Manuale Di Diritto Amministrativo Guido Corso 2010

May 3, 2017 | Author: Daniel Marciano | Category: N/A
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Manuale di diritto amministrativo (Guido Corso, edizione 2010) Parte I L’ organizzazione Sezione I I concetti §1. Organizzazione e prospettiva giuridica Le organizzazioni sono insiemi di persone legate tra loro da uno stesso scopo (sono organizzazioni, ad es., il Ministero dell’ interno, il cui scopo è quello di mantenere l’ ordine e la sicurezza pubblica, ovvero l’ INPS, la cui finalità è quella di raccogliere contributi ed erogare prestazioni sociali). Ovviamente, all’ interno di ogni organizzazione le persone sono distribuite secondo ruoli complementari tra loro (dal Ministro dell’ interno all’ ultimo dei poliziotti), devono agire in modo congruo rispetto agli scopi da raggiungere e hanno bisogno di risorse (ad es., il denaro necessario al pagamento degli stipendi). Le strutture indicate a mo’ di esempio come organizzazioni (Ministero dell’ interno e INPS) sono, più precisamente, pubbliche amministrazioni (P.A.), vale a dire quel complesso di soggetti pubblici che svolgono un’ attività amministrativa, cioè un’ attività volta alla realizzazione di interessi pubblici, che l’ ordinamento pone come fini da realizzare (negli esempi avanzati: la sicurezza pubblica e la previdenza sociale). Tali organizzazioni, a ben vedere, presentano molti tratti in comune con altre che pubbliche amministrazioni non sono (si pensi, ad es., all’ IBM o alla FIAT): anche queste perseguono un determinato scopo, sono costituite da persone e necessitano di determinate risorse. Ora, le analogie tra questi due tipi di organizzazioni sono tali da giustificare l’ esistenza di una disciplina scientifica che le abbraccia entrambe: la scienza dell’ organizzazione, la quale prende in considerazione i rapporti tra le persone all’ interno dell’ organizzazione. Dal punto di vista giuridico, però, l’ approccio è diverso. Infatti, le

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organizzazioni (cioè, le persone giuridiche) sono, innanzitutto, una specie del genere personae (una di quelle tre entità, insieme alle cose e alle azioni, attraverso le quali Gaio descrive l’ ordinamento romano). Pertanto, in quanto persona, cioè soggetto di diritto, ogni persona giuridica è al centro di un fascio di rapporti giuridici, di diritti e di doveri. È bene chiarire, però, che la nozione di persona giuridica (comune sia al diritto pubblico che a quello privato) non va confusa con quella di persona fisica: mentre, infatti, la persona fisica, cioè l’ individuo umano, ha una sua esistenza fuori dal mondo del diritto, la persona giuridica, che ovviamente non può agire senza persone fisiche, esiste solo perché c’è il diritto. Fondamentale è, inoltre, la distinzione tra persona giuridica privata e persona giuridica pubblica: distinzione espressa fedelmente dal predicato (il predicato pubblico allude, infatti, ai fini che la persona giuridica deve perseguire). §2. Due schemi: le associazioni e le fondazioni Le persone giuridiche, nel codice civile, vengono distinte in due tipi fondamentali: associazioni e fondazioni (queste ultime, nel diritto pubblico, prendono anche il nome di istituzioni); anche se in entrambe concorrono i due elementi (uomini e mezzi), diverso è il rapporto nei due tipi: nelle associazioni, infatti, pur essendo necessario un patrimonio (art. 16 c.c.), gli associati sono in primo piano e compongono l’ organo sociale (l’ assemblea); è importante specificare, inoltre, che si tratta di organismi che operano a vantaggio di coloro che li hanno costituiti (cioè, i soci). Nelle fondazioni, invece, assumono maggiore importanza i beni destinati al raggiungimento di uno scopo stabilito dal fondatore (art. 25 c.c.); qui i beneficiari, come è facile intuire, sono persone che si trovano all’ esterno dell’ ente (si pensi, ad es., ai poveri, ai quali è destinato il patrimonio dell’ istituzione di beneficenza). Presentano una struttura a fondazione, nella maggior parte dei casi, le persone giuridiche pubbliche (cd. enti pubblici): si pensi, ad. es., all’ INPS, delle cui prestazioni sono beneficiari i lavoratori subordinati. Hanno, invece, struttura associativa le federazioni sportive, nonché lo

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Stato, le regioni, le province e i comuni (cd. enti territoriali); questi ultimi, in particolare, prendono anche il nome di associazioni politiche, perché perseguono una pluralità di obiettivi, hanno carattere territoriale (i loro soci sono, infatti, stanziati in un territorio più o meno vasto) e sono parzialmente sovrapposte [perché i soci dell’ associazione più piccola (il comune) sono anche soci delle altre (provincia, regione e Stato)]. §3. I fini e le attribuzioni Mentre l’ individuo umano (persona fisica) può perseguire qualunque fine che sia compatibile con le sue capacità e con la legge (questa gli vieta solo di coltivare alcuni fini), la persona giuridica persegue fini ben determinati, stabiliti dallo statuto o dall’ atto di organizzazione (che, per l’ ente pubblico, coincide di regola con la legge); ed è naturale che sia così, dal momento che coloro che si associano per costituire la persona giuridica lo fanno per realizzare specifiche finalità che non riuscirebbero a realizzare come singoli. Questo discorso vale sia per la società per azioni, sia per la massima tra le associazioni, cioè lo Stato: quasi tutte le costituzioni contengono, infatti, la previsione dei fini da raggiungere, il conferimento dei relativi poteri, nonché la limitazione degli stessi. Uno schema del genere lo ritroviamo anche nelle leggi sulla pubblica amministrazione: queste, infatti, stabiliscono fini da raggiungere (o interessi pubblici da tutelare) e, al contempo, conferiscono i poteri necessari; tali poteri sono attribuiti agli enti (e parliamo allora di attribuzione) e sono, poi, distribuiti tra i loro organi (e parliamo allora di competenza); è bene precisare, però, che le attribuzioni (che costituiscono un insieme di poteri amministrativi) non esauriscono ciò che l’ ente può fare, ma delimitano soltanto i poteri amministrativi dello stesso ente; accanto a questi ci sono, infatti, i poteri di diritto privato (ad es., il potere di autonomia privata, ex art. 1322, cpv. c.c.) che all’ ente pubblico spettano perché, prima di essere una persona giuridica pubblica, esso è una persona giuridica. Le attribuzioni sono ripartite tra gli enti sulla base di diversi criteri: • il criterio della materia, sicché, ad es., l’ INPS si occupa di pensioni e l’ ASL di prestazioni sanitarie;

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• il criterio dei destinatari, per cui l’ INPS si occupa delle pensioni dei lavoratori del settore privato e l’ INPDAP di quelle dei lavoratori del settore pubblico; • il criterio territoriale, in base al quale gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) si distinguono perché ciascuno di essi opera nel territorio di una provincia diversa; • il criterio della dimensione, onde la tutela ambientale compete allo Stato o alle regioni, a seconda che il problema riguardi tutto il territorio nazionale (si pensi, ad es., alle conseguenze di Cernobyl) o solo una parte di esso. Se, infine, consideriamo insieme fini e attribuzioni ne consegue un’ ulteriore distinzione: gli enti politici o territoriali (Stato, regioni, province e comuni) perseguono una pluralità di fini; gli altri, invece, sono monofunzionali [istituiti, cioè, per la soddisfazione di un unico interesse pubblico (sanitario, previdenziale, sportivo, etc.) e per il perseguimento di un unico fine pubblico]. §4. Le attribuzioni e le competenze Le attribuzioni, come detto, sono un fascio di poteri amministrativi che vengono attribuiti all’ ente; ciascun ente, a sua volta, è costituito da una pluralità di organi, in cui le attribuzioni sono ripartite (vengono, in tal modo, individuate le competenze dei singoli organi). Così, ad es., l’ ente-comune si compone dei seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i dirigenti. Va qui sottolineato che anche la competenza (degli organi) è ripartita sulla base di criteri che, però, solo in parte coincidono con i criteri di riparto delle attribuzioni (dell’ ente). In particolare, la competenza può essere divisa per materia (così, ad es., mentre il consiglio comunale delibera l’ acquisto di beni immobili, la giunta delibera quello di beni mobili); nell’ ambito della medesima materia, la competenza può essere, poi, divisa per funzioni (così, ad es., mentre al consiglio comunale spettano le funzioni di controllo politico-amministrativo, alla giunta spettano quelle di gestione). Detto ciò, dobbiamo adesso chiederci il motivo per il quale i pubblici poteri sono distribuiti per sfere di attribuzione (dell’ ente) e di competenza (degli

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organi); per rispondere a tale quesito è necessario sottolineare che questa regola strutturale risponde ad un’ indispensabile esigenza organizzativa; la stessa che sta alla base della suddivisione del lavoro in fabbrica, così come delineata da Taylor: è più razionale che il lavoro sia diviso tra più persone, in modo che ciascuna faccia una parte di ciò che è richiesto . Da ciò si intuisce, quindi, che il potere pubblico ripartito per sfere di attribuzione (degli enti) e di competenza (degli organi) è un potere diviso: un potere, cioè, meno pericoloso (per il cittadino che lo subisce) di un potere concentrato (quale sarebbe quello di una struttura pubblica che cumulasse su di sé tutti i poteri amministrativi). §5. L’ ente e l’ organo L’ ente è una persona giuridica formata al suo interno da più organi (si pensi, ad es., all’ ente-comune, che comprende i seguenti organi: il consiglio comunale, la giunta, il sindaco e i dirigenti); gli organi, a loro volta, sono gli strumenti (dal greco: organon) della capacità di agire dell’ ente. Ciò significa, quindi, che l’ ente (persona giuridica) può agire solo attraverso i suoi organi, i quali non hanno soggettività distinta da quella dell’ ente, ma attuano la sua stessa capacità di agire. In altri termini, nel rapporto organico non ci sono due soggetti giuridici: l’ organo è la persona giuridica, sicché non solo gli effetti degli atti che l’ organo compie, ma anche gli atti stessi vengono imputati alla persona giuridica (in particolare, questa immedesimazione organica trova conferma nel processo: se, ad es., ritengo di essere stato leso da un atto del consiglio comunale che mi ha negato l’ autorizzazione a lottizzare un terreno, dovrò ricorrere contro il comune e non contro il consiglio comunale, appunto perché l’ atto del consiglio è un atto del comune).

a) gli organi collegiali L’ organo, di solito, è coperto da una sola persona: il sindaco, il prefetto, il ministro, etc.; in molti casi, però, la legge prevede che all’ organo siano

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assegnate più persone: si pensi, ad es., ad un consiglio comunale o ad una giunta regionale (in questi, come in altri casi l’ organo è un collegio o, più precisamente, un organo collegiale). Sono collegiali, di solito, gli organi di consulenza (si pensi, ad es., al Consiglio di Stato), sul presupposto che il consigliare è dei molti e il decidere dei pochi; sono collegiali, inoltre, gli organi di base degli enti politici (collegiali in virtù della loro rappresentatività: si pensi, ad es., al Parlamento, al consiglio regionale o a quello comunale); sono collegiali, infine, gli organi chiamati ad esprimere un giudizio (si pensi, ad es., alle commissioni mediche: in questi casi, la collegialità si giustifica in virtù del fatto che il giudizio del singolo può essere opinabile). L’ organo collegiale (a differenza di quello individuale, che è sempre presente) ha una vita intermittente: esso, infatti, diventa operativo solo a seguito di una convocazione della seduta (giorno, ora, luogo) da parte del presidente del collegio, il quale deve anche fissare l’ ordine del giorno e presiedere l’ adunanza, con il relativo ordine dei lavori. Perché la seduta sia valida ed il collegio sia legittimato a deliberare non è, tuttavia, necessario che siano presenti tutti i suoi componenti: è sufficiente, infatti, il numero legale (cd. quorum strutturale), vale a dire, la metà più uno dei membri assegnati al collegio (così, ad es., in un consiglio comunale di 40 consiglieri, il numero legale sussiste quando sono presenti almeno 21 di essi); il principio del numero legale non opera, però, nei cd. collegi perfetti, come quelli giudicanti, nei quali è richiesta la presenza di tutti i membri (si pensi, ad es., ai tribunali civili, penali e amministrativi). È bene precisare, comunque, che il problema fondamentale del collegio è quello di estrapolare da una pluralità di persone con opinioni diverse una determinazione unitaria; per superare quest’ ostacolo è stato escogitato il procedimento della votazione (fondato sul principio di maggioranza). Il meccanismo è il seguente: il presidente del collegio formula un progetto di delibera (cd. proposta) sulla quale si andrà a votare, a favore o contro; la proposta sarà approvata e diventerà delibera del collegio se avrà conseguito la maggioranza dei voti dei presenti, vale a dire il voto favorevole della metà più uno dei membri del collegio presenti (cd. quorum

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funzionale). Più precisamente, dopo che sia stata accertata l’ esistenza del quorum strutturale (necessario per la validità della seduta), il quorum funzionale (necessario per l’ approvazione della proposta) sarà pari alla metà dei membri presenti più uno: così, ad es., se un consiglio comunale è composto da 40 persone, il quorum strutturale sarà di 21 membri, mentre quello funzionale dipenderà dal numero dei componenti presenti (se, ad es., alla seduta sono presenti 30 componenti, il quorum funzionale sarà di 16 voti: la metà più uno dei presenti). Ovviamente, ad ogni componente del collegio è riconosciuta la facoltà di emendamento: la facoltà, cioè, di proporre una modifica della proposta, per effetto della quale membri del collegio, in partenza contrari, possono diventare favorevoli alla proposta stessa. Dalla proposta al voto si passa attraverso la discussione: con essa i membri del collegio espongono le ragioni per cui sono favorevoli o contrari alla proposta. Qualora, al termine della discussione, alcuni membri dovessero continuare a rimanere perplessi potranno, in ogni caso, astenersi dal voto (occorre specificare, però, che l’ astensione va a sommarsi ai voti contrari; sono, tuttavia, previste specifiche deroghe: si pensi, ad es., al regolamento del Senato della Repubblica, ove gli astenuti non vengono computati tra i votanti e non influiscono, quindi, sulla votazione). §6. Gli uffici Con riferimento al settore pubblico, si dice che l’ organizzazione è fatta, oltre che di organi, anche di semplici uffici: strutture alle quali sono addette persone cui non sono assegnate competenze, ma soltanto compiti, i quali si sostanziano nello svolgimento di determinate attività preparatorie degli atti (che costituiscono esercizio delle competenze): così, ad es., l’ organosindaco è attorniato da una serie di uffici (ufficio di gabinetto, segreteria particolare, etc.) che permettono al sindaco di svolgere le sue funzioni mediante attività preparatorie, istruttorie e di comunicazione, senza le quali gli atti del sindaco non sarebbero visibili all’ esterno o addirittura non sarebbero posti in essere.

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Da quanto detto appare chiaro, quindi, che i compiti sono strumentali all’ esercizio delle competenze (di conseguenza, se essi vengono svolti in modo inappropriato possono viziare l’ esercizio delle competenze ed invalidarlo). §7. L’ amministrazione attiva, quella consultiva e quella di controllo Una distinzione importante è quella tra organi di amministrazione attiva, organi di amministrazione consultiva ed organi di controllo. Chi agisce (l’ organo di amministrazione attiva) deve essere consigliato: o perché la materia della decisione è tecnicamente complessa (ed è quindi richiesta la consulenza di tecnici) o perché deve essere assicurata la legalità della decisione (e servono allora dei tecnici del diritto). A sua volta, però, l’ attività di amministrazione attiva deve essere doppiata da un’ attività di controllo; il controllo, in particolare, serve a garantire che l’ attività posta in essere sia conforme ad un paradigma: che può essere la legge (controllo di legalità), l’ opportunità (controllo di merito), l’ efficienza, l’ efficacia, etc. (controlli di efficacia, di gestione, etc.). È importante specificare, però, che proprio per l’ attività richiesta all’ organo consultivo e a quello di controllo, il reclutamento delle persone che ne vengono investite deve essere fatto in base ad un criterio di competenza professionale. Non solo: va anche detto che lo status dei componenti di questi due organi è caratterizzato dall’ indipendenza rispetto all’ organo di amministrazione attiva (la funzione della consulenza, infatti, verrebbe stravolta se l’ organo consultivo dovesse seguire le direttive dell’ organo di amministrazione attiva; allo stesso modo, se l’ organo di controllo dovesse obbedire ai comandi dell’ organo di amministrazione attiva, sarebbe il controllato a controllare il controllore e non il contrario).

§8. La questione dell’ investitura Persona giuridica, organo e ufficio sono concetti astratti; per poter effettivamente funzionare hanno bisogno di persone fisiche (cioè, di individui) che operino come organi o svolgano i compiti propri dell’ ufficio.

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In quest’ ottica, l’ operazione con la quale un individuo è chiamato ad agire come organo (o come titolare di un ufficio) prende il nome di investitura; questa può essere di due specie: politica o burocratica. In particolare, l’ investitura si definisce politica quando colui che sceglie vanta una legittimazione, appunto, politica; a sua volta, l’ investitura politica si fonda su due meccanismi: quello dell’ elezione (si pensi, ad es., ad una maggioranza elettorale che elegge il sindaco o il presidente della regione) e quello della nomina [quest’ ultima ricorre quando un organo ad investitura politica (ad es., il Governo) nomina, a sua volta, il Presidente]. L’ investitura è, invece, burocratica quando una persona è chiamata a ricoprire un organo o un ufficio in ragione della sua competenza professionale, verificata attraverso una procedura selettiva (ad es., il concorso), aperta ad una pluralità di aspiranti. §9. L’ agente ed il principale La relazione tra il dipendente (o l’ amministratore) e l’ organizzazione viene descritta come relazione di agenzia: una relazione nella quale un individuo (agente) agisce per conto di un altro (principale) ed è tenuto a promuovere l’ interesse di quest’ ultimo; ora, poiché gli obiettivi del primo e gli interessi del secondo possono non coincidere, il diritto ha sempre previsto dei meccanismi di controllo (di regole del genere è, ad es., costellato il codice civile, quando disciplina la rappresentanza, il mandato o la gestione di affari). Nel diritto pubblico, però, le regole sono più numerose, perché il principale viene a coincidere con la generalità dei cittadini (quando l’ agente opera all’ interno dell’ organizzazione statale) o con il complesso dei cittadini di uno specifico ambito territoriale (regionale, provinciale o comunale); e l’ agente non viene scelto dal principale (tranne in caso di elezione), ma viene individuato sulla base di particolari meccanismi, ai quali il principale è estraneo. È per questo motivo che si è ritenuto opportuno enucleare determinati strumenti volti ad assicurare che gli interessi perseguiti dall’ agente non divergano da quelli del principale.

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a) le modalità di reclutamento Le modalità di reclutamento sono essenzialmente due: l’ elezione ed il concorso. L’ elezione (qui ci riferiamo, in particolare, a quella politica), viene ripetuta nel tempo, a cadenza fissa, allo scopo di garantire l’ attualità del rapporto tra rappresentanti (eletti) e rappresentato (elettore). La scelta dell’ elettore, però, è preceduta dalla scelta, fatta da altri (ad es., dai gruppi dirigenti di partito), delle persone tra le quali egli può scegliere (tale scelta è molto più importante di quella dell’ elettore, perché delimita l’ ambito delle persone da votare); può anche capitare, tra l’ altro, che l’ elettore non possa neppure scegliere la persona, ma solo la lista, all’ interno della quale le posizioni sono precostituite. L’ altro meccanismo di reclutamento è, invece, il concorso: questi, in particolare, tende a privilegiare non tanto il rapporto di fiducia tra principale ed agente, quanto piuttosto la preparazione professionale dell’ agente. b) i requisiti dell’ agente Sia la legislazione elettorale che quella sui concorsi subordinano l’ ammissione alla competizione elettorale o alle prove concorsuali al possesso di determinati requisiti, quali: immunità da precedenti penali, titoli di studio (nei concorsi), etc.; se questi requisiti dovessero mancare, vi sarebbe una presunzione di esercizio infedele del mandato (elettivo o burocratico). c) gli schemi organizzativi Gli schemi organizzativi guidano la collocazione dell’ agente nell’ organizzazione (si pensi, ad es., alla gerarchia, che tende ad assicurare un controllo del superiore sull’ inferiore; controllo che dovrebbe garantire l’ aderenza dell’ azione dell’ agente alle finalità del principale). Un altro criterio funzionale che assume molta importanza nel rapporto tra agente e principale è, poi, quello di competenza: questa individua il complesso dei compiti alla stregua dei quali deve essere valutata la condotta dell’ agente (occorre verificare, ad es., se egli ha adempiuto i compiti affidatigli e, in caso positivo, come li ha adempiuti).

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d) le regole di progressione Le organizzazioni burocratiche sono articolate in ruoli, qualifiche, carriere, etc., nell’ ambito dei quali l’ agente non occupa una posizione fissa, ma tende ad ascendere verso l’ alto (la promozione, la progressione di carriera, etc.). È chiaro, però, che quest’ ascesa è condizionata da una certa performance (per cui, ad es., l’ infedeltà o la negligenza dell’ agente verranno sanzionate, negando allo stesso la progressione alla quale aspira). e) la responsabilità Come gli amministratori delle s.p.a. rispondono verso i terzi, verso i creditori sociali e verso la società, allo stesso modo l’ amministratore e il dipendente pubblico (agenti) rispondono verso i terzi e verso l’ ente (principale) da cui dipendono (la relativa azione sarà esercitata dinanzi alla Corte dei Conti, ex art. 103 cpv. Cost.). §10. Il rapporto d’ ufficio ed il rapporto di servizio Quel che si è detto del rapporto tra l’ organo e l’ ente può ripetersi a proposito del rapporto tra la persona fisica e l’ organo (o l’ ufficio) ovvero tra la persona fisica e l’ ente. Anche in questo caso vi è, infatti, una immedesimazione: così, ad es., l’ ordine di demolizione che il sindaco emette è, ovviamente, l’ espressione di volontà di un individuo umano, ma è, allo stesso tempo, provvedimento amministrativo (dell’ organo-sindaco), che viene imputato all’ ente-comune. Appare utile specificare, però, che se da un lato l’ individuo si identifica con l’ organo (e, quindi, con l’ ente), dall’ altro se ne distingue, come portatore di un interesse contrapposto a quello dell’ ente. Per spiegare questa duplicità di situazioni, la dottrina ha immaginato che la persona fisica sia legata all’ ente da due tipi di rapporti: il rapporto d’ ufficio e quello di servizio. Nel rapporto d’ufficio l’ individuo si identifica con l’ ente per il quale agisce: i suoi atti sono atti dell’ organo (o dell’ ufficio) e, quindi, atti dell’ ente. In

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questi casi, quindi, se l’ individuo umano cagiona a terzi un danno ingiusto, responsabile risulterà l’ ente (così, ad es., la chiusura illegittima di una discoteca, disposta dal questore, esporrà il Ministero dell’ Interno ad un’ azione di risarcimento del danno). Il rapporto di servizio, invece, è un rapporto tra due soggetti (una persona giuridica ed una persona fisica): l’ individuo si impegna a mettere le sue energie a servizio dell’ ente pubblico dietro corrispettivo, se impiegato (e in questo caso si parla di servizio professionale, così denominato perché esso viene reso in base ad un titolo professionale: il contratto di lavoro) ovvero ad altro titolo (e in questo caso si parla di servizio onorario, così denominato perché esso viene reso da persone che vanno a ricoprire non professionalmente l’ organo: si pensi, ad es., ai consiglieri regionali, ai sindaci, ai ministri o agli amministratori di enti pubblici). In queste ipotesi, a differenza di quanto accade nel rapporto d’ ufficio, se colui che agisce per conto di una pubblica amministrazione commette un illecito a danno di un terzo risulterà responsabile nei riguardi dell’ ente: si tratta, in particolare, della cd. responsabilità amministrativa, nella quale incorre l’ amministratore o l’ impiegato pubblico che abbia cagionato un danno all’ erario (e della quale sarà chiamata a conoscere la Corte dei Conti). §11. Gli uffici vacanti Il duplice rapporto che lega la persona fisica all’ organo assume particolare importanza nei casi in cui la persona fisica risulti assente o temporaneamente impedita: in questi casi, infatti, occorre comunque assicurare il funzionamento dell’ organo o dell’ ufficio. Per superare quest’ ostacolo si fa ricorso alla supplenza: ed invero, in molti casi, all’ organo vengono istituzionalmente assegnati un titolare e un vice (il prefetto ed il vice-prefetto, il sindaco ed il vice-sindaco): nell’ assenza o nell’ impedimento del titolare il vice è legittimato (e obbligato) a sostituirlo. Diverso è, invece, il problema che si manifesta quando il titolare dell’ organo perde l’ investitura (ad es., per il decorso del termine di durata della carica) e l’ autorità competente non ha ancora provveduto a nominare il successore; in questi casi viene mantenuto nella carica il vecchio titolare

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sino all’ insediamento del nuovo. Questo congegno, grazie al quale titolari scaduti continuavano ad esercitare le funzioni, talvolta per anni, è stato, però, ridimensionato a seguito della sent. 208/92 della Corte cost.: i giudici della Consulta hanno, infatti, evidenziato che un’ applicazione senza limiti temporali del principio della prorogatio contrasta con il principio di legalità, perché abilita all’ esercizio di funzioni amministrative persone che hanno perduto l’ investitura. In conseguenza di tale pronuncia, oggi la proroga non può spingersi al di là di 45 gg. dalla scadenza del termine di durata della carica e, nel corso di essa, possono essere posti in essere solo gli atti di ordinaria amministrazione, nonché gli atti urgenti (L. 444/94). Altro istituto importante è, poi, quello della sostituzione, in virtù del quale, quando il titolare dell’ organo omette di porre in essere un’ attività che gli compete, la legge prevede un potere di sostituzione da parte di un altro organo, appartenente, di regola, ad un altro ente (ad es., lo Stato verso la regione, la regione verso l’ ente locale); l’ autorità munita del potere sostituivo può adottare essa stessa il provvedimento (non posto in essere dall’ organo inerte) ovvero può nominare un commissario ad acta (che avrà il compito di sostituire l’ organo inerte).

Sezione II I princìpi costituzionali §1. Premessa Uno dei maestri del diritto costituzionale, Esposito, affermava che chi voglia sapere com’è disciplinata l’ amministrazione nella nostra Costituzione non deve leggere due soli articoli, ma l’ intera Costituzione. In effetti, la nostra Carta fondamentale dedica espressamente due soli

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articoli alla disciplina della pubblica amministrazione: gli artt. 97 e 98; ma, a ben vedere, alla P.A. fanno riferimento anche le disposizioni che assegnano alla Repubblica fini che non possono essere perseguiti se non attraverso apparati amministrativi (si pensi, ad es., alla salute e all’ istruzione, ex artt. 32 e 33) o che distribuiscono il potere politico e amministrativo secondo criteri territoriali (comuni, province, regioni e Stato, ex artt. 114 e 118) o che disciplinano i rapporti tra Governo e amministrazione (art. 95) o, ancora, che stabiliscono i controlli sull’ amministrazione (art. 100) o che garantiscono, con riserve di legge, il cittadino contro atti della P.A. (artt. 16, 17, 23, 41 e 42). §2. Il principio democratico Il primo dei princìpi enunciati dalla Costituzione è il principio democratico (art. 1); tale principio, sul piano organizzativo, comporta, da un lato, la distinzione delle cariche elettive da quelle burocratiche (pubblici uffici o impieghi, ai quali si accede per concorso) e, dall’ altro, la supremazia delle prime (cioè, delle cariche elettive) sui pubblici uffici (impiegatizi): è per questo motivo, ad es., che, ai sensi dell’ art. 95 Cost., al Presidente del Consiglio spetta di mantenere l’ unità di indirizzo politico e amministrativo (ossia l’ indirizzo sull’ attività dei pubblici uffici organizzati nei ministeri e negli enti pubblici), mentre il ministro (titolare di una carica elettiva) risponde dell’ attività dei ministeri (e, quindi, deve essere in grado di indirizzarla e coordinarla). La burocrazia è, invece reclutata sulla base di un criterio diverso da quello democratico (il cd. criterio meritocratico); ed è tenuta ad agire in conformità a regole che non hanno nulla a che vedere con il principio democratico (quali l’ imparzialità ed il buon andamento). Ed è proprio per tal motivo che, nel nostro ordinamento, la burocrazia è sottoposta alla politica (che rappresenta, invece, l’ ambito nel quale il principio democratico trova piena applicazione). §3. I diritti dell’ uomo e le riserve di giurisdizione L’ altra grande novità della Costituzione è costituita dal riconoscimento dei

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diritti inviolabili dell’ uomo (art. 2), per la maggior parte dei quali essa prevede un rapporto di reciproca esclusione con gli apparati ed i poteri amministrativi: si pensi, ad es., alla libertà personale, a quella domiciliare, alla libertà e segretezza delle comunicazioni, alla libertà religiosa (artt. 13, 14, 15 e 19), le quali sono sottoposte sia a riserva di legge che di giurisdizione. In questi casi, alla P.A. (ed in particolare, all’ autorità di pubblica sicurezza) è sottratto ogni potere di intervento. Tuttavia, è bene precisare che in casi eccezionali di necessità e urgenza (indicati tassativamente dalla legge) l’ autorità di p.s. può adottare determinate misure amministrative, le quali, però, dovranno essere comunicate entro 48 ore all’ autorità giudiziaria e restano prive di effetti se questa non le convalida entro le successive 48 ore (si tratta, quindi, di una competenza non solo legata a presupposti eccezionali, ma anche provvisoria). Appare utile sottolineare, in ogni caso, che non tutti i diritti inviolabili formano oggetto di riserva di giurisdizione: non lo, ad es., la libertà di circolazione, che può essere, infatti, limitata in via generale per motivi di sanità e di sicurezza (art. 16); non lo è, del pari, la libertà di riunione (art. 17), dal momento che le riunioni possono essere vietate per motivi di sicurezza e di incolumità pubblica. In tali situazioni l’ autorità di p.s. può intervenire senza che sia richiesto l’ intervento dell’ autorità giudiziaria e ciò perché la circolazione e la riunione sono attività che si svolgono in contesti pluripersonali, composti cioè da più persone, il cui contatto potrebbe mettere a repentaglio beni o valori costituzionali (così, ad es., l’ incolumità dei cittadini potrebbe essere pregiudicata da una riunione con partecipanti armati; allo stesso modo, la sanità potrebbe subire un grave danno se persone affette da una malattia contagiosa potessero circolare liberamente). In questi casi, la garanzia per il cittadino è data da una riserva di legge, rinforzata dalla previsione dei motivi che autorizzano la limitazione: sanità e sicurezza per la libertà di circolazione; incolumità e sicurezza per la libertà di riunione. §4. Il principio della separazione dei poteri

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Il principio della separazione dei poteri, pur se non espressamente enunciato nella nostra Carta costituzionale, è in essa implicitamente incorporato, dal momento che la Corte Costituzionale, con sent. 1/77, lo ha inserito tra i princìpi supremi dell’ ordinamento costituzionale. È certo, comunque, che la nostra Carta fondamentale delinea in modo molto netto i contorni del potere legislativo e del potere giudiziario (come poteri dai quali è distinto il potere esecutivo-amministrativo). Infatti, la P.A. non può fare le leggi, dato che la funzione legislativa è riservata alle Camere (art. 70) e ai consigli regionali (art. 117); e non può, ovviamente, esercitare la funzione giurisdizionale, perché questa è riservata alla magistratura (nonché al Consiglio di Stato e alla Corte dei Conti). Per altro verso, però, la P.A. è soggetta alla legge, la quale stabilisce le regole di base per l’ organizzazione dei pubblici uffici (art. 97 Cost.); ed è anche soggetta al sindacato dei giudici, ordinari e amministrativi, perché contro i suoi atti è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113 Cost.). Non altrettanto definito è, invece, lo statuto della P.A. Innanzitutto, va detto che non è chiaro se di essa faccia parte il Governo: a prima vista sembrerebbe di no, dal momento che la Costituzione parla del Consiglio dei Ministri e della P.A. in due Sezioni differenti, anche se contenute nello stesso Titolo (quello dedicato al Governo); in realtà, è necessario sottolineare che l’ apparato amministrativo è un appartato complesso, che include al suo interno il Consiglio dei Ministri, i singoli ministeri, le amministrazioni territoriali e gli enti pubblici; ora, che dell’ apparato amministrativo facciano parte anche il Consiglio dei ministri e i singoli ministeri risulta confermato non solo dalla topografia della nostra Costituzione [infatti, sotto il Titolo III, Parte II (del governo) sono contemplati il Consiglio dei ministri, la P.A. e gli organi ausiliari], ma anche dal fatto che al Presidente del Consiglio e ai singoli ministri sono affidati determinati poteri amministrativi: ai sensi, infatti, dell’ art. 95 Cost., il Presidente del Consiglio mantiene l’ unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l’ attività dei ministri; questi, dal canto loro, sono responsabili sia collegialmente (per gli atti del

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Consiglio), sia individualmente (per gli atti dei propri dicasteri). Lo stesso schema può essere riprodotto in relazione agli enti pubblici e alle amministrazioni territoriali: infatti, sempre ai sensi dell’ art. 95 Cost., gli enti pubblici devono essere vigilati da un ministero e rispondere ad un ministro che, a sua volta, è responsabile di fronte al Parlamento (se si tratta di enti nazionali). Quanto agli enti territoriali, infine, va detto che ciascuno di essi riproduce al suo interno il rapporto tra politica e amministrazione che l’ art. 95 disegna all’ interno dello Stato (nel rapporto tra Presidente del Consiglio, Consiglio dei ministri e ministri): così, per quanto riguarda la regione, la polarità tra politica e amministrazione si riproduce all’ interno del rapporto tra presidente della giunta regionale, giunta e amministrazione; in relazione, invece, agli enti locali il rapporto è tra il consiglio (organo di indirizzo politico-amministrativo) e la giunta. Come visto, l’ amministrazione (dal punto di vista dei soggetti) viene nettamente separata dal potere legislativo e dal potere giudiziario; non altrettanto netta, invece, è la riserva dell’ attività amministrativa in favore della pubblica amministrazione. Ora, dal momento che sul punto la Costituzione non dice nulla, si potrebbe addirittura sostenere che gli organi del potere legislativo e di quello giudiziario siano abilitati ad esercitare la funzione amministrativa; ma una tale conclusione non può essere assolutamente accettata e va, di conseguenza, confutata sulla base delle seguenti argomentazioni: in particolare, per quanto riguarda il rapporto con il potere legislativo, occorre evidenziare che, ai sensi dell’ art. 3 Cost., la legge non può operare alcuna distinzione di sesso, razza, lingua, religione, opinioni politiche, di condizioni personali e sociali; pertanto, non è possibile che la legge si faccia provvedimento, proprio perché quest’ ultimo si fonda su quelle condizioni-distinzioni che la legge non può avere (va anche detto, però, che la Corte Costituzionale ha ritenuto ammissibili le leggiprovvedimento: quanto meno le leggi-provvedimento statali). Per quanto riguarda, invece, il rapporto con il potere giudiziario, nella Costituzione manca un divieto per gli organi giurisdizionali di adottare dei provvedimenti amministrativi: un limite, tuttavia, è rinvenibile nella

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legislazione ordinaria, che ha sempre vietato al giudice di sostituirsi all’ amministrazione. §5. I rapporti tra la politica e l’ amministrazione Da quanto detto emerge un fondamentale principio di organizzazione: il principio, cioè, della strumentalità dell’ amministrazione (e, quindi, del relativo apparato) rispetto alla politica generale del Governo-Parlamento (questo principio, dettato per lo Stato dall’ art. 95 Cost., vale, come visto, anche per la regione e per gli enti minori). Se, infatti, il Presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e mantiene l’ unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’ attività dei ministri, vuol dire che c’è una politica generale del Governo, la quale è sovraordinata rispetto alle singole amministrazioni (è in questo senso che si parla di strumentalità). Dovrebbe risultare chiara, quindi, la distinzione tra l’ attività politica e quella amministrativa: l’ attività politica consiste nel definire gli obiettivi dell’ azione dello Stato (GovernoParlamento); l’ attività amministrativa, invece, consiste nel compiere tutti quegli atti che permettono di realizzare, in concreto, le finalità decise in sede politica e legislativa (facciamo un esempio: il Governo e il Parlamento possono definire i propri orientamenti in materia di politica scolastica e questi possono essere tradotti in leggi che stabiliscono quali sono i diversi tipi di scuola, i criteri per l’ ammissione degli allievi e per lo svolgimento degli esami, etc.; ma affinché la politica scolastica venga effettivamente attuata, occorre che venga predisposta l’ organizzazione necessaria nelle varie zone del paese: la costruzione e l’ arredo degli edifici scolastici, il reclutamento degli insegnanti, il concreto svolgimento dell’ attività didattica, etc.). Posta in questi termini la questione, risulta evidente che l’ attività amministrativa è un’ attività subordinata alla politica, e ciò in virtù del principio democratico: l’ amministrazione, infatti, è subordinata alla politica, perché la prima è gestita da apparati non rappresentativi (burocratici), il cui personale non è scelto in base al proprio orientamento politico, ma sulla base della propria competenza tecnico-professionale, mentre la seconda è

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espressa da organi a legittimazione elettorale (diretta, come il Parlamento; indiretta o semi-diretta, come il Governo). §6. Il principio di legalità Nel quadro costituzionale dell’ amministrazione, dal punto di vista delle fonti, assume importanza fondamentale il ruolo che la legge ricopre nella disciplina dell’ ordinamento, dell’ organizzazione e dell’ attività amministrativa. La P.A. è, infatti, sottoposta al principio di legalità: ciò significa, in altri termini, che i pubblici uffici, cioè gli apparati amministrativi (enti ed organi) devono agire secondo le norme stabilite dalla legge, rispettando i diritti dei cittadini; tale principio non è enunciato in modo esplicito nella nostra Costituzione, ma ad esso fanno comunque riferimento numerose norme (artt. 23, 28, 113 Cost.). Esso è, poi, rafforzato anche da altri princìpi enunciati dalla Carta costituzionale: primo tra tutti il principio della riserva di legge nell’ organizzazione dei pubblici uffici. Dal 1926, e per tutto il periodo fascista, l’ organizzazione della P.A. è stata di esclusiva competenza del potere esecutivo; viceversa, con l’ entrata in vigore della Costituzione repubblicana le cose sono cambiate; ciò risulta oggi confermato dalla formulazione del co. 1 dell’ art. 97 Cost., il quale, infatti, stabilendo che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, ha disposto una riserva di legge in proposito (ha dato, cioè, al Parlamento il compito di delineare le linee fondamentali dell’ organizzazione amministrativa, in modo da sottoporre questo importante aspetto al controllo democratico e sottrarlo al potere discrezionale del Governo). L’ art. 97 Cost. parla, come abbiamo visto, di pubblici uffici, ma non ci dice che cosa bisogna intendere per essi; ci dice soltanto, al co. 2, che di questi ne sono determinate le competenze, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari. Ora, dal momento che sono menzionate solo le attribuzioni (spettanti agli enti) e le competenze (spettanti agli organi), sono, di conseguenza, esclusi dalla preesistenza della legge gli uffici, i quali, infatti, sono destinatari di compiti e non di competenze.

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Come detto, quindi, la legge non può limitarsi a creare l’ istituzione di un apparato amministrativo, ma deve conferire allo stesso le relative attribuzioni e competenze; ciò significa, pertanto, che nessun apparato amministrativo può esercitare poteri amministrativi che non siano stati disciplinati e assegnati espressamente dalla legge. È per questo motivo che il principio di legalità comporta un vincolo anche per il legislatore, nel senso che la legge non può contenere una semplice autorizzazione ad agire, ma deve contenere anche la disciplina dell’ azione amministrativa (cd. principio di legalità sostanziale). È importante specificare, inoltre, che la legge non può limitarsi a prevedere l’ istituzione di un’ autorità amministrativa e a munirla di poteri amministrativi, ma deve anche assegnarle i fini, in vista dei quali quei poteri vanno esercitati (il principio di legalità esclude, quindi, che l’ amministrazione possa stabilire essa stessa i fini della sua azione). La riserva di legge prevista dall’ art. 97 Cost. copre, in ogni caso, non solo l’ istituzione e la competenza dell’ organo, ma anche la relazione tra l’ organo e le persone fisiche destinate a ricoprirlo: relazione nella quale è fondamentale la dimensione temporale (inizio, fine e durata del mandato). È proprio su questa base che la Consulta, con la citata sent. 208/92, ha affermato che un’ organizzazione caratterizzata da un ricorso sistematico alla prorogatio sine die (cioè, al mantenimento in carica del titolare dell’ organo dopo la scadenza del mandato sino alla nomina del successore) violerebbe il principio della riserva di legge in materia di organizzazione amministrativa, dal momento che la durata del mandato (prevista a termine dal legislatore ordinario) verrebbe, in tal modo, stabilita arbitrariamente da colui che deve provvedere alla sostituzione. Un ultimo accenno occorre dedicarlo al co. 3 dell’ art. 97 Cost., il quale estende, in alcuni casi, il principio della riserva di legge anche ai meri uffici: stabilisce, infatti, la disposizione in esame che agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge: ciò significa che, perché sia consentito derogare all’ ordinaria modalità di reclutamento (il pubblico concorso), è necessaria una legge; e poiché il concorso (o lo strumento alternativo previsto dalla legge) serve

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per accedere ad un mero ufficio, ne consegue che gli uffici ai quali è possibile accedere senza concorso devono essere previsti dalla legge (una legge è comunque necessaria quando l’ accesso a tali uffici avviene con modalità diverse dal pubblico concorso). L’ altra implicazione che si desume dal co. 3 dell’ art. 97 Cost. riguarda il concetto di accesso al pubblico impiego. Invero, l’ assetto odierno del rapporto di lavoro con gli enti pubblici prevede fasce funzionali con progressione economica orizzontale (la retribuzione aumenta, mentre la fascia rimane uguale): ciò significa che non soltanto l’ accesso al pubblico impiego, ma anche il passaggio alla fascia funzionale superiore deve essere preceduto da un concorso pubblico. Dalla combinazione dei co. 1 e 3 dell’ art. 97 Cost., si evince, quindi, che l’ area della riserva di legge si allarga, in quanto essa viene a ricomprendere, in alcuni casi, non solo gli organi, ma anche gli uffici; è pur vero, però, che questa stessa area, al contempo, viene a restringersi in ragione di una distinzione formulata dalla Corte costituzionale: la Consulta ha, infatti, distinto l’ organizzazione della P.A. (affidata alla legge) ed il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti (affidato alla contrattazione collettiva); ciò in considerazione del fatto che la disciplina privatistica è considerata più idonea alla realizzazione delle esigenze di flessibilità nella gestione del personale (flessibilità che, ovviamente, è strumentale ad assicurare il buon andamento dell’ amministrazione). È importante specificare comunque che la riserva di legge, di cui all’ art. 97 Cost., è una riserva di legge relativa; tale norma, infatti, non vieta qualsiasi normazione diversa da quella legislativa, né esclude che la legge consenta al potere esecutivo di emanare norme secondarie di efficacia subordinata (regolamenti, statuti o circolari). Alla legge, però, deve essere affidata la disciplina degli aspetti fondamentali dell’ organizzazione dei pubblici uffici (ad es., l’ istituzione di organi, la previsione di competenze, il livello delle retribuzioni, etc.), in modo tale da garantire il buon andamento e l’ imparzialità dell’ amministrazione. §7. Il principio di imparzialità

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L’ art. 97 Cost. specifica, al co. 1, che i pubblici uffici sono organizzati secondo disposizioni di legge, in modo che sia assicurata l’ imparzialità dell’ organizzazione e dell’ attività amministrativa; ora, imparzialità dell’ amministrazione significa una molteplicità di cose: • anzitutto, l’ organizzazione si definisce imparziale quando è strutturata in modo che chi amministra (amministratore o funzionario) non sia personalmente interessato alla materia della decisione; in questa prospettiva, la Consulta ha dichiarato illegittime quelle leggi regionali che, nel disciplinare la composizione delle commissioni esaminatrici dei concorsi presso enti locali, prevedevano che i commissari fossero, in maggioranza, espressioni del consiglio comunale, anziché esperti in materia (sent. 453/90); • l’ imparzialità dell’ organizzazione richiede, in secondo luogo, che il personale sia reclutato in modo imparziale; in questo senso, il co. 1 dell’ art. 97 Cost. viene a collegarsi al co. 3 della medesima disposizione, secondo il quale agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso: ciò significa, in altri termini, che l’ amministrazione ha il dovere di scegliere i propri dipendenti attraverso esami che accertino, in modo obiettivo, le capacità professionali dei candidati e a cui tutti i cittadini, in possesso dei requisiti richiesti, possano partecipare in condizione di parità (si vuole, in tal modo, impedire all’ amministrazione la possibilità di effettuare assunzioni in maniera clientelare, cioè in base a raccomandazioni, a conoscenze personali, familiari o politiche); • l’ organizzazione è, poi, imparziale se esulano da essa tutti quei componenti che potrebbero essere parziali (così, ad es., per lunghi anni i consigli di amministrazione degli enti pubblici sono stati, in parte, composti da rappresentanti sindacali; in epoca più recente si è capito, però, che una composizione del genere veniva a contrastare con il principio di imparzialità, dal momento che una quota dell’ organo di amministrazione è per definizione parziale in tutte le materie che riguardano il personale; da qui un progressivo esodo dei sindacati dagli organi di amministrazione degli enti pubblici); • il principio di imparzialità valorizza, infine, il procedimento amministrativo:

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questo, infatti, richiede che la decisione dell’ amministrazione sia preceduta da una sequenza di atti di natura istruttoria (sul piano organizzativo, ciò si traduce nella necessità di separare gli uffici con compiti istruttori da quelli con competenze decisorie). §8. Il principio del buon andamento L’ art. 97 Cost. fa riferimento, oltre che all’ imparzialità, anche al buon andamento della P.A., cioè all’ efficienza dell’ azione amministrativa; in particolare, con l’ espressione in esame si vuole far riferimento, innanzitutto, alla relazione che si viene ad instaurare tra risorse, umane e materiali, impiegate e risultati ottenuti (efficienza, in senso stretto): un’ amministrazione è efficiente quando adotta i mezzi più adatti e meno costosi per svolgere i propri compiti (ad es., un amministrazione che impiega più personale, più denaro o più tempo di quelli necessari è un’ amministrazione che agisce in modo inefficiente). L’ inciso buon andamento fa riferimento, però, anche alla relazione tra risultati ottenuti e obiettivi prestabiliti (si parla, in tal caso, di efficacia): un’ amministrazione è efficace se riesce a conseguire risultati di buona qualità, corrispondenti agli obiettivi stabiliti (ad es., l’ amministrazione scolastica è efficace se riesce ad ottenere una buona preparazione degli studenti; allo stesso modo, l’ amministrazione sanitaria è efficace se riesce effettivamente a migliorare le condizioni di salute dei cittadini). Detto ciò, è necessario adesso porre in evidenza alcuni degli effetti che il principio del buon andamento esplica nell’ organizzazione della P.A.: innanzitutto, va sottolineato che il riparto delle funzioni amministrative (tra lo Stato, le regioni e gli enti locali), enunciato dall’ art. 118 Cost., deve tener conto della capacità degli apparati di svolgerle in modo adeguato; è questa la ragione per la quale, se determinate attribuzioni vengono trasferite da un apparato ad un altro (ad es., dallo Stato alle regioni), anche le relative risorse, umane e finanziarie, dovranno essere trasferite. In quest’ ottica, il nuovo art. 118 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e

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Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza (un criterio di adeguatezza può, ad es., sconsigliare l’ attribuzione di certe funzioni ai comuni o a certi comuni, come quelli minori); nella stessa direzione si pone anche l’ art. 119 Cost., secondo il quale le risorse finanziarie degli enti territoriali devono consentire di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite. In secondo luogo, il principio del buon andamento esclude che possano essere istituiti apparati amministrativi senza competenze (all’ esclusivo scopo, cioè, di sistemare personale): in tal senso si è espressa la Consulta con sent. 14/62; ciò impone, di conseguenza, che il reclutamento nelle pubbliche amministrazioni avvenga sulla base di piante organiche, nelle quali sia numericamente indicato il personale occorrente e che lo stesso sia distribuito per qualifiche e mansioni (Corte cost., sent. 1/99). Il principio del buon andamento opera, poi, come temperamento del principio di legalità: mentre, infatti, quest’ ultimo, non pone alcun limite al legislatore nell’ ordinamento dei pubblici uffici (art. 97, cpv. Cost.), il principio del buon andamento esige, invece, che una parte della disciplina sia riservata al Governo e, al di fuori dello Stato, all’ amministrazione. In effetti, un apparato amministrativo che fosse integralmente regolato dalla legge risulterebbe estremamente rigido; ciò significa, quindi, che per essere efficace ed efficiente, l’ organizzazione deve essere in qualche modo flessibile [da qui la tendenza, a partire dagli anni ’90, a delegificare la materia dell’ organizzazione, rimettendo la relativa disciplina alla contrattazione collettiva e ad atti normativi (regolamenti) ed organizzativi della stessa amministrazione]. Il principio del buon andamento ha, inoltre, determinato negli anni recenti una revisione del sistema dei controlli; infatti, la Costituzione prevedeva, inizialmente, i soli controlli, di legittimità e di merito, sugli atti (dello Stato, delle regioni e degli enti locali); recentemente, viceversa, si è finalmente giunti a capire che i criteri di efficienza ed efficacia dell’ azione amministrativa richiedono la valutazione non tanto dei singoli atti, ma dell’ attività nel suo complesso, perché solo in tal modo si è in grado di tener conto di entità come: le risorse, i risultati e gli obiettivi (se, ad es., un

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comune di piccole dimensioni assume un programmatore, la sua efficienza verrà incrementata; al contrario, se con 50 delibere diverse assume 50 programmatori, il buon andamento ne soffrirà, perché un settore verrà sovradotato di personale, con palese spreco di risorse). È importante specificare, infine, che il principio del buon andamento è oggi anche un criterio per la valutazione del personale dirigente, il quale viene giudicato in base ai risultati del controllo di gestione (così, ad es., una valutazione negativa ripetuta da parte del dirigente può comportare la risoluzione del rapporto di impiego). §9. Le funzioni amministrative e le autonomie locali Gli Stati moderni, nel corso di un processo che è stato avviato cinque secoli fa (in Francia, in Spagna e in Gran Bretagna), hanno assorbito compiti che, per tutto il medioevo, erano stati svolti dalle collettività minori (i comuni); nel corso di questo processo la funzione normativa si è staccata da quella amministrativa ed è venuta a far capo ai parlamenti e ai governi; mentre per la cura in concreto degli interessi pubblici sono stati creati, all’ interno dello Stato, appositi apparati (i ministeri) incaricati ciascuno di un particolare compito (l’ ordine pubblico, la difesa esterna, la riscossione dei tributi, le opere pubbliche, etc.); col tempo, però, la struttura ministeriale è apparsa inadeguata per lo svolgimento di alcune funzioni che richiedevano un’ azione più spedita; ed è per questo motivo che nel secondo dopoguerra alcuni Stati europei hanno assunto una forma federale (Germania e Austria), mentre altri (come l’ Italia) hanno assunto una forma regionale: cosicché, al di sotto dello Stato sono state create unità politiche minori (come le regioni), le quali riproducono, in qualche modo, lo schema statuale (ai ministeri corrispondono, infatti, gli assessorati e al Parlamento i consigli regionali). In ogni caso, occorre sottolineare che le comunità minori (comuni e province), pur avendo perso molte funzioni (transitate, almeno a livello normativo, allo Stato o alla regione), hanno comunque continuato ad esprimere un’ inesauribile vitalità; tant’è vero che, negli anni più recenti, il loro ruolo è cresciuto enormemente a causa di una sempre più ampia

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domanda di prestazioni pubbliche da parte dei cittadini (prestazioni che lo Stato non riesce più a fronteggiare da solo e, quindi, tende a scaricare verso il basso: verso, cioè, le istituzioni locali, in quanto più vicine ai cittadini). In Italia, però, l’ accresciuta complessità di questo quadro organizzativo ha richiesto un intervento costituzionale, allo scopo di stabilire alcuni criteri di distribuzione delle funzioni. Innanzitutto, è necessario premettere che, in ossequio al principio di legalità, le funzioni amministrative seguono le funzioni legislative: in altri termini, in un ordinamento come il nostro, in cui la funzione legislativa è suddivisa tra lo Stato e le regioni, si può dire, in linea di massima, che il titolare della potestà legislativa è anche titolare della potestà amministrativa. Ora, poiché l’ art. 117 Cost. (nella versione risultante dalla modifica attuata con l. cost. 3/01) prevede tre specie di potestà legislativa [la potestà legislativa esclusiva dello Stato nelle materie elencate nel comma 2; la potestà legislativa concorrente dello Stato e delle regioni nelle materie elencate nel comma 3; e la potestà residuale (o esclusiva) delle regioni nelle materie non espressamente riservate allo Stato (comma 4)] se ne deduce che: lo Stato esercita funzioni amministrative nelle materie assegnate alla sua potestà legislativa esclusiva; le regioni nelle materie di competenza residuale; ed entrambi nelle materie devolute alla competenza legislativa concorrente. Questa regola del parallelismo tra funzioni legislative e funzioni amministrative, che era espressamente sancita dall’ art. 118 Cost. (nella sua versione originaria), ha subìto, con la modifica costituzionale del 2001, temperamenti e deroghe: stabilisce, infatti, il nuovo art. 118 Cost. che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Questa competenza amministrativa riservata agli enti locali (ed in primis ai comuni) si giustifica soprattutto alla luce del fondamentale principio di autonomia: autonomia che la Repubblica (all’ art. 5 Cost.) riconosce e

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promuove, anche perché essa è costituita dai comuni, dalle province, dalle città metropolitane e dalle regioni, oltre che dallo Stato (art. 114 Cost.); in particolare, la nuova formulazione dell’ art. 114, introdotta dalla L. cost. 3/01, intende enfatizzare due cose: la prima è che gli enti sopra citati non sono delle semplici articolazioni territoriali, ma elemento costitutivo della Repubblica; la seconda è che la conta, per così dire, comincia dal basso, vale a dire dai comuni per arrivare allo Stato. §10. Gli organi consultivi e gli organi di controllo La Costituzione contiene, nel Titolo III (del Governo), una Sezione dedicata agli organi ausiliari: il Consiglio Nazionale dell’ economia e del lavoro, il Consiglio di Stato (che è sia organo di consulenza giuridico-amministrativa che di tutela della giustizia nell’ amministrazione) e la Corte dei Conti (che è organo di controllo). L’ art. 100, ult. co. Cost. assicura l’ indipendenza del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti (e dei loro componenti) di fronte al Governo (che è, invece, organo di amministrazione attiva). Questa indipendenza viene ribadita anche in relazione alle funzioni giurisdizionali attribuite ai due organi: al Consiglio di Stato, per la tutela degli interessi legittimi e, in particolari materie indicate dalla legge, dei diritti soggettivi (art. 103); alla Corte dei Conti, sulle materie di contabilità pubblica e nelle altre materie indicate dalla legge (art. 103, cpv.). Si tratta, quindi, di organi che fanno parte dell’ amministrazione, ma in un certo senso sono ad essa estranei: non solo, è ovvio, perché svolgono anche funzioni giurisdizionali, ma anche perché svolgono funzioni di consulenza e di controllo. Queste funzioni, invero, non comportano una valutazione di interessi (valutazione che deve essere effettuata dall’ autorità amministrativa), ma il confronto tra una proposta o una decisione, da un lato, e un criterio di valutazione, dall’ altro: la proposta che viene sottoposta all’ organo consultivo, la decisione che è assoggettata al controllo. §11. Il sistema dei controlli

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La nostra Costituzione, nella sua versione originaria, conteneva tre specifiche disposizioni sui controlli: • i controlli della Corte dei Conti sull’ amministrazione dello Stato e sugli enti in cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (art. 100); • i controlli dello Stato sugli atti amministrativi delle regioni (art. 125, co. 1); • i controlli delle regioni sugli atti degli enti locali (art. 130). I controlli in esame presentano tre aspetti in comune: innanzitutto, occorre specificare che l’ organo di controllo si colloca all’ esterno dell’ amministrazione controllata; esso, infatti, o fa parte di un ente diverso (ad es., lo Stato che controlla la regione) o è collocato in una posizione di indipendenza rispetto al Governo (è il caso della Corte dei Conti). Il controllo, in secondo luogo, investe i singoli atti: a tale regola fa, però, eccezione la previsione secondo la quale la Corte dei Conti è chiamata ad effettuare anche il controllo (successivo) sulla gestione del bilancio dello Stato e sulla gestione finanziaria degli enti pubblici. In terzo luogo, occorre sottolineare che il controllo in esame assume i caratteri del controllo di legittimità: si tratta, in particolare, di un controllo cd. preventivo, perché viene esercitato prima che l’ atto possa produrre i suoi effetti (nel senso che questi ultimi non si producono se il controllo è negativo, cioè se l’ organo di controllo, una volta controllato l’ atto, nega il visto). È necessario sottolineare, però, che con la riforma del Titolo V Cost. del 2001 (L. 3/01) sono state soppresse le disposizioni sui controlli dello Stato sulle regioni e delle regioni sugli enti locali, in virtù dell’ autonomia che è stata riconosciuta a tali enti (regioni ed enti locali); rimane intatto, pertanto, solo l’ art. 100 Cost. Tuttavia, è bene precisare che, con questa modifica, i controlli sulle regioni e sugli enti locali non sono venuti meno, ma sono stati, per così dire, internalizzati: sono stati, cioè, trasformati in una sorta di controllo interno (il controllo, cioè, che ciascuna amministrazione esercita sul proprio funzionamento e che non viene più esercitato in rapporto a parametri di stretta legalità, ma in riferimento ai risultati raggiunti, collegati agli obiettivi programmati).

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Sezione III Le fonti §1. La riserva di legge La disciplina della P.A., che trova nella Costituzione i suoi princìpi fondamentali, è contenuta nelle leggi (sia statali che regionali) e nei regolamenti; ed è oggi profondamente influenzata anche dal diritto comunitario e dalle convenzioni internazionali. Ora, in riferimento alla legge, è necessario sottolineare che il principio di legalità, come detto in precedenza, richiede che la legge non solo dia un fondamento al potere amministrativo, ma che ne definisca anche i tratti essenziali (art. 97 Cost.); più precisamente, la nostra Costituzione (che, è bene ricordare, non enuncia espressamente il principio di legalità), utilizza la categoria della riserva di legge [questa può essere assoluta o relativa:

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quella assoluta ricorre quando una norma costituzionale attribuisce soltanto alla legge, e non ad una fonte subordinata, il potere di disciplinare una determinata materia (si pensi, ad es., alle libertà fondamentali o alla materia penale); quella relativa, invece, ricorre quando la legge si limita a fissare la disciplina di principio di una determinata materia, nell’ ambito della quale è ammesso l’ intervento di regolamenti]. Secondo l’ opinione unanime, la P.A. è sottoposta ad una riserva di legge relativa; tuttavia, l’ art. 97 Cost. non si limita semplicemente a distribuire la competenza normativa tra legge e regolamento, ma delinea anche il minimo che deve essere regolato dalla legge: non a caso, l’ art. 97 cpv. stabilisce che alla legge (e soltanto alla legge) spetta stabilire, nell’ ordinamento degli uffici, le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità dei funzionari (e poiché le attribuzioni e le competenze hanno per oggetto poteri amministrativi e questi poteri si esercitano a mezzo di atti amministrativi, ne consegue che deve essere riservato alla legge il conferimento di potestà amministrative). In ogni caso, è bene precisare che la Costituzione con la locuzione riserva di legge ha inteso far riferimento non solo alle leggi in senso formale, ma anche ai decreti legislativi e ai decreti legge; va chiarito, inoltre, che la riserva può anche essere soddisfatta da una legge regionale (qualora la materia ricada nella competenza legislativa concorrente o esclusiva della regione, ex art. 117 Cost.). Se, però, da un lato, l’ art. 97 Cost. stabilisce il contenuto minimo che la legge deve avere in relazione all’ organizzazione amministrativa (attribuzioni, competenze e responsabilità), dall’ altro lato stabilisce anche due limiti a carattere finalistico (e questo perché la legge deve assicurare l’ imparzialità ed il buon andamento dell’ amministrazione). Non solo: la Costituzione determina anche un contenuto massimo, al di là del quale la legge non può spingersi; e ciò perché, in virtù del principio della separazione dei poteri, è escluso che il legislatore possa fare l’ amministratore (è escluso, cioè, che la legge abbia il contenuto concreto dell’ attività amministrativa). A sostegno di quanto detto, si è rilevato, ad es., che se contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela

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giurisdizionale (art. 113 Cost.), la legge non potrebbe avere il contenuto di un atto amministrativo, perché, se lo avesse, verrebbe negata al destinatario la tutela giurisdizionale (il singolo, infatti, può impugnare un atto amministrativo, non una legge). Secondo questa persuasiva impostazione, la Costituzione disporrebbe, quindi, anche una riserva di provvedimento amministrativo, così vietando le cd. leggi-provvedimento: quelle leggi, cioè, che, anziché limitarsi a prevedere i casi da regolare, provvedono concretamente su casi e rapporti specifici, attraendo nella propria sfera di disciplina materie e oggetti normalmente affidati all’ autorità amministrativa (è necessario sottolineare, però, che questa tesi non ha trovato l’ avallo della Corte Costituzionale, la quale ha, invero, fatte salve, in numerose occasioni, le leggiprovvedimento). §2. I regolamenti La riserva di legge relativa, alla quale è sottoposta la P.A., comporta che una quota rilevante della disciplina che la riguarda può essere contenuta nei regolamenti governativi, la cui materia è oggi disciplinata dalla L. 400/88. In tale legge sono elencate, in particolare, cinque specie di regolamenti: •i regolamenti esecutivi (che vengono adottati per l’ esecuzione delle leggi, dei decreti legislativi e dei regolamenti comunitari); • i regolamenti di integrazione (delle norme di principio contenute nelle leggi e nei decreti legislativi); • i regolamenti indipendenti (che vengono adottati nelle materie in cui manchi la disciplina da parte di leggi o di atti aventi forza di legge, sempre che non si tratti di materie riservate comunque alla legge); • i regolamenti di organizzazione (che disciplinano l’ organizzazione e il funzionamento delle amministrazioni pubbliche secondo le disposizioni dettate dalla legge); • i regolamenti di delegificazione (così denominati perché la disciplina, un tempo tutta contenuta nella legge, viene ridistribuita tra la legge, che detta le norme generali, ed il regolamento).

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Accanto ai regolamenti governativi, la L. 400/88 prevede, poi, i regolamenti ministeriali, i quali possono essere adottati nella materia di competenza del ministro (o di autorità sott’ ordinate), qualora la legge conferisca espressamente tale potere; è necessario sottolineare, però, che i regolamenti ministeriali (o interministeriali) non possono dettare norme contrarie a quelle dei regolamenti emanati dal Governo. Particolare importanza assumono anche i regolamenti degli enti territoriali, sui quali hanno, però, inciso in modo rilevante le riforme costituzionali del 1999 e del 2001. L’ art. 121 Cost., nella sua originaria formulazione, attribuiva al consiglio regionale la potestà legislativa e regolamentare della regione; la riforma apportata dalla L. 1/99 ha, invece, eliminato questa riserva attribuita al consiglio, sicché oggi spetterà alla singola regione assegnare tale potestà al consiglio o alla giunta (attraverso il proprio statuto). In concreto, tutte le regioni, ad eccezione dell’ Abruzzo, hanno conferito la potestà regolamentare alla giunta regionale, prevedendo per lo più forme di partecipazione del consiglio (per effetto di questo spostamento della competenza, la produzione regolamentare della regione ha ricevuto un nuovo impulso). L’ altra importante modifica è stata, invece, apportata dalla L. 3/01: in particolare, l’ art. 117, co. 6 Cost., nella nuova formulazione, attribuisce allo Stato la potestà regolamentare nelle materie di legislazione esclusiva, mentre in ogni altra materia spetta alle regioni (viene meno, così, la potestà regolamentare dello Stato nelle materie di competenza concorrente). Il nuovo art. 117 Cost. stabilisce, infine, che i comuni, le province e le città metropolitane hanno potestà regolamentare in ordine alla disciplina dell’ organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite (si tratta, in realtà, del riconoscimento normativo di una potestà che gli enti locali, ed in particolare i comuni, hanno sempre avuto). §3. Gli statuti Tra le fonti rilevanti per l’ amministrazione vanno annoverati, inoltre, gli statuti delle regioni e degli enti locali. Ciascuna regione, infatti, ha un

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proprio statuto (espressione della sua autonomia e che deve essere approvato a maggioranza assoluta dei componenti del consiglio e con due deliberazioni successive a distanza di due mesi); lo statuto, in armonia con la Costituzione, determina la forma di governo e i princìpi fondamentali di organizzazione e di funzionamento della regione: più precisamente, la potestà statutaria della regione si muove tra la Costituzione, la quale individua gli organi di governo (consiglio, giunta e presidente) e ne disciplina le funzioni essenziali, e la competenza legislativa residuale (della regione stessa) in materia di organizzazione amministrativa. Diversa è, invece, la condizione delle regioni a statuto speciale, perché i loro statuti sono stati approvati con legge costituzionale del Parlamento: sicché essi sono, sul piano formale, sovraordinati agli statuti delle regioni ordinarie (perché hanno il rango delle leggi costituzionali), ma sul piano sostanziale sono espressione di un’ autonomia minore (proprio perché la legge votata dal consiglio regionale deve essere, a sua volta, approvata dal Parlamento, ex art. 138 Cost.). Anche gli enti locali (comuni, province e città metropolitane) hanno propri statuti: l’ art. 114, co. 2 Cost. afferma, infatti, che essi sono enti autonomi con propri statuti [ovviamente, anche qui la potestà statutaria incontra il limite della Costituzione, alla quale spetta, infatti, il compito di fissare la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali degli enti locali, ex art. 117, co. 2, lett. p) Cost.]. §4. Le fonti comunitarie Il quadro costituzionale dell’ attività amministrativa non sarebbe completo se non venisse integrato con i princìpi dell’ Unione europea, sanciti dal Trattato di Roma (stipulato nel 1950) e dal diritto comunitario derivato (direttive, regolamenti e sentenze della Corte di Giustizia CE). In questa prospettiva, la Corte Costituzionale ha ritenuto che, con la stipula del Trattato di Roma, la Repubblica italiana, ai sensi dell’ art. 11 Cost., abbia consentito, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni; in conseguenza di ciò, si ritiene che i regolamenti comunitari

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sono direttamente applicabili, senza la necessità di norme interne di adattamento o di ricezione (sent. 183/73); che, in caso di contrasto con il diritto comunitario, la norma interna confliggente deve essere disapplicata dal giudice nazionale (sent. 170/84); che lo stesso rango va riconosciuto alle sentenze della Corte di Giustizia (sent. 379/89); che l’ obbligo di disapplicare le norme interne incompatibili con il diritto comunitario grava anche sugli organi amministrativi (sent. 379/89); che i princìpi richiamati vanno estesi anche alle direttive comunitarie, qualora le stesse contengano prescrizioni sufficientemente precise e sia decorso il termine assegnato agli Stati membri per dare attuazione, con proprio atto normativo, alla direttiva stessa (sent. 161/91). Costruito in questi termini il rapporto tra i due ordinamenti (interno e comunitario), risulta evidente che lo status delle norme comunitarie viene equiparato a quello delle norme della Costituzione italiana. In realtà, un contrasto potrebbe verificarsi qualora una disposizione comunitaria venga in contrasto con i princìpi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale; anche questa formale riserva, però, è venuta a cadere, in seguito alla modifica apportata dal nuovo testo dell’ art. 117 Cost., ad avviso del quale, infatti, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni, nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (ciò significa, in altri termini, che l’ ordinamento comunitario vincola il legislatore, statale o regionale, nella stessa misura in cui lo vincola la Costituzione). §5. Le norme internazionali Le norme internazionali sono divise nelle due grandi categorie delle norme consuetudinarie e delle norme convenzionali, contenute nei trattati. Nella sua formulazione originaria, però, la Costituzione, regolava in maniera distinta l’ adattamento di queste norme al diritto interno: ed infatti, mentre per le norme consuetudinarie prevedeva (e prevede tuttora) l’ adattamento automatico, in quanto coincidenti con le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (art. 10, co. 1 Cost.), per i trattati di natura politica, invece, stabiliva che questi dovessero essere autorizzati con legge

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del Parlamento. In altri termini, prima dell’ entrata in vigore del nuovo art. 117 Cost., si riteneva che le norme contenute nei trattati internazionali stipulati dall’ Italia acquistassero il rango di legge ordinaria, che ad esse dava esecuzione (c.d. ordine di esecuzione): si escludeva, cioè, che l’ adattamento automatico operasse al di fuori delle norme consuetudinarie (in tal senso era orientata la stessa Corte Costituzionale). Di conseguenza, la collocazione dei trattati sul livello della legge ordinaria comportava la possibilità che le norme in essi contenute fossero abrogate da norme di legge ordinarie successive. Le cose sono cambiate, però, con la nuova formulazione dell’ art. 117 Cost., ai sensi del quale, infatti, la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni, nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Gli effetti di questa modifica sono stati, in particolare, esaminati dalla Consulta nella sent. 348/07, in relazione ad un importante Trattato: la Convenzione europea dei diritti dell’ uomo (CEDU). I giudici costituzionali hanno precisato che le norme CEDU, pur non obbligando il giudice italiano a disapplicare le norme nazionali in contrasto con esse; e pur non avendo lo stesso rango delle norme costituzionali, obbligano, comunque, il legislatore italiano a rispettarle; da ciò ne consegue che la norma interna incompatibile con la norma della CEDU viola la Costituzione.

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Sezione IV L’ assetto positivo §1. Lo Stato e i ministeri Nel linguaggio del diritto costituzionale l’ idea di Stato rimanda alla nozione di Governo, di Parlamento, di Capo dello Stato (organi supremi che assumono le decisioni politiche fondamentali). Nell’ ottica del diritto amministrativo, invece, lo Stato è essenzialmente un insieme di ministeri: sono queste le sue articolazioni fondamentali, ognuna associata ad un complemento di specificazione che ne indica la sfera di azione (ad es., Ministero dell’ Interno, Ministero degli Affari Esteri, Ministero della Giustizia, etc.). È bene precisare, però, che la parola ministero presenta un carattere bifronte, perché essa designa, innanzitutto, una struttura amministrativa (formata da un insieme di uffici ricoperti da burocrati); al vertice di tale struttura, però, c’è una persona (il ministro), che non solo è capo di amministrazione, ma è anche componente di un collegio politico (il Consiglio dei ministri). Nel corso di quasi un secolo e mezzo (dal 1860 ad oggi) i ministeri sono

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cambiati nel numero, nella denominazione e nelle strutture: infatti, accanto a ministeri che ci sono sempre stati, e che continuano ad esserci (esteri, interni, giustizia), ce ne sono altri che sono nati nel momento in cui un certo interesse collettivo è stato ritenuto meritevole di essere tutelato con un apposito ministero (si pensi, ad es., al Ministero della Sanità, al Ministero dei Beni Culturali o al Ministero dell’ Ambiente). Dopo decenni di incremento del numero dei ministeri (siamo arrivati a contarne 25), di recente si è pervenuti ad una drastica riduzione, ispirata anche a finalità di economia organizzativa; tuttavia, le buone intenzioni manifestate dal d.lgs. 300/99, che aveva ridotto a 12 il numero dei ministeri, hanno dovuto fare i conti con le esigenze dei governi di coalizione (e con la necessità, quindi, di un congruo numero di posti da spartire). Sicché, con il d.l. 181/06, conv. in L. 233/06, il numero dei ministeri è stato riportato a 18; nell’ attuale legislatura, però, vi è stata una nuova riduzione: vi sono, infatti, 13 ministeri. §2. I ministeri a) i dipartimenti, le direzioni generali e gli uffici di collaborazione Nel quadro legislativo definito dal d.lgs. 300/99, i ministeri sono divisi in due gruppi: in quelli del primo gruppo (interni; giustizia; economia; lavoro e politiche sociali; istruzione, università e ricerca; salute) le strutture di primo livello sono rappresentate dai dipartimenti (i quali abbracciano grandi aree di materie). Nei ministeri del secondo gruppo (tutti gli altri) le strutture di primo livello sono, invece, rappresentate dalle direzioni generali (con ambiti più ridotti rispetto ai dipartimenti); tali direzioni generali, in particolare, sono coordinate da un segretario generale (figura non prevista nei ministeri a struttura dipartimentale). Affianco ai dipartimenti e alle direzioni generali operano, poi, gli uffici di diretta collaborazione con il ministro, i quali sono legati all’ organo politico da un rapporto fiduciario (tra di essi ricordiamo: l’ ufficio legislativo e l’ ufficio di gabinetto). Questi uffici, però, si distinguono dagli uffici burocratici, perché non sono organizzati secondo un disegno gerarchico, ma sono

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collocati in posizione di staff, ossia in una posizione collaterale al vertice politico, con il quale hanno un contatto diretto (a prescindere dalla gerarchia). b) l’ organizzazione periferica Molti ministeri, accanto ad un apparato centrale, presentano anche un apparato periferico, che fa capo ad un ufficio organo (si pensi, ad es., al prefetto, che fa capo al Ministero dell’ Interno; al provveditore agli studi, che fa capo al Ministero della Pubblica Istruzione; all’ intendenza di finanza, che fa capo al Ministero delle Finanze, etc.). A tali uffici periferici (sempre, o quasi sempre, di dimensione provinciale) è stata riconosciuta una parziale soggettività giuridica (negata, questa, per oltre un secolo, alle direzioni generali dei ministeri); ciò si spiega in considerazione del fatto che, se così non fosse stato, anche, ad es., il prefetto, il provveditore agli studi o l’ intendente di finanza (cioè, l’ apparato periferico) avrebbe dovuto sottoporre i suoi atti alla firma del ministro e sarebbe, di conseguenza, venuta meno la stessa utilità di un’ organizzazione periferica dello Stato. È necessario sottolineare, però, che con l’ istituzione delle regioni (1970), l’ organizzazione periferica dello Stato ha perso, ovviamente nei settori regionalizzati (agricoltura, turismo e, in parte, lavori pubblici) una parte dei suoi spazi; con la riforma del 1999 è stato, poi, attuato un ulteriore snellimento delle strutture periferiche: alcune sono state fatte salve (difesa, economia e finanze, beni culturali), mentre le altre sono state concentrate nelle prefetture (denominate, oggi, uffici territoriali di governo). c) la responsabilità ministeriale L’ art. 95, co. 2 Cost., affermando che i ministri (nei confronti del Parlamento) sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei ministri e individualmente degli atti dei loro dicasteri, concorre, almeno in parte, a definire il rapporto tra il ministro e la burocrazia ministeriale (e, in primo luogo, i dirigenti). Ora, questa formula (che afferma la responsabilità del ministro per gli atti del suo dicastero) è stata interpretata, anche prima della sua costituzionalizzazione, nel senso che tutti gli atti del ministero

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fossero giuridicamente imputabili al ministro (anche se non posti in essere dallo stesso); si trattava, però, di un’ evidente esagerazione che, come già affermava il Presidente del Consiglio Bettino Ricasoli nel 1866 (quindi, sin dalle origini dell’ Italia unita), eliminava di fatto la responsabilità dei dirigenti (mettendo, così, in discussione il buon andamento dell’ amministrazione stessa). La questione del rapporto tra ministro e dirigente non si esaurisce, però, nell’ art. 95, ma è presa in considerazione anche dagli artt. 28 e 97 Cost. In particolare, l’ art. 97, come sappiamo, dopo aver enunciato i princìpi di buon andamento e di imparzialità dell’ amministrazione, prescrive che nell’ ordinamento degli uffici siano determinate le sfere di competenza, le attribuzioni e le responsabilità proprie dei funzionari. Ora, poiché l’ inciso proprie è riferito sia alla responsabilità che alla competenza, se ne deduce che la competenza non può essere limitata al ministro, ma deve essere estesa anche ai dirigenti, i quali sono chiamati a rispondere degli atti compiuti nell’ esercizio di tale competenza, senza che possano trincerarsi dietro la responsabilità ministeriale (in tal senso: Merloni). Che i funzionari (e, quindi, anche i dirigenti) rispondano direttamente dei propri atti, compiuti in violazione dei diritti, risulta poi confermato dall’ art. 28 Cost.: ne rispondono secondo le leggi penali, civili e amministrative; viceversa, i ministri (ex art. 95 Cost.) rispondono politicamente degli atti dei loro dicasteri (e quindi, anche di quelli posti in essere dai dirigenti). In definitiva, le tre disposizioni su analizzate (artt. 95, 97 e 28 Cost.) compongono, come si può notare, un quadro in cui la responsabilità politica del ministro (per gli atti del suo dicastero) convive con la responsabilità diretta del dirigente (che è titolare di una sua sfera di competenza) e forniscono anche un criterio per distinguere il contenuto di tale responsabilità: una responsabilità politica del ministro ed una responsabilità civile, penale e amministrativa del dirigente (della quale, però, è bene precisarlo, è tenuto a rispondere anche il ministro, essendo egli stesso funzionario e, quindi, destinatario dei precetti contenuti negli artt. 28 e 97 Cost.).

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d) i ministri e i dirigenti Il D.P.R. 748/72 (cd. decreto sulla dirigenza), staccando - dalla carriera direttiva del personale statale - la carriera dirigenziale (articolata nelle tre qualifiche di dirigente generale, dirigente superiore e primo dirigente) aveva attribuito ai dirigenti competenze proprie (in tal modo, i dirigenti, dopo essere stati per lungo tempo titolari di meri uffici, diventavano organi dell’ amministrazione). Si trattava, in particolare, di competenze dirette ad adottare atti che impegnavano l’ amministrazione verso l’ esterno (il cui valore monetario era comunque inferiore ad una certa soglia e la cui natura era vincolata); in capo al ministro veniva, invece, mantenuta la competenza ad adottare gli atti più rilevanti e a sindacare l’ operato dei dirigenti mediante poteri di intervento sui loro atti (revoca, riforma, annullamento) o sulle loro competenze (avocazione e riserva preventiva di atti). Le cose, però, sono successivamente cambiate: infatti, con i d.lgs. 29/93 e 165/01, è stato enunciato un nuovo criterio di riparto delle competenze tra gli organi di governo e i dirigenti (cd. riparto funzionale). In questa prospettiva, gli organi di governo sono oggi chiamati a definire gli obiettivi e i programmi da attuare e verificano la rispondenza dei risultati della gestione amministrativa alle direttive generali impartite; ai dirigenti, invece, spetta la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa (compresi gli atti che impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno) mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse, umane e strumentali, e di controllo. Il riparto delle competenze tra organi di governo e dirigenti è reso, poi, ancora più netto dal divieto, per l’ organo politico (il ministro), di revocare o avocare a sé atti di competenza dei dirigenti: in caso di inerzia o ritardo, infatti, l’ organo politico può fissare al dirigente un termine entro il quale provvedere e, se l’ inerzia persiste, può nominare un commissario ad acta. Tuttavia, è necessario sottolineare che se, da un lato, l’organo politico (il ministro) ha perso la possibilità di intervenire sugli atti del dirigente (revoca, annullamento, modifica, avocazione etc.), dall’ altro lato ha mantenuto (anzi, ha rafforzato) i propri poteri sul piano dell’ investitura: infatti, a

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differenza del rapporto di lavoro privato, in cui il possesso di una qualifica lavorativa comporta il diritto di esercitare le relative mansioni (ex art. 2103 c.c.), alla qualifica dirigenziale si accede mediante concorso; l’ incarico di funzioni dirigenziali viene, però, conferito dall’ organo politico (sicché da tale incarico dipende lo svolgimento delle mansioni proprie del dirigente). L’ incarico di funzioni dirigenziali ha una durata limitata nel tempo (da un minimo di 3 anni ad un massimo di 5) ed è rinnovabile: ovviamente, la temporaneità dell’ incarico si spiega in funzione del controllo sull’ operato del dirigente da parte dell’ organo politico (così, ad es., se il dirigente non ha raggiunto gli obiettivi che gli sono stati prefissati, l’ incarico non può essere rinnovato).

§3. L’ amministrazione locale a) il principio elettivo e le modalità di elezione L’ altro grande braccio dell’ amministrazione pubblica è costituito dall’ amministrazione locale (comuni, province e città metropolitane). Le province sono state istituite subito dopo l’ unificazione italiana, sul modello francese; le città metropolitane, invece, sono previste dal nuovo testo dell’ art. 114 Cost.; i comuni, infine, risalgono a secoli addietro (i più antichi addirittura al medioevo). Gli enti locali si distinguono dagli altri enti pubblici per la modalità di investitura degli organi di base, che non poggia su una nomina, ma su una elezione (in tal senso si è espressa la Consulta con le sentt. 42/61 e 96/68); in questa prospettiva, il primo e più importante tratto caratteristico dell’ ente locale è quello della elettività dei suoi organi di base (un principio che risale ad epoca remota e che solo il fascismo ha cercato di negare); l’ elettività degli organi comporta, di conseguenza, la possibilità che la maggioranza al comune ovvero alla provincia sia di colore diverso dalla maggioranza al Parlamento nazionale o al consiglio regionale (ed è questa l’ implicazione fondamentale dell’ autonomia dell’ amministrazione locale). Analizziamo adesso le modalità di elezione (prima e dopo la riforma del

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1993). Prima della riforma del 1993 i cittadini eleggevano il consiglio (comunale o provinciale) e questi, a sua volta, eleggeva il sindaco (o il presidente della provincia) e i componenti della giunta; tale meccanismo, però, non era particolarmente idoneo ad assicurare stabilità all’ esecutivo dell’ ente locale, dal momento che alcuni consiglieri della maggioranza, aspirando a far parte della giunta (o ad esserne a capo, in qualità di sindaco o di presidente della provincia), potevano sabotare l’ esecutivo, togliendo ad esso l’ appoggio (con il preciso intento di determinarne la caduta e di provocare un avvicendamento che avrebbe potuto favorirli). In virtù di tali considerazioni, con L. 81/93, il sistema di rappresentanza è stato radicalmente mutato: cosicché all’ elezione del consiglio è stata affiancata l’ elezione diretta del sindaco (o del presidente della provincia) e all’ elezione della giunta, da parte del consiglio, è subentrata la nomina del sindaco. Pertanto, ragionando in questi termini, possiamo affermare con certezza che il modello costituzionale al quale si ispira oggi il sistema locale è di tipo presidenziale (sul modello statunitense): ed infatti, i rappresentanti eletti (il consiglio) e il capo dell’ esecutivo (sindaco o presidente) hanno un’ investitura popolare diretta; forte di questa investitura, quindi, il sindaco o il presidente della provincia sceglie gli assessori (i componenti della giunta) sulla base di un rapporto di natura fiduciaria, che dovrebbe prescindere dalle appartenenze ai partiti e alle liste collegate (anche se ciò, a ben vedere, risulta quasi inevitabile a causa degli accordi fatti in vista delle elezioni). Con il modello presidenziale, che presuppone (nel capo dell’ esecutivo) un’ investitura che prescinde dalla fiducia del legislativo (il consiglio) contrasta, però, l’ istituto della mozione di sfiducia, disciplinato dall’ art. 52 d.lgs. 267/00; è, tuttavia, previsto un potente correttivo: se, infatti, la sfiducia viene votata ne consegue lo scioglimento del consiglio e la nomina di un commissario; in altri termini, i consiglieri sanno che se la loro iniziativa (la presentazione della mozione di sfiducia) avrà sèguito, cesseranno automaticamente di essere consiglieri, perché l’ organo (il consiglio) verrà disciolto. Detto questo, è necessario adesso analizzare il particolare meccanismo

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elettorale degli enti locali. Tale meccanismo è diverso a seconda che il comune abbia meno o più di 15000 abitanti: nel primo caso ciascun candidato alla carica di sindaco è collegato ad una lista di candidati al consiglio comunale (in questo caso, quindi, l’ elettore, votando per il candidato sindaco, vota anche per la lista che lo sorregge, nell’ ambito della quale può votare anche il candidato consigliere che preferisce). Terminata la votazione, viene eletto sindaco il candidato che ottiene il maggior numero di voti; e alla lista collegata sono attribuiti i due terzi dei seggi assegnati al consiglio (gli altri, ovviamente, sono assegnati in modo proporzionale alle altre liste). Nei comuni con più di 15000 abitanti, invece, il sindaco viene eletto con la maggioranza assoluta dei voti validi; pertanto, se nessun candidato supera il 50% dei voti, la domenica successiva si procede ad un secondo turno (cd. ballottaggio), al quale sono ammessi i due candidati che hanno ottenuto il maggior numero dei voti. È importante specificare, inoltre, che in questi casi la candidatura a sindaco è collegata ad una o più liste, ma il collegamento non è così stretto come nei comuni minori, perché l’ elettore può votare la lista, ma può non votare il candidato sindaco ad essa collegato (e scegliere un candidato collegato ad un’ altra lista). Ciò significa, in altri termini, che pur essendo possibile che il candidato sindaco venga eletto al primo turno, è altrettanto possibile che la lista o le liste collegate non raggiungano il 50% dei voti: in tal caso è previsto un premio di maggioranza (il 60% dei seggi del consiglio), purché la lista (o il gruppo di liste) abbia conseguito il 40% dei voti (e nessun altra lista abbia, ovviamente, superato il 50% dei voti). Per converso, se il sindaco viene eletto dopo il ballottaggio, e la lista o le liste collegate non hanno conseguito il 60% dei voti, anche in questo caso esse ottengono un premio di maggioranza (il 60% dei seggi), sempre che nessun altra lista o gruppo di liste abbia superato, al primo turno, il 50% dei voti. Il procedimento dettato per l’ elezione nei comuni maggiori si applica anche alle province.

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b) le funzioni Dagli altri apparati amministrativi (i ministeri, gli enti pubblici, le aziende pubbliche, etc.) il comune si distingue perché svolge una molteplicità di funzioni, di servizi e di interessi (ciò dipende dalla storia, che ha visto per secoli il comune come la sola organizzazione collettiva del territorio, chiamata dai suoi cittadini ad assumersi compiti che essi, da soli, non potevano assolvere). La polifunzionalità dei comuni è oggi riconosciuta dall’ art. 13 d.lgs. 267/00, il quale infatti stabilisce che spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione e il territorio comunale (ad es., i servizi alla persona e alla comunità; l’ utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico), salvo quanto non sia attribuito dalla legge (statale o regionale) ad altri soggetti: si pensi, ad es., alle funzioni che, pur riferibili alla popolazione e al territorio, sono attribuite dalla legge ad enti diversi (ASL, IACP, aziende di promozione turistica, etc.). Questa sorta di presunzione di competenza generale dei comuni è stata, poi, ribadita dalla riforma costituzionale del 2001: non a caso, il nuovo art. 118, co. 1 Cost. stabilisce che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che, per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza. Ora, presa alla lettera, la prima parte di questa disposizione sembra stabilire una presunzione generale di competenza dei comuni per l’ attività amministrativa; ma in realtà, un assetto del genere (che, tra l’ altro, riporterebbe il nostro sistema istituzionale al medioevo, quando non esistevano altre forme di governo al di fuori di quella municipale) deve fare i conti con un quadro costituzionale nel quale continua a campeggiare il principio di legalità. Ciò significa, pertanto, che sarà la legge (regionale o statale) a distribuire le competenze amministrative sui vari livelli territoriali in base ai criteri di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione (criteri che sono stati mutuati dalla L. 59/97: prima legge Bassanini). In particolare, in virtù del principio di sussidiarietà le funzioni amministrative saranno attribuite ai comuni, alle province e alle comunità montane, secondo le

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rispettive dimensioni territoriali (il principio in esame, come si può facilmente notare, privilegia il criterio dimensionale); qualora, però, la funzione interessata sia incompatibile con la dimensione dell’ ente, il principio in esame giustifica l’ intervento sussidiario del livello di governo superiore. Non diverse sono le conseguenze del principio di adeguatezza, il quale, infatti, richiede che l’ amministrazione ricevente sia in grado di garantire, anche in forma associata con altri enti, l’ esercizio delle relative funzioni (ciò, in realtà, già risulta implicito nel principio di sussidiarietà). Lo stesso discorso può essere fatto per il principio di differenziazione, il quale impone di tener conto, nell’ allocazione delle funzioni, anche delle diverse caratteristiche associative, demografiche, territoriali e strutturali degli enti riceventi; richiede, cioè che, nell’ allocazione delle funzioni, si tenga conto non solo della diversa idoneità dei diversi livelli territoriali, ma anche della diversa idoneità ad esercitare le funzioni di enti situati nel medesimo livello territoriale (se, ad es., è idoneo il comune di Milano non lo è quello di Briga o di Floresta). Il co. 2 dell’ art. 118 Cost. specifica, poi, che gli enti locali sono titolari sia di funzioni amministrative proprie sia di funzioni amministrative conferite con legge statale o regionale, secondo le rispettive competenze. L’ art. 118 Cost. deve, però, essere letto unitamente al precedente art. 117, co. 2, lett. p), perché quest’ ultimo, elencando (tra le materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato) gli organi di governo e le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane, ha fatto emergere il problema dei rapporti tra le funzioni fondamentali (art. 117) e le funzioni di cui all’ art. 118, nonché il conseguente problema della distinzione tra funzioni proprie, attribuite e conferite. In realtà, una volta assodato che, stante il principio di legalità, non possono esserci funzioni amministrative che non siano assegnate con legge e che, quindi, l’ art. 118 Cost. non attribuisce, di per sé, specifiche funzioni agli enti locali, dal momento che queste sono assegnate con legge, dello Stato o della regione, ex art. 117, risulta, di conseguenza, priva di senso la distinzione tra funzioni proprie e funzioni conferite con legge, proprio

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perché gli enti locali non hanno funzioni proprie diverse da quelle conferite con legge (e, di conseguenza, priva di senso si dimostra la distinzione tra funzioni attribuite e funzioni conferite). Ha, invece, senso la distinzione tra funzioni fondamentali e funzioni non fondamentali degli enti locali, perché le prime sono oggetto di potestà legislativa esclusiva dello Stato (art. 117 Cost.), mentre le seconde no. In particolare, le funzioni fondamentali possono rientrare nell’ ambito delle competenze materiali attribuite alla potestà legislativa esclusiva dello Stato e, quindi, possono essere scorporate dagli apparati amministrativi statali per essere devolute agli enti locali (ad es., in tema di immigrazione, di cittadinanza, di stato civile, di anagrafe e di tutela dell’ ambiente); esse, però, possono anche ricadere nell’ ambito delle materie regionali oggetto di competenza legislativa concorrente Stato-regioni (in tal caso vi sarà un’ ingerenza della legge statale nelle materie regionali). Possiamo, pertanto, concludere dicendo che le funzioni agli enti locali possono essere conferite con legge: che sarà la legge regionale, nelle materie di competenza (concorrente o esclusiva) della regione; mentre sarà la legge statale, nelle materie che rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (concernenti gli organi di governo e le funzioni fondamentali) o nelle materie di competenza concorrente Statoregioni e che determinano funzioni essenziali di comuni e province (in questi casi, il carattere fondamentale di tali funzioni abilita la legge statale ad ingerirsi nelle materie regionali). c) gli organi di governo dell’ ente locale La legge dello Stato è abilitata non solo ad assegnare funzioni agli enti locali, ma anche a distribuirle tra i suoi organi di governo (il consiglio, la giunta e il capo dell’ esecutivo - sindaco o presidente della provincia). La struttura e le funzioni degli organi di governo dell’ ente locale sono disciplinate dalle legge: ed è proprio entro questi limiti che si muove la potestà statutaria, nell’ esercizio della quale il singolo ente locale stabilisce non tanto le norme fondamentali della sua organizzazione (art. 6 d.lgs. 267/00), perché queste le stabilisce la legge, ma regola, più che altro, l’

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organizzazione delle funzioni, le forme di collaborazione con gli altri enti locali (ad es., convenzioni, consorzi e accordi di programma), le modalità di partecipazione popolare, del decentramento, dell’ accesso dei cittadini alle informazioni ed ai procedimenti amministrativi. Ora, dal momento che lo statuto rappresenta una piccola costituzione dell’ ente locale, lo stesso deve essere approvato con il voto favorevole dei due terzi dei consiglieri assegnati; e se tale maggioranza non viene raggiunta, sono necessarie due successive votazioni, nelle quali lo statuto dovrà essere approvato a maggioranza assoluta dei voti (la metà più uno dei consiglieri). Come detto, gli organi di governo dell’ ente locale sono: il consiglio, la giunta e il sindaco (o il presidente, nella provincia). In particolare, il consiglio (dal punto di vista funzionale) è l’ organo di indirizzo e di controllo politico-amministrativo ed ha competenza limitatamente agli atti indicati dall’ art. 42 d.lgs. 267/00: statuti, regolamenti, programmi, piani finanziari, bilanci, rendiconti, piani territoriali, organizzazione dei pubblici servizi, tributi, etc. (a queste funzioni lo statuto non può aggiungerne altre, perché la competenza del consiglio è, appunto, limitata dalla legge). Per quanto riguarda la composizione, va detto che il numero dei consiglieri, da eleggere a suffragio universale, varia da 12 (nei comuni con meno di 3000 abitanti) a 60 (nei comuni con più di un milione di abitanti); nelle province, invece, il numero dei consiglieri oscilla tra i 25 e i 45 (sempre a seconda del numero di abitanti). Il sindaco e il presidente della provincia sono, invece, gli organi responsabili dell’ amministrazione del comune e della provincia: essi rappresentano l’ ente, convocano e presiedono la giunta ed anche il consiglio (nei comuni con meno di 15000 abitanti, nei quali non è previsto il presidente del consiglio) e sovrintendono al funzionamento dei servizi e degli uffici e all’ esecuzione degli atti. La giunta, infine, è l’ organo di governo che collabora con il sindaco o con il presidente della provincia ed opera attraverso deliberazioni collegiali; la sua competenza è stabilita in via residuale, in quanto abbraccia tutti gli atti

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non riservati dalla legge al consiglio, al sindaco (o al presidente) o agli organi di decentramento. La giunta è composta da un numero di componenti non superiore ad un terzo dei membri del consiglio (e comunque non superiore a 16); gli assessori sono nominati dal sindaco (o dal presidente della provincia) e possono essere da lui revocati (la carica di assessore è, ovviamente, incompatibile con quella di consigliere).

d) la dirigenza negli enti locali Accanto agli organi di governo dell’ ente locale (ai quali sono affidati i poteri di indirizzo e di controllo politico-amministrativo) ci sono gli organi di gestione (i dirigenti), ai quali, invece, è affidata la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica (questa si esprime attraverso autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo). I dirigenti, in particolare, adottano gli atti e i provvedimenti amministrativi che impegnano l’ amministrazione verso l’ esterno, sempre che questi, ovviamente, non siano, dalla legge o dallo statuto, ricompresi tra le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo degli organi di governo. In ogni caso, è necessario sottolineare che la distinzione tra organi di governo ed organi di gestione non è, in realtà, così netta come potrebbe sembrare; le incertezze sono, innanzitutto, dovute al fatto che le funzioni di indirizzo e controllo politico-amministrativo vengono, nella prima parte del d.lgs. 267/00, riservate al consiglio, mentre nell’ art. 107 (sempre del d.lgs.) tali funzioni sono riferite al complesso degli organi di governo (come se di esse fossero partecipi anche la giunta ed il sindaco o il presidente della provincia). La confusione è ancora maggiore, poi, se prendiamo in considerazione i rapporti che si instaurano tra gli organo di governo esecutivi (giunta e sindaco o presidente) e gli organi di gestione: non è facile, ad es., distinguere tra il potere di sovrintendere al funzionamento dei servizi e degli uffici (che è riservato al sindaco o al presidente) e il potere di dirigere gli uffici e i servizi (riservato, invece, ai dirigenti); così come non è

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facile distinguere tra il potere di sovrintendere all’ esecuzione degli atti (che compete al sindaco) e il potere di gestire l’ ente, sul piano finanziario, tecnico e amministrativo (compito riservato al dirigente). e) il sistema dei controlli Nel sistema originario il collegamento tra amministrazione locale e amministrazione dello Stato veniva essenzialmente assicurato attraverso il sistema dei controlli: di legittimità e di merito [controlli che, prima dell’ entrata in vigore della Costituzione, erano esercitati dal prefetto (controllo di legittimità) e dalla giunta provinciale amministrativa (controllo di merito)]. Viceversa, con la Costituzione (art. 130), il controllo di legittimità è stato attribuito alle regioni (in particolare, al comitato regionale di controllo: CO.RE.CO.); si tratta, in particolare, di un controllo cd. preventivo, perché esso condiziona l’ efficacia della delibera dell’ ente locale (impedisce, cioè, che l’ atto controllato produca i suoi effetti prima che intervenga il visto del comitato regionale). Il controllo di merito, invece, è oggi previsto solo come un controllo eventuale (e subordinato ad espressa previsione legislativa). Tuttavia, è necessario sottolineare che, con la L. 142/90, i controlli di legittimità sulle delibere degli organi collegiali degli enti locali sono stati alleggeriti: essi, cioè, sono stati mantenuti come controlli necessari su alcuni atti fondamentali, ma, per il resto, sono stati trasformati in meri controlli eventuali. I controlli di merito sono stati, invece, soppressi. La L. cost. 3/01 è stata ancora più radicale: soppressi gli artt. 125, co. 1 e 130 Cost. è, infatti, venuta meno la previsione costituzionale dei controlli statali sulle regioni e di quelli regionali sugli enti locali. A seguito di tali modifiche normative, nel nuovo assetto vengono, pertanto, privilegiati i cd. controlli interni, ossia i controlli che l’ ente esercita su stesso (o, più precisamente, il controllo che un organo o un ufficio dell’ ente esercita su altri organi o altri uffici dello stesso ente). f) le forme associative La popolazione dei comuni italiani varia da poche decine a milioni di persone: si tratta di un fenomeno comune agli altri paesi, la maggior parte

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dei quali ha cercato di risolvere il problema fondendo i comuni minori. Nel nostro paese, però, tale processo non ha potuto aver luogo, dal momento che ogni comunità (anche la più piccola) è gelosa della propria identità e, quindi, rifiuta di essere assimilata ad altre (cd. municipalismo). Ne consegue, pertanto, che in Italia sussiste un’ enorme disparità tra comuni e ciò ha reso difficile l’ attribuzione, in loro favore, di funzioni amministrative, perché quelli medi e grandi sono in grado di esercitarle efficacemente, mentre i comuni più piccoli difettano delle risorse necessarie per svolgerle. Per ovviare a questo problema si è pensato di far ricorso ad uno speciale correttivo (risalente agli inizi della legislazione comunale), costituito dai consorzi: questi sono stati creati dagli enti locali per la gestione associata di uno o più servizi o per l’ esercizio associato di funzioni (trasporto urbano, smaltimento rifiuti e, in passato, macellazione, servizi veterinari, etc.); è bene precisare, però, che il consorzio è un ente diverso da quelli che lo costituiscono o lo finanziano. La legislazione recente prevede, invece, forme associative che non danno luogo alla costituzione di nuovi enti: si tratta delle convenzioni, degli accordi di programma e dell’ esercizio associato di funzioni e servizi. In dettaglio, la convenzione, che è la forma associativa più elementare, presuppone l’iniziativa di enti locali e si sostanzia in un accordo con cui vengono stabiliti i fini, la durata, le modalità di consultazione degli enti contraenti, i rapporti finanziari, gli obblighi e le garanzie. Accanto alle convenzioni volontarie sono previste anche quelle obbligatorie, alla cui stipulazione lo Stato o la regione possono subordinare l’affidamento a tempo determinato di un servizio o l’ esecuzione di un’ opera. Per quanto riguarda, invece, l’ esercizio associato di funzioni e servizi da parte dei comuni, va detto che esso è sempre promosso dalla regione; quanto, infine, all’ accordo di programma è necessario sottolineare che ad esso possono partecipare anche soggetti pubblici diversi dagli enti locali interessati, in quanto l’ accordo viene concluso per la definizione e l’attuazione di opere, interventi e programmi che richiedono la partecipazione necessaria di più amministrazioni.

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§4. L’ amministrazione regionale a) le funzioni La Costituzione del 1948, prevedendo l’ istituzione delle regioni, ha creato un nuovo livello territoriale di amministrazione (che, nelle intenzioni dei padri costituenti, avrebbe dovuto avere dimensioni molto contenute). In questa prospettiva, la nostra Carta fondamentale (art. 118, testo originario), dopo aver enunciato il principio del parallelismo tra funzioni amministrative e funzioni legislative (spettano alle regioni le funzioni amministrative per le materie elencate nel precedente articolo), introduce due rilevanti correttivi. Il primo riguarda le funzioni di esclusivo interesse locale: queste, infatti, anche se rientrano nelle materie di competenza regionale, possono essere attribuite, dalle leggi della Repubblica, alle province, ai comuni e agli altri enti locali (art. 118, co. 1). Il secondo correttivo concerne, invece, le modalità di esercizio delle competenze amministrative regionali: nell’ art. 118 (testo originario) si legge, infatti, che la regione esercita normalmente le sue funzioni amministrative delegandole alle province, ai comuni e agli altri enti locali o valendosi dei loro uffici. In tal modo, il costituente ha imposto alle regioni lo schema della cd. amministrazione indiretta: con ciò si vuole intendere, più precisamente, che le regioni sono titolari di funzioni amministrative nelle materie in cui hanno potestà legislativa, ma normalmente hanno l’ obbligo di esercitarle o mediante delega agli enti locali o mediante avvalimento dei loro uffici (in realtà, però, va qui specificato che le regioni hanno interpretato in modo elastico questo criterio di normalità, trattenendo presso di sé molte funzioni che avrebbero potuto essere delegate agli enti locali). Con la riforma del Titolo V della Costituzione le cose sono cambiate,

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perché, come sappiamo, è stato eliminato ogni riferimento al principio del parallelismo tra competenze legislative regionali e competenze amministrative (il nuovo art. 118 Cost. stabilisce, infatti, che le funzioni amministrative sono attribuite ai comuni, salvo che per assicurarne l’ esercizio unitario, siano conferite a province, città metropolitane, regioni e Stato, sulla base dei princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza). Ciò che accomuna il vecchio ed il nuovo assetto è, come si può notare, il favor per gli enti locali: favor che veniva espresso dal testo originario dell’ art. 118 attraverso le due clausole (quella dell’ attribuzione agli enti locali di funzioni che, seppur rientranti nelle materie di competenza delle regioni, erano di esclusivo interesse locale; e quella dell’ amministrazione regionale indiretta); e, dal nuovo art. 118, mediante la previsione generalizzata di competenza amministrativa comunale. b) la forma di governo L’ organizzazione regionale è modellata sull’ organizzazione degli enti locali; in particolare, gli organi della regione sono: il consiglio regionale, la giunta ed il suo presidente (art. 121, co. 1 Cost.). La differenza di fondo, però, consiste nel fatto che il consiglio regionale, a differenza di quello degli enti locali, è un organo legislativo (non amministrativo), anche se, con una certa forzatura, si potrebbe affermare che il consiglio regionale è organo di indirizzo politico-amministrativo, sebbene tale funzione venga esercitata con leggi, non con provvedimenti amministrativi. La forma di governo regionale è rimessa allo statuto di ciascuna regione (art. 123 Cost.), ma solo in piccola parte, perché (nelle sue linee fondamentali) è stabilita direttamente dalla Costituzione. Il presidente della giunta regionale viene eletto a suffragio universale e diretto (art. 122 Cost., nel testo di cui alla L. cost. 1/99); i candidati alla presidenza della giunta sono i capilista nelle liste regionali, sicché viene eletto presidente il candidato che ha conseguito il maggior numero di voti in ambito regionale. Il presidente, una volta eletto, nomina e revoca i

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componenti della giunta (la giunta regionale è l’ organo esecutivo ed il presidente ne dirige la politica e ne è responsabile, nei confronti del consiglio e del corpo elettorale che lo ha eletto). Da quanto detto, si può notare, quindi, che la Costituzione, estendendo alle regioni lo schema introdotto nell’ amministrazione locale dalla L. 81/93, delinea una forma di governo presidenziale, in cui il capo dell’ esecutivo è eletto direttamente dal popolo e sceglie lui i componenti della giunta (concettualmente in contraddizione con la forma di governo presidenziale è, però, l’ istituto della mozione di sfiducia nei confronti del presidente della giunta, da votarsi su proposta di almeno un quinto dei componenti del consiglio (questo istituto trova, tuttavia, un particolare disincentivo: il voto di sfiducia travolge, infatti, la giunta ed il consiglio che lo ha espresso). §5. Gli enti pubblici La terza grande articolazione dell’ amministrazione italiana è costituita dagli enti pubblici, i quali sono stati istituiti a partire dai primi anni del ‘900, allo scopo di assicurare il decentramento di funzioni amministrative statali ad enti pubblici diversi da quelli territoriali. Essi, in realtà, non sono altro che servizi della P.A. ai quali viene conferita personalità giuridica: si comincia nel 1916 con l’ INA [Istituto Nazionale per le Assicurazioni] e si prosegue nel 1917 con gli Enti autonomi di consumo, gli Istituti di ricerca e di sperimentazione agraria e gli Istituti di patronato e di assistenza sociale; il numero degli enti aumenta, poi, in modo cospicuo durante il fascismo (si pensi, ad es., all’ Opera Nazionale Combattenti, all’ Istituto nazionale fascista per la previdenza sociale, alle associazioni sindacali fasciste e agli IACP). In ogni caso, è importante sottolineare che gli enti pubblici sono stati istituiti non solo per gestire funzioni e servizi di Stato, ma anche per gestire funzioni e servizi non di Stato (funzioni e servizi gestititi, cioè, fino a quel momento da soggetti privati e poi attratti nella sfera pubblica per la loro rilevanza o, più semplicemente, per la pressione di gruppi sociali interessati ad una statizzazione, sia pure nella forma dell’ ente pubblico: è in questo modo che si spiega il passaggio alla sfera pubblica di funzioni e

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servizi come quelli relativi alla previdenza, all’ assistenza e alla sanità). L’ ente pubblico si distingue dall’ ente locale (territoriale), innanzitutto, perché è monofunzionale: esso cura, cioè, un solo interesse pubblico (l’ INPS, ad es., si occupa della sicurezza sociale dei lavoratori subordinati del settore privato; gli IACP hanno come clienti le famiglie meno abbienti prive di alloggio, etc.). In secondo luogo, è bene ricordare che l’ ente pubblico (a differenza dell’ ente locale, che presenta una struttura associativa) ha, di solito, una struttura del tipo fondazione: ha, infatti, un consiglio di amministrazione e un presidente, i quali sono chiamati a gestire un patrimonio nell’ interesse di terzi (manca, come si può notare, l’ assemblea e, cioè, l’ equivalente del consiglio comunale o provinciale). In funzione di controllo, terzo organo dell’ ente pubblico è, infine, il collegio dei revisori, del quale fa parte, di regola, un rappresentante del ministero vigilante (tale organo controlla l’ amministrazione, verifica l’ osservanza delle leggi e la corrispondenza del bilancio alle risultanze delle scritture contabili). a) l’ ente pubblico e la responsabilità ministeriale L’ ente pubblico pone un grave problema costituzionale in relazione alla responsabilità ministeriale: infatti, dal momento che gli atti vengono imputati all’ ente pubblico, in quanto munito di personalità giuridica, e non al ministro, ci si domanda come quest’ ultimo possa risponderne davanti al Parlamento, ex art. 95 Cost. La legge ha risolto il problema istituendo un controllo parlamentare sulle nomine negli enti pubblici (L. 14/78); in realtà, occorre specificare che non si tratta di un vero e proprio controllo, quanto piuttosto di un parere preventivo che deve essere richiesto alle commissioni parlamentari delle due Camere, competenti per materia, quando la nomina riguarda il presidente o il vice-presidente di un ente pubblico nazionale (per gli amministratori diversi dal presidente o dal vice-presidente è prevista, invece, una semplice comunicazione alle Camere). Il presidente ed il vice-presidente sono, poi, nominati con decreto del

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presidente della Repubblica, emanato su proposta del Presidente del Consiglio, previa deliberazione del Consiglio dei ministri adottata su proposta del ministro competente (l’ amministratore pubblico, in ogni caso, non può essere confermato nella carica più di due volte). Sull’ operato degli amministratori degli enti pubblici nazionali è previsto il controllo del ministro vigilante (e del Ministro dell’ Economia) sul bilancio, sul conto consuntivo, sulle delibere che adottano il regolamento organico, su quelle che definiscono la consistenza organica e il numero degli addetti; entro 90 gg. i ministri vigilanti approvano le delibere o le restituiscono per un riesame (in questo caso, se i rilievi attengono a vizi di legittimità o alla consistenza degli organici, le delibere non acquistano efficacia; diversamente diventano esecutive se confermate con un nuovo atto). Il raccordo con il Parlamento, comunque, dovrebbe essere assicurato dalla relazione annua (entro il 31 luglio), che ciascun ministro è tenuto a trasmettere al Parlamento sull’ attività svolta (in tal modo, il ministro finisce per rispondere dell’ attività dell’ ente pubblico davanti al Parlamento). La Costituzione ha, poi, introdotto un ulteriore elemento di controllo sull’ operato dell’ ente pubblico: ai sensi, infatti, dell’ art. 100 Cost., la Corte dei Conti (in raccordo con il collegio sindacale dell’ ente pubblico) partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria e riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito. In attuazione del precetto costituzionale (art. 100), l’ art. 3, L. 20/94 attribuisce alla Corte dei Conti il controllo successivo sulla gestione del bilancio e del patrimonio degli enti pubblici, allo scopo di verificare la regolarità della relativa gestione. b) l’ ascesa e il declino degli enti pubblici Il sistema degli enti pubblici è prosperato in Italia sino agli anni ’70 (periodo nel quale esso ha raggiunto il massimo sviluppo); a partire da quel momento sono intervenuti due fattori che ne hanno determinato un drastico ridimensionamento. Il primo ridimensionamento si è avuto nel 1972 con l’ entrata in funzione delle regioni a statuto ordinario: molti enti pubblici esistenti in quel periodo

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operavano, infatti, in molti settori che l’ art. 117 Cost. (testo originario) ha successivamente riservato alla potestà legislativa regionale (beneficienza, assistenza, istruzione professionale, turismo e agricoltura: settori nei quali le regioni disponevano anche di potestà amministrativa ed organizzativa, ex art. 118 Cost., testo originario); in conseguenza di ciò, pertanto, molti enti pubblici sono stati soppressi. Il secondo ridimensionamento si è avuto, invece, in seguito ad una riconsiderazione dell’ interesse pubblico che, a suo tempo, aveva giustificato l’ istituzione dell’ ente pubblico; invero, molti enti pubblici sono stati istituiti nel tempo per prestare assistenza a determinate categorie di persone (si pensi, ad es., all’ ENAOLI, ente nazionale di assistenza orfani lavoratori italiani, all’ ONIG, opera nazionali invalidi di guerra, ovvero all’ opera nazionale combattenti); a metà degli anni ’70 ci si domanda se questi enti necessitino assolutamente di una personalità giuridica di diritto pubblico (se questa, infatti, era stata attribuita allo scopo di dotare l’ ente di beni conferiti dallo Stato o di riscuotere contributi degli associati, era, in realtà, sufficiente mantenere in vita questi due privilegi, trasformando, però, l’ ente in persona giuridica di diritto privato). In questa prospettiva, sono stati trasformati in persone giuridiche di diritto privato gli enti di previdenza e assistenza che non svolgono funzioni di rilevante interesse pubblico (e la stessa operazione è stata fatta per gli enti pubblici operanti in settori diversi dalla previdenza e assistenza). Un ruolo importante, nella trasformazione degli enti pubblici in soggetti privati, lo ha svolto, poi, anche la Corte costituzionale: questa, infatti, con sent. 396/88, ha dichiarato l’ illegittimità costituzionale dell’ art. 1 L. 6972/1890 (cd. legge Crispi), nella parte in cui qualifica come istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza le opere pie. La Consulta ha sottolineato, in particolare, che una generalizzata pubblicità contrasta con l’ art. 38, ult. co. Cost., secondo il quale l’ assistenza privata è libera; pertanto, se il privato è libero di prestare assistenza, deve essere libero di farlo anche a mezzo di organizzazioni impersonali (associazioni, fondazioni, etc.); in ragione di tale pronuncia, quindi, sono venuti meno migliaia di enti pubblici.

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È necessario sottolineare, infine, che l’ ultima tappa del percorso di ridimensionamento degli enti pubblici è oggi costituita dal massiccio programma di trasformazione e soppressione degli stessi, enunciato dalla legge finanziaria (L. 448/01) e proseguito con il d.l. 78/10 (da tale programma sono, però, esclusi gli enti pubblici che gestiscono la previdenza sociale a livello di primario interesse nazionale e quelli che sono essenziali per esigenze della difesa o della sicurezza pubblica.) §6. Le amministrazioni autonome e le agenzie La fuga dallo Stato ha avuto la sua massima espressione negli enti pubblici (che, inizialmente, erano pezzi di apparati ministeriali, poi resi autonomi e costituiti in persone giuridiche pubbliche), ma si è espressa anche nelle Aziende (o Amministrazioni autonome), create sia a livello statale che locale: si pensi, ad es., all’ Azienda delle Ferrovie dello Stato, all’ Azienda di Stato per i Servizi telefonici, all’ Azienda delle Poste italiane, all’ Azienda autonoma dei Monopoli di Stato, le quali sono sorte sul ceppo di un ministero, dal quale, poi, sono state rese autonome in quanto amministrate da un proprio consiglio di amministrazione; al ministero, però, sono rimaste legate, perché a capo del consiglio di amministrazione vi era istituzionalmente il ministro. Dal punto di vista giuridico, le Aziende continuano ad essere un organo del rispettivo ministero, ma godono di una legittimazione separata, in forza della quale esse stanno in giudizio come Aziende, hanno un proprio patrimonio e svolgono un’ attività, nelle forme del diritto privato, dalla quale ricavano le risorse necessarie alla loro sopravvivenza (ad es., vendita di biglietti ferroviari, dei francobolli e delle sigarette); il personale di queste Aziende, inoltre, è distinto da quello statale, è regolato dalla contrattazione collettiva ed ha proprie organizzazioni sindacali. Lo stesso schema lo ritroviamo anche a livello locale con le cd. aziende municipalizzate, istituite da comuni e province per la gestione di uno o più servizi pubblici locali (ad es., trasporti urbani, smaltimento rifiuti, distribuzione dell’ acqua e del gas, etc.): anche qui si tratta di organi del comune, dotati, però, di legittimazione separata.

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È necessario sottolineare, tuttavia, che il modello organizzativo appena analizzato è andato in crisi negli anni ’80; periodo nel quale alcune Aziende (in particolare, Ferrovie e Poste) sono state trasformate prima in enti pubblici economici e poi in s.p.a. in mano pubblica; mentre le aziende municipalizzate sono state trasformate prima in aziende speciali e poi in s.p.a. Va anche detto, però, che lo schema organizzativo in precedenza delineato non è stato del tutto accantonato: basti pensare, invero, che la legge delega (L. 59/97) sulla riorganizzazione dei ministeri ha conferito al Governo il compito di istituire apposite Agenzie (con a capo un direttore generale); in particolare, l’ Agenzia è una struttura che svolge un’ attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale ed è sottoposta ai poteri di indirizzo e di vigilanza del ministro competente. Il d.lgs. 300/99 ha previsto, in particolare, l’ istituzione di 11 agenzie, tra le quali ricordiamo: l’ agenzia industrie difesa, l’ agenzia per le normative e i controlli tecnici, l’ agenzia per la proprietà industriale e l’ agenzia per la protezione dell’ ambiente e per i servizi tecnici. §7. Gli enti pubblici economici Nel 1912, con L. n. 305, veniva istituito l’ INA (Istituto Nazionale per le Assicurazioni), avente lo scopo di gestire le assicurazioni-vita mediante la vendita di polizze (garantite dallo Stato), il cui gettito sarebbe stato destinato a scopi di interesse pubblico (in particolare: al finanziamento delle infrastrutture industriali); il nuovo ente era caratterizzato da strutture snelle, presenza di poche regole interne, utilizzo di tecnici e rapporti con il personale di tipo privatistico. Con l’ istituzione dell’ INA veniva, in questo modo, creato un prototipo che sarebbe stato replicato con grande successo durante il fascismo (a partire dagli anni ’30) e poi nell’ età repubblicana (a partire dagli anni ’50): l’ ente pubblico economico, ossia l’ ente pubblico che ha per oggetto esclusivo un’ attività economica. Ciò che caratterizza questo ente è, più precisamente, la sussistenza di un singolare connubio di attività economica (di un’ attività, cioè, priva del tratto autoritativo che contraddistingue gli enti pubblici) e di

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finalità pubblicistiche: sicché il fine pubblico dell’ ente viene perseguito attraverso un’ attività imprenditoriale, costituita essenzialmente da contratti, anziché da provvedimenti amministrativi (dal normale imprenditore, però, l’ ente pubblico economico si distingue perché non persegue fini di lucro o, più correttamente, persegue un lucro da devolvere a fini pubblici). L’ altra caratteristica degli enti pubblici economici è il fatto che essi non sono muniti di poteri amministrativi; la questione, per lungo tempo, si è posta, in particolare, in sede di delimitazione della giurisdizione sull’ impiego presso enti pubblici economici. Il legislatore fascista del 1938, infatti, sottraendo gli impiegati in questione al divieto di inquadramento sindacale (stabilito per tutti gli impiegati pubblici), li sottopose alle norme del libro del lavoro del codice civile; e qualche anno dopo, il codice di rito attribuì la competenza giurisdizionale sulle controversie con gli enti datori di lavoro al giudice ordinario. Con la caduta del regime fascista e, quindi, dell’ inquadramento sindacale dei lavoratori presso gli enti pubblici economici, nacque, però, un contrasto tra Consiglio di Stato e Corte di Cassazione: il primo, infatti, sosteneva che, con la caduta dell’ inquadramento sindacale (proprio del corporativismo fascista) fosse venuta meno la giurisdizione del giudice ordinario e che il relativo contenzioso fosse attratto nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; la Cassazione, invece, riteneva che la giurisdizione del giudice ordinario non dipendeva dall’ inquadramento sindacale degli enti economici, ma dal carattere imprenditoriale della loro attività. Quest’ ultima tesi, che si rivelò vincente, consentì di mettere a fuoco anche l’ altro aspetto fondamentale dell’ ente pubblico economico e cioè che gli atti organizzativi (ad es., i regolamenti organici, gli atti di approvazione delle piante organiche, la determinazione dei criteri per le promozioni) e gli atti di gestione del rapporto di lavoro non erano provvedimenti amministrativi (tali atti, infatti, ad avviso del Supremo Collegio, dovevano essere assimilati ai regolamenti di impresa delle imprese private). La disputa si è chiusa, sul piano legislativo, con la L. 533/73, che ha attribuito al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie di lavoro

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degli enti pubblici economici. Detto ciò, appare utile sottolineare che della figura in esame sono state proposte varie classificazioni; in particolare, dal punto di vista dei fini, gli enti pubblici economici si distinguono in: • enti di disciplina di settore, che sono chiamati a reggere e regolare un certo settore economico (Banca d’ Italia, IRI, ENI, EFIM); • enti imprenditoriali, che svolgono un’ attività economica di produzione di beni e servizi (Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Monte dei Paschi di Siena, ENEL). In base al criterio degli schemi organizzativi, invece, un posto a sé hanno occupato gli enti di gestione delle partecipazioni statali: IRI, ENI, EFIM, GEPI. a) la crisi del sistema degli enti pubblici economici Il sistema degli enti pubblici economici, negli anni ’80, è entrato in collisione con il diritto europeo; non a caso, i fondi di dotazione con i quali il Parlamento italiano aveva costantemente alimentato gli enti di gestione delle partecipazioni statali sono incappati nel divieto di aiuti di Stato, sancito dall’ art. 92 (oggi 87) del Trattato CE, ossia nel divieto per gli Stati membri di attribuire risorse che, favorendo talune imprese, potessero falsare la concorrenza. Basti osservare, invero, che i soldi che il contribuente italiano versava, ad es., a favore dell’ IRI o dell’ ENI (sottoforma di capitale di rischio) conferivano alle società partecipate un vantaggio competitivo rispetto alle altre imprese che operavano negli stessi settori, ma che non fruivano di finanziamento pubblico. Per risolvere questo problema, pertanto, è stato necessario procedere alla liberalizzazione di determinati settori, allo scopo di concedere alle imprese non finanziate dallo Stato di accedere ai relativi mercati, con un consequenziale ridimensionamento dell’ ente pubblico monopolista. Un’ operazione del genere è stata realizzata in Italia, in primis, attraverso la trasformazione degli enti pubblici economici in s.p.a. (cd. privatizzazione formale) e, successivamente, con la vendita, da parte dell’ azionista pubblico (lo Stato e, in particolare, il Ministero del Tesoro) del capitale della

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società interessata ai privati (cd. privatizzazione sostanziale). Si è cominciato con il settore del credito e la trasformazione degli istituti di credito di diritto pubblico in s.p.a. (1990) e si è continuato con gli enti di gestione delle partecipazioni statali (1992), con l’ ENEL, l’ IMI e l’ INA (1993-1995), con le Ferrovie (1995) e con l’ Ente Italiano Tabacchi (1998). b) le società in mano pubblica (o a partecipazione statale) A partire dagli anni ’20 del XX secolo, lo Stato, allo scopo di assicurare lo svolgimento di attività economiche ritenute di particolare rilievo, cominciò a costituire s.p.a. o ad acquisire quote di società esistenti: si pensi, ad es., all’ Azienda generale italiana petroli (AGIP, 1926), all’ Azienda nazionale idrogenerazione combustibili (ANIC, 1936), alla Ricerche minerali ferrosi s.p.a. (1939). Il primo massiccio intervento dello Stato in questa direzione avvenne negli anni ’30, per far fronte alla crisi economica mondiale del 1929; tale crisi, infatti, mise in enorme difficoltà il sistema bancario, perché le banche detenevano cospicui pacchetti azionari delle società che gestivano imprese manifatturiere e che erano affette da una crisi di sovraproduzione; il dissesto di queste ultime coinvolse inevitabilmente il sistema bancario (che veniva, così, esposto al rischio di non recuperare i crediti erogati alle imprese). Furono, pertanto, creati due enti pubblici, l’ Istituto Mobiliare Milano (IMI, 1931) e l’ Istituto per la ricostruzione industriale (IRI, 1933); l’ IRI, in particolare, acquistò le azioni detenute dalle banche e procedette al ripianamento graduale dei passivi delle società (di cui era diventato azionista) ovvero alla loro liquidazione o fusione. Da sottolineare, però, che l’ operazione aveva (o avrebbe dovuto avere) carattere transitorio; e, invece, nel 1937 l’ IRI fu trasformato in ente stabile con un proprio fondo di dotazione (l’ Istituto assunse, più precisamente, la forma di una società finanziaria, cioè di un ente di gestione, con un potere di direzione e di controllo su una gran quantità di imprese private, diventando, in tal modo, una delle maggiori potenze industriali del Paese). Ora, per ciascun gruppo di attività produttiva, l’ IRI costituì altrettante società finanziarie: telecomunicazioni (STET), siderurgia (Finsider),

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meccanica (Finmeccanica), elettricità (Finelettrica), cantieristica (Fincantieri), trasporto aereo (Alitalia), trasporto marittimo (Finmare), radiotelevisione (Rai), etc.: si trattava, in altri termini, di una struttura che aveva la forma dell’ ente pubblico, ma la sostanza di una società finanziaria (cioè, di una società che non svolge direttamente attività produttiva, ma detiene il capitale di imprese produttive). A questo modello fu ispirata la creazione, nel 1953, dell’ ENI (Ente Nazionale Idrocarburi), sotto il quale furono raggruppate le società a partecipazione pubblica operanti nel settore degli idrocarburi (AGIP, SNAM e ROMSA). In questa prospettiva, nel 1956 venne istituito il Ministero delle Partecipazioni statali e venne consacrato il principio che l’ azionariato di Stato non sarebbe stato più tale, perché (almeno formalmente) tutte le azioni detenute dallo Stato venivano trasferite agli enti di gestione (delle partecipazioni statali). La catena di comando, però, in questo modo, si allungava, dal momento che il Ministro delle Partecipazioni statali emanava direttive nei confronti degli enti di gestione, i quali, a loro volta, indirizzavano l’ azione delle società finanziarie a loro collegate; queste ultime, a loro volta, compivano le scelte fondamentali delle società operative del gruppo. Se a tutto questo si aggiunge che le imprese a partecipazione statale erano sottoposte ad una serie di vincoli politici (ad es., l’ obbligo di destinare una quota non inferiore al 40% degli investimenti al Mezzogiorno), che erano tenute ad operare con criteri di economicità da valutare, però, in relazione all’ intero gruppo di società controllate (il che presupponeva che singole società del gruppo potessero operare in perdita), che la ricapitalizzazione delle società partecipate veniva addossata al contribuente e che a molte di queste società venivano conferiti monopoli legali (ad es., le società autostrade del gruppo IRI), si capisce perché il sistema delle partecipazioni statali è andato alla deriva. Non solo, il sistema ha messo in evidenza, negli anni, molte deficienze, la principale delle quali è stata l’ eccessiva influenza dei partiti sulle imprese. Trattandosi, infatti, di imprese a partecipazione statale, i loro dirigenti

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venivano nominati dal Governo e, dato il sistema politico esistente in Italia, essi finivano per essere designati dai partiti di governo, sulla base di criteri di fedeltà più che di competenza. Accadeva, così, che i massimi managers dell’ IRI, dell’ ENI e delle società da loro controllate tendessero a rispondere del loro operato ai partiti che li avevano scelti e fossero indotti a prendere iniziative poco vantaggiose per le loro aziende. L’ impopolarità crescente del sistema ha trovato, poi, conferma nel referendum popolare del 1993, che ha portato alla soppressione del Ministero delle Partecipazioni statali; negli stessi anni, la trasformazione degli enti di gestione in s.p.a. ha posto, infine, le premesse per uno smantellamento del sistema e per la privatizzazione sostanziale. È necessario sottolineare comunque che l’ azionariato pubblico ha avuto manifestazioni anche a livello regionale e soprattutto a livello locale; non a caso, mentre il fenomeno veniva ridimensionato a livello statale, nella legge di riforma delle autonomie locali (L. 142/90) la costituzione di società a prevalente partecipazione pubblica locale (da parte di comuni e province) veniva indicata come uno degli strumenti ammessi per la gestione di servizi pubblici locali (accanto all’ azienda speciale e alla concessione); il d.lgs. 267/00 e la successiva L. 448/01 hanno, poi, accentuato il favor per questo strumento, prevedendo la possibilità di trasformare le aziende speciali in società di capitali. In questa prospettiva, possiamo, quindi, affermare che, a livello statale, oggi il quadro dell’ azionariato pubblico abbraccia essenzialmente s.p.a. a partecipazione pubblica a livello nazionale, nate dalla trasformazione degli enti di gestione, dei grandi enti pubblici economici nazionali (l’ INA, le Poste e le Ferrovie) e dell’ ente nazionalizzato (l’ ENEL): azionista unico o prevalente è il Ministro dell’ Economia e delle Finanze. A livello locale, invece, sono numerose le società di capitali con scopi di gestione dei servizi pubblici locali, partecipate dagli enti locali. Per quanto riguarda, invece, la natura giuridica delle società in mano pubblica, è bene specificare che l’ azionariato di Stato è stato sempre considerato come uno degli strumenti del diritto privato per la cura di interessi pubblici; tale conclusione è stata fondata anche sul fatto che il

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codice civile, avendo dedicando al fenomeno in esame solo tre norme (art. 2458-2460) avrebbe, con ciò, inteso assoggettare le società in mano pubblica alla medesima disciplina applicabile alle società in mano privata (in tal senso Galgano). Questa conclusione, tuttavia, non è stata accolta dalla giurisprudenza amministrativa: ed infatti, il Consiglio di Stato, nelle pronunce del 1998, del 2001 e del 2002, concernenti ENEL S.p.a. e Poste italiane S.p.a., ha tenuto a precisare che queste società conservano natura pubblicistica sia perché continuano ad essere affidatari di rilevanti interessi pubblici, sia perché l’ unico azionista (o l’ azionista di maggioranza), il Ministro dell’ Economia e delle Finanze, è tenuto ad indirizzare le attività sociali a fini di interesse pubblico. §8. Le autorità amministrative indipendenti A partire dagli anni ’90 si profila un nuovo schema di organizzazione amministrativa: l’ autorità amministrativa indipendente (o autorità di regolazione). Si tratta, in particolare, di un’ autorità rivolta a garantire il funzionamento delle regole del mercato (il mercato in generale ovvero specifici mercati, che vengono aperti alla concorrenza dopo essere stati, per decenni, strutturati in termini di monopolio pubblico). Queste autorità sono poste al di fuori dell’ organizzazione dei ministeri e non sono formate da funzionari dello Stato, ma da esperti qualificati (in tal modo, si è voluto affidare il controllo in determinati settori ad organi che diano garanzie di indipendenza e di imparzialità sia rispetto ai vari interessi privati in gioco, sia nei confronti dello stesso potere politico). Tra le più importanti autorità amministrative indipendenti ricordiamo, anzitutto, l’ AGCM (Autorità garante della concorrenza e del mercato: L. 287/90). Essa ha il compito di vigilare sull’ osservanza, da parte delle imprese, del divieto di intese restrittive della concorrenza, quali, ad es., la fissazione dei prezzi di acquisto o di vendita, la ripartizione dei mercati e l’ abuso di posizioni dominanti (a tal fine, l’ Autorità dispone di poteri di indagine, di diffida e di poteri sanzionatori). L’ AGCM si compone di quattro membri (nominati dai presidenti di Senato e Camera), che durano in carica

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sette anni. Lo schema appena delineato lo ritroviamo, grosso modo, per le altre autorità poste a presidio dei singoli mercati: la CONSOB, l’ ISVAP e la Banca d’ Italia. In particolare, alla CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa, istituita nel 1947, ma successivamente trasformata, e i cui membri sono nominati dal Governo) è affidata la tutela degli investitori, l’ efficienza e la trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali: un mercato efficiente dei prodotti finanziari richiede, infatti, che gli investitori siano motivati dalla stabilità delle quotazioni e dalla produzione di utili; e tale risultato può essere conseguito solo se agli strumenti di controllo interno al diritto societario (azioni di responsabilità e poteri amministrativi dei soci) vengono affiancati strumenti di controllo esterno. Per quanto riguarda l’ ISVAP (Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni private, istituito nel 1982 e il cui presidente è nominato dal Governo), va detto che anch’ esso opera a tutela dei risparmiatori (più precisamente, a tutela di coloro che affidano i loro risparmi a imprese assicurative): gli interessi individuali e collettivi che sono coinvolti nel mercato delle assicurazioni giustificano, infatti, un controllo pubblico sia sul contratto, perché sia temperato lo squilibrio del potere negoziale delle parti, sia sull’ impresa di assicurazione, perché ne siano garantite la stabilità e la solvibilità (necessarie per il soddisfacimento degli impegni assunti verso gli assicurati). Il prototipo delle autorità indipendenti è, però, la Banca d’ Italia: nata nel 1893 dalla fusione della Banca Nazionale del Regno, della Banca Nazionale Toscana e della Banca Toscana di credito, la Banca d’ Italia ricevette nel 1926 il potere di battere moneta in via esclusiva; con la riforma del 1936 fu trasformata da s.p.a. in ente di diritto pubblico con capitale le cui quote potevano appartenere soltanto a casse di risparmio, istituti di credito e di diritto pubblico; questo assetto pubblicistico fu completato con l’ istituzione del Comitato dei ministri, presieduto dal Capo del Governo, e dell’ Ispettorato per la difesa del risparmio e per l’ esercizio del credito, organo del Ministero delle Finanze (il raccordo tra le tre

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strutture era, poi, assicurato dal Governatore della Banca d’ Italia, il quale presiedeva la Banca e faceva parte sia del Comitato dei ministri che dell’ Ispettorato). Soppresso nel 1944 l’ Ispettorato (le sue funzioni furono trasferite alla Banca) e modificata la composizione del Comitato dei ministri (ne divenne presidente il Ministro del Tesoro), il sistema bancario è stato retto, fino alla riforma del 1993, da una diarchia (Comitato dei ministri e Banca d’ Italia). Nel tempo la Banca d’ Italia ha esercitato essenzialmente due funzioni: la funzione monetaria e la funzione di vigilanza sulle banche e sugli intermediari finanziari in genere. Più precisamente, la prima funzione include il potere di emettere carta moneta, di stabilire il tasso ufficiale di sconto e di disciplinare il sistema dei pagamenti [va detto, però, che con il Trattato di Maastricht del 1992 tali funzioni sono state trasferite alla BCE (Banca Centrale Europea)]. La seconda funzione della Banca d’ Italia è, come detto, quella di vigilare sulle banche e sugli altri operatori finanziari, sotto la direzione del Comitato interministeriale per il credito ed il risparmio (CICR), di cui fa parte lo stesso Governatore: la vigilanza, più precisamente, è rivolta a garantire la concorrenza tra le imprese bancarie. Vi sono, poi, due autorità indipendenti preposte a settori monopolistici: si tratta, in particolare, dell’ Autorità per l’ energia elettrica ed il gas e dell’ Autorità per le comunicazioni. La prima, creata nel 1995, ha la funzione di promuovere la concorrenza e l’ efficienza nei due settori energetici (elettricità e gas). La seconda, istituita nel 1997, promuove, invece, la concorrenza e l’ efficienza nei servizi delle telecomunicazioni. Un posto a sé, nel panorama delle autorità indipendenti, occupa, infine, il Garante per la protezione dei dati personali (1996), che si compone di quattro membri, eletti per metà dal Senato e per metà dalla Camera e che durano in carico quattro anni: il compito di tale autorità è quello di verificare che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti, delle libertà fondamentali, della dignità delle persone fisiche, con particolare riguardo alla riservatezza e all’ identità personale.

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§9. Gli strumenti di raccordo tra le amministrazioni L’ organizzazione amministrativa, a causa della sua complessità, esige degli strumenti di raccordo (tra enti diversi, tra organi di uno stesso ente, tra organi e meri uffici di uno stesso ente, tra organi di un ente e organi di un altro ente). Tali strumenti sono: il procedimento, gli accordi, la gerarchia, la direzione, la sostituzione ed i controlli. a) il procedimento Il primo tra gli strumenti di raccordo è il procedimento, il quale rappresenta, per un verso, il luogo in cui i portatori di interessi pubblici diversi fanno sentire la loro voce ed esprimono le loro istanze in relazione ad un progetto; per altro verso, esso rappresenta la sequenza nella quale i singoli interventi sono ordinati sulla base di relazioni predefinite (così, ad es., la legislazione urbanistica prevede che la giunta comunale conferisca l’ incarico della relazione del piano regolatore generale; che il consiglio comunale adotti il piano predisposto dal gruppo di progettazione e prenda posizione sulle osservazioni dei privati; e che la regione adotti il piano, previo parere di un organo di consulenza). Come si può notare, la molteplicità di queste relazioni può rendere vulnerabile il provvedimento conclusivo (che può risultare, ad es., illegittimo), ma soprattutto allunga i tempi per la conclusione del procedimento. Per rimediare a questi inconvenienti la legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90) ha introdotto alcuni correttivi: innanzitutto, la legge stabilisce un termine per l’ esercizio della funzione consultiva (45 gg.); pertanto, una volta che sia decorso infruttuosamente tale termine, l’ amministrazione che ha chiesto il parere può procedere come se lo avesse acquisito. In secondo luogo, è prevista la possibilità di indire una conferenza di servizi qualora si debbano valutare contestualmente vari interessi pubblici o quando sia in gioco la programmazione di opere pubbliche che richieda l’ intervento di più amministrazioni (nella conferenza di servizi gli atti, invece di essere emessi in sequenza, sono presi in sede collegiale). Infine, è previsto (per le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta ed altri atti

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del genere), che, decorso un certo termine, essi si considerano rilasciati: il silenzio dell’ amministrazione (che dovrebbe provvedere) viene, così, equiparato ad un atto di assenso. Tale meccanismo comporta una precoce conclusione del procedimento [questo, tuttavia, resta aperto nei casi in cui l’ attività privata sia subordinata ad un provvedimento espresso (ad es. licenza) che tarda a venire]. b) gli accordi Per affrontare problemi comuni le amministrazioni hanno sempre fatto ricorso ad accordi; questi vengono, il più delle volte, conclusi allo scopo di vincolare l’ esercizio delle rispettive competenze, di predeterminare i tempi entro i quali le stesse devono essere esercitate, di quantificare i rispettivi impegni finanziari e di stabilire le conseguenze degli eventuali inadempimenti. In questo modo, i piccoli comuni hanno realizzato servizi che da soli non sarebbero stati in grado di rendere (si pensi, ad es., al servizio veterinario o al servizio di trasporto urbano); allo stesso modo, gli ospedali pubblici e le cliniche universitarie hanno razionalizzato il complesso delle prestazioni sanitarie (ad es., fornendo, i primi, le strutture ed il personale paramedico; le seconde, il personale medico). È bene precisare, però, che il problema del coordinamento dell’ azione amministrativa è particolarmente complesso quando le attribuzioni sono, per un verso, costituzionalmente garantite (Stato, regioni, province autonome e, indirettamente, enti locali), ma, per altro verso, tendono a sovrapporsi (e ciò accade ogni volta che tali attribuzioni sono distinte non in base ad un criterio materiale, ma spaziale): si pensi, ad es., alla materia ambientale, in cui tutti gli enti territoriali, dallo Stato al comune, sono competenti. In questa prospettiva, la legislazione ha dovuto affrontare il problema dell’ asimmetria del rapporto tra un unico Stato, 20 regioni e più di 8000 enti locali. Tale problema è stato risolto con il d.lgs. 281/97, con il quale è stata istituita la cd. Conferenza Stato-regioni: e ciò al fine di garantire la partecipazione delle regioni e delle province autonome di Trento e di Bolzano a tutti i processi decisionali di interesse regionale, interregionale

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ed infraregionale. La Conferenza deve essere sentita in tutti i casi in cui la legislazione preveda un’ intesa tra Stato e regioni; qualora, però, l’ intesa non venga raggiunta, il Consiglio dei ministri può provvedere, in via autonoma, con deliberazione motivata (da ciò si intuisce che l’ intesa si configura come un parere obbligatorio, ma non vincolante). Diverso dall’ intesa è, invece, l’ accordo, il quale presuppone la convergenza del Governo e di tutte le regioni e province autonome su un unico testo (esso viene perfezionato al fine di coordinare l’ esercizio delle rispettive competenze e svolgere attività di interesse comune). Infine, le relazioni tra lo Stato e gli enti locali sono intrattenute nell’ ambito della Conferenza Stato-città ed autonomie locali: la conferenza è presieduta dal Presidente del Consiglio dei ministri e vi partecipano, da un lato, alcuni ministri (economia, infrastrutture, sanità) e, dall’ altro, i presidenti dell’ ANCI (Associazione nazionale comuni italiani), dell’ UPI (Unione delle province d’ Italia) e dell’ UNCEM (Unione nazionale comuni, comunità ed enti montani), 14 sindaci designati dall’ ANCI e 6 presidenti di provincia designati dall’ UPI. c) la gerarchia La gerarchia è una relazione che accomuna organizzazioni pubbliche e organizzazioni private: essa designa il diritto di chi riveste una qualifica superiore di comandare colui il quale, nell’ ambito dello stesso ufficio o di un ufficio diverso (ma collegato), riveste una qualifica inferiore (cd. gerarchia di persone). Si parla, però, anche di gerarchia di uffici (o di organi): in questo senso, ad es., il Ministro dell’ Interno è sovraordinato alla prefettura. La gerarchia è una relazione interna all’ ente (o all’ apparato ministeriale); essa, pur presupponendo una distinzione di competenze (tra organi) o di compiti (tra uffici o persone), comporta una certa commistione, che si manifesta: con il potere di sostituzione (che il superiore ha nei confronti dell’ inferiore); con il potere di avocazione (spettante al superiore) di un certo affare rientrante nei compiti dell’ inferiore; e con il potere (del superiore) di annullare atti posti in essere dall’ inferiore e di decidere i

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ricorsi gerarchici proposti contro atti dell’ inferiore. Ovviamente, la gerarchia, per definizione, è una relazione alla quale sfuggono gli organi e gli uffici collegiali, i quali, infatti, vengono istituiti affinché la decisione si formi al loro interno attraverso il dialogo (prima) ed il voto (poi): ed invero, la ratio della collegialità verrebbe meno se, alla volontà del collegio, un superiore gerarchico potesse sostituire la sua volontà. La gerarchia ha un limite: qualora, infatti, l’ ordine impartito dal superiore gerarchico dovesse apparire illegittimo, l’ inferiore deve farne rimostranza, spiegandone le ragioni; è tenuto, però, ad obbedire se l’ ordine viene rinnovato per iscritto, a meno che l’ atto non sia vietato dalla legge penale. d) la direzione Diversa dalla gerarchia è la direzione: essa si esprime non in ordini, ma in direttive o atti di indirizzo, ossia in atti che vincolano nel fine, ma non nei mezzi per raggiungerlo (questi ultimi, infatti, sono rimessi al soggetto che è destinatario della direttiva). La direttiva è oggi essenzialmente una relazione interna allo stesso apparato: più precisamente, è la relazione che intercorre tra l’ organo politico e la dirigenza burocratica, così come si desume dall’ art. 4 d.lgs. 165/01, il quale, infatti, stabilisce che gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi e i programmi da attuare; ai dirigenti spetta l’ adozione degli atti e provvedimenti, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa. A differenza della gerarchia, inoltre, colui che è soggetto alla direttiva ha anche un limitato potere di disattenderla, purché ne enunci le ragioni (ciò che, appunto, non è consentito a colui che è sottoposto ad un potere di gerarchia, tranne nei casi di ordine illegittimo); quanto detto si desume dalla citata disciplina del rapporto tra organo politico e dirigente: infatti, la direttiva, che l’ organo politico rivolge ai dirigenti, è anche frutto della proposta di questi ultimi, i quali concorrono alla formazione dell’ atto. e) la sostituzione

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Vi sono, infine, dei casi in cui l’ esercizio dei poteri amministrativi (in genere, doveroso) è particolarmente serio, perché ad esso corrisponde una pretesa che non è del solo cittadino, ma anche di altri soggetti (ad es., l’ Unione europea o uno Stato estero con il quale è stato stipulato un Trattato). In questi casi, se l’ ente munito di attribuzioni (o l’ organo dotato di competenze) risultasse inattivo e contro tale inattività non fosse previsto alcun rimedio potrebbero generarsi inadempimenti ad obblighi internazionali o inerzie pericolose per gli interessi pubblici coinvolti. Il meccanismo che è stato escogitato per evitare questa paralisi è quello della sostituzione: sicché l’ inerzia di chi sarebbe tenuto a provvedere costituisce (in certi casi, predeterminati dalla legge) il presupposto dell’ intervento sostitutivo di un organo o di un ente diverso (la sostituzione, ad es., è prevista dalla Costituzione per l’ ipotesi nella quale le regioni, nelle materie di loro competenza, omettano di provvedere all’ attuazione o all’ esecuzione degli accordi internazionali; in questi casi, lo Stato, attraverso il Governo, può sostituirsi alla regione inadempiente). f) i controlli Il controllo è una tipica relazione tra figure soggettive: tra organi di uno stesso ente, tra organi di enti diversi, tra uffici diversi di uno stesso ente. Esso presuppone la sussistenza di un parametro alla stregua del quale valutare l’ atto o l’ attività altrui: nella storia delle amministrazioni, il parametro prevalentemente utilizzato è stato la legge (cd. controllo di legittimità). Non a caso, la Costituzione italiana (prima della modifica apportata al Titolo V nel 2001) prevedeva un controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, affidato alla Corte dei Conti (art. 100); un controllo di legittimità sugli atti amministrativi della regione, affidato ad un organo dello Stato (art. 125); ed un controllo di legittimità sugli atti delle province, dei comuni e degli altri enti locali, affidato a un organo delle regioni (art. 130). I suddetti controlli venivano definiti preventivi, perché il controllo veniva esercitato prima che l’ atto controllato potesse produrre i suoi effetti. Negli anni ‘90, però, il numero dei controlli ha cominciato a subire una

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drastica riduzione: ed infatti, mentre in passato tutti i decreti ministeriali (qualunque ne fosse l’ oggetto) erano sottoposti al controllo di legittimità della Corte dei Conti, dal ‘94 il controllo è stato limitato ai provvedimenti emanati a seguito di deliberazione del Consiglio dei Ministri, agli atti normativi a rilevanza esterna, ai provvedimenti di disposizione del demanio e del patrimonio e ad altri pochi atti. Nel 1997 sono stati, poi, soppressi i controlli statali sugli atti amministrativi delle regioni; mentre i controlli sugli enti locali sono stati ridotti. Con la riforma del Titolo V della Costituzione sono stati, infine, abrogati gli artt. 125, co. 1 e 130 Cost., che li prevedevano entrambi. Da alcuni anni l’ attenzione si è, pertanto, spostata dai controlli sui singoli atti al controllo sull’ attività nel suo complesso: in particolare, è stato sostenuto che se l’ attività amministrativa è retta da criteri di efficacia e di economicità è logico che anche il controllo si ispiri agli stessi canoni (e non più soltanto al canone della legittimità). Un giudizio di economicità e di efficacia, tuttavia, non può essere emesso in relazione al singolo atto, ma in relazione ad un’ attività complessiva, considerata in un arco temporale predefinito (un anno, sei mesi, etc.). La svolta si è manifestata, in primo luogo, negli enti locali: la L. 241/90 ha, infatti, introdotto nei comuni e nelle province la revisione economicofinanziaria, affidandola ad un collegio di revisori; successivamente (nel 1995), è stato introdotto il controllo di gestione. La materia dei controlli è stata, poi, disciplinata in termini generali, per tutte le amministrazioni, dal d.lgs. 286/1999: si precisa, innanzitutto, che il controllo in esame è interno: interno, cioè, a ciascuna amministrazione; a sua volta, il controllo interno viene distinto in controllo di regolarità amministrativa e contabile, controllo di gestione (il quale investe il rapporto tra costi e risultati) e controllo strategico (che riguarda, invece, il rapporto tra obiettivi e risultati). Da quanto detto si evince con chiarezza che il punto di riferimento dei controlli interni è il principio costituzionale del buon andamento (art. 97 Cost.). Nel sistema dei controlli interni occupa, invece, un posto a sé la valutazione dei dirigenti (ossia dei soggetti responsabili della gestione e dei

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risultati): la valutazione può sfociare in misure correttive, come il passaggio ad altro incarico o la revoca dello stesso incarico. È necessario sottolineare, infine, che la Costituzione indica anche un terzo tipo di controllo: ai sensi, infatti, dell’ art. 100, la Corte dei Conti esercita anche il controllo successivo sulla gestione del bilancio dello Stato e partecipa al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria (tale controllo tende, in particolare, ad impedire lo sperpero di risorse che sono state acquisite quasi interamente attraverso il prelievo tributario). §10. Le risorse umane (il rapporto di lavoro con le P.A.) Le amministrazioni pubbliche (come quelle private) funzionano con l’ apporto di pochi amministratori e molti lavoratori dipendenti; di conseguenza, assume particolare importanza il rapporto che si insatura tra ciascuna pubblica amministrazione ed il personale dipendente. Al riguardo, va detto che la nostra legislazione si è orientata verso un impiego pubblico con un assetto distinto da quello del rapporto di lavoro privato: è in questa prospettiva che, nel 1957, è stato approvato uno statuto degli impiegati civili dello Stato (D.P.R. 3/57) del tutto peculiare rispetto a quello che, nel 1970, sarebbe stato lo statuto dei lavoratori del settore privato (L. 300/70). In realtà, il processo di pubblicizzazione può dirsi concluso già nel 1923, quando, con r.d. 2840/23, fu attribuita al Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, una competenza esclusiva in materia di pubblico impiego (l’ impiego pubblico finì, così, per essere trattato con le categorie proprie del diritto e del processo amministrativo). In tal modo, il rapporto di pubblico impiego non veniva costituito da un contratto (come il rapporto di lavoro privato), ma da un atto unilaterale di nomina (quindi, da un provvedimento amministrativo), rispetto al quale l’ accettazione del privato fungeva da mera condizione di efficacia. È necessario sottolineare, tra l’ altro, che secondo parte della dottrina, la natura pubblicistica del rapporto di pubblico impiego sarebbe stata rafforzata dalla Costituzione: quest’ ultima, infatti, disponendo una riserva

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di legge relativa in materia di organizzazione dei pubblici uffici, richiederebbe, per l’ impiego pubblico, una disciplina per legge o per regolamento. Tale assunto, però, è stato criticato da altra parte della dottrina sulla base della distinzione tra organizzazione (in astratto) dei pubblici uffici e (concreta) provvista degli stessi; e, più in generale, sulla base della distinzione tra organizzazione degli uffici ed organizzazione del lavoro (sicché solo l’ organizzazione degli uffici formerebbe oggetto di riserva di legge, mentre l’ organizzazione del lavoro non sarebbe diversa dall’ organizzazione del lavoro privato e, al pari di questa, potrebbe essere sottoposta a disciplina contrattuale). L’ assetto vigente, quale risulta dal d.lgs. 29/93 e dalle successive modifiche (poi confluite nel d.lgs. 165/01) è, invece, il seguente: ciascuna P.A., in virtù dei princìpi generali fissati dalla legge, adotta regolamenti ed atti generali con i quali vengono fissate le linee fondamentali di organizzazione degli uffici, vengono individuati gli uffici con maggiore rilevanza, stabilite le relative modalità di copertura e determinate le dotazioni organiche complessive (ossia il fabbisogno di personale). Nel quadro di tali atti (che hanno natura di provvedimenti amministrativi), la gestione dei rapporti di lavoro viene fatta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro (vale a dire, con un atto di diritto privato): così, ad es., è un provvedimento amministrativo quello con il quale un ente determina il proprio organico; è, invece, un atto di diritto privato (contratto) quello con il quale un lavoratore è chiamato a ricoprire un posto o quello con il quale un lavoratore è trasferito d’ ufficio o destinato ad altre mansioni. In dipendenza della privatizzazione del rapporto di impiego cambia, ovviamente, anche il sistema delle fonti: diritti e doveri delle parti non sono più stabiliti da leggi e regolamenti amministrativi, ma trovano la loro fonte nel libro del lavoro del codice civile, nelle leggi sul rapporto di lavoro subordinato nell’ impresa e nei contratti collettivi di lavoro. Questi ultimi, in particolare, sono stipulati, per singoli comparti (ad es., ministeri, regioni, enti locali, etc.), dalle confederazioni sindacali e dall’ ARAN (Agenzia per la rappresentanza negoziale delle P.A.); la stipulazione, però, deve essere

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preceduta dal parere favorevole del Comitato del settore interessato e dall’ attestazione della Corte dei Conti. Detto ciò, è necessario comunque sottolineare che l’ assimilazione dell’ impiego presso enti pubblici all’ impiego privato conosce dei limiti. Infatti, occorre osservare, innanzitutto, che il reclutamento del personale avviene sulla base di piante organiche approvate, nell’ amministrazione dello Stato, con regolamenti deliberati dal Consiglio dei ministri, su proposta del ministro competente. Più precisamente, la pianta organica serve a commisurare la quantità di personale al fabbisogno: ciò significa, quindi, che l’ assunzione di dipendenti al di fuori dell’ organico è nulla, con conseguente applicazione dell’ art. 2126 c.c. (prestazione di fatto con violazione di legge). In secondo luogo, il personale viene assunto con procedure selettive, volte ad accertare la professionalità richiesta e tali da garantire l’ accesso dall’ esterno; come si può notare, viene qui in rilievo il principio del pubblico concorso (principio che trova applicazione sia per l’ accesso alle qualifiche iniziali, che per l’ inquadramento nelle qualifiche superiori). Una terza rilevante differenza riguarda, poi, la disciplina delle mansioni superiori: occorre evidenziare, infatti, che il lavoratore privato assegnato a mansioni superiori a quelle della qualifica ha diritto al mantenimento corrispondente e l’ assegnazione stessa diventa definitiva dopo che siano trascorsi 3 mesi (a meno che la stessa non sia disposta per sostituire un lavoratore assente). Il d.lgs. 165/01 stabilisce, invece, un limite temporale all’ assegnazione del dipendente a mansioni superiori (6 mesi) e individua i presupposti in presenza dei quali l’ operazione è ammessa (vacanza di un posto in organico o sostituzione di altro dipendente assente con diritto alla conservazione del posto); il lavoratore adibito a mansioni superiori ha diritto al trattamento economico corrispondente, ma non all’ inquadramento nella qualifica superiore (e ciò perché il principio del pubblico concorso verrebbe eluso se il dipendente potesse accedere alla qualifica superiore in conseguenza del solo esercizio di fatto delle mansioni corrispondenti). In ogni caso, è bene precisare che, in determinati settori, viene fatto salvo l’ impiego pubblico tradizionale, retto da leggi e regolamenti; l’ impiego in

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esame concerne i militari, la polizia, i diplomatici, i magistrati, i professori e ricercatori universitari (in quest’ ambito, la giurisdizione rimane al giudice amministrativo). Il d.lgs. 165/01 è stato, però, modificato in maniera incisiva dal d.lgs. 150/09: attraverso tale decreto, in particolare, la materia disciplinare, che era stata devoluta alla contrattazione collettiva (con palese beneficio per i dipendenti pubblici) viene restituita alla legge; vengono, poi, registrati termini e forme di provvedimento disciplinare, i rapporti con il procedimento penale, la rilevanza delle false attestazioni o certificazioni, i controlli sulle assenze e viene espressamente previsto il licenziamento disciplinare (come fattispecie diversa dal licenziamento per giusta causa o giustificato motivo). Viene, inoltre, rafforzato il controllo pubblico sul procedimento di formazione del contratto collettivo nazionale di lavoro [attraverso la previsione di poteri di indirizzo sull’ ARAN (da parte di comitati di settore) e poteri di indagine della Corte dei Conti]. §11. Le risorse materiali (i beni pubblici) Ogni amministrazione pubblica è, a suo modo, un’ impresa: un’ attività organizzata per la produzione di beni e servizi; è naturale, quindi, che ciascuna amministrazione si avvalga, per lo svolgimento dei suoi compiti, oltre che delle risorse umane (costituite dai lavoratori dipendenti), anche delle risorse materiali organizzate in vista di quello scopo [tali risorse, costituite da beni propri o da beni sui quali l’ amministrazione vanta un titolo giuridico diverso dalla proprietà (ad es., l’ edificio preso in locazione e destinato a scuola) devono avere un tratto comune, vale a dire: la destinazione a pubblico servizio]. Ora, ciò che distingue i beni utilizzati dall’ amministrazione per lo svolgimento dei suoi compiti dai beni che formano l’ azienda dell’ imprenditore privato è il fatto che ciascuno di questi beni è sottoposto ad un regime giuridico speciale, diverso (sotto qualche aspetto) dal regime della proprietà, così come delineato dagli artt. 832 e ss. c.c. Secondo una classificazione formale, possono distinguersi, in particolare, tre tipologie di beni pubblici: il demanio, il patrimonio indisponibile ed il patrimonio disponibile.

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I beni che fanno parte del demanio pubblico sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti a favore di terzi, se non nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi che li riguardano. La tutela di detti beni spetta all’ autorità amministrativa, la quale può anche avvalersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso (art. 823 c.c.). I beni che fanno parte del patrimonio indisponibile (nella cui categoria rientrano anche tutti i beni destinati ad un pubblico servizio, ex art. 826 c.c.) non possono essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano (art. 828 c.c.). I beni del patrimonio disponibile sono, invece, quelli che appartengono allo Stato e agli altri enti pubblici come a qualsiasi proprietario (essi sono semplicemente destinati alla produzione di un reddito e sottoposti alle norme civilistiche sulla proprietà). Nella prospettiva dell’ organizzazione amministrativa (fatta di risorse umane e materiali) assumono un rilievo particolare i beni pubblici che sono tali per destinazione della P.A.; al riguardo, è importante sottolineare che anche se il concetto di destinazione è contemplato in via generale per il solo patrimonio indisponibile (ad eccezione delle foreste e dei beni archeologici), esso concerne anche beni demaniali (ad es., i porti, le opere destinate alla difesa nazionale, le strade, le autostrade, le strade ferrate e gli acquedotti). Ora, la destinazione (ad ufficio o a servizio pubblico) presuppone un’ attività di costruzione a cura della stessa amministrazione (attività che, invece, manca nel cd. demanio naturale, vale a dire nei beni pubblici per natura, quali, ad es., il lido, la spiaggia, il fiume, il torrente, etc.); alla costruzione segue l’ atto di destinazione, che può concretarsi anche in meri fatti materiali (ad es., l’ apertura della strada al traffico). Il servizio pubblico, cui il bene è destinato, può essere diretto [può, cioè, coincidere con le modalità d’ uso del bene (ad es., strade pubbliche, ferrovie, acquedotti, etc.)] o indiretto (in questo secondo caso, il bene è necessario affinché il servizio possa essere esercitato, ma non costituisce l’ oggetto proprio del servizio: ad es., l’ ufficio comunale, in cui è ubicato il servizio anagrafe, serve al pubblico che, tuttavia, si attende una

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prestazione non da quella cosa, ma dal servizio che in quell’ immobile viene prestato). Simmetrica alla destinazione è la revoca o la cessazione della destinazione: così, ad es., l’ immobile destinato a scuola cessa di assolvere alla sua funzione una volta che la scuola è trasferita in un nuovo edificio (cessata la destinazione, il bene patrimoniale indisponibile transita nel patrimonio disponibile). Lo stesso discorso vale per i beni demaniali a destinazione amministrativa: si pensi, ad es., ad un tronco stradale che viene abbandonato perché viene realizzata una variante più comoda e meno pericolosa o ad un binario ferroviario a scartamento ridotto che viene dismesso. L’ altra grande categoria di beni pubblici (enucleata dagli elenchi dei beni demaniali e patrimoniali indisponibili) è quella dei beni riservati, ossia dei beni che non possono appartenere se non allo Stato (e agli altri enti territoriali): il demanio marittimo (lido, spiagge, rade), il demanio idrico (fiumi, torrenti, laghi, acque pubbliche) e le miniere. La riserva è volta ad impedire che del bene si approprino soggetti privati; e, quindi, ad assicurare l’ uso della generalità delle persone [è necessario sottolineare, però, che l’ uso generale può trovare dei limiti per ragioni di polizia del bene, qualora diventi impossibile il godimento simultaneo di tutti gli aspiranti (si pensi, ad es., alla chiusura al traffico di alcune zone cittadine o all’ ingresso al museo consentito a gruppi di persone non superiori a 15)].

a) la trasformazione nel regime dei beni pubblici A partire dagli anni ’90 sono state introdotte molte trasformazioni nel regime dei beni pubblici. Volendo schematizzarle, possono essere prospettate le seguenti evenienze. • L’ art. 822 cpv. c.c. stabilisce che fanno parte del demanio pubblico, se appartengono allo Stato, le strade, le autostrade e le strade ferrate; tuttavia, con la trasformazione dell’ Azienda Autonoma delle ferrovie dello Stato in ente pubblico economico e dell’ ente pubblico economico in s.p.a.

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(e, quindi, con il trasferimento dei beni al nuovo soggetto giuridico) è venuto meno il presupposto della demanialità pubblica, cioè l’appartenenza dei beni allo Stato. È necessario sottolineare, però, che nonostante la fuoriuscita di molti beni dal demanio e dal patrimonio indisponibile statale, rimane in vita il vincolo di destinazione. • In alcuni casi, enti pubblici sono stati, per legge, trasformati in persone giuridiche private (associazioni e fondazioni), essendosi ritenuto che per il loro funzionamento non fosse necessaria la personalità di diritto pubblico; in tal modo, i beni, la cui gestione o conservazione costituiva lo scopo fondamentale dell’ ente pubblico, passano al nuovo soggetto privato (e, quindi, perdono la loro natura di beni patrimoniali indisponibili), ma permangono destinati a tale finalità. • In altri casi, invece, oggetto della misura legislativa è proprio il bene, che viene conferito dallo Stato ad una s.p.a., creata proprio allo scopo di gestire, valorizzare e commercializzare i beni statali, sia patrimoniali (disponibili ed indisponibili) che demaniali. A questo scopo sono state create la Patrimonio s.p.a. e la Infrastrutture s.p.a., il capitale delle quali è detenuto interamente dal Ministero dell’ Economia e delle Finanze e dalla Cassa Depositi e Prestiti: l’ obiettivo è quello di gestire il patrimonio con criteri imprenditoriali e conseguire l’ utilizzazione economica delle infrastrutture conferite all’ omonima società. I beni della Patrimonio s.p.a. possono anche essere venduti, previa cartolarizzazione (in tal modo, questi beni perdono sia il vincolo di destinazione, che la connotazione pubblicistica); la cartolarizzazione viene effettuata a mezzo di società intermediarie che pagano subito allo Stato il prezzo iniziale del trasferimento per rivendere poi il bene a terzi. • Il d.lgs. 12/08 ha, poi, autorizzato le regioni e gli enti locali a redigere un elenco dei beni immobili di loro proprietà, non strumentali all’ esercizio delle funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione o di dismissione (in tal modo, i beni vengono a far parte del patrimonio disponibile). • La legge delega in materia di federalismo fiscale (L. 42/09) ha previsto, da ultimo, l’ attribuzione (a titolo non oneroso) ad ogni livello di governo di distinte tipologie di beni pubblici statali.

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§12. La finanza pubblica ed il bilancio dello Stato Entrate e spese pubbliche sono considerate separatamente dalla nostra Carta Costituzionale. In particolare, per quanto riguarda le entrate, la Costituzione distingue le entrate patrimoniali (che lo Stato e gli altri enti pubblici ricavano dalla loro proprietà) dalle entrate tributarie. Le entrate dello Stato sono ripartite in: • titoli, distinti a seconda che abbiano natura tributaria, extratributaria o provengano dall’ alienazione dei beni patrimoniali, dalla riscossione di crediti o dall’ accensione di prestiti; • ricorrenti o non ricorrenti, a seconda che la loro acquisizione sia prevista a regime ovvero sia limitata ad uno o più esercizi; • tipologie: per le entrate tributarie si indicano i tributi più importanti (IRE, IRES, IVA); per i restanti titoli è indicata, invece, la tipologia del provento (redditi da capitale o proventi da servizi); • categorie, a seconda che l’ entrata derivi dall’ attività ordinaria di gestione o dall’ attività di controllo (ad es., recupero di imposte evase); • capitoli, eventualmente suddivisi in articoli. Per le spese pubbliche, invece, non esiste una disciplina costituzionale specifica; esistono, però, numerose norme della Costituzione che, addossando alla Repubblica (Stato, regioni ed enti pubblici) compiti che hanno un costo (ad es., cure gratuite agli indigenti o assistenza agli inabili al lavoro, che sono privi di mezzi), rendono obbligate certe spese pubbliche. Le spese dello Stato sono ripartite in: • missioni, che stabiliscono le funzioni e gli obiettivi fondamentali; • programmi, che sono diretti al perseguimento di questi obiettivi; • capitoli, secondo l’ oggetto della spesa. Il documento che tiene insieme, collegandole, entrate e spese è il bilancio, il quale, infatti, si concreta nella previsione delle entrate che lo Stato o l’ ente pubblico ritiene di realizzare nel corso dell’ esercizio finanziario e nella previsione delle spese da effettuare. Il bilancio è presentato dal Governo e approvato dal Parlamento; in

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particolare, il ciclo della programmazione di bilancio (disciplinato con L. 196/09) è avviato dalla Relazione sull’ economia e la finanza pubblica (da presentare alle Camere entro il 15 aprile di ogni anno); segue lo schema di Decisione di finanza pubblica (da presentare alle Camere entro il 15 settembre); entro il 15 ottobre va predisposta la manovra di finanza pubblica (quest’ ultima è formata dalla legge di stabilità, che sostituisce la vecchia legge finanziaria, e dalla legge di bilancio); i disegni di legge legati alla manovra vanno presentati entro il mese di febbraio dell’ anno successivo, mentre il d.d.l. di assestamento deve essere pronto entro il 30 giugno. Un ultimo accenno occorre dedicarlo al procedimento di erogazione della spesa pubblica. Questa, in particolare, si esplica attraverso quattro fasi: l’ impegno, con il quale il dirigente (o l’ organo politico), a seguito di obbligazione giuridicamente perfezionata, determina la somma da pagare, il soggetto creditore, indica la ragione e costituisce il vincolo sulle previsioni di bilancio; la liquidazione, che consiste nel complesso di operazioni con le quali viene determinato l’ importo della somma da pagare e individuata l’ identità del beneficiario; l’ ordinanza, che consiste nella emissione del titolo di spesa (cd. ordinativo di pagamento) con il quale viene impartito al tesoriere (o cassiere dell’ ente) l’ ordine di effettuare il pagamento, cioè la materiale erogazione del denaro a favore del beneficiario. Parte II L’ attività amministrativa Sezione I Premesse §1. Gli interessi a) il fine e l’ interesse Nel linguaggio corrente degli studiosi della P.A., il termine fine è fungibile con il termine interesse. Si parla di fini pubblici o di interessi pubblici: ad es., del fine, che una collettività persegue, di avere assicurato l’ ordine

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pubblico o dell’ interesse di una collettività all’ ordine pubblico. I due termini, a ben vedere, denotano la stessa cosa, ma hanno una diversa connotazione: il sostantivo fine, infatti, evoca qualcosa che sta al termine di un percorso; l’ interesse, invece, rimanda a qualcosa che è permanente, che dura, cioè, nel tempo (è bene precisare, comunque, che nell’ ambito della politica e dell’ amministrazione si preferisce utilizzare il termine interesse, perché esso più si addice al carattere di permanenza proprio dello Stato, dei pubblici poteri e delle amministrazioni). b) l’ interesse legittimo e il diritto soggettivo In generale, l’ interesse può essere definito come l’ aspirazione verso un bene ritenuto idoneo a soddisfare una pretesa o un bisogno nella vita di un soggetto; ora, quando quest’ interesse viene considerato dalla legge meritevole di tutela in quanto tale, nel senso che l’ interessato ha la possibilità di agire direttamente in giudizio per la sua tutela, si parla di diritto soggettivo. Diritto soggettivo è, ad es., il diritto di proprietà; ciò significa che il proprietario può agire in giudizio per la tutela del diritto contro chiunque lo abbia leso (P.A. compresa): supponiamo, ad es., che un comune, nel realizzare un parco pubblico, invada abusivamente una porzione di terreno di proprietà privata, senza espropriarlo; in questo caso il comune viola un diritto soggettivo (di proprietà) e il proprietario può rivolgersi al giudice ordinario contro tale comportamento della P.A. L’ interesse legittimo, invece, (secondo la definizione elaborata dal Nigro e, poi, accolta dalla Cassazione nella importantissima sentenza 500/99) è una posizione giuridica soggettiva riconosciuta ai privati, grazie alla quale essi incidono sull’ attività amministrativa allo scopo di tutelare un bene pertinente allo loro sfera di interessi: così, ad es., l’ impresa che non ha ottenuto l’ appalto, perché è stata preferita un’ altra ditta, aveva sicuramente interesse ad ottenerlo, ma non si può dire che essa vanti un diritto nei confronti dell’ amministrazione, dal momento che questa ha un potere discrezionale (cioè, un potere di scelta) diretto ad assicurare la soddisfazione dell’ interesse pubblico (in questo caso: massima qualità della prestazione al minimo prezzo); all’ impresa che è risultata sconfitta

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viene semplicemente riconosciuto un interesse legittimo (cioè, l’ interesse a che l’ amministrazione si comporti rispettando le norme di legge sulle gare d’ appalto). Da quanto detto, quindi, si può concludere dicendo che l’ interesse legittimo è una situazione soggettiva correlata al potere discrezionale della pubblica amministrazione; ovviamente, questo potere discrezionale viene esercitato attraverso una scelta (che può essere anche quella di non agire: si pensi, ad es., alla determinazione di non disporre l’ annullamento d’ ufficio di un atto illegittimo). Tale scelta comporta un’ alternativa alla quale soggiace la situazione soggettiva dell’ altra parte (l’ interesse legittimo): il privato, quindi, non ha diritto a che il potere venga esercitato nella direzione da lui voluta, ma, appunto, solo un interesse (che viene definito legittimo, perché esso può essere soddisfatto dall’ autorità amministrativa solo con un atto legittimo). c) gli interessi collettivi Quello fin qui descritto è l’ interesse privato, vale a dire l’ interesse che concerne il singolo; ad esso viene affiancato l’ interesse collettivo, che, però, non rappresenta la semplice somma degli interessi individuali. Per comprendere la distinzione occorre partire ancora una volta dall’ interesse del singolo: ci sono interessi che il singolo può soddisfare senza la cooperazione altrui (come ad es., l’ interesse a dissetarsi o l’ interesse a guardare le stelle); altri interessi, invece, non sono suscettibili di soddisfazione individuale, o perché presuppongono un gioco di squadra (il calcio, il basket, etc.) o perché richiedono mezzi di cui la persona interessata non dispone (l’ interesse a viaggiare per il mondo in navi di lusso) o perché l’ interesse individuale ha di fronte a sé l’ interesse antagonistico che è proprio di altra persona e che è destinato a prevalere (ad es., l’ interesse del lavoratore ad ottenere dal suo datore di lavoro la retribuzione più alta possibile, le condizioni di lavoro migliori possibili, etc.). In tutti questi casi, come si può facilmente intuire, la soddisfazione dell’ interesse va cercata sul piano collettivo (ad es., il lavoratore singolo è destinato a soccombere nello scontro con colui che gli dà lavoro, ma può

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far valere le sue ragioni se si riunisce in un sindacato di lavoratori, che recupera sul piano collettivo quella forza contrattuale che al singolo lavoratore manca). Così considerato, l’ interesse collettivo non designa tanto una specie di interesse, quanto il mezzo per soddisfarlo (costituito, quest’ ultimo, dalla cooperazione di tutti coloro che ne sono portatori); in questa prospettiva l’ interesse collettivo può anche essere definito un interesse parziale, vale a dire l’ interesse di una collettività che, a sua volta, costituisce una parte di una comunità maggiore. d) gli interessi generali L’ interesse generale è l’ interesse che riguarda l’ individuo come membro del pubblico (si pensi, ad es., all’ interesse a che sia in vigore una norma che vieti l’ omicidio e punisca coloro che lo commettono). Ora, la condizione indispensabile perché una misura possa essere considerata di interesse generale è che essa tratti allo stesso modo tutti quelli che ne sono toccati; e tale condizione delimita, ovviamente, tutte le alternative possibili: così, ad es., rispetto alla regola che vieta a tutti di commettere omicidio, la sola alternativa munita del medesimo carattere di universalità sarebbe la regola che consentisse a tutti di commettere omicidio. In virtù di tali considerazioni, si può senz’ altro affermare che sono conformi all’ interesse generale le norme contenute in un codice civile, in un codice penale o in un codice di procedura, perché si tratta di norme che prendono in considerazione chiunque, nonché le situazioni in cui chiunque può venire a trovarsi (esistono, tuttavia, in questi testi, anche delle norme specifiche che si rivolgono a soggetti determinati, in ragione del ruolo da essi rivestito: ad es., pubblico ufficiale, giudice, etc.). e) gli interessi pubblici Con l’ interesse generale viene spesso confuso l’ interesse pubblico (nel senso che i due termini vengono usati promiscuamente); in realtà, occorre sottolineare che l’ interesse pubblico si distingue da tutti gli altri interessi

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perché è stato incorporato in una norma, in una politica o in una misura pubblica (dei pubblici poteri). L’ interesse generale può essere, semmai, un criterio per valutare più proposte che abbiano per oggetto norme, politiche o misure, prima che una di queste proposte venga accolta e formalizzata come norma, politica o misura pubblica (così, ad es., l’ interesse generale potrebbe essere quello ad una riduzione delle tasse; ma se il Governo persegue una politica opposta di incremento del carico tributario e delibera o promuove un provvedimento legislativo che ritocca le aliquote verso l’ alto, è questo l’ interesse pubblico che gli uffici finanziari devono perseguire). Assumendo, pertanto, che l’ interesse pubblico è l’ interesse che viene reso pubblico dai pubblici poteri, diventa essenziale stabilire chi, all’ interno dei pubblici poteri, è abilitato a convertire un certo interesse in interesse pubblico. Ovviamente, nello stato assoluto, arbitra dell’ operazione è la volontà del sovrano; nello stato costituzionale l’ interesse pubblico è, invece, definito dalla legge; nello stato liberal-democratico la legge è quella deliberata da un Parlamento eletto a suffragio universale o da un Governo che è espressione della maggioranza elettorale ed è munito di potestà legislativa. Questo semplice fatto (che, cioè, competente ad individuare l’ interesse pubblico è il legislatore, ossia la maggioranza parlamentare) spiega, tra l’ altro, il motivo per il quale interesse collettivi, ma non generali, siano eretti ad interessi pubblici: è sufficiente, infatti, che un certo gruppo sociale, numericamente maggioritario, voti compatto perché la maggioranza parlamentare che ne risulta adotti politiche e misure conformi all’ interesse collettivo del gruppo. Da quanto detto, quindi, possiamo concludere dicendo che gli interessi pubblici includono non solo gli interessi generali (gli interessi che ogni individuo avverte in quanto cittadino), ma anche gli interessi collettivi, che sono riqualificati come interessi pubblici con la loro assunzione nell’ ambito pubblico. f) i modi per soddisfare gli interessi

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Da quanto detto risulta evidente che la distinzione tra gli interessi appena delineata non è fondata sul valore o sul pregio comparativo, ma sulle modalità di soddisfazione degli stessi interessi: è, infatti, in virtù di questo parametro che determinati interessi rimangono nella sfera privata, mentre altri vengono trasferiti sul piano collettivo (o pubblico). Per comprendere quanto detto, facciamo un esempio: è difficile trovare un interesse più essenziale del cibo, necessario per soddisfare un bisogno elementare; eppure, in quasi tutte le civiltà, l’ agricoltura è stata praticata dai privati nella forma dell’ autoproduzione (prima) e del mercato (poi); allo stesso modo, l’ interesse a circolare corrisponde anch’ esso ad un bisogno essenziale, ma certamente meno essenziale del bisogno del cibo (si può sopravvivere stando sempre nello stesso posto, non si può sopravvivere senza mangiare); eppure dappertutto la libertà di circolazione viene esercitata a mezzo di infrastrutture e di servizi pubblici. Dagli esempi avanzati si capisce, pertanto, che gli interessi generali e gli interessi pubblici, nella prospettiva del singolo, non sono interessi più elevati di tanti altri interessi che rimangono privati; si tratta soltanto di interessi che non possono essere soddisfatti se non con l’ intervento pubblico. g) gli interessi non pubblicizzabili Non bisogna, però, credere che il processo di moltiplicazione degli interessi sia inarrestabile. Un primo vincolo, infatti, discende dalle costituzioni; ogni costituzione indica (al legislatore) interessi (pubblici) da perseguire, ma nello stesso tempo esclude o vieta che altri interessi siano assunti nella sfera pubblica e qualificati come interessi pubblici: ad es., la Costituzione italiana, mentre, da un lato, impone di organizzare un sistema di sicurezza sociale, una scuola pubblica per tutti gli ordini e gradi, un sistema di assistenza per i cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, dall’ altro, ci dice anche che determinati interessi non possono essere qualificati come interessi pubblici: così, ad es., l’ affermazione della libertà sindacale esclude che i sindacati possano essere qualificati come enti pubblici; così come non possono essere enti pubblici i partiti politici [infatti, la libertà sindacale e partitica, che include

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anche l’ opzione negativa (cioè, la libertà di non iscriversi ad alcun sindacato o ad alcun partito), comporta che gli interessi tutelati da organismi del genere non possono essere, per definizione, interessi pubblici]. Il secondo limite a carico del legislatore ordinario deriva, invece, dai vincoli europei: il diritto europeo vincola, infatti, il legislatore italiano nella determinazione degli interessi pubblici da soddisfare attraverso la disciplina della politica economica e monetaria. §2. I mezzi: il diritto ed il denaro Le amministrazioni pubbliche sono chiamate a svolgere attività volte a soddisfare interessi pubblici; per far ciò esse si avvalgono di due strumenti (individuati dal sociologo tedesco Luhmann): il diritto ed il denaro. Il diritto può essere costituito anche soltanto da regole: ad es., uno Stato che miri a riequilibrare i rapporti tra datori di lavoro e lavoratori, correggendo lo squilibrio a favore dei secondi (soggetti deboli del rapporto), può impiegare mezzi esclusivamente normativi (come una disciplina differenziata del recesso dal rapporto di lavoro, che è ammesso senza limiti per il lavoratore, mentre è subordinato a giusta causa o a giustificato motivo per il datore di lavoro). Nella stragrande maggioranza dei casi, però, il diritto che viene usato per la soddisfazione degli interessi pubblici non è composto solo da regole, ma è fatto anche di apparati amministrativi (istituiti in base alla legge); apparati che vengono, a loro volta, muniti di poteri e risorse per la realizzazione di quegli interessi: così, ad es., l’ interesse all’ ordine pubblico è affidato alle norme del codice penale, che prevedono i reati e stabiliscono le pene per la loro violazione (pene che verranno applicate, poi, dal giudice); ma sul presupposto che questa linea difensiva risulti vulnerabile, il legislatore istituisce apparati di polizia (in Italia: polizia di Stato, carabinieri e guardia di finanza), munendoli di poteri di ordinanza, di identificazione, di controllo, di investigazione e di repressione. Sotto questo profilo, come si può notare, non è più solo il diritto il medium utilizzato per soddisfare l’ interesse, ma anche il denaro, vale a dire quella

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parte rilevante delle risorse nazionali necessaria a sostenere i costi di un servizio, che per colui che ne fruisce è gratuito. §3. L’ amministrazione che prende e l’ amministrazione che dà Un giurista tedesco, negli anni ’30 del XX secolo, ha formalizzato la distinzione tra amministrazione che prende (che aggredisce, cioè, la sfera giuridica del privato) e amministrazione che dà (cioè, che al privato rende prestazioni). L’ amministrazione che prende si esprime in provvedimenti amministrativi (ad es., ordini, espropriazioni, occupazioni, autorizzazioni, concessioni o licenze): si tratta di misure che comportano una restrizione della sfera giuridica del privato, al quale viene tolto un bene o un diritto o imposto un obbligo; ovvero di misure che, pur avendo l’ aria di estendere la sfera giuridica del destinatario (autorizzazione e concessione), in realtà presuppongono una previa restrizione delle sfere giuridiche dei privati (ad es., il fatto stesso che un’ attività debba essere autorizzata per poter essere svolta equivale ad una restrizione se paragonato alla situazione di chi la stessa attività potrebbe svolgere con una propria decisione, senza necessità di una previa autorizzazione). L’ amministrazione che dà (o attività di prestazione) è, invece, quella con la quale il cittadino viene continuamente a contatto in qualità di utente o di consumatore (consumatore, ad es., di prestazioni sanitarie, di prestazioni di energia elettrica, di trasporto, etc.). Quanto detto, ovviamente, non giustifica l’ opinione secondo la quale l’ amministrazione che prende (o autoritativa) si traduce in provvedimenti, mentre l’ amministrazione che dà (o di prestazione) si concreta in attività materiali: basti pensare, invero, che il provvedimento che costituisce esercizio di un potere autoritativo richiede una successiva attività materiale di esecuzione (del soggetto destinatario o della stessa amministrazione); reciprocamente, l’ attività materiale di prestazione deve essere sorretta da un titolo giuridico (ad es., un contratto di somministrazione in base al quale il mio appartamento è rifornito di acqua, luce e gas).

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§4. Il potere amministrativo come potere unilaterale Nei rapporti tra P.A. e cittadino, l’ amministrazione dispone di poteri che non hanno un fondamento contrattuale, ma che derivano dalla legge che la istituisce e che entrano in azione quando si verifica il fatto previsto dalla relativa norma (ad es., la legge prevede che il sindaco, accertata l’ esecuzione di opere in assenza di concessione, ingiunga la demolizione). Il potere amministrativo è, quindi, un potere unilaterale non solo nel senso che il suo esercizio incide unilateralmente nella sfera giuridica altrui, ma anche nel senso che la sua fonte non è contrattuale (anche il datore di lavoro privato ha un potere direttivo verso il lavoratore, ma tale potere ha una fonte contrattuale). È necessario sottolineare, però, che amministrazione e privato possono comunque stringere un accordo che non solo può predeterminare il contenuto del provvedimento, ma può anche sostituirlo; tale accordo, in ogni caso, non mette in discussione l’ unilateralità del potere amministrativo [infatti, poiché l’ accordo è un’ evenienza precaria, dipendente dall’ incontro di due volontà, gli interessi pubblici che richiedono una protezione continua sarebbero pregiudicati se alla singola amministrazione non fosse attribuito il potere unilaterale di influire sulla sfera giuridica di colui che all’ accordo non vuole addivenire (come accadrebbe, ad es., nel caso in cui l’ amministrazione tributaria dovesse aspettare il consenso del contribuente ovvero l’ amministrazione militare il consenso della recluta). Proprio perché è un potere unilaterale, il potere amministrativo (in un ordinamento democratico, come il nostro) deve essere istituito ed attribuito dalla legge: e ciò perché la capacità di incidere sulla sfera giuridica di un altro (il privato interessato), senza il suo consenso, costituisce una eccezione ad una regola fondamentale del diritto privato (ecco il motivo per il quale solo il popolo, attraverso la sua rappresentanza e con una votazione a maggioranza, può introdurre questa eccezione). §5. Il potere amministrativo e gli interessi pubblici Il potere amministrativo è attribuito a tutela di un interesse pubblico (a tutela, cioè, del complesso dei cittadini); di conseguenza, risulta evidente

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che la persona soggetta al potere amministrativo può anche ottenere (soprattutto dal giudice amministrativo) l’ invalidazione dell’ atto di esercizio del potere se quell’ atto non soddisfa l’ interesse pubblico specifico (che la legge ha affidato alle cure di quell’ autorità). Da qui l’ idea, errata, che il privato possa soddisfare le sue pretese solo se il suo interesse coincide con l’ interesse pubblico; o, peggio, che il giudice amministrativo sia stato istituito per soddisfare l’ interesse pubblico (mentre, invece, la giurisdizione amministrativa serve alla difesa del privato e non dell’ interesse pubblico). L’ interesse pubblico che stiamo analizzando è un interesse specifico, ossia un interesse che si qualifica in ragione dell’ ambito materiale di riferimento (interesse sanitario, ambientale, culturale, etc.). Ciò comporta almeno due conseguenze: innanzitutto, l’ interesse pubblico affidato alla cura dell’ autorità può confliggere non soltanto con un interesse privato antagonista, ma anche con un altro interesse pubblico affidato alla cura di un’ altra autorità [ad es., l’ interesse che ha il comune a realizzare una certa opera pubblica (un nuovo palazzo comunale) può entrare in conflitto con l’ interesse pubblico curato dall’ amministrazione dei beni culturali alla conservazione dei caratteri del centro storico, che verrebbero alterati dalla realizzazione dell’ opera]. L’ altra conseguenza riguarda la competenza: poiché ciascuna autorità deve farsi carico dell’ interesse pubblico specifico che è implicito nella sua competenza, sarebbe illegittimo il provvedimento che, pur rivolto a tutelare l’ interesse pubblico, pretendesse di soddisfare un interesse pubblico diverso da quello rientrante nella propria competenza (si pensi, ad es., al caso in cui il sindaco limiti a poche ore di sera l’ apertura di una sala cinematografica, allo scopo di impedire che gli scolari siano distolti dallo studio; la competenza a regolare gli orari dei pubblici servizi non può essere esercitata per soddisfare l’ interesse alla pubblica istruzione). §6. Il potere amministrativo come potere tipico Il potere amministrativo è un potere tipico: in altri termini, ciò significa che, al di fuori dei casi di urgenza e di grave necessità pubblica, il contenuto del provvedimento deve essere sempre predeterminato dalla legge (sicché il

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provvedimento si qualificherà, di volta in volta, come autorizzazione, concessione, ordine, divieto, espropriazione, etc.). Ed è in questo che si esprime il vincolo della tipicità: nell’ esigenza, cioè, che il potere si esprima attraverso un provvedimento tipico, indicato dalla legge (art. 97, co. 1 e 2 Cost.). La predeterminazione legislativa del tipo di provvedimento da adottare esclude, inoltre, che l’ amministrazione possa aggiungere all’ atto clausole o condizioni che esulano dallo schema (sarebbe, ad es., illegittimo, perché in contrasto con la tipicità dell’ atto, un permesso di costruire che fosse condizionato all’ impegno da parte del proprietario di assicurare la manutenzione della strada pubblica antistante). Tali clausole o condizioni, però, possono essere inserite in un accordo che l’ amministrazione può concludere con il privato (tale accordo, ovviamente, non costituisce un’ obiezione contro il principio di tipicità).

§7. Il potere amministrativo e la doverosità del suo esercizio Come detto, il potere amministrativo è attribuito per soddisfare l’ interesse pubblico. Ciò può significare due cose: o che il potere, quando viene esercitato, è vincolato alla soddisfazione dell’ interesse pubblico o che il potere, in presenza di determinati presupposti, deve essere esercitato, perché sia soddisfatto l’ interesse pubblico. Questa seconda accezione trova un fondamento normativo nell’ art. 2 L. 241/90, il quale, infatti, afferma che, ove il procedimento consegua obbligatoriamente ad un’ istanza (ad es., domanda di autorizzazione, di concessione, di abilitazione, di iscrizione, etc.) ovvero debba essere iniziato d’ ufficio, la pubblica amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione di un provvedimento espresso. In questi casi, quindi, come si può notare, l’ esercizio del potere è doveroso (in realtà, sono pochi i casi in cui l’ esercizio della potestà amministrativa non è dovuto: non è dovuto, ad es., nei riguardi di chi chieda l’ annullamento d’ ufficio o la revoca di un provvedimento preesistente ovvero qualora una persona chieda che sia inflitta una sanzione amministrativa ad un’ altra).

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§8. Il potere amministrativo come potere discrezionale Un’ altra caratteristica del potere amministrativo è la discrezionalità, le cui premesse teoriche sono state individuate sin dall’ antichità: scriveva, infatti, Platone (nel Politico) che una legge non potrà mai ordinare con precisione, e per tutti, la cosa più buona e più giusta, indicando contemporaneamente anche ciò che è assolutamente valido. Ancora più preciso Aristotele quando parlava della convivenza come di una forma particolare di giustizia: la legge è sempre una norma universale, mentre di alcuni casi singoli non è possibile trattare correttamente. […] Quando la legge parla in universale, allora è legittimo, laddove il legislatore ha trascurato qualcosa, correggere l’ omissione. Oggi, quest’ opera di completamento della legge è affidata, nel nostro ordinamento, all’ amministrazione e ai giudici; ovviamente tale operazione conosce determinati confini, fissati dalla Costituzione, la quale, con riferimento alla P.A., stabilisce che il Parlamento non può fare della P.A. un legislatore delegato, perché tale delega è ammessa solo nei riguardi del Governo; la Costituzione, però, presuppone comunque questa operazione, perché se la legge pretendesse di regolare in anticipo tutto verrebbe pregiudicata quell’ esigenza di flessibilità e di aderenza alle circostanze concrete (esigenza che risulta incorporata nel principio del buon andamento dell’ amministrazione, ex art. 97 Cost.). Detto ciò, le norme che conferiscono poteri all’ amministrazione hanno la seguente struttura: se si verifica A (che può essere un fatto da accertare o un fatto da valutare), allora l’ autorità può e deve fare B (che può essere un atto vincolato o discrezionale). Facciamo qualche esempio: se una cosa immobile ha cospicui caratteri di bellezza naturale, la regione emette la dichiarazione di notevole pubblico interesse (in questo caso, il fatto è da valutare: è richiesto, cioè, un giudizio, non solo di fatto, ma anche di valore); se un pubblico esercizio viene chiuso per più di otto giorni, senza che sia dato avviso all’ autorità locale di p.s., la licenza viene revocata (in questo secondo caso, il fatto è da accertare: occorre, cioè, accertare se l’ esercizio è stato chiuso per più di otto giorni).

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In entrambi gli esempi avanzati la decisione della P.A. parrebbe obbligata: al riconoscimento di bellezza naturale consegue la dichiarazione di notevole pubblico interesse; accertata la chiusura del pubblico esercizio per più di otto giorni, senza che il titolare ne abbia dato comunicazione all’ autorità di p.s., la licenza va revocata. In realtà, però, le cose stanno in modo diverso: nel primo caso, potrebbe, infatti, accadere che l’ area dichiarata di notevole interesse pubblico sia più ristretta di quella proposta per il vincolo (sicché, per una parte la proposta non viene accolta); può anche accadere che la proposta venga rigettata del tutto (perché sull’ immobile grava un altro vincolo, ad es. a parco, idoneo a garantire comunque la salvaguardia dei caratteri di bellezza naturale). Neppure nel secondo caso la decisione è obbligata: sarebbe, infatti, illegittima la revoca della licenza di esercizio, motivata con la chiusura dei locali per più di otto giorni, senza darne comunicazione all’ autorità di p.s., se il titolare dimostrasse di essere stato nell’ impossibilità di comunicare, perché trattenuto da uno sciopero in un’ isola lontana, non collegata da alcun mezzo di comunicazione alla città in cui l’ esercizio era ubicato. a) l’ accertamento dei presupposti e la discrezionalità Dagli esempi fatti, si intuisce, quindi, che l’ accertamento dei presupposti consiste quasi sempre in un fatto da valutare e non in un fatto puramente da accertare, e che la stessa complessità presenta la conseguenza, ossia la decisione da prendere. Per comprendere quanto detto facciamo un altro esempio: le opere eseguite in parziale difformità dalla concessione sono demolite a cura e spese del responsabile dell’ abuso e, in difetto, dal comune (a spese del responsabile); se la difformità è totale, e il responsabile non demolisce, il comune adotta la diversa misura dell’ acquisizione dell’ immobile al patrimonio del comune. Ora, accertare che una difformità è parziale può essere un’ operazione complicata, perché occorre anche accertare che la demolizione della parte di costruzione difforme dalla concessione non pregiudichi la parte conforme: se, infatti, c’è tale pregiudizio, in alternativa alla demolizione va applicata una

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sanzione pecuniaria. Ciò non solo conferma la funzione cruciale dell’ accertamento dei presupposti di fatto, ma spiega anche perché il discorso sulla discrezionalità investa entrambi i momenti (della premessa normativa e della conseguenza decisionale). b) la discrezionalità come potere di scelta All’ accertamento dei presupposti indicati dalla legge segue la decisione dell’ amministrazione, cioè, la scelta. Questa, ovviamente, non può esserci nei casi in cui le risultanze dell’ istruttoria conducano ad una soluzione obbligata (si pensi, ad es., all’ ipotesi dell’ autorizzazione, il cui rilascio dipende esclusivamente dall’ accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge). Nella maggioranza dei casi, però, l’ istruttoria conclusa lascia aperta una scelta ed è questa scelta che qualifica la discrezionalità (discrezionalità amministrativa significa, appunto, facoltà di scelta nell’ esercizio di un potere amministrativo). La scelta, secondo la dottrina dominante in Italia, è collegata alla pluralità degli interessi in gioco, pubblici e privati, di cui l’ amministrazione è tenuta a tener conto; proprio per tal motivo la discrezionalità viene identificata con una valutazione comparativa di interessi (ad es., il piano regolatore comunale tocca tutti gli interessi che hanno un rapporto con il territorio: interessi dominicali, interessi produttivi, interessi culturali, interessi turistici; pertanto, il consiglio comunale articolerà la sua scelta a seconda che voglia tutelare l’ uno più dell’ altro interesse). La dottrina, concordando sostanzialmente sull’ idea della discrezionalità come scelta, ha individuato l’ oggetto di questa scelta nei seguenti elementi: l’ an (se adottare o no il provvedimento), il quando (quando adottarlo), il quomodo (con quali modalità, condizioni o clausole accessorie) e il quid (con quale contenuto). Tale costruzione presenta, però, determinati limiti. Per quanto riguarda l’ an, infatti, occorre sottolineare che non è frequente che l’ amministrazione sia libera di scegliere se adottare o non il provvedimento (no lo è quando il procedimento sia ad iniziativa di parte e l’

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amministrazione abbia l’ obbligo di avviarlo: si pensi, ad es., alla richiesta di autorizzazione); l’ alternativa è, invece, prospettabile nei procedimenti sanzionatori o in quelli di annullamento d’ ufficio (ma si tratta di casi sporadici). Anche la discrezionalità sul quando non riveste molta rilevanza, dal momento che la legge, di norma, impone all’ autorità di concludere il procedimento entro un termine prefissato [tra l’ altro, occorre considerare che anche i giorni che precedono il termine finale, tra i quali l’ amministrazione potrebbe scegliere per provvedere (esercitando, quindi, una discrezionalità sul quando), servono, in realtà, per l’ istruttoria, ossia per l’ accertamento dei presupposti dell’ atto]. Per quanto riguarda, invece, il quid (con quale contenuto adottare il provvedimento), va detto che l’ autorità incontra, innanzitutto, il limite della tipicità del provvedimento (ad es., essa non può revocare la licenza di pubblico esercizio per sanzionare il rifiuto del titolare di dare informazioni alla polizia). La discrezionalità consente, però, l’ alternativa tra il rifiuto o il rilascio (quando è il privato a chiedere il provvedimento); in realtà, è bene precisare che il margine di scelta è molto più ampio, perché in questi casi l’ autorità può rilasciare il provvedimento, ma a determinate condizioni (si pensi, ad es., all’ eliminazione di un’ elevazione dal progetto di costruzione, per il quale il proprietario abbia chiesto il permesso di costruire). Giungiamo così, infine, alla discrezionalità nel quomodo (cioè, con quali modalità, condizioni o clausole accessorie adottare il provvedimento): infatti, come già detto in precedenza, il provvedimento è suscettibile di clausole accessorie, purché, ovviamente, non ne venga intaccata la tipicità (si pensi, ad es., ad una concessione edilizia che venga rilasciata a condizione che il proprietario provveda alla manutenzione ordinaria e straordinaria della strada pubblica antistante). c) la questione della discrezionalità tecnica Soltanto se si accetta l’ idea che la discrezionalità attiene non soltanto al momento della decisione, ma anche a quello della valutazione del fatto, ha un senso la categoria della discrezionalità tecnica: questa ricorre quando il

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giudizio che è richiesto all’ autorità amministrativa deve essere espresso sulla base di conoscenze specialistiche non giuridiche, ma scientifiche, proprie della fisica, della chimica, dell’ estetica, dell’ archeologia, etc. (si pensi, ad es., all’ individuazione dei giacimenti di gas a marginalità economica ovvero all’ individuazione degli spartiti musicali di pregio artistico o storico da sottoporre alla disciplina dei beni culturali). Ciò che unifica le ipotesi su citate non è solo la natura del criterio che informa il giudizio (criterio mutuato da una disciplina scientifica), ma è anche il margine di opinabilità che qualifica il giudizio; ed è proprio in virtù di tale opinabilità che parte della dottrina ritiene che il giudice (ordinario e amministrativo) non possa sindacare l’ atto di esercizio della discrezionalità tecnica: si dice, cioè, che il giudice non può sostituire il suo giudizio a quello che l’ amministrazione ha espresso sulla base di una scienza o di una tecnica diversa dal diritto. In realtà, i due criteri su menzionati non valgono ad inibire il controllo del giudice: non l’ opinabilità, che può, tutt’ al più, obbligare il giudice a far salva la valutazione dell’ amministrazione che si mantenga nei limiti di quel margine (di opinabilità); non il carattere scientifico del giudizio, dal momento che il giudice, grazie alla consulenza tecnica, è in grado di controllare quel giudizio. d) il sindacato sulla discrezionalità Secondo la concezione originaria (risalente alla dottrina francese della prima metà del XIX sec.), atto discrezionale era sinonimo di atto insindacabile da parte del giudice. Oggi, invece, le cose stanno in modo diverso, perché contro gli atti della P.A. è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113 Cost.): ciò significa non solo che l’ atto discrezionale è sindacabile, ma che esso è comunque suscettibile di ledere un diritto o un interesse legittimo. Ora, poiché la discrezionalità si risolve in una scelta dell’ amministrazione, occorre stabilire come possa conciliarsi questa (relativa) libertà di scelta con la tutela di una situazione giuridica soggettiva (diritto o interesse), che il titolare pretende lesa. In realtà, partendo dal presupposto che il

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provvedimento è quello concretamente adottato, ma avrebbe potuto essere diverso, il giudice (amministrativo) ha focalizzato la sua attenzione non sul contenuto dell’ atto, ma sul modo in cui l’ autorità è pervenuta alla sua adozione: da qui è stata enucleata una serie di regole e di princìpi sull’ elaborazione dei provvedimenti discrezionali (che hanno finito per condizionare l’ intera attività amministrativa). In questa prospettiva, va detto che l’ esigenza di contemperamento tra la libertà di azione dell’ amministrazione e la tutela del privato viene soddisfatta, innanzitutto, con il procedimento amministrativo e con la partecipazione del privato al procedimento. L’ accertamento dei fatti e dei presupposti (che la legge richiede per l’ esercizio del potere amministrativo) è rimesso all’ istruttoria, che rappresenta una fase necessaria del procedimento amministrativo e le cui risultanze orientano la decisione dell’ autorità. Quest’ ultima deve essere preceduta da una valutazione comparativa degli interessi in gioco; e l’ esame di questi interessi è formalizzato nell’ istituto della conferenza di servizi. Trova, poi, applicazione un principio di particolare importanza, vale a dire: il principio di ragionevolezza. Ragionevole deve essere non solo la disposizione di legge, ma anche il provvedimento che vi dà attuazione; e la ragionevolezza di questo va valutata in relazione alle circostanze di fatto, ai precedenti e al contesto complessivo: ad es., che un maresciallo dei carabinieri si appropri del cellulare di una persona coinvolta in un incidente stradale e trasportata in ospedale è certamente grave; tuttavia, che per quest’ unico episodio il maresciallo venga privato del grado, senza che vi sia a suo carico un solo precedente disciplinare in una carriera che dura da decenni, è certamente irragionevole. §9. I poteri amministrativi a) le tipologie I poteri amministrativi possono essere classificati, innanzitutto, in base al criterio dell’ interesse pubblico che ciascuno di essi è chiamato a

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soddisfare: possiamo così distinguere un potere urbanistico, un potere edilizio, un potere sanitario, un potere di polizia, un potere di tutela ambientale, etc. Ciascuno di questi poteri, a sua volta, si esplica in forme diverse: ad es., il potere urbanistico viene svolto attraverso piani urbanistici regionali, piani intercomunali, piani regolatori comunali; il potere edilizio si esprime mediante permessi di costruire, autorizzazioni edilizie, ordini di sospensione dei lavori; il potere di polizia si esercita mediante ordinanze, licenze, autorizzazioni, revoche, divieti, etc. Ora, poiché le forme, con le quali vengono esercitati questi poteri, ricorrono più volte (ad es., l’ autorizzazione la ritroviamo sia nella materia sanitaria, sia nella materia edilizia, che in quella di polizia) i poteri amministrativi possono essere classificati anche in ragione di queste forme: avremo così un potere autorizzativo, un potere di concessione, un potere sanzionatorio, etc. I poteri amministrativi possono essere classificati anche in relazione al tipo di interesse contrapposto (l’ interesse del soggetto privato): ci sono poteri che restringono la sfera del privato (cd. poteri ablativi) e poteri che garantiscono al privato un beneficio (cd. poteri ampliativi). In rapporto ai primi, il privato ha un interesse oppositivo (cioè, l’ interesse a che il potere non venga esercitato); rispetto ai secondi, invece, il privato ha un interesse pretensivo [cioè, l’ interesse a che il potere venga esercitato; in questa seconda ipotesi può accadere, però, che il potere venga esercitato dall’ amministrazione in modo difforme dall’ interesse del privato (si pensi, ad es., al caso in cui un’ autorizzazione venga negata, anziché concessa); e allora il privato ne riceverà un danno, come se l’ amministrazione avesse esercitato un potere ablativo]. I poteri amministrativi possono essere ancora qualificati in base al tipo di precetto contenente gli atti che ne costituiscono esercizio: precetti di portata generale (regolamenti, programmi, piani) o precetti concreti. I poteri amministrativi possono essere, infine, distinti in poteri strumentali e poteri finali (i primi, ovviamente, sono attribuiti per l’ esercizio dei secondi): tipico potere strumentale è il potere organizzativo, del quale l’ amministrazione si serve per dotarsi di strutture idonee allo svolgimento di

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poteri finali (ad es., un comune istituisce una ripartizione urbanistica, assegnandovi un dirigente e altro personale, reclutato per concorso, per poter esercitare i compiti di pianificazione del territorio e di controllo sull’ attività edilizia dei privati). b) gli schemi di azione L’ azione amministrativa si manifesta secondo alcuni schemi fondamentali, il primo dei quali è l’ autorizzazione (denominata anche licenza o nulla osta): essa presuppone un divieto, posto dalla legge, di svolgere una determinata attività; ma il divieto può essere rimosso dall’ autorizzazione, che viene rilasciata da un’ autorità amministrativa (è in questo senso che parte della dottrina, in relazione all’ autorizzazione, parla anche di divieto con riserva di permesso). L’ autorizzazione si presenta, più precisamente, come un atto (successivo), attraverso il quale l’ amministrazione rimuove un limite all’ esercizio di un diritto (preesistente). Affermare, però, che prima dell’ autorizzazione c’è un diritto, comporta un forte vincolo a carico dell’ autorità amministrativa, la quale, infatti, può negare l’ autorizzazione solo qualora ricorrano i presupposti che la legge indica ai fini del diniego: ad es., il permesso di costruire può essere negato solo qualora il richiedente non sia proprietario del terreno o non ne abbia comunque la disponibilità ovvero se il progetto non sia conforme alla normativa urbanistica. Un secondo schema di azione è, poi, quello della dichiarazione di inizio dell’ attività (D.I.A.): tale istituto, introdotto in materia edilizia, è stato generalizzato dalla L. 241/90, come tecnica di intervento pubblico alternativa all’ autorizzazione (occorre qui specificare che, insieme al silenzio-assenso, la D.I.A. costituisce una delle forme della liberalizzazione amministrativa, cioè della eliminazione o riduzione degli ostacoli di ordine amministrativo che si frappongono allo svolgimento di attività private). In tal modo, il privato interessato, invece di chiedere l’ autorizzazione, attenderne il rilascio e avviare l’ attività, può comunicare all’ autorità competente l’ intenzione di intraprendere l’ attività subordinata all’ atto di consenso; decorsi 30 gg. da tale comunicazione, egli può avviare l’ attività,

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dandone notizia all’ autorità. Questa, entro 30 gg. dalla seconda comunicazione, verifica l’ esistenza dei presupposti e dei requisiti che legittimano l’ attività e, in caso di accertamento negativo, può vietare al privato di proseguire l’ attività ovvero ordinare la rimozione dei suoi effetti [in altri termini, al controllo preventivo (autorizzazione), viene sostituito un controllo successivo ed eventuale, che può sfociare in un divieto]. Con una recente legge (d.l. 78/10, conv. in L. 122/10) la D.I.A. è stata sostituita dalla SCIA (Segnalazione certificata di inizio di attività). In particolare, secondo la formulazione dell’ art. 19 L. 241/90 (così come modificato dalla L. 122/10), l’ interessato, anziché attendere 30 gg. dalla dichiarazione per avviare l’ attività, può farlo subito; purché la segnalazione sia corredata dalle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e dall’ atto di notorietà necessari, nonché dalle attestazioni e asseverazioni di tecnici abilitati. Nel caso in cui accerti la carenza dei requisiti e presupposti richiesti per avviare l’ attività (imprenditoriale, commerciale, artigianale, etc.), l’ amministrazione competente può vietare la prosecuzione dell’ attività stessa entro 60 gg. [ovvero, a prescindere da tale termine, può esercitare i suoi poteri di autotutela (annullamento e revoca), qualora ne ricorrano i presupposti]. Un altro schema di azione è costituito dagli ordini e dai divieti disposti dall’ amministrazione; questi, a differenza di quelli posti dalla legge (ad es., divieto di uccidere o di invadere la proprietà altrui) sono legati a circostanze di fatto, il cui accertamento è devoluto all’ autorità amministrativa (gli ordini o i divieti interferiscono sul comportamento dei destinatari, limitandone la libertà di azione). Un altro schema di azione è costituito, poi, dall’ abilitazione, la quale produce lo stesso effetto dell’ autorizzazione: consentire, cioè, al privato di fare ciò che, in assenza di una determinazione positiva dell’ autorità, sarebbe vietato. Il presupposto dei due istituti è, però, diverso, dal momento che l’ oggetto dell’ abilitazione non è (come accade per l’ autorizzazione) l’ esercizio di una libertà o di un diritto, che astrattamente compete a tutti, ma è lo svolgimento di un’ attività che richiede una

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qualificazione tecnica che il privato acquista con lo studio e con l’ esperienza e che viene verificata attraverso prove ed esami: in tal senso, l’ abilitazione è un atto di qualificazione giuridica (ad es., non basta la laurea in legge, ma occorre superare l’ esame di abilitazione ad avvocato per esercitare la relativa professione; ed una volta conseguita l’ abilitazione è necessaria l’ iscrizione all’ albo professionale). Un altro schema di azione è dato dalla concessione, la quale rappresenta un beneficio che l’ amministrazione attribuisce al privato, il quale, ricevendolo, assume la posizione di privilegiato (rispetto ad altri), perché il beneficio non può essere conferito a tutti. È bene precisare che la concessione si distingue dall’ autorizzazione, perché mentre la seconda rimuove un limite all’ esercizio di un diritto (preesistente), la prima conferisce un diritto (nuovo). Oggetto di concessione sono, tradizionalmente, i beni demaniali, nel momento in cui una porzione di essi viene sottratta all’ uso pubblico per essere destinata all’ uso esclusivo di un soggetto, sul presupposto che quest’ uso valorizzi il bene (si pensi, ad es., alla spiaggia, porzione del demanio marittimo, che viene valorizzata dalla concessione al privato, che vi realizza uno stabilimento balneare). L’ ambito della concessione è oggi stato esteso anche ai servizi e alle attività, delle quali il legislatore limita la possibilità di svolgimento ad un numero predeterminato di soggetti: abbiamo così, concessioni di servizi pubblici, concessioni di costruzione e gestione di opere pubbliche. Rientrano, infine, tra le concessioni: le sovvenzioni, ossia i contributi pecuniari previsti a favore dei privati e soprattutto di imprese. Un altro schema di azione è costituito dai vincoli. I beni privati possono essere tolti al proprietario con l’ espropriazione o ne può essere sottratto il possesso con l’ occupazione o la requisizione; tali beni, però, possono anche essere lasciati nella disponibilità del titolare ed essere sottoposti a vincoli. Tali vincoli possono essere preordinati ad un futuro trasferimento del bene ai pubblici poteri (si pensi, ad es., ai vincoli espropriativi stabiliti dal piano regolatore comunale, in vista dell’ espropriazione per realizzare impianti pubblici); i vincoli, però, possono essere stabiliti anche per

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assicurare la conservazione dei caratteri del bene (tali sono, ad es., i vincoli paesaggistici): in questo secondo caso, i vincoli comportano l’ assoggettamento del bene ad un determinato regime giuridico: ad es., la dichiarazione di interesse storico o artistico comporta limitazioni sia al potere di godimento del bene (divieto di modificare il bene senza autorizzazione), sia al potere di disposizione dello stesso (divieto di esportazione senza autorizzazione). Sotto questo profilo, anche i vincoli sono una specie del genere atti di qualificazione giuridica. Altro schema di azione è costituito dai certificati rilasciati dalle amministrazioni: si tratta, in particolare, di documenti che hanno una funzione di ricognizione e riproduzione di stati, qualità personali e fatti contenuti in albi, elenchi o registri pubblici in possesso dell’ amministrazione (si pensi, ad es., al certificato di nascita, che riproduce il contenuto degli atti di stato civile). In passato, la certificazione è stata ritenuta una funzione propria dei pubblici poteri; la L. 241/90 ha introdotto, invece, il principio dell’ autocertificazione, in virtù del quale, qualora l’ interessato dichiari che fatti, qualità e stati sono attestati in documenti già in possesso dell’ amministrazione, il responsabile del procedimento provvede d’ ufficio alla loro acquisizione o alla copia degli stessi. All’ autocertificazione, la legislazione ha, poi, affiancato la certificazione privata: vi sono oggi, infatti, certificatori qualificati e accreditati, ossia soggetti privati abilitati a svolgere attività di certificazione, in grado di dimostrare l’ affidabilità organizzativa, tecnica e finanziaria necessaria [si pensi, ad es., alle Società organismi di attestazione (SOA), le quali sono chiamate a certificare la qualità delle imprese che concorrono all’ aggiudicazione di appalti pubblici]. Ulteriore schema di azione è costituito dai piani e programmi. In particolare, il piano prefigura azioni future, cercando di orientarle o vincolarle secondo un criterio di razionalità [ad es., il piano regolatore comunale disciplina gli usi del territorio, destinando quest’ ultimo in parte alla conservazione (centro storico), in parte alla trasformazione (zone produttive), in parte ad usi privati e in parte ad impianti pubblici]. Un’ ultima categoria di atti è costituita dalle sanzioni amministrative. Invero,

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l’ ordinamento, al fine di assicurare l’ osservanza dei suoi precetti fondamentali (volti, cioè, a garantire la convivenza tra le persone) li munisce di sanzioni penali: configura la violazione del precetto come reato, sanzionato da una pena (inflitta dal giudice). Quando, però, il precetto è meno essenziale (si pensi, ad es., alle regole del traffico), l’ ordinamento configura la trasgressione come illecito amministrativo e, come tale, punito con una sanzione amministrativa, applicata da un’ autorità amministrativa (ad es., il prefetto, il sindaco, etc.).

Sezione II Il procedimento ed il provvedimento §1. Premessa I poteri pubblici si esplicano a mezzo di procedimenti; e ciò per varie ragioni. Innanzitutto, è necessario sottolineare che nei riguardi del potere amministrativo ricorrono particolari esigenze di tutela del privato: esigenze presenti sia quando il potere amministrativo è destinato a svolgersi mediante provvedimenti restrittivi (espropriazioni, occupazioni, sanzioni, etc.), nei confronti dei quali il privato ha interesse a limitare il danno o ad escluderlo del tutto, sia quando il potere dovrebbe sfociare in provvedimenti ampliativi (autorizzazione, concessione, sovvenzione, etc.), nei confronti dei quali il privato ha interesse ad ottenere il beneficio. Ma vi è anche un’ altra ragione che consiglia di strutturare l’ azione amministrativa nella forma del procedimento: come sappiamo, il provvedimento richiede quasi sempre una comparazione di interessi (pubblici e privati) e, quindi, presuppone che, ove i singoli interessi pubblici siano affidati alle cure di uffici diversi, questi ultimi siano posti nella condizione di far sentire la loro voce prima che la decisione venga presa. Detto ciò, occorre adesso identificare la forma che deve assumere il procedimento. Al riguardo, è la nostra Costituzione a proporci un’ interessante lettura: si ritiene, infatti, che l’ art. 97 Cost., qualificando l’

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amministrazione come apparato imparziale, suggerisca un’ assonanza tra i criteri che ispirano l’ azione amministrativa e i criteri che presiedono all’ amministrazione della giustizia; in altri termini, si vuol dire che se il giudice, terzo ed imparziale, esercita il suo potere attraverso il giusto processo (art. 111 Cost.), anche l’ amministrazione, per essere imparziale, deve agire nella forma del procedimento, ossia attraverso una sequenza di atti che evoca, in qualche modo, la sequenza degli atti del processo.

§2. La legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90) Sino al 1990 non c’è stata in Italia una legge generale sul procedimento amministrativo (c’erano soltanto leggi su singoli procedimenti, quali, ad es., il procedimento di espropriazione per pubblica utilità del 1865; il procedimento di pianificazione urbanistica del 1942; il procedimento per l’ individuazione delle cd. bellezze d’ insieme del 1939, etc.). Da tali leggi di settore la dottrina e la giurisprudenza (costituzionale e amministrativa) hanno ricavato dei princìpi comuni, quali, ad es.: l’ obbligo di contestazione degli addebiti nei procedimenti disciplinari e sanzionatori; l’ obbligo di motivazione dei provvedimenti restrittivi della sfera giuridica del destinatario; il principio della necessaria precedenza del parere rispetto al provvedimento di amministrazione attiva, etc.). Con la L. 241/90 sono state, poi, fatte due operazioni: da un lato, sono stati generalizzati alcuni princìpi elaborati dalla giurisprudenza; dall’ altro, il legislatore si è fatto carico di alcuni problemi insorti con la stessa evoluzione del diritto amministrativo. È necessario sottolineare, infatti, che la legislazione amministrativa, a partire dall’ inizio del XX secolo, è stata caratterizzata da una crescita costante del numero degli interessi pubblici (dovuta al riconoscimento normativo di interessi collettivi); e a tale crescita ha corrisposto l’ istituzione di un centro di interessi amministrativi. Il coordinamento tra questi interessi pubblici con gli interessi collettivi e privati sono stati affidati al procedimento, il quale, in tal modo, è diventato il luogo nel quale tutti questi interessi fanno oggi sentire la loro voce.

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§3. Il responsabile del procedimento Allo scopo di cucire le varie fasi del procedimento, la L. 241/90 ha istituito la figura del responsabile del procedimento (che viene individuato dal dirigente dell’ unità organizzativa cui il procedimento fa capo; e, fino a quando non compie tale operazione, è lui il responsabile). Il primo atto che il responsabile deve porre in essere è comunicare agli interessati l’ avvio del procedimento; tale atto deve essere accompagnato dall’ indicazione del proprio nominativo, in modo che l’ interessato conosca l’ identità della persona alla quale rivolgersi per ricevere informazioni o per sollecitare la conclusione del procedimento. Il responsabile del procedimento dirige la fase istruttoria, ponendo in essere gli atti di sua competenza o sollecitando l’ adozione degli accertamenti o delle ispezioni degli organi tecnici; indìce le conferenze di servizi o ne propone l’ indizione; adotta, ove abbia competenza, il provvedimento finale ovvero trasmette gli atti all’ organo competente perché questi provveda; cura le comunicazioni, le pubblicazioni e le notificazioni previste dalla legge; è responsabile dell’ osservanza del termine stabilito per la conclusione del procedimento (non può, però, rispondere delle omissioni altrui: ad es., della mancata adozione del provvedimento da parte dell’ organo competente). §4. Le fasi del procedimento a) l’ iniziativa La prima fase del procedimento amministrativo è la fase di iniziativa: questa può essere di parte, come nel processo (nel processo civile, ad es., è l’ attore che la esercita; nel processo penale è il pubblico ministero; nel processo amministrativo il ricorrente; nel procedimento amministrativo è colui che fa una richiesta di autorizzazione o di sovvenzione, etc.). L’ iniziativa, però, può anche essere d’ ufficio, ossia può partire dalla stessa amministrazione che dovrà provvedere (si pensi, ad es., alle pianificazioni urbanistiche e ambientali, ai procedimenti sanzionatori, ai procedimenti espropriativi, etc.).

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Un atto fondamentale della fase di iniziativa è costituito dalla comunicazione di avvio del procedimento; questa va fatta: ai futuri destinatari del provvedimento finale, a coloro che, per legge, devono intervenire nel procedimento e a coloro i quali potrebbero ricevere un pregiudizio dall’ adozione del provvedimento. La comunicazione (dalla quale si può prescindere nei casi di urgenza: ad es., nel caso in cui il responsabile dell’ ufficio tecnico comunale ordini l’ abbattimento di una costruzione pericolante) deve indicare: l’ amministrazione competente, l’ oggetto del procedimento, l’ ufficio responsabile, la persona del responsabile e la data prestabilita per la conclusione del procedimento. b) l’ istruttoria La decisione (cioè, il provvedimento amministrativo) deve essere preceduta da una fase istruttoria, nella quale vanno accertati i presupposti di fatto che, insieme alle concorrenti ragioni giuridiche, giustificano la decisione: ad es., l’ ordine emesso dal comune di demolire opere edilizie realizzate in parziale difformità del permesso di costruire richiede un confronto tra la situazione di fatto, posta in essere dal costruttore, ed il progetto che è stato rilasciato (una verifica del genere potrebbe approdare alla conclusione che nessuna difformità esiste o, all’ opposto, che la difformità è totale, sicché l’ intero manufatto va rimosso, e non soltanto parte di esso). L’ istruttoria amministrativa, a differenza dell’ istruttoria del processo civile o del processo penale, è retta dal principio inquisitorio: ciò significa che non è sulle parti private che grava l’ onere della prova, ma è l’ amministrazione che deve verificare, d’ ufficio, l’ esistenza dei presupposti del provvedimento (anche se, a tal fine, può giovarsi dell’ apporto degli interessati). Il protagonista dell’ istruttoria è il responsabile del procedimento: è lui, infatti, che valuta le condizioni di ammissibilità della domanda, i requisiti di legittimazione e i presupposti rilevanti per l’ emanazione del provvedimento; è lui che deve accertare, d’ ufficio, i fatti, adottando le

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misure necessarie (collaborando con gli interessati, ai quali, ad es., può chiedere il rilascio di dichiarazioni), disponendo accertamenti tecnici e ispezioni ed ordinando l’ esibizione di documenti.

c) i pareri e le valutazioni tecniche Tra gli atti tipici della fase istruttoria ci sono i pareri e le valutazioni tecniche. Nella maggior parte dei casi, infatti, la legge ritiene opportuno che la decisione amministrativa sia preceduta da un parere di un organo tecnico, volto ad orientare l’ autorità chiamata a provvedere (ad es., la domanda di permesso di costruire è sottoposta al parare giuridico-tecnico della commissione edilizia comunale). Quando il contenuto è esclusivamente tecnico (ad es., sanitario, chimico, etc.) si parla, invece, di valutazioni tecniche, le quali hanno la stessa funzione dei pareri, ma in questo caso la capacità di giudicare da parte dell’ organo di amministrazione attiva è nulla. Il parere e la valutazione tecnica devono essere resi, rispettivamente, entro 45 e 90 gg. dal ricevimento della richiesta (i termini possono essere interrotti una sola volta, attraverso una richiesta istruttoria); scaduto il termine, senza che il parere sia stato comunicato (45 gg.), l’ organo di amministrazione attiva può procedere, prescindendo dal parere stesso: viene meno, cioè, l’ obbligo di attendere il parere ai fini della decisione. Se, invece, è scaduto infruttuosamente il termine assegnato all’ ufficio chiamato ad esprimere la valutazione tecnica (90 gg.), l’ autorità procedente dovrà rivolgersi ad un altro organo (o ufficio), allo scopo di acquisire tale valutazione. d) la distribuzione degli incombenti istruttori Il responsabile del procedimento (che in questa fase rappresenta l’ amministrazione) accerta, d’ ufficio, i fatti, disponendo il compimento degli atti all’ uopo necessari; ma a questo accertamento può concorrere anche il

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privato, rendendo, ad es., le dichiarazioni che il responsabile del procedimento gli chiede di rilasciare o presentando memorie scritte e documenti (ciò accade nei procedimenti ad iniziativa di parte: così, ad es., la domanda di permesso di costruire deve essere corredata da un progetto, da un certificato di destinazione urbanistica e dai documenti comprovanti la proprietà). È necessario sottolineare, però, che la normativa sul procedimento amministrativo ha trasferito sull’ amministrazione una parte degli oneri di documentazione che prima gravavano sul privato (si tratta, in particolare, di documenti che attestano atti, fatti, qualità e stati soggettivi, quali, ad es., la residenza, la condizione di invalido civile, la qualifica di coltivatore diretto, che possono essere acquisiti d’ ufficio, se necessari a fini istruttori, e se sono già in possesso dell’ amministrazione). I fatti rilevanti nel procedimento amministrativo corrispondono ai fatti rilevanti nel processo civile, ex art. 2697 c.c.: chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. A differenza del processo civile, però, nel procedimento amministrativo non vige una regola così rigorosa circa l’ onere della prova, perché, come detto, è l’ amministrazione che, di regola, deve accertare, d’ ufficio, i fatti. Inoltre, mentre nel processo (civile, penale e amministrativo) i mezzi istruttori sono soltanto quelli previsti dalle leggi processuali (cd. principio di tipicità), nel procedimento amministrativo il responsabile può adottare ogni misura per l’ adeguato svolgimento dell’ istruttoria. A questo punto, dobbiamo chiederci fino a che punto può spingersi l’ istruttoria; per rispondere a tale quesito può essere utilizzato il metodo suggerito dal Herbert Simon, in virtù del quale si afferma che l’ autorità amministrativa deve cercare di raggiungere un equilibrio tra la quantità di informazioni (cd. completezza dell’ istruttoria) e le esigenze di una decisione (esigenze consacrate a livello costituzionale nel principio del buon andamento dell’ amministrazione): espressione di questo canone è la regola enunciata nell’ art. 1, co. 2 L. 241/90, ai sensi del quale la pubblica amministrazione non può aggravare il procedimento (ad es., ripetendo indagini già fatte o acquisendo pareri non obbligatori), se non per motivate

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esigenze.

e) la conferenza di servizi Il procedimento amministrativo può coinvolgere non solo un interesse privato e un interesse pubblico, ma anche una pluralità di interessi pubblici (si pensi, ad es., al procedimento di pianificazione urbanistica, che tocca tutti gli interessi pubblici che gravitano sul territorio: ambientali, produttivi, culturali, etc.). In questi casi, l’ amministrazione competente a decidere è tenuta ad acquisire intese, concerti, nulla osta o altri atti di assenso di altre amministrazioni pubbliche (in altri termini, essa non può decidere autonomamente). Proprio a tale scopo, la legge sul procedimento ha introdotto uno strumento di semplificazione: la conferenza di servizi (L. 241/90; d.l. 78/2010, conv. in L. 122/2010). La legge, in particolare, distingue i casi in cui la conferenza è facoltativa (può essere indetta) da quelli nei quali è, invece, obbligatoria (deve essere indetta); individua, inoltre, chi è competente a convocarla (di solito l’ amministrazione procedente e, per essa, il responsabile del procedimento); e attribuisce al privato interessato la facoltà di chiederne la convocazione. Le regole comuni possono essere così sintetizzate: • una volta indetta la conferenza, la prima riunione deve essere tenuta nei 15 gg. successivi (o nei 30 gg. successivi, qualora il procedimento sia particolarmente complesso); • i lavori della conferenza non possono durare più di 90 gg. (prorogabili fino a 90 gg., nel caso in cui venga richiesta la valutazione di impatto ambientale); • alla conferenza sono convocati coloro che propongono il progetto dedotto in conferenza; • conclusa la conferenza (o scaduto il termine), l’ amministrazione procedente adotta la determinazione motivata di conclusione del

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procedimento; • il provvedimento finale (che deve conformarsi alla determinazione di cui sopra) sostituisce, a tutti gli effetti, le autorizzazioni, le concessioni, i nulla osta o gli altri atti di assenso di competenza delle amministrazioni coinvolte nella conferenza; • anche se i lavori della conferenza sono retti dal principio maggioritario, i partecipanti non possono limitarsi ad esprimere un voto (un sì o un no); infatti, il dissenso (ma anche il consenso) di una o più amministrazioni coinvolte, deve essere motivato e manifestato nella conferenza di servizi (non al di fuori di essa) e deve recare anche le specifiche indicazioni delle modifiche progettuali che l’ organo partecipante alla conferenza ritiene necessarie affinché possa rilasciare il suo assenso; • una deroga al principio maggioritario è prevista, però, qualora il motivato dissenso provenga da un’ amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale ovvero alla tutela del patrimonio storico-artistico, della salute e della pubblica incolumità; in questi casi, in ragione della rilevanza degli interessi in gioco, la competenza viene trasferita all’ organo politico: e, cioè, al Consiglio dei ministri, se il dissenso è tra amministrazioni dello Stato; alla conferenza Stato-regioni, se il dissenso è tra Stato e regione; alla conferenza unificata, se il dissenso è tra regione ed ente locale (l’ organo incaricato di risolvere il conflitto è chiamato a decidere entro 30 gg., prorogabili fino a 60 gg. quando l’ istruttoria è particolarmente complessa). f) la partecipazione del privato Il procedimento è il luogo nel quale il privato fa sentire la sua voce non solo a tutela del suo interesse ad impedire una misura amministrativa a lui sfavorevole ovvero del suo interesse a conseguire un provvedimento favorevole, ma anche in funzione di una decisione amministrativa giusta (che tenga conto, cioè, dell’ interesse del privato). La prima esigenza che deve essere soddisfatta è quella di informare il privato interessato del fatto che è stato avviato un procedimento che lo riguarda [e ciò avviene mediante la comunicazione dell’ avvio del

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procedimento (questa esigenza risulta particolarmente avvertita nei procedimenti ad iniziativa d’ ufficio: si pensi, ad es., ad un provvedimento espropriativo o sanzionatorio)]. Ma, in realtà, anche nei procedimenti ad iniziativa di parte (ad es., richiesta di autorizzazione, concessione, etc.) può prospettarsi la necessità di una informazione nei riguardi di coloro che potrebbero ricevere un danno (diversi dal privato interessato). Grazie alla comunicazione dell’ avvio del procedimento l’ interessato può intervenire nel procedimento, prendere visione degli atti e presentare memorie e documenti; è necessario sottolineare, però, che possono intervenire nel procedimento anche: l’ interessato che non abbia avuto comunicazione dell’ avvio del procedimento (ma ne abbia appurato l’ esistenza aliunde), i soggetti che dal provvedimento potrebbero ricevere un danno ed infine i portatori di interessi diffusi, costituiti in associazioni (ad es., le associazioni ambientalistiche). Le memorie e i documenti depositati obbligano l’ amministrazione a valutarli e a prendere posizione su di essi; fatto ciò, qualora essa ritenga di rigettare le argomentazioni e le richieste contenute nelle memorie e di non tener conto dei documenti presentati, deve enunciare le ragioni del suo convincimento. Prima che venga adottato un provvedimento che rigetta un’ istanza di parte, il responsabile del procedimento comunica all’ interessato i motivi che ostano all’ accoglimento dell’ istanza; in questo caso, l’ interessato, nei 10 gg. successivi, può presentare per iscritto le sue osservazioni e depositare eventuali documenti. Se non accoglie le osservazioni dell’ interessato l’ amministrazione ne deve dar ragione nella motivazione del provvedimento finale. g) l’ accesso ai documenti Perché possa far valere le sue ragioni nel procedimento amministrativo, il privato non solo deve essere informato della pendenza del procedimento e del suo oggetto, ma deve anche conoscere i documenti sulla base dei quali l’ amministrazione agisce. Questa conoscenza, in passato, era resa difficile a causa della sussistenza del segreto d’ ufficio, al quale era tenuto il

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pubblico impiegato, in virtù dell’ art. 15 D.P.R. 3/57 (statuto degli impiegati civili dello Stato); il principio di segretezza, però, è stato sostituito oggi dal principio di trasparenza, enunciato dall’ art. 1 L. 241/90. In questa prospettiva, legittimati all’ accesso sono i privati, inclusi i portatori di interessi pubblici o diffusi (ad es., le organizzazioni sindacali) che abbiano un interesse diretto, concreto ed attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento. Oggetto dell’ accesso sono i documenti amministrativi (anche interni e non relativi ad uno specifico provvedimento), indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della disciplina sostanziale: in altri termini, chi ha un interesse può accedere anche ad una lettera di intenti, ad una proposta contrattuale fatta dalla P.A. o ad un contratto di lavoro. Tra i documenti ai quali si può accedere vi sono, poi, anche quelli che non riguardano uno specifico procedimento: l’ interessato, infatti, potrebbe avere interesse ad acquisire copia di un provvedimento, in relazione ad un processo civile, penale o amministrativo (ad es., la certificazione di una missione in un certo luogo, compiuta da un impiegato, da utilizzare come alibi in un processo penale a suo carico). Il diritto di accesso può essere esercitato mediante il semplice esame del documento ovvero con l’ estrazione di copia (copia può anche essere la riproduzione di un filmato o di una registrazione fonografica). È necessario sottolineare, però, che il diritto di accesso è escluso in determinati casi stabiliti dalla legge (art. 24, co. 1 L. 241/90): si tratta, in particolare, dei documenti coperti dal segreto di Stato e di quelli che contengono informazioni di carattere psico-attitudinale relative ai terzi. È poi prevista la facoltà del Governo di sottrarre all’ accesso, mediante regolamento, alcune specie di documenti (art. 24, co. 6 L. 241/90): si tratta di documenti, la cui divulgazione possa produrre una lesione alla sicurezza e alla difesa nazionale ovvero possa pregiudicare la formazione e l’ attuazione della politica monetaria e valutaria ovvero, ancora, nuocere alle ragioni di ordine pubblico, ostacolare la lotta alla criminalità o pregiudicare l’ attività di polizia giudiziaria. Il diritto di accesso può anche confliggere con la tutela e la riservatezza

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altrui: sono, pertanto, esclusi dall’ accesso i documenti che riguardano la vita privata o la riservatezza di persone (fisiche e giuridiche), gruppi, imprese e associazioni; ciò significa, quindi, che il diritto alla riservatezza del terzo prevale sul diritto di accesso (quando, però, l’ accesso ai documenti è necessario al privato per curare o per difendere i propri interessi giuridici, è il diritto di accesso che deve essere tutelato ed avere preminenza). L’ amministrazione può, in ogni caso, rifiutare l’ accesso ai documenti quando l’ istante non è legittimato o la sua domanda non è motivata ovvero ancora quando il documento rientra tra quelli esclusi dall’ accesso; contro il rifiuto dell’ amministrazione, tuttavia, l’ interessato può proporre ricorso al Tribunale amministrativo regionale (Tar) entro 30 gg. (se accoglie il ricorso, che deve essere deciso in camera di consiglio entro 30 gg. dalla scadenza del termine per il deposito della richiesta, il Tar ordina all’ amministrazione l’ esibizione dei documenti richiesti). Per quel che riguarda, infine, la natura che il diritto di accesso assume, parte della giurisprudenza nega che si tratti di un diritto soggettivo, qualificando l’ istituto come interesse legittimo; altra parte della giurisprudenza, invece, ritiene che ci si trovi in presenza di un vero e proprio diritto soggettivo (e ciò troverebbe conferma nel dato letterale, ex art. 22 L. 241/90, che qualifica, infatti, l’ accesso come diritto). §5. La conclusione del procedimento a) il termine In virtù del principio costituzionale del buon andamento dell’ amministrazione, una volta esaurita l’ istruttoria, l’ amministrazione ha l’ obbligo di provvedere con un provvedimento espresso, entro un termine prestabilito. Analizziamo le implicazioni di questo enunciato. Innanzitutto, va detto che l’ obbligo di provvedere sussiste ogni qual volta l’ amministrazione ha l’ obbligo di procedere; non sempre, però, l’ obbligo di procedere (e, quindi, di provvedere) sussiste: sussiste, ad es., quando è il privato a chiedere il rilascio di un provvedimento tipico (un’ autorizzazione,

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una concessione, una dispensa, etc.); non sussiste, invece, quando il privato chiede, ad es., l’ annullamento di un provvedimento. Il procedimento, come detto, deve concludersi entro un termine prestabilito (e in ciò il procedimento amministrativo si distingue dal processo, nel quale manca, invece, un termine prestabilito per la sua conclusione). In particolare, per ciascun procedimento gestito dalle amministrazioni statali il termine è stabilito da un regolamento governativo; per quel che riguarda, invece, gli enti pubblici nazionali, ciascuno di essi adotta regolamenti o atti amministrativi generali, in conformità ai rispettivi ordinamenti; per quanto riguarda, infine, le regioni e gli enti locali, questi regolano la materia (anche quella dei termini) nel rispetto delle garanzie del cittadino nei riguardi dell’ azione amministrativa. Qualora, però, l’ amministrazione procedente abbia omesso di provvedere a fissare il termine, il procedimento deve concludersi entro 90 gg. dal suo avvio. Il procedimento deve essere concluso con un provvedimento espresso: ciò significa, da un lato, che l’ amministrazione non può trincerarsi dietro il silenzio e, dall’ altro lato, che il provvedimento amministrativo (dal momento che deve essere motivato) deve avere una forma scritta. b) il decorso infruttuoso del termine Anche se è obbligata a provvedere, non sempre l’ amministrazione porta a termine il procedimento nel modo prescritto: spesso, infatti, il termine scade senza che nessun provvedimento venga adottato. Allo scopo di evitare ciò, la giurisprudenza e la legislazione hanno introdotto determinate misure volte a contrastare l’ inerzia dell’ amministrazione; tali misure possono essere così classificate: • quando l’ atto omesso è fortemente restrittivo della sfera giuridica del privato (ad es., un’ espropriazione o una sanzione disciplinare), la legge fa discendere, dal decorso infruttuoso del termine per la conclusione del procedimento, l’ esaurimento del potere dell’ amministrazione di provvedere (ad es., il decreto di esproprio emesso dopo la scadenza del termine stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità è nullo);

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• nei procedimenti ad istanza di parte il silenzio dell’ amministrazione (protratto oltre il termine stabilito per la conclusione del procedimento) equivale, invece, ad accoglimento della domanda; tale regola, però, conosce molte eccezioni: il silenzio-assenso, ad es., non si applica agli atti e ai procedimenti riguardanti il patrimonio culturale e paesaggistico, l’ ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza e la salute pubblica. È bene precisare, comunque, che anche se è decorso il termine (e, quindi, si è formato il silenzio-assenso) l’ amministrazione competente, in funzione di autotutela, può annullare o revocare l’ atto di assenso tacito, negando, con ritardo, quel provvedimento che il privato aveva ottenuto; • nei procedimenti ad istanza del privato, in cui l’ amministrazione rimane inerte oltre il termine per la conclusione del procedimento e in cui non trova applicazione l’ istituto del silenzio-assenso, opera il principio civilistico, in base al quale chi tace non dice né si né no: in tal caso, il silenzio dell’ amministrazione viene equiparato ad un provvedimento di rifiuto (o di diniego), avverso il quale l’ interessato, entro 1 anno, può proporre impugnazione dinanzi al giudice amministrativo. §6. Il provvedimento amministrativo a) la nozione Il procedimento confluisce verso un atto conclusivo che la L. 241/90 qualifica come provvedimento amministrativo (o provvedimento finale); è bene precisare, però, che la nozione di provvedimento amministrativo non va confusa con quella di atto amministrativo: mentre, infatti, gli atti amministrativi sono quelli che precedono o seguono il provvedimento (in funzione preparatoria o servente), il provvedimento coincide, invece, con la decisione (cioè, con la scelta dell’ amministrazione competente). In passato, il provvedimento amministrativo è stato definito come la dichiarazione di volontà, di conoscenza, di giudizio o di desiderio espressa da un’ autorità amministrativa; questa nozione, però, da un lato, risultava troppo ampia (perché finiva per ricomprendere anche atti amministrativi che non erano provvedimenti) e, dall’ altro, enfatizzava un profilo (quello

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psicologico) che veniva in scarso rilievo sia ai fini del regime giuridico, sia ai fini della validità-invalidità del provvedimento. L’ aspetto importante da prendere in considerazione, invece, è che quel provvedimento proviene da un’ autorità amministrativa, anzi costituisce esercizio di una potestà amministrativa: in tal senso, appare appropriata la definizione proposta dal Giannini, secondo il quale il provvedimento amministrativo è l’ atto con cui l’ autorità amministrativa dispone in un caso concreto, in ordine all’ interesse pubblico che è affidato alla sua tutela, esercitando una potestà amministrativa e incidendo su situazioni giuridiche di privati. b) gli elementi del provvedimento Analizziamo i singoli elementi della definizione: • il provvedimento amministrativo proviene da un’ autorità amministrativa; ciò significa che il provvedimento viene qualificato, innanzitutto, dal soggetto [sicché un atto di identico contenuto, ma adottato da un privato o da un soggetto pubblico che non fa parte dell’ amministrazione (ad es., una commissione parlamentare) non è un provvedimento amministrativo (in questa prospettiva, provvedimento amministrativo è, ad es., l’ ordinanza con la quale il sindaco vieta la circolazione delle auto in una strada comunale durante certe ore della giornata; non lo è, invece, la disposizione con la quale il proprietario di una riserva di caccia limita la circolazione degli autoveicoli)]; • perché un atto sia qualificato come provvedimento amministrativo non basta che esso provenga da un’ autorità amministrativa, ma occorre anche che sia emanato nell’ esercizio di una potestà amministrativa [nell’ ambito, cioè, del diritto pubblico: in quest’ ottica, non sono, ad es., provvedimenti amministrativi i contratti delle P.A., ovvero gli atti precontrattuali (offerta, accettazione, controproposta) ovvero ancora gli atti di esecuzione di un contratto; è, invece, un provvedimento amministrativo la deliberazione a contrattare, ossia l’ atto con il quale l’ ente pubblico individua il fine del contratto, ne fissa il contenuto fondamentale (oggetto, forma e clausole essenziali) e stabilisce le modalità di scelta del contraente];

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• il provvedimento si concreta in un disporre (o provvedere) in un caso concreto in ordine ad un interesse pubblico. Più precisamente, l’ autorità amministrativa può provvedere con una disposizione (ad es., quando ordina la demolizione di una costruzione abusiva), con una decisione (ad es., quando assegna ad una delle ditte richiedenti, escludendo le altre, una concessione di autolinea), con una dichiarazione (ad es., quando dichiara un immobile di interesse paesaggistico) ovvero con un giudizio (si pensi, ad es., alla commissione di laurea che assegna il voto); • il provvedere dell’ atto amministrativo si contrappone al prevedere che è proprio della legge: la legge, ad es., prevede che, per costruire un edificio, il proprietario dell’ area deve essere autorizzato dal sindaco; il sindaco del comune x, in presenza di una domanda del proprietario y, provvede ad autorizzarlo (o a negargli l’ autorizzazione). Questa contrapposizione mette in luce un aspetto fondamentale del provvedimento amministrativo, vale a dire: il suo legame con un interesse pubblico, che la legge individua in astratto, ma che l’ autorità amministrativa tutela in concreto (nell’ esempio precedente va notato, infatti, che il sindaco non stabilisce una regola, ma la applica nel caso specifico); • un altro aspetto della definizione di provvedimento amministrativo riguarda, poi, la sua efficacia verso l’ esterno: questo tratto vale a distinguere i provvedimenti amministrativi dagli atti amministrativi che non sono provvedimenti (ad es., la proposta del sindaco di localizzare un edificio scolastico in una certa area spiega effetti nei confronti del proprietario solo quando la stessa viene fatta propria dalla giunta o dal consiglio comunale, mediante una delibera che ha natura di provvedimento); quindi, dal provvedimento si distinguono (perché privi di efficacia esterna) gli atti interni e quelli endoprocedimentali, che esplicano i loro effetti all’ interno del procedimento; • un’ ulteriore caratteristica del provvedimento amministrativo è, infine, la discrezionalità; in particolare, il problema della discrezionalità amministrativa (ossia della scelta che l’ amministrazione è chiamata ad effettuare) va inquadrato nel rapporto che sussiste tra provvedimento e

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decisione: ai sensi, infatti, dell’ art. 3 L. 241/90 la decisione è legata alle risultanze dell’ istruttoria e costituisce, di solito, il prodotto dell’ esame contestuale di vari interessi pubblici. Si tratta, pertanto, di una scelta che non è del tutto libera: in primo luogo, perché essa è compiuta dall’ autorità a tutela di un interesse che non è proprio; in secondo luogo, perché è legata alle risultanze dell’ istruttoria [infatti, l’autorità amministrativa provvede sulla base di fatti che vanno accertati d’ ufficio, cioè sulla base di un’ istruttoria, le cui risultanze confluiscono nella motivazione del provvedimento (se, ad es., dall’ istruttoria emerge che la costruzione è stata realizzata in totale difformità della concessione edilizia, il dirigente comunale non può fare a meno di ordinare la demolizione); in terzo luogo, la scelta non è libera perché essa è spesso espressione di una valutazione comparativa di interessi (pubblici e privati): si pensi, ad es., ad un piano regolatore urbanistico, il quale andrà ad incidere non solo sull’ interesse dei proprietari delle aree ricomprese nel territorio comunale, ma anche sugli interessi di privati che non sono proprietari, nonché sugli interessi pubblici. c) la motivazione L’ art. 3 L. 241/90 stabilisce che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato; con la motivazione, in particolare, l’ autorità amministrativa (ad es., il sindaco), in relazione alle risultanze dell’ istruttoria, deve indicare i presupposti di fatto (ad es., che l’ edificio di proprietà di Tizio è pericolante) e le ragioni giuridiche che giustificano la decisione (nel nostro esempio, la norma che attribuisce al sindaco il potere di ordinare a Tizio di effettuare lavori di consolidamento). Dalla formulazione dell’ art. 3 su citato si evince che la motivazione è obbligatoria; ma, a questo punto ci si chiede il perché. Per rispondere a tale quesito, è necessario precisare, innanzitutto, che il provvedimento amministrativo, al pari della legge del Parlamento o della sentenza del giudice, è un’ espressione del pubblico potere (e, in quanto tale, idoneo ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica del cittadino). Tuttavia, mentre non v’è motivo di motivare la legge, perché essa è espressione della

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volontà popolare (è votata, cioè, da un collegio, i cui componenti sono eletti dal popolo), i giudici e la P.A. non sono eletti dal popolo; è bene precisare, però, che solo per i provvedimenti giurisdizionali è stato costituzionalizzato, in modo puntuale, l’ obbligo di motivazione (art. 111, co. 6), mentre per quelli amministrativi, almeno fino al 1990, un simile obbligo generalizzato non era previsto neppure nella legge ordinaria. Secondo una teoria formulata negli ultimi anni, però, l’ obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi troverebbe, in realtà, il proprio fondamento nel principio democratico, dal momento che quest’ ultimo implica sia trasparenza nelle decisioni dell’ autorità amministrativa, che esplicitazione delle ragioni (in funzione del controllo popolare); ne consegue, pertanto, che ogni provvedimento amministrativo deve essere motivato, allo scopo di consentire al cittadino di avere le informazioni necessarie per esercitare quel controllo. Più risalente nel tempo è, invece, la teoria che riconduce l’ obbligo di motivazione ai princìpi costituzionali di imparzialità dell’ attività amministrativa (art. 97) e di giustiziabilità degli atti amministrativi, contro i quali è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi (art. 113); in altri termini, secondo tale teoria si ritiene che se l’ amministrazione deve agire in modo imparziale, il privato ha il diritto di conoscere le ragioni per le quali la decisione viene presa. In linea con questa impostazione, l’ atto privo di motivazione è illegittimo, proprio perché impedisce al cittadino di conoscere le ragioni poste a fondamento del provvedimento. d) le suggestioni della dottrina del contratto e la questione del silenzio Parte della dottrina, nella costruzione dogmatica del provvedimento amministrativo, si è ispirata alla teoria del negozio giuridico e del contratto: da qui, il frequente richiamo alle categorie civilistiche della volontà, della forma e della causa. Analizziamo tali elementi. La volontà non può mancare nel provvedimento amministrativo, perché esso deve essere necessariamente voluto (anche qualora il suo contenuto si risolva in un giudizio); rispetto al contratto, però, diversa è la rilevanza

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della volontà: mentre, infatti, l’ assenza o il vizio della volontà rende nullo o annullabile il contratto, l’ invalidità del provvedimento non è mai diretta conseguenza di un vizio della volontà (ad es., l’ ordine di demolizione di un immobile che il dirigente comunale ritiene abusivo, mentre è stato autorizzato con regolare permesso di costruire, è annullabile non perché l’ atto è affetto da un errore-vizio, ma perché difetta il presupposto richiesto dalla legge, vale a dire il carattere abusivo della costruzione). Più complesso, invece, è il discorso relativo alla forma: in passato si era soliti ripetere che, in assenza di specifiche prescrizioni, la forma del provvedimento era libera; oggi, invece, l’ art. 3 L. 241/90, prescrivendo la motivazione per ciascun provvedimento amministrativo, presuppone la necessità della forma scritta, perché questa è la sola che consente all’ amministrazione di indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione, in relazione alle risultanze dell’ istruttoria. Identica soluzione è indicata dall’ art. 2, co. 1, L. 241/90, in virtù del quale, una volta avviato il procedimento, l’ amministrazione ha il dovere di concluderlo mediante l’ adozione di un provvedimento espresso (cioè, scritto). In passato, però, si è a lungo discusso se il provvedimento amministrativo potesse assumere forma tacita (se potesse esserci, cioè, un provvedimento tacito); se, tuttavia, la questione poteva apparire giustificabile in passato, oggi, invece, il quadro normativo contiene una risposta ben precisa (si legga l’ art. 2 su citato, che parla di provvedimento espresso e, quindi, scritto). È bene precisare, però, che l’ art. 20 L. 241/90 (nell’ ottica della semplificazione amministrativa) stabilisce che, nei procedimenti ad istanza di parte, il silenzio dell’ amministrazione, protratto oltre il termine per la conclusione del procedimento, equivale ad accoglimento della domanda (si parla in questi casi di cd. silenzio-assenso); in altri termini, ciò significa che una volta scaduto il termine per la conclusione del procedimento, senza che l’ amministrazione abbia provveduto sulla domanda del privato, questi potrà avviare l’ attività, il cui svolgimento è subordinato al rilascio di un determinato provvedimento amministrativo (il privato, cioè, potrà avviare

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quell’ attività come se, una volta scaduto il termine, la stessa fosse libera); da quanto abbiamo detto si intuisce, pertanto, che la legge non autorizza affatto una sorta di provvedimento silenzioso; solo che, per ragioni di tutela del privato, l’ inerzia viene equiparata ad un atto di assenso. È bene precisare, comunque, che l’ amministrazione conserva sempre il potere di adottare i provvedimenti di annullamento e di revoca (può, cioè, annullare o revocare il silenzio-assenso che si era formato in precedenza); ma ciò soltanto nei casi in cui ricorrano i presupposti indicati dalla legge, quali: l’ esistenza di uno specifico interesse pubblico alla cessazione dell’ attività ovvero una delle sopravvenienze che autorizzano la revoca. Al di fuori dei casi di silenzio-assenso, la legge equipara, invece, l’ inerzia dell’ amministrazione, mantenuta oltre un certo termine, a rifiuto di provvedimento (cd. silenzio-rifiuto). Rimane da analizzare, infine, la questione della causa del provvedimento; al riguardo, è necessario premettere che nel periodo successivo all’ entrata in vigore del codice civile, la causa (del provvedimento amministrativo) veniva identificata con la funzione economico-sociale tipica del contratto (in questa prospettiva, ad es., la causa dell’ autorizzazione amministrativa veniva a coincidere con la rimozione di un limite all’ esercizio di un diritto e la causa della espropriazione con il trasferimento coattivo dell’ immobile dietro un indennizzo); una tale concezione della causa comportava, però, problemi tecnici di non facile soluzione: come quello della causa illecita nei contratti tipici. Per risolvere il problema, si è pensato allora di spostare il concetto di causa dall’ atto al potere amministrativo, qualificato in ragione del suo contenuto (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.); pertanto, in virtù di tale spostamento, la causa si identifica, oggi, con l’ interesse pubblico specifico (sanitario, ambientale, urbanistico, etc.) che, a mezzo di quel potere, viene tutelato. §7. Gli accordi tra l’ amministrazione ed il privato a) il rapporto tra l’ art. 11 L. 241/90 e i princìpi civilistici L’ art. 11 L. 241/90 prevede anche la possibilità di un esito negoziato del

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procedimento amministrativo: prevede, cioè, che il procedimento si concluda con un accordo, anziché con un provvedimento. Più precisamente, l’ accordo con gli interessati è consentito sia allo scopo di determinare il contenuto discrezionale del provvedimento finale, sia in sostituzione di questo: cioè, come accordo preliminare al provvedimento o come accordo sostitutivo dello stesso. Gli accordi in questione rappresentano una species del genus contratti, che l’ amministrazione è abilitata a concludere nella sua capacità di soggetto giuridico; e ciò è confermato dallo stesso art. 11 L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che agli accordi si applicano, ove non diversamente stabilito, i princìpi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti. Sono, però, previste determinate deroghe: • innanzitutto, va detto che l’ accordo deve essere concluso nel perseguimento di un pubblico interesse; • in secondo luogo, la stipulazione dell’ accordo deve essere preceduta da una determinazione dell’ organo competente ad adottare il provvedimento (e non del dirigente che, poi, stipulerà l’ accordo per conto dell’ amministrazione); • l’ accordo deve essere, poi, concluso senza pregiudizio dei diritti dei terzi: se, infatti, l’ accordo sostituisce il provvedimento o ne predetermina il contenuto e se il provvedimento può ledere il terzo (ad es., il permesso di costruire rilasciato a Tizio può danneggiare Caio) è ragionevole che il terzo venga tutelato con questa clausola; • è necessario sottolineare, infine, che l’ amministrazione, per sopravvenuti motivi di pubblico interesse può recedere unilateralmente dall’ accordo, salvo l’ obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo, in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato (è questa un’ ulteriore applicazione del principio secondo il quale l’ accordo deve essere perseguito nel pubblico interesse). b) gli accordi ex art. 11 L. 241/90 Gli accordi previsti dall’ art. 11 sono di due tipi: quelli che determinano il

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contenuto discrezionale del provvedimento finale (che viene comunque adottato) e quelli che lo sostituiscono. Per quanto riguarda gli accordi del primo tipo, l’ amministrazione concorre a determinare il contenuto dell’ accordo, accettando la proposta del privato (previa una sua valutazione) o formulando essa stessa la proposta. Ovviamente, una volta sottoscritto l’ accordo, il contenuto del provvedimento diventa vincolato, perché esso deve essere conforme all’ accordo (se è difforme, il provvedimento è illegittimo). Gli accordi del secondo tipo, invece, sostituiscono il provvedimento: nella versione originaria dell’ art. 11 ciò era possibile soltanto nei casi previsti dalla legge (quali l’ accordo amichevole in materia di espropriazione e la convenzione in materia urbanistica). La novella del 2005 ha soppresso, però, tale inciso: sicché l’ accordo sostitutivo del provvedimento è oggi ammesso senza limitazioni. A questo punto ci si pone un quesito fondamentale: per quale motivo l’ amministrazione, che dispone di un potere unilaterale (che si estrinseca nel provvedimento), dovrebbe optare per un accordo, ossia per una risoluzione che implica il consenso del privato? Per rispondere a questa domanda, è necessario sottolineare che oggi il privato è sempre più riluttante a sottostare all’ autorità amministrativa e, invece, sempre più propenso a contestarne le determinazioni e i comandi (sia nel procedimento, sia in via di fatto); vi è, quindi, un interesse dell’ autorità ad ottenere il consenso preventivo della parte se vuole raggiungere il suo obiettivo; dal canto suo, invece, il privato può avere interesse a venire a patti con un’ autorità ostile se vuole realizzare il suo interesse. In quest’ ottica, le due parti, pubblica e privata, si fanno reciproche concessioni, che consentono di raggiungere un’ intesa: così, ad es., sostituendo al provvedimento l’ accordo, l’ autorità può ottenere dal privato, che richiede un permesso di costruire, una prestazione supplementare (ad es., la manutenzione del tratto di strada antistante) che non potrebbe formare oggetto di condizione apposta al provvedimento (perché ne snaturerebbe la tipicità e sarebbe, quindi, illegittima); la proposta può anche venire dal privato che, in questo modo, ottiene ciò che

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avrebbe incontrato resistenza. Il sistema degli accordi, ex art. 11 L. 241/90, viene chiuso da una clausola che riguarda la giurisdizione: le controversie in materia di formazione, conclusione ed esecuzione degli accordi sono riservate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In particolare, la controversia può insorgere tra le due parti dell’ accordo (ad es., perché l’ autorità si rifiuta di emettere il provvedimento, il cui contenuto è stato determinato con l’ accordo, o perché una delle parti non adempie alle obbligazioni nascenti dall’ accordo sostitutivo), ma può anche insorgere con un terzo che ricorre contro l’ accordo (o contro il provvedimento sostitutivo dell’ accordo), assumendo di aver subìto il pregiudizio che l’ accordo non dovrebbe comportare. In ogni caso, è necessario sottolineare che gli accordi, ex art. 11, ricorrono raramente nella prassi: le amministrazioni, infatti, da un lato, non sono, di norma, disposte a rinunciare all’ esercizio unilaterale del potere; dall’ altro, gli amministratori temono di venire a patti con i privati per timore che dietro l’ operazione il giudice penale possa ravvisare le fattispecie di corruzione, concussione e abuso.

Sezione III L’ efficacia del provvedimento §1. L’ efficacia del provvedimento amministrativo a) l’ efficacia del genus provvedimento

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In dottrina ci si chiede se accanto agli effetti peculiari del singolo provvedimento amministrativo (autorizzazione, concessione, etc.) possa essere configurata un’ efficacia del genere provvedimento, che sia capace di accomunare le singole specie di provvedimento. Per rispondere a tale quesito, occorre procedere analiticamente, partendo dai singoli provvedimenti amministrativi; in tal modo, infatti, ci si potrà rendere conto che gli effetti di questi provvedimenti hanno perfetti equivalenti in altri rami del diritto: si pensi, ad es., all’ espropriazione per pubblica utilità, che rappresenta il provvedimento amministrativo per eccellenza; eppure la sua efficacia non è diversa dalla pronuncia del giudice dell’ esecuzione, che trasferisce all’ aggiudicatario il bene immobile espropriato (art. 586 c.c.). Si pensi, ancora, all’ autorizzazione amministrativa: anch’ essa, a prima vista, sembra un unicum; ma, in realtà, è sufficiente guardare ai rapporti di vicinato nella proprietà immobiliare (art. 873 c.c.) per rendersi conto che quasi tutti i divieti e i limiti che gravano sul proprietario a tutela del fondo vicino possono essere rimossi con il consenso del proprietario di quest’ ultimo (che può, ad es., tollerare la comunione forzosa del muro sul confine o consentire una deroga alle distanze, ex art. 878 c.c.). Il discorso non cambia se dalla singola specie di provvedimento si passa al provvedimento in genere, dal momento che sussiste una forte analogia tra l’ atto posto in essere dall’ autorità amministrativa ed il contratto: anche il provvedimento amministrativo, infatti, in virtù della definizione contenuta nell’ art. 1321 c.c., è capace, come il contratto, di costituire, regolare o estinguere un rapporto giuridico (con la differenza, però, che l’ effetto del provvedimento amministrativo viene prodotto unilateralmente e non da un accordo). b) l’ autoritarietà e l’ imperatività del provvedimento Un aspetto interessante dell’ efficacia del provvedimento amministrativo è la sua autoritarietà (o autorità). In relazione a tale aspetto, la dottrina italiana, sulla scorta di quella francese, ha messo in rilievo che questa efficacia si produce indipendentemente dal consenso del terzo o anche in presenza di un suo dissenso: in ciò il potere amministrativo si

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distinguerebbe dal potere privato, proprio perché l’ atto di esercizio di quest’ ultimo non produce conseguenze giuridiche in capo al terzo. Di recente, però, questo aspetto dell’ incidenza unilaterale del provvedimento amministrativo sulla sfera giuridica altrui è stato messo in discussione con riferimento ad alcune categorie di provvedimenti favorevoli, come l’ autorizzazione o la concessione: in tali casi, si è osservato che non si può prescindere dal consenso del privato, perché la richiesta da parte di questi (che implica, ovviamente, un consenso anticipato) costituisce una condizione di legittimità del provvedimento e coincide con l’ avvio del relativo procedimento. Ciò, però, non significa che il consenso, ove richiesto, faccia venir meno il carattere unilaterale del provvedimento: ad es., il consenso manifestato con la richiesta di concessione non si fonde con la volontà dell’ autorità amministrativa (come accadrebbe se si trattasse di un contratto), ma rimane ad essa esterna. Ragionando a contrario, quindi, se ne deduce che l’ efficacia unilaterale sulla sfera giuridica del terzo è esclusiva dei provvedimenti amministrativi sfavorevoli (che prescindono dal consenso del terzo). Ciò, però, non è del tutto vero: ed infatti, con riferimento, quantomeno, alle concessioni (provvedimento amministrativo favorevole) si è detto che esse non si esauriscono nell’ attribuzione di un vantaggio al beneficiario, ma possono anche dar luogo ad un diniego nei riguardi di altri aspiranti allo stesso bene o servizio (tant’è vero che questi sono legittimati a ricorrere dinanzi al giudice amministrativo contro la concessione rilasciata ad altra persona). Sempre con riferimento all’ aspetto dell’ incidenza unilaterale nella sfera giuridica del terzo si pone, poi, la questione della cd. imperatività del provvedimento, la cui nozione è stata proposta per la prima volta dallo studioso Giannini: questi, in particolare, ha identificato l’ imperatività con l’ autorità del provvedimento, che si articola in tre effetti tra loro collegati: la degradazione dei diritti, l’ esecutività e l’ inoppugnabilità. Viceversa, nella ricostruzione più recente della dottrina (in particolare: Scoca) l’ imperatività (concepita come una particolare qualità dell’ atto amministrativo) viene a costituire, insieme all’ autotutela, uno dei due elementi dell’ autorità; secondo quest’ impostazione, l’ imperatività perde la

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sua autonomia e viene ad identificarsi con l’ idoneità del provvedimento a produrre eventi di nascita, modificazione ed estinzione di situazioni soggettive nella sfera giuridica altrui, indipendentemente dalla collaborazione del soggetto che lo subisce. c) la questione della forza tipica Un diverso modo di affrontare il tema dell’ efficacia giuridica del provvedimento amministrativo è quello di chi parte dallo schema evocato, a proposito del contratto, dall’ art. 1372 c.c., il quale stabilisce che il contratto ha forza di legge tra le parti. Partendo da questo assunto, ci si domanda, pertanto, se il provvedimento amministrativo possieda un’ analoga forza. A differenza della dottrina tedesca, che ha dato al quesito risposa positiva, quella italiana non ha mai accettato l’ equiparazione dell’ efficacia del provvedimento amministrativo con la forza di legge tra le parti, propria del contratto, perché essa non si concilierebbe con categorie fondamentali di provvedimenti amministrativi come le concessioni, le autorizzazioni e gli atti ablativi (così, ad es., se si parte dal presupposto che l’ autorizzazione rimuove un limite all’ esercizio di un diritto, la determinazione del diritto del soggetto autorizzato non nasce dall’ autorizzazione, ma dalla norma che tutela la libertà, la quale, per effetto dell’ autorizzazione, può essere pienamente dispiegata). Di conseguenza, allo scopo di cercare di attribuire al provvedimento amministrativo una sua forza tipica, in dottrina l’ attenzione si è spostata sul vincolo che il provvedimento pone a carico dell’ amministrazione; in virtù di tale vincolo, infatti, il provvedimento amministrativo instaura una situazione che non può essere modificata fino a quando l’ amministrazione non adotti un atto ulteriore, di annullamento o di revoca del precedente, in presenza dei presupposti che autorizzano il contrarius actus (così, ad es., se il sindaco autorizza chi ne ha fatto richiesta ad esercitare il commercio non può poi disporre la chiusura della bottega, come se l’ autorizzazione mancasse; allo stesso modo, se la provincia ha espropriato un immobile per farvi un impianto sportivo non può poi destinare il bene acquisito ad altro uso).

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§2. L’ esecuzione del provvedimento (l’ esecutorietà) Con il provvedimento amministrativo l’ autorità dispone qualcosa; un qualcosa che, di solito, richiede un’ attività materiale ulteriore (o del privato o della stessa autorità). Volendo esemplificare, in relazione ad una prima serie di ipotesi possiamo dire che il privato, in seguito all’ emanazione del provvedimento, ha la possibilità di porre in essere una determinata attività: così, ad es., una volta rilasciata l’ autorizzazione, il privato può svolgere un’ attività che prima gli era vietata (costruire una casa, trasmettere programmi televisivi, etc.). In altri casi, invece, egli non ha la facoltà, ma l’ obbligo di porre in essere un’ attività: ad es., quando gli viene notificato un ordine di demolizione o un ordine di messa in sicurezza di un immobile o un ordine di sgombero. In questi casi, se il privato non ottempera, l’ amministrazione può imporre l’ esecuzione coattiva dell’ obbligo inadempiuto, senza necessità di rivolgersi al giudice; e ciò in forza di un principio generale di esecutorietà degli atti amministrativi (è necessario sottolineare, però, che il legislatore del 2005, modificando l’ art. 21 ter L. 241/90, ha stabilito espressamente che l’ esecuzione coattiva da parte dell’ amministrazione può essere imposta soltanto nelle ipotesi e con le modalità previste dalla legge). In una terza serie di ipotesi, infine, è l’ amministrazione che deve attuare il provvedimento: così, ad es., il decreto di espropriazione viene eseguito dall’ espropriante (l’ autorità amministrativa) mediante l’ immissione in possesso, la descrizione dell’ immobile e la trascrizione del decreto stesso. In relazione a quest’ ultima serie di ipotesi, è importante specificare, però, che la giurisprudenza della Cassazione, con sent. 1463/83, ha stabilito che l’ attività materiale posta in essere dall’ autorità amministrativa può anche essere esplicata in esecuzione di un provvedimento tacito: si è ritenuto, ad es., che l’ occupazione senza titolo (cd. occupazione acquisitiva) di un immobile da parte di un soggetto pubblico, seguita dalla trasformazione irreversibile del bene, facesse perdere al privato la proprietà, come se l’ immobile fosse stato espropriato con un regolare decreto. Questa

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invenzione giurisprudenziale, tuttavia, non solo è stata giudicata incompatibile con la tutela del diritto di proprietà (assicurata dalla Convenzione europea dei diritti dell’ uomo), ma è risultata in contrasto anche con il principio di legalità, ex art. 42 Cost., ai sensi del quale la proprietà privata può essere espropriata solo nei casi previsti dalla legge. Per risolvere il problema si è deciso allora di inserire nel T.U. sull’ espropriazione per pubblica utilità (D.P.R. 327/01) una disposizione che abilita l’ autorità, che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico (dopo averlo modificato in assenza di un valido provvedimento di esproprio), ad acquisirlo con un provvedimento espresso al suo patrimonio indisponibile (in tal modo, l’ effetto traslativo della proprietà viene ascritto non in base ad un comportamento di fatto, bensì in presenza di un atto giuridico, emesso a sanatoria, ma che è previsto dalla legge). §3. L’ efficacia del provvedimento nello spazio Di efficacia del provvedimento amministrativo nello spazio si parla in relazione alla distribuzione della competenza amministrativa per territorio, nel senso che l’ autorità competente può emanare atti che possono avere efficacia solo nell’ ambito territoriale di propria competenza: ad es., l’ ordine di demolizione di costruzione abusiva, emanato dal sindaco, non può colpire un manufatto che sorge al di fuori del territorio comunale. La violazione di questa regola comporta la nullità dell’ atto (e non la semplice annullabilità): così, ad es., se l’ ordine di demolizione dell’ immobile è stato adottato dal sindaco sull’ erroneo presupposto che il terreno interessato ricada nell’ ambito della sua circoscrizione, il proprietario può legittimamente rifiutarsi di dare esecuzione al provvedimento, proprio perché questo è nullo. A questa regola generale, però, la legge prevede diverse eccezioni: si pensi agli atti di qualificazione giuridica (come l’ iscrizione ad un albo professionale), i quali, infatti, spiegano effetti anche al di fuori del territorio di competenza: ad es., l’ architetto iscritto all’ ordine degli architetti di Milano può esercitare la sua professione in tutto il territorio italiano.

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§4. L’ efficacia del provvedimento nel tempo Il provvedimento amministrativo comincia a produrre i suoi effetti nei confronti dei destinatari al momento della comunicazione (questa regola, nonostante sia enunciata espressamente solo per i provvedimenti limitativi della sfera giuridica dei privati, ex art. 21 bis L. 241/90, ha, in realtà, una sfera di applicazione più ampia; e ciò lo si ricava dal regime del ricorso al giudice amministrativo, che va proposto entro 60 gg. dalla comunicazione o dalla piena conoscenza, indipendentemente dal contenuto dell’ atto, favorevole o sfavorevole). Si può, quindi, affermare che i provvedimenti amministrativi sono recettizi, ossia esplicano la loro efficacia a partire dal momento in cui sono entrati nella sfera di conoscibilità degli interessati. È necessario sottolineare, però, che nell’ ambito dei provvedimenti limitativi della sfera giuridica del privato (provvedimenti sfavorevoli), sono previste due eccezioni alla regola dell’ efficacia che coincide con la comunicazione: • la prima, a carattere automatico, riguarda i provvedimenti cautelari ed urgenti, i quali sono immediatamente efficaci anche prima che il destinatario ne abbia ricevuto comunicazione (si pensi, ad es., all’ ordine di demolizione di un muro pericolante); • la seconda eccezione è rimessa, invece, ad una scelta dell’ amministrazione, la quale può inserire nel provvedimento una clausola motivata di immediata efficacia (purché il provvedimento non abbia carattere sanzionatorio). Gli effetti del provvedimento amministrativo possono essere, inoltre, anticipati (cd. retroattività: ma si tratta di un’ ipotesi eccezionale) o, più frequentemente, ritardati: ad es., la nomina di un docente spiega effetti dal momento dell’ inizio dell’ anno scolastico o accademico, anche se adottata prima. Il provvedimento amministrativo può, altresì, produrre un’ efficacia istantanea o un’ efficacia prolungata nel tempo: ad es., il decreto di espropriazione produce l’ effetto istantaneo del trasferimento della proprietà dell’ immobile in capo all’ espropriante; il decreto di occupazione, invece, produce effetti che si protraggono nel tempo, perché abilita l’ occupante ad acquisire e mantenere il possesso del bene per tutta la

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durata prevista (in genere non superiore a 5 anni). Il provvedimento ad efficacia prolungata ha, di solito, un termine finale, che può essere prestabilito dalla legge (si pensi, ad es., alle nomine a cariche, che hanno un termine legato alla durata della carica); negli altri casi, invece, il termine può essere stabilito dall’ organo amministrativo (ad es., in relazione alla concessione di un bene demaniale). Vi sono, però, provvedimenti ai quali nessun termine può essere apposto: si pensi, ad es., alle abilitazioni professionali, che durano tutta la vita. Un’ ultima considerazione occorre riservarla, infine, all’ ultrattività di alcuni provvedimenti amministrativi: ultrattiva è, ad es., la nomina di una carica pubblica nel periodo successivo alla scadenza (il periodo di prorogatio), nel senso che una parte dei suoi effetti continuano a prodursi al di là del termine finale. §5. Gli atti di secondo grado (o di riesame) a) l’ annullamento d’ ufficio e la revoca La P.A., come sappiamo, deve perseguire l’ interesse pubblico affidato alla sua cura e, nel far ciò, deve agire legittimamente; da quanto detto si intuisce, quindi, che (nel momento in cui la P.A. provvede) i due vincoli sono strettamente connessi, nel senso che l’ autorità non può perseguire l’ interesse pubblico adottando un provvedimento illegittimo (non può, ad es., negare una concessione edilizia perché il nuovo piano regolatore, in fase di elaborazione, ma non ancora adottato dal consiglio, destina la zona a servizi pubblici), né può prendere una decisione legittima (conforme alla legge), ma in contrasto con l’ interesse pubblico. Se, viceversa, la vicenda amministrativa viene presa in considerazione in maniera retrospettiva i due aspetti possono anche essere scissi: a distanza di tempo, infatti, il provvedimento può apparire legittimo, ma in contrasto con l’ interesse pubblico attuale o, al contrario, apparire illegittimo, ma non in contrasto con l’ interesse pubblico attuale. In questi casi, per risolvere il problema, la giurisprudenza ha adottato una soluzione fondata sul criterio dell’ attualità dell’ interesse pubblico: in virtù

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di tale principio, l’ atto illegittimo potrà essere eliminato quando l’ interesse pubblico attuale lo consigli (cd. annullamento d’ ufficio); e l’ atto a suo tempo legittimo potrà (anzi: dovrà) essere eliminato qualora la sua permanenza contrasti con l’ interesse pubblico (cd. revoca). Per spiegare questa vicenda, dottrina e giurisprudenza hanno fatto ricorso alla categoria giuridica dell’ autotutela; più precisamente, in base a questa teoria l’ amministrazione può farsi ragione da sé: può, cioè, ottenere, con una nuova determinazione (sua propria), quel risultato di rimozione, modifica o sostituzione dell’ atto precedente (che il privato, invece, ai sensi dell’ art. 1372 c.c., può conseguire soltanto dal giudice, a meno che l’ altra parte del rapporto non sia d’ accordo). Detto ciò, però, è necessario sottolineare che la nozione di autotutela non appare oggi convincente: in primo luogo, perché la possibilità di rimuovere o modificare un proprio atto non è esclusiva della P.A.; tale possibilità, infatti, dipende dal fatto che l’ atto amministrativo è unilaterale e non dal fatto che è un atto amministrativo. In secondo luogo, l’ autorità amministrativa, quando annulla o revoca un proprio atto, non tutela se stessa, né si fa giustizia da sé; ma tutela, o dovrebbe tutelare, l’ interesse pubblico (così come era tenuta a curarlo). Ora, dal momento che l’ interesse pubblico è caratterizzato dall’ attualità, la P.A. ha il potere ed il dovere di rimuovere l’ atto adottato in precedenza, qualora lo stesso sia in contrasto con l’ interesse pubblico attuale; e questo potere-dovere non può avere altro fondamento se non nella legge (come, infatti, la legge conferisce all’ autorità amministrativa la possibilità di provvedere in una certa direzione, adottando un determinato atto, allo stesso modo deve essere la stessa legge, in un momento successivo, ad attribuire all’ autorità la possibilità di provvedere in direzione diversa). Ovviamente, perché tale meccanismo possa operare è necessario che il potere amministrativo sia esercitabile in tempi diversi e in direzioni diverse (cd. inesauribilità del potere amministrativo); da tale inesauribilità deriva, come logica conseguenza, la prevalenza dell’ atto successivo su quello precedente (cioè, l’ annullamento o la revoca del provvedimento amministrativo precedente).

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Questo potere amministrativo che ritorna sui suoi passi deve, però, fare i conti con il rapporto giuridico che il provvedimento amministrativo ha costituito con i privati interessati, i quali vantano determinati diritti ed interessi (creati dal provvedimento stesso): in questa prospettiva, la giurisprudenza ha escluso, ad es., che il sindaco possa revocare un’ autorizzazione all’ esercizio del commercio in base ad una nuova valutazione dell’ interesse pubblico, perché in questo caso il sacrificio dell’ interesse privato si concretizzerebbe, in realtà, in un sacrificio dell’ interesse pubblico attuale. b) gli aspetti comuni Gli istituti dell’ annullamento e della revoca (che inizialmente erano disciplinati in virtù di una prassi giurisprudenziale) hanno trovato una conferma normativa con la modifica apportata dalla L. 15/05 alla legge sul procedimento amministrativo (L. 241/90): ciò significa, quindi, che, d’ ora in poi, il regime dell’ annullamento e della revoca è quello che risulta dalla legge. È necessario sottolineare, inoltre, che, accanto all’ annullamento e alla revoca, la L. 15/05 (sempre rifacendosi alla prassi giurisprudenziale) ha introdotto altre due figure riguardanti il provvedimento amministrativo: è stabilito, infatti, che l’ autorità amministrativa può ritornare sui suoi atti per annullarli, revocarli, sospenderli o convalidarli. Il presupposto comune di tutti questi atti è che il potere amministrativo, una volta esercitato, non si esaurisce; pertanto, in presenza di determinate circostanze, esso può essere nuovamente esercitato in senso contrario (annullamento e revoca) o per paralizzare temporaneamente gli effetti dell’ atto precedente (sospensione) o per depurare l’ atto precedente da un vizio che lo inficia (convalida). Soltanto quando ricorre tale presupposto comune l’ atto di secondo grado (o di riesame) potrà essere adottato. c) l’ annullamento d’ ufficio Affinché l’ autorità amministrativa possa disporre l’ annullamento d’ ufficio devono ricorrere quattro importanti condizioni:

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• innanzitutto, il provvedimento originario deve essere illegittimo (deve essere, cioè, viziato da una violazione di legge o di incompetenza o di eccesso di potere); • in secondo luogo, affinché il provvedimento possa essere annullato, debbono sussistere particolari ragioni di pubblico interesse (il pubblico interesse che qui viene in rilievo è, ovviamente, lo specifico interesse pubblico che è affidato alla cura dell’ organo amministrativo: ad es., sanitario, ambientale, etc.); • questo interesse, a sua volta (e arriviamo alla terza condizione) va contemperato e bilanciato con gli interessi privati dei destinatari e dei controinteressati (ossia di coloro che sono interessati alla conservazione dell’ atto originario o alla sua rimozione); in particolare, se il provvedimento che si intende annullare favorisce il destinatario questi avrà interesse a conservarlo in vita; se, invece, lo danneggia egli avrà interesse a che sia eliminato. Opposta è la posizione dei controinteressati, ossia di coloro che hanno un interesse antagonistico a quello del destinatario (interesse a che l’ atto sia annullato, nel primo caso; interesse a che l’ atto sia conservato, nel secondo caso). Nella comparazione di tutti questi interessi, l’ amministrazione è tenuta ad accertare quale sia l’ interesse prevalente; tra l’ altro, è importante specificare che è proprio questa valutazione comparativa di interessi che ci permette di qualificare l’ annullamento d’ ufficio come un provvedimento amministrativo discrezionale (a differenza dell’ annullamento giurisdizionale). Sempre con riferimento al bilanciamento degli interessi in gioco, prima della riforma del 2005 si è sempre ritenuto che l’ annullamento d’ ufficio avesse efficacia retroattiva e che, per tal motivo, eliminasse tutti gli effetti prodotti medio tempore dall’ atto annullato (efficacia ex tunc). Una tale convinzione, però, è stata messa in discussione di recente e, in particolare, dopo l’ entrata in vigore della L. 15/05: si è osservato, infatti, che il contemperamento degli interessi in gioco può richiedere all’ amministrazione di graduare quegli effetti e di farli decorrere dal momento in cui l’ atto viene annullato (efficacia ex nunc);

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• la quarta condizione (richiesta perché il provvedimento possa essere annullato) riguarda la distanza temporale tra l’ atto che si intende annullare e la determinazione di annullarlo: tale determinazione, infatti, deve essere presa entro un termine ragionevole (da ciò si intuisce, quindi, che il termine non è prestabilito); è bene precisare, comunque, che la ragionevolezza del termine dipenderà dalle circostanze concrete e dalla valutazione degli interessi in gioco. d) la revoca A differenza dell’ annullamento d’ ufficio (che viene disposto per ragioni di legittimità), la revoca viene disposta per ragioni di opportunità; ciò lo si desume dalla formulazione dell’ art. 21 quinquies L. 241/90 (così come modificato dalla riforma del 2005), il quale, infatti, stabilisce che per sopravvenuti motivi di pubblico interesse ovvero nel caso di mutamento della situazione di fatto o di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario, il provvedimento amministrativo può essere revocato da parte dell’ organo che lo ha emanato. Come si può notare, ai fini della revoca, la legge distingue i sopravvenuti motivi di interesse pubblico dal mutamento della situazione di fatto: la prima ipotesi ricorre, ad es., quando una destinazione urbanistica a verde agricolo viene modificata a seguito della prospettiva di un grosso insediamento industriale, per il quale non v’è disponibilità di un’ altra area. Il mutamento della situazione di fatto, invece, ricorre, ad es., quando il beneficiario di un finanziamento pubblico, finalizzato alla realizzazione di un certo investimento per una determinata produzione, distoglie le somme dalla destinazione prevista. In terzo luogo, come detto, la revoca può essere disposta in conseguenza di una nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario; questa ipotesi, in realtà, sembra ridare vigore ad una tesi che appariva screditata: la tesi, cioè che, con la revoca, l’ amministrazione eserciti uno ius poenitendi (cd. diritto di pentirsi). È bene precisare, però, che il pentimento dell’ amministrazione (che conduce alla revoca) non deve contrastare, in maniera assoluta, con l’ interesse del destinatario del provvedimento (o del

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controinteressato), ma deve trovare il suo fondamento in un nuovo accertamento che consigli quella nuova valutazione dell’ interesse pubblico originario: così, ad es., un permesso di costruire può essere revocato se un’ indagine successiva al rilascio accerti una condizione di instabilità geologica dell’ area interessata. Una remora contro il mero pentimento dell’ amministrazione è costituita, in ogni caso, dall’ obbligo (sempre previsto dall’ art. 21 quinquies L. 241/90) di indennizzare i soggetti interessati per il danno subìto per effetto della revoca. È necessario sottolineare, infine, che (come per l’ annullamento) anche per la revoca la L. 15/05 stabilisce che il provvedimento revocato non può produrre effetti ulteriori (efficacia ex nunc). e) la sospensione Con la sospensione, l’ amministrazione non elimina l’ atto esistente (come nell’ annullamento o nella revoca), ma ne paralizza temporaneamente gli effetti: • in vista del suo riesame (si pensi, ad es., alla sospensione del permesso di costruire e al contemporaneo avvio di un procedimento di annullamento d’ ufficio); • ovvero sul presupposto di un abuso da parte del beneficiario dell’ atto, in attesa di un accertamento più approfondito [si pensi, ad es., alla sospensione dei lavori qualora gli uffici comunali competenti constatino l’ inosservanza delle modalità esecutive fissate nel permesso di costruire, in attesa che nei 45 gg. successivi venga adottato il provvedimento definitivo (che può consistere in una sanzione edilizia ovvero nel ripristino degli effetti del provvedimento sospeso)]; • ovvero in funzione sanzionatoria (si pensi, ad es., alla sospensione della patente di guida prevista dal codice della strada). È bene precisare, in ogni caso, che con la L. 15/05, che ha introdotto, nella L. 241/90, l’ art. 21 quater, la sospensione è divenuta un istituto di carattere generale: stabilisce, infatti, questa disposizione che l’ esecuzione del provvedimento amministrativo può essere sospesa, per gravi ragioni e

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per il tempo strettamente necessario, dallo stesso organo che lo ha emanato. f) la convalida L’ art. 21 nonies L. 241/90 prevede la possibilità che il provvedimento amministrativo annullabile possa essere convalidato entro un termine ragionevole e sempre che sussistano ragioni di pubblico interesse. Da ciò si intuisce che la convalida è un’ alternativa all’ annullamento d’ ufficio; in altri termini, anziché eliminare l’ atto, l’ autorità elimina il vizio che lo inficia e in questo modo ne stabilizza gli effetti: così, ad es., se la delibera collegiale è stata adottata senza che l’ argomento fosse all’ ordine del giorno, la convalida viene realizzata con una nuova delibera che sia preceduta da un avviso di convocazione che faccia menzione dell’ argomento. Tutto questo, però, è possibile soltanto se contro l’ atto originario non sia pendente un ricorso giurisdizionale: se, infatti, c’è un giudizio in corso dinanzi al giudice amministrativo la convalida non è ammessa (salvo il caso del vizio di incompetenza, il quale può essere rimosso dall’ organo competente che si appropria del contenuto dell’ atto impugnato).

g) le altre forme di conservazione dell’ atto viziato La prassi e la giurisprudenza conoscono altre forme di conservazione dell’ atto viziato; esse sono: la conferma, la ratifica e la sanatoria. La conferma si sostanzia nel rifiuto dell’ amministrazione di procedere all’ annullamento d’ ufficio richiesto da chi vi abbia interesse (rifiuto che viene formalizzato con la predisposizione di un nuovo atto). La ratifica opera, invece, in presenza di provvedimenti amministrativi d’ urgenza presi eccezionalmente da un organo diverso da quello competente (questo schema ricorre, in particolare, negli enti pubblici, il cui statuto prevede una competenza in via d’ urgenza del presidente, il cui atto va ratificato dal consiglio di amministrazione nella prima riunione

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successiva). La sanatoria, infine, è un istituto che opera nell’ ipotesi in cui il provvedimento amministrativo sia viziato dall’ omissione di un atto intermedio del procedimento (ad es., un’ autorizzazione o un nulla osta); è bene precisare, però, che la sanatoria non è ammessa qualora tra l’ atto omesso ed il provvedimento conclusivo del procedimento vi sia una relazione giuridico-temporale: è il caso, ad es., del parere che deve, infatti, necessariamente precedere l’ atto di amministrazione attiva.

Sezione IV L’ invalidità §1. L’ illiceità e l’ illegittimità Rispetto alla norma giuridica è possibile individuare una duplice devianza: quando la norma impone un dovere (cioè, un obbligo), il comportamento difforme è illecito: si pensi, ad es., al comportamento di chi commette un delitto. Quando, invece, la norma attribuisce un potere, il comportamento difforme è invalido (o, più precisamente, illegittimo). Nel primo caso la sanzione colpisce l’ autore dell’ atto (nell’ esempio fatto: la sanzione della pena); nel secondo caso la sanzione giuridica colpisce,

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viceversa, proprio l’ atto che, a causa della sua difformità, è nullo o annullabile (le due forme fondamentali dell’ invalidità): si pensi, ad es., a chi venda un immobile in forma verbale (atto nullo) o a chi stipula un contratto inducendo la controparte in un errore, senza il quale non avrebbe stipulato (atto annullabile). Si tratta, ovviamente di concetti differenti: la nullità, infatti, rende l’ atto improduttivo di effetti, mentre l’ annullabilità lo vizia senza, però, privarlo di effetti sino a quando il soggetto legittimato a farla valere non otterrà una pronuncia giudiziale di annullamento. Detto ciò, è necessario osservare che la devianza nella quale incorre la P.A. è della specie invalidità: infatti, nell’ esercitare il potere che la legge le attribuisce, l’ autorità amministrativa spesso viola qualcuna delle prescrizioni che disciplinano tale esercizio, ponendo così in essere un atto invalido (e, nella maggior parte dei casi, invalido-annullabile).

§2. Il regime dell’ invalidità degli atti amministrativi a) l’ annullabilità come regime prevalente In relazione all’ atto amministrativo sono previsti tre vizi, ossia tre forme di invalidità: incompetenza, violazione di legge ed eccesso di potere (ma unico è il regime che le accomuna: quello dell’ annullabilità). L’ atto annullabile è l’ atto che, pur essendo invalido, produce i suoi effetti sino a quando non venga annullato (dal giudice amministrativo); ciò significa, quindi, che l’ atto invalido (o illegittimo) produce i suoi effetti come se fosse valido (o legittimo) sino a quando non viene eliminato. È in tal senso che si parla del cd. modo di equiparazione degli effetti dell’ atto invalido agli effetti dell’ atto valido; in tal modo, il legislatore (optando per l’ annullabilità) ha inteso contemperare le ragioni del cittadino con quelle dell’ amministrazione: conferendo al primo (il cittadino) il potere di impugnare l’

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atto illegittimo, ma mantenendo nel contempo l’ efficacia di quest’ ultimo sino a quando il giudice (eventualmente adìto) non abbia accertato l’ invalidità e disposto l’ annullamento. Se, invece, il legislatore avesse optato per il regime della nullità (atto privo di effetti), il soggetto privato avrebbe potuto sottrarsi ai comandi derivanti dall’ atto o avrebbe potuto disapplicarlo o considerarlo inesistente (come accade oggi, ad es., nell’ ordinamento americano, ove, infatti, esistono atti amministrativi nulli). In realtà, è bene precisare che anche nel nostro ordinamento esistono provvedimenti amministrativi nulli; lo ha stabilito la Corte di Cassazione alcuni decenni fa: il Supremo Collegio ha stabilito, in particolare, che la nullità si manifesta quando l’ atto è stato emesso in carenza di potere, ossia quando l’ autorità amministrativa non si è limitata ad esercitare malamente un potere che la legge le attribuisce (atto annullabile), ma ha preteso di esercitare un potere di cui essa è carente (atto nullo). Come è stato detto, i vizi che rendono il provvedimento amministrativo annullabile sono: l’ incompetenza, la violazione di legge e l’ eccesso di potere. Si potrebbe dire, tuttavia, che le cause di annullabilità sono riconducibili ad una sola, che è la violazione di legge, essendo le altre due (incompetenza ed eccesso di potere) delle semplici specificazioni della prima: l’ attività amministrativa, infatti, è sottoposta alla legge (principio di legalità) e la legge disciplina la competenza, i presupposti, le forme, il procedimento, il tipo di misura, gli effetti e il fine dell’ attività; sicché ogni deviazione dalla legge (cioè, ogni violazione di legge) si traduce nell’ invalidità dell’ atto finale. b) l’ invalidità parziale, derivata e successiva Due forme specifiche di invalidità-illegittimità sono l’ invalidità parziale e l’ invalidità derivata. L’ invalidità parziale colpisce soltanto una parte dell’ atto e non l’ atto nella sua integrità; tale fenomeno ricorre, in particolare, negli atti che hanno una pluralità di contenuti e di destinatari [così, ad es., un piano regolatore comunale può essere illegittimo, e per questo può essere annullato dal

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giudice amministrativo, limitatamente alle previsioni che riguardano la zona di espansione dell’ abitato; allo stesso modo, una graduatoria di concorso può essere illegittima nella parte in cui in essa risulta inserito un candidato anziché un altro (il ricorrente), mentre rimane valida per gli altri dieci concorrenti in essa inclusi]. L’ invalidità derivata è, invece, una conseguenza del collegamento tra più atti o del fatto che il provvedimento amministrativo è preceduto da un procedimento: in tal modo, può accadere che il vizio di un atto preparatorio del procedimento si ripercuota sul provvedimento (così, ad es., anche se in sé ineccepibile, il provvedimento può essere viziato dal fatto che il parare obbligatorio che lo ha preceduto è stato reso da un organo in composizione irregolare, perché qualcuno dei suoi membri non era stato debitamente convocato). Più controverso è, infine, il concetto di invalidità successiva: controverso, perché la legittimità o l’ illegittimità di un atto deve essere valutata in relazione al quadro normativo in vigore nel momento in cui l’ atto viene adottato; se così non fosse, l’ autore dell’ atto sarebbe tenuto, infatti, a tener conto delle modifiche che quel quadro potrà subire in un momento successivo. Nonostante ciò, dottrina e giurisprudenza hanno individuato alcune ipotesi nelle quali una invalidazione successiva di un atto, originariamente valido, è possibile (si pensi, ad es., alla legge retroattiva che modifica i presupposti o i requisiti dell’ atto; ovvero alla declaratoria di illegittimità costituzionale della norma in base alla quale l’ atto era stato posto in essere). c) l’ incompetenza L’ incompetenza è una forma di invalidità tipica del regime giuridico delle organizzazioni impersonali, nelle quali il potere di agire è diviso tra una pluralità di organi: in questa prospettiva, l’ incompetenza si verifica qualora un organo usurpi le competenze dell’ organo preposto. Sotto un certo profilo, l’ incompetenza, come detto in precedenza, è solo una specie di violazione di legge: quest’ ultima, prima di stabilire i presupposti, le forme e gli effetti dell’ azione amministrativa, individua l’

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autorità competente e le assegna un fine, che spesso è desumibile proprio dalla competenza (ad es., il Ministro della Sanità deve perseguire il fine della salute pubblica, il Ministro delle Attività produttive quello della promozione dello sviluppo industriale, etc.). Sotto altro profilo, invece, l’ incompetenza ha una sua autonomia rispetto agli altri vizi dell’ azione amministrativa; partendo, infatti, dal presupposto che l’ autorità, prima di agire (e, quindi, prima di porre in essere l’ atto) deve accertare la sua competenza, l’ atto posto in essere può essere perfetto dal punto di vista del contenuto, della forma e dei fini, ma se è stato adottato da un organo incompetente è illegittimo e per tal motivo va annullato dal giudice, qualora il ricorrente ne faccia richiesta (in altri termini, non è illegittimo ciò che l’ autorità ha disposto, ma lo è il fatto che sia stata essa a disporlo). Una volta annullato l’ atto, il giudice deve rimettere l’ affare all’ autorità competente (e quest’ ultima deciderà se non agire ovvero se agire diversamente da come ha agito l’ organo incompetente o se agire allo stesso modo); da ciò si intuisce che il giudice non può decidere di non annullare l’ atto, ritenendo che l’ autorità competente non possa agire diversamente da come ha agito l’ organo incompetente, perché così facendo egli finirebbe con il sostituirsi all’ autorità competente. In ogni caso, è necessario sottolineare che, perché vi sia incompetenza, il potere esercitato indebitamente deve essere previsto dalla legge come potere di altro organo dello stesso ente (si pensi, ad es., al sindaco che si sostituisce al consiglio comunale) o di altro ente (si pensi, ad es., al sindaco che adotta un provvedimento di competenza del prefetto). Esorbita, invece, dall’ area dell’ incompetenza l’ esercizio di un potere che la legge non attribuisce ad alcuna autorità amministrativa (in questo caso, infatti, vi è carenza di potere, che dà luogo alla nullità dell’ atto). d) la violazione di legge La violazione di legge è il vizio tipico dell’ azione amministrativa. L’ accertamento di tale violazione è molto semplice: il giudice (o l’ organo di controllo di legittimità o la stessa autorità amministrativa in sede di

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riesame) confronta la fattispecie concreta del provvedimento con la fattispecie normativa; in conseguenza di tale confronto, ogni difformità (dalla fattispecie legale) darà luogo ad un vizio di legittimità. Appare utile sottolineare comunque che, nella prassi del procedimento amministrativo, il ricorrente suole dedurre, insieme al vizio di violazione di legge, anche il vizio di falsa applicazione della legge: questa consiste nell’ applicazione della norma ad un destinatario diverso da quello che essa contempla [si pensi, ad es., all’ applicazione ad ex combattenti, dipendenti da imprese private, di una legge (L. 336/70) che, invece, è rivolta a beneficio dei soli ex combattenti che sono impiegati pubblici].

e) l’ eccesso di potere Il terzo dei tre vizi di legittimità del provvedimento amministrativo è l’ eccesso di potere. Esso equivale allo sviamento di potere, cioè all’ uso del potere amministrativo per una finalità diversa da quella stabilita dalla legge (incorre, ad es., in eccesso di potere il sindaco che ordina la demolizione di un manufatto edilizio vicino alla propria abitazione, non perché sia stato realizzato in violazione della normativa edilizia, ma semplicemente per godere, dal proprio appartamento, di una veduta più ampia: in questo caso, il potere amministrativo affidato dalla legge al sindaco viene utilizzato a fini privati). Ma lo sviamento di potere ricorre anche quando la finalità perseguita dall’ autorità sia anch’ essa una finalità pubblica, ma diversa da quella per la quale il potere le è stato attribuito (riproponendo l’ esempio avanzato in precedenza, l’ ordine di demolizione è illegittimo anche nel caso in cui il sindaco intenda, con esso, dare attuazione alla disciplina posta dal nuovo piano regolatore, che prevede in quella zona l’ inedificabilità totale; in questo modo, infatti, il sindaco cerca di ottenere con l’ ordine di demolizione un risultato che può essere perseguito solo mediante un provvedimento espropriativo e relativo indennizzo).

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Impostata così la questione, si capisce che l’ eccesso di potere è un vizio tipico dei poteri vincolati nel fine; di conseguenza, l’ accertamento di tale vizio implica un confronto tra il fine concretamente perseguito e il fine che la legge ha imposto all’ autorità di perseguire, attribuendole quel potere. Questo confronto, tuttavia, non è agevole, perché esso comporta un’ indagine sulle intenzioni dell’ agente; indagine che, tra l’ altro, è ammessa soltanto quando il vero scopo dell’ agente risulti con chiarezza dall’ atto impugnato o da qualcuno degli atti preparatori ovvero da dichiarazioni rese in altra sede. È proprio per questo motivo, allora, che (in presenza di tali difficoltà) il Consiglio di Stato ha formulato la figura sintomatica dell’ eccesso di potere, in virtù della quale è stato affermato che, anche se l’ eccesso non risulta con chiarezza dalla documentazione, è comunque possibile che da quest’ ultima emergano sintomi del vizio, che lasciano presumere la sua esistenza (a meno che l’ amministrazione non dimostri il contrario). Sintomi dell’ eccesso di potere sono oggi considerati: la disparità di trattamento, la manifesta ingiustizia, la contraddizione con precedenti provvedimenti, nonché il difetto, l’ insufficienza e la contraddittorietà della motivazione. Analizziamoli singolarmente. L’ amministrazione incorre nella disparità di trattamento quando applica misure diverse in situazioni uguali, senza alcuna giustificazione: ad es., due impiegati incorrono nella stessa infrazione (furto di francobolli): ad uno viene inflitta la sanzione disciplinare della censura (la più lieve), mentre all’ altro la destituzione (la più grave). Allo stesso genere appartiene l’ ingiustizia manifesta, che però (a differenza della disparità di trattamento), non richiede un confronto tra due fattispecie ed i rispettivi trattamenti: riproponendo l’ esempio di prima, sarebbe manifestamente ingiusta la destituzione di un impiegato sorpreso mentre si appropria di alcuni francobolli (vi è sproporzione, cioè, tra il fatto e la misura applicata). Si ha, invece, contraddittorietà con precedenti provvedimenti quando l’ autorità, discostandosi da una prassi, senza alcun motivo, applica in un caso una misura diversa da quelle in precedenza applicate: ad es., un sindaco rifiuta l’ autorizzazione ad un mutamento di destinazione d’ uso

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(poniamo: da residenza ad ufficio), quando, nella stessa zona, richieste di identico contenuto erano state, in precedenza, tutte accolte. Il travisamento dei fatti ricorre quando l’ autorità suppone l’ esistenza di un fatto inesistente o, viceversa, suppone l’ inesistenza di un fatto esistente: ad es., il sindaco rifiuta un’ autorizzazione all’ esercizio del commercio perché convinto erroneamente che la zona sia satura di esercizi del genere. Si ha omesso o insufficiente accertamento o omessa o insufficiente istruttoria quando i presupposti richiesti dalla legge per l’ adozione del provvedimento non sono stati acclarati (comprovati) o lo sono stati in modo insufficiente: ad es., il sindaco emette un provvedimento di urgenza, intimando la demolizione di un edificio pericolante, avvalendosi del suo potere di ordinanza in materia di edilizia, sanità ed incolumità pubblica, sulla sola scorta della denuncia di un vicino (senza che l’ ufficio tecnico comunale o i vigili urbani abbiano proceduto alla necessaria verifica). Si ha illogicità manifesta quando vi è incongruenza tra la motivazione ed il dispositivo ovvero quando vi sono due motivazioni in conflitto tra di loro ovvero ancora quando risulta violata una regola logica: è illogica, ad es., la previsione di un piano regolatore che, sulla premessa di un forte incremento demografico del comune, riduca il perimetro dell’ area destinata a residenze. L’ eccesso di potere può anche consistere nella omessa valutazione comparativa degli interessi in gioco: ad es., l’ amministrazione dei beni culturali e ambientali nega l’ autorizzazione ad aprire una cava, sul presupposto che la zona contenga beni archeologici non ancora portati alla luce, impedendo in tal modo la realizzazione di una diga capace di portare acqua potabile ad una zona che ne ha bisogno (in questo caso, un interesse pubblico ipotetico viene privilegiato rispetto ad un interesse collettivo di immediata evidenza). Una classica ipotesi di eccesso di potere è, poi, il vizio di motivazione (omessa o insufficiente motivazione): si pensi, ad es., ad un atto di annullamento d’ ufficio di un precedente atto che non faccia menzione dell’ interesse pubblico che giustifica il ritiro.

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Di recente introduzione è, infine, il vizio derivante dalla violazione del principio di proporzionalità (si tratta di una figura mutuata dalla giurisprudenza amministrativa tedesca): esempio classico è quello di una dichiarazione di pubblica utilità che investa un’ area di gran lunga più vasta di quella necessaria per la realizzazione dell’ opera pubblica (vi è, cioè, una sproporzione tra il sacrificio inflitto al privato e le richieste dell’ interesse pubblico). f) i vizi formali e i vizi sostanziali L’ invalidità, determinata da violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere, espone l’ atto all’ annullamento da parte del giudice amministrativo (art. 21 octies, co. 1 L. 241/90, come modificato dalla L. 15/05), sempre che l’ atto venga impugnato entro i termini stabiliti dalla legge. È importante specificare, però, che se ricorrono anche i presupposti per l’ annullamento d’ ufficio (se, cioè, oltre all’ invalidità, concorrono anche ragioni di pubblico interesse, da contemperare con gli interessi dei destinatari e dei controinteressati) il provvedimento invalido può essere annullato anche dall’ amministrazione. L’ art. 21 octies, co. 2 prevede, invece, due casi nei quali il provvedimento, ancorché invalido (perché posto in essere in violazione di legge), non può essere annullato né dal giudice amministrativo, né dall’ amministrazione. Il primo caso si verifica quando, pur essendo stato l’ atto adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti, sia palese che il suo contenuto, a causa della sua natura vincolata, non avrebbe potuto essere diverso. Il secondo caso, invece, è quello del provvedimento (vincolato o discrezionale) che l’ amministrazione ha posto in essere, omettendo di comunicare all’ interessato l’ avvio del procedimento: in una simile ipotesi il giudice non può annullare l’ atto, qualora l’ amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato in concreto. Le due ipotesi si distinguono, oltre che per la diversa natura del provvedimento, anche per la diversa modalità con la quale l’ annullabilità

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va negata: nel primo caso, infatti, deve essere palese che il contenuto dell’ atto non avrebbe potuto essere diverso da quello adottato; nel secondo caso, invece, deve essere l’ amministrazione a dimostrare in giudizio che il contenuto del provvedimento non poteva essere diverso da quello effettivo (a ben vedere, però, l’ onere della prova a carico dell’ amministrazione è soltanto apparente, perché questa, nella maggior parte dei casi si limiterà ad affermare che, anche se fosse stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento, il provvedimento avrebbe avuto identico contenuto; ciò vuol dire, quindi, che l’ onere della prova ricade quasi sempre sul ricorrente).

§3. La nullità degli atti amministrativi a) la carenza di potere Come detto, la Corte di Cassazione, da alcuni decenni, ha individuato uno spazio, non ampio, per la nullità del provvedimento amministrativo. Ad avviso del Supremo collegio, infatti, il principio di legalità richiede che il potere esercitato dall’ autorità amministrativa venga attribuito dalla legge, non solo in termini astratti, ma anche in concreto: per fare un esempio, il potere di espropriare un immobile di proprietà privata può essere esercitato soltanto qualora detto immobile sia stato in precedenza dichiarato di pubblica utilità (in base alla legge fondamentale del 1865); ne consegue, pertanto, che se la dichiarazione di pubblica utilità manca, manca l’ attribuzione in concreto del potere espropriativo; ed il decreto di espropriazione è nullo per carenza di potere (Cass. S.u. 36/01). Ma carenza di potere, nel nostro caso, può esservi anche per un’ altra ragione: in virtù di una regola antichissima (che risale alla citata legge del 1865), l’ atto che contiene la dichiarazione di pubblica utilità deve stabilire i termini entro i quali le espropriazioni ed i lavori devono essere compiuti: sicché un decreto di espropriazione che sopravvenga dopo la scadenza

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del termine finale previsto per l’ espropriazione (stabilito in sede di dichiarazione di pubblica utilità) è nullo per carenza di potere (Cass. S.u. 355/99). È bene precisare, però, che le decisioni giurisprudenziali, in questo campo, non sono state, nel tempo, uniformi; volendo essere più chiari: in base all’ esempio citato (dell’ espropriazione disposta dopo la scadenza del termine stabilito nella dichiarazione di pubblica utilità) si potrebbe essere indotti a credere che, ogni qual volta l’ esercizio del potere amministrativo sia sottoposto ad un termine, il provvedimento adottato a termine scaduto sia nullo per carenza di potere. Senonché, in tanti casi del genere, la giurisprudenza ha ritenuto l’ atto annullabile (e non nullo): si pensi, ad es., al caso dell’ annullamento, da parte del comitato regionale di controllo, di una delibera di un consiglio comunale dopo il termine di 20 gg. dal ricevimento di quest’ ultima; o al caso dell’ autorizzazione amministrativa, sottoposta al regime del silenzio-assenso, negata dopo la scadenza del termine previsto per la formazione del silenzio. Dagli esempi avanzati si capisce, pertanto, che la nozione di carenza di potere non consente di stabilire in modo certo i confini della nullità del provvedimento amministrativo, perché le soluzioni escogitate dalla giurisprudenza sono specifiche (applicabili caso per caso e non suscettibili di generalizzazione). È bene precisare, infine, che (a differenza dell’ atto illegittimo-annullabile, che può essere annullato dal giudice amministrativo o dalla stessa autorità che lo ha posto in essere), la dichiarazione di nullità spetta, invece, al giudice ordinario. b) la nullità nella legge 15/2005 Degli sviluppi della giurisprudenza ha preso di recente atto il legislatore, il quale ha introdotto nella L. 241/90 una disposizione generale sulla nullità del provvedimento. L’ art. 21 septies (introdotto con L. 15/05) stabilisce, infatti, che è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione del giudicato, nonché negli altri casi

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espressamente previsti dalla legge. Come si può notare, la disposizione in esame disciplina quattro casi di nullità. Analizziamoli. 1° caso: la mancanza degli elementi essenziali corrisponde alla mancanza dei requisiti che rende nullo il contratto (artt. 1418 e 1325 c.c.); a differenza del contratto, però, per il provvedimento amministrativo non v’è alcuna norma che preveda i suoi requisiti o i suoi elementi; e non è, quindi, agevole stabilire quando l’ atto è nullo per mancanza di un elemento essenziale. Ciò non toglie, però, che il provvedimento amministrativo possa essere scomposto in elementi più semplici (oggetto, forma, etc.); sicché l’ attenzione deve spostarsi sulla identificazione di questi ultimi [per intenderci: il provvedimento amministrativo ha un oggetto (l’ oggetto del decreto di espropriazione è un bene altrui, dell’ autorizzazione un’ attività altrui, della sovvenzione una somma di denaro, etc.); sicché è nullo, ad es., il decreto di espropriazione emesso tardivamente dopo che l’ amministrazione ha acquistato la proprietà del bene per effetto di occupazione acquisitiva (nullo perché avrebbe ad oggetto un proprio bene)]. Allo stesso modo, un difetto radicale di forma (ad es., la mancanza della sottoscrizione) dà luogo sicuramente a nullità (per l’ impossibilità di imputare il provvedimento al suo autore). 2° caso: il difetto assoluto di attribuzione viene ricondotto dalla dottrina (Cerulli Irelli) alla categoria della carenza di potere in astratto, di cui parla la Cassazione (si tratta delle ipotesi nelle quali non sussiste il potere in capo all’ amministrazione che lo ha esercitato). Di conseguenza, verrebbe a ricadere nell’ ambito dell’ annullabilità la carenza di potere in concreto: quella cioè che deriva dalla mancanza di un presupposto essenziale per la fondazione del potere (ad es., la dichiarazione di pubblica utilità rispetto all’ espropriazione). Al riguardo, tuttavia, è necessario sottolineare che la nuova disciplina della fattispecie (art. 43 D.P.R. 327/01: per diventare proprietario di un bene espropriato, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità, l’ amministrazione deve adottare un nuovo atto di acquisizione) sembra, in realtà, confermare l’ orientamento della Cassazione: ciò vuol

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dire, quindi, che (almeno in questo caso) il provvedimento emesso in carenza di potere in concreto (il decreto di espropriazione) continua ad essere nullo. 3° caso: la nullità dell’ atto posto in essere in violazione o elusione del giudicato è stata riconosciuta dal giudice amministrativo da oltre un decennio; la nullità, in tal caso, consiste nel fatto che l’ attività di esecuzione del giudicato non è solo attività amministrativa (e, in quanto tale, rivolta alla cura di un interesse pubblico), ma è anche attività di adempimento degli obblighi, che nascono dal giudicato, a carico dell’ amministrazione. 4° caso: l’ ultima categoria di atti nulli abbraccia, infine, i casi espressamente previsti dalla legge (si pensi, ad es., alla nullità delle assunzioni agli impieghi senza concorso, ex art. 3 D.P.R. 3/57, ovvero agli atti posti in essere dopo la scadenza del periodo di prorogatio della carica, di cui alla L. 444/94). §4. Le misure a carico degli atti invalidi A ciascuna forma di invalidità-illegittimità corrisponde una misura specifica: l’ annullamento per gli atti annullabili e la dichiarazione di nullità per gli atti nulli. Il potere di annullamento è dato al giudice amministrativo, all’ autorità competente a decidere i ricorsi amministrativi e all’ autorità che ha emanato l’ atto in sede di riesame; la declaratoria di nullità, invece, compete al giudice ordinario. Questa singolare ripartizione si spiega con il fatto che gli stati patologici del provvedimento amministrativo sono legati a differenti situazioni soggettive del privato (situazioni che, a loro volta, condizionano la giurisdizione); sicché, l’ atto nullo è correlato ad un diritto soggettivo, mentre quello annullabile ad un interesse legittimo. Occorre specificare, però, che il quadro sopra illustrato è stato in parte modificato dalla disposizione contenuta nell’ art. 21 septies L. 241/90, il quale, infatti, stabilisce che nel caso in cui ci si trovi di fronte a questioni concernenti la nullità di provvedimenti amministrativi, in violazione o elusione del giudicato, queste saranno di competenza del giudice

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amministrativo: la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, in tal caso, si giustifica in considerazione del fatto che, in presenza di una violazione o elusione del giudicato, persiste l’ inadempimento dell’ amministrazione; e la relativa controversia rientra tra le competenze del giudice dell’ ottemperanza (che è il giudice amministrativo). Tuttavia, al di fuori del caso sopraindicato, non è neppure certo che nelle altre ipotesi di nullità la giurisdizione spetti sempre al giudice ordinario: lo sarà quando il privato interessato vanta un diritto soggettivo, che il provvedimento amministrativo nullo pone in contestazione. Viceversa, quando di fronte all’ atto nullo il privato vanta solo un interesse legittimo (l’ interesse, ad es., ad ottenere una sovvenzione), la competenza a decidere spetterà al giudice amministrativo. Quanto detto trova oggi conferma nel fatto che il criterio utilizzato per individuare il giudice competente, che un tempo si fondava sul tipo di invalidità che si intendeva denunciare (annullabilità o nullità), è stato sostituito dal criterio che si basa sulla situazione soggettiva in gioco: in altri termini, nel caso in cui si tratti di un diritto soggettivo si farà ricorso al giudice ordinario, mentre nel caso in cui in gioco ci sia un interesse legittimo, la competenza ricadrà sul giudice amministrativo. §5. I vizi di merito dell’ atto amministrativo Al vizio di legittimità il nostro ordinamento affianca il vizio di merito dell’ atto amministrativo; più precisamente, si può dire che l’ atto è viziato nel merito quando è inopportuno, ingiusto o comunque difforme da un criterio di buona amministrazione. In ogni caso, è necessario sottolineare che, a differenza del vizio di legittimità (che ha una portata generale), il vizio di merito rileva solo nei casi in cui la legge lo prevede; e lo ha previsto sia quando ha attribuito al giudice amministrativo una competenza speciale di merito (che si è affiancata a quella di legittimità), sia quando ha previsto un controllo di merito (ad es., sulle delibere dei consigli comunali o provinciali che approvano il bilancio o i regolamenti). Va anche detto, però, che oggi la giurisdizione di merito ha più che altro un

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valore antiquario, dal momento che nessuna delle materie previste dalla legge istitutiva della IV sezione del Consiglio di Stato (1889) conserva alcuna attualità; del resto, la sola materia che conserva un valore attuale (ricorso per esecuzione del giudicato) non comporta un sindacato di merito sull’ atto, perché il giudice valuta soltanto se l’ amministrazione ha ottemperato o meno al giudicato amministrativo. Lo stesso discorso può essere fatto in relazione al controllo di merito, vista sia l’ eliminazione (nel 1990) del controllo di merito sugli atti degli enti locali (comuni e province), che la soppressione, con l. cost. 3/01, dell’ art. 130 Cost., che ha eliminato il controllo regionale sulle delibere degli enti locali. Il controllo di merito persiste, invece, nei riguardi di certi atti degli enti pubblici nazionali sottoposti a vigilanza ministeriale e degli enti pubblici pararegionali sottoposti a vigilanza regionale.

Sezione V I servizi pubblici §1. Le funzioni pubbliche e i servizi pubblici La dottrina amministrativistica (italiana e francese) ha sempre distinto l’ attività giuridica (o autoritativa) da quella sociale (o di prestazione). Nei riguardi della prima il privato si pone come cittadino (si pensi, ad es., all’ attività che lo Stato esplica per assicurare l’ ordine pubblico o l’ amministrazione della giustizia), mentre nei confronti della seconda egli si atteggia come utente (utente, ad es., di servizi di trasporto, di servizi postali, di energia elettrica, di telecomunicazioni, etc.). Le due specie di attività su descritte si differenziano, innanzitutto, per il regime giuridico; tale differenza è efficacemente espressa dal nostro codice penale, il cui art. 357 stabilisce, infatti, che la pubblica funzione amministrativa è disciplinata da norme di diritto pubblico o da atti autoritativi ed è caratterizzata dalla formazione e dalla manifestazione della volontà della pubblica amministrazione. L’ art. 358 c.p. stabilisce, invece, che il pubblico servizio, pur essendo disciplinato nelle stesse forme

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(norme di diritto pubblico e atti autoritativi), è caratterizzato dalla mancanza dei poteri tipici della pubblica funzione. Per comprendere meglio la differenza tra l’ attività autoritativa e quella sociale proponiamo un esempio: una cosa è ordinare un comportamento (come quello di presentarsi alla leva militare obbligatoria, esistita sino a poco tempo fa) o vietarne un altro (come quello di superare un determinato limite di velocità); altra cosa è, invece, rendere una prestazione sanitaria in un ospedale pubblico o consentire a chi ha pagato il biglietto di salire su un treno. Solo nel primo caso l’ amministrazione si presenta come autorità (ossia come un soggetto munito di poteri autoritativi); nel secondo caso, invece, il pubblico rende un servizio che non costituisce esplicazione di un potere autoritativo (perché all’ ospedale o sul treno il privato ci va solo se vuole). §2. Pubblico e privato nel servizio A questo punto dobbiamo porci i seguenti questi: quando un servizio può essere definito pubblico? Perché è pubblico il servizio reso nell’ ambulatorio di un ospedale pubblico e non lo è quello reso in uno studio medico privato? Nel cercare di rispondere a queste domande, la dottrina francese, che ha dedicato al tema in esame un’ attenta analisi, ha identificato il servizio pubblico come quell’ attività la cui esplicazione deve essere assicurata, regolata e controllata dai governanti, in quanto indispensabile alla realizzazione e allo sviluppo dell’ interdipendenza sociale e che è di natura tale da non poter essere completamente realizzata se non con l’ intervento della forza di governo (Duguit). Questa definizione mette in luce due elementi: • il dovere di esplicare l’ attività; un dovere che, a sua volta, si fonda sul fatto che le prestazioni in cui l’ attività si concreta sono indispensabili allo sviluppo della società (indispensabili, cioè, alla realizzazione del pubblico interesse); • l’ impossibilità che l’ attività possa essere svolta da un soggetto diverso dal pubblico potere (i governanti). Questa simbiosi tra natura pubblica dell’ interesse da soddisfare e natura

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pubblica del soggetto abilitato ed obbligato a soddisfarlo ha rappresentato la base per lo sviluppo dei servizi pubblici in Europa (si pensi, ad es., alle poste, alle ferrovie o alla telefonia). §3. Il quadro costituzionale La nostra Costituzione non contiene una disciplina dei pubblici servizi; menziona soltanto i servizi pubblici essenziali (servizi economici) all’ art. 43: questa disposizione stabilisce, infatti, che la legge può riservare o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato determinate imprese, qualora queste si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale. All’ interno della nostra Carta fondamentale vengono, poi, indicati anche singoli servizi: questi, però, non sono qualificati come servizi pubblici, ma come servizi sociali: l’ assistenza (artt. 31 e 38), la sanità (art. 32), la previdenza sociale (art. 38, co. 2), l’ istruzione (artt. 33 e 34) e i trasporti regionali e locali (art. 117). Da quest’ elenco, tuttavia, possiamo estrarre delle regole ben precise. 1° regola: innanzitutto, va detto che, alla stregua dell’ art. 43 Cost., ci sono servizi pubblici (quelli essenziali) che vengono prodotti nella forma dell’ impresa: come impresa pubblica è stato strutturato, ad es., l’ ENEL (Ente Nazionale per l’ energia elettrica), istituito nel 1962 per la produzione e la distribuzione dell’ energia elettrica in regime di monopolio legale; e come impresa pubblica è tuttora organizzata la RAI-TV, chiamata (a suo tempo: 1975) a gestire il servizio pubblico della diffusione radiofonica e televisiva. 2° regola: il servizio pubblico può essere erogato da un soggetto privato; ciò lo si desume, a contrario, dalla stessa formulazione dell’ art. 43 Cost., ai sensi del quale, infatti, le imprese che producono servizi pubblici essenziali possono essere riservate o trasferite (mediante espropriazione) allo Stato e ad enti pubblici solo quando hanno carattere di preminente interesse generale. Da quanto detto si può dedurre, pertanto, che se il servizio è pubblico anche quando è gestito da un imprenditore privato viene meno il nesso indissolubile tra la natura pubblica del servizio e la

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natura pubblica del soggetto abilitato a soddisfarlo. 3° regola: come abbiamo visto in precedenza, la Costituzione propone una bipartizione dei servizi pubblici: i servizi pubblici essenziali, ex art. 43 (che vengono prodotti da un’ impresa, pubblica o privata), e i servizi previsti dagli artt. 31, 32, 33, 34 e 38 (assistenza, sanità, previdenza e istruzione), per i quali, invece, valgono formule e criteri diversi rispetto ai primi (quelli essenziali). • Innanzitutto, è necessario sottolineare che, a differenza dei servizi pubblici essenziali, i singoli servizi previsti dalla Costituzione non sono suscettibili di nazionalizzazione; e ciò lo si desume dalla prospettiva normativa: l’ art. 38, ult. co. stabilisce, infatti, che l’ assistenza privata è libera; l’ art. 33, co. 2 afferma che enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione; lo stesso dicasi in relazione alla previdenza sociale, dal momento che l’ art. 38, co. 4 prevede che ai compiti ad essa relativi provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato (e l’ integrazione da parte dello Stato presuppone, ovviamente, un’ iniziativa originaria del privato); analogo discorso può essere fatto per la sanità, perché l’ obbligo di tutelare la salute (art. 32) non implica necessariamente l’ istituzione di un Servizio sanitario nazionale (avvenuto in concreto nel 1978), né comporta un monopolio pubblico delle prestazioni sanitarie. Da quanto detto emerge chiaramente, quindi, che accanto al dovere delle istituzioni (cioè, dello Stato) di assicurare assistenza, salute, previdenza sociale e istruzione, la Costituzione prevede un diritto (o una libertà) del soggetto privato di rendere questi servizi: in altri termini, a differenza di quanto accade per i servizi pubblici essenziali (in relazione ai quali vi è una successione di pubblico e privato), per i singoli servizi previsti dalla Costituzione vi è una sorta di coesistenza di pubblico e privato. • L’ altra differenza tra i due tipi di servizi (quelli economici previsti dall’ art. 43 e quelli sociali contemplati dagli artt. 31 ss.) consiste nel modello organizzativo, perché non sempre ai servizi sociali è applicabile il modello dell’ impresa: per alcuni di essi (si pensi, ad es., all’ istruzione obbligatoria o alle cure gratuite agli indigenti) vi è, infatti, la necessità di coprire dei costi elevati con somme che, non potendo essere addossate agli utenti,

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vanno ricercate altrove (ciò significa, quindi, che non si possono coprire i costi di produzione con i ricavi, come farebbe, per definizione, un’ impresa). • Quanto detto fa emergere una terza differenza tra i servizi pubblici essenziali, ex art. 43, e quelli sociali, ex artt. 31 ss.: i primi, in quanto erogati da un’ impresa (pubblica o privata) vengono corrisposti dietro un prezzo a carico dell’ utente (si pensi, ad es., al prezzo del francobollo per il servizio postale o al prezzo del biglietto per il servizio di trasporto). I servizi sociali, invece, sono prestati anche se, in alcuni casi, gli utenti non pagano alcun prezzo: si pensi, ad es., agli indigenti ovvero ai cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari per vivere.

§4. I modelli organizzativi Dall’ entrata in vigore della Costituzione fino agli anni ’90 abbiamo avuto una diversa organizzazione dei servizi pubblici tra il centro e la periferia; al centro facevano capo i grandi servizi nazionali: poste, ferrovie, telefonia, radiotelevisione, trasporti marittimi, trasporti aerei, etc. (si trattava, cioè, di servizi la cui erogazione era riservata allo Stato). In seguito, il modello organizzativo ha conosciuto due diverse forme: • la gestione diretta mediante azienda di Stato (Poste e Ferrovie) o ente pubblico economico (ENEL); • la gestione mediante concessionario, costituito, il più delle volte, da società a partecipazione statale (sicché lo Stato era, ad un tempo, concedente e concessionario o comunque titolare della maggioranza del capitale sociale della società concessionaria): è questo il sistema che è stato prescelto, ad es., per la telefonia (concessionaria la SIP) e per il trasporto aereo (Alitalia). A livello locale sono state, invece, sperimentate due forme di gestione del servizio: • la gestione diretta a mezzo di appalto (l’ appaltatore rende alla cittadinanza il servizio, ad es., di nettezza urbana, per conto del comune,

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dal quale riceve un prezzo); • la gestione a mezzo di azienda municipalizzata. §5. I princìpi di diritto europeo I principi giuridici sui quali si reggono i servizi pubblici hanno subìto un radicale mutamento a seguito dell’ intervento del diritto comunitario. Le linee essenziali di questo sistema sono le seguenti. • Nel Trattato di Roma non si fa menzione del servizio pubblico, se non all’ art. 73, ove si fa rifermento al settore dei trasporti, e all’ art. 86, ove si parla di servizi di interesse economico generale (nozione corrispondente a quella di servizio pubblico economico, ex art. 43 Cost.). Come si può notare, restano fuori dalla previsione i servizi sociali, riguardo ai quali ogni Stato ha mantenuto le proprie competenze (va detto, però, che i princìpi in tema di servizi economici tendono oggi ad estendere la loro efficacia anche nell’ ambito dei servizi sociali). • L’ art. 86 del Trattato stabilisce che i servizi di interesse economico generale devono essere prestati da imprese; da questo punto di vista, il dettato comunitario ricalca il regime delineato dall’ art. 43 Cost.; ma a differenza del regime che è prevalso in Italia sino ad una decina di anni addietro, le imprese che forniscono servizi di interesse economico generale sono soggette alle regole della concorrenza, come qualunque altra impresa che produce servizi. • Le regole della concorrenza, tuttavia, non sono applicabili qualora sussista il pericolo che la loro osservanza possa pregiudicare la missione affidata alle imprese che gestiscono servizi di interesse economico generale. Ciascun servizio, infatti, ha una missione sua propria: ad es., distribuire la corrispondenza, trasportare i viaggiatori da un luogo all’ altro, consentire alla gente di comunicare a distanza, etc.; vi è, però, anche una missione comune a tutti: la missione, cioè, di assicurare un minimo di servizi di una qualità determinata, accessibili a tutti gli utenti (a prescindere dalla loro ubicazione geografica) ed offerti ad un prezzo abbordabile. È in tal senso che si parla del cd. principio di eguaglianza nella fruizione del pubblico servizio (principio elaborato dalla dottrina francese e penetrato,

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poi, nel diritto comunitario). Ovviamente, si tratta di un principio che non sempre si concilia con la logica del mercato e della concorrenza: nessun imprenditore, ad es., sarebbe disposto a distribuire la posta nei paesini di alta montagna, difficilmente accessibili e con popolazione rada (o lo farebbe facendo pagare il servizio a prezzi esorbitanti, allo scopo di coprire i costi elevati, e a condizioni disagevoli per l’ utenza). È per tal motivo che in questi casi si rende necessario l’ intervento dei pubblici poteri: i soli che, infatti, possono obbligare le imprese che gestiscono il servizio a raggiungere anche quel tipo di utenti ad un prezzo per loro accessibile. • L’ accesso degli utenti al servizio in condizioni di eguaglianza costituisce uno degli elementi fondamentali per il miglioramento del tenore e della qualità di vita, nonché per la coesione economica e sociale (si tratta di due degli obiettivi principali che l’ art. 2 del Trattato assegna alla Comunità). Esso, però, pone due problemi. Il primo riguarda la misura del servizio da rendere accessibile a tutti; a tal riguardo, il diritto europeo ha isolato, all’interno di ogni servizio di interesse economico generale, un ambito più ristretto: il cd. servizio universale. Ora, che cosa debba intendersi per servizio universale ce lo dice la Corte di Giustizia CE (causa Corbeau, 1993), la quale, con riferimento al servizio postale, ha stabilito che coincide con il servizio universale la raccolta, il trasporto e la distribuzione della corrispondenza ordinaria, a favore di tutti gli utenti, su tutto il territorio dello Stato, a tariffe uniformi e a condizioni di qualità simili. Esula, viceversa, dal servizio universale un servizio di posta espressa, con raccolta a domicilio, possibilità di modificare la destinazione durante l’ inoltro e recapito in giornata. Ne consegue, pertanto, che il monopolio legale si giustifica soltanto per il servizio universale, ossia per quel complesso elementare che va assicurato a tutti, ma non per il valore aggiunto (ossia per quei servizi che esulano da quel complesso elementare). Il secondo problema è quello dei costi: se, infatti, il servizio universale deve essere garantito ad un prezzo abbordabile per tutti, esso finisce, almeno in parte, per essere fornito sotto costo (da qui l’ esigenza di coprire la differenza tra costi e ricavi). A tal riguardo, va detto comunque che il diritto

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europeo lascia liberi gli Stati membri dell’ Unione di decidere come finanziare i servizi di interesse economico generale; le principali soluzioni adottate sono le seguenti: il sostegno finanziario diretto (attraverso le risorse del bilancio), la riserva del diritto di svolgere il servizio a due o più imprese (diritto speciale) o ad una sola (diritto esclusivo), i contributi degli operatori di mercato e il finanziamento basato su princìpi di solidarietà. • La libertà degli Stati nella scelta delle modalità di finanziamento del servizio universale trova, però, un limite nel divieto di aiuti di Stato, ex art. 87 Trattato CE, il quale, infatti, stabilisce che sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi dagli Stati che, favorendo talune imprese o produzioni, falsino la concorrenza. È bene precisare, tuttavia, che l’ aiuto di Stato (vietato dal Trattato) non deve essere confuso con la compensazione finanziaria, che rappresenta soltanto la contropartita di obblighi di servizio pubblico imposti dagli Stati membri (e che è ammessa dal diritto europeo). In questa prospettiva, la Corte di Giustizia, in una pronuncia del 2003 (causa Altmark), ha indicato le quattro condizioni affinché la compensazione non si trasformi in aiuto di Stato: • in primo luogo, l’ impresa beneficiaria deve essere effettivamente incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di servizio pubblico; • in secondo luogo, i parametri in base ai quali verrà calcolata la compensazione devono essere predeterminati in modo obiettivo; • in terzo luogo, la compensazione deve essere idonea a coprire tutti o parte dei costi originati dall’ adempimento dell’ obbligo di servizio pubblico; • infine, l’ impresa incaricata dell’ assolvimento degli obblighi di servizio deve essere scelta con una gara di appalti pubblici. • La dottrina francese ha sempre indicato (tra le regole del servizio pubblico) il cd. principio di continuità, in virtù del quale il servizio pubblico non tollera interruzioni; del resto, occorre osservare che nel nostro ordinamento l’ interruzione di un servizio pubblico è considerato un delitto (art. 331 c.p.). Il principio in esame (e lo stesso fatto che il nostro codice penale qualifichi come delitto l’ interruzione di un pubblico servizio) ha un solido fondamento e un’ importanza particolare. Infatti, è necessario sottolineare che, poiché la libertà di impresa include anche la libertà di

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cessazione dell’ attività imprenditoriale (e comporta, quindi, il rischio che un servizio di interesse generale cessi dall’ oggi al domani), occorrono degli strumenti per impedire che ciò avvenga; il principale di questi, nel diritto comunitario, è costituito dagli obblighi di servizio: l’ incarico della gestione di un servizio di interesse generale viene, cioè, conferito dai pubblici poteri ad una o più imprese, le quali si obbligano a rendere il servizio ad un determinato prezzo e per una durata prestabilita, ricevendo, a loro volta, una compensazione degli obblighi di servizio. • La soggezione alle regole della concorrenza presuppone che per ogni servizio di interesse economico generale vi siano più imprese in lizza (e, ovviamente, che la loro non sia una cerchia chiusa); in realtà, è sufficiente questa osservazione per accorgersi di quanto sia distante da questo quadro la situazione dei servizi pubblici in Italia. Di recente, però, in seguito ad alcune direttive emanate dalla Commissione europea, riguardanti settori fondamentali (poste, ferrovie, telecomunicazioni, trasporto aereo e marittimo), il nostro Paese è stato costretto ad aprire alla concorrenza la gestione dei servizi pubblici (cd. liberalizzazione). §6. L’ attuazione delle direttive comunitarie L’ attuazione delle direttive comunitarie ha portato (a partire dalla metà degli anni ’90) a profonde trasformazioni nell’ assetto dei servizi pubblici italiani (nazionali e locali). A tal fine, si prenderanno in considerazione i settori dell’ energia elettrica, dei trasporti di linea e delle poste. a) Energia Nel 1962 (con L. 1643/62) la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’ energia elettrica sono state riservate allo Stato (e il relativo servizio è stato affidato, in regime di monopolio, all’ ENEL, in virtù del principio contenuto nell’ art. 43 Cost.). In attuazione, però, della direttiva 92/96/CE, il d.lgs. 79/99 ha separato le varie fasi del ciclo, dichiarando libere le attività di produzione, importazione, acquisto e vendita e mantenendo la riserva (allo Stato) soltanto per la trasmissione, il dispacciamento e la distribuzione dell’

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energia (sul presupposto che, in queste fasi persiste una sorta di monopolio naturale). La riserva è realizzata a mezzo di concessione, che il Ministro delle Attività produttive rilascia al gestore della rete nazionale (una s.p.a. costituita dall’ ENEL). Il gestore, a sua volta, ha l’ obbligo di connettere alla rete di trasmissione nazionale tutti coloro che ne facciano richiesta (alle condizioni stabilite dall’ Autorità per l’ energia elettrica e il gas, che garantisce l’ imparzialità e la neutralità del servizio, stabilendo, tra l’ altro, anche la tariffa base). La distribuzione viene articolata per ambiti comunali: in ciascun territorio comunale viene rilasciata un’ unica concessione, il cui titolare (imprese elettriche comunali o rami di azienda dell’ ENEL trasferiti ai comuni) è tenuto a connettere alla propria rete coloro che ne facciano richiesta. Gli utenti finali sono distinti in due categorie: i clienti idonei (cioè, le imprese industriali) e i piccoli consumatori. Il quadro esposto ha, tuttavia, subìto delle modifiche a seguito della riforma costituzionale del 2001, la quale, con un’ improvvida previsione, ha attribuito alla competenza delle regioni la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell’ energia (il Parlamento, però, ha posto riparo al problema con L. 239/04). b) Trasporti di linea Le Ferrovie in Italia (come negli altri paesi europei) sono state gestite dallo Stato in forma monopolistica dalla fine del XIX sec.; con il passare del tempo, tuttavia, la crescente concorrenza delle altre forme di trasporto e l’ obsolescenza delle infrastrutture e del materiale (legata alla stessa gestione monopolistica) hanno generato paurosi deficit che, nei singoli paesi, sono stati colmati con gli aiuti di Stato (aiuti che, in materia di trasporti, sono consentiti dal Trattato). La direttiva 91/440/CE ha, però, introdotto una nuova regola, vale a dire: la separazione tra la gestione dell’ infrastruttura (che è stata mantenuta in regime di monopolio) e la gestione del servizio di trasporto ferroviario (che è stata, invece, liberalizzata, ossia aperta ad una pluralità di imprese). Occorre specificare, in ogni caso, che la separazione tra l’ attività di

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gestione dell’ infrastruttura e quella di trasporto ferroviario è stata attuata in Italia già nel 1988 (D.P.R. 277/88) attraverso la costituzione di imprese separate per la gestione della rete, da un lato, e l’ esercizio dell’ attività di trasporto, dall’ altro. Con un successivo decreto ministeriale, la gestione dell’ infrastruttura è stata rilasciata a FS (Ferrovie dello Stato) per la durata di 60 anni; il gruppo FS si è, poi, scisso in una s.p.a. RFI (Rete ferroviaria italiana) e in una s.p.a. Trenitalia (quest’ ultima è destinata a concorrere con le altre imprese ferroviarie che abbiano ottenuto la licenza dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti). c) Poste Nel nostro paese il servizio postale (raccolta, trasporto e distribuzione della corrispondenza) è stato esercitato in regime di monopolio dello Stato (dal 1973), che lo ha gestito a mezzo dell’ apposita azienda di Stato. Questo assetto è stato, però, modificato con il d.lgs. 261/99 (in attuazione della direttiva 96/97/CE); in virtù di tale modifica, nell’ ambito del servizio, viene oggi distinto il servizio universale dai servizi che esulano da questo: il servizio universale comprende la raccolta, il trasporto e lo smistamento di invii postali fino a 2 kg.; la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii postali fino a 20 kg.; i servizi relativi agli invii raccomandati e agli invii assicurati. Il servizio universale deve essere continuo (cioè, per tutta la durata dell’ anno), diffuso in tutti i punti del territorio nazionale e accessibile a tutti. Dal punto di vista dei soggetti abbiamo, da un lato, un fornitore del servizio universale (Poste s.p.a., nata dalla vecchia Azienda delle Poste), affiancato da titolari di licenza individuale; e, dall’ altro, determinate imprese che, sulla base di un’ autorizzazione rilasciata dal Ministro delle Comunicazioni, offrono al pubblico servizi non rientranti nel servizio universale (cd. servizi a valore aggiunto).

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Sezione VI L’ attività di diritto di privato §1. Gli interessi pubblici e gli strumenti di diritto privato Come sappiamo le pubbliche amministrazioni sono tenute a soddisfare interessi pubblici; non sono, però, obbligate a farlo sempre mediante l’ utilizzo di poteri pubblicistici e con l’ adozione di provvedimenti amministrativi. Ciò significa, quindi, che gli interessi pubblici possono essere soddisfatti anche con strumenti di diritto privato (così, ad es., il terreno necessario per realizzare un’ opera pubblica, oltre ad essere espropriato, può anche essere comprato dall’ ente pubblico; allo stesso modo, il Servizio sanitario nazionale può erogare le sue prestazioni non solo attraverso gli ospedali pubblici, ma anche attraverso le cliniche private). Quanto detto trova conferma anche nella Costituzione, la quale, infatti, indica come doverosi determinati compiti pubblici (qualificandoli come interessi pubblici: sanità, previdenza, assistenza, istruzione, etc.), ma riconosce, allo stesso tempo, ai privati la libertà o il diritto di perseguirli. In questo modo, la nostra Carta fondamentale ammette che interessi pubblici possano essere soddisfatti da soggetti privati (e, quindi, con strumenti di diritto privato). Ovviamente, se interessi pubblici possono essere soddisfatti da soggetti privati è evidente che gli stessi interessi possono essere egualmente soddisfatti da soggetti pubblici mediante strumenti di diritto privato (si può, ad es., immaginare un sistema scolastico, le cui prestazioni formino il contenuto di contratti identici a quelli conclusi da una

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scuola privata con i suoi allievi). A questa considerazione di fondo ne va aggiunta un’ altra, che riguarda, da un lato, il regime giuridico dell’ ente pubblico e, dall’ altro, la sua struttura di azienda. È necessario sottolineare, infatti, che la persona giuridica pubblica è, innanzitutto, una persona giuridica, munita della stessa capacità di agire di cui dispone la persona fisica (con l’ esclusione, beninteso, di quei poteri, diritti e facoltà che postulano necessariamente la fisicità della persona): così, ad es., che il comune o l’ INPS possano concludere un contratto non dipende dall’ espresso conferimento legislativo di una competenza a contrarre, ma dipende dalla loro qualità di persona giuridica. Per quanto riguarda l’ altro aspetto (l’ ente pubblico come azienda), va specificato che l’ apparato pubblico è un’ organizzazione che ha bisogno di risorse (inputs) necessarie per raggiungere i fini che le sono assegnati e conseguire, così, i risultati voluti (outputs); tali risorse sono, come sappiamo, quelle umane (impiegati), quelle finanziarie (denaro) e quelle materiali (ad es., i locali dove ospitare gli uffici, il materiale di cancelleria, i computers per l’ amministrazione della giustizia, etc.). Ora, qualcuna di queste risorse viene acquisita mediante strumenti pubblicistici (si pensi al denaro che proviene dal prelievo tributario); altre, invece, sono ottenute mediante contratto, vale a dire attraverso lo strumento principale che consente all’ amministrazione di acquisire le risorse necessarie per lo svolgimento delle sue attività (quali, ad es., l’ attività di certificazione e di realizzazione di opere pubbliche o l’ attività di tutela dell’ ordine pubblico). §2. I contratti delle pubbliche amministrazioni L’ autonomia contrattuale dell’ amministrazione si manifesta in modi diversi, tre dei quali sono essenziali: • la libertà di contrarre (e, quindi, anche di non contrarre, ossia di non concludere il contratto); • la libertà di scegliere la controparte (ad es., vendo a Tizio, ma non a Caio); • la libertà di convenire le condizioni contrattuali (ad es., vendo a Tizio per

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10, ma pretendo da Caio 100, se vuole comprare). Su tutti e tre i piani, però, l’ autonomia dell’ amministrazione è limitata, dal momento che, se l’ autorità o il funzionario che per essa agisce fossero liberi di scegliere il contraente, la scelta potrebbe ricadere su di una determinata persona, dando luogo, così, a dei favoritismi inaccettabili (cd. accordi collusivi). Da quanto detto discendono, pertanto, due fondamentali regole: • la prima regola sottrae all’ amministrazione e ai suoi agenti la scelta del contraente, affidandola, invece, a dei meccanismi oggettivi (l’ asta pubblica e la licitazione privata); • la seconda regola prevede, da un lato, che le clausole fondamentali del contratto devono essere determinate prima della stipulazione e a mezzo di un atto diverso dal contratto stesso (ad es., capitolato, disciplinare, etc.) e, dall’ altro, che il contenuto di quest’ atto ulteriore deve essere approvato da un organo diverso da quello competente a scegliere il contraente e a sottoscrivere il contratto (ad es., nell’ ente locale competente ad approvare il contenuto dell’ atto è l’ organo consiliare). §3. L’ influenza del diritto europeo La materia dei contratti delle pubbliche amministrazioni ha subìto la profonda influenza del diritto europeo. La considerazione dalla quale gli organi della Comunità hanno preso le mosse più di trent’ anni fa è la seguente: il Trattato vuole garantire la libera circolazione delle merci e dei servizi e la libertà di stabilimento delle imprese; tuttavia, queste libertà incontrano forti ostacoli al loro esercizio nelle normative degli Stati membri, perché questi, nel disciplinare i contratti delle pubbliche amministrazioni, dettano regole che limitano la legittimazione a contrarre alle imprese nazionali (e i cui effetti si manifestano soprattutto nel mercato degli appalti di lavori, di servizi e di forniture). Al fine di aggirare quest’ ostacolo, pertanto, la Commissione e il Consiglio europeo hanno adottato determinate direttive volte al riavvicinamento delle disposizioni legislative, regolamentari e amministrative degli Stati membri per assicurare l’ instaurazione e il funzionamento del mercato interno. Va

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anche detto che queste direttive, in una prima fase, hanno regolato separatamente gli appalti di lavori pubblici, gli appalti di servizi e quelli di forniture; mentre più di recente è stata emanata una direttiva unica (18/04); è bene precisare, però, che in virtù di una precedente direttiva (17/04), restano disciplinati separatamente gli appalti nei settori che in passato venivano definiti settori esclusi e che oggi sono, invece, qualificati come settori separati: gas, energia elettrica, acqua, trasporti, servizi postali e sfruttamento di area geografica. La legge comunitaria (L. 62/05) ha, poi, delegato il Governo a recepire le due direttive (d.lgs. 163/06), raccogliendo in un unico testo sia la disciplina degli appalti di rilevanza comunitaria sia quella degli appalti sotto soglia comunitaria [vale a dire: sia le direttive che stabiliscono una soglia di valori (cioè, un importo), al di sopra della quale esse vincolano gli Stati membri, sia quelle che stabiliscono una soglia, al di sotto della quale gli stessi Stati conservano un certo margine di autonomia]. §4. Il procedimento contrattuale Il contratto che viene concluso da una pubblica amministrazione è collocato a chiusura di un procedimento, composto dai seguenti atti: • la deliberazione a contrattare; • il bando di gara; • la presentazione delle offerte; • l’ apertura delle buste contenenti le offerte e l’ aggiudicazione; • l’ approvazione dell’ aggiudicazione; • la stipulazione del contratto. a) la deliberazione a contrattare La separazione tra il momento della determinazione dei contenuti fondamentali del contratto e il momento della contrattazione vera e propria (scelta del contraente e stipulazione) è formulata chiaramente nell’ ordinamento degli enti locali: ai sensi, infatti, dell’ art. 192 d.lgs. 267/00 la stipulazione dei contratti deve essere preceduta da un’ apposita determinazione del responsabile del procedimento di spesa, indicante:

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• il fine che con il contratto si intende perseguire; • l’ oggetto del contratto, la sua forma e le clausole essenziali; • le modalità di scelta del contraente e le ragioni che ne sono alla base. La sequenza sopra descritta, anche se enunciata esplicitamente per gli enti locali, è valida per tutte le amministrazioni, ad eccezione dei ministeri (in questi ultimi, infatti, vi è una sorta di inversione, perché il contratto concluso deve essere, a sua volta, approvato con decreto dirigenziale e successivamente sottoposto al controllo della Corte dei Conti, qualora superi l’ importo previsto dalla normativa comunitaria). b) il bando di gara La determinazione di contrarre (che è assunta con la delibera) viene esternata e pubblicizzata con il bando di gara, che rappresenta l’ atto attraverso il quale l’ amministrazione rende pubblica la volontà di addivenire ad un contratto. Al riguardo, è necessario sottolineare che una parte della dottrina assimila il bando all’ offerta al pubblico, ex art. 1336 c.c. (che vale come proposta contrattuale), mentre un’ altra parte della dottrina lo assimila ad una invitatio ad offerendum, ossia ad un invito a fare un’ offerta (in questo modo, però, le parti si invertono, perché la proposta non viene più dall’ amministrazione, ma dalla controparte; sicché, l’ amministrazione, accettando, dà luogo alla conclusione del contratto). La normativa europea richiede che al bando sia data la massima pubblicità: anche con la pubblicazione nella G.U. delle Comunità europee (per gli appalti sopra soglia), in modo che dell’ appalto, indetto con il bando, vengano a conoscenza le imprese europee interessate, permettendo alle stesse di concorrere (d.lgs. 163/06). Il bando deve fornire alle imprese le informazioni essenziali per la formulazione dell’ offerta: importo, durata, criteri di aggiudicazione, documentazione da presentare, termini e requisiti di partecipazione; nonostante, però, le linee generali siano regolate dalla legge, ciascuna amministrazione può introdurre nel bando clausole specifiche, le quali vincolano la stessa amministrazione, il seggio di gara e le imprese partecipanti (in tal senso, si dice che il bando di gara costituisce la lex

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specialis del procedimento). Tali clausole (ad avviso della giurisprudenza) possono essere di due tipi: quelle che comportano l’ impossibilità di partecipare (cioè, che precludono ad una determinata impresa la possibilità di partecipare alla gara o rendono nulla l’ offerta da questa presentata) e quelle che producono un effetto lesivo durante la gara (cioè, l’ esclusione di un’ impresa e l’ aggiudicazione della gara ad un’ altra impresa). Le clausole del primo tipo devono essere immediatamente impugnate (se l’ impresa vuole ottenere l’ ammissione alla gara); in quelle del secondo tipo, invece, l’ impresa può limitarsi ad impugnare l’ esito della gara congiuntamente al bando. c) la legittimazione ad offrire In Italia vigeva la regola, dal 1962, che limitava la partecipazione alle gare d’ appalto indette dalle pubbliche amministrazioni (superiori ad una certa soglia di valore) alle ditte iscritte nell’ Albo nazionale costruttori; iscritte, però, per un certo importo (sicché non potevano partecipare a gare d’ appalto di importo più elevato) e per una determinata specializzazione (ad es., gasdotti, strade, dighe, etc.). Tutto ciò comportava non solo l’ esclusione delle imprese straniere dalla partecipazione alla gara, ma se si considera la presenza di norme a favore di certi territori (ad es., il Mezzogiorno) o di certe categorie di imprese (ad es., le imprese cooperative) ne risultava anche una vera e propria predeterminazione dell’ offerta. Quest’ assetto è stato, però, modificato dal diritto comunitario, il quale ha fatto leva sui princìpi di libertà di circolazione delle merci e dei servizi, di libertà di stabilimento e di libertà di movimento di capitali (si tratta di princìpi che, come detto in precedenza, risultano violati da normative interne, nel momento in cui queste riservano gli appalti alle imprese nazionali). In questa prospettiva, pertanto, è necessario che oggi gli appalti vengano aggiudicati con procedure concorsuali e siano pubblicizzati in modo adeguato (bandi europei); diventa essenziale, altresì, che i bandi non contengano clausole discriminatorie e che la partecipazione delle imprese non sia subordinata all’ iscrizione in albi gestiti a livello nazionale.

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Ovviamente, non può essere ignorata l’ esigenza che l’ impresa partecipante (alla gara per l’ appalto di lavori, di servizi o di forniture) sia qualificata (che fornisca, cioè, garanzie di buona esecuzione); pertanto, in luogo dell’ iscrizione nei relativi albi, il diritto europeo richiede che l’ impresa partecipante abbia una capacità economica, finanziaria e tecnica adeguata alla natura e al contenuto dell’ appalto (in particolare, la capacità economico-finanziaria viene comprovata dalle dichiarazioni bancarie, dai bilanci e dal fatturato; la capacità tecnica, invece, è comprovata dall’ elenco delle principali commesse nel triennio precedente, dall’ elenco delle indicazioni dei tecnici, dei titoli di studio da loro posseduti, delle attrezzature tecniche a disposizione, etc.). Per allargare, poi, la platea delle imprese ammesse a partecipare alle gare, la normativa europea ha introdotto un particolare istituto: l’ associazione temporanea di imprese. Tali associazioni possono essere di tipo orizzontale, nel qual caso imprese che forniscono lo stesso bene o rendono lo stesso servizio o realizzano la stessa specie di lavoro mettono insieme le proprie forze per moltiplicare la capacità economica, finanziaria e tecnica, in modo da poter partecipare alle gare per l’ aggiudicazione di appalti (ai quali, in dipendenza della loro limitata dimensione, non potrebbero aspirare). Le associazioni temporanee possono anche essere di tipo verticale: in particolare, nell’ appalto di lavori (ma il criterio si applica anche per gli appalti di servizi e forniture), per raggruppamento temporaneo di imprese di tipo verticale si intende una riunione di concorrenti, in cui uno di essi realizza i lavori della categoria prevalente, mentre gli altri realizzano i lavori scorporabili (ad es., gli impianti di riscaldamento). Infine, sempre allo scopo di allargare il novero delle imprese abilitate a lavorare per le pubbliche amministrazioni, la normativa europea prevede e disciplina anche il subappalto: ossia lo scorporo di una quota delle prestazioni richieste all’ appaltatore e il loro affidamento (da parte dello stesso appaltatore) ad altra impresa minore (cd. ausiliaria). d) le amministrazioni aggiudicatrici

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Lo Stato, le regioni e gli enti locali, allo scopo di aggirare la normativa comunitaria, hanno spesso concluso i contratti di appalto a mezzo di soggetti giuridici diversi da sé, ma che ne costituiscono, in ogni caso, una sorta di longa manus (ad es., un’ azienda di Stato, una s.p.a., un’ associazione, etc.). Per arginare il problema, allora, la direttiva comunitaria 18/04, recepita dall’ Italia con d.lgs. 163/06, ha incluso, tra le amministrazioni aggiudicatrici, oltre allo Stato e agli enti pubblici, anche gli organismi di diritto pubblico, intendendosi per tali qualsiasi organismo: • istituito per soddisfare bisogni di interesse generale (e non avente carattere commerciale o industriale); • avente personalità giuridica; • e la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato o dagli enti locali o la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi. Al riguardo, va precisato che la Corte di Giustizia CE ritiene che le tre condizioni richieste debbano sussistere congiuntamente, affinché la struttura possa essere qualificata come organismo di diritto pubblico. e) la scelta del contraente Per quanto riguarda la scelta del contraente, il diritto europeo (direttiva 18/04) prevede quattro modalità: la procedura aperta, la procedura ristretta, la procedura negoziata e il dialogo competitivo. La procedura aperta è quella in cui ogni operatore economico può presentare un’ offerta (si tratta, in altri termini, dell’ asta pubblica). La procedura ristretta, invece, è quella in cui ogni operatore economico può chiedere di partecipare; ma soltanto gli operatori economici invitati dalle stazioni appaltanti (cioè, dalle amministrazioni) potranno presentare un’ offerta (la figura in esame corrisponde all’ antica licitazione privata, alla quale partecipavano le imprese invitate dall’ amministrazione con la cd. lettera-invito, contente l’ indicazione dell’ oggetto del contratto, del luogo, del giorno e dell’ ora stabiliti per la presentazione delle offerte). È chiaro che la limitazione della partecipazione alle sole ditte prescelte dall’ amministrazione ha la funzione di escludere dal confronto concorrenziale imprese che potrebbero non essere idonee; presenta, però, l’

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inconveniente di rimettere all’ amministrazione una scelta che potrebbe essere ispirata da ragioni di favoritismo. Per ovviare a questo problema, il legislatore ha modificato l’ istituto, introducendo una fase di preselezione: in tal modo, l’ amministrazione, invece di diramare direttamente le lettereinvito, pubblica un avviso di gara contenente l’ indicazione dell’ oggetto, dell’ importo del contratto e dei requisiti di partecipazione; una volta pubblicato l’ avviso di gara, le imprese che intendono partecipare e posseggono i requisiti richiesti possono chiedere di essere invitate entro il termine stabilito nell’ avviso; a questo punto, la stazione appaltante dirama l’ invito a tutti coloro che hanno chiesto di partecipare (previa verifica del possesso dei requisiti). La procedura negoziata, invece, è quella nella quale le stazioni appaltanti consultano gli operatori economici da esse scelti e negoziano con uno o più di essi le condizioni dell’ appalto (la figura in esame corrisponde alla nostra vecchia trattativa privata). La normativa comunitaria distingue due diverse modalità di procedura negoziata: • la procedura negoziata preceduta da un bando, qualora si sia rivelata infruttuosa una procedura aperta o ristretta; • la procedura negoziata non preceduta da un bando nei casi di estrema urgenza (non imputabile all’ amministrazione appaltante) ovvero nel caso in cui il contratto debba essere affidato ad un operatore economico determinato (ad es., perché titolare di diritti esclusivi). Il dialogo competitivo, infine, è una procedura nella quale la stazione appaltante, tenuto conto della complessità dell’ appalto, avvia un dialogo con i candidati ammessi a tale procedura, al fine di elaborare delle soluzioni atte a soddisfare le sue necessità; in relazione a tali soluzioni, i candidati selezionati presenteranno le proprie offerte. Per quanto riguarda il rapporto che intercorre tra le procedure analizzate, è bene precisare che la stazione appaltante deve attenersi, di regola, alla procedura aperta o a quella ristretta (quest’ ultima, però, deve essere preferita qualora il contratto abbia ad oggetto non solo l’ esecuzione, ma anche la progettazione ovvero qualora il criterio di aggiudicazione sia

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quello dell’ offerta economicamente più vantaggiosa); viceversa, il ricorso alla procedura negoziata e al dialogo competitivo è ammesso soltanto nei casi espressamente previsti. Infine, è necessario sottolineare che nelle procedure ristrette e negoziate e nel dialogo competitivo l’ amministrazione deve stabilire il numero massimo delle imprese da invitare (la cd. forcella), qualora lo richieda la difficoltà dell’ opera, della fornitura o del servizio (vi è comunque un numero minimo di imprese da invitare, che è di dieci nelle procedure ristrette e di sei in quelle negoziate). f) il criterio di aggiudicazione Il criterio di aggiudicazione è sicuramente uno degli aspetti più tormentati della disciplina dei pubblici appalti. Nonostante ciò, il diritto europeo è comunque assestato su due criteri: il criterio del prezzo più basso ed il criterio dell’ offerta economicamente più vantaggiosa. Il prezzo più basso è quello che corrisponde alla percentuale di ribasso più elevata sul prezzo posto a base d’ asta (ad es., base d’ asta: 1 milione di euro; ribasso più elevato: 10%; prezzo contrattuale: 900 mila euro); è bene precisare che si parla di percentuale di ribasso perché la base d’ asta costituisce il tetto che le imprese partecipanti non devono superare, chiedendo un prezzo più elevato. La commissione o il seggio di gara, aperte le buste (contenenti l’ offerta economica) aggiudica l’ appalto all’ impresa che ha offerto il prezzo più basso. Quando, invece, il criterio prescelto è quello dell’ offerta economicamente più vantaggiosa, il bando di gara stabilisce gli elementi di valutazione (ad es., il prezzo, la qualità, il pregio tecnico, le caratteristiche estetiche e funzionali, le caratteristiche ambientali, il costo di utilizzazione e di manutenzione, la redditività, la data di consegna, etc.) e il peso da attribuire a ciascuno di essi (ad es., al prezzo compete il 40% del punteggio a disposizione della commissione di gara).

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g) la verifica dell’ anomalia Una questione di rilievo, in tema di appalti, è quella relativa alla presentazione di offerte anomale (di quelle offerte, cioè, che presentano un ribasso talmente eccessivo rispetto all’ oggetto del contratto da far dubitare dell’ affidabilità delle stesse); in presenza di un’ offerta anomala, il legislatore non distingue più tra appalti sopra soglia e sotto soglia (per i quali sanciva l’ esclusione automatica) ed il procedimento di verifica in contraddittorio si applica ad entrambe le tipologie di appalti. L’ ipotesi dell’ esclusione automatica negli appalti sotto soglia non è, però, del tutto scomparsa: essa, infatti, è ancora prevista nel settore dei lavori pubblici, dei servizi e delle forniture. h) la stipulazione del contratto Le parti sottoscrivono il testo (cioè, il contratto in senso stretto), nel quale sono riprodotte alcune clausole del bando ed è indicato il prezzo risultante dall’ offerta. In alcuni casi la stipulazione ha carattere meramente riproduttivo di un accordo che si è perfezionato al momento dell’ aggiudicazione; in altri casi, invece, la stipulazione coincide con la conclusione del contratto (ciò accade, ad es., nella procedura negoziata, ove manca una fase di aggiudicazione, distinta dalla fase di stipulazione; e si verifica, talvolta, anche quando trova applicazione il criterio dell’ offerta economicamente più vantaggiosa). i) schemi particolari La prassi e la legislazione di settore hanno introdotto alcune varianti allo schema contrattuale descritto. Analizziamole singolarmente. 1° variante: le stazioni appaltanti possono acquistare lavori, servizi e forniture facendo ricorso a centrali di committenza da esse istituite, anche associandosi o consorziandosi (la contrattazione viene, così, accentrata in poche amministrazioni). 2° variante: una pluralità di appalti può essere aggiudicata ad uno o più operatori economici sulla base di un accordo quadro, nel quale vengono

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stabilite le clausole dei futuri appalti (in particolare, per quanto riguarda i prezzi e le quantità previste). 3° variante: il sistema dinamico di acquisizione è un processo interamente elettronico per acquisti di uso corrente, limitato nel tempo (4 anni) e aperto a tutti gli operatori economici (che presentino un’ offerta adeguata ai criteri di aggiudicazione enunciati nel bando); l’ impresa inclusa nel sistema ha il diritto di essere invitata in occasione di ogni appalto specifico che abbia ad oggetto i beni, in funzione dei quali il sistema è stato creato. 4° variante: una variante dell’ appalto di lavori è costituita dalla concessione dei lavori pubblici, che ha ad oggetto la progettazione e l’ esecuzione di opere pubbliche o di pubblica utilità; e si caratterizza in funzione del corrispettivo che, di regola, consiste nel diritto di gestire o di sfruttare economicamente le opere realizzate. La concessione, tranne rare eccezioni, non può avere durata superiore ai 30 anni. 5° variante: i lavori possono essere realizzati anche con capitale privato qualora alla realizzazione segua una gestione lucrativa: in tal caso, quindi, vi è una partecipazione del privato alla spesa (partecipazione che è disciplinata nella cd. finanza di progetto). In questa prospettiva, l’ amministrazione, nell’ ambito dei programmi di opere pubbliche che intende realizzare negli anni successivi, indica quelli suscettibili di attuazione a mezzo di capitali privati (in quanto suscettibili di gestione economica); fatto ciò, i soggetti in possesso dei requisiti tecnici, organizzativi, finanziari e gestionali (i cd. promotori) presentano una proposta; e se questa viene giudicata di pubblico interesse, l’ amministrazione indìce una gara, a seguito della quale viene scelto il concessionario.

Sezione VII

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La responsabilità della pubblica amministrazione §1. Le premesse storiche Il tema della responsabilità dello Stato (e, quindi, dell’ amministrazione pubblica) per i danni cagionati a terzi ha sempre costituito un punto molto importante e, allo stesso tempo, controverso del nostro sistema giuridico; ciò risulta confermato dal processo e dall’ evoluzione storica degli orientamenti della dottrina e della giurisprudenza. Invero, nella seconda metà del XIX sec. la situazione nel nostro Paese si presentava molto articolata: ai fini della responsabilità dell’ amministrazione per danni cagionati a terzi, la nostra giurisprudenza, infatti, distingueva tra atti di imperio (contro i quali non era prevista nessuna responsabilità dello Stato e degli enti pubblici) e atti di gestione (per i quali, invece, veniva riconosciuta la responsabilità dello Stato e degli enti pubblici secondo le regole comuni). La distinzione tra atti di imperio e atti di gestione veniva fedelmente espressa in una sentenza della Corte di Cassazione del 1897: in questa pronuncia, infatti, il Supremo Collegio stabilì che il comune di Roma non poteva essere chiamato a rispondere del furto di animali, avvenuto nella stalla comunale, ai danni di chi aveva depositato gli animali in vista della successiva macellazione nel mattatoio pubblico; e ciò perché, essendo la custodia temporanea delle bestie strumentale alla successiva macellazione (che era funzione di governo e non mera gestione patrimoniale), non potevano trovare applicazione i princìpi contrattuali sulla responsabilità del depositario. La sentenza in esame, tuttavia, fu aspramente criticata dalla dottrina, la quale negava che la distinzione tra atti di imperio e atti di gestione potesse essere posta a base del regime della responsabilità civile della pubblica amministrazione; e questo perché anche un atto di imperio (un atto amministrativo illegittimo) poteva essere illecito, in presenza di un concorso di colpa del funzionario (anche in tal caso si cagionava, cioè, un danno verso terzi; un danno che dava diritto al risarcimento del danno); non poteva, quindi, escludersi una responsabilità civile della pubblica amministrazione nell’ esercizio di un potere amministrativo (o di imperio).

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In virtù di queste considerazioni, nel XX sec. la distinzione tra atti di imperio e atti di gestione, come criterio utilizzato per determinare il regime della responsabilità, venne abbandonata e si affermò, pertanto, il principio dell’ ammissibilità della responsabilità della pubblica amministrazione in ogni caso, indipendentemente dalla natura del potere esercitato (di imperio o di gestione). Tutto ciò in teoria, perché nella pratica, almeno fino alla pronuncia della Cassazione 500/99, la giurisprudenza ha ragionato in questi termini: poiché il danno ingiusto presuppone la lesione di un diritto soggettivo (ma non di un interesse legittimo), perché contra jus, e all’ atto amministrativo viene attribuito l’ effetto di degradare il diritto soggettivo a interesse legittimo, il danno prodotto dall’ atto amministrativo (e, quindi, nell’ esercizio di un potere di imperio) non è risarcibile (a meno che il giudice amministrativo non annulli l’ atto, facendo rivivere il diritto soggettivo). §2. L’ articolo 28 della Costituzione Il discorso sulla responsabilità della pubblica amministrazione è stato ripreso dall’ art. 28 Cost., il quale, infatti, stabilisce che i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi civili, penali e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici. Da questa disposizione si possono ricavare diverse indicazioni. 1° indicazione: la responsabilità civile degli agenti (cioè, dei funzionari e dei dipendenti) e la responsabilità dello Stato o dell’ ente pubblico sono coestese; nel senso che laddove c’è la responsabilità dell’ agente c’è anche la responsabilità della pubblica amministrazione; e, viceversa, non dovrebbe esserci responsabilità della pubblica amministrazione senza responsabilità dell’ agente. Sia l’ amministrazione che il suo agente, quindi, rispondono civilmente dei danni cagionati a terzi; qualora, però, sia stato cagionato un danno erariale (che può consistere anche nella somma di denaro che l’ amministrazione è obbligata a pagare ai terzi danneggiati), l’ amministrazione ha il diritto di

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rivalersi sull’ agente, che sarà chiamato dinanzi al giudice della responsabilità amministrativa (la Corte dei Conti). 2° indicazione: la responsabilità civile degli agenti e la responsabilità civile dell’ amministrazione sono disciplinate dalle stesse regole che valgono nei rapporti tra privati; è in questo senso che va letto l’ art. 28 Cost., nella parte in cui prevede il rinvio alle leggi civili, cioè al codice civile (oltre che alle leggi penali e amministrative). 3° indicazione: il terzo presupposto della responsabilità prevista dall’ art. 28 Cost. è il compimento, da parte degli agenti, di atti in violazione di diritti; ciò significa, quindi, che quel che conta non è il fatto che la violazione sia conseguenza di un mero comportamento posto in essere dal dipendente pubblico (ossia nell’ esercizio di un attività di gestione) ovvero di un provvedimento amministrativo (che costituisce esercizio di un potere di imperio), ma conta il fatto che, operando, l’ agente abbia violato un diritto del privato. Una parte della dottrina ritiene, poi, che il riferimento costituzionale all’ inciso violazione di diritti negherebbe la risarcibilità degli interessi legittimi; sul punto, in realtà, l’ Assemblea Costituente, non essendosi pronunciata all’ epoca, sembra aver lasciato aperta la strada a qualsiasi tipo di conclusione (non bisogna dimenticare, però, che la formula violazione di diritti rappresenta il frutto dell’ estensione della formula originariamente proposta dalla Costituente: violazione dei diritti di libertà sanciti dagli artt. 13 ss., senza alcun riferimento alla contrapposizione tra diritto ed interesse). 4° indicazione: mentre gli agenti rispondono direttamente degli atti compiuti in violazione di diritti, alla pubblica amministrazione la responsabilità civile è estesa. Ora, posta la questione in questi termini, si potrebbe pensare che la responsabilità dell’ amministrazione diventi indiretta o sussidiaria (in tal senso si espresse l’ Onorevole Nobile all’ Assemblea Costituente); in realtà (come affermò l’ Onorevole Pisanelli) non è così, perché, al contrario, è il principio della responsabilità dell’ amministrazione che viene esteso alle persone fisiche (dipendenti) che agiscono per essa.

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Con ciò si vuol dire, quindi, che con l’ art. 28 Cost. non si è inteso trasformare la responsabilità civile della pubblica amministrazione da diretta in indiretta (se così fosse stato ne sarebbe risultata indebolita la garanzia del cittadino leso, dal momento che il patrimonio dell’ amministrazione è molto più capiente); viceversa, lo scopo perseguito è stato quello di creare una sorta di parallelismo tra la responsabilità diretta dell’ amministrazione e la responsabilità (sempre diretta) degli agenti (in tal modo, del fatto dannoso ne rispondono solidalmente sia l’ amministrazione che gli agenti). La legislazione ordinaria, tuttavia, ha alterato questo parallelismo: l’ art. 23, D.P.R. 3/57 ha stabilito, infatti, che l’ impiegato statale risponde solo quando abbia agito con dolo o colpa grave; occorre precisare, tra l’ altro, che questa limitazione (al dolo o alla colpa grave) è stata estesa a tutti gli agenti della pubblica amministrazione, siano essi funzionari onorari o professionali o impiegati (L. 639/96). A differenza di questi, invece, l’ amministrazione risponde, secondo i princìpi civilistici, anche per colpa lieve (questa esonera l’ agente, ma non la pubblica amministrazione). Viceversa, qualora il dipendente abbia agito allo scopo di perseguire un fine privato ed egoistico (estraneo, quindi, all’ amministrazione), lui solo risulterà responsabile, perché manca in questo caso un collegamento tra le finalità dell’ amministrazione e le finalità dell’ agente. §3. La responsabilità aquiliana (o extracontrattuale) a) i criteri di imputazione della responsabilità L’ art. 28 Cost., sottoponendo la responsabilità degli agenti (e, quindi, anche quella della pubblica amministrazione) alle leggi civili, enuncia il principio della piena soggezione della pubblica amministrazione alle forme di responsabilità civile previste dal codice civile. Ora, come sappiamo, il codice prevede diverse forme di responsabilità civile, quali: la responsabilità fondata sulla colpa (dolo o colpa, ex art. 2043), la responsabilità, per i danni cagionati dall’ incapace, di chi è tenuto alla sorveglianza (art. 2047), la responsabilità dei genitori, tutori, precettori

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e maestri d’ arte (art. 2048), la responsabilità dei padroni e committenti (art. 2049), la responsabilità per l’ esercizio di attività pericolose (art. 2050), la responsabilità per il danno cagionato da cose in custodia, da animali, da rovina di edificio o da circolazione di veicoli (artt. 2051-2054). Ora, per la vastità dei suoi compiti e per l’ ampiezza dei suoi beni, è chiaro che la pubblica amministrazione (fatta eccezione per la responsabilità dei genitori) è suscettibile di incorrere in ciascuna di dette forme di responsabilità: essa gestisce, ad es., i reparti neurologici degli ospedali pubblici e, quindi, deve sopportare i danni prodotti a terzi da parte di persone incapaci di intendere e di volere; amministra scuole e, quindi, risponde (come gli insegnanti) dei danni cagionati dagli allievi; esercita attività pericolose, come il servizio ferroviario, e pertanto deve rispondere degli eventuali danni cagionati; è titolare di beni e, quindi, è tenuta alla loro custodia (si pensi, ad es., ai danni cagionati dalla cattiva manutenzione delle strade). Ovviamente, la forma più frequente di responsabilità della pubblica amministrazione è quella prevista dall’ art. 2043 c.c. (cd. responsabilità aquiliana o extracontrattuale), ai sensi del quale il fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che lo ha commesso a risarcire il danno (è bene precisare che la questione più controversa, nell’ applicazione di questo principio alla pubblica amministrazione, è se per danno ingiusto debba intendersi solo quello conseguente alla lesione di un diritto soggettivo o anche quello derivante dalla lesione di un interesse legittimo).

b) la responsabilità nell’ esercizio di una potestà amministrativa In applicazione dei princìpi civilistici, un illustre studioso del diritto amministrativo (Guicciardi) ha affermato che, affinché si possa parlare di una responsabilità della pubblica amministrazione, debbono ricorrere le seguenti condizioni:

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• l’ esistenza del fatto o dell’ atto, delle cui conseguenze giuridiche si disputa; • l’ imputabilità dell’ atto o del fatto all’ amministrazione (piuttosto che alla persona del funzionario che lo ha posto in essere); • l’ illiceità dell’ atto o del fatto; • l’ esistenza di un danno giuridico, consistente nella privazione, diminuzione o alterazione di un diritto soggettivo del cittadino; • l’ esistenza di un rapporto di causalità tra l’ atto illecito e il danno prodotto (con esclusione, quindi, dei casi in cui il danno sia derivato da cause di forza maggiore o dal fatto stesso del danneggiato). Questo schema, elaborato in applicazione dell’ art. 2043 c.c., subisce, tuttavia, delle alterazioni nei casi in cui la responsabilità non dipenda più dalla colpa (qualunque fatto doloso o colposo), ma da altri fattori: basti osservare, infatti, che in alcuni di questi casi la colpa diventa del tutto irrilevante (si pensi, ad es., alla responsabilità dei padroni e committenti per il fatto dei commessi, ex art. 2049 c.c., che dà luogo ad una vera e propria responsabilità oggettiva); in altri casi, invece, viene in rilievo il solo rapporto di causalità (artt. 2051-2052 c.c.: si pensi, ad es., ai danni cagionati da cose in custodia o da animali; a ben vedere, in queste ipotesi, la colpa non è più una qualificazione del fatto, ma del soggetto che è legato da un rapporto di custodia o di proprietà con la cosa o con l’ animale dannoso); in altri casi, infine, la colpa che conta non è quella dell’ autore del fatto dannoso (ad es., del minore, dell’ incapace o dell’ alunno), ma quella di chi ha il dovere di vigilarlo (artt. 2047-2048 c.c.). Lo stesso discorso può essere fatto in relazione all’ ente pubblico (amministrazione), perché non v’è nulla di peculiare che lo riguardi nel sistema degli artt. 2047 ss. c.c. Invero, l’ unica vera particolarità, a proposito della responsabilità della pubblica amministrazione, è ravvisabile quando il fatto dannoso, di cui all’ art. 2043 c.c., consiste in un provvedimento amministrativo; in questi casi, infatti, ci si pone il seguente quesito: se il fatto doloso o colposo coincide con l’ esercizio di una potestà amministrativa, l’ amministrazione è tenuta a risarcire il danno ingiusto? La domanda proposta non trova una semplice risposta, anche perché il

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problema è reso ancor più complesso a causa della costruzione dell’ efficacia del provvedimento amministrativo e dell’ assetto della tutela giurisdizionale che è connesso a tale costruzione. Alcuni esempi potranno rendere bene l’ idea: una espropriazione illegittima danneggia il proprietario; così come il diniego di un’ autorizzazione danneggia il soggetto che ne ha fatto richiesta. Nel primo caso il privato danneggiato non potrà rivolgersi al giudice civile per il risarcimento dei danni, ex art. 2043 c.c., ma dovrà adire il giudice amministrativo per ottenere l’ annullamento del decreto di espropriazione illegittimo; solo dopo aver conseguito questo risultato potrà rivolgersi al giudice civile per ottenere la restituzione dell’ immobile (se questo non è stato irreversibilmente trasformato) o il risarcimento danni. Il transito per due giurisdizioni è reso obbligatorio dal fatto che, poiché il decreto di espropriazione degrada il diritto di proprietà (diritto soggettivo), il privato potrà azionare solo l’ interesse legittimo dinanzi al giudice amministrativo; una volta che questi, annullando l’ atto, avrà ricostituito l’ originaria situazione di diritto soggettivo, di tale diritto potrà essere chiesto il risarcimento danni dinanzi al giudice civile. Diverso, invece, è il caso del diniego di autorizzazione amministrativa, perché, secondo l’ opinione dominante, il privato vanta un interesse, non un diritto all’ autorizzazione; sicché il rifiuto di questa non dà titolo ad un’ azione risarcitoria dinanzi al giudice civile. Anche in questa ipotesi, quindi, il privato si rivolgerà al giudice amministrativo; solo che l’ eventuale annullamento del diniego di autorizzazione non aprirà l’ accesso alla giurisdizione civile per un’ azione di danni (a differenza del proprietario espropriato, infatti, il privato, in questo caso, continua a vantare un interesse legittimo). c) il danno da lesione di un interesse legittimo Dalle considerazioni precedenti emerge, quindi, l’ importanza che per il tema in esame riveste la questione degli interessi legittimi; interessi nei confronti dei quali, prima della fondamentale sent. 500/99 della Corte di Cassazione, era disconosciuto qualsiasi tipo di risarcibilità.

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La situazione, più precisamente, era posta in questi termini: • è risarcibile il diritto soggettivo che viene leso da un fatto illecito che l’ amministrazione ha posto in essere nella sua capacità di diritto privato o comunque al di fuori dell’ esercizio di una potestà amministrativa; • non è risarcibile il diritto soggettivo che viene degradato ad interesse legittimo dal provvedimento amministrativo (lo diventa solo quando il provvedimento viene annullato dal giudice amministrativo con una sentenza che restituisce alla situazione soggettiva del privato consistenza di diritto soggettivo). Da queste considerazioni si deduceva, pertanto, che non era risarcibile, di per sé, l’ interesse legittimo: sia che esso fosse nato dalla compressione del diritto soggettivo, sia che esso ab origine si fosse configurato come interesse legittimo (soprattutto come interesse all’ adozione di un provvedimento favorevole). Questo dogma della irrisarcibilità degli interessi legittimi ha, tuttavia, cominciato ad essere riconsiderato con il d.lgs. 80/98; difatti, la legge delega (art. 11, co. 4, L. 59/97) aveva stabilito che, nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici, al giudice amministrativo venivano devolute le controversie aventi ad oggetto diritti patrimoniali consequenziali, ivi comprese quelle relative al risarcimento del danno. Interpretando in modo estensivo la delega, il Governo attribuì alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici (artt. 33 e 34 d.lgs. 80/98), stabilendo, all’ art. 35, che in queste (materie) il giudice dispone il risarcimento del danno ingiusto, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica (questa lettura, però, come spiegherà la Consulta nella sent. 292/00, si risolve in un eccesso di delega). In ogni caso, nel solco di questa indicazione (fornita dalla legislazione del 1997/98), la Corte di Cassazione, attraverso una sentenza divenuta celeberrima (sent. 500/99), ha optato per una completa rivisitazione della posizione tradizionale della irrisarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi. La Corte, in particolare, muovendo dalla premessa che l’ art. 2043 c.c. collega l’ obbligo di risarcimento al fatto di aver colpevolmente

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cagionato un danno ingiusto, senza far menzione della situazione soggettiva incisa (diritto soggettivo o interesse legittimo), è giunta alla conclusione che qualunque pregiudizio (danno), arrecato alla sfera altrui senza giustificazione, obbliga colui che lo ha cagionato a risarcirlo, anche quando soggetto danneggiante è una pubblica amministrazione e il danno è arrecato ad un interesse legittimo. Dopo aver enunciato quest’ importante principio, però, la Suprema Corte ha ritenuto opportuno fissare dei paletti, perché consapevole delle difficoltà alle quali sarebbe stata esposta la finanza pubblica (e, in ultimo, il contribuente) nel caso di un risarcimento generalizzato. Il primo limite posto dalla Corte riguarda l’ elemento soggettivo dell’ illecito posto in essere dall’ amministrazione, che sia lesivo di un interesse legittimo: con la sentenza 500/99, la Corte (a differenza dei precedenti orientamenti giurisprudenziali) segnala che non basta la sola illegittimità dell’ atto per desumere la colpevolezza dell’ agente, ma è necessaria la sussistenza di altri due presupposti e cioè: • che siano violati i princìpi costituzionali di imparzialità e buon andamento (art. 97 Cost.); • e che tali violazioni siano imputabili non alla persona fisica che ha posto in essere l’ atto, ma all’ amministrazione, cui essa appartiene. È bene precisare, però, che la giurisprudenza amministrativa (in particolare, il Consiglio di Stato), consapevole della fragilità dell’ argomentazione del Supremo Collegio in tema di elemento soggettivo, tende oggi a valorizzare una nozione oggettiva di colpa (molto vicina a quella tradizionale, che fa della colpevolezza un elemento della illegittimità dell’ atto). Il secondo limite posto dalla Corte di Cassazione riguarda, invece, la nozione di danno ingiusto, in quanto conseguenza dell’ esercizio del potere amministrativo: tale nozione, ad avviso del Supremo Collegio, ha una diversa consistenza, a seconda che la lesione concerna un interesse oppositivo o pretensivo. Nel primo caso il danno è prospettabile, perché l’ interesse oppositivo (l’ interesse, cioè, a che non venga adottato un provvedimento restrittivo: si pensi, ad es., all’ interesse del proprietario a

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fronte del potere espropriativo) presuppone l’ esistenza di un bene che già rientra nella sfera giuridica del titolare (nel nostro esempio: la proprietà); sicché il provvedimento lesivo (l’ esproprio) toglie quel bene. Nel secondo caso (interesse pretensivo) il bene, invece, non appartiene ancora al privato, ma costituisce l’ oggetto del suo desiderio (desiderio che può essere appagato con l’ adozione del provvedimento: si pensi, ad es., al caso in cui il privato chieda il rilascio di un’ autorizzazione); in tale ipotesi, l’ atto lesivo (ad es., l’ atto che nega l’ autorizzazione) impedisce all’ interessato di conseguire quel bene desiderato (cosa che è ben diversa dal togliergli un bene già suo). A giustificazione di quest’ orientamento, la Cassazione ha tenuto a precisare che ciò che risulta decisivo, ai fini del risarcimento del danno, è che l’ interessato possa far valere un bene della vita, ossia un bene che forma oggetto di un interesse materiale, rispetto al quale l’ interesse legittimo svolge una funzione strumentale; in tale logica, pertanto (prosegue la Corte) l’ interesse pretensivo non è risarcibile, perché la sua soddisfazione dipende da una scelta discrezionale dell’ amministrazione (che deve decidere, ad es., se concedere o meno l’ autorizzazione); nella stessa direzione il Consiglio di Stato, il quale ha affermato che, qualora accordasse il risarcimento, il giudice si sostituirebbe all’ amministrazione con una indebita ingerenza nella sua discrezionalità. Sempre in relazione all’ interesse pretensivo, lo stesso Consiglio di Stato ha, però, sottolineato che, qualora la soddisfazione della pretesa dell’ interessato sia collegata ad un’ attività vincolata della pubblica amministrazione, il risarcimento è dovuto nel caso in cui il giudice, attraverso un giudizio prognostico, accerti che, in assenza dell’ illecito, il provvedimento richiesto avrebbe dovuto essere rilasciato. Proprio in questa alternativa (risarcibilità-irrisarcibilità dell’ interesse pretensivo) si colloca il discorso sulla cd. perdita di chance: infatti, il Consiglio di Stato, partendo dal presupposto che la chance rappresenta la concreta possibilità di conseguire un risultato utile, di cui non è, però, dimostrabile la futura realizzazione, per via di un fatto che ha interrotto una serie di eventi idonei ad assicurare un vantaggio, ha stabilito che tale

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perdita di chance è risarcibile qualora, in assenza dell’ illecito, vi era una possibilità superiore al 50% che l’ evento favorevole si verificasse: così, per fare un esempio, se il concorrente secondo classificato in una gara d’ appalto di lavori pubblici aveva la concreta possibilità di aggiudicarsi l’ appalto (ove, ad es., non fosse stato ammesso il primo classificato, sfornito dei requisiti prescritti dal bando), la sua perdita di chance deve essere risarcita. Detto questo, è importante sottolineare, in conclusione, che il disegno volto ad introdurre nel nostro ordinamento la risarcibilità degli interessi legittimi è stato completato con la L. 205/00, la quale invero ha ripreso le disposizioni contenute nel citato d.lgs. 80/98: tali norme, che (come sappiamo) avevano attribuito al giudice amministrativo il potere di risarcire il danno ingiusto cagionato dall’ amministrazione nelle materie dell’ edilizia, dell’ urbanistica e dei servizi pubblici, sono state travolte per eccesso di delega dalla sent. 292/00 della Corte cost. Nonostante ciò, il Parlamento pochi giorni dopo questa pronuncia ha convalidato le disposizioni di quel decreto: ed infatti, l’ art. 7 L. 205/00 stabilisce espressamente che il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto. Ma la vera rivoluzione è realizzata attraverso un’ altra disposizione della stessa legge, nella quale si legge che il Tribunale amministrativo regionale, nell’ ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’ eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali [ciò significa, in altri termini, che la previsione del risarcimento, accordato dal giudice amministrativo, non è più limitata alle materie di giurisdizione esclusiva (vale a dire, ai diritti soggettivi che, in quelle materie, sono sottoposti alla cognizione del giudice amministrativo), ma viene estesa all’ intera giurisdizione amministrativa (e, quindi, alla giurisdizione di legittimità, che è istituita a protezione degli interessi legittimi)]. In tal modo, il legislatore del 2000 ha compiuto una duplice operazione: da

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un lato, ha riconosciuto espressamente la risarcibilità degli interessi legittimi; dall’ altro, ha attribuito al giudice amministrativo sia la tutela di annullamento che quella risarcitoria (sottraendo quest’ ultima al giudice ordinario). d) il danno da ritardo Il cd. danno da ritardo è il danno che l’ amministrazione causa al privato interessato quando rimane inerte di fronte ad una richiesta di provvedimento favorevole ovvero quando la stessa protrae, al di là dei termini previsti, un procedimento iniziato d’ ufficio, il cui esito è potenzialmente lesivo per il privato. Come si può notare, a differenza delle ipotesi in precedenza esaminate, in questo caso la fonte del pregiudizio non è l’ esercizio del potere amministrativo, ma il suo mancato esercizio, che lascia il cittadino in uno stato di incertezza sulle sorti del bene della vita che mira ad ottenere (attraverso l’ emanazione del provvedimento favorevole) o a conservare (e la cui esistenza è minacciata dal procedimento in corso). Ora, questo stato di incertezza, causato dal comportamento dell’ amministrazione (che omette di provvedere nel termine di 90 giorni previsti dall’ art. 2, L. 241/90), può, ovviamente cagionare al privato gravi pregiudizi economici, a prescindere dall’ esito del procedimento: così, ad es., l’ amministrazione che illegittimamente ritarda nel provvedere sulla richiesta di autorizzazione all’ apertura di un esercizio commerciale causa un danno al privato, sia nel caso in cui, alla fine, l’ autorizzazione venga rilasciata, sia nel caso in cui venga negata. Nel primo caso, il danno deriva dal non aver potuto tempestivamente intraprendere l’ attività (e, quindi, nel mancato guadagno nel periodo in cui l’ amministrazione è rimasta inerte); nel secondo caso, invece, il danno deriva dal fatto che, in attesa di sapere se poteva intraprendere l’ attività soggetta ad autorizzazione, il richiedente ha sostenuto dei costi (ha dovuto, ad es., tenere libri contabili, disporre della liquidità necessaria all’ avviamento dell’ attività, etc.). In entrambi i casi, com’è facilmente intuibile, la causa del danno è l’

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illegittima inerzia dell’ amministrazione. §4. La responsabilità da atto lecito (l’ articolo 42 della Costituzione) Un tema particolarmente interessante e sul quale si discute da decenni in dottrina è quello della responsabilità dell’ amministrazione da atto lecito. In particolare, l’ interrogativo che gli studiosi si pongono è il seguente: se il privato subisce un danno dall’ operato della pubblica amministrazione è necessario che esso derivi da un atto illecito (cioè, che si tratti di un danno ingiusto) affinché il danneggiato abbia titolo al risarcimento? L’ argomento in esame è tra i più controversi nella dottrina civilistica (non solo italiana), una parte della quale tende comunque a sganciare il diritto al risarcimento dall’ illecito, desumendo l’ antigiuridicità da una valutazione comparativa degli interessi in gioco. In realtà, se si osserva bene, il codice civile prevede specifiche ipotesi di indennità; indennità che consiste in un rimborso al quale un soggetto ha diritto qualora subisca un pregiudizio che un altro soggetto gli arrechi nell’ esercizio di un potere riconosciuto (e, quindi, per definizione, nello svolgimento di un’ attività lecita): si tratta delle ipotesi del proprietario di animali mansuefatti, il quale può inseguirli anche nel fondo altrui, salvo il diritto del proprietario del fondo a indennità per il danno (art. 925 c.c.) e del proprietario di sciami d’ api in identica situazione (art. 924 c.c.). La questione si pone con particolare frequenza anche nei rapporti con la pubblica amministrazione, la quale, infatti, può arrecare pregiudizio ai privati non soltanto quando commette un illecito, ma anche quando esercita legittimamente i suoi poteri; ciò lo si può dedurre, ad es., dalla formulazione dell’ art. 42 Cost., il quale, infatti, stabilendo che la proprietà privata può, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, essere espropriata per motivi di interesse generale, ci dice, in realtà, che non è sufficiente il richiamo all’ interesse generale per autorizzare l’ appropriazione della proprietà privata da parte dei pubblici poteri, ma occorre anche un indennizzo, in assenza del quale l’ espropriazione sarebbe illecita. A questo punto, però, sorge il problema di stabilire se l’ indennizzo debba

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essere equiparato al risarcimento o se debba essere inferiore allo stesso. Ora, nella formulazione originaria della legge fondamentale sull’ espropriazione (del 1865), l’ indennizzo equivaleva al risarcimento, perché veniva commisurato al valore di mercato dell’ immobile (cd. valore venale). La disciplina attuale, invece, ai fini dell’ indennizzo, ha distinto (almeno fino alla sent. 348/07 Corte cost.) i fondi agricoli (per i quali l’ espropriato riceve una somma pari al valore agricolo medio dei terreni nei quali sia praticato lo stesso tipo di coltura) dalle aree edificabili (per le quali l’ espropriato riceve un indennizzo pari a 1/3 del valore venale). Questo regime, che la Consulta in un primo tempo aveva fatto salvo (giudicando non irrisorio il ristoro assicurato all’ espropriato), è stato travolto dalla citata sentenza 348/07, sulla base non più del solo art. 42 Cost., ma soprattutto in applicazione dell’ art. 1 del primo Protocollo CEDU, così come interpretato dalla Corte di Giustizia CE: secondo questo Giudice, infatti, la disposizione europea invocata, stabilendo che nessuno può essere privato della sua proprietà, se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai princìpi generali del diritto internazionale, impone un rimborso non inferiore al valore venale.

§5. La responsabilità contrattuale Parte della dottrina ritiene che l’ art. 28 Cost. riguarderebbe soltanto la responsabilità contrattuale; in realtà, una tesi del genere potrebbe essere accettata soltanto facendo leva sul fatto che l’ amministrazione, avvalendosi del suo potere di autonomia privata (che le compete in quanto persona giuridica), può essere assoggettata, sul piano della responsabilità contrattuale, allo stesso regime giuridico previsto per i soggetti privati. In ogni caso, sia che si faccia riferimento all’ art. 28 Cost., sia che si faccia leva sulla personalità giuridica dell’ ente pubblico si perverrà alla medesima conclusione, ossia che la responsabilità contrattuale dell’ amministrazione è identica a quella di qualunque altro contraente:

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sottoposta, cioè, alle regole contenute negli artt. 1218 ss. c.c. Ciò significa, quindi, che l’ amministrazione, in conseguenza dell’ inadempimento di un’ obbligazione contrattuale, è tenuta al risarcimento del danno provocato al creditore. È bene precisare, però, che la responsabilità dell’ amministrazione per inadempimento delle obbligazioni contrattuali presuppone che tali obbligazioni siano state assunte nel rispetto dei vincoli di contabilità: in particolare, la legge di contabilità (del 1923) prescrive che ogni spesa debba essere imputata al pertinente capitolo di bilancio e che questo contenga i fondi necessari. Con maggiori e più puntuali dettagli tecnici, poi, il T.U. delle leggi sull’ ordinamento degli enti locali (d.lgs. 267/00) stabilisce, all’ art. 183, che l’ impegno costituisce la prima fase del procedimento di spesa, con la quale, a seguito di obbligazione giuridicamente perfezionata, è determinata la somma da pagare, determinato il soggetto creditore, indicata la ragione e viene costituito il vincolo sulle previsioni di bilancio. Ciò significa che la spesa (acquisto di un bene o di un servizio) potrà essere effettuata solo se sussiste l’ impegno contabile assunto dall’ amministratore, dal funzionario o dal dipendente, per conto dell’ ente locale; e solo se tale impegno sia stato registrato sul competente capitolo di bilancio. Diversamente (vale a dire, se il bene o servizio viene acquisito in violazione di queste regole), il rapporto obbligatorio intercorre solo tra il fornitore e l’ amministratore, funzionario o dipendente che ha consentito la fornitura; si tratta, a ben vedere, di una misura energica, idonea ad operare come deterrente per l’ amministratore o il dipendente superficiale o approssimativo, ma assai meno soddisfacente per il privato fornitore: questi, infatti, nella maggior parte dei casi ha ricevuto l’ incarico dal sindaco o dall’ assessore, con lettera o in forma verbale, in attesa dell’ adozione della delibera di incarico ed ha espletato l’ incarico (o ha reso la prestazione) senza che la delibera sia stata adottata; in questi casi, egli può rivalersi (secondo le disposizioni contenute nel d.lgs. 267/00) solo sull’ amministratore o sul funzionario; non può, invece, rivalersi sull’ amministrazione, neppure con l’ azione di indebito arricchimento (ammessa contro chi, senza giusta causa, si è arricchito ai danni di altra persona, ex art. 2041 c.c.), perché l’ azione in

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questione ha carattere sussidiario e non può, quindi, essere esercitata, dal momento che il danneggiato può rivalersi contro il funzionario o l’ amministratore (è bene precisare, però, che l’ azione di arricchimento potrà essere esercitata qualora l’ amministrazione, cui il privato ha reso la prestazione, sia diversa dall’ ente locale: in tal caso, infatti, anche se l’ obbligazione è stata contratta irregolarmente, l’ amministrazione, avendo fruito della prestazione, sarà tenuta ad indennizzare il fornitore della correlativa diminuzione patrimoniale, nei limiti dell’ arricchimento). §6. La responsabilità patrimoniale L’ art. 2740 c.c. stabilisce che il debitore risponde dell’ adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, fatte salve alcune limitazioni previste dalla legge. In particolare, tra i beni sottratti alla soddisfazione dei creditori, qualora debitrice sia una pubblica amministrazione, vi sono i beni demaniali (che sono inalienabili e non possono formare oggetto di diritti in favore di terzi) ed i beni patrimoniali indisponibili (che sono destinati ad un pubblico servizio e non possono essere sottratti alla loro destinazione). Ne consegue, pertanto, che alla soddisfazione dei creditori è assoggettato soltanto il patrimonio disponibile dello Stato e degli enti pubblici, nonché il denaro della pubblica amministrazione (in ragione della sua natura fungibile). §7. La responsabilità amministrativa a) la responsabilità degli amministratori e dei dipendenti Un’ ultima considerazione occorre dedicarla all’ importante tema della responsabilità amministrativa, vale a dire della responsabilità degli amministratori, dei funzionari e dei dipendenti per aver posto in essere determinate condotte che hanno provocato ai terzi un danno ingiusto (che l’ amministrazione è tenuta a risarcire), nonché per aver arrecato all’ amministrazione un danno ingiusto nell’ esercizio dei loro compiti. I tratti essenziali del regime giuridico che concerne questo tipo di responsabilità, contenuti nella L. 20/94 (modificata nel 1996), sono i

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seguenti: • nella responsabilità amministrativa possono incorrere non solo gli amministratori e i pubblici dipendenti, ma anche tutti coloro che, a qualunque titolo (ad es., contratto d’ opera), svolgono compiti per conto di un’ amministrazione pubblica (si pensi, ad es., al direttore dei lavori nel contratto d’ appalto di opera pubblica); • la responsabilità amministrativa è stata sempre considerata una responsabilità contrattuale, trovando essa fondamento in un contratto; • mentre, però, nella responsabilità contrattuale il debitore è tenuto al risarcimento del danno se non prova che l’ inadempimento è stato determinato da impossibilità della prestazione a lui non imputabile (art. 1218 c.c.), nella responsabilità amministrativa, invece, è l’ ente (in particolare, la procura regionale della Corte dei Conti) che deve fornire la prova della responsabilità, non l’ amministratore o il dipendente; • la responsabilità amministrativa è limitata ai fatti e alle omissioni commesse con dolo o colpa grave (anche questa, come la precedente, rappresenta una deroga al regime della responsabilità contrattuale: a questa, infatti, soggiace il debitore se non ha eseguito esattamente la prestazione dovuta; e, quindi, anche in caso di colpa lieve); • un altro temperamento del rigore della responsabilità amministrativa è costituito dal fatto che le scelte discrezionali non possono essere sindacate nel merito; e ciò allo scopo di evitare che l’ amministratore (o il dirigente) possa essere chiamato a rispondere per una scelta che attiene al merito (ad es., per avere il consiglio comunale optato per una forma di gestione di un servizio pubblico locale, anziché per un’ altra); • quando gli atti rientrano nella competenza degli uffici tecnici o amministrativi la responsabilità è limitata ai dipendenti (essa, quindi, non si estende agli amministratori, perché si presume che questi abbiano agito in buona fede, facendo affidamento sulla competenza degli uffici tecnici); • nel regime della responsabilità amministrativa è centrale l’ elemento del danno (danno ingiusto): non è sufficiente, cioè, la violazione del dovere d’ ufficio (o l’ adozione di un atto illegittimo), ma occorre che da tale violazione (o da tale atto) sia derivato un danno ingiusto;

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• per quanto riguarda la quantificazione del danno, il giudice deve tener conto dei vantaggi comunque conseguiti dall’ amministrazione o dalla comunità amministrata, in relazione al comportamento degli amministratori o dei dipendenti soggetti al giudizio di responsabilità [si pensi, ad es., al caso in cui degli amministratori comunali assumano dipendenti a titolo precario in assenza dei relativi posti di organico: in questo caso, le casse del comune subiscono un danno (pari alle retribuzioni che sono state corrisposte e non potevano esserlo); ma l’ amministrazione ne ha ricevuto un vantaggio (commisurato alla utilitas fornita dalle prestazioni di lavoro); e un vantaggio ne ha ricevuto anche la comunità, dal momento che è stata lenita la disoccupazione]; • la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, può porre a carico dei responsabili tutto o anche solo parte del danno accertato o del valore perduto (cd. potere riduttivo dell’ addebito); simile (per quanto riguarda gli effetti) al potere riduttivo è l’ esercizio della facoltà, riconosciuta al dipendente o amministratore condannato in primo grado, di chiedere alla sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10% e non superiore al 20% del danno quantificato nella sentenza (cd. patteggiamento nel processo contabile); • la responsabilità amministrativa è una responsabilità individuale: ciò significa, quindi, che qualora il fatto dannoso sia stato causato da più persone, la Corte dei Conti, valutate le singole responsabilità, condanna ciascuno per la parte che vi ha preso (a meno che i concorrenti non abbiano conseguito un illecito arricchimento o abbiano agito con dolo, perché, in questo caso, la responsabilità sarà solidale, nel senso che ciascun condebitore può essere costretto all’ adempimento per la totalità e l’ adempimento di uno libera gli altri); • un’ altra deroga al regime civilistico è, poi, prevista per la successione mortis causa dell’ obbligazione risarcitoria: infatti, secondo i princìpi civilistici, l’ erede subentra sempre nelle obbligazioni del defunto; viceversa, il debito derivante da responsabilità amministrativa viene trasmesso soltanto se il defunto (dipendente o amministratore) si è

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illecitamente arricchito (e, di conseguenza, anche l’ erede si è arricchito in modo illecito per aver ricevuto, illecitamente, un bene dal de cuius); • sul presupposto che la responsabilità amministrativa avesse natura contrattuale, la Corte dei Conti aveva sempre ritenuto che il termine di prescrizione per l’ azione fosse quello ordinario di 10 anni (art. 2946 c.c.) e non quello quinquennale previsto per il diritto al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale (art. 2947 c.c.); la novella del ’96 ha ridotto, invece, a 5 anni il termine di prescrizione: questa decorre dalla data in cui si è verificato il fatto dannoso ovvero, in caso di occultamento doloso del danno, dalla data della sua scoperta; • il soggetto danneggiato è l’ amministrazione o l’ ente dei quali la persona responsabile sia dipendente o amministratore; la novella del ’96 ha, però, esteso la giurisdizione della Corte dei Conti (e, quindi, la responsabilità dell’ agente) anche all’ ipotesi che il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o ad enti diversi da quelli di appartenenza (ciò significa, pertanto, che nella prospettiva del danno, viene presa in considerazione l’ intera area pubblica); • è necessario sottolineare, infine, che il titolare dell’ azione di danni non è l’ amministrazione danneggiata, ma (come detto) la procura regionale della Corte dei Conti (ciò si spiega in virtù del fatto che sussiste una seria presunzione che l’ amministrazione danneggiata, invece di far valere le sue ragioni contro l’ amministratore o il dipendente, sia portata a coprirne la responsabilità, ossia a colludere con lui). b) la responsabilità amministrativa delle persone giuridiche L’ art. 27 Cost. stabilisce che la responsabilità penale è personale: ciò significa che del reato rispondono solo i suoi autori che, a seguito di un giusto processo (art. 111 Cost.), vengono condannati ad una pena (detentiva o pecuniaria); tale responsabilità non si estende, invece, né ai loro eredi e aventi causa, né alle persone giuridiche (enti pubblici, s.p.a., associazioni, etc.), delle quali facciano parte i rei. La persona giuridica, infatti, si risolve in una fictio iuris: è un centro di imputazione di rapporti giuridici attivi e passivi, ma perché possa concretamente agire deve

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avvalersi di persone munite del potere di compiere atti, giuridici e materiali, i cui effetti civili vengono imputati direttamente nella sfera giuridica e materiale dell’ ente rappresentato [ad es., l’ ordinanza sottoscritta dal sindaco è un atto che si imputa alla sfera dell’ ente (il comune); e chi vuole contestarla deve agire contro l’ ente (facendo ricorso al TAR contro il comune)]; gli effetti penali, invece, in virtù dell’ antico brocardo societas delinquere non potest, si imputano alla persona fisica (al sindaco, nel nostro esempio, dal momento che il comune non può essere corrotto, ma il suo amministratore sì). Nonostante la validità del brocardo citato, il legislatore ha ritenuto comunque opportuno introdurre una nuova forma di responsabilità: la cd. responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (d.lgs. 231/01): si tratta, in particolare, di una responsabilità che il pubblico ministero (p.m.) fa valere nei confronti dell’ ente come conseguenza dei reati commessi dai suoi dipendenti e amministratori, dinanzi al giudice penale competente a conoscere il reato; qualora il giudice accerti che il dipendente o l’ amministratore ha commesso un reato nell’ interesse o a vantaggio dell’ ente del quale fa parte, su richiesta del p.m., applica all’ ente una sanzione amministrativa, che può essere di natura pecuniaria o interdittiva (ad es., la sospensione delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’ illecito) o può consistere nella confisca o nella pubblicazione della sentenza. È bene precisare, in ogni caso, che le norme sulla responsabilità amministrativa dell’ ente si applicano soltanto nei confronti degli enti pubblici non economici e delle s.p.a. in mano pubblica (non si applicano, invece, allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici non economici e agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale).

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Parte III La giustizia amministrativa Sezione I Le premesse storiche §1. I lineamenti storici della giustizia amministrativa in Italia Prima dell’ unità d’ Italia, la maggior parte degli Stati della penisola (in primis, il Regno di Sardegna) aveva strutturato il sistema della giustizia amministrativa sul modello adottato in Francia: in virtù di tale modello, le liti tra privati e P.A. erano affidate alla cognizione di tribunali speciali composti da funzionari amministrativi (sistema del contenzioso amministrativo); in altri Stati, invece, esistevano solo rimedi di carattere amministrativo davanti alla stessa autorità. Pertanto, dopo l’ unificazione, il nuovo Stato si trovò a dover risolvere il

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problema della giustizia amministrativa (diversamente configurato tra i diversi Stati preunitari); in questa prospettiva, il Parlamento italiano, chiamato a scegliere tra il mantenimento del sistema del contenzioso amministrativo e la devoluzione al giudice ordinario delle controversie nelle quali fosse parte una pubblica amministrazione, decise di adottare la seconda soluzione (sia pure con determinati temperamenti). Infatti, nel 1865, con L. n. 2248, allegato E (cd. legge abolitiva del contenzioso amministrativo) vennero aboliti i tribunali speciali del contenzioso amministrativo (ad eccezione della Corte dei Conti e del Consiglio di Stato) e devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause nelle quali si facesse questione di un diritto civile o politico (cioè, di un diritto soggettivo) leso da un atto dell’ autorità amministrativa. È bene precisare, però, che i poteri del giudice ordinario vennero limitati, dal momento che egli poteva conoscere degli effetti dell’ atto amministrativo senza poterlo modificare o revocare, ma solo disapplicare nel caso concreto sottoposto al suo esame (se contrario alla legge). Venne, pertanto, introdotto l’ obbligo, per le autorità amministrative, di conformarsi al giudicato dei tribunali ordinari che avevano incidentalmente riconosciuto l’ illegittimità dell’ atto. La tutela degli interessi legittimi venne, invece, attribuita alle stesse amministrazioni (nell’ ambito del procedimento amministrativo) ovvero attraverso i ricorsi amministrativi gerarchici. Nel 1889, però, con L. n. 5992 (cd. legge Crispi), venne prevista e disciplinata la giurisdizione generale di legittimità sugli atti amministrativi lesivi di interessi legittimi attraverso l’ istituzione della IV sezione del Consiglio di Stato (organo che, sino ad allora, aveva svolto funzioni solo consultive). Successivamente, nel 1890, con L. n. 6837, venne attribuita alla Giunta provinciale amministrativa (organo periferico dell’ amministrazione dell’ Interno, presieduto dal prefetto e deputato ad esercitare il controllo di merito sugli atti degli enti locali) una competenza ricalcata su quella della IV sezione, ma limitata all’ impugnazione di una serie di atti in prevalenza delle amministrazioni locali (da sottolineare che le pronunce della Giunta potevano essere appellate dinanzi alla IV sezione del Consiglio di Stato). Nel 1907, con L. n. 62 (cd. legge Giolitti) venne istituita la V sezione del

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Consiglio di Stato con giurisdizione di merito su determinate materie (nel contempo, venne riconosciuta la natura giurisdizionale delle sezioni IV e V). Infine, nel 1923 (con regio decreto n. 2840) venne abolita la distinzione di competenza tra la IV e la V sezione del Consiglio di Stato e venne istituita la giurisdizione amministrativa esclusiva (del Consiglio di Stato) su determinate materie, la principale delle quali era sicuramente quella relativa al rapporto di impiego con lo Stato e gli enti pubblici: in questi casi, la giurisdizione del giudice amministrativo era determinata dalla materia e non dalla situazione soggettiva di interesse legittimo (tutta la materia, cioè, era attribuita al giudice amministrativo, sia che il privato avesse fatto valere un interesse legittimo, sia che avesse chiesto la tutela di un diritto soggettivo). §2. La giustizia amministrativa in Italia, oggi. Il riparto di giurisdizione In Italia, in virtù dell’ applicazione del sistema dualistico, non esiste un giudice competente per ogni controversia amministrativa, ma occorre individuare, di volta in volta, il giudice dinanzi al quale la causa deve essere proposta; con tale sistema, ovviamente, i problemi di giurisdizione sono ricorrenti, perché non è sempre agevole applicare i criteri di ripartizione stabiliti dall’ ordinamento. L’ attuale sistema di riparto giurisdizionale trova fondamento nell’ art. 103, co. 1 Cost., il quale stabilisce che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela, nei confronti della pubblica amministrazione, degli interessi legittimi e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi. Il criterio ordinario, quindi, è quello della posizione soggettiva fatta valere in giudizio: se si tratta di un diritto soggettivo la giurisdizione è del giudice ordinario, mentre se è di interesse legittimo la giurisdizione è del giudice amministrativo [come sappiamo, sussiste interesse legittimo quando l’ ordinamento, allo scopo di tutelare interessi pubblici, conferisce alla pubblica amministrazione il potere di incidere unilateralmente, con un proprio atto o provvedimento, nella sfera giuridica altrui, sacrificandola o espandendola: nel primo caso, il soggetto

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terzo è titolare di una posizione di interesse legittimo oppositivo (volto a salvaguardare l’ integrità della propria sfera giuridica lesa dall’ azione amministrativa); nel secondo caso, invece, il terzo vanta una posizione di interesse legittimo pretensivo (volto ad ampliare la propria sfera giuridica per opera della pubblica amministrazione)]. La coesistenza di due diversi ordini di giurisdizioni ha posto notevoli problemi in ordine all’ identificazione dei criteri idonei ad operare il necessario riparto; in questa prospettiva, la Cassazione, con sent. 1657/49 ha stabilito con chiarezza il criterio discretivo tra i due ordini di giurisdizioni, osservando che: tutte le volte che si lamenta il cattivo uso del potere dell’ amministrazione si fa valere un interesse legittimo e la giurisdizione è del giudice amministrativo, mentre si ha questione di diritto soggettivo e giurisdizione del giudice ordinario quando si contesta la stessa esistenza del potere (in tal modo, si è posto il collegamento seguente: carenza di potere-diritto soggettivo, cattivo uso del potere-interesse legittimo). La soluzione adottata dalla giurisprudenza si spiega in virtù del fatto che il provvedimento amministrativo, per quanto illegittimo (cioè, adottato con cattivo uso del potere), è pur sempre efficace, ossia dotato di autoritatività ed esecutività (comportando, laddove incida su di un diritto soggettivo, la degradazione del diritto ad interesse legittimo, con conseguente competenza del giudice amministrativo). Il tradizionale riparto di giurisdizione per posizioni soggettive, però, non trova applicazione laddove il legislatore disponga il cd. riparto per blocchi di materie: qualora, cioè, attribuisca alla giurisdizione esclusiva del giudice ordinario o del giudice amministrativo una determinata materia, indipendentemente dal fatto che si faccia valere una posizione di diritto soggettivo o di interesse legittimo. È bene precisare, infine, che il nostro ordinamento (accanto ai rimedi giurisdizionali) prevede e disciplina anche strumenti di tutela di carattere amministrativo, azionabili di fronte alla stessa autorità amministrativa attraverso procedimenti interni, senza l’ intervento del giudice.

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Sezione II La tutela giurisdizionale ordinaria §1. L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario L’ ambito della giurisdizione del giudice ordinario, nei confronti della pubblica amministrazione, è ancora oggi definito dall’ art. 2 della legge abolitiva del contenzioso amministrativo. In base a tale articolo, infatti, sono devolute alla giurisdizione ordinaria tutte le cause per contravvenzioni e tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la P.A., e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’ autorità amministrativa. Da questa disposizione si evince, pertanto, che nella giurisdizione del giudice ordinario rientrano: • le cause per contravvenzioni, ossia tutte le violazioni della legge penale;

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• tutte le materie nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico (al riguardo, va detto che l’ espressione diritto civile o politico deve essere intesa nel senso di diritto soggettivo: di conseguenza, la cognizione del giudice ordinario si estende a tutti i diritti soggettivi, ad eccezione delle materie attribuite alla giurisdizione esclusiva dei Tar); • comunque vi possa essere interessata la P.A. (ciò significa che il giudice ordinario è competente non solo nell’ ipotesi in cui la pubblica amministrazione sia parte attrice, ma anche qualora la stessa sia convenuta in giudizio); • ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’ autorità amministrativa (questo vuol dire che la giurisdizione del giudice ordinario non è preclusa dal fatto che la pubblica amministrazione abbia emanato un atto autoritativo; ciò trova conferma, tra l’ altro, negli artt. 4 e 5 della legge abolitiva, i quali disciplinano i poteri del giudice ordinario in presenza di un atto amministrativo, nonché nell’ art. 113 Cost., che espressamente prevede la cognizione del giudice ordinario per gli atti amministrativi lesivi di diritti).

§2. I poteri del giudice ordinario in ordine all’ atto amministrativo Il giudice ordinario può conoscere di tutti i comportamenti della P.A. lesivi di diritti soggettivi: sia che si tratti di meri comportamenti (si pensi, ad es., al mancato compimento di lavori di restauro ad una strada pubblica, con conseguenti danni per la circolazione e per le autovetture private), sia che si tratti di atti compiuti in esecuzione di provvedimenti amministrativi. Gli artt. 4 e 5 della legge abolitiva stabiliscono, però, i limiti interni alla giurisdizione del giudice ordinario in ordine agli atti amministrativi; queste due disposizioni enunciano, in particolare, i seguenti princìpi: • il giudice ordinario può conoscere degli effetti dell’ atto in relazione all’ oggetto dedotto in giudizio (ciò significa che eventuali vizi dell’ atto, accertati dal giudice, potranno essere fatti valere solo nella controversia sottoposta al suo esame);

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• il sindacato del giudice sull’ atto amministrativo è limitato ai soli vizi di legittimità, non anche a quelli di merito (il giudice ordinario, cioè, può solo dichiarare l’ illegittimità dell’ atto, ma non può sindacare i criteri di opportunità e di convenienza ai quali l’ amministrazione si è ispirata); quanto al profilo di legittimità, si ritiene che il giudice ordinario dispone degli stessi poteri cognitori riconosciuti al giudice amministrativo (egli può, cioè, esaminare l’ atto sotto il profilo dell’ incompetenza, dell’ eccesso di potere e della violazione di legge); • il giudice ordinario, anche qualora dovesse accertare l’ illegittimità dell’ atto, non dispone del potere di annullarlo, revocarlo o modificarlo (se così fosse, infatti, il giudice, in contrasto con il principio della separazione dei poteri, sostituirebbe la sua volontà a quella dell’ amministrazione); questo limite, recepito dall’ art. 113, co. 3 Cost., conosce tuttavia determinate deroghe, tra le quali ricordiamo: il potere di annullare le ordinanzeingiunzioni in materia di sanzioni amministrative; il potere di annullare la trascrizione del matrimonio e la possibilità di rettificare i certificati di stato civile; • l’ accertamento dell’ illegittimità dell’ atto compiuto dal giudice non è, però, privo di conseguenze giuridiche: in primis, infatti, il giudice ordinario è abilitato a disapplicare l’ atto ai fini della soluzione della controversia sottoposta al suo esame; in secondo luogo, la pubblica amministrazione interessata ha l’ obbligo di conformarsi alla pronuncia [in altri termini, l’ autorità amministrativa è tenuta a conformarsi al giudicato del giudice ordinario e ad adottare successivi provvedimenti con esso coerenti, a seguito di istanza dell’ interessato (va sottolineato che il mancato adempimento di quest’ obbligo è tutelato, in sede giurisdizionale, attraverso il giudizio di ottemperanza davanti al giudice amministrativo, che può, in questa sede, conoscere anche dei vizi di merito)]. §3. Le azioni ammissibili davanti al giudice ordinario Esaminati i poteri ed i limiti posti al sindacato del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione, è importante, a questo punto, determinare le azioni ammissibili contro la pubblica amministrazione; a tal

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fine, occorre richiamare la classificazione delle azioni della dottrina processualcivilistica e, in base ad essa, applicare le regole di cui agli artt. 4 e 5 della legge abolitiva. La dottrina del processo civile (a partire dal Chiovenda) ha classificato le azioni in tre categorie fondamentali: le azioni dichiarative (o di mero accertamento), le azioni di condanna e le azioni costitutive. Le azioni dichiarative sono quelle attraverso le quali l’ attore mira ad acquisire una certezza giuridica (messa in discussione dalla pretesa o dalla contestazione del convenuto); queste azioni sono sempre consentite contro la P.A., perché l’ accoglimento della domanda non modifica l’ assetto esistente [non incide, cioè, sull’ atto emesso dall’ autorità, ma si limita ad accertare una situazione giuridica o di fatto (ad es., il giudice accerta che una determinata area, che secondo l’ autorità fa parte del demanio, in realtà è di proprietà privata)]. Le azioni costitutive tendono, invece, ad ottenere dal giudice una sentenza che costituisca, modifichi o estingua un determinato rapporto giuridico, una volta effettuati determinati accertamenti; al riguardo è necessario sottolineare che la dottrina, argomentando dal divieto per il giudice ordinario di intervenire direttamente sull’ atto amministrativo (art. 4 della legge abolitiva), ritiene che sia impossibile proporre davanti al giudice ordinario qualsiasi domanda rivolta ad ottenere una sentenza costitutiva nei confronti della P.A., in quanto ciò comporterebbe la sostituzione della volontà del giudice a quella dell’ amministrazione. Le azioni di condanna, infine, sono quelle in seguito alle quali il giudice, accertato l’ obbligo di una delle parti, ordina alla medesima una prestazione positiva, idonea a ristabilire l’ equilibrio giuridico violato [tale prestazione può consistere nel pagamento di una somma di denaro a titolo di risarcimento ovvero in un determinato comportamento positivo (facere, non facere o dare)]. Ora, prendendo in considerazione i rapporti che intercorrono tra l’ azione di condanna e l’ atto amministrativo, è necessario sottolineare che il giudice non modifica o annulla l’ atto amministrativo, ma impone all’ amministrazione di modificarlo o annullarlo; sicché è l’ amministrazione che agisce, non il giudice. A ben vedere, però, il nuovo

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atto dell’ amministrazione è pur sempre imposto dal giudice (la decisione, cioè, è del giudice e non dell’ amministrazione): è per tal motivo, quindi, che la giurisprudenza si è orientata nel senso di ammettere le condanne pecuniarie e di escludere tutte le altre (a un facere, a un non facere o a un dare che abbia un oggetto diverso da una somma di denaro). §4. La giurisdizione del giudice ordinario in tema di pubblico impiego Una delle principali innovazioni introdotte dal d.lgs. 29/93 (poi confluite nel d.lgs. 165/01) è sicuramente costituita dalla devoluzione al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, del contenzioso relativo al rapporto di lavoro tra P.A. e dipendenti pubblici, in precedenza riservato alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Al giudice ordinario sono devolute (dal 1998) tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro, incluse quelle relative all’ assunzione, alle indennità di fine rapporto, al conferimento e alla revoca di incarichi dirigenziali e alla responsabilità dirigenziale. Restano, invece, devolute al giudice amministrativo le controversie in materia di procedure concorsuali per l’ assunzione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, nonché le controversie relative ai dipendenti esclusi dalla privatizzazione (indicati nell’ art. 3 d.lgs. 165/01). Sezione III La tutela giurisdizionale amministrativa §1. Le fonti normative del processo amministrativo Le fonti normative del processo amministrativo sono: • il regio decreto 642/1907 (regolamento di procedura) e il regio decreto 1054/1924 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato); • la L. 1034/1971, istitutiva dei Tar (che ha integrato il testo unico del 1924 e il regolamento del 1907); • il d.lgs. 80/98 e la L. 205/00 (che ha assorbito il primo provvedimento, colpito, con sent. 292/00, da una parziale declaratoria di illegittimità costituzionale per eccesso di delega); • la L. 15/05 e la L. 80/05 (riguardanti la disciplina del provvedimento

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amministrativo), con le quali sono stati ritoccati alcuni aspetti del processo amministrativo); • i princìpi contenuti nella Costituzione, nei trattati europei e nella CEDU; • il d.lgs. 104/10 (che, in attuazione della delega contenuta nell’ art. 44 L. 69/09, ha approvato il codice del processo amministrativo: c.p.a.) §2. La giurisdizione amministrativa La giurisdizione del giudice amministrativo viene distinta in giurisdizione di legittimità, giurisdizione di merito e giurisdizione esclusiva (art. 7 c.p.a.). La giurisdizione di legittimità (la più importante) comprende le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni dell’ amministrazione interessata, comprese quelle relative al risarcimento del danno da lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali. Va precisato, però, che in tale ambito giurisdizionale il giudice amministrativo può soltanto pronunciare l’ annullamento dell’ atto impugnato (sentenza costituiva), qualora sia viziato da incompetenza, violazione di legge o eccesso di potere (cd. vizi di legittimità), nonché disporre il risarcimento del danno (sentenza di condanna) attraverso la reintegrazione in forma specifica ovvero il risarcimento per equivalente e pronunciare le statuizioni in ordine agli altri diritti patrimoniali consequenziali. La giurisdizione di merito opera, invece, soltanto nelle materie indicate nell’ art. 134 c.p.a. (tra queste ricordiamo: il giudizio di ottemperanza, gli atti e le operazioni in materia elettorale, e le contestazioni sui confini degli enti territoriali); in quest’ ambito, il giudice, oltre a valutare la legittimità dell’ atto impugnato (annullamento dell’ atto e risarcimento), può anche valutarne l’ opportunità o la convenienza (in questi ultimi due casi, il giudice, una volta accolto il ricorso, può sostituirsi all’ amministrazione). Un ultimo accenno occorre, infine, dedicarlo alla giurisdizione esclusiva, la quale deve essere tenuta distinta dalla giurisdizione di legittimità, perché diverso è il criterio delle situazioni soggettive tutelate: interessi legittimi nella giurisdizione di legittimità; anche diritti soggettivi in quella esclusiva (ma soltanto nelle particolari materie indicate dalla legge). Dobbiamo ricordare, al riguardo, che la previsione della giurisdizione

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esclusiva è frutto della riforma amministrativa attuata nel 1923: infatti, con il r.d. 2840/23 (concernente l’ ordinamento del Consiglio di Stato) sono state elencate, per la prima volta, le materie devolute al giudice amministrativo riguardanti la tutela dei diritti soggettivi (tali materie sono state, poi, trasfuse negli artt. 29 e 30 r.d. 1054/24); ciò significa, pertanto, che la giurisdizione esclusiva è antecedente alla Costituzione, sebbene quest’ ultima l’ abbia poi disciplinata all’ art. 103, il quale, infatti, stabilisce che il Consiglio di Stato e gli altri organi di giustizia amministrativa hanno giurisdizione per la tutela degli interessi legittimi nei confronti della P.A. e, in particolari materie, anche dei diritti soggettivi. In dottrina, però, è stato osservato che la giurisdizione esclusiva pone due problematiche di fondo: da un lato, infatti, vi è la genericità dell’ espressione particolari materie; dall’ altro, vi è la necessità di predeterminare i criteri in base ai quali operare una delimitazione delle materie indicate dal legislatore. In realtà, circoscrivere le materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo è un’ operazione molto difficoltosa, soprattutto alla luce del progressivo incremento delle materie in questione. Ad una simile problematica ha fornito una parziale risposta l’ art. 133 c.p.a., il quale contiene un elenco di particolari materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; tra le più importanti ricordiamo: • il risarcimento del danno provocato dall’ inosservanza del termine di conclusione del procedimento (cd. danno da ritardo); • gli accordi integrativi o sostitutivi del provvedimento e gli accordi tra pubbliche amministrazioni; • la dichiarazione di inizio attività; • il diritto di accesso ai documenti amministrativi; • le concessioni di beni pubblici, fatta eccezione per le controversie riguardanti indennità, canoni ed altri corrispettivi e per quelle attribuite al Tribunale Superiore delle Acque; • i pubblici servizi, fatta eccezione per le questioni concernenti indennità, canoni ed altri corrispettivi; • le procedure di affidamento di pubblici lavori, servizi e forniture;

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• gli atti ed i provvedimenti delle pubbliche amministrazioni in materia di urbanistica e di edilizia; • i rapporti di lavoro del personale in regime di diritto pubblico. Tuttavia, è stato osservato che questa elencazione di materie non può ritenersi esaustiva, dal momento che lo stesso legislatore ha fatto salva la possibilità di ulteriori previsioni di materie indicate dalla legge. Della questione relativa alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, prima del c.p.a., si è occupata, in ogni caso, la Consulta (con sent. 204/2004): in particolare, la Corte ha chiarito che l’ art. 103, co. 1 Cost. non ha conferito al legislatore un’ incondizionata discrezionalità nell’ attribuzione al giudice amministrativo di materie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, ma gli ha conferito il potere di indicare particolari materie nelle quali la tutela nei confronti della pubblica amministrazione investe anche diritti soggettivi: un potere, quindi, che non è né assoluto né incondizionato e del quale va detto che deve considerare la natura delle situazioni soggettive coinvolte e non fondarsi esclusivamente sul dato oggettivo delle materie. In altri termini, l’ art. 103, co. 1 Cost. autorizza il legislatore ad attribuire una determinata materia alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo alla duplice condizione che si tratti di materia particolare rispetto alla giurisdizione generale di legittimità e che la giurisdizione esclusiva abbracci anche diritti soggettivi (i quali vanno ad aggiungersi all’ interesse legittimo, di cui il privato è portatore, perché si confronta con un’ amministrazione-autorità): è per questa ragione, quindi, che la giurisdizione esclusiva in tema di servizi pubblici è stata dichiarata costituzionalmente illegittima: le relative controversie, infatti, non vedono, di regola, coinvolta la P.A. in veste di autorità [volendo essere più precisi, la giurisdizione esclusiva sui pubblici servizi è ammessa alla sola condizione che venga esercitato un potere pubblicistico (concessione o affidamento del servizio, vigilanza e controllo sul gestore); mentre essa contrasta con l’ art. 103 Cost. qualora l’ amministrazione o il gestore figuri come parte di un contratto (è il caso, ad es., delle prestazioni rese nell’ espletamento di pubblici servizi)].

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Per la stessa ragione è da ritenere egualmente illegittima la previsione di una giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sui comportamenti tenuti dall’ amministrazione in materia di urbanistica e di edilizia, perché essa concerne controversie nelle quali la P.A. non esercita alcun pubblico potere. §3. Il doppio grado di giurisdizione amministrativa La giurisdizione amministrativa è ordinata in base al principio del doppio grado di giurisdizione. Ciò lo si desume dalla nostra Costituzione: l’ art. 125 prevede, infatti, l’ istituzione (in ciascuna regione) di organi di giustizia amministrativa di primo grado; mentre l’ art. 103 fa riferimento al Consiglio di Stato e agli altri organi di giustizia amministrativa. Dalla combinazione di queste disposizioni si evince, quindi, che il Consiglio di Stato è giudice d’ appello rispetto agli organi di giustizia amministrativa regionale (che sono organi di primo grado). In questa prospettiva, il Parlamento, con la legge del 1971 (istitutiva dei Tribunali amministrativi regionali) ha attribuito ai Tar: • una giurisdizione generale di legittimità (cioè, la cognizione in primo grado di tutte le controversie in tema di interessi legittimi); • una giurisdizione estesa al merito, nelle materie individuate dal legislatore; • una giurisdizione esclusiva (comprendente sia interessi legittimi che diritti soggettivi), anch’ essa nelle materie determinate dal legislatore (e attribuite, a suo tempo, alla cognizione, in unico grado, del Consiglio di Stato). Nello stesso tempo, il Parlamento ha previsto una competenza generale del Consiglio di Stato sia come giudice d’ appello, sia come giudice ultimo. Infatti, avverso le sue sentenze (così come avverso le sentenze della Corte dei Conti) non è ammesso il ricorso in cassazione, se non per motivi inerenti alla giurisdizione: ciò significa che la parte che ha motivo di dolersi di una sentenza del Consiglio di Stato può ricorrere in cassazione solo se denuncia un difetto di giurisdizione (ad es., il Consiglio di Stato ha conosciuto di diritti soggettivi in una materia nella quale il giudice

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amministrativo non è munito di giurisdizione esclusiva) o se lamenta il mancato esercizio della giurisdizione (ad es., il Consiglio di Stato ha negato la giurisdizione amministrativa, sostenendo che si tratti di diritti soggettivi, in una controversia che il ricorrente ritiene riguardare interessi legittimi). §4. La competenza territoriale e la competenza funzionale dei Tar La giurisdizione amministrativa, come detto, è esercitata dai Tar e dal Consiglio di Stato [un assetto particolare è previsto, invece, nel Trentino Alto Adige (ove il Tar ha una composizione speciale) e in Sicilia (in cui l’ appello avverso le sentenze del Tar va proposto dinanzi al Consiglio di giustizia amministrativa per la regione siciliana)]. Ogni Tar, uno per regione (con sezioni distaccate nelle regioni più popolose), decide con l’ intervento di tre magistrati (compreso il presidente). Ora, poiché i Tar hanno una distribuzione regionale, gli artt. 13 e ss. c.p.a. hanno individuato alcuni criteri per determinare la loro competenza territoriale. In virtù di questi criteri, il Tar periferico è competente per le controversie riguardanti: • i provvedimenti, gli atti, gli accordi ed i comportamenti di autorità amministrative, nella cui circoscrizione territoriale esse hanno sede; • i provvedimenti, gli atti, gli accordi e i comportamenti di autorità amministrative, i cui effetti sono limitati all’ ambito territoriale della regione in cui il Tribunale ha sede; • le controversie in materia di pubblico impiego (in tal caso, la competenza è del Tribunale nella cui circoscrizione il dipendente presta servizio). Quando, invece, l’ autorità ha competenza su tutto il territorio nazionale (si pensi, ad es., ad un ministero o ad un ente pubblico nazionale) e gli effetti dell’ atto interessano tutto il territorio dello Stato (o più regioni) competente sarà il Tar Lazio. Esistono, poi, dei casi di competenza funzionale, previste da leggi di settore: ad es., il Tar Lombardia, sede di Milano, è competente per i giudizi instaurati contro l’ Autorità dell’ energia elettrica ed il gas; mentre il Tar Lazio è competente sulle controversie in cui è parte il C.S.M. e per tutte le

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controversie elencate nell’ art. 135 c.p.a. È bene precisare, tuttavia, che la distinzione tra competenza per territorio e competenza funzionale aveva una sua ragion d’ essere nel regime precedente alla riforma del 2010 (d.lgs. n. 104): prima di quest’ intervento legislativo, infatti, la competenza funzionale era inderogabile (sicché il Tar erroneamente adìto era tenuto a declinare, anche d’ ufficio, la sua competenza), mentre la competenza per territorio era derogabile [di conseguenza, l’ incompetenza doveva essere eccepita dalla parte interessata e non poteva essere rilevata d’ ufficio (in difetto di questa eccezione, quindi, la competenza veniva radicata in capo al Tar incompetente)]. Nel nuovo regime, invece, anche la competenza per territorio (non solo quella funzionale) è inderogabile. Finché la causa non è decisa in primo grado, ciascuna parte può chiedere al Consiglio di Stato di regolare la competenza; il Consiglio, a sua volta, decide in camera di consiglio con ordinanza, che è vincolante per i Tar [sia per il Tar ab origine adìto, sia per quello indicato come competente (si parla, al riguardo, del cd. regolamento di competenza)]. Occorre aggiungere, infine, che nel caso in cui nessuna delle parti sollevi la questione di competenza ma, ciononostante, il Tar adìto ritiene di non essere territorialmente competente, lo dichiara con sentenza. §5. Le azioni ammissibili nel processo amministrativo a) premessa Rispetto alla giurisdizione ordinaria, nel processo amministrativo, nella sua configurazione originaria, erano ammesse solo le azioni (e, quindi, le sentenze) costitutive (in particolare: sentenze di annullamento dell’ atto impugnato), mentre erano escluse le azioni di accertamento e quelle di condanna. Invero, l’ art. 45 r.d. 1054/24 (T.U. delle leggi sul Consiglio di Stato) stabiliva che il Consiglio, qualora avesse accolto il ricorso, avrebbe dovuto annullare l’ atto o il provvedimento impugnato [ne conseguiva, quindi, che il giudice amministrativo non avrebbe potuto né condannare l’ amministrazione a fare o non fare o a dare alcunché, né avrebbe potuto

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emettere una sentenza di accertamento (di illegittimità dell’ atto o della pretesa del ricorrente ovvero dell’ obbligo dell’ amministrazione); difatti, l’ unico accertamento che era consentito al giudice amministrativo era l’ accertamento della fondatezza dei motivi di ricorso]. Questo quadro, però, non appariva in sintonia con gli artt. 29 e 30 dello stesso regio decreto, attraverso i quali era stata prevista e disciplinata la giurisdizione esclusiva del Consiglio di Stato in una serie di materie, la più importante delle quali riguardava il rapporto di pubblico impiego: in questa materia, parte della dottrina riteneva che, qualora l’ impiegato pubblico avesse chiesto al giudice amministrativo il riconoscimento di un trattamento economico superiore o il pagamento delle ferie, la sentenza costitutiva (cioè, l’ annullamento dell’ atto impugnato) non si presentava come uno strumento adeguato. Occorreva, pertanto, in questi casi, una sentenza di accertamento (ad es., accertamento del diritto ad una differenza retributiva) o ancor meglio una sentenza di condanna. Di qui, l’ emanazione, da parte del Consiglio di Stato (nelle materie di giurisdizione esclusiva), di sentenze di condanna (a partire dagli anni ’30 del 1900); quest’ orientamento, però, incontrò l’ opposizione della Corte di Cassazione. Fu, pertanto, soltanto con la legge del 1971 (istitutiva dei Tar) che venne chiarito, all’ art. 26, co. 3, che il giudice amministrativo, nelle materie relative a diritti attribuiti alla sua competenza esclusiva e di merito, avrebbe potuto condannare l’ amministrazione al pagamento delle somme di cui fosse risultata debitrice. Come abbiamo visto, la condanna pecuniaria, ex art. 26 della legge del ‘71, riguardava solo la giurisdizione esclusiva; sarà soltanto con l’ art. 7 L. 205/00 che il Tar conoscerà di tutte le questioni relative all’ eventuale risarcimento del danno, nell’ ambito della sua giurisdizione (e, quindi, non solo nell’ ambito della sua giurisdizione esclusiva, ma anche in quella di legittimità). Questo mutamento del quadro normativo è stato, da ultimo, preso in considerazione dal d.lgs. 104/10, che infatti ha previsto la possibilità di esperire, dinanzi al giudice amministrativo, tre specie di azioni: azioni di annullamento, azioni di condanna e azioni di accertamento. L’ azione di annullamento è riproposta nella sua formulazione originaria:

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per violazione di legge, incompetenza ed eccesso di potere (il ricorso, in questo caso, va proposto nel termine di decadenza di 60 gg.). Con l’ azione di condanna, invece, il ricorrente chiede il risarcimento del danno ingiusto derivante dall’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria (in entrambi i casi, egli agisce a tutela di un interesse legittimo). È bene precisare, però, che nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo il ricorrente può anche chiedere il risarcimento del danno da lesioni di diritti soggettivi. Va chiarito, infine, che il ricorrente può, in alternativa al risarcimento del danno, richiedere anche la reintegrazione in forma specifica [sempre che, però, la stessa non risulti troppo onerosa: è questo, ad es., il caso del proprietario di un palazzo che sia stato illegittimamente abbattuto dall’ amministrazione comunale; in tale ipotesi, la sua richiesta di ricostruzione dell’ edificio a carico del comune (reintegrazione in forma specifica), può essere convertita dal giudice in domanda di risarcimento del danno]. b) i rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna Il d.lgs. 104/10 ha definito i rapporti tra l’ azione di annullamento e l’ azione di condanna, chiudendo una disputa che aveva visto contrapposti per anni il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione. Il contrasto si palesava nei seguenti termini: premesso che il danno cagionato al privato dall’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa presuppone l’ esistenza di un provvedimento illegittimo, che è suscettibile di impugnazione con l’ azione di annullamento, il Consiglio di Stato ha sostenuto (per anni) che la domanda di risarcimento del danno (azione di condanna) dovesse essere preceduta da una domanda di annullamento (cd. pregiudizialità dell’ azione di annullamento rispetto all’ azione di condanna); l’ interessato, pertanto, qualora avesse voluto ottenere il risarcimento danni avrebbe dovuto prima agire (nel termine di decadenza di 60 gg.) con la domanda di annullamento. Della tesi della cd. pregiudizialità amministrativa, però, le Sezioni unite della Cassazione hanno fatto giustizia nel 2006 con ordinanza n. 13659: il

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Supremo Collegio, infatti, ha innanzitutto affermato l’ autonomia delle due azioni (sicché, oggi, l’ azione di condanna può essere proposta in via autonoma); ed ha, poi, precisato che il giudice amministrativo, rifiutando di esaminare nel merito la domanda di risarcimento del danno (perché non è stata richiesta la previa rimozione dell’ atto e dei suoi effetti nel termine di 60 gg.), incorre in un indebito rifiuto di esercitare la giurisdizione. La nuova normativa (d.lgs. 104/10) si è, così, adeguata all’ orientamento della Cassazione, con qualche correttivo: è stato stabilito, infatti, che l’ azione di condanna (che è legata all’ illegittimo esercizio dell’ attività amministrativa o al mancato esercizio di quella obbligatoria) può essere esercitata anche in via autonoma (a prescindere, quindi, dall’ azione di annullamento); tale azione di condanna, tuttavia, è sottoposta ad un termine di decadenza di 120 gg., che cominciano a decorrere dal giorno in cui il fatto si è verificato ovvero dalla conoscenza del provvedimento. Nel determinare il risarcimento, il giudice valuta tutte le circostanze di fatto, nonché il comportamento complessivo delle parti [egli, in ogni caso, esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare attraverso l’ esperimento degli strumenti di tutela giurisdizionale previsti: l’ esempio che di solito viene proposto è quello del proprietario di una costruzione destinataria di un ordine di demolizione; alla sua domanda di risarcimento (per il danno cagionato dalla demolizione) proposta nel termine di 120 gg. dalla notifica del provvedimento, ad esecuzione avvenuta, potrebbe essere opposto che se egli si fosse attivato tempestivamente con l’ azione di annullamento e con una domanda di sospensione del provvedimento impugnato, e questa fosse stata accolta, la costruzione sarebbe ancora in piedi]. c) le azioni di accertamento Nel processo amministrativo possono essere esperite anche azioni di accertamento (così come stabilito dall’ art. 31 c.p.a.). Si tratta, innanzitutto, dell’ azione avverso il silenzio, ossia dell’ azione con la quale, chi vi ha interesse, può chiedere l’ accertamento dell’ obbligo dell’ amministrazione di provvedere, una volta che siano decorsi i termini per la

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conclusione del procedimento. Tale azione può essere proposta sino ad 1 anno dalla scadenza dei termini; è bene precisare, tuttavia, qualora l’ interessato decada dall’ azione (per il decorso del termine di 1 anno), può rivolgersi nuovamente all’ amministrazione e far scattare, così, i nuovi termini (il termine per la conclusione del procedimento e, in caso di ulteriore inerzia, il termine per l’ esercizio dell’ azione). Una volta proposta l’ azione di accertamento, il giudice è chiamato ad accertare: • che sia scaduto il termine per provvedere; • che l’ amministrazione abbia l’ obbligo di provvedere; • che l’ amministrazione abbia omesso di provvedere. Va sottolineato, infine, che qualora si tratti di attività vincolata, il giudice può anche accertare che l’ interessato ha diritto al rilascio del provvedimento richiesto. Una seconda azione di accertamento è prevista per far valere le nullità previste dalla legge: in questo caso, è necessario sottolineare che, dal momento che l’ atto nullo non produce effetti, il giudice è chiamato semplicemente ad accertare che la situazione giuridica (che l’ atto nullo pretendeva di modificare) è rimasta immutata. È il caso di chiarire, al riguardo, che la domanda volta all’ accertamento della nullità dell’ atto amministrativo deve essere proposta entro il termine di decadenza di 180 gg.: ciò, di conseguenza, comporta l’ inattaccabilità dell’ atto, una volta decorso il termine su indicato (in tal modo, l’ atto nullo produrrebbe i suoi effetti e verrebbe, quindi, ad identificarsi con l’ atto annullabile). È necessario sottolineare, infine, che accanto alle azioni di accertamento previste e disciplinate dall’ art. 31 c.p.a., nel processo amministrativo sono ammesse azioni di accertamento anche nella giurisdizione esclusiva: la controversia, in questi casi, cade su diritti soggettivi (si pensi, ad es., al caso in cui l’ interessato chieda al giudice l’ accertamento del persistente vigore di un contratto con la P.A., che questa, invece, sostiene essere scaduto).

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Sezione IV Il processo amministrativo §1. Il ricorrente L’ art. 2, co. 1 d.lgs. 104/10 stabilisce che il processo amministrativo attua i principi della parità delle parti, del contraddittorio e del giusto processo (trova, quindi, applicazione l’ art. 111 Cost.). Il soggetto che propone la domanda è, nel processo amministrativo, il ricorrente (così denominato perché questo è un processo, appunto, da ricorso); egli, in particolare, ricorre contro un atto che ritiene lesivo di un suo interesse legittimo (e, nella giurisdizione esclusiva, anche di un suo diritto soggettivo). Il ricorrente, pertanto, si duole di un atto o di un comportamento della pubblica amministrazione che lo ha pregiudicato; non è sufficiente, però, che da quest’ atto o da questo comportamento sia derivato un danno, ma occorre anche che tale danno sia stato cagionato in

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modo illegittimo: così, ad es., chi impugnasse un decreto di espropriazione che, togliendogli un immobile, ha inciso sul suo patrimonio, ma non denunciasse alcuna illegittimità del decreto, vedrebbe respinta la sua domanda, perché verrebbe a mancare la lesione (cioè, la sussistenza di un pregiudizio arrecato illegittimamente). Per converso, chi denunciasse l’ illegittimità del decreto, ma non fosse proprietario del bene, vedrebbe dichiarato il suo ricorso inammissibile per carenza di interesse [in tal caso, infatti, verrebbe a mancare l’ interesse ad invocare la tutela giurisdizionale: il cd. interesse a ricorrere (si tratta di un interesse personale)]. È bene precisare, però, che vi sono dei casi in cui il provvedimento o il comportamento lesivo posto in essere dall’ autorità amministrativa tocca una pluralità di interessati (ad es., un decreto di espropriazione che colpisce un immobile appartenente a più persone; ovvero un’ ordinanza sindacale che chiude al traffico veicolare il centro storico): in questi casi, gli interessati possono proporre un unico ricorso (cd. ricorso collettivo). I ricorrenti, però, devono avere uno stesso interesse, perché se tra di loro vi è conflitto il ricorso è inammissibile (così, ad es., se più candidati non vincitori impugnano le operazioni di un concorso a pubblico impiego, denunciando l’ irregolare composizione della commissione giudicatrice, il ricorso collettivo è ammissibile perché i ricorrenti hanno il comune interesse alla ripetizione del concorso; se, invece, ciascuno di loro pretende di aver titolo all’ unico posto messo a concorso e deduce vizi nell’ attribuzione dei punteggi, il ricorso è inammissibile perché i concorrenti sono in conflitto tra loro; e, di conseguenza, ognuno di loro dovrà presentare un distinto ricorso). È necessario sottolineare infine che, al requisito della personalità dell’ interesse, l’ ordinamento deroga nei casi in cui è ammessa la cd. azione popolare: si pensi all’ art. 9 del d.lgs. 267/00, ove si afferma che ciascun elettore può far valere in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al comune e alla provincia [così, ad es., se il comune omette di ricorrere contro un provvedimento della regione ritenuto lesivo della sua autonomia (come potrebbe essere un atto che riduce l’ importo di un finanziamento

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che il comune attende), il cittadino elettore può ricorrere in sostituzione del comune, perché in questo caso, l’ interesse dell’ ente è anche interesse del cittadino]. §2. La legittimazione ad agire e l’ interesse a ricorrere Perché il ricorrente abbia diritto ad una sentenza di merito (ad una sentenza, cioè, che valuti il merito della sua domanda) occorre che il ricorso sia sorretto dalla legittimazione ad agire (cd. legitimatio ad causam) e dall’ interesse a ricorrere. La legittimazione ad agire dipende da una particolare relazione che si instaura tra il ricorrente e l’ atto impugnato; ad essa fa riferimento l’ art. 81 c.p.c., ai sensi del quale, infatti, nessuno può far valere nel processo, in nome proprio, un diritto altrui (così, ad es., legittimato a ricorrere contro il permesso di costruire rilasciato a Tizio è il proprietario del fondo vicino, non il proprietario di un bene ubicato in un altro comune). Detto ciò, è importante specificare che il problema della legittimazione si pone spesso quando il ricorrente è un soggetto collettivo (un’ associazione ovvero un ordine professionale): in questi casi, la legittimazione è riconosciuta quando il ricorrente agisce a tutela di un interesse che è di tutti gli associati (si pensi, ad es., al Consiglio nazionale dei geometri che ricorre contro il provvedimento che disciplina l’ attività di mediazione immobiliare in modo ritenuto pregiudizievole per i geometri). Diversa dalla legittimazione ad agire è, invece, l’ interesse a ricorrere: quest’ ultimo consiste, infatti, nell’ utilità che il ricorrente è in grado di trarre dal processo. È necessario sottolineare, tra l’ altro, che l’ interesse a ricorrere deve essere tenuto distinto anche dall’ interesse legittimo: si può, invero, essere titolari di un interesse legittimo senza che vi sia un interesse a ricorrere (così, ad es., se partecipo, come candidato, ad un’ elezione a sindaco e vengo superato dal candidato concorrente, ho un interesse legittimo a reclamare l’ attribuzione, in mio favore, di 15 preferenze che il seggio mi ha negato indebitamente, a mio giudizio; ma non ho un interesse a ricorrere se la differenza tra i due candidati è di 30 voti sicché, anche con il recupero di quei 15 voti, rimarrei in ogni caso in seconda posizione e dal

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ricorso non otterrei nessun vantaggio, anche se venisse accolto). Come detto in precedenza, l’ interesse a ricorrere deve essere tenuto distinto dalla legittimazione ad agire: riproponendo l’ esempio di cui sopra, io sarei legittimato a ricorrere (mentre non lo sarebbe l’ elettore di un comune diverso), ma sono privo di interesse ad agire. §3. L’ amministrazione resistente L’ amministrazione resistente è l’ amministrazione che ha posto in essere l’ atto impugnato dal ricorrente [più precisamente: l’ amministrazione alla quale appartiene l’ organo che ha adottato l’ atto (così, ad es., se l’ atto proviene dal sindaco, l’ amministrazione resistente sarà il comune)]. È bene precisare, però, che vi sono atti che possono essere imputati a più di un’ amministrazione (si pensi, ad es., ad un decreto interministeriale o ad un accordo tra enti pubblici): in questi casi, amministrazione resistente sarà quella alla quale è imputabile l’ atto conclusivo del procedimento. Se, tuttavia, il ricorrente denuncia il vizio di un atto intermedio che si ripercuote sul provvedimento conclusivo e quest’ atto intermedio è stato posto in essere da un’ amministrazione diversa da quella che ha adottato l’ atto conclusivo, anche tale amministrazione dovrà essere chiamata in giudizio. Ovviamente, a differenza del ricorrente (il quale ha interesse all’ annullamento dell’ atto impugnato), l’ amministrazione resistente ha, invece, interesse alla sua conservazione (in tal caso, quindi, l’ amministrazione non agisce più in veste di apparato volto alla cura di un interesse pubblico, ma agisce allo scopo di tutelare un proprio diritto). Va detto, infine, che l’ amministrazione resistente ha un diritto di difesa (art. 24 Cost.): ovviamente, affinché questo diritto possa essere esercitato, il ricorso deve essere notificato all’ autorità che ha adottato l’ atto impugnato. §4. Il controinteressato A differenza del ricorrente e dell’ amministrazione resistente (che sono parti essenziali del processo amministrativo), il controinteressato è, invece, soltanto una parte eventuale. Più precisamente, il controinteressato è il soggetto che ha un interesse contrario all’ interesse del ricorrente: infatti,

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mentre quest’ ultimo tende alla rimozione dell’ atto (perché lesivo), il controinteressato, invece, tende alla conservazione dell’ atto, in quanto a lui favorevole (così, ad es., se Caio impugna il permesso di costruire, che approva il progetto di un edificio che ostruirà la visuale di cui gode il suo appartamento, il titolare del permesso sarà controinteressato alla sua iniziativa; allo stesso modo, se Tizio impugna l’ autorizzazione all’ apertura di una farmacia a breve distanza da quella di cui è titolare, il nuovo farmacista sarà controinteressato al ricorso). Con riferimento al controinteressato, occorre sottolineare che la legge del 1971 (istitutiva dei Tar) identifica tale soggetto con la persona cui l’ atto direttamente si riferisce, mentre il recente d.lgs. 104/10 lo identifica con la persona individuata nell’ atto stesso. Nonostante quest’ identificazione operata dalla legge, va detto, però, che in alcuni casi l’ individuazione del controinteressato può risultare alquanto complessa: così, ad es., se impugno la graduatoria di un concorso perché della commissione giudicatrice ha fatto parte un componente non legittimato, questi sarà controinteressato; ma lo saranno anche i candidati giudicati idonei dalla commissione, perché l’ annullamento di questa travolgerebbe tutte le operazioni concorsuali [da quest’ esempio, si intuisce, quindi, che per stabilire chi è controinteressato non è sufficiente accertare che la persona è menzionata nell’ atto impugnato, ma occorre tener conto del pregiudizio che una persona, anche se non menzionata nell’ atto, riceverebbe dall’ annullamento giurisdizionale dello stesso; dallo stesso esempio, inoltre, si evince che, in relazione all’ atto impugnato, vi possono essere uno o più controinteressati (in tal caso, il ricorso deve essere notificato almeno ad uno di loro)]. §5. L’ interveniente L’ art. 105 c.p.c. afferma che ciascuno può intervenire in un processo tra altre persone per far valere, nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse, un diritto relativo all’ oggetto o dipendente dal titolo dedotto nel processo medesimo. Può anche intervenire per sostenere le ragioni di alcuna delle parti quando

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vi ha un proprio interesse. La prima specie di intervento (cd. intervento principale) non è ammessa nel processo amministrativo: anche perché è difficile ipotizzare che un soggetto si contrapponga sia al ricorrente che all’ amministrazione. Se ne deduce, pertanto, che l’ unico intervento ammesso nel processo amministrativo è il cd. intervento adesivo: l’ intervento, cioè, di chi ha interesse a sostenere le ragioni di una delle due parti contro l’ altra (ricorrente o amministrazione). In particolare, l’ interesse ad intervenire a sostegno del ricorrente prende il nome di intervento ad adiuvandum: esso è ammesso a tutela di un interesse diverso, ma collegato all’ interesse del ricorrente (si pensi, ad es., all’ affittuario del fondo espropriato, che è abilitato ad intervenire nel ricorso proposto dal proprietario contro il decreto di espropriazione). Viceversa, l’ interesse ad intervenire a sostegno dell’ amministrazione prende il nome di intervento ad opponendum. Al riguardo, occorre sottolineare che tale tipo di intervento può essere di due specie, perché esso o viene posto in essere dal controinteressato non intimato (cioè, dal beneficiario del provvedimento impugnato, al quale il ricorso non è stato notificato) ovvero viene posto in essere da un terzo che, anche se non assume la veste di controinteressato in senso tecnico, potrebbe subire comunque un pregiudizio dall’ accoglimento del ricorso: così, ad es., il candidato che ha partecipato ad un concorso a pubblico impiego ed è risultato idoneo, può intervenire ad opponendum nel ricorso proposto dal soggetto che, pur avendo presentato domanda di partecipazione, era stato escluso dal concorso; invero, se il ricorso venisse accolto, ed il candidato escluso vedrebbe così riconosciuta la sua pretesa di essere ammesso, la graduatoria del concorso verrebbe travolta, perché è stata adottata sulla base di un atto illegittimo (l’ esclusione del ricorrente dal concorso); in questo caso, chi interviene non è un controinteressato in senso tecnico (perché in relazione ai provvedimenti di esclusione da un concorso non ci sono controinteressati), ma subirebbe, ad ogni modo, un danno dall’ accoglimento del ricorso (si parla in tale ipotesi del cd. controinteressato successivo).

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È bene precisare, infine, che l’ interveniente (visto che assume una posizione subordinata rispetto alle parti) non può ampliare il thema decidendi: non può, cioè, proporre motivi di ricorso diversi da quelli del ricorrente (se interviene ad adiuvandum); se, invece, interviene ad opponendum, egli può opporre, ai motivi di ricorso, argomenti propri, non utilizzati dall’ amministrazione resistente. §6. Il contraddittorio Come è stato detto in precedenza, anche nel processo amministrativo trova applicazione l’ art. 111 Cost., ad avviso del quale il processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo ed imparziale. Ciò significa, quindi, che tra le parti sopra indicate (vale a dire: ricorrente, amministrazione resistente e controinteressato) occorre instaurare un contraddittorio; a tal fine, però, è necessario che il ricorrente notifichi il ricorso alle altre parti, perché solo la notifica, che deve essere effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario, consente alle parti, contro le quali il ricorso è diretto, di conoscere l’ esistenza del processo e, quindi, di difendersi. §7. L’ atto impugnato Il ricorso giurisdizionale, nella maggior parte dei casi è diretto contro atti o provvedimenti di un’ autorità amministrativa (vi sono, tuttavia, delle eccezioni: si pensi, ad es., al ricorso contro il silenzio, ove l’ atto, in effetti, manca del tutto). Ora, premesso che il ricorso è diretto contro un atto o contro un provvedimento amministrativo, dobbiamo porci due quesiti fondamentali: di che atto si tratta? E soprattutto, come si distingue l’ atto amministrativo impugnabile da quello non impugnabile? Alla ricerca di una risposta a questa domanda, la giurisprudenza amministrativa, elaborando la distinzione tra mero atto amministrativo e provvedimento amministrativo, ha ritenuto suscettibile di impugnazione soltanto il provvedimento: ciò significa, in altri termini, che è impugnabile l’ atto conclusivo di un procedimento, perché è questo che produce la lesione di una situazione giuridica soggettiva; non sono impugnabili, invece, gli atti preparatori del

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procedimento (vale a dire, gli atti che precedono il provvedimento conclusivo); in relazione a questi ultimi, infatti, manca l’ interesse a ricorrere perché il procedimento potrebbe anche avere una conclusione diversa da quella che essi sembrano preannunciare. Va anche detto, però, che la regola su esposta conosce determinate eccezioni, dal momento che l’ atto endoprocedimentale è impugnabile: • qualora si tratti di atti di natura vincolata (idonei, come tali, ad imprimere un indirizzo obbligato alla determinazione finale); • qualora si tratti di atti interlocutori che arrestano il procedimento (in tal caso, l’ istante non vede soddisfatto il suo interesse); • qualora si tratti di atti soprassessori, che rinviano, cioè, ad un evento futuro ed incerto il soddisfacimento dell’ interesse e, quindi, bloccano il procedimento a tempo indeterminato. Diversa dalla questione dell’ atto impugnabile è, invece, la questione dell’ atto del procedimento viziato, la cui invalidità si ripercuote sul provvedimento finale, viziandolo a sua volta: si pensi, ad es., al parere espresso da un collegio in composizione irregolare, la cui illegittimità si ripercuote sul provvedimento che lo fa proprio (in tal caso, è sufficiente impugnare l’ atto conclusivo, denunciando l’ illegittimità derivata dall’ atto preparatorio). Un ultimo accenno occorre dedicarlo al cd. ricorso cumulativo: cioè, al ricorso diretto contro più provvedimenti (si pensi, ad es., al regolamento che viene impugnato insieme all’ atto che ne fa applicazione). §8. Il contenuto del ricorso Il ricorso è diretto al Tribunale amministrativo regionale e deve contenere: • le generalità del ricorrente, del difensore e delle parti avversarie; • l’ indicazione dell’ oggetto della domanda e dell’ atto impugnato; • l’ esposizione sommaria dei fatti; • i motivi sui quali si fonda il ricorso, con l’ indicazione dei mezzi di prova e delle misure chieste al giudice; • la sottoscrizione della parte e dell’ avvocato che la rappresenta. Ovviamente, il ricorso è inammissibile nel caso in cui manchi l’ indicazione

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dei motivi ovvero qualora, dall’ esposizione dei fatti, l’ atto impugnato non risulti lesivo dell’ interesse legittimo del ricorrente (o di un suo diritto soggettivo, nel caso della giurisdizione esclusiva). Diverso, invece (ad avviso della giurisprudenza), è il caso nel quale manchi l’ indicazione degli articoli di legge che si ritengono violati: è sufficiente, infatti, che il contenuto del motivo sia, in qualche misura, identificabile così che il giudice possa individuare la disposizione pertinente (iura novit curia: il giudice è padrone del diritto). Ovviamente, gli articoli di legge (ovvero di regolamento) vengono in rilievo quando la censura è di violazione di legge (o di incompetenza); non rilevano, invece, quando la censura è di eccesso di potere, perché in tal caso viene attaccato l’ uso che del potere ha fatto l’ autorità amministrativa (uso che è ritenuto illegittimo dal ricorrente). Va sottolineato, infine, che il ricorso è nullo se manca la sottoscrizione o se vi è assoluta incertezza sulle persone o sull’ oggetto della domanda. §9. La notifica del ricorso Il giudizio davanti al giudice amministrativo passa attraverso le seguenti fasi: • la notifica e il deposito del ricorso; • l’ istanza di fissazione d’ udienza; • la costituzione delle altre parti; • la fissazione dell’ udienza da parte del presidente del Tribunale; • il deposito dei documenti e delle memorie; • l’ udienza di trattazione. Da quanto detto, quindi, si evince che il processo ha inizio con la notifica del ricorso all’ amministrazione o alle amministrazioni resistenti e ad almeno uno dei controinteressati. È bene specificare che il ricorso deve essere notificato entro 60 gg. dalla notifica dell’ atto impugnato; tuttavia, se questo non è stato notificato, ma la legge prevede la sua pubblicazione, il termine decorre dall’ ultimo giorno di pubblicazione (o, qualora dovesse mancare la pubblicazione, dalla piena conoscenza che dell’ atto abbia avuto l’ interessato). Il termine di 60 gg. è previsto a pena di decadenza; ciò significa, quindi,

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che il ricorso notificato dopo tale termine è irricevibile (da parte del Tribunale). Ovviamente, il regime della decadenza è posto a presidio della stabilità degli atti e dei rapporti amministrativi: nel senso che l’ attività dell’ amministrazione deve svolgersi in un clima di certezza giuridica (certezza che verrebbe pregiudicata se l’ attività stessa fosse esposta per anni al rischio dell’ impugnazione). §10. Il deposito del ricorso e la costituzione del ricorrente Una volta notificato, il ricorso deve essere depositato nella segreteria del giudice nel termine perentorio di 30 gg., che cominciano a decorrere dal momento in cui l’ ultima notificazione dell’ atto si è perfezionata anche per il destinatario. Il documento depositato deve offrire la prova delle avvenute notifiche e deve essere accompagnato da copia dell’ atto impugnato, nonché dai documenti sui quali il ricorso si fonda. Può accadere, però, che il ricorrente non sia in possesso di questi atti (o perché non gli sono stati comunicati o perché la sua richiesta di accesso non ha avuto esito); in questi casi, allora, l’ onere di depositare tali atti si trasferisce sull’ amministrazione resistente, perché è proprio quest’ ultima che dispone dei documenti e non il ricorrente (la regola in esame rientra, più precisamente, tra quelle dirette a garantire la parità delle parti, così come stabilito dall’ art. 111 Cost.). Con il deposito dell’ originale del ricorso nella segreteria del Tar, il rapporto processuale viene costituito (con la notifica, infatti, il ricorrente chiama in giudizio l’ amministrazione resistente e l’ eventuale controinteressato; con il deposito, invece, viene tirato in ballo il giudice). §11. L’ istanza di fissazione d’ udienza Nel processo amministrativo è il giudice che deve fissare l’ udienza per la discussione della causa, su istanza del ricorrente o delle altre parti (di regola, tale istanza viene depositata dal ricorrente insieme all’ originale del ricorso, al momento della costituzione in giudizio). In mancanza di un’ istanza del genere, l’ udienza, ovviamente, non può essere fissata; e, ove il ricorrente indugi per un periodo superiore ad 1

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anno (dal giorno della costituzione in giudizio), il ricorso è perento. Occorre sottolineare, inoltre, che l’ impulso delle parti è richiesto anche qualora si sia tenuta l’ udienza, ma il processo non si sia chiuso: anche in tal caso, è necessaria una nuova istanza, che va presentata entro 1 anno dalla cancellazione della causa dal ruolo, affinché gli atti ulteriori del processo vengano posti in essere.

§12. La costituzione delle altre parti Come il ricorrente ha l’ onere di costituirsi in giudizio mediante il deposito del ricorso, così le altre parti (amministrazione resistente e controinteressati intimati (cioè, quelli ai quali il ricorso è stato notificato) hanno l’ onere (non l’ obbligo) di costituirsi in giudizio, nel termine ordinatorio di 60 gg. dalla notifica del ricorso, se intendono difendersi (art. 24 Cost.). In realtà, è bene precisare che le parti possono costituirsi in giudizio sino a 40 gg. prima dell’ udienza: termine entro il quale esse possono depositare documenti. Il termine per presentare memorie, invece, è di 30 gg. prima dell’ udienza, mentre le eventuali repliche possono essere presentate sino a 20 gg. prima. Va sottolineato, comunque, che la costituzione può avvenire anche in udienza, ma in tal caso la parte (amministrazione o controinteressato) può solo partecipare alla discussione. §13. Le varianti allo schema a) il ricorso contro il silenzio Lo schema sopra descritto conosce numerose varianti. La prima riguarda l’ oggetto dell’ impugnazione: infatti, la legge fa riferimento ad atti o provvedimenti dell’ autorità amministrativa; e, tuttavia, l’ interessato può essere danneggiato non da un atto, ma da una omissione (ad es., l’

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amministrazione che rimane inerte su una richiesta di autorizzazione o di concessione impedisce al privato di ottenere ciò a cui aspira). Al fine di risolvere il problema, pertanto, il d.l. 35/05, conv. in L. 80/05, ha conferito all’ inerzia dell’ amministrazione il valore di assenso. È stato stabilito, infatti, che nei procedimenti ad istanza di parte, per il rilascio di provvedimenti amministrativi, il silenzio dell’ amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, se l’ amministrazione, entro il termine per la conclusione del procedimento, non comunica il diniego o non indice una conferenza di servizi. È necessario sottolineare, però, che questa regola non trova applicazione per gli atti e per i procedimenti che riguardano il patrimonio culturale o paesaggistico, l’ ambiente, la difesa nazionale, la pubblica sicurezza o l’ immigrazione, la salute e l’ incolumità pubblica: in tutti questi casi, una volta scaduto il termine per la conclusione del procedimento, l’ inerzia dell’ amministrazione equivale a silenzio-rifiuto. Questo silenzio, tuttavia (così come disposto dalla novella introdotta dal d.l. 35/05), può essere impugnato immediatamente davanti al giudice amministrativo senza necessità di notificare all’ amministrazione inadempiente un atto di diffida. Il ricorso, in questo caso, può essere proposto dopo che è decorso il termine entro il quale deve concludersi il procedimento (di regola 90 gg.) e comunque non oltre 1 anno dalla scadenza di detto termine. La principale novità consiste, però, nel fatto che il giudice amministrativo può conoscere della fondatezza dell’ istanza: mentre, infatti, fino ad ora il Tar, adìto con il ricorso contro il silenzio, si limitava ad accertare che l’ amministrazione avesse realmente un obbligo di provvedere (e che, quindi, a tale obbligo non avesse adempiuto), oggi invece può valutare se il provvedimento richiesto spetti effettivamente al ricorrente o meno. In tal modo, il giudice può sostituirsi all’ amministrazione o, comunque, vincolarla strettamente, accertando la fondatezza della pretesa del privato (da tale accertamento positivo deriva, infatti, l’ obbligo dell’ amministrazione di rilasciare il provvedimento). Da quanto detto, si evince chiaramente che la legge ha predisposto una tutela rafforzata contro il silenzio dell’ amministrazione. A questo punto,

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però, è necessario porsi un quesito fondamentale: come si giustifica una tutela così efficiente contro il silenzio quando contro il provvedimento negativo esplicito il ricorrente deve ricorrere al procedimento ordinario e subire i suoi tempi lunghi senza poter ottenere dal giudice una pronuncia che accerti la fondatezza della sua pretesa? Partendo da questa domanda, il Consiglio di Stato ha ridimensionato la portata dei poteri del giudice, stabilendo che l’ accertamento della fondatezza dell’ istanza sulla quale l’ amministrazione ha mantenuto il silenzio è ammesso in soli due casi: • quando l’ atto richiesto è dovuto o vincolato (e non c’è da compiere alcuna scelta discrezionale); • quando l’ istanza è del tutto infondata, sicché sarebbe irragionevole obbligare l’ amministrazione a provvedere, dal momento che l’ atto espresso non potrebbe che essere di rigetto. Quando, invece, l’ atto richiesto è discrezionale, il giudice non può compiere la valutazione di fondatezza dell’ istanza, perché facendolo si sostituirebbe all’ amministrazione (e compirebbe, così, un’ operazione in contrasto con il principio della separazione dei poteri, che è eccezionalmente ammessa quando la legge attribuisce anche una giurisdizione nel merito: ma non è questo il caso). b) i motivi aggiunti Dal momento che i provvedimenti amministrativi sono, in numerosi casi, concatenati tra di loro, è facile che un primo ricorso ne generi altri: così, ad es., una volta annullata la nomina del presidente di un’ azienda speciale comunale, il sindaco procede, con separato atto, alla nomina di un’ altra persona; in tal caso, colui che ha proposto ricorso contro l’ annullamento della sua nomina ha l’ onere di ricorrere contro la nomina di chi è chiamato a sostituirlo, perché se non lo fa rischia di vedere dichiarato inammissibile il suo ricorso per carenza sopravvenuta di interesse. In ogni caso, è bene precisare che, in presenza di una molteplicità di ricorsi, la L. 205/00, allo scopo di evitare una dispersione di giudizi ed una pluralità di sentenze, ha stabilito che tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso devono essere impugnati con la proposizione dei

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motivi aggiunti (in questi casi, cioè, il ricorrente aggiunge nuovi motivi al ricorso originario, anziché proporre un nuovo ricorso). I motivi aggiunti sono ammessi anche (ed è questa la nozione originaria) quando, attraverso la documentazione prodotta in giudizio dalle altre parti, il ricorrente venga a conoscenza di nuovi vizi del provvedimento impugnato (così, ad es., una volta che l’ amministrazione ha depositato il testo del parere che ha preceduto l’ atto impugnato, il ricorrente si accorge che questo è difforme dal parere, senza che il dissenso sia motivato; la difformità viene rilevata soltanto in questo momento perché il contenuto del parere era sconosciuto al ricorrente). I motivi aggiunti vanno proposti entro il termine di 60 gg., a meno che non ricorra l’ ipotesi (sopra considerata) della conoscenza postuma di un vizio dell’ atto impugnato: in tal caso, infatti, il termine decorre dal momento in cui il ricorrente abbia acquisito la piena conoscenza del documento dal quale risulta il vizio. È necessario sottolineare, infine, che il d.lgs. 104/10 ha affiancato ai motivi aggiunti anche le domande nuove, purché siano connesse a quelle già proposte: si pensi, ad es., alle nuove voci di danno risarcibile, che emergono dalla documentazione prodotta dall’ amministrazione. §14. Il ricorso incidentale e la domanda riconvenzionale Attraverso il ricorso incidentale il controinteressato (o l’ interveniente ad opponendum) attacca il provvedimento impugnato dal ricorrente principale in una parte diversa da quella che viene investita dal ricorso principale, allo scopo di evitare o mitigare il danno che deriverebbe dall’ accoglimento di quest’ ultimo (si pensi, ad es., al caso in cui il vincitore di un concorso a pubblico impiego, che è controinteressato al ricorso del candidato soccombente, impugni le operazioni concorsuali nella parte in cui il ricorrente principale è stato ammesso al concorso: se il ricorso incidentale venisse accolto, il ricorso principale sarebbe dichiarato irricevibile per carenza di interesse, perché proposto da un soggetto che non doveva essere ammesso al concorso). Il ricorso incidentale deve essere proposto entro 60 gg. dalla notifica del

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ricorso principale (a meno che a ricorrere in via incidentale non sia l’ interveniente ad opponendum: in tal caso, infatti, il termine decorre dall’ effettiva conoscenza della pendenza del ricorso principale). La domanda riconvenzionale, invece, ha un suo specifico ambito di applicazione nei giudizi di accertamento e di condanna (e, quindi, essenzialmente, nelle controversie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo); al riguardo, è necessario sottolineare che, a differenza del ricorso incidentale, la domanda riconvenzionale può essere proposta anche dall’ amministrazione resistente (si pensi, ad es., all’ ipotesi in cui il concessionario di un bene pubblico chieda la condanna dell’ amministrazione marittima al rilascio di una parte del bene demaniale dato in concessione; in tal caso, l’ amministrazione può presentare una domanda di risarcimento a causa del danno cagionato dal concessionario nell’ uso indebito del bene concesso). Il giudice competente a decidere sul ricorso incidentale e sulle domande riconvenzionali è il giudice competente sul ricorso principale, a meno che la domanda introdotta con il ricorso incidentale non sia devoluta alla competenza del Tar Lazio o qualora ricorra un’ ipotesi di competenza funzionale (si pensi, ad es., al caso in cui il ricorrente principale impugni un atto che spiega i suoi effetti in Calabria, mentre il controinteressato ricorra in via incidentale contro un regolamento governativo che spiega efficacia su tutto il territorio nazionale: in tal caso, la competenza sull’ intero giudizio spetta al Tar Lazio). §15. L’ istruttoria Nel processo amministrativo l’ istruttoria ha un ruolo meno importante di quello che essa ricopre nel processo civile: ciò si spiega in considerazione del fatto che la maggior parte delle cause dinanzi al Tar può essere decisa senza che il giudice debba assumere prove (ad es., se denuncio un vizio di incompetenza del provvedimento impugnato, è sufficiente che il giudice metta a confronto questo provvedimento con la norma o le norme che stabiliscono la competenza dell’ organo). Tutto ciò in linea generale, perché possono comunque esserci ipotesi in cui

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un’ istruttoria è necessaria: si pensi, ad es., al provvedimento con cui il comune ordina la demolizione di una parte di un manufatto edilizio, perché ritiene sia stato realizzato dal proprietario dopo che era stata intimata la sospensione dei lavori; l’ interessato, invece, impugna il provvedimento sostenendo che quella parte era stata realizzata prima che intervenisse la sospensione (e che, di conseguenza, la norma invocata dall’ amministrazione non è applicabile al caso concreto). In tale ipotesi, il contrasto tra le due posizioni può essere risolto soltanto attraverso un accertamento che si avvale di documentazione fotografica, di perizia e di prova testimoniale (ad es., la testimonianza degli operai che hanno lavorato alla costruzione). Detto ciò, è necessario sottolineare che, nel processo amministrativo, la questione della prova sorge in relazione ad un fatto; pertanto, quando il fatto non viene in rilievo, come accade, di regola, nel giudizio di legittimità [in cui non viene contestato il fatto (ad es., il provvedimento impugnato) ma la sua legittimità], non è richiesta nessuna prova (questo ragionamento si giustifica in virtù del fatto che la prova non può avere ad oggetto giudizi di valore; e la qualificazione di legittimità-illegittimità è un giudizio di valore: in tal senso Ruffo). A questo punto, dobbiamo chiederci quando il fatto viene in rilievo. Il fatto viene in rilievo quando il provvedimento impugnato (ad es., una sanzione disciplinare) è fondata su un fatto (un illecito disciplinare), la cui esistenza è contestata dal ricorrente: in tal caso, può essere necessario acquisire una prova. In questa prospettiva, l’ art. 63 c.p.a., parzialmente innovando rispetto al regime precedente, prevede e disciplina i seguenti mezzi di prova: • la richiesta di chiarimenti alle parti; • l’ ordine di esibire (in giudizio) documenti o quant’ altro il giudice ritenga necessario; • l’ ispezione, che consiste in un sopralluogo su cose o indagini su persone (avente finalità soprattutto descrittiva); • la prova testimoniale, che è ammessa soltanto su istanza di parte e che deve essere sempre assunta in forma scritta (ciò costituisce una rilevante

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differenza rispetto al processo civile e al processo penale); • l’ ordine di verificazione [verificazione che deve essere effettuata da un organismo verificatore (di norma, un organo pubblico non appartenente all’ amministrazione resistente)]; in particolare, questo mezzo di prova trova applicazione qualora il giudice reputi necessario l’ accertamento di un fatto ovvero l’ acquisizione di valutazioni che richiedono particolari competenze tecniche (ad es., per accertare se un determinato elemento chimico immesso nell’ atmosfera dall’ impresa ricorrente è inquinante o meno); • la consulenza tecnica, che è ammessa negli stessi casi previsti per la verificazione e sempre che il giudice la ritenga indispensabile; è bene precisare, però, che l’ art. 63 c.p.a., pur accomunando la verificazione e la consulenza tecnica, stabilisce, in realtà, una sorta di graduazione tra i due mezzi di prova: nel senso che, in prima battuta, deve essere esperita la verificazione e, solo se indispensabile, può essere disposta la consulenza tecnica. La competenza a disporre i mezzi di prova è ripartita tra il presidente (o un magistrato da lui delegato) e il collegio; va detto, tuttavia, che la consulenza tecnica e le verificazioni si sottraggono a tale regola, perché esse possono essere ammesse solo dal collegio. Appare utile ricordare, infine, la distinzione tra l’ ammissione della prova (che è l’ atto con il quale il mezzo istruttorio viene disposto), l’ assunzione della prova (ossia il suo espletamento: ad es., la formulazione dei quesiti) e la valutazione della prova [il giudice in particolare, deve valutare la prova secondo il suo prudente apprezzamento (che lo porta, ad es., a giudicare un teste più o meno attendibile) e può desumere argomenti di prova dal comportamento tenuto dalle parti nel corso del processo (può, ad es., trarre argomento dalla resistenza opposta dall’ amministrazione al rilascio delle informazioni e dei documenti ritenuti dal giudice utili ai fini del decidere)]. §16. La sospensione e l’ interruzione del processo Ai sensi dell’ art. 295 c.p.c. (che trova applicazione anche nel processo amministrativo) il giudice dispone che il processo sia sospeso nei casi in

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cui egli (ovvero un altro giudice) debba risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione stessa: è questo, ad es., il caso del ricorso contro l’ ordine di demolizione emesso dal sindaco per un contrasto della costruzione con una previsione del piano regolatore; ora, qualora contro tale previsione penda un altro ricorso, l’ accoglimento del quale travolgerebbe il precetto che il sindaco assume violato dal costruttore, è necessario disporre la sospensione del primo procedimento, il cui esito è condizionato dall’ esito dell’ altro. Nel processo amministrativo trova, poi, applicazione anche l’ interruzione del processo (artt. 299 c.p.c. e 28 d.lgs. 104/10): è stabilito, infatti, che la morte o la perdita della capacità di stare in giudizio di una delle parti private, al pari della morte dell’ avvocato, della sua radiazione o sospensione dall’ albo producono l’ interruzione del processo (è bene precisare, però, che l’ interruzione è automatica quando l’ evento interruttivo riguarda l’ avvocato; quando riguarda la parte, l’ effetto di interruzione si produce, invece, solo dal momento in cui l’ avvocato lo dichiara). Una volta interrotto, il processo deve essere riassunto dalla parte più diligente con atto notificato alle altre parti, nel termine perentorio di 90 gg. dalla conoscenza legale dell’ evento interruttivo (diversamente, il processo si estingue). §17. Le sentenze di rito e le sentenze di merito Il Tar, prima di stabilire se il ricorso è fondato o meno, se le domande del ricorrente sono da accogliere o da respingere, è tenuto a porre in essere una serie di verifiche: in primis, il Tar deve verificare se il ricorso è stato proposto entro i termini stabiliti (infatti, se il ricorso è tardivo, lo stesso verrà dichiarato irricevibile); successivamente, il Tar deve controllare se il contraddittorio è stato rispettato [se non lo è stato (ad es., per la mancata notifica al controinteressato) il ricorso sarà, allora, inammissibile]; irricevibile sarà, altresì, il ricorso che, notificato tempestivamente, non sia stato depositato entro 30 gg. dall’ ultima notifica; improcedibile sarà, invece, il ricorso nei confronti del quale il ricorrente abbia perduto

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interesse, per aver egli ottenuto (per altra via) ciò a cui aspirava (ad es., dopo aver impugnato un ordine di demolizione, il ricorrente ottiene il rilascio, nel corso del giudizio, di una concessione in sanatoria); inammissibile, infine, sarà il ricorso rispetto al quale il Tar ritenga che difetti la giurisdizione del giudice amministrativo (perché la giurisdizione spetterebbe al giudice ordinario o alla Corte dei Conti ovvero alla commissione tributaria o al Tribunale Superiore delle Acque). In tutti i casi sopra elencati (e disciplinati dall’ art. 35 d.lgs. 104/10), il Tar emette una sentenza di rito, perché incontra un ostacolo che non gli consente di pronunciare nel merito del ricorso, ossia di emettere una sentenza di merito. Più precisamente, sono sentenze di rito quelle che si arrestano ad una pregiudiziale; sono, invece, sentenze di merito quelle che decidono il merito delle domande, ossia accertano la fondatezza o l’ infondatezza delle domande (di annullamento, di mero accertamento e di condanna). Di conseguenza, è solo sulle sentenze di merito che si forma il giudicato (una volta che siano decorsi i termini per l’ impugnazione), perché solo in questo caso si può dire che l’ accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato, ad ogni effetto, tra le parti. In relazione al giudicato amministrativo, assume particolare importanza l’ esame dei motivi di ricorso: il Tar, infatti, è tenuto ad esaminare ciascun motivo di ricorso (e può, quindi, ritenerne infondati alcuni e fondati altri). La regola in esame ha, pertanto, indotto la giurisprudenza a praticare il cd. assorbimento: accertata, cioè, la fondatezza di un motivo, il Tar dichiara assorbiti gli altri (considerato che, per quel motivo, il ricorso deve comunque essere accolto e l’ atto impugnato deve essere annullato). A bene vedere, però, l’ assorbimento limita la portata dell’ accoglimento e, quindi, l’ estensione del giudicato: se, ad es., il Tar accoglie il motivo con il quale viene denunciata l’ incompetenza dell’ autorità adita, senza valutare gli altri motivi (dichiarati assorbiti e, quindi, non esaminati), l’ autorità dichiarata competente sarà del tutto libera nella sua determinazione (quando, viceversa, l’ accoglimento degli altri motivi avrebbe potuto vincolarla nella decisione, al punto da impedirle di emetterla).

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§18. Il giudicato amministrativo Anche alle sentenze del giudice amministrativo sono applicabili le categorie di giudicato formale e di giudicato sostanziale. In particolare, il giudicato formale designa la condizione della sentenza non più soggetta ad impugnazione, a prescindere dal contenuto della stessa (sentenza di rito o sentenza di merito). Il giudicato sostanziale, invece, rappresenta l’ accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato e che fa stato tra le parti, i loro eredi ed i loro aventi causa; è bene precisare, però, che tale accertamento è contenuto solo nelle sentenze di merito (le uniche che definiscono il rapporto tra le parti e fissano una regola o un precetto); nelle sentenze di rito, invece, quest’ accertamento manca, perché vi è un fatto o una circostanza (irricevibilità, inammissibilità, etc.) che impedisce al giudice di concludere con un accertamento che faccia stato tra le parti. Nell’ ambito delle sentenze di merito occorre distinguere le sentenze di accoglimento da quelle di rigetto: queste ultime, lasciando immutata la situazione così come determinata dal provvedimento impugnato, fanno sì che l’ accertamento vincolante per le parti sia proprio quello contenuto nel provvedimento che è stato impugnato senza successo dal ricorrente (è questo il motivo per il quale il tema del giudicato amministrativo assume particolare importanza in relazione alle sentenze di accoglimento del ricorso e di annullamento dell’ atto impugnato). Detto ciò, è necessario sottolineare, comunque, che una volta annullato un provvedimento amministrativo, il relativo potere (che attraverso il provvedimento era stato esercitato) non si estingue, ma sopravvive all’ annullamento, anche se la sentenza che lo dispone, avendo accolto il ricorso, orienta la futura azione dell’ amministrazione o comunque ne delimita i confini (è questo il senso della disposizione contenuta nell’ art. 45 r.d. 1054/24, ad avviso del quale l’ annullamento da parte del giudice amministrativo fa salvi gli ulteriori provvedimenti dell’ autorità amministrativa). Considerato, quindi, che la vicenda amministrativa può proseguire con un rinnovato esercizio del potere amministrativo, dottrina e

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giurisprudenza hanno individuato tre specie di effetti del giudicato di annullamento: • il primo è l’ effetto demolitorio, il quale non colpisce soltanto l’ atto o gli atti impugnati, ma investe anche gli atti successivi che sono stati adottati sul presupposto dell’ atto annullato [così, ad es., se viene accolto il ricorso contro il licenziamento di un dipendente, il cui rapporto di impiego continua ad essere sottoposto alla giurisdizione amministrativa (ad es., un magistrato, un professore universitario, un ufficiale dell’ esercito o un poliziotto) ne risulterà travolto il trasferimento di altro dipendente nel posto lasciato libero dalla persona licenziata)]; • all’ effetto demolitorio si accompagna l’ effetto ripristinatorio (ad es., se viene annullato un decreto di espropriazione, l’ immobile espropriato va restituito al proprietario, in modo che questi è posto nella stessa situazione nella quale si sarebbe trovato se l’ espropriazione non fosse intervenuta); • l’ esercizio ulteriore del potere amministrativo soggiace, invece, all’ effetto conformativo della sentenza di annullamento (effetto che è strettamente collegato ai motivi di ricorso che il giudice ha ritenuto fondati); con l’ effetto conformativo, in altri termini, la sentenza che accerta l’ illegittimità dell’ atto annullato identifica il modo legittimo dell’ esercizio del potere (contiene, cioè, un precetto destinato ad orientare la futura attività dell’ amministrazione). Va precisato, in ogni caso, che il vincolo a carico dell’ amministrazione può essere pieno: come quando il giudice annulla l’ atto per difetto dei presupposti normativi soggettivi o oggettivi (è questo il caso, ad es., della sentenza di annullamento del provvedimento di espulsione di un cittadino comunitario, al quale viene applicata indebitamente la normativa sugli extracomunitari). Il vincolo può essere, altresì, semipieno: come quando l’ atto è annullato per eccesso di potere (in tal caso, l’ amministrazione ha la possibilità di riadottare l’ atto, depurandolo, però, dal vizio accertato dal giudice). Il vincolo si definisce, infine, secondario (o anche strumentale) quando l’ annullamento è disposto per motivi formali: ad es., perché non è stata data comunicazione dell’ avvio del procedimento (in questi casi, l’ amministrazione può rinnovare il procedimento, purché elimini il vizio,

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senza essere in alcun modo legata in ordine al contenuto del nuovo atto).

§19. Il giudizio di ottemperanza Come abbiamo visto, la sentenza del giudice amministrativo non chiude la partita tra le parti del giudizio, ma pone le premesse per un’ ulteriore attività della pubblica amministrazione (attività che si muove tra i due estremi del puntuale adempimento del precetto contenuto in sentenza e del rinnovato esercizio del potere amministrativo). In linea di principio possono verificarsi tre situazioni: • in alcuni casi la sentenza è autoesecutiva: non richiede, cioè, alcuna attività di esecuzione da parte dell’ amministrazione (se, ad es., è stato revocato un permesso di costruire, l’ annullamento del provvedimento da parte del giudice amministrativo restituisce efficacia al permesso, che il privato può, in tal modo, continuare ad utilizzare); • in altri casi l’ amministrazione, pur essendo tenuta ad agire, rimane assolutamente inerte (così, ad es., annullato un diniego di autorizzazione, l’ autorità è tenuta a riesaminare la domanda; se non lo fa, il privato può rivolgersi al giudice dell’ ottemperanza); • la terza ipotesi è quella più complessa. L’ autorità provvede (ad es., reiterando il diniego di autorizzazione). A questo punto occorre stabilire se l’ amministrazione abbia esercitato il potere amministrativo che viene fatto salvo dalla sentenza, ex art. 45 r.d. 1054/24 (nel qual caso il nuovo atto dovrà essere allora impugnato nell’ ambito di un nuovo processo di cognizione) ovvero se abbia violato o eluso il giudicato (e in tal caso la questione dovrà essere sottoposta al giudice dell’ ottemperanza): riproponendo l’ esempio di prima, si dovrà allora affermare che, qualora l’ atto riproduca con qualche variante marginale il precedente diniego, lo stesso dovrà essere considerato elusivo del giudicato. A questo punto, però, è necessario interrogarsi sul tipo di invalidità che inficia l’ atto posto in essere in violazione o elusione del giudicato: a tale quesito ha dato una risposta ben precisa la L. 15/05, la quale, infatti, ha

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qualificato come atto nullo il provvedimento adottato in violazione o elusione del giudicato (nullo perché ritenuto lesivo del diritto soggettivo del ricorrente risultato vincitore all’ esecuzione del giudicato); pertanto, trattandosi della lesione di un diritto soggettivo, la relativa controversia è devoluta alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In questa prospettiva, l’ art. 112 c.p.a. individua le decisioni per le quali è possibile chiedere l’ esecuzione in sede giurisdizionale, così circoscrivendo l’ ambito di applicazione del giudizio di ottemperanza; in particolare, ad avviso del legislatore, tale giudizio è finalizzato all’ attuazione: • delle sentenze passate in giudicato del giudice amministrativo e del giudice ordinario; • delle sentenze esecutive e degli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo; • dei lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. L’ art. 112 c.p.a. contiene anche altre disposizioni finalizzate a delineare il giudizio di ottemperanza; più precisamente, in tale sede il ricorrente: • può esperire azione di condanna per il pagamento di somme a titolo di rivalutazione e interessi maturati dopo il passaggio in giudicato della sentenza; • può esperire azione di risarcimento dei danni derivanti dalla mancata esecuzione, violazione o elusione del giudicato; • può proporre la connessa domanda di risarcimento del danno derivante dalla illegittimità del provvedimento impugnato (nel termine di 120 gg. dal passaggio in giudicato della relativa sentenza); • può proporre domanda al fine di ottenere chiarimenti in ordine alle modalità con cui si deve procedere all’ esecuzione di una delle suddette pronunce (cd. ottemperanza di chiarimento). Ad eccezione della domanda di risarcimento del danno (in cui l’ azione si prescrive, come visto, nel termine di 120 gg.), nelle altre ipotesi l’ azione si prescrive dopo 10 anni dal passaggio in giudicato della sentenza: è bene precisare, al riguardo, che opera il termine di prescrizione (e non quello di decadenza) perché il ricorrente fa valere, in tal caso, un diritto soggettivo nell’ ambito di una giurisdizione esclusiva e di merito.

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Giudice dell’ ottemperanza è il Tar che ha emesso la sentenza di cui si chiede l’ esecuzione (e ciò anche qualora la stessa sia stata impugnata davanti al Consiglio di Stato e quest’ ultimo l’ abbia confermata in toto). Viceversa, se la sentenza è stata riformata in appello, in senso favorevole al privato (ovvero sia stata confermata, ma con diversa motivazione), la competenza è del Consiglio di Stato. Se, infine, la sentenza di cui si chiede l’ ottemperanza è del giudice ordinario competente sarà, invece, il Tar nella cui circoscrizione ha sede quel giudice (stesso discorso quando l’ ottemperanza riguarda un lodo arbitrale). Con la sentenza che accoglie il ricorso il giudice ai sensi dell’ art. 114 c.p.a.: • ordina l’ ottemperanza, prescrivendo le relative modalità; • dichiara nulli gli eventuali atti in violazione o elusione del giudicato; • nomina, ove occorra, un commissario ad acta; • determina, su richiesta del ricorrente, la somma di denaro dovuta dall’ amministrazione per il ritardo nell’ esecuzione del giudicato. Un accenno è necessario dedicarlo, in particolare, al commissario ad acta (figura inventata dalla giurisprudenza amministrativa, poi codificata); si tratta di un soggetto terzo, che viene nominato dal giudice nel caso in cui l’ amministrazione non ottemperi. Il commissario, in ogni caso, non è un organo dell’ amministrazione che non ha ottemperato, ma è un ausiliare del giudice (al quale, tra l’ altro, è tenuto a rispondere). Occorre precisare, infine, che se la sentenza che conclude il giudizio di ottemperanza è emessa dal Tar, la stessa sarà impugnabile dinanzi al Consiglio di Stato. §20. I riti speciali Accanto al rito ordinario (disciplinato dagli artt. 49-90), il c.p.a. prevede e disciplina i cd. riti speciali: questi procedimenti riguardano controversie che, in considerazione della loro peculiarità (accesso ai documenti e ricorsi contro il silenzio) o per la loro particolare rilevanza economica (appalti pubblici) o politica (contenzioso elettorale) sono sottoposti a regole

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speciali. a) il rito in materia di accesso ai documenti (art. 116 c.p.a.) Per quanto riguarda il rito in materia di accesso ai documenti, l’ azione deve essere proposta entro 30 gg. dal diniego di accesso ovvero dalla formazione del silenzio (l’ interessato, in ogni caso, può proporre la domanda anche nell’ ambito del ricorso principale); la decisione è presa dal giudice in forma semplificata (questi, qualora accolga il ricorso, ordina all’ amministrazione di esibire, entro 30 gg., i documenti richiesti). b) i ricorsi avverso il silenzio (art. 117 c.p.a.) Per i ricorsi avverso il silenzio, il ricorrente può esercitare l’ azione entro 1 anno dalla scadenza del termine per la conclusione del procedimento (è fatta salva, tuttavia, la possibilità di riproporre l’ istanza con conseguente decorrenza dei nuovi termini); anche in questo caso, la decisione viene presa dal giudice in forma semplificata (e, in caso di accoglimento del ricorso, l’ amministrazione è ottemperata a provvedere entro 30 gg.). c) il procedimento di ingiunzione (art. 118 c.p.a.) Al procedimento di ingiunzione può ricorrere il creditore di una somma di denaro (nell’ ambito della giurisdizione esclusiva su diritti soggettivi di natura patrimoniale); l’ ingiunzione a pagare, emessa dal presidente del Tar (o da un magistrato da lui delegato) è opponibile con ricorso dinanzi al Tribunale. d) il rito abbreviato in determinate materie (art. 119 c.p.a.) Nelle controversie elencate nel co. 1 dell’ art. 119 (tra le quali ricordiamo: l’ affidamento di lavori, servizi e forniture; i provvedimenti delle Autorità amministrative indipendenti; la privatizzazione di imprese o beni pubblici) i termini processuali sono ridotti a metà (ad eccezione dei termini per ricorrere, che rimangono immutati). Se il rito abbreviato viene adìto con domanda cautelare, il giudice può fissare l’ udienza di merito, ove ritenga che il ricorso sia fondato, che il

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pregiudizio sia grave ed irreparabile e che il contraddittorio sia completo (è bene specificare, però, che tra il deposito dell’ ordinanza cautelare e l’ udienza di merito deve decorrere un termine non inferiore a 30 gg.). Considerazioni particolari è necessario, a questo punto, dedicarle al rito in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture: in tali controversie, infatti, trovano applicazione ulteriori regole. Innanzitutto, va detto che, qualora sia mancata la pubblicità del bando di gara, il termine per ricorrere è di 30 gg. (decorrenti dalla pubblicazione dell’ avviso di aggiudicazione definitiva). Gli artt. 121-123 c.p.a. disciplinano, poi, i rapporti tra l’ annullamento dell’ aggiudicazione ed il contratto stipulato con l’ aggiudicatario, devolvendo la relativa giurisdizione al giudice amministrativo (in tal modo è stato risolto un controverso problema che ha visto da sempre su posizioni contrapposte il Consiglio di Stato e la Corte di Cassazione). Al riguardo, è importante sottolineare che l’ annullamento dell’ aggiudicazione non travolge necessariamente il contratto, ma ne determina, tuttavia, l’ inefficacia: ciò si verifica, ai sensi dell’ art. 121 c.p.a., se l’ affidamento non è stato preceduto dal bando o è avvenuto con procedura negoziata senza bando, ovvero ancora se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall’ art. 11 c.p.a. o senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale contro l’ aggiudicazione definitiva. È bene precisare, però, che il giudice, nei casi su menzionati, non può dichiarare l’ inefficacia del contratto qualora sussistano determinate esigenze connesse ad un interesse generale: tali esigenze ricorrono, ad es., nel caso in cui risulti evidente che gli obblighi contrattuali possono essere soddisfatti solo dall’ esecutore attuale; o quando dalla declaratoria di inefficacia deriverebbero esigenze sproporzionate, soprattutto nei casi in cui il ricorrente non abbia chiesto di subentrare nel contratto. A differenza delle ipotesi elencate nell’ art. 121 c.p.a. (che, come abbiamo visto, regola i casi in cui il giudice è tenuto a dichiarare l’ inefficacia del contratto stipulato con l’ aggiudicatario o gli è vietato di dichiararla in

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presenza delle esigenze imperative su esposte), il successivo art. 122 rimette, invece, al giudice la facoltà di dichiarare inefficace il contratto (ovviamente, fuori dei casi indicati nell’ art. 121). Qualora il contratto venga dichiarato inefficace, il ricorrente potrà ottenere l’ aggiudicazione; viceversa, nel caso in cui non lo dichiari tale, il giudice disporrà il risarcimento del danno per equivalente. §21. Il giudizio cautelare a) i poteri cautelari del giudice amministrativo Anche se il d.lgs. 104/10 impone al giudice ed alle parti di cooperare per la realizzazione della ragionevole durata del processo, i tempi processuali possono, il più delle volte, pregiudicare le ragioni del ricorrente (ad es., se al proprietario viene intimata la demolizione di un manufatto edilizio, perché abusivo, e la costruzione viene effettivamente demolita, a nulla varrà l’ accoglimento del ricorso contro il provvedimento del comune, se non ai fini dell’ eventuale risarcimento danni). Tenuto conto di ciò, tutti gli ordinamenti processuali prevedono, oggi, una specifica tutela cautelare, che serve ad impedire che i tempi del processo giochino a danno della parte che ha ragione (serve, cioè, ad assicurare provvisoriamente, anticipandoli, gli effetti della decisione di merito). È necessario sottolineare, tuttavia, che prima dell’ emanazione della L. 205/00, l’ unica misura cautelare tipica prevista e disciplinata dal nostro ordinamento era la sospensione del provvedimento impugnato, qualora dalla sua esecuzione fossero derivati danni gravi ed irreparabili (tali, cioè, da non poter essere riparati dall’ accoglimento del ricorso nel merito). Soltanto nell’ ambito della giurisdizione esclusiva (in particolare, nella materia del pubblico impiego) potevano trovare applicazione misure cautelari atipiche, ex art. 700 c.p.c. (in tal senso, Corte cost., sent. 190/85). Tali limitazioni, però, se non influivano negativamente sulla tutela di interessi legittimi oppositivi (ad es., la sospensione dell’ ordinanza di demolizione), rendevano, viceversa, quasi del tutto impossibile la tutela cautelare di interessi legittimi pretensivi, poiché lesi da provvedimenti di

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carattere negativo (ad es., il diniego del permesso di costruire): in altri termini, ci si chiedeva come fosse possibile sospendere il provvedimento negativo. La stessa giurisprudenza, del resto, non era riuscita a fornire al quesito risposte del tutto efficaci: si riteneva, infatti, che il diniego di provvedimento non fosse suscettibile di sospensione; ma, anche se fosse stata possibile, la sospensione del provvedimento negativo non avrebbe potuto comunque equivalere al rilascio del provvedimento negato, perché qualora avesse accolto la domanda di cautela, il giudice avrebbe finito per sostituirsi all’ amministrazione. Di queste problematiche hanno preso, quindi, atto la L. 205/00 e il d.lgs. 104/10: in particolare, attraverso questi due provvedimenti, il legislatore, tenendo conto dell’ insufficienza della misura cautelare (tipica) della sospensione del provvedimento impugnato, ha ritenuto opportuno strutturare i poteri cautelari del giudice amministrativo sullo schema dell’ art. 700 c.p.c.: ciò significa, pertanto, che oggi il giudice può concedere all’ interessato la misura cautelare (atipica) più idonea ad assicurare interinalmente (cioè, provvisoriamente) gli effetti della decisione sul ricorso; il legislatore, inoltre, tenendo conto del fatto che nel processo amministrativo può essere proposta non soltanto l’ azione di annullamento, ma anche l’ azione di condanna e quella di mero accertamento (ossia, azioni nelle quali manca un provvedimento), ha previsto anche la possibilità di disporre l’ ingiunzione a pagare, in via provvisoria, una somma di denaro (anticipatoria di una sentenza di condanna). b) i presupposti per l’ esercizio del potere cautelare Affinché la richiesta cautelare possa essere accolta sono necessari il fumus boni iuris ed il periculum in mora. In particolare, ai sensi dell’ art. 55, co. 1 c.p.a., il periculum in mora coincide con il danno grave ed irreparabile, mentre la necessità del fumus boni iuris è enunciata nel successivo co. 2 della medesima disposizione, ove si legge che la domanda cautelare può essere accolta se il ricorso, ad un sommario esame, appare fondato [si parla di fumus, ossia di una parvenza di

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fondatezza (senza la quale il danno grave ed irreparabile non è sufficiente, da solo, a giustificare l’ accoglimento della domanda): sarebbe, ad es., incongrua la sospensione di un provvedimento, anche se causa di un pregiudizio serio, se i motivi di ricorso apparissero, prime facie, infondati]. c) il procedimento cautelare ordinario (o collegiale) L’ istanza cautelare deve essere proposta al collegio (il Tar adìto) con un atto inserito nel corpo del ricorso introduttivo (o anche con una separata istanza); fatto ciò, la domanda (dopo essere stata notificata alle altre parti) deve essere depositata presso la segreteria del Tar (insieme all’ istanza di fissazione dell’ udienza di merito). A questo punto, la domanda cautelare viene esaminata dal collegio nella prima camera di consiglio successiva, purché siano trascorsi almeno 20 gg. giorni dal perfezionamento, anche per il destinatario, dell’ ultima notificazione e 10 gg. dal deposito del ricorso. Le parti possono depositare memorie e documenti fino a 2 gg. prima della camera di consiglio; tuttavia, per gravi ed eccezionali ragioni, le stesse parti possono essere autorizzate a depositare documenti anche nella camera di consiglio, purché di essi sia stata consegnata copia alle altre parti prima dell’ inizio della discussione (questa si svolge in modo sintetico, se una delle parti ne fa richiesta). In merito alla domanda, il collegio può, innanzitutto, emettere un’ ordinanza motivata, di accoglimento o di rigetto (motivata, ovviamente, in ordine al periculum in mora ed al fumus boni iuris). In secondo luogo, il collegio (qualora ritenga che sussistano i presupposti per il giudizio di merito) fissa, con ordinanza collegiale, la data di discussione del ricorso nel merito. Infine, il collegio può definire il giudizio con sentenza di merito in forma semplificata, purché sia assicurato il contraddittorio e sempre che non sia necessaria un’ istruttoria; è bene precisare, però, che la definizione del giudizio con sentenza in forma semplificata non è ammessa nel caso in cui una delle parti dichiari di voler presentare motivi aggiunti, ricorso incidentale ovvero regolamento di competenza o di giurisdizione.

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d) le varianti all’ ordinario procedimento cautelare Sebbene la domanda di cautela debba essere esaminata in tempi brevi, questi ultimi, tuttavia, possono risultare comunque troppo lunghi qualora l’ urgenza sia massima; a tal fine, gli artt. 56 e 61 c.p.a. prevedono due specifiche ipotesi risolutive. Innanzitutto, è previsto che, in caso di estrema gravità ed urgenza (tale da non consentire neppure di attendere la data della camera di consiglio) la richiesta può essere rivolta al presidente del Tar o al magistrato da lui delegato: il giudice, accertata l’ avvenuta notifica del ricorso (almeno all’ amministrazione resistente e ad uno dei controinteressati), provvede con decreto motivato non impugnabile. L’ altro rimedio previsto e disciplinato dalla legge prende, invece, il nome di misura cautelare ante causam (cioè, anteriore alla causa). A differenza della precedente ipotesi (nella quale, come visto, l’ urgenza è tale non consentire l’ attesa fino alla data della camera di consiglio), in questo caso, invece, l’ urgenza è tale da non consentire neppure la previa notificazione del ricorso; risulta, allora, sufficiente notificare la domanda di misura cautelare perché il presidente o il giudice da lui delegato provveda su di essa (con decreto), dopo aver sentito le parti (è bene precisare comunque che, nell’ ipotesi disciplinata, il ricorso per il merito non viene omesso, ma semplicemente posticipato: tant’è vero che se esso non viene notificato entro 15 gg. e depositato in segreteria nei successivi 5 gg., il decreto presidenziale perde efficacia). e) la riproposizione della domanda, l’ istanza di revoca e le impugnazioni L’ ordinanza del Tar che respinge la domanda cautelare può essere riproposta qualora si verifichino mutamenti nelle circostanze di fatto o qualora il ricorrente alleghi fatti anteriori da lui prima non conosciuti (purché fornisca la prova del momento in cui ne è venuto a conoscenza); per contro, qualora il Tar accolga la domanda del ricorrente, le altre parti possono proporre istanza di revoca della misura cautelare (sempre che, ovviamente, ricorrano i medesimi presupposti su indicati). Per quanto riguarda, invece, il sistema delle impugnazioni, è necessario

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sottolineare che avverso le ordinanze cautelari l’ interessato può proporre appello al Consiglio di Stato, nel termine di 30 gg. dalla notifica dell’ ordinanza (ovvero nel termine di 60 gg. dalla sua pubblicazione). In particolare, il Consiglio di Stato è chiamato a valutare l’ ingiustizia dell’ ordinanza (di accoglimento o di rigetto della misura cautelare) così come prospettata dall’ appellante; ma può anche accertare d’ ufficio la violazione delle regole sulla giurisdizione, sulla competenza per territorio o sulla competenza funzionale (ed annullare l’ ordinanza impugnata per questo motivo). Nel caso in cui il Consiglio di Stato, accogliendo il ricorso in appello, disponga una misura cautelare, l’ ordinanza viene trasmessa, dalla segreteria, al primo giudice, in modo che questi fissi l’ udienza di merito con priorità. §22. Le impugnazioni a) profili generali I mezzi di impugnazione delle sentenze sono l’ appello, la revocazione, l’ opposizione di terzo e il ricorso per cassazione (gli aspetti comuni a questi quattro mezzi sono disciplinati dagli artt. 92-99 c.p.a). È bene precisare, però, che oltre ai mezzi su indicati (che potremmo definire impugnazioni principali) sono anche previste due impugnazioni incidentali, che si distinguono per il differente trattamento normativo: la prima impugnazione incidentale (proposta ai sensi dell’ art. 333 c.p.c.) è un’ impugnazione che si distingue da quella principale per il solo fatto che è stata preceduta dall’ impugnazione di un’ altra parte [sicché il termine per ricorrere in via incidentale (60 gg.) decorre dalla notifica dell’ altra impugnazione]. La seconda impugnazione incidentale (denominata tardiva) viene, invece, proposta, ai sensi dell’ art. 334 c.p.c., solo perché la parte soccombente ha impugnato in via principale la sentenza. In altri termini: la parte (che ha impugnato in via incidentale) si sarebbe acquetata, sebbene non pienamente soddisfatta dalla sentenza di primo grado, se altra parte non

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avesse impugnato quest’ ultima, facendo insorgere in lei l’ interesse ad attaccare la sentenza, al fine di ridurre il danno che potrebbe emergere dall’ accoglimento dell’ impugnazione principale (o di impedirlo del tutto). Occorre precisare, in ogni caso, che l’ impugnazione incidentale, in entrambe le sue forme, ha come suo normale ambito di applicazione l’ appello al Consiglio di Stato (cd. appello incidentale). Per quanto riguarda, invece, i soggetti, è necessario sottolineare che tra le parti del giudizio di impugnazione vi può essere l’ interventore: sia quello che era presente nel giudizio di primo grado che, non avendo titolo per impugnare, può essere presente nel processo d’ appello soltanto attraverso un nuovo intervento (che può essere sollecitato dalla notifica dell’ atto di impugnazione); sia quello che, non avendo partecipato al giudizio di primo grado, interviene, avendovi interesse, per la prima volta nel giudizio di impugnazione. Un accenno occorre dedicarlo, infine, ai poteri del giudice dell’ impugnazione: questi, in particolare, dispone dello stesso potere di sospensione attribuito al giudice che ha emesso la sentenza impugnata, sempre che dall’ esecuzione possa derivare un danno grave ed irreparabile (anche in questo caso, quindi, rileva il fumus, perché la sospensione può essere disposta una volta valutati i motivi proposti). È bene precisare, però, che il potere cautelare non può essere attribuito alla Corte di Cassazione: ciò significa, pertanto, che se la sentenza viene impugnata per soli motivi inerenti alla giurisdizione (se, cioè, viene proposto ricorso per cassazione), l’ eventuale sospensione può essere chiesta al Consiglio di Stato. b) l’ appello Le sentenze dei Tar sono impugnabili davanti al Consiglio di Stato: questi ha la stessa competenza e dispone degli stessi poteri di cognizione e di decisione del giudice di primo grado (salve le eccezioni previste dall’ art. 104 c.p.a.). Come l’ appello civile, anche l’ appello nel processo amministrativo ha la struttura di un secondo giudizio: esso, cioè, tende alla ripetizione del

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giudizio (o meglio, alla sua sostituzione con un giudizio nuovo). Legittimata a proporre appello è la parte soccombente: il ricorrente (se il ricorso è stato respinto) ovvero l’ amministrazione o il controinteressato (se il ricorso è stato accolto). Nel caso in cui il ricorso venga respinto, il Consiglio di Stato conferma la sentenza di primo grado; viceversa, qualora lo accolga, esso sostituisce la sua sentenza a quella del Tar. Accanto alle ipotesi su indicate (che sono le più semplici) ve ne sono altre ben più complicate: è possibile, infatti, che il Tar abbia giudicato il ricorso irricevibile (perché tardivo) o nullo (perché carente degli elementi essenziali) ovvero inammissibile (per mancata notifica al controinteressato o per difetto di interesse). In questi casi, come si può notare, è mancato, in primo grado, un giudizio di merito (sulla fondatezza o meno del ricorso) perché il Tar si è arrestato ad una questione pregiudiziale. Ora, in virtù del principio del doppio grado di giurisdizione, il Consiglio di Stato, una volta accolto l’ appello, dovrebbe rinviare la controversia al giudice di primo grado, affinché questi esprima quel giudizio di merito che è stato indebitamente omesso; ciò, però, non accade, perché prevale un’ esigenza di pura economia processuale (si tratta della regola della ragionevole durata del processo, ex art. 111 Cost.): di conseguenza, il Consiglio di Stato, una volta accolto l’ appello, giudica nel merito, dopo aver superato le pregiudiziali che avevano indotto il Tar ad astenersi dal giudizio di merito. Vi sono, in ogni caso, delle ipotesi nelle quali la causa deve essere comunque rimessa al giudice di primo grado (cioè, al Tar). Ciò accade: • se è mancato il contraddittorio (ad es., se il Tar ha posto a fondamento della decisione una questione rilevata d’ ufficio, precludendo, quindi, alla parte interessata la possibilità di difendersi); • se la sentenza è nulla (ad es., perché manca la concisa esposizione dei motivi in fatto e in diritto della decisione); • se il Tar ha erroneamente declinato la giurisdizione o la competenza (dichiarando se stesso carente di giurisdizione o incompetente) o se ha erroneamente dichiarato l’ estinzione o la perenzione del giudizio. L’ appello (principale) presuppone la soccombenza (in primo grado) della parte che lo propone. Questa soccombenza, ovviamente, può essere totale

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o parziale: è parziale, ad es., quando il Tar accoglie un motivo di ricorso e, di conseguenza, annulla l’ atto impugnato, ma respinge altri motivi [in questo caso l’ appello è ammesso qualora la parte possa ricevere dal suo accoglimento vantaggi ulteriori (ad es., accolto il ricorso per motivi formali, il ricorrente propone appello allo scopo di vedere accolti i motivi, respinti in primo grado, con cui si denunciano illegittimità sostanziali)]. È questo il motivo per il quale l’ art. 102 c.p.a. riconosce la legittimazione a proporre appello alle parti tra le quali è stata pronunciata la sentenza di primo grado (e, quindi, non solo alla parte soccombente); ciò significa che anche il vincitore può proporre appello se la sua vittoria (in primo grado) è stata parziale. Passiamo ora ad affrontare il tema dell’ appello incidentale: al riguardo, è necessario sottolineare che nel caso in cui la sentenza venga impugnata dall’ amministrazione resistente o dal controinteressato, il ricorrente in primo grado ha la possibilità di riproporre i motivi di ricorso non accolti dal Tar, con appello incidentale (in questa ipotesi, come si può notare, il thema decidendi viene allargato in modo che il Consiglio di Stato è tenuto a riprendere in considerazione l’ intero oggetto del giudizio di primo grado). Come detto in precedenza, l’ appello principale presuppone la soccombenza della parte che lo propone; viceversa, l’ appello incidentale presuppone una parziale vittoria (è il caso, ad es., del ricorrente in primo grado i cui motivi di ricorso siano stati accolti solo in parte; o dell’ amministrazione o del controinteressato le cui difese siano state accolte solo in parte). Dagli esempi avanzati, quindi, possiamo dedurre che l’ appello incidentale può essere proposto dalla parte che ha ottenuto una mezza vittoria e che, per tal motivo, impugna la sentenza (appellata dall’ altra parte in via principale) nella parte in cui le dà torto. In linea generale, l’ esame dell’ appello principale precede quello dell’ appello incidentale; vi sono, però, delle ipotesi nelle quali si verifica una sorta di inversione (ciò accade, ad es., quando il ricorrente soccombente impugna la sentenza del Tar e l’ amministrazione ripropone, con appello incidentale, la questione di tardività del ricorso, che era stata già sollevata davanti al giudice di primo grado e da questi era stata ritenuta infondata: in

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questa ipotesi l’ appello incidentale, come si può notare, configura una questione pregiudiziale che, in quanto tale, deve essere necessariamente esaminata con precedenza). Nel giudizio d’ appello vale la regola sancita dall’ art. 345 c.p.c., secondo cui in secondo grado non possono essere proposte né nuove eccezioni non rilevabili d’ ufficio né domande nuove [queste ultime, se proposte, devono essere dichiarate inammissibili (tale preclusione opera, essenzialmente, a carico dell’ appellante che era ricorrente in primo grado, il quale, infatti, non può proporre, in appello, motivi non dedotti in primo grado)]. L’ originale del ricorso in appello deve essere depositato nella segreteria del Consiglio di Stato entro 30 gg. dall’ ultima notifica; per il resto, trovano applicazione le stesse regole già considerate con riferimento al Tar (in tema di fissazione di udienza, istruttoria eventuale, termini per il deposito dei documenti e delle memorie, udienza di discussione). Secondo la normativa preesistente al 2010 si riteneva che il giudice d’ appello, disponendo degli stessi poteri di cognizione e di decisione del giudice di primo grado, fosse titolare anche degli stessi poteri istruttori; viceversa, l’ art. 104 d.lgs. 104/10, uniformandosi al codice di rito (art. 345 c.p.c.) ha escluso che nel processo d’ appello possano essere ammessi nuovi mezzi di prova o possano essere prodotti nuovi documenti, a meno che il collegio non li ritenga indispensabili ai fini della decisione della causa ovvero che la parte dimostri di non aver potuto proporli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile. Un’ altra rilevante novità introdotta dal d.lgs. 104/10 è, poi, costituita dalla possibilità di proporre motivi aggiunti in appello, qualora la parte venga a conoscenza di documenti non prodotti dalle altre parti nel giudizio di primo grado, dai quali emergano vizi degli atti impugnati (ovviamente, tale possibilità è riconosciuta al ricorrente in primo grado e che, soccombente davanti al Tar, abbia proposto appello). È necessario sottolineare, infine, che l’ appello non sospende l’ esecuzione della sentenza impugnata (la quale, pertanto, è esecutiva); l’ appellante, però, ha la possibilità di impedire l’ esecuzione presentando apposita

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istanza al Consiglio di Stato (che la accoglie quando dall’ esecuzione possa derivare un danno grave ed irreparabile). c) il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo Come sappiamo, il Consiglio di Stato è giudice di secondo ed ultimo grado: le sue sentenze, infatti, sono impugnabili con ricorso per cassazione solo per motivi inerenti alla giurisdizione (cioè, solo nel caso in cui il Consiglio abbia giudicato fuori dalla sua giurisdizione). A questa regola, però, fanno eccezione due rimedi: il ricorso per revocazione e l’ opposizione di terzo (che possono essere proposti contro la sentenza del Consiglio di Stato). Ai sensi dell’ art. 395 c.p.c. il ricorso per revocazione è ammesso: • se la sentenza è l’ effetto del dolo di una delle parti in danno dell’ altra; • se si è giudicato in base a prove dichiarate false dopo la sentenza ovvero che la parte soccombente ignorava essere state dichiarate tali (cioè, false) prima della pronuncia; • se, dopo la sentenza, sono stati trovati uno o più documenti decisivi che la parte non aveva potuto produrre in giudizio per causa di forza maggiore o per fatto dell’ avversario; • quando la sentenza è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è esclusa incontrastabilmente o sulla supposizione dell’ inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente accertata; • se la sentenza è contraria ad altra precedente avente tra le parti autorità di cosa giudicata ; • se la sentenza è effetto del dolo del giudice, accertato con sentenza passata in giudicato. Ora, quando il fatto è rilevabile dalla sentenza (errore di fatto o violazione del giudicato), il termine per impugnare (60 gg.) decorre dalla notifica della sentenza (cd. revocazione ordinaria); negli altri casi, invece, il termine decorre dal momento in cui è stato scoperto il fatto o la circostanza su cui si fonda il vizio revocatorio (cd. revocazione straordinaria). È importante specificare che il giudizio di revocazione è proponibile dinanzi al giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata (Tar o Consiglio di Stato); tuttavia, contro la sentenza del Tar la revocazione è ammessa solo

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nel caso in cui i motivi non possano essere dedotti con l’ appello. Un ultimo accenno occorre dedicarlo al contenuto della sentenza che chiude il giudizio di revocazione; al riguardo è necessario sottolineare che tale sentenza presenta una struttura complessa, perché comprensiva di due fasi: una fase rescindente ed una fase rescissoria. Più precisamente, nella fase rescindente il giudice, se accoglie il ricorso, elimina la sentenza impugnata perché affetta dal vizio revocatorio denunciato; nella fase rescissoria, invece, il giudice emette un nuovo provvedimento, emendato dal vizio che aveva inficiato la pronuncia precedente. L’ opposizione di terzo, oggi disciplinata dall’ art. 108 c.p.a., è stata introdotta nel nostro ordinamento con una sentenza additiva della Consulta (sent. 177/95), la quale ha giudicato illegittimi gli artt. 28 e 36 della legge istitutiva dei Tar, nella parte in cui non prevedevano questo particolare rimedio contro le sentenze del Tar (passate in giudicato) e del Consiglio di Stato. L’ opposizione di terzo è proponibile contro le sentenze del Tar e contro quelle del Consiglio di Stato, ma competente a conoscerla è, in ogni caso, il Consiglio di Stato; il rimedio può essere proposto in ogni tempo (ma ove siano coinvolti interessi legittimi, il termine decorre dal momento in cui il terzo ha avuto conoscenza della sentenza lesiva del suo interesse). Legittimati a proporre opposizione sono i controinteressati pretermessi (cioè, i controinteressati ai quali non è stato notificato il ricorso, di primo grado o d’ appello, e che pertanto non furono posti nella condizione di potersi difendere), nonché i soggetti che, pur non essendo stati controinteressati in senso tecnico, sono comunque titolari di una posizione che può essere pregiudicata dalla sentenza del Consiglio di Stato (cd. controinteressati sopravvenuti). Ovviamente, i presupposti per l’ accoglimento del ricorso variano a seconda di chi sia l’ opponente: in particolare, qualora opponente sia il controinteressato pretermesso è sufficiente che egli dimostri che aveva diritto alla notifica del ricorso e che tale notifica non è avvenuta, per ottenere l’ annullamento della sentenza (del Consiglio di Stato o del Tar) ed il rinvio al primo giudice (al Tar).

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Qualora, invece, opponente sia il controinteressato sopravvenuto è necessario che egli dimostri di aver ragione, allo scopo di ottenere l’ annullamento della sentenza: non è sufficiente, cioè, che egli provi che il ricorso non gli è stato notificato (il ricorrente, infatti, non aveva alcun obbligo in tal senso), ma deve dimostrare l’ inconsistenza dei motivi di ricorso ovvero l’ esistenza di una pregiudiziale ostativa del giudizio di merito (ad es., l’ irricevibilità del ricorso). d) il ricorso per cassazione L’ art. 111, co. 8 Cost. stabilisce che contro le sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti il ricorso per cassazione è ammesso solo per i motivi inerenti alla giurisdizione: questa limitazione è, ovviamente, connessa alla posizione costituzionale dei due organi (posizione che sarebbe menomata qualora le loro sentenze potessero essere annullate dalla Cassazione per violazione di legge o per vizio della motivazione). La disposizione costituzionale enunciata è stata, poi, ripresa dall’ art. 110 c.p.a., il quale, infatti, ammette il ricorso per cassazione contro le sentenze del Consiglio di Stato per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. In particolare, sono motivi inerenti alla giurisdizione: • il difetto assoluto di giurisdizione (ossia, quando la questione è demandata ad un altro potere dello Stato); • il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo rispetto al giudice ordinario, per essere la questione demandata alla esclusiva cognizione di quest’ ultimo; • il difetto di giurisdizione del Tar o del Consiglio di Stato rispetto ad altri giudici amministrativi (ad es., la Corte dei Conti); • il difetto di giurisdizione ove il giudice amministrativo abbia esplicato un sindacato di merito su questione in cui esso aveva competenza soltanto di legittimità; • il difetto di giurisdizione per irregolare composizione del collegio giudicante. La Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso, cassa la sentenza impugnata senza disporre il rinvio nel caso in cui neghi la sussistenza della

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giurisdizione del giudice amministrativo; cassa, viceversa, la sentenza con rinvio qualora affermi la giurisdizione che, invece, il giudice amministrativo aveva negato (in tal caso il processo deve essere riassunto dinanzi al Consiglio di Stato).

Sezione V I ricorsi amministrativi §1. Il ricorso gerarchico ed il ricorso in opposizione

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Alla tutela offerta dal giudice si è sempre accompagnata la tutela offerta dalla stessa amministrazione; l’ apparente paradosso (di un protezione assicurata dallo stesso soggetto contro il quale si agisce) si giustifica in virtù del fatto che l’ autorità alla quale ci si rivolge non è la stessa autorità che ha emesso l’ atto che si intende attaccare, ma è l’ autorità gerarchicamente superiore. Disciplinato in termini generali con D.P.R. 1199/71, il ricorso gerarchico può essere proposto contro gli atti (non definitivi) delle autorità che hanno un superiore gerarchico (ad es., il questore subordinato al prefetto, il prefetto al Ministro dell’ Interno); il ricorso, quindi, non è ammesso contro gli atti di chi è al vertice della gerarchia ovvero contro gli atti di un organo collegiale. Il termine per ricorrere è di 30 gg. ed i motivi che possono essere fatti valere possono essere non solo di legittimità, ma anche di merito (chi ricorre in via gerarchica, cioè, può denunciare non solo l’ illegittimità dell’ atto, ma anche la sua inopportunità o la sua iniquità ed ingiustizia). È importante sottolineare, infine, che se l’ interessato ha proposto ricorso in via gerarchica non può proporre simultaneamente ricorso al Tar (il ricorso giurisdizionale è ammesso soltanto dopo che siano decorsi 90 gg.: ossia, dal momento in cui, non essendo intervenuta nessuna decisione, il ricorso si intende respinto a tutti gli effetti). Più precisamente: • se l’ amministrazione accoglie il ricorso gerarchico viene meno l’ esigenza di rivolgersi al giudice; • se, invece, l’ amministrazione lo respinge o non lo decide (entro 90 gg.) l’ interessato potrà rivolgersi al Tar. Il D.P.R. 1199/71, oltre al ricorso gerarchico, prevede e disciplina anche il ricorso in opposizione, ossia il ricorso che può essere proposto allo stesso organo che ha emesso l’ atto impugnato: si tratta di un ricorso che è ammesso nei soli casi previsti dalla legge e la cui efficacia, in termini di tutela del privato, è quasi nulla (dal momento che l’ autorità ben difficilmente è disposta a rimangiarsi quello che ha deciso solo perché il privato reclama).

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§2. Il ricorso straordinario L’ altro rimedio amministrativo a carattere generale è il ricorso straordinario, non più al Re, ovviamente, ma al Presidente della Repubblica. In realtà, è bene precisare che la decisione spetta ad una sezione del Consiglio di Stato ovvero alla commissione speciale dello stesso, anche se la legge parla di parere: più precisamente, dal punto di vista formale, la decisione è del Presidente della Repubblica su proposta del ministro competente per materia; dal punto di vista sostanziale, invece, sia la decisione che la proposta si limitano a far proprio il parere del Consiglio di Stato (ciò lo si desume, tra l’ altro, dalla formulazione dell’ art. 69 L. 69/09, il quale, infatti, ha stabilito che la decisione deve essere adottata su proposta del ministro competente, conforme al parere del Consiglio di Stato). Oggi, il ricorso straordinario (disciplinato dal D.P.R. 1199/71) continua ad essere usato sia perché è molto più economico del ricorso giurisdizionale (può essere, infatti, presentato senza la necessità dell’ assistenza di un legale), sia perché il termine per ricorrere è di 120 gg. dalla data di notificazione ovvero dalla piena conoscenza dell’ atto da impugnare (esso, quindi, rappresenta una sorta di ultima spiaggia per chi abbia lasciato trascorrere il termine di 60 gg. per rivolgersi al Tar). A differenza del ricorso gerarchico (che, come sappiamo, può essere seguito dal ricorso giurisdizionale al Tar), il ricorso straordinario è alternativo al ricorso al Tar: in altri termini, chi ricorre al Tar non può proporre ricorso straordinario e chi propone ricorso straordinario non può rivolgersi al Tar [questa preclusione si giustifica in virtù del fatto che a rendere il parere sul ricorso straordinario, e in sostanza a deciderlo, è il Consiglio di Stato in sede consultiva (ossia, lo stesso organo che, in sede giurisdizionale, potrebbe essere chiamato a giudicare, in secondo grado, sul ricorso presentato al Tar e da quest’ ultimo deciso: con la possibilità di due pronunce contraddittorie sullo stesso tema)]. In ogni caso, appare opportuno sottolineare che la scelta è obbligata per chi ricorre, non per chi resiste al ricorso (amministrazione o

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controinteressato); costoro, infatti, possono chiedere, entro 60 gg. dalla notifica del ricorso straordinario, che questo sia deciso in sede giurisdizionale. Ora, in seguito a tale richiesta, il ricorrente è tenuto a costituirsi, entro i successivi 60 gg., davanti al Tar competente (art. 48 c.p.a.): si tratta della cd. trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, che costituisce una manifestazione attraverso la quale il nostro ordinamento riconosce ed attribuisce preferenza al ricorso giurisdizionale. Qualora la parte resistente al ricorso (amministrazione o controinteressato) non si avvalga della facoltà di trasposizione del ricorso straordinario in sede giurisdizionale, potrà tuttavia impugnare la decisione davanti al Tar, ma solo per vizi di forma o di procedimento: cioè, solo se il procedimento di decisione del ricorso straordinario è stato irregolare (perché, ad es., è stata omessa la notifica ad un controinteressato). È opportuno precisare, poi, che il ricorso straordinario si distingue dal ricorso giurisdizionale per due motivi: • esso, infatti, può essere proposto soltanto contro atti definitivi (ossia, contro atti sui quali non possano proporsi domande di riparazione in via gerarchica); • il ricorso straordinario, inoltre, può essere proposto sia a tutela di interessi legittimi che di diritti soggettivi. Il ricorso straordinario si differenzia, inoltre, dal ricorso gerarchico, per via del fatto che attraverso di esso possono essere fatti valere solo vizi di legittimità. Una volta annullato l’ atto (attraverso il ricorso straordinario), qualora l’ amministrazione non ottemperi alla decisione, l’ interessato può adire il Tar Lazio con l’ azione di ottemperanza (art. 112 c.p.a.).

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