Manuale Di Criminologia Clinica
March 16, 2017 | Author: Michele Sirianni | Category: N/A
Short Description
Download Manuale Di Criminologia Clinica...
Description
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
1
Capitolo 1 LE TEORIE CRIMINOLOGICHE Nel corso del tempo si sono evidenziati diversi approcci allo studio del crimine che hanno ipotizzato le origini del comportamento criminale localizzate nella psiche dell’individuo, nel suo patrimonio genetico, nell’ambiente sociale, nelle psicopatologie o ancora nelle diverse modalità di attribuzione di significato alla realtà o nella capacità di adattamento alle norme. Talune scuole criminologiche si sono attestate su posizioni critiche ponendo in discussione il rapporto stesso tra individuo e un sistema normativo che è culturalmente e socialmente determinato e come tale non necessariamente accettabile da tutti. Evidentemente la scelta teorica del criminologo risulta fortemente influenzata dal suo stesso rapporto ideologico con il sistema sociale. Posizioni consensuali e integrate degli studiosi saranno maggiormente legate ad una visione del crimine in termini di disfunzionalità ed anomalia (ricercata in aree psicologiche, psicopatologiche e sociologiche). Posizioni maggiormente conflittuali invece orienteranno probabilmente lo studioso su valutazioni attinenti ai rapporti di potere tra gruppi sociali, ricercando la spiegazione del crimine nelle dinamiche di reazione sociale, di etichettamento, di esclusione, di stigmatizzazione. In questa breve raccolta di contenuti criminologici cerchiamo di proporre al lettore gli spunti maggiormente significativi dei vari approcci ancora vivi nella Criminologia contemporanea ognuno dei quali offre alcune possibili “cause” della fenomenologia criminale. In realtà sovente le teorizzazioni mostrano semplificazioni ed esasperazioni concettuali che non corrispondono alla realtà. Il concetto stesso di causa, applicato al comportamento umano, necessita di estrema cautela proprio in ragione degli infiniti fattori che influenzano l’agire dell’uomo, posti su piani genetici, biologici, psicologici, sociali e talvolta fortuiti, mediati ed organizzati, tra l’altro, dalla variabile primaria indotta dalla razionalità e dalla libertà di scelta. La ricerca di una causa specifica dovrà quindi essere intesa come maggiore o minore peso di una variabile all’interno di una dinamica complessa o meglio ancora come un fattore di possibile ingerenza. Un ulteriore elemento di complessificazione è dovuto poi alla grande diversità che intercorre spesso tra i vari crimini. Taluni comportamenti criminali sembrano infatti essere maggiormente influenzati dalle variabili biologiche e psicologiche (es. i crimini violenti) mentre altri appaiono maggiormente correlati a dinamiche sociali. LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA L’oggetto della moderna Criminologia appare assai diversificato in ragione della grande complessità del comportamento umano (e quindi di quello criminale). Gli elementi che assumono rilevanza criminologica sono infatti:
i fatti delittuosi gli autori del delitto la reazione sociale la vittima la devianza (le manifestazioni non conformi ma non criminose) 1
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
2
La Criminologia opera in stretta connessione con le altre Scienze criminali che sono: 1. il Diritto penale (l’articolazione della produzione normativa penale); 2. la Politica criminale (che studia i modi per prevenire e combattere i fenomeni criminali); 3. la Penologia (lo studio della pena nelle sue applicazioni concrete); 4. il Diritto penitenziario (che progetta la fase esecutiva del procedimento giudiziario penale); 5. la Psicologia giudiziaria (che studia l’uomo come attore del procedimento penale es. interazioni in fase processuale tra le parti); 6. la Psicologia giuridica (una branca della psicologia applicata al diritto); 7. la Criminalistica (lo studio delle tecniche dell’investigazione criminale). La Criminologia utilizza numerosi quadri teorici e metodologici delle Scienze umane. E’ infatti una Scienza multidisciplinare che non possiede un proprio metodo di ricerca ma che tende ad integrare tra loro le conoscenze confluenti da molteplici discipline, tra cui: la Sociologia, la Psicologia, la Medicina, il Diritto e l’Antropologia. Comunque non è semplicemente il frutto della costruzione di un sapere integrato ma ha una sua autonomia scientifica prendendo in esame alcune dinamiche non considerate dalle altre Scienze. I suoi paradigmi attuali sono il risultato di un lento processo di costruzione che ha visto il lavoro di molti studiosi nel corso della storia. Il suo bagaglio teorico e metodologico è quindi cumulativo essendo le sue teorie costruite sovente in derivazione l’una dall’altra nell’ambito di una paziente opera di correzione, modifica e conferma delle concettualizzazioni precedenti. Come ogni altra Scienza, la Criminologia ha quindi esigenza di sistematicità e di controllabilità delle sue ricerche per garantire dignità scientifica al suo operare. LE FUNZIONI DELLA CRIMINOLOGIA: Gli studi criminologici trovano applicazione in numerosi ambiti, alcuni maggiormente accademici e finalizzati allo sviluppo delle conoscenze, altri maggiormente operativi, direttamente utilizzabili in campo sociale ed istituzionale. Le ricerche prodotte dai criminologi possono avere le seguenti motivazioni: 1. Ricerche accademiche non direttamente finalizzate; 2. Ricerche accademiche finalizzate ad orientare la politica criminale (es. studio delle correlazioni tra aggressività ed alcool); 3. Ricerche accademiche finalizzate alla più efficace prevenzione del crimine (es. studio dei gruppi di tifosi per prevenire la violenza negli stadi);
2
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
3
4. Ricerche e consulenze finalizzate alla più efficace repressione del crimine (es. studio del comportamento dei serial killer per cercare di individuare il colpevole di una serie di omicidi); 5. Criminologia clinica (o applicata) in fase processuale e di applicazione della pena. LA CRIMINOLOGIA CLINICA O APPLICATA La funzione primaria della Criminologia clinica o applicata è quella di integrare ed interfacciare le Scienze criminali con le Scienze dell’uomo. La sua utilizzazione pratica è quindi soprattutto nell’ambito della giustizia penale dove fornisce informazioni sulle dinamiche psicologiche e sociologiche che sono alla base del comportamento criminale orientando così l’opera di applicazione della norma da parte del giudice. Il termine “clinica” è mutuato dalla Scienza medica e si riferisce all’insieme degli interventi del criminologo che tendono a riconoscere “curare” e prevenire i comportamenti illegali nel singolo individuo. L’applicazione della Criminologia clinica si estrinseca quindi nelle seguenti situazioni: nella fase processuale: durante la quale fornisce informazioni sulla personalità dell’imputato così che il giudice possa disporre di tali elementi conoscitivi (componenti soggettive del singolo caso) per la migliore individualizzazione della sanzione; al momento dell’esecuzione: attraverso l’osservazione scientifica del condannato che viene utilizzata dalla magistratura di sorveglianza per l’individualizzazione delle modalità secondo le quali la pena dovrà essere eseguita (es. affidamento servizio sociale, semilibertà eccetera). L’osservazione prende in considerazione le caratteristiche personologiche, situazionali, microsociali e di pericolosità del soggetto. Attraverso l’osservazione scientifica della personalità in prospettiva criminologica è possibile acquisire informazioni su: ∙ criminogenesi (caratteristiche individuali e sociali che hanno avuto peso nella scelta delittuosa); ∙ criminodinamica (meccanismi interiori che hanno condotto al delitto); ∙ predizione (prospettive future di recidiva o di risocializzazione efficace). durante la detenzione: per indirizzare tecniche di trattamento risocializzativo. L’osservazione criminologica prende quindi in considerazione i tratti di personalità del soggetto, le caratteristiche dell’ambiente sociale dove il soggetto è inserito e il significato che psiche e ambiente hanno avuto nei confronti del comportamento delittuoso del singolo soggetto osservato. Abitualmente si articola in una fase diagnostica e in una fase prognostica. La fase diagnostica viene eseguita solitamente mediante i seguenti strumenti: ∙ colloquio criminologico; ∙ reattivi mentali (di efficienza intellettiva e di personalità); 3
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
4
∙ inchiesta sociale (condotta dall’assistente sociale) sull’abituale ambiente di vita del soggetto; ∙ esame comportamentale fatto dall’educatore (atteggiamento nei confronti della disciplina carceraria); ∙ dati documentali (curriculum criminoso, sentenza di condanna, precedenti sentenze). La fase prognostica o predittiva rappresenta un momento di grande responsabilità etica e morale per il criminologo poiché può generare due tipi di errore di valutazione: il falso positivo (quando si valuta il soggetto potenzialmente pericoloso ed invece non lo è) e il falso negativo (quando si valuta il soggetto non pericoloso ed invece esso si mostra recidivante). La valutazione prognostica del criminologo si basa normalmente sui seguenti fattori: ∙ risultati dell’osservazione; ∙ parametri: (famiglia di origine disastrata, carriera criminosa, tossicodipendenza eccetera); ∙ ricerche criminologiche pregresse; ∙ sistemi predittivi statistici. Per una predizione equilibrata emerge nell’esperienza clinica la necessità di un giudizio integrato che si basi quindi sia su parametri statistici che sulle caratteristiche individuali emerse dall’osservazione. DIFFERENZA TRA DEVIANZA E CRIMINALITA’ Il crimine è un comportamento che viola una norma penale. Il concetto di crimine utilizzato in questa sede intende quindi il delitto come fatto sociale (espresso dalla normativa) e non come un fatto naturale. Per questo è necessario osservare la storicizzazione delle norme e conseguenzialmente del crimine. Esiste così evidentemente uno stretto legame tra Criminologia e Diritto penale (il diritto penale sviluppandosi produce nuovi crimini). Il concetto di devianza utilizzato in questa sede è invece relativo ad una generica deviazione dalla norma sociale (comunemente condivisa) e quindi apparentemente fuori dal campo di azione criminologico. L’interesse criminologico in realtà non è solo quello delle leggi per il parziale sovrapporsi spesso di devianza e criminalità. La criminologia si interessa allo studio della devianza perché essa comunque costituisce un aspetto importante per molti crimini e talvolta il terreno da cui nascono i crimini. Comunque non esiste una correlazione lineare tra devianza e criminalità ed un soggetto può incappare anche in una sola delle due condizioni. Tre possibili situazioni: deviante e non criminale (es. bere molto); deviante e criminale (es. bere molto e reagire con violenza); criminale e non deviante (evadere il fisco, accettare raccomandazioni, eccetera). I PARADIGMI INIZIALI
4
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
5
Le origini Le leggi, scritte o tramandate oralmente, sono sempre esistite anche prima del diciottesimo secolo, periodo in cui, secondo gli studiosi, nasce il sistema penale moderno e con esso la Scienza Criminologica. Fino ad allora il potere assoluto del sovrano di infliggere le punizioni, indipendentemente dal crimine commesso, aveva caratterizzato sovente l’applicazione delle norme e largo spazio era affidato alla tortura ed alla pena di morte[1]. Certamente, anche nell’ambito di civiltà antiche e medioevali è documentata l’esistenza di protocodici e di strutture di applicazione delle pene anche sofisticate in alcuni intervalli temporali (es. il diritto romano), ma la discontinuità, la barbaria e l’arbitrio di tale applicazione non consentono di riconoscere una condizione di civiltà del diritto, prima della metà del settecento, nei termini in cui essa viene intesa attualmente. La pena veniva infatti soprattutto intesa come sistema di mantenimento del potere e dei privilegi dei nobili, di frantumazione del dissenso e talvolta come capriccio e, in generale, si assisteva ad un’assoluta mancanza di coerenza delle punizioni oltre che, naturalmente, alla loro inaudita violenza.[2] L’Illuminismo e la Scuola Classica Dalla seconda metà del settecento si sviluppa in Europa la Scuola Classica, ad opera soprattutto di Cesare Beccaria (17381794) e dell’inglese Jeremy Bentham (17481832). Le idee filosofiche dell’illuminismo ispirano energicamente il lavoro di questi studiosi. Per Beccaria, ispiratore della Scuola Classica italiana, il diritto dello Stato di applicare una sanzione al cittadino deve così rientrare nell’ambito di un contratto sociale, stipulato tra i vari componenti di una società che rinunciano coscientemente ad una parte della loro libertà per ottenere una convivenza civile ed il più possibile armoniosa.[3] Lo stato, in caso di violazione di una norma, può solo applicare la pena prevista ma non può ingerire nella personalità del soggetto che ha commesso il crimine. L’uomo che delinque è infatti ritenuto, secondo la filosofia illuminista, un soggetto razionale, libero ed in grado di scegliere in autonomia decisionale tra il comportamento deviante e quello conforme alle leggi. In tale contesto ideologico le norme devono essere chiare e uguali per tutti e le pene devono essere utili alle esigenze della società (alla deterrenza in special modo), umanitarie (la tortura e la pena di morte sono bandite), e legali (criteri prefissati e scritti in codici penali ufficiali). La punizione inflitta ai soggetti che si sono resi responsabili di un crimine deve in pratica seguire dei criteri retributivi in base al danno sociale provocato alla maggior parte dei cittadini e non a quello arrecato ai potenti. Viene sempre affermato il libero arbitrio del criminale e l’azione illegale diventa una libera scelta del soggettocriminale a cui è riconosciuta una razionalità specifica. Il delinquente, in quest’ottica non è diverso dal non delinquente e deve essere giudicato in base a ciò che commette e non in base a ciò che è. Tali concettualizzazioni, pur rimanendo per certi versi in condizione di astrattismo e di difficile applicazione, contengono elementi di grande attualità e mostrano ancor oggi vitalità all’interno del dibattito critico sul danno sociale e sul reale obiettivo di tutela da parte dei moderni codici penali. La Scuola Classica trova in Italia diversi seguaci tra cui Carrara, Romagnosi, Carmignani.[4] Il Carrara afferma che il crimine non è un fatto naturale ma si configura come ente giuridico e come tale storicizzato e legato all’esistenza di una specifica norma. Il comportamento criminale è rappresentato da una libera e razionale scelta dell’uomo che non rispetta il patto sociale e tale scelta assume significato solo nell’ambito di una definizione giuridica. La dottrina di fondo di Carrara si basa sul famoso sistema tariffario[5] e sulla volontà di evitare il pur minimo abuso da parte dell’autorità anche attraverso una codificazione certosina del diritto. 5
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
6
Il positivismo e il determinismo biologico di Lombroso. La fine del 1800 vede un crescente successo di un approccio allo studio del crimine di radice prevalentemente bioantropologica. Tale approccio ruota intorno alla figura di Cesare Lombroso (18351909)[6] che è considerato il più rappresentativo esponente della Scuola Positiva. Le radici epistemologiche lombrosiane affondano nell’opera di Charles Darwin sull’origine evoluzionistica delle specie e sui criteri dei fisiognomici e dei frenologi, studiosi del comportamento umano che già dall’inizio del 1700 tentavano di riscontrare ricorrenze tra comportamento umano e tratti somatici e costituzionali degli individui (particolarmente attivi in Inghilterra e Francia). Alla base del comportamento criminale vengono poste alcune anomalie, identificabili anche somaticamente e anatomicamente[7], di tipo innato. Il delinquente, discendente dalla particolare specie umana dell’homo delinquens[8] è così distinguibile dal nondelinquente. La ricerca di peculiarità ataviche nel criminale, per certi versi pseudoscientifica, ha dato voce al senso comune che osserva con timore il diverso e che cerca rassicuranti segni predittivi di comportamenti anomali, facilmente localizzabili e da cui ci si può così difendere. Pur con le innumerevoli critiche che gli sono state rivolte e con l’invalidazione della maggior parte delle sue teorie, Lombroso mantiene l’indiscusso pregio di aver donato dignità scientifica alla Criminologia, facendola conoscere come Scienza in tutto il mondo e stimolando una grande quantità di studi sul comportamento dei criminali. La sua opera letteraria più importante è “L’uomo delinquente”, corposo trattato di cinque volumi che ha visto numerose edizioni e rielaborazioni da parte dell’autore[9]. Altri due fondamentali esponenti dell’Antropologia criminale sono Enrico Ferri (18561929) e Raffaele Garofalo (18521934) che pur negando l’importanza del libero arbitrio nella spiegazione del comportamento criminale (in linea con Lombroso e con il positivismo), e focalizzando l’attenzione clinica sulle caratteristiche innate dell’individuo, attribuiscono una certa importanza ai fattori ambientali e situazionali. In altri termini, la Scuola positiva ritiene il crimine come la risultanza di predisposizioni innate nel soggettocriminale favorite da fattori insiti nella società. La rassicurante illusione di spiegare e addirittura prevedere il comportamento criminale in base alla localizzazione di segni esterni (somatici, biologici, psicologici, la possibilità di distinzione certa tra il bene e il male, la riconoscibilità del “cattivo”, hanno contribuito alla fortuna dell’Antropologia criminale per lungo tempo come evidenziato dal contributo teorico multifattoriale del Ferri[10] particolarmente apprezzato, in special modo in Usa e in URSS e centrato sulla responsabilità sociale dell’individuo, categoria, quest’ultima, in contrapposizione evidente con quella della responsabilità legale retribuzionistica della Scuola classica. Per il Ferri assume rilevanza non tanto la gravità del comportamento quanto la pericolosità del soggetto rispetto all’organizzazione sociale vigente e tale concezione, evidentemente acritica, introduce un prezioso elemento di arbitrio da parte dell’autorità costituita che può convertirla in produzioni giuridichenormative aggirando faticose legittimazioni etiche e politiche. L’approccio sociologico allo studio della criminalità Il filone di studio sociologico, nella storia del pensiero criminologico, è contemporaneo a quello positivistico. Alla base del suo paradigma epistemologico e metodologico si pone la ricerca delle costanti poste su un livello di generalizzazione più elevato rispetto a quello individuale (psicologico, psichiatrico, biologico) analizzando le dinamiche sociali correlate al crimine. L’inizio di tale approccio è rintracciabile nella 6
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
7
prima metà dell’800 in Francia (A.M. Guerry) e in Belgio (A. Quetelet) che svolsero approfonditi studi dei tassi di criminalità, comparando diverse forme criminali con variabili sociali e geografiche[11]. Tali ricerche, che si basano sulla consultazione di archivi e dati ufficiali, sfociavano nella realizzazione di “carte della criminalità” da cui deriva la definizione di Scuola cartografica. Marx e Engels, in linea con il loro approccio filosofico e politico, evidenziano correlazioni tra fluttuazioni economiche e tassi di criminalità e spostano l’osservazione dai fattori individuali a quelli economici e sociali. La spiegazione dei crimine si basa sul presupposto che gli interessi più tutelati dal diritto sono quelli della classe dominante. Marx evidenzia un’immagine negativa del sottoproletariato forse per differenziarlo dal proletariato, classe in ascesa. Per il Emile Durkheim, sociologo francese (1858 1817), il crimine è un fatto sociale e risiede pertanto fuori dalla coscienza degli individui appartenendo alla dimensione sociale. Con il processo di industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree urbane (tipico fenomeno del tempo) gli individui passano da un sistema culturale basato sulla solidarietà meccanica (rurale, collettiva, redistributiva, tradizionalista) ad uno basato sulla solidarietà organica (urbana, industriale, razionale, individualista). Tale passaggio conduce all'anomia (mancanza o incertezza di norme, inadeguatezza delle norme). Gli individui in fase anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine viene favorito. Per Durkheim il crimine assolve anche ad alcune funzioni sociali: sottolineare pubblicamente (attraverso la punizione), il confine tra il lecito e l’illecito, definire il confine normativo e vederlo attivo, funzioni di coesione sociale ed integrazione tra i non criminali. L’approccio sociologico allo studio del crimine giunge fino al periodo contemporaneo attraverso l’opera di numerosi studiosi in USA ed in Europa. L’approccio genetico Le correlazioni tra predisposizione genetica e criminalità appaiono alquanto difficili anche se hanno rappresentato oggetto di interminabili dispute scientifiche, alcune ancora attuali. In primo luogo il comportamento criminale è legato alla produzione di una norma che è frutto di convinzioni sociali mutabili. Ciò che era illegale un tempo non necessariamente lo è attualmente. I codici genetici, viceversa rappresentano un elemento biologico immodificabile. Numerosi studi condotti su gemelli omozigoti e sulle famiglie dei criminali hanno fornito correlazioni apparenti tra consanguineità e crimine, fortemente inficiate però sul piano empirico dall’ovvia esposizione di persone della stessa famiglia ai medesimi modelli sociali. Il crimine in realtà rappresenta un comportamento troppo complesso per essere determinato ereditariamente. La storia della criminologia ha poi visto la produzione di teorie circa la presenza di segni identificativi biologici nei criminali. Sheldon (1942), ad esempio, notando una correlazione tra alcuni giovani criminali e una determinata struttura fisica (mesomorfica) ha ipotizzato che tale conformazione potesse essere legata ai comportamenti criminali. Altri studi hanno proposto una correlazione tra anomalie cromosomiche e delitto, notando una certa prevalenza del cromosoma soprannumerario Y in alcuni campioni di detenuti. In linea di massima le ipotesi legate all’identificabilità del delinquente su base biologica non hanno retto alle falsificazioni essendo sovente la “dura vita del criminale” a selezionare individui particolarmente adatti a sopravvivere in situazioni violente. Talune ricerche genetiche applicate alla criminologia si sono comunque mostrate più verosimili orientandosi non direttamente sul crimine ma su eventuali 7
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
8
qualità psichiche e biologiche, trasmesse ereditariamente, in grado di influenzare in maniera indiretta il comportamento delinquenziale (es. il carattere, l’aggressività, la scarsa tolleranza alle frustrazioni eccetera). [1] Cuomo F. (a cura di), Pietro Verri (1770), Osservazioni sulla tortura, Newton editore, Roma, 1994 [2] La tortura e la pena di morte rappresentavano elementi di assoluta normalità, applicate con sistemi barbari come il rogo, lo squartamento, la “ruota” e l’impalamento. Tra le punizioni corporali erano contemplate azioni raccapriccianti come la bruciatura della lingua, la mutilazione degli arti e l’accecamento. [3] Fabietti R., (a cura di), Cesare Beccaria, Dei Delitti e delle pene, (pubblicato nel 1764), Mursia edizioni, Milano, 1973. [4] Carrara F., Programma del corso di diritto criminale, parte generale Vol. 1, Lucca, Canovetti, 1860; Carmignani G., Elementi del diritto criminale, Napoli, Androsio, 1854; Romagnosi G.D., Genesi del diritto penale, Firenze, Stamperia Piatti, 1834. [5] Inserimento minuzioso nei codici di ogni possibile reato e contemporanea determinazione di pene in base alla gravità di tale reato. [6] Medico Psichiatra, definì l’ambito di studio da lui inventato Antropologia criminale e tentò di trasferire in ambito criminologico il metodo e le basi epistemologiche della Scienza medica, affrontando la questione criminale dal punto di vista prevalentemente clinico. [7] Nel 1872, durante l’esame autoptico di Giuseppe Villella, brigante calabrese di 70 anni, il medico legale del carcere, studioso amico di Lombroso, evidenziando una fossetta all’interno dell’osso occipitale, identifica al suo interno una formazione ghiandolare “animale” rilevabile nei crani di pazzi e criminali, che non aveva mai in precedenza trovato negli individui normali. Tale considerazione induce Lombroso a formulare l’ipotesi di una distinzione anatomica specifica dei delinquenti. [8] Le caratteristiche fisiche dell’homo delinquens potevano essere, per il Lombroso, facilmente identificate: fronte bassa, anomalie della simmetria del viso, forma e dimensioni delle orecchie, gli zigomi sporgenti, la scarsa sensibilità neurologica al dolore eccetera. Lo studioso, pur colpevole di un’ingenuità scientifica che lo condusse a scegliere un campione sicuramente non rappresentativo (all’interno delle carceri), svolse un’indagine degna di nota per quanto riguarda la minuziosità e l’impegno. Per la realizzazione della sua più famosa opera letteraria, L’uomo delinquente (1876) Lombroso raccoglie infatti innumerevoli casi clinici misurando e descrivendo con pazienza e puntigliosità aspetti somatici e comportamentali legati ai soggetti che riesce ad osservare ed analizzare. 8
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
9
[9] Rispetto alla prima edizione dell’opera, dove l’autore afferma che circa il 70% dei criminali è riconducibile alla categoria del delinquente congenito, nelle successive rielaborazioni tale percentuale scende al 35% lasciando spazio alle categorie del delinquente folle (di interesse psichiatrico) e del delinquente occasionale evidenziando una lodevole disponibilità da parte dello studioso a correggere pubblicamente le sue risultanze scientifiche. [10] Si ritiene che abbia contribuito all’introduzione dei fattori sociali nella spiegazione del crimine, in concomitanza a quelli bioantropologici e psicologici, la nota vicinanza dell’autore all’ideologia socialista. [11] Ad esempio la differenza dei tassi di criminalità tra città e campagna. ALCUNI CONTRIBUTI TEORICI SOCIOLOGICI Teoria dell’anomia di Durkheim Per il sociologo francese (1858 1817), il crimine è un fatto sociale la cui spiegazione appartiene alla dimensione sociale e risiede pertanto fuori dalla coscienza degli individui. Con il processo di industrializzazione e di trasferimento di grandi quantità di persone dalle aree di campagna alle aree urbane (tipico fenomeno del tempo) gli individui passano da un sistema culturale basato sulla solidarietà meccanica (rurale, collettiva, redistributiva, tradizionalista) ad uno basato sulla solidarietà organica (urbana, industriale, razionale, individualista). Tale passaggio conduce sovente all’anomia (mancanza o incertezza di norme, inadeguatezza delle norme). Gli individui in fase anomica si trovano al centro tra spinte sociali e culturali contrastanti e in tali circostanze il crimine viene favorito. Tale teoria presenta ancora spunti attuali essendo il passaggio dalla solidarietà organica a quella meccanica presente in alcune aree geografiche. La teoria della disorganizzazione sociale Thomas e Znaniecki, sociologi polacchi inseriti nella Scuola di Chicago, hanno studiato i fenomeni socioculturali connessi all’immigrazione dei contadini polacchi in USA. Nei loro studi è abbastanza evidente l’influsso di Durkheim (anomia). La teoria della disorganizzazione sociale ritiene l’impatto con una nuova realtà socioculturale (legata all’immigrazione) come responsabile di un disorientamento culturale e disomogeneità culturale. Il rapporto non armonioso tra culture diverse che si incontrano e producono disagi e tensioni disorientanti può essere quindi responsabile di fenomeni criminali, in special modo quando una delle due culture è associata a minore forza economica. La teoria offre comunque numerosi spunti di riflessione sul fenomeno dell’immigrazione in Europa da parte di popolazioni con culture notevolmente diverse e condizioni economiche disagiate. La teoria della patologia sociale Talcot Parson, teorico americano dello Strutturalismo considera la società come un insieme di parti integrate, in equilibrio. La socializzazione è legata al processo di apprendimento di ruoli. Il ruolo 9
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
10
viene inteso come una serie di prescrizioni (e di aspettative di comportamento) connesse a posizioni sociali (padre, madre, impiegato ecc.). La società viene quindi considerata da Parson come insieme un di ruoli e alcune istituzioni sono deputate al loro apprendimento e metabolizzazione. La devianza viene quindi intesa come una sorta di patologia sociale dovuta ad un difetto di apprendimento dei ruoli. La devianza può essere talvolta anche considerata per Parson come patologia individuale, quando è dovuta a patologie mentali. La visione di Parson è stata criticata come sostanzialmente conservatrice e manca in effetti di un’efficace analisi dei conflitti e delle contraddizioni. L’approccio centrato sui ruoli e sulle aspettative di ruolo può ancora però offrire interessanti spunti di riflessione è induce ad un’osservazione attenta della strutturazione sociale. La teoria dell’anomia di Merton Merton, funzionalista, analizza il comportamento di soggetti che si trovano in posizioni differenziate rispetto ad una pressione culturale indifferenziata. Il processo di adattamento a tali pressioni (anomiche, contradditorie), determina o meno la devianza. Alla radice del crimine sarebbe quindi discrepanza tra mete culturali accettate e mezzi per raggiungerle che porterebbe nel soggetto una condizione di anomia. Il concetto di anomia mertoniano è quindi diverso da quello di Durkheim. Il soggetto che subisce la pressione culturale in direzione del raggiungimento delle mete (il successo, il denaro eccetera), in difetto di mezzi per raggiungerle può assumere per Merton i seguenti comportamenti: conformismo (utilizzo di mezzi leciti senza quindi raggiungere le mete), l’innovazione (uso di mezzi illegali, devianza), Il ritualismo (concentrarsi e seguire ritualisticamente i mezzi senza curarsi degli obiettivi), la rinunzia ( cercando ad esempio la strada nella droga o nell’alcool), la ribellione (condanna ideologica alle mete ed ai mezzi). La teoria del numero oscuro Sutherland, negli anni 19404749, formula una teoria sulla dimensione nascosta della criminalità. La maggior parte delle ricerche criminologiche dell’epoca includevano infatti solo i campioni di classi basse trascurando i colletti bianchi. L’attenzione degli studiosi e dell’opinione pubblica americana nel dopoguerra è infatti focalizzata sul solo street crime. La teoria del numero oscuro e dell’indice di occultamento (rapporto tra reati noti e reati commessi) evidenzia che il crimine coinvolge non solo una minoranza deviante ma una maggioranza normale e questo necessita l’adozione di nuovi paradigmi di studio. Le azioni illegali che vengono inserite nelle statistiche sono solo quelle che vengono scoperte e denunciate ma forniscono una quantificazione artefatta. In special modo i crimini commessi da persone di classe sociale elevata (white collar crime) spesso non giungono all’attenzione della giustizia e dell’opinione pubblica. La rilevanza del numero oscuro dipende anche dalla maggiore o minore propensione alla denuncia da parte della vittima oltre che dalla maggiore o minore intensità del controllo rispetto a determinate categorie di crimini o di autori.
10
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
11
La teoria delle associazioni differenziali Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante un processo di comunicazione, che può essere sia verbale che non verbale. Il processo di apprendimento del crimine avviene apprende soprattutto all'interno di un gruppo ristretto di relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle sfavorevoli. Una persona quindi diventa un criminale non solo a causa di contatti con modelli criminali, ma anche a causa di un isolamento dai modelli “anticriminali. L’efficacia delle associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed intensità. La teoria delle subculture devianti Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi alte e classi basse. I giovani della classe proletaria pur aspirando alle stesse mete culturali dei giovani della classe agiata sono svantaggiati. Si sviluppa una reazione negativistica verso quei valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica (spiegazione degli atti vandalici teppismo, atteggiamenti distruttivi). Si tratta di una sorta di formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione. Le teorie delle aree naturali della criminalita’ Alcuni sociologi come Shaw, McKenzie, Burgess e Park hanno osservato la maggiore incidenza statistica di vari crimini in alcune aree urbane identificabili, specialmente quelle soggette a forte immigrazione e caratterizzate quindi da disorganizzazione sociale. In tal senso l’ambiente urbano assume valenza criminogenetica quando presenta determinate caratteristiche. Gli studiosi della Scuola di Chicago sono stati criticati per il fatto che la criminalità è presente anche in altre aree urbane ma è più occulta e non si vede, agisce con altre modalità e con altri comportamenti criminali. La teoria dell’immunità differenziale Chapman, nel suo saggio “lo stereotipo del criminale” (1975) considera che la criminalità nota non è collegata all’effettiva commissione dei reati. Esiste infatti una discriminazione dei soggetti in base alla classe sociale, alla visibilità pubblica ecc., operata a livello sociale. Il povero godrebbe infatti di minore immunità ai processi selettivi della rappresentazione sociale e del controllo istituzionale (documentato da ricerche sull’attribuzione semantica del crimine). Tale condizione distorcerebbe le 11
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
12
statistiche giudiziarie mostrando una maggiore tendenza al crimine da parte delle classi svantaggiate. La teoria dell’etichettamento La teoria dell’etichettamento (Labelling approach), considera il crimine come processo di etichettamento sociale. Tale processo, che può giungere come ultima fase alla riorganizzazione del SE’ del deviante, è dovuto ad un intervento selettivo della società sul deviante stesso. La devianza del soggetto si costruisce progressivamente in base all’azione della società. Lemert, ad esempio, suddivide due fasi: devianza primaria (fase di commissione del crimine) e devianza secondaria (fase di identificazione sociale). La condizione di criminale è quindi il risultato di un processo interattivo tra l’aspetto psicosociale dell’azione deviante e del suo autore e l’effetto sociopsicologico della reazione sociale. Per Becker, il deviante è un soggetto a cui questa etichetta è stata applicata con successo. Il suo oggetto di studio privilegiato sono le carriere devianti (arresti e pubblici etichettamenti come elementi che conducono ad una nuova identità). A dimostrazione dell’importanza del processo di etichettamento analizza le possibilità di reversibilità della carriera deviante. Per i teorici dell’etichettamento il crimine è frutto di un processo unidirezionale (definito costruzionismo del crimine). In tale ottica l’uomo appare come “sballottato” da cause esterne (multifattoriali) e si evidenzia una ridotta importanza della capacità di selezione ed organizzazione volontaria della mente sul suo comportamento sociale. Il soggetto, secondo i teorici dell’etichettamento, entra quindi nei processi di selezione sociale solo come oggetto di selezione. La teoria delle tecniche di neutralizzazione David Matza (1969) comincia a prendere le distanze con la predestinazione in Criminologia, e indica una progressiva valorizzazione dell’uomo come costruttore del proprio mondo e della propria devianza. I processi sociali del bando (arresto, esclusione) sono si importanti e danno significato alla devianza del soggetto. (la dimensione simbolica delle azioni) ma essere significato come ladro non assicura la continuazione di tale attività. Il soggetto può confrontarsi con tale significazione (reagendo e rinnegando la scelta o aderendo all’etichetta e riorganizzando attorno ad essa la propria identità). Per l’autore anche i peggiori criminali subiscono l’influenza delle norme sociali e riescono ad eseguire dei comportamenti criminali grazie alla loro capacità di neutralizzare la morale sociale ed il senso di colpa. Tale capacità si attua attraverso l’applicazione di alcune tecniche (di neutralizzazione) nella fase antecedente all’azione criminale: la negazione della propria responsabilità, la minimizzazione del danno provocato, la negazione della vittima, la condanna di coloro che condannano, il richiamo ad ideali più alti. La teoria delle opportunità differenziali di Cloward e Ohlin La teoria risente in modo particolare dell'influenza di Sutherland. Cloward e Ohlin (1968) tentano di mettere insieme due correnti della prima criminologia: la teoria dell'anomia di Merton e la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland. Secondo la teoria delle opportunità differenziali, ogni individuo occupa una determinata posizione nella struttura sociale, sia per quanto riguarda le 12
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
13
opportunità legittime sia per le opportunità illegittime. Ereditando la concezione del consenso da Merton, gli autori affermano che esiste un'unica meta culturale, il successo economico, che può essere raggiunto attraverso sia le opportunità legittime che quelle illegittime. Gli individui si trovano però ad agire in sistemi differenziali di opportunità che condizionano le loro scelte ed i loro comportamenti. In pratica le condizioni economicosociali sfavorevoli si traducono in una limitazione delle opportunità di affermazione e di promozione sociale. La diversa diffusione di opportunità illegittime in una determinata area urbana determina la formazione di tre tipi differenti di sottoculture rispettivamente denominate come "criminale" (giovani dediti a furti e rapine), "conflittuale" (giovani dediti a danneggiamenti e vandalismo) e "astensionistica" (tossicomania, alcolismo, associazioni in gruppi eversivi). La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato di Burgess e Akers Burgess e Akers (1966) riformulano la teoria di Sutherland introducendo come determinante lo stimolo rafforzatore. Il comportamento criminale è appreso secondo i principi del comportamento operante e l'apprendimento avviene sia in situazioni nonsociali, che sono rafforzanti o discriminative, sia nell'interazione sociale in cui il comportamento di altre persone è rafforzatore o discriminativo nei confronti di quello criminale. La teoria dello stimolo rafforzatore differenziato afferma che una situazione nonsociale può consolidare una determinata scelta, dunque estende la nozione secondo la quale il crimine è appreso solo attraverso l'interazione sociale. Burgess e Akers, in accordo con Glaser, riconoscono l'importanza, nel processo di apprendimento anche dei gruppi di riferimento distanti (non direttamente in contatto con il soggetto ma “mediati” da mezzi di comunicazione) oltre a quelli primari e a quelli con cui si è intimamente associati. La teoria dell'identificazione differenziata Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi alla teoria dei ruoli, secondo l'esposizione di George H. Mead, che consente di tradurre l'associazione differenziale in termini di "identificazione differenziata". Glaser, nella sua riformulazione, afferma che ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante l'identificazione con modelli criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il quale si tende incosciamente a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel corso di tale processo il soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed etici associati a tale modello ideale introiettato. L'identificazione non richiede un contatto interpersonale poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto. L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di esperienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali commesse da parte soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali.
13
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
14
Capitolo 2 ALCUNI CONTRIBUTI PSICOLOGICI IN CRIMINOLOGIA La psicoanalisi Fra le teorie psicologiche, la psicoanalisi può considerarsi una delle prime che si è posta l’obbiettivo di fornire un paradigma interpretativo del crimine legato alla struttura psicologica e ai meccanismi dinamici agenti nell’uomo. L’essere umano, secondo Freud, sarebbe per sua natura antisociale e si adeguerebbe ai dettami sociali solo per timore o per convenienza. L’antisocialità (e con essa i comportamenti criminali) sarebbe quindi la condizione originaria comune, sempre pronta a manifestarsi in situazioni in cui le inibizioni perdono di efficacia. Quando le pulsioni libidiche o aggressive dell’ES riescono ad avere la meglio sulle spinte opposte verso la conformità sociale messe in atto dal Superio, avvengono i comportamenti asociali e criminali da parte dell’individuo. In tale ottica assume un ruolo centrale il processo di identificazione con le figure parentali, fondamentale, in ottica psicodinamica, per la realizzazione di una struttura superegoica funzionale. la cui Secondo la prospettiva di Alexander e Staub (1929) il crimine è interpretabile secondo una riduzione dell’efficacia del controllo da parte del SuperIo. Secondo i due studiosi tale circostanza darebbe vita a varie forme di criminalità in base al livello di efficacia residuale del Superio. Nella delinquenza fantasmatica, ad esempio è ancora possibile al soggetto arginare le pulsioni antisociali dislocandole su azioni fantastiche (es. identificandosi con un personaggio cattivo in un film). La delinquenza colposa manifestata attraverso una condotta imprudente che provoca disgrazie può rappresentare una forma di dislocazione più complessa che provoca ugualmente il danno desiderato dall’ES senza dover rispondere alle controcariche superegoiche. Nella delinquenza nevrotica il crimine rappresenta viceversa un sintomo della presenza di una situazione conflittuale profonda che vuole essere risolta dal soggetto, come nel caso della delinquenza da senso di colpa. In tali forme di azione criminale, come sottolineato da Reik, il soggetto sentirebbe una profonda angoscia dovuta al senso di colpa che scaturisce dai tabù del parricidio e dell’incesto per cui il comportamento criminale e spesso la correlata ricerca di punizione possono evidenziare il bisogno di attenuare quel senso di colpa attraverso un crimine “questa volta realmente commesso”. La delinquenza occasionale si verificherebbe in circostanze particolari (es. in caso di delitti passionali) quando si delineano situazioni favorevoli allo svincolo dal controllo superegoico. Nella delinquenza normale il Superio perde completamente la sua capacità di controllare le spinte pulsionali e il comportamento criminale può emergere con facilità. L’interpretazione psicoanalitica del crimine prende in considerazione anche la maturazione e l’efficacia dell’IO attribuendogli responsabilità nel comportamento criminale quando diminuisce la sua capacità di dilazionare le pulsioni. Anche l’ES può rappresentare un elemento significativo nella criminogenesi nella misura in cui le pulsioni istintuali da esso prodotte risultano particolarmente virulente ed incontenibili (Ponti, 1990). Le teorie comportamentistiche stimolo risposta Secondo tali teorie diversi stimoli e condizionamenti ambientale, attraverso il meccanismo del rinforzo, radicano nell’individuo quegli elementi direttamente correlati con il comportamento 14
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
15
antisociale e criminale. Nel 1939 Dollard, ad esempio, afferma che ogni forma di aggressione da parte dell’uomo è legata ad una precedente frustrazione di un bisogno importante. Nell’impossibilità di raggiungere il successo sociale l’individuo può porre in essere forme di aggressività verso la società (persone, beni individuali eccetera). Il ripetersi delle frustrazioni costituirebbe poi un rinforzo per le risposte aggressive. (Ponti, 1990). Le teorie sulla deprivazione relativa Lea e Young nel 1984 sviluppano il concetto di deprivazione relativa attorno al quale costruiscono un interessante quadro teorico. Gli autori riconsiderano i fattori eziologici (patologia, povertà, razza) che però non generano direttamente negli individui una condizione di deprivazione e quindi non possono essere associati direttamente al crimine. Tali circostanze possono però generare un generico malcontento dovuto a un aumento delle aspettative a fronte di insufficienti possibilità di raggiungimento delle mete. La situazione di malcontento può generare in seguito delle rappresentazioni individuali o sub culturali di deprivazione relativa ma tale processo è frutto della costruzione e della significazione da parte dell’individuo. La deprivazione relativa rappresenta quindi non una mancanza materiale ma la significazione della mancanza con caratteri negativi (presenza di un processo di significazione) che genera il malcontento. (De Leo, Patrizi, 1999) Le teorie personologiche I primi studi moderni sulle correlazioni tra personalità e crimine sono ad opera dello studioso belga Etienne De Greeff. La personalità costituisce per De Greeff, una disposizione prefissata a reagire in un certo modo ad uno stimolo e deriva dall’insieme delle esperienze passate. De Greeff (1947), studiando la criminogenesi ha individuato dei tratti tipici della personalità criminale, fra cui merita menzione il silenzio affettivo di alcuni delinquenti che secondo l’autore deriva dal loro sentimento di essere stati sottoposti ad un’ingiustizia. De Greeff per spiegare il comportamento criminale (la criminodinamica) ha introdotto il concetto di “stato pericoloso“ che è costituito da una fase di equilibrio psichico instabile nel soggetto che precede l’esecuzione di un crimine. L’autore formula anche il concetto di “passaggio all’atto” fase in cui la situazione precipita e avviene l’esecuzione del delitto. Analizzando la criminodinamica degli omicidi De Greeff nota ad esempio tre fasi identificabili che precedono l’ideazione del crimine. La prima fase, definita del “consenso mitigato”, la fase “dell’assenso formulato” e la fase del “periodo di crisi”. Nella fase del consenso mitigato possono emergere dei segnali che anticipano l’evento criminale; nella fase dell’assenso formulato, si rilevano talvolta comportamenti offensivi, di tipo legale, di tipo verbale, od omissioni; nella fase del periodo di crisi il soggetto coscientizza la necessità di passare all’atto ed in entra nello stato pericoloso che condurrà al crimine. Un altro interessante contributo allo studio personologico dei delinquenti è stato fornito da Pinatel (1968) che ha individuato un nucleo centrale della personalità di taluni criminali costituito da quattro tratti fondamentali: l’egocentrismo (che consente di ignorare i giudizi), la labilità (che consente di non tener conto delle conseguenze del crimine), l’aggressività (che consente di effettuare talune azioni criminali e superare gli ostacoli) e l’indifferenza affettiva (che consente di ignorare le sofferenze della vittima)[1]. Tra i contributi più recenti riportiamo quello di Frechette e Le Blanc (1987) che hanno delineato una sindrome della personalità criminale, rappresentata da una specifica struttura psicologica, che in alcuni individui si sovrappone ad altre strutture di personalità, favorendo l’acting out. La “sindrome” comprende tre tratti: l’iperattività delittuosa, la dissocialità e un notevole 15
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
16
egocentrismo. Le Blanc e Frechette affermano che nei delinquenti di spessore elevato i fattori sociali ed ambientali ingeriscono con il comportamento ma sempre mediati dai tratti della sindrome della personalità criminale. Yochelson e Samenow (1976) sostengono che i tratti di personalità del delinquente sono in realtà presenti in forma attenuata in tutti gli uomini. E’ la presenza intensa di tali tratti che determina una specifica personalità criminale. I due autori statunitensi affermano che la mente del delinquente possiede generalmente una grande energia, e presenta della caratteristiche ricorrenti: facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di potere e di trionfo, paura diffusa e persistente, sospettosità. Un’altra condizione tipica del pensiero criminale è costituita per Yochelson e Samenow dallo “stato zero”, durante il quale nel soggetto si rilevano una scarsa autostima ed una sensazione di disperazione unite a sentimenti di superbia e ricerca spasmodica del potere. L’unione di questi fattori sarebbe in grado di spingere alcuni criminali verso la ricerca del dominio e dell’illegalità. (Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A, 1991) [1] Le ricerche di Pinatel sono state sottoposte a verifica da Canepa (1974) che ha condotto uno studio su un campione di delinquenti recidivi mediante colloqui e stumenti psicodiagnostici cercando di localizzare i tipici tratti di personalità. La ricerca ha fornito poche conferme all’ipotesi di Pinatel. Altre indagini (Favard 1985) non sono riuscite a determinare se i tratti di personalità tipici rappresentano una particolare intensità di tratti diffusi in tutti gli individui e soprattutto se tali tratti siano la causa o semplicemente l’effetto di una vita da delinquente. LE TEORIE COSTRUZIONISTICHE Le critiche al determinismo Gli approcci criminologici basati sulla ricerca delle cause del crimine insite nell’autore (teorie biologiche, psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è “immerso”(teorie sociologiche) non hanno retto, nel corso della storia, alle verifiche empiriche. La possibilità di localizzare degli elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una predizione del suo comportamento ha costituto (e ancora costituisce) una strada sovente percorsa dagli scienziati sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. Nel gennaio del 1979, presso La Maison des Sciences de l’Homme, si tenne un importante convegno a cui parteciparono E. Goffman, T. Luckmann, J.S. Bruner, W. Hacker e R. Harré, nel corso del quale emerse la convinzione della necessità di adottare l’azione come unità di analisi nelle scienze sociali e non l’ambiente dove l’azione avviene o il soggetto (o gruppo) che la effettua, al fine di superare i precedenti determinismi causaeffetto e per ridare giusta importanza al potere determinativo della Mente nell’ambito del comportamento umano. Tale categoria (l’azione) implica il contributo dell’interazionismo simbolico, della Teoria generale dei sistemi, del Cognitivismo e di altre discipline psicologiche. (Vedasi a tal proposito il testo di Mario Von Cranach e Rom Harré “The analysis of action”, Cambridge University Press, 1982). Un uomo quindi non più completamente in balia dei condizionamenti sociali (sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisi) ma in grado di organizzare una buona parte della propria realtà attraverso continue interazioni e mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura e l’intensità di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti all’ipotetico 16
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
17
fatto, insite nell’ambiente sociale o nella personalità dell’attore. In realtà tutti i comportamenti umani, compreso quello criminale, sono posti su piani di maggiore complessità e contemplano, necessariamente (parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali) un’attività di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo sociale, non leggibile nei soli fattori biologici e sociali preesistenti ma ascrivibile all’attività di interpretazione, significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza, in altri termini, non è un’entità di fatto, iscritta nell’ordine naturale del mondo o rigidamente determinata da strutture interne del soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da un’attività peculiare del genere umano: il pensiero. Al delinearsi di tale approccio ha contribuito tra gli altri Karl Popper già agli inizi degli anni 70’ proponendo la mente umana non come una sorta di tabula rasa in balia delle stimolazioni interne ed esterne ma come una realtà dinamica in grado di produrre ipotesi che precedono, organizzano e quindi influenzano la percezione di ciò che avviene. La percezione, poi, induce modifiche sul processo di anticipazione del futuro mediante una retroazione esperenziale. L’osservazione viene così reintegrata nella teoria, che si modifica all’interno di una processualità interattiva. (De Leo G, Patrizi P., 1999) Il costruzionismo complesso L’approccio proposto, che si riferisce alla cosiddetta “Scuola di Roma” (De Leo G. et altri) attinge dal contributo di vari filoni psicologici: L’Interazionismo simbolico (Mead 1934) che formula il concetto di “altro generalizzato” e che ritiene le aspettative di comportamento dell’interlocutore in grado di orientare l’interazione (agiamo in base alle presunte reazioni dell’interlocutore). Il processo sociale influenza quindi il comportamento degli individui che a loro volta sviluppano il processo sociale. L’individuo tende ad assumere il punto di vista del gruppo sociale e i significati condivisi (schemi simbolici) relativi all’azione che sta per compiere, orientando il proprio comportamento. L’individuo è in grado così di produrre delle anticipazioni mentali degli effetti della propria azione. Per gli interazionisti il comportamento è definito ed orientato da una complessa rete di interazioni “..che produce significati intorno all’azione e al suo autore che a quell’interazione partecipa con un ruolo tutt’altro che marginale..” (De Leo, Patrizi 1999). Le tre dimensioni importanti per la criminologia interazionistica sono: l’azione deviante che deve essere visibile e deve produrre effetti pubblici; L’esistenza di una norma che viene violata in caso di devianza e rappresenta quindi la precondizione indispensabile per la definizione della trasgressione; una reazione sociale intesa sia come risposta socioistituzionale alla devianza e sia come insieme di stereotipi, atteggiamenti e pregiudizi che precedono l’azione e ne orientano il decorso; La Teoria sistemica (Onnis 1986) che inserisce l’azione (anche la devianza) nel contesto ambientale e situazionale in cui si manifesta e di cui necessariamente è espressione. Il comportamento negativo non può quindi essere interpretato senza analizzare le dinamiche del sistema di interazioni a cui appartiene; La Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982) che individua nella dinamica delle azioni (dirette ad uno scopo) tre componenti interagenti tra loro: Il comportamento osservabile che costituisce la dimensione manifesta dell’azione, (il suo inizio, la fine, eventuali nodi significativi, le tappe, le 17
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
18
direzioni intraprese); le cognizioni coscienti dell’autore, ovvero come il soggetto prepara, accompagna, percepisce e segue l’azione; i significati sociali che sono costituite dalle rappresentazioni sociali diffuse (rispetto all’azione) le regole informali, le norme, valori e scopi dell’autore eccetera. Per la Teoria dell’azione i significati sociali controllano le cognizioni coscienti che organizzano e orientano il comportamento osservabile. Il comportamento osservabile retroagisce sulle cognizioni coscienti. Il soggetto, in altri termini elabora ed interpreta socialmente le regole sociali e orienta il proprio comportamento anticipandone gli effetti (mentalmente) con una sorta di monitoraggio che definisce lo svolgimento dell’azione. Nel modello in esame le dinamiche intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni cognitive entrano quindi in interazione con i significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il suo agire. Correlata ad ogni azione è presente una fase di anticipazione mentale dei suoi effetti da parte dell’individuo (aspetto non sviluppato da Von Cranach ed elaborato dalla Scuola di Roma) Gli effetti dell’azione possono infatti avere una funzione strumentale (non sufficiente a spiegare l’azione) es. uccido per eliminare un soggetto per me scomodo, e una funzione espressiva che assume viceversa valenza comunicativa autodiretta e eterodiretta. La funzione espressiva autodiretta comporta una serie di messaggi che l’autore invia a se stesso e attraverso cui rielabora la propria identità (es. uccido per mostrare a me stesso che sono in grado di farlo). La funzione espressiva eterodiretta comporta una serie di messaggi che l’autore invia all’altro generalizzato (es. uccido per mostrare agli altri quanto sono deciso). Il caso del parricidio, tipico omicidio in cui il figlio uccide il padre che costituisce un elemento di oppressione, rappresenta ad esempio un crimine difficilmente spiegabile osservando la sola funzione strumentale. Sovente, in tale forma di omicidio, l’azione criminale non rappresenta solo l’eliminazione di un ostacolo ma anche un’affermazione di forza. La funzione espressiva infine, agisce su quella strumentale orientandola. (De Leo G., Patrizi P, 1999) RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Alexander F., Staub H., Il delinquente, il giudice ed il pubblico, Giuffrè, Milano, 1976 Balloni A “Criminologia in prospettiva” Editrice Clueb, Bologna 1986 Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A., Criminologia, Giuffrè editore, Milano, 1991. Carmignani G., Elementi del diritto criminale, Napoli, Androsio, 1854; Carrara F., Programma del corso di diritto criminale, parte generale Vol. 1, Lucca, Canovetti, 1860; Cloward R. A, Ohlin L.E., (1968) “Teoria delle bande delinquenti in America” Laterza, Bari , pp. 186197 Cohen A. K., Controllo sociale e comportamento deviante, Il Mulino, Bologna, 1969 Cuomo F. (a cura di), PietroVerri (1770), Osservazioni sulla tortura, Newton editore, Roma, 1994
18
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
19
De Leo G., Appunti di psicosociologia della criminalità e della devianza, Bulzoni editore, Roma, 1984 De Leo G., Patrizi P., La spiegazione del crimine, Il Mulino, Bologna, 1999. Dell’osso G., Capacità a delinquere e pericolosità sociale, Giuffrè editore, Milano, 1985. Durkheim E., La divisione del lavoro sociale, ed. Comunità, Milano, 1962 Fabietti R., (a cura di) Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene, Mursia edizioni, Milano, 1973. Ferracuti F., (a cura di) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. 1, Le radici, le fonti, gli obiettivi e lo sviluppo della criminologia, Giuffrè editore, Milano,1987. Kaiser G., Criminologia, Giuffrè editore, Milano, 1985. Marx K., Critica all’economia politica, La nuova Italia, Firenze, 1975 Park R. E., Burgess E. W., McKenzie R. D., La città, Edizioni di Comunità, Milano, 1967 Parsons T., Il Sistema sociale, Ed. Comunità, Milano, 1965 Ponti G., Compendio di Criminologia, Raffaello Cortina editore, Milano, 1990. Reik T., L’impulso a confessare, Feltrinelli, Milano, 1967 Romagnosi G.D., Genesi del diritto penale, Firenze, Stamperia Piatti, 1834. Thomas W. I., Znaniecki F., Il contadino polacco in Europa e in America, Edizioni di Comunità. Milano, 1968 Von Cranach m., Harre’ R., L’analisi dell’azione: recenti sviluppi teorici ed empirici, Giuffrè editore, Milano, 1991.
IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITA’ Introduzione La categoria nosografica definita disturbo di personalità antisociale ha rappresentato, in prospettiva criminologica, motivo di numerose dispute scientifiche, soprattutto riguardo la sua reale capacità di cogliere la complessità del comportamento criminale. Le categorie diagnostiche proposte si riferiscono infatti a problematiche di cattiva socializzazione, di generico disordine di vita, di assenza di regole ma difficilmente riescono ad esplicitare le dinamiche di passaggio all’atto 19
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
20
criminale anche in considerazione della dimensione storica della norma. Proponiamo in questo capitolo alcuni contributi teorici che possono essere utili all’inquadramento di tale tematica riportando integralmente alcune parti del DSMV utili alla comprensione criminologica dell’argomento. Manifestazioni cliniche Il Disturbo Antisociale di Personalità è caratterizzato essenzialmente da “un quadro pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che si manifesta nella fanciullezza o nella prima adolescenza, e continua nell’età adulta”, (DSMIV, 1994, pag. 704). I pazienti antisociali normalmente tendono ad essere evitati dai clinici poiché in situazione terapeutica, possono mettere in atto comportamenti a rischio (menzogne, strumentalizzazioni) e possono giungere anche a mettere a repentaglio l’incolumità fisica del terapeuta. In considerazione di ciò questi soggetti spesso vengono ritenuti scarsamente trattabili dal punto di vista clinico e non è raro che alcuni terapeuti si dichiarino non in grado di gestirli. Alcuni autori li hanno definiti in passato “psicopatici” o “sociopatici”. Hervey Cleckley (The Mask of Sanity 1941), descrisse clinicamente tali pazienti considerandoli non chiaramente psicotici ma aventi un comportamento caotico e scarsamente in sintonia con le richieste della realtà e della società. Tali aspetti del loro comportamento, secondo Cleckley consentivano di inferire una psicosi al di là della facciata. (Gabbard, 1994). Il termine “psicopatico” cadde in disuso nei decenni che seguirono la pubblicazione del pioneristico lavoro di Cleckley. Il termine “sociopatico” venne usato ancora per un certo periodo, afferma Gabbard, “come riflesso delle origini sociali piuttosto che psicologiche di alcune delle difficoltà presentate da questi individui”. Rispetto a tale considerazione, Lalli (1991, p. 219 e segg.) sembra discordare quando afferma che: “Successivamente si è cercato di dare una connotazione più oggettiva tenendo conto soprattutto del comportamento: nasce così il concetto di sociopatia”. Una gran parte della letteratura psichiatrica, soprattutto americana, tende sempre più a privilegiare l’aspetto comportamentale, cioè lo psicopatico viene identificato con il sociopatico, nella misura in cui fa soffrire la società. Non è un caso che nella classificazione adottata nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM), la personalità psicopatica viene completamente eliminata ed è sostituita dalla generica dizione di disturbi della personalità. Una suddivisione di questa comprende la personalità sociopatica a sua volta divisa in: alcolismo, deviazioni sessuali, reazione antisociale, reazione dissociale. Da questa classificazione degli anni 50 si sono susseguite ulteriori divisioni e sottodivisioni che non hanno comunque contribuito efficacemente alla comprensione del fenomeno. Con l’introduzione del DSMII la diagnosi fu definitivamente chiamata “personalità antisociale”, termine che dura tuttora. La definizione proposta dal DSMII, appare abbastanza precisa anche se priva di criteri diagnostici: “Il termine va riservato ad individui sostanzialmente non socializzanti e il cui comportamento li porta ripetutamente in conflitto con la società. Sono incapaci di una significativa lealtà verso individui, gruppi o valori sociali. Sono grossolanamente egoisti, insensibili, irresponsabili, impulsivi e incapaci di provare colpa o di imparare dall’esperienza e dalla punizione. La tolleranza alla frustrazione è bassa. Tendono a biasimare gli altri o ad offrire plausibili razionalizzazioni per il loro comportamento” (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p.1998). Gabbard (1994, p. 495 e segg.) conferma tali valutazioni riconoscendo che con l’introduzione del DSMIII nel 1980, “il 20
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
21
disturbo antisociale di personalità è stato significativamente modificato rispetto alla descrizione originale di Cleckley”. I nuovi criteri del DSMIII hanno infatti proposto maggiori opportunità diagnostiche anche se hanno ridotto il punto focale del disturbo correlandolo quasi esclusivamente ad una popolazione criminale di basso ceto sociale e svantaggiata (Halleck, 1981; Meloy, 1988; Modlin, 1983). In realtà alcune ricerche mirate sulla popolazione carceraria hanno indicato che soltanto il 4050 per cento dei detenuti hanno una personalità antisociale (Guze, 1976; Hare, 1983). Fornari (1989, p.258 e segg.) localizza la personalità psicopatiche negli individui il cui “stile di vita” è caratterizzato abitualmente da risposte comportamentali abnormi agli stimoli ambientali: “si tratta di risposte egosintoniche, prive di sensi di colpa, resipiscenza o rimorso, emesse a spese degli altri (condotte alloplastiche), in assenza assoluta di disturbi psicotici che intacchino le funzioni psichiche (tipo deliri o allucinazioni) e il rapporto con la realtà e gli altri. La personalità appare ben conservata e non presenta segni di destrutturazione o di deterioramento”. Bandini e coll. (1991, p. 212), analizzano come il termine di “personalità psicopatica” sia oggetto di molte critiche, sia per la sua genericità, sia per una certa connotazione negativa e moralistica che spesso lo ha accompagnato ricordando a tal proposito che “quella di “psicopatia” è la versione moderna di termini quali “follia morale”, “psicodegenerazione”, ecc., un tempo largamente usati”. Secondo questi autori l’attribuire etichette quali “psicopatico”, “sociopatico”, “personalità abnorme”, può nascondere una rinuncia da parte del clinico a comprendere e definire individui il cui comportamento non è spiegabile secondo le linee interpretative tradizionali dell’indagine clinica . I criteri diagnostici del DSMIV “Poiché la disonestà e la manipolazione sono caratteristiche centrali del Disturbo Antisociale di Personalità, può essere particolarmente utile”, suggerisce il DSMIV (1994, pag.705), “integrare le informazioni acquisite dalla valutazione clinica sistematica con le informazioni raccolte da fonti collaterali”, quindi esterne alla valutazione clinica stessa. Premesso questo, iniziamo la disamina dei criteri diagnostici indicati dal Manuale (ivi, p. 705 e segg.). Criterio A “Gli individui con il Disturbo Antisociale di Personalità”, comincia il DSMIV, “non riescono a conformarsi alle norme sociali secondo un comportamento legale (Criterio A1). Possono compiere ripetutamente atti passibili di arresto (che vengano arrestati o meno), come distruggere proprietà, molestare gli altri, rubare o svolgere attività illegali. Le persone con questo disturbo non rispettano i desideri, i diritti o i sentimenti degli altri. Sono frequentemente disonesti e manipolativi per trarre profitto o piacere personale (per es., per ottenere denaro, sesso, o potere) (Criterio A2). Possono ripetutamente mentire, usare false identità, truffare o simulare. L’impulsività può manifestarsi con l’incapacità di pianificare il futuro (Criterio A3). Le decisioni vengono prese sotto l’impulso del momento, senza previdenza, e senza considerazione delle conseguenze per sé e per gli altri; questo può determinare cambiamenti improvvisi di lavoro, di residenza, o di relazioni. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere irritabili ed aggressivi, e possono essere coinvolti ripetutamente in scontri fisici o commettere aggressioni fisiche (incluso picchiare il coniuge o i figli) (Criterio A4). Le azioni aggressive richieste per difendere sé o gli altri non sono 21
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
22
considerate in questo item. Questi individui mostrano anche di non curarsi della sicurezza propria o degli altri (Criterio A5). Questo può essere evidenziato dal loro modo di guidare (ricorrenti eccessi di velocità, guidare in stato di intossicazione, incidenti multipli). Possono coinvolgersi in comportamenti sessuali o in uso di sostanze con elevato rischio di conseguenze dannose. Possono ignorare o non curarsi di un figlio, in modo tale da mettere il bambino in pericolo. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere spesso estremamente irresponsabili (Criterio A6). Un comportamento lavorativo irresponsabile può essere indicato da periodi significativi di disoccupazione nonostante la disponibilità di opportunità di lavoro, o dall’abbandono di molti lavori senza un piano realistico per ottenere un altro lavoro. Può essere presente anche una situazione di assenze ripetute dal lavoro non giustificate da malattie proprie o dei familiari. L’irresponsabilità finanziaria è indicata da azioni quali inadempienza ai debiti, incapacità di provvedere al supporto dei figli, o incapacità di supportare altre figure dipendenti in modo regolare. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità mostrano scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni (Criterio A7). Possono essere indifferenti, o fornire una razionalizzazione superficiale dopo avere fatto del male, maltrattato o derubato qualcuno [...]. Questi individui possono biasimare le vittime per essere pazzi, senza risorse, o perché meritano il loro destino; possono minimizzare le conseguenze dannose delle proprie azioni; o possono semplicemente mostrare completa indifferenza. Generalmente sono incapaci di scusarsi o di riparare al loro comportamento”. Criterio B “Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni (Criterio B) [...]”. Criterio C Per soddisfare questo criterio, l’individuo [...] deve avere in anamnesi alcuni sintomi del Disturbo della Condotta prima dell’età di 15 anni (Criterio C)”. Criterio D “Il comportamento antisociale”, puntualizza il DSMIV, “non deve manifestarsi esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale (Criterio D)”. Rispetto ai criteri diagnostici attuali Gabbard, studioso di orientamento psicodinamico (Gabbard, 1994, p.497 e segg.) ritiene che certe difficoltà interpretative siano ancora presenti. Secondo l’autore infatti “sebbene i tratti psicopatici siano talora più evidenti nel nuovo assetto, i criteri riflettono ancora degli aspetti comportamentali piuttosto che psicodinamici. Queste considerazioni psicodinamiche sono clinicamente utili perché un soggetto può essere uno psicopatico senza avere un disturbo antisociale di personalità secondo i criteri del DSMIV. Al contrario, un individuo può rispondere ai criteri del DSMIV per il disturbo antisociale di personalità ma non essere uno psicopatico”.
22
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
23
Il quadro clinico Secondo molti clinici una caratteristica peculiare riscontrabile nei soggetti con personalità antisociale è il trasformismo. A volte possono apparire isolati come gli schizoidi, altre volte (più frequentemente), paiono attivamente coinvolti nei rapporti interpersonali. Alternano talvolta comportamenti aggressivi con atteggiamenti miti e remissivi a secondo delle persone con cui interagiscono o in base a diversi intervalli temporali con lo stesso interlocutore. Raramente queste persone sperimentano emozioni d’ansia che deriva dai sensi di colpa. Nella loro vita non sembrano trovare posto le preoccupazioni dettate da regole morali e tendono ad “attribuire alle mancanze degli altri i problemi i cui possono essere coinvolti, piuttosto che a proprie inadeguatezze personali” (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 1998). Lalli (1991, p. 220 e segg) elenca alcuni tratti fondamentali della personalità e del comportamento dello psicopatico: ∙ Preponderanza nella struttura dell’essere psichico di alcune dimensioni istintuali distruttive alle quali il paziente aderisce in maniera più o meno completa. Tale atteggiamento può essere a volte causa ed a volta effetto di una deficitaria struttura dell’Io, istanza che regola tramite il principio della realtà, l’interazione tra il soggetto e il mondo. Ne consegue, pertanto, un comportamento spesso di tipo antisociale, a causa della non accettazione della norma collettiva, con conseguente incapacità a programmarsi secondo valori socialmente accettabili. ∙ Deficitaria o anomala strutturazione del SuperIo che comporta una labilità o una mancanza totale del senso di colpa: è questa una delle caratteristiche fondamentali che spiega gran parte del comportamento psicopatico. ∙ Mancanza di conflitti emotivi e pertanto assenza di ansia, che rappresenta l’epifenomeno clinico del conflitto. ∙ Mancanza di identificazione con modelli validi e pertanto incapacità ad assumere dei comportamenti costruttivi; lo psicopatico è una facciata dietro cui si nasconde un profondo vuoto esistenziale. ∙ Tono dell’umore prevalentemente ipertimico: ipertimia che può essere vista come un meccanismo ipomaniacale di difesa. In altri individui però, è frequente un certo atteggiamento oscillante del tono dell’umore, con possibilità di fasi a carattere disforico. ∙ Intelligenza nei limiti della norma; a volte superiore alla norma. ∙ Distruttività sempre presente e spesso spiccata: indice di una incapacità a modulare la vita istintiva. ∙ Coscienza di malattia assente: lo psicopatico vive in genere la propria abnormità senza accorgersene”.
23
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
24
Le manifestazioni e i disturbi associati Secondo il DSMV (pag. 706) “Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità frequentemente mancano di empatia e tendono ad essere indifferenti, cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti, dei diritti e delle sofferenze degli altri. Possono avere un’autostima ipertrofica ed arrogante [...] e possono essere eccessivamente testardi, sicuri di sé o presuntuosi. Possono avere un fascino disinvolto, superficiale, e possono essere piuttosto volubili e compiacenti verbalmente [...]. La mancanza di empatia, l’autostima ipertrofica, e il fascino superficiale sono caratteristiche comunemente incluse nelle concezioni tradizionali della psicopatia e possono essere particolarmente distintive del Disturbo Antisociale di Personalità in ambito carcerario o forense, dove di solito gli atti criminali, delinquenti o aggressivi non sono dirimenti. Questi individui possono anche essere irresponsabili e sfruttatori nelle relazioni sessuali. Possono avere nella loro storia numerosi partner sessuali, e possono non avere mai sostenuto una relazione monogama. Possono essere genitori irresponsabili, come evidenziato dalla malnutrizione di un figlio, da una malattia di un figlio che deriva dalla mancanza di un’igiene minima, [...]. Questi individui”, precisa il Manuale, “possono ricevere un’espulsione con infamia dai servizi militari, possono non riuscire ad essere indipendenti, possono impoverirsi o anche diventare dei “senzatetto”, o trascorrere molti anni in istituzioni penali. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità hanno maggiori probabilità rispetto alla popolazione generale di morire prematuramente per causa violenta (per es., suicidio, incidenti, e omicidi). Gli individui con questo disturbo”, continua il DSMIV, “possono anche presentare disforia, lamentele di tensione, incapacità di tollerare la noia, e umore depresso. Possono avere Disturbi d’Ansia, Disturbi Depressivi, Disturbi Correlati a Sostanze, Disturbo di Somatizzazione, Gioco d’Azzardo Patologico, e altri disturbi del controllo degli impulsi. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità hanno anche spesso caratteristiche personologiche che soddisfano i criteri per gli altri Disturbi di Personalità, particolarmente i Disturbi Borderline, Istrionico e Narcisistico di Personalità. La probabilità di sviluppare un Disturbo Antisociale di Personalità nella vita adulta è aumentato se il soggetto ha presentato un esordio precoce di Disturbo della Condotta (prima dei 10 anni) accompagnato da un Disturbo da Deficit dell’Attenzione/Iperattività. Abusi o incuria da bambino, genitori instabili o imprevedibili, o disciplina incoerente da parte dei genitori possono aumentare la probabilità che il Disturbo della Condotta evolva in un Disturbo Antisociale di Personalità”. Sul piano comportamentale, Lalli (1991, p. 221) distingue per questi soggetti le seguenti caratteristiche: ∙ “Vivere momento per momento, senza una vera dimensione temporale; ∙ Strumentalizzazione degli altri, conseguenza dell’incapacità a stabilire un vero rapporto interpersonale. Deriva dall’annullamento dell’altro come essere psichico che pertanto, ridotto a pura realtà materiale, può essere tranquillamente eliminato come si elimina un oggetto che dà fastidio o intralcia la strada. I rapporti interpersonali sono molto labili e disturbati: ogni legame è improntato all’inganno, alla strumentalizzazione ed il partner in genere o soccombe o si ritrae. Può perdurare
24
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
25
solo il legame con una personalità simile: la compensazione reciproca comporta un adattamento minimo. ∙ Rifiuto dell’autorità sia parentale che sociale con tendenza ad atteggiamenti disgregatori”; La diagnosi differenziale “La diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità”, sottolinea il DSMIV (1994, p. 708), “non viene posta in individui al di sotto dei 18 anni di età e viene posta soltanto se sono presenti in anamnesi alcuni sintomi del Disturbo della Condotta solo se non risultano soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità”. Gabbard stigmatizza la stretta correlazione tra la patologia antisociale del carattere e la tossicomania (Cadoret, 1986; Halleck, 1981; Meloy, 1988; Modlin, 1983; Reid, 1985; Vaillant, 1983). Secondo l’autore l’interrelazione tra le due condizioni è che spesso coesistono ma che ciascuna ha una propria eziologia (Cadoret, 1986; Reid, 1985; Vaillant, 1983). L’attività criminale è inoltre spesso intimamente connessa alla tossicomania (Holden, 1986). I delinquenti infatti in una percentuale tra il 52 e il 65 per cento, sono tossicomani. “Quando in un adulto”, specifica il DSMIV (1994, p. 708 e segg.), “il comportamento antisociale si associa con un Disturbo Correlato a Sostanze, non si fa diagnosi di Disturbo Antisociale di Personalità, a meno che siano stati presenti segni del Disturbo Antisociale di Personalità nella fanciullezza e siano continuati nell’età adulta. Quando sia l’uso di sostanze che il comportamento antisociale iniziano nella fanciullezza e continuano nell’età adulta, si dovrebbero diagnosticare sia un Disturbo Correlato a Sostanze che un Disturbo Antisociale di Personalità, anche se alcuni atti antisociali possono essere una conseguenza del Disturbo Correlato a Sostanze (per es., vendita illegale di droghe o furti per ottenere denaro per le droghe). Un comportamento antisociale che si manifesti esclusivamente durante il decorso della Schizofrenia o di un Episodio Maniacale non dovrebbe essere diagnosticato come Disturbo Antisociale di Personalità. Altri Disturbi di Personalità possono essere confusi con il Disturbo Antisociale di Personalità per certe caratteristiche comuni. E’ quindi importante distinguere tra questi disturbi in base alle differenze nelle loro caratteristiche specifiche. Comunque, se un individuo presenta caratteristiche di personalità che soddisfano i criteri per uno o più Disturbi di Personalità oltre al Disturbo Antisociale di Personalità, tutti possono essere diagnosticati. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità e con Disturbo Narcisistico di Personalità condividono la tendenza ad essere brutali, disinvolti, superficiali, sfruttatori e non empatici. Comunque, il Disturbo Narcisistico di personalità non include caratteristiche di impulsività, aggressività e disonestà. Inoltre, gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità possono non essere così bisognosi dell’ammirazione e dell’invidia degli altri, e le persone con Disturbo Narcisistico della Personalità di solito non hanno una anamnesi di Disturbo della Condotta nella fanciullezza o di comportamento criminale nell’età adulta. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità e con Disturbo Istrionico di Personalità condividono la tendenza ad essere impulsivi, superficiali, alla ricerca di situazioni eccitanti, avventati, seduttivi e manipolativi, ma le persone con Disturbo Istrionico della Personalità tendono ad essere emotivamente più esagerate, e caratteristicamente non si coinvolgono in comportamenti antisociali. Gli individui con Disturbo Istrionico e Borderline di Personalità sono manipolativi per ottenere considerazione, mentre quelli con Disturbo Antisociale di Personalità sono manipolativi per ottenere profitto, potere, o altre 25
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
26
gratificazioni materiali. Gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità tendono ad essere meno instabili emotivamente e più aggressivi di quelli con Disturbo Borderline di Personalità. Sebbene il comportamento antisociale possa essere presente in alcuni individui con Disturbo Paranoide di Personalità, di solito non è motivato da un desiderio di guadagno personale o di sfruttare gli altri, come nel Disturbo Antisociale di Personalità, ma piuttosto è più spesso dovuto ad un desiderio di vendetta. Il Disturbo Antisociale di Personalità”, specifica il DSMIV, “deve essere distinto dal comportamento criminale intrapreso per guadagno non accompagnato dalle caratteristiche personologiche tipiche di questo disturbo. Il Comportamento Antisociale nell’Adulto [...] può essere utilizzato per descrivere un comportamento criminale, aggressivo, o antisociale di altro tipo, che giunge all’attenzione clinica ma che non soddisfa i criteri completi per il Disturbo Antisociale di Personalità. Solo quando i tratti antisociali di personalità sono inflessibili, maladattivi e persistenti, e causano una compromissione funzionale significativa o sofferenza soggettiva configurano il Disturbo Antisociale di Personalità”. Il Disturbo della Condotta Tale disturbo assume rilevanza in quanto talvolta è prodromico a quello antisociale. “La caratteristica fondamentale del Disturbo della Condotta”, indica il DSMIV (1994, p. 104 e segg.), “è una modalità di comportamento ripetitiva e persistente in cui i diritti fondamentali degli altri oppure le norme o le regole della società appropriate per l’età adulta vengono violate (Criterio A). Questi comportamenti si inseriscono in quattro gruppi fondamentali: condotta aggressiva che causa o minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali (Criteri A1A7), condotta non aggressiva che causa perdita o danneggiamento della proprietà (Criteri A8A9), frode o furto (Criteri A10A12), e gravi violazioni di regole (Criteri A13A15). 3 (o più) comportamenti caratteristici devono essere stati presenti durante i 12 mesi precedenti, con almeno 1 comportamento presente nei 6 mesi precedenti. L’anomalia del comportamento causa compromissione clinicamente significativa del funzionamento sociale, scolastico, o lavorativo (Criterio B). Il Disturbo della Condotta”, precisa il Manuale, “può essere diagnosticato in soggetti che hanno più di 18 anni, ma solo se non vengono soddisfatti i criteri per il Disturbo Antisociale di Personalità (Criterio C). La modalità del comportamento è di solito presente in diversi ambienti, come la casa, la scuola o la comunità. Dato che i soggetti con Disturbo della Condotta tendono a minimizzare i propri problemi di condotta, il clinico”, suggerisce il DSMIV, “deve spesso affidarsi a ulteriori fonti di informazioni. Comunque la conoscenza da parte degli informatori riguardo ai problemi di condotta del bambino può essere limitata da un controllo inadeguato o al fatto che il ragazzo non li ha rivelati”. Il DSMIV suddivide il Disturbo della Condotta in due sottotipi, diversamente correlati con il Disturbo Antisociale di Personalità, a seconda dell’età all’esordio del disturbo: Tipo con Esordio nella Fanciullezza: “Questo sottotipo è definito sulla base dell’esordio di almeno uno dei criteri caratteristici del Disturbo della Condotta prima dei 10 anni di età. I soggetti con il Tipo ad Esordio nella Fanciullezza sono di solito maschi, mostrano di frequente aggressioni fisiche contro altri, hanno relazioni disturbate con i coetanei, possono aver avuto un Disturbo Oppositivo Provocatorio nella prima fanciullezza, e di solito hanno sintomi che soddisfano pienamente i criteri del Disturbo della Condotta prima della pubertà. Questi soggetti hanno maggiori probabilità di 26
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
27
avere un Disturbo della Condotta persistente e di sviluppare un Disturbo Antisociale di Personalità rispetto ai soggetti con Tipo ad Esordio nell’Adolescenza”. Tipo ad Esordio nell’Adolescenza: “Questo sottotipo è definito dall’assenza di tutti i criteri caratteristici del Disturbo della Condotta prima dei 10 anni di età. Rispetto a coloro che sono affetti dal Tipo ad Esordio nella Fanciullezza, questi soggetti hanno meno probabilità di manifestare comportamenti aggressivi e tendono ad avere relazioni con i compagni maggiormente nella norma (sebbene mostrino spesso problemi di condotta in compagnia di altri). Questi soggetti hanno meno probabilità di avere un Disturbo della Condotta persistente o di sviluppare da adulti il Disturbo Antisociale di Personalità. Il rapporto tra maschi e femmine affetti da Disturbo della Condotta è minore per il Tipo ad Esordio nell’Adolescenza che per il Tipo ad Esordio nella Fanciullezza”. Il Comportamento Antisociale dell’Adulto “Questa categoria”, suggerisce il DSMIV (1994, p. 743 e segg.), “può essere usata quando l’oggetto dell’attenzione clinica è un comportamento antisociale dell’adulto che non è dovuto ad un disturbo mentale (per es., Disturbo della Condotta, Disturbo Antisociale di Personalità, o Disturbo del Controllo degli Impulsi). Gli esempi includono il comportamento di alcuni ladri di professione, di soggetti dediti al racket, o che commerciano in sostanze illecite”. Le caratteristiche collegate a cultura, età e genere “Il Disturbo Antisociale di Personalità”, afferma il DSMIV (1994, pag. 707), “sembra essere associato con uno stato socioeconomico basso e con gli ambienti urbani. Su tale categoria diagnostica sono state sollevate preoccupazioni per il fatto che la diagnosi possa talvolta essere male applicata ad individui in ambienti in cui verosimilmente il comportamento antisociale può essere parte di una strategia protettiva di sopravvivenza. Nel valutare i tratti antisociali, è quindi utile per il clinico considerare attentamente il contesto sociale ed economico in cui si manifesta il comportamento”. “Una corposa mole di conoscenze”, scrive Gabbard (1994, p. 498), “è stata accumulata sulla epidemiologia del disturbo antisociale di personalità (Cadoret, 1986) [...]. Individui con questo disturbo si ritrovano più comunemente in aree urbane impoverite e molti di loro interrompono le scuole secondarie prima del diploma. C’è uno scivolare verso il basso nella vita degli individui antisociali (Person, 1986), che tendono a guadagnare denaro e a perderlo in maniera ciclica fino a che non “scoppiano” durante l’età media, spesso al caro prezzo di grave alcolismo e debilitazione (Halleck, 1981)”. “Per definizione,” ripete il DSMIV (1994, p. 707), “ il Disturbo Antisociale di Personalità non può essere diagnosticato prima dei 18 anni di età. Il Disturbo Antisociale di Personalità è molto più comune nei maschi che nelle femmine. E’ stata sollevata qualche preoccupazione che il Disturbo Antisociale di Personalità possa essere sottodiagnosticato nelle femmine, particolarmente a causa dell’enfasi posta sugli item che riguardano l’aggressività nella definizione del Disturbo della Condotta”. Su tale argomento Gabbard afferma (1994, p. 499) che la psicopatia può manifestarsi in effetti anche nelle pazienti femmine anche se tale disturbo si evidenzia con maggiore frequenza tra i maschi. La ragione per cui alcuni
27
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
28
clinici tendono a trascurare tale diagnosi nelle donne è da ricercare per l’autore negli stereotipi nel ruolo sessuale. La prevalenza Sostiene il DSMIV (1994, p. 707) in proposito: “La prevalenza complessiva del Disturbo Antisociale di Personalità nei campioni comunitari è circa il 3% nei maschi e circa l’1% nelle femmine. Le stime della prevalenza in ambienti clinici variano dal 3% al 30% a seconda delle caratteristiche predominanti della popolazione in esame. Percentuali di prevalenza anche superiori sono associate con gli ambienti di trattamento per l’abuso di sostanze e in ambito carcerario o forense”. Puntualizza a tal proposito Gabbard (1994, p. 499): “Si pensa che i pazienti con problemi antisociali siano generalmente maschi, invece il rapporto maschifemmine nel disturbo antisociale di personalità varia da 4:1 a 7,8:1 (Cadoret, 1986)”. Anche Kaplan (1993, p. 599 e segg.) conferma tali dati: “La prevalenza del disturbo antisociale di personalità è del 3% negli uomini e dell’1% nelle donne. [...] Nelle popolazioni carcerarie la prevalenza del disturbo antisociale di personalità può arrivare al 75%”. Il decorso Per il DSMV il Disturbo Antisociale di Personalità ha un decorso cronico, ma può diventare meno evidente o andare incontro a remissione man mano che l’individuo diventa più adulto, particolarmente dalla quarta decade di vita. Sebbene questa remissione tenda ad essere particolarmente evidente per quanto riguarda l’essere coinvolti in comportamenti criminali, è probabile una riduzione dell’interi spettro di comportamenti antisociali e dell’uso di sostanze”, (DSMIV, 1994, p. 707). La familiarità “Il Disturbo Antisociale di Personalità”, afferma il DSMIV (1994, p. 707 e segg.), “è più comune tra i consanguinei di primo grado di individui con il disturbo che nella popolazione generale. Il rischio per i consanguinei di femmine con il disturbo tende ad essere maggiore del rischio dei consanguinei di maschi con il disturbo. I consanguinei di persone con questo disturbo hanno anche un rischio aumentato di Disturbo di Somatizzazione e di Disturbi Correlati a Sostanze. Nell’ambito di una famiglia con un membro affetto da Disturbo Antisociale di Personalità,” continua il Manuale, “i maschi hanno più spesso il Disturbo Antisociale di Personalità e Disturbi Correlati a Sostanze, mentre le femmine hanno più spesso Disturbo di Somatizzazione. Comunque, in tali famiglie, vi è un aumento nella prevalenza di tutti questi disturbi, sia nei maschi che nelle femmine, in confronto alla popolazione generale. Studi sull’adozione indicano che fattori sia genetici che ambientali contribuiscono al rischio per questo gruppo di disturbi. Sia i figli adottivi che quelli biologici di genitori con Disturbo Antisociale di Personalità hanno un rischio aumentato di sviluppare il Disturbo Antisociale di Personalità, il Disturbo di Somatizzazione e i Disturbi Correlati a Sostanze. I bambini adottati assomigliano ai genitori biologici più che ai genitori adottivi ma l’ambiente familiare adottivo influenza il rischio di sviluppare un Disturbo di Personalità e la psicopatologia 28
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
29
correlata”. Gabbard (1994, p. 500), considera come taluni studi sui gemelli sembrano convincere dell’influenza dei fattori genetici sullo sviluppo della psicopatia (Christiansen, 1977; Wilson, Herrnstein, 1985, Yeudall, 1977). “Connessioni familiari”, scrive ancora Gabbard (1994, p. 499), “tra psicopatia e disturbo di somatizzazione (isteria) sono state largamente documentate (Cadoret, 1978; Cloninger et al., 1984; Cloninger, Guze, 1975; Woerner, Guze, 1968)”. Secondo West (1990, p. 217 e segg.): “Vi sono prove valide per l’esistenza di questi legami, ma siamo ben lontani dal comprendere la relativa importanza e il ruolo incrociato dei diversi fattori biologici e sociali, e la situazione non migliora a causa della tendenza delle varie discipline a cercare di spiegare completamente l’intero quadro in base ai loro particolari interessi”. I rapporti con altra patologia I Disturbi più frequentemente osservati nelle personalità antisociali sono quelli da Abuso di Sostanze o Alcool. In numerose ricerche si evidenzia infatti una elevata comorbidità per abuso di droghe e per abuso di alcool. Talvolta episodi affettivi di Depressione Maggiore o Distimia possono manifestarsi nella storia individuale delle personalità antisociali. (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 2000). Il trattamento farmacologico Secondo numerosi autori nel disturbo antisociale le terapie farmacologiche non si sono in mostrate di grande efficacia. I sintomi classici di tale disturbo (ansia, depressione) sono spesso infatti situazionali e quindi trattabili con maggior successo con approcci di tipo “counseling”, basati su informazioni e consigli. Talvolta discreti risultati terapeutici si sono riscontrati con l’uso di farmaci studiati per un trattamento specifico del comportamento aggressivo. I pazienti con Personalità Antisociale, infine, non possono essere trattati in comuni reparti psichiatrici, sovente non attrezzati per tali individui. (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 2002). Afferma Kaplan (1993, p. 600) a proposito della farmacoterapia: “Se vi è evidenza di disturbo da deficit dell’attenzione con iperattività, di tipo residuo, possono usarsi psicostimolanti come il metilfenidato. Sono stati compiuti tentativi di alterare il metabolismo catecolaminico con farmaci e di controllare il comportamento impulsivo con farmaci antiepilettici, specialmente se l’EEG si notano forme d’onda anomale”. Riguardo a una terapia farmacologica di tipo sedativo, Intreccialagli (1990, p. 433) consiglia neurolettici e carbamazepina, ma afferma che: “nel momento in cui il paziente antisociale viene a calarsi nuovamente nel suo ambiente abituale avverte immediatamente il rallentamento del proprio output e vi si oppone decisamente”. West (1990, p. 219) ritiene che l’unico settore in cui la terapia farmacologica mostra efficacia e prospettive è forse quello delle sostanze sopprimenti gli ormoni sessuali. Negli altri ambiti la psichiatria non ha per ora fornito alcuna risposta chiara. Il trattamento psicoterapeutico I pazienti antisociali raramente richiedono la terapia volontariamente e le sole sedute settimanali in ambulatorio, senza un contesto istituzionale di contenimento, non sembrano essere sufficienti. Si manifesta quindi l’esigenza di un ricovero in strutture specializzate per svolgere con successo 29
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
30
qualsiasi intervento psicoterapeutico, i cui eventuali risultati potrebbero però non permanere una volta che il paziente cambia ambiente. Alcuni autori (Parsons, Alexander, 1973; Harbin, 1979) suggeriscono la terapia familiare, altri autori (Moss, Rick, 1981), una terapia comportamentale o di token economy, sempre se usata in un ambiente di contenimento. (M. Battaglia, L. Bellodi, P. Migone, 1992, p. 2001 e segg.).Di un parere simile sembra essere Lalli (1991, p. 226): “La terapia della personalità psicopatica è estremamente difficile, tanto da essere sembrata per un lungo periodo di tempo, impossibile. Un motivo importante è costituito dal fatto che lo psicopatico non ha consapevolezza di malattia né esperisce malessere o ansia e quindi non chiede aiuto, e se l’aiuto nonostante tutto gli viene proposto, egli più o meno apertamente lo rifiuta”. Anche Gabbard (1994, p. 505 e segg.): sottolinea il fatto che i pazienti con un serio comportamento antisociale non traggono beneficio da un approccio terapeutico fondato esclusivamente su una psicoterapia ambulatoriale (Frosch, 1983; Gabbard, Coyne, 1987; Person, 1986; Reid, 1985). La presenza di un setting istituzionale o residenziale è auspicabile secondo l’autore per cercare di ottenere un miglioramento anche modesto. Rispetto alla psicoterapia individuale, Gabbard (1994, p. 514 e segg.) afferma che: “la psicoterapia individuale ambulatoriale del paziente antisociale grave è destinata a fallire. Gli affetti saranno scaricati attraverso l’azione perché non vi è nessun ambiente contenitivo in cui controllare tale canalizzazione. Inoltre, le menzogne e gli inganni del paziente sono così pervasivi che il terapeuta non avrà nessuna idea di ciò che realmente accade nella vita del paziente. Kaplan (1993, p. 600), ribadisce il fatto che i pazienti con disturbo antisociale di personalità diventano accessibili alla psicoterapia solo se vengono immobilizzati (p. es. ospedalizzandoli).
Bibliografia Aichhorn A. (1950), “Gioventù traviata”, Bompiani, Milano. Alexander F., Staub H. (1948), “Il delinquente, il suo giudice e il pubblico”, Giuffrè, Milano. American Psychiatric Association (1952), “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, APA, Washington, D. C. American Psychiatric Association (1968), “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, 2 ed. (DSMII), APA, Washington, D. C. American Psychiatric Association (1980), “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, 3 ed. riveduta (DSMIII), APA, Washington, D. C. (tr. it.: “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson, Milano, 1983). American Psychiatric Association (1987), “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, 3 ed. (DSMIIIR), APA, Washington, D. C. (tr. it.: “Mauale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson, Milano, 1989). 30
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
31
American Psychiatric Association (1994), “Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders”, 4 ed. (DSMIV), APA, Washington, D. C. (tr. it.: “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali”, Masson, Milano, 1996). Bandini T., Gatti U., Marugo M. I., Verde A. (1991), “Criminologia”, Giuffrè Ed., Milano. Barrett E. S., Patton J. H. (1983), Impulsivity: cognitive behavioral and psychopsysiological correlates, in: M. Zuckermann, N. J. Hillsdale (Eds.), “Biological Bases of sensation seeking, impulsivity and anxiety”, L. Earlbaum Ass. Battaglia M., Bellodi L., Migone P. (1992), Disturbi di personalità, in: “Trattato Italiano di Psichiatria”, a cura di G. B. Cassano, Masson, Milano. Bonaparte M.: citato da Hesnard A. (1966). Bressa G. M. (1982), Personalità psicopatiche e nevrosi di carattere, in: G. B. Reda, “Trattato di Psichiatria”, USES, Firenze. Brow G. L., Ebert M. H. et al. (1982), “Aggression, suicide, and serotonin: relationship to CSF anime metabolites”, American Journal of Psychiatry, 139. Cadoret R. J. (1978), “Psychopathology in the adoptedaway offspring of biologic parents with antisocial behavior”, Arch. Gen. Psychiatry, 35. Cadoret R. J. (1986), Epidemiology of antisocial personality, in: “Unmasking the Psychopath: Antisocial Personality and Related Syndrome”, a cura di W. D. Reid et al., W. W. Norton, New York. Christiansen K. O. (1970), “Crime a Danish twin population”, Acta Geneticae Medicinae Gemellologiae, 19. Christiansen K. O. (1977), A preliminary study of criminality among twins, in: “Biosocial Bases of Criminal Behavior”, a cura di S. A. Mednick e K. O. Christiansen, Gardner Press, New York. Cleckley H. M. (1941), “The Mask of Sanity: An Attempt to Clarify Some Issues About the So Called Psychopathic Personality”, 5 ed. 1976, Mosby, St. Louis. Cloninger C. R., Guze S. B. (1975), “Histeria and parental psychiatric illness”, Psychol. Med., 5. Cloninger R. C., Reich T., Guze S. B. (1975), “The multifactorial model of Disease Transmission: II Sex Differences in the familiar transmission of Sociopathy”, British Journal of Psychiatry, 127. Cloninger C. R. et al. (1984), “An adoption study of somatoform disorders, II: identification of two discrete somatoform disorders”, Arch. Gen. Psychiatry, 41. 31
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
32
Cloninger R. C. (1987), Recent advances in the genetics of anxiety and somatoform disorders, in: H. Y. Melzer (Ed.), “Psychopharmacology, the Third generation of progress”, Raven Press, New York. Coccaro E., Siever L. J. Et al. (1989), “Serotonergic studies in patients with affective and personality disorders. Correlates with suicidal and aggressive impulsive behavior”, Archives of General Psychiatry, 46. Crowe R. R. (1975), An adoptive study of psychopathy: preliminary results from arrest records and psychiatric hospital records, in: R. R. Five, D. Rosenthal, H. Brillo (Eds.), “Genetic research in psychiatry”, The Johns Hopkins University Press Baltimore and London. Crowe R. R. (1978), Genetic studies of Antisocial Personality and related disorders, in: R. Spitzer, D. Klein (Eds.), “Critical issues in psychiatric diagnoses”, Raven Press, New York. Exner J. E., Weiner I. B. (1986), “The Rorschach: A Comprehensive System”, Wiley, New York. Fornari U. (1989), “Psicopatologia e psichiatria forense”, UTET, Torino. Frosch J. P. (1983), “Current Perspectives on Personality Disorders” (Ed.), Washington D. C. Gabbard G. O. (1994), “Psychodinamic Psychiatry in Clinical Practice”, American Psychiatric Press (tr. it.: “Psichiatria psicodinamica”, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1995). Gabbard G. O., Coyne L. (1987), “Predictors of response of antisocial patients to hospital treatment”, Hosp. Community Psychiatry, 38. Gray J. A. (1982), “The neuropsychology of Anxiety: an enquiry into the function of the septo Hippocampal system”, Oxford University Press, Oxford. Guze S. B. (1976), “Criminality and Psychiatric Disorders”, Oxford University Press, New York. Guze S. B., Cloninger R. C. et al. (1986), “A follow up and family study of Briquest’s Syndrome”, British Journal of Psychiatry, 149. Halleck S. L. (1981), “Sociopathy: ethical aspects of diagnosis and treatment”, Curr. Psychiatr. Ther, 20. Harbin H. T. (1979), “A familyoriented psychiatric inpatient unit.”, Family Process, 18. Hare R. D. (1978), “Electrodermal and cardio vascular correlates of psychipathy in psychipathic behavior: approch to research”, Wiley and sons, New York. Hare R. D. (1983), “Diagnosis of antisocial personality disorder in two prison populations”, Am. J. Psychiatry, 140. 32
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
33
Hesnard A. (1966), “Psicologia del delitto”, Giuffrè, Milano. Holden C. (1986), “Growing focus on criminal careers”, Science, 233. Hutchings B., Mednik S. A. (1975), Registered criminality in the adoptive and biological parents of registered male criminal adoptees, in: R. R. Five, D. Rosenthal, H. Brillo (Eds.), “Genetic research in psychiatry”, The Johns Hopkins University Press Baltimore and London. Intreccialagli B. (1990), I disturbi di personalità, in: “Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense” (vol. XVI), a cura di F. Ferracuti, Giuffrè Ed., Milano. Jones M. (1953), “Therapeutic Community: A New Treatment in Psychiatry”, Basic Book, New York. Kaplan H. I., Sadock B. J. (1993), “Synopsis of Psychiatry”, VI ed., Williams & Wilkins (tr. it.: “Manuale di Psichiatria”, Edises, Napoli, 1993). Karpman B. (1951), “Psychosis with Psychopathic Personality: an Untenable Diagnosis”, The Psychiatric Quaterly, 618. Kernberg O. F. (1984), “Severe Personality Disorders. Psychotherapeutic Strategies”, Yale University Press, New Haven, CT (tr. it.: “Disturbi gravi della personalità”, Boringhieri, Torino, 1988). Kiger R. S. (1967), “Treating the psychopathic patient in a therapeutic community”, Hosp. Community Psychiatry, 18. Koenigsberg H. W., Kaplan D. R. et al. (1985), “The relationship between syndrome and personality disorder in DSMIII: experience with 2492 patients”, American Journal of Psychiatry, 142. Lalli N. (1991), “Manuale di Psichiatria e Psicoterapia”, Liguori Ed., Napoli. Lion J. R. (1978), Outpatient treatment of psychopaths, in: H. W. Reid, “The Psychopath. A Comprehensive Study of Antisocial Disorders and Behaviors”, Brunner/Mazel, New York. Meloy J. R. (1988), “The Psychopathic Mind: Origins, Dynamics, and Treatment”, Jason Aronson, Northvale, N. J. Modlin H. C. (1983), “The antisocial personality”, Bull. Menninger Clin., 47. Moss G., Rick G. (1981), “Application of operant technology to behavioral disorders of adolescents”, American Journal of Psychiatry, 138.
33
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
34
Parsons B., Alexander J. F. (1973), “Shortterm family intervention: a therapy outcome study”, J. Consult. Clin. Psychol., 41. Person E. (1986), Manipulativeness in entrepreneurs and psychopaths, in: “Unmasking the Psychopath: Antisocial Personality and Related Syndrome”, a cura di W. H. Reid et al., W. W. Norton, New York. Pope H. G., Jonas J. M. (1983), “The validity of DSMIII Bordeline personality disorder”, Archives of General Psychiatry, 40. Reich J. (1985), “The relationship between antisocial behavior and affective illness”, Comprehensive Psychiatry, 26. Reid W. H. (1985), “The antisocial personality: a review”, Hosp. Community Psychiatry, 36. Reid W. H., Solomon G. (1981), Communitybased offender programs, in: “The treatment of Antisocial Syndrome”, a cura di W. H. Reid, Van Nostrand Reinhold, New York. Reid W. H. et al. (a cura di) (1986), “Unmasking the Psychopath: Antisocial Personality and Related Syndrome”, W. W. Norton, New York. Rossi R. (1977), “Criminalità e nevrosi: un’alternativa nell’adolescenza. Un punto di vista psicoanalitico”, Rassegna di criminologia, 8. Stringer A. Y., Josef N. C. (1983), “Methilphenidate in the treatment of aggression in two patients with antisocial personality disorder”, American Journal of Psychiatry, 140. Sturup G. K. (1968), “Treating the Untreatable: Chronic Criminals at Herstedvester”, Johns Hopkins University Press, Baltimore. Tupin J. P., Smith D. B. et al. (1972), “The long term use of lithium in aggressive prisoners”, Comprehensive Psychiatry, 13. Vaillant G. E. (1975), “Sociopathy as a himan process”, Archives of General Psychiatry, 32. Vaillant G. (1983), “Natural history of male alcoholism, v: is alcoholism the cart or the horse to sociopathy?”, Br. J. Addict., 78. Valzelli L. (1981), “Psychobiology of aggression and violence”, Raven Press, New York. West D. J. (1990), Malattie mentali, imputabilità e pericolosità sociale, in: “Trattato di Criminologia, Medicina Criminologica e Psichiatria Forense” (vol. XIII), a cura di F. Ferracuti, Giuffrè Ed., Milano. Widiger T. A. (1992), “Antisocial personality disorder”, Hosp. Community Psychiatry, 43. 34
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
35
Wilson J. Q., Herrnstein R. J. (1985), “Crime and Human Nature”, Simon & Schuster, New York. Winnicott D. (1984), “Il bambino deprivato. Le origini della tendenza antisociale”, Cortina, Milano. Woerner J. Q., Guze S. B. (1968), “A family and marital study of histeria”, Br. J. Psychiatry, 114. Woody G. E. et al. (1985), “Sociopathy psychotherapy outcome”, Arch. Gen. Psychiatry, 42. Yeudall L. T. (1977), “Neuropsychological assessment of forensic disorders”, Canada’s Mental Health, 25 (2). Yochelson S., Samenow S. E. (1977), “The Criminal Personality, vol. II: The Treatment Process”, Jason Aronson, New York. Zanarini H. C., Gunderson J. C., Frankenburg F. R. (1989), “Axis I phenomenology of Borderline Personality Disorder”, Comprehensive Psychiatry, 30.
Capitolo 3 LINEAMENTI DI METODOLOGIA DELLA RICERCA SCIENTIFICA IN CRIMINOLOGIA Argomenti principali: ∙ Conoscenza intuitiva e conoscenza scientifica. ∙ La formulazione del problema∙ ∙ Concetti di base dell'indagine scientifica ∙ Metodi di ricerca: metodi quantitativi e metodi qualitativi ∙ ∙ Altri possibili approcci ∙ La ricerca in criminologia Conoscenza scientifica e conoscenza intuitiva Nel corso della vita di tutti i giorni, per prendere innumerevoli decisioni, si ricorre spesso all'intuizione ed in particolare al senso comune. Quest'ultimo si avvale di metodi informali che mirano ad evidenziare l'accordo fra l'opinione di una persona e le idee e le esperienze comuni di un ampio gruppo di soggetti. Tale strumento di conoscenza ha due limiti fondamentali: i suoi criteri mutano da un epoca all'altra e da un luogo 35
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
36
all'altro in accordo con le idee e con l'esperienza della cultura, inoltre il metodo basato sul senso comune non richiede che si facciano tentativi sistematici per esaminare la spiegazione teorica di una prassi e per vedere se essa è vera. L'assenza di una teoria è una delle più importanti limitazioni di questo mezzo conoscitivo, infatti finché una certa pratica funziona essa è seguita e la teoria su cui essa si basa è considera vera. Al contrario, la scienza mira ad una spiegazione teorica dei fenomeni, e la raccolta e l'elaborazione di informazioni "scientifica" si differenzia dalla raccolta e dall'elaborazione di informazioni che ognuno di noi compie quotidianamente, per il carattere sistematico ed intenzionale della prima. La ricerca scientifica può essere definita come "un processo di osservazione deliberata e controllata" (Kaplan, 1964). In primo luogo occorre precisare che non vi è un metodo scientifico, bensì vi sono diversi metodi scientifici, il cui scopo consiste nell'ottenere conoscenze attraverso osservazioni obbiettive. Queste ultime sono quelle fatte in modo che le persone con una percezione normale e poste nello stesso luogo e nello stesso tempo arriverebbero allo stesso risultato. La necessità che le osservazioni siano oggettive spiega l'importanza che gli scienziati attribuiscono alla validità dei metodi di ricerca. Essi tentano di esplicitare accuratamente le condizioni esatte in cui sono state eseguite le osservazioni, in modo che altri scienziati le possano all'occorrenza ripetere. Quindi il processo di produzione di conoscenza scientifica è caratterizzato da una serie di "scelte ragionate", che il ricercatore deve di volta in volta compiere. Tali decisioni introducono innegabilmente un elemento di soggettività, che non può essere eliminata, ma può e deve essere resa esplicita. L'oggettività è quindi la caratteristica che contraddistingue ciò che è scienza da ciò che non lo è, ed è ciò che fa della scienza l'unico mezzo universale per acquisire conoscenze, perché sin dall'inizio rifiuta di considerare ogni fenomeno che non sia accessibile a tutti. I diversi metodi scientifici, costituiscono quindi il percorso più idoneo per il raggiungimento di verità probabilistiche e disponibili a possibili modifiche e non dei filtri magici, validi in ogni occasione e per ogni scopo. I concetti di base della ricerca scientifica. Tutte le indagini, anche se non sempre viene chiaramente espresso, prendono le mosse da un quesito, scaturente da un'osservazione o da una lacuna di una teoria. Tale interrogativo potrebbe essere formulato in questo modo: "Perché X si comporta nel modo Y?" Per poter continuare verso la spiegazione o la descrizione dell'evento, lo sperimentatore deve tramutare il quesito in un'ipotesi di ricerca, secondo uno schema del tipo " se… allora…". Un aspetto non trascurabile è rappresentato dal legame tra ipotesi e definizioni operative delle caratteristiche che sono oggetto di studio. Le ipotesi devono basarsi su caratteristiche in qualche modo quantificabili. Lo studioso, così come l'uomo della strada, fanno ricorso a procedure interpretative che pongono in relazione concetti non osservabili e eventi osservabili: nell'approccio scientifico, tuttavia tali procedure devono essere esplicitate ed il ricercatore deve aver chiaro fin dal principio che tipo di relazione ipotizza tra i concetti studiati e ciò è influenzato principalmente dallo scopo dell'indagine. Un'indagine di tipo descrittivo, a cui si ricorre spesso in una fase iniziale della ricerca quando il ricercatore non possiede conoscenze approfondite del fenomeno che intende studiare, si limiterà a fornire una rappresentazione il più possibile accurata, di ciò che avviene. Invece si ricorre ad un livello di indagine correlazionale, qualora lo studioso ipotizza una compresenza sistematica, in uno stesso evento, dei concetti studiati, senza nessuna relazione di causa ed effetto tra loro (x ed y si presentano insieme nell'evento comportamentale).Il livello più alto di indagine, è rappresentato dall'indagine sperimentale. In questo caso si ipotizza una relazione di causa e di effetto tra X ed Y , e lo scopo è quello di spiegare il comportamento in funzione di un'unica causa. Affinché tale assunzione sia valida, risulta 36
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
37
necessario condurre l'indagine nel modo più rigoroso possibile, alfine di escludere l'incidenza di altre variabili non oggetto di studio. La formulazione del problema La scelta di un argomento adeguato è il primo passo che si dovrebbe compiere nel condurre una ricerca scientifica. Alcuni autori (Ercolani ed al., 1993) suggeriscono dei criteri per l'individuazione di un'area problematica: 1. lo stato di sviluppo teorico ed empirico della disciplina; 2. particolari interessi e preferenze del ricercatore nell'ambito della disciplina stessa; 3. osservazioni casuali che rivelano una lacuna nelle conoscenze disponibili; 4. esplicita richiesta di un committente In ogni caso, nel formulare esplicitamente un problema lo scienziato costruisce o si avvale di una teoria di riferimento ed in base ad essa ed alle proprie intuizioni avanza delle ipotesi di soluzione possibile. Metodi di ricerca: approcci quantitativi e qualitativi Metodo quantitativo. La ricerca contemporanea nel settore delle scienze sociali è impregnata di tradizioni empiriche e quantitative. Il Positivismo logico, corrente di pensiero in cui si sosteneva che tutto il sapere deriva dall'osservazione diretta e da inferenze logiche basate su di essa, ha rappresentato il fondamento epistemologico della ricerca sociale durante tutto il ventesimo secolo. Alcuni metodi statistici si sono rivelati particolarmente utili per osservare relazioni e modelli ed esprimerli con dei numeri. La statistica descrittiva illustra questi modelli di comportamento, mentre la statistica inferenziale si avvale di argomenti probabilistici per generalizzare da campioni a popolazioni oggetto di studio. La ricerca sperimentale utilizza progetti di ricerca quantitativi al fine di rilevare differenze tra gruppi o classi di soggetti. Il focus è posto sulla precisione delle misure e sul controllo di fonti d'errore esterne. Lo scopo è quindi quello di isolare una variabile di interesse (variabile indipendente o di disegno) e manipolarla al fine di osservare l'incidenza di tale manipolazione su una seconda variabile (variabile dipendente). Questa procedura è agevolata dal "controllo di variabili esterne, ponendo così il ricercatore in condizione di inferire una relazione causale tra le due (o più)variabili oggetto di studio. Il controllo metodologico è compiuto generalmente per mezzo di due procedure che poggiano sul principio di casualità. Si ha un campionamento casuale (random), usando soggetti che sono stati estratti in maniera casuale da un gruppo in modo che ogni componente della popolazione abbia le stesse probabilità di essere scelto. La selezione casuale del campione permette al ricercatore di generalizzare i risultati dello studio dal campione alla popolazione da cui viene estratto. La seconda procedura è la "randomizzazione", che consiste nell'assegnare i soggetti a gruppi o condizioni sperimentali in modo tale che ogni soggetto abbia la stessa probabilità di venire selezionato per ciascuno di essi. In questo modo le caratteristiche del soggetto sono così distribuite casualmente in ogni aspetto salvo che per la manipolazione sperimentale o il trattamento, consentendo al ricercatore di inferire che le differenze emerse tra i gruppi possono essere attribuite alle variabili isolate. Nell'ambito delle scienze sociali, l'applicazione del metodo sperimentale è 37
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
38
spesso ostacolata dal fatto che si utilizzano soggetti umani. In effetti in campo sociale e clinico si ricorre più frequentemente ad un disegno "quasi sperimentale", approccio empirico sistematico nel quale lo sperimentatore non ricorre alla manipolazione sperimentale né all'assegnazione casuale dei soggetti a determinate condizioni; ciò in quanto gli eventi sono già accaduti oppure perché sono inerentemente non manipolabili. Sia nel caso in cui la ricerca utilizzi un disegno sperimentale o quasisperimentale, la strategia più diffusa nelle scienze sociali è il confronto tra gruppi. Gruppi indipendenti di soggetti sono utilizzati per ogni condizione sperimentale o di controllo; il disegno più conosciuto, è quello che prevede l'uso di due gruppi equivalenti di soggetti, che differiscono solo per il trattamento sperimentale al quale sono sottoposti e che vengono testati prima e dopo il trattamento. Risulta così possibile valutare l'incidenza di un intervento, dato che il gruppo di controllo rappresenta un termine di confronto. Tale disegno rende possibile attribuire gli effetti di una manipolazione sperimentale all'intervento stesso piuttosto che a variabili estranee, purché i soggetti siano stati assegnati alle diverse condizioni sperimentali in modo completamente casuale. Poiché la randomizzazione non è sempre effettuabile, diviene di fondamentale importanza considerare l'equivalenza dei due gruppi anche se i soggetti non provengono dalla stessa popolazione. Un modo per sopperire a tale inconveniente, consiste nell'appaiare i gruppi per delle variabili chiave come il sesso, l'età, ecc. Infine occorre precisare che tale disegno non controlla affatto l'eventuale influenza delle valutazioni del pretest sui soggetti. Un semplice disegno sperimentale che contempli il singolo postest può ovviare a tale inconveniente, ma in ogni caso, la scelta di un disegno sperimentale di base non elimina il bisogno di sforzarsi a riflettere attentamente e creativamente alle potenziali fonti di errore. I dati che scaturiscono da indagini sperimentali, vengono analizzati usando un'appropriata statistica inferenziale. Le tecniche statistiche utilizzate per valutare l'efficacia di un intervento o delle differenze tra gruppi, come l'analisi della varianza o il t test, confrontano l'ampiezza delle differenze "intergruppo" e delle differenze "intragruppo" dovute alla variabilità individuale. Il paradigma correlazionale, è basato invece su principi piuttosto diversi. Le correlazioni dipendono dal confronto tra due distribuzioni di punteggi, ovvero punteggi ampiamente dispersi lungo due dimensioni. Le tecniche statistiche provenienti da questa impostazione, come la regressione multipla, sono particolarmente utilizzate nell'ambito delle scienze sociali che usufruiscono di questionari, esami o scale, e relazioni tra variabili continue. In ogni caso è l'impianto teorico e non la scelta dei metodi statistici che determinai tipi di assunzioni che possono essere fatte in merito alle relazioni tra variabili. Metodi qualitativi. Il termine "qualitativo" nell'ambito della ricerca, implica che i dati da essa scaturenti sono sotto forma di parole e non di numeri. Mentre i dati quantitativi sono generalmente valutati attraverso la statistica inferenziale e descrittiva, i dati qualitativi sono ridotti a categorie o temi e valutati soggettivamente. I sostenitori di tale metodo criticano l'artificiosità e la limitatezza degli studi sperimentali nell'ambito delle scienze sociali e, promuovono una maggiore flessibilità e spontaneità nell'esplorazione dei fenomeni nell'ambiente naturale. Sempre gli stessi autori, prendendo spunto dalla fisica moderna, affermano che la presenza di un osservatore altera inevitabilmente ciò che viene osservato in modo tale che, di fatto, non è possibile scindere l'osservatore dall'oggetto di studio. I metodi qualitativi risultano particolarmente utili nella "genesi di categorie necessarie alla comprensione dei fenomeni umani e nell'indagine sull'interpretazione e sul significato che gli individui attribuiscono agli eventi sperimentati". A differenza dei metodi 38
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
39
quantitativi, in cui il ricercatore registra e utilizza un piccolo insieme di variabili identificate in precedenza, l'approccio qualitativo tenta di raggiungere una comprensione dell'individuo ricca e profonda. I diversi metodi qualitativi sono accomunati da tre assunti principali: una visione olistica, in base alla quale si cerca di comprendere i fenomeni nella loro interezza e complessità; un approccio induttivo in base al quale la ricerca parte da osservazioni specifiche e si sposta verso schemi generali che scaturiscono dai casi studiati; indagine naturalistica, dato che l'indagine qualitativa è concepita per comprendere i fenomeni negli stati che si verificano naturalmente. Esistono diverse tradizioni della ricerca qualitativa, ne elencheremo le principali: Fenomenologica. Le ricerche fenomenologiche tentano di descrivere e di chiarire i significati dell'esperienza umana. Tale approccio, che si avvale prevalentemente di interviste odi conversazioni estese, cerca di andare oltre la descrizione offerta dagli individui circa le esperienze vissute, per giungere alle strutture che sottendono la coscienza. In questo ambito, assume importanza particolare il legame empatico con il soggetto. Ermeneutica. Tale approccio, si basa sul presupposto che una specifica attività può essere compresa solo se si comprende il contesto nel quale si sviluppa, piuttosto che concepirla come un'astrazione o un insieme di relazioni causali. In ermeneutica i dati sono forniti in precedenza al ricercatore, mentre in uno studio fenomenologico standard, il ricercatore contribuisce a creare il racconto trascritto che di solito è stato ottenuto intervistando i partecipantisoggetti. Tale approccio, data la sua complessità, è raramente utilizzato nel campo della ricerca sociale. Esso, infatti, richiede un continuo rimando ai dati originari , al fine di individuarne il significato e riuscire a integrare quest'ultimo con il valore che il ricercatore gli attribuisce. Indagine etnografica. Tale modello comprende descrizioni antropologiche, ricerche naturalistiche, sul campo e osservazioni dei partecipanti. Il ricercatore tenta di catturare e comprendere aspetti particolari della vita di un particolare gruppo, allo scopo di ottenere informazioni minuziose e complete. Tale indagine spazia dalla pura descrizione ad una vera e propria spiegazione teorica della vita sociale e culturale. Il ricercatore inizia dei contatti profondi e prolungati con l'oggetto di studio, cercando allo stesso tempo di mantenersi il più possibile distaccato da esso. L'etnografo raccoglierà i dati in un diario, questi saranno registrati possibilmente in modo testuale.
Altri possibili approcci: L'approccio misto, ossia una combinazione di metodologie quantitative e qualitative, rappresenta spesso una buona scelta. Ne sono un esempio alcune ricerche che affiancano ad un questionario una discussione di gruppo. Un altro possibile approccio alla ricerca, è rappresentato dalla dissertazione teorica, che permette di aggirare l'ostacolo della raccolta dei dati, ma che spesso rappresenta un'avventura non priva di pericoli, soprattutto per lo studioso alle prime armi, all'oscuro delle tematiche e delle controversie in un determinato ambito teorico.
39
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
40
METODOLOGIA DELLA RICERCA APPLICATA ALLA CRIMINOLOGIA Sommario: Premessa. 1. Statistiche di massa. 2. Metodo sperimentale. 3. Metodo dell'inchiesta. 4. Indagini individuali. 5. Metodo storico. Premessa Occorre innanzitutto precisare che in campo criminologico si ricorre a svariati metodi d’indagine; la scelta di una specifica metodologia è influenzata innanzitutto dagli scopi che il ricercatore si prefigge. Il processo della ricerca non è lineare, bensì si configura come un ciclo di passi ripetuti nel tempo. Il punto di entrata più comune è rappresentato da una qualche forma di osservazione empirica. Il ricercatore sceglie un argomento da un infinito insieme di argomenti, in seguito, attraverso un procedimento induttivo formula una proposta di ricerca. Il passo successivo consisterà nello sviluppare in modo compiuto la proposta, enunciandola sotto forma di affermazione che stabilisce una relazione tra due fenomeni. Dato che, l’asserzione è valida solo nell’ambito di una specifica struttura teorica, spetterà al ricercatore il compito di spiegare tale proposizione alla luce di un più vasto sistema teorico. Sebbene i metodi criminologici siano stati usati in primo luogo per comprendere l'eziologia del delitto, vengono altresì impiegati nello studio dei mezzi di controllo, prevenzione e trattamento delle diverse forme di reato. 1. Statistiche di massa Le statistiche di massa esprimono in numeri l’osservazione di fatti; privilegiano lo studio di fattori macrosociali di generale influenzamento e non consentono l'identificazione di fattori causali e l'evidenziazione di condizioni microsociali o personali significative. Tale metodo risulta essere indispensabile per la conoscenza dell’estensione del fenomeno criminale e per l’espressione delle sue caratteristiche più generali quali diffusione, frequenza, modificazioni quantitative e qualitative, distribuzione qualitativa in ordine al tipo di reati, qualità e gravità delle sanzioni, ecc. La statistica di massa si limita in genere ad una descrizione fenomenologica della condotta criminale. Può usufruire di dati, pervenuti dagli organi della magistratura o da quelli della polizia, che possono essere considerati in funzione di numerose variabili (sesso, età, tipo di reato, occupazione, stato civile, razza, religione, ecc.). La statistica criminale può contenere numerose cause di errore, sia riguardo la validità dei dati, dovute all'imprecisione o non attendibilità delle fonti, sia per ciò che concerne l'interpretazione dei dati, in genere se la tecnica statistica non viene correttamente applicata. La principale causa di errore insita nella statistica di massa è legata al fatto che i dati ufficiali (reati denunciati alla magistratura, denuncie formulate dagli organi di polizia, provvedimenti penali istruiti contro gli autori, statistiche sulle popolazioni nelle carceri, ecc.), non possono ovviamente tener conto della statistica occulta, rappresentata dai reati effettivamente commessi ma non scoperti. Il numero oscuro (dark number) indica quindi la differenza tra la 40
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
41
criminalità effettivamente presente in un certo contesto sociale, e quella che invece risulta dichiarata e perseguita dagli strumenti costituzionali. Esso invalida, in modo più o meno rilevante, le statistiche sulla criminalità. L'indice di occultamento (rapporto tra fra reati noti e quelli commessi) è influenzato da innumerevoli fattori, tra i quali: ∙ Caratteristiche del reato. Alcuni crimini è più difficile che passino inosservati (omicidi), rispetto ad altri di cui spesso non se ne ha neppure notizia (truffe). ∙ Atteggiamento della vittima. Una delle fonti dalla quale emerge la conoscenza dei delitti commessi è la denuncia della parte offesa, ma non tutte le vittime (o testimoni) rendono di dominio pubblico il danno subito. ∙ Atteggiamento degli organi istituzionali. Le iniziative di questi ultimi rappresentano un'ulteriore fonte per l'evidenziazione dei fatti delittuosi. Spesso però queste indagini finiscono, per motivi contingenti o di scelta, col privilegiare un settore o un gruppo sociale piuttosto che un altro,. Significativo a tal proposito è il riferimento alla "delittuosità dei colletti bianchi", caratterizzata da un alto indice di occultamento, incrementato in parte dal mancato controllo da parte delle forze istituzionali. ∙ Qualità dell'autore del reato. Fattori quali ceto sociale, razza, stato civile, nonché livello di professionalità del criminale influenzerebbero la scoperta o la denuncia del crimine. In ogni caso queste considerazioni dovrebbero far desistere dall'attribuire significato di causalità alle indagini statistiche, nonché dall'arbitraria generalizzazione dei risultati. In conclusione, il campo della delittuosità reale è molto più ampio di quello che convenzionalmente si ritiene: coinvolge larga parte della popolazione e interessa gran parte dei gruppi sociali. Per crimine si intende qualunque fatto previsto dalla legge come reato, che si manifesta peraltro con modalità differenti in funzione della posizione sociale e dei vari status. Mentre i delitti che costituiscono la delittuosità convenzionale sono, statisticamente parlando , appannaggio dei gruppi sociali più squalificati, gli altri gruppi sociali commettono reati di diversa natura, che sono in genere quelli meno perseguiti. Così ad esempio un giovane immigrato manifesterà la sua indifferenza verso le norme rubando o rapinando in modo “convenzionale”, mentre il borghese “disonesto” esplicherà la propria antinormatività in settori suoi propri, nelle frodi del commercio, nella corruzione, ecc. Questi delitti “non convenzionali” avranno però la caratteristica di comparire nelle statistiche redatte sulla scorta dei soli delitti perseguiti e giudicati, in modo poco rilevante rispetto alla loro entità, ingenerandosi perciò la erronea convinzione che i “veri delitti” sono quelli “convenzionali”, e che questi ultimi siano molto più diffusi degli altri. 2. Metodo sperimentale Si ricorre al metodo sperimentale per valutare l'utilità di metodi alternativi, in special modo quando si tenta di isolare gli effetti di uno o più fattori del comportamento umano. Se condotto in modo 41
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
42
corretto, tale metodo può fornire il controllo rigoroso di spiegazioni alternative di effetti osservati. Il metodo sperimentale è sovente utilizzato al fine di verificare l'efficacia di un trattamento. Un esempio è rappresentato dagli studi dell'effetto della supervisione sul recidivismo da parte di criminali dimessi da istituzioni per minori. A tal proposito, alcuni soggetti della popolazione oggetto di studio sono stati selezionati a caso ed assegnati alle diverse condizioni sperimentali secondo una procedura definita "randomizzazione." Tale tecnica, consente di ridurre al minimo la probabilità di errore dovuto a differenze individuali, attraverso l'assegnazione dei soggetti a gruppi o condizioni sperimentali in modo tale che ognuno abbia la stessa probabilità di venire selezionato per ciascuno di essi, eventuali differenze si distribuirebbero a caso. Il comportamento del gruppo di controllo (suo eventuale recidivismo), che differisce da quello sperimentale soltanto per la mancata somministrazione della variabile sperimentale(supervisione) diviene un metro di controllo per valutare gli effetti del trattamento. Il metodo sperimentale è stato utilizzato anche per altri aspetti della criminologia, per valutare gli effetti dell'assistenza economica offerta a criminali detenuti in carcere, o nello studio sulla efficacia dei vari metodi di controllo di polizia. Alcune critiche rivolte a questo metodo, riguardano la sua artificiosità, altre invece si riferiscono ai problemi etici relativi alla liceità dell'assegnazione di soggetti ad un gruppo anziché ad un altro. 3.Metodo dell'inchiesta. Il metodo dell'inchiesta utilizza le tecniche dell'intervista o del questionario e permette di rilevare opinioni, atteggiamenti, valori, ecc. dei soggetti che fanno parte del gruppo campione della ricerca. Spesso l'obiettivo di tale metodo è lo studio della natura e dell'estensione del reato nella società. Il ricercatore, rinunciando alla manipolazione delle variabili, come avviene nel metodo sperimentale, può accostarsi in modo più immediato a fenomeni difficilmente manipolabili tramite un'apparecchiatura sperimentale. I vantaggi di tale metodo consistono nel poter formulare sia un corretto disegno sperimentale sia un piano di sondaggio con finalità non dimostrative, ma descrittive. Consente inoltre una maggiore facilità delle operazioni di campionamento, a causa di un minor controllo esercitato sulle variabili influenzanti la situazione. In questa sede verranno discusse due tecniche di inchiesta, quella crosssezionale e quella longitudinale. L'inchiesta crosssezionale è quella più diffusamente usata. Fornisce dati circa l'epidemiologia del delitto, ed entro certi limiti, sull'eziologia di un comportamento criminale. Essa comprende un campionamento di un insieme di individui o di gruppi, in modo da poter generalizzare i risultati ad una più ampia popolazione (detenuti dimessi dal carcere, studenti di scuola superiore, ecc.). Il campione è preso in un dato momento, i soggetti vengono intervistati o sottoposti a questionario e i dati vengono analizzati. Numerose critiche sono state rivolte a questa tecnica, in particolare risulta difficoltoso isolare gli effetti del trattamento o dei programmi di prevenzione del comportamento criminale. I gruppi selezionati potrebbero differire tra loro già in precedenza, minando in tal modo la "validità interna" della ricerca. L'approccio longitudinale consiste nella misurazione degli attributi e del comportamento della gente durante un dato periodo di tempo. Tale metodo è stato utilizzato per studiare la storia e il prevalere della delinquenza a diverse età, per predire il sorgere e il tramontare delle carriere devianti, e per analizzare la trasmissione della criminalità da una generazione all'altra. Benché le fonti di dati ufficiali o crosssezionali permettano di fare delle stime sull'incidenza del delitto, queste non appaiono così accurate come quelle ottenute con il metodo longitudinale, che 42
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
43
segue i soggetti durante un arco di tempo abbastanza ampio. Malgrado gli innumerevoli vantaggi, il metodo longitudinale non è certo privo di problemi. Oltre all'alto costo, si aggiunge la "mortalità del campione", ossia la perdita dei soggetti nel tempo dovuta a morte, impossibilità di rintracciarli, calo nella motivazione, ecc. Altro inconveniente è dovuto “all’effetto esame", cioè all'influenza che l'intervista iniziale può avere sulle risposte successive. Inoltre, risulta spesso difficile separare gli effetti dovuti alla maturazione avvenuta per età da quello che viene chiamato "l'effetto del periodo". Per esempio, una diminuzione dell'uso di droga in un campione studiato per cinque anni può essere dovuto sia alla maturità causata dall'età, sia alla scarsezza del prodotto sul mercato; è estremamente difficile separare questi effetti senza studiare un altro gruppo. Qualora il metodo dell'inchiesta si avvali della tecnica dell'intervista, quest'ultima può essere"strutturata", "semistrutturata" o "non strutturata". Il primo tipo è organizzato secondo una struttura rigida, in cui sono univocamente stabiliti sia l'argomento , sia il numero che la collocazione cronologica delle domande. Il secondo tipo consente invece una maggiore elasticità nella conduzione dell'intervista, in relazione sia agli argomenti, che all'interazione tra le persone: l'intervistatore deve rivolgere un certo numero di domande specifiche, potendo poi rivolgerne altre a sua discrezione. Il questionario, viene invece utilizzato nel caso in cui s'intende raccogliere dei dati su diverse persone sparse in una vasta area territoriale. Di fondamentale importanza è la professionalità dell'intervistatore, che deve conoscere i metodi che gli consentono di ridurre al minimo la sua influenza nell'interazione con l'intervistato. Tra i fattori di distorsione si registrano tutti gli elementi della comunicazione non verbale, pause silenzi, toni della voce, che possono condizionare le risposte dell'esaminato. 4. Indagini individuali I metodi individuali di indagine criminologia consistono nello studio di singoli criminali o di piccoli gruppi; mutuati dalla ricerca psicologica e medica, presuppongono che un ricercatore possa pervenire ad una migliore conoscenza di un fenomeno mediante una intensa esplorazione. Si diffondono per reazione allo studio di cause singole e per contro si avvalgono di un approccio olistico. Il metodo clinico, possibile approccio allo studio dei casi, viene utilizzato nella diagnosi di un problema personale rilevante o anormale e nella messa a punto di un programma di trattamento adeguato. Coniuga due aspetti importanti: ricerca e trattamento, e si sofferma sui fattori costituzionali, psicologici e sociali che caratterizzano ciascun delinquente. Le correlazioni fra numerose indagini individuali consentono di ricavare tendenze e caratteristiche comuni. Inoltre tali investigazioni hanno permesso di chiarire fattori assai rilevanti della condotta deviante: fattori disturbanti familiari, caratteristiche di personalità, condizioni frustranti, tutti elementi interessanti se inseriti in un ottica di causalità circolare. Clinici provenienti da vari ambiti vengono spesso interpellati per formulare valutazioni circa il possibile futuro comportamento o la eventuale pericolosità sociale di un individuo, valutazioni che possono essere usate per incarcerare un reo o limitare in altro modo la libertà. Gli studi dei giudizi clinici predittivi di un comportamento futuro hanno evidenziato, che esiste un notevole numero di "falsi positivi", cioè predizioni errate. Ciò solleva la spinosa questione dell'equilibrio tra sicurezza pubblica e libertà individuale. La critica più aspra rivolta al metodo clinico, è che gli individui o i gruppi selezionati per lo studio potrebbero non essere rappresentativi della intera popolazione di 43
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
44
quegli individui o di quei gruppi. Oltre al suo impiego clinico in criminologia, l'approccio dello studio dei casi è stato anche usato nella forma di "storie di vita", osservazione e osservazione partecipante. Il metodo della storia di vita comprende l'analisi di diari, biografie, autobiografie, come pure interviste, al fine di ottenere una conoscenza profonda di singoli individui o gruppi rappresentativi. Particolare attenzione viene riservata alla storia individuale come raccontata dal soggetto, all'interpretazione che egli ne fornisce, nonché alle sue esperienze e al suo ambiente. L'osservazione e l'osservazione partecipante arricchiscono ulteriormente lo studio della vita sociale e della condotta deviante, attraverso esperienze dirette con il reato e i criminali. Di solito ciò implica il compilare un diario dettagliato, magari comprendente anche un certo numero di interviste molto approfondite. Altri ricercatori si avvalgono di registrazioni, fotografie, ecc. Un inconveniente del metodo dell'osservazione e delle storie di vita, è rappresentato dall'estremo coinvolgimento personale richiesto al ricercatore, spesso causa di sgradevoli e dannose conseguenze. Contro tutte queste obiezioni si potrebbe ribattere con la considerazione che lo studio dei casi e l'osservazione partecipante potrebbero essere utilizzati nella fase preliminare di ogni ricerca, al fine di arricchire una teoria e giungere alla formulazione di ipotesi più efficaci e alla costruzione di strumenti più appropriati. 5. Il metodo storico. Il metodo storico in criminologia ha molti obiettivi: studiare il cambiamento nella natura e nella diffusione del reato nel tempo o in condizioni sociali differenti; rintracciare le fonti sociali del cambiamento delle leggi che definiscono la natura del reato; analizzare un evento o un periodo storico per il suo interesse intrinseco; isolare una particolare forma di reato o devianza e studiare le reazioni ad essa durante uno specifico periodo storico. Tale approccio seppure molto utile, risulta spesso di non facile applicazione a causa di limitazioni legate alla parziale o totale indisponibilità dei dati presenti negli archivi. Inoltre un altro inconveniente, comune allo studio dei casi, scaturisce dalla difficoltà della scelta di un caso rappresentativo. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO ARENI A., ERCOLANI A.P., MANNETTI L., La ricerca in psicologia. Modelli di indagine e di analisi dei dati, NISCarrocci, Roma, 1990. ARENI A., ERCOLANI A.P., SCALISI T.G., Introduzione all'uso della statistica in psicologia, Led, Milano, 1994. DE LEO G., PALOMBA P., PATRIZI P., SCARDACCIONE G., L'adolescenza lunga. Problemi psicosociali e criminologici dei giovani adulti, UNICOPLI, Milano, 1992. FERRACUTI F., Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, vol. I, Le radici, le fonti, gli obiettivi e lo sviluppo della criminologia, Giuffrè, Milano, 1987. MC BURNEY D.H., Metodologia della ricerca in psicologia, Il Mulino, Bologna, 1986. 44
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
45
NOVENTA A., Per la ricerca sociale. L'intervista e le storie di vita nell'analisi sociologica, UNICOPLI, Milano, 1982. PEDON A., Metodologia per le scienze del comportamento, Il Mulino, Bologna, 1995. PONTI G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina, Milano, 1990. ROBERT B.M., La ricerca scientifica in psicologia, Laterza, RomaBari, 1990. ROSSI J.P., Il metodo sperimentale in psicologia, Borla, Roma, 1994. IL COLLOQUIO CRIMINOLOGICO Il “colloquio” rappresenta lo strumento di intervento principale del criminologo impegnato professionalmente nel contesto penitenziario e, più in generale, il momento in cui maggiormente si concretizza l’applicazione del sapere criminologico nell’ambito del sistema della giustizia penale. In questo settore, infatti, il criminologo può essere chiamato ad operare professionalmente, secondo la normativa attuale, in tre distinti momenti[1]: a. Prima della sentenza, in fase processuale: in questa fase l’intervento professionale del criminologo è piuttosto limitato; infatti non sono ritenuti ammissibili accertamenti peritali su soggetti sottoposti a giudizio al fine di conoscere “l’abitualità e la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere o la personalità dell’imputato e in genere le qualità psichiche indipendenti da cause patologiche”(art 220 c.p.p.) poiché la valutazione della personalità dell’imputato rimane competenza esclusiva del giudice. D’altra parte è previsto (art.223 c.p.p.) che vengano ammesse, sotto forma di “pareri delle parti”, perizie sulla personalità dell’imputato effettuate da consulenti tecnici (tra i quali il criminologo) che il Pubblico Ministero o le parti private hanno la facoltà di nominare b. In fase di esecuzione della pena: il criminologo, in qualità di “esperto”, ha il compito di effettuare “l’osservazione scientifica della personalità del condannato”, così come previsto dall’ordinamento penitenziario, attività considerata fondamentale per formulare il programma di trattamento individualizzato, intramurario ed extramurario. c. Durante la detenzione: il criminologo offre una serie di interventi trattamentali risocializzativi al condannato qualora questi ne avverta la necessità e ne faccia richiesta (colloqui di sostegno, di aiuto psicologico,group counseling, ecc) In pratica l’attività del criminologo clinico consiste, secondo Merzagora[2], in: a. attività di osservazione, valutazione e prognosi, su mandato dell’autorità carceraria o giudiziaria (ruolo tecnico istituzionale);
45
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
46
b. interventi sul reo, in seguito a sua richiesta, per soddisfare bisogni di aiuto psicologico, di chiarificazione interiore, di programmazione o di revisione dei progetti di vita, di consiglio ed anche per effettuare attività programmate nell’ambito dell’istituzione carceraria per finalità educative collettive, discussioni o dibattiti (ruolo terapeutico o trattamentale). In tutti i casi descritti, il colloquio rappresenta lo strumento principale di lavoro del criminologo. Per lo specifico contesto in cui viene realizzato e per il peculiare “mandato” che lo giustifica, il colloquio criminologico si caratterizza in maniera particolare rispetto ad altre forme di colloquio (clinicodiagnostico, terapeutico, di orientamento, ecc). Definizione ed obiettivi del colloquio criminologico Un colloquio, inteso in termini generici come “una conversazione importante, che mira ad uno scopo determinato, oltre che al semplice piacere della conversazione”[3], può essere definito in base a: 1. il contesto in cui si verifica 2. gli obiettivi che lo guidano 3. le caratteristiche delle persone che vi partecipano Seguendo questi criteri possiamo definire il colloquio criminologico come “una tecnica di comunicazione, che si svolge in una situazione istituzionale, che ha come antecedente il fatto che l’intervistato abbia commesso un reato, e che ha come scopo quello di fornire, ad altri che hanno su di lui autorità, informazioni sulla sua personalità in relazione alla genesi e alla dinamica del reato, alle indicazioni per il suo trattamento, ed alla previsione del comportamento futuro.”[4] Più precisamente con questa definizione ci riferiamo al colloquio che il criminologo svolge più nella sua veste tecnica–istituzionale che in quella più specificamente terapeutica trattamentale. Osserviamo come il contesto istituzionale, giuridico e ancor più quello penitenziaro, connotano di specificità il colloquio criminologico, stabilendone la natura e gli obiettivi. In primo luogo definisce i partecipanti, in particolar modo l’intervistato che è un soggetto che ha commesso un reato e che si trova in una condizione di restrizione e limitazione della libertà personale. In questo senso differisce dal cliente o paziente comunemente inteso che si rivolge volontariamente all’esperto per chiarirsi e/o modificare una condizione di vita vissuta come problematica; nel caso del detenuto, non è il soggetto a richiedere il colloquio del criminologo (ad eccezione dei casi in cui il condannato richieda un intervento terapeutico o di sostegno) ma questo avviene su formale richiesta dell’autorità giudiziaria o penitenziaria; il contesto quindi determina l’accesso al colloquio da parte dell’intervistato, prescindendo dalla sua volontarietà, spontaneità e motivazione che rappresentano il presupposto per molte altre forme di colloquio. Inoltre il colloquio criminologico non implicando una “domanda” da parte di chi vi si sottopone, non presuppone nemmeno che questi si trovi in una condizione di disagio o di sofferenza da cui voglia liberarsi, come ad esempio più comunemente avviene per un “paziente” in un colloquio clinico. Appare evidente quindi che la natura istituzionale del mandato determina anche gli obiettivi del colloquio criminologico che non presenta finalità 46
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
47
terapeutiche ma valutative. Secondo quanto previsto dall’ordinamento penitenziario del ’75, infatti, il colloquio (per il cui svolgimento l’art.80 prevede l’utilizzo di esperti tra i quali il criminologo clinico) di fatto viene utilizzato per l’osservazione scientifica della personalità dei condannati ed internati, al fine di formulare le indicazioni in merito al trattamento rieducativo (art. 13, comma 2, o.p.). L’ art 1 della legge n.354 del 26 Luglio 1975 infatti oltre a stabilire che “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, specifica anche che “nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi”. Tale trattamento, sempre secondo questo articolo “va attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti”. A tale scopo il succitato art. 13 prevede che si compia una “osservazione scientifica della personalità diretta ad accertare i bisogni di ciascun soggetto” e “rilevare eventuali carenze fisiopsichicoaffettive e le altre cause del disadattamento sociale”. Risulta evidente che l’obbiettivo del colloquio criminologico nelle istituzioni carcerarie è fondamentalmente quello di studiare la personalità del detenuto e di fornirne tramite l’osservazione scientifica, una “valutazione” sia in senso diagnostico (riguardante la criminogenesi e la criminodinamica) che prognostico (come previsione del comportamento futuro) che guidi l’individuazione di un trattamento rieducativo personalizzato del carcerato. Il colloquio criminologico quindi, come lo definisce il Ponti[5] (1990, pag464) consiste nella “relazione che si instaura nel corso di dialoghi col fine preciso di consentire all’esperto di approfondire la conoscenza del condannato su cui deve esprimere un ‘opinione”. Questa opinione, (la valutazione del criminologo), viene utilizzata come abbiamo detto, sia (più limitatamente) nel campo della fase processuale e in quello delle perizie sul condannato, che in quello più ampio della esecuzione penale[6]; in questo caso la valutazione prodotta dai colloqui servirà per formulare il “programma di trattamento” individualizzato oppure per fornire informazioni su richiesta della magistratura di sorveglianza in merito alle proprie competenze e decisioni.[7] La magistratura di sorveglianza infatti utilizzerà gli esiti di tale osservazione per stabilire: a. “le modalità di esecuzione della pena b. la concessione o meno delle misure alternative e degli altri benefici previsti dall’ordinamento penitenziario c. la revoca, commutazione o conferma delle misure di sicurezza”.[8](Ponti, 1990, pag 461). Il criminologo, attraverso lo strumento del colloquio, è tenuto a fornire al proprio committente un profilo di personalità, del condannato e dell’internato, in una prospettiva non tanto o solo psicologica ma, più specificamente, criminologica. Infatti dovrà essere dato rilievo all’analisi ai seguenti aspetti: 1. la “criminogenesi” (cioè dovranno essere indagati gli aspetti individuali e sociali che hanno contribuito alla scelta delittuosa) 2. la “criminodinamica” (i meccanismi interiori che hanno condotto all’azione delittuosa) 47
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
48
3. la “pericolosità sociale” (previsione del comportamento futuro in termini di probabilità di recidiva) I primi due punti costituiscono la parte “diagnostica” del colloquio; secondo il Ponti[9] in questa fase il criminologo deve indagare sui “fattori che, in quel dato soggetto, hanno giocato un ruolo nella genesi del singolo reato, ovvero nell’articolarsi di una carriera criminale”. La valutazione criminogenetica deve quindi fornire una lettura del “perché” è avvenuto un dato delitto, cioè comprendere quale sono le interrelazioni tra i vari fattori (individuali, esperienziali, socio ambientali e situazionali) che hanno contribuito al compimento del crimine osservato. La comprensione della criminodinamica invece illustrerà “come” è stato compiuto il reato, intendendo con questo non la modalità concreta di realizzazione ma il processo psicologico e motivazionale che ha condotto al compimento di un progetto criminoso. Il terzo punto consiste nella parte prognostica della valutazione, che esprime una previsione del comportamento futuro del soggetto. La finalità prettamente valutativa del colloquio e il tipo di committenza (i giudici e l’amministrazione penitenziaria) sono aspetti che ovviamente incidono sull’atteggiamento sia dell’esperto che del soggetto che vi si sottopone; l’esito dell’osservazione infatti, come abbiamo visto, contribuirà a stabilire le decisioni della magistratura di sorveglianza e in definitiva la condizione penitenziaria del detenuto. L’intervento del criminologo è motivato, accanto all’interesse per il soggetto esaminato, fondamentalmente da un’esigenza di difesa sociale che non va sottovalutata quando si considerino il tipo di relazione che può instaurarsi tra i due e la tecnica del colloquio realizzabile. Il criminologo, soprattutto, deve essere consapevole della natura e delle implicazioni del proprio mandato, in relazione sia al proprio atteggiamento che a quello del proprio intervistato. Contenuti ed aspetti tecnici del colloquio criminologico Definire gli spazi e i tempi in cui possono svolgersi gli incontri tra esperto e intervistato è molto importante a prescindere del tipo di colloquio considerato. Purtroppo il criminologo che opera in ambito penitenziario possiede ridotte possibilità di definire, nel modo in cui ritiene più opportuno, il “setting” ambientale che faccia da cornice ai propri colloqui. La maggior parte di questi infatti si svolge comunemente nel carcere o al massimo negli ospedali dove è obiettivamente difficile garantire le esigenze di riservatezza e l’assenza di disturbi e interruzioni che normalmente un colloquio richiede. Quanto al numero di incontri con il detenuto e alla durata dei singoli colloqui, ciò dipenderà dalle specifiche esigenze del criminologo relative al singolo caso affrontato; a tal proposito Nivoli [10] afferma: “Un solo colloquio non è, sempre e di necessità, sufficiente ad elaborare una diagnosi corretta e documentata sull’intervistato. In molti casi è auspicabile, se non necessario, che il contatto con il deviante sia protratto nel tempo. Il fatto di frequentare il deviante attraverso ripetuti colloqui permette al criminologo di raggiungere alcuni specifici obiettivi: raccolta più completa dei dati, riduzione dello stato ansioso dell’intervistatore, rilievo di elementi non solo statici, ma altresì dinamici nella formulazione della diagnosi del soggetto.” Un altro aspetto tecnico del colloquio da prendere in considerazione è rappresentato dalla necessità di “fissare” quanto viene detto durante l’interazione tra esperto e condannato, al fine e di non perdere informazioni importanti e di poterle poi utilizzare; ovviamente si tratta di raccogliere informazioni che attengono sia alla comunicazione verbale sia non verbale, per questo una registrazione su nastro oppure l’uso di 48
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
49
appunti scritti sono entrambe modalità, a dire il vero, non ottimali in quanto possono inibire la naturalezza dell’intervistato e non cogliere adeguatamente i messaggi comunicativi del “corpo” che invece raggiungono naturalmente l’osservatore. Merzagora[11] propone, accanto all’ipotesi di utilizzare la telecamera (alternativa che però riproporrebbe questioni non semplici di rispetto della privacy), di adottare caso per caso la soluzione più adeguata, a seconda delle necessità presentate. Quest’ultima considerazione ci introduce al tema della riservatezza cui è tenuto il criminologo nel trattare le informazioni ricavate durante il colloquio. La situazione è resa più complessa che in altre situazioni che implicano il segreto professionale, in quanto il ruolo del criminologo risulta apparentemente più ambiguo: non è un giudice, ma ha un mandato dell’istituzione giudiziaria o penitenziaria e non è in veste di terapeuta. Per Nivoli [12]: “è norma che il criminologo mantenga il segreto su quanto potrebbe essere di danno all’intervistato.” Ma al fine di evitare “manipolazioni” del segreto professionale, lo stesso Autore ricorda di: o “non richiedere o accettare informazioni confidenziali che non sono utili ai fini del colloquio” o “specificare sin dall’inizio del dialogo che non si è obbligati al segreto professionale (ed assicurasi che l’intervistato abbia compreso)” o “portare lo stesso intervistato e di sua volontà e dopo discussione, a “rompere” il segreto professionale con confessioni o dichiarazioni che compie personalmente (non accettare deleghe o “permessi a parlare” concessi dall’intervistato)” o “ricordarsi che la trasmissione giustificata di notizie ricevute non costituisce violazione della norma deontologica del segreto professionale” E’ indispensabile, in tal senso, che il criminologo chiarisca bene e preventivamente all’intervistato, la natura del suo ruolo, i motivi e gli scopi del colloquio intrapreso e l’utilizzo della valutazione che ne scaturirà. Le fasi del colloquio Possiamo descrivere lo svolgimento del colloquio criminologico, distinguendo alcuni momenti: 1. fase preliminare di presentazione 2. la raccolta dei dati biografici di vita 3. l’approfondimento del reato, la situazione giudiziaria e carceraria. 4. l’approfondimento prognostico 5. la fase conclusiva del colloquio 1. Secondo Nivoli[13] “l’incontro inizia con la presentazione (presa di coscienza di essere atteso, di trovarsi nel luogo stabilito e con la persona richiesta); prosegue con l’accoglienza formale (mettere 49
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
50
a suo agio l’interlucotore nel territorio a lui estraneo: indicare con chiarezza ove può sedersi, deporre effetti personali, ecc.) e termina con l’invito a parlare”, a raccontarsi. Noventa[14]specifica che in questa prima fase è anche necessario fare chiarezza con l’intervistato sugli scopi dell’incontro e sull’uso che verrà fatto delle informazioni ottenute, in modo da far emergere e modificare in senso più realistico e corretto le aspettative che il colloquio ha potuto suscitare nel condannato. Questi, infatti, deve avere, assieme al criminologo, consapevolezza di ciò che si accinge a fare; dei ruoli reciproci e dei contenuti su cui verterà il colloquio e degli ambiti che invece non andranno trattati.[15] 2. L’indagine dei dati biografici è essenziale ai fini di una adeguata valutazione del soggetto ma è anche un’ottima occasione per intraprendere l’interazione conoscitiva senza suscitare troppi imbarazzi ed ansie nell’intervistato, affrontando immediatamente il tema del reato commesso.[16] Si tratta dei contenuti del colloquio dotati di maggiore oggettività, anche se l’osservazione dei messaggi comunicativi paralinguistici possono, anche in questo caso, trasmetterci molte informazioni aggiuntive ai semplici dati di fatto. A tale proposito Nivoli[17] precisa che “..nel corso del colloquio l’esame del deviante può svolgersi ai seguenti livelli: ciò che il soggetto “dice” (modalità di razionalizzare, ecc) ciò che il soggetto ha fatto(dati obbiettivi anamnestici, ecc.) ciò che il soggetto sta facendo (linguaggio gestuale, ecc) ciò che il soggetto prova affettivamente (amore, odio, ecc.) la obbiettivazione del soggetto su un continuum (somministrazione di test, ecc) la classificazione qualitativa del soggetto (specifiche dinamiche delittuose o vittimologiche)” Secondo Merzagora[18] andrebbero raccolti, in linea generale in questa fase, i seguenti dati anamnestici del condannato: ∙ data e luogo di nascita; ∙ parto e svezzamento; ∙ normalità, precocità o ritardo nello sviluppo, prime fasi di vita fisiologica (linguaggio, cammino); ∙ Notizie sulla famiglia di origine: livello di istruzione, situazione economica e sociale, occupazioni e interessi, esistenza o meno di precedenti delinquenziali fra i familiari o di altra patologia del comportamento; ∙ Composizione della famiglia: esistenza di fratelli, età e caratteristiche, rapporto con loro, risentimenti e conflitti, senso di superiorità o inferiorità, ammirazione e identificazione. 50
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
51
∙ Atmosfera familiare: ricordi sui genitori nei primi anni di vita, i rapporti dei genitori fra loro e dei genitori con il soggetto, attaccamento alla famiglia, preferenza per un genitore o per un altro , giudizio sui genitori, disciplina familiare , la famiglia come fonte di conforto e di sicurezza; ∙ Atteggiamento nei giochi e con gli altri bambini (cooperativo, aggressivo, importuno, timido, passivo, ecc.) ∙ Carriera scolastica: età di inizio e fine della scuola, motivi dell’eventuale interruzione della carriera scolastica, titolo di studio conseguito, classi ripetute, rapporti con i compagni e con gli insegnanti, atteggiamento nei confronti dello studio; ∙ Atteggiamento verso il gruppo dei pari, figure di identificazione; ∙ Ambizioni ed ideali adolescenziali e giovanili; ∙ Il servizio di leva: disciplina, frustrazioni, ecc.; ∙ Esperienze sentimentali e sessuali, legami affettivi, matrimonio, atmosfera coniugale, difficoltà, accordo o disaccordo, separazioni o divorzi; ∙ I figli e i rapporti con loro; ∙ Malattie, infortuni, precedenti psicopatologici, loro importanza nella vita di relazione e lavorativa; ∙ Carriera lavorativa, costanza o meno nel lavoro, interessi extraprofessionali; ∙ Uso di alcol o di droghe; ∙ Difficoltà di adattamento; ∙ Scopi e aspirazioni per il futuro, ideali sociali e personali. Questa ricostruzione della storia di vita del soggetto dovrà essere fatta ovviamente tenendo conto di una prospettiva criminologica, che evidenzi, nel corso dell’arco di tempo considerato, i fattori personali e sociali che possano risultare maggiormente significativi in prospettiva del delitto o dei delitti commessi. 3. In seguito a questa prima raccolta di informazioni, può essere affrontato l’argomento “reato”. A volte è lo stesso detenuto che desidera parlarne per potersi dichiarare innocente, espiare i propri sensi di colpa o lamentarsi della situazione in cui si trova[19]. Proprio per impedire facili strumentalizzazioni, è opportuno che il criminologo sia a conoscenza di tutte le informazioni che riguardino la condizione giudiziaria attuale e precedente del soggetto esaminato. Al momento del colloquio per Merzagora[20] andranno conosciute o investigate le seguenti aree:
51
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
52
Ø Il reato: il tipo di reato; il luogo e il tempo di esecuzione, l’età del reo, la presenza di eventuali complici; la dinamica del reato e le eventuali circostanze aggravanti Ø La vittima: le caratteristiche della vittima e l’eventuale rapporto con il reo Ø Il reo: a) la sentenza o le sentenze che lo riguardano; i sui precedenti e le tappe della eventuale carriera criminale b) la condizione mentale del soggetto al momento del delitto; le valutazioni etiche nei confronti del reato commesso e le reazioni del suo ambiente familiare e sociale; il suo atteggiamento al momento dell’arresto, del processo e della carcerazione; c) il comportamento in carcere e l’atteggiamento nei confronti dell’istituzione carceraria e verso al detenzione, i rapporti con gli altri carcerati e con gli agenti di custodia; d) Le prospettive del reo: progetti, prospettive e problemi legati al ritorno in libertà, al termine del periodo di detenzione Tutti questi elementi dovrebbero aiutare l’intervistatore a formulare una ipotesi criminogenetica e criminodinamica del caso esaminato e quindi portare a comprendere globalmente i motivi che hanno condotto al delitto (in che modo hanno contribuito al delitto); a tal fine Bisio[21] suggerisce di: a) indagare come il soggetto ha ceduto all’azione dei motivi che su di lui hanno agito; b) determinare perché non lo hanno inibito altri motivi (sociali, individuali, morali, religiosi, giuridici, ecc.); c) ricercare come il soggetto è arrivato a concepire, e sotto quale aspetto, l’azione antisociale, dalla quale si è ripromesso la soddisfazione di un interesse; d) conoscere come è stata la preparazione e l’esecuzione del reato. 4. A queste fasi più conoscitive e diagnostiche, segue una fase di approfondimento prognostico consistente in una valutazione “predittiva” del comportamento del reo in vista dell’ottenimento o rifiuto di una misura premiale, di una misura alternativa o sostitutiva della pena. Il criminologo in pratica è tenuto ad esprimere il proprio parere sulla “pericolosità” del detenuto, quindi a valutare “la probabilità che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati”(art 203 c.p.). Una previsione della recidiva può essere eseguita, concretamente, tenendo conto di alcuni parametri (condizioni della persona, dell’ambiente, meccanismi psicosociali), che l’esperienza diretta e la ricerca criminologica, hanno individuato in alta concentrazione in casi di comportamenti delittuosi reiterati. Si tratta quindi di una valutazione di tipo probabilistico che ha il limite di non considerare l’eventualità, sempre possibile, che, ricorda il Ponti[22]: “il soggetto esaminato modifichi la propria 52
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
53
condotta, nel bene e nel male, per le più svariate e imprevedibili ragioni, anche quando la concentrazione di fattori che favoriscono la recidiva è particolarmente elevata, o quando all’opposto i dati parrebbero più favorevoli”. Lo stesso autore[23] descrive i principali indici di predizione negativa utilizzabili al fine di elaborare un giudizio prognostico “integrato”. Alcuni di essi riguardano la persona del reo, altri la sua famiglia e alla carriera criminale. Della persona possono avere significato sfavorevole: “la bassa intelligenza, i disturbi della personalità, la tossicodipendenza e l’alcolismo, le irregolarità e l’incostanza della carriera scolastica, le sfavorevoli condizioni socioeconomiche, gli ideali antisociali di vita, la precocità del disadattamento, l’inserimento in sottoculture delinquenziali, l’ambiente frequentato, certa tipologia di reati, la concreta assenza di possibilità di inserimento, lavorativo e ancora altri mille fattori.” Rispetto alla famiglia, che rappresenta un elemento di prima importanza nella possibilità di recidiva dei giovani devianti, risulterà sfavorevole l’appartenenza ad una famiglia con un elevato grado di disgregazione e caratterizzate da carenze affettive educative o esse stesse da connotazioni antisociali. Altri indici prognostici negativi possono essere rintracciati nella carriera criminosa del reo, e in particolare, per Ponti[24]: “l’inizio precoce dell’attività delittuosa, la frequenza e il numero delle recidive, la brevità dell’intervallo di libertà fra successive condanne, l’omogeneità dell’indole dei precedenti reati.” 5. Il congedo con l’intervistato, oltre a rappresentare un’occasione per “rimandare” al detenuto qualcosa di costruttivo al fine di un migliore adattamento carcerario (Merzagora, 1987, pag 119), deve essere anche considerato con attenzione dal criminologo se non vuole incorrere in una serie di errori di valutazione che attengono proprio alla fase finale del colloquio stesso. Il Chiari [25]ce ne descrive alcuni: § L’errore sistematico: la tendenza a sopravvalutare in rapporto al proprio atteggiamento mentale (ad esempio l’ottimista può essere portato ad esprimere giudizi più benevoli) § L’errore di tendenza centrale: per cui l’esperto può assumere una posizione di neutralità per la mancanza effettiva di un giudizio negativo o positivo netto. § L’errore di “effetto alone”, cioè la tendenza a giudicare alcune qualità condizionati dal giudizio su altre qualità presenti § Errore di “contrasto”, cioè la tendenza a giudicare gli altri in opposizione al proprio modo di essere (ad esempio l’ingenuo tenderà a giudicare l’altro come astuto) § L’errore di “proiezione”, cioè la tendenza a trasferire sull’altro caratteristiche proprie. Altri aspetti del colloquio criminologico: l’atteggiamento dell’intervistato e l’atteggiamento del criminologo Il criminologo deve essere consapevole del fatto che l’intervistato, data la peculiare situazione in cui si svolge il colloquio, può mostrare un atteggiamento, un modo di porsi e mettere in atto delle strategie comunicative e relazionali, che potrebbero condizionare l’andamento del colloquio se non 53
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
54
fossero riconosciute e gestite dall’intervistatore. Nivoli[26] ha descritto una serie di atteggiamenti che il detenuto sottoposto a colloquio criminologo può assumere: Ø Lo “sfruttamento”: il reo tenta di manipolare la situazione e il ruolo del criminologo per ottenere benefici immediati. Quando verifica che non gli riesce, può mostrare disinteresse od ostilità verso l’esperto. Ø La “rivendicazione”: il reo riversa sull’intervistatore le lamentele, i disagi e le proteste legate alla sua condizione, senza tener conto delle esigenze del colloquio e del ruolo del criminologo in quella circostanza Ø L’ “intimidazione”: il reo si pone in contrapposizione all’intervistato e considera la collaborazione al colloquio come un compromesso inaccettabile. Ø Il ruolo accomodante: al contrario il soggetto in questi caso si dimostra disponibile e zelante, ma solo ad un livello apparente e strumentale Ø La “dispersione”, atteggiamento in cui il soggetto utilizza l’estrema loquacità per eludere temi più coinvolgenti Ø L’“indifferenza”: viene ostentato distacco e disinteresse per il colloquio (atteggiamento soprattutto presente in soggetti appartenenti ad organizzazioni criminali) Ø La “catarsi”, al contrario è l’atteggiamento di quel detenuto che si lascia andare ad una partecipazione eccessiva, particolarmente emotiva, al colloquio e alla trattazione delle proprie vicende e sentimenti personali Ø L’“identificazione all’ideale di sé”: l’intervistato in pratica non racconta di sé come è realmente ma di come vorrebbe essere idealmente. Ø L’“inversione di ruolo”: il soggetto cerca di ottenere il controllo sul colloquio assumendo il ruolo dell’intervistatore (sceglie i temi da affrontare, fa domande sul criminologo, ecc.) Ø La “drammatizzazione”: il soggetto tende ad assumere atteggiamenti da vittima, amplificando in modo eccessivo i propri problemi per ottenere maggiore attenzione e indulgenza Ø La “seduzione”: è il tentativo di controllare e manipolare l’esperto attraverso atteggiamenti compiacenti, miranti ad attrarre il suo interesse al di là dello scopo precipuo del colloquio Ø La “provocazione dialettica”: il soggetto si pone in una situazione di competizione con l’intervistatore, attraverso il sarcasmo o la critica, la messa alla prova della sua competenza, ecc. Ø Il “patteggiamento”: in questo caso il soggetto si mostra collaborativo per fini utilitaristici, ritenendo che ciò che offre all’esperto gli permetterà di richiedere qualcosa come contropartita. 54
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
55
Altre condotte particolari del detenuto quali la simulazione o il silenzio possono mettere in difficoltà il criminologo meno esperto. Occorrerà in questi casi stabilire per prima cosa se si tratta di silenzio o simulazione dovuti a una condizione psicopatologia (esacerbata anche dalla deprivazione relativa indotta dalla prigionizzazione) o una comprensibile forma di riservatezza o imbarazzo, o se invece si tratta di un atteggiamento voluto, provocatorio e di opposizione. Ad ogni modo il criminologo dovrebbe poter controllare reazioni troppo immediate e spiegare al soggetto con chiarezza e decisione che la menzogna o il silenzio non possono apportare nessun giovamento alla sua condizione e che “ il ruolo dell’intervistatore è sì valutativo ma non inquisitorio”.[27] Il criminologo, d’altra parte deve essere consapevole che anche l’atteggiamento da lui assunto può incidere in maniera determinate sullo svolgimento del colloquio e sul comportamento dell’intervistato. In primo luogo il criminologo deve porsi in un atteggiamento di rispetto nei confronti del proprio interlocutore, chiarendo e attenendosi in modo corretto al proprio ruolo e alla propria funzione; evitando interventi troppo invadenti, un atteggiamento ironico o moralistico. Inoltre dovrà saper gestire la propria emotività (non negandola ma riconoscendola e utilizzandola in modo proficuo), regolare la comunicazione in base alle caratteristiche culturali e linguistiche del soggetto, non forzare le risposte mediante un atteggiamento direttivo o allusivo; non suscitare nel detenuto una aspettativa di “complicità” che necessariamente non potrà essere soddisfatta, favorendo l’elaborazione delle fantasie e delle false aspettative che il colloquio comporta. BIBLIOGRAFIA Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990 Merzagora I. ,“Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987 Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e dell’intervista, Mondadori, Milano, 1980 Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982 Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975 [1] Ponti G. , “Compendio di criminologia”, Cortina Editore, Milano, 1990, pag:458,459 [2] Merzagora I. , “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano, 1987, pag 18 [3] Bingham e Moore, cit. in Merzagora, I., “Il colloquio criminologico”, Unicopli, Milano,1987, pag 27 [4] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag28 [5] Ponti G. , 1990, Op. cit. pag 464 55
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
56
[6] Ponti G. , 1990, Op cit, pag 463 [7] Ibidem [8] Ibidem pag 461 [9] Ibidem, pag 464 [10] Nivoli G. C., “Il colloquio criminologico”, in Trentini G., (a cura di), Manuale del colloquio e dell’intervista, Modadori, Milano, 1980, pag 10 [11] Merzagora I., 1987, Op. cit, pag.83 [12] Nivoli G. C., 1980, Op. cit. pag 1112 [13] Ibidem, pag 4 [14] Noventa A., “L’intervista e le storie di vita nell’analisi sociologica”, Unicopli, Milano, 1982 [15] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 82 [16] Merzagora I., 1987Op. cit., pag 85 [17] Nivoli G. C., 1980, Op. cit., pag27 [18] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag.8687 [19] Merzagora I., 1987, Op. cit., pag 89 [20] Ibidem, pag 90 [21] Bisio B., “Psicologia criminale”, Bulzoni, Roma, 1975, pag. 487 [22] Ponti G., 1990, Op. cit, pag. 470 [23] Ibidem, pag.471 [24] Ibidem, pag. 471 [25] Cit. in Merzagora, !987, op. cit, pag. 120 [26] Nivoli G.C., 1980, Op. cit. [27] Merzagora I., 1987,Op. cit., pag. 74
56
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
57
LA PERIZIA Secondo l’art. 220 del nuovo codice di procedura penale : “la perizia è disposta quando occorre svolgere indagini o acquisire dati o valutazioni che richiedono competenze tecniche, scientifiche o artistiche”. La perizia appartiene dunque alla fase processuale della formazione della prova, che è un momento cardine del processo e consiste in una dichiarazione tecnica, specialistica su un elemento di prova, rese a seguito di uno specifico incarico, affidato ad una o più persone competenti in determinate scienze o settori. Dal fatto che è un mezzo di prova discende l’indicazione che essa non deve consistere in ipotesi, opinioni od intuizioni, ma fornire concrete ragioni, convincimenti e giudizi che siano idonei a far comprendere ad altri, non esperti della specifica materia, in modo coerentemente razionale, logico e dimostrativo il perché di quel giudizio. Tutto questo comporta che le ragioni del giudizio non possono e non debbono essere speculazioni astratte, bensì dati di fatto e constatazioni che per la loro concretezza costituiscono una prova non confutabile del giudizio stesso. Occorre inizialmente chiarire la questione terminologica : con i termini “consulenza tecnica” e “perizia” ci si riferisce, rispettivamente a istituti del processo civile e del processo penale, anche se la loro funzione è, nella sostanza, identica, entrambe consistono infatti in pareri tecnici offerti da esperti in particolari discipline. Il termine “consulenza tecnica di parte” è invece usato indifferentemente sia nel procedimento civile che in quello penale, per indicare la prestazione tecnica non disposta dal giudice ma eseguita su incarico dell’imputato o della parte lesa nel procedimento penale, ovvero le parti in lite nel procedimento civile, a tutela dei loro interessi (Gulotta, 1987). Nell’attuale ordinamento penale possono essere disposte indagini peritali sulla persona, in diversi ambiti. Possiamo distinguerli secondo vari parametri: 1. secondo il momento in cui viene eseguita la perizia. Nella fase di cognizione, durante le indagini preliminari, che consentono di verificare se sussistono o meno le condizioni per promuovere un’azione penale nei confronti di un determinato soggetto, può essere richiesta consulenza tecnica dal pubblico ministero ; perizia, dal giudice per le indagini preliminari (G.I.P.) ; perizia dibattimentale. Nella fase di esecuzione il magistrato di sorveglianza può disporre degli accertamenti che stabiliscano : la presenza o la persistenza della pericolosità sociale psichiatrica al momento dell’applicazione della misura di sicurezza dell’O.P.G. (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) ; sul condannato possono essere richieste indagini che stabiliscano le condizioni di mente attuali o sull’internato ai fini dell’esecuzione della pena o di una misura di sicurezza diversa da quella psichiatrica (Fornari, 1997). 2. secondo la persona che è oggetto dell’indagine peritale: l’imputato in attesa di giudizio, il reo già condannato o prosciolto per vizio totale o parziale di mente, oppure la parte offesa o il testimone. Se si tratta di autore di reato i quesiti sono finalizzati a stabilire l’esistenza di vizio totale o parziale di mente nell’indagato o nell’imputato al momento dei fatti ; la maturità nel minorenne infradiciottenne, la presenza di pericolosità sociale psichatrica e le condizioni di mente in tutte le fasi che vanno dalle indagini preliminari, al rinvio a giudizio al dibattimento . Nella fase successiva, può essere richiesta la valutazione delle condizioni di mente del condannato ai fini dell’esecuzione della pena detentiva, o dell’internato in vista dell’esecuzione della misura di sicurezza. La presenza e la persistenza di pericolosità sociale può infine essere accertata al momento dell’ applicazione della misura oltre che in una fase successiva della prosecuzione della stessa. Il medesimo discorso 57
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
58
vale per persona internata in O.P.G. al fine di valutare l’opportunità della revoca della misura stessa. Se si tratta di vittima di reato, si dispone accertamento psichiatrico al fine di accertare : infermità psichica nelle vittime di reati sessuali o di circonvenzione, presenza di danni psichici in vittime di violenze sessuali e di maltrattamenti in genere. Nei confronti di un testimone si valutano invece l’attendibilità e la capacità di testimoniare del soggetto ; nel caso in cui si trattasse di un minorenne è prevista la possibilità che il magistrato si avvalga di un esperto di psicologia infantile (art. 498 c.p.p.). 3. secondo la qualificazione professionale del perito: alcune perizie dovranno essere necessariamente eseguite dallo psichiatra, dallo psicologo o dal criminologo, altre da un’équipe che riunisce tutte queste figure. Si elencano di seguito i principali tipi di perizia, distinti secondo l’oggetto fondamentale dell’indagine peritale. ∙Perizia sulla imputabilità: ha come oggetto l’accertamento della capacità di intendere e di volere dell’imputato al momento della commissione del reato. Secondo l’art. 85 c.p. “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità d’intendere e di volere”. poiché nell’individuo adulto, la causa della imputabilità può essere solo l’infermità (art. 88 e 89 c.p.), si tratta di identificare eventuali condizioni patologiche agenti negativamente sullo stato di mente dell’imputato (Gulotta, 1987). ∙Perizia sulla imputabilità del minorenne: riguarda la capacità di intendere e di volere dell’imputato di età compreso tra i 14 e i 18 anni, il cui elemento caratterizzante è la maturità, desunta da un esame autonomo della personalità del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di intendere e di quella del volere (Coviello, Patrizi, 1989). Questo significa che raramente questo tipo di perizia avrà un carattere psichiatrico; consiste infatti in una vera e propria perizia psicologica, mirante a valutare la personalità del minore, la sua maturazione psichica e le sue condizioni sociofamiliari. Può essere disposta in qualsiasi fase processuale dalla magistratura minorile, ed è preferibilmente affidata a psicologi, criminologi clinici o a neuropsichiatri dell’età evolutiva. ∙Perizia sulla imputabilità del soggetto intossicato da alcool o da sostanze stupefacenti: il codice penale prevede e punisce, tramite gli artt. 91 (Ubriachezza derivata da caso fortuito o da forza maggiore), 92 (Ubriachezza volontaria o colposa ovvero preordinata), 93 (Fatto commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti), 94 (Ubriachezza abituale ) e 95 ( Cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti) il soggetto che commette reato in condizioni di intossicazione abituale, cronica o acuta da alcool o sostanze stupefacenti. Nei casi di intossicazione acuta l’imputabilità viene accertata in riferimento all’istante in cui il soggetto ha assunto la sostanza stupefacente e non al momento in cui è avvenuto il reato, identificando la Giurisprudenza quel momento come inizio di una serie di comportamenti che sono sfociati nel reato. Viene poi stabilito se nel momento indicato, in cui ha assunto la sostanza, vi fosse o meno un quadro di rilevanza psicopatologica. Se esso è assente il soggetto viene dichiarato “capace di intendere e di volere”, che ha commesso un reato “sotto l’effetto..” di una determinata sostanza ; se risulta invece aver assunto una sostanza alcolica o stupefacente quando già vi era strutturato un quadro psicopatologico rilevante (psicosi o intossicazione cronica), si riferisce la condotta alla patologia del soggetto. Nei casi di intossicazione cronica il discorso è leggermente diverso. La Giurisprudenza afferma infatti che : “l’intossicazione alcolica che esclude la capacità di intendere e di volere è solo quella che provoca alterazioni psichiche permanenti, cioè l’intossicazione cronica, mentre l’intossicazione transitoria, anche se acuta e patologica, non esclude né diminuisce l’imputabilità se non nel caso sia derivata da caso fortuito e forza maggiore”. Il perito è dunque chiamato a stabilire se l’intossicazione è o meno cronica, in questo caso dovrà 58
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
59
rispondere al quesito se la su “capacità di intendere e di volere fosse scemata o esclusa al momento del fatto” per cui si procede. In altre parole quello che il perito deve valutare è l’accertamento della presenza di una cronica intossicazione e la rilevanza dello stesso sulla imputabilità del soggetto, cosa che esclude la definizione dell’abitualità per quel soggetto di assunzione delle dette sostanze. Soltanto il magistrato può infatti pronunciarsi, dopo aver escluso l’ipotesi di intossicazione cronica (per la cui valutazione ha disposto la perizia) sulla base di testimonianze raccolte dalla polizia giudiziaria, rispetto all’assunzione abituale delle sostanze da parte dell’individuo in esame. Si prenderà quindi in considerazione, quale categoria rilevante ai fini della valutazione della capacità di intendere e di volere, l’intossicazione solamente in quei casi in cui l’abuso di sostanze abbia prodotto un oggettivo danno organico a carico delle funzioni psichiche dell’autore di quel reato e solamente quando esista una chiara connessione tra il reato e quel disturbo psicopatologico. Si tenga infatti presente che in una intossicazione cronica anche a distanza di anni compaiono i segni, sotto forma di alterazione psichiche, della intossicazione ; lo stesso non avviene nelle assunzioni abituali delle sostanze alcoliche o stupefacenti. La Giurisprudenza non considera rilevante, ai fini di escludere o diminuire l’imputabilità, l’intossicazione transitoria, anche se acuta e patologica, quella abituale e la sindrome da astinenza. In quest’ultimo caso soltanto la presenza di segni di deterioramento organico della personalità o di destrutturazione psicotica della stessa, e la possibilità di osservare detti segni a distanza dalla sindrome di astinenza o dalla fese acuta avranno un peso in tal senso. ∙Perizia sulla pericolosità sociale: generalmente tale quesito è posto congiuntamente a quello sulla imputabilità. Il perito può infatti esprimersi sulla pericolosità dell’imputato solo se questa è connessa a cause patologiche, nel caso in cui, cioè, sia stato ravvisato un quadro do patologia di mente tale da costituire vizio totale o parziale di mente. In tal caso il perito deve specificare se al momento dell’accertamento peritale la patologia di mente persista, in modo tale da rendere il soggetto socialmente pericoloso. ∙Perizia sulla capacità dell’imputato di partecipazione cosciente al processo :è una perizia sullo stato di mente attuale, rileva l’esistenza di un qualsiasi quadro patologico di tipo psichiatrico, che possa compromettere la partecipazione cosciente al processo (art.70 c.p.p.). ∙Perizia sulle misure alternative alla detenzione: è un tipo di accertamento peritale che ha per oggetto la scelta, del condannato che ne abbia fatto istanza, della più idonea misura alternativa alla detenzione in relazione alla personalità ed alla pericolosità, al fine di meglio favorire il reinserimento sociale (Gulotta, 1987). ∙Perizia sulla infermità sopravvenuta, sulla capacità processuale e sulla incompatibilità con il regime carcerario: anche in questo caso si tratta di una perizia di natura psichiatrica, che può essere disposta in tutte le fasi del procedimento penale o su condannati, sempre nell’ipotesi da accertare che sia presente l’infermità di mente. Viene generalmente effettuata sull’imputato che si trovi “in condizione di salute particolarmente gravi che non consentono le cure necessarie in caso di detenzione” (art. 275 c.p.p.). ∙Perizia sull’uso personale di stupefacenti: viene disposta quando si tratta di accertare le ipotesi di non punibilità prevista dalla legge per chi abbia detenuto stupefacenti. ∙Perizia psichiatrica sulla vittima: si può disporre l’accertamento delle condizioni di mente di una vittima in tre diversi casi : reati sessuali ; maltrattamenti di minori ; circonvenzione di persona incapace. Nel primo caso si deve stabilire l’entità della coartazione psicologica e le modalità della stessa rispetto alle condizioni soggettive della vittima ed ai rapporti che la legavano all’agente (Fornari, 1997). In termini generici il quesito psichiatricopsicologico riguarda la presenza/assenza di condizioni di inferiorità psichica o fisica del soggetto passivo e l’abuso di tali condizioni da parte dell’imputato. Riguardo alle situazioni di 59
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
60
maltrattamenti e di abuso in danno di minori l’indagine peritale sarà finalizzata ad accertare la presenza o meno di un danno biologico e/o di un danno alla salute della vittima ; ad illustrare quali siano gli effetti psicologici, di tipo negativo, dei maltrattamenti sullo sviluppo del bambino ; mettere in luce l’eventuale presenza di patologie di mente di uno o di entrambi i genitori (si vedano i quesiti sulla imputabilità).Tali quesiti avranno rilevanza anche in ambito civile, rispetto all’ipotesi di decadimento della potestà genitoriale e della dichiarazione di affidabilità o di adottabilità del minore da parte del Tribunale per i Minorenni. La perizia sulle vittime minorenni o su minorati psichici deve inoltre evidenziare : l’idoneità psichica a rendere testimonianza ; l’intelligenza, la personalità e l’attendibilità delle accuse ; la presenza di mitomania o di delirio o altre condizioni psicopatologiche che possono portare a false denunce ; l’influenzabilità da parte di persone interessate a fare dichiarare il falso (Pacciolla, Ormanni, Pacciolla, 1999). L’ambito degli abusi sessuali ai danni di minori è quello che più ha visto svilupparsi un’integrazione tra discipline diverse quali la Giurisprudenza, la psichiatria e la psicologia, chiamate ad agire cercando di ridurre al minimo il disagio della vittima e di ottimizzare gli interventi dei servizi, azione possibile solo laddove esista la collaborazione fattiva tra esperti diversi oltre che l’utilizzo di protocolli d’intervento uniformi. L’interdisciplinarietà psicogiuridica è infatti chiamata a pronunciarsi su cruciali problematiche quali la verifica dell’abuso sessuale ; la presenza di suggestionabilità nel minore ; l’analisi dei diversi indicatori d’abuso ; la percezione, la memoria e il racconto del reato sessuale ; le sensazioni di colpa, vergogna e isolamento della piccola vittima. La perizia psichiatrica sul testimone è infine richiesta qualora, al fine di valutare le dichiarazioni del testimone, sia necessario verificarne l’idoneità fisica o mentale a rendere testimonianza. Nei confronti di un testimone, minore o adulto che sia, la perizia psichiatrica è disposta solo “purché sia indispensabile e sussistano gravi e fondati indizi che la rendano necessaria” (Cass., Sez. I, 14 marzo 1980). L’indagine psicologicopsichiatrica avrebbe, nella fattispecie, come oggetto la valutazione non della verità processuale, di pertinenza del magistrato, ma della credibilità clinica del soggetto, vale a dirsi della sua attendibilità, della capacità di precisione del racconto della serenità di percezione, di conservazione e di rievocazione. In alcune situazioni il testimone può essere nel contempo anche vittima, in questo caso verranno accertate se ci siano o meno le condizioni morbose, di immaturità, o di caratteristiche psichiche che possono far porre in dubbio quanto dichiarato dal soggetto. In deroga a quanto stabilito dall’art. 220 c.p.p. che vieta la cosiddetta “perizia psicologica”, la Giurisprudenza ammette il controllo, tramite indagine peritale, dell’attendibilità del testimone, anche in assenza di condizioni patologiche (Fornari, 1997). Il ricorso a tale strumento avrebbe come unico scopo quello di stabilire la credibilità e l’attendibilità delle dichiarazioni del soggetto. Si tenga presente che attendibilità non è categoria direttamente sovrapponibile a quella della verità e che anche una persona attendibile potrebbe dichiarare il falso. Sarà quindi compito del magistrato, e non del perito, basarsi su riscontri obiettivi per stabilire l’esatto svolgimento dei fatti. I settori su cui verte l’indagine peritale illustrata sono quelli delle violenze sessuali, di cui l’attuale legislazione ammette un’ampia casistica ; quello dei maltrattamenti sui minori ; l’accertamento di tipo psicopatologico su soggetti anziani, sulla presenza o meno di un quadro involutivo senile o di un quadro depressivo, confusionaledemenziale; su soggetti psicotici, di cui si indagherà il contenuto delle dichiarazioni e la possibilità che esse siano frutto di un delirio con cui può esprimersi una personalità psicotica. Il perito Come si è già avuto modo di esporre, nel caso in cui le prestazioni vengano richieste dal giudice nell’ambito dei processi penali, la persona assume la denominazione 60
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
61
di perito; nell’ambito dei processi civili, assume la denominazione di consulente. Con la denominazione di consulente tecnico di parte, invece, ci si riferisce alla persona che ha il compito di definire i pareri richiesta da una delle parti in causa, che sono il pubblico ministero, gli imputati e le parti lese. Il collegio di due o più periti viene nominato quando le indagini e le valutazioni risultano di particolare difficoltà o richiedano conoscenze in distinte discipline (art. 221ccp.). I periti e i consulenti dunque svolgono le loro prestazioni su incarico dei giudici o delle parti. Negli albi dei periti, istituiti presso tutti i tribunali sono iscritte persone fornite di speciale competenza in materie come: la psichiatria, la psicologia, la criminologia. Poiché inoltre, il compito del perito è necessariamente connesso a gravi responsabilità, va da sé, per ovvie ragioni deontologiche ed etiche, nessuno si appresterà a svolgere un mandato peritale se non è dotato di un approfondito bagaglio tecnico e di maturata esperienza clinica (Bellusi, 1991). La perizia viene dunque disposta dal giudice per le indagini preliminari, attraverso l’incidente probatorio promosso dalle parti, o dal giudice del dibattimento o dell’esecuzione, alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle parti. Il giudice, rilevate le generalità del perito, accertata la mancanza di cause di incompatibilità o di incapacità nel o nei periti e sottolineate le responsabilità penali relative all’incarico, formula i quesiti ed invita il perito a rendere dichiarazione sostitutiva del giuramento di rito. Il giudice per le indagini preliminari e il magistrato del dibattimento chiedono al perito che la risposta ai quesiti, sotto forma di relazione scritta, sia consegnata entro un termine concordato. In tal modo sia le parti che il committente possono prenderne visione e formulare quindi le loro deduzioni. A differenza del precedente codice di procedura penale, il consulente tecnico e il perito sono tenuti a presenziare all’udienza preliminare o al dibattimento ed ad esporre a voce le conclusioni cui sono giunti; in qualità di testimoni dovranno dunque affrontare la crossexamination. Disposta la perizia, il giudice e le parti hanno facoltà di nominare i propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti. Il perito per rispondere ai quesiti a lui formulati può essere autorizzato (art. 228 c.p.p) a prendere visione degli atti, dei documenti e delle prove prodotte dalle parti. Può inoltre servirsi di ausiliari di sua fiducia per lo svolgimento di attività non implicanti apprezzamenti e valutazioni. Si tenga presente che il magistrato, Peritus Peritorum, non è necessariamente tenuto ad attenersi alle conclusioni cui il perito è pervenuto; è però tenuto a motivare le ragioni del suo dissenso e nel caso in cui non fosse in grado di farlo “deve far ricorso a chiarimenti dello stesso perito o disporre nuova perizia”. Al contrario non vige l’obbligo, per il giudice, di motivare il suo dissenso nei confronti delle consulenze tecniche di parte; esse si ritengono infatti rifiutate se il giudice aderisce alle conclusioni prodotte dal perito d’ufficio. L’obbligatorietà della prestazione peritale “La prestazione dell’ufficio di perito è obbligatoria” (art. 314 c.4 cpp). Non è dunque possibile esimersi dall’incarico per ragioni di comodo; è sempre possibile, però, far presente al giudice l’esistenza di impedimenti, affinché egli orienti la sua scelta se riterrà valide le giustificazioni del perito, verso un altro esperto. Circostanze che dovranno indurre il perito a sollecitare il giudice affinché conferisca l’incarico ad altri sono: ∙ L’essere prossimo congiunto con l’imputato o con un coimputato del medesimo processo;
61
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
62
∙ l’essere vincolato nei confronti dell’imputato dal segreto professionale; ∙ l’aver già precedentemente in cura l’imputato o l’aver già espresso nei suoi confronti pareri o giudizi, anche in sede non giudiziaria; ∙ l’esser già stato privatamente interpellato come consulente o esperto dal periziando, o dalle parti civili o dai loro avvocati, con espresso riferimento alla vicenda per cui è disposta la perizia; ∙ l’aver interessi personali di qualsiasi genere nel procedimento; ∙ il non ritenersi sufficientemente esperto in materia. Il giuramento di verità ed obbligo del segreto Il perito è tenuto a giurare di svolgere il suo mandato nel modo migliore, fedele e veritiero, senza altro scopo che quello di far conoscere la verità, nel rispetto del segreto su tutte le operazioni peritali. L’irregolare svolgimento delle operazioni peritali o il mancato espletamento delle operazioni stesse può esporre a responsabilità penali. Il codice penale prevede poi espressamente il reato di falso in perizia, quando il perito dia pareri mendaci o affermi fatti non veritieri (art. 373 c.p): è prevista per questo reato la reclusione da 6 mesi a 3 anni oltre che all’interdizione dai pubblici uffici e dalla professione. Sono previste sanzioni anche per la violazione dell’obbligo del segreto (art.226 c.p.p). Il rapporto con il giudice “Il giudice dirige la perizia e, se lo ritiene opportuno, vi assiste” (art.317 cpp). Il perito, in linea di principio deve sentirsi nella veste di collaboratore del giudice, nel senso che entrambi mirano, anche se in ruoli diversi, all’accertamento della verità. Il perito, pur mantenendo la sua autonomia tecnica di giudizio, la sua libertà di decisione e di interpretazione dei dati acquisiti deve via via rendere partecipe il giudice dei suoi risultati, illustrargli le conclusioni verso cui è orientato, nonché le sue perplessità, anche in funzione delle conseguenze giudiziarie che possono derivare dalle sue conclusioni. A sua volta il giudice dovrà informare il perito degli aspetti fondamentali e dei risvolti del processo, dovrà inoltre fornirgli ogni utile notizia già acquisita sulla persona da esaminare. I rapporti con i consulenti di parte La legge dà la possibilità all’imputato ed alla parte civile di nominare loro stessi dei consulenti per assistere alla perizia. Il perito dovrà avere sempre ben presente che solo a lui è affidato il compito di svolgere le indagini, mentre i consulenti possono solo assistervi. In un sistema inquisitorio, come quello utilizzato nei nostri tribunali, è del giudice l’iniziativa per la ricerca delle prove ed è sempre lui che dispone la perizia eleggendo un proprio perito, che diviene così un suo diretto collaboratore ed una sua emanazione, situato al di sopra delle parti. Da ciò deriva il diverso ruolo che nel nostro sistema processuale ha la difesa, e con essa il consulente di parte: egli svolge il ruolo di osservatore critico dell’operato del perito d’ufficio, vigila affinché egli agisca secondo scienza e secondo verità, 62
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
63
bada che non compia errori, osserva le operazioni peritali con pochi poteri e pochissima iniziativa, non può intervenire nella discussione dialettica con il perito. La perizia psichiatrica La perizia psichiatrica consiste in un accertamento tecnico volto a formulare un giudizio fondamentalmente diagnosticovalutativo e prognostico. Ha come destinatari minori, adulti, autori di reato, vittime, testimoni, imputati, condannati e internati e viene richiesta nei casi in cui esiste il problema di stabilire quali siano le condizioni psichiche di un soggetto in riferimento ad una determinata fattispecie di reato e ad un preciso momento del suo iter giudiziario, ”in ogni stato e grado del procedimento” (Fornari, 1997). Nello specifico la perizia psichiatrica mira a stabilire quale sia la capacità di intendere e di volere di un soggetto. Tale capacità rappresenta infatti il requisito fondamentale perché un soggetto possa essere ritenuto responsabile dei suoi atti, soprattutto allorché egli rischia di essere imputato per aver commesso un reato e cioè un atto penalmente perseguibile ( Canepa, 1990). In assenza di responsabilità non è possibile dichiarare un soggetto imputabile. Assume dunque fondamentale rilevanza lo stabilire se, al momento in cui egli ha commesso una certa azione fosse in possesso della facoltà di capire appieno il significato e le conseguenze delle proprie azioni, oltre che della capacità di determinare il proprio comportamento. La compromissione di tali facoltà è rilevante a livello penale e indica che siamo in presenza di uno stato di infermità mentale, di un’alterazione psicopatologica consistente quale potrebbe essere rappresentata da una psicosi. Tale malattia, infatti, nelle sue diverse varietà, compromette il senso di realtà e rende il soggetto incapace di controllare adeguatamente e stabilmente il suo comportamento. Il problema della diagnosi è dato dal fatto che, nel corso di una psicosi, possono verificarsi dei momenti di remissione, o degli intervalli, durante i quali il soggetto riacquista le sue capacità. La situazione è ulteriormente complicata dal fatto che, tale accertamento a scopo peritale, avviene spesso a notevole distanza dal momento in cui è avvenuto il fatto, quindi la valutazione del perito è di tipo retrospettivo. Questione centrale alla perizia psichiatrica è inoltre quella relativa a ciò che si debba o non si debba considerare come “infermità”, anche tenendo conto i criteri offerti dalle diverse classificazioni nel tempo, dal D.S.M. (Manuale diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, nella ultima versione D.S.M. IV) alla classificazione più nota in ambito europeo, I.C.D.10 (decima revisione della classificazione internazionale delle sindromi e dei disturbi psichici e comportamentali). Si rimanda a questo proposito a molti dei manuali di psichiatria più diffusi; si sottolinea invece l’importanza di stabilire, una volta rilevata l’esistenza di un disturbo psicopatologico, la connessione dello stesso e il delitto. Non è dunque sufficiente la diagnosi in campo peritale, ed è invece metodologicamente scorretto “saltare” da un quadro psicopatologico all’atto reato come espressione patologica, stabilendo, in altre parole, una analogia tra la presenza del disturbo mentale e il vizio di mente. Possono dunque essere riconosciuti come espressione di malattia solo quei reati che equivalgono ad un sintomo psicopatologico di quadri clinici come può essere il disturbo psicotico acuto, il disturbo mentale organico, la destrutturazione da personalità schizofrenica. L’infermità di mente si concretizza dunque quando i disturbi patologici psichici, privi di adeguate controspinte, si manifestano sul piano fenomenico attraverso condottesintomo, integrantesi in fattireato (Fornari, 1997). La diagnosi peritale non può, inoltre, tradursi in un giudizio di personalità. Secondo l’art. 314 c.p.p., attualmente in vigore in Italia dal 1930 (Codice 63
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
64
Rocco), “non sono ammesse perizie per stabilire l’abitualità o la professionalità nel reato, la tendenza a delinquere, il carattere e la professionalità nel reo, e, in genere, le qualità psichiche non dipendenti da cause patologiche”. Di conseguenza la perizia sulle qualità psichiche è dunque consentita soltanto nell’ambito psicopatologico, tramite appunto perizia psichiatrica. Questo divieto non è valido nel processo penale a carico di minorenni (art. 9, DPR 448) e nella fase esecutiva della pena. In particolare la perizia psichiatrica sull’autore di reato deve rispondere a due principali quesiti: ∙ se l’imputato, al momento del delitto, si trovava, a causa di una infermità, in uno stato di mente tale che la sua capacità di intendere e di volere era esclusa ovvero gravemente diminuita (art. 85, 88, 89 c.p.), di cui il quesito: “dica il perito, esaminati gli atti di causa, visitato (nome e cognome), eseguiti tutti gli accertamenti clinici e di laboratorio che riterrà necessari ed opportuni (..........), quali fossero le condizioni di mente di (nome e cognome) al momento del fatto per cui si procede; in specie, se la sua capacità di intendere e di volere fosse, per infermità, esclusa o grandemente scemata”. ∙ se l’imputato, a causa della sua infermità, potrà commettere altri delitti in futuro, e quindi se sia o meno socialmente pericoloso (art. 203 c.p.), di cui il quesito: “in caso di accertato vizio di mente, dica altresì il perito se (nome e cognome ) sia da ritenersi persona socialmente pericolosa”. ∙ quali sono le condizioni di mente dell’indagato nel corso delle indagini preliminari o dell’imputato dopo il rinvio a giudizio, “in ogni stato e grado del processo”, di cui il quesito: “dica il perito, esaminati gli atti di causa (.............) quali siano le attuali condizioni di mente di (nome e cognome ) e, in particolare, se sia o meno in grado di partecipare coscientemente al processo”. Il giudice può inoltre formulare un ulteriore quesito: ∙ “dica il perito se esistano indicazioni terapeutiche e quali esse siano”. Viene da sé che l’autore di reato sarà punibile solo se risulterà imputabile, sarà sottoposto a misure di sicurezza solo nel caso in cui risulti socialmente pericoloso. Questo ultimo caso comporta l’applicazione della misura di sicurezza psichiatrica, che si traduce, nei casi di vizio parziale, nell’internamento in Casa di Cura e Custodia (C.C.C.) a seguito della pena della reclusione, mentre in quelli di vizio totale, nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.), al posto della reclusione. Di per sé, considerati da soli, il vizio parziale comporterebbe la riduzione della pena di un terzo, il vizio totale l’esenzione totale. Per quanto riguarda il quesito sulla pericolosità sociale, si è già sottolineato come sia correlato alla questione della infermità mentale; si risponderà cioè a tale quesito solo nel caso in cui venga rilevato un quadro di patologia di mente che costituisca vizio totale o parziale. In tal caso quello che il perito deve accertare è se al momento dell’indagine peritale la patologia di mente persista e sia tale da rendere il soggetto socialmente pericoloso. Escluso il vizio di mente, il perito non deve invece rispondere al quesito circa la pericolosità sociale. In questo caso la formula utilizzata sarà: “l’aver escluso l’esistenza di patologia di mente pregressa o attuale rilevante a fini forensi mi esonera dal rispondere al quesito circa la pericolosità sociale del periziando”. La metodologia utilizzata, è di tipo clinico/criminologica, completa di esami clinici, psicologici e psicodiagnostici; fondamentale è l’utilizzo del colloquio clinico e dei reattivi mentali. Per eseguire l’indagine della personalità del soggetto occorre, innanzi tutto, raccogliere, o analizzare la storia personale del soggetto, o anamnesi, così da avere presente la linea 64
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
65
di sviluppo psichico dell’individuo, appurare l’esistenza di esami medici di tipo fisiologico o neurologico, effettuare più colloqui clinici, applicare i reattivi mentali. Reattivi di efficienza. Sono quei reattivi che misurano l’intelligenza, intesa come capacità che l’individuo ha di comprendere, affrontare e risolvere in maniera adeguata ed adattiva i problemi della vita. Di questo genere è la scala di intelligenza Wechsler per adulti (WAIS : Wechsler Adult Intelligence Scale) e, la W.I.S.C. (Wechsler Intelligence Scale of Children), WISC R in versione revisionata, derivata dalla prima, specifica per i soggetti sotto i 16 anni. Reattivi di personalità. Appare strumento particolarmente utile l’M.M.P.I. (Minnesota Multiphasic Inventory), questionario di personalità che permette di fornire un profilo di personalità del soggetto, analizzandone i tratti “normali”, oltre che quelli “patologici”, contribuendo quindi alla stesura di una diagnosi psichiatrica oltre che di determinare la gravità del disturbo psichiatrico riscontrato. Tra i test utilizzabili vi sono poi quelli di tipo proiettivo, che fanno appello alla produzione spontanea del soggetto. La loro caratteristica comune è quella di partire da una situazione standardizzata, uguale per tutti i soggetti, facilitando però il meccanismo della “proiezione”. I soggetti sottoposti a degli stimoli vaghi e poco strutturati, alla richiesta di dare un significato agli stessi, tenderanno ad organizzarli e a strutturarli proiettando il loro vissuto interiore, la struttura stessa della loro personalità. Nella perizia psichiatrica trova particolare applicazione il test di Rorschach, il più importante test proiettivo di tipo strutturale, che permette di approfondire aspetti “profondi” della personalità. Il test è composto da 10 tavole standardizzate, che riproducono immagini simili a delle macchie di inchiostro, di cui alcune sono grigie e nere, altre grigie e rosse e tre colorate. Le macchie rappresentano delle forme ambigue e imprecisate, ma nel contempo abbastanza semplici e simmetriche da favorire l’interpretazione, frutto delle “proiezioni” del soggetto. Di fronte ad ogni tavola, la consegna è infatti quella di dire “Che cosa potrebbe essere ? A che cosa potrebbe assomigliare ?”. L’esaminatore, dopo aver fedelmente registrato quanto detto dal soggetto, valuterà le sue risposte secondo vari parametri, come : la localizzazione dell’area interpretata, i fattori determinanti la risposta (movimento, colore...), il contenuto della risposta stessa. Le risposte sono inoltre analizzate rispetto alla qualità e alla frequenza statistica. Alcune di esse infatti, ricorrendo con maggiore frequenza sono considerate banali, altre invece, presentandosi di rado vengono valutate come originali. Classificate le risposte, si attribuisce ai dati raccolti un preciso significato psicologico. Alla fine si ricava una diagnosi della personalità che tiene conto di tre dimensioni fondamentali : modalità di approccio alla realtà da un punto di vista del funzionamento intellettuale, affettività, adattamento sociale. Questo test risulterebbe particolarmente utile per approfondire diagnosi, soprattutto in presenza di “difese” e di dissimulazione di malattia mentale ; rilevare, in termini obiettivi il deterioramento mentale ; offre inoltre utili elementi, nell’esame dell’attendibilità del testimone, diretti a valutare il tipo e il modo di percezione della realtà, le caratteristiche del pensiero, la tendenza e lasciare prevalere, nella visione della realtà, fattori razionali piuttosto che emotivi , la capacità critica, la precisione del pensiero, l’abitudine a formulare pensieri logici. Molto indicato per approfondire la personalità del periziando è anche il T.A.T. (Thematic Apperception Test) di Murray, un reattivo proiettivo di tipo tematico, nel quale il meccanismo della proiezione è reso possibile dall’utilizzo di una serie (20) di immagini diverse, sulla base delle quali il soggetto deve costruire delle storie. Questo metodo si basa sul presupposto che, quando noi inventiamo dei racconti, ci rifacciamo alle nostre esperienze passate, esprimendo anche, simbolicamente, degli elementi inconsci. Tale modalità rivelerebbe alcuni contenuti significativi della personalità : bisogni, conflitti, aspirazioni, timori, sentimenti e 65
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
66
complessi (Passi Tognazzo, 1978). Il potere discrezionale del giudice al momento dell’emanazione della sentenza ed ai fini dell’applicazione della pena, tiene conto dei seguenti obiettivi: ∙ esaminare la personalità del reo per valutare i motivi che lo hanno indotto a commettere il reato e la motivazione della sua condotta; ∙ valutare il suo carattere, i suoi precedenti penali e, in genere, la vita e la condotta anteriore al delitto, la condotta contemporanea e successiva al reato, le condizioni di vita individuale, familiare e sociale (art. 133 c.p.); ∙ ricostruire la genesi e la dinamica del delitto e fornire delle indicazioni utili per la programmazione eventuale del trattamento attraverso la pena detentiva o le misure alternative e per la prognosi concernente l’evoluzione futura del caso esaminato. Definita la questione dell’imputabilità del soggetto con disturbi psicopatologici, si dovrà valutare questi disturbi secondo la prospettiva clinica della capacità a delinquere, allo scopo di offrire al magistrato elementi utilizzabili per la formulazione di un programma di trattamento efficace e adeguato elle particolari esigenze del caso individuale. La perizia psichiatrica, da un passato legato ad una pratica della psichiatria tradizionale, basata su pregiudizi patologici, e un’attuale orientamento medicolegale psichiatrico, riferito alla valutazione dei dati psicopatologici e attento alle interpretazioni delle leggi penali in vigore (sulla imputabilità/responsabilità/pericolosità sociale) sta sempre più evolvendo verso un avvenire criminologico, in quanto perizia sulla personalità unica (psicologica, psichiatrica e medicolegale), finalizzata alla comprensione clinicofenomenologica dei processi criminogeni in quanto motivazione e dinamica del delitto, e nel contempo finalizzata alle esigenze di trattamento, considerato come promozione e riabilitazione della personalità. L’imputabilità e la responsabilità penale In fase di cognizione la perizia che viene effettuata sull’autore di reato è sempre di tipo psichiatrico. Questo in considerazione del fatto che ogni persona viene ritenuta responsabile delle proprie azioni, salvo i casi previsti dalla legge illustrati dall’art. 85 c.p. “ Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. E’ imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”. Regolano l’imputabilità dell’autore di reato i successivi articoli : art. 88 c.p. “Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità d’intendere e di volere” ; art. 89 c.p. “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso ; ma la pena è diminuita”. Questo significa che la punibilità di un soggetto deve necessariamente derivare dall’accertamento della sua responsabilità e della sua imputabilità, dato che è punibile soltanto chi è imputabile. Ed è imputabile soltanto chi ha la capacità d’intendere e di volere. Si definisce capacità di intendere, quella che il soggetto aveva, al momento del fatto di comprendere il valore e il disvalore sociale di quell’azione ; come capacità di volere quella di autodeterminare il proprio comportamento in vista del compimento o dell’evitamento di quell’azione che si è costituita in reato. Perché un soggetto possa essere considerato imputabile, bisogna che siano presenti entrambe, altrimenti , mancando od essendo una delle due grandemente scemata, si dovrà considerare l’ipotesi del vizio totale (art. 88 c.p. ) o parziale di mente (89 c.p. ) (Fornari, 1997). Un 66
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
67
soggetto per essere imputabile deve rispondere a determinati requisiti sia fisici che psichici che escludano il vizio totale di mente (art.88 c.p.), il vizio parziale di mente (art. 89 c.p.), l’ubriachezza accidentale (art. 91 c.p.), la stupefazione accidentale (art.93 c.p.), l’intossicazione acuta da alcool o da sostanze stupefacenti, solo se piena e derivata da caso fortuito o da forza maggiore (artt. 91 e 93 c.p.), il sordomutismo (art.96 c.p.), la cui rilevanza va determinata caso per caso e la minore età, se compresa tra i 14 e i 18 anni e se al momento dei fatti erano incapaci di intendere e di volere (art. 97 c.p.). Secondo l’ordinamento giuridico italiano “è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto 14 anni, ma non ancora i 18, se aveva la capacità di intendere e di volere, ma la pena è diminuita” (art. 98 c.p.). Per il maggiorenne solo l’infermità può abolire la capacità di intendere e di volere, mentre per l’infradiciottenne il requisito non è richiesto, ma assume centralità il livello di maturazione del soggetto: i disturbi del carattere, dell’affettività, o qualsiasi condizione anche ambientale che possa interferire con l’adeguamento sociale del giovane e sui processi di socializzazione. In altre parole, a differenza dell’adulto, nei soggetti compresi tra i 14 e i 18 anni di età, la non imputabilità consegue dunque ad una valutazione singolare, caso per caso, che accerti lo sviluppo in senso psicosociale, rinviando alla fase evolutiva, al grado di maturità raggiunta, sia intellettiva, sia affettiva, oltre che ad un sufficiente equilibrio morale tale da permettere una valutazione etica delle proprie azioni, di distinguere il lecito dall’illecito, il giusto dall’ingiusto, il bene dal male. Sia nell’adulto che nel minore si può porre l’ipotesi del vizio totale di mente, da causa morbosa, con diversa formula di proscioglimento di quella dell’art. 98 c.p., o l’ipotesi del vizio parziale, con ulteriore diminuzione della pena. Inoltre, per un minore riconosciuto capace di intendere e di volere, la pena è sempre ridotta di un terzo e, nei casi opportuni, sono previsti dalla legge altri benefici oltre ad una larga utilizzazione di misure alternative alla detenzione. La consulenza tecnica psicologica Approfondisce specificamente la personalità del soggetto, indagandone le potenzialità, l’efficacia intellettuale, il tipo di intelligenza, la dotazione affettiva, il controllo, l’abilità e gli atteggiamenti sociali. Oltre a questo cerca di studiare a fondo le complesse relazioni interpersonali che struttura un individuo nel proprio ambiente di vita. La personalità viene, in, questo caso indagata, tramite diversi strumenti, a seconda dell’orientamento teorico del perito. Lo strumento principale, comune a tutte le impostazioni psicologiche, è il colloquio clinico. Secondo l’approccio psicosociale questo potrebbe essere orientato ad approfondire e focalizzare aspetti anamnestici e clinici diversi, diretti a conoscere la complessità dell’individuo, il suo Sé attuale, i suoi processi di costruzione dell’ identità (Coviello, Patrizi, 1989). Un particolare tipo di consulenza tecnica psicologica è quella che viene richiesta nel corso di una causa di separazione o divorzio, quando il giudice, venutosi a creare un contrasto tra le parti variamente orientato circa l’affidamento all’uno o all’altro dei figli, ai fini di pervenire ad una composizione del conflitto coniugale per determinare il migliore affidamento dei figli, ha facoltà di avvalersi di esperti dotati di cognizioni in ambito psicologico, anche se essi non debbono essere necessariamente degli psicologi. In questo caso la persona con queste competenze vengono chiamate consulenti tecnici di ufficio (CTU). L’indagine viene affidata a psicologi, o a psichiatri da soli o in collegio tra loro, soprattutto nelle situazioni in cui vi è il sospetto o si abbia notizia dell’esistenza di una patologia mentale di uno dei due coniugi. La perizia viene avviata dall’ordinanza di nomina emessa dal giudice, segue poi il giuramento del perito e la comunicazione 67
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
68
del/dei quesiti cui il perito deve rispondere in presenza del giudice, degli attori, degli avvocati, dei periti di parte (CTP), se sono stati nominati. Il CTU è tenuto, pena la perdita di valore della consulenza, a rendere noto, all’inizio delle operazioni peritali, lo svolgimento delle stesse, rispetto ai tempi, le modalità e i luoghi. Il CTU ha facoltà di avvalersi di collaboratori esperti per particolari indagini. Il CTU deve, secondo il principio del contraddittorio, far sì che i CTP siano sempre presenti. Nell’espletare l’incarico peritale è importante che il perito tenga sempre presente quale sia il quesito posto dal giudice e che le conclusioni a cui lo stesso è giunto siano sempre motivate. Allo stesso modo dovrà essere chiaro il procedimento utilizzato nell’esame degli attori e dei minori, oltre che il loro ambiente di vita. A tale scopo, verrà illustrato il contenuto dei colloqui effettuati, i risultati della somministrazione dei test, le informazioni ottenute tramite le visite effettuate presso il domicilio ove risiedono i minori, le testimonianze raccolte, eventualmente presso parenti o vicini. Il quesito, in tali casi è generalmente riferito a quale dei due genitori risulti più idoneo per l’educazione e la crescita della prole ; nello specifico si potrà suggerire il periodo di tempo che il/i minori possono trascorrere con il genitore non affidatario ; si consiglieranno le modalità comportamentali più idonee, da parte dei genitori, alla particolare fase di sviluppo del minore o, a seconda dei casi, si potrà suggerire un affidamento congiunto o alternata, piuttosto che monogenitoriale. Il CTU, le cui azioni sono volte ad assicurare la soddisfazione degli interessi del minore, deve offrire un approfondimento della sua condizione psicologica, del grado di sviluppo affettivo, cognitivo delle modalità di relazioni all’interno al suo nucleo familiare. Il CTU deve tenere presente che le parti tenderanno a identificare la sua figura con quella del giudice e a mettere dunque in atto delle modalità difensive nei suoi confronti. Lo stile difensivo è ravvisabile del resto in ogni situazione coatta, dove c’è un inviante e in cui manca dunque spontaneità. Uno Stile tipico è quello di tipo Evasivo , in cui non vengono dette determinate cose e in cui si risponde cercando di aggirare l’ostacolo ; altro atteggiamento è quello della Compiacenza e sottomissione, che dietro un’apparente atteggiamento accomodante e a tratti sottomesso cerca stima e accettazione nell’interlocutore, non permettendogli di arrivare a contatto con la realtà in esame. Altre persone adottano come atteggiamento di difesa la Seduzione, con atteggiamenti tali da attirare simpatia o compassione, in modo da portare il CTU dalla loro parte (Ciofi, 1998). A prescindere da qualsiasi impostazione teorica di riferimento ogni CTU prevede l’utilizzo del colloquio clinico. Questo dovrà essere abbastanza strutturato da indagare sia la struttura di personalità delle parti in causa, a partire dalla famiglia di origine alla storia della formazione della coppia, vista dalle due angolazioni diverse, alla nascita dei figli, al vissuto legato a tale evento, all’emergere della crisi, al fallimento dei tentativi per risolverla. L’indagine psicologicoclinica deve estendersi anche allo “stile di vita di entrambi i genitori, alle compensazioni adottate, alle mete perseguite, ai vissuti nei confronti dei figli, all’inserimento sociale oltre che lavorativo. Nelle perizie psichiatriche o qualora vi fosse il quesito relativo alla presenza di una eventuale patologia di mente in uno o in entrambi i genitori, è opportuno riportare inizialmente il risultato dell’indagine che documenti o escluda la patologia. Si passerà poi all’indagine degli effetti che questo disturbo ha sulla idoneità educativa del genitore che chiede l’affidamento. Per quanto riguarda i bambini invece, più sono piccoli e più il colloquio appare strumento inadeguato a raccogliere informazioni circa la sua personalità. Il colloquio clinico può essere integrato dall’applicazione di reattivi mentali, usati soprattutto quando si tratta di esaminare dei bambini per i quali può essere inopportuno l’approfondimento, nel colloquio, di certe problematiche ansiogene quali potrebbero essere ad esempio i rapporti con i genitori. Il ricorso ai 68
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
69
reattivi di tipo proiettivo risponde proprio a questa opportunità (De Leo, 1995). Queste informazioni verranno poi integrate da quelle emerse a seguito dell’indagine ambientale dall’audizione di terzi eventuali con cui la coppia e i minori sono in contatto. Una volta nominato dal giudice un CTU, e soltanto in questo caso, è diritto delle parti nominare dei periti di loro fiducia, scelti a loro discrezione tra gli iscritti ad albi oppure tra i non iscritti. Il giudice ha facoltà di non prendere in considerazione le argomentazioni del CTP ; ma è tenuto a prendere in esame le censure che esso eventualmente muova all’operato del consulente d’ufficio. E’ importante ricordare che il perito e i consulenti di parte sono tenuti a collaborare, essendo l’unico fine del loro operare quello di tutelare il o i minori e che essi si debbano adoperare affinché venga mantenuto il contatto anche con il genitore non affidatario, avendo il minore “il diritto ad essere educato nell’ambito della propria famiglia. La perizia psicologica in campo penale minorile Secondo l’articolo 98 c.p. l’imputabilità del minore di età compresa fra i 14 e i 18 anni non è presunta, ma va verificata caso per caso, in relazione alla capacità di intendere e di volere al momento del fattoreato commesso. Tale capacità deve essere stabilita dal giudice che procede, il quale può avvalersi di professionisti presenti nelle strutture minorili o di esperti esterni. In quest’ultimo caso si parla di perizia ed è finalizzata a prendere decisioni giudiziarie connesse ad alcuni degli istituti introdotti dal nuovo processo minorile (D.P.R 448/88): la pericolosità sociale, la rilevanza sociale del fatto (art. 17); la messa alla prova (art.28); le adeguate misure penali (art. 30); gli eventuali provvedimenti civili (art. 32 c.4). La perizia si caratterizza così come laboratorio di ricerca che vede il perito ed il ragazzo impegnati in un lavoro di “cocostruzione”, di racconti e narrazioni di un evento passato, nonché di una valutazione che unisce dimensioni cliniche e dimensioni giudiziarie (Palomba, 1991). Mentre il ragazzo infatti, è portato a rivisitare i fatti e i percorsi mentali che hanno indirizzato ed accompagnato il suo agire, il perito osserva e segue la ricostruzione, dotandola di senso ai fini clinici e peritali. E’ all’interno di questo laboratorio che il perito è chiamato a valutare la responsabilità penale dell’imputato, ad esprimere una prognosi sul suo comportamento, a formulare pareri riguardo agli interventi processuali più idonei. La formulazione esplicita più completa in tal senso la troviamo al comma 1 dell’art. 9: “il pubblico ministero ed il giudice acquisiscono elementi circa le condizioni e le risorse personali, familiari, sociali e ambientali del minorenne al fine di accertarne l’imputabilità ed il grado di responsabilità, valutare la rilevanza sociale del fatto nonché disporre le adeguate misure penali e adottare gli eventuali provvedimenti civili”. In deroga a quanto stabilito dall’art. 220 c.p.p., la perizia nella minore età è, più che una perizia psichiatrica, un accertamento di tipo psicologico, essendo centrale la valutazione della maturità, piuttosto che di un quadro di patologia di mente. Elemento caratterizzante la capacità di intendere e di volere è quello della maturità, desunta da un esame completo della personalità del minore e non procedendo ad un esame autonomo della capacità di intendere e di quella del volere. La capacità di intendere e di volere non deve essere valutata in astratto, ma bensì in relazione al momento dei fatti e allo specifico reato commesso. (Coviello, Patrizi, 1989). Nella stragrande maggioranza dei casi infatti, quello che il giudice chiede è l’osservazione della personalità del minore, il carattere, la capacita di tenere presenti dei valori etici e morali, l’attitudine a distinguere il bene dal male, il lecito dall’illecito, oltre alla capacità di 69
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
70
determinare sé stessi rispetto alle proprie scelte ed ai propri comportamenti. La nozione di maturità è poi abbastanza ampia da permettere di riferirla anche alla rete di relazioni familiari ed extrafamiliari ed alla presenza di eventuali problematiche a tale livello, o, in senso più lato, alla sua appartenenza ad un contesto sociale disgregato ed emarginato. In altre parole è possibile identificare la “immaturità” del minore sia nell’esistenza di deficit di tipo biologicopsicologico, oppure in problematiche di tipo relazionale o ancora, di tipo socio ambientale. Il perito deve inoltre valutare se il minore in questione è provvisto di quelle generiche capacità di cui la giurisprudenza presuppone che un minore “maturo” debba essere dotato. Tale valutazione deve necessariamente essere riferita al momento dei fatti ed alle caratteristiche del reato commesso. Il perito viene nominato dal giudice che sceglie tra gli iscritti negli appositi albi o tra persone fornite di particolare competenza nella specifica disciplina (art. 221 cpp c.1). Disposta la perizia, il pubblico ministero e le parti private hanno la facoltà di nominare i propri consulenti tecnici in numero non superiore, per ciascuna parte, a quello dei periti (art. 225 cpp c.1). Quando non è stata disposta la perizia, ciascuna parte può nominare, in numero non superiore a due, i propri consulenti tecnici, i quali possono esporre al giudice il proprio parere (art. 223 cpp). Nel disporre l’incarico vengono anche stabiliti i termini di inizio e di conclusione delle operazioni peritali e della consegna della relazione, che può anche essere resa verbalmente in situazione di incidente probatorio e in corso di dibattimento, costituendo mezzo di prova. I quesiti possono riguardare: ∙ l’imputabilità ed il grado di responsabilità (art. 98 c.p.); ∙ l’accertamento del vizio totale o parziale di mente (ex artt. 88 e 89 ) ∙ la pericolosità sociale (are. 203 c.p.); ∙ la rilevanza sociale del fatto (art. 27 D.P.R. 488/88); ∙ la sospensione del processo e la messa alla prova (art. 2829 D.P.R. 448/88); ∙ le adeguate misure penali (art. 30 D.P.R. 448/88); ∙ gli eventuali provvedimenti civili (art. 32 D.P.R. 448/88); ∙ l’opportunità di formulare prescrizioni, di effettuare progetti di conciliazione con la vittima (art. 20 D.P.R. 448/88). Il perito è quindi chiamato ad esprimere un parere che può essere articolato su più obiettivi di conoscenza: le capacità attive al momento dei fatti, gli sviluppi ad esso successivi e la prospettiva futura, i nessi di funzionalità fra capacità personali e interventi processuali, l’opportunità di interventi anche preventivi, oltre i confini delle strette esigenze di natura penale. Queste esigenze definiscono anche la struttura interna all’agire peritale, che deve realizzare un’articolazione idonea a rappresentare la complessità della situazione del minore, sotto il profilo personale, familiare, socioambientale e rispetto ai fatti di cui è imputato, adottando come criterio di sintesi, la concettualizzazione e le finalità di ordine giuridicogiudiziario. Una proposta in questo senso prevede: ∙ l’analisi della documentazione esistente: atti processuali, relazioni elaborate da altri esperti in occasione di eventuali precedenti contatti del minore con la giustizia, altre relazioni presenti nel fascicolo personale come per esempio quella dei servizi sociali, ecc.; ∙ i contatti esplorativi con gli operatori della giustizia che hanno in carico il caso ed eventualmente con gli operatori della scuola, dell’Ente locale, ecc. che conoscono il ragazzo; ∙ gli incontri clinici con il minore e con la sua famiglia; ∙ la somministrazione eventuale dei test; ∙ le discussioni e le valutazioni congiunte con eventuali altri periti e con gli operatori che svolgono il caso ( De Leo, 1995). Di due ordini sono le difficoltà che si incontrano generalmente: la personalità del minore, i suoi livelli di consapevolezza rispetto al comportamentoreato e alle conseguenze dello stesso devono essere valutati tenendo anche presente quello che ne deriva, nei termini di risvolti pratici, penali delle conclusioni espresse. La seconda riguarda il significato di categoria psicologiche come quelle di maturità/immaturità, concetto difficilmente collegabile e non direttamente sovrapponibile 70
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
71
a quello di capacità/incapacità di intendere e di volere. Lo psicologo deve dunque essere in grado di confrontare le richieste giuridiche, rigidamente formulate, con un sapere fluido com’è quello psicologico, traducendo quindi un quadro di personalità, ricco di sfumature in termini giuridici. L’incarico Il giudice può disporre la perizia qualora lo ritenga necessario per ottenere una conoscenza più articolata del minore. Il perito, nominato d’ufficio, viene scelto dal giudice tra “le persone che egli reputa idonee, e preferibilmente tra coloro che hanno conseguito la qualifica di specialista” (art. 314 c.p.p.). Nel giorno e nel luogo stabiliti il perito presta giuramento con il quale si impegna ad assolvere all’incarico al solo scopo di far conoscere la verità e a mantenere il segreto sulle indagini peritali. Il giudice informa il perito dell’oggetto dell’incarico e pone i quesiti; viene poi fissato il termine per la presentazione della relazione scritta, termine generalmente non superiore ai sessanta giorni. In caso di bisogno è possibile chiedere una proroga. Schema di indagine peritale Secondo l’impostazione psicosociale l’indagine della personalità del minore e la spiegazione dei fatti di cui è imputato devono tenere conto sia dei suoi livelli di sviluppo che dei suoi rapporti interpersonali, che del significato che il soggetto dà agli stessi. Il lavoro si articola in diverse fasi: 1. lo psicologo esamina gli atti forniti dal giudice relativi all’inchiesta giudiziaria per conoscere il reato di cui il minore è imputato, gli interrogatori cui è stato sottoposto e le dichiarazioni che ha prodotto, Analizzerà anche il materiale relativo alle indagine sociofamiliare, realizzata generalmente dai servizi sociali. 2. il perito incontra il minore in diversi colloqui, nel corso dei quali può somministrare diversi strumenti psicodiagnostici, i familiari, i genitori assieme al minore. Può esser utile anche osservare il ragazzo nel suo ambiente di vita o, nel caso in cui fosse detenuto, nel corso delle interazioni con i compagni e gli operatori della Sezione di Custodia Cautelare. E’ bene prevedere anche un incontro, nel caso in cui ci fosse, con l’assistente sociale che ha seguito il minore o la sua famiglia. 3. i dati devono essere rielaborati, spiegati in termini psicologici, tradotti in termini giuridici e trasformati in conclusioni per rispondere ai quesiti posti dal giudice. Strumenti Il perito, dietro autorizzazione del magistrato può espletare le indagini peritali con le tecniche e gli strumenti che ritiene opportuni, a seconda del proprio orientamento teorico. Il colloquio clinico può essere orientato ad approfondire aspetti anamnestici, le relazioni interpersonali, la progettualità e, una parte rilevante per analizzare le spiegazioni e le ragioni che il ragazzo fornisce dell’azione deviante. Si privilegiano le tecniche autodescrittive, che permettono un’autonoma presentazione del Sé, una cosciente esposizione degli aspetti della propria vita, che hanno per il minore assunto una maggiore importanza. Una tecnica utile può essere quella del resoconto della storia di vita, in cui si chiede al ragazzo: “raccontami la tua storia”. Il ragazzo può, in questo modo decidere da che parte incominciare a parlare, le aree da toccare, operando dunque una selezione che sarà per il perito informativa dei processi emotivi e cognitivi del minore. Negli incontri successivi sarà opportuno 71
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
72
invece approfondire aspetti già presentati o lasciati in sospeso dal ragazzo, utilizzando domande dirette, volte alla conoscenza del suo ambiente di vita, all’approfondimento dei rapporti con i familiari, delle sue relazioni extrafamiliari, della carriera scolastica, dell’attività lavorativa e del tempo libero. Si indagherà quindi come il minore si vede, come sente di essere visto dagli altri, da coloro cioè che sono per lui significativi. In questo modo si avrà una visione completa di come si va costituendo la percezione che il minore ha del proprio Sé, di quali sono i processi di costruzione della sua identità, del contributo che su di essa hanno i fedback (informazioni di ritorno) che provengono dalle interazioni sociali. Si può quindi procedere alla rilevazione del resoconto del fatto di cui è imputato (“Perché sei qui?”), che possa anche chiarire al minore il senso del lavoro del perito. Le domande saranno dunque volte all’indagine di come il giovane si rappresenta cognitivamente ed emotivamente i fatti, di come li ricostruisce e li spiega, del significato e delle ragioni che dà al suo comportamento. A tal fine si cercherà di soffermarsi sulle intenzioni che hanno preceduto e seguito il fatto, sulle emozioni provate, sui vissuti attuali rispetto all’azione deviante. E’ inoltre importante indagare se il minore è in grado, e se lo era al momento dei fatti, di rappresentarsi le conseguenze delle proprie azioni, e se se ne assume pienamente la paternità e la responsabilità. L’ultimo incontro è di chiarificazione e permette di approfondire, di indagare sulle potenzialità, sul “positivo” del minore, sulle prospettive di vita che si rappresenta (Coviello, Patrizi, 1989). Il colloquio con i familiari invece permette di vedere in che contesto si è sviluppata l’attuale personalità del minore, prima ancora come si è costituito il nucleo dalla coppia in poi, quali sono gli eventi significativi dell’infanzia del minore. E’ importante riservare una parte del colloquio per vedere come i genitori vedono la situazione del figlio, “cosa si può fare per lui”, così da cogliere l’esistenza all’interno del nucleo familiare di risorse sfruttabili per il lavoro da effettuare con il minore, oltre alle capacità di cambiamento della famiglia stessa, rispetto al momento delicato in cui viene a trovarsi il ragazzo. Gli strumenti diagnostici invece possono essere utili per rilevare problematiche non emerse dal colloquio, soprattutto con soggetti particolarmente chiusi. A tale riguardo esiste un ampio dibattito relativo alla reale utilità degli stessi. Se da un lato infatti se ne sottolinea il valore oggettivo e l’obiettività della diagnosi che se ne ricaverebbe, dall’altra si teme che il contesto peritale, non spontaneo e denso di ansie e preoccupazioni relative alla propria posizione giudiziaria, rappresenti una situazione molto lontana da quella di taratura. È tuttavia indubbia la possibilità che i test danno di ricavare informazioni supplementari, di approfondire i dati già emersi in altra maniera. Tra i test usati vi sono quelli grafici. Questi strumenti utilizzano l’attività grafica come medium di trasmissione di sentimenti, affetti, pensieri, rappresentazioni, sono cioè finalizzati a considerare le modalità con cui il disegno e tratti specifici di esso esprimono la personalità del soggetto (Lis, 1993). Tra questi, il più noto è sicuramente il “test del Disegno della figura umana” di K.Machover (1949). Alla base dell’interpretazione di questo test vi è l’assunto che il disegno della figura umana rappresenti la “proiezione” dell’immagine del proprio corpo, o ancor meglio del proprio io. L’ambiguità dello stimolo consegna, “Disegna una persona”, lascerebbe infatti libertà di scelta sul personaggio da rappresentare, sul suo sesso, l’età, l’espressione, la posizione, la dimensione e così via, tanto da rendere possibile la proiezione dell’immagine di sé, della autostima, dei propri atteggiamenti e verso l’ambiente e verso gli altri significativi che tale ambiente occupano. Altro strumento di questo genere molto usato è il “test del disegno della Famiglia” di Corman (1970), che permette di rilevare il modo in cui il minore vive i rapporti affettivi con i familiari, i sentimenti, i desideri, i conflitti, gli atteggiamenti verso quelle persone che 72
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
73
più hanno avuto importanza nello sviluppo della sua personalità. Può dare informazioni utili anche l’utilizzo del ”Reattivo delle frasi da completare” di Saks, strumento che permette di avere informazioni clinicamente significative su quattro aree rappresentative dell'adattamento del soggetto all'ambiente, sul tipo di rapporto interpersonale che il soggetto ha strutturato nella sua dinamica esistenziale, nonché del concetto che ha di sé, delle proprie aspirazioni, dei propri timori, sensi di colpa e ansie di vario genere ( Riva, 1989). Il “test dell’ Adjective Check List” invece, è un test di personalità che si presenta come un metodo standardizzato e pratico di descrizione degli attributi personali del soggetto (Gough, 1965). In altre parole, tale strumento tramite l’utilizzo di una lista di aggettivi (300), permette di cogliere le modalità con cui il soggetto rappresenta se stesso, i propri bisogni, e le proprie potenzialità. Stesura della relazione finale Sempre utilizzando l’ottica psicosociale la relazione di perizia può assumere questa struttura: ∙ L’incarico: modalità in cui è avvenuto, quesiti posti dal giudice, termine di consegna della relazione, eventuale richiesta di avvalersi di un collaboratore. ∙ La metodologia: esplicitazione del metodo utilizzato e di come si articola, numero degli incontri, strumenti utilizzati. ∙ L’anamnesi: analisi del contesto di appartenenza del minore e della sua storia personale. Questa parte tratterà poi diverse aree: “la famiglia”, dove si evidenzia la storia del nucleo familiare, le relazioni all’interno dello stesso, le regole interne, la capacità di cambiamento rispetto alla fase evolutiva del minore; “la carriera deviante”, che evidenzia i precedenti penali, se ve ne sono stati, “la scuola”, che illustra la carriera scolastica del minore, i suoi risultati, le eventuali interruzioni; “il lavoro e la progettualità”, che indica la capacità del minore di impegnarsi in un’attività, di formulare dei progetti realizzabili; “le amicizie e i rapporti sentimentali”, che mette in luce quali sono le relazioni significative, per il minore, al di fuori della famiglia. ∙ La personalità del minore. Trattazione dei processi di sviluppo dell’identità del minore, della formazione del suo Sé, dove trovano posto i risultati dell’indagine psicodiagnostica oltre alla spiegazione che egli da ai fatti di cui è imputato. ∙ Aspetti pscopatologici, nel caso in cui si fossero riscontrati. In questo caso sarà opportuno sentire il parere di esperti neuropsichiatri o medici specialisti. ∙ Partecipazione psicologica ai fatti: vengono ricostruiti i fatti con l’ausilio del racconto del minore, si cercherà di leggerli alla luce delle spiegazioni e delle ragioni che fornisce del suo comportamento; delle regole implicite che ha seguito; dell’organizzazione che si è dato, degli scopi che si prefiggeva. Si indaga inoltre la responsabilità che si assume rispetto all’azione e rispetto alle conseguenze che da essa sono derivate. ∙ Discussione peritale: fornisce un quadro di lettura, riassuntivo e di senso delle parti precedenti, collega i significati dell’azione con i quesiti del giudice, anticipando le risposte agli stessi. ∙ Conclusioni: analizza gli aspetti psicologici relativi ai fatti, le implicazioni giuridiche, i concetti psicologici relativi alle categorie giuridiche. ∙ Risposte ai quesiti (Coviello, Patrizi, 1989) Conseguenze pratiche Nel momento in cui il minore viene riconosciuto maturo, viene dichiarato imputabile. Tra le soluzioni che possono essere adottate abbiamo: 1. sospensione del processo e messa alla prova (art. 28 D.P.R. 448/1988): in cui il procedimento penale viene sospeso per un periodo, nel corso del 73
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
74
quale il minore parteciperà attivamente ad un progetto, elaborato con la finalità di attivare il più possibile le risorse del minore, a tutti i livelli, personale, familiare e socioambientale. È indispensabile che il minore accetti la misura, in quanto richiede un suo impegno in prima persona, per costruire, seppure con la mediazione dell’adulto, un itinerario non istituzionale di attivazione di responsabilità, e per assumere, da protagonista, il significato delle conseguenze sociali e giudiziarie del fatto di cui è imputato (Lo Giudice, 1990). Al termine della messa alla prova la personalità del minore sarà valutata, l’esito positivo della stessa comporta la dichiarazione di estinzione del reato (art. 29 D.P.R. 448/1988); 2. perdono giudiziale: è una rinuncia, per il giudice, di ricorrere alla sanzione. Deve però rimanere un provvedimento mirato sul piano del recupero del minore, a tale scopo può essere accompagnata da adeguati provvedimenti di sostegno e di recupero in campo civile o amministrativo. 3. irrilevanza sociale del fatto: di fronte ad un reato privo di rilevante disvalore sociale, vista la tenuità del fatto e l’occasionalità del comportamento, il legislatore, ai fini di salvaguardare il processo educativo del minore, qualora l’ulteriore corso del procedimento possa pregiudicarlo, può dichiarare l’irrilevanza sociale del fatto. Tale sistema consentirebbe la rapida uscita dal circuito penale dei minori che hanno compiuto reati “frivoli”, che non sono indicativi di difficoltà di crescita del ragazzo stesso. In tali casi, una sanzione penale, porterebbe ad identificare il minore come deviante, cosa alquanto controproducente,; mentre il ricorso alla categoria della incapacità di intendere e di volere finirebbe con l’essere improprio oltre che fortemente deresponsabilizzante. Nel caso in cui venga dichiarato immaturo, non sarà invece imputabile e non potrà dunque essere né processato, né condannato, ma sarà invece prosciolto per immaturità (ex art. 98 c.p.). Se il minore è invece dichiarato socialmente pericoloso verrà sottoposto a misura di sicurezza. In minore età questo significa il riformatorio giudiziario. Per i reati della fascia più grave, tale misura di sicurezza può essere applicata tramite collocamento in comunità, per gli altri delitti è applicabile la misura della libertà vigilata, sotto la forma delle prescrizioni (20 D.P.R. 448/1988) o della permanenza in casa (Fornari, 1997). Nell’evoluzione del sistema giudiziario minorile si è avvertita la necessità di sottolineare che la pena non deve necessariamente corrispondere alla detenzione e che è possibile sperimentare risposte sanzionatorie che tengano conto delle esigenze legate ai bisogni ed ai diritti del soggetto in età evolutiva. In tal modo la sanzione è intesa come un messaggio responsabilizzante, teso ad affermare il disvalore sociale di un comportamento reato compiuto dal minore, e la consapevolezza del danno arrecato direttamente nei confronti della vittima e indirettamente nei confronti della società stessa (De Leo, 1995). L’introduzione delle misure alternative alla detenzione risponde al bisogno di evitare che il minore prolunghi l’incontro con il sistema giudiziario penale, subendo inutili traumi, e al contempo alla necessità di adottare provvedimenti più idonei a favorire lo sviluppo di potenzialità positive presenti nel giovane. Gli accertamenti sulla personalità del minore vanno dunque visti nell’ottica di contribuire ad una risposta il più possibile adeguata alla personalità del soggetto ed alla particolarità del suo caso concreto, oltre che una fonte preziosa di informazioni in quel lavoro di mobilitazione di molteplici risorse per una adeguata reintegrazione del minore stesso nel tessuto sociale. Bibliografia Bellusi G.., (1991), L’intelligenza della perizia, in “Psichiatria generale e dell’età evolutiva”, n. 2, pp. 277 284. Canepa G., (1990), Questioni medico legali, in “Rassegna Italiana di 74
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
75
criminologia”, n. 3, pp. 173 190. Ciofi R., (1998), La consulenza tecnica di ufficio in materia di separazione e divorzio, in “Simposio”, n. 10, pp. 104 127. Corman L., (1970), Le test du dessin de famille dans la pratique medico pedagogique, Presses Universitaires de France, Paris, 1967, trad. it. Boringhieri, Torino. Coviello S ; Patrizi P., (1989), L’attività peritale dello psicologo minorile, in De Leo G., Lo psicologo criminologo, Giuffrè, Milano. De Leo G., (1995), Manuale di psicologia giuridica, Milano, Zanichelli. Fornari U., (1997), Trattato di psichiatria forense, UTET, Torino. Gough, H. G., Heilbrun, A.B., Fioravanti, M., 1965, Adjective Check List, Palo Alto, Consulting PsYchologist Press ; tr. It. : Firenze, Organizzazioni Speciali, 1992. Gulotta G. (a cura di), (1987), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema penale, Giuffrè, Milano. Lis A., (1993), Psicologia clinica. Problemi diagnostici ed elementi di psicoterapia, Giunti, Firenze. Lo Giudice E., (a cura di ), (1990), La delinquenza giovanile e il nuovo processo penale per i minori, Milano, Giuffrè. Machover, K., (1949), Personality projection in the drawing of the human figure, U.S.A., C., Thomas. Pacciolla A., Ormanni I., Pacciolla A., (1999), Abuso sessuale. Una guida per psicologi, giuristi, ed educatori, Edizioni Laurus Robuffo, Roma. Palomba F., (1991), Il sistema del nuovo processo penale minorile, Giuffrè, Milano. Passi Tognazzo, D., (1978), Metodi e tecniche della diagnosi della personalità. Firenze, Giunti Barbera. Riva, A., (1989), Il reattivo delle frasi da completare, Firenze, Organizzazioni Speciali.
Capitolo 4 La mediazione penale minorile In questi ultimi anni si è sviluppato un dibattito scientifico e culturale sul tema della mediazione in diversi contesti della vita sociale quale quello penale, scolastico, familiare e interculturale. Il presupposto su cui si basa la mediazione è che la vita sociale sia regolata da conflitti di diversa origine e natura e che questi possano risolversi attraverso un terzo soggetto, scelto e legittimato dalle parti, che in modo “neutro” favorisca una soluzione condivisa e alternativa agli interessi della singola parte. (GuillaumeHofnung, 1995; Castelli, 1996). In questo contributo ci occuperemo della mediazione penale minorile accennando brevemente al contesto normativo di riferimento, soffermandoci sulle principali procedure e metodologie utilizzate nel modello anglossassone con riferimento alla sua applicazione nel contesto italiano, delineando alcune potenzialità di questo tipo di intervento e alcuni aspetti problematici che ne caratterizzano la sua applicazione nel nostro Paese. Innanzi tutto l’interesse per questo settore si è diffuso fra gli studiosi e gli operatori di diversi contesti disciplinari quali quello del diritto, della sociologia, della criminologia e della psicologia giuridica. Inoltre si sono avviate numerose sperimentazioni sul territorio nazionale, (Di Ciò 1999, Coppola De Vanna, Coppola De Vanna, 1999; Buniva 1999, Scali, Volpini, 1999a) che hanno cercato di utilizzare gli spazi normativi esistenti in campo minorile, sviluppando diverse metodologie e tecniche. Attualmente, l’obiettivo principale è quello di coordinare le esperienze per confrontarsi sui problemi che le hanno caratterizzate in funzione della messa a punto degli standard operativi. La cornice normativa che fa da sfondo alla mediazione penale minorile è il D.P.R.448/88 all’interno del quale è esplicitamente prevista l’opportunità della riconciliazione fra autore e vittima di reato con l’art.28 (“sospensione del processo e messa alla prova”). All’interno di questa misura il minore viene inserito in un percorso di responsabilizzazione centrato su alcune attività educative e 75
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
76
risocializzative. A seguito dell’analisi di fattibilità è possibile per alcuni casi, che il minore partecipi ad un percorso di riconciliazione con la vittima del reato. Un’altra esplicita opportunità è data dall’art.564 c.p.p. in cui, per reati perseguibili a querela, il pubblico ministero, anche prima delle indagini preliminari, può tentare la riconciliazione tra querelante e querelato. Anche all’interno dell’art.47 (O.P.) che regola l’affidamento in prova ai servizi sociali della giustizia è previsto tra le misure di prescrizione che l’autore di reato si adoperi in favore della vittima. Altre misure del D.P.R. 448/88 vengono utilizzate come spazi possibili per l’applicazione della mediazione anche se non prevista esplicitamente. Le cornici normative sono l’art.9 (“accertamenti di personalità del minore”), in cui la mediazione è utilizzata per valutare la responsabilità del minore e la consapevolezza delle conseguenze della sua azione; l’art.27 (“assoluzione per irrilevanza del fatto”), la mediazione in questo caso viene utilizzata dal giudice per la valutazione del danno prodotto dal minore nei confronti della vittima; l’art.30 (“libertà controllata”) che è una misura alternativa alla detenzione in cui il giudice può prevedere come attività prevalente che il minore svolga un percorso di mediazione, dopo averne valutato la sua disponibilità insieme all’équipe di mediazione. Entrando nel merito della mediazione penale, possiamo definirla come un’attività il cui obiettivo è quello di ricomporre il conflitto tra vittima ed autore del reato, attraverso un mediatore che in modo diretto o indiretto mette in comunicazione le domande e i vissuti dei due attori in riferimento all’azionereato e ai suoi effetti sul piano giudiziario e psicologico.(De Leo, Volpini, 1999). Questa forma di intervento si è diffusa, a partire dagli anni settanta, negli Stati Uniti, in Canada, in Australia e in nord Europa, con numerosi programmi che hanno avuto un notevole successo. I punti fondamentali (Wright,Galaway,1989) su cui si basa la mediazione riguardano: a) il reato inteso come conflitto tra parti; b) il sistemaautore vittima come focus dell’intervento; c) l’accordo tra le parti come risoluzione del conflitto; d) la flessibilità di attuazione delle mediazione dentro e fuori il sistema penale. a) Il reato è il risultato di un conflitto tra le parti di cui una subisce un danno che ha significati simbolici e materiali. Questa impostazione si differenzia da quella dei tradizionali modelli di giustizia come quello educativotrattamentale che ritiene il reato il risultato di problemi di personalità da cui la società proteggersi o come il modello retributivo in cui il reato è una infrazione delle regole penali che produce un danno alla società. b) Il focus dell’intervento è centrato sul confronto fra le parti. In questo modo l’autore di reato può confrontarsi con la vittima rendendosi conto delle conseguenze della sua azione attivandosi in senso responsabilizzante verso di lei. La vittima può non solo comprendere i motivi del reato ma anche comprendere meglio le proprie strategie personali e d’azione, inoltre può essere parte attiva nel chiedere direttamente all’autore del reato cosa questi può fare per lei. L’intervento assume un’ottica sistemica (Bocchi, Ceruti, 1985; Cirillo 1990), superando l’orientamento centrato sull’autore di reato. 76
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
77
c) L’accordo è il principale obiettivo della mediazione, rappresenta la ricomposizione del conflitto. L’accordo può essere relativo ad un risarcimento economico (compensation order), alla riparazione delle conseguenze del reato (restitution) o alla riconciliazione tra vittima ed autore di reato. Il risarcimento economico viene utilizzato per reati lievi come piccoli furti, la riparazione delle conseguenze del reato invece consiste nello svolgimento di un’attività pertinente nei suoi significati simbolici al danno commesso e viene svolta in favore della vittima. La riconciliazione consiste, per quanto riguarda l’autore di reato, nel confronto diretto con le conseguenze del reato, nell’incremento della propria responsabilità, in un ruolo più partecipe nel sistema della giustizia. Per quanto riguarda la vittima, l’obiettivo è la rielaborazione del reato, il contenimento della paura di subire altri reati, il recupero di un ruolo attivo nel sistema della giustizia. d) Nei paesi anglosassoni un aspetto che ha indubbiamente favorito ed incrementato la partecipazione ai programmi di mediazione è il fatto di potere essere svolta in sostituzione del procedimento giudiziario, come forma di depenalizzazione applicata a reati lievi. La mediazione è prevista durante l’esecuzione del probation (programma risocializzativo della giustizia per i minori autori di reato) o come alternativa alla misura penale. Umbreit e Warner Roberts (1997) hanno analizzato la tipologia dei programmi di mediazione del nord America e della Gran Bretagna, che si riferiscono a reati di lievi, in particolare di furto, sintetizzando le tappe e le procedure fondamentali che li caratterizzano. Generalmente i programmi sono caratterizzati da quattro fasi: 1) la presa in carico delle parti, 2) la preparazione alla mediazione, 3) la fase di mediazione vera e propria 4) il followup. 1) La prima fase consiste sinteticamente nell’invio del caso da parte del Tribunale o direttamente dalla Polizia all'équipe di mediazione. L'équipe analizza il fascicolo riguardante i verbali ed eventuali informazioni sul minore imputato. Il caso viene quindi assegnato ad un membro dell’équipe di mediazione, successivamente questi prende contatto sia con l’autore di reato che con la vittima attraverso una lettera dove si chiede la disponibilità per un intervento di mediazione. I contenuti della lettera consistono nella presentazione del programma di mediazione dove viene annunciato un contatto telefonico successivo. Successivamente attraverso una telefonata, il mediatore prende un appuntamento con l’autore di reato presso la sua abitazione o presso il servizio di mediazione. 2) Comincia a questo punto la fase che prepara l’incontro di mediazione vera e propria. Il primo incontro con il minore è basato sulle domande che riguardano i fatti legati al reato e alla sua storia personale inoltre vengono analizzate le motivazioni che riguardano l'avere accettato il programma di mediazione e l'atteggiamento verso la vittima. Se il minore è disponibile e motivato ad incontrare la vittima, il mediatore la contatta telefonicamente e prende un appuntamento con questa nel contesto che più la fa sentire a suo agio, per esempio la sua abitazione.
77
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
78
Il primo colloquio con la vittima è centrato sull’ascolto degli effetti che il reato ha prodotto soprattutto da un punto di vista dei vissuti e del senso di sicurezza personale, inoltre il mediatore fornisce delle informazioni riguardanti la storia del minore e la sua disponibilità ad un incontro di mediazione, infine la vittima viene sollecitata a pensare alle possibili domande e alle richieste di soluzione da fare nell’incontro di mediazione. 3) La fase di mediazione può essere svolta in forma diretta, in cui le parti scelgono di incontrarsi faccia a faccia o in forma indiretta (mediation between) in cui le parti scelgono di non incontrarsi, utilizzando il mediatore per comunicare fra di loro. Il ruolo del mediatore è particolarmente importante in questa fase Umbreit (1995) propone la combinazione di due stili: nella prima parte dell’incontro propone uno stile definito empowering che fa emergere le domande sul reato e le proposte di accordo attraverso un ruolo di ascolto e di eventuale stimolo in questa direzione, nella seconda parte propone uno stile definito controlling, mirato alla definizione di un accordo vero e proprio fra le due parti, attraverso un ruolo attivo del mediatore che raccoglie le proposte di accordo e ne favorisce una sintesi. 4) Il followup (Umbreit 1995, Umbreit, Warner Roberts, 1996) viene sistematicamente svolto per valutare l’efficacia dell’intervento, in particolare viene valutato il differente grado di soddisfazione tra chi ha partecipato al programma di mediazione diretta rispetto a chi ha partecipato al programma di mediazione indiretta; viene valutata la differenza fra chi ha partecipato alla mediazione (sia diretta che indiretta) e chi non vi ha partecipato. Vengono anche analizzati i motivi di soddisfazione e insoddisfazione a breve e medio termine per i partecipanti. Infine viene preso in considerazione il rapporto con il sistema della giustizia e l’opinione degli operatori della giustizia in merito al progetto di mediazione. I risultati ottenuti fanno emergere innanzi tutto che la mediazione indiretta è molto più utilizzata in Gran Bretagna che negli Stati Uniti e che sono rimaste più soddisfatte le vittime che hanno partecipato alla mediazione diretta piuttosto che quelle che hanno partecipato alla mediazione indiretta. Inoltre gli imputati generalmente rimangono più soddisfatti delle vittime. Tendenzialmente le vittime che partecipano alla mediazione sia diretta che indiretta sono più soddisfatte di coloro che non vi partecipano, hanno meno paura di subire altri reati e hanno una migliore opinione del sistema della giustizia, mentre gli autori di reato risultano più soddisfatti se partecipano al percorso di mediazione rispetto a quelli che non vi partecipano ma fra i due gruppi non c’è una diversa considerazione del sistema della giustizia. Fra gli operatori della giustizia il consenso alla mediazione è molto diffuso sia per gli effetti di maggior consapevolezza che si ottengono per l’autore del reato sia per la possibilità data alla vittima di comprendere i fatti, di potersi esprimere con le sue domande e i suoi vissuti. Il modello Anglosassone che abbiamo sopra delineato, è stato utilizzato come punto di riferimento nell’elaborazione dell’intervento di mediazione dell’équipe di Roma operativa dal 1997 (Scardaccione, Baldry, Scali, 1998; Scali, Volpini, 1999b), oltre ai contributi teorici e metodologici dell’approccio sistemico e strategico, applicato alla devianza minorile (De Leo, 1990; De Leo, 1996; De Leo, Patrizi, 1999). L’intervento di Roma si basa sull’intervento di rete con le figure professionali coinvolte (magistrati, operatori sociali, volontari ecc..), viene progettato per microobiettivi inseriti all’interno delle diverse fasi, ciascuna fase può prevedere più di un incontro, anche con il servizio inviante ma soprattutto con le 78
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
79
parti in causa. Si caratterizza, in fase di invio, per una particolare attenzione ai problemi di interazione tra le esigenze, le domande della vittima e gli spazi di intervento offerti dal Processo Penale Minorile. La mediazione essendo una nuova modalità di intervento per il contesto italiano viene spesso vissuta dalle vittime non tanto come opportunità per sé ma come opportunità strumentale in senso premiale per l’autore di reato. Questo vissuto è risultato particolarmente evidente se la mediazione viene svolta durante il percorso penale piuttosto che in seguito ad una sentenza. In questa fase dove viene fatta una prima analisi di fattibilità è importante tenere in considerazione a che punto del procedimento penale il caso è inviato all’équipe di mediazione e quanto tempo ha a disposizione il mediatore prima che si arrivi all’udienza. Anche durante il lavoro di premediazione, il rapporto tra tempi processuali e tempi della mediazione sono di difficile conciliazione, per cui è possibile (soprattutto per reati contro la persona) che con la vittima non si ottenga una disponibilità per una mediazione durante il periodo della messa alla prova, per la necessità di maggiore tempo di elaborazione dei fatti e dei propri vissuti prima di incontrare l’autore di reato. All’interno di questa fase il lavoro dell’équipe è centrato particolarmente sull’analisi dell’azione del reato (De Leo, 1991; Cranach, Harré; 1991) con particolare riferimento alla dimensione relazionale che a preceduto, accompagnato e seguito l’interazione tra l’autore e la vittima di reato (Becker 1963; De Leo, Patrizi 1992). In questa fase sia per la vittima che per l’autore di reato viene anche dato ascolto all’espressione di vissuti emotivi come la rabbia, la paura, per la prima e il senso di colpa per il secondo con il metodo delle domande riflessive e circolari (Tomm,1991). La fase di mediazione vera e propria si è caratterizzata in questa esperienza attraverso un percorso di mediazione indiretta inteso anche come tappa preliminare ad un incontro faccia a faccia tra le parti. L’aspetto necessario in questa fase è il consenso informato delle parti che incaricano il mediatore di potere riferire contenuti, interrogativi, proposte emerse nell’incontro. Da una prima analisi di followup svolta, è possibile affermare che anche quando l’intervento non arriva fino alla fase di mediazione vera e propria, è possibile che le parti ne traggano un qualche vantaggio, come per esempio una riduzione di conflittualità, una maggior consapevolezza dei fatti, un senso di potenziamento per la vittima, una maggiore disponibilità durante il percorso processuale da parte della vittima del reato. Come è facile intuire da ciò che è emerso fino ad ora, la mediazione penale minorile non è di semplice applicazione soprattutto perché la vittima sente che il processo penale(Ponti, 1996) è centrato soprattutto sull’autore di reato e sente il proprio ruolo marginale sia da un punto di vista normativo che di prassi giudiziaria. Il vissuto relativo al suo ruolo nel processo penale minorile, la carenza di una cultura diffusa fra i cittadini e gli operatori sulla mediazione producono dunque molte difficoltà al livello del consenso della vittima al percorso di mediazione. Per questi motivi si sta cominciando a dibattere addirittura la compatibilità tra la mediazione penale e il sistema della giustizia minorile (De Leo,1999) con l’esigenza di rivedere alcuni aspetti normativi e organizzativi del sistema minorile in funzione di una reale possibilità di applicazione della mediazione. C’è però una grande attenzione anche da parte di organismi internazionali sulle opportunità offerte dalla mediazione come metodologia di intervento funzionale alla responsabilizzazione del minore e ai diritti delle vittime. Recentemente il Consiglio d’Europa con la Raccomandazione n° R (99) 19 del 15 Settembre 1999 si è pronunciato affinché la mediazione possa entrare a far parte integrante dei sistemi della giustizia, garantendo in ogni stato e grado del processo la possibilità di potere svolgere la mediazione, riconoscendo alla vittima un legittimo interesse ad avere voce sulle conseguenze della vittimizzazione subita, e un legittimo interesse a 79
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
80
potere comunicare con l’autore di reato per arrivare ad un accordo o ad una riparazione, e riconoscendo l’importanza di potenziare il senso di responsabilità dell’autore di reato offrendo delle opportunità pratiche e funzionali per la sua futura reintegrazione e socializzazione. Viene inoltre riconosciuto in questo documento l’importanza del ruolo dei singoli individui e della comunità nel prevenire e gestire il conflittoreato in funzione della costruzione di un sistema della giustizia meno repressivo e più costruttivo. In linea con l’esigenza di partecipazione dei cittadini alla vita pubblica che sembra sempre più orientata verso un modello di negoziazione della regolazione dei rapporti sociali, piuttosto che verso un modello autoritario ed impositivo (Ceretti, 1999), anche se con ambivalenze e contraddizioni. Anche a questo livello la mediazione può rispondere alla comunità, rappresentata dal mediatore, la gestione del conflitto tra le parti, rivalutando così anche l’immagine della giustizia da parte dell’opinione pubblica. L’attenzione degli studiosi e degli operatori è dunque centrata sulle procedure, sulle metodologie, sul ruolo della vittima nella dinamica processuale, sulle attese di giustizia dei cittadini e anche sul ruolo della mediazione rispetto alla funzione della pena. A questo proposito, la pena intesa in senso retributivo è considerata da alcuni Autori come Eusebi (1998) come radicalizzazione del conflitto, come risposta che ripropone la stessa frattura messa in atto dall’autore di reato contro il diritto. L’obiettivo della retribuzione della pena secondo questo Autore, mira alla negazione della frattura e del conflitto che emerge con il reato, mentre la mediazione assume nei suoi presupposti e nelle sue procedure l’esistenza del conflitto fra le parti. Attraverso la mediazione viene ricomposta la comunicazione fra autore di reato e parte lesa e quest’ultima viene rivalutata nel proprio ruolo potendo partecipare attivamente alla ricomposizione del conflitto, superando l’esigenza retributiva nei confronti di chi ha commesso il reato. La mediazione penale sempre secondo l’Autore si integra bene con l’ottica risocializzativa della risposta penale che avrebbe in questo modo un suo rafforzamento e un reale compimento rispetto alla logica retributiva e punitiva. Anche a questo livello la mediazione senza dubbio rappresenta potenzialmente una risorsa per la cultura del cambiamento della giustizia nel nostro paese, anche se queste potenzialità sono difficili da sviluppare, per il consolidamento dei sistemi tradizionali di tipo retributivo e sanzionatorio, per la apparente semplificità delle forme trattamentali e per una valenza ancora rassicurante del sistema carcerario (De Leo,1999). Anche se ci sono delle difficoltà, vale la pena investire nella direzione della mediazione, in termini di sensibilizzazione culturale ed operativa rivolta chi intende operare nel settore della giustizia, non solo in campo minorile ma anche in quello degli adulti, per favorire questa opportunità innovativa per il sistema della giustizia. Bibliografia A.A. (1998) Restorative justice for juveniles. Potentialities, risks and problems. University Press, Leuven. Bocchi, Ceruti, (1985) (a cura di) “La sfida della complessità”, Feltrinelli, Milano. Becker H.S. (1963) ”Outsiders. Studies in the sociology of deviance”, Glencoe, The Free Press
80
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
81
Buniva F.(1999) L’esperienza dell’Ufficio di Mediazione a Torino in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di) “La mediazione penale in ambito minorile: applicazionie prospettive”. Franco Angeli, Milano. Ceretti A.(1999) Mediazione penale e giustizia in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di) “La mediazione penale in ambito minorile: applicazionie prospettive”. Franco Angeli, Milano. Cirillo S. (1990) “Il cambiamento nei contesti non terapeutici”, Raffaello Cortina, Milano. Coppola De Vanna A. Coppola De Vanna I. L’esperienza dell’Ufficio di mediazione a Bari in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di) “La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive”. Franco Angeli, Milano. Cranach M. von, Harré R., (1991) a cura di, “L’analisi dell’azione”, Giuffré, Milano De Leo G. (1990) “La devianza minorile”. NIS, Roma. De Leo G. (1999) Cultura ruoli e metodi della mediazione in ambito minorile, in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di) “La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive”. Franco Angeli, Milano. De Leo G., Patrizi P., (1992) “La spiegazione del crimine”, Il Mulino, Bologna. De Leo G., Patrizi P., (1999) “Trattare con gli adolescenti devianti”. Carocci, Roma. De Leo G., Volpini L. (1999) La verifica di alcuni principali obiettivi nella mediazione penale minorile” in Rassegna di Criminologia n.2. Giuffrè, Milano. Di Ciò F. (1999) L’esperienza dell’Ufficio per la mediazione di Milano in Ufficio Centrale Giustizia Minorile (a cura di) “La mediazione penale in ambito minorile: applicazioni e prospettive”. Franco Angeli, Milano. Eusebi L. (1998) Dibattiti sulle teorie della pena e “mediazione” in (a cura di) Picotti L. “La mediazione nel sistema penale minorile”. Cedam, Milano. Scali M., Volpini L. (1999a) Le principali caratteristiche dell’intervento della Sezione di mediazione Penale Minorile di Roma, in Minori e Giustizia, n.2; pp.150162 Scali M., Volpini L. (1999b) L’esperienza della Sezione di Mediazione Penale minorile di Roma. In Ecologia della Mente n.1/1999 pp.7388. Scardaccione G., Baldry A., Scali M.,(1998) ”La mediazione penale. Ipotesi di intervento nella giustizia minorile”. Giuffrè, Milano.
81
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
82
Tomm K., (1991) “Intendi porre domande lineari, circolari, strategiche o riflessive”? il Bollettino, n.24. Umbreit M.S. (1994) “Victim meets offender: the impact of restorative justice and mediation”. Criminal Justice Press. Umbreit M.S., (1995) “Mediating interpersonal conflicts: a Pathway to Peace, CPI Publishing, West Concord, Minnesota. Umbreit M.S., Roberts A.W. (1997) La mediazione penale: valutazione dei centri di Coventry e Leeds in (a cura di) Pisapia G., Antonucci D., “La sfida della mediazione”. Cedam, Milano. Wright M., Galaway B., (1989) a cura di, “Mediation and Criminale Justice. Sage Publications. London. FARMACODIPENDENZA E CRIMINALITÀ 1. LE SOSTANZE PSICOATTIVE Com’è noto, una sostanza psicoattiva è qualsiasi elemento naturale o sintetico capace di modificare l’attività psicofisica dell’uomo e di stimolare o deprimere il sistema nervoso centrale e periferico; Alcune di queste sostanze possono provocare allucinazioni e modificazioni delle funzioni motorie e del giudizio, e col tempo, possono determinare uno stato di dipendenza psicofisica. Quasi sempre l’uso di queste sostanze rappresenta un danno per l’organismo che tenta di mantenere l’omeostasi; qualunque modificazione esterna dell’ambiente interno è infatti destinata sempre a provocare una reazione finalizzata al ripristino dell’equilibrio iniziale. Attualmente esiste una grande varietà di sostanze psicotrope più o meno diffuse e più o meno legalizzate. La scelta dell’uso di una determinata droga è dovuta in parte agli effetti che si vogliono ottenere (scelta individuale) ed in parte alla tendenza a conformarsi alle usanze del gruppo a cui si appartiene (scelta psicosociale). L’alcool è senza dubbio lo psicotropo più diffuso in Italia ed ha, se l’uso è eccessivo, gli effetti collaterali socialmente più dannosi. L’abuso di alcool stordisce, toglie il senso della realtà, provoca illusioni sensoriali, induce episodi di aggressività e disturbi psichici. Anche l’uso dei farmaci è oggi in continuo e progressivo aumento, da un lato incrementato dalla convinzione errata nel paziente che la terapia farmacologica fa sempre e soltanto bene all’organismo, dall’altro lato dalla pressione di marketing delle industrie farmaceutiche. Spesso l’efficacia della farmacoterapia è in realtà esaltata dall’effetto placebo della sostanza. Ogni farmaco produce un effetto positivo per l’organismo (terapeutico) e contemporaneamente uno negativo (collaterale) come ad esempio la dipendenza. Pertanto, la medicina “in pillole” non è sempre sinonimo di benessere; il progressivo e indiscriminato aumento dell’uso dei farmaci può rappresentare un motivo di preoccupazione per il mantenimento dello stato di salute.
82
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
83
Gli stupefacenti sono sostanze chimiche naturali o sintetiche che introdotte nell’organismo svolgono una particolare azione tossica e soprattutto, con l’uso abituale, possono indurre un forte stato di dipendenza. Le più conosciute sono: l’oppio e i suoi derivati (morfina e eroina), la canapa indiana (hashish e marijuana), la cocaina e i nuovi prodotti chimici sintetici (es. LSD, ecstasy). I loro effetti sono vari: alcune svolgono azione sedativa e analgesica, altre, invece, provocano euforia, eccitazione, stato sognante e fenomeni di allucinazione visiva. 2. LA DIPENDENZA PSICOFISICA L’assunzione di una sostanza psicotropa provoca nella persona la comparsa di alterazioni psico fisiche generalmente piacevoli. Qualunque sia stata la causa del primo incontro con la droga, spesso il suo uso è destinato a ripetersi fino a diventare una vera e propria schiavitù. Infatti, col passare del tempo, per ricevere l’effetto desiderato queste sostanze devono essere introdotte a dosi sempre maggiori; l’organismo si abitua ad esse a tal punto che non ne può più fare a meno, se non a prezzo di gravi sofferenze. Questo stato di dipendenza è dovuto a modificazioni metaboliche che la tossicomania ha progressivamente creato nell’organismo. E’ infatti certo che l’abuso quotidiano di stupefacenti e di stimolanti provoca contemporaneamente sia anomalie costituzionali (dipendenza fisica), sia contingenti fattori di ordine psichico (dipendenza psichica). La dipendenza fisica determina una subordinazione funzionale dell’organismo ad una sostanza la cui mancata assunzione provoca una serie di disturbi. Tale quadro definito “sindrome da astinenza” scompare immediatamente quando viene ripreso l’uso della sostanza. La dipendenza psichica è la necessità/motivazione di assumere una determinata droga ed insorge quando coscientemente o incoscientemente la persona ritiene che solo l’assunzione di quella sostanza porterà benessere all’organismo. Questa schiavitù è correlata ad una tendenza psicologica che richiede una somministrazione periodica della droga per ricevere l’effetto desiderato. La qualità e la quantità delle sostanze psicoattive necessarie a soddisfare il bisogno della persona sono direttamente proporzionali al grado di coinvolgimento e al tipo di motivazione psicofisica che hanno spinto la persona ad assumere tali sostanze. Coloro che assumono le sostanze psicoattive vengono talvolta suddivisi da alcuni autori in base ad una tipologia relativa al diverso grado di dipendenza: Il consumatore occasionale: persona con esperienze saltuarie di stupefacenti, quasi sempre sotto forma di consumo sociale e ricreativo, con la possibilità di interrompere l’uso quando ciò è ritenuto utile e necessario. Domina in questo gruppo l’effetto piacevole ed euforizzante indotto dalla sostanza. Il consumatore: soggetto che pur avendo sviluppato una certa tolleranza alla droga e pur subendo un certo grado di dipendenza fisica e psichica riesce a mantenere ancora validi interessi a livello sociale, lavorativo e buoni rapporti interpersonali. Questo gruppo di persone è caratterizzato da stati di irritabilità e di aggressività, da insicurezza nei movimenti e da frammentazione nelle ideazioni. Il tossicodipendente: persona che presenta una marcata dipendenza fisica e psichica dalla sostanza. Il contatto con la realtà in questo gruppo risulta affievolito. E’ presente agitazione psicomotoria,
83
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
84
alterazioni della coscienza, disturbi dell’ideazione di tipo delirante e allucinazioni prevalentemente visive. Il tossicomane: soggetto completamente dominato dal bisogno del farmaco. L’individuo investe tutte le proprie energie nel tentativo di procurarsi la sostanza con ogni mezzo, lecito o illecito. E’ presente una forte dipendenza del soggetto dalla sostanza che viene assunta a intervalli di tempo sempre più ravvicinati. Vi è una sensibile trasformazione della qualità delle relazioni interpersonali a causa di gravi disturbi del comportamento, caratterizzati da violenta impulsività e da manifestazioni a carattere isterico. 3. GLI EFFETTI PSICOFISICI Gli effetti sintomatologici che producono le sostanze psicotrope possono variare in base: alla natura e alla composizione chimica della sostanza assunta; allo stato psicofisico della persona; al ritmo delle assunzioni; al contemporaneo uso con altri farmaci L’assunzione ripetuta di alte dosi di sostanze psicoattive può danneggiare quasi ogni apparato organico, specialmente il tratto gastrointestinale, il sistema cardiovascolare e il SNC e SNP. In particolar modo si verifica un deficit cognitivo, una grave compromissione della memoria e una modificazione degenerativa organica del cervelletto. Sono presenti tremore, insonnia, diarrea, brividi violenti, innalzamento della pressione sanguigna, tachicardia e sudorazione. Sono molto evidenti le alterazioni oculomotorie, le crisi compulsive, l’intensa astenia, il calo della libido con impotenza o frigidità[1]. A livello psichico queste sostanze provocano: alterazione dello stato di coscienza, alterazioni intellettive, scadimento della memoria, rallentamento della percezione, disturbi dell’associazione, demenze, decadimento della sfera etica, riduzione dei poteri inibitori. E’ presente una forte labilità dell’umore con alternanza di fasi depressive ad altre di estrema irritabilità e aggressività, ansia, allucinazioni, depressioni, psicosi paranoidee, deliri di gelosia e di persecuzione. Inoltre sono presenti modificazioni comportamentali, disturbi della percezione spaziotemporale, difficoltà nell’elaborazione del pensiero, calo degli interessi sociali e lavorativi, modificazione della facoltà di attenzione, di concentrazione e dei tempi di reazione[2]. Per un criminologo è doveroso conoscere gli effetti collaterali di queste sostanze per meglio comprendere ed interpretare alcune modificazioni comportamentali che possono essere correlate con azioni criminali. 4. LA DIPENDENZA E LA COMORBIETÀ PSICHIATRICA Da quanto è emerso, l’assunzione di una determinata sostanza psicoattiva può esercitare una forte pressione sull’uomo a scapito dei suoi valori e delle sue convinzioni. Tale fattore ha posto il 84
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
85
problema dello studio della correlazione tra personalità, psicopatologia e disturbo da alto uso di sostanze. In particolar modo le ricerche sull’argomento cercano di spiegare come l’abuso di sostanze psicotrope possa esacerbare sintomi psichiatrici e come, al contrario, disturbi mentali possano predisporre all’abuso. I dati quantitativi di riferimento provengono dall’Epidemiologic Catchment Area (ECA) Study del NIMH ed evidenziano che: “tra tutti i soggetti che rilevavano nella vita una diagnosi di disturbo mentale ben il 14,7% avevano in anamnesi un disturbo da abuso/dipendenza da sostanze stupefacenti ed il 28,9% in aggiunta un disturbo da abuso/dipendenza da alcool”[3]. Ciò indica che coloro che hanno una storia di uso di sostanze hanno un rischio di disturbo mentale 4 volte superiore a quello della popolazione generale. Questo è dovuto a tutte le alterazioni psicologiche che sono in grado di provocare queste sostanze. Da quanto emerge nella letteratura nei farmacodipendenti la presenza di disturbi gravi della personalità è generalmente associata alla cronicizzazione del disagio psichico e psicosociale, alle frequenti ricadute nel ricorso alle sostanze, al fallimento terapeutico e alla prognosi negativa, nonché alla depressione, alla scarsa socializzazione, ai danni nell’elaborazione concettuale e nella memoria. In particolar modo la diagnosi di disturbo da personalità antisociale nelle persone dedite all’abuso sembra correlata a maggiori problemi di ordine legale, ai minori vantaggi sul piano terapeutico, alla più frequente necessità di associazione della psicoterapia ad un trattamento farmacologico. “All’interno dei sottogruppi diagnostici troviamo poi tassi di comorbietà con disturbi da uso di sostanze del 27.5% per la schizofrenia, del 19,4% per i disturbi affettivi, nonché del 42% per il disturbo antisociale di personalità”[4]. L’associazione tra i disturbi psichici e l’abuso di sostanze trova sovente spiegazione nell’aggregazione di fattori sociali di rischio correlati allo sviluppo di forte depressione. Molti soggetti assumerebbero infatti le droghe per alleviare le ansie, i problemi del sonno, la depressione, le allucinazioni visive e sonore e tutti gli effetti collaterali dovuti alle loro malattie psichiche. 5. LE RELAZIONI TRA L’ABUSO DI SOSTANZE PSICOTROPE E IL COMPORTAMENTO CRIMINALE Le associazioni tra il comportamento d'abuso e quello criminale possono verificarsi nello stesso individuo o tra individui diversi. Nel primo caso è il tossicodipendente stesso a mettere in atto il comportamento criminale, mentre nel secondo caso questi ha soltanto un ruolo di consumatore e i comportamenti criminali vengono messi in atto da altri soggetti[5]. 5.1. Relazioni tra i due comportamenti nello stesso soggetto Tali relazioni si fondono sugli effetti comportamentali negativi che certe sostanze psicotrope possono indurre in chi ne fa uso. Si tratta di comportamenti che finiscono con l'avere più o meno gravi ripercussioni sul funzionamento sociale dell'individuo e che possono sfociare nella commissione di atti disturbanti e/o reati. Questi effetti comportamentali, come accade per quelli 85
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
86
fisici e psichici, sono strettamente connessi al tipo di sostanza, alla quantità e alle diverse modalità individuali di coinvolgimento con la stessa. A) Vi può essere innanzitutto una correlazione diretta tra l'azione farmacologica svolta dalle diverse sostanze psicoattive e il comportamento delittuoso. Si tratta in questi casi essenzialmente di comportamenti violenti (danneggiamento di oggetti, aggressioni verbali, fisiche o sessuali, omicidi non premeditati) commessi tutti in maniera estremamente impulsiva. L'insorgenza di questi comportamenti non può però essere spiegata esclusivamente con l'assunzione delle sostanze le quali, come dimostrato da numerose indagini sperimentali, non agiscono direttamente sull'aggressività, ma facilitano piuttosto l'espressione di cariche aggressive già presenti nell'individuo. Del resto, secondo le più recenti teorie criminologiche, il comportamento criminale rappresenta un'unità complessa che emerge dall'interazione tra diversi fattori di ordine biologico, psicologico, psicopatologico, relazionale, socioambientale e normativo; la sua manifestazione non può pertanto, essere ricondotta, secondo una logica di determinismo lineare, a nessuno di questi fattori presi singolarmente, né tanto meno alla loro mera sommatoria. L'alcool e alcune droghe possono quindi soltanto agevolare la commissione di atti violenti i quali sono sempre generati da particolari motivazioni, sia espressive che strumentali, che si costruiscono all'interno di determinati contesti e relazioni[6]. Possono essere più facilmente attribuite all'azione esclusiva delle sostanze quelle condotte pericolose da cui spesso derivano comportamenti gravemente lesivi dell'incolumità propria e altrui che vanno a configurare reati colposi commessi alla guida di autoveicoli o nell'esercizio di attività pericolose di tipo professionale (infermiere, meccanico ecc.) e domestico (maneggio di strumenti pericolosi, bombole di gas ecc.). B) L'esistenza di uno stato di dipendenza rimanda poi a molteplici e complesse correlazioni di tipo indiretto tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità del farmacodipendente. L'uso protratto di sostanze aventi un elevato potere di determinare dipendenza psicofisica (alcool, eroina, anfetamine, più raramente cocaina) rende estremamente difficile mantenere un comportamento socialmente integrato laddove il bisogno incontrollabile di assumere la sostanza, per rivivere gli stati psichici piacevoli e per prevenire la sofferenza della sindrome da carenza, fa sì che questa divenga l'unica ragione di vita. E così, quanto più si è instaurata una dipendenza, tanto più sono presenti problemi lavorativi, familiari e relazionali in senso ampio legati all'incapacità del soggetto di conservare gli interessi precedenti, di ottemperare ai compiti imposti dal suo ruolo, di coltivare i rapporti affettivi e amicali e, in definitiva, di mantenere il proprio status. Perdendo di importanza tutti i valori e le remore dello status precedente il tossicomane viene ad assumere uno stile di vita marginale, degradato, amorale e improduttivo che a sua volta favorisce la commissione di reati sia di tipo violento che patrimoniale. Tali condizioni vengono peraltro mantenute e amplificate dalle permanenti alterazioni sia fisiche che psichiche e dalle rilevanti compromissioni della struttura di personalità che subentrano con il ripetersi quotidiano e continuo degli abusi. Difficile però, se non impossibile, distinguere se queste degradate condizioni di vita siano da ricondursi esclusivamente agli effetti deleteri delle sostanze o non anche a disturbi psicopatologici e di personalità preesistenti sui quali l'alcoolismo e la tossicodipendenza possono andare ad impiantarsi. Spesso difatti, come segnalato dalla letteratura, l'abuso di sostanze rappresenta la complicazione ed il prodotto di disturbi nevrotici, psichiatrici o di personalità rispetto ai quali il soggetto mette in atto un tentativo di auto 86
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
87
cura, di fuga dalla sofferenza e dal disagio. Se poi il consumo della sostanza è proibito per legge e il suo prezzo sul mercato clandestino è molto alto (eroina e cocaina) diventa pressoché inevitabile che il tossicodipendente arrivi a procurarsi il denaro necessario al suo acquisto tramite la commissione di una sequela di reati e che intraprenda, pertanto, uno stile di vita anche delinquenziale. Si tratta in questo caso di reati di furto, scippo, rapina, estorsione, spaccio che tanto allarme sociale creano soprattutto nelle grandi città. Molto spesso inoltre i tossicomani vengono ad avere una frequentazione con ambienti di criminalità comune dove il consumo di droga, in particolar modo di eroina e cocaina, è così diffuso e intenso da far parlare dell'esistenza non solo di una delinquenza dei tossicomani, ma anche di una tossicomania dei delinquenti[7]. Anche la letteratura segnala il frequente abuso di sostanze associato ad un disturbo di personalità antisociale interpretandolo come espressione di un più generale atteggiamento di sfida, spregio delle norme e noncuranza per la sicurezza propria e altrui. La necessità di contatti per procurarsi la droga e/o per ricettare merce rubata, assieme alla tendenza dei tossicodipendenti a fare gruppo, per creare quella ritualità comunitaria che caratterizza l'assunzione di stupefacenti e un legame sociale che non si può realizzare nella società "normale," fanno sì che il tossicomane criminalizzato si confonda sempre più con il delinquente tossicomane. L'inserimento progressivo dei tossicodipendenti nella sottocultura criminale può essere tale da rendere, ad un certo punto, praticamente impossibile operare una distinzione tra queste due categorie che non sia puramente teorica. Anche se è poco diffusa si registra pure una criminalità da sindrome di carenza caratterizzata da reati compiuti in una condizione di sofferenza angosciosa che spinge a procurarsi al più presto i soldi per la droga. Una siffatta urgenza può portare alla parziale o completa perdita di controllo e quindi alla commissione di atti delittuosi impulsivi, quali rapine o furti, non pianificati precedentemente. 5.2. Relazioni tra i due comportamenti in soggetti diversi Tali relazioni si realizzano quando il soggetto dipendente da alcool o droga si trovi a rimanere vittima di atti violenti compiuti nei suoi confronti; o anche quando i reati siano legati alle attività illecite di produzione, traffico e distribuzione degli stupefacenti. A) La correlazione tra abuso di sostanze psicotrope e criminalità si estrinseca anche in un ruolo vittimogeno di queste sostanze in quanto gli effetti comportamentali negativi che inducono in chi ne fa uso possono assumere carattere di provocazione dell'aggressività altrui esponendo quindi il soggetto consumatore al rischio di rimanere vittima di atti violenti. L'abuso o soltanto l'uso di sostanze può quindi portare gli individui ad essere più facilmente sia autori che vittime di comportamenti delittuosi, così come può accadere che un unico soggetto si ritrovi in un momento autore ed in un altro vittima di quella stessa violenza precedentemente esercitata. Spesso si verifica, soprattutto nel caso dell'alcool, che sia l'autore che la vittima di un reato violento si trovino sotto l'effetto di sostanze psicotrope. Per quanto concerne l'abuso di sostanze come fattore vittimogeno va anche considerata la possibilità per il soggetto alcool o tossicodipendente di rimanere vittima di abitudini di vita pericolose e/o di quegli ambienti degradati e delinquenziali con i quali entra in contatto fino a diventarne a volte un vero e proprio gregario.
87
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
88
B) Le sostanze psicoattive illecite hanno un'ulteriore valenza criminogena legata agli ingenti introiti economici che gruppi criminali, più o meno rigidamente organizzati, ricavano dal loro traffico. Particolarmente minacciose sono le organizzazioni criminali dotate di ramificazioni multinazionali e di criteri di gestione altamente manageriali che controllano da decenni il traffico dell'eroina e più di recente anche quello della cocaina, il cui consumo è in costante aumento. La produzione e il commercio di queste due droghe garantiscono difatti una straordinaria moltiplicazione dei profitti che nessun altro settore produttivo può lontanamente eguagliare. La produzione e il traffico delle droghe leggere (siccome danno vita ad un business decisamente meno proficuo) sono invece gestiti da gruppi criminali con una organizzazione meno strutturata, di dimensioni più piccole e meno potenti. I grandi interessi in gioco nelle operazioni di produzione, traffico, e distribuzione delle sostanze stupefacenti hanno portato sia ad un aumento quantitativo che ad un cambiamento qualitativo della criminalità a livello mondiale. Non soltanto sul mercato della droga sono fiorite nuove organizzazioni criminali più o meno pericolose, estese ed efficienti, ma l'accrescersi rapidissimo dell'arricchimento ha prodotto il potenziamento sia dei nuovi che dei vecchi poteri criminali un tempo fondati su attività illecite meno redditizie. Parallelamente si sono avute, e continuano ad aversi, trasformazioni profonde nella struttura attraverso forme sempre nuove di organizzazione dettate dall'esigenza di far fronte alla concorrenza delle altre organizzazioni criminali e, al contempo, di sfuggire alle azioni di repressione e contrasto predisposte dagli Stati e da apposite istituzioni internazionali. La ricchissima posta in gioco ha inoltre determinato una criminalità sempre più efferata e violenta e la progressiva scomparsa di quei codici comportamentali che pure un tempo venivano rispettati negli ambienti delinquenziali comuni. Negli scontri tra narcotrafficanti per la conquista e la spartizione dei mercati, così come nella guerra in atto tra questi e gli apparati statali, vengono oggi colpiti, con estrema ferocia e senza esitazione alcuna, donne e bambini, magistrati ed alti esponenti delle istituzioni, giornalisti e chiunque altri sia considerato minimamente d'intralcio. Non meno spietate sono le lotte che piccoli e medi spacciatori appartenenti a ramificazioni delle diverse organizzazioni criminali ingaggiano tra loro per il controllo delle aree di distribuzione locale. L'altissima concentrazione di ricchezza nelle sedi criminali che organizzano il traffico rappresenta inoltre una minaccia per la stabilità politica, sociale ed economica tanto dei paesi produttori, quanto di quelli dove essa viene smerciata. Nei paesi in cui vengono prodotte le sostanze naturali, (alcuni paesi del sudamerica per la cocaina e del sudest asiatico per l'oppio) l'economia prevalente, attorno alla quale ruotano tutte quante le altre, è quella della droga con il risultato che anche i valori morali ne risultano fortemente condizionati. Pertanto, sia nei paesi in cui i governi locali sono influenzati o direttamente controllati dai narcotrafficanti tramite infiltrazioni nelle amministrazioni e nei gangli decisionali, sia nei paesi in cui li combattono strenuamente con continue guerriglie, il vero potere si trova comunque nelle mani dei grandi trust criminali. Per quanto riguarda invece i paesi consumatori, le ingenti quantità di denaro a disposizione delle organizzazioni criminali vanno ad alimentare un'altra forma di criminalità meno visibile che si infiltra nella pubblica amministrazione, mediante la corruzione, e va a minacciare lo stato di salute dell'economia pubblica e privata, mediante il riciclaggio di denaro di illecita provenienza e la sua successiva utilizzazione: l'immissione di denaro riciclato nei normali circuiti economici del paese fa saltare le regole imprenditoriali della concorrenza togliendo ai soggetti che lavorano secondo principi di onestà ed efficienza la possibilità di competere. La potenza derivante dall'enorme ricchezza accumulata viene inoltre utilizzata per influenzare gli indirizzi politici del 88
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
89
paese attraverso la creazione e l'orientamento delle clientele elettorali, così da garantire che siffatta potenza possa essere perpetuata ed accresciuta. 6. LE TEORIE SULL’INDUZIONE ALL’AGGRESSIVITÀ In particolar modo negli USA sono state prodotte statistiche attendibili[8] che indicano come: l’86% dei casi di omicidio si realizzano sotto l’effetto dell’alcool; il 37% delle aggressioni si compiono dopo aver assunto alcolici; il 60% delle aggressioni sessuali si svolgono dopo aver ingerito alcool. Anche se questi dati si incentrano sugli effetti dell’alcool, si può desumere che tutte le sostanze psicoattive, se assunte in dosi eccessive, facilitano l’attivazione di comportamenti irruenti e privi di coscienza. Alcune teorie riguardo al rapporto fra le droghe ed i comportamenti violenti affermano[9]: A) L’ipotesi della disinibizione: le sostanze psicoattive indeboliscono i meccanismi di controllo che a livello cerebrale bloccano l’impulso aggressivo. Queste sostanze sono in grado di agevolare la messa in atto di comportamenti violenti, liberando pulsioni aggressive preesistenti nell’individuo, piuttosto che produrli autonomamente. La possibilità di passare ad atti irruenti (actingout) dipende pertanto, dall’interazione con diversi fattori preesistenti nell’uomo: personalità di base, storia familiare, età del soggetto, tipo di inserimento sociale, contesto ambientale. B) La tesi dell’alterazione dei meccanismi di elaborazione delle informazioni: le sostanze psicotrope determinano una interpretazione errata degli atteggiamenti degli altri e quindi una reazione esagerata ad essi. Questo effetto incoraggia l’autore a mettere in atto comportamenti impropri e agevola la distorsione interpretativa dei messaggi fra autore e vittima, favorendo la messa in atto di comportamenti provocatori. L’aggressività è alimentata dalla diffidenza, dal sospetto, da quell’ideazione paranoide che spesso complica una intossicazione acuta. Il pensiero diffidente/paranoide rappresenta quindi lo stadio nel quale più facilmente il tossicomane produce comportamenti violenti. Le azioni aggressive possono essere dunque il frutto non solo della tendenza a reagire con irruenza a stimoli soggettivamente percepiti come intrusivi, invasivi o minacciosi, ma anche dell’incapacità di controllare la propria emotività, che può agevolare scelte delittuose immediate. C) La teoria della riduzione dell’attenzione: le droghe diminuiscono la messa in atto delle normali norme precauzionali poiché riduce la percezione del rischio. L’effetto disinibente ed eccitante, unito a diminuita criticità e minore attenzione possono predisporre comportamenti a rischio, che si articolano lungo un ventaglio di possibilità che vanno dalla guida spericolata al mancato uso di profilattici in comportamenti sessuali a rischio. Le sostanze psicoattive sono in grado di produrre modificazioni delle facoltà attentive, di concentrazione e dei tempi di reazione. 89
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
90
7. I RISVOLTI CRIMINOGENI E VITTIMOGENI DELLE SINGOLE SOSTANZE Per meglio poter applicare le teorie sopra esposte è opportuno specificare le diverse forme di reati correlati all’uso di specifiche sostanze. Alcune agiscono direttamente sui centri nervosi deputati al controllo dei comportamenti aggressivi, altre favoriscono stili di vita antisociali che predispongono al comportamento criminale, ed altre ancora inducono una generica condizione di disinibizione che può tradursi in una più facile manifestazione di azioni violente. 7.1. L'alcool L'alcolismo si configura come un complesso problema sociale oltre che medico, sia perché alla sua patogenesi concorrono, assieme a fattori biologici e psicologici, anche fattori sociali, sia perché le conseguenze negative che comporta sul singolo individuo a livello medico, neurologico e psichiatrico si ripercuotono sull'intero corpo sociale. E ciò non soltanto per i costi economici diretti e indiretti che l'alcoolismo comporta alla società in termini di spesa sanitaria o di perdita di produttività sul lavoro; anche perché la progressiva compromissione di tutte le funzioni psichiche, e il deterioramento dei rapporti sociali che ne deriva, possono indurre particolari alterazioni del comportamento che assumono una netta caratterizzazione antisociale. Nonostante la dimensione del problema, il fenomeno dell'alcoolismo non è però oggetto della dovuta attenzione né da parte dei politici, né da parte degli operatori sociosanitari i quali appaiono quasi esclusivamente impegnati ad affrontare le pur serie problematiche derivanti dalla diffusione delle droghe illegali. Eppure la dipendenza da alcool dà una sintomatologia molto simile a quella degli oppiacei pur instaurandosi, contrariamente a quest'ultima, soltanto dopo molti anni di abuso continuativo. Tra i disturbi alcool correlati quelli che rivestono maggiore interesse criminologico sono l'intossicazione acuta, l'abuso e la dipendenza da alcool. Gli altri raramente conducono a comportamenti criminali, mentre le forme di criminalità tipiche dei quadri psicotici indotti da alcoolismo cronico rientrano in una competenza più squisitamente psichiatrica. I risvolti criminologici dell'intossicazione alcolica acuta sono legati alla sua capacità di slatentizzare o accentuare tendenze aggressive precedentemente controllate o comunque mitigate. L'effetto depressivo dell'alcool sui centri superiori corticali indebolisce difatti i meccanismi di controllo di ogni tipo di pulsioni, comprese quelle aggressive, provocando una condizione di disinibizione. La comparsa di comportamenti aggressivi viene anche agevolata dal fatto che l'alcool determina un'alterazione dei meccanismi di elaborazione delle informazioni e quindi un'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri che può portare a reazioni esagerate. L'alcool è pertanto la sostanza psicotropa che più di tutte quante le altre è in grado di produrre quella che viene definita "violenza psicofarmacologica" e quindi di indurre criminalità diretta. Numerose e rigorose ricerche sperimentali volte a sondare l'effetto dell'alcool sull'aggressività hanno dimostrato che la sola somministrazione di quantità rilevanti di alcool non produce autonomamente comportamenti violenti; il suo effetto consiste invece nel potenziare tale tipo di comportamenti, indotti sperimentalmente da specifiche situazioni appositamente create, sia in intensità che in durata. Negli stati di abuso e di dipendenza da alcool, caratterizzati dall'incapacità di interrompere o ridurre l'assunzione dell'alcool, i segni di intossicazione alcolica sono presenti durante tutto il giorno e, alla lunga, determinano una alterazione alcolica della personalità. In una personalità via via sempre più deteriorata la tendenza alla impulsività e a comportamenti aggressivi 90
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
91
viene accentuata da profonde modificazioni dell'umore e dell'affettività, da un marcato aumento dell'emotività, dal venir meno del senso morale che porta il soggetto a disinteressarsi delle relazioni familiari e sociali, del lavoro, di mantenere una condotta retta e onesta. Il conseguente logorio dei rapporti in famiglia, le violente discussioni che sorgono attorno all'abitudine del bere e alla condotta dell'alcoolista fanno sì che questi arrivi spesso ad usare violenza nei confronti del partner e dei figli o di altri soggetti deboli quali possono essere nipoti o genitori anziani. L'associazione tra alcoolismo e violenza intrafamiliare è stata ampiamente evidenziata dalla letteratura che individua nell'abuso di alcolici (soprattutto nell'autore, ma a volte anche nella vittima) un importante fattore precipitante o concomitante di comportamenti violenti i quali possono essere di tipo psicologico (aggressioni verbali, umiliazioni, limitazioni della libertà di movimento) o di tipo fisico (dalle percosse più o meno gravi fino all'omicidio). L'impotenza sessuale che sopraggiunge negli stati avanzati di dipendenza, unitamente all'insorgenza di un disturbo psicotico, può inoltre far insorgere deliri di gelosia nei riguardi della partner con pericolose conseguenze per la sua incolumità fisica. Tali deliri vengono peraltro alimentati dal frequente rifiuto della donna di avere rapporti intimi con uomini riversi in un tale stato di degrado fisico da suscitare ripugnanza e che fanno spesso richiesta di pratiche sessuali umilianti. L'abuso di alcool o droghe è stato quindi individuato come uno degli elementi di rischio o diagnostici sia per il maltrattamento coniugale che per quello sui minori; quest'ultimo non riguarda solo le forme attive, tra le quali va considerato anche l'abuso sessuale, ma anche quelle più diffuse e non meno gravi dell'abbandono, dell'incuria e della discuria. L'alcool si correla con il crimine violento anche in contesti non familiari: i reati di violenza (quali percosse, lesioni, omicidi) sono quelli più frequentemente commessi dagli alcoolisti come risultato della impulsività, dell'irritabilità e della tendenza alla litigiosità che finisce per danneggiare tutti i loro rapporti sociali. L'aumento della libido e di pulsioni erotiche incontrollabili, determinato dall'assunzione di consistenti quantità di alcool, li induce inoltre a mettere in atto comportamenti sessuali disturbati che possono configurare reati contro la morale pubblica e il buon costume (es. esibizionismo) oppure di violenza sessuale (es. stupro, atti sessuali con minori); in quest'ultimo caso appare però determinante anche la distorsione interpretativa dei messaggi (di natura sessuale o così ritenuti) inviati nel corso dell'interazione. Più tipici dei giovani che fanno uso eccessivo e smodato di alcolici, ad esempio cominciando a bere già dal mattino, sono gli atti di vandalismo con danneggiamento afinalistico di beni di proprietà pubblica o privata. L'alcoolista si ritrova ad essere facilmente non soltanto autore, ma anche vittima di numerosi atti di violenza. Il ruolo vittimogeno dell'alcool è stata evidenziato da numerosi dati raccolti in letteratura sulla elevata percentuale di reati violenti in cui la vittima presenta tassi elevati di alcolemia. La presenza di alcool viene spesso riscontrata sia nella vittima che nell'autore di uno stesso reato la cui messa in atto viene pertanto agevolata dalla congiunta azione criminogena e vittimogena della sostanza. Entrambe queste azioni si spiegano allo stesso modo in quanto l'allentamento del controllo sulle pulsioni, assieme all'interpretazione errata dell'atteggiamento degli altri, possono portare i soggetti a mettere in atto non soltanto comportamenti violenti, ma anche atti provocatori più o meno intenzionali, creando, in quest'ultimo caso, situazioni per loro altamente pericolose. A volte la provocazione agita dalla vittima consiste proprio in un comportamento violento che provoca l'aggressività dell'altro cosicché la posizione della vittima può andare da una totale estraneità fino ad una piena partecipazione attiva al delitto. L'alcool agisce da fattore vittimogeno anche perché riduce o annulla la possibilità della vittima di opporre resistenza a causa dell'allentamento dei riflessi, della capacità di controllo dei 91
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
92
gesti, della diminuzione della vigilanza. Anche nei reati sessuali l'assunzione di elevate quantità di sostanze alcoliche rappresenta un importante fattore vittimogeno laddove la vittima viene fatta spesso bere con il preciso intento di diminuirne l'autocontrollo e quindi le resistenze sia fisiche che psicologiche. In altri casi, invece, una donna in stato di ebbrezza può manifestare atteggiamenti provocatori che possono essere male interpretati dall'uomo, soprattutto se anch'egli è sotto l'effetto dell'alcool, come tacito consenso al rapporto sessuale. Lo stesso modo di trascorrere le giornate ha, per l'alcoolista, una valenza vittimogena: le lunghe ore di permanenza nei bar, luogo dove più di frequente nascono discussioni verbali e risse, il vagabondaggio per le strade, il rientro a casa nelle ore notturne lo espongono fortemente al rischio di aggressioni, rapine e omicidio. Altri reati che gli alcoolisti cronici sono pure indotti a compiere, seppur meno frequenti, sono quelli contro la proprietà: lavorando in maniera irregolare o non lavorando affatto sono spesso indigenti e possono essere spinti a rubare dalla necessità di acquistare le sostanze alcoliche o anche beni di prima necessità; inoltre, venendo meno tanto il controllo sul comportamento quanto il senso morale, essi sono portati a prendere, anche con mezzi illeciti, qualsiasi cosa vogliano ottenere. A causa di certi effetti provocati dall'alcool (riduzione dell'attenzione, conseguente diminuzione della percezione del rischio e di messa in atto delle normali norme precauzionali, rallentamento dei riflessi) ad esso può essere attribuita, contrariamente ai casi di cui si è detto sopra, responsabilità certa ed esclusiva nel determinare incidenti di diverso tipo che possono configurarsi come reati colposi: incidenti stradali che coinvolgono solo gli ospiti delle autovetture o anche i pedoni, incidenti aerei, incidenti sul lavoro, incidenti domestici. 7.2. L’eroina E' la droga che trasforma quasi senza scampo chi ne dipende in un delinquente abituale perché, in forza della sua capacità di indurre una tenacissima dipendenza e quindi di rendere il tossicomane un cliente obbligato, è venduta a prezzi assurdamente gonfiati. La necessità dell'eroinomane di disporre in continuazione di ingenti somme di denaro, assieme al subentrare di uno stile di vita degradato e amorale, lo portano spesso a commettere reati che consistono non solo in una microcriminalità di tipo esclusivamente patrimoniale (in prevalenza furti), ma anche in aggressioni violente alla persona (scippi, rapine, estorsioni). Il bisogno assillante di denaro trasforma il tossicomane anche in una fonte di manovalanza facilmente reclutabile da qualunque gruppo o organizzazione criminale per qualsiasi attività, purché compatibile con il loro stato; può inoltre predisporre a forme di devianza come la prostituzione che spesso, a sua volta, induce altra criminalità. Spesso succede che il tossicodipendente venga inserito nella catena di distribuzione come piccolo spacciatore coartato dalla minaccia di fargli mancare la dose quotidiana, se rifiuta, e allettato dalla possibilità di avere dosi gratis, se accetta. Il quotidiano contatto con gli altri tossicodipendenti e la naturale tendenza del tossicodipendente a fare nuovi proseliti lo rende difatti un soggetto ideale per operare in direzione dell'allargamento del consumo e per garantire quindi allo spacciatore intermedio un incremento continuo del volume di affari. Le modificazioni del carattere e della personalità tipiche dell'eroinomane, che si traducono anche in comportamenti imprevedibili, reazioni esplosive e irritabilità, possono pure dar vita ad atti di violenza soprattutto in casa dove forti si fanno le difficoltà di rapporto. Frequenti sono difatti le discussioni e le liti che nascono attorno allo stato di degrado fisico e psichico in cui riversa il familiare, ai tentativi di indurlo a disintossicarsi, alle 92
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
93
incessanti richieste o sottrazioni di danaro e beni di valore fatte dal tossicomane. E' facile, pertanto, che tali discussioni degenerino in minacce, estorsioni, percosse e lesioni di cui il tossicodipendente può ritrovarsi però anche vittima; difatti sovente succede che tanta violenza generi reazioni disperate nei familiari che possono arrivare, in casi estremi, anche ad ucciderlo. In un ottica vittimologica vanno anche considerati i molti reati consumati ai danni degli eroinomani soprattutto in quegli ambienti delinquenziali di cui egli entra a far parte. Frequenti sono i casi in cui il tossicomane, nei panni anche di spacciatore, rimane ferito o ucciso negli scontri che si verificano tra rivali per il controllo monopolistico delle zone di distribuzione. Il consumo di eroina, inducendo stati di ottundimento psichico, svolge pure un ruolo rilevante nella determinazione di reati colposi commessi alla guida di autoveicoli. 7.3. La cocaina Questa droga, molto più delle altre, sembra esercitare un'influenza diretta sull'aggressività slatentizzando 1e istanze aggressive preesistenti e inibendo, contemporaneamente, il controllo e il giudizio critico. Si tratta di una sostanza utilizzata, sino ad un decennio fa, soltanto nelle classi sociali più elevate e che attualmente si va invece diffondendo in tutti gli ambienti. Ciò in virtù del fatto che i suoi effetti vengono considerati non soltanto innocui, ma anche in linea con le richieste di efficienza e prestazioni elevate poste dalla nostra società. Pur non subentrando mai una vera e propria dipendenza fisica la cocaina può comunque dare una forte dipendenza psichica che porta ad assumerne quantità eccessive per tempi prolungati. Si fa alto, in tal caso, il rischio che si verifichino episodi di intossicazione acuta e anche stati di intossicazione cronica che possono indurre quadri di strutturazione paranoidea fino a veri e propri scompensi psicotici con deliri di persecuzione o di gelosia. E' evidente come in presenza di un'ideazione paranoide possano più facilmente verificarsi comportamenti violenti messi in atto allo scopo di difendersi. La cocaina, agendo sui centri cerebrali che governano i comportamenti aggressivi e impulsivi, indurrebbe quindi una particolare aggressività di tipo difensivo alimentata dalla diffidenza e dalla sospettosità. Ma comportamenti violenti possono verificarsi anche nei primi due stadi dell'intossicazione cronica, prima che si arrivi cioè alla comparsa del pensiero diffidente/paranoide e, successivamente, del disturbo psicotico. Il primo stadio definito "di euforia" è caratterizzato da iperattività psicomotoria e miglioramento delle capacità cognitive. In questa fase atti di violenza possono essere indotti da una condizione di ipervigilanza che comporta una eccessiva tendenza ad interpretare le intenzioni altrui e a reagire in maniera immediata; inoltre l'eccesso di euforia, la sensazione di potenza e di fiducia estrema in se stessi possono essere utilizzati strumentalmente per compiere diversi tipi di reati, così come possono produrre comportamenti spericolati e imprudenti che sono causano di incidenti. Il secondo stadio, definito "disforico", è invece caratterizzato non soltanto dal calo della concentrazione e del rendimento in tutte le attività, ma anche da una riduzione del controllo emotivo che può portare il soggetto ad agire o a reagire in maniera violenta, esponendolo ovviamente anche al rischio di rimanere vittima dell'aggressività di altri provocata dai suoi stessi comportamenti. Va inoltre considerato che, potendo indurre una forte dipendenza psicologica e costando cifre abbastanza elevate, anche la cocaina, così come l'eroina, può portare il soggetto a compiere reati legati alla necessità di reperire in continuazione somme di denaro per il suo acquisto. 93
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
94
7.4. Le anfetamine Anche se alcune indagini sperimentali indicano che queste sostanze potrebbero stimolare comportamenti aggressivi, nell'uomo atti di violenza sembrano verificarsi più frequentemente nei consumatori abituali che in quelli occasionali il che induce a ritenere che essi siano determinati non tanto dall'azione farmacologica della sostanza stessa, quanto dalle deteriorate relazioni sociali tipiche dell'assuntore cronico. Comportando una forte dipendenza, sia fisica che psichica, l'abuso di anfetamine provoca difatti ripercussioni negative sul funzionamento sociale con conseguente assunzione dello stesso stile di vita marginale e degradato dell'eroinomane. Va però segnalato che, se assunte in dosi eccessive, il piacevole stato di eccitazione indotto dalle anfetamine può trasformarsi in irritabilità e aggressività da cui possono pertanto scaturire comportamenti violenti o provocatori della violenza altrui. 7.5. Gli allucinogeni, l’ectasy ed altri derivati degli anfetaminici Il consumo di queste sostanze è sempre più in aumento soprattutto tra i giovanissimi i quali ne fanno largo uso in momenti ricreativi che hanno luogo in particolari giorni e luoghi: esse vengono difatti utilizzate prevalentemente durante i fine settimana nelle discoteche, allo stadio, a feste e concerti per amplificare il divertimento attraverso prestazioni ed emozioni particolarmente intense. Il rischio di una sempre maggiore diffusione di queste sostanze è collegata al fatto che, come già inizialmente per la cocaina, esse non vengono percepite come vere e proprie droghe in quanto i danni provocati compaiono soltanto dopo periodi molto lunghi di abuso e alcune di loro non sono ancora state incluse nelle diverse tabelle delle sostanze stupefacenti. Non vi sono per queste droghe significative correlazioni con la criminalità in quanto il loro costo è relativamente economico e non sembrano produrre dipendenza; il loro uso rimane difatti esclusivamente limitato alle situazioni di svago collettivo. Neanche sono mai state dimostrate correlazioni di tipo diretto tra l'assunzione di queste sostanze e comportamenti aggressivi. Vengono segnalati soltanto rari episodi di aggressività riconducibili alla perdita di lucidità e al senso di onnipotenza che gli allucinogeni possono indurre; manifestazioni di aggressività e partecipazioni a risse possono pure verificarsi come conseguenza dell'allentamento dei freni inibitori indotto dall'ectasy, ma anche qui si tratta di casi eccezionali dal momento che la tipica condizione di disinibizione procurata dalla sostanza si traduce, generalmente, in un migliore rapporto con gli altri, in una più intensa e piacevole socializzazione. E' pur vero però che sull'effetto e l'intensità di queste sostanze giocano un ruolo rilevante la personalità del consumatore, l'umore al momento dell'assunzione e, non ultimo, il contesto in cui questa avviene. Un ambiente chiuso e rumoroso quale quello delle discoteche, con continue e stressanti stimolazioni sensoriali, dove vengono contemporaneamente consumate bevande alcoliche, può quindi favorire anche alterazioni comportamentali di tipo aggressivo. Una elevata correlazione diretta esiste soltanto con la delittuosità colposa da incidenti stradali, causati da eccesso di velocità, che avvengono solitamente al momento del ritorno a casa. Nel caso dell'ecstasy essi sono riconducibili alla persistente eccitazione, unita ad un diminuito senso critico, che genera una falsa sensazione di sicurezza alla guida; altre volte sono invece provocati dalla alterata prontezza dei riflessi legata alla stanchezza che subentra una volta esauriti gli effetti stimolanti, stanchezza peraltro pesantissima se 94
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
95
si considera che il senso di energia indotto dalla sostanza porta i ragazzi a ballare ininterrottamente per parecchie ore e spesso durante tutta la notte. Nel caso invece degli allucinogeni, dosi eccessive possono indurre perdita del controllo e della lucidità accompagnate da una sensazione di onnipotenza che porta il soggetto a sopravvalutare le proprie capacità, senza contare le conseguenze negative che hanno sulla guida le distorsioni percettive tipiche di queste sostanze. 7.6. I cannabici La relazione con la commissione di reati è pressoché inesistente, fatta eccezione per quelli colposi, come gli incidenti stradali, determinati dalla diminuzione dell'attenzione, della concentrazione e della prontezza dei riflessi. Il basso costo e la mancanza di un bisogno imperativo di assumerla fanno sì che il consumatore di cannabis sia praticamente immune dal coinvolgimento con la criminalità: egli conserva un normale funzionamento sociale e il suo status di vita precedente all'uso o abuso di sostanze. Anche l'azione diretta delle sostanze sui comportamenti violenti è trascurabile. Consumatori di cannabici si trovano più facilmente coinvolti in gravi atti violenti, nel ruolo di autore o vittima, soltanto nel caso essi facciano contemporaneo uso di alcool o altre sostanze stupefacenti. Comportamenti aggressivi possono comunque manifestarsi in fumatori abituali e ostinati che abbiano sviluppato una dipendenza psichica. La letteratura descrive modificazioni del carattere in corso di uso cronico di cannabici anche se questi aspetti risentono molto dell'esistenza di precedenti problemi psicologici e relazionali che giocano un ruolo determinante nell'indurre la persona a ricorrere all'uso massiccio di "spinelli" e da quest'uso risultano poi rinforzati e acuiti. A tal proposito è stata segnalata una sindrome definita "demotivazionale" caratterizzata da perdita di motivazioni sia per le attività sociali che lavorative, con un atteggiamento di fuga dai problemi quotidiani e di ricerca del benessere esclusivamente nel fumo, un po’ come avviene per l'alcool e l'eroina. Alcuni autori hanno pure evidenziato come il consumo intenso e protratto possa interferire con i ritmi di sonno e veglia impedendo quindi un riposo regolare al soggetto che in forza di ciò potrebbe divenire sempre più irascibile e reagire con comportamenti aggressivi ad ogni minima critica o provocazione. Va inoltre segnalato che dosaggi molto alti di queste sostanze possono indurre una intossicazione acuta caratterizzata, tra gli altri sintomi, anche da irritabilità o manifestazioni aggressive secondarie a disturbi ideativi di tipo paranoide. 8. IL TRATTAMENTO DEI FARMACODIPENDENTI IN AMBITO PENITENZIARIO L’istituzionalizzazione è una tappa quasi obbligatoria per il tossicodipendente e per l’alcolista, i quali frequentemente finiscono in carcere. L’art.84 della legge 684/75 sancisce che “chiunque si trovi in stato di custodia o di espiazione di pena e sia ritenuto dall’autorità sanitaria abitualmente dedito all’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti o psicotrope, ha diritto di ricevere le cure mediche e l’assistenza sanitaria a scopo di riabilitazione”. Per una corretta impostazione di un programma terapeutico l’intervento degli operatori deve essere necessariamente multidisciplinare ed avvalersi delle strutture sanitarie penitenziarie e dei centri sociosanitari territoriali. Il contenimento ed il superamento della crisi di astinenza vengono in linea generale affrontati con la somministrazione di trattamenti medicamentosi. Vengono controllati il funzionamento dei vari organi del tossicodipendente ed eseguiti esami di laboratorio, contemporaneamente ad una terapia 95
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
96
farmacologica metabolica, tranquillante, di sostegno e nutrizionale. In un secondo momento viene affrontato l’aspetto psicosociale, con l’obiettivo di far si che questi soggetti riacquistino la fiducia nelle loro capacità ed imparino a risolvere con modalità più efficaci i problemi, e di sensibilizzare il soggetto ad aderire ad un programma terapeutico e socioriabilitativo fra quelli realizzabili in istituto. L’analisi delle reti sociali permette agli operatori di individuare sia i membri del sistema di appartenenza del soggetto che potrebbero essere coinvolti nel processo di aiuto, sia le risorse da mobilitare e le strategie da mettere in atto. Una valida connessione intersistemica dovrebbe collegare gli operatori del carcere con i servizi territoriali, con i sistemi informali (parenti, amici, vicini) e quasi formali di sostegno (volontariato, gruppi selfhelp). Allo stato attuale la detenzione è tra le poche concrete occasioni per effettuare un’effettiva disintossicazione, in ragione dell’obbligato distacco dalla sostanza. Durante la detenzione è possibile realizzare la disintossicazione ed il trattamento degli aspetti fisici delle tossicodipendenze, ma ben poco si può fare per gli interventi psicologici e psicosociali, attualmente carenti. Ne deriva che il trattamento nel suo complesso è incompleto, mancando una fase di riabilitazione e di reinserimento sociale[10]. Dal punto di vista criminologico l’elevata percentuale di precedenti penali dimostra chiaramente l’inefficacia del trattamento puramente custodialistico. E’ necessario programmare nuove strategie di intervento in favore del detenuto tossicodipendente o alcolista: utilizzare il contratto con la giustizia per avviare un piano di trattamento fisico e psicosociale; evitare stigmatizzazioni: la scelta di non isolare gli alcolisti dai tossicodipendenti è data dall’esigenza di non “ghettizzare” e di non creare condizioni di privilegio rispetto ad altre categorie di detenuti; predisporre un trattamento individuale e specifico. L’ordinamento penitenziario pone l’obbligo di attuare un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con il mondo esterno, al reinserimento sociale[11]. Tale modalità rieducativa dei condannati è diretto a promuovere un processo di modificazione degli atteggiamenti che sono di ostacolo ad una costruttiva partecipazione sociale. In questa prospettiva si auspica un sempre più diffuso collegamento tra le strutture penitenziarie ed i servizi territoriali, in grado di garantire globalità e continuità al trattamento, anche al di fuori della struttura carceraria. In tal modo l’intervento penitenziario diviene più organico e globale, finalizzato all’obbiettivo ultimo, che è il recupero attraverso l’effettiva e proficua interpretazione sociale. Profili statistici tipici degli alcolisti e dei tossicodipendenti nelle carceri ALCOLISTA Sesso: maschio, Età: 35 anni, Scolarità: elementare, 96
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
97
Attività lavorativa: disoccupato Reati: furto, oltraggio, resistenza a pubblico ufficiale, maltrattamenti in famiglia, ricettazione, spaccio di sostanze stupefacenti TOSSICODIPENDENTE Sesso: maschio Età: 23 anni Sostanza utilizzata: eroina Reati: contro il patrimonio, reati comuni, contro la persona BIBLIOGRAFIA Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1) 1998. Barra Massimo, Tossicomanie giovanili: tecniche di recupero, Savelli editore, Milano 1982. Campedelli M., Tossicodipendenza, F. Angeli, Milano 1994. Ceccanti M., Patologie da alcol, Aiello, Cosenza 1985. Cottino Amedeo, Prina Franco, Il bere giovane, FrancoAngeli, Milano 1997. De Leo G., Patrizi P., La spiegazione del crimine, Il mulino, Bologna; 1999 2° ed. Ecstasy; una ricerca esplorativa su rappresentazioni e significati dei giovani, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXII (2) 1999. Ferracuti F., Trattato di criminologia.. Medicina, criminologia e psichiatria forense vol.I, Giuffré, Milano 1987. Ferracuti F., Trattato di criminologia.. Alcolismo, tossicodipendenze e criminalità vol.XV, Giuffré, Milano 1988. Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989. Ferracuti F., Bruno F., Droga, criminalità e sistemi sociali, UGRIS, Roma 1993. Furlan P.M., Picci R.L., Alcol, alcolici e alcolismo, Bollati Boringhieri, Torino 1990 97
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
98
Giovani ed ecstasy: un progetto interistituzionale. Risultati di una indagine sulla percezione del rischio connesso all’uso di ecstasy, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXII (2) 1999. Lavazza Susanna, “Cara” droga, FrancoAngeli, Milano 1998. Malizia, Le droghe, Roma, Newton 1994. Moiraghi R., Alcologia, Masson, Milano 1996. Piazzi G., Teoria dell’azione e complessità, Franco Angeli Editore, Milano 1989. Ponti G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 4° edizione. Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XX (4) 1997 Testoni I., Psicologia del nichilismo: la tossicodipendenza come rimedio, Franco Angeli, Milano 1997. Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina delle tossicodipendenze, IV n.23 (1112) Dicembre 1996. Tossicodipendenza, carcerazione, aree urbane a maggior rischio nella città di Bologna, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XIX (4) 1996. [1] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XX (4) 1997 [2] Quadro sintetico degli effetti dell’alcool, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XX (4) 1997 [3] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina delle tossicodipendenze, IV n.23 (1112) Dicembre 1996. [4] Tossicodipendenza, personalità e comorbietà psichiatrica. Implicazioni cliniche, in: Medicina delle tossicodipendenze, IV n.23 (1112) Dicembre 1996. [5] Ferracuti F., Trattato di criminologia.. Alcolismo, tossicodipendenze e criminalità vol.XV, Giuffré, Milano 1988. [6] De Leo G., Patrizi P., La spiegazione del crimine, Il mulino, Bologna; 1999 2° ed
98
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
99
[7] Ponti G., Compendio di criminologia, Raffaello Cortina Editore, Milano 1999 4° edizione. [8] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1) 1998. [9] Alcool, violenza ed aggressività, in: Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcolismo, XXI (1) 1998. [10] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989. [11] Ferracuti Franco (a cura di), Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forenze: carcere e trattamento, Giuffrè editore, Milano 1989. LE ORGANIZZAZIONI CRIMINALI La ricerca criminologica, nell'ambito del crimine organizzato, sembra essere in una condizione di incertezza e approssimazione soprattutto per ciò che attiene agli studi di tipo qualitativo. Le ragioni di tale condizione sono riconducibili alla natura stessa dell’oggetto di studio in primo luogo per la segretezza e mimetizzazione dei gruppi criminali in oggetto nonché per la pericolosità connessa allo svolgimento di studi "sul campo" che pone sovente i ricercatori in condizione rinunciataria. Le caratteristiche adattive delle organizzazioni criminali complesse rappresentano poi un’ulteriore elemento di difficoltà per la progettazione delle ricerche. La rapide modifiche strutturali e la loro continua evoluzione rende infatti questi aggregati un oggetto sfuggente alle categorizzazioni e alla stessa formulazione di ipotesi operative. Le difficoltà metodologiche si associano sovente ad una certa inadeguatezza delle teorie criminologiche correnti. La maggior parte degli studi criminologici assume infatti, come assunto generico di fondo, che il crimine sia prodotto di una certa disfunzionalità dovuta a deficit di socializzazione o a “patologie individuali” o ancora a una distorta attribuzione di significato alla realtà. Sovente, l’appartenenza a organizzazioni criminali complesse e l’esecuzione di crimini nel loro ambito, rappresenta viceversa l’esito fisiologico di un vero e proprio processo di socializzazione, soprattutto in talune aree geografiche dove la “cultura mafiosa” è in grado di relegare in condizioni subculturali e di devianza la “cultura ufficiale”. L’ultimo aspetto da considerare è la forte capacità dei grandi gruppi criminali di organizzare ed orientare il comportamento dei singoli appartenenti attraverso un sistema sanzionatorio estremamente efficace. Queste condizioni hanno reso il materiale scientifico disponibile di taglio criminologico estremamente limitato, soprattutto quello riguardante le dinamiche delle organizzazioni e le interazioni tra i loro componenti e tra le loro strutture. Molti studiosi, viceversa, hanno prodotto numerosi scritti e saggi sull'argomento di impostazione giornalistica e sociologica, centrati soprattutto sulle componenti antropologiche e rituali o impostati sulla semplice disamina statistica degli “indicatori” della presenza criminale organizzata in un determinato territorio[1]. Talune eccezioni di impostazione qualitativa si riscontrano negli studi che riportano la life history di alcuni pentiti, unici elementi disponibili alla narrazione di questioni attinenti alla loro organizzazione. Questi racconti, pur fornendo informazioni utili alla comprensione del fenomeno mai ottenute in 99
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
100
precedenza, presentano caratteristiche che dovrebbero indurre gli studiosi ad una particolare cautela, soprattutto in ragione del fatto che la “condizione di pentito” può indurre il soggetto a stravolgimenti della realtà (oltre che a tentativi di depistaggio). L’interesse delle organizzazioni criminali per il criminologo si articola sostanzialmente verso due filoni di studio: l’osservazione dei singoli appartenenti, intesi come criminali aventi spesso delle peculiarità dovute all’inserimento all’interno della subcultura dell’organizzazione e l’analisi organizzativa, che mira ad evidenziare le dinamiche e le strutture (e la loro evoluzione nel tempo) del gruppo delinquenziale. Per ciò che attiene al primo filone lo studioso dovrà dotarsi soprattutto di strumenti conoscitivi in grado di porre in evidenza l’influenza della struttura organizzativa sulla personalità e sull’agire del soggetto, senza dimenticare però la sua residuale capacità determinativa del proprio comportamento, per ciò che attiene invece alla dimensione organizzativa, una possibile soluzione metodologica e concettuale è rappresentata dall’impiego di paradigmi interpretativi mutuati da altre branche delle scienze sociali, in particolar modo nell’ambito della Psicosociologia del lavoro e delle organizzazioni, considerando quindi i gruppi criminali complessi come delle organizzazioni finalizzate alla produzione e accumulazione di ricchezze in senso lato, connotate (ma solo come variabile) da aspetti di illegalità. Questo approccio considera quindi le strutture criminali come sistemi finalizzati alla produzione accumulazione di ricchezze impiegando in alcune fasi temporali degli imputs (risorse) e delle tecnologie illegali. Il comportamento individuale ed organizzativo Esiste una correlazione intensa tra i fattori legati all’ambiente (sociale e gruppale) che favoriscono una condotta criminosa, e quelli legati invece alle singole personalità, con possibilità di infinite combinazioni reciproche[2]. In linea di massima, quanto più i fattori ambientali favoriscono il crimine, tanto meno necessarie sono le componenti legate alla personalità dell’individuo. Un’approccio alle organizzazioni criminali che ipotizzi un’assoluta capacità da parte dei gruppi di orientare il comportamento dei singoli appartenenti appare fuorviante così come sembrano riduzionistici gli approcci che considerano viceversa tali individui completamente liberi di organizzare e significare il proprio agire. Nella realtà, quindi, i fenomeni di actingout criminale devono essere intesi come frutto di una costante integrazione tra fattori individuali, di gruppo ed ambientali. Le organizzazioni, i gruppi organizzati, anche se non scevri da segmenti irrazionali di orientamento del comportamento, presentano però un livello di maggiore stabilità rispetto alla finalità razionale e le eventuali dinamiche “anomale”, possono essere interpretate (e previste) come prodotto di interazioni tra i componenti del gruppo o come stimolazioni impreviste provenienti dall’ambiente sociale. L’analisi del comportamento individuale L’appartenenza di individui ad un'organizzazione criminale complessa implica due "condizioni" sostanziali poste su diversi piani ma aventi numerose interconnessioni e reciproche influenze. La prima condizione è riferibile alla devianza. La semplice partecipazione all'organizzazione pone teoricamente il soggetto in una "condizione" di devianza. Tale condizione va però interpretata alla luce del sistema di valori diffuso nell’ambiente sociale in cui il soggetto è inserito. La seconda 100
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
101
condizione è riferibile al ruolo del soggetto nella compagine delinquenziale ed alle sue conseguenti diverse motivazioni. La sua posizione gerarchica e la sua specifica attività influiranno infatti probabilmente sul suo comportamento e sulle sue aspettative. I partecipanti, in tal senso, sono notevolmente differenti tra loro, sia per quanto riguarda il tipo di professionalità riversato nelle dinamiche dell'organizzazione e sia per ciò che attiene alla rappresentazione degli obiettivi desiderati intesi come motivazione di appartenenza al gruppo criminale. E' presumibile che la percezione del crimine possa variare notevolmente in base al tipo di suttostruttura in cui il soggetto opera. Le organizzazioni criminali complesse infatti presentano delle sottostrutture notevolmente differenti l’una dall’altra, alcune più esplicitamente criminali (es. i gruppi di killer) altre più asettiche e professionali (es. le strutture dedite al riciclaggio). Ricordiamo che, per Sutherland, alcune forme di criminalità, come ad esempio quelle condotte in ambienti economici e finanziari, anche se incorrono in sanzioni giudiziarie, vengono spesso considerate positivamente o, al limite, come un'azione professionale spregiudicata. Tali comportamenti criminali sfuggono allo stereotipo del criminale e raramente incorrono nella stigmatizzazione ovvero nella sottolineatura sociale della condizione di devianza. L’analisi del comportamento organizzativo La fase preliminare comune a tutti i percorsi di ricerca è rappresentata dalla definizione dell’oggetto di indagine. Tale considerazione, solo in apparenza tautologica, trova origine, specie nell’ambito delle Scienze sociali, dalle numerose prospettive che la medesima questione può assumere imponendo costruzioni teoriche e metodologiche anche molto distanti tra loro. Per ciò che attiene, ad esempio, alla specifica tematica delle organizzazioni criminali appare evidente come sullo stesso orizzonte si possano delineare aspetti strutturali (soggetti, gruppi ed istituzioni), aspetti relazionali (interazioni tra soggetti, gruppi ed istituzioni) ed aspetti costruzionistici (eventi). In termini strettamente criminologici si può considerare organizzazione criminale un aggregato di individui, stabile nel tempo e dotato di gerarchie e strutture operative, il cui fine razionale è ricercato attraverso mezzi illegali. Anche se nel linguaggio comune le organizzazioni criminali sono spesso assimilate a quelle mafiose, secondo la precedente definizione si possono classificare come tali anche gruppi terroristici, alcune sette sataniche, ecotrafficanti, narcotrafficanti, contrabbandieri, sfruttatori della prostituzione in grande stile, eccetera. La scelta dell’approccio di studio In tema di analisi organizzativa, la storia delle Scienze sociali ha mostrato una infinito assortimento e contrapposizione di approcci epistemologici e di teorie interpretative che hanno, di volta in volta, privilegiato variabili di vario genere, macrosociali, psicosociali ed individuali e che hanno affermato la possibilità di spiegare aspetti organizzativi ognuna attraverso percorsi conoscitivi specifici. Il notevole assortimento di contenuti interpretativi si è poi associato ad altrettanto diversificati profili metodologici, funzionali, com’è ovvio, ai vari approcci analitici. In questa sede, fermo restando il riconoscimento del grande contributo allo sviluppo dello studio delle organizzazioni che tali approcci hanno indotto, si vuole proporre, nell’ambito dell’analisi organizzativa, un’ottica di studio di tipo multidimensionale facendo eco, del resto, ad un nutrito 101
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
102
gruppo di studiosi che negli ultimi anni hanno costituito a nostro avviso un vero e proprio turning point epistemologico nella psicosociologia dell’organizzazione affermando, con forza, l’esigenza di una costruzione della ricerca sociale in questo specifico settore “formata” da vari approcci integrati. In pratica, la scelta operativa maggiormente proficua sembra potersi definire attraverso un impiego sinergico di varie teorie (anche molto diverse tra loro) per tentare di ottenere un quadro interpretativo sufficientemente esaustivo dell’oggetto di indagine mutuando, all’occorrenza, strumenti e metodologie dalla sociologia strutturalista, dalla psicologia sociale, dalla teoria dei sistemi, dal funzionalismo, dalla socioanalisi[3] e da altri filoni più centrati sull’individuo e sugli stati più profondi della sua coscienza, come la psicoanalisi, il cognitivismo e l’interazionismo simbolico. In una scelta di questo genere, in un certo senso, è riscontrabile l’insegnamento ultimo di Karl Popper e della sua epistemologia evoluzionistica che auspica, com’è noto, una disponibilità, da parte del ricercatore, a trovare la forza di mettere in discussione, ed eventualmente cambiare, anche il suo quadro teorico di riferimento oltre che le sue metodologie[4]. In quest’ottica, una scelta teorica multidimensionale, senza ovvero un aprioristico orientamento teorico unico, ma alla ricerca di quegli approcci e di quelle categorie che di volta in volta consentono di spiegare efficacemente taluni aspetti organizzativi, potrebbe forse rappresentare una possibile interpretazione dell’evoluzione epistemologica auspicata da Popper. E’ evidente che tale impostazione necessita poi di un particolare sforzo interpretativo per ricondurre ad un’accettabile visione di insieme ciò che per opportunità si è teoricamente e metodologicamente scisso, in special modo per quanto riguarda l’osservazione di fenomenologie complesse e disseminate in uno “spazio analitico” strutturalmente e temporalmente articolato. L’esigenza, ad esempio, di compatibilizzare i risultati che emergono dall’applicazione di modelli strutturali (sincronici) come nel caso dell’analisi multifattoriale, in cui si ipotizza l’intervento contemporaneo di variabili significative per spiegare un determinato fenomeno, e di modelli sequenziali[5] in cui le variabili, viceversa, assumono significato anche in termini di temporalità, sequenza e retroazione oltre che di intensità (come nel caso dell’interazionismo simbolico), impone una particolare predisposizione dell’analista alla complessificazione e alla problematicità dell’approccio nonché alla dimestichezza con i processi psicosociali di correlazione lineare (unidirezionale e bidirezionale) e con quelli circolari (es. teoria dell’azione di Von Cranach).[6] Alcuni approcci per l’analisi organizzativa Il paradigma strutturalista Il concetto di struttura nelle scienze sociali assume significati estremamente diversificati secondo i vari autori che lo utilizzano nelle loro opere (Levi Strauss, Gurtvitch, Piaget, Chomsky, Parson ecc.) [7]. Nel paradigma strutturalista, così come inteso in questo studio, la dimensione organizzativa è sostanzialmente delimitabile concettualmente e contempla strutture organizzative osservabili ed obiettivi razionalmente concepibili tra cui la coesione e l’integrazione del sistema. L’ottica di osservazione privilegiata di tale paradigma è necessariamente quella intraorganizzativa, indipendentemente dall’ampiezza dell’organizzazione stessa che con Parson giunge ad essere l’intero sistema sociale.[8] Anche in questo paradigma, analogamente a quello sistemico, i cambiamenti strutturali possono essere di tipo esogeno, generati ovvero da forze esterne che 102
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
103
inducono un adattamento dell’organizzazione, e di tipo endogeno, correlati all’accumulo di tensioni che non trovano efficace canalizzazione (espressione) ed inducono quindi delle modifiche, progressive o traumatiche di alcune sottostrutture o dell’intero sistema organizzativo. Ma gli aspetti particolarmente evidenziabili con l’approccio strutturalista si riferiscono alle divisioni dei ruoli e delle funzioni, alla localizzazione delle aree strategiche, alla divisione della leadership, alle dimensioni dei sottosistemi, alle reti di connessione tra sottosistemi e ad altri aspetti “geometrici” dell’organizzazione. Spesso, questo genere di analisi predilige l’elaborazione teorica rispetto al momento di verificazione empirica. La riflessione dello studioso “a tavolino” prende spunto dalla realtà osservata che viene interpretata attraverso vari passaggi induttivi.[9] Tra le modalità di rappresentazione dei risultati dell’analisi strutturale, gli schemi grafici sembrano essere particolarmente idonei all’esplicazione delle osservazioni sulle organizzazioni, poiché la descrizione strutturalista coglie con grande efficacia gli elementi che costituiscono un sistema ben definito e le loro relazioni. Il paradigma sistemico L’applicazione della Teoria dei sistemi implica il considerare globalmente l’organizzazione come “un’insieme di capitali, di macchine, di uomini, di strutture, di flussi informativi”[10] e di strutture normative che interagiscono con un ambiente di cui, comunque, ad un determinato livello, costituiscono espressione. L’analisi sistemicofunzionale è sovente legata all’osservazione degli imputs energetici e alla produzione di outputs da parte di un sistema composto da sottostrutture funzionali o sottosistemi (di varia complessità) che interagiscono tra loro. I fenomeni descritti con particolare efficacia, utilizzando le teorie sistemiche, risultano essere quindi soprattutto quelli funzionali e relazionali tra individui, tra gruppi, tra sistemi complessi ecc..[11] L’oggetto dell’osservazione scientifica diviene così un flusso, un’interazione, una dinamica comunicazionale (la loro efficacia, direzione ed intensità). Il sistema non può essere concepito come avulso dal contesto nel quale è inserito e non è possibile apportare modificazioni su uno dei suoi sottosistemi senza che tale azione non si ripercuota sull’equilibrio e sul funzionamemto del sistema stesso.[12] Gli strumenti metodologici compatibili con questo approccio sono evidentemente di tipo multidisciplinare (sociologici, psicosociali e psicologici) essendo le relazioni oggetto di studio influenzate da variabili di natura macrosociale, psicosociale ed individuale.[13]Un particolare riferimento va dedicato all’apporto teorico di Richard Scott della Stanford University che al contrario di molti studiosi contemporanei dei sistemi aperti, osserva con attenzione le modifiche delle strutture interne alle organizzazioni nel corso dell’interazione con l’ambiente.[14] Il paradigma psicosociale Queste teorie prendono in considerazione, in special modo, la dimensione umana degli appartenenti all’organizzazione nel rapporto con la struttura a cui appartengono, con gli scopi organizzativi e con gli altri membri del gruppo. Generalizzando, viene posta l’attenzione sulla mediazione tra istanze individuali e finalità organizzative, soprattutto in termini di capacità di adattamento dell’individuo e di efficacia della gestione delle risorse disponibili da parte dei detentori della leadership. Al centro della teoria psicosociale viene così posto il gruppo (la sua cultura, le sue istanze, le sue norme ecc.) 103
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
104
e gli individui che lo compongono nonché il rapporto tra le due realtà. Nell’ambito delle relazioni intragruppo ed intergruppo l’approccio utilizza solitamente le percezioni consapevoli e quindi giunte alla coscienza individuale e collettiva. Il paradigma psicodinamico Le teorie psicodinamiche applicate all’analisi organizzativa indagano soprattutto i vissuti irrazionali degli appartenenti e tutti quegli elementi posti su piani profondi della coscienza e non consapevoli che però influiscono, a vario titolo, sulle dinamiche relazionali organizzative. Tale ottica di osservazione costituisce evidentemente una possibile integrazione all’approccio psicosociale evidenziando degli aspetti relazionali non percepiti consapevolmente ed evidenziabili, quindi, con l’utilizzo della psicoanalisi o di altre forme di psicologia individuale. Tra le teorie psicodinamiche organizzative appare particolarmente interessante quella socioanalitica che osserva i fenomeni collettivi inconsci nei gruppi e pone in evidenza anche gli aspetti personologici degli individui che li compongono.[15] Altre metodologie applicabili al modello multidimensionale Network analysis (analisi delle reti sociali) che studia, nello specifico, le interconnessioni tra le unità di analisi ed evidenzia la direzione, la natura e le caratteristiche dei processi comunicativi intraorganizzativi ed interorganizzativi; Inferenza statistica, che fornisce informazioni su ricorrenze ed ampiezza dei fenomeni partendo da elementi numerici (quantitativi). Nel caso di esigenze previsionali, consente ad esempio di fornire uno spunto probabilistico di base basato sugli eventi (analoghi o correlabili) accaduti in circostanze simili nel passato, su cui poi effettuare un’analisi più avanzata sullo specifico contesto. Analisi socioistituzionale, che studia il rapporto tra istituzioni giuridiche e politiche ed il sistema sociali che le ospita, in termini di legittimazione e di funzionalità.[16] Life histories, applicate ad individui correlati con l’oggetto di indagine.[17] Consentono di evidenziare alcuni aspetti, non facilmente identificabili induttivamente, della sfera motivazionale, emotiva ed irrazionale di soggetti appartenenti ai gruppi. L’impiego delle storie di vita, in una preliminare ricerca di sfondo può ad esempio delineare alcune variabili della psicologia del profondo significative nelle dinamiche analizzate dalla socioanalisi o evidenziare possibili meccanismi di interazione “anomala” tra individui e gruppi che, com’è noto, rivestono una posizione determinante nei meccanismi di azione singola e collettiva.[18] L’organizzazione metodologica dell’analisi La base di partenza analitica è costituita dalla determinazione delle strutture che sono “in campo”. Tale osservazione può condurre ad uno schema che parte da premesse induttive (le categorie) e che si arricchisce di elementi empirici (l’osservazione dei gruppi interessati) costituendo una griglia strutturalista dove emergono: 104
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
105
∙ i confini strutturali del sistema interessato (es. il SistemaPaese Italia); ∙ in soggetti e i gruppi interessati (es. le istituzioni, i gruppi sociali, le agenzie di controllo, i gruppi intervenienti, gli obiettivi di azioni destabilizzanti ecc.); ∙ le interazioni tra i soggetti e i gruppi interessati (approccio sistemico), compresa la produzione normativa specifica di contrasto; ∙ il report statistico (almeno decennale) di dinamiche organizzative avvenute in concomitanza con condizioni storiche analoghe (es. variabili economiche.) per determinare eventuali modalità di adattamento del sistema criminale agli stimolo provenienti dal sistema sociale; ∙ le motivazioni di base dei gruppi (es. il crimine, il potere economico, l’espansione ecc.). Il comportamento organizzativo La motivazione dei gruppi La motivazione di un gruppo costituisce la spinta a raggiungere degli obiettifi prefissati che nel caso delle organizzazioni criminali complesse sono il raggiungimento della ricchezza e del potere. Nella determinazione della motivazione razionale di base di un gruppo occorre considerare che essa non è necessariamente uguale per tutti gli appartenenti ad esso. Intendiamo quindi, per convenienza analitica, una sorta di spinta motivazionale (razionale) media dell’organizzazione che coincide solitamente con quella dell’area di detenzione della leadership dell’organizzazione stessa. E’ possibile infatti che alcuni singoli appartenenti all’organizzazione abbiano motivazioni diverse (costituendo ad esempio delle accelerazioni o dei blocks al perseguimento dei fini organizzativi. E’ così ipotizzabile che alcuni singoli appartenenti all’organizzazione agiscano in contrasto con la motivazione razionale dell’organizzazione e con le sue strategie e l’efficacia di tali “devianze” può essere correlata alla natura strutturale e culturale del gruppo in cui si manifestano. In altri termini, le peculiarità culturali e di strutturazione gerarchica di un’organizzazione criminale (es. la mafia) possono ridurre o ampliare lo spazio tra quello che è formalmente prevedibile e quello che è comportamentalmente possibile. La scelta dei parametri Uno dei primi passi per la progettazione di ricerche sui gruppi criminali è rappresentato dalla scelta di alcuni parametri ritenuti ipoteticamente significativi per interpretare il comportamento organizzativo. Questi elementi possono essere il frutto di rilevazioni statistiche, di studi sulla normativa e dell’osservazione scientifica. Alcuni possibili parametri utili allo studio delle organizzazioni criminali complesse possono essere: ∙ ampiezza dell’organizzazione (es. regionale, nazionale, transnazionale);
105
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
106
∙ livello di complessità strutturale (maggiore o minore propensione ad affidare a sottostrutture specializzate lo svolgimento di compiti necessari alla vita dell’organizzazione); ∙ attività criminali svolte; ∙ tipologia ed efficacia dei sistemi comunicativi; ∙ infiltrazione nel tessuto sociale economico ed istituzionale; ∙ flessibilità strutturale; ∙ permeabilità informativa e compartimentazione; ∙ caratteristiche antropologiche dei gruppi; ∙ capacità di tesorizzazione e movimentazione dei capitali illeciti; ∙ livello di tecnologie criminali impiegate; ∙ livello di amministrazione della violenza intragruppo; ∙ livello di amministrazione della violenza verso l’esterno; ∙ livello di connessione e cooperazione con altre organizzazioni criminali; ∙ sistema di trasmissione dei valori; ∙ efficacia del sistema sanzionatorio; ∙ capacità di mimetizzazione; ∙ livelli di equilibrio intraorganizzativo (vari indicatori); ∙ livello di aggressività interorganizzativa. Si tratta oviamente di parametri esposti a titolo esemplificativo che possono essere integrati da ulteriori aspetti ritenuti necessari dai ricercatori. Riferimenti bibliografici A.A.V.V., Mafia: anatomia di un regime, Librerie associate, Roma, 1992. ARLACCHI Pino, Gli uomini del disonore, Mondadori, Milano, 1992 ARLACCHI Pino, La Mafia Imprenditrice, Il Mulino, Bologna, 1982. 106
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
107
BECKER H. S., Outsiders, Saggi di sociologia della devianza. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987. BOLZONI Attilio, D'AVANZO Giuseppe, Il capo dei capi, Mondadori, Milano, 1993. BOUDON R., Strutturalismo e scienze umane, Ed. Einaudi, Torino, 1970. BRUSCAGLIONI M., SPALTRO E., La psicologia organizzativa, Ed. Franco Angeli, Milano, 1987, (pag.731) CASARRUBEA Giuseppe, BLANDANO Pia, L'educazione mafiosa, Sellerio, Palermo, 1991. CATANZARO Raimondo, Il delitto come impresa, Liviana editrice, Padova, 1988. CENTORRINO Mario, L'economia mafiosa, Rubbettino, Soveria M., Catanzaro, 1986. CHMIELEWSKI A. J., Il nostro dovere è essere ottimisti: intervista a Karl Popper del 29 luglio 1994. in: IDEAZIONE, anno III, n.3, 1996. CIPRIANI R., La metodologia delle storie di vita, Ed. Univ. Romana, Roma, 1987. CUCUZZA Osvaldo, Criminalità organizzata e fattispecie penali: luci ed ombre, in Rivista della Guardia di Finanza, n.1, 1993. DE LEO Gaetano, Appunti di psicosociologia della criminalità e della devianza, (parte seconda), Bulzoni, Roma, 1985. DE MASI D., BONZANINI A., (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle organizzazione:la ricerca, ed. Franco Angeli, Milano, 1984. DE MASI D., Manuale di ricerca sul lavoro e sulle organizzazioni, ed. Nuova Italia Scientifica, Roma, 1985 DE MASI G., BONZANINI A. (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle organizzazione: le tipologie, ed. Franco Angeli, Milano, 1987. DE NARDIS P., Teoria sociale ed analisi socioistituzionale, Ed. Carucci, Roma, 1978; DEPOLO Marco, SARCHIELLI Guido, Psicologia dell'organizzazione, Il Mulino, Bologna, 1991. FALCONE Giovanni, PADOVANI Marcelle, Cose di cosa nostra, Rizzoli, Milano, 1991. FERRACUTI Franco, Trattato di criminologia medicina criminologica e psichiatria forense, volume 9: Forme di organizzazioni criminali e terrorismo, Giuffrè editore, Milano, 1988.
107
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
108
FERRAROTTI Franco, Manuale di Sociologia, Laterza,Bari,1986. FRANCESCATO D., GHIRELLI G., Fondamenti di psicologia di comunità, NIS EDITORE, Roma, 1988 HESS Henner, Mafia, Laterza, Bari, 1984. LEMERT M. Edwin, Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè editore, Milano, 1981. MACIOTI M., Biografia, storia e società, Ed. Liguori, Napoli, 1985. NICOLOSI Salvatore, Di professione brigante, Longanesi, Milano, 1976. PALLOTTA Gino, Dizionario Storico della Mafia, Newton Compton, Roma, 1977. POLLARI Nicolò, Tecniche delle inchieste patrimoniali per la lotta alla criminalità organizzata, Laurus Robuffo, Roma, 1992. PONTI G., Compendio di Criminologia, Cortina Editore, Milano, 1990. ROCHER GUY, Talcot Parson e la sociologia americana, Ed. Sansoni Università, Firenze, 1975. ROMANO Salvatore F., Storia della mafia, Mondadori editore, Verona 1966, SANTINO Umberto, LA FIURA Giovanni, L'impresa Mafiosa, Franco Angeli, Milano, 1990. SCOTT R.W., Le organizzazioni, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985. SMURAGLIA Carlo, Relazione della Commissione Parlamentare Antimafia del 17.12.1993. STATERA G., Metodologia e tecnica della ricerca sociale, ed. Palumbo, Roma. 1982. STATERA Gianni, Le basi sociali dei poli elettorali, Franco Angeli, Milano, 1987. STRANO M., Strumenti e metodologie per l’analisi delle organizzazioni criminali complesse, in: De Leo G., Strano M., Pezzuto G., De Lisi C., Evoluzione mafiosa e tecnologie criminali, Giuffrè, Milano, 1995. SUTHERLAND Edwin H. Il crimine dei colletti bianchi, Giuffrè editore, Milano, 1977. VIOLANTE Luciano, I corleonesi, supplemento a L'Unità n. 216 dell' 11.9.93. VIOLANTE Luciano, Mafia e Potere, supplemento a L'Unità n.89 del 15.4.93.
108
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
109
VON CRANACH M., HARRE’ R., L’analisi dell’azione: recenti sviluppi teorici ed empirici, Giuffrè editore, Milano, 1991. ZAMAGNI Stefano, Mercati illegali e mafie, Il Mulino, Bologna, 1993. [1] Tale impostazione, probabilmente, necessita di contatti meno stretti e coinvolgenti con l'universo criminale oggetto d'indagine e concerne perlopiù analisi documentali. [2] PONTI G., Compendio di Criminologia, Cortina Editore, Milano, 1990. [3] FRANCESCATO D., GHIRELLI G., Fondamenti di psicologia di comunità, NIS EDITORE, Roma, 1988 [4] CHMIELEWSKI A. J., Il nostro dovere è essere ottimisti: intervista a Karl Popper del 29 luglio 1994. in:IDEAZIONE, anno III, n.3, 1996. [5] BECKER H. S., Outsiders, Saggi di sociologia della devianza. Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1987. [6] VON CRANACH M., HARRE’ R., L’analisi dell’azione: recenti sviluppi teorici ed empirici, Giuffrè editore, Milano, 1991. [7] BOUDON R., Strutturalismo e scienze umane, Ed. Einaudi, Torino, 1970. [8] ROCHER GUY, Talcot Parson e la sociologia americana, Ed. Sansoni Università, Firenze, 1975. [9] DE MASI G., BONZANINI A. (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle organizzazione: le tipologie, ed. Franco Angeli, Milano, 1987. [10] DE MASI D., Manuale di ricerca sul lavoro e sulle organizzazioni, ed. Nuova Italia Scientifica, Roma, 1985, (pag. 27). [11] STRANO M., Strumenti e metodologie per l’analisi delle organizzazioni criminali complesse in: De Leo G., Strano M., Pezzuto G., De Lisi L.C., Evoluzione mafiosa e tecnologie criminali, Giuffrè, Milano, 1995. [12] DE MASI D., BONZANINI A., (a cura di), Trattato di sociologia del lavoro e delle organizzazione:la ricerca, ed. Franco Angeli, Milano, 1984. (pag. 42) [13] STATERA G., Metodologia e tecnica della ricerca sociale, ed. Palumbo, Roma. 1982. [14] SCOTT R.W., Le organizzazioni, Ed. Il Mulino, Bologna, 1985. 109
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
110
[15] BRUSCAGLIONI M., SPALTRO E., La psicologia organizzativa, Ed. Franco Angeli, Milano, 1987, (pag.731) [16] DE NARDIS P., Teoria sociale ed analisi socioistituzionale, Ed. Carucci, Roma, 1978; [17] CIPRIANI R., La metodologia delle storie di vita, Ed. Univ. Romana, Roma, 1987. MACIOTI M., Biografia, storia e società, Ed. Liguori, Napoli, 1985. [18] VON CRANACH M., HARRE’ R., 1991, op. cit. IL COMPUTER CRIME L’impatto dell’informatica con il sistema sociale ha imposto (come per tutte le nuove sollecitazioni del resto), dei processi adattivi da parte degli individui anche in ambito criminale ed ha alterato il modo di percepire la realtà (una parte di questa realtà può essere parte di un crimine). Altra ottica di indagine rispetto all’impiego del computer come strumento del crimine è quella relativa all’aumento dell’efficacia dell’azione criminale (come nel caso di truffe telematiche) o di cambio dello stile comunicativo (come nel caso dei siti di gruppi terroristici). La spiegazione del crimine informatico Molti autori, per analizzare criminologicamente il crimine informatico, hanno affrontato il percorso tipologico, inteso come un'elencazione di aspetti psicologici e culturali riscontrati con più o meno frequenza in soggetti che hanno commesso un determinato reato. Tali ricerche, effettuate evidentemente solo sui soggetti che sono incappati nelle maglie della giustizia, si sono diffuse probabilmente anche per la relativamente semplice costruzione metodologica di cui necessitano. La ricerca delle cause, psicologiche o sociali, che determinano il verificarsi di un crimine, ha costituito però nella storia della Criminologia, un impasse di difficile superamento non reggendo alle falsificazioni empiriche. Gli approcci criminologici basati sulla ricerca delle cause del crimine insite nell’autore (teorie biologiche, psicologiche, psichiatriche) o nell’ambiente sociale dove l’autore è «immerso» (teorie sociologiche) non hanno retto, nel corso della storia, alle verifiche empiriche. La possibilità di localizzare degli elementi visibili (clinici, psicologici, sociali) nel soggetto, in grado di fornire una predizione del suo comportamento ha costituto (e ancora costituisce) una strada sovente percorsa dagli scienziati sociali alla ricerca di strumenti rassicuranti e generalizzabili. L'approccio tipologico classico però, se da un verso sembra fornire interessanti informazioni sui soggetti scoperti come responsabili di crimine, mostra la sua notevole inadeguatezza criminologica nel momento in cui si osservano soggetti con analoghe caratteristiche di quelli che hanno commesso il reato, che scelgono viceversa un comportamento legale. Gli studi tipologici, inoltre, nulla possono dire su coloro che commettono i crimini ma che non vengono scoperti. Questo genere di approccio appare poi a nostro avviso notevolmente pericoloso nel momento in cui, in fase applicativa, si lancia in ipotesi predittive che possono condurre, oltre che a posizioni scientifiche di difficile verificazione, anche a produzione di stereotipi che conducono a disagi di tipo etico e morale. L'attenzione degli studiosi, soprattutto nel caso di forme di criminalità nuove, dovrebbe viceversa concentrarsi sulle caratteristiche del reato e cercare poi di spiegare il comportamento criminale degli autori non perdendo mai di vista "...i 110
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
111
moventi e le disposizioni che affiorano nel corso dell'esperienza..."[1]. Una spiegazione del crimine informatico ovvero, in cui gli aspetti psicologici, culturali e motivazionali degli attori sociali assumono significato all’interno di un processo interattivo nel cui ambito si costruisce l'azione deviante. Il comportamento umano, compreso quindi il comportamento criminale, viene programmato, orientato ed interpretato attraverso un complesso processo di interazione con la realtà circostante e in tale processo entrano evidentemente in gioco le esperienze del soggetto, la conoscenza delle norme penali e sociali, la percezione della gravità dell’atto e della vittima, la paura della cattura, eccetera. In quest’ottica l’unica possibile unità di analisi in Criminologia diviene l’azione criminale ed in essa assume quindi significato non solo il soggetto e le sue caratteristiche ma l’ambiente simbolico che circonda tale azione oltre che l’opera di attribuzione e definizione del significato operata dall’attore/criminale[2]. Un uomo quindi non più completamente in balia dei condizionamenti sociali (visione tipica dei sociologi deterministi) o di quelli inconsci (psicoanalisti) ma in grado di organizzare una buona parte della propria realtà attraverso continue interazioni e mediazioni con il reale. La previsione comportamentale, in quest’ottica, si indirizza verso la natura e l’intensità di tali processi interattivi più che su caratteristiche stabili, antecedenti all’ipotetico fatto, insite nell’ambiente sociale o nella personalità dell’attore. In altre parole, tutti i comportamenti umani, compreso quindi quello criminale, sono posti su piani di maggiore complessità e contemplano, parallelamente agli stimoli orientanti (biologici, personologici, sociali) un’attività di costruzione circolare (agente e retroagente) da parte dell’attore sociale e del controllo sociale, non leggibile nei soli fattori preesistenti ma ascrivibile all’attività di interpretazione, significazione e riorganizzazione compiuta dalla mente umana. La devianza, non è un’entità di fatto, iscritta nell’ordine naturale del mondo o rigidamente determinata da strutture interne del soggetto ma è il frutto di un processo di costruzione sociale mediato da un’attività peculiare del genere umano: il pensiero[3]. Alterazione percettiva del crimine e della vittima In un quadro teorico dove appare determinante l’attribuzione di significato ai contesti ed agli eventi, un elemento di indagine importante è costituito dalla percezione sociale del crimine. Da alcune ricerche condotte in Europa e negli Stati Uniti è emerso come la percezione sociale di alcuni crimini informatici può risultare a tal punto distorta da non far considerare reato, ad alcuni individui, ciò che è considerato tale dalle norme penali o civili. Queste indagini vengono solitamente condotte somministrando questionari anonimi a campioni di soggetti ai quali vengono presentati i più comuni atti illeciti in tema di uso del computer. Talvolta tali illeciti vengono posti in comparazione con altre forme criminali o con comportamenti ritenuti socialmente riprovevoli. Molti individui, pur consapevoli che alcuni comportamenti sono un atto illegale, si giustificano dal farne uso in quanto percepiscono tali azioni come impersonali, che non producono danni economici diretti e non causano danni evidenti alla collettività. Le caratteristiche delle vittime elettive del computer crime (organizzazioni), spersonificate e strutturate, sembrano facilitare tale atteggiamento. L’azione criminale, eseguita ai danni di una vittima spersonificata e non presente nella scena del delitto (grazie alla mediazione del computer) sembra infatti facilitare l’insorgenza/applicazione delle tecniche di neutralizzazione del senso di colpa[4].
111
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
112
Responsabilità penale minorile e processo di digitalizzazione sociale. Le valutazioni sugli aspetti percettivi del computer crime assumono grande rilevanza scientifica, a nostro avviso, nell’ambito delle ricerche sulla responsabilità penale, in special modo minorile. Il processo di deresponsabilizzazione individuale nell’ambito della devianza giovanile, contrapposto all’univoca tendenza verso una maggiore attribuzione di responsabilità ai giovani in svariati settori dell’organizzazione sociale, sembra definire ancora in larga parte il quadro attuale della politica penale minorile, fatta salva una certa controtendenza, di natura neoclassicistica, che verso la metà degli anni 80’ ha costituito una sorta di risposta ad alcune fenomenologie emergenti portatrici di notevole allarme sociale (criminalità organizzata ed altro) ma che ha rappresentato anche una nuova tendenza, da parte di una porzione della comunità scientifica, in direzione di una rinnovata attribuzione di valore e significato alla responsabilità individuale.[5] Si delinea insomma, in ambito minorile ma anche in relazione agli adulti, un attore sociale non più completamente in balia degli eventi e dei condizionamenti ambientali ma capace dell’attribuzione valoriale e simbolica nelle proprie condotte di vita[6]. Tale approccio, per la sua complessificazione analitica, se da un verso offre notevoli garanzie in termini di equilibrio scientifico (ma anche morale) legate proprio alla complessità della sua struttura, impone delle analisi di notevole difficoltà, per l’esigenza di dover cogliere situazioni statiche preesistenti ma anche fattori dinamici ed interattivi, e talvolta retroattivi. Tra questi fattori, una componente forse ancora lontana in termini di penetrazione antropologica nel tessuto socioculturale italiano ma di certa rilevanza nel prossimo futuro, è costituita, a nostro avviso, dal processo di alfabetizzazione informatica e dalla digitalizzazione sociale in corso in vaste aree del pianeta. L’impatto delle tecnologie informatiche e telematiche su alcune dinamiche criminologiche sta infatti delineando l’avvicinarsi di una fase storica, in un imminente futuro, in cui la Criminologia dovrà fare i conti, anche in tema di valutazione della responsabilità, con un elemento nuovo: la digitalizzazione della maggior parte delle interazioni interpersonali ed interorganizzative con la conseguente formazione diffusa specie in ambito minorile di schemi cognitivi nuovi, indotti dall’onnipotenza virtuale e dalle nuove modalità comunicative e in grado di filtrare ed orientare pensieri, giudizi morali e progetti di azione. Il tentativo di indagare questo nuovo ambito emergente si articola attraverso percorsi di ricerca diversificati, e si trova, attualmente, nella comunità scientifica internazionale, in una fase preliminare di valutazione soprattutto epistemologica. In un’ottica psicodinamica molto semplificata, ad esempio, si potrebbero delineare alcune ipotesi grezze sulle conseguenze che la rivoluzione digitale può provocare sulla strutturazione dell’IO in ambito minorile e, in particolare, su una sua parziale dissonanza con quel modello socializzativo industriale e postindustriale in cui trova ancora legittimazione il corpo normativo attuale in tema di minori. Secondo tali ipotesi si scorgerebbero le premesse per la formazione di alcuni tratti della personalità, in larghe aree della popolazione giovanile, fortemente condizionati dalla logica digitale e tali tratti, essendo indirettamente in grado di influenzare il comportamento, potrebbero mettere in discussione alcuni assunti attuali sulla responsabilità offrendo spunto per approfondimenti scientifici oltre che per un ampio dibattito critico. Le variabili indotte dalla digitalizzazione sociale, di cui sarebbe opportuno verificare la rilevanza e la loro capacità di influenzare l’agire sociale, affonderebbero in pratica le loro radici in caratteristiche personologiche acquisite e in un universo valoriale, una cui porzione è prodotta artificialmente dagli algoritmi matematici della realtà virtuale e che si discosta dall’universo valoriale nondigitale (e dagli stereotipi di personalità giovanile), ancora in corso di trasmissione da 112
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
113
parte degli istituti di socializzazione primaria e secondaria. Altri possibili percorsi di ricerca, con approccio maggiormente sistemico e relazionale, sembrano poi offrirsi nel campo della valutazione della percezione sociale del crimine ed in vari ambiti vittimologici laddove, secondo quanto suggeriscono le ricerche in corso di svolgimento[7], le variabili tecnologiche indotte dalla digitalizzazione troverebbero fattori di interessante significatività. Da tali considerazioni appare così facilmente ipotizzabile come la Criminologia e la Psicologia debbano trovare una via di attualizzazione del suo paradigma di conoscenze attraverso esperienze e relative concettualizzazioni maturate in ottica digitale, con particolare attenzione proprio alla questione responsabilità, nel cui ambito, probabilmente, si delinea, con notevole forza determinativa, l’efficacia di questo «filtro tecnologico» all’interno delle interazioni circolari, ma anche in contesti maggiormente individuali come, ad esempio, nei processi di costruzione della personalità. Gli adolescenti e il crimine su internet La rete telematica, con la sua capacità di travalicare i limiti spaziali e temporali consente connessioni sociali e culturali un tempo neppure immaginabili. Ma alcune di queste connessioni trasferiscono, in termini unidirezionali o bidirezionali (interattivi), anche informazioni su attività illegali. Come si è visto, la semplice esposizione a modelli criminali non è di per sé criminogenetica se non integrata con alcuni sofisticati processi psicologici che conducono l’individuo alla commissione di un atto illecito. La paura di essere punito, il significato che si attribuisce all’azione illegale, l’interazione con altri individui ed in ultima analisi la valutazione razionale della situazione, costituiscono fattori altrettanto importanti nella commissione dei crimini. Ma in questo quadro un elemento di maggior rischio si può configurare nel caso di giovane età dei soggetti esposti a modelli di comportamento deviante veicolato dalla rete sovente con genitori avulsi dalla tecnologia digitale e di fatto impossibilitati a comprendere e percepire eventuali contesti di illegalità a cui si è accostato il proprio figlio. In primo luogo, per molti adolescenti, la fruizione di tale materiale avviene talvolta in solitudine[8], senza quindi la possibilità di un confronto immediato con altri soggetti al di fuori del web (che potrebbero però anche rinforzare il significato piacevole dell’illegalità). In secondo luogo, la condizione psicologicamente inquieta degli adolescenti e la loro notoria ricerca di modelli di identificazione, può facilmente percepire alcune comunità virtuali devianti (es. gli hackers) come particolarmente affascinanti specie per la loro capacità di interloquire, attraverso il crimine, con la comunità degli adulti a livello paritetico. La produzione di subculture devianti[9], infine, può divenire svincolata dal luogo fisico delle gangs di strada e dai contatti face to face, mettendo rapidamente in crisi il paradigma di indagine scientifica tradizionale oltre che le usuali strategie di controllo e prevenzione da parte degli organi istituzionali. Uno degli aspetti di maggior interesse per i criminologi che studiano le reti telematiche è rappresentato dal notevole volume di informazioni di contenuto illegale o dannoso veicolate da internet e che possono essere “acquisite” da soggetti a rischio (ad esempio minori). Il fenomeno delle informazioni illegali circolanti sul web, pur avendo delle dimensioni limitate in termini statistici, rispetto alla stragrande maggioranza di informazioni legali immesse nella rete, rappresenta un ambito di ricerca decisamente stimolante comprendendo, infatti, fenomenologie criminali anche di notevole gravità. La tipologia di siti di interesse si articola infatti in diversificati settori e comprende istruzioni su come confezionare ordigni esplosivi, tecniche per la produzione e raffinazione di droghe, 113
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
114
comunicazioni di gruppi terroristici, tecniche per la realizzazione di frodi telematiche, hacking eccetera. Tali fonti, evidentemente, costituiscono un notevole interesse di studio per la Criminologia e vengono usualmente analizzate nella letteratura specifica (specie statunitense) utilizzando alcuni contributi teorici che, nella storia del pensiero criminologico, hanno soffermato l’attenzione sulle conseguenze dell’esposizione (da parte degli individui) a modelli di comportamento illegale e, più in generale, sull’apprendimento del crimine. In particolare, già Sutherland, nella terza edizione del manuale "Principles of Criminology" del 1947 formula una versione articolata della famosa teoria delle associazioni differenziali[10] secondo la quale il comportamento criminale non è geneticamente determinato ma è appreso in associazione con altri. In altri termini, secondo tale approccio teorico, l’esposizione a modelli devianti può condurre un soggetto ad azioni illegali. Lo studioso intendeva naturalmente un’esposizione diretta ed intensa (non mediata da una rete telematica) ma già poneva le basi, a nostro avviso, per un possibile quadro di interpretazione in ottica telematica. Le persone acquisiscono le definizioni favorevoli al crimine attraverso il contatto con i criminali, i quali trasmettono atteggiamenti e motivi che giustificano le attività illegali. L’esposizione a tali “elementi simbolici” (atteggiamenti, motivi, impulsi) conduce ad una prospettiva criminale e ad un successivo coinvolgimento nel crimine, in modo particolare attraverso le associazioni con coetanei devianti. Un contributo maggiormente sfruttabile (per il computer crime) appare quello di D. Glaser, che nel 1960, sviluppando gli studi di Sutherland, formula la più articolata teoria dell’identificazione differenziale[11], maggiormente utilizzabile, probabilmente, per le moderne ricerche sul computer crime. Per Glaser, infatti, ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante l'identificazione con modelli criminali più che l’esposizione diretta ad essi. In altri termini, il fattore determinante per la criminogenesi è rappresentato dal processo psichico mediante il quale l’autore del crimine tende incosciamente a rendersi simile a certi modelli ideali assumendo, come propri, anche i valori normativi ed etici associati a tali modelli. Nel caso in cui tale identificazione avviene con modelli di tipo illegale (es. un hacker) il soggetto assume, conseguenzialmente, oltre che il modo di fare, gli interessi, il linguaggio, anche i valori normativi (illegali) ad essi associati. In quest’ottica appare evidente come l'identificazione non richieda necessariamente un contatto interpersonale poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto con palese possibilità di trasferimento del concetto alla fruizione di informazioni illegali su internet. Tra i contributi scientifici più recenti riportiamo quello forse un po’ catastrofico di G.R. Wynn (Cyberculture and Differential Association: the Net effect on juvenile delinquency, Georgia State University, 1998). Secondo l’autore statunitense internet ospiterebbe una vera e propria “cybercultura deviante mondiale” che recluta, indottrina, istruisce e prepara tecnicamente individui, specie adolescenti, alla commissione di svariati crimini. Verso un approccio costruzionistico In effetti, considerare la semplice esposizione a modelli devianti come causa lineare del crimine può rappresentare un approccio riduttivo poiché, in realtà, l’individuo mantiene fortunatamente una cospicua capacità decisionale e valutativa nei confronti del proprio comportamento pur sottoposto a stimolazioni e ad accattivanti identificazioni con contesti illegali. Il più delle volte infatti, l’azione criminale è frutto di un complesso processo di attribuzione di significato da parte dell’autore[12] 114
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
115
che non si può considerare, anche se in giovane età, una sorta di burattino. In quest’ottica per la spiegazione del crimine rappresentano dei fattori rilevanti i significati sociali dell’azione deviante (percepiti dall’autore), la paura della sanzione, la conoscenza delle norme sociali e penali, mediati ed organizzati dall’azione determinativa della mente dell’autore. Ad ogni modo, tali considerazioni non limitano la pericolosità intrinseca di talune informazioni illegali reperibili su internet che, acquisite da soggetti “a rischio” possono rappresentare una base di partenza importante per eventuali percorsi comportamentali illegali o pericolosi per l’incolumità fisica di tali soggetti. RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Agnew R. (1993) Why do They do it? An Examination of the Intervening Mechanisms Between “Social Control” Variables and Delinquency in “ The Journal of Research in Crime and Delinquency”, vol. 30 n.3: 245266 Akers R.L. (1996) Is Differential Association/Social Learning Cultural Deviance Theory? in “ Criminology”, vol.34 n.2: 229247 AMANNGAINOTTI M., BATTAGLIA E., Il sistema della giustizia nelle nozioni e rappresentazioni di soggetti in età evolutiva in: AMANN GAINOTTI M., (a cura di), Il minore e la legge: nuove prospettive della psicologia giuridica, ed. Cacucci, Bari, 1992. AMERICAN PSYCHIATRIC ASSOCIATION Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 4th edition, Washington D.C., 1994 ARDIGO’A., AMENDOLA G., (a cura di), «Ricerca sociologica, Informatica e società italiana», Franco Angeli ed., Milano, 1986. BALLONI A. (1986) Criminologia in prospettiva Editrice Clueb, Bologna BANDINI T, GATTI U (1979) Delinquenza giovanile Giuffrè Editore, Milano BANDINI T., GATTI U., MARUGO M. I., VERDE A.,, CRIMINOLOGIA.. Il contributo della ricerca alla conoscenza del crimine e della reazione sociale, Giuffrè, Milano, 1991. BERARDI F., (bifo), (a cura di), Cibernauti, ed. Castelvecchi, Roma, 1995. BERARDI F.,. (bifo), (a cura di), Posturbania: la città virtuale Castelvecchi ed., Roma, 1996. BETTETINI G. (1996) L’impatto sociale delle nuove tecnologie in «Technology Review n. 98: 5862 Bruinsma Gerben J.N (1992) Differential Association Theory Reconsidered: An exetension and its Empirical Test in “Jounal of Quantitative Criminology”, vol.8 n.1: 2949 CAMAIONI L., Il caso dei videogiochi, in: Psicologia contemporanea, 92.1989. 115
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
116
Cloward R;A, Ohlin L.E (1968) Teoria delle bande delinquenti in America Laterza, Bari COCO N., «...e sullo schermo apparve un codice», ed. SEAM, Roma, 1996. COMLY E MCEWEN Computer crime, in NY Reports, n. 288,januaryfebruary, 1990. De Leo G, Patrizi P. (1999) La spiegazione del crimine Mulino, Bologna DE LEO G. (1984) Appunti di psicosociologia della criminalità e della devianza Bulzoni Editore, Parte I, Roma De Leo G. (1986) Appunti di psicosociologia della criminalità e della devianza Bulzoni Editore, Parte II, Roma DE LEO G. (1990) La devianza minorile, La Nuova Italia Scientifica, Roma DE LEO G., L’interazione deviante, Giuffrè, Milano, 1981. DE LEO G., PATRIZI P., La spiegazione del crimine, Il Mulino, Bologna, 1999. FACCIOLI F., Regolazione e devianza, ed. Franco Angeli, Milano, 1991. FERRACUTI F. (1987) Trattato di criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense Giuffrè Editore, Milano, vol. V GORRA E., L’attribuzione di responsabilità, Giuffrè editore, Milano, 1983. GUEDON J.C (1996) Internet, viaggio nel cyberspazio Universal Electa/Gallimard, Parigi GUIDOTTI E. (1996) Internet e Comunicazione Franco Angeli, Milano GULLOTTA G., Psicoanalisi e responsabilità penale, Giuffrè, Milano, 1973. HANCE O. (1997) Internet e la legge McGrawHill, Libri Italia srl HEIDER F., Psicologia delle relazioni interpersonali, Il Mulino, Bologna, 1972. Jackson E, Tittle C, Burke M.J (1986) OffenceSpecific Models of The Differntial Association Process in “Social Problems”, vol 33 n.4: 335356 KUTCHINSKY B., Aspects sociologiques de la deviance et de la criminalitè, in Conseil de l’Europeén, Comitè puor le Problèmes Criminels: La perception de la deviance et de la criminalité, Strasburg, 1972. LEMERT E.M., Human Device, Social Problems and Social Control, Prentice Hall, Englewood Cliffs N.J., 1967, trad. it. Devianza, problemi sociali e forme di controllo, Giuffrè, Milano, 1981. 116
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
117
MANNHEIM U. (1975) Trattato di criminologia comparata Giulio Einaudi Editore, Torino, vol. I II MARGOTTINI M. (1997) Immagine in bit in «La Vita Scolastica», n. 6 pag 22 MARGOTTINI M. (1998) Net Memory in «La Vita Scolastica», n. 17 pag 28 MARTELLA G., CREMONESI C., I Crimini Informatici, storia, tecniche e difese Mondadori, Milano,1990. MASCOLO F, FIORELLA L, MICHELONE G (1997) Internet, l’informazione senza frontiere Edizioni Paoline, Milano MASON L., VARISCO B. M., Bambini e informatica: la rappresentazione del computer, in: Rassegna di Psicologia, 2/3, 1987; MATZA D., Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976. McCARTHY B. (1996) The Attitudes and Actions of Others: Tutelage and Sutherland’s Theory of Differential Association in «British Journal of Criminology», vol. 36 n. 1: 135147 PITCH T. (1975) La Devianza La Nuova Italia Editrice, Firenze Ponti G. (1990) Compendio di Criminologia Cortina, terza edizione, Milano PONTI G., (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè editore, Milano, 1985. QUEAU P.; Le posizioni del virtuale, in: BERARDI F., (a cura di), Ciberfilosofia, Castelvecchi, Roma, 1995. REINARM C, FAGAN J (1988) Social Organization and Differential Association: A Research Note From A Longitudinal Study of Violent Juvenile Offenders in «Crime and Delinquency», vol. 34 n. 3: 307327 SERRA C., STRANO M., Nuove Frontiere della Criminalità, la criminalità tecnologica, Giuffrè, Milano, 1997. SPREUTELS S.P., La responsabilità penale connessa ad abusi nell’applicazione dell’informatica, in Il Diritto dell’informazione e dell’informatica,1985. STERLING B., Giro di vite contro gli hacker, Shake, Milano, 1993. STRANO M., ed altri, Responsabilità penale e processo di digitalizzazione sociale, atti del convegno: Giovani, responsabilità e giustizia, Torino, 1998;
117
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
118
STRANO M., Telematica e cyberpedofilia in: CANTELMI T. et altri, La mente in internet, Piccin, Padova, 1999; SUTHERLAND E.H, CRESSEY D.R (1966) Principles of Criminology Lippincott Co, Philadelphia, settima edizione SYKES M., MATZDA D., Techniques of neutralization: a theory of delinquency, in: American Sociological Review, 1957, 22. TAYLOR I, WALTON P, YOUNG J (1975) Criminologia sotto accusa Guaraldi Editore, Rimini Firenze TIEDEMANN K., Criminalità da computer in Ferracuti F. (a cura di), Trattato di Criminologia, medicina criminologica e psichiatria forense, Vol. X, Il cambiamento delle forme di criminalità e devianza, Giuffrè, Milano, 1988. TURKLE S., Vita sullo schermo, nuove identità e relazioni sociali nell’epoca di internet. Edizioni Apogeo. VON CRANACH M., HARRÈ R., (a cura di), L'analisi dell'azione, Giuffrè, Milano, 1991. Warr M, Stafford M. (1991) The Influence of Delinquency Peers: What They Think or What They Do? In “Criminology”, vol 29: 851866 Wynn G. R., Cyberculture and Differential Association: the Net effect on juvenile delinquency, Georgia State University, 1998. [1]MATZA D., Come si diventa devianti, Il Mulino, Bologna, 1976, pag. 174. [2] Teoria dell’azione (Von Cranach, Harre’ 1982). [3] Mario Von Cranach e Rom Harré «The analysis of action», Cambridge University Press, 1982. [4] Matza,e Sykes hanno affermato, con notevoli verifiche empiriche, che anche i peggiori delinquenti, avendo avuto comunque una socializzazione più o meno simile a quella degli altri, sentono delle spinte contrarie alla commissione del crimine. Questi individui riescono a portarlo avanti, al contrario dei non delinquenti, poiché riescono ad utilizzare con efficacia delle tecniche di neutralizzazione della loro responsabilità e del relativo senso di colpa (es. negazione della vittima, ideale superiore ecc). [5] PONTI G., (a cura di), Giovani, responsabilità e giustizia, Giuffrè editore, Milano, 1985.
118
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
119
[6] La questione della maggior attribuzione di responsabilità ai minori trova specifica conferma proprio nella disponibilità, offerta dal mezzo telematico, di sistemi comunicativi potenti e transnazionali e della concreta opportunità di produrre informazione efficace da parte di soggetti anche molto giovani che, navigando su internet ed immettendo opinioni in rete, trovano di fatto una dignità sociale sovrapponibile in tutto a quella di un adulto. [7] Università Cattolica del Sacro Cuore, Istituto di Psichiatria e Psicologia (Prof. Sergio De Risio), Gruppo di Ricerca sul computer crime [8] La sera invece di uscire con gli amici, l’hacker preferisce rimanere a casa, compiacendo i genitori preoccupati dei pericoli esterni, della droga, dello streetcrime e recuperando l’approvazione emotiva ed affettiva genitoriale che può rappresentare un’inconsapevole rinforzo alla sua devianza. [9] Choen, nel 1955 formula la teoria delle subculture devianti come prodotto del conflitto tra classi alte e classi basse. I giovani della classe proletaria pur aspirando alle stesse mete culturali dei giovani della classe agiata sono svantaggiati. Si sviluppa una reazione negativistica verso quei valori che non possono raggiungere con lo sviluppo di una cultura edonistica e non utilitaristica (spiegazione degli atti vandalici teppismo, atteggiamenti distruttivi). Si tratta di una sorta di formazione reattiva, non un conflitto reale verso la cultura dominante ma una sua distorsione. In generale, una subcultura deviante contempla definizioni di ciò che è lecito diverse rispetto alla cultura dominante. [10] Per Sutherland il comportamento criminale è appreso in interazione con altre persone mediante un processo di comunicazione, che può essere sia verbale che non verbale. Il processo di apprendimento del crimine avviene apprende soprattutto all'interno di un gruppo ristretto di relazioni interpersonali. I mezzi di comunicazione impersonale (cinema e giornali) sembrano a tal fine meno efficaci. Nel processo di apprendimento sono incluse le tecniche idonee alla commissione di un crimine e l’orientamento degli atteggiamenti del soggetto. Il soggetto in seguito orienterà impulsi e atteggiamenti in base alle interpretazioni (apprese) favorevoli o sfavorevoli dei codici legali. Secondo Sutherland, in pratica, un soggetto diviene criminale quando all’interno del gruppo dove vive le definizioni favorevoli alla violazione della legge sono in eccesso rispetto a quelle sfavorevoli. Una persona quindi diventa un criminale non solo a causa di contatti con modelli criminali, ma anche a causa di un isolamento dai modelli “anticriminali”. L’efficacia delle associazioni differenziali nel determinare il crimine dipende dalla loro frequenza, durata, priorità (il comportamento criminale sviluppato nella prima infanzia può influire nel corso di tutta la vita) ed intensità. [11] Glaser, nel 1960, riformula la teoria delle associazioni differenziali di Sutherland rifacendosi alla teoria dei ruoli, secondo l'esposizione di George H. Mead, che consente di tradurre l'associazione differenziale in termini di "identificazione differenziata". Glaser, nella sua riformulazione, afferma che ai fini dell'apprendimento della delinquenza è importante l'identificazione con modelli criminali, più che l'associazione con essi. Il fattore determinante per la 119
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
120
criminogenesi è quindi il processo di identificazione, inteso come processo psichico mediante il quale si tende incosciamente a rendersi simili a certi modelli scelti come ideale del proprio Io. Nel corso di tale processo il soggetto assume conseguentemente come propri anche i valori normativi ed etici associati a tale modello ideale introiettato. L'identificazione non richiede un contatto interpersonale poiché può realizzarsi anche verso modelli (reali o immaginari) con i quali non vi è stato un rapporto diretto. L'identificazione con soggetti delinquenti può verificarsi in diversi modi: a seguito di esperienze dirette con associazioni di delinquenti, attraverso una valutazione positiva dei ruoli delinquenziali rappresentati dai mass media oppure a seguito di una reazione negativa a forze che si oppongono alla criminalità. La teoria di Glaser permette così di spiegare le azioni criminali commesse da parte soggetti che sono abitualmente inseriti in gruppi sociali non criminali. [12] Nel modello in esame le dinamiche intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni cognitive entrano quindi in interazione con i significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il suo agire CRIMINOLOGIA, SETTE SATANICHE E CONTROLLO DELLA MENTE Secondo numerose indagini condotte in ambienti scientifici ed istituzionali in Italia e nel resto del mondo industrializzato si assiste ad una notevole proliferazione di sette di vario genere. Questa situazione assume rilevanza in Criminologia qualora taluni crimini vengano progettati ed eseguiti all’interno di tali organizzazioni. Il particolare clima psicologico che si rileva all’interno delle sette e la capacità di alcuni santoni di ingerire pesantemente sui processi decisionali degli adepti, implica a nostro avviso la necessità di dotarsi di specifici strumenti conoscitivi per cercare di interpretare i crimini che si verificano negli ambienti esoterici. Tale processo di studio dovrà preliminarmente orientarsi sugli aspetti antropologici ed organizzativi delle sette nonché sugli aspetti sociologici e psicologici che favoriscono l’avvicinamento degli individui a tali realtà. L’ingresso degli individui nelle sette Elenchiamo una lista di variabili sociali e psicologiche che possono essere significative nel processo di avvicinamento di un soggetto a tali organizzazioni: Variabili sociali: 1. Processo di secolarizzazione della Chiesa Cattolica e conseguente apertura di spazio di culto per movimenti religiosi alternativi; 2. Diffusione di ideologie ecologiste e antitecnologiche nel tessuto sociale e pronta acquisizione di tali connotazioni ideali da parte di sette di varia estrazione, soprattutto di matrice new age; 3. Progressivo slittamento culturale dal collettivismo all’individualismo, dovuto alla crisi delle grandi ideologie di matrice socialista, con conseguente maggiore richiesta di culti e pacchetti valoriali riferiti alla sfera intima, emotiva e psicologica dell’individuo; 120
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
121
4. Disagio generalizzato dovuto all’impatto aggressivo del progresso, talvolta di difficile inserimento nella sfera antropologica degli individui, con conseguente nascita di simpatia nei confronti di poteri magici e di segrete conoscenze che permettano di governare la sovrastimolazione, la frenesia sociale e la generica incertezza per il futuro. 5. Diffusa ricerca di esclusività in antagonismo schizofrenico alla ricerca di standardizzazione e conformità. Variabili psicologiche: 1. Antagonismo alla frustrazione di inadeguatezza sociale attraverso l’appartenenza ad un gruppo (la setta) che volutamente ingenera negli adepti la convinzione di essere viceversa importanti, naturalmente solo all’interno della setta stessa; 2. Carisma dei capi e complementare richiesta di potere carismatico da parte di soggetti insicuri; 3. Riduzione dell’ansia (es. della morte) attraverso il convincimento acquisito di esistenze ultraterrene, immortalità eccetera; 4. Aumento dell’autostima a seguito dell’apprendimento di poteri magici che consentono una rinnovata capacità di determinare eventi e controllare l’ambiente esterno; 5. Soddisfazione di bisogni di dipendenza e sottomissione da parte di soggetti con particolari profili di personalità; 6. Opportunità di relazioni interpersonali (anche sessuali) per soggetti con particolari difficoltà relazionali; 7. Solitudine e disgregazione familiare; 8. Particolare sensibilità alle tecniche di suggestione e di condizionamento operante (rinforzo sistematico di comportamenti utili da parte del leader carismatico). ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE Gli aspetti specificatamente criminologici nell’ambito dell’attività delle sette si riferiscono a comportamenti criminali posti in essere dai leader o da adepti della setta a danno di altri adepti o di soggetti non appartenenti alla setta. In altri termini, la natura religiosa delle organizzazioni pseudoreligiose non costituisce di per sé un elemento criminogenetico anche se, ovviamente, viene studiata dal criminologo come situazione di “contesto” che serve per interpretare la criminogenesi e la criminodinamica. (lo stesso brainwashing, a se stante, svincolato cioè dall’induzione a comportamenti autolesionistici o illegali è di difficile valutazione criminologica). L’interesse della criminologia è così focalizzato sui comportamenti illegali dei soggetti coinvolti. Tali azioni possono essere assai diversificate e sono attinenti alla natura della specifica setta analizzata. Gli aspetti 121
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
122
culturali ed antropologici dei nuovi movimenti religiosi rappresentano quindi fattori che interessano il criminologo solo “marginalmente”, nella misura in cui costituiscono l’ambiente dove il crimine matura e viene commesso. Lo stesso condizionamento psichico degli adepti, al centro di un acceso dibattito giuridico e sociologico, rappresenta una variabile significativa dal punto di vista criminologico quando ad esso è correlata una forma di illegalità (es. l’acquisizione di ricchezze da parte del santone o l’alterata percezione del crimine da parte dell’adepto). In effetti alla base della ragione di esistere di molte sette italiane ed estere sembra manifestarsi un interesse pratico da parte del capo carismatico o, in casi di organizzazioni molto strutturate, da parte del gruppo che detiene la leadership. Tale interesse, che in alcuni casi può assumere connotazioni di illegalità, varia in base alla tipologia della setta ma solitamente riguarda: ∙ acquisizione di ricchezze attraverso le quote di adesione degli adepti o, in alcuni casi, attraverso l’espoliazione dell’intero patrimonio degli adepti; ∙ acquisizione di ricchezze attraverso la vendita agli adepti di materiale bibliografico e rituale e l’organizzazione di corsi e seminari; ∙ soddisfazione di desideri sessuali e perversioni; ∙ acquisizione di vantaggi provenienti dalle singole attività professionali degli adepti; ∙ acquisizione di informazioni sensibili in campo industriale, finanziario/mobiliare, e politico/istituzionale, dagli adepti che ricoprono incarichi professionali e istituzionali elevati. Tali informazioni possono essere in seguito utilizzate dalla setta per speculazioni, ricatti eccetera. Generalmente ogni tipo di setta presenta dei reati ricorrenti. Esempi di reati legati alle sette: ∙ sette transnazionali: truffe, spoliazione economica degli adepti, acquisizione di informazioni ecc. ∙ sette sataniche: violenza sessuale, pedofilia, lesioni, detenzione e spaccio di stupefacenti, maltrattamento di animali, azioni contro il buon gusto (sanzionate penalmente), profanazione di cimiteri, spaccio e detenzione di stupefacenti, minacce ecc. ∙ psicosette:, esercizio abusivo professione medico/psicologo, truffe. CONDIZIONAMENTO PSICHICO E CRIMINI Alla base della maggior parte dei comportamenti illegali che avvengono nell’ambito delle sette (truffe, violenze sessuali, spaccio ed uso di stupefacenti, appropriazioni, eccetera) si ritrovano forme più o meno sofisticate di condizionamento psicologico e di tecniche di coercizione, attuate con metodi sottili, spesso di tipo suggestivo. In altri termini, i reati che coinvolgono a vario titolo gli adepti (come autori o come vittime), sembrano essere associati ad una modifica della loro percezione della gravità di tali reati. La partecipazione a riti illegali (ad esempio che coinvolgono minori in attività sessuali) o la donazione dei propri averi all’organizzazione, possono apparire ad 122
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
123
un’osservazione superficiale come assolutamente spontanei e non legati ad una pressione specifica da parte del leader carismatico. Tale situazione, che rappresenta una grossa difficoltà in ambito processuale, risulta viceversa soltanto apparente essendo infatti gli adepti sottoposti ad una serie di tecniche di convincimento di vario genere. Nella maggior parte dei casi, l’uso della violenza per indurre i soggetti a comportamenti conformi alle istanze del gruppo sembra essere abbastanza raro e solitamente riservato a casi di particolare resistenza. Lo scenario proposto rappresenta a livello giudiziario una notevole difficoltà in ambito probatorio. Le tecniche predilette dai leader delle sette per ottenere il controllo degli adepti sono infatti di tipo prevalentemente psicologico e tale capacità di manipolazione costituisce, di fatto, il requisito fondamentale dei vari capi carismatici e santoni che sono al vertice delle sette di ogni genere. Spesso, questa dinamica, costituisce la forza primaria del gruppo e una notevole tutela per il leader carismatico dagli attacchi delle agenzie di controllo istituzionale che stentano a trovare testimonianze. Nel corso dei processi penali, pur abbondanti in ogni parte del mondo a carico di santoni accusati di vari reati, risulta infatti sempre assai difficoltoso, in termini probatori, dimostrare (da parte dell’accusa) il plagio e l’induzione al comportamento, essendo tale dinamica sovente in contrasto con l’universale tendenza, nel processo penale, verso l’attribuzione di responsabilità e il riconoscimento del libero arbitrio nelle condotte di vita degli individui, soprattutto, in mancanza di un accertato di vizio totale o parziale di mente dell’individuo che è stato “indotto” ad una determinata azione. LE TECNICHE DI COMUNICAZIONE DELLE SETTE Una interessante ottica di studio criminologico delle sette è costituita a nostro avviso dall’analisi delle modalità comunicative intragruppo ed intergruppo. Distinguiamo a tal proposito delle dinamiche di comunicazione interna e delle dinamiche di comunicazione esterna. La comunicazione interna ha funzione soprattutto coesiva per il gruppo ed è caratterizzata da un linguaggio specifico, sovente criptico, che è comprensibile integralmente solo dagli adepti. Si tratta di una fraseologia che attribuisce un significato ad un oggetto o ad un evento utilizzando parole solitamente estranee al vocabolario corrente (parole appositamente confezionate) o che hanno nella consuetudine un significato diverso. Il linguaggio specifico rappresenta così la base dell’interazione tra il leader carismatico e gli adepti di una setta. E’ importante sottolineare che secondo numerosi studi psicologici (Piaget, Kuenne, Whorf, Osgood) il linguaggio possiede delle capacità di orientare la percezione degli eventi, il comportamento ed il pensiero degli individui e comunque costituisce un elemento fondamentale per l’attribuzione simbolica del proprio sé, della realtà circostante e degli altri individui. In ambito criminologico lo studio del linguaggio degli adepti costituisce un fattore importante per stabilire il livello di complessità dei rapporti intragruppo ed il livello di introiettamento della cultura della setta da parte dei soggetti che giungono all’osservazione clinica. La quasi totalità delle sette esplica dinamiche comunicative anche attraverso una ricca simbologia (numeri, oggetti, segni grafici, animali eccetera), come documentato dai rapporti criminalistici sulle sedi e sui luoghi abitualmente frequentati dai gruppi esoterici e satanici. La comunicazione all’esterno rappresenta invece la modalità espressiva attraverso la quale la setta svolge azione di proselitismo e giustificazione comportamentale (legittimazione) in ambito sociale. I canali impiegati vanno dalla tradizionale produzione di letteratura specifica fino alla semplice divulgazione facetoface nella sfera parentaleamicale degli adepti. Con l’avvento di internet 123
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
124
numerose pagine web vengono impiegate dalle sette per diffondere le loro dottrine e tale dinamica costituisce motivo di particolare allarme vista la diffusione e la difficoltà oggettiva di controllo del mezzo telematico. In termini di studio, la diffusione delle sette sul web consente però nuove opportunità di comprensione attraverso l’osservazione anche da parte di scienziati esterni ai gruppi, ad esempio con l’analisi dei newsgroup e dei forum dedicati. TEORIA DELLA DISSONANZA COGNITIVA La teoria formulata da Festinger nel 1957 rappresenta uno spunto assai utile per comprendere i meccanismi di mantenimento del consenso all’interno delle sette, anche in circostanze in cui l’evidenza percettiva mette a dura prova le credenze esoteriche degli adepti. Per l’autore infatti, la fatica di dover ristrutturare continuamente l’esperienza indotta dalla percezione implica nell’uomo una certa abitudine a crearsi dei “punti fermi” (credenze e schemi di significato) che dopo essere stati appresi non vengono più messi in discussione anche se non trovano verifiche successive. Ogni incoerenza percepita tra i vari aspetti della conoscenza, dei sentimenti e del comportamento instaura quindi un sentimento interiore di disagio (dissonanza cognitiva) che la gente cerca di ridurre tutte le volte che le è possibile negando le nuove percezioni che contrastano con quelle precedentemente apprese. La teoria di Festinger può farci capire come un qualsiasi soggetto, dopo esser diventato "preda" degli adescatori delle sette ed aver quindi subito un condizionamento mentale, non si renda conto delle evidenti incongruenze tra i dettami indicati dal leader della setta e gli accadimenti reali. La dissonanza cognitiva costituirebbe così un “aiuto” all’abilità di convincimento del santone rendendo doloroso il riconfezionamento di credenze precedentemente radicate nel soggetto. In linea teorica, ad esempio, le sette millenariste che annunciano la fine del mondo ad intervalli regolari, dovrebbero svuotarsi dagli adepti nel momento in cui avviene la constatazione razionale che la fine del mondo non è avvenuta alla scadenza prefissata. In realtà, la maggior parte degli adepti (quando non accadono tragedie tipo suicidi collettivi) accetta supinamente nuovi “step” di calendario e giustificazioni spesso improbabili. SETTE PSEUDORELIGIOSE COME ORGANIZZAZIONI CRIMINALI Un interessante approccio allo studio delle sette è rappresentato da quello che considera tali gruppi come organizzazioni criminali. In tale dimensione assumono rilevanza i seguenti elementi: Valutazione delle caratteristiche del leader e della leadership: L’analisi delle modalità di approccio e di strutturazione del gruppo da parte del leader costituisce un ambito di studio mutuabile dalla Psicologia del lavoro e delle organizzazioni che può fornire un valido apporto nello studio delle sette. In effetti, non tutti i leader delle sette sono dei truffatori anche se molti di essi hanno nel loro vissuto un’attività lavorativa che li ha dotati di abilità di comunicazione e convincimento (es. imbonitori di fiere) nonché di capacità nell’instaurare rapidamente legami empatici nella sfera intima dell’interlocutore. Flusso di potere organizzativo: L’analisi delle caratteristiche della struttura organizzativa (spesso piramidale) rappresenta un importante ottica di ricerca. Importante è ad esempio la figura dei 124
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
125
luogotenenti (con potere o “burattini”) che denota le modalità di trasmissione del potere e delle comunicazioni intragruppo oltre che fornire importanti indicatori sulla complessità dell’organizzazione. ASPETTI CRIMINOLOGICI DELLE SETTE Nell’ambito di alcuni gruppi pseudoreligiosi (specie in quelli definiti come culti distruttivi), sono configurabili sostanzialmente due categorie di crimini: i crimini commessi ai danni degli adepti e i crimini commessi dagli adepti (ai danni di altri adepti o di soggetti esterni alla setta) sotto l’influsso di condizionamenti da parte del gruppo a cui appartengono. Nella prima categoria rientrano le azioni illegali eseguite dai leader carismatici ai danni dei loro accoliti, i quali subiscono tali azioni con vari livelli di consapevolezza. Questi crimini si riferiscono normalmente a : § truffe e frodi; § minacce; § estorsioni; § sequestri di persona (di durata variabile); § sfruttamento (del lavoro e della prostituzione); § lesioni (procurate nel corso di rituali); § violenze fisiche di vario tipo; § spaccio di stupefacenti; § pedofilia; § abusi sessuali; § induzione al suicidio § omicidi. Alla seconda categoria sono viceversa ascrivibili quelle azioni illegali eseguite da adepti di sette, ai danni di altri adepti o di soggetti esterni alla setta, in un generico quadro di alterazione della coscienza. Questi crimini sono rappresentati da: 125
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
126
§ reati familiari (es. mancato sostentamento, abbandono eccetera); § violenze e lesioni ad altri adepti nel corso di rituali; § detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti; § abusi sessuali § pedofilia § profanazione di cimiteri § maltrattamento di animali § furti (es. ostie nelle chiese) § concorso in truffe e frodi § furto di informazioni § danneggiamenti (chiese e locali) I costrutti teorici di base utili all’interpretazione dei crimini commessi dai leader carismatici ai danni degli adepti sono quelli usuali della Scienza criminologica nell’ambito dei reati appropriativi, degli abusi e delle organizzazioni criminali. In altre parole l’approccio più verosimile allo studio del comportamento di santoni e capi carismatici che commettono crimini è quello che si utilizza per i comuni delinquenti, cercando di isolare e localizzare i vari reati “terreni” all’interno di un involucro simbolico di tipo esoterico, creato appositamente per meglio eseguire le varie azioni criminali. Per tali soggetti, in alcuni casi, potrebbe forse essere ipotizzata (e poi verificata con idonee ricerche) la presenza di alcuni specifici tratti di personalità, funzionali ad esempio al mantenimento di atteggiamenti artificiali (per lungo tempo) nel corso dell’interazione con gli adepti o all’esecuzione di tecniche di condizionamento psichico. Per quanto attiene all’interpretazione criminologica dei crimini commessi dagli adepti appare invece necessaria l’adozione di un paradigma interpretativo specifico in grado di evidenziare la duplice dimensione dell’autore (criminale/vittima) e le complesse dinamiche di alterazione percettiva, indotte dall’appartenenza alla setta, che possono entrare in gioco in fase di progettazione ed esecuzione del crimine. Su questa base un possibile quadro teorico fondato sulla Teoria dell’azione e sul costruzionismo complesso dovrebbe tenere in debita considerazione la capacità dei contesti di condizionamento psichico di intervenire nel processo di significazione presente in ogni azione criminale, alterando alcuni significati “chiave” di tale processo.
126
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
127
Secondo gli approcci criminologici più moderni gli individui elaborano ed interpretano socialmente le regole sociali e orientano il proprio comportamento anticipandone gli effetti (mentalmente) con una sorta di monitoraggio che definisce lo svolgimento dell’azione. In tale ottica le dinamiche intrapsichiche dell’individuo e le sue rappresentazioni cognitive entrano in interazione con i significati e le regole sociali e tale dinamica complessa determina il loro agire. La percezione del crimine e della vittima, le norme sociali di riferimento, le aspettative di reazione sociale e altre componenti del complesso percorso di attribuzione di significato che conduce gli individui alla commissione (o meno) di un crimine possono risultare notevolmente alterate in un adepto di una setta, “immerso” in un contesto simbolico frastornante. In alcune specifiche circostanze, come ad esempio in situazioni di trance nel corso di rituali particolari, è ipotizzabile addirittura uno stato di alterazione assoluto della coscienza che pone l’adepto in condizione di “gestione totale” da parte del leader carismatico e quindi potenzialmente in grado di commettere crimini, anche efferati, con modestissima consapevolezza. A tal proposito potrebbero risultare utili ricerche effettuate su adepti che hanno eseguito azioni criminali, attraverso la somministrazione di strumenti di valutazione criminologica centrati sulla percezione del crimine e sui livelli di consapevolezza. Le risultanze potrebbero infatti assumere notevole valenza per comprendere le correlazioni tra condizionamento e crimini e, in Criminologia clinica, soprattutto per quanto riguarda le valutazioni di responsabilità. L’investigazione nell’ambito delle sette sataniche L’attività investigativa nell’ambito dei crimini legati alle sette, così come del resto la ricerca criminologica su tale argomento, implica l’esigenza di una notevole padronanza da parte dell’investigatore/ricercatore, della complessa simbologia rituale che permea tali organizzazioni. Tale simbologia (ad esempio quella numerologica nel satanismo) può infatti rappresentare un elemento fondamentale per la comprensione di alcune dinamiche delittuose altrimenti particolarmente intricate. Anche i simboli grafici, come le scritte murali ritrovate sovente nei luoghi dove vengono svolti rituali satanici, o particolari oggetti o reperti anatomici, possono assumere significati importanti per la comprensione delle dinamiche e della valenza criminogenetica del gruppo che le ha eseguite. Interessante a tal proposito il caso dell’omicidio di Suor Laura avvenuto a Chiavenna nell’estate del 2000. Le presunte autrici, tre giovani ragazze insospettabili, appartenenti al ceto medio, con famiglie tranquille e normali come migliaia di altre hanno ucciso brutalmente la religiosa in un luogo isolato. Le ipotesi sulla correlazione tra il delitto e il mondo del satanismo sono supportate da alcuni riscontri criminalistici:
127
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
128
§ rinvenimento, nel corso di sopralluoghi, poco lontano dalla scena criminis, di alcune scritte riconducibili a riti e sette sataniche; § presenza su 3 quaderni, sequestrati nelle abitazioni delle tre giovani, di scritte e simbologie sataniche nonché di brani di scrittura contenenti linguaggi e contenuti riferibili al mondo del satanismo; § la data in cui si e' consumato l'omicidio e' il 6 giugno (il 66) che costituisce una sequenza numerica simboleggiante il demonio nell’ambito dei gruppi satanici. La ritualità satanica contempla l’utilizzo di oggetti e sostanze di varia natura, spesso ricorrenti nei vari gruppi poiché risalenti alle medesime tradizioni antiche tramandate oralmente o più semplicemente acquisiti dalla medesima letteratura specialistica che, secondo quanto documentato dalla ricerca sociologica, sembra essere in grande espansione e reperibile in molte librerie (anche “prestigiose”). Riportiamo a titolo esemplificativo una lista di questi oggetti rinvenuti e sequestrati (sotto un albero) dai Carabinieri nel corso di un’operazione di polizia nel settembre del 2000 a Roma: § tre candele consumate; § alcuni cuori di pezza trafitti da spilloni; § una ciotola con uova; § della polvere bianca; § materiale cerebrale proveniente da un animale (una pecora). Per quanto attiene ai reperti criminalistici grafici, rinvenuti sovente sui muri di chiese sconsacrate utilizzate per riti satanici o all’esterno di chiese consacrate o in documentazione personale sequestrata ad adepti (quaderni, diari), i segni ricorrenti sono: § croci rovesciate; § varie sequenze numeriche tra cui 666 (la grande bestia, il demonio); § stelle a cinque punte. Talvolta importanti indicatori della presenza di rituali satanici possono talvolta essere osservati nelle mutilazioni subite da animali domestici. Nel giugno del 2000, ad Albano in Provincia di Roma sono stati rinvenuti, a più riprese, dei gattini che presentavano tutti le stesse mutilazioni, eseguite, a detta di un Veterinario, con un colpo netto e preciso (escludendo quindi strappamenti accidentali). Gli animali avevano subito il taglio di una zampa posteriore all’altezza del femore e della coda. Nell’area di rinvenimento risulta attività rituale satanica. 128
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
129
Le competenze necessarie al riconoscimento e all’interpretazione della simbologia satanica e di altri gruppi pseudoreligiosi sono acquisibili attraverso i testi scientifici specialistici e dalla letteratura subculturale diffusa dalle librerie specializzate. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE MARVIN HARRIS, Materialismo Culturale, Campi del Sapere, Feltrinelli, 1979. MACIOTI MARIA I., Religione Chiesa e Strutture Sociali, Napoli, Liguori Editore, 1974. H. SPENCER, Principi di Sociologia, Torino, Utet, 1967. E. DURKHEIM, Le Forme Elementari della Via Religiosa, Roma, Newton Compton, 1973. ACQUAVIVA, PACE, Sociologia delle Religioni, Roma, NIS, 1992. C. JUNG, Psicologia e Patologia dei Cosiddetti Fenomeni Religiosi, Roma, Newton Compton, 1994. C. JUNG, I Fondamenti Psicologici della Credenza negli Spiriti, Roma, Newton Compton, 1994. C. JUNG, Opere Vol. 11: Psicologia e Religione, Roma, Newton Compton, 1994. S. FREUD, L' Isteria, Roma, Newton Compton, 1992. S. FREUD, Comportamenti Ossessivi e Pratiche Religiose, Roma, Newton Compton, 1992. S. FREUD, Totem e Tabù, Roma, Newton Compton, 1992. C. BAUDOUIN, Psicanalisi del Fenomeno Religioso, Ed. Paoline. E. FROMM, Psicanalisi e Religione, Milano, Edizioni di Comunità, 1961 M. INTROVIGNE, Il Satanismo, Torino, Editrice Elle Di Ci, 1997. M. INTROVIGNE, Indagine sul Satanismo, Milano, A. Mondadori Editore, 1994. M. INTROVIGNE, Il Cappello del Mago, Varese, Sugarco Edizioni, 1990. C. GATTO TROCCHI, Le Sette in Italia, Roma, Newton Compton, 1994. C. GATTO TROCCHI, Il Risorgimento Esoterico, Milano, A. Mondadori Editore, 1996 C. GATTO TROCCHI, Magia ed Esoterismo in Italia, Milano, A. Mondadori Editore, 1995. D. ARONA, G. M. PANIZZA, Satana ti Vuole, Milano, Corbaccio Editore, 1995. 129
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
130
M. ALATORRE, HOECKMAN, OSÓRIO GONCALVES, GALLAGHER, Sette e Nuovi Movimenti Religiosi, testi della Chiesa Cattolica/ 19861994, Roma, Città Nuova Ed., 1995. AMATULLI, La Chiesa Cattolica e le Sette Protestanti, Castellana Grotte (Ba), Apostoli della Parola, 1991. F. AMATULLI, Le Sette ci Interpellano, Castellana Grotte (Ba), Apostoli della Parola, 1992. A. USAI, Profili Penali dei Condizionamenti Psichici, Milano, Giuffrè Ed., 1996.
Capitolo 5 I CRIMINI NELLA FAMIGLIA Introduzione generale I numerosi casi di violenza che si verificano quotidianamente tra le mura domestiche ci dimostrano drammaticamente come l’idea di un luogo familiare basato su vincoli di amore e solidarietà, che protegge i suoi membri permettendo loro di svilupparsi, socializzare e realizzarsi, sia in realtà una visione in parte idealizzata e mistificante della famiglia. Tra individui legati da vincoli di parentela si verificano abusi sessuali, maltrattamenti fisici, violenze psicologiche e assassinii. Evidentemente anche nella famiglia, come in ogni gruppo sociale, esiste un certo grado di conflittualità; ma diversa e patologica risulta la situazione familiare dove la conflittualità si trasforma in aggressione e violenza. La famiglia non produce solo vittime di violenza, in prevalenza donne e bambini. E’ anche un luogo dove la violenza viene insegnata e appresa tramite modelli comportamentali e relazionali che tendono a perpetuarsi generazione dopo generazione. In alcuni casi la famiglia può diventare addirittura una vera e propria organizzazione criminale, come possiamo osservare nei casi di clan mafiosi di tipo tradizionale. “La violenza domestica si riferisce alla violenza che si verifica nei confini della famiglia ed include tutte le forme di violenza legalmente sanzionate che un membro della famiglia può infliggere ad un altro”[1] La famiglia quindi costituisce, un “habitat” particolare in cui si possono sviluppare tipiche condotte criminose[2], che il nostro sistema penale contempla attraverso i seguenti articoli: L’art. 570 c.p. ( “violazione degli obblighi di assistenza”): “Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di assistenza inerenti alla potestà dei 130
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
131
genitori o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa da lire duecentomila a due milioni. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapidai beni del figlio minore o del coniuge 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia separato legalmente per sua colpa” Con questo articolo vengono puniti i reati familiari a motivazione economica, così come quelli relativi ai casi di incuria dove i genitori sono colpevoli di non prestare le cure di cui i figli hanno bisogno; similmente, in caso di abbandono, interviene l’art.591 (“abbandono di persone minori o incapaci”)che recita: “Chiunque abbandona una persona minore degli anni quattordici, ovvero una persona incapace, per malattia di mente o di corpo, per vecchiaia o altra causa, di provvedere a se stessa, e della quale abbia la custodia o debba avere cura, è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Alla stessa pena soggiace chi abbandona all’estero un cittadino italiano minore di anni diciotto, a lui affidato nel territorio dello Stato per ragioni di lavoro. La pena è di reclusione da uno a sei anni se dal fatto deriva una lesione personale, ed è da tre a otto anni se ne deriva la morte. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso da un genitore, dal figlio, dal tutore o dal coniuge ovvero dall’adottante o dall’adottato.” I reati nell’ambito della famiglia che riguardano invece la violenza fisica e morale, ovvero i casi di maltrattamento sia fisico che psicologico, vengono contemplati dagli art. 571 c.p. (“abuso dei mezzi di correzione”): “chiunque abusa dei mezzi di correzione o di disciplina in danno di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito, se dal fatto deriva pericolo di una malattia nel corpo o nella mente, con la reclusione fino a sei mesi. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applicano le pene stabilite negli art.582 e 583, ridotte a un terzo; se ne deriva la morte, si applica la reclusione da tre a otto anni. e dall’art. 572 c.p. (“ maltrattamenti in famiglia”): “Chiunque fuori dei casi indicati dall’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. Se dal fatto deriva una lesione personale, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni.” Infine per i reati di natura sessuale che avvengono in famiglia si fa riferimento alla stessa normativa che regola le violenze sessuali in genere, ovvero la recente legge del 15 febbraio,19996, n 66 che ha avuto il merito di introdurre due grosse novità in materia: l’unificazione del reato di violenza 131
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
132
carnale e quello di atti di libidine violenta in una unica fattispecie criminosa, cioè la “violenza sessuale”, comprendente qualunque atteggiamento contro la libera determinazione sessuale della persona; e, soprattutto, il riconoscimento, dopo tanti anni di attesa, della violenza sessuale come un reato non più contro la morale ma contro la persona. Gulotta[3] preferisce distinguere le condotte delittuose all’interno della famiglia, utilizzando come criterio il tipo di vittima coinvolta: coniuge (maltrattamento, violenza sessuale, uxoricidio) figli (maltrattamento, violenza psicologica, patologia delle cure, abuso sessuale) genitori (maltrattamento, parenticidio, parricidio, matricidio) 1. 1. La violenza tra i coniugi La violenza tra coniugi è un fenomeno più diffuso di quanto non si creda. E’ vero che in questo caso, rispetto alla violenza sui figli, la vittima essendo un adulto possiede maggiori strumenti e possibilità di sottrarsi alle sevizie attraverso la denuncia oppure la separazione, il divorzio dal coniuge violento; ma è pur vero che anche in questo caso la violenza avviene all’interno di un rapporto affettivo significativo tra abusante e vittima che non può essere privo di conseguenze. Anche in questo caso per esempio l’omertà familiare gioca un ruolo importante nella possibilità di effettuare una rilevazione quantitativa del fenomeno appropriata. Secondi i dati ISTAT[4] il numero di denunce per maltrattamento in base all’art. 572 si aggira ai 5000 l’anno; di queste la maggior parte proviene dai rapporti delle forze di pubblica sicurezza e solo una piccola percentuale è attribuibile a privati o deriva da querela di parte. Ciò ci da un’idea di quanta consistente sia il fenomeno sommerso dei maltrattamenti che non vengono segnalati e che vengono invece giustificati ai controlli medici come “incidenti”. E’ importante ricordare, a tal proposito, che uno tra i principali motivi di separazione della coppia coniugale risulta essere proprio la violenza fisica e la violenza verbale espresse dai partner, ancor prima dei problemi di natura finanziaria, della trascuratezza della casa e dei bambini, della conflittualità con i suoceri; ancor prima dell’infedeltà, della mancanza d’amore o dell’incompatibilità sessuale[5]. Le lagnanze per queste prime voci, quelle relative agli episodi di violenza provengono in prevalenza dal coniuge femminile, ma non esclude totalmente la possibilità che la vittima di maltrattamenti domestici possa essere il marito o il convivente, come vedremo più avanti. E’ evidente però che è la donna la vittima prevalente del maltrattamento coniugale, come risulta da una ricerca riportata da Gulotta[6], in cui su un totale di 1872 donne intervistate il 48% afferma di essere stata oggetto di violenza fisica operata solo in piccola parte da estranei; nella maggioranza dei casi la violenza è stata infatti subita in ambito familiare: famiglia di origine (padre, madre, fratelli), oppure dal marito, dal fidanzato, dal convivente. Si tratta anche di episodi gravi di violenza che ha lasciato tracce fisiche nel 12% dei casi, determinato ricoveri ospedalieri nel 2% e tentativi di suicidio nel 4% delle vittime. Anche la violenza sessuale avviene in buona parte tra le mura domestiche e non solo a danno dei minori; una buona percentuale degli stupri sulle donne viene compiuto da conoscenti e parenti e questi spesso 132
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
133
sono coniugi o fidanzati. Anche in questi casi le conseguenze sono gravi (depressione, difficoltà sessuali, etc) ma anche in questi casi le denunce sono scarse e il segreto familiare viene generalmente mantenuto. Si verifica prevalentemente durante il fine settimana, quando c’è maggiore probabilità di incontro della coppia, e in orario pomeridiano e serale; la cucina sembra essere, nella casa il luogo dove avvengono più frequentemente le aggressioni[7] Ma che cosa determina il fenomeno cosiddetto del “wife beating”? Come è prevedibile gli studi si sono concentrati principalmente sulla personalità dell’uomo che picchia la propria moglie suggrendo un’immagine un po’ stereotipata e quindi riduttiva e insufficiente, del marito violento come di un malato di mente, di un alcolizzato o tossicodipendente E’ evidente che tale connotazione si basa su dati reali ma parziali. Appare evidente invece che una simile attribuzione ha anche un valore rassicurante e difensivo perché stigmatizzante e perché da l’illusione di poter più facilmente controllare un fenomeno violento (che è temuto proprio perché trasversale) e di poterlo relegare al di fuori della nostra esperienza e del nostro contesto di appartenenza. Sono stati descritti in tal senso alcuni tratti di personalità del marito violento quali la dipendenza, la passività, la sospettosità paranoide; inoltre sono state delineate anche alcune sindromi[8] del marito che picchia la moglie: esse si baserebbero su alcuni bisogni fondamentali che l’uomo si sforzerebbe di soddisfare anche tramite il ricorso alla violenza fisica. Ad esempio nella sindrome di colui che “ricerca l’approvazione”il bisogno di base sarebbe la ricerca della conferma del proprio valore e la moglie assumerebbe il ruolo di rinforzare la sua autostima. Per questo motivo qualsiasi dissenso o scelta autonoma della compagna è vissuta dal marito come inaccettabile attacco al suo valore narcisistico e dato il ruolo che le attribuisce, diventa vitale evitare, anche con la violenza, ogni minaccia che metta in crisi la propria precaria stima di sé. Sono state evidenziate anche alcune modalità di interagire tipiche della coppia in cui si verifica il “wife beating[9]”: rigida osservanza dei ruoli familiari e coniugali; i tentativi di cambiamento o le scelte di autonomia della moglie vengono percepite minacciosamente dal marito che teme una rottura dell’omeostasi familiare che è in grado di garantire la sopravvivenza dei rapporti e dei ruoli in famiglia. La violenza è ovviamente una espressione del potere all’interno di un gruppo o di una relazione ed è uno strumento per esercitare il potere e mantenerlo. Il marito può sentirsi minacciato nel riconoscimento del proprio potere decisionale in famiglia dato che non gli viene più garantito automaticamente dalla società e dalla cultura il ruolo di capo famiglia; inoltre può sentirsi incapace di competere sul piano intellettuale, professionale ed economico con la partner e può utilizzare la forza fisica come unico mezzo per recuperare o preservare un potere ed un ruolo che teme di perdere. In un periodo in cui i ruoli maschili e femminili si sono profondamente trasformati anche in famiglia può esserci maggiore lotta per il potere tra i coniugi. I litigi infatti avvengono perché non vengono rispettate le regole (esplicite ed implicite) della famiglia vengono messe in discussione le “metaregole” cioè le regole che stabiliscono chi ha il diritto di porle. La tendenza ad attribuire automaticamente la responsabilità del conflitto familiare alla coniuge spesso percepita in maniera poco realistica e in base ad aspettative che ricalcano una coppia ideale, come quella dei propri genitori. Molti litigi tra i membri di una coppia avvengono non tanto perché essi possiedono un opinione diversa sulla realtà, cioè su ciò che avviene quanto per una diverso modo di attribuire la causa e la responsabilità di quello che accade. Ogni persona, infatti, attribuisce intenzioni, scopi, 133
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
134
motivazioni e responsabilità per giustificare il comportamento proprio e altrui; si tratta di meccanismi di attribuzione che ognuno di noi mette in atto nel tentativo di interpretare le cause del comportamento osservato.Ora, quando siamo gli agenti stessi del comportamento tendiamo a considerare particolarmente incidenti le pressioni dell’ambiente; quando invece siamo nella posizione di spettatore, tendiamo ad attribuire maggiore responsabilità del comportamento osservato, all’agente. E’ a questo punto che nasce il conflitto “di attribuzione”, quando ognuno dei coniugi cioè attribuisce all’altro scopi e responsabilità che questi non riconosce come propri e che non accetta che gli vengano attribuiti. La reazione violenta può nascere infatti più che in seguito alla semplice trasgressione di una regola familiare, dalla percezione che questa sia stata trasgredita in modo intenzionale: è l’intenzionalità a rendere l’azione altrui carica di responsabilità e viene vissuta come l’espressione di un attacco al quale è più probabile che si risponda con un contrattacco, anche fisico. Difficoltà comunicative nella coppia, in particolar modo scarsa capacità di gestire il conflitto e di mentalizzare e comunicare le proprie emozioni, senza doverle agire immediatamente. Si ritiene che i modelli di gestione del conflitto si apprendano soprattutto in famiglia e che l’esposizione precoce e sistematica a modelli violenti di soluzione dei problemi e di gestione dei rapporti influenzi in modo considerevole il modo di comportarsi in famiglia da adulti. Ad esempio, i bambini maltrattati hanno maggiori probabilità di diventare genitori maltrattanti, così come risulta importante quanto la cultura della famiglia di origine consideri “accettabile” o apprezzi modalità violente di comportamento tra i membri o verso l’esterno. Secondo le teorie dell’apprendimento sociale, il comportamento violento viene appreso in base all’osservazione e all’imitazione di modelli; è probabile che il coniuge violento non possegga un repertorio comportamentale e comunicativo in grado di fornire, in una situazione critica o conflittuale, risposte alternative all’atto violento che al contrario può essere già stato collaudato e sperimentato, per certi versi, come efficace nel risolvere molti momenti di tensione. Ciò non significa che le coppie che verbalizzano di più la loro aggressività hanno minori probabilità di incorrere nella violenza: la violenza verbale infatti è correlata positivamente con l’aggressività fisica e, alimentandosi reciprocamente, favorisce l’escalation drammatica della violenza[10]. 1.1.2. Le vittime[11] Come le altre vittime degli abusi domestici, anche la donna vittima di maltrattamento coniugale colpisce per la condizione di passività nella quale si trova. Il fatto che spesso non denunci il suo aggressore o che, non interrompendo la relazione con lui, si esponga ai reiterati episodi di violenza dimostra quanto sia complicato per la moglie picchiata, reagire in termini autoconservativi alla sua situazione. In genere le donne maltrattate presentano “contusioni, spesso associate a lesioni traumatiche ossee o a ferite lacerocontuse, più frequenti nel caso di utilizzo di mezzi di offesa”[12], che si concentrano soprattutto sul viso (naso, mandibola, denti) e sul torace. Per di più che oltre ai danni direttamente provocati dalle percosse queste donne tendono a soffrire secondariamente di disturbi d’ansia, di depressione, di insonnia; tendono ad abusare di sostanze alcoliche e tentano spesso il suicidio. Sono portate a somatizzare le proprie difficoltà (ma di testa, allergie, etc.) e a reagire alle situazioni improvvise e inaspettate con manifestazioni di agitazione, pianto e paura paralizzante. Si mostrano passive e rassegnate anche se possono esprimere la propria aggressività verbalmente o tramite fantasie (di morte o di sparizione del proprio convivente per 134
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
135
esempio). Quello che temono è di perdere il controllo sulla propria aggressività, ad esempio temono di spostarla su altri membri famigliari, soprattutto i bambini e non a caso molte madri a questo punto denunciano il marito maltrattante al fine di tutelare almeno i propri figli; oppure l’aggressività e la rabbia provata da queste donne possono venire dirottate verso se stesse ed allora i tentativi di suicidio o le condotte autodistruttive possono assumere il valore espressivo di comunicare un disagio e l’estremo tentativo di uscire da una situazione percepita senza scampo. Molti sono i motivi infatti che rendono difficile alla moglie percossa di sottrarsi alla relazione violenta. La dipendenza economica e materiale dal marito soprattutto se :
la donna non lavora non può disporre di una rete sociale di sostegno formale e informale ci sono dei bambini; la fiducia che il marito possa cambiare e la determinazione a recuperare il rapporto; la dipendena affettiva dalla relazione e la paura a vivere da sola; aver sviluppato un’immagine negativa di sé, fortemente svalutata che legittimerebbe l’uso della violenza nei propri confronti e l’accettazione rassegnata e passiva della propria condizione.
Gelles[13] ha individuato alcuni fattori che invece faciliterebbero la reazione della vittima e/o la sua richiesta di aiuto. In particolare inciderebbero:
la natura e l’intensità della violenza inflitta la frequenza con cui viene inflitta l’età dei figli
Tanto maggiore e grave è il grado di violenza subito, tanto maggiore è la probabilità che la moglie si sottragga al maltrattamento. La frequenza degli episodi violenti invece inciderebbe sul tipo di reazione della vittima: se hanno cadenza giornaliera o settimanale, per esempio ricorrerebbe all’intervento della polizia; se gli episodi sono più rari il comportamento più prevedibile è la separazione. Se i figli invece sono adolescenti la risoluzione della coppia viene ricercata perché ritenuti autosufficienti o perché, al contrario, si ritiene vi sia il rischio di coinvolgimento di questi negli episodi violenti. La violenza nella coppia non si manifesta però a senso unico; esistono casi di maltrattamenti da parte del coniuge femminile verso il marito, anche se meno numerosi e non perché esista una differenza tra i sessi nella tendenza a risolvere una tensione conflittuale con la violenza: ad esempio non esiste differenza statistica tra i casi di uxoricidio di provenienza maschile o femminile. Esiste una differenza solo nei mezzi utilizzati (le donne utilizzano molto di più le armi, il tiro di oggetti) e nella forza fisica che determina una differente produzione di effetti sulla vittima e una preferenziale designazione femminile del ruolo di vittima nei casi di conflitto violento tra due membri della coppia. 1. 2. L’uxoricidio
135
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
136
L’omicidio del coniuge è un crimine domestico drammaticamente diffuso. Si pensi che negli Stati Uniti, dove il numero delle vittime della violenza domestica supera quello delle vittime degli incidenti automobilistici, degli stupri e della piccola criminalità messi insieme; durante la guerra del Vietnam, quando morirono 39000 soldati in battaglia, ci furono 17500 morti tra donne e bambini a causa della violenza domestica[14]. In Italia, nel biennio 19931994 si sono registrati oltre 400 casi di omicidio e di tentato omicidio fra parenti e partner[15]. In pratica un omicidio su 5 risulta trattarsi di un “omicidio domestico”; inoltre si è calcolato che dal 1993 al 1996 vi sia stato un incremento dei casi di omicidi del coniuge del 13%. Nello stesso arco di tempo il numero dei figlicidi è raddoppiato[16]. Se analizziamo gli omicidi di donne, inoltre, notiamo che il delitto viene compiuto dal coniuge o dal convivente della vittima nel 40% dei casi, con una fascia di età a rischio tra i 25 i 44 anni[17]. E’ anche interessante osservare come si distribuisce l’incidenza degli omicidi domestici per area geografica[18]: il 33% (percentuale degli omicidi domestici sul tot degli omicidi) avviene nel nord Italia, in particolare in Lombardia, Liguria e Toscana; il 17,5% al centro mentre il 6,5% al sud. Ma quali sono i motivi per cui viene assassinato il coniuge? Si tratta prevalentemente di moventi di natura passionale, quale ad esempio la gelosia oppure di omicidi incorsi in seguito a lite violenta.[19] Seguono i casi in cui l’omicida presenta disturbi psichici gravi che possono averlo indotto a commettere il delitto e i casi in cui il movente è più strettamente strumentale: l’assassino ha agito per motivi di interesse e di denaro. In alcuni casi sono le separazioni e i divorzi burrascosi a generare un esito drammatico quale l’uxoricidio, soprattutto se la coppia è coinvolta in un conflitto per l’affidamento dei figli. 2 La violenza sui figli La violenza intrafamiliare che coinvolge come vittime i figli può manifestarsi sotto forma di:
maltrattamento fisico violenza psicologica abuso sessuale patologia della somministrazione delle cure
2.1. Il maltrattamento fisico: Il maltrattamento fisico del bambino è stato riconosciuto sul piano clinico e sociale solo di recente. Risale alla seconda metà del 1800 lo studio medicolegale di Ambroise Tardieu sulle sevizie e i maltrattamenti infantili; mentre solo dopo il 1950 in ambito medico–pediatrico di area statunitense (in particolare Silverman, Caffey ed altri) altri viene accettata l’ipotesi che in certi casi le lesioni riscontrate nei bambini possano essere attribuiti alle percosse inflitte volontariamente dai i genitori; fino ad arrivare al 1962 alla consacrazione finale tramite Henry Kempe e il suo articolo in cui viene formalmente descritta la “battered child syndrome”, cioè la sindrome del bambino maltrattato[20]. Che cosa si intende per bambino maltrattato? 136
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
137
Si parla di abuso fisico o di maltrattamento fisico quando i genitori o le persone legalmente responsabili del bambino eseguono o permettono che si eseguano lesioni fisiche , o mettono i bambini in condizioni di rischiare lesioni fisiche[21]. Ovviamente queste lesioni possono essere di natura e gravità diversa e in base alla necessità o meno di un ricovero in ospedale o in reparto di rianimazione, possono essere distinte in lievi, moderate, severe. Come si riconosce un caso di maltrattamento fisico? Il bambino maltrattato può presentare sul corpo lesioni di vario tipi: cutanee, scheletriche, craniche. Tra le lesioni cutanee vengono riscontrate ecchimosi, ematomi (alle labbra, agli occhi); tagli e ferite; cicatrici (spesso in diverse parti del corpo e in diverso stadio di cicatrizzazione); ustioni (difficile distinguere quelle intenzionali da quelle accidentali tranne nel caso di bruciatura di sigaretta); segni di morsi. Le lesioni scheletriche sono quelle più tipiche e consistono soprattutto in fratture delle braccia e delle gambe che difficilmente un bambino piccolo, non ancora capace di camminare, è in grado di procurarsi da solo. I traumi cranici consistono invece soprattutto in : ematomi subdurali, cioè emorragie cerebrali, spesso gravi che conducono alla morte del bambino fratture craniche che producono danni neurologici posttraumatici permanenti , ad esempio a scapito dello sviluppo del linguaggio o della motricità. I traumi cranici vengono prodotti soprattutto tramite oggetti contundenti o tramite scuotimenti violenti del bambino che subisce un forte contraccolpo al capo. Il primo passo è quello di distinguere il maltrattamento da una condizione patologica o da una condizione accidentale. Nonostante la presenza di segni piuttosto evidenti, produrre una diagnosi di maltrattamento può generare però incertezze e resistenze da parte dei medici, degli operatori sociali o da chiunque venga coinvolto in simili casi. Questo spiegherebbe anche perché il numero di casi riconosciuti di maltrattamento risulta così esiguo rispetto al fenomeno sommerso. I motivi di tale difficoltà sono molteplici:
l’operatore che diagnostica l’abuso può temere di rimanere coinvolto in prima persona dalle conseguenze della propria denuncia: ad esempio può rischiare che venga inoltrata una azione legale nei suoi confronti proprio dai genitori denunciati. può temere di mettere a repentaglio il rapporto professionale con i genitori che ovviamente si mostreranno ostili nei suoi confronti. può ritenere che non sia necessario un intervento in quanto non crede che possa portare giovamenti o addirittura ritiene possa risultare dannoso.
E’ legittimo confermare un sospetto di maltrattamento quando , accanto ai segni fisici riscontarti, possiamo anche verificare che: 137
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
138
le lesioni non sono molto recenti, quindi è intercorso un discreto lasso di tempo tra il momento in cui si è verificato il danno e la prima osservazione medica il bambino è portato all’osservazione del medico per motivi diversi dalle lesioni (febbre, otite, broncopolmonite, pianto inconsolabile) frequenti visite ospedaliere precedenti la reazione dei genitori è inappropriata rispetto la gravità delle lesioni ed inoltre non si mostrano collaborativi.
I genitori maltrattanti risultano essere, generalmente, i genitori biologici, soprattutto la madre; inoltre, si tratta prevalentemente di famiglie caratterizzate da: Insoddisfazione coniugale. Disgregazione del nucleo familiare con assenza di uno dei coniugi. Matrimonio successivo ad una gravidanza indesiderata. In alcuni casi il genitore abusante è sofferente di un disturbo o di un disagio (psicosi, depressione, tossicodipendenza, alcolismo), ma non è una condizione indispensabile al verificarsi del maltrattamento. Più comunemente il maltrattante è stato a sua volta, da bambino, vittima di maltrattamento.[22] Il bambino maltrattato invece è generalmente molto giovane (in prevalenza tra i 0 e i 3 anni) e spesso soffre od ha sofferto al momento della nascita di varie patologie più o meno gravi e più o meno croniche. Perché avviene il maltrattamento? Analizzando le circostanze in cui si manifesta l’episodio violento si constata che il 90% degli abusi fisici avviene tra le mura domestiche, in orario serale e preservale e per motivi apparentemente banali quali ad esempio il pianto incessante e inconsolabile del bambino, l’ostinazione del bambino a non voler mangiare, una lite tra i genitori che sfocia nella violenza sul figlio, ecc.[23] Esistono alcune ipotesi interpretative[24] che tentano di spiegare quali sono i motivi che portano un genitore a infliggere violenze fisiche al proprio figlio. Ipotesi psichiatrica Secondo questo approccio la causa principale del maltrattamento è da ricercare nelle caratteristiche di personalità o disturbi psicopatologici dei genitori. La psicopatologia di questi adulti non sarebbe diagnosticata e curata in quanto non chiedono o non accettano la terapia. Il fattore che genera violenza non è tanto la patologia in sé ma l’effetto che essa produce nelle relazioni intrafamiliari sui bisogni di cura fisica e psicologicoaffettiva dei figli.
138
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
139
Ipotesi socio ambientale Ricerca le cause del maltrattamento nei fattori demografici, culturali, economici, sociali della famiglia. In particolare viene attribuita importanza al basso livello economico, alle condizioni di isolamento e mancanza di un adeguato supporto da parte di membri della famiglia estesa, alle condizione abitative disagiate, all’elevato numero di figli. Ipotesi della violenza ciclica Secondo questa prospettiva il genitore abusante è stato a sua volta abusato. L’esperienza familiare violenta crea le basi per un atteggiamento di sfiducia, diffidenza negli altri che inciderà sfavorevolmente sulle capacità relazioni e l’apprendimento di modelli parentali violenti porteranno ad attuare sui propri figli il medesimo comportamento violento subito. Ipotesi della vittima particolare Le caratteristiche peculiari del bambino designata come vittima suscitano nei genitori sentimenti di inadeguatezza e di rifiuto, frustrazione e rabbia che diventa violenza poiché richiedono molto in termini di risorse personali ad adulti evidentemente immaturi, impreparati ad affrontare le difficoltà del ruolo genitoriale. Secondo H. Kempe il maltrattamento sul bambino avviene per la presenza di quattro fattori: a)I genitori devono avere dei precedenti di carenza affettiva o fisica e forse anche di abuso b)il bambino deve essere visto come non attraente o spiacevole c)ci deve essere una crisi d) non esiste nessuna effettiva “lifeline” o possibilità di fere ricorso a fonti di aiuto immediato al momento della crisi[25]
2.2. La violenza psicologica E’ probabilmente la più diffusa, poiché presente, ad esempio contemporaneamente anche alle altre forme di abuso; ma è al più difficile da individuare poiché meno visibile. Di solito è piuttosto precoce e viene inflitta i modo regolare e sistematico sul figlio che potrà esprimere il suo disagio attraverso sintomi quali: 1. 2. 3. 4.
disturbi psicomotori, disturbi alimentari e del sonno; ritardi del linguaggio; difficoltà nei rapporti coi coetanei; difficoltà scolastiche. 139
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
140
Oppure i segni del maltrattamento psicologico verranno alla luce durante l’adolescenza attraverso: 1. 2. 3. 4.
psicosi anoressia mentale tossicomanie tentati suicidi
La violenza psicologica consiste in “pratiche o atteggiamenti che compromettono in modo immediato o a lungo termine il comportamento, lo sviluppo affettivo, le capacità cognitive o le funzioni psichiche del bambino”.[26] Forme di maltrattamento psicologico sono ad esempio “atteggiamenti di rifiuto, svalutazione, minaccia, isolamento, corruzione, indifferenza e in generale tutti quegli atteggiamenti che negano e non soddisfano i bisogni affettivi evolutivi del bambino. [27]” 2.3 La patologia della somministrazione delle cure Questa categoria di abusi riguarda quei casi in cui “i genitori, o le persone legalmente responsabili del bambino, non provvedono adeguatamente ai suoi bisogni, fisici e psichici , in rapporto al momento evolutivo e all’età”[28] Quando un genitore non è in grado di cogliere empaticamente e rispondere adeguatamente alle esigenze specifiche che il bambino presenta in un dato momento della sua crescita , potranno manifestarsi tre categorie cliniche:
Incuria quando le cure sono insufficienti; Discuria quando le cure vengono fornite ma in modo non adeguato e anacronistico; Ipercura quando vengono somministrate cure eccessive o sproporzionate ai bisogni.
Nell’ipercura vengono incluse: La Sindrome di Munchausen per procura in cui la madre, psicotica, considera il figlio come estensione del proprio corpo e lo sottopone a interminabili cure e ricoveri nella convinzione delirante che sia affetto da qualche patologia fisica. Il medical shopping che consiste in una versione meno grave della sindrome precedente poiché il genitore in questo caso soffre di disturbi nevrotici, soprattutto ipocondriaci che vengono spostati sul corpo del figlio che viene condotto da un medico all’altro, da un ospedale all’altro per controllo medici e analisi senza fine. Il chemical abuse che consiste nella tendenza del genitore a somministrare al figlio sostanze chimiche, farmacologiche e di altro tipo nella convinzione errata e delirante che ne abbia bisogno, provocando effetti molto nocivi alla sua salute.
2.4. La violenza sessuale La violenza sessuale all’interno della famiglia è più diffusa di quanto si creda. Secondo dati Censis per il ‘98 vi è 1 caso di abuso circa ogni anno ogni 400 bambini; per due terzi si tratta di abusi 140
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
141
sessuali che avvengono tra le mura domestiche ad opera di famigliari o conoscenti; incide sulla possibilità di un rilevamento attendibile di tali reati, la tendenza della vittima a nascondere la violenza. Il particolare contesto in cui la violenza si consuma, infatti, condiziona fortemente le possibilità della vittima di ribellarsi o di denunciare l’aggressore: l’omertà familiare, la vergogna, i sensi di colpa e più o meno impliciti ricatti affettivi, favoriscono il segreto e, così, l’accrescere del numero oscuro. Se la vittima di abuso sessuale è il coniuge o comunque un adulto, la legge punisce tali reati attraverso la legge n°66 del 1996, art.609bis (Violenza sessuale): “Chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.” Anche in assenza di violenza, viene considerata illecita, dal nostro codice penale, la congiunzione carnale tra consanguinei, considerando una aggravante la relazione incestuosa; infatti l’ art. 564 (“Incesto”) recita: “Chiunque in modo che ne derivi pubblico scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o un affine in linea retta, ovvero con una sorella o un fratello, è punito con la reclusione da uno a cinque anni. La pena della reclusione da due a otto anni nel caso di relazione incestuosa. Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, se l’incesto è commesso da persona maggiore d’età, con persona minore degli anni diciotto, la pena è aumentata per la persona maggiorenne. La condanna pronunciata contro il genitore comporta la perdita della potestà dei genitori.” E’ utile ricordare che il reato di incesto fa parte dei “Delitti contro la famiglia” (Titolo XI) e in particolare dei “Delitti contro la morale familiare”, cioè non si reprime il comportamento incestuoso di per sé, ma solo in quanto fonte di pubblico scandalo che si “determina quando la realazione incestuosa viene conosciuta da un numero imprecisato di persone a causa di comportamenti incauti o addirittura ostentati oppure per la manifestazione di segni palesi incontrovertibili quali la gravidanza o il parto”[29]. Oltre a questa condizione, deve esserci volontarietà del rapporto e consapevolezza del vincolo di consanguineità, in caso contrario si configurerebbe incesto innocente. [30] Se l’abuso sessuale coinvolge come vittime i minori, il reato presenta maggiore gravità in quanto la condizione di dipendenza fisica e psicologica del bambino nei confronti dei suoi genitori o dell’ascendente lo pone in una condizione di maggiore vulnerabilità di cui l’adulto può facilmente approfittare grazie al ruolo privilegiato che ricopre nei suoi confronti; infatti la violenza sessuale sui minori viola non solo la libertà di determinazione dell’individuo, nelle sue scelte sessuali, ma viola anche la fiducia e le naturali aspettative di attenzione cura ed affetto che il bambino nutre nei genitori, creando in lui una confusione di ruoli e di limiti che potranno avere delle importanti ripercussioni sul suo futuro sviluppo psicoaffettivo . Questo anche in assenza di uso esplicito di violenza o coercizione; in molti casi infatti l’abusante, proprio in virtù del suo ruolo di genitore o di adulto di riferimento per il bambino, riesce ad ottenere con facilità il consenso (o “pseudoassenso” sarebbe più corretto dire) da parte della sua vittima, tramite l’uso di lusinghe, promesse, ricatti o velate minacce. Malacrea e Vassalli riportano la descrizione di Sgroi, Blick e Porter[31] delle varie fasi dello sviluppo dell’incesto in cui fanno precedere al momento dell’interazione sessuale vera e propria, la fase detta appunto dell’adescamento in cui “il genitore incestuoso ricerca attivamente le condizioni per mettere in atto la seduzione , costruisce un rapporto privilegiato con la vittima e crea 141
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
142
le circostanze che gli consentono un contatto con la stessa, al riparo dagli altri membri della famiglia. [….]I mezzi di convincimento variano da un approccio ludico e subdolo, accompagnato da regali o altro, fino alla violenza fisica, alle minacce e alla coercizione” Anche per questi motivi la nostra legislazione prevede una serie di articoli, appositamente formulati per i casi in cui venga coinvolto un minore, ad es la succitata L 66 del ’96 include: l’art.609ter (Circostanze aggravanti del reato di violenza sessuale) che prevede la pena di reclusione dai sei ai dodici anni quando, tra gli altri casi, la violenza sessuale viene compiuta su a)minore di quattordici anni b)minore di sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore; mentre la reclusione diventa da sette a quattordici anni se la vittima non ha compiuto dieci anni; L’art. 609quater (Atti sessuali con minorenne) che punisce con una reclusione da cinque a dieci anni: “..chiunque compia atti sessuali con persona che, al momento del fatto 1)non ha compiuti quattordici anni 2)non ha compiuto sedici anni quando il colpevole sia l’ascendente, il genitore anche adottivo, il tutore ovvero altra persona cui, per ragioni di cura, di educazione , di istruzione, di vigilanza o di custodia, il minore è affidato, o che abbia con quest’ultimo, una relazione di convivenza…”. La pena è aumentata se il minore non ha compiuto dieci anni. Infine all’art. 690quinques (Corruzione di minorenne) si prevede anche che: “Chiunque compie atti sessuali in presenza di persona minore di anni quattordici, al fine di farla assistere, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni”. Infine la stessa legge introduce un’altra novità importantissima perché prevede con l’art. 609decies (Comunicazione al tribunale per i minorenni) che il Procuratore della Repubblica nel caso in cui proceda per i reati descritti, ne debba dare notizia al Tribunale dei Minorenni in modo da attivare tempestivamente gli interventi di tutela del minore contemporaneamente e in accordo con quelli rivolti al perseguimento penale del colpevole. Infine è previsto (art.398, comma 5bis) che , ove tra le persone interessate all’assunzione della prova vi siano minori di anni sedici, il giudice stabilisce il luogo, il tempo e le modalità particolari attraverso cui procedere all’incidente probatorio, quando le esigenze del minore lo rendono necessario e opportuno.. A tal fine l’udienza può svolgersi anche in un luogo diverso dal tribunale, avvalendosi il giudice, ove esistano, di strutture specializzate di assistenza o, in mancanza, presso l’abitazione dello stesso minore.Le dichiarazioni testimoniali devono essere documentate integralmente con mezzi di riproduzione fotografica o audiovisiva. Quando si verifica una indisponibilità di strumenti di riproduzione o di personale tecnico, si provede con le forme della perizia ovvero della consulenza tecnica. 142
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
143
Riassumendo, le diverse condotte delittuose riconducibili all’abuso sessuale intrafamiliare punite dalla Legge italiana sono: Violenza sessuale
Incesto (congiunzione carnale/relazione tra consanguinei) Esibizionismo (art.609 quinquies “corruzione di minorenne) Sfruttamento della prostituzione minorile Pornografia minorile
Questi ultimi due reati, accanto al fenomeno del turismo sessuale, rappresentano tre forme di sfruttamento sessuale dei minori che in realtà, avvengono in maggioranza all’esterno della famiglia; lo sfruttamento Lo sfruttamento a fini pornografici del bambino si correla però spesso con condizioni di degrado culturale ed economiche sfavorevoli della famiglia, cosicché ci può essere la complicità dei genitori stessi in questo tipo di reato Ma, sia nel caso dello sfruttamento della prostituzione che in quello pornografico, difficilmente si tratta di casi singoli e d isolati; per la maggior parte essi sono espressione di un vero “mercato “ degli abusi, in cui sono soprattutto delle organizzazioni criminali, locali, di importazione o internazionali che regolano il traffico sessuale. Con il famoso “Affaire Dutroix”, l’opinione pubblica europea ha acquisito consapevolezza, in maniera traumatica, di un fenomeno fino ad allora poco conosciuto: l’esistenza di vere e proprie reti criminali attraverso le quali il “consumo” dei bambini è promosso e organizzato. Si è poi realizzato che non si trattava soltanto di consumo “carnale” ma di un fenomeno se possibile più grave, di sequestro ed eliminazione fisica dei bambini, e ancor più il coinvolgimento di nomi eccellenti, di complicità importanti che ha reso anche dubbia la reale efficacia punitiva di questi reati.[32] Anche il turismo sessuale da qualche anno è diventato un’attività “imprenditoriale” redditizia per alcune organizzazioni criminali che organizzano viaggi verso paesi sudamericani e asiatici per “turisti del sesso” che, una volta rientrati nel proprio luogo di residenza, potranno voler ripetere l’esperienza, slatentizzando quindi comportamenti pedofili e instaurando una consuetudine illecita con altri bambini. Quali sono i motivi dell’incesto? Non è possibile identificare un’unica causa alla base dell’incesto. Più verosimilmente possiamo ritenere che diversi fattori concorrano a sviluppare una dinamica incestuosa, fattori che possiamo distinguere in: fattori interni, ambientali, socioculturali, familiari [33] I fattori interni sono quelli attribuibili essenzialmente alle caratteristiche dell’aggressore, soprattutto in termini di personalità, di psicopatologia o devianza. Una tipologia del padre incestuoso distingue in ( Barry, 1985): “Il tiranno”: autoritario e dominatore, controlla i figli impedendo loro di frequentare il “mondo esterno”, gelosissimo della figlia tanto da isolarsi e isolarla. Il razionalizzatore prova sensi di colpa par il proprio comportamento incestuoso, per cui cerca delle giustificazioni razionali che lo possano spiegare, come il fatto che esso esprime l’affetto che prova verso la figlia e l’intento di fornirle una educazione sentimentale/sessuale. L’introvertito è colui che cerca nella famiglia la soddisfazione per tutti i suoi bisogni. Il suo mondo è la propria casa nel quale si isola e che vive come un rifugio 143
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
144
rispetto le pressioni e le responsabilità che i rapporti interpersonali comportano. L’alcolizzato cerca conforto nell’alcol per le proprie frustrazioni, ha una personalità dipendente e i momenti di intossicazione diventano un alibi per soddisfare i propri desideri sessuali con la figlia. Fattori ambientali Condizioni di trascuratezza, isolamento e sovraffollamento sono elementi che incidono sulla probabilità di incesto. Soprattutto la coabitazione in un ambiente stretto di tutti i membri della famiglia, l’annullamento della “privacy” e della possibilità della riservatezza tra i membri che può essere forzata (come nei casi di stato di indigenza della famiglia stessa) ma anche scelta dai genitori come nel caso della cosiddetta “sindrome delle porte aperte” in cui tutti possono guardare gli spazi altrui ed è sostenuta spesso da una ideologia di “apertura” nei confronti la sessualità. Fattori socioculturali E’ uno stereotipo poco verosimile quello per cui la famiglia incestuosa sia svantaggiata sul piano sociale ed economico. Molti padri incestuosi sono dei professionisti affermati, cittadini rispettabili e perfettamente integrate nella comunità. Una bassa condizione sociale e una bassa possono al limite incidere sulla probabilità di incorrere nelle maglie del controllo istituzionale e di offrire una maggiore visibilità sociale. Per Merzagora[34] è l’elemento culturale ad essere maggiormente significativo, soprattutto l’appartenenza ad una sottocultura, dove la violenza è usata correntemente e quindi accettata e perseguita anche in ambito familiare. Fattori familiari Sarebbe inutile considerare i fattori precedenti se si escludessero quelli relativi alle dinamiche familiari; si tratterebbe di una famiglia “patologica”, o “disfunzionale” dove l’incesto è utilizzato al fine di gestire il conflitto, di mantenere l’unità familiare, soddisfare in maniera contorta i bisogni affettivi, pratici e sessuali dei membri; una famiglia “endogamica” che tende scoraggiare ogni rapporto con l’esterno nella convinzione che costituisca una minaccia o una fonte di frustrazione e che il gruppo famigliare soddisfi tutti i bisogni al suo interno. 2.5 L’infanticidio e il figlicidio La violenza sui figli a volte può raggiungere gradi estremi e trasformarsi in omicidio. Avremmo allora un figlicidio o, se il bambino è un neonato, un infanticidio. L’infanticidio e l’abbandono sono pratiche esistite da sempre e ancor oggi drammaticamente diffuse. Spesso sono state utilizzate come forma di controllo demografico delle nascite. Nella Grecia antica ad esempio i bambini deformi venivano gettati dalla Rupe ; oppure nella Roma imperiale esisteva un luogo (Columna Lactaria) dove si raccoglievano le balie per allattare i bambini che venivano abbandonati. Per quanto riguardo l’infanticidio esso rimane ancora oggi un modo per evitare una maternità indesiderata, basti pensare ai frequenti casi di neonati nel “cassonetto” della spazzatura. D’altra parte anche il mito abbonda di casi di neonati abbandonati e sacrificati; pensiamo alla strage degli innocenti ordinata da Erode, al mito di Romolo e Remo, o quello di Kronos che divora i suoi figli. Non a caso viene utilizzato 144
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
145
proprio il riferimento ad un personaggio della mitologia greca per indicare un fenomeno particolare di figlicidio. Si indica con il nome di “complesso di Medea” una particolare situazione in cui la madre uccide i propri figli per nuocere al coniuge, ricalcando le gesta del personaggio mitico che uccise appunto le sue due figliolette per vendicarsi del tradimento di Giasone. Si tratta di casi in cui si riscontra sempre una situazione di coppia conflittuale; a volte la donna è vittima dei maltrattamenti del marito, ma quasi sempre i loro dissapori riguardano i figli, quest’ultimo diventa l’oggetto della violenza della madre che non riesce a riversare sul marito; inoltre l’eliminazione del figlio ha l’obiettivo di produrre sofferenza al coniuge oppure di evitare sofferenze al bambino affinché non ripercorra le stesse vicende esistenziali della madre[35]. E’ interessante notare come nell’omicidio in genere si può rilevare una prevalenza maschile nel sesso dell’autore dei delitti, nei casi di omicidio di familiari non legati da vincoli sessuali, come i figli, la donna prevale in frequenza numerica tra gli assassini. Emergerebbe cioè che tra le donne risultano elevati i reati relativi al figlicidio e all’infanticidio caratterizzati da un forte vincolo affettivo primario tra autore e vittima, mentre sono molto scarsi quelli relativi al parricidio, al parenticidio e al matricidio[36]. Non solo. In base all’applicazione dell’art. 88, in buona parte gli autori di questo tipo di reati (infanticidio e figlicidio) vengono giudicati infermi di mente e quindi incapaci di intendere e di volere.[37] Dal punto di vista giuridico l’infanticidio viene considerato con maggiore indulgenza rispetto ad altre forme di reato, anche rispetto al figlicidio. Vengono previste attenuanti nei casi in cui l’omicidio del bambino avvenga “immediatamente dopo il parto” ritenendo la fase puerperale una particolare condizione della donna , fisica e psichica, transitoriamente alterata[38]. Alcuni studi descrivono la personalità della donna infanticida come caratterizzata da depressione, distacco affettivo, tendenza all’actingout, alterazione della realtà, ecc. ma riconoscono anche il peso in questi reati di particolari condizionamenti ambientali che può subire la donna in determinate condizioni sociali, culturali ed economiche in cui viene a trovarsi. Soprattutto quando vivono in condizioni economicamente disagiate o devono affrontare da sole il parto e il puerperio, quando hanno conflitti con il partner o hanno tenuto celata la gravidanza o ancora sono state colte inaspettatamente dalle doglie e partoriscono senza assistenza. Molte infanticide infatti tengono nascosta la gravidanza, per diversi motivi, la gestiscono in maniera spesso inconsapevole, quasi negandola alla coscienza; poi partoriscono fuori casa, in solitudine e abbandonano il neonato che muore per i traumi, per il freddo o per mancata assistenza; il ricovero delle madri in ospedale per le conseguenze del parto consentono spesso la scoperta del reato. La violenza sui genitori 4. 1.Il parenticidio[39] Il parenticidio consiste nell’omicidio di entrambi i genitori da parte di un figlio. Si differenzia in tal senso dal semplice parricidio o matricidio ma la nostra legislazione non prevede una fattispecie criminosa specifica come invece altri paesi europei quale ad esempio la Francia, e viene fatto rientrare nel reato di omicidio multiplo, quindi viene considerata una circostanza aggravante dell’omicidio. Negli ultimi venti anni i casi di parricidio sono aumentati sensibilmente; c’è stata una flessione nella seconda metà degli anni 80 ma poi il numero di parricidi è addirittura raddoppiato. Quest’andamento non ha riguardato omogeneamente tutta l’Italia: nel Nord si concentrano la 145
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
146
maggior parte dei casi (soprattutto Lombardia , Liguria e Veneto), seguono poi le regioni meridionali e quelle centrali. IL parenticida è generalmente di sesso maschile e di giovane età (età media di 29 anni). Anche in questo caso varia la distribuzione geografica relativa all’età dell’omicida: al Nord prevarrebbe il parricida al di sotto dei 25 anni mentre al Sud la maggior parte degli omicidi viene commessa da adulti. La vita affettiva e relazionale del parenticida è generalmente scarsa, non ha una vita di coppia o una situazione familiare stabile. E’ interessante notare che si tratta di soggetti prevalentemente disoccupati o con un lavoro precario: solo una piccola percentuale (il 20% circa) infatti può godere di una certa autonomia economica, svolgendo una regolare professione. Questo dato ci introduce al problema del movente e mette in luce l’importanza dell’interesse economico tra le ragioni che muovono tale delitto. Pensiamo al famoso caso di Pietro Maso del 1991, e quanto proprio l’aspetto strumentale e materiale di tale omicidio abbia sconvolto l’opinione pubblica. Pensiamo anche alla situazione di dipendenza in cui i giovani adulti si trovano attualmente dato che si sono socialmente allungati i tempi in cui è data loro la possibilità di rendersi autonomi dalla famiglia: frustrazioni e miti di benessere economico elevati possono aumentare in questa convivenza forzata, le possibilità di tensione e conflitto familiare, e l’eliminazione fisica dei genitori può rappresentare un “giusto” mezzo per ottenere ciò che si vuole ottenere senza troppi sacrifici. C’è da precisare, a tale proposito, che i parenticidi avvengono in famiglie appartenenti sia ad un livello economico mediobasso: padri pensionati, operai o impiegati con madre casalinga; sia ad un livello medioalto, dove i genitori generalmente lavorano entrambi, specie con un lavoro autonomo di tipo imprenditoriale. Le motivazioni di un parricidio però non si esauriscono nell’interesse economico; possono esserci infatti motivi di litigiosità familiare “cronica”, dove prevalgono i parenticidi compiuti da adolescenti e giovani al di sotto dei 25 anni ; e motivi legati alla presenza di patologie psichiatriche gravi presenti nell’omicida. Si tratta principalmente di sindromi schizofreniche e più raramente di depressioni gravi; può trattarsi a volte anche di tossicodipendenza o alcolismo cronico. Questa categoria di moventi, quella in cui si può rinvenire un disturbo patologico nell’omicida, è quella maggiormente rappresentata in termini percentuali (30% circa). Però non si deve credere che l’omicidio avvenga in modo improvviso e incontrollato; la dinamica dei parenticidi spesso mette in luce una lunga e attenta preparazione, tentativi di occultamento dei cadaveri e l’utilizzo di armi ben poco casuali quali rivoltelle e armi da punta e taglio e in minor misura corpi contundenti come martelli, bastoni ,e pietre. Le vittime solitamente sono solo i due genitori; capita però che l’omicidio venga esteso anche ad altri membri della famiglia, ad esempio i fratelli minori (vedi il caso Carretta), anche perché spesso il parenticida, quando non è figlio unico, e un primogenito. Questo dato vittimologico ci introduce ad un'altra forma di omicidio domestico che si differenzia sia dall’uxoricidio che dal parenticidio. Si tratta di quei casi in cui un familiare uccide tutti i membri della propria famiglia, nucleare o allargata in una unica occasione. Si potrebbe parlare “omicidio di massa familiare” che spesso si conclude con il suicidio dell’omicida. Questi, per la maggior parte, risulta essere di sesso maschile, ha un’età compresa tra i 2954 anni e può soffrire spesso di sindromi depressive anche gravi. Il suo gesto può avere un significato rivendicativo, oppure rappresentare un tentativo delirante di preservare le sue vittime (quasi sempre moglie e figli) dalle sofferenze di una esistenza e di un mondo vissuti come minacciosi e senza vie di scampo. In Italia queste stragi familiari si verificano in prevalenza nel mezzogiorno, soprattutto nella provincia e si intensificano a partire dal 1995. 146
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
147
Riferimenti bibliografici: AA.VV. “Vivere per Uccidere. Anatomia del serial killer” Calusca Edizioni,Padova,1997 Ammaniti M. et Al., “Il bambino maltrattato”, il Pensiero Scientifico, Roma, 1981 Cesa – Bianchi M. (a cura di): “La violenza sui bambini”, Franco Angeli, Milano, 1993; Cirillo S.: “La famiglia maltrattante”, Cortina Editore, Milano, 1996; De Cataldo Neuburger L. (a cura di): “La criminalità femminile tra stereotipi culturali e malintese realtà”, CEPAM, Padova, 1996; Ferracuti F. (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè, Milano, 1988, vol VIII. Gulotta: “Famiglia e violenza.Aspetti psicosociali”, Giuffrè, Milano,1983 Kempe H., Kempe R.S., “ Le violenze sul bambino”, Sovera Multimedia, Roma, 1980 Mastronardi: “Manuale per operatori criminologici e psicopatologi forensi”, Giuffrè, Milano, 1998; Merzagora I., “L’incesto. Aggressori e vittime, diagnosi e terapia”, Giuffrè,Milano,1986 Minuchin S., “Quando la famiglia guarisce”, Rizzoli, Milano, 1993 Montecchi F. (a cura di): “I maltrattamenti e gli abusi sui bambini”, Franco Angeli, Milano, 1998; Malacrea M., Vassalli A., “Segreti di famiglia. L’intervento nei casi di incesto”, Cortina, Milano, 1990 Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina, Milano, 1990 Atti del Convegno “pedofilia e internet”, Roma 27 Ottobre 1998 [1] Ferracuti F. (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè, Milano,1988, vol VIII. [2] Ponti G., “Compendio di criminologia”, Cortina, Milano, 1990 [3] Gulotta G., “Famiglia e violenza. Aspetti psicosociali”, Giuffrè, Milano, 1983 [4] Ibidem 147
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
148
[5] Ibidem [6] Ibidem [7] Ferracuti F., (a cura di), 1988, op. cit., pag 112 [8] Gulotta G., 1983, op. cit [9] Gulotta G., 1983, Op. cit. [10] Gulotta G., 1983, Op. cit [11] Ibidem [12] Ferracuti F. (a cura di), 1988, op. cit, pag111 [13] Gelles R. J., « Abused Wives », cit in Gulotta G., op. cit., pag 9394 [14] Minuchin S., “Quando la famiglia guarisce”, Rizzoli, Milano, 1993, pag 77 [15] AA.VV. “Vivere per Uccidere. Anatomia del serial killer”, Calusca Edizioni, Padova,1997, pag 112 [16] Da “La Repubblica”, Luglio 1998 [17] Ibidem [18] A. V. “Vivere per uccidere. Anatomia di un serial killer”, Calusca edizioni, Padova, 1997, pag 118119 [19] Ibidem [20] Ammaniti M. et Al., “Il bambino maltrattato”, il Pensiero Scientifico, Roma, 1981 [21] Montecchi F., “I maltrattamenti e gli abusi sui bambini”, FrancoAngeli, Milano, 1998, pag 23 [22] Kempe H., Kempe R.S., “ Le violenze sul bambino”, Sovera Multimedia, Roma, 1980 [23] Ibidem [24] Cesa – Bianchi M. (a cura di): “La violenza sui bambini”, Franco Angeli, Milano, 1993; [25] Kempe H, Kempe R.S., 1980, op. cit., pag 42 [26] CesaBianchi M., Scabini E. (a cura di) 1993, op. cit pag157 148
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
149
[27] Ibidem [28] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 74 [29] Montecchi F., 1998, op. cit., pag 207 [30] Ibidem [31] Malacrea M., Vassalli A., “Segreti di famiglia. L’intervento nei casi di incesto”, Cortina, Milano, 1990, pag33 [32] Atti del Convegno “pedofilia e internet”, Roma 27 Ottobre 1998 [33] F. Ferracuti, (a cura di) “Trattato di criminologia, medicina e psichiatria forense” , Giuffrè, Milano,1988. [34] Merzagora I., “L’incesto. Aggressori e vittime, diagnosi e terapia”, Giuffrè, Milano,1986 [35] De Cataldo NeuburgerL (a cura di): “La criminalità femminile tra stereotipi culturali e malintese realtà”, Cepam, Padova,1996 [36] Ibidem, pag244 [37] Capri P., Lanotte A. in De cataldo Neuberger L., 1996, Op. cit., pag143150 [38] Ibidem [39] I dati riportati in questo paragrafo sono state tratte da una ricerca riportata in Piacentini F. “Il parenticidio. Quando la famiglia produce morte”, in AA.VV “Vivere per uccidere”, Calusca Ed., Padova 1997, pag109119 LE DROGHE SINTETICHE Introduzione Le nuove droghe di sintesi rappresentano, in questo breve saggio, il terreno di incontro in un’ottica tipicamente multidisciplinare di competenze scientifiche diversificate, criminologiche, giuridiche, farmacologiche ed epidemiologiche. Questa area tematica, relativamente nuova poiché attinente a fenomenologie emerse nel mondo da poco più di un ventennio (e in Italia dalla seconda metà degli anni ’80), trova una grande attualità in tempi recenti, sia in termini di evidenza “da parte dei media” e sia in termini di preoccupazione da parte della comunità scientifica internazionale a causa dell’andamento esponenziale del trend di diffusione e del modesto timore nei confronti della sostanza che la maggior parte dei consumatori sembra manifestare. Tale contesto sembra poter autorizzare, per un futuro prossimo, previsioni abbastanza allarmistiche in termini quantitativi e impone una maggior attenzione nei confronti di strategie preventive mirate, attuate anche mediante 149
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
150
percorsi di ricerca scientifica nei confronti delle aree sociali quelle giovanili maggiormente a rischio. Molto probabilmente, il settore delle droghe di sintesi costituirà, nell’ambito del “pianeta droga” quello a maggior espansione nel terzo millennio. Aspetti criminologici 1. Generalità. L’estasy (o MDMA) costituisce la sostanza più nota di una nuova classe di droghe sintetiche[1] definite "entactogene" o "empatiche" in quanto, tra i vari effetti, inducono una certa facilità ed empatia nei rapporti sociali riducendo le inibizioni culturali e provocando artificialmente una certa intimità e un'accresciuta capacità di comunicazione. Inventata nel 1913 nei laboratori tedeschi della Merk per ridurre l'appetito e la fatica fu successivamente sperimentata dall'esercito USA nel 1953 come stimolante ma fu rapidamente abbandonata per i "bizzarri" effetti collaterali allucinogeni imprevedibili e talvolta estremamente pericolosi. Il suo uso, prevalentemente ricreazionale, nel nostro Paese si osserva a partire dalla seconda metà degli anni 80', soprattutto tra i frequentatori di discoteche e, tale diffusione, sembra essere in notevole incremento nonostante sia stata classificata come sostanza illegale e nonostante la conclamata neurotossicità della molecola. L'elevata pericolosità sociosanitaria dell’ecstasy, così come documentato da numerose ricerche, sembra essere legata proprio all'espansione rapida e difficilmente controllabile (se non attraverso indicatori secondari come ad esempio il numero degli incidenti di macchina in certi orari e in certi luoghi) del fenomeno in diversificate aree sociali con una certa prevalenza di consumatori di età molto giovane. Infatti, secondo qualificate fonti scientifiche, le alterazioni psicocomportamentali indotte dall'assunzione di sostanze psicotrope sintetiche possono determinare autolesioni di tipo accidentale di varia natura (incidenti stradali, infortuni sul lavoro ecc.) dovute principalmente al comportamento bizzarro ed alle anomalie percettive che tali molecole inducono[2]. 2. Il consumo Il problema delle cosiddette droghe chimiche o stimolanti di sintesi si sta proponendo come preoccupante ed attuale cosi come si può anche evincere dal notevole interesse che viene loro rivolto da molteplici organi di stampa nazionali ed esteri. Il consumo di ecstasy ed altre droghe sintetiche a base amfetaminica, in svariate aree del mondo, è infatti pressoché raddoppiato dal 1991 ad oggi[3], pur non avvicinandosi, quantitativamente, ad altre sostanze psicotrope con diffusione maggiore e più strutturata (eroina, cocaina e derivati della marijuana). Tale incremento sembra essere correlato, oltre che a naturali tendenze subculturali e di mercato illegale, anche al notevole calo del consumo di eroina specie negli USA dovuto alla levitazione del prezzo di vendita al minuto e al timore generalizzato del contagio da AIDS che sempre più è ascritto alle droghe iniettabili. Secondo il Ministero della Sanità[4], infatti, la percentuale di consumo di ecstasy in Italia sembra salire in modo vertiginoso a giudicare dai sequestri di sostanza e, in diversi ambiti scientifici, è stato più volte affermato che, in generale, l'aumento delle droghe di sintesi sul mercato internazionale, è stato oggetto di una notevole sottovalutazione che ha portato ad uno sviluppo incontrollato del fenomeno, combattuto poco e male dal punto di vista sia della repressione che 150
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
151
della ricerca. L'attuale fortuna delle droghe di sintesi sembra quindi essere correlata a numerosi fattori interagenti tra loro. In primo luogo hanno un costo contenuto rispetto alle altre sostanze più tradizionali (una pasticca viene venduta per poche decine di migliaia di lire) e si pongono in competizione addirittura con sostanze psicoattive di tipo legale come ad esempio i superalcolici. In secondo luogo gli effetti dell’ecstasy sono molto evidenti, al contrario di quelli della marijuana, e possono quindi essere percepiti anche da consumatori occasionali ed inesperti. La maggior parte delle droghe sintetiche, infine, consentono una "trasgressione" ben limitata nel tempo con minori rischi sociali di individuazione avendo degli effetti temporalmente definiti, fatto salvo per alcuni effetti di "flash back" (riattivazione della sostanza con allucinazioni a distanza di molto tempo dall'assunzione)[5] e riducendo, di conseguenza, i rischi di stigmatizzazione[6]. Alcuni tra i principali effetti descritti nell’ambito delle droghe sintetiche a base anfetaminica, come ad esempio la “sensazione di vicinanza agli altri, l’euforia, la fiducia in se stessi, l’aumento della percezione sensoriale e altro ancora, sembrano sposarsi con le pressanti richieste dell’attuale social system, in special modo per ciò che attiene alle rappresentazioni sociali diffuse in termini di adeguatezza comunicazionale e in termini di continuo aggiornamento del sé alle stimolazioni culturali. L’efficienza psico fisica e l’abilità nelle relazioni interpersonali costituiscono due peculiarità che nell’immaginario collettivo corrente (occidentale e postindustriale) vengono ascritte all’uomo e alla donna di successo e connotate, in genere, positivamente. E tale contesto, secondo quanto documentato dai maggior esperti ed osservatori del mutamento sociale, appare in una fase di ulteriore definizione ed esasperazione, in tutti i comparti della vita umana organizzata (lavoro, studio, cultura, svago ecc.). In termini meramente ipoteticoprevisionali, quindi, essendo il successo dell'ecstasi specie nel mondo notturno delle discoteche riconducibile in primo luogo alla sua capacità di rispondere alle esigenze di molti giovani che vivono una certa difficoltà di rapporti sociali prodotta dal nostro tempo ed essendo tale difficoltà di "comunicazione diretta" uno degli elementi maggiormente ipotizzati per il futuro dagli scienziati sociali internazionali, si può agevolmente presupporre che la questione delle droghe di sintesi possa rappresentare una delle emergenze sociosanitarie di punta nel decennio prossimo. La capacità di comunicazione e l’efficienza, in base alle tendenze delle principali strutture e dinamiche sociali, sembrano infatti proporsi per il prossimo futuro in condizione di sempre maggior valorizzazione e con esse, probabilmente, anche tutto ciò che a vario titolo sembra facilitarle, compresa l’illusione degli stimolanti di sintesi. Aspetto di notevole importanza, in quest’ottica, è costituito dalla notevole differenza, in termini psicologici, che, a nostro avviso, è individuabile tra i consumatori di ecstasy e tra i consumatori di oppiacei e di derivati della cannabis. La differenza fondamentale è riferibile al diverso modo di porsi nei confronti del mondo, dell’altro generalizzato, del proprio sé. Chi assume anfetaminici di sintesi, infatti, cerca di, procurarsi una valida interfaccia con una realtà ritenuta probabilmente irraggiungibile con le proprie forze, ma la sua trasgressione è reversibile e temporizzata e, al termine dello sballo, c’è ancora il vecchio e caro mondo in cui si può rientrare senza troppi guai. Assumere ecstasy (detto anche nel gergo delle discoteche giuggiola, vanessa, bicicletta) fornisce, a basso costo, un’illusione di onnipotenza e contrasta i deficit di autostima assai diffusi tra le fasce giovanili europee. Tale comportamento sembra andare in direzione opposta rispetto al consumo di droghe “di fuga”, come gli oppiacei e, in misura minore, i derivati della cannabis, il cui consumo vista anche la maggiore riconoscibilità sociale che inducono in un certo senso implica una sorta di rinuncia alla competitività sociale e l’autoconfinazione in un recinto 151
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
152
subculturale nella cui direzione, la maggior parte delle anticipazioni mentali più o meno consapevoli degli effetti dell’azione, configurano scenari di stigmatizzazione e criminalizzazione e, in generale, di esclusione. Altro fattore di diversificazione importante è rappresentato dal fatto che l’approccio agli anfetaminici di sintesi è solitamente collettivo, al contrario degli oppiacei iniettabili, il cui consumo è, viceversa, di solito individuale o al massimo di piccoli gruppi. Già negli anni ‘80 infatti, dall’inizio della sua diffusione in Europa, il carattere aggregativo dell’ecstasy appare evidente e la sua immagine si diffonde attraverso delle circostanze ricreative collettive. E’ il caso dei RAVE PARTY assai famosi in USA e successivamente importati in Gran Bretagna che si tenevano, e si tengono, in fabbriche abbandonate e in altri luoghi non elettivamente destinati alla socialità, attraverso uno specifico sistema di inviti (volantini, annunci di radio private, “passa parola”). Nell’ambito dei RAVE PARTY si definiscono anche dei generi musicali in grado di fornire spinte sinergiche alle nuove droghe sintetiche, come la HOUSE MUSIC e la TECNO MUSIC, che contengono ritmi di circa 200 battute per minuto e, con la loro “ossessiva” frequenza, orientano la percezione degli effetti di tali sostanze. Non si vuole affermare che una qualsivoglia produzione artisticomusicale sia in qualche modo studiata in direzione dell’assunzione di ecstasy ma certi ritmi ossessivi, espressione artistica della moderna società informatizzata, di fatto assumono il carattere di uno sfondo “ad hoc” per il consumo di tali sostanze. Rispetto alle aree sociali tradizionalmente interessate al consumo di droghe, sufficientemente conosciute nel contesto scientifico e in quello istituzionale preposto alla prevenzione, per le droghe sintetiche sembra quindi delinearsi un nuovo pubblico di assuntori le cui caratteristiche, viceversa, sembrano sfuggire ai tentativi di classificazione e localizzazione statistica consueta ed alla consequenziale definizione dell'oggetto delle campagne preventive e repressive. Quelle infatti che normalmente vengono definite le "concause" che concorrono insieme a quelle psicologiche e relazionali a favorire l'accostamento di un individuo alla droga (emarginazione, insoddisfazione, noia, inadeguatezza sociale ecc.) sembrano essere soppiantate da fattori più sfumati e talvolta occasionali costituendo un quadro che ha preso alla sprovvista le strutture preposte alla prevenzione e alla repressione del fenomeno. 3. I fattori di rischio Secondo il parere di una cospicua parte della comunità scientifica internazionale, l'ecstasi non porta ad un uso frequente e regolare dato che il desiderio della sostanza (craving) sembra essere principalmente legato all'insorgere di effetti "positivi" (buon umore, intimità, energia ecc.) e tali effetti positivi o piacevoli diminuiscono con l'uso frequente o massivo di questa droga. Tale quadro potrebbe indurci consequenzialmente ad ipotizzare un incremento futuro del trend di consumo di tipo orizzontale, limitato nella quantità e frequenza da parte dei consumatori che per così dire si autolimitano per mantenere un piacevole rapporto con la sostanza ma implementato, per ciò che attiene all'area dei nuovi consumatori, dall'inserimento di individui che vengono in contatto con l’area subculturale degli “abituali” e da loro apprendono come soddisfare il loro bisogno di trasgressione assumendo un rischio minore rispetto all’uso di altre droghe. In realtà, infatti, anche se i media sono stati, specie negli ultimi tempi, prodighi di notizie sulle reazioni negative dell'ecstasi, di fatto queste reazioni sono molto rare. Le manifestazioni estreme degli effetti collaterali (morte, psicosi tossica, cardiopatie), sono spesso scatenate dal precipitare di alcuni fattori come malattie 152
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
153
preesistenti o insorgono per l'assunzione di dosi eccessivamente elevate o combinate con altre droghe o sono correlate alle condizioni particolari di alcune discoteche (temperatura eccessiva)[7]. Particolarmente diffuso sembra infatti essere, tra i consumatori di droghe sintetiche, quello che è stato definito fenomeno di “autocura”, l’abitudine, ovvero, di assumere, nel corso di un breve intervallo di tempo (di solito da quando la sera si giunge in discoteca fino alle prime luci dell’alba) una serie di sostanze psicotrope in modo da accentuare gli effetti gradevoli e per diminuire gli effetti collaterali sgraditi. Si può ad esempio assumere alcool ed ecstasy per “sballare” e dopo qualche ora cocaina per limitare il senso di prostrazione che solitamente insorge dopo qualche ora dall’assunzione delle prime due droghe e altro ancora. Nella maggior parte dei casi, i maggiori rischi di patologie acute sembrano essere correlati proprio a queste assunzioni di più droghe in contemporanea o in progressione, definite dagli addetti ai lavori come “cocktails”. Per quanto riguarda viceversa le conseguenze a lungo termine (che rappresentano il fattore di rischio sanitario maggiore), soprattutto per ciò che attiene al deterioramento di organi ed apparati nel caso di un uso prolungato nel tempo di ecstasi, le valutazioni scientifiche sono assai più caute ma tendono a una generale preoccupazione anche in considerazione della scarsezza vista la giovinezza del fenomeno di precisi e qualificati riscontri empirici[8]. Una parte della tossicità delle droghe di sintesi sembra inoltre essere correlata anche alla spesso approssimativa competenza di chi effettua clandestinamente le operazioni di laboratorio, sovente in condizioni igieniche precarie e con poca accortezza nell’identificazione ed eliminazione delle sostanze di scarto e di quelle necessarie al processo di raffinazione (solventi, reagenti chimici ecc.) che frequentemente sono presenti nel prodotto finale fornendogli un’elevata pericolosità “aggiuntiva”. Tra gli elementi estranei altamente tossici, che sono stati segnalati specie dai laboratori statunitensi all’interno delle dosi di ecstasy, quello maggiormente significativo risulta essere il piombo che è responsabile di numerose e gravi patologie a sintomatologia diversificata. In tale ottica, quindi, il fattore di rischio principale dell’ecstasy (a breve e medio termine), più che per l’overdose o l’incremento di psicopatologie nelle fasce giovanili, sembra configurarsi soprattutto in termini di diffusione quantitativa di stati temporizzati di alterazione percettiva e della coscienza in sempre più individui, localizzati nelle aree più giovani della popolazione con intuibili ripercussioni sull'aumento statistico di fatti accidentali traumatici. 4. La dimensione criminale La configurazione del mercato illegale delle droghe di sintesi mostra uno scenario diversificato e complesso al cui interno orbitano sia le grandi organizzazioni criminali internazionali[9] anche se in misura ancora minore rispetto al traffico di altre droghe e sia gruppi meno importanti, la maggior parte dei quali orientati al procacciamento di piccole partite per il consumo personale o per lo spaccio localizzato in aree di ridotte dimensioni. Sembra opportuno sottolineare, in tal senso, che, mentre per coltivare, trasportare e raffinare le droghe tradizionali di derivazione vegetale (eroina, cocaina, marijuana) sono necessari molti ettari di terreno e organizzazioni strutturate e composte da molte persone, per quanto riguarda le droghe sintetiche, viceversa, sono sufficienti poche nozioni di chimica, materie prime legali e facilmente reperibili e laboratori di ridotte dimensioni (basta una cucina di casa) rendendo il tutto notevolmente più sfuggente all'attività di investigazione. La facilità di produzione offre quindi larghi spazi anche per le organizzazioni minori e, finora, ha 153
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
154
probabilmente determinato un interesse modesto da parte delle grandi compagini delinquenziali di matrice mafiosa[10], abituate ad agire in regime di monopolio o al massimo di oligopolio, e consequenzialmente in difficoltà per ciò che attiene il controllo di questo mercato illegale. Il principale luogo di produzione e distribuzione è l'Olanda seguita dalla Germania e dalla Svizzera, ma una notevole fetta del mercato viene coperta anche da paesi dell'exURSS (Polonia, Estonia, Repubblica Ceca) le cui fabbriche chimiche stanno attraversando una fase di notevole difficoltà dovuta al processo di riconversione all'economia di mercato e dove alcune di esse cercano probabilmente, in tal modo, di acquisire capitali, anche attraverso tale l'attività illegale. La grande diffusione di sostanze prodotte artigianalmente di pessima qualità ha indotto i grandi produttori (specie olandesi) ad apporre una specie di marchio di identificazione come garanzia del prodotto e a diffondere una sorta di catalogo clandestino che contiene indicazioni su centinaia di tipi di ecstasy disponibili sul mercato con marchi, forme e colori diversi in base al dosaggio e alle caratteristiche del prodotto, che consentono ai consumatori più esperti di programmare in anticipo i tipi di effetti desiderati. Alcuni laboratori, di modesta capacità operativa, sono stati scoperti negli ultimi anni anche in Italia (anche se la maggior parte dell'ecstasy è ancora di importazione) e si ha motivo di ritenere che alcuni consumatori abituali, vista anche la relativamente facile sintetizzazione delle sostanze, producano "in casa" piccoli quantitativi di molecole simili all’ecstasy per consumo personale. Esemplificativo in tal senso appare il caso di alcuni studenti liceali, scoperti qualche anno fa in Emilia Romagna, mentre, in possesso di elementari nozioni di chimica e con semplici attrezzature sottratte al laboratorio di fisica della loro scuola, erano riusciti a creare delle anfetamine rudimentali ma efficaci distribuite poi ai loro compagni di classe. Particolarmente interessante, in termini criminologici, appare il sistema, che sembra diffondersi rapidamente tra i produttori artigianali di droghe sintetiche, di realizzare una produzione dinamica, in continua evoluzione per quanto riguarda le caratteristiche molecolari delle sostanze. Tale sistema, osservato dai laboratori che analizzano, per conto dell’Autorità Giudiziaria, i quantitativi di droga oggetto di sequestro nel corso delle operazioni di polizia, consiste in una vera e propria tecnica elusiva nei confronti della legge penale in vigore in tema di stupefacenti. Il meccanismo giuridico attraverso il quale si determina l'azione legale in caso di reati concernenti le droghe è infatti costituito, de facto, dalla presenza o meno della sostanza in esame (sequestrata) sulla tabella posta in appendice alla vigente legge in materia di stupefacenti. La contestazione del reato avviene in tal senso quando si riscontra una pressoché identità molecolare tra la sostanza in esame[11] e quella riportata in tabella e quindi classificata come droga dalla legge italiana. Nel caso di identificazione di nuove droghe viene avviato un procedimento di modifica normativa tendente all'inserimento in tabella della nuova sostanza a cui vengono attribuite peculiarità ed effetti pericolosi e questo procedimento ha dei tempi tecnici rilevanti. Nella fase che intercorre tra la proposta di inserimento e l'effettiva annotazione, ogni sequestro di sostanze (analoghe a quella che ha determinato la proposta), presenta quindi ben poche possibilità di essere perseguito in termini formali se non per tipologie di reato diverse (produzione e somministrazione abusiva di farmaci, professione abusiva di farmacista ecc.) e comunque di inferiore gravità. Le droghe sintetiche, in quest'ottica, offrono la possibilità, attraverso piccole modifiche del processo di sintesi che influiscono in maniera modesta sugli effetti ma che apportano variazioni decisive alla struttura molecolare, di impedire un'assimilazione formale con le droghe inserite in tabella e sembrano aver suggerito l'adozione di una vera e propria strategia di dinamica produttiva (in continua modificazione) alle organizzazioni criminali interessate al mercato 154
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
155
italiano che possono attualmente smerciare grossi quantitativi di sostanze stupefacenti neutralizzando o limitando l'impatto dell'azione penale. BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE Amendt Günter e Walder Patrick, Le nuove droghe. Una guida critica, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1998. Collin Matthew e Godfrey John, Stati di alterazione. La storia della cultura Ecstasy e dell’Acid House, Oscar Saggi Mondadori, Milano, 1998. F. J.CREIGHTON et. al., (Senior Registrar, Brindle House, Cheshire, U.K.), “Ecstasy psychosis and flashbacks”, in: The British Journal of Psychiatry, 159: 713715, 1991. H. S. BECKER, “Outsiders”, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1987. J. A. HENRY et.al., (National Poison Unit, Guy’s Hospital, London, U.K.), “Toxicity and deaths from 3,4 methylenedioxymethamphetamine (ecstasy)”, in: The Lancet, 340: 384387, 1992. Malizia, Enrico, Le Droghe. Dall’hashish alla cocaina, dall’eroina all’aids, gli aspetti medici e psicologici, la terapia, la prevenzione, problemi legali e umani del fenomeno più drammatico del nostro tempo, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1996. Ministero della Sanità, Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcoolismo, 1, Anno XVIII, 1995. N. SOLOWIJ, W. HALL, N. LEE (National Drug and Alcohol Centre, University of New South Wales, Kensington, Australia), “Recreational MDMA use in Sidney: a profile of “ecstasy” users and their experience with the drug” in: British Journal of Addiction, 87:11611172, 1992. Saunders Nicholas, E Come Ecstasy, Universale Economica Feltrinelli/ Onde, Milano, 1997. [1]insieme all'MDMA sono presenti sul mercato clandestino l'MDEA e l'MDA e molti altri prodotti derivati. [2]queste alterazioni, che talvolta si manifestano a distanza di molto tempo dall'assunzione (flash back) consistono principalmente in attacchi di panico, paranoia, depressione, aggressività nonché in modifiche delle percezioni acustiche e visive (allucinazioni) e del senso di realtà; [3]secondo dati della DCSA dal 1994 al 1995 si rileva un incremento del 110,88% dei sequestri di MDMA; [4] Ministero della Sanità, Bollettino per le farmacodipendenze e l’alcoolismo, 1, Anno XVIII, 1995. 155
(tratto da Strano M., De Risio S., di Giannantonio M., “Manuale di Criminologia Clinica, Ed. Rossini, Città di Castello, 2000)
156
[5] F. J.CREIGHTON et. al., (Senior Registrar, Brindle House, Cheshire, U.K.), “Ecstasy psychosis and flashbacks”, in: The British Journal of Psychiatry, 159: 713715, 1991. [6] H. S. BECKER, “Outsiders”, Ed. Gruppo Abele, Torino, 1987. [7] N. SOLOWIJ, W. HALL, N. LEE (National Drug and Alcohol Centre, University of New South Wales, Kensington, Australia), “Recreational MDMA use in Sidney: a profile of “ecstasy” users and their experience with the drug” in: British Journal of Addiction, 87:11611172, 1992. [8] J. A. HENRY et.al., (National Poison Unit, Guy’s Hospital, London, U.K.), “Toxicity and deaths from 3,4 methylenedioxymethamphetamine (ecstasy)”, in: The Lancet, 340: 384387, 1992. [9]che hanno registrato notevoli perdite nel mercato dell'eroina da quando è iniziata la diffusione dell'ecstasy e sembra abbiano dovuto ribassare il prezzo degli oppiacei per rimanere competitivi; [10] Il traffico dell'ecstasy prodotto in Olanda offre apparentemente dei margini inferiori rispetto alle droghe tradizionali. Una pasticca di media qualità si può infatti acquistare "all'ingrosso" in Olanda per circa 7000 lire e può essere venduta al dettaglio in Italia per circa 4060 mila lire. Tale livello di guadagno è probabilmente responsabile del fatto che una vasta area di questo mercato clandestino è ancora occupata da piccoli gruppi di trafficanti o da singoli consumatori che si procurano direttamente le pasticche di ecstasy nelle nazioni produttrici senza intermediazioni. Si può facilmente presumere però che l'attenzione della grande criminalità organizzata non può non essere orientata verso un così appetibile affare visto anche il notevole incremento dei consumi avvenuto negli ultimi anni. Com'è noto, infatti, le grandi compagini criminali di tipo mafioso tendono ad esercitare un controllo prevalente se non assoluto su specifiche attività illegali (droga, racket, estorsioni ecc.) in determinate aree territoriali e, comunque, ad indurre eventuali concorrenti minori a giungere ad una sorta di compromesso. Proprio in base all'attuale modesto margine di guadagno che deriva dall'ecstasy di importazione si può inoltre ipotizzare che la criminalità organizzata possa cercare di produrre autonomamente la droga sintetica in laboratori direttamente controllati oppure che possa rivolgersi a fornitori più competitivi (e con pregressi accordi criminali) quali, ad esempio, quelli dell'ex blocco sovietico. [11]che viene analizzata da un laboratorio abilitato di farmacologia;
156
View more...
Comments