Ludovico Ariosto - Satire

February 23, 2018 | Author: sbonaffino | Category: Italian Literature, Satire, Niccolò Machiavelli, Philology, Poetry
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Ludovico Ariosto - Satire...

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«SATIRE» DI LUDOVICO ARIOSTO di Corrado Bologna

Letteratura italiana Einaudi

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In: Letteratura Italiana Einaudi. Le Opere Vol. II, a cura di Alberto Asor Rosa, Einaudi, Torino 1993

Letteratura italiana Einaudi

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Sommario 1. 1.1. 1.2. 1.3.

Genesi e storia Il «libro» delle Satire. La tradizione manoscritta. Il sistema correttorio.

4 4 6 12

2.

Struttura.

15

2.1. 2.2.

La «forma-satira» fra Quattro e Cinquecento, prima di Ariosto. Machiavelli, Ariosto, Alamanni (e gli altri).

15 18

3.

Tematiche e contenuti.

23

3.1. 3.2. 3.3.

I temi «satirici» e il «tu» dialogico. I «contenuti» delle satire ariostesche. «Ludovico della tranquillità»?

23 25 26

4.

Modelli e fonti.

31

4.1. 4.2.

«Fonti» e «parodia» nelle Satire. La struttura e le «fonti» degli esordi e degli apologhi.

31 35

5.

Conclusioni.

42

6.

Nota bibliografica.

44

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1.

Genesi e storia.

1.1. Il «libro» delle Satire. La composizione delle Satire ariostesche risale ad un periodo (1517-25) successivo alla pubblicazione del primo Furioso (1516) ed alla stesura delle commedie in prosa (La Cassaria, 1508; I Suppositi, 1509), ed è per la maggior parte precedente rispetto alla fase più intensa di rielaborazione versificata delle commedie originariamente prosastiche, e di scrittura delle nuove in versi (prima redazione del Negromante, 1520; I Studenti, 1520-25; seconda redazione del Negromante, 1528; La Lena, 1528; redazione in versi de La Cassaria, 1529). È il periodo del minimo adattamento del Furioso per la seconda edizione del ’21, e specialmente di riflessione sulla forma del colloquio con un “tu” ideale, che, impostata nel teatro in prosa, sboccerà adeguatamente, e secondo una più congrua organizzazione testuale, nelle riscritture metriche di esso. Tutt’altro che marginali e “occasionali” da un punto di vista formale-letterario – ché, anzi, s’inseriscono alla perfezione, in forma necessaria, fra l’inventio epico-romanzesca e l’ideazione di uno stile teatrale – le Satire, proprio in grazia del loro «andamento dialogico», lanciano «un ponte fra le commedie in prosa e quelle in versi; esenti però dalla ruggine sintattica delle prime, dalla monotonia ritmica delle seconde»1. La loro dipendenza da occasioni, appunto (ma userei il termine, se è lecita l’estrapolazione, in senso montaliano), cioè da situazioni storicamente, ma soprattutto biograficamente contingenti il cui rilievo etico-rappresentativo viene fissato e connotato su un orizzonte più ampio, non vanifica una sostanziale, sotterranea, intrinseca e quasi automatica programmaticità del disegno globale. Come è stato ben sottolineato, «le sette Satire sono una sorta di “diario in pubblico”, che si compone autonomamente sotto l’impulso di occasioni diverse, ma che presenta, a una lettura complessiva, un’organica e coerente struttura compositiva»2. Esse non sono, però, «una raccolta di buoni sentimenti, sia pure infiorati d’arguzie maliziose, ma un libro di note e memorie autobiografiche con sparse riflessioni satiriche e morali»3. 1 C. SEGRE, Premessa all’edizione critica e commentata da lui curata di L. ARIOSTO, Satire, Torino 1987, pp. VII-XI (a p. XI). Si veda, alle pp. XIII-XIV, la Bibliografia; alle pp. XV-XXIX, l’importante Nota al testo. Da questa edizione traiamo le citazioni dell’opera. Questa edizione supera l’altra, curata dallo stesso Segre, nel vol. III delle Opere (la pubblicazione delle quali è sempre da lui complessivamente coordinata), Milano 1984, pp. 13-85 (cfr. anche qui una Nota al testo, alle pp. 565-78). 2 G. DAVICO BONINO, Introduzione all’edizione da lui curata di L. ARIOSTO, Satire, Milano 1990, pp. 5-11 (a p. 5). 3 S. DEBENEDETTI, Intorno alle Satire dell’Ariosto (1945), in ID., Studi filologici con una nota di C. Segre, Milano 1986, pp. 223-40 (a p. 227).

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Non una collezione casuale e disordinata, dunque, ma proprio un libro, in apparenza non solo tematicamente, ma anche cronologicamente organizzato (dimostrano questa miscela struttiva, mi pare, anche le note relative a una diversa disposizione di un paio di testi)4. Nella dimensione tutta letteraria tipica dell’Ariosto le Satire (che sono, fra l’altro, una fonte importantissima di notizie biografiche) fanno seguito alla fase dell’utopia, occupando invece un preciso, ben disegnato luogo: che è quello della contingenza, appunto dell’occasione, del “qui ed ora” su cui si può scherzare o moraleggiare, inventando un “tu” trascendentale che scaturisca dall’interno della forma-testo. E la sequenza delle singole schegge, l’insieme dei frammenti d’un discorso sempre interrotto e sempre ripreso per intervalla, come un basso continuo che sostiene l’articolazione di altre armonie orchestrali, restituisce proprio quest’immagine di un radicale, mai dismesso progetto etico-satirico, momento non minore, né casuale, ed invece dialettico e necessario, nei confronti della produzione lirica e teatrale e del Furioso. A petto del grande poema, le Satire costituiscono il filtro in cui «la vita in parte si disacerba del suo amaro, e maliziosamente si configura nel giro sapido dei graziosi apologhi», mentre nel Furioso «è proprio la sostanza morale, la vita illuminata da un sorriso esperto e sapiente, che si trasferisce e si rispecchia nel gioco estroso e solo apparentemente arbitrario delle sorprendenti avventure e delle romanzesche peripezie»5. Sul piano autobiografico l’epoca di composizione delle Satire è quella degli anni centrali della vita di Ariosto (1474-1533). Sono anni in cui, dopo aver rotto con il cardinale Ippolito d’Este a causa del rifiuto di seguirlo in Ungheria quale familiaris per risiedere con lui ad Agria (Eger), sua sede episcopale (al tema è dedicata la satira I, databile fra la metà di settembre e i mesi di novembre-dicembre del 1517, epoca alla quale si ascrive la II), Ariosto ottiene dapprima, con l’aiuto di Bonaventura Pistofilo, un servizio alle dipendenze del duca Alfonso, fratello di Ippolito (primavera 1518: del maggio è la satira III); quindi, dopo alcuni incarichi diplomatici a Firenze e a Roma (1519-21: forse a questo periodo risale la satira V, di difficile datazione), il Commissariato della Garfagnana, trasferendosi a Castelnuovo, il 20 febbraio 1522. Il triennio nella non facile veste di funzionario (che si chiuse – dopo rari spostamenti in patria nell’estate del ’22 e nella primavera del 4 Cfr. ibid., pp. 224-26. L’idea dell’unitarietà delle Satire, della loro qualità di libro coerente e progettato è stata ribadita, sia pure solo sul piano stilistico-tematico, da J. GRIMM, Die Einheit der Ariost’schen Satire, Frankfurt am Main 1969. Una lettura di tipo diacronico, basata sulla metamorfosi nel tempo dei temi e dei contenuti, è invece suggerita da A. CORSARO, «In questo rincrescevol labirinto»: le satire garfagnine di Ludovico Ariosto, in «Filologia e critica», IV (1979), pp. 188-211. Si veda anche, per la conservazione, lungo un ampio spettro cronologico, di stabili scelte sintattiche, P. FLORIANI, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma 1988, in particolare pp. 83 sgg. 5 L. CARETTI, Ludovico Ariosto, in Storia della Letteratura Italiana, a cura di E. Cecchi e N. Sapegno, III. Il Quattrocento e l’Ariosto, Milano 1966, pp. 787-895 (a p. 824: ma sulle Satire si vedano complessivamente le pp. 813-25).

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’23 – con il rientro definitivo a Ferrara, nel giugno 1525) fu occupato essenzialmente dagli sforzi per estirpare il brigantaggio fra le montagne e le valli appenniniche e placare il dissenso politico delle popolazioni locali, sobillate contro gli Estensi da Lucca e Firenze6: ma diede “occasione” anche per la stesura di altre tre satire (IV, VI e VII). Il ritorno nella corte estense, con nuovi impegni di rappresentanza, degni del poeta ormai famoso, chiuse questa parentesi di un buon settennio d’attività intensa, la prima parte del quale trascorse in parte nel lavoro intorno alla seconda edizione del Furioso. L’Ariosto non è assolutamente autore unius libri, né unius generis: da solo, nessuno dei “generi” epico, lirico, teatrale, riesce a dar pienamente voce alla complessità del suo universo ideale ed espressivo. Tuttavia, salva restando l’autonomia piena dell’esercizio nella nuova direzione, è inevitabile, ma in fondo legittimo, che le Satire siano traguardate anche alla luce dell’esperienza, specie linguistica e diegetica (si dirà meglio – cfr. pp. 195 sgg. – intorno alla massima apertura a soluzioni sperimentali sul piano strutturale, cioè l’adattamento della forma epistolare al genere-satira) svolta nel decennio precedente soprattutto con la stesura e la revisione del poema, fino alla conquista di un difficilissimo equilibrio, sempre in contrappunto, di “invenzione” fantastica e concezione realistica della vita: equilibrio che si arricchisce dinamicamente e si sublima nell’armonizzazione musicale di forma e contenuto7.

1.2. La tradizione manoscritta. Tutte le satire ariostesche rimasero manoscritte durante la vita del poeta. Nel giugno 1534, un anno dopo la scomparsa di Ariosto, un’edizione clandestina, attribuita forse a torto a Francesco Rosso di Valenza, lo stesso che, trapiantato in Ferrara, aveva praticamente ottenuto il monopolio editoriale in città (e difatti a lui si rivolse Ariosto per stampare la terza edizione del Furioso), metteva in circolazione tutte le Satire, nell’ordine: V, I, II, III, IV, VI, VII. Quest’edizione si basava su un manoscritto oggi perduto, ma nel quale è possibile riconoscere in filigrana un derivato dal primo stadio (anteriore al definitivo inglobante le correzioni dell’Ariosto) del notevolissimo manoscritto F (Ferrara, Biblioteca Comunale Ariostea, Cl. I, B). A questa impressione (St) toccò un buon successo, con una quindicina di ristampe. Una curiosa notizia deducibile dall’Apologia che Ludovico Dolce premise nel 1535 al Furioso degli editori Bindoni e Pasini (al modo in cui Colocci 6 Per la ricostruzione dei fatti storici legati al periodo di composizione delle Satire cfr. M. CATALANO, Vita di Ludovico Ariosto ricostruita su nuovi documenti, 2 voll., Genève 1930-31, I, pp. 442-54. 7 Cfr., in questo volume, C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto, pp. 246 sgg.

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nel 1502 aveva accompagnato con un’Apologia l’edizione di Serafino l’Aquilano presso Besicken, a Roma, o il Claricio nel 1520-21 con una prefazione la stampa, presso il milanese Andrea Calvo, dell’Amorosa visione e dell’Ameto di Boccaccio)8, proprio mentre esalta l’originalità e l’eccellenza di Ariosto nel genere “satira in volgare”, attesta la pubblicazione di cinque, e non di sette satire (ma si tratterà d’una svista, salvo che si debba pensare a un’edizione parziale finora sconosciuta: anche perché tutte e sette le Satire canonizzate da St daranno in luce ancora Bindoni e Pasini nel luglio di quel medesimo ’35): «Né mi pare di tacer in questo loco l’elegantia, forza, vivacità che egli ha avuto più ch’ogni altro nel scrivere Satyre in questa lingua, quanto si vede nelle cinque (che tante a punto ne sono) dopo la sua morte uscite in luce»9. Nel 1550, a cura di un altro interessante (e spesso ambiguo, quando non inaffidabile!) poligrafo ed operatore editoriale, Anton Francesco Doni, dall’officina prestigiosa di Gabriel Giolito de’ Ferrari usciva un’edizione (G) fondata su altra fonte manoscritta, la prima derivante da una copia di F nella versione finale, rivista e corretta dall’Ariosto: copia che non sarà improprio immaginare approntata dal figlio dell’Ariosto, Virginio, sul cui tavolo giacevano ancora le carte paterne (compresi i famosi Cinque canti, da lui affidati alla tipografia dei «figliuoli di Aldo» nel ’45)10. Già il frontespizio, con puntuale senso dell’agonismo di mercato, proclamava a chiare lettere che l’edizione era «tratta dall’originale di mano dell’autore»11. Innumerevoli le ristampe della giolitina, a partire dal ’57 unitamente alle Rime. Come poté rilevare Debenedetti12, sulla base dell’ordine di pubblicazione delle Satire, la tradizione di G diffuse un testo (B) diverso da quello (A) fermato da St; ma pur risultando infine prevalente su di esso presso il pubblico, anche in senso quantitativo, non lo eliminò del tutto dal mercato editoriale: «ed è anzi sulla loro alterna fortuna che s’intesse la storia del testo delle Satire»13. Pro-

8 Cfr. ID., Tradizione testuale e fortuna dei classici italiani, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, VI. Teatro, musica, tradizione dei classici, Torino 1986, pp. 445-928, in particolare pp. 671 sgg. (ed ora come volume autonomo, Tradizione e fortuna dei classici italiani, Torino 1993, pp. 371 sgg.). Quanto ad F, ne esiste un’edizione litografica realizzata da G. Wenk, Bologna 1875, con Prefazione di P. Viani. 9 Traggo la citazione da P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto. La stampa e le revisioni editoriali dei testi letterari italiani (1470-1570), Bologna 1991, p. 68. 10 Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 241 sgg. 11 Le Satire di M. Lodovico Ariosto tratte dall’originale di mano dell’autore con due Satire non più vedute; con molta diligenza ristampate, Venezia 1550. Sul testo si vedano: Annali di Gabriel Giolito de’ Ferrari da Trino di Monferrato stampatore in Venezia, a cura di S. Bongi, 2 voll., Roma 1890-97, I, p. 280; G. AGNELLI e G. RAVEGNANI, Annali delle edizioni ariostee, 2 voll., Bologna 1933, II, pp. 11-12; P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., pp. 276 sgg. 12 S. DEBENEDETTI, Intorno alle Satire dell’Ariosto cit., pp. 224 sgg. 13 C. SEGRE, Nota al testo cit., p. XVI. Per i due tipi testuali cfr. G. AGNELLI e G. RAVEGNANI, Annali delle edizioni ariostee cit., II, pp. 3 sgg.

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prio in alternativa a G, difatti, e dunque soprattutto per ragioni di concorrenza editoriale, nel ’54 Girolamo Ruscelli14 rimette in circolazione a Venezia, presso Plinio Pietrasanta, delle Satire di tipo A, corredandole di glosse come s’usava con i grandi classici, e dichiarando la propria volontà filologica e deontologica di tornare ad un rapporto onesto con la lezione autoriale, rispettando fedelmente il suo dettato, restituibile a suo parere, stante l’assenza di stampe approvate in vita, attraverso copie manoscritte più credibili di F (del quale peraltro Ruscelli tace, con diplomazia): Queste bellissime satire, per non esser mai dall’Auttor proprio state date in luce, ma havendo egli scrittone a chi una et a chi un’altra, venner poi trascrivendosi da questo et quello, et finalmente furon date alle stampe così male in arnese, come aviene di cosa passata per tante mani et espedita da chi procura il guadagno di se stesso, et non l’onore dell’Autore, né il beneficio o la soddisfattione del mondo. Laonde, ritrovandomi io d’averne tre scritte a penna, le quali ebbi già da molt’anni in Roma, molto corrette, et vedendo che la maggior parte delle scorrettioni che si veggono nelle stampate fin qui sono per se stesse manifestissime, né accade quistionarci, io, poi che mi son posto ad aiutar quanto m’è possibile a mettere in colmo la lingua nostra, ho voluto, doppo i Comici che tutti ricorretti ho fatto uscir fuori pur questi giorni, mandar queste, facendovi nel fine, come in quegli ho fatto, alcune brievi dichiarationi per gli studiosi che ne han bisogno15.

In realtà, stando alla fenomenologia emendatoria del Ruscelli, registrata e valutata con precisione da Paolo Trovato, «le presunte correzioni ope codicum avallano […] autorevolmente criteri di correttezza linguistica teorizzati e messi in atto a più riprese dal Ruscelli editore e prescritti da ultimo nell’edizione postuma dei Commentari. Ma se nel caso di facili ritocchi il Ruscelli non si preoccupa nemmeno di attribuire le lezioni corrette ai suoi improbabili manoscritti, quando i suoi criteri di correttezza grammaticale imporrebbero di “riformar tutto” un “terzetto per assettarlo”, ossia di rifare terzine intere, il curatore si limita a discutere i “vizii del parlare” che non gli riesce di medicare»16. La situazione non è troppo dissimile da quella che mezzo secolo prima aveva visto Pietro Bembo, editor petrarchesco per Aldo (1501), correggere il testo del Canzoniere anche contro l’esplicita volontà dell’autore, attestata dall’autografo 14 Sul ruolo del Ruscelli nella fortuna del Furioso cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 279 sgg. 15 Le satire di m. Ludovico Ariosto et del S. Luigi Alamanni. Nuovamente ristampate con le corretioni et annotationi di Girolamo Ruscelli, Venezia 1554, p. 4. Sul passo cfr. G. TAMBARA, Introduzione all’edizione da lui curata, Le Satire di Ludovico Ariosto con introduzione, fac-simili e note, Livorno 1903, pp. 3-70 (a p. 8), e P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., pp. 276 sgg. Si veda anche G. TAMBARA, Studi sulle «Satire» di Ludovico Ariosto, Udine 1899. 16 P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., p. 278.

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Vaticano latino 3195 (a lui ben noto a partire da un certo momento del lavoro di collazione), in nome d’una sua platonica idea di norma linguistica astratta e destorificata: e poco più tardi la medesima situazione si riprodurrà specularmente, con lo stesso Ruscelli revisore e correttore normativo di un Petrarca per il Pietrasanta, nell’ottobre di quel 1554, proprio contro la volontà d’autore attestata dall’autografo, in accordo con l’aldina di Bembo 151417. Il problema posto dalla testimonianza del Ruscelli (e, come si tornerà a dir meglio – cfr. § 2.2 –, di Luigi Alamanni) d’una diffusione di copie a penna delle Satire voluta ed orientata da Ariosto stesso, rimane di fatto altamente probabile, e in ampia misura dimostrato, per quanto rimanga arduo apprezzare l’estensione e la forma della circolazione pre-editoriale. Tambara, nel 1903, proclamò di «dubitare di questa divulgazione manoscritta», della quale mancherebbe ogni traccia: ma Segre, sulla base del codice senese, ha restituito credito alle testimonianze cinquecentesche18. Resta indiscutibile la non-volontà dell’autore di pubblicare (d’altra parte sempre implicita, mai dichiarata): chissà se in vista di un ampliamento del corpus (il che irrobustirebbe l’idea di una sua progettazione sostanzialmente coerente e continuativa, se non proprio unitaria) o se per insoddisfazione formale, stilistica e linguistica. Ma rimane anche l’oggettività di una forma-libro assunta dalle Satire sparse nel progressivo e poi definitivo coagularsi ed articolarsi organicamente. È vero, infatti, che risulta ammissibile una spedizione, volta per volta, delle singole Satire ai destinatari; ma è escluso che quegli invii abbiano dato vita a momenti oggi attestati della trasmissione testuale, la quale dipende per intero, appunto, da un libro compattamente organato in anni di lavoro. Stando alla dimostrazione di Santorre Debenedetti, «noi conosciamo le Satire solo da quando l’autore, oltre sette anni dopo che ebbe scritto la prima, le raccolse in un volume oggi perduto»19, da cui derivarono alcune copie, anch’esse ormai smarrite (fra cui quella già appartenuta alla famiglia Malaguzzi). Dopo che dall’esemplare d’autore, variamente elaborato, furono tratte le copie perdute, Ariosto, «ritoccatolo ancora, se lo fece mettere in pulito, e su questa bella tutta di mano del copista salvo gli ultimi quattro versi, che sono dell’autore, andò ancora lavorando e portò altre innovazioni, specie di carattere grammaticale, che si fecero più frequenti e impor17

Per quanto precede cfr. C. BOLOGNA, Tradizione testuale cit., pp. 644 sgg. e la bibliografia ivi ricordata (e nel volume autonomo cit., pp. 328 sgg.); P. TROVATO, Con ogni diligenza corretto cit., pp. 279 sgg. 18 Cfr. G. TAMBARA, Introduzione cit., p. 7, e C. SEGRE, Storia testuale e linguistica delle «Satire», nel volume a cura dello stesso, Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione. Atti del Congresso organizzato dai Comuni di Reggio Emilia e Ferrara (12-16 ottobre 1974), Milano 1976, pp. 315-30 (a p. 317). 19 S. DEBENEDETTI, Intorno alle Satire dell’Ariosto cit., p. 223.

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tanti dopo la pubblicazione delle Prose del Bembo (uscite nel settembre del 1525)»20. Quell’esemplare d’autore, secondo Debenedetti, coincideva solo in parte con F, che sarà il frutto finale, a sua volta lasciato maturare con nuovi interventi, spiccato da quello stesso unico ramo. A lungo ritenuto autografo (per quanto già nel 1558 Giovan Battista Pigna esprimesse opinione contraria)21, grazie ad un accertamento di Francesco Flamini, suffragato poi dall’analisi del Tambara, venne in luce che F è un apografo con correzioni autografe22. Di Tambara è invece inammissibile l’analisi del sistema correttorio palesato dal codice: analisi che s’impernia sulla varietà di colore di due inchiostri a suo dire impiegati nella fase di revisione, valutata quale testimonianza di due successivi interventi di diversi correctores; Emilio Bertana, Giuseppe Fatini, Carlo Bertani e Michele Catalano con interventi indipendenti contestarono l’ipotesi, dimostrando la presenza della mano ariostesca in quasi tutte le correzioni di F23. La genuinità e l’autografia dei ritocchi, nuovamente messa in dubbio nel 1975 da Luciano Capra, tornato sulle posizioni di Tambara (ma senza ricorso ad un nuovo quadro probatorio), è stata definitivamente, mi pare, dimostrata da Cesare Segre, ed autorevolmente confermata da Gianfranco Contini, sia pure in sede bibliograficamente eccentrica24. Il resto della tradizione manoscritta, perdutosi il codice Malaguzzi (M), è costituito da tre codici: A (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Ashburnham 564, «del 3° o dell’inizio del 4° decennio del ’500»25), che, senza rubriche, inserisce fra le rime ariostesche le satire I (ff. 45v-48r) e III (ff. 50r-53r); S (Siena, Biblioteca Co20

Ibid.; cfr. anche C. SEGRE, Nota al testo cit., pp. XVIII sgg. Cfr. G. B. PIGNA, Scontri de’ luoghi i quali M. Lodovico Ariosto mutò doppo la prima impressione del suo Furioso [...], in L. ARIOSTO, Orlando furioso [...] tutto ricorretto et di nuove figure adornato. Al quale di nuovo sono aggiunte le annotationi, gli avvertimenti et le dichiarationi di Girolamo Ruscelli, la vita dell’autore, descritta dal Signor Giovambattista Pigna, gli scontri de’ luoghi mutati dall’autore dopo la sua prima impressione, la dichiaratione di tutte le favole, il vocabolario di tutte le parole oscure et altre cose utili e necessarie (1556), Venezia 1558, p. 538, Scontro XV. 22 Cfr. G. TAMBARA, Prefazione alla sua edizione di L. ARIOSTO, Le Satire cit., pp. III-V (a p. IV): si noti però che Tambara vide F solo attraverso l’edizione litografica di G. Wenk. 23 Cfr. E. BERTANA, Recensione all’ed. Tambara cit., in «Giornale storico della letteratura italiana», XLII (1903), pp. 418-22, e G. FATINI, Recensione all’edizione a cura di C. Berardi, Campobasso 1918, ibid., LXXIV (1919), pp. 292-302; C. BERTANI, Sul testo e sulla cronologia delle Satire di Ludovico Ariosto, ibid., LXXXVIII (1926), pp. 25681, e LXXXIX (1927), pp. 1-36; M. CATALANO, Autografi e pretesi autografi ariosteschi, in «Archivum Romanicum», IX (1925), pp. 33-66. 24 Cfr. L. CAPRA, Per il testo delle «Satire» di Ludovico Ariosto (1975), in ID., Le satire secondo il codice Ferrarese, Ferrara 1983, pp. 5-30; in risposta C. SEGRE, Difendo l’Ariosto. Sulle correzioni autografe delle «Satire», in «Rivista di letteratura italiana», II (1984), pp. 145-62. L’intervento di Contini riprende l’antico titolo (Come lavorava l’Ariosto) d’un suo celebre saggio del 1937 sulle correzioni al Furioso: Così lavorava l’Ariosto, in «Corriere della Sera», 8 dicembre 1984, p. 3. 25 C. SEGRE, Nota al testo cit., p. XV. Sul codice Malaguzzi (M) che si colloca all’inizio del processo dinamico di x, appartenuto alla famiglia imparentata con l’Ariosto ed oggi scomparso, ma del quale sono stati trasmessi quattro versi (Sat., III, 91-93 e 183: cfr. qui sotto, p. 200), cfr. ibid., p. XIX e, nell’annotazione al testo, p. 86, nota 26. 21

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munale degli Intronati, I.VI.41), in cui due diversi copisti trascrivono le satire III (ff. 16r-22v) e I (ff. 25r-30r) secondo una redazione «diversa da quella di St e da quella di F, e con un numero di correzioni inferiore anche a St»26; Ph (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Nuovi Acquisti 1189), che ha il testo della sola satira V (ff. 18v-24r), «in redazione arcaica (cioè più vicina a St che a F)»27. Secondo le ricostruzioni di Debenedetti e di Segre, dunque, tutt’intera questa tradizione consente di ricostruire l’attestazione di un solo testo-base, «un esemplare d’autore ripetutamente corretto, e poi dello stesso F, a sua volta ritoccato»28. Si tratta d’un archetipo dinamico di fatto mobile nel tempo29, dalle cui successive tappe genetiche, o fasi correttorie, si staccano progressivamente, in modo assolutamente autonomo, esemplari manoscritti o a stampa che, in un’ideale visione stereoscopica, ci restituiscono l’intera storia di questa filiazione x > F, permettendoci nel contempo di veder chiaro che in epoca antica (impossibile dire se in vita d’Ariosto e, comunque, se con la sua promozione) «le satire ebbero effettivamente una diffusione manoscritta»30, e di apprezzare la modalità e il senso dell’attività correttoria ariostesca. Questa, secondo la più recente proposta di Segre31, la rappresentazione dello stemma: Satire sparse

x1

x2

x3

x4

a

b

c

F1

F2 d

M

A

S

St

Ph

G

26 ID., Storia testuale e linguistica cit., p. 317. Sul manoscritto senese si veda ID., La prima redazione inedita di due satire dell’Ariosto, in AA.VV., Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, Padova 1974, pp. 675-708 (alle pp. 677-93 è pubblicata l’edizione interpretativa delle due satire ivi contenute). 27 ID., Storia testuale e linguistica cit., p. 317. 28 ID., Nota al testo cit., p. XVIII. Cfr. anche S. DEBENEDETTI, Intorno alle Satire dell’Ariosto cit., p. 223. 29 Sulla questione, di grande momento metodologico, si leggano le notevoli pagine di R. ANTONELLI, Interpretazione e critica del testo, in Letteratura italiana, diretta da A. Asor Rosa, IV. L’interpretazione, Torino 1985, pp. 141-243, in particolare pp. 186 sgg. Già A. DAIN, Les manuscrits (1949), nuova edizione rivista Paris 1964, in particolare pp. 141 sgg., discuteva i casi in cui l’exemplar non ha «conservato la sua unità primitiva». 30 C. SEGRE, Storia testuale e linguistica cit., p. 317. 31 ID., Nota al testo cit., p. XIX, che supera il precedente stemma da lui stesso elaborato (Storia testuale e linguistica cit., p. 329), collocando anche il ms. A, segnalato successivamente all’uscita del primo studio, che è del 1976.

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1.3. Il sistema correttorio. L’interesse anche metodologico offerto da un simile ordinamento del libro ariostesco è evidente: forse solo nel caso del Principe di Machiavelli (per il quale si pongono però questioni ecdotiche ancor più complesse)32 il filologo è posto di fronte ad una così intricata situazione stemmatica, che si collega proprio alla nonvolontà editoriale di Ariosto, alla conseguente permanenza del libro sul suo scrittoio, ed alle plurime interferenze esterne generanti le copie tràdite. Il sistema delle varianti d’autore, in questo caso, si struttura all’interno d’una copia unica ma attiva secondo una dinamica differenziale lungo l’asse diacronico. Non si dànno, quindi, editiones variorum, cioè collettori unitari che restituiscono sincronicamente la diffrazione variantistica autorizzata; bensì differenti forme testuali rappresentative di altrettanti stadi di correzione, successivi l’uno all’altro. Anche per ciò che è della lingua, delle lezioni deducibili dal sistema correttorio e delle datazioni deducibili dal confronto intertestuale fra le opere ariostesche, le proposte di Segre, calibrate sull’esperienza conquistata attraverso l’esame accuratissimo della tradizione delle Satire e del Furioso (nelle tre tappe A, 1516; B, 1521; C, 1532), sono da accogliere come acquisizioni difficilmente confutabili, fino a prove testimoniali nuove e contrarie: «Il testo base delle Satire (F1) rappresenta uno stadio intermedio fra la seconda e la terza redazione del Furioso (B e C). Da un lato essa presenta già una innovazione caratterizzante rispetto a B, e cioè tosto in luogo di presto (datata al 1525 dal Debenedetti perché dovuta alla norma bembesca, Prose III, 60) […]. Dall’altro esso usa senza eccezioni il tipo i scogli, sempre sostituito in C con li scogli […]. Tra il 1525, terminus post quem per tosto, e il 1532, data di C, abbiamo un’altra tappa linguistica, quella dei Frammenti autografi (FR), scritti in un lasso di tempo discretamente ampio a ridosso di C. Possiamo dunque situare F2, cioè le correzioni ad F, rispetto a FR»33. Il libro delle Satire, dunque, dovrebbe potersi datare genericamente entro il decennio fra 1521 e ’32, e gli interventi correttori dovrebbero stringersi fra 1525 e ’32. In questa luce, precisamente, le Satire s’illuminano nel confronto con il Furioso: e l’escussione dei testimoni riconferma i guadagni gnoseologici e metodologici ottenuti con l’esame comparativo dei Cinque canti, dei frammenti autografi 32 All’edizione critica del Principe, la cui pubblicazione mi risulta imminente, sta attendendo Giorgio Inglese, al quale si devono i contributi migliori sulla tradizione manoscritta e sui problemi ecdotici: cfr. da ultimo G. INGLESE, Contributo al testo critico del «De principatibus», in «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», IX (1985-86) [ma 1990], pp. 35-149, anche per la ricostruzione della bibliografia pregressa. 33 C. SEGRE, Storia testuale e linguistica cit., p. 320. Un’analisi linguistico-stilistica comparativa delle Satire, dei Cinque canti e dei frammenti autografi del Furioso era già stata offerta da ID., Studi sui «Cinque canti» (1954), in ID., Esperienze ariostesche, Pisa 1966, pp. 121-77 (in particolare pp. 168 sgg.).

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del Furioso e delle tre edizioni del poema34. Le correzioni lessicali e morfosintattiche delineate, per le Satire, nel passaggio F1 > F2, «s’inseriscono perfettamente, come proporzione e progressione, nella storia della lingua dell’Ariosto»35. È interessante constatare, attraverso il filtro della diacronia testimoniale, il ruolo mediano della situazione rielaborativa attestata dalle Satire in rapporto con il resto dell’opera ariostesca. E in questa prospettiva la testimonianza di codici quale il senese si rivela, accanto a quella del più tardo F, davvero preziosa: «l’attività correttoria dell’Ariosto, documentata col massimo di genuinità per il Furioso (autografi ed edizioni curate dall’autore) e con il minimo per le Commedie (edizioni pirata o postume), presenta […] per le Satire una situazione intermedia. Ma se F1, compilato sotto il controllo dell’Ariosto, ed F2, di sua mano, sono il risultato assolutamente fededegno di ripensamenti degli ultimi anni, da cui St permette di risalire, ma di poco, a una fase anteriore, S ci mette sotto gli occhi un segmento cronologico molto più ampio. La scarsa qualità della trascrizione costringe a costanti controlli, ma offusca solo in superficie il valore di un’attestazione che è per ora (salvo eventuale reperimento di M) la più antica delle Satire. La storia della lingua dell’Ariosto viene così ad acquisire un nuovo documento di non trascurabile importanza»36. Il copista di F1 fu fedele, talora fedelissimo, giungendo in qualche caso a fotografare lo stato dell’exemplar d’autore, porgendoci di fatto il negativo della carta ariostesca perduta. Così, per esempio, a VI, 26, dove il copista scrive accuratamente e, per nostra fortuna, pedissequamente: vitio Dio Senza il peccato per cui ∧ Sabaot «indicando la lezione di partenza (Senza il peccato per cui Sabaot) e quella di arrivo (Senza il vizio per cui Dio Sabaot), che poi l’A[riosto], con la più ampia correzione autografa, muterà ancora»37. Ariosto, certo, accolse nel proprio lavoro alcune correzioni che l’autorità bembiana imponeva, e le introdusse di suo pugno nel Furioso, come mostrano i frammenti autografi e gli scarti da B a C; ma non può trascurarsi il fatto che esse 34

Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 242 sgg. C. SEGRE, Storia testuale e linguistica cit., p. 320. Si veda anche il notevole saggio di A. STELLA, Note sull’evoluzione linguistica dell’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 49-64, e già B. MIGLIORINI, Sulla lingua dell’Ariosto (1946), in ID., Saggi linguistici, Firenze 19572, pp. 178-186 (che però non cita le Satire). 36 C. SEGRE, La prima redazione inedita cit., pp. 707-8. 37 ID., Nota al testo cit., p. XXII (e cfr. l’apparato critico al luogo corrispondente, p. 55). 35

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«furono generalmente accolte, e pertanto potevano essere attuate da qualunque curatore (smascherato, semmai, dal suo stesso zelo) […]. Ma l’Ariosto attuò pure mutamenti che non risalgono alle norme del Bembo, e talora vanno in direzione opposta a quella dei fondatori della nostra lingua letteraria. Chi li avrebbe potuti operare, se non l’Ariosto stesso?»38. Sia l’analisi paleografica, sia quella linguistica, assicurano pertanto circa l’attendibilità e la paternità ariostesca delle correzioni di F2. Anzi, seguendo il Segre nella sua fine valutazione, caso per caso, dell’intera fenomenologia variantistica, si riconoscono due stratificazioni correttorie: la prima dovuta al copista, la seconda all’Ariosto (ma va registrato che anche nel manoscritto S esistono lezioni le quali, «nonostante la mediocrità della trascrizione, possono essere considerate certe o probabili varianti d’autore»39). Di particolare rilievo metodologico (che conferma la validità, in tale prospettiva, delle fatiche spese sulle Satire, in particolare da Debenedetti e Segre) mi pare la constatazione che un gruppo di varianti, corrispondente ad un livello d’intervento misto, e comunque non discernibile a priori su base comparatistica, del copista e del poeta (cfr. i tipi: estate > estade; rimuoua > rimoua; gioco > giuoco), realizzano «un sistema di trasformazione i cui elementi sono di tipo ariostesco, ma con rapporti interni e direzioni divergenti rispetto a quello dell’Ariosto. Si tratta di un “sistema satellite”, nato probabilmente dall’incomprensione, da parte del copista, di correzioni del suo antigrafo o del loro rapporto di successione»40. In qualche caso, specie quelli in cui appare costante la divergenza rispetto alla cronologia relativa delle abitudini correttorie di Ariosto, è quindi dimostrata una relativa “autonomia del copista”, coinvolto in un vero e proprio effetto-feedback con gli interventi autoriali, presto assorbiti, metabolizzati e riproposti per libera iniziativa normalizzatrice, spesso inconscia. Credo che questo suggerimento del Segre sia della massima importanza epistemologica. Esso dovrà essere tenuto presente, appunto sul piano del metodo, in ispecie nella valutazione dell’apporto testimoniale dei recentiores, sia pure descripti, per la quale non si può prescindere da un’esatta, puntuale consapevolezza circa la fenomenologia della copia e la dialettica fra diasistemi41: dove da una parte si dovrà apprezzare e definire il diasistema primario dell’antigrafo, il codice-base della trascrizione (si ponga, un anti38

ID., Storia testuale e linguistica cit., p. 321. Ibid., p. 326. 40 Ibid., p. 324. 41 Il concetto di diasistema fu elaborato in sede dialettologica da U. WEINREICH, Languages in Contact, 1953 (trad. it., con l’aggiunta di saggi di altri autori, Lingue in contatto, Torino 1975), e ripreso, sviluppato e approfondito in sede ecdotica da C. SEGRE, Critica testuale, teoria degli insiemi e diasistema (1976), in ID., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino 1979, pp. 53-70; si veda altresì ID., Testo (1982), in ID., Avviamento all’analisi del testo letterario, Torino 1985, pp. 360-91, in particolare pp. 376 sgg. 39

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quus), rappresentato dal suo assetto grafemico (cioè dalla struttura relazionale tra i livelli grafico e fonetico, tra le forme della scrittura e quella della relativa lettura), e dall’altra si dovrà valutare il diasistema secondario peculiare del copista recenziore, nonché il terzo livello diasistematico costituito proprio dal rapporto dialettico fra i primi due42.

2.

Struttura.

2.1. La «forma-satira» fra Quattro e Cinquecento, prima di Ariosto. Si deve a Carlo Dionisotti la constatazione che lo sviluppo della satira in volgare si collega, sia pure per vie non ancora del tutto illuminate, alla prima versione di Giovenale, «il volgarizzamento poetico […] perpetrato da uno squallido rimatore veronese, Giorgio Sommariva»43, nel 1475. La tradizione critica assegna la qualifica di satire, a partire da quel momento, ad un limitato numero di opere redatte in quello scorcio di Quattrocento, ed estratte dalla folla di raccolte poetiche tematicamente e formalmente eteroclite. Si tratta di testi tutti esemplati «nel metro stesso della terza rima adoperato dal Sommariva»44: e si pensa essenzialmente ad Antonio Cammelli, detto «il Pistoia» (1436-1502), che nella satira immise la più robusta, forse, tonalità morale e cronachistico-politica45; ad Antonio Vinciguerra (1440-1502), alla cui scrittura dal moralismo chiuso e religioso si deve una svolta “popolare” della terza rima come schema di genere narrativo46; alla Satira di Niccolò Lelio Cosmico, edita solo nel 1903 dal maestro di Dionisotti, Vittorio Cian47; alla Satyra di Marcello Filosseno, su cui pure ha richiamato l’attenzione Dionisot42 Ho rievocato la categoria di diasistema in sede filologica (anzitutto su basi paleografico-codicologiche, quindi con prospettiva ecdotica), in senso per ora complessivamente metodologico ma con qualche suggerimento applicativo, nella discussione del rapporto fra descripti (specie recentiores) ed exemplar: cfr. C. BOLOGNA, Sull’utilità di alcuni «descripti» umanistici di lirica volgare antica, in Atti del Convegno «La Filologia romanza e i codici» (Messina, 1922 dicembre 1991), a cura di S. Guida, Messina 1993, pp. 669-725 (in particolare pp. 671 sgg.). 43 Cfr. C. DIONISOTTI, Tradizione classica e volgarizzamenti (1958), in ID., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 19773, pp. 125-78, in particolare pp. 159 sgg. 44 Ibid., p. 159. 45 Cfr. PISTOIA, Rime edite ed inedite, a cura di A. Cappelli e S. Ferrari, Livorno 1884; sull’autore e sul tema del capitolo si veda S. LONGHI, Lusus. Il capitolo burlesco nel Cinquecento, Padova 1983, con bibliografia. Per questo e per quanto segue si vedano anche: A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima e l’Ariosto, in Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione cit., pp. 303-13; V. CUCCARO, The Humanism of Ludovico Ariosto: From the “Satire” to the “Furioso”, Ravenna 1981, pp. 69 sgg., e l’utile sintesi curata da P. VECCHI GALLI, La poesia cortigiana tra XV e XVI secolo. Rassegna di testi e studi (1968-1981), in «Lettere italiane», XXXIV (1982), pp. 95-141. 46 Cfr. B. BEFFA, Antonio Vinciguerra Cronico, Segretario della Serenissima e letterato, Bern-Frankfurt am Main 1975. Si veda anche C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli, in ID., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 94 sgg. 47 V. CIAN, Una satira di Nicolò Lelio Cosmico, Pisa 1903.

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ti ed ha insistito di recente Piero Floriani48; e fors’anche ai capitoli e alle epistole in terza rima d’argomento storico che s’allineano, sia pure in luogo marginale, fra gli opera omnia del ferrarese Antonio Tebaldeo (per cui cfr. qui sotto, § 2.2)49. Ma forse non si dovrebbe trascurare, per l’osmosi mai interrotta nella cultura umanistica fra l’esperienza latina contemporanea e quella in volgare, anche il Sermonum Liber di Tito Vespasiano Strozzi (1424-1505), attivo a Ferrara proprio negli anni di formazione dell’Ariosto, a cui va riconosciuta l’introduzione nella forma testuale esemplata sull’antico sermo oraziano (ma altresì con l’influsso del genere epistula) «di elementi autobiografici che pongono le basi per un’assimilazione più controllata dello spirito classico e per un accostamento più personalizzato alla satira in quanto genere»50. E volendo risalire agli archetipi si potrebbe ripensare, direi alla luce di questa stessa restituzione teleologica a posteriori che chiamerei (in senso continiano), per la sua valenza ermeneutica, funzione-Ariosto, ad umanisti veneti come Gregorio Correr (1411-64). Questi trasse forse ispirazione dall’insegnamento petrarchesco (cfr. ad esempio la sequenza di sonetti contro L’avara Babilonia avignonese, nn. 136 – così pieno di aspre rime dantesche, specie nelle terzine! –, 137 e 138 dei Rerum vulgarium fragmenta) per realizzare una raccolta latina che indirizzò all’amico e maestro Vittorino da Feltre, formalizzandola nelle vesti di «satira teoretica», in cui «la forma-sonetto apre la strada alla satira narrativa basata sui Sermones oraziani», ed ingloba sul piano dei contenuti alcuni dati tipicamente umanistici, che si troveranno anche nelle Satire ariostesche: «l’esplicita difesa della virtù e della vita virtuosa»51. È, insomma, nella regione padana, segnatamente veneto-emiliana, fra le stagioni dell’estrema maturità umanistica e della sperimentazione d’un petrarchismo volgare, che viene maturando «quella forma metrica della poesia satirica, alla quale il veneziano [scil.: Vinciguerra] doveva legare il proprio nome e che doveva trasmettere ad altre mani più degne, a quelle di Ludovico Ariosto»52. Ma ancora una 48 Cfr. P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 45 sgg.; l’unico studio sul poeta è quello ormai datato di A. LIZIER, Marcello Filosseno, poeta trevigiano dell’estremo Quattrocento, Pisa 1893. 49 Cfr. T. BASILE, Per il testo critico delle rime del Tebaldeo, Messina 1983. Gli opera omnia del poeta sono editi a cura di T. Basile e J.-J. Marchand, 3 voll. (I. Introduzione, a due firme; II. Le Rime della vulgata, a cura di T. Basile; III. Le Rime estravaganti, a cura di J.-J. Marchand), Modena 1989-92. 50 Traduco da V. CUCCARO, The Humanism of Ludovico Ariosto cit., p. 69. Sulle satire dello Strozzi cfr. il rapido accenno di A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima e l’Ariosto cit., p. 313 («l’unico esempio, mi pare, di fortuna della satira oraziana presso un poeta umanista è offerto dai Sermones di Tito Vespasiano Strozzi, pubblicati nell’edizione aldina del 1513, che sono anche per altri aspetti molto vicini alle satire dell’Ariosto»), e P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 73 sgg., che analizza rapidamente i contenuti e le strutture formali delle quattro satire. 51 V. CUCCARO, The Humanism of Ludovico Ariosto cit., p. 68. E per tutto ciò cfr. anche il classico studio di V. CIAN, La Satira, II. Dall’Ariosto al Chiabrera, Milano 1939, in particolare pp. 16-50 (e nel vol. I. Dal Medio Evo al Pontano, Milano 1923, pp. 288-472).

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volta, come spesso nel passato, il mai interrotto canale di contatto fra Veneto, Emilia e Toscana dà vita a spostamenti di asse nella diffusione e nella fortuna d’un “genere”, ad irraggiamenti e rifacimenti di modelli letterari. Non si possono dimenticare infatti, ha fatto notare ancora Cian, e poi dietro di lui Dionisotti, «quei toscani del Quattrocento che avevano dato saggi numerosi e, talvolta, letterariamente notevoli, di capitoli gnomici, morali e satirici, alcuni dei quali ispirati a Giovenale; né bisogna trascurare il fatto che il Vinciguerra era stato a Firenze e vi aveva soggiornato, contraendo amicizia coi più insigni letterati di quel tempo»53. Se Vincenzo Calmeta nel 1504, da Urbino, poteva scrivere a Isabella d’Este d’aver sperimentato, con un Pellegrinaggio amoroso per noi purtroppo perduto e forse con altre opere, «molti stili fatti de novo ad emulazione di Orazio», talché per una critica letteraria avvertita risulta chiaro che «la ripresa dell’ode oraziana tradizionalmente attribuita a rimatori del medio Cinquecento deve con tutta probabilità essere ricercata e giustificata in età d’un buon tratto anteriore e affatto diversa»54, un’affine constatazione può farsi anche per la reviviscenza, o se si preferisce la reinvenzione, del “genere” satirico. Nella letteratura cortigiana fra Quattro e Cinquecento s’individuano infatti numerose costellazioni tematiche intorno ad istanze politico-sociali o moraleggianti: ma nella fase d’avvio, appunto a cavallo fra i due secoli, la fuga bucolica dalla realtà di corte e la sentenziosità gnomicoriflessiva trovarono espressione «mescolatamente, in contesti strutturali nei quali è poi difficile sceverare posizioni etiche centrali e decisive»55, e furono dislocate in contenitori formali incongrui, ricevuti dalla tradizione letteraria per la loro fortuna e latitudine espressiva (il sonetto, anche la canzone), in una sostanziale «confusione o indistinzione dei registri discorsivi e dei temi»56. È solo con l’emergenza d’una forma nuova capace di dar voce peculiare e distinta a quest’espressione del disagio corrusca, risentita, ma anche generica perché sintomo, in fondo, d’una crisi non solo letteraria, e anzitutto istituzionale, che l’inflessione etica dominante nella cultura cortigiana trova un canale in cui scorrere con libera e robusta corrente: questa “forma” è il capitolo in terza rima. Già prima del ricorso ariostesco alla terza rima, dunque, «in quell’ambiente fervido di studi umanistici ed acri passioni, più letterarie e personali che altamente civili, nobilitate da forti idealità morali, dominate da numerose risse, aizzate da interessi e da ambizioni, nelle corti grandi e piccole […] la satira era più che mai 52

Ibid., I cit., p. 392. Ibid., p. 393. E cfr. anche C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli cit., p. 96. 54 ID., Tradizione classica e volgarizzamenti cit., p. 161. 55 P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 37. 56 Ibid., p. 34. 53

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nell’aria, la si respirava dovunque»57. Il capitolo ternario è, appunto, la struttura formale destinata ad accogliere ed irrobustire l’urgenza satirica dapprima in una serie di sperimentazioni d’area cortigiana, e poi nella versione ariostesca, ormai sganciata dall’orizzonte e dalla sensibilità delle corti e destinata a plasmare un discorso eticamente sostenuto, acceso, ma privato, e perfino privatissimo, nell’indirizzo allocutivo al “tu”.

2.2. Machiavelli, Ariosto, Alamanni (e gli altri). La residenza fiorentina del Vinciguerra e il successo, anche dopo la sua morte, delle Satire da lui composte, presso un pubblico di letterati e di aristocratici (lo mostra almeno una lettera di Isabella d’Este del 1492)58, lo sviluppo toscano del capitolo ternario, l’elaborarsi a Firenze d’una rimeria gnomica e politico-satireggiante (Niccolò Cieco, Giovan Matteo di Meglio, figlio di Antonio, e i loro successori), rappresentano una linea genealogica unitaria, che lega i primi tentativi esperiti nel genere al pieno manifestarsi della terza rima quale forma espressiva disponibile alla pubblica corrispondenza fra amici o all’esternazione e alla discussione di argomenti legati ad una moralità soprattutto civile. La piena manifestazione del genere si ha, fra primo e terzo decennio del Cinquecento, con Machiavelli e con Ariosto. Già ai primi del secolo, com’è noto, Machiavelli aveva composto un poemetto in terzine (Compendium rerum decemnio in Italia gestarum, poi Decemnale) databile al 1504, quindi, forse tra 1507 e 1511, cinque capitoli (importanti il Dell’Ingratitudine per Giovanni Folchi, il Di Fortuna dedicato a Giovan Battista Soderini e quello Dell’Ambizione dedicato a Luigi Guicciardini)59; ma i suoi primi sondaggi nella forma ternaria, peraltro «di sorprendente goffaggine»60 per l’immaturità della prova, secondo la dimostrazione di Martelli61, sostanzialmente accettata da Dionisotti, risalgono addirittura a una data anteriore alla cacciata dei Medici da Firenze nel 1494. Non è da escludere che a Firenze Machiavelli avesse potuto conoscere l’opera poetica di Antonio Vinciguerra, edita in parte a Bologna nel 1495, in parte a Venezia, postuma, dopo il 1502 (forse nel 1505); e forse lo stesso Ariosto, nelle sue frequentazioni e residenze fiorentine (importanti anche in senso biografico, fra l’altro per la storia d’amore con Alessandra Benucci, per quanto ella abitasse a Ferrara col marito Tito 57

V. CIAN, La Satira, II cit., p. 449. Traggo il dato da C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli cit., p. 97. 59 Cfr. N. MACHIAVELLI, Capitoli, edizione critica a cura di G. Inglese, Roma 1981. 60 C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli cit., p. 66. 61 Cfr. M. MARTELLI, Preistoria (medicea) di Machiavelli, in «Studi di filologia italiana», XXIX (1971), pp. 377405. 58

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Strozzi), poté aggiungere questa ed altre letture al bagaglio certo già acquisito in casa propria, dove la terza rima godeva già, come s’è detto, d’un buon successo. Ma dopo un semplice confronto testuale è difficile non consentire con la sdegnata e però lucida opinione del Dionisotti, quand’egli rifiuta di credere che «come a suo tempo Vinciguerra, così trent’anni dopo l’Ariosto, ospite di Firenze, e men che mai il fiorentino Machiavelli, entrambi nella loro piena maturità, mettessero a prova i loro denti, e lo stomaco, col pane quotidiano e raffermo dei capitoli di Antonio di Meglio e di Niccolò Cieco. […] Né mi pare che si possa fare paragone del Vinciguerra, in termini di abilità poetica, col Machiavelli dei capitoli, nonché coll’Ariosto delle Satire. La questione è un’altra: si tratta di spiegare come e perché, non soltanto l’Ariosto, che in giovinezza aveva accolto la tradizione lirica petrarchesca di moda a Ferrara, ma anche Machiavelli che a quella tradizione, da buon fiorentino della vecchia guardia, era rimasto sordo, uno dopo l’altro con breve intervallo, prima Machiavelli, poi l’Ariosto, s’impegnassero a ricavare dal capitolo in terza rima un genere di poesia discorsiva, morale e finalmente satirica, insomma di stampo oraziano, che ancora non aveva una tradizione ben definita nella letteratura volgare […]»62. Caratteristica che accomuna i capitoli machiavelliani ed ariosteschi è la forma epistolare. Si tratta di lettere in versi indirizzate ad amici che con gli autori spartiscono esperienze di vita e di studio, riflessioni storiche, prospettive e ideali eticopolitici. Sarà utile, mediante future ricerche, verificare dettagliatamente quanto la struttura dell’epistola versificata introdotta nel latino umanistico abbia potuto lasciar traccia nella cultura giovanile dell’Ariosto. Il quale avrà certo letto i suoi conterranei Antonio Tebaldeo (che scrisse almeno diciannove capitoli, accanto a quattro “egloghe” e a tre “epistole”, tutte in terzine) e Niccolò da Correggio (gli si attribuiscono ben quarantaquattro capitoli, di cui quaranta tràditi compattamente da un unico codice, che ha l’aria della copia di un “libro d’autore”), e il modenese Panfilo Sasso, citato nell’Orlando Furioso (XLVI, 12, 4) accanto ad altri poeti settentrionali e romani, operante in prevalenza fra Emilia e Veneto (e nella cui opera si contano ben trentanove capitoli)63: ma sembra specialmente da collegarsi con la maturazione fiorentina del genere. Con la Firenze, s’intenda, del Machiavelli ed anche dell’Alamanni, autore di dodici importanti Satire in terzine 62

C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli cit., pp. 96-97. Mi fondo sui dati riferiti da P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 37 (diversi da quelli di A. TISSONI BENVENUTI, La tradizione della terza rima e l’Ariosto cit., p. 305). Sul Correggio cfr. C. DIONISOTTI, Nuove rime di Niccolò da Correggio, in «Studi di filologia italiana», XVII (1959), pp. 135-88. Per l’edizione dei testi: NICCOLÒ DA CORREGGIO, Opere. Cefalo - Psiche - Silva - Rime, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Bari 1969. Per il Tebaldeo cfr. qui sopra, p. 192, nota 7. Per Panfilo Sasso cfr. (oltre all’articolo di A. Tissoni Benvenuti) V. CIAN, La Satira, II cit., pp. 389 sgg. 63

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scritte fra ’24 e ’27, giusto prima di rientrare in patria, per il triennio repubblicano seguito alla cacciata dei Medici, dalla Parigi dove nel ’22 s’era rifugiato con altri espatriati, conquistando subito un ruolo di altissimo rilievo nell’esportazione della cultura italiana alla corte di Francesco I (ove tornerà, alla capitolazione di Firenze e al rientro mediceo, nel 1530)64. E in questa luce le Satire ariostesche saranno da ripensare, anche per un loro non del tutto chiarito ruolo mediatore, secondo una fine e complessa indicazione, ancora una volta, di Dionisotti: «[…] nella storia della letteratura italiana i capitoli di Machiavelli stanno immediatamente a ridosso delle Satire dell’Ariosto, come al seguito immediato di queste stanno le Satire dell’Alamanni, e […] sui due fronti, del prima e del poi, del più vecchio e disgraziato e bizzarro Machiavelli e del più giovane Alamanni, della Firenze soderiniana e di quella medicea, prima e dopo il 1512, vanno riconsiderati i rapporti fiorentini dell’Ariosto, che tanta importanza ebbero per lui, nell’opera e nella vita»65. Il capitolo non è la satira: e lo dimostra a iosa l’inserimento di molti pezzi appartenenti al genere (ma articolabili a loro volta in numerosi sottogeneri) nei canzonieri lirici, accanto ai sonetti, alle canzoni e agli altri generi lirici d’illustre tradizione. Dello stesso Ariosto ci rimangono ventisette capitoli, che Emilio Bigi66 ha proposto di distinguere in due successive e differenti maniere, datando i più maturi sulla base del termine ante quem stabilito dal primo Furioso (1516). Dunque per Ariosto l’esperienza del capitolo precederebbe immediatamente quella della satira, e in qualche modo fungerebbe quasi da laboratorio formale per la messa a punto della nuova struttura. Ma è l’osmosi con la produzione satirica machiavelliana e con la diffusione del modello epistolare ad esercitare la spinta decisiva e fondamentale. Nel periodo 1524-27, quando le Satire dell’Ariosto, come s’è visto, potevano aver avuto una scarsissima circolazione, per di più solo manoscritta, e stavano prendendo forma di libro unitario, con la stratificazione di successive fasi correttorie, il loro modello era capace pertanto di influire già su un colto poliglotta dalle vivaci curiosità in molti campi, come l’Alamanni. Ariosto, che lo ricorda nel Fu64 Sull’Alamanni rimangono utili le pagine (per molti versi insufficienti e criticabili) di F. FLAMINI, Le lettere italiane alla corte di Francesco I re di Francia, in ID., Studi di storia letteraria italiana e straniera, Livorno 1895, pp. 199337 (in particolare pp. 268-85), e ID., Le lettere italiane in Francia nei secoli del Rinascimento (1902), in ID., Varia. Pagine di critica e d’arte, Livorno 1905, pp. 193-220. Inoltre cfr. almeno H. HAUVETTE, Luigi Alamanni (1495-1556). Sa vie et son œuvre, Paris 1903. Si rinvia inoltre (per i rapporti con G. Camillo e con gli espatriati fiorentini) a C. BOLOGNA, Il «Theatro» segreto di Giulio Camillo: l’«Urtext» ritrovato, in «Venezia Cinquecento. Studi di storia dell’arte e della cultura», I (1991), 2, pp. 217-71, in particolare pp. 226 sgg. e p. 263, nota 87. 65 C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli cit., p. 98. 66 Cfr. E. BIGI, Le liriche volgari dell’Ariosto, in AA.VV., Atti dei Convegni Lincei. Convegno internazionale su: Ludovico Ariosto, Roma 1974, pp. 49-71.

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rioso, in un passo (XXXVII, 8, 5) aggiunto nella terza edizione del ’32, lo conobbe «con buona probabilità […] ai tempi della Garfagnana»67, forse attraverso Zanobi Buondelmonti68; e, salvo restando che l’Alamanni «parte da altri modelli e coltiva in larga misura una satira molto differente da quella ariostesca, di forma giovenaliana e di spiriti fiorentini», in alcune sue Satire è possibile rinvenire più d’una «traccia lasciata […] dalla poetica satirica dell’Ariosto»69. Alamanni, nelle sue satire, rinuncia ad adottare «la lingua antilirica, il modo colloquiale e fortemente deittico, il ritmo spezzato e ricco di incisi apparentemente casuali dell’Ariosto»; e quanto all’orizzonte referenziale nella tradizione, preferisce ricorrere a Petrarca «e, per i momenti più risentiti e polemici, a Dante», divenendo il linguaggio della Commedia quasi «una scelta obbligata» per la definizione delle tematiche politico-religiose70. Stupisce un poco, perciò, che nella sua III satira (vv. 100-2) Alamanni, celebrando le composizioni omologhe dell’Ariosto, denunci e lamenti il timore di plagio di lui per il ricorso ad una forma (evidentemente la satira “epistolare”) di cui doveva sentirsi ideatore: Né l’Ariosto ancor di me si lagne, il ferrarese mio chiaro e gentile, ch’oggi con lui cantando m’accompagne; né ’l mio basso saper si prenda a vile, che fors’ancor (s’io non l’estimo indarno), girando ’l verno in più cortese aprile, non avrà a schivo ’l Po le rive d’Arno71.

Stupisce, dico, perché le strade battute dai due scrittori divergono sostanzialmente. Alamanni sceglie quella della satira composta «ad imitazion degli antichi», in modo che possa «con acerbi rimordimenti e senza sdegno degli ascoltanti andar raccontando gli altrui falli, ai quali sempre è soggiaciuto il misero mondo e soggiace oggi più che mai»72: ma non è la stessa di Ariosto. Questi, invece, ha fon67 A. CASADEI, La strategia delle varianti. Le correzioni storiche del terzo «Furioso», Lucca 1988, p. 97 (e cfr. p. 138; per le ottave del canto XLVI del Furioso si vedano le pp. 105-49, La strategia compositiva nell’esordio del canto XLVI). 68 Cfr. P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 101 sgg. 69 Ibid., p. 102 (e cfr. soprattutto le pp. 105 sgg.). 70 Ibid., pp. 117-18. 71 L. ALAMANNI, Satire, III, vv. 109-15, in ID., Opere toscane […] al Christianissimo re Francesco primo, vv. 10915, 2 voll., Lyon 1532-33, I, pp. 357-418 (a p. 370). I versi si leggono anche in ID., Versi e prose, a cura di P. Raffaelli, 2 voll., Firenze 1859, I, pp. 238-91, alle pp. 258-59; il Raffaelli pubblica tredici satire, dichiarando di riordinarle diversamente dalla stampa sulla base del ms. Magl. VII 676 della Biblioteca Nazionale di Firenze, copiato ad Avignone nel 1528 e contenente la più antica testimonianza nota della produzione satirica alamanniana: ma di fatto altera l’ordine dei testi, aggiungendo qualcosa che nel codice è assente (P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 121, nota 15, fornisce una tavola comparativa delle numerazioni dell’editio princeps, del codice fiorentino dell’edizione Raffaelli).

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dato la satira morale incentrandola sull’esibizione del ruolo storico definito, contingente dello scrittore, colto nel momento stesso (l’occasione!) in cui espone e denuncia il proprio rapporto critico con la realtà. Insomma, Alamanni e gli altri toscani che pur imitano nella forma la satira ariostesca, spesso accogliendo l’influsso del Berni e dell’Aretino, utilizzano la misura parenetica offerta dal genere per incanalare il proprio disagio morale, e soprattutto il proprio isolamento – o nel migliore dei casi la propria marginalità – in campo politico mediante tonalità deprecatorie, iterative, in sostanza lamentevoli e quindi maggiormente sintomatiche d’una irresolubile crisi individuale del proprio ruolo. L’Ariosto, da parte sua, ha scritto satire «come luogo di riflessione sull’esistente che si basa sulla determinazione cronistica del personaggio poeta e sulla scelta di un linguaggio che mima la lingua quotidiana della comunicazione; per lui la satira è sostanzialmente l’assunzione di un “grado zero” del linguaggio che permette la rappresentazione critica della realtà, in un rapporto implicitamente contrastivo con gli altri generi della poesia (la lirica, l’epica) addetti alla celebrazione e alla sublimazione. Non manca certo un modello classico, ma si tratterà dell’Orazio cotidianus delle Epistulae e dei Sermones, modello specifico che presiede non tanto, genericamente, ad un “modo” di valenza universale, quanto, precisamente, ad una posizione determinata dello speaker satirico nei confronti della sua empirica condizione storica»73. Ariosto, dunque, agendo da perfetto “umanista”, ha trovato parole nuove da innestare in forme antiche per dichiarare la propria attualità, il proprio irrinunciabile essere-nel-tempo: ed ha così “inventato” la nuova satira analizzando i codici offerti dai classici latini del genere e “attualizzandoli” in un costante confronto con gli strumenti da lui già raffinati in sede epico-romanzesca per rappresentare, con il filtro dell’ironia e della presa di distanza affabulatoria, i principî collettivi, i valori pubblici. La satira può occupare così, con il suo impegno, il luogo culturale e simbolico-testuale che a questo punto le compete: che non sarà tanto quello della protesta, dell’urlo, dell’aggressione, quanto l’altro, più pacatamente riservato, del dibattito, dello scambio di opinioni, della verifica circostanziale d’una frattura ormai evidente tra Realtà e Valori, colta nella dimensione della cronaca quotidiana.

72 73

Ibid., f. 3v (lettera dedicatoria). P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 101.

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3.

Tematiche e contenuti.

3.1. I temi «satirici» e il «tu» dialogico. La satira ariostesca smette, dunque, d’essere invettiva, predica, polemica politica o morale, e torna a respirare l’antica aria oraziana. Non solo delle “satire” d’Orazio, si noti bene: ma anche, e forse soprattutto, delle sue “lettere”. All’Orazio lirico, di larga fortuna fino a quel momento, si sostituisce il satirico, il pensoso, il moraleggiante, attraverso quella che mi sembra una suprema acquisizione umanistica, dell’umanesimo che studia per assimilare, e assorbe per riplasmare attualizzando le forme e le tecniche espressive dei classici. Ma in particolare, al fondo dell’ispirazione satirica di Ariosto, c’è Dante. Fuso alla tradizione di Giovenale e al capitolo satirico di stampo tardo-quattrocentesco, appunto “umanistico”, Dante riecheggia in ispecie nell’allontanamento morale che codifica il giudizio, nella scelta espressiva (il lessico, la tonalità stilistica, certe rime aspre e chiocce davvero inconfondibili): l’elemento dantesco «rende robusto, persino asprigno, il tono del verso», mostrando come «la saggezza edonistica sia spesso attenuazione signorile di un risentimento morale vissuto e sofferto»74. La forma epistolare è chiamata a connettere le singole satire a puntuali occasioni, a situazioni di contesto che l’uso del “tu”, aprendo al dialogo immaginario, strappa «alla genericità di un io esemplare e magistrale»: «Fondamentale, nelle Satire, la funzione del tu. C’è il tu rivolto dall’autore ai destinatari, o quello con cui egli apostrofa personaggi da lui evocati, e c’è il tu dei destinatari, o di una voce anonima che si alterna ad essi nell’obiettare, rivolto al poeta (per non dire del tu con cui s’interpellano i personaggi di scene e favole, che ha un diverso statuto). In realtà, Ariosto dialoga con se stesso: l’esistenza di interlocutori reali scatena in lui un atteggiamento dialettico, che moltiplica le attualizzazioni del Contraddittore, unico attante effettivo. Insomma, una controversia interiore»75. Costantemente altalenando fra l’occasione e la generalizzazione, attraverso questo rilancio dialogico che introietta il tu in un dibattito quasi teatrale, la Satira ariostesca spicca il volo sull’attualità del presente, stretto e magro, e s’allontana 74 C. SEGRE, Premessa cit., p. VII. E si veda anche L. CARETTI, Ariosto (1954), in ID., Ariosto e Tasso, Torino 19702, pp. 15-51, in particolare il paragrafo Ariosto “minore”, pp. 21-27 (il saggio è stato ripreso fra l’altro, con il titolo L’opera dell’Ariosto, in ID., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 85-103, in particolare pp. 89 sgg.). 75 C. SEGRE, Premessa cit., p. VIII. Una dettagliata, imprescindibile analisi della costruzione dialogica delle Satire, anche in rapporto alla scrittura teatrale delle Commedie ed al suo maturare da prosa a verso, è in ID., Struttura dialogica delle «Satire» ariostesche (1974), in ID., Semiotica filologica cit., pp. 117-30 (a p. 129).

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dalla sua acerba concretezza per rifluire nella rimembranza del “passato”, nel lontano, cioè nel favoloso. La fabula schiarisce allora e rende ancora più fertile l’urgenza autobiografica, e il moto che altrove, a proposito del Furioso, ho detto antigravitazionale76, solleva il peso materiale della realtà in un’improvvisa leggerezza, che il tono e l’allure dei versi rispecchiano linguisticamente. Per questo i dialoghi fittizi e interiorizzati delle Satire sono, secondo la bella formula del Segre, «condensati vocali della memoria o dell’immaginazione»77. I temi interiori che Ariosto mette a fuoco con lucidità nelle Satire sono, in positivo, «alcune disposizioni personali (dignità e indipendenza, amore degli studi e della vita raccolta, ritegno e modestia, avversione ai vizi e alla corruzione delle corti mondane e divote), evitando la polemica scoperta e troppo risentita, lo sfogo diretto e immediato»78. Ed anche sul piano delle tematiche negative, diagnosticate ed estirpate con fermezza contestativa, spicca in primo luogo la corruzione che dalla Corte, specie quella romana, s’estende al mondo intero, invadendo anche quello interiore. Le Satire attaccano la corruttela in quanto ipocrisia e falsità, «denunciano […] i disvalori e i valori falsi e convenzionali, la loro apparenza e non verità di valori, e ne aggrediscono i centri, i personaggi significativi od emblematici, così come la loro diagnosi critica e non perciò astrattamente schematica, giunge a toccare i meccanismi stessi dell’agire e del comportamento umano che egli vede lucidamente (contro ogni falso e retorico moralismo, ma da grande moralista qual egli fu nel senso positivo di questa parola), naturalmente legati a passioni istintive e invincibili con le “prediche inutili” e con l’ascetismo, da lui sempre aborrito nella propria prospettiva laica, terrena, totalmente umana: “Tu forte e saggio, che a tua posta muovi | quegli affetti da te, che in noi nascendo | natura affige con sì saldi chiovi!”»79. Attraverso lo schermo riducente della medietas o mediocritas oraziana Ariosto lascia trapelare un’immagine rinunciataria, remissiva, quieta e in ogni senso minima. Ma si tratta di un’autobiografia fittizia, che è in realtà un’autodifesa schiettamente letteraria, uno schermo protettivo, al pari della fictio dialogica, introiettata linguisticamente nel gioco dello speaker satirico dalle molte voci, di colui che per occultarsi permanendo, per abolirsi conservando la propria voce nel coro polifonico delle molte che partecipano al dialogo (sotto le specie degli scarti di registro, di tono, di argomento), dice “io” in persona d’altri: e qui di numerose 76

C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 264 sgg. C. SEGRE, Premessa cit., p. XI. 78 L. CARETTI, Ariosto cit., p. 25 (L’opera dell’Ariosto cit., pp. 91-92). 79 W. BINNI, Le “lettere” e le “satire” dell’Ariosto nello sviluppo e nella crisi del Rinascimento (1974-1975), in ID., Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma 1978, pp. 11-59 (a p. 42). 77

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e diverse sue figure, che tutte insieme parlano, radicate nel presente, non in quanto ne ritraggono, «trasferendoli in poesia, gli accidenti della cronaca trasformati in occasioni», ma in quanto gestiscono «un’esperienza lirica o celebrativa di validità tendenzialmente perenne»80.

3.2. I «contenuti» delle satire ariostesche. Questa la sequenza delle satire ariostesche, con l’indicazione dell’epoca probabile di stesura, del destinatario, del numero dei versi, dei codici latori del testo, della posizione occupata nell’editio princeps del giugno 1534 (St), e con un cenno sintetico intorno al “contenuto”, o comunque all’occasione che ha stimolato ed ispirato la composizione della satira: I)

settembre-novembre 1517 – «A Messer Alessandro Ariosto, et a Messer Ludovico da Bagno» – 265 vv. – mss. F, A, S; St II – Ariosto ha rifiutato di seguire in Ungheria il cardinale Ippolito d’Este, non ostanti le sue minacce di privarlo dei benefici; la Corte è il luogo dell’adulazione e del compromesso, e Ariosto vuole riconquistare la libertà, anche a rischio di rimanere povero, per conservare, insieme all’indipendenza, il rispetto dei propri impegni più umanamente “mediani”, soprattutto dei doveri familiari; II) novembre-dicembre 1517 – «A Messer Galasso Ariosto, suo fratello» – 271 vv. – ms. F; St III – Ariosto deve partire per Roma, città corrotta e dissipata, per difendere gli interessi propri e quelli di Giovanni Fusari, arciprete di Sant’Agata presso Lugo, che ha designato Ludovico come suo successore nel beneficio: ma altri tenta di sostituirsi al designato, approfittando del mancato pagamento della tassa di registrazione relativa al passaggio della prebenda ecclesiastica; con l’occasione innalza le lodi d’una vita parca e morigerata, che lasci alla fantasia spazio e occasioni per volare in terre esotiche soltanto sulla scorta di libri opportuni, come la Geografia di Tolomeo; III) aprile-maggio 1518 – «A Messer Annibale Malagucio» – 313 vv. – mss. F, A, S, M (solo i vv. 91-93 e 183, riportati da Giovannandrea Barotti); St IV – Perduto per sempre il favore del cardinale Ippolito, Ariosto ha dovuto cercarsi un nuovo protettore, ed annunzia d’averlo trovato (grazie all’aiuto di Bonaventura Pistofilo e dello stesso cugino Annibale) in Alfonso, del quale intesse l’elogio, tracciando contemporaneamente, con arguzia e colloquialità, il profilo dell’orizzonte casalingo, limitato, bonariamente familiare, entro il quale si 80

P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 17.

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iscrivono i suoi desideri; s’interpone (vv. 208 sgg.) la fabula dei pazzi e del monte della Luna (cfr. qui, sezione 4); IV) 20 febbraio 1523 (cfr. vv. 1-2) – «A Messer Sismondo Malegucio» – 232 vv. – ms. F; St V – Il giorno esatto del primo anniversario del suo arrivo a Castelnuovo di Garfagnana, mentre in quel luogo romito e selvaggio dal Nord soffia il «vento di rovaio» (v. 3), e la popolazione si dimostra ostile, Ariosto ripensa con amarezza alle gravi condizioni finanziarie sue e dello stesso ducato estense, provato dalla guerra contro Leone X, che lo costrinsero a scegliere il ruolo di funzionario in sede così disagevole, e descrive le risorse di Castelnuovo, rievocando nel contempo, con intensa liricità, la propria giovinezza, le prime prove poetiche, la magnifica villa dei Malaguzzi a Reggio; V) entro il luglio 1519 (?) – «A Messer Annibale Malegucio» – 328 vv. – mss. F, Ph; St I – Il cugino di Ariosto, Annibale Malaguzzi, ha deciso di sposarsi; e l’occasione offre lo spunto (accanto al delineamento di un ritratto di donna ideale e moglie perfetta del tutto corrispondente al principio dell’aurea mediocritas) per la stesura scanzonata d’una serie di riflessioni piuttosto libere, per quanto coordinate quasi «in forma di trattatello» (Debenedetti), sul tema del “prender moglie”: condite di arguzie, facezie e salacità in clausola; VI) 1524-25 – «A Messer Pietro Bembo» – 247 vv. – ms. F; St VI – Ariosto cerca un precettore per il figlio Virginio, quindicenne, e chiede a Bembo non tanto di assumere lui l’incarico, quanto di aiutarlo nell’impresa, consentendogli di trovare un maestro sapiente, non marchiato dal vizio dell’omosessualità in cui tanti umanisti trascinano i loro allievi; approfitta per ricordare la propria esperienza di studente, e per passare in rassegna con spirito schiettamente umanistico, in una galleria ideale, i ritratti dei grandi letterati del suo tempo; VII)marzo-aprile 1524 – «A Messer Bonaventura Pistofilo Ducale Secretario» – 181 vv. – ms. F; St VII – Il Pistofilo, cancelliere di Alfonso, aveva proposto all’Ariosto di assumere il ruolo d’ambasciatore presso Clemente VII: questa satira rappresenta la risposta all’offerta, con intarsi e infioramenti di favolette ed apologhi allegorici. Nella chiusa è una vera apologia della sedentarietà, già profilata nella satira III: se il signore vuole davvero fare cosa grata al poeta, non dovrà mai chiedergli di allontanarsi oltre i confini del Ferrarese (vv. 160-62).

3.3.«Ludovico della tranquillità»? Per i piani e le serene distese di questi limitati orizzonti, sulle dune, sulle colline leggere che ne costituiscono la minima orografia sentimentale, si diffonde sovrana

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la nebbiolina della mediocritas, dell’equilibrata misura, dell’autodifesa umanisticamente cercata nel giusto mezzo, nella bilancia calibrata e sensibile: Fra bruttezza e beltà truovi una strada dove è gran turba, né bella né brutta, che non t’ha da spiacer, se non te aggrada. […] medïocre forma sempre lodai, sempre dannai le estreme.

(Sat., V, 151-53 e 170-71)

(il discorso sulla bellezza della moglie, che dev’essere mediocre, cela un chiarissimo principio d’estetica, di poetica e, soprattutto, d’antropologia). Le Satire, come ha detto benissimo Lanfranco Caretti, collocano in primo piano, in vista sotto i riflettori, la parte “ufficiale”, mondana, estroversa, «mentre la parte più segreta di esse, quella intima e “privata”, è volutamente meno esposta, quasi serbata in disparte e messa in controluce»81. In questo gioco di luci e ombre, di piani prospettici che sanno mirabilmente dislocarsi nella diffrazione dei registri lessicali e stilistici, consistono la forza e la novità letterarie guadagnate dall’Ariosto. L’inarrestabile diffondersi di pacatezza e di placida sentimentalità, al di là della spontanea, naturale disposizione del carattere e dell’“anima”, viene calcolato con geniale senso dei dinamismi e degli equilibri testuali; “serve”, umanisticamente, per plasmare la dimensione satirica: privata ma non intimistica, serena senza essere letargica, arretrata dietro le linee di fuoco della partecipazione alla vita e alla battaglia cortigiana per consentire la distensione entro cui, solo, sono possibili i balzi segreti, gli improvvisi salti e le impennate aeree dei Paladini, dell’Ippogrifo, dell’esotismo orientaleggiante e, all’estremo, dell’Utopia lunare. Orlando e Astolfo, il clangore delle guerre fictae e i castelli fatati della nostalgia cavalleresca, i voli fantastici e le onde lunghe delle ottave oceaniche, nascono dietro quel muretto coronato da cocci di bottiglia, dietro quella barriera umanistica e perfino ermetica, non ostanti le fattezze borghesi, che preserva nella rinuncia al Reale “così com’è” la possibilità di sognarne un altro “così come si vorrebbe che fosse”: alla maniera in cui nelle fiabe si può rovesciare il mondo (“questo” mondo) per portare alla luce, maieuticamente, l’Altro Mondo che il primo aveva divorato, incapsulandolo, nascondendolo nell’ombra. Le Satire delimitano la soglia ingannevole e ambigua dell’Utopia (la “riflessione”, il “sentimento”, il “sogno”) entro i confini non dell’Ideologia, ma del Reale: quello piccolo e quotidiano, quello dell’apologo moraleggiante, e insomma 81

L. CARETTI, Ariosto cit., p. 24 (ripreso in ID., Ludovico Ariosto cit., p. 823).

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dell’Occasione che apre spiragli inattesi di luci e ombre. Per questo è ancora convincente, nella sostanza, la lettura contrastiva di Walter Binni: «[…] il poeta del primo Furioso […] doveva sentire […] l’insufficienza dell’impostazione oraziana troppo divisa tra il ragionativo, il pittoresco e il prevalere eccessivo di una saggezza che in lui vuol essere qualcosa di più personalmente risentito, di meno distaccato dalla possibilità di una soluzione fantastica, magari fiabesca ed ironica. […] L’impegno ariostesco nelle Satire, nella lontana suggestione oraziana (o meglio nel suggerimento di un tono medio non totalmente lirico e non prosastico), si lega intimamente non solo ai termini della geografia sentimentale ariostesca (bonarietà, amore di quiete, antiintellettualismo, conformismo fino alla difesa del proprio agio fantastico), ma al suo problema generale di toni letterari e vitali che, fuori della piena soluzione orlandesca, andava cercando più minutamente e perifericamente nelle Commedie»82. Ed anche, in parallelo, quella di Lanfranco Caretti (da intendersi, come vuole, non in chiave psicologistica o caratteriale, bensì culturale e radicalmente letteraria): «Le Satire […] richiedono lettori che sappiano concentrare la propria attenzione verso la parte che resta più in ombra, verso la parte più schiva, e ovunque filtrata attraverso modi espressivi più dimessi. Facendo così, spostando l’esame e il giudizio dalla narrazione biografica alla memoria evocativa, al sostrato morale che è sotteso alle notizie pratiche, cortigiane o d’altro tipo, ci accadrà infatti di potere anche meglio comprendere la funzione che hanno, nelle Satire, gli apologhi […]»83. Dietro la buccia delle cose, sotto la loro rude scorza di pasta concreta, le Satire di Ariosto lasciano tralucere, per l’osservatore con strumenti aguzzi, molte ombre vitali, portatrici di messaggi dal buio, dal silenzio: ossia molti spazi d’anima84, spalancati cautamente e ben protetti dietro la maschera dello speaker satirico perché possano tornare a lussureggiarvi i sogni esotici e surreali del “romanzesco”. È così esibita, così didascalicamente dichiarata, questa morale del mediocre e dell’onesto, da far sospettare non schizofreniche e perciò insanabili scissioni, ma tattiche da umanista raffinato, accorte strategie di autodifesa. Le ombre vengono pazientemente scavate dentro le cose, sono estratte dalla riservatezza e dal fulcro segreto del Reale, nella cui ottusa opacità si finge soltanto di credere, andando invece en quête del suo cuore nascosto, sia esso di tenebra, o di miele: Convenevole è ben ch’i’ ordisca e trami 82 W. BINNI, Il tono medio delle «Satire», in ID., Metodo e poesia di Ludovico Ariosto (1947), Roma 19702, pp. 5372 (alle pp. 57-58). 83 L. CARETTI, Ariosto cit., p. 24 (ripreso in ID., Ludovico Ariosto cit., p. 823).

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di non patire alla vita disagio, che più di quanto ho al mondo è ragion ch’io ami. […] Convenevole è ancor che s’abbia cura de l’onor suo; ma tal che non divenga ambizïone e passi ogni misura.

(Sat., III, 241-43 e 256-58);

E se, come d’onor mi truovo sazia la mente, avessi facultà a bastanza, il mio desir si fermeria, ch’or spazia. [...] Quella ruota dipinta mi sgomenta ch’ogni mastro di carte a un modo finge

(Sat., VII, 34-36 e 46-47);

Questo monte è la ruota di Fortuna, ne la cui cima il volgo ignaro pensa ch’ogni quïete sia, né ve n’è alcuna.

(Sat., III, 229-31);

O nostra male aventurosa etade, che le virtudi che non abbian misti vizii nefandi si ritrovin rade!

(Sat., VI, 22-24);

Da me stesso mi tol chi mi rimove da la mia terra, e fuor non ne potrei viver contento, ancor che in grembo a Iove. E s’io non fossi d’ogni cinque o sei mesi stato uno a passeggiar fra il Domo e le due statue de’ Marchesi miei, da sì noiosa lontananza domo già sarei morto, o più di quelli macro che stan bramando in purgatorio il pomo.

(Sat., VII, 148-56);

Camera o buca, ove a stanzar abbia io, che luminosa sia, che poco saglia, e da far fuoco commoda, desio. […] Sia per me un mattarazzo, che alle coste faccia vezzi, o di lana o di cottone, sì che la notte io non abbia ire all’oste. Provedimi di legna secche e buone; di chi cucini, pur così alla grossa, un poco di vaccina o di montone.

(Sat., II, 16-18 e 22-27);

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La vita che mi avanza me la salvo meglio ch’io so […]

(Sat., I, 220-21).

È l’Ariosto segreto, fugace, imprendibile, però splendidamente colto al volo e fotografato da Antonio Baldini, con arguzia ed eleganza: Ludovico della tranquillità85. È l’Ariosto in apparenza (ma l’essenziale è proprio quest’apparenza!) più lontano dallo slancio, come ho detto, leggero e antigravitazionale del Furioso, dall’Ippogrifo e da Astolfo e dalla «gran bontà dei cavallieri antiqui». Cioè, a guardar bene e a non lasciarsi ingannare dalla maschera, l’Ariosto umanista, serio ed ilare, ermeticamente instabile e però pacificato dallo studio, il quale sa che delle cose più profonde è meglio parlare con ironia86, ed ha appreso alla scuola dei neoplatonici, ferraresi e non (Celio Calcagnini, Lilio Gregorio Giraldi), a miscere utile dulci ed a serio ludere87. Un Ariosto che un po’ è, un po’ (ma soprattutto!) si finge, proprio per questo gioco sottile fra Sostanza ed Apparenza, fra Verità ed Inganno, saldamente ancorato all’imperioso reale, a difesa d’una felicità terragna e senza ghiribizzi, schiettamente e consapevolmente borghese, fatta di buone cose di medio gusto, fra tinello e focolare e moglie fedele e bambini e precettori e onesti costumi. Un’etica laica: la quale, non fosse per questa ragione, sarebbe finanche paragonabile (e perché no? mutatis mutandis!…) a quella che secoli più tardi sigillerà, col fervorino catartico e la litania da galateo della morigeratezza, scanditi dall’eccellente senso comune che omnia vincit («Ho imparato a non mettermi ne’ tumulti: ho imparato a non predicare in piazza: ho imparato a guardare con chi parlo: ho imparato a non alzar troppo il gomito […]»)88, l’epopea tragica delle «gente meccaniche» vessate da «Prencipi e Potentati» e perse nei «Labirinti de’ Politi84 Deduco il termine (estrapolandolo dal contesto referenziale psicoanalitico in maniera leggermente allusiva all’idea di spazio dell’interiorità) dall’opera di J. HILLMAN, The Myth of Analysis. Three Essays in Archetypal Psychology, 1972 (trad. it. Il mito dell’analisi, nuova edizione riveduta Milano 1991), e ID., Anima. An Anatomy of a Personified Notion, 1985 (trad. it. Anima. Anatomia di una nozione personificata, Milano 1989). 85 Cfr. A. BALDINI, Ludovico della tranquillità. Divagazioni ariostesche, Bologna 1933. 86 Cfr. E. WIND, Misteri pagani del Rinascimento, Milano 1971, pp. 289 sgg. 87 Cfr. G. SAVARESE, Il «Furioso» e la cultura del Rinascimento, Roma 1984, p. 25, che illustra la reinterpretazione ermetizzante dei due adagia, d’origine socratica, nella cultura umanistico-rinascimentale. Sull’intelligente e credibile lettura di Savarese di un Furioso non estraneo all’orizzonte letterario neoplatonico si veda anche C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 295 (e nota 136) e 300. 88 Il riferimento è, ovviamente, al Manzoni (A. MANZONI, Promessi Sposi, a cura di L. Caretti, II. I Promessi Sposi nelle due edizioni del 1840 e del 1825-27 raffrontate tra loro - Storia della colonna infame, Torino 1971, p. 3 e, per le parole virgolettate che seguono, pp. 901-2): ma si tratta, ovviamente, piuttosto di un accostamento per associazione d’idee, che non di un vero e proprio parallelo fra i due scrittori (non facilmente ammissibile, credo, sul piano ideologico e su quello stilistico).

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ci maneggi», ad impersonare le quali saranno chiamati due semplici come i fidanzati del lago di Como, «povera gente» protetta dalla Provvidenza, ma soprattutto dal suo senso della medietà. Però la mappa delle idiosincrasie, delle nevrosi, delle idee fisse, delle maniacali chiusure che connotano l’uomo, a suo agio solo nello spazio materno e protettivo della casa e della famiglia, s’innerva magnificamente con l’understatement continuo, con la sapiente medietà espressiva che qua e là accendono e lacerano bagliori corruschi d’insofferenza, improvvisi fremiti da cavallo di razza imbizzarrito. Le Satire sono un raro esempio d’intreccio perfettamente equilibrato fra la bonomia schietta ed affabile del discorso arguto, colto, traboccante di finezza erudita (si pensi alle graziose “novellette” che, come nei grandi moralisti antichi, fioriscono d’improvviso, qua e là, nell’orticello concluso di ogni testo) e le punte aguzze d’una stizzita, non di rado acrimoniosa espressività sempre riaffiorante: ed è, ogni volta, l’umor nero dantesco a scorrere nuovamente nelle vene delle terzine, al ritmo scattante con cui s’alternano, imbricate, le rime ancora un volta aspre e chiocce. Ludovico della (finta? apparente? umanistica? ermetica?) tranquillità...

4.

Modelli e fonti.

4.1. «Fonti» e «parodia» nelle Satire. Alla base dell’ispirazione ariostesca delle Satire sta, come s’è detto, un ripensamento in chiave umanistica e attualizzante delle epistole e delle satire oraziane, e fors’anche di Giovenale e di Persio, filtrati dalla lettura di Dante e della produzione recente in volgare, soprattutto satire e capitoli ternari. Ma la novità dell’iniziativa ariostesca, che consiste essenzialmente «in una nuova impostazione della figura dello speaker satirico, certo fondata piuttosto in un rapporto diretto coi modelli latini che in una logica di continuità con recenti esperienze volgari»89, distanzia queste Satire da tutte le sperimentazioni coeve. E sarà difficile trovare – così per quanto attiene al modello profondo come sul piano del ricorso immediato e meccanico alle “fonti” – qualche “satirico” quattro-cinquecentesco nel regesto dei debiti di Ariosto. Non c’è Panfilo Sasso, non c’è Antonio Tebaldeo, né – tanto meno – il Cosmico o il Vinciguerra.

89

P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 53.

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Troviamo, invece, frequentemente la Commedia e il Canzoniere: un ricorso al regesto delle fonti approntato dal Segre nella sua annotazione riserva più di una sorpresa emozionante. Di Dante risuona particolarmente l’eco della tonalità infernale, graffiante, aspra. Così, per esemplificare solo dai primi testi: nella satira I, in «lo dissi a viso aperto», v. 21 (che è Inf., X, 93), nelle catene di rimanti Bergamaschi : paschi, vv. 103-5 (cfr. Inf., XX, 71-73) e rotto : sotto : di botto, vv. 248-52 (cfr., con altro ordine, Inf., XXII, 128-32). Nella satira II, castiga : briga, vv. 7-9 riprendono Inf., V, 49-51 (rovesciando l’ordine), e così muso : giuso : uso, vv. 32-36, provengono, con la solita variatio, da Inf., XXII, 104-8; il v. 90 «o’ muri trasparesser come vetro» rifà Inf., XXXIV, 12 «e trasparien come festuca in vetro»; ai vv. 220-23 mozzo : sozzo (riecheggiante in sozzopra del v. 224) vengono da Inf., XXVIII, 19-21 (ma in altri luoghi la rima è anche al plurale, o al femminile singolare). La stessa cosa vale, è chiaro, anche per il Purgatorio: ad esempio la sequenza di rimanti della satira V, 212-16, tempre : distempre : sempre (che è già nell’Orlando Furioso, XIII, 20, 1-5), scaturisce da Purg., XXX, 92-96 (sempre : tempre : stempre), e macro : sacro : acro di VII, 155-59 da Purg., IX, 134-38 (come al solito, con differente disposizione). E ci sono perfino echi del Paradiso: ad esempio nel molto connotato sezzai di III, 140, estratto da Par., XVIII, 93 (ma in Ariosto il raro lemma, innestato nel corpo d’un exemplum allegorico, è fatto ironicamente rimare con assai e con l’esclamazione Guai!), e in quel Dio Sabaot di VI, 26 nella redazione tràdita dal manoscritto F, già ricordato (cfr. p. 189) per ragioni ecdotiche, in rima con il latino quot quot «quanti», che sgorgava da Par., VII, 1 («Osanna, sanctus Deus sabaòth»), e dev’esser stato cassato per la riconoscibilità e l’espressività eccessive della fonte, fin troppo palese; la primitiva lezione era: Pochi sono grammatici e humanisti senza il vitio per cui Dio Sabaot fece Gomorra e i suoi vicini tristi;

l’esito finale, accolto a testo in St, è: Senza quel vizio son pochi umanisti che fe’ a Dio forza, non che persüase, di far Gomorra e i suoi vicini tristi90.

Ariosto, in sintesi, censura le proprie fonti, le metabolizza; conserva e insieme abolisce il rapporto con l’alterità che autorizza e dà l’avvio alla voce autonoma 90

Cfr. il testo e l’apparato nell’ed. Segre cit., pp. 54-55.

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della nuova scrittura. Come è stato detto per il Furioso, anche per le Satire si potrà asserire che la citazione da «tecnica d’assimilazione dei prelievi da un testo» si trascrive in «funzione tipica della “ridondanza” del messaggio letterario, e nello stesso tempo come veicolo di sursémantisation (Genot) e di memorabilità di un’opera»91. Lo sguardo con cui Ariosto si rivolge alle sue “fonti” è quello stesso con cui osserva l’occasione nella realtà per trarne il gioco di luci ed ombre della propria partecipazione emotiva. L’intertestualità in Ariosto – nelle Satire come già nel Furioso –92 si duplica spesso in parodia della tradizione: e come dimostra la ripresa-metamorfosi (stessi lemmi, ma in ordine differente) delle catene di rimanti autorizzate da Dante (e talora da Dante + Petrarca!)93, la volontà di conservare trasformando fa sì che Ariosto rifiuti «l’identità autonoma ed indipendente dell’“altro”»: egli allora, questo Altro che è la tradizione poetica, «lo normalizza e lo regolarizza nella sua contestualizzazione e rifunzionalizzazione»94. La parodia ariostesca è, etimologicamente (parà + odé), un vero controcanto, dal momento che possiede, nei confronti del testo, una «funzione decisamente rigenerativa»95. Simile è pure il percorso della personale costruzione di schemi rimici e ritmici, paralleli all’inventio di fabulae nuove (qualche volta dipendenti da altri luoghi di Ariosto medesimo: per esempio dal Furioso), con l’immissione nel repertorio di nessi del tutto incongrui, e comunque inattesi, proprio perché “volgari”, “prosaici”, e quindi inconsueti nella prassi tradizionale. In questo Ariosto sarà da leggere altresì in raffronto – di tonalità ma, ovviamente, non di contenuto, né di forme – con certi colti ghiribizzi umanistici, scarti nel carnale, nel visivo più che nell’auditivo, e insomma nel “troppo forte”, quali, tanto per far dei nomi, i diecimila versi del De iocis ac seriis del Filelfo o l’Hermaphroditus del Panormita, le pornografiche Elegiae iocosae di Pacifico Massimo, ma anche le Facetiae in prosa di Poggio Bracciolini. Si tratta d’un processo di desublimazione e di distanziamento dalla traditio, ironico, anche sarcastico, e spinto talora fino al grottesco: si veda per tutti, alla fine della satira V, l’episodio che è una delle tante aperture narrative, uno degli abbandoni ludici al gusto diegetico di stampo boccacciano:

91

C. OSSOLA, Dantismi metrici nel «Furioso», in Ludovico Ariosto: lingua, stile, tradizione cit., pp. 65-94 (a p. 65). Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 334 sgg. 93 Sul «lenimento ironico» ottenuto attraverso l’imbricamento dei materiali generati da questa doppia «vischiosità», della memoria poetica dantesca e di quella petrarchesca, cfr. C. OSSOLA, Dantismi metrici cit., in particolare pp. 75 sgg. 94 S. JOSSA, Tra norma e forma: Poliziano nella «riscrittura ariostesca», in «Schifanoia», XI (1991), pp. 81-100 (a p. 83). 95 C. OSSOLA, Dantismi metrici cit., p. 80. 92

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Fu già un pittor, Galasso era di nome, che dipinger il diavolo solea con bel viso, begli occhi e belle chiome; né piei d’augel né corna gli facea, né facea sì leggiadro né sì adorno l’angel da Dio mandato in Galilea. Il diavol, riputandosi a gran scorno se fosse in cortesia da costui vinto, gli apparve in sogno un poco inanzi il giorno, e gli disse in parlar breve e succinto ch’egli era, e che venia per render merto de l’averlo sì bel sempre dipinto; però lo richedesse, e fosse certo di subito ottener le sue domande, e di aver più che non se gli era offerto. Il meschin, ch’avea moglie d’admirande bellezze, e ne vivea geloso, e n’era sempre in sospetto et in angustia grande, pregò che gli mostrasse la maniera che s’avesse a tener, perché il marito potesse star sicur de la mogliera. Par che ’l diavolo allor gli ponga in dito uno annello, e ponendolo gli dica: – Fin che ce ’l tenghi, esser non puoi tradito. – Lieto ch’omai la sua senza fatica potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova che ’l dito alla moglier ha ne la fica. Questo annel tenga in dito, e non lo muova mai chi non vuol ricevere vergogna da la sua donna; e a pena anco gli giova, pur ch’ella voglia, e farlo si dispogna.

(Sat., V, 298-328).

Al di sotto del sottile intarsio rimico (si veda soprattutto l’ironica rima incluai vv. 314-18, era : maniera : mogliera, accostata intenzionalmente all’altra dei vv. 319-21, dito : tradito, per non dire della rima contenuta – che mi risulta hapax nelle nostre lettere, e dipenderà forse da un diffuso, grossolano adagio popolare – dei vv. 322-24, fatica : fica; rimanti, tutti, davvero “prosaici”, nei quali si cela il ridanciano gioco semantico e diegetico sottinteso alla storiella), il riferimento è chiarissimo, e i contenuti si rispecchiano bene nelle forme: «neanche il sistema

siva96

96

Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., p. 312.

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insegnato dal diavolo al buon pittore è sufficiente, e in questo caso si potrebbe proprio dire che la donna ne sa una più del diavolo. Chi non ricorda la novella di Giocondo?»97. Qui, infatti, Ariosto è “fonte” di se stesso: fonte autoparodica, quindi autoironica. La lunga, comica “novella” incastonata nel canto XXVIII dell’Orlando Furioso (ottave 4-74) è, senza dubbio, la “fonte” richiamata fra sorriso e ghigno, per la vicenda dell’anello, della sfiducia anticortese e misogina verso le donne, addirittura per il richiamo ad una sessualità grottesca e quasi animalesca (la donna come giumenta, allusione frequente nel Furioso!) che, in quel canto, occupa la “cavalcata” notturna dell’ottava 64, e qui il quadretto realistico ed insieme allusivo, strambo, leggermente deforme dei vv. 322-24. Su tutto si stende il riso: la stessa risata a crepapelle, forsennata, sgangherata, con cui Giocondo e il re sigillano la scoperta del tradimento delle proprie mogli nell’ottava 71, aprendo alla morale di 73, 5-8: Dunque possiamo creder che più felle non sien le nostre, o men de l’altre caste: e se son come tutte l’altre sono, che torniamo a godercile fia buono98.

4.2. La struttura e le «fonti» degli esordi e degli apologhi. Misoginia, sessualità grassoccia più che morbida sensualità, giochi di parole spinti anche ai limiti del buon gusto (nel passo citato, corna del v. 301 – per di più nel sintagma “far le corna” – per così dire “genera” il rimante scorno del v. 304), se si è fatto il nome di Boccaccio, è per sottolineare la tensione prosastica cui è sottoposta la pronuncia satirica dell’Ariosto: non dissimile spinta, o torsione, si è già registrata nell’esperienza struttiva del Furioso: come volontà di mediare fra l’istanza lirica petrarchesca/petrarchistica e quella narrativa: appunto boccacciana, e boiardesca99. Questa medesima sollecitazione insiste nella direzionalità del messaggio epistolare, rilevata soprattutto negli snodi diegetici e nella «stretta funzionalità comunicativa del discorso»: «non solo la sobrietà dell’elocutio, ma anche la brachilogia narrativa, la frequente mise en relief sintattica di elementi circostanziali che la costruzione “naturale” vorrebbe posposti, l’abbondanza di pause incidentali che mimano il sopravvenire casuale di pensieri eterogenei. Tutti questi elementi del linguaggio satirico ariostesco configurano una rigorosa poetica “episto97

C. Segre nella sua edizione delle Satire cit., p. 101, nota 90. L. ARIOSTO, Orlando Furioso, a cura di C. Segre, Milano 1976, p. 743. 99 Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 276 sgg. e 288 sgg. 98

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lare”. Di più: la relazione fra sintassi e metro, estremamente accidentata (ma secondo precisi calcoli di misura), anch’essa conferisce al dettato l’andamento quasi-casuale della lettera familiare. […] La scelta di una sintassi caratterizzata da variazioni rapide e frequenti, da costruzioni brachilogiche nelle quali gioca un notevole ruolo l’implicito, […] costituisce la legge principale nella formazione del linguaggio satirico ariostesco. E questa legge non varia nel tempo; anche se è vero che nelle satire più mature l’Ariosto sperimenta anche misure sintattiche più larghe e distese, soprattutto nei punti nei quali il personaggio poeta è ristretto in momenti riflessivi o rievocativi»100. L’avvio e lo svolgimento epistolare di queste Satire, insomma, è «un elemento di strutturazione», che ha anch’esso le sue “fonti”, in quanto forma organizzativa della diegesi: Segre ha opportunamente additato in esso la colta applicazione dello schema partitivo fissato nella retorica medievale (salutatio, propositio, narratio, conclusio, petitio), con l’aggiunta di biforcazioni, dislivelli di tono, successione di registri, «correlati alla posizione del poeta rispetto alla materia» ed apostrofi che svolgono una «funzione distributiva», operando «la transizione da un registro all’altro»101. È vero – lo si è già accennato: cfr. p. 182 – che con il loro andamento dialogico le Satire costituiscono anche il terreno fecondo di maturazione dalle commedie in prosa a quelle in versi: anzi, in certo senso, «nel contesto confidenziale e autoanalitico» di questi testi la forma dialogica assurge a dominante assoluta dello spazio interiore che s’esprime nell’efficacia icastica dello stile: «le Satire sono forse le migliori commedie dell’Ariosto»102. È essenziale, dunque, cogliere il rapporto referenziale impostato dall’incipit dialogico, dall’apertura del colloquio immaginario: come dire, la “fonte” macrotestuale, l’avvio deittico che segna l’occasione nominando l’interlocutore, e così autorizza lo sviluppo discorsivo, proprio mentre assimila l’“origine” nella frattura incipitaria. Il caso più evidente, e direi, anzi, perfino clamoroso, è l’introduzione della satira VI: Bembo, io vorrei, come è il commun disio de’ solliciti padri, veder l’arti che essaltan l’uom, tutte in Virginio mio;

100

P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 80 e 83. C. SEGRE, Struttura dialogica delle «Satire» ariostesche cit., p. 126. 102 Ibid., p. 130. 101

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dove è palese il ritorno al locus memorabile, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io, ribadito e arricchito dal ricorso ai rimanti danteschi (vv. 1, 4 e 8) io : mio : disio, come di consueto invertiti, ed anzi ridotti, giacché io resiste solo nel corpo del sintagma incipitario; la satira si sviluppa, poi, su tonalità classicheggianti: ai vv. 7087, sulla base di una parodia dell’Ars poetica oraziana (vv. 391 sgg.), con numerose altre riprese dallo stesso poeta, da Persio (v. 154, in rima «pegàseo melo», che è dal Prologo alle Satire del poeta antico, v. 14, «pegaseium melos»), da Giovenale e da altri latini, e si chiude con l’irrisione di «quel filosofo, a chi il sasso | ciò che inanzi sapea dal capo scosse» (vv. 242-43). Ma già il primo incipit nascondeva, di fatto, Orazio: Io desidero intendere da voi, Alessandro fratel, compar mio Bagno, s’in corte è ricordanza più di noi;

(Sat., I, 1-3),

rifà l’avvio di Epistulae, I, 3: Iuli Flore, quibus terrarum militet oris Claudius Augusti privignus scire laboro103,

con la mediazione, però, dello stile latineggiante elaborato dall’epistolografia familiare fiorentina e settentrionale (Biagio Bonaccorsi, Bartolomeo Ruffini, Niccolò Machiavelli, Francesco Vettori, Baldassar Castiglione)104. Ed anche per la satira IV dopo l’incipit situazionale («Il vigesimo giorno di febbraio […]») la convocazione-allocuzione che chiama in causa il corrispondente («Maleguzzo cugin, che tacciuto abbia | non ti maravigliar […]», vv. 19-20) sembra rilanciare a sua volta la prassi ormai consueta nell’impostazione delle lettere prosastiche di genere “familiare”, per quanto stilisticamente assai sorvegliate. E a simile tecnica ricorrono i versi introduttivi di tutte le altre Satire:

103 104

Perc’ho molto bisogno, più che voglia, d’esser in Roma […] […] Galasso […]

(Sat., II, 1-2 e 10);

Poi che, Annibale, intendere vuoi come la fo col duca Alfonso […]

(Sat., III, 1-2);

La fonte è indicata da P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 79. Per l’analisi dei modelli dell’epistolografia familiare quali possibili “fonti” ariostesche cfr. ibid., pp. 79-80.

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Da tutti li altri amici, Annibale, odo fuor che da te, che sei per pigliar moglie

(Sat., V, 1-2);

Pistofilo, tu scrivi che, se appresso papa Clemente imbasciator del Duca per uno anno o per dui voglio esser messo

(Sat., VII, 1-3).

Esiste poi un altro luogo letterario cruciale, nel quale la “fonte” si fa, da puntuale riemergenza memoriale d’un testo autorevole e autorizzante, evocazione d’un tono, generica allusione bifronte ad una sapienzialità insieme arcana e colloquiale, allegoricamente eretica e impastata di concretissimo senso comune: è l’accensione, nel cuore del testo, di alcuni vividi apologhi, che talvolta si ampliano alla misura di novellette dal sapore esopico o fedriano (e già nelle pieghe del Furioso, come ha rilevato finemente Carlo Delcorno, sia Fedro sia Esopo sono «discretamente citati»105). Questi apologhi dal registro morale, parenetico, insomma didascalico e insegnativo, replicano la struttura degli exempla cari ai predicatori tardomedievali ed anche tre-quattrocenteschi (Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre…), e fioriscono nelle Satire così come già avevano esercitato sull’Ariosto una forte attrattiva al tempo della composizione dell’Orlando Furioso, libro nel quale le novelle inserite ad intarsio, «pur così spregiudicate e colorite, rivelano quasi sempre un forte profilo morale, in certi casi addirittura una sentenziosità da exemplum, meglio da “novella esemplare”, nel senso che al termine darà il Cervantes»106. Ed è probabile che questa suggestione sia legata al gusto, che dovette essere dell’Ariosto, per la lettura dei bestiari simbolici107, delle antiche, edificanti vitae patrum, o di una delle più tarde compilazioni di esempi ad uso degli oratori sacri, dalla robusta fortuna editoriale108. Ariosto stesso, nella satira III, ricorre proprio al termine inequivocabile essempio («Cugin, con questo essempio vuo’ che spacci | quei che credon che ’l Pa-

105 C. DELCORNO, La tradizione esemplare nell’«Orlando furioso» (1972), in ID., Exemplum e letteratura. Tra Medioevo e Rinascimento, Bologna 1989, pp. 317-37 (a p. 317). Per l’uso degli exempla nella predicazione d’età tardomedievale e umanistico-rinascimentale cfr. anche le importanti introduzioni dello stesso Delcorno all’edizione da lui curata di BERNARDINO DA SIENA, Prediche volgari sul campo di Siena - 1427, 2 voll., Milano 1989, I, pp. 7-78, e di G. BALDASSARRI, Racconti esemplari di predicatori del Due e Trecento, a cura di G. Varanini e G. Baldassarri, 3 voll., Roma 1993, I, pp. XIII-LX (e la ricchissima Nota bibliografica, pp. LXI-LXV). 106 C. DELCORNO, La tradizione esemplare cit., p. 322. 107 Cfr. ibid., p. 317. 108 Cfr. ibid., pp. 322-23 (e cfr. anche p. 334, nota 24). Si leggano ancora le interessanti pagine di C. SEGRE, Negromanzia e ingratitudine (Juan Manuel, il «Novellino», Ludovico Ariosto) (1964), in ID., Esperienze ariostesche cit., pp. III-18, per Sat., III, 178 sgg.

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pa porre inanti | mi debba a Neri, a Vanni, a Lotti e a Bacci»: vv. 151-53). Ed anche nel Furioso – come avviene d’altra parte lungo tutto il Cinquecento – la parola, alternandosi ad istoria, che appare sostanzialmente sinonimo, ricorre in più d’una occasione (cfr. «esempio», XXIII, 128, 8; «esempio», XXV, 36, 4; «istorie», XLV, 4, 1-2), «a sottolineare un fatto degno di attenzione per la sua rarità o per il suo significato morale» (l’exemplum è infatti, in senso stretto, «una tecnica di persuasione prediletta da eremiti, santi o altri personaggi dabbene»)109. L’umoralità sanguigna, concreta, tipicamente satirica, schiaritasi nella baldiniana tranquillità dell’universo mentale e fantastico di Ariosto, irrora questi exempla-apologhi-novellette di nuova forza iconica, operando insomma, attraverso la sintesi di immagini e gioco dei registri stilistici, un formidabile processo di visualizzazione, perfettamente solidale al progetto etico-espressivo di cui ho tracciato le coordinate. La satira I si chiude con l’apologo dell’asino magrissimo e affamato che […] entrò, pel rotto del muro, ove di grano era uno acervo; e tanto ne mangiò, che l’epa sotto si fece più d’una gran botte grossa, fin che fu sazio, e non però di botto. Temendo poi che gli sien péste l’ossa, si sforza di tornar dove entrato era, ma par che ’l buco più capir nol possa.

(Sat., I, 248-55).

Finché viene redarguito dal topolino affinché dimagrisca per poter tornare libero (e la morale della chiusa torna ad illuminare l’occasione ariostesca, non senza aver attivato significativamente la serie rimica dantesca macro : sacro : acro, dall’alto valore evocativo ed allegorico, di cui già ho parlato: cfr. p. 206). E qui l’exemplum è, senza possibilità d’equivoco, la celebre fabula oraziana (Epistulæ, I, VII, 29-33) della vulpecula e della mustela, che però, mi pare valga la pena d’esser notato, viene rinverdita nella tradizione romanza, ad esempio nel Roman de Renart, dove gli animali dialoganti e duellanti sono la volpe e il lupo110. Come sempre in Ariosto, però, il camuffamento della “fonte” (ma qui si parlerebbe forse più opportuna-

109

C. DELCORNO, La tradizione esemplare cit., p. 323 (e cfr. p. 335, nota 28). Cfr. Roman de Renart, a cura di E. E. Martin, 4 voll., Strasbourg-Paris 1882-87, II, pp. 127 sgg. (Branche XIV, vv. 647 sgg.). Per comodità si può ricorrere alla versione, divulgativa, Il romanzo della volpe, a cura di S. Battaglia, Palermo 1980, pp. 41-44 (Renardo, Primasso e i prosciutti). Per questo e gli altri apologhi ariosteschi cfr. P. SCHUNCK, Die Stellung Ariosts in der Tradition der klassischen Satire, in «Zeitschrift für romanische Philologie», LXXXVI (1970), pp. 49-82, in particolare pp. 69 sgg. 110

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mente di una situazione testuale topicizzata) avviene mediante l’insistenza sul pedale ironico (la bestia protagonista diviene l’Asino: animale, peraltro, dal filosofico pedigree, nella cultura umanistico-rinascimentale!)111. Altro apologo famoso è quello della satira VII, sul dialogo fra la presuntuosa zucca e il pero saggio e moderato: Fu già una zucca che montò sublime in pochi giorni tanto, che coperse a un pero suo vicin l’ultime cime. Il pero una matina gli occhi aperse, ch’avea dormito un lungo sonno, e visti li nuovi frutti sul capo sederse, le disse: – Che sei tu? come salisti qua su? dove eri dianzi, quando lasso al sonno abandonai questi occhi tristi? – Ella gli disse il nome, e dove al basso fu piantata mostrolli, e che in tre mesi quivi era giunta accelerando il passo. – Et io – l’arbor soggiunse – a pena ascesi a questa altezza, poi che al caldo e al gielo con tutti i vènti trenta anni contesi. Ma tu che a un volger d’occhi arrivi in cielo, rendite certa che, non meno in fretta che sia cresciuto, mancherà il tuo stelo. –

(Sat., VII, 70-87).

La “morale della favola”, ancora una volta, riconduce al caso, all’occasione personale di Ariosto, quella che potrebbe essere senza difficoltà il thema popolareggiante di una predica, bernardiniana ad esempio; e le cui “fonti”, che mi sembrano ancora inattinte, scaturiranno forse da una collezione favolistica medievale112. Questo apologo, in particolare, rammenta le favolette morali di un Leonardo da Vinci, che nel nostro secolo citò alla lettera e imitò Carlo Emilio Gadda, nel Primo libro delle favole (1952).

111 Cfr. G. B. PINO, Ragionamento sovra de l’asino, a cura di O. Casale, Roma 1982, e anche l’Introduzione di C. BERNARI, Il paradiso asinesco, ibid., pp. 7-18. Un panorama pressoché compiuto dell’interpretazione bruniana (e più latamente rinascimentale: Machiavelli, Folengo, Aretino, Agrippa di Nettesheim) della figura asinina è offerta da N. ORDINE, La cabala dell’asino. Asinità e conoscenza in Giordano Bruno, Napoli 1987 (sulla Satira ariostesca cfr. pp. 22 sgg.). 112 Sulla favolistica latina sono utilissimi i testi e i dati filologici e bibliografici raccolti in Favolisti medievali, a cura di F. Bertini, 3 voll., Genova 1984-88 (da collegarsi ad AA.VV., La struttura della fabulazione antica, Genova 1979). Sulle caratteristiche formali del genere gnomico, condensato al più alto grado nella massima, cfr. M. T. BIASON, La massima o il “saper dire”, Palermo 1990.

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Infine, più noto di tutti, l’apologo dei pazzi che vogliono impadronirsi della luna (Sat., III, 208-31), vera e propria “fiaba”113 la cui tradizione risale alle Intercenales di Leon Battista Alberti, testo che Ariosto doveva conoscere ed amare molto, dal momento che un diverso suo passo gli aveva già ispirato un’altra fantasia lunare, quella del viaggio di Astolfo (Orlando Furioso, XXXIV, 72-85), a sua volta legato, proprio come la fabula della satira III, al tema della pazzia114. Ma a mostrare quanto sia complessa l’identificazione d’una fonte sicura, unitaria e non rielaborata dell’Ariosto, sta la registrazione, dovuta a Cesare Segre, d’un luogo del Tristan en prose anticofrancese, che Ariosto avrebbe potuto benissimo leggere a Mantova o a Ferrara, nelle cui ricche biblioteche erano posseduti vari codici dell’opera115. Come usava fare, in nome d’una poetica della mescolanza delle fonti e del loro occultamento mediante la rielaborazione, il poeta procedette alla contaminazione dei testi sulla base dell’affinità dei motivi, giacché «non c’è dubbio che le rassomiglianze tra la satira e il Tristan en prose sono molto più consistenti di quelle con la fiaba dell’Alberti»116. Ma si potrebbe concludere evocando altri, minimi e rapidissimi, luoghi di snodo diegetico segnati dal medesimo desiderio di esemplarità moraleggiante, di iconicità e visualizzazione di un’idea o di un paragone in forma di “storiella”. Ad esempio, nella satira V sulla scelta d’una buona moglie, le terribili terzine che, ancora una volta, equiparano la donna ad animali: S’in cavalli, se ’n boi, se ’n bestie tali guardian le razze, che faremo in questi, che son fallaci più ch’altri animali? Di vacca nascer cerva non vedesti, né mai colomba d’aquila, né figlia di madre infame di costumi onesti.

(Sat., V, 100-5).

Oppure, stringato come un puro paragone, però vivacizzato dal moltiplicarsi, 113 C. SEGRE, I pazzi e la luna dietro al monte (Ariosto, «Sat.», III, 208-31) (1986), in ID., Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino 1990, pp. 115-19 (il termine “fiaba” è dell’autore, p. 115; e cfr. p. 118, nota 1: «Uso i termini fiaba e apologo, alludendo col primo al contenuto narrativo, col secondo alla funzione dimostrativa»). 114 Cfr. E. GARIN, Venticinque Intercenali inedite e sconosciute di Leon Battista Alberti, in «Belfagor», XIX (1964), pp. 377-96, quindi L. B. ALBERTI, Intercenali inedite, a cura di E. Garin, Firenze 1965; C. SEGRE, Leon Battista Alberti e Ludovico Ariosto (1965), in ID., Esperienze ariostesche cit., pp. 85-95; M. MARTELLI, Una delle Intercenali di Leon Battista Alberti fonte sconosciuta del Furioso, in «La Bibliofilia», LXVI (1964), pp. 163-70. 115 Cfr. C. SEGRE, I pazzi e la luna dietro al monte cit., p. 119, nota 10. 116 Ibid., p. 117. Si vedano inoltre le note 63 e 64 di p. 89 della sua edizione delle Satire cit., dove è dichiarata la derivazione diretta dal Tristan en prose, essendo la fiaba «narrata pure nel proemio al VII libro delle Intercenali di L. B. Alberti».

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nel breve giro d’una sola terzina, quello (nella satira IV, 16-18: «La novità del loco è stata tanta, | c’ho fatto come augel che muta gabbia, | che molti giorni resta che non canta») nel quale vengono messi a confronto i comportamenti di vari uccelli canori, con evidente allusione al poeta stesso (autorizzata da lunga prosapia esemplare, a partire dai trovatori occitanici): Mal può durar il rosignuolo in gabbia, più vi sta il gardelino, e più il fanello; la rondine in un dì vi mor di rabbia.

(Sat., III, 37-39).

Alla stessa esigenza di deissi, di richiamo iconico all’occasione mediante un indice, uno scarto di registro tanto impressionante quanto improvviso, risalgono le intrusioni di elementi linguisticamente accesi, espressivistici: le rime e i rimanti “d’autore”, petrarcheschi, ma specialmente danteschi; l’uso delle rime equivoche a raffica (per esempio le tre capo : capo : capo nella satira IV, vv. 92, 94 e 96; ibid., vv. 124 e 126, le due tòrre : tórre), le molte “inclusive” e “contenute”117 (per esempio ibid., vv. 224-31, le serie inclusive assonanti in -anco e -atto), gli scarti linguistici verso il dialettalismo, il ribobolo, il gergo (per esempio, nella satira II, v. 103, l’uso del verbo del linguaggio furbesco «moccare» per ‘buscarsi’, impiegato anche nella Cassaria)118 o invece verso l’imitazione-deformazione di vocaboli stranieri (per esempio l’ispanismo di peccadiglio, nella satira VI a Pietro Bembo, v. 34, in rima), e addirittura la scheggia esotizzante ben cesellata: per esempio, nella II, i vv. 82-83: «Agora non si puede, et es meiore | che vos torneis a la magnana […]», ove si imita un cameriere spagnolo che vuol parlare italiano, con effetti umoristici e di forte espressività. È vero: le Satire sono forse le migliori commedie dell’Ariosto: perché in esse le lingue della commedia s’intrecciano sul palcoscenico ove si recita la commedia delle lingue119.

5.

Conclusioni.

Poeta “prosastico” come l’Orazio dei Sermones e delle Epistulae, narratore perché desideroso di dare voce e corpo all’urgenza etica, e più ancora allo sfogo che 117

Cfr. C. BOLOGNA, «Orlando Furioso» di Ludovico Ariosto cit., pp. 283 sgg. e 312 sgg. Cfr. C. Segre nella sua edizione delle Satire cit., p. 80, nota 38. 119 Prendo in prestito, ovviamente, la magnifica formulazione di G. FOLENA, Le lingue della commedia e la commedia delle lingue (1983), in ID., Il linguaggio del Caos. Studi sul plurilinguismo medievale, Torino 1991, pp. 119-46. 118

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disacerba il cuore che non alla parenesi didattica, Ariosto satirico “inventa” il proprio genere, gli adatta indosso i panni di una forma espressiva/narrativa, che raccoglie dalla tradizione della terzina dantesca e dà a quella del capitolo e della satira umanistici. “Inventa” altresì nuovi contenuti per queste sue satire così poco tradizionali, così legate all’esperienza del Furioso, alle sue aperture novellistiche ed oniriche, ed anche ad una sua certa esemplarità sentenziosa d’origine in parte colta, in parte popolare. Le Satire costituiscono, nell’universo letterario ariostesco, il momento dell’autodifesa, della preservazione d’un ordine e d’una medietà esistenziali ed espressivi necessari per poter lasciare agire lo spontaneo slancio fantastico orlandiano, dei paladini e di Astolfo, dell’esotismo e dell’utopia. Dopo la stampa postuma delle Satire nel 1534, l’anno successivo alla scomparsa dell’autore, il nuovo modello ariostesco s’impone sul mercato e nel lavoro a tavolino dei letterati. Piacciono le sue innovazioni, appunto: il modello epistolare applicato a corrispondenti che appartengono al circolo degli amici o dei familiari, il lessico “quotidiano”, la sintassi piana, la tendenza prosastica della terzina incentivata dal ricorso frequente alle fratture ritmiche e all’enjambement. Specialmente rilevanti paiono proprio le scelte prosodiche. È di grande originalità (per quanto già affinato dalla sperimentazione del Furioso) l’uso dell’enjambement, che viene collocato in genere «nei punti meno espressivi del discorso, per lo più pronomi, congiunzioni o proposizioni, sicché la sospensione iniziale non serve a potenziare un’immagine o un movimento lirico, ma semmai ad abbreviare il tempo tra verso e verso, creando una continuità ritmica che dà quasi l’idea del sermo solutus: “Quid fit, Maecenas, ut nemo, quam sibi sortem | seu ratio dederit seu fors obiecerit, illa | contentus vivat, laudet diversa sequentes?... || Poi che, Annibale, intendere vuoi come | la fo col duca Alfonso, e s’io mi sento | più grave o men de le mutate some…”. Ancora una volta, dunque, le misure metriche risultano degli elementi attivi nella memoria del poeta, e non possono quindi considerarsi dei puri espedienti mnemonici o tipografici»120. Si richiama al modello oraziano-ariostesco così rinnovato Ercole Bentivoglio (1507-73), scrittore di teatro prima che di satire (1546). Lo stesso anno appaiono le Satire di Pietro Nelli121, diversissime, legate alla ripetizione di tematiche era-

120

L. BLASUCCI, Metrica e poesia (1963), in ID., Studi su Dante e Ariosto, Milano-Napoli 1969, pp. 177-200 (a p. 191); il raffronto è con ORAZIO, Sermones, I, 1, vv. 1-3. 121 Cfr. P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 125-61, e V. CIAN, La Satira, II cit., pp. 117 sgg. e 138 sgg. 122 Il lavoro fondamentale sulla questione della “presenza italiana” di Erasmo, dei suoi scritti e di quelli dei vari gruppi spirituali a lui ispirati, rimane: S. SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia 1520-1580, Torino 1987; e cfr. anche P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 152 sgg.

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smiane122 (e quest’aspetto della produzione satirica e polemico-politica italiana successiva alla crisi luterana del 1520 merita un approfondimento: cfr. intanto le indicazioni di Alberto Asor Rosa a proposito del Guicciardini123) e anticlassiche quanto quelle del primo erano classicheggianti (Nelli gioca con il plurilinguismo, usando teatralmente «la mimesi linguistica come mezzo di caratterizzazione psicologico-etnica dei personaggi»124). Nel 1549 stampano le loro satire Giovanni Agostino Caccia e Gabriele Simeoni125: e sono già satire alla berniesca, sfoghi personali, abbandoni all’autobiografismo polemico tutt’altro che “mediati” dalla letterarietà: metamorfosi radicali, insomma, e quindi rinunce, rispetto alla conquista ariostesca dell’equilibrio del cosiddetto speaker satirico rispetto alla sua materia ed ai suoi registri espressivi. È nel 1560, un quarto di secolo dopo l’uscita delle Satire di Ariosto, che Francesco Sansovino, nel Discorso sopra la materia della satira premesso ad una sua raccolta di poesie appartenenti al genere, così come a suo tempo Calmeta aveva caratterizzato la forma-capitolo126, tematizza infine in termini espliciti ed incontrovertibili il lavoro dello scrittore di Satire: […] la satira vuol esser di stil umile e basso et imitante la natura […]. E però non son lodati coloro i quali, scrivendo satire, usano lo stile eroico e grave. […] La satira richiede la verità nuda et aperta, intanto che Orazio fra’ Latini e l’Ariosto fra i volgari fanno versi così bassi che non vi è punto differenza tra loro e la prosa […]127.

Il modello, ormai, s’è infranto: e porta con sé, nella caduta, anche l’archetipo ariostesco, che aveva collaborato a rivivificare ed attualizzare il “genere” antico.

6.

Nota bibliografica.

Per la storia editoriale delle Satire cfr. G. AGNELLI e G. RAVEGNANI, Annali delle edizioni ariostee, 2 voll., Bologna 1933. Dopo le edizioni cinquecentesche, basate in prevalenza sulla princeps del giugno 1534 (tolta la giolitina del 1550, che ricorse al ms. di Ferrara, F: Biblioteca Comunale Ariostea, Cl. I, B), le Satire vennero stampate nel secolo scorso, con un 123

A. ASOR ROSA, «Ricordi» di Francesco Guicciardini, in questo stesso volume alle pp. 3-94, in particolare pp. 67

sgg. 124

P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., p. 139. Sui due scrittori cfr. ibid., pp. 163-84, e V. CIAN, La Satira, II cit., pp. 146-48. 126 Cfr. P. FLORIANI, Il modello ariostesco cit., pp. 38 sgg. 127 Traggo l’interessante brano dal libro di Floriani, che lo commenta ibid., p. 186. 125

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più accurato riscontro di F, dal Molini (Poesie varie di Ludovico Ariosto, con annotazioni, Firenze 1824) e dal Tortoli (Commedie e Satire di Ludovico Ariosto annotate, Firenze 1856). La prima edizione scientificamente sorvegliata ed accettabile del testo, realizzata mediante il ricorso, oltre che ad F, ad altri codici e stampe antiche, fu procurata da G. TAMBARA, Le Satire di Ludovico Ariosto con introduzione, fac-simili e note, Livorno 1903 (all’Introduzione, pp. 3-70, seguono tre fotografie in fogli piegati), che però non si fonda su una lettura diretta di F, bensì sull’edizione litografica del codice Le satire autografe di Ludovico Ariosto, […], a cura di G. Wenk, presentazione di P. Viani, Bologna 1875. Per avere un’edizione davvero “critica” occorre attendere i nostri anni. Un’edizione critica delle Satire ariostesche fu preparata, ma mai pubblicata, da Santorre Debenedetti, al quale si deve uno studio di grande interesse: Intorno alle Satire dell’Ariosto, in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXII (1945), pp. 109-30, ristampato ora in ID., Studi filologici, con una nota di C. Segre, Milano 1986, pp. 223-240 (vi segnala fra l’altro il ms. senese S); tuttavia lo stesso Segre, stampando le Satire fra le Opere minori dell’Ariosto nella collezione ricciardiana (Milano-Napoli 1954), dichiarava d’avere «seguita fedelmente» l’edizione di Debenedetti. Solo pochi anni fa, infine, conservando l’impostazione ecdotica del Debenedetti ma rivalutando sulla base di nuove proprie ricerche il peso dell’«ingenza delle correzioni del copista» nella stesura dell’importante manoscritto F (latore, come s’è detto, di correzioni autografe dell’Ariosto), Segre ha fissato un testo ne varietur, fondato anche sulla collazione di codici non usati dal Debenedetti, o perfino a lui sconosciuti: L. ARIOSTO, Satire, edizione critica e commentata a cura di C. Segre, Torino 1987 (l’importante Nota al testo è alle pp. XV-XXIX). Questo testo è stato ripubblicato, con nuova Introduzione e note illustrative, da G. Davico Bonino, Milano 1990. Per le stratificazioni testuali, la tradizione manoscritta, i problemi legati a lingua e stile, oltre al citato articolo di Debenedetti, a G. TAMBARA, Studi sulle «Satire» di Ludovico Ariosto, Udine 1899, e a C. BERTANI, Sul testo e sulla cronologia delle «Satire» di Ludovico Ariosto, in «Giornale storico della letteratura italiana», LXXXVIII (1926), pp. 256-81, rimane imprescindibile lo studio dello stesso C. SEGRE, Storia testuale e linguistica delle «Satire», nel volume a cura dello stesso, Ludovico Ariosto: lingua, stile e tradizione. Atti del Congresso organizzato dai comuni di Reggio Emilia e Ferrara (12-16 ottobre 1974), Milano 1976, pp. 315-30; si veda anche ID., La prima redazione inedita di due satire dell’Ariosto, in AA.VV., Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, Padova 1974, pp. 675-708 (dà l’edizione diplomatica del ms. S); ID., Difendo l’Ariosto. Sulle correzioni autografe

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delle «Satire», in «Rivista di letteratura italiana», II (1984), pp. 145-162. In isolata posizione L. CAPRA, Per il testo delle «Satire» di Ludovico Ariosto (1975), in ID., Le satire secondo il codice Ferrarese, Ferrara 1983, pp. 5-30 (non convincono le argomentazioni in vista d’una diversa cronologia); utili indicazioni, specie paleografiche, anche in M. CATALANO, Autografi e pretesi autografi ariosteschi, in «Archivum Romanicum», IX (1925), pp. 33-66. Inoltre: S. DEBENEDETTI, I frammenti autografi dell’Orlando Furioso, Torino 1937; B. MIGLIORINI, Sulla lingua dell’Ariosto (1946), in ID., Saggi linguistici, Firenze 1957, pp. 178-186 (ma solo per l’impostazione metodologica: non cita mai le Satire). Sul valore letterario, su questioni intrinseche ai singoli testi, sulla contestualizzazione nel “genere-satira”, sul ruolo e l’influsso delle Satire ariostesche rispetto alla produzione successiva: G. TAMBARA, Studi sulle satire di Ludovico Ariosto, Udine 1898; G. ORGERA, Le Satire di Ludovico Ariosto, Napoli 1900; M. J. WOLFF, Ariost Satiren, in «Archiv für das Studium der neueren Sprachen», CXL (1920), pp. 206-21; G. TOFFANIN, Delle Satire dell’Ariosto e perché il poeta non le pubblicò, in «La Cultura», VII (1927-28), pp. 301-11; C. MUSCETTA, Noterelle sulle satire ariostesche, in «Nuova Antologia», II (1931), pp. 369-73; G. FATINI, Umanità e poesia dell’Ariosto nelle «Satire», in «Archivum Romanicum», XVII (1933), pp. 497-564; C. BERTANI, Identificazione di personaggi delle Satire di Ludovico Ariosto, in «Giornale storico della letteratura italiana», CII (1933), pp. 1-47; C. GRABHER, La poesia minore dell’Ariosto, Roma 1946, in particolare pp. 81-173; W. BINNI, Il tono medio delle Satire (1947), in ID., Metodo e poesia di Ludovico Ariosto, Roma 19703, pp. 53-72; ID., Le «lettere» e le «satire» dell’Ariosto nello sviluppo e nella crisi del Rinascimento (1974-75), in ID., Due studi critici: Ariosto e Foscolo, Roma 1978, pp. 11-59; L. RUSSO, Ariosto minore e maggiore, in «Belfagor», XIII (1958), pp. 629-46; R. M. DURLING, The Figure of the Poet in Renaissance Epic, Cambridge Mass. 1965 (in particolare pp. 13-26); J. GRIMM, Die Einheit der Ariost’schen Satire, Frankfurt am Main 1969; P. SCHUNCK, Die Stellung Ariosts in der Tradition der klassischen Satire, in «Zeitschrift für romanische Philologie», LXXXVI (1970), pp. 49-82; L. CARETTI, Ariosto (1954), in ID., Ariosto e Tasso, Torino 19702, pp. 15-51, in particolare pp. 21-27 (Ariosto «minore»), ripreso, fra l’altro, con il titolo L’opera dell’Ariosto, in ID., Antichi e moderni. Studi di letteratura italiana, Torino 1976, pp. 85-103, in particolare pp. 88-93; ID., Autoritratto ariostesco (1974), ibid., pp. 109-19; C. DIONISOTTI, Chierici e laici nella letteratura italiana del primo Cinquecento (1960), poi, con il titolo Chierici e laici, in ID., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 19712, pp. 55-88, in particolare pp. 71-73; C. SEGRE, Struttura

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dialogica delle «Satire» ariostesche (1974), in ID., Semiotica filologica. Testo e modelli culturali, Torino 1979, pp. 117-30; ID., I pazzi e la luna dietro al monte (Ariosto, «Sat.», III, 208-31) (1986), in ID., Fuori del mondo. I modelli nella follia e nelle immagini dell’aldilà, Torino 1990, pp. 115-19; P. WIGGINS, A Defense of the Satires, in Ariosto 1974 in America. Atti del Congresso ariostesco (dicembre 1974), a cura di A. Scaglione, Ravenna 1976, pp. 55-58; A. CORSARO, «In questo rincrescevol labirinto»: le satire garfagnine di Ludovico Ariosto, in «Filologia e critica», IV (1979), pp. 188-211; ID., Sulla satira quinta dell’Ariosto, in «Italianistica», IX (1980), pp. 466-77. Sul “modello” letterario delle Satire ariostesche, anche in rapporto più ampio con il genere-satira nel Rinascimento: V. CIAN, La Satira, II. Dall’Ariosto al Chiabrera, Milano 1939 (nella vallardiana «Storia dei generi letterari»; il vol. I. Dal Medio Evo al Pontano, è del 1923); G. PETROCCHI, Orazio e Ariosto (1970), in ID., I fantasmi di Tancredi, Caltanissetta-Roma 1972, pp. 261-75; D. MARSH, Horatian influence and imitation in Ariosto’s Satires, in «Comparative Literature», XXVII (1975), pp. 307-26; C. DIONISOTTI, I capitoli di Machiavelli, in ID., Machiavellerie. Storia e fortuna di Machiavelli, Torino 1980, pp. 61-99; S. CITRONI MARCHETTI, Quid Romae faciam? Mentiri nescio... Il motivo giovenaliano del rifiuto delle arti indegne nella tradizione della satira regolare italiana e francese, in «Rivista di letterature moderne e comparate», XXXIII (1980), pp. 85-121; V. CUCCARO, The Humanism of Ludovico Ariosto: From the “Satire” to the “Furioso”, Ravenna 1981, in particolare il cap. III. The “Satire”: Explicit Expressions of Ariosto’s Humanism, pp. 67-121; M. G. GALBIATI, Per una teoria della satira fra Quattro e Cinquecento, in «Italianistica», XVI (1987), pp. 9-37; P. FLORIANI, Il modello ariostesco. La satira classicistica nel Cinquecento, Roma 1988; ID., Il classicismo primo-cinquecentesco e il modello «augusteo», in AA.VV., Atti del Convegno sull’età augustea vista dai contemporanei e nel giudizio dei posteri (Mantova, 21-23 maggio 1987), Mantova 1988, pp. 237-64; A. LA PENNA, Momenti del dibattito moderno nel mecenatismo augusteo, ibid., pp. 338-54, in particolare pp. 348 sgg.; ID., Un altro apologo oraziano nelle «Satire» dell’Ariosto e altre brevi note alle «Satire», in «Rivista di letteratura italiana», VI (1988), pp. 259-64.

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