Marie Cardinal - Le Parole Per Dirlo.txt

December 13, 2016 | Author: Giulia Arena | Category: N/A
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Marie Cardinal Le parole per dirlo Titolo originale Les mots pour le dire Traduzione di Natalie Banas con una nota di Giuliana Morandini I Grandi Tascabili Romanzi & Racconti Copyright 1975 éditions Grasset & Fasquelle Copyright 1976 Gruppo Editoriale Fabbri, Bompiani, Sonzogno, Etas S.p.A' Copyright 1994 R.C.S' Libri & Grandi Opere S.p.A', Milano IV edizione "I Grandi Tascabili" febbraio 1997 Bompiani Incubi, angosce, paura della morte e della vita. E' un male che paralizza, inibisce, confonde, fa perdere coscienza di sé, annulla il senso delle proprie azioni. La famiglia, i ruoli, la condizione di donna, la società, la morale. E a monte un'infanzia tradita, presupposti sbagliati, pregiudizi, ossessioni arcaiche... E' la storia tutta al femminile di un'analisi, di un graduale ricupero di sé, di una nuova nascita nella consapevolezza. Una storia che, tradotta nella pagina, ha sconvolto, commosso e convinto. Marie Cardinal è ormai il simbolo di una certa scrittura, di un modo intimo, caldo e vero di affrontare il problema femminile dalla parte del linguaggio. Marie Cardinal, nata ad Algeri nel 1929, insegnante di filosofia e giornalista, è autrice di numerosi romanzi di successo sulla condizione femminile. Tra le traduzioni italiane ricordiamo: ^In altri termini (1977), Una vita per due (1979), La trappola (1983), D'ora in poi (1984), Sconvolgimenti (1988), Come se niente fosse (1992) e I giovedì di Charles e Lula (1994). Al medico che mi ha aiutata a nascere I Era un vicolo senza uscita, col selciato in rovina, tutto buchi e cunette, con due stretti marciapiedi in parte distrutti. S'infilava come un dito screpolato tra due file di villini a uno o due piani, stretti l'uno contro l'altro. In fondo, era chiuso da due cancelli coperti da una misera vegetazione. Nulla trapelava dalle sue finestre, nessun cenno di intimità, nessuna attività. Sembrava di essere in provincia, invece si era nel centro di Parigi. Non c'era miseria, ma neppure ricchezza. Qui abitava la piccola borghesia, quella che nasconde i risparmi nelle calze di lana, dietro le crepe delle facciate, le persiane sdentate, le grondaie arrugginite e i muri decrepiti che si sgretolano pezzo dopo pezzo. Ma le porte erano solide e le finestre al pianterreno protette da robuste sbarre di ferro. Quest'isola tranquilla nel cuore della città risaliva probabilmente a una cinquantina di anni prima. Si scorgevano qua e là alcune tracce di liberty in quelle facciate scompaginate. Chissà chi ci abitava. A

giudicare da certe vetrate, certi battenti di porta, certi motivi floreali, il vicolo era forse abitato da artisti in pensione, vecchi imbrattatele, vecchie cantanti liriche, anziani virtuosi del palcoscenico. Per sette anni, tre volte alla settimana, ho camminato lungo questo vicolo, fino in fondo, fino al cancello di sinistra. So come cade la pioggia sui ciottoli di pietra, so come gli abitanti si riparano dal freddo. So che d'estate la vita diventa quasi agreste, con i vasi di gerani alle finestre e i gatti addormentati al sole. Conosco il vicolo di giorno e di sera. So che è sempre vuoto. E' vuoto anche quando qualche pedone si affretta a raggiunger la propria porta, o quando qualche macchina esce da un garage. Non mi ricordo che ora fosse la prima volta che passai quel cancello. Non so se feci caso al piccolo giardino abbandonato a se stesso, alla ghiaia dell'angusto vialetto. Non so se contai i sette scalini che conducono al portoncino d'ingresso, se guardai il muro di pietra mentre aspettavo che mi venissero ad aprire. Non credo. Vidi invece l'ometto bruno che mi porgeva la mano. Era minuto, vestito con cura e stava molto sulle sue. I suoi occhi erano neri, lisci come la testa di un chiodo. Gli obbedii quando mi disse di aspettare in una stanza che aprì sollevando una tenda di velluto. Era una sala da pranzo in stile Enrico II, il cui mobilio - tavolo, sedie, credenza, buffet - occupava quasi tutto lo spazio e incombeva su un'estranea come me con le sue sculture di gnomi e di foglie di edera, le sue colonnine a spirale, i suoi vassoi di rame, i suoi vasi cinesi. Queste bruttezze non contavano. Quel che contava era il silenzio. Attesi, braccata e tesa, fino a quando sentii una porta a battenti che si apriva, a destra della tenda di velluto, due persone che passavano sfiorando la tenda, poi il portoncino d'ingresso che si apriva e una voce borbottare: "Arrivederla, dottore." Nessuna risposta e la porta si richiuse. Di nuovo i passi felpati verso la prima porta, alcuni secondi di silenzio, poi il parquet scricchiolò sotto il tappeto, segno che la porta era rimasta aperta, e alcuni suoni irriconoscibili. Poi la tenda di velluto si scostò e l'ometto bruno mi fece entrare nel suo studio. Eccomi seduta davanti alla scrivania. Lui è sprofondato in una poltrona nera accanto alla scrivania in modo tale che devo stare di traverso se voglio guardarlo in faccia. Sulla parete davanti a me c'è una libreria piena di volumi nella quale è incastrato un divano marrone con un salsicciotto di velluto e un piccolo cuscino. Il dottore sta chiaramente aspettando che mi decida a parlare. "Dottore, sono malata da molto tempo. Sono scappata da una clinica per venire da lei. Non ce la faccio più a vivere." I suoi occhi mi fanno capire che mi sta ascoltando, che devo andare avanti. Prostrata com'ero, rinchiusa com'ero nel mio universo, come facevo a trovare le parole che sarebbero passate da me a lui? Come facevo a gettare un ponte tra l'agitazione e la calma, il chiaro e l'oscuro, come facevo a saltare la fogna, il fiume straripante di materia in decomposizione, la corrente maligna della paura che ci separava, me da lui, me dagli altri? Avevo molte storie da raccontare, molti aneddoti. Ma della storia che abitava dentro di me, la Cosa, questa colonna del mio essere, ermeticamente chiusa, piena di buio in movimento, come facevo a parlarne? Era una colonna densa, spessa, percorsa talvolta da spasmi, da affanni, e da movimenti lenti come quelli dell'acqua nei sottofondi marini. I miei occhi non erano più finestre. Benché fossero aperti sapevo che li avevo chiusi, che erano solo due fette di globi oculari.

Mi vergognavo di quello che succedeva dentro di me, di tutto quel fracasso, quel disordine, quella agitazione. Nessuno doveva guardare là dentro, nessuno doveva sapere, neanche il dottore. Mi vergognavo della mia pazzia. Qualsiasi altra condizione di vita mi sembrava preferibile. Navigavo senza tregua in acque terribilmente pericolose, piene di vortici, di rapide, di relitti e insidie nascoste, tutto questo dovendo far finta di scivolare su un lago tranquillo come fossi un cigno. Per nascondermi meglio avevo chiuso tutte le uscite: gli occhi, il naso, la bocca, la vagina, l'ano, i pori della pelle, la vescica. Il mio corpo collaborava producendo abbondanti sostanze; alcune molto dense, tanto da non venire più fuori, altre al contrario fluide che colavano di continuo, vietando così l'ingresso a qualsiasi altro elemento. "Può dirmi qualcosa delle terapie che ha seguito? Degli specialisti che l'hanno avuta in cura?" "Sì." Di questo potevo parlare. Potevo recitare una lunga lista di medici, di farmaci. Potevo parlare del sangue, della sua presenza dolce e tiepida tra le mie cosce, da più di tre anni, dei due raschiamenti che mi avevano fatto per tentare di fermare il flusso. Questo continuo fluire, con le sue variazioni d'intensità, mi era ormai familiare. Era un'anomalia che mi rassicurava, perché almeno si vedeva, si poteva misurare, analizzare. Mi piaceva fare del sangue il vero responsabile, il punto focale della mia malattia. Del resto, come facevo a non spaventarmi di queste perdite continue? Quale donna non sarebbe impazzita nel vedere colare via la propria linfa? Come facevo a non esaurirmi nel controllare a ogni momento questa fonte intima, imbarazzante, vistosa, vergognosa? Come non darle la colpa del fatto di non poter più vivere insieme agli altri? Avevo macchiato tante poltrone, tanti divani, tante sedie, tanti tappeti, tanti letti! Avevo lasciato tante pozze, pozzette, gocce, goccioline in tanti salotti, sale da pranzo, anticamere, corridoi, piscine, autobus, e in tanti altri luoghi! Non potevo più uscire di casa. Impossibile non parlare della mia gioia i giorni in cui il sangue sembrava esaurirsi e non si faceva più vedere, se non per qualche macchia marrone, poi ocra, poi giallastra. In quei giorni non ero malata, ero in grado di muovermi, di vedere, di uscire da me stessa. Finalmente il sangue sarebbe andato a rannicchiarsi nel suo nido morbido e si sarebbe addormentato per ventitré giorni, come faceva una volta. Ero piena di speranza ed evitavo il più piccolo sforzo. Mi muovevo con ogni precauzione: non dovevo prendere i bambini in braccio, portare le borse della spesa, restare in piedi a lungo davanti ai fornelli, fare il bucato, pulire i vetri. Tutto al rallentatore, tutto con calma, purché sparisse il sangue, purché la smettesse d'imbrattare tutto. Rimanevo sdraiata con un lavoro a maglia, e sorvegliavo i miei tre figli che giocavano. Con un gesto furtivo del braccio, che era diventato rapido e abilissimo a furia di ripeterlo, controllavo in continuazione il mio stato. Riuscivo a farlo in qualsiasi posizione, senza farmi vedere da nessuno. A seconda delle circostanze la mia mano scivolava lungo i peli duri e crespi, fino ad incontrare il punto caldo, morbido e bagnato del mio sesso, poi si ritirava in fretta. Oppure superava con facilità la zona piana tra la natica e la coscia e si tuffava, in un colpo solo, nell'orifizio rotondo e profondo, per uscirne immediatamente. Non guardavo subito la punta delle dita. Volevo farmi una sorpresa. E se non ci fosse stato niente? A volte ce n'era così poco che dovevo grattare con forza, con l'unghia del pollice, la pelle dell'indice e del medio, per far apparire una macchiolina quasi incolore. Una strana felicità s'impossessava di me: "Se non faccio il più piccolo movimento si fermerà del tutto." Rimanevo ferma, come addormentata,

desideravo con tutte le mie forze ridiventare normale, essere come le altre. Facevo e rifacevo i conti di cui sono pratiche le donne: "Se le mie mestruazioni finiscono oggi, le prossime verranno il... vediamo, questo mese ha trenta o trentun giorni?..." Ero persa nei miei calcoli, nella mia gioia, nei miei sogni. Finché la carezza forte e inequivocabile, segretissima, dolcissima, di un grumo trascinato dal sangue non mi faceva trasalire. Lava densa e compatta che sgorga dal cratere, invade le cavità, e rotola giù, calda. Il cuore ricominciava immediatamente a battere, l'angoscia tornava, la speranza svaniva mentre correvo in bagno. Il sangue aveva raggiunto le ginocchia, a volte i piedi, sottile striscia d'un bel rosso vivo. Quanti anni vissuti nell'attesa senza fine, nell'ossessione di questo sangue! Ero andata da non so quanti ginecologi. Ormai ero bravissima nell'appoggiare le natiche sull'orlo del lettino, con le gambe divaricate nelle staffe alte. Non sbagliavo d'un millimetro. Le mie viscere aperte e offerte al calore della lampada, agli occhi del medico, alle sue dita nel sottile guanto di gomma, ai ferri di acciaio bellissimi e spaventosi. Chiudevo gli occhi e guardavo con ostinazione il soffitto mentre nel centro del mio essere si stavano compiendo perquisizioni esperte, esplorazioni indiscrete, palpeggiamenti scientifici. Violentata. Tutto questo - mi sembrava - bastava a giustificare i miei nervi a pezzi, li rendeva più accettabili, meno equivoci. Non si manda una donna in manicomio perché sanguina ed è terrorizzata da questo fatto. Fino a quando avrei parlato unicamente del sangue, avrebbero visto soltanto quello, non ciò che vi si nascondeva dietro. E ora eccomi qua, seduta vicino al dottore, nella pace di questo villino barocco, in fondo al vicolo silenzioso, ubbidiente e garbata, come avrebbe dovuto essere il sangue in fondo al mio ventre. Non sapevo che questo luogo e quest'uomo sarebbero diventati l'inizio di tutto. Mi compiacevo a raccontargli la mia visita, qualche settimana prima, a un grande professore di ginecologia. Lo specialista, tutto vestito di bianco, giacchetta e pantaloni, all'americana, aveva affondato la mano destra dentro di me, mentre con la sinistra premeva sul mio ventre, da ogni lato, spingendo le mie viscere verso il basso, proprio dove le sue dita fasciate di gomma stavano palpando: una massaia che pulisce un pollo e lo svuota d'un colpo solo. Mi aspettavo che gli organi si mettessero a fare strani rumori melmosi, "pluf", "slop", "splash". Il soffitto era bianco come la menzogna. Un bianco infinito per far perdere le vagine deformi e logore, un bianco profondo per inghiottire le immagini ignobili che mi venivano in mente. Dopo un lunghissimo esame il professore si era raddrizzato, aveva tolto il guanto, e lasciandomi lì sul lettino, con le cosce spalancate, aveva dichiarato: "Per ora è solo un utero fibromatoso. Le consiglio di sbarazzarsene quanto prima. Altrimenti va incontro a grossi guai, prima di quando non si aspetti. Fissiamo subito la data dell'operazione. Vedrà, dopo andrà tutto bene... Non stiamo a rimandare, la opero la settimana prossima... vediamo, quale giorno preferisce? Lunedì o martedì?" Risposi "martedì." Mi diede le sue istruzioni per gli esami preoperatori e per il ricovero in clinica. Pagai la parcella, dissi grazie, me ne andai. Non avevo ancora trent'anni. Non volevo che mi portassero via quella sacca e quelle due palline. Non volevo più che il sangue colasse di lì, ma volevo tenermi questi organi nel ventre. La Cosa si muoveva nella mia testa, si agitava. Scesi di corsa le scale di marmo con le colonne, la passatoia, le bacchette di ottone, gli specchi su ogni pianerottolo. Ero fuori, sul grande marciapiede grigio dei

quartieri alti. Mi misi a correre, mi precipitai nel metrò, e lì la Cosa mi riempì, spingendo questa volta le sue radici proprio nel mio utero fibromatoso. Fibromatoso. Che razza di parola! Una caverna foderata di alghe sanguinolente. Un pertugio bolso e mostruoso. Un rospo pieno di pustole. Una piovra. Per i malati mentali, le parole hanno una vita propria, come la gente o gli animali. Possono palpitare, svanire o amplificarsi. Passare attraverso le parole è come camminare in mezzo alla folla. Rimangono delle facce, delle sagome che si dileguano presto nel nostro ricordo, oppure vi si fissano, non si sa bene perché. In quel periodo, estraevo una parola dalla massa delle altre parole, ed essa cominciava ad esistere, diventava una cosa importante, forse la più importante e mi abitava, mi torturava, non mi lasciava più, mi appariva nel sonno e mi aspettava al risveglio. Aprivo gli occhi lentamente, riemergevo dal sonno pesante, impastato, che i tranquillanti mi procuravano. Per prima cosa prendevo coscienza del mio corpo intatto. Poi dell'ora, del sole e stavo abbastanza bene. Risalivo alla superficie della mia coscienza. Un secondo, due secondi, tre al massimo: fibromatoso! Splash eccolo qua, come un grosso schizzo di vernice grassa su un muro bianco. Ed ecco i brividi, il cuore che martella e il sudore della paura. Cominciava una nuova giornata. Devo assolutamente ricordare e ritrovare la donna dimenticata. Più che dimenticata, dissolta. Una donna che camminava, parlava, dormiva. Al pensiero che i suoi occhi erano capaci di guardare, le sue orecchie di udire, la sua pelle di sentire, mi commuovo. Era con i miei occhi, le mie orecchie, la mia pelle, che quella donna viveva. Guardo le mie mani, le stesse mani, le stesse unghie, lo stesso anello. Io e lei. Io sono lei. La pazza ed io abbiamo iniziato una vita nuova, piena di speranza, una vita che non potrà più essere brutta. Io la proteggerò, lei mi darà la fantasia, la libertà. Se voglio raccontare questo passaggio, questa nascita, devo allontanarmi dalla pazza, prendere le distanze, sdoppiarmi. La vedo in una strada, ha molta fretta. So quanti sforzi sta facendo per sembrare normale, per trattenere la paura dietro lo sguardo. Me la ricordo in piedi, la testa affondata nelle spalle, triste, tutta presa dall'agitazione che sente salire dentro di sé, intenta a fare dei suoi occhi una diga. L'importante è che non si veda niente! Che non cada per terra, in mezzo alla strada, che non venga portata via dagli altri, che non la conducano in ospedale. Il solo pensiero di non essere in grado di strozzare la follia, le cui ondate sempre più grosse avrebbero finito prima o poi col rompere le dighe e straripare, la faceva tremare come una foglia. I suoi itinerari in città diventavano sempre più brevi. Poi, un giorno, smise di uscire. In seguito, ridusse il suo spazio vitale all'interno della casa. Le trappole erano sempre più numerose. Negli ultimi mesi, prima di essere consegnata ai medici, poteva vivere solo nella stanza da bagno. Una stanza bianca con le piastrelle di ceramica. Una stanza buia, fiocamente illuminata da una finestra a mezzaluna ostruita quasi completamente dai rami di un grosso pino. Nei giorni di vento si udiva il pino grattare il vetro. Una stanza pulita con l'odore asettico delle saponette. Niente polvere negli angoli. Le dita scivolavano sulle piastrelle come sul ghiaccio. Niente decomposizione, niente fermentazione. Soltanto materie capaci di marcire così lentamente che il concetto di putrefazione non poteva essere loro applicato. Lo spazio tra la vasca e il bidè, ecco il suo posto preferito quando non riusciva più a domare la Cosa. Era lì che si rintavana in attesa che i farmaci facessero il loro effetto. Raggomitolata su se

stessa, con i talloni contro le natiche, le braccia strette attorno alle ginocchia ripiegate sul petto, le unghie conficcate nel palmo delle mani fino a procurarsi delle ferite, la testa che dondolava avanti indietro oppure da un lato all'altro, troppo pesante per essere retta dal collo, il sangue e il sudore che colavano. La Cosa dentro di lei era costituita da un mostruoso formicolio d'immagini, di suoni, di odori, proiettati in ogni parte da una pulsione distruttiva; rendeva incoerente ogni ragionamento, assurda ogni spiegazione, inutile ogni tentativo di fare ordine; all'esterno si rivelava con un tremito violento e un sudore nauseabondo. La prima volta che andai dallo psicoanalista, era sera, mi par di ricordare. Ma forse no, forse è rimasta la nostalgia di una di quelle sedute serali, in fondo al vicolo, ben riparata dal freddo, dalla gente, dalla pazza, dalla notte. Una di quelle sedute in cui prendevo coscienza di maturare, di venire al mondo. Si aprivano larghe falle luminose, la strada si faceva più larga, cominciavo a capire. La pazza non era più quella poveretta che andava a nascondere i suoi tremiti nelle toilette dei bar, quella che fuggiva da un nemico innominabile, che sanguinava per le strade, e sudava rintanata nella sua stanza da bagno. Non era più quella malata che rifiutava di essere toccata, guardata, che non voleva che le si rivolgesse la parola. La pazza stava diventando un essere tenero, ricco e sensibile. Cominciavo ad accettare la pazza, a volerle bene. Le prime volte, venivo nel vicolo per il solo motivo di farmi curare per un po' da un dottore che non mi avrebbe fatta internare. (Gli psicoanalisti non mandano i loro pazienti in ospedale, questo lo sapevo.) La clinica mi terrorizzava, come mi aveva terrorizzata l'idea dell'operazione che mi avrebbe amputato il ventre. Ero fuggita da una clinica per poter venire nel vicolo, ma temevo che fosse troppo tardi, e che mi rimandassero da dove venivo. Mi sembrava inevitabile, specie da quando la mia malattia si era arricchita di un nuovo sintomo, un'allucinazione. Ero ben decisa a non parlarne col dottore, perché pensavo che si sarebbe rifiutato di curarmi e mi avrebbe rimandata seduta stante in clinica psichiatrica. Quell'occhio vivo che di tanto in tanto mi fissava esisteva realmente, anche se solo per me (di questo mi rendevo perfettamente conto), e mi sembrava il segno inequivocabile della pazzia, della malattia incurabile. Avevo trent'anni, un'ottima salute, e quindi rischiavo di passarne altri cinquanta rinchiusa in manicomio, e se non fosse stato per i bambini, credo che mi sarei lasciata definitivamente andare. Forse senza di loro avrei smesso di lottare. Questa continua battaglia contro la Cosa mi stremava, e sempre più ero tentata di ricorrere alle medicine che mi conducevano dolcemente in una nebbia morbida ed accogliente. I miei figli erano degli esseri umani, li avevo voluti con tutte le mie forze, non erano nati per caso. Da bambina dicevo sempre: "Quando sarò grande avrò dei bambini e costruirò per loro e insieme a loro una vita fatta di allegria, di calore, di affetto." Quello, cioè, che avevo sognato per tutta la mia infanzia. Erano venuti al mondo traboccanti di questa loro nuova vita, robusti, molto diversi l'uno dall'altro. Crescevano bene e li adoravo. Mi piaceva farli ridere, cantare loro delle canzoni. Poi, tutt'a un tratto, lo sfacelo: La Cosa era venuta, era tornata, e ora non mi lasciava più. Mi assorbiva al punto che non riuscivo ad occuparmi d'altro. In un primo tempo avevo sperato di poter vivere con la Cosa, come altri vivono con una gamba sola, un occhio solo, una malattia allo stomaco o ai reni. I farmaci infatti relegavano la Cosa in un angolo, dove non si muoveva. In quei momenti riuscivo ad ascoltare, a parlare, a camminare. Riuscivo a portare i bambini a

passeggio, a fare la spesa, a preparare dei dolci e a raccontare loro delle storie per farli ridere. Ma l'effetto delle pillole diminuiva di giorno in giorno e dovetti raddoppiare, poi, triplicare la dose. Poi, un bel giorno, mi sono svegliata prigioniera della Cosa. Non ricordo da quanti medici sono stata. Il sangue si è messo a colare ininterrottamente. In certi momenti la mia vista si abbassava, vivevo nella nebbia, tutto diventava sfocato e pericoloso. La testa mi si affondava nelle spalle, i pugni si serravano a difesa. Il mio cuore batteva a centotrenta, centoquaranta pulsazioni al minuto per giorni e giorni, sembrava che volesse sfondarmi il petto e saltar fuori, impazzito, agli occhi di tutti. Il suo battito scatenato mi stremava. Pensavo che gli altri lo potessero sentire e mi vergognavo. Mi erano venute due manie, due gesti che ripetevo mille volte al giorno. Il primo, che ho già descritto, era di andare a verificare il flusso del sangue, e il secondo di provarmi il polso. Come per il sangue, anche questo lo facevo furtivamente e non se ne accorgeva nessuno. Non sopportavo l'idea di sentirmi dire: "Che cos'ha, non si sente bene?" Il flusso del sangue e i battiti del polso erano i due poli sensibili, evidenti, della mia malattia; due sintomi che mi permettevano di dire, quando non ce la facevo più a nasconderli: "Sono malata di cuore", "Ho un cancro all'utero." Ricominciava la girandola degli specialisti. La morte era sempre più presente, con la sua materia in decomposizione, le sue secrezioni nauseabonde. Ora mi sono messa in testa di raccontare la mia malattia. Mi sono concessa l'orrendo privilegio di descrivere quelle terrificanti immagini, quei dolori abominevoli, che nascevano in me al ricordo di avvenimenti passati. Mi sembra di essere un regista con la cinepresa, appollaiato in cima a una gru gigantesca: può scendere a livello della terra per riprendere in primo piano i particolari deformati di un viso, oppure salire in alto, sopra il set, per le scene d'insieme. Ricordo ad esempio quella prima visita, in una Parigi autunnale (ma era poi autunno?), con le luci della sera, e il vicolo nel quartiere di Alesia. Dentro il vicolo, il villino, dentro il villino lo studio immerso in una luce calda, dentro lo studio un uomo e una donna. Questa donna è sul divano, raggomitolata come un feto nell'utero. Allora non sapevo che cominciavo appena a nascere e che vivevo i primi istanti di una lunga gestazione che doveva durare sette anni. Ero un embrione, il grosso embrione di me stessa. Al dottore avevo già detto del sangue e della Cosa che mi faceva venire le palpitazioni. Non avrei detto nulla dell'allucinazione, gli avrei parlato dei giorni precedenti, della clinica. Così gli avrei raccontato tutto. Il dottore mi ascoltava con molta attenzione, eppure niente di quel racconto provocò in lui la minima reazione. Quando ebbi finito di descrivere la stanza da bagno e le mie crisi di angoscia, mi chiese: "Che cosa prova in quei momenti, oltre al malessere fisico?" "Ho paura." "Paura di che cosa?" Per la verità, non sapevo nemmeno io di che cosa avevo paura. Avevo paura della morte, ma anche della vita, perché essa genera la morte. Avevo paura del mondo esterno, ma anche di quello interno. Avevo paura degli altri, e avevo paura di me stessa perché mi sentivo un'altra. Avevo paura, paura, paura, paura, paura. Nient'altro. Questa paura mi aveva relegata nel mondo dei malati di mente. La mia famiglia, da cui ero appena uscita, aveva di nuovo tessuto il

bozzolo attorno a me, sempre più fitto, via via che la malattia progrediva. Non si preoccupavano soltanto di proteggere me, volevano proteggere loro stessi. La pazzia non si ammette in un certo ambiente, bisogna nasconderla a tutti i costi. Nell'aristrocrazia la pazzia è un'eccentricità, nelle classi popolari una tara, in tutti e due i casi si giustifica. Ma nella nuova classe egemone non è tollerata. Quando dipende dalla consanguineità o dalla miseria endemica, va bene, si può anche capire, ma il benessere, la buona salute, i soldi guadagnati bene, non possono generare psicosi: quando succede, è una vergogna. Da principio mi tranquillizzavano: "Non è nulla, sei un po' nervosa. Riposati, fa' dello sport." Infine un ordine categorico: "Andrai dal dottor Tale, è un amico di tuo zio e un grande specialista di malattie nervose." Il grande specialistaamico aveva prescritto una terapia "sotto stretto controllo medico". Mi avevano prenotato una stanza all'ultimo piano della clinica di mio zio. Era una specie di mansarda, tutta tappezzata di stoffa, con un motivo campestre molto riposante: una pastorella con le sue pecore e il suo bastone, un albero d'ulivo dal tronco nodoso. La pastorella, le pecore, l'albero, la pastorella, le pecore, l'albero: questo susseguirsi d'immagini pacifiche mi rassicurava. Dietro un paravento rivestito della stessa stoffa, c'erano un lavandino e un bidè di porcellana bianca, con gli angoli arrotondati. Di fronte, un tavolo e una sedia, poi una finestra a lucernario, fuori, la deliziosa campagna dell'îledeFrance: una fila di pioppi che fremevano, i meli piantati a scacchiera, campi di grano digradanti fino all'orizzonte. Il cielo aperto. Ma forse quel tessuto con la pastorella non era quello della mia camera in clinica, forse era quello della mia stanza di bambina. In clinica c'era alle pareti un tessuto con dei grossi fiori, o forse i muri erano verniciati di azzurro. Non ricordo. Non so più come sono arrivata lì, né chi mi ha portata. Ricordo chiaramente la scala di legno, molto stretta, che conduceva alla mia camera. Ricordo la stanza, il mobilio, la finestra, la toilette. Mi fecero spogliare, infilare un pigiama nuovo ed entrare nel letto morbido con le lenzuola fresche. Mi fecero sdraiare, mi misurarono la pressione e provarono il polso. Ero in balia dei medici. Chiusi gli occhi per continuare la battaglia dentro di me, dato che per il resto mi ero ormai arresa: ero sdraiata sulla schiena, con le braccia distese sulle lenzuola ben tirate e le mani aperte. Vista dall'esterno sembravo normale, ma dentro di me c'erano le palpitazioni e dovevo calmarle. Mi misero il bracciale, sentivo il soffio corto e ripetuto della pompa di gomma, sentivo la stoffa gonfiarsi e stringersi sempre di più attorno al mio braccio. Mi irrigidivo al contatto freddo del disco di metallo nell'incavo del mio gomito. Il medico aveva insistito sulla pressione, che era molto bassa: dovevano controllarla ogni quattro ore, prima di darmi la compressa. Non m'interessava che la pressione fosse bassa. Per me contavano solo i battiti impazziti del mio cuore. Mentre mi misuravano la pressione ne approfittavo per cercare di calmarli. Chi c'era in quella stanza? Mio zio? Il professoreamico? Qualcun altro? Non so. In quel periodo ero talmente occupata a controllarmi e a lottare contro la Cosa che non vedevo bene, mi pareva di diventare cieca, di muovermi guidata da un radar, come se fosse l'istinto più che la vista ad impedirmi di andare a sbattere contro le persone, contro i muri. Poi sentii quattro polpastrelli esperti che si posavano sul mio polso. Quattro minuscole palline morbide. Non ci fu bisogno di cercarla, la Cosa era lì, e subito il sangue si mise a battere contro

quelle dita. Appena le dita sentirono i battiti, essi si ingigantirono e risuonarono per tutto il mio corpo, per tutta la stanza. Novanta, cento, centodieci, centoventi, centotrenta, centoquaranta. Avevo un bel nasconderla e tappare tutto per non farla uscire, la Cosa si manifestava lo stesso, attraverso le mie vene, attraverso la mia pelle. Quella figlia di puttana era lì, si prendeva burla di me, non mi obbediva, batteva come una forsennata contro i quattro polpastrelli. Le dita lasciarono il mio polso, ormai sapevano. Qualcuno si mosse vicino a me, ci furono vari rumori, piccoli rumori per niente minacciosi. "Ora prenderà la sua compressa. Un quarto soltanto, per una settimana, quattro volte al giorno. Poi aumenteremo la dose. Vedrà che le farà bene." Era una donna a parlare, una donna piccola e minuta, con i capelli bianchi. Nei suoi occhi si leggeva che aveva capito il messaggio trasmesso alle sue dita. Sapeva. Presi il frammento di compressa, il bicchiere d'acqua che mi porgeva, e feci finta d'ingoiare normalmente: erano settimane che non riuscivo a buttar giù nessuna compressa senza averla diluita. La mia gola era così stretta che non lasciava passare niente. La medicina mi era rimasta in gola, enorme, come una pietra. La donna uscì. Balzai giù dal letto e corsi fino al lavandino per sputare la medicina. Dovetti infilarmi le dita in fondo alla gola per vomitare. Finalmente venne fuori il minuscolo triangolo giallastro, insieme con catarro, schiuma, e filamenti vischiosi. (Quella compressa era veramente giallastra? Non era rossa, o bianca?) Mi sedetti sul bidè, con il corpo scosso dai brividi e la fronte contro il bordo fresco e duro del lavandino. Il tempo s'era fermato. Non so quanto tempo rimasi senza muovermi. A un certo punto ricordo che mi tolsi il tampone che bloccava il flusso del sangue. Cominciò a cadere, lentamente, goccia a goccia, mentre io mi dondolavo avanti indietro, per cullarmi, sapendo bene che cullavo anche la Cosa. Le gocce di sangue si schiacciavano e si diluivano in parte sulla ceramica bianca e bagnata, e ora formavano un sottile ruscello che andava fino allo scarico. Mi piaceva guardarlo, mi teneva occupata. Osservavo la metamorfosi del sangue che usciva dal mio corpo e acquistava una vita propria, scopriva la fisica, il peso, la densità, la velocità. Mi faceva compagnia, lo sentivo sottomesso come me alle leggi incomprensibili e indifferenti della vita. La Cosa aveva vinto. Ormai eravamo sole io e lei, per sempre. Eravamo finalmente isolate, noi e le nostre secrezioni: il sangue, il sudore, le feci, la saliva, il pus, il muco, il vomito. La Cosa aveva cacciato via i miei figli, le strade piene di gente, le luci dei negozi, la spiaggia a mezzogiorno con le piccole onde dell'estate, gli alberi di lillà, le risate, il piacere di ballare, il calore degli amici, l'esaltazione intima dello studio, le lunghe ore di lettura, la musica, le braccia tenere di un uomo attorno a me, la crema al cioccolato, la gioia di nuotare nell'acqua fresca. Non mi restava che raggomitolarmi in questa toilette di una clinica, il posto più pulito della stanza, sudare e rabbrividire. Tremavo così forte che le mie mascelle facevano uno stupido rumore meccanico. Per fortuna, gli scalini di legno scricchiolavano. Al minimo rumore tornavo a letto e assumevo un atteggiamento normale. Non mi piaceva quella donna con i capelli bianchi e non le parlavo mai. Mi portava i pasti su un vassoio e mi dava le compresse dopo avermi misurato la pressione e provato il polso. Non riuscivo a mangiare. Buttavo nel lavandino tutto quello che poteva andar giù, e il resto nella grondaia che scorreva sotto la mia finestra, lungo il tetto di tegole. Non ho il ricordo di un periodo lungo o corto, e nemmeno

della notte o del giorno. Ero prigioniera. Avevo guardato fuori dalla finestra per vedere se sarei riuscita ad uccidermi buttandomi giù. Sì, mi sarei uccisa, c'erano almeno quattro piani. Ma il tetto nascondeva la base della casa e non sapevo dove sarei caduta, forse sulla vetrata di una veranda o su un'aiuola. Non volevo suicidarmi con questo sistema. Oltretutto la morte mi faceva paura e, allo stesso tempo, mi sembrava l'unica soluzione per eliminare la Cosa. Non so quanti giorni passarono prima che un violento desiderio di fuga s'impadronisse di me. Almeno otto, perché quella mattina (era mattina, ne sono certa) la signora mi aveva fatto prendere mezza compressa, e mi ricordavo perfettamente che dovevo prenderne un quarto per una settimana, poi mezza. Presi improvvisamente coscienza di essere sdraiata nel mio letto, coricata normalmente sulla schiena, col viso scoperto. Rimasi sorpresa, erano mesi che vivevo raggomitolata su me stessa, che dormivo in posizione fetale, con la testa affondata nelle coperte. Mentre constatavo questo cambiamento, mi sentivo la nuca pesante, come se il cervelletto fosse stato di piombo. Mi accorsi che già da qualche tempo avvertivo questa pesantezza, anche se meno localizzata. Mi accorsi anche che la Cosa non era più come prima, inquieta, affannosa, rapida; era diventata densa, vischiosa, collosa. Non era più la paura che mi abitava, ma piuttosto la disperazione, la tristezza, il disgusto. No, non volevo. Non so quale istinto mi abbia fatto scegliere la lotta con la Cosa infuriata invece della convivenza con la Cosa molle, appiccicata a me in un abbandono nauseante. Nel corso della mattinata - la testa mi pesava e mi doleva sempre più, affondata tra i cuscini - misi in relazione questo mio stato e le compresse che prendevo. Mi tornò in mente una conversazione tra lo psichiatraamico e mio zio. Parlavano di una nuova terapia, un "elettroshock chimico", ancora difficile da controllare, ma che dava risultati ben più soddisfacenti dell'elettroshock tradizionale. Ne parlavano davanti a me come fossi stata una sedia. E infatti, in quel momento, non ero per nulla interessata ai loro discorsi. Pensavo soltanto che il cerchio era ormai chiuso, che stavano per internarmi e che non c'era niente di strano, poiché ero incapace di vivere come gli altri, incapace di allevare i miei figli. Eppoi non ce la facevo più, volevo solo che mi liberassero dalla paura, dalla Cosa, a qualunque prezzo. Eppure quella mattina in clinica intuii che questo prezzo sarebbe stato altissimo e che non volevo pagarlo. Non avrei più preso le loro schifose compresse, questo era certo. Quando la signora fosse tornata, avrei finto d'ingoiare la compressa ma non l'avrei ingoiata, avrei sputato tutto fuori dalla finestra. Nella grondaia! E' ciò che feci. Quando cerco di ricordare quel periodo, mi stupisco ogni volta di non trovare nulla all'infuori di grandi spazi abbandonati, pieni di frammenti di persone e di oggetti, grandi spiagge coperte da vaghi detriti delle mie giornate, poi, tutt'a un tratto, costruzioni nette, precise, intere, perfettamente equilibrate e chiare. In certi momenti durante la mia malattia sono stata più acuta e più lucida di quanto non sarò mai più. Ne serbo un ricordo struggente. Durante la pazzia avevo scoperto nella mia mente certe strade di cui non avrei mai sospettato l'esistenza se fossi stata normale. Ero capace di un'incredibile agilità intellettuale. Mi venivano, di tanto in tanto, dei pensieri acuti, sottili, chiari, che mi portavano a una maggiore conoscenza, a una comprensione più profonda di ciò che mi circondava. Osservavo gli altri e li vedevo prendere direzioni tanto diverse dalla mia, addirittura opposte, tanto pericolose per loro che volevo

fermarli, avvertirli del rischio che correvano. Non lo facevo perché mi credevo malata e pensavo che queste mie scoperte fossero frutto della pazzia. Come potevo tremare all'idea che gli altri si perdessero se ero io la pazza? Allo stesso modo, quel giorno, previdi con estrema chiarezza quello che mi stava per succedere. Eppure non avevo ancora incontrato nessuno "guarito" dalla psichiatria. Più tardi ne ho visti alcuni: mummificati, inoffensivi, preoccupati di se stessi, esseri umani con le mani madide e lo sguardo doppio: una fiammella, la cenere, una fiammella, la cenere... Penso che la Cosa non li faccia più soffrire ma che sia rimasta dentro di loro, viva. E' ancora lei che guida la carrozza. Con quella testa malata, dolente, greve, (quel cervelletto che la droga mi strappava via!), avevo capito tutto. Non volevo finire così! Architettai un piano perfetto per poter scappare. Previdi tutto, nei minimi particolari. In primo luogo, non prendere più la mezza compressa. Poi mangiare qualcosa, perché per uscire dovevo avere un po' di forze. Ottenere che mi lasciassero andare nel parco. Dopo, sarebbe stato facile. Ma soprattutto previdi che, scomparendo l'effetto della droga, la Cosa mi avrebbe assalita di nuovo, con l'angoscia, i brividi, i tremiti, la paura, il sudore. Avrei ricominciato a vederci male, a sanguinare come un bue. Pazienza, l'importante era tagliare la corda. Sapevo di disporre di sole ventiquattr'ore per recitare la mia commedia. Dopo, rischiavo di non essere più in grado di andarmene, perché tutte le mie forze sarebbero state nuovamente mobilitate nella battaglia contro la Cosa. Immaginavo che non sarebbe stato possibile recuperare la mia borsetta piena di tranquillanti, di sonniferi e di tutti i toccasana che mi servivano per la mia guerra: zollette di zucchero per i crampi allo stomaco, mentine per la lingua impastata e la gola serrata, aspirina contro il caldo alla testa, deodorante contro il puzzo del sudore, tampax, fazzoletti di carta, cotone idrofilo per bloccare il sangue, occhiali scuri per nascondere lo sguardo agli altri e ripararmi gli occhi dalla luce intollerabile. Quella borsetta conteneva anche del denaro che mi avrebbe fatto comodo, dato che mi trovavo in mezzo alla campagna: non potevo prendere la corriera, il treno, il taxi. Bisognava trovare un'altra soluzione. L'avrei trovata. Sarei andata in paese e avrei telefonato a un mio amico. (Quelli della posta mi conoscevano: "E' la nipote del direttore... pagherà la prossima volta." Mi era già capitato in passato.) Chiedere la mia borsetta significava rovinarmi, questo era certo. Non dovevo suscitare il minimo sospetto. Per fortuna ero molto pratica del parco dove da bambina andavo a giocare e dove avevo portato spesso i miei figli a passeggio. Sapevo che esistevano passaggi nel muro di cinta e che sarei potuta uscire senza farmi vedere dai guardiani. Loro non sapevano che cosa facevo in clinica, non era un posto per soli malati di mente. Ero sicura che solo mio zio, mia zia e l'infermiera conoscessero il segreto. Però c'era il rischio che i guardiani parlassero e che mio zio venisse a sapere che ero uscita dal parco. Tutto il mio piano sarebbe andato in rovina. Con gli impiegati della posta, non c'erano problemi, non avevano rapporti regolari col personale della clinica. L'avrei fatto domani. Dopodomani me ne sarei andata. L'unica cosa che mi poteva tradire era il polso. L'effetto della droga sarebbe durato abbastanza a lungo? Per la compressa di mezzogiorno mi faccio trovare seduta a letto. L'infermiera entra nella stanza. "Buongiorno." "Buongiorno, sembra che stia meglio oggi." "Sì, mi sento meglio."

Pressione, polso, bicchiere d'acqua e mezza compressa sul piccolo vassoio di metallo. Da un po' di giorni non c'era più bisogno di scioglierla nell'acqua, deglutivo normalmente. La mezzaluna è incastrata sotto la mia lingua, l'acqua va giù. Un sorriso, se ne va. La compressa nella grondaia. Quando viene per la compressa del pomeriggio, mi trova in piedi davanti al lavandino. "Bel tempo oggi." "Sì, è una bellissima giornata." "Vorrei vedere mio zio, ho voglia di uscire." "Piano, piano, non credo che sia possibile. In piena cura!" "Potrei vedere mio zio? Ho voglia di leggere." "Sicuro." Pressione, polso, compressa nella grondaia. Poco dopo appare mio zio. "Allora, m'hanno detto che stai meglio, che vuoi leggere. Ti ho portato delle riviste e dei gialli." "Mi piacerebbe muovermi un po'. Potrei andare nel parco domani?" "Devo chiederlo al tuo medico." "Chiamalo. So che mi farà bene, ho una voglia matta di uscire." "Ora lo chiamo; dovrebbe venire a visitarti dopodomani, mi pare." "Non dovrò mica stare sempre senza muovermi. Sai, sto molto meglio." Largo sorriso. E' seduto sulla sponda del letto. Quasi non osa guardarmi. Per darsi un contegno studia la mia cartella clinica, dove ogni giorno segnano la mia pressione, il mio polso e le dosi di farmaco somministrato. Conosce questa cartella a memoria. Ogni mattina l'infermiera gliela porta a vedere. "Sembra proprio che tu stia meglio, mi fa piacere. Verrò a dirti che cos'ha deciso il tuo medico." Il mio medico! Se non conosco nemmeno il suo nome! In attesa del ritorno di mio zio, decido di farmi un po' di toilette. Mi spazzolo i capelli a lungo, avanti e indietro, poi mi lavo i denti. Mi stanco subito, respiro con fatica. Sto aspettando la Cosa, ma non si fa viva. Mi siedo per vedere colare il sangue nel bidè. E' il mio passatempo preferito da quando sono in clinica. Mi ricorda il mare e le onde che vengono a fare l'inchino sulla battigia, con un sospiro. Penso ai pianeti che girano con regolarità. Appena sento scricchiolare il primo scalino mi tiro su le mutande e mi siedo al tavolo, con una rivista aperta davanti a me. C'è Gina Lollobrigida con un vestito scollatissimo che sorride a tutt'andare. Dio mio, come fa quella donna a essere così felice? Mio zio è entrato, ha ancora il camice bianco che lo stringe un po' sullo stomaco e il berrettino bianco che porta in sala operatoria. "Il tuo medico è d'accordo. Potrai fare una passeggiata domani. E' molto soddisfatto dei risultati della cura. Pare che a volte questo farmaco abbia l'effetto contrario, che renda i pazienti abulici, che faccia venire mal di testa. L'infermiera verrà con te. Tua zia ha chiesto se vuoi venire a cena da noi." "No, stasera no, ti ringrazio. Ho già cenato e ora andrò a dormire. Verrò domani se la passeggiata mi avrà fatto bene. Ringraziala da parte mia, sono sicura che capirà." "Ma certo. Sai, non ha mai dubitato che ne saresti uscita in fretta. Non sono cose che capitano nella tua famiglia. Ti sei stancata troppo con i bambini, senza nessun aiuto. Tutto qui. Più che altro è in pensiero per tua madre che si preoccupa tanto per te. Sai come si vogliono bene. Passano intere giornate al telefono, loro due. La tua povera mamma non si regge più in piedi. I bambini la distruggono." "Guarirò molto presto. Dovete rassicurarla. Non ne avrò per molto." "Oh, sai, per me... Lo dico per tua madre. Questa povera donna ne

ha passate abbastanza, ha il diritto di tirare il fiato... Insomma, ti sto parlando come a una... persona adulta. Non ingigantire le cose." "No, no. Capisco quello che vuoi dire, ma vedrai che finirà presto. Lo sento, sto già meglio." "Buonanotte, bambina." Mi bacia in fronte, esce. Non voglio pensare a mia madre. Non devo pensare ai bambini... Quello che segue è molto confuso. La lotta corpo a corpo con la Cosa era feroce. Sentivo di non avere le forze per combattere contro di lei, con le mie mani, senza il minimo farmaco per aiutarmi, senza niente. Eppure tenevo duro. Uscii senza l'infermiera. Corsi per i campi. (Cerco di ricordare se il grano era alto ma non ci riesco.) Parlai per telefono col mio amico. "Mi prometti di venire domani, a quest'ora? Al bivio tra la strada statale e il viale che porta alla clinica, c'è un cartello che la indica, un chilometro prima di arrivare al paese, sulla sinistra." "Non ti preoccupare, ci sarò." Quella sera, seduta davanti al televisore, tra mio zio e mia zia, mi sembrava di essere in un grande acquario. Loro due erano due bravi pesciolini che brucavano tranquillamente le alghe e io ero una piovra. Soprattutto non aggredirli, non fare nulla che possa dar loro fastidio, non una parola, non un gesto. Non sapevo che mi preparavo a lasciarli definitivamente. Sapevo solo che stavo per ingannarli, e questo mi sconvolgeva. Proprio loro, i migliori della famiglia. Abbandonarli significava abbandonare il Bene. Ma quella era la strada che avevo deciso di prendere. Ora che ci pensavo, non ero mai stata normale, non ero mai stata in grado di vivere normalmente, come facevano loro. Tanto valeva sparire, liberarli dalla mia presenza. L'indomani trovai la macchina che mi stava aspettando. Partimmo subito e potei lasciarmi andare a tremare e a battere i denti. "Non stai bene? Dimmi che cosa posso fare." "Niente. Non c'è niente che tu possa fare. Portami da Michèle. Dopo telefonerai alla clinica. Digli che sto bene, che non mi facciano ricercare. Ma non dire dove sono. Non voglio vederli." Il giorno dopo andavo nel vicolo per la prima volta. Chi telefonò al dottore? Io? Michèle? Non so più. Lei lo conosceva, io ne avevo sentito parlare. (A casa di Michèle trovai dei tranquillanti e riuscii a controllare la Cosa.) Non so più. Ecco, avevo detto tutto. Volevo parlare del sangue e invece ho parlato soprattutto della Cosa. Il dottore mi avrebbe mandata via? Non osavo guardarlo. Mi sentivo bene, lì, in quello spazio angusto, a parlare di me stessa. Che fosse una trappola? L'ultima? Forse avevo fatto male a fidarmi di lui. Disse: "Ha fatto bene a non prendere quelle compresse. Sono molto pericolose." Sentii che tutto il mio corpo si stava sciogliendo. Provai un'immensa gratitudine per quel piccolo uomo. Forse esisteva una via tra me e qualcun altro. Magari fosse vero! Magari potessi trovare qualcuno che mi ascolti veramente! Riprese a parlare: "Penso di poterla aiutare. Se per lei va bene, potremmo fare un'analisi insieme, a cominciare da domani. Lei dovrebbe venire tre volte alla settimana, per tre sedute di tre quarti d'ora. Ma, nel caso lei accetti, è mio dovere avvertirla che la psicoanalisi rischia di sconvolgere completamente la sua vita. Inoltre dovrà smettere fin d'ora di prendere qualsiasi medicina, sia

per le emorragie, sia per il sistema nervoso. Neanche un cachet, niente. Deve anche sapere che l'analisi dura almeno tre anni, che verrà a costarle molto cara. Le chiederò quaranta franchi a seduta, centoventi franchi alla settimana. Parlava con molta serietà e sentivo che voleva che lo ascoltassi, che ci riflettessi sopra. Per la prima volta da tanto tempo qualcuno mi parlava come fossi una persona normale. E, per la prima volta da tanto tempo, mi comportavo come una persona capace di assumersi le proprie responsabilità. In quel momento mi resi conto che mi avevano tolto tutte le mie responsabilità, una dopo l'altra. Non ero più niente. Meditai sulla mia situazione e su quello che mi aveva appena detto. Quale sconvolgimento poteva accadere nella mia vita? Forse avrei divorziato, perché era dopo il matrimonio che la Cosa si era insediata in me. Pazienza, divorzierò, staremo a vedere. A parte quello, che cosa poteva cambiare nella mia vita? I soldi invece erano un problema, non ne avevo. Vivevo con i soldi che guadagnava mio marito e quelli che mi passava la famiglia. "Dottore, non ho soldi." "Dovrà guadagnarseli. Si deve pagare le sedute col suo denaro. E' molto meglio." "Ma non posso uscire, non posso lavorare." "Ce la farà. Posso aspettare tre mesi, sei mesi, fino a quando non avrà trovato un lavoro. Possiamo metterci d'accordo. Ma fin da ora voglio che sappia che mi dovrà pagare e che le costerà caro. Dovrà pagare anche le sedute alle quali non verrà, come le altre. Se non è costretta a pagare, non prenderà l'analisi sul serio. E' sicuro." Aveva un tono piuttosto staccato, come di chi sta trattando un affare. Non v'era ombra di commiserazione nella sua voce, nessun atteggiamento dotto o paterno. Allora non sapevo che accettando di prendermi subito, egli sottraeva altre tre ore alla sua vita già affollata dai pazienti. Non accennò nemmeno a questa fatica supplementare, né al fatto che agiva in modo del tutto eccezionale, perché capiva che stavo molto male. Non una parola di tutto ciò. All'apparenza, si trattava solo di un affare, lui correva il rischio, stava a me decidere. Eppure sapeva che, al di fuori di lui, mi rimanevano solo due soluzioni: l'ospedale psichiatrico o il suicidio. "Va bene, dottore. Non so come farò a pagarla ma sono d'accordo." "Bene, cominciamo domani." Tirò fuori una piccola agenda e mi indicò i giorni e le ore in cui venire. "E se mi viene un'altra emorragia?" "Non faccia niente." "Ma guardi che sono già stata ricoverata a causa delle emorragie; mi hanno fatto delle trasfusioni, dei raschiamenti." "Lo so. Ma lei non faccia niente, l'aspetto domani... solo una cosa le chiedo: cerchi di dimenticare tutto quello che sa della psicoanalisi, cerchi di non servirsi delle sue conoscenze; trovi delle parole per sostituire quelle del vocabolario analitico che è abituata a usare. Quello che sa può solo farle perdere del tempo." Era vero, credevo di sapere tutto in fatto d'introspezione e dentro di me pensavo che l'analisi non mi sarebbe servita a nulla. "Ma, dottore, mi può dire che cos'ho?" Fece un gesto vago, come per dire: "A che cosa servono le diagnosi?" "Lei è stanca, turbata, credo di poterla aiutare." Mi accompagnò alla porta. "Arrivederci, signora, ci vediamo domani." "Arrivederci, dottore." II

La notte che seguì a questa prima visita fu difficile. La Cosa formicolava dentro di me. Da tempo mi addormentavo solo con massicce dosi di sonniferi. Ma il dottore aveva detto: "Deve smetterla di prendere qualsiasi medicina..." Ero a letto, oppressa, con l'affanno, coperta di sudore. Se aprivo gli occhi avevo l'impressione di assistere alla decomposizione della realtà, degli oggetti, dell'aria. Se li chiudevo vivevo la mia decomposizione, quella delle mie cellule, della mia carne. Mi faceva paura. Niente e nessuno, neppure per un solo attimo, era in grado di arrestare questa degradazione di ogni cosa. Annaspavo, non riuscivo più a respirare, dappertutto c'erano microbi, dappertutto vermi, dappertutto acidi corrosivi, dappertutto pustole piene di pus. Perché questa vita che si nutre di se stessa? Perché queste gestazioni sazie di agonia? Perché il mio corpo invecchia? Perché fabbrica liquidi e materie puzzolenti? Perché questo sudore, queste feci, questa orina? Perché il letame? Perché questa lotta tra tutto ciò che vive, finché chi vince si rimpinza del cadavere del vinto? Perché questa ronda ineluttabile, maestosa, dei fagociti? Chi dirige questo mostro perfetto? Quale instancabile motore muove la strage? Chi agita gli atomi con tanta forza? Chi sorveglia ogni sasso, ogni filo d'erba, ogni bolla di sapone, ogni neonato, con un'attenzione costante fino a condurli alla putrefazione? Cosa c'è di certo oltre la morte? Dove ci si può riposare se non nella morte che è solo decomposizione? A chi appartiene la morte? Cos'è questa Cosa enorme e molle, indifferente alla bellezza, alla gioia, alla pace, all'amore, che si stende su di me e mi soffoca? Chi ama allo stesso modo la merda e la tenerezza, senza fare nessuna differenza? Dove la trovano gli altri la forza di sopportare la Cosa? Come fanno a vivere insieme a essa? Sono pazzi! Sono tutti pazzi! Non posso nascondermi, non posso fare niente, sono in balia della Cosa che si avvicina lentamente, inesorabilmente, che mi vuole per nutrirsi. Una corrente di vita putrefatta mi stava portando via, mio malgrado, verso la morte invincibile e obbligatoria che era l'orrore stesso. Tutto questo m'ispirava una paura agghiacciante, insopportabile. Se non avevo altro destino, se dovevo proprio cadere nell'ignobile ventre dell'orrido, tanto valeva caderci il più presto possibile. Volevo suicidarmi, farla finita. Mi addormentai all'alba, esausta, arrotolata su me stessa come un feto. Mi svegliai in un lago di sangue, aveva imbevuto il materasso e ora gocciolava sul parquet. Il dottore aveva detto: "Non faccia niente, l'aspetto domani." Ancora sei ore di attesa, non ce la farò mai. Rimanevo immobile nel mio letto, rigida come la morte, pronta al peggio. Due ricordi orribili mi tornavano in mente nei minimi dettagli, due drammi, due incubi che avevo vissuti ad occhi aperti. Una volta il sangue era uscito a grumi, così grossi da sembrare fette di fegato che emettevo una dopo l'altra, con una ostinazione assurda e che passando mi accarezzavano dolcemente. Ero stata ricoverata d'urgenza in ospedale per un raschiamento. Un'altra volta invece il sangue era uscito sotto forma di una cordicella rossa che non smetteva mai di srotolarsi: un rubinetto aperto. Ricordo con quale stupore avevo accolto il fenomeno, e con quale terrore: "Se va avanti così, muoio dissanguata in meno di dieci minuti." Di nuovo l'ospedale, la trasfusione, i medici, le infermiere, tutti imbrattati del mio sangue, indaffarati sulle mie braccia, le mie mani, le mie gambe, per trovare una vena, tutta una notte passata a lottare. Poi, al mattino, la sala operatoria, e di nuovo il raschiamento. Non mi rendevo conto che lasciandomi sopraffare dal sangue mi nascondevo, mascheravo la Cosa. In certi momenti quel sangue

maledetto invadeva totalmente la mia esistenza e mi lasciava senza forze, ancora più fragile di fronte alla Cosa. Arrivai in fondo al vicolo, tutta imbottita di assorbenti, di ovatta, di pannolini che mi ero fabbricata. Dovetti aspettare un po' perché ero in anticipo. La persona che mi precedeva uscì. Come il giorno prima, sentii aprirsi e chiudersi le due porte. Poi entrai nello studio e dissi: "Dottore, sono esangue." Ricordo benissimo di aver usato quella parola perché mi sembrava bella. Ricordo anche che facevo di tutto per sembrare patetica. Il dottore rispose tranquillamente: "Sono disturbi psicosomatici, non m'interessano. Mi parli d'altro." C'era quel divano e non volevo sdraiarmi. Volevo stare in piedi e lottare. Le parole appena pronunciate da quell'uomo erano state uno schiaffo in piena faccia, non avevo mai ricevuto un colpo così violento. In piena faccia. Non gl'interessava il mio sangue! Allora crollava tutto! Ero atterrita, fulminata. Non voleva che gli parlassi del sangue! Ma di cosa dovevo parlare? Di che cosa? A parte il sangue c'era solo la paura e non potevo parlarne, non potevo nemmeno pensarci. Crollai e piansi. Io che non piangevo da tanto tempo, io che da mesi cercavo invano il sollievo delle lacrime, eccole finalmente scendere a grosse gocce, sciogliermi i muscoli della schiena, del torace, delle spalle. Piansi a lungo. Mi crogiolavo in quella tempesta, la lasciavo impadronirsi delle mie braccia, della mia nuca, dei miei pugni chiusi, delle mie gambe ripiegate sotto il ventre. Da quanto tempo non assaporavo più la calma languida della tristezza? Da quanto tempo non lasciavo più il mio viso guazzare tra il calore delle lacrime mescolate a muco e saliva? Da quanto tempo non sentivo più colare lungo le mie mani il dolce e tiepido nettare della disperazione? Stavo bene dov'ero, come un neonato sazio nella sua culla, con le labbra ancora bagnate di latte, in preda al torpore della digestione, protetto dallo sguardo della mamma. Ero distesa supina, con la schiena ben dritta, ubbidiente, fiduciosa. Mi misi a parlare della mia angoscia e compresi che ne avrei parlato per molto tempo, per anni. Sentii in fondo a me stessa che forse, chissà, ce l'avrei fatta a uccidere la Cosa. E invece, uscendo da questa prima seduta, non appena la porta si richiuse dietro di me, mi ricordai del sangue e pensai che quel dottore era un pazzo, un ciarlatano come tutti gli altri. In quale stregoneria mi ero lasciata coinvolgere? Ora bisognava muoversi, in fretta, prendere un taxi e andare da un medico, da uno vero. Il tassista era un gran chiacchierone, oppure gli ero parsa un po' strana, sta di fatto che non smetteva di parlare e incrociavo continuamente il suo sguardo nello specchietto retrovisore. In quelle condizioni, e anche perché ero imbottita di pannolini, non potevo controllare il flusso del sangue. Più ci si avvicinava all'indirizzo del medico che gli avevo dato, e più il bisogno di verificare il mio stato si faceva imperioso. Diventavo nervosa, aggressiva. Volevo che il tassista si fermasse e volevo che proseguisse la corsa. Lui non capiva più niente. Alla fine mi sedetti sull'orlo del sedile misi il braccio sinistro sullo schienale di quello davanti. Vi appoggiai la testa e feci finta di ascoltare quello che l'uomo stava raccontando. Intanto, con la mano destra, frugavo sotto il mio vestito, rompevo la cernieralampo, strappavo i pannolini attaccati con spilli da balia, arrivavo alla fonte del sangue. Non era successo nulla di rilevante. L'emorragia non era aumentata, anzi sembrava che si fosse un po' calmata. Difficile dirlo. Un'ora prima, quand'ero uscita, sanguinavo

moltissimo. Di colpo cambiai idea e dirottai il taxi dandogli l'indirizzo di Michèle. Poi mi rintanai in un angolo dell'automobile. Forse ce l'avrei fatta ad aspettare due giorni, la prossima seduta. Feci le scale di corsa tenendo su con le mani i vestiti che avevo fatto a pezzi. Presto, in bagno. I miei stracci sporchi per terra, tra i piedi, io seduta sul bidè. Il sangue non colava più. Non credevo ai miei occhi. Il sangue non colava più! Non sapevo, non potevo sapere che da quel giorno in poi il sangue non sarebbe mai più colato come aveva fatto, senza tregua, per mesi, per anni. Pensavo che si fosse fermato per pochi minuti, e volevo godermeli tutti, come prima mi ero goduta le mie lacrime. Mi lavai, poi mi sdraiai, nuda, a gambe aperte, sul letto. Pura. Ero pura! Ero un vaso sacro, il tabernacolo del mio sangue, l'ostensorio delle mie lacrime. Pulita, liscia! Il dottore aveva detto: "Deve cercare di capire quello che le succede; quello che provoca, attenua o accentua le sue crisi. Qualsiasi cosa: rumori, colori, odori, gesti, ambienti... tutto. Veda di procedere per associazione d'idee e d'immagini." Quel giorno, sebbene fossi ancora del tutto inesperta nel maneggiare l'analisi, non ebbi difficoltà a identificare il legame tra l'emorragia e l'arresto del flusso, con lo schiaffo del dottore: "Non m'interessa il suo sangue, mi parli d'altro..." poi, le mie lacrime. Durante la notte la mia mente, sgombra dal sangue, si avventurò in riflessioni semplici, calcoli elementari, pensieri riposanti: attività mentali che consideravo di solito parentesi di svago proibite, nelle quali non potevo indugiare, perché rischiavo di ritrovarmi in preda alla Cosa, che riuscivo a combattere solo se ero all'apice della mia intelligenza, acuta, nel profondo della mia immaginazione, sulla strada dell'infinito, dell'incomprensibile, del mistero, della magia. In tutta tranquillità, con l'agilità del ruscello, la stessa leggerezza della nuvola, la stessa semplicità dell'uovo, presi coscienza delle decine di esami cui ero stata sottoposta, radiografie, test e analisi varie, senza che nessun risultato indicasse la minima anomalia nelle varie parti del mio organismo. Né sotto l'aspetto ormonale, né sotto quello cellulare, o circolatorio, né per la composizione del sangue. Ora capivo chiaramente che il sangue era il salvagente che ci permetteva, a me e ai medici, di rimanere a galla nel mare dell'inesplicabile. Io sanguino, lei sanguina. Perché? Perché c'è qualcosa che non funziona, qualcosa di organico, di fisiologico, di gravissimo, di fibromatoso, di retroverso, di lacerato, qualcosa che non va. Le analisi non dicono niente, ma non vuol dire, non si sanguina così senza ragione. Bisogna aprire e andare a vedere. Bisogna fare una lunga incisione nella sua pelle, nei suoi muscoli, nelle sue vene, bisogna scostare le carni del ventre, le viscere, e impossessarsi dell'organo caldo, rosato, bisogna tagliarlo, eliminarlo. Così almeno non ci sarà più sangue. Mai nessun ginecologo, nessun neurologo, nessuno psichiatra ha voluto riconoscere che il sangue veniva dalla Cosa. Anzi, mi suggerivano che era la Cosa che veniva dal sangue: "Capita spesso alle donne di essere "nervose" perché hanno un equilibrio ginecologico precario, fragilissimo." Quella sera mi apparve chiaro che la Cosa era l'essenziale, che poteva tutto. Ora affrontavo la Cosa. Non era più così vaga, benché non fossi ancora in grado di definirla. Quella sera accettai la pazza per la prima volta. Ammisi la sua esistenza. Volli accettare la malattia così com'era. Compresi che ero io la pazza che mi faceva paura,

perché portava la Cosa dentro di sé. Un punto era chiaro: la Cosa stava dentro la mia mente, non stava in nessuna parte del mio corpo e nemmeno all'esterno. Ero sola con lei. La mia vita era soltanto una storia tra me e lei. In questa ottica il mio isolamento acquistava un nuovo senso: forse era un passaggio; un mutamento. Forse stavo per rivivere? In effetti soffrivo molto della dimensione alienata nella quale avevo trovato rifugio. Mi sentivo dilaniata, pretendevo dagli altri soluzioni che, una volta prese, mi ferivano e mi allontanavano ancora di più. Chi mi poteva raggiungere? Che senso poteva avere quel trambusto che facevano attorno a me? Che cosa poteva significare quell'incomprensibile rimescolamento di parole, gesti, azioni legali e impeti selvaggi? Mi era impossibile capire la divisione della vita umana in anni, degli anni in mesi, dei mesi in giorni, dei giorni in minuti, in secondi. Come mai le persone facevano tutte le stesse cose nelle stesse ore? Non capivo più niente, la vita di chi mi stava vicino non aveva alcun senso. Ero prigioniera di un universo ostile, o, nella migliore delle ipotesi, indifferente. E mi toccava fare i conti con questo universo, mi toccava accusarmi continuamente delle cattiverie compiute e fare penitenza. Avevo la mente tanto confusa che, via via che passavano gli anni, mi pareva di affondare sempre più nel Male o nell'imperfezione, nella scorrettezza, nella sconvenienza, nella indecenza. Non ero mai contenta di me stessa. Mi consideravo un relitto, un rebus, un'anomalia, una vergogna e, ancora peggio, pensavo che fosse a causa della mia brutta indole che a poco a poco mi ero lasciata sommergere dall'errore. Bastava un po' di coraggio, un briciolo di volontà, bastava ascoltare i consigli che mi si prodigavano, per entrare a far parte del mondo dei buoni. Io invece, con la mia vigliaccheria, la mia pigrizia, la mia mediocrità, la mia bassezza d'animo, avevo scelto il mondo sbagliato, mi ero irrimediabilmente tuffata nell'abiezione. Perfino il mio corpo si era appesantito, afflosciato. Mi sembrava di essere diventata brutta fuori come lo ero dentro. Eppoi, quella sera, il sangue ha smesso di colare, perché il dottore mi aveva parlato come a una persona normale, e ora consideravo me stessa in modo diverso, mi vedevo sotto un'altra luce. Quale meccanismo aveva messo in moto quel piccolo uomo? Quale istinto mi guidava? Ho seguito la mia nuova strada con ostinazione. Nient'altro m'interessava. Non pensavo a nient'altro. Non mi è nemmeno venuto in mente di telefonare a mio zio. Ho avvertito mio marito mesi dopo. III Venne l'autunno, poi l'inverno. Il vicolo era sempre bagnato, pieno di pozzanghere che luccicavano nella luce fioca dei lampioni. A volte mi capitava d'incontrare i pazienti che mi precedevano o mi seguivano; camminavano, stretti nei loro cappotti, radendo i muri, di fretta. I nostri sguardi s'incrociavano, li avremmo voluti anonimi ma in realtà sapevamo di essere malati che hanno in comune lo stesso dottore, lo stesso divano, lo stesso soffitto, la stessa scultura stupida sulla stessa trave finta, di fronte al divano. Tutti facevano parte della confraternita dei perduti, dei braccati. Camminavano come me tra il suicidio e la paura, come tra due gendarmi. Sapevo anche che le parole che venivo a riversare a fiumi, tre volte alla settimana, erano diverse dalle loro, che ognuno aveva la propria storia, altrettanto penosa, altrettanto irrisoria, altrettanto incomprensibile per gli altri, altrettanto intollerabile per loro. Ho vissuti i primi tre mesi dell'analisi convinta di essere in

libertà provvisoria, convinta che non sarebbe durata a lungo, che prima o poi mi avrebbero scoperta e ripresa. Eppure il sangue fluiva ormai normalmente, nei giorni delle mestruazioni. L'angoscia allentava la stretta, mi lasciava in pace sempre più spesso. Ma non avevo ancora detto niente della mia allucinazione, continuavo a pensare che mi avrebbe condotta all'ospedale psichiatrico. Avevo ancora posizioni da difesa: la testa affondata tra le spalle, la schiena curva, i pugni chiusi, rifugiata dietro i miei occhi, le mie orecchie, il mio naso, la mia pelle. Tutto mi aggrediva, vedevo pericoli ovunque. Dovevo riuscire a vedere senza vedere, sentire senza sentire. Quella che per me contava era solo la lotta con la Cosa annidata nella mia testa, quella lurida matrona le cui gigantesche natiche erano i lobi del mio cervello. A volte sistemava quel suo grosso culo nel mio cranio (la sentivo mentre cercava il posto più comodo) e, a testa in giù, maneggiava i nervi che mi stringevano la gola e il ventre, che aprivano le dighe del mio sudore. Emetteva un'aria gelida e la pazza cominciava a correre, terrorizzata, allucinata, incapace di gridare, incapace di parlare, di esprimersi in alcun modo, a mollo nel proprio sudore freddo, col corpo scosso dai tremiti, finché non trovava un buco pulito e buio in cui raggomitolarsi su se stessa, come un feto. Nondimeno, da quando avevo cominciato l'analisi, mi lasciavo sopraffare dalla pazza sempre più di rado. La stavo a guardare. Alla Cosa non piaceva essere osservata così, dall'esterno, e dopo qualche tentativo di resistenza, mollava la presa. Non se ne andava, ma stava lì triste, a pensare con malinconia ai bei tempi della sua irrequietudine. Lunedì, mercoledì, venerdì. Tre fermate nella mia corsa, durante le quali consegnavo il mio raccolto e comunicavo con qualcuno. Unici punti di contatto con la vita degli altri. La lunga distanza tra il venerdì e il lunedì mi sembrava, di settimana in settimana, impossibile da superare. Trascorrevo tutta la giornata di domenica a risparmiare le mie forze, a mettermi il più che potevo al riparo. Il lunedì ritrovavo il mio vicolo umido con una felicità immensa, una grande speranza. All'inizio parlavo dei miei primi incontri con la Cosa, che allora chiamavo semplicemente angoscia. Poi ho cominciato a parlare degli elementi principali che costituivano la mia vita, dei grandi lembi della mia esistenza che conoscevo. La prima crisi di angoscia venne durante un concerto di Louis Armstrong. Avevo quasi vent'anni. Stavo per laurearmi in filosofia. Cercavo un professore col quale fare una tesi su Aristotele. Mi piaceva la matematica e ne parlavo in modo pedante, come allora usava tra gli studenti di filosofia, soprattutto tra le ragazze. Sapevamo che ben poche tra di noi sarebbero arrivate alla libera docenza: meno del due per cento. Tuffarsi in quegli studi equivaleva a entrare in convento, e diventare la Filosofia in persona, con le gambe, le braccia, i capelli. Mi piaceva la matematica, ma la mia famiglia riteneva che non fosse sufficientemente femminile. Una ragazza che studia matematica non riuscirà mai a trovare marito, tutt'al più un professore di matematica. Mi aspettavano tempi difficili. Scegliendo la filosofia invece potevo orientarmi verso la logica. "Studierai matematica, sotto forma letteraria..." Così, se m'andava bene, rischiavo di piacere a uno studente del Politecnico, o a un ufficiale di marina, o, perché no?, a un banchiere. Sempre meglio di un professore di matematica! E quindi scelsi la facoltà di filosofia con l'intenzione di dedicarmi alla logica e, se si presentava l'occasione, anche a uno studente del

Politecnico. Ma a quei tempi la logica non andava più di moda, si pensava soprattutto alla psicologia, alle scienze sociali... Trangugiavo tutte queste materie pensando che, una volta ottenuti tutti i miei bravi diplomi, nulla m'impediva di fare una tesi in logica. Sognavo di penetrare nel rigore apparente dei numeri, sapendo che poi sarei stata libera di lasciarmi andare all'invenzione di cui essi abbondano. I miei primi idoli furono, ovviamente, Riemann e Lobacewski, poi Einstein. Amavo Bach e il jazz per il loro aspetto matematico e fu in quell'epoca della mia adolescenza che scoprii, incantata, la musica seriale e il lettrismo. Arrivai quindi molto eccitata al concerto di Louis Armstrong, anche perché gli organizzatori avevano annunciato una jamsession. Satchmo avrebbe improvvisato con la sua tromba, avrebbe costruito un universo musicale in cui ogni nota avrebbe avuto la sua importanza, il suo valore necessario all'insieme di questa serata musicale. Non rimasi delusa; l'ambiente si riscaldò subito. Un bell'edificio si alzava nell'aria. Le impalcature e le travi fornite dagli altri strumenti davano sostegno alla tromba di Armstrong, gli preparavano lo spazio necessario per poter salire, fermarsi, salire di nuovo. I suoni che scaturivano dagli strumenti si ammucchiavano l'uno contro l'altro, si mischiavano, si urtavano a vicenda per formare una base musicale, una matrice dalla quale nasceva una nota singola, precisa, il cui cammino sonoro era difficile, quasi penoso da seguire, tanto il suo equilibrio e la sua durata erano diventati indispensabili all'orecchio: tendeva i nervi a chiunque l'avesse seguita. Il cuore cominciò a battermi forte, sempre più forte. Al punto di sovrastare la musica stessa. Scuoteva le sbarre del mio torace, gonfiava e comprimeva i miei polmoni nei quali l'aria non riusciva più a entrare. Terrorizzata all'idea di morire là dentro, in mezzo agli spasimi, le trepidazioni, le urla della folla in delirio, scappai via. Corsi per la strada, come una pazza. Era una notte d'inverno, fredda e serena, la gente era a casa, al caldo. Correvo e il rumore dei miei passi rimbombava come un galoppo lungo i viali, le strade e i vicoli che mi sembravano grandi tubi di tromba. "Sto per morire, sto per morire." Il mio cuore batteva il tempo, rapido, chiassoso. Ricordo di aver visto una pianta di camelia splendente, in piena fioritura nel suo vaso di cemento, all'angolo di una strada, prima di tuffarmi nella galleria dell'Università. Quant'erano belli quei fiori, così spessi e lucidi! Correvo, erano già lontani dietro di me, eppure i petali di uno di quei fiori, che avevo intravisto per una frazione di secondo, erano rimasti insieme a me, accompagnavano questa mia folle cavalcata, sereni quanto io ero agitata, lisci quanto io ero dilaniata. La galleria mi rassicurava perché era illuminata, perché era una scorciatoia comoda in mezzo alla città ed era percorsa da molte macchine che scivolano sull'asfalto. Numerosi pedoni camminavano lungo i marciapiedi. All'estremità della galleria c'era un'insegna luminosa che luccicava con allegria. Ma nulla poteva dar pace al mio cuore e continuavo a correre. Arrivai a casa, non presi l'ascensore, feci le scale di corsa, fino al quinto piano e lì, davanti alla nostra porta, mi resi conto dell'incredibile sforzo fisico che aveva appena compiuto e pensai: "Se fossi malata di cuore, sarei morta, non avrei fatto il decimo di quello che ho fatto." Questo pensiero non mi tranquillizzava. Andai in camera mia, mi buttai sul letto per calmare l'affanno. Ero sola, con gli occhi chiusi, niente aveva più importanza al di fuori del mio cuore che palpitava e sussultava: "Sto morendo, sono malata di cuore." L'angoscia in cui m'imbattevo per la prima volta si impossessò di me, mi ricopriva col suo sudore freddo, scuoteva i miei

muscoli con tremiti grotteschi, giocava con me come si gioca con una cagna. Chiamai mia madre che dormiva nella camera accanto. Una volta, due volte. Non so quante volte la chiamai, sempre più forte: "Mamma, mamma, mamma!" Mia madre, con i vestiti in disordine e la faccia gonfia di sonno, entrò nella mia stanza. Il suo chignon era disfatto, e i capelli le pendevano dal cranio, in lunghi ciuffi arruffati. Pensavo che a vedermi così, il suo volto, i suoi grandi occhi verdi sarebbero scoppiati in mille pezzi, che si sarebbe dissolta nella mia paura e mi avrebbe fatto compagnia: la sua bambina agonizzava, la sua figliola maggiore stava morendo. Macché, mise un po' d'ordine nei suoi vestiti e nei suoi capelli. Mi guardava con compassione; si sedette sul letto, vicino a me. Mi prese la mano. L'espressione era la stessa di quando visitava i cimiteri, triste e intenerita, disperata e consapevole. "E' una crisi di angoscia, non è nulla, non aver paura, non è grave, sono i nervi." Non mi piaceva questa sua calma, questa sua sicurezza, questa sua rassegnazione. Come poteva chiamare "nulla" quello che stavo provando? Come poteva chiamare "nulla" questa ondata di liquidi appiccicosi che m'inondava, piena di ganci, di lame, di materia in decomposizione? Quel "nulla" era invece di grande importanza, lo sapevo, ne ero certa, e vedere che lo trattava come i suoi morti accresceva la mia angoscia. Soffocavo. L'aria non entrava più nei miei polmoni, quel soffio che riuscivo ancora a far entrare fischiava con un suono stridulo e ridicolo. "Soffoco, sto morendo." "Ma va', sono i nervi. Hai il polso un po' rapido, ma batte regolarmente. Credimi, non stai morendo." Non mi piaceva questa complicità tra noi due. Per troppi anni avevo desiderato il suo affetto, la sua attenzione, avevo aspettato quello sguardo che ora scivolava su di me, sul mio viso, i miei occhi scuri, i miei capelli ricci, il mio naso a patata, il mio mento, la mia bocca, le mie spalle quadrate, il corpo solido. Sembrava che stesse facendo la mia conoscenza e che, chissà perché, mi riconoscesse. Un incontro dolce e un po' triste. Non era questo che volevo, non ora. Quello sguardo su di me lo avevo desiderato con tutte le mie forze quando facevo i tuffi nell'acqua, quando correvo, quando ridevo, quando portavo ineccepibili pagelle da scuola; allora volevo che fosse fiera di me. La mia forza le apparteneva, non il mio malessere, la mia paura. Investita dall'attenzione, dalla premura, dalla complicità che lei mi offriva quella notte, compresi che nel giorno della mia nascita mi aveva donato la morte, che era la morte che voleva indietro, che il legame tra noi due, quel legame che avevo cercato tanto, era solo la morte. Mi faceva orrore. I giorni successivi alla crisi, benché calmi, si trascinarono pesantemente nel ricordo dell'angoscia, nell'ossessione di vederla ricomparire. Mia madre mi portò da un medico, che confermò la sua diagnosi: "Non è nulla, sono i nervi. E' stata una piccola crisi di tachicardia, probabilmente hai un po' di aerofagia." "Piccola", "un po'". Solo diminutivi! Ma cosa poteva esserci di peggio della crisi che avevo passato? Esisteva davvero qualcosa di peggio? Uno sfacelo umano più importante? Parlavano tra di loro di casi gravi di tachicardia e di aerofagia, incontrati nel corso delle loro carriere. Facevo ridere in confronto a quei poveri disgraziati. Mi guardavano con gentile ironia, mi davano buffetti sulle guance e sulle mani: "Non è nulla, sei giovane, hai un'ottima salute." Il dottore confessò che pure lui, di tanto in tanto, era soggetto all'aerofagia, e mi insegnò un trucco per sbarazzarmene in fretta. Si prese anche la briga di darmene una dimostrazione. Bisogna mettersi a quattro zampe e alzare un po' la gamba, la sinistra o la destra a seconda del

dolore che si prova, un po' come un cane che piscia contro un muro. Serve a spingere il gas verso l'uscita, quel gas che preme sul diaframma e dà il senso di soffocamento. I loro commenti affettuosi erano accompagnati da sorrisi, le loro frasi addobbate di belle parole come "giovinezza", "amore", "matrimonio". Sapevo perfettamente a che cosa si riferivano e guardavo il pavimento, li lasciavo parlare. Credevo che tutto quello che avevo imparato all'Università in fatto di psicologia e soprattutto di psicoanalisi, i due anni passati a studiare la fisiologia del sistema nervoso (all'istituto di psicotecnica) fossero sufficienti perché potessi definirmi, collocarmi, capirmi. Sapevo di aver sofferto moltissimo quando i miei genitori avevano divorziato e avevano continuato a litigare sopra la mia testa, fino alla morte di mio padre. Sapevo che mia madre mi aveva sempre rimproverata inconsciamente di essere nata. (Ero nata, difatti, durante la causa del divorzio). Sapevo che per questo motivo non conoscevo affatto mio padre. Che queste loro liti mi avevano creato dei problemi, al punto che la mia sessualità ne risentiva. Per il momento preferivo accettare la mia verginità. Questa prima crisi di angoscia rimase per molti mesi la mia unica crisi. Ne ebbi un'altra, meno forte, la notte in cui persi la mia verginità. Quando vidi l'uomo nudo in erezione, quando sentii nella mia mano il suo sesso, morbido come la seta, tiepido come il pane appena sfornato, sentii in me una gioia immensa. Ero fiera di me e felice di essere lì. Il suo bel corpo giovane e asciutto mi piaceva fino alle lacrime, sembrava che ogni suo muscolo, ogni suo pelo, ogni millimetro della sua pelle, fossero fatti per ostentare il suo membro eretto. Quando mi aprì le gambe e, inginocchiato, iniziò dolcemente a deflorarmi, con quel suo sguardo ostinato che mi faceva capire che nulla poteva fermarlo, che dovevo lasciarlo fare, pensai che quanto stava facendo era utile, necessario, in perfetta armonia con il profondo del mio essere. Me la presi con me stessa per aver trattenuto così a lungo quei movimenti dei reni che la sua spinta mi suggeriva di fare, quelle onde di piacere che mi attraversavano il corpo, dai piedi alla nuca. Nessun trauma. Nessuna sorpresa. Nemmeno quando il ritmo divenne brutale e ho sentito rompersi in me come una barriera di seta. Ciò che più mi colpì, dopo, fu la sua tenerezza, la sua debolezza, la sua fragilità, come se mi avesse dato tutta la sua forza. Provavo riconoscenza verso di lui. Non ero arrivata all'orgasmo ma non provavo disgusto, anzi. Quando andò via, lavai le lenzuola sporche di sangue. Faceva caldo, avrebbero fatto presto ad asciugarsi. Mi sdraiai sul materasso, al buio. Non riuscivo a prendere sonno. Quel ragazzo lo avevo scelto perché era noto per essere un dongiovanni, un bravo amante. Sapevo che era innamorato di una donna sposata, più anziana di me. Mi era simpatico, intuivo che ci sapeva fare. Lui aveva accettato con molta serietà la parte dell'iniziatore. Era riuscito nella sua missione, dato che ero lì, sul mio letto, contenta, sicura che l'indomani avrei di nuovo fatto l'amore con lui, sicura di averne voglia. Eppure il cuore mi batteva, mi sentivo oppressa. Ero consapevole dell'importanza di quell'atto, sapevo che nel farlo avevo agitato il mio piccolo mare interiore, che vi avevo suscitato addirittura una tempesta. Avevo passato i vent'anni. Non solo ero rimasta vergine fino a quel giorno, ma non avevo nemmeno mai avuto dei flirt con nessuno. (Salvo per un bacio, verso i quattordici anni, in pieno sole, la testa rovesciata sulla sabbia, giusto il tempo di assaporare tra le labbra la saliva dolce che sapeva un po' di Gauloises. Un piccolo ricordo nascosto come un fiore secco tra le pagine di un grosso libro.) Ero virtuosa per rispetto alle regole imposte da mia

madre. Avevo rifiutato perfino la masturbazione. Mi capitava di passare notti d'inferno, stesa a pancia in giù sul freddo pavimento di marmo, per sfuggire al letto morbido, ai profumi mischiati del timo, del gelsomino, della polvere mediterranea, al canto irritante delle cicale, alle note tenere del flauto arabo, tesa al punto di urlare la mia voglia, il mio bisogno. Poi, un bel giorno, decisi tra me e me di buttare a mare tutti i principi del mio ambiente, i pregiudizi della mia famiglia, le leggi di mia madre, di calpestare quel colosso rappresentato dalla religione, e di fare l'amore con un ragazzo di cui non ero nemmeno innamorata, col quale non si potevano trovare giustificazioni nella passione o nella ragione. Volevo farlo, ecco tutto, facevo l'amore perché ne avevo voglia. Quando arrivò l'angoscia, la riconobbi subito. Questa volta però la sua presenza mi appariva più normale, mi faceva meno paura. Sapevo di essere entrata nel mondo del sesso dalla porta sbagliata, di aver imboccato la stessa strada delle donne che mio padre riceveva a casa sua, di essermi arruolata nello stesso esercito vergognoso. Mia madre le chiamava "mignotte" e il solo ricordo di quella parola così volgare nella sua bocca mi faceva tremare. Mi era capitato d'incontrarne qualcuna, molti anni addietro. Uscivano mentre arrivavo io. Mio padre si comportava come fossero state ospiti qualsiasi. Il suo sorriso era un po' forzato, i suoi modi fin troppo garbati. Sapeva controllarsi. Loro meno, il modo in cui muovevano i fianchi quando varcavano la soglia, in cui lo salutavano, lo guardavano, guardavano me, era fin troppo eloquente. Ogni volta sentivo l'intimità che c'era tra di loro, la complicità, i residui di un piacere di cui ignoravo tutto e che mi spaventava. Quegli incontri mi sconvolgevano. Le amanti di mio padre sbeffeggiavano mia madre, in preghiera sul suo inginocchiatoio. Lei era virtuosa, loro erano viziose, io ero viziosa... un angelo, dei demoni. Quella notte c'era tutto ciò per impedirmi di dormire e c'era anche qualcosa d'altro, non sapevo che cosa, che mi mordeva il cuore, lo faceva battere. La mia camera allora dava su una stradina dove c'era un noleggio di carrozze. Era una stanza poco arieggiata, che odorava ancora di muffa e di ombra. All'alba arrivava un uomo, piazzava i cavalli in fila lungo il marciapiede e li faceva indietreggiare tra le stanghe delle vecchie carrozze che più tardi avrebbero passeggiato sul lungomare, piene di turisti. Ricordo l'alba e la luce del giorno nascente attraverso le persiane, che formava delle strisce grigie e nere prima, gialle e nere poi. Gli zoccoli dei cavalli martellavano l'asfalto con colpi sempre più impazienti via via che il caldo aumentava e riportava le mosche sulla strada. L'odore dei loro escrementi saliva fino a me. La mia notte in bianco era finita. Rifeci il letto con le lenzuola lavate. Tutto a posto, tutto in ordine. Non mi chiesi perché le avevo lavate. Uscii di casa e andai sulla spiaggia, la sabbia era già calda. Bastava però affondarvi i piedi un poco per sentire il fresco umido della notte ancora vicina. Tutti gli anni successivi (circa una decina) sono stati rosicchiati dalla lenta gestazione della pazzia. Non me ne rendevo conto, ovviamente. Solo avevo sempre meno voglia di muovermi, di esprimermi, di proiettarmi nelle azioni o nel pensiero. Più mi sforzavo di trovare la mia strada e più dubitavo di scoprirla nel terreno definito dalla mia nascita. Diventavo pesante, impacciata, con rari momenti di agitazione che i miei chiamavano la mia "verve". Mi consideravano una ragazza ragionevole ed equilibrata. In quel periodo ottenni titoli di studio, mi tuffai nell'attività sessuale come ci si tuffa nell'acqua temendo che sia fredda. Non la trovavo fredda ma non mi concessi nemmeno di nuotarvi in libertà. Mi sposai, insegnai nelle

scuole medie. Ebbi tre bambini. Volevo dar loro la felicità, il calore, le attenzioni che io non avevo mai avuti, un padre e una madre sempre disponibili, innamorati l'uno dell'altra. E invece la lentezza, la vischiosità e l'assurdità della mia esistenza si facevano sempre più precise nella mia testa, giorno dopo giorno fino a diventare la Cosa. IV Il mio primo inverno parigino. Il sole che non abbaglia. Gli alberi che non hanno foglie. E, come un ritornello, il mio monotono itinerario fino al vicolo. Là, in mezzo al grigio della nebbia, al vuoto del freddo, alla tetraggine della pioggia, alle nuvole insipide, vengo a rivivere il caldo abbagliante, le bianche strade formicolanti di gente, l'infanzia e le sue tempeste, l'adolescenza che esplode. I fantasmi m'inseguono. Nel vicolo dissestato i ricordi si precipitano dietro di me, vivi, palpitanti, irridenti. Sobbalzano fino al lettino poi si mettono a sfilare, come i carri di Carnevale. Nessun uomo era mai intervenuto nella mia educazione. Ero nelle mani delle donne: mia madre, mia nonna, le "domestiche", le suore che insegnavano a scuola. Di mio padre, che avevo conosciuto molto poco, dato che non viveva con noi ed era morto quand'ero ragazzina, conservavo il ricordo di un uomo di bell'aspetto, che portava ghette, cappello e bastone. Aveva dei baffi tagliati corti, mani affusolate e un sorriso luminoso. Mi faceva paura. L'universo maschile mi era del tutto estraneo. A casa sua ero attratta e allo stesso tempo impaurita dalla stanza da bagno con il rasoio e il pennello da barba, dalla camera da letto con i cassetti pieni di camicie e di polsini. Il grande letto da scapolo, ricoperto da pelli di pantera, mi spaventava. Mio padre mi chiamava "lupetto". Mi trattava più come una donnina che non come una bambina, e ciò mi metteva a disagio. Da piccola andavo da lui insieme alla mia balia. Più tardi mi avrebbero mandata da sola per colazione, tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio. Erano pranzi difficili. Quando non mi faceva paura mi annoiava. Dovevo stare attenta ai gesti che facevo, alle parole che dicevo. Mi riprendeva spesso, e capivo che con questi rimproveri era mia madre che voleva colpire. Mia madre che mi allevava, che mi vestiva, che pensava alla mia educazione. Sentivo che mi voleva bene e che non era la mia persona che intendeva ferire. S'interessava molto dei miei studi. Diceva che dovevo imparare tutto: latino, greco, matematica, tutto... Non gli portavo mai le mie pagelle, e neanche i miei quaderni. Così sapevo di difendere mia madre, cui ero stata affidata, di stare dalla sua parte. Per lui la mia cartella era chiusa, era la mia cassaforte, il mio tesoro, la mia importanza. Tenevo a distanza mio padre, gli vietavo l'accesso al mio universo. Di ciò ero perfettamente consapevole. Solo tre volte vidi i miei genitori insieme. La prima volta fu per la mia cresima. Erano nella stessa stanza, seduti allo stesso tavolo, ma lontani l'uno dall'altro. Quel giorno la presenza affettuosa di mio padre mi metteva in imbarazzo. Avrei preferito sentire su di me soltanto lo sguardo rigido di mia madre mentre mi accingevo a tagliare l'enorme torta di bignè e di panna montata. Mi sembrava che me la sarei cavata meglio. La seconda volta avevo dodici anni; si riunirono per assistere alla cerimonia della mia promessa nelle girlscouts. Era all'aria aperta, c'erano altri genitori. I miei erano vicini l'uno all'altra ma non parlavano mai tra di loro. Seguivano la cerimonia con estrema attenzione. Ricordo lo splendente cielo autunnale di quel giorno.

La terza volta, fu poco prima della sua morte, quando avevo circa quindici anni. Aveva avuto un'emottisi, credeva di morire e aveva chiamato mia madre. Tubercolosi: mostro terrificante della mia infanzia. Mio nonno morto di tisi, mio zio in sanatorio, mia sorella morta a undici mesi di meningite tubercolare, mio fratello predisposto alla tubercolosi, con la scoliosi. Vaccinazioni antitubercolotiche, bacillo di Koch, toracoplastia, pneumotorace, caverna, pleurite, sputi, radiografie, vaccino... Tutte queste parole, tutte queste disgrazie, per colpa di mio padre, della sua malattia, dei suoi polmoni distrutti dai gas della guerra '14-'18. "Poteva pensarci prima di sposarmi. Non me lo ha nemmeno detto. E' una vergogna, una mancanza di onestà." La guerra, le trincee, mio padre sotto un ammasso di soldati morti asfissiati, vivo per miracolo, protetto dalla pila di cadaveri ammucchiati, con i polmoni a pezzi. "Ho visto le radiografie, ha i polmoni che sembrano spugne." Quante precauzioni dovevo prendere per entrare a casa sua e uscirne! "Non voglio che la baci troppo. Badi che la bambina non usi i suoi fazzoletti. Si porti dietro l'alcool e l'ovatta. La pulirà quando sarete uscite. L'ho fatta vaccinare e non ha ancora avuto la reazione, non capisco come mai, non è normale. Ne ho già persa una, basta." I microbi! La loro presenza inquietante. "Sono minuscoli animali invisibili. Ce ne sono dappertutto. Ad ogni colpo di tosse tuo padre ne sputa di pericolosissimi. Mi puoi credere, sai, tua sorella è morta così. Stagli vicino meno che puoi." Come dicevo, li vidi una terza volta insieme. Lui aveva chiamato mia madre per telefono: "Vieni, ti prego. Vieni, è la fine." Mia madre abbassò la cornetta, disse che mio padre stava recitando e mi portò con sé. Perché? Per proteggersi? Lo trovammo sdraiato nel suo grande letto, con una bacinella sotto il mento, asciugamani stesi dappertutto, una schiuma rosa agli angoli della bocca. Non l'avevo mai visto a letto, mai visto in pigiama. Le lenzuola e i cuscini sgualciti dopo la nottata, i piccoli particolari che denunciavano le sue manie, mi mettevano in imbarazzo. Si mise a parlare con mia madre, le diceva che l'amava. Lei respingeva queste dichiarazioni: "Sei ridicolo, non ti rendi conto di quello che stai dicendo. Sta' attento a quello che dici, c'è la bambina." Mi ero rifugiata in corridoio, poi nell'ingresso, poi sul pianerottolo. Seduta sugli scalini, con le mani sulle orecchie per non sentirli. Lei era così dura, e lui così pietoso. Stavo lì a guardare l'ascensore, cercando di allontanare il più possibile quello che avevo appena visto e sentito. Conoscevo a memoria quella macchina diabolica. M'intrigava sempre. Quando ero dentro mi sentivo in pericolo, eppure non la temevo. Era un abitacolo pesante che si chiudeva a fatica con una porta a fisarmonica. Quando la chiamavi, i cavi si tendevano con un rumore di frusta e tiravano su la cabina con singhiozzi e sobbalzi vari mentre, sotto, una colonna d'acciaio, rotonda, unta di olio nero, potente, la spingeva con forza. L'ascesa precisa, regolare, di questo stupendo tronco lubrificato contrastava incredibilmente con il dondolio chiassoso dell'abitacolo. Quel marchingegno custodiva la casa di mio padre e la trasformava in un territorio di difficile accesso, un po' pericoloso. Sapevo tutto di quella macchina, ad eccezione della profondità del buco sotto, dove scompariva la colonna di acciaio. Immaginavo che fosse

vertiginosa. A volte pensavo invece che il buco non fosse grande e che la colonna vi si rannicchiasse dentro, come una molla. Mi era perfino capitato di far la pipì in quell'ascensore. In casa di mio padre non osavo chiedere di andare in bagno. Una volta che venivo da lui, con la pipì che mi scappava, sapendo benissimo che sarebbero passate almeno due ore prima di poter tornare a scuola e ritrovare i gabinetti alla turca, pisciai senza indugio nella vecchia cabina. Sarebbe stata un'esperienza piacevole se i sobbalzi e i sussulti della macchina non mi avessero fatto sbagliare la mira, e non mi fossi inzuppata le scarpe. Per poter procedere a mio agio, avevo fermato l'ascensore tra il secondo e il terzo piano. Ma, orrore, il fiotto aveva attraversato il vecchio zerbino liso, il pavimento di legno, precipitando in una cascata di gocce che non finiva mai di rimbombare sulla piastra metallica a pianterreno. Non appena me ne accorsi, premetti il bottone del quinto piano ma ormai non riuscivo più a fermarmi. Spaventata, piena di vergogna per la mia maleducazione, credetti di sentire lo scroscio di un torrente. Quando suonai alla porta di mio padre, ero fradicia. Quella bambina, quest'ascensore... quant'erano lontani! La discussione tra quest'uomo e questa donna aveva cambiato tutto. Era la prima volta che li vedevo veramente insieme. Mi rendevo conto che ero nata da quei due, dal loro misero desiderio, dal loro misero odio. Invecchiai di colpo. In un attimo, tutto divenne remoto. Avrei preferito un'altra cornice per questo grande salto dall'infanzia all'età adulta. Avrei preferito il cielo azzurro della primavera o dell'autunno, l'allegria del mare con le sue piccole onde, fiori, profumi. Sognavo scioccamente che sarebbe avvenuto in occasione del primo amore, del primo bacio che avrebbe fatto di me una donna. E invece no, era una conversazione tra quei due estranei, i miei genitori. Era il sangue dell'emottisi, le parole acide di mia madre e questa gabbia, che stava diventando sempre più buia, perché era la fine del pomeriggio e in Algeria il sole tramonta in fretta. Proprio nel mezzo di questo sogno ad occhi aperti era apparsa mia madre, inappuntabile, un po' preoccupata. "Ah! Sei qui! T'ho cercata dappertutto. Cosa stai facendo sulle scale? Ti ha vista qualcuno? Su, vieni, andiamo via. Erano manfrine, come al solito. Non ci casco più. Che ridicola commedia!" Sapevo che non sarebbe morto. Sapevo che lei si sarebbe arrabbiata. Questa loro storia non mi riguardava, mi sentivo presa in mezzo. Alcuni mesi dopo, li ho visti di nuovo insieme, ma questa volta lui era morto. Il giorno in cui seppi della sua morte, era estate e faceva un caldo infernale. Era di pomeriggio. Stavo con i miei amici: una banda di ragazzi riuniti nell'ombra di un patio. Si aspettava che facesse meno caldo per metterci a giocare. Mia madre mi autorizzava da così poco tempo a saltare il sonno del pomeriggio, che vedendola apparire, a quell'ora, in quel luogo scattò in me l'antico istinto di difesa. Mi bastò un secondo per ritrovare il mio vecchio arsenale di bugie, scuse, spiegazioni, ben in ordine, pronte all'uso: il meccanismo della doppiezza infantile non aveva fatto in tempo ad arrugginirsi. E quando la vidi in piedi davanti a me, che mi guardava, impacciata, con una strana faccia e i suoi vestiti da città e mi diceva: "Tuo padre è morto, va' a vestirti, dobbiamo tornare ad Algeri," la mia prima reazione fu di sollievo. Guardai il cielo terso, il mare abbagliante, le piante di cactus, con i fiori rosa e gialli a forma di stella e mi sentii meglio. Non veniva a punirmi, a privarmi di tutto questo, degli amici, del gioco. Il resto non m'interessava, non era la mia vita. Perché poi prendeva quel tono impietosito per parlare di mio padre, lei che ne aveva sempre detto peste e corna?

Forse perché era morto? La morte lo rendeva forse diverso, commovente? Per me era sempre lo stesso: uno sconosciuto, uno scapolo, un po' noioso, un po' inquietante, che mi metteva in soggezione con i suoi sforzi maldestri per avvicinarmi a lui: "Dammi un bacio, lupetto mio." Mia madre lo chiamava sempre per cognome: "Di' a Drapeau che sto ancora aspettando l'assegno." "Chiedi a Drapeau di comprarti un paio di scarpe," ecc...' Oggi invece diceva "tuo padre", come se fosse stato suo marito, come se loro fossero stati una coppia. Sembrava che la morte li legasse l'uno all'altro, li facesse marito e moglie. Non riuscivo ad immaginarlo. Tutto questo mi sembrava falso e malsano, anche se non capivo perché. Non osavo guardarla, non vedevo l'ora che se ne andasse. E invece stava lì. Pensai: "Se si mette a piangere scappo via, taglio la corda." Non piangeva, era sconvolta, mi aspettava. "Dobbiamo tornare ad Algeri, devi fare la valigia." A quell'ora, in piena estate, non usciva quasi nessuno. Non incontrammo anima viva per la strada. Guardavo sfilare le viti ben allineate, i viali di eucalipto, i boschetti di pini marittimi, le piante di aloe che innalzavano le loro lunghe foglie verdi nel cielo bianco, i fichi d'India carichi di frutti, e, sulle colline, i rettangoli di cipressi attorno ai piccoli aranceti. Dal vetro posteriore vedevo la polvere rossa sollevata dalla nostra macchina, si alzava così in alto da nascondere completamente il paesaggio. Tenevamo i finestrini chiusi per non soffocare in mezzo alla polvere. Il caldo era insopportabile. Chi guidava? Non lo so. Non riesco a ricordare. In ogni caso, qualcuno che non parlava. Eravamo nell'occhio del ciclone. La macchina faceva chiasso e andava forte, la polvere impazzita ci faceva da scorta, davanti a noi la campagna sembrava paralizzata da quel turbine di aria bollente. In mezzo a quest'inferno, lei si mise a parlare: "Il telegramma è arrivato con otto giorni di ritardo per via dello sciopero delle poste. Il corpo di tuo padre arriva oggi stesso. Non c'è niente di pronto... Ci voleva una camera ardente... Ce n'è una bellissima sul porto. L'abbiamo saputo troppo tardi. Bisognerà fare tutto a casa. Sono riuscita a ottenere che quelli dell'impresa funebre andassero a prendere il corpo di Maurice a bordo e lo portassero al quinto piano, nonostante l'ora. Sbarcano le bare per ultime, dopo i passeggeri, dopo le merci. Faranno tardi... Che roba!" Che cosa significava "il corpo di tuo padre", "la bara di Maurice", "la camera ardente", "l'impresa funebre"? E, soprattutto, che cosa significava "il corpo di Maurice"? Eppoi quella che lei chiamava "casa" era la casa di mio padre, non la sua, non la mia, non era "casa". Era una casa da scapolo dove viveva in mezzo ai trofei dei suoi viaggi, alla sua collezione di maschere negre, alle sue armi, al suo rasoio, al suo grande letto con le pelli di pantera. Quel grande letto dove sapevo che se la spassava con le sue "mignotte", come le chiamava mia madre. A casa di mio padre c'era un trambusto incredibile. Il salotto era stato svuotato di tutti i suoi mobili: "Per poter sistemare la bara." Era davvero così grande una bara? "La chiesa di San Carlo ci deve dare degli inginocchiatoi." Inginocchiatoi! Qui! A due passi dal grande letto, a due passi dalle armi? "Sistemeremo delle brande nelle camere in fondo." "Delle brande? Per far che cosa?" "Per i parenti, cosa credi? Dovremo vegliare tutta la notte." I parenti? Lui non aveva parenti, era solo. Quelli che mia madre chiamava parenti erano i suoi parenti, quelli che da anni assillavano mio padre. E ora venivano qui? Mi sembrava un'indecenza. Lui non aveva rapporti con loro. Non li avrebbe mai ricevuti in casa. Mi

aveva detto più volte che erano stati loro, più di mia madre, a rovinare il suo matrimonio. I mobili del salotto e della sala da pranzo ingombravano i corridoi e le altre stanze. L'appartamento era diventato un bazar, un palcoscenico dove ognuno si preparava a ricevere i personaggi più importanti della città, giacché mio padre era un notabile. L'agitazione della cerimonia funebre regnava ovunque, con lievi fruscii di crêpe nero, bagliori di ametiste, riflessi di lacrime, luccichii di ornamenti da lutto. Aprirono i due battenti della porta d'ingresso. Improvvisamente tutti si misero a bisbigliare, a camminare in punta di piedi. La casa era felpata, imbottita, fredda, pronta per il macabro ricevimento mondano. C'era odore di cera, e fiori dappertutto. Dalla stanza di servizio veniva un buon profumo di cibi caserecci. Bisognava pur rifocillare quelli che avrebbero vegliato il cadavere. Sorvegliavo dal pianerottolo i becchini che portavano la bara di mio padre su per le scale. Una grossa scatola di quercia con maniglie in bronzo ai lati e un crocefisso di bronzo sul coperchio. Gli uomini neri erano indaffarati, numerosi, ansimavano e commentavano le manovre necessarie per superare le curve strette della scala. Erano ostacolati dalla rete di ferro battuto, ornata di foglie di acanto, di spirali e di volute, che proteggeva il vecchio ascensore sfaticato, inutile anche questa volta, incapace di contenere la scatola del defunto, e soprattutto troppo fragile: il pavimento, che aveva lasciato passare la mia pipì con tanta facilità, non avrebbe mai retto. Ci mettevano un tempo infinito a salire. Cinque interminabili piani. E mio padre stava là dentro, come un pacco postale! Finalmente arrivarono e lo sistemarono su due cavalletti rivestiti di drappi neri. Mia madre, rispettosa, indaffaratissima, dava i suoi ordini con competenza. Mi indicò il mio posto: un inginocchiatoio isolato davanti agli altri. Continuavano ad arrivare fiori, corone, mazzi di ogni sorta. Eravamo d'estate e c'erano moltissime zinnie, fiori secchi, senza profumo, dai colori stupendi: viola, ocra, oro. Io rimanevo ferma, inginocchiata, annoiata, raccolta. Mi avevano insegnato a non voltarmi mai a guardare la gente, né per strada né in chiesa, e quindi non osavo guardare chi entrava e chi usciva dalla stanza in quel via vai discreto. I tappeti e le tende chiuse attutivano i suoni, si sentivano solo impercettibili fruscii, lievi spostamenti d'inginocchiatoi, strani singhiozzi. M'avevano detto di starmene lì, e io me ne stavo lì. Pensavo ad altro, alla spiaggia che avevo lasciata poco prima, ai miei amici. Chissà cosa avrebbero detto nel vedermi tutta vestita di nero, un colore da grandi? Ero mezza addormentata, con i gomiti appoggiati all'inginocchiatoio. Un odore vegetale saliva nella stanza, come richiamato dal caldo della notte e dalle fiamme dei grandi ceri. In mezzo al sentore di verde nel quale riuscivo a distinguere il cipresso, l'asparago, il sambuco - tutte piante che servono a fare l'anima delle corone c'era un altro odore, scipito, un po' nauseante. Cercavo di scoprire cos'era. Non potevano essere le zinnie, sono fiori secchi, tutt'al più sanno di polvere. Quell'odore era diverso, non era un odore vegetale. Mi venne uno strano malessere, qualcosa che non riuscivo a definire. Forse un odore di acqua putrida, di palude? Sì, qualcosa del genere, ma non esattamente. Era meno violento, meno deciso. Era un odore umano, sconosciuto. Mia madre mi si avvicinò. Mise una mano sulla mia spalla e si chinò per parlarmi sottovoce, con il viso contro la mia guancia. "Tutto bene?" "Tutto bene. Non senti uno strano odore?"

La sua mano strinse più forte la mia spalla, facendola dondolare; come se mi avesse voluta cullare. "Sai, sono parecchi giorni che è morto. Con questo caldo poi! La bara avrà preso qualche colpo durante il trasporto, ci sarà una fessura da qualche parte. Ne ho già parlato con i signori dell'Impresa funebre. Non ti preoccupare, adesso sistemeranno tutto." Preoccuparmi? E di che? Del fatto che mio padre stava marcendo e che si sentiva? Perché era questo l'odore che sentivo, era la decomposizione della carne! Mio padre, così arzillo con le sue ghette, il suo bastone, la sua acqua di colonia, le sue mani curate, i suoi denti bianchi, le sue scarpe ben lucidate! Mio padre si stava sfasciando come le carogne degli animali che il mare abbandona sulla sabbia, puzzolenti, infestate da nugoli di mosconi azzurri. Da quelle scarpe di vernice, da quei polsi di camicia inamidati, da quei colletti candidi, da quei pantaloni dalla piega perfetta, uscivano i liquami della morte. Mio padre puzzava, mio padre era pieno di vermi! Non potevo sopportare quell'idea. Uscii, corsi nella camera più lontana dal salotto, mi buttai su un letto fresco, sulle lenzuola che sapevano di bucato, a pancia in giù. Con la testa affondata nel cuscino, piangevo, singhiozzavo. Per cacciare via quel marciume sognavo immagini vive, risate, gesti allegri, cieli estivi, onde sotto il sole, capriole nell'erba, eppoi il ragazzo di cui ero innamorata che mi prendeva tra le sue braccia e mi baciava. Baciavo la sua saliva dolce che sapeva di sigarette e di dentifricio. Mi addormentai. Era la prima e l'ultima volta che dormivo a casa di mio padre, vicino a lui. Da quel giorno, la solitudine. Quell'uomo non lo conoscevo, lo vedevo solo di rado. Eppure era stato il mio unico alleato, anche se lo avevo rifiutato. Non avevo mai fatto i conti con lui, ora dovevo fare i conti senza di lui, e sentivo un grande vuoto attorno a me, inspiegabile. Insieme a lui era scomparso qualcosa di sottile, di torbido. Ora so in che cosa consisteva questo suo vuoto: non avevo più la certezza che qualcuno mi amasse in qualsiasi circostanza, e mi sentivo senza affetto. Anche quando mi rimproverava, quando faceva la voce grossa e gli occhi severi, c'era una carezza nel suo sguardo. Una carezza che rifiutavo, ma che esisteva certamente. Da allora sento di tanto in tanto (e mi capita ancora oggi) l'impulso improvviso di correre, spinta dalla gioia, dalla felicità di essere amata e protetta e di rifugiarmi tra le braccia di mio padre. Lui mi cullerebbe lentamente. Balleremmo insieme un ritmo lento e tenero: "Ecco, brava la mia bambina, stai bene tra le mie braccia. Calmati tesoro, rilassati." Ora sarebbe poco più alto di me, e il mio viso si appoggerebbe al suo. Chissà quale sarebbe il suo odore, la sua forza? Non lo conosco. Per me la parola Padre è una parola astratta che da sola non significa niente, perché Padre va con Madre, e nella mia vita queste due persone sono disgiunte l'una dall'altra, come due pianeti che seguono con ostinazione due percorsi diversi, ognuno nella sua orbita immutabile. Io stavo sul pianeta madre che, di tanto in tanto, a intervalli regolari, incrociava il pianeta padre, avvolto da una nebbia malsana. Mi dicevano allora di fare la spola tra i due pianeti, e non appena rimettevo piede nel regno della madre, non appena lei mi aveva di nuovo in suo possesso, accelerava l'andatura, come per allontanarsi al più presto dal pianeta nefando. Quando sono diventata a mia volta un pianeta solitario e ubbidiente, come tutti i pianeti, e mi sono messa a viaggiare lungo la mia traiettoria nei grandi cieli blu scuro dell'esistenza, ho cercato più volte di riavvicinarmi al padre. Ma sapevo troppo poco di

lui e ho dovuto abbandonare le mie ricerche, stanca, ma non triste. So di non sapere niente della dimensione paterna dell'uomo, ammesso poi che esista. In fondo al vicolo, sdraiata sul divano, col soffitto davanti, gli occhi chiusi per meglio comunicare con l'oblio, l'impenetrabile, l'innominabile, l'assurdo, cercavo di far rivivere mio padre. Volevo finalmente trovarlo, pensavo che fosse stata la sua assenza, anzi la sua inesistenza, a scavare in me quella ferita maligna, quella specie di ulcera profonda, nascosta, e pensavo che tra i germi di quell'ulcera avrei scoperto le radici della mia malattia. Mi sforzavo di raccogliere i ricordi che avevo di lui, ogni briciolo d'immagine, ogni filo di memoria. C'erano due incubi che venivano spesso a turbare le notti della mia infanzia e della mia adolescenza. Nel primo rivivevo una scena realmente accaduta: ero a Parigi, al giardino zoologico. Per farmi vedere meglio i leoni e le tigri, mio padre mi aveva fatto sedere sul muretto sovrastante la profonda fossa che isola le belve dal pubblico. Mi reggeva con fermezza. Nella realtà avevo avuto molta paura ma non avevo detto niente. Nel sogno accadeva quello che temevo: cadevo nella fossa e mi svegliavo terrorizzata nel momento in cui le bestie si stavano precipitando su di me, pronte alla strage. Avevo sei o sette anni. Nell'altro sogno ero più piccola: due o tre anni, forse meno. (A volte sognavo di avere pochi mesi.) Ero a cavalcioni sulle spalle di mio padre, c'eravamo persi in mezzo a un bosco di pini coperti di neve. La neve, che avevo visto solo in fotografia, rendeva quel paesaggio bellissimo, straordinario, immaginavo che fosse proibito, che non ci si potesse rimanere a lungo. Ma non trovavamo la strada per uscire. Il tempo peggiorava e ci aggiravamo tra i pini neri, senza scoprire niente, se non altri pini e la neve già calpestata dai nostri passi. Mio padre mi teneva per le caviglie, sentivo il calore della sua testa tra le mie gambe. Rideva, non sembrava affatto preoccupato. Io invece sapevo che la notte era vicina e che non avremmo mai ritrovato la nostra strada... Mi svegliavo in un bagno di sudore. Ho scoperto così che fin dalla mia infanzia la Cosa era parte del mio universo, e che mio padre non poteva fare nulla per proteggermi, nulla per me. Ai miei occhi egli aveva le dimensioni che gli aveva dato mia madre, non ne possedeva di proprie. Mio padre era un perfetto sconosciuto che non ha mai fatto parte della mia vita. Mi capita a volte di guardare le poche fotografie che ho di lui. Più di quelle degli ultimi anni (cioè quando l'ho conosciuto io, azzimato, vestito di tutto punto, perfetto) preferisco quelle della sua giovinezza, quando ancora non si era costruito un personaggio. Era un ragazzo testardo, orgoglioso, che a quindici anni era scappato dalla grande casa dei suoi a La Rochelle ed era andato a Parigi a fare il manovale in un cantiere edile, giurando a se stesso di non rimettere piede a casa prima di essersi laureato in ingegneria. Voleva farcela da solo. Una delle foto lo ritrae quand'era un giovane operaio, con le scarpacce, i pantaloni troppo larghi, troppo lunghi, che sembrano tenuti su da un pezzo di corda, una camicia con le maniche rimboccate, aperta sul petto, la testa un po' all'indietro, mentre sta ridendo sotto il sole, davanti a uno sfondo di travi e di tavole di legno. In mano ha un mazzo di fiori di campo. Chissà a chi voleva regalarlo? Aveva fatto le scuole serali, aveva dato esami, vinto concorsi. Pur continuando a fare l'operaio si era laureato in ingegneria edile. Parlava volentieri di quel periodo, della fatica che aveva fatto, lui che era un figlio di papà, per adattarsi alla vita stremante del manovale. Si rovinava la schiena a furia di portare pesi, e alla

sera, quando tutti si riunivano attorno al fuoco, tra i rottami e i calcinacci, i suoi compagni mettevano a scaldare grandi pentole d'acqua che gli rovesciavano addosso perché potesse togliersi la camicia che il sangue raggrumato gli aveva incollato alle spalle. Mi raccontava che gli altri, scherzando, lo chiamavano "il principe". Perché aveva belle mani e la pelle delicata. Gli era rimasta un po' di nostalgia di quell'amicizia con gli altri operai e di quella vita di stenti. Non era mai ritornato un vero borghese. Lo si vedeva dal modo in cui afferrava un qualsiasi attrezzo da lavoro. Mia madre diceva: "Non è del nostro ambiente, basta vedere come mangia." Era vero, durante i pasti si chinava sul piatto, come se volesse proteggerlo e guardava quello che c'era dentro con serietà e soddisfazione. Non bisognava sprecare il cibo, non gli piaceva. Non so per quale strano caso sono finiti a casa mia, in un cassetto, la sua laurea d'ingegnere, il suo brevetto di "velocipedista", la patente per veicoli a petrolio, oltre a vari attestati firmati dai suoi datori di lavoro che raccomandano, anno dopo anno, l'apprendista, l'operaio, il direttore di cantiere, l'ingegnere. Ecco una foto di quel periodo: è su un campo da tennis: esegue un rovescio. Si intuisce che la palla lo ha preso in contropiede, mentre sta indietreggiando. Il suo corpo è colto nell'estremo sforzo di stendersi, come per porre la massima distanza tra la punta dei piedi e l'estremità dei capelli, e allo stesso tempo piegato sulla lunga racchetta: tutta la sua forza è concentrata nel polso destro e la mano sinistra si libra nel cielo, virile, sottile, robusta. Allora non era tisico e non conosceva mia madre. Guardo queste belle mani, questo sorriso smagliante, questo corpo slanciato e muscoloso, e penso che quest'uomo mi sarebbe piaciuto. Egli non mi ha mai ferita, mai segnata, mai toccata, e forse è per questo che non ho mai provato il bisogno di cercarmi un altro padre per sostituirlo. Alcuni mesi più tardi, quando finalmente osai parlare della mia allucinazione e scoprii che l'occhio che mi terrorizzava era quello di mio padre, compresi che non era tanto lui a farmi spavento, quanto la macchina attraverso la quale egli mi stava guardando e la situazione in cui mi trovavo io. Ne riparlerò più avanti. V Erano ormai mesi che era scomparsa l'anarchia del sangue. Il fatto mi stupiva tanto che ad ogni momento mi sembrava che dovesse colare di nuovo. Continuavo a fare i miei controlli. No, non c'era. Ero invasa da un senso di sollievo. Avevo bisogno della gioia che mi procurava la scomparsa del sangue perché mi dava il coraggio di lottare contro la paura. Nei peggiori momenti di confusione, quando, sfinita dal continuo scontro con la Cosa, ero tentata di aprire il cassetto che conteneva le compresse per soffocarla, pensavo al ruscello caldo e scarlatto lungo le mie gambe, alle lenzuola insozzate da macchie scure, ai grossi grumi neri e mollicci, ai tamponi puzzolenti di cotone che dovevo cambiare di continuo, e il ricordo di tutto ciò mi dava la forza di continuare a battermi. Il sangue se n'era andato. Perché non avrebbe dovuto andarsene la Cosa? Registravo puntualmente tutti i miei progressi. Prima di tutto il sangue, poi il fatto che andavo dal dottore tre volte alla settimana, da sola. In balia della città, del mondo esterno, degli sconosciuti. Non era un'operazione facile, dovevo preparare i miei itinerari con la massima cura. Avevo dei punti di riferimento lungo la strada: un negozio di cui conoscevo i gestori, un bar col telefono, un angolo buio dove in caso di bisogno potevo lasciarmi andare senza farmi

notare, la casa di un amico, di un conoscente, oppure soltanto un albero che mi piaceva, la prospettiva storta di un vicolo che mi rassicurava, qualsiasi cosa. Se, per un motivo qualunque, ero costretta a cambiare il mio itinerario ero presa dal panico, dalla paralisi, dal sudore e dai colpi sordi del mio cuore dentro la sua gabbia. In ogni caso, riuscivo ad arrivare puntuale alle sedute, tre mesi prima non ce l'avrei mai fatta. Ora c'era la morte al posto del sangue. Essa si crogiolava indisturbata nella mia mente. In un certo senso, la morte mi spaventava più del sangue. I suoi veli bruni vagavano sempre negli angoli più remoti del mio pensiero, lo rendevano sfocato, incerto. La sua falce luccicava sempre, pronta a tagliare netto tutto quello che giudicava necessario, senza nessuna spiegazione. Eppure mi attraeva la sua bellezza, la sua agilità. A volte ero tentata di farmi prendere per mano e lasciarmi condurre nel regno della conoscenza, della luce, del riposo. Per quanto lontano potessi risalire nella memoria, la morte aveva sempre avuto un posto di riguardo nella mia mente. Ma ora che essa aveva sostituito il sangue, diventava di colpo la padrona assoluta del mio corpo, delle sue più piccole manifestazioni. Era sempre presente. In ogni momento poteva far nascere ascessi, cancri, gozzi, ulcere, cisti, perdite, putrefazioni, infezioni. Si era impadronita di me. Era presente in ogni battito di palpebre, in ogni respiro, in ogni pulsazione, quando digerivo, mangiavo, deglutivo; era lì, in ogni colpo di pinna dei ventricoli del cuore, in ogni goccia di saliva, in ogni millimetro delle unghie e dei capelli. A causa della vita stessa, la morte mi faceva paura. Nei suoi confronti mi sentivo come un pilota di formula uno, lanciato a tutta velocità in un pericolosissimo tornante. Nessuno mi aveva insegnato a guidare quella macchina, non riuscivo a controllarla, andavo troppo forte per affrontare la curva. Perché la morte degli uomini è così assurda? Perché il lutto, le bandiere a mezz'asta, le musiche opprimenti, le lacrime, le cerimonie, le onoranze funebri, i tamburi ricoperti di veli, il nero? Perché non si parla mai dei vermi, della pelle esangue che diventa di marmo, dei piedi che diventano simili a spatole, del fetore? Perché si chiudono la bocca e gli occhi ai cadaveri, perché gli si tappa il culo con la bambagia? Perché non si lascia il corpo libero nei suoi mutamenti, nelle sue misteriose metamorfosi? Dov'è poi tutto questo mistero? Esiste davvero? Perché queste maschere, questi trucchi? Perché questi salotti trasformati in camere ardenti dove i cadaveri sferruzzano, leggono o si riposano in santa pace, come se non fosse successo nulla, mentre invece tutti sanno che all'interno di loro si sta compiendo in gran segreto l'inarrestabile trasformazione della materia, quando il solido diventa liquido, il liquido si dissolve in gas e in polvere, in un insieme di movimenti armoniosi grazie ai quali crescono le foreste, soffia il vento, trema la terra, gira il pianeta, riscalda il sole. Perché dovremmo rifiutarci di partecipare all'equilibrio delle forze, dei flussi, dei ritmi, delle correnti? Non capivo più niente, ero pazza. Proprio perché ero pazza non capivo nulla di quello che facevano o volevano gli altri. Avevo paura degli altri, paura di cadere, durante uno dei miei spostamenti, su un marciapiede, e di morire là, nella polvere della città. Avevo paura di esalare l'ultimo respiro sotto il cielo che avrei visto per l'ultima volta sopra le case, lontanissimo, mentre alcuni passanti si sarebbero fermati a distanza per vedere morire una donna. Tra me e loro ci sarebbe stato un cerchio di asfalto costellato di sputi, di cicche e di piscia di cane. Avevo paura dei loro sguardi, paura della morte che mi imponevano, a cui mi condannavano e della quale non capivo niente. Vedevo il mio corpo senza vita, inerte, con le gambe leggermente piegate, le braccia

scostate dal petto, gli occhi aperti che fissano l'infinito stupendo al di là dei tetti, al di là degli uccelli, al di là degli aerei. Non ce la facevo a gridare: "Non chiudete i miei occhi, non mi toccate, andatevene, io non c'entro niente con voi." Ero nelle loro mani, prigioniera della loro morte, e ciò mi terrorizzava. Avevo sempre paura. Una paura così grande, intensa, dolorosa, che solo la mia follia mi permetteva di sopportare. Il terrore arrivava a tali parossismi che avrei dovuto esplodere, o dissolvermi nel nulla. E invece no, la subivo ancora e poi ancora. Avrei voluto che mi ammazzassero, che mi annientassero con un elettroshock, una iniezione di adrenalina, una doccia di acqua ghiacciata. Odiavo lo psicoanalista che mi proibiva quei rimedi, mi toccava andare da lui senza un grammo di aria nei polmoni, senza una goccia di sangue nelle vene, senza un muscolo, senza l'ombra di un pensiero, con il solo istinto per muovere le mie ossa e la loro bardatura, presto, presto, in fondo al vicolo. Parlare, parlare, parlare, parlare. "Parli, dica tutto quello che le passa per la mente, cerchi di non dare ordine ai suoi pensieri, non pensi a fare belle frasi. Tutto ha la sua importanza, ogni parola." Questa era l'unica medicina che egli mi concedeva e me ne rimpinzavo. Forse era quella l'arma contro la Cosa: questo fiume, questa massa, questo uragano di parole. Le parole portavano con sé la sfiducia, la paura, l'incomprensione, il rigore, la volontà, l'ordine, la legge, la disciplina, ma anche l'affetto, l'amore, la dolcezza, il calore, la libertà. Il vocabolario era un puzzle, con il quale stavo ricostruendo l'immagine nitida di una bambina seduta come si deve a un grande tavolo, le mani sulla tovaglia, di qua e di là del suo piatto, con la schiena dritta che non tocca lo schienale della sedia, sola di fronte a un signore con i baffi che le porge un frutto sorridendo. Le saliere di cristallo col tappo d'argento, il servizio di porcellana di Sèvres, il campanello che pende dal lampadario: una palla di marmo rosa, con Pierrot e Colombina che si devono baciare perché si senta lo squillo nella dispensa. Le parole ridavano vita alla scena. Ero di nuovo quella bambina. Quando l'immagine si cancellava e ridiventavo una donna di trent'anni, mi chiedevo il perché di tanta rigidezza, di quelle mani sulla tovaglia, di quello schienale proibito. Perché tanta noia, tanto imbarazzo in presenza di mio padre? Chi mi imponeva tutto questo e perché? Ero là, sul divano, con le palpebre ben chiuse per trattenere più a lungo quella bambina. Ero veramente lei ed ero veramente io. Tutto diventava semplice e comprensibile. Cominciava a delinearsi con chiarezza il potere di mia madre su di me. Per poter trovare me stessa dovevo trovare lei, dovevo immergermi nei misteri della mia famiglia, del mio ambiente. Chiudevo gli occhi e tornavo a essere la bambina coricata nel suo letto, tra le lenzuola di lino ben tirate, con un crocefisso sul muro sopra la testa e lo sguardo rivolto alla porta chiusa, alle bambole disposte in ordine di grandezza. Il fuoco quasi spento nel caminetto provocava nella camera getti vulcanici, faceva esplodere le ombre. Stavo aspettando mia madre. Lottavo contro il sonno che rischiava di privarmi della sua breve apparizione. Facevo la brava: "Se non fai la brava non verrò a darti la buonanotte." Ho cominciato a parlare di mia madre e non ho più smesso fino alla fine dell'analisi. In tutti questi anni non ho fatto altro che calarmi in lei come in un burrone senza luce. Così sono riuscita a conoscere la donna che lei avrebbe voluto che fossi. Ho dovuto fare, giorno dopo giorno, la conoscenza dei suoi sforzi per fabbricare una persona perfetta

secondo i suoi criteri. Ho dovuto misurare con quale forza di volontà piegava il mio corpo e il mio pensiero per costringerli a imboccare la strada che aveva scelto per me. E' tra la donna che lei avrebbe voluto generare e me che la Cosa si è insediata. Mia madre mi aveva fuorviata e il suo lavoro era stato così perfetto, così profondo, che non ne ero conscia, non me ne rendevo più conto. Di lei ricordo soltanto di averla amata alla follia durante la mia infanzia e la mia adolescenza, poi di averla odiata e infine abbandonata volontariamente, poco tempo prima della sua morte, che ha segnato la fine della mia analisi. Calde notti insonni della mia giovinezza. In cui, dopo essermi girata e rigirata sotto le coperte, dopo aver letto fino a rovinarmi gli occhi, mi alzavo alla ricerca del nulla. Vagavo nel grande appartamento addormentato, lungo il corridoio a U; un ramo della U dava sulle camere da letto, la base sulla zonagiorno, l'altro ramo attraversava la dispensa e arrivava fino alla cucina. Quei luoghi mi erano tanto familiari che non avevo bisogno di accendere la luce. Mi è sempre piaciuto camminare al buio e in quegli anni l'ombra e l'oscurità si addicevano all'irritazione, all'eccitazione ansiosa alle quali sono spesso soggetti i bambini, senza saper definire e ancor meno esprimere questo loro stato. Tutta quella vita davanti a me, tutta quella vita che mi attraeva e allo stesso tempo mi faceva paura! Durante queste cieche peregrinazioni che somigliavano a lamenti, mi è successo più volte, dopo la prima curva del corridoio, di essere distratta dalla mia solitudine da una luce lontana che lasciava sulle porte a vetri del salotto tracce rosse e dorate. Un difetto nel vetro distorceva uno di quei riflessi e lo arrotondava, facendolo somigliare a uno strano occhio che deturpava la purezza e la trasparenza del vetro. Questa luce significava che c'era mia madre. Affrettavo il passo, pur camminando nel massimo silenzio. Arrivavo in anticamera, di fronte alla porta aperta che conduceva ai "servizi". Mi fermavo sulla soglia della notte. In fondo al corridoio immersa in una luce che mi sembrava abbagliante giacché io stavo nell'ombra, vedevo mia madre, in piedi, con un grande bicchiere in mano, colmo di vino. Era immobile, triste e assente e il suo sguardo era lontano, lontano. A volte beveva con gli occhi chiusi, a grandi sorsate. Avevo l'impressione che le facesse bene. Finito il bicchiere, scompariva nella penombra della dispensa, apriva il frigorifero che la illuminava con la sua luce allegra e rassicurante, prendeva una bottiglia, riempiva il bicchiere, spegneva in cucina e se ne andava a tentoni in camera sua, col suo viatico in mano. Si chiudeva a chiave. Sapevo che non si sarebbe mossa fino all'indomani mattina. Mentre stava in cucina, sola nella luce, la guardavo bere e avrei voluto essere al posto del vino. Avrei voluto farle del bene, renderla felice, avrei voluto attrarre la sua attenzione. Mi ripromettevo di trovare un tesoro da regalarle. Mi eccitavo tanto al pensiero di quel tesoro che mi ritrovavo in un bagno di sudore durante il riposo del pomeriggio. E' dentro la terra che si trovano le gemme. Uscivo nel sole micidiale, nell'aria densa come la marmellata. Passavo dalla finestra, richiudevo le persiane dietro di me, e partivo verso i vigneti. Mi inginocchiavo e grattavo la terra. Grattavo fino a farmi male, mi sembrava che le unghie si staccassero dalla pelle. Cercavo sassolini diversi dagli altri. Me ne riempivo le tasche. Magari c'erano diamanti tra quei sassi, smeraldi, rubini. Che bella sorpresa le avrei fatto! Il suo volto si sarebbe disteso. Lei mi avrebbe baciata, mi avrebbe amata. L'interno di certi fiori mi attirava in particolar modo, ad esempio quello dei canna, degli arum. Lo osservavo attentamente e quello che

vedevo mi dava le vertigini: velluti d'oro e di fuoco, gocce di essenze preziose, damaschi, sete pregiate. Non poteva trattarsi che di scrigni favolosi che custodivano fantastiche gemme. Facevo i fiori a pezzi e non vi trovavo nulla. Più tardi, in serata, vedendo i fiori distrutti, lei mi diceva con voce dura: "Tu non ami i fiori, io sì. Non li devi rovinare." Davanti al mucchietto di sassi che estraevo dalle mie tasche, col respiro corto e il cuore che mi batteva dalla gioia all'idea delle meraviglie che certamente vi si nascondevano e che avrebbero illuminato la sua vita, lei diceva soltanto: "Non voglio vedere quelle porcherie per casa." C'erano anche i giunchi e le canne di bambù. I loro gambi mi sembravano cofanetti di oggetti preziosi. Vi avrei sicuramente trovato i bottoni di mandarino di cui lei faceva collezione. Strappavo gli steli coperti di foglie lunghe e taglienti e mi mettevo ad esplorare ogni singolo tubo. Scoprivo imbottiture di lana bianca e anche minuscole ostie che ostruivano l'orifizio. Ma nient'altro, niente di niente. Quando non ne potevo più di tutte quelle delusioni accumulate, staccavo le foglie dalla punta estrema dello stelo e mi fabbricavo un flauto, che emetteva un suono stridulo. Gli altri bambini mi imitavano e correvano via, piccola banda chiassosa, per giocare a nascondino o a guardie e ladri. Mai i bottoni di mandarino, le gemme, le pepite mi uscivano completamente di mente. Se non altro prendevo dei bei voti a scuola. Col passar degli anni e l'accrescersi delle mie conoscenze, acquistai l'assoluta certezza che il terreno attorno a casa nostra non era aurifero, né diamantifero, né in alcun modo pietrapreziosifero. Imparai che i giunchi non possono contenere bottoni di mandarino perché quei bottoni sono di avorio, materia introvabile dalle nostre parti, e un tempo appartenevano a notabili cinesi, a migliaia di chilometri da qui. Imparai che la bellezza dei fiori, per chi la sa apprezzare, è già un tesoro di per sé e non genera tesori di altra specie. Imparai anche il valore e l'esistenza del denaro, dello scambio, del commercio. Mi misi a vendere vecchi libri e vecchie bottiglie, intere raccolte dell'Illustration e di Marie Claire che avevo scoperto in uno sgabuzzino. Confrontavo l'ammontare dei miei soldi con il prezzo del più piccolo bottone di mandarino esposto nella vetrina di un negozio d'antiquariato. La differenza era scoraggiante. Imparavo a conoscere i suoi gusti e i suoi bisogni. A lei piacevano solo "gli oggetti di lusso" e non c'era nulla sul mercato che fosse alla portata del mio borsellino. Per me la porta della sua felicità rimaneva chiusa, convinta com'ero di poterla aprire soltanto grazie ai regali. Il mio amore per lei, chiaramente, non era la chiave giusta. Mi rifugiai allora, inconsciamente, nel mondo dei sogni, e disprezzavo le mie illusioni passate, le mie assurde ricerche, le mie sciocche speranze. Mi odiavo per tutti quegli sforzi inutili, mi vergognavo di me stessa. In compenso scoprii che potevo inventarmi un personaggio tutta da sola, di nascosto. A parte le ore di scuola in cui mi dedicavo allo studio, passavo il resto del tempo a magnificarmi, a mettermi in risalto. Appena tornata da scuola andavo sul terrazzo e organizzavo campionati mondiali, cosmici. Sola contro l'universo, ma con tanta volontà di vincere, tanto bisogno di esprimermi, che non temevo nessuno, anzi desideravo questo confronto. Salvo per un mucchio di legna in un angolo, non c'era niente su quel terrazzo di mattoni rossi. C'era solo il grande cielo. Le

rondini giravano a migliaia sopra la mia testa e lanciavano grida stridule. Immagino che si sentissero anche i rumori della città ma non li ricordo. Ricordo solo il cielo, gli uccelli e lo spiazzo rosso sul quale tracciavo la mia "campana". Erano presenti tutte le bambine della mia classe, tutte quelle della scuola, tutte le persone che conoscevo, fino all'ultima. E ora saremmo stati a vedere chi avrebbe vinto! La scelta del sasso per giocare a "campana" era la mia più grande preoccupazione. Preferivo però una scatoletta di pastiglie "Valda" riempita di terra. Ma a furia di giocare come una forsennata, la scatola di latta si consumava in fretta e vedevo presto il fondo staccarsi come fosse stata una qualsiasi scatola di cibo in conserva. Per me era un vero dramma perché non mi davano soldi e mi toccava quindi aspettare il prossimo raffreddore di qualche membro della famiglia, e nel frattempo giocare con un sasso qualsiasi, il che comprometteva non poco il buon esito del campionato. Giocavo per tutti, uno alla volta, con la stessa passione e lo stesso ardore per ogni concorrente che rappresentavo. Quando arrivava il mio turno tremavo dalla paura. Spesso giocavo meglio per gli altri che non per me stessa. "Signorina, tocca a lei." Questa volta la signorina ero io! La caviglia mi si irrigidiva. Eppure la mia vittoria dipendeva dalla sua agilità. Badavo a che le regole venissero rispettate con il massimo scrupolo, soprattutto quando toccava a me, non volevo mezze vittorie! Bastava un millimetro di suola su una riga per farsi eliminare. Alcune volte avevo provato a barare quando giocavo per me stessa ma in quei casi il trionfo non aveva avuto sapore. Quando arrivavo alla casella del dieci, mi pareva veramente di aver preso un dieci a scuola. Finalmente potevo posare i due piedi per terra e rilassarmi. Facevo il calcolo delle mie possibilità. Non mi veniva mai in mente che ero io che giocavo al posto della concorrente che per il momento era in testa. Volevo vincere la gara. Ripartivo a gamba zoppa. Spesso era già buio quando mi chiamavano per la cena, ma riuscivo lo stesso a vedere le linee di gesso bianco che delimitavano il mio campo di battaglia. Le rondini erano scomparse insieme al sole. Organizzavo anche tornei di palla a muro, salto alla corda, yoyo. Secondo il gioco che andava di moda a scuola. Ogni volta che ero campionessa del mondo la mia soddisfazione era tale che capivo benissimo i discorsi di mia madre circa i benefici della Comunione. Diceva che Cristo, nel cuore ti dona felicità, bontà, saggezza, pace; esattamente ciò che provavo dopo aver vinto un campionato particolarmente difficile. Mi comunicavo e stavo molto attenta agli effetti redentori dell'Eucarestia. Non ce n'erano mai. Temevo assai quell'omino vestito di stracci con la barbetta che si aggirava per le caverne del mio cuore. Allo stesso tempo avevo una gran paura che si facesse del male nel tragitto tra la bocca e il cuore, lungo la mia trachea. Mi avevano insegnato, nell'ora di religione, che Nostro Signore risiede in ogni briciola di ostia. Eravamo in tempo di guerra e bisognava risparmiare su tutto, e quindi il prete divideva le ostie in quattro. Più il pezzo era piccolo e più la persona che stava dentro era piccola, e rischiava quindi di perdersi nei complicati meandri del mio organismo. Ero molto preoccupata per quello che succedeva nel mio corpo. Quand'ero piccola mia madre mi aveva detto: "Attenta a non mandare giù i noccioli di ciliegia se non vuoi che ti crescano ciliegi nello stomaco." Ne avevo concluso che se mangiavo un seme d'uva mi sarebbe cresciuta dentro una vite, un nocciolo di albicocca avrebbe prodotto un albero di albicocca ecc...' Mangiavo la frutta con ogni

precauzione e se per disgrazia andava giù qualche seme non riuscivo a dormire. Sentivo l'albero crescere dentro di me, m'aspettavo da un minuto all'altro che rami carichi di frutta mi uscissero dalle narici, dalle orecchie, dalla bocca, sentivo le mie dita trasformarsi in radici. Finivo col vomitare e finalmente mi assopivo. La sentivo mentre mi prendeva tra le sue braccia, mi puliva i capelli, mi cambiava, metteva lenzuola pulite. Ero in un mare di beatitudine, di felicità assoluta. La sentivo che diceva alla governante: "Sembra che non digerisca bene la pasta della minestra. Guardi, è rimasta intera." Mi addormentavo tra le sue braccia, stretta contro di lei, ero la bambina più felice del mondo. Tornando ai miei campionati, direi che sono stati estremamente importanti. Poiché vincevo spesso, queste vittorie segrete mi conferivano un valore che non avevo mai avuto. Mi sentivo degna di lei, della sua severità. I baci, le tenerezze, tutto questo andava bene per le smorfiose! Io non ero una smorfiosa! Sapevo mostrarmi forte, generosa, onesta, insomma buona. Non era questo che lei voleva da me, la bontà? Potevo diventare ancora più buona se praticavo bene la religione, alla quale lei dava tanta importanza. Decisi perciò di accompagnarla alla messa del mattino. Avevo l'età in cui l'adolescenza comincia a mordere dentro e a scavare e ammorbidire le linee del corpo. Camminavo vicino a lei, era l'alba. I nostri passi risuonavano sull'asfalto. Parlavamo poco. La mia cartella era pesante. Tanto più che tra i campionati e l'ossessione di piacere a mia madre, non avevo avuto tempo per fare i compiti. Li avrei fatti dopo, all'uscita della messa, per strada, sull'autobus, poi sul tram. "Sei sicura di non aver mangiato né bevuto niente?" "Sicura. Quando mi sono lavata i denti sono stata attenta a non mandar giù l'acqua." "Brava. Da quanto tempo non ti sei confessata?" "Da dieci giorni." "E' molto. Non vi mandano a confessarvi a scuola?" "Sì, domani." "In questo caso è meglio non fare la comunione né oggi né domani. Siamo già in ritardo, non avresti il tempo di confessarti prima che cominci la messa." Durante la confessione dicevo sempre le stesse cose: "Padre, ho detto bugie, non sono stata ubbidiente, ho fatto peccati di gola, ho detto parolacce." Basta. Per quanto mi arrovellassi non riuscivo a trovare nient'altro. Eppure lei diceva che i santi peccano almeno sette volte al giorno. Pazienza. Senza guardare il prete attraverso la grata sciorinavo tutto d'un colpo: "Ho detto bugie, non sono stata ubbidiente, ho fatto peccati di gola, ho detto parolacce." "Tutto qua?" "Sì, tutto qua." "Non hai commesso atti impuri, figliola?" "No padre." "Mai?" "Mai." Non sapevo di che cosa stesse parlando. "Bene. Recita l'Atto di dolore." "Mio Dio, mi pento con tutto il cuore dei miei peccati e li odio e detesto come offesa della vostra maestà infinita, cagione della morte del divin figliolo Gesù e mia spirituale rovina. Non voglio più commetterne in avvenire e propongo di fuggirne le occasioni. Signore, misericordia, perdonatemi." Lì ero bravissima. Lo sapevo a memoria, sia nella vecchia versione

che in quella nuova. Durante la guerra avevano cambiato le parole e ne avevano messe di più semplici. Mi piaceva che la Chiesa tenesse il passo con i tempi! "Per penitenza dirai tre Avemarie e tre Padrenostri. Vai in pace, figliola." La penitenza si recita col rosario. Si comincia con la croce, poi si passa ai grani sul pezzo libero di catena per il segno della croce, e infine al cerchio delle Avemarie. A casa avevamo un intero campionario di rosari. D'oro, d'argento, di cristallo, di ametiste, di latta, rosari comprati a Lourdes, a Gerusalemme, benedetti dal Papa, dal Monsignor Tale, dal curato d'Ars, quello della nonna, della bisnonna, della mamma, del matrimonio, della cresima, del fidanzamento, del ventesimo compleanno. Ci voleva molta pratica per far coincidere la fine della preghiera con l'ultimo grano del rosario. Il più delle volte o giungevo all'ultimo grano a metà preghiera e allora bisognava far rotolare a lungo il grano tra le due dita, il pollice e l'indice, o invece finivo troppo presto avanzando due o tre grani e dovevo quindi contare: un grano: "E", un altro grano, "così", ancora un altro grano, "sia". Durante la messa nulla poteva distrarla dalle sue preghiere. Stava quasi sempre in ginocchio. Io la imitavo e quando uscivo dalla chiesa avevo le ginocchia segnate da profonde scavature lasciate dall'inginocchiatoio. La osservavo attentamente per poter fare come lei. Vedevo il suo bel profilo, il suo naso dritto, la sua bocca ben disegnata, le sue palpebre chiuse sugli occhi verdi, la veletta grigia posata come una nuvola sui capelli ondulati, e poi le sue mani da regina incrociate, lunghe, bianche, bellissime, con le unghie ben limate e lucidate. In chiesa non c'era quasi nessuno: alcune vecchiette nell'ombra delle navate laterali e noi in quella centrale in prima fila sugli inginocchiatoi di famiglia. Alla messa del mattino lei sostituiva il sagrestano e doveva fare il responsorio e suonare il campanello. Poi cantavamo. Avevamo tutte e due la voce bassa. Consacrazione, comunione, momenti intensi che non riuscivo a capire, per cui abbassavo ancora più la testa, per la vergogna. Recitavo le preghiere con la massima attenzione. Pensando ad ogni parola che dicevo. Introibo ad altare Dei. Ad Deum qui laetificat juventutem meam. Ecce agnus dei, ecce qui tollit peccata mundi. Domine non sum dignus ut intres sub tectum meum. Sed tantum dic verbum et sanabitur anima mea. A scuola studiavo il latino e non avevo difficoltà a tradurre: "Dio mio non sono degna di riceverti sotto il mio tetto. Ma di' soltanto una parola e la mia anima sarà salvata." Che cosa aspettava per dire quella parola? Per inondarmi della sua grazia? Per far sì che lei finalmente mi amasse? Niente. Solo il sole che compariva, come per miracolo, e faceva risplendere le vetrate dietro l'altare. Il Cristo, con i buchi ai piedi, alle mani, al fianco, si reggeva in equilibrio nella luce dorata, con le sue cosce scarne sotto il perizoma ricamato. (continua) Dopo era una folle corsa per i giardini del parco Galland, con un libro aperto in mano, la cartella spalancata, la divisa in disordine. Il compito di storia, quello di matematica. Poi sul tram, in fretta e furia, la traduzione dal latino, il tema di francese. Accidenti a quei sobbalzi, mi facevano sbagliare! "Signorina, ha un quaderno che sembra uno straccio." Sicuro che sembrava uno straccio! Figurarsi se avevo il tempo di fare le righe dritte, di scrivere i titoli e i sottotitoli con l'inchiostro di colore diverso, di mettere la data!

"Inoltre ha una pessima calligrafia." In questo aveva perfettamente ragione, e il tram non migliorava le cose. La calligrafia era come la religione: ce la mettevo tutta, ma senza risultati. Cosa non avrei dato per saper fare le "D" come le faceva Solange Dufresnes, le "M" come le faceva mia madre! Facevo macchie d'inchiostro, cancellavo malamente gli errori. Le mie penne non funzionavano mai. "Peccato, il compito è buono, ma devo abbassare il voto per la sciatteria." Non m'importava gran che, perché lei non s'interessava molto ai miei voti. O meglio, guardava solo quelli brutti. Faceva scorrere il dito lungo la colonna dei numeri e si fermava davanti a quelli inferiori al dieci. "Sei. Hai un sei! (O un quattro o un tre.)" "E' in economia domestica." "Ma è importante l'economia domestica! Devi essere in grado di rifarti gli orli e cucirti i bottoni da te. Mi chiedo proprio che cosa faremo di te. Sei una sciattona." Una sciattona! Somigliava a cogliona, pasticciona, farfugliona, pidocchiona. Era qualcosa di sporco, di fermentato, di viscido. Non c'entrava niente con l'immagine che avevo di mia madre e alla quale desideravo tanto somigliare. Quella mattina quando uscimmo dalla messa profumava di lavanda. La sua figura robusta dai fianchi larghi ma dalle gambe sottili era stretta in un tailleur di gabardine grigio ferro dalla linea severa e impeccabile. Le sue scarpe da passeggio erano ben lucidate. Andava a prendere l'autobus che l'avrebbe portata nella parte alta della città, in quei quartieri poveri dove assisteva i bambini bisognosi. Era il capolinea. La conoscevano tutti i controllori, i manovratori, i bigliettai. Ogni mattina le facevano festa. La gente le regalava mazzetti di anemoni, di giunchiglie o di viole del pensiero a seconda della stagione. Le portavano paste fatte in casa apposta per lei. Le mostravano i neonati, impacchettati nei vestiti della festa. Al momento di separarci lei, per salutarmi, mi aveva fatto una piccola croce sulla fronte, col pollice. "Va' e fa' la brava." Partivo di corsa verso la scuola, lasciandola ai suoi poveri che erano così felici di vederla, di toccare i suoi vestiti, di sentirla parlare. Quel segno sulla mia fronte era come le stimmate. Mi sembrava che tutti lo potessero vedere. Mi faceva pensare al muschio fitto, bombato, morbido al tatto, che cresce dentro le lettere scavate nel marmo delle vecchie tombe fradicie di umidità. La religione ebbe una parte molto importante nella mia infanzia perché mi permetteva di avvicinarmi a mia madre. Non aveva alcun significato in sé, dato che non avevo mai avuto la fede, e tantomeno la grazia. Eppure sa Dio quanto l'ho pregato, l'ho supplicato di far cadere su di me la manna che avrebbe calmato le mie ansie, i miei sensi di colpa! Perché era chiaro che non possedevo le virtù cristiane che ci venivano descritte a scuola. Durante le lunghe meditazioni che mi costringevano a fare (giacché andavo a scuola dalle suore e mia madre era una fervente praticante) mi annoiavo a morte. Non riuscivo a concentrarmi. Se mi dicevano ad esempio di meditare per un quarto d'ora sul tema della carità cristiana, facevo come tutti gli altri, affondavo la testa tra le mani e mi dicevo: "Amatevi l'un l'altro, questa sì che è una bella cosa! Sì, bisogna amarsi l'un l'altro, è vero, però non è facile perché ci sono delle persone che non hai nessuna voglia di amare e altre invece che vorresti tanto amare e che non si lasciano amare." Tutto lì, non andavo più in là, cominciavo a pensare ad altro, mi concentravo sulla

stoffa dei miei vestiti, tentavo di vedere la trama del tessuto. Ma ogni volta slittavo e mi mettevo a pensare a cose alle quali non dovevo pensare: quello che avrei fatto durante l'intervallo a scuola, oppure uscendo dalla messa, oppure il prossimo giorno di vacanza. Non riuscivo a non pensare a cose di questo genere e mi vergognavo. Lottavo contro quelle scappatelle e soffrivo sinceramente di non avere la forza di liberarmi da queste distrazioni. Convinta com'ero che il paradiso e il perdono divino si ottengono solo attraverso il sacrificio, la sofferenza, le difficoltà, la miseria, ne traevo la logica conclusione che sarei andata dritta all'inferno e che in quel preciso momento Dio stava corrucciando la fronte, e piangeva per la pena che gli davo. Uscivo in pessime condizioni da quegli esami di coscienza: avevo ferito il Dio che mia madre adorava, Colui al quale lei sacrificava tutto. Non avevo via di uscita. Poiché non riuscivo ad essere come si deve dentro di me, a maggior ragione dovevo esserlo nelle apparenze. In ordine, ben educata, pulita, virtuosa, ubbidiente, col senso del risparmio, servizievole, pudica, caritatevole, onesta; bene o male ci riuscivo, ma il più delle volte male perché mi piaceva troppo divertirmi e ridere. Mi sporcavo i vestiti e le mani, i miei quaderni erano pieni di macchie e di cancellature. Ma ero una buona bambina, magari non troppo presentabile però virtuosa, onesta e brava a scuola, e inoltre facevo visibili sforzi per avere una vera vita religiosa. In realtà, le uniche occasioni in cui riuscivo ad assumere un comportamento religioso erano momenti di estasi provocati da determinati oggetti o determinati aneddoti. Per esempio i miracoli di Gesù, che cammina sull'acqua, che moltiplica i pani e i pesci, che guarisce i malati e resuscita i morti ecc...' Queste cose mi facevano sognare, amavo sinceramente Gesù, lo consideravo una persona davvero in gamba che mi sarebbe piaciuto conoscere, e con la quale sarei volentieri andata in giro per le strade di Galilea o altrove. Sì, mi sarebbe piaciuto andarlo a trovare in Paradiso e vederlo fare i suoi giochi di prestigio. Per lo stesso motivo, durante la messa mi piaceva il momento della consacrazione quando il pane e il vino si trasformano nel corpo e nel sangue di Cristo. Una volta dissi a mia madre che l'ostia non assomigliava al pane, e lei mi spiegò come e perché fabbricano le ostie, aggiungendo che solo i protestanti mangiavano pane vero per la Comunione. Pensai di aver peccato desiderando il pane e decisi che d'ora in avanti avrei considerato l'ostia alla stessa stregua delle grosse pagnotte croccanti che si vedevano su certi quadri rappresentanti l'Ultima Cena. Ciò non m'impediva di essere ben contenta il giorno di Pasqua, quando venivano distribuiti squisiti bocconcini di brioche all'uscita della messa solenne. Anche la musica sacra mi piaceva. C'erano dei canti che mi sconvolgevano, in particolare lo ^Stabat Mater del Venerdì Santo. Avevo una voce bassa e i cori di bambine sono sempre altissimi. Per riuscire ad arrampicarmi con la voce fino a quelle altitudini, dovevo corrugare la fronte per andare a cercare le note in fondo alle dita dei piedi, il che mi dava una specie di vertigine e un leggero mal di testa che gradivo molto. Mi sembrava che questi disturbi fossero il segno del misticismo. Le mie uniche meditazioni realmente cariche di pensieri erano quelle in cui mi abbandonavo dopo la preghiera serale, inginocchiata davanti al crocifisso appeso al muro sopra la testiera del mio letto. La croce era di ebano, il Cristo era d'avorio come anche quella specie di festone sopra la sua testa dove era scritto Inri, e i chiodi erano di bronzo. Me l'avevano regalato per la Cresima. Mia madre mi aveva insegnato le varie materie preziose e nobili di cui esso era fatto. "E' un bellissimo crocifisso, sai, ha un grande valore, è una vera opera d'arte." Niente è troppo bello per il

Signore. E quindi ogni sera ammiravo l'ebano, l'avorio, il bronzo e Gesù torturato. Mi soffermavo a lungo sui chiodi. Per le mani non dovevano aver fatto troppa fatica, i chiodi erano probabilmente scivolati tra un osso e l'altro, ma per i piedi era sicuramente stato diverso, li vedevo battere sui chiodi per piantarli, e mi dolevano i piedi. La corona di spine poi! Non poteva appoggiare la testa sul legno, perché le spine gli si sarebbero conficcate ancora di più nel cranio. Egli aveva saputo trovare la posizione migliore, con la testa piegata in avanti, e la barbetta che poggia contro il petto. La ferita a forma di triangolo sul costato non mi diceva un gran che, il tronco era così magro, le costole così sporgenti che ricordavano la struttura di una vecchia barca abbandonata o uno di quei cani randagi che cercano il cibo tra i rifiuti. Mi colpiva di più la sua magrezza che non la ferita a forma di triangolo appena segnata nell'avorio. Le gambe invece erano muscolose, erano vere gambe di atleta. Eppoi c'era quel panno che copriva il sesso. Questo sì che era interessante! Quelle belle gambe, quel mistero dietro gli stracci... Il mio sguardo non si soffermava troppo a lungo su quella parte lì, eppure, proprio a causa di questa, mi veniva da piangere quando pensavo che era morto per me. Alla fine prendevo il crocifisso e premevo le mie dita contro i chiodi. Avrei voluto che sanguinassero, ma purtroppo non successe mai. Poi facevo il segno della croce, in fretta, senza badarci troppo e oplà!, con una capriola mi ritrovavo tra le lenzuola che sapevano di bucato fresco, sul mio guanciale di piume cui tenevo tanto e che stringevo forte a me. Non c'era pericolo, nemmeno in piena estate, che lasciassi scoperto un braccio o anche una mano con quei brutti diavoli sotto il mio letto che non vedevano l'ora di afferrarmi e portarmi all'inferno. Mi ricordavo due illustrazioni che avevo viste nel vecchio catechismo di mia nonna: la morte del cristiano e la morte del peccatore. Il cristiano moriva mezzo seduto, sorretto nella sua agonia da un angelo dalle ali stupende, lo sguardo rivolto al cielo, verso la luce raggiante di Dio, sopra un baldacchino a pompon. Il cristiano aveva una camicia da notte candida e stirata, con colletto e polsi chiusi, belle lenzuola per niente gualcite, le mani congiunte per la preghiera. Il peccatore era su una lurida branda, si contorceva e faceva delle smorfie. Diavoli con la coda a forma di freccia e un tridente in mano (per questo ho sempre pensato che Nettuno fosse un diavolo) trascinavano il peccatore per le braccia e per le gambe sotto la branda, verso i fuochi dell'inferno di cui alcune fiamme lambivano già i mobili della soffitta in cui avveniva quell'agonia. Sapevo però che tutto questo non contava, che si dovevano cacciare via quelle immagini, per sante che fossero, e riflettere invece su cose come "Dio è puro spirito" o "La santa trinità: un solo Dio in tre persone il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo". Lì arrivavano i guai: il Padre con la barba e i sandali, il Figlio con la croce e il sangue e infine lo Spirito Santo, addirittura un uccello! Era un mistero. La colomba diventava un gabbiano e il gabbiano volava fino alla mia spiaggia preferita con le sue onde, i suoi ombrelloni, i suoi scogli e il ragazzo di cui ero innamorata. Peccavo, peccavo, peccavo di continuo. Questo pensiero rovinava ogni momento di gioia. Diffidavo di me stessa e questa diffidenza era pesante da sopportare. Se volevo piacere a mia madre non dovevo commettere peccati. E invece ne commettevo, e di grossi. Gli unici momenti di perfetta armonia con mia madre, quelli in cui ero sicura di capire bene quello che si aspettava da me e di non fare nulla che potesse dispiacerle erano durante i giri nei giardini. Passavamo tutte le vacanze e tutta la bella stagione nella tenuta

di famiglia. Con l'inizio della guerra avevamo dovuto rinunciare (e io ne ero ben lieta) a passare l'estate in Francia. E quindi stavamo in campagna per i tre lunghi mesi torridi e facevamo la spola tra la fattoria in mezzo alle viti e la villa al mare, collegate tra di loro da pochi chilometri di strada polverosa, invasa dal rumore assordante delle cicale. I miei ricordi felici, le mie vere radici sono tutti legati alla fattoria, come le ghirlande sull'albero di Natale. Perché? Forse perché vi passavo le mie vacanze ed ero quindi più padrona del mio tempo che non durante l'anno scolastico. O forse perché c'era tanto spazio. In campagna era davvero Algeria, in città pareva di essere in Francia. Io preferivo l'Algeria. Amavo le colline rosse e tondeggianti coperte di viti, i viali di eucalipti, la vegetazione selvaggia e povera del bosco, fatta di pini rachitici, lentischi, ginestre e corbezzoli, la terra secca dove crescevano ciuffi di timo. In contrasto con quei luoghi severi, la fertilità dei terreni irrigati era per i miei occhi una grande festa quotidiana. Sopra i vigneti, fino all'orizzonte, aleggiava un odore semplice di terra ventilata. Nei giardini invece era un'orgia di profumi dal mattino alla sera: gelsomino, arancio, fico, dattero, cipresso e per ultimo, dopo l'innaffiamento serale, quando la terra apre il suo cuore al fresco della notte, il profumo allegro e sottile delle belle di notte. Lo stesso per i colori. Sullo sfondo ocra e rosso delle terre messe a coltura, si alternavano il verde scuro delle vigne e il grigioverde degli ulivi, il beige dei ceppi e dei tronchi, semplici sotto l'azzurro logoro e uniforme di un cielo troppo illuminato. Attorno alle vasche invece, vi erano rossi, gialli, indaco, bianchi, rosa, arancioni, turchesi, smeraldi, zaffiri, ametista, diamanti. Mi veniva voglia di ballare là dentro, con campanelle attorno ai piedi perché tutti potessero sentire la mia gioia. La casa era massiccia e poderosa, costruita da un mio avo nato nella regione di Bordeaux che l'aveva voluta simile alle case del suo paese: semplice, comoda, solida, vasta. Nei primi tempi era stata una casa fortificata, cinta da mura alte cinque o sei metri. Ai miei tempi rimaneva solo una di quelle mura, dalla parte del cortile centrale, con un enorme portone fatto di grosse tavole di legno. Nella villa padronale le stanze erano spaziose e comunicavano tutte fra di loro. Il salone, che scorreva lungo tutta la facciata, era stato concepito per gente che apprezzava il Porto, i sigari Avana e la musica classica. Attraverso le grandi finestre, oltre i due romantici alberi del pepe carichi di foglie dentate e di grappoli di bacche rosse, si vedevano le viti a perdita d'occhio. Avevamo a servizio domestici arabi, lenti e premurosi, che nei giorni di festa servivano a tavola con gilè ricamati, seroual bianchi, sciarpe sgargianti e medaglie d'oro sulla fronte tatuata. I loro piedi scalzi scivolavano silenziosi sulle grandi piastrelle bianche e nere del pavimento. Le loro mani spalmate di henné rosso maneggiavano con rispetto l'argenteria di famiglia. Sul frontone triangolare, sopra la porta d'ingresso, sospeso tra cielo e terra, era incisa la data di costruzione: 1837. Attorno alla fattoria c'erano grandi giardini. Uno era fatto per le passeggiate; con grandi aiuole di fiori, vialetti bordati di cespugli di rosmarino ben potati e varie pergole; ce n'era una a forma di chiosco ricoperta di fiori di gelsomino che sembravano stelle. Erano quei fiori che Youssef, il nostro giardiniere, coglieva le sere in cui andava a fare bisboccia. Chissà dove andava, in quella campagna deserta. Si faceva un mazzetto ben stretto e se lo metteva dietro l'orecchio, contro il berretto di seta, lasciando dietro di sé

una scia di profumo. Era molto geloso di quei fiori e non li dava mai a nessuno tranne che a me, di tanto in tanto. Trovavo questo giardino un po' noioso. Era bello ma troppo curato. Preferivo il giardino dove crescevano i fiori da recidere e l'orto. Di buona mattina mia madre tirava fuori due ceste piatte, un paio di forbici, e si partiva. Amavo alla follia quelle passeggiate mattutine in mezzo alla vegetazione ancora bagnata di rugiada. Andavamo a scoprire i nuovi fiori e le nuove foglie che la notte ci aveva preparato. Ci capitava di aspettare più di una settimana prima che sbocciasse una rosa o una dalia. Ogni mattina facevamo una lunga sosta davanti al bocciolo per constatare i suoi progressi. Dapprima striminzito, esso si gonfiava a poco a poco, si apriva in cima lasciando intravedere i suoi petali incolori, ancora stretti e attaccati l'uno all'altro. Poi, una bella mattina, il bocciolo cominciava a scoppiare in più punti, a tendersi come il reggipetto della lavandaia spagnola che non riusciva a contenere i suoi grossi seni. "Quando sarà completamente sbocciata, faremo un mazzo e la metteremo al centro, attorno ci metteremo dei garofani d'India, sono del giallo che ci vuole, eppoi rose più chiare, magari quelle del vialetto dei mandorli. Penso che verrà ancora più bella dell'anno scorso." Dopodiché, assorte e assai soddisfatte, coglievamo i fiori che sarebbero serviti a rinfrescare o a sostituire i mazzi che avevamo in casa. Nell'ingresso mia madre faceva a volte composizioni alte due metri, con rami di nespolo e steli di iucca coperti di grossi fiori bianchi disposti a piramide. Nel mio ambiente l'arte dei fiori era una parte importante nell'educazione delle ragazze. Mia madre era bravissima e io amavo i fiori, i loro profumi, le loro forme e i misteri che celavano le loro corolle, in cui da bambina credevo di scoprire i bottoni dei mandarini. Continuavo a sperare che un giorno avrei finalmente trovato quello che l'avrebbe resa felice, ancora più felice e ancora più bella, quello che avrebbe cancellato il malinteso che c'era tra noi, l'impossibilità in cui mi trovavo di piacerle del tutto, senza capirne il perché. Era quando m'insegnava a disporre i fiori che si andava più d'accordo. Mi spiegava come si fa a sistemarli nei vasi. Per prima cosa bisogna scegliere il vaso, a seconda del grado di flessibilità dei gambi che si devono mettere dentro. Mi mostrava perché era impossibile, o perlomeno molto difficile, realizzare certe composizioni, poiché i gambi molto morbidi non possono andare bene insieme a quelli troppo rigidi. Durante la mattinata si faceva sempre una lunga sosta nell'orto che profumava di pomodoro e di sedano. Le verdure come oggetti pregiati! Le melanzane, i meloni, le zucche, i peperoni, i pomodori, i cetrioli, le fave, le zucchine, i fagioli, tutti freschi e gonfi, splendenti di salute, che lanciavano occhiate cupe o infiammate da sotto le foglie robuste. Il prezzemolo, le carote, le rape, i rapanelli, l'insalata, le cipolle, la scalogna, l'erba cipollina, il cerfoglio, tutte quelle masse verdi ben allineate, lisce o dentellate, esalavano profumi di buona cucina, di desco familiare, di pace, di calore. I fiori d'aglio, dall'alto dei loro lunghi steli, mettevano in mostra la delicatezza delle loro sfumature rosa, in contrasto con tutti quei toni rossi, viola, verdi. Poi c'erano gli aranci quattro stagioni, i mandarini, i limoni, i pompelmi, i nespoli, sotto i quali ci si fermava per assaggiare un frutto pieno di succo, che teneva ancora prigioniero un po' del fresco notturno. Quand'era la stagione finivamo il nostro giro davanti all'aiuola

ombrosa delle viole e ne facevamo dei mazzetti rotondi e profumati. Le mani affusolate di mia madre erano esperte nel frugare e scoprire i fiori sotto le larghe foglie coperte di rugiada. VI L'Algeria francese stava agonizzando. Erano i mesi in cui, dicevano gli esperti, la guerra d'Algeria era militarmente vinta dai francesi. I migliori soldati, quelli che erano scampati alla Guerra d'Indocina, organizzavano la grande caccia tra i sassi dei djebel: i ragazzi della riserva, tutta la gioventù di SaintMalo, di Douai, di Roanne e di tante altre città (essi resteranno marcati a fuoco come le bestie di qualche gregge maledetto), con elmetti, stivali, armi automatiche e mezzi blindati, avevano ricevuto l'ordine di far fuori i fellagha magri e fanatici. I figli della Francia cadevano in questa lotta corpo a corpo e vomitavano le loro budella e il loro patriottismo, ma gli altri morivano ancora di più. Infine la battaglia cessò per mancanza di combattenti. I pochi fellagha superstiti si erano rifugiati nelle città dove venivano trattati come eroi dalla loro gente e dove, come in una fiaba, le parole colavano dalle loro labbra sotto forma di diamanti o di rose, nelle casba e nei quartieri popolari. La guerra del tricolore era giunta alla fine. Secondo il Ministero della Guerra a Parigi, non c'era più guerra in Algeria. Non c'era più bisogno di spedire cannoni, granate, napalm. Per la contabilità dell'economia francese, regnava ormai la bonaccia, perché le teste immerse nelle vasche da bagno, gli schiaffi, i pugni in faccia, gli elettrodi, i calci nella pancia e nei coglioni, le sigarette spente sui capezzoli e sui cazzi, erano cose che succedevano laggiù. Bazzecole. Le torture non si potevano contare, e quindi non contavano, non esistevano. La tortura è il frutto della fantasia, non è una cosa seria. Intanto l'Algeria francese stava agonizzando nella vergogna, nella degradazione di tutti i valori, nell'abiezione, nel sangue della guerra civile che colava lungo i marciapiedi e le carreggiate seguendo il tracciato geometrico del selciato della civiltà. Era la fine, ignobile, con le risposte secolari degli arabi, le loro spaventose vendette, a forza di corpi sventrati, feti impiccati, gole squarciate. Credo che la Cosa si sia insediata in me in maniera definitiva il giorno in cui ho capito che stavamo assassinando l'Algeria. Perché era lei la mia vera mamma. La portavo dentro di me come un bambino porta dentro le vene il sangue dei suoi genitori. Che razza di carovana guidavo attraverso Parigi alla volta del vicolo! Che razza di tribù assurda! Mentre l'Algeria dilaniata mostrava alla luce del sole le sue piaghe infette, io facevo rivivere un Paese d'amore e di tenerezza, una terra profumata che odorava di gelsomino e di pesce fritto. Conducevo dal dottore i braccianti, i mezzadri, i domestici che avevano popolato la mia infanzia. Gente grazie alla quale ero una bambina capace di ridere e di correre, di rubare un dolce sul vassoio del vecchio Ahmed, di cantare "Laroulila", di ballare con i derboukas, di buttare le frittelle nell'olio, di servire il tè alla menta. Sia in campagna sia in città ero una bambina solitaria. Mia madre, dopo la messa del mattino, andava direttamente a curare gli ammalati negli ambulatori di Algeri o nelle catapecchie dei contadini. Quando tornava era sera ed era stremata, distrutta. Passava le sue giornate a fare iniezioni e impacchi, a sentire lamentele e ringraziamenti, si prodigava senza limite, per la maggiore gloria del suo Dio, offriva la sua pazienza, la sua attenzione, la sua scienza e il suo amore.

Battezzava di nascosto i moribondi: "Sempre meglio che niente." Quando tornava a casa non le rimaneva altro che la voglia di dormire, un vaghissimo istinto dei suoi doveri e neppure una briciola di pazienza. Io, la privilegiata che viveva sotto il suo tetto, non avevo scuse per le mie debolezze. "Se avessi visto la miseria che io ho visto oggi, cadresti in ginocchio e pregheresti Dio ringraziandolo per tutto quello che ti ha dato." "Chi ha la fortuna di avere tutto quello che hai tu, ha una sola strada da seguire: lodare il Signore, aiutare gli altri e non pensare a se stessa." "Se tu passassi una sola giornata insieme con i poveri che assisto ogni giorno, capiresti quanto sei fortunata a andare in questa bella scuola e saresti sempre la prima della classe." "Se solo sapessi che cosa significa non possedere un paio di scarpe avresti più cura delle tue." (Idem per i vestiti, i cappotti, i maglioni.) "C'è gente che non ha niente da mangiare, finisci quello che hai nel piatto, non sprecare i tuoi fiocchi d'avena, finisci il tuo fegato." La sua generosità e la sua abnegazione avevano raggiunto tali vette che mi era impossibile comunicare con lei. La sua bontà, il sacrificio quotidiano che faceva della sua vita, la ponevano su un piedistallo così alto che mi veniva da piangere. Mi incamminavo allora verso la cucina, le stalle, il giardino o la cantina, e lì riuscivo a vivere. Raggiungevo coloro che mi rendevano bella la vita, che mi amavano e che amavo. Se non fosse stato per loro, so che mi sarei murata in me stessa, tutte le mie finestre sarebbero state chiuse dall'impossibilità in cui mi trovavo di piacere a mia madre, di farmi volere bene da lei, di capire il suo mondo, e dalla certezza che avevo di essere brutta e cattiva. Per fortuna, grazie al divorzio dei miei genitori e al lavoro di mia madre, non avevamo una vera vita familiare. Da piccola, passavo le giornate con la sola compagnia della mia Nany, una spagnola brutta e affettuosa, che riversava su di me tutto l'amore che non poteva dare al "caballero" dei suoi sogni. Mi copriva di baci e di "Madre mia" o "Pobrecita" o "Ahi, che guapa". Aveva tre sorelle anch'esse a servizio da noi, come cameriere e guardarobiera di mia madre e di mia nonna che stava al piano di sopra. Jeannette, la più giovane e la più carina delle sorelle, passava il tempo ad allenarsi per le gare di tango. Ogni giorno si ballava il fandango a colpi di tacchi, battimani, nacchere e voci stridule, olé! Jeannette caricava un vecchio fonografo a manovella nascosto nell'armadio del guardaroba e insieme a sua sorella Elyse che faceva da cavaliere, al ritmo di undue, unduetre ripeteva instancabilmente le stesse figure fatte di avvolgimenti sapienti, piroette pericolose e passi rapidi, per smettere poi di colpo, su una nota, e rimanere nella più assoluta immobilità, un piede piantato all'indietro, la faccia rigida come una maschera voltata verso il cavaliere (che dal canto suo fissava l'infinito) e un braccio proteso verso il soffitto, sorretta da Elyse che ce la metteva tutta. Non me lo ha mai chiesto nessuno, eppure non dicevo niente del fandango a mia madre quando tornava alla sera stanca, bella, triste. Lasciava in anticamera, sul vassoio della posta, il messale e la veletta di pizzo che avrebbe ripresi l'indomani mattina per andare alla prima messa. Nany aveva una vera venerazione per lei. Era già a suo servizio all'epoca - del tutto inconcepibile per me - in cui mia madre viveva con mio padre. Nany sapeva tutto. Non appena tornava mia madre l'atmosfera di casa diventava improvvisamente felpata, silenziosa, un po' drammatica. Io cenavo in dispensa e stavo attenta

a comportarmi come si deve, sia per piacere a mia madre sia per evitare i rimproveri di Nany che per il resto del tempo se ne infischiava delle mie buone maniere. Infatti mia madre assisteva alla mia cena. Poi andavo a letto e aspettavo il bacio della buonanotte. Spesso la sentivo piagnucolare in camera sua. Mi giungevano attraverso la sua porta piccoli rumori di carta stropicciata, di pianti e a volte di lamenti sommessi: "Ah! Dio mio, Dio mio!" Sapevo che stava allineando sul suo letto le reliquie di mia sorella morta: scarpette di lana, boccoli di capelli, vestine di neonata. In quelle occasioni Nany si comportava come fosse stata in chiesa, si faceva il segno della croce e borbottava preghiere con le lacrime agli occhi. Io invece, mi sentivo il cuore duro come una pietra. In quelle sere come del resto quando ingoiavo un nocciolo e pensavo che mi crescesse un albero nella pancia - finivo di solito per vomitare la mia cena e quando mia madre veniva a darmi la buonanotte mi trovava inondata di minestra non digerita e di grumi di pudding. Chiamava Nany in aiuto. "Non le sembra che la bambina dia troppo spesso di stomaco?" Una volta di più bisognava cambiarmi, lavarmi e mentre Nany mi rifaceva il letto io mi addormentavo tra le braccia di mia madre. Ricordo ancora con quale delizia mi lasciavo scivolare nel sonno, stretta contro di lei, immersa nel suo profumo, nel suo calore... Alcuni anni più tardi, ero ormai quasi una giovinetta, arrivò la guerra e noi dovemmo lasciare la città per qualche mese. Un po' per prudenza: "Gli italiani possono bombardare da un giorno all'altro", ma soprattutto per motivi economici; perché l'industria vinicola era in crisi: "Il vino non si vende più", il che non aveva nulla di umiliante poiché tutti gli altri proprietari erano nelle medesime condizioni. Questa ritirata aveva anzi un sapore eroico. "Bisogna sapersi sacrificare per la patria. Quindi vivremo da contadini." Avevamo ridotto il Personale di città, la mia Nany era diventata cameriera tuttofare e le sue sorelle erano sistemate qua e là da parenti e amici. Eravamo quindi andati a stare nella fattoria. Per me era la felicità. Ogni mattina io e i figli di Kader e di Aoued ci ammucchiavamo in una vecchia carrozza guidata da Aoued. Andavamo alla scuola del paese dove si ritrovavano, stipati in un'unica stanza, tutti i figli dei braccianti del rione. Prendevo ottimi voti in quella scuola eppure avevo l'impressione di non fare altro che divertirmi. Il maestro dava colpi di riga sulle dita e di tanto in tanto, quando sua moglie lo chiamava per una ragione o per l'altra, dichiarava che dovevamo riposare perché eravamo in piena crescita. Ci faceva sdraiare sui banchi e sulle panche, con il divieto di pronunciare una parola fino al suo ritorno. Dopo la scuola si ritornava alla fattoria, della quale s'intravedeva presto il tetto tra gli eucalipti, laggiù in fondo alla vallata, in mezzo ai vigneti. Bijou, il nostro cavallo, era vecchissimo e lanciava formidabili scorregge. Subito dopo, alzava la coda scoprendo un sedere che assomigliava a una grossa dalia rosa. Poi lasciava cadere una sfilza di palle profumate e noi scoppiavamo a ridere. Ad Aoued questo non piaceva: primo perché secondo lui non stava bene sottolineare l'evento, secondo perché non voleva che si prendesse in giro il povero Bijou. Ci minacciava sferzando la sua frusta sopra le nostre teste e ci dava dei figli di cagna, dei figli di puttana. Ma siccome il tutto era detto in arabo, era sottinteso che non s'indirizzava a me. Durante i primi anni dell'analisi, mi comportavo sempre allo stesso

modo: sciorinavo un poco della mia paura e, subito, la compensavo con le risate, la felicità, un pizzico di nostalgia. Avevo cominciato a parlare di mia madre, delle difficoltà che avevo incontrato per farmi volere bene da lei nel corso della mia infanzia. Tiravo fuori ricordi un po' tristi, poi di nuovo snocciolavo il solito rosario di attenzioni, di sguardi, di gesti che aveva avuto nei miei confronti, di momenti passati insieme con lei in relativa armonia: la messa, i fiori. Inconsciamente, per proteggere me stessa, per non sentirmi un pezzo di carne sanguinolenta sul banco del macellaio, fuggivo la vera causa. Forse la mia paura, una volta espressa, mi avrebbe annientata? Forse la mia paura, una volta espressa, sarebbe stata giudicata insignificante? Forse la mia paura, una volta espressa, mi avrebbe tolto qualsiasi importanza? O forse la mia paura, una volta espressa, si sarebbe rivelata non tanto come paura quanto come una tara vergognosa? Allora non ero in grado di rispondere a queste domande, non ero nemmeno in grado di pormele. Ero un animale braccato, non capivo più niente degli esseri umani. Mi ci sono voluti almeno quattro anni di analisi per scoprire che ogni volta che cambiavo argomento o che tacevo, non era perché non avevo più nulla da dire, ma perché mi trovavo davanti a un ostacolo che avevo paura di saltare. Non tanto per lo sforzo che richiedeva quanto per quello che si nascondeva dietro. Avevo parlato di mio padre perché, in realtà, non rischiavo nulla a parlarne. Avevo parlato di mia madre, ma superficialmente, quel tanto che bastava a farmi compatire. Non avevo ancora detto niente dell'allucinazione, né fatto il minimo accenno alla vera carognata che divideva me e lei. Ho già detto, a proposito dell'allucinazione, quanto temevo che essa mi facesse tornare in ospedale. Continuavo a credere che sarei stata cacciata via dal vicolo. Ma per quanto riguardava il cadavere tra me e mia madre, non dovevo nessuna spiegazione né al dottore né a me stessa. Non ne parlavo, ecco tutto. Arrivavo, chiudevo gli occhi, e facevo rivivere quisquilie, banalità, non certo prive d'importanza, ma comunque estranee al nocciolo del problema. L'ometto non diceva nulla d'importante. Veniva ad aprirmi la porta: "Buongiorno signora." Mi faceva accomodare, mi sdraiavo sul divano, parlavo. A un certo punto lui m'interrompeva: "Credo che la seduta sia finita." Con la coda dell'occhio l'avevo visto guardare l'orologio due o tre volte prima di parlare, come se fosse l'arbitro di una partita di calcio. Mi alzavo: "Arrivederla signora." Nient'altro. Il viso immobile, gli occhi attenti, nessuna commiserazione, nessuna complicità. Più tardi, gli sarebbe capitato di tirare fuori una parola dall'ammasso dei miei monologhi e di dire: "Questa parola, che cosa le fa venire in mente?" Io mi sarei fermata su quella parola e avrei cominciato a tirar fuori tutti i pensieri, tutte le immagini che in qualche modo vi si sarebbero riferite. Il più delle volte quella parola aveva la chiave per aprire una porta che io non avevo visto. Ciò mi dava fiducia: quest'uomo conosceva il suo mestiere. Ero piena di ammirazione: come faceva a capire al volo l'unica parola veramente importante? Ma nei primi tempi dell'analisi non interveniva mai. A volte uscivo sconvolta dalle sedute, in preda a una crisi di follia: mi aveva interrotta in mezzo a un discorso, quando non avevo detto il quarto di quello che volevo. "Non posso andare ora, lei mi ha interrotto in mezzo a una frase, non ho ancora detto niente." "Buonasera, signora, ci vediamo mercoledì."

Il suo viso diventava asciutto, il suo sguardo severo, gli occhi lisci si fermavano davanti ai miei con l'aria di dire: "è inutile che lei insista." Mi ritrovavo nel vicolo, sola, soffocata dall'angoscia, in balia della Cosa. Pensavo che il dottore era cattivo, che mi spingeva al suicidio, all'omicidio. Mi trascinavo lungo i muri posseduta da una folle eccitazione: "Uccidermi, ucciderlo, uccidere qualcuno. Buttarmi sotto una macchina, sentire la mia carne che schizza sull'asfalto. Tornare da lui e spaccargli il cranio in due, vedere il suo sporco cervello colare su quel ridicolo vestito che porta sempre." Mi mettevo a piangere e quando arrivavo in fondo al vicolo, nella strada, mi sentivo bene. Non avevo nemmeno paura. Molto più tardi avrei imparato che il pensiero non si affaccia spontaneamente alla porta del nascosto. Non basta voler penetrare nell'inconscio perché la mente venga dietro. Il pensiero temporeggia, va avanti poi indietro, esita, sta in agguato ma poi quando viene il momento giusto, si ferma davanti alla porta come un cane da punta, rimane paralizzato. Poi, è il padrone che deve far alzare la selvaggina. Ora che avevo fatto piazza pulita di tutti i festoni che mi ero tanto compiaciuta di far rivivere, mi rendevo conto che evitavo ancora il nocciolo del problema. Mi dava fastidio non riuscire a tuffarmi direttamente tra le onde della Cosa che portavano con sé immondizie, orrori, putrefazioni, relitti repellenti. Intuivo che era proprio quello che dovevo fare per guarire: affrontare la Cosa, afferrarla, e invece quando parlavo col dottore ciò che affiorava alla superficie era tutt'al più patetico, dolciastro, commovente, strappalacrime. Finché un bel giorno, pur continuando a sciorinare ricordi appassiti, imboccai una strada ancora indefinita ma ugualmente importante. Ancora una volta stavo parlando dei miei tentativi per trovare un regalo degno di mia madre. Era sempre durante il riposo pomeridiano che la mia mente s'infiammava su quell'argomento. La bambina venne a raggiungermi nel vicolo. Una volta di più andai a cercare la sua pelle abbronzata, i suoi capelli biondi arruffati, le sue curiosità, la sua voglia di piacere. Si sdraiò con me, dentro di me. Lo studio del dottore è la mia camera da ragazza. Ho una decina di anni. Sul soffitto c'è una piccola lucertola grigia che sta sempre lì durante il giorno. E' l'unica creatura attiva a quest'ora, tutti gli altri stanno riposando. Insegue gli insetti tra le strisce di luce proiettate dal sole attraverso le persiane. Le sue zampine a spatola sembrano viticci. Ha l'aria di dormire, ma non dorme. All'improvviso parte a razzo per acchiappare la mosca prescelta e la mangia con grandi movimenti di gola come fanno i tacchini. Tempo fa le si è staccata la coda durante un combattimento notturno, perché esce sempre di notte. La coda è ricresciuta a poco a poco e ora è quasi normale. Mi piacerebbe avere una coda come hanno i ragazzi. E' sempre durante queste maledette sieste che mi vengono simili pensieri. Quando andiamo a fare il bagno nel bacino di irrigazione, dove l'acqua è così calda da sembrare densa, il figlio di Kader si diverte a trastullarsi il pisellino finché non diventa rigido come un dito. Dopodiché passeggia con la pancia all'infuori, orgogliosamente preceduto dal suo periscopio. Gli altri lo prendono in giro. Io invece lo invidio. Mi piacerebbe proprio avere un coso simile tra le gambe invece di questo frutto liscio che mi ritrovo. Se avessi il pisello andrei in giro nuda e lo infilerei dentro una grossa rosa gialla oppure tra le chiappe rotonde di Henriette la cuoca, quando si china per guardare dentro il forno. Vlam! Al solo pensiero, mi sento un caldo tra le reni! Fa troppo caldo nel letto, le lenzuola e il cuscino sono troppo

morbidi. Mi sfrego contro il guanciale, è più forte di me, tento di prendere sonno ma non ci riesco. L'altro giorno ho visto Aoued che usciva da casa sua con un asciugamano attorno ai fianchi. Era un po' che lo sentivo ridere insieme a sua moglie dietro la porta. Andava verso la vasca perché era l'ora di alzare le chiuse, l'asciugamano era teso in avanti, come fosse tenuto su da un palo da tenda. Ho capito subito che il suo pisello era grosso e ritto. Quando è tornato ha chiuso la porta a chiave e non ho più sentito niente. Da grande voglio sposarmi e giocare nuda con mio marito. Dio mio perdonami, non riesco ad avvicinarmi a te, ho la testa piena di peccati. Non mi piacciono i guanti, mi fanno sudare le mani. Non mi piacciono le mutandine, mi stringono il sedere. Non mi piacciono le scarpe, mi danno fastidio. (Non appena giro l'angolo della cantina, mi tolgo i sandali, li nascondo tra le viti e corro via scalza con i miei amici fino al bosco.) A messa mi annoio. Questo è il peggio di tutto, Dio mio, mi accuso di annoiarmi a messa, e confesso anche di aver spesso guardato un bambino biondo della scuola di San Carlo durante gli esercizi spirituali prima della Cresima. Mi accuso di perdere i miei bottoni, di rompere le mie cerniere lampo, di perdere i miei nastri e i miei fermagli per capelli, di avere le mani sporche. Dio mio mi accuso di non riuscire a leggere i libri della contessa di Ségur, pieni di storie di castellani, di brave bambine e di poveri contadini, di non interessarmi alle fiabe di Andersen e alle storie di fate, di fuochi fatui e di bambini persi nella neve. Preferisco andare nella catapecchia di Youssef dove prendo i pidocchi ma dove c'è la vecchia Daiba che ci fa i dolci e le gallette, e ci racconta delle storie. Vengono tutti i bambini della fattoria. Ci sediamo attorno al caminetto e l'ascoltiamo... La vecchia Daiba (mentre sorveglia la minestra che cuoce a fuoco lento sopra la brace) con la sua voce un po' lagnosa e monotona, come stesse recitando le litanie, ci racconta partenze improvvise su cavalli alati che galoppavano fino ai giardini di Allàh. Alza un attimo il coperchio della pentola di terracotta che ogni volta sprigiona un delizioso profumo di menta e di spezie, poi riprende a parlarci dei castighi inflitti a un povero serpente uscito dalle tombe del vicino cimitero. Attizza il fuoco con un ventaglio rotondo di paglia intrecciata e continua a raccontare avventure di giganti neri che scuotono le montagne; di fonti d'acqua che sorgono in piena siccità e di spiriti imprigionati dentro le bottiglie. Con un gesto lento distribuisce poi a ognuno di noi una porzione di zlabia pieno di miele che va a pescare in una bacinella smaltata ornata di mezzelune gialle e di grossi fiori rossi e neri. Pur sapendo benissimo che mi frizioneranno con l'alcool e mi passeranno i capelli al pettine fitto, il che è per me un vero e proprio supplizio, non rinuncio a andare dalla vecchia Daiba. "Non hai il senso della misura. Saresti disposta a tutto pur di abbuffarti con le porcherie di quella vecchia." Non sono tanto i dolci della vecchia Daiba ad attrarmi, quanto il cavallo bianco di Allàh che galoppa nel cielo con i suoi zoccoli e le sue ali d'oro... M'innervosisce non riuscire a dormire e contare i miei peccati. Inevitabilmente, una forza malvagia mi trascina verso il male. Mi fabbrico un cono, un tubo largo da una parte e stretto dall'altra, che ottengo arrotolando un foglio di carta, o meglio di cartone leggero, attorno a un dito. Lo nascondo sotto i miei vestiti. Nel silenzio della casa addormentata senza far nessun rumore, con i piedi scalzi sulle piastrelle del pavimento, vado in gabinetto e mi ci chiudo dentro. E' una stanza piuttosto grande. E poiché i miei parenti (ad eccezione di mia madre) hanno l'abitudine di leggere in quel luogo,

il gabinetto sembra una piccola biblioteca. Ci sono, ammonticchiate sugli scaffali, vecchie raccolte dell'Illustration e di Marie Claire, vocabolari, il Larousse, il Littré in non so quanti volumi, elenchi del telefono, quotidiani e romanzi gialli. Il cesso consiste in una grande tazza di porcellana bianca, immacolata, incastrata in un largo sedile di legno di quercia, lucida per l'uso e la cera quotidiana. Di pomeriggio il sole entra direttamente nello stanzino attraverso una stretta finestra ricavata nel grosso muro che si affaccia sul cortile. Mi infilo volentieri nella nicchia di quella finestra. Il centro della fattoria è lì, ai miei piedi: attorno al cortile lastricato di grosse pietre lucide e irregolari ci sono gli alloggi dei dipendenti, le stalle e dietro i sei grossi eucalipti dell'entrata protesi in alto nel cielo, poi oltre i tetti di tegole rosa dei silos, posso vedere il profilo morbido della collina coperta di vigneti con sopra una corona di pini marittimi. Quel bosco è un paradiso. Non solo profuma in tutte le stagioni di timo, lentisco e resina, ma a seconda dei mesi dell'anno porta fin nelle nostre camere lunghi sospiri di ginestre, di giacinti selvatici, di margherite e di mortelle. Il suolo, fatto della terra rossa della zona mischiata a sabbia dorata, è morbido sotto i piedi. Il bosco è il nostro regno, vi costruiamo capanne di legno e vi organizziamo grandi partite a nascondino o cavalcate in groppa agli asini o ai muli quando non sono al lavoro nei campi. Al posto della sella stendiamo sulle loro ruvide schiene vari strati di sacchi vuoti. Questo bosco è per me il più bel posto del mondo. A dispetto delle raccomandazioni di mia madre: "Rimani sull'orlo del bosco così ti posso vedere da casa", mi addentro insieme agli altri fino a raggiungere radure e sottoboschi che siamo i soli a conoscere. I maschi giocano a Tarzan, si appendono ai rami più lunghi e si buttano da un albero all'altro cacciando terribili urli, oppure si lasciano cadere dall'alto di un ramo sulla groppa di un asino che in genere la prende piuttosto male e dopo un paio di calci, rifiuta di muoversi di un centimetro. I ragazzi fanno anche la lotta, organizzano battaglie e si rotolano per terra, le gambe e le braccia avvinghiate nella sabbia, cercando di afferrarsi a vicenda i calzoncini già a brandelli. Finiscono regolarmente nudi e quando la lotta finisce nascondono, con risolini imbarazzati e strani sguardi all'indirizzo di noi bambine, il pezzetto di carne rosa e grigio che pende tra le loro gambe. Li invidio. Mi sento capace di fare tutto quello che fanno loro. Ma non lo posso fare, non sono giochi da bambine, e quindi insieme alle altre "piscione" (come ci chiama Kader), vado a raccogliere fiori o a sistemare l'interno delle capanne, nell'attesa che qualche gioco misto si organizzi da sé. Pensando a tutto questo, rannicchiata nella finestra della toilette, mi eccito. Il sole mi picchia addosso e mi fa sudare. Dopo un po' scendo dal mio rifugio, cerco il tubo di cartone nascosto sotto la camicetta e provo a pisciare in piedi, come fanno i ragazzi, dirigendo il getto attraverso il tubo. Non è un'impresa facile. Mentre rivivevo quei momenti in fondo al vicolo, mentre provavo le stesse identiche sensazioni che avevo provato vent'anni prima, mi rendevo conto che i gesti che facevo per adattare il tubo al mio corpo, i miei tentativi per trovare il punto esatto da dove usciva l'orina erano uguali a quelli che facevo per controllare il flusso del sangue: movimenti furtivi, sfioramenti, impercettibili andirivieni, compiuti con aria assente, disinteresse assoluto del mio corpo, la mia mente impegnata in altri pensieri, come se quello che stavo facendo non avesse importanza, mentre in realtà il centro del mio pensiero era lì, sotto la punta delle mie dita.

Ma invece di scoprire il castigo del sangue, sentivo nascere in fondo ai polpacci una sensazione fortissima, un pizzicore al confine tra il dolore e il piacere, che saliva progressivamente lungo le cosce eppoi m'invadeva il ventre. A quel punto non riuscivo più a controllare nulla, e mentre mi pisciavo sulle dita un fiotto di orina calda, il mio corpo si muoveva come una barca sulle onde e le mie reni s'inarcavano violentemente, procurandomi una felicità incredibile, una felicità che mi faceva paura. Non appena finiva il piacere provavo vergogna. Buttavo il tubo rammollito e fradicio nel gabinetto e tiravo la catena per cacciarlo lontano. Uscivo. Mi sentivo colpevole e indegna di mia madre, della casa, della mia famiglia, di Gesù, della Madonna, di tutto. Dovevo far qualcosa per riscattarmi, dovevo trovare qualche tesoro. Promettevo a Gesù di non farlo mai più e poiché non riuscivo mai a mantenere la promessa, mi sentivo ogni volta più colpevole. Aprii gli occhi. Ogni cosa era al suo posto: il dottore al mio capezzale, un po' indietro, la scultura di pietra sulla trave finta (ma che idea mettere quel diavoletto in una stanza dove vengono solo malati di mente! Che sia stato messo lì apposta?), la tappezzeria di seta, il quadro astratto, il soffitto. Non era cambiato niente eppure osservai tutto con uno sguardo diverso, più audace. Per la prima volta mi ero incontrata con me stessa. Fino a quel momento organizzavo sempre le messe in scena del mio passato in modo che gli altri, mia madre soprattutto, avessero la parte principale. Io ero soltanto una esecutrice sottomessa, una brava bambina che si lasciava maneggiare e ubbidiva sempre. Quella storia del pisellino di carta la ricordavo benissimo, non era sepolta tra le cose dimenticate, ma non mi piaceva pensarci. Vent'anni dopo questo ricordo faceva ancora nascere in me una vergogna spaventosa che non cercavo di spiegarmi. Vent'anni dopo, dopo aver fatto l'amore e aver avuto quelle che si chiamano "avventure", mi vergognavo di aver voluto far la pipì in piedi. Non mi vergognavo di essermi masturbata, poiché fino a quel giorno non avevo voluto ammettere che era questo che facevo. La bambina che si masturbava circondata dai vocabolari, col sole che le accarezzava il culetto, non esisteva. Stava nascendo ora sul divano del dottore in fondo al vicolo. Ai tempi del pisellino di carta non conoscevo la parola "ditalino" e non sapevo niente della masturbazione. Quando i maschi se lo trastullavano per farlo rizzare noi dicevamo che "si toccavano". Nelle nostre conversazioni non si accennava mai al fatto che anche le bambine si potessero toccare. Del resto che cosa avremmo potuto toccare? Non avevamo niente da toccare. Più tardi, quando imparai cos'era la masturbazione e come erano fatte le donne, non mi passò mai per la mente di stabilire una relazione tra il pisellino di carta e la masturbazione. Eppure era chiaro, ed era chiara la ragione per cui fino a quel giorno avevo sempre provato un profondo disgusto nei confronti della masturbazione, una specie di nausea che mi faceva sentire pericolosamente a disagio. Ora scoprivo che mi ero preferita anormale e malata piuttosto che normale e sana. Di conseguenza m'accorgevo che in qualche modo ero io la causa della mia malattia, che ne ero in parte responsabile. Perché? Questa prima verità perché era lo strumento con il quale avrei rivangato, scavato, arato il mio campo, fino a mettermi completamente a nudo. Ad ogni modo, con quale piacere retrospettivo ho pensato ai miei bei ditalini di una volta! Con quale emozione ho incontrato la bambina piena di linfa che si masturbava e ne traeva piacere. (Mia

madre non aveva tutti i torti quando diceva che ero una "testona"). Quella bambina mi rassicurava: esistevo dunque, non ero totalmente in balia degli altri, ero capace d'ingannarli, di prenderli in giro, di raggirarli, di costruirmi difese. Che cosa stupenda! Quella era la strada che bisognava ritrovare! Ormai ero certa che esisteva, io ero prigioniera e avevo la chiave per liberarmi, poiché la bambina che si masturbava ero io. Quando mi alzai, dissi al dottore: "Non dovrebbe tenere questa scultura nello studio, è orrenda. Ci sono già abbastanza orrori e paure nella testa delle persone che vengono qua dentro, non è il caso di aggiungerne altre." Per la prima volta mi rivolgevo a lui da persona normale, non da malata. Non rispose niente. Quel giorno scoprii che quando fuggivo nel sole torrido alla ricerca di qualche tesoro immaginario, quel senso di smarrimento, quella follia che mi assalivano, erano già la Cosa. Se il cuore mi batteva tanto forte non era solo perché correvo, se sudavo così tanto non era solo perché faceva caldo, c'erano già la paura e il sudore della Cosa. Quel senso di vergogna e di colpa che mi soffocava era già la Cosa. Essa mordeva già la bambina che correva e si storceva le caviglie nella terra arata dei vigneti. VII Alla seduta successiva parlai della carognata di mia madre. Successe molto tempo fa, ero alla soglia dell'adolescenza. Lei si era rannicchiata nella poltrona di cuoio come una gallina che si prepara a covare le uova. Aveva cercato a lungo la posizione più comoda sui cuscini poi aveva appoggiato la testa dai lineamenti decisi, fin troppo acuti, sul velluto dello schienale. I suoi occhi erano verdi come le onde e la sua fronte chiara come una spiaggia. Il suo corpo grasso e appetitoso non somigliava al viso. Era rivestito da un impeccabile "pigiama" di seta bianca larghissimo in fondo, tanto che la stoffa cadeva in pieghe lungo le sue gambe incrociate. Vedevo le sue caviglie sottili che avevano conservato tutta la loro giovinezza e i suoi piedi snelli, lunghi, ben calzati nei sandali bianchi. Eravamo nel 1943. Era bella, era mia madre. L'amavo con tutte le mie forze. Non era mia abitudine prendere il tè insieme a lei. Di solito andavo a prendermi la merenda in dispensa, al ritorno dalla scuola, e me la mangiavo fuori con gli altri bambini della fattoria. Doveva essere successo qualcosa di eccezionale perché mi trovassi lì, come fossi in visita, con i vestiti da città, in quel salotto che era per me una stanza importante in cui entravo soltanto per dare la buonanotte o salutare gli ospiti. Ero seduta in una poltrona uguale alla sua. Tra di noi c'era un tavolino basso dov'erano sparpagliati in un disordine voluto vari oggetti d'argento: scatoline per il belletto, le pastiglie o i sali, portaceneri, bicchieri pieni di anemoni, che circondavano la base di una grande lampada antica con un paralume di pergamena che dava alla luce il colore del miele, allegro e allo stesso tempo intimo. Erano appena venuti a portarci il tè. Mandava un profumo delizioso. L'odore del tè, mischiato a quello delle "Craven" che fumava mia madre e a quello del pane abbrustolito ancora caldo forma un insieme ben preciso nei miei ricordi al punto che ciascuno di quei profumi, ogni volta che mi capita di sentirlo, richiama immediatamente gli altri e mi fa rivivere una volta di più questa scena: io e lei

davanti al camino che beviamo il tè, tanto tempo fa. Sono passati più di trent'anni. Lei non aveva fretta di parlare. Alternava un lungo tiro di sigaretta e una sorsata di tè. Metteva giù la tazza e con un molle gesto del braccio come fanno i creoli, faceva scorrere la lunga mano, come una cometa, sopra gli oggetti che ricoprivano il tavolino tra me e lei. Ne prendeva uno, lo lisciava con il pollice, piano, come se lo stesse accarezzando, poi lo rimetteva al suo posto. Aveva la stessa aria, la stessa espressione da iniziata che assumeva quando riceveva ospiti particolari, i preti, le monache, le dame di carità, i medici. Quel suo comportamento mi metteva in un certo senso all'altezza degli adulti, mi faceva capire che mi avrebbe parlato da pari a pari, come a una grande, come a una donna. Alcune parole, alcuni accenni al medico di Algeri dal quale eravamo state nel pomeriggio mi fecero intuire che la conversazione sarebbe stata di ordine medico. Ciò non mi dispiaceva affatto, avevo delle curiosità in merito. Da bambina mi divertivo a operare le mie bambole. Le prime volte aprivo i loro corpi di celluloide ma quel vuoto e quella semplice Y nella testa con le due palline degli occhi alle estremità mi avevano delusa. Per non parlare della voce scandalizzata di mia madre quando Nany le aveva fatto vedere il risultato dei miei interventi chirurgici. "Perché lo hai fatto?" "..." Non sapevo perché. "La prossima volta ti toglierò tutti i giocattoli. Ci sono bambini che non hanno niente con cui giocare, è una vergogna rovinare le bambole come fai tu." In seguito feci le mie operazioni con i pastelli che usavo come ferri chirurgici. Spogliavo i miei "figli", dicevo loro parole rassicuranti, mentre invece ero certa che gli avrei fatto male. Per operare dovevo essere sola, completamente sola. Tracciavo grandi linee sul corpo dei miei figli, lunghi sfregi colorati che partivano dal collo, passavano tra le gambe e finivano nella schiena, sopra le natiche. Ne facevo un bel po', di colori diversi. Immaginavo i loro corpi aperti, spalancati, che palpitavano, immolati. Poi con un lapis nero mi accanivo in un punto preciso, scarabocchiavo come una matta, premendo fortissimo sulla matita. Decidevo che l'operazione era andata male e che quindi dovevo uccidere i miei figli. Tutto ciò mi eccitava moltissimo e mi faceva sudare. Passata l'eccitazione, rivestivo le mie bambole e facevo in modo che nessuno si accorgesse di quello che avevo fatto su di loro. Provavo un senso di vergogna, d'imbarazzo. A causa di quei ricordi, la medicina rimaneva per me legata al mistero, a un piacere equivoco ma seducente. Chissà poi che cosa faceva mia madre tutto il giorno con quell'astuccio nero che non lasciava mai e che conteneva siringhe, un piccolo bisturi, pinze e forbici? Sì, indubbiamente la medicina mi attraeva. Ma preferivo la parte dell'operatore a quella dell'operato. Quel pomeriggio invece ero stata io a dovermi sdraiare nuda sul lettino, ero stata io che il dottore aveva visitata da tutte le parti, ed ero stata io l'argomento della conversazione segreta tra mia madre e il medico, mentre io aspettavo in anticamera. Mi sarebbe piaciuto sentire che cosa stavano dicendo ma c'era lì una signora con un bambino malaticcio e non potevo andare a origliare. Dovetti rimanere seduta da brava, con le mani sulle ginocchia, a guardare le sei cuciture dei miei guanti bianchi, immobile. Eppure, dentro di me, la noia e il dispiacere di non sapere di che cosa stessero parlando avevano creato un tale stato di tensione che

temevo, sapendo benissimo che non avrei potuto fermarlo, l'urlo selvaggio che mi sarebbe uscito dalla gola se quella situazione si fosse protratta troppo a lungo. Quando la porta si aprì feci un tale salto nella sedia che il dottore mi chiese: "Ti eri addormentata?" Sorrisi e feci sì con la testa per fargli credere che aveva indovinato. Non avevo detto "Sì", perché non riuscivo a mentire in presenza di mia madre. Uscimmo. Kader ci aspettava giù con la macchina. Si tolse il berretto, tenne la portiera aperta mentre ci sedevamo e tornammo alla fattoria senza dire una parola. Quando arrivammo nel cortile si decise a parlare: "Vieni a prendere il tè con me, ti devo dire qualcosa." Per questo eravamo lì, a bere a piccole sorsate il tè bollente guardando il fuoco. "Ti senti ancora stanca come quest'estate?" "No mamma, solo di tanto in tanto." Da alcuni mesi soffrivo di vertigini, mi sembrava che il mio corpo diventasse debolissimo, leggerissimo, e che cadesse giù, giù, sempre più giù, senza che io potessi fare nulla per trattenerlo. "Il dottore dice che sarai presto una signorina e che è questo che ti agita. Del resto non sei per niente precoce sotto quest'aspetto, dovrebbe già essere accaduto da un pezzo. A parte questo, sei in ottima salute. Niente ai polmoni, assolutamente niente, era quello che mi preoccupava di più." Una signorina! Come facevo a diventare di colpo una signorina? Per me le signorine erano le ragazze dell'ultimo anno di liceo, quelle che si truccavano e si mettevano le calze non appena avevano girato l'angolo della rue Michelet. Davano appuntamento ai ragazzi davanti alla pasticceria "La Princière" e stavano lì a civettare insieme a loro. Come facevo a trasformarmi di colpo in una di loro? Mica facevo l'ultimo anno di liceo. Ero un'ottima studentessa ma non facevo l'ultimo anno, il dottore s'era sicuramente sbagliato. "Sai quello che significa diventare una signorina? Te ne avranno parlato le tue amiche. Avrai certamente delle compagne alle quali sarà già successo. Anzi, penso che tu sia l'unica alla quale non sia ancora successo, sei avanti negli studi non lo sei di certo per il resto." Non capivo nulla di quello che stava dicendo. La sentivo imbarazzata, ero smarrita: che cosa voleva dire? "Saprai almeno che i maschietti non nascono sotto i cavoli e le femminucce dentro le rose." Capivo dal tono della sua voce che voleva prendermi in giro con quest'ultima frase. "A volte Nany dice che sono le cicogne a portare i bambini, ma lo so che non è vero. Me lo dicesti tu stessa, quando la moglie di Barded aspettava un bambino, dicesti che lo portava nella pancia e che erano i genitori a dar vita ai figli. Però non so come facciano." "E' un modo di dire. Avrai pure la tua idea in proposito." A scuola c'era un gruppo di alunne sul quale regnava Huguette Meunier che si rimpinzavano di storie scabrose durante le ore di ricreazione. Non andavo volentieri con loro. Continuavano a parlare anche mentre si tornava in aula. Huguette Meunier diceva che i maschi fanno i figli con il pisellino. Sabine de la Borde sosteneva invece che bastava che l'uomo mettesse un dito tra le natiche di una ragazza perché rimanesse incinta. Altre dicevano che i figli si fanno baciandosi sulla bocca. In realtà, da un anno o due, mi ero isolata, non parlavo molto con le mie compagne, perlomeno di queste cose, per cui non avevo le idee molto chiare in fatto di sesso. Era un argomento spinoso che mi attraeva moltissimo e mi faceva paura, non ne avevo mai parlato con

nessuno. Del resto erano tutte cose vergognose e certamente non potevo parlarne con mia madre. Per quanto riguardava l'essere o il non essere una signorina, era solo questione di età, e io non avevo ancora l'età. "Su, via, non fare la sciocca. Hai detto tu stessa che sapevi che le donne portano i bambini nella pancia prima di metterli al mondo. Hai paura di scandalizzarmi ammettendo che ne sai di più. Ma ti sbagli, lo trovo naturale. Mi rendo perfettamente conto che non puoi rimanere una bambina tutta la vita, che presto sarai una donna. "Sai che le donne, oltre a mettere i figli al mondo, li devono crescere nell'amore del Signore... Dio ci sottomette ad alcune prove che dobbiamo accettare con gioia poiché esse ci rendono degne di avvicinarci a Lui. Sei sul punto di affrontare la prima di queste prove dato che presto ti verranno le tue regole..." "..." "Davvero non sai che cosa vuol dire?" "Le regole?... No mamma, non so che cosa voglia dire." Non lo sapevo davvero. A scuola le compagne non me ne avevano mai parlato, e fuori tutti i miei amici erano maschi. "Significa che un giorno troverai un po' di sangue nelle tue mutandine. Tornerà una volta al mese. Non fa male, è soltanto sporco, non se ne deve accorgere nessuno. Tutto qui. Non ti devi spaventare quando ti succederà. Basta che tu me lo dica e ti spiegherò quello che devi fare per non sporcare niente." "Ma quand'è che mi succederà? Te l'ha detto il dottore?" "Non lo sa di preciso, ma dice che non dovrebbero tardare. Entro sei mesi. Lo sai cosa significa avere le regole?" "Non lo so." "Potrei anche non parlartene. Capirai bene che tutto questo mi mette in imbarazzo quanto te. Ma io credo in certi principi dell'educazione moderna. Troppa ignoranza nuoce. Personalmente, ho sempre rimpianto di non aver saputo abbastanza riguardo a determinate cose. Avrei potuto evitare di commettere gravi errori. Per questo ho deciso di parlarti. Inoltre il dottore mi ha consigliato di farlo. E' d'accordo con me sul fatto che un'educazione all'antica può avere effetti negativi. "Ebbene bambina mia, quando vengono le regole significa che si possono avere figli." Guardavo il tappeto senza vederlo. Ero paralizzata da questa situazione, da queste parole, da questa rivelazione. Com'è possibile, quando hai ancora tutta l'infanzia nel corpo, ritrovarti con un bambino nella pancia? Com'è possibile, quando pensi solo a giocare nel bosco, a correre con i piedi nell'acqua lungo la battigia, laddove le onde fanno una schiuma che sembra un ricamo, trovarsi di colpo promossa nelle file venerabili ed essenziali delle bestie da riproduzione? Non mi sentivo capace di tanto, respingevo con terrore e disgusto questa prima prova del Signore. Non volevo avere bambini per ora. Non osavo alzare gli occhi per la paura che mia madre vi scoprisse il sacrilegio. I ceppi di vite che bruciavano nel caminetto scoppiavano con un rumore secco nel silenzio. Il tè, il fuoco, i mobili ben lucidati, gli spessi tappeti di lana, la sera che scendeva sui vigneti, i cani che abbaiavano, mia madre: questo era la mia vita. Un mondo bello, generoso, esemplare, pieno di calore, in cui avevo il mio posto. E invece rifiutavo le difficoltà che la mia parte comportava. Non accettavo la mia condizione, mi faceva paura. Nella fattoria, quando le mucche e le cavalle dovevano figliare

erano oggetto di cure particolari. I loro piccoli aumentavano il gregge e arricchivano la famiglia. Eppure non ero mai stata autorizzata ad assistere a un parto e quando i cani si montavano si faceva di tutto per allontanarmi. Ma quello che avevo visto bastava a stimolare la mia fantasia. E le immagini che mi venivano in mente mi riempivano di vergogna. Dicevano sempre, riferendosi a una persona maleducata o a un delinquente: "Si è comportato come un animale, come una bestia, come un cane." Ma quelle storie di figli, di sangue, erano storie di cagne. Ed era proprio mia madre a volermi introdurre in quella vita, a parlarne davanti a me. "Alza la testa, non aver paura. Tutte le donne ci devono passare, sai, non muoiono per questo. Devo dire che gli uomini stanno meglio di noi. Non hanno questi fastidi... D'altra parte devono fare la guerra... Mi chiedo cosa sia peggio..." "Ma succede anche a te?" "Certo, te l'ho già detto tutte le donne. Ci si abitua, a parte la sporcizia, non dà tanto fastidio, dura solo due, tre giorni, quattro al massimo." "Ogni mese!" "Normalmente ogni ventotto giorni. "Il fatto di avere le regole è una cosa. Quello di avere bambini è un'altra, anche se è legato alle regole. Il primo dà fastidio nei primi tempi, ma poi ci si abitua ed è molto facile da nascondere. E' un po' come la respirazione, la fame, o qualsiasi altra funzione naturale. Capisci quello che voglio dire?... E' una cosa che non si può evitare, siamo fatte così, dobbiamo rispettare le leggi del Signore, le cui vie sono impenetrabili... "Sai che i figli invece vengono vivendo assieme al proprio marito?" "Sì mamma." "Chi te l'ha detto?" "Huguette Meunier." "E' una tua compagna di scuola?" "Sì mamma." "Cosa fa suo padre?" "Non lo so." "Lo chiederò alla preside. Che cosa ti ha detto?" "Cioè, che si hanno i figli col proprio marito. Che si portano dentro la pancia... e che dura nove mesi." "Ma ne sa di cose quella ragazza! E vorresti farmi credere dopo tutto questo che non ti ha mai parlato delle regole?" "Te lo assicuro mamma, non me ne ha mai parlato. Non parlo molto con lei." "E' abbastanza normale in fondo che non ne abbia detto niente. A noi non piace molto parlare di questa cosa." Questo "noi" che accomunava Huguette Meunier e mia madre era davvero assurdo. "Ti ha detto che certe donne hanno figli senza essere sposate?" "No mamma, non me ne ha parlato." In realtà Huguette Meunier parlava di ragazzi, non di mariti. Poiché somigliava a una volpe e, per raccontare le sue storie, raggruppava le ragazze in un angolo del cortile dove le sorveglianti non le potevano vedere, credevo che inventasse bugie per rendersi interessante o per divertirci. "Può succedere. E' un peccato gravissimo che il Signore non perdona mai. La donna che lo commette e il bambino che ne nasce sono maledetti per tutta la vita. Mi stai a sentire?" "Sì mamma." "Quindi, non appena ti verranno le regole non dovrai più stare sola con un ragazzo e tantomeno con un uomo. A te piace giocare con i maschi, ti dovrai controllare. Finite le cavalcate nel bosco insieme

ai figli di Barded. Hai capito?" "..." "Non dovrai mai lasciare che ti tocchino né farti baciare sulle guance. Dovremo sempre sapere dove sei e con chi. Hai capito?" "..." "Se verrò a sapere che all'uscita della scuola fai come quelle piccole svergognate che vanno con ragazzi che non conosco, ti avverto che non starai a casa un giorno di più. Sarai mandata in collegio nel giro di ventiquattr'ore." "Perché?" "Perché è così... Non ti devo nessuna spiegazione... Non si parla col primo venuto, bisogna farsi rispettare. Punto e basta." Che terremoto! Però ero conscia dell'importanza di quel momento e in fondo fiera di entrare finalmente a far parte del mio ambiente. Perché in realtà capivo benissimo quello che voleva dire. Facevo la stupida di proposito, volevo che continuasse a parlarmi, ma sapevo benissimo che c'era una differenza tra me e i bambini dei contadini, e che in certe occasioni non esisteva nessun ponte, nessuna possibilità di comunicazione tra di noi. Loro non sapevano niente. Lo capivo da come mangiavano, parlavano e perfino da come giocavano. Non avevano alcun ritegno e a volte puzzavano un po'. Era un rito d'iniziazione che stavamo compiendo io e mia madre. Un rito importante, forse il più importante di tutti. Lei mi stava consegnando i pezzi più preziosi di quella divisa invisibile che avrebbe indicato il mio ceto a chiunque avrei incontrato d'ora in avanti. Era necessario plasmarmi in modo tale che in qualsiasi momento, in ogni occasione, si potessero riconoscere le mie origini. Nella morte, nel gioco, nel parto, in guerra, danzando col mio fidanzato, in una balera o al ballo del governatore, avrei dovuto portare sempre questa mia divisa invisibile. Essa mi avrebbe protetta, mi avrebbe aiutata a riconoscere i miei simili e a farmi riconoscere da loro, mi avrebbe fatta rispettare da chi era inferiore. "Scusa mamma, come mai le figlie di Henriette vanno in spiaggia da sole con i ragazzi?" "Henriette è un'ottima cuoca. Non posso che lodarmi di averla a servizio. Però alleva i suoi figli in qualche modo. Non sono affari miei, e nemmeno tuoi. La gente che lavora non ha tempo per seguire l'educazione dei propri figli. Oltretutto non servirebbe a niente. Potrebbe danneggiarli in futuro. "A proposito, non mi piace troppo che tu faccia venire quei ragazzi in casa. So che le tue intenzioni sono buone ma vedi, un giorno avranno voglia di avere tutto quello che hai tu e che loro non avranno mai, e ciò li renderà infelici. Devi imparare ad essere caritatevole, a capire i bisogni degli altri. Tra non molto darò delle festicciole per te e inviterò ragazzi della tua età, ma le figlie di Henriette non potranno venire. Capisci, si sentirebbero fuori posto, sarebbero a disagio. Se continui a farle venire in casa, ci rimarranno male. Impara quindi a tenere le distanze, tesoro, pur restando generosa come sei." Aveva chiamato la cameriera perché portasse via il vassoio del tè. Eravamo di nuovo sole davanti al fuoco. Mi piaceva il fuoco, mi piacevano le fiamme e le scintille che si appiccicavano alla parete del caminetto, brillavano come stelle e poi si spegnevano all'improvviso. Scelsi quel momento per fare la mia domanda cretina. Una domanda di cui conoscevo benissimo la risposta, anche se non me l'aveva mai data nessuno. Ma quello era il giorno delle spiegazioni, dei chiarimenti definitivi. "Mamma, tutto questo vale anche per i musulmani?"

"Naturale, siamo tutti uguali davanti a Dio, dobbiamo sottometterci alle stesse leggi naturali." "Allora inviterai anche dei ragazzi arabi di buona famiglia, i figli dello sceicco Ben Toukouk ad esempio, lo sai che vanno in collegio in Francia?" "Fai sempre domande stupide! Che cosa vuoi che vengano a fare qui? Si annoierebbero. Si sentirebbero fuori posto." Ecco, l'avevo fatta arrabbiare. Non sapevo parlarle, ero sempre maldestra con lei, la scandalizzavo. Spesso si lamentava: "Non so proprio che cosa farò di te." Quand'era in compagnia di estranei e mi vedeva arrivare, li avvertiva: "Non badate a mia figlia, ha l'argento vivo addosso, è una selvaggia." Sentivo che era preoccupata, che tentava con quella bella parola di scusare eventuali gaffe da parte mia. Argento vivo! Mi faceva pensare ai lampi che lanciano i banchi di pesci quando mutano improvvisamente direzione, allo scintillio rapidissimo dei loro ventri argentati. Anche gli stormi di piccioni, lanciano quei lampi d'argento nelle loro virate. Era finita, aspettavo che dicesse di andarmene. E invece no, prese un'altra sigaretta, l'accese e si rannicchiò ancora di più nella poltrona. Soffiava lentamente il fumo. Le sue labbra erano perfette, ben disegnate, con due punte nette in alto e una linea precisa, leggermente curvata in basso. I suoi occhi verdi erano immersi in qualche sogno malinconico. Non sopportavo di vederla triste. Se solo mi avesse lasciata avvicinare a lei, se solo avessi potuto consolarla, baciarla, accarezzarla. Ma lei non voleva. Solo uno sfioramento delle labbra, per il buongiorno e per la buonanotte, niente di più. Mi ricordava i fagiani reali che tenevamo in gabbia nel nostro giardino. Passeggiavano su e giù, ieratici, con passi rigidi e misurati, con il loro berretto dorato, le loro penne dai riflessi verdi, e il loro lungo strascico color d'oro e di bronzo. Avrei voluto toccarli, ma che beccata se ci si avvicinava troppo! Non erano fatti per vivere in cattività, forse per questo erano così aggressivi. Anche mia madre era in cattività? Macché, lei faceva tutto quello che voleva, andava dove le pareva e piaceva, conosceva tutte le regole e non rischiava di perdersi. E se per me queste regole somigliavano a sbarre, in realtà non lo erano, al contrario. Lei mi diceva spesso: "Se non mi dai ascolto non ce la farai mai." Voleva dire che lei ce la faceva. "Vorrei parlarti di tuo padre. Voglio che tu sappia come sei nata. Penso che ti aiuterà a capire meglio questa conversazione e ti eviterà di commettere gli errori che ho commesso io. "Non è del nostro ambiente, nonostante le apparenze e nonostante la sua famiglia. Proviene infatti da una buona famiglia francese, senza pretese ma molto perbene. Ha rotto giovanissimo con i suoi, ha voluto volare con le proprie ali. Sai che è nato in Francia, a La Rochelle. Ma sa Dio dove ha girovagato prima di finire qui... E' meglio che tu lo sappia. E' molto più anziano di me, lo sai... "E' un bell'uomo, ha molto charme come si suol dire. Fin dal suo arrivo ha avuto un enorme successo in città. Ingegnere, francese, brillante, non gli mancava proprio niente e confesso che mi sono sentita lusingata quando mi ha chiesta in matrimonio. Tra l'altro, nonostante la differenza d'età, i tuoi nonni approvarono il matrimonio. Aveva un'ottima posizione, allora lo stabilimento andava a gonfie vele... "Diamo a Cesare quel che è di Cesare: è un uomo coraggioso che si è laureato col sudore della propria fronte, andando alle scuole serali. Ma quegli anni passati in mezzo agli operai gli hanno fatto dimenticare le buone abitudini imparate a casa e gliene hanno insegnato di cattive. In realtà è un avventuriero, purtroppo me ne

sono accorta troppo tardi... Sapessi com'ero ingenua!... Dopotutto è tuo padre, non voglio parlare male di lui davanti a te... ma se ti dico queste cose è solo per aiutarti, voglio che ti metta bene in testa che abbandonando la propria classe si va alla rovina. Non ci si può sposare con il primo venuto." Baffi neri sopra i denti bianchi, una fronte alta, mani morbide e curate che mi afferrano, occhi neri che ridono sempre: mio padre. Portava il bastone, le ghette e un cappello che si toglieva spesso, con un gesto largo, per salutare le signore per strada. Ogni volta che ci si vedeva era felice di stare con me. Troppo felice. Mi guardava ridendo, mi stringeva a sé, scrutava i miei gesti, le mie parole. Studiava attentamente i lineamenti del mio viso: "Il naso, gli occhi, le mani... uguali ai miei! Mi assomigli, lupetto mio." Al che rideva ancora più forte. Quando ero con lui non esisteva più niente all'infuori di me. Mi metteva in imbarazzo. Temevo molto la domenica pomeriggio che dovevo passare insieme a lui una volta al mese. Per me le colazioni nel corso della settimana erano più che sufficienti. Ma il giorno in cui osai confessare a mia madre che non mi piacevano quei pomeriggi domenicali, lei mi disse: "Il giudice ha deciso così. Se non ci vai non mi verserà più gli alimenti, che sono già una sciocchezza." Difatti, prima di andarmene, ero incaricata di reclamare "la busta della mamma". Era Nany che svolgeva il cambio della guardia. Prima di lasciarmi davanti alla porta di mio padre, mi ripeteva ancora una volta le raccomandazioni materne: "Non usare i suoi fazzoletti. Toccalo il meno che puoi. La sua malattia ha ucciso tua sorella. E non dimenticare di chiedergli la busta." In quelle domeniche mi portava invariabilmente al suo tennisclub dove cominciava con il fare una partita. ("Tuo padre è un'ottima racchetta.") Dopodiché andava nel clubhouse dove giocava a bridge insieme ad altri sportivi vestiti con camicie Lacoste, pantaloni di flanella bianca e golf di shetland; c'erano anche delle donne che trovavo troppo spigliate: gli mettevano la mano sulla spalla, lo chiamavano per nome e si chinavano per sussurrargli nell'orecchio cose che lo facevano ridere. Odiavo quel posto. Non solo mi ci annoiavo terribilmente, ma mi vergognavo più che in qualsiasi altra parte di essere figlia di divorziati. Con mia madre il divorzio era una disgrazia, una fatalità, e aveva qualcosa di eroico. Con mio padre invece, con il suo buonumore, le sue abitudini da scapolo, il suo gusto pronunciato per le compagnie femminili, diventava una cosa scandalosa. Al club non parlavo con nessuno e andavo a nascondermi tra i cespugli dietro gli spogliatoi delle donne. Non mi muovevo nemmeno quando veniva buio. Se pioveva andavo a ripararmi sotto la veranda del clubhouse. Mio padre non s'intendeva di bambini e non mi cercava mai. Pensava che stessi giocando nel parco e non si meravigliava affatto di trovarmi vicino alla macchina al momento della partenza. Ci sedevamo in automobile e lui dichiarava invariabilmente: "Abbiamo passato una bella giornata, vero lupetto?" Arrivavamo sotto casa di mia madre e io dicevo (mi ero preparata il discorso durante tutto il tragitto): "La mamma vorrebbe la sua busta." Lui faceva finta di essersene completamente dimenticato - per fortuna c'ero io a ricordarglielo - e si metteva a frugare in tutte le tasche mentre invece la busta era sempre allo stesso posto. Me la porgeva ridendo: "Costano cari i bimbi!" Non mi piaceva che lo dicesse perché sapevo che l'assegno che dava a mia madre, che non era stato aumentato di un centesimo dal loro divorzio, e cioè dalla mia nascita, non sarebbe bastato a comprarmi un paio di scarpe.

Adesso ero grande, era scoppiata la guerra, la mia famiglia aveva problemi di soldi e la questione degli alimenti tornava sempre sul tappeto. "Cosa credi, che con quello che mi passa tuo padre possa comprarti questo o quello?" Odiavo tanto sentire quella frase che non osavo mai chiedere nulla. Per tutto il tempo della guerra portai scarpe più piccole di due o tre numeri, tanto che i miei piedi sono rimasti deformati. Non si trovava niente, i vestiti in particolar modo avevano raggiunto prezzi esorbitanti. Mia madre, esasperata da quanto crescevo, constatava a ogni cambiamento di stagione, a ogni ritorno dalle vacanze, che non entravo più nei vestiti dell'anno precedente. Alzava la cornetta del telefono e davanti a me chiamava mio padre. Mi diceva con veemenza: "Voglio che tu stia a sentire. Ho bisogno di testimoni per chiedere al giudice un aumento degli alimenti. Qualcuno gli deve pur dire quale calvario è la mia vita. Saprai bene quali sacrifici faccio, da sola." Mi teneva vicino al telefono, faceva il numero e subito sentivo la voce di mio padre deformata dall'apparecchio. Oggi so per certo che mi faceva star vicina apposta perché ascoltassi la loro conversazione, perché ogni volta che facevo un tentativo per allontanarmi, mi rimetteva al mio posto con un gesto brusco. "Senti un po', tua figlia è ancora cresciuta. Non è certo con quello che mi dai che posso vestirla. Ha bisogno di un cappotto, una gonna, due golf..." Discutevano a lungo, aspramente. Tutto il rancore veniva a galla. Lei tornava sempre alla questione del mio mantenimento. Lui ribatteva che non chiedeva di meglio che prendermi a casa sua per sempre. Lei rispondeva che ci mancava solo quello, che la sua casa non era un posto per una bambina della mia età. Lui diceva che era stata lei a chiedere il divorzio e a costringerlo a fare una vita da scapolo. Lei scoppiava in lacrime dicendo che allora non sapeva che lui era malato, perché se lo avesse saputo non lo avrebbe mai sposato. Lui s'indignava e diceva che all'epoca del matrimonio era perfettamente guarito, che si trattava di una semplice ferita di guerra, che non era colpa sua se la malattia era tornata senza che lui se ne accorgesse. Lei piangeva dicendo che sua figlia era morta. Lui abbassava la voce e diceva che l'amava e proprio perché l'amava non aveva osato dirle che era malato. Era pentito, aveva perso tutto, la figlia maggiore, la moglie, me, tutto. Era spaventoso! Quelle telefonate erano una tortura. Mia madre riattaccava fra i singhiozzi e andava a rinchiudersi in camera sua dove la sentivo piangere per ore e ore. Fu in quelle occasioni, durante l'adolescenza, che cominciai a pensare al suicidio. Parlava a tratti. Il resto del tempo sembrava che il fuoco la stesse osservando malinconicamente. "Insomma, per una serie di motivi la vita con tuo padre era diventata intollerabile. Dopo la morte di tua sorella, tuo padre mi faceva orrore. Ero giovanissima, appena vent'anni, non avevo mai visto un cadavere. Quando ho visto lì la mia bambina, la mia bella bambina di cui andavo tanto fiera, fu terribile. Oltretutto eravamo in Francia, a Luchon, in una camera d'albergo. Mi ci aveva mandata il medico di tuo padre per curare la bambina. In realtà mi aveva mandata in esilio per evitare che mia figlia morisse ad Algeri. Quando sono andata via erano in due, tuo padre e il medico, a sapere che era condannata. Il dottore non mi aveva detto che la sua malattia era di origine tubercolare. Non mi aveva detto che tuo padre era tisico. Non

lo sapevo. Tuo padre non me l'ha mai detto. Se l'avessi saputo, avrei potuto fare qualcosa, proteggerla. Sarebbe ancora viva. E' stato lui a ucciderla. Mi ha sposata per entrare nel nostro ambiente. Era ricco, era ingegnere, era bello. Con una moglie giovane (sapessi quant'ero carina!) e di buona famiglia, non gli mancava più niente. "Ho perso la testa quando ho visto che la mia bambina era morta, in quell'albergo sconosciuto, in quel Paese orribile. Senza la famiglia, senza una persona amica, senza il sole. Sono impazzita. Aveva fatto bene ad allontanarmi perché se l'avessi avuto a portata di mano, l'avrei ucciso." Fissava il fuoco con una tale intensità, una tale ferocia che si sarebbero potute tracciare due linee rette che andavano direttamente dalle sue pupille alle fiamme. Due sottili spade omicide per trafiggere mio padre. Mi batteva il cuore, la testa mi martellava, ero terrorizzata. Il mio amore per lei era minacciato perché non era all'altezza del suo dolore. Che cosa potevo fare? Come potevo toglierle quel peso? Come potevo cambiare quel terribile sguardo? Andai vicino alla sua poltrona, mi chinai verso di lei. "Mamma, non voglio che tu ti faccia del male." Il suo sguardo non cambiò, nemmeno quando disse, piano: "Ah!, non puoi sapere, era una bambina straordinaria." Dopo, era rimasta per molto tempo immobile, affascinata dai propri ricordi: la vita della sua bambina, la morte della sua bambina, il cimitero. Aveva pianto. Alcune lacrime erano scivolate sulle sue guance, furtivamente: traboccavano dal lago di dolore che la riempiva, nel quale si riversavano di continuo i suoi pianti interiori. Ora sul suo viso c'erano due sottili strisce vellutate, sembrava che due lumache si fossero fatte strada attraverso il velo di cipria profumata. Ormai era notte e le luci del salotto illuminavano i rami più vicini degli alberi del pepe che ornavano la facciata e le cui foglie sembravano anche loro piccolissime lacrime verdi. Eravamo rimaste sedute, immobili, finché il fuoco non aveva rotto il nostro silenzio con abbaglianti crepitii. Lei si era alzata per attizzarlo, e aveva dato vita a nuovi fasci di scintille, ammucchiando la brace rossa prima di aggiungere un altro ceppo. "Sai che il divorzio è vietato dalla Chiesa, salvo nei casi di forza maggiore. Sai che per nulla al mondo dobbiamo allontanarci dal Signore che è morto sulla croce per salvarci. Sai che Egli ci sta sempre vicino anche se non Lo vediamo. Con l'aiuto degli angeli custodi Egli fa di tutto per proteggerci... C'è voluto molto coraggio per chiedere il divorzio. Sono andata dall'Arcivescovo di Algeri e ho preso la mia decisione solo quando mi ha detto che a condizione di non risposarmi mai potevo continuare a ricevere i sacramenti. Si può affrontare l'opinione pubblica con l'aiuto di Dio e la certezza del Suo amore! "Avrei dovuto lasciare tuo padre dopo la morte della mia bambina ma non ne ho avuto il coraggio... Era un tale scandalo! Non osavo farlo, ero troppo giovane. "Tuo fratello è nato due anni più tardi. Di nuovo ho avuto paura per il mio bambino. Temevo di vedere morire anche lui. Continuo a essere in pensiero per la sua salute, è così magro. "Poi ci sono stati dei guai allo stabilimento. Quando mi sono sposata mio padre aveva investito dei capitali nonché tutta la mia dote nella fabbrica di tuo padre che allora andava benissimo. Sono successe cose complicate che non potresti capire. I litigi erano all'ordine del giorno. Io facevo da mediatrice tra loro due. Ognuno parlava dell'altro in tono astioso. Non ce la facevo più: mio padre

da una parte, mio marito dall'altra... Tua nonna s'è messa nel mezzo... Sai com'è fatta, ha fatto scintille. Io soffrivo molto di tutto questo. Poi tuo padre ha avuto una ricaduta, è andato in Svizzera, è rimasto in sanatorio per due anni. Quand'è tornato è stato ancora peggio, l'impresa era andata a rotoli durante la sua assenza. L'ho supplicato di rimborsare mio padre, era il minimo che potesse fare... Nella fabbrica c'erano venticinque seghe meccaniche e tuo padre diceva che io ero la ventiseiesima... riusciva ancora a scherzare! Eppure non c'era ragione. Avevamo perso un bambino, lui era tisico fino al midollo, la fabbrica non valeva un centesimo... Dopotutto, c'era l'intera mia dote in quella baracca, avevo pur il diritto di dire la mia. Un giorno mi verrà una piccola parte della proprietà, il resto andrà ai tuoi zii; dovevo pur assicurare il mio avvenire e quello di tuo fratello. Anche il tuo ovviamente, ma non eri ancora nata. "Il nostro capitale non è enorme ma è antico. Il primo antenato venuto in questo Paese era un poeta. Qui ha perso più soldi di quanto ne abbia guadagnati. Dobbiamo salvaguardare quello che ci resta, per continuare a far del bene, ad aiutare i nostri contadini." Mia madre parlava dei contadini con lo stesso rispetto e lo stesso timore con i quali parlava dei santi. Capivo che sia gli uni sia gli altri erano necessari a una buona pratica della sua religione. Beneficando i primi e pregando i secondi si finiva per andare in Paradiso. Alcuni contadini vivevano alla fattoria insieme alle loro famiglie. Avevano alloggi, con acqua corrente e luce elettrica, che davano sul cortile centrale. La maggior parte di questa gente nasceva e moriva alla fattoria, lasciando il posto ai propri figli. Giocavo con i figli di Barded che a sua volta aveva giocato con mia madre e il cui padre aveva giocato con mia nonna, il nonno con mio bisnonno, e così via per più di cent'anni. Ero più aggiornata sulle nascite, i decessi e i matrimoni delle loro famiglie che su quelli della mia, poiché parte dei miei parenti stava in Francia, lontano, nel freddo, nel vago. Quei contadini dipendevano interamente da noi. Con loro dividevamo tutto. Fuorché il sangue, i soldi, la terra. Questa terra. I primi coloni avevano lavorato sodo per renderla coltivabile. Avevano prosciugato paludi piene di vipere e di zanzare che portano la malaria. Avevano drenato l'acqua salata che impregnava la pianura della costa. Avevano desalinizzato questa pianura per renderla fertile. Si erano ammazzati di lavoro sotto il sole. Erano morti di febbri e di fatica, come muoiono i pionieri delle leggende, nella casa che s'erano costruita con le loro mani, nel prezioso letto che si erano portati dal vecchio Paese, con un crocifisso sul petto, circondati dai figli e dai servi. Ai primi lasciavano questa terra rossa e la voglia di lavorarci ancora (diventava sempre più bella con i filari delle viti, gli aranceti, i giardini), ai secondi la certezza di una vita sicura (non avrebbero mai patito la fame, non sarebbero mai rimasti nudi, in vecchiaia sarebbero stati venerati come si venerano gli anziani, e in caso di malattia sarebbero stati curati) e anche qualcosa di più, purché si mostrassero servizievoli e fedeli. Piangevano tutti, i domestici forse più dei figli, perché era duro vedere dividere questa terra strappata alla sterilità. Succedeva sempre allo stesso modo, di generazione in generazione. Quando mia nonna arrivava dalla città per assistere alla vendemmia, alla fattoria succedeva un finimondo. Kader era al volante della limousine, con camiciotto e berretto da autista, e faceva suonare il clacson lungo il viale di ulivi che portava dalla strada fino a casa, sollevando tutta la polvere che poteva. Avvolto da una nube rossastra faceva un ingresso trionfale nel cortile lavato con secchi d'acqua, spazzato, lucidato, riempito di fiori. I contadini, con le mogli e i

figli che aspettavano da molto, eccitati, facevano da scorta all'automobile. Mia nonna scendeva dalla macchina e tutti si precipitavano per toccarla, baciare le sue mani e i suoi vestiti. Lei era la chibania, la Ma', anche per i più vecchi di lei. Rideva, chiedeva loro notizie, a sua volta dava notizie di ognuno dei suoi figli. Si guardava intorno, vedeva che tutto era pulito, solido, rassicurante, eterno. Era nata qui, esattamente come tutti quelli che la circondavano, e che conosceva da sempre. La vendemmia era l'avvenimento attorno al quale ruotava l'anno intero. Gli uomini avevano lavorato sodo per assicurare un buon raccolto. In città osservavamo ogni giorno dalla finestra la pioggia, la grandine, il vento e il sole. Perché dietro a quei fenomeni naturali c'erano le immense distese di filari che soffrivano o prosperavano. Eppoi c'era mio zio che dirigeva i contadini e guidava i loro sforzi perché le coltivazioni fossero ben arate, ben potate, ben ramate. Quando l'uva era quasi matura, facevano circolare la voce nelle campagne circostanti che si assumevano braccianti per la vendemmia. Parecchie centinaia di uomini avrebbero avuto da lavorare per una decina di giorni. I vendemmiatori arrivavano a piccoli gruppi. Molti avevano camminato per giornate intere per arrivare fin qui. Al mattino, quando si apriva la grande porta, li trovavamo seduti sotto gli eucalipti. Ritrovavano amici e parenti. Erano sempre le stesse famiglie a fornirci gli stagionali. Per tutta la durata della vendemmia c'era viavai in cortile fin dalle quattro del mattino. Facevano uscire i cavalli e i muli che trainavano i carri. La cantina splendeva come una cattedrale nella notte. I grandi tini, i tubi e i rubinetti di ottone brillavano. Le squadre che andavano nei vigneti più lontani si pigiavano nelle carrette, sparivano nel buio. Sarebbero arrivati che era già giorno, poiché l'alba col suo sole rosso arrivava presto. Illuminava le facce sotto i cappelli di paglia e i tarbouch e precedeva di poco il giorno che nasceva con le sue mosche e le sue cicale. Allora si potevano vedere gli uomini in tutte le valli e tutte le colline, piegati in due, che sudavano per alleggerire le viti le cui mammelle gonfie toccavano terra. Ogni mattina, verso le dieci, mia nonna si sedeva sotto un ulivo vicino alla cantina. Nonostante il grande cappello di paglia, apriva un ombrellone per proteggersi dal sole poiché aveva una carnagione da rossa, come tutte le donne della nostra famiglia. Indossava abiti leggeri di tela bianca o di mussola lilla, che le svolazzavano attorno alle spalle e alle braccia nude. Portavano un tavolo e una bilancia davanti alla sua poltrona di vimini. La nonna era pronta a ricevere, con una tazza di tè alla menta, i piccoli proprietari arabi dei dintorni che non possedevano abbastanza viti per avere una cantina e fare il proprio vino. Perciò vendevano l'uva a mia nonna. Alcuni avevano la sua età. Si facevano belli per venire da lei, mettevano il seroual bianco, il tarbouch e la camicia bianca, con un gilè giallo o lilla o nero, e l'ampia gandura di lana grezza fresca di bucato. Portavano alla vita, in un piccolo astuccio di cuoio rosso, il mouss, quel coltellino che usavano sia per tagliarsi il pane sia per i regolamenti di conti. Portavano alcune ceste di grappoli, a volte un carro intero. Con la punta delle dita toccavano la mano che mia nonna porgeva loro poi si baciavano l'indice. Lei faceva lo stesso. Dopo si davano piccole pacche sulla schiena e sulle spalle, ridendo. Si conoscevano bene. Da bambina mia nonna scambiava i suoi anelli e i suoi braccialetti con i dolci e il pane di segale che essi le portavano avvolti in grandi fazzoletti a quadri. Avevano conservato l'abitudine di scambiarsi i loro tesori. Oggi era l'uva, e

cioè un anno di lavoro, in cambio di alcune banconote e pochi spiccioli. Controllavano attentamente il peso poi si sedevano per terra, con le gambe incrociate, accanto a lei. Si arrotolavano una sigaretta, parlavano poco. Guardavano con occhi esperti l'andirivieni dal cortile alla cantina e il raccolto degli altri venditori. A questo modo erano al corrente di quello che succedeva in tutta la zona, per centinaia e centinaia di chilometri quadrati. La fattoria era il centro del mondo. Le giornate scorrevano torride, stremanti per gli uomini. Il paese intero era in preda alla febbre del guadagno: la vendemmia significava milioni per alcuni, un po' di quattrini per gli altri. Gli alti tini si riempivano a uno a uno, i primi cominciavano già a fermentare: una schiuma densa e rosata si formava alla superficie. Presto avremmo bevuto il vino nuovo. Un vino spumeggiante, ad alta gradazione, che serviva a tagliare i vini francesi. I contadini non lo bevevano, la loro religione lo vietava, ma sapevano che dalla qualità del vino dipendeva la loro vita e quella delle loro famiglie. Gli addetti alla cantina avevano la faccia grave e assorta durante il lavoro. Dovevano essere di una pulizia ineccepibile e benché fuori regnassero polvere, mosche, sterco di cavalli, mosto e sudore, in cantina c'era la freschezza e la pulizia di un laboratorio. Passavano continuamente con il getto d'acqua. Le corsie tra le vasche erano costantemente raschiate con la spazzola, le grandi ruote di ottone che chiudevano le porte dei tini luccicavano nella penombra. Le macchine che portavano via la vinaccia, che la scaricavano nella follatrice che poi la stritolava, facevano un chiasso d'inferno. Poi, una bella mattina, era finito tutto. Niente più rumori, andirivieni. Soltanto movimenti furtivi, sussurri, sorde palpitazioni, fin dall'alba. L'ambiente fremeva come le ali di una libellula. Si stava preparando in sordina la grande festa della vendemmia. Cominciava col couscous e col mechoui. Le buche erano già scavate e la legna pronta per fare la brace. Gli agnelli venivano scuoiati, infilati negli spiedi, e appoggiati contro il muro dell'ingresso in attesa di essere arrostiti; ce n'era in quantità. Le donne cicalavano attorno ai pentoloni del couscous che cuocevano in cortile. Erano eccitate. Non avrebbero dovuto farsi vedere dagli uomini perché erano senza haik, senza hadjar, eppure facevano di tutto per attrarre la loro attenzione. Le più giovani andavano a spiare i ragazzi attraverso le canne del giardino o le fessure del grande portone e si facevano redarguire dalle grasse parenti, custodi della loro verginità. In quei giorni si parlava molto della generosità della mia famiglia. Si sapeva in tutta la zona che da noi la festa dell'uva era particolarmente fastosa. Io mi sentivo leggera, stavo con le donne e rosicchiavo uvetta e mandorle arrostite. Dopo il banchetto si faceva una lunga siesta all'ombra degli eucalipti, per digerire. Poi appena calava il sole, cominciava la festa organizzata dai contadini, con canti, balli e grandi fuochi. Tutti i miei erano in salotto e lanciavano attraverso le finestre sacchetti di tabacco, dentifrici, saponette al patchouli, piccoli specchi di celluloide, pettini, spazzolini da denti, bigiotteria da quattro soldi. Un lusso sfrenato! "Alla fine ho chiesto il divorzio. Tuo fratello aveva quattro anni. E' stato un vero dramma. Dopo che mi avevano spinta a farlo, i miei tremavano all'idea che lasciassi mio marito. E' una cosa che non usa nella nostra famiglia. Ma io non ce la facevo più. Ero ossessionata all'idea che tuo fratello si ammalasse e che ci ritrovassimo senza una lira. Ho tenuto duro. Sono andata via dalla casa di tuo padre. "Erano già in corso le pratiche del divorzio quando mi sono accorta

che ero incinta." Per la verità, le cose non sono proprio andate così. Non eravamo nella fattoria, in salotto, davanti al caminetto. Tutto il suo monologo, le spiegazioni, le rivelazioni e le istruzioni che mi dava sulla condizione femminile, la famiglia, la morale, il denaro, me lo sciorinò per strada. Una lunga strada in discesa della quale, guarda caso, ho dimenticato il nome. Andava dalla Posta Centrale fino all'Hôtel Aletti. Da un lato le case e dall'altro un muretto che all'inizio della strada sovrastava di molto la Rue d'Ornano, e alla fine scorreva allo stesso livello. Probabilmente preferiva dirmi quello che aveva da dirmi, che (secondo lei) dovevo sapere, lontano dai luoghi in cui vivevamo. Non c'era Kader ad aspettarci, con il suo viso familiare, il suo naso sottile e le sue narici distaccate che muoveva per farmi ridere, con la sua divisa bianca col colletto e i risvolti blu, il suo berretto che mi metteva in testa quando eravamo soli con Nany e mi faceva sedere sulle sue ginocchia per farmi guidare. E non c'era nemmeno l'automobile, con gli strapuntini che mi divertivo tanto a tirare su e giù, le nicchie di mogano in cui trovavo flaconi col tappo d'argento, perennemente vuoti. C'era la guerra, non c'era più benzina. Eravamo per strada; una strada centrale piena di gente, di rumori. Ma camminavo a testa bassa mentre lei parlava, e vedevo soltanto il marciapiede coperto di immondizie: polvere, sputi, vecchie cicche, piscia e cacca di cani. Lo stesso marciapiede sul quale, più tardi, doveva scorrere il sangue dell'odio. Lo stesso marciapiede sul quale, vent'anni dopo, avrei avuto paura di cadere, minacciata a morte dalla Cosa. Ogni volta che questa scena mi tornava in mente, cancellavo la strada. Inventavo uno sfondo rassicurante per poter sopportare il ricordo di quest'unico colloquio con mia madre. Rimuginavo spesso il suo discorso e, nel corso degli anni, mi ero elaborata uno scenario in cui disponevo di punti di riferimento e avevo possibilità di evasione. Ricordavo perfettamente ogni sua parola, ogni sfumatura della sua voce, ogni mutamento di espressione sul suo viso, intravisto quando dopo un lungo silenzio, alzavo la testa per vedere a che punto fosse. Ma per nulla al mondo volevo ricordare che tutto questo era successo per strada. Altrimenti mi diventava intollerabile. Per strada vedevo troppe cose, udivo troppe cose, sentivo troppe cose. Prima della guerra vedevo la strada soltanto attraverso i finestrini della nostra automobile. Poi, di punto in bianco, m'avevano mandata a scuola da sola, facevo la prima ginnasio. Troppe novità in una volta. Quale libertà sconosciuta! Tutta quella gente che mi passava accanto, m'incrociava, mi sfiorava, mi dava spintoni... Per strada passavo di stupore in stupore, di emozione in emozione, di eccitazione in eccitazione. La strada mediterranea! I ragazzi che fischiavano alle ragazze, le ragazze che sculettavano quando passavano davanti a un ragazzo; avevano la permanente, profumi intensi, visi truccati, natiche ondeggianti. I mendicanti gemevano le loro richieste grattandosi la scabbia: "Ya Ma! Ya ratra moulana! Ya, ana meskine besef! Ya chaba, Ya zina, atténi sourdi!" Esibivano monconi, scoprivano ulcere, carne marcia, croste, occhi ciechi e cisposi, varici: "Ya chaba, Ya zina, atténi sourdi." Le donne esibivano i loro bambini divorati dalle mosche e cullavano quei corpicini deformi con la solita litania: "Ya

chaba, Ya zina, atténi sourdi". Dai loro stracci tiravano fuori un altro straccio, un seno striato di vene azzurre e lo mettevano in bocca alla creatura che lo succhiava con avidità. Le pose sexy dei manichini nelle vetrine dei grandi magazzini. Di tanto in tanto un uomo lanciava un grosso sputo che si spiaccicava sul marciapiede. Dalle terrazze dei caffè giungeva un buon odore di caffè mattutino. Gli innamorati si baciavano, sotto i portoni, incastrati l'uno nell'altro, soli al mondo. I venditori ambulanti di fiori di campo, di fichi d'India, i padroni di scimmie ammaestrate: "Salta, balla, allalà!" Gli zingari che rimpagliavano le sedie. Poi, di tanto in tanto, il mio riflesso negli specchi delle vetrine: schiena dritta, sedere alto, due bottoncini al posto del seno, capelli biondi e ricci, lunghe braccia e lunghe gambe da bambina cresciuta. Il traffico, i clacson, i campanelli dei tram, i manovratori che si accapigliavano: "Figlio di mignotta, brutto stronzo." "Vaffanculo." La strada da attraversare in mezzo a questa confusione. Dall'altra parte, sul marciapiede di fronte, ricominciava la stessa storia. La possibilità di prendere la prima strada a destra, o a sinistra, di cambiare itinerario, perché tutto diventasse diverso. Badavo a tutto fuorché a dove mettevo i piedi e andavo regolarmente a sbattere contro le piante di ficus in mezzo alla rue Michelet. Arrivavo a scuola ubriaca, intontita, traballante, il contrasto era troppo violento. I valori che m'avevano inculcato non avevano nulla a che fare con quello che mi stava attorno. La carità, il pudore, l'igiene, il contegno. Capivo che esistevano due vite: la nostra e quella della gente di strada. Nella nostra vita io non avevo molto successo, la strada invece mi attraeva, là tutto mi sembrava più facile. Quanto mi vergognavo! Avevo paura perché volevo piacere a mia madre, riuscire a vivere come voleva lei, e contemporaneamente sentivo dentro di me una forza irresistibile che mi spingeva fuori dai binari che mi erano stati assegnati. Si era fermata e con le mani inguantate appoggiate sul muretto di granito, guardava lontano, laggiù oltre quella strada che apriva una trincea retta in mezzo alla città, ancora più lontano, oltre il porto con le sue gru e la sua attività chiassosa, oltre il golfo bianco sotto il sole, liscio come uno specchio, oltre le colline dell'orizzonte, guardava laddove i ricordi sono conservati nel ghiaccio del passato. Se solo avessi saputo quanto male stava per farmi, se invece di una vaga premonizione avessi potuto immaginare quale profonda ferita stava per infliggermi, certamente avrei cacciato un urlo. Ben piantata sulle mie gambe, sarei andata a cercare dentro di me il gemito essenziale che già sentivo, l'avrei spinto su fino alla gola, fino alla bocca, e l'avrei fatto uscire, dapprima sordo come le trombe da nebbia, poi stridulo come le sirene, e infine enorme come un uragano. Avrei lanciato un urlo mortale e non avrei sentito le parole che stava per far cadere su di me come tante lame micidiali. Là, in quella strada, con poche frasi, mia madre mi ha cavato gli occhi, mi ha rotto i timpani, mi ha scuoiata, mi ha tagliato le mani, mi ha rotto le ginocchia, mi ha torturato il ventre, mi ha mutilato il sesso. Oggi so per certo che non era conscia del male che mi stava facendo e non la odio più. Mi riversava addosso la sua pazzia, le servivo da capro espiatorio. "Incinta in pieno divorzio! Capisci cosa significa?... Volevo separarmi da un uomo dal quale aspettavo un figlio!... Non ti puoi rendere conto... Per poter divorziare, bisogna essere giunte a un punto tale che la sola presenza del marito diventa intollerabile...

Ah! sei troppo piccola, non puoi capire quello che sto dicendo... Ma bisogna pure che te lo dica, bisogna che tu sappia quale scotto si può pagare per una stupidaggine, per pochi secondi... "Esistono cattive donne e cattivi medici che possono uccidere i bambini nella pancia della madre. E' un peccato mostruoso che la Chiesa punisce con l'inferno e la Francia con la galera. E' uno dei peccati più gravi che un essere umano possa commettere. "Ma può anche capitare di perdere naturalmente un bambino, senza dover ricorrere a uno di quei medici o a una di quelle donne cattive. Può bastare uno shock, o una malattia, oppure una determinata medicina o un particolare cibo, a volte un semplice spavento. In quei casi non è più un peccato, è un incidente e basta. "Ma non succede mica così facilmente! Se penso a tutte le precauzioni di cui si circondano le donne incinte!... Non devono affaticarsi, devono scendere le scale attaccate al corrimano, rimanere sdraiate il più possibile... Figurarsi!... Mi fan ridere!..." Quanta violenza, quanta volgarità, quanto odio nel suo sguardo e nelle sue parole; dopo tanti anni! "Ebbene bambina mia, sono andata a riprendere la mia vecchia bicicletta che arrugginiva in rimessa da chissà quanti anni e ho pedalato per i campi, nella terra arata, ovunque. Niente. Sono stata a cavallo per ore e ore: ostacoli, trotto - e per niente tranquillo, mi puoi credere! - Niente. Quando lasciavo la bicicletta o il cavallo, andavo a giocare a tennis in pieno sole, di primo pomeriggio. Niente. Ho ingoiato interi tubetti di chinino e di aspirina. Niente. "Ascoltami bene: quando un bambino è ben attaccato, non c'è nulla che lo possa staccare. Bastano pochi secondi per fare un figlio. Capisci? Capisci perché voglio che la mia esperienza ti serva a qualcosa? Capisci com'è facile rimanere in trappola? Capisci perché ti voglio avvertire del pericolo? Capisci perché voglio che tu sappia come vanno le cose e che non ti fidi mai degli uomini? "E avanti di questo passo per oltre sei mesi, dopo di che ho dovuto arrendermi all'evidenza, ero incinta e presto avrei avuto un altro figlio. Del resto si vedeva. Mi sono rassegnata." Ora mi stava guardando in faccia, e con uno di quei bei gesti tipici dei bianchi delle colonie, che uniscono il contegno europeo alla voluttà dei Paesi caldi, tentava d'infilare sotto il nastro di seta i miei boccoli perennemente ribelli. "Poi sei nata tu, perché era di te che si trattava. Certamente il Signore ha voluto punirmi per aver cercato di aiutare un po' la Natura, e ti ha fatto nascere di faccia, con il viso davanti invece del cranio. Ho patito le pene dell'inferno, mille volte peggio che per tuo fratello o tua sorella. Non è stato poi un castigo terribile, visto che eri una bellissima bambina e piena di salute. Per poter uscire avevi dovuto sfregarti a lungo le guance e il mento contro di me, erano tutti rossi, sembravi truccata. Dio, quant'eri carina! Suor Cesarina che mi assisteva come per tutte le altre nascite, ti ha lavata, vestita, ti ha perfino spazzolato quella peluria bionda che avevi in testa e ti ha messo nella tua bella culla; avevi le manine incrociate sul petto, dormivi. Ha detto la suora: "Guardi signora, sembra una novizia" e abbiamo riso di cuore." Rideva ancora a quel delizioso ricordo: la bambina truccata, le manine incrociate, gli occhi chiusi, come una monachina... Si chinò verso di me e, in un raro slancio di tenerezza, voleva darmi un bacio. Io mi tirai indietro istintivamente, respinsi soprattutto il contatto con la sua pancia. Se solo mi fossi trovata in salotto, così come ho preferito immaginare in seguito, se solo avessi sentito la vicinanza di Nany o

di Kader, forse non sarei precipitata in quella voragine che si stava aprendo sotto i miei piedi. Se solo avessi potuto sentire abbaiare i cani nel buio! Gli sciacalli rispondere dal bosco. Se solo mia madre avesse indossato quei bei vestiti, quel buon profumo che si metteva in casa. Macché! eravamo in mezzo a una strada chiassosa, con i nostri abiti da città. Io e lei, sole, faccia a faccia, stavamo vivendo il nostro unico incontro. Fino a quel momento la mia vita era stata un insieme di sforzi per avvicinarmi a lei, per incrociare il suo cammino. Credevo bastasse incontrarmi con lei una volta per poi proseguire insieme, passo dopo passo. E invece, ora che l'avevo incontrata, non vedevo l'ora di allontanarmi da lei. Ci eravamo soltanto incrociate. Le nostre vite formavano una croce, di quelle che servono per cancellare, per annullare, per sopprimere. L'odio non sbocciò immediatamente. Mi trovavo in un deserto senza confini, arido, piatto, monotono, disperato, sempre uguale. Durante gli anni dell'adolescenza percorsi questo deserto, su e giù, e come un bue con un pesante aratro, vi trainavo il bene che volevo a mia madre, ridicolo e inutile aratro. Il sangue non si fece vedere prima dei vent'anni, poi è venuto irregolarmente, con sofferenze atroci. Divenni una donna e aspettai il mio primo figlio. Quando vidi che cosa significava avere una creatura nel ventre, di quattro mesi, cinque mesi, sei mesi ecc...', mi misi a odiare mia madre, quella misera carogna! Non ricordo che cosa stessi facendo quando si manifestò per la prima volta. Di tutto il periodo tra la confessione di mia madre circa l'aborto mancato e l'inizio dell'analisi ricordo ben poche cose. Vista dall'esterno, la mia vita era immersa nel grigiore, la tetraggine, il perbenismo, il mutismo, mentre dentro di me sentivo solo oppressione, cose nascoste, vergogna e, sempre più spesso, paura. Sentii nel ventre, a destra, un contatto quasi impercettibile, un po' come quando senti che qualcuno ti sta guardando ma non vedi nessuno. Ero incinta di poco più di quattro mesi. Alcuni giorni dopo, di nuovo questo sfioramento, questa leggerissima carezza: un dito leggero sul velluto. Mio figlio si muoveva! Larva, girino, pesce degli abissi. Vita primitiva cieca e incerta. Testone idrocefalo, corpo da uccello, membra da medusa. Esisteva, era lì, a mollo nella sua acqua calda, ben attaccato al grosso cordone ombelicale. Infermo, impotente, orribile. Il mio bambino! Frutto del mio grande desiderio per un uomo, dei bei movimenti con i quali eravamo scivolati l'uno nell'altro, del ritmo perfetto che avevamo trovato all'improvviso, naturalmente, insieme. Da tanta perfezione non poteva nascere che una meraviglia, un essere unico. Si stava muovendo. Io e lui facevamo conoscenza. Si muoveva quando gli pareva, non potevo prevedere le sue manifestazioni. Aveva un ritmo proprio, diverso dal mio. Stavo molto attenta, lo aspettavo. Eccolo! Con la mano accarezzavo il punto in cui si era mosso. Che cosa stava agitando? Un moncone di mano trasparente? Un ginocchio gonfio? Un piede deforme? Quel suo cranio da mostro? Si muoveva appena, come una bolla che sale alla superficie dell'acqua e non ce la fa a uscire; come l'ombra di un albero quando non c'è vento, come la luce quando una nuvola passa davanti al sole. Sapevo dov'era, le posizioni che assumeva via via che passavano le settimane e che i suoi movimenti si facevano più vigorosi. Ora scalciava, pedalava, si girava e si rigirava. Anche mia madre aveva saputo dove mi trovavo e in quali posizioni mi mettevo. Doveva saperlo per forza perché aveva studiato medicina. Ma ogni mio movimento significava una sola cosa per lei: non era ancora riuscita a uccidermi! Quel feto le dava noia! E' una faccenda lunga la gravidanza, ce ne vogliono di mesi, di settimane, di giorni,

di minuti. Hai tutto il tempo per conoscerla, questa creatura che vive dentro di te pur essendo altro da te. Si può immaginare intimità più stretta? Promiscuità più grande? Ma forse ogni mio movimento le ricordava l'odioso accoppiamento di cui ero il frutto? La passione dell'odio? La repulsione? Allora saltava sulla sua bicicletta, e via nei campi di erbacce, tra le immondizie. Sei ben sballottata là dentro, bambina? Sta' a vedere, pesciolino mio, come ti romperò la schiena. Ma cosa aspetti a smammare, a toglierti dai piedi? Saltava in groppa al suo ronzino e oplà! Li senti bene i colpi nel tuo corpicino schifoso? Tesoruccio bello! Hai visto che belle tempeste provocano le mamme per spaccare in due i piccoli sottomarini? Hai visto quante belle onde per soffocare i piccoli pescatori subacquei? Pussa via, bestiaccia, via! Ti muovi ancora? Ci penso io a calmarti. Chinino, aspirina. Coccola, cocca mia, cuccioletta, bevi carina, bevi il buon veleno. Vedrai come ti divertirai lungo il taboga del mio culo quando sarai marcia, uccisa dalle droghe. A morte, a morte! Eppoi alla fine, impotente, rassegnata, vinta, delusa, mi aveva mollata viva al mondo, come si molla uno stronzo. Ma cosa attendeva quella bambinastronzo che usciva lentamente, con la faccia in avanti, verso la luce che già intravedeva, laggiù in fondo a quella stretta galleria umida, che cosa poteva offrirle quel mondo esterno che l'aveva tanto maltrattata? Dimmi, mamma, lo sapevi che mi stavi spingendo verso la pazzia? Ne avevi almeno il sospetto? Quello che ho chiamato la carognata di mia madre non è il fatto che abbia voluto abortire (ci sono momenti in cui una donna non è in grado di avere un figlio, di amarlo abbastanza). La carognata l'ha fatta perché non è riuscita a andare fino in fondo, perché non ha abortito quando doveva farlo. In seguito ha continuato a proiettare il suo odio su di me e infine mi ha confessato il suo squallido crimine, i suoi poveri tentativi di omicidio. La prima volta le era andata buca, ci si riprovava quattordici anni dopo, in tutta sicurezza, questa volta non rischiava di lasciarci la pelle. Eppure è stato grazie alla carognata di mia madre che tanti anni dopo sul divano nel vicolo, sono riuscita ad analizzare più facilmente i turbamenti della mia vita trascorsa, quell'angoscia perpetua, quella paura continua, quel disgusto di me stessa, che poi erano sfociati nella follia vera e propria. Senza la sua confessione, forse non sarei mai riuscita a risalire fino al suo ventre; fino a quel feto odiato, braccato, nonostante lo ritrovassi inconsciamente, ogni volta che mi raggomitolavo tra il bidè e la vasca nel buio della stanza da bagno. Oggi non considero più "la carognata di mia madre" una carognata. E' una tappa importante della mia vita. So perché questa donna lo ha fatto. Ora la capisco. VIII ""Tubo", che cosa le fa venire in mente?" La mia analisi era ormai cominciata da un bel po'. Da molto tempo, tre volte alla settimana, venivo a consegnare al piccolo dottore le pesanti borse della mia vita. Lo studio ne era pieno. Mi sdraiavo sul divano, in mezzo a quel mucchio, e parlavo. Avevo più volte verificato che il dottore stava veramente ad ascoltarmi, che non parlavo al vuoto. Ricordava tutto quello che dicevo. Chissà come faceva. Forse prendeva appunti? Oppure registrava i miei monologhi? Più volte avevo scrutato il silenzio per scoprire il più piccolo rumore di macchina; qualche scatto, qualche fruscio di nastro

magnetico. Niente. Più volte mi ero voltata improvvisamente verso di lui in mezzo a una divagazione, pensando di sorprenderlo a scrivere. E invece era lì, impassibile, sempre uguale, le braccia appoggiate sui braccioli della poltrona, le gambe incrociate. Non scriveva niente, ascoltava. Meglio così, non avrei sopportato un qualsiasi strumento tra di noi, una qualsiasi carta o matita. Egli conosceva quanto me lo stock dei miei ricordi, dei miei fantasmi ammucchiati dappertutto. C'era solo la mia voce tra di noi, nient'altro. Non gli mentivo, e se a volte tentavo di mascherare una situazione, di abbellirla (ad esempio quando dicevo di trovarmi in salotto mentre mia madre mi stava raccontando le sue balle invece di dire che eravamo per strada), finivo sempre per lasciar cadere la maschera e dire l'esatta verità. Capivo benissimo, senza che lui me lo dovesse spiegare, che nascondevo determinate immagini perché inconsciamente temevo che mi facessero ancora più male venendo allo scoperto, mentre l'unica soluzione era quella di aprire le piaghe e pulirle a fondo, per riuscire a eliminare il dolore. Fino a quel giorno, quando presi il coraggio a due mani per parlargli finalmente dell'allucinazione, e quando lui mi chiese dopo aver ascoltato la mia descrizione: ""Tubo", che cosa le fa venire in mente?" fino a quel giorno non mi ero ancora avventurata a fondo nell'inconscio. Vi avevo fatto qualche puntatina a caso, quasi senza rendermene conto. Parlavo soltanto di avvenimenti che ricordavo, che conoscevo a memoria e che in alcuni casi mi soffocavano perché non li avevo mai confidati a nessuno: il pisellino di carta, le operazioni alle bambole, la carognata di mia madre. Mettendo questi fatti in piena luce per analizzarli fino in fondo, brutalmente, con crudeltà, ero riuscita a scoprire i legami che li univano. Constatavo che in tutte quelle occasioni sudavo, apparivo muta e paralizzata mentre al contrario, dentro di me scoppiava una agitazione folle, che mi invadeva ovunque, di slanci immediatamente repressi che non capivo, non riuscivo a controllare, e che mi terrorizzavano. La Cosa c'era già. C'era stata fin dalla mia più tenera infanzia, ormai ne ero certa. Si faceva viva ogni volta che non piacevo a mia madre o che pensavo di non piacerle. Da qui a comprendere ora, nel vicolo, che erano state le gioie negatemi da mia madre a generare la Cosa, il passo fu breve, e l'ho compiuto in fretta. Mi rendevo conto che ancora a trent'anni e passa, avevo paura di non piacere a mia madre. Allo stesso tempo mi rendevo conto che la botta tremenda che mi aveva dato raccontandomi il suo aborto mancato mi aveva procurato un profondo disgusto di me stessa: non potevo essere amata, non potevo piacere, non potevo che essere respinta. Per questo ogni separazione, ogni partenza, ogni contrattempo erano vissuti come altrettanti abbandoni. Bastava che perdessi la metropolitana per sentire la Cosa agitarsi dentro di me. Ero una fallita, e quindi era logico che fallissi in tutto. Era tanto semplice! Come mai non c'ero arrivata da sola? Come mai non me n'ero servita ogni volta che mi sentivo male? Semplicemente perché finora non ne avevo parlato con nessuno. Avevo vissuto ogni terrore da sola, e ogni volta l'avevo respinto subito senza pensarci su, il più lontano possibile. Quando sono stata in età di giudicare i principi di mia madre (che poi erano quelli del nostro ambiente), trovandoli per lo più sbagliati, stupidi e ipocriti era ormai troppo tardi, il lavaggio del cervello era fatto, i semi erano sepolti in profondità, non potevano più venire in superficie. Non c'erano cartelli di segnalazione con le scritte "Vietato" o "Abbandono" perché in tal caso li avrei abbattuti con una semplice crollata di spalle. Non appena mi avvicinavo alla zona minata un branco di cani scatenati mi correva dietro urlando "colpevole!", "cattiva!",

"pazza!"; la vecchia Cosa, che stava a cuccia in un angolo buio del mio cervello, si approfittava subito del mio smarrimento, della mia fuga disperata e mi saltava alla gola: era la crisi. Cercavo di capire, senza nessun risultato, perché avevo cancellato le scritte "proibito da mia madre", "abbandonata da mia madre" e le avevo sostituite con "colpevole", "pazza". Ero pazza, questa era l'unica spiegazione che io potessi dare. Era tanto semplice che stentavo a crederci. Eppure i fatti lo dimostravano: tutti i miei disturbi psicosomatici erano scomparsi: il sangue, l'impressione di diventare cieca e sorda. La distanza tra le crisi di angoscia aumentava, ormai mi capitavano solo due o tre volte alla settimana. Nonostante ciò, non ero ancora normale. Riuscivo a percorrere determinati itinerari in città senza troppi timori, altri invece mi erano ancora proibiti. Vivevo ancora nel continuo timore delle persone e delle cose, continuavo a sudare molto, mi sentivo braccata, avevo i pugni serrati e la testa nelle spalle, e, soprattutto, persisteva l'allucinazione. Sempre la stessa, semplice, senza mai la minima variazione. Questa perfezione la rendeva ancora più terrificante. Nei primi mesi della cura, vi avevo accennato una volta: "A proposito, di tanto in tanto mi capita una cosa strana: un occhio che mi guarda." "E cosa le fa venire in mente quest'occhio?" "Mio padre... Non so perché lo dico, dato che non ricordo niente degli occhi di mio padre. So solo che erano neri come i miei, è tutto quello che so." Poi avevo cambiato argomento. Senza neppure rendermene conto avevo schivato il pericolo con una capriola. Avevo preso una strada più facile, più chiara. Sapevo però che l'ostacolo dell'allucinazione era lì, e che prima o poi avrei dovuto saltarlo se volevo andare oltre. Le angosce generate da "piacere proibito" e "abbandono" erano ormai facili da combattere, ero capace di cacciarle via prima che avessero il tempo di aggredirmi. Le altre invece, quelle che m'impedivano ancora di vivere come gli altri, da dove mi venivano? dove si nascondevano le loro radici? Non andavo più avanti. Era giunto il momento di parlare dell'allucinazione. Un giorno sentii che ero abbastanza forte per farlo, che la mia fiducia nel dottore era abbastanza grande. Non temevo più che mi mandasse in clinica psichiatrica... Mi sistemai sul divano. Sdraiata, con le braccia e le gambe distese, controllai prima che non mancasse nulla del mio solito materiale: mia madre, la terra rossa della fattoria, le ombre, le sagome, gli odori, le luci, i rumori, eppoi la bambina che aveva tante cose da raccontare. E parlai. "Ogni tanto mi capita una cosa buffa. Non mi succede mai durante le crisi, ma ogni volta ne provoca una, perché mi fa terribilmente paura. Può succedere quando sono sola o insieme a una o più persone. Anzi succede più spesso così: quando sono insieme a qualcuno. Con l'occhio sinistro vedo la persona che mi sta davanti e tutto quello che mi circonda, nei minimi particolari, e con l'occhio destro, con la stessa chiarezza, vedo un tubo che si applica dolcemente contro le mie palpebre. In fondo al tubo c'è un occhio che mi fissa. Questo tubo, quest'occhio, sono altrettanto vivi di quello che vedo con l'occhio sinistro. Non sono al di fuori della realtà, sono mescolati a quello che vivo in quel momento, nella stessa luce, nella stessa atmosfera. Quello che vedo con l'occhio sinistro ha esattamente la stessa importanza di quello che vedo con l'occhio destro. Solo che con uno vedo uno spettacolo normale e con l'altro qualcosa che mi terrorizza. Non riesco mai a trovare l'equilibrio tra queste due

realtà, perdo le staffe, sudo, voglio scappare, è insopportabile. "L'occhio che mi fissa non è a contatto del tubo come il mio, altrimenti sarebbe buio dentro, il tubo sarebbe tappato da tutte e due le parti. Invece non è del tutto buio all'interno del tubo e l'occhio è in piena luce, molto vicino all'orifizio, chiarissimo, attentissimo. Mi metto a sudare perché quello sguardo addosso a me è molto severo. Non tanto sdegnato, quanto freddo, severo, con sfumature di disprezzo e d'indifferenza. Non mi abbandona un secondo, mi scruta con intensità, senza compiacimento. Non serve a nulla chiudere le palpebre, l'occhio è sempre lì, malvagio, crudele, gelido. Può durare a lungo, anche parecchi minuti, poi alla fine scompare com'era venuto, all'improvviso. Allora mi metto a tremare; mi viene una crisi. Provo un grande senso di vergogna. Mi vergogno più di quest'occhio che di qualsiasi altra manifestazione della mia malattia." Ecco, avevo raccontato tutto, mi ero consegnata totalmente. Sapevo di essere arrivata a un punto chiave dell'analisi. Se non fossi riuscita a spiegarmi questa allucinazione, non sarei più andata avanti, non sarei mai riuscita ad avere una vita normale. In quel momento il dottore chiese: ""Tubo", che cosa le fa venire in mente?" Queste parole mi diedero fastidio. Sapevo dove andava a parare: il pisellino di carta, l'uscita dalla pancia di mia madre. Non si trattava di questo. Se fosse stato così semplice ci sarei arrivata da sola. M'è venuto voglia di alzarmi e di tagliare la corda. Mi esasperava quel piccolo burattino muto, con la sua calma e la sua impassibilità da iniziati. "Lei mi ricorda i preti. E' uguale a loro. Lei è il gran sacerdote della religione del cazzo. E' sempre lo stesso ritornello con voialtri. Mi fa schifo. Lei è uno schifoso maniaco che passa le sue giornate ad ascoltare le porcherie degli altri. Ma è lei il vero responsabile di quelle porcherie. Lei mi fa schifo. Perché ha scelto proprio la parola "tubo"? Non crederà mica che mi faccia pensare a rose e fiori?..." "...Deve dirmi, senza rifletterci sopra, che cosa le fa venire in mente la parola "tubo"." "...Tubo, mi fa pensare a un tubo. Un tubo è un tubo... Tubo mi fa pensare a tubetto... a tunnel... Tunnel mi fa pensare al treno... Da bambina viaggiavo spesso. Passavamo le nostre estati in Francia e in Svizzera. Prendevamo la nave poi il treno. Sul treno avevo paura di far la pipì. Mia madre era fissata sull'igiene e vedeva microbi dappertutto..." Divagavo, divagavo. La bambina è venuta a raggiungermi. Io ero la bambina, avevo tre o quattro anni. Eravamo appena sbarcate in Francia, un posto complicato dove bisognava essere sempre composti e dire in continuazione: "Buongiorno signora, buongiorno signore, grazie signora, grazie signore, arrivederla signora, arrivederla signore." Un posto dove non avevo il permesso di togliermi le scarpe e andare scalza, dove non si poteva parlare a tavola e si doveva chiedere il permesso per uscire, dove mi dovevo lavare le mani venti volte al giorno. Era estate. Stavamo sul treno, faceva caldo, mi annoiavo, il tempo non passava mai. Chiesi di fare la pipì. (In quei casi dovevo dire alla mia Nany: "Nany, number one please.") Nany informò mia madre della mia necessità di fare "namberuan plis" (quando si trattava di qualcosa di più consistente diceva "nambertù"). Si misero a cercare una certa borsa tra il bagaglio: la borsa della farmacia. Farmacia, non annunciava niente di buono, tutte cose che fanno male, che bruciano, come la tintura di iodio e l'alcool oppure che strappano i peli, come i cerotti. Perché cercavano la borsa della farmacia per

farmi far pipì sul treno? Stava diventando preoccupante. Finalmente la trovarono, in mezzo a una montagna di cappelliere, valigie, nécessaire ecc...' e uscimmo nel corridoio. Procedevamo, mia madre davanti, Nany dietro con la borsa della farmacia e io in mezzo. Almeno potevo sgranchirmi le gambe, era sempre meglio che nello scompartimento. In fondo alla carrozza, dove c'era la toilette, si sentivano scosse infernali e un rumore assordante. Facevamo fatica a stare in piedi. Mia madre e Nany si attaccavano a quello che trovavano e io mi attaccavo alle loro gonne. Era divertente. Meno divertente invece era l'odore che veniva da quel luogo un odore fortissimo di orina, un odore acuto, indiscreto, vergognoso. Mia madre disse a Nany: "Mi dia la boccetta dell'alcool. Pulisca la tazza e il sedile, io pulirò il lavandino. Già che ci siamo le laveremo la faccia e le mani, è coperta di fuliggine. E' incredibile la capacità di sporcarsi di questa bambina." Presero grossi batuffoli di cotone idrofilo imbevuti di alcool e si misero a pulire con accanimento quel posto puzzolente. Mia madre diceva: "Vedi, ci sono microbi dappertutto." Sapevo che cos'erano i microbi, erano bestie piccolissime che rodevano i polmoni di mio padre e avevano ucciso mia sorella. Non volevo più far la pipì ma non osavo dirlo. Avevo l'impressione che la toilette formicolasse di scorpioni invisibili, serpenti minuscoli, vespe nascoste. E intanto continuavano quelle scosse e quel fracasso infernale. Terminate le loro pulizie, stesero uno spesso strato di garza bianca sul sedile. Ecco, ora potevo fare la pipì. Nany mi tirò giù le mutandine. Portavo mutandine PetitBateau con la pettorina e i bottoni. Un bottone sulla pancia e due ai lati. La parte anteriore delle mutandine rimaneva fissa, mentre la parte posteriore si poteva alzare, c'erano un nastro di cotone che si allentava e dei bottoni che si potevano spostare in giù via via che il bambino cresceva. "Sono molto pratiche," diceva mia madre; Nany non era per niente d'accordo. Eccomi col culetto all'aria. Nany mi prende sotto il braccio e mi solleva per sistemarmi su quell'enorme sedile che mi spalanca le cosce. Tira in su le mie mutandine per evitare che si bagnino. Fa di tutto per stare in equilibrio mentre mi regge la schiena. Mia madre osserva la scena con aria critica. "Sbrigati, lo vedi quanto stiamo scomode." In quel momento il rumore diventa addirittura assordante. (Probabilmente stiamo passando su uno scambio.) Le scosse sono così forti che non capisco più se ho la testa in su o in giù. Guardo tra le mie gambe e vedo in fondo alla tazza del water, all'estremità di un largo condotto rotondo e vischioso, pieno di sostanze ignobili, il suolo coperto di sassi che scorre a velocità vertiginosa. Ho paura, paura, paura. Quel buco mi inghiottirà, sarò trascinata dalla pipì e mi spaccherò in mille pezzi su quei sassi lucidi, dopo esser passata in quel condotto schifoso, pieno di escrementi. "Non ho più voglia di fare namberuan." "Vedrai che ti viene. Ora che abbiamo sistemato tutto, ci mancherebbe solo quello! Su sbrigati." "Non mi viene più, non ci riesco." "Accidenti ai tuoi capricci! Me la pagherai!" Nany, che mi conosceva bene, disse: "Non credo che la farà, signora." In mezzo a quel trambusto, a quella follia, sento un piccolo rumore regolare, rapido, rotondo: tap tap tap tap tap tap... Taptaptaptaptaptaptaptaptaptaptaptaptap... Avevo quattro anni, avevo trentaquattro anni. Ero sul sedile del water a gambe spalancate, ero distesa sul lettino del vicolo. Tap tap tap tap tap. Non avevo più età, non ero più una persona, ero solo quel rumore

leggero come una filastrocca, ritmato come una ninnananna... Taptaptaptaptaptaptap... Da dove veniva? Dovevo assolutamente scoprirlo. "Dottore, mi fa male la testa." Era un dolore abominevole, un male intenso alla base del cranio, non avevo mai provato nulla di simile. Mi stavano strappando via il cervello, con colpi brutali. Folgorazione del dolore, bagliori dell'estrema sofferenza. Radici mostruosamente contorte che stringono nelle loro convulsioni pustolosi scheletri di draghi, cadaveri di piovra e sprigionano, via via che vengono estirpate e portate alla luce, un insopportabile odore di marcio. "Dottore, sto perdendo il cervello. E' orribile, divento pazza." Lo sapevo che se toccavo l'allucinazione sarebbe stata la fine. Sarebbe stato meglio non seguire quell'istinto che mi guidava verso di essa. Sarebbe stato meglio non andare in quella zona della mia mente. Avrei potuto continuare a vivere così com'ero, un'inoffensiva menomata, senza essere più rinchiusa in manicomio. Ora era troppo tardi, affondavo nella follia nera, nella agitazione devastatrice. "Dottore, mi aiuti!" Mi sta scoppiando la testa. Tutto si confonde, si confonde... Taptaptaptaptaptaptaptaptaptap... Taptaptaptaptaptap... Il rumore è qui, vicinissimo. E' l'unica cosa sfuggita alla pazzia, all'isteria. Lo devo trovare. Devo andargli incontro. Sono un bebè, una bambina piccolissima che comincia appena a camminare. Passeggio in un grande bosco insieme a Nany e al mio papà. Sto facendo "number one please". Nany mi ha portata dietro un cespuglio. C'è voluto parecchio tempo prima che ne trovasse uno che andasse bene. Bisogna nascondersi per fare "number one please". Sono accovacciata, tengo contro di me il davanti delle mutandine e guardo il getto che esce da me e scompare nella terra tra i miei piedi, tra le mie belle scarpe di vernice nuove. E' molto interessante. Taptaptaptaptaptap... C'è un rumore alle mie spalle. Volto la testa e vedo mio padre in piedi. Davanti agli occhi ha una strana cosa nera, una specie di animale di ferro con un occhio a forma di tubo. E' questo che fa rumore! Non voglio che mi veda mentre faccio pipì! Non voglio che mio padre mi veda il sedere! Mi rimetto in piedi. Le mutandine m'impediscono di camminare. Riesco ugualmente a andare fino da mio padre e lo picchio con tutte le mie forze. Lo picchio più che posso. Voglio fargli male. Lo voglio uccidere. Nany cerca di strapparmi via dalle gambe di mio padre che sto graffiando, mordendo, picchiando, mentre lui continua a guardarmi fisso con quell'occhio rotondo. Taptaptaptap... Odio quell'occhio, quel tubo. Dentro di me sento una collera e una furia incontenibili. Alla fine mio padre e Nany si mettono a parlarmi. Mi dicono parole che non capisco e altre che capisco. "Pazza, cattiva, cattivissima, pazza, maleducata! Vergognati, brutta! Non si deve picchiare la mamma, non si deve picchiare il papà! E' una bruttissima cosa, è una vergogna! Sarai punita, pazza. Brutta, cattiva, pazza! Vergogna, vergogna, vergogna! Male, male, male! Pazza, pazza, pazza!" Capisco finalmente che sono sdegnati per quello che ho fatto, che lo trovano spaventoso, orribile, terrificante, e tutt'a un tratto mi vergogno di me stessa. Il rumore si è fermato. Silenzio. Pace, un'immensa pace. Avevo smascherato l'allucinazione, l'avevo esorcizzata. Ormai avevo la certezza assoluta, totale, completa, che l'allucinazione non sarebbe mai più tornata. Tutto si muoveva attorno a me. Tornavo da un luogo lontanissimo.

"Dottore, è finita. Era questa l'allucinazione." "Credo proprio di sì. La seduta è finita." Quando mi alzai mi sentivo per la prima volta un corpo perfetto. I muscoli comandavano le articolazioni con estrema facilità. La pelle scivolava su di essi. Ero in piedi, ero alta, più alta del dottore. Respiravo tranquillamente e regolarmente l'esatta quantità di aria che serviva ai miei polmoni. Le costole proteggevano il cuore che il sangue senza mai stancarsi cullava. Il bacino era una vasca bianca in cui le viscere avevano esattamente il posto di cui avevano bisogno. Non mi faceva male, era semplice. Le mie gambe, solide, mi portavano verso la porta. Il mio braccio tendeva una mano al dottore. Tutto questo mi apparteneva, tutto questo funzionava bene. E non mi faceva paura. "Arrivederci, dottore." "Arrivederci, signora." Il mio sguardo incontrò il suo e sono sicura di avervi visto la gioia. Che bel lavoro che avevamo fatto insieme. Vero? Mi aveva aiutato a partorire me stessa. Ero appena nata. Ero nuova. Uscii nel vicolo. Era tutto uguale eppure tutto diverso. Piovigginava, sentivo l'acqua lieve come la cipria sulle mie guance fresche e rosee. Il vecchio selciato mi accarezzava la pianta dei piedi attraverso le suole delle scarpe. Il cielo bruno della notte parigina s'innalzava sopra di me come il tendone di un circo gigantesco. Mi dirigevo verso la strada rumorosa, come verso una festa. Improvvisamente, quando arrivai in fondo al vicolo, tutto divenne ancora più leggero, allegro, facile. Mi sentivo agile, sciolta: le mie spalle erano cadute d'un colpo, liberando il collo e la nuca che da tanti anni vi erano affossati, al punto che avevo dimenticato il piacevole contatto dell'aria nei capelli dietro la testa. Quello che c'era dietro di me era così poco spaventoso quanto quello che mi stava davanti. Avevo una sola idea in mente: andare da mia madre e interrogarla. "Ti ricordi quella storia che mi è capitata da piccola: ho picchiato papà perché mi riprendeva con la cinepresa mentre facevo la pipì?" "Sì, è successa una cosa del genere. Io non c'ero ma ho visto il film. Tuo padre me lo aveva fatto proiettare. Chi te l'ha raccontato?" "Nessuno. Me lo sono ricordato. Sono stata punita?" "Immagino di sì. Ti avrò mandata a letto senza il bacio della buonanotte, o qualcosa di simile, forse t'avrò dato una sculacciata. Come vuoi punire un bebè? Eri una piccola selvaggia a quell'età." "Quanto tempo avevo?" "Si fa presto il conto. Era la prima estate che passavi in Francia. Tuo padre era appena uscito dal sanatorio, voleva conoscerti. In fondo era tuo padre... Avevi tra i quindici e i diciotto mesi." Mi guardava con una strana espressione. Nei suoi occhi mi parve di vedere una specie di sorpresa, un rimpianto, un mazzolino di fiori appassiti che hanno conservato il loro profumo. Credo che solo allora abbia cominciato ad amarmi così com'ero, tanto diversa da come avrebbe voluto lei. Ormai era troppo tardi, non sapevo che farmene del suo amore. IX Il vicolo era diventato il sentiero del mio paradiso, il viale del mio trionfo, il canale della mia forza, il fiume della mia gioia. Non mi sarei stupita se quell'arto atrofizzato della città fosse improvvisamente diventato il palcoscenico di uno spettacolo fantastico. Il piccolo dottore esce dal cancello invaso dai rami. E'

vestito normalmente con in più una tuba coperta di paillettes e un lungo frustino avvolto nel lamè. Signore e signori, avvicinatevi! Non temete, lo spettacolo è gratuito. Non abbiate paura, aprite le vostre porte e le vostre finestre. Venite a vedere quello che non avete mai visto! Signore e signori, aprite gli occhi e gli orecchi, state per vedere uno spettacolo unico al mondo. Ramplamplam, Bumbadabùm! Udite brava gente! Udite la storia di colei che sudava e non suda più, che tremava e non trema più, che sanguinava e non sanguina più, che palpitava e non palpita più. Avvicinatevi, avvicinatevi! Apritele pure le gambe, provatele pure il polso, guardatele pure il cervello. Non abbiate paura, avanti, tanto non troverete niente, assolutamente niente! E ora guardate signore e signori! Questa donna che per anni e anni avete vista passare davanti alle vostre case, ripiegata su se stessa come un feto, quell'ombra che radeva i vostri muri, quella poveretta che si fermava sotto i vostri portoni per tremare di paura, quella disgraziata che fuggiva, inseguita dal terrore, e si storceva le caviglie sul vostro selciato rovinato. Quella pazza, signore e signori, guardate che cos'è diventata. A questo punto, con un grande salto da gazzella, io faccio una stupenda apparizione in fondo al vicolo, dalla parte della strada. Bella! Bella da togliere il fiato! Abbastanza bella per ^Playboy o per la pubblicità delle calze Bloch. Slanciata! Collo lungo, braccia lunghe, gambe lunghe, vita lunga. Io, sprizzante di salute eppure di una fragilità commovente alle articolazioni, alle caviglie, alle ginocchia, ai polsi, ai fianchi, alle spalle, ai gomiti. Io, solida e potente, con delle finezze agli angoli della bocca, degli occhi, alla base del naso, all'attacco della nuca. Io, raggiante di giovinezza, colta nel mio slancio dai flash della folla meravigliata. Le mie braccia si scostano dal corpo, leggermente alzate, i miei bei capelli biondi svolazzano nel cielo come un ventaglio ricamato. Allegra, allegra! Io, nel mio abito da sposa fatto da Marinette, la sarta di famiglia che mi aveva vista nascere, che mi vestiva da sempre, che aveva mani di fata e aveva preteso venti lunghe prove. Ora procedo a lunghe falcate feline, piano, al rallentatore. Il vicolo è ricoperto di erba verde tagliata di fresco, profumata. Ci sono tutte le piante che piacciono a me: palme, datteri, melograni, aranci. Tutti i fiori, tutti gli animali che piacciono a me. Tutti i profumi. C'è anche il rumore del mare della bella stagione che spinge dolcemente le sue onde fino alla spiaggia, come pettini di telaio per tessere la sabbia. Il dottore alza la sua frusta e accarezza le mie reni con la morbida treccia di cuoio, al lavoro! Un salto mortale, un doppio, un triplo salto mortale, la spaccata, la verticale, la ruota, la capriola, la carriola. Oplà! Oplà! Una piroetta di qua, una capriola di là. Ancora oplà! Oplà! Mi agito, felina; un passo di danza, una piroetta. Avanti ragazza! Su con il culo, su con la testa. Faccio del mio corpo quello che voglio. Non è più quel mucchio di carne viscida accanto a me, percorso dai tremiti, l'imperscrutabile schifoso rifugio della mia mente impazzita. Che trionfo! Tutti applaudono. Il pubblico ci copre di fiori. Non accadde nulla di tutto questo. Il piccolo dottore stava sempre seduto nella sua poltrona, rigido, composto, muto, con un che di crudele, di ironico nel modo di fare. Quanto a me, ero un cane ben ammaestrato che gli portava con riconoscenza i suoi tesori. Come quando portavo i sassi a mia madre, sperando che si sarebbero trasformati in gioielli. Ma mentre mia madre aveva sempre respinto

quei tesori immaginari, il dottore ascoltava invece i miei racconti, senza scomporsi, ma con estrema attenzione e mi aiutava così a rendermi conto da sola del valore esatto di questi ricordi. Scoprivo la mia salute, il mio corpo, il potere di comandarlo, il privilegio di muovermi liberamente. Ne provavo una gioia immensa. Scoprivo la notte. Non mi stancavo mai di osservarla. Le luci dei locali pubblici. Eravamo sotto Natale. Quanto lusso in quei negozi vuoti e illuminati che esibivano i loro tesori ai passanti: abiti da sera, pellicce, champagne, foie gras, ninnoli, giocattoli, orchidee. L'asfalto lucido dei marciapiedi. L'alternarsi di buio e di luce nelle strade. I nottambuli. L'amicizia che riscalda. L'alcool. Gli uomini. Il piacere inebriante di entrare in un locale, di dare un'occhiata distratta alla folla e puntare subito su questo, o quell'altro. La conquista. Il gioco della seduttrice sedotta. Scoprivo le camere d'albergo, le garçonnière, i piedàterre. Nessuno di quegli uomini ha mai saputo chi fosse quella donna che per un poco aveva diviso il loro letto. Nessuno di loro ha mai sospettato che l'unica cosa che contava per me era la libertà di fare tutto quello che finora mi era stato negato. Non cercavo altro, ma lo cercavo avidamente. Era dunque questo "fare la vita"? Quant'era facile! Dopo, sgusciavo via, da sola, e quello era il momento più bello. Scoprivo la solitudine, l'alba. Non avevo paura. Una strada sconosciuta, il "peccato" addosso, l'ombra dovunque, e non avevo paura. Erano le quattro o le cinque del mattino. Avevo soltanto un'ora o due per dormire prima che mi svegliassero i bambini ma sapevo che non mi sarei sentita stanca, che l'indomani la festa sarebbe ricominciata. Scoprivo i cosmetici, il profumo, i vestiti, la biancheria nera, le collane, gli orecchini. Al ristorante mi rimpinzavo di tutto ma continuavo a dimagrire, a dimagrire. Tutti i chili che si erano attaccati al mio corpo come altrettante palle ai piedi del forzato scomparivano senza che facessi nulla per eliminarli. Durante quelle settimane, o quei mesi, non ricordo più, ero ubriaca dal mattino alla sera, ubriaca di gioia, d'alcool, di salute, di notti insonni, di carezze sempre nuove, di cibi appetitosi. Passavo le mie giornate a divertirmi con questo straordinario giocattolo: il mio corpo. Qualsiasi sua manifestazione mi stupiva e mi rallegrava, le mie dita che si muovevano, i miei piedi che mi portavano ovunque, le mie palpebre che battevano, la voce che mi usciva dalla gola, le varie modulazioni che le davo, tutto questo funzionava alla perfezione. Ero io. Ero viva. Mi divertivo tra me e me a evocare il sangue, la paura, il tubo con l'occhio, il sudore. Ad uno ad uno sfilavano davanti a me, ma se ne stavano fuori. Le prime volte li osservavo timidamente, poi con maggior sicurezza. Non si facevano più vivi. Speravo che questo durasse il più a lungo possibile, perché mai prima d'ora mi ero divertita con me stessa. Non sapevo cosa fosse la spensieratezza. Ero sempre stata oppressa e tormentata, anche da bambina quando giocavo con i miei amici. Non avevo mai veramente giocato a nascondino, a mosca cieca, a campana o a guardia e ladri. L'occhio di mia madre, che confondevo con l'occhio di Dio, (e anche inconsciamente con l'occhio della cinepresa) era sempre lì a guardarmi e a valutare ogni mio gesto, ogni mio pensiero, senza lasciarsi sfuggire niente. "Padre, ho peccato con il pensiero, con le parole, con le azioni e con... le omissioni." Quello era il guaio peggiore: potevo peccare senza nemmeno accorgermene. I peccati erano come i microbi: ce n'era dappertutto, ma non si vedevano e potevano saltarmi addosso in qualsiasi momento, anche se li fuggivo. Dopo la paura di peccare erano venuti i complessi di colpa, e

infine la Cosa. Ero sempre vissuta nell'ossessione di essere braccata, spiata, colpevole, fino al giorno in cui ho scoperto il significato dell'allucinazione. Mi lanciai allora freneticamente verso il miraggio della salute e della libertà. Poi la Cosa si rifece viva, sorniona, con piccole vampate di paura. Fino a quando una notte non mi saltò improvvisamente addosso, mi scosse come un ulivo, sconvolse il mio cervello che si smarriva tra quelle lenzuola un po' grigie, tra la barba lunga dell'uomo che dormiva a bocca aperta accanto a me, al corpo della pazza, questa donna di trentaquattro anni, madre di tre figli, nello squallore pretenzioso di quella camera da scapolo. Corsi per la strada e vidi pattumiere traboccanti d'immondizia, barboni che smaltivano la sbornia agli angoli dei marciapiedi, gatti famelici che scappavano al rumore dei miei passi, operai e puttane nell'alba, tutta la miseria umana. Ero circondata dalla decomposizione. C'era marcio dappertutto. Il mio corpo nuovo stava marcendo. Finita la vita! Finita la spensieratezza! Ero un manichino, un burattino, un robot, una bambola. A che cosa serviva la mia salute? Il mio corpo? A niente. La tempesta si scatenava. Strappava via tutto. La Cosa aveva un'arma nuova, ben più micidiale di quelle precedenti. Più micidiale del sangue, della morte, del cuore che suona la carica. Quella nuova arma era l'angoscia, nient'altro, l'angoscia pura, secca, semplice, senza paraventi e senza elmetti, nuda. Un'angoscia senza sudori, senza tremiti, senza tachicardia, senza quel bisogno improvviso di correre o di raggomitolarmi. Non ero più una malata. Ero solo una stupida donna di mezz'età, senza importanza, la cui vita non aveva alcun senso. Non ero nulla. Un nulla che mi dava le vertigini e la voglia di urlare. Morire. Morire e farla finita. Desideravo la morte, il suo mistero mi attraeva. La desideravo perché era diversa, incomprensibile agli uomini, inimmaginabile. Era proprio quello che desideravo: l'inimmaginabile, l'inumano. Avrei voluto dissolvermi in una scintilla elettrica, disintegrarmi in una pulsione circolare, essere annientata. Il nulla. Perché allora non mi uccisi? Perché c'erano i miei figli? Non potevo lasciar loro questa eredità: il cadavere di una pazza che avrebbe pesato sulla loro vita come mia madre aveva pesato sulla mia. Non volevo che entrassero nelle spire della Cosa. E' per loro che non mi suicidai? Non lo so. Andavo nel vicolo e insultavo il piccolo dottore. Gli sbattevo in faccia tutto quello che avevo sentito dire della psicoanalisi: che rende le persone ancora più matte, che le trasforma in maniaci sessuali, che distrugge la personalità. Chiamavo in aiuto il vocabolario della psicoanalisi, quelle stesse parole che lui mi aveva pregato di lasciare da parte all'inizio dell'analisi. Mi giostravo in mezzo alla libido, all'ego, alla schizofrenia, ai complessi di Edipo, alle repressioni, alla psicosi, alla nevrosi, alla paranoia, alle fantasie e tenevo sempre il transfert per ultimo. Soffrivo all'idea di essermi tanto aperta a lui, di avergli dato tanta fiducia, di averlo amato tanto. Era un pulcinella nelle mani di Freud! Erano le grosse funi di Freud che lo facevano muovere. Lui era il sacerdote della psicoanalisi, questa religione osannata da una élite intellettuale, boriosa, proterva e malintenzionata. "Proprio così, malintenzionata, brutta scimmia! La tua religione aliena ancora di più il malato di mente. Dove lo metti il malato di mente nelle tue chiacchiere da salotto, da televisione, da rotocalco?

Razza di prete spretato! Lo so che hai fatto un'analisi didattica come tutti i pagliacci della tua specie. A che cosa ti è servita? A imparare il rituale della messa? Certo, sai come si fa a sdraiarsi sul divano, a parlare con l'altro che ascolta alle tue spalle in un ambiente felpato e segreto, di nascosto. Di che cosa hai parlato durante la tua analisi didattica? Avanti, dillo! Dei problemi che ti ha causato il tuo cazzetto da topo? Del male che ti ha fatto indossare i vestitini da chierichetto? "Non per questo sai che cosa sono le malattie di mente. Sono spaventose. E' come vivere immuni nella melassa, sia dentro che fuori, una melassa fatta di vita e di morte, di chiasso e di silenzio, morbida e vischiosa, soffocante e impalpabile. Significa essere in balia della Cosa orrida, sempre diversa, avvinghiata al malato, ammaliatrice. La Cosa che tira da tutte le parti, che spacca, che pesa, che trascina, che non lascia mai in pace, che occupa tutto lo spazio e tutto il tempo, che fa paura, che fa sudare, che paralizza, che fa scappare. La Cosa fatta d'incomprensione e di vuoto. Un vuoto pieno, compatto. Capisci che cosa voglio dire, povero stronzo?" Non ce la facevo più. Quando uscivo dalle sedute andavo a ubriacarmi, ubriacarmi a morte. Nella bocca di una donna questa parola "ubriacarsi" suona male, suona volgare, per un uomo è diverso, è meno volgare, è qualcosa di forte, di triste. Una donna può essere brilla, magari ebbra, alla peggio si può dire che beve. Mi rifiuto di ricorrere a quelle ipocrite manfrine. Io mi ubriacavo, eccome: mi distruggevo, mi perdevo, mi disprezzavo, mi odiavo. Non avevo più il minimo controllo di me stessa. Ero nessuno. Non avevo più desideri, volontà, gusti o disgusti. Ero stata completamente plasmata per rassomigliare a un modello che io non avevo scelto e che non faceva per me. Giorno dopo giorno, fin dalla mia nascita, ero stata costruita: nei gesti, negli atteggiamenti, nelle parole. Avevano represso i miei bisogni, le mie voglie, i miei slanci, li avevano soffocati, truccati, travestiti, imprigionati. Dopo avermi tolto il cervello, dopo aver svuotato il mio cranio di me stessa, lo avevano imbottito di idee che non avevano nulla a che fare con me. Quando hanno accertato che l'innesto era riuscito, che non avevo più bisogno di nessun aiuto per reprimere le onde che venivano dal profondo del mio essere, mi hanno lasciata vivere liberamente. Ora che avevo fatto l'inventario dello sfacelo, là in fondo al vicolo, ora che ricordavo con precisione i particolari di quel minuzioso lavaggio del cervello cui mi avevano sottoposta e grazie al quale ero diventata più o meno degna di mia madre, della mia famiglia, della mia classe, ora che sapevo, ora che scoprivo l'inganno col quale questi supplizi erano stati inflitti e subiti fino alla fine in nome dell'Amore, dell'Onore, della Bellezza, del Bene, che cosa mi restava? Il vuoto. Chi ero? Nessuno. Dove potevo andare? Da nessuna parte. Non c'era più Bellezza, non c'era più Onore, Bene, Amore, e per gli stessi motivi non c'erano più Male, Odio, Vergogna, Bruttezza. Quando ero finalmente riuscita a decifrare l'allucinazione mi ero illusa di essermi partorita, di rinascere. Ora mi sembrava di aver provocato l'aborto di me stessa, trafiggendo l'occhio in fondo al tubo. Quell'occhio non era solo quello di mia madre, di Dio, della società, era anche il mio. Quello che ero stata era distrutto e al suo posto c'era lo zero, l'inizio e la fine, il punto dove tutto si annulla, una zona di vita morta e di morte vivente. Come si faceva ad avere contemporaneamente zero giorni e trentaquattro anni? Ero un vero mostro. Quello che più mi spaventava non era tanto il fatto di essere arrivata a quel punto quanto di sapere che vi ero arrivata, con la fredda lucidità e la certezza che dà l'analisi. Ero un gigante

paralizzato da una carta moschicida, una mosca imprigionata in una trappola per giganti. Grottesca, ridicola, stupida. "Ehi! Ehi la pazza! Ehi la pazza!" E pensare che tutti quelli del mio ambiente avevano subito la stessa sorte! Come mai ero l'unica ad aver reagito così in modo tanto violento e doloroso a questo ammaestramento? Forse avevo realmente la mente malata, o forse ero particolarmente fragile e inconsistente? Concepivo soltanto questa alternativa che era una voragine, un inferno. Andavo nel vicolo, mi sdraiavo e non dicevo niente. Niente. Non avevo più niente da dire. Ormai ci conoscevamo così bene, io e il dottore, che bastavano poche parole per riferirgli quello che era successo dalla seduta precedente. Dopo, il silenzio. Un silenzio pesante, tetro. Mi capitava perfino di addormentarmi là, sul divano, sfuggendo così del tutto alla realtà assurda e derisoria che mi avvolgeva. Tutto era vago. Vago. Lo scenario era lo stesso di quello della mia adolescenza: un deserto grigio, nebbioso, sotto un cielo beige uniforme. Perché continuare a camminare là dentro? Era sempre uguale. Perché continuavo ad andare nel vicolo? Il divano. I miei occhi aperti davanti alla tela di juta che ricopriva le pareti, una lunga distesa piatta, grigia e beige, chiara e sfocata allo stesso tempo. I miei occhi aperti davanti a quel deserto angoscioso, insieme nebbioso e monotono. In un luogo piatto, senza vegetazione, senza rilievi, in una giornata tetra, mi ero incontrata con mio padre. Avevo sei o sette anni. Lui mi aveva portato un regalo: un cubo di velluto rosso con un grosso nastro dorato. Stupendo! Una confezione così bella non poteva contenere che un bellissimo regalo. Come al solito, mi sentivo in imbarazzo vicino a mio padre, alla sua presenza equivoca, alla sua tenerezza e all'amore gioioso che mi dimostrava. Rideva, i suoi occhi brillavano. "Apri, guarda cosa c'è dentro." Avrei preferito aprire la scatola lontano dai suoi occhi, ma lui insisteva. "Apri, apri, voglio vedere che faccia farai." Presi una delle estremità del nastro dorato, la tirai piano e la scatola si aperse di colpo: ne venne fuori un diavoletto che si dondolava su una molla, mostrava la lingua e strabuzzava gli occhi. Era brutto, stupido e mi aveva fatto paura. Che delusione! Mi misi a piangere, piena di vergogna. Tradita! Ora che ero adulta, il mio diavoletto era il dottore. Mi offrivo il lusso di andare a trovare tre volte alla settimana un diavoletto che mi deludeva e mi ridicolizzava. Era una spesa enorme. Il prezzo delle sedute mangiava tutto quello che guadagnavo. Quando avevo messo da parte i soldi per l'affitto, il gas, l'elettricità e la mensa della scuola dei bambini, mi restavano cinque franchi al giorno per tutto il resto. Era molto duro. Ma questa miseria si addiceva al mio deserto. Dal momento che i bambini non mancavano del necessario, non avrei saputo che farmene dei soldi. Navigavo nell'inconsistenza. Ero una nebulosa sgangherata che ruotava attorno a un centro indefinibile. Finora, consciamente o inconsciamente, il perno della mia vita era stata mia madre. Ma l'analisi l'aveva corrosa come corrode l'acido. Non restava più niente di lei. Però non potevo fare a meno di ruotare attorno a lei, ai suoi principi, alle sue fantasie, alla sua passione, alla sua tristezza. Sebbene alcune parti del mio essere si aprissero in lunghe strisce sventolanti, apparentemente libere, queste erano in realtà ben attaccate al centro del vortice, all'occhio, ormai cieco, di mia madre.

Nel Sert¬ao, una delle zone più secche e aride del Brasile, crescono radi cespugli. Se si tenta di strapparli ci si accorge che le radici sono robustissime e diventano sempre più grosse in profondità. Continuando a scavare si scopre che comunicano con le radici degli altri cespugli e tutte convergono verso una radice ancora più grossa che scende sempre più giù, fino a diventare con un unico enorme tronco che perfora il terreno come un trapano. Si tratta infatti di un albero gigantesco che si è sotterrato da solo fino a venti o trenta metri sotto terra per cercare l'acqua. I cespugli che affiorano alla superficie sono soltanto le estremità delle radici di questa pianta gigantesca. Io ero quei cespugli. Ma non avendo il tronco per attingere l'acqua in profondità, stavo per morire. X Non sapevo perché venissi ancora nel vicolo. E difatti saltavo molte sedute. Le dimenticavo completamente oppure sbagliavo il giorno o l'orario. Arrivavo davanti al portoncino d'ingresso e c'era tutto un rituale per suonare il campanello: si apriva una porta a vetri che dava direttamente sul giardino, poi si premeva un bottone nello stipite della seconda porta, e uno squillo risuonava nello studio del dottore. Soltanto gli iniziati conoscevano il trucco. In questo modo si vedeva solo il dottore. Quand'ero perfettamente in orario, mi faceva entrare direttamente nel suo studio e potevo immaginare che fosse rimasto là dentro, ad aspettarmi, fin dall'ultima seduta. Ma bastava arrivare con cinque minuti d'anticipo o di ritardo per vedere altre sagome, anzi altre ombre. A volte era il "paziente precedente", con la testa incassata nelle spalle, i gesti impacciati, lo sguardo chiuso e furtivo, a volte gente di casa che nel corso degli anni avevo finito per identificare come il padre, la madre, la sorella. Non so poi se lo fossero davvero. In quel periodo salivo gli scalini stretti, aprivo la porta a vetri, premevo il bottone interno e aspettavo. Subito sentivo la porta dello studio aprirsi, poi tre passi attraverso l'ingresso e finalmente vedevo il dottore apparire alla porta. Gli occhi erano freddi, neutri, come arrotondati da una finta sorpresa, il piccolo corpo ben dritto, la voce un po' rauca e asciutta. "Guardi che sbaglia, oggi non devo vederla." (Oppure: "Ha sbagliato orario, l'aspettavo prima.") Non mi dava il tempo di scusarmi e scompariva, lasciandomi davanti alla porta chiusa e cioè davanti a me stessa. Frustrata e colpevole. Mi sentivo colpevole perché sapevo per esperienza che sentire suonare il campanello durante una seduta, anche se in quel momento non si stava dicendo niente, e vedere il dottore alzarsi, uscire, era intollerabile. Durante quell'interminabile periodo lui faceva ogni tanto dei commenti, che finivano seppur lentamente a provocarmi reazioni. Ad esempio, mi aveva detto che dovevo pagare le sedute alle quali non venivo. Ero senza un soldo, e mi toccava pagare una cifra esorbitante per tre quarti d'ora di mutismo o di assenza: quaranta franchi! Poi aveva detto che il mio silenzio aveva un significato. Se tacevo non era perché non avevo niente da dire. Avevo qualcosa da nascondere oppure mi trovavo davanti a un ostacolo che avevo paura di affrontare. Se volevo andare avanti, dovevo parlare di quello che volevo nascondere oppure far di tutto per individuare quell'ostacolo invisibile che mi fermava, e l'unico modo per riuscirci era quello di dire tutto ciò che mi passava per la testa. Purtroppo non vi passava niente. Infine aveva detto che qualsiasi mia manifestazione aveva un senso. Ad esempio se facevo un piccolissimo sospiro, il dottore diceva: "Sì?...

Sì?..." come se volesse farmi capire che forse si era aperto uno spiraglio, nel momento preciso in cui avevo sospirato. Mi toccava ritrovare quello che c'era nella mia mente in quel momento. Anche quando cambiavo posizione (non ce la facevo a stare supina, in posizione fetale, girata verso il muro, senza mai muovermi per tutta la seduta), sentivo il suo: "Sì?... Sì..." Il mio comportamento nella vita di ogni giorno non era molto diverso da quello che avevo con il dottore. Riuscivo a controllarmi quando c'erano i miei figli (quando stavamo tutti e quattro insieme si parlava, si giocava, si facevano i compiti per il giorno dopo), a lavorare (scrivevo testi pubblicitari), per cui potevo pagarmi le sedute e dar da mangiare ai miei figli, ma per il resto del tempo ero muta. Non potevo comunicare con nessuno, mi raggomitolavo nel mio letto per ore e ore, senza pensare a nulla di preciso, immersa in una specie di zuppa tiepida e insapore nella quale la paura veniva a volte a trovarmi e mi costringeva a sedermi, a muovermi, a respirare con fatica. Ero assolutamente incapace di dire che cosa mi avesse fatto paura. A volte mi addormentavo completamente vestita. Aprivo gli occhi, era l'alba, non era cambiato nulla. Era giorno, era notte, per me non faceva nessuna differenza. Dimenticare è come chiudere una serratura estremamente complicata, che però è soltanto una serratura, non è una gomma e non è una spada, non cancella e non uccide, tiene chiuso e basta. Ora so che la mente percepisce tutto, classifica tutto, mette via tutto e conserva tutto. Quando dico tutto intendo dire: anche quello che crediamo di non aver sentito, visto o udito, anche quello che crediamo di non aver capito, anche i pensieri degli altri. Ogni singolo avvenimento, per quanto banale e quotidiano possa essere (ad esempio il fatto di stiracchiarsi sbadigliando la mattina), viene catalogato, etichettato, chiuso nell'oblio, ma la nostra coscienza ce lo indicherà più volte con segnali spesso impercettibili: un accenno di odore, una scintilla di colore, un lampo di luce, un frammento di sensazione, una briciola di parola. Addirittura un fruscio, un'eco. E a volte ancora meno: un attimo di vuoto. Basta stare attenti a questi segnali. Ognuno apre un sentiero in fondo al quale c'è una porta chiusa a chiave dietro la quale preme il ricordo intatto. Non un ricordo rigido, morto, bensì un ricordo vivo, pulsante, avvolto nella sua luce, nei suoi odori, nei suoi gesti, nelle sue parole, nei suoi rumori, nei suoi colori, un ricordo con intatte le sensazioni, le emozioni, i sentimenti, il tutto sormontato da due antenne: due punti di contatto con il prima e il dopo. In questa esplorazione di sette anni nelle profondità del mio inconscio la prima cosa che ho capito è stato il sistema dei segnali, in seguito ho scoperto il segreto dell'apertura di molte porte e infine mi sono accorta che alcune di esse mi sembravano irrimediabilmente chiuse e che vi avevo bussato disperatamente. L'angoscia nasceva dal fatto che sapevo di non poter fare marcia indietro. Era una situazione irreversibile: non potevo abbandonare o dimenticare una porta che non si apriva perché dietro c'era la medicina giusta per tranquillizzare e curare la mia mente malata. E se non ce la farò? Se tutto ciò fosse solo suggestione? Se fossi in balia di un ciarlatano? Perché non riprendere i buoni farmaci che mi facevano dormire? Perché non lasciar perdere tutto? La resistenza della nostra mente ad aprire queste porte è straordinaria. La mia rivelò una forza fantastica. Custodiva là dietro qualcosa che mi aveva ferita, che mi aveva fatto molto male, mi aveva ridotta a pezzi. E non voleva che ci ritornassi, non voleva che soffrissi di nuovo a causa di questo male dimenticato. Si serviva anche della morte per far da guardia a quella porta. La morte con la putrefazione, i liquidi puzzolenti, le carni in decomposizione e lo

scheletro biancastro dal quale pendono brandelli marci, pieni di vermi. La mia mente esibiva quegli orrori a bella posta, inventava visioni orride per farmi scappare, vomitare. Fabbricava oggetti pericolosissimi. Ma il più delle volte c'era il vuoto davanti alla porta. Un vuoto formicolante di cose invisibili, un vuoto affascinante che mi dava le vertigini, un vuoto spaventoso. Quando la prima porta si aprì, quasi non me ne resi conto. Una notte feci un sogno che non facevo più da tanto tempo e che si ripeteva spesso durante la mia giovinezza. Mi trovavo in un luogo molto piacevole, che a seconda dei giorni era completamente brullo oppure cosparso di pini marittimi. Il suolo era morbido, a volte sabbioso, e allo stesso tempo consistente sotto i miei piedi. In questo scenario di pace e di dolcezza compariva un cavaliere, anche lui in perfetta armonia con il paesaggio. Il suo cavallo trottava tranquillo, lento, cadenzato. Tracciava una pista rettangolare, facendo più volte lo stesso giro; la bestia posava gli zoccoli sulle orme che aveva lasciate in precedenza. L'uomo poteva essere sia un cavaliere del Medio Evo (nel qual caso brandiva uno stendardo magnifico e il cavallo aveva una ricca bardatura), sia un cavaliere di oggi vestito di tweed e di seta (un piccolo foulard attorno al collo, un delizioso profumo di Vétiver, cuoio e feci di cavallo). Non mi guardava mai. Io lo trovavo terribilmente affascinante e sapevo che si era accorto della mia presenza. A un certo punto accelerava il ritmo del trotto: cioè i movimenti del cavallo diventavano più profondi, più marcati, un po' come negli esercizi di Alta Scuola, per cui il cavaliere si dondolava avanti e indietro, con regolarità. Più la cadenza diventava serrata, e più il cavaliere accorciava il suo percorso, tanto che finiva col girare su se stesso al centro del rettangolo. Non vedevo i suoi occhi, non incontravo il suo sguardo eppure sentivo che mi sarebbe stato facile saltare in groppa dietro di lui e che non gli avrebbe dato fastidio. Intanto, più lui continuava a girare, e più sentivo il terreno diventare molle, come una specie di besciamella nella quale affondavo, che paralizzava i miei gesti e li rendeva estremamente faticosi. Non riuscivo più a liberarmi da questa colla densa e molle che mi soffocava. Mi svegliavo di soprassalto, coperta di sudore, affannata. Detestavo questo sogno che finiva in un incubo e mi faceva battere il cuore all'impazzata. Non riuscivo a identificare il cavaliere che per me non aveva volto poiché non aveva sguardo. Non capivo niente di questa visione che mi lasciava un senso di paura e di cui cercavo di reprimere il ricordo. Nel rivivere questo sogno sul divano del vicolo, nel mettere a fuoco tutti i suoi elementi, presi coscienza del fatto che stavo descrivendo due universi: uno che conoscevo benissimo, e cioè l'universo di mia madre: sicuro, gradevole, un po' noioso, un po' triste, molto perbene, armonioso, piatto. Un altro che non conoscevo, ma che desideravo inconsciamente all'epoca in cui facevo questo sogno: quello dell'avventura, dell'uomo, del sesso, (il cavaliere mi piaceva molto), cioè l'universo della strada. Rimanere o partire, m'impantanavo in questo problema, troppo difficile perché la bambina che ero lo potesse risolvere. Mia madre era rappresentata dall'armonia triste del paesaggio. Non avevo bisogno del suo occhio per seguire le sue regole. Il suo occhio era già dentro di me. Vedevo attraverso di lei. Io non avevo più uno sguardo mio o perlomeno ero perfettamente capace fin dall'età di setteotto anni, (quando ho cominciato a sognare il cavaliere) di combattere e di respingere inconsciamente il mio sguardo fino a restare paralizzata o soffocata. Il cavaliere non mi guardava, mi lasciava libera. Parlando di lui

ho cominciato a capire quello che mi piaceva veramente, quello che fin da bambina desideravo. Ho capito anche perché, più tardi, non mi piaceva essere guardata mentre facevo l'amore e perché, quando la malattia si è aggravata, riuscivo a godere soltanto se immaginavo di accoppiarmi con un animale, un cane soprattutto. Quella fantasia aumentava il disgusto che avevo di me stessa e non osavo parlarne con il dottore. Mi decisi a parlarne e subito l'immagine si allontanò da me, come l'allucinazione. In effetti era molto semplice: un cane non poteva giudicarmi, mi lasciava libera, lo sguardo di un cane non poteva umiliarmi né ferirmi. Ogni volta che ho aperto una di quelle porte terrificanti mi sono accorta che il meccanismo della serratura era meno complicato di quanto pensassi e che laddove pensavo di trovare il terrore, la tortura, l'orrore, scoprivo soltanto una bambina sconvolta, infelice, terrorizzata, sottosopra. Temevo di trovare cose capaci d'impaurire una donna di trentaquattro anni, che aveva visto uomini ammazzarsi per strada, sentito i suoi figli nascere lacerando le sue viscere, che sapeva che cosa fossero le bombe al napalm, la tortura, i campi di concentramento. E invece quello che scoprivo erano paure infantili. Dietro alla porta c'era la bambina terrorizzata perché un grosso scarafaggio era appena entrato in un buco della parete, proprio sopra la sua testa, perché un signore la filmava mentre stava facendo pipì, la bambina paralizzata da un cavaliere che la visitava di notte, la bambina spaventata da un pisellino di carta. Rivivevo con lei quei momenti, diventavo lei, sentivo la sua paura. Poi lei scompariva. Io mi svegliavo e mi mettevo a pulire il terreno appena conquistato. Il mio spazio diventava sempre più grande. Stavo meglio. Nella prima parte dell'analisi avevo ritrovato la salute e la libertà di servirmi del mio corpo. Ora cominciavo lentamente a scoprire me stessa. L'inizio fu molto faticoso perché diffidavo di me stessa. Temevo d'incontrare una persona piena di difetti e di vizi. Mi ci sono volute numerose incursioni nell'inconscio prima di rendermi conto che era selvaggio e libero ma incapace di malignità. Il Bene e il Male appartenevano alla mia coscienza, stava a me forgiarli come credevo. L'analisi terminò quando sentii che ero in grado di assumere la responsabilità dei miei pensieri e delle mie azioni, qualsiasi essi fossero. Mi ci sono voluti altri quattro anni. XI Mi ci sono voluti i primi quattro anni di analisi, un numero infinito di sedute, per prendere coscienza del fatto che stavo facendo una psicoanalisi. Fino a quel momento avevo preso la cura come fosse una stregoneria, una specie di rito magico che mi salvava dalla clinica psichiatrica. Nonostante i progressi, non riuscivo a convincermi che con l'aiuto delle mie sole parole avrei cancellato definitivamente un tale smarrimento, un male così profondo, un tale disordine devastatore, una tale paura continua... Pensavo che da un momento all'altro avrebbe potuto ricominciare tutto: il sangue, l'angoscia, il sudore, i tremiti. Ero talmente stupita di vedermi prolungare la pausa che non m'accorgevo di essere profondamente cambiata. Dipendevo sempre meno dagli altri e dal caso. Il vicolo stava diventando un laboratorio e allo stesso tempo il castello dalle porte chiuse. Il piccolo dottore era a un tempo il paracadute e il testimone dei miei viaggi nell'inconscio. La mia strada era ormai segnata da tutta una serie di punti di riferimento che egli conosceva quanto me. Non potevo più perdermi. Cominciai con il rivivere momenti che mi erano serviti da paraocchi

contro la Cosa, come se avessi voluto dimostrare al dottore e a me stessa che non ero malata da sempre, che in me esisteva un embrione nascosto che avrei scovato e a partire dal quale avrei potuto ritrovarmi. Cercavo di scoprire come e perché ero diventata una malata di mente. Così facendo misi a fuoco la personalità torbida di mia madre. Rivivevo le scene che ora descriverò nella loro luce reale. Ero, di nuovo, interamente bambina. Passavamo parte delle vacanze estive in una villa al mare che si chiamava "La Salamandra". Bianca con le imposte azzurre. Un corridoio centrale lungo il quale si aprivano otto camere da letto e in fondo un grande soggiorno che dava sul mare. Dall'altra parte del corridoio, un patio con piante di zinnie, di vilucchio, e attorno al patio la cucina, le stanze dei domestici, la lavanderia, il garage. Un piccolo universo chiuso sulla nostra famiglia riunita al gran completo, ma aperto sul cielo e sul mare. La vita vi trascorreva spensierata e libera. Passavo le mie giornate in costume da bagno a correre tra gli scogli e sulla spiaggia, e giocare nell'acqua. Nany mi sorvegliava da sotto l'ombrellone dove rimaneva per ore a sferruzzare e a chiacchierare in compagnia delle babysitter delle ville vicine che erano tutte abitate da amici e conoscenti. I pasti alla Salamandra erano squisiti, si mangiava gaspacho, insalate, sorbetti, fritti di pesce, crostacei, ma io non ne avevo diritto. Fino ai dieci anni i bambini non erano ammessi alla tavola dei grandi. Per loro c'era una dieta speciale, di tipo anglosassone, a base di cereali, svizzere di manzo, frutta, verdure cotte o crude. Quanto c'è di più sano! Consumavo quindi i pasti prima degli adulti. Nany mi stava vicino e badava a che mi comportassi bene e masticassi a dovere. Mia madre sentenziava sempre: "Si deve masticare a lungo per digerire bene." E quindi Nany ripeteva "Mastica! Por l'amor de Dios, mastica!" Una sera alla Salamandra. Sono seduta davanti al mio piatto, in fondo al tavolo già apparecchiato per i grandi. Benaouda sta chiudendo le persiane facendomi una smorfia ad ogni finestra. Facciamo questo gioco tutte le sere. La zona pranzo del soggiorno è illuminata con un lampadario arabo che trovo splendido perché mi ricorda gli alberi di Natale. E' costituito da numerose stelle di ottone sovrapposte le cui punte reggono coppette di vetro colorato: blu, rosso, giallo, verde. In queste coppette (che una volta erano lampade a olio) ci sono lampadine che riflettono luci di vari colori in questa parte della stanza. La zona salotto rimane in ombra. Il più giovane dei miei zii, che ha solo dieci anni più di me, e cioè appena quindici anni, si sta annoiando in una grande poltrona di vimini. Ha la gamba destra tesa, imprigionata in una doccia contentiva: soffre di travaso sinoviale. Mia madre mi ha spiegato che il liquido sinoviale è simile all'olio con il quale Kader unge la catena e i pedali della mia bicicletta. Il mio giovane zio cadendo ha perso il liquido che serve a ungere il suo ginocchio. Deve rimanere immobile per far tornare quel liquido... Mi vuole molto bene e mi fa sempre complimenti per i miei capelli riccioluti, le mie efelidi, le mie ginocchia sbucciate, i miei vestiti. Anch'io gliene voglio molto. Non è ancora un adulto e non è più bambino, eppoi gode dello straordinario prestigio di essere mio zio, il fratello di mia madre. Mi capita spesso, dopo una giornata stremante passata nel sole e nell'acqua, di addormentarmi a tavola mentre mangio. Prima dell'incidente mio zio mi prendeva in braccio e mi portava in camera mia. Percepivo la tenerezza dei suoi gesti prima di sprofondare completamente nel sonno.

Questa sera mi sento proprio a mio agio, sicura: c'è Nany accanto a me, mio zio di fronte, dall'altra parte del tavolo, il lampadario stellato sopra la mia testa e fuori il mare che riposa emettendo profondi sospiri. Ma poi arriva Messaouda che posa davanti a me una fondina colma di minestra di verdura. Odio questa minestra. Soprattutto i filamenti di porro che mi danno la nausea. Non riesco a mandarli giù. E' un rifiuto viscerale, non posso farci assolutamente niente. Stringo le mascelle, non voglio mettermi il cucchiaio in bocca. Nany mi viene in aiuto e lo mette contro i miei denti. Ingoio il brodo che va giù senza problemi ma non lascio passare il più piccolo pezzo di verdura, i porri soprattutto. In questo momento mia madre entra nella stanza; bella, profumata, con i suoi capelli ondulati ben pettinati. Capisce subito la situazione. "Deve mangiare la minestra." "Signora, non c'è niente da fare, non riesce a mandare giù le verdure." "Lasci fare a me." Si siede al posto di Nany, prende il cucchiaio in mano. "Ma non ti vergogni, a farti imboccare come un bebè?" Niente da fare, il mio disgusto è troppo forte, non riesco a disserrare i denti. Mia madre, irritata, si alza. "Che faccia pure. Non andrà a letto prima di aver finito il suo piatto e non avrà nient'altro." Esce e io rimango davanti alla mia minestra, sapendo benissimo che non mangerò nulla anche se ciò addolora tanto mia madre. Alcuni secondi più tardi si sente scricchiolare la ghiaia fuori nel cortile. Qualcuno sta camminando sotto le finestre. Si sente il rumore di un sassolino contro una delle persiane. Apro la bocca e ingoio la verdura. Mio zio e Nany stanno zitti. Una pausa, poi un altro sassolino, e io mando giù un'altra cucchiaiata come fosse una purga. Un terzo sassolino, una terza, una quarta, una quinta cucchiaiata; afferro il tavolo a due mani per combattere la nausea. In quel momento mio zio, che non sembra affatto preoccupato, dice: "Ti conviene mangiare, sai, mi pare che il venditore ambulante sia in giro, se non fai la brava ti porterà via." Il venditore ambulante era un uomo che comperava abiti usati nei quartieri alti e poi li rivendeva. Camminava lentamente lungo le strade e lanciava a intervalli regolari un grido acuto: "A...biti! A...biti! Uh!" Mi incuteva terrore perché portava, appesi alla cintola, cadaveri di topi rinsecchiti che gli facevano una specie di baschina sui fianchi. Andavo a nascondermi non appena lo sentivo e mia madre mi minacciava di darmi al venditore ambulante se non facevo la brava. Però il venditore non passa mai alla Salamandra, non può essere lui. Ingoio ugualmente le cucchiaiate di minestra che Nany mi porge. Tutt'a un tratto, in mezzo al silenzio della grande stanza, ho sentito molto vicino a me: "A...biti! A...biti! Uh!" E' qui! E non ho ancora finito il piatto! Viene a prendermi! Il terrore mi invade, una specie di lungo brivido, sento lo stomaco stringersi e come se stessi sputando l'anima, la minestra esce a getto dalla mia bocca. Sono veri e propri spasmi, vomito acqua, aria, nulla. Nany mi regge la fronte e, stranamente, mio zio ride. Mia madre ricompare nella stanza. Subito vede la bella tovaglia coperta di vomito. Il suo viso s'irrigidisce: al solito, l'ho fatta arrabbiare. Capisco il suo stratagemma: ha fatto il verso del venditore ambulante per costringermi a mangiare la minestra. Ma il trucco non ha funzionato. Nel suo sguardo e nella sua voce c'è qualcosa di isterico.

"Mangerà tutta la minestra, in ogni caso. Questa bambina deve smetterla, una volta per tutte, di fare i capricci. Non mi muovo più di qua. Non andremo a tavola finché non avrà finito." Mi metto a mangiare da sola la mia minestra vomitata, non certo per farle piacere ma perché sento in lei qualcosa di pericoloso, di malato, qualcosa che è più forte di lei e di me, qualcosa di molto più spaventoso del venditore ambulante. Questo episodio ha fatto ridere tutta la famiglia, accorsa al rumore delle grida. Se lo raccontano l'un l'altro, fin nei minimi particolari. Infine dicono di mia madre: "Certo è severa, ma fa bene". Questa frase non riesce a entrarmi in testa. Non capisco il significato, la rifiuto. Riuscivo ad attirare e a trattenere l'attenzione di mia madre solo quando ero ammalata. Tornavo da scuola con la fronte che scottava, avevo gli occhi lucidi. Nany, che mi veniva a prendere a scuola, aveva già notato: "Non stai affatto bene." Arrivate a casa, mia madre veniva immediatamente informata, e la mia camera da letto si trasformava in infermeria. Mia madre stendeva sul comò una specie di tovaglia da altare inamidata e ricamata sulla quale disponeva medicine, termometro, piattini con cucchiaini d'argento e, in mezzo a questo arsenale, un piccolo bollitore di porcellana a fiori con la base cava nella quale un fornellino ad alcool manteneva calda l'infusione di verbena che mi piaceva tanto. "Bisogna bere molto quando si ha la febbre." Mia madre veniva vicino al letto, si sedeva, si chinava verso di me e mi appoggiava le labbra sulla fronte e sulle guance. Lo faceva con molta attenzione, da una parte del viso poi dall'altra, con colpetti ripetuti, tenendomi il mento tra le mani. Questi contatti rapidi e precisi mi colmavano di felicità e di tenerezza. "Hai una bella febbre. Fammi vedere, apri la bocca." L'origine del male era sempre la stessa. Con uno dei cucchiaini d'argento mi teneva giù la lingua mentre dirigeva la luce di una piccola lampada elettrica verso la mia gola. "Hai un bel mal di gola bambina, sei piena di placche bianche. Dovrai stare a letto per una settimana." Ovviamente tentava di spiegarmi che era colpa mia se mi ero ammalata, perché ero disubbidiente, imprudente, non stavo mai attenta ecc...' Tutto ciò non mi impediva di essere la bambina più soddisfatta di questa terra. Sapevo che per otto giorni mi avrebbe curata con la massima attenzione. La gola mi faceva male, il corpo mi doleva e mi rilassavo tra le lenzuola fresche di bucato, così fresche che mi avevano fatto rabbrividire quando mi ero rannicchiata nel letto. Mi sentivo molle e fragile come un frutto troppo maturo. Non si accontentava di curarmi, rimaneva in camera mia, con un libro o un ricamo. Le giornate volavano insieme a lei e, quando calava la notte, tutta la stanza cominciava a tremolare nella luce incerta del fornellino che faceva sprigionare il profumo delicato e dolce della verbena. Le ombre distorte dei mobili e degli oggetti creavano una trama calda e incantata nella quale risuonava la voce di mia madre che cantava per addormentarmi; aveva una voce piena, dolce, piuttosto bassa: "La mamma un mattino disse all'ometto: hai quindici anni e sei più piccolo dei sette nani. Dovrai andare in città, dovrai far l'apprendista. Per lavorare la terra non hai certo la statura." Poi cantava la storia di Gregoire il piccolo scioano che moriva tra i fischi delle pallottole. "Una pallottola gli forò il petto, dal buco uscì la sua anima, e Gregoire si ritrovò nel firmamento." Ero sconvolta da quella morte e dalla strofa successiva in cui Gesù apriva "il suo bianco mantello" per accogliervi il bambino e nasconderlo. Quando mia madre cantava metteva il massimo impegno nei

passi drammatici o particolarmente poetici. Il suo repertorio comprendeva anche "I fazzolettini di pizzo" e altre canzoni molto belle e molto tristi che mi sono rimaste impresse e che non scorderò mai. Rimarranno sempre importanti per me perché cariche di notti profumate e di amore materno. Le sue mani erano fresche, leggere, abilissime, fatte per curare i malati. Faceva iniezioni e fasciature come nessuno. Le sue mani sembravano uccelli, gatti. Erano contemporaneamente dappertutto, si muovevano rapide, esperte. Mi rimboccava le lenzuola, mi toccava un'ultima volta la fronte: "Ora la mia bambina adorata farà la nanna." Mi parlava come spesso l'avevo sentita parlare alla sua bambina nella tomba al cimitero. Mi accarezzava con la voce e con le mani. Ah, avevo il suo amore! Era bello, era semplice. Mi addormentavo beata, bruciante di febbre. Il meglio veniva quando, una mattina, mi svegliavo con la gola che mi faceva meno male. Deglutivo meglio e il termometro indicava un abbassamento della temperatura. Mi sentivo i polpacci intorpiditi, avevo voglia di muovermi. "Non devi uscire dal letto. Guarda che non sei affatto guarita." Per tenermi buona mi faceva sedere, sistemava dei cuscini dietro la mia schiena e incominciava a leggermi qualcosa. Erano quasi sempre favole di La Fontaine e altre poesie che mi leggeva con tutte le intonazioni. In quelle occasioni ricorreva sempre agli stessi libri. Conoscevo esattamente il loro posto nella libreria. Ce n'era uno in particolare, che aspettavo con un misto d'impazienza e di orrore. Era una raccolta di poesie di Jehan Rictus, un autore dialettale parigino populista. La mia poesia preferita s'intitolava: L'urlo della vecchia. Ogni volta che mia madre l'annunciava mi veniva la pelle d'oca. Era la storia di un monello di Menilmontant che, trascinato dalle cattive compagnie, finiva sulla ghigliottina. La madre del delinquente, inginocchiata sulla terra anonima vicino alla fossa dei condannati a morte di un cimitero parigino lanciava un lamento che si protraeva per varie pagine. Mia madre le prestava la sua voce. Questa metamorfosi di mia madre, come se si fosse messa una maschera da puttana sul viso e degli stracci da barbona addosso, m'incuriosiva enormemente. Ma in realtà, se da una parte mi affascinava, dall'altra mi faceva repulsione. Ma dove andava a prenderla quella voce volgare e strascicata, tanto estranea a lei, che era sempre così perbene, così fiera, così educata, così austera? Il testo era scritto in gergo parigino e mia madre lasciava pendere le labbra per pronunciare Menilmuche, Montmertre, jules, parole di cui capivo ben poco se non che appartenevano al dialetto. Ma lei mi spiegava che quella povera donna piangeva perché suo figlio era sotterrato lì, in quella terra, ma non si sapeva esattamente dove, dato che i condannati a morte non avevano diritto a nessuna croce, non c'era nessun segno che indicasse la tomba dei decapitati. Piangeva, piangeva, e tra le lacrime rivedeva il suo ragazzo quando era il pupo allegro e cicciottello che lei faceva ridere con le pernacchiette sulla pancia; rivedeva la sua tenera bocca quando prendeva il capezzolo tra le labbra e appoggiava la testa bionda e riccioluta al suo seno. Quella testa che avevano appena tranciata e che era sotterrata lì, staccata dal corpo. Quel testo era uno dei pezzi forti di mia madre e spesso vedevo comparire, mentre lo stava leggendo, la gente di casa che veniva ad ascoltarla. E difatti si diceva spesso in famiglia, riferendosi a mia madre: "E' una vera artista." A volte mi metteva in ginocchio perché guardassi le immagini: L'inferno di Dante, illustrato da Gustavo Doré, che aveva fatto rilegare in pelle di serpente, oppure il catechismo della mia

bisnonna, pieno di angeli grassi ed estatici e di temibili diavoli. Poi guarivo e la vita ricominciava uguale a prima. Nello stesso istante in cui non ero più debole fisicamente, lei si alzava e se ne andava, tornava dai suoi poveri, dai suoi malati. Rimanevo sola con il ricordo struggente delle sue attenzioni e della sua presenza e l'impressione di essere troppo piccola per capire le sue canzoni, le sue illustrazioni, le sue letture. Intuivo confusamente che si sbagliava, che forse non era normale. In Svizzera abitavamo in un grande chalet chiamato Edelweiss: una costruzione di legno a due piani, circondata da una terrazza sulla quale davano le varie stanze del pianterreno. Attorno alla casa si stendeva il paesaggio elvetico che fa sognare tutti gli europei delle colonie: un prato d'erba verde e fresca costellata di deliziosi fiorellini, in fondo un bosco di pini e all'orizzonte le Alpi. "Dovete respirare profondamente, siete qui apposta." Con noi c'era la migliore amica di mia madre con i suoi due bambini che avevano la mia età. Tre bambini tra i sei, sette anni affidati nelle ore di studio a un precettore ecclesiastico, padre Grandmont, che la nostra vitalità mediterranea sconvolgeva; per tenerci buoni ci raccontava la vita di San Guido di Fontgalant, un giovanotto beatificato di recente, il quale aveva la facoltà di far ritrovare gli oggetti smarriti: "San Guido di Fontgalant fammi ritrovare il fazzoletto." E ritrovavi il fazzoletto. Eravamo nel 1936. La stanza dove si studiava era al secondo piano dello chalet e sembrava sospesa tra il cielo e le cime coperte di neve. Una mattina, un grido, anzi un urlo, ci fece saltare sulla sedia. In un attimo fummo sul pianerottolo, piegati in due sopra il corrimano di quercia ben lucidato. Tutti avevano fatto la stessa cosa, sotto di me vidi spalle e nuche chinate come le nostre verso l'ingresso. In mezzo alla grande tromba delle scale mia madre mostrò il viso stravolto, i lineamenti tirati, gli occhi spalancati dal terrore, ancora più verdi del solito. "I comunisti sono al potere! L'ha annunciato la radio." I comunisti? Che cosa vuol dire? Forse sono i tedeschi che ci vogliono inchiodare alle porte dei fienili come durante la Grande Guerra? Ma perché mia madre è tanto spaventata? Il panico invase la casa. In ventiquattr'ore i bauli erano chiusi, lo chalet pure, si rientrava in Algeria, di corsa. "Prenderemo l'espresso della notte, così attraverseremo la Francia senza vedere niente." Al mattino eravamo già a Marsiglia, con il mare, il porto e il grosso piroscafo che aspettava. Che sollievo! Fummo i primi a salire a bordo. Io pensavo di averla scampata bella. A quanto pareva i comunisti non erano arrivati al mare perché tutto sembrava tranquillo. Certo, era una fortuna abitare in Algeria e non in Francia. Non facevo domande e cercavo di comportarmi bene perché quand'era nervosa, mia madre mollava gran schiaffi per un nonnulla, e lasciava il segno delle cinque dita sulla guancia o sul sedere. Anche Nany stava zitta, come tutti gli altri. Una volta sistemati a bordo, il clima si distese un po'. C'erano fiori nella cabina di mia madre. Chissà chi li aveva mandati. Mia madre parlava con Nany: "Sono riuscita a mandare un telegramma a casa per avvertirli. Il comandante dice che giù va tutto bene... Per il momento nessuna agitazione." Uscimmo. Ora il molo era pieno di gente. Un signore con un vestito bianco (di quelli che portavano i francesi nelle colonie) andava su e giù lungo il ponte in mezzo a un gruppo di uomini che lo ascoltavano

assorti. Anche le scarpe erano bianche, portava un panama, una cravatta rossa e un garofano rosso all'occhiello. L'altoparlante avvertì i visitatori e gli accompagnatori che dovevano lasciare la nave. Si stava per salpare. L'uomo in bianco rimase solo e venne ad appoggiarsi al parapetto vicino a noi. Sul molo la folla era aumentata, anche il terrazzo della Compagnia Transat era gremito. L'uomo faceva gesti incomprensibili, di qua e di là, in mezzo al fragore. Sentivo che mia madre era nervosa. C'era molta tensione nell'aria. Improvvisamente l'uomo - eppure sembrava così educato! - alzò il braccio destro col pugno chiuso e tutta la folla, dopo un grande boato, lo imitò. Una selva di pugni sopra le teste. Mia madre parla a Nany con tono asciutto. "L'avevo capito da un pezzo. Deve essere un dirigente del loro partito... A quanto pare non sono così poveri come vorrebbero far credere, se viaggiano in prima classe e col vestito di alpacha per giunta." "Chi è?" osai chiedere. "Un comunista!" Un comunista! "E quella gente?" "Sono comunisti, operai. Smettila con le tue domande." Operai! Comunisti! Dal tono della sua voce sembrava che fossero la stessa cosa. Non ci capivo niente. I comunisti erano pericolosissimi eppure mia madre diceva sempre: "Devi sempre essere educata con gli operai, sono poveracci, povera gente." Oppure: "Ci sono figli di operai che non hanno nulla da mangiare, nemmeno un giocattolo per giocare. Dovresti pensarci quando sprechi la roba." Ero tanto perplessa che a rischio di farmi mandare al diavolo chiesi: "Che cosa vogliono?" "Vogliono i nostri soldi, le nostre case, i nostri vestiti." "Perché?" "Perché ci odiano." "Non siamo stati abbastanza educati con loro?" Mia madre si strinse nelle spalle, esasperata. Mi conveniva star zitta, più tardi avrei chiesto spiegazioni a Nany. Poi la sirena diede il segnale della partenza. I marinai iniziarono a mollare gli ormeggi a terra e a bordo. E quando la nave si staccò definitivamente dal molo, la folla, con una sola immensa voce, si mise a cantare una canzone sconosciuta, grande, terrificante, bellissima: L'Internazionale, futura umanità. Mia madre era pallidissima e parlava in modo concitato: "Dobbiamo stare qui, mostrare dignità. Che non pensino che abbiamo paura di loro... Devi esser più educata che mai. Non aver paura, è soltanto una pagliacciata." Mi spinse davanti a sé. Stavo dritta, quasi sull'attenti, come paralizzata, mentre mi sentivo avvolgere dall'inno comunista. Chissà perché mi è venuto in mente che la mia giacca di vigogna era stata comperata al "Paradiso dei bambini", il mio basco scozzese da "Old England", le mie scarpe di vernice da non so chi, e i miei calzini di filo di Scozia alla grande "Maison de Blanc". Ero inappuntabile, pulitissima, potevo rappresentare degnamente la mia famiglia. Meno male, una volta tanto ero elegante, in genere ero sempre "trasandata", come diceva mia madre. L'uomo in bianco aveva sentito mia madre e si era messo a cantare pure lui, alzando il pugno ancora più in alto: "Nostro fine sarà..." La fine? Quale fine? La nostra fine? La nostra morte? Ora mia madre era pallida, rigida, priva di ogni espressione. Non avevo mai assistito a un avvenimento tanto grandioso e tanto drammatico. La

folla guardava l'uomo dal garofano rosso. Non avevo mai visto sguardi del genere: decisi, pronti a qualsiasi cosa, minacciosi. Io che mi divertivo a correre sul ponte durante la traversata, questa volta non potei mettere un piede fuori. Qualche tempo dopo eravamo alla Salamandra. Non pensavo più ai comunisti, nonostante fossero il tema principale delle conversazioni di casa; ogni sera quando andavo a dare la buona notte ai miei parenti riuniti in salotto, li sentivo giostrarsi con nomi di uomini politici, li vedevo leggere giornali e riviste e ascoltare ogni notiziario della radio. Per me il tema del comunismo era un tema equivoco e non cercavo troppo di capirlo. Mi avevano sempre insegnato che ci si deve amare l'un l'altro, dividere tutto con i poveri ecc...' Ma quando i poveri chiedono senza mendicare, non si doveva dare loro niente. Perché? Mistero. Ero pronta per la cena quando la macchina di un mio zio entrò a velocità folle nel cortile della Salamandra. Sbatté la portiera e si precipitò in casa fino alla camera di mia nonna dove annunciò, col fiato sospeso: "I rossi stanno preparando una spedizione nelle ville della spiaggia! Dobbiamo avvertire i vicini." I rossi? Il garofano rosso, la cravatta rossa! I rossi erano i comunisti, sempre loro. M'avrebbero messo i miei vestiti migliori. Mia madre mi avrebbe spinta davanti a sé mentre quelli cantavano la grande canzone terrificante. No! Non me la sentivo proprio! Macché, niente di tutto questo. Come in Svizzera, ci fu un grande trambusto, tutta la casa sottosopra. Mia madre aveva preso il comando. Stava organizzando le nostre trincee: sbarre di ferro alle finestre e alle porte, tutte le serrature ben chiuse, tutti i lucchetti ai loro posti; per maggior sicurezza, dopo aver fatto venire i domestici insieme a noi con grosse ceste di viveri, ordinava loro di spingere i mobili contro le uscite meno protette. Ero più che terrorizzata, ero assolutamente sconvolta. Tremavo come una foglia. Per evitare che disturbassi tutti quegli andirivieni e quei traslochi, mi avevano mandata a letto e ora immaginavo che i comunisti m'avrebbero tagliato le mani, m'avrebbero sventrata... Passavano le ore. Mi rannicchiavo nel letto e spiavo ogni minimo rumore per sentire se arrivavano i comunisti, ora che era buio. Capivo che i miei si erano messi a giocare a bridge in salotto, come se niente fosse, e sentivo mia nonna dire a Lola nel corridoio: "Portaci dello champagne, forse sarà l'ultimo, tanto vale approfittarne, aprite pure un paio di bottiglie per voi," avevo raddoppiato la mia paura. Nany aveva fatto una breve comparsa in camera mia e aveva lasciato un grosso vaso da notte dietro la porta, segno che non dovevo uscire dalla mia stanza per nessun motivo. Uno scarabeo enorme era rimasto prigioniero anche lui e girava come un matto con un ronzio da ventilatore attorno al lampadario acceso. A volte urtava il soffitto così forte che cadeva per terra e ci rimaneva per un po', agitando le sue zampette magre prima di riprendere la posizione di volo. Faceva una serie di giri a bassa quota e si posava dove gli capitava. Il ronzio s'interrompeva e l'insetto avanzava goffamente, sembrava un carro armato. Sopra la mia testa, a cinquanta centimetri circa, c'era nella parete un buco rotondo di cui avevo sempre ignorato la funzione. Tutt'a un tratto ho pensato che non avrei sopportato che lo scarabeo entrasse là dentro. E invece è proprio quello che fece. La paura mi paralizzava, ero inchiodata nel mio letto, incapace di fare il più piccolo movimento. Lo scarabeo si reggeva come poteva sull'orlo del buco. Poteva cadere in qualsiasi momento e graffiarmi la faccia, magari accecarmi. Mi misi a urlare. Il mio giovane zio arrivò per primo. Ricordo che mi prese in braccio per impedire a mia madre di darmi un paio di

schiaffi. Li avevo spaventati con le mie grida. "Proprio stasera! Hai scelto il momento migliore! Alla tua età, hai ancora paura di un insetto! Non c'è niente da fare, questa bambina non è normale." Cacciarono lo scarabeo e mi addormentai. Non udii i comunisti. Ma l'indomani, uscendo di casa per andare in spiaggia, vidi che erano passati: sulla nostra porta e su quella dei vicini c'era una grande croce con le braccia spezzate dipinta a grandi pennellate di catrame che era colato lungo la porta e formava lunghe strisce nere, ormai asciugate dal sole. Nessuno mi disse che erano stati i comunisti ma io lo sapevo. Seppi poi che quei segni erano croci uncinate e dal silenzio dei miei parenti compresi che erano infamanti. Non so perché per vari giorni mi vergognai a morte di vivere in una casa segnata a questo modo. Anche perché, nonostante avessero fatto riverniciare la porta, il catrame riappariva egualmente, attraverso la vernice fresca, come una cicatrice. Mi sembrava che i miei si vergognassero, che la mia famiglia fosse bollata. Ogni anno, nel giorno dei Morti, accompagnavo mia madre al cimitero. Prima della guerra ci si andava in automobile con Kader che portava i fiori e i pacchi. In seguito invece, ci voleva più di un'ora e diversi tram per raggiungere quel luogo scosceso, lontano dalle spiagge del golfo, a picco sul Mediterraneo, che in questo punto era profondo, scuro, misterioso. Attraverso i tronchi e le foglie dei cipressi piantati lungo i viali si vedeva solo mare. Gli alberi avevano un odore aspro, i crisantemi un odore dolciastro. C'era odore di mare, odore di morti. Odore di pietra delle tombe che aggredivano la montagna fino alla sommità dove si ergeva una basilica dedicata a Nostra Signora d'Africa. La Madonna aveva un viso sottile imbrattato di vernice nera come le maschere negre a Carnevale e portava una mantella d'oro; era ieratica, maestosa, teneva il suo bambino su un braccio ripiegato. Nonostante la selva di croci sulle tombe e la foresta di campanili sulle cappelle mortuarie, il cimitero sembrava schiacciato tra l'immenso cielo e il mare infinito che si congiungevano all'orizzonte. Su questo luogo, che obbligava a pensare al nulla che ci attende e al mistero del nostro destino, soffiava un venticello allegro, felice, vivo, profumato, che faceva venir voglia di ballare, di amare. C'era aria di festa. Soprattutto nei giorni dei morti a causa dell'abbondanza dei fiori, dei bei vestiti delle visitatrici e della luce magica dell'autunno tiepido di sole, stagione di resurrezione dopo la torrida estate. Ci arrampicavamo fino alla nostra tomba, a metà della salita, stracariche di fiori e di attrezzi da giardinaggio che urtavano a intervalli regolari il secchio di ferro scandendo la nostra scalata. Strada facendo, mia madre osservava le tombe e mi mostrava quelle che erano belle e quelle che non lo erano. Si fermava spesso e mi spiegava in che cosa consistesse la volgarità o la distinzione dei vari monumenti funebri che incontravamo. Feci presto ad imparare che gli angioletti paffuti di porcellana, i fiori artificiali, i libri di marmo le cui finte pagine mostravano la fotografia a colori dell'estinto imbrillantinato o dell'estinta truccata, cose che mi parevano splendide, andavano bene soltanto per droghieri arricchiti. Le tombe semplici e ricche allo stesso tempo, il marmo pregiato con una croce senza fronzoli, quello sì che andava bene. Le vecchie tombe abbandonate dei primi coloni la attraevano molto, come pure le tombe dei poveri. Piccoli tumuli invasi dalle erbacce, con un barattolo di marmellata affondato nella terra come nell'ombelico del morto, con dentro due o tre fiori finti. Quelle tombe meritavano una sosta e una preghiera. Lei sceglieva alcuni bei fiori dai nostri mazzi e li

disponeva qua e là nella necropoli della miseria. Guardando quelle misere tombe diceva: "Stanno meglio qui che altrove," cosa che io traducevo con: meglio essere morti che poveri. Da qui la mia paura quando qualche mio parente diceva, a proposito di una spesa importante: "Se continua così finiremo con il mendicare per strada." Se faceva spesso commenti acidi, perfino cattivi, a proposito dei vivi, la morte invece era sempre oggetto delle sue attenzioni e del suo affetto. C'era una complicità tra lei e la decomposizione, un gusto macabro che non tentava nemmeno di nascondere. La sua camera da letto era tappezzata di fotografie di defunti, a volte ritratti sul letto di morte. I suoi gesti erano dolci quando deponeva fiori sulle tombe dei poveri; come quando mi dava una caramella o rimetteva a posto un ciuffo che mi pendeva sul viso. Giungevamo alla nostra tomba, la più semplice di tutte: una lastra di marmo pregiato, chiaro, senza croce, senza niente, con solo il nome in alto a sinistra, quello della sua bambina, e due date: la nascita e la morte (tra queste date c'erano soltanto undici mesi di vita); s'inginocchiava, passava la mano sul marmo come per accarezzarlo, e piangeva. Diceva: "Ti farò una bella tomba, tesoro, vedrai, sarà la più bella di tutte. Ti ho portato i fiori di Madame Philippars, i più belli di Algeri. Bambina mia, piccola bambina mia, mia povera piccina." Io ero incaricata di andare a cercare l'acqua. Facevo molte corse con il secchio. Per andare alla fontana dovevo camminare lungo il colombario: era un muro alto e lungo diviso in centinaia di caselle, ognuna con un piccolo ripiano per mettere un vaso di fiori o un ex voto. Sapevo che lì c'erano i resti di coloro che non avevano una concessione perpetua. Capivo benissimo che erano i poveri, quelli dei tumuli con le erbacce, che dopo qualche anno finivano in quei cassetti. Da vivi avevano formicolato nelle bidonville, da morti formicolavano nel colombario. Del resto era lo stesso per gli altri: da vivi avevano vissuto nelle ville, da morti avevano belle tombe singole e ogni famiglia era ben separata dai vicini. Niente di più logico... La gente faceva la fila, ognuno con il proprio recipiente. Il rubinetto funzionava male, irregolarmente, sembrava che sputasse. Se lo aprivi di più faceva brutti scherzi. Nell'acqua si formava una bella bolla trasparente che si gonfiava, s'ingrossava sempre di più. Poi, dopo una serie di violenti spruzzi, scoppiava a forma di ombrello, poi a forma di sole, e schizzava sui presenti che indietreggiavano con grida di spavento. Il custode arrivava ansimante dicendo che non si doveva toccare il rubinetto, che era l'ultima volta che lo metteva a posto. Simile a un torero che infila le banderillas, con le braccia e le mani protese, il corpo piegato per ripararsi la pancia, e la punta dei piedi il più lontano possibile, chiudeva a metà il rubinetto che ricominciava a sputacchiare. Si riformava la fila. Procedevamo molto lentamente. Via via che la mattina trascorreva l'odore dei cipressi riscaldati dal sole diventava sempre più forte. Tornavo alla tomba con il secchio che mi pesava e la vedevo che puliva la pietra, la spazzolava, la lucidava. Le sue belle mani erano tutte arrossate. Aveva la fronte coperta di sudore. "Ce n'hai messo di tempo!" "C'era la fila alla fontanella." "Ogni anno la stessa storia." "Devo buttare l'acqua adesso?" "Sì, fai pure, dopo andrai a prenderne dell'altra." Tenevo il secchio con una mano sul bordo e l'altra sul fondo e versavo il contenuto sulla tomba. L'acqua sembrava un ventaglio liquido e luminoso poi, dopo un attimo, si spandeva sul marmo e

scivolava via trascinando con sé polvere e frammenti vari, con la stessa agilità e la stessa potenza delle onde che passano sopra il molo nei giorni di tempesta. Subito dopo scorreva tranquillamente nelle apposite scanalature ai lati della tomba. Il marmo già sfregato a dovere luccicava tanto da abbagliare. Lei si rimetteva a lavorare e io tornavo a prendere altra acqua. Sapevo che durante la mia assenza avrebbe continuato a piangere e a parlare a sua figlia. Pare che i primi tempi venisse ogni giorno al cimitero. Ormai erano passati sedici o diciassette anni dalla morte della sua bambina. Non era più la stessa cosa. Non aveva più bisogno di venire così spesso, perché a poco a poco la bimba morta si era riformata dentro di lei e lì sarebbe vissuta per sempre. Ne sarebbe rimasta incinta fino alla morte. Io immaginavo lei e la sua bambina, che nascevano di continuo, insieme, cullandosi l'un l'altra, felici, fluttuanti nel mare della felicità, su, nel cielo, tra i profumi di campi di fresia in cui folleggiavano asini rosa, farfalle d'oro e giraffe di peluche. Ridevano, dormivano, colme del reciproco e costante amore che si scambiavano. Al cimitero la sua bambina era solo quella lastra di marmo bianco. A volte s'interrompeva nei suoi discorsi per baciare la pietra con infinita tenerezza. In quei momenti avrei voluto essere la pietra e avrei voluto perfino essere morta. Forse allora mi avrebbe amata come amava quella bambina che io non avevo mai conosciuto e alla quale dicevano non assomigliassi per niente. M'immaginavo sdraiata tra i fiori, inerte, bellissima, morta, mentre lei mi copriva di baci. Quando la pietra era così bianca e pulita da diventare accecante sotto il sole di mezzogiorno, mia madre iniziava a disporvi i fiori con un gusto squisito. Sapeva tutto dei colori, delle forme, della rigidezza, della fragilità, dell'essenza dei fiori. Componeva una grande croce a volte disordinata, a volte precisa. Una croce è qualcosa di semplice e in apparenza sempre uguale, è l'intersezione di due rette perpendicolari, ma può anche essere la cattedrale di Chartres. Mia madre costruiva cattedrali vegetali sulla tomba di sua figlia. La osservavo sapendo che sarebbe andata avanti a lavorare finché non avesse ottenuto una composizione insieme robusta e delicata che fosse l'esatta espressione del suo amore, del suo dolore, del suo cuore gonfio di rimpianto. I miei parenti dicevano di lei: "E' una martire." Tutte queste storie venivano alla superficie, si ordinavano tra di loro, ne facevano nascere altre, più remote o più recenti, più corte o più lunghe, lampi fuggevoli o invece movimenti di esistenza che ricoprivano vari anni. Quella bambina che stava lentamente resuscitando sul divano del dottore era diversa dalla bambina che ricordavo durante la mia malattia. (Più o meno, il periodo tra il racconto che mi fece mia madre dell'aborto mancato e l'inizio dell'analisi.) Una era ubbidiente, imbottita di amore per la madre, in continuo agguato dei propri difetti e delle proprie manchevolezze, pronta a respingerli, correggerli, una bambina senza uno sguardo proprio, che si lasciava guidare in qualsiasi circostanza. L'altra al contrario aveva gli occhi, e che occhi! Occhi che vedevano chiaramente e duramente la vera natura della madre. La vedevano quando costringeva la bambina a mangiare il proprio vomito, quando si lasciava andare alla volgarità della povera vecchia di Jehan Rictus, quando urlava nelle scale dello chalet svizzero, quando spingeva i mobili contro le porte con un accanimento e una forza incredibili, quando baciava il marmo della tomba, quando si esibiva davanti a lei, questa bimbetta, come davanti a un pubblico che era certa di conquistare. Quegli occhi erano

sensibili alla Cosa, sconvolti dalla Cosa, quegli occhi avevano percepito la presenza della Cosa nella madre. Non tutti sono sensibili alla Cosa. Solitamente viene riconosciuta soltanto quando si manifesta sotto forma di follia o di genio. Tra questi due poli, la Cosa si fa viva tramite l'immaginazione, le fantasie, le crisi di nervi o le composizioni floreali, e in quei casi come si fa a capire se si ha davanti un macellaio o un medico, una strega o un prete, un'attrice o un'ossessa? Difficile dirlo. Io lo percepivo (anche se non mi rendevo conto di avere questa capacità) e diffidavo di mia madre. Aveva tentato di farmi fuori, quella volta le era andata male ma poteva sempre riprovarci. Io ero un essere prepotente e straziato, per niente disposto a incanalarmi su una strada qualunque. Che cosa può fare una bambina, anche se prepotente, di fronte a un'adulta tirannica, affascinante, segretamente pazza, che oltretutto è sua madre? Può soltanto nascondere le sue ali da falco e trasformarsi in colomba, per proteggere se stessa. Avevo recitato la parte così presto e per tanto tempo che mi ero dimenticata l'istinto innato della caccia, della conquista, della libertà. Credevo di essere sottomessa e invece ero una ribelle. Lo ero da sempre. Esistevo! Non ero ancora in grado di capire completamente il significato di questa scoperta. Sapevo soltanto che possedevo un carattere mio, che non era particolarmente facile. Capivo anche perché il mio ammaestramento era stato tanto crudele e tanto intensivo. C'era in me una indipendenza, un orgoglio, una curiosità, un senso della giustizia e del piacere che non c'entravano niente con la parte che società e famiglia mi avevano assegnato. Avevano dovuto picchiare a lungo e sodo per riuscire a soffocare tutto questo, o almeno per lasciarne apparire soltanto una quantità ammissibile. Il lavoro era riuscito. L'unica parte di me che era rimasta intatta era questo senso che avevo della Cosa. In fondo, ho sempre saputo che mia madre era una malata, e nel centro di quella grande palla che era il mio amore per lei, c'era un nocciolo duro fatto della paura che essa m'ispirava e del disprezzo intriso di orgoglio che provavo nei suoi confronti. Ora che conoscevo alcuni miei difetti, ero in grado di avvicinarmi a lei come mai prima. Infatti mi proteggevano meglio delle mie virtù. Non avevo più paura che mi ferisse, i miei difetti mi servivano da corazza. La vedevo agitarsi tra i suoi tormenti, vedevo il suo odioso pancione, quel peso, quella vergogna che le toccava trascinarsi appresso, oggi, domani, per tutta la vita. Me l'immaginavo a ventotto anni, quando nacqui, così giovane, con i capelli rosso chiaro, gli occhi verdi, le belle mani, la passione che aveva dentro, il suo bisogno di amore così grande, vasto e splendido come il cielo, le sue doti, il talento, il fascino, l'intelligenza, e quell'embrione maledetto che la gonfiava, la riportava alla realtà odiosa: lei, giovane e bella com'era, aveva sprecato la sua vita, buttato via i suoi tesori. La sua religione era ferrea: in caso di divorzio, mai più l'amore di un uomo, mai più due braccia attorno a sé, due mani che accarezzano, mai più una pelle tiepida contro la sua; mai più una bocca fresca per estinguere il fuoco che la divorava. Mai più! Aveva troppa coscienza di classe per potersi guadagnare da vivere e aprire la sua mente oltre i limiti assegnati alle donne. Avrebbe potuto essere un chirurgo geniale, un ottimo architetto... Vietato! L'unica cosa che le restava era questa seconda figlia, questa figlia tanto diversa dall'altra, la prima, la stupenda, quella che era morta, e quindi doveva farne per forza qualcosa di eccezionale. Questa bambina, questa neonata dalle guance rosse, che non aveva voluto ubbidire e morire subito doveva diventare quello che lei non era mai stata: una santa, un'eroina, una donna diversa da tutte le

altre. Come le fate che depongono doni nelle culle dei figli dei principi mia madre mi aveva donato alla mia nascita la follia e la morte. Chissà quante volte durante la mia infanzia mi aveva teso la mano per convincermi a fare quello che voleva. Ogni volta avevo respinto quella mano anche se sapevo che mi avrebbe guidata fino alle rive del suo amore. Volevo amarla, ma a modo mio. Rifiutavo di percorrere le vie macabre e folli che lei mi proponeva. Ogni volta che l'avevo vista fare quel gesto mi ero rifugiata dietro la stupidità, la docilità o le lagne, tutti comportamenti che la orripilavano e ai quali reagiva con il sarcasmo: "Sei la martire ignota" oppure "Sei la martire del 24" (abitavamo al numero 24), una martire poco seria insomma. Quando l'avevo particolarmente delusa mi chiamava con il cognome, cioè quello di mio padre, ricordandomi a questo modo che non eravamo dello stesso sangue, che io non ero niente. Volevo piacerle ma rifiutavo di lasciarmi coinvolgere in qualsiasi azione eroica, una specie di suicidio religioso, un sacrificio di me stessa che mi avrebbe lavata dei peccati e soddisfatto i suoi insani bisogni. Per niente al mondo volevo diventare una nuova Giovanna d'Arco, una seconda Bianca di Castiglia. E quindi l'unica cosa che mi rimaneva da fare era di appiattirmi al suolo come una cimice. Tanto da diventare una cimice. Poi, nel ricordo di queste tragedie, (io che volevo amarla a modo mio e lei che voleva che l'amassi a modo suo), nella viva memoria del caos della mia infanzia si rifece vivo, splendente come cristallo di rocca, il ricordo dell'armonia. Certe notti sono tornate a vivere sul lettino del vicolo. Notti calde sulle spiagge mediterranee, notti fredde tra la neve del Djurdjura. Sarà stato sotto Natale, o il 14 luglio, altrimenti perché sarei rimasta alzata fino a tardi? Più volte eravamo rimaste sole, io e lei, al buio, sotto il cielo pieno di stelle, e lei m'insegnava i nomi delle costellazioni, mi metteva in contatto con il cosmo. "La vedi quella stella?... Quella che brilla di più... E' la stella del pastore. E' quella che si alza per prima... Dicono che abbia indicato la strada ai Re Magi." "Vedi quella lì?... guarda bene... segui il mio dito. Ce ne sono quattro che formano un rettangolo poi tre dietro che sembrano un manico. E' l'Orsa Maggiore... L'hai vista?" Voleva essere sicura che avessi individuato il Carro in mezzo al nero prima di andare avanti a scrutare la notte. "Ecco l'Orsa Minore... E quella W, la vedi?... La vedi? E' Vega." "Quella nebbia di là è la Via Lattea... Un immenso gruppo di stelle, sono milioni e milioni..." Stavo in piedi accanto a lei. Mi teneva per mano. Mi raccontava quali enormi distanze ci separano da quelle luci di cui alcune sono già spente, anche se noi percepiamo ancora il loro riflesso, tant'è lunga la strada che devono percorrere. Mi parlava della Luna, del Sole, della Terra, di quella fantastica danza che facevano gli astri e noi insieme a loro. Tutto questo mi faceva un po' paura e mi stringevo contro di lei, nel suo profumo, nel suo calore. Sentivo che la sua esaltazione si addiceva alla grandiosità dell'argomento. La mia era una paura buona, una paura normale ed esaltante. Mi piaceva questo grande universo al quale avevo la fortuna di appartenere. Andavamo d'accordo in quei momenti. Chissà perché li avevo dimenticati. Che sia a causa di quei momenti che nel corso della mia vita fino a oggi, le mie riflessioni mi hanno sempre riportata alla mia condizione: un frammento dell'universo? Che sia a causa dell'armonia di quelle notti antiche che accetto la mia esistenza solo quando sento che è cosmica? Che sia a causa dell'intesa che esisteva tra me e lei che mi sento felice soltanto quando ho l'impressione di

partecipare a un tutto? XII L'incontro con i miei primi veri difetti mi dava una sicurezza che non avevo mai avuta. Essi mettevano in risalto le mie qualità che scoprivo contemporaneamente e che m'interessavano di meno. Le mie qualità mi facevano fare progressi soltanto quando erano stimolate dai miei difetti. Questi ultimi cancellavano il peccato, quel marchio infamante che segna la cattiva, la malvagia, la dannata. I miei difetti erano dinamici. Sentivo molto profondamente di volta in volta che li riconoscevo, che diventavano strumenti utili per la costruzione dell'Io. Non si trattava più di respingerli, o di sopprimerli, e ancora meno di averne vergogna, ma di domarli e all'occorrenza di servirmene. Ormai venivo nel vicolo come una volta andavo all'Università: per imparare. Volevo sapere tutto. Avevo vinto resistenze così forti che non temevo più di ritrovarmi faccia a faccia con me stessa. Le angosce erano completamente sparite: mi capitava (e mi capita tuttora) di avere i sintomi fisici dell'angoscia (sudore, accelerazione del ritmo cardiaco, raffreddamento delle estremità) ma la paura non si faceva più viva. Quei sintomi mi servivano a scoprire nuove chiavi: mi batte il cuore: perché? da quando? che cos'è successo in quel momento? qual è stata la parola che mi ha colpita, il colore, l'ambiente, l'odore, l'idea, il rumore? Ridiventavo calma e portavo quell'attimo al dottore perché lo analizzasse quando non ero capace di farlo da sola. Spesso mi perdevo, non ritrovavo l'origine del mio malessere, per tranquillizzarmi avevo soltanto la certezza che c'era una origine. Sdraiata sul divano, con gli occhi chiusi, tentavo di sbrogliare la matassa. Non m'innervosivo più come prima, non mi lasciavo più andare al mutismo o agli insulti di cui ormai conoscevo il significato, ben sapendo quindi che erano altrettanto importanti delle parole tranquille ma molto più faticosi. Cercavo la distensione, la pace, la libertà. Venivo nel vicolo per guarire completamente. Lasciavo che venissero le immagini, le idee, che sfilassero l'una dietro l'altra e cercavo di esprimerle senza nessun ordine, senza scegliere quelle più lusinghiere, o più intelligenti, o più carine, o più spiritose, invece di quelle mediocri, basse, brutte, stupide. Era un lavoro difficile perché il dottore e io eravamo un pubblico terribilmente attento e esigente, giudici imparziali per il teatro delle mie ombre. Alcune scivolavano via come la sabbia tra le dita. Sentivamo che erano vicine, pronte a comparire eppure nello stesso momento in cui pensavamo di poterle afferrare svanivano, scomparivano nell'inconscio che le inghiottiva. Eravamo stati traditi dalle mie parole. Dovevamo ricominciare la fatica logorante della quale ero spettatrice e protagonista, della quale il dottore era spettatore e regista: uno solo dei suoi: "e questo, che cosa le fa venire in mente?" poteva cambiare tutto, bastava che io dicessi il "questo". E così ho scoperto il mio difetto più grande, quello che dà vita alle mie qualità maggiori, che mi dà, in certi momenti un vero potere, quello che fa di me la persona che sono realmente. Da qualche tempo piangevo per un nonnulla, senza sapere bene il perché, anzi pensavo spesso che quelle lacrime erano esagerate, che in taluni momenti non avevano senso. D'altro canto ritrovavo con grande piacere quelle lacrime delle quali ero stata privata a lungo. Il loro tepore era per me un grande beneficio. Mi erano necessarie, così come lo sono tutti i liquidi caldi di cui il corpo ha bisogno per calmare la sofferenza o il desiderio. Ricordavo il piacere che avevo provato ogni volta che avevo partorito quando rompevano la

sacca delle acque e quando sentivo il liquido amniotico colarmi lungo le natiche, le cosce, il bacino: una tregua, un attimo di dolcezza, un riposo prima dei lunghi spasmi del parto. Ma in quelle lacrime non c'era soltanto il semplice piacere di piangere. Sentivo che c'era dell'altro. Che cosa? Forse era solo l'abitudine che avevo preso da bambina di rifugiarmi nelle lagne? La consolazione che provavo nel sentirmi una vittima? Non ero più una bambina, una vittima. E allora? Forse era la tendenza ad attribuire tutti i miei fallimenti agli altri e alla loro incomprensione: nessuno mi vuol bene, danno sempre la colpa a me. Non era questo. Non riuscivo a trovare la soluzione di quel problema. Non sapevo perché le mie lacrime colavano tanto. Piangevo perfino dal dottore, quando il telefono si metteva a suonare durante una seduta o quando lui mi diceva che l'ora era finita in mezzo a una mia divagazione. Mi veniva un nodo in gola e lasciavo che le gocce calde coprissero il mio viso come un delicato balsamo agrodolce. A volte i singhiozzi mi scuotevano le spalle, il torace, tutto il corpo. Quando avevo cominciato a mettere me stessa al mondo, a considerarmi una persona indipendente, un individuo, mi era venuta voglia di possedere un'automobile per poter andare più lontano, più veloce. Non vedevo l'ora di rifarmi del tempo perso, di vedere tutto, conoscere tutto. Avevo quindi acquistato, per poche centinaia di franchi, una vecchia Due Cavalli. Mi sentivo bene al volante, sicura di me stessa e allo stesso tempo protetta. L'auto era diventata la mia migliore amica. Piangevo, ridevo insieme a "lei", le parlavo mentre guidavo. Mi rendeva la vita varia e meno faticosa. Abitavo fuori città e apprezzavo molto di non dover più aspettare sui marciapiedi gelidi delle stazioni, preoccuparmi dell'ultima metropolitana ecc...' Parlavo spesso al dottore del mio rapporto con quell'automobile, dell'affetto che le portavo. Finalmente ero io che guidavo invece di farmi guidare! Un giorno, prima di recarmi nel vicolo, avevo lasciato il mio vecchio catorcio arrugginito e ammaccato in sosta visibilmente vietata. Giusto il tempo di una commissione, un pacco da ritirare, questione di pochi minuti. Devo dire che la macchina costituiva una spesa sopportabile per il mio bilancio soltanto se non la facevo riparare e non dovevo pagare multe. Ne avevo quindi la massima cura e stavo attentissima a non commettere infrazioni. Corro, ritiro il pacco, torno di volata e vedo un vigile che tranquillamente mi sta facendo la multa. Mi avvicino a lui, con la gola già stretta: "Mi serve per il lavoro. Non sono stata via più di cinque minuti." "Le spiace darmi i documenti?" Gli do i documenti e mi metto a piangere come una fontana. E' una vera crisi di lacrime, con singhiozzi e singulti, non riesco a trattenermi. Il vigile mi restituisce i documenti con l'espressione di chi non si lascia ingannare. Piango ancora più forte. "Paga ora o gliela mandiamo a casa?" "A casa." "Allora si muova! Così imparerà a non lasciare la sua macchina in sosta vietata." Arrivo dal dottore in condizioni spaventose. Mi sdraio sul lettino col viso stravolto dalle lacrime, mando giù il muco perché, guarda caso, non ho fazzoletto, tiro su col naso, ho la gola stretta che mi fa male, dura come una pietra. Comincio a raccontare quello che mi è accaduto: la sosta vietata, la strada da attraversare, il pacco da ritirare, il tutto in pochi secondi eppure il vigile ha fatto in tempo ad arrivare con il suo blocco delle multe. Mi lamento di non avere un soldo... di essere sempre il capro espiatorio... di non riuscire a farmi amare, di non

piacere... di avere un fisico poco attraente. Mia madre diceva sempre: "Sei uno sgorbio." "Ma come si fa ad avere occhi così piccoli?" "Non sai stare dritta, hai i piedi troppo grandi, meno male che i tuoi orecchi sono bellini." La gola stretta mi fa male. Mi sembra di non poter mandare giù la saliva, di respirare difficilmente. Soffoco... Ho due o tre anni, sono nella stanza dei giochi insieme a mio fratello. E' inverno, il fuoco è acceso nel caminetto. Le mie bambole sono disposte in fila sugli scaffali che circondano tutta la stanza. Mi regalano sempre bambole per Natale o per il mio compleanno. E' il più bel regalo che si possa fare a una bambina. Ho bambole di ogni tipo e qualità, di ogni misura e colore, bambole bionde, brune, rosse, con gli occhi azzurri, con gli occhi marroni. Non ci gioco mai. Non mi piacciono i loro occhi stupidi, i loro finti capelli, le loro mani rigide, i loro piedi senza dita, i loro corpi grassottelli. Preferisco i giochi e i giocattoli dei maschi. Vicino al caminetto, in una culla rivestita di organzino, sta dormendo la bambola che odio di più. In realtà è un bambolotto, cioè sembra una femmina ma senza lunghi capelli riccioluti e senza abitino. Si chiama Filippo. E' sempre la mamma a decidere quale nome dare alle bambole quando me le regalano. Non capisco che bisogno ci sia di dare nomi di bambini a quegli oggetti, di dire "si chiamerà Delfina, o Caterina, o Pietro, o Giacomo". Pochi giorni fa ho regalato Filippo a mio fratello, ufficialmente, davanti a Nany. Ormai gli appartiene. Così me ne sono sbarazzata e allo stesso tempo mi sono conquistata la benevolenza di mio fratello che ha cinque anni più di me e che mi stuzzica sempre. Ho paura di lui, mi dà i pizzicotti, mi prende in giro, ma di notte mi sveglia perché lo accompagni al gabinetto: ha paura di andare a far pipì da solo al buio. Mi minaccia di strapparmi i capelli, di prendermi a schiaffi e di chiamare il venditore ambulante se mi arrischio a dire che lui ha paura del buio. Mia madre gli vuole molto bene. Col pretesto che è molto gracile lo coccola sempre, si preoccupa in continuazione della sua salute, del suo umore. Il mio giocattolo preferito è una scimmia di peluche con le rotelle. Ha una faccia buffa, occhi di vetro color nocciola, una lunga coda arrotolata che si muove quando me la tiro dietro. Il pelo è morbido da accarezzare. Improvvisamente mio fratello diventa nervoso, vuol prendermi una racchetta da pingpong che gli appartiene e con la quale sto giocando in quel momento. Io non voglio restituirgliela. Lui afferra la mia scimmia per la coda e con un ampio movimento del braccio la butta dritto nel fuoco. Immediatamente esce dal caminetto un odore di lana bruciata. La mia scimmia brucia! Una vera e propria ventata di furore mi scuote come fossi un albero, sono invasa da un sisma, da una follia omicida. Mi sento impotente davanti alla statura e alla forza di mio fratello e quindi mi avvento sul bambolotto, lo tiro fuori dalla culla e lo calpesto con tutte le mie forze. Soprattutto voglio fracassargli il cranio, rompergli la faccia, non deve restare nulla. Ce la metto tutta per farlo a pezzi, sopprimerlo, ucciderlo. Arriva mia madre e mi dà un paio di sonori schiaffi. Mi metto a urlare, a strepitare. Mia madre me ne dà altri due. Con il risultato che mi eccito ancora di più, sono un cane idrofobo, voglio mordere, sbranare, rompere. Sento mia madre che dice a Nany: "Una doccia gelata è l'unica cosa che possa calmarla." Io non credo che abbiano veramente l'intenzione di mettermi sotto la doccia. Perfino quando mi afferrano per portarmi in bagno, continuo a non credere che metteranno in atto il progetto. Urlo sempre più forte, mi dimeno, mi dibatto, chiamo la mia scimmia. La

mia incapacità a picchiarli è per me una vera tortura. Non è giusto, io non ho fatto niente, non mi merito questo trattamento. E' colpa di mio fratello, voglio fargli male, vendicarmi. Il getto di acqua fredda mi arriva in piena faccia, mi toglie il respiro. Mia madre mi tiene ferma la testa, Nany mi spinge in avanti tenendomi le braccia dietro la schiena, mio fratello sta a guardare in fondo alla vasca. La situazione è intollerabile, inammissibile. Devo smetterla. Capisco che sono troppo forti per me e che l'unica cosa da fare per impedire all'acqua di entrarmi nella bocca, nel naso, nel collo, è smettere di urlare e calmarmi. Faccio enormi sforzi per soffocare la collera che mi scoppia da tutte le parti, dai pori della pelle, dai capelli, dalle dita, da tutto il mio essere. Dal profondo di me stessa sale una forza colossale che riesce a domare la rabbia: la volontà. Un'altra risorsa mi viene in aiuto: la dissimulazione. Tutte le mie energie sono mobilitate per controllare la violenza, metterla sotto chiave, sotterrarla più in fondo che posso. Per riuscirci mi devo concentrare a un punto tale che sento dolore. Mi fa male dappertutto, in particolare la gola, dalla quale non deve più uscire niente. Ora sono in mezzo alla vasca, bagnata, l'acqua non esce più dalla doccia. Tutti e tre mi guardano in silenzio. So che non mi troverò mai più in una situazione simile, ho la gola stretta come in una morsa, gli ultimi singhiozzi repressi mi costringono a respirare in maniera irregolare. Le lacrime traboccano dai miei occhi e colano lentamente, portando un po' di pace al mio viso bruciato dal furore. Sul divano del vicolo il mio pianto si calmò. Con immenso stupore, avevo appena ritrovato la mia violenza. Io che predicavo la non violenza, che non avevo mai dato una sola sberla ai miei figli, che avevo sempre risposto all'ingiustizia o all'autorità arbitraria con il silenzio o le lacrime! Io invece ero impastata di violenza, ero la violenza, la violenza in persona! Poco prima avrei spaccato volentieri la faccia a quel vigile davanti alla mia macchina ma, quando compresi che non c'era niente da fare per evitare la multa, mi si strinse la gola, poi diventò dura come una palla dolente. Le lacrime sgorgavano per farmi sopportare il dolore, avevo represso il furore senza nemmeno sapere che lo avevo dentro di me. Credo che questa improvvisa rivelazione della mia violenza sia stato il momento più importante di tutta l'analisi. Sotto questa nuova luce tutto diventava più chiaro. Ebbi la certezza che questa forza repressa, imbavagliata, incatenata, che tuonava costantemente in me come una tempesta, era stato il miglior nutrimento della Cosa. Ancora una volta mi meravigliava la perfetta e complicata organizzazione della mente umana. Il mio incontro con la violenza avvenne al momento giusto. Non sarei riuscita a sopportarla prima, non sarei mai stata in grado di assumerla. Chissà perché, quando avevo capito il significato dell'allucinazione, non mi ero soffermata sul fatto che la bambina, che vedevo ancora nelle vesti di un angioletto, avesse reagito all'aggressione con un'altra aggressione? Eppure ce l'aveva messa tutta a picchiare suo padre fino a vergognarsene di fronte agli altri. Ma la lezione non era bastata, alcuni mesi più tardi c'era stato bisogno addirittura della doccia. Questa seconda volta il castigo era stato sufficientemente forte da imbavagliare la violenza per trentacinque anni. Alcune volte durante la mia adolescenza la violenza era risorta. Ma non sapevo di che cosa si trattasse, credevo di essere in preda a una crisi di nervi che sentivo salirmi in gola. Mi rinchiudevo da qualche parte, da sola, e mi strappavo i vestiti o rompevo qualche oggetto, piena di vergogna. Una sola volta mia madre mi aveva sorpresa mentre

lanciavo un vaso d'argento contro la parete. S'era messa a ridere, aveva detto: "Quando ti sposerai regalerò questo vaso a tuo marito, così saprà che carattere ha sua moglie..." Un'altra volta avevo afferrato un pesante braccialetto d'argento e lo avevo battuto così forte contro il muro della mia camera che gli anelli avevano lasciato la loro impronta nel gesso dell'intonaco; poi come un boomerang, era tornato indietro e mi aveva colpito la mano rompendomi probabilmente un osso. Per mesi e mesi mi trascinai quella mano dolente senza mai parlarne con nessuno, nascondendo il gonfiore come un marchio d'infamia. In seguito, nient'altro che calma, una triste dolcezza. Il mio inconscio aveva preparato la strada in modo che tra il chiarimento dell'allucinazione e la rivelazione della mia violenza, potessi capire chi ero veramente, che non ero in ogni caso un angelo. Avevo avuto il tempo di abituarmi al mio orgoglio, alla mia sete d'indipendenza, al mio egocentrismo. Avevo capito che quelle mie caratteristiche potevano essere difetti o qualità a seconda dell'uso che ne facevo. Erano come cavalli selvaggi che trainavano la mia carrozza. Stava a me guidarli in modo corretto. Non mi facevano paura, sentivo di poterli controllare. Oggi la violenza mi si presentava sotto forma di un dono splendido e pericoloso, un'arma temibile tempestata d'oro e di madreperla, che avrei dovuto maneggiare con ogni precauzione. Non vedevo l'ora di metterla alla prova. Sapevo che me ne sarei servita soltanto per costruire, non per distruggere. Insieme alla violenza, presi coscienza della mia vitalità, della mia allegria e della mia generosità. Ero quasi costruita. XIII Via via che nel vicolo si stava costruendo il mio equilibrio, anche la mia vita fuori dal vicolo acquistava un senso e una forma. Ero sempre di più in grado di parlare con gli altri, di ascoltarli, di assistere a riunioni, di andare da sola da un posto all'altro... Dato che i miei figli non costituivano più il mio unico contatto con la vita, pesavo meno su di loro, me ne occupavo meglio, li capivo di più. Fu in quell'epoca che tutti e quattro gettammo ponti che collegavano me a loro e loro a me. Pensavo che la mia malattia, nonostante i miei sforzi per tenerli lontani, li avesse toccati, magari feriti. Più la terapia andava avanti e più diffidavo del ruolo tradizionale della madre. Mi misi quindi nella posizione dell'osservatrice, cercai di guardarli intervenendo il meno possibile, e soprattutto senza circondarli di proibizioni. L'unico punto fisso, l'unico segno di sicurezza per loro era la mia presenza costante, la mia disponibilità assoluta nei loro confronti. Mi sentivo (e mi sento ancora oggi) responsabile di averli messi al mondo ma cominciavo a imparare che non dovevo per nessuna ragione sentirmi responsabile delle loro azioni. Loro non erano me e io non ero loro. Dovevo fare la loro conoscenza così come loro dovevano fare la mia. Questa occupazione mi assorbiva, mi sembrava di aver perso tempo anche in questo; il maggiore aveva già quasi dieci anni. A parte questo, di notte e di primo mattino, scrivevo. Avevo un quadernetto. Quando lo finii ne presi uno nuovo. Durante il giorno li nascondevo sotto il materasso. Alla sera, quando chiudevo dietro di me la porta della camera da letto, li ritrovavo con la stessa gioia con cui avrei ritrovato un bell'amante. Tutto si svolgeva con facilità, semplicità. Non mi sembrava nemmeno di scrivere. Prendevo la matita, il quaderno, e divagavo. Non come sul divano del vicolo. Le divagazioni dei miei quaderni consistevano in elementi della mia vita che organizzavo come mi pareva, andavo

dove mi piaceva andare, vivevo momenti che non avevo vissuti ma che desideravo, non ero sotto la morsa della verità come dal dottore. Mi sentivo libera come non lo ero mai stata. Un giorno cominciai a ricopiare i quaderni con la macchina da scrivere, su fogli di carta. Non sapevo perché lo facessi. Mi avevano dato un lavoro (che consisteva nell'inventare testi pubblicitari) grazie ai miei diplomi. E difatti sapevo costruire frasi corrette e conoscevo la sintassi: l'avevo insegnata per alcuni anni prima di ammalarmi gravemente. Per me scrivere significava questo: mettere correttamente in parole, seguendo rigorosamente le regole della grammatica, i dati e le informazioni che mi venivano forniti. Progredire in questo campo consisteva nell'arricchire il più possibile il mio vocabolario e imparare quasi a memoria il Grévisse. Ero molto affezionata a questo libro e il suo titolo fuori moda Le bon usage mi sembrava una garanzia per la serietà e per l'amore che rivolgevo a quell'opera. Per lo stesso motivo da bambina avevo piacere a dire che stavo leggendo Les petites filles modèles. Nel Grévisse c'erano molte porte aperte sulla libertà e sulla fantasia, molte occhiate complici, molti segni di connivenza rivolti a coloro che non vogliono rinchiudersi nell'ortodossia di una lingua morta o di una grammatica rigida. Però avevo l'impressione che tutte quelle possibilità di evasione non fossero per me, che fossero riservate agli scrittori. Avevo troppo rispetto per i libri, troppa venerazione, per pensare di scriverne uno. Libri come Madame Bovary, I dialoghi di Platone, i romanzi e i saggi di Sartre, quelli di Julien Gracq, alcuni libri americani o russi erano stati raggi di luce nella buia notte della mia adolescenza e dei miei anni di studio. Li leggevo con avidità, emozionata, poi li richiudevo e venivo di nuovo risucchiata dalla mia realtà. Avrei voluto trattenermi tra le loro pagine, protetta dalla loro forza, la loro libertà, la loro bellezza, il loro coraggio. Il solo tentativo di scrivere mi sembrava tanto importante da non sentirmene degna. Non mi aveva peraltro mai sfiorata l'idea di farlo. Mai e poi mai. Dalla mia penna non era mai uscita una poesia, un appunto, un abbozzo di articolo o di racconto. Che cos'erano allora quei fogli che ora riempivo con i caratteri della mia macchina da scrivere? Non lo sapevo e non cercavo di saperlo. Provavo una grande soddisfazione nel farlo, ecco tutto. Quell'anno Natale arrivò insieme a Jean Pierre che tornava dall'America. Per i bambini era una festa. Ci tenevo molto che loro padre, nonostante fosse assente, facesse parte della loro vita quotidiana. Non stava con noi perché il suo lavoro lo aveva chiamato altrove, come i marinai, i rappresentanti di commercio, gli esploratori; ma il suo porto eravamo noi. Non doveva esserci nulla di strano nel fatto che fosse lontano. Ogni giorno parlavo di lui con loro, delle reazioni che avrebbe avuto di fronte a ogni piccolo avvenimento della nostra vita. Raccontavo del loro padre come altri raccontano storie di cowboy e di indiani. Mi ero creata un repertorio attingendo dall'infanzia e dalla giovinezza di Jean Pierre e dal paese in cui era nato: la Francia settentrionale con le miniere, i minatori, la pioggerella continua, la fuliggine. "Mamma, ci racconti quando papà ha detto che... quando papà è andato a... quando il nonno è sceso nella miniera... quando papà ha riparato la sua motocicletta... eccetera." Così è diventato il personaggio più importante della famiglia. Tanto più importante quanto più le sue brevi apparizioni erano interamente dedicate ai figli. Aveva tutta la pazienza, tutta la curiosità, tutta l'indulgenza, tutta la fantasia che si possono avere. I bambini lo adoravano ed era giusto che fosse così. Per niente al mondo avrei

accettato che avessero, come l'avevo avuta io, un'infanzia senza padre. Per noi due era diverso. I rari soggiorni di Jean Pierre erano causa di grande imbarazzo. La mia malattia aveva scavato un vuoto che credevamo impossibile colmare, anche se non ne avevamo mai parlato. Il malinteso era tanto più profondo quanto lui riteneva di essere in parte responsabile del mio malessere, e ciò gli dava un senso di colpa e al tempo stesso l'impressione di aver fallito. Questa impressione si giustificava dal fatto che data la mia incapacità a dire di che cosa soffrissi e che cosa mi facesse soffrire, tendevo ad accusarlo di farmi vivere male. Difatti, era dopo il matrimonio che la Cosa si era gonfiata al punto di invadere tutto. Si era nutrita delle mie gravidanze, dei mesi di allattamento, delle fatiche quotidiane che toccano a una donna con tre bambini, un lavoro, una casa e un marito. Nello stato di incoscienza in cui mi trovavo non riuscivo a vedere più lontano del mio naso e quando rivolgevo uno sguardo al passato ne traevo la conclusione che ero malata da quando vivevo con Jean Pierre, che era lui che mi aveva fatto ammalare. Ma queste riflessioni erano vissute separatamente, non comunicavamo; andavamo avanti ognuno per la propria strada. Come coppia eravamo un fallimento. Avevamo intrapreso una battaglia insieme e l'avevamo persa, anche se non si vedeva. I nostri figli erano una tale fonte d'interesse e di amore comune che nelle rare occasioni in cui eravamo riuniti sembravamo una coppia felice. Avevo molta paura del divorzio, paura di finire come mia madre, di portare i miei figli al punto in cui lei aveva portato me. Il divorzio mi sembrava una separazione drammatica, mentre le lunghe separazioni giustificate dal lavoro non erano vissute in modo drammatico né dai bambini né da me. A questo modo non ho mai avuto l'impressione di essere sola ad allevare i miei figli, anche se in realtà ero l'unica a occuparsene materialmente, l'unica a star loro vicina. Una sola volta Jean Pierre parlò di divorzio. Molto tempo fa, nel periodo in cui cominciai a sanguinare in modo anormale. Pochi mesi più tardi mi sarei ritrovata in balia della Cosa. Eravamo in Portogallo e insegnavamo entrambi alla Scuola Francese. Il mio terzo figlio era appena nato. Non ricordo nulla delle facce delle persone, né dei luoghi in cui vivevamo. Ero già nell'universo della Cosa. Vivevo come un automa, una sorta di incubo sfocato dal quale uscivo soltanto quando ero presa da inspiegabili crisi di paura. Paura di niente, paura di tutto. Bastava una compressa per tornare nel letargo, nella nebbia. Facevo di tutto per sembrare normale. Andavo a scuola, tenevo lezioni, rincasavo, mi occupavo dei bambini, della casa. Non parlavo. Non era né piacevole né spiacevole, né facile né difficile. Avevo perso la nozione del tempo. Non vivevo la vita che davo l'impressione di vivere. Ero chiusa in me stessa, soffocata dall'incomprensibile, dall'assurdo. L'unico mio pensiero ancorato, in modo straziante, alla realtà, era la consapevolezza del fatto che mi stavo alienando, allontanando dagli altri. Mi pareva di essere uno di quei razzi che mandano verso la Luna a tutta velocità e che pure decollano lentamente, goffamente, quasi esitando come se la partenza fosse particolarmente dolorosa. Sentivo che ero nella fase di decollo e che presto mi sarei definitivamente staccata dal mondo. Facevo di tutto per rimanere nella realtà degli altri e quei continui sforzi mi stremavano. Fu così che, per sembrare come tutti gli altri, decisi di organizzare una festa in onore delle mie due figlie, l'una appena nata e l'altra che stava per compiere due anni. Avevo invitato un sacco di bambini per la merenda e avevo chiesto ai genitori e ad

altri amici di fermarsi a bere qualcosa quando fossero venuti a riprenderli. Erano invitati tutti i nostri amici, tutti i nostri conoscenti. Una grande festa insomma, ingenuo tentativo di fuggire la mia sorte. Mi sarei presentata come la sposa modello, degna di sua madre, tutto sarebbe stato perfetto: l'argenteria lucidata, le tovaglie inamidate, la cucina invasa dagli odori delle torte e dei pasticcini, la casa piena di fiori, lucida di cera. Io e Jean Pierre avremmo ricevuto gli ospiti circondati dai nostri bambini. In questo modo sarei stata esorcizzata. Una festa simile richiedeva intere giornate di lavoro, così mi lanciai a capofitto nell'impresa. Tutto si svolse perfettamente. Indossavo un vestito di seta rosa, il buffet era perfetto (tutto fatto in casa), c'era la giusta dose di lusso, di classe, di semplicità, di raffinatezza. Era un vero tour de force, un colpo di magia da parte mia. Io ero una di quelle meravigliose sposine che si impegnano eroicamente a mantenere vive le tradizioni della loro classe. Quando finalmente richiusi la porta dietro l'ultimo ospite crollai. Non mi reggevo più in piedi, mai in vita mia mi era toccata una prova così penosa. Avevo dovuto fare appello a tutta la mia buona educazione per andare avanti, sorridere, e badare a che tutti i miei ospiti fossero a loro agio, nonostante l'assenza di Jean Pierre, che era stata come un veleno insidioso durante tutto il ricevimento. Era uscito di casa in mattinata per recarsi alla scuola e da allora non lo avevo più visto. All'inizio la gente mi chiedeva dov'era mio marito e io rispondevo tranquillamente che sarebbe di sicuro arrivato da un momento all'altro. Dopo un po' avevano smesso di fare domande e se n'erano andati prima del previsto. Lo spettacolo della casa sottosopra rifletteva esattamente il mio stato d'animo: avevo tentato di venire fuori dal disordine e ora mi ritrovavo al contrario in un disordine ancora più grande. Era tardi quando Jean Pierre tornò. Lo sentii aprire la porta, salire le scale e dirigersi direttamente verso la nostra camera da letto. La casa era grande, avrebbe potuto dormire in un'altra stanza, evitare lo scontro, non sarei stata io a cercarlo. E invece no, era lì, in piedi davanti al letto. Mi guardava. Vedeva che avevo pianto molto. Taceva. Osservava il mio corpo raggomitolato sotto il lenzuolo. Un relitto umano. Forse pensava al sangue che già allora ci aveva portati da tutti i medici della città. Nei suoi occhi c'era disprezzo, disgusto e fastidio. "Sono stufo di vederti sempre malata, non la smetti mai di lamentarti." "Proprio oggi che ho dato una festa..." "Sai che festa! Un branco d'imbecilli con i vestiti della domenica." "L'ambasciatore ha detto che abbiamo una bellissima casa, dei bellissimi bambini... Era sorpreso di non vederti." "Me ne fotto dell'ambasciatore! Hai capito? Me ne fotto! Voglio divorziare. Piantare tutto. Sono stufo. Non sono capace di renderti felice, tu non sei capace di rendere felice me. Sono giovane, non intendo ammuffire vicino a te. Voglio andarmene. Voglio il divorzio." "No, il divorzio no!" Mi faceva paura. Lui che era sempre così calmo, così riflessivo, ragionevole, questa volta era fuori di sé, deciso a farla finita. Io invece non riuscivo nemmeno a pensare di separarmi da lui. Non ero più una moglie per lui, tantomeno un'amica, eppure non potevo divorziare, c'era qualcosa di fortissimo che mi costringeva a stargli accanto, attaccata a lui. Ebbi l'impressione che si fosse accorto di questo mio inspiegabile slancio verso di lui e che ciò lo avesse commosso. Si sedette sul

letto, rigido, in silenzio. Sulle sue braccia abbronzatissime vidi tracce bianche di salsedine; c'erano cristalli di sale appesi alle sue ciglia, come leggere corone attorno ai suoi begli occhi chiari. "Sei andato in spiaggia?" "Sì." "Sulle dune?" "Sì." "Con una donna?" "Sì... Una donna viva, una donna che mi ama." Sentii nascere la gelosia e salire il dolore dentro di me. Credo che gli occhi che lui stava guardando fossero laghi di pena. Lui avrà pensato che fosse l'idea di quella donna accanto a lui a ferirmi. Ma si sbagliava. Quello che mi sconvolgeva era di immaginare il piacere che aveva provato immergendosi nelle onde, nuotando al largo, lasciandosi asciugare dal sole, sentendo la sabbia sotto i suoi piedi nudi. Ero stata io a fargli scoprire il mare, la spiaggia, il vento caldo, i corpi liberi che si offrono all'acqua e si lasciano accarezzare e portare dalle onde. Lui veniva da un paese freddo dove l'oceano era un campo sportivo, io da un paese caldo dove era voluttà. L'immagine di Jean Pierre nelle onde mi faceva scoppiare la testa. Mi dimostrava meglio di qualsiasi altro indizio quale distanza ci fosse tra me e gli altri: non ero più in grado di nuotare, di correre sulla sabbia. Ero un'inferma, lui non mi doveva lasciare sola con i bambini. La visione del suo corpo bagnato e luccicante mi metteva crudelmente di fronte al mio corpo: pesante, trasandato, molle, con i seni gonfi di latte, il ventre sfasciato. "No, il divorzio no!" Non divorziammo ma lui accettò un incarico in un luogo lontano da me. Sapeva dell'analisi, vedeva che stavo meglio, se ne rallegrava. Ma quando eravamo insieme facevo fatica a parlargli. Quanti anni passati lontani l'uno dall'altro! Quanti tradimenti segreti, quante esperienze non divise! Impossibile ritrovare la strada della confidenza, della semplicità. Eppure quella volta, la mattina dopo il suo arrivo, gli dissi: "Sai, da un po' di tempo, di notte scrivo." "Cosa scrivi?" "Non lo so. Sono tante pagine." "Vuoi che le legga?" "Se vuoi... Non so perché te ne ho parlato." "Fa' vedere." Andai a prendere i fogli sotto il materasso. "Li nascondi? Perché?" "Non lo so. Non li nascondo." "Dammeli." Abitavo in periferia, in un piccolo caseggiato con pretese "signorili". La mia camera da letto era un cubo di cemento bianco foderato di scaffali in cui erano ammucchiati libri e carte, con un materasso per terra. Dalla finestra si vedevano un albero e il cielo. Così potevo assistere al susseguirsi delle stagioni francesi. Osservavo con curiosità le raffinatezze e le esitazioni della natura europea, l'autunno che si annunciava già a metà agosto, la primavera che fermentava nei rami scheletrici a metà febbraio. Nel mio paese le stagioni cambiavano da un giorno all'altro, scoppiavano. La casa era tranquilla, i bambini giocavano fuori. Jean Pierre si era coricato su un fianco per leggere le mie pagine, aveva messo il cuscino contro la parete e si era tirato il lenzuolo sulla schiena. Io, accanto a lui, cercavo di assopirmi.

Il fatto di essere sdraiata sulla schiena, con gli occhi chiusi, come dal dottore, mi faceva pensare a quelle pagine in un modo completamente diverso dal solito... In fondo, avevo fatto male a fargliele leggere... Un ricordo imbarazzante mi tornava in mente, vorticava nella mia testa, andava e veniva, fastidioso, senza che riuscissi a definire perché m'imbarazzasse. Alcuni mesi prima ero stata incaricata di scrivere un testo pubblicitario per una marca di latte. In ufficio avevo incontrato il direttore della centrale che aveva detto davanti a tutta la redazione: "La cosa migliore sarebbe che lei venisse allo stabilimento. Una visita sarà più utile di tutto il materiale che le ho portato." Fui costretta ad accettare, poiché tutti erano d'accordo. Non si rendevano conto di quello che significava per me. Non sapevano in quale labirinto mi stavo dibattendo. Era il periodo in cui, con incredibili sforzi, ricominciavo a parlare al dottore, a scoprire i miei difetti. La paura continuava a perseguitarmi di tanto in tanto. Lo stabilimento si trovava nella periferia nord di Parigi. Sarei riuscita ad attraversare da sola quella zona di miseria e di squallore dove i casermoni s'innalzavano nel cielo? Inoltre avevo una forte repulsione per il latte, il suo odore, il suo sapore, il suo aspetto. A loro non potevo dirlo, e ancora meno potevo dire che la Cosa rischiava di impadronirsi di me, di farmi correre, sudare, soffocare. Eppure non potevo rifiutare. Il mio lavoro era un elemento essenziale del mio equilibrio. Altrimenti come avrei fatto a vivere e a pagare il dottore? Mi recai dunque allo stabilimento; andò benissimo. Ero così contenta di aver vinto la paura che, presa dall'entusiasmo, scrissi un brano in cui paragonavo lo stabilimento (che era a forma di U) a una persona: una specie di prestigiatore che ingoiava autocisterne e le trasformava in vasetti di yogurt e di crema, in cartocci e bottiglie di latte... Mai avevo messo tanta fantasia nel mio lavoro... Ma potevo permettermelo? Prima di portare l'articolo alla direzione lo diedi da leggere al redattore che consideravo il più intelligente, il più interessante e anche il più bravo. "Ho scritto il testo per la centrale del latte. Non so come sia venuto. Ti spiacerebbe dargli un'occhiata?" Lo aveva letto con attenzione poi si era voltato verso di me con aria da sfottere: "La signora si crede Jean Cau adesso?" "E chi è Jean Cau?" "Uno stronzo che pensa o che crede di pensare." "Vuoi dire che non ti è piaciuto un gran che." "Non è mica male. Lo puoi dare, lo passeranno." Qualche tempo dopo ho saputo che Jean Cau aveva vinto il Goncourt e la sera stessa, rientrando a casa, cominciai a trasformare i miei quaderni in cartelle dattiloscritte. In certi momenti avevo l'impressione che Jean Pierre si fosse addormentato, rimaneva immobile, e invece no voltava una pagina. Avrei voluto sapere a che punto era ma non osavo muovermi, continuavo a far finta di dormire. Sì, era proprio andata così. Quando seppi che Jean Cau era uno scrittore ho cominciato a dare forma agli scarabocchi dei miei quaderni. Mi identificavo forse con uno scrittore? Mi prendevo per una scrittrice? No, andiamo, non era possibile, non io. Una scrittrice, io? Scrivere io? Anche una cattiva scrittrice? Che idea! Sicuramente un altro scherzo dell'analisi. Stavo tanto meglio che credevo che tutto mi fosse permesso.

La casa d'inverno era troppo calda; era impossibile sopportare una coperta. Si stava lì, io e Jean Pierre, coperti da un lenzuolo bianco: Jean Pierre sul fianco per leggere più comodamente, io sdraiata sulla schiena cercando di prendere sonno. Prima avevo guardato a lungo l'albero che agitava i suoi rami scarni in un cielo grigio e bianco, poi avevo chiuso gli occhi, e il silenzio e l'immobilità dei nostri corpi erano diventati ancor più pesanti. Di tanto in tanto si sentiva il rumore di un foglio di carta che Jean Pierre posava per prenderne un altro: due fruscii, e nient'altro nella camera. Se avesse avuto un minimo d'interesse per quello che stava leggendo avrebbe detto qualcosa, fatto qualche commento. Sapevo che Jean Pierre era un uomo discreto, silenzioso, cui non piacevano le esibizioni chiassose, ma fino a questo punto!... Niente da fare, questo mutismo assoluto significava che non gli piaceva... Pazienza, niente di grave. Apro gli occhi, vedo il lenzuolo che va dalla punta dei piedi al mento e si abbassa nel centro fino a toccarmi la pancia. Batte. Il lenzuolo batte, trasale leggermente ma velocemente. Batte al ritmo del mio cuore... E' grave che Jean Pierre legga queste pagine... Mi rendo conto che sono importanti, perché sono un progresso fondamentale della mia mente... Anzi sono ciò che ho fatto di più importante finora... Avrei fatto meglio a riflettere prima, a soffermarmi sul fatto che scrivevo, che raccontavo una storia su dei fogli di carta. Avrei dovuto parlarne con il dottore. Dovrei pur saperlo che non si fa mai nulla per caso, soprattutto questo genere di cose... Avevo consegnato quei testi a Jean Pierre, a lui che analizzava tutto quello che leggeva con tanta acutezza e tanta intuizione, a lui che conosceva la nostra lingua tanto bene da esserne quasi innamorato. Era follia pura! Equivaleva a bruciare i miei fogli, a distruggerli, proprio nel momento in cui prendevo coscienza dell'importanza che essi avevano per me. Jean Pierre aveva preso l'abitudine di parlarmi come a una malata, a una persona fragile, una vecchia bambina che non sopportava il minimo shock, alla quale non si poteva parlare con franchezza. Per attenuare il suo giudizio sarebbe ricorso a parole che mi avrebbero ferita ancora più della critica severa che avrebbe fatto in condizioni normali. Lui non sapeva chi ero diventata, non gli avevo detto niente. Ci si vedeva così di rado... Ora, con quei fogli di cui stavo scoprendo le ridicole pretese, avevo perso l'ultima occasione di riavvicinarmi a lui. Quei fogli avrebbero confuso tutto. Lui non mi avrebbe capita, non mi avrebbe creduta. Si mosse un po'. Mise molto tempo per girarsi dalla mia parte. Non osavo guardarlo, facevo ancora finta di dormire. Infine mi voltai anch'io verso di lui. I suoi occhi erano pieni di lacrime. Stava piangendo, lui, Jean Pierre, ma perché? Non voleva ferirmi? Gli facevo pena? Mi guardava intensamente. C'era tenerezza, sorpresa nel suo sguardo e anche ritegno, come quando si guarda qualcuno che non si conosce. Poi ha teso una mano e l'ha posata dolcemente sulla mia spalla. "E' bello, è fantastico, è un libro. Anzi è un bel libro che stai scrivendo." Due lacrime avevano oltrepassato il muro delle sue palpebre e ora gli scendevano sulle guance, senza vergogna, preziose. Begli occhi, belle lacrime! Bei blu, verdi, ori! Finalmente! finalmente! La felicità esiste! Lo sapevo, l'avevo sempre saputo. La felicità semplice, piena. La felicità alla quale avevo sempre riservato un

grande spazio e che finalmente dopo tanti anni mi invadeva improvvisa, inaspettata. Più di trent'anni passati ad aspettarla! Si era avvicinato. Aveva fatto scivolare il braccio nell'incavo del mio collo. Mi accarezzava. "Come sei cambiata. Mi fai soggezione, chi sei?" Ero troppo commossa, non riuscivo a parlare. Gli dicevo con i miei occhi scuri, scuri quanto i suoi erano chiari, che avevo voglia di amare e di essere amata, di ridere e di costruire, che ero nuova. Lui mi stringeva a sé. Mi baciava le palpebre, la fronte, il naso, gli angoli della bocca, l'orlo delle orecchie. Sentivo il suo ventre piatto, le sue gambe muscolose. "Senti, non so che cosa mi stia succedendo, sono innamorato della donna che ha scritto queste pagine." Vieni, guardiamoci, non cessare di guardarmi. Ora entreremo nelle onde. Conosco una striscia di sabbia bianca dove non potrai farti male, dovrai soltanto lasciarti andare. Ricordati, mio dolce, mio caro, che il mare è buono se non lo temi, vuole solo lambirti, accarezzarti, portarti, cullarti, lascialo fare e vedrai che ti piacerà. Altrimenti ti farà paura. Aggrappati alla schiuma. Senti sotto i piedi la sabbia che scappa insieme all'onda? Scappa con la sabbia. Ora lascia che la corrente ti prenda la schiena. Oplà, una capriola! Tuffati, tuffati! Lasciati avvolgere, massaggiare dall'acqua. Superate le onde, nuoteremo verso il largo. Ti prego, continua a guardarmi. "Certe frasi che hai scritto mi sconvolgono, perché sono belle e anche perché non conosco la persona che le ha scritte. Eppure sei tu." Sta' zitto, non parlare, il mare non vuole che si pensi ad altro. Nuotiamo. Stendi le braccia e le gambe. Libera le spalle e i fianchi, lascia che i tuoi arti sbattano l'acqua, regolarmente, lentamente, liberamente. Lo senti che stai diventando un delfino? Le senti le lunghe carezze dell'acqua che ti stanno modellando il corpo? Quando saremo stanchi ti metterai sulla schiena, ci sdraieremo sul mare e chiuderemo gli occhi perché il sole non li bruci. Staremo così per un po' nella trasparenza rossa delle nostre palpebre, sorretti dall'acqua come una nutrice dai seni freschi e morbidi. Poi ci tufferemo con grandi colpi di reni verso il fondo, verso le alghe le cui lunghe dita scivolose ci accarezzeranno il ventre e le cosce, la faccia e il petto, la schiena, fino a quando riusciremo a trattenere il respiro. Torneremo allora verso il vassoio di mercurio della superficie. Dalle nostre braccia, dalle nostre gambe, dalle nostre labbra, usciranno bolle di gioia che saliranno a grappoli, più veloci di noi, per avvertire gli scogli, la spiaggia e il cielo del nostro arrivo. A partire da quel giorno Jean Pierre ed io abbiamo cominciato a formare un unico blocco. Ci siamo nutriti delle nostre differenze. Abbiamo confrontato le nostre vite senza mai criticarle, ne abbiamo diviso le parti migliori. Ogni volta che ci ritrovavamo ognuno portava il proprio bottino del quale facevamo un inventario minuzioso. Il fatto di mettere assieme le nostre due esistenze è ancora per noi un tesoro inestimabile, uno squisito banchetto di cui non riusciamo a saziarci. Le mie pagine hanno avuto il merito di provocare la prima delle nostre conversazioni, quelle in cui tiriamo fuori tutto, diciamo

tutti i nostri desideri, tutti i nostri sogni. All'inizio quelle conversazioni si basavano esclusivamente sulle scoperte che facevo grazie all'analisi. I miei progressi erano così spettacolari che Jean Pierre ne era affascinato. A poco a poco anche lui è cambiato. Le scoperte che facciamo separatamente non la smettono mai di alimentare il nostro mulino comune, grande e solido, che gira rapidamente. Quando terminai il primo manoscritto lo consegnai a un editore al quale ero stata raccomandata. Sei giorni dopo firmai il mio primo contratto con un vecchio signore molto cortese e molto famoso il cui nome era strettamente legato al mondo dei libri. Mi parlava con molta serietà del mio manoscritto, delle sue qualità. Non riuscivo a crederci. Non credevo ai miei occhi e ai miei orecchi. Non osavo guardarlo. Se avesse saputo che stava parlando alla pazza! Non potevo fare a meno di pensare a lei. La immaginavo com'era non molto tempo prima, nuda, seduta nel proprio sangue, raggomitolata su se stessa nel buio della stanza da bagno, tra il bidè e la vasca, scossa dai tremiti, coperta di sudore, terrorizzata, incapace di vivere. Ti ho tirata fuori, vecchia mia, ti ho tirata fuori! Tutto ciò aveva qualcosa di miracoloso, di fiabesco, di magico. La mia vita era completamente trasformata. Non solo avevo scoperto come esprimermi, ma avevo trovato da sola la strada che mi portava lontana dalla mia famiglia, dal mio ambiente, e mi permetteva quindi di costruirmi un universo finalmente mio. XIV Chi aveva conosciuto la pazza l'aveva dimenticata, perfino Jean Pierre. Il libro aveva spazzato via quella poveretta come se fosse stata una foglia d'autunno. Solo io e il dottore sapevamo che esisteva ancora in un angolo della mia testa. A volte si agitava in modo incomprensibile, mi faceva affossare la testa nelle spalle, stringere i pugni, mentre un sudore nauseabondo compariva sotto le mie ascelle. Ma che cosa le prendeva? Che cosa la svegliava ancora? Da dove mi veniva questa angoscia, questa pesantezza? Ormai andavo nel vicolo soltanto due volte alla settimana. Una mattina, poi, mi ero sentita capace di passare quattro lunghi giorni senza andarci. E quindi il dottore e io avevamo deciso di comune accordo che sarei venuta meno di frequente. Cominciavo a conoscere i miei confini e a viverci liberamente. Era un territorio vasto, sicuramente la vita non mi sarebbe bastata per occuparlo tutto. Eppure certe zone lontane rimanevano sfocate, erano segnate da limiti misteriosi ai quali preferivo non avvicinarmi. Perché avrei dovuto se il territorio sul quale vivevo era più che sufficiente? Il mio primo libro era andato bene. Grazie al suo successo i giornali mi chiedevano articoli e racconti, facevo inchieste per un settimanale. La gente con cui lavoravo mi considerava una persona solida e in gamba. Ero solida e in gamba. Non avevo riguardi verso il mio equilibrio nuovo. Le fondamenta fornite dall'analisi erano perfette, esattamente quelle che ci volevano. Mi sentivo in armonia con me stessa, a mio agio con la vita. Dominavo con facilità tutto quello che avevo imparato circa il mio carattere. Come previsto, la mia violenza mi faceva degli scherzi e mi coinvolgeva in veri spettacoli di rodeo. La sentivo inarcarsi tra le reni e le cosce, e trascinarmi in cavalcate furibonde. Non appena sentivo che la gola cominciava a farmi male pensavo: "Eccola. Non devi reprimerla e metterti a piangere. No, devi lasciarla passare, e controllarla." Quella figlia di puttana era pericolosa, poteva portarmi all'omicidio, alla distruzione, volevo vedere il sangue, volevo che scoppiasse tutto. Sentivo che diventavo livida, volevo scazzottare, strozzare, sventrare. Per poter controllare la mia violenza ho dovuto

imparare il rispetto degli altri e il rispetto di me stessa. Sono diventata responsabile. Nondimeno sapevo che la mia psicoanalisi non era finita. C'era ancora qualcosa di non definito nella mia geografia, una zona bianca sulla mappa della mia persona, una zona sconosciuta, nascosta. Era sulle visite bisettimanali che si reggeva il mio equilibrio, lo sapevo bene. Eppure nel vicolo non succedeva niente, era di nuovo il vago, un grande deserto piatto e grigio che si stendeva dietro le mie palpebre chiuse, l'impressione che mai ne sarei venuta a capo. Fu allora che ripresi a sognare spesso. Così come con grande gioia avevo ritrovato le lacrime, ora provavo un grande piacere ad avere di nuovo una vita onirica. Durante la mia malattia non sognavo, non avevo mai il minimo ricordo di un sogno, e nemmeno l'impressione di aver sognato. Il mio sonno era un luogo buio, impenetrabile, uno schermo cieco sul quale l'analisi riusciva a proiettare i sogni antichi. Il sogno del cavaliere e poi un altro altrettanto vecchio in cui mi vedevo rimbalzare sempre più in alto, dapprima divertita poi con terrore. Ogni rimbalzo aumentava sempre di più la distanza tra me e la terra... In genere, grazie all'analisi, capivo i miei sogni. Mi servivano a inquadrare le tensioni più forti della mia mente. Rafforzavano anche la mia fiducia nella psicoanalisi. Traevo un tale beneficio dallo studio sistematico dei miei sogni che mi chiedevo per quale aberrazione la medicina badava così poco a un'attività umana tanto importante. Perché fanno al paziente mille domande sul modo in cui si nutre, cammina, respira e non gli chiedono mai se sogna e che cosa sogna? Come se sette o otto ore della vita quotidiana della gente non contassero niente. Come se il sonno fosse il non essere. Eppure i nostri occhi si muovono durante il sogno, il nostro corpo pure, la nostra attività cerebrale può essere anche intensa... Perché quello che succede dentro di noi in quei momenti è tenuto in così poco conto? Dopo tanti sonni inutili ora ricominciavo a dormire in modo attivo. Portavo nel vicolo bracciate di sogni. Li avevo interpretati tutti o quasi, ma mi piaceva far vedere al dottore come funzionavo bene. Ciò che agli altri sembrava normale per me era straordinario, solo il dottore poteva valutare l'enorme importanza di ognuna delle mie nuove giornate. Quando mi sdraiavo sul divano mi sembrava di essere uno di quegli ambulanti arabi seduti sulle piazze dei mercati della mia infanzia. Si accovacciavano per terra, dalle pieghe della ^gandura estraevano uno straccio che aprivano e stendevano davanti a sé. Era un grande fazzoletto quadrato che conteneva alcuni spilli e aghi arrugginiti, un po' di chiodi storti, qualche pezzo di filo di ferro, viti usate, dadi e bulloni scompagnati, pezzi di piombo. L'uomo, con gesti esperti disponeva quella ferraglia in mucchietti, poi si arrotolava una sigaretta e aspettava placidamente nell'ombra che si era scelto, quella smerlata e mossa dell'eucalipto o quella compatta del platano. Sapeva che, nel corso della giornata, qualche cliente si sarebbe prima o poi staccato dal grappolo vociante degli acquirenti che formicolavano nella polvere e nel sole e sarebbe venuto da lui per scoprire, chissà mai... in qualche angolo del suo fazzoletto sporco, "la" vite, "il" bullone, il pezzo unico, introvabile, che gli sarebbe poi servito ad aggiustare o a ricostituire qualche vecchio strumento, qualche oggetto prezioso, altrimenti da buttar via. In omaggio, tanto per rendere più completa la loro felicità, avrebbero ricevuto due o tre aghi storti o una spilla da balia spuntata. Nonostante le apparenze il venditore sapeva che il suo fazzoletto conteneva meraviglie, per questo era così tranquillo. Allo stesso modo io venivo ed esponevo davanti al dottore il materiale stravagante dei miei sogni. Facevo mucchietti di parole e di immagini e li raggruppavo a seconda che si riferissero al "cane",

al "tubo", al "frigorifero" eccetera. Parolechiave alle quali il dottore e io avevamo tolto il significato abituale e che, per quanto banali, indicavano un'intera zona, in alcuni casi molto vasta, del mio essere. Per questo la spiegazione dei miei sogni aveva un senso soltanto per me e lui. "Tubo" ad esempio si riferiva all'aborto mancato di mia madre; "cane" alla paura di essere giudicata e abbandonata; "frigorifero" alla confusione, all'inconscio eccetera. C'intendevamo alla perfezione e questa era la cosa più importante. Durante tutta l'analisi e ancora oggi non ho mai smesso di meravigliarmi di fronte al lavoro stupendo che avviene tra il conscio e l'inconscio. Api instancabili. L'inconscio si calava nel profondo del mio essere a cercare ricchezze che mi appartenevano, le posava su una riva del mio sonno, mentre sull'altra la mia coscienza, da lontano, osservava la novità, la valutava, me la lasciava intuire oppure la respingeva. E così a volte una verità semplice, chiara, nonostante fosse facile da capire, irrompeva nella mia realtà solo nel momento in cui io ero in grado di accoglierla. Il mio inconscio stava già da tempo preparando il terreno, si manifestava alla coscienza, qua e là, attraverso parole, immagini, sogni, ai quali non avevo fatto attenzione. Fino al giorno in cui, finalmente matura per accogliere la nuova verità, potevo percorrere in pochi secondi la strada che mi separava da essa. Come accadde per la violenza che ho visto solo quando sono stata in grado di sopportarla. Alla fine di quel periodo in cui avevo imparato ad analizzare i miei sogni, ne feci uno che non seppi risolvere, pur sentendo che avrebbe fatto fare un balzo avanti all'analisi. Il sogno mi faceva in parte rivivere un episodio realmente accaduto. Ero a Lourmarin, in Provenza, dove passavo alcuni giorni insieme ai miei migliori amici: André e sua moglie Barbara. Avevo ventun anni e loro qualcuno di più. I miei rapporti con loro erano i migliori che possano esistere tra esseri umani; erano fatti di ammirazione, di calore, di allegria, di affetto e di rispetto. Lui era un pittore e tutto quello che usciva dalle sue mani mi piaceva e mi soggiogava. Avevo capito, guardandolo lavorare, che la bellezza esiste anche al di fuori del simmetrico, dell'ortodosso, del classico. Fino a quel momento avevo imparato lo splendore dei capolavori della nostra cultura da mia madre e dai miei professori. La pittura moderna non ne faceva parte: "Picasso è un matto e quelli che lo ammirano sono degli snob." Punto e basta. Io invece pensavo segretamente che il mondo in cui André mi aveva permesso di entrare, attraverso le sue ricerche e il suo lavoro, era splendido. Imparavo l'importanza della composizione, dei volumi e, soprattutto, della materia. Lo avevo visto raccogliere ovunque, per strada o nei campi, pezzi di legno, di creta o di metallo, sassi, noccioli di ciliegia, pezzi di corda o tappi di sughero e conservare con cura quelle cianfrusaglie che per me erano soltanto spazzatura. Li usava per decorare lo studio e la casa, oppure li inseriva nelle sue composizioni. Barbara, sua moglie, lanciava grida di ammirazione quando portava i suoi tesori a casa. Era slava e arrotava la "r", "And[r]é, che bello." Chiamava i figli perché potessero ammirare anche loro. Sotto i miei occhi l'immondizia diventava tesoro, era realmente un tesoro. Ma non appena uscivo da casa loro, tornava ad essere immondizia. Non ce la facevo ad allontanarmi da sola dal gusto e dal conformismo del mio ambiente. Ero dunque venuta a raggiungerli a Lourmarin con la sensazione che questa vacanza insieme a loro fosse un grande segno d'indipendenza nei confronti della mia famiglia, un atto molto ardito. Dormivamo sotto la tenda, non avevamo un soldo. Vita bohémienne insomma. Un giorno André mi propose di fare una gita in motocicletta: saremmo andati in una vecchia colombaia che aveva scoperto nel Luberon.

Saltai sulla sua vecchia motocicletta sgangherata (come avrei voluto saltare sul destriero del cavaliere dei miei sogni) e via. In motocicletta si ha sempre l'impressione di andare forte, anche quando si va piano. Si fende l'aria come la prua di una nave corazzata fende l'oceano. In Provenza, d'estate, nell'ora in cui il sole tinge di rosso le montagne, l'aria è piena degli odori delle piante e del frinire delle cicale. Attraversammo a tutta velocità una giungla incantata, sfiorando liane di timo, evitando pareti di gerani, mettendo in fuga, con gli scoppi del nostro motore, pappagalli di rosmarino, muovendo orchidee di cavallette. Come mi piaceva quella campagna! Alla fine della nostra corsa trovammo una collina spelacchiata in cima alla quale un intrico di rovi e di fichi nascondeva quasi interamente un rudere. Ci arrampicammo, schiacciando sotto i piedi grumi di terra secca. André taceva. Non era solito fare discorsi. Preferiva esprimersi con gli occhi e con le mani. Ma sentivo che amava quanto me quello che ci circondava: la sovrapposizione dei cocuzzoli bianchi, i voli grigi delle cavallette, il blu del cielo roso dal caldo, le nuvolette rosa del tramonto. Che bel pianeta! Il rudere era una torre molto alta, una specie di cilindro di pietra senza alcuna apertura al di fuori di una porticina alla base, davanti a noi. André, che conosceva la strada, aveva trovato subito l'ingresso e si era introdotto per primo nella torre. Mi teneva aperta la porta, e mentre cercavo di liberarmi dai rovi che si attaccavano ai miei bluejeans, vedevo sul suolo della torre un'erba verde e fresca, rada e bellissima, punteggiata di fiorellini rosa e blu, come quelli che crescono ai piedi dell'Angelo dell'Annunciazione di Botticelli. Quella grazia era sorprendente in mezzo alla bellezza arida e severa di cui ero ancora circondata. Pensai, continuando a lottare con quei rovi maledetti: "Si vede che gli escrementi degli uccelli servono da concime al suolo." Finalmente entrai e la bellezza del luogo si impossessò di me, come fosse un incanto. La torre non aveva tetto, andava direttamente dalla terra al cielo in cui ritagliava un cerchio quasi perfetto. Le pareti erano forate da profondi alveoli di porcellana blu e gialla, una fila gialla, una blu, a scacchiera, in cui gli uccelli facevano i nidi. La leggiadria dei fiori per terra, l'infinito del cielo sopra e, nel mezzo, la perfetta regolarità del blu misterioso e del giallo sgargiante degli incavi. Impressione di partecipare a un tutto, di essere intera, appagata. Silenzio, perché l'essenziale è già espresso. Tutto questo lo avevo vissuto davvero, quella colombaia esiste da qualche parte in Provenza, non so dove ma potrei ritrovarla. Nel sogno rivivevo ogni particolare di quei momenti, rammentavo con minuziosità il posto, i sentimenti, le emozioni e soprattutto l'impressione di fare le cose di nascosto, di essere fuori dalla legge di mia madre, di approfittare di una libertà totale ma precaria. In un certo senso, avevo coscienza nel sogno che quel momento era eccezionale. Eccomi dunque nella torre, soggiogata dalla sua forza semplice, dalla sua pace, dalla sua bellezza. Nel sogno André scompariva, come succede nei sogni: non si sa perché e non ha importanza. La mia solitudine non era drammatica, al contrario. Ma d'improvviso l'acqua cominciò a scorrere di traverso sulle pareti, isolandomi nel centro di un turbine liquido che non mi bagnava, non mi sporcava. L'acqua mulinava a grande velocità e scompariva giù nel suolo, inspiegabilmente. Era una bella acqua chiara e viva attraverso la quale continuavo a vedere, in trasparenza, gli alveoli blu e gialli e gli uccelli appollaiati tranquillamente. Era uno spettacolo magnifico. Mi sentivo bene lì. Avevo la sensazione di essere

completa, il malessere che provavo nella vita di tutti i giorni era svanito. Tutto a un tratto mi accorsi che quell'acqua stupenda trascinava con sé oggetti allungati e brillanti. Quegli oggetti erano astucci d'argento finemente cesellati, uno più bello dell'altro, uno diverso dall'altro eppure tutti della stessa forma: rotondi e più o meno oblunghi, un po' come i salsicciotti che si ottengono rotolando la plastilina tra le mani. In quel momento seppi, con una certezza che mi veniva da chissà dove, che queste lunghe scatole d'argento contenevano escrementi, stronzi di cui essi riproducevano perfettamente i contorni. Mi trovavo, in realtà, al centro di una magnifica tazza di water. Tutto questo mi sembrava assolutamente piacevole e gradevole. Non ero scandalizzata né dal fatto di provare piacere a trovarmi in un posto simile, né dal fatto che queste belle e preziose scatole potessero contenere una materia tanto ignobile. Al risveglio mi sentivo allegra, soddisfatta, avevo fatto un sogno stupendo. Nonostante ciò, nel vicolo, sul divano, provai molto imbarazzo a dover esprimere con parole quella cascata di astucci d'argento, dover dire ciò che contenevano. Le parole. Nei periodi più gravi della malattia avevo sbattuto più volte contro di esse e ora che ero quasi guarita me le ritrovavo davanti. Ricordavo "fibromatoso" che mi riempiva di brividi e mi costringeva a raggomitolarmi in un angolo della stanza da bagno. Oggi, per riuscire a introdurre la parola "stronzo" in un racconto che volevo lieto e bello, che era lieto e bello, dovevo mobilitare tutte le mie forze e vincere un profondo turbamento, una resistenza profonda. Per parecchie settimane, dal dottore, mi misi ad analizzare le parole, a scoprire la loro importanza e la loro varietà. Mi scontravo con me stessa in un sottile conflitto dove apparentemente non si trattava più di conscio e d'inconscio poiché sia io sia le parole eravamo in superficie, visibili, nitide; se pensavo a un tavolo e volevo esprimere il mio pensiero dicevo tavolo. Ma quando pensavo a uno stronzo provavo difficoltà a pronunciare la parola "stronzo", tentavo di nasconderla o di sostituirla con un'altra. Perché questa parola non riusciva a venir fuori? Da dove veniva questa nuova censura? Capivo che le parole potevano essere amiche o nemiche, ma che in ogni caso mi erano estranee. Erano strumenti messi a punto da molto tempo, di cui disponevo per comunicare con gli altri. Io e il dottore ci eravamo fabbricati un piccolo vocabolario di una decina di parole che per noi due riassumevano tutta la mia vita. Gli uomini avevano inventato milioni di parole altrettanto importanti di quelle che noi utilizzavamo nel vicolo e che esprimevano l'universo nella sua totalità. Non ci avevo mai pensato, non mi rendevo conto che ogni scambio di parole fosse un fatto prezioso, rappresentasse una scelta. Le parole erano astucci, tutte contenevano una materia vitale. Le parole potevano essere veicoli inoffensivi oppure macchine variopinte da autoscontro che si urtavano nella vita quotidiana provocando scintille che non ferivano. Potevano essere particelle vibratili che animavano costantemente l'esistenza oppure cellule che si fagocitano, globuli che si coalizzano per ingoiare avidamente i microbi e respingere invasioni estranee. Potevano essere ferite o cicatrici di ferite, potevano somigliare a un dente marcio in un sorriso di gioia. Potevano essere giganti, rocce ancorate solidamente alla terra, grazie alle quali si possono attraversare torrenti in piena. Le parole infine potevano essere mostri, Ss dell'inconscio che

rinchiudono i pensieri dei vivi dentro le prigioni dell'oblio. Ogni parola che faticavo a pronunciare nascondeva in realtà un territorio nel quale rifiutavo di entrare. Ogni parola che dicevo con piacere designava al contrario un territorio che mi piaceva. Era quindi evidente che desideravo l'armonia e rifiutavo gli escrementi. Come mai nel mio sogno armonia ed escrementi andavano tanto d'accordo? Mi sono allora resa conto che c'era tutta una parte del mio corpo che non avevo mai accettato, che in qualche modo non mi era mai appartenuta. Tutto quello che era collocato tra le mie gambe poteva essere indicato soltanto con parole vergognose e non era mai stato l'oggetto del mio pensiero cosciente. Nessuna parola conteneva il mio ano. (Questo termine peraltro veniva fuori con molta difficoltà e soltanto in un contesto medico, scientifico, ed era già una malattia di per sé.) Qualsiasi parola pronunciata da me che avesse indicato l'ano avrebbe immediatamente attratto su di me lo scandalo e la sporcizia e soprattutto la confusione mentale. Per indicare poi le sostanze che transitavano da quelle parti, l'unico termine che accettavo di pronunciare era il "number two" della mia infanzia. Ero invalida e questa scoperta mi ha fatto ridere. Mi sembrava di essere uno di quei clown che sbattono le loro gigantesche scarpe sulla pista del circo e fanno ridere i bambini perché quando dicono con mimiche vanitose: "Io essere molto intelligente, iiiio", gli si accende una lucina rossa in mezzo al sedere. E difatti sono grotteschi perché ignorano quello che succede nel loro didietro. Ho ritrovato la gioia di ridere. Mi prendevo burla di me stessa ed era una esperienza deliziosa. Avevo vissuto fino a trentasei anni con in corpo un orifizio orrendamente chiamato ano, ero senza culo. Era una vera buffonata. Ora capivo meglio perché non mi era mai piaciuto Rabelais. In basso avevo soltanto un davanti, ero piatta come le regine delle carte da gioco. Una regina con un grosso seno, i fianchi larghi, una corona in testa, una rosa in mano, ieratica, e niente culo. Il piacere di ridere. La bellezza delle risate dei miei figli, di quelle di Jean Pierre: "Più sei sana e più sei matta", le risate per la strada, le mie risate. Tutta la pace, il benessere, la fiducia, la tenerezza che rappresentavano. Stupendo. Come in altre occasioni in cui l'analisi mi aveva fatto fare un grande passo avanti, anche questa volta passai parecchie settimane a destreggiarmi con le mie scoperte, ad ammirarle. Misuravo l'immensità della strada percorsa, era vertiginosa. Mi era mai capitato di ridere veramente prima d'ora? Mi era mai capitato di soppesare le parole, di sospettare la loro importanza? Avevo scritto dei libri usando le parole come oggetti, organizzandole secondo un ordine che mi sembrava coerente, corretto ed estetico. Non mi ero accorta che contengono materia viva. Le avevo sistemate nelle mie pagine esattamente allo stesso modo in cui sistemavo a casa i mobili e gli oggetti di cui non riuscivo a disfarmi e che mi portavo dietro ad ogni trasloco. Ogni volta che giungevamo in una nuova città potevo ricominciare a vivere soltanto dopo l'arrivo delle preziose casse. Le aprivo davanti ai bambini come aveva fatto mia madre con me, insegnavo loro parole morte che si riferivano a una storia morta, una famiglia morta, un pensiero morto, una bellezza morta. Mostravo la piccola testa di Minerva sul marchio dell'argenteria, la rosa sul peltro, le perle dei mobili Luigi Sedicesimo, l'orlo a giorno della biancheria, la leggerezza della porcellana, la rilegatura e il taglio dorato dei libri, e poi il ritratto di un avo, l'occhialetto di una bisnonna, il carnet di ballo di una prozia, il tavolo per cucire in legno di rosa di un'antica cugina eccetera... Reliquie. Bauli come casse da morto.

E cadaveri che riesumavo dalla paglia per far vivere i miei figli, come avevo vissuto io. Lucidavo i cristalli per i miei figli e li facevo tintinnare: "Quando un bicchiere fa questo suono, vuol dire che è di cristallo." Era questo il cristallo: un bicchiere di lusso che ha un suono particolare. Quel suono indicava il valore, il prezzo dell'oggetto. Tutte quelle parole servivano a designare il valore delle cose ma non la loro vita. La gerarchia dei valori era stata stabilita molto tempo prima e veniva trasmessa di generazione in generazione. Un ammasso di parole che mi facevano da cervello, da scheletro. Non solo contenevano il valore degli oggetti ma anche quello delle persone, dei sentimenti, delle sensazioni, dei pensieri, dei Paesi, delle razze, delle religioni. L'universo intero era etichettato, ordinato, classificato in schemi fissi. L'importante era non ragionare, non riflettere, non rimettere in questione, sarebbe stato una perdita di tempo dato che era impossibile giungere a un'altra classificazione. I valori borghesi erano i soli valori buoni, giusti, intelligenti, erano i migliori. Al punto che non sapevo nemmeno che si trattasse di valori borghesi. Per me erano semplicemente i valori. Là dentro non c'era posto né per il mio culo né per le mie defecazioni, tantomeno per i polmoni del poveretto che aveva soffiato in quel magnifico vaso di cristallo. Non c'era neppure posto per i piedini martoriati della bisnonna che ballava un walzer dopo l'altro, senza tregua, purché fosse pieno il suo carnet, purché in seguito fossero possibili le esclamazioni del tipo: "Era una gran signora, una donna di mondo bella e virtuosa." Neppure per gli occhi delle ricamatrici rovinati dalle cifre e dai pizzi delle lenzuola per puerpere, dei corredi matrimoniali e dei sudari. Neppure per i ventri lacerati delle donne che di generazione in generazione mettevano al mondo l'umanità. Tutto questo non esisteva poiché non si potevano usare le parole che vi si riferivano. Tutto questo non aveva nessun valore. Tutt'al più poteva essere oggetto di battute pesanti e volgari. E se proprio bisognava, per completezza, assegnare un posto nella scala dei valori ai polmoni logori del soffiatore di vetro, ai piedi gonfi della prozia, agli occhi rovinati della ricamatrice, alle pance deformi delle donne e al mio sedere, si ricorreva agli scalini più bassi, quelli della pietà, della commiserazione, della carità, oppure quelli dello scherzo, della presa in giro, della canzonatura, del sarcasmo, della volgarità perché tutto questo era insignificante, minimo, trascurabile, povero, meschino, vano e sporco. Io ero una regina rossa in un castello di carte. Bastava che dicessi la parola "merda", che pensassi senza vergogna e senza disgusto a quello che rappresentava, perché il castello crollasse. XV E così, grazie al bel sogno della colombaia, ho capito che tutto è importante, anche gli escrementi e anche il castello di carte nel quale vivevo da tempo imprigionata. Mi si strinse il cuore quando scopersi che in quelle celle c'era anche mia madre. Provai molta pena per lei, e al tempo stesso ebbi la certezza che fosse troppo tardi, che non c'era niente che io potessi fare per tirarla fuori. Non potevo spiegarle quello che stavo imparando, il mio sapere era troppo nuovo, ancora incompleto. Mi ero trovata in una situazione terribilmente pericolosa, e avevo dovuto uscirne insieme ai miei figli. L'autobus era al completo non c'era posto per mia madre accanto a me. Da quando si era trasferita in Francia era molto invecchiata. Il suo corpo e il suo viso si erano incredibilmente afflosciati. Si murava in camera da letto. Ne usciva soltanto per adempiere ai suoi

doveri, trascinando i piedi, triste e abbattuta, con il viso chiuso, e una specie di fiamma rabbiosa nel verde dei suoi occhi. Si sarebbe detto che aveva abbandonato la lotta, che rinunciava, che mollava la presa, avendo compreso che era stata beffata, presa in giro da sempre. Sono sicura che ha visto chiaramente quello stupido clero, incapace di vero amore, questa Francia egoista e interessata, piena di pretese, quell'Algeria tanto amata che non faceva nessuna differenza tra lei e gli altri, gli sfruttatori. Beffata. Ingannata a morte. Sono convinta che in segreto si rendeva conto di tutto ciò e che in quel suo universo devastato, annullato, rimanevo soltanto io con la mia forza nuova, che le saltava agli occhi e alla quale tentava goffamente di aggrapparsi. Ma nonostante la pena che mi ispirava, provavo ancora repulsione per il suo ventre, evitavo la sua presenza. Questa repulsione mi metteva in imbarazzo, avrei dovuto essere in grado di vincerla, non per riavvicinarmi a mia madre bensì per liberarmi di lei, di quello che aveva rappresentato per me. Questa repulsione continuava a costituire uno stretto legame tra noi due e non sapevo come sbarazzarmene. Ormai andavo nel vicolo soltanto una volta alla settimana, e in breve tempo le sedute si diradarono ulteriormente. Ero diventata una donna molto forte e responsabile, una donna sulla quale ci si può appoggiare. All'età in cui le donne credono che la loro vita stia per finire, io avevo la fortuna di essere appena all'inizio della mia. Ero piena di entusiasmo e di ardore, tutto mi appassionava. Scoprivo in me una vitalità insospettata, legata a una grande capacità di lavoro. Amavo l'universo dei libri. Da quando avevo scoperto le parole avevo smesso di scrivere per me stessa. Mi ci voleva una pausa, non potevo più scrivere come prima. Cominciai quindi ad occuparmi dei libri degli altri, che mi interessavano quanto i miei. Imparavo a usare il cartone, la carta, l'inchiostro, la colla, i menabò e i caratteri tipografici. La bellezza dei caratteri tipografici! Quel mondo raccolto, ispirato, silenzioso. Ventisei maiuscole, ventisei minuscole, dieci numeri e la punteggiatura. Una piccola galassia perfettamente armoniosa. Le parole, quegli astucci pieni di vita, contenuti a loro volta, quando sono scritte, negli astucci delle lettere. Ogni tipo di carattere ha uno stile proprio che trasmette alla parola che rappresenta e alla materia contenuta nella parola. Ogni popolo inventa caratteri che gli assomigliano. I tedeschi hanno alfabeti pesanti e potenti fatti per testi forti, analisi rigorose, follie pericolose. Gli inglesi hanno lettere precise e pazze, fatte per una libertà ben dosata. Gli americani usano caratteri nuovi e anonimi, pensati e realizzati dai robots. I latini infine hanno caratteri bellissimi fatti per la sottigliezza, l'amore e le lacrime. Vivere in quel mondo era un incanto. Sì, decisamente, tutto era diventato importante, tutto era interessante. Non parlavo mai dell'analisi perché mi rendevo conto che quell'argomento infastidiva la gente: "Sono tutte balle. I pazzi si mandano in manicomio. Per il resto sono balle da donnette, froci o squilibrati." A quel punto iniziava una vera pioggia di racconti del genere: "Io (o Pietro, Paolo o Mariarosa) ho fatto una psicoanalisi. Ebbene, cara mia, mi ha completamente distrutto. Non me ne parlare. Mi ci sono voluti cinque anni per rimettermi in sesto!" Dopo scoprivo che avevano visto un medico per due mesi, sei mesi o anche due anni. Qualcuno al quale avevano raccontato la loro vita, che li aveva ascoltati, dato dei consigli e infine gli aveva prescritto un tranquillante nuovo. Insomma, o non avevano fatto una vera analisi, o l'avevano abbandonata nel momento in cui diventava difficile, nel

momento in cui non succedeva più nulla, per settimane e mesi. Quando dopo aver raccontato le cose note, si erano ritrovati davanti all'ignoto, quel muro levigato che nasconde l'orizzonte, quel deserto infinito apparentemente senza uscite, avevano lasciato perdere. Scopersi che si poteva parlare di psicoanalisi soltanto per descrivere un fallimento. E invece io li scandalizzavo con la mia guarigione, la mia forza nuova. "Sicuramente non eri malata, erano bollori adolescenziali. Quanto rompete le palle voi donne con i vostri problemi inesistenti. Sono solo malattie da donne, non certo cose serie." Io sapevo invece che le malattie di mente non sono affatto un appannaggio femminile. Ne avevo incontrati di uomini, nel vicolo, durante tutti quegli anni. Altrettanto numerosi delle donne. Con la testa affondata nel soprabito o nel giubbetto, lo sguardo chiuso, la paura su tutta la faccia. Compresi che la gente attorno a me viveva in un castello di carte ma che la maggior parte non se ne rendeva conto. Tutti fratelli. E io che mi credevo sola, anormale, mostruosa. Se non ci fossero stati il sangue, il sudore, i tremiti, il cuore scatenato, i polmoni oppressi, la nebbia che mi ostruiva gli occhi e le orecchie, avrei avuto il coraggio di tuffarmi sempre più a fondo nell'analisi? Non credo. Se non avessi avuto la fortuna di essere completamente sopraffatta dalla malattia, forse non avrei trovato la forza di andare fino in fondo nello scontro con me stessa. Mi sentii una privilegiata. Ormai andavo nel vicolo con l'impressione di appartenere a un'élite, a una sorta di società segreta. Mi sentivo in imbarazzo. Quando incontravo lo sguardo del commesso del negozio di ferramenta o quello degli abitanti del vicolo, sapevo che stavano pensando, vedendomi andare verso il cancello in fondo: "To', la matta del martedì", con un'aria canzonatoria mista di pietà e timore. Mi veniva voglia di dirgli: "No, non sono matta, e non lo sono mai stata. Se sono matta io, allora lo siete anche voi." Per far capire questo alla gente, e anche per aiutare quelli che vivevano nell'inferno in cui io avevo vissuto, mi ripromettevo di scrivere un giorno la storia della mia psicoanalisi, di farne un romanzo dove avrei raccontato la guarigione di una donna che mi assomigliava come una sorella; avrei parlato della sua nascita, del suo lento venire al mondo, della sua lieta scoperta del giorno e della notte, della sua gioia di vivere, della sua meraviglia davanti all'universo cui apparteneva. Perché l'analisi non si può descrivere. Ci vorrebbero migliaia di pagine ripetute all'infinito per esprimere il nulla, il vuoto, il vago, il lento, il morto, l'essenziale, il perfettamente semplice. Poi, in mezzo a quell'immensa monotonia, alcuni tratti folgoranti, i secondi luminosi durante i quali appare la verità intera di cui si afferra solo un frammento credendo di prenderla tutta. Poi di nuovo, per altre mille pagine, il piatto, l'indicibile, la materia in gestazione, la gestazione del pensiero, l'informe, l'inestimabile. Poi ancora la scintilla abbagliante della verità. E così via. Libro enorme e gonfio con alcune pagine bianche che racchiudono appunto il tutto e il nulla. Fantastico volume fatto con tutta la carta del mondo, tutto l'inchiostro, tutte le parole, tutte le lettere, tutti gli ideogrammi. Ma per fare un romanzo, dovevo aspettare la fine della mia analisi, dovevo vivere senza recarmi nel vicolo. Non c'ero ancora arrivata, i rapporti con mia madre erano ancora troppo difficili. C'era ancora quella nausea che mi procurava la sua presenza e mi dava un senso di malessere. Sognavo. Le mie notti erano animate dalla cineteca dell'oblio. Mi svegliavo distesa e lucida. Sentivo dentro di me una forza tranquilla che mi avrebbe fatta vivere con interesse ogni momento della mia

giornata. Mi ero trovata una coerenza bizzarra, illogica ma solida che mi si addiceva perfettamente. Questa unità del mio essere, questa coesione tra le mie notti e le mie giornate, mi permetteva di andare verso gli altri, di incontrarli, di capirli spesso, a volte di amarli e farmi amare da loro. Ero felice, avevo fiducia in me stessa, sapevo che sarei andata fino in fondo. Due incubi mi hanno permesso di portare a termine l'analisi. Nel primo stavo tornando a casa, ad Algeri. Era un appartamento che non conoscevo, non conoscevo nemmeno il palazzo, un edificio dell''800 come se ne vedono in tutte le grandi città del Mediterraneo, al Pireo, a Napoli, a Nizza, a Barcellona. Una casa borghese di belle proporzioni, con le pietre squadrate, a quattro o cinque piani, con le imposte chiuse e le gelosie un po' aperte, un portone d'ingresso sorretto da due cariatidi brutte e pudiche, una scala buia, interamente coperta da piastrelle di ceramica sulle quali si ripeteva all'infinito un motivo ad arabeschi verde su fondo bianco. Una specie di grande pozzo che dava un po' di fresco agli appartamenti che gli si aprivano attorno. Da bambina avevo abitato in un palazzo di quel genere, me lo ricordavo vagamente. Entro dunque in casa. Non appena la porta è chiusa mia madre mi viene incontro. Esce da una stanza sulla sinistra dell'anticamera nella quale ci sono altre donne. Ha la faccia delle grandi circostanze, la sua maschera tragica. "Vieni con noi. Ti dobbiamo nascondere. Ci sono tre fellagha in casa." Tre fellagha non mi fanno paura. Io sono per l'Algeria indipendente, mia madre lo sa, e non capisco perché sia tanto spaventata. D'accordo, per strada, sono una francese come le altre, una donna da uccidere - durante una rivoluzione non c'è tempo per badare ai particolari - ma qui è diverso: posso parlare, spiegare la mia posizione, capiranno che sono sincera, che non sono una nemica, che non cerco di ingannarli, che capisco davvero la loro causa. Nonostante le lagne di mia madre mi dirigo verso la stanza dove questi si trovano. Vedo tre uomini che parlano sottovoce con fare sospettoso. Per il resto non hanno nulla di particolare. Non sono spaventosi, né brutti, né eccitati. Non sono armati. Non riesco a mettermi in contatto con loro. Mia madre e le altre donne mi tirano indietro. Sono legata al loro gruppo in modo incomprensibile. Eppure non sono prigioniera, è la fatalità che mi lega a loro in maniera assurda, che peraltro non tento di mettere in discussione. Deve andare così, tutto qua. A poco a poco indietreggio e mi ritrovo rinchiusa nella stanza dove stanno le altre donne. Donne latine vestite di nero, che borbottano preghiere, maneggiano rosari, si fanno il segno della croce, bisbigliano "ahi, ahi, ahi!", "madre mia!", "Dio mio, povera me", e io, in mezzo a loro, "madonna santa", "mater dolorosa, ora pro nobis". La loro paura è diventata la mia paura, sudo, tremo come loro. Come loro mi affido alla provvidenza divina. Stiamo lì, strette l'una contro l'altra, giovani, vecchie, ragazze, bambine, donne di mezz'età, sgualdrine, racchie, tutte con una terribile paura nel ventre e con la testa piena di storie di donne violentate e sventrate. Dopo un po' la situazione comincia a sembrarmi intollerabile. Non posso più sopportare questa sottomissione, questa passività, questa inattività. Devo fare qualcosa. Deve esserci un modo di salvarci. Decido di tentare di uscire e di andare ad avvertire gli inquilini del piano di sotto che hanno il telefono. Non sento nessun rumore attraverso la porta, nulla che indichi che i fellagha si sono avvicinati. Probabilmente sono sempre di là a complottare. Decido di

andare. L'anticamera è vuota e buia. Va bene. Non appena giungo sul pianerottolo m'accorgo che i fellagha m'hanno vista fuggire e m'inseguono. Mi metto a correre, mi precipito per l'enorme scalone. I fellagha sono dietro di me, li sento correre per le scale, questo piano non finisce mai. Nello stesso momento in cui arrivo sul pianerottolo sottostante uno degli uomini mi afferra da dietro, mi mette un braccio attorno al collo. Grazie allo slancio della corsa riesco a trascinarlo a due passi dalla porta chiusa dei vicini, ma al momento di bussare cado in terra con il braccio del fellagha che mi sta strozzando. Vedo la punta delle mie scarpe a pochi centimetri dalla porta. Vorrei tentare di trascinarmi ancora per darle dei calci. Qualcuno verrebbe fuori, mi salverebbe. Ma non posso farlo, l'uomo mi paralizza. Sento contro la nuca il suo respiro affannato per la corsa. Tutt'a un tratto, lo vedo brandire un coltello con la mano libera, una specie di temperino con una minuscola lama che avvicina al mio collo. Ora mi sgozzerà, è spaventoso! Nel momento stesso in cui sento di essere condannata e sono paralizzata dal terrore, penso: "E' un'arma inoffensiva, non può farmi male con questo coltellino." Ma questo non basta a placare la mia paura e mi sveglio di soprassalto, coperta di sudore, sconvolta. Il fatto di rammentarsi le immagini di un sogno come fossero quelle di un film e di sentire la propria voce che racconta questo sogno equivale a vivere due momenti completamente diversi, anche se si tratta sempre della stessa storia. Così mi sono accorta con stupore che fornivo molti particolari sull'inizio del sogno, che cercavo di descrivere minuziosamente la casa e lo scalone con le piastrelle ad arabesco. Il film sarebbe passato in pochi secondi, con una breve inquadratura, laddove invece le mie parole si soffermavano, insistevano. Perché? Mi sono allora ricordata di uno scalone della mia infanzia che era esattamente uguale a quello dell'incubo. Era l'inizio della guerra, avevo dieci anni e da pochi giorni mia madre aveva deciso che ormai potevo andare a scuola da sola. Era il periodo in cui scoprivo la strada e mi venivano le vertigini, andavo a sbattere contro gli alberi della rue Michelet perché non sapevo camminare da sola. Ero abituata ad essere presa per mano, guidata, non sapevo guardare davanti a me. All'uscita di scuola un uomo mi aveva seguita senza che me ne fossi accorta. Non immaginavo nemmeno che esistessero uomini simili. Era estate, ricordo, indossavo un vestito di tela a grosse righe blu e bianche che formavano un motivo a spina di pesce. Era un bel vestito. Mi stava bene e spesso mi guardavo nelle vetrine dei negozi per vedere l'effetto che facevo. Grazie a quel vestito mi sentivo fresca e piena di vita nonostante il caldo opprimente. L'uomo mi aveva seguita sotto l'androne di casa e mi aveva raggiunta sulle scale. Scale con i muri ricoperti di piastrelle bianche con arabeschi verdi. Non appena sentii la sua presenza provai paura, una paura inspiegabile. Era un signore sui quarant'anni, ben vestito, con un soprabito chiaro, una specie d'impermeabile. La faccia era comune, occhi azzurri e capelli biondicci, niente di particolare. Eppure mi faceva orrore. Si mise a parlarmi, mi chiedeva il mio nome, mi faceva sorrisi melliflui, e viscidi, respirava forte. Non capivo il suo sguardo, mi sembrava opaco. Soffiava come un bue. Non riuscivo a emettere un suono, mentre avrei voluto dirgli di lasciarmi in pace. Fingeva di volermi aiutare a portare la cartella per potersi strusciare contro di me. Lo capii benissimo e gli diedi una gomitata. Si era avvicinato a me in modo che mi trovassi bloccata tra lui e lo scorrimano della scala. Poi, con gesti schifosi, si mise ad accarezzarmi il busto, cercando i seni che non avevo e i glutei sodi, alti e muscolosi dei bambini in piena crescita. Non riuscivo a

sopportare quel contatto. Iniziò allora a soffiare ancora più forte, più rapidamente, mentre frugava nei suoi pantaloni. Balzai lontano, reggendo la mia cartella come fosse stata un fucile, e salii di corsa. L'uomo, sorpreso dalla mia fuga, si era messo a salire anche lui a tutta velocità insultandomi: "Puttanella, piccola porca, ora te lo metto dentro." La paura mi rendeva veloce come una freccia. Tre lunghi piani da fare... Il campanello era alto, dovevo lasciare la cartella in terra e alzarmi sulla punta dei piedi per raggiungerlo. Non c'era tempo. Mi precipitai sulla porta e picchiai con tutta la mia forza, con i pugni, con i piedi. Ma l'uomo mi aveva raggiunta e mentre mettevo tutte le mie energie nel picchiare i battenti di legno, sentivo la sua schifosa mano scostare le mie mutandine e le sue dita entrare tra i miei glutei e dimenarsi là dentro, in quel posto sacro, vergognoso e sporco di cui non si parlava mai. Si sentì un rumore di passi nell'anticamera. "Piccola porca, ora te lo metto dentro." Dio mio! adesso mi ucciderà, salvami! L'uomo continuava il suo lavoretto, mi faceva male, mi feriva con quel dito, mi mollò solo all'ultimo momento. Quando la porta si aprì quel porco era già per le scale, lontano. Io, nelle braccia di Nany, venni presa da una terribile crisi di nervi. Non avevo dimenticato quell'avventura in sé ma mi ero scordata dei particolari. L'incubo me li aveva restituiti insieme alla repulsione, alla nausea che m'infondeva quell'uomo e alla paura intensa di quel dito che mi frugava. Dopotutto era soltanto un dito, non era un'arma... Ero là, sul lettino, agitata dalle parole che mi uscivano di bocca, invasa da una grande eccitazione, ma apparentemente tranquilla, quasi addormentata, come il gatto che fa la posta a un uccello. Sentivo che ero su una pista importante: il dito dell'estraneo, il temperino del fellagha, non mi potevano uccidere eppure ero terrorizzata dalla morte che portavano con sé. Quale morte? Dovevo andare più avanti. La strada era di fronte a me, anche la direzione era indicata: paura di una certa morte, della morte che l'uomo infligge alla donna. Paura antica risvegliata dall'incubo. Nel sogno mia madre aveva questa paura e probabilmente anche le altre donne. Fino a quel giorno, e anche dopo l'analisi del mio sogno, non avevo mai avuto coscienza della paura che m'incutevano gli uomini. Mi agitavo sul lettino del dottore, esitavo a imboccare quella strada, non credevo che fosse un mio problema. Certo, avevo avuto paura dell'uomo sulle scale ma in seguito nessun uomo mi aveva mai spaventata, anzi era da loro che avevo ricevuto le sole prove di affetto e di amore che avessi mai avute. Il sesso degli uomini non mi faceva paura. Il temperino... Il dito... La mia paura... La paura di mia madre. La paura delle altre donne... Paura di una morte che non era quella fisica. Ma quale, accidenti? Non so da dove cominciare. Mia madre era lì, nel mio sogno, sembrava la portavoce delle altre donne. Era stata l'unica a rivolgermi la parola. Mia madre... Gli uomini... Io... Mia madre... Aveva divorziato a ventotto anni e per continuare a ricevere i sacramenti aveva fatto voto di castità. Non credo che lo abbia mai infranto. Era bella, intelligente, appassionata, misteriosa e... piaceva agli uomini. L'ho sentito durante tutta l'infanzia. Odiavo chi si avvicinava troppo a lei. Ero gelosa ma non lo sapevo. Pensavo che gli uomini le avrebbero fatto smarrire la strada giusta, quella che doveva condurla in paradiso... ...Alla fattoria, il salone era lungo più di venti metri, originariamente era una veranda che in seguito era stata chiusa. La mia camera da letto aveva due finestre di cui una dava sul giardino e

l'altra sul salone, poiché non erano state murate le aperture sulla veranda. Fungevano ora da biblioteca e da vetrine. Nelle notti in cui non riuscivo a dormire a causa del caldo e dei miei cattivi pensieri, mi succedeva a volte di sentire una bella musica: la musica di mia madre. Mi alzavo e andavo in punta di piedi ad accovacciarmi nella nicchia formata dalla finestra finta che era chiusa dalle tende in camera mia e piena di suppellettili dalla parte del salone. Spiavo mia madre. Era sola e camminava su e giù per la grande stanza. Ogni volta che passava sotto la mia finestra vedevo chiaramente l'espressione del suo volto e provavo un tuffo al cuore. I suoi lineamenti erano distesi. Gli occhi socchiusi, la bocca leggermente aperta lasciavano filtrare un piacere e una soddisfazione molto intensi. Mi sembrava indecente. I tappeti spessi assorbivano il rumore dei suoi passi. La musica regnava indisturbata, usciva da un alto grammofono che assomigliava a una chiesa inglese. Quando il disco era finito ne metteva un altro, mi piacevano tutti. Erano dischi di jazz. Non capivo che cosa c'entrasse lei con quei ritmi. Quella era una musica che veniva dal ventre, dalle reni, dalle cosce, da una zona del corpo che mia madre non poteva conoscere, non doveva conoscere. Mi sembrava di sorprenderla in peccato flagrante, anche se non avrei saputo dire il perché. Soprattutto quando metteva due canzoni: Tea for two e Night and day... day and night. Conoscevo le parole a memoria. "Se te ne vai lontano da me non importa perché ti porto dentro di me, amore mio..." Quelle parole! La voce della cantante negra, come un miagolio rauco! Ero sconvolta. Cosa rappresentavano gli uomini nella vita di mia madre? "Ti piacerebbe che Roland diventasse il tuo papà?" "..." Era d'estate, alla Salamandra. Roland, il bell'ufficiale vedovo al quale si riferiva, veniva ogni giorno con la sua divisa, i suoi stivali, la pelle del viso lucida come una cotica ben rasata. Lo odiavo. Non lo volevo come padre e ancora meno come uomo di mia madre. Mi sembrava che le facesse del male. La sentivo infelice. L'ansietà, l'agitazione che l'avevano presa da quando Roland era comparso nella nostra vita mi turbavano. Eppure sbandierava l'allegria di un'innamorata felice. In spiaggia lasciavo spesso il gruppo dei bambini e delle governanti e facevo finta di andare a giocare dietro l'ombrellone sotto il quale mia madre chiacchierava con le sue amiche. Così potevo sentire senza farmi vedere. Non si parlava d'altro che del prossimo matrimonio tra mia madre e Roland. Era spaventoso, la gola mi si stringeva fino a farmi soffocare. Parlavano di vestiti, di cerimonie, di ricevimento. Le nozze erano fissate per ottobre, dopo le vacanze. Quindi, quando faceva finta di chiedermi che cosa ne pensassi, era già tutto stabilito. Mi misi a piagnucolare. "La bambina è nervosa, chissà cosa le prende." Per fortuna si partiva per l'Europa. Lì non avrei più rivisto il "bell'ufficiale" come lo chiamava mia nonna, con i suoi guanti gialli, il suo frustino e la sua sufficienza. Quando mi vedeva mi dava un buffetto distratto sulla guancia. Sapevo che non gli importava niente di me. Oltretutto sua moglie era morta e gli aveva lasciato due figli che mia madre adorava, due larve biondine che io detestavo. Finalmente salii sulla nave, sola con mia madre. Nany e mio fratello non c'erano. Soprattutto non c'era Roland tra me e lei. Dovevamo passare la notte al Grand Hôtel di PortVendres prima di prendere il treno per Parigi. Perché mai un itinerario così complicato? Quando arrivammo in albergo un lift in divisa rossa, con uno strano berretto in testa, una specie di scatola di cioccolatini rossa e oro, prese il nostro bagaglio e ci guidò nelle nostre stanze.

Una scala con scalini molto alti, con in mezzo una passatoia fissata da bacchette di ottone. Il lift cammina davanti a mia madre e io vengo per ultima. Piante di palme nei vasi lungo lo scorrimano, una curva. Alzo gli occhi e vedo sul pianerottolo, di qua e di là della passatoia, due stivali ben lucidati. Roland! E' qui! Per questo è venuta sola con me! Per questo abbiamo cambiato treno! Mi si strinse la gola, una tempesta si scatenava nel mio corpo. No, lui no, non qui! Cominciai a lamentarmi. Mi faceva male la pancia, vomitavo. Chissà perché, mia madre mi aveva sistemata su un vaso da notte al centro della stanza, davanti a quell'uomo. Era una situazione intollerabile. Raddoppiai urla e lacrime. "Ora chiamo un medico. Roland, la prego di andarsene. Non sta bene che la vedano in camera mia." "E io che contavo tanto su questa serata!" "Cosa vuole che le dica, sono cose che succedono con i bambini." Quella sera avevo l'impressione che mia madre mi curasse ancora meglio del solito. Sembrava sollevata, alleggerita, canticchiava nella stanza da bagno. L'indomani mattina partimmo e non rividi mai più Roland. ...Più tardi, avevo otto o nove anni, un altro signore divenne un habitué di casa. Era un bellimbusto, più anziano di Roland, con i capelli grigi imbrillantinati, un anello con lo stemma, un po' di pancia, parigino: Gael de Puizan. Metà uomo d'affari, metà uomo di mondo. Stessa scena: "Un giorno Gael diventerà tuo padre, se tu vorrai." Il signore si era fatto più insistente, aveva chiesto un appuntamento fuori di casa. Di nuovo mi aveva portata con sé senza dirmi nulla della vera meta della passeggiata. Camminavamo lungo una strada di campagna, in Francia. Mi teneva per mano. Aveva un buon profumo, era particolarmente ben vestita e io pure. Ormai ero abbastanza grande per capire di che natura fosse il turbamento quando vidi una macchina arrivare, rallentare e fermarsi accanto a noi. Gael era al volante, solo. Non dimenticherò mai il modo in cui mi guardò. Se solo avesse potuto cancellarmi! Compresi che cosa significava la mia presenza e seppi che servivo da paravento a mia madre, da schermo tra lei e i suoi spasimanti. Ora sul divano, intuivo che la religione di mia madre era stata un'ottima scusa, che non era soltanto la religione a straziarla, a impedirle di andare verso quegli uomini di cui certamente aveva voglia. Aveva paura di qualcos'altro. La paura del mio incubo. Mi misi a pensare, come non avevo mai fatto prima, che cosa significasse realmente essere donne. Pensavo ai nostri corpi, il mio, quello di mia madre, quello delle altre. Tutte uguali, tutte con un buco. Appartenevo a quell'orda gigantesca di esseri forati alla mercè degli invasori. Non c'è niente per proteggere il mio buco, nessuna palpebra, nessuna bocca, nessuna narice, nessuno sportello, nessuno sfintere. Si nasconde in mezzo alla carne morbida che non ubbidisce alla mia volontà, che non è capace di difendersi spontaneamente. Nel nostro vocabolario le parole che si riferiscono a quella parte specifica del corpo femminile sono tutte brutte, volgari, sporche, grottesche o tecniche. Non avevo mai pensato all'imene come protezione e al vuoto che si creava quando la sottile membrana cedeva e sanguinava sotto i colpi degli uomini, dando via libera a qualsiasi cosa... al dito... al temperino. Che da questo nasca una paura essenziale, antica come l'umanità, inconsciamente subita, dimenticata? Una paura che solo le donne possono sentire, solo loro possono capire, che si trasmettono istintivamente, che sarebbe il loro segreto? Una paura che viene

attribuita alla penetrazione violenta dell'uomo ma che in realtà è ben più complessa e profonda. Una paura inventata dalle donne, insegnata alle donne da altre donne. Paura della nostra vulnerabilità, della nostra impossibilità totale di chiuderci completamente. Quale donna è in grado d'impedire alla sua creatura di scivolare fuori da lei, lacerandola? Quale donna può impedire a un uomo, che intende davvero farlo, di penetrarla e di deporre dentro di lei il suo seme estraneo? Nessuna. Quando qualcosa accade nel corso di una psicoanalisi, accade molto velocemente. Tra il momento in cui gli arabeschi del sogno avevano richiamato gli arabeschi della realtà e la domanda: perché aver paura di qualcosa che non fa male? seguita dalla visione di un essere forato, erano trascorsi pochi minuti. Perché mai non avevo scelto di analizzare le cariatidi del palazzo del mio sogno, oppure le persiane, invece dello scalone? Perché mai mi ero soffermata sul temperino e non sui fellagha, sulle donne vestite di nero eccetera?... Perché mai avevo scelto alcuni particolari e trascurato altri? Perché sentivo l'inconscio pesare laddove poi mi diressi. Nel sogno c'era soltanto il piccolo temperino che era ancora un enigma per me e nel mio racconto al dottore, soltanto la mia insistenza sulla descrizione dello scalone era sorprendente. Il mio inconscio si era manifestato attraverso quei due punti precisi, uno nel sonno, l'altro da sveglia. Ero ormai abituata ad avvicinarlo. Ora sapevo perfettamente quando manifestava la sua presenza e quando riuscivo a provocare un contatto. Ero lì, sdraiata, il dottore taceva come al solito. Ancora una volta ero in possesso di una nuova scoperta. Ma per la prima volta questa scoperta mi lasciava perplessa. La sentivo estranea alla cura psicoanalitica. Non era nello studio del dottore che mi sarebbe servita. Dovevo andarmene. Erano sette anni che venivo qui. Sette anni per esistere. Sette anni per trovare me stessa. Sette anni trascorsi in un movimento lento, perfettamente equilibrato. Avevo cominciato col trovare la salute. Poi la mia essenza era apparsa a poco a poco, avevo scoperto la mia individualità, ero diventata una persona. Poi grazie al mio ano, avevo scoperto che tutto aveva la sua importanza e che quello che era ritenuto sconcio, meschino, vergognoso, povero, in realtà non lo era, che era la scala dei valori del mio ambiente sociale che aveva gettato un velo ipocrita su determinate persone, determinati pensieri, determinate cose, per far risaltare meglio ciò che è pulito, grandioso, brillante, ricco. Ora scoprivo la mia vagina sicura che l'avrei accettata come avevo fatto con il mio ano: avremmo vissuto insieme, come vivevo con i miei capelli, le dita dei miei piedi, la pelle della mia schiena, tutte le parti del mio corpo, come vivevo con la violenza, la dissimulazione, la sensualità, la prepotenza, la volontà, il coraggio, l'allegria. Armoniosamente, senza vergogna, senza disgusto, senza discriminazione. Ero certa che solo fuori dal vicolo avrei trovato il vero significato della mia scoperta. Quel giorno salutai il dottore sapendo che presto non sarei più ritornata. Infatti è stato all'esterno, per strada, nei negozi, in ufficio, a casa, che ho capito quello che significava avere una vagina, essere una donna. Finora non avevo mai messo in discussione il concetto di femminilità, questa qualità specifica di certi esseri umani con il seno, i capelli lunghi, il viso truccato, i vestiti, e altre caratteristiche graziose e maliziose di cui si parlava poco o niente. Esseri che si muovevano tra i toni pastello, il rosa soprattutto, l'azzurro chiaro, il bianco, il lilla, il giallo, il verdemuschio. Persone il cui ruolo consiste nell'essere la serva del padrone, il

riposo del guerriero, la mamma. Adornate, profumate, decorate come reliquari, fragili, preziose, delicate, illogiche, con cervelli da galline, disponibili, con il buco sempre aperto, sempre pronte a dare e a ricevere. Era falso. Io sapevo che cosa significava essere donna. Ero una di loro. Sapevo cosa vuol dire alzarsi al mattino prima di tutti gli altri, preparare la colazione, ascoltare i bambini che hanno tutti qualcosa da dire nello stesso momento, in fretta. Stirare all'alba, rammendare di prima mattina, far ripassare la lezione quando il sole si è appena alzato. Finalmente la casa vuota e un'ora di lavoro forsennato per fare un minimo di pulizie, ammucchiare la biancheria sporca, inumidire il bucato lavato, preparare le verdure per i pasti della giornata, pulire i gabinetti. Lavarsi, pettinarsi, truccarsi, mettersi in ordine (se non lo fai hai la coscienza sporca: "Una donna deve sempre essere in ordine e piacevole da guardare."). Portare i più piccoli al nido o all'asilo. Non dimenticarsi della borsa per la spesa che si farà al ritorno. Andare al lavoro. L'unico lavoro importante, quello per cui sei pagata, senza il quale sarebbe la miseria nera. Tornare per la colazione di mezzogiorno. I più grandi mangiano a scuola, la più piccola torna a casa. Bisogna darle affetto, deve sentire la presenza calda di sua madre. I più grandi si occuperanno di lei quando torneranno da scuola. Speriamo che non combinino guai, che non giochino con i fiammiferi, che non attraversino la strada senza guardare. Ripartire con le borse della spesa. Gli ordini dei superiori ricevuti e eseguiti il più velocemente possibile, il meglio possibile. La spesa della sera. Senza un soldo in tasca. Pazienza. Arrangiarsi per ottenere ugualmente un pasto appetitoso e sano: "Un buon pasto cancella tutti i guai." Le borse che pesano. La stanchezza che comincia a roderti la testa e le reni. Non ha importanza: "Le donne devono pagare con la fatica la felicità di mettere al mondo figli." Tornare a casa. Ascoltare tutti. Preparare la cena. Stendere il bucato. Lavare i bambini, controllare i loro compiti. Mettere in tavola una buona minestra calda. Friggere le frittelle di mele mentre finiscono la pastasciutta. Le gambe pesanti. La testa piena di sonno. I piatti da lavare. Vedere come altrettanti rimproveri le ditate sui muri, i vetri polverosi, il lavoro a maglia che non va avanti. "Hai quello che ti meriti, figlia mia. A donna sporca, casa sporca." Lo farò domenica, lo farò domenica. L'indomani tutto ricomincia: spostare i mobili, stare per terra a quattro zampe per pulire il pavimento, portare le borse della spesa, prendere in braccio i piccoli. Correre, contare e ricontare i pochi soldi senza i quali non si compra niente. Guardare in una vetrina il bel vestito che costa più di un mese di stipendio... Farsi scopare quando si vorrebbe solo dormire, riposare. Sentirsi la coscienza sporca a causa di ciò, rimpiangere di non goderne più, temere una nuova gravidanza. Cacciare via quei pensieri egoisti: "Devi far la moglie quanto la madre se vuoi avere un buon marito." Quanti giorni prima delle mestruazioni? Non mi sono sbagliata nei calcoli? Lui è stato attento? Quanti giorni prima della fine del mese? Avrò abbastanza soldi? Ce la farò? Dio mio, c'è un bambino che grida. E' la piccola. Speriamo che non sia malata, quest'anno sono mancata troppi giorni dall'ufficio per il morbillo del grande e l'influenza del secondo. Finiranno col guardarmi male. Svegliarsi di soprassalto, alzarsi nella notte. La notte nei casermoni di cemento, i pianti lontani, altri bambini che hanno incubi, lo scarico del cesso dei vicini che tornano tardi, le grida, giù al terzo piano, del signore ubriaco che se la prende con la moglie. Dormire. Dormire. Ecco cos'è avere una vagina. Essere una donna: servire un uomo e amare i figli fino alla vecchiaia. Finché non ti portano all'ospizio

dove l'infermiera ti riceverà parlando come si parla ai bambini, agli scemi, ai rimbambiti: "Starà bene con noi la nonnina, non è vero nonnina?" E' vero che nella vita della vecchia donna, è venuto spesso l'arcobaleno delle risate dei suoi figli, l'oro vecchio dell'amore, qualche volta il rosa della tenerezza. Ma più che altro c'è stato il rosso del suo sangue, il nero della sua fatica, il marrone cacca e il giallo piscia dei pannolini e delle mutande dei suoi piccoli e del suo uomo. E poi il grigio della stanchezza, il beige della rassegnazione. Sì, proprio, la conoscenza della mia vita di donna me ne aveva fatte scoprire di belle. Il castello di carte di cui ridevo non tanto tempo fa, di cui pensavo di essermi sbarazzata lanciando (un po' goffamente) dei "merda", degli "stronzo", e dei "va' a farti fottere" questo castello che credevo abbattuto stava ancora in piedi, le sue fondamenta erano ancora intatte. Soltanto ora mi rendevo conto che non avevo mai veramente letto un giornale, mai veramente ascoltato le notizie alla radio, che per me la guerra d'Algeria era stata una storia sentimentale, una triste storia di famiglia degna degli Atridi. E come mai? Perché non avevo alcun ruolo da svolgere in questa società nella quale ero nata e nella quale ero diventata pazza. Nessun altro ruolo se non quello di fare maschi per far andare avanti le guerre e i governi, e femmine che a loro volta avrebbero fatto figli maschi con i maschi. Trentasette anni di assoluta sottomissione. Trentasette anni passati ad accettare l'ineguaglianza e l'ingiustizia senza batter ciglia, senza nemmeno accorgersene. Era terribile! Da dove dovevo cominciare? Non avrei di nuovo perso la testa? Un vuoto. Un grande vuoto. La necessità di riprendere le sedute in modo più regolare. Di nuovo un'ondata di collera nei confronti del piccolo dottore. "Sono uscita dal giogo del pensiero borghese per ricadere sotto un altro, quello dell'analisi. E' la stessa cosa: un sistema che imprigiona la gente e di cui lei è uno dei carcerieri." "Almeno, ne è cosciente." Aveva ragione quell'imbecille. Se non volevo andare da lui nessuno mi ci costringeva. Tutte queste storie di giustizia e ingiustizia, uguaglianza e ineguaglianza, toccava a me risolverle. Potevo tornare a essere la donna di prima? No. Fermare i miei progressi ora significava accettare di ritrovare la pazza tra il bidè e la vasca da bagno, raggomitolarmi insieme a lei, dentro di lei, consegnarmi definitivamente alla Cosa. Non l'avrei fatto per tutto l'oro del mondo. E allora che cosa dovevo fare? Come potevo cavarmela? Quanta agitazione, quanta solitudine, quanta goffaggine, quanto smarrimento. Un altro incubo è venuto a liberarmi. Ero su una spiaggia con Jean Pierre e i nostri migliori amici. Ancora André e Barbara e inoltre Henri e Yvette, un'altra coppia la cui integrità non accettava il più piccolo compromesso. Henri specialmente a volte ci faceva ridere e metteva a dura prova il nostro affetto a causa della sua onestà pignola e intransigente. Era stato cacciato dall'Algeria dall'Oas. Eravamo quindi sulla spiaggia, tutti e sei, una magnifica spiaggia dell'Atlantico larga e bionda (come quella dove Jean Pierre portò un giorno una donna), battuta da grandi onde. C'era un tempo splendido. Il mare era agitato ma non cattivo, il sole faceva risplendere la schiuma delle onde che si rompevano. Ci divertivamo a saltare, a

tuffarci nell'acqua viva e vorticosa, coperta da una schiuma leggera, che si allargava in un ricamo irregolare. Amo il mare, amo affondarci, nuotarci, sguazzarci, rotolarmici, come un cane nella polvere. Ero felice là, con Jean Pierre e i miei amici. Affrontavamo le onde, le attendevamo e quando diventavano più alte di noi, all'ultimo momento ci tuffavamo. Conoscevo quel gioco fin da bambina, ero molto brava. Più brava degli altri che gridavano, ridevano, bevevano o fuggivano davanti alla grande massa di acqua che si alzava come un muro prima di crollarci addosso. Tutto a un tratto, un'onda splendida, più alta delle altre, mi sollevò e mi inghiottì, col culo in aria, mi travolse in mezzo a una quantità di bolle e di mulinelli per poi abbandonarmi, un po' brutalmente, nella parte più alta della spiaggia, vicino alla sabbia asciutta. Ero lì, sbalordita, felice, tentavo di riprendere fiato. Sentivo con delizia la sabbia che scivolava sotto di me, trascinata dal riflusso dell'onda che scavava sotto la mia schiena e il mio bacino una vera e propria vasca. Fu in quel momento che vidi, con orrore, un enorme serpente attorcigliato a una delle mie cosce che drizzava la testa tra le mie gambe. Era un bellissimo serpente dai riflessi blu e verdi, un po' come il bronzo. Si drizzava e basta, non mi attaccava, ma mi terrorizzava; con tutte e due le mani tentavo invano di staccarlo, era duro e forte e non potevo far niente per liberarmene. Gli amici si erano raggruppati attorno a me e ridevano: "E' un serpente innocuo. Ha più paura di te." Difatti il serpente se n'era andato com'era venuto, senza farmi alcun male. Ma rimanevo sconvolta, a disagio, inquieta. Tornando a casa raccontai la mia storia a un vecchio contadino che lavorava in giardino. "Non ha nulla da temere da quei serpenti. Questa zona ne è piena. Non l'attaccheranno mai. Oltretutto non sono velenosi." Non riuscivo a tranquillizzarmi, e mi sdraiai su un letto ricoperto di velluto bluverde. Ero coricata sul fianco, con la testa appoggiata su una mano (la posizione di Jean Pierre quando stava leggendo le mie pagine), e nel sogno analizzavo la mia paura. Il serpente: paura del sesso maschile. Non c'è ragione di aver paura del sesso degli uomini. E difatti non mi faceva paura. Quindi non c'era ragione di aver paura del serpente. Tutt'a un tratto vedo, contro il mio gomito, arrotolato su se stesso, dello stesso colore bluverde del copriletto, un serpente simile a quello della spiaggia, con la testa ritta, la bocca aperta. Questa volta non era più tra le mie cosce ma vicinissimo alla mia testa. Ciò lo rendeva ancora più pericoloso. Un solo colpo del suo dardo alla tempia e sarei morta. Fui presa dal panico, dallo spavento. Quel serpente così vicino a me, quella bocca spalancata e quella lingua che si dimena, che esce e entra senza tregua. Ho l'impressione che la paura mi paralizzi, m'impedisca di fuggire. Rimango lì, per un tempo interminabile, senza far niente, terrorizzata, incapace di muovermi. Eppure, tutt'a un tratto, con un gesto rapido il mio braccio si distende, afferro il serpente al collo, proprio sotto la bocca, e stringo. Nello stesso momento mi alzo in piedi. Il serpente si dibatte, la sua coda vibra larghi colpi di frusta nell'aria. Dove posso andare? Cosa posso fare? Non avrò abbastanza forza per stringere così forte molto a lungo. Non mi sembra che stia soffocando, anzi si muove come un forsennato. La mia paura aumenta. Penso che la mia audacia mi costerà cara. Il serpente, questa volta, si vendicherà. Corro verso la stanza da bagno. Jean Pierre è nella vasca. Mi guarda gravemente mentre entro con il serpente in mano e la paura negli occhi, in tutto il mio essere. Vado verso di lui. Sono con lui

nell'acqua tiepida e benefica del bagno. Lui mette le dita dall'altra parte delle mie sul collo del serpente. Tira finché la bocca non si squarcia. Tira ancora finché il serpente non si divide in due belle strisce, due morbidi nastri di bronzo. Calma. Ebbene sì, tutto qui: la paura che mi paralizzava, che paralizzava mia madre e le donne in nero, non era la paura del fallo, del cazzo, della minchia, era la paura del potere dell'uomo. Bastava condividere questo potere perché la paura sparisse. Ero certa che questo era il significato del mio sogno. Per conto mio, se volevo avere una parte attiva nella società, dovevo cominciare da quanto avevo sotto mano, da quello che conoscevo meglio: Jean Pierre e i bambini, noi cinque, una famiglia, un microcosmo, la nascita di una società. Questa soluzione era la mia, ne ero certa. Esistevano sicuramente altri modi ma sapevo che questo era l'unico che facesse al caso mio. L'analisi mi aveva abituata a pensare in un certo modo, ad affossarmi nelle mie idee, l'una che rimanda all'altra, fino ad arrivare a ciò che è più semplice, più diretto. E il più semplice, per me che avevo appena scoperto la parola "politica" e una piccola parte dei suoi contenuti, che avevo appena capito, dopo sette anni di gestazione, fino a che punto la mia vita dipendeva da una società organizzata, il più semplice era di costruire un vero rapporto tra me e Jean Pierre, tra me e i bambini. Quanto lavoro! L'ipocrisia e la menzogna imperversavano ovunque. Le parole e i gesti più quotidiani erano maschere, travestimenti, schifezze. E in tutto questo dov'era andata a finire la nostra fantasia? Amputata! Perfino quella dei bambini era stata quasi totalmente cancellata per lasciare il posto a immagini standard di cui si imbottiva il loro cranio a scuola e a casa. Perché, nel parlargli come gli parlavo, vestirli come li vestivo, vivere come li facevo vivere, imponevo loro la mia legge, le mie idee, i miei gusti. Mi resi conto che li ascoltavo poco e male, e che quindi non li conoscevo. Grazie a loro imparai di nuovo a camminare, parlare, scrivere, leggere, cantare, ridere, amare, giocare. Era un'esperienza esaltante, le mie giornate erano troppo corte. Che casino! Tutte le porte aperte, tutti gli ormeggi mollati! Che felicità! Questa volta il castello di carte stava davvero crollando. XVI Durante questo ultimo anno di psicoanalisi mia madre stava vivendo la sua agonia. Non me n'ero accorta. Sulla brutta copia del manoscritto feci un lapsus, scrissi "mia madre stava vivendo la sua analisi" invece di "mia madre stava vivendo la sua agonia". Evidentemente non è per caso che feci questo errore. Infatti credo che un'analisi ben fatta deve portare alla morte di una persona e alla nascita della stessa persona provvista della propria libertà, della propria verità. Tra quella che ero e quella che sono diventata la distanza è immensa, così grande che non si può nemmeno stabilire un paragone tra quelle due donne. E questa distanza non smette mai di aumentare perché un'analisi non finisce mai, diventa un modo di vivere. Eppure la pazza e io siamo la stessa persona, ci assomigliamo, ci amiamo, viviamo bene insieme. Allo stesso modo, quando mia madre, a sessant'anni e oltre, si è trovata proiettata fuori dal suo universo, quando, a causa della guerra d'Algeria avrebbe dovuto rimettere in questione tutta la sua vita, ha preferito morire. Era uno sconvolgimento troppo grande, non se la sentiva di assumerlo, era troppo tardi. Credo che quando ha analizzato inconsciamente il termine "paternalismo" le è crollato

tutto addosso. Spesso diceva con irritazione: "Eppure è meglio essere paternalisti piuttosto che niente, come quelli che oggi ci fanno la predica. Io, gli arabi, li ho curati per quarant'anni. Quelli che ci danno dei paternalisti non possono dire lo stesso." Aveva capito benissimo che in quella terribile parola c'era la condanna di quello che era stata la sua ragion d'essere, la sua scusa, la sua giustificazione: la carità cristiana. Quando si difendeva sembrava che chiedesse scusa. Quando mia madre e mia nonna erano venute a vivere in Francia, avevamo abitato lo stesso palazzo in periferia, due appartamenti sullo stesso piano che comunicavano attraverso il salotto. La mia analisi era cominciata da oltre un anno ma ero ancora tanto malata, tanto addormentata nel mio bozzolo, che avevo reagito bene a questa riunione, ero perfino contenta di ritrovare mia madre. Mi avrebbe aiutata ad accudire ai bambini e a tenere la casa in ordine. Inoltre mia nonna avrebbe certamente arrotondato i fine mese più difficili. All'inizio della cura il dottore mi aveva avvertita: "Ho il dovere di dirle che una psicoanalisi rischia di sconvolgere completamente la sua vita." E io avevo pensato: quale sconvolgimento può mai accadere nella mia vita? Forse avrei divorziato perché era dopo il matrimonio che la Cosa si era manifestata. Pazienza, divorzierò, staremo a vedere. A parte ciò, non vedevo che cos'altro poteva cambiare nella mia vita... Sono passati due o tre anni a questo modo, in una coabitazione quasi totale. Due o tre anni nel corso dei quali ho cominciato a prendere coscienza del fatto che stavo venendo al mondo. Due o tre anni nel corso dei quali ho espresso, nel vicolo, il mio odio sordo verso mia madre, che finora avevo tenuto nascosto come una tara. Di colpo i miei rapporti con lei sono cambiati. Ora che l'analisi mi rendeva più forte, più saggia e più responsabile, scoprivo la fragilità di mia madre, la sua innocenza e i suoi atteggiamenti da vittima. Lei che non aveva rapporti significativi con me - se non quelli tradizionali di una madre la cui figlia ha passato la trentina ed è lei stessa, ufficialmente, "madre di famiglia numerosa" con conseguenti riduzioni del 30% sui viaggi in treno - si era accorta del cambiamento. Eppure non ci parlavamo. Non parlò mai tranne che per raccontarmi il suo aborto mancato e, per quanto mi riguardava, avevo smesso da un pezzo di tentare di comunicare con lei. Sono certa che se in quel periodo avessi voluto avvicinarmi a lei, avrei potuto. Nella calma che segue i combattimenti, nel disincanto e nella stanchezza della battaglia perduta, nel grigio della Francia, questo Paese detestato al quale aveva sacrificato il suo amato sole, era in preda a un tale disordine, che il momento era propizio a un incontro. Ma io non ne avevo più voglia. Mi limitavo a constatare la sua debolezza, la sua ignoranza. Mi faceva pena, non avevo tempo per starle dietro, ero troppo occupata a liberarmi della Cosa. E la Cosa era l'unico legame che esistesse tra noi due. Lei la conosceva, me l'aveva trasmessa. Nei momenti più gravi della mia malattia la vedeva risplendere come un tesoro e si avvicinava a me con rispetto e forse anche con amore. I miei tremiti, il mio sudore, il mio sangue, il mio silenzio non la disgustavano. La interessavano come non l'avevano mai interessata le mie altre manifestazioni. E quando divenne evidente che il potere della Cosa su di me era ormai meno forte, quando sentì che la Cosa arretrava, il suo smarrimento si fece ancor più grande. Non solo l'Algeria le sfuggiva, ma anche la pazza, la sua bambina malata, la sua pupa anormale, il suo feto torturato. Allora, con uno sforzo considerevole e imprevedibile, cambiò atteggiamento, tentò di mettersi nella mia scia, di attaccarsi a me come un vagone a una locomotiva. Perché questo tentativo? Per

istinto di conservazione? Per interesse? Per amore? Non lo saprò mai. Mia nonna morì. Soltanto lei poteva rendere sopportabile la coabitazione con mia madre. Con la scomparsa della nonna, del suo spirito, della sua giovinezza d'animo, delle sue curiosità, della sua saggezza, lo scontro diretto tra me e mia madre non poteva essere che mortale. Una delle due doveva rimetterci la pelle. Se mia nonna fosse morta qualche anno prima, e cioè prima dell'inizio dell'analisi, credo che sarei stata io a soccombere. La situazione si trascinò ancora per qualche tempo, io sopportavo sempre di meno l'influenza di mia madre sui bambini ma non osavo dirlo e non osavo nemmeno abbandonarla, sapendo in quale critica situazione economica si trovava. Tentai in quel periodo di farle sfruttare i suoi titoli di studio: poteva curare la gente e farsi pagare invece di farlo gratuitamente. Lei oppose una resistenza tenace a questo mio suggerimento, sembrava che le avessi chiesto di prostituirsi. Accettava di continuare a curare i poveri, pulirgli il culo, vegliarli per notti intere, farli partorire, consolarli ma non voleva essere pagata per questo. Uscire dalla beneficenza che aveva praticato tutta la sua vita era una tale vergogna, un tale scandalo: "Cose che non si fanno nella nostra famiglia", che avrebbe preferito, diceva, mendicare. Farsi pagare per l'assistenza che dava significava privarsi della sua ultima prerogativa e anche del suo ultimo talismano. E quindi non se ne parlava. Come poteva una persona tanto intelligente comportarsi in maniera tanto stupida? Per quale aberrazione, quale paura, poteva obbedire a regole tanto imbecilli? I ricchi devono dare ai poveri per piacere a Dio; la loro carità è un incenso che sale in paradiso e profuma delicatamente la barba divina. I capi devono dare l'esempio e conservare la loro dignità nell'avversità. Essere capo non è uno stato di cose ma uno stato d'animo. "Ascolta, non hai più un soldo, più niente, hai soltanto la pensione dei vecchi, lo sai bene. Non sei più ricca, sei povera. Anzi sei tra i più poveri dei poveri." "Non sono mai stata ricca, figlia mia, e non ho mai curato i malati per denaro. Non è ora che comincerò a farlo." Che stronzata. Che presa per il culo. Che farsa. E per giunta era fiera della sua miseria, esibiva a bella posta le sue scarpe sfondate, il suo vestito coperto di macchie, le sue grosse calze smagliate, il suo maglione bucato. Ma, a scanso di equivoci, trastullava spesso, con le sue mani da regina, il minuscolo anello con lo stemma che portava al mignolo destro, o lo smeraldo circondato di diamanti alla mano sinistra o la vera di brillanti. Il ritratto della dignità borghese offesa. Un vero carnevale. Arrivare a questo punto, lei che in fondo era stata così poco borghese! Lei che detestava senza saperlo i privilegi del denaro. Che avrebbe dovuto utilizzare le sue belle mani, se l'avessero lasciata fare, per plasmare la materia: le piaceva toccare la pietra, la terra, il legno, la pelle. Era sensuale. Ignorava che avrebbe dovuto vivere per dedicarsi all'arte, un'arte sua che ormai è impossibile definire. Forse sarebbe diventata ceramista? O architetto? O cesellatrice? O chirurgo? O giardiniera? La rottura tra di noi avvenne dopo la scoperta della mia violenza. Quell'appartamento nella periferia residenziale mi era diventato insopportabile. Era troppo grande, troppo caro, troppo lontano, troppo pretenzioso. Non potevo più vivere in quel cubo cementato di ipocrisia e di apparenze. Per godere dei privilegi borghesi ci vogliono tende spesse, alcove profonde, grandi stanze buie, segreti ben custoditi. Quale stupida commedia recitavano quelli che vivevano tra quei muri di cartapesta, dietro quelle vetrate indiscrete?

Scimmie ingannate, oche sbeffeggiate, tacchini ingabbiati, asini da circo, ecco quello che avevano fatto di loro. Quelle palazzine signorili che mi circondavano, quei salici piangenti, quei cedri, quei prati all'inglese, quei cancelli di ferro battuto, quei muri di cinta sempre bianchi, quella calma appena rotta dalle grida di bambini ben educati e dalle sonate di Chopin non facevano più per me, cedevo il posto. Ero decisa. Ed è senza emozione, senza vergogna che andai a trovare mia madre in camera sua. Era lì, sul suo letto, circondata dalle reliquie dei suoi morti: fotografie, ritratti, oggetti. Sul suo comodino c'era un portacenere pieno di cicche e un bicchiere pieno di un liquido rosso (ho pensato che fosse sciroppo di ribes). "Volevo dirti che ho preso una grave decisione: dobbiamo lasciarci. Primo perché non voglio più vivere qui, secondo perché voglio vivere da sola con i miei figli. Intendo tirarli su come dico io... Ti do tutta l'estate per trovarti una sistemazione... Sono la più povera della famiglia, certamente ci sarà qualcun altro che ti potrà ospitare meglio di me." Non disse niente. Abbassò la testa e si mise a piangere sommessamente. Uscii, era finita. Pensavo soltanto a costruire la mia vita, ero assolutamente determinata a farlo. Lei aveva capito che non sarebbe servito a nulla ricattarmi con i sentimenti, la salute, la miseria o la vecchiaia, che non avrei cambiato programma. E soprattutto sapeva bene quello che erano stati la mia infanzia, la mia adolescenza, la sua indifferenza nei miei confronti, a volte il suo astio. Non poteva dire niente. Forse all'inizio pensò che non ce l'avrei fatta, che non avrei retto fisicamente, che avrei dovuto ricorrere a lei. Ma mi è andata bene. Può anche essere che le difficoltà della mia nuova vita abbiano affrettato i progressi dell'analisi. Aveva trovato rifugio da una sua amica il cui marito era molto malato. Aveva ritrovato a casa loro una atmosfera algerina e la possibilità di dedicarsi a quel vecchio signore che in qualche modo incarnava per lei l'Algeria dei francesi. Pensavo che quella separazione fosse stata benefica anche per lei. La vedevo di tanto in tanto, le telefonavo quasi tutti i giorni a fine mattina. Poi il vecchio signore morì e ciò la colpì molto. Per me, tutto questo accadeva in un altro universo, quello che aveva lasciato e al quale non ero più legata se non attraverso le poche frasi che scambiavo per telefono con mia madre. Non avevo più nessuna curiosità per quel mondo che avevo abbandonato con disgusto. Lo conoscevo troppo bene, non gli avrei dedicato un'ora del mio tempo. Avevo troppe cose da imparare, da vedere, da fare altrove. Ogni mattina aprivo gli occhi con una gioia di vivere e una curiosità straordinarie. Credevo di aver chiuso per sempre con il mio passato. Per questo non rimasi sconcertata sentendo dall'altra parte del filo, una mattina presto, la voce della signora che ospitava mia madre. "Ecco... Volevo dirle che non voglio più tenere sua madre a casa mia nelle condizioni in cui si trova... Ci deve pensare lei, non tocca a me farlo... Ho avvertito il vostro cugino medico. Verrà tra poco, verso mezzogiorno. Sarà bene che venga anche lei, perché, l'avverto, non la terrò altre ventiquattr'ore." "Verrò." Non avevo osato chiedere che cosa avesse mia madre. Tanto l'avrei vista tra poco. La voce della donna era scocciata, era chiaro che non ce la faceva più. Arrivai alle undici e mezza. Nostro cugino era lì con lo

stetoscopio e l'apparecchio per la pressione. Mia madre era seduta sulla sponda del letto disfatto. Come era invecchiata nelle ultime settimane! Era orribile a vedersi. Nel suo viso devastato gli occhi erano senza espressione. Penso che ormai le servissero soltanto a schivare gli ostacoli, e forse nemmeno a questo. Il suo corpo era un ammasso afflosciato di carne, ricoperto di una lurida camicia da notte di flanella rosa a fiorellini blu e bianchi. I suoi piedi sporchi e gonfi si dondolavano nel vuoto. Mio cugino mi aveva vista entrare ma non aveva detto niente, aveva continuato la visita. Poi aveva misurato la pressione. "225. Ti rendi conto. Hai duecentoventicinque di pressione." Lei rispose lentamente, come se le costasse fatica parlare: "Lo sospettavo, sono i nervi." "Nervi o no, devi seguire una dieta severa e smetterla di fumare, tanto per cominciare. Guarda quante cicche!" Guardava con repulsione il comodino coperto di cenere e di sigarette schiacciate. "Devi smetterla con tutti gli eccessi, hai capito?" Lei scuoteva la testa come una vecchia pazza e aveva l'aria di dire: "Parla pure, sapessi quanto me ne importa." "Il solo modo per curarti come si deve è farti ricoverare in una clinica. Innanzitutto Paulette non ti vuole più a casa. Le fai paura e la capisco. Ma guarda come ti sei ridotta." Lei si raddrizzò, assunse la sua aria da imperatrice e disse con un tono che non ammette repliche: "Niente clinica. Non ci starei. E poi, non ce n'è bisogno. Dato che me ne devo andare, andrò a riposarmi da mia figlia." Ero fulminata. No, a casa mia no. Jean Pierre era tornato in Francia. Avevamo trovato un appartamento di tre locali in cui vivevamo in cinque. Ci si stava benissimo. Non ci occorreva uno spazio maggiore per parlare tra di noi alla sera e rifare la famiglia a modo nostro. Eravamo felici. Non c'era posto per mia madre a casa mia, né posto fisico né di altro genere. Soprattutto nelle condizioni in cui si trovava. Aveva dei fratelli, un figlio che avevano case più grandi della mia, che avevano domestici ed erano senza bambini piccoli. Perché voleva venire da me? Il cugino aveva probabilmente percepito il mio rifiuto e disse: "Staresti meglio da tuo figlio." "No, andrò da mia figlia. Non voglio andare da nessun'altra parte." Non mi piaceva il tono in cui quell'uomo le parlava, quel tono da ramanzina, come fosse una rimbambita. Fin dal primo sguardo, da quando ero entrata, avevo visto che era in preda alla Cosa e che in quel grosso mucchio di carne, stava conducendo una battaglia disperata. "Bene. Verrai da me ma non potrai restarci a lungo. La casa è molto piccola, lo sai. Non ho nemmeno un letto per te, uno dei bambini, o Jean Pierre, dovrà dormire per terra." Il suo viso cambiò improvvisamente, mi guardò con uno sguardo vivo: era contenta di venire con me. Con gli occhi le ho risposto: non vivrai con noi, non se ne parla nemmeno, non posso occuparmi di te. Poi ho detto: "Sei sicura di non voler andare da mio fratello? Staresti meglio." "No, a casa tua." Di nuovo non aveva espressione. Dovemmo fare subito il suo bagaglio e partire immediatamente. Ero pazza dalla rabbia. Passarono quattro giorni. Eccetto il giorno in cui era arrivata, era di domenica, non l'avevo vista molto. Rimaneva sola per tutta la giornata. Al mattino, i bambini andavano a scuola dove si fermavano a mangiare. Poi io e Jean Pierre andavamo a lavorare. Si tornava che

era già sera. In cucina le lasciavo quello che serviva per cucinarsi un pasto leggero, ma non lo toccava. Le avevo detto che c'era una chiesa a due passi e che sarebbe potuta andare facilmente a messa. "Non ci metto più piede. Non ci credo più alle loro frottole. Cristo è sbeffeggiato." Avevo saputo dal portiere che non veniva nessuno a farle visita durante la giornata. Non avevo una buona reputazione nella famiglia, venendo a stare con noi mia madre sapeva quello che faceva: era tagliata fuori. Nessuno aveva cercato di chiamarmi per avere sue notizie, né a casa alla sera, né in ufficio. Non sapevo come occuparmi di lei, non avevo né tempo né denaro per farlo. Non volevo che rimanesse con noi, ma non mi sentivo di mandarla all'ospizio. Sarebbe stata una menzogna in più, una vigliaccheria inammissibile da parte sua, da parte mia, da parte della sua famiglia. Sapevo che si doveva curare. Aveva solo sessantacinque anni, non era vecchia nonostante le apparenze. Durante quei quattro giorni l'ho sempre vista distesa sul letto disfatto nel salotto. Non si muoveva, non parlava più. Non si lavava più. Il suo nécessaire era rimasto nella valigia e non era andata nella stanza da bagno, ne ero certa. Conoscevo tutti quei sintomi a memoria. Sapevo che con la Cosa non esiste più né giorno né notte, che "lavarsi" non vuole dire niente, e nemmeno "dormire", "bambini", "salotto" o qualsiasi altra cosa. La battaglia è troppo aspra, l'agitazione interiore troppo grande perché possa esistere qualunque altra cosa. Ci si muove in un mondo individuale, inquietante, sornione, a volte terribilmente aggressivo, sempre pesante, che mobilita tutte le forze, tutta la volontà. Si deve stare attenti. Attenti! Non sopportavo di vederla in questo stato. Ero spaventata all'idea che i bambini rimanessero soli con lei di pomeriggio, prima del nostro rientro. Lei non aveva quell'istinto che mi spingeva a nascondermi. Se ne fotteva, anzi si esibiva, come se provasse piacere a mostrare le sue piaghe. La odiavo. Andai nel vicolo per analizzare il mio odio. Alla sera del quarto giorno dovevo recarmi a una conferenza. Uscii dopo cena con l'impressione di essere una vigliacca perché lasciavo Jean Pierre solo con lei nella nostra casa devastata dalla sua presenza. Loro non mi lasceranno dunque mai in pace! Tornai che era quasi mezzanotte. La conferenza era stata interessante, ero contenta di parlarne con Jean Pierre. La porta d'ingresso dava direttamente sul salotto. Non appena l'apersi lo spettacolo offerto da mia madre mi sconvolse. In una frazione di secondo, una tempesta di brutalità e violenza incredibili si impossessò di me, trascinando la mia mente nei vortici di una follia ritrovata. Era lì, di fronte a me, seduta sul suo letto come al solito. La camicia da notte era sollevata oltre la pancia e vedevo il suo sesso spelacchiato. Se l'era fatta addosso e la sua merda gocciolava sul pavimento. Sul tavolo, vicino a lei, c'erano due bottiglie di rhum, una vuota, l'altra piena a metà, vicino c'era un grande bicchiere pieno. Si dondolava avanti e indietro come per cullarsi. Il rumore che avevo fatto entrando le aveva fatto alzare la testa, mi guardava. Era ignobile: le borse sotto gli occhi cadevano sulle guance, la bocca spalancata pendeva fino al petto. Mi aveva riconosciuta, guardava la sua merda, poi è andata a cercare nelle profondità del suo essere, non so dove, un'espressione. Sentivo tutto quello che stava vivendo, sapevo lo sforzo che faceva per ritrovare, nel groviglio delle sue immagini interiori, i gesti, i segni di cui gli altri si servono per comunicare. Per prima è apparsa sul suo viso

la sorpresa, ma non era quello che voleva. E' rimasta sulla sua faccia mentre si tuffava di nuovo per cercare ancora. Finalmente ha trovato. Allora ho visto il suo volto trasformarsi, le pieghe della sua pelle cambiare, distendersi. Sorrideva. "Sono... stata... cat... ti... va." I suoi occhi andavano da me ai suoi escrementi con un'aria birichina, poi sul suo viso devastato tornò il sorriso. Se non la uccisi in quel momento vuol dire che non ucciderò mai nessuno, che l'analisi reggeva bene, che anche nel parossismo della collera in cui ero immersa, riuscivo a controllare la mia violenza. Ero perfettamente conscia della follia devastatrice che era lì, in tutto il mio corpo, a fior di pelle, che vibrava come un gong, al ritmo veloce dei battiti del mio cuore. Se non ci fosse stata la lunga pratica dell'analisi, quei sette anni di lavoro minuzioso per riuscire a capire me stessa, le sarei saltata addosso, l'avrei picchiata, avrei spaccato i muri, sfondato il soffitto, avrei urlato, urlato come la pazza furiosa che sarei diventata. E invece andai verso di lei, feci tre passi. Pensavo di doverla ferire. Non per farle del male ma per farla ritornare alla superficie, per far sì che prendesse coscienza del suo stato, si decidesse a battersi, trovasse il coraggio di prendersi in mano da sola, altrimenti non se ne sarebbe più tirata fuori. Se le rimaneva ancora un briciolo di coscienza si aspettava probabilmente che io facessi finta di non aver visto nulla, né la merda né l'alcool. Allora dissi a voce alta ma calma: "Povera mamma, sei ubriaca fradicia." Pronunciai queste parole come trovassi normale il fatto che aveva bevuto, che se l'era fatta addosso. Aveva funzionato, l'avevo colpita. Vidi che qualcosa in lei cominciava a smuoversi; i suoi lineamenti si raddrizzarono, la sua schiena pure, e facendo immani sforzi, dato che era molto ubriaca, per articolare chiaramente le parole, ha detto: "Figlia mia, ... non si... parla... così... alla propria madre." Poi cadde sul letto, di traverso. Dormiva già e russava quando mi avvicinai. Doveva essersi tranquillizzata per avermi finalmente svelato il suo segreto. Pensava che l'avrei liberata, si abbandonava a me. Corsi in camera da letto dove Jean Pierre mi aspettava lavorando. Non aveva sentito niente. Il salotto era diviso dal resto della casa da una piccola anticamera. Mi buttai sul letto, non ce la facevo più. Che choc era stato vederla in quello stato. Non avevo mai visto nulla di tanto orribile, di tanto rivoltante. Jean Pierre capì che era successo qualcosa tra me e mia madre. Non mi chiese niente, si mise a parlarmi dolcemente. "Così non puoi andare avanti. Rischi di ammalarti di nuovo. Non c'è nessuna ragione perché tu sia la sola responsabile di tua madre. Devi, per il tuo bene, per quello dei tuoi figli, per il mio, trovare immediatamente una soluzione, questa notte stessa. Non c'è tempo da perdere." "Ma li sveglierò." "E perché dovresti essere la sola a passare le notti in bianco?" Chiamai tutti i parenti stretti, i suoi fratelli, suo figlio. Spiegai quello che succedeva e dissi che domani era vacanza, che non volevo che i miei figli passassero tutta la giornata soli con lei, nello stato in cui era. Il cugino medico dichiarò: "Deve fare una cura disintossicante." "Tu sapevi che beveva?" "Certo, Paulette me l'aveva detto. Beve da quando è morto quel vecchio, per lei è stato come perdere l'Algeria una seconda volta... Ma anche prima, non le dispiaceva alzare il gomito."

"Ma perché l'avete lasciata fare?" "Sai, è un argomento imbarazzante... Non ne parlava, non potevo parlarne io, non immaginavo che sarebbe arrivata fino a questo punto. Con la pressione che ha rischia di morire." "Ma tu sei medico, sapevi che aveva la pressione alta." "Non a questo punto, ma l'alcool a grandi dosi, come ne ha preso, non ha migliorato le cose..." "Lo sapeva? Sapeva che rischiava di uccidersi?" "Certo. Chiunque abbia fatto un minimo di studi di medicina lo sa. Lo sapeva meglio di tutti. Ha curato abbastanza vecchi ubriaconi nei suoi ambulatori della Croce Rossa." "Dobbiamo far qualcosa, subito." Ha sbuffato, irritato. "D'accordo... Nella nostra famiglia niente è mai semplice... La farò ricoverare domani in una clinica specializzata. Ci penso io. Ti telefonerò." Non potevo togliermi quell'immagine dalla mente: mia madre come un'ignobile vecchia barbona. Mia madre così bella, così rigida, severa, controllata. Quale disperazione l'aveva spinta fin qui? Ma che cosa loro le avevano fatto? I manicomi erano pieni di gente come lei. E ce n'erano anche per le strade, nelle case; giovani, vecchi, uomini, donne, che crollavano, che da un momento all'altro non reggevano più all'ammaestramento. Quale calamità si era abbattuta sulla nostra gente? Il telefono nella notte, stridulo, isterico. "Pronto." "Pronto. Bene, hai appuntamento domani mattina... cioè, tra qualche ora, sai che ore sono... alle dieci, con il dottor X, a questo indirizzo. Deve vederla prima di ricoverarla, ma non potrà farla entrare prima di dopodomani, non ci sono camere libere." "Non resterà qui domani." "Senti, questi sono affari tuoi, arrangiati, io non posso fare niente di più. Rivolgiti a tuo fratello." Jean Pierre tornò in camera nostra. Aveva una espressione grave. "L'hai vista?" "Sì... l'ho messa a letto. Ho pulito tutto. Non ti preoccupare, sta bene, dorme tranquilla." "Tu hai fatto questo?" "E' normale, è tua madre, ne hai viste abbastanza... Poi è talmente distrutta, mi ha fatto pietà. Suicidarsi col rhum... Non è mica uno scherzo!" L'indomani Jean Pierre rimase con me. Avevamo avvertito mio fratello che uscendo dal medico avremmo portato mia madre da lui e che probabilmente avrebbe dovuto portarla lui in clinica l'indomani. Preparai i suoi vestiti, feci presto, non aveva nemmeno aperto una delle sue valigie. Aveva una grande borsa molto pesante dove avevo trovato bottiglie vuote avvolte negli stracci perché non facessero rumore. Chissà dove pensava di abbandonarle. Mi vide occupata nei preparativi. "Che cosa stai facendo?" "Sto preparando i tuoi vestiti. Ti portiamo dal medico, poi da mio fratello." "Voglio stare qui." "Non puoi." Si era veramente dimenticata della scena della notte precedente oppure non la voleva ricordare? Nulla nel suo atteggiamento rivelava che fosse successo qualcosa tra di noi, che mi aveva mostrato il suo sfacelo, che le avevo rivolto la parola con una brutalità che non rientrava nelle nostre abitudini. Era assente, afflosciata, di nuovo senza uno sguardo, profondamente disperata.

Dal medico aspettammo a lungo senza dire niente. Si lamentò varie volte: "Ho sete, ho sete." Chiedemmo un bicchiere d'acqua. Il dottore la visitò. Lei voleva assolutamente che assistessimo anche noi al colloquio. Il dottore avrebbe preferito vederla da sola, noi avremmo preferito aspettare fuori, ma no, lei insisteva, entrammo con lei. Si sedette davanti alla scrivania e noi rimanemmo indietro, su due sedie alle sue spalle. Dopo alcune domande preliminari sull'età, le malattie precedenti, la pressione, le medicine che prendeva, il medico le chiese di parlare della sua vita. Ero rimasta molto colpita dal fatto che non si era ricomposta vedendo lo specialista. La medicina, per lei, era qualcosa di lieto e di forte. Lei stessa era un ottimo medico, la sua diagnosi era molto sicura e le sue mani avevano una straordinaria abilità nel toccare, curare, calmare. Aveva questo talento, lo sapeva, ne andava fiera e in genere quando si trovava in presenza di un medico si capiva che era nel suo elemento. Ma quel giorno, vedendo lo specialista, il suo atteggiamento non era mutato. Era rimasta prostrata, aveva trascinato i piedi per spostarsi da una stanza all'altra, le labbra secche pendevano in mezzo alla sua faccia. Poi, quando il dottore le chiese di parlare della sua vita, cominciò ad animarsi. Si mise a parlare più velocemente e più chiaramente. Fino a quel momento era stato più che altro un impasto di parole che le usciva di bocca. Raccontava la sua partenza dall'Algeria, la Francia. Diceva che non le piaceva la Francia, né i francesi, né il generale De Gaulle. E che non le piaceva nemmeno l'Oas. no, tutto questo era odioso. Quello che le mancava era l'Algeria di prima, le lunghe file di malati vestiti di stracci che aspettavano che lei li guarisse, le torte che le davano per ringraziarla, i mazzi di tulipani selvatici. Poi risalì più in là nel tempo, raccontò come aveva cominciato a curare la gente, le sue visite negli ambulatori della casba ogni mattina, i suoi giri coi camioncini della Croce Rossa che perlustravano i villaggi musulmani per fare vaccinazioni, iniezioni, fasciature alla povera gente. Poi ancora più indietro, indietro: il suo matrimonio, la sua bambina morta. Mai l'avevo sentita parlare di questo argomento con tanta semplicità: di quell'uomo che la scandalizzava e al tempo stesso la attraeva, della sua amata bambina che gli assomigliava tanto. Con questi discorsi mi sconvolgeva, come non era riuscita la sera prima il vederla con le gambe divaricate nella merda. Fino a quel momento era stata mia madre, unicamente mia madre, non una persona. Chinai la testa. Pensai al suo nome. Per me non aveva nome, era "mia madre". Nello studio di quel medico parigino incontravo per la prima volta Solange de Tabliac (che nome da operetta!), "Sosò" per gli amici. "Sosò" al sole, riparata dal suo grande cappello, con minuscole perle di sudore sopra il labbro superiore perché la sua pelle di rossa non sopportava il caldo. "Sosò" nel giardino dei suoi genitori, con un mazzo di fiori tra le braccia, il suo vestito di chiffon bianco che rimaneva impigliato nei rosmarini del viale e, nel ventre, l'insospettato desiderio dell'uomo che le stava venendo incontro, il bel francese che trasudava avventure da tutti i pori. Una "Sosò" dolce, giovanissima, innocente. Gli occhi verdi di "Sosò", così puri, così assetati di felicità, così impreparati. Ero soffocata dall'emozione. La donna che stava parlando mi sembrava tanto commovente, tanto ingenua e anche tanto tragica: troppo tardi. Continuava a raccontare la malattia di suo marito, la morte della sua prima figlia. Dava tutti i particolari sull'evoluzione del loro

male. Diceva: "mio marito fece questo", "mio marito disse quello", "mio marito andò là..." Mai l'avevo sentita parlare di mio padre in questi termini. I ricordi la facevano piangere. Le lacrime colavano sul suo viso, via via che faceva rivivere quelle vecchie immagini che non s'erano ingiallite. Dopo parlò di mio fratello, della sua paura di vedere anche lui aggredito dal bacillo di Koch. Per fortuna allora esisteva già il vaccino. Parlava della terapia antitubercolare, dei progressi che la scienza aveva compiuti in quel campo. Poi parlava della scoliosi di suo figlio... Non una parola del divorzio, della religione, di me. La sua vita si era fermata alla nascita di suo figlio, nel 1924. Aveva ventitré anni. Io non ne facevo parte. Quando uscimmo ero stremata, spossata, come se mi avessero riempita di botte. Io e Jean Pierre la reggevamo tra le braccia. Si lasciava trasportare fiduciosamente. Era sollevata da quel lungo monologo. Al momento del commiato il medico aveva detto: "Il suo non è un grave stato depressivo, ritengo di tirarla fuori in quindici giorni, tre settimane al massimo." A me aveva detto nel corridoio: "Non è molto intossicata. Se la caverà." Non ero di questo parere, la vedevo persa. La lasciammo da mio fratello. Jean Pierre disse che partivo quello stesso giorno per la campagna per riposarmi, che per qualche giorno non ci sarei stata per nessuno. Quando fummo fuori mi disse: "Dirai alla centralinista del tuo ufficio che non vuoi essere disturbata. Hai fatto la tua parte. Non pensare più a tutto questo per il momento. Se c'è qualcosa da fare, ci penso io." L'indomani, era quasi mezzogiorno, un mio collega venne nella stanza dove lavoravo. Mise una mano sulla mia spalla e mi disse goffamente, perché non sapeva come fare, perché non era facile dirsi: "Tua madre è morta. Hanno appena telefonato per avvertirti." Mia madre è morta! E' la fine del mondo! Un'ambulanza doveva venirla a prendere alle undici per portarla in clinica. Quando arrivò, andarono a cercarla nella stanza dove aveva dormito. Era sul pavimento. Morta da dieci o dodici ore. Era raggomitolata su se stessa. La rigidezza della morte aveva impresso l'orrore sul suo corpo e sul suo viso. Non si poteva sdraiarla in atteggiamento pio, comporle un viso sereno. Aveva una terribile smorfia di dolore e di paura. Era spaventoso. Mia madre morta! Il mondo è impazzito! E' l'Apocalisse! Nella strada faceva freddo ma c'era sole, tanto sole. Non li vedrò più. Non andrò al funerale, né al cimitero. Mi rifiuto di accettare una volta di più le loro mascherate. E' finita per sempre. Come addio lascio loro la smorfia di orrore di mia madre davanti a una vita falsa dall'inizio alla fine, la sua faccia torturata da tutte le amputazioni subite, la sua maschera da Grand Guignol. La scossa era stata forte. Avevo dovuto tornare più spesso nel vicolo. Allo sconvolgimento dei primi giorni dovuto alla morte di mia madre, si era sostituito un senso di sollievo e di libertà. Come se tutto fosse in ordine. Lei aveva chiuso e io pure. Era libera e io pure. Era guarita ed ero guarita anch'io. Eppure c'era qualcosa che non andava. Non mi sentivo libera quanto dicevo di essere. Per alcuni mesi mi tirai dietro una vaga impressione di non essere andata fino in fondo a qualche cosa, di non essere stata del tutto onesta con me stessa. Pensavo che forse dovevo andare al cimitero,

almeno una volta. Allo stesso tempo questa idea mi sembrava stupida. Non c'era niente al cimitero. Niente. Questa storia mi dava fastidio, m'ingombrava. Una mattina presi la macchina e andai. Era primavera, c'era bel tempo. Il cimitero in campagna, vicino a Parigi. Non feci fatica a trovare la tomba. C'ero stata non molto tempo prima per il funerale di mia nonna. Era un piccolissimo cimitero di campagna ai piedi d'una collina cosparsa di alberi, all'inizio di una grande pianura della Brie. La vera Douce France. Non si addiceva per niente a mia madre. Per lei ci volevano i sassi rossi e arsi del nostro Paese, gli ulivi, i fichi d'India... In ogni caso non aveva importanza, la gente non abita il proprio cadavere. Stavo lì, in piedi, in quel posto inutile e ingrato. C'erano quattro pini mingherlini vicino al cancello d'ingresso che scricchiolava forte quando lo si spingeva. Vicino a me un crocifisso s'innalzava nel cielo, allegro, una vecchia croce dell'inizio del secolo che faceva pensare più a ToulouseLautrec o a Van Gogh che a Gesù. Che cosa ero venuta a fare? Non c'era nemmeno il nome sulla tomba. Avevano probabilmente fatto dei lavori perché il terreno era coperto da una sabbia chiara, luccicante e asciutta che avevo voglia di toccare. Mi sedetti sulla lastra grigiastra - non era una bella lastra come quella che lei aveva scelto per la tomba della sua bambina - e giocherellai con la sabbia. E' bella la sabbia. E' bella la spiaggia. Soprattutto nei giorni che seguono le tempeste, quando il mare lascia sulla battigia una quantità di conchiglie e di alghe di tutti i colori e di tutte le forme. Ti ricordi? Mi portavi con te alla caccia al tesoro. Le onde avevano lasciato il loro piccolo bottino sulla sabbia umida, in ghirlande e festoni. Dicevi che avevo occhi di lince, che nessuno era bravo come me a trovare le madreperle, i pezzi di porcellana, i tartufi di mare, le chiocciole. Conoscevi i loro nomi come quelli delle stelle. Poi facevi un foro alle conchiglie, le lucidavi, le laccavi, e con filo di ferro e cartone le univi insieme, le incollavi e alla fine usciva dalle tue mani un magnifico quadro. Io passavo le lunghe serate estive a guardarti fare con ammirazione mentre il mare sospirava regolarmente nella notte calda. Ecco che ora mi mettevo a parlarle come faceva lei con la sua bambina al cimitero di Saint Eugène. Ma che cosa mi prendeva? Mi sentivo un po' ridicola, per fortuna non mi vedeva nessuno. Facevo ridere a borbottare da sola in quel cimitero. C'era un tempo bellissimo, il sole mi scaldava la schiena. Con l'indice continuavo a tracciare grandi serpenti nella sabbia, delle S che s'intrecciavano. Sosò, com'eri bella quella sera che stavi andando a un ballo ed eri venuta nella mia stanza a mostrarmi il tuo vestito. Ero già a letto. Ero rimasta senza parole. Non avevo mai visto niente di più bello di te, quella sera, nel tuo lungo vestito bianco con alla vita, annodata sulla schiena, una lunga cintura verde come il colore dei tuoi occhi. Giravi su te stessa per far ruotare l'ampia gonna. Ridevi. Ti voglio bene. Sì, ecco, ti voglio bene. Sono venuta qui apposta per dirtelo una volta per tutte. Non mi vergogno di parlarti. Mi fa bene dirtelo e ripetertelo: ti voglio bene, ti voglio bene. Ero contenta di tirar fuori questo: tre piccole parole messe insieme e represse migliaia di volte nel corso della mia vita. Si erano ammucchiate e avevano finito con il formare una palla leggera che rimbalzava di qua, di là, nella mia testa, fastidiosa, ingombrante, inafferrabile. C'era voluto quella morte tragica, il sisma che questa aveva provocato in me, per far risalire la palla alla superficie della mia coscienza e vincere l'ultima resistenza,

l'ultima difesa. Ero dovuta andare lontano dal vicolo, isolarmi davanti a quel luogo piatto, tanto simile a quello che mi trovavo davanti quand'ero sul divano, ma questa volta pieno di sole, per osare sentirmi pronunciare queste parole: "ti" (mia madre, la bella, l'esperta, l'orgogliosa, la folle, la suicida), "voglio" (io, la pazza, la non pazza, la bambina, la donna) "bene" (l'attaccamento, l'unione, ma anche il calore, il bacio, e poi la possibilità di essere lieta, la speranza di essere felice). Quant'era bello amarla finalmente alla luce del sole, della primavera, dopo la terribile battaglia che avevamo combattuta. Due cieche armate fino ai denti, con tutti gli artigli fuori, nelle arene della nostra classe. Quanti colpi mi aveva inferti. Quanto veleno avevo esalato. Quanta brutalità, quanti massacri! Se non fossi diventata pazza non ne sarei mai venuta fuori. Lei invece represse la sua follia fino alla fine, fino alla partenza dall'Algeria. Era troppo tardi, la cancrena si era insediata nel suo midollo. Ha avuto paura di ribellarsi con le parole e i gesti della ribellione, non li conosceva, loro non glieli avevano insegnati. Ha perfino lasciato loro la possibilità di scambiare il suo suicidio per un vizio nascosto. Soltanto a me ha mostrato la sua bottiglia, la sua rivoltella da circo. XVII Per l'ultima volta nel vicolo, con le casette strette l'una contro l'altra, il selciato rovinato, i marciapiedi sfondati, il cancello in fondo, gli scalini del giardinetto, la sala d'aspetto Enrico II, lo studio, la scultura sulla trave, il divano, l'ometto enigmatico. "Dottore, vorrei saldare il conto, non verrò più. Ora mi sento capace di vivere da sola. Mi sento forte. Mia madre mi aveva trasmesso la Cosa, lei mi ha trasmesso l'analisi, è un equilibrio perfetto, la ringrazio." "Non mi deve ringraziare, è stata lei che è venuta a cercare quello che ha trovato. Non potevo fare niente senza di lei." "Arrivederci dottore." "Arrivederci signora. Sono a sua disposizione ogni volta che lo desidera, mi farà piacere avere sue notizie se riterrà necessario darmene." Maledetto ometto, è rimasto mascherato fino alla fine. La porta chiusa dietro di me. Davanti il vicolo, la strada, la città, la terra e una voglia di vivere e di costruire grossa come il pianeta. XVIII Alcuni giorni più tardi venne il maggio '68. Nota informativa "Algeri è una città verticale, cade a piombo su chi ci ha vissuto, come un tribunale". E' un'immagine che, come una malia, proietta un'ombra sulla scrittura, densa di fisiologia e di rivolta, di Marie Cardinal. E, se Mediterraneo e psicoanalisi si fondono e confluiscono nelle parole ritrovate, non si tratta di un'immagine di recerche alla Gide, è piuttosto il segno amaro di Fanon. Lungo tutta la parabola di Marie, nell'intrico del suo appassionato discorso, è costante, immanente l'urgenza di circoscrivere, colmare una ferita. Nelle prime prove narrative (écoutez la mer, 1962; La mule de corbillard, 1963; La souricière, 1965) questa lacerazione e il conflitto culturale che l'inasprisce si delineano in figure che mantengono forti tratti autobiografici. La donna affaticata dalla solitudine parigina che crede di ritrovare nel prussiano Karl la serenità delle origini contadine, è già Marie che si ritrova con

l'organismo spezzato di fronte al terrore sconosciuto; la paura la divora come un fiore vivente e mostruoso ed ella evita l'appuntamento con la morte riascoltando l'onda del mare, ritrovando i ritmi della terra e delle danze sfrenate. Il tema dell'alienazione è posto: nel racconto seguente Marie si identifica con un'anziana contadina che edifica una cattedrale di canne e di conchiglie e s'abbarbica alle tradizioni, alle radici minacciate del suo mondo. Infine nella storia di Camille e della sua "psicosi puerperale", un fallimento sentimentale sino al suicidio, la Cardinal scende profondamente nel tunnel della nevrosi e la scopre assorbita al corpo, sino a corroderlo e a ridurlo ad un cadavere. A questo punto la parola si arresta e, quando riprende, la finzione del romanzo tende ad essere abbandonata per un incontro più diretto e spontaneo con il lettore. Le idee di lotta hanno lo stesso rilievo delle immagini e il raccontosaggio fluisce in modo serrato, senza veli, coinvolgendo nelle spire di una confessione e di uno sforzo di capire "à bout de souffle". Attraverso l'esperienza delle sedute analitiche (che Marie a più riprese definisce come una seconda nascita), attraverso gli incontri di autocoscienza, i dialoghi con le compagne, il quotidiano confronto con i figli e con l'uomo, la storia personale di Marie si porta al centro della sua riflessione e della sua scrittura, e lo scavo, caparbio, furioso, senza reticenze, dei problemi e dei rapporti, diventa lo spazio dove il problema femminile è colto finalmente in tutti i suoi aspetti di emarginazione, dove si compie una rivisitazione senza illusioni di tanti miti che avvolgono la rete delle nostre comunicazioni e anche delle nostre rivendicazioni. Dal momento in cui scopre di sentire in modo nuovo, di poter parlare, esprimersi, l'opera di Marie è una costruzione in fieri, aperta, senza requie. Dall'intenso resoconto della propria analisi Le parole per dirlo (Les mots pour le dire, 1975), testo classico di risveglio di consapevolezza e di ascolto delle inquietudini interiori, Marie passa con Annie Leclerc a dialogare sui temi del movimento (In altri termini, Autrement dit, 1977). Alle spalle ha già la minuta descrizione del proprio esistere come madre, le domande dei figli, le questioni generazionali (La chiave nella porta, La clé sur la porte, 1972) e giungerà all'analisi dei rovelli, le distruttività e le dolcezze creative della coppia (Una vita per due, Une vie pour deux, 1978), sempre ricorrendo al senso delle origini e alla vitalità della natura e rivendicando "l'arcaismo delle nostre vite di donne" (Nel paese delle mie radici, Au pays de mes racines, 1980). La creatività di Marie parte da un punto culminante di sofferenza. E' lei a ricordarlo in una intervista del 1973 (compresa ne La création étouffée, di Suzanne Horer e Jeanne Socquet): "A trent'anni mi sono ridotta a vivere tra il bidet e la vasca da bagno, al buio... il polso a centoventi, centotrenta pulsazioni, il corpo madido, le estremità delle membra ghiacciate, scossa da tremori, le unghie conficcate nelle palme sino a ferirle, preda di un terrore tanto più grande in quanto nemmeno sapevo di che cosa avevo paura... Prendevo delle compresse che placavano l'angoscia per tre ore. Allora uscivo dal bagno e mi occupavo dei bambini, della casa, del marito." Marie conosce a fondo la lotta con la paura, il gelo della morte la sfiora, è un combattimento che l'assorbe completamente. Solo attraverso la cura, l'ascolto, le parole possono diventare "vive", fermentare "il teatro dell'immobilità", allentare la stretta della "morte, questa grande attrice bianca, viola, grigia, e inflessibile". "Ho scoperto di essere una donna e che cosa è una donna... sono entrata in un'altra dimensione, differente" [...] "Dopo sei mesi di analisi mi sono messa a scrivere." Più tardi, in Una vita per due, ricostruendo in un romanzo la storia di una donna sconosciuta trovata annegata lungo la spiaggia,

Marie coglie il momento nel quale ha potuto parlare e scrivere della sua parte étouffée: "a Corvagh, con un quaderno e una penna... scrive la storia di Mary! E' sconvolgente. E' un destino troppo grande per lei, inaccessibile. Lei è in grado di mettere al mondo dei figli, ma non è capace di mettere al mondo Mary Maclaughlin". Eppure "Mary Maclaughlin nasce dalla carta. Il suo fantasma ossessivo esce dall'inchiostro". "Ho parlato... ho scorticato tutte le leggi che mi avevano asservito fino a ridurmi uno straccio." In altri termini è l'officina lenticolare di questa scoperta, e vi si trova saggiato in tutte le sfumature l'annunciarsi della nuova possibilità, anche se Marie più volte dichiara che un linguaggio al femminile è tutto da creare. Interlocutrice è Annie Leclerc che nella postfazione penetra finemente le pieghe di questa mutazione culturale e s'intrattiene sul corpo, la sessualità, la parola (una meditazione che Annie pubblica poi presso Grasset nel 1974, Parole de femme). Per Marie, Annie è lo specchio di un'ulteriore fase del cammino psicoanalitico e insieme porta la preziosa voce del movimento. Monologhi e flash di storia personale si alternano così a fitti scambi su questioni sociali, su proposizioni scientifiche e teoriche, e alla fine il testo ha un sapore singolare di autobiografia, di pamphlet, di documento d'autocoscienza, senza smarrire l'incanto e il respiro del récit. Ai temi del dibattito internazionale sul femminismo, Marie e Annie aggiungono riflessioni, elettivamente suggerite dall'ambiente francese, sulla scrittura femminile, sulla sua specificità, sui suoi rapporti con altre forme di creatività. Anzi, queste "pagine parlate" cercano di chiarire come mai "le parole dette non sono inspessite come quelle scritte". Si concentrano su questa apertura necessaria del linguaggio: "Gli uomini hanno ingabbiato (le parole) in modo ermetico, hanno imprigionato la donna. Bisogna che le donne se ne riapproprino, le aprano, se vogliono esistere. E' un lavoro enorme, pericoloso, rivoluzionario, quello che dobbiamo fare." Immersa nella militanza, forte dei capillari incontri con le casalinghe e con le operaie, Marie è consapevole che "le donne sanno tutto della vita, della morte, della libertà, dell'amore ma non sanno esprimerlo... non posseggono le parole per farlo", "non sanno tradurre in parole quello che il loro corpo sa: la lentezza delle gestazioni, la viscosità profonda, lo spessore nutrente, il periodo delle fermentazioni, la necessità di mutamento, il peso del tempo, lo spazio incontrollabile, la precarietà dei limiti". E poi le parole, quando le donne le adoperano, sembrano curvate dalla tradizione ad effetti che si discostano dalle intenzioni. "Esempi: "tavolo" usato da un uomo rimanda all'artigianato, alla creazione, da una donna al nutrimento, al servire. "Libertà": al maschile è nobile, al femminile è licenzioso. "Amore": ogni volta che una donna lo usa, occorrerebbe un volume di note." Marie con Annie cerca parole che sappiano del sesso e della morte, che portino le cicatrici della vita e il peso della storia, che siano finalmente parole "piene" e non "conchiglie vuote, senza valore". Entrambe non sono convinte che esistano una cultura e una scrittura femminile opposte a quella maschile ma credono, come Rimbaud, che "il linguaggio si femminizzerà, si aprirà, si abbellirà, si arricchirà" con l'apporto delle donne. E' proprio un'"ebbrezza" la condizione per la quale la parola può essere strumento che palpiti e non tradisca. Dietro l'animosità della polemica, delle idee e del pensiero, affiorano le radici, l'Algeria e i suoi ritmi e si precisa lo iato tra nascita mediterranea, africana e vita europea. I piani del ricordo restituiscono una struttura complessa, divisa, introducono a un laboratorio d'esperienze che scava e dilata la realtà della colonia e dell'esclusione e dà non

solo argomenti d'accusa contro la violenza ma voci, volti, odori. La ragazza scura che cuoce le uova per Gide ed è portata dalla madre a fare la carità agli arabi poveri, e confronta la fragranza delle feste della vendemmia con i compassati soggiorni parigini, ha motivi precoci e profondi per interrogarsi sulla rivolta. E la domanda si fa pressante quando la rivelazione di essere donna, questo destino, acuisce il conflitto. La sua passione, come in Fanon, muove dall'intuizione quotidiana e fisica della diversità. Una diversità che si rivela in quel realizzarsi come "la donna che dovevo essere, la donna che educazione e istruzione avevano preparato per anni": madre, moglie, donna di casa sino alla dispersione degli affetti, alla crisi dei ruoli, all'incubo della nevrosi. Consapevolezza e creazione si saldano: "Io sono una donna e sono stata una malata mentale... sono quindi stata doppiamente rigettata da questa società, doppiamente ferita." E le diagnosi sull'Algeria collimano con quelle relative alla vita: "ho sempre paragonato la colonizzazione alle coppie tradizionali... come non conosco delle belle coppie tradizionali non conosco delle belle colonie." Il colore è incupito, cristallizzato nell'oppressione. Il corpo, come quello di Mary, è sbattuto dalle onde grige. Ma dal soffocamento riprende la parola, risveglia le emozioni: "Al femminile le parole hanno vita e colori diversi. Bisogna trovarli (a me è successo con la psicoanalisi)." Il Mediterraneo non è nostalgia, ricordo, esplode e con la sua naturalità permea le parole, le frasi, diventa metafora della voce femminile. Fluisce una prosa turgida e densa, carica di profumi e odori, gonfia di linfe e di quel sangue che scandisce il tempo e marca la temperatura delle passioni. L'ebbrezza delle sensazioni dice che si è vicine a cogliere l'essenziale della vita, il suo stordimento, l'orgasmo del suo battito profondo ed antico: "giardini della mia testa. I gerani, le campanelle. Rose gialle. Terra battuta...", "il gelsomino per me è soprattutto un profumo pesante che si insinua dappertutto... mi sono identificata in questo gelsomino." Scrivere significa liberare la parola, congiungerla con le espressioni del corpo, afferrarne la fisicità. In questo spessore sembra affermarsi lo specifico, ma isolarlo è perderne la fragranza. Si può solo raccontare la sequenza fisiologica dello scrivere: "Fluidi, correnti, emanazioni, onde nelle fibre della frase. Idee, nozioni, pensieri nel tessuto dei paragrafi." Nel flusso di umori, del latte, del sangue mestruale, del liquido amniotico, le pulsioni possono essere trascritte e conservare la vibrazione. Il linguaggio femminile passa attraverso questa scoperta del corpo: "le donne troveranno di nuovo il loro strumento, riusciranno di nuovo ad esistere, grazie alla cucina, al taglio, alla fermentazione, alla nascita, al sangue, alle budella, alla sporcizia, all'acqua, al sale, all'aria, alla carne, al pesce, all'uovo, al sudore, alla febbre, al vomito, alla canzone." Così nel dialogo la passione brucia ogni freddezza d'argomento e il discorso ribolle, ha l'impeto di una corrente, la rabbia degli strumenti ritrovati. Qualcosa di selvaggio scuote le idee chiare e distinte, riprendono i "ritmi delle stagioni, ritmi delle canzoni, ritmi delle parole". Il saggio diventa racconto come quelli dell'infanzia: "c'era una donna alla fattoria... ci raccontava delle storie, metà in francese, metà in arabo." La donna araba rivive in Marie e la prosa si dilata delle luci e dei gonfiori che bruciano i contorni degli edifici coloniali, palpita ancora delle sensazioni provate alla nascita dell'amore: "la città di Algeri, ricoperta dai rubini e dalle perle delle sue luci, vestiva tutto l'anfiteatro del golfo delle sue architetture bianche." Giuliana Morandini

Le opereécoutez la mer, Parigi, Julliard, 1962, trad. it' Ascolta il mare, Milano, Bompiani, 1985.La mule de corbillard, ibidem, 1963.La souricière, Parigi, Julliard, 1965, trad. it' La trappola, Milano, Bompiani, 1985.La clé sur la porte, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1972, trad. it' La chiave nella porta, Milano, Bompiani, 1979.Les mots pour le dire, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1975, trad. it' Le parole per dirlo, Milano, Bompiani, 1976.Autrement dit, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1977, trad. it' In altri termini, Milano, Bompiani, 1977.Une vie pour deux, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1978, trad. it' Una vita per due, Milano, Bompiani, 1979.Cet étéla avec: Deux ou trois choses que je sais d'elle, scénario de JeanLuc Godard, Parigi, 1979.Au pays de mes racines, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1980, trad. it' Nel paese delle mie radici, Milano, Bompiani, 1981.Le passé empiété, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1983, trad. it' D'ora in poi, Milano, Bompiani, 1984.Les Grandes Désordres, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1987, trad. it' Sconvolgimenti, Milano, Bompiani, 1988.Comme si de rien n'était, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1990, trad. it' Come se niente fosse, Milano, Bompiani, 1992.Les Jeudis de Charles et de Lula, Parigi, Grasset & Fasquelle, 1993, trad. it' I giovedì di Charles e Lula, Milano, Bompiani, 1994. Fine

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