte all’inaspettato e la nostra incapacità di controllare il destino. A dispetto di questi ostacoli, e forse persino a causa delle sfide che essi pongono, fin dal XVI secolo matematici, studiosi di scienze sociali e biologi si sono imbarcati in seri tentativi di affrontare il problema dell’incertezza in maniera metodica. Dopo lo sviluppo della meccanica statistica, e di fronte alla realizzazione del fatto che gli stessi fondamenti della fisica – espressi dalla meccanica quantistica – sono basati sull’indeterminazione, i fisici del XX e del XXI secolo si sono uniti alla lotta con entusiasmo. L’arma che i ricercatori adoperano per combattere la mancanza di un determinismo preciso è la capacità di calcolare le probabilità di un particolare esito. Se è impossibile prevedere un risultato, calcolare la probabilità dei diversi esiti possibili è la miglior cosa che si possa fare. Gli strumenti che sono stati forgiati per andare oltre le congetture e speculazioni – la statistica e la teoria della probabilità – forniscono la base su cui poggia non solo gran parte della scienza moderna, ma anche una vasta gamma di attività sociali, dall’economia allo sport. Tutti noi ricorriamo alle probabilità e alla statistica in quasi ogni decisione che prendiamo, talvolta inconsciamente. Per esempio, forse non sapete che nel 2004 le vittime di incidenti automobilistici negli Stati Uniti sono state 42.636. Ma se quel numero fosse stato, mettiamo caso, 3 milioni, sono sicuro che non solo l’avreste ricordato, ma che quell’informazione vi avrebbe presumibilmente indotto a pensarci due volte prima di salire in auto la mattina. Perché quei dati precisi sulle vittime della strada ci fanno prendere la decisione di metterci al volante con una certa fiducia? Come vedremo tra breve, un ingrediente chiave della loro affidabilità è il fatto che sono basati su numeri molto alti. Il numero di vittime di Frio Town, Texas, che nel 1969 aveva una popolazione di 49 abitanti, difficilmente sarebbe stato altrettanto convincente. Probabilità e statistica sono due tra le migliori frecce all’arco degli economisti, dei consulenti politici, dei genetisti, delle compagnie d’assicurazione e di chiunque tenti di distillare conclusioni significative da enormi quantità di dati. Quando parliamo della matematica che permea discipline che in origine non rientravano nell’ambito delle scienze esatte, spesso l’inclusione è avvenuta grazie alle finestre aperte dalla teoria della probabilità e dalla statistica. Come sono emersi questi campi fecondi?

Figura 32 La parola «statistica», che trae origine dall’italiano «stato» e «statista», si riferiva inizialmente alla mera raccolta di dati da parte di funzionari governativi. Il primo lavoro importante di statistica nel senso moderno del termine fu portato a termine da un ricercatore improbabile: un bottegaio della Londra del XVII secolo. John Graunt (1620-1674) era specializzato nella vendita di bottoni, aghi e tessuti.[7] Dato che la sua professione gli lasciava una notevole quantità di tempo libero, Graunt studiò latino e francese da autodidatta e iniziò a interessarsi ai Bills of Mortality, bollettini settimanali che riportavano il numero dei decessi, parrocchia per parrocchia, e si pubblicavano a Londra dal 1604. La divulgazione di questi bollettini era stata istituita principalmente per fornire il più presto possibile un segnale d’allarme in caso di epidemie devastanti. Basandosi su quelle nude cifre, Graunt cominciò a compiere interessanti osservazioni che alla fine pubblicò in un libricino di ottantacinque pagine intitolato Osservazioni naturali e politiche fatte sui bollettini di mortalità. La figura 32 mostra una tavola tratta dal volumetto di Graunt in cui sono elencate in ordine alfabetico non meno di sessantatré malattie e fatalità. In una dedica al presidente della Royal Society, Graunt sottolinea che, poiché la sua opera riguarda «l’Aria, i Paesi, le Stagioni, la Fertilità, la Salute, le Malattie, la Longevità e la proporzione tra i Sessi e le Età dell’Umanità», è un vero trattato di storia naturale. In effetti Graunt fece molto più che limitarsi a raccogliere e presentare dati. Esaminando, per esempio, il numero medio di battesimi e sepolture di maschi e femmine a Londra e nella parrocchia di campagna di Romsey, nello Hampshire, egli dimostrò per la prima volta la costanza del rapporto tra i sessi alla nascita. In particolare, Graunt scoprì che a Londra nascevano tredici femmine ogni quattordici maschi e a Romsey quindici femmine ogni sedici maschi. Vale la pena di notare che Graunt fu tanto lungimirante da esprimere il desiderio che «i viaggiatori indaghino se la stessa cosa accade in altri paesi». Notava anche che «è una benedizione per l’umanità, che grazie a questa sovrabbondanza di Maschi ci sia questo Impedimento naturale alla Poligamia: poiché in una tale condizione le Donne non potrebbero vivere in quella parità ed eguaglianza di spesa con i loro Mariti, come fanno adesso e qui». Oggi si stima che il rapporto tra bambini e bambine alla nascita sia di circa 1,05. La spiegazione tradizionale che si dà a questa disparità è che Madre Natura trucchi le carte in modo da

favorire le nascite maschili a causa di una certa maggior fragilità dei feti e dei neonati maschi. Tra parentesi, per ragioni che non sono del tutto chiare, a partire dagli anni Settanta la percentuale di nascite maschili subisce una leggera diminuzione annuale tanto negli Stati Uniti quanto in Giappone. Un altro tentativo pionieristico intrapreso da Graunt fu quello di formulare una distribuzione per età, o «tavola di mortalità», della popolazione utilizzando i dati sul numero delle morti in base alla loro causa. La valenza politica di questa statistica era evidente, dato che aveva conseguenze per il numero degli uomini atti alle armi, ovvero dei cittadini di sesso maschile compresi tra i sedici e i cinquantasei anni d’età. A rigor di termini, Graunt non disponeva di dati sufficienti per dedurre una distribuzione per età. È proprio qui, tuttavia, che dimostrò di possedere ingegno e creatività di pensiero. Quella che segue è la descrizione della sua stima della mortalità infantile: La nostra prima Osservazione sui Decessi sarà che in vent’Anni di morti di tutte le malattie e le fatalità, per un totale di 229.250, ne sono morti 71.124 di Afta, Convulsione, Rachitismo, Denti e Vermi; e come Aborti, non ancora Battezzati, Infanti, Fegatosi e Soffocati; vale a dire che circa 1/3 del totale è morto di quelle malattie, che supponiamo siano accadute tutte a Bambini sotto i quattro o cinque Anni. E inoltre di Vaiolo, di Vaiolo suino e di Morbillo, e di Vermi senza Convulsioni ne sono morti 12.210, di cui supponiamo che circa 1/2 possano essere Bambini sotto i sei Anni. Ora, se consideriamo che 16 dei detti 229 mila sono morti della straordinaria e grave Fatalità della Peste, troveremo che circa il trentasei per cento di tutti i concepiti vivi sono morti prima dei sei anni. In altre parole, Graunt calcolò che la mortalità sotto i sei anni d’età fosse (71.124 + 6.105) ? (229.250 - 16.000) = 0,36. Attingendo ad argomentazioni analoghe e ipotesi realistiche, riuscì a calcolare la mortalità nella vecchiaia. Infine, colmò la lacuna tra i sei e i settantasei anni grazie a un assunto matematico sull’andamento della mortalità in base all’età. Se molte delle conclusioni di Graunt non erano particolarmente attendibili, tuttavia il suo studio diede avvio alla scienza della statistica come la conosciamo oggi. La sua osservazione del fatto che le percentuali di certi eventi che in precedenza si pensava dipendessero solo dal caso o dal destino (come i decessi causati da malattie) manifestavano in realtà una regolarità estremamente solida,

introdusse il modo di pensare scientifico, quantitativo, nelle scienze sociali. I ricercatori che vennero dopo Graunt adottarono alcuni aspetti della sua metodologia, ma svilupparono anche una migliore comprensione matematica dell’uso della statistica. Curiosamente, forse, l’uomo che apportò i miglioramenti più significativi alla tavola di mortalità di Graunt fu l’astronomo Edmond Halley, proprio colui che convinse Newton a pubblicare i Principia. Perché tutti erano così interessati alle tavole di mortalità? In parte perché costituivano, e costituiscono tuttora, il fondamento delle assicurazioni sulla vita. Le compagnie di assicurazioni (e le avventuriere che si sposano per denaro!) desiderano conoscere la risposta a domande come la seguente: Se una persona è vissuta fino a sessant’anni, quante probabilità ci sono che viva fino a ottanta? Per costruire la sua tavola di mortalità, Halley si servì dei registri dettagliati che, già a partire dalla fine del XVI secolo, venivano compilati nella città di Breslau in Slesia. Un pastore di Breslau, il dottor Caspar Neumann, usava quegli elenchi di dati per opporsi alle superstizioni secondo cui la salute era influenzata dalle fasi della Luna o dalle età divisibili per sette e nove. Il saggio di Halley, che portava un titolo decisamente lungo – An Estimate of the Degrees of the Mortality of Mankind, drawn from curious Tables of the Birds and Funerals at the City of Breslaw; with an Attempt to ascertain the Price of Annuities upon Lives – finì per diventare la base della matematica delle assicurazioni sulla vita.[8] Per farci un’idea di come le compagnie di assicurazioni possono calcolare le probabilità, esaminiamo la tavola di mortalità di Halley riportata qui sotto: TAVOLA DI MORTALITÀ DI HALLEY La tavola mostra, per esempio, che di 710 persone di sei anni d’età, 346 erano ancora vive a cinquant’anni. Si poteva dunque prendere il rapporto di 346/710, o 0,49, come stima della probabilità che una persona di sei anni vivesse fino a cinquanta. Analogamente, di 242 sessantenni, 41 erano ancora vivi a ottant’anni. Perciò si poteva stimare che la probabilità che un sessantenne arrivasse agli ottant’anni fosse pari a 41/242, ovvero a 0,17 circa. La logica che sta dietro questa procedura è semplice. Ci si affida all’esperienza passata per stabilire la probabilità di diversi eventi futuri. Se il campione su cui si basa l’esperienza è sufficientemente ampio (e la tavola di Halley fondava le

sue stime su una popolazione di 34.000 persone) e se certe ipotesi (come il fatto che il tasso di mortalità rimanga costante nel tempo) sono valide, allora le probabilità calcolate risulteranno attendibili. Ecco come Jakob Bernoulli descriveva lo stesso problema: Quale mortale, domando, potrebbe accertare il numero di malattie, contando tutti i casi possibili, che affliggono il corpo umano in ciascuna delle sue molte parti e a ogni età, e dire quanto è più probabile che una malattia sia più fatale di un’altra [...] e su quella base fare una previsione sul rapporto tra vivi e morti nelle generazioni future?[9] Dopo aver concluso che questa e altre simili previsioni «dipendono da fattori che sono completamente oscuri e che ingannano continuamente i nostri sensi per l’infinita complessità dei rapporti che li legano», Bernoulli suggeriva di adottare un approccio statistico/probabilistico: C’è, tuttavia, un’altra strada che ci condurrà a ciò che stiamo cercando e ci consentirà per lo meno di appurare a posteriori ciò che non possiamo determinare a priori, ovvero di appurarlo dai risultati osservati in numerosi casi analoghi. A tal proposito si deve ipotizzare che, in simili condizioni, il verificarsi (o il non verificarsi) di un evento futuro seguirà lo stesso andamento che è stato osservato per eventi simili nel passato. Per esempio, se abbiamo osservato che di 300 persone della stessa età e della stessa costituzione di un certo Tizio, 200 sono morte entro dieci anni mentre le altre sono sopravvissute, possiamo concludere con ragionevole certezza che le probabilità che anche Tizio paghi il proprio debito alla natura entro il decennio seguente sono doppie delle probabilità che viva oltre quel tempo. Halley fece seguire ai suoi articoli matematici sulla mortalità un’interessante appendice che aveva sfumature più filosofiche. Uno dei passi è particolarmente toccante: Al di là degli usi citati nel mio precedente, potrebbe forse non essere una cosa inaccettabile dedurre dalle stesse Tavole quanto ingiustamente ci doliamo della brevità delle nostre vite, e riteniamo di subire un torto se non raggiungiamo la Vecchiaia, mentre dalle Tavole appare che una metà dei nati muoiono entro Diciassette anni, riducendosi da 1238 a 616 in quel lasso di tempo. Cosicché invece di lagnarci di quella che chiamiamo una Morte prematura, dovremmo rassegnarci con Pazienza e noncuranza a quella Dissoluzione che è la Condizione necessaria dei Materiali perituri di cui siamo fatti, e della nostra Struttura e

Composizione, che sono delicate e fragili; e considerare una Benedizione il fatto che abbiamo vissuto, magari per molti anni, oltre quel Periodo di Vita a cui la metà dell’intera Razza Umana non arriva. Se in buona parte del mondo moderno la situazione è migliorata in modo significativo rispetto alla triste statistica di Halley, purtroppo questo dato non vale per tutti i Paesi. In Zambia, per esempio, la mortalità tra i bambini con un’età compresa tra zero e cinque anni nel 2006 è stata stimata in uno sconcertante 182 morti per ogni mille nati vivi. L’aspettativa di vita nello Zambia resta ferma al valore angosciosamente basso di 37 anni. Ma le statistiche non hanno a che fare solo con la morte. Si insinuano in ogni aspetto della vita umana, dai meri tratti fisici ai prodotti dell’intelletto. Uno dei primi a riconoscere la capacità della statistica di produrre potenziali «leggi» per le scienze sociali fu l’erudito belga Lambert-Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874). A lui più che a chiunque altro si deve l’introduzione del concetto statistico di «uomo medio», ovvero di quella che oggi chiameremmo la «persona media». La persona media Adolphe Quételet nacque il 22 febbraio 1796 nell’antica città belga di Gand.[10] Suo padre, funzionario municipale, morì quando Adolphe aveva solo sette anni. Costretto a mantenersi in giovane età, Quételet iniziò a insegnare matematica già a diciassette anni. Nel tempo libero componeva poesie, scrisse il libretto di un’opera, partecipò alla redazione di due drammi e tradusse alcune opere letterarie. Ma la sua disciplina preferita rimase la matematica, ed egli fu il primo a ottenere la laurea di dottore in Scienze all’Università di Gand. Nel 1820 Quételet fu nominato membro dell’Accademia Reale delle Scienze a Bruxelles e in breve tempo ne divenne il partecipante più attivo. Dedicò gli anni immediatamente successivi soprattutto all’insegnamento e alla pubblicazione di alcuni trattati di matematica, fisica e astronomia. Quételet era solito inaugurare il suo corso di Storia della scienza con la seguente osservazione penetrante: «Con più le scienze sono progredite, con più hanno teso a entrare nel dominio della matematica, che è una sorta di centro verso cui convergono. Possiamo valutare il grado di perfezione a cui è giunta una scienza dalla facilità più o meno grande in cui è possibile affrontarla con il calcolo». Nel dicembre del 1823 Quételet si trasferì a Parigi a spese dello Stato, principalmente per studiare le tecniche d’osservazione

astronomica. Tuttavia, quel soggiorno di tre mesi nella città che all’epoca era la capitale mondiale della matematica, portò Quételet su tutt’altra direzione, quella della teoria della probabilità. La persona maggiormente responsabile di accendere in Quételet un interesse entusiastico per quella disciplina fu Laplace in persona. Più tardi Quételet raccontò la sua esperienza con la statistica e la probabilità: Il caso, questa misteriosa e abusatissima parola, dovrebbe essere considerato solo una copertura per la nostra ignoranza; è un fantasma che esercita il dominio più assoluto sulle menti comuni, abituate a considerare gli eventi isolati, ma che si riduce a nulla davanti al filosofo, il cui occhio abbraccia una lunga serie di eventi e la cui penetrazione non è portata fuori strada dalle variazioni, che spariscono quando egli gode di una visuale sufficiente ad afferrare le leggi della natura.[11] Questa conclusione è di enorme importanza. Sostanzialmente Quételet negava che il caso avesse un ruolo nella vita quotidiana e, al suo posto, faceva un’ipotesi audace (seppure non completamente dimostrata), ovvero che anche i fenomeni sociali hanno una causa, e che le regolarità manifestate dai risultati statistici possono essere utilizzate per scoprire le regole che sono alla base dell’ordine sociale. Nel tentativo di sottoporre a verifica il suo approccio statistico, Quételet mise mano all’ambizioso progetto di raccogliere migliaia di misurazioni relative al corpo umano. Studiò per esempio la distribuzione della circonferenza toracica di 5738 soldati scozzesi e dell’altezza di 100.000 coscritti francesi, riportando separatamente su un diagramma la frequenza di ciascun tratto umano che ricorreva. In altre parole, rappresentò graficamente il numero di coscritti la cui altezza era compresa, per esempio, tra 155 e 160 centimetri, quello dei coscritti d’altezza compresa tra 160 e 165 centimetri e così via. In seguito costruì curve analoghe anche di quelle che definiva «caratteristiche morali» per le quali disponeva di dati sufficienti. Tra queste suicidi, matrimoni e propensione al crimine. Con sua sorpresa, Quételet scoprì che tutte le caratteristiche umane seguivano la distribuzione «a campana» (figura 33), che oggi è nota come distribuzione «normale» (o «gaussiana», nome derivato, in maniera non del tutto giustificata, da quello del «principe della matematica» Carl Friedrich Gauss). Sia che si trattasse di altezze, pesi, misure delle lunghezze degli arti o di qualità intellettive determinate per mezzo di

quelli che all’epoca rappresentavano i primi test psicologici mai eseguiti, quel tipo di curva si ripresentava inevitabilmente. La curva in sé non era nuova a Quételet: i matematici e i fisici la conoscevano dalla metà del XVIII secolo, e Quételet stesso ne aveva familiarità grazie al suo lavoro nel campo astronomico. A costituire una sorpresa fu il fatto che la curva si associasse a caratteristiche umane. In precedenza era chiamata «curva di errore», poiché appariva con ogni tipo di errore nelle misurazioni. Figura 33 Immaginate, per esempio, di essere interessati a misurare con estrema accuratezza la temperatura di un liquido in un recipiente. Potete servirvi di un termometro ad alta precisione e nel corso di un’ora fare mille letture consecutive dello strumento. Scoprirete che, a causa di errori casuali e forse anche di fluttuazioni della temperatura, non tutte le misurazioni daranno esattamente lo stesso valore. I valori misurati tenderanno invece a convergere attorno a uno centrale, mentre alcune misurazioni daranno valori di temperatura più alti o più bassi. Se riportate su un grafico il numero di volte in cui avete ottenuto una certa misurazione per ciascun valore di temperatura, otterrete lo stesso tipo di curva a campana a cui giunse Quételet per i tratti umani. In effetti, quanto è più grande il numero di misure di una qualsiasi quantità fisica che si eseguono, tanto più la distribuzione delle frequenze che si ottiene si approssima a una curva gaussiana. La conseguenza immediata di questo fatto per la questione dell’irragionevole efficacia della matematica è stupefacente: anche gli errori umani obbediscono a rigide regole matematiche. Quételet pensava che le conclusioni da trarre fossero di portata ancora maggiore. Considerava la scoperta che i tratti umani seguono la curva d’errore come un indizio del fatto che l’«uomo medio» fosse in realtà un modello che la natura stava cercando di produrre.[12] Secondo Quételet, come gli errori di fabbricazione creavano una distribuzione di lunghezze attorno al valore medio (corretto) della lunghezza di un chiodo, così gli errori della natura si distribuivano attorno a un modello biologico favorito. Affermò che gli abitanti di una nazione si raccoglievano attorno alla loro media «come se fossero i risultati di misurazioni compiute su un unico individuo, ma con strumenti tanto inadeguati da giustificare la grandezza della variazione».

È evidente che le speculazioni di Quételet erano eccessive. Se la scoperta del fatto che i tratti biologici (fisici o mentali che siano) si distribuiscono lungo la curva di frequenza normale era di enorme importanza, tuttavia non la si poteva considerare una prova delle intenzioni della natura, né tale dato legittimava a considerare le variazioni individuali meri errori. Per esempio, Quételet scoprì che l’altezza media delle reclute francesi era di un metro e sessanta. Ma all’estremo inferiore della scala egli trovò un uomo alto quarantatré centimetri. Ovviamente è impossibile fare un errore di oltre un metro quando si misura l’altezza di un uomo di un metro e sessanta. Anche se ignoriamo l’idea di Quételet secondo cui esistono «leggi» che forgiano gli uomini in un unico stampo, il fatto che le distribuzioni di una varietà di tratti che vanno dal peso corporeo al quoziente intellettivo (QI) seguano tutte la curva normale è decisamente notevole in sé. E se ciò non bastasse, persino la distribuzione della media di battute nella lega professionistica americana di baseball è discretamente normale, così come il rendimento annuale degli indici azionari (che sono composti da numerosi singoli titoli azionari). In effetti, le distribuzioni che deviano dalla curva normale richiedono a volte un esame approfondito. Se per esempio si scoprisse che i voti d’inglese in una scuola non seguono una distribuzione normale, ciò potrebbe portare a un’indagine sul metodo di attribuzione dei voti in quella scuola. Questo non significa che tutte le distribuzioni siano normali. La lunghezza delle parole usate da Shakespeare nelle sue opere teatrali non segue una distribuzione normale: egli sceglieva molte più parole di tre o quattro lettere che non di undici o dodici lettere. Anche il reddito annuale delle famiglie negli Stati Uniti non obbedisce a una distribuzione normale. Nel 2006, per esempio, il 6,37 per cento dei nuclei famigliari con il reddito annuale più elevato ha incamerato circa un terzo del reddito nazionale complessivo. Questo dato in sé solleva una questione interessante: se tanto le caratteristiche fisiche quanto quelle intellettive degli uomini (che presumibilmente determinano il reddito potenziale di una famiglia) seguono una distribuzione normale, perché anche il reddito non la segue? La risposta a una simile questione socioeconomica esula dagli scopi del nostro libro. Dalla prospettiva limitata che ci poniamo, il fatto sorprendente è che la distribuzione di praticamente tutte le caratteristiche misurabili dell’uomo – o degli

animali o delle piante (per ciascuna data varietà) – è espressa da un unico tipo di funzione matematica. Dal punto di vista storico, le caratteristiche umane non servirono soltanto come base per lo studio delle distribuzioni statistiche delle frequenze, ma anche per stabilire il concetto matematico di «correlazione». La correlazione è la relazione tra due variabili casuali tale che a ciascun valore della prima variabile corrisponde con una certa regolarità un valore della seconda. Per esempio, ci si può aspettare che le donne più alte calzino scarpe più grandi. Analogamente, gli psicologi hanno scoperto una correlazione tra l’intelligenza dei genitori e il grado di profitto scolastico dei figli. Il concetto di correlazione diventa particolarmente utile in quelle situazioni in cui non esiste una dipendenza funzionale precisa tra due variabili. Immaginate, per esempio, che una variabile sia la massima temperatura giornaliera nell’Arizona meridionale e l’altra il numero di incendi forestali in quell’area. Per un dato valore di temperatura, non è possibile prevedere con esattezza il numero di incendi che scoppieranno, dato che dipende da altri fattori quali l’umidità e il numero di fuochi accesi dalla gente. In altre parole, per ogni dato valore di temperatura potrebbero esserci molti numeri corrispondenti di incendi forestali e viceversa. Tuttavia, il concetto matematico chiamato «coefficiente di correlazione» ci consente di misurare quantitativamente la forza del legame tra due variabili di questo genere. Colui che per primo introdusse lo strumento del coefficiente di correlazione fu il geografo, meteorologo, antropologo e statistico vittoriano Sir Francis Galton (1822-1911).[13] Galton – che, per inciso, era cugino lontano di Charles Darwin – non era matematico di professione, ma, essendo un uomo straordinariamente pratico, lasciava che del perfezionamento matematico delle sue idee innovative si occupassero altri matematici, e in particolare lo statistico Karl Pearson (1857-1936). Ecco come Galton spiegava il concetto di correlazione: La lunghezza del cubito (l’avambraccio) è correlata alla statura, considerato che un avambraccio lungo implica in genere un uomo alto. Se questa correlazione è molto stretta, un cubito molto lungo dovrebbe implicare in genere una statura molto grande, ma se non fosse molto stretta, un cubito molto lungo sarebbe associato in media solo con una statura grande, non grandissima; mentre, se la correlazione fosse nulla,

un cubito molto lungo non sarebbe associato ad alcuna statura speciale, e perciò, in media, sarebbe associato all’ordinarietà. Sarebbe stato Pearson a offrire una definizione matematica precisa del coefficiente di correlazione. Il coefficiente è definito in modo tale per cui quando la correlazione è molto alta – cioè quando una variabile segue dappresso l’andamento dell’altra – esso assume il valore 1. Quando due quantità sono «anticorrelate», ovvero quando una cresce se l’altra decresce e viceversa, il coefficiente è uguale a -1. Due variabili che si comportano ciascuna come se l’altra nemmeno esistesse hanno un coefficiente di correlazione pari a 0. (Per esempio, il comportamento di alcuni governi evidenzia purtroppo un coefficiente di correlazione vicino allo zero rapportato ai desideri della popolazione che in teoria dovrebbe rappresentare.) La ricerca medica e le previsioni economiche moderne dipendono fondamentalmente dall’individuazione e dal calcolo delle correlazioni. I nessi tra fumo e cancro ai polmoni e tra esposizione al sole e cancro alla pelle, per esempio, sono stati accertati inizialmente scoprendone e valutandone le correlazioni. Gli analisti del mercato azionario tentano continuamente di trovare e quantificare correlazioni tra il comportamento del mercato e altre variabili; ognuna di queste scoperte può produrre enormi profitti. Come alcuni dei primi statisti scoprirono subito, tanto la raccolta di dati quanto la loro interpretazione sono risultati molto delicati da analizzare e dovrebbero essere maneggiati con la massima cura. Un pescatore che usa una rete con maglie da 25 centimetri potrebbe essere indotto a concludere che tutti i pesci sono più grandi di 25 centimetri semplicemente perché i pesci più piccoli sfuggirebbero alla rete. Questo è un esempio di «effetto di selezione», una distorsione introdotta nei risultati a causa dell’apparato utilizzato per raccogliere i dati o della metodologia impiegata per studiarli. La scelta del campione presenta un altro problema. Nei moderni sondaggi d’opinione non si intervistano che poche migliaia di persone. Ma come fanno i sondaggisti ad avere la certezza che le opinioni espresse da quel campione rappresentino quelle di centinaia di milioni di persone? Un altro punto da tener presente è che una correlazione non implica necessariamente un rapporto di causaeffetto. Può darsi che le vendite di un nuovo tostapane crescano contemporaneamente a un aumento del pubblico che assiste ai concerti di musica classica, ma questo non significa che la presenza di un nuovo

tostapane in casa incrementi l’apprezzamento per la musica. È invece possibile che entrambi gli effetti siano provocati da un miglioramento dell’economia. A dispetto di queste importanti avvertenze, la statistica, introducendo letteralmente la «scienza» nelle scienze sociali, è diventata uno degli strumenti più efficaci nella società moderna. Ma perché la statistica funziona? La risposta è data dalla matematica della probabilità, che esercita il suo dominio su molti aspetti della vita moderna. Gli ingegneri che cercano di decidere quale meccanismo di sicurezza installare sul veicolo spaziale che sostituirà lo space shuttle, i fisici delle particelle che analizzano i risultati degli esperimenti compiuti con gli acceleratori, gli psicologi che classificano i bambini con i test del quoziente intellettivo, le industrie farmaceutiche che valutano l’efficacia di nuovi medicinali e i genetisti che studiano i caratteri ereditari nell’uomo, devono tutti ricorrere alla teoria matematica della probabilità. Giochi di probabilità Un approccio serio allo studio della probabilità[14] ebbe inizi molto modesti: i tentativi da parte dei giocatori di adeguare le loro scommesse alle possibilità di successo. A metà del XVII secolo, in particolare, un nobile francese – Chevalier de Méré – che aveva la reputazione di essere un gran giocatore, pose una serie di domande sul gioco d’azzardo al matematico e filosofo francese Blaise Pascal (1623-1662). Nel 1654 Pascal intrattenne una fitta corrispondenza su tali questioni con un altro grande matematico francese dell’epoca, Pierre de Fermat (1601-1665). La teoria della probabilità nacque essenzialmente da quella corrispondenza. Esaminiamo uno degli esempi affascinanti di cui discute Pascal in una lettera datata 29 luglio 1654.[15] Immaginate due nobiluomini impegnati in un gioco che prevede il lancio di un singolo dado. Ciascun giocatore ha messo sul tavolo trentadue pistole d’oro. Il primo giocatore ha scelto il numero 1 e il secondo il numero 5. Ogni volta che esce il numero scelto da uno dei due giocatori, quel giocatore ottiene un punto. Vince chi per primo si aggiudica tre punti. Supponete che dopo un certo numero di lanci il numero 1 sia uscito due volte (cosicché il giocatore che ha scelto questo numero abbia due punti), mentre il numero 5 sia uscito soltanto una volta (cosicché il suo avversario si è aggiudicato un solo punto). Se per un qualsiasi motivo il gioco si interrompe in quel

preciso momento, come andranno divise tra i due giocatori le sessantaquattro pistole che stanno sul tavolo? Pascal e Fermat trovarono la risposta matematicamente logica a questa domanda. Se il giocatore con due punti dovesse vincere al lancio successivo, si aggiudicherebbe le sessantaquattro pistole. Se toccasse al suo avversario vincere al lancio successivo, entrambi i giocatori avrebbero due punti, e perciò ciascuno riceverebbe trentadue pistole. Dunque, se i giocatori si separano senza effettuare il lancio successivo, il primo potrebbe correttamente argomentare: «Ho la certezza di aggiudicarmi trentadue pistole anche se dovessi perdere il prossimo lancio; quanto alle altre trentadue pistole, può darsi che me le aggiudichi io come può darsi che ve le aggiudichiate voi; le possibilità sono le stesse. Perciò dobbiamo dividere quelle trentadue pistole in parti uguali e voi dovrete darmi anche le trentadue pistole di cui sono sicuro». In altre parole, il primo giocatore dovrebbe ricevere quarantotto pistole e il suo avversario sedici. Non è incredibile che una disciplina matematica nuova e complessa sia potuta emergere da questo tipo di discussione apparentemente banale? Eppure è proprio questa la ragione per cui l’efficacia della matematica risulta così «irragionevole» e misteriosa. Dai seguenti, semplici fatti, si può cogliere l’essenza della teoria della probabilità.[16] Nessuno è in grado di prevedere con certezza quale faccia mostrerà una moneta non truccata lanciata in aria, una volta che ricadrà. Anche se l’esito del lancio è stato testa per dieci volte di fila, ciò non accresce di una virgola la nostra capacità di predire con certezza l’esito del lancio successivo. Eppure, possiamo prevedere con sicurezza che se lanciassimo la moneta dieci milioni di volte, la metà quasi esatta dei lanci darà testa e la metà quasi esatta darà croce. In effetti, quando alla fine del XIX secolo lo statistico Karl Pearson ebbe la pazienza di lanciare una moneta 24.000 volte, ottenne testa in 12.012 dei lanci. In un certo senso è di questo che si occupa la teoria della probabilità. Ci fornisce informazioni precise sull’insieme dei risultati di una grande quantità di esperimenti; non può mai prevedere il risultato di un esperimento specifico, qualunque esso sia.[17] Se un esperimento può produrre n esiti possibili e ciascuno ha la stessa probabilità di verificarsi, allora la probabilità di ciascun esito è pari a 1/n. Se lanciate un dado non truccato, la probabilità di ottenere 4 è pari a 1/6, dato che il dado ha sei facce, ognuna delle quali rappresenta un esito egualmente probabile. Supponete di aver lanciato il dado sette volte di fila e di aver

sempre ottenuto 4: quale sarà la probabilità di ottenere 4 al prossimo lancio? La teoria della probabilità fornisce una risposta inequivocabile: la probabilità sarebbe ancora di 1/6; il dado non ha memoria, e idee come quelle di «mano calda» o del fatto che il lancio successivo compensi lo squilibrio precedente sono solo miti. Quello che è vero è che se dovessimo lanciare il dado un milione di volte, i risultati si equilibrerebbero e il 4 apparirebbe un numero di volte molto prossimo a 1/6 del totale. Esaminiamo una situazione un po’ più complicata. Supponete di lanciare simultaneamente tre monete. Qual è la probabilità di ottenere due croci e una testa? Per scoprirlo, ci basta elencare tutti gli esiti possibili. Se indichiamo le teste con «T» e le croci con «C», noteremo che gli esiti possibili sono otto: CCC, CCT, CTC, CTT, TCC, TCT, TTC, TTT. Potete constatare che in tre casi si realizza la sequenza «due croci e una testa». Perciò la probabilità di quest’evento è 3/8. Più in generale, se m esiti tra n possibili realizzano la sequenza che vi interessa, allora la probabilità che si verifichi è pari a m/n. Notate che ciò significa che la probabilità ha sempre un valore compreso tra zero e uno. Se la sequenza che vi interessa è impossibile, allora m = 0 (nessun esito lo può realizzare) e la probabilità sarà dunque pari a zero. Se, d’altro canto, la sequenza è assolutamente certa, ciò significa che tutti gli n esiti la realizzano (m = n), e la probabilità sarà m/n = 1. I possibili esiti del lancio di tre monete dimostrano un altro risultato importante della teoria della probabilità: se ci sono diversi eventi che sono totalmente indipendenti tra loro, allora la probabilità che accadano tutti è pari al prodotto delle singole probabilità. Per esempio, la probabilità di ottenere tre teste è 1/8, ovvero il prodotto delle tre probabilità di ottenere testa con ciascuna delle tre monete: 1/2 ¥ 1/2 ¥ 1/2 = 1/8. D’accordo, starete forse pensando, ma a parte i giochi da casinò e d’azzardo, quali usi possiamo fare di questi concetti probabilistici elementari? Che ci crediate o no, queste leggi della probabilità apparentemente insignificanti sono al cuore della moderna genetica: la scienza che studia l’ereditarietà delle caratteristiche biologiche. Colui che portò la probabilità nella genetica fu un monaco moravo. Gregor Mendel (1822-1884) nacque in un villaggio nei pressi del confine tra Moravia e Slesia (oggi Hync?ice, nella Repubblica Ceca).[18] Dopo essere entrato nell’abbazia agostiniana di San Tommaso a Brno, studiò zoologia, botanica, fisica e chimica

all’Università di Vienna. Tornato a Brno, cominciò a fare esperimenti su piante di piselli, con il sostegno deciso dell’abate del monastero agostiniano. Mendel incentrò le sue ricerche sulle piante di pisello perché erano facili da coltivare e perché possedevano organi riproduttivi maschili e femminili insieme. Di conseguenza, una pianta di pisello poteva riprodursi sia per autoimpollinazione sia per impollinazione incrociata con un’altra pianta. Incrociando piante che producevano solo semi verdi con piante che producevano solo semi gialli, Mendel ottenne dei risultati che apparivano piuttosto sconcertanti (figura 34). Figura 34 Le piante di prima generazione avevano tutte semi gialli, mentre in quella successiva c’era un rapporto di 3 a 1 tra le piante con semi gialli e quelle con semi verdi. Da questi sorprendenti risultati Mendel riuscì a trarre tre conclusioni che divennero altrettante importanti pietre miliari della genetica: 1. L’eredità di un carattere comporta la trasmissione di certi «fattori» (quelli che oggi chiamiamo «geni»), dai genitori alla progenie. 2. Ogni discendente eredita uno di questi «fattori» da ciascun genitore (per ogni dato tratto). 3. Una data caratteristica può non manifestarsi in un discendente ma può essere trasmessa alla generazione successiva. Come si possono spiegare i risultati quantitativi degli esperimenti di Mendel? Il monaco moravo arguì che ciascuna delle piante genitrici doveva possedere due «fattori» identici (quelli che chiameremmo alleli: varietà di uno stesso gene), o entrambi gialli o entrambi verdi (figura 35). Quando le due piante venivano incrociate, ciascun discendente ereditava due alleli diversi, uno da ciascun genitore (in base alla regola 2). In altre parole, ogni pianta di pisello generata dall’incrocio conteneva un allele giallo e un allele verde. Ma allora perché tutti i piselli di quella generazione erano gialli? Perché, spiegava Mendel, il giallo era il colore dominante e mascherava la presenza dell’allele verde in quella progenie (regola 3). Tuttavia (ancora in base alla regola 3), il giallo dominante non impediva al verde recessivo di venir trasmesso alla generazione seguente. Nella serie di incroci successiva, ciascuna pianta contenente un allele giallo e un allele verde si incrociava con una pianta contenente la stessa combinazione di alleli. Poiché la progenie contiene sempre un allele proveniente da ciascun

genitore, i semi di questa seconda generazione possono contenere una delle seguenti combinazioni (figura 35): verde-verde, verde-giallo, giallo-verde o giallo-giallo. Ma poiché il giallo è il carattere dominante, tutti i semi con un allele giallo diventano piselli gialli. Perciò, poiché tutte le combinazioni di alleli hanno la stessa probabilità di verificarsi, il rapporto tra piselli gialli e verdi sarà di 3 a 1. Figura 35 Avrete probabilmente notato che il procedimento seguito da Mendel è sostanzialmente identico all’esperimento in cui si lanciano due monete. Associare la testa di una moneta al verde e la croce al giallo e chiedersi quanta parte di piselli risulterà gialla (considerando che il giallo è dominante per la determinazione del colore), equivale a chiedersi qual è la probabilità di ottenere almeno una croce quando si lanciano due monete. Evidentemente questa probabilità è pari a 3/4, dato che tre dei quattro esiti possibili (croce-croce, croce-testa, testacroce, testa-testa), contengono almeno una croce. Ciò significa che il rapporto tra il numero di lanci che danno come risultato almeno una croce e il numero di lanci che non lo fanno dovrebbe essere (a lungo andare) di 3 a 1, proprio come nell’esperimento di Mendel. Mendel pubblicò il Saggio sugli ibridi vegetali[19] nel 1866 (e presentò i risultati dei suoi esperimenti a due convegni scientifici), ma il suo lavoro passò praticamente inosservato, per essere infine riscoperto all’inizio del XX secolo. E se è vero che sono stati sollevati dubbi sull’accuratezza dei suoi risultati,[20] Mendel è considerato ancora oggi colui che pose le basi matematiche della genetica moderna. Seguendo la strada aperta da Mendel, l’influente statistico britannico Ronald Aylmer Fisher (1890-1962)[21] fondò la branca della genetica delle popolazioni, che si incentra sulla costruzione di modelli matematici della distribuzione dei geni all’interno di una popolazione e sul calcolo delle variazioni della loro frequenza nel tempo. Oggi i genetisti possono avvalersi di campioni statistici in combinazione con studi sul DNA per prevedere i probabili tratti dei nascituri. Ma qual è esattamente il rapporto tra probabilità e statistica? Fatti e previsioni Di solito, gli scienziati che tentano di decifrare l’evoluzione dell’universo provano ad attaccare il problema da entrambi gli estremi. C’è chi inizia dalle più minuscole fluttuazioni nella trama cosmica dell’universo primordiale e chi studia ogni dettaglio dell’universo nel

suo stato attuale. I primi si servono di grandi simulazioni al computer allo scopo di ricostruirne l’evoluzione. I secondi si dedicano a un’opera d’indagine in stile poliziesco cercando di dedurne il passato da una gran quantità di fatti sul suo stato attuale. La teoria della probabilità e la statistica sono legate da un rapporto analogo. Nella teoria della probabilità le variabili e lo stato iniziale sono noti e l’obiettivo è predire il risultato finale più probabile. Nella statistica si conosce l’esito, ma le cause che l’hanno determinato rimangono incerte. Esaminiamo un semplice esempio di come le due discipline si integrino a vicenda e si incontrino, per così dire, a metà strada. Possiamo partire dal presupposto che: gli studi statistici mostrano che le misurazioni di una grande varietà di quantità fisiche e persino di molte caratteristiche umane si distribuiscono lungo una «curva di frequenza normale». Per essere più precisi, la curva normale non è un’unica curva ma piuttosto una famiglia di curve tutte descrivibili per mezzo della stessa funzione generale e tutte definite completamente da due quantità matematiche. La prima di queste quantità – la media – è il valore centrale attorno al quale i valori misurati si distribuiscono in modo simmetrico. Il valore effettivo della media dipende naturalmente dal tipo di variabile misurata (per esempio il peso, l’altezza o il quoziente intellettivo). Ma anche per una stessa variabile il valore della media può risultare diverso per popolazioni differenti. È probabile che l’altezza media della popolazione maschile in Svezia sia diversa da quella della popolazione maschile in Perú. La seconda quantità che definisce una curva normale è chiamata «deviazione standard» e misura la dispersione dei dati attorno al valore medio. Nella figura 36, la curva normale di sinistra è quella caratterizzata dalla deviazione standard maggiore, dato che i suoi valori sono più dispersi. Figura 36 Qui interviene però un fatto interessante. Attraverso il calcolo integrale per misurare le aree sottese dalle curve, si può dimostrare matematicamente che, quali che siano i valori della media e della deviazione standard, il 68,2 per cento dei dati ricade nell’intervallo di valori compreso all’interno della deviazione standard a destra e a sinistra della media (figura 37). In altre parole, se il quoziente intellettivo medio di una certa popolazione (vasta) è 100 e la deviazione standard è 15, allora il 68,2 per cento degli individui della popolazione ha valori di QI compresi tra 85 e 115. Inoltre, per qualsiasi curva di

frequenza normale, il 95,4 per cento di tutti i dati ricade all’interno di un intervallo pari a due deviazioni standard dalla media, e il 99,8 per cento in un intervallo pari a tre deviazioni standard su entrambi i lati del valore medio (figura 37). Ciò significa che nell’esempio precedente il 95,4 per cento della popolazione ha un quoziente intellettivo compreso tra 70 e 130 e che il 99,8 per cento ha valori di quoziente intellettivo compresi tra 55 e 145. Figura 37 Adesso supponiamo di voler predire qual è la probabilità che una persona scelta a caso all’interno di una certa popolazione abbia un QI compreso tra 85 e 100. La figura 37 ci mostra che la probabilità sarebbe pari a 0,341 (ovvero del 34,1 per cento), poiché in base alle leggi delle probabilità essa non è altro che il numero degli esiti favorevoli diviso per il numero complessivo degli esiti possibili. Oppure potremmo essere interessati a stabilire qual è la probabilità che una persona, sempre scelta a caso, abbia un QI maggiore di 130 all’interno di quella popolazione. Un’occhiata alla figura 37 ci rivela che la probabilità è solo dello 0,022 circa, ovvero del 2,2 per cento. In modo analogo, utilizzando le proprietà della distribuzione normale e lo strumento del calcolo integrale (per misurare le aree), si può calcolare la probabilità che un valore del QI ricada all’interno di un qualsiasi intervallo dato. In altre parole, la teoria della probabilità e la sua compagna complementare, la statistica, si combinano per offrirci la risposta. Come ho già sottolineato diverse volte, probabilità e statistica hanno senso quando si ha a che fare con un gran numero di eventi, mai con eventi singoli. La comprensione di questo fatto d’importanza capitale, noto con il nome di «legge dei grandi numeri», si deve a Jakob Bernoulli, che lo formulò in forma di teorema nel suo libro Ars Conjectandi (il frontespizio dell’opera è riprodotto nella figura 38).[22] In parole semplici, il teorema afferma che se la probabilità che un evento si verifichi è p, allora p è il valore più probabile del rapporto tra il numero di volte in cui l’evento si verifica e il numero totale delle prove effettuate. Inoltre, quando il numero delle prove effettuate si approssima all’infinito, il valore del rapporto diventa p con certezza. Ecco come Bernoulli introduceva la legge dei grandi numeri nella sua Ars Conjectandi: Ciò su cui si deve ancora indagare è se aumentando il numero delle osservazioni noi per conseguenza continueremo anche ad aumentare la

probabilità che il rapporto registrato tra i casi favorevoli e quelli sfavorevoli si avvicini al rapporto vero, cosicché alla fine tale probabilità finirà per superare qualsiasi grado di certezza si desideri. Figura 38 Bernoulli procedeva poi a spiegare il concetto con un esempio specifico: Abbiamo un vaso che contiene 3000 sassolini bianchi e 2000 neri e vogliamo stabilire empiricamente il rapporto tra ciottoli bianchi e neri (supposto che non lo conosciamo) estraendo un sassolino dopo l’altro e registrando quante volte ne esce uno bianco e quante uno nero. (Vi ricordo che un requisito importante per questo procedimento è di riporre nell’urna ogni ciottolo dopo averne annotato il colore, prima di estrarre il successivo, così che il numero dei ciottoli contenuti nell’urna rimanga costante.) Ora ci chiediamo, è possibile, ripetendo indefinitamente l’operazione, rendere 10, 100, 1000 volte più probabile (fino a raggiungere la «certezza morale») che il rapporto tra il numero di estrazioni di un sassolino bianco e il numero di estrazioni di un sassolino nero assuma lo stesso valore (3 a 2) del rapporto reale tra sassolini bianchi e neri nell’urna, rispetto all’eventualità che tale rapporto assuma un valore diverso? Se la risposta è no, allora ammetto che il nostro tentativo di stabilire il numero di casi tramite l’osservazione è probabilmente destinato a fallire. Ma se è vero che alla fine riusciremo a raggiungere la certezza morale usando questo metodo [e Jakob Bernoulli dimostrerà che è così nel capitolo successivo dell’Ars Conjectandi] [...] allora potremo determinare il numero dei casi a posteriori con una precisione quasi pari a quella che avremmo se lo conoscessimo a priori.[23] Dopo aver dedicato vent’anni al perfezionamento di questo teorema, che da allora è diventato uno dei pilastri a fondamento della statistica, Bernoulli terminava l’Ars Conjectandi esprimendo la propria fede nell’esistenza ultima di leggi che governano anche quelle circostanze che sembrano dipendere dal caso: Se si osservassero di continuo tutti gli eventi da adesso e per l’eternità (di modo che la probabilità alla fine si trasformi in certezza), si scoprirebbe che ogni cosa nel mondo avviene per determinate ragioni e in conformità a determinate leggi, e che pertanto siamo costretti, anche per cose che potrebbero apparire del tutto casuali, a ipotizzare una certa necessità e, per così dire, una fatalità. Per quel che so, era

questo che Platone aveva in mente quando, nella dottrina del ciclo universale, sosteneva che dopo il trascorrere di innumerevoli secoli tutto ritorna al suo stato originario. La conclusione di questa storia della scienza dell’incertezza è molto semplice: la matematica si può applicare per molti versi anche nelle aree meno «scientifiche» della nostra vita, comprese quelle che sembrano governate dal puro caso. Perciò, se vogliamo tentare di trovare una spiegazione all’«irragionevole efficacia» della matematica, non possiamo limitare la nostra discussione soltanto alle leggi della fisica. Dovremo invece cercare in qualche modo di capire che cosa rende la matematica così ubiqua. Gli incredibili poteri della matematica non sfuggirono al famoso drammaturgo e saggista George Bernard Shaw (1856-1950). Pur non essendo sicuramente noto per il suo talento matematico, una volta Shaw scrisse un articolo penetrante sulla statistica e sulla probabilità intitolato Il vizio del gioco e la virtù delle assicurazioni.[24] Nell’articolo, Shaw ammette che per lui le assicurazioni sono «fondate su fatti che sono inesplicabili e su rischi che soltanto i matematici di professione sanno calcolare». Eppure ci offre la seguente acuta osservazione: Immaginate dunque un colloquio d’affari tra un mercante che brama di commerciare oltremare ma è terrorizzato all’idea di fare naufragio o di essere mangiato dai selvaggi, e il comandante di una nave che brama un carico e dei passeggeri. Il capitano garantisce al mercante che le sue merci saranno assolutamente al sicuro e altrettanto lo sarà lui, qualora decidesse di viaggiare con loro. Ma il mercante, che ha la testa piena delle avventure di Jonah, san Paolo, Odisseo e Robinson Crusoe, non ha l’ardire di correre il rischio. La loro conversazione andrà così: CAPITANO: Venite! Scommetterò con voi una montagna di sterline che se navigherete con me, tra un anno esatto sarete vivo e vegeto. MERCANTE: Ma se accetto, dovrei scommettere con voi quella somma che morirò di qui a un anno. CAPITANO: Perché no se perderete la scommessa, come sicuramente accadrà? MERCANTE: Ma se io annego annegherete anche voi; e allora che ne sarà della nostra scommessa? CAPITANO: Vero. Ma vi troverò un uomo di terra che farà la scommessa con vostra moglie e la vostra famiglia.

MERCANTE: Questo modifica i termini della questione; e riguardo al carico? CAPITANO: Bah! Possiamo scommettere anche sul carico. Oppure fare due scommesse: una sulla vostra vita, l’altra sul carico. E sarete entrambi salvi, ve lo garantisco. Non accadrà nulla: e voi vedrete le meraviglie che si vedono oltremare. MERCANTE: Ma se io e la mia merce ce la facciamo, dovrò pagarvi il valore della mia vita e per sopraggiunta quello della merce. Se non annego, sarò rovinato. CAPITANO: Anche questo è verissimo. Ma non è che per me ci siano tutti quei vantaggi che voi pensate. Se annegherete, io annegherò prima di voi, perché devo essere l’ultimo uomo ad abbandonare la nave che affonda. Lasciate, tuttavia, che vi convinca a correre il rischio. Scommetterò dieci a uno. Questo vi tenta? MERCANTE: Beh, in tal caso... Il capitano ha scoperto il sistema delle assicurazioni come gli orafi scoprirono quello delle banche. Per una persona come Shaw, che si lamentava perché nel corso della sua istruzione «non ci fu detta una sola parola sul significato o l’utilità della matematica», questo resoconto umoristico della «storia» della matematica delle assicurazioni è davvero notevole. Se si eccettua il brano di Shaw, fin qui abbiamo seguito lo sviluppo di alcune branche della matematica attraverso gli occhi di individui che la praticarono. Per costoro, e di fatto per molti filosofi razionalisti come Spinoza, il platonismo era una verità ovvia. Non sussistevano dubbi sul fatto che le verità matematiche esistessero in un proprio mondo e che la mente dell’uomo potesse avervi accesso senza doverle osservare, esclusivamente grazie alla facoltà della ragione. I primi indizi di un possibile divario tra la percezione della geometria euclidea come raccolta di verità universali e altre branche della matematica furono messi in luce dal filosofo irlandese George Berkeley, vescovo di Cloyne (1685-1753). In un pamphlet intitolato L’analista: Discorso indirizzato a un matematico infedele[25] (un matematico che si suppone fosse Edmond Halley), Berkeley muoveva una critica alle fondamenta stesse del calcolo infinitesimale e dell’analisi matematica come erano state presentate da Newton (nei Principia) e da Leibniz. In particolare, Berkeley dimostrò che il concetto delle «flussioni», o tassi istantanei di variazione, formulato da Newton, era ben lungi dall’essere

definito in maniera rigorosa; e questo secondo Berkeley era sufficiente a screditare l’intera disciplina: Il metodo delle flussioni è la chiave di volta grazie alla quale i Matematici moderni svelano i segreti della Geometria e, per conseguenza, della Natura [...]. Ma come io intendo indagare con la massima imparzialità se tale metodo sia chiaro oppure oscuro, coerente oppure contraddittorio, probante oppure aleatorio, così sottopongo la mia indagine al vostro stesso Giudizio, e a quello di ogni candido Lettore. Sicuramente Berkeley coglieva nel segno, e in effetti una teoria dell’analisi matematica pienamente coerente fu formulata soltanto negli anni Sessanta del Novecento. Ma la matematica avrebbe attraversato una crisi più drammatica nel XIX secolo. 6 Geometri: lo shock del futuro Nel suo celebre libro Lo shock del futuro,[1] Alvin Toffler definiva l’espressione riportata nel titolo come «lo stress e il disorientamento sconvolgenti che induciamo negli individui sottoponendoli a un cambiamento eccessivo in un tempo eccessivamente breve». Nel XIX secolo i matematici, gli scienziati e i filosofi sperimentarono esattamente questo tipo di shock. Di fatto, la millenaria fede in una matematica in grado di offrire verità eterne e immutabili ne fu annientata. Questo inatteso bouleversement intellettuale fu causato dall’emergere di geometrie di nuovo tipo che oggi sono chiamate «geometrie non euclidee». Anche se forse la maggior parte dei profani non ne ha mai nemmeno sentito parlare, qualcuno ha accostato la portata della rivoluzione del pensiero seguita a queste nuove branche della matematica a quella inaugurata dalla teoria darwiniana dell’evoluzione. Per apprezzare appieno la natura di questo enorme cambiamento nella visione del mondo, dobbiamo prima esaminare brevemente lo sfondo storico-matematico in cui ebbe luogo. La «verità» euclidea Fino all’inizio del XIX secolo, se c’era una branca della conoscenza che veniva considerata l’apoteosi della verità e della certezza, questa era la geometria euclidea, la geometria tradizionale che impariamo sui

banchi di scuola. Non sorprende perciò che il grande filosofo ebreo olandese Baruch Spinoza (1632-1677) intitolasse il suo audace tentativo di unificare scienza, religione, etica e ragione Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico. Oltretutto, a dispetto della chiara distinzione tra l’ideale mondo platonico delle forme matematiche e la realtà fisica, la maggior parte degli scienziati considerava gli oggetti della geometria euclidea come astrazioni distillate delle loro controparti reali e fisiche. Persino un empirista fervente come David Hume (17111776), pur sostenendo con tenacia che le stesse fondamenta della scienza fossero molto meno sicure di quanto si sospettasse, giunse alla conclusione che la geometria euclidea fosse salda quanto la rocca di Gibilterra. Nelle sue Ricerche sull’intelletto umano e sui principi della morale, Hume identifica due tipi di verità: Tutti gli oggetti della ragione e della ricerca umane si possono naturalmente dividere in due specie, cioè relazioni tra idee e materia di fatto. Alla prima specie appartiene [...] qualsiasi affermazione che sia certa, sia intuitivamente che dimostrativamente [...]. Proposizioni di questa specie si possono scoprire con una semplice operazione del pensiero, senza dipendenza alcuna da qualche cosa che esista in qualche parte dell’universo. Anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza. Le materie di fatto [...] non si possono accertare nella stessa maniera, né l’evidenza della loro verità, per quanto grande, è della stessa natura della precedente. Il contrario di ogni materia di fatto è sempre possibile, perché non può mai implicare contraddizione [...]. Che il sole non sorgerà domani è una proposizione non meno intelligibile e che non implica più contraddizione dell’affermazione che esso sorgerà. Invano tenteremo, dunque, di dimostrare la sua falsità.[2] In altre parole, se Hume, come tutti gli empiristi, affermava che ogni conoscenza nasce dall’osservazione, per lui la geometria e le sue «verità» continuavano a godere di uno status privilegiato. L’eminente filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804) non sempre concordava con Hume, ma innalzava anch’egli la geometria euclidea al rango di certezza assoluta, attribuendole una validità indiscutibile. Nella sua memorabile Critica della ragion pura, Kant tentò, in un certo senso, di invertire il rapporto tra la mente e il mondo fisico. In contrapposizione all’idea secondo cui le impressioni della realtà fisica

si fissano su una mente altrimenti passiva, Kant assegnò alla mente la funzione attiva di «costruire» o «elaborare» l’universo percepito. Rivolgendo la propria attenzione al mondo interiore, Kant non si chiedeva ciò che possiamo conoscere, ma come facciamo a conoscere ciò che possiamo conoscere.[3] Se è vero che i nostri occhi rilevano particelle di luce, spiegava, queste non formano un’immagine nella nostra coscienza finché l’informazione non viene elaborata e organizzata dal cervello. E in questo processo di costruzione egli assegnava un ruolo chiave alla comprensione umana «a priori» – intuitiva o sintetica – dello spazio, il quale a sua volta si fondava sulla geometria euclidea. Kant riteneva che la geometria euclidea fornisse la sola via valida per elaborare e concettualizzare lo spazio, e che questa conoscenza intuitiva, universale, dello spazio fosse al cuore della nostra esperienza del mondo naturale. Per citare le sue parole: Lo spazio non è un concetto empirico, proveniente da esperienze esterne [...]. Lo spazio è una rappresentazione a priori, necessaria, che sta a fondamento di tutte le intuizioni esterne [...]. Su tale necessità a priori si fonda la costruzione a priori di tutti i principi geometrici, nonché la possibilità della loro costruzione a priori. Infatti, se questa rappresentazione dello spazio fosse un concetto ricavato a posteriori dalla generale esperienza esterna, i principi primi della determinazione matematica altro non sarebbero che percezioni. Possederebbero quindi la medesima contingenza della percezione e non sarebbe perciò necessario che fra due punti sussista una sola linea retta, toccando all’esperienza di insegnarcelo ogni volta.[4] Per dirla in maniera semplice, secondo Kant, se percepiamo un oggetto, allora quell’oggetto è necessariamente spaziale ed euclideo. Le idee di Hume e Kant mettono in primo piano i due aspetti molto diversi ma ugualmente importanti che storicamente erano stati associati alla geometria euclidea. Il primo era l’asserzione del fatto che la geometria euclidea rappresenta l’unica descrizione accurata dello spazio fisico. Il secondo era l’identificazione della geometria euclidea con una struttura deduttiva solida, definitiva e infallibile. Prese insieme, queste due supposte proprietà della geometria euclidea fornivano a matematici, scienziati e filosofi quella che essi consideravano la prova più autorevole del fatto che esistono verità informative e ineluttabili sull’universo. Fino al XIX secolo queste asserzioni erano date per scontate. Ma erano davvero valide?

Le fondamenta della geometria euclidea furono poste attorno al 300 a.C. dal matematico greco Euclide d’Alessandria. In una monumentale opera in tredici volumi intitolata Gli elementi, Euclide tentò di erigere la geometria su un presupposto logico ben definito. Iniziò con dieci assiomi che si presumevano verità incontestabili, e sulla base di quelle dieci asserzioni cercò di dimostrare un gran numero di proposizioni ricorrendo esclusivamente a deduzioni logiche. I primi quattro assiomi euclidei erano caratterizzati da un’estrema semplicità e da una squisita concisione.[5] Per esempio, il primo recitava: «Tra due punti qualsiasi si può tracciare una linea retta», e il quarto: «Tutti gli angoli retti sono uguali». Al contrario, il quinto assioma, noto come il «postulato delle parallele», era più complicato nella sua formulazione e molto meno ovvio: «Se due rette che giacciono su un piano intersecano una terza retta in modo tale che la somma interna degli angoli su un lato è inferiore a due angoli retti, allora le due rette si intersecheranno tra loro se le si estenderà a sufficienza da quel lato». La figura 39 mostra graficamente il significato dell’assioma. Benché nessuno dubitasse della sua verità, il postulato delle parallele mancava dell’affascinante semplicità degli altri assiomi. Tutto indica che nemmeno Euclide era completamente soddisfatto del quinto assioma: nelle dimostrazioni delle prime ventotto proposizioni degli Elementi non vi ricorse mai.[6] Figura 39 La versione equivalente del postulato delle parallele oggi più citata fece la sua comparsa per la prima volta nel V secolo, nei commentari del matematico greco Proclo, ma è nota generalmente con il nome di «assioma di Playfair», in onore del matematico scozzese John Playfair (1748-1819). In questa formulazione l’assioma afferma quanto segue: «Dati una retta e un punto che non giace sulla retta, è possibile tracciare per quel punto una e una sola retta parallela alla retta data» (figura 40). Le due versioni dell’assioma sono equivalenti, nel senso che l’assioma di Playfair (insieme agli altri assiomi) implica necessariamente il quinto assioma nella versione originaria di Euclide e viceversa. Figura 40 Con il passare dei secoli la crescente insoddisfazione nei riguardi del quinto assioma produsse un certo numero di tentativi di dimostrarlo per mezzo degli altri nove assiomi o di rimpiazzarlo con un postulato più ovvio. Di fronte al susseguirsi di fallimenti, altri geometri cominciarono

a cercare di rispondere a una suggestiva domanda ipotetica: e se il quinto assioma non si fosse dimostrato vero? Alcuni di questi sforzi infruttuosi fecero sorgere dubbi assillanti sul fatto che gli assiomi di Euclide fossero realmente verità evidenti in se stesse e non fossero invece basati sull’esperienza.[7] Il sorprendente verdetto finale sarebbe arrivato nel XIX secolo: era possibile creare nuovi tipi di geometria scegliendo un assioma diverso dal quinto di Euclide. Inoltre, queste «geometrie non euclidee» potevano, in linea di principio, descrivere lo spazio fisico altrettanto accuratamente quanto la geometria euclidea! Permettetemi a questo punto di soffermarmi un momento affinché il significato del verbo «scegliere» si imprima bene nelle nostre menti. Per millenni, la geometria euclidea era stata considerata unica e inevitabile: la sola vera descrizione possibile dello spazio. Il fatto che adesso si potessero scegliere gli assiomi e ottenere una descrizione ugualmente valida rivoluzionava l’intero concetto. Quel sistema deduttivo sicuro, costruito con cura, diventava di colpo simile a un gioco in cui gli assiomi avevano semplicemente il ruolo delle regole. Era possibile cambiare gli assiomi e divertirsi in un gioco diverso. Il solo rendersene conto ebbe un impatto enorme sulla comprensione della natura della matematica. Parecchi furono i matematici dalla mente creativa che prepararono il terreno per l’assalto finale alla geometria euclidea. Tra questi, ebbero un ruolo particolarmente importante il gesuita Girolamo Saccheri (1677-1733), che indagò le conseguenze di sostituire il quinto postulato con un diverso enunciato, e i matematici tedeschi Georg Klügel (17391812) e Johann Heinrich Lambert (1728-1777), che furono i primi a comprendere che potevano esistere geometrie alternative a quella euclidea. Qualcuno, tuttavia, doveva assumersi il compito di assestare il colpo di grazia alla geometria euclidea come unica e sola rappresentazione possibile dello spazio. Quell’onore fu condiviso da tre matematici, uno russo, uno ungherese e uno tedesco. Strani nuovi mondi Il primo a pubblicare un intero trattato su una geometria di nuovo tipo, una geometria che poteva essere costruita su una superficie a forma di sella incurvata (figura 41a), fu il matematico russo Nikolaj Ivanovic? Lobac?evskij (1792-1856; figura 42).[8] Con quella che oggi viene chiamata «geometria iperbolica», il quinto postulato di Euclide è sostituito da un altro enunciato: «Data una retta e un punto che non

giace sulla retta, esistono almeno due rette per quel punto parallele alla retta data». Un’altra differenza importante tra la geometria di Lobac?evskij e quella euclidea è che mentre in quest’ultima la somma degli angoli di un triangolo è sempre uguale a 180 gradi (figura 41b), nella prima tale somma è sempre inferiore a 180 gradi. Poiché fu pubblicato sull’oscuro «Messaggero di Kazan», il lavoro di Lobac?evskij passò quasi totalmente inosservato finché non apparvero le sue prime traduzioni francesi e tedesche nei tardi anni Trenta dell’Ottocento. Ignaro dei progressi di Lobac?evskij, un giovane matematico ungherese, János Bolyai (1802-1860), formulò una geometria simile negli anni Venti.[9] Figura 41 Traboccante di giovanile entusiasmo, nel 1823 Bolyai scrisse a suo padre (il matematico Farkas Bolyai; figura 43): «Ho scoperto cose così magnifiche che ne sono rimasto sbalordito [...]. Ho creato un altro, nuovo universo dal nulla». Nel 1825 János era già pronto a sottoporre al vecchio Bolyai il primo abbozzo della sua nuova geometria. Il manoscritto era intitolato Appendix scientiam spatii absolute veram exhibens.[10] A dispetto dell’esuberanza di János, il padre non era del tutto convinto della fondatezza delle sue idee. Decise tuttavia di pubblicare la nuova geometria in appendice al proprio trattato in due volumi sulle basi della geometria, dell’algebra e dell’analisi matematica (il cui titolo invitante, almeno nelle intenzioni dell’autore, era Ientamen Juventutem studiosam in elementa Matheseos purae). Nel giugno del 1831 Farkas spedì una copia del libro al suo amico Carl Friedrich Gauss (1777-1855; figura 44), che non era solo il più famoso matematico dell’epoca, ma è anche considerato da molti, insieme ad Archimede e Newton, uno dei tre più grandi di ogni tempo. Il libro andò perduto nel caos provocato da un’epidemia di colera, e Farkas dovette spedirne un’altra copia. Gauss inviò una risposta il 6 marzo 1832, e i suoi commenti non corrispondevano esattamente a ciò che il giovane János si aspettava: Se cominciassi dicendo che non posso lodare questo lavoro, rimarreste certamente sorpreso per un istante. Ma non posso fare altrimenti. Lodarlo, significherebbe lodare me stesso. Il fatto è che l’intero suo contenuto, il percorso seguito da vostro figlio e i risultati a cui quel percorso l’ha condotto, coincidono quasi completamente con le mie meditazioni, che hanno tenuto in parte impegnata la mia mente

negli ultimi trenta o trentacinque anni. Perciò sono rimasto piuttosto stupefatto. Per quanto riguarda il mio lavoro, di cui finora ho affidato poco alla carta, non era mia intenzione farlo pubblicare nel corso della mia vita. Figura 42 A quanto pare – noto per inciso – Gauss temeva che quella geometria radicalmente inedita sarebbe stata considerata dai filosofi kantiani, che egli chiamava «beoti» (l’epiteto usato dagli antichi greci come sinonimo di «stupidi»), un’eresia filosofica. Nella lettera Gauss proseguiva: Figura 43 Figura 44 D’altra parte, era mia intenzione mettere per iscritto tutto questo più avanti, di modo che non scomparisse insieme a me. È dunque per me una piacevole sorpresa che mi sia stata risparmiata questa fatica, e mi allieta molto il fatto che sia il figlio di un mio vecchio amico a precedermi in modo tanto notevole. Le lodi di Gauss furono accolte con grande soddisfazione da Farkas, che le giudicò «molto gentili», ma János ne fu devastato. Per quasi un decennio si rifiutò di credere che la pretesa di priorità avanzata da Gauss non fosse falsa, e persino i rapporti con suo padre (che egli sospettava di aver comunicato prematuramente i risultati a Gauss) subirono una forte tensione. Quando alla fine si rese conto che Gauss aveva effettivamente cominciato a lavorare sul problema già nel 1799, János rimase profondamente amareggiato, e gli studi matematici che compì in seguito (alla sua morte lasciò qualcosa come ventimila pagine manoscritte) risultarono molto più opachi al confronto. In realtà ci sono pochi dubbi sul fatto che Gauss avesse riflettuto molto sulla geometria non euclidea.[11] In un’annotazione del suo diario del settembre 1799, scrisse: «In principiis geometriae egregios progressus fecimus» (Sui princìpi della geometria abbiamo fatto ottimi progressi). Poi, nel 1813, scrisse: «Nella teoria delle rette parallele oggi non siamo più avanti di quanto fosse Euclide. Questa è la partie honteuse [la vergogna] della matematica, che presto o tardi dovrà prendere una forma molto diversa». Qualche anno dopo, in una lettera datata 28 aprile 1817, Gauss affermava: «Sto convincendomi sempre più che la nostra geometria [euclidea] non può essere dimostrata». Infine, in contrasto con le concezioni di Kant, Gauss concludeva che la

geometria euclidea non poteva essere considerata una verità universale e che al contrario «non si dovrebbe collocare la geometria [euclidea] sullo stesso piano dell’aritmetica, che si regge a priori, quanto approssimativamente su quello della meccanica». Risultati simili furono raggiunti in maniera indipendente da Ferdinand Schweikart (1780-1859), docente di Giurisprudenza che, tra il 1818 e il 1819, mise al corrente Gauss del proprio lavoro. Ma poiché né Gauss né Schweikart pubblicarono i risultati dei propri sforzi, la priorità della pubblicazione sull’argomento viene tradizionalmente attribuita a Lobac?evskij e a Bolyai, anche se non possono essere assolutamente considerati gli unici «creatori» della geometria non euclidea. La geometria iperbolica piombò nel mondo della matematica come un fulmine a ciel sereno, assestando un colpo tremendo alla convinzione che la geometria euclidea fosse l’unica, infallibile descrizione dello spazio. Prima del lavoro di Gauss-Lobac?evskijBolyai, la geometria euclidea era, a tutti gli effetti, il mondo naturale. Il fatto che fosse possibile selezionare un diverso insieme di assiomi e costruire un diverso tipo di geometria sollevò per la prima volta il sospetto che la matematica fosse un’invenzione dell’uomo e non la scoperta di verità che esistono indipendentemente dalla mente umana. Allo stesso tempo, l’improvviso venir meno di un collegamento immediato tra geometria euclidea e spazio fisico reale mise allo scoperto quelle che apparivano come lacune fatali nell’idea che la matematica fosse il linguaggio dell’universo. Figura 45 Lo status privilegiato della geometria euclidea subì un altro colpo quando uno degli studenti di Gauss, Bernhard Riemann (1826-1866), dimostrò che la geometria iperbolica non era l’unica geometria non euclidea possibile. In una brillante lezione tenuta a Gottinga il 10 giugno 1854 (la figura 45 riproduce la prima pagina del testo della lezione), Riemann presentò le sue opinioni Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria.[12] Esordì affermando che «la geometria presuppone, come qualcosa di dato, sia il concetto di spazio, sia i primi concetti fondamentali per le costruzioni nello spazio. Di essi dà soltanto definizioni nominali, mentre le determinazioni essenziali compaiono sotto forma di assiomi». Tuttavia, osservava Riemann, «Il rapporto tra questi postulati rimane nell’oscurità; non si vede se e in che modo la loro connessione sia necessaria, né, a priori, se sia possibile». Tra le

teorie geometriche, Riemann esaminò la «geometria ellittica», ovvero quella in cui ci si imbatterebbe sulla superficie di una sfera (figura 41c). Notate che in questa geometria la distanza più breve tra due punti non è una linea retta, ma il segmento di un circolo massimo il cui centro coincide con quello della sfera. Le compagnie aeree sfruttano questo fenomeno a proprio vantaggio: i voli tra Stati Uniti ed Europa non seguono quella che su una mappa apparirebbe come una rotta rettilinea, ma un circolo massimo che all’inizio li conduce verso nord. Potete verificare facilmente che due circoli massimi si incontrano sempre in due punti diametralmente opposti. Per esempio due meridiani terrestri, che all’equatore appaiono paralleli, si incontrano ai poli. Di conseguenza, a differenza della geometria euclidea, dove c’è esattamente una parallela che passa per un punto esterno a una retta data, e della geometria iperbolica, dove tali parallele sono almeno due, non esistono parallele nella geometria ellittica su una sfera. Riemann portò i concetti non euclidei un passo più avanti, introducendo geometrie in spazi curvi di tre, quattro e più dimensioni. Uno dei concetti fondamentali sviluppati da Riemann fu quello di «curvatura», la misura del grado di incurvamento di una linea o di una superficie. Per esempio, la superficie di un guscio d’uovo ha una curvatura inferiore intorno al suo perimetro che non lungo una linea che passa per una delle sue estremità appuntite. Riemann diede una definizione matematica esatta della curvatura in spazi con un numero qualsiasi di dimensioni. In tal modo, consolidò quel legame tra algebra e geometria che era stato sancito da Cartesio. Nell’opera di Riemann le equazioni con un numero qualsiasi di variabili trovavano i propri equivalenti geometrici, e i nuovi concetti di geometrie superiori finivano associati a equazioni. La supremazia della geometria euclidea non fu l’unica vittima dei nuovi orizzonti che il XIX secolo aprì alla geometria. L’idea kantiana di spazio non perdurò a lungo. Kant sosteneva, come ricorderete, che le informazioni provenienti dai nostri sensi sono organizzate esclusivamente in base a modelli euclidei prima di essere registrate nella nostra coscienza. I geometri del XIX secolo svilupparono rapidamente un’intuizione delle geometrie non euclidee e impararono a percepire il mondo su quella falsariga. La percezione euclidea dello spazio si rivelò, in fin dei conti, appresa e non intuitiva. Tutti questi sviluppi condussero il grande matematico francese Henri Poincaré

(1854-1912) a concludere che gli assiomi della geometria non sono «né giudizi sintetici a priori né fatti sperimentali. Sono delle convenzioni [il corsivo è mio]: la nostra scelta, fra tutte le convenzioni possibili, è guidata da fatti sperimentali, ma resta libera». In altre parole, Poincaré riteneva che gli assiomi fossero soltanto «definizioni mascherate».[13] Le idee di Poincaré non si ispiravano solo alle geometrie non euclidee descritte fin qui, ma anche alla proliferazione di altre geometrie inedite, geometrie che prima della fine dell’Ottocento sembravano quasi sfuggire al controllo. Nella «geometria proiettiva» (come quella che si ottiene quando si proietta su uno schermo l’immagine di una pellicola di celluloide), per esempio, era possibile scambiare letteralmente i ruoli dei punti e delle linee, cosicché i teoremi su punti e linee (nell’ordine) diventavano teoremi su linee e punti. E nella «geometria differenziale» i matematici si servivano del calcolo infinitesimale per studiare le proprietà geometriche locali di vari spazi matematici, come le superfici di una sfera o di un toro. Queste e altre geometrie sembravano, almeno a prima vista, ingegnose invenzioni di menti matematiche creative piuttosto che descrizioni accurate dello spazio fisico. Come era dunque possibile difendere ancora l’idea secondo cui Dio era un matematico? Dopotutto, se «Dio geometrizza sempre» (una frase che lo storico Plutarco attribuiva a Platone), qual è tra tutte queste geometrie quella praticata dal divino? La rapidità con cui cresceva la consapevolezza dei limiti della geometria euclidea classica costrinse i matematici a riconsiderare seriamente le fondamenta della matematica in generale e il rapporto tra matematica e logica in particolare. Torneremo su questo argomento nel Capitolo 7. Qui permettetemi di osservare soltanto che era l’idea stessa della coerenza interna degli assiomi a essere ridotta in frammenti. Di conseguenza, se il XIX secolo fu testimone di altri sviluppi significativi nei campi dell’algebra e dell’analisi, fu probabilmente la rivoluzione della geometria ad avere gli effetti più importanti sulle concezioni della natura della matematica. Spazio, numeri e uomini Prima che i matematici potessero rivolgere l’attenzione al tema sovrastante delle fondamenta della matematica, tuttavia, c’erano alcune questioni «minori» che richiedevano un’attenzione immediata. Primo, il fatto che le geometrie non euclidee fossero state formulate e pubblicate non significava necessariamente che fossero figlie legittime della

matematica. Rimaneva l’onnipresente timore dell’incoerenza, la possibilità che indurre queste geometrie alle loro conseguenze logiche estreme avrebbe prodotto contraddizioni irrimediabili. Negli anni Settanta dell’Ottocento, l’italiano Eugenio Beltrami (1836-1900) e il tedesco Felix Klein (1849-1925) dimostrarono che se era coerente la geometria euclidea, allora lo erano anche le geometrie non euclidee. Rimaneva aperta la questione della solidità su cui poggiavano le fondamenta della geometria euclidea. Quasi tutti i matematici dell’epoca consideravano le nuove geometrie, nella migliore delle ipotesi, amene curiosità. Mentre la geometria euclidea traeva molta della sua storica autorevolezza dal fatto di essere considerata la descrizione dello spazio reale, le geometrie non euclidee inizialmente erano state percepite come prive di rapporti di qualsiasi genere con il mondo fisico. Di conseguenza, erano considerate da molti matematici come le cugine povere della geometria euclidea. Henri Poincaré era un po’ più accomodante della maggioranza, ma sosteneva anch’egli che se gli uomini fossero stati trasportati in un mondo in cui la geometria invalsa era non euclidea, avrebbe avuto ancora la certezza «che non troveremmo più conveniente fare un cambiamento» passando dalla geometria euclidea a quella non euclidea. C’erano dunque due domande che si profilavano minacciose: 1) Era possibile basare la geometria (in particolare) e altre branche della matematica (in generale) su solide fondamenta logiche assiomatiche?, e 2) Quale rapporto c’era, ammesso che ce ne fosse uno, tra la matematica e la realtà fisica? Alcuni matematici adottarono un atteggiamento pragmatico nei confronti di una convalida delle basi della geometria. Delusi dal fatto di aver scoperto che quelle che avevano considerato verità assolute si erano rivelate più basate sull’esperienza che rigorose, rivolsero la loro attenzione all’aritmetica, la matematica dei numeri. La geometria analitica di Cartesio, in cui i punti del piano venivano identificati con coppie ordinate di numeri, i cerchi con tutte le coppie di numeri che soddisfacevano una determinata equazione (si veda il Capitolo 4) e così via, forniva proprio gli strumenti atti a ricostruire le fondamenta della geometria partendo dai numeri. È presumibile che il matematico tedesco Jacob Jacobi (1804-1851) intendesse esprimere questo cambio di orientamento quando sostituì al «Dio geometrizza sempre» di Platone un proprio motto: «Dio aritmetizza sempre». In un certo senso, tuttavia, questi tentativi si limitavano a trasferire il problema in un altro

campo della matematica. Se è vero che il grande matematico tedesco David Hilbert (1862-1943) riuscì a dimostrare che la geometria euclidea era coerente nell’ordine in cui lo era anche l’aritmetica, la coerenza di quest’ultima disciplina era ancora lungi dall’essere accertata in modo inequivocabile. Si percepiva in un modo del tutto nuovo il rapporto tra matematica e mondo fisico. Per molti secoli, l’interpretazione della matematica come lettura del cosmo aveva subìto progressi spettacolari e continui. La matematizzazione delle scienze da parte di Galileo, Cartesio, Newton, i Bernoulli, Pascal, Lagrange, Quételet e altri ancora veniva addotta come prova schiacciante dell’esistenza in natura di un progetto matematico sottostante. Se la matematica non era il linguaggio della natura – si poteva evidentemente argomentare – allora perché riusciva a spiegare così bene fenomeni che spaziavano dalle leggi fondamentali della natura ai tratti umani? A onor del vero i matematici erano ben consapevoli del fatto che la matematica aveva a che fare soltanto con forme platoniche piuttosto astratte, ma tali forme erano considerate ragionevoli idealizzazioni di entità fisiche reali. In effetti, la sensazione che il libro della natura fosse scritto nel linguaggio della matematica era così profondamente radicata che molti matematici si rifiutavano nel modo più assoluto di prendere anche solo in considerazione concetti e strutture matematiche che non fossero direttamente legati al mondo fisico. Era il caso, per esempio, della pittoresca figura di Girolamo Cardano (1501-1576). Cardano era un matematico provetto, un noto medico e un giocatore compulsivo. Nel 1545 pubblicò una delle opere più influenti della storia dell’algebra, l’Ars magna. In questo trattato generale Cardano analizzava nel dettaglio le soluzioni delle equazioni algebriche, dalla semplice equazione quadrata (in cui l’incognita compare elevata al quadrato: x2), ai risultati mai raggiunti prima delle equazioni cubiche (in cui compare x3) e quartiche (in cui compare x4). Nella matematica classica, tuttavia, le quantità venivano spesso interpretate come elementi geometrici. Per esempio, il valore dell’incognita x era vista come un segmento di retta di quella lunghezza, la sua seconda potenza x2 come un’area, e la sua terza potenza x3 come un solido di volume corrispondente. Di conseguenza, nel primo capitolo dell’Ars magna Cardano spiega:

Concluderemo il nostro dettagliato esame con la cubica, mentre le altre [equazioni] saranno citate, ancorché in generale, solo di passaggio. Infatti, poiché la posizione [la prima potenza] si riferisce a una linea, il quadrato a una superficie e il cubo a un corpo solido, sarebbe follia andare oltre questo punto. La natura non lo permette. Perciò, come si vedrà, verranno dimostrati completamente tutti i casi fino alla cubica compresa, ma gli altri, che aggiungeremo o per necessità o per curiosità, ci limiteremo giusto a presentarli.[14] Secondo Cardano, in altre parole, poiché il mondo fisico come lo percepiamo attraverso i sensi prevede solo tre dimensioni, sarebbe sciocco che i matematici si interessassero a studiare un numero maggiore di dimensioni, o a equazioni di grado più elevato. Un’opinione simile fu espressa dal matematico inglese John Wallis (1616-1703) dalla cui opera Arithmetica infinitorum Newton apprese i metodi dell’analisi. In un altro volume degno di nota importante, Trattato di Algebra, Wallis prima proclamava: «La natura, propriamente parlando, non ammette più di tre dimensioni (locali)».[15] Poi sviluppava il concetto: Una Linea aggiunta a una Linea produrrà un Piano o una Superficie; questo, aggiunto a una Linea, produrrà un Solido. Ma se questo Solido è aggiunto a una Linea, o questo Piano a un Piano, che cosa produrrà? Un Piano-Piano? Si tratta di un Mostro della Natura, più impossibile di una Chimera [un essere mostruoso della mitologia greca che alita fuoco ed è composto da un serpente, un leone e una capra] o di un Centauro [nella mitologia greca, una creatura che ha la parte superiore del corpo di un uomo e il tronco e le zampe di un cavallo]. Infatti la Lunghezza, la Larghezza e lo Spessore occupano lo Spazio nella sua interezza. Né la nostra fantasia può immaginare come dovrebbe essere una Quarta Dimensione Locale oltre queste Tre. La logica seguita da Wallis è chiara: non aveva alcun senso anche solo immaginare una geometria che non descrivesse lo spazio reale. Ma alla fine questa visione cominciò a cambiare.[16] I matematici del XVIII secolo furono i primi a considerare il tempo come una potenziale quarta dimensione. In un articolo intitolato Dimensione,[17] pubblicato nel 1754, il fisico Jean D’Alembert (1717-1783) scrisse: Più sopra ho affermato che è impossibile concepire più di tre dimensioni. Un uomo d’ingegno di mia conoscenza sostiene però che si potrebbe guardare alla durata come a una quarta dimensione, e che il

prodotto del tempo e della solidità è in un certo modo un prodotto di quattro dimensioni. Forse quest’idea può essere contestata ma a me sembra che abbia qualche pregio oltre la mera novità. Nel 1797 l’eminente matematico Joseph Lagrange si spinse un passo più in là affermando con maggior risolutezza che: Poiché la posizione di un punto nello spazio dipende da tre coordinate rettangolari, nei problemi di meccanica queste coordinate sono concepite come funzioni di t [il tempo]. Perciò potremmo considerare la meccanica come una geometria in quattro dimensioni, e l’analisi meccanica come un’estensione dell’analisi geometrica.[18] Queste idee ardite aprirono nuove strade nella matematica che in precedenza erano inconcepibili: geometrie in un qualsiasi numero di dimensioni che ignoravano totalmente la questione di un qualsivoglia rapporto con lo spazio fisico. Può anche darsi che Kant fosse in torto quando credeva che nella percezione dello spazio i nostri sensi seguono esclusivamente calchi euclidei, ma non ci sono dubbi sul fatto che le nostre capacità percettive funzionino nel modo più naturale e intuitivo in un numero di dimensioni non superiore a tre. Riusciamo a immaginare con relativa facilità quale aspetto avrebbe il nostro mondo tridimensionale nell’universo di ombre di Platone, ma andare oltre le tre dimensioni richiede davvero l’immaginazione che si può ritrovare solo in un matematico. Parte dell’innovativa opera di elaborazione della «geometria ndimensionale» – la geometria in un numero arbitrario di dimensioni – fu compiuta da Hermann Günther Grassmann (1809-1877).[19] Grassmann, terzo di dodici figli ed egli stesso padre di undici, era un insegnante che non ebbe mai una formazione matematica universitaria. Nel corso della sua vita ricevette maggiori riconoscimenti per il lavoro svolto nel campo della linguistica (in particolare per gli studi sul sanscrito e il gotico) che per i risultati ottenuti in quello della matematica. Uno dei suoi biografi ha scritto: «Sembra che il destino di Grassmann sia quello di essere riscoperto di tanto in tanto, ogni volta come se fosse stato dimenticato dopo la morte». Eppure a Grassmann si deve la creazione della scienza astratta degli «spazi» al cui interno la geometria convenzionale rappresentava solo un caso particolare. Grassmann pubblicò le sue idee pionieristiche (dando origine alla branca della matematica che prende il nome di «algebra lineare») nel

1844, in un libro noto generalmente con il titolo di Ausdehnungslehre (Teoria dell’estensione; il titolo completo recita Teoria dell’estensione lineare: un nuovo ramo della matematica). Nella prefazione, Grassmann scrisse: La geometria non può in alcun modo essere considerata [...] una branca della matematica; la geometria riguarda invece qualcosa che è già dato in natura, ovverosia lo spazio. Mi ero inoltre reso conto del fatto che deve esserci una branca della matematica che produce in modo puramente astratto leggi simili a quelle della geometria. Era una concezione radicalmente nuova della natura della matematica. Per Grassmann la geometria tradizionale – eredità degli antichi greci – riguarda lo spazio fisico e pertanto non può essere considerata una vera branca della matematica astratta. Per lui la matematica era infatti una creazione astratta della mente umana che non necessariamente ha applicazioni nel mondo reale. È affascinante seguire il filo di pensieri apparentemente banali che mise Grassmann sulla strada che l’avrebbe condotto alla sua teoria di un’algebra lineare.[20] Egli prese spunto dalla semplice formula AB + BC = AC, che compare in ogni manuale di geometria in riferimento alle lunghezze dei segmenti di retta (figura 46a). Grassmann notò però qualcosa di nuovo nella formula. Scoprì che essa resta valida indipendentemente dall’ordine di A, B e C, a condizione che non si interpretino AB, CD e AC come mere lunghezze, ma si assegni loro anche una «direzione», cosicché risulti, per esempio, BA = -AB. In tal caso, se C sta tra A e B (figura 46 b), risulterà AB = AC + CB; ma poiché CB = -BC, avremo AB = AC - BC e la formula iniziale potrà essere ripristinata semplicemente aggiungendo BC a destra e a sinistra del segno d’uguaglianza. Figura 46 Ciò era piuttosto interessante di per sé, ma l’intuizione di Grassmann conteneva altre sorprese. Notate che se fossimo nell’ambito dell’algebra invece che in quello della geometria, allora un’espressione come AB denoterebbe in genere il prodotto A ¥ B. In questo caso, la proposta di Grassmann di porre AB = -BA violerebbe una delle leggi fondamentali dell’aritmetica, ovvero che due quantità moltiplicate tra loro producono lo stesso risultato indipendentemente dall’ordine dei termini. Grassmann affrontò di petto quest’inquietante possibilità inventando una nuova algebra dotata di coerenza interna (chiamata «algebra

esterna») che consentiva di utilizzare diversi procedimenti di moltiplicazione e al contempo di manipolare la geometria in un numero qualsiasi di dimensioni. Negli anni Sessanta dell’Ottocento la geometria n-dimensionale[21] si stava diffondendo come i funghi dopo un temporale. Non solo la lezione germinale di Riemann aveva fatto degli spazi dotati di ogni curvatura e di un numero arbitrario di dimensioni un’area di studio fondamentale, ma altri matematici come Arthur Cayley e James Sylvester in Inghilterra e Ludwig Schläfli in Svizzera stavano aggiungendo i propri contributi in quel campo. Questi studiosi cominciavano a sentirsi liberi dal giogo delle restrizioni che per secoli avevano legato la matematica esclusivamente ai concetti di spazio e numero. Nel corso della storia questa relazione era stata presa così sul serio che ancora nel XVIII secolo il prolifico matematico svizzero Eulero (1707-1783) esprimeva l’opinione secondo cui «la matematica, in generale, è la scienza della quantità, ovvero la scienza che studia i metodi per misurare la quantità». Fu solo nel XIX secolo che iniziò a soffiare il vento del cambiamento. In primis, l’introduzione degli spazi geometrici astratti e del concetto di infinito (tanto nella geometria quanto nella teoria degli insiemi) aveva offuscato il significato di «quantità» e di «misurazione» al punto da renderli irriconoscibili. In secondo luogo, il rapido diffondersi degli studi sulle astrazioni matematiche contribuì ad allontanare ancora di più la matematica dalla realtà fisica, mentre, al contempo, infondeva vita ed «esistenza» a quelle stesse astrazioni. Georg Cantor (1845-1918), l’artefice della «teoria degli insiemi», descrisse questo spirito di libertà della matematica appena scoperto con la «dichiarazione d’indipendenza» seguente: «La matematica nel suo sviluppo è completamente libera ed è vincolata soltanto all’evidente condizione che i suoi concetti non siano contraddittori tra loro e siano in relazioni fissate mediante definizioni a concetti introdotti in precedenza e che sono già disponibili e certi».[22] Sei anni dopo, l’algebrista Richard Dedekind (1831-1916) aggiunse: «Considero il concetto di numero totalmente indipendente dalle nozioni e dalle intuizioni di spazio e tempo [...]. I numeri sono libere creazioni della mente umana».[23] Insomma, sia per Cantor sia per Dedekind la matematica è un’indagine astratta, concettuale, limitata solo al requisito della coerenza, senza obblighi di alcun genere nei riguardi del calcolo e

del linguaggio della realtà fisica. Per citare la sintesi di Georg Cantor, «L’essenza della matematica risiede interamente nella sua libertà». Alla fine del XIX secolo la maggior parte dei matematici condivideva le idee di Cantor e Dedekind sulla libertà della matematica. Lo scopo ultimo della matematica cambiò, passando dalla ricerca di verità relative alla natura alla costruzione di strutture astratte – sistemi di assiomi – e all’individuazione di tutte le conseguenze logiche di questi assiomi. Era lecito pensare che ciò avrebbe posto fine a tutte le tormentanti discussioni sul fatto che la matematica si scoprisse oppure si inventasse. Se la matematica non era altro che un gioco, per quanto complesso, condotto sulla base di regole inventate arbitrariamente, allora era chiaro che non aveva senso credere nella realtà dei concetti matematici. La separazione dalla realtà fisica instillò inaspettatamente in alcuni matematici il sentimento esattamente opposto. Invece di concludere che la matematica era un’invenzione umana, ritornarono all’idea platonica originaria secondo cui la matematica era un mondo di verità, la cui esistenza era reale quanto quella dell’universo fisico. I tentativi di mettere in relazione la matematica alla fisica erano considerati da questi «neoplatonici» divagazioni nel campo della matematica «applicata», a cui opponevano la matematica «pura», che ritenevano disinteressata a tutto ciò che aveva un’esistenza fisica. Ecco come il matematico francese Charles Hermite (1822-1901) esprimeva il concetto in una lettera scritta al collega olandese Thomas Joannes Stieltjes (1856-1894) il 13 maggio 1894: Mio caro amico, sono molto felice di scoprire che siete disposto a trasformarvi in un naturalista per osservare i fenomeni del mondo dell’aritmetica. La vostra dottrina è uguale alla mia: io credo che i numeri e le funzioni dell’analisi non siano prodotti arbitrari della nostra mente. Penso che esistano al di fuori di noi e che posseggano le stesse caratteristiche essenziali che posseggono le cose della realtà oggettiva, e che noi li incontriamo e li scopriamo esattamente come fanno i fisici, i medici e gli zoologi.[24] Il matematico inglese G. H. Hardy, anch’egli un praticante della matematica pura, è stato uno dei platonici moderni più schietti. In un eloquente discorso tenuto all’Associazione britannica per il progresso della scienza il 7 settembre 1922, dichiarò:

I matematici hanno realizzato un gran numero di sistemi geometrici differenti. Euclidei e non euclidei, in uno, due, tre o qualsivoglia numero di dimensioni. Tutti questi sistemi posseggono completa e uguale validità. Essi rappresentano i risultati delle osservazioni che i matematici fanno della loro realtà, una realtà molto più profonda e molto più rigida della realtà dubbia ed elusiva della fisica [...]. Il compito di un matematico, dunque, è semplicemente quello di osservare i fatti che riguardano il suo difficile e intricato sistema di realtà, quel complesso straordinariamente bello di rapporti logici che formano l’argomento della sua scienza, come se fosse un esploratore che osserva una lontana catena di montagne, e di registrare i risultati delle sue osservazioni su una serie di mappe, ciascuna delle quali è una branca della matematica pura.[25] Evidentemente i platonici più irriducibili non erano disposti a gettare le armi nemmeno di fronte a prove che indicavano la natura arbitraria della matematica. Al contrario, trovavano l’opportunità di indagare, per citare le parole di Hardy, «la loro realtà» ancora più eccitante che continuare a esplorare i legami con la realtà fisica. Tuttavia, a prescindere dalle opinioni sulla realtà metafisica della matematica, una cosa stava diventando evidente. Per quanto fosse in apparenza libera da ogni briglia, la matematica rimaneva soggetta a una limitazione immutata e irremovibile: quella della coerenza logica. I matematici e i filosofi stavano prendendo più che mai coscienza dell’impossibilità di tagliare il cordone ombelicale che legava matematica e logica. A questo seguì un’altra idea: era possibile edificare l’intera matematica su un’unica base logica? E se sì, era questo il segreto della sua efficacia? Oppure, viceversa, era possibile adottare i metodi della matematica per lo studio del ragionamento in generale? In tal caso, la matematica sarebbe diventata non solo il linguaggio della natura ma anche il linguaggio del pensiero umano. _0050_testo 7 Logici: riflettere sul ragionamento In un villaggio, sull’insegna fuori da un negozio di barbiere c’è scritto: «Rado tutti (e soltanto) gli uomini del villaggio che non si radono da soli».[1] Sembra perfettamente sensato, vero? È chiaro che

gli uomini che si radono da soli non hanno bisogno dei servigi del barbiere, ed è naturale che quest’ultimo faccia la barba a tutti gli altri. Ma provate a domandarvi: chi rade il barbiere? Se si rade da sé, allora, in base alla scritta sull’insegna, dovrebbe essere tra quelli a cui non fa la barba. D’altro canto, se non si rade da solo, sempre secondo l’insegna, dovrebbe essere uno di quelli a cui fa la barba! Insomma, si rade oppure no? Storicamente, quesiti assai meno intricati hanno provocato furibonde liti famigliari. Questo paradosso venne proposto da Bertrand Russell (1872-1970), uno dei più insigni logici e filosofi del XX secolo, solo per dimostrare come l’intuizione logica umana non sia infallibile. I paradossi, o «antinomie», riflettono situazioni nelle quali premesse in apparenza accettabili portano a conclusioni inaccettabili. Nell’esempio sopraccitato, il barbiere del villaggio al tempo stesso si rade e non si rade. Si può risolvere questo paradosso? Una possibile soluzione, a rigor di termini, è semplice: il barbiere è una donna! D’altra parte, se ci fosse stato detto in anticipo che il barbiere era di sesso maschile, allora l’assurda conclusione sarebbe stata in primo luogo frutto di tale premessa. In altre parole, un simile barbiere semplicemente non può esistere. Ma questo che cosa ha a che fare con la matematica? In effetti, matematica e logica risultano strettamente correlate. Ecco come Russell in persona descrisse questo legame: La matematica e la logica, storicamente parlando, sono state due discipline interamente distinte. La matematica viene di solito idealmente collegata con la scienza, la logica con i greci. Ma entrambe si sono sviluppate nell’epoca moderna: la logica è diventata più matematica e la matematica è divenuta più logica. La conseguenza è che adesso [nel 1919] è assolutamente impossibile tirare una linea tra le due, perché sono una cosa sola. Differiscono come il ragazzo e l’uomo: la logica è la gioventù della matematica, e la matematica è la maturità della logica.[2] Russell sostiene che, per lo più, la matematica è riducibile alla logica. Quindi, i concetti basilari della matematica, persino i numeri, di fatto possono essere definiti nei termini delle leggi fondamentali del ragionamento. Inoltre, Russell in seguito avrebbe asserito che è possibile utilizzare quelle definizioni in combinazione con i princìpi logici per generare i teoremi matematici. Inizialmente, questa visione della natura della matematica (nota come «logicismo») aveva ricevuto la benedizione sia di coloro che

consideravano la matematica nient’altro che un elaborato gioco inventato dagli uomini (i «formalisti»), sia degli afflitti platonisti. I primi erano felici di vedere un cumulo di giochi apparentemente non correlati fondersi in una «madre di tutti i giochi». I secondi scorgevano invece un raggio di speranza nell’idea che l’intera matematica potesse essere scaturita da una sola e indubitabile fonte. Agli occhi dei platonisti, ciò aumentava la probabilità di un’unica origine metafisica. Inutile dirlo, una radice unica della matematica poteva anche contribuire, almeno in linea di principio, a identificare la causa delle sue potenzialità. A rigor di termini, va osservato che esisteva una scuola di pensiero – l’«intuizionismo» – che si opponeva con veemenza tanto al logicismo quanto al formalismo.[3] Il portavoce di questa scuola era Luitzen E. J. Brouwer (1881-1966), un matematico olandese alquanto fanatico, convinto che i numeri naturali derivassero da un’intuizione umana del tempo e di momenti isolati nella nostra esperienza. Secondo Brouwer, era fuor di dubbio che la matematica fosse frutto del pensiero umano, e pertanto non vedeva la necessità di leggi logiche universali del tipo proposto da Russell. Brouwer, tuttavia, si spinse anche oltre, e affermò che le uniche entità matematiche dotate di significato erano quelle che potevano essere esplicitamente costruite sulla base dei numeri naturali, usando un numero finito di passi. Di conseguenza, rifiutava a priori parti considerevoli della matematica per cui non erano possibili dimostrazioni costruttive. Un altro concetto logico negato da Brouwer era quello del «principio del terzo escluso», secondo il quale nessuna proposizione o è vera o è falsa. Riconosceva invece l’esistenza di proposizioni che si trovano in una terza condizione, una sorta di limbo in cui sono «indecidibili». Queste e altre restrizioni intuizioniste contribuirono a emarginare la scuola di pensiero. Cionondimeno, le idee intuizioniste anticiparono alcune delle scoperte dei cognitivisti circa il modo in cui gli esseri umani acquisiscono una conoscenza matematica (argomento che sarà trattato nel Capitolo 9), e inoltre influenzarono l’analisi di filosofi e matematici moderni (come per esempio Michael Dummett). L’approccio di Dummett è fondamentalmente linguistico, e asserisce con vigore che «il significato di una proposizione matematica determina ed è esaurientemente determinato dal suo uso».[4]

Ma come si è sviluppata una così stretta associazione tra matematica e logica? E il programma logicista era in qualche modo attuabile? Riesaminiamo brevemente alcune delle pietre miliari degli ultimi quattro secoli. Logica e matematica Tradizionalmente, la logica si occupava delle relazioni tra concetti e proposizioni, e dei processi con cui da tali relazioni si potevano trarre delle inferenze valide.[5] A mo’ di esempio facilmente comprensibile, inferenze come «tutte le X sono Y; alcune Z sono X; quindi alcune Z sono Y» sono costruite in modo da garantire automaticamente la verità della conclusione, posto che le premesse siano vere. Per esempio, «tutti i biografi sono degli autori; alcuni politici sono biografi; quindi alcuni politici sono autori» produce una conclusione vera. D’altro canto, le inferenze «tutte le X sono Y; alcune Z sono Y; quindi alcune Z sono X» non sono valide, poiché è possibile trovare esempi in cui, malgrado le premesse siano vere, la conclusione è falsa. Per esempio: «Tutti gli uomini sono mammiferi; alcuni animali con le corna sono mammiferi; quindi alcuni animali con le corna sono uomini». Finché certe regole vengono seguite, la validità di un argomento non dipende dai soggetti delle affermazioni. Per esempio: Il miliardario è stato assassinato o dal maggiordomo o dalla figlia; sua figlia non l’ha ucciso; quindi l’assassino è il maggiordomo produce una deduzione valida. La fondatezza di questo argomento non si basa affatto sull’opinione che abbiamo del maggiordomo o sui rapporti tra il miliardario e la figlia. Qui la validità è assicurata dal fatto che gli enunciati della formula generale «se è p o q, e non q, allora è p» danno una verità logica. Forse avrete notato che nei primi due esempi X, Y e Z svolgono un ruolo molto simile a quello delle variabili nelle equazioni matematiche: indicano il punto dove possono essere inserite le espressioni, allo stesso modo in cui i valori numerici vengono inseriti come variabili nell’algebra. In maniera analoga, la verità nell’inferenza «se p o q, e non q, allora è p» ricorda gli assiomi della geometria euclidea. Tuttavia, sono dovuti passare quasi due millenni di meditazioni sulla logica prima che i matematici prendessero seriamente in considerazione questa analogia.

Il primo ad aver tentato di combinare le due discipline della matematica e della logica in un’unica «matematica universale» fu il matematico e filosofo razionalista Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716). Di formazione giuridica, Leibniz svolse gran parte delle sue ricerche nei campi della matematica, della fisica e della filosofia. In vita, fu noto soprattutto per aver formulato indipendentemente da Newton (e quasi contemporaneamente allo scienziato inglese) le basi del calcolo infinitesimale (nonché per la successiva, aspra querelle tra i due circa la paternità della scoperta). In un saggio concepito per gran parte all’età di sedici anni, Leibniz elaborò una lingua universale del ragionamento, o «characteristica universalis», che considerava come lo strumento definitivo del pensiero. Ciò che si proponeva era di rappresentare semplici nozioni e idee per mezzo di simboli, e altre più complesse attraverso opportune combinazioni di quei segni fondamentali. Sperava così di riuscire a calcolare (letteralmente) la verità di qualunque affermazione, in qualunque disciplina scientifica, grazie a mere operazioni algebriche, profetizzando che, con il corretto calcolo logico, ogni disputa filosofica sarebbe stata risolta. Purtroppo, Leibniz non fece molta strada nello sviluppo della sua algebra della logica. Oltre al principio generale di un «alfabeto del pensiero», i suoi due principali contributi sono stati una chiara enunciazione su quando due cose si devono considerare identiche e il riconoscimento, peraltro piuttosto ovvio, che nessuna affermazione può essere al tempo stesso vera e falsa. Perciò, sebbene le sue idee fossero brillanti, passarono quasi del tutto inosservate. La logica tornò in auge nella metà del XIX secolo, e l’improvvisa ondata di interesse produsse opere importanti, da parte prima di Augustus de Morgan (1806-1871) e in seguito di George Boole (18151864), Friedrick Gottlob Frege (1848-1925) e Giuseppe Peano (18581932). De Morgan fu uno scrittore straordinariamente prolifico che pubblicò migliaia di libri e articoli sui più svariati argomenti nel campo della matematica, della storia della matematica e della filosofia.[6] La sua opera più bizzarra comprendeva un lunario (che copriva alcuni millenni) e un compendio di matematica eccentrica. Se qualcuno gli chiedeva l’età, rispondeva: «Avevo x anni nell’anno x2». Potete verificare voi stessi come l’unico numero che, elevato al quadrato, dà un numero compreso tra 1806 e 1871 (gli anni di nascita e morte di De

Morgan) sia 43. I suoi contributi più originali furono probabilmente quelli nel campo della logica, dove ampliò in modo considerevole la portata dei sillogismi aristotelici e tentò un approccio algebrico al ragionamento. De Morgan guardava alla logica con gli occhi di un algebrista e all’algebra con quelli di un logico. In uno dei suoi articoli, descrisse così la sua prospettiva visionaria: «È all’algebra che dobbiamo guardare per l’uso più consueto delle forme logiche [...] l’algebrista viveva nella più elevata atmosfera del sillogismo, l’incessante composizione di relazioni, prima che si ammettesse che tale atmosfera esistesse». Uno dei maggiori apporti di De Morgan alla logica è noto come «quantificazione del predicato», un nome alquanto pomposo per ciò che si potrebbe ritenere una svista sorprendente da parte dei logici del periodo classico. Gli aristotelici si erano resi giustamente conto che partendo da premesse quali «alcune Z sono X» e «alcune Z sono Y» non era possibile giungere a nessuna conclusione necessaria circa la relazione tra X e Y. Per esempio, le frasi «alcune persone mangiano pane» e «alcune persone mangiano mele» non consentono nessuna conclusione sul rapporto tra i consumatori di pane e quelli di mele. Fino al XIX secolo, i logici presumevano che per qualunque relazione tra X e Y, affinché si abbia per forza una conclusione, il termine medio (Z) dev’essere «universale» in una delle premesse. De Morgan dimostrò come tale assunto fosse errato. Nel suo libro Formal Logic (pubblicato nel 1847), osservò che da premesse come «la maggior parte delle Z sono X» e «la maggior parte delle Z sono Y» consegue necessariamente che «alcune X sono Y». Per esempio, le frasi «la maggior parte delle persone mangia pane» e «la maggior parte delle persone mangia mele» implicano inevitabilmente che «alcune persone mangiano sia pane sia mele». De Morgan si spinse anche oltre e diede al suo nuovo sillogismo una forma quantitativa precisa. Immaginate che il numero totale di Z sia z, il numero di Z che sono anche X sia x, e il numero di Z che sono anche Y sia y. Nell’esempio summenzionato, ci potrebbero essere 100 persone in totale (z = 100), di cui 57 mangiano pane (x = 57) e 69 mangiano mele (y = 69). Dunque, notò De Morgan, devono esserci almeno (x + y - z) X che sono anche Y. Almeno 26 persone (dato che 57 + 69 - 100 = 26) mangiano sia pane sia mele. Sfortunatamente, questo ingegnoso metodo per quantificare il predicato trascinò De Morgan in una sgradevole disputa pubblica.

Infatti il filosofo scozzese William Hamilton (1788-1856) – da non confondersi con il matematico irlandese William Rowan Hamilton – lo accusò di plagio, avendo pubblicato alcuni anni prima idee abbastanza simili (benché assai meno accurate). L’attacco di Hamilton non sorprese nessuno, visto il suo generale atteggiamento verso la matematica e i matematici. Una volta ebbe a dire: «Uno studio eccessivo della matematica rende del tutto inabile la mente privandola di quelle energie intellettuali che la filosofia e la vita richiedono». La raffica di lettere che seguì l’accusa di Hamilton produsse però un risultato positivo, sebbene assolutamente involontario: avvicinò l’algebrista George Boole alla logica. Boole in seguito raccontò nell’Analisi matematica della logica: Nella primavera di quest’anno la mia attenzione fu attirata dalla disputa allora sorta fra Sir W. Hamilton e il Professor De Morgan; e fui indotto dall’interesse che ispirava a riesumare trame, ormai quasi dimenticate, di indagini precedenti. Mi pareva che, malgrado la logica possa essere esaminata con riferimento all’idea di quantità, essa fosse caratterizzata anche da un altro e più profondo sistema di relazioni. Se era legittimo osservarla dall’esterno, come una scienza che mediante il Numero si connette con le intuizioni di Spazio e Tempo, era legittimo anche osservarla dall’interno, come basata su fatti di ordine diverso che hanno la loro sede nella costituzione della mente.[7] Queste umili parole descrivono l’avvio di quello che sarebbe divenuto uno sforzo germinale nella logica simbolica. Leggi del pensiero George Boole (figura 47) nacque il 2 novembre 1815 nella città industriale di Lincoln, in Inghilterra.[8] Suo padre, John Boole, che faceva il calzolaio, nutriva un forte interesse per la matematica e si era specializzato nella fabbricazione di svariati strumenti ottici. La madre di Boole, Mary Ann Joyce, era domestica presso una gentildonna. Con un padre propenso a trascurare la sua attività di sostentamento, la famiglia non navigava in buone acque. George frequentò un istituto commerciale fino all’età di sette anni, poi continuò le elementari in una scuola dove ebbe come maestro un certo John Walter Reeves. Da ragazzino si interessò soprattuto al latino, che gli venne insegnato da un libraio, e al greco, che invece imparò da solo. A quattordici anni riuscì a tradurre un componimento del poeta greco Melagro (I secolo a. C.). Fiero di lui, il padre fece pubblicare la traduzione sul «Lincoln Herald»,

alla quale seguì un articolo in cui un professore locale esprimeva tutta la sua incredulità. La povertà che regnava in casa costrinse il sedicenne George Boole ad accettare un posto di assistente insegnante. Negli anni seguenti, dedicò il proprio tempo libero allo studio del francese, dell’italiano e del tedesco. La conoscenza di queste lingue moderne si dimostrò molto utile, poiché gli permise di rivolgere la sua attenzione alle grandi opere di matematici come Sylvestre Lacroix, Laplace, Lagrange, Jacobi e diversi altri. Non gli era tuttavia ancora possibile seguire regolari corsi di matematica, e continuò a studiare da autodidatta, contribuendo al tempo stesso a mantenere genitori e fratelli con il suo lavoro di insegnante. Ciononostante, il suo talento matematico non tardò a manifestarsi, e cominciò a pubblicare articoli sul «Cambridge Mathematical Journal». Figura 47 Nel 1842, Boole iniziò a intrattenere una regolare corrispondenza con De Morgan, al quale spediva i suoi saggi matematici perché li commentasse. Grazie alla sua crescente fama di matematico originale e alla forte raccomandazione di De Morgan, nel 1849 gli venne offerto il posto di professore di matematica al Queen’s College di Cork, in Irlanda, dove insegnò per il resto della sua vita. Nel 1855, Boole sposò Mary Everest (dal cui zio, il topografo George Everest, prende il nome la montagna più alta del globo), di diciassette anni più giovane, con la quale ebbe cinque figlie femmine. Boole scomparve prematuramente all’età di quarantanove anni. In una fredda giornata invernale del 1864, arrivò bagnato fradicio al college, ma insistette per tenere le sue lezioni sebbene avesse gli abiti zuppi. Tornato a casa, la moglie probabilmente peggiorò le sue condizioni versando dei secchi d’acqua sul letto, secondo la credenza popolare che la cura deve in qualche modo replicare la causa della malattia. Boole contrasse una polmonite e morì l’8 dicembre 1864. Bertrand Russell non faceva mistero della sua ammirazione per questo autodidatta: «È pura matematica quella scoperta da Boole, in un’opera che ha chiamato Le leggi del pensiero (1854) [...]. Il suo libro era difatti attinente alla logica formale, che è la stessa cosa della matematica». Fatto degno di nota per l’epoca, sia Mary Boole (1832-1916) sia le cinque figlie raggiunsero una considerevole fama in campi che andavano dalla pedagogia alla chimica.

Boole diede alle stampe L’analisi matematica della logica nel 1847 e Le leggi del pensiero nel 1854 (il cui titolo completo è Indagine sulle leggi del pensiero, su cui sono fondate le teorie matematiche della logica e della probabilità). Si trattava di veri e propri capolavori, i primi a far compiere un enorme passo avanti al parallelismo tra operazioni logiche e aritmetiche. Boole trasformò letteralmente la logica in un tipo di algebra (che prese il nome di «algebra booleana») ed estese l’analisi della logica persino al ragionamento probabilistico. Così scrisse al riguardo: Lo scopo del seguente trattato [Le leggi del pensiero] è indagare le leggi fondamentali di quelle operazioni della mente tramite cui si effettua il ragionamento; dar loro espressione nel linguaggio simbolico di un Calcolo e, su questi fondamenti, stabilire la scienza della Logica e costruire il suo metodo; fare di questo stesso metodo la base di un metodo generale per l’applicazione della teoria matematica delle Probabilità; e infine trarre dai vari elementi di verità portati alla luce nel corso di questa indagine qualche indicazione attendibile circa la natura e la costituzione della mente umana.[9] Il calcolo di Boole poteva essere interpretato sia in riferimento alle relazioni tra le classi (collezioni di oggetti o membri) sia nell’ambito della logica delle proposizioni. Per esempio, se x e y fossero delle classi, allora una relazione come x = y significherebbe che le due classi hanno esattamente gli stessi membri, anche se le classi sono state definite in modo diverso. Quindi, se tutti gli alunni di una certa scuola sono alti meno di due metri, le due classi definite come x = «tutti gli alunni della scuola» e y = «tutti gli alunni alti meno di due metri» sono uguali. Se x e y rappresentano delle proposizioni, allora x = y significa che le due proposizioni sono equivalenti (cioè che una è vera se e solo se è vera anche l’altra). Per esempio, le proposizioni x = «John Barrymore era il fratello di Ethel Barrymore» e y = «Ethel Barrymore era la sorella di John Barrymore» sono uguali. Il simbolo «x . y» rappresenta la parte comune delle due classi x e y (quei membri che appartengono sia a x sia a y), o la «congiunzione» delle proposizioni x e y (cioè x e y). Se x è la classe di tutti gli scemi del villaggio e y la classe di tutti quelli con i capelli neri, allora x . y è la classe di tutti gli scemi del villaggio dai capelli neri. Per le proposizioni x e y, la congiunzione x . y (o il termine «e») significa che entrambe le proposizioni devono essere valide. Per fare un esempio, quando per

ottenere la patente si richiede di superare un esame di teoria e un esame di guida, ciò vuol dire che ambedue i requisiti vanno soddisfatti. Secondo Boole, per due classi che non hanno membri in comune, il simbolo «x + y» rappresenta la classe composta tanto dai membri di x quanto dai membri di y. Nel caso delle proposizioni «x + y» corrisponde a «x oppure y ma non entrambe». Per esempio, se x è la proposizione «i pioli sono quadrati» e y è «i pioli sono rotondi», allora x + y è «i pioli sono o quadrati o rotondi». Analogamente, «x - y» rappresenta la classe di quei membri di x che non sono membri di y, o la proposizione «x ma non y». Boole indica la classe universale (che contiene tutti i possibili membri in questione) con 1, e la classe vuota o nulla (che non ha alcun membro) con 0. Occorre notare che la classe (o insieme) nulla non è esattamente la stessa cosa del numero 0; quest’ultimo è soltanto il numero di membri nella classe nulla. Va altresì osservato che la classe nulla non è lo stesso che niente, poiché una classe che non contiene niente rimane pur sempre una classe. Per esempio, se in Albania tutti i giornali fossero scritti in albanese, allora la classe di tutti i giornali in lingua albanese dell’Albania sarebbe indicata con 1 nella notazione booleana, mentre la classe di tutti i giornali in lingua spagnola dell’Albania verrebbe indicata con 0. Quanto alle proposizioni, 1 rappresenta la proposizione standard vera (gli esseri umani sono mortali) e 0 quella falsa (gli esseri umani sono immortali). Servendosi di queste convenzioni, Boole fu in grado di formulare una serie di assiomi che definivano un’algebra della logica. Per esempio potete verificare che, servendovi delle suddette definizioni, la proposizione (evidentemente vera) «ogni cosa è x oppure non x» potrebbe essere scritta nell’algebra booleana come x + (1 – x) = 1, che è valida anche nell’algebra ordinaria. Allo stesso modo, l’affermazione che la parte comune tra qualunque classe e la classe vuota è rappresentata con 0 . x = 0, che significa inoltre che la congiunzione di qualsiasi proposizione con una proposizione falsa è falsa. Per esempio, la congiunzione «lo zucchero è dolce e gli esseri umani sono immortali» produce una proposizione falsa malgrado la prima parte sia vera. Si noti di nuovo come questa «uguaglianza» sia valida anche con i normali numeri algebrici. Per dimostrare l’efficacia dei suoi metodi, Boole tentò di utilizzare i suoi simboli logici per qualunque cosa reputasse importante, arrivando

persino ad analizzare le argomentazioni dei filosofi Samuel Clarke e Baruch Spinoza a favore dell’esistenza e degli attributi di Dio. La sua conclusione, tuttavia, fu piuttosto pessimistica: «Non è possibile, credo, terminare un accurato esame degli argomenti di Clarke e Spinoza senza un profondo convincimento della futilità di tutti gli sforzi per stabilire, esclusivamente a priori, l’esistenza di un Essere Infinito, i Suoi attributi, e la Sua relazione con l’universo». Nonostante la fondatezza della conclusione di Boole, a quanto pare non tutti erano convinti della futilità di tali sforzi, poiché versioni aggiornate degli argomenti ontologici per provare l’esistenza di Dio continuano a fiorire anche ai nostri giorni.[10] Nel complesso, Boole riuscì comunque ad «addomesticare» matematicamente i «connettivi» (od operatori) logici e, o, se... allora, e non, che oggi sono alla base del funzionamento del computer e della commutazione di circuiti. Di conseguenza, è considerato uno dei «profeti» che anticiparono l’avvento dell’era digitale. Tuttavia, a causa della sua natura pionieristica, l’algebra booleana non era perfetta. Innanzitutto, gli scritti di Boole erano e rimangono piuttosto ambigui e difficili da comprendere, avendo adottato una notazione troppo simile a quello dell’algebra comune. In secondo luogo, confuse la distinzione tra proposizioni («Aristotele è mortale»), funzioni proposizionali o predicati («x è mortale»), ed enunciati quantificati («per ogni x, x è mortale»). In conclusione, Frege e Russell in seguito avrebbero sostenuto che l’algebra deriva dalla logica. Si potrebbe dunque asserire che aveva più senso costruire l’algebra sulla base della logica, e non viceversa. Tuttavia, un altro aspetto del lavoro di Boole si sarebbe presto rivelato assai fruttuoso, cioè la consapevolezza di quanto la logica e il concetto di «classi» o «insiemi» fossero strettamente correlati. È importante tener presente che l’algebra booleana si applicava altrettanto bene alle classi e alle proposizioni logiche. In effetti, quando tutti i membri di un insieme X sono anche membri dell’insieme Y (X è un «sottoinsieme» di Y), questo fenomeno può essere definito come un’«implicazione logica» della forma «se X allora Y». Per esempio, il fatto che l’insieme di tutti i cavalli sia un sottoinsieme dell’insieme di tutti i quadrupedi può essere riscritto come l’affermazione logica «se X è un cavallo allora è un quadrupede».

L’algebra della logica di Boole venne successivamente ampliata e migliorata da numerosi ricercatori, ma colui che seppe sfruttare appieno la similarità tra insiemi e logica, portando l’intero concetto a un livello del tutto nuovo, fu Gottlob Frege (figura 48). Figura 48 Friedrich Ludwig Gottlob Frege nacque a Wismar, in Germania, dove entrambi i suoi genitori furono, in periodi diversi, presidi di una scuola superiore femminile. Studiò matematica, fisica, chimica e filosofia, dapprima all’Università di Jena e poi, per altri due anni, all’Università di Gottinga. Dopo aver completato gli studi, nel 1874 iniziò a tenere dei corsi a Jena, dove insegnò matematica per tutta la sua carriera professionale. Malgrado il pesante fardello dell’insegnamento, nel 1879 riuscì a dare alle stampe la sua prima, rivoluzionaria opera sulla logica.[11] La pubblicazione aveva come titolo Begriffsschrift; eine der arithmetischen nachgebildete Formelsprache des reines Denkens (Ideografia, un linguaggio in formule del pensiero puro, a imitazione di quello aritmetico). In questo volume, Frege sviluppò un originale linguaggio logico, che in seguito ampliò nei due volumi di Grundgesetze der Arithmetik (Principi dell’aritmetica). Il suo progetto nel campo della logica era da un lato estremamente focalizzato, ma dall’altro straordinariamente ambizioso. Pur concentrandosi principalmente sull’aritmetica, Frege intendeva dimostrare che persino concetti estremamente familiari come i numeri naturali, 1, 2, 3..., potevano essere ridotti a costrutti logici. Sosteneva quindi che si potessero provare tutte le verità dell’aritmetica partendo da alcuni assiomi della logica. In altre parole, secondo lui, anche affermazioni come 1 + 1 = 2 non erano verità «empiriche», basate sull’osservazione, bensì potevano essere derivate da una serie di assiomi logici. Il Begriffsschrift di Frege esercitò una tale influenza che il logico contemporaneo Willard Van Orman Quine (1908-2000) una volta scrisse: «La logica è un vecchio argomento, che dopo il 1879 è diventato importante». Centrale nella filosofia di Frege era l’asserzione che la verità è indipendente dal giudizio umano. Nei Grundgesetze scrive: «L’esser vero è differente dall’esser ritenuto vero, da uno, da molti o da tutti, e in nessun caso va ridotto a questo. Non c’è contraddizione nell’esser certo di qualcosa che chiunque ritiene falso. Per “leggi logiche” io non intendo le leggi psicologiche del ritener vero, ma le leggi dell’esser

vero [...]. Esse sono pietre di confine posate su fondamenta eterne, che il nostro pensiero può sommergere, ma non smuovere».[12] Gli assiomi logici di Frege in genere assumono la forma «per tutti... se... allora...».[13] Per esempio, uno degli assiomi recita: «Per tutte le p, se non-(non-p) allora p». Questo assioma in sostanza afferma che se una proposizione che è contraddittoria rispetto a quella in discussione è falsa, allora la proposizione è vera. Per esempio, se non è vero che non dovete fermarvi a uno stop, allora dovete di certo fermarvi a uno stop. Al fine di sviluppare realmente un «linguaggio» logico, Frege integrò la serie di assiomi con un nuovo, importante aspetto. Sostituì il tradizionale stile soggetto/predicato della logica classica con concetti presi a prestito dalla teoria matematica delle funzioni. La cosa necessita di una breve spiegazione. Quando in matematica si scrivono espressioni come f(x) = 3x + 1, questo sta a significare che f è una funzione della variabile x e che il valore della funzione può essere ottenuto moltiplicando il valore della variabile per tre e poi aggiungendo uno. Frege definì ciò che chiamava «concetti» come funzioni. Supponiamo per esempio che si voglia discutere il concetto «mangia carne». Tale concetto sarebbe denotato simbolicamente da una funzione «F(x)», e il valore di questa funzione sarebbe «vero» se x = leone, e falso se x = cervo. Analogamente, facendo riferimento ai numeri, il concetto (funzione) «essere inferiori a 7» assegnerebbe ogni numero uguale o superiore a 7 al «vero» e tutti i numeri inferiori a 7 al «falso». Frege si riferiva agli oggetti per cui un certo concetto dava un «valore di verità» come a oggetti che «cadevano sotto» quel concetto. Come già osservato in precedenza, Frege era fermamente convinto che ogni proposizione concernente i numeri naturali fosse conoscibile e derivabile unicamente da leggi e definizioni logiche. Quindi iniziò la sua esposizione del tema dei numeri naturali senza richiedere una preventiva comprensione della nozione di «numero». Nel linguaggio logico di Frege, due concetti sono «equinumerosi» (cioè hanno lo stesso numero associato a essi) se c’è una corrispondenza biunivoca tra gli oggetti che «cadono sotto» un concetto e gli oggetti che «cadono sotto» l’altro. Perciò, i coperchi dei bidoni dell’immondizia sono equinumerosi con i bidoni stessi (se ogni bidone ha un coperchio), e questa definizione non richiede alcuna menzione di numeri. Frege quindi introdusse un’ingegnosa definizione logica del numero 0. Immaginate un concetto F definito da «non identico a se stesso».

Poiché qualunque oggetto dev’essere identico a se stesso, nessun oggetto cade sotto F. In altre parole, per ogni oggetto x, F(x) = falso. Frege definì il comune numero zero come il «numero del concetto F». Poi continuò definendo tutti i numeri naturali in termini di entità «estensioni».[14] L’estensione di un concetto era la classe di tutti gli oggetti che cadono sotto quel concetto. Benché forse questa definizione non sia la più facile da assimilare per i «non logici», in realtà è piuttosto semplice. L’estensione del concetto «donna», per esempio, è la classe di tutte le donne. Notate però che l’estensione di «donna» non è in sé una donna. Magari vi chiederete come questa astratta definizione logica possa contribuire a definire, diciamo, il numero 4. Secondo Frege, il numero 4 era l’estensione (o classe) di tutti i concetti che hanno quattro oggetti che cadono sotto di essi. Pertanto, il concetto «essere una gamba di un cane particolare di nome Snoopy» appartiene a quella classe (e dunque al numero 4), così come il concetto «essere un nonno di Gottlob Frege». Il programma di Frege era davvero impressionante, ma conobbe anche qualche serio inconveniente. Da un lato, l’idea di usare i concetti – i mezzi di sussistenza del pensiero – per costruire l’aritmetica era geniale. Dall’altro, Frege non si accorse di alcune incongruenze nel suo formalismo. In particolare, uno dei suoi assiomi – noto come il «V principio» – si dimostrò tale da condurre a una contraddizione e venne di conseguenza fatalmente invalidato. Il principio affermava abbastanza innocentemente che l’estensione di un concetto F è identica all’estensione del concetto G se e solo se F e G si applicano agli stessi oggetti. Ma la bomba venne sganciata il 16 giugno del 1902, quando Bertrand Russell (figura 49) scrisse a Frege una lettera nella quale gli sottoponeva un certo paradosso che dimostrava l’incongruenza del V principio. Destino volle che la lettera arrivasse proprio mentre il secondo volume dei Grundgesetze stava per essere pubblicato. Uno scioccato Frege si affrettò ad aggiungere al manoscritto una postilla in cui ammetteva con franchezza: «Difficilmente a uno studioso può capitare qualcosa di più indesiderabile del veder cedere le fondamenta proprio quando il lavoro è terminato. Io sono stato messo in questa situazione da una lettera del signor Bertrand Russell quando l’opera era quasi pronta per andare in stampa». A Russell, ebbe la cortesia di scrivere: «La vostra scoperta

della contraddizione ha suscitato in me grande sorpresa e, direi quasi, costernazione, poiché ha scosso le basi su cui intendevo costruire l’aritmetica». Il fatto che un paradosso possa avere un effetto così devastante su un intero programma volto a creare le fondamenta della matematica potrà forse apparire sorprendente, ma come ha osservato il logico della Harvard University W.V.O. Quine: «Più di una volta nella storia la scoperta di un paradosso ha rappresentato l’occasione per un’importante ricostruzione delle basi del pensiero». Il paradosso di Russell fornì esattamente un’occasione di questo tipo. Figura 49 Il paradosso di Russell Colui che, essenzialmente solo, fondò la «teoria degli insiemi» fu il matematico Georg Cantor. Gli insiemi, o classi, si rivelarono ben presto talmente basilari e intrecciati con la logica che qualsiasi tentativo di costruire la matematica sulle basi della logica implicava necessariamente che la si stesse costruendo sul fondamento assiomatico della teoria degli insiemi. Una classe è semplicemente una collezione di oggetti, che non per forza devono essere in qualche modo correlati. Si può parlare di una classe che contiene tutte le seguenti cose: le soap opera andate in onda nel 2003, il cavallo bianco di Napoleone e il concetto di vero amore. Gli elementi che appartengono a una certa classe sono detti «membri». La maggior parte delle classi di oggetti che potrebbero venirvi in mente non sono membri di se stesse. Per esempio, la classe di tutti i fiocchi di neve non è in sé un fiocco di neve; la classe di tutti gli orologi antichi non è un orologio antico, e così via. Alcune classi però sono in realtà membri di se stesse. Per esempio, la classe di «tutto quello che non è un orologio antico» è un membro di se stessa, dato che tale classe di certo non è un orologio antico. Allo stesso modo, la classe di tutte le classi è un membro di se stessa poiché è ovviamente una classe. Che dire, tuttavia, della classe di «tutte quelle classi che non sono membri di se stesse»? Supponendo di chiamare questa classe R, R è un membro di se stessa (di R) oppure no? È evidente che R non può appartenere a R, perché, se così fosse, ciò violerebbe la definizione dell’appartenenza di R. Ma se R non appartiene a se stessa, allora, in base alla definizione, dev’essere un membro di R. Analogamente alla situazione con il barbiere del villaggio, scopriamo quindi che la classe

R al contempo appartiene e non appartiene a R, il che è una contraddizione logica. Questo era il paradosso che Russell inviò a Frege. Poiché questa antinomia minava alla base l’intero procedimento con cui si potevano determinare le classi o insiemi, il colpo inferto al programma di Frege fu letale. Il logico tedesco fece alcuni disperati tentativi per aggiustare il suo sistema assiomatico, ma invano. La conclusione pareva disastrosa: invece di essere più solida della matematica, la logica formale si rivelava più vulnerabile a paralizzanti incongruenze.[15] Più o meno nello stesso periodo in cui Frege sviluppava il suo programma logicista, il matematico e logico italiano Giuseppe Peano tentava un approccio differente. Peano intendeva basare l’aritmetica su un fondamento assiomatico. Di conseguenza, il suo punto di partenza fu la formulazione di una concisa e semplice serie di assiomi, i primi tre dei quali dicono: 1. Zero è un numero. 2. Il successore di ogni numero è un numero. 3. Non esistono due numeri con lo stesso successore. Il problema era che sebbene il sistema assiomatico di Peano potesse in effetti riprodurre le leggi note dell’aritmetica (una volta introdotte definizioni supplementari), non c’era nulla che identificasse in modo univoco i numeri naturali. Il passo successivo fu fatto da Bertrand Russell, il quale sosteneva che l’idea originale di Frege – cioè far derivare l’aritmetica dalla logica – era ancora la strada giusta da seguire. Per adempiere a questo arduo compito, Russell scrisse, in collaborazione con Alfred North Whitehead (figura 50), uno straordinario capolavoro logico in tre volumi, i Principia Mathematica.[16] Con la possibile eccezione dell’Organon di Aristotele, si tratta probabilmente dell’opera più influente nella storia della logica (la figura 51 mostra il frontespizio della prima edizione). Figura 50 Nei Principia, Russell e Whitehead peronavano la visione di una matematica che fosse fondamentalmente un’elaborazione delle leggi della logica, senza una netta linea di demarcazione tra le due discipline.[17] Per realizzare una descrizione coerente, tuttavia, dovevano in qualche modo tenere sotto controllo le antinomie o paradossi (oltre al paradosso di Russell, ne erano emersi altri). Ciò richiedeva qualche abile «gioco di prestigio» logico. Russell affermò

che quei paradossi sorgevano solo a causa di un «circolo vizioso» in cui si definivano le entità in termini di classi di oggetti che contenevano in sé l’entità definita. Per usare le sue parole: «Per esempio, se dico “Napoleone aveva tutte le qualità che fanno un grande generale”, devo definire “le qualità” in maniera tale da non includere quel che sto dicendo; cioè “l’avere tutte le qualità che fanno un grande generale” non dev’essere essa stessa una qualità nel senso suddetto». Per evitare il paradosso, Russell propose una «teoria dei tipi» nella quale una classe appartiene a un tipo logico «più alto» rispetto a quello dei suoi membri.[18] Quindi, seguendo questo ragionamento, tutti i singoli giocatori della squadra di football americano Dallas Cowboys sarebbero del tipo 0; la squadra dei Dallas Cowboys, che è una classe di giocatori, sarebbe del tipo 1; la National Football League, che è una classe di squadre, sarebbe del tipo 2; una collezione di leghe (se ne esistesse una) sarebbe del tipo 3, e così via. In questo schema, la mera nozione di «una classe che è membro di se stessa» non è né vera né falsa, ma semplicemente priva di significato. Di conseguenza, non si incontrano mai paradossi del genere di quello di Russell. Figura 51 Indubbiamente, i Principia rappresentavano una conquista straordinaria nel campo della logica, tuttavia era difficile considerarli come il fondamento della matematica che da così lungo tempo si andava ricercando. La teoria dei tipi di Russell era considerata da molti come un rimedio artificiale al problema dei paradossi, rimedio che per giunta produceva fastidiose e complesse ramificazioni. Per esempio venne fuori che i numeri razionali (come le frazioni semplici) erano di un tipo «più alto» dei numeri naturali. Per evitare alcune di queste complicazioni, Russell e Whitehead introdussero un assioma aggiuntivo, noto come «assioma di riducibilità», che a sua volta generò controversie e sospetti.[19] Modi più eleganti per evitare i paradossi vennero alla fine suggeriti dai matematici Ernst Zermelo e Abraham Fraenkel, che infatti riuscirono ad assiomatizzare in maniera coerente la teoria degli insiemi e a riprodurne gran parte degli esiti. Questo a prima vista sembrava avverare almeno in parte il sogno dei platonisti. Se la teoria degli insiemi e la logica erano davvero due facce della stessa medaglia, allora un solido fondamento della prima implicava un solido fondamento della seconda. Se, inoltre, buona parte della matematica era effettivamente

riconducibile alla logica, questo le conferiva una sorta di certezza oggettiva, che forse poteva anche spiegare l’efficacia della matematica. Sfortunatamente, i platonisti non festeggiarono a lungo, perché stavano per sperimentare un brutto déjà vu. Una nuova crisi non euclidea? Nel 1908, il matematico tedesco Ernst Zermelo (1871-1953) imboccò una strada molto simile a quella percorsa da Euclide intorno al 300 a.C.[20] Euclide aveva formulato alcuni postulati non dimostrati, ma presumibilmente ovvi, su punti e linee per poi costruire la geometria sulla base di quegli assiomi. Zermelo – che già nel 1900 aveva scoperto da sé il paradosso di Russell – propose un modo per basare la teoria degli insiemi su un corrispondente fondamento assiomatico. Secondo questa teoria, il paradosso di Russell poteva essere aggirato con un’accurata scelta di princìpi costruttivi che avrebbero eliminato concetti contraddittori come «l’insieme di tutti gli insiemi». Lo schema di Zermelo fu ulteriormente sviluppato nel 1922 dal matematico israeliano Abraham Fraenkel (1891-1965) per ottenere quella che è oggi conosciuta come la «teoria degli insiemi di Zermelo-Fraenkel» (altre importanti modifiche vennero apportate da John von Neumann nel 1925).[21] Le cose sarebbero state quasi perfette (la coerenza doveva ancora essere dimostrata), se non fosse stato per qualche irritante dubbio. C’era un particolare assioma – l’«assioma della scelta» – che, proprio come il famoso «quinto postulato» di Euclide, rappresentava per i matematici un bel grattacapo. In parole semplici, l’assioma della scelta afferma che se X è un insieme di insiemi non vuoti, allora è possibile scegliere un singolo membro da ciascuno degli insiemi in X per formare un nuovo insieme Y.[22] Potete facilmente verificare che questa affermazione è vera se la collezione X non è infinita. Per esempio, se abbiamo cento scatole, ognuna contenente almeno una biglia, possiamo senza problemi scegliere una biglia da ciascuna scatola per formare un nuovo insieme Y che conterrà quindi cento biglie. In questo caso, non abbiamo bisogno di un assioma speciale: possiamo realmente provare che una scelta è possibile. L’affermazione è vera anche per infinite collezioni X, finché possiamo specificare con esattezza come operiamo la scelta. Proviamo a immaginare una collezione infinita di insiemi non vuoti di numeri naturali, e supponiamo che i membri di questa collezione siano insiemi come {2, 6, 7}, {1, 0}, {346, 5, 11, 1257}, {tutti i numeri naturali

compresi tra 381 e 10.457} e via dicendo. In ogni insieme di numeri naturali, c’è sempre un membro che è il più piccolo. La nostra scelta potrebbe quindi essere unicamente descritta così: «Da ciascun insieme abbiamo scelto l’elemento più piccolo». Anche in questo caso l’assioma della scelta non è necessario. Il problema sorge per le collezioni infinite nei casi in cui non possiamo definire la scelta. In queste circostanze il processo di scelta non ha mai fine, e l’esistenza di un insieme che comprende precisamente un elemento di ciascuno dei membri della collezione X diventa una questione di fede. Fin dal principio l’assioma della scelta fu oggetto di controversia tra i matematici. Il fatto che l’assioma affermi l’esistenza di certi oggetti matematici (per esempio, le scelte), senza davvero fornirne alcun esempio tangibile, suscitò critiche soprattutto tra i seguaci della scuola di pensiero nota come «costruttivismo» (che era filosoficamente collegata all’«intuizionismo»). I costruttivisti sostenevano che tutto ciò che esiste dev’essere anche chiaramente costruibile. Anche altri matematici tendevano a eludere l’assioma della scelta, limitandosi ad attingere agli altri assiomi della teoria degli insiemi di ZermeloFraenkel. Le imperfezioni percepite nell’assioma della scelta indussero i matematici a domandarsi se potesse essere dimostrato o confutato per mezzo di altri assiomi. La storia del quinto postulato di Euclide si stava ripetendo. Una soluzione parziale venne fornita alla fine degli anni Trenta: Kurt Gödel (1906-1978), uno tra i più influenti logici di tutti i tempi, dimostrò che l’assioma della scelta e un’altra famosa congettura dovuta al padre della teoria degli insiemi, Georg Cantor, e conosciuta come «ipotesi del continuo», erano entrambi coerenti con gli altri assiomi di Zermelo-Fraenkel.[23] Nessuna delle due ipotesi, quindi, poteva essere confutata usando gli altri assiomi della teoria degli insiemi. Prove ulteriori presentate dal matematico americano Paul Cohen (1934-2007, purtroppo scomparso mentre scrivevo questo libro) hanno stabilito l’assoluta indipendenza dell’assioma della scelta e dell’ipotesi del continuo.[24] In altre parole, l’assioma della scelta non poteva essere né dimostrato né confutato sulla base degli altri assiomi della teoria degli insiemi. Allo stesso modo, non si può né dimostrare né confutare l’ipotesi del continuo partendo dalla stessa serie di assiomi, anche se tra questi è incluso quello della scelta.

Questo sviluppo ha avuto clamorose conseguenze di tipo filosofico. Come nel caso delle geometrie non euclidee del XIX secolo, non esisteva un’unica e definitiva teoria degli insiemi, ma per lo meno quattro! Era possibile fare differenti supposizioni sugli insiemi infiniti e arrivare a teorie degli insiemi che si escludevano a vicenda. Per esempio, si poteva presumere che sia l’assioma della scelta sia l’ipotesi del continuo fossero veri e ottenere una versione, oppure che ambedue non lo fossero e ricavare una teoria del tutto diversa. Analogamente, ipotizzare la validità di uno dei due assiomi e la negazione dell’altro avrebbe portato ad altre due teorie degli insiemi. Era una nuova crisi non euclidea, solo peggiore. Il ruolo fondamentale della teoria degli insiemi come potenziale pilastro dell’intera matematica rendeva ancor più cruciale il problema agli occhi dei platonisti. Se infatti era possibile formulare molte teorie degli insiemi semplicemente scegliendo serie diverse di assiomi, ciò non stava a dimostrare che la matematica non era altro che un’invenzione umana? La vittoria dei formalisti sembrava virtualmente assicurata. Una verità incompleta Mentre Frege si preoccupava del significato degli assiomi, il principale fautore del formalismo, il grande matematico tedesco David Hilbert (figura 52), propugnava la necessità di evitare qualunque interpretazione delle formule matematiche. Hilbert non era interessato a questioni quali la possibilità di dedurre la matematica da nozioni logiche. Per lui, la matematica propriamente detta consisteva semplicemente in una collezione di formule prive di senso, modelli strutturati composti da simboli arbitrari.[25] Il compito di garantire i fondamenti della matematica veniva attribuito da Hilbert a una nuova disciplina, cui si riferiva con il termine «metamatematica». La metamatematica si occupava di dimostrare che l’intero procedimento invocato dal sistema formale fosse coerente attraverso i metodi propri dell’analisi matematica, quindi di dedurre i teoremi dagli assiomi seguendo rigide regole di inferenza. In altri termini, Hilbert pensava di poter provare matematicamente la matematica, come egli stesso spiega: Le mie indagini sulle nuove basi della matematica hanno come scopo niente di meno che questo: eliminare, una volta per tutte, il dubbio generale circa l’attendibilità dell’inferenza matematica [...]. Tutto ciò che in precedenza costituiva la matematica dev’essere rigorosamente formalizzato, affinché la matematica propriamente detta o la

matematica in senso stretto diventi uno stock di formule [...]. Oltre a questa matematica formalizzata, abbiamo una matematica che è in una certa misura nuova: una metamatematica che è necessaria per rendere sicura la matematica, e nella quale – in contrasto con i metodi di inferenza puramente formali della matematica propriamente detta – si applica l’inferenza contestuale, ma solo per dimostrare la coerenza degli assiomi [...]. Perciò lo sviluppo della scienza matematica nel suo complesso avviene in due modi che si alternano di continuo: da un lato deriviamo formule dimostrabili dagli assiomi mediante l’inferenza formale; dall’altro, uniamo nuovi assiomi e ne dimostriamo la coerenza con l’inferenza contestuale.[26] Figura 52 Il programma di Hilbert sacrificava il significato in nome della validità dei fondamenti. Di conseguenza, per i suoi seguaci formalisti, la matematica in realtà non era che un gioco, ma il loro obiettivo era dimostrare in modo rigoroso che fosse un gioco assolutamente coerente. Con tutti gli sviluppi nell’ambito dell’assiomatizzazione, l’avverarsi di questo sogno «teoretico-deduttivo» formalista sembrava giusto dietro l’angolo.[27] Eppure, non tutti erano convinti che la via imboccata da Hilbert fosse quella giusta. Ludwig Wittgenstein (1889-1951), da alcuni ritenuto il più grande filosofo del XX secolo, considerava gli sforzi di Hilbert con la metamatematica una perdita di tempo.[28] «Non possiamo stabilire una regola per l’applicazione di un’altra regola» asseriva. In altre parole, Wittgenstein non credeva che la comprensione di un «gioco» potesse dipendere dalla costruzione di un altro gioco: «Se sono incerto circa la natura della matematica, nessuna prova può aiutarmi».[29] Tuttavia, nessuno si poteva immaginare che un fulmine stava per abbattersi sul mondo della matematica. In un sol colpo, il ventiquattrenne Kurt Gödel avrebbe conficcato un paletto dritto nel cuore del formalismo. Figura 53 Kurt Gödel (figura 53) nacque il 28 aprile 1906 nella città morava nota in seguito con il nome ceco di Brno.[30] All’epoca la città faceva parte dell’Impero austroungarico, e Gödel crebbe in una famiglia di lingua tedesca. Il padre, Rudolf Gödel, dirigeva uno stabilimento tessile, mentre la madre Marianne si assicurava che il giovane Kurt ricevesse un’adeguata istruzione in campo matematico, storico,

linguistico e religioso. Negli anni dell’adolescenza, Gödel sviluppò un particolare interesse per la matematica e la filosofia, e a diciotto anni entrò all’Università di Vienna, dove la sua attenzione si rivolse principalmente alla logica matematica. Era soprattutto affascinato dai Principia Mathematica di Russell e Whitehead, oltre che dal programma di Hilbert, e scelse come argomento di tesi la questione della completezza. Lo scopo della sua indagine era in sostanza determinare se l’approccio formale perorato da Hilbert fosse sufficiente a produrre tutti gli enunciati veri della matematica. Gödel conseguì il dottorato nel 1930, e appena un anno dopo rese pubblici i suoi «teoremi di incompletezza», che causarono un autentico terremoto nell’ambiente matematico e filosofico.[31] Nel linguaggio della matematica pura, i due teoremi sembravano piuttosto tecnici, e non particolarmente entusiasmanti: 1. Qualunque sistema formale coerente S in cui una certa quantità di aritmetica elementare può essere espressa è incompleto rispetto a proposizioni di aritmetica elementare: esistono proposizioni che non possono essere né dimostrate né confutate in S. 2. Per qualunque sistema formale coerente in cui una certa quantità di aritmetica elementare può essere espressa, la coerenza di S non può essere dimostrata in S. Parole in apparenza innocue, ma le cui implicazioni per il programma dei formalisti erano di vasta portata. Per semplificare, i teoremi dell’incompletezza dimostravano che il programma formalista di Hilbert era essenzialmente destinato a fallire sin dall’inizio. Gödel dimostrò come qualsiasi sistema formale abbastanza potente da rivestire un qualche interesse sia implicitamente incompleto o incoerente. Nel migliore dei casi, cioè, ci saranno sempre affermazioni che il sistema formale non è in grado né di dimostrare né di confutare. Nel peggiore, il sistema produrrà delle contraddizioni. Poiché accade sempre che per ogni proposizione T, o T o non-T dev’essere vera, il fatto che un sistema formale finito non possa né provare né confutare certe affermazioni significa che esisteranno sempre proposizioni vere che non sono dimostrabili all’interno del sistema stesso. In altre parole, Gödel provava che un sistema formale composto da una serie finita di assiomi e regole di inferenza non può mai abbracciare l’intero corpus di verità della matematica. Il massimo che si può sperare di ottenere è che

le assiomatizzazioni comunemente accettate siano solo incomplete e non incoerenti. Lo stesso Gödel era convinto dell’esistenza di un concetto platonico e indipendente di verità matematica. In un articolo pubblicato nel 1947 scrisse: Malgrado la loro lontananza dall’esperienza dei sensi, abbiamo un qualcosa di simile a una percezione degli oggetti della teoria degli insiemi, come si evince dal fatto che gli assiomi stessi ci costringono a considerarli veri. Non vedo alcun motivo per cui dovremmo avere meno fiducia in questo tipo di percezione, vale a dire l’intuizione matematica, piuttosto che nella percezione sensoriale.[32] Per ironia della sorte, proprio mentre i formalisti si preparavano a festeggiare la vittoria, Kurt Gödel – un platonista dichiarato – si abbatté come un temporale sulla parata del programma formalista. Il celebre matematico John von Neumann (1903-1957), che all’epoca teneva un seminario sul lavoro di Hilbert, cancellò le lezioni successive e dedicò il tempo restante alle scoperte di Gödel. Gödel era sotto ogni aspetto complicato quanto i suoi teoremi.[33] Nel 1940 fuggì insieme alla moglie Adele dall’Austria nazista per trasferirsi negli Stati Uniti, dove gli era stato offerto un posto all’Institute for Advanced Study di Princeton, in New Jersey. Qui divenne buon amico e compagno di passeggiate di Albert Einstein. Quando Gödel fece domanda per ottenere la cittadinanza americana, nel 1948, fu Einstein che, insieme al matematico ed economista della Princeton University Oskar Morgenstern (1902-1977), lo accompagnò al colloquio che doveva sostenere presso l’ufficio del Servizio Immigrazione e Naturalizzazione. L’episodio è universalmente noto, ma così rivelatore della personalità di Gödel che i fatti meritano di essere riportati per esteso, esattamente come vennero ricordati e registrati da Morgenstern il 13 settembre 1971. Sono grato a Dorothy Morgenstern Thomas, vedova di Morgenstern, e all’Institute for Advanced Study per avermi fornito una copia del documento: Nel 1946, Gödel si apprestava a diventare un cittadino americano. Mi chiese di fargli da testimone, e come secondo testimone propose Albert Einstein, il quale fu a sua volta lieto di accettare. Io e Einstein ci incontravamo di tanto in tanto ed eravamo pieni di aspettative per quello che sarebbe accaduto prima e durante le procedure per la naturalizzazione.

Gödel, che vedevo assai di frequente nei mesi precedenti all’evento, cominciò a prepararsi in maniera meticolosa. Poiché è un uomo molto scrupoloso, iniziò a informarsi sulla storia degli insediamenti umani in Nordamerica. Ciò lo condusse gradualmente allo studio degli Indiani d’America, delle loro varie tribù eccetera. Mi telefonava di continuo per chiedermi dei testi che poi studiava con diligenza. Poco per volta, prese a sollevare molte questioni e naturalmente ad avere molti dubbi circa la correttezza di queste storie e le particolari circostanze che rivelavano. Partendo da qui, nelle settimane successive Gödel continuò a studiare la storia americana, concentrandosi soprattutto su vari aspetti della legge costituzionale. Finì anche per interessarsi a Princeton, e volle sapere da me in particolare dove fosse il confine tra borough e township. Cercai ovviamente di spiegargli che tutto ciò non era per nulla necessario, ma invano. Insistette nel voler scoprire tutti i fatti che voleva conoscere, e così gli fornii ogni informazione che desiderava, anche su Princeton. Poi volle sapere come venivano eletti il Borough Council e il Township Council, chi era il sindaco, e come funzionava il Township Council. Pensava che gli avrebbero fatto delle domande su questi argomenti. Se avesse dimostrato di non conoscere la città in cui viveva, ciò avrebbe fatto una cattiva impressione. Provai a convincerlo che non facevano mai domande simili, che le domande erano per la maggior parte una pura formalità e che non avrebbe avuto difficoltà a rispondere; che al massimo avrebbero potuto chiedergli che forma di governo abbiamo in questo Paese o come si chiama il tribunale di grado più elevato, e altre domande di questo genere. A ogni buon conto, lui perseverò nel suo studio della Costituzione. Poi ci fu uno sviluppo interessante. Mi comunicò piuttosto eccitato che, esaminando la Costituzione, aveva riscontrato con angoscia alcune contraddizioni nascoste e che poteva provare come, in modo perfettamente legale, sarebbe stato possibile per qualcuno diventare un dittatore e instaurare un regime fascista, il che non era certo nelle intenzioni di coloro che avevano scritto la Costituzione. Gli dissi che era altamente improbabile che un evento del genere potesse verificarsi, anche supponendo che avesse ragione, della qual cosa naturalmente dubitavo. Ma lui insistette, per cui avemmo parecchie discussioni su questo punto particolare. Io cercai di persuaderlo che avrebbe dovuto evitare di sollevare questioni del genere davanti al giudice a Trenton, e

ne parlai anche con Einstein: era inorridito che a Gödel fosse venuta un’idea simile, e a sua volta gli disse che non doveva preoccuparsi di queste cose né tirare in ballo l’argomento. Passarono molti mesi, e finalmente arrivò la data dell’esame a Trenton. Quel giorno, passai a prendere Gödel con la mia macchina. Lui si sistemò sul sedile posteriore, poi andammo a prelevare Einstein a casa sua, in Mercer Street, e partimmo per Trenton. A un certo punto del viaggio, Einstein si girò e chiese: «Allora, Gödel, sei davvero preparato bene per questo esame?». Com’era naturale, questa osservazione turbò enormemente Gödel, il che era esattamente ciò che voleva Einstein, il quale si divertì molto nel vedere la preoccupazione dipingersi sul volto di Gödel. Quando arrivammo a Trenton, ci fecero entrare in una grande stanza, e sebbene di norma i testimoni vengano sentiti separatamente dal candidato, grazie alla presenza di Einstein venne fatta un’eccezione e fummo invitati tutti e tre a sederci insieme, Gödel nel mezzo. L’esaminatore chiese a Einstein e poi a me se pensavamo che Gödel sarebbe stato un buon cittadino. Gli garantimmo di sì, che era una persona distinta eccetera. Poi si rivolse a Gödel e gli disse: «Dunque, signor Gödel, da dove viene?». Gödel: Da dove vengo? Dall’Austria. L’esaminatore: Quale forma di governo avete in Austria? Gödel: Era una repubblica, ma la costituzione era tale che alla fine è diventata una dittatura. L’esaminatore: Oh! Molto male. Una cosa simile non sarebbe potuta accadere in questo Paese. Gödel: Oh, sì, e io posso dimostrarlo. Tra tutte le domande possibili, l’esaminatore aveva posto proprio quella più critica. Io e Einstein ascoltavamo atterriti questo scambio di battute; l’esaminatore però fu abbastanza intelligente da placare subito Gödel dicendo: «Oddio, non entriamo in questo argomento», e dichiarò concluso l’esame, con nostro grande sollievo. Infine ce ne andammo, e mentre ci dirigevamo verso gli ascensori, un uomo ci raggiunse di corsa con un pezzo di carta e una penna, si avvicinò a Einstein e gli chiese l’autografo. Einstein lo accontentò. Mentre scendevamo con l’ascensore, mi voltai verso Einstein e osservai: «Dev’essere terribile essere importunati in questo modo da tante persone». Einstein disse: «Sai, è l’ultimo residuo di cannibalismo». Perplesso, dissi: «Prego?». E

lui: «Sì, un tempo volevano il tuo sangue, adesso vogliono il tuo inchiostro». Tornammo a Princeton, e quando giungemmo all’angolo di Mercer Street, domandai a Einstein se voleva andare all’Istituto o a casa. Lui rispose: «Portami a casa, il mio lavoro non vale più niente, in nessun modo». Quindi citò da una canzone politica americana (purtroppo non ricordo le parole, può darsi che ce l’abbia nei miei appunti e di certo la riconoscerei se qualcuno mi suggerisse la frase particolare). Comunque, andammo a casa di Einstein, e lui si girò un’altra volta verso Gödel e disse: «Dunque, Gödel, è stato il tuo penultimo esame». Gödel: «Buon Dio, ce ne sarà ancora un altro?», e aveva già l’aria preoccupata. Allora Einstein disse: «Gödel, il prossimo esame sarà quando entrerai camminando nella tua tomba». E Gödel: «Ma Einstein, io non entrerò camminando nella mia tomba». E poi Einstein disse: «Gödel, è proprio questo il lato divertente della faccenda!», e con ciò se ne andò. Io accompagnai Gödel a casa. Erano tutti sollevati che questa terribile storia fosse finita; Gödel aveva di nuovo la testa libera e poteva tornare a occuparsi dei problemi di filosofia e logica.[34] Più tardi, Gödel soffrì periodicamente di seri disturbi mentali, che lo portarono a rifiutare il cibo. Morì il 14 gennaio 1978, di denutrizione e sfinimento. Contrariamente ad alcuni diffusi ed errati giudizi, i teoremi di incompletezza di Gödel non implicavano che alcune verità non saranno mai conosciute. Non possiamo nemmeno dedurre da essi che le capacità intellettive umane siano in qualche modo limitate. Piuttosto, i teoremi dimostrano soltanto la debolezza e i difetti dei sistemi formali. Potrebbe quindi sorprendere che, nonostante l’enorme rilevanza dei teoremi per la filosofia e la matematica, il loro impatto sull’efficacia della matematica come strumento per costruire teorie sia stato minimo. In effetti, nei decenni precedenti e successivi la pubblicazione della dimostrazione di Gödel, la matematica stava ottenendo i progressi più spettacolari nelle teorie fisiche dell’universo. Lungi dall’essere abbandonata perché inaffidabile, la matematica e le sue logiche conclusioni stavano diventando sempre più essenziali per la comprensione del cosmo. Ciò tuttavia significava che il difficile problema dell’«irragionevole efficacia» della matematica era destinato a divenire ancora più spinoso. Provate per un attimo a immaginare che cosa sarebbe accaduto se il

tentativo logicista avesse avuto pieno successo. Ciò avrebbe implicato che la matematica deriva interamente dalla logica: letteralmente, dalle leggi del pensiero. Ma come poteva una scienza così deduttiva adattarsi in modo tanto meraviglioso ai fenomeni naturali? Qual è la relazione tra logica formale (forse dovremmo addirittura parlare di logica formale umana) e universo? La risposta non divenne affatto più chiara dopo Hilbert e Gödel. Adesso non esisteva altro che un «gioco» formale incompleto, espresso in linguaggio matematico.[35] Come potevano dei modelli basati su un sistema così «inaffidabile» produrre qualche profonda intuizione sull’universo e i suoi meccanismi? Prima di affrontare tali questioni, sarà utile metterle a fuoco un po’ meglio, prendendo in esame alcuni esempi che dimostrano le sottigliezze dell’efficacia della matematica. 8 Irragionevole efficacia? Nel Capitolo 1 ho osservato che il successo della matematica nelle teorie fisiche presenta due aspetti: uno che ho chiamato «attivo» e l’altro «passivo». Quello «attivo» riflette il fatto che gli studiosi formulano le leggi della natura in termini matematici palesemente applicabili. Si servono cioè di entità, relazioni ed equazioni matematiche che sono state sviluppate presupponendo un’applicazione, il più delle volte per l’argomento stesso in discussione. I ricercatori tendono a fare affidamento sulla somiglianza tra le proprietà dei concetti matematici e i fenomeni osservati o i risultati sperimentali. L’efficacia della matematica non appare così sorprendente in questi casi, poiché è sempre possibile sostenere che le teorie erano fatte su misura per adattarsi alle osservazioni. Tuttavia, l’uso «attivo» presenta un lato stupefacente legato all’accuratezza, di cui parlerò più avanti in questo capitolo. L’efficacia «passiva» si riferisce a casi in cui teorie matematiche completamente astratte sono state sviluppate, senza un’applicazione prestabilita, solo per trasformarsi in seguito in modelli fisici potentemente predittivi. La teoria dei nodi costituisce un esempio dell’interazione tra efficacia attiva e passiva. Nodi I nodi sono addirittura protagonisti di leggende. Ricorderete forse il mito greco del nodo gordiano. Un oracolo, interpellato dagli abitanti

della Frigia, diede come responso che il loro prossimo re sarebbe stato il primo uomo a entrare nella capitale a bordo di un carro. E fu così che l’ignaro contadino Gordio, arrivato in città sul suo carretto guidato da buoi, divenne re. Pieno di gratitudine, Gordio dedicò il suo carro agli dei, e lo legò a un palo con un nodo intricatissimo che rese vano ogni tentativo di scioglierlo. Secondo una successiva profezia, l’impero dell’Asia sarebbe toccato a colui che avesse disfatto il nodo. Il fato volle che a riuscirci fosse Alessandro Magno (nell’anno 333 a.C.), che in seguito divenne infatti signore dell’Asia. La soluzione escogitata da Alessandro per sciogliere il nodo gordiano non si potrebbe esattamente definire ingegnosa o corretta, visto che a quanto pare tagliò il nodo con la spada! Ma non occorre risalire fino all’antica Grecia per incontrare i nodi. Un bambino che si allaccia le scarpe, una ragazza che si fa la treccia, una nonna che lavora a maglia, un marinaio che ormeggia un’imbarcazione... Tutti fanno nodi di qualche tipo. Alcuni hanno nomi fantasiosi, come «bocca di lupo», «margherita», «gassa d’amante», «vaccaio» o «nodo del boia».[1] I nodi marinari in particolare, considerati importanti dal punto di vista storico, ispirarono un’intera collezione di libri a essi dedicati nell’Inghilterra del XVII secolo. Uno di questi, per inciso, fu scritto nientedimeno che dall’avventuriero inglese John Smith (1580-1631), meglio noto per la sua relazione sentimentale con la principessa Pocahontas, nativa americana. La teoria matematica dei nodi vide la luce nel 1771 in un saggio del matematico francese Alexandre-Théophile Vandermonde (17361796).[2] Vandermonde fu il primo a riconoscere che i nodi potevano essere studiati come facenti parte della «geometria di posizione», che si occupa di relazioni che dipendono unicamente dalla posizione, ignorando dimensioni e calcolo delle quantità. Il successivo, per il suo ruolo nello sviluppo della teoria dei nodi, fu il «principe della matematica» tedesco Carl Friedrich Gauss. Nei suoi appunti si ritrovano disegni e dettagliate descrizioni di nodi, insieme ad analisi delle loro proprietà. Per quanto fossero importanti i contributi di Vandermonde, di Gauss e di alcuni altri matematici del XIX secolo, il principale impulso alla teoria dei nodi provenne da una fonte inaspettata – un tentativo di spiegare la struttura della materia. L’idea fu frutto della mente del famoso fisico inglese William Thomson, oggi meglio conosciuto come Lord Kelvin (1824-1907), i cui sforzi si

concentrarono sulla formulazione di una teoria degli atomi, i componenti basilari della materia. Secondo la sua fantasiosa congettura, gli atomi in realtà erano tubi di etere (la misteriosa sostanza che si riteneva permeasse tutto lo spazio) annodati. La varietà di elementi chimici, nel contesto di questo modello, poteva essere spiegata dalla molteplicità di nodi.[3] Se l’ipotesi di Thomson oggi ci appare a dir poco stravagante, è solo perché abbiamo avuto un intero secolo per abituarci al corretto modello dell’atomo – in cui gli elettroni orbitano attorno ai nuclei atomici – e testarlo sperimentalmente. Ma quella era l’Inghilterra degli anni Sessanta dell’Ottocento, e Thomson era profondamente colpito dalla stabilità di complessi anelli di fumo e dalla loro capacità di vibrare, due proprietà considerate all’epoca essenziali per creare un modello dell’atomo. Al fine di sviluppare per i nodi l’equivalente di una tavola periodica degli elementi, Thomson doveva riuscire a classificarli – scoprire cioè quanti nodi diversi è possibile realizzare – e fu questa esigenza di una tabulazione a suscitare un forte interesse per la matematica dei nodi. Come ho già avuto modo di spiegare nel Capitolo 1, un nodo matematico è simile a un normale nodo in una corda, solo che i due capi sono incollati. In altre parole, un nodo matematico è raffigurato da una curva chiusa, senza estremità libere. Alcuni esempi sono mostrati nella figura 54, nella quale i nodi tridimensionali sono rappresentati con le loro proiezioni, od ombre, sul piano. Figura 54 La posizione nello spazio di due tratti di corda che si incrociano è indicata nella figura spezzando la linea che raffigura il tratto sottostante. Il nodo più semplice – definito «banale», cioè sciolto – non è altro che una curva circolare chiusa (figura 54a). Il «nodo a trifoglio» (figura 54b) presenta tre incroci, mentre il «nodo a otto» (figura 54c) ne ha quattro. Nella teoria di Thomson, questi tre nodi potrebbero rappresentare, in linea di principio, modelli di tre atomi di crescente complessità, per esempio atomi, rispettivamente, di idrogeno, carbonio e ossigeno. Tuttavia, si rendeva necessaria una classificazione completa dei nodi, compito al quale si dedicò un amico di Thomson, il fisico e matematico scozzese Peter Guthrie Tait (1831-1901). Le domande che i matematici si pongono riguardo ai nodi non sono in realtà molto diverse da quelle che ci si potrebbe fare davanti a una

normale corda annodata o una matassa aggrovigliata di filo. Sono davvero annodate? Un nodo è equivalente a un altro? Il significato di quest’ultima domanda è semplice: un nodo può essere deformato fino ad assumere la forma dell’altro senza tagliare la corda o inserirne un tratto dentro l’altro come nei cosiddetti «anelli cinesi» dei prestigiatori? L’importanza di tale quesito è dimostrata nella figura 55, che illustra come mediante certe manipolazioni si possano ottenere due rappresentazioni assai differenti di quello che in realtà è lo stesso nodo. In definitiva, la teoria dei nodi si propone di provare che determinati nodi (come il nodo a trifoglio e il nodo a otto; figure 54b e 54c) sono davvero diversi, ignorando le differenze superficiali di altri nodi, come i due della figura 55. Figura 55 Tait intraprese con fatica la sua opera di classificazione.[4] Senza nessun principio matematico rigoroso che lo guidasse, compilò elenchi di curve con un incrocio, due incroci, tre incroci e così via. In collaborazione con il reverendo Thomas Penyngton Kirkman (18061895), anch’egli matematico dilettante, iniziò a passare al setaccio le curve per eliminare duplicati dovuti a nodi equivalenti. Il compito era tutt’altro che semplice. Si deve tener presente che a ogni incrocio ci sono due modi per scegliere quale tratto di corda passa sopra. Ciò significa che se una curva contiene, diciamo, sette incroci, ci saranno 2 ¥ 2 ¥ 2 ¥ 2 ¥ 2 ¥ 2 ¥ 2 = 128 nodi da prendere in considerazione. In altre parole, la vita umana è troppo breve per completare con questo metodo intuitivo la classificazione di nodi con dieci o più incroci. Tuttavia, lo sforzo di Tait non mancò di essere apprezzato. Il grande James Clerk Maxwell, che formulò la teoria elettromagnetica classica, trattò con rispetto la teoria atomica di Thomson, affermando che «soddisfa più condizioni di qualunque atomo finora considerato». Essendo al tempo stesso ben consapevole del contributo di Tait, Maxwell gli dedicò i versi seguenti: Clear your coil of kinkings Into perfect plaiting, Locking loops and linkings Interpenetrating. [Dipana la tua matassa ingarbugliata in una treccia perfetta, chiudendo nodi e curve

che si compenetrano.][5] Entro il 1877, Tait aveva classificato nodi «alternati» fino a sette incroci. I nodi alternati sono quelli in cui il filo passa alternativamente sopra e sotto ogni incrocio, come in un tappeto intrecciato. Tait fu anche artefice di alcune scoperte più pragmatiche, sotto forma di princìpi basilari che in seguito presero il nome di «congetture di Tait». Queste congetture, tra parentesi, erano talmente solide che resistettero a qualunque tentativo di dimostrarle in maniera rigorosa fino alla fine degli anni Ottanta del XX secolo. Nel 1885, Tait pubblicò tavole di nodi fino a dieci incroci, e decise di fermarsi lì. In modo del tutto autonomo, anche il professore dell’Università del Nebraska Charles Newton Little (1858-1923) diede alle stampe (nel 1889) tavole di nodi non alternati con un numero di incroci pari o inferiore a dieci.[6] Lord Kelvin nutrì sempre dell’affetto per Tait, come attestano le parole che pronunciò durante una cerimonia al Peterhouse College di Cambridge, dove veniva presentato un ritratto del fisico scozzese: Ricordo che una volta Tait osservò che la scienza era l’unica cosa per cui valesse la pena di vivere. Era sincero, ma egli stesso ha dimostrato come ciò non fosse vero. Tait era un gran lettore. Sapeva a memoria Shakespeare, Dickens e Thackeray. La sua memoria era prodigiosa. Se leggeva qualcosa che gli piaceva, se lo ricordava per sempre. Purtroppo, quando Tait e Little ebbero ultimato il loro eroico lavoro di classificazione dei nodi, l’ipotesi di Lord Kelvin era stata ormai completamente scartata come potenziale teoria atomica. L’interesse per i nodi però non si affievolì, con la differenza che, per dirla con le parole del matematico Michael Atiyah, «lo studio dei nodi divenne una branca esoterica della matematica pura». La branca della matematica in cui qualità come la dimensione, l’uniformità e in un certo senso persino la forma vengono ignorate, prende il nome di «topologia». La topologia – la geometria della superficie elastica – prende in esame quelle proprietà che rimangono immutate quando lo spazio viene allungato o deformato in qualunque modo (senza però causare strappi o buchi).[7] Per loro stessa natura, i nodi appartengono alla topologia. Per inciso, i matematici distinguono tra «nodi singoli», «links», cioè insiemi di più nodi intrecciati tra loro, e «braids» (trecce), insiemi di corde verticali fissate a una sbarra orizzontale all’estremità superiore e inferiore.

Se per caso non foste impressionati dalla difficoltà di classificare i nodi, riflettete su questi fatti molto significativi. La tavola di Charles Little, pubblicata nel 1899 dopo sei anni di lavoro, conteneva quarantatré nodi non alternati di dieci incroci; venne attentamente esaminata da molti matematici e ritenuta corretta per settantacinque anni. Poi, nel 1974, l’avvocato e matematico newyorchese Kenneth Perko, mentre faceva esperimenti con delle corde sul pavimento del soggiorno, con sua gran sorpresa scoprì che due dei nodi nella tavola di Little erano in realtà gli stessi.[8] Al momento siamo convinti che ci siano solo quarantadue distinti nodi non alternati di dieci incroci. Se il XX secolo è stato testimone di enormi passi in avanti nel campo della topologia, i progressi nella teoria dei nodi sono stati relativamente lenti. Uno dei principali obiettivi dei matematici che si sono occupati di nodi è stato quello di identificare delle proprietà che li distinguessero in modo preciso. Tali proprietà sono dette «invarianti dei nodi», e rappresentano quantità per cui due differenti proiezioni del medesimo nodo danno esattamente lo stesso valore. In altri termini, un invariante ideale è letteralmente un’«impronta digitale» del nodo, una caratteristica che non muta se il nodo viene deformato. L’invariante più semplice cui si possa pensare è forse il numero minimo di incroci in un disegno del nodo. Per esempio, per quanto vi sforziate di sbrogliare il nodo a trifoglio (figura 54b), non ridurrete mai il numero di incroci a meno di tre. Sfortunatamente, ci sono un’infinità di ragioni per cui il numero minimo di incroci non costituisce l’invariante più utile. Primo, come dimostra la figura 55, non sempre è facile determinare se un nodo è stato disegnato con il minor numero possibile di incroci. Secondo, e più importante, molti nodi realmente diversi hanno lo stesso numero di incroci. Nella figura 54, per esempio, ci sono tre nodi differenti con sette incroci, e non meno di sette nodi differenti che ne hanno sette. Ne consegue che il numero minimo di incroci non distingue la maggior parte dei nodi. In definitiva, il numero minimo di incroci, in ragione della sua natura semplicistica, non ci aiuta a comprendere le proprietà dei nodi in generale. Un ulteriore progresso si raggiunse nel 1928, quando il matematico americano James Waddell Alexander (1888-1971) scoprì un importante invariante, conosciuto oggi come «polinomio di Alexander».[9] Fondamentalmente, il polinomio di Alexander è un’espressione algebrica che definisce il nodo in base alla disposizione degli incroci.

L’aspetto positivo era che se due nodi avevano polinomi di Alexander differenti, i nodi erano necessariamente differenti. Quello negativo era che due nodi che presentassero gli stessi polinomi potevano comunque essere diversi. Di conseguenza, benché estremamente utile, il polinomio di Alexander non era ancora perfetto per distinguere i nodi. I matematici spesero i quattro decenni successivi a esplorare la base concettuale del polinomio di Alexander e ad acquisire ulteriori conoscenze sulle proprietà dei nodi. Perché appassionarsi a tal punto a questo argomento? Di certo non per un’eventuale applicazione pratica. Il modello atomico di Thomson era da tempo finito nel dimenticatoio, e in vista non c’era nessun altro problema nelle scienze, nell’economia, nell’architettura o in qualsiasi altra disciplina che sembrasse richiedere una teoria dei nodi. I matematici passavano ore e ore sui nodi semplicemente perché erano curiosi! Per queste menti, l’idea di comprendere i nodi e i princìpi che li regolavano rivestiva un fascino particolare. L’improvviso lampo d’intuizione rappresentato dal polinomio di Alexander era irresistibile per i matematici quanto la sfida di conquistare la vetta dell’Everest per l’alpinista George Mallory, il quale, interrogato sul perché volesse scalare la montagna, diede la celebre risposta: «Perché è lì». Alla fine degli anni Sessanta del Novecento, il prolifico matematico inglese John Horton Conway scoprì un procedimento per «sciogliere» gradualmente i nodi, portando così alla luce la relazione fondamentale tra i nodi e i loro polinomi di Alexander.[10] In particolare, Conway introdusse due semplici operazioni «chirurgiche» che potevano servire come base per definire un invariante del nodo. Queste operazioni, soprannominate «flip» e «smoothing», sono descritte schematicamente nella figura 56. Nel flip (figura 56a), l’incrocio viene trasformato facendo passare il tratto di corda superiore sotto quello inferiore (la figura mostra come si può effettuare questa trasformazione in un nodo reale). Noterete che il flip ovviamente cambia la natura del nodo. Per esempio, vi sarà facile persuadervi che il nodo a trifoglio della figura 54b diventa un nodo banale, cioè sciolto (figura 54a), in seguito a un flip. Lo smoothing di Conway invece elimina del tutto l’incrocio (figura 56b), riattaccando i fili nel modo «sbagliato». Pur con le nuove conoscenze acquisite grazie al lavoro di Conway, i matematici rimasero convinti per quasi un altro ventennio che nessun altro invariante dei

nodi (del tipo del polinomio di Alexander) potesse essere trovato. La situazione ebbe una svolta clamorosa nel 1984. Figura 56 Il matematico americano di origine neozelandese Vaughan Jones non stava affatto studiando i nodi, bensì esplorando un mondo ancora più astratto: quello delle entità matematiche conosciute come «algebre di von Neumann». Inaspettatamente, Jones notò come una relazione che emergeva nelle algebre di von Neumann somigliasse in modo sospetto a una relazione nella teoria dei nodi. Si incontrò con la teorica dei nodi della Columbia University Joan Birman per discutere con lei delle possibili applicazioni. Un esame della relazione alla fine rivelò un invariante dei nodi del tutto nuova, chiamata «polinomio di Jones».[11] Il polinomio di Jones venne immediatamente riconosciuto come un invariante più valido rispetto al polinomio di Alexander. Distingue tra i nodi e la loro immagine speculare (per esempio, i nodi a trifoglio della figura 57), per cui i polinomi di Alexander erano identici. Ma soprattutto la scoperta di Jones suscitò un entusiasmo senza precedenti tra i teorici dei giochi. L’annuncio di un nuovo invariante scatenò un’attività talmente frenetica che il mondo dei nodi parve di colpo la borsa valori in un giorno in cui la Federal Reserve abbassa in modo inatteso i tassi d’interesse. Figura 57 Ma la scoperta di Jones fu molto di più che un passo in avanti nella teoria dei nodi. Il polinomio di Jones trovò infatti collegamenti con una stupefacente varietà di aree della matematica e della fisica, che andavano dalla meccanica statistica (utilizzata, per esempio, per studiare il comportamento di grossi insiemi di atomi o molecole) ai gruppi quantici (la branca della matematica correlata alla fisica del mondo subatomico). I matematici di tutto il mondo si tuffarono febbrilmente in tentativi volti a individuare invarianti ancor più generali che in qualche modo includessero sia il polinomio di Alexander sia quello di Jones. Questa corsa terminò con quello che è forse il risultato più sbalorditivo nella storia della competizione scientifica. Soltanto alcuni mesi dopo che Jones ebbe reso noto il suo nuovo polimonio, quattro gruppi, lavorando in modo indipendente l’uno dall’altro e adottando tre diversi approcci matematici, annunciarono contemporaneamente la scoperta di un invariante ancora più sensibile. Il nuovo polinomio venne chiamato «polinomio HOMFLY», dalle

iniziali dei cognomi dei suoi scopritori: Hoste, Ocneanu, Millett, Freyd, Lickorish e Yetter. Per giunta, come se quattro gruppi che tagliano insieme la linea del traguardo non bastassero, due matematici polacchi (Przytycki e Traczyk) giunsero esattamente allo stesso risultato, mancando però l’appuntamento con la pubblicazione a causa di un capriccioso servizio postale. Di conseguenza, ci si riferisce al polinomio anche come al polinomio HOMFLYPT (o talvolta THOMFLYP), aggiungendo le iniziali degli scopritori polacchi. Sebbene da allora siano stati scoperti altri invarianti, una classificazione completa dei nodi non è ancora stata attuata. Quale nodo precisamente possa essere ritorto e ruotato per produrre un altro nodo senza l’uso delle forbici rimane una domanda senza risposta. Al momento attuale, l’ultimo invariante scoperto si deve al matematico franco-russo Maxim Kontsevich, che per il lavoro svolto ha ricevuto la Medaglia Fields nel 1998 e il Premio Crafoord nel 2008. Nel 1998, Jim Hoste del Pitzer College di Claremont, California, e Jeffrey Weeks di Canton, New York, hanno classificato tutti i nodi fino a sedici incroci. Un’identica tabulazione è stata realizzata da Morwen Thistlethwaite dell’Università del Tennessee di Knoxville. Ogni elenco contiene esattamente 1.701.936 nodi diversi! L’autentica sorpresa, tuttavia, non arrivò dai progressi nella teoria dei nodi, ma dal suo inatteso e clamoroso ritorno in auge in svariate discipline scientifiche.[12] I nodi della vita Come abbiamo precedentemente notato, la teoria dei nodi ebbe origine da un errato modello dell’atomo. Una volta morto e sepolto quel modello, però, i matematici non si scoraggiarono. Al contrario, si imbarcarono con grande entusiasmo in un lungo e difficile viaggio per cercare di comprendere i nodi. Immaginate quindi il loro entusiasmo quando la teoria dei nodi all’improvviso si rivelò la chiave per capire i processi fondamentali riguardanti le molecole della vita. Avete bisogno di un esempio migliore del ruolo «passivo» della matematica pura nello spiegare la natura? L’acido desossiribonucleico, o DNA, è il materiale genetico di tutte le cellule. Consiste in due lunghi filamenti che si intrecciano tra loro milioni di volte per formare una doppia elica. Lungo le due «spine dorsali», cui possiamo pensare come ai lati di una scala, si alternano molecole di zucchero e di fosfato. I «pioli» della scala sono composti

da coppie di basi unite da legami di idrogeno in una corrispondenza fissa (l’adenina si appaia solo con la timina, e la citosina solo con la guanina; figura 58). Figura 58 Quando una cellula si divide, il primo passo è la duplicazione del DNA, in modo che le cellule figlie ne ricevano una copia. In modo analogo, nel processo di «trascrizione» (mediante il quale l’informazione genetica viene trasferita dal DNA all’RNA), una sezione della doppia elica del DNA si srotola e soltanto un filamento serve come stampo. Quando la sintesi dell’RNA è completata, il DNA si riavvolge nella sua elica. La duplicazione e la trascrizione non sono processi facili, perché il DNA è così strettamente annodato e intrecciato (al fine di compattare le informazioni) che, a meno di un «dipanamento», questi processi vitali non potrebbero aver luogo. Inoltre, affinché la duplicazione venga ultimata, le molecole «figlie» di DNA devono essere slegate e il DNA parentale deve ritornare alla sua configurazione originale. Gli agenti che si occupano di quest’opera di districamento sono gli enzimi, che fanno passare un filamento di DNA attraverso l’altro creando delle interruzioni temporanee e riconnettendo le estremità in maniera diversa.[13] Questo processo vi suona familiare? Si tratta esattamente delle operazioni «chirurgiche» introdotte da Conway per disfare i nodi matematici (figura 56). In altre parole, da un punto di vista topologico, il DNA è come un nodo complicato che dev’essere sciolto dagli enzimi per consentire la duplicazione e la trascrizione. Servendosi della teoria dei nodi per calcolare quanto è difficile districare il DNA, i ricercatori possono studiare le proprietà degli enzimi deputati a questo compito. Meglio ancora, usando tecniche di visualizzazione sperimentali quali il microscopio elettronico e l’elettroforesi su gel, gli scienziati sono in grado di osservare e quantificare i cambiamenti nel modo in cui si annoda e si collega il DNA causati da un enzima (la figura 59 mostra la micrografia elettronica di un nodo di DNA). La sfida per i matematici è quindi di dedurre i meccanismi con i quali operano gli enzimi dai mutamenti osservati nella topologia del DNA. Come effetto secondario, i cambiamenti nel numero di incroci del nodo di DNA offrono ai biologi una misura dei «tassi di reazione» degli enzimi, cioè quanti incroci al minuto può provocare un enzima di una data concentrazione.

Figura 59 Ma la biologia molecolare non è l’unico campo in cui la teoria dei nodi trova impreviste applicazioni. Anche la teoria delle stringhe – l’attuale tentativo di formulare una teoria unificata che spieghi tutte le forze della natura – ha a che fare con i nodi. L’universo in una stringa? La gravità è la forza che opera su scala più grande: tiene insieme le stelle nelle galassie, e influenza l’espansione dell’universo. La relatività generale di Einstein è una notevole teoria della gravità. Nel profondo dei nuclei atomici, regnano altre forze supreme e una diversa teoria. La potente forza nucleare tiene assieme le particelle chiamate «quark» per formare protoni e neutroni, i componenti fondamentali della materia. Nel mondo subatomico, il comportamento delle particelle e delle forze è governato dalle leggi della meccanica quantistica. Quark e galassie seguono le stesse regole? I fisici credono di sì, anche se non ne conoscono ancora la motivazione. Per decenni hanno cercato una «teoria del tutto», capace di descrivere nella loro interezza le leggi della natura. In particolare, i fisici vogliono colmare il divario tra il grande e il piccolo con una teoria quantistica della gravità, conciliando la relatività generale con la meccanica quantistica. La «teoria delle stringhe» (o teoria delle corde) sembra attualmente la scommessa migliore per arrivare a una teoria del tutto.[14] Originariamente sviluppata e poi scartata come teoria per la forza nucleare, venne riesumata nel 1974 dai fisici John Schwarz e Joel Scherk. L’idea alla base della teoria delle stringhe è abbastanza semplice. La teoria suggerisce che le particelle subatomiche elementari, come elettroni e quark, non sono entità puntiformi, prive di una struttura. Le particelle elementari rappresentano piuttosto differenti modi di vibrazione di una stringa. Il cosmo, secondo questa concezione, è pieno di curve minuscole, flessibili, simili a elastici. Così come la corda di un violino può essere pizzicata per ottenere armonie diverse, vibrazioni differenti di queste stringhe corrispondono a distinte particelle della materia. In altre parole si potrebbe dire che il mondo somiglia a una sinfonia. Poiché le stringhe sono curve chiuse che si muovono nello spazio, con il passare del tempo percorrono delle aree (dette «fogli d’universo»), sotto forma di cilindri (figura 60). Se una stringa emette altre stringhe, il cilindro si biforca in strutture a forma di forcella. Quando più stringhe interagiscono, formano un’intricata rete di

«ciambelle» (il termine esatto è «tori») fuse l’una nell’altra. Studiando queste complesse strutture topologiche, i teorici delle stringhe Hirosi Ooguri e Cumrun Vafa scoprirono un nesso sorprendente tra il numero di tori, le proprietà geometriche intrinseche dei nodi, e il polinomio di Jones.[15] Prima di loro, Edward Witten – uno dei protagonisti della teoria delle stringhe – aveva trovato un’inaspettata relazione tra il polinomio di Jones e i fondamenti stessi della teoria delle stringhe (nota come «teoria quantistica dei campi»).[16] Il modello di Witten è stato successivamente rivisto da una prospettiva puramente matematica da Michael Atiyah.[17] Perciò, la teoria delle stringhe e quella dei nodi vivono in perfetta simbiosi. Da un lato, la prima ha beneficiato dei risultati ottenuti dalla seconda; dall’altro, ha condotto a nuove intuizioni nella teoria dei nodi. Figura 60 Sebbene con una portata assai più ampia, la teoria delle stringhe si propone di spiegare i componenti più elementari della materia, più o meno come Thomson in origine aveva ricercato una teoria dell’atomo. Thomson credeva – erroneamente – che i nodi potessero fornire la risposta. Grazie a una svolta imprevista, i teorici delle stringhe hanno scoperto che i nodi possono davvero aiutare a trovare almeno alcune spiegazioni. La storia della teoria dei nodi dimostra perfettamente le inaspettate potenzialità della matematica. Come ho accennato in precedenza, il lato «attivo» dell’efficacia della matematica – quando cioè gli scienziati generano la matematica di cui hanno bisogno per descrivere una scienza osservabile – offre alcune sconcertanti sorprese quando si tratta di entrare nel dettaglio. Permettetemi di illustrare brevemente un argomento della fisica in cui tanto l’aspetto attivo quanto quello passivo hanno avuto un ruolo, ma che è particolarmente degno di nota per via dell’accuratezza raggiunta. Il peso dell’accuratezza Newton attinse alle leggi della caduta dei gravi scoperte da Galileo e altri sperimentalisti italiani, le combinò con quelle del moto dei pianeti enunciate da Keplero, e utilizzò questo schema unificato per elaborare una legge sulla gravitazione universale. Lungo il cammino, Newton dovette ideare una branca totalmente nuova della matematica – il calcolo infinitesimale – che gli consentisse di catturare in modo conciso e coerente tutte le proprietà delle leggi sul moto e la gravitazione che

intendeva proporre. Il grado di accuratezza con cui Newton poteva verificare la sua legge sulla gravità, dati i risultati frutto di osservazioni ed esperimenti disponibili ai suoi tempi, non superava il 4 per cento circa. Tuttavia, la legge si dimostrò precisa al di là di ogni ragionevole aspettativa. Negli anni Cinquanta del Novecento, il margine di incertezza era pari a un decimillesimo di punto percentuale. Ma questo non è tutto. Alcune recenti teorie congetturali, volte a spiegare il fatto che l’espansione del nostro universo sembra accelerare, hanno suggerito che la gravità possa modificare il suo comportamento su scale di distanza molto piccole. Ricorderete come la legge di Newton affermi che l’attrazione gravitazionale è inversamente proporzionale al quadrato della distanza; cioè, se si raddoppia la distanza tra due corpi, la forza gravitazionale avvertita da ciascun corpo diventa quattro volte più debole. Il nuovo scenario prediceva delle deviazioni da questo comportamento per distanze inferiori a un millimetro. Eric Adelberger, Daniel Kapner e i loro collaboratori dell’Università di Washington, Seattle, hanno condotto una serie di ingegnosi esperimenti per testare questo preannunciato cambiamento nella dipendenza dalla separazione.[18] I loro risultati più recenti, pubblicati nel gennaio 2007, mostrano che la legge dell’inverso del quadrato è valida fino a una distanza di cinquantasei millesimi di millimetro! Perciò una legge matematica proposta più di trecento anni fa sulla base di osservazioni limitate non solo si è rivelata straordinariamente accurata, ma ha dimostrato la sua validità in un campo di variazione che è stato possibile sondare solo così di recente. C’era un’altra importante questione che Newton lasciò senza risposta. Come funziona realmente la gravità? Come può la Terra, a oltre 380.000 chilometri di distanza dalla Luna, influenzarne il moto? Newton era consapevole di questa lacuna nella sua teoria, e lo ammise apertamente nei Principia: Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti [...]. La sua azione si estende per ogni dove a immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze [...]. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi.

La persona che decise di raccogliere la sfida posta dall’omissione di Newton fu Albert Einstein (1879-1955). Nel 1907, Einstein aveva un’ottima ragione per interessarsi alla gravità: la sua nuova «teoria della relatività ristretta» sembrava infatti confliggere con la legge di gravitazione newtoniana.[19] Newton credeva che l’azione della gravità fosse istantanea. Supponeva insomma che i pianeti avvertissero all’istante la forza gravitazionale del Sole, e così una mela l’attrazione terrestre. D’altro canto, il pilastro centrale della relatività ristretta di Einstein stava nell’affermazione che nessun oggetto, forma di energia o informazione poteva viaggiare a una velocità superiore a quella della luce. Come poteva dunque la gravità operare istantaneamente? Il seguente esempio mostra che le conseguenze di questa contraddizione potevano rivelarsi disastrose per concetti così fondamentali come la nostra percezione di causa ed effetto. Immaginate che il Sole per qualche motivo all’improvviso scompaia. Privata della forza che la mantiene nella sua orbita, la Terra (secondo Newton) inizierebbe immediatamente a muoversi lungo una linea retta (a parte piccole deviazioni dovute alla gravità di altri pianeti). Tuttavia, il Sole in realtà sparirebbe alla vista degli abitanti della Terra solo circa otto minuti più tardi, poiché questo è il tempo impiegato dalla luce per coprire la distanza tra il Sole e la Terra. In altre parole, il cambiamento di moto della Terra precederebbe la scomparsa del Sole. Per eliminare questa contraddizione, e al tempo stesso affrontare il quesito lasciato senza soluzione da Newton, Einstein si dedicò in maniera quasi ossessiva alla ricerca di una nuova teoria della gravità. Si trattava di un’impresa formidabile. Qualunque nuova teoria doveva non soltanto salvaguardare tutti i notevoli successi della teoria di Newton, ma anche spiegare come funzionava la gravità, e farlo in un modo che fosse compatibile con la relatività ristretta. Dopo un certo numero di false partenze e lunghi vagabondaggi in vicoli ciechi, alla fine Einstein raggiunse la meta nel 1915. La sua «teoria della relatività generale» è tuttora considerata da molti una tra le più straordinarie teorie mai formulate. Il concetto centrale dell’innovativa intuizione di Einstein è che la gravità sia da considerarsi come una curvatura nella struttura dello spazio e del tempo. Secondo Einstein, così come le palline da golf vengono guidate dalle ondulazioni del campo, i pianeti descrivono

traiettorie curve nello spazio deformato che rappresenta la forza di gravità del Sole. In altri termini, in assenza di materia o altre forme di energia, lo «spazio-tempo» (composto dalle tre dimensioni dello spazio e da quella del tempo) sarebbe piatto. Materia ed energia incurvano lo spazio-tempo come una pesante palla da bowling con un tappeto elastico. I pianeti seguono le traiettorie più dirette in questa geometria curva, che è una manifestazione della gravità. Risolvendo il problema di «come funziona» la gravità, Einstein forniva anche il contesto per affrontare quello relativo alla velocità con cui si propaga. La questione si riduceva a determinare quanto potessero viaggiare veloci le curve nello spazio. In fondo, era un po’ come calcolare la velocità delle increspature in uno stagno. Einstein riuscì a dimostrare che, nella relatività generale, la gravità viaggia esattamente alla stessa velocità della luce, il che superava la discrepanza tra la teoria di Newton e la relatività ristretta. Se il Sole dovesse sparire, il cambiamento nell’orbita della Terra si verificherebbe otto minuti dopo, in coincidenza con l’osservazione della scomparsa. Il fatto che Einstein avesse trasformato lo spazio-tempo quadridimensionale e curvo nella pietra angolare della sua nuova teoria sul cosmo significava che aveva assoluta necessità di una teoria matematica di simili entità geometriche. Disperato, si rivolse a un suo vecchio compagno di studi, il matematico Marcel Grossmann (18781936): «Nutro ormai il massimo rispetto per la matematica, le cui parti più astruse giudicavo in precedenza un puro e semplice lusso». Grossmann gli fece notare che la geometria non euclidea di Riemann era proprio lo strumento di cui aveva bisogno: una geometria di spazi curvi di un numero qualsiasi di dimensioni. Questa era un’incredibile dimostrazione di ciò che ho definito l’efficacia «passiva» della matematica, che Einstein fu lesto a riconoscere. «Possiamo in effetti considerare [la geometria] come la più antica branca della fisica» dichiarò. «Senza di essa non sarei stato in grado di formulare la teoria della relatività.» La relatività generale è stata sottoposta a esperimenti con impressionante accuratezza. Questo tipo di test non è facile da realizzare, poiché la curvatura spazio-temporale causata da oggetti come il Sole si misura solo in parti per milione. Mentre in origine le prove erano tutte associate a osservazioni nell’ambito del sistema solare (per esempio, piccolissime variazioni nell’orbita del pianeta Mercurio,

confrontate con le predizioni della gravità newtoniana), di recente sono diventati possibili test più esotici. Una delle migliori verifiche sfrutta un oggetto astronomico conosciuto come «doppia pulsar». Una pulsar è una stella straordinariamente compatta che emette onde radio, con una massa maggiore di quella del Sole, ma ha un raggio di appena dieci chilometri circa. La densità di questa stella (nota come «stella di neutroni») è così alta che un centimetro cubo della sua materia ha una massa di centinaia di milioni di tonnellate. Queste stelle di neutroni ruotano molto velocemente, emettendo onde radio dai loro poli magnetici. Quando l’asse magnetico è disallineato rispetto all’asse di rotazione (figura 61), il fascio di radiazioni originato da un dato polo può attraversare la nostra linea visiva solo una volta ogni rotazione, come il lampo di luce di un faro. In tal caso, l’emissione radio sembrerà pulsare; da qui il termine «pulsar». È anche possibile che due pulsar orbitino l’una attorno all’altra, creando un sistema di doppia pulsar. Ci sono due proprietà che rendono la doppia pulsar un eccellente laboratorio per testare la relatività generale: 1) Le radio pulsar sono dei superbi orologi: la loro velocità di rotazione è talmente regolare che superano in precisione gli orologi atomici; 2) Le pulsar sono così compatte che i loro campi gravitazionali sono molto forti, producendo significativi effetti relativistici. Queste caratteristiche permettono agli astronomi di misurare con estrema accuratezza le variazioni nel tempo di percorrenza della luce causate dal moto orbitale delle due pulsar ciascuna nel campo gravitazionale dell’altra. Il test più recente è stato il frutto di osservazioni effettuate nell’arco di due anni e mezzo sul sistema di due pulsar noto come PSR J07373039A/B (il lungo «numero telefonico» riflette le coordinate del sistema nel cielo). Le due pulsar di questo sistema completano una rivoluzione orbitale in appena due ore e ventisette minuti, e il sistema si trova pressappoco a duemila anni luce dalla Terra (un anno luce è la distanza percorsa dalla luce in un anno nel vuoto, ed equivale a circa 9460 miliardi di chilometri). Un team di astronomi guidato da Michael Kramer dell’Università di Manchester ha misurato le correzioni relativistiche al moto newtoniano. I risultati, pubblicati nell’ottobre del 2006, hanno confermato i valori previsti dalla relatività generale con un’incertezza dello 0,05 per cento![20] Figura 61

Incidentalmente, sia la relatività ristretta sia quella generale hanno un ruolo importante nel Global Positioning System (GPS), che ci aiuta a individuare la nostra posizione sulla superficie terrestre e la strada per muoversi da un posto a un altro, in macchina, in aereo o a piedi. Il GPS determina la posizione del ricevitore misurando il tempo che impiega il segnale proveniente da diversi satelliti a raggiungerlo ed effettuando una triangolazione delle posizioni conosciute di ciascun satellite. La relatività ristretta predice che gli orologi atomici a bordo dei satelliti dovrebbero funzionare più lentamente (restando indietro di alcuni milionesimi di secondo al giorno) di quelli a terra per via del loro moto relativo. Al tempo stesso, secondo la relatività generale, gli orologi sui satelliti dovrebbero andare più veloci (di qualche decina di milionesimi di secondo al giorno) rispetto a quelli a terra, poiché in alto, sopra la superficie terrestre la curvatura spazio-temporale dovuta alla massa della Terra è inferiore. Senza apportare le necessarie correzioni per questi due effetti, gli errori nelle posizioni globali potrebbero accumularsi a un ritmo di oltre otto chilometri al giorno. La teoria della gravità è soltanto uno dei molti esempi che illustrano la miracolosa adattabilità e la strabiliante accuratezza della formulazione matematica delle leggi della natura. In questo caso, come in parecchi altri, ciò che tiriamo fuori dalle equazioni è molto più di quel che ci abbiamo messo dentro all’inizio. L’accuratezza delle teorie di Newton e Einstein si è rivelata di gran lunga superiore a quella delle osservazioni che le teorie si proponevano di spiegare. Forse il miglior esempio della stupefacente precisione che una teoria matematica può raggiungere è fornito dalla «elettrodinamica quantistica» (QDE), cioè la teoria che descrive tutti i fenomeni che coinvolgono la luce e le particelle elettricamente cariche. Nel 2006, un gruppo di fisici di Harvard ha determinato il «momento magnetico dell’elettrone» (che misura la forza con cui un elettrone interagisce con un campo magnetico) con una precisione pari a otto parti per trilione, un’impresa sperimentale straordinaria.[21] Ma se aggiungiamo il fatto che i più recenti calcoli teorici basati sulla QDE raggiungono una precisione analoga e che i due risultati concordano, l’accuratezza diviene quasi incredibile. Quando venne a conoscenza del continuo successo della QDE, uno dei suoi artefici, il fisico Freeman Dyson, commentò: «Sono sbalordito dalla precisione con cui la Natura danza sulle note del motivetto che abbiamo scribacchiato con noncuranza

cinquantasette anni fa, e da come sperimentatori e teorici riescano a misurare e calcolare la sua danza fino a una parte per trilione». A contribuire alla fama delle teorie matematiche non è però solamente l’accuratezza, ma anche la forza predittiva. Lasciatemi fare due semplici esempi, uno riferito al XIX secolo, l’altro al XX. La prima teoria prediceva un nuovo fenomeno e la seconda l’esistenza di nuove particelle fondamentali. James Clerk Maxwell, che formulò la teoria elettromagnetica classica, nel 1864 mostrò che la teoria prediceva come campi elettrici o magnetici che variano generino onde che si propagano. Queste onde – le familiari onde elettromagnetiche (per esempio, le onde radio) – furono individuate per la prima volta dal fisico tedesco Heinrich Hertz (1857-1894) in una serie di esperimenti condotti alla fine degli anni Ottanta dell’Ottocento. Nei tardi anni Sessanta del Novecento, i fisici Steven Weinberg, Sheldon Glashow e Abdus Salam svilupparono una teoria che tratta la forza elettromagnetica e la forza nucleare debole in modo unificato.[22] Questa teoria, oggi conosciuta come «teoria elettrodebole», prediceva l’esistenza di tre particelle (chiamate bosoni W+, W- e Z) che non erano mai state osservate prima. Le particelle furono scoperte nel 1983 durante una serie di esperimenti condotti con un acceleratore (che fa collidere le particelle subatomiche le une contro le altre ad altissima energia) dai fisici Carlo Rubbia e Simon van der Meer. Il fisico Eugene Wigner, che coniò l’espressione «l’irragionevole efficacia della matematica», propose di definire tutti questi inattesi successi delle teorie matematiche come la «legge empirica dell’epistemologia» (l’epistemologia è la disciplina che indaga le origini e i limiti della conoscenza). Se questa «legge» non fosse stata corretta, sostenne, gli scienziati sarebbero stati privi dell’incoraggiamento e della rassicurazione che sono assolutamente necessari per un’approfondita esplorazione delle leggi della natura. Wigner, tuttavia, non offrì alcuna spiegazione per la legge empirica dell’epistemologia. La considerava piuttosto un «dono meraviglioso» per cui dovremmo essere grati pur senza comprenderne l’origine. In effetti, questo «dono» catturava l’essenza della questione relativa all’irragionevole efficacia della matematica. A questo punto, penso che abbiamo raccolto indizi sufficienti per provare a rispondere alle domande con cui abbiamo iniziato. Perché la

matematica è così efficace e produttiva nello spiegare il mondo che ci circonda da generare persino nuove conoscenze? E la matematica, in definitiva, viene inventata oppure scoperta? 9 La mente umana, la matematica e l’universo Le due domande: 1) La matematica esiste indipendentemente dalla mente umana?, e 2) Perché i concetti matematici hanno un’applicabilità che va ben oltre il contesto in cui sono stati originariamente sviluppati?, sono correlate in modi assai complessi. Tuttavia, per semplificare la discussione, tenterò di affrontarle una alla volta. Per prima cosa, forse vi chiederete come la pensano i matematici moderni in merito alla questione se la matematica sia una scoperta o un’invenzione. Ecco come i matematici Philip Davis e Reuben Hersh hanno descritto la situazione nel loro meraviglioso libro L’esperienza matematica: La maggior parte di coloro che scrivono sull’argomento sembrano concordi nel dire che il tipico matematico di professione è un platonista [considera la matematica una scoperta] nei giorni feriali e un formalista [considera la matematica un’invenzione] la domenica. Cioè, quando fa matematica è convinto di avere a che fare con una realtà oggettiva di cui sta cercando di determinare le proprietà. Ma poi, quando viene sfidato a fare un resoconto filosofico di questa realtà, trova più facile fingere che dopotutto non ci crede.[1] Ho l’impressione che questa caratterizzazione possa considerarsi valida per molti matematici e fisici teorici contemporanei. Nondimeno, alcuni matematici del XX secolo si sono schierati apertamente da una parte o dall’altra. Ecco qui, a rappresentare il punto di vista platonico, G. H. Hardy nell’Apologia di un matematico: Per me, e suppongo per la maggior parte dei matematici, esiste un’altra realtà, che chiamerò «realtà matematica»; e non vi è alcun accordo riguardo la natura della realtà matematica né tra i matematici né tra i filosofi. Alcuni ritengono che sia «mentale» e che in un certo senso noi la costruiamo, altri che sia fuori e indipendente da noi. Un uomo che fosse in grado di descrivere in modo convincente la realtà matematica, avrebbe risolto moltissimi dei problemi più difficili della

metafisica. Se poi riuscisse a includere la realtà fisica nella sua descrizione, li avrebbe risolti tutti. Non vorrei discutere qui nessuna di tali questioni, nemmeno se avessi la competenza per farlo, ma esporrò dogmaticamente la mia posizione al fine di evitare il minimo fraintendimento. Credo che la realtà matematica stia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre «creazioni», siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni. Questa idea è stata sostenuta, in una forma o nell’altra, da molti eminenti filosofi da Platone in poi, e userò il linguaggio che è naturale per un uomo che la sostiene.[2] I matematici Edward Kasner (1878-1955) e James Newman (19071966) espressero esattamente il punto di vista opposto in Matematica e immaginazione: Non è sorprendente che la matematica goda di un prestigio ineguagliato da qualunque altro esercizio mentale finalizzato a uno scopo. Ha reso possibili così tanti progressi in campo scientifico, è al tempo stesso così indispensabile nelle faccende pratiche e senza dubbio un tale capolavoro di astrazione pura che il riconoscimento della sua preminenza tra le conquiste dell’intelletto umano le è quantomeno dovuto. Malgrado questa preminenza, la matematica ha avuto il suo primo significativo apprezzamento solo di recente, con l’avvento della geometria quadridimensionale e non euclidea. Questo non vuol dire che i passi avanti compiuti grazie al calcolo infinitesimale, la teoria della probabilità, l’aritmetica dell’infinito, la topologia e gli altri argomenti che abbiamo trattato, vadano minimizzati. Ciascuno ha ampliato la matematica e reso più profondo il suo significato come pure la nostra comprensione dell’universo fisico. Tuttavia, nessuno ha contribuito all’introspezione matematica, alla conoscenza della relazione che lega le parti della matematica tra loro e con il tutto, tanto quanto le eresie non euclidee. In conseguenza del coraggioso spirito critico che ha generato le eresie, abbiamo superato il concetto che le verità matematiche hanno un’esistenza indipendente e separata dalle nostre menti. Ci appare persino strano che un tale concetto sia potuto esistere. Eppure è quello che Pitagora avrebbe pensato – e con lui Cartesio e centinaia di altri grandi matematici prima del XIX secolo. Oggi la matematica non è più

prigioniera; si è sbarazzata delle sue catene. Qualunque sia la sua essenza, riconosciamo che è libera come la mente, prensile come l’immaginazione. La geometria non euclidea è la dimostrazione che la matematica, a differenza della musica delle sfere, è opera dell’uomo, soggetta solamente ai limiti imposti dalle leggi del pensiero.[3] Perciò, contrariamente alla precisione e all’accuratezza che contraddistinguono le affermazioni in matematica, qui siamo di fronte a una divergenza di opinioni più tipica dei dibattiti filosofici o politici. Dovremmo sorprenderci? No davvero. Chiarire se la matematica sia stata inventata oppure scoperta è una questione che non attiene alla matematica. La nozione di «scoperta» implica la preesistenza in qualche universo, reale o metafisico. Il concetto di «invenzione» coinvolge la mente umana, individuale o collettiva. La questione dunque appartiene a una combinazione di discipline che può riguardare la fisica, la filosofia, la matematica, la scienza cognitiva, persino l’antropologia, ma di certo non unicamente la matematica (almeno non in maniera diretta). Di conseguenza, forse i matematici non sono i meglio attrezzati per rispondere a questa domanda. Dopotutto, i poeti, che fanno magie con il linguaggio, non sono per forza i migliori linguisti, e i più grandi filosofi in genere non sono esperti di funzioni cerebrali. La risposta al dilemma «invenzione o scoperta?» può quindi ricavarsi soltanto (sempre che sia possibile) da un attento esame di numerosi indizi sparsi nelle discipline più disparate. Metafisica, fisica e cognizione Quanti credono che la matematica esista in un universo indipendente dagli esseri umani si dividono ancora in due differenti fazioni quando si tratta di identificare la natura di questo universo.[4] Innanzitutto, ci sono i «veri» platonisti, per i quali la matematica abita nel mondo eterno e astratto delle forme matematiche. Poi, ci sono coloro che suggeriscono che le strutture matematiche costituiscono di fatto una parte reale del mondo naturale. Poiché ho già parlato profusamente del platonismo puro e di alcune delle sue imperfezioni filosofiche, vorrei soffermarmi sul secondo punto di vista.[5] La persona che offre forse la versione più estrema e congetturale dello scenario della «matematica come parte del mondo fisico» è un collega astrofisico del MIT, Max Tegmark.

Tegmark sostiene che «il nostro universo non è soltanto descritto dalla matematica: è la matematica» (il corsivo è mio).[6] La sua argomentazione parte dal presupposto indiscusso che esiste una realtà fisica esterna indipendente dagli esseri umani. Quindi passa ad analizzare quale potrebbe essere la natura della teoria definitiva di una tale realtà (quella che i fisici chiamano «teoria del tutto»). Poiché questo mondo fisico è completamente autonomo dagli uomini, afferma Tegmark, la sua descrizione dev’essere libera da qualunque «bagaglio» umano (per esempio, il linguaggio). In altre parole, la teoria definitiva non può includere concetti quali «particelle subatomiche», «stringhe vibranti», «spazio-tempo curvo» o altri costrutti elaborati dall’uomo. Da questa supposta intuizione, Tegmark giunge alla conclusione che l’unica possibile descrizione del cosmo deve implicare unicamente concetti astratti e i rapporti tra essi, che giudica essere la definizione funzionante della matematica. L’argomentazione di Tegmark a sostegno di una realtà matematica è di certo affascinante e, se fosse corretta, avrebbe aperto una strada verso la soluzione del problema dell’«irragionevole efficacia» della matematica. In un universo identificato con la matematica, il fatto che questa si adatti come un guanto alla natura non sarebbe affatto sorprendente. Purtroppo, io non trovo il ragionamento di Tegmark particolarmente convincente. Il salto dall’esistenza di una realtà esterna (indipendente dagli esseri umani) alla conclusione che bisogna credere, per citare le sue stesse parole, «in ciò che io chiamo l’ipotesi dell’universo matematico: che la nostra realtà fisica è una struttura matematica», a mio avviso implica un artificio. Quando Tegmark cerca di qualificare cosa sia realmente la matematica, afferma: «Per un logico moderno, una struttura matematica è precisamente questo: un insieme di entità astratte correlate tra loro». Ma questo logico moderno è un essere umano! In pratica, Tegmark non dimostra mai davvero che la nostra matematica non è stata inventata dall’uomo; si limita a presumerlo. Inoltre, come ha fatto notare il neurobiologo francese JeanPierre Changeux in risposta a una simile asserzione: «Mi sembra che rivendicare una realtà fisica per gli oggetti matematici, a livello dei fenomeni naturali che studiamo in biologia, ponga un preoccupante problema epistemologico. Come può uno stato fisico, interno al nostro cervello, rappresentare un altro stato fisico esterno a esso?».[7]

Gran parte degli altri tentativi di collocare correttamente gli oggetti matematici nella realtà fisica esterna fanno esclusivo affidamento all’efficacia della matematica nello spiegare la natura in modo verificabile. Ciò tuttavia presuppone che non sia possibile nessun’altra spiegazione per l’efficacia della matematica, il che, come mostrerò in seguito, non risponde a verità. Se la matematica non risiede né nel mondo platonico senza spazio e senza tempo, né nel mondo fisico, questo significa forse che è interamente inventata dall’uomo? Assolutamente no. In effetti, più avanti sosterrò che gran parte della matematica è dovuta a delle scoperte. Prima di passare oltre, però, ritengo utile esaminare alcune delle opinioni di scienziati cognitivi contemporanei. La ragione è semplice: se anche la matematica fosse totalmente frutto di scoperte, queste sarebbero state comunque compiute da matematici umani per mezzo dell’uso del loro cervello. Visti gli enormi progressi ottenuti in anni recenti nel campo delle scienze cognitive, era naturale aspettarsi che neurobiologi e psicologi rivolgessero la loro attenzione alla matematica, in particolare alla ricerca dei fondamenti della matematica nella cognizione umana. Un rapido sguardo alle conclusioni della maggior parte degli scienziati cognitivi potrebbe inizialmente darvi l’impressione di vedere incarnata la frase di Mark Twain: «Per chi ha un martello, tutto assomiglia a un chiodo». Con piccole variazioni nell’enfasi, la quasi totalità di neuropsicologi e biologi stabiliscono che la matematica è un’invenzione umana. A un esame più attento, tuttavia, si scopre che sebbene l’interpretazione dei dati cognitivi sia ben lungi dall’essere inequivocabile, non vi è dubbio che gli sforzi cognitivi costituiscono una fase nuova e innovativa nella ricerca dell’origine della matematica. Ecco un piccolo ma rappresentativo campionario di commenti di scienziati cognitivi. Il neuroscienziato francese Stanislas Dehaene, che si interessa principalmente di cognizione numerica, nel suo libro del 1997 Il pallino della matematica concluse che l’intuizione dei numeri è saldamente ancorata nel nostro cervello.[8] Questa posizione non si discosta molto da quella degli intuizionisti, che volevano dare all’intera matematica delle basi nella pura forma dell’intuizione dei numeri naturali. Dehaene sostiene che le scoperte relative alla psicologia dell’aritmetica confermano come il numero appartenga agli «oggetti naturali del

pensiero», alle categorie innate secondo le quali comprendiamo l’universo. In seguito a uno studio separato condotto con i Munduruku – un’isolata tribù indigena dell’Amazzonia – Dehaene e i suoi collaboratori nel 2006 hanno espresso un giudizio analogo sulla geometria: «L’istintiva comprensione di concetti geometrici e mappe da parte di questa remota comunità umana è la prova che la conoscenza geometrica essenziale, al pari dell’aritmetica di base, è un elemento costitutivo universale della mente umana».[9] Non tutti gli scienziati cognitivi concordano con questa conclusione.[10] Alcuni rilevano, per esempio, che il successo dei Munduruku in questo recente test di geometria – in cui dovevano identificare una curva in mezzo a linee rette, un rettangolo tra quadrati, un’ellisse tra cerchi, e così via –, ha probabilmente più a che vedere con la loro abilità visiva nell’individuare l’«intruso» che con un’innata cognizione geometrica. Il neurobiologo francese Jean-Pierre Changeux, in Pensiero e materia, un affascinante dialogo sulla natura della matematica con il matematico (di «persuasione» platonica) Alain Connes, ha osservato: La ragione per cui gli oggetti matematici non hanno nulla a che fare con il mondo sensibile riguarda [...] il loro carattere generativo, la loro capacità di produrre altri oggetti. Il punto che qui va evidenziato è che esiste nel cervello ciò che si può chiamare un «compartimento cosciente», una sorta di spazio fisico per la simulazione e la creazione di nuovi oggetti [...]. Per alcuni aspetti, questi nuovi oggetti matematici sono come esseri viventi: al pari degli esseri viventi, sono oggetti fisici suscettibili di un’evoluzione molto rapida; diversamente dagli esseri viventi, con la particolare eccezione dei virus, si evolvono nel nostro cervello.[11] Infine, l’affermazione più categorica nel contesto «invenzione contro scoperta» si deve al professore di linguistica cognitiva George Lakoff e allo psicologo Rafael Núñez nel loro saggio, piuttosto controverso, Da dove viene la matematica. Come ho già osservato nel Capitolo 1, hanno dichiarato: La matematica è una parte naturale dell’essere umano. Ha avuto origine dai nostri corpi, dai nostri cervelli e dalle nostre esperienze quotidiane nel mondo. [Lakoff e Núñez parlano quindi di una matematica che scaturisce da una «mente embodied», cioè «incarnata».] La matematica è un sistema di concetti umani che fa un uso straordinario degli strumenti ordinari della cognizione umana [...].

Gli esseri umani sono stati i responsabili della creazione della matematica, e abbiamo sempre la responsabilità di conservarla e ampliarla. Il ritratto della matematica ha un volto umano.[12] Gli scienziati cognitivi basano le loro conclusioni su quello che considerano un corpus di prove convincenti frutto dei risultati di numerosi esperimenti. Alcuni di questi test comportavano studi di imaging funzionale dell’attività cerebrale durante l’esecuzione di compiti matematici. Altri prendevano in esame la capacità matematica dei bambini, di gruppi di cacciatori come i Munduruku, che non hanno mai ricevuto un’educazione scolastica, e di soggetti con danni cerebrali di varia entità. La maggior parte dei ricercatori si trova d’accordo sul fatto che certe capacità matematiche sembrano innate. Per esempio, tutti gli esseri umani sono in grado di determinare con un’occhiata se stanno guardando uno, due o tre oggetti (una capacità chiamata «subitizing», valutazione a colpo d’occhio). Anche una versione molto limitata dell’aritmetica, sotto forma di raggruppamenti, accoppiamenti e semplici operazioni di addizione e sottrazione, può essere innata, come pure una comprensione molto elementare dei concetti geometrici (sebbene questa affermazione risulti più controversa). I neuroscienziati hanno inoltre identificato regioni nel cervello, come il giro angolare nell’emisfero sinistro, che appaiono cruciali per destreggiarsi tra i numeri e i calcoli matematici, ma che non sono essenziali per il linguaggio o la «working memory» (memoria di lavoro).[13] Secondo Lakoff e Núñez, uno strumento importante per sviluppare queste capacità innate è la costruzione di «metafore concettuali», cioè processi mentali che traducono concetti astratti in altri più concreti. Per esempio, la nozione di aritmetica ha il suo fondamento nella metafora basilare della collezione di oggetti. D’altro canto, la più astratta algebra delle classi di Boole collegava metaforicamente le classi ai numeri. L’elaborato scenario sviluppato da Lakoff e Núñez offre interessanti intuizioni sul perché gli uomini trovano alcuni concetti matematici molto più difficili di altri. Diversi ricercatori, come la neuroscienziata cognitiva Rosemary Varley dell’Università di Sheffield, suggeriscono che almeno alcune strutture matematiche dipendono in modo «parassitico» dalla facoltà della parola; le intuizioni matematiche si sviluppano cioè prendendo a prestito gli strumenti mentali utilizzati per costruire il linguaggio.[14]

Gli scienziati cognitivi adducono ragioni abbastanza valide a favore di un collegamento tra matematica e mente umana, e contro il platonismo. È tuttavia interessante come quello che io reputo forse l’argomento più convincente contro il platonismo non provenga dai neurobiologi, bensì da Michael Atiyah, uno dei più grandi matematici del XX secolo. Ho accennato brevemente al suo pensiero nel Capitolo 1, ma ora vorrei presentarlo più in dettaglio. Se doveste scegliere il concetto della nostra matematica che ha le maggiori probabilità di esistere indipendentemente dalla mente umana, quale indichereste? La scelta della maggioranza delle persone ricadrebbe verosimilmente sui numeri naturali. Cosa c’è di più «naturale» di 1, 2, 3...? Anche il matematico tedesco Leopold Kronecker (1823-1891), dalle inclinazioni intuizioniste, dichiarò in una celebre frase: «Dio fece i numeri naturali; tutto il resto è opera dell’uomo». Perciò, se si potesse dimostrare che persino i numeri naturali, come concetto, hanno origine nella mente umana, questo rappresenterebbe un fortissimo argomento a favore del paradigma dell’«invenzione». Ecco come la pensa Atiyah: Proviamo a immaginare che l’intelligenza, invece che nel genere umano, risieda in qualche solitaria e isolata medusa, nascosta negli abissi dell’Oceano Pacifico. Non avrebbe alcuna esperienza di singoli oggetti, solo dell’acqua che la circonda. Movimento, temperatura e pressione fornirebbero i suoi dati sensoriali fondamentali. In questo puro continuo, il discreto non sorgerebbe e non ci sarebbe nulla da contare.[15] In altre parole, Atiyah è convinto che anche un concetto basilare come quello dei numeri naturali sia stato creato dall’uomo, astraendo (gli scienziati cognitivi direbbero «attraverso metafore fondanti») elementi del mondo fisico. Per fare un esempio, il numero 12 rappresenta un’astrazione di una proprietà comune a tutti gli oggetti che si presentano a dozzine, esattamente come la parola «pensieri» rappresenta una molteplicità di processi che avvengono nel nostro cervello. Il lettore potrebbe avere da ridire sull’uso dell’ipotetico universo della medusa per dimostrare questo punto, e sostenere che c’è un unico, inevitabile universo, e che ogni congettura dovrebbe essere esaminata nel contesto di questo universo. Tuttavia, ciò equivarrebbe ad ammettere che il concetto di numeri naturali in effetti dipende in

qualche modo dall’universo dell’esperienza umana! Noterete che questo è precisamente ciò che Lakoff e Núñez intendono quando fanno riferimento a una matematica «incarnata». Ho appena asserito che i concetti della nostra matematica hanno origine nella mente umana. Potreste dunque domandarvi perché in precedenza ho insistito sul fatto che in realtà viene scoperta, una posizione che appare più vicina a quella dei platonisti. Invenzione e scoperta Nel nostro linguaggio quotidiano, la distinzione tra scoperta e invenzione è a volte cristallina, a volte un po’ confusa. Nessuno direbbe mai che Shakespeare ha scoperto Amleto, o che Marie Curie ha inventato il radio. Al tempo stesso, nuovi farmaci per curare certe malattie vengono di norma annunciati come scoperte, benché sovente comportino la meticolosa sintesi di nuovi composti chimici. Vorrei quindi illustrare in modo abbastanza dettagliato un esempio specifico che credo non solo aiuterà a chiarire la distinzione tra i due concetti, ma favorirà anche preziose intuizioni sul processo con cui la matematica si evolve e progredisce. Nel Libro VI degli Elementi, la monumentale opera di Euclide sulla geometria, troviamo la definizione di una certa divisione di una linea in due parti diseguali (una precedente definizione, in termini di aree, appare nel Libro II). Secondo Euclide, se una linea AB è divisa da un punto C (figura 62) in modo che il rapporto delle lunghezze dei due segmenti (AC/CB) sia pari all’intera linea divisa per il segmento più lungo (AB/AC), allora si dirà che la linea è stata divisa secondo il «rapporto medio ed estremo». Dal XIX secolo, tale rapporto è comunemente noto come «rapporto aureo».[16] Un po’ di semplice algebra mostra che il rapporto aureo è pari a: (1 + v5) / 2 = 1,6180339887... Figura 62 La prima domanda che potreste porvi è perché Euclide si sia preso il disturbo di definire questa particolare divisione di una linea e di trovare un nome al rapporto. Dopotutto, ci sono infiniti modi in cui un segmento può essere diviso. La risposta poggia nell’eredità culturale e mistica dei pitagorici e di Platone. Ricorderete come i pitagorici fossero ossessionati dai numeri. Consideravano i numeri dispari come «maschili» e «buoni», e quelli pari come «femminili» e «cattivi».

Nutrivano una particolare simpatia per il numero 5, in quanto somma di 2 e 3, cioè il primo numero pari (femminile) e il primo numero dispari (maschile). (Il numero 1 non era considerato un numero, bensì piuttosto il generatore di tutti i numeri.) Per i pitagorici, quindi, il numero 5 rappresentava l’amore e il matrimonio, mentre il pentagramma – la stella a cinque punte (figura 63) – era il simbolo della loro confraternita. È qui che il rapporto aureo fa la sua prima apparizione. Se prendete un pentagramma regolare, il rapporto della lunghezza del lato di ciascuno dei triangoli con la sua base implicita (a/b nella figura 63) è esattamente uguale al rapporto aureo. Analogamente, il rapporto di qualunque diagonale di un pentagono regolare con il suo lato (c/d nella figura 64) è a sua volta pari al rapporto aureo. Infatti, costruire un pentagramma usando riga e compasso (il comune metodo di costruzione geometrica degli antichi greci) richiede la divisione di una linea secondo il rapporto aureo. Figura 63 Figura 64 Platone aggiunse un’altra dimensione al significato mitico del rapporto aureo. Gli antichi greci credevano che ogni cosa nell’universo fosse composta da quattro elementi: terra, fuoco, aria e acqua. Nel Timeo, Platone tentò di spiegare la struttura della materia utilizzando i cinque solidi regolari che oggi portano il suo nome: i «solidi platonici» (figura 65). Figura 65 Questi poliedri convessi, che includono il tetraedro, il cubo (o esaedro), l’ottaedro, il dodecaedro e l’icosaedro, sono gli unici in cui tutte le facce (di ogni singolo solido) sono uguali e sono poligoni regolari, e i cui vertici giacciono tutti su una sfera. Platone associò i quattro elementi cosmici primari a quattro dei solidi platonici: la terra al cubo, fermo e stabile; il fuoco penetrante al tetraedro appuntito; l’aria all’ottaedro; e l’acqua all’icosaedro. In merito al dodecaedro (figura 65d), Platone scrisse nel Timeo: «Restava una quinta combinazione, e Dio se ne giovò per decorare l’universo». Il dodecaedro simboleggiava pertanto l’universo nella sua interezza. Occorre tuttavia osservare che il dodecaedro, con le sue dodici facce pentagonali, ha il rapporto aureo scritto ovunque; tanto il suo volume quanto la sua area possono essere espressi come semplici funzioni del rapporto aureo (lo stesso vale per l’icosaedro).

La storia mostra dunque che attraverso numerosi tentativi ed errori, i pitagorici e i loro seguaci scoprirono modi per costruire determinate figure geometriche che rappresentavano per loro concetti importanti, come l’amore e l’intero cosmo. Non c’è quindi da stupirsi che, insieme a Euclide (il quale documentò tale tradizione) abbiano inventato il concetto di rapporto aureo implicito in queste costruzioni, dandogli un nome. A differenza di qualunque altro rapporto arbitrario, il numero 1,618... divenne il centro di un’intensa e ricca storia di indagini, e continua a spuntar fuori ancora oggi nei luoghi più inaspettati. Per esempio, due millenni dopo Euclide, Keplero scoprì che questo numero appare miracolosamente, per così dire, in relazione a una sequenza di numeri conosciuta come «serie di Fibonacci». La serie di Fibonacci: 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, 55, 89, 144, 233... è caratterizzata dal fatto che, iniziando dal terzo, ogni numero è la somma dei due precedenti (2 = 1 + 1; 3 = 1 + 2; 5 = 2 + 3 e così via). Dividendo ciascun numero della sequenza per quello immediatamente precedente (144 ? 89; 233 ? 144...), si scopre che i rapporti oscillano attorno al rapporto aureo, approssimandosi a esso man mano che si procede nella successione. Per esempio, arrotondando i numeri al sesto decimale, si ottengono i seguenti risultati: 144 ? 89 = 1,617978; 233 ? 144 = 1,618056; 377 ? 233 = 1, 618026 e così via. In tempi più moderni, si è riscontrato che la serie di Fibonacci, e con essa il rapporto aureo, figuravano nella disposizione delle foglie di alcune piante (il fenomeno noto come «fillotassi») e nella struttura dei cristalli di certe leghe di alluminio. Perché considero la definizione euclidea del concetto di rapporto aureo un’invenzione? Perché l’atto inventivo di Euclide ha selezionato questo rapporto e ha attirato su di esso l’attenzione dei matematici. In Cina, d’altra parte, dove il concetto di rapporto aureo non è stato inventato, la letteratura matematica non vi contiene essenzialmente alcun riferimento. Anche in India il concetto non è stato inventato, ed esistono solo alcuni insignificanti teoremi di trigonometria che coinvolgono marginalmente il rapporto. Numerosi altri esempi dimostrano che la domanda «La matematica è una scoperta o un’invenzione?» è mal posta. La nostra matematica è una combinazione di invenzioni e scoperte. Gli assiomi della geometria euclidea in quanto concetto erano un’invenzione, proprio come le regole del gioco degli scacchi. Gli assiomi erano inoltre integrati con

una varietà di concetti inventati, come triangoli, parallelogrammi, ellissi, il rapporto aureo eccetera. I teoremi della geomeria euclidea, d’altro canto, erano nel complesso delle scoperte; erano i sentieri che collegavano i differenti concetti. In alcuni casi, le prove generavano i teoremi: i matematici prendevano in esame ciò che potevano dimostrare e da quello deducevano i teoremi. In altri, come descritto da Archimede nel Metodo, prima trovavano la risposta a una particolare domanda che li interessava, e poi elaboravano la prova. Tipicamente, i concetti erano invenzioni. I numeri primi, come concetto, erano un’invenzione, ma tutti i teoremi sui numeri primi erano scoperte.[17] Gli antichi matematici babilonesi, egizi e cinesi non inventarono mai il concetto di numeri primi, nonostante la loro matematica fosse assai progredita. Potremmo invece dire che semplicemente non «scoprirono» i numeri primi? Non più di quanto potremmo affermare che il Regno Unito non ha «scoperto» un’unica costituzione scritta e codificata. Proprio come un Paese può sopravvivere senza una costituzione, la matematica elaborata poteva svilupparsi senza il concetto di numeri primi. E così è stato! Sappiamo perché gli antichi greci inventarono concetti quali gli assiomi e i numeri primi? Non possiamo esserne certi, ma si potrebbe ipotizzare che facesse parte dei loro sforzi implacabili di indagare gli elementi costitutivi dell’universo. I numeri primi erano i mattoni fondamentali dei numeri, così come gli atomi lo erano della materia. In modo analogo, gli assiomi erano la fonte da cui si supponeva sgorgassero tutte le verità geometriche. Il dodecaedro rappresentava l’intero cosmo e il rapporto aureo era il concetto che dava origine a quel simbolo. Questa discussione evidenzia un altro aspetto interessante della matematica: essa fa parte della cultura umana. Una volta che i greci ebbero inventato il metodo assiomatico, tutti i successivi ricercatori europei ne seguirono l’esempio e adottarono la stessa filosofia e le stesse pratiche. L’antropologo Leslie A. White (1900-1975) tentò una volta di riassumere questo aspetto della questione, osservando: «Se Newton fosse cresciuto nella cultura [tribale sudafricana] degli ottentotti, avrebbe calcolato come un ottentotto».[18] Questo carattere culturale della matematica è con ogni probabilità responsabile del fatto che parecchie scoperte matematiche (per esempio, gli invarianti dei nodi) e persino alcune importanti invenzioni (per esempio, il calcolo

infinitesimale) vennero fatte contemporaneamente da diverse persone che lavoravano in modo indipendente l’una dall’altra. Parlate la lingua della matematica? Precedentemente ho paragonato l’importanza del concetto astratto di un numero a quello del significato di una parola. La matematica è dunque una specie di lingua? Le intuizioni che provengono dalla logica matematica da un lato, e dalla linguistica dall’altro, indicano che in una certa misura lo è. Gli apporti di Boole, Frege, Peano, Russell, Whitehead, Gödel e i loro seguaci moderni (in particolare in aree quali la sintassi e la semantica filosofica, e parallelamente nella linguistica) hanno dimostrato che grammatica e ragionamento sono strettamente correlati a un’algebra della logica simbolica. Ma allora come mai ci sono più di 6500 lingue e una sola matematica? In realtà, tutti i differenti idiomi presentano numerose caratteristiche strutturali comuni. Per esempio, il linguista americano Charles F. Hockett (1916-2000) negli anni Sessanta attirò l’attenzione sul fatto che tutte le lingue dispongono di meccanismi incorporati per acquisire nuove parole e frasi (pensate a «home page», «laptop» eccetera).[19] Allo stesso modo, tutte le lingue umane tengono conto dell’astrazione («surrealismo», «assenza», «grandezza»), della negazione (non) e di frasi ipotetiche («Se mio nonno avesse le ruote, sarebbe una carriola»). Due delle più importanti caratteristiche di tutte le lingue vengono definite «open-endedness» (indeterminatezza) e «stimulus-freedom» (libertà di risposta a uno stimolo). La prima proprietà rappresenta la capacità di creare e comprendere enunciati mai sentiti prima. Per esempio, posso facilmente generare una frase tipo: «Non si può riparare la diga di Hoover con della gomma da masticare». Sebbene non l’abbiate mai udita prima, non avete alcuna difficoltà a capirne il senso. La stimulus-freedom è invece la facoltà di scegliere come (o addirittura se) rispondere a uno stimolo ricevuto.[20] Per esempio, la risposta alla domanda posta dalla cantautrice Carole King nel suo brano Will You Still Love Me Tomorrow? (Mi amerai ancora domani?) potrebbe essere una qualsiasi delle seguenti: «Non so se sarò ancora vivo, domani»; «Certamente!»; «Non ti amo nemmeno oggi»; «Non quanto amo il mio cane»; «Questa è decisamente la tua canzone più bella»; o addirittura «Mi chiedo chi vincerà gli Australian Open quest’anno». Riconoscerete come molte di queste caratteristiche (astrazione, negazione,

indeterminatezza, la capacità di evolversi) siano proprie anche della matematica.[21] Come ho già fatto notare in precedenza, Lakoff e Núñez enfatizzano il ruolo delle metafore nella matematica. I linguisti cognitivi usano le metafore per esprimere quasi tutto. Cosa forse ancor più importante, sin dal 1957, anno in cui il celebre linguista Noam Chomsky pubblicò la sua rivoluzionaria opera Le strutture della sintassi, molti degli sforzi linguistici hanno ruotato attorno al concetto di «grammatica universale», ovvero i princìpi che regolano tutte le lingue.[22] In altre parole, quella che sembra una Torre di Babele della diversità potrebbe in realtà celare una sorprendente somiglianza strutturale. In effetti, se così non fosse, i dizionari che traducono da una lingua all’altra non avrebbero mai potuto funzionare. Forse vi chiederete perché la matematica è tanto uniforme, in termini sia di contenuto sia di notazione simbolica. Il primo quesito è particolarmente interessante. La maggior parte dei matematici concorda sul fatto che la matematica così come la conosciamo si è evoluta dalle branche fondamentali della geometria e dell’aritmetica praticate dagli antichi babilonesi, egizi e greci. Tuttavia, era davvero inevitabile che cominciasse con queste due specifiche discipline? Non necessariamente, almeno così sostiene lo scienziato informatico Stephen Wolfram nel suo poderoso libro A New Kind of Science.[23] In particolare, Wolfram ha mostrato come partendo da semplici insiemi di regole che agiscono come brevi programmi (detti «automi cellulari»), sia possibile sviluppare un tipo assai diverso di matematica. Questi automi cellulari potrebbero essere usati – almeno in linea di principio – come strumenti basilari per simulare i fenomeni naturali, invece delle equazioni differenziali che hanno dominato la scienza per tre secoli. Cos’è allora che ha spinto le antiche civiltà a scoprire e inventare la nostra speciale «marca» di matematica? Non lo so davvero, ma può darsi che abbia a che vedere con le particolarità del sistema percettivo umano. Gli uomini individuano e percepiscono con estrema facilità spigoli, curve e linee rette. Basta notare, per esempio, con quale precisione sappiamo stabilire (semplicemente per mezzo dei nostri occhi) se una linea è perfettamente dritta, o come siamo in grado di distinguere senza alcuno sforzo tra un cerchio e una forma leggermente ellittica. Queste abilità percettive possono avere inciso profondamente sull’esperienza umana del mondo, e condotto di conseguenza a una

matematica basata su oggetti discreti (aritmetica) e su figure geometriche (geometria euclidea). L’uniformità della notazione simbolica è probabilmente il risultato di quello che potremmo chiamare l’«effetto Microsoft Windows»: il mondo intero usa il sistema operativo di Microsoft, non perché tale conformità sia inevitabile, ma perché una volta che un sistema operativo ha iniziato a dominare il mercato dei computer, tutti hanno dovuto adottarlo, in ragione della comodità nella comunicazione e della disponibilità di prodotti. Analogamente, la notazione simbolica occidentale ha imposto l’uniformità al mondo della matematica. Anche l’astronomia e l’astrofisica possono fornire un contributo interessante alla questione «invenzione e scoperta». Gli studi più recenti sui pianeti extrasolari indicano che circa il 5 per cento delle stelle ha un pianeta gigante (come Giove nel nostro sistema solare) che gli ruota attorno, e che questa frazione rimane più o meno costante, in media, in tutta la Via Lattea. Sebbene la frazione esatta di «pianeti terrestri» (cioè simili alla Terra) sia ancora sconosciuta, ci sono buone probabilità che la galassia pulluli di miliardi di questi pianeti. Anche se soltanto una piccola (ma non trascurabile) frazione di queste «Terre» si trovasse in una «zona abitabile» (il range di orbite che permette l’esistenza di acqua allo stato liquido sulla superficie di un pianeta) attorno alla sua stella ospite, la probabilità che sulla superficie di tali pianeti si sviluppi la vita in generale, o la vita intelligente in particolare, non è uguale a zero. Se dovessimo scoprire un’altra forma di vita intelligente con cui comunicare, potremmo ottenere informazioni di valore inestimabile sui formalismi elaborati da questa civiltà per spiegare il cosmo. Non solo faremmo inimmaginabili progressi nella comprensione dell’origine e dell’evoluzione della vita, ma potremmo persino confrontare la nostra logica con il sistema logico di creature potenzialmente più progredite. Su un piano ancor più speculativo, alcuni scenari della cosmologia (per esempio l’«inflazione eterna») predicono la possibile esistenza di universi multipli. Alcuni di questi universi potrebbero non solo essere caratterizzati da valori differenti delle costanti della natura (l’intensità delle diverse forze, i rapporti di massa delle particelle subatomiche eccetera), ma addirittura da leggi della natura del tutto differenti. L’astrofisico Max Tegmark sostiene che dovrebbe esserci un universo che corrisponde a ogni possibile struttura matematica.[24] Se ciò fosse

vero, si tratterebbe di una versione estrema del punto di vista secondo cui «l’universo è matematica»: non c’è solo un mondo che si può identificare con la matematica, ma un intero insieme di mondi. Sfortunatamente, non soltanto questa congettura è radicale e per il momento non verificabile, ma sembra anche contraddire, almeno nella sua forma più semplice, il cosiddetto «principio di mediocrità».[25] Come ho descritto nel Capitolo 5, se scegliamo una persona a caso per strada, abbiamo il 95 per cento di probabilità che la sua statura sia compresa tra due deviazioni standard dall’altezza media. Un argomento simile dovrebbe applicarsi anche alle proprietà dell’universo. Ma il numero di possibili strutture matematiche aumenta vertiginosamente con l’aumentare della complessità. Questo significa che la struttura più «mediocre», cioè più vicina alla media, dovrebbe essere incredibilmente complicata. Ciò è in contrasto con la relativa semplicità della nostra matematica e delle nostre teorie sul cosmo, violando così la naturale aspettativa che il nostro universo sia tipico. L’enigma di Wigner «La matematica è stata creata o scoperta?» è la domanda sbagliata da porsi, poiché implica che la risposta debba essere una o l’altra e che le due possibilità si escludano a vicenda. Invece, io suggerisco che la matematica sia in parte creata e in parte scoperta. Gli esseri umani di norma inventano concetti matematici e scoprono le relazioni tra essi. Alcune scoperte empiriche sicuramente precedettero la formulazione dei concetti, ma questi ultimi senza dubbio costituirono un incentivo per la scoperta di altri teoremi. Occorre notare che alcuni filosofi della matematica, come l’americano Hilary Putnam, adottano una posizione intermedia conosciuta come «realismo»[26] – credono cioè nell’oggettività del discorso matematico (le frasi sono vere o false, e ciò che le rende vere o false è esterno all’uomo), senza pronunciarsi in modo esplicito, come i platonisti, sull’esistenza degli «oggetti matematici». Qualcuna di queste intuizioni porta anche a una spiegazione soddisfacente dell’enigma dell’«irragionevole efficacia» di Wigner? Lasciatemi prima passare in rassegna alcune delle potenziali soluzioni proposte da pensatori contemporanei.[27] Il Premio Nobel per la fisica David Gross scrive: Un punto di vista che, per la mia esperienza, non è insolito tra i matematici creativi – cioè che le strutture matematiche a cui riescono

ad arrivare non sono creazioni artificiali della mente umana, ma possiedono piuttosto una loro naturalezza, quasi fossero reali quanto le strutture create dai fisici per descrivere il cosiddetto mondo reale. I matematici, in altre parole, non stanno inventando una nuova matematica, la stanno scoprendo. Se è così, allora forse alcuni dei misteri che siamo andati esplorando [l’«irragionevole efficacia»] sono resi un po’ meno misteriosi. Se la matematica riguarda strutture che costituiscono una parte reale del mondo naturale, reali quanto i concetti della fisica teorica, allora non è sorprendente che sia uno strumento efficace per analizzare il mondo reale.[28] Gross fa qui assegnamento a una versione della prospettiva «matematica come scoperta» che si pone da qualche parte tra il mondo platonico e il mondo dell’«universo è matematica», ma più vicino alla concezione platonica. Come abbiamo visto, è difficile sostenere filosoficamente che la matematica è una scoperta. Inoltre, il platonismo non può veramente risolvere il problema dell’accuratezza fenomenica che ho descritto nel Capitolo 8, un punto su cui concorda anche Gross. Michael Atiyah, le cui idee sulla natura della matematica ho largamente preso in considerazione, afferma quanto segue: Se si considera il cervello nel suo contesto evolutivo, allora il misterioso successo della matematica nelle scienze fisiche è almeno parzialmente giustificato. Il cervello si è evoluto al fine di affrontare il mondo fisico, perciò non deve sorprendere più di tanto che abbia sviluppato un linguaggio, la matematica, ben adatto allo scopo. Questo ragionamento è molto simile alle soluzioni proposte dagli scienziati cognitivisti. Tuttavia, Atiyah riconosce anche che questa spiegazione non affronta la parte più spinosa del problema, e cioè in che modo la matematica chiarisce gli aspetti più esoterici del mondo fisico. In particolare, lascia aperta la questione di quella che ho chiamato l’efficacia «passiva» (i concetti matematici che trovano applicazione molto tempo dopo essere stati inventati). Atiyah osserva: «Lo scettico potrebbe rilevare che la lotta per la sopravvivenza ci richiede solo di affrontare i fenomeni fisici su scala umana, eppure la teoria matematica sembra occuparsi con successo di tutte le scale, da quella atomica a quella galattica». Il suo unico suggerimento è: «Forse la spiegazione sta nella natura gerarchica astratta della matematica, che ci mette in condizione di spostarci su e giù nella scala del mondo con relativa facilità».[29]

Il matematico e scienziato informatico americano Richard Hamming (1915-1998) ha elaborato nel 1980 un’ampia e interessante analisi dell’enigma di Wigner.[30] Innanzitutto, circa la questione della natura della matematica, ha concluso che «La matematica è stata fatta dall’uomo ed è di conseguenza soggetta a essere continuamente modificata da esso». Poi ha proposto quattro potenziali spiegazioni per l’irragionevole efficacia: 1) gli effetti della selezione; 2) l’evoluzione degli strumenti matematici; 3) la limitata capacità esplicativa della matematica; 4) l’evoluzione degli esseri umani. Ricorderete che gli effetti della selezione sono alterazioni introdotte nei risultati degli esperimenti dall’apparato di cui ci si serve o dal modo in cui i dati vengono raccolti. Per esempio, se in un test sull’efficacia di un programma dietetico il ricercatore rifiuta di tenere in considerazione i dati di chiunque abbandoni l’esperimento, questo ne influenzerà l’esito, poiché molto probabilmente coloro che rinunciano sono quelli per cui il programma non funzionava. In altre parole, Hamming suggerisce che almeno in alcuni casi «il fenomeno originario deriva dagli strumenti matematici che usiamo e non dal mondo reale [...] molto di ciò che vediamo dipende dagli occhiali che portiamo». Come esempio, fa notare, e a ragione, che è possibile mostrare che qualunque forza che scaturisca in modo simmetrico da un punto (conservando energia) nello spazio tridimensionale deve comportarsi secondo una legge dell’inverso del quadrato, e di conseguenza che l’applicabilità della legge della gravitazione universale di Newton non deve sorprendere. L’opinione di Hamming è condivisibile, ma gli effetti della selezione non spiegano affatto la straordinaria accuratezza di alcune teorie. La seconda soluzione teorica offerta da Hamming si basa sul fatto che gli esseri umani selezionano e migliorano di continuo la matematica affinché si adatti a una determinata situazione. In pratica, Hamming suggerisce che stiamo assistendo a ciò che potremmo definire un’«evoluzione e selezione naturale» delle idee matematiche, e che solo quelle che si adattano vengono scelte. Per anni anch’io ho creduto che fosse questa la spiegazione definitiva. Un’analoga interpretazione è stata avanzata dal Premio Nobel per la Fisica Steven Weinberg nel suo libro Il sogno dell’unità dell’universo.[31] Questa può essere la spiegazione dell’enigma di Wigner? Non c’è dubbio che una simile selezione e una simile evoluzione si verifichino davvero.

Dopo aver vagliato una gran varietà di formalismi e strumenti matematici, gli scienziati conservano quelli che funzionano, e non esitano a sostituirli o modificarli non appena se ne rendono disponibili di migliori. Ma, anche se accettassimo questa ipotesi, perché ci sono teorie che possono spiegare l’universo? La terza spiegazione che offre Hamming è che la nostra impressione dell’efficacia della matematica potrebbe in effetti non essere che un’illusione, poiché c’è molto nel mondo che ci circonda che la matematica non è realmente in grado di spiegare. A sostegno di questa prospettiva potrei citare la frase pronunciata dal matematico Izrail Moiseevic? Gelfand: «C’è solo una cosa che è più irragionevole dell’irragionevole efficacia della matematica nella fisica, ed è l’irragionevole inefficacia [il corsivo è mio] della matematica nella biologia».[32] Non credo che questo di per sé possa spiegare in maniera soddisfacente il problema di Wigner. È vero che, a differenza della Guida galattica per gli autostoppisti, non possiamo affermare che la risposta alla domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto sia «quarantadue». Cionondimeno, c’è un numero sufficientemente grande di fenomeni su cui la matematica può fare chiarezza per garantire una spiegazione. Inoltre, la gamma di fatti e processi che è possibile interpretare mediante la matematica continua ad ampliarsi. La quarta teoria proposta da Hamming è molto simile a quella suggerita da Atiyah, cioè che «l’evoluzione darwiniana selezionava naturalmente per la sopravvivenza quelle forme di vita in competizione che avevano nelle loro menti i modelli migliori di realtà – intendendo per “migliori” i migliori per sopravvivere e moltiplicarsi». Lo scienziato informatico Jef Raskin (1943-2005), che avviò il progetto Macintosh per la Apple, aveva idee analoghe. Pur ponendo l’accento sul ruolo della logica, Raskin concludeva che: La logica umana ci è stata imposta dal mondo fisico ed è di conseguenza coerente con esso. La matematica deriva dalla logica. Ecco perché la matematica è coerente con il mondo fisico. Qui non c’è alcun mistero, anche se non dovremmo perdere la nostra sensazione di meraviglia e stupore per la natura delle cose pur comprendendole sempre meglio. Hamming è meno convinto, malgrado la validità dei suoi stessi argomenti:

Se scegliamo 4000 anni per l’era della scienza, in generale, otteniamo un limite massimo di 200 generazioni. Considerando gli effetti dell’evoluzione che stiamo cercando mediante la selezione di piccole variazioni di probabilità, non mi pare che l’evoluzione possa spiegare se non in minima parte l’irragionevole efficacia della matematica. Raskin insisteva che «le basi per la matematica erano state gettate molto prima nei cervelli dei nostri antenati, probabilmente nel corso di milioni di generazioni».[33] Devo ammettere, tuttavia, che non trovo questo argomento particolarmente persuasivo. Anche se la logica fosse stata inculcata nei cervelli dei nostri antenati, è difficile capire come questa capacità possa aver condotto a teorie matematiche astratte del mondo subatomico, come la meccanica quantistica, di accuratezza stupefacente. È notevole come Hamming finisca il suo articolo concludendo che «tutte le spiegazioni che ho fornito, una volta messe insieme, semplicemente non sono sufficienti a spiegare ciò di cui mi proponevo di dar conto» (cioè «l’irragionevole efficacia» della matematica). Dobbiamo quindi chiudere ammettendo che l’efficacia della matematica resta misteriosa come quando abbiamo iniziato? Prima di darci per vinti, proviamo a distillare l’essenza dell’enigma di Wigner prendendo in esame il cosiddetto «metodo scientifico». Gli scienziati apprendono i fatti della natura attraverso una serie di esperimenti e osservazioni. Questi fatti servono inizialmente per sviluppare alcuni tipi di modelli qualitativi dei fenomeni (la Terra attrae le mele; la collisione di particelle subatomiche produce altre particelle; l’universo è in espansione eccetera). In molte branche della scienza emergono teorie che possono restare non matematiche. Uno dei migliori esempi di una teoria esplicativa di questo tipo è la teoria dell’evoluzione di Darwin. Sebbene la selezione naturale non si basi su un formalismo matematico, il suo successo nel chiarire l’origine delle specie è stato notevole. Nella fisica fondamentale, d’altra parte, di solito il passo successivo comporta dei tentativi di costruire delle teorie matematiche e quantitative (la relatività generale, l’elettrodinamica quantistica, la teoria delle stringhe e così via). Infine, i ricercatori fanno riferimento a quei modelli matematici per predire nuovi fenomeni, nuove particelle, e i risultati di osservazioni ed esperimenti mai eseguiti prima. A sconcertare Wigner e Einstein era l’incredibile successo degli

ultimi due processi. Com’è possibile che i fisici riescano continuamente a trovare strumenti matematici che non soltanto spiegano gli esiti di esperimenti e osservazioni, ma che portano anche a intuizioni del tutto inedite? Tenterò di rispondere a questa versione della domanda prendendo in prestito un esempio del matematico Reuben Hersh, il quale ha proposto che, nello spirito dell’analisi di molti problemi simili della matematica (e della fisica teorica), si debba esaminare il caso più semplice.[34] Considerate l’esperimento apparentemente banale di mettere dei sassi in un vaso opaco. Supponiamo che in un primo tempo ci gettiate quattro sassi bianchi, e in seguito sette sassi neri. A un certo punto della loro storia, gli esseri umani impararono che per alcuni scopi potevano rappresentare una collezione di sassi di ogni colore con un concetto astratto che avevano inventato: un numero naturale. I sassi bianchi potevano cioè essere associati al numero 4 (o IIII o IV o qualunque altro simbolo fosse usato all’epoca) e quelli neri al numero 7. Mediante una sperimentazione del tipo che ho descritto prima, gli uomini scoprirono anche che un altro concetto inventato – l’addizione aritmetica – rappresentava correttamente l’atto fisico dell’aggregazione. In altri termini, il risultato del processo astratto denotato simbolicamente con 4 + 7 poteva predire in modo inequivocabile il numero finale di sassi nel vaso. Che cosa significa tutto questo? Significa che gli esseri umani hanno sviluppato uno straordinario strumento matematico, in grado di predire in maniera affidabile il risultato di qualunque esperimento di questo genere! In realtà esso è assai meno banale di quanto possa apparire, poiché lo stesso strumento, per esempio, non funziona per le gocce d’acqua. Se lasciate cadere quattro gocce d’acqua nel vaso, e poi altre sette, non avrete undici singole gocce d’acqua nel vaso. In effetti, per fare delle predizioni riguardo ad analoghi esperimenti con i liquidi (o i gas), gli uomini dovettero inventare concetti del tutto diversi (come il peso) e rendersi conto che era necessario pesare singolarmente ogni goccia o volume di gas. La lezione è chiara. Gli strumenti matematici non erano scelti in modo arbitrario, ma esattamente sulla base della loro capacità di prevedere in maniera corretta gli esiti di importanti esperimenti od osservazioni. Così, almeno per questo semplice caso, la loro efficacia era sostanzialmente garantita. Gli esseri umani non dovevano

indovinare in anticipo qual era la matematica giusta. La natura concedeva loro il lusso del metodo per prove ed errori allo scopo di determinare cosa funzionava e cosa no. Non avevano nemmeno bisogno di utilizzare sempre gli stessi strumenti in ogni circostanza. A volte il formalismo matematico appropriato per un dato problema non esisteva, e a qualcuno toccava inventarlo (come nel caso di Newton, che inventò il calcolo infinitesimale, o dei matematici moderni, che generano varie idee topologiche/geometriche nel contesto degli attuali sforzi nel campo della teoria delle stringhe). In altri casi, il formalismo esisteva già, ma qualcuno doveva scoprire che era una soluzione in attesa del problema giusto (come Einstein, che utilizzò la geometria di Riemann, o i fisici delle particelle, che si sono avvalsi della teoria dei gruppi). Il punto è che grazie alla curiosità, all’ostinazione, alla creatività e alla determinazione, gli uomini riuscirono a trovare gli importanti formalismi matematici per simulare un gran numero di fenomeni fisici. Una caratteristica della matematica assolutamente cruciale per ciò che ho definito efficacia «passiva» era la sua validità praticamente eterna. La geometria euclidea è corretta oggi come lo era nel 300 a.C. Ora comprendiamo che i suoi assiomi non sono ineludibili; invece che rappresentare delle verità assolute sullo spazio, rappresentano delle verità nell’ambito di un universo particolare percepito dall’uomo e del formalismo a esso collegato, frutto dell’invenzione umana. Ciononostante, una volta compreso questo contesto più limitato, tutti i teoremi sono validi. In altre parole, i rami della matematica vanno incorporati in branche più grandi (per esempio, la geometria euclidea è solo una versione possibile della geometria), ma la correttezza all’interno di ciascuna di esse permane. È questa indefinita longevità che consente agli scienziati di cercare in qualunque momento gli strumenti matematici adeguati nell’intero arsenale dei formalismi sviluppati. Il semplice esempio dei sassi nel vaso non affronta tuttavia due aspetti dell’enigma di Wigner. In primo luogo, c’è la questione del perché in alcuni casi ci sembra di ricavare dalla teoria un’accuratezza maggiore di quella che vi abbiamo immesso. Nell’esperimento dei sassi, la precisione dei risultati «predetti» (l’aggregazione di altri numeri di sassi) non è migliore di quella degli esperimenti che avevano portato alla formulazione della «teoria» (l’addizione aritmetica).

D’altro canto, nella teoria della gravitazione di Newton, per esempio, l’accuratezza delle sue previsioni si rivelò di molto superiore a quella dei risultati delle osservazioni all’origine della teoria. Perché? Un breve riesame della storia della teoria newtoniana può fornirci qualche indizio. Il modello geocentrico di Tolomeo regnò sovrano per circa quindici secoli. Sebbene non avesse pretese di universalità – il moto di ogni pianeta era trattato singolarmente – e non vi fosse menzione di cause fisiche (forza, accelerazione), la concordanza con le osservazioni era ragionevole. Niccolò Copernico (1473-1543) pubblicò il suo modello eliocentrico nel 1543, e Galileo pensò a fornirgli basi solide. Galileo stabilì inoltre i fondamenti delle leggi del moto. Ma fu Keplero a dedurre dalle osservazioni le prime leggi matematiche (quantunque solo fenomenologiche) del moto planetario. Keplero si servì di un’enorme quantità di dati lasciati dall’astronomo Tycho Brahe per determinare l’orbita di Marte, e si riferì alle centinaia di pagine piene di calcoli che seguirono come alla «mia guerra con Marte». A parte due discrepanze, un’orbita circolare corrispondeva a tutte le osservazioni. Tuttavia, Keplero non era soddisfatto di questa soluzione, e in seguito scrisse: «Se avessi pensato che otto minuti in longitudine [circa un quarto del diametro di una luna piena] dovessero essere trascurati, avrei solamente modificato l’ipotesi accettata precedentemente [...]. Ma poiché non li ho ignorati, questi otto minuti hanno da soli aperto la strada a una nuova visione dell’intera astronomia».[35] Le conseguenze di una tale meticolosità furono clamorose. Keplero dedusse che le orbite dei pianeti non sono circolari, bensì ellittiche, e formulò due ulteriori leggi quantitative che si applicavano a tutti i pianeti. Quando queste leggi vennero abbinate alle leggi newtoniane sul moto, servirono come base per la legge di gravitazione universale di Newton. È necessario tener presente però che, lungo il cammino, Cartesio propose la sua teoria dei vortici, secondo la quale i pianeti erano trasportati attorno al Sole da vortici di particelle che si muovevano circolarmente. La teoria non avrebbe fatto molta strada nemmeno se Newton non ne avesse dimostrato l’incoerenza, poiché Cartesio non sviluppò mai una trattazione matematica sistematica dei suoi vortici. Che cosa ci insegna questa breve storia? Non vi è dubbio che la legge di gravitazione universale di Newton sia opera di un genio. Ma questo genio non operava in un vuoto. Alcune delle basi erano state

accuratamente gettate dai suoi predecessori. Come ho osservato nel Capitolo 4, matematici molto meno influenti di Newton, come l’architetto Christopher Wren e il fisico Robert Hooke, suggerirono in modo indipendente la legge dell’inverso del quadrato relativa all’attrazione. La grandezza di Newton si palesò nella sua capacità unica di mettere tutto insieme nella forma di una teoria unificante, e nella sua ostinazione nel fornire una prova matematica delle conseguenze della sua teoria. Perché questo formalismo era tanto accurato? In parte perché si occupava del problema più fondamentale – le forze tra due corpi gravitanti e il moto che ne derivava. Nessun altro fattore complicante era coinvolto. Fu unicamente per questo problema che Newton ottenne una soluzione completa. Perciò la teoria fondamentale era estremamente accurata, ma le sue implicazioni necessitarono di continui perfezionamenti. Il sistema solare è composto da più di due corpi. Quando vengono inclusi gli effetti degli altri pianeti (sempre secondo la legge dell’inverso del quadrato), le orbite non sono più semplici ellissi. Per esempio, si è riscontrato che l’orbita della Terra cambia lentamente il suo orientamento nello spazio, in un movimento noto come «precessione». In effetti, studi recenti hanno dimostrato che, contrariamente alle aspettative di Laplace, le orbite dei pianeti possono divenire caotiche.[36] La stessa teoria di Newton, naturalmente, in seguito venne inclusa nella relatività generale di Einstein. E l’emergere di quella teoria seguì una serie di false partenze e successi parziali. Pertanto l’accuratezza di una teoria non può essere prevista. Bisogna provare per credere; occorre apportare modifiche e correzioni finché non si ottiene la precisione voluta. I pochi casi in cui si raggiunge un’estrema accuratezza in un solo passo hanno del miracoloso. Sullo sfondo c’è chiaramente un fatto cruciale per cui vale la pena ricercare le leggi fondamentali, cioè che la natura è stata benevola con noi facendosi governare da leggi universali invece che particolari. Un atomo di idrogeno sulla Terra, all’altro capo della Via Lattea e in una galassia distante dieci miliardi di anni luce, si comporta esattamente nello stesso modo. E questo vale in qualsiasi momento e in qualunque direzione si guardi. I matematici e i fisici hanno inventato un termine matematico per riferirsi a queste proprietà: sono chiamate «simmetrie» e riflettono l’immunità ai cambiamenti di posizione, orientamento o momento in cui si fa partire l’orologio. Se non fosse per queste (e altre) simmetrie, qualunque speranza di decifrare il grande disegno della

natura andrebbe delusa, poiché gli esperimenti andrebbero continuamente ripetuti in ogni punto dello spazio (sempre che la vita potesse emergere in un tale universo). Un altro aspetto del cosmo che si cela all’ombra delle teorie matematiche è noto come «località», e rispecchia la nostra capacità di costruire il «grande disegno» come un puzzle, iniziando dalla descrizione delle interazioni più basilari tra le particelle elementari. Siamo infine arrivati all’ultimo elemento dell’enigma di Wigner: cos’è che garantisce che esista una teoria matematica? In altre parole, perché, per esempio, c’è una teoria della relatività generale? Non è possibile che non ci sia nessuna teoria matematica della gravità? La risposta in verità è più semplice di quel che potreste pensare.[37] Non ci sono garanzie! Esiste una miriade di fenomeni per cui non è possibile alcuna predizione precisa. Neppure in linea di principio. Questa categoria include, per esempio, una gran varietà di sistemi dinamici che sviluppano caos, nei quali la minima variazione delle condizioni iniziali produce risultati del tutto diversi. I fenomeni che mostrano un comportamento del genere comprendono le valutazioni del mercato azionario, le condizioni atmosferiche sulle Montagne Rocciose, una pallina che rimbalza sulla ruota della roulette, il fumo che sale da una sigaretta... e le orbite dei pianeti nel sistema solare. Questo non vuol dire che i matematici non abbiano elaborato ingegnosi formalismi in grado di affrontare alcuni importanti aspetti di questi problemi, ma non esiste nessuna teoria deterministica predittiva. L’intero campo delle probabilità e delle statistiche è stato creato esattamente per far fronte a quelle aree in cui non si ha a disposizione una teoria che produca più di quanto vi è stato messo dentro. Analogamente, un concetto chiamato «complessità computazionale» definisce i limiti della nostra capacità di risolvere i problemi mediante algoritmi pratici, e i teoremi di incompletezza di Gödel indicano le limitazioni della matematica anche nel suo stesso ambito. La matematica è quindi straordinariamente efficace per alcune descrizioni, soprattutto quelle che riguardano la scienza fondamentale, ma non è in grado di descrivere il nostro universo in tutte le sue dimensioni. In una certa misura, gli scienziati hanno selezionato i problemi su cui lavorare in base alla possibilità di elaborare una trattazione matematica. Abbiamo risolto il mistero dell’efficacia della matematica una volta per tutte? Io ho certamente fatto del mio meglio, ma dubito che tutti

siano stati convinti dagli argomenti che ho presentato in questo libro. Posso comunque citare Bertrand Russell nei Problemi della filosofia: Quindi, per riepilogare la nostra discussione sul valore della filosofia; la filosofia va studiata, non per amore delle risposte precise alle domande che pone, poiché nessuna risposta precisa, di norma, può esser data con certezza per vera, ma piuttosto per amore delle domande stesse, perché tali domande ampliano la nostra concezione di ciò che è possibile, arricchiscono la nostra immaginazione intellettiva e diminuiscono la sicurezza dogmatica che chiude la mente alla speculazione; ma soprattuto perché, attraverso la grandezza dell’universo che la filosofia contempla, anche la mente è resa grande, e diviene capace di quell’unione con l’universo che costituisce il suo bene supremo.[38] _0060_note Note 1. Un mistero 1 Jeans 1930. 2 Einstein 1934. 3 Hobbes 1651. 4 Penrose offre una magnifica argomentazione su questi «tre mondi» nella Mente nuova dell’imperatore e nella Strada che porta alla realtà. 5 Wigner 1960. Torneremo più volte su questo articolo nel corso del libro. 6 Hardy 1940. 7 Per un approfondimento della legge di Hardy-Weinberg nel contesto delle sue applicazioni, si veda per esempio Hedrick 2004. 8 Nel 1973 Cocks inventò l’algoritmo di cifratura che sarebbe poi diventato noto con la sigla RSA, ma che all’epoca fu secretato. L’algoritmo fu poi reinventato in modo indipendente pochi anni dopo da R. Rivest, A. Shamir e L. Adleman al MIT. Si veda Rivest, Shamir e Adleman 1978. 9 Un’esposizione divulgativa della simmetria, della teoria dei gruppi e della loro storia intrecciata si può trovare in Livio 2005, Stewart 2007, Ronan 2006 e in Du Sautoy 2008. 1010. Una splendida descrizione della nascita della teoria del caos si può trovare in Gleick 1987. 1111. Black e Scholes 1973.

1212. Un’eccellente ma tecnica esposizione del problema e della sua soluzione si può trovare in Applegate et al. 2007. 1313. Changeux e Connes 1995. 1414. Gardner 2003. 1515. Atiyah 1995. 1616. Changeux e Connes 1995. 1717. Una breve biografia di Marjory Fleming si può trovare, per esempio, in Wallechinsky e Wallace 1975-1981. 1818. Stewart 2004. 2. Mistici: il numerologo e il filosofo 1 Una descrizione più dettagliata dei contributi di Cartesio è presentata nel Capitolo 4. 2 Cartesio 1644. 3 Giamblico 300 d.C. circa; si veda anche Guthrie 1987. 4 Laerzio 250 d.C. circa; Porfirio 270 d.C. circa; Giamblico 300 d.C. circa. 5 Aristotele 350 a.C. circa; si veda anche Burkert 1972. 6 Erodoto 440 a.C. 7 Porfirio 270 a.C. circa. 8 Un’analisi chiara della visione pitagorica si può trovare in Strohmeier e Westbrook 1999. 9 Stanley 1687. 1010. Per un affascinante elenco di proprietà dei numeri, si veda Wells 1986. 1111. Citato in Heath 1921. 1212. Giamblico 300 d.C. circa; si veda Guthrie 1987. 1313. Strohmeier e Westbrook 1999; Stanley 1687. 1414. T. L. Heath propone un’analisi dettagliata del termine e del suo significato in epoche diverse (Heath 1921). Il matematico Teone di Smirne (70-135 d.C. circa) fece uso del termine in relazione all’espressione figurativa dei numeri nel suo scritto Matematica utile per comprendere Platone (Teone di Smirne 130 d.C.). 1515. Noterete che nel suo commento Proclo non afferma specificamente ciò che pensa riguardo al fatto che Pitagora fosse stato davvero il primo a formulare il teorema. La storia del sacrificio del bue compare negli scritti di Laerzio, di Porfirio e dello storico Plutarco (46120 d.C. circa) e si basa su alcuni versi di Apollodoro. I versi parlano però soltanto di «quella famosa proposizione» senza specificare di

quale proposizione si tratti. Si vedano Laerzio 250 d.C. circa e Plutarco 75 d.C. circa. 1616. Renon e Felliozat 1947, van der Waerden 1983. 1717. Questa concezione cosmologica si basava sull’idea secondo cui la «materia» (considerata indefinita) è foggiata dalla «forma» (considerata il limite). 1818. Morris 1999. 1919. Joost-Gaugier 2006. 2020. Valide disamine dei contributi della filosofia pitagorica e della loro influenza si possono trovare in Huffman 1999, Riedweg 2005, Joost-Gaugier 2006 e Huffman 2006 (Stanford Encyclopedia of Philosophy). 2121. Fritz 1945. 2222. In questo libro non affronterò argomenti quali i numeri transfiniti né l’opera di Cantor e di Dedekind. Eccellenti resoconti divulgativi si possono trovare in Aczel 2000, Barrow 2005, Devlin 2000, Rucker 1995 e Wallace 2003. 2323. Giamblico, 300 d.C. circa. 2424. Si veda Netz 2005. 2525. Whitehead 1929. 2626. Ovviamente i titoli dei testi dedicati a Platone e alle sue idee possono riempire da soli un intero volume. Qui mi limito a elencarne alcuni che ho trovato molto utili. Su Platone in generale: Hamilton e Cairns 1961, Havelock 1963, Gosling 1973, Ross 1951, Kraut 1992. Sulla matematica: Heath 1921, Cherniss 1951, Mueller 1991, Fowler 1999, Herz-Fischler 1998. 2727. L’orazione fu scritta nel 362 d.C., ma non fornisce dettagli sul contenuto dell’iscrizione. Le parole incise sopra l’ingresso dell’Accademia sono tratte da una nota a margine di un manoscritto di Publio Elio Aristide. È probabile che la nota sia stata vergata dal retore del IV secolo Sopratro, secondo cui (nella traduzione di Andrew Barker): «Era inciso sulla facciata della Scuola di Platone: “Non entri nessuno che non sia geometra”. [Il che sta] al posto di “sleale” o “ingiusto”; infatti la geometria persegue lealtà e giustizia». La nota suggerirebbe dunque che nell’inscrizione di Platone le parole «persona sleale o ingiusta», che si trovavano comunemente scritte all’ingresso di luoghi sacri («Non entrino persone sleali o ingiuste»), fossero sostituite dalla frase «chi non è geometra». La storia venne ripresa in seguito da

non meno di cinque filosofi alessandrini del VI secolo, per poi trovare posto nel libro Chiliades dell’erudito del XII secolo Giovanni Tzetzes (1110-1180 circa). Per un approfondimento si veda Fowler 1999. 2828. Un sommario dei molti tentativi infruttuosi compiuti dagli archeologi si può trovare in Glucker 1978. 2929. Si vedano Cherniss 1945, Mekler 1902. 3030. Cherniss 1945, Proclo 450 d.C. circa. 3131. Platone 360 a.C. circa. 3232. Washington 1788. 3333. Per un’interessante disamina dell’allegoria si veda Stewart 1905. 3434. Per approfondimenti sul platonismo e sul suo ruolo nella filosofia della matematica, si vedano Tiles 1996, Mueller 1992, White 1992, Russell 1945, Tait 1996. Per esposizioni eccellenti in testi divulgativi, Davis e Hersh 1981, Barrow 1992. 3535. Per un approfondimento di questo aspetto, si veda Mueller 2005. 3636. I commenti di Platone sull’astronomia e sui moti planetari si trovano nella Repubblica (Platone 360 a.C. circa), nel Timeo e nelle Leggi. G. Vlostos e I. Mueller analizzano le implicazioni del punto di vista di Platone (Vlostos 1975, Mueller 1992). 3737. Doxiadis 2000. 3838. Per un’esposizione dettagliata sulla congettura di Catalan, si veda Ribenboim 1994. 3939. Bell 1940. 3. Maghi: il maestro e l’eretico 1 Aristotele, 330 a.C. circa; si veda anche Koyré 1978. 2 Galilei 1589 e 1592. 3 Bell 1937. 4 La biografia scritta da Eracleide è citata nei commentari del matematico Eutocio (480-540 d.C. circa) in Sulla misura del cerchio. Si veda, inoltre, Heiberg 1910-1915. 5 Plutarco 75 d.C. circa. 6 L’anno di nascita di Archimede è stato stabilito in base all’opera Chiliades dello scrittore bizantino del XII secolo Giovanni Tzetzes. 7 Le prove del soggiorno in Egitto sono discusse in Dijksterhuis 1957.

8 L’architetto romano Marco Vitruvio Pollione (I secolo a.C.) ci racconta l’aneddoto nel suo trattato De Architectura (si veda Vitruvio, I secolo a.C.). Egli scrive che Archimede immerse nell’acqua un pezzo d’oro e un pezzo d’argento, entrambi dello stesso peso della ghirlanda. In tal modo scoprì che la ghirlanda spostava più acqua dell’argento ma meno dell’oro. È facile dimostrare che dai differenti volumi d’acqua spostata si può calcolare il rapporto tra le quantità d’oro e d’argento contenute nella ghirlanda. Perciò, a differenza di quanto affermato in alcuni resoconti popolari dell’episodio, Archimede non ebbe bisogno di affidarsi alle leggi dell’idrostatica per risolvere il problema della ghirlanda d’oro. 9 In una lettera del 1814 a M. Correa de Serra, Thomas Jefferson scrisse: «La buona opinione degli uomini, come la leva di Archimede, unita a un dato fulcro, solleva il mondo». Lord Byron cita l’affermazione di Archimede nel Don Giovanni. John Fitzgerald Kennedy pronunciò la frase in un comizio elettorale citato dal «New York Times» il 3 novembre 1960 e Mark Twain fece lo stesso in un articolo intitolato Archimede nel 1887. 1010. Un gruppo di studenti del MIT ha tentato di riprodurre l’esperimento dell’incendio di una nave con specchi ustori nell’ottobre 2005. Alcuni di loro hanno anche ripetuto l’esperimento per lo show televisivo Myth Busters. I risultati sono stati dubbi: gli studenti sono riusciti ad appiccare un fuoco, ma non a produrre un incendio di grandi dimensioni. In un esperimento simile eseguito in Germania nel settembre 2002, si è dato fuoco alla vela di una nave per mezzo di 500 specchi. Un approfondimento sugli specchi ustori si può trovare sul sito web di Michael Lahanas. 1111. Le esatte parole pronunciate da Archimede sono citate da Tzetzes in Chiliades; si veda Dijksterhuis 1957. Plutarco dice semplicemente che Archimede si rifiutò di seguire il soldato che doveva accompagnarlo da Marcello finché non avesse risolto il problema in cui era assorto (Plutarco 75 d.C. circa). 1212. Whitehead 1911. 1313. Un volume superbo sull’opera di Archimede è The Works of Archimedes (Heath 1897). Altri eccellenti approfondimenti si possono trovare in Dijksterhuis 1957 e in Hawking 2005. 1414. Heath 1897.

1515. Per un magnifico resoconto della storia del «Progetto Palinsesto», si veda Netz e Noel 2007. 1616. Probabilmente nel 975 d.C. 1717. Netz e Noel 2007. 1818. Will Noel, direttore del progetto, aveva organizzato per me un incontro con il team formato da William Christens-Barry, Roger Easton e Keith Knox, che ha progettato un sistema di «imaging» in banda stretta e inventato l’algoritmo per rivelare una parte del testo. I ricercatori Anna Tonazzini, Luigi Bedini ed Emanuele Salerno hanno sviluppato altre tecniche di elaborazione d’immagini. 1919. Dijksterhuis 1957. 2020. Per una bella esposizione della storia e del significato del calcolo infinitesimale, si veda Berlinski 1996. 2121. Heath 1921. 2222. Plutarco 75 d.C. circa. 2323. Cicerone I secolo a.C. Per un’analisi erudita del testo di Cicerone in termini di struttura, retorica e funzione simbolica, si veda Jaeger 2002. 2424. Un’autorevole recente biografia di Galileo è Galileo: una biografia scientifica di S. Drake (Drake 1978). Un resoconto più noto è Galileo di J. Reston (Reston 1994). Si veda anche Van Helden e Burr 1995. Le opere complete di Galileo sono in Favaro 1890-1909. 2525. Il passo è tratto dalla Bilancetta, Galileo 1586. 2626. Galilei 1589 e 1592 (Galilei 1600a e Galilei 1600b). C. B. Schmitt suggerisce (Schmitt 1969, dopo D. A. Maklich) che l’affermazione di Galileo potrebbe essere conseguenza del fatto che la mano che regge una sfera di piombo si stanca prima di quella che regge la palla di legno, e che perciò il rilascio di quest’ultima avverrebbe con maggior tempismo. Un’eccellente esposizione delle idee di Galileo sulla caduta dei gravi si trova in Frova e Marenzana 1998. Koyré offre un approfondimento straordinario della fisica di Galileo (Koyré 1978). 2727. Un’esauriente analisi dei metodi e del modo di ragionare di Galileo si trova in Shea 1972 e in Machamer 1998. 2828. Galilei 1589 e 1582. Galileo riserva una profusione di critiche ad Aristotele nel De Motu. Si veda Galilei 1600a, b. 2929. La vita di Virginia, che sarebbe poi divenuta suor Maria Celeste, è raccontata magnificamente nel libro di Dava Sobel La figlia di Galileo, Sobel 1999.

3030. Galilei 1610a, b. 3131. Un’ottima descrizione del lavoro che condusse Galileo a realizzare telescopi rifrattori si può trovare in Reeves 2008. 3232. Swerdlow 1998. Per una descrizione dettagliata delle scoperte compiute da Galileo con il telescopio, si vedano Shea 1972 e Drake 1990. 3333. Una descrizione più divulgativa e molto avvincente delle scoperte di Galileo, oltre che una storia generale del telescopio, si può trovare in Panek 1998. 3434. Una trattazione ampia e approfondita del copernicanesimo di Galileo si trova in Shea 1998 e in Swerdlow 1998. 35 La lettera era indirizzata all’ambasciatore del granduca di Toscana a Praga, ma Galileo vi incluse l’anagramma per Keplero. 3636. Keplero scrisse a Galileo: «Ti scongiuro di non lasciarci più in dubbio sul significato. Perché, vedi, tu hai a che fare con dei veri tedeschi. Pensa a quale sofferenza mi sottoponi con il tuo silenzio». Citato in Caspar 1993. 3737. L’intera vicenda è descritta nel dettaglio in Shea 1972. 3838. L’epigramma fu scritto in latino. Seggett (1570-1627) era stato un allievo di Galileo a Padova. L’epigramma compare in Favaro, Le Opere di Galileo Galilei. Un bell’approfondimento su poesia e telescopi si può trovare in Nicholson 1935. 3939. Curzon 2004. 4040. Coresio 1612; citato anche in Shea 1972. 4141. Vincenzo di Grazia, Considerazioni (1612), in Favaro Le Opere di Galileo Galilei, vol. IV, p. 385. 4242. Galilei, Diversi frammenti attenenti al trattato delle cose che stanno in su l’acqua, in Favaro, Le Opere di Galileo Galilei, vol. IV, pp. 49-50; citato anche in Shea 1972. 4343. Van Helden 1996 e Swerdlow 1998 offrono interessanti ed esaurienti esposizioni della controversia sulla natura delle macchie solari; si veda anche Shea 1972. 4444. Galilei 1623. 4545. Antonio Favaro, curatore dell’edizione completa delle opere di Galileo, scoprì che ampie parti del manoscritto di Guiducci (contenenti le letture) erano vergate nella calligrafia di Galileo. 4646. Grassi 1619. La traduzione dal latino del passo citato è tratta dall’edizione del Saggiatore segnalata nella bibliografia (Galilei 1623).

4747. Galilei 1623. 4848. Galilei 1638. 4949. Eccellenti disamine delle opinioni di Galileo sul rapporto tra scienza e Sacre Scritture si possono trovare in Feldberg 1995 e McMullin 1998. 5050. Lettera di Galileo Galilei a Benedetto Castelli, 21 dicembre 1613, in Opere di Galileo Galilei, a cura di Ferdinando Flora, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli 2004, pp. 988-989. La lettera è citata anche in Von Gebler 1876-1877. 5151. E nel 1585 il teologo Melchior Cano affermò che «non solo le parole ma anche ogni virgola [nelle scritture] è stata data dallo Spirito Santo». Citato in Vawter 1972. 5252. Un ampio resoconto di questi tentativi si trova in Redondi 1998. 5353. Galilei 1632. 5454. De Santillana 1955. 5555. Ibid. 5656. Beltrán Marí 1994. Si veda anche Frova e Marenzana 1998. 4. Maghi: lo scettico e il gigante 1 Citato in Sedgwick e Tyler 1917. 2 Esistono numerose biografie di Cartesio. Quella classica è Baillet 1691. Altri libri che ho trovato molto utili sono stati Vrooman 1970 e il più recente Rodis-Lewis 1998. Bell 1937 fornisce un sunto breve ma meraviglioso della vita di Cartesio. Consiglio anche Finkel 1898, Watson 2002 e Grayling 2005. 3 Benché non sussistano dubbi sul fatto che quel giorno Cartesio conobbe Beeckman, nel suo diario Beeckman non accenna mai a un problema esposto su un cartellone. Beeckman afferma invece che Cartesio «tentò in tutti i modi di dimostrare che in realtà l’angolo non esiste». 4 Si veda Gaukroger 2002. 5 Secondo la maggior parte dei biografi, quella notte Cartesio era a Ulm, in Germania. Lui stesso raccontò l’episodio in un taccuino che fu visto dai suoi primi biografi e di cui sono sopravvissuti solo alcuni passi trascritti. Cartesio scrisse di nuovo delle impressioni lasciategli da quei sogni nel suo Discorso sul metodo (Adam e Tannery 1897-1910). Una disamina approfondita dei sogni e delle loro possibili interpretazioni si trova in Grayling 2005 e Cole 1992.

6 Lettera al visconte di Brégy, ambasciatore di Francia in Polonia. Adam e Tannery 1897-1910, Cartesio 1619-1650. 7 Cartesio fu dapprima sepolto nel cimitero di Nord Malmö. Quando i suoi resti furono trasferiti in Francia, girò la voce (Adam e Tannery 1897-1910) che alcune parti dei suoi resti, il teschio in particolare, fossero rimaste in Svezia. In Francia, le sue spoglie furono sepolte prima nell’abbazia di Sainte-Geneviève, poi nel convento dei PetitsAugustins. Alla fine i resti furono sistemati nella cattedrale di SaintGermain-des-Prés, in quella che oggi è la cappella di Saint-Benoît. Non mi è stato facile trovare la sua tomba, perché non riuscivo a credere che Cartesio non avesse avuto una sepoltura tutta per sé. In effetti nella stessa cappella sono inumati i due frati benedettini Mabillon e Montafaucon, e solo del primo c’è un busto. 8 Per un punto di vista sulla modernità di Cartesio, si veda Balz 1952. 9 L’autorevole opera di riferimento che raccoglie i testi di Cartesio è Adam e Tannery 1897-1910. Gran parte dei passi da me citati provengono da questa fonte. Sulla filosofia della scienza di Cartesio, si veda anche Clarke 1992. 1010. Un’eccellente introduzione alla filosofia di Cartesio in generale si può trovare in Cottingham 1986. Per un approfondimento sul dubbio cartesiano e il conseguente Cogito si vedano Wolterstorff 1999, Ricoeur 1996, Sorell 2005, Curley 1993 e Beyssade 1993. 1111. Cartesio 1637. 1212. I risultati ottenuti da Cartesio in campo matematico sono ben sintetizzati in Rouse Ball 1908. Aczel 2005 offre una magnifica descrizione divulgativa della vita e dell’opera di Cartesio. Il livello d’astrazione dell’algebra di Cartesio è analizzato in Gaukroger 1992. 1313. La convinzione di Cartesio nell’esistenza di «leggi della natura» si può intuire da una lettera che egli scrisse a Mersenne nel maggio 1632: «Sono diventato così audace che oso ora ricercare la causa della posizione di ogni stella fissa. Infatti, sebbene appaiano sparse molto irregolarmente qua e là nel cielo, tuttavia non dubito che tra esse si trovi un ordine naturale che è regolare e determinato». Cartesio 1619-1650. 1414. Adam e Tannery 1897-1910. Si veda anche Miller 1983. Garber 1992 offre un buon approfondimento sulla fisica di Cartesio.

Una descrizione più generale della filosofia naturale di Cartesio compare in Keeling 1968. 1515. Il monumento funebre fu eretto nel 1731. Venne commissionato a William Kent e allo scultore fiammingo Michael Rysbrack. Oltre alla figura di Newton con il gomito appoggiato sopra alcune delle sue opere, la scultura mostra dei putti che reggono i simboli delle più importanti scoperte dello scienziato. Dietro il sarcofago si innalza una piramide, e dal mezzo della piramide una sfera su cui sono dipinte molte costellazioni e la traiettoria della cometa del 1681. 1616. È impossibile sapere per certo se Newton intendesse rivolgere quella frase a Hooke come un insulto oppure no. R. K. Merton ha scoperto che «sulle spalle di giganti» era un’espressione piuttosto comune al tempo di Newton (Merton 1993). 1717. L’intera corrispondenza di Newton è stata raccolta in Turnbull, Scott, Hall e Tilling 1959-1977. 1818. L’ostilità tra i due scienziati è descritta in dettaglio in alcune eccellenti biografie di Newton, tra cui Westfall 1983, Hall 1992 e Gleick 2003. 1919. In un saggio pubblicato nel 1674, Hooke scrisse a proposito della gravità che le sue «forze d’attrazione sono tanto più potenti quanto più vicino ai loro centri è il corpo su cui agiscono». Perciò, benché avesse avuto una giusta intuizione, non fu in grado di descriverla in termini matematici. 2020. Esistono numerose eccellenti traduzioni in inglese dei Principia di Newton, a partire da quella di Motte del 1729 e fino a quella del 1999 di Cohen e Whitman (si veda Newton 1729). La più accessibile, completa di utili note, è la versione rielaborata da Chandrasekhar (Chandrasekhar 1995). L’idea generale di una legge di gravità e la sua storia sono discusse in Girifalco 2008, Greene 2004, Hawking 2007 e Penrose 2004. 2121. Newton 1730. 2222. Oltre alle biografie complete, esistono piccoli volumi che riportano alcuni episodi della vita di Newton o dei suoi parenti. Tra questi segnalo De Morgan 1885 e Craig 1946. 2323. Nella sua biografia di Newton, David Brewster scrisse nel 1831: «Il celebre melo, di cui si dice che la caduta di una delle sue mele abbia indirizzato l’attenzione di Newton sul tema della gravità, fu

distrutto dal vento circa quattro anni fa; ma il signor Turnon [proprietario della casa in cui era vissuto Newton a Woolsthorpe] l’ha conservato nella forma di una sedia». Brewster 1831. 2424. Una buona descrizione degli studi matematici di Newton si può trovare in Hall 1992. 2525. L’annotazione fa parte della Portsmouth Collection. Altri documenti suggeriscono che Newton pensò alla legge della gravitazione universale durante gli anni della peste. Si veda, per esempio, Whiston 1753. 2626. Per una discussione generale sulle ragioni del ritardo nell’annuncio da parte di Newton della legge di gravitazione universale, si vedano Cajori 1928 e Cohen 1982. 2727. In quegli appunti De Moivre ricordava ciò che Newton gli aveva riferito. 2828. A suggerirlo è Cohen 1982, per citare una sola fonte. 2929. Glaisher 1887. 3030. Nei Principia Newton scrive che Dio «è onnipresente non per sola virtù, ma anche sostanzialmente [...] egli è anche [...] tutto occhio, tutto orecchio, tutto braccio, tutta forza sensoriale, intellettiva e attiva». In un manoscritto della prima metà del Settecento, battuto all’asta da Sotheby’s nel 1936 ed esposto al pubblico a Gerusalemme nel 2007, Newton si servì del libro biblico di Daniele per calcolare la data dell’Apocalisse. Nel caso vi stiate preoccupando, Newton concluse di non vedere ragioni di «una sua fine prima» del 2060. 3131. Per degli eccellenti studi recenti sulla storia di questi argomenti e una valutazione della loro fondatezza logica, si vedano Dennett 2006, Dawkins 2006 e Paulos 2008. 3232. Si vedano Dennett 2006, Dawkins 2006 e Paulos 2008. 5. Statistici e probabilisti: la scienza dell’incertezza 1 Esposizioni estremamente accessibili del calcolo infinitesimale si trovano in Berlinski 1996, Kline 1967 e Bell 1951. Più tecnico, ma davvero eccellente, è Kline 1972. 2 Per alcuni dei risultati ottenuti dalla famiglia Bernoulli, si vedano Maor 1994 e Dunham 1994. Si veda anche la «Bernoulli-Edition» (in tedesco) alla pagina web dell’Università di Basilea (http://www.ub.unibas.ch/spez/bernoull.htm). Informazioni sul progetto di un’edizione inglese si possono trovare sul sito

http://www.springer.com/cda/content/document/cda_downloaddocume nt/Bernoulli2005web.pdf?SGWID=0-0-45-169442-0. 3 Le rivalità tra i Bernoulli vengono affrontate in Hellman 2006. 4 Una straordinaria descrizione del problema, e della soluzione di Huygens in particolare, si trova in Bukowski 2008. Le soluzioni di Bernoulli, Leibniz e Huygens appaiono in Truesdell 1960. 5 Citato in Truesdell 1960. 6 Laplace 1814. 7 Eccellenti resoconti della vita e dell’opera di Graunt si trovano in Hald 1990, Cohen 2006 e Graunt 1662. 8 L’articolo è stato ristampato in Newman 1956. 9 Citato in Newman 1956. Un sunto del suo lavoro è in Todhunter 1865. 1010. Due ottimi libri su Quételet sono Hankins 1908 e Lottin 1912. Brani più brevi ma anch’essi informativi si trovano in Stigler 1997, Krüger 1987 e Cohen 2006. 1111. Quételet 1828. 1212. Nella sua memoria dedicata alla propensione al crimine, Quételet scrisse: «Se si determinasse l’uomo medio per una nazione, egli rappresenterebbe il modello di quella nazione; se lo si potesse determinare dall’insieme degli uomini, rappresenterebbe il modello dell’intera razza umana». 1313. Per un’esposizione divulgativa dell’opera di Galton, si veda Kaplan e Kaplan 2006. 1414. Tra i saggi divulgati pubblicati di recente sulla probabilità, la sua storia e le sue applicazioni, ci sono Aczel 2004, Kaplan e Kaplan 2006, Connor 2006, Burger e Starbird 2005 e Tabak 2004. 1515. Todhunter 1865, Hald 1990. 1616. Una descrizione eccellente, divulgativa e succinta di alcuni dei princìpi fondamentali della teoria della probabilità si può trovare in Kline 1967. 1717. La rilevanza della teoria della probabilità in situazioni della vita reale è descritta magnificamente in Rosenthal 2006. 1818. Per un’eccellente biografia di Mendel, si veda Orel 1996. 1919. Una traduzione inglese dell’articolo si può trovare sul sito Internet realizzato da R. B. Blumberg: http://www.mendelweb.org. 2020. Si veda, per esempio, Fisher 1936.

2121. Per una breve descrizione di parte del lavoro di Fisher, si veda Tabak 2004. Fisher scrisse un articolo non specialistico ed estremamente originale sul modo di progettare esperimenti intitolato La matematica di una signora che degusta del tè (si veda Fisher 1956). 2222. Per una superba traduzione di quest’opera, si veda Bernoulli 1713b. 2323. Citato in Newman 1956. 2424. L’articolo di Shaw è riportato per intero in Newman 1956. 25 25. Il pamphlet fu scritto da George Berkeley nel 1734. Una versione a cura di David Wilkins è disponibile sul sito http://www.maths.tcd.ie/pub/HistMath/People/Berkeley/Analyst/; si veda Berkeley 1734. 6. Geometri: lo shock del futuro 1 Toffler 1970. 2 Hume 1748. 3 Secondo Kant, uno dei compiti fondamentali della filosofia è dar conto della possibilità di una conoscenza sintetica a priori dei concetti matematici. Segnalo, tra l’ampia bibliografia, Höffe 1994 e Kuehn 2001 per la filosofia kantiana in generale. Una buona disamina dell’applicazione alla matematica si può trovare in Trudeau 1987. 4 Kant 1781. 5 Per un’introduzione relativamente accessibile alle geometrie euclidee e non euclidee, si veda Greenberg 1974. 6 I teoremi dimostrati senza ricorrere al quinto postulato sono esaminati in Trudeau 1987. 7 Una descrizione eccellente di tutti i tentativi che alla fine portarono allo sviluppo delle geometrie non euclidee si trova in Bonola 1955. 8 La traduzione inglese del 1891 di George Bruce Halsted dell’articolo di Lobac?evskij, Ricerche geometriche sulla teoria delle parallele, è riportata in Bonola 1955. 9 Per una biografia di Bolyai e una descrizione della sua opera, si veda Gray 2004. La ragione per cui non ho inserito un’immagine di János Bolyai nel libro è che l’immagine che si mostra di solito è di dubbia autenticità. A quanto pare, il suo unico ritratto relativamente attendibile è una scultura in rilievo sulla facciata del Palazzo della cultura di Marosvásárhely. 1010. Una copia fotostatica dell’originale (in latino) e la traduzione inglese di George Bruce Halsted si trovano in Gray 2004.

1111. Un’eccellente descrizione dell’intero episodio, della prospettiva della vita e dell’opera di Gauss, si trova in Dunnington 1955. Kline 1972 offre una sintesi concisa ma accurata delle rivendicazioni di priorità avanzate da Lobac?evskij e Bolyai. Una parte della corrispondenza di Gauss sulla geometria non euclidea compare in Ewald 1996. 1212. Una traduzione inglese della lezione di Riemann si trova, insieme ad altri documenti fondamentali sulle geometrie non euclidee, in Pesic 2007. La traduzione italiana è in Riemann, Sulle ipotesi che stanno alla base della geometria e altri scritti scientifici e filosofici, a cura di Renato Pettoello, Bollati Boringhieri, Torino 1994. 1313. Poincaré 1891. 1414. Cardano 1545. 1515. Wallis 1685. Per un conciso sommario della vita e dell’opera di Wallis si veda Rouse Ball 1908. 1616. Un breve sunto di questi sviluppi si può trovare in Cajori 1926. 1717. L’articolo, che faceva parte dell’Enclyclopédie di D’Alembert e Diderot, è citato in Archibald 1914. 1818. Lagrange 1797. 1919. Petsche 2006 offre un’eccellente biografia di Grassmann e una descrizione della sua opera (in tedesco). Si veda inoltre O’Connor e Robertson 2005. 2020. Fearnley-Sander 1979 e 1982 offrono descrizioni relativamente accessibili, per quanto tecniche, dell’opera di Grassmann nell’ambito dell’algebra lineare. 2121. Un buon testo introduttivo sulla geometria n-dimensionale si può trovare in Sommerville 1929. 2222. Citato in Ewald 1996. 2323. Ibid. 2424. La prima lettera di Stieltjes a Hermite era datata 8 novembre 1882. La corrispondenza tra i due matematici consiste di ben 432 missive ed è riportata integralmente in Hermite 1905. La traduzione del brano citato è mia. 2525. Il testo del discorso si può trovare in O’Connor e Robertson 2007. 7. Logici: riflettere sul ragionamento 1 Il paradosso del barbiere viene discusso in numerosi testi. Si veda per esempio Quine 1966, Rescher 2001 e Sorensen 2003.

2 Russell 1919. Si tratta della più popolare esposizione delle idee di Russell sulla logica. 3 Il programma intuizionista di Brouwer è ben riassunto in Van Stegt 1998. Un’ottima e accessibile esposizione è quella di Barrow 1992. Il dibattito tra formalismo e intuizionismo è descritto in modo divulgativo in Hellman 2006. 4 Dummett aggiunge che «un individuo non può comunicare ciò che comunica senza poter essere osservato: se un individuo associava un simbolo o una formula matematica a un contenuto mentale, laddove l’associazione non risiedeva nell’uso che egli faceva del simbolo o della formula, allora non poteva trasmettere tale contenuto mediante il simbolo o la formula, poiché i suoi ascoltatori erano ignari dell’associazione e non avevano modo di divenirne consapevoli». Dummett 1978. 5 Un’introduzione alla logica estremamente accessibile si può trovare in Bennet 2004. Più tecnico, ma brillante, è Quine 1982. Un buon riassunto della storia della logica, a opera di Czeslaw Lejewski, appare nell’Encyclopaedia Britannica, 15a edizione. 6 Per una concisa ma acuta descrizione della sua vita e delle sue opere si veda Ewald 1996. 7 Boole 1847. 8 Per una biografia più estesa si veda MacHale 1985. 9 Boole 1854. 1010. Boole concluse che quando si tratta di credere nell’esistenza di Dio anche «deboli passi [basati sulla fede e illogici] di un intelletto limitato nelle sue facoltà e nei suoi strumenti di conoscenza, sono più utili dell’ambizioso tentativo di arrivare a una certezza irraggiungibile sul terreno della religione naturale». 1111. Frege 1879. Si tratta di una delle più importanti opere nella storia della logica. 1212. Frege 1893, 1903. 1313. Per una discussione generale delle idee e del formalismo di Frege si veda Resnik 1980, Demopoulos e Clarke 2005, Zalta 2005 e 2007, e Boolos 1985. Per un’eccellente discussione generale della logica matematica rimando a DeLong 1970. 1414. Frege 1884.

1515. Il paradosso di Russell, le sue implicazioni e i possibili rimedi vengono affrontati, in una vasta letteratura, in Boolos 1999, Clark 2002, Sainsbury 1988 e Irvine 2003. 1616. Whitehead e Russell 1910. Per una popolare ma illuminante descrizione del contenuto dei Principia si veda Russell 1919. 1717. Per l’interazione tra le idee di Russell e quelle di Frege rimando a Beaney 2003. Per il logicismo di Russell, invece, Shapiro 2000, e Goodwyn e Irvine 2003. 1818. Un’eccellente esposizione si può trovare in Urquhart 2003. 1919. La teoria dei tipi in realtà è stata accantonata da molti matematici. Tuttavia, un costrutto simile ha trovato nuove applicazioni nell’informatica. Si veda, per esempio, Mitchell 1990. 2020. Per una descrizione dei suoi contributi si veda Ewald 1996. 2121. La traduzione dei saggi originali di Zermelo, Fraenkel e del logico Thoralf Skolem si può trovare in Van Heijenoort 1967. Per un’introduzione relativamente agevole agli insiemi e agli assiomi di Zermelo-Fraenkel, rimando a Devlin 1993. 2222. Una dettagliata discussione dell’assioma si può trovare in Moore 1982. 2323. Cantor elaborò un metodo per comparare la «cardinalità» di insiemi infiniti. In particolare, dimostrò che la cardinalità dell’insieme dei numeri reali è maggiore di quella dell’insieme degli interi. In seguito formulò l’«ipotesi del continuo», la quale affermava che non esiste nessun insieme la cui cardinalità è strettamente compresa tra quella dei numeri interi e quella dei numeri reali. Quando David Hilbert nel 1900 pose i suoi famosi problemi di matematica, la questione di determinare se l’ipotesi del continuo fosse valida fu la prima che affrontò. Per una discussione abbastanza recente di questo problema si veda Woodin 2001a, b. 2424. Il matematico descrisse il suo lavoro in Cohen 1966. 2525. Una buona descrizione del programma di Hilbert è contenuta in Sieg 1988. Un eccellente e aggiornato resoconto della filosofia della matematica, e un chiaro riassunto delle tensioni tra logicismo, formalismo e intuizionismo sono presenti in Shapiro 2000. 2626. Hilbert tenne questa lezione a Lipsia nel settembre del 1922. Il testo è reperibile in Ewald 1996. 2727. Per un’ottima discussione sul formalismo si veda Detlefsen 2005.

2828. Una meravigliosa biografia si può trovare in Monk 1990. 2929. Citato in Waismann 1979. 3030. Per una recente biografia si veda Goldstein 2005. La biografia di riferimento rimane Dawson 1997. 3131. Testi eccellenti sui teoremi di Gödel, sul loro significato e sul rapporto con altre branche del sapere includono Hofstadter 1979, Nagel e Newman 1959, e Franzén 2005. 3232. Gödel 1947. 3333. Un’esauriente descrizione delle idee filosofiche di Gödel e di come egli le collegasse ai fondamenti della matematica è offerta da Wang 1996. 3434. Morgenstern 1971. 3535. Questa è chiaramente una semplificazione eccessiva, consentita solo in un testo divulgativo. In realtà, seri tentativi nell’ambito del logicismo continuano ancora oggi. In genere presumono che molte verità matematiche siano conoscibili a priori. Si veda Wright 1997 e Tennant 1997, per esempio. 8. Irragionevole efficacia? 1 Un interessante libro sui nodi è Ashley 1944. 2 Vandermonde 1771. Un’eccellente storia della teoria dei nodi si può trovare in Przytycki 1992. Una vivace introduzione alla teoria è presente in Adams 1994. Per un resoconto divulgativo si veda, invece, Neuwirth 1979, Peterson 1988, e Menasco e Rudolph 1995. 3 Ottime descrizioni sono presentate da Sossinsky 2002 e Atiyah 1990. 4 Tait 1898; Sossinsky 2002. Una breve, ma brillante biografia di Tait si può trovare in O’Connor e Robertson 2003. 5 Knott 1911. 6 Little 1899. 7 Per un’introduzione tecnica, ma accessibile alla «topologia», si veda Messer e Straffin 2006. 8 Perko 1974. 9 Alexander 1928. 1010. Conway 1970. 1111. Jones 1985. 1212. Per esempio, il matematico Louis Kauffman ha dimostrato una relazione tra il «polinomio di Jones» e la fisica statistica. Un testo

ottimo, ma piuttosto tecnico, sulle applicazioni della fisica, è Kauffman 2001. 1313. Un’eccellente descrizione della teoria dei nodi e dell’azione degli enzimi è fornita in Summers 1995. Si veda anche Wasserman e Cozzarelli 1986. 1414. Per delle magnifiche opere divulgative sulla teoria delle stringhe, i suoi successi e i suoi problemi si veda Greene 1999, Randall 2005, Krauss 2005 e Smolin 2006. Per un’introduzione tecnica si veda, invece, Zweibach 2004. 1515. Ooguri e Vafa 2000. 1616. Witten 1989. 1717. Atiyah 1989. Per una prospettiva più ampia rimando ad Atiyah 1990. 1818. Kapner et al. 2007. 1919. Esistono molte esposizioni degne di nota dei concetti della relatività ristretta e di quella generale. Citerò qui quelle che ho apprezzato particolarmente: Davies 2001, Deutsch 1997, Ferris 1997, Gott 2001, Greene 2004, Hawking e Penrose 1996, Kaku 2004, Penrose 2004, Rees 1997 e Smolin 2001. Una recente e meravigliosa descrizione dell’Einstein uomo e delle sue idee si ritrova in Isaacson 2007. Precedenti ritratti di Einstein altrettanto stupendi includono Bodanis 2000, Lightman 1993, Overbye 2000 e Pais 1982. Per una bella raccolta di documenti originali si veda Hawking 2007. 2020. Kramer et al. 2006. 2121. Odom et al. 2006 2222. Un’ottima descrizione è contenuta in Weinberg 1993. 9. La mente umana, la matematica e l’universo 1 Davis e Hersh 1981. 2 Hardy 1940. 3 Kasner e Newman 1989. 4 Uno dei migliori testi divulgativi sulla natura della matematica è Barrow 1992. Più tecnico, ma comunque accessibile, è Kline 1972. 5 Per un’altra eccellente discussione degli argomenti trattati in questo libro, si veda Barrow 1992. 6 Tegmark 2007a, b. 7 Changeux e Connes 1995. 8 Dehaene 1997. 9 Dehaene et al. 2006.

1010. Si veda, per esempio, Holden 2006. 1111. Changeux e Connes 1995. 1212. Lakoff e Núñez 2000. 1313. Si veda, per esempio, Ramachandram e Blakeslee 1999. 1414. Varley et al. 2005; Klessinger et al. 2007. 1515. Atiyah 1995. 1616. Per una dettagliata descrizione del rapporto aureo, della sua storia e delle sue proprietà, si veda Livio 2002, e anche Herz-Fischler 1998. 1717. Una buona esposizione di queste idee è fornita da un articolo di Yehuda Rav in Hersh 2000. 1818. White 1947. 1919. Per una descrizione di tipo divulgativo si veda Hockett 1960. 2020. Una discussione di agevole lettura sul linguaggio e il cervello si può trovare in Obler e Gjerlow 1999. 2121. Le analogie tra lingua e matematica sono discusse anche in Sarrukai 2005 e Atiyah 1994. 2222. Chomsky 1957. Per saperne di più sulla linguistica, un ottimo manuale è Aronoff e Rees-Miller 2001. Un punto di vista interessante è offerto da Pinker 1994. 2323. Wolfram 2002. 2424. Tegmark ha identificato quattro tipi distinti di universi paralleli. Nel «Livello I» ci sono universi con identiche leggi della fisica, ma diverse condizioni iniziali. Nel «Livello II» ci sono universi con le stesse equazioni della fisica, ma forze differenti costanti della natura. Il «Livello III» adotta l’interpretazione dei «molti mondi» della meccanica quantistica. E nel «Livello IV» sono presenti strutture matematiche diverse. Tegmark 2004, 2007b. 2525. Per un’eccellente discussione su questo tema si veda Vilenkin 2006. 2626. Putnam 1973. 2727. Ci sono altre opinioni che non ho menzionato. Per esempio, Steiner (2005) sostiene che Wigner non mostra come gli esempi di «irragionevole efficacia» che fornisce non hanno nulla a che vedere con il fatto che i concetti siano matematici. 2828. Gross 1988. Un approfondimento sulla relazione tra matematica e fisica si può trovare in Vafa 2000. 2929. Atiyah 1995; si veda anche Atiyah 1993.

3030. Hamming 1980. 3131. Weinberg 1993. 3232. Citato in Borowik 2006. 3333. Raskin 1998. 3434. Un eccellente articolo di Hersh è contenuto in Hersh 2000. 3535. I libri di Keplero, ristampati in inglese nel 1981 e 1997, costituiscono un’interessantissima lettura sulla storia della scienza. Ottime biografie sono Caspar 1993 e Gingerich 1973. 3636. Per una panoramica, si veda Lecar et al. 2001. 3737. Un’interessante discussione sull’utilità della matematica appare in Raymond 2005. Acute osservazioni sull’enigma di Wigner si possono trovare anche in Wilczek 2006, 2007. 3838. Russell 1912. _0070_biblio Bibliografia ACZEL, A. D., The Mystery of Aleph: Mathematics, The Kabbalah, and the Search for Infinity, Four Walls Eight Windows, New York 2000 (trad. it. Il mistero dell’Alef, il Saggiatore, Milano 2002). —, Chance: A Guide to Gambling, Love, the Stock Market, and Just About Everything Else, Thunder’s Mouth Press, New York 2004 (trad. it. Chance, R. Cortina, Milano 2005). —, Descartes’ Secret Notebook, Broadway Books, New York 2005 (trad. it. Il taccuino segreto di Cartesio, Mondadori, Milano 2006). ADAM, C. e TANNERY, P., a cura di, Oeuvres de Descartes. Edizione riveduta 1964-1976, Vrin/CNRS, Parigi 1897-1910. ADAMS, C., The Knot Book: An Elementary Introduction to the Mathematical Theory of Knots, W. H. Freeman, New York 1994. ALEXANDER, J. W., «Transactions of the American Mathematical Society», 30, 1928, p. 275. APPLEGATE, D. L., bixby, R. E., CHVÁTAL, V. e COOK, W. J., The Traveling Salesman Problem, Princeton University Press, Princeton 2007. ARCHIBALD, R. C., «American Mathematical Society Bulletin», 20, 1914, p. 409. ARISTOTELE, Metafisica, Bompiani, Milano 2000. —, La fisica, traduzione, Laterza, Roma/Bari 1968. ARONOFF, M. e REES-MILLER, J., The Handbook of Linguistics, Blackwell Publishing, Oxford 2001.

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L’autore e l’editore ringraziano per il permesso concesso di pubblicare il seguente materiale: Immagini Figure 1, 2, 6, 14, 15, 17, 19, 24, 25, 54, 55, 56, 60, 61: Ann Feild. Figure 3, 28, 31, 33, 34, 35, 36, 37, 39, 40, 41, 46, 62, 63, 64, 65: Krista Wildt. Figura 4: © Scott Adams/Dist. by United Feature Syndicate, Inc. Figure 7, 10, 11, 16, 21, 26, 42, 43, 44, 45, 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53: Biblioteca Speciale di Matematica «Giuseppe Peano», con l’assistenza di Laura Garbolino. Figure 8, 27: Per gentile concessione dell’autore. Figura 9: Bibliothèque Nationale de France, dipartimento della riproduzione. Figura 12: Per gentile concessione di Will Noel e dell’Archimedes Palimpsest Project. Figura 13: Per gentile concessione di Roger L. Easton, Jr. Figure 18, 20: Collezione privata del Dr. Elliott Hinkes. Ottenute grazie all’assistenza della Milton S. Eisenhower Library, John Hopkins University. Figura 22: Roger-Viollet, Parigi, Francia. Figura 23: Per gentile concessione di Sofie Livio. Figura 29: University of Chicago Library, Special Collections Research Center, Joseph H. Schaffner. Figure 30, 32: Collezioni speciali della Milton S. Eisenhower Library, John Hopkins University. Figura 38: Biblioteca dell’Accademia delle Scienze di Torino, con l’assistenza di Laura Garbolino. Figura 58: Stacey Benn. Figura 59: Per gentile concessione di Steven Wasserman. Testi Pag. 76-77, The Sand Reckoner (Aranario): compare in T. L. Heath, The Works of Archimedes, 1897; ristampato con il permesso della Cambridge University Press. Pag. 198-199, «The Vice of Gambling and the Virtue of Insurance» («Il vizio del gioco e la virtù delle assicurazioni»): compare in J. R. Newman, The World of Mathematics, vol. 3, 1956; ristampato con il permesso della Simon & Schuster.

Pag. 263-266, «History of the naturalization of Kurt Gödel»: ristampato con il permesso dell’Institute for Advanced Study, Princeton, New Jersey, e di Dorothy Morgenstern Thomas, con l’assistenza di Margaret Sullivan. Indice Prefazione 1. Un mistero 2. Mistici: il numerologo e il filosofo 3. Maghi: il maestro e l’eretico 4. Maghi: lo scettico e il gigante 5. Statistici e probabilisti: la scienza dell’incertezza 6. Geometri: lo shock del futuro 7. Logici: riflettere sul ragionamento 8. Irragionevole efficacia? 9. La mente umana, la matematica e l’universo Note Bibliografia Referenze

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