Malinconia nell'arte e in letteratura

September 24, 2017 | Author: Pino Blasone | Category: Lucretius, Socrates, Albrecht Dürer, Mary, Mother Of Jesus, Science
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Fra i presunti e tendenzialmente ricorrenti sentimenti originari della filosofia ci sono la meraviglia di Platone e Aris...

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Ignoro se la dura educazione ricevuta sia buona in linea di principio, ma essa fu adottata dai miei senza un disegno prestabilito, per una conseguenza naturale dei loro temperamenti. Sicuramente ha reso le mie idee meno simili a quelle degli altri. Ancor più certo è che ha impresso nei miei sentimenti un carattere malinconico, nato in me dall’abitudine a soffrire nell’età della fragilità, dell’imprevidenza e della gioia. François-René de Chateaubriand (in Memorie d’oltretomba, giugno 1812)

Pino Blasone

La malinconia, nell’arte e in letteratura

1 – “Socrate e la Musa”, rilievo laterale del Sarcofago delle Muse: Musée du Louvre, Parigi; e statua ellenistico-romana della “Musa Polimnia”: Musei Capitolini-Centrale Montemartini, Roma

La malattia di Democrito Per quanto concerne i moventi originari della filosofia, nei dialoghi platonici c’è un’apparente contraddizione. Entrambi i termini del contrasto sono ascritti al pensiero di 1

Socrate, altrettanto famoso maestro di Platone. Infatti, nel Teeteto è Socrate per primo ad affermare: “Provare meraviglia è il sentimento [páthos] del filosofo, non altro è il principio della filosofia” (155d), intuizione più tardi ripresa nella Metafisica di Aristotele (982b). Questi puntualizza che quel sentimento è di stupore di fronte tanto all’ordine cosmico quanto all’affabulazione del mito, insomma natura e cultura insieme. 1 Tuttavia, nel dialogo Fedone, il personaggio di Socrate disquisisce della filosofia come μελέτη θανάτου, vale a dire meditazione sulla morte o, più letteralmente, “allenamento alla morte” (melétē thanátou; 81a).2 È pur vero che ivi non si può prescindere dalla circostanza drammatica del filosofo condannato a morte, paradossalmente intento a consolare gli astanti del trauma della sua perdita. Comunque, una qualche contraddizione sussiste. Tutt’al più si può commentare che le due motivazioni, meraviglia e malinconia, sono dialettiche e complementari. Cosmico o antropico che sia, allo stupore facilmente subentra un atteggiamento malinconico in merito alla finitudine delle cose e del soggetto pensante, cioè l’uomo. Non meno della meraviglia, la malinconia esistenziale genera o alimenta quella riflessione che chiamiamo filosofia. In uno scritto tramandato quale opera di Aristotele, ma che potrebbe essere stato semplicemente redatto in ambito peripatetico, il tema viene messo a fuoco in maniera esplicita e autonoma, benché basata sulla teoria medica ippocratica diffusa a quei tempi. “Come mai quanti eccelsero in filosofia, in politica, in poesia o nelle arti, erano notoriamente di temperamento malinconico, e certi a tal punto, da soffrire di disturbi causati da un eccesso di umor nero, così come si narra di Eracle tra gli eroi?” (Problemata XXX 1, 953a): il testo in questione si sforza di rispondere positivamente a un tale quesito, posto

1 Cfr. P. Blasone, “Stupor Mundi”: la meraviglia filosofica, all’indirizzo Web http://www.scribd.com/pinoblasone/d/43856778-Stupor-Mundi-la-meraviglia-filosofica. 2 Sul “Sarcofago delle Muse”, reperto marmoreo della prima metà del II secolo d. C. proveniente dalla romana via Ostiense e oggi al Museo del Louvre di Parigi, il fronte mostra le nove deità protettrici – in senso lato – delle arti, quante e quali tramandate dalla tradizione mitologica ellenica prevalente in epoca classica. Su un fianco, è scolpita la figura di Socrate, seduto e argomentante. Con un gomito poggiato su una colonnina, la Musa davanti a lui lo osserva ascoltando con espressione pensosa e malinconica, in piedi e – almeno sul momento – in silenzio, quasi in attesa di poter interloquire. Questa Musa di Socrate, ovvero ispiratrice della filosofia, da un lato somiglia alla Musa Polimnia raffigurata nel rilievo frontale e in altre sculture greco-romane; dall’altro, ella rammenta una versione arcaica del mito delle Muse, secondo cui esse erano tre anziché nove. Una delle tre si chiamava appunto Melete, Musa dell’esercizio del pensiero. Cfr. P. Blasone, Immagini del pensiero, fra antichità e modernità, all’indirizzo Web http://independent.academia.edu/PinoBlasone/Papers/1076185/Immagini_del_pensiero.

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palesemente in chiave retorica.3 Si tenga presente che, in origine, il termine greco composto μελαγχολία/melancholía altro non significava se non “bile nera”. Pur mantenendo un’impronta psicosomatica, la malinconia si emancipa da un’accezione meramente patologica, passando a designare una particolare disposizione dell’animo: “I malinconici sono individui eccezionali per natura, non per malattia” (955a). Oltre Eracle, Bellerofonte e Aiace Telamonio sono esempi addotti dal redattore dello scritto. Ancor più che dalla mitologia o dall’epica, essi sono dedotti dalla tragedia classica, che contribuì a innovare il concetto di malinconia. Neanche Ulisse sfuggì a tendenze malinconiche. Ma la genialità malinconica raggiunse una sua acme in personaggi storici quali Lisandro, Socrate e Platone. Questi ultimi pensatori, guarda caso, sono precursori o maestri di Aristotele stesso. 4 In gran parte suo malgrado, il filosofo destinato a divenire emblematico della malinconia era però altri. Più ancora che le sue dottrine o reali vicende biografiche, l’essere egli connazionale e contemporaneo – nel V-IV secolo a. C. – del medico Ippocrate concorse a fare di Democrito uno dei protagonisti dell’aneddotica filosofica. Si tratta di poche lettere attribuite a Ippocrate, attendibilmente risalenti all’età ellenistico-romana, che insieme compongono un apologo di orientamento cinico-stoico. 5 Nella seconda epistola indirizzata a 3 Cfr. Aristotele, La “melanconia” dell’uomo di genio, a cura di C. Angelino ed E. Salvaneschi, Il Melangolo, Genova 1981; e, più in generale, Jean Starobinski, Histoire du traitement de la mélancolie des origines à 1900, Acta Psychosomatica, J. R. Geigy, Basilea 1960 (Storia del trattamento della malinconia dalle origini al 1900, trad. it. di F. Paracchini, Guerini, Milano 1990). Starobinski tornerà sull’argomento specialmente in “Democrito parla (L’utopia malinconica di Robert Burton)”: premessa a R. Burton, Anatomia della malinconia. Introduzione, trad. it. di G. Franci e F. Fonte Basso, Marsilio, Venezia 1983 e 1994. 4 Una pregnante annotazione di Aristotele si legge pure in Perí mnēmēs kai anamnēseōs (“Su memoria e reminiscenza”): ὅτι δ' ἐστὶ σωματικόν τι τὸ πάθος, καὶ ἡ ἀνάμνησις ζήτησις ἐν τοιούτῳ φαντάσματος, σημεῖον τὸ παρενοχλεῖν ἐνίους ἐπειδὰν μὴ δύνωνται ἀναμνησθῆναι καὶ πάνυ ἐπέχοντες τὴν διάνοιαν, καὶ οὐκέτ' ἐπιχειροῦντας ἀναμιμνήσκεσθαι οὐδὲν ἧττον, καὶ μάλιστα τοὺς μελαγχολικούς· τούτους γὰρ φαντάσματα κινεῖ μάλιστα (“Che tale sentimento abbia un carattere somatico, e che la reminiscenza sia ricerca di rappresentazioni, lo segnala la frustrazione di alcuni per qualche incapacità di ricordare, malgrado gli sforzi di ripensamento: lo sconforto dura anche quando abbiano desistito dal rammentare, specialmente nei temperamenti malinconici, essendo essi maggiormente commossi dalle rappresentazioni dell’immaginazione”). 5 Émile M. P. Littré (a cura di), “Lettres, décret et harangues”, nel tomo IX delle Oeuvres complètes di Ippocrate: edizione bilingue, J.-B. Baillière et fils, Parigi 1861; lettere dalla n. 10 alla n. 17. Cfr. Ippocrate, Lettere sulla follia di Democrito, trad. it. con testo originale a fronte a cura di Amneris Roselli, Liguori Editore, Napoli 1998, oppure: Sul riso e la follia, a cura di Yves Hersant, trad. it. di A. Zanetello, Sellerio, Palermo 1991. Nel Seicento, l’incontro leggendario di Democrito con Ippocrate ispirerà opere paesaggistiche di Claes C. Moeyaert, Nicolaes Berchem, Pieter Lastman, Jan S. Pynas. Nel Settecento e nell’Ottocento, sarà il suo problematico rapporto con gli Abderiti a ispirare i pittori François-André Vincent, Camille Corot, Gustave Moreau.

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un certo Damageto, l’episodio culminante racconta di un incontro fra Democrito e Ippocrate, avvenuto in circostanze quanto meno singolari e non prive di spunti ironici. Concittadini del filosofo, gli abitanti di Abdera avrebbero convocato l’altrettanto celebre medico, preoccupati per lo stato di salute mentale del primo, il quale alterna solitari e strani studi privati a una inspiegabile e inopportuna ilarità pubblica. I sintomi da loro descritti configurano quella che noi moderni potremmo definire sindrome maniaco-depressiva. Sulle prime, Ippocrate non si mostra poi lontano da una diagnosi del genere, tanto da proporsi di aprire gli occhi al filosofo sul suo malessere: “O Democrito, ti tormenta la bile nera”.6

2 – Salvator Rosa, Democrito in meditazione: British Museum, Londra, o Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana, Milano, e altrove (stampa ripresa da un dipinto dello stesso autore); lo stesso soggetto, in una incisione di Johann Heinrich Schönfeld: British Museum (1654). Forti analogie presenta un’altra stampa, di Giovanni David, detta Democrito cieco: Rijksmuseum, Amsterdam; 1775

Nondimeno, è l’incontro con Democrito in persona a far cambiare idea al medico, oriundo dell’isola di Coo. Eppure, al suo arrivo questi assiste a una scena sconcertante. In un sito campestre prossimo alla sua dimora ma distante dal resto dell’abitato, il filosofo della natura è attorniato da volumi e da carcasse di animali, mentre intento a dissezionarne altri, interrompendosi solo per prendere appunti. Interrogato sul suo operato, dopo aver fatto 6 Nella prima lettera di Ippocrate a Damageto, in op. cit.: si veda la nota precedente.

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conoscenza con l’illustre ospite, egli risponde di stare indagando sulle cause fisiologiche della malinconia. Il che potrebbe suonare come irridente parodia delle teorie ippocratiche in materia. Preso in contropiede, Ippocrate finge di non rendersene conto, insistendo nel dialogare col suo potenziale paziente alla ricerca di elementi per valutare se quello che gli sta di fronte sia un caso clinico, o un comportamento eccentrico che sfugge alla comprensione della media degli Abderiti. Va da sé che gli argomenti impiegati da Democrito sono tali, da eclissare ogni sospetto di morbosa misantropia nei suoi confronti, e da convincere alfine il medico del contrario: così esclusivamente affannati a perseguire obiettivi da loro ritenuti connaturati con la vita pratica, sono i concittadini del filosofo a essere affetti da morale cecità e follia, oggetto di riso amaro da parte dello stesso. Pertanto, il racconto si rivela essere un’apologia dell’esistenza secondo natura o di un ideale ascetico di vita, nonché una critica della scienza sperimentale ai suoi primordi. La filosofia resta ricerca delle cause prime laddove la scienza rischia di venir sviata dall’esame di quelle immediate, perdendo di vista i problemi di fondo (contrasto che, nell’epistola di Ippocrate a Filopemene, assume la forma più convenzionale di quello tra due allegorie: la Verità e l’Opinione). Ciò non toglie che un accumulo di sapere – nel senso di varia scienza, piuttosto che vissuta saggezza – può provocare uno stato d’animo innaturale ovvero un atteggiamento analogo a quello preteso in base a un eccesso di bile. Nell’antichità, è Luciano di Samosata ad accennare a un Democrito somigliante a quello dell’apologo pseudo-ippocratico.7 In seguito, questo non incontrò successo tanto nel Medioevo quanto nel Rinascimento e agli inizi della modernità, quando la malinconia culturale, oltre che psicologica, torna d’attualità in Europa. Di nuovo protagonista Democrito, nel 1447 il terzo libro della composita satira Momus vel De principe di Leon Battista Alberti rimanda alla seconda lettera a Damageto. Nel 1621, già il titolo del trattato The Anatomy of Melancholy di Robert Burton, alias “Democritus junior”, ne tradisce l’ispirazione originaria. Nel 1679, la vicenda di “Démocrite et les Abdéritains” è riproposta da Jean de La Fontaine nella sua 7 In latino, un riferimento al riso di Democrito si trova pure nelle Epistole del poeta Orazio (II 1, v. 194), mentre nella decima delle sue Satire Giovenale accenna al riso e al pianto dei “due sapienti”, cioè Democrito ed Eraclito (vv. 28 e segg.). Seneca si sofferma sullo stesso argomento nel De ira (X 3). Una tarda testimonianza di Sidonio Apollinare, in una lettera al vescovo Fausto di Riez, attesta inoltre che già nell’antichità Democrito ed Eraclito venivano popolarmente raffigurati come “filosofo che ride” e “filosofo che piange” (Epistulae IX 9, 14). Nel pensiero moderno, non mancheranno di riprendere tale aneddotica Michel de Montaigne e Immanuel Kant, peraltro simpatizzando per Democrito non diversamente da Seneca a suo tempo.

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favola in versi VIII 26. Infine, il personaggio del filosofo di Abdera quale delineato dall’aneddoto dello Pseudo-Ippocrate ricompare nel romanzo satirico Die Geschichte der Abderiten, “La storia degli Abderiti”, pubblicato nel 1774 da Christoph Martin Wieland. In “Vendita delle vite all’incanto”, uno dei fantasiosi e parodistici Dialoghi di Luciano, Democrito che ride era stato brevemente contrapposto a Eraclito, “filosofo che piange”, s’intende di fronte alle vicende di questo mondo e alle miserie umane. Non solo il “filosofo che ride” o quello che piange, ma entrambe le figure in fondo complementari tra loro non mancheranno di influenzare la pittura europea tra XV e XVII secolo. Distinte o insieme ritratte, esse diventano un Leitmotiv dal Bramante a Rubens, da Van Haarlem a Ter Brugghen, e presso molti altri. Soprattutto un quadro di Salvator Rosa, Democrito in meditazione (Statens Museum for Kunst, Copenhagen; circa 1650), si rifà alla seconda epistola a Damageto, in particolare alla scena iniziale ivi descritta. Qui il filosofo, e occasionale anatomista, non ride affatto. Egli è raffigurato in uno dei suoi momenti di vera malinconia, seduto in un ambiente boschivo con rovine, a fronte di una natura morta composta da ossa umane e di animali. Il fascicolo gualcito in mano all’uomo sta a segnalare una controproducente vanità del sapere. Nel complesso, si tratta di una Vanitas, genere di dipinti assai in voga all’epoca. In una incisione a stampa della stessa opera (British Museum, Londra; ca. 1660), oltre a minime varianti l’autore aggiunge una scritta in latino: Democritus omnium derisor in omnium fine defigitur. Possiamo ben darne una traduzione estensiva, in accordo col concetto di ascendenza biblica della Vanitas vanitatum: “Irridente verso tutto e tutti, ecco Democrito immortalato mentre riflette sulla fine di ogni cosa”.

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3 – Sguardo malinconico della “Madonna di S. Sisto” o “Nostra Signora del Rosario”: Monastero di S. Maria del Rosario, Roma; una datazione incerta la fa risalire a un periodo che va da IV al VII secolo

Madonne e Maddalene Romanticamente, si potrebbe supporre il Medioevo come immune da autentica malinconia, essendo quest’ultima tipica dell’età classica e di quella moderna, sebbene con motivazioni e caratteri alquanto differenti. Almeno in teoria, le certezze della fede religiosa avrebbero dovuto impedire, a un sentimento così indefinito da sembrare a volte immotivato, di fare presa duratura sull’animo umano. In effetti, specialmente in ambienti monastici uno stato d’animo del genere venne percepito come condizione transitoria e oziosa o perfino peccaminosa, una vera e propria tentazione istillata da un non meglio identificato “demone meridiano”. È la cosiddetta “acedia” o accidia, uno dei sette vizi capitali nella teologia morale cristiano-cattolica, in quanto indifferenza di fronte al male e inerzia nel fare del bene ovvero astensione da ogni attività laboriosa o azione costruttiva. L’incertezza relativa al sentimento in questione veniva proiettata all’esterno e soggettivata in un’entità diabolica, più o meno di fantasia. Nel dialogo Secretum, libro secondo, Francesco Petrarca fa dire al personaggio di Sant’Agostino: Habet te funesta quedam pestis animi, quam accidiam moderni [...] dixerunt, “Ti possiede una vaga malattia funesta dell’animo, la quale i moderni hanno chiamato accidia”. In realtà il termine deriva dal greco antico ἀκηδία, “akēdía”, che 7

vuol dire letteralmente “indolenza”, e indicava un misto di noia e paralizzante tristezza. Siamo nel 1347-1353. In qualche misura, la “vaga malattia funesta” di Petrarca anticipa il “male oscuro” ovvero la “malattia mortale” della moderna angoscia o depressione. Il sottotitolo della sua opera è illuminante: De secreto conflictu curarum mearum, “Sul segreto conflitto delle mie angosce”. D’altro canto, l’ingenua ed esorcizzante soggettivazione cenobitica in un “demone meridiano” richiama alla mente un’acuta dichiarazione posteriore dell’inglese Robert Burton: che lui scriveva sulla malinconia anche per prendere le distanze da essa, in una sorta di procedimento di oggettivazione autoterapico temporaneo e redicivante; abbiamo ben sei edizioni della sua ponderosa Anatomia della malinconia, via via accresciute nel tempo. Altro rimedio palliativo poteva essere la comicità, se non proprio l’ilarità sospetta attribuita all’antico Democrito. Volentieri, la commedia dell’arte italiana si fece carico di tale compito. In Frutti delle moderne comedie, et avisi a chi le recita, il capocomico e commediografo Piermaria Cecchini annoterà, in lode del suo collega napoletano Silvio Fiorillo, inventore delle maschere Matamoros e Pulcinella: “Questo gustosissimo huomo ha introdotto una disciplinata goffaggine, la quale al primo suo apparire conviene che la malenconia se ne fugga, o almeno si concentri, et stia rilegata per longo spatio di tempo”.8 Benché implicito, nasce il cliché del comico malinconico. Anche se non una piena guarigione, in via generica la malinconia concede quindi parentesi di distrazione o di distensione a chi ne sia affetto e convivente, salvo periodiche ricadute. La sua natura ciclica, o “ciclotimica”, è già abbastanza chiara nel XVII secolo. Ma torniamo al Medioevo, a una malinconia più discreta e apparentemente meglio motivata. L’arte sacra se ne fa spia suggestiva, e non di rado consapevole specchio, pur senza nominarla ma semplicemente rappresentandola. Ciò è particolarmente sensibile per quanto riguarda l’iconografia mariana, fin quasi dagli inizi. Consideriamo la tipologia detta dai latini Advocata, e dai bizantini Hagiosoritissa (da Hagía Sorós, “Santa Urna”, in cui si serbavano presunte reliquie di oggetti personali di Maria, nel santuario della Chalkoprateia a Costantinopoli). L’esemplare più antico, più bello e imitato, si trova a Roma, oggi nel Monastero femminile di S. Maria del Rosario a Monte Mario. Difficilmente si può 8 Quella salutare vis comica, prosegue l’autore ferrarese, consiste nel simulare una pazzia tale da apparire prossima alla saggezza: “Dissi disciplinata goffaggine, poscia ch’egli fa un assiduissimo studio per passare i termini naturali e mostrar un goffo poco discosto da un pazzo e un pazzo che di soverchio vuol accostare un savio” (op. cit., Guareschi, Padova 1628; pp. 34 e segg.).

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immaginare uno sguardo dipinto più penetrante e triste, diretto verso l’osservatore. Questa Madonna di mezza età, databile al VI o VII secolo, è ritratta da sola, con le mani alquanto divaricate e protese verso il lato sinistro dell’icona rispetto a chi guarda. A chi è rivolto il suo gesto supplice e intercessore? Se confrontiamo con un’altra più tarda Advocata romana, quella attualmente nella Galleria di Palazzo Barberini, ce ne rendiamo meglio conto. In alto e in piccolo a sinistra, compare un Cristo in gloria. Maria si rivolge al figlio che non è più su questa terra. La Hagiosoritissa è una variante malinconica della Madonna Addolorata.

4 – Giovanni Bellini, Madonna col Bambino: National Gallery of Art, Washington; e Andrea Mantegna, Madonna col Bambino dormiente: Gemäldegalerie, Berlino

Una espressione triste è comune pure a non poche Madonne bizantine con Bambino, quasi in virtù di un presentimento dei patimenti e della morte di Gesù. Questo tipo di immagini favoriva una identificazione con le proprie sofferenze da parte dei fedeli, in un processo di empatia partecipativa. Tutto ciò diventa specialmente evidente in un sottotipo chiamato “Madonna della Passione”, fiorito dapprima a Creta e diffusosi altrove nel tardo Medioevo, dove la malinconia della madre si associa allo sgomento del figlio. Infatti, le figure minori di due arcangeli alati mostrano al bambino gli strumenti di tortura della futura passione, ivi inclusa la croce. Spaventato, egli cerca rifugio tra le braccia materne, aggrappandosi con le piccole mani a una mano di Maria. In un’icona dipinta intorno al 1450 da Andreas Ritzos da Candia, in un trittico nella Basilica di S. Nicola a Bari, compare pure 9

una iscrizione esplicativa in latino: Qui primo candidissime gaudium indixit/ prehindicat nunc passionis signacula./ Carnem vero XRS mortalem indutus/ timensque letum talia pavet cernendo, “Colui che con gran candore inaugurò il tempo della gioia [Gabriele, angelo dell’annunciazione della nascita di Gesù a Maria]/ prefigura e indica ora i simboli della passione./ Rivestito di carne mortale, Cristo/ li contempla con apprensione e timore della morte”. La sentita umanità di cui è investita la persona di Gesù concorre a far sì che questa “Madonna della Passione” appaia allo stesso tempo una Madonna della compassione. 9 Tuttavia, certi mezzi impiegati a tal fine possono sconcertare una sensibilità attuale. Il “candore” e il “gaudio” dell’Annunciazione, evocati nella scritta, stridono con i simboli del supplizio rappresentati e col timore della morte da essi provocato. Per giunta, anche qui lo sguardo di Maria non è rivolto al figlio bensì all’osservatore, in modo da creare un gioco di rimandi per cui il destinatario principale del messaggio ambivalente permane il devoto. Questo dettaglio, e non solo esso, verrà ereditato da alcune Madonne con Bambino rinascimentali, in particolare di Giovanni Bellini e di Andrea Mantegna. Si noti che questi ultimi e Ritzos sono pressoché coetanei. Senza dover ricorrere agli espedienti adottati dall’iconografo tardo-bizantino, la Madonna greca (Pinacoteca di Brera, Milano; 1460-64) e una Madonna col Bambino (National Gallery of Art, Washington; 1480-86) di Bellini, un’altra Madonna col Bambino (Museo Poldi Pezzoli, Milano; 1490-1500) e la Madonna col Bambino dormiente (Gemäldegalerie, Berlino; 1465-70) entrambe di Mantegna, sono in effetti tra le Madonne più malinconiche mai dipinte. La psicanalista Julia Kristeva ha potuto dedicare a quelle di Giovanni Bellini studi interessanti, incentrati sui temi universali della maternità oltre che della malinconia. Meno convince il tentativo di fondare l’analisi nel vissuto personale dell’autore, di cui si sa ben poco, venendo così egli a essere defilato rispetto al contesto pittorico-artistico, a lui più “familiare” nel tempo e nello spazio. 10 9 Cfr. P. Blasone, Archeologia mariana. Dall’immagine all’icona, all’indirizzo Web http://independent.academia.edu/PinoBlasone/Papers/1283890/Archeologia_mariana. 10 In particolare nella Madonna della National Gallery of Art di Washington, di una bellezza struggente, l’espressione malinconica è comune anche al Bambino. La paternità belliniana ne è stata messa eccezionalmente in dubbio dalla critica d’arte, per la verità con argomenti non molto persuasivi. Quanto agli studi di J. Kristeva, si legga il bel saggio “Maternité selon Giovanni Bellini”, in Polylogue, Seuil, Parigi 1977, pp. 409-436; l’autrice di Soleil noir. Dépression et mélancolie (Gallimard, Parigi 1987) è poi tornata sul tema delle Madonne belliniane in La Haine et le Pardon, Fayard, Parigi 2005. Il solo confronto con le Madonne di Leonardo da Vinci, da parte della Kristeva, risulta un po’ troppo riduttivo e freudiano. D’altro canto, se esaminata nei dettagli, sembra darle indirettamente ragione una presunta “Allegoria della Malinconia” dello

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Nell’arte sacra del Seicento, Santa Maria Maddalena assurge a personaggio malinconico per eccellenza. La peccatrice pentita e penitente, quale narrata da tradizioni non necessariamente evangeliche, ben si prestava a interpretare tale ruolo. Se torniamo a esaminare Democrito in meditazione di Salvator Rosa, tra le ossa di animali ai piedi del filosofo noteremo un cranio umano. A maggiore o minor ragione questo simbolo di mortalità e della “vanità delle vanità” viene associato alla Maddalena, nelle sue raffigurazioni da penitente e nostalgica della presenza di Gesù su questa terra. Anche la posa assorta in cui ella è ritratta somiglia a quella del Democrito di Rosa, o viceversa, sebbene intuibilmente più dolente. Come nel quadro del pittore napoletano, al teschio vengono spesso abbinati uno o più libri, a simboleggiare però non tanto una vanità del sapere quanto la verità contenuta nei testi rivelati. Data peraltro l’ambientazione, La Melanconia o Maria Maddalena di Domenico Fetti (ne esistono più versioni, una delle quali nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia: ca. 1620) fa da pendant al dipinto di Rosa, salvo restando l’attendibile modello compositivo comune dell’incisione allegorica Melencolia I di Albrecht Dürer (Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe; 1514). Opera analoga è Melancholia o Maria Maddalena, di Hendrick ter Brugghen (Art Gallery of Ontario, Toronto; 1627-28). Quasi divenuto superfluo, il teschio scompare in Maria Maddalena come Melanconia di Artemisia Gentileschi (due versioni: Cattedrale di Siviglia e Museo Soumaya, Città del Messico; ca. 1621-25), talmente intensa è qui l’espressione di una malinconia tutta virata al femminile.

stesso Bellini nelle Gallerie dell’Accademia, Venezia (ca. 1490-1500). Non meno incentrata sul genere sessuale, ma con reminiscenze hegeliane, è l’analisi della malinconia in Judith Butler, La vita psichica del potere e Vite precarie (traduzioni italiane, Meltemi, Roma 2005 e 2004).

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5 – Domenico Fetti, La Melanconia o Maria Maddalena: Gallerie dell’Accademia di Venezia (una variante molto nota è al Louvre, Parigi); Artemisia Gentileschi, Maria Maddalena come Melanconia: Cattedrale di Siviglia (pure di essa una variante è al Museo Soumaya, Città del Messico)

Un’allegoria alata Fra gli antichi cultori di Epicuro, e di riflesso dell’atomista Democrito suo precursore, c’è il poeta latino Tito Lucrezio Caro. Sublimata nel suo poema De rerum natura, “Sulla natura delle cose”, la visione del mondo materialistica di Democrito ed Epicuro avrebbe dovuto liberare gli animi dalle paure delle pene nell’aldilà e soprattutto dai sensi di colpa che esse potevano suscitare, restituendo gli uomini alle loro effettive responsabilità e a una realistica gioia di vivere. Ma pare che questa cura razionalistica poco funzionasse per il poeta stesso, perlomeno non a tempo pieno. Nel suo Chronicon, San Girolamo di lui riferisce che amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, [...] propria se manu interfecit anno aetatis XLIV (“essendo impazzito per effetto di un filtro d’amore e avendo composto alcuni libri negli intervalli della sua follia, [...] si uccise a 43 anni di età”). 11 Per la verità, Girolamo non è una fonte molto affidabile, in quanto cristiano essendo avverso al materialismo epicureo del pagano Lucrezio. È comunque probabile, filtri magici a parte, che il male del poeta fosse 11 Girolamo, nel Chronicon, per quanto concerne gli eventi notevoli verificatisi nel 94-93 a. C., e con riferimento alla data di nascita di Lucrezio.

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una ciclica depressione, la quale gli consentiva lunghi periodi di felice attività creativa. Questa congettura ci rimanda alla concezione aristotelica della malinconia quale componente della natura umana, in alcuni eccezionalmente sviluppata – o, se si preferisce, “squilibrata” – e alla radice della loro genialità. Assai più tardi, nella Scuola di Atene affrescata da Raffaello Sanzio nelle Stanze Vaticane, il filosofo Eraclito sarà ritratto con le fattezze di Michelangelo Buonarroti, in una posa pensosa e triste che non si discosta molto da quelle dei Democriti o delle Maddalene che abbiamo visto da altri rappresentati. Ci si può chiedere perché mai proprio Michelangelo. È solo un omaggio di Raffaello al già illustre collega? Una mezza risposta si può trovare in un componimento del grande artista, nonché poeta, toscano: “La mia allegrezz’ è la maninconia” (Rime, 267, v. 25). In una forma semiseria ma intercalata da immagini lugubri, ivi egli si interroga sul senso dell’arte. Né manca – nel “picciol volo” del quarto verso – un’eco, più che citazione, dell’Ulisse dell’Inferno dantesco, navigatore ormai anziano e nostalgico così come lo è il pittore e scultore che qui si mette in versi. Un’allusione alla scultura, arte prediletta da Michelangelo e qui paragonata alla navigazione di scoperta, è da leggersi nella conclusione grottesca: “Che giova voler far tanti bambocci,/ se m’han condotto al fin, come colui/ che passò ’l mar e poi affogò ne’ mocci?/ L’arte pregiata, ov’alcun tempo fui/ di tant’opinïon, mi rec’a questo,/ povero, vecchio e servo in forz’altrui,/ ch’i’ son disfatto, s’i’ non muoio presto”.12 A ogni modo, nell’arte europea ormai moderna le figure rappresentative della malinconia non si limitano a Democrito o Eraclito, né alla Maddalena e tanto meno all’Ulisse di Dante Alighieri. Nella su citata Melencolia I di Dürer, essa acquista autonomia come allegoria a sé stante, nelle vesti di una personificazione alata. Nell’incisione in bianco e nero, la Malinconia in persona appare seduta, con una quantità di arnesi, solidi geometrici e altri oggetti ai suoi piedi e alle spalle, che sono stati croce e delizia per generazioni di eruditi interpreti, compresi alchimisti e astrologi.13 Non mancano altri pseudo-personaggi 12 Vv. 49-55; il componimento è della metà del ’500, e la scoperta dell’America è ancora recente. Dai versi di Michelangelo trapela già quasi un consapevole orgoglio di aver contribuito a iniziare la modernità nell’arte, così come Cristoforo Colombo l’aveva inaugurata nella storia europea. 13 Ad esempio, in astrologia si credeva che la malinconia fosse indotta da influssi del pianeta Saturno. In effetti, l’opera di di A. Dürer potrebbe essere stata influenzata da idee contenute nel De occulta philosophia, redatto da Heinrich Cornelius Agrippa di Nettesheim. Fatto sta che il trattato magico-cabalistico fu completato nel 1530, notevolmente dopo l’edizione dell’incisione di Dürer. Quanto al titolo di quest’ultima, esso sembra comportare una Melencolia II o III... In realtà, l’incisione forma un trittico coerente con altre due eseguite dall’artista tedesco nello stesso periodo, fra il 1513 e il 1514: Il cavaliere, la morte e il diavolo e San Gerolamo nella

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minori. Ancor più che quell’assortita varietà, è la qualità enigmatica dell’immagine nel suo complesso ad averne fatto la meritata fortuna, forse inattesa dallo stesso autore. L’identificazione del personaggio è favorita dalla scritta in un cartiglio in cielo sullo sfondo, dove pure compaiono una cometa e un arcobaleno: MELENCOLIA I, appunto. Siamo quindi all’aperto, come nei dipinti successivi di S. Rosa e di D. Fetti sopra menzionati. La circostanza è importante: essa chiama in causa la natura oltre che la cultura, e in questo caso amplia l’orizzonte a una dimensione cosmica. Causa prima della filosofia, la meraviglia cosmica si è convertita in una sensazione di impotenza da parte di quella stessa primogenita a indagare le cause prime dell’universo, sia esso macrocosmo o speculare microcosmo, tanto più quanto la scienza principia ad aver successo nell’indagine delle cause seconde.

6 – Hans Sebald Beham, Melencolia: Herzog Anton Ulrich-Museum, Braunschweig; Albrecht Dürer, Melencolia I: Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe, Germania

Un tale assurdo è ben rappresentato nella creatura allegorica dotata di ali, che cella. Cfr. Klibansky, Panofsky e Saxl, Saturno e la melanconia. Studi su storia della filosofia naturale, medicina, religione e arte, trad. it. di R. Federici, Einaudi, Torino 1983 e 2002. Tra le imitazioni italiane dell’opera di Dürer va ricordata l’acquaforte La Melanconia di Giovanni Benedetto Castiglione detto il Grechetto (1640-47), in cui un’allegoria al femminile senz’ali regge in grembo un teschio mutuato dalle raffigurazioni della Maddalena penitente. È infine da citare un riferimento di Gérard de Nerval, nel suo Voyage en Orient del 1851: Le soleil noir de la mélancolie, qui verse des rayons obscurs sur le front de l’ange rêveur d’Albert Dürer, “Il sole nero della malinconia, che versa raggi oscuri sulla fronte dell’angelo visionario di Albert Dürer”.

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presumibilmente non le permettono di volare verso l’alto, come suggerisce perfino il dettaglio di una scala a pioli. Quello della malinconia è un angelo caduto, sprofondato in una forzosa e narcisistica contemplazione di sé. Paradossalmente, tutto il contrario di quella che sarà la percezione dello stesso sentimento da parte di John Milton, autore di poemi quali Paradiso perduto e Paradiso riconquistato, ma anche dei poemetti L’Allegro e Il Penseroso. In quest’ultimo, pubblicato nel 1645, pure per il poeta inglese la malinconia è un’allegoria, che assume una forma personale e femminile. Angelo o Musa che sia, ella non necessita di ali per elevarsi, di per sé impersonando l’ispirazione poetica nella sua accezione più alta. Anzi, in via iperbolica, è trasfigurata in una dea o divina apparizione: But hail thou Goddess, sage and holy,/ Hail divinest Melancholy/ Whose Saintly visage is too bright/ To hit the Sense of human sight;/ And therefore to our weaker view,/ O’er laid with black, staid Wisdoms hue (“Salve a te, o dea saggia e santa,/ salve, assai divina Malinconia,/ il cui sacro volto troppo risplende/ per esser percepito dall’umana vista;/ perciò nella nostra debole visione/ esso si vela di nero, tinta severa della Saggezza”; vv. 11-16). Così, Milton precorre il mito romantico di una dolce malinconia, rimpiangendo un vecchio ideale ascetico di vita. Questo romanticismo ante litteram suona alquanto affettato, là dove il poeta si attarda a descrivere la sua visione: “Possa alfine la mia stanca età/ trovare il suo eremo di pace,/ una veste villosa e una cella muschiosa,/ ove sedendo io enumeri a una a una/ le stelle di cui il cielo è trapunto/ e ogni erba che sugge la rugiada./ … / Tali, o Malinconia, sono i piaceri che dispensi/ e con te voglio scegliere di vivere”; vv. 168-76). Forse, dati i tempi e i luoghi, sarebbe meglio parlare di preromanticismo gotico. Quando nel 1782 il ritrattista inglese Thomas Beach dipinge l’attrice Sarah Siddons nel personaggio di Malinconia, in “Il Penseroso” di Milton, la ritrae a figura intera vestita di nero e con un velo scuro sul capo, in un ambiente tenebroso connotato da uno scenico arco ogivale alle sue spalle (olio su tela venduto all’asta presso Sotheby, Londra, nel 1993).14 Ma facciamo un passo indietro, dalle 14 T. Beach non fu il solo pittore inglese a ispirarsi, sia pure indirettamente, al poemetto di Milton, o a illustrarlo. Sia William Blake sia Charles West Cope ritrarranno l’allegoria della Malinconia quale immaginata dal poeta, con in più qualche sfumatura rispettivamente preromantica e romantica. Più originale è Il Penseroso di Thomas Cole, paesaggio malinconico con figure ispirato ai versi di Milton, ma romanticamente autonomo sebbene complementare con un altro paesaggio dello stesso autore: L’Allegro (Los Angeles County Museum of Art; 1845). Il paesaggio o la veduta malinconici richiederebbero una trattazione a parte. Basti accennare al “paesaggio con rovine”, i cui precedenti sono opere quale Il cimitero ebraico di Jacob van Ruisdael: il suo nome è iscritto su una tomba, ma vi torna l’arcobaleno di Dürer e di M. Gerung, timido messaggio trascendente di speranza (Gemäldegalerie Alte Meister, Dresda; 1653-54).

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Malinconie angelicate a quelle soltanto alate. Infatti, quella di Dürer non è la sola. Nel 1532 in Germania, Lucas Cranach il Vecchio dipinge Die Melancholie, un’allegoria femminile ispirata a Melencolia I del suo compatriota, salvo che gli oggetti o animali e putti qui raffigurati sono portatori di un simbolismo ancor meno decifrabile se non bizzarro. Sulle prime, può sorgere il sospetto che essi rivestano un mero ruolo decorativo. In compenso, il viso della donna è meno rabbuiato, nonostante che le ali scure contribuiscano a conferirle un aspetto seduttivo ma diabolico. Per il resto, i colori sono accesi. Secondo un uso pittorico rinascimentale di importazione italiano, attraverso una finestra si scorge la veduta di una cittadella o abbazia, su una rupe inaccessibile (Musée d’Unterlinden, Colmar, Francia). Nel quadro di Cranach, si è cercato di intravedere qualche nesso con la Riforma protestante, di cui il pittore fu coevo e seguace. Un’ipotesi plausibile è che il personaggio ivi principale, abbigliato come una cortigiana e con in mano un piccolo coltello, rappresenti una personale interpretazione della tentatio tristitiae, tentazione esercitata dalla malinconia, e implichi la condanna di ogni eventuale cedimento o compiacimento in essa. Insomma, una versione al femminile del “demone meridiano” di medievale memoria, insidiatore di conventi e abbazie. Malgrado somiglianze formali, sussiste una sostanziale differenza tra la Melencolia di Dürer e la Melancholie di Cranach. Nella seconda, una specie di strega, l’elemento angelico è del tutto assente. È pur vero, le diverse interpretazioni confermano la complessità o ambiguità del sentimento in questione, alle soglie della modernità e oltre. Cranach ne fu ossessionato, al punto da produrre quattro varianti del medesimo soggetto, all’incirca nello stesso periodo. Quella oggi allo Statens Museum for Kunst di Copenhagen ci mostra una Malinconia seduta in basso con ali bianche, la quale osserva con disincanto dei putti nudi giocare in un interno. 15 Ma la scena che si offre alla vista sullo sfondo oltre la finestra è una cruenta battaglia, mentre deità selvagge e pagane cavalcano in cielo: le stesse che infestano fosche nubi, nel dipinto consimile al Museo di Unterlinden. Probabilmente deluso da eventi contemporanei, da esistenziale che era il pessimismo dell’autore si fa storico, investendo di sé un mondo predestinato a una violenta perdizione. Nera o bianca o a colori che fosse, la sua malinconia è il cupo presentimento di una incombente apocalisse. 15 Più che a Dürer, il particolare enigmatico dei putti che giocano con una sfera rimanda vistosamente al precedente allegorico di Giovanni Bellini qui citato nella nota n. 9. Quanto al coltellino impugnato dalla “strega” di L. Cranach nelle varie versioni del suo quadro, con esso ella è intenta a fare la punta a un lungo ramo, quasi a voler preparare un’arma acuminata con cui i putti giocosi – cioè un’umanità inconsapevole o incosciente – possano trafiggersi a vicenda!

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7 – Lucas Cranach il Vecchio, Die Melancholie: Statens Museum for Kunst, Copenhagen; 1532

La dolce malinconia Più fedele al prototipo umanistico di Dürer è la Melencolia dell’incisore tedesco Hans Sebald Beham, del 1539 circa (Herzog Anton Ulrich-Museum, Braunschweig). Come in molte immagini di questo tipo, una mano di questa Malinconia ne sorregge la testa in atteggiamento meditativo e sconsolato. Il braccio poggia il gomito su un volume chiuso, la cui funzione impropria contrasta con l’eloquenza dell’immagine stessa. Ma può darsi che esso sia piuttosto una sorgente della malinconia, almeno stando a un versetto dell’Ecclesiaste biblico: “Dov’è molta sapienza c’è grande affanno, e chi cresce in conoscenza aumenta la sua sofferenza” (I 18). Un discorso a parte meriterebbe la Melancolia alata dipinta da Matthias Gerung nel 1558 (Staatliche Kunsthalle, Karlsruhe). Ritratta frontalmente, ella siede sovrana al centro di un paesaggio animato da una folla di personaggi minori e minimi. Essi sono intenti in varie attività mondane, né più né meno che gli Abderiti nell’apologo pseudo-ippocratico su Democrito, sotto un cielo che trasmuta dalla notte al giorno e dal cattivo al bel tempo, là dove un arcobaleno è la nota di speranza multicolore che spezza la monotonia. Dovrà passare del tempo, prima che allegorie in ogni caso inquietanti cedano il posto a immagini della malinconia più familiari e rassicuranti. Già nel Settecento esse si collocano a metà fra l’allegoria e il ritratto, che non è solo di un determinato individuo o di un modello generico, ma anche dello stato d’animo specifico, il

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quale può essere permanente o occasionale. Nel secondo caso, per dirla con Sigmund Freud, si tratta spesso del “lutto e melanconia” per la morte di un familiare o una persona amata. Un esempio notevole è Anne Home come “La Musa Pensosa”, incisione a stampa di William Winne Ryland ripresa nel 1767 da un ritratto perduto eseguito da Angelica Kauffmann (Wellcome Library, Londra). L’inglese Anne Home Hunter (1741–1821) fu una poetessa e scrittrice di testi per canzoni, alcuni dei quali musicati da Franz Joseph Haydn. Nella sua poesia è ormai presente tutto il repertorio romantico relativo alla malinconia. Nell’ultima raccolta di versi pubblicata nel 1802, Poems, nel petrarchesco sonetto “Dopo la morte di Laura”, The Pensive Muse diventa The melancholy muse, companion of my tears, “La musa malinconica, compagna delle mie lacrime” ovvero, tout court, la Musa della Malinconia. “Musa malinconica” è stato anche l’appellativo riservato dalla critica letteraria a Phillis Wheatley, prima poetessa afro-americana nota (1753-84), per cui la malinconia è soprattutto lutto, in un’accezione letterale prima che letteraria. Ma mettiamo a fuoco la “dolce malinconia” in senso più generale, e nei suoi espliciti esordi pittorici. La Douce Mélancolie è intitolato un quadro precocemente neoclassico, dipinto dal francese JosephMarie Vien nel 1756 (Cleveland Museum of Art, U.S.A.). Mentre una mano sostiene il capo della dama seduta, con lo sguardo diretto verso il basso e in abbigliamento classicheggiante, l’altra trattiene una bianca colomba. Pure classicistica è l’ambientazione. Un incensiere e un vaso di fiori hanno qui rimpiazzato dettagli lugubri o vesti e veli scuri. Una lettera spiegata su un tavolo presumibilmente allude a un amore distante oppure bruscamente interrotto. Siamo ancora lontani dalla “quieta e dolce malinconia” di un Giacomo Leopardi 16, ma essa non esercita più una seduzione ritenuta morbosa o peccaminosa, né è strettamente collegata a una mancanza o a un’assenza determinate. Nella letteratura in lingua inglese, senza dubbio la nuova percezione si rifà all’antecedente miltoniano. Nel 1757, l’americano Francis Hopkinson – uno dei futuri padri costituenti degli U.S.A. – pubblica una parafrasi in versi variata e aggiornata sia del Penseroso sia dell’Allegro di Milton. La frase ivi ricorrente 16 “I migliori momenti dell’amore sono quelli di una quieta e dolce malinconia dove tu piangi e non sai di che, e quasi ti rassegni riposatamente a una sventura e non sai quale”: G. Leopardi, Zibaldone 142, 27 giugno 1820. Nonostante il diverso contesto, si può ben confrontare col “naufragar m’è dolce in questo mare” nella lirica L’infinito, nei Canti dello stesso poeta italiano. Oppure, con i versi più popolari, composti da Ippolito Pindemonte e musicati da Vincenzo Bellini nel 1829: “Malinconia, Ninfa gentile,/ la vita mia consacro a te;/ i tuoi piaceri chi tiene a vile,/ ai piacer veri nato non è...”. Si può anche annotare che un tale sentimento è ben diverso dalla noia di Blaise Pascal, o dal “tedio” leopardiano, che ne è un conseguente sviluppo.

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Sweet Melancholy raise thy head, “Dolce Malinconia, solleva la testa”, suona invito al raccoglimento in vista di una ponderata azione, piuttosto che un’istanza rinunciataria. 17 Alla luce dei successivi sviluppi, è lecito supporre che quell’azione fosse anche politica. Il Romanticismo, di là da venire, rivaluterà sia la passione amorosa sia quella civile e politica, magari ammantandola di una toga neoclassica. Quella malinconia non più inquietante ma illuministica, ben diversa dall’accidia medievale, non era tuttavia esente da qualche positiva inquietudine. Quanto alla sua aspra dolcezza, forse meglio si può apprezzarla nelle arti figurative, o in un’Ode alla Malinconia, composta dal romantico John Keats nel 1819.

8 – Joseph-Marie Vien, La dolce malinconia: Cleveland Museum of Art, U.S.A. (1756); Thomas Beach, Sarah Siddons nel personaggio di Malinconia, in “Il Penseroso” di Milton: collezione privata (1782)

Già La Mélancolie dipinta da Jacob o Jacques van Loo verso la metà del XVII secolo era stata poco più di un ritratto femminile, a mezza figura e col capo appoggiato su una mano della donna (Musée d’Art Thomas Henry, Cherbourg-Octeville, Francia). Allievo di Carles o Charles van Loo, nipote del precedente, nel 1785 circa il pittore francese Louis Jean François Lagrenée eseguì anche lui un bel ritratto simile a quello di Jacques van Loo, e 17 F. Hopkinson, L’Allegro. Il Penseroso, in American Magazine and Monthly Chronicle for the British Colonies n. 1, novembre 1757, pp. 84-88. Cfr. Hopkinson, The Miscellaneous Essays and Occasional Writings, editi da W. Dunlap, Philadelphia 1763. Nel 1777 lo stesso autore pubblicherà il libello The Political Catechism, “Il catechismo politico”, a sostegno e giustificazione della guerra di indipendenza anti-coloniale nel suo Paese e altrove. Si deve in parte a Hopkinson anche il disegno della bandiera degli Stati Uniti d’America.

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con lo stesso titolo (Musée du Louvre, Parigi). Nell’Ottocento, quello del ritratto malinconico diverrà un vero e proprio genere pittorico, eccezionalmente raffigurante un uomo e quindi privo di intenzioni allegoriche, tutt’al più simboliche: si veda l’esempio di più versioni della Melancholia di Edvard Munch, eseguite fra il 1891 e il 1896, due delle quali alla Nasjonalgalleriet di Oslo e al Kunstmuseum di Bergen in Norvegia. In questi tendenziali autoritratti, il paesaggio marino di sfondo assume rilevanza non secondaria. 18 Fra i ritratti femminili intitolati alla “Malinconia”, in varie lingue europee, sono da ricordare quelli dipinti da Constance-Marie Charpentier (Musée de Picardie, Amiens, Francia; 1801), da Francesco Hayez (Pinacoteca di Brera, Milano; 1840-41), da Arnold Böcklin (Kunstmuseum, Basilea; 1871-72), da Edgar Degas (Phillips Collection, Washington; ca. 1874), da Josef Israëls (Rijksmuseum, Amsterdam; ca. 1880-99), da Jean-Jacques Henner (possibile ritratto di Suzanne Valadon: collezione privata; seconda metà del secolo). Più di una sono poi le malinconiche, o le Mélancolies, dipinte da Jean-Baptiste Camille Corot. A distanza di anni dalla fine della stagione rivoluzionaria in America e in Europa, nella lirica su citata di Keats la Malinconia era tornata a essere velata come quella di Milton. Ma ella aveva il pregio di convivere con la Bellezza e col Piacere: difficile, gustare l’una o l’altro senza la condivisione con la Malinconia e l’intercessione da parte di essa; perfino l’emozione estetica ha un suo costo. Ecco il ritratto della sublime Dark Lady, quale illustrato nei versi del poeta inglese: Ay, in the very temple of Delight/ Veil’d Melancholy has her sovran shrine,/ Though seen of none save him whose strenuous tongue/ Can burst Joy’s grape against his palate fine;/ His soul shall taste the sadness of her might,/ And be among her cloudy trophies hung (“Ahi, proprio nel tempio della Delizia,/ Malinconia velata ha il suo regale santuario,/ invisibile a tutti tranne a chi con ostinata lingua/ sa schiacciare gli acini della Gioia contro un fine palato./ La sua anima gusterà il triste potere di lei,/ e poi se ne starà fra i suoi trofei appesi tra le nuvole”; vv. 25-30). Per la verità, la tardiva allegoria di Keats assomiglia più a una delle statue neoclassiche di Antonio Canova che a una 18 E. Munch tornerà sul tema espressamente, ed espressionisticamente, nel 1896-99 e nel 1906-07. In entrambi i casi la figura umana è di una donna: nel primo caso, la sorella Laura, sofferente di disturbi mentali; nel secondo, non è dato scorgerne il volto né ricostruirne l’identità. Veri e propri autoritratti, intitolati Melancholik, saranno invece quelli del polacco Wojciech Weiss (1875-1950). Ritratti malinconici con soggetti maschili non erano comunque certo una novità: basti citare Bartholomeus Hopfer, Exilium Melancholiae, con l’allora immancabile – e giocoforza asessuato – teschio in primo piano (Musée des Beaux-Arts, Strasburgo; ca. 1643).

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romantica eroina. A ogni modo, essa rappresenta l’altra faccia del Piacere, Delizia o Gioia che sia, e non è aliena da un’ammiccante ironia o autoironia da parte del poeta malinconico. Un’immagine letteraria della “dolce malinconia” ancor più pertinente può rinvenirsi in una confessione del filosofo danese Søren Kierkegaard, nell’opera Enten-Eller ovvero “Aut-Aut”, firmata nel 1843 con lo pseudonimo Victor Eremita: “Fuori del mio nutrito giro di conoscenze, mi rimane un intimo confidente: la mia malinconia. Nel bel mezzo della gioia o del lavoro, lei fa un segnale e mi chiama in disparte, anche se fisicamente resto sul posto. Detta malinconia è l’amante più fedele da me conosciuta: nessuna meraviglia, se ne ricambio l’amore, di conseguenza” (prima sezione, Diapsalmata ad se ipsum). Negli stessi aforismi, l’autore aggiunge che di solito l’attitudine malinconica non è disgiunta da senso del comico. Anziché disgusto e più o meno volontario esilio, insomma, un temporaneo chiamarsi fuori e prendere le distanze dal mondo, per poterlo meglio osservare e considerare criticamente. Nel capitolo Riflessi della tragedia antica nella modernità, incontriamo una valutazione più generale e drammatica: “Dall’antica Grecia si differenzia non poco la nostra epoca, in quanto più malinconica e incline alla disperazione: abbastanza malinconica però, da rendersi meglio conto della natura della responsabilità”. Messa in questi termini, in quelli cioè di una pretesa superiore coscienza del bene e del male, la questione fa sorgere il sospetto che qui si alluda a complessi di colpa ancor più che a sensi di responsabilità etica. Il pensiero di Nietzsche, e l’analisi di Freud, sono già alle porte. Un’obiezione alternativa, di ascendenza hegeliana, può essere tuttavia che la cosiddetta “coscienza infelice” possa anche nascere da una falsa coscienza, i cui motivi – a monte – siano di ordine sociale e politico. 19

19 Cfr. Sandra Plastina, “L’enigma della melanconia. Identità e rappresentazione della vita psichica in J. Butler”, in Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler, a cura di M. Pasquino e S. Plastina, Mimesis, Milano-Udine 2008 (con speciale riferimento a J. Butler, The Psychic Life of Power: Theories in Subjection, Standford University Press, 1997; e Precarious Life: The Powers of Mourning and Violence, Verso, Londra-New York 2004: per la trad. it., si veda la nota n. 9). A riprova di quanto i temi della malinconia e dell’angoscia siano collegati con una personale rilettura della “filosofia continentale”, da parte della stessa pensatrice americana, si legga pure J. Butler, “Kierkegaard’s Speculative Despair” in The age of German idealism (a cura di Robert C. Solomon e Kathleen M. Higgins, Routledge, Londra-New York 1993 e 2003).

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9 – Thomas Cole, Il Penseroso, paesaggio romantico malinconico, ispirato con qualche libertà al poemetto di J. Milton dallo stesso titolo: fra i “personaggi”, si noti perfino una Madonna col Bambino

Una malinconia urbana Lo studioso della malinconia Jean Starobinski ha dedicato a Charles Baudelaire ben tre saggi: La Mélancolie au miroir. Trois lectures de Baudelaire (Ed. Julliard, Parigi 1989).20 Più una poetica che un’estetica della malinconia, espressa altresì dal poeta francese in scritti in prosa. Qui commentiamo in breve la sua lirica pertinente più famosa Spleen, nella raccolta Les fleurs du Mal, “I fiori del male”, pubblicata nel 1857 e riedita nel 1861. La parola francese mélancolie non vi risuona, ma il termine inglese spleen del titolo significa inizialmente “bile”; in seguito, passa a designare null’altro se non la malinconia. 20 Cfr. J. Starobinski, La malinconia allo specchio. Tre letture di Baudelaire, trad. it. di D. De Agostani, prefazione di Yves Bonnefoy, Garzanti, Milano 1990. Piace qui riportare almeno un paio di aforismi in prosa, dai Diari intimi di Baudelaire: “Non nego che la gioia possa allearsi con la bellezza, ma la prima ne è uno degli ornamenti più volgari, mentre la malinconia è sua eminente compagna da sempre. […] Una testa bella e seducente, voglio dire una testa femminile, lascia sognare di voluttà e insieme di tristezza, sia pure in forma confusa. Ciò presuppone un’idea di malinconia, di indolenza, perfino di sazietà, e nondimeno il suo contrario, ossia un desiderio e ardore di vivere, associato a una rifluente amarezza, quasi originata da qualche privazione o disperazione. Il mistero e il rimpianto sono altrettanti caratteri del bello. Una bella testa maschile non ha invece bisogno di suggerire, s’intende agli occhi di un uomo e forse tranne che a quelli di una donna, una tale idea di voluttà, la quale nel volto femminile risulta tanto più provocante e attraente quanto esso in genere appare più malinconico” (I 10). Non potrebbe darsi una giustificazione e teorizzazione migliore, del ritratto malinconico al femminile.

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Neppure, quest’ultima è un’allegoria impersonata, come abbiamo visto presso altri poeti quali Milton e Keats. Nel testo tuttavia, compaiono vaghe e fugaci personificazioni, quali una Speranza soccombente e l’Angoscia vittoriosa. Ciononostante, protagonista assoluto resta il paesaggio, che da esteriore si fa interiore, tramite un processo di riflessione e di introiezione. A dire il vero, la proiezione è reciproca. Infatti quel paesaggio attendibilmente urbano, funestato dal maltempo, influisce sull’animo del soggetto almeno quanto la sua malinconia si riversa sul paesaggio, confondendosi con esso e allegorizzandolo ai propri fini espressivi. Va da sé, quel soggetto è il poeta stesso, ma in maniera talmente intensa, che esso facilmente corrisponde e si identifica con una soggettività malinconica estesa. La forza della soggettività malinconica sta appunto nel travestirsi da oggettività, quasi simulandola. Nell’arte del Novecento, un’analoga visione della realtà venne specialmente recepita dall’Espressionismo, dal Surrealismo e – ancor prima di quest’ultimo – dalla cosiddetta Pittura Metafisica. Al posto del poeta o del pensatore, abbiamo ovviamente un artista, quale fu eminentemente Giorgio de Chirico. Nella sua “pittura metafisica” il tema emerge nominalmente nel 1912 con Melancolia, ma è il biennio successivo a essere maggiormente segnato dalla vena malinconica, in opere quali La malinconia di una bella giornata, Stazione Montparnasse (malinconia della partenza), Piazza d’Italia (malinconia di autunno) e Mistero e malinconia di una strada. Di nuovo durante e al termine o subito dopo la Prima Guerra Mondiale, nel 1916 e 1918 o 1919, abbiamo due quadri rispettivamente intitolati La malinconia della partenza e Malinconia ermetica. Assai più tarda, del 1938, è Melanconia dell’uomo politico. Come altri dipinti di De Chirico ed eccetto La malinconia della partenza e Malinconia ermetica, essi rappresentano vedute urbane, in cui non di rado elementi classicistici si mescolano con altri tipici dell’era industriale. A differenza che le rovine frequenti nei paesaggi dell’arte barocca o di quella romantica, ciò che conferisce loro un’atmosfera malinconica sono una spaesante trasfigurazione e una studiata semplificazione della realtà, le quali rasentano quella visione onirica che verrà privilegiata dai Surrealisti. Ma vediamo se per caso ricorre, al loro interno, qualche riconoscibile residuo allegorico. Non mancano figure o sagome suggestive, quali la bambina che corre facendo ruotare per gioco un cerchio davanti a sé in Mistero e malinconia di una strada, oppure la statua monumentale vista di spalle in Melanconia dell’uomo politico. Però ce n’è una che ha una sua storia, e che ritroviamo in più opere di De Chirico, oltre che in Melancolia, in La 23

malinconia di una bella giornata e in Piazza d’Italia. Dovette esserci un’associazione piuttosto stretta fra quest’immagine e la malinconia, nella mente del pittore. Si tratta di una scultura ellenistica di Arianna giacente e dormiente, di cui sussistono copie in più musei europei. Stando al mito che era piaciuto a Friedrich Nietzsche, l’eroina viene abbandonata durante il sonno da Teseo su un’isola deserta. Al suo risveglio ella lamenterà la propria solitudine e disperazione, ma alla fine sarà consolata dal dio Dioniso. Secondo una interpretazione già antica, un tale incontro avverrà non nell’immediatezza della vita, bensì nell’eternità della morte. La verità è che ignoriamo che cosa “davvero accadde” dopo il risveglio di Arianna. Ma, lo insegna sempre il mito, sappiamo che lei sa come entrare e uscire indenne dai labirinti dell’inconscio. Sarà di qualche profitto questa sua esperienza?

10 – Lutto, malinconia e angoscia, in tre figure femminili rispettivamente di Angelica Kauffmann (stampa ripresa da un ritratto perduto), Federico Zandomeneghi (Associazione Edmondo Sacerdoti, Milano; 1912-13) e Käthe Kollwitz (si veda il testo principale)

Ancor più che dell’anima umana e della coscienza in generale, quell’Arianna addormentata al centro delle belle piazze d’Italia di De Chirico, e attorniata da lunghe ombre, è un’allegoria dell’intuizione artistica. I sogni apparentemente stravaganti dell’arte allora contemporanea sono futili distrazioni, o utilizzabili presentimenti e avvertimenti? Almeno in retrospettiva, essi non paiono meno irrazionali di certi incubi dell’esistenza e della Storia. La stessa storia dell’arte sembra avere un senso, là dove la Storia tout court non sempre mostra di averne, quasi che si tratti di percorsi paralleli sebbene comunicanti. Fra i Surrealisti, Salvador Dalí fu un altro frequentatore dell’ispirazione malinconica, alternata a 24

esibizionistici entusiasmi. Suoi sono alcuni ritratti femminili malinconici, ovviamente aggiornati alla maniera surrealista. Ma qui più interessa un composito paesaggio alla Hieronymus Bosch, dallo strano titolo come tante opere di Dalí: Idillio atomico e uranico malinconico (Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofia, Madrid). La data di composizione non a torto richiama alla mente il bombardamento atomico da parte di aerei degli U.S.A. sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, nel 1945. Questo evento dovette esercitare una profonda impressione sull’artista, per lo più distaccato dall’impegno politico. Se non proprio politica, la malinconia del quadro in questione è storica: il termine “idillio” presente nel titolo è da intendersi come amaro sarcasmo. Esso fa da pendant con la più celebre Guernica, dipinta da Pablo Picasso all’epoca della guerra civile in Spagna. L’aereo bombardiere che vola al centro del paesaggio di Dalí, sganciando il suo carico di morte, lascia scarso spazio all’allegorismo e relega in secondo piano perfino le componenti surreali. Una constatazione malinconica investe di sospetto l’utilizzo della tecnica nella modernità, e la civiltà da essa prodotta. D’altronde, l’allegoria era riapparsa nel quadro dell’espressionista tedesco Otto Dix Melancholie, nella “veste” abbastanza inedita di una donna nuda e dallo sguardo perverso. Seduta in un interno su un basso sedile, ella solleva con un braccio e una mano un manichino presumibilmente maschile, mostrandogli un bagliore d’incendio oltre una finestra. Ai piedi di lei giace il teschio tradizionale delle Vanitas pittoriche, ma il suo ghigno sinistro ha poco del vecchio memento mori con intento edificante (Kunstmuseum, Stoccarda; 1930). Più che altro, la Malinconia di Dix ricorda quelle di Lucas Cranach, premonitrici di imminenti sventure. Un Elogio della malinconia o verrà invece dipinto dal surrealista Paul Delvaux nel 1948, a catastrofe avvenuta (collezione privata). Quest’allegoria femminile è ugualmente nuda e riccamente ingioiellata, sdraiata su un sofà in un interno dall’arredo antiquato e artificioso. Unica nota di modernità, lampade elettriche illuminano l’ambiente vagamente equivoco, una via di mezzo tra una casa di piacere di lusso e una sala d’aspetto di prima classe in una stazione ferroviaria. Se paragonata alla statuaria Arianna pure seminuda di De Chirico, questa signora malinconia è sì sveglia e immortalata in carne ed ossa, ma non meno impassibile nel suo ruolo da rebus. L’erotismo freddo e malinconico di Delvaux si può infine confrontare con la sensualità discreta di un maestro della malinconia urbana – anzi, metropolitana –, lo statunitense Edward Hopper. Nella sua produzione non c’è nulla di surreale o di onirico. La 25

realtà da lui ritratta non è trasfigurata né deformata; tutt’al più, per così dire, essa è sovraesposta. In un suo dipinto intitolato Escursione nella filosofia, un uomo in maniche di camicia siede sulla sponda di un letto, mentre una donna seminuda riposa distesa alle sue spalle. Poggiato a fianco del primo, un libro aperto in formato tascabile. Un quadro solo in parte visibile è appeso a una parete della camera. Uno scorcio campestre si intravede attraverso una finestra spalancata (collezione privata; 1959). Ivi la malinconia è diffusa; ogni congettura causale immediata diventa banale, né importa molto quali pensieri attraversino la mente dell’uomo dall’espressione corrucciata, che anziché guardare la natura luminosa oltre la finestra concentra – platonicamente? – la sua attenzione sul riquadro di luce da essa proiettato sul pavimento. Evidentemente qualcosa si è incrinato, nel rapporto con una dimensione naturale del vivere. Ciò contribuisce a far sì che all’interno della stanza alberghi una doppia solitudine. La filosofia non è nella lettura del libro lasciata in sospeso, bensì in quella gran parte del mondo che uno stile di vita stereotipato ha escluso dalla nostra comprensione e partecipazione. Questa “filosofia” di Hopper sarà pure un po’ naïve. Le va comunque riconosciuto il merito di aver rispecchiato certe condizioni, che hanno consentito alla malinconia di divenire un fenomeno endemico, da elitario o circoscritto che era. 21

21 Nella produzione di Hopper, un precedente è Morning Sun del 1952, dove alcuni ingredienti sono analoghi ma la malinconia rischiarata dal “sole al mattino” è tutta urbana e il soggetto malinconico è una donna. Probabilmente, Excursion into Philosophy si ispira anche allo schema compositivo assai simile di un dipinto dell’italiano Mattia Preti: Boezio e la Filosofia (collezione privata; ca. 1680). In questo caso, la situazione è ben più drammatica e meno erotica. È un’allegoria femminile della filosofia, piuttosto discinta in verità, a sedere sul bordo del letto e a consolare con i suoi discorsi Severino Boezio, condannato a morte. I libri dell’antico filosofo e politico romano giacciono sul pavimento, e l’ambiente è un oscuro carcere, privo di visibili finestre. Per quanto riguarda invece le scene cittadine di Hopper, si è potuto stabilire un paragone con l’antecedente delle non meno malinconiche “periferie urbane” del nostro Mario Sironi.

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11 – Edvard Munch, Melancholia: Kunstmuseum, Bergen, Norvegia; 1894-96

Lutto, malinconia e angoscia Nel saggio del 1915 Lutto e melanconia, Sigmund Freud distingue fra lutto consapevole per la perdita dell’oggetto del proprio amore o desiderio, e malinconia come nostalgia causata da una separazione da qualcuno o qualcosa, non ben identificata per effetto di una eventuale rimozione dei ricordi relativi: “Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la malinconia a una perdita oggettuale sottratta alla coscienza, a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio”.22 Nel primo caso la sofferenza può restare nel vago oppure orientarsi verso altri oggetti, non solo in quanto desiderio compensatorio, ma anche come risentimento nei confronti di se stessi o di terzi. 22 S. Freud, “Lutto e melanconia”, in Metapsicologia, trad. it. di R. Colorni, Bollati Boringhieri, Torino 2002; p. 128. Cfr. un saggio del 1956 di Ludwig Marcuse: “Due diagnosi dell’angoscia: Freud e Kierkegaard” (Zwei Diagnosen der Angst: Freud und Kierkegaard), in Sigmund Freud. La sua concezione dell’uomo, trad. it. di M. Donà, Garzanti, Milano 1971. L’autore vi critica la ereditarietà dell’angoscia sia nella concezione religiosa di sensi di colpa per un “peccato originale”, sia in quella freudiana di rimorsi per una “uccisione del padre primigenio”. Pure per Kierkegaard l’angoscia nasce dal rischio di una perdita di sé, anzi del sé in senso radicale. Essa è anzitutto sconcerto di fronte all’assoluta libertà umana, di agire tanto per il bene quanto per il male fino ad estreme conseguenze. Il che equivale al potersi sentire abbandonati a se stessi, in balia di forze che minacciano di annullare il soggetto e oggetto dell’azione, l’uomo nella sua essenza. Sconcerto tanto maggiore, quanto quelle forze distruttive si presentano come endogene, prima di realizzarsi all’esterno e potersi ritorcere contro la loro fonte di provenienza.

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Gli oggetti in questione possono inoltre non essere singole persone, bensì entità collettive o astratte, e un’apprensione – che a questo punto chiameremo piuttosto angoscia – può scaturire perfino dal timore di una perdita a venire, non esclusa quella di sé ovvero della propria memoria identitaria. Sempre che si accetti l’impostazione inaugurata dal padre della psicanalisi, in questa breve sintesi sono già impliciti i confini tra lutto, malinconia e angoscia, i quali però sono tutt’altro che netti anche in condizioni psichiche non patologiche. Molto dipende da quale criterio di normalità, e quale concetto di inconscio. In un’accezione filosofica e non clinica, l’inconscio è tanto dentro quanto fuori di noi, in una relazione di tendenziale specularità e ripercussione emotiva. È pur vero che facilmente la malinconia può degenerare in angoscia, e in media un soggetto malinconico è maggiormente propenso a concepire immagini angosciose. Nella storia dell’arte, abbiamo visto Michelangelo ritratto da Raffaello nelle vesti del filosofo presunto malinconico Eraclito. Nel Giudizio Universale affrescato dal primo nella Cappella Sistina in Vaticano, incontriamo la figura di un dannato, divenuta emblematica del sentimento dell’angoscia. Con una mano egli si copre un occhio, mentre l’altro è sbarrato nella visione della propria perdizione. La sua perdita di sé è infatti definitiva, stando al credo religioso. Angoscia è appunto il rendersi conto non solo di una perdita, ma soprattutto della sua irrimediabilità, e ciò la imparenta sia con il lutto sia con la malinconia, tanto da potersi dire una somma delle due. Assai più tardi, avremo immagini a carattere laico, ispirate allo stesso sentimento. Ad esempio, la sagoma deforme – quasi deformata dall’eco del proprio urlo – nell’altrettanto famoso dipinto L’urlo di Edvard Munch (Galleria Nazionale, Oslo; 1893). In altri casi, come in certi autoritratti di Vincent van Gogh o – in seguito – della tedesca Elfriede LohseWächtler, il timore della perdita di sé coincide con quello purtroppo realistico della follia. Nell’ambito dell’Espressionismo tedesco, un’angoscia a sfondo sociale più che esistenziale è quella illustrata da Käthe Kollwitz, là dove il tema è la perdita indotta della dignità della persona, come in Nachdenkende Frau (“Donna pensosa”, in due versioni consimili, di cui una al Milwaukee Art Museum, U.S.A.). Questa litografia del 1920 è notevole, anche perché il modello palese è quello michelangiolesco della Cappella Sistina. Questo “dannato” è però su questa terra e al femminile. Una sua mano insiste nel coprire un occhio, ma ambedue sono chiusi, per non vedere la miseria intorno e le prove della propria impotenza o dell’altrui mancanza di pietà. Più che una vena patetica ancora ottocentesca, 28

nella grafica e nella scultura della Kollwitz c’è la capacità di avvertire un presente drammatico e di preavvertire un destino comune tragico, a conferma del fatto che motivi storico-politici sovente si affiancano a quelli individuali nel determinare uno stato d’animo quale la malinconia e nel trasformarla in angoscia. Sia presso la Kollowitz sia nella LohseWächtler, si rileva poi quel complesso elemento psicologico prevalentemente femminile che Julia Kristeva analizzerà come “abiezione”. L’arte di entrambe venne considerata “degenerata” dai Nazisti in Germania. A stento la Kollowitz poté evitare l’internamento in un campo di concentramento, morendo poco prima della fine della Seconda Guerra Mondiale. La Lohse-Wächtler fu soppressa in una finta casa di cura per malati mentali.

12 – Giorgio de Chirico, Melancolia: collezione privata (1912); Otto Dix, Melancholie: Kunstmuseum, Stoccarda (1930)

Resta da chiedersi in che modo la malinconia, o l’angoscia sua figlia illegittima, possano suscitare o alimentare la riflessione filosofica. Paradossalmente un pensatore quale Martin Heidegger, compromesso col Nazismo e comprensibilmente controverso, può fornirci qualche spunto utile per abbozzare una risposta. Di lui, ricorre qua e là una citazione da Essere e tempo, secondo cui la radice di ogni atto creativo affonderebbe nella malinconia, anche se non è detto che tutti i malinconici debbano essere soggetti creativi né che la malinconia sia necessariamente l’anticamera del sublime. Ne consegue però che, “in quanto agire creativo ed essenziale dell’esserci umano, la filosofia è nella Grundstimmung 29

della malinconia”, là dove Grundstimmung sta per umore di fondo.23 Tuttavia, una asserzione del genere non risulta molto originale né specifica. Essa si colloca nella scia di una tradizione di rivalutazione della malinconia in quanto sentimento o temperamento creativo, che abbiamo visto essere antica e già di per sé filosofica. Cercando qualcosa di meno generico, lo rinveniamo in un passo di Introduzione alla Metafisica, corso accademico tenuto nel 1935, ma il cui testo è stato riveduto e pubblicato da Heidegger nel 1966. Una certa vena intimistica, insolita in un filosofo, fa sì che anche questo brano sia spesso citato: “Non si tratta, presumibilmente, di una domanda qualsiasi. È chiaro che la domanda ʻPerché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?’ è la prima di tutte le domande. Non certo la prima per quanto riguarda l’ordine temporale. I singoli, e anche i popoli, si pongono una quantità di domande nel corso del loro sviluppo storico attraverso i tempi; affrontano, esplorano, indagano ogni sorta di cose prima di imbattersi nella domanda: ʻPerché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?’. Capita [...] a ciascuno di noi di essere, almeno una volta e magari più di una, sfiorato dalla forza nascosta di questa domanda, senza tuttavia ben rendersene conto. In certi momenti di profonda disperazione, ad esempio, quando ogni consistenza delle cose sembra venir meno e ogni significato oscurarsi, la domanda risorge. Può darsi che una sola volta essa ci abbia colpito, come il suono cupo di una campana echeggiante nell’intimo e che vada via via morendo. Oppure la domanda si presenta in una esplosione giubilante del cuore, allorché repentinamente tutte le cose si trasformano e ci attorniano come per la prima volta, tanto che riuscirebbe più facile concepire che esse non siano piuttosto che siano proprio come sono. La domanda si presenta anche in certi momenti di noia, quando ci sentiamo ugualmente distanti dalla disperazione come dalla gioia; ma in 23 M. Heidegger, Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi da Sein und Zeit (1927), Longanesi, Milano 1992; pag. 271. Potremmo essere tentati di considerare le simpatie di Heidegger per il Nazismo un effetto distorto della sua malinconia, e indizio della natura morbosa di essa. Ma sarebbe un azzardo quanto meno inopportuno. La malinconia tardo-decadente sembrerebbe essere impolitica o piuttosto bipartisan, se si tiene conto del fatto che altri, segnatamente un pensatore come Walter Benjamin, attribuiva scherzosamente il proprio temperamento malinconico alla circostanza di essere nato sotto il segno di Saturno, e finì vittima sia pure indiretta dei Nazisti. Sulla concezione della malinconia in Benjamin, si legga specialmente Max Pensky, Melancholy Dialectics: Walter Benjamin and the Play of Mourning, University of Massachusetts Press, 2001; e Giorgio Agamben, “L’angelo malinconico”, in L’uomo senza contenuto, Quodlibet, Macerata 1994 (vi si trova pure un’originale descrizione e commento della “Malinconia alata” di Dürer). Ma l’interpretazione più progressista è probabilmente di Livio Bottani in Malinconoia ed epoché (Mercurio, Vercelli 1995), secondo cui la malinconia può funzionare da cesura nel conformismo dell’io, infrangendo i luoghi comuni o i pregiudizi di un consenso oppressivo.

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modo tale che l’incombente normalità di ciò che è induce a una desolazione nella quale appare indifferente che ciò che è sia o non sia. Allora, in guisa ancor più pertinente, risuona ancora la domanda: ʻPerché vi è, in generale, l’essente e non il nulla?’”. 24 Qui Heidegger dà per scontato il nome del formulatore della “domanda metafisica fondamentale”, la quale avrebbe inaugurato la filosofia moderna. Peraltro, egli in parte altera quella formulazione e ne decurta la completezza. Nell’originale , si tratta di un doppio interrogativo: in primo luogo, Pourquoy il y a plustôt quelque chose que rien?, “Perché c’è qualcosa piuttosto che niente?”; in seconda istanza, supposé que des choses doivent exister, il faut qu’on puisse rendre raison, pourquoy elles doivent exister ainsi, et non autrement, “supposto che delle cose debbano esistere, occorre che si possa rendere ragione del perché esse debbano esistere così, e non altrimenti”. 25 Pertanto, il secondo quesito sarebbe “Perché le cose devono esistere così, e non altrimenti?”. Proprio su quest’ultimo Gottfried W. Leibniz aveva basato il suo ragionamento relativo al “principio di ragione sufficiente”, convincente o meno che esso fosse, anziché sul primo quesito. Al momento dello smarrimento più o meno malinconico, subentrava e si rinnovava quello di una pensosa meraviglia. Stupore, che non escludeva neanche il poter “essere altrimenti” delle cose, sia pure per assurdo. Di nuovo come nell’antichità, la filosofia non scaturiva se non da una tale concatenazione: quasi un corto circuito, che in Heidegger stenta a riprodursi, concentrato – e angosciato – come egli è sulla prospettiva eventuale del nulla dischiusa dal primo quesito. 26

24 M. Heidegger, Introduzione alla Metafisica, trad. it. di G. Masi da Einführung in die Metaphysik, Mursia, Milano 2003; pp. 13-14. Per una critica della concezione di Heidegger, basata peraltro sull’esperienza terapeutica, cfr. Ludwig Binswanger, Melanconia e mania. Studi fenomenologici, trad. it. di M. Marzotto da Melanchonie und Manie (1960), Bollati Boringhieri, Torino 2006. 25 G. W. von Leibniz, Principes de la nature et de la grâce, fondés en raison, § 7; 1714. 26 Semmai quel colpo d’ala si era avuto nel 1928, in Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo (trad. it. a cura di Guido Cusinato, FancoAngeli, Milano 2004; p. 177), dove la grundfrage, la domanda fondamentale diventa “Perché mai esiste un mondo? Perché e come mai ʻio’ sono?”: nell’originale, Warum ist überhaupt Welt, warum und wieso bin “ich” überhaupt?. Il che implica “Perché io sono io e non altro, ovvero un altro, in generale?”, andando tendenzialmente in una direzione già indicata da Leibniz, cioè del problema di una chiusura monadica dell’ente coscienziale, ermetica salvo l’intervento di un fattore comunicativo esterno, prestabilito e provvidenziale o meno che esso sia...

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13 – Edward Hopper, Escursione nella filosofia: collezione privata; 1959

Altri saggi dello stesso autore, in italiano, agli indirizzi Web: http://www.scribd.com/doc/2078222/Tempo-spazio-e-narrazione http://www.scribd.com/doc/2181646/Il-Labirinto-e-il-Mandala http://www.scribd.com/doc/2257952/Sillogistica-figurata http://www.scribd.com/doc/2297024/I-cigni-e-la-luna-Archeologia-dellEssere http://www.scribd.com/doc/2531989/Nonostante-Raffaello-Altre-Annunciazioni http://www.scribd.com/doc/2533685/Zoom-su-Ernst-Bloch http://www.scribd.com/doc/3458860/Il-canto-delle-Sirene-o-le-voci-di-dentro http://www.scribd.com/doc/3461604/Alcesti-la-donna-che-visse-due-volte http://www.scribd.com/doc/38852748/Immagini-del-pensiero http://www.scribd.com/doc/43856778/Stupor-Mundi-la-meraviglia-filosofica http://www.scribd.com/doc/48276061/Orientalismo-stereotipi-e-archetipi http://www.scribd.com/doc/54208474/Cinque-ritratti-di-donne-a-Palermo http://www.scribd.com/doc/54997194/Locri-divinita-al-femminile http://www.scribd.com/doc/57710691/Morgantina-le-dee-ricomponibili http://www.scribd.com/doc/59895725/Antigone-e-la-Sfinge 32

http://www.scribd.com/doc/64657971/L-Aquila-Madonne-rosoni-e-chiostri http://www.scribd.com/doc/69349228/Figure-della-memoria-e-dell'inconscio http://www.scribd.com/doc/75902652/Il-Se-attraverso-l-Altro-nel-pensiero-arabo http://www.scribd.com/pinoblasone/d/78041708-Archeologia-mariana Copyright [email protected] 2012

14 – Raffaello Sanzio, Michelangelo Buonarroti ritratto come Eraclito, particolare della Scuola di Atene, nelle Stanze Vaticane; e M. Buonarroti, un dannato, particolare del Giudizio Universale: Cappella Sistina, Città del Vaticano, Roma

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