Lorenzo Valla - La Falsa Donazione Di Costantino

April 3, 2017 | Author: luk641 | Category: N/A
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La falsa Donazione di Costantino di Lorenzo Valla

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Edizione di riferimento La falsa Donazione di Costantino, Discorso di Lorenzo Valla sulla Donazione di Costantino da falsari spacciata per vera e con menzogna sostenuta per vera, a cura di Gabriele Pepe, Ponte alle Grazie, Firenze 1992

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Sommario I. II. III. IV. V. VI. VII. VIII. IX. X. XI. XII. XIII. XIV. XV. XVI. XVII XVIII XIX. XX. XXI. XXII. XXIII. XXIV. XXV. XXVI. XXVII.

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XXVIII. XXIX. XXX.

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IV

I.

1. Piú e piú libri ho io pubblicati intorno a quasi tutte le discipline. In essi dissento da autori grandi e stimati per la loro vetustà; il che mal sopportando alcuni, mi tacciano di temerario e sacrilego. Che si deve credere che faranno ora come strepiteranno, con qual bramosia e sollecitudine mi trarranno al supplizio di morte, se sarà loro concesso? Ora che io non scrivo solo contro i morti, ma anche contro i vivi; e non contro uno o due ma contro moltissimi; non contro privati ma anche contro magistrati. E quali magistrati! Proprio quel sommo pontefice, che non solo a mo’ di re o signore è armato di spada temporale, ma anche di quella ecclesiastica; da lui non puoi difenderti riparando sotto lo scudo (per cosí dire) di sovrano alcuno, perché ti raggiunge o la scomunica o l’anatema o l’infamia. Se agí con prudenza chi disse: non voglio scrivere contro coloro che possono proscrivere, quanto piú non dovrei essere prudente io scrivendo contro chi, senza lasciar riparo alle proscrizioni, può perseguitarmi dovunque con i dardi invisibili della sua potenza? Ben a ragione potrei dire: dove andrò lontano dallo spirito tuo e dove fuggirò lontano dal tuo volto? Potremmo pensare che il sommo pontefice voglia sopportare questi miei attacchi con piú pazienza che altri non farebbe. 2. Non lo credo punto. Anania, capo dei sacerdoti, fe colpire sul viso Paolo perché avveva detto di aver vissuto con retta coscienza, al cospetto del tribuno militare che sedeva come giudice. Phasur, anch’egli sommo sacerdote, buttò in carcere Geremia perché aveva parlato con troppa libertà. Il tribuno, prima e il preside, poi, difesero Paolo; il re (Nabucco) poté e volle difendere Geremia contro le offese del pontefice: me invece, quale tribuno, quale preside, quale re potrebbe strappare, am-

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messo che lo volesse, dalle mani del papa una volta che mi abbia preso? Ma codesti due esempi del pericolo (che si corre nel parlare liberamente) non debbono né turbarmi né distrarmi dal mio proposito: prima di tutto il papa non può legare o sciogliere alcuno a dispetto delle leggi umane e canoniche; poi, il perdere la vita nella difesa della verità e della giustizia, è segno di altissima virtú e ci ottiene le piú grandi lodi e premi. Molti affrontarono la morte in difesa della patria terrena; io paventerò il rischio di morte quando posso meritarmi la patria celeste, che appunto ottengono quelli che vogliono piacere a Dio, non agli uomini? Lontana ogni trepidazione; la paura se ne vada; i timori cadano. La causa della verità, della giustizia, di Dio si difenda da me con animo forte, con grande fiducia, con buone speranze. Non sarebbe, infatti, vero oratore chi sapesse parlare bene, se non osasse anche di parlare (contro i potenti). Accusiamo, pertanto, chiunque commette azioni tali da essere accusate. Chi pecca a danno di tutti, sia morso dalla voce di uno solo che parli, però, in nome di tutti. 3. Ma – si potrebbe dire – non devi rimproverare il fratello davanti a tutti, ma a quattro occhi. Al contrario: davanti a tutti, perché gli altri ne traggano un salutare timore, deve essere rimproverato chi peccò pubblicamente e non volle ascoltare consiglio nell’intimità. Che forse Paolo, delle cui parole or ora mi son giovato, non disse sul viso a Pietro, davanti alla Chiesa, quei rimproveri che aveva meritati? E ne lasciò il ricordo in iscritto per nostro ammaestramento. Ma io non sono Paolo che posso rimproverare Pietro – si potrebbe obiettarmi –: anzi, sono Paolo quando lo imito, a quel modo che (e ciò è molto piú importante) divento una sola cosa in spirito con Dio quando ne adempio con zelo i Comandamenti. Non c’è carica (per quanto alta) che renda alcuno immune da riprensione, se essa non rese immune Pietro e molti altri papi, come Marcello accusato di aver libato agli dei

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pagani; come Celestino accusato di partecipare all’eresia nestoriana; come altri che anche a nostro ricordo furono rimproverati – per non dire condannati – dagli inferiori: ma, del resto, chi non è inferiore al papa? 4. Non mi accingo a scrivere per vanità di accusare e lanciare filippiche: questa che sarebbe una turpe azione, sia lontana da me; scrivo, invece, per svellere l’errore dalle menti, per allontanare, con moniti e rimproveri, dalle colpe e dai delitti. Io, per me, non mi permetterei mai di augurarmi che altri sulla mia scia poti con le armi la vigna di Cristo, cioè la sede papale, troppo rigogliosa di rami inutili, e le faccia dare non selvatici racemi senza vita, ma dei grappoli gonfi. Ma, se lo facessi, chi vorrebbe turarmi la bocca o chiudere i propri orecchi o spaventarmi con la visione di supplizi e di morte? Come dovrò chiamarlo io, foss’egli anche il papa? Buon pastore o non piuttosto sordo aspide, che non vuole ascoltare la voce dell’incantatore e vuole morderne e avvelenarne le membra?

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II.

5. Mi accorgo che si aspetta ormai di sapere qual delitto io imputi ai romani pontefici: un delitto, per vero, grandissimo commesso o per supina ignoranza o per sconfinata avarizia, che è una forma di soggezione a idoli, o per vano desiderio di dominare, cui sempre si accompagna la crudeltà. Essi, per tanti secoli, o non compresero la falsità della Donazione di Costantino o crearono essi stessi il falso; altri, seguendo le orme degli antichi pontefici, difesero come vera quella donazione che sapevano falsa, disonorando, cosí, la maestà del papato, la memoria degli antichi pontefici, la religione cristiana e causando a tutto il mondo stragi, rovine, infamie. Dicono essere loro Roma, loro il regno di Sicilia e di Napoli, loro Italia, Francia, Spagna, Germania, Inghilterra: tutta l’Europa occidentale, in una parola. Tale pretesa si conterrebbe nel testo della Donazione. Ah, sí! Sono tuoi tutti questi Stati? hai intenzione, sommo pontefice, di ricuperarli tutti? spogliare tutti i sovrani dell’Occidente delle loro città o costringerli a pagarti tributi annuali? invece io penso che sia piú giusto ai sovrani spogliare te di tutto ciò che possiedi. Dimostrerò, infatti, che la Donazione dalla quale i sommi pontefici vantano i loro diritti, fu sconosciuta e a Costantino e a Silvestro. 6. Prima di confutare il testo della Donazione, unica difesa di costoro, difesa non solo falsa ma stolta, occorre che mi rifaccia un po’ indietro. Per prima cosa dimostrerò che Costantino e Silvestro non erano giuridicamente tali da poter legalmente l’uno assumere, volendolo, la figura di donante e poter quindi trasferire i pretesi regni donati che non erano in suo potere e l’altro da poter accettare legalmente il dono (né del resto lo avrebbe voluto).

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In seconda istanza, dimostrerò che anche se i fatti non stessero cosí (ma sono troppo evidenti), né Silvestro accettò né Costantino effettuò il trapasso del dono, ma quelle città e quei regni rimasero sempre in libera disponibilità e sotto la sovranità degli imperatori. In terza istanza dimostrerò che nulla diede Costantino a Silvestro, ma al papa immediatamente anteriore davanti al quale Costantino era stato battezzato; furono doni del resto di poco conto, beni che permettessero al papa di vivere. Dimostrerò (quarto assunto) che è falsa la tradizione che il testo della Donazione o si trovi nelle decisioni decretali della Chiesa o sia tolto dalla Vita di Silvestro: non si trova né in essa né in alcuna cronaca, mentre invece si contengono nella Donazione contraddizioni, affermazioni infondate, stoltezze, espressioni, concetti barbari e ridicoli. Aggiungerò notizie su altri falsi o su sciocche leggende relativamente a donazioni di altri imperatori. Tanto per abbondare aggiungerò che, anche se Silvestro avesse preso possesso di ciò che afferma di aver avuto, una volta che o lui o altro papa fosse stato deietto dal possesso non avrebbe piú possibilità di rivendica, né a norma delle leggi civili né delle ecclesiastiche, dopo sí lunga interruzione. Al contrario (ultima parte della mia discussione) i beni tenuti dal papa non conoscono prescrizioni di sorta.

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III.

7. Primo punto. Parliamo prima di Costantino, poi di Silvestro; ma poiché trattiamo la causa della repubblica romana e direi quasi imperiale, non dobbiamo commettere l’errore di discuterla con un tono oratorio inferiore a quello con cui tratteremmo una causa di diritto privato. Immagino, quindi, di parlare davanti a un collegio di re e signori (e del resto cosí è in realtà perché il mio discorso perverrà nelle loro mani) e di interpellarli come se fossero a me davanti, seduti sotto i miei occhi: mi rivolgo a voi, o re e principi, per sapere il vostro pensiero, scrutare la vostra coscienza (un privato qualsiasi, quale io mi sono, difficilmente può con la sua immaginazione farsi l’animo di re); chiedo la vostra testimonianza. Qualcuno di voi se si fosse trovato al posto di Costantino, avrebbe ritenuto opportuno donare per sola liberalità Roma, patria sua, capitale del mondo, regina delle città, la piú potente, la piú ricca, la trionfatrice dei popoli, veneranda per il solo suo aspetto? e per giunta egli si sarebbe recato in una modesta cittaduzza, quella che fu poi Bisanzio? e insieme a Roma avrebbe dato in dono l’Italia, che non è una provincia, ma la signora delle province, le tre Gallie, le due Spagne, la Germania, la Britannia, tutto l’Occidente e si sarebbe privato di uno dei due occhi dell’impero? Non mi si farà mai credere che ciò possa fare uno sano di mente. 8. Che ci può essere invece, da voi piú atteso, a voi piú gradito, piú piacevole che accrescere i vostri possessi ed estendere quanto piú è possibile la vostra dizione? A questo fine, giorno e notte, è rivolta ogni vostra cura, ogni vostro pensiero, ogni vostra attività: o che io erro? In codesti acquisti sono riposte le vostre principali speranze di gloria; per essi lasciate ogni piacere, affrontate mille pericoli, sacrificate serenamente i piú cari pegni

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d’affetto e parti del vostro stesso corpo. Infatti ho sentito sempre dire e ho letto che mai nessuno di voi è stato distolto dall’accrescere il suo dominio per essere stato accecato o amputato di una mano, di una gamba o di altro membro. Che anzi questa ardente bramosia di dominare estesamente tormenta ed esagita quanto piú si è potenti. Alessandro, non contento di aver attraversato a piedi i deserti dell’Africa, d’aver vinto l’Oriente sino ai confini dell’oceano, di aver domato genti settentrionali, tra tante ferite, tante morti, malgrado che i suoi soldati rifiutassero, detestandole, di seguirlo in spedizioni lontane e difficili, pur credeva di non aver ancora fatto nulla se non avesse sottomesso con la forza e col solo prestigio del suo nome l’Occidente e tutti i popoli. Ma che dico? egli s’era proposto di attraversare l’oceano, di esplorare se vi fosse un altro mondo e di sottometterlo a sé. Alla fine – penso – avrebbe tentato di scalare il cielo. 9. Tale è la volontà di tutti i re, anche se non tutti giungono a tale audacia. Taccio quanti delitti e tristi azioni sono state commesse per acquistare e ampliare i domini: neppure i fratelli si astengono (sacrileghi!) dal sangue dei fratelli, né i figli da quello dei padri o i padri da quello dei figli. A niente altro suole tendere di piú e con piú cattiveria la temerità degli uomini; puoi ben stupirti che non siano piú lenti alla conquista del potere gli animi dei vecchi che dei giovani, di chi ha figli e di chi ne è privo, di re che di tiranni. Se dunque il potere è ambito con sí grandi sforzi, non ne richiederà maggiori per la conservazione? Ed è sempre triste cosa il diminuire un impero anziché non accrescerlo, ma è cosa disonorevole il far passare il proprio regno ad altri anziché cercare l’opposto. Leggiamo, è vero, che da qualche re o popolo, alcuni sono stati messi a capo di regni o di città, ma ciò è avvenuto non per la principale e piú grande parte del proprio dominio, ma per parti, direi quasi, ultime e le piú piccole, e sempre a condizione che

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chi riceve il dono debba riconoscere quasi come padrone il donante e se stesso come suo servo. 10. Or dunque, non sembra essere di animo abietto e per nulla nobile chi ritiene che Costantino abbia alienato la parte migliore dell’impero? Non dico Roma e l’Italia e le altre parti, ma le Gallie, dove aveva personalmente combattuto, dove era stato a lungo solo imperatore, dove aveva messo le basi della sua gloria e del suo impero. Qual motivo cosí pressante e grave poteva spingere a dimenticare tutto e a fare spreco di tanta liberalità proprio questo Costantino che per cupidigia di impero aveva portato guerra a vari popoli, aveva perseguitato in guerre civili alleati ed affini e li aveva spogliati dell’impero? Non ancora erano domati e messi in fuga i resti della fazione nemica; egli poi soleva combattere contro gli altri popoli non solo per la speranza della gloria e dell’impero, ma anche per necessità, provato, com’era, giorno per giorno dai barbari; egli abbondava di figli, di congiunti, di amici, sapeva che il senato e il popolo romano si sarebbero opposti alla sua donazione; egli aveva esperienza della instabilità dei popoli sottomessi, pronti a ribellarsi quasi ad ogni cambiamento di imperatore, egli ricordava di aver conquistato il potere non come gli altri imperatori per elezione del senato e approvazione della plebe, ma con le armi, in guerra.

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11. Possono dire che lo fece perché era divenuto cristiano. E perciò avrebbe dovuto rinunziare alla parte migliore del suo impero? Era forse delitto, colpa, empietà il regnare ed era inconciliabile il regno con la religione cristiana? Gli adulteri, gli usurai, i detentori di beni altrui sogliono, dopo il battesimo, restituire la moglie altrui, il danaro altrui, i beni altrui. Se tu pensi cosí, devi, o Costantino, restituire la libertà ai popoli, non cambiar loro i padroni. Ma non la libertà dei popoli è in discussione; tu saresti stato indotto alla donazione solo per onorare la religione; è forse religione deporre il potere o non è meglio continuare ad amministrarlo in modo da difendere la religione stessa? Per quello che riguarda poi coloro che hanno beneficiato della Donazione, dirò che essa non è loro né utile né onorevole. Se proprio hai voglia di mostrarti cristiano e di far mostra della tua religiosità e del tuo attaccamento non dico alla Chiesa di Roma, ma alla Chiesa che è di Dio, intensifica la tua opera di sovrano: combatti per coloro che non possono combattere o non lo debbono, tieni sotto la tua protezione gli ecclesiastici esposti alle insidie e alle offese. Dio volle che si svelasse il mistero della Sua verità a Nabucodonosor, a Ciro, ad Assuero e a molti altri principi; a nessuno di essi chiese che abbandonasse il potere, donasse porzioni del regno; ma solo che restituissero la libertà agli ebrei e li proteggessero dai vicini che li assalivano. Se ciò bastò agli ebrei, basterà anche i cristiani. Sei divenuto cristiano, o Costantino. Ma è indecoroso che tu da cristiano sia imperatore con minor dominio di quando eri pagano. È il regno quasi un dono speciale di Dio, e anche i re pagani possiamo credere che vi siano innalzati sempre da Dio.

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12. Ma – si può obiettare – era stato mondato dalla lebbra e perciò è verisimile che abbia voluto mostrare la sua gratitudine dando piú di quello che aveva ricevuto. Toh! Il siro Neeman curato da Eliseo volle offrire soltanto dei doni, non la metà dei suoi beni, e Costantino avrebbe offerto la metà dell’impero? Che fastidio confutare una fiaba cosí sfacciata come se fosse una storia verace. Tale favola è modellata sul racconto di Neeman e Eliseo, come l’altra del dragone sul racconto favoloso di Belo. Ma ammessa pure questa leggenda (della guarigione), nella storia che la racconta vi è forse menzione di donazione? Per nulla; ma di ciò parleremo meglio dopo. Fu guarito della lebbra, per questo miracolo si formò uno spirito cristiano; pieno di amore e timore di Dio, volle onorarLo. Non posso tuttavia persuadermi che volesse far sí larghi doni, perché giammai nessun pagano per onorare i suoi dei e nessun cristiano per onorare il Dio vivente depose il suo impero o lo donò ai sacerdoti. Se mai, si può osservare che tra i re di Israele non c’è l’esempio di alcuno che abbia permesso ai suoi sudditi di andare, secondo l’antica tradizione, a far sacrifici al Tempio di Gerusalemme, nel timore che non ritornassero al re di Giuda, dal quale avevano defezionato, sotto l’impressione dei sacri riti e della maestà del Tempio. Quanto non è piú grave ciò che si attribuisce a Costantino? Potreste essere indotti a credere che ciò sia avvenuto per la guarigione della lebbra: ma Geroboamo fu eletto re di Israele da Dio, che lo innalzò da un’infima condizione, miracolo a mio parere piú notevole che la guarigione della lebbra; ma non perciò egli osò dare il suo regno a Dio: e tu, vuoi che Costantino abbia donato il suo regno a Dio, regno che non aveva ricevuto da Lui e per giunta (cosa che in Geroboamo non sarebbe capitato) avrebbe offeso i figli, abbassato gli amici, trascu-

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rato i suoi, leso la patria, addolorato tutti, sarebbe stato dimentico di se stesso.

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V.

13. Se egli fosse stato tale o se si fosse cambiato da quello che era stato; certo non sarebbero mancati quelli che lo avrebbero ammonito; primi fra tutti i figli, i parenti, gli amici. Essi avrebbero senza dubbio affrontato l’imperatore. Immaginateli, appena hanno saputo le intenzioni di Costantino, trepidanti, frettolosi buttarsi ai piedi del sovrano e dirgli tra lagrime e pianti: «E cosí, o padre, per l’innanzi affettuosissimo, privi, diseredi, spogli del regno i tuoi figli? Non ci lagnamo del fatto che tu voglia spogliarti della parte migliore e piú grande dell’impero, ma ne stupiamo. Ci addolora che tu la passi ad altri con danno e vergogna nostra. Che cosa muove a privare i tuoi figli dell’attesa succesione al regno, te, che regnasti un tempo insieme a tuo padre? Quale colpa abbiamo verso di te, verso la patria, verso il nome e la maestà dell’impero romano perché ci si debba considerare degni di esser puniti da te con la privazione della parte migliore e piú importante del regno, ci si creda degni di essere staccati e tenuti lontani dai patri lari, dalla vista della terra natale, dall’aria stessa che ci era abituale, da antiche abitudini? Ce ne andremo in esilio lasciando penati, templi, sepolcri per vivere Dio sa dove? perché ora dovremmo essere abbandonati da te tutti noi, tuoi parenti, amici, che stemmo con te tante volte in campo a combattere, che vedemmo trafitti da spade nemiche e agonizzanti i fratelli, i genitori, i figli e non fummo atterriti dalla morte degli altri dall’affrontare noi stessi la morte per te? Noi che fummo magistrati a Roma; che governammo le città d’Italia, le Gallie, le Spagne, e altre province o che le avremmo governate, noi tutti saremo deposti dalle cariche e dovremo ritornare privati cittadini? Forse riscatterai questo nostro sacrifizio con benefici di altra provenienza. E come lo potrai adeguatamente ai nostri

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meriti e dignità dopo che avrai donato a un altro sí gran parte della terra? Forse tu limiterai l’impero che avemmo su cento popoli a quello su un sol popolo? Come ti è potuto venire in mente ciò? come ti incolse dimenticanza improvvisa dei tuoi, sí da non sentire compassione degli amici, dei congiunti, dei figli? Magari ci fosse toccato morire in guerra, restando salva la tua dignità e tu vittorioso; anziché vedere codeste cose. Tu puoi, sí, fare a tuo arbitrio del tuo impero e di noi: una sola cosa non otterrai mai (siamo pronti ad affrontare anche la morte) cioè che noi lasciamo il culto degli dei nostri immortali: saremo cosí di esempio agli altri e allora capirai il gran vantaggio che al Cristianesimo verrà da codesta tua larghezza. Se tu non darai l’impero a Silvestro, vogliamo essere cristiani con te e molti allora seguiranno il nostro esempio. Se invece farai la donazione, non solo non accetteremo di diventare cristiani, ma ci diventerà, per opera tua, malvisto, detestabile, esecrando tal nome e ci renderai tali che tu stesso sentirai compassione della vita e della morte nostra (fuori della vera religione) e dovrai accusare te stesso di durezza, non noi». 14. A meno che in Costantino non fosse.estirpata ogni umanità, non lo avrebbe dovuto commuovere questo discorso, se non si fosse commosso già da sé? Se non avesse voluto ascoltare costoro, non vi erano di quelli che si sarebbero opposti alla donazione con parole e fatti? Il senato e il popolo romano non avrebbero proprio creduto di dover far nulla? Non avrebbero incaricato un oratore gravis pietate ac meritis, come dice Virgilio, di tenere il seguente discorso a Costantino? «Cesare, se tu sei dimentico dei tuoi ed anche di te stesso, sí da non voler mantenere integra l’eredità ai figli, ai congiunti, le cariche agli amici, e a te stesso l’impero, non può però il senato e il popolo romano dimenticare i suoi diritti e il suo onore. Come osi tanto circa l’impero romano, che è stato creato non col tuo, ma con il no-

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stro sangue? Taglierai tu un so! corpo in due parti? di uno farai due regni, due capi, due volontà? offrirai per cosí dire a due fratelli le spade per combattere intorno all’eredità? Alle città, che hanno ben meritato di Roma, noi diamo il diritto di cittadinanza e tu ci strappi la metà dell’impero perché non riconosca piú Roma come la sua madre? Negli alveari si suole uccidere la regina scadente, se ve ne nascono due; tu nell’alveare dell’impero romano, dove si trova un solo ed ottimo principe, vuoi collocarvene un altro, per giunta pessimo, sí che non ape si può chiamare ma pecchione? Rimpiangiamo la tua antica prudenza, o imperatore; che avverrà, se, te vivo o dopo la tua morte, a questa parte che alieni o all’altra che conservi, sarà portata guerra dai barbari? Con quali forze militari li affronteremo? Ora poco ci riusciamo pur disponendo della forza di tutto l’impero; lo potremo piú allora? O saranno sempre d’accordo le due parti dell’impero? No, non è possibile; se Roma vuol dominare, Bisanzio non vuol servire. Invece, mentre tu sarai ancor vivo, presto saranno richiamati i vecchi presidi e sostituiti con nuovi, e tu te ne starai lontano mentre qui dominerà un altro: non sarà tutto cambiato, cioè in modo diverso e ostile all’antico ordine? Se un regno viene diviso tra due fratelli, si dividono immediatamente gli animi dei sudditi e danno origine a guerre interne prima che con nemici esterni. E non avverrà lo stesso in questo nostro impero? ignori che questo fu il principale motivo per cui gli ottimati dissero che essi sarebbero piuttosto morti al cospetto del popolo romano che permettere che si approvasse quella proposta di legge per cui, cioè, una parte dei senatori e una parte della plebe fossero mandati a abitare Veio e vi fossero due città in comune al popolo romano: se in una sola città vi erano tante dissenzioni, che sarebbe avvenuto quando le città fossero state due? 15. Cosí se ai giorni nostri vi sono tante discordie in un solo impero (ne chiamo a testimone la tua coscienza e

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le tue peripezie) che avverrà in due imperi? Credi forse che quando tu sarai occupato in guerre te ne verrà aiuto? Vorranno essi o sapranno dartelo? Quelli che saranno messi a capo di eserciti e di città saranno cosí nemici di armi e di guerre come colui che li avrà nominati. Non tenteranno le legioni e le stesse province di spogliare un sovrano cosí inesperto di governo ed esposto alle offese con la speranza che egli non combatta contro di loro e che non li punisca? Io credo che non resteranno neppure un mese in carica, ma subito, al primo annunzio della tua partenza, si ribelleranno. E che farai? Che decisioni prenderai, premuto da duplice se non da molteplice guerra? A stento riusciamo a tener a freno le nazioni sottomesse; come si resisterà quando alle guerre con codesti popoli si aggiungerà una guerra mossa da popoli liberi? Vedrai tu, o Cesare, quale sarà il tuo dovere. A noi siffatta cosa però deve essere a cuore non meno che a te. Tu sei mortale; l’impero del popolo romano deve essere immortale e lo sarà per quanto è in noi e non solo l’impero, ma anche il nostro rispetto per esso. 16. Dovremo noi subire l’impero di coloro dei quali spregiamo la religione? Noi, padroni del mondo, servire a codesto spregiatissimo uomo? Quando Roma fu conquistata dai Galli, i senatori romani non tollerarono che le loro barbe fossero carezzate dai vincitori; ed ora tanti senatori, pretori, consoli, capitani sopporteranno che li dominino coloro che essi dileggiarono e suppliziarono come schiavi colpevoli? Costoro creeranno i magistrati? reggeranno le province? faranno guerre? ci condanneranno a morte? sotto di loro militerà la nobiltà romana? da costoro aspetterà le cariche? otterrà i premi? Quale ferita maggiore e piú profonda avremmo potuto ricevere? Non credere, o Cesare, che il sangue romano sia cosí degenerato da sopportare ciò con animo tranquillo e da credere che non si debba evitare in qualsiasi modo una cosa tale che neppure le nostre donne sopporterebbero:

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anzi, preferirebbero porsi sul rogo di morte con i dolci figli e i sacri penati per non essere da meno delle donne cartaginesi. Se noi, o Cesare, ti avessimo eletto re, tu avresti, sí, ampi poteri per trattare delle cose dell’impero, ma mai per poterne diminuire la maestà. Altrimenti, noi che ti avremmo fatto re, noi stessi con lo stesso diritto ti avremmo ordinato l’abdicazione per impedirti di dividere il regno, alienare tante province, sottoporre la stessa capitale dell’impero a un cosí umile uomo, per giunta straniero. Abbiamo messo un cane a custodia dell’ovile; se egli vuol farla da lupo, o lo cacciamo o lo uccidiamo. Ora tu, che finora sei stato cane da guardia nell’ovile dell’impero, vuoi da ultimo tramutarti in lupo senza che nessuno prima te ne abbia dato l’esempio? 17. Visto che tu ci costringi a parlarti con una certa durezza, ti dirò, per chiarirti meglio le idee, che tu non hai alcun diritto sul popolo romano. Giulio Cesare occupò il potere con la violenza, Augusto lo imitò in questa colpa e si fece signore sconfiggendo il partito avverso. Tiberio, Caligola, Nerone, Galba, Ottone, Vitellio, Vespasiano e gli altri fecero scempio della nostra libertà con gli stessi mezzi o con mezzi simili. Tu stesso sei diventato padrone cacciando o uccidendo gli altri. Lascio andare che non sei nato neppure da giuste nozze. Ma per svelarti sino in fondo il nostro pensiero, o Cesare, se non vuoi mantenere il dominio su Roma, hai dei figli, qualcuno dei quali puoi, in armonia alle leggi di natura, mettere al tuo posto col nostro permesso, anzi a nostra richiesta. Se no, sappi che abbiamo ferma intenzione di difendere la potenza dello Stato insieme alle dignità nostre private. La tua offesa infatti non sarebbe minore di quella che subimmo quando fu violata Lucrezia. Neanche ora ci verrà a mancare un Bruto, che si ponga a capo del popolo romano nella riconquista della libertà. Stringeremo nelle mani un pugnale prima contro costoro che tu ci poni a capo, poi contro te stesso; del resto, ciò abbiamo fat-

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to contro molti altri imperatori e per motivi molto piú trascurabili». Tali parole avrebbero dovuto turbare Costantino a meno che non fosse pietra o legno. È da credere che se il popolo proprio tali cose non dicesse apertamente, almeno le dicesse fremente tra sé e con le frasi che noi abbiamo usate.

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VI.

18. Andiamo dunque avanti e diciamo pure che Costantino abbia voluto ringraziare Silvestro; bel modo! Sottoporlo a tanti odii, a tanti pericoli che, a mio parere, Silvestro non avrebbe potuto resistervi neppure un giorno solo. Infatti sarebbe sembrato possibile eliminare dall’animo dei romani ogni timore di dover subire cosí offensiva ingiuria solo sopprimendo Silvestro e pochi altri. Ammettiamo pure che né preghiere, né minacce né alcun altro mezzo sia stato utile e che Costantino sia rimasto fermo e non abbia voluto recedere dal proposito una volta deciso. Ma chi sarebbe rimasto insensibile alle parole di Silvestro, che sarebbero state le seguenti? 19. «Ottimo imperatore e figlio. Non posso né amare né accettare la tua pietà cosí ben disposta verso di me e prodiga; ma non stupisco che tu esageri nell’offrire dono a Dio e nello immolargli vittime, poiché sei ancora alle prime armi. Come un tempo non si conveniva che un sacerdote sacrificasse ogni specie di animale da pascolo o volatile, cosí non può un sacerdote accettare qualunque dono. Io sono sacerdote e pontefice e sono obbligato ad osservare che cosa si offra all’altare perché non si portino non dico animali immondi, ma vipere o serpenti. Perciò ecco quanto ti dico: se tu avessi il potere di dare ad altri che ai tuoi figli una parte dell’impero con la regina del mondo, Roma (ciò che non credo); se te lo permettesse l’Italia, il popolo romano, le altre province, e accettassero di sottoporsi all’imperio di quei sacerdoti che ancora odiano e di cui spregiano la religione, attaccati, come sono, ancora ai beni di questa terra (e ciò è impossibile), tuttavia io, figlio carissimo, se vuoi credere alle mie parole, non potrei essere indotto da alcun ragionamento a darti ragione a meno che io non volessi essere in contradizione con me stesso, dimenticare la mia condizione

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e quasi rinnegare Gesú. I tuoi doni (o, come tu li chiami, le tue rimunerazioni) insozzerebbero la gloria, l’innocenza e la santità mia e di tutti quelli che mi succederanno, e addirittura ci schianterebbero e chiuderebbero la via a quelli che vogliono pervenire alla cognizione della verità. 20. Eliseo non accettò compensi dal siro Neeman per averlo curato della lebbra; io li accetterò da te? Egli rifiutò dei doni; permetterò che tu mi dia dei regni? Quegli non volle macchiare la sua persona di profeta; io potrò insozzare la persona di Cristo che porto in me? Perché egli credé che la persona del profeta fosse insozzata accettando doni? Naturalmente perché poteva sembrare che vendesse le cose sacre, facesse l’usuraio con i doni di Dio, fosse in potere degli uomini innalzare o diminuire la nobiltà delle cariche ecclesiastiche. Preferí dunque che principi e re fossero suoi beneficiari anziché essere egli loro beneficiario, e non volle neppure che il rapporto di beneficiari fosse reciproco. È molto meglio, dice il Signore, dare che ricevere. 21. Piú che importante è la causa per cui non posso accettare i tuoi doni io, cui il Signore ha detto: ‘Curate gli infermi, risuscitate i morti, curate i lebbrosi, cacciate i demoni; in dono avete ricevuto, date in dono’. Ed io commetterò la colpa di non ubbidire ai comandi di Dio? e macchierò il mio buon nome? E meglio per me, come diceva Paolo, morire anziché alcuno sminuisca la mia gloria. Gloria è per noi tenere onorato il nostro ufficio davanti a Dio, come lo stesso Paolo dice: ‘A voi gentili io dico che fin quando sono apostolo delle genti, farò onore al mio officio’. Io, o Cesare, dovrei essere esempio e causa di errore agli altri, io cristiano, sacerdote di Dio, pontefice romano, vicario di Cristo? 22. E poi, come potrà restare incolume l’innocenza dei sacerdoti tra ricchezze, magistrature, nell’amministrazione dei beni terreni? Rinunzieremmo ai beni di questo mondo per ottenerli poi piú abbondanti? Rinunzierem-

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mo alla privata proprietà per usurpare poi i beni degli altri e dello Stato? Saranno sotto di noi, città, tributi, gabelle? Come potremo continuare a chiamarci clero se faremo ciò? La parte nostra (in greco parte si dice kleeros) è non terrena ma celeste. I leviti, che anche essi sono chierici, non ottennero la spartizione con i fratelli, e tu vuoi che noi abbiamo anche le parti che toccano ai fratelli? A che servirebbero a me potenza e ricchezza, a me cui la voce del Signore impone di non essere sollecito del domani? a me cui è stato detto: ‘Non tesorizzate sulla terra, non possedete oro, argento e danaro nelle vostre cinture’. Ed anche: ‘È piú difficile che un ricco entri nel regno dei cieli che un cammello passi per la cruna di un ago’. Perciò Gesú scelse come suoi ministri dei poveri o di quelli che avevano rinunziato a tutti i beni per seguirLo e fu Egli stesso esempio di povertà. Il maneggiare ricchezze e danani è nemico dell’innocenza, senza parlare del loro possesso e dell’impero sugli uomini. Il solo Giuda che aveva le cassette del tesoro e portava con sé quei beni che venivano dati in elemosina si sviò per amore di danaro al quale si era affezionato, osò una volta rimproverare il Maestro e poi lo tradí. Ed io temo, o Cesare, che tu da Pietro voglia farmi Giuda. Ascolta anche Paolo: ‘Niente abbiamo portato nel mondo; non c’è dubbio che non possiamo portarne nulla fuori; ci basti avere alimenti e vesti. Coloro che vogliono arricchire, cadono nelle tentazioni, nei lacci del Diavolo, e in molte passioni inutili e dannose che annegano l’uomo nella morte e nella perdizione. Radice di tutti i mali è l’avidità di possedere; per amore di essa, alcuni si allontanarono dalla fede e si intrigarono in molti dolori. Tu, uomo di Dio, fuggi ciò’. Vorresti tu, o Cesare, che io accettassi quei beni che debbo fuggire come veleno? Avrei piú tempo (pensaci tu stesso, o Cesare, data la tua prudenza) per occuparmi delle cose divine, tutto preso da queste terrene?

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VII.

23. Gli apostoli ad alcuni che si lagnavano perché le loro vedove erano tenute in poco conto nell’assistenza quotidiana, risposero che non era giusto che essi lasciassero la predicazione della parola di Dio e dovessero attendere ai pasti. Servire alle mense delle vedove come è ben diverso dall’esigere tributi, curare l’erario, conteggiare il soldo alle truppe e innodarsi in mille altre faccende simili. Dice Paolo: ‘Nessuno che serva il Signore si mescola alle cose di questo mondo’. Forse, che Aronne con gli altri leviti curava altro che il tabernacolo del Signore? I suoi figli per aver preso nei turiboli fuoco altrui, furono bruciati dal fulmine. E tu vorresti che noi ponessimo nei sacri turiboli, cioè tra le opere sacerdotali, il fuoco secolare e a noi vietato della ricchezza terrena? Eleazar, Finees, gli altri pontefici e sacerdoti o dell’Arca o del Tempio amministravano altro se non ciò che toccava le cose divine? Amministravano dico; anzi dovrei dire: potevano amministrare, se volevano compiere il loro dovere? Se no, ecco la maledizione del Signor loro: maledetti coloro che eseguono con negligenza il lavoro del Signore. Maledizione che cade su tutti, ma specialmente sui pontefici. Quanto importante è il compito dei pontefici! Come grave è l’essere capo della Chiesa! L’essere messo come pastore a capo di un ovile cosí grande! Dalle mani del pastore si domanda (che venga reso conto) del sangue di ogni agnello o pecora perduta! A lui è stato detto: se ami me piú degli altri, come tu dici, pascola i miei agnelli. E di nuovo: se ami me, come tu dici, pascola le mie pecore. La terza volta? Se ami me come tu dici, pascola le mie pecore. E tu mi comandi, o Cesare, che io pascoli anche capre e maiali che non possono essere custoditi dallo stesso pastore.

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24. Che dire poi del fatto che tu vuoi farmi re o piuttosto imperatore, cioè capo di tutti i re? Gesú, dio e uomo, re e sacerdote, si disse re, ma senti di qual regno: ‘Il mio regno non è di questo mondo. Se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servi di certo lotterebbero già fra loro’. Quali furono le prime e piú spesso ripetute parole della sua predicazione? Non forse: fate penitenza, si approssima il regno dei cieli? E non mostrò chiaramente che il regno di questo mondo non lo toccava? Non solo non cercò tal regno, ma quando Gli fu offerto non lo volle accettare. Infatti quando seppe, una volta, che i popoli avevano deciso di rapirLo e farLo re, fuggí tra monti solitari. E ciò ci diede a noi suoi vicari non solo come esempio da imitare ma come comando, dicendo: ‘I re dei gentili dominano su di loro e i capi hanno podestà su di essi. Non cosí sarà tra voi; chiunque tra voi vorrà essere capo, sia vostro ministro e chi vorrà essere il primo tra voi, sarà vostro servo. Cosí come il Figlio dell’uomo non è venuto perché Gli si serva ma per servire e per dare la sua anima a riscatto di molti’. Dio un tempo pose dei giudici sopra Israele, sappilo, o Cesare, non dei re, e Dio stesso si adirò col popolo che Gli chiedeva dei re con tale nome. E non diede loro un re che solo per la durezza del loro cuore, per lo stesso motivo cioè per cui permise il ripudio revocato poi dalla nuova Legge. Ed io avrò il regno, io che appena appena posso essere un giudice? ‘Ignorate – dice Paolo – che i santi giudicheranno questo mondo? Se in voi sarà giudicato il mondo, siete indegni di giudicare cose di minima importanza? Non sapete che giudicheremo gli angeli? e quanto piú le cose terrene? Se avete tra voi liti su cose terrene, ponete come giudici le persone meno stimate che sono nella Chiesa’. Ma quei giudici che giudicavano soltanto le controversie, non esigevano anche i tributi. E li esigerò io che so come Gesú interrogasse Pietro da chi i re della terra

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accogliessero tributi o censi, se dai figli o dagli estranei; avendo Pietro risposto: dagli estranei; da Gesú fu detto: ‘Perciò i figli sono immuni’. Che se tutti sono figli miei, o Cesare, come certo sono, tutti saranno liberi, nessuno di essi pagherà nulla. Perciò io non ho bisogno della tua donazione, dalla quale niente altro ritrarrò se non travagli che non debbo, né potrei sopportare. 25. Che dire della necessità che mi verrebbe di esercitare giustizia criminale, punire i rei, far guerra, distruggere città, mettere a ferro e fuoco delle regioni? Né potrei sperare di poter difendere diversamente quello che tu mi donassi. Se facessi tali cose, sarei sacerdote, pontefice, vicario di Cristo? Come Lo udrei tonare contro di me: ‘La casa mia sarà detta da tutte le genti casa della preghiera e tu ne facesti una spelonca di briganti’. ‘Non sono venuto al mondo per giudicarlo ma per liberarlo’ disse il Signore, ed io, che Gli son succeduto, sarò causa di morti? Io, al quale, nella persona di Pietro, fu detto: ‘Rimetti la tua spada al posto suo. Tutti quelli che avranno preso la spada, periranno di spada’. A noi non è permesso difenderci con le armi. Eppure Pietro avrebbe voluto difendere il suo Signore quando mozzò l’orecchio al servo. E tu ci vorresti comandare di usare le armi per acquistare o difendere le ricchezze? Il nostro potere è quello delle chiavi, come disse il Signore: ‘Ti darò le chiavi del regno dei cieli. Ciò che avrai legato sulla terra, sarà legato anche nei cieli; tutto ciò che scioglierai sulla terra, sarà sciolto anche nei cieli e le porte dell’inferno non avranno ragione di esse’. Nulla si può aggiungere a questa podestà, nulla a questa dignità, nulla a questo regno. Chi non si contenta di questo, chiede un qualche altro regno al diavolo, che osò dire perfino al Signore: ‘Ti darò tutti i regni del mondo, se prostrato a terra mi adorerai’. 26. Perciò, o Cesare, sia detto con tua buona pace, non diventare per me diavolo col comandare a Cristo, e

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quindi a me, di ricevere da te i regni di questo mondo. Preferisco spregiarli, anziché possederli codesti beni. E, per parlare di quelli che ora sono infedeli, ma saranno, come spero, fedeli, non rendere me da angelo loro di luce, angelo di tenebre: io voglio indurre i loro cuori a pietà, non imporre ai loro colli un giogo, sottoporli a me con la spada della parola di Dio, non con la spada di ferro, perché non diventino peggiori, non recalcitrino, non si feriscano col corno, non bestemmino il nome di Dio irritati dal mio errore. Voglio renderli figli miei carissimi, non schiavi; adottarli, non comprarli; generarli, non acquistarli; offrire le loro anime come sacrificio al Signore, non i loro corpi al Diavolo. ‘Imparate da me – dice il Signore – che sono di cuore umile e mite. Accettate il mio giogo e troverete pace alle vostre anime. Il giogo mio è soave e il mio peso è leggero’. Per porre termine a questo argomento, ascolta il suo parere che sembra quasi dettato nella discussione tra me e te: ‘rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio’. Né tu dunque, o Cesare, devi abbandonare le cose tue; né io debbo ricevere le cose che sono di Cesare: anche se tu me le offrissi mille volte, mai le accetterei». 27. A tale discorso di Silvestro, degno veramente di un uomo apostolico, che cosa avrebbe piú potuto opporre Costantino? Stando cosí le cose, quelli che affermano la realtà della donazione, non offendono forse Costantino credendo che egli volesse spogliare i suoi e distruggere l’impero romano; non offendono e l’Italia e tutto l’Occidente, il senato e il popolo romano che avrebbe permesso mutamenti dell’impero contro le leggi umane e divine? Non offendono Silvestro, che avrebbe accettato una donazione indegna di un santo uomo; non offendono il papato, cui tengono essere lecito impadronirsi dei regni terreni e governare l’impero romano? Tutto ciò che abbiamo detto sinora mirava a mostrare come Costantino per tanti impedimenti mai avrebbe donato a Silvestro la

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maggior parte dello Stato romano, come affermano costoro.

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VIII.

28. Codesta donazione, della quale presentate il testo, deve contenere anche l’accettazione di Silvestro: ma non c’è. Potreste dire che si può supporre la ratifica di Silvestro: io invece affermo che ben si può supporre che Silvestro non solo la ratificò, ma la chiese, insisté per averla, la strappò con preghiere. Perché voi supponete credibile ciò che va contro l’opinione umana? Non basta che nel testo del privilegio si parli della donazione per ritenere che essa sia stata accettata; al contrario, bisogna dire che non vi è stata donazione perché non vi è traccia dell’accettazione: è contro di voi il rifiuto di Silvestro piú di quanto non possa essere a vostro vantaggio la donazione di Costantino, perché un beneficio non si può concedere a chi non lo accetta. Né dobbiamo sospettare soltanto che Silvestro abbia rifiutato il dono, ma che tacitamente abbia anche giudicato che Costantino non poteva legalmente donare né egli poteva legalmente ricevere. Ma, o cieca e sempre inconsulta avarizia! Ammettiamo che possiate presentare documenti dell’assenso di Silvestro, veri, non alterati, sinceri; sono forse sempre regolarmente donate cose comprese in veri documenti? Dove è il possesso? Dove il trasferimento a mano? Costantino si limitò a dargli solo la carta di donazione, non volle fargli un dono ma uno scherzo. È verisimile – dite – che chi doni qualche cosa ne effettui anche il trapasso di possesso. Badate a quello che dite: poiché consta con precisione che non è stato dato il possesso e si discute se sia stato dato il diritto. È, allora, verisimile che non abbia voluto dare neppure il diritto chi non diede il possesso. 29. Si mette in dubbio l’inesistenza del trapasso di proprietà? Ma mettere in dubbio ciò è da svergognati. Forse Costantino guidò Silvestro al Campidoglio come un trionfatore tra gli applausi dei quiriti affollati sí, ma

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non ancora credenti? Lo fece adagiare sulla sedia aurea alla presenza di tutto il senato? Comandò che i magistrati, ciascuno secondo la sua dignità, lo salutassero e adorassero come re? Era usanza che per i nuovi imperatori si facessero tutte queste cose, non che si consegnasse un palazzo qualunque, come, ad esempio, il Lateranense. Lo accompagnò poi in giro per tutta l’Italia? Andò con lui nelle Gallie? nelle Spagne? in Germania e in tutto il restante Occidente? o, se ad ambedue dispiaceva andare in giro per tante terre, a chi mai delegarono cosí importante ufficio e di fare le veci dell’imperatore nel dare e di Silvestro nell’accogliere il possesso? Dovettero essere uomini grandi e di esimia autorità, eppure ne ignoriamo i nomi. In queste due semplici parole dare e ricevere quanta significazione non si nasconde! A nostro ricordo, per tacere antichissimi esempi, se qualcuno diventa signore di una città, di una regione, di una provincia, allora soltanto si ritiene effettuato il trapasso di proprietà quando gli antichi magistrati sono rimossi e sostituiti da nuovi. Anche se Silvestro non avesse chiesto ciò, era obbligato Costantino dalla sua stessa magnificenza a dichiarare che trasferiva il possesso non solo a parole, ma di fatto, che rimuoveva i suoi presidi e comandava che altri fossero sostituiti da Silvestro. Non c’è passaggio di possesso quando esso resta presso coloro stessi che possedevano prima e il nuovo signore non osa rimuoverli. Ma supponiamo che questo non sia d’ostacolo (ad ammettere la donazione) e che si possa ritenere che Silvestro abbia continuato a possedere, ammettiamo che tutto sia stato amministrato contro ogni tradizione e contro natura: ma una volta che Costantino se ne andò (da Roma) quali capi Silvestro prepose alle province e alle città? quali guerre combatté? quali popoli schiacciò voltisi a combatterlo? Per chi amministrò queste cose? Non sappiamo nulla di ciò, mi risponderete. Lo credo bene:

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furono fatte codeste cose di notte e perciò nessuno se ne accorse. 30. Silvestro possedé? E chi lo scacciò dal possesso? Infatti non rimase sempre in possesso né lui né alcuno dei successori almeno fino a Gregorio Magno, che anch’egli non ebbe possesso (dell’impero). Chi è privo di possesso e non può dimostrare di essere stato scacciato, questi senza dubbio non è stato mai in possesso; e se dice di aver posseduto, è un pazzo. Comprendi come posso dimostrare che anche tu sei un pazzo? Se no, dimmi: chi cacciò dal possesso Silvestro? Lo stesso Costantino o i suoi figli o Giuliano o qualche altro imperatore? Dà fuori il nome di chi lo scacciò; danne la data; di donde fu espulso la prima volta, la seconda e cosí via. Per mezzo di una rivolta e stragi o senza di esse? congiurarono insieme contro di lui tutte le nazioni e quale fu la prima? e come? nessuno gli venne in aiuto? Neppure qualcuno di quelli che erano stati preposti da Silvestro o da altro papa alle città e alle province? In un sol giorno perdette tutto? o perdette un po’ per volta e parte dopo parte? Resisté il papa e resistettero i suoi magistrati o al primo tumulto abdicarono? E che? i vincitori non si abbandonarono a stragi contro quella feccia umana, che giudicavano indegna dell’impero? non l’avrebbero fatto per vendicare le subite offese, per tutelare la loro conquista del potere, per disprezzo contro la nostra religione (cristiana), per esempio ai posteri? nessuno dei vinti riuscí a fuggire? nessuno si nascose? nessuno ebbe paura? O evento meraviglioso! L’impero romano nato da tante fatiche e da tanto sangue, sarebbe stato conquistato e perduto cosí tranquillamente dai sacerdoti cristiani senza che ci sia stato sangue, guerra, lagnanze. E (cosa non meno straordinaria) non si sa da chi sia stato fatto ciò, in qual momento, in che modo, per quanto tempo. Potresti credere che Silvestro abbia regnato nelle selve e tra gli alberi, non a Roma e tra uomini e sia stato cacciato da freddi e

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piogge invernali, non dagli uomini. Chi, fornito di una qualche cultura, non sa quanti re, quanti consoli, quanti dittatori, quanti tribuni della plebe, quanti edili furono creati a Roma? non ci sfugge il nome di nessuno di essi, pur in sí grande antichità, in sí gran numero di persone. Sappiamo anche quanti capitani ateniesi, tebani, spartani ci sono stati e sappiamo le loro battaglie per mare e per terra. Non ignoriamo quali furono i re persiani, medi, caldei, ebrei e via dicendo e sappiamo come ciascuno di essi o abbia ricevuto il regno o l’abbia perduto o l’abbia ricuperato. Ma invece non si sa come nella stessa città di Roma sia cominciato l’impero romano silvestrano o come sia finito, quando, per opera di chi. Quali testimonianze, quali autorità potete addurre di ciò che affermate? Nessuna, mi dovete rispondere. E non vi vergognate, bestie che siete, non uomini, di dire essere verisimile che Silvestro abbia posseduto?

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IX.

31. Poiché voi non potete dimostrare ciò che affermate, io, al contrario, vi dimostrerò che Costantino continuò a possedere sino all’ultimo giorno di sua vita e cosí i suoi successori tutti: vi tapperò cosí la bocca. Ma sarà impresa assai difficile e di grande impegno mostrarvi ciò. Si leggano tutte le storie latine e greche; si chiamino pure tutti gli autori che hanno scritto di quei tempi: non troverai alcuna contraddizione tra le fonti. Basti uno tra mille: Eutropio. Egli vide Costantino e tre figli da lui lasciati signori del mondo, e di Giuliano, figlio del fratello di Costantino, cosí scrive: «Questo Giuliano che fu suddiacono nella Chiesa romana e, fatto imperatore, apostatò ritornando al culto degli idoli, salí al potere e con grande apparato portò guerra ai Parti; a tale spedizione presi parte anche io». Non avrebbe taciuto della donazione dell’impero di Occidente e non avrebbe detto di Gioviano, che successe a Giuliano: «Concluse una pace necessaria, purtroppo, ma vergognosa con Sapore, ritirando i confini e cedendo una parte dell’impero romano, cosa che prima non era mai accaduta dalla fondazione dell’impero romano. Che anzi le nostre legioni furono fatte passare sotto il giogo presso Caudio da Ponzio Telesio e nella Spagna a Numanzia e in Numidia (pure passarono sotto il giogo) senza però che vi fosse stata mai cessione di territorio». 32. A questo punto mi piace chiamare in causa voi testé morti, pontefici romani, e te, Eugenio, che vivi, col permesso di Felice: perché cianciate tanto della donazione di Costantino e minacciate i sovrani che vendicherete l’usurpazione commessa a vostro danno dall’impero? perché pretendete dall’imperatore e da altri principi una confessione di vassallaggio a voi, quando si è all’incoronazione, ad esempio, dal re di Napoli e di Sicilia? Ciò

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non fece mai alcuno degli antichi pontefici, non Damaso di fronte a Teodosio, non Siricio con Arcadio, non Anastasio con Onorio, non Giovanni con Giustiniano, non altri santissimi papi con altri ottimi imperatori, ma sempre riconobbero che Roma, l’Italia e le province che ho ricordate appartenevano agli imperatori. Taccio di molti monumenti storici e dei templi di Roma; si trovano ancora (e molte ne posseggo io) monete di oro di Costantino già cristiano e poi di quasi tutti i successori con questa iscrizione, in lettere latine non greche, sotto l’immagine della croce: Concordia orbis. Se ne troverebbero numerose anche dei sommi pontefici, se mai avessero imperato su Roma: non si trovano invece né di oro né di argento né alcuno ricorda di averle viste, mentre non poteva non battere proprie monete chiunque avesse comandato a Roma, fosse pure con l’effigie del Redentore o di Pietro. 33. O ignoranti, non capite che, se fosse vera la donazione di Costantino, non sarebbe rimasto piú nulla all’imperatore dell’Occidente? Che razza d’imperatore, di re romano sarà mai uno se il suo regno è in potere di un altro ed egli non ha nulla piú. Se è chiaro che Silvestro non ebbe il possesso, cioè che Costantino non effettuò il trapasso di proprietà, non c’è dubbio che non gli diede neppure il diritto di possesso, come ho già detto, a meno che non diciate che fu dato il diritto, ma che per una qualche causa non fu dato il possesso. Gli dava ciò che sapeva che non sarebbe stato mai del papa; gli dava ciò che non poteva trasmettere; gli dava ciò che non poteva venire in suo possesso se non quando fosse stato estinto. Gli dava un dono che non avrebbe avuto valore prima di cinquecento anni o addirittura mai. Dir ciò o pensarlo è da pazzi. 34. Ma è tempo ormai, per non essere prolisso, dare il colpo di grazia alla causa degli avversari già malridotta e quasi straziata. Tutte le storie, quelle almeno che

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meritano tal nome, dicono che Costantino fosse cristiano fin dalla fanciullezza insieme al padre Costanzo, molto prima – dunque – del pontificato di Silvestro, come – ad esempio – Eusebio, scrittore di una Storia Ecclesiastica, che Rufino, non ultimo fra i dotti, volse in latino aggiungendo due volumi intorno ai suoi tempi; tanto Eusebio che Rufino vissero ai tempi di Costantino. Aggiungi la testimonianza anche del romano pontefice, che non fu presente, ma fu il promotore del battesimo, ne fu non testimone ma autore; e narrò non fatti di altri ma suoi. Parlo di papa Melchiade, cui seguí immediatamente, come papa, Silvestro; egli cosí disse: «A tanto è giunta la Chiesa che accorrono alla fede di Cristo e ai suoi sacramenti non solo i popoli, ma anche gli imperatori romani, che tenevano il governo di tutto il mondo. Tra essi per primo il religiosissimo Costantino, seguendo la vera fede, diede il permesso a tutti i suoi sudditi non solo di diventare cristiani, ma anche di fabbricare chiese e di donare beni alle chiese. Infine lo stesso ricordato imperatore diede immensi doni agli ecclesiastici e iniziò la costruzione della prima chiesa dedicata a san Pietro; lasciò il palazzo imperiale e lo diede in godimento a san Pietro e ai suoi successori». Melchiade non dice che da Costantino sia stato donato altro che il palazzo lateranense e dei beni, dei quali Gregorio I fa menzione spesso nel suo Epistolario. Dove stanno coloro che non vorrebbero che noi revocassimo in dubbio se sia valida o no la donazione di Costantino, quando essa avvenne prima di Silvestro e concerne solo beni privati? Tutto ciò sarebbe chiaro ed evidente, ma tuttavia è meglio che discutiamo un po’ il testo del privilegio, che codesti stolti sogliono addurre a prova.

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X.

35. Prima di tutto debbo accusare di disonestà quel pseudo Graziano, che fece delle interpolazioni a Graziano, e di ignoranza quelli che credono trovarsi in Graziano il testo del privilegio, cosa che i dotti non hanno creduto. Il testo non si trova nei piú antichi manoscritti del Decretum. Se Graziano avesse ricordato la Donazione, non l’avrebbe collocata dove la mettono costoro, rompendo l’ordine della distribuzione della materia, ma l’avrebbe collocata dove tratta del patto di Ludovico il Pio. Vi sono innumerevoli passi nel Decretum in contraddizione con questa Donazione; e uno è quello dove si trovano le parole di Melchiade sopra riferite. Alcuni ritengono che l’autore dell’interpolazione sia Palea, detto cosí o perché tale fosse veramente il suo nome o perché le sue aggiunte si possono ritenere paglia al confronto del frumento di Graziano. Sia come si vuole, resta sempre che sarebbe sconveniente alla grandezza di Graziano il supporre che egli o ignorasse la Donazione o (se l’avesse veramente inserita lui) ne avesse fatto gran conto e l’avesse giudicata vera. Bene; basta: ho vinto. Prima di tutto, Graziano non la riporta come affermavano bugiardamente costoro; anzi in molti passi la nega e la confuta. Poi sono costretti a tirare in campo un solo autore e ignoto e di nessuna autorità, e per giunta cosí sciocco da attribuire a Graziano cose che stanno in contrasto con altri suoi detti. Dunque voi mettete avanti tale autorità? Vi fate forti della sola testimonianza di costui? Riferite il solo testo dato da costui a riprova di un fatto tanto importante mentre di contro ci sono tante innumerevoli prove? E dire che io mi sarei aspettato che mi mostraste sigilli di oro, iscrizioni lapidarie, molti storici. 36. Ma – obiettano – Palea porta avanti autorità degne di fede, fonti storiche e cita come testimone papa Gela-

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sio con molti vescovi. Parla difatti «della Vita di Silvestro che in un Concilio di settanta vescovi Gelasio ricorda ai cattolici di leggere» e aggiunge che per lunga consuetudine molti imitano questa abitudine. Incomincia: In quibus legitur Constantinus. Altrove, trattando del canone dei libri sacri, aveva detto: gli Atti di san Silvestro, vescovo, sebbene ne ignoriamo l’autore, sappiamo tuttavia che sono letti in Roma dai cattolici e che tale antico uso imitano altre adunanze di fedeli. Straordinaria autorità, straordinaria testimonianza, inoppugnabile documentazione! Ammetto che Gelasio nel concilio abbia detto tutto ciò; ma disse forse che nella Vita di san Silvestro si leggesse il testo della donazione? Dice solo che a Roma, la cui autorità molte altre chiese seguono, si leggevano i Gesta Silvestri. E chi lo nega? Lo ammetto senz’altro. E sono pronto a testimoniarlo io stesso sulla fede di Gelasio. Ma a che vi giova se non a mostrare che avete scientemente mentito nello addurre le testimonianze? Si ignora il nome di chi ha messo questo passo tra le decretali ed è l’unico a parlarne; si ignora il nome di chi scrisse la storia, eppure è citato egli solo come testimone, falsamente. E voi, persone dabbene e sagge, stimate che questo basti e sovrabbondi a testimoniare una cosa di tanta importanza? Ma considerate quale abisso ci sia tra la mia e la vostra capacità critica. Io, anche se questo privilegio si fosse trovato nei Gesta di Silvestro non lo avrei ritenuto vero, perché tutta la storia che vi si contiene non è storia ma una invenzione poetica e sfacciatissima, come in seguito dimostrerò, e nessun altro di una qualche autorità fa menzione di questo privilegio. E Jacopo da Varagine, propenso al clero come arcivescovo, tuttavia nelle sue vite di santi tace della donazione di Costantino come favolosa e indegna di un posto nella narrazione delle opere di Silvestro, quasi come se avesse pronunziata una sentenza contro coloro che l’avessero riportata nei loro scritti.

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37. Ma io voglio portare davanti ai giudici, anche se non gli piace, codesto falsario, veramente paglia non frumento. Che puoi dire, o falsario? Come mai non leggiamo codesto privilegio nei Gesta di Silvestro? Debbo ritenere che questo libro sia raro, difficile a trovarsi e non si diffonda per le mani di tutti, ma sia segreto come i Fasti tenuti una volta dai pontefici e i Libri Sibillini tenuti dai decemviri. Forse è scritto in lingua greca, siriaca o caldaica. Ma Gelasio afferma che era letto da molti cattolici e Jacopo da Varagine ne parla. Io stesso ne ho viste copie anche antiche, e in ogni chiesa cattedrale si leggono i Gesta nel giorno festivo di san Silvestro: nessuno tuttavia può dire di avervi letto o di aver udito quello che tu vi immagini scritto. Ma forse vi è qualche altra storia? Quale sarà? Non ne conosco altre e non credo che tu voglia parlare di altra. Certo tu intendi proprio di quella che Gelasio riferisce solersi leggere in molte chiese. Ma in questa non troviamo il tuo privilegio e se non vi si trova, che cosa hai mai letto tu? Come ti permetti di prenderci in giro in cose tanto serie e favorire le stolte bramosie di gente sciocca? Ma sono stolto io che attacco l’audacia di costoro e non piuttosto la pazzia di chi loro credette. Se si dicesse che di questa donazione si conserva il ricordo presso i greci, gli ebrei e i barbari stessi, non si chiederebbe subito di dire l’autorità di chi l’ha narrata, di mostrare il codice che contiene il racconto? Ora si parla di un atto scritto nella lingua vostra, di un codice diffusissimo e voi non sottoponete a critica un fatto cosí incredibile e, per giunta, arrivate alla supina credulità che, non rinvenendone il testo scritto, accettiate quello che vi dicono come se fosse scritto e vero. Contenti di tal titolo di possesso mettete in soqquadro terre e mari e, come se non vi fossero dubbi sui vostri diritti, perseguitate col terrore di guerre e con altre minacce quelli che non credono alle vostre parole. O buon Gesú, quale è la forza della verità e quale la sua divinità! essa si difen-

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de di per sé senza grandi sforzi da ogni inganno e bugia, cosí che non a torto, discutendosi davanti a Dario quale fosse la cosa piú forte e dicendo uno questo, un altro quello, fu data la palma alla verità. Ma, poiché io ora discuto con sacerdoti, non con laici, è meglio che trovi gli esempi nella storia ecclesiastica piú che nella civile. Giuda Maccabeo, quando ottenne con l’invio di una ambasceria a Roma di stringere alleanza col senato, fece incidere il testo del patto sul bronzo e lo fece portare a Gerusalemme. Taccio delle tavole del Decalogo date su pietra da Dio a Mosè. Ma codesta magnifica e inaudita donazione di Costantino non esiste né scolpita in oro, argento o bronzo e neppure riprodotta in libri, ma si trova soltanto su un pezzo di carta o di pergamena. Iobal, inventore della musica, come dice Giuseppe Flavio, scolpí il testo della sua dottrina su due colonne, una di laterizio contro i danni del fuoco, l’altra di pietra contro le acque, perché gli era giunta la tradizione antica che il mondo sarebbe stato distrutto una prima volta dall’acqua e una seconda volta dal fuoco. La colonna di pietra rimase sino all’epoca di Giuseppe, come questi scrive. Le leggi delle dodici tavole furono incise nel bronzo perché il loro beneficio si conservasse sui popoli, sebbene allora i romani fossero ancora rozzi e gente solo di campi, e gli studi letterari poco coltivati; quando Roma fu presa e incendiata dai Galli, le Tavole furono ritrovate intatte. La previdenza con la sua circospezione vince due forze ostili agli uomini, la lunghezza del tempo e la violenza della fortuna. Ma Costantino avrebbe scritto soltanto su di un pezzo di papiro e con l’inchiostro la donazione di tutto il mondo, specie quando l’inventore della leggenda, chiunque egli fosse, immagina che Costantino dica di credere che non mancheranno quelli che per empia avarizia vorranno rescindere la donazione. Tu temi ciò, o Costantino, e non ti cauteli a che quelli che potranno strappare Roma a Silvestro non gli strappino anche la carta? E Silvestro? non

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fa proprio nulla? lascia tutto nelle mani di Costantino? È cosí sicuro e pigro? In una faccenda di sí grande importanza non pensa per nulla a se stesso, alla Chiesa, ai pontefici? Ecco a chi affidi l’amministrazione dell’impero romano: a un uomo che non vigila su una cosa di tale importanza, non vigila sul suo stesso lucro e sui suoi pericoli. Se gli rubano il pezzo di carta, non potrà piú dimostrare, col passare degli anni, la donazione.

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XI.

38. Lo stolto chiama privilegio la carta della donazione. Chiami privilegio – voglio dirgliene quattro come se mi fosse davanti – la donazione della terra e pretendi che essa sia scritta su un foglio di carta e che Costantino abbia scritto in codesta lingua? Se è assurdo il solo titolo quale non sarà il resto? «L’imperatore Costantino tre giorni dopo il battesimo diede un privilegio al pontefice della Chiesa di Roma, per cui in tutto il mondo romano i sacerdoti abbiano lui come unico capo cosí come i giudici hanno a capo il re». Ciò si legge nella storia di Silvestro. Già da ciò fa capire il privilegio dove sia stato redatto. Ma come sogliono fare i falsificatori incomincia col dire cose vere per conciliare credito al falso che segue. Come Sinone in Virgilio: «Tutto sarà vero, o re, ciò che ti dirò e non negherò di essere greco»; cosí incominciò, poi fece seguire tutte bugie. Cosí ora il nostro Sinone comincia dal vero e continua col falso. Nel suo privilegio si legge tra l’altro: «Giudicammo utile con tutti i nostri satrapi e tutto il senato, gli ottimati e tutto il popolo romano sottoposto alla Chiesa romana che, come san Pietro appare stabilito vicario di Dio sulla terra, cosí i pontefici ottengano, concessa da noi e dal nostro impero, il vicariato del principe degli apostoli e un potere sovrano molto piú ampio di quello che è concesso alla mansuetudine della nostra imperiale terrena serenità». 39. O scellerato e malvagio, la stessa storia che tu citi a testimonianza, narra che per molto tempo nessun senatore volle accogliere la religione cristiana e che Costantino sollecitasse i poveri al battesimo con dei premi. Ed ora tu osi dire che nei primi giorni consecutivi al battesimo il senato, gli ottimati, i satrapi, divenuti quasi tutti cristiani abbiano preso con l’imperatore la decisione di onorare la

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Chiesa di Roma. Che c’entrano i satrapi? o (gente) dura come pietre e come legno! Cosí parlano i Cesari? Cosí si concepiscono i decreti romani? Chi ha sentito mai parlare di satrapi nelle assemblee dei romani? Non ricordo di aver letto mai di satrapi non solo a Roma, ma neppure nelle province romane. Ma costui li chiama satrapi dell’imperatore e li antepone al senato, mentre tutti gli onori, anche quelli che si danno all’imperatore, vengono stabiliti dal senato o dal popolo romano insieme al senato. Perciò nelle piú antiche epigrafi o su marmo o su bronzo o sulle monete vediamo impresse due lettere S. C., cioè senatusconsulto o quattro S. P. Q. R. cioè senato e popolo romano. E, come ricorda Tertulliano, avendo Ponzio Pilato scritto dei miracoli di Cristo a Tiberio non al senato, mentre solevano i magistrati scrivere direttamente al senato, intorno ad argomenti straordinari, il senato non sopportò ciò e si oppose a Tiberio che presentava la proposta di legge di venerare Cristo come Dio, solo per l’indignazione, quantunque non espressa apertamente, che fosse stata offesa la dignità del senato. Ottenne cosí l’autorità del senato che Gesú non fosse onorato come Dio. Sappilo bene! 40. Perché parli degli ottimati? o intendi dire i principali uomini dello Stato: e allora perché si parla di loro e si tace degli altri magistrati? o intendi quelli che non sono demagoghi ansiosi di procacciarsi il favore del popolo, ma sono i migliori cittadini, seguaci del partito dell’ordine e suoi difensori, come Cicerone spiega in un’orazione. Perciò diciamo che Cesare prima che distruggesse la repubblica fu popolare (democratico), Catone fu invece degli ottimati: Sallustio spiegò la loro differenza. Ma non sono scelti a deliberare codesti ottimati piú di quanto non lo siano i democratici o altri uomini in vista. Ma a che meravigliarci che siano stati interrogati gli ottimati, quando, a stare a sentire il falsificatore, tutto il popolo deliberò con l’imperatore? Il popolo soggetto alla

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Chiesa romana: quale popolo mai? il romano? Perché non lo si chiama semplicemente popolo romano anziché popolo soggetto? Che nuova specie di oltraggio è questo contro i quiriti dei quali il piú grande dei poeti espresse questo elogio: «Ricordati di governare le genti, o popolo romano»? Questo popolo che governa gli altri è detto popolo soggetto: cosa inaudita. Come in molte lettere attesta Gregorio, gli imperatori romani differiscono dagli altri re perché essi soli sono a capo di un popolo libero. Ma sia pure come tu vuoi. Forse gli altri popoli non sono sottoposti alla Chiesa? o parli anche degli altri? Come poté avvenire in tre giorni che tutti i popoli sottomessi all’impero della Chiesa romana si trovassero presenti alla promulgazione di quel decreto? Pertanto era chiamata a giudicare anche la feccia del popolo? Costantino, prima che sottomettesse il popolo al pontefice romano, come poteva chiamarlo soggetto? E come è possibile che quelli che son detti sudditi siano partecipi alla compilazione della legge? Come è possibile dire che essi abbiano deliberato di diventar sudditi del papa e che già quel papa, al quale ora in forza del loro decreto soggiacciono, li abbia già come suoi sudditi? Tutto ciò dimostra che tu, miserabile, avresti la volontà di ingannare ma non ne hai la capacità.

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XII.

41. «Scegliamo che il principe degli Apostoli e i suoi vicari siano nostri sicuri patroni presso Dio. E per quanto è nella nostra terrena imperiale potenza, abbiamo deciso di onorare con debita venerazione la sacrosanta chiesa di Roma ed esaltare gloriosamente la sede sacra di san Pietro piú del nostro impero e del trono terreno; perciò al papa assegnamo ogni potere, gloria e dignità, forza e onori imperiali». Rivivi per un po’, o Firmiano Lattanzio, ed opponiti a quest’asino che raglia cosí sonoramente. Gli piace tanto il rumore di parole gonfie da ripeterle e compiacersi di ridire quello che or ora ha detto. In questo modo parlavano ai tuoi tempi gli scribi imperiali, per non dire i mozzi di stalla? Scelse Costantino i papi non come patroni, ma «che fossero patroni»: il compilatore ha interposto quel che fossero solo per rendere piú artificiosa la cadenza. Bel criterio quello di scrivere male solo perché il periodo corra piú armonioso, se pure in tanta scabrezza di stile vi può essere qualcosa di armonioso. «Eligentes principem apostolorum vel eius vicarios»: non scegli Pietro e poi i suoi vicari, ma o l’uno, escludendo gli altri, o gli altri, escludendo lui. Chiama i papi vicari di Pietro come se Pietro viva e gli altri papi siano di dignità inferiore a quella di Pietro. 42. Non è barbara anche l’espressione: «a nobis nostroque imperio» come se l’impero abbia l’animo e il potere di concedere qualcosa? Né gli bastò dire obtineant, ma aggiunge anche «concessum» come se fosse altra cosa. Quanto è elegante «firmos patronos». Li vuole firmos per paura che non si lascino corrompere dal danaro e cedano per paura. E quel «imperialis terrena potentia» due aggettivi senza copula e quel «veneranter honorare» e quel «nostrae imperialis serenitatis mansuetudo».

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Puzza troppo di eloquenza lattanziana il dire, quando si tratta della potenza dell’impero, «serenitas» e «mansuetudo», non «amplitudo» e «maiestas». è gonfio e superbioso anche quando dice: «gloriose exaltare per gloriam et dignitatem et vigorem et honorificentiam imperialem» passo che sembra tolto dall’Apocalisse ove è detto: «L’agnello che fu ucciso è degno di ricevere virtutem et dignitatem et sapientiam et fortitudinem et honorem et benedictionem». Frequentemente, come piú avanti sarà chiaro, si immagina che Costantino si attribuisca titoli che sono di Dio e voglia imitare il linguaggio della Sacra Scrittura che non aveva mai letta.

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XIII.

43. «E decretiamo e stabiliamo che tenga il primato tanto sulle quattro sedi di Alessandria, Antiochia, Gerusalemme, Costantinopoli, quanto su tutte le chiese dell’universa terra. Anche il pontefice, che nei secoli futuri sarà a capo della sacrosanta Chiesa romana, sia il piú in alto e capo di tutti i sacerdoti e di tutto il mondo, e tutte le cose che toccano il culto di Dio e servano a rafforzare la fede dei cristiani, siano disposte dal papa». Non voglio far notare la barbarie della lingua, quando dice «principes sacerdotibus» invece che «principes sacerdotum», che a poca distanza usi «extiterit» e «exsistat»; e che avendo detto «in universo orbe terrarum» aggiunga poi «totius mundi», come se volesse dire due concetti diversi o volesse abbracciare anche il cielo che è una parte del mondo, quando buona parte dell’orbe terracqueo non era sotto Roma; che distinse, come se non potessero coesistere insieme, il procurare «fidem vel stabilitatem»; e che confuse insieme «sancire» e «decernere»; e come se Costantino prima non avesse deciso con gli altri, lo fa decernere e sancire (come se stabilisse sanzioni, pene) e per giunta lo fa sancire insieme col popolo. Quale cristiano potrebbe sopportare ciò e non rimprovererebbe il papa, severamente e direi quasi da censore, per aver pazientemente sopportato e ascoltato volentieri queste cose, cioè che, mentre la sede romana ha ricevuto il suo primato da Cristo come affermò, da testimonianza di Graziano e di molti greci, l’ottavo concilio generale, si dice ora che tal primato lo abbia ricevuto da Costantino appena cristiano, come da Cristo? Avrebbe voluto dire ciò quel moderatissimo imperatore, avrebbe voluto udirlo quel religiosissimo papa? Lontana da ambedue tanta enorme empietà!

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44. C’è qualcosa ancora di piú assurdo: è forse secondo natura che si parli di Costantinopoli come di una delle sedi patriarcali, quando essa non era ancora né sede, né patriarcale, né città cristiana, né era cosí chiamata, né era stata fondata, né addirittura si pensava alla sua fondazione? Infatti il privilegio fu concesso tre giorni dopo che Costantino fu battezzato, quando c’era una Bisanzio, non una Costantinopoli. Mentisco? ma se è proprio codesto stolto a dirlo! Scrive infatti in calce al privilegio: «Abbiamo considerato opportuno che il nostro impero e il regio potere si trasferiscano in Oriente e che edificassimo in un sito ottimo della provincia di Bisanzio una città col nostro nome, dove porre l’amministrazione del nostro impero». Se egli voleva trasferire altrove l’impero, non ancora l’aveva trasferito. Se voleva costituire colà l’impero, non ancora l’aveva costituito. Cosí, se voleva fondare una città, non ancora l’aveva fondata. Come poteva parlare di patriarcato di una delle quattro sedi, di cristiana, di cosí detta, di fondata, di città da fondare, come piace alla storia addotta in testimonianza di Palea? Non ci pensava neppure! Questa bestia, sia egli Palea o qualche seguace, non si accorge che egli è in contraddizione con la Storia stessa, che racconta come Costantino non di sua iniziativa, ma per un avvertimento di Dio avuto in sogno, non a Roma, ma a Bisanzio, non dopo pochi giorni, ma dopo alcuni anni decise di fondare una città e di darle il nome che gli era stato indicato nel sogno. Si può dubitare ora che chi compose il privilegio visse molti anni dopo Costantino? volle abbellire il suo falso, ma dimenticò che le cose che egli raccontava dovevano essere avvenute a Roma tre giorni dopo il battesimo: i bugiardi debbono avere buona memoria come dice un vecchio, logoro proverbio. Come può parlare di una provincia bizantina, quando vi era solo un borgo fortificato detto Bisanzio, il cui territorio non bastava a edificarvi una cosí grande città?

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Infatti Costantinopoli abbracciò fra le sue mura la vecchia Bisanzio mentre costui asserisce che la città deve essere fondata nel miglior luogo di quella. Come può dire che la Tracia, dove si trova Bisanzio, sia in Oriente, quando essa volge piuttosto a settentrione? Costantino (bisogna credere) ignorava il posto che aveva scelto per fondare la città, in quale dei punti cardinali, se fosse città o provincia, quanta ne fosse l’estensione.

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XIV.

45. «Alle chiese dei santi Pietro e Paolo abbiamo assegnato, perché vi siano continuamente accese delle lampade, dei beni immobili; li abbiamo arricchiti di vari doni; con nostra sacra imperiale disposizione abbiamo concesso che in Oriente, in Occidente, in Settentrione, al Mezzogiorno, cioè in Giudea, Grecia, Asia, Tracia, Africa e Italia e nelle varie isole tutti i beni siano amministrati dal sommo pontefice, padre nostro, Silvestro e dai suoi successori». O pendaglio da forca! Le chiese, i templi di Roma erano già dedicati a Pietro e Paolo? Chi li aveva costruiti? Chi avrebbe osato costruirli, quando i cristiani non avevano altro che luoghi secreti e nascosti, come narra la storia? se anche a Roma vi fossero stati templi dedicati a quegli Apostoli, non erano degni che vi si accendessero tante lampade, chiesette come erano e non templi, oratori non basiliche, nascosti in edifici privati non aperti al pubblico. Non poteva preoccuparsi delle lampade del tempio, prima che del tempio stesso. Come mai immagini che Costantino dica santi Pietro e Paolo e santissimo Silvestro ancora vivo e dica «sacram iussionem» il suo ordine, quando egli pochi giorni prima era ancora pagano? E per alimentare delle lampade c’era bisogno di fare tali donativi che tutta la terra ne dovesse sentire il peso? 46. E che significa praedia possessionum? si suol dire praediorum possessiones, non praedia possessionum. Gli fai donare dei fondi e non glieli fai indicare chiaramente. Lo arricchisti di diversi beni senza mostrare né quando né quali essi fossero. Vuoi che da Silvestro si disponga di terre ma non spieghi qual specie di dominio abbia su di esse. Se questi doni li hai fatti già precedentemente, perché dici che solo oggi hai cominciato a onorare la Chiesa di Roma e per la prima volta le hai con-

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cesso un beneficio? Oggi concedi? Oggi arricchisci? e, allora, perché dici al perfetto «concedemmo» e «arricchimmo»? Che dici, che pensi, bestia? Dico al falsario, non all’ottimo imperatore Costantino. Ma come posso cercare in te prudenza o dottrina, in te che non hai traccia di ingegno e sei sfornito di ogni cultura letteraria? Te che dici «luminariorum» invece di «luminarium» e «orientalibus transferri regionibus» invece di «ad orientales transferri regiones». 47. Che sono poi codeste quattro parti del mondo? Quali chiami Oriente? La Tracia forse? ma, come ti ho detto, è terra settentrionale. La Giudea? Ma è meridionale, vicina come è all’Egitto. L’Italia? Ma questo atto si compilava in Italia e uno che agiva in essa non l’avrebbe detta Occidente, dove diciamo che è invece la Spagna: dell’Italia si può dire che per una metà è Mezzogiorno, per un’altra metà Settentrione, piuttosto che Occidente. Quale è poi la terra settentrionale? La Tracia? ma tu ne hai fatto Oriente. L’Asia? Ma questa se è sola a formare l’Oriente, ha in comune con l’Europa il Settentrione. Quale è la terra meridionale? L’Africa, non c’è dubbio. Perché non hai detto qualche provincia col suo proprio nome individuale? Ci avresti forse fatto sentire che gli etiopi erano sudditi di Roma. Non è fatto posto, nominativamente, ad Asia ed Africa, mentre con te abbiamo diviso il mondo in quattro parti e ne abbiamo una per una dette le varie regioni; e neppure se dividiamo il mondo in tre parti, Asia, Africa, Europa, a meno che tu dicendo Asia non abbia voluto alludere alla provincia asiatica e dicendo Africa a quella provincia che si trova presso i getuli. Ma non veggo perché debbano essere nominate esse a preferenza di altre. Cosí avrebbe parlato Costantino nel trattare delle quattro parti del mondo? avrebbe ricordate queste regioni e non avrebbe parlato delle altre? avrebbe cominciato dalla Giudea, che è parte della Siria, Giudea che non abbracciava altre

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terre (credo) che la sola Gerusalemme, per essere stati cacciati e quasi tutti distrutti i giudei cosí che forse non era rimasto piú nessuno in patria, ma se ne erano andati ad abitare altre terre? Dove era, in fine, la Giudea che del resto non si chiamava neppur piú Giudea, tanto che oggi ne vediamo quasi spento il nome? Come la Cananea cessò di chiamarsi cosí una volta sterminati i cananei (i giudei ne cambiarono il nome andandovi essi ad abitare), cosí la Giudea aveva cessato di chiamarsi in tal guisa per esserne stati sterminati gli ebrei e sostituiti da nuovi abitanti. Parli di Giudea, Tracia, isole; non ritieni di dover parlare delle Spagne, delle Gallie, delle Germanie, e mentre parli di popoli di varie lingue come ebraica, greca, barbara, non parli di alcuna delle province che parlavano latino. Capisco: tu le hai taciute ora per poterne parlare poi nel testo della Donazione. Non erano da tanto tutte le province dell’Occidente da provvedere alle spese per l’alimentazione delle lampade se non fosse venuto in loro aiuto il resto del mondo. Ometto che tu dici che Costantino concesse queste cose per sua sola larghezza, non come si dice invece per la guarigione dalla lebbra. Se no, chi parla di rimunerazione, quando si deve parlare di semplice dono, è un insolente.

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XV.

48. «A san Silvestro trasferiamo immediatamente il palazzo Lateranense del nostro impero; poi il diadema, cioè la corona del nostro capo e insieme il frigio e anche il superhumerale, cioè quella specie di fascia che suole circondare il collo dell’imperatore, ma anche la clamide di porpora e la tunica scarlatta e tutti gli indumenti imperiali o anche la dignità imperialium praesidentium equitum, conferendogli anche gli scettri imperiali e insieme tutte le insegne e bandiere e i diversi ornamenti imperiali e tutto ciò che procede dalla altezza della potenza imperiale e dalla gloria del nostro potere. Sanciamo che gli uomini di diverso ordine, i reverendissimi chierici che servono alla santa Chiesa romana, abbiano quel vertice di singolare potenza e distinzione, della cui gloria si adorna ora il senato, cioè siano fatti consoli e patrizi. E abbiamo stabilito (promulgato) che essi siano adorni di tutte le altre dignità imperiali. Abbiamo decretato che il clero della santa romana Chiesa sia adorno dello stesso decoro che circonda la milizia imperiale. E come la potenza imperiale si fregia di diversi ufficiali, cubicularii, cioè, ostiarii, e di tutti i concubitores, cosí vogliamo che ne sia onorata la santa Chiesa romana. Per far risplendere piú largamente la gloria del pontificato stabiliamo che i santi chierici della stessa santa Chiesa cavalchino cavalli adorni di banderuole e coperti di tela bianca e, come il nostro senato, di calzari con udonibus, cioè bianche uose (?) di tela; di tali ornamenti sia fornita la Chiesa terrena come la celeste a lode di Dio». 49. O Gesú santo, non risponderai tempestandolo a costui che scrive roba simile con frasi scorrette, non tuonerai, non lancerai i tuoi fulmini vendicatori contro tante bestemmie? sopporterai sí grande vergogna nella tua famiglia? Potrai ascoltare ciò, vederlo, lasciarlo passare

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con occhi direi quasi di connivenza? sei paziente, è vero, e di grande misericordia. Temo però che codesta tua pazienza non sia piuttosto ira e condanna come fu contro coloro, dei quali dicesti: «Li ho abbandonati secondo i (malvagi) desideri dei loro cuori e se ne andranno secondo i loro consigli». E altrove: «Li ho abbandonati ai loro reprobi sentimenti, affinché facciano ciò che non si conviene, perché essi non hanno cercato di conoscere me». Comandami o Signore di gridare contro di essi in modo che forse possano convertirsi. O pontefici romani, esempio di ogni scelleratezza agli altri vescovi, o pessimi scribi e farisei, che sedete sulla cattedra di Mosè e fate opere degne di Datan e Abiron! Si converranno dunque al vicario di Cristo vesti, assetto, pompa, cavalcature e infine tutta la vita di un imperatore? Che c’è di comune tra il sacerdote e l’imperatore? Vestí proprio Silvestro codesti indumenti imperiali? mosse con codeste magnificenze? Visse e regnò con tutta codesta abbondanza di servi? Scellerati che sono, non comprendono che Silvestro doveva indossare piuttosto le vesti di Aaron che fu sommo sacerdote, anziché quelle di un imperatore pagano. 50. Ma di queste cose si dovrà trattare altrove con piú forza. Ora limitiamoci a discutere con codesto imbroglione dei suoi barbarismi: dalle sue chiacchiere appare di per sé il suo ignobile falso. «Trasferiamo – egli dice – il palazzo Lateranense del nostro impero»; come se avesse inopportunamente parlato del palazzo come dono, mentre trattava gli ornamenti, ne riparlò dopo, quando tratta dei doni. «Inoltre il diadema» e, come se non comprendano i presenti, interpreta: «cioè la corona». E qui non aggiunge «di oro», ma dopo, ripetendo le stesse cose, dice «di oro purissimo e di gemme preziose». Non sapeva, uomo incolto, che il diadema è di stoffa o anche di seta, per cui si suole ricordare con lode quel saggio detto di un re che, quando gli fu consegnato il diadema, prima di metterlo in testa, lo tenne fra le mani a lungo, lo guar-

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dò e disse: «O stoffa che dà piú fama che felicità, se ti si conoscesse a fondo, se si sapesse di quante preoccupazioni, affanni, pericoli e miserie sei piena, nessuno ti vorrebbe raccogliere neppure trovandoti per terra». Costui forse ritiene che fosse di oro perché ora dai re si suole fermare con un cerchietto di oro gemmato. Ma Costantino non era re e non avrebbe osato dirsi re né adornarsi come un re. Era imperatore romano, non re. Dove è il re, ivi non è repubblica. Ma durante la repubblica vi furono, anche in una sola epoca, molti imperatores. Cicerone difatti scrive spesso: Cicerone imperator saluta questo o quell’imperator. In seguito, il principe romano venne chiamato come con nome peculiare suo imperator al di sopra però di tutti gli altri imperatores. 51. «Insieme il frigio e anche il superhumerale, cioè quella specie di fascia che suole circondare il collo dell’imperatore». Chi ha sentito mai parlare in latino di frigio? E tu parlando cosí da barbaro vuoi farmi credere che sia codesto il linguaggio di Costantino o di Lattanzio? Plauto nei Menaechmi usò la parola phrygius per dire concinnator vestium. Plinio chiama vesti frigie quelle ricamate perché ne sarebbero stati inventori i frigi. Non spieghi qui che significhi codesta parola oscura ed esponi invece ciò che è piú chiaro. Dici che il superhumerale è una specie di fascia (lorum) ma non sai bene che cosa sia il lorum stesso. Il lorum è una cintura di cuoio e non vorrai pensare che se ne potesse adornare il collo dell’imperatore mettendogliela attorno (al collo). Per esser di cuoio chiamiamo lora le redini e le fruste. E si capisce perché talvolta si parli anche di «lora aurea», cioè di redini, che si sogliono porre con borchie di oro al collo dei cavalli o di altri animali: io credo che questo modo di dire ti abbia ingannato e che quando pretendi che un lorum si metta al collo di Costantino e di Silvestro, di un imperatore e di un papa fai un cavallo o un asino.

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52. «Ma anche la clamide di porpora e la tunica scarlatta». Poiché Matteo parla di clamide di porpora e Giovanni di tunica scarlatta, ha voluto congiungere costui le due espressioni in una sola frase. Se si tratta dello stesso colore, come è chiaro dagli Evangelisti, perché non ti sei contentato di ricordarne uno solo come fece ciascuno dei due Evangelisti? A meno che tu non creda, come ancora sogliono gli ignoranti, che la porpora sia una qualità di stoffa di seta bianca. La porpora è un pesce, del cui sangue si tinge la lana. Dalla tintura il nome è trasferito al panno, il cui colore si può usare per sinonimo di rosso, sebbene sia piuttosto nereggiante, vicinissimo al colore del sangue rappreso e quasi violaceo. Perciò da Omero e da Virgilio il sangue è detto purpureo e un marmo porphyricum (porfido) perché il colore è assai simile a quello dell’ametista. I greci chiamano infatti porphyra la porpora. Può darsi che non ignori che si dice coccineus per dire rosso, ma giurerei che non sai affatto perché, mentre noi diciamo coccum, egli dica coccineus e che specie di veste sia la clamide. Per non svelarsi bugiardo nello spingersi troppo oltre con l’enumerazione delle vesti a una a una, le abbracciò tutte in una sola parola, dicendo «tutte le vesti imperiali». Anche quelle delle quali si suole coprire in guerra, in caccia, nei banchetti, nei giochi? Ci può essere nulla di piú stolto che il dire convenirsi al papa tutte le vesti dell’imperatore? Ma come facetamente aggiunge: «seu etiam dignitatem imperialium praesidentium equitum». Usa il seu: volle cioè distinguere queste due cose, come se abbiano molta somiglianza tra loro e dagli abiti dell’imperatore passa all’equestre dignità dicendo cose che proprio non capisco. Vuol dire qualche cosa di straordinario, ma teme di es-

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sere colto in flagrante menzogna e allora dà fuori parole senza senso a gonfie gote. 53. «Conferendogli anche gli scettri imperiali». Dove è piú un’organica struttura del periodo? Dove la chiarezza? Dove l’ordine? Che sono codesti scettri imperiali? Uno è lo scettro, non molti. Ammesso che l’imperatore portasse lo scettro in mano, anche il pontefice lo porterà in mano? Perché non gli daremo spada, elmo, dardi? «E insieme tutte le insegne e bandiere». Che intendi per signa? Signa sono o le statue – frequentemente leggiamo signa et tabulae invece di statue e pitture (gli antichi non dipingevano sulle pareti ma su tavole), – o i vessilli, onde Lucano dice: «Signa, pares aquilas». Piccole statue e sculture son dette sigilla (piccoli signa) dal primo significato di signum come statua. Costantino dava a Silvestro le sue statue o le sue aquile? Che si può pensare di piú assurdo? Non capisco poi che voglia dire con banna. Dio ti dia il malanno, o pessimo uomo, che attribuisci a una età dottissima un linguaggio da barbari. «E diversi ornamenti imperiali». Mi sembra che egli avesse detto abbastanza dicendo banna e invece concluse con una parola di senso generale. E con che insistenza parla di ornamenti imperiali come se esistessero ornamenti propri dell’imperatore diversi da quelli del console o del dittatore o del Cesare. 54. «Et omnem processionem imperialis culminis et gloriam potestatis nostrae». «Lascia da parte le espressioni sonore e i paroloni lunghi lunghi, parlando, come il re dei re Dario e consanguineo degli dei, solo al plurale». Che significa codesta «processio imperialis» non culminis, ma cucumeris il cui stelo si contorce tra le erbe e cresce solo in ventre? Credi tu che l’imperatore ogni volta che usciva di casa celebrasse un trionfo, come ora suole il papa, facendosi precedere da cavalli bianchi, che dei servi conducono a mano bardati e adorni? nulla vi è piú vano di ciò, per tacere di altre incongruenze, e piú alie-

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no dal papa. Di quale gloria tu parli? Un latino avrebbe chiamato gloria, come è proprio della lingua ebraica, la pompa e l’eleganza di quella messa in scena? Anche l’uso dell’astratto militia per il concreto milites l’abbiamo mutuato dall’ebraico, i cui libri né Costantino né i suoi scribi avevano mai visto. 55. Ma quanto grande è la tua larghezza, o imperatore, che non ti limiti ad ornare solo il papa, ma orni anche tutto il clero. Tu dici essere il sommo «singularis potentiae et praecellentiae» l’esser fatti «patricii consules». Chi ha mai sentito dire che i senatori o altri uomini siano fatti patrizi? Sono eletti consoli, non patrizi, e vengono scelti o da case nobili, che son dette perciò senatorie, o dall’ordine equestre o dai plebei, e, in ogni caso, è sempre piú importante l’essere senatore che patrizio. Senatore è uno scelto consigliere dello Stato; patrizio chi trae origine da una famiglia senatoria. L’essere senatore non portava senz’altro a essere patrizio. Quanto son ridicoli i miei contemporanei che chiamano senatore il loro pretore, quando il senato non può limitarsi a un sol uomo ed è necessario che il senatore abbia dei colleghi mentre il cosiddetto attuale senatore esplica semplici funzioni di pretore. Ma, potresti dire, si trova in molti libri ricordata la dignità del patriziato: sí, ma sempre in libri posteriori a Costantino. Dunque, il privilegio è confezione di età posteriore a Costantino. E, poi, possono gli ecclesiastici diventare consoli? Il clero latino si è inibito il matrimonio e ammetterebbe il consolato? Si recheranno nelle province avute in sorte, con soldati arruolati, con le legioni e gli ausiliari? Saranno i ministri o i servi a caratterizzare i consoli o le insegne militari? e non saranno due, come si soleva, ma venti per volta o mille? I sacerdoti della Chiesa romana saranno anche essi imperatori. Ed io stolto che mi meravigliavo che il papa fosse stato fatto imperatore. I sacerdoti saranno imperatori, gli ecclesiastici minori saranno milites. Diventeranno proprio

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militari o avranno soltanto gli onori militari? a meno che tu non impartisca la dignità imperiale a tutti gli ecclesiastici. Non so, infatti, che cosa vuoi dire. Chi non comprende che questa favolosa donazione è stata escogitata da chi voleva ogni licenza di vestimenti? Tutto ciò mi fa pensare che se i diavoli che vagano nell’aria si divertono a fare del teatro, si devono divertire moltissimo con il mettere in ridicolo il modo di vivere fastoso e dissoluto degli ecclesiastici.

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56. Ma che dovrò io fare: star dietro alla stupidità dei pensieri o a quella delle parole? Avete sentito la stupidità dei pensieri; sentite ora quella delle parole: dice «senatum videri adornari» come se in realtà il senato non avesse già prestigio; aggiunge «adornari gloria» e dà per avvenuto ciò che invece è ancora in effettuazione quando dice «promulgavimus» per dire «promulgamus». A lui sembra che suoni piú dolce il periodo se enuncia la stessa cosa ora col presente ora col perfetto: decernimus e decrevimus. In tutta la Donazione si trovano a bizzeffe locuzioni come decernimus, decoramus, imperialis, imperatoria, potentia, gloria e si trova usato exstat invece di est, quando exstare significa eccellere o superare; adopera nempe invece di scilicet e concubitores invece di contubernales. Concubitores sono quelli che dormono insieme e si congiungono: sarebbe come dire meretrici. Costantino gli dà quindi anche con chi dormire, perché non si spaventi – ritengo io – dei fantasmi notturni; aggiunge camerieri, aggiunge portieri. Non è per perditempo che tutte queste cose sono da lui minuziosamente elencate: egli erudisce il pupo o l’adolescente, non un vecchio e gli prepara (padre affettuosissimo) tutto quello di cui può aver bisogno l’età sua ancora tenera, come Davide fece con Salomone. 57. Perché la favola sia completa in tutte le parti, si danno agli ecclesiastici dei cavalli, perché non seggano sugli asini al modo asinario di Gesú e gli si danno non coperti o sellati di finimenti bianchi, ma decorati di bianco. Ma di quali finimenti? non di tappeti, non di coperte persiane o altro simile, ma di mappula e linteamina. Le mappae servono alle tavole da pranzo; i linteamina ai letti; e come se fosse dubbio di qual colore esse siano, aggiunge «cioè di candidissimo colore». Periodare vera-

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mente di Costantino, facondia degna di Lattanzio, in tutto ma specialmente per quell’«equitent equos». E mentre tace delle vesti senatoriali, del laticlavio, della porpora, di altre cose, gli è parso importante parlare di scarpe; né le ha chiamate lunulae ma udones, che spiega, da quello sciocco che è, «cioè di stoffa bianca», come se gli udones fossero stoffa. Non ricordo ora se si trovi la parola udones altrove che presso Marziale, il cui distico intitolato Udones cilicei dice cosí: «non sono stati ricavati dalla lana ma dalla barba di un caprone; la pianta (del piede) potrà affondare nel golfo ove sbocca il Cinifio» (famoso per le capre), perciò non sono di lino, né bianchi gli udones, dei quali codesto asino a due zampe non dice che si calzano i piedi dei senatori, ma che ne sono illustrati. E aggiunge: «sicut coelestia, ita terrena ad laudem Dei decorentur». Che cosa chiami tu coelestia? quali terreni? Come le cose celesti possono essere fregiate di onori? Puoi comprendere da te stesso che bel modo di onorare Dio sia codesto. Io credo per quel po’ di fede che ho, che a Dio e agli uomini nulla sia piú inviso della libertà che gli ecclesiastici si prendono a danno dei laici. Ma che mi metto a discutere punto per punto? Mi verrebbe a mancare il tempo se volessi non dico discutere ampiamente ma solo toccare tutti i punti di discussione al riguardo.

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58. «A preferenza di tutti gli altri attribuiamo il pieno arbitrio a san Silvestro e ai suoi successori, con nostro editto, che chiunque egli voglia far chierico placatus proprio consilio e numerarlo nel religioso novero degli ecclesiastici religiosi, nessuno abbia l’ardire di opporsi a lui». Chi è codesto Melchisedech che benedice il patriarca Abraham? Costantino da poco cristiano dà il potere di consacrare sacerdoti a colui, dal quale è stato battezzato e che chiama santo, come se Silvestro non avesse fatto prima ciò o non l’avesse potuto fare? E con quale minaccia vietò di ostacolarlo nell’esercizio di tale diritto? «Nullus ex omnibus praesumat superbe agere». Con quale eleganza? «Connumerare in numero religioso religiosorum», «clericare clericorum»; indictu e placatus? Ma, ritorna al diadema. 59. «Abbiamo decretato anche questo, che egli e i suoi successori debbano godere del diadema, cioè della corona che ci siamo tolta dal capo per darla a lui, fatta di oro purissimo e di gemme preziose, in onore di san Pietro». Di nuovo interpreta la parola diadema – parlava con barbari e facili a dimenticare – e aggiunge: «di oro purissimo», perché nessuno potesse credere che fossero miste all’oro scorie o anche bronzo. E quando parla delle gemme aggiunge «preziose» per lo stesso timore che non si sospetti che abbia regalato cose di poco valore. Perché non ha detto le gemme preziosissime come dell’oro ha detto purissimo? C’è piú differenza infatti tra gemma e gemma che tra oro e oro. E quando avrebbe dovuto dire: «incastonato di gemme» disse «fatto di gemme». Chi non vede che la frase è presa da quel luogo biblico che il sovrano pagano non aveva potuto leggere: «Hai posto sul suo capo una corona di pietre preziose»? Cosí avrebbe parlato l’imperatore nella vanità di lodare una sua co-

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rona, se pure gli imperatori venivano coronati? Avrebbe offeso se stesso quando temeva che gli uomini potessero credere, se non l’avesse esplicitamente detto, portar lui una corona non di oro purissimo con gemme. Perché parla sempre di onorare san Pietro, come se Cristo non sia la piú alta pietra angolare, sulla quale fu costruito il tempio della Chiesa, ma san Pietro (e ciò ripete dopo)? Se voleva riverire tanto san Pietro, perché non dedicò a lui invece che a san Giovanni Battista una basilica in Roma? Ma che dico? quel modo barbaro di esprimersi non attesta che codesta cantilena non è stata fatta nell’età di Costantino, ma in quella consecutiva? «Decrevimus quod uti debeant» invece di dire: «decernimus ut utantur». Cosí ora gli ignoranti del latino dicono comunemente e scrivono «iussi quod deberes venire» invece di «iussi ut venires». E «decrevimus» et «concessimus» come se le cose di cui si tratta non avvengano allora quando se ne parla, ma siano state fatte in un altro tempo. 60. «Lo stesso santo papa non ha voluto porre la corona imperiale sull’altra corona della chierica, che porta a onore del santissimo Pietro». O tua eccezionale stoltezza, Costantino? Or ora dicevi che la corona sul capo del papa era a onore di san Pietro, ora dici che non è piú ad onore, perché Silvestro la rifiuta; mentre approvi il gesto del rifiuto, tuttavia gli ordini di porre la corona d’oro sul capo e vuoi che i suoi successori facciano ciò che ora ritieni bene che lui stesso non faccia. Lascio andare che tu abbia chiamato corona la chierica e pontefice romano il papa, che non ancora si cominciava a chiamare con tale nome peculiare. 61. «Abbiamo messo con le nostre proprie mani sul sacro suo capo il frigio splendido di biancore, simbolo della risurrezione del Signore e tenendo il freno del cavallo in riverenza di san Pietro abbiamo fatto per lui la funzione di cavallaro, stabilendo che dello stesso frigio

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debbono ornarsi uno per uno tutti i suoi successori, cosí come si susseguiranno, ad imitazione del nostro impero». Non sembra qui che l’autore della favola non per sola faccia tosta ma per deliberato proposito vada fuori strada e offra le anse per farsi riprendere? Nello stesso passo dice che dal frigio è simboleggiata la risurrezione del Signore e che è un’imitazione dell’impero, cose in forte contraddizione fra loro. Chiamo Dio a testimone che non trovo con quali mezzi, con quali atroci parole possa io seppellire codesto buono a nulla del diavolo! Tante sono le sciocchezze che erutta fuori! Immagina Costantino non solo simile a Mosè, che ornò per comando di Dio il sommo sacerdote, ma gli fa esporre il significato recondito dei sacri misteri, cosa difficilissima anche per consumati teologi. Perché non hai fatto Costantino pontefice massimo, dato che molti imperatori furono pontefici massimi affinché con piú comodità le distinzioni di un sommo pontefice si trasferissero ad un altro? Ma tu non conoscevi la storia romana. Ringrazio Iddio anche per non aver fatto concepire il nefandissimo pensiero della falsificazione se non a uno sciocco cosí enorme come si vede anche da ciò che segue. Ripete infatti il racconto di Mosè che fa da stalliere ad Aaron seduto sul cavallo: ciò che avvenne non nella terra di Israele, ma attraverso i cananei e gli egiziani, cioè in un paese pagano che non aveva l’impero (come Roma) su tutto il mondo, ma era sotto demoni e popoli idolatri.

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XIX.

62. «Affinché la sommità del pontificato non sia avvilita ma sia onorata piú che la dignità, gloria e potenza dell’impero terreno, ecco che trasferiamo e lasciamo in possesso al beatissimo pontefice e universale papa Silvestro tanto il Palazzo nostro che la città di Roma e tutte le province, luoghi, città d’Italia e dell’Occidente e con prammatica costituzione stabiliamo che egli e i suoi successori possano disporne e che restino soggetti all’autorità della Santa Sede». Su questo punto centrale ho parlato esaurientemente nei discorsi dei romani e di Silvestro. Qui dirò soltanto che nessuno avrebbe raccolto in una sola frase tutti i popoli del mondo e farò notare come lo stesso scrittore che poco prima ha minuziosamente parlato di redini, calzature, gualdrappe di cavalli, non dica ora uno per uno i nomi delle diverse province, ognuna delle quali ha i suoi re o principi pari a re. Ma è evidente che codesto falsario ignorava quali province fossero sotto Costantino e quali no. Tutti i popoli certo non erano sotto di lui. Sappiamo che alla morte di Alessandro le province spartite tra i diadochi vennero enumerate una per una; Senofonte nomina partitamente le terre e i principi che furono sotto Ciro o per spontanea dedizione o perché soggiogati dalle armi; Omero ricorda nel Catalogo nomi, famiglie, patria, costumi, forze, bellezza e il numero delle navi e quasi il numero dei soldati: ne imitarono l’esempio non solo molti greci, ma anche i nostri latini come Ennio, Virgilio, Lucano, Stazio e parecchi altri; Giosuè e Mosè nella divisione della Terra promessa descrissero perfino ogni villaggio. E tu ti stanchi ad elencare anche le sole province? Dici solo le province occidentali. Quali sono i confini dell’Occidente? dove cominciano? dove cessano? Forse Occidente e Oriente, Settentrione e Mezzogiorno, han-

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no limiti cosí precisi e immutabili come l’Asia, l’Africa, l’Europa? Risparmi le parole quando sono necessarie e abbondi poi di superfluità: Dici: provincias, loca, civitates. Forse le province e le città non sono anch’esse loca? e dicendo provincias senti il bisogno di aggiungere civitates, come se queste non si comprendano sotto quelle. Non è da stupire che colui il quale aliena da sé tanta parte del mondo, trascuri di ricordare i nomi di città e province e ignori, come oppresso da letargo, ciò che dice. «Italie sive occidentalium regionum». Usa il sive come se l’Italia escluda l’Occidente mentre egli vuol donare l’una e le altre; gli fai dire «provincias regionum», mentre sono piuttosto «regiones provinciarum» e usi la forma permanendam invece di permansuram. 63. «Perciò abbiamo giudicato opportuno trasferire il nostro impero e la regia podestà nelle regioni orientali e di costruire in un ottimo luogo della provincia di Bisanzio una città col nome nostro e di stabilirvi il nostro impero». Lascio andare che abbia detto di voler costruire una civitas quando si edificano urbes e non civitates e lascio andare la provincia di Bisanzio. Se tu sei veramente Costantino, spiega perché hai preferito quel posto ad altri nel costruire la città. Che tu ti trasferisca altrove dopo aver ceduto Roma non è tanto opportuno (come tu dici) ma necessario; ma non osare piú chiamarti imperatore ora che hai perduto Roma; e hai pessimamente meritato del nome romano di cui fai scempio; non chiamarti neppure re perché nessuno ha fatto mai ciò prima di te a meno che tu non ti chiami re una volta che hai cessato di essere romano. 64. Ecco che tu ci esponi la causa molto onorevole della traslazione: «dove dall’imperatore celeste è stato collocato il principe dei sacerdoti e il capo della religione cristiana, ivi non è giusto che abbia il potere l’imperatore terreno». O stolti che foste voi Davide, Salomone, Ezechia, Iosia, e tutti gli altri re! Stolti e poco reli-

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giosi voi che sopportaste di convivere in Gerusalemme con i sommi sacerdoti e non abbandonaste ad essi la città tutta! Costantino in tre giorni è diventato piú saggio che essi non abbiano saputo diventare in tutta la loro vita. Tu parli ambiguamente: sembra che chiami Costantino imperatore celeste, perché ebbe (da Dio) l’impero terrestre, ma sorge il dubbio che tu abbia voluto riferirti a Dio stesso, dal Quale affermeresti con evidente bugia che derivi il dominio temporale dei papi su Roma e altre città.

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65. «Ordiniamo che tutte queste cose fermamente stabilite con questa imperiale sacra scrittura e con altri divalia decreta restino intatte e immutabili sino alla consumazione del mondo». Or ora, Costantino, ti eri detto terreno ed ora invece ti chiami sacro e divino, ricadi nel paganesimo e peggio che nel paganesimo. Ti fai Dio e fai le tue parole sacre e i tuoi decreti immortali: comandi al mondo che conservi intatti e immutabili i tuoi editti. Non pensi che tu sia ancora mal lavato come sei delle sozzure dell’empietà pagana. Perché non aggiungesti: passeranno il cielo e la terra prima che passi un iota o un apice di questo privilegio? Il regno di Saul eletto di Dio non giunse ai figli, il regno di David fu smembrato sotto il nipote e poi finí del tutto. E tu invece ordini tranquillamente con la tua autorità che resti sino alla fine del mondo questo regno che trasferisci senza neanche sapere la volontà di Dio al riguardo. E chi poi ti ha detto, in cosí poco tempo dalla conversione, che il mondo dovrà perire? Non credo infatti che in codest’epoca tu prestassi fede ai poeti che attestano ciò (insieme ai Vangeli). Perciò debbo ritenere che non tu abbia detto queste cose, ma che altri le abbiano attribuite a te. Ma chi ha finora parlato con tanta magnificenza e superbia comincia a temere, a dubitare di se stesso e perciò ricorre a scongiuri: «Perciò davanti al Dio vivo, che ci fa regnare, e davanti al suo terribile giudizio scongiuriamo tutti i nostri successori, gl’imperatori e tutti gli ottimati, satrapi ed anche il potentissimo senato e tutto il popolo in tutto il mondo che né ora né in avvenire sia lecito a nessuno di essi o distruggere o abbattere questo privilegio». Che scongiuro equo e pio! Come se il lupo scongiurasse per la sua innocenza e buona fede gli altri lupi e i pastori di non tentare o strappargli o richiedergli le pe-

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core che lui ha rubate e che ha divise tra i figli e gli amici. Che cosa temi tanto, Costantino? Se questa tua azione non viene da Dio, si dissolverà; se invece viene da Dio, non potrà dissolversi. Ma capisco bene che hai voluto imitare l’Apocalisse dove dice: «Protesto a chi ascolterà le parole profetiche di questo libro che se qualcuno vi aggiungerà sillaba, Dio aggiungerà su di lui le piaghe descritte in questo libro; se qualcuno toglierà qualche cosa alle parole di questo libro profetico, Dio gli toglierà la sua parte dell’albero della vita e della città santa». Ma tu non avevi letto mai l’Apocalisse; perciò queste parole non sono tue. 66. «Se qualcuno, come non crediamo, oserà tuttavia temerariamente far ciò, soggiaccia condannato a eterne condanne e provi contrari a sé nella presente e nella futura vita i santi apostoli di Dio, Pietro e Paolo. E che finisca bruciato con il diavolo e con tutti gli empi nell’inferno piú profondo». Queste parole di terrore e questa minaccia non sono di un principe secolare, ma di antichi sacerdoti e flamini ed ora degli ecclesiastici. Perciò non è di Costantino questa prosa, ma di qualche stoliduzzo di ecclesiastico che non sapeva che si dicesse o in che modo, di qualche canonico bene ingrassato di corpo e di mente e che eruttava questi pensieri e queste parole nella crapula e nel calore del vino. Son parole che non colpiscono gli altri, ma ricadono solo sul loro autore. Prima dice: «soggiaccia a eterne condanne», di poi come se si possa dire di piú, vuole aggiungere altro e alle pene eterne aggiunge quelle della vita presente. Cosí dopo averci atterrito con la condanna di Dio, ci vuole atterrire, come se possa essere maggiore, con la minaccia dell’odio di Pietro, al quale non so perché aggiunga Paolo. Di nuovo, preso dal solito letargo, ritorna alle pene eterne, come se prima non ne avesse parlato. Se queste minacce e scongiuri fossero di Costantino, a mia volta lo odierei come tiranno e distruttore della mia repub-

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blica e lo minaccerei, da quel romano che sono, di farmi vendicatore della romanità. Ma chi temerà mai le parole minacciose e le maledizioni di un uomo avidissimo che a somiglianza degli istrioni simula la voce e le parole di Costantino e vuole atterrire gli altri fingendosi l’imperatore? Questo significa essere ipocriti, se cerchiamo l’esatto significato della parola greca: il nascondere la propria persona sotto le specie di un’altra.

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XXI.

67. «Convalidando con firma di propria nostra mano il foglio che contiene questo nostro decreto, l’abbiamo depositato sul venerando corpo di San Pietro». Era cartaceo o membranaceo il foglio che conteneva il testo della donazione? Egli dice pagina, ma noi chiamiamo pagina una delle due facce, come dicono, del foglio: ad esempio un quinterno di libro ha dieci fogli e venti pagine. O cosa mai udita e incredibile! Mi ricordo che quando ero giovanetto, interrogai una volta un tale su chi avesse scritto mai il libro di Giobbe; quello mi rispose: Giobbe stesso; ma io gli feci osservare che non avrebbe potuto parlare della sua morte. Ciò si potrebbe dire di molti altri libri, ma non è ora il caso di parlarne. Come infatti può Costantino parlare di ciò che non ancora ha disposto e come può parlare in codesta pagina di ciò che egli stesso dice di essere stato fatto dopo la sepoltura, per cosí dire della carta stessa? Sarebbe come dire che la pagina della donazione morí e fu sepolta prima di nascere, senza che mai sia stata risuscitata dalla morte e dalla sepoltura; prima che fosse messa per iscritto l’imperatore l’avrebbe convalidata non con una sola ma con tutte e due le mani. E che significa poi codesto roborare? come è avvenuta la convalida? di mano dell’imperatore o con il suo sigillo? Gran validità, a dire il vero, dava alla carta e molto maggiore che se ne avesse affidato il testo a tavole di bronzo. Ma non c’è bisogno di una scrittura sul bronzo quando la carta venga riposta sul corpo di san Pietro. Perché qui taci di Paolo, che è sepolto insieme a san Pietro? Avrebbero potuto custodire meglio in due che uno solo. 68. Ormai voi vedete chiaramente le arti maliziose del pessimo Sinone. Poiché da lui non può essere portato alla luce il testo della Donazione, dice che esso non è su ta-

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vole di bronzo, ma su carta e che è nascosto con il corpo del santissimo apostolo, perché o non osiamo andare a frugare in una tomba cosí venerabile, o, se andassimo a frugare e non lo trovassimo, possa dire che è stato mangiato dai tarli. Ma dove era allora il corpo di san Pietro? Certo non ancora era nel tempio, dove è ora, non in un luogo cosí ben difeso e sicuro. Dunque non colà avrebbe l’imperatore posto la sua carta. O non avrebbe affidato la carta al santissimo Silvestro forse perché non gli sembrava abbastanza santo, prudente, diligente? O Pietro, o Silvestro, o pontefici della santa romana Chiesa, ai quali sono affidate le pecore del Signore, perché non custodiste la pagina a voi affidata? Perché l’avete fatta rosicchiare dalle tarme, l’avete fatta rovinare dall’umidità? Non c’è altra spiegazione che quella della vostra stessa dissoluzione. Perciò agí stoltamente Costantino. Una volta ridotta in polvere la pagina, se ne è andato in polvere ogni diritto fissato dal privilegio. 69. Eppure, come vediamo, si mostra una copia della carta. Chi la trasse, temerario, dal grembo del santissimo apostolo? Nessuno, io credo, fece ciò. Donde è venuta la copia? Si dovrebbe dimostrare (per stabilirne l’autenticità) che la conosca qualcuno degli antichi scrittori non posteriore ai tempi di Costantino. Invece non si cita nessuno degli antichi; ma forse si cita qualcuno recente. Da chi l’ebbe costui? Chi scrive istoria del passato, o scrive sotto dettatura dello Spirito Santo o segue testimonianze di antichi scrittori e specialmente di coloro che scrissero di cose loro coeve. Chiunque non segue gli antichi, sarà sempre uno di quelli che traggono alimento alla audacia delle loro falsificazioni dall’antichità. Se in qualche punto si leggono cose simili, esse non concordano con la verità sulle cose antiche piú di quanto lo stolto racconto del glossatore Accursio sugli ambasciatori romani mandati in Grecia a prendere le leggi non concordi con i racconti di Tito Livio e altri eccellenti scrittori.

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XXII.

70. «Dato a Roma 30 marzo nel quarto consolato di Costantino e nel quarto di Gallicano». Ha messo la data del penultimo giorno di marzo, perché sapessimo che tutto ciò era stato fatto sotto le feste pasquali, che in generale cadono in quei giorni. «Et Costantino quartum consule et Gallicano quartum consule».Un po’ strano che tutti e due siano stati per tre volte consoli e nel quarto consolato siano colleghi. Ma è piú straordinario che l’Augusto malato di lebbra e elefantiasi, malattia che è rispetto alle altre cosí straordinaria come l’elefante tra le bestie, volesse prendere anche il consolato, quando il re Azaria, appena fu colpito dalla lebbra, si ritirò in casa, nominando luogotenente il figlio, Iotham, come del resto fanno quasi tutti i lebbrosi. Da questa sola prova tutto il privilegio è confutato, battuto, distrutto. Si potrebbe opporre che Costantino fu prima lebbroso e poi console: ma, secondo i medici, questa malattia si sviluppa lentamente e inoltre secondo la testimonianza degli antichi il consolato comincia il primo gennaio e dura un anno. Ora queste cose si dicono fatte nel marzo immediatamente dopo. Né tacerò anche che si suole scrivere la data nelle lettere, non negli altri documenti, a meno che non scrivano gli ignoranti. Data viene dal fatto che si dice che le lettere sono date a questo (illi), o a quello (ad illum) al portalettere (illi) ad esempio, perché le recapiti e le dia in mano al destinatario; (ad illum), cioè al destinatario perché gli siano consegnate da chi è incaricato di portarle. Ma del privilegio, come lo chiamano, di Costantino, che non doveva essere consegnato ad alcuno non si poteva dire dato: dal che appare che chi si esprimeva cosí mentiva e non sapeva immaginare ciò che Costantino verisimilmente avrebbe eventualmente potuto dire o fare.

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71. Della sua stoltezza e pazzia si fanno complici quelli che credono che costui abbia detto il vero e lo difendono, sebbene non abbiano il minimo addentellato per poter non dico difendere ma neppure scusare decentemente la loro opinione. O è forse una decente scusa dell’errore, quando vedi che è stata svelata la verità opposta, il non voler assentire ad essa, solo perché alcuni altri grandi uomini abbiano pensato diversamente? Grandi, intendiamoci, per le loro condizioni negli alti gradi, non per sapienza o virtú. Chi ti induce a credere che coloro, che tu ora segui, se avessero udito ciò che io ti sto dicendo, sarebbero rimasti della stessa opinione di prima o non se ne sarebbero piuttosto allontanati? Tuttavia è assai indegno di un uomo voler onorare piú un altro uomo che la Verità, cioè Dio. Alcuni, privi di ogni altro argomento, certamente mi rispondono: perché tanti sommi pontefici credettero vera questa donazione? Chiamo voi stessi a testimoni che mi invitate dove non voglio arrivare, a dire male contro il mio volere dei sommi pontefici, dei quali io vorrei anzi celare le malefatte. Ma continuiamo a parlare liberamente giacché la causa che ho preso a difendere non mi permette di fare diversamente.

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XXIII.

72. Voglio ammettere che essi credettero alla Donazione e non per frode: non c’è da stupirsene se credettero in una cosa che li allettava con grossi guadagni, tanto piú che essi sogliono credere solo per straordinaria ignoranza molte cose che non recano loro utilità. Nella chiesa cosí eccellente di Araceli in un luogo tanto augusto non vediamo una pittura che rappresenta la Sibilla (profetessa di Gesú) e Ottaviano (che le innalza un altare) interpretazione che si dà sull’autorità di Innocenzo III che ha scritto sull’argomento? Lo stesso Innocenzo lasciò scritto che al nascere di Gesú, cioè durante il parto della Vergine, ruinò il Tempio della Pace! Cose da far perdere la fede una volta dimostrata la falsità piú di quanto non potrebbero giovare a fondarla se fossero veri miracoli. Il vicario della Verità osa mentire per una finzione di pietà e legare se stesso con tale delitto coscientemente? O non mente? Non si accorge che quando fa ciò egli è in contrasto con i piú santi uomini? A tacere degli altri, Gerolamo si serve della testimonianza di un’opera di Varrone scritta prima di Augusto per dire che le Sibille erano dieci. Lo stesso Girolamo scrive cosí del Tempio della Pace: «Vespasiano e Tito, costruito in Roma il Tempio della Pace, conservarono nel suo santuario i vasi del Tempio (di Gerusalemme) e tutti gli ex voto, come narrano storici greci e romani». E questo ignorante vorrebbe che si credesse piú al suo libello scritto per giunta da barbaro che alle storie degnissime di fede scritte da antichi uomini assai dotti. 73. Giacché mi è capitato di parlare di Gerolamo, parlerò di un altro affronto che gli viene fatto: a Roma si mostra come reliquia di santi (vi sono difatti accese intorno sempre sacre lampade) una Bibbia che dicono scritta di mano di Gerolamo: e il papa avalla questa credenza con

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la sua autorità. Quale è la prova? l’essere, come direbbe Virgilio, la sua sopravveste ricamata in oro. Proprio ciò dovrebbe farci pensare che non può essere opera autografa di Gerolamo. L’ho osservata attentamente e mi sono accorto che è scrittura di un ignorante che ricopiava per ordine di un re, forse Roberto (di Napoli). Sono decine di migliaia le falsificazioni siffatte che si possono vedere a Roma: ma è simile alla precedente l’immagine santa di san Pietro o Paolo che Silvestro avrebbe mostrato a Costantino ammonito a farsi cristiano nel sogno dagli stessi apostoli; da questo dipinto mostrato dal papa sarebbe stata confermata la visione di Costantino. Non dico questo perché io non ritenga che quelle siano immagini vere degli apostoli: magari fosse cosí vera la lettera del pseudo Lentulo sull’effigie di Gesú, falso non meno da furfanti di quanto non lo sia il privilegio che abbiamo confutato. Ma dico che quel dipinto non fu mostrato a Costantino da Silvestro. Non riesco piú a trattenere il mio stupore per codesta favola di Silvestro sulla quale spenderemo due parole. 74. Il nodo della questione è proprio qui, in questa favola e, poiché io sto parlando con i pontefici romani, sarà bene parlare a fondo di uno di essi, cosí da uno si conosceranno meglio gli altri. Tra le molte sciocchezze che si narrano in questa leggenda, toccherò solo quella del dragone, per mostrare che Costantino non è stato mai lebbroso. I Gesta Silvestri sono opera, come dice il traduttore, di un greco, certo Eusebio: si sa come i greci siano sempre pronti a mentire, come satireggiava Giovenale: a tutto ciò che la Grecia mendace si permette di raccontare nelle sue storie. Donde era venuto quel dragone? A Roma non nascono i dragoni. Come mai era velenoso? Solo in Africa – dicono – si trovano dragoni che danno la morte per veleno, che viene loro dai calori di quella terra. Da chi gli veniva poi tanto veleno da impestare una città cosí grande, specie quando

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se ne stava come inghiottito in cosí profonda spelonca che per giungervi bisognava scendere centocinquanta gradini? I serpenti, fatta eccezione, forse, del basilisco, non uccidono col soffio ma col morso. Catone, quando fuggiva Cesare con le sue numerose schiere attraverso l’Africa deserta, non vide morto per soffio di serpenti, né durante il cammino né durante il sonno, alcuno dei suoi compagni. Né i popoli dell’Africa s’accorgono che i serpenti rendano la loro aria pestilente. Se dobbiamo credere alla mitologia, perfino Chimera, Idra, e Cerbero erano visti e toccati senza danno. Ma perché i romani non l’uccidevano una buona volta codesto drago? Non potevano, rispondi. Eppure Regolo uccise in Africa presso la riva del Bagrada un serpente anche piú grande. Sarebbe stato facile ucciderlo ostruendo l’ingresso alla spelonca. Non volevano? Si vede che lo onoravano come Dio, come fecero del resto i babilonesi. Perché Silvestro non lo uccise lui, come Daniele uccise quello babilonese? Avrebbe potuto legarlo con una corda di canapa e distruggere quella spelonca per sempre. Ma il falsificatore non volle che il drago fosse ucciso perché non sembrasse che riferiva tale e quale il racconto di Daniele. 75. Se Gerolamo, dottissimo e fedelissimo traduttore, Apollinare e Origene e alcuni altri affermano falsificazione il racconto di Bel; se i giudei non lo accettano nel Canone del Vecchio Testamento; se i piú dotti latini, i piú dei greci e gli ebrei, presi singolarmente, condannano quel racconto come fittizio, io non dovrei rigettare quest’altro racconto modellato su quello di Bel, tanto piú che non si appoggia all’autorità di alcuno scrittore serio e che per imbecillità supera molto il modello? Chi aveva mai costruito la casa sotto terra alla belva? Chi l’aveva collocata colà e le aveva comandato che non ne uscisse o ne volasse via? Dicono alcuni ed altri però negano che i draghi volino. Chi aveva pensato di dargli quegli strani

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pasti? Chi aveva ordinato che delle vergini e per giunta consacrate al Signore scendessero a lui per cibo e solo il primo giorno di ogni mese? Sapeva il drago quando cominciava ciascun mese? se ne stava contento di cosí parco e raro cibo? E le vergini non avevano orrore di una caverna cosí profonda e di una belva cosí affamata e gigantesca? Forse il drago faceva loro complimenti come a donne, a vergini, a persone che gli portavano da mangiare? E forse facevano anche quattro chiacchiere? Perché – scusate – non le avrebbe anche coperte? Si dice, del resto, che Alessandro e Scipione siano nati dal coito delle loro madri con draghi o serpenti. Che dire poi del fatto che a un bel punto non gli si vuol dare piú da mangiare? Non sarebbe uscito fuori della caverna o non sarebbe morto di fame? Straordinaria stoltezza di gente, che prestano fede a questi deliri, a queste fantasie di donnette isteriche. Per quanto tempo sarebbe durato tutto ciò? Quando sarebbe cominciato? Prima della nascita del Salvatore? o dopo? non si sa nulla di tutto ciò. Vergognamoci una buona volta di codeste fiabe da bimbi e di una leggerezza maggiore di quella di artisti da farse. Un cristiano, che si dice il figlio della Verità e della Luce, arrossisca nel dire cose che non solo non sono vere, ma neppure sono verisimili.

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76. Potrebbero dire: i diavoli avevano sui gentili il potere di ingannarli con tali mostri che essi veneravano come dei. Tacete, ignoranti; per non dire scellerati, che stendete sempre sulle vostre fiabe questo velo. Il Cristianesimo è troppo onesto, schietto per aver bisogno della difesa di falsificazioni. Con la sua propria luce e verità si difende per sé quanto basta e anche di piú senza codeste fiabe da impostori che offendono Dio, Gesú e lo Spirito Santo. Dio avrebbe cosí abbandonato gli uomini all’arbitrio dei diavoli da farli sedurre con miracoli cosí manifesti e cosí persuasivi? quasi quasi Lo si potrebbe accusare d’ingiustizia perché avrebbe affidato le pecore ai lupi, e, d’altra parte, gli uomini avrebbero una grande scusa ai loro errori. Se tanto era lecito allora ai demoni, dovrebbe essere ancora lecito oggi ad essi presso gl’infedeli: ma di ciò non ci accorgiamo. Nessuno di essi narra storielle simili. Non parlerò di altri popoli, ma dei romani dei quali si tramandano pochi miracoli che per giunta sono antichissimi e incerti. Valerio Massimo parla di quell’apertura della terra in mezzo al foro, dove si buttò spronando il cavallo Curzio con i suoi ornamenti; si rinchiuse di nuovo l’apertura e subito ritornò nell’antico aspetto. Racconta anche che Giunone Moneta, interrogata per scherzo da un soldato romano dopo la conquista di Veio se volesse andarsene a Roma, rispose che lo voleva. Nessuna delle due cose conosce Tito Livio, autore piú antico e piú serio. Egli infatti dice che la voragine rimase e che non fu improvvisa ma era di vecchia data anteriore alla fondazione di Roma; era chiamato lago Curzio, perché il sabino Curzio Mezio, fuggendo l’urto dei romani, era scomparso in esso lago.

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Dice inoltre che Giunone facesse un segno di assenso non che parlasse e che fu solo una aggiunta posteriore favolosa quella che Giunone avesse parlato. È evidente che anche il cenno di assenso fu una menzogna, perché interpretarono che un movimento della statua, che stavano togliendo dal suo posto, fosse avvenuto di sua iniziativa; forse anche è possibile che come per ischerzo interrogarono la dea di pietra, vinta e ostile, cosí per ischerzo finsero che rispondesse affermativamente. Livio però dice non che essa annuisse ma che i soldati gridarono che essa avesse approvato. 77. Scrittori onesti non cercano difendere la verità di codesti fatti, ma ne scusano la falsità come tradizione. Come lo stesso Livio dice, si deve perdonare agli antichi se cercano rendere piú venerabili le origini delle città col mescolare insieme elementi umani e divini; e altrove dice: «nei racconti cosí antichi, se vi è qualche verisimiglianza, si tennero per veri». Ma basta; non val la pena di affermare o confutare queste sciocchezze che con le loro meraviglie servono meglio a soddisfare chi si compiace di teatralità che ad accrescere la fede; Terenzio Varrone piú antico, piú dotto e, come credo, piú serio autore di Valerio Massimo e di Livio, ci fa sapere che ci sono tre diverse tradizioni sul lago Curzio trasmesse da tre autori: quella di Proculo, che dice essere stato il lago chiamato Curzio dal Curzio che vi si gettò; quella di Pisone che parla del Mezio sabino, la terza di Cornelio, cui Varrone aggiunge anche Lutazio, che affermerebbe essere il nome venuto dal console Curzio, del quale fu collega Marco Genucio. 78. Non saprei però rimproverare Valerio se ha narrato codeste cose, quando egli, però, aggiunge poco dopo un pensiero serio e severo: «Non mi sfugge come le opinioni siano opposte quando si parla di moti e voci di divinità viste o ascoltate dai nostri sensi. Quando non si dicono cose nuove, ma si ripetono quelle trasmesse dal-

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la tradizione, gli autori possono ben rivendicare la loro buona fede». L’accenno a parole degli dei si riferisce, a quello che sappiamo di Giunone Moneta, sia essa la statua della Fortuna, che si immagina abbia parlato due volte dicendo: «O matrone, mi avete visitato come voleva il rito e come voleva il rito avete fatto la cerimonia della consacrazione». 79. Ma i nostri novellieri ad ogni momento ti mettono in mezzo idoli che parlano, ciò che veramente non fanno gli stessi pagani e idolatri; anzi negano queste storie con piú sincerità che non i cristiani. Presso i pagani si hanno pochissimi miracoli non sulla fede degli scrittori, ma avendo in loro appoggio direi quasi la raccomandazione di una sacra e veneranda antichità. I cristiani invece narrano fatti che gli autori coevi non conoscevano perché sono fattura recente. Non credo diminuire il culto che si deve ai santi e non mi sembra di rinnegare le loro divine opere perché io so che un tantinello di fede, piccolo come un chicco di senape, può muovere i monti; anzi io difendo e tutelo i miracoli quando impedisco che se ne faccia tutt’uno con le favole. Penso che gli autori di codeste leggende non debbano essere altri che infedeli, che scrissero perché ne venisse irrisione ai cristiani quando le loro leggende passate di mano in mano, per propaganda dolosa, giungendo agli ignoranti fossero ritenute per vere; oppure bisogna credere che dei fedeli lo abbiano fatto per eccesso di zelo e deficienza di critica, tanto piú che sappiamo che non si sono arrestati non dico a falsificare le vite dei santi, ma hanno anche osato scrivere alcuni pseudo evangeli della Madonna e di Cristo. I papi chiamano tali libri apocrifi, come se non avessero altro difetto che l’ignorarsene gli autori e come se fossero credibili le loro narrazioni, come se fossero sante e utili ad accrescere la fede: non è minore la colpa nel papa che approva il male delle falsificazioni che in coloro che le escogitarono. Noi distinguia-

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mo le monete cattive dalle buone, le mettiamo da parte, le buttiamo via e non faremo lo stesso con le dottrine cattive? non le separeremo ma le conserveremo? le confonderemo con le buone e le difenderemo per buone? 80. Io, per dire francamente la mia opinione, nego che siano apocrifi i Gesta Silvestri, perché – come ho accennato – se ne tramanda autore un tale Eusebio; ma dico che sono false e indegne le cose che narra lui e altri sul drago, il toro, la lebbra: per dimostrare il falso della lebbra mi son dovuto rifare tanto lontano. Se Neeman fu lebbroso, non perciò diremo che lo fu anche Costantino. Del primo parlarono molti autori; di Costantino, capo del mondo, non scrisse nessuno dei suoi concittadini, ma uno straniero, non so chi fosse; a lui non si può credere piú che a quell’altro che parlava delle vespe che avevano nidificato nelle narici di Vespasiano e della rana partorita da Nerone, da cui verrebbe il nome di Laterano, al luogo dove è latente la rana nel suo sepolcro. Le vespe e le rane, se potessero parlare, non avrebbero detto ciò. Lascio andare che dicono curarsi la lebbra col sangue dei fanciulli: la medicina lo ignora, ma essi veramente attribuiscono questo pensiero agli dei capitolini, come se essi fossero soliti parlare e avessero ordinato questa specie di cura. Non bisogna maravigliarsi che i papi non capiscano queste cose, quando non sanno neppure che significa il loro nome. Dicono che Pietro fu chiamato Cefas, perché era il capo degli apostoli, come se la parola Cefas sia greca derivando da Kephalee e non piuttosto ebraica e anzi siriaca, che i greci translitterano Kephas e traducono Petrus (pétros) non caput. Petrus e Petra sono termini greci e scioccamente si dà l’etimologia latina di petra come di «consumata dal piede» (pede trita). Sono gli stessi che distinguono il metropolitano dall’arcivescovo e pretendono che il primo sia chiamato cosí dalla misura della città, quando in greco non si dice metropolis, ma meetropolis, cioè lo stato o la città-madre; patriarca signifi-

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ca quasi padre dei padri; papa viene dall’interiezione papae; fede ortodossa è uguale a fede di retta gloria; leggono Símone (sdrucciolo) mentre bisogna leggere con l’accento sulla penultima, come per Platone e Catone. E lascio andare molte altre cose simili, perché non si ritenga che per colpa di alcuni io voglia prendermela con tutti i papi. Tutto ciò ho detto perché nessuno si maravigli che tanti papi non si accorgessero della falsità della Donazione; io per me credo che ne sia stato autore uno di loro.

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81. Ma – obiettate – perché gli imperatori, a cui danno risultava la Donazione, non negano, ma confessano, affermano, conservano la Donazione di Costantino? Grande argomento, stupenda difesa! Ma di quale imperatore tu parli? Se parli del greco, che rimase il vero imperatore, nego che ammetta la Donazione; se parli del latino, lo ammetterò ben volentieri. Chi ignora, infatti, che l’imperatore latino è gratuita creazione del papa (credo) Stefano III, che privò dell’impero l’imperatore greco perché non aiutava l’Italia e creò il primo imperatore di Occidente, cosí che piú vantaggio trasse l’imperatore dal papa che il papa dall’imperatore? Achille e Patroclo si divisero tra loro, con un patto, le ricchezze di Troia. A questo penso quando leggo le parole dell’imperatore Ludovico: «Io, Ludovico, imperatore augusto romano, stabilisco e concedo con questa carta di conferma, a te san Pietro capo degli apostoli e, per te, al tuo vicario Pasquale, sommo pontefice e ai suoi successori in perpetuo con lo stesso pieno dominio col quale l’avete tenuta sinora, la città di Roma coi suo ducato, suburbio, tutti i villaggi e territori suoi sui monti e presso il mare, con i porti e tutte le città, castelli, fortezze e ville in Tuscia ecc».. 82. Tu, o Ludovico, stringi i patti con il papa? Se codesti beni sono tuoi, cioè l’impero romano, perché li cedi a un altro? Se sono suoi e sono posseduti da lui, che ti interessa confermarli? Che ti resta dell’impero romano, se ne hai perduta la capitale? Da Roma prende nome l’imperatore romano. Le altre terre che ancora ti restano sono tue o di Pasquale? Credo che dirai che sono tue. Non ha piú valore dunque la Donazione di Costantino se tu possiedi i beni da lui dati al pontefice? Se ha ancora valore, con quale diritto Pasquale ti ha lasciato il resto, conservando per sé solo quello che possiede? A che

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mira questa tua larghezza verso di lui o la sua larghezza verso di te? Giustamente la chiami patto come se fosse un accordo segreto poco pulito. «Ma che farò? mi dici. Cercherò ripigliare con le armi ciò che il papa detiene? Ma lui è già piú forte di me. Cercherò riaverle legalmente? Ma il mio diritto è ormai quello che egli vuole. Non sono giunto all’impero per diritto di successione, ma col patto che se voglio essere imperatore, debba promettere al papa questo e quello. Dirò che Costantino non donò nulla dell’impero? Ma in tal modo farei le parti dell’imperatore greco e mi priverei del tutto dell’impero. Il papa acconsente a farmi imperatore a patto che io sia quasi un suo vicario e se non prometterò, non mi farà imperatore; se non ubbidirò me ne priverà. Purché mi dia l’impero, confesserò tutte le dipendenze che vorrà, accetterò qualunque patto. Credimi: se io possedessi Roma e la Tuscia, mi guarderei tanto dal fare quello che faccio, e Pasquale non si permetterebbe di cantarmi la cantilena della falsa donazione. Ora sono costretto a riconoscergli la donazione di quello che non tengo e che non credo terrò mai. Non è affar mio indagare sui diritti del papa, ma tocca all’imperatore di Costantinopoli». Con queste parole già sei scusato di fronte a me, o Ludovico, o altro principe che si trovi nelle condizioni di Ludovico. 83. Che dobbiamo pensare dei patti degli altri imperatori con i sommi pontefici quando sappiamo come si regolò Sigismondo, imperatore come altri mai ottimo e fortissimo, ma già meno forte per l’avanzata età? Lo abbiamo visto circondato di poche guardie del corpo vivere alla giornata in Italia e quasi presso a morire di fame a Roma, se non l’avesse alimentato papa Eugenio? Non gratis, però, perché gli estorse una donazione (1433). Venuto a Roma per essere coronato imperatore non poté ottenere dal papa l’incoronazione se non ratificando la Donazione di Costantino e ridonando di nuovo ciò che vi si conteneva. Che vi può essere di piú contraddittorio che

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l’essere incoronato imperatore romano proprio quando rinunziava a Roma? e l’essere coronato da quello che lui stesso confessa e, per quanto è in lui, fa signore dell’impero romano? E ratificare una donazione che, se fosse vera, non lascerebbe parte dell’impero all’imperatore? Credo che neanche i fanciulli avrebbero fatto ciò. 84. Perciò non dobbiamo maravigliarci se il papa si arroga il diritto di coronare l’imperatore, diritto che dovrebbe essere del popolo romano. Se tu, papa, puoi privare l’imperatore greco dell’Italia e delle province occidentali e creare un imperatore latino, perché scendi a patti? Perché dividi i beni dell’imperatore? Perché trasferisci in te l’impero? Sappia che è un mentitore, a mio giudizio, chiunque dice di essere imperatore romano senza avere il possesso di Roma e se non cerca di ripigliare la città di Roma. Quegli antichi imperatori, a cominciare da Costantino, non erano obbligati al giuramento, cui sono ora obbligati gli imperatori, ma solo giuravano di non diminuire, per quanto è umanamente possibile, nulla della potenza dell’impero romano e anzi promettevano di accrescerlo con molto impegno. Non erano detti infatti Augusti perché dovevano augere, accrescere l’impero, come credono alcuni che non sanno bene il latino. Augustus significa qualcosa come «sacro» e deriva da avium gustu («assaggio degli uccelli») che solevano sacrificarsi per trarne gli auspici: c’è anche la testimonianza della lingua greca, che traduce Augustus con Sebastòs, donde viene Sebastia. Meglio dovrebbe il pontefice chiamarsi Augusto se la parola derivasse da augere; però mentre cerca di accrescere il temporale, diminuisce lo spirituale. Considera che i peggiori pontefici si son dati sempre piú da fare a difendere la donazione, come ad esempio Bonifacio VIII, che ingannò Celestino con tubi nascosti nella parete. Questi scrive intorno alla Donazione di Costantino, questi che privò ii re di Francia e giudicò ii regno francese della Chiesa romana e a lei soggetto, come se

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volesse far valere la Donazione di Costantino. I suoi successori, Benedetto XI e Clemente VII, revocarono questo decreto come improbo e ingiusto. Ma che vuol dire codesta vostra preoccupazione, o pontefici, per cui pretendete che sia confermata da ogni imperatore la Donazione di Costantino, se non che vi sentite poco sicuri dei vostri diritti? Ma voi pestate l’acqua nel mortaio, come si suol dire, perché essa non è mai esistita e non può perciò essere confermata; qualunque cosa donino gli imperatori, lo fanno ingannati dall’esempio di Costantino e non possono, comunque, donare l’impero.

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85. Ammettiamo pure che Costantino abbia fatto la donazione e che Silvestro abbia una volta posseduto, ma che poi o lui o altri dei successori sia stato rimosso dal possesso. Per ora mi limito a parlare di ciò che il papa non possiede; poi parlerò di ciò che ancora possiede. Che cosa potrei supporre di piú vantaggioso per voi che l’ammettere come reale ciò che non fu mai, né del resto, poteva essere possibile? Vi dico soltanto che neppure in tal caso (di deiezione dal possesso) vi è permessa alcuna azione per rientrare nel possesso. Il Vecchio Testamento vietava che un ebreo fosse schiavo di un altro ebreo piú di sei anni; ordinava inoltre che ogni cinquant’anni l’antico padrone rientrasse nel possesso dei suoi beni. E invece nell’era della Grazia, un cristiano sarà tenuto oppresso da eterna schiavitú proprio sotto il vicario di Cristo, che ci liberò dalla schiavitú? Sarà revocato in schiavitú, una volta che fu liberato e godé a lungo della libertà? 86. Non mi soffermo a dire qual crudele, violenta, barbara tirannide sia spesso quella dei sacerdoti. Anche se ciò non si fosse saputo, ecco che si è imparato testé da quella belva, da quel mostro di malvagità che è stato il cardinale e patriarca Giovanni dei Vitelleschi: si può dire che stancasse la spada con la quale Pietro aveva staccato l’orecchio di Malco a versare sangue cristiano; ma di spada finí col perire anche lui. Al popolo di Israele fu lecito ribellarsi ai re della casa di Davide e di Salomone, unti tali da profeti inviati dal Signore, per i gravi pesi di ogni genere loro imposti, ribellione che Dio approvò; a noi non sarà lecito ribellarci a tanta tirannide? Tanto piú che costoro non sono re, né possono esserlo, e da pastori delle pecore, cioè delle anime, son divenuti ladri da strada maestra?

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87. Per venire al diritto positivo, chi ignora che non crea legge il diritto della guerra? Se c’è un diritto di guerra, esso vale solo in quanto e per quanto tu possiedi ciò che hai acquistato con la forza; quando cadi dal possesso, cadi anche dal diritto. Ad esempio: se dei prigionieri fuggono, nessuno va a richiederli al magistrato; e ugualmente per le prede di guerra, se i legittimi padroni ne ritornano in possesso. Le api e altre specie di uccelli (sic), se volano via dal mio podere e si fermano in quello di un altro, non possono essere richieste. E tu oseresti ripetere non con il diritto della forza, ma con quello vero delle leggi l’uomo, non solo animale libero, ma signore di tutte le creature, come se tu fossi uomo e gli altri bestie Non dirmi i romani con giuste guerre spogliarono della libertà le altre nazioni e ciò fu giustizia Non mettere sul tappeto codesto problema per evitare che io debba parlare contro i miei romani. Non ci fu mai colpa cosí grave che potesse far punire un popolo con l’eterna schiavitú, tanto piú che spesso i popoli combattono solo per colpa dei loro dirigenti e, vinti, scontano con la schiavitú quelle pene che non si meritavano. Ne abbiamo esempi a non finire. Non è certo secondo il diritto naturale che un popolo sottometta a sé un altro popolo. Noi possiamo essere guida agli altri, ammonirli; ma non possiamo comandare né far violenza, a meno che, lasciato ogni senso di umanità, piú bestie delle bestie, non vogliamo spiegare la sanguinaria ferocia di una tirannide sui piú deboli come fa il leone sui quadrupedi, l’aquila sugli uccelli, il delfino sui pesci. Eppure, queste belve non fanno prepotenze sugli animali della stessa loro specie ma su quelli di specie inferiore. Non dovremmo noi essere da piú delle belve e non dovrebbe l’uomo sentire come una cosa sacra l’umanità degli altri uomini, se come dice Marco

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Fabio non c’è al mondo belva cosí feroce che non senta come un reverenziale rispetto per gli esseri fatti a sua immagine? 88. Per quattro motivi gli uomini combattono: o per vendicare offese ricevute in se stessi o ricevute dagli amici o per timore di future sventure se si lasciano troppo ingrandire gli altri o per speranza di preda o per vanità di gloria. Il primo motivo è piuttosto onesto, il secondo lo è poco, i due ultimi non lo sono mai. Anche i romani furono provocati a guerra; ma dopo le guerre difensive, cominciarono anch’essi a portar guerre agli altri popoli né vi è alcun popolo che sia venuto in loro dizione se non dopo essere stato vinto e piegato in guerra: se poi con giustizia e per buone cause abbiano fatto ciò, lasciamo andare; se la veggano essi. Io non oso pronunziarmi per una condanna come se avessero combattuto ingiustamente, né per un’assoluzione come se avessero combattuto giustamente. Dirò soltanto che i romani portarono la guerra contro gli altri con lo stesso diritto col quale anche essi erano stati combattuti da popoli e re; dico anche che, come si erano ribellati agli altri padroni, cosí era lecito ribellarsi contro i romani anche a quelli che erano stati vinti e battuti (da Roma). A meno che non si creda (ma ritengo che nessuno pensi ciò) che tutti i domini debbano ritornare ai piú antichi loro padroni, cioè a quelli che furono i primi ad usurpare l’altrui. Se mai, però, spetterebbe un piú giusto diritto sulle genti vinte in guerra al popolo romano anziché agli imperatori, che opprimono lo Stato romano. Se era lecito ai popoli vinti ribellarsi a Costantino e (ciò che è piú) al popolo romano, certo vi sarà anche il diritto di staccarsi da colui che Costantino avrà chiamato a succedergli nei suoi diritti. Dirò qualcosa di piú audace: se ai romani era lecito cacciare Costantino, come fecero con Tarquinio, o ucciderlo come fecero con Giulio Cesare, molto piú sarà lecito ai romani o ai provinciali uccidere chi è successo a

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Costantino, comunque sia avvenuta la successione. Ciò è vero, ma siccome si va oltre la causa presa a difendere, voglio frenarmi e non concludere altro da tutto ciò che ho detto se non che è puerile mettere avanti un qualunque diritto la cui forza venga dalle parole, quando vi è la forza che viene dalle armi. Ciò che si acquista con le armi, si perde solo con le armi. C’è anche da considerare che molti popoli nuovi (all’impero romano), come i goti, che non stettero mai sotto il dominio di Roma, occuparono l’Italia e molte altre province dopo averne scacciati gli antichi abitanti: è giusto che questi popoli che non furono mai schiavi dei romani vengano revocati a schiavitú? e da chi poi? dai vinti, forse; essi che sono i vincitori? 89. E intanto se ci furono città e popoli (e sappiamo che cosí avvenne) i quali, abbandonati dall’imperatore durante le invasioni barbariche, dovettero di necessità darsi dei re sotto i quali vinsero i barbari, avrebbero dovuto poi deporre dal trono costoro? O avrebbero dovuto ridurre a privati cittadini i loro figli anche se raccomandabili come re sia per la tradizione paterna sia per la loro personale bravura? Se ne sarebbero dovuti ritornare sotto l’impero romano, mentre continuavano ad aver bisogno dell’aiuto dei principi spodestati e non potevano sperarne da altri? Se l’attuale imperatore stesso, se Costantino, ritornato in vita, se il senato e il popolo romano chiamassero questi popoli a un comune tribunale, quale era in Grecia l’Anfizionio, sarebbero perdenti fin dalla prima istanza con la motivazione che richiedono soltanto ora popoli che una volta avevano abbandonati, che vivono da lungo tempo sotto altri re, e vogliono rifare schiavi uomini nati ad essere liberi, e che liberi si sono affermati per vigore di anima e di corpo. Se dunque l’imperatore, se il popolo romano sono esclusi dal diritto di ripetere questi popoli, molto piú a ragione ne è escluso il papa; e, se è permesso agli altri popoli, che furono sotto Roma, crearsi un re o mantenersi a repubblica, tanto piú ciò sa-

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rà lecito al popolo romano, specie contro la tirannide del papa che è anche recente.

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90. Gli avversari, non potendo difendere piú la donazione come quella che non è mai esistita e che, se fosse esistita, sarebbe ormai caduta per le mutate condizioni storiche, si ritirano in un altro tipo di difesa, come chi lascia la città e si ritira nella rocca, che poi è costretto ad abbandonare per deficienza di vettovaglie. Dicono: la Chiesa romana beneficia della prescrizione per i suoi possessi. Perché allora pretende la maggior parte dei beni sui quali essa non può vantare il beneficio della prescrizione, ma possono ben vantarlo gli altri? Ciò che è permesso a lei contro gli altri, non è permesso agli altri contro di lei. La Chiesa romana ha il beneficio della prescrizione, tu dici. E allora, perché è cosí premurosa a farsi confermare il suo diritto dagli imperatori? Perché ciancia tanto della donazione e della conferma degli imperatori? Se basta il diritto della conferma, commetti un torto verso l’imperatore quando non taci anche della prescrizione. Ma vuoi sapere perché tu non taci della prescrizione? Perché sai che l’altro diritto è insufficiente. Beneficia della prescrizione la Chiesa romana; come può beneficiare della prescrizione se il suo possesso non poggia su nessun legittimo titolo ed è solo di mala fede? Anche se tu neghi la mala fede, non potrai negare la stolta fede. O in una causa cosí importante e cosí chiara deve essere scusata l’ignoranza in diritto e in fatto? In fatto, perché Costantino non diede Roma e le province (può ignorare ciò un povero uomo qualunque, non il sommo pontefice); in diritto, perché quei beni non potevano né essere donati né essere ricevuti in dono, cosa questa che nessun cristiano può ignorare. La tua buona fede, buona ma sciocca, ti darà il diritto a possedere quelle cose, che se fossi stato meno ignorante non sarebbero state mai tue? Ora che io son riuscito a dimostrarti che tu hai posseduto per

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ignoranza e scioccheria, non perderai i tuoi diritti, ammesso che tu ne abbia mai avuti? La conoscenza dei fatti non ti toglierà giustamente quello che l’ignoranza ti aveva ingiustamente attribuito? E i tuoi acquisti ritorneranno al legittimo padrone, forse con gli interessi. Se dopo le mie parole pensi ancora di continuare a possedere a giusto titolo vuol dire che la tua ignoranza si è mutata in dolo e inganno e ne sei divenuto chiaramente possessore in mala fede. 91. La Chiesa romana beneficia della prescrizione. O ignoranti di tutto, ed anche del diritto divino! Nessuno periodo di anni, quanto si voglia grande, può distruggere un titolo legittimo. Forse, io, catturato dai barbari o creduto morto, se ritorno in patria dopo cento anni di schiavitú, sarò escluso dal diritto di chiedere l’eredità paterna? Che ci sarebbe piú inumano di ciò? Per portare qualche esempio storico, forse, Iefte, capo degli israeliti, quando i figli di Ammon richiedevano la terra compresa tra il territorio di Arnon e Iaboc e il Giordano, rispose: ha beneficiato Israele della prescrizione di trecento anni? Rispose invece che non era loro la terra che chiedevano ma degli amorei e che la prova migliore che quella terra non spettava agli ammoniti era il fatto che essi non la avevano mai richiesta in tanti anni. Beneficia della prescrizione la Chiesa romana: taci, lingua sacrilega. Tu osi trasferire agli uomini la prescrizione che è delle cose mute e irrazionali, agli uomini il cui possesso in ischiavitú quanto piú dura tanto piú è esecrando? Gli uccelli e le belve non patiscono prescrizione, ma quando piace loro e se ne offre l’occasione fuggono via, le abbia tu possedute quanto si voglia. All’uomo posseduto da un altro uomo non sarà concesso liberarsi? 92. Sentite ora un fatto, dal quale appare la frode e il dolo, piú che l’ignoranza, dei romani pontefici che chiamano a giudice la guerra non il diritto, e che ci può dare un’idea di quello che credo abbiano fatto i primi pontefi-

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ci nell’impadronirsi di Roma e di altre città. Ecco: poco prima della mia nascita – mi appello al ricordo di quelli che furono presenti ai fatti – Roma subí con un inaudito inganno, il dominio o meglio la tirannide dei papi, mentre prima era stata libera per molto tempo. L’autore dell’inganno fu Bonifacio IX, simile all’ottavo per frodi e per il nome, se pure si possono chiamare Bonifaci quelli che fanno il male. Quando i romani, accortisi dell’inganno, cominciarono tra loro a sdegnarsene, il buon papa, a mo’ di Tarquinio, abbatté con la verga i piú alti papaveri. Innocenzo VII, suo successore, volle imitarlo, ma fu cacciato dalla città. È meglio non parlare degli altri papi, che tennero sempre oppressa Roma con la forza delle armi, sebbene essa si ribellasse ogni volta che lo potesse; cosí sei anni fa non potendo ottenere la pace da Eugenio né potendo d’altra parte resistere piú ai nemici che l’assediavano, i romani assediarono il papa nel suo palazzo, e non permisero che ne uscisse se non avesse fatta prima la pace con i nemici o avesse trasferito l’amministrazione della città ai cittadini. Ma il papa preferí abbandonare la città sotto mentite spoglie, con un sol compagno nella fuga anziché accondiscendere ai desideri dei cittadini che non chiedevano se non cose giuste ed eque. Se si lasciano i romani liberi di scegliere, nessuno ignora che essi sceglieranno la libertà piú che la schiavitú. Come per Roma, si può pensare che avverrebbe per le altre città che son mantenute in schiavitú dal papa, ad opera del quale invece dovrebbero essere liberate dalla schiavitú. 93. Sarebbe lungo enumerare quante città prese ai nemici siano state liberate dal popolo romano tanto che Tito Flaminino arrivò a liberare tutta la Grecia che serviva ad Antioco e volle che fosse libera e indipendente. Sembra invece che il papa trami con cura insidie contro le libertà dei popoli, e perciò i popoli, a loro volta, ogni giorno, appena si presenta l’occasione, si ribellano; basta pensare a quello che è avvenuto a Bologna. Può

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darsi che qualche volta, per qualche pericolo imminente, i popoli si siano per loro spontaneo consenso messi sotto il potere papale; ma non bisogna prendere la cosa come se essi si facessero schiavi, sí da non poter sottrarre piú i loro colli dal giogo, e sí che anche i loro figli non abbiano neppure essi pieno potere di se stessi. Sarebbe troppo ingiusto. 94. «Spontaneamente venimmo a te, o sommo pontefice, perché ci governassi; spontaneamente ora ci allontaniamo da te, perché non ci governi piú a lungo; facciamo un conto del dare e dell’avere per vedere se noi ti dobbiamo nulla. Ma tu vuoi continuare a governarci contro la nostra volontà, come fossimo dei pupilli, quando noi forse sapremmo governare te stesso con piú saggezza di te. Aggiungi l’offese che vengono recate da te e dai tuoi magistrati a questa città tanto spesso. Chiamiamo Dio a testimone che le offese vostre ci costringono a ribellarci come una volta fecero ribellare Israele da Roboan. E quale fu la cosí grande offesa che li fece ribellare? Che parte (trascurabile) dei nostri malanni è il pagare tributi piuttosto gravosi! Che dovremmo fare se tu impoverissi il nostro Stato? Eppure, l’hai impoverito. Se tu spogliassi i templi? E li hai spogliati! Se tu violentassi vergini e matrone? E le hai violentate! Se bagnassi la città di sangue nostro? E l’hai bagnata! E noi dovremmo sopportare tali cose? O piuttosto non dimenticheremo anche noi di essere tuoi figli, quando tu hai dimenticato di essere padre? Come padre, o sommo pontefice, o se piú ti piace, come padrone ti chiamò questo popolo non come nemico e boia. Ma tu non vuoi essere padre e signore, ma nemico e boia. Noi, perché siamo cristiani, non imiteremo la tua crudeltà ed empietà, sebbene lo potessimo per essere stati offesi; non stringeremo contro di te la spada della vendetta; ma soltanto, dichiarandoti decaduto, adotteremo un altro padre e signore. È permesso ai figli di fuggire dai genitori cattivi, dai quali, pure, si è

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nati. A noi non sarà lecito fuggire te non padre nostro vero, ma adottivo e che ci tratti cosí male? Pensa a fare il sacerdote e non porre la tua sede verso settentrione, donde tonando vibri fulmini su questo e sugli altri popoli». Ma c’è bisogno di insistere su un argomento cosí evidente?

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XXIX.

95. Affermo con ogni forza non solo che Costantino non fece sí larga donazione, non solo che il romano pontefice non beneficia della prescrizione, ma anche che, se pure l’uno donò e l’altro beneficia della prescrizione, tuttavia i due diritti sono estinti per i delitti dei possessori, quando vediamo che da un sol fonte sono scaturite la rovina e la distruzione di tutta l’Italia e di molte province. Se è amaro il fonte, lo sarà anche il fiume; se immonda è la radice, anche i rami saranno immondi; se le primizie non sono sante non è santa la massa. Cosí, per antitesi, se il fiume è amaro, bisogna ostruirne il fonte; se i rami sono immondi, nella radice è l’origine del male, se la massa non è santa, anche le sue primizie sono da rigettare. Potremmo noi ammettere come legale l’origine della potenza papale, che vediamo essere causa di tanti delitti e di tanti mali di ogni genere? 96. Io posso ben dire e gridare ad alta voce (non ho paura degli uomini, protetto come sono da Dio) che ai miei giorni non vi è stato sommo pontefice che abbia amministrato con fedeltà e saggezza. Furono tanto lontani dal dare il pane di Dio alla famiglia dei loro sudditi, che anzi li farebbero sbranare come pezzi di pane. Il papa, proprio lui, porta guerre a popoli tranquilli; semina discordie tra le città e i principi; il papa ha sete delle ricchezze altrui, e, al contrario, succhia fino in fondo le sue stesse ricchezze; egli è come Achille dice di Agamennone Demoboros basileus, cioè «re divoratore dei popoli». Il papa fa mercato non solo dello Stato, ciò che non oserebbe né Verre né Catilina, né alcun altro reo di peculato, ma mercanteggia perfino le cose della Chiesa e lo stesso Spirito Santo! Perfino a Simon Mago desterebbe esecrazione! E quando ciò viene avvertito e anche rimproverato da galantuomini, non nega, ma sfacciatamente

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l’ammette e se ne gloria: afferma che gli è lecito strappare in qualsivoglia modo dalle mani degli occupanti il patrimonio della Chiesa donato da Costantino, come se da quel riacquisto la religione cristiana sia per trarre maggiore felicità e non piuttosto maggior peso di peccati, di mollezza, di passioni, se pure è possibile che la Chiesa sia piú gravata di tali mali di quanto non lo è già e se vi è piú posto per scelleratezze. 97. Per riavere le altre parti donate, sperpera le ricchezze mal tolte ai buoni, paga truppe a cavallo e a piedi, che fanno tanto male dappertutto, mentre Cristo muore affamato e nudo in migliaia e migliaia di poveri. E non si rende conto (o indegnità!) che mentre egli si affanna a strappare ai principi secolari i loro beni, questi a loro volta sono spinti a strappare agli ecclesiastici i loro beni o dal cattivo esempio o dalla necessità (talvolta non c’è neppure vera necessità).

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98. Non c’è piú religione; nessuna cosa piú è santa; non vi è piú timore di Dio: ho orrore a dirlo, ma tutti i malvagi scusano i loro delitti con l’esempio del papa. In lui e nei suoi satelliti è ogni esempio di delitti: possiamo ben dire con Isaia e Paolo contro il papa e i suoi: «Per causa vostra è bestemmiato il nome di Dio tra i popoli». Voi che ammaestrate gli altri, non ammaestrate voi stessi; voi che predicate non doversi rubare, fate rapine; voi che maledite gli idoli, commettete sacrilegi; voi che ponete la vostra gloria nella legge e nel pontificato, trasgredendo la Legge voi non onorate piú Dio che è l’unico vero pontefice. Se il popolo romano perdette per l’eccesso dei beni la sua vera gloriosa romanità, se Salomone per la stessa causa, abbandonandosi ad amori carnali, cadde nell’idolatria, non dobbiamo credere che avverrà lo stesso nel sommo pontefice e negli altri sacerdoti? 99. Insomma, possiamo noi credere che Dio avrebbe permesso che Silvestro accettasse materia di peccato? Non permetterò che si faccia questo oltraggio alla memoria di un santissimo uomo, non permetterò che si insulti un ottimo papa, dicendo che egli accettasse imperi, regni, province, alle quali sogliono rinunziare quelli che vogliono entrare nella Chiesa. Pochi furono i beni che possedé Silvestro; pochi furono quelli degli altri sommi pontefici, il cui aspetto era sacrosanto anche ai nemici come quel san Leone, che atterrí l’animo truce del re barbaro (Attila) e piegò chi la forza di Roma non aveva potuto né toccare né spezzare. Ma gli ultimi papi, ricchi e affogati nei piaceri, sembrano non mirare ad altro che ad essere empi e stolti tanto quanto santi e saggi furono gli antichi pontefici. Quale cristiano potrebbe sopportare ciò con tranquillità?

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100. In questa mia prima orazione non voglio ancora spingere i principi e i popoli ad arrestare il papa precipitante a corsa sfrenata e a costringerlo a star buono nella sua sfera di azione, ma solo vorrei indurli ad ammonire il papa che, forse, già ritrovata da sé la via della verità, attraverso essa se ne torni a casa sua lasciando l’altrui e ripari nel porto, lontano dalle onde di dissennati pensieri e dalle tempeste furiose. Ma se egli ricusa (di seguire la via della verità) mi preparerò ad una seconda orazione molto piú aspra. Possa io una buona volta vedere il papa fare solo il vicario di Cristo e non anche dell’imperatore: nulla mi pesa piú che l’attendere ciò, specialmente perché spero che avvenga per i miei scritti. Che non ci giunga piú l’eco di orribili voci: fazioni ecclesiastiche, fazioni contrarie alla Chiesa; la Chiesa combatte contro i perugini o contro i bolognesi. Non è la Chiesa che combatte contro i cristiani ma il papa; la Chiesa combatte gli spiriti del male nel cielo. Allora il papa sarà chiamato e sarà realmente padre santo, padre di tutti, padre della Chiesa; non susciterà guerre tra i cristiani, ma con apostoliche censure e con la maestà del papato spegnerà le guerre provocate da altri.

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