Lezioni ed esercitazioni di Tecnica delle Costruzioni Meccaniche - Marco Beghini -Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Nucleare e della Produzione, Università di Pisa

January 28, 2017 | Author: b4901884 | Category: N/A
Share Embed Donate


Short Description

Download Lezioni ed esercitazioni di Tecnica delle Costruzioni Meccaniche - Marco Beghini -Dipartimento di Ingegneria Me...

Description

Lezioni ed esercitazioni di Tecnica delle Costruzioni Meccaniche Marco Beghini1 24 ottobre 2011

1

Dipartimento di Ingegneria Meccanica, Nucleare e della Produzione, Largo Lucio Lazzarino 2, 56126 Pisa, [email protected].

Nota sul Copyright CC Creative Commons 2.5 Il presente documento e il suo contenuto `e distribuito con licenza ` di tipo “Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate”. E possibile riprodurre, distribuire, comunicare al pubblico, esporre in pubblico, rappresentare, eseguire e recitare quest’opera alle seguenti condizioni:

BY:

Attribuzione. Non `e permesso usare quest’opera per fini commerciali.

\

$

Non commerciale. Non `e permesso alterare o trasformare quest’opera, ne’ usarla per crearne un’altra.

` obbligatorio attribuire la paternit`a dell’opera nei modi indicati =

Non opere derivate. E dall’autore o da chi ha dato l’opera in licenza. Ogni volta che quest’opera `e usata o distribuita, `e obbligatorio farlo secondo i termini di questa licenza, che va comunicata con chiarezza. In ogni caso, `e possibile concordare col titolare dei diritti d’autore utilizzi di quest’opera non consentiti da questa licenza. Per maggiori informazioni: http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/2.5/it/

alla memoria di mio padre, uomo del Novecento

Ringraziamenti Questo testo non sarebbe stato scritto senza il sostegno e l’incoraggiamento di Marilina, che ben conosce quanto un impegno del genere sia gravoso. Gran parte del tempo dedicato alla stesura del testo `e stato trovato nei fine settimana e quindi sottratto alla famiglia. Con non pochi sensi di colpa, ringrazio per la pazienza e la comprensione Marilina, Enrico e Marianna. Il materiale `e stato ricavato dalle lezioni e dalle esercitazioni da me svolte per il corso di Tecnica delle Costruzioni Meccaniche del secondo anno di Ingegneria Meccanica dell’Universit` a di Pisa. Le numerose discussioni avute negli ultimi anni accademici con vari allievi, nonch´e i loro commenti e consigli, hanno costituto la base per la scelta dell’impostazione e delle modalit` a di presentazione degli argomenti. La realizzazione del volume nella forma attuale non sarebbe stata possibile senza l’impiego del LATEX e il prezioso supporto del mio ex-allievo Lapo Filippo Mori il quale, dimostrando una gentilezza pari alle sue qualit`a intellettuali, mi ha introdotto all’uso del programma e ha curato l’impostazione tipografica del documento. Desidero inoltre ringraziare l’ex allievo Basilio Lenzo e ancora Lapo Mori e per avermi segnalato vari refusi e anche qualche errore che erano presenti nella precedente edizione e che spero di aver eliminato.

iii

Prefazione Il testo contiene materiale didattico per il corso di Tecnica delle Costruzioni Meccaniche che `e svolto nel secondo anno di Ingegneria Meccanica dell’Universit`a di Pisa. Si tratta di una preliminare versione di una dispensa che, nelle mie intenzioni, dovrebbe coprire l’intero programma. Il progetto completo della dispensa si articola in quattro parti pi` u le Appendici, secondo lo schema seguente: • parte I - Statica delle strutture • parte II - Meccanica dei solidi • parte III - Meccanica degli elementi mono-dimensionali • parte IV - Meccanica degli elementi bi-dimensionali • Appendici. La presente edizione (A.A. 2011/2012) comprende le parti I, II, III e le Appendici. Per ragioni pratiche la dispensa `e stata stampata in due volumi, il primo volume comprende le parti I e II e il secondo volume la parte III e le appendici. La numerazione delle pagine e dei capitoli `e per`o unica e progressiva per i due volumi. La Statica delle strutture (parte I) presenta la base della disciplina e sviluppa gli elementi concettuali e i metodi di analisi necessari per affrontare gli argomenti successivi. La valenza didattica della parte I, che peraltro copre gran parte del programma svolto nella prima met` a del corso, `e stata la ragione che ha spinto alla pubblicazione della dispensa anche nelle forme incomplete. I capitoli successivi sono stati aggiunti via via che sono stati completati. La Meccanica dei solidi (parte II) sviluppa un argomento fondamentale per il corso che dovrebbe essere nuovo per il lettore in quanto affronta l’estensione della Statica al continuo. Nella parte II sono presentate e discusse le relazioni fondamentali della meccanica dei continui, ovvero le equazioni: di equilibrio, di congruenza e costitutive. Nella Meccanica degli elementi mono-dimensionali (parte III), attualmente completa, sono sviluppate le prime applicazioni della meccanica dei corpi deformabili che conducono alle verifiche di: resistenza, rigidezza e stabilit`a per le travi. Le Appendici richiamano e sviluppano alcune nozioni fondamentali, prevalentemente di tipo matematico, che sono diffusamente impiegate nella soluzione dei problemi. Sulla scorta di una chiara convinzione di tipo didattico, maturata in oltre dieci anni di insegnamento dei fondamenti delle costruzioni meccaniche, ho evitato anche nella dispensa la distinzione rigida tra lezioni ed esercitazioni o tra ’teoria’ e ’pratica’. I numerosi esempi ed esercizi, molti dei quali risolti numericamente e commentati, sono pertanto da considerarsi elementi funzionali alla spiegazione, anche se sono tipograficamente distinguibili nel testo. Ho cercato di presentare la disciplina sottolineandone le basi fisiche prima che la struttura matematicoformale, partendo dai fenomeni e dai problemi pratici per ricavare le leggi e i procedimenti generali, piuttosto che da assiomi che devono essere accettati acriticamente. Questa impostazione `e motivata dalla consapevolezza che per un ingegnere meccanico, quando nella professione

v

deve applicare questi concetti, siano di gran lunga pi` u utili le abilit`a induttive, di interpretazione e di modellazione, che le competenze di tipo deduttivo, di analisi o di calcolo. Le abilit`a di calcolo, in particolare se potenziate dall’impiego di sistemi di elaborazione, possono essere acquisite pi` u proficuamente in corsi successivi, dopo che siano state chiarite le idee fondamentali sui modelli fisici e sulle relative grandezze. L’attenzione che deve essere dedicata alla comprensione e quindi all’impostazione dei problemi non contrasta tuttavia con la necessit`a di acquisire il necessario rigore metodologico nella soluzione dei problemi stessi. La dispensa, proprio perch´e intesa a sviluppare competenze operative di tipo professionale, propone quindi metodi pratici per ottenere soluzioni complete e accurate anche dal punto di vista quantitativo e numerico. La soluzione numerica completa dei problemi rappresenta infatti una forma di allenamento insostituibile per cominciare ad acquisire conoscenze fondamentali sui fenomeni studiati. Il tecnico esperto di un settore si caratterizza infatti per la capacit`a di farsi un’idea chiara del problema che sta affrontando in modo da eliminare da subito gli aspetti quantitativamente marginali. Questa complessa abilit`a si rivela fondamentale anche per la fase di impostazione e modellazione dei problemi. Gli esempi, contrassegnati con il cerchio nero , sono problemi di riferimento il cui procedimento di soluzione `e completamente sviluppato. Sono proposti anche alcuni esercizi (cerchio bianco ) che si prevede siano affrontati alla fine dello studio del paragrafo o del capitolo relativo. In certi casi l’esercizio `e guidato (cerchio nero per met`a ) con alcuni suggerimenti utili per l’impostazione o la soluzione. I paragrafi e i problemi contrassegnati con l’asterisco (*) sono generalmente pi` u complessi o pi` u specifici e possono essere tralasciati, specialmente nella prima lettura, perch´e non strettamente necessari alla comprensione del seguito. Il corso `e rivolto agli allievi ingegneri meccanici pertanto, nelle spiegazioni e negli esempi, le dimensioni, le unit`a di misura, i materiali, le forme strutturali e i tipi di carico sono quelli tipici dell’ingegneria industriale e della meccanica delle macchine. Sono pertanto evidenziati alcuni aspetti che considero fondamentali per la preparazione di tipo strutturale di un ingegnere del settore industriale, e che, per varie ragioni, sono generalmente trascurati, quando non del tutto assenti, nei corsi di base di meccanica dei solidi e delle strutture. Mi riferisco, in particolare, alla tridimensionalit`a dei modelli e alle forze d’inerzia. Consapevole che la dispensa contenga refusi e (mi auguro pochi!) errori, sar`o grato a chi vorr`a segnalarmeli, possibilmente tramite posta elettronica ([email protected]). Da questo punto di vista sono meno collaudati i capitoli della parte III (dal 19 al 26, soprattutto l’ultimo che `e inedito). Sono particolarmente graditi i commenti critici relativi ai contenuti e alle modalit`a di presentazione nonch´e ogni suggerimento utile per migliorare le prossime pi` u complete edizioni.

Indice I Statica delle strutture

1

1 La forza 1.1 Primo e secondo principio e definizione dinamica di forza . 1.2 La natura fisica delle forze e il terzo principio . . . . . . . . 1.2.1 L’interazione gravitazionale e il peso proprio . . . . . 1.2.2 L’interazione elettromagnetica, le forze di contatto materia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.2.3 Applicazioni del terzo principio . . . . . . . . . . . . 1.3 Le forze d’inerzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4 La definizione statica di forza . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.1 Le forze come cause di distorsione dei corpi . . . . . 1.4.2 La misura della forza . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5 Le forze come vettori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.1 La natura vettoriale della forza . . . . . . . . . . . . 1.5.2 La rappresentazione matematica delle forze . . . . . 1.5.3 Lavoro e lavoro virtuale . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . e la . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . coesione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . della . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

3 3 6 7 8 9 12 17 17 19 21 21 22 24

2 Statica del punto materiale 2.1 Il punto materiale come modello di corpo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2 Equilibrio statico del punto materiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2.1 La condizione di equilibrio statico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.2.2 L’esperimento dell’equilibrio: funi ideali e pulegge ideali . . . . . . . . . . 2.2.3 Interpretazione dell’esperimento e prima equazione cardinale della statica 2.3 Impostazione dei problemi di statica del punto materiale . . . . . . . . . . . . . . 2.4 Problemi piani con configurazione di equilibrio data ovvero del primo tipo . . . . 2.4.1 Alcune considerazioni generali sul trattamento delle forze incognite . . . . 2.4.2 La linearit`a del sistema risolvente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.5 Problemi piani del secondo tipo ovvero con configurazione di equilibrio incognita 2.5.1 La configurazione di equilibrio deve essere determinata con le equazioni cardinali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.5.2 Considerazioni generali sui problemi del secondo tipo: stabilit`a dell’equilibrio (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.6 Problemi di statica del punto materiale nello spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.7 Problemi proposti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

29 29 31 31 31 33 34 36 41 42 43

3 Il corpo esteso e le azioni su di esso agenti 3.1 Corpo esteso come sistema di punti materiali . 3.2 Le forze come vettori applicati . . . . . . . . . 3.2.1 Forza applicata e momento di una forza 3.2.2 Propriet`a del momento . . . . . . . . . .

55 55 56 56 58

vii

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

43 44 46 48

INDICE

3.3

3.4

3.5

3.6

3.7

3.8

3.9

Sistemi di forze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.1 Caratteristiche complessive dei sistemi di forze . . . . . . . . 3.3.2 Sistemi piani di forze e metodi per il calcolo delle componenti 3.3.3 Sistemi di forze parallele . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.4 Coppia di forze . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.3.5 Sistemi di forze staticamente equivalenti . . . . . . . . . . . . 3.3.6 Lavoro fatto da un sistema di forze . . . . . . . . . . . . . . . Forze interne e forze esterne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.1 Definizione di forze interne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.2 Propriet`a globali delle forze interne . . . . . . . . . . . . . . . Il corpo esteso continuo e le sue principali propriet`a . . . . . . . . . 3.5.1 Il materiale come continuo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.5.2 Massa e densit`a media nei corpi continui . . . . . . . . . . . . 3.5.3 Definizione di densit`a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Forze sui corpi continui . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.1 Forze di volume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.2 Forze di superficie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.3 Forze concentrate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Caratteristiche statiche equivalenti a distribuzioni di forze parallele . 3.7.1 Distribuzione di forze parallele di superficie . . . . . . . . . . 3.7.2 Distribuzioni di forze parallele di volume . . . . . . . . . . . . Momenti concentrati . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.8.1 La nozione di momento concentrato . . . . . . . . . . . . . . 3.8.2 Lavoro fatto dai momenti concentrati . . . . . . . . . . . . . Azioni statiche e generalizzazione del terzo principio . . . . . . . . .

4 Il corpo rigido e i vincoli nel piano 4.1 Il corpo rigido e le condizioni di equilibrio . . . . . . . . . 4.1.1 Il modello di corpo rigido . . . . . . . . . . . . . . 4.1.2 Equilibrio e equazioni cardinali per un corpo rigido 4.1.3 Osservazioni sulle condizioni di equilibrio del corpo 4.2 Gradi di libert`a per un corpo rigido . . . . . . . . . . . . . 4.2.1 La nozione di grado di libert`a . . . . . . . . . . . . 4.2.2 Calcolo dei gradi di libert` a per il corpo rigido . . . 4.2.3 Gradi di libert`a per un corpo esteso non rigido . . 4.3 Vincoli sul corpo rigido . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4 I vincoli ideali nel piano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.1 Appoggio semplice . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.2 Cerniera . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.3 Incastro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.4 Bipendolo, doppio-pendolo o pattino . . . . . . . . 4.4.5 Doppio bipendolo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5 Alcune considerazioni sulla schematizzazione dei vincoli . 4.5.1 Vincoli composti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.5.2 Bronzine lunghe e bronzine corte . . . . . . . . . . 4.5.3 Cuscinetti di rotolamento . . . . . . . . . . . . . . 4.5.4 Contatti con attrito . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . rigido . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . di momento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

59 60 61 63 64 65 67 67 67 68 69 69 71 72 75 75 76 77 78 79 80 81 81 83 84 87 87 87 88 90 92 92 93 94 95 96 96 97 99 100 101 102 102 103 106 108

5 Problemi di statica del corpo rigido nel piano 111 5.1 Problemi con corpi rigidi in quiete . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111

viii

INDICE

. . . . .

111 115 117 118 123

. . . . . . . . . . . . .

127 127 128 128 129 130 131 131 132 132 133 135 135 148

7 Statica delle strutture di corpi rigidi 7.1 Concetto di struttura e calcolo dei gradi di libert`a . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.1 Strutture e macchine . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.2 Vincoli interni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.1.3 Gradi di libert`a complessivi di una struttura . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2 Impostazione di un problema di statica delle strutture . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.1 Condizione di equilibrio per una struttura . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.2.2 Considerazioni sulle condizioni di equilibrio: metodo generale di soluzione 7.3 Scrittura del sistema risolvente e discussione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.3.1 Schema di corpo libero preliminare per una struttura . . . . . . . . . . . . 7.3.2 Forma del sistema risolvente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4 Classificazione dei problemi di statica delle strutture . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.1 Analisi del sistema risolvente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.2 Problemi isostatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.3 Problemi labili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.4.4 Problemi iperstatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.5 Particolarit`a dei problemi isostatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.5.1 Problemi isostatici in relazione al carico applicato . . . . . . . . . . . . . . 7.5.2 Strutture intrinsecamente isostatiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.5.3 Riconoscimento di strutture intrinsecamente isostatiche . . . . . . . . . . 7.6 Alcune particolarit`a di problemi non isostatici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.6.1 Arco a tre cerniere allineate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.6.2 Problemi iperstatici particolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.6.3 Errori di montaggio sulle strutture isostatiche . . . . . . . . . . . . . . . . 7.7 Il montaggio di alberi di trasmissione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.8 Esempi di strutture e loro classificazione statica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 7.9 Considerazioni generali sulla statica delle strutture . . . . . . . . . . . . . . . . .

155 155 155 157 157 158 158 159 161 161 162 163 164 164 165 166 167 167 170 171 172 172 175 177 177 179 183

8 Problemi di statica delle strutture

185

5.2 5.3

5.1.1 Problemi del primo tipo . . . . . . . . . . . . . . . . 5.1.2 Problemi del secondo tipo . . . . . . . . . . . . . . . 5.1.3 Considerazioni sull’equilibrio per i problemi di primo Problemi con forze d’inerzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . Problemi con attrito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6 Statica del corpo rigido nello spazio 6.1 Vincolo di appoggio semplice nello spazio . . . 6.2 Cerniere tridimensionali . . . . . . . . . . . . . 6.2.1 Cerniera piana nello spazio . . . . . . . 6.2.2 Cerniera sferica . . . . . . . . . . . . . . 6.2.3 Cerniera completa . . . . . . . . . . . . 6.2.4 Cerniera completa assialmente libera . . 6.3 Slitta, pattino o guida prismatica . . . . . . . . 6.4 Incastro spaziale . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.5 Giunto universale . . . . . . . . . . . . . . . . . 6.6 Guida o vincolo elicoidale . . . . . . . . . . . . 6.7 Problemi di statica del corpo rigido nello spazio 6.7.1 Problemi con le cerniere . . . . . . . . . 6.7.2 Altri tipi di vincolo . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . e . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . di secondo tipo . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . .

. . . . . . . . . . . . .

ix

INDICE

8.1 8.2

. . . . . . .

. . . . . . .

. . . . . . .

. . . . . . .

185 190 191 194 199 203 206

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

209 209 210 210 212 212 212 213 215 217 218 219 219 221 221 225 227 229 230 231 231 232 233 240

10 I diagrammi delle caratteristiche 10.1 Sezioni potenzialmente critiche e diagrammi delle caratteristiche . . . . . . . 10.2 Diagrammi delle caratteristiche nei casi piani: carichi concentrati . . . . . . . 10.2.1 Esempi elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.2.2 Asse ramificato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.2.3 Carico di momento concentrato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.3 Diagrammi con carichi concentrati: problemi proposti . . . . . . . . . . . . . 10.4 Diagrammi delle caratteristiche nei casi piani: carichi distribuiti . . . . . . . . 10.5 Relazioni differenziali tra le caratteristiche e il carico . . . . . . . . . . . . . . 10.5.1 Carico generico sul concio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.5.2 Equazioni indefinite di equilibrio per il concio con asse rettilineo piano 10.6 Considerazioni sulle equazioni indefinite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.7 Applicazione delle equazioni indefinite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.7.1 Espressioni analitiche delle caratteristiche . . . . . . . . . . . . . . . . 10.7.2 Determinazione delle caratteristiche di sollecitazione per via analitica . 10.8 Diagrammi delle caratteristiche nello spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 10.9 Travi piane con asse curvo (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . .

243 243 244 244 250 252 253 258 263 263 264 266 268 268 273 274 281

8.3 8.4 8.5

Strutture piane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Strutture reticolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 8.2.1 Arco a tre cerniere reticolare . . . . . . . . . . . . 8.2.2 Strutture reticolari pi` u complesse: metodo dei nodi Strutture parzialmente o approssimativamente reticolari . Classificazione delle strutture reticolari . . . . . . . . . . . Strutture reticolari nello spazio . . . . . . . . . . . . . . .

. . . e . . .

. . . . . . . . . delle . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . sezioni . . . . . . . . . . . . . . .

9 Il modello di trave e le caratteristiche di sollecitazione 9.1 Modelli geometrici degli elementi strutturali . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2 Solidi tri-dimensionali e bi-dimensionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2.1 Solidi bi-dimensionali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2.2 Lastre o membrane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2.3 Piastre . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.2.4 Gusci . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.3 I solidi mono-dimensionali: le travi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.4 Modello matematico di trave . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.4.1 Travi a sezione costante o uniforme . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.4.2 Travi a sezione variabile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.4.3 Classificazione delle travi in base alla forma dell’asse . . . . . . . 9.5 Sistema di riferimento locale della trave . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.6 Caratteristiche di sollecitazione per le travi . . . . . . . . . . . . . . . . 9.6.1 Azioni statiche trasmesse dalle sezioni di una trave e loro natura 9.6.2 La definizione delle caratteristiche di sollecitazione . . . . . . . . 9.6.3 Procedimento di calcolo delle caratteristiche di sollecitazione . . 9.7 Effetti prodotti dalle caratteristiche di sollecitazione . . . . . . . . . . . 9.7.1 Effetto della forza normale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.7.2 Effetto della forza di taglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.7.3 Effetto del momento torcente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.7.4 Effetto del momento flettente . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.8 Problemi piani di travi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 9.9 Problemi tridimensionali di travi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

x

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

INDICE

10.9.1 Equazioni di equilibrio per l’asse curvo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 281 10.9.2 Esempi di travi con asse curvo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 283 10.9.3 Travi curve nelle applicazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285 11 Statica dei corpi deformabili 11.1 La deformabilit`a delle strutture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11.2 Effetti prodotti dalla variabilit`a temporale dei carichi . . . . . . . . . 11.3 Soluzione dinamica per carichi a regime costanti (*) . . . . . . . . . 11.3.1 Effetto delle forze dissipative . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11.3.2 Sistemi con pi` u gradi di libert`a . . . . . . . . . . . . . . . . . 11.3.3 Come considerare gli effetti dinamici . . . . . . . . . . . . . . 11.4 Soluzione dinamica per carichi continuamente variabili nel tempo (*) 11.5 Effetti prodotti dal cambiamento della geometria sotto carico . . . . 11.5.1 Tutti i problemi sono del secondo tipo . . . . . . . . . . . . . 11.5.2 Soluzione approssimata per problemi del secondo tipo . . . . 11.5.3 Ipotesi dei piccoli spostamenti . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11.5.4 Quando le distorsioni possono essere considerate piccole? . . 11.6 Meccanica dei corpi poco deformabili sotto carichi quasi statici . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

II Meccanica dei solidi 12 Lo stato di tensione 12.1 Cosa misura la tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.1.1 La natura fisica della tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.1.2 Le principali ipotesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2 Il vettore tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2.1 Condizione di riferimento e condizione sollecitata . . . . . . . . . . . . . 12.2.2 Definizione di vettore tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2.3 Le azioni di momento e i materiali semplici . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2.4 Componenti locali del vettore tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.2.5 Natura ed effetti delle componenti locali del vettore tensione . . . . . . 12.3 Il modello matematico dello stato di tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.3.1 Lo stato di tensione non `e una grandezza vettoriale . . . . . . . . . . . . 12.3.2 Il parallelepipedo elementare e il suo schema di corpo libero . . . . . . 12.3.3 Componenti dei vettori tensione: matrice di Cauchy . . . . . . . . . . . 12.3.4 Il tetraedro di Cauchy e le condizioni di equilibrio . . . . . . . . . . . . 12.3.5 Le caratteristiche del vettore tensione ottenute dalla matrice di Cauchy 12.4 Le propriet`a tensoriali dello stato di tensione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.4.1 Lo stato di tensione per un parallelepipedo ruotato . . . . . . . . . . . . 12.4.2 Legge di trasformazione per rotazione e definizione di tensore . . . . . . 12.4.3 Lo studio delle propriet`a di una grandezza tensoriale . . . . . . . . . . . 12.4.4 Simboli nomi e convenzioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.5 Altri modi di rappresentare i tensori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 12.5.1 Il tensore di Cauchy in coordinate non cartesiane . . . . . . . . . . . . . 12.5.2 Notazione tensoriale con indici (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

289 289 292 292 296 296 297 298 300 300 303 306 308 309

317 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

319 319 319 320 321 321 327 328 329 332 334 334 335 336 341 345 347 347 351 354 355 357 357 359

13 Propriet` a dello stato di tensione 363 13.1 Lo studio degli autovalori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363 13.1.1 La ricerca degli invarianti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 363

xi

INDICE

13.2 13.3

13.4 13.5

13.6

13.1.2 La soluzione algebrica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.1.3 Tre autovalori distinti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.1.4 Due soli autovalori coincidenti . . . . . . . . . . . . . . . . 13.1.5 Tre autovalori coincidenti e stato di tensione idrostatico . Classificazione dello stato di tensione . . . . . . . . . . . . . . . Rappresentazione di Mohr . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.3.1 Tensione monoassiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.3.2 Tensione biassiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 13.3.3 Tensione triassiale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Analisi degli stati di tensione con la rappresentazione di Mohr . . Altre rappresentazioni e propriet`a dello stato di tensione . . . . . 13.5.1 Rappresentazione di Haigh-Westergaard . . . . . . . . . . 13.5.2 Decomposizione dello stato di tensione . . . . . . . . . . Equazioni indefinite di equilibrio dell’elemento solido elementare

14 La deformazione 14.1 Necessit`a dell’analisi deformativa . . . . . . . . . . . . . . . . 14.2 Il campo di spostamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.3 Le componenti del campo di spostamento . . . . . . . . . . . 14.3.1 Propriet`a di regolarit`a del campo di spostamento . . . 14.3.2 Un esempio monodimensionale . . . . . . . . . . . . . 14.4 Trasformazioni affini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.4.1 Definizione di trasformazione affine . . . . . . . . . . . 14.4.2 Propriet`a delle trasformazioni affini . . . . . . . . . . . 14.5 Definizione di deformazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.5.1 Le componenti della deformazione . . . . . . . . . . . 14.5.2 Significato delle deformazioni e loro limiti . . . . . . . 14.5.3 La matrice delle deformazioni D dedotta dalla matrice 14.6 Tensore delle piccole deformazioni . . . . . . . . . . . . . . . 14.6.1 Decomposizione dalla matrice A . . . . . . . . . . . . 14.6.2 Rotazioni rigide . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.6.3 Tensori di rotazione e di deformazione . . . . . . . . . 14.7 Trasformazioni non affini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.8 Problema inverso e equazioni di congruenza . . . . . . . . . . 14.8.1 Il problema inverso (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 14.8.2 Equazioni di congruenza . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

364 366 369 370 372 374 374 377 381 385 389 389 390 393

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

397 397 400 400 403 404 407 407 409 412 412 416 421 424 424 426 429 433 437 437 440

. . . . . . . . . . .

443 443 444 446 449 453 456 460 463 464 465 467

15 Analisi di corpi deformati 15.1 Applicazioni delle piccole deformazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.1.1 Deformazioni e direzioni principali dello stato di deformazione 15.1.2 Deformazioni di volume . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.1.3 Deformazioni di linee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.1.4 Deformazione di superfici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.2 Deformazione di un elemento che subisce un incurvamento . . . . . . . 15.3 Conservazione delle sezioni piane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.4 Trasformazioni deformative intense (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . 15.4.1 Grandi spostamenti e piccole deformazioni . . . . . . . . . . . . 15.4.2 Grandi deformazioni e piccoli spostamenti . . . . . . . . . . . . 15.4.3 Grandi spostamenti e grandi deformazioni . . . . . . . . . . . .

xii

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

INDICE

16 La legge costitutiva 16.1 Il lavoro delle forze agenti su corpi deformabili discreti . . . . . . . . . . . . . . 16.1.1 Lavoro delle forze esterne e lavoro delle forze interne . . . . . . . . . . . 16.1.2 Lavori fatti da forze interne dissipative e conservative in sistemi discreti 16.2 Forze interne sui continui deformabili . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.2.1 Lavoro virtuale fatto delle tensioni sul parallelepipedo elementare . . . . 16.2.2 Densit`a volumica del lavoro virtuale fatto delle tensioni . . . . . . . . . 16.2.3 Densit`a del lavoro fatto dalle tensioni in una trasformazione finita . . . 16.3 Lavoro complessivo fatto dalle forze per deformare un corpo esteso . . . . . . . 16.3.1 Lavoro fatto dalle tensioni e lavoro fatto delle forze esterne . . . . . . . 16.3.2 Considerazioni termodinamiche relative al lavoro fatto dalle tensioni . . 16.4 Il materiale omogeneo isotropo elastico lineare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.4.1 Materiali costitutivamente omogenei . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.4.2 Materiali isotropi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.4.3 Materiali elastici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.4.4 Materiali elastici lineari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 16.5 Equazione costitutiva per un materiale elastico lineare . . . . . . . . . . . . . . 16.5.1 Tensori di rigidezza e di deformabilit`a e loro rappresentazione matriciale 16.5.2 Densit`a del lavoro fatto dalle tensioni e densit`a di energia elastica . . . 16.5.3 Limiti di natura termodinamica ai valori delle costanti elastiche . . . . . 16.6 La sovrapposizione degli effetti nella meccanica dei corpi elastici . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

469 469 469 471 476 476 479 481 484 484 487 489 489 490 491 496 497 497 499 503 504

17 Il materiale elastico lineare omogeneo isotropo 17.1 La legge di Hooke per il materiale elastico lineare omogeneo e isotropo . . . 17.1.1 L’effetto dell’isotropia sulle matrici elastiche . . . . . . . . . . . . . . 17.1.2 La prova di trazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.1.3 Misure nella prova di trazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.1.4 Costanti elastiche principali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.1.5 La legge di Hooke . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.2 Densit`a di energia e interpretazione delle costanti elastiche . . . . . . . . . . 17.2.1 Matrici di deformabilit`a e di rigidezza e densit`a di energia elastica . 17.2.2 Limiti delle costanti elastiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.2.3 Costanti elastiche nei materiali comuni . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.3 Soluzione generale del problema elastico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.4 Altre espressioni della legge di Hooke (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 17.5 Giustificazione dell’effetto Poisson per un modello elementare di reticolo (*) 17.6 True stress vs engineering stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

509 509 509 512 516 517 520 524 524 526 527 529 535 537 540

18 Propriet` a di resistenza e verifiche 18.1 Determinazione della resistenza allo snervamento . . . . . . . . . . . . . . 18.1.1 Completamento della prova di trazione fino a rottura . . . . . . . . 18.1.2 Tensione di snervamento e tensione ammissibile per lo snervamento 18.2 Altre propriet`a di resistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18.3 Lo snervamento in condizioni non monoassiali . . . . . . . . . . . . . . . . 18.4 Lo snervamento secondo Tresca . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18.4.1 Il criterio di snervamento di Tresca . . . . . . . . . . . . . . . . . 18.4.2 La tensione equivalente secondo Tresca . . . . . . . . . . . . . . . 18.5 Lo snervamento secondo von Mises . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 18.5.1 Il criterio di snervamento di von Mises . . . . . . . . . . . . . . . 18.5.2 La tensione equivalente secondo von Mises . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

543 543 543 545 549 552 556 556 558 561 561 562

. . . . . . . . . . .

xiii

INDICE

18.6 Confronto tra i criteri di snervamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 564 18.7 La verifica di resistenza e il coefficiente di sicurezza . . . . . . . . . . . . . . . . . 568

III Meccanica degli elementi monodimensionali

573

19 Trave soggetta a forza normale 19.1 Il principio di De Saint Venant . . . . . . . . . 19.2 La trave soggetta a forza normale . . . . . . . . 19.3 Estensioni ed esempi . . . . . . . . . . . . . . . 19.3.1 Zone di estinzione . . . . . . . . . . . . 19.3.2 Sezioni gradualmente variabili . . . . . . 19.3.3 Carichi applicati lungo l’asse della trave 19.4 Problemi iperstatici . . . . . . . . . . . . . . . . 19.4.1 Il metodo delle forze . . . . . . . . . . . 19.4.2 Metodo degli spostamenti . . . . . . . . 19.5 Problemi proposti . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

575 575 577 582 582 585 587 590 590 594 597

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

20 Trave soggetta a flessione 20.1 L’esperimento della flessione retta . . . . . . . . . . . . . . . . . 20.2 La formula base della flessione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20.3 Considerazioni sulla formula di Navier . . . . . . . . . . . . . . 20.3.1 Verifiche di resistenza in flessione . . . . . . . . . . . . . 20.3.2 Verifiche di rigidezza in flessione . . . . . . . . . . . . . 20.3.3 Sezione di forma ottimale per la flessione . . . . . . . . 20.3.4 Considerazioni generali sulla verifica a flessione di travi 20.4 Analisi della deformazione complessiva di una trave inflessa . . 20.5 Flessione retta e flessione deviata . . . . . . . . . . . . . . . . . 20.5.1 Momento flettente nella direzione principale y . . . . . . 20.5.2 Applicazione di entrambi i momenti flettenti . . . . . . . 20.6 Carico normale eccentrico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20.6.1 Campo tensionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20.6.2 Reciprocit`a e nocciolo centrale d’inerzia . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

601 601 604 608 608 611 615 617 622 624 625 626 633 634 636

21 Trave soggetta a torsione 21.1 Torsione di tubo circolare di piccolo spessore . . . . . . . . . 21.1.1 Definizione della geometria . . . . . . . . . . . . . . . 21.1.2 Deduzione dello stato di tensione . . . . . . . . . . . 21.1.3 Deformazione del tubo sottile in torsione . . . . . . . . 21.1.4 Energia elastica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.2 Trave assialsimmetrica in torsione . . . . . . . . . . . . . . . 21.2.1 Barra cilindrica piena . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.2.2 Tubo cilindrico in torsione . . . . . . . . . . . . . . . . 21.3 Considerazioni sulla torsione di un elemento assialsimmetrico 21.4 Torsione per una sezione generica . . . . . . . . . . . . . . . 21.4.1 Il problema generale della torsione . . . . . . . . . . . 21.4.2 La soluzione per analogia . . . . . . . . . . . . . . . . 21.5 Torsione per una sezione rettangolare . . . . . . . . . . . . . 21.5.1 Soluzione approssimata generale . . . . . . . . . . . . 21.5.2 Casi asintotici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . .

641 641 642 643 649 652 655 655 656 658 661 661 663 665 665 668

xiv

. . . . . . . . . . . . . . .

INDICE

21.6 Torsione di travi riconducibili al caso della sezione rettangolare . . . . 21.6.1 Travi a parte sottile non rettilinea . . . . . . . . . . . . . . . . 21.6.2 Travi composte di parti rettangolari . . . . . . . . . . . . . . . 21.7 Travi tubolari non circolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.7.1 Teoria di Bredt per la resistenza . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.7.2 Stima di Bredt della rigidezza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.8 Applicazioni dell’analogia della membrana alle sezioni in parete sottile 21.8.1 Sezioni tubolari i parete sottile . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.8.2 Sezioni aperte in parete sottile . . . . . . . . . . . . . . . . . . 21.9 Effetti locali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

. . . . . . . . . .

669 669 670 672 673 677 681 681 683 686

22 Trave soggetta a taglio 22.1 La prova di taglio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22.2 La sezione rettangolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22.3 La teoria approssimata del taglio . . . . . . . . . . . . . 22.3.1 Sezione circolare . . . . . . . . . . . . . . . . . . 22.3.2 Sezione circolare tubolare . . . . . . . . . . . . . 22.4 La teoria approssimata del taglio per le sezioni in parete 22.4.1 Taglio per una sezione a doppio T . . . . . . . . 22.4.2 Soluzione semplificata per la sezione a doppio T 22.4.3 Altre sezioni profilate simmetriche . . . . . . . . 22.5 L’effetto deformativo dovuto al taglio . . . . . . . . . . . 22.5.1 Analisi della deformazione dovuta al taglio . . . 22.5.2 Rigidezza a taglio della sezione . . . . . . . . . . 22.5.3 Quantificazione degli effetti deformativi dovuti al 22.6 Comportamento a taglio di sezioni non simmetriche (*)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . sottile . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . taglio . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

693 693 695 701 701 704 706 706 709 711 713 713 716 718 719

23 Verifica di resistenza delle travi 23.1 Procedimento generale di verifica 23.2 Taglio e flessione . . . . . . . . . 23.2.1 Sezioni di forma solida . . 23.2.2 Sezioni a parete sottile . . 23.3 Taglio e Torsione . . . . . . . . . 23.3.1 Sezioni tubolari . . . . . . 23.3.2 Sezioni aperte . . . . . . . 23.4 Flessione e torsione . . . . . . . 23.5 Tutte le caratteristiche . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

725 725 727 727 730 732 732 733 734 735

. . . . . . . . . . .

737 737 738 742 751 757 761 766 768 772 774 778

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

. . . . . . . . .

24 Rigidezza delle travi 24.1 Spostamenti e deformazioni nelle travi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.2 Equazione della linea elastica per spostamenti assiali . . . . . . . . . . 24.3 Equazione della linea elastica per spostamenti trasversali . . . . . . . . 24.4 Altre applicazioni della linea elastica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.5 Il teorema di Castigliano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.6 Applicazioni del teorema di Castigliano . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.7 Generalizzazione del teorema di Castigliano . . . . . . . . . . . . . . . 24.8 L’integrale di Mohr . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.9 L’integrale di Mohr come applicazione del principio dei lavori virtuali . 24.10Il teorema di Betti . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24.11Applicazioni dell’integrale di Mohr e del teorema di Betti . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . .

xv

INDICE

25 Travature iperstatiche 25.1 Generalizzazione del metodo delle forze . . . . . . . . . 25.2 Equazioni di Mu ¨ller-Breslau . . . . . . . . . . . . . . . . 25.3 Calcoli di deformabilit`a per strutture iperstatiche . . . . 25.4 Iperstatiche interne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 25.5 Errori di montaggio, forzamenti e tolleranze geometriche 25.6 Esempi di strutture iperstatiche . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

26 Stabilit` a 26.1 Concetti elementari sulla stabilit` a dell’equilibrio . . . . . . . . 26.1.1 Definizione I: effetto della variazione di configurazione di 26.1.2 Definizione II: effetto di un carico secondario . . . . . . 26.1.3 Definizione III: lavoro fatto dalle forze perturbanti . . . 26.1.4 Definizione IV: bilancio energetico . . . . . . . . . . . . 26.2 Campi di forza non uniformi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26.3 Stabilit`a di sistemi rigidi con vincoli elastici . . . . . . . . . . . 26.3.1 Soluzione con il metodo statico . . . . . . . . . . . . . . 26.3.2 Soluzione con metodo energetico . . . . . . . . . . . . . 26.3.3 Soluzione con modello linearizzato . . . . . . . . . . . . 26.3.4 Considerazioni riassuntive . . . . . . . . . . . . . . . . . 26.4 Stabilit`a di sistemi rigidi con pi` u gradi di libert`a . . . . . . . . 26.5 Il problema di Eulero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26.5.1 Soluzione approssimata con modello discreto . . . . . . 26.5.2 Soluzione con il modello continuo . . . . . . . . . . . . . 26.5.3 Considerazioni sul problema di Eulero . . . . . . . . . . 26.6 Verifiche di stabilit`a . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26.6.1 L’instabilit`a nelle strutture . . . . . . . . . . . . . . . . 26.6.2 La verifica delle travi compresse . . . . . . . . . . . . . 26.6.3 Considerazioni sulla tridimensionalit`a . . . . . . . . . . 26.7 Effetto dei carichi trasversali (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . 26.8 Metodi approssimati per la determinazione del carico critico (*)

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

783 783 784 794 796 800 811

. . . . . . equilibrio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

819 819 821 822 824 824 826 830 831 834 835 836 838 841 842 843 847 853 853 855 856 860 862

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

. . . . . .

IV Appendici A Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali A.1 Sistemi cartesiani ortonormali destrorsi . . . . . . . . . . . . . A.2 Rappresentazione dei vettori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3 Operazioni con i vettori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3.1 Somma algebrica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3.2 Prodotto scalare . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3.3 Prodotto vettoriale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.3.4 Prodotto misto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.4 Versori e coseni direttori . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . A.5 Sistemi di riferimento ruotati: matrice di trasformazione . . . A.6 Propriet`a della matrice di trasformazione . . . . . . . . . . . A.7 Legge di trasformazione dei vettori per rotazione degli assi . . A.8 I tensori e la loro legge di trasformazione . . . . . . . . . . . . A.9 Invarianti e autovalori di un tensore simmetrico a componenti A.10 Coordinate non cartesiane . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

xvi

871 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . reali . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . .

873 873 875 876 876 877 878 879 880 881 882 883 885 887 888

INDICE

A.10.1 Coordinate cilindriche e coordinate curvilinee ortogonali . . . . . . . . . . 888 A.10.2 Coordinate sferiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 891 B Regole pratiche per il calcolo numerico 895 B.1 L’importanza delle valutazioni numeriche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 895 B.2 Precisione, numero di cifre significative e arrotondamenti . . . . . . . . . . . . . . 896 B.3 Scelta della precisione opportuna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 897 C Applicazioni del principio dei lavori virtuali C.1 Il principio dei lavori virtuali . . . . . . . . . . . C.2 Equivalenza del P.L.V. con le equazioni cardinali C.3 Soluzione di problemi di Meccanica con il P.L.V. C.4 Efficacia del P.L.V. . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

. . . .

D Propriet` a geometriche delle sezioni D.1 Definizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.2 Momenti statici e baricentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.2.1 Definizione di momento statico e sue propriet`a . . . . . . . . . . . . D.2.2 Effetto del cambiamento del sistema di riferimento . . . . . . . . . . D.2.3 Definizione di baricentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.3 Propriet`a del baricentro e calcolo del momento statico di figure complesse . D.3.1 Alcune propriet`a del baricentro . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.3.2 Baricentro di figure composte . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.4 Momenti d’inerzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.4.1 Definizioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.4.2 Principali propriet`a dei momenti d’inerzia . . . . . . . . . . . . . . . D.5 Variazione dei momenti d’inerzia per traslazione del sistema di riferimento . D.6 Variazione delle propriet`a d’inerzia per rotazione del sistema di riferimento D.6.1 Formule di rotazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.6.2 Propriet`a tensoriali dei momenti d’inerzia: momenti principali e principali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.6.3 Determinazione delle propriet`a centrali principali d’inerzia . . . . . . D.7 Raggi d’inerzia ed ellisse centrale d’inerzia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.8 Caratteristiche d’inerzia di figure complesse . . . . . . . . . . . . . . . . . . D.9 Propriet`a di alcune figure elementari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . assi . . . . . . . . . . . . . . .

E Propriet` a differenziali di linee e superfici E.1 Definizione e descrizione analitica di una linea . . . . . . . . . . . E.1.1 Linee regolari nello spazio . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.1.2 Versore tangente e retta tangente . . . . . . . . . . . . . . E.2 Approssimazione al secondo ordine delle linee piane . . . . . . . . E.2.1 Cerchio osculatore e curvatura . . . . . . . . . . . . . . . E.2.2 Il calcolo della curvatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.2.3 Calcolo della curvatura con parametrizzazione cartesiana E.2.4 Calcolo approssimato della curvatura . . . . . . . . . . . . E.2.5 La curvatura con segno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.3 Curvatura per una linea nello spazio (*) . . . . . . . . . . . . . . E.4 Superfici regolari . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.4.1 Notazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.4.2 Versore normale e piano tangente alla superficie . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . .

901 901 903 905 909 911 911 913 913 914 915 916 916 919 921 921 922 924 926 926 928 930 933 935 937 941 941 941 942 945 945 946 948 950 951 952 952 952 953

xvii

INDICE

E.5 Approssimazione delle superfici al secondo ordine . . . . . . . . . . . . . . . . . E.5.1 Scostamento della superficie dal piano tangente . . . . . . . . . . . . . . . E.5.2 Curvature normali . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.5.3 Curvatura svergolante o svergolamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.5.4 Il tensore di curvatura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.5.5 Classificazione locale delle superfici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.5.6 Valori esatti delle curvature per superfici con parametrizzazione cartesiana (*) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.6 Superfici di rivoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.6.1 Definizioni generali e sistema di riferimento locale . . . . . . . . . . . . . . E.6.2 Curvature delle superfici di rivoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . E.6.3 Relazioni tra quantit`a angolari e ascisse curvilinee per le superfici di rivoluzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Glossario delle keywords

xviii

955 955 955 957 959 960 961 962 962 963 966 969

Parte I

Statica delle strutture

1

Capitolo 1

La forza Questo capitolo `e dedicato all’esame di una delle grandezze fondamentali della Meccanica: la forza. La forza `e una grandezza ben nota e si suppone che il lettore ritrovi le nozioni apprese nei precedenti studi di Fisica. Questo capitolo ha quindi lo scopo di: • discutere la definizione e la propriet`a fondamentali della forza e di alcune altre grandezze fondamentali associate, • presentare gli strumenti matematici adatti a trattare la forza quantitativamente • attraverso l’esame di esempi elementari cominciare a sviluppare metodi di analisi e di soluzione dei problemi pi` u interessanti che saranno affrontati nel seguito. Se i contenuti dei primi capitoli del testo sembrano elementari, `e opportuno considerare che i fondamenti fisici della disciplina devono essere noti con la massima chiarezza per evitare che i successivi concetti e procedimenti di calcolo, inevitabilmente pi` u complessi, appaiano astratti e poco giustificabili. Al lettore che giustamente vuole entrare quanto prima nell’ambito specifico delle costruzioni meccaniche chiedo quindi di avere un po’ di pazienza e di assecondare il mio tentativo di presentare la disciplina come una particolare branca della fisica pi` u che una applicazione della matematica applicata. Sono sicuro che questo sforzo sar`a ampiamente ripagato con l’acquisizione di competenze di interpretazione e di modellazione che sono professionalmente molto pi` u utili di quelle di analisi o di calcolo. Se il tentativo riesce, anche le capacit`a di analisi e di calcolo saranno acquisite in modo naturale.

1.1 Primo e secondo principio e definizione dinamica di forza La forza (force) `e una delle grandezze fondamentali nella Meccanica classica. Se la forza si associa alla sensazione fisiologica avvertibile quando si cerca di modificare il movimento o la forma di un oggetto, possiamo senza dubbio affermare che l’uomo ne ha acquisito una conoscenza empirica ancora prima di essere considerato homo sapiens. Per la Fisica tuttavia, una grandezza `e tale solo se `e definita in modo operativo ovvero si ottiene alla fine di un procedimento (convenzionalmente definito e universalmente accettato) che produce un valore numerico. La definizione si identifica pertanto con la misurazione della grandezza fisica. In questo senso, per la forza sono state proposte due definizioni operative basate su diversi effetti che la forza produce sui corpi: la definizione dinamica e la definizione statica. Nell’ambito del corso la nozione di operativit`a sar`a pi` u volte richiamata allo scopo di sostanziare il significato fisico delle varie grandezze che saranno introdotte e usate. Purtroppo non sar`a mai praticamente possibile sviluppare effettivamente la procedura sperimentale, anche se ci`o sarebbe molto istruttivo. In molti casi ricorreremo alla descrizione di esperimenti che

3

1. LA FORZA

potrebbero essere effettivamente eseguiti e solo in rari casi dovremo fare riferimento a esperimenti ideali ovvero realizzabili con strumenti e procedure di elevata sofisticazione. In ogni caso, per l’intero corso l’operativit`a si manifester`a in pratica nella possibilit`a di calcolare (almeno) le grandezze di interesse, partendo da altre la cui definizione `e fortemente ancorata all’esperimento e alla misura. Dai corsi di Fisica o di Meccanica Teorica, supponiamo note le grandezze fondamentali di lunghezza (lenght), di tempo (time) assoluto e di massa (mass), assumendo la possibilit`a di eseguire le relative misure con la precisione necessaria, rispettivamente tramite: metri idealmente indeformabili, cronometri e bilance a piattelli. Con le nozioni di lunghezza (o distanza) e di tempo si possono definire le quantit`a cinematiche del moto (traiettoria, velocit`a, accelerazione, legge oraria, ecc. . . ). A stretto rigore, le grandezze cinematiche fondamentali del movimento, ovvero velocit`a e accelerazione, richiedono il riposto concetto matematico di limite (per ∆t → 0) sulla cui operativit`a si potrebbero sollevare vari dubbi, ma che non saranno qui discussi. Consideriamo acquisite anche le nozioni di punto materiale (particle) ovvero del corpo fisico pi` u elementare (su quest’ultimo concetto torneremo peraltro nel seguito) e di osservatore inerziale ovvero solidale alle stelle fisse, oppure in moto traslatorio rettilineo uniforme rispetto a queste. Per i fenomeni trattati nel presente corso, un osservatore solidale con la superficie della Terra pu`o essere considerato inerziale con sufficiente approssimazione. Secondo la Meccanica classica: il moto rettilineo uniforme rappresenta la condizione cinematica naturale per un punto materiale esaminato da un osservatore inerziale come caso particolare il punto materiale pu`o stare fermo. Questo assunto, che si fa risalire a Galileo Galilei (1564-1642), `e noto anche come principio d’inerzia o primo principio della dinamica. Come conseguenza del primo principio, se un osservatore inerziale rileva una modifica nel moto rettilineo uniforme di un punto materiale avente massa m, concluder`a che, in quel preciso istante, qualche agente perturbante sta intervenendo sul punto stesso ed esprimer`a questo fatto affermando che sul punto `e applicata, oppure agisce, una forza. Dato che l’accelerazione ~a `e una misura completa della variazione nel tempo della velocit`a, la forza pu`o essere quindi definita dalla relazione: F~ = m~a (1.1) La relazione (1.1) `e l’espressione simbolica del secondo principio della dinamica ed `e attribuita a Isaac Newton (1643-1727): una forza che agisce su un punto materiale produce su di esso una accelerazione proporzionale alla forza stessa e inversamente proporzionale alla massa del punto. La relazione (1.1) `e a tutti gli effetti una definizione operativa della forza perch´e massa e accelerazione possono essere misurate, la prima con una bilancia a piattelli e la seconda, almeno idealmente, tramite rilievi di spazio e di tempo, e da queste quantit`a la forza pu`o essere calcolata. Pi` u correttamente, la relazione (1.1) `e la definizione dinamica di forza, dato che richiede la misura di propriet`a del moto del punto materiale. Nella soluzione dei problemi di meccanica spesso la relazione (1.1) `e utilizzata in senso inverso rispetto a quanto sopra riportato. Infatti, se la forza agente sul punto `e nota (sulla base di altre considerazioni che vedremo), conoscendo la massa del punto, la relazione (1.1) permette di valutare l’accelerazione e da questa, per integrazione, il moto del punto materiale. Quando la forza esercitata sul punto `e nota in ogni istante, la relazione (1.1) `e quindi da interpretarsi come una equazione differenziale la cui soluzione `e la posizione del punto in funzione del tempo. Dalla definizione dinamica, si deduce che:

4

1.1. PRIMO E SECONDO PRINCIPIO E DEFINIZIONE DINAMICA DI FORZA

• la forza `e una grandezza vettoriale (come l’accelerazione) e pertanto `e rappresentata nel caso generale tridimensionale da tre grandezze scalari indipendenti, solitamente le sue componenti in un sistema cartesiano; • considerando un punto di massa unitaria (1 kg) soggetto a una accelerazione unitaria (1 m/s2 ), la forza su di esso agente ha intensit`a unitaria. L’unit`a di misura della forza nel Sistema Internazionale (SI) `e il newton (N) che rappresenta l’intensit`a della forza necessaria per imprimere accelerazione unitaria (1 m/s2 ) a un punto materiale di massa unitaria (1 kg). Nella tecnica, si incontrano altre unit`a di misura della forza (nel mondo anglosassone per esempio `e ancora usata la libbra (pound) con simbolo lb), tuttavia, nel seguito useremo esclusivamente il newton (o i suoi multipli) in conformit`a alle norme Europee sulle costruzioni meccaniche che prescrivono l’uso del Sistema Internazionale. In alcuni testi o manuali di Ingegneria, in particolare quelli datati, si pu`o trovare anche il kgpeso che pu` o essere presentato come l’unit`a di forza del sistema cos`ı detto tecnico o degli ingegneri. Per vari motivi, di tipo sostanzialmente pratico, si consiglia di evitare queste unit`a, convertendole nel SI (1 kgpeso = 9.81 N, 1 lb = 4.448 N). Una delle forze di cui pi` u comunemente si ha esperienza diretta `e rappresentata dal peso (weight). Il peso di un punto materiale pu`o essere misurato applicando la definizione dinamica di forza. Se lasciamo libero un punto materiale nei pressi della superficie terrestre eliminando tutte le altre forme di disturbo (materializzate da contatti con altri corpi solidi o fluidi), si verifica sperimentalmente che, indipendentemente dalla sua massa e dal suo moto, il punto si muove con un’accelerazione costante e questa, con buona approssimazione, ha sempre la direzione del filo a piombo, punta verso il terreno e la sua intensit`a `e pari a g = 9.81 m/s2 (accelerazione di gravit`a). Da questa osservazione e dalla definizione dinamica, ricaviamo che su un oggetto di massa m posto nei pressi della superficie terrestre agisce sempre una forza avente modulo pari a: P = mg con direzione e verso uguali all’accelerazione di gravit`a. Poich´e si verifica che in uno dato luogo l’accelerazione di gravit`a `e la stessa per tutti i corpi, si conclude che il peso `e proporzionale alla massa. Esempio 1.1: Forze su un paracadutista Un paracadutista avente massa di 80 kg si lancia da un elicottero fermo. Durante i primi istanti della caduta il suo moto risulta uniformemente accelerato verso il suolo con una accelerazione di circa 9.81 m/s2 . Nell’ultima fase del volo, dopo l’apertura del paracadute, la sua velocit`a risulta praticamente costante e pari a 5 m/s. Trascurando il peso del paracadute, quanto valgono le forze agenti sul paracadutista nei due istanti considerati?  Nella prima fase del lancio il paracadutista si muove con una accelerazione diretta verso il basso pari a g, su di esso agisce quindi la sola forza peso che vale in modulo P = 80 · 9.81 = 784.8 N verticale diretta verso il basso. Alla fine del volo, il paracadutista si muove di moto rettilineo uniforme, pertanto considerato come punto materiale, non `e soggetto ad alcuna forza. Analizzando pi` u accuratamente il fenomeno, potremmo affermare che il paracadutista subisce l’effetto combinato di due forze:

5

1. LA FORZA

• il peso, che, se agisse da solo, lo accelererebbe verso il basso • la forza di resistenza aerodinamica dell’aria (esaltata dalla forma del paracadute) che agisce verso l’alto. L’evidenza sperimentale, che mostra la costanza della velocit`a di caduta, permette di affermare che le due forze si compensano esattamente, in quanto il loro effetto complessivo produce una accelerazione nulla. La determinazione delle forze trasmesse dalle varie funi del paracadute oppure dall’imbracatura sulle varie parti anatomiche del paracadutista non pu`o essere effettuata con il modello di punto materiale. L’analisi di questi aspetti richiede di costruire per il paracadutista un modello meccanico pi` u complesso, costituito di parti tra loro connesse, in modo da discriminare le azioni agenti su ognuna di esse. La scomposizione dei sistemi meccanici in parti allo scopo di evidenziare la natura e l’entit`a delle forze agenti, rappresenta lo schema concettuale tipico delle analisi che saranno sviluppate nel corso.

1.2 La natura fisica delle forze e il terzo principio Negli ultimi quattro secoli, osservando i molteplici fenomeni naturali, i fisici hanno identificato gli agenti perturbanti in grado di esercitare forze. Uno dei risultati pi` u significativi di queste analisi consiste nella constatazione che le forze si manifestano sempre come una interazione tra corpi. Inoltre, in tutti gli esperimenti condotti, sono state (finora) individuate solo quattro cause fisiche all’origine delle forze. In altri termini, quando un osservatore inerziale rileva che su un punto materiale agisce una forza, egli deve concludere che tra il punto in esame e qualche altro punto dell’Universo si sta manifestando una (almeno) delle seguenti interazioni: • gravitazionale • elettromagnetica • debole • forte Per esemplificare le fondamentali conseguenze di questo fatto, `e conveniente considerare l’interazione tra due soli punti materiali, che rappresenta la situazione concettualmente pi` u semplice. Purtroppo, per quanto tale fenomeno sia il pi` u facile da analizzare, l’esperimento che lo evidenzia non `e altrettanto facile da eseguirsi a causa della difficolt`a (si dovrebbe dire l’impossibilit`a) di isolare i due punti dalle interazioni con il resto dell’Universo. L’esame di questo caso elementare `e per`o molto istruttivo perch´e, come vedremo, una interazione comunque complessa pu`o sempre essere ricondotta a un insieme di interazioni elementari tra (generalmente molte, talvolta anche infinite) coppie di punti. Anche dal punto di vista semantico, il termine interazione prefigura una influenza reciproca, quindi affermare che due punti interagiscono fisicamente implica che il primo punto esercita una forza sul secondo e il secondo sul primo. Questa conclusione viene formalizzata nel principio di azione e reazione, o terzo principio della dinamica generalmente formulato come segue: a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. Il terzo principio sar`a applicato sistematicamente nelle future analisi e impiegato nella soluzione di tutti i problemi del corso, pertanto la sua comprensione `e basilare. Per illustrare

6

1.2. LA NATURA FISICA DELLE FORZE E IL TERZO PRINCIPIO

il significato e le implicazioni del terzo principio e il modo in cui usarlo efficacemente nell’analisi di situazioni fisiche, nei prossimi paragrafi sono discussi alcuni esempi di interazioni di tipo gravitazionale ed elettromagnetico. Le interazioni debole e forte saranno ignorate perch´e significative solo su scala sub-atomica e quindi prive di effetti diretti sui fenomeni meccanici macroscopici di nostro interesse.

1.2.1 L’interazione gravitazionale e il peso proprio L’interazione gravitazionale `e descritta dalla legge di gravitazione universale, anch’essa dovuta a Isaac Newton. Come illustrato nella figura 1.1, due punti materiali A e B, per il solo fatto di avere massa, esercitano una attrazione reciproca con forze che agiscono lungo la retta AB, ognuna delle forze ha intensit`a proporzionale al prodotto delle masse e inversamente proporzionale al quadrato della distanza AB. L’interpretazione di tale fenomeno alla luce del terzo principio della dinamica in questo caso `e evidente: il punto A attrae a s´e il punto B con una forza che indichiamo con F~AB (forza che A esercita su B) e il corpo B attrae a s´e il corpo A con una forza F~BA .

G A FBA

G FAB

B

Figura 1.1: Interazione gravitazionale tra due punti materiali

L’esame di questo semplice fenomeno permette di fare le seguenti considerazioni che possono essere generalizzate a tutte le interazioni tra coppie di punti materiali, a prescindere dalla natura dell’interazione stessa: • le due forze F~AB e F~BA sono inseparabili (non esiste l’una senza l’altra), ognuna di esse essendo manifestazione della medesima interazione tra i due punti, non ha quindi senso considerare, se non per motivi convenzionali, una delle forze la causa (o l’azione) e l’altra l’effetto (o la reazione) • le due forze hanno la stessa retta d’azione (che passa per i punti interagenti), la stessa intensit`a e verso opposto • ognuna delle forze agisce su un corpo diverso • essendo applicate a corpi diversi, le due forze, per quanto uguali di intensit`a, generalmente producono sui punti effetti diversi (se i punti non hanno la stessa massa subiranno in effetti accelerazioni diverse anche in modulo) • la relazione vettoriale F~AB = −F~BA `e universale quindi non dipende dal moto dei due punti ne dal moto dell’osservatore e dal suo sistema di riferimento (che pu`o anche essere non inerziale). Nei problemi di costruzioni meccaniche, l’interazione gravitazionale si manifesta come peso proprio, forza che, in taluni casi, costituisce un carico non trascurabile per strutture e macchine. Il peso rappresenta la forza con cui la Terra attrae un corpo. La reazione della forza peso (nel senso del terzo principio) consiste nell’attrazione gravitazionale che il corpo esercita sulla Terra, `e quindi una forza applicata alla Terra. Poich´e il nostro studio `e generalmente finalizzato al comportamento del componente di una macchina o di una struttura, siamo naturalmente indotti

7

1. LA FORZA

a considerare il peso come azione e l’effetto sulla Terra come reazione (del quale ci interessa ben poco). Data la differenza delle masse, l’effetto dell’interazione sulla Terra, per esempio in termini di accelerazione, pu`o essere ovviamente trascurato. Tuttavia, un osservatore veramente inerziale, se dotato di strumenti di misura sufficientemente sensibili, descriverebbe la caduta libera di un grave come un avvicinamento reciproco, in cui sia il grave sia la Terra subiscono uno spostamento, per quanto di molti ordini di grandezza diversi. Una caratteristica peculiare delle interazioni gravitazionali `e anche il fatto che non possono essere in alcun modo alterate. La forza con cui due punti si attraggono gravitazionalmente non `e per esempio modificabile dall’interposizione di qualsiasi elemento tra di essi. Non esiste quindi uno schermo per le azioni gravitazionali. Con riferimento alla figura 1.1, si pu`o osservare che la notazione usata per rappresentare le forze di interazione `e piuttosto pesante a causa della presenza dei pedici che identificano i corpi interagenti. Tale notazione `e per`o usata solo in questo capitolo allo scopo di chiarire il terzo principio.

1.2.2 L’interazione elettromagnetica, le forze di contatto e la coesione della materia L’interazione gravitazionale `e dovuta alla propriet`a della materia di avere massa mentre l’interazione elettromagnetica `e connessa alla propriet`a della materia di possedere carica elettrica. Le interazioni elettromagnetiche sono riconducibili alle forze coulombiane, in onore di Charles Augustin de Coulomb (1736-1806), che si manifestano tra cariche ferme (per questo talvolta chiamate forze elettrostatiche), e alle forze elettrodinamiche che si manifestano su cariche in movimento con l’intervento anche di effetti magnetici. Le forze elettromagnetiche sono descritte dalla relazione unificata proposta da Hendric Lorentz (1853-1928). Anche per le interazioni elettromagnetiche tra due (soli) punti materiali vale lo schema generale di figura 1.1 e soono applicabili le relative considerazioni sulle caratteristiche delle forze agenti: le due forze F~AB e F~BA condividono il modulo e la retta d’azione e hanno verso opposto. Ci sono peraltro alcune peculiarit`a che le diversificano le interazioni elettromagnetiche da quelle gravitazionali. in primo luogo, a causa del fatto che le cariche elettriche hanno un segno, l’interazione elettromagnetica pu`o essere attrattiva o repulsiva e pu`o essere anche nulla se almeno uno dei corpi interagenti non ha carica o questa `e uniformemente bilanciata. Le forze elettromagnetiche tra due cariche possono inoltre essere ridotte o anche eliminate interponendo uno schermo opportuno, ovvero adottando la gabbia di Faraday, da Michael Faraday (17711867). Queste caratteristiche hanno un effetto fondamentale sulla stabilit`a degli aggregati di atomi perch´e consentono loro di mantenersi un equilibrio reciproco anche in condizioni di quiete. Si noti che la stessa condizione non `e ottenibile con l’interazione gravitazionale, il sistema solare `e stabile solo in senso dinamico e collasserebbe se i pianeti non girassero attorno al Sole. Di tipo elettromagnetico sono, infatti, le interazioni che determinano il legame chimico tra gli atomi che formano una molecola e le interazioni che mantengono stabile nel tempo la struttura degli aggregati cristallini, ovvero i materiali solidi, anche sotto l’effetto di azioni perturbanti. Le interazioni elettromagnetiche sono quindi alla base delle propriet`a fisiche dei materiali: densit`a, temperatura di fusione, resistenza meccanica, durezza, conducibilit`a termica ed elettrica, ecc. . . . In Meccanica, spesso le interazioni elettromagnetiche producono le forze pi` u intense e quindi le pi` u interessanti per i nostri scopi. In particolare, le forze di contatto sono manifestazioni macroscopiche delle interazioni elettromagnetiche, essendo riconducibili alla mutua repulsione che si manifesta tra gli strati superficiali (nubi elettroniche) di due corpi quando vengono avvicinati in modo notevole (tanto vicini che si considerano in contatto dal punto di vista macroscopico). Forze di contatto molto studiate nel seguito sono quelle che i vincoli esercitano sugli elementi di una struttura.

8

1.2. LA NATURA FISICA DELLE FORZE E IL TERZO PRINCIPIO

Di nostro specifico e fondamentale interesse sono, inoltre, le interazioni elettromagnetiche che si producono all’interno dei corpi quando qualche effetto tende a modificare la posizione naturale degli atomi nel reticolo cristallino. L’esperienza mostra che tali interazioni elettromagnetiche interne possono essere sopportate solo entro certi limiti dal materiale. Se tali limiti sono raggiunti, intervengono infatti modifiche nella struttura del cristallo che possono anche determinare la rottura ovvero l’allontanamento irreversibile tra piani atomici attigui. Sull’efficacia di tali interazioni elettromagnetiche facciamo affidamento quando impieghiamo componenti destinati a essere sollecitati nelle condizioni di esercizio. Lo stato di tensione, che rappresenta il quantificatore macroscopico delle interazioni elettromagnetiche interne della materia, `e forse la grandezze fisica pi` u caratteristica del presente corso e probabilmente la pi` u usata.

1.2.3 Applicazioni del terzo principio In relazione al concetto di forza, vista come manifestazione di una interazione, esaminiamo il seguente esempio elementare che illustra come impiegare il terzo principio per identificare razionalmente le forze agenti. Esempio 1.2: Identificazione delle forze su un punto materiale Una gomma per cancellare avente massa di 15 g `e ferma sul piano orizzontale di un tavolo (figura 1.2). Analizzare le forze agenti, identificarne la natura fisica ed evidenziare le coppie di azione-reazione di terzo principio.

Figura 1.2: Una gomma per cancellare appoggiata sul piano di un tavolo

Schematizziamo la gomma come un punto materiale prescindendo quindi da forma, estensione e struttura. Come conseguenza dell’interazione gravitazionale con la Terra, sulla gomma agisce il peso proprio, rappresentabile come una forza P~ verticale diretta verso il basso e avente intensit`a: P = mg = 0.147 N (vedi figura 1.3). A tale conclusione si perviene immediatamente, in quanto: • la gomma cadrebbe con una accelerazione pari a g se fosse libera • la presenza del tavolo non modifica la forza peso, dato che non esiste uno schermo per le interazioni gravitazionali • il fatto che per noi la gomma abbia velocit`a nulla non influisce sul peso poich´e la forza di gravit`a non dipende dal moto (e quindi dalla velocit`a) dei corpi su cui agisce.

9

1. LA FORZA

La reazione di terzo principio a P~ `e una forza diretta verso la gomma agente sulla Terra e avente intensit`a di 0.147 N. Essa rappresenta la forza di con cui la gomma attrae la Terra.

G P G −P Figura 1.3: Azione e reazione nell’interazione gravitazionale tra gomma e Terra

La gomma `e appoggiata sul tavolo, possiamo pertanto prevedere la presenza di una interazione di contatto. Dal punto di vista fisico tale forza `e di natura elettromagnetica e si spiega dalla repulsione degli strati elettronici della superficie inferiore della gomma e quelli della superficie superiore del tavolo (in corrispondenza della gomma). Indichiamo col simbolo F~T G la forza che il tavolo T esercita sulla gomma G e la reazione di terzo principio F~GT la forza che la gomma esercita sul tavolo. Il terzo principio per questa interazione si scrive come: F~T G = −F~GT (1.2) ed `e illustrato in figura 1.4. A differenza del peso, non possiamo conoscere a priori la forza F~T G . Nel caso in esame, la semplicit` a del problema e le conoscenze precedenti ci consentono peraltro di prevedere che: F~T G = −P~ (1.3) in quanto constatiamo che la gomma `e ferma sul tavolo (la sua accelerazione `e nulla) e non riteniamo che vi siano altre forze significative agenti su di essa.

G FTG G FGT Figura 1.4: Azione e reazione del contatto tra gomma e tavolo. Si noti che i due oggetti devono essere separati per consentire di evidenziare con chiarezza e senza ambiguit` a l’interazione

Con riferimento all’esempio, `e importante osservare il diverso significato che deve essere attribuito alle uguaglianze (1.2) e (1.3). La relazione (1.2) `e la traduzione matematica del terzo principio e quindi vale in qualunque circostanza (in ogni condizione di quiete o di moto del corpo e dell’osservatore), l’uguaglianza (1.3) invece `e conseguenza della osservata condizione di

10

1.2. LA NATURA FISICA DELLE FORZE E IL TERZO PRINCIPIO

quiete della gomma. In una situazione diversa, per esempio se il tavolo non fosse fermo (si pensi allo stesso problema in caso di sisma), l’uguaglianza (1.2) rimane valida mentre l’uguaglianza (1.3) potrebbe non essere soddisfatta. Nella sua semplicit`a, l’esempio precedente `e particolarmente significativo perch´e pu`o essere considerato il modello per la soluzione di ogni problema di statica. Le considerazioni che sono state sviluppate per scrivere le relazioni esistenti tra le varie forze possono infatti essere generalizzate. Alcune delle forze agenti sui corpi risultano note a priori (nel caso in esame: il peso della gomma), altre invece sono a priori incognite (nello specifico la forza esercitata dal tavolo). Una forza nota a priori, quindi che si conosce prima di imporre le equazioni della meccanica del corpo, sar`a chiamata carico (load). Le forze a priori incognite sono generalmente di tipo elettromagnetico e derivano dalla presenza di corpi che impediscono, limitano o contrastano, il libero movimento del corpo in esame. Un elemento o uno strumento che realizza una limitazione al movimento di un corpo `e detto vincolo (constraint) o supporto (support) e la forza che si manifesta per la presenza di un vincolo `e chiamata reazione vincolare (constraint reaction). Il termine reazione usato nella locuzione reazione vincolare pu`o generare confusione con lo ` opportuno considerare che, in corrisponstesso termine reazione usato nel terzo principio. E denza di un vincolo, si manifesta sempre una interazione tra il corpo vincolato e un corpo vincolante, e reazione vincolare `e il nome convenzionalmente attribuito alle forze esercitate dal corpo vincolante sul corpo in esame. Nell’esempio, il corpo vincolante `e il tavolo e la reazione vincolare la forza F~T G esercitata dal tavolo sulla gomma. In virt` u del terzo principio, il corpo ~ esercita sul corpo vincolante una forza uguale e contraria (FGT ). Considerata la situazione, sarebbe forse pi` u appropriato indicare l’effetto del vincolo sul corpo come azione vincolare, ma questo rigore non si riscontra nel linguaggio comune e nella letteratura tecnica e quindi siamo costretti a non applicarlo. Per evidenziare le reazioni vincolari `e necessario rimuovere (idealmente) l’interazione tra il corpo in esame e il corpo vincolante, come fatto nella figura 1.4, sostituendola con la coppia di azione-reazione che, attraverso il vincolo, pu`o essere esercitata. Formano la coppia di azionereazione di terzo principio: la forza che agisce sul corpo in esame e la forza che il corpo esercita sul corpo vincolante. Le seguenti considerazioni hanno lo scopo di esaminare criticamente certe affermazioni che, nella migliore delle ipotesi, sono conseguenza di scarso rigore linguistico (talvolta spiegabile con l’ambiguit`a del termine reazione vincolare) ma che spesso rivelano una non adeguata comprensione del terzo principio. La forza che agisce sul tavolo `e F~GT , non `e corretto dire che sul tavolo agisce la forza peso della gomma. La forza peso della gomma agisce sulla gomma! Possiamo al pi` u affermare che la forza esercitata sul tavolo dipende dal peso della gomma ma pu`o dipendere anche da altro (si consideri cosa succede in caso di sisma). La forza esercitata dal tavolo sulla gomma F~T G non ` e la reazione (di terzo principio) della forza peso della gomma e sono varie le argomentazioni per dimostrarlo: • come osservato, possono verificarsi situazioni in cui P~ e F~T G non sono uguali e contrarie ma ci`o costituirebbe una violazione del terzo principio • forza peso P~ e forza di contatto F~T G agiscono entrambe sulla gomma, mentre azione e reazione di terzo principio devono agire su corpi distinti mutuamente interagenti • azione e reazione sono manifestazioni della medesima interazione e quindi devono avere la stessa natura fisica. Come anticipato, per semplificare la notazione, nei prossimi capitoli, le forze di contatto saranno indicate senza pedici, inoltre entrambe le componenti dell’interazione saranno identificate con il

11

1. LA FORZA

medesimo simbolo (tipicamente una lettera latina maiuscola). Il soddisfacimento del terzo principio sar`a pertanto ottenuto in modo automatico, rappresentando negli schemi le componenti dell’interazione (azione e reazione) con il verso opposto, ognuna applicata su uno dei due corpi interagenti.

1.3 Le forze d’inerzia Con il termine forza d’inerzia o forza apparente (inertia force) si indica una forza che non ha origine fisica, non essendo riconducibile ad alcuna delle quattro interazioni fondamentali o a loro combinazioni. Le forze d’inerzia non esistono infatti per gli osservatori inerziali. In Meccanica, per`o, si impiegano frequentemente osservatori e sistemi di riferimento non inerziali. Per esempio, allo scopo di analizzare il confort nei mezzi di trasporto (automobili, carrozze ferroviarie, navi, aerei, ecc. . . ) `e necessario considerare le sensazioni provate dal passeggero, per cui il sistema di riferimento pi` u naturale con cui effettuare queste valutazioni `e solidale con il mezzo di trasporto. Quando il moto del mezzo di trasporto non `e rettilineo uniforme, per esempio: in frenata, in curva o in presenza di irregolarit`a del percorso, l’osservatore solidale pu`o continuare a utilizzare la relazione (1.1) per descrivere i fenomeni meccanici che osserva (compresi quelli direttamente sperimentati dai suoi sensi) a patto che introduca, oltre alle forze di natura fisica, anche le forze d’inerzia. Possiamo quindi considerare l’introduzione delle forze d’inerzia come un espediente che permette di estendere la relazione fondamentale (1.1), valida solo per gli osservatori inerziali, a un osservatore generico. Confrontiamo come il moto di uno stesso punto materiale P viene analizzato, e quindi descritto in forma matematica, da un osservatore inerziale e da un osservatore non inerziale. Pi` u specificamente, consideriamo due sistemi di riferimento (per comodit`a entrambi cartesiani ortonormali destrorsi), uno solidale all’osservatore inerziale e uno all’osservatore non inerziale. La descrizione cinematica del moto del punto P fatta dai due osservatori `e in generale diversa (in termini di posizione, velocit`a e accelerazione), tuttavia, affinch´e sia garantita l’oggettivit`a fisica, deve esserci una stretta relazione tra i due punti di vista. Come dimostrato nei corsi di Meccanica teorica e applicata, tramite considerazioni di natura geometrico-cinematica, deve in particolare valere la seguente relazione vettoriale: ~a = ~ar + ~at + ~aco

(1.4)

in cui: • ~a, chiamata accelerazione assoluta, `e l’accelerazione di P misurata dall’osservatore inerziale; l’aggettivo assoluta si giustifica considerando che tutti gli osservatori inerziali misurerebbero per P il medesimo valore ~a • ~ar , chiamata accelerazione relativa, rappresenta l’accelerazione misurata dall’osservatore non inerziale che analizza il moto di P (le componenti di ~ar sono ottenibili derivando due volte rispetto al tempo la posizione di P rilevata nel sistema di riferimento non inerziale) • ~at , chiamata accelerazione di trascinamento, misura l’accelerazione assoluta del punto Q del sistema non inerziale che, nell’istante considerato, si sovrappone al punto P (dato che il punto P in genere si muove anche per l’osseratore non inerziale, i punti P e Q hanno diversa accelerazione assoluta) • ~aco ,chiamata accelerazione complementare o accelerazione di Coriolis, da Gaspar Gustave Coriolis (1792-1843), `e ottenibile dalla relazione: ~aco = 2~ ω ∧ ~vr

12

(1.5)

1.3. LE FORZE D’INERZIA

in cui ~vr `e la velocit`a relativa (ovvero la velocit`a di P misurata dall’osservatore non inerziale) e ω ~ `e la velocit`a angolare assoluta posseduta nell’istante considerato dal sistema non inerziale. Si osservi che ω ~ `e comune al sistema di riferimento non inerziale e non dipende dalla posizione di P o dell’osservatore non inerziale. Pu`o essere utile ricordare che l’accelerazione di trascinamento in genere non `e uguale all’accelerazione assoluta dell’osservatore non inerziale. L’uguaglianza tra i due vettori si verifica se i due sistemi di riferimento mantengono fisso l’orientamento relativo dei loro assi, ovvero se ω ~ =0 e quindi se il sistema non inerziale ha un moto traslatorio, anche non rettilineo. Un sistema di riferimento non inerziale con moto solo traslatorio conserva pertanto l’orientamento degli assi rispetto alle stelle fisse. Si deve infine ricordare che la relazione (1.5) `e valida in termini vettoriali, quando `e necessario esplicitarla in componenti bisogna adottare un unico sistema di riferimento che pu`o essere quello assoluto, quello relativo ma anche qualunque altro. In base alla relazione (1.4), il secondo principio della dinamica (1.1) pu`o essere riscritto considerando il punto di vista dell’osservatore non inerziale come: m~ar = F~ − m~at − m~aco relazione interpretabile nel modo seguente: un osservatore non inerziale che esamina il moto di un punto materiale (evidentemente il moto relativo) pu`o avvalersi del secondo principio della dinamica a condizione di aggiungere alle forze agenti che hanno natura fisica F~ le forze apparenti di trascinamento F~t e di Coriolis F~co , rispettivamente definite dalle relazioni: F~t = −m~at F~co = −m~aco La forma generale della seconda legge della dinamica per un osservatore generico diventa quindi: m~ar = F~ + F~t + F~co

(1.6)

Nel seguito, troveremo varie situazioni in cui risulter`a opportuno ricorrere a sistemi di riferimento non inerziali. Tipicamente, nello studio del comportamento strutturale di un elemento di macchina in movimento (albero, biella, manovella, ruota dentata, camma, volano, ecc. . . ), se si considera un sistema di riferimento solidale all’elemento stesso (assunto non deformabile), la velocit`a relativa di ogni suo punto `e necessariamente nulla ~vr = 0 per cui F~co = 0, inoltre, in tali circostanze, anche ~ar = 0 e, quindi un problema di dinamica `e ridotto a un problema di statica con un corpo fermo sul quale agiscono le forze fisiche e le sole forze d’inerzia di trascinamento. ` evidente che in ogni caso, per poter valutare le forze d’inerzia, il moto (assoluto) del sistema E di riferimento non inerziale deve essere completamente noto. ` opportuno osservare che le forze d’inerzia non sono la manifestazione di alcuna interazione E di natura fisica, tuttavia, possono costituire i carichi prevalenti e, di conseguenza, indurre forze fisiche molto intense. Per esempio, nella biella di un veloce motore alternativo le forze d’inerzia sono vari ordini di grandezza superiori al peso proprio e costituiscono il carico prevalente che determina il deterioramento dei cuscinetti di supporto. Se si fa ruotare il disco di una mola a velocit`a eccessiva, le forze apparenti, in questo caso forze centrifughe, possono generare azioni interne di tipo elettromagnetico cos`ı intense da produrre la rottura del materiale (scoppio della mola). Un rotore veloce, come la girante di una turbina ma anche la ruota di un’automobile, deve essere accuratamente bilanciato per minimizzare gli effetti delle forze d’inerzia sui vincoli. Dal punto di vista del terzo principio, la reazione a una forza apparente pu`o essere considerata come una forza applicata al resto dell’Universo (solidale al sistema di riferimento inerziale) il quale, ovviamente, non ne subisce alcun effetto misurabile.

13

1. LA FORZA

Esempio 1.3: Forze d’inerzia Analizzare le forze agenti sul passeggero di un treno (vedi figura 1.5) avente massa di 75 kg, seduto e rivolto nella direzione di marcia, sapendo che l’accelerazione del treno alla partenza `e 1.2 m/s2 .  Schematizziamo il passeggero come un punto materiale e, trascurando la deformabilit`a della poltrona, consideriamo che si muova solidalmente al treno.

G a Senso di marcia Figura 1.5: Condizione di un passeggero solidale al vagone di un treno che sta partendo verso destra

Problema risolto nel sistema di riferimento inerziale Per un osservatore inerziale, per esempio il capostazione fermo sulla pensilina, le forze significative agenti sul passeggero sono (come mostrato in figura 1.6): • la forza peso P~ (si tratta di un carico) • la forza che il treno esercita sul passeggero (l’insieme delle interazioni di contatto con la poltrona e il pavimento) indicata con il simbolo F~T P (forza esercitata dal treno sul passeggero) che `e una reazione vincolare, infatti non `e nota a priori. Applicando l’equazione fondamentale della dinamica (1.1), l’osservatore inerziale scriver`a la relazione: P~ + F~T P = m~a (1.7) nella quale `e tutto noto tranne la forza di contatto che pertanto pu`o essere da questa ricavata. Usando un sistema cartesiano (vedi appendice A), con asse x nella direzione del moto e asse y diretto verso l’alto, la relazione (1.7) pu`o essere scritta in forma matriciale come:       0 X 1.2 + = 75 (1.8) −735.8 Y 0 dove X e Y rappresentano le componenti cartesiane della forza di contatto incognita (valori in N), come mostrato in figura 1.6. Risolvendo il sistema lineare, si ottiene:   90 ~ FT P = N (1.9) 735.8 Concludiamo che, per l’osservatore inerziale, il treno esercita sul passeggero una forza inclinata rispetto alla verticale. La componente verticale di tale forza bilancia il peso

14

1.3. LE FORZE D’INERZIA

(infatti il passeggero non ha alcuna accelerazione in direzione y), mentre la componente orizzontale della forza di contatto `e positiva (infatti il capostazione vede il passeggero muoversi con una accelerazione orizzontale positiva). Si osservi che non sono state usate le forze d’inerzia in quanto non esistono per il capostazione.

G FTP

G FTP Y

y x

G P

X

Figura 1.6: Punto di vista dell’osservatore inerziale: le forze agenti sul passeggero hanno tutte natura fisica, nel loro complesso esse producono l’accelerazione del passeggero

Problema risolto dal punto di vista del passeggero Il passeggero `e un osservatore non inerziale. Ovviamente, egli deve avere questa consapevolezza e deve conoscere il moto del sistema di riferimento a lui solidale rispetto a quello inerziale. Trascurata la deformabilit`a della poltrona, consideriamo il passeggero (e il suo sistema di riferimento) solidale al treno. Data l’evidente non inerzialit`a del suo sistema di riferimento, oltre alle forze fisiche agenti, che sono ancora: • la forza peso P~ • la forza di contatto F~T P il passeggero dovr`a considerare anche le forze d’inerzia. Siccome sta esaminando il suo stesso moto (quindi di un punto costantemente fermo nel sistema di riferimento relativo) la forza di Coriolis `e nulla (~ ω = 0 e ~vr = 0) e la forza d’inerzia `e solo di trascinamento: F~t = −ma~t . L’accelerazione di trascinamento `e, in questo caso, pari alla accelerazione assoluta a~t = ~a. La forza d’inerzia `e quindi diretta nel verso opposto al moto del treno (come illustrato in figura 1.7). Prendendo un sistema di riferimento solidale al treno e, nell’istante considerato, con gli assi coincidenti a quelli precedenti, la relazione (1.6) diventa:         0 0 X +1.2 = + − 75 (1.10) 0 −735.8 Y 0 che `e indistinguibile dalla relazione (1.8). Il passeggero considerer`a quindi agire su di s´e: il peso, una forza (apparente!) che lo spinge verso la coda del treno e una forza di contatto globalmente esercitata dal sedile e dal pavimento. Possiamo concludere che, per quanto i punti di vista siano diversi, le valutazioni dei due osservatori portano a conclusioni coerenti, in particolare entrambi concordano sulla forza di contatto treno-passeggero. Se i due osservatori avessero previsto valori diversi per la forza di contatto (che `e di natura fisica) una misura della stessa avrebbe consentito di verificare chi avesse commesso l’errore.

15

1. LA FORZA

G FTP G − ma y

G P

x

Figura 1.7: Punto di vista di un osservatore sul treno. Il passeggero `e fermo ma il sistema di riferimento non `e inerziale, pertanto, oltre alle forze di natura fisica deve considerare anche le forze d’inerzia

Esempio 1.4: Forze centrifughe L’estremit`a di un filo di lunghezza 50 cm `e fissata a un perno posto sopra un tavolo orizzontale liscio (come rappresentato in figura 1.8). All’altra estremit`a del filo `e collegata una sfera di massa 30 g che viene fatta muovere sul piano alla velocit`a di 18 m/s mantenendo il filo teso. Trascurando la resistenza dell’aria, analizzare le forze agenti sulla sfera nel sistema di riferimento solidale al filo.  Consideriamo un sistema di riferimento solidale al filo (figura 1.8), con l’origine nel perno, l’asse x lungo il filo stesso diretto verso la sfera, e l’asse y verticale verso l’alto. Convertiamo i dati di ingresso in m e kg in modo da ottenere le forze in N. Rispetto al filo, la sfera `e ferma e risente delle seguenti forze fisiche (trascuriamo gli effetti prodotti dall’aria):   0 ~ N , completamente nota (quindi un carico) • il peso proprio: P = −0.294 • la forza di contatto tavolo-sfera F~T S , a priori incognita (reazione vincolare) • la forza di contatto filo-sfera F~F S , a priori incognita (reazione vincolare)

y x

Figura 1.8: Sfera in rotazione attorno a un perno tramite un filo

Rispetto al sistema non inerziale, la sfera `e ferma (~vr = 0) e pertanto l’unica forza apparente risulta quella di trascinamento. Dalla cinematica `e noto che in un moto uniforme con velocit`a periferica v su una traiettoria circolare di raggio R, l’accelerazione `e diretta verso

16

1.4. LA DEFINIZIONE STATICA DI FORZA

il centro di rotazione (accelerazione centripeta) e ha intensit`a pari a v 2 /R. La forza di trascinamento ha pertanto la direzione del filo ed `e diretta verso l’esterno, pertanto `e chiamata forza centrifuga. La forza centrifuga si ottiene quindi con la relazione:   19.44 F~t = N (1.11) 0 Essendo la sfera immobile nel sistema solidale al filo, vale la seguente equazione (dedotta dalla relazione (1.6)):       0 0 19.44 = + F~T S + F~F S + (1.12) 0 0 −0.294

G FFS G P

G FTS G Ft

Figura 1.9: Forze agenti sulla sfera nel sistema del filo

Diversamente dall’esempio precedente, le equazioni che si ottengono dalla (1.12) non sono sufficienti per determinare il valore delle quattro componenti incognite che definiscono le reazioni vincolari. In effetti, non sarebbe difficile determinare le reazioni vincolari considerando altri aspetti del problema: la levigatezza del tavolo e il fatto che il filo `e teso. Rimandiamo queste considerazioni ai capitoli che seguono, dove i procedimenti di soluzione dei problemi di statica saranno diffusamente sviluppati. Al lettore `e lasciato il compito di effettuare l’analisi dal punto di vista dell’osservatore inerziale.

1.4 La definizione statica di forza 1.4.1 Le forze come cause di distorsione dei corpi Oltre che accelerare i punti materiali sui quali sono esercitate, le forze si manifestano anche perch´e alterano, in modo pi` u o meno evidente, la forma dei corpi sui quali agiscono. Per illustrare questo fenomeno, analizziamo il seguente esperimento. Esempio 1.5: Effetto deformativo delle forze Un cilindro di gomma C avente diametro di 50 mm e altezza di 40 mm `e appoggiato sul piano orizzontale di un tavolo T (figura 1.10). Sopra il cilindro viene collocato un blocco di acciaio B avente forma cubica di spigolo 150 mm in modo che, con sufficiente precisione, il centro del blocco passi per l’asse del cilindro e quindi che il blocco, alla fine, raggiunga l’equilibrio senza inclinarsi. Analizzare le forze agenti sui vari elementi.

17

1. LA FORZA

B C

T

Figura 1.10: Blocco di acciaio B in equilibrio su un cilindro di gomma C posto sul piano orizzontale di un tavolo T

Appena appoggiato sul cilindro si osserva una debole oscillazione del blocco la cui ampiezza dipende dalla modalit`a con cui il blocco `e lasciato sul cilindro di gomma. Tale oscillazione si estingue rapidamente e, atteso un tempo sufficiente, tutti i corpi appariranno effettivamente fermi. Per comprendere il comportamento del cilindro di gomma dopo che `e stata raggiunta la condizione di quiete, evidenziamo le forze su di esso agenti. A tale scopo, esaminiamo prima il blocco e successivamente il cilindro. Per analogia con i precedenti esempi, sappiamo che sul blocco agisce il peso proprio P~B e sulla sua faccia inferiore la forza di contatto F~CB derivante dall’interazione elettromagnetica cilindro-blocco che rappresenta una reazione vincolare. Constatato che il blocco ha accelerazione nulla nel sistema inerziale, tale forza di contatto dovr`a, per la seconda legge della dinamica, equilibrare la forza peso del blocco di acciaio, per cui: F~CB = −P~B . Considerando che la densit`a dell’acciaio `e di 7.8 kg/dm3 , si ricava che i moduli comuni di tali forze valgono PB = FCB = 258 N. La reazione (di terzo principio) F~BC alla forza che il cilindro esercita sul blocco, `e esercitata dal blocco sulla faccia superiore del cilindro di gomma ed `e diretta verso il basso. Sul cilindro di gomma agisce anche il peso proprio P~C e sulla faccia inferiore la forza esercitata dal tavolo sul cilindro F~T C che, come di consueto, `e a priori incognita. Essendo la densit`a della gomma 0.97 kg/dm3 , il peso proprio del cilindro risulta solo di PC = 0.747 N e, pertanto, `e una forza molto pi` u piccola della forza di contatto F~CB . Possiamo quindi trascurare l’effetto prodotto dal peso proprio del cilindro sul fenomeno in esame. Diremo che tale carico `e trascurabile e che il comportamento del cilindro `e dominato dalle altre forze su di esso agenti che in questo caso, come spesso accade, sono di contatto.

B

G PB

C

G FCB

G FBC G PC G FTC

Figura 1.11: Forze esercitate sul blocco di acciaio B e sul cilindro di gomma C

18

1.4. LA DEFINIZIONE STATICA DI FORZA

Dalle precedenti considerazioni e dall’immobilit`a del cilindro, possiamo dedurre che: F~T C = −F~BC

(1.13)

e quindi concludere che le forze significative agenti sul cilindro sono rappresentate nella figura 1.12.

G FBC C

G FTC

258 N C 258 N

Figura 1.12: Forze significative esercitate sul cilindro di gomma

Le forze significative agenti sul cilindro dell’esempio precedente sono pertanto le interazioni elettromagnetiche di contatto applicate alle basi. Si osservi che l’intensit`a comune di queste forze `e pari a quella che si otterrebbe nel contatto diretto tra cubo e tavolo. Nella configurazione scelta, `e consuetudine affermare che il cilindro trasmette o trasferisce al tavolo la forza che riceve dal blocco. Si osserva inoltre che tale trasferimento avviene in modo che forza non sia alterata dalla presenza del cilindro. Pu`o essere utile comunque considerare che nulla di materiale `e effettivamente trasmesso o trasferito tra i due corpi separati dal cilindro di gomma ma solo l’interazione. Questa situazione pu`o essere anche descritta affermando che la configurazione consente alla coppia azione-reazione del contatto tavolo-blocco di attraversare i cilindro sollecitandolo in compressione. Questi concetti e questo modo di descriverli pu`o apparire strano, tuttavia saranno ampiamente sviluppati nel seguito del corso, per ora `e opportuno cominciare a identificarli e acquisire il modo corretto di interpretarli e descriverli. Si verifica sperimentalmente che, quando sollecitato in questo modo, il cilindro di gomma cambia forma e dimensioni rispetto alla configurazione di partenza misurata prima dell’esperimento. Pi` u precisamente, si manifesta una riduzione di altezza pari a circa 2.6 mm e un incremento del diametro nella zona centrale pari a circa 1.5 mm. Aumentando l’intensit` a delle forze che sollecitano il cilindro (per esempio disponendo un altro blocco di acciaio sopra il precedente), la distorsione del cilindro aumenta. Avendo a disposizione una serie di pesi, `e possibile tracciare graficamente i punti di una legge empirica che correla l’intensit`a (comune) delle due forze che sollecitano il cilindro e una grandezza geometrica caratteristica della sua variazione di forma. A tale scopo conviene usare una quantit`a facilmente misurabile come, per esempio, l’aumento di diametro della sezione centrale. Usando questa legge empirica nel senso inverso, se necessario con opportune interpolazioni, si potrebbe quindi dedurre l’intensit`a comune delle forze che comprimono il cilindro misurando l’aumento di diametro con un calibro.

1.4.2 La misura della forza Il procedimento di misura dell’intensit`a comune delle forze che sollecitano il cilindro descritto nel punto precedente non `e basato su considerazioni di tipo dinamico (ovvero sul moto di un corpo) ma, come anticipato, sfrutta la caratteristica dei corpi di deformarsi quando sono sottoposti a forze. In linea di principio, essendo una grandezza fisica definita dallo stesso

19

1. LA FORZA

procedimento con cui `e misurata, la forza ottenuta attraverso la distorsione del cilindro, che potremmo chiamare statica, `e a rigore diversa dalla forza definita dalla relazione (1.1) che abbiamo chiamato dinamica. Tuttavia, non sono mai stati osservati fenomeni in cui questa differenza abbia portato a diverse interpretazioni o a contraddizioni. Pertanto, si ammette che produrre accelerazioni su punti materiali e alterare la forma dei corpi siano manifestazioni diverse di una stessa grandezza fisica: la forza. Essendo per`o molto pi` u agevole dal punto di vista sperimentale eseguire misure di distorsione piuttosto che misure di accelerazione, nella maggioranza dei casi pratici, le forze si ottengono sfruttando la definizione statica. A tale scopo si costruiscono i dinamometri, che sono strumenti dei quali il cilindro di gomma descritto nell’esempio precedente rappresenta una grossolana applicazione. Infatti, il cilindro di gomma ha caratteristiche (forma, propriet`a fisiche del materiale e modalit`a di rilevazione delle distorsioni) che non garantiscono una misura della forza che lo sollecita precisa e ripetibile. Come si vedr`a nel seguito, esistono materiali e forme molto pi` u adatte per realizzare dinamometri con caratteristiche metrologiche soddisfacenti. In particolare, `e possibile ottenere un’ottima proporzionalit`a diretta nella legge empirica che correla la variazione di forma rilevabile e la forza sollecitante. La relazione di proporzionalit`a `e infatti solo grossolanamente realizzata nel caso del cilindro di gomma. Lo schema del dinamometro, e il suo simbolo grafico, `e rappresentato da una molla a elica avente massa trascurabile che si allunga o si contrae in misura direttamente proporzionale all’intensit`a comune delle due forze (sempre uguali e contrarie) che la sollecitano. Se si escludono applicazioni didattiche, a causa del notevole ingombro, anche i dinamometri con la forma di una molla a elica si usano raramente. Nella pratica a questo scopo `e impiegata una cella di carico (load cell), un oggetto avente forma e dimensioni pi` u adatte all’impiego e che fornisce un segnale elettrico proporzionale alla sua variazione di forma. In ogni caso, il principio fisico che sfrutta la deformabilit`a dei corpi indotta dalle forze `e alla base del funzionamento delle celle di carico come del cilindro di gomma e dei dinamometri a molla elicoidale. Nel seguito, per chiarire il comportamento meccanico delle strutture sotto l’azione di forze, potremmo sfruttare la disponibilit`a di un dinamometro ideale, avente dimensioni e massa trascurabili, che potremo interporre tra qualunque coppia di punti, con l’orientamento voluto. Il dinamometro ideale quindi `e uno strumento perfetto che non modifica la configurazione geometrica del fenomeno, permette la trasmissione delle interazioni di contatto senza modificarle e fornisce una lettura fedele della componente della forza che lo attraversa nella direzione dell’asse della sua molla ideale. Esercizio 1.1: Caratteristiche delle forze Per valutare la nostra massa generalmente usiamo una bilancia pesa-persone che `e in effetti un dinamometro. Sulla base delle considerazioni svolte, verificare la correttezza delle affermazioni o rispondere ai quesiti di seguito riportati. a) La bilancia non misura la nostra massa e nemmeno il nostro peso, ma l’intensit`a della forza di contatto tra la pianta dei piedi e il pavimento. b) Il valore della nostra massa `e ricavata in modo indiretto dalla misura effettuata con la bilancia, anche se la scala di lettura `e tarata in kg per indicare direttamente la massa. c) La misura della massa che deriviamo dalla bilancia `e scorretta se non stiamo fermi sulla bilancia. d) Se saltiamo sulla bilancia, la lancetta raggiunge un livello maggiore del valore che segna

20

1.5. LE FORZE COME VETTORI

quando stiamo fermi. Come giustificare quantitativamente questo momentaneo picco nella misura? e) Cosa misurerebbe la bilancia se ci pesassimo stando correttamente fermi sulla bilancia ma all’interno di un ascensore che accelera verso l’alto con una accelerazione di 0.2 · g? f) Anche se la bilancia `e tarata in kg, cosa indicherebbe se ci pesassimo sull’Everest? E se la bilancia fosse stata usata da Neil Armstrong sulla Luna? E se avesse voluto usarla mentre era in orbita libera attorno alla Terra? g) Si considerino gli esperimenti condotti sull’aereo dell’ESA per simulare le condizioni degli astronauti. Comunemente si dice che in caduta libera, anche nei pressi della Terra, si `e in assenza di gravit`a o, pi` u correttamente, in condizioni di microgravit`a. Possiamo a rigore affermare che il peso viene annullato (o comunque ridotto) in tali condizioni?

1.5 Le forze come vettori 1.5.1 La natura vettoriale della forza Dalla definizione dinamica (equazione (1.1)) abbiamo ricavato che la forza, essendo il prodotto di uno scalare per un vettore, `e una grandezza vettoriale. Le caratteristiche vettoriali si evincono per`o anche dalla sua definizione statica. Infatti l’esperienza dimostra che la risposta di un dinamometro ideale dipende: • da quanto `e intensa l’interazione (modulo) • dall’orientamento dell’asse della molla (direzione) e • dal fatto che la molla si estenda o si contragga (verso). ` utile pertanto osservare che, se l’interazione di contatto tra due corpi non `e nota, per misurarla E dovranno essere impiegati (almeno) tre dinamometri, disposti con assi le cui direzioni non siano linearmente dipendenti. In questo modo si ottengono le componenti della forza nelle tre direzioni. Nel caso in cui gli assi dei dinamometri siano a due a due ortogonali, tale misura fornir`a direttamente le componenti cartesiane della forza (riferite a un sistema con assi paralleli agli assi dei dinamometri). Esempio 1.6: Misura di una forza con dinamometri Un blocco di acciaio di 30 kg `e posto su una superficie orizzontale scabra. Nel tentativo di muoverlo viene esercitata manualmente una spinta S in direzione orizzontale. Sapendo che applicando S = 20 N il blocco non slitta, determinare in tali condizioni la forza di contatto blocco-piano e proporre un metodo per misurarla disponendo di dinamometri ideali.  Si consideri un sistema di riferimento cartesiano, con l’asse y normale alla superficie verso l’alto e l’asse x orizzontale equiverso con la spinta (come in figura 1.13). In queste condizioni le forze e il moto sono rappresentabili con vettori giacenti nel piano x − y e il problema `e ricondotto a due dimensioni (problema piano). Indicando con S = 20 N

21

1. LA FORZA

l’intensit`a della spinta, con P = 294.3 N il peso e con X e Y le componenti della forza di contatto esercitata dal piano sul blocco (F~P B = X · ˆi + Y · ˆj), dalla equazione (1.1) si ottiene (valori in N):         20 0 X 0 + + = (1.14) 0 294.3 Y 0 dalla quale si ricava il valore dell’interazione superficie-blocco: X = −20 N e Y = −294.3 N. Per misurare l’interazione superficie-blocco, un solo dinamometro non `e sufficiente. Il sistema di misura deve infatti fornire due quantit`a scalari. Come schematizzato in figura 1.13, possiamo ricorrere a due dinamometri disposti in serie (uno attaccato all’altro) ma orientati in modo diverso, per esempio il primo Dx con l’asse della molla orizzontale e il secondo Dy con l’asse verticale.

y

G P x Dx

G S Dy

Figura 1.13: Misura di una generica forza di contatto su una superficie scabra con due dinamometri ideali

L’entit`a delle distorsioni dei dinamometri Dx e Dy forniranno rispettivamente le intensit`a delle componenti X e Y , inoltre, dal tipo delle distorsioni (le molle sono compresse nello schema rappresentato), si potranno ricavare i segni delle forze di contatto agenti sul blocco. Si pu`o inoltre osservare che la scelta di orientare i dinamometri nella direzione degli assi x e y, per quanto appaia naturale e sia in questo caso conveniente, non `e necessaria. Scegliendo per gli assi dei dinamometri altre direzioni tra loro ortogonali sarebbero state misurate le componenti della forza di contatto in un sistema cartesiano ruotato. Questo risultato pu`o essere ulteriormente generalizzato: nel caso piano, `e possibile scegliere per gli assi delle molle due direzioni qualsiasi (a condizione che siano tra loro distinte e appartenenti al piano), ottenendo le componenti del vettore forza di contatto nelle due direzioni. La conoscenza di tali quantit`a scalari, unita alla conoscenza delle direzioni delle molle, `e condizione necessaria e sufficiente per ottenere il vettore forza di contatto in qualsiasi sistema di riferimento. Nel caso di un problema nello spazio, la misura di una forza completamente incognita impone l’uso di tre dinamometri i cui assi non siano complanari.

1.5.2 La rappresentazione matematica delle forze Le forze, in quanto grandezze vettoriali, possono essere rappresentate in forma geometrica come segmenti orientati (o frecce) oppure in forma algebrica come collezione ordinata di quantit`a scalari. Con la rappresentazione geometrica `e possibile risolvere problemi di Meccanica tramite procedimenti grafici che possono essere molto espressivi e didatticamente efficaci ma

22

1.5. LE FORZE COME VETTORI

G F1

G F2

G F

Figura 1.14: Composizione di due forze in una che produce gli stessi effetti

risultano applicabili di fatto solo ai casi bidimensionali. Per risolvere problemi tridimensionali i procedimenti grafici diventano alquanto complessi e perdono la loro prerogativa legata all’immediatezza dell’interpretazione. Il procedimento di soluzione algebrico, essendo di fatto indipendente dalle dimensioni del problema, non presenta queste limitazioni e sar`a preferito nel corso. Per trattare le forze, e pi` u in generale le grandezze vettoriali, con i procedimenti algebrici `e necessario introdurre un sistema di riferimento che permette di esprimere il vettore mediante un insieme ordinato di quantit`a scalari su cui eseguire le operazioni matematiche. Ognuna di tali grandezze scalari `e chiamata componente (component) del vettore nel sistema scelto. Nel corso si far`a riferimento in modo quasi esclusivo a sistemi cartesiani ortogonali destrorsi e a questi riconducibili. Tali sistemi e il loro uso nella rappresentazione dei vettori e delle loro operazioni sono trattati nell’appendice A. Alcune semplici regole generali che derivano dalla natura vettoriale delle forze possono essere verificate sperimentalmente utilizzando, secondo i casi, sia la definizione dinamica sia la definizione statica. Consideriamo un punto materiale sul quale agiscono due forze F~1 e F~2 , `e lecito chiedersi se esista una singola forza F~ tale che applicata al punto produca il medesimo effetto (lo stesso moto o la stessa distorsione). Sappiamo che la risposta a tale fondamentale domanda `e positiva e anche che, sempre per evidenza sperimentale, la forza richiesta F~ si ottiene componendo F~1 e F~2 con la regola del parallelogramma, come mostrato in figura 1.14. L’effetto combinato di due forze agenti su un punto materiale `e quindi equivalente a quello prodotto sul punto dalla loro somma vettoriale: F~ = F~1 + F~2 . ` utile ricordare (vedi appendice A) che sommare due vettori secondo la regola del paralE lelogramma equivale a effettuare la somma delle componenti omonime di due vettori espresse nello stesso sistema di riferimento. Infatti, rappresentando i vettori in forma di componenti, il risultato della somma `e il seguente: F~ = Fxˆi + Fy ˆj + Fz kˆ = F1xˆi + F1y ˆj + F1z kˆ + F2xˆi + F2y ˆj + F2z kˆ = = (F1x + F2x ) ˆi + (F1y + F2y ) ˆj + (F1z + F2z ) kˆ

(1.15)

Per operare algebricamente con un vettore la rappresentazione matriciale `e spesso pi` u conveˆ ˆ ˆ niente rispetto all’uso dei versori i, j e k. Un vettore sar`a quindi generalmente considerato una matrice colonna con tante righe quante sono le dimensioni: 2 per problemi piani, 3 per problemi nello spazio. La somma di due forze pu`o infatti essere effettuata anche come somma matriciale:       F1x F2x F1x + F2x F~ =  F1y  +  F2y  =  F1y + F2y  (1.16) F2z F1z + F2z F1z

23

1. LA FORZA

1.5.3 Lavoro e lavoro virtuale Oltre alla somma, sono definite varie altre operazioni tra vettori che saranno introdotte nel corso quando si renderanno necessarie. Una grandezza fisica fondamentale connessa alla forza e molto utile in Meccanica `e il lavoro (work) fatto da una forza. Quando il punto materiale su cui agisce una forza per un osservatore si sposta, generalmente, sempre per l’osservatore in esame, la forza compie un lavoro. Consideriamo per primo il caso pi` u semplice in cui: • il moto del punto sia rettilineo definito da un vettore spostamento ~s (il vettore spostamento `e il segmento orientato con coda nella posizione di partenza e punta nella posizione di arrivo del punto che si muove) • la forza non modifichi la sua intensit`a durante il moto del punto • il vettore forza si mantenga parallelo ed equiverso durante lo spostamento del punto, il lavoro compiuto dalla forza `e definito dal prodotto scalare: L = F~ · ~s

(1.17)

Si ricordi che lo spostamento del punto non `e in genere conseguenza dall’effetto prodotto sul moto dalla sola forza di cui si sta calcolando il lavoro. Il lavoro `e una grandezza scalare. La sua misura nel SI `e, in onore di James Prescott Joule (1818-1889), il joule (J) unit`a che rappresenta il lavoro compiuto da una forza costante di 1 N che agisce su un punto quando questo si sposta di 1 m nella direzione e nel verso della forza. Se le forze si misurano in N e gli spostamenti in mm, l’unit`a di lunghezza convenzionale del disegno meccanico, il lavoro risulter`a espresso in N · mm ovvero in mJ (millijoule = 10−3 J). Dalle propriet`a del prodotto scalare (vedi appendice A) si ricava che, nelle condizioni in cui vale la relazione (1.17), il lavoro fatto dalla forza `e: • positivo se l’angolo tra i vettori F~ e ~s `e minore di 90◦ • nullo se F~ e ~s sono perpendicolari • negativo se l’angolo tra i vettori F~ e ~s `e maggiore di 90◦ . Questa definizione elementare si applica al lavoro fatto dalla forza peso per spostamenti rettilinei. Generalmente, tuttavia, quando il punto si sposta, le forze su di esso agenti variano. Inoltre, la traiettoria del punto pu`o essere non rettilinea. In questi casi la definizione (e quindi il calcolo) del lavoro si complica. Il procedimento generale consiste infatti nel dividere la traiettoria del punto in tratti sufficientemente piccoli in modo che: • i singoli tratti di traiettoria possano essere considerati rettilinei • le caratteristiche della forza agente non muti significativamente quando il punto si sposta nell’ambito del singolo tratto. La suddivisione della traiettoria in piccoli tratti permette di valutare i lavori effettuati dalla forza in ognuno di essi usando la relazione (1.17), successivamente tali contributi parziali sono sommati algebricamente (col loro segno). Si osservi che tale procedimento `e coerente con la definizione di lavoro del caso elementare nel quale la traiettoria del punto pu`o essere scomposta come si vuole in parti e il risultato della somma non cambia. Il procedimento descritto, portato

24

1.5. LE FORZE COME VETTORI

al limite su tratti infinitesimi di traiettoria, per l’Analisi Matematica rappresenta un integrale di linea: Z L= F~ · d~s (1.18) Γ

in cui Γ `e la traiettoria percorsa dal punto P sul quale agisce la forza F~ e d~s un tratto infinitesimo di Γ. In termini operativi, supponiamo che Γ sia una curva regolare compresa tra i punti A e B, come descritto nell’appendice E, essa pu`o essere rappresentata per mezzo di una funzione, che assumiamo sufficientemente regolare, di un parametro scalare λ, con λA 6 λ 6 λB e A = OP (λA ) e B = OP (λB ):   xP (λ) OP =  yP (λ)  (1.19) zP (λ) Nel caso, in effetti piuttosto frequente, in cui la forza dipenda solo dalla posizione del punto P (e quindi solo da λ), la relazione (1.18) si trasforma nel seguente integrale semplice (di R1 ): ZλB L=

dxP (λ) dyP (λ) dzP (λ) Fx (λ) + Fy (λ) + Fz (λ) dλ dλ dλ

 dλ

(1.20)

λA

Per calcolare il lavoro globalmente compiuto da pi` u forze agenti sullo stesso punto materiale, `e indifferente effettuare prima la somma vettoriale delle forze e calcolarne il lavoro, oppure calcolare separatamente i lavori fatti dalle single forze e effettuarne la somma algebrica. Dal punto di vista formale tale uguaglianza `e una conseguenza della propriet`a distributiva del prodotto scalare rispetto alla somma vettoriale. Se su un punto materiale di massa m la forza complessiva agente compie lavoro, l’effetto si manifesta con una variazione dell’energia cinetica del punto che, com’`e noto, `e espressa dalla relazione: K = 1/2mv 2 . In simboli si ha infatti: L = ∆K

(1.21)

relazione nota come teorema delle forze vive o teorema dell’energia cinetica. Pertanto, un lavoro positivo aumenta l’energia cinetica mentre per ridurre l’energia cinetica `e necessario che le forze agenti facciano lavoro negativo. La validit`a del teorema delle forze vive `e del tutto generale e non dipenda dalla natura delle forze agenti. Quando le forze agenti su un punto sono funzioni della sola posizione, si dice talvolta che il punto si muove in un campo di forze. Le forze F~ di un campo sono dette conservative se il lavoro che fanno quando il punto descrive una traiettoria chiusa qualunque (A ≡ B) `e nullo. Da questa definizione se ne ricava un’altra del tutto equivalente: il lavoro fatto dalle forze conservative nello spostamento di un punto da una posizione A a una posizione B non dipende dal percorso ma solo dalle posizioni A e B. Il calcolo del lavoro fatto da forze conservative pu`o essere notevolmente semplificato introducendo una opportuna funzione scalare, chiamata energia potenziale, che dipende solo dalle posizioni iniziale e finale A e B della traiettoria. Per ottenere l’energia potenziale si assume una generica posizione di partenza C (che convenzionalmente `e considerata a energia potenziale nulla) e si associa a ogni punto A dello spazio uno scalare dato dall’opposto del lavoro che le forze del campo fnno quando il punto si sposta da C ad A. In termini operativi, si considera una traiettoria Γ = OP (λ) che congiunge il punto di partenza C di coordinate OP (λC ) e il punto A di coordinate OP (λA ) e si calcola la seguente espressione: ZλA UA = −

dxP (λ) dyP (λ) dzP (λ) Fx (λ) + Fy (λ) + Fz (λ) dλ dλ dλ

 dλ

(1.22)

λC

25

1. LA FORZA

Se confrontiamo le espressioni (1.20) e (1.22), l’introduzione dell’energia potenziale non sembra produrre alcuna semplificazione pratica. In realt`a `e opportuno considerare che per le forze conservative `e possibile scegliere a piacimento la traiettoria Γ e ci`o pu`o rendere molto agevole l’integrazione, inoltre, dato lo specifico campo di forze, l’integrale pu`o essere calcolato una volta per tutte e, quindi, per molte situazioni di pratico interesse (forze gravitazionali, elettrostatiche, elastiche, ecc. . . ) il risultato `e gi`a disponibile. Nota l’espressione dell’energia potenziale, il lavoro fatto da una forza conservativa quando il punto si sposta da A a B si ottiene immediatamente come differenza tra il valore iniziale e il valore finale (attenzione all’ordine!) dell’energia potenziale: L = UA − UB = −∆U (1.23) Si pu`o osservare che il lavoro fatto dalle forze del campo `e ottenuto sempre come variazione di energia potenziale per cui la scelta della posizione C da cui `e stata definita la quantit`a U risulta ininfluente. Una modifica del punto C produce infatti l’effetto di sommare una costante a tutti i valori di energia potenziale del campo. Nei casi in cui la forza agente sul punto sia conservativa, dalle reazioni (1.21) e (1.23) si ricava: − ∆U = ∆K (1.24) che si pu`o scrivere anche come: ∆(U + K) = 0

(1.25)

La relazione (1.25) esprime la circostanza che sotto l’azione di sole forze conservative la somma dell’energia cinetica e potenziale di un punto non varia nel suo moto. La quantit`a K + U `e chiamata energia meccanica del punto e la relazione (1.25) `e nota come principio di conservazione dell’energia meccanica. Nel caso in cui la forza agente sia non conservativa `e necessario introdurre altri termini nel bilancio energetico (che includono fenomeni non prettamente meccanici, in particolare il calore scambiato o l’energia termica) in modo che la relazione (1.25) possa essere estesa nel pi` u generale principio di conservazione dell’energia totale o primo principio della Termodinamica. In alcuni problemi di Meccanica `e talvolta utile considerare piccoli movimenti o piccole variazioni di configurazione. Lo spostamento di un punto materiale tale per cui le forze agenti conservano l’intensit`a e rimangono parallele ed equiverse, `e detto spostamento virtuale (virtual displacement) e, comunemente, si rappresenta con il prefisso δ (delta minuscola). Il lavoro virtuale (virtual work), che rappresenta il lavoro compiuto da una forza quando il punto su cui `e applicata subisce uno spostamento virtuale, vale quindi per definizione: δL = F~ · δ~s

(1.26)

Solitamente, anche se non necessariamente, per essere virtuale uno spostamento deve essere infinitesimo per cui: δ~s = d~s. Il lavoro compiuto da una forza costante nell’unit`a di tempo `e numericamente pari alla potenza (power). La potenza istantanea W prodotta da una forza F~ che agisce su un punto che si muove con velocit`a istantanea ~v `e data dal prodotto scalare: W = F~ · ~v

(1.27)

Nel SI la potenza si esprime in watt W (1 W = 1 J/1 s), in onore di James Watt (1736-1819). Analogamente al lavoro, dall’uso del newton come unit`a di forza e del mm come unit`a di lunghezza consegue che la potenza sia espressa in mW = 10−3 W.

26

1.5. LE FORZE COME VETTORI

Esercizio 1.2: Lavoro e potenza Un anello di massa 20 g viene lasciato fermo all’estremo superiore di una guida elicoidale che si avvolge attorno a un asse verticale e ha raggio 50 cm, passo 20 cm ed `e alta complessivamente 40 cm. Verificare che: a) il lavoro complessivamente fatto dalla forza peso quando il punto giunge all’estremo inferiore vale: 0.0785 J b) in assenza di attrito, la velocit`a di arrivo vale: 2801 mm/s c) in assenza di attrito, la potenza sviluppata dal peso nel momento dell’arrivo vale: 0.035 W. d) Determinare inoltre a quale altezza rispetto al piano inferiore si trova l’anello quando la sua velocit`a `e met`a del valore finale.

Esercizio 1.3: Lavoro di una forza elastica Una sfera di massa 60 g posta su un piano orizzontale liscio `e collegata all’estremo libero di una molla ideale di costante elastica k = 5.5 N/mm che ha l’altro estremo fisso. Dato che per ogni posizione in cui si trova la massa `e possibile determinare la forza che la molla esercita, `e stato realizzato un campo di forze. Si tratta in effetti di un semplice campo elastico. Considerando per semplicit`a che la sfera possa spostarsi solo lungo l’asse della molla, indicata con s l’estensione della molla (quantit`a positiva quando la molla `e allungata), verificare le seguenti affermazioni a) il lavoro fatto dalla forza esercitata dalla molla sulla sfera quando questa `e portata dalla posizione di molla a riposo a una posizione generica s vale −1/2ks2 b) il segno meno precedentemente ottenuto `e valido sia per l’estensione sia per la contrazione della molla c) se l’estensione della molla `e prodotta da una forza esterna applicata alla sfera che istante per istante equilibra la forza della molla, il lavoro fatto dalla forza esterna `e 1/2ks2 d) se la sfera viene lasciata (ferma) in una posizione in cui la molla `e estesa di 4 mm, la massima velocit`a che essa pu`o raggiungere `e 1.211 m/s e) nel caso precedente, i moduli della massima forza che agisce sulla sfera e della sua massima accelerazione valgono rispettivamente 22 N e 367 m/s2 (pari a 37.4 · g).

27

Capitolo 2

Statica del punto materiale In questo capitolo sono discusse le applicazioni del secondo principio della dinamica nel caso in cui il punto materiale `e fermo. La parte della Meccanica che studia le condizioni per cui si verifica uno stato di quiete, o equilibrio, `e chiamata Statica. I risultati e i metodi presentati in questo capitolo sono sviluppati per studiare l’equilibrio statico di corpi aventi caratteristiche riconducibili a punti materiali. Nel paragrafo 2.1 `e discusso il punto materiale inteso come il modello pi` u semplice di corpo fisico utilizzato nel corso. Il paragrafo 2.2 descrive e interpreta un esperimento ideale nel quale viene realizzato uno stato di quiete per un punto materiale. Le conseguenti condizioni di equilibrio sono ottenute come evidenza sperimentale. Il paragrafo 2.3 illustra un procedimento generale adatto per risolvere i problemi di statica del punto materiale che pu`o essere generalizzato allo studio di un ben pi` u ampio insieme di corpi fisici. Il paragrafo 2.4 sviluppa l’applicazione del procedimento generale alla soluzione di problemi di statica nel piano in cui la configurazione di equilibrio `e definita nei dati di ingresso. Nel paragrafo 2.5 `e analizzato il caso in cui la configurazione di equilibrio non `e nota a priori ma deve essere ricavata dalla condizione di equilibrio. Nell’ultimo paragrafo sono affrontati alcuni problemi di statica del punto materiale nello spazio.

2.1 Il punto materiale come modello di corpo Uno degli obiettivi principali del corso consiste nello sviluppo di metodi adatti a prevedere se gli elementi che compongono macchine e strutture sono in grado di sopportare, senza danneggiarsi o distorcersi eccessivamente, le sollecitazioni a cui sono sottoposti nel funzionamento. Nella pratica, per effettuare questo tipo di verifica si pu`o seguire la via sperimentale, realizzando un prototipo ed eseguendo opportune misure. Il procedimento sperimentale, per quanto in molti casi auspicabile e talvolta necessario, `e peraltro inapplicabile in modo sistematico per evidenti motivi di costo e di tempo. Inoltre, gli stessi esperimenti spesso sono di non immediata interpretazione e richiedono specifiche analisi per essere compresi in modo che i risultati siano ` pertanto necessario sviluppare modelli matematici che consentano proficuamente impiegati. E di prevedere sulla carta, o nel computer, il comportamento del componente di macchina in esercizio o nelle prove. Per il corso, un modello `e un oggetto, oppure un procedimento, di tipo matematico in grado di rappresentare alcuni aspetti del fenomeno fisico in esame allo scopo di consentire la previsione del valore di una, o pi` u, grandezze in assenza della misura diretta o a prescindere da ` opportuno chiarire che per uno stesso fenomeno pu`o essere lecito, e talvolta anche questa. E opportuno, sviluppare modelli diversi. Possono esistere, infatti, modelli pi` u o meno accurati, e modelli diversi possono essere sviluppati per descrivere uno stesso fenomeno allo scopo di

29

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

evidenziarne alcuni aspetti piuttosto di altri. Le caratteristiche che un modello deve possedere per essere considerato valido sono riassunte nei punti seguenti: 1. coerenza con le leggi della Fisica: devono essere rispettati (almeno entro limiti ragionevoli di approssimazione) i principi fondamentali come per esempio la conservazione della massa e dell’energia, e le grandezze devono essere utilizzate coerentemente dal punto di vista dimensionale e delle unit`a di misura 2. coerenza formale: il modello deve essere sviluppato in modo corretto nell’elaborazione delle relazioni matematiche, nella valutazione delle propriet`a geometriche, ecc. . . 3. semplicit` a: il modello deve richiedere il minimo numero di ipotesi, di parametri e di dati in ingresso 4. efficacia: il modello deve essere finalizzato all’ottenimento dello scopo prefissato con la precisione opportuna (un eccesso di precisione non `e indice di qualit`a) 5. efficienza: il risultato dovrebbe essere ottenuto nel modo pi` u diretto possibile con l’impiego delle minime risorse di calcolo. Un modello `e valido quando porta a previsioni utili sul fenomeno in esame, fatte salve le caratteristiche di coerenza, la validit`a di un modello pu`o essere verificata soltanto a posteriori. La capacit`a di realizzare modelli validi non si raggiunge facilmente e non sono disponibili regole generali di comportamento. Si tratta di una abilit`a di tipo complesso che si apprende con la pratica, sfruttando il buon senso, la cultura tecnica, l’esperienza nella soluzione di problemi simili, le capacit`a induttive e spesso anche la fantasia. Per sviluppare questo tipo di abilit`a, che contraddistingue nella sostanza un buon tecnico, `e utile ricordare l’aforisma del grande matematico John Von Neumann (1903-1957), uno dei padri dell’informatica: la matematica non si capisce alla matematica ci si abitua. Lo stesso principio vale anche per le scienze fisiche e, ancor di pi` u, per le discipline tecniche: non c’`e modo migliore di imparare che quello di usare i concetti per risolvere problemi. Il punto materiale (particle) rappresenta un ottimo esempio di modello meccanico e, nella sua essenzialit`a, permette di effettuare previsioni di tipo quantitativo anche di fenomeni non banali. Il punto materiale `e infatti il pi` u semplice modello meccanico per un corpo fisico in quanto ne considera solo la posizione nello spazio e la ineliminabile caratteristica inerziale (la massa). La definizione assiomatica `e la seguente: un punto materiale `e un punto geometrico, pertanto privo di dimensioni, avente massa costante. Come tutte le definizioni assiomatiche, anche questa si presenta poco operativa e evidenzia varie difficolt`a di applicazione. In effetti, nessun oggetto del mondo macroscopico potrebbe essere a rigore considerato un punto materiale: tutti i corpi occupano un volume, hanno una forma e sono separabili in parti, ovvero hanno una struttura. Tuttavia, l’esperienza insegna che il punto materiale pu`o essere un modello adeguato in molte circostanze: la Terra e il Sole possono essere considerati punti materiali per l’analisi dell’orbita terrestre e, in particolare, per valutare il periodo di rivoluzione della Terra (durata dell’anno). Peraltro, la Terra non pu`o essere considerata un punto materiale per studiare i terremoti o la deriva dei continenti. Possiamo quindi fornire una definizione pi` u operativa di punto materiale: il punto materiale `e un modello adeguato per qualunque corpo quando le sue dimensioni sono trascurabili rispetto alle dimensioni caratteristiche del problema e la sua forma e la sua struttura non producono effetti significativi per le valutazioni che devono essere effettuate.

30

2.2. EQUILIBRIO STATICO DEL PUNTO MATERIALE

Per la previsione della durata dell’anno, le dimensioni caratteristiche del problema sono rappresentate dai semiassi dell’orbita terreste nei confronti dei quali i diametri di Sole e Terra sono ` presumibile che gli errori indotti nella stima della effettivamente ordini di grandezza inferiori. E durata dell’anno introdotti dall’aver trascurato le dimensioni di Sole e Terra siano di entit` a comparabile o inferiore. Inoltre, fenomeni connessi alla struttura dei due corpi (come per esempio: la perdita di massa del Sole per irraggiamento o i movimenti della Terra, come la rotazione giornaliera, le maree, i terremoti, ecc. . . ) producono effetti marginali sulla durata dell’anno. A posteriori possiamo verificare la validit`a del modello poich´e la durata dell’anno pu`o essere misurata e la previsione effettivamente riscontrata. Se un modello non risulta adeguato, `e necessario predisporne un altro, generalmente pi` u complesso.

2.2 Equilibrio statico del punto materiale 2.2.1 La condizione di equilibrio statico Un corpo `e considerato in condizioni di quiete o di equilibrio statico rispetto a un osservatore, o a un sistema di riferimento solidale a un osservatore, quando: la velocit`a relativa di ogni punto del corpo `e nulla per un intervallo tempo, anche breve, ma finito. Dato che l’accelerazione `e la derivata temporale della velocit`a, in condizioni di quiete anche l’accelerazione relativa di tutti i punti del corpo deve essere nulla (esclusi al pi` u gli istanti iniziale e finale dell’intervallo). La Statica, che rappresenta la branca della Meccanica che studia le condizioni di equilibrio, pu`o pertanto essere considerata un caso particolare della Dinamica perch´e prende in esame corpi caratterizati da moti con velocit`a e accelerazione relative entrambe nulle.

2.2.2 L’esperimento dell’equilibrio: funi ideali e pulegge ideali Per analizzare le condizioni di equilibrio di un punto materiale, consideriamo un semplice esperimento nel quale sia possibile esercitare varie forze su un piccolo oggetto. L’apparato sperimentale, schematizzato in figura 2.1, `e composto di fili o cavi (cables), avvolti su pulegge (pulleys), che sostengono alcuni pesi. Le altre estremit`a delle funi sono attaccate a un piccolo anello, le cui dimensioni sono trascurabili rispetto alle dimensioni dell’apparato. La nostra attenzione `e rivolta al comportamento dell’anello e in particolare al suo movimento. Per interpretare l’esperimento, `e utile analizzare preliminarmente il comportamento meccanico di funi e pulegge. Osserviamo in primo luogo che si tratta necessariamente di corpi estesi e che quindi non possono essere considerati punti materiali, per`o il loro comportamento meccanico `e relativamente semplice e pu`o essere evidenziato con esperienze comuni. Se fissiamo l’estremit`a di una fune (per esempio la leghiamo a un gancio solidale a una parete) ed esercitiamo sull’altra estremit`a una forza, dopo una fase di assestamento, la fune si tende, ovvero diventa un segmento di retta. La retta assume la direzione della forza applicata. Se tagliamo la fune in un punto qualunque e ristabiliamo la connessione tra le due parti interponendo un dinamometro in grado di misurare le tre componenti della forza mutua che sollecita la connessione, possiamo inoltre verificare che: • la forza misurata `e indipendente dalla posizione del taglio • la direzione della forza coincide con quella della fune

31

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

z y x

Figura 2.1: Apparato sperimentale per lo studio dell’equilibrio di un punto materiale

• le molle del dinamometro non sono mai contratte. Per mezzo di un tratto rettilineo di fune `e pertanto possibile trasferire, o trasmettere, una forza da un estremo all’altro mantenendo inalterate le caratteristiche (intensit`a, direzione e verso) della forza stessa. La fune pu`o quindi essere efficacemente impiegata come strumento in grado di modificare il punto di applicazione della forza. La fune inoltre non pu`o essere compressa. Chiameremo tiro il modulo della forza trasmessa dalla fune. La puleggia `e realizzata con un disco di forma cilindrica che pu`o ruotare attorno a un perno centrale. La superficie esterna dela puleggia ‘e conformata in modo da alloggiare una fune o un elemento simile. In certe condizioni, che preciseremo tra poco, si verifica sperimentalmente che la puleggia permette di modificare la direzione della fune su di essa avvolta senza alterarne il tiro. A rigore, funi e pulegge con queste caratteristiche non esistono, ci si avvicina a tali condizioni quando: • funi e pulegge hanno massa trascurabile • le funi sono perfettamente flessibili (non `e richiesta una forza significativa per incurvarle) • l’area della sezione del filo `e trascurabile • le pulegge ruotano sul perno con cuscinetti aventi attrito trascurabile (per esempio con cuscinetti a rotolamento) In effetti, stiamo introducendo due nuovi modelli meccanici che potremmo chiamare: • fune ideale costituita da un elemento unidimensionale, privo di massa, inestensibile (di lunghezza indipendente dal tiro) e perfettamente flessibile • puleggia ideale un elemento cilindrico privo di massa che ruota senza attrito attorno a un perno centrale.

32

2.2. EQUILIBRIO STATICO DEL PUNTO MATERIALE

Una fune ideale avvolta attorno a una puleggia ideale cambia direzione senza che il suo tiro sia modificato e questo si verifica sia in condizioni di quiete sia in movimento. Queste condizioni non sono mai perfettamente realizzabili, tuttavia, possono essere adottati accorgimenti costruttivi per consentire che il comportamento di funi e pulegge reali sia ragionevolmente vicino a quello ideale. Elementi come catene (chain(s)) e cinghie (belt(s)) sono componenti meccanici che, in molti casi, possono essere schematizzati come funi ideali.

2.2.3 Interpretazione dell’esperimento e prima equazione cardinale della statica Ritorniamo all’esperimento di figura 2.1. Variando il numero di funi, l’entit`a dei pesi e la disposizione delle pulegge, `e possibile esercitare un generico insieme, o sistema, di forze sull’anello. Supponiamo di interporre un dinamometro ideale tra ogni fune e l’anello. Dato che la forza esercitata da ogni fune ha alcune caratteristiche note, `e sufficiente impiegare dinamometri costituiti da un’unica molla, disposta con l’asse parallelo alla direzione della fune, come illustrato schematicamente nella figura 2.2(a). Dalla lettura del dinamometro e dal rilievo della direzione della fune `e quindi possibile determinare in modo completo le caratteristiche vettoriali della specifica forza esercitata sull’anello. Poich´e interessa il comportamento dell’anello, lo consideriamo idealmente separato, o sconnesso, dal resto dell’Universo (vedi figura 2.2(a)) e sostituiamo a ogni interazione eliminata, la componente della coppia azione-reazione che agisce sull’anello. In corrispondenza di ogni fune, Separazione ideale

G F4 (a)

G F2

G F3 G P

G F1 (b)

Figura 2.2: Interpretazione del problema di figura 2.1: (a) identificazione dell’anello come elemento da analizzare e sua separazione dal resto dell’Universo interagente; (b) identificazione della forza che agisce sull’anello per ogni interazione eliminata

la sconnessione ideale elimina una interazione di tipo elettromagnetico. Identifichiamo con l’indice i la generica fune (i = 1, .., n) e con F~i la forza esercitata dalla iesima fune sull’anello. A queste forze si deve aggiungere il peso proprio dell’anello P~ (che si manifesta avendo idealmente eliminata anche l’interazione gravitazionale), le forze d’inerzia sono trascurabili in quanto l’esperimento viene interpretato in un sistema di riferimento solidale a un laboratorio fisso. Lo schema dell’anello idealmente isolato con tutte le forze su di esso agenti `e riportato nella figura 2.2(b). Si verifica sperimentalmente che se l’anello `e in stato di quiete (o in equilibrio statico) vale la seguente relazione: P~ + F~1 + F~2 + ... + F~n = 0 (2.1) La somma vettoriale delle forze agenti su un corpo viene indicata con il termine risultante (resultant). Posto: ~ = P~ + F~1 + F~2 + ... + F~n R (2.2)

33

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

la condizione (2.1) pu`o essere scritta pi` u sinteticamente come: ~ =0 R

(2.3)

Possiamo quindi concludere, come evidenza sperimentale, che: in condizioni di equilibrio statico, la risultante di tutte le forze agenti su un punto materiale `e un vettore nullo. La relazione (2.3) illustrata dalla precedente affermazione `e chiamata prima equazione ` opportuno sottolineare che la condizione di annullamento della cardinale della Statica. E risultante espressa dalla relazione (2.3) ` e necessaria ma non sufficiente per l’equilibrio statico di un punto materiale. Come `e stato chiarito nel capitolo 1, infatti, il bilanciamento delle forze produce un moto d’inerzia, che per un punto materiale `e in genere rettilineo uniforme. Se vogliamo che il punto sia effettivamente in equilibrio statico secondo la definizione data nel paragrafo 2.2.1, `e necessario che il sistema di forze abbia risultante nulla e, inoltre, che il punto sia anche fermo. Come vedremo studiando l’equilibrio di sistemi pi` u complessi, la garanzia dell’equilibrio si ottiene con l’inserimento di opportuni vincoli.

2.3 Impostazione dei problemi di statica del punto materiale L’equazione (2.3), anche se esprime una condizione solo necessaria per l’equilibrio statico, permette di ottenere fondamentali informazioni sull’equilibrio dei punti materiali e viene usata in molti casi per valutare l’entit`a di alcune forze agenti che sono a priori incognite. Un generico problema di statica del punto materiale pu`o infatti essere formulato in estrema sintesi come segue: un punto materiale `e in equilibrio sotto l’azione di alcune forze note (carichi) e di altre incognite (reazioni vincolari), determinare, se possibile, le forze incognite. I passi da seguire per ottenere il risultato sono raccolti nella seguente procedura generale di soluzione. a) Identificazione dell’elemento in equilibrio e sua modellazione Questa fase della soluzione non appare, almeno per ora, particolarmente difficile perch´e l’elemento pu`o essere modellato solo come punto materiale. In seguito saranno sviluppati modelli adatti per descrivere corpi pi` u complessi e l’identificazione potr`a essere pi` u interessante. Un aspetto comunque importante della modellazione `e la scelta della dimensione del problema, in quanto da questa dipende il numero di equazioni scalari indipendenti deducibili dalla relazione (2.3). In generale, per individuare la posizione di un punto sono necessarie tre coordinate e, per rappresentare le forze agenti servono tre componenti. In questo caso, il problema `e detto tridimensionale o nello spazio. Tuttavia, molti casi possono essere ragionevolmente semplificati costruendone modelli bidimensionali (problemi piani). Si potrebbe obiettare che non esistono situazioni pratiche riconducibili in modo esatto a problemi bidimensionali, poich´e tutti i corpi hanno uno spessore. Tuttavia, quando `e identificabile un piano di simmetria per la geometria e per le forze, la modellazione bidimensionale del problema `e in genere sufficientemente accurata. Usando modelli piani, la complessit`a dei calcoli diminuisce, i problemi possono essere schematizzati su un foglio e questo aiuta notevolmente la loro comprensione. Pertanto, quando si identifica un piano, comunque orientato, che contiene il punto in esame e le forze agenti, `e opportuno fissare su tale piano un sistema di riferimento cartesiano a due assi con cui rappresentare le grandezze geometriche e le forze. Per la soluzione dei problemi piani, sono disponibili

34

2.3. IMPOSTAZIONE DEI PROBLEMI DI STATICA DEL PUNTO MATERIALE

anche metodi grafici che per`o non saranno trattati nel corso. Per le modellazioni nello spazio `e invece conveniente adottare una impostazione e un procedimento di soluzione di tipo analitico. Nei problemi tridimensionali l’ottenimento della soluzione `e in genere pi` u laboriosa, a causa del pi` u elevato numero di equazioni e di incognite. Qualche difficolt` a pu` o sorgere inoltre nella rappresentazione grafica del problema e delle soluzioni. A questo scopo sono utili le proiezioni ortogonali o l’assonometria cavaliera, tipiche rappresentazioni ` peraltro opportuno che un futuro ingegnere meccanico affronti del disegno meccanico. E subito questo tipo di difficolt`a e sviluppi schemi mentali e strumenti operativi adatti a trattare gli aspetti tridimensionali delle strutture e degli organi meccanici. b) Identificazione dei carichi e delle reazioni vincolari Come visto nel paragrafo 2.2, questa fase richiede una ideale separazione del punto in esame dal resto dell’Universo. Conseguentemente, risulteranno evidenziate le forze di interazione agenti sul punto stesso. Le forze che in questa fase sono note, o possono essere calcolate direttamente senza ricorrere a considerazioni di equilibrio (generalmente si tratta di pesi o forze d’inerzia), sono chiamate carichi. In genere saranno presenti anche altre forze (a priori) incognite che, di solito, sono interazioni elettromagnetiche dovute alla presenza di vincoli e per questo sono chiamate rezioni vincolari. Nella pratica anche questa fase pu`o essere complessa e laboriosa. Talvolta, infatti, la natura stessa dei carichi e spesso le caratteristiche dei carichi non sono completamente prevedibili, si pensi per esempio ai carichi agenti su un veicolo, che dipendono dalla condotta di guida, dal tipo di strada, dalle condizioni atmosferiche, ecc. . . . Anche le forze esercitate dai vincoli possono essere incerte e non sempre facilmente schematizzabili. Per questi motivi, `e spesso necessario ricorrere a ipotesi su come l’elemento analizzato `e caricato e vincolato. Il risultato di questa fase si concretizza nel tracciamento dello schema o (diagramma di corpo libero preliminare (preliminary free body diagram)). In tale schema il corpo in equilibrio `e rappresentato libero dalle interazioni con il resto dell’Universo e le interazioni sono sostituite dalle forze esercitate sul punto stesso. La caratteristica preliminare `e dovuta al fatto che, in questa fase, solo alcune delle forze rappresentate nel diagramma sono completamente note. c) Imposizione delle condizioni di equilibrio Partendo dalla conoscenza, o dall’ipotesi, che il corpo (per ora un punto materiale) `e in equilibrio statico, si pu`o contare sulla validit`a delle relazioni deducibili dalla prima cardinale (2.3). Pertanto `e possibile scrivere un certo numero di equazioni algebriche indipendenti presumibilmente utili per ottenere informazioni sulle forze incognite. Nel caso di un solo punto materale, le equazioni indipendenti derivabili dalla prima cardinale sono due per un problema piano, in un problema nello spazio sono tre. Scritte le condizioni di equilibrio, dal punto di vista fisico il problema `e finito. Di solito, la parte pi` u impegnativa della soluzione consiste nello svolgimento delle fasi a) e b), per la fase c) `e sufficiente conoscere e applicare coerentemente i principi della Statica. Da ora in poi la soluzione `e di tipo standard e pu`o essere pi` u facilmente formalizzata. d) Discussione del sistema risolvente A questo punto si dispone generalmente di un sistema di equazioni algebriche che rappresenta il fenomeno modellato in forma analitica. Prima di risolvere il sistema `e opportuno esaminare alcuni aspetti di carattere matematico. In particolare, allo scopo di scegliere un metodo di soluzione adatto, `e opportuno classificare il sistema (lineare, non lineare, algebrico, trascendente, ecc. . . ) e, se possibile, valutarne la risolubilit`a stabilendo se sia:

35

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

determinato, indeterminato, impossibile, con soluzione unica, con soluzioni molteplici, ecc. . . . e) Risoluzione del sistema Se il sistema `e giudicato risolvibile, usando con rigore le regole dell’algebra, si devono ottenere i valori delle incognite che spesso consistono nelle componenti cartesiane delle reazioni vincolari. Per quanto possibile conviene sviluppare i passaggi in forma letterale, tuttavia alla fine, il risultato deve essere ottenuto in forma numerica, nelle unit`a di misura del SI e rappresentato con l’adeguata precisione (vedi l’appendice B). f ) Analisi critica dei risultati e loro presentazione Giunti alla soluzione numerica, un esame critico del risultato `e sempre opportuno. Si devono in particolare considerare: il segno, l’ordine di grandezza, la sua entit`a rispetto ai dati di partenza e con altri casi simili gi`a affrontati. Per quanto questo tipo di verifica non sia rigorosa e accurata, tuttavia in molti casi pu`o evidenziare errori grossolani. L’analisi critica dei risultati `e inoltre indispensabile per acquisire una personale sensibilit`a nei confronti delle quantit`a tipiche dei fenomeni studiati, preziosa per sviluppare competenze e abilit`a tecniche. Il risultato del calcolo deve essere presentato in forma numerica e, quando opportuno, anche in forma grafica, cercando la massima chiarezza ed efficacia. Spesso `e richiesto il tracciamento del diagramma di corpo libero definitivo o finale (final free body diagram) dei corpi analizzati. Anche in questa rappresentazione, il corpo `e disegnato separato dal resto dell’Universo ma su di esso sono rappresentate tutte le forze agenti, possibilmente in scala, con direzione e verso correttamente riportati e con l’indicazione numerica del modulo (si ricordi che il modulo `e una quantit`a non negativa). Lo schema di corpo libero definitivo `e il presupposto per la successiva verifica strutturale, e generalmente costituisce il risultato dell’analisi statica. Quando si arriva allo schema di corpo libero definitivo tutte le forze agenti sono note e da questo momento la distinzione tra carichi e reazioni vincolari perde di significato. Nei prossimi paragrafi sono proposti alcuni semplici problemi di statica del punto materiale. Vista la limitata disponibilit`a di modelli meccanici, sono considerati sistemi costituiti da corpi puntiformi sui quali agiscono il peso proprio e forze esercitate tramite funi e pulegge, elementi che considereremo sempre ideali. L’attenzione `e focalizzata non tanto ai problemi in s´e, che sono stati scelti per questo di livello elementare, quanto al metodo di soluzione. Si ritiene, infatti, che partendo dai casi semplici, sia pi` u agevole acquisire familiarit`a con il procedimento generale di soluzione che potr`a essere successivamente applicato anche quando l’intuizione non consente di prevedere il risultato. Data la semplicit`a dei casi esaminati, talvolta alcuni dei passi del procedimento generale di soluzione sono stati raggruppati, tuttavia, si pu`o verificare che la procedura `e sempre applicata in modo completo e coerente.

2.4 Problemi piani con configurazione di equilibrio data ovvero del primo tipo In questo paragrafo sono trattati problemi di statica del punto materiale in cui la configurazione geometrica `e imposta come dato di ingresso. La posizione occupata dai vari punti risulta pertanto indipendente dalle forze agenti e pu`o essere determinata a priori, sulla base di considerazioni di tipo geometrico, prescindendo dalle condizioni di equilibrio. Questi problemi sono i pi` u semplici e, nel seguito, li identificheremo come problemi del primo tipo.

36

2.4. PROBLEMI PIANI CON CONFIGURAZIONE DI EQUILIBRIO DATA OVVERO DEL PRIMO TIPO

Esempio 2.1: Problema del primo tipo nel piano Nello schema in figura 2.3, un corpo di massa M = 12 kg `e in equilibrio sospeso tramite la fune c a un anello C, avente massa trascurabile, collegato ai due ganci A e D tramite le due funi a e d. Sull’anello inoltre `e fissata la fune e alla cui estremit`a libera, una persona esercita una forza di 50 N. 1) Valutare le forze esercitate dalle funi sui ganci A e D. 2) Valutare la forza che la puleggia B esercita sul suo perno. 3) Rispondere alla prima domanda nel caso in cui la forza esercitata dalla persona sia di 80 N. B

A e

2m

a

d c

C

D E 1.5m

3m

M y O x 1m

2m

2m

Figura 2.3: Sistema di funi e pulegge per sostenere la massa M

Domanda 1) a) Identificazione dell’elemento in equilibrio e sua modellazione Nello schema, vari corpi sono in equilibrio e possono essere schematizzati con i modelli noti: le tre funi e la puleggia saranno considerate ideali, e i corpi M e C assunti come punti materiali. Tutte le grandezze geometriche e le forze esercitate sono rappresentabili sul piano del foglio quindi il problema pu`o essere considerato bidimensionale. Tutti gli elementi che compongono il sistema sono in quiete. La condizione di equilibrio potr`a quindi essere imposta su ognuno dei punti materiali del problema. b) Identificazione dei carichi e delle reazioni vincolari Sono forze note e quindi carichi: il peso della massa M e la forza esercitata dalla persona. Quest’ultima forza viene trasmessa inalterata in intensit`a dalla fune e all’anello. Le altre funi, che svolgono la funzione di impedire il libero movimento della massa M e dell’anello C, sono vincoli e le forze da esse esercitate sui corpi (che dipendono dai tiri incogniti) sono da considerarsi reazioni vincolari. Essendo la configurazione di equilibrio nota, le direzioni delle funi possono essere ricavate da semplici considerazioni geometriche o trigonometriche. Assumiamo il sistema di riferimento rappresentato

37

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

in figura 2.3, con l’origine nel vertice O. Eliminate idealmente le interazioni, i carichi agenti sulla massa M sono il peso M g e la reazione vincolare data dal tiro Tc della fune c. La situazione `e schematizzata nel diagramma di corpo libero preliminare del corpo M riportato nella figura 2.4(a). Data la semplicit`a del problema, possiamo considerare separatamente l’equilibrio della massa M e dell’anello C. Tc

118N

Mg

118N

(a)

(b)

Figura 2.4: Schemi di corpo libero (a) preliminare e (b) definitivo del corpo M

c,d,e) Imposizione delle condizioni di equilibrio, discussione e soluzione Come faremo sistematicamente, indichiamo le incognite in forma scalare, quindi Tc rappresenta la componente della forza esercita dalla fune c sulla massa M nella direzione della fune e nel verso scelto nello schema di corpo libero preliminare. In termini di componenti cartesiane nel sistema di riferimento scelto, le forze agenti sono:

P~ =



0 −M g



e T~c =



0 Tc



La condizione di equilibrio per il corpo M si esprime in base alla prima cardinale (2.3) come:

P~ + T~c = 0

che si riduce alla seguente: Tc = M g = 118 N. Concludiamo pertanto che il tiro della fune c `e pari a 118 N. Possiamo tracciare lo schema di corpo libero definitivo per la massa M (vedi figura 2.4(b)). Consideriamo ora l’equilibrio dell’anello C. In figura 2.5(a) sono rappresentate le forze agenti come schema di corpo libero preliminare. Si pu`o osservare che, conoscendo la forza esercitata dalla persona, il tiro della fune e e le direzioni di tutte le funi, lo schema contiene solo due quantit`a scalari incognite (Ta e Td ) che rappresentano le forze rispettivamente esercitate delle funi a e d sull’anello.

38

2.4. PROBLEMI PIANI CON CONFIGURAZIONE DI EQUILIBRIO DATA OVVERO DEL PRIMO TIPO

Ta

50 N

50 N 92 N 5.8 N

Td

(a)

118 N

(b)

118 N

Figura 2.5: Schemi di corpo libero (a) preliminare e (b) definitivo dell’anello C

La condizione di equilibrio per l’anello pu`o essere scritta in forma vettoriale come segue: √   √       5 1/ 2 1 0 −1/ √ √ · Ta + · 50 + · Td + · 118 = 0 0 −1 2/ 5 1/ 2 relazione che rappresenta un sistema lineare di due equazioni in due incognite. Data la semplicit`a del sistema, le (uniche) soluzioni si ottengono per sostituzione diretta: Ta = 92 N e Td = 5.8 N. Come vedremo in seguito, in una situazione in cui intervengono pi` u corpi, questa fase della soluzione pu`o essere pi` u complessa e laboriosa. Possiamo a questo punto tracciare il diagramma di corpo libero definitivo dell’anello come rappresentato in figura 2.5(b) f) Analisi critica dei risultati e loro presentazione. La soluzione ottenuta `e compatibile con i modelli adottati per tutti gli elementi della struttura. L’equilibrio pu`o essere garantito da funi ideali che risultano tutte tese. Dal punto di vista pratico bisognerebbe verificare che le funi siano effettivamente in grado di sopportare i tiri calcolati senza danneggiarsi. Possiamo quindi accettare il risultato ottenuto, nei limiti di validit`a del modello. A tale proposito `e sempre opportuno ricordare che abbiamo trascurato il peso di tutti gli elementi escluso M , l’attrito sulla puleggia nonch´e la spinta di Archimede, inoltre abbiamo usato dati di ingresso approssimati e infine abbiamo eseguito i calcoli introducendo ulteriori errori di arrotondamento. Queste considerazioni dovrebbero indurre una doverosa cautela nel presentare il risultato con un numero eccessivo di cifre decimali! Per rispondere alla domanda 1), rappresentiamo le forze richieste in componenti nel sistema cartesiano indicato in figura 2.3:   41.2 • forza esercitata dal cavo sul gancio A: N; −82.4   −5.8 • forza esercitata dal cavo sul gancio D: N 0 In questa fase `e particolarmente importante fare attenzione ai segni delle forze e all’applicazione corretta del principio di azione e reazione. Nella figura 2.6 i risultati della domanda 1 sono presentati in forma grafica.

39

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

A

D 5.8 N 92 N

26.5°

(a)

(b)

Figura 2.6: Forze esercitate: (a) sul gancio A e (b) sul gancio D

Domanda 2) a,b) Identificazione dell’elemento, dei carichi dei vincoli e loro modellazione Consideriamo la puleggia come elemento in equilibrio. Separandola idealmente dal resto, si osserva che essa riceve sulla regione del contorno esterno dove `e avvolto il cavo, una complicata distribuzione di forze di contatto dovute alla presenza della fune. Nel foro centrale sono invece applicate forze di contatto dovute al perno. Con questo schema sarebbe necessario modellare le azioni esercitate dalla fune in tutti i punti di contatto. Per rispondere alla domanda 2), peraltro, tale livello di dettaglio non `e necessario, nulla vieta infatti di considerare come corpo in equilibrio un elemento apparentemente pi` u complesso della sola puleggia, che comprende anche la parte di fune in contatto con la puleggia, come schematizzato nella figura 2.7(a):

S

7.6° R 79.5 N

50 N

50 N

(a)

(b)

Figura 2.7: (a) Schema di corpo libero preliminare dell’elemento puleggia pi` u tratto avvolto della fune. (b) Forza esercitata sul perno della puleggia

Avendo eseguito le sconnessioni ideali lungo le funi, per questo corpo `e possibile rappresentare le interazioni eliminate in modo semplice e completo, riportando i tiri della fune stessa. Al posto del perno `e infine necessario sostituire una generica forza piana, individuata con due componenti cartesiane indipendenti, che deve essere determinata. c,d,e) Imposizione delle condizioni di equilibrio, discussione e soluzione La condizione di equilibrio per il corpo puleggia pi` u tratto di fune avvolta `e la seguente:  50 ·

40

√      −1/√2 0.496 R + 50 · + =0 - 0.868 S −1/ 2

2.4. PROBLEMI PIANI CON CONFIGURAZIONE DI EQUILIBRIO DATA OVVERO DEL PRIMO TIPO

La soluzione di questo sistema lineare di due equazioni in due incognite `e: S = 78.8 N e R = 10.55 N. f) Analisi critica dei risultati e loro presentazione  La forza esercitata sul perno dalla puleggia `e data da:

−10.55 −78.8

 N ed `e

rappresentata graficamente nella figura 2.7(b). Questo risultato potrebbe servire per analizzare il comportamento del sostegno della puleggia durante il funzionamento. Domanda 3) L’impostazione `e identica alla domanda 1, si perviene in questo caso al seguente sistema risolvente: √   √       1/√2 1 0 −1/ √ 5 · Ta + · 80 + · Td + · 118 = 0 0 −1 2/ 5 1/ 2 la cui soluzione `e: Ta = 68.4 N e Td = −26.0 N. f) Analisi critica dei risultati e loro presentazione La soluzione ottenuta, per quanto corretta dal punto di vista matematico, non `e accettabile dal punto di vista fisico. Infatti, il segno negativo della Td indica che, per garantire l’equilibrio nella configurazione indicata, la fune d dovrebbe esercitare sull’anello un’azione di segno opposto rispetto a quanto previsto nello schema di corpo libero preliminare. La fune d dovrebbe pertanto spingere l’anello e quindi risulterebbe compressa, ma tale comportamento non `e ammissibile. Tale risultato si interpreta concludendo che il sistema configurato come in figura 2.3 non `e in grado di mantenere l’equilibrio. Questo fatto non implica che il sistema non possa raggiungere una condizione di equilibrio sotto l’azione di tali forze, tuttavia `e sicuro che una eventuale configurazione di equilibrio non sarebbe quella rappresentata nella figura 2.3.

2.4.1 Alcune considerazioni generali sul trattamento delle forze incognite La soluzione del problema precedente consente di fare alcune considerazioni che possono ` opportuno discutere la modalit`a con cui sono rappresentate le grandezze essere generalizzate. E incognite perch´e spesso costituisce causa di errori nella soluzione. Vi sono molti metodi per identificare le forze incognite e assegnare loro il simbolo, quello usato nel presente corso `e molto semplice e naturale e quindi `e fortemente consigliato. Nel caso della domanda 2, per esempio, alcune propriet`a della forza incognita che il perno esercita sulla puleggia risultano note in partenza (ovvero prima di imporre le condizioni di equilibrio). In particolare tale forza appartiene, come vettore, al piano del problema ed `e applicata alla puleggia B. Da qualunque punto di vista si analizzi la questione, si conclude che l’individuazione completa di tale forza incognita richiede l’introduzione di due quantit`a scalari indipendenti. Vi sono molti modi per scegliere queste due quantit`a, per esempio: le componenti cartesiane della forza nel sistema cartesiano adottato, o in un altro sistema diversamente

41

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

definito, le componenti di due forze di cui sono date le direzioni (purch´e non parallele, non necessariamente tra loro ortogonali), il modulo della forza e la sua direzione (per esempio la coordinata angolare formata dal vettore e il semiasse x positivo), ecc. . . . In circostanze di questo tipo, il procedimento consigliato `e esposto nei seguenti punti: • utilizzare componenti di forza tra loro ortogonali, preferibilmente nelle direzioni degli assi del sistema cartesiano scelto • nello schema di corpo libero preliminare (figura 2.7(a)), ipotizzare un verso arbitrario per ogni componente, non `e necessario che il verso sia concorde con quello del relativo asse cartesiano, per quanto pu`o essere talvolta conveniente • considerare le incognite (nell’esempio: S e R) quantit` a scalari con segno, ognuna di esse rappresenta quindi la componente della forza incognita rispetto al verso scelto nello schema di corpo libero preliminare • il risultato numerico finale si interpreta nel modo seguente: se il segno `e positivo il verso arbitrariamente assunto si rivela a posteriori corretto, se il segno `e negativo la componente effettivamente applicata `e controversa a quella ipotizzata • sul diagramma di corpo libero definitivo le forze sono rappresentate come frecce con il loro verso effettivo (che alla fine sar`a noto) e su di esse le intensit`a devono essere riportate in modulo, a prescindere da come sono stati assunti i versi delle incognite e quindi dal segno del risultato algebrico. ` opportuno osservare che non si ottiene alcun vantaggio significativo cercando di prevedere E il verso del risultato: se la componente di una forza `e incognita, il suo segno rappresenta una caratteristica che comunque sar`a nota alla fine. Lo schema di corpo libero definitivo, che riassume la soluzione, `e indipendentemente dal verso assunto per le incognite (per verifica si risolva la domanda 2 del problema precedente invertendo il verso della R nello schema di corpo libero preliminare 2.7(a)). Nei problemi pi` u complessi, prevedere il verso della componente di una reazione vincolare pu`o essere difficile e non `e opportuno sprecare tempo e risorse mentali in questa attivit`a improduttiva.

2.4.2 La linearit` a del sistema risolvente Il problema di statica appena discusso `e stato ricondotto alla soluzione di un sistema di equazioni lineari. Questa circostanza `e da considerarsi molto vantaggiosa, poich´e per i sistemi lineari sono disponibili procedimenti generali di discussione e di soluzione. Le propriet`a matematiche del sistema risolvente hanno un’interpretazione statica molto importante, che definisce la natura dell’equilibrio e fornisce indicazioni sul comportamento generale della struttura. Un esame completo di questo aspetto sar`a sviluppato nei prossimi capitoli, tuttavia, possiamo anticipare che la linearit`a del sistema implica la proporzionalit`a tra i carichi e le reazioni vincolari. Se tutti i carichi sono moltiplicati per lo stesso fattore, anche le reazioni vincolari subiranno una variazione relativa con lo stesso rapporto. ` opportuno sottolineare che la linearit`a del sistema deriva dal fatto che la configurazione E di equilibrio `e fissata e nota a priori. Nel prossimo paragrafo vedremo, infatti, come problemi in cui la configurazione di equilibrio `e incognita conducono a sistemi risolventi generalmente non lineari per i quali non `e in genere vero che raddoppiando i carichi raddoppiano anche le reazioni vincolari.

42

2.5. PROBLEMI PIANI DEL SECONDO TIPO OVVERO CON CONFIGURAZIONE DI EQUILIBRIO INCOGNITA

2.5 Problemi piani del secondo tipo ovvero con configurazione di equilibrio incognita 2.5.1 La configurazione di equilibrio deve essere determinata con le equazioni cardinali Nel problema del paragrafo precedente i punti materiali erano in equilibrio in una configurazione geometrica definita. Anche in casi in cui un insieme di punti materiali pu`o muoversi possono per`o essere utilizzati i principi della Statica per determinare se e in quali configurazioni i punti possono essere in equilibrio. Un problema in cui la configurazione di equilibrio deve essere individuata tramite le equazioni cardinali sar`a chiamato problema del secondo tipo. Esempio 2.2: Problema del secondo tipo All’anello C di massa trascurabile rappresentato in figura 2.8(a), sono collegate tre funi. Sapendo che le masse valgono M1 = 3 kg e M2 = 5 kg e che la fune tra A e C `e lunga 1.6 m, determinare la posizione dell’anello all’equilibrio e, in tale configurazione, il tiro delle funi. 4m

A

3m

B θ C

y O x

M2

M1

(a)

M2g

T M1g

(b)

Figura 2.8: (a) Sistema in cui la configurazione di equilibrio non `e nota a priori. (b) Forze agenti sull’anello C

a,b) Identificazione dell’elemento, dei carichi dei vincoli e loro modellazione Anche questo problema `e schematizzabile nel piano. La posizione dell’anello C `e definita da due quantit`a scalari indipendenti, per esempio le coordinate cartesiane del punto C nel sistema di riferimento definito in figura 2.8(a). Se ipotizziamo che le funi siano tese all’equilibrio, essendo la fune tra A e C indeformabile, il punto C ` pertanto sufficiente un solo parametro geometrico (una dovr`a distare 1.6 m da A . E sola coordinata lagrangiana) per definire la posizione di C e, conseguentemente, la configurazione di tutto il sistema. A fili tesi, infatti, il sistema pu`o essere considerato un meccanismo piano con un grado di libert`a. c) Imposizione delle condizioni di equilibrio Se l’anello C `e in quiete, tutto il sistema lo sar`a. Per cui imponiamo l’equilibrio del punto materiale C. Consideriamo come coordinata lagrangiana per la configurazione geometrica la coordinata angolare θ definita in figura 2.8(a). Tutte le grandezze geometriche possono essere espresse in funzione di θ. In particolare, le seguenti relazioni esprimono le componenti cartesiane dei due vettori geometrici OC e CB nel

43

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

sistema indicato (lunghezze espresse in metri):     1.6 · sin(θ) 4 − 1.6 · sin(θ) OC = ; CB = 3 − 1.6 · cos(θ) 1.6 · cos(θ) Le solite considerazioni sull’equilibrio delle masse M1 e M2 permettono di conoscere il tiro delle funi a cui sono collegate. Chiamato T il tiro della fune AC, che `e incognito, lo schema di corpo libero preliminare dell’anello `e rappresentato in figura 2.8(b). Si pu`o osservare che le incognite del problema sono due perch´e, oltre alla quantit`a scalare T , deve essere determinato anche l’angolo θ. L’equazione cardinale (2.3) per l’anello C, considerato di massa trascurabile, diventa: ( CBx −T · sin(θ) + M2 g · |CB| =0 (2.4) CBy T · cos(θ) + M2 g · |CB| − M1 g = 0 in cui, per semplicit`a, sono state indicate in modo implicito le seguenti funzioni di θ: p CBx = 4 − 1.6 · sin (θ) ; CBy = 1.6 · cos(θ) ; |CB| = 18.56 − 12.8 · sin(θ) d,e) Discussione del sistema e soluzione Il sistema (2.4) `e non lineare dato che le equazioni sono trascendenti. Come `e noto, in questi casi, non esistono metodi generali per stabilire a priori esistenza e unicit`a della soluzione e inoltre, il procedimento di soluzione pu`o richiedere tecniche numeriche o grafiche. Si deve anche tener conto che la soluzione potrebbe non esistere o non essere unica. Nel semplice caso in esame si pu`o peraltro ricavare T dalla prima equazione e ottenere, per sostituzione nella seconda, la seguente equazione trigonometrica nella sola incognita θ: f (θ) =

196.2 p − 29.43 = 0 tan(θ) 18.56 − 12.8 · sin(θ)

Questa equazione pu`o essere risolta per esempio facendo uno studio preliminare della funzione f (θ) nel dominio di interesse 0 < θ < π e quindi determinare l’unico zero: θ = 68.9◦ da cui si ottiene anche il tiro: T = 51.2 N. f) Analisi critica dei risultati e loro presentazione I tiri dalle funi AC, CM1 e CB valgono rispettivamente: 51.2 N, 29.43 N, 49.05 N. La configurazione di equilibrio trovata (θ = 68.9◦ ) `e l’unica ammissibile per il sistema dato.

2.5.2 Considerazioni generali sui problemi del secondo tipo: stabilit` a dell’equilibrio (*) La non linearit`a dell’equazione risolvente ottenuta nell’esempio precedente `e tipica dei problemi del secondo tipo nei quali devono essere necessariamente imposte condizioni di tipo geometrico. La determinazione della posizione dei punti `e spesso ottenuta con grandezze angolari che introducono funzioni trigonometriche. Tuttavia `e facile verificare che anche la scelta di una

44

2.5. PROBLEMI PIANI DEL SECONDO TIPO OVVERO CON CONFIGURAZIONE DI EQUILIBRIO INCOGNITA

coordinata cartesiana di posizione, come la xC nel caso esaminato, non avrebbe impedito al sistema di essere non lineare. Come anticipato, la non linearit`a introduce difficolt`a di carattere teorico e pratico, talvolta di non agevole superamento. Non esistono, infatti, regole generali per stabilire esistenza e unicit`a della soluzione di equazioni non lineari e anche il procedimento numerico per ottenere l’eventuale risultato pu`o essere delicato e laborioso. La convergenza dell’algoritmo stesso di soluzione numerica per una equazione non lineare pu`o essere talvolta lenta e affetta da fenomeni di instabilit`a. Un problema del secondo tipo, inoltre, pu`o essere, come si dice, mal condizionato ovvero avere un risultato che varia in modo notevole in conseguenza di piccole modifiche dei dati in ingresso. Salvo casi particolari, nel presente corso ci occuperemo principalmente di problemi del primo tipo, o di problemi a questi riconducibili, per i quali la discussione, la soluzione e l’esame degli effetti prodotti dalla variazione dei dati di ingresso sono attivit`a meno critiche. Tuttavia, in vista dello studio dei corpi deformabili, per i quali la configurazione di equilibrio risulta necessariamente incognita, il problema risolto nel precedente paragrafo offre lo spunto per un primo assaggio dei problemi generali che si incontrano nella previsione del comportamento dei sistemi meccanici deformabili, in particolare durante la fase di raggiungimento dell’equilibrio. Inevitabilmente i carichi per un componente di macchina variano nel tempo e anche nei casi in cui, alla fine di stabilizzano, `e prevedibile una fase in cui devono essere applicati e quindi crescono. Per i problemi del primo tipo il fenomeno del raggiungimento della condizione di equilibrio `e banale: la configurazione di equilibrio `e infatti per definizione fissata a priori indipendentemente dai carichi. Se i carichi variano, per esempio se si considera il comportamento di una struttura mentre si sta caricando, le reazioni vincolari istantaneamente si adeguano in modo tale che la condizione definita dalla prima cardinale sia soddisfatta in ogni istante. Per i problemi del secondo tipo, al contrario, il caricamento graduale comporta in genere la modifica della configurazione. Dato che le reazioni vincolari non sono proporzionali ai carichi, anche la fase di raggiungimento della configurazione finale deve essere analizzata perch´e che pu`o essere di notevole interesse. Inoltre, i metodi della Statica consentono di prevedere che, anche in un problema del secondo tipo, se un sistema viene lasciato nella configurazione di equilibrio con tutte le sue parti in quiete e non intervengono modifiche ai carichi, non si manifesta alcun movimento. Tuttavia, in un problema del secondo tipo, il comportamento del sistema non `e prevedibile con la sola Statica se questo viene lasciato in una posizione diversa, anche prossima a quella di equilibrio. Questo aspetto `e molto importante perch´e, nella pratica, non si possono escludere piccole perturbazioni che modificano leggermente la configurazione di un sistema che ha raggiunto l’equilibrio. Con riferimento all’ultimo problema esaminato, supponiamo di portare il sistema per esempio a θ = 70◦ , e poi di lasciarlo libero. Si pu`o prevedere una fase in cui si manifesta un moto oscillatorio durante il quale la posizione dei punti materiali e le forze applicate sono determinabili con un’analisi dinamica non lineare. I problemi di dinamica sono presentati nei corsi di Meccanica Applicata e non saranno specificamente analizzati nel presente corso. Per quanto riguarda i nostri scopi, tuttavia, possiamo affermare che un sistema meccanico che ha almeno un grado di libert`a, spostato di poco da una configurazione di equilibrio e successivamente lasciato libero, solitamente (e sperabilmente) manifesta oscillazioni smorzate che, dopo un certo tempo, lo portano di nuovo a fermarsi in corrispondenza della condizione di equilibrio statico. Come esempio si pu`o pensare al comportamento della corda di una chitarra dopo che sia stata percossa dal plettro. Il movimento oscillatorio termina quando gli inevitabili fenomeni dissipativi (attriti, resistenza dell’aria, smorzamento interno dei materiali, ecc. . . ) hanno trasformato l’energia cinetica del sistema in energia termica. Quando un sistema ha questo comportamento, la presenza di perturbazioni sufficientemente piccole `e quindi tollerata.

45

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

Perch´e a seguito di una piccola perturbazione che sposta il sistema dall’equilibrio si realizzi un’oscillazione smorzata che alla fine riporta il sistema nelle condizioni di equilibrio, `e necessario che la condizione di equilibrio sia stabile (stable). Esistono definizioni rigorose di stabilit`a sulle quali avremo modo di tornare, per il momento ci baster`a una definizione intuitiva: una configurazione di equilibrio `e stabile se una qualunque forza, per alterare (di poco) la configurazione del sistema, deve compiere un lavoro positivo. La necessit`a di un lavoro positivo per ogni azione perturbante implica che, senza l’intervento di un significativo agente esterno che faccia lavoro, il sistema non tender`a ad allontanarsi dall’equilibrio. Se il lavoro fatto per produrre la perturbazione fosse negativo (o al limite anche nullo), una causa esterna per quanto piccola potrebbe innescare un movimento spontaneo di allontanamento dall’equilibrio. Si comprende come generalmente per le applicazioni strutturali, questo tipo di comportamento non `e accettabile. L’esempio classico di una configurazione di equilibrio stabile `e fornito da una sfera posta sul fondo di una scodella: se si vuole spostarla, per esempio esercitando una forza orizzontale, `e necessario spingere nel verso del movimento e quindi la forza esterna deve fare un lavoro positivo. Una sfera posta sull’apice di un dosso `e invece in equilibrio instabile (unstable). Per mantenerla ferma in una configurazione leggermente diversa dall’apice `e necessario applicare una forza che ha verso opposto allo spostamento. In questo caso, una qualsiasi azione che modificasse anche leggermente la posizione della sfera rispetto alla sommit`a ne determinerebbe quindi lo spontaneo allontanamento, anche se l’azione perturbante fosse esigua e agisse per un tempo brevissimo. La condizione di equilibrio, cos`ı detta indifferente (neutral), esemplificata dalla sfera su un piano orizzontale, rappresenta la configurazione di confine e ha un significato pi` u matematico che pratico. Nella tecnica non esiste una significativa differenza tra le condizioni di equilibrio instabile e indifferente: si cerca infatti di evitarle entrambe. Spesso si richiede infatti che la condizione di equilibrio sia anche sufficientemente stabile (scodella abbastanza profonda con fianchi ripidi) in modo che il lavoro che l’azione perturbante deve esercitare per modificare significativamente la configurazione sia di notevole entit`a e quindi sia poco probabile che si manifesti accidentalmente. Da queste considerazioni si conclude che lo studio dei problemi del secondo tipo, per i quali la configurazione di equilibrio non `e completamente imposta dai vincoli, oltre alla determinazione delle configurazioni di equilibrio pu`o richiedere anche l’esame della loro stabilit`a.

2.6 Problemi di statica del punto materiale nello spazio Consideriamo un problema tridimensionale con configurazione di equilibrio data. Esempio 2.3: Problema del primo tipo nello spazio Come schematizzato in figura 2.9, un oggetto B di massa m = 20 kg `e sospeso al soffitto con la fune c e collegato alla parete verticale tramite le funi a e b. Sul corpo agisce anche una forza orizzontale F = 300 N. Valutare il tiro delle funi.

46

2.6. PROBLEMI DI STATICA DEL PUNTO MATERIALE NELLO SPAZIO

C A

a

1m

A

B≡C b

O

y

3m

z

b

x

y

3m

B

a

G F

Vista dall’alto

2m

c

G F

30°

O 3m

Figura 2.9: dimensioni

Vista di fianco Punto materiale soggetto a forze modellabili solo in tre

a,b) Identificazione dell’elemento, dei carichi dei vincoli e loro modellazione Si tratta di un problema di equilibrio di un punto materiale nello spazio. Non `e, infatti, identificabile un piano che contenga tutti gli elementi geometrici della struttura e le componenti delle forze agenti. I carichi sono il peso proprio del corpo B e la forza F ; il corpo B `e inoltre soggetto all’azione di vincoli, materializzati dalle funi. Sconnettendo idealmente il corpo B, si ottiene lo schema di corpo libero preliminare rappresentato in assonometria in figura 2.10 nella quale i carichi sono indicati con il loro valore numerico e il tiro di ogni fune identificato dal pedice. Solo il modulo delle reazioni vincolari risulta incognito, in quanto la direzione `e fornita con le quote del problema (problema del primo tipo). Nello schema di corpo libero preliminare `e stato ipotizzato che ogni fune sia tesa e il verso delle incognite fissato di conseguenza.

Tc Ta

z

300 N

y x

Tb

196.2 N

Figura 2.10: Schema di corpo libero preliminare del corpo B

c,d,e) Imposizione delle condizioni di equilibrio, discussione e soluzione Trattandosi di un problema tridimensionale, `e opportuno rappresentare i vettori in forma algebrica. A tale scopo `e introdotto il sistema di riferimento cartesiano ortogonale destrorso mostrato nelle figure 2.9 e 2.10, con origine in O. Calcoliamo, a titolo

47

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

di esempio, le componenti cartesiane della forza Ta :     −0.688 −3 BA OA − OB 1 T~a = Ta · = Ta · = Ta ·  −3  · √ = Ta ·  −0.688  |BA| |BA| 19 −0.229 −1 L’equazione cardinale per B in termini vettoriali e in componenti diventa: T~a + T~b + T~c + P~ + F~ = 0           −0.688 0 0 0 0.5 Ta  −0.688  + Tb  −0.6  + Tc  0  + 192.2  0  + 300  0.866  = 0 −0.229 −0.8 1 −1 0 Si tratta di un sistema lineare di tre equazioni in altrettante incognite che pu`o essere scritto in forma matriciale come segue:      −0.688 0 0 Ta −150  −0.688 −0.6 0   Tb  =  −259.8  (2.5) −0.229 −0.8 1 Tc 196.2 La matrice del sistema (2.5) `e formata dalle componenti dei versori delle funi e quindi `e di natura esclusivamente geometrica, il vettore dei termini noti dipende dal carico. Un sistema risolvente (2.5), in cui la matrice dipende solo dalla geometria e i termini noti dalla geometria e dai carichi, `e tipico dei problemi del primo tipo, come vedremo anche in casi molto pi` u complessi. Il determinante della matrice del sistema `e non nullo, per cui, essendo il sistema lineare quadrato, si avr`a una soluzione unica. Risolto con qualunque tecnica (per esempio per sostituzione) si ottiene: Ta = 217.9 N, Tb = 183.0 N e Tc = 392.6 N. f) Analisi critica dei risultati Dal segno positivo delle incognite si deduce che la previsione sul comportamento dei vincoli `e coerente con quanto previsto. Inoltre, trattandosi di funi e quindi di elementi che possono essere solo tesi, il risultato conferma che il sistema dei vincoli `e in grado di mantenere il corpo in equilibrio nella configurazione indicata (chiaramente se le funi hanno una resistenza adeguata).

A commento di quest’ultimo esempio si pu`o osservare che, come gi`a anticipato, i problemi nello spazio non sono concettualmente pi` u difficili dei problemi piani. Nel caso tridimensionale l’approccio matriciale nella rappresentazione delle forze e delle posizioni dei punti risulta pi` u indicato rispetto al caso piano.

2.7 Problemi proposti I seguenti problemi possono essere risolti con le nozioni sviluppate nei primi due capitoli. In molti casi i punti materiali sono in quiete nel sistema di riferimento solidale allo schema riportato. In alcuni problemi vi sono punti in movimento ma, il loro moto `e definito oppure pu`o essere facilmente determinato. Per i punti in movimento `e consigliata l’adozione di sistemi

48

2.7. PROBLEMI PROPOSTI

di riferimento (eventualmente non inerziali) a essi solidali, allo scopo di ricondurre il problema nell’ambito della Statica. Esercizio 2.1: Problema piano del primo tipo All’anello C di massa trascurabile, fissato al muro tramite due funi (figura 2.11), `e collegata anche la fune CD avente lunghezza l = 2 m che porta all’estremo una massa m = 12 kg. La posizione dei punti `e data nel sistema di riferimento indicato dalle coordinate (valori espressi in metri): A(0, 5.50), B(5.00, 8.10), C(2.20, 3.60). In un primo tempo la massa viene mantenuta nella posizione indicata in figura esercitando una forza orizzontale F~ , successivamente la forza viene eliminata e il corpo lasciato libero di muoversi.

B A C D

25°

y O x Figura 2.11

Nel sistema di riferimento indicato: 1) verificare che la forza F~ richiesta per l’equilibrio vale (−54.9, 0.0)T N 2) verificare che la forza che viene esercitata sul muro in A quando la massa liberata raggiunge il punto pi` u basso della sua traiettoria vale (56.6, −48.9)T N 3) tracciare i diagrammi qualitativi quotati dei tiri dei tre cavi in funzione dell’angolo formato dal cavo CD con la verticale (verificando che i massimi tiri per CD , CA e CB sono rispettivamente: 140.0 N, 94.9 N e 117.1 N, non nella stessa posizione angolare)

Esercizio 2.2: Problema piano del secondo tipo Sul cavo AB (figura 2.12) che ha lunghezza 8.20 m pu`o scorrere la puleggia C alla quale `e collegata una massa di 245 kg in D. In condizioni di equilibrio: 1) verificare che la distanza della puleggia dal muro dove `e fissato il gancio A vale 2115 mm e dimostrare che gli angoli di inclinazione rispetto all’orizzontale dei due tratti di cavo AB sono uguali (valore comune 52.4◦ ). 2) verificare che tiro della fune AB vale 1516 N.

49

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

Figura 2.12

Esercizio 2.3: Problema piano del secondo tipo Un unico cavo, che parte dal centro della puleggia B (figura 2.13), si avvolge sulla puleggia A, fissata al muro, e successivamente attorno alla B stessa. Alla puleggia B `e collegata tramite un secondo cavo verticale una massa in C di 40 kg. 1) Determinare il tiro T e l’angolo θ in modo da avere l’equilibrio nella configurazione indicata in figura 2.13 (ris.: 167.2 N e 57.7◦ ). 2) Determinare il valore minimo Tmin del tiro che deve essere applicato alla fune per sostenere la massa (ris. 130.8 N) e i corrispondenti valori degli angoli di inclinazione (rispetto alla verticale) dei tratti di fune (ris.: tutti nulli). 3) Tracciare il diagramma qualitativo quotato dell’angolo di inclinazione θ in funzione del tiro T . A 25°

θ

T

B C

Figura 2.13

Esercizio 2.4: Problema piano misto (alcune domande del primo altre del secondo tipo) L’argano in A (figura 2.14) viene impiegato per sollevare la massa in E di 460 kg. La puleggia B `e fissata a terra mentre la puleggia in C e collegata a un muro tramite il cavo

50

2.7. PROBLEMI PROPOSTI

CD. Nella configurazione di equilibrio rappresentata in figura, dopo aver verificato che l’inclinazione del cavo CD vale θ = 64.9◦ e il tiro minimo che l’argano deve produrre per effettuare il sollevamento vale Tmin = 2.26 kN, 1) determinare il modulo della forza che la puleggia B esercita sul suo perno quando l’argano esercita la forza Tmin (ris. 1536 N); 2) determinare il tiro del cavo CD nel caso in cui l’argano eserciti una forza costante pari a 1.1Tmin (ris. 4.50 kN). 3) Nel caso indicato nel punto precedente, tracciare il grafico della potenza che l’argano deve sviluppare in funzione della posizione verticale della massa E (ris. si raggiunge 10 kW quando la massa `e sollevata di 2.07 m).

θ

D

A

2.5 m

C B E 3m Figura 2.14

Esercizio 2.5: Problema piano di tipo misto Tramite una ruspa D (figura 2.15) e un sistema di cavi si tenta di demolire un muro esercitando una forza elevata in corrispondenza dell’estremo A. All’anello B sono collegati entrambi gli estremi del cavo BAB che si avvolge sulla puleggia A il cui perno `e fissato al muro. I raggi della puleggia e dell’anello sono trascurabili. Sull’anello sono connessi anche il cavo BD che termina nel gancio della ruspa e il cavo verticale BC, che all’altro estremo `e solidale con una zavorra di massa 400 kg. 1) Determinare il tiro massimo Tmax del cavo BD prima che la zavorra si sollevi. 2) Se la ruspa sollecita il cavo BD con un tiro pari a 0.8Tmax , tracciare lo schema di corpo libero per la zavorra e determinare la forza esercitata sul muro. 3) Se la ruspa imprime al cavo un tiro di 1.5Tmax , determinare di quanto la zavorra si solleva da terra per avere l’equilibrio e la corrispondente forza esercitata sul muro.

51

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

A

5m

B

0.7m

1.5 m

D C

2m

10 m

Figura 2.15

Esercizio 2.6: Problema tridimensionale del primo tipo Tramite le tre funi a, b e c `e sostenuta la massa E di 22 kg (figura 2.16). Le funi b e c sono orizzontali e parallele rispettivamente agli assi cartesiani y e x. Il cavo d di lunghezza 2m sostiene una massa in D di 12 kg. Il corpo D `e posto in rotazione a velocit`a costante su una circonferenza avente raggio di 30 cm. Le coordinate dei punti nel sistema indicato sono: A(0, 0, 4.5) e E(1.2, 1.5, 3.0) (valori in metri). 1) Determinare il modulo della velocit`a del corpo D e fornire, nel sistema indicato, la forza esercitata sul muro in A quando il corpo D occupa la posizione pi` u vicina al piano x − z (θ = 3/2π). 2) Tracciare il diagramma qualitativo quotato dei tiri delle funi a, b e c in funzione dell’angolo θ che individua la posizione del corpo D.

A a E

b

c d z O

D

θ

y

x Figura 2.16

52

2.7. PROBLEMI PROPOSTI

Esercizio 2.7: Problema tridimensionale del primo tipo (*) Una massa di 100 kg posta in D(2, 1, 3) `e sostenuta tramite le tre funi (figura 2.17) collegate al muro nei punti A(0, 0, 5), B(3, 0, 6) e C(0, 6, 6) (valori in metri). Sulla massa D `e possibile esercitare una forza F~ .

z

B

C

A

G F

D O

y

x Figura 2.17

1) Supponendo che la forza F~ abbia direzione e verso del vettore DC, determinare il suo massimo valore per mantenere l’equilibrio del corpo nella configurazione indicata. 2) Supponendo che la forza F~ sia orizzontale (parallela al piano x − y), determinare direzione e verso in modo che il suo modulo sia il minimo necessario per spostare il corpo dall’equilibrio. 3) Rispondere alla domanda precedente nel caso in cui sia possibile esercitare la forza F~ in un qualunque verso nello spazio, determinando la forza F~ minima (in assoluto) necessaria per spostare il corpo D.

Esercizio 2.8: Problema piano del primo tipo (*) Attorno a una puleggia ideale (figura 2.18) posta in D(1, 2) si avvolge il cavo AB (con A(0, 3) e B(3, 4)) e al suo asse `e connesso il cavo CD, con C nell’origine (coordinate geometriche in metri). I due cavi hanno la stessa sezione ed entrambi sopportano un tiro massimo di 1.5 kN (sopra tale livello si rompono).

A

G F

y C

B

D

x Figura 2.18

53

2. STATICA DEL PUNTO MATERIALE

1) Supponendo che F~ abbia direzione x, determinare i valori estremi (per ognuno dei versi) del modulo F della forza esercitabile sulla puleggia prima che si modifichi la sua configurazione di equilibrio. 2) Tracciare, in funzione dell’angolo formato da F~ con l’asse x, il diagramma polare del massimo modulo della forza esercitabile sulla puleggia compatibile con la configurazione di equilibrio rappresentata.

54

Capitolo 3

Il corpo esteso e le azioni su di esso agenti In questo capitolo sono discussi alcuni modelli che permettono di analizzare il comportamento meccanico di corpi che non possono essere ridotti a punti materiali. Chiameremo corpo esteso il modello di un oggetto per il quale l’estensione, la forma o la struttura influenzano significativamente il comportamento meccanico e quindi, in particolare, il moto e le condizioni di equilibrio. Un corpo esteso `e sempre riconducibile a un insieme, anche molto complesso, di punti materiali. L’effetto prodotto da una forza su un corpo esteso, oltre che da intensit`a, direzione e verso, dipende anche dalla posizione in cui la forza viene esercitata. Per considerare questa nuova caratteristica, nella prima parte del capitolo, la forza `e definita come vettore applicato ed `e introdotto il concetto associato di momento. Poich´e su un corpo esteso possono agire contemporaneamente pi` u forze applicate in punti diversi, sono discusse alcune propriet`a generali dei sistemi di forze. Per l’analisi meccanica del corpo esteso `e inoltre fondamentale distinguere le forze agenti sui punti che lo compongono in interne ed esterne. Nella seconda parte del capitolo, sono presentate le principali caratteristiche delle grandezze necessarie per descrivere le propriet` a fisiche dei corpi estesi continui e delle forze che su questi corpi possono essere esercitate. Nell’ultima parte `e introdotta la definizione di azione statica, grandezza che caratterizza nel suo complesso un sistema di forze e permette di generalizzare il principio di azione e reazione precedentemente definito per la sola interazione tra i singoli punti materiali all’interazione tra corpi estesi.

3.1 Corpo esteso come sistema di punti materiali L’esperienza empirica evidenzia che per modificare la posizione di una cassa appoggiata a terra `e importante scegliere la zona della cassa sulla quale esercitare la spinta. Per esempio, si pu`o prevedere che, spingendo in modo non centrato, la cassa subisce una rotazione oltre che una traslazione. La rotazione `e inoltre pi` u marcata se la cassa viene spinta da dietro piuttosto che tirata da davanti. Queste differenze di comportamento non sono ovviamente prevedibili se si adotta per la cassa il modello di punto materiale dato che l’estensione, la forma e la struttura del corpo sono propriet`a essenziali per prevedere tali caratteristiche del moto. Il modello di corpo esteso permette di introdurre queste propriet`a nella definizione del corpo e quindi di tenerne conto nella previsione del suo comportamento meccanico. L’esempio della cassa illustra un fondamentale aspetto di tipo geometrico-cinematico che differenzia il corpo esteso dal punto materiale: la nozione di posizione angolare e di moto rota-

55

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

torio. La caratteristica geometrica di un punto materiale `e definita a prescindere da qualunque sua configurazione angolare, mentre lo stesso non `e vero per il corpo esteso. La configurazione geometrica della cassa, in particolare, non `e definita dalla sola posizione del suo centro. Di conseguenza il moto di un punto materiale, indipendentemente dalla forma della traiettoria e dalla legge oraria, `e quindi una semplice traslazione mentre il movimento di un corpo esteso `e caratterizzato anche dalle componenti di rotazione (moto roto-traslatorio). Un effetto immediato di questa differenza si riscontra nella definizione dell’energia cinetica. ` sempre possibile, almeno in linea di principio, suddividere un corpo in parti sufficienE temente piccole e quindi tali che ognuna di esse possa essere considerata un punto materiale. Qualunque corpo esteso `e pertanto riconducibile a un insieme (o sistema) di punti materiali tra loro in qualche modo connessi. Per questo motivo, le equazioni che descrivono il moto del punto materiale, discusse nel capitolo precedente, costituiscono la base per la soluzione di qualunque problema di Meccanica. Per alcuni corpi, l’identificazione dei punti materiali costituenti `e immediata e naturale, come per esempio: il sistema solare nel suo complesso, con il Sole e i singoli pianeti come elementi costituenti, oppure un sacchetto di biglie. In tali casi diremo che il corpo esteso `e schematizzato (o schematizzabile) come un sistema discreto di punti materiali. Quando l’identificazione dei punti costituenti non `e immediata (si pensi per esempio alla cassa) `e possibile passare al modello di corpo continuo che richiede una analisi un po’ pi` u sofisticata. A causa della non evidente identificabilit`a dei punti materiali costituenti, per i corpi continui `e necessario ridefinire molte grandezze e propriet`a meccaniche tramite l’introduzione delle grandezze intensive associate. In particolare le forze agenti su un continuo devono essere riconsiderate rispetto alla nozione di forza concentrata agente sul punto materiale introdotta nei precedenti capitoli. Nella prima parte del presente capitolo, l’analisi delle forze agenti sui corpi estesi `e riferita ai sistemi discreti di punti e successivamente estesa ai continui.

3.2 Le forze come vettori applicati Per valutare gli effetti prodotti da una forza su un corpo esteso `e necessario che il modello stesso di forza sia ampliato per contenere anche l’informazione relativa alla posizione in cui la forza agisce. Nel caso di un corpo discreto di punti materiali l’estensione del modello `e naturale in quanto consiste nell’identificazione del punto costituente su cui la forza in esame `e esercitata. A tale scopo `e introdotta la nozione di vettore applicato. Nel presente paragrafo e nel successivo sono presentate alcune propriet`a fondamentali delle forze applicate e dei sistemi di forze applicate che saranno di notevole utilit`a nella soluzione dei problemi di statica dei corpi estesi. Le dimostrazioni di queste propriet`a sono rimandate al corso di Meccanica Razionale.

3.2.1 Forza applicata e momento di una forza In un sistema di riferimento cartesiano nello spazio geometrico, ogni punto P `e definito da un vettore posizione OP la cui freccia ha coda nell’origine O e punta in P . Se la forza F~ `e applicata n o in corrispondenza di P (come in figura 3.1), si definisce forza applicata l’insieme ~ OP, F i cui elementi sono i vettori OP e F~ . Un vettore per il quale il punto di applicazione non `e definito (oppure non `e rilevante) n o`e chiamato vettore libero. ~ Sia data la forza applicata OP, F e fissato un punto Q dello spazio (come in figura 3.2), consideriamo il vettore geometrico QP , con coda in Q e punta in P dove `e applicata la forza, si

56

3.2. LE FORZE COME VETTORI APPLICATI

z

G F

P

y

0 x

Figura 3.1: La forza F~ come vettore applicato nel punto P

definisce momento (moment) della forza applicata rispetto a Q il prodotto vettoriale: ~ Q = QP ∧ F~ M

(3.1)

Il punto Q rispetto al quale viene calcolato il momento `e chiamato polo. Il momento di una forza, da non tradurre con il termine simile per quantit` a di moto (momentum), `e definito da un prodotto i cui fattori rappresentano la forza come vettore applicato. Si pu`o quindi comprendere l’utilit`a del momento nello studio della meccanica dei corpi estesi e il motivo per cui non `e stato introdotto nello studio del punto materiale. Il vettore QP pu`o essere ottenuto

G F

z

r

P 0

Q

y

x Figura 3.2: Definizione di momento di una forza F~ rispetto a un polo Q

come differenza dei vettori posizione dei due punti P e Q, vale infatti la relazione: OP = OQ + QP

(3.2)

Le dimensioni del momento sono: [Forza] × [Lunghezza]. Esprimendo le forze in N e le distanze in mm, il momento risulta espresso in Nmm unit`a equivalente a 10−3 Nm. Dato che il momento `e un prodotto vettoriale e in molti casi le sue componenti verranno ottenute algebricamente, `e opportuno ricordare l’importanza dell’orientamento degli assi. In tutte le considerazioni che seguono si far`a sempre riferimento a sistemi cartesiani destrorsi.

57

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

Esempio 3.1: Momento di una forza Calcolare il momento della forza F~ (10, −4, 5) applicata al punto P (1, 4, −6) rispetto al polo Q(2, 3, 6) (le componenti della forza sono espresse in N e le posizioni in mm).  Il vettore QP si ottiene per differenza come nella relazione (3.2):     1−2 −1  mm QP =  4 − 3  =  1 −6 − 6 −12 Il momento della forza F~ rispetto al polo Q `e dato dalla definizione (3.1) e si ottiene dalle regole del prodotto vettoriale in componenti:   ˆi ˆj −43 kˆ ~ Q = −1 1 −12 = −43ˆi − 115ˆj − 6kˆ =  −115  Nmm M 10 −4 −6 5 Come si vedr`a nel seguito, nei casi piani il calcolo del momento pu`o essere semplificato.

3.2.2 Propriet` a del momento Dalla definizione appare evidente n oche il vettore momento dipende, oltre che dalle caratteristiche della forza applicata OP, F~ anche dalla posizione del polo Q. Pi` u precisamente, il momento dipende dalla posizione del polo Q rispetto alla retta r a cui appartiene la forza F~ (vedi figura 3.2), detta retta di applicazione o retta d’azione della forza. In base alle propriet`a del prodotto vettoriale, si ricavano alcune utili propriet`a del momento di una forza che saranno frequentemente utilizzate nei problemi di statica dei corpi estesi. Salvo esplicite indicazioni contrarie, consideriamo il caso non banale in cui la forza non `e nulla. ~ Q ha direzione normale al piano α passante per Q e contenente la • Il vettore momento M retta r di applicazione della forza F~ . • Il verso del momento pu`o essere determinato con la regola della mano destra: ponendo il centro del palmo in Q e orientando le dita dall’indice al mignolo (tra loro allineate) in ~ Q. modo da inseguire F~ , il pollice `e equiverso a M • Se il polo Q appartiene alla retta di applicazione della forza, il momento `e nullo (e solo in ~ Q = 0. questo caso), in simboli: Q ∈ r ⇔ M • Se il punto di applicazione della forza F~ si sposta lungo la sua retta di applicazione, il ~ Q = cost. momento rispetto al polo Q non cambia: ∀P ∈ r ⇒ M • Il momento di una forza non cambia se viene calcolato rispetto a un qualunque polo Q0 che appartiene alla retta r0 passante per Q e parallela a r. Ovvero se QQ0 `e parallelo a F~ ~Q = M ~ Q0 , in simboli: QQ0 ∧ F~ = 0 ⇒ M ~Q = M ~ Q0 . allora M ~ ~ • Il modulo del momento M pu` o essere ottenuto moltiplicando il modulo della forza F Q per la distanza del polo Q dalla retta r di applicazione della forza; tale distanza `e detta braccio (arm) della forza rispetto al polo. Nei problemi tridimensionali il calcolo del

58

3.3. SISTEMI DI FORZE

braccio pu`o non essere immediato, e quindi questa definizione non `e molto utile. Essa `e invece usata nei problemi piani. • La propriet`a distributiva del prodotto vettoriale pu`o facilitare il calcolo del momento. La forza pu`o infatti essere scomposta nelle sue componenti cartesiane, i momenti relativi alle singole componenti possono essere facilmente calcolati e successivamente sommati vettorialmente. Il vantaggio risiede nel fatto che la determinazione dei bracci delle singole componenti `e pi` u semplice. Osserviamo che il momento contiene nella sua definizione un certo grado di arbitrariet` a che `e connesso con la scelta del polo Q. Questa indeterminazione, che a prima vista pu` o disorientare, si rivela in pratica solo apparente poich´e, come vedremo, le leggi che definiscono il comportamento meccanico dei corpi estesi precisano il polo oppure sono indipendenti dalla scelta del polo. In questi casi, inoltre, la possibilit`a di scegliere il polo si riveler`a un vantaggio pratico poich´e spesso consente di semplificare i calcoli e di facilitare la comprensione del comportamento meccanico del corpo. Esempio 3.2: Indipendenza dal polo n o Con riferimento all’esempio precedente, verificare l’uguaglianza dei momenti di OP, F~ rispetto a Q e a Q0 , sapendo che Q0 appartiene alla retta per Q parallela a F~ e dista da esso 30 mm.  Vi sono due punti con le caratteristiche richieste per Q0 . Verifichiamo l’indipendenza del momento per uno di essi. Per determinarne le coordinate `e utile considerare che il versore della retta di applicazione r coincide col versore di F~ :   0.842 ~ F Fˆ = =  −0.337  |F~ | 0.421  27.3 pertanto: OQ0 = OQ + 30Fˆ =  −7.11  mm e Q0 P 18.6 quindi applicando la definizione:  ˆi ˆj kˆ ~ Q0 = −26.3 11.1 −24.6 =  M 10 −4 5 

 −26.3 = OP − OQ0 =  11.1  mm e −24.6 

 −43 −115  Nmm −6

3.3 Sistemi di forze Su un corpo esteso possono agire pi` u forze che possono essere applicate in punti diversi, si parla in questo caso di insieme o sistema di forze. In questo paragrafo sono definite alcune quantit`a globali dei sistemi di forze che, pur non avendo generalmente un significato fisico, non essendo sempre riconducibili a effettive interazioni, sono spesso usate per rappresentare in forma sintetica il sistema di forze nel suo complesso allo scopo di facilitare la soluzione di alcuni problemi. La sostituzione di un complesso sistema di forze con alcune sue quantit`a globali `e una

59

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

semplificazione simile a quella che si adotta quando la media dei voti `e assunta per rappresentare il profitto complessivo. Tale procedimento `e in molte circostanze ragionevole e comodo anche se la media non `e in genere un voto (di solito non `e un numero intero e pu`o differire da ognuno dei voti veri). Per altro, come talvolta la sola media dei voti pu`o non rappresentare correttamente la preparazione di uno studente, le caratteristiche globali dei sistemi di forze possono rivelarsi inadeguate o insufficienti per effettuare lo studio meccanico di un corpo esteso.

3.3.1 Caratteristiche complessive dei sistemi di forze Consideriamo un sistema di n forze F~1 , F~2 , . . . , F~n , applicate rispettivamente nei punti P1 , P2 , . . . , Pn generalmente distinti appartenenti a un corpo esteso, si definisce risultante del sistema di forze il vettore (libero) ottenuto dalla somma vettoriale delle forze: ~ = R

n X

F~i

(3.3)

i=1

Come anticipato, la risultante deriva da un’operazione algebrica eseguita sulle forze effettive e, di conseguenza, pu`o non avere significato fisico. Il sistema pu`o infatti comprendere forze di diversa natura e la risultante non `e in tal caso manifestazione di alcuna interazione fisica. Per un singolo punto materiale la validit` a della regola del parallelogramma, che ha permesso di identificare la forza come vettore, `e riscontrabile sperimentalmente. Si verifica infatti che un punto materiale soggetto a pi` u forze si muove effettivamente nello stesso modo in cui si muoverebbe se fosse soggetto alla risultante. Per un corpo esteso la situazione `e pi` u complicata. Infatti, se le forze agiscono sullo stesso punto P del corpo esteso non c’`e alcuna difficolt`a ad applicare il principio di equivalenza e quindi sommare le forze vettorialmente applicando la risultante a P stesso. Se invece le forze sono applicate in punti diversi pu`o essere interessante rispondere alla domanda: dove si dovrebbe applicare l’eventuale loro somma vettoriale? Per certi problemi questa domanda pu`o non avere alcun senso fisico. Vedremo tuttavia casi in cui a tale domanda `e possibile dare una risposta sensata. Analogamente alla forza risultante, si definisce momento risultante del sistema di forze ~ Fi applicate rispettivamente ai punti Pi rispetto al polo Q il vettore: ~ QR = M

n X

~ Qi = M

i=1

n X

QPi ∧ F~i

(3.4)

i=1

ottenuto come somma vettoriale dei momenti delle singole forze del sistema calcolati rispetto al medesimo polo Q. Esempio 3.3: Risultante e momento risultante ` dato il seguente sistema di forze F~i (componenti in N) applicate ai punti Pi (coordinate E cartesiane in mm): i 1 2 3 4 5

60

Pxi 2 −5 −50 40 50

Pyi 6 20 4 0 −40

Pzi −5 16 −17 33 60

3.3. SISTEMI DI FORZE

i 1 2 3 4 5

Fxi 100 50 30 10 −15

Fyi −300 −200 40 20 −10

Fzi −30 −65 −50 −25 −30

Calcolare la risultante e i momenti risultanti considerando come poli: l’origine O e il punto Q(10, 20, 30).  La forza risultante vale:



 175 ~ =  −450  N R −200

Per il momento risultante rispetto all’origine la tabella delle coordinate dei punti Pi contiene gi`a i dati necessari per il calcolo:   1.84 ~ OR =  −1.045  Nm M −3.62 per il polo Q, alle coordinate dei punti Pi devono essere sottratte quelle del polo:   −7.66 ~ QR =  −8.295  Nm M 4.38 Come prevedibile, il momento risultante cambia, almeno in questo caso, se viene assunto un polo diverso.

3.3.2 Sistemi piani di forze e metodi per il calcolo delle componenti di momento Quando tutte le forze F~i giacciono su uno stesso piano α, al quale appartengono anche i punti di applicazione Pi , il sistema di forze si chiama piano o complanare. In questo caso `e opportuno introdurre un sistema di riferimento con due assi (tipicamente x e y) appartenenti al piano α. Se anche il polo Q appartiene al piano α, il calcolo dei momenti `e semplice. Come spiegato nel capitolo 2, le propriet`a di questi sistemi di forze saranno utili nella soluzione dei problemi piani. Si osserva che: ~ Qi `e normale al piano α e ha quindi le componenti • per una generica forza, il momento M x e y identicamente nulle qualunque sia il polo scelto (purch´e anch’esso appartenente al piano), questa caratteristica vale anche per il momento risultante; • nei problemi piani, il momento `e quindi completamente definito dalla sola componente z e pertanto pu`o essere trattato come una grandezza scalare; • in un problema piano, il momento di una forza F~ `e positivo se un osservatore che si trova nel semispazio con le z positive vede la forza F~ diretta in modo da ‘ruotare’ attorno a

61

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

G F

y

P Q 0

H r

x

Figura 3.3: Momento nel caso piano

Q in senso antiorario (counterclockwise) (come nell’esempio illustrato in figura 3.3 in cui il momento rispetto a Q `e equiverso all’asse z); • il braccio della forza pu`o essere ottenuto semplicemente come distanza (nel piano) di Q dalla retta di applicazione di F~ (in figura 3.3 il braccio di F~ rispetto a Q `e la lunghezza del segmento QH); • il momento pu`o essere ottenuto anche sfruttando la propriet`a distributiva del prodotto vettoriale, come illustrato in figura 3.4. Scomposta la forza nelle sue componenti cartesiane (Fx , Fy ), si valutano separatamente i momenti (per ciascuna delle componenti il relativo braccio si ottiene immediatamente) e si sommano algebricamente i contributi: MQz = (xP − xQ ) Fy − (yp − yQ ) Fx

G F

y

0

Fy

y P

P Q

(3.5)

Fx r x

Q 0

x

Figura 3.4: Scomposizione cartesiana delle forze nel piano per il calcolo immediato della componente z del momento

Si pu`o notare che la regola della mano destra aiuta a ricordare il segno dei termini della precedente somma algebrica. Con riferimento alla figura 3.4, ponendo la mano destra in Q con il pollice nella direzione di z si vede che la componente Fy della forza produce un momento positivo se la differenza di ascissa xP − xQ `e positiva. Viceversa, la componente del momento prodotta dalla componente Fx `e negativa se la differenza di ordinate yP − yQ `e positiva. La possibilit`a di ottenere il momento di una forza usando la propriet`a distributiva del prodotto vettoriale e considerando separatamente le componenti cartesiane delle forze `e utile nei problemi tridimensionali. A tale riguardo `e opportuno cominciare ad acquisire familiarit`a con tale procedimento che `e descritto nell’esempio 3.4.

62

3.3. SISTEMI DI FORZE

Esempio 3.4: Calcolo di una singola componente del momento Con riferimento all’esempio precedente, calcolare direttamente MQz la componente z del momento di F~ = (10, −4, 5)T applicata al punto P (1, 4, −6) rispetto a Q(2, 3, 6) (forze in N e distanze in mm), senza ricorrere allo sviluppo del determinante.  La propriet`a distributiva del prodotto vettoriale consente di estendere ai problemi tridimensionali il procedimento appena visto per i casi piani. In particolare, notiamo che la componente z del momento non dipende dalla componente z della forza e dalle coordinate z del suo punto di applicazione e del polo. Questo significa che la componente z del momento non cambia se tutti i vettori (forze e posizioni) sono proiettati su un piano normale a z. Pertanto, in base alla relazione (3.5): MQz = (1 − 2) (−4) − (4 − 3) 10 = −6 Nmm

Esercizio 3.1: Calcolo delle componenti del momento Applicare il procedimento proposto nell’esempio 3.4 alle altre componenti del momento e al calcolo di ognuna delle componenti dei momenti prodotti delle varie forze dell’esempio 3.3. Il procedimento proposto pu`o essere quindi applicato con i seguenti passi: • collocare il palmo della mano destra nel polo • orientare il pollice nel verso dell’asse rispetto al quale deve essere valutata la componente del momento • considerare le sole componenti della forza perpendicolari al pollice • calcolare il contributo di tali componenti tenendo conto del segno in relazione al verso delle altre dita.

3.3.3 Sistemi di forze parallele Molti sistemi di forze sono composti da forze aventi la stessa direzione, l’esempio pi` u comune `e il peso proprio di un sistema di punti materiali. Consideriamo in questo paragrafo il caso in cui ` frequente dover rispondere alla domanda: esiste un punto la risultante sia diversa da zero. E in cui possiamo considerare applicata la risultante in modo che il momento prodotto dalla risultante sia uguale al momento risultante? La risposta `e affermativa e si verifica facilmente che sono infiniti i punti che hanno tale propriet`a. Esiste in effetti una (sola) retta su ogni punto della quale si pu`o assumere applicata la risultante per ottenere un momento uguale al momento risultante. Tale retta `e detta asse centrale del sistema di forze parallele. Le seguenti propriet`a relative all’asse centrale dei sistemi di forze parallele sono fornite senza dimostrazione. • L’asse centrale `e una retta parallela alla risultante.

63

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

B M A Figura 3.5: Asse centrale per forze parallele equiverse di uguale intensit`a applicate a punti equispaziati su un segmento

• La nozione di asse centrale pu`o essere estesa anche a sistemi di forze non parallele (con risultante non nulla), tramite una definizione pi` u generale di quella fornita in questo paragrafo. Tale estensione non `e utile nel corso in quanto non faremo uso dell’asse centrale per sistemi di forze non parallele. • Per determinare l’asse centrale di un sistema di forze `e necessario introdurre un polo Q per calcolare i momenti. Poich´e si ottiene lo stesso risultato per ogni polo Q e per ogni sistema di riferimento adottato per rappresentare i vettori, l’asse centrale `e una caratteristica intrinseca della distribuzione di forze. • Per simmetria, un sistema di forze parallele equiverse e aventi la stessa intensit`a, applicate a punti equispaziati su un segmento di estremi A e B, ha l’asse centrale che passa per il punto medio M del segmento (figura 3.5). • Come esemplificato in figura 3.6, lo stesso asse centrale `e ottenuto se i punti di applicazione delle singole forze (parallele, con la stessa intensit`a e con rette d’azione equispaziate) sono spostati lungo le relative rette d’azione. Tale traslazione infatti non ha effetto sul momento.

Figura 3.6: Asse centrale per forze parallele equiverse di uguale intensit`a con rette d’azione equidistanziate

Il caso generale di forze parallele genericamente distribuite sar`a trattato nel seguito.

3.3.4 Coppia di forze Un caso interessante di sistema di forze parallele `e la coppia (couple) di forze, costituito da due forze aventi la stessa intensit`a, la stessa direzione (le rette di applicazione sono parallele) e verso opposto. La risultante di una coppia `e evidentemente nulla, mentre si verifica che il momento risultante, generalmente non nullo, `e indipendente dal polo.

64

3.3. SISTEMI DI FORZE

Esempio 3.5: Indipendenza dal momento risultante di una coppia dal polo Sono dati i punti di applicazione P1 (10, 20, 40) e P2 (−10, 30, −60) (valori in mm) di una coppia di forze F~1 e F~2 ognuna avente modulo 100 N, direzione della trisettrice del primo ottante e la prima con componenti positive. Calcolare il momento risultante rispetto all’origine e verificare che `e uguale al valore calcolato rispetto a P1 .  Calcoliamo le componenti delle forze:   1 100 F~1 = √  1  e F~2 = −F~1 3 1 Il momento risultante rispetto all’origine O:       −1.155 −5.196 −6.351 ~ OR = OP1 ∧ F~1 + OP2 ∧ F~2 =  1.732  +  2.887  =  4.619  Nm M −0.577 2.309 1.732 Per il momento rispetto a P1 `e sufficiente calcolare il contributo della forza F2 :       −20 −57.735 −6.351 ~ P R = P1 P2 ∧ F~2 =  10  ∧  −57.735  =  4.619  Nm M 1 −100 −57.735 1.732

La coppia di forze costituisce un particolare sistema piano le cui principali caratteristiche sono di seguito riportate. • Il momento risultante (o momento della coppia) ha direzione normale al piano su cui le forze agiscono. Se il momento non `e nullo tale piano `e unico. • Il verso del momento della coppia `e dato dal pollice della mano destra quando le altre dita sono orientate in modo da seguire il senso di rotazione indicato dalle forze. • Il modulo del momento della coppia `e dato dal prodotto del modulo di una delle forze per il braccio della coppia che rappresenta la distanza tra le rette di applicazione. • Si chiama coppia di braccio nullo una coppia le cui forze hanno la medesima retta di applicazione. • Per la coppia di braccio nullo, risultante e momento risultante sono entrambi nulli. Esempi di coppie di braccio nullo sono le coppie di azione-reazione e le forze che sollecitano il dinamometro ideale descritte nel capitolo 1. • L’indipendenza dal polo del momento risultante vale non solo per le coppie, ma, in generale, per tutti i sistemi di forze con risultante nulla.

3.3.5 Sistemi di forze staticamente equivalenti Due sistemi di forze che hanno la stessa risultante e lo stesso momento risultante rispetto a un polo Q, sono detti staticamente equivalenti. Per due sistemi staticamente equivalenti l’uguaglianza dei momenti risultanti `e soddisfatta qualunque sia il polo. Si individua quindi

65

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

un’altra propriet`a del momento risultante che non `e condizionata dalla scelta del polo. Anche se su questo aspetto si torner`a diffusamente nel seguito, `e importante considerare che, in genere, sistemi staticamente equivalenti possono avere effetti molto diversi quando applicati allo stesso corpo esteso. Da ci`o segue che si deve usare cautela nella sostituzione di un sistema con uno staticamente equivalente, anche se questa pratica `e utile e corretta in certi casi. In effetti, il seguente teorema trova molte applicazioni nella soluzione dei problemi di statica dei corpi estesi: dato un generico sistema di forze e un punto Q, `e sempre possibile trovare una forza da applicare in Q e una coppia di forze avente un definito momento, in modo da realizzare un sistema staticamente equivalente al sistema dato. In particolare, si verifica che: la forza da applicare in Q `e la risultante del sistema di forze e il momento della coppia `e pari al momento risultante del sistema di forze calcolato rispetto al polo Q. Da ci`o consegue che: un sistema di forze parallele con risultante non nulla equivale staticamente alla risultante applicata in un qualunque punto dell’asse centrale. Un sistema di forze equivalente a una forza nulla e una coppia di momento nullo `e detto: autoequilibrato (self-balanced). Evidentemente, la caratteristica di un sistema di forze di essere autoequilibrato `e intrinseca, non dipendendo dal sistema di riferimento usato per rappresentare i vettori e dal polo scelto per calcolare i momenti. L’esempio pi` u semplice di sistema di forze autoequilibrato (che non sia quello banale con tutte le forze nulle) `e la coppia di braccio nullo. Contrariamente a quanto potrebbe sembrare, i sistemi autoequilibrati sono molto interessanti e saranno molto studiati nel seguito del corso. Esempio 3.6: Sistemi di forze staticamente equivalenti Dato il sistema di forze dell’esempio 3.3, determinare la forza da applicare nel punto B(10, 20, −30) e il momento della coppia corrispondente in modo che sia staticamente equivalente.  In B `e necessario applicare una forza pari alla risultante (gi`a calcolata nell’esempio 3.3)   175 ~ =  −450  N R −200 Serve inoltre una coppia di forze che abbia un momento pari al momento risultante del sistema calcolato rispetto a B:   19.34 ~ BR =  2.205  Nm M 4.38 Il momento pu`o essere realizzato con infinite coppie staticamente equivalenti. Tuttavia, come vedremo, anche questa indeterminatezza non `e rilevante in quanto ci`o che conta nel procedimento di riduzione (da n forze applicate a una sola forza applicata pi` u un momento che `e un vettore libero) `e il valore comune del momento della coppia e non le ` sempre opportuno ricordare che alla risultante e al forze costituenti la coppia stessa. E momento risultante non `e necessariamente attribuibile un significato fisico.

66

3.4. FORZE INTERNE E FORZE ESTERNE

3.3.6 Lavoro fatto da un sistema di forze Per naturale estensione del lavoro fatto dalla singola forza, si definisce il lavoro complessivamente fatto da un sistema di forze la somma algebrica dei lavori fatti dalle singole forze costituenti il sistema. Poich´e si tratta di forze applicate, non dovrebbero sussistere ambiguit` a per stabilire lo spostamento che deve essere usato nel calcolo del lavoro di ogni singola forza. Lo spostamento `e evidentemente quello del punto di applicazione della forza stessa. In modo conseguente, si estendono le nozioni di lavoro virtuale totale e di potenza complessiva sviluppata dal sistema di forze.

3.4 Forze interne e forze esterne 3.4.1 Definizione di forze interne ` utile classificare le forze agenti su un corpo esteso in relazione ai corpi che generano le E interazioni da cui esse hanno origine. Per fissare le idee, consideriamo il punto A di un corpo esteso (schematizzato come sistema discreto di punti materiali), le forze agenti su A possono essere l’effetto di interazioni tra il punto e: • altri punti del corpo stesso e per questo saranno chiamate forze interne • punti che appartengono ad altri corpi: forze esterne. Solo per i corpi estesi, che sono composti da pi` u punti, ha senso parlare di forze interne, un punto materiale pu`o essere soggetto solo a forze esterne. L’identificazione dei punti che appartengono al corpo influenza l’attribuzione della caratteristica interna o esterna delle forze agenti. Si osservi che l’appartenenza di un punto a un corpo `e convenzionale in quanto nulla vieta di definire come corpo esteso, per esempio, una parte di un corpo, ovvero un sottoinsieme dei suoi punti. Come conseguenza `e possibile identificare alcune forze interne scambiate tra due parti del corpo come forze esterne esercitate sulla singola parte. Nel presente corso, le forze interne e i loro effetti sono di prioritario interesse ed `e quindi opportuno cominciare a indagarne le propriet`a generali. Esempio 3.7: Forze interne ed esterne Consideriamo un corpo esteso costituito da una pila di 3 monete A, B e C disposte su un tavolo con la moneta A in alto: classificare le forze agenti sui punti del corpo in interne ed esterne.  Sono trascurati gli effetti dell’aria. Ognuna delle monete, che schematizziamo come punto materiale, `e soggetta a forze esterne e interne. In particolare, la moneta centrale B della pila, `e soggetta a: • una forza esterna, il peso proprio, dovuta all’interazione con la Terra (corpo che non appartiene al corpo esteso in esame) • due forze interne: una forza di contatto esercitata sulla sua faccia superiore conseguenza dell’interazione con la moneta A, e una di contatto sulla faccia inferiore, interazione con la moneta C (entrambe queste forze sono di natura elettromagnetica).

67

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

La moneta C alla base della pila `e soggetta a due forze esterne, il peso proprio e la forza di contatto esercitata dal tavolo, e a una forza interna esercitata per contatto dalla moneta B. Notiamo che, essendo le monete elettricamente neutre e non magnetizzate, l’interazione interna coinvolge solo le singole coppie di monete in contatto. Per ovvie ragioni abbiamo trascurato la debolissima forza interna di attrazione gravitazionale che si esercita tra le monete. L’esempio precedente illustra il procedimento generale con cui si possono evidenziare le forze interne. Il corpo esteso `e diviso in parti in modo che alcune interazioni, che sono interne per il corpo nel suo complesso, diventano esterne per qualcuna di tali parti. In particolare, le forze di contatto che si scambiano le monete sono interne se si considera il corpo ‘pila di monete’, mentre se si considera come corpo una singola moneta tali interazioni si manifestano come forze esterne, insieme con le forze che sono esterne anche per il corpo esteso ‘pila di monete’ nel suo complesso (nel caso esaminato il peso). La separazione, anche solo ideale, di parti di un corpo costituisce la base dei procedimenti per la determinazione teorica e numerica delle forze interne.

3.4.2 Propriet` a globali delle forze interne Consideriamo il sistema costituito da tutte le forze interne agenti su un corpo esteso costituito da un insieme di punti materiali. Prendiamo in esame una generica coppia di punti del corpo, A e B, se tra di essi vi `e interazione, per il terzo principio: F~AB = −F~BA e le due forze hanno in comune la retta di applicazione AB. Tali forze, interne per il corpo esteso, costituiscono pertanto una coppia di braccio nullo. Ripetendo il ragionamento per tutte le coppie di punti del corpo, si conclude che: il sistema di tutte le forze interne agenti su un corpo esteso `e autoequilibrato ovvero ha risultante nulla e momento risultante nullo rispetto a qualunque polo. ` importante osservare che, essendo conseguenza diretta del principio di azione-reazione, la E propriet`a delle forze interne di essere un sistema autoequilibrato `e di validit`a universale, si applica infatti a ogni corpo esteso (discreto o continuo, solido, liquido, gassoso, ecc. . . ) in condizioni di quiete o in qualunque stato di moto e per tutti gli osservatori (inerziali e non). Tale propriet`a ha notevoli conseguenze nella Meccanica dei corpi estesi ed `e sfruttata per la soluzione dei problemi, ma non deve essere interpretata in modo scorretto. Il fatto di essere un sistema globalmente autoequilibrato non implica infatti che le azioni interne non siano significative per il comportamento meccanico del corpo. Per convincersene bastano alcune semplici considerazioni. Quando un oggetto si rompe, in qualche sua parte le azioni interne, per quanto sempre autoequilibrate anche nel momento della rottura, hanno evidentemente raggiunto livelli non sopportabili dal materiale. Inoltre, le forze interne svolgono generalmente un ruolo fondamentale anche nei bilanci energetici. Se pensiamo l’Universo come un unico corpo esteso, tutte le azioni sono interne ma, nonostante il generale autoequilibrio, le sue parti sono in continuo movimento (noi stessi e tutti gli oggetti del nostro studio compresi). In generale quindi, le forze interne, per quanto sempre autoequilibrate, possono fare lavoro e, in base al teorema delle forze vive, concorrono a modificare l’energia cinetica e quindi le velocit`a dei punti del corpo esteso. Per illustrare questa circostanza, consideriamo il corpo esteso pi` u semplice sollecitato dalle sole forze interne: una coppia di punti materiali A e B (figura 3.7) isolati dal resto dell’Universo. Per fissare le idee supponiamo che l’interazione sia di tipo repulsivo (per esempio A e B siano due

68

` 3.5. IL CORPO ESTESO CONTINUO E LE SUE PRINCIPALI PROPRIETA

x

F z

y

B

F A Figura 3.7: Due punti materiali sotto l’effetto della sola interazione mutua (repulsiva)

cariche elettriche puntiformi di segno concorde) e indichiamo il modulo della forza di interazione ~ ~ con F (F = FAB = FBA ). Fissato un sistema di riferimento cartesiano comodo con l’origine in A e l’asse x sul segmento AB (come in figura 3.7), imponiamo al corpo una generica variazione virtuale di configurazione spostando A di una quantit`a (δAx , δAy , δAz ) e B di (δBx , δBy , δBz ). In base alla definizione di spostamento virtuale, l’interazione pu`o essere considerata costante durante la variazione di configurazione, e quindi il lavoro virtuale complessivo fatto dalle forze interne vale: δL = −F δAx + F δBx = F (δBx − δAx ) (3.6) si pu`o osservare che le componenti y e z degli spostamenti virtuali non hanno effetto sul lavoro virtuale (3.6) perch´e le forze di interazione non hanno componenti in tali direzioni. Da relazione (3.6) si deduce che: • nel caso di interazione repulsiva, se i punti vengono allontanati (δBx > δAx ), il lavoro delle forze interne `e positivo, viceversa se i punti vengono avvicinati (δBx < δAx ), il lavoro `e negativo • se l’interazione `e attrattiva, il segno del lavoro `e opposto al caso precedente (positivo per un avvicinamento e negativo per un allontanamento) • se la variazione di configurazione del sistema `e tale da conservare la distanza relativa dei punti, il lavoro `e nullo. Quest’ultima conclusione pu`o essere estesa a un generico sistema di punti materiali. Considerate tutte le coppie di punti e tutte le possibili interazioni mutue come coppie di braccio nullo (ovvero l’intero sistema delle forze interne), si conclude che: se in un sistema di punti materiali la distanza tra ogni coppia di punti non cambia, le forze interne non fanno lavoro qualunque sia il movimento del sistema. Un sistema di punti in cui le distanze mutue tra tutte le sue coppie di punti rimangono inalterate `e detto infinitamente rigido. Il modello di corpo esteso infinitamente rigido sar`a trattato nei prossimi capitoli. Per tutti i corpi estesi che non hanno questa propriet`a, ovvero per i corpi estesi deformabili, il lavoro fatto dalle forze interne non pu`o essere in genere trascurato.

3.5 Il corpo esteso continuo e le sue principali propriet` a 3.5.1 Il materiale come continuo Finora il corpo esteso `e stato considerato come un insieme discreto di punti materiali, per` o, in molte circostanze si devono modellare corpi estesi per i quali i singoli punti costituenti non

69

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

sono di immediata identificazione. In questi casi `e necessario ricorrere al modello di corpo esteso continuo (continuum). La Scienza dei Materiali evidenzia che, a una opportuna scala dimensionale, la materia rivela una struttura di tipo discreto (molecole, atomi, particelle subatomiche,. . . ) che potrebbe, in principio, prestarsi a una modellazione discreta di singoli punti materiali interagenti. Tuttavia, i corpi di nostro interesse sono macroscopici e le loro dimensioni caratteristiche (le quote del disegno meccanico) sono al minimo dell’ordine del micron (1µm = 10−3 mm), e quindi, per quanto piccola si possa considerare una significativa porzione del corpo, essa conterr`a un enorme numero di molecole. Per avere un’idea degli ordini di grandezza, `e facile verificare che a temperatura ambiente un cubetto di ferro con spigolo di 1µm contiene 84 miliardi di atomi e che la distanza interatomica media tra un atomo e suoi vicini nel reticolo cristallino `e di circa 2 · 10−4 µm. Inoltre, `e stato verificato sperimentalmente che la distanza tra gli elementi costituenti un reticolo cristallino `e dello stesso ordine di grandezza in tutti i solidi, indipendentemente dal tipo di legame o di atomi aggregati. Per il comportamento meccanico macroscopico, pertanto, la natura particellare non `e rilevante. Il modello di materiale continuo si basa quindi sull’assunto che una porzione di materia, per quanto piccola, purch´e di volume non nullo, individui comunque un corpo, con caratteristiche geometriche e fisiche definite (il volume, l’area della superficie esterna, la massa,. . . ) non nulle. Il modello continuo garantisce la possibilit`a di considerare come corpo una porzione di materia di dimensioni piccole a piacere, e quindi in teoria anche infinitesime, attorno a un generico punto A. L’elemento infinitesimo, o elementare, di materia, che adottando coordinate cartesiane ha forma parallelepipeda con spigoli dx, dy, dz, svolge quindi il ruolo di punto materiale associato alla posizione A similmente a quanto visto nei corpi estesi discreti. La novit`a fondamentale del continuo consiste nel fatto che i punti materiali hanno propriet`a fisiche e geometriche infinitesime e il loro numero non `e finito. La definizione delle propriet`a meccaniche del corpo continuo e delle forze su di esso agenti introduce alcune difficolt`a anche di carattere teorico. Per illustrarle, consideriamo il seguente esempio in cui sono esaminate forze interne ed esterne agenti sul corpo esteso continuo ‘acqua contenuta in un bicchiere’. Esempio 3.8: Identificazione delle forze interne ed esterne in un corpo continuo Per il corpo esteso costituito dall’acqua contenuta in un bicchiere che consideriamo in quiete, identificare le forze agenti distinguendo forze interne ed esterne in alcuni punti del corpo stesso  Dividiamo l’acqua in piccole porzioni parallelepipede di spigoli talmente piccoli (idealmente infinitesimi) che possano essere considerate porzioni ‘puntiformi’, come rappresentato in figura 3.8. Dobbiamo peraltro ricordare che, nell’ipotesi di continuo, tali porzioni, per quanto piccole a piacimento in senso macroscopico, contengono comunque un numero elevato di molecole. Analizziamo le forze agenti sulla porzione A localizzata all’interno del volume d’acqua, non in corrispondenza della superficie e nemmeno in contatto con il bicchiere. Come mostrato nel suo schema di corpo libero preliminare mostrato nella figura 3.8, sul ‘punto’ A agisce il peso proprio, una forza esterna in quanto interazione con la Terra, e le interazioni con le altre porzioni d’acqua, che possiamo identificare come forze di natura elettromagnetica. Tali interazioni elettromagnetiche sono evidentemente interne per il corpo ‘acqua contenuta nel bicchiere’ nel suo complesso. Data la neutralit`a elettrica delle molecole dell’acqua e la natura schermante della struttura atomica nei confronti dei campi elettromagnetici, tali interazioni sono scambiate tra molecole adiacenti, e quindi agiscono

70

` 3.5. IL CORPO ESTESO CONTINUO E LE SUE PRINCIPALI PROPRIETA

in corrispondenza della superficie della porzione A. Le forze interne sono quindi esercitate sulle sei facce del parallelepipedo.

B

A C

A

Figura 3.8: Porzioni ‘puntiformi’ di acqua in un bicchiere con schema di corpo libero della porzione A

La caratterizzazione fisica di queste interazioni interne superficiali di tipo elettromagnetico sar`a ampiamente discussa in seguito, tuttavia possiamo riconoscere in questa azione interna la grandezza ‘pressione’ idrostatica dell’acqua, gi`a nota dalla Fisica. Essendo la porzione d’acqua A in equilibrio (l’acqua `e in quiete per ipotesi), tutte le forze su di essa agenti (esterne o interne per il corpo generale) devono avere risultante nulla in base alla prima cardinale applicata al parallelepipedo. L’equilibro dell’acqua in corrispondenza di ogni suo punto impone pertanto un legame tra il peso proprio e la pressione (che `e la ben nota legge di Stevino). Per la porzione d’acqua B, la cui faccia superiore `e in corrispondenza della superficie superiore, tra le forze esterne, oltre al peso proprio deve essere considerata anche l’interazione elettromagnetica con l’aria sovrastante (effetto della pressione atmosferica). Le forze interne si manifestano quindi solo sulle altre 5 facce. Per la porzione d’acqua C posta a ridosso della parete del bicchiere, oltre al solito peso vi `e anche una forza esterna prodotta dall’interazione con le molecole del vetro. L’esempio indica come in un corpo continuo la definizione delle forze `e condizionata dall’arbitrariet` a con cui `e fissata la dimensione del parallelepipedo assunto come punto materiale. In effetti il peso della porzione A cresce se si considera un volume pi` u grande, e conseguentemente crescono anche le forze di interazione elettromagnetiche sulle sue facce. Per eliminare questa arbitrariet`a e consentire la quantificazione delle forze agenti sui corpi continui, `e necessario introdurre grandezze fisiche intensive, ovvero quantit`a riferite all’unit`a di volume o di superficie.

3.5.2 Massa e densit` a media nei corpi continui Per illustrare come giungere alla definizione delle grandezze intensive necessarie per i modelli continui, prendiamo come esempio le caratteristiche essenziali di inerzialit`a comuni a tutti i corpi. La massa totale di un corpo MT ot `e una grandezza misurabile perch´e con la bilancia a piattelli (almeno idealmente) `e possibile effettuare il confronto con la massa campione (nel presente paragrafo il pedice T ot indica ‘totale’ e si riferisce a quantit`a relative all’intero corpo). La massa totale di un corpo ha caratteristiche estensive e additive. Questo significa che, definito il materiale costituente, la massa totale `e una funzione non decrescente del volume del corpo

71

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

VT ot . Il rapporto tra la massa totale e il volume totale: γ¯ =

MT ot VT ot

definisce operativamente la densit` a volumica media (mean volumetric density) del corpo, grandezza che nel SI si esprime in Kg/m3 (o pi` u frequentemente nella tecnica in Kg/dm3 ). Attraverso una serie di misure di massa e di volume, eseguite su parti diverse del corpo, possiamo verificare se il materiale che lo costituisce `e omogeneo (homogeneus) dal punto di vista della massa. In questo caso l’omogeneit`a esprime la caratteristica della massa di non addensarsi preferenzialmente in alcune regioni. In termini operativi, in un corpo con massa omogeneamente distribuita tutti i cubetti di uguale volume che possono essere estratti in zone diverse hanno la stessa massa indipendentemente dalla loro posizione.

M MTot

Banda di errore sperimentale

α V VTot Figura 3.9: Misura della densit`a per un materiale con massa uniformemente distribuita

3.5.3 Definizione di densit` a Esaminiamo come definire rigorosamente, ma in modo fisico, la propriet`a di omogeneit`a di massa per un corpo. Supponiamo di poter frantumare il corpo in parti, generalmente aventi volumi diversi e, ovviamente, localizzate in posizioni diverse. Massa e volume di ogni parte possono essere misurati e i corrispondenti valori riportati su un diagramma cartesiano. Se, come in figura 3.9, anche in presenza delle incertezze sperimentali, i punti ottenuti si addensano attorno a una retta passante dall’origine degli assi affermiamo che il corpo `e costituito da materiale omogeneo dal punto di vista della massa. In questo caso, la massa di ogni parte del corpo `e direttamente proporzionale al proprio volume e il rapporto tra le due grandezze, che `e rappresentato sul diagramma cartesiano dal coefficiente angolare della retta (tan α in figura 3.9), definisce una grandezza intensiva: M γ= V detta densit` a volumica (volumetric density) del materiale. Per un materiale omogeneo, la densit`a `e ottenibile calcolando il rapporto massa/volume di una parte qualunque del corpo e quindi anche del corpo intero, pertanto la densit`a del materiale coincide con la densit`a media del corpo. Si osservi per`o che la densit`a γ, a differenza della densit`a media γ¯ , pu`o essere considerata una propriet`a puntuale del materiale e non dell’intero corpo usato per misurarla. Nel modello continuo, la massa di un materiale omogeneo `e quindi interpretabile come una distribuzione uniforme di densit`a sul volume occupato dal corpo.

72

` 3.5. IL CORPO ESTESO CONTINUO E LE SUE PRINCIPALI PROPRIETA

Molti materiali di interesse strutturale, come le leghe metalliche e le materie plastiche, hanno massa omogeneamente distribuita con ottima approssimazione. Nella seguente tabella sono riportate le densit`a delle principali classi di materiali usati nelle costruzioni meccaniche. Classe di materiale Leghe di ferro (acciai) Leghe di alluminio Leghe di rame (bronzi, ottoni) Materie plastiche (resine polimeriche) Materiali plastici rinforzati (carbo-resine, vetro-resine) Legname, materiale organico

Densit` a tipica (Kg/dm3 ) 7.8 2.7 8.9 0.9÷1.2 1.8÷2.4 0.95÷1.05

Se si misura la densit`a media dei frammenti di corpi costituiti da altri materiali, come per esempio il calcestruzzo (sabbia cemento e ghiaia), si osserva che i punti del grafico si disperdono in una fascia la cui ampiezza `e maggiore dell’incertezza sperimentale (figura 3.10). Dovremmo concludere che, in questo caso, il materiale ha massa non uniformemente distribuita e quindi che non `e omogeneo dal punto di vista della massa.

M MTot

V VTot Figura 3.10: Tipico diagramma sperimentale M − V per un materiale con massa non uniformemente distribuita (qualitativo)

La definizione di densit`a per un materiale non omogeneo risulta pi` u complicata. Consideriamo un punto A e tracciamo il grafico della massa in funzione del volume considerando porzioni del corpo che contengono il punto A. Operativamente, possiamo partire da una porzione relativamente grande alla quale togliamo progressivamente materiale, mantenendo il punto A all’interno. Si ottengono in questo modo i punti di una curva che rappresenta una funzione non decrescente M (V ) che tende a zero quando il volume si riduce. Definiamo densit`a locale nel punto A il seguente limite: M (V ) V →0 V

γ (xA , yA , zA ) = lim

(3.7)

che assumiamo esista e sia finito e non nullo. Per quanto la definizione (3.7) non sia operativa, dato che l’operazione di limite non `e eseguibile sperimentalmente, possiamo tuttavia predisporre una procedura di estrapolazione di rapporti massa-volume misurati su quantit`a sempre pi` u piccole, come illustrato in figura 3.11. A rigore, quindi, il modello stesso di continuo `e basato sull’assunzione dell’esistenza di tale limite finito e non nullo. Dal punto di vista dell’Analisi Matematica, la densit`a in A pu`o pertanto

73

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

M MTot

α0 V VTot Figura 3.11: Massa in funzione del volume per porzioni sempre pi` u ridotte che contengono il punto A e definizione della densit`a locale: γ (xA , yA , zA ) = tan α0

essere considerata come il rapporto tra la massa e il volume di un elemento infinitesimo di corpo che contiene il punto A: dM γ (xA , yA , zA ) = (3.8) dV L’esistenza del limite (3.7) si pu`o anche interpretare come: ogni corpo continuo `e uniformemente denso al limite indicando che, se si considerano porzioni di corpo sufficientemente piccole, le sue sottoparti hanno massa direttamente proporzionale al relativo volume. In termini matematici, se un materiale ha densit`a significa che la curva in figura 3.11 `e approssimabile nell’intorno dell’origine con una retta (a meno di infinitesimi di ordine 2 o superiori) con coefficiente angolare finito non nullo (tan(α0 ) in figura 3.11). La densit`a `e quindi la grandezza intensiva associata alla massa e, in generale, `e una funzione della posizione (o una distribuzione spaziale) γ (x, y, z) e rappresenta una propriet`a locale del materiale. Per ottenere la massa totale MT ot di un corpo che occupa un volume definito dalla figura solida Ω, quando `e nota la distribuzione della sua densit`a, `e necessario eseguire il procedimento inverso della definizione (3.8) ovvero l’integrazione: Z MT ot = γ (x, y, z) · dV (3.9) Ω

Esercizio 3.2: Densit`a di un corpo non omogeneo Una lamiera avente dimensioni (250 mm × 250 mm × 6 mm) `e realizzata incollando sulla superficie di massima estensione una lamina di acciaio e una di alluminio. Sapendo che il peso complessivo `e 19.13 N, trascurando massa e volume della colla: a) verificare che la densit`a media del corpo `e 5.2 kg/dm3 b) verificare che lo spessore della lamina di acciaio `e 2.94 mm c) tracciare su un diagramma M − V del tipo in figura 3.10 i margini della regione dove si collocherebbero i punti ottenuti da misure su porzioni del corpo.

74

3.6. FORZE SUI CORPI CONTINUI

3.6 Forze sui corpi continui In questo paragrafo sono analizzate le forze agenti su un corpo continuo in relazione alle caratteristiche geometriche delle zone su cui tali forze agiscono. Le forze esercitabili su un punto materiale o su un insieme discreto di punti, sono di tipo estensivo e concentrato, infatti, sono applicate al punto o ai punti costituenti il corpo discreto. Le forze agenti sui corpi continui sono invece schematizzabili con altri modelli matematici che, analogamente a quanto osservato per le propriet`a di massa, richiedono la definizione di grandezze intensive associate. Prima di entrare nel merito di tali modelli, `e utile osservare che, dal punto di vista geometrico, le forze esercitabili su un corpo continuo tridimensionale possono essere solo di due tipi: • forze di volume, dette anche forze di massa • forze di superficie qualunque altro modello di forza, come per esempio una forza concentrata (o puntiforme) oppure una forza applicata su una linea, `e fisicamente giustificabile solo in relazione a particolari idealizzazioni della geometria del corpo in esame e non sono a rigore applicabili a corpi estesi tridimensionali senza introdurre singolarit`a in alcune propriet`a della soluzione.

3.6.1 Forze di volume Le forze di volume sono esercitabili su ogni porzione del corpo, per quanto possano essere distribuite in modo non uniforme. Tipiche forze di volume sono: il peso proprio e le forze d’inerzia. Ogni atomo del corpo, sia esso collocato sulla superficie o all’interno, `e soggetto a tali interazioni. Le forze di volume possono essere misurate nel loro complesso, per cui, quando pesiamo un corpo, otteniamo di fatto il modulo della risultante delle forze peso. Analogamente alla massa, la misura sperimentale del peso fornisce quindi una grandezza di tipo estensivo (in questo caso la grandezza `e vettoriale). Con un procedimento di limite analogo a quello con cui `e stata definita la densit`a di massa, a di `e possibile ottenere la grandezza intensiva associata al peso chiamata peso per unit` volume o peso specifico. Il peso specifico in un punto A (xA , yA , zA ) si ottiene quindi tramite il seguente limite che, come al solito, si assume esista finito: P~ (Ω) V →0 V

p~ (xA , yA , zA ) = lim

(3.10)

in cui P~ (Ω) rappresenta il peso di una porzione Ω di corpo avente volume V che contiene il punto A. La grandezza p~ `e una quantit`a intensiva vettoriale e, similmente alla densit`a di massa, pu`o essere considerata come il rapporto tra il peso di una porzione infinitesima di materia che contiene A e il suo volume. Analogamente si pu`o trattare qualunque altra forza di volume, per esempio una forza d’inerzia, definendo la corrispondente densit`a volumica. Una densit`a volumica di forza `e dimensionalmente una [Forza]/[Volume] e quindi nel SI si misura in N/m3 o, pi` u frequentemente, in N/mm3 . In genere, le distribuzioni di forza saranno indicate con una lettera latina minuscola: f~, ~q, ecc. . . . ` opportuno riflettere sulla circostanza che, come la densit`a di massa non `e la massa del E volume infinitesimo, analogamente la densit`a volumica di forza non ` e la forza applicata al volume infinitesimo. Tale affermazione `e infatti scorretta: • dal punto di vista dimensionale: la forza agente su un corpo si misura in N, indipendentemente dalle dimensioni, finite o infinitesime, del corpo in esame

75

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

• dal punto di vista quantitativo: la forza agente su un volume infinitesimo `e una quantit`a infinitesima mentre la densit`a volumetrica di forza `e una quantit`a finita. Su un elemento infinitesimo di volume su cui agisce una densit`a volumica di forza pari a f~ la forza agente vale infatti: ~ = f~ · dV dF (3.11) quantit`a che, come si pu`o immediatamente verificare, `e dimensionalmente equivalente a una forza e ha intensit`a infinitesima (generalmente dello stesso ordine del volume). Nel caso del peso specifico p~, la densit`a volumica di forza `e diretta come l’accelerazione di gravit`a ed `e proporzionale alla densit`a di massa. Vale infatti la seguente relazione tra i moduli: p = γ ·g

(3.12)

Nel caso di densit`a volumica di forze d’inerzia f~, per esempio di trascinamento, la relazione tra moduli `e analogamente: f = γ |a~t | (3.13) in cui ~at indica l’accelerazione di trascinamento nel punto considerato. Analoga formula vale per la densit`a volumica di forza di Coriolis.

3.6.2 Forze di superficie Sono considerate forze superficiali o di superficie le forze di contatto che i corpi continui si scambiano attraverso la porzione di contorno comune. Le forze di superficie sono interazioni elettromagnetiche applicate agli atomi del corpo che si trovano in corrispondenza di una parte del contorno. Esempi di forze di superficie sono: la spinta esercitata dall’acqua sullo scafo di una imbarcazione (spinta di Archimede), la forza esercitata dal gas sulla pala di una turbina, la spinta esercitata dai piedi di un tuffatore sul trampolino, le reazioni dei vincoli, ecc. . . . Le forze appena richiamate sono quantit`a estensive, tuttavia anche per queste `e definibile una grandezza intensiva associata, detta densit`a superficiale di forza o forza per unit` a di superficie (traction). Il termine tecnico anglosassone non deve essere tradotto con ‘trazione’. Supponiamo che la superficie su cui agisce la distribuzione di forza sia regolare attorno a un punto A e quindi che la sua espressione analitica abbia almeno le derivate prime. Sotto tali condizioni di regolarit`a si pu`o definire in modo univoco il piano tangente in A alla superficie e il suo versore normale. Consideriamo una porzione Ω di superficie che contiene il punto A avente area S, con il solito procedimento definiamo la grandezza intensiva associata, densit`a superficiale di forza, con il limite: ~ ~t (xA , yA , zA ) = lim P (Ω) S→0 S

(3.14)

che supponiamo esista finito. Nella relazione (3.14) `e stata considerata una porzione di area Ω (sempre pi` u piccola) che contiene il punto A ed `e stata indicata con P~ (Ω) la risultante delle forze complessivamente agenti su di essa. La quantit`a vettoriale ~t, in genere variabile da punto a punto, ha le dimensioni di [Forza]/[Area] quindi `e omogenea con la pressione dei fluidi. Nel SI, l’unit`a di misura della densit`a superficiale di forza `e il N/m2 ed `e chiamata pascal (Pa), in onore di Blaise Pascal (16231662). Se invece del m come unit`a di lunghezza si usa il mm, la densit`a superficiale di forza risulter`a espressa in N/mm2 che equivale a 106 Pa oppure a 1 MPa l’unit`a di misura che sar`a generalmente usata nel seguito.

76

3.6. FORZE SUI CORPI CONTINUI

Esercizio 3.3: Forze e distribuzioni di forze Un cilindro avente raggio di base 50 mm e altezza 300 mm `e in quiete appoggiato su un piano orizzontale con la sua base. Il materiale `e ottenuto amalgamando uniformemente volumi di rame, ferro e alluminio nelle proporzioni 5, 4, 2 rispettivamente. Verificare che: a) le percentuali in massa (o in peso) dei costituenti sono nell’ordine: 54.8, 38.5 e 6.6. b) la densit`a del materiale `e 7.37 kg/dm3 c) il (modulo del) peso specifico del cilindro `e 7.23 · 10−5 N/mm3 d) la densit`a superficiale media della forza di contatto sulla superficie di base `e 0.022 MPa e) `e impossibile stabilire la composizione dell’amalgama sulla base della sola conoscenza della densit`a media, ma si possono calcolare i valori estremi delle frazioni in volume dei tre costituenti.

3.6.3 Forze concentrate Come gi`a osservato, nessun corpo continuo tridimensionale `e, a rigore, in grado di sopportare forze che non siano di volume oppure di superficie. In effetti, una forza finita applicata su un punto, o anche su una linea, produrrebbe, nella regione di applicazione di area nulla, una densit`a superficiale di forza di intensit`a infinita. In effetti, il contatto sfera-piano o cilindropiano, tipico dei cuscinetti di rotolamento, si manifesta su una superficie di dimensioni finite anche se relativamente contenute, che si estende attorno al punto, o al segmento, di teorico contatto geometrico. Pertanto, quando si assume che su corpo esteso sia applicata una forza concentrata, si effettua una semplificazione che pu`o essere lecita per certi scopi e inadeguata per altri, come illustra il seguente esempio. Esempio 3.9: Forze concentrate Valutare i modelli per rappresentare le forze che si applicano con le mani a una cesoia da giardiniere per recidere un arbusto, come schematizzato nella figura 3.12. F

F Figura 3.12: Schema essenziale a forze concentrate dell’azione esercitata con le mani su una cesoia.

Trascurando il peso proprio, sulla cesoia sono applicate forze di superficie in corrispondenza delle zone delle lame in contatto con l’arbusto e delle impugnature in contatto con

77

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

le mani. Se l’analisi che dobbiamo effettuare si limita alla valutazione del valore della forza complessiva F che ognuna delle mani deve esercitare (per esempio per stabilire se siamo sufficientemente allenati per recidere il ramo), `e lecito considerare le forze F come concentrate. In tale ipotesi, potremmo assumere ragionevolmente le forze F siano applicate in corrispondenza del centro del palmo della mano. In certi casi pu`o essere pi` u opportuno considerare le forze F applicate nelle zone di contatto estreme (pi` u vicine o pi` u lontane rispetto al perno) allo scopo di ottenere, secondo il caso, previsioni ragionevolmente sottostimate o sovrastimate sulla distanza dal perno dell’asse centrale dalla effettiva distribuzione delle forze di contatto. Come sar`a dimostrato nei prossimi capitoli, il modello di forza concentrata permette di risolvere in modo accurato diversi problemi relativi al funzionamento della cesoia. In particolare, possono essere ottenute le forze agenti sul perno e pu`o essere analizzato con sufficiente precisione l’effetto prodotto sul funzionamento dell’attrezzo dalle distanze del ramo e delle mani dal perno. Se il problema consiste invece nel verificare che l’operazione non produca danni alla mano, il modello di carico concentrato risulta completamente inadeguato. In particolare, dovendo progettare la forma dell’impugnatura, la forza di contatto dovr`a essere analizzata nella sua caratteristica di forza distribuita perch´e solo in questo modo il modello pu`o consentire di evidenziare la presenza di eventuali picchi di densit`a superficiale di forza. Possiamo gi`a da ora osservare che questo secondo problema `e molto pi` u complesso e richiede necessariamente informazioni su come gli oggetti in contatto, in particolare le mani, si deformano sotto carico. Nei problemi piani, per i quali il corpo `e idealmente appiattito in due dimensioni x − y, le forze di volume sono modellate come forze di superficie e la corrispondente densit`a di forza si esprime in N/mm2 , mentre le forze di superficie diventano forze applicate su una linea e la relativa densit`a si esprime in N/mm. In importanti modelli geometrici, i corpi sono ulteriormente ridotti a continui unidimensionali, un esempio gi`a noto `e il cavo ideale. Su tali corpi le forze di volume diventano distribuzioni di forze di linea mentre le forze di superficie diventano di linea quando sono applicate sulla superficie laterale del corpo, o forze concentrate quando sono applicate sulla sezione corrente, si pensi a tale proposito al tiro del filo che `e appunto applicato alla sua sezione. I continui unidimensionali costituiscono un argomento fondamentale del corso, pertanto questi aspetti della modellazione dei loro carichi saranno ripresi nel seguito.

3.7 Caratteristiche statiche equivalenti a distribuzioni di forze parallele Trattando corpi estesi continui sui quali agiscono forze distribuite nel volume o sulla superficie, `e spesso utile ridurre i sistemi complessi di forze a sistemi pi` u semplici che possono essere costituiti da una sola forza, quanto possibile, o al pi` u da poche forze concentrate. Gli effetti prodotti da sistemi di forze aventi propriet`a essenziali sono pi` u semplici da prevedere. Tuttavia, come generalmente accade quando il modello subisce una semplificazione, tale riduzione pu`o essere adatta per alcuni scopi ma non per tutti. A questo riguardo l’esempio delle cesoie `e particolarmente istruttivo.

78

3.7. CARATTERISTICHE STATICHE EQUIVALENTI A DISTRIBUZIONI DI FORZE PARALLELE

3.7.1 Distribuzione di forze parallele di superficie In molti casi anche i carichi distribuiti sono di tipo parallelo (per esempio il peso proprio o la pressione esercitata da un fluido in quiete su una parete piana), oppure possono essere scomposti in sottosistemi di forze parallele. In queste circostanze, come osservato, se il sistema di forze ha risultante non nulla `e staticamente equivalente alla risultante stessa applicata a un punto dell’asse centrale. Consideriamo, come in figura 3.13, una distribuzione di forze superficiali parallele agenti su una regione piana Ω posta sul piano cartesiano x − y avente contorno Γ e area A. Supponiamo che la distribuzione di densit`a superficiale di forza sia definita da una funzione della posizione tramite la relazione f~ = f (x, y) · m ˆ in cui m ˆ rappresenta un versore che, almeno in un primo tempo, non appartiene al piano x − y (quindi mz 6= 0) anche se non `e necessariamente a esso normale. La risultante della distribuzione si ottiene integrando la densit`a superficiale di forza

y

z

mˆ Γ

Ω

x

Figura 3.13: Regione su cui agisce una distribuzione generica di forze di superficie aventi direzione m ˆ

sul dominio di applicazione: ~ = Rxˆi + Ry ˆj + Rz kˆ = R

Z f (x, y) dxdy · m ˆ

(3.15)



nel caso particolare di distribuzione uniforme f (x, y) = f0 la risultante `e semplicemente: ~ = f0 · A · m R ˆ

(3.16)

Supponendo la risultante non nulla, per determinare il punto C(xC , yC ) dell’asse centrale appartenente al piano x − y, `e sufficiente considerare un qualunque polo e imporre l’uguaglianza tra il momento risultante e il momento della risultante considerata applicata in C. La componente x del momento risultante calcolato con polo l’origine (figura 3.14) vale: Z f (x, y) · mz · ydxdy (3.17) MRx = Ω

mentre la componente x del momento della risultante applicata in C vale: Rz · yC (Rz `e chiaramente la componente z della risultante). Eguagliando le due espressioni e ripetendo lo stesso ragionamento per la componente y del momento, si ottengono le coordinate di C: R x · f (x, y) dxdy xC = ΩR (3.18) Ω f (x, y) dxdy R y · f (x, y) dxdy yC = ΩR (3.19) Ω f (x, y) dxdy Il punto C `e chiamato centro di spinta della distribuzione. Nel caso di una distribuzione uniforme, C coincide con il baricentro di Ω (vedi Appendice D).

79

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

y

Γ Ω

x O Figura 3.14: Calcolo dell’integrale di superficie per valutare il momento risultante della distribuzione piana

Se il versore m ˆ appartiene al piano x−y, anche l’asse centrale appartiene al piano. In questo caso, l’equazione dell’asse centrale si pu`o ottenere imponendo l’uguaglianza tra le componenti z del momento risultante e del momento della risultante: Z Z Z xC · f (x, y)my dxdy−yC · f (x, y)mx dxdy = (x · f (x, y)my − y · f (x, y)mx ) dxdy (3.20) Ω





Per forze uniformemente distribuite sul piano x − y, l’asse centrale `e la retta parallela a m ˆ che passa per il baricentro di Ω.

3.7.2 Distribuzioni di forze parallele di volume Il procedimento sviluppato per le forze di superficie pu`o essere esteso alle forze di volume, considerando integrali volumici e imponendo l’uguaglianza di tutte componenti del momento. Si pu`o verificare che, in un corpo continuo di dimensioni molto inferiori al raggio della Terra (che occupa quindi una regione in cui l’accelerazione di gravit`a pu`o essere considerata uniforme): l’asse centrale della forza peso passa per il centro di massa del corpo. Il punto dove si pu`o considerare idealmente applicato il peso totale in modo che sia staticamente equivalente alla distribuzione volumica `e chiamato baricentro (centroid) fisico del corpo. Nelle nostre analisi, baricentro e centro di massa coincidono. Questa conclusione ci permette talvolta di considerare il peso proprio di un corpo esteso come una forza concentrata applicata ` tuttavia opportuno ricordare che questa semplificazione non `e nel suo centro di massa. E lecita per tutte le analisi data l’impossibilit`a da parte dei corpi continui di sopportare carichi concentrati. Esercizio 3.4: Distribuzioni di forze piane parallele su un rettangolo Con riferimento alla figura 3.13 (con mz 6= 0), assumendo come dominio il rettangolo di vertici l’origine e i punti A(20, 0), B(20, 50) e C(0, 50) (valori in mm), q0 = 130 MPa e mz 6= 0, verificare che i moduli della risultanti (in kN) e le coordinate dei centri di spinta delle seguenti distribuzioni superficiali di forze parallele sono i valori indicati: a) f (x, y) = q0 : R = 130, C(10, 25) b) f (x, y) = q0 (x/20): R = 65, C(13.33, 25) c) f (x, y) = q0 (x/20)2 : R = 43.3, C(15, 25) d) f (x, y) = q0 (x3 /203 + y 2 /502 ): R = 75.8, C(12.57, 32.14)

80

3.8. MOMENTI CONCENTRATI

Esercizio 3.5: Distribuzioni di forze piane parallele su un trapezio Come l’esercizio precedente, assumendo come dominio il trapezio di vertici l’origine e i punti A(20, 0), B(20, 50) e C(10, 50): a) f (x, y) = q0 : R = 97.5, C(12.2, 22.2) b) f (x, y) = q0 (x/20) : R = 59.6, C(14.09, 23.9) c) f (x, y) = q0 (x/20)2 : R = 42.0, C(15.29, 24.5) d) f (x, y) = q0 (x3 /203 + y 2 /502 ) : R = 59.2, C(14.97, 29.9)

3.8 Momenti concentrati Consideriamo un corpo esteso sul quale `e applicata, in una zona di estensione contenuta rispetto alle dimensioni complessive del corpo, una distribuzione di forze (normalmente di superficie) che abbia risultante nulla e momento risultante diverso da zero. In questo caso non sono definibili un asse centrale o un centro di spinta per cui non risulta immediato fornire una rappresentazione globale sintetica dell’azione complessiva della distribuzione di forze. A tale scopo si introduce la nozione di momento concentrato come spiegato nel seguito.

3.8.1 La nozione di momento concentrato Supponiamo di serrare una vite su una flangia utilizzando una chiave a tubo all’estremit` a della quale `e stato inserito un perno per facilitare l’operazione (figura 3.15). Supponiamo che l’azione di serraggio sia eseguita con entrambe le mani in modo simmetrico: una spinge e l’altra tira con la stessa intensit`a: F . Come caratterizzare in modo complessivo il sistema di forze trasmesse dalla chiave alla testa della vite?

F

A

F Figura 3.15: Chiave a tubo usata per serrare una vite su una flangia

Dal punto di vista fisico, l’azione trasmessa pu`o essere considerata una complessa buzione di forze superficiali agenti sulle zone della testa della vite che sono in contatto chiave. Anche disponendo di strumenti di calcolo non elementari, la valutazione di tale buzione non `e agevole. Il valore locale dipende infatti da varie grandezze (tra le quali:

districon la distrigiochi

81

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

di accoppiamento, deformabilit`a delle parti, piccole inclinazioni dell’attrezzo, tolleranze di forma e dimensioni degli elementi accoppiati, ecc. . . ) tutte quantit`a rilevanti per il risultato ma di difficile previsione o misura. Tuttavia se, come nell’esempio della cesoia, non `e necessario conoscere tale distribuzione nel dettaglio ma interessa solo il suo effetto complessivo sulla vite, `e possibile definire una azione statica risultante, o complessiva, da applicare al ‘punto’ A, testa della vite, sul quale assumiamo agisca il sistema di forze. La risultante delle forze di contatto `e per`o nulla, in effetti la chiave `e uno strumento che permette fisicamente di trasferire la coppia esercitata dalle mani alla testa della vite. Nella zona A, `e quindi applicato un sistema di forze che equivale staticamente alla coppia esercitata con le mani o, pi` u correttamente, un sistema di forze avente momento risultante pari al momento di tale coppia. Nel linguaggio comune, l’espressione ‘applicare un sistema di forze a risultante nulla equivalente a una coppia di momento dato’ `e resa nella pi` u concisa locuzione ‘applicare un momento’. Questa semplificazione linguistica `e alla base di espressioni del tipo: momento di serraggio di una vite, momento sviluppato dal motore, ecc. . . , usate frequentemente in ambito tecnico. Per semplicit`a, useremo nel seguito questa locuzione semplificata per quanto contraddittoria poich´e suggerisce la possibilit`a di esercitare un’azione di momento in un punto. In effetti non si deve dimenticare che, dal punto di vista fisico, per un corpo tridimensionale: • sono applicabili solo forze di volume o di superficie, rispettivamente su volumi e superfici di dimensioni finite • a rigore non `e possibile applicare un momento in un punto in quanto, affinch´e si abbia coppia (di momento non nullo) `e necessario un braccio e quindi la zona su cui le forze agiscono deve necessariamente avere una estensione non nulla • la nozione di momento concentrato `e adeguata per rappresentare una distribuzione di forze staticamente equivalente a una coppia se la regione in cui la distribuzione agisce ha una estensione piccola rispetto alle dimensioni significative del problema e inoltre non ha interesse valutare le propriet`a della distribuzione di forze nel dettaglio. Il momento concentrato, che si considera applicato nel punto A (testa della vite in figura 3.15), sar`a rappresentato con una doppia freccia oppure, alternativamente, con una freccia curva come mostrato in figura 3.16. Disponendo la mano destra in modo da riprodurre l’azione del momento, la doppia freccia `e equiversa al pollice, mentre la freccia curva ha l’orientamento e il verso delle altre quattro dita allineate.

A (a)

A (b)

Figura 3.16: Rappresentazioni schematiche di un momento concentrato esercitato sulla flangia in corrispondenza della testa della vite in A: (a) rappresentazione con la freccia curva; (b) rappresentazione con la doppia freccia

82

3.8. MOMENTI CONCENTRATI

Nei problemi bidimensionali, rappresentati sul piano x − y, il momento ha solo componente Mz e la freccia curva risulta la rappresentazione pi` u comoda e naturale per il momento concentrato perch´e giace sul piano di rappresentazione x − y (mentre la doppia freccia `e normale). Visto da z+, un momento con componente Mz positiva `e rappresentato da una freccia curva antioraria (un momento negativo ha la freccia curva oraria). Nella rappresentazione assonometrica dei problemi tridimensionali, `e necessario rappresentare la freccia curva come un nastro (come in figura 3.16) in modo da evidenziarne, oltre al verso, anche la direzione (l’asse del cilindro su cui si avvolge il nastro). Poich´e la rappresentazione come freccia a nastro non `e agevole da effettuarsi a mano libera, negli schemi tridimensionali u comodo usare la rappresentazione con doppia freccia. Per quanto possibile, `e generalmente pi` nel testo si cercher`a comunque di privilegiare la rappresentazione con la freccia curva, ritenuta graficamente pi` u espressiva per caratterizzare un sistema localizzato di forze equivalente a un momento.

3.8.2 Lavoro fatto dai momenti concentrati Analogamente alle forze concentrate, si possono determinare le grandezze energetiche asso~ applicato in un punto A in genere fa lavoro se la ciate ai momenti concentrati. Un momento M parte di corpo limitrofa ad A subisce una rotazione. Consideriamo il caso pi` u semplice di un problema piano nel quale in A agisca un (sistema di forze equivalente a un) momento che si mantiene costante mentre la regione attorno ad A subisce una rotazione finita θ (in radianti) attorno all’asse z. Il lavoro complessivamente fatto dal sistema di forze equivalenti al momento risulta essere: L = M ·θ

(3.21)

in cui `e stato assunto il segno delle rotazioni sulla base della mano destra e quindi coerente con il momento. Consideriamo la situazione pi` u generale di un corpo nello spazio e di un momento (anche variabile nel tempo) applicato in un punto A. La rotazione infinitesima della zona attorno ad A pu`o essere rappresentata da un vettore dθ~ definito come segue: • la direzione di dθ~ coincide con la retta attorno alla quale avviene la rotazione (che in ogni istante `e univocamente definita) • il verso di dθ~ coincide con quello del pollice della mano destra disposta in modo che le altre dita seguano la rotazione • il modulo di dθ~ `e dato dal valore (infinitesimo) dell’angolo espresso in radianti. Si verifica che le rotazioni infinitesime, a differenza delle rotazioni finite, sono quantit`a vettoriali ` pertanto possibile dato che la loro somma si ottiene con la regola del parallelogramma. E effettuare la scomposizione cartesiana di una rotazione infinitesima: dθ~ = dθxˆi + dθy ˆj + dθz kˆ

(3.22)

Il lavoro infinitesimo fatto dal momento vale pertanto: ~ · dθ~ = Mx dθx + My dθy + Mz dθz dL = M

(3.23)

Analogamente, indicando con δ θ~ la rotazione virtuale, il lavoro virtuale fatto dal momento vale: ~ · δ θ~ = Mx δθx + My δθy + Mz δθz δL = M

(3.24)

83

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

~ Indicando con ω ~ = dθ/dt la velocit`a angolare istantanea della zona attorno ad A, la potenza sviluppata dal momento vale: ~ ·ω W =M ~ (3.25) Le ultime relazioni mostrano che la rotazione `e la grandezza geometrica energeticamente associata al momento, analogamente allo spostamento che `e la grandezza geometrica energeticamente associata alla forza. Esercizio 3.6: Distribuzione di forze piane su un triangolo Dato un triangolo di vertici l’origine e i punti  x f (x, y)m ˆ = q0 ( − a

A(a, 0) e B(0, b) e la distribuzione di forze:  1 y 1 ) + p0 ( − ) m ˆ 3 b 3

con m ˆ versore generico a) verificare che per qualunque valore di p0 e q0 la distribuzione equivale a un momento b) valutare il modulo del momento risultante per a = 50 mm, b = 100 mm, q0 = 25 MPa e p0 = −10 MPa

3.9 Azioni statiche e generalizzazione del terzo principio Sulla base di quanto `e stato sviluppato nel presente capitolo, `e possibile ricavare la seguente considerazione che sar`a molto utile nella soluzione dei problemi di statica dei corpi estesi: qualunque sistema di forze (discreto o continuo, di volume o di superficie, ecc. . . ), agente in una regione di un corpo in corrispondenza di un punto A, pu`o sempre essere ricondotto a un sistema staticamente equivalente costituito da una forza F~ ~ considerati applicati nel punto A pi` u un momento M ~ `e il momento risultante del `e evidente che F~ `e la risultante del sistema di forze mentre M ~ ~ sistema di forze calcolato con polo A. Chiameremo F e M le azioni statiche complessive esercitate in A della distribuzione. Come casi particolari, una delle azioni statiche pu`o essere nulla e possono essere nulle anche entrambe, se il sistema di forze `e autoequilibrato. Purtroppo, in Meccanica il termine azione `e attribuito anche a una diversa quantit`a. Si definisce azione, infatti, anche l’integrale del lavoro nel tempo, da cui discende il principio di minima azione utilizzato in Meccanica Analitica. Nel presente corso, tuttavia, quest’ultima nozione non `e impiegata e al termine azione, generalmente accompagnato dall’aggettivo statica, `e attribuito esclusivamente il significato di caratteristica complessiva di un sistema di forze agenti nei pressi di un punto, come definito nel presente paragrafo. Il termine azione, nella nostra accezione, `e quello che viene comunemente riportato nell’enunciato classico del terzo principio: a ogni azione (statica) corrisponde una reazione uguale e contraria. Tale principio, introdotto del capitolo 1 per le sole forze scambiate tra punti materiali, pu`o in effetti essere esteso alla pi` u generale interazione tra corpi estesi. La generale interazione tra corpi estesi si manifesta infatti con l’intervento di mutue azioni statiche.

84

3.9. AZIONI STATICHE E GENERALIZZAZIONE DEL TERZO PRINCIPIO

Esempio 3.10: Azioni statiche Come mostrato nello schema di figura 3.17, la vite A di una ruota deve essere allentata tramite una chiave fissa esercitando con la mano una forza verticale (verso l’alto) complessiva di 200 N a 250 mm di distanza dalla vite. Trascurando il peso proprio della chiave: a) Tracciare lo schema di corpo libero della chiave. b) Valutare e rappresentare le azioni statiche trasmesse complessivamente dalla chiave alla ruota. 250

A

Figura 3.17: Schema del disassemblaggio di una ruota.

Per rispondere alla domanda a) `e opportuno considerare la chiave come un corpo esteso che pu`o essere schematizzato nel piano. L’azione esercitata dalla mano (carico) pu` o essere ridotta a una forza concentrata. La chiave `e vincolata alla testa della vite, possiamo considerare che in tale punto il vincolo possa esercitare una distribuzione di forze di superficie riconducibile a una generica azione statica che, nel piano, `e caratterizzabile da una forza piana e da un momento perpendicolare al piano. In figura 3.18 `e riportato lo schema di corpo libero preliminare della chiave. Le grandezze U , V e W rappresentano le componenti scalari delle caratteristiche statiche globali (risultante pi` u momento risultante) delle azioni trasmesse dalla vite alla chiave. Se i dettagli della distribuzione di forze superficiali non interessano, consideriamo le azioni nel loro complesso e assumiamo che siano applicate al ‘punto’ A in corrispondenza dell’estremit`a della chiave.

200N

V W U

Figura 3.18: Diagramma di corpo libero preliminare per la chiave

Come sar`a spiegato nei prossimi capitoli, considerazioni di equilibrio per la chiave permettono di valutare tali azioni: V = −200 N, U = 0 N e W = −50 · 103 Nmm (= 50 Nm). Lo schema di corpo libero definitivo `e riportato nella figura 3.19.

85

3. IL CORPO ESTESO E LE AZIONI SU DI ESSO AGENTI

50Nm

200N 200N

Figura 3.19: Schema di corpo libero definitivo della chiave considerando le azioni agenti come concentrate (le unit`a di misura sono opportune dato che nello schema compaiono quantit` a non omogenee)

L’azione statica complessiva esercitata dalla chiave sulla testa della vite, domanda b), si ottiene dal risultato precedente applicando il terzo principio, e consiste in: • una forza di 200 N verso l’alto • un momento di 50 Nm che agisce in senso antiorario (dal punto di vista della figura 3.17). Come di consueto, quando sono state rappresentate le azioni esercitate dalla chiave (figura 3.20), la chiave `e stata eliminata dal disegno. Pu`o essere interessante osservare che mentre il momento applicato alla testa della vite `e utile per effettuare l’operazione richiesta la componente di forza `e invece dannosa. Si tratta di una conseguenza dell’uso della chiave fissa. Come si potrebbe ridurre o eliminare tale forza?

200N A 50Nm

Figura 3.20: Schema delle azioni statiche esercitate dalla chiave sulla testa della vite (considerate concentrate nel punto A)

86

Capitolo 4

Il corpo rigido e i vincoli nel piano Nel presente capitolo `e introdotto il modello di corpo rigido che `e fondamentale per lo studio del comportamento meccanico dei corpi estesi. La determinazione della posizione, e quindi del moto, di un corpo rigido pu`o essere effettuata adottando un numero relativamente ridotto di grandezze geometriche che sono indipendenti dalla estensione e dalla forma del corpo stesso. Questa caratteristica `e comune a tutti i corpi rigidi sia discreti sia continui. I vantaggi del modello rigido per il corpo continuo sono particolarmente evidenti, essendo questo composto da un numero infinito di punti materiali. Il corpo rigido `e pertanto il modello pi` u semplice per un corpo esteso ma `e anche utile in quanto molti componenti meccanici possono essere considerati corpi rigidi con sufficiente approssimazione. Dopo la descrizione del modello di corpo rigido, sono analizzate le condizioni che ne determinano l’equilibrio statico. Nella seconda parte del capitolo, sono discussi i principali vincoli con cui si possono limitare le possibilit`a di movimento di un corpo rigido. Per motivi didattici, sono proposti prima i vincoli nel caso di problemi piani. I vincoli e i relativi problemi per il corpo rigido nello spazio saranno discussi in un successivo capitolo, quando la pratica nella soluzione degli esercizi nel caso piano li renderanno di pi` u agevole comprensione.

4.1 Il corpo rigido e le condizioni di equilibrio 4.1.1 Il modello di corpo rigido Un corpo esteso, continuo o discreto, i cui punti rimangono a distanza mutua fissa `e detto infinitamente o perfettamente rigido (rigid). Spesso l’aggettivo infinitamente `e omesso ed `e usata la locuzione semplificata corpo rigido (rigid body). Anche il corpo infinitamente rigido `e un modello. A rigore infatti, non esistono in natura sistemi di punti materiali che hanno questa propriet`a, poich´e, come discusso nel capitolo 1, tutti i corpi sottoposti ad azioni statiche manifestano variazioni di forma e di dimensioni. Tuttavia, in molti casi di pratico interesse, le variazioni geometriche sono di entit`a esigua e risultano ininfluenti nella soluzione del problema. In questi casi il corpo esteso pu`o essere modellato come infinitamente rigido. Il termine rigido (aggettivo) (stiff) `e usato anche per indicare la propriet`a di un corpo di deformarsi poco sotto l’azione delle azioni statiche agenti. Si dice, per esempio, che una barra di acciaio `e pi` u rigida (o meno deformabile) di una barra di gomma che ha la medesima forma e le stesse dimensioni. In modo equivalente, si dice che la rigidezza (stiffness) della barra di acciaio `e maggiore di quella della barra di gomma. Con tali locuzioni si esprime l’evidenza sperimentale che, se le due barre sono sottoposte alle stesse azioni (per esempio sono tese entrambe con la medesima coppia di forze di braccio nullo applicate alle estremit`a), la barra di

87

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

acciaio si allunga meno di quella di gomma. Quando pu`o sorgere ambiguit`a di significato tra l’aggettivo e il sostantivo ‘rigido’, per quest’ultimo `e opportuno usare la locuzione: infinitamente rigido.

4.1.2 Equilibrio e equazioni cardinali per un corpo rigido La nozione di equilibrio statico per un corpo esteso `e ottenuta per diretta generalizzazione da quella introdotta per il punto materiale. Per un osservatore un corpo esteso (rigido o deformabile) `e in quiete (o in equilibrio statico) se ogni suo punto `e fermo in un intervallo non nullo di tempo. Allo scopo di determinare sperimentalmente in quali condizioni un corpo rigido `e in equilibrio, si pu`o impiegare un apparato analogo a quello descritto nel capitolo 2 usato per studiare l’equilibrio del punto materiale. In questo caso `e necessario considerare, al posto di un piccolo anello, un oggetto che abbia dimensioni confrontabili con quelle dell’apparato sperimentale e che sia realizzato con un materiale opportuno in modo che la forma del corpo non vari significativamente a causa dell’applicazione dei carichi. Per fissare le idee, consideriamo un oggetto avente estensione non trascurabile rispetto alle distanze tra le pulegge che possiamo ottenere, per esempio, ritagliando una forma comunque complessa da una lamiera metallica. L’esperimento mostra chiaramente che il comportamento del corpo dipende dalle le posizioni in cui le funi sono collegate e che, di conseguenza, il modello di punto materiale non `e adeguato. A posteriori possiamo verificare che il corpo in esame pu`o effettivamente essere considerato esteso, continuo e rigido in quanto non sono identificabili i punti materiali costituenti e non si rilevano macroscopiche modifiche della sua forma quando le forze sono applicate. Le azioni agenti sono: • il peso: una distribuzione di forza uniformemente distribuita nel corpo (la densit`a `e assunta costante); il peso complessivo (la risultante delle forze peso) pu`o essere misurato con una bilancia. La distribuzione delle forze peso equivale staticamente al peso totale applicato nel centro di massa • le forze esercitate dai fili nei punti di attacco, che possono essere considerate concentrate e le cui intensit`a (i tiri dei fili) sono misurabili con dinamometri • le forze d’inerzia sono assenti, in quanto all’equilibrio il corpo assume una configurazione di quiete nel sistema di riferimento inerziale del laboratorio • le forze interne nel corpo. Tali interazioni scambiate tra le varie parti della lamiera sono di natura elettromagnetica e non sono di agevole determinazione sperimentale. Fortunatamente la loro conoscenza non sar`a necessaria almeno in questa prima fase del corso, tuttavia, vista l’idealit`a dell’esperimento, supponiamo di poterle misurare e quindi di conoscerle. All’equilibrio, il corpo, e quindi ogni suo punto, risulter`a fermo per un intervallo (non nullo) di tempo. La misura delle forze agenti quando il corpo rigido assume la condizione di equilibrio porta a constatare che: per un corpo rigido in equilibrio statico, la risultante di tutte le forze su di esso agenti `e nulla Si noti che questa legge `e solo apparentemente uguale a quella valida per il punto materiale. In questo caso infatti le varie forze sono applicate a punti diversi, e come sappiamo dal precedente capitolo, la risultante non ha un effettivo significato fisico. Sempre l’evidenza sperimentale permette inoltre di affermare che:

88

4.1. IL CORPO RIGIDO E LE CONDIZIONI DI EQUILIBRIO

per un corpo rigido in equilibrio statico il momento risultante di tutte le forze agenti sui suoi punti `e nullo. Poich´e le forze interne sono in ogni circostanza (anche quando il corpo non `e rigido e non `e in quiete) un sistema autoequilibrato, le precedenti leggi possono essere riformulate come: per un corpo rigido in equilibrio statico, la risultante delle forze esterne `e nulla in termini matematici: ~ =0 R

(4.1)

relazione nota come prima equazione cardinale della statica per il corpo rigido. Inoltre si ha che: per un corpo rigido in equilibrio statico, il momento risultante delle azioni esterne `e nullo in termini matematici: ~R = 0 M

(4.2)

relazione nota come seconda equazione cardinale della statica per il corpo rigido. Le due affermazioni precedenti possono essere riassunte nella seguente: per un corpo rigido in equilibrio statico le azioni esterne agenti sono un sistema autoequilibrato.

Esempio 4.1: Equilibrio di un corpo rigido Una barra rigida AB, lunga L = 1 m e avente massa uniformemente distribuita di 3 kg, `e sostenuta da un giocoliere con una mano posta nell’estremo inferiore A e l’altra nel punto C che dista 30 cm da A. Nell’istante considerato, la barra `e su un piano verticale inclinata di 45◦ rispetto alla direzione del filo a piombo. a) Sapendo che con ognuna delle mani `e applicata alla barra una forza verticale diretta verso l’alto di 14.72 N, verificare che la barra non `e in equilibrio statico rispetto al pavimento b) Supponendo che il giocoliere voglia mantenere la barra in equilibrio ripetto al pavimento esercitando una forza verticale in A, determinare le forze che deve esercitare con le due mani. c) Ripetere il calcolo richiesto nel punto precedente nell’ipotesi che il giocoliere voglia esercitare in C una forza perpendicolare all’asse della barra.  Risposta a) Usando un sistema di riferimento cartesiano con origine in A asse y verticale diretto verso l’alto e asse x (orizzontale) tale che l’asse della barra sia contenuta nel primo quadrante del piano x − y, il problema `e piano. Supponiamo che la barra sia in equilibrio, le uniche forze agenti nel sistema di riferimento inerziale fisso a terra sono: il peso (che possiamo considerare una distribuzione di forze parallele uniformemente distribuite sull’asse della barra) e le forze esercitate dalle mani. Un semplice calcolo mostra che la prima cardinale `e soddisfatta (a meno di piccole differenze di origine numerica). Poich´e

89

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

la barra `e un corpo esteso (rigido), dobbiamo verificare che anche la seconda cardinale sia soddisfatta. A tale scopo `e necessario calcolare il momento risultante rispetto a un qualunque polo. Scegliendo come polo l’estremo A, il momento della forza in C si ottiene in modo elementare (3.123 Nm), per il momento del peso possiamo ricorrere alla definizione (che comporta un integrale) oppure, pi` u convenientemente, ricorriamo ai teoremi discussi nel capitolo precedente. In particolare, poich´e sappiamo che la distribuzione delle forze peso `e staticamente equivalente alla risultante applicata all’asse centrale (che passa per il centro di massa della barra), il calcolo del momento dovuto al peso `e: −mg cos(π/4)L/2 = −10.41 Nm. Da ci`o ricaviamo che il momento risultante `e −7.282 Nm. Tale valore `e dello stesso ordine di grandezza del momento dovuto al peso proprio e quindi `e una quantit`a non trascurabile per il problema in esame. Concludiamo che la barra non `e in equilibrio statico. Risposta b) In questo caso vi sono tre incognite: la componente verticale della forza in A e le due componenti della forza in C. Imponendo il rispetto delle condizioni che derivano dalle cardinali (due equazioni per la prima e una per la seconda) si ottiene (valori in N): F~A = (0, −19.62)T

e

F~C = (0, 49.05)T

Notare che con la mano in A deve essere esercitata una forza verso il basso. Risposta c) Con lo stesso procedimento: F~A = (24.5, 4.91)T

e

F~C = (−24.5, 24.5)T

4.1.3 Osservazioni sulle condizioni di equilibrio del corpo rigido ` interessante analizzare le condizioni di equilibrio associate alle equazioni cardinali, perch´e E il corretto uso di tali equazioni permette di risolvere molti problemi di statica. Nella seconda equazione cardinale non vi `e alcun riferimento al polo per il calcolo del momento risultante. La precisazione del polo `e, infatti, superflua, dato che all’equilibrio il sistema di forze deve avere anche risultante nulla (in virt` u della prima cardinale), e quindi, il momento risultante `e indipendente dal polo. Contrariamente a quanto avviene per il punto materiale, la condizione di risultante nulla non `e sufficiente per caratterizzare l’equilibrio di un corpo rigido esteso. Per rendersene conto basta applicare a un corpo rigido una coppia di forze di braccio non nullo (sistema di forze non applicabile a un punto materiale). Un esperimento mostra che, sotto l’azione della coppia, il corpo ha un atto di moto caratterizzato da una accelerazione angolare. Senza analizzare nel dettaglio della relazione tra accelerazione angolare e momento della coppia (argomento trattato nei corsi di Meccanica Applicata), in generale, possiamo associare all’applicazione di una coppia su un corpo rigido (inizialmente fermo) una accelerazione angolare che determina una rotazione attorno a un asse passante per il centro di massa. Dalla dinamica dei sistemi di punti materiali, in particolare dal teorema del moto del centro di massa, sappiamo invece che l’accelerazione del centro di massa `e associata alla risultante. Pertanto se, per un intervallo non nullo di tempo, il centro di massa ha velocit`a nulla (e quindi anche accelerazione nulla) la risultante `e nulla, e se non vi `e rotazione attorno al centro di massa (e quindi nemmeno accelerazione angolare) il momento risultante `e nullo. Si ottiene in questo modo la condizione di equilibrio statico del corpo rigido come caso particolare delle equazioni della dinamica. Come osservato per il punto materiale, anche per il corpo rigido le equazioni cardinali non

90

4.1. IL CORPO RIGIDO E LE CONDIZIONI DI EQUILIBRIO

esprimono una condizione sufficiente per l’equilibrio statico. Infatti, se su un corpo rigido agisce un sistema autoequilibrato, `e possibile prevedere solo che esso si muova d’inerzia (non ` opportuno ricordare che il moto d’inerzia di un necessariamento quindi che sia in quiete). E corpo rigido `e ben pi` u complesso di quello di un punto materiale. Infatti esso `e, in generale, caratterizzabile da un moto rettilineo uniforme del suo centro di massa (tre componenti di velocit`a) e da tre moti rotatori attorno agli assi centrali principali d’inerzia. Consideriamo un corpo rigido su cui sia applicato un sistema di forze Σ(1) con caratteristiche ~ (1) e M ~ (1) . Consideriamo lo stesso corpo sotto l’effetto di un diverso sistema statiche globali R R (2) ~ (2) = R ~ (1) e M ~ (2) = M ~ (1) . Sulla di forze Σ ma con le stesse caratteristiche statiche globali R R R base delle equazioni cardinali, possiamo concludere che le condizioni di equilibrio non vengono alterate dal cambiamento del sistema di forze, ovvero che: un corpo rigido non cambia le sue condizioni di equilibrio, o pi` u in generale di moto, se il sistema delle forze su di esso agenti `e sostituito da un sistema staticamente equivalente. Tale affermazione giustifica il termine staticamente equivalenti per due sistemi di forze che hanno le stesse caratteristiche statiche globali. Nella soluzione di molti problemi, si ricorre alla sostituzione di sistemi di forze con altri staticamente equivalenti (generalmente pi` u semplici) senza che questo pregiudichi l’equilibrio globale del corpo rigido e quindi la soluzione. L’operazione di sostituzione di un sistema di forze con un altro staticamente equivalente pu`o essere anche parziale, cio`e eseguita solo su un sottoinsieme delle forze agenti. In certi casi queste sostituzioni sono molto efficaci, tuttavia, `e opportuno ricordare che l’operazione `e lecita solo nell’ambito di un singolo corpo rigido e ai fini della valutazione dell’equilibrio globale. In generale, infatti, due sistemi staticamente equivalenti possono produrre effetti molto diversi come mostrano i seguenti esempi. Esempio 4.2: Equivalenza di sistemi di forze (1) Analizzare il comportamento di un gessetto (figura 4.1) che teniamo fermo con le due mani esercitando alle estremit`a due forze opposte nel tentativo di romperlo (trascurare il peso proprio).

Figura 4.1: Gessetto tirato nel tentativo di romperlo: schema di corpo libero

Dato che il gessetto `e mantenuto fermo, il sistema di forze esterne `e autoequilibrato. Il sistema di forze esercitate dalle mani `e infatti identificabile come una coppia di braccio nullo. Se sostituiamo tale sistema con un altro equivalente (sempre autoequilibrato), per esempio uno qualunque dei sistemi rappresentati nella figura 4.2, le condizioni di equilibrio non sono alterate. In particolare, possiamo applicare un sistema completamente nullo (caso c di figura 4.2), che ovviamente `e autoequilibrato. Tutti questi sistemi sono equivalenti dal punto di vista dell’equilibrio globale del gessetto (assunto infinitamente rigido), tuttavia essi sono molto diversi ai fini, per esempio, della possibilit`a di rompere il gessetto stesso. Infatti, nelle tre condizioni rappresentate in figura 4.2, le forze effettivamente agenti sulle varie parti del gessetto (ovvero le forze interne) sono qualitativamente e quantitativamente diverse. Dovendo prevedere la resistenza del gessetto (in questo caso la forza richiesta per romperlo) `e necessario distinguere tra le tre condizioni.

91

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

Figura 4.2: Alcuni modi di applicare un sistema di forze staticamente equivalente al sistema indicato in figura 4.1: (a) una coppia con forze di intensit`a minore, (b) una coppia con forze opposte, (c) nessuna forza

Esempio 4.3: Equivalenza di sistemi di forze (2) Per afferrare un oggetto con una pinza generalmente applichiamo una coppia di forze di braccio nullo ognuna in modo che ognuna di tali forze agisca su un diverso braccio della pinza. In questo modo `e possibile generare opportune azioni di contatto tra l’attrezzo e l’oggetto che li rende solidali. Supponiamo di far scorrere una delle due forze di afferraggio sulla sua retta d’azione modificandone il punto di applicazione in modo che entrambe le forze siano applicate allo stesso braccio della pinza. Questa operazione non altera le caratteristiche statiche del sistema di forze esercitate con le mani, tuttavia modifica completamente il funzionamento della pinza (con la quale non possiamo afferrare alcunch´e). Come giustificare questo fatto?  C’`e una ovvia spiegazione di questa apparente contraddizione: la pinza nel suo complesso non `e un corpo rigido. In effetti possiamo assumere che essa sia composta da (almeno) due corpi rigidi collegati in modo che possano ruotare relativamente attorno all’asse del perno. Pertanto, lo spostamento della forza da un braccio all’altro della pinza pu`o modificare l’equilibrio del corpo complessivo che non `e rigido.

4.2 Gradi di libert` a per un corpo rigido 4.2.1 La nozione di grado di libert` a Per definire completamente la configurazione di un punto materiale P nel piano sono necessarie e sufficienti due grandezze geometriche scalari indipendenti. A tale scopo solitamente si usano le componenti cartesiane del vettore posizione OP (con O l’origine degli assi), tuttavia sono adatte anche altre coppie di grandezze scalari indipendenti come la distanza di P dall’origine e la coordinata angolare di OP rispetto al semiasse x positivo, ovvero le coordinate polari, ecc. . . . Le grandezze scalari indipendenti (distanze, angoli, coordinate cartesiane o coordinate angolari) utilizzate per definire la posizione di un punto, sono chiamate coordinate lagrangiane. Il numero minimo di tali grandezze che sono necessarie per definire completamente la posizione di un corpo `e detto numero di gradi di libert` a (degrees of freedom) del corpo, spesso indicato con l’acronimo GDL o in inglese DOF. Il numero di gradi di libert`a di un punto materiale nel piano `e pertanto 2 e questo implica che esistono ∞2 modi distinti per scegliere un punto su un piano. Un punto materiale nello spazio ha 3 gradi di libert`a, vi sono infatti ∞3 punti nello spazio.

92

` PER UN CORPO RIGIDO 4.2. GRADI DI LIBERTA

Se un punto materiale `e vincolato ad appartenere a una superficie oppure a una linea, il numero di DOF si riduce, come mostra il seguente esempio. Esempio 4.4: Gradi di libert`a di un punto su una superficie Calcolare il numero di gradi di libert`a di un punto P appartenente al paraboloide di equazione: z = x2 + y 2  Essendo P un punto nello spazio, se fosse libero avrebbe 3 DOF, la sua posizione sarebbe infatti definita da tre coordinate indipendenti: (xP , yP , zP ). Tuttavia, dato che P deve appartenere al paraboloide, se fissiamo due coordinate, per esempio xP e yP , la terza non pu`o pi` u essere scelta arbitrariamente. L’appartenenza al paraboloide si esprime infatti matematicamente come: zP = x2P + yP2 relazione che impone il valore della terza coordinata date le prime due. In tali condizioni il punto P ha pertanto solo 2 DOF. Il risultato ottenuto nell’esempio, pu`o essere generalizzato a superfici di forma qualunque: un punto P dello spazio che deve appartenere a una superficie α ha quindi due gradi di libert` a. Pertanto, poich´e una linea Γ pu`o essere considerata come l’intersezione di due superfici α e β, un punto P appartenente a una linea ha un solo grado di libert`a. Infatti, dei tre DOF originari, il primo `e eliminato dall’appartenenza di P a α e il secondo dall’appartenenza di P a β. Osserviamo che il numero di gradi di libert`a del punto materiale `e uguale al numero di equazioni scalari indipendenti che possono essere scritte utilizzando le equazioni cardinali della statica: 2 nel piano e 3 nello spazio. Questa uguaglianza conserva la sua validit`a anche in situazioni pi` u complesse e indica che, per fissare la posizione di un corpo, `e necessario imporre alle azioni su di esso agenti almeno tante condizioni quanti sono i gradi di libert`a del corpo stesso.

4.2.2 Calcolo dei gradi di libert` a per il corpo rigido Valutiamo preliminarmente i gradi di libert`a di un sistema discreto non rigido composto di n punti materiali nello spazio. Dato che per definire la configurazione del sistema `e necessario stabilire la posizione di ciascun punto, la risposta `e immediata: 3n. Pi` u difficile appare il problema di determinare i gradi di libert`a di un corpo rigido composto di n punti nello spazio. Infatti, le coordinate dei singoli punti non possono essere scelte tutte arbitrariamente perch´e, in tal modo, non `e garantito il rispetto della condizione di rigidezza che impone che la distanza tra ogni coppia di punti sia definita e fissa. Possiamo quindi considerare l’infinita rigidezza come un particolare tipo di vincolo che interviene tra le posizioni relative dei punti (`e a rigore un vincolo interno). La conservazione delle distanze mutue tra i punti si pu`o esprimere mediante un insieme di condizioni che devono rispettare le coordinate dei singoli punti. Per ogni coppia di punti Pi (xi , yi , zi ) e Pj (xj , yj , zj ) (con i e j compresi tra 1 e n) deve infatti essere verificata l’uguaglianza: (xi − xj )2 + (yi − yj )2 + (zi − zj )2 = d2ij

(4.3)

dove dij rappresenta la distanza (nota a priori) tra i due punti, modulo del vettore Pi Pj . L’insieme delle relazioni (4.3) esprime matematicamente il vincolo di rigidezza. Il numero di gradi di libert`a di un corpo rigido dovrebbe quindi essere dedotto sottraendo dai 3n DOF di tutti i punti considerati liberi, le condizioni indipendenti che derivano dall’insieme

93

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

delle relazioni (4.3). Tale analisi, non elementare per un insieme discreto di punti e a maggior ragione, per un corpo continuo, pu`o essere evitata ragionando in modo diretto. Per individuare la posizione di un corpo rigido, discreto o continuo, nello spazio `e sufficiente definire la posizione di tre suoi punti ualunque A, B e C purch´e non allineati. A tale scopo `e possibile adottare la seguente procedura. • Fissiamo la posizione del punto A: a questo scopo dobbiamo utilizzare 3 coordinate lagrangiane e quindi impieghiamo 3 DOF. La configurazione del corpo non `e chiaramente individuata in quanto il corpo pu`o subire una generica rotazione attorno ad A. • Consideriamo il punto B, che deve essere distinto da A e quindi dista da questo dAB > 0. Avendo fissato A, il punto B deve necessariamente appartenere alla superficie sferica di centro A e raggio dAB . Per definire la posizione di B dobbiamo quindi utilizzare altri due DOF (sono ∞2 i punti della superficie sferica). Fissati A e B, al corpo rimane ancora la possibilit`a di ruotare attorno alla retta AB e quindi la sua configurazione non `e ancora definita. • Consideriamo un terzo punto C, che non pu`o non appartenente alla retta AB, e indichiamo con H il punto (che `e unico) della retta AB pi` u vicino a C. Il punto C deve appartenere alla circonferenza di centro H e raggio |CH| (quantit`a strettamente positiva). Per fissare C `e necessario definire il valore di una sola ulteriore coordinata lagrangiana. A questo punto la posizione del corpo nello spazio `e completamente definita. Possiamo quindi concludere che i gradi di libert`a di un corpo rigido libero nello spazio sono 3 + 2 + 1 = 6. In modo analogo il lettore pu`o dimostrare che i gradi di libert`a di un corpo rigido libero nel piano sono 3. Come per il punto materiale, anche per il corpo rigido sussiste la corrispondenza tra numero di gradi di libert`a e numero di equazioni scalari indipendenti derivabili dalle equazioni cardinali. Esempio 4.5: Gradi di libert`a di un corpo rigido non completamente libero Quanti sono i gradi di libert`a di un corpo rigido nello spazio che ha un punto A vincolato a muoversi su una superficie?  Si pu`o ripetere il procedimento appena sviluppato per il corpo rigido libero partendo dal punto A che, in questo caso, ha solo 2 DOF. Il risultato finale `e quindi: 2 + 2 + 1 = 5 DOF.

4.2.3 Gradi di libert` a per un corpo esteso non rigido Un corpo esteso non infinitamente rigido `e detto corpo deformabile. Abbiamo gi`a osservato che un corpo deformabile discreto libero nello spazio composto da un numero finito n di punti materiali tra loro non vincolati (per esempio il sistema solare in cui n `e 1, il Sole, pi` u ` il numero dei pianeti orbitanti), ha 3n gradi di libert`a. E interessante chiedersi: quanti sono i gradi di libert`a di un corpo deformabile continuo? Dato che non vi `e limite superiore al numero di parti in cui si pu`o suddividere un corpo continuo, dobbiamo concludere che tale modello ha infiniti gradi di libert`a. Questa conclusione giustifica la pratica utilit`a del modello di corpo rigido: per sapere dove si trovano gli infiniti punti di un corpo rigido continuo sono sufficienti 6 grandezze scalari nello spazio (3 nel piano), se il corpo `e deformabile ne occorrono teoricamente infinite.

94

4.3. VINCOLI SUL CORPO RIGIDO

Dal punto di vista matematico, la definizione della configurazione di equilibrio per un corpo rigido comporta la determinazione di un numero finito di grandezze scalari e quindi, in generale, la soluzione di un sistema di equazioni algebriche. L’equivalente problema per il corpo deformabile ha come soluzione una quantit`a con infinite incognite. Il procedimento per determinare tale quantit`a, che solitamente `e espressa da una funzione della posizione, origina quindi equazioni di tipo differenziale.

4.3 Vincoli sul corpo rigido Nel paragrafo precedente `e stato dimostrato che un corpo rigido libero nello spazio possiede 6 gradi di libert`a (3 nel piano). Generalmente `e necessario limitare alcune, talvolta tutte, le sue possibilit`a di movimento attraverso l’introduzione di vincoli. A tale scopo, si suppone che esista un elemento ideale, in Meccanica denominato telaio (frame), che modella un corpo infinitamente rigido e resistente e di massa infinita, generalmente considerato in quiete o comunque avente un moto noto. Il telaio `e quindi un corpo rigido ideale su cui `e possibile esercitare qualsiasi tipo di azione statica senza che si possa modificarne il movimento, deformarlo o romperlo. Si tratta di un ulteriore modello che descrive il comportamento di corpi aventi massa molto maggiore di quella dei corpi che si stanno esaminando. Per esempio, nello studio di un pistone, il telaio `e costituito dalla testa del motore, per un ponte il telaio `e rappresentato dal terreno su cui esso poggia, un muro costituisce il telaio per una mensola, ecc. . . . Di norma, il comportamento meccanico del telaio non `e rilevante ai fini della soluzione del problema. Le caratteristiche del telaio, in particolare le sue infinita resistenza e infinita rigidezza, devono talvolta essere verificate a posteriori perch´e sia garantita l’adeguatezza del modello. I vincoli sono elementi che consentono di collegare un corpo al telaio allo scopo di realizzare qualche forma di impedimento al libero movimento del corpo rispetto al telaio stesso. Alcuni vincoli, materializzati come funi o appoggi, sono gi`a stati introdotti per limitare i moto di punti materiali, tuttavia, analogamente a quanto visto per i carichi nel capitolo precedente, anche i tipi di vincolo per il corpo esteso sono molto pi` u numerosi. I vincoli possono essere analizzati e classificati prendendo in esame le caratteristiche cinematiche oppure le caratteristiche statiche. Per caratterizzare il vincolo cinematicamente, si prende in esame il moto che il vincolo consente (oppure impedisce) al corpo rispetto al telaio. Dal punto di vista statico, il vincolo permette al telaio di esercitare sul corpo determinate azioni statiche, chiamate reazioni vincolari. L’individuazione del tipo di reazioni vincolari scambiabili consente di caratterizzare il vincolo staticamente. Per ottenere modelli calcolabili `e opportuno ricorrere a vincoli che consentono una rappresentazione matematica semplice sia della cinematica sia della statica. Tali modelli sono talvolta chiamati vincoli semplici, ideali o elementari. Le caratteristiche dei vincoli elementari sono descritte in dettaglio nei prossimi paragrafi, tutti per`o hanno in comune la caratteristica geometrica di essere puntiformi, ovvero di agire su un punto A di un corpo esteso. In effetti, come visto per i carichi, forze e momenti concentrati non possono essere applicati su corpi estesi (bidimensionali o tridimensionali) e quindi si assume che le reazioni vincolari siano effettivamente esercitate su una zona di dimensioni trascurabili attorno al punto di vincolo A. Dal punto di vista fisico le azioni esercitate dai vincoli sono distribuzioni superficiali di forze di contatto. Nella pratica spesso i vincoli si presentano con forme complesse e soluzioni costruttive non elementari, per cui individuarli e schematizzarli come vincoli semplici non `e sempre immediato. Queste operazioni richiedono spesso di effettuare importanti semplificazioni e di trascurare alcuni fenomeni (come per esempio l’attrito) gli effetti dei quali sono talvolta difficilmente valutabili a priori. In alcuni casi risulta pi` u agevole identificare il vincolo considerandone le

95

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

propriet`a cinematiche, in altri quelle statiche. Discuteremo problemi tipici di identificazione negli esempi di questo capitolo e nella soluzione dei problemi proposti nel successivo. Nel seguito sono presentati i principali vincoli elementari per i problemi piani. Particolare attenzione `e dedicata alle caratteristiche dei supporti per gli alberi, che costituiscono tipici corpi estesi nell’analisi della meccanica delle macchine.

4.4 I vincoli ideali nel piano Per fissare le idee, supponiamo che il piano di rappresentazione contenga gli assi x e y. Nel piano, il corpo esteso `e schematizzabile come un oggetto bidimensionale: il volume viene ridotto a una superficie e la superficie esterna del corpo a una linea di contorno. Come conseguenza, le azioni statiche esercitabili sono: • forze concentrate • distribuzioni di forze di volume che diventano di superficie • distribuzioni di forze di superficie che diventano di linea • momenti concentrati. Le forze hanno due componenti: x e y, i momenti concentrati sono, di fatto, quantit`a scalari avendo la sola componente significativa in direzione z.

4.4.1 Appoggio semplice Dal punto di vista cinematico, l’appoggio semplice (simple support) vincola il punto A di un corpo ad appartenere a una linea Γ generalmente solidale al telaio. Se la linea Γ non `e retta, assumeremo che sia regolare in A (vedi Appendice E) in modo che in tal punto siano univocamente definibili i versori della tangente tˆ e della normale n ˆ . L’appartenenza di A alla linea Γ vincola un solo grado di libert`a del corpo rigido, il quale pu`o traslare in A lungo Γ e/o ruotare attorno a un asse avente direzione z per A. Dal punto di vista statico, attraverso un appoggio semplice, il telaio pu`o esercitare sul corpo una azione statica equivalente a una forza con le seguenti caratteristiche: punto di applicazione A e direzione n ˆ . La reazione vincolare `e quindi determinata da una sola grandezza scalare che individua intensit`a e verso della forza rispetto al versore n ˆ. La natura dell’azione statica esercitabile dal telaio per mezzo del vincolo `e strettamente connessa con le caratteristiche cinematiche del vincolo stesso. Osserviamo in particolare che l’azione statica (una forza) e il moto impedito (uno spostamento) sono quantit`a energeticamente collegate (vedi il capitolo 3). Inoltre, la reazione vincolare ha proprio la direzione n ˆ in cui lo spostamento `e impedito. Questo fatto comporta che la reazione vincolare non fa lavoro se il ` stato cos`ı evidenziato il primo esempio di corpo si muove in modo compatibile con il vincolo. E dualit`a cinematico-statica che riscontreremo sistematicamente per tutti i vincoli semplici. Si pu`o inoltre osservare l’uguaglianza tra il numero di gradi di libert`a che il vincolo toglie al corpo (nel caso specifico: 1), e il numero di quantit`a scalari indipendenti che caratterizzano la reazione vincolare. Diremo, per questo, che l’appoggio semplice ha molteplicit` a 1. Con il termine molteplicit`a si indica pertanto il numero di gradi di libert`a che il vincolo toglie al libero movimento del corpo, o, in modo equivalente, il numero di grandezze scalari indipendenti necessarie per caratterizzare le reazioni vincolari staticamente. Dal punto di vista costruttivo, molti elementi possono essere ragionevolmente schematizzati come un vincolo di appoggio semplice. In particolare, un cuscinetto orientabile non bloccato

96

4.4. I VINCOLI IDEALI NEL PIANO

assialmente (se trascuriamo gli attriti) `e un appoggio semplice per un albero in uno schema piano. Attraverso il cuscinetto, infatti, il telaio esercita una forza perpendicolare all’asse dell’albero (che in questo caso `e la retta Γ). In molte applicazioni, l’appoggio semplice `e realizzato tramite il contatto, idealmente puntiforme, su una superficie liscia (sempre con attrito trascurabile). A rigore, un vincolo di questo tipo `e unilatero (pu`o trasmettere forze solo in un verso) mentre l’appoggio semplice ideale `e bilatero (come il cuscinetto che pu`o trasmettere forze in entrambi i versi). Per risolvere un problema in cui `e presente un contatto unilatero, il modo di procedere sar`a il seguente: assumeremo preliminarmente il contatto come un appoggio semplice (bilatero) e verificheremo a posteriori (dopo aver risolto il problema) che la reazione vincolare abbia il verso consentito dal vincolo fisico. Se questo si verifica, il modello `e corretto, viceversa dovremmo concludere che l’equilibrio non `e garantito dai vincoli nella configurazione data. Questa procedura `e stata attuata per i fili (nel capitolo 2) quando `e stato verificato a posteriori che fossero tesi. Ci`o non sorprende poich´e anche i fili sono realizzazioni pratiche di vincoli di appoggio semplice unilatero.

Figura 4.3: Simboli per la rappresentazione convenzionale dell’appoggio semplice in A: (a) bielletta, (b) carrellino

Negli schemi statici, il vincolo di appoggio semplice viene rappresentato con i simboli convenzionali (bielletta o carrello) riportati nella figura 4.3. Nello schema di corpo libero preliminare, al posto del simbolo del vincolo si rappresenta l’azione statica esercitabile, che nel caso dell’appoggio semplice `e una singola forza di cui si conoscono il punto di applicazione e la direzione. Si ricorda che, in genere, il verso non deve essere previsto perch´e sar`a uno dei risultati del calcolo. Per non ingenerare ambiguit`a tra l’azione e la reazione (di terzo principio) che il corpo scambia con il telaio attraverso l’appoggio, `e opportuno evitare di sovrapporre la rappresentazione della forza al simbolo del vincolo. In particolare, come si vede nella figura 4.4(a), S `e inequivocabilmente la forza esercitata dal telaio sul corpo tramite l’appoggio schematizzato in figura 4.3. La forza esercitata dal corpo sul telaio `e invece rappresentata in figura 4.4(b) (anche se generalmente non `e molto utile nella soluzione del problema). Come vedremo nei prossimi capitoli, `e possibile che un vincolo connetta anche due corpi per formare una struttura. In tali casi, la soluzione del problema richiede una particolare attenzione per la corretta e coerente rappresentazione di entrambe le azioni esercitate attraverso il vincolo.

4.4.2 Cerniera Dal punto di vista cinematico una cerniera (hinge) vincola un punto A ad assumere una definita posizione nel piano, consentendo alla zona limitrofa (e quindi all’intero corpo se assunto rigido) solo la possibilit`a di ruotare liberamente attorno a un asse parallelo a z passante per A. La caratterizzazione statica del vincolo consiste in una generica forza piana applicata in A. Con una cerniera sono infatti eliminati due gradi di libert`a (ogni traslazione di A) a cui

97

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

Figura 4.4: Caratterizzazione statica dell’appoggio semplice: (a) azione esercitata sul corpo, (b) azione esercitata sul telaio

corrispondono due componenti scalari indipendenti di forza, tipicamente tra loro perpendicolari. La cerniera ha quindi molteplicit`a 2 e non pu`o esercitare una azione di momento in A in quanto non impedisce al corpo di ruotare in A attorno a z.

Figura 4.5: Rappresentazioni convenzionali per la cerniera

Costruttivamente, una cerniera pu`o essere realizzata con un cuscinetto, che ruota senza attrito su un perno fisso al telaio con l’asse parallelo a z, come per esempio il cardine di una porta. In uno schema bidimensionale, un cuscinetto orientabile bloccato assialmente vincola un albero come una cerniera. Con opportune precauzioni anche l’appoggio su una superficie scabra (con attrito) in una zona poco estesa pu`o essere in certi casi considerato una cerniera. In presenza di un contatto con una superficie scabra, dopo aver risolto il problema, sar`a per`o necessario verificare che il verso della componente normale alla superficie della forza scambiata sia compatibile con la unilateralit`a del contatto e, inoltre, che la componente tangenziale sia esercitabile dall’attrito statico. A queste considerazioni `e dedicato l’ultimo paragrafo del presente capitolo.

Figura 4.6: Schematizzazione statica di una cerniera in A

Varie rappresentazioni convenzionali della cerniera sono riportate nella figura 4.5, mentre la

98

4.4. I VINCOLI IDEALI NEL PIANO

tipica caratterizzazione statica delle azioni esercitabili sul corpo in corrispondenza della cerniera `e rappresentata nella figura 4.6. Si pu`o osservare che due appoggi non paralleli, e quindi convergenti in un punto, equivalgono a una cerniera collocata in tale punto (figura 4.7).

Figura 4.7: Una cerniera realizzata con due appoggi semplici non paralleli concorrenti in un punto

4.4.3 Incastro Tramite un incastro (fixed constraint, built-in constraint) si impediscono tutti i movimenti di una zona limitrofa ad A e quindi all’intero corpo se questo `e rigido. Le azioni statiche esercitabili da un incastro sono pertanto: una forza piana generica e un momento in direzione normale al piano. Tutte le azioni statiche sono considerate applicate in A, per quanto fisicamente si manifestano come distribuzioni di forze superficiali in una zona di estensione limitata in corrispondenza del punto A. Vi sono molte realizzazioni costruttive dell’incastro, per esempio: una saldatura, una imbullonatura, un incollaggio. Nella figura 4.8 `e rappresentato il simbolo convenzionale dell’incastro per una mensola e la corrispondente caratterizzazione statica.

Figura 4.8: Incastro: (a) rappresentazione convenzionale, (b) schema statico delle azioni esercitabili dal telaio sul corpo incastrato

L’incastro ha molteplicit`a 3, toglie infatti tutti i gradi di libert`a di un corpo rigido nel piano ed `e caratterizzabile staticamente da tre grandezze scalari indipendenti. Nel caso della figura 4.8(b), le componenti scalari delle reazioni vincolari R, S e W rappresentano fisicamente le caratteristiche statiche globali, riferite al punto A, del complesso sistema di interazioni elettromagnetiche esercitate dal muro sulla mensola in corrispondenza della superficie in cui i due corpi sono in contatto. Oltre alle componenti di forza, che sono energeticamente collegate alle impedite traslazioni della zona del corpo attorno ad A, nell’incastro `e possibile anche una azione di momento, energeticamente collegata alla locale impedita rotazione. Anche in questo caso, l’impedita rotazione e la corrispondente azione statica (momento di incastro) sono vettori paralleli avendo ` importante osservare che vincolare la rotazione in una zona, anche se entrambi direzione z. E

99

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

di estensione limitata, per un corpo rigido implica impedire la rotazione complessiva del corpo. Questo non vale se il corpo `e deformabile. In un modello piano, per un albero due cuscinetti obliqui contrapposti, con i centri non coincidenti, se tra loro vicini in modo che l’azione complessiva di vincolo possa essere localizzata in una zona poco estesa rispetto alle dimensioni dell’albero, realizza un vincolo schematizzabile come un incastro. In effetti, un tale montaggio determina la posizione dell’albero nel piano del disegno in modo completo.

4.4.4 Bipendolo, doppio-pendolo o pattino Il bipendolo, chiamato anche doppio-pendolo o pattino, definisce un vincolo che permette alla zona limitrofa ad A di un corpo esteso solo di traslare in una definita direzione rispetto al telaio. Se il corpo `e rigido, il moto di traslazione `e comune a tutti i suoi punti. Il pattino non consente alla zona A di ruotare n´e di spostarsi in direzione perpendicolare a quella di consentita traslazione. Il pattino toglie pertanto al corpo rigido due gradi di libert`a (ha molteplicit`a 2) e ai movimenti impediti corrispondono le duali azioni statiche, come al solito assunte applicate in A: una componente di forza, nella direzione di impedita traslazione e un momento. Dal punto di vista costruttivo il bipendolo `e spesso realizzato con una slitta, o guida prismatica, come per esempio nel collegamento della contropunta sul tornio (quando questa non `e bloccata). Perch´e una guida prismatica possa essere considerata un bipendolo, l’attrito di scorrimento deve essere trascurabile.

Figura 4.9: Rappresentazione convenzionale per il doppio-pendolo (a) e sua caratterizzazione statica (b)

Come si pu`o notare dalla rappresentazione convenzionale (figura 4.9) e dal nome stesso, un doppio pendolo pu`o essere realizzato, e anche schematizzato, con una coppia di appoggi semplici aventi la stessa direzione e collocati in due punti distinti vicini ad A. La scelta di considerare una coppia di appoggi vicini e paralleli un vincolo unico di bipendolo, invece di schematizzarli separatamente, `e di carattere pratico, ma non ha conseguenze ai fini dell’equilibrio complessivo del corpo rigido. L’adozione di uno schema con due appoggi distinti pu`o essere talvolta motivata dalla necessit`a di analizzare pi` u dettagliatamente le azioni statiche che si manifestano negli elementi costruttivi che realizzano il vincolo, come nel seguente esempio.

100

4.4. I VINCOLI IDEALI NEL PIANO

Esempio 4.6: Bronzina lunga Un albero `e vincolato al mozzo tramite con la bronzina ‘lunga’ CB, illustrata in figura 4.10. Caratterizzare il vincolo nel piano del disegno.

Figura 4.10: Albero supportato da una bronzina ‘lunga’

La bronzina, considerata nel suo insieme, essendo lunga rispetto al diametro dell’albero impedisce all’albero, considerato rigido, di spostarsi in direzione y e di ruotare attorno all’asse z. Trascurando l’attrito, la bronzina consente all’albero solo di scorrere assialmente in direzione x. Si tratta pertanto di un doppio pendolo da considerarsi localizzato nel punto caratteristico centrale A della bronzina (figura 4.10(a)). Come si vede dal disegno 4.10(b), il vincolo potrebbe essere interpretato anche come una coppia di appoggi semplici, uno in C e l’altro in B. Ai fini dello studio dell’equilibrio generale dell’albero, considerato rigido, assumere uno dei due schemi di figura 4.11 `e indifferente.

Figura 4.11: Schemi statici alternativi per la bronzina ‘lunga’ e relativi schemi di corpo libero preliminare

Se siamo interessati a valutare le azioni che albero e bronzina si scambiano, per esempio allo scopo di stimare le pressioni sulle superfici in contatto, il modello con due appoggi, che contiene anche l’informazione sull’estensione assiale della bronzina, `e certamente pi` u utile.

4.4.5 Doppio bipendolo Il doppio bipendolo, o doppio doppio-pendolo, schematizza un vincolo che impedisce alla zona limitrofa ad A solo di ruotare attorno all’asse z, consentendogli di traslare liberamente nel piano. Come per gli altri casi esaminati, se il corpo `e rigido il moto della zona A `e comune

101

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

a tutti i punti del corpo. Lo schema convenzionale e la corrispondente caratterizzazione statica sono mostrati in figura 4.12.

Figura 4.12: Rappresentazione convenzionale (a) e schema statico (b) del doppio bipendolo

Il doppio bipendolo, spesso realizzato costruttivamente proprio con insiemi di biellette, ha molteplicit`a 1 ed `e caratterizzato staticamente dal solo momento W , che rappresenta l’unica azione esercitabile sul corpo da parte del telaio. Un esempio ben noto di doppio bipendolo `e costituito dal sistema che vincola le righe del tecnigrafo al tavolo da disegno. Il doppio bipendolo del tecnigrafo `e generalmente realizzato o con due coppie di braccetti paralleli oppure con due slitte che scorrono tra loro perpendicolarmente una collegata all’altra. In effetti, le righe del tecnigrafo devono potersi spostare in qualunque punto del foglio conservando il loro orientamento. Come per il bipendolo, anche in questo caso, il vincolo pu`o essere scomposto in due pattini o in quattro appoggi semplici.

4.5 Alcune considerazioni sulla schematizzazione dei vincoli I vincoli ideali descritti nel paragrafo precedente non esauriscono i vincoli che possono essere realizzati in pratica. Tuttavia `e possibile ricondursi a essi, o a loro combinazioni, in gran parte delle situazioni.

4.5.1 Vincoli composti L’identificazione degli schemi statici di vincoli composti `e talvolta non immediata e, nei casi dubbi, pu`o essere utile riferirsi sia alla caratterizzazione statica sia a quella cinematica, come nel seguente esempio. Esempio 4.7: Vincolo composto Caratterizzare il vincolo rappresentato in figura 4.13, realizzato con un pattino su cui `e collocata una cerniera.

102

4.5. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA SCHEMATIZZAZIONE DEI VINCOLI

Figura 4.13: Vincolo composto con pattino e cerniera

Il vincolo pu`o essere schematizzato in modo immediato tramite una cerniera posta sopra un bipendolo, come in figura 4.14(a). Questo modello riproduce la realizzazione costruttiva, a meno degli attriti, ma in modo complesso. Se consideriamo l’insieme pattino pi` u cerniera, `e possibile osservare che l’unica azione statica che pu`o essere trasmessa dal telaio al corpo in A `e una forza normale alla direzione di scorrimento del pattino. Il vincolo composto non pu`o infatti trasferire in A n´e momento, per la presenza della cerniera, n´e una forza verticale, per la presenza del pattino. Allo stesso risultato si giunge con considerazioni cinematiche: in A il corpo rigido pu`o ruotare per effetto della cerniera e pu`o traslare verticalmente per effetto del pattino. Pertanto la combinazione pattino pi` u cerniera, se vicini, materializza un appoggio semplice come illustrato nella figura 4.14(b).

Figura 4.14: Carrello pi` u cerniera come bipendolo e cerniera (a) o, pi` u semplicemente, come appoggio semplice (b)

Si pu`o notare che la rappresentazione stessa dell’appoggio come un carrellino (figura 4.14(b)) riproduce la forma costruttiva del pattino con cerniera.

4.5.2 Bronzine lunghe e bronzine corte Nel paragrafo 4.4.4, la bronzina di figura 4.10 `e stata schematizzata come un coppia di appoggi semplici. Questo risultato potrebbe sembrare in contraddizione con quanto affermato nel paragrafo 4.4.1 nel quale un cuscinetto orientabile `e stato considerato un appoggio semplice per un albero. Effettivamente, le sedi B e C in figura 4.10 possono essere singolarmente considerate come due bronzine ‘corte’ coassiali non orientabili.

103

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

La non orientabilit`a potrebbe suggerire l’idea che ognuna delle due bronzine corte B e C possa operare come un bipendolo, se si suppone che ognuna di esse sia in grado di determinare, oltre alla posizione verticale dell’asse dell’albero, anche la sua direzione. Tuttavia un esame pi` u attento del problema indica che questa funzione pu`o essere esplicata solo se: • il collegamento tra albero e bronzina ha gioco radiale nullo • albero e bronzina sono infinitamente rigidi. Entrambe le condizioni non sono per`o realizzabili in pratica. In particolare, un gioco radiale, seppur minimo, `e necessario per il funzionamento della bronzina. Come vedremo tra poco questo comporta che l’estensione assiale della bronzina rappresenta un parametro fondamentale per stabilire se essa `e in grado di esercitare una effettiva azione di contrasto nei confronti dell’inclinazione dell’albero, ovvero una azione di vincolo alla rotazione attorno all’asse z. Per giustificare questa affermazione analizziamo l’effetto prodotto dal gioco, e qualitativamente anche dalla deformabilit`a, del supporto ai fini di una verosimile schematizzazione della bronzina come vincolo semplice. Consideriamo una situazione realistica rappresentata in figura 4.15(a), in cui un albero di diametro d `e accoppiato con un gioco diametrale g in corrispondenza del punto A con una bronzina corta avente estensione assiale h. Evidenziamo la reazione vincolare esercitabile dalla bronzina, analizzando le azioni statiche che essa oppone quando si cerca di spostare l’albero. Consideriamo in un primo momento di traslare l’albero in direzione perpendicolare al suo asse fino al contatto, e successivamente di ruotarlo attorno all’asse z . La sequenza `e esemplificata in figura 4.15, nella quale `e stato considerato lo spostamento verso il basso e la rotazione antioraria e il gioco radiale `e stato notevolmente ingrandito per ragioni di chiarezza grafica. Dal Disegno Meccanico, `e noto che il gioco di accoppiamento in un collegamento libero pu`o essere espresso da una relazione generale del tipo: g = k·d in cui k `e un fattore adimensionale dipendente dalle tolleranze degli elementi collegati e che, per accoppiamenti liberi come le bronzine, `e dell’ordine di 10−4 . Per esempio nell’accoppiamento tipico φ60H7 − g6 l’intervallo di valori ammessi dal gioco comporta che sia 0.02 · 10−3 ≤ k ≤ 10−3 . All’inizio (figura 4.15(a)), l’albero risulta completamente libero almeno finch´e tocca la bronzina su una generatrice (figura 4.15(b)). In questa configurazione la bronzina si comporta come un appoggio, infatti, l’albero `e libero di traslare in direzione x (si trascura l’attrito) e anche di ruotare attorno a z in A1 (figura 4.15(c)), almeno fino a che il gioco radiale non viene recuperato. In corrispondenza di un definito valore dell’inclinazione dell’asse, che sar`a indicato con θlim , l’albero entra in contatto anche in A2 e l’azione complessiva del vincolo si manifesta con due forze applicate in A1 e A2 rispettivamente. Solo con questa inclinazione la bronzina pu`o trasferire all’albero anche una coppia (figura 4.15(d)) e comincia quindi a comportarsi come un bipendolo. Tuttavia, per inclinazioni θ poco superiori a θlim dove: θlim =

g d =k h h

(4.4)

il momento effettivamente trasferibile risulta basso a causa della deformabilit`a degli elementi, in particolare della bronzina, talvolta realizzata con materiali poco rigidi, anche non metallici. Lo stesso braccio della coppia rimane di entit` a modesta, essendo h una quantit`a piccola per l’ipotesi di bronzina ‘corta’. Pertanto perch´e la componente di momento sia significativa `e necessario che l’albero si inclini di un angolo maggiore di θlim e che le forze esercitate dalle zone estreme della bronzina siano molto intense.

104

4.5. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA SCHEMATIZZAZIONE DEI VINCOLI

Figura 4.15: Un albero vincolato da una bronzina corta con gioco radiale in varie configurazioni. Nella parte inferiore dello schema sono rappresentate le reazioni vincolari esercitate sull’albero

Analizzando questo comportamento pi` u realistico della bronzina corta osserviamo quindi che: • la bronzina, appena comincia a esercitare l’azione di vincolo, si comporta come un appoggio • la sua efficacia come appoggio non dipende dal gioco, appena l’albero giunge a contatto su una generatrice, la reazione vincolare di appoggio pu`o manifestarsi in modo completo, essendo limitata solo dalla resistenza della bronzina (in particolare la reazione non `e influenzata dalla deformabilit`a) • anche dopo il contatto su una generatrice, l’albero pu`o inclinarsi liberamente attorno a z almeno fino a θlim • solo per una inclinazione dell’albero maggiore di θlim la bronzina comincia a operare come un bipendolo, ma l’intensit`a del momento che essa pu`o esercitare dipende in modo sensibile dalla locale deformabilit`a delle parti. Perch´e entrambe le forze di contatto siano significative `e necessario che l’angolo di rotazione sia maggiore di θlim e il momento esercitabile `e comunque limitato dal basso valore del braccio della coppia. Se, come generalmente accade, l’albero `e sostenuto anche da altri vincoli oltre la bronzina corta, `e necessario verificare che l’insieme dei vincoli consenta all’albero di inclinarsi in corrispondenza della bronzina di un angolo maggiore di θlim . Se questa inclinazione non `e permessa, la bronzina corta si comporter`a quindi come un appoggio, solo in caso contrario dovremmo ipotizzare una azione di momento non nulla. Tuttavia nella seconda eventualit`a la bronzina avrebbe un funzionamento anomalo e il suo materiale sarebbe eccessivamente sollecitato. Possiamo anticipare quindi che, in questo caso, `e opportuno cambiare il progetto del supporto per renderlo pi` u sicuro piuttosto che modificare lo schema statico per migliorare la modellazione del problema. La relazione (4.4) mostra che, fissato il diametro dell’albero d e, con la tolleranza di accoppiamento, il fattore adimensionale k, l’estensione assiale della bronzina h definisce l’angolo di

105

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

inclinazione minimo per avere reazione di momento. Acquista pertanto un significato quantitativo il termine ‘corta’: una bronzina `e corta quando la sua estensione assiale `e minore del diametro dell’albero (o al pi` u le due grandezze sono simili). Quando `e necessario che una bronzina fissi anche la direzione dell’asse dell’albero, esercitando un’efficace azione da bipendolo, si deve prevedere una lunghezza significativa rispetto al diametro dell’albero, ovvero h > d. Dal punto di vista costruttivo, per la bronzina ‘lunga’ `e opportuno adottare la soluzione rappresentata in figura 4.10, in cui lo scarico nel centro materializza una coppia di bronzine corte, disposte alla distanza di qualche diametro. La figura 4.16 illustra il meccanismo di vincolo prodotto da una bronzina ‘lunga’, quando si cerca di spostare l’albero come nel caso precedente.

(c)

(b)

(a)

A

A B

C B

C

B

C

y x

A

A

Figura 4.16: Schematizzazioni di una bronzina lunga

L’estensione assiale del supporto garantisce che ognuno dei due tratti B e C si comporti singolarmente come un appoggio. L’azione combinata dei due appoggi B e C contrasta efficacemente l’inclinazione dell’albero impedendo che sia raggiunto il valore di θlim su ognuno di essi. In questo caso, l’inclinazione dell’albero necessaria perch´e si manifesti un’azione complessiva di momento risulta molto minore rispetto al caso della bronzina corta e, inoltre, l’intensit`a del momento trasmissibile pu`o essere significativa da subito perch´e esso `e prodotto dalla pressione su zone di ampia superficie e disposte a sufficiente distanza. Questa bronzina, nel suo insieme, `e effettivamente un bipendolo.

4.5.3 Cuscinetti di rotolamento Considerazioni analoghe a quelle svolte nel paragrafo precedente si applicano anche a supporti realizzati con cuscinetti di rotolamento. Consideriamo la figura 4.17 che esemplifica lo schema del montaggio pi` u semplice di un albero su due cuscinetti radiali a sfere con A vincolato assialmente e B assialmente libero. Se i cuscinetti fossero orientabili, A e B sarebbero rispettivamente schematizzabili come una cerniera e un appoggio semplice. Tuttavia, confidando sulla rigidezza dell’albero e sulla precisione di realizzazione delle sedi del mozzo e dell’albero, lo stesso schema statico pu`o essere assunto anche per una coppia di cuscinetti radiali rigidi a sfere. In effetti, come si studier`a in corsi successivi, i costruttori di cuscinetti indicano un angolo ammissibile θam di inclinazione (rotazione attorno a z) dell’anello interno rispetto all’anello esterno che pu`o essere tollerato dal cuscinetto rigido radiale a sfere senza che ne sia pregiudicato il corretto funzionamento. In altri termini, possiamo affermare che anche i cuscinetti rigidi radiali a sfere presentano un certa

106

4.5. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA SCHEMATIZZAZIONE DEI VINCOLI

Figura 4.17: Montaggio tipico di albero su due cuscinetti radiali a sfere

‘orientabilit`a’, per quanto limitata a frazioni di grado. Valori tipici di θam sono infatti (2 ÷ 10)0 (primi di grado) equivalenti a (6 ÷ 30) · 10−4 radianti. Un modo razionale di procedere per la modellazione statica dei supporti dell’albero di figura 4.17 pu`o quindi essere il seguente: 1. supporre che l’inclinazione relativa degli anelli di ognuno dei cuscinetti sia entro i limiti ammissibili 2. ipotizzare una cerniera in A e un appoggio in B come in figura 4.18 3. verificare a posteriori che l’ipotesi 1 sia accettabile.

Figura 4.18: Schema statico per l’albero su due cuscinetti

Per effettuare la verifica, `e necessario avere informazioni geometriche (tolleranze di realizzazione delle sedi dei cuscinetti e dell’albero) e disporre di metodi per valutare la deformabilit` a dell’albero sotto carico che saranno sviluppati pi` u avanti nel corso. Queste considerazioni permettono di calcolare l’angolo di inclinazione relativo degli anelli dei cuscinetti in modo soddisfacente. Se il punto 3 fornisce esito positivo, il modello statico di figura 4.18 potr`a essere considerato corretto, viceversa, si dovr`a concludere che il modello dei vincoli non `e adeguato. In quest’ultimo caso, tuttavia, come gi`a visto per la bronzina, `e opportuno suggerire una modifica dei supporti (per esempio l’impiego di cuscinetti orientabili o montati su sedi orientabili) oppure prevedere l’irrigidimento dell’albero o la riduzione dei campi di tolleranza geometrica delle sedi del mozzo. Osserviamo pertanto che, indipendentemente dall’esito della verifica 3, la schematizzazione di figura 4.18 `e utile per giungere a una conclusione tecnica significativa. Quando, analogamente al caso della bronzina lunga, si desidera realizzare un supporto che contrasti efficacemente l’inclinazione dell’albero attorno a z, `e necessario impiegare cuscinetti assialmente estesi, per esempio a rullini o a doppia corona di sfere, oppure si possono affiancare due cuscinetti radiali a sfere.

107

4. IL CORPO RIGIDO E I VINCOLI NEL PIANO

4.5.4 Contatti con attrito Una discussione specifica merita la schematizzazione del contatto in presenza di attrito. Le forze di attrito, infatti, sono state sistematicamente trascurate nella definizione dei vincoli semplici, pur essendo sempre presenti nella realt`a. Considerando il contatto puntiforme (in una zona poco estesa) tra due superfici in presenza di attrito, `e necessario distinguere due situazioni: 1. l’attrito `e sufficientemente elevato da impedire lo scorrimento tra le superfici in contatto, come nel caso di una ruota che rotola 2. l’attrito non impedisce il movimento relativo e le superfici si muovono una rispetto all’altra, come nel caso della pastiglia di un freno su un disco). Nel primo caso, detto di attrito statico, la forza d’attrito `e incognita e deve essere considerata una reazione vincolare a tutti gli effetti. Il vincolo corrispondente, se il contatto si manifesta in una regione di limitata estensione, pu`o essere schematizzato come una cerniera con due reazioni statiche indipendenti. Ottenuta la reazione della cerniera, `e opportuno scomporla nelle sue componenti: normale N e tangenziale T rispetto alla superficie di contatto. Successivamente, si deve verificare che: • la forza normale sia compatibile con l’unilateralit`a del contatto, e quindi produca azioni di locale compressione • il coefficiente di attrito statico, o di aderenza, µs che dipende prevalentemente dai materiali in contatto, sia sufficientemente elevato da garantire il contatto senza strisciamento, ovvero: |T | µs ≥ |N | Se le condizioni sono entrambe soddisfatte, il modello di cerniera `e verificato a posteriori, altrimenti si deve concludere che il vincolo non `e in grado di esercitare l’azione di cerniera e si dovr`a modificarlo di conseguenza. Viceversa, se sappiamo, o supponiamo, che il contatto avviene in condizioni di scorrimento, attrito cinetico o attrito dinamico, `e necessario adottare un diverso modello di vincolo. La forza di attrito F~A non `e infatti una grandezza indipendente dalla forza normale di contatto N poich´e alcune sue caratteristiche sono note a priori, in particolare: • la direzione, data dalla retta del piano tangente parallela alla velocit`a relativa dei punti in contatto • il verso, tale da contrastare il moto relativo delle parti in contatto • l’intensit`a, definita dalla relazione: |F~A | = µc |N | dove µc indica il coefficiente di attrito cinetico e N la componente normale della forza di contatto, che al solito deve essere tale da indurre locale compressione. Da queste considerazioni possiamo concludere che, nel piano, il contatto puntiforme strisciante con attrito `e, di fatto, un vincolo con molteplicit`a 1, dato che, ottenuta la componente normale della forza di contatto N , `e univocamente individuata anche la componente tangenziale. Nello schema di corpo libero preliminare, quindi, il vincolo sar`a indicato con due componenti N e µc N tra loro dipendenti con direzione e verso individuate dalla geometria e dal moto relativo, che deve essere noto. Risolto il problema, nel caso di unilateralit`a del contatto, si dovr`a

108

4.5. ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA SCHEMATIZZAZIONE DEI VINCOLI

comunque verificare che l’effetto di N sia di locale compressione. Se la verifica risulta positiva, la soluzione ottenuta `e definitiva, nel caso contrario si dimostra che il contatto non pu`o manifestarsi (almeno nella configurazione esaminata). Esempi di applicazione di queste considerazioni sono discussi nel seguente esempio e nei prossimi capitoli. Esempio 4.8: Differenza tra attrito statico e cinetico Analizzare la differente schematizzazione delle condizioni di attrito, statico e cinetico, in relazione al problema dei pneumatici.  Supponiamo un’auto in partenza su una strada con l’asfalto in buone condizioni. Se le ruote motrici non slittano, ovvero non vi `e velocit`a relativa tra il punto di appoggio della ruota e la strada, siamo in condizioni di attrito statico. In tal caso, la forza di trazione T , che determina il movimento (l’accelerazione) del veicolo, `e proprio la forza di aderenza, o forza di attrito statico, sulle ruote motrici. Indicando con N la componente normale della forza esercitata dal pneumatico sulla strada, la forza di attrito statico non `e determinata. In effetti, `e possibile partire in modo pi` u o meno brusco, sfruttando tutto il campo della forza di attrito statico dato dalla relazione: 0 ≤ T ≤ µs N Supponiamo che la strada sia ghiacciata e che, in partenza, le ruote motrici slittino. Le condizioni di attrito sono pertanto di tipo cinetico e la forza motrice T non `e pi` u controllabile dall’autista perch´e assume il valore di: T = µc N In queste circostanze, indipendentemente dal comando effettuato sull’acceleratore, l’auto parte con la stessa accelerazione (presumibilmente piuttosto bassa). Lo stesso fenomeno si manifesta in frenata con il segno delle forze di attrito opposto rispetto al verso del moto. Quando si ‘inchiodano’ le ruote, si realizza una condizione non controllabile di frenatura, in quanto `e lasciato all’attrito cinetico il compito di rallentare il veicolo. Frenando in modo che le ruote continuino a rotolare `e invece possibile dosare la frenata. Inoltre, visto che solitamente il coefficiente di attrito statico `e maggiore di quello cinetico, se si evita lo strisciamento, `e possibile ottenere una maggiore efficienza di frenatura. Su questo principio sono basati i sistemi anti-pattinamento delle ruote, noti come ABS per la fase di frenata e ARS per la fase di accelerazione. Nella discussione il fenomeno sono stati trascurati molti aspetti tecnicamente rilevanti tra cui la deformabilit` a del pneumatico e l’estensione della zona di contatto.

109

Capitolo 5

Problemi di statica del corpo rigido nel piano Nel presente capitolo sono proposti alcuni problemi che possono essere risolti con le considerazioni svolte nei capitoli precedenti. Si tratta di esempi in cui sono applicate le condizioni di equilibrio del corpo rigido e la schematizzazione dei carichi e dei vincoli. Nel primo paragrafo sono presentati problemi del primo e del secondo tipo con corpi in quiete nel sistema di riferimento inerziale. Nel secondo paragrafo `e discusso un problema con forze d’inerzia e nel terzo sono affrontati alcuni aspetti legati alla schematizzazione dell’attrito. Il capitolo tratta problemi piani e, come consuetudine, per tutti si considerano sistemi di riferimento cartesiani a due assi x − y disposti sul piano del problema e i poli per il calcolo dei momenti sono scelti sul piano x − y.

5.1 Problemi con corpi rigidi in quiete 5.1.1 Problemi del primo tipo In molti casi il problema stesso indica, o consente di assumere, che il corpo da analizzare si trova in equilibrio statico in una configurazione geometrica definita. L’esempio che segue rappresenta un caso di problema del primo tipo per un corpo rigido. Esempio 5.1: Lamiera in equilibrio Una lamiera rettangolare di acciaio (spessore 50 mm) `e sospesa, come mostrato in figura 5.1, al soffitto tramite tre funi: (a) e (b) sono verticali e (c) `e inclinata di 45◦ rispetto alla verticale. Nell’estremo C viene esercitata una forza orizzontale F di intensit`a pari a 0.8 kN. Tracciare lo schema di corpo libero della lamiera all’equilibrio. 

a) Identificazione dell’elemento in equilibrio e sua modellazione La lamiera pu`o essere assunta come un corpo rigido continuo nel piano. b) Identificazione dei carichi e dei vincoli Per quanto riguarda i carichi, oltre alla forza F data, che si pu`o assumere concentrata e applicata nel vertice C, `e da considerarsi il peso proprio. Il peso della lamiera P = 1015 N non `e infatti trascurabile, essendo dello stesso ordine di grandezza dell’unico altro carico agente. Sul corpo, che `e schematizzato come un continuo

111

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

bidimensionale, agisce pertanto una densit`a uniforme di forza di superficie avente intensit`a pari a 3.826 · 10−3 MPa. Tuttavia, poich´e siamo interessati alle condizioni di equilibrio globale del corpo rigido, `e lecito ridurre il peso a una forza concentrata applicata nel centro di massa della lamiera.

(b)

(a)

A

45°

(c)

H=390

B

F

C

D L=680

Figura 5.1: Lamiera di acciaio sospesa con tre funi

Per quanto riguarda i vincoli, come abbiamo osservato nel capitolo precedente, le funi rappresentano appoggi unilateri. Riassumiamo questi risultati nello schema statico del problema (figura 5.2) dove sono evidenti i modelli di carico e di vincolo adottati.

A

B

P F

D

C

Figura 5.2: Schema statico

A questo punto `e possibile caratterizzare staticamente i vincoli, sostituendoli con le azioni che possono esercitare sul corpo, in modo da tracciare lo schema di corpo libero preliminare (figura 5.3) nel quale compaiono le reazioni vincolari Ta , Tb e Tc come incognite. c) Imposizione delle condizioni di equilibrio Trattandosi di un corpo rigido nel piano, le cardinali forniscono tre equazioni scalari indipendenti che le azioni agenti devono rispettare. Usando il sistema cartesiano

112

5.1. PROBLEMI CON CORPI RIGIDI IN QUIETE

rappresentato in figura 5.3, la scrittura delle equazioni di risultante `e immediata. Per l’equazione di momento possiamo scegliere il polo pi` u conveniente: usando B, nell’equazione di momento non compaiono le incognite Tb e Tc (hanno braccio nullo rispetto a B): Tb

Ta

B

A

Tc

P

y

F

x

C

D

Figura 5.3: Schema di corpo libero preliminare



2 −F =0 2 √ 2 Ta + Tb + Tc −P =0 2

Rx = 0 ⇒ Ry = 0 ⇒ Mz = 0 ⇒

Tc

−Ta · L + P

L − F ·H = 0 2

Osserviamo che il calcolo dei momenti `e facilitato dall’uso della regola della mano destra. Guardando il problema dalle z+ c0me in figura 5.3, le forze Ta e F tendono a far ruotare la lamiera in senso orario attorno a B e quindi contribuiscono con un termine negativo al momento risultante, mentre il peso tende a produrre una rotazione antioraria fornendo un contributo positivo. I momenti sono calcolati direttamente come prodotto della forza per il braccio. d,e) Discussione del sistema risolvente e soluzione Scritto in forma matriciale, il sistema risolvente si presenta come segue: √      0 0 √2/2 Ta F   1 1 P 2/2   Tb  =  Tc F · H − P · L/2 −L 0 0 e in forma numerica: 

√     0 0 √2/2 Ta 0.8  1 1 2/2   Tb  =  1.015  103 Tc −32.97 −680 0 0

dove le forze sono espresse in N, le distanze in mm e, di conseguenza, i momenti in Nmm.

113

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

Il sistema risolvente ha la struttura tipica per i problemi del primo tipo: sistema lineare non omogeneo con la matrice nota (composta dalle caratteristiche geometriche), le reazioni vincolari come incognite e il vettore dei termini noti definito dai carichi e dalla posizione dei loro punti di applicazione. Il sistema pu`o essere facilmente risolto per sostituzione diretta ottenendo l’unica soluzione: Ta = 48.5 N Tb = 166.1 N Tc = 1131 N f ) Analisi critica dei risultati e loro presentazione La soluzione ottenuta `e ammissibile dal punto di vista fisico: tutte le funi, essendo tese, sono in grado di esercitare le azioni di vincolo calcolate. Lo schema di corpo libero definitivo, esplicita richiesta del problema, `e riportato nella figura 5.4.

48.5 N

1131 N

166.1 N

A

B

800 N

D 3.826·10−3 N/mm2

C

Figura 5.4: Schema di corpo libero definitivo

Nello schema di corpo libero definitivo, il peso proprio `e stato rappresentato come effettivamente applicato: una distribuzione di forze di superficie uniformemente applicata all’intera lamiera.

Alcune considerazioni sono utili per estendere a casi pi` u complessi la procedura di soluzione adottata. Le tre equazioni di equilibrio utilizzate non solo le uniche valide. In effetti, si possono scegliere altre coppie di assi cartesiani e altri poli rispetto ai quali imporre la condizione di momento nullo. Tutte queste varianti sono generalmente lecite ma per usarle `e necessario porre una certa attenzione. Infatti, le leggi della Statica garantiscono che le relazioni scritte, essendo l’applicazione diretta delle equazioni cardinali, rappresentano condizioni necessarie e indipendenti per le azioni agenti quando il corpo `e in equilibrio. Quando scriviamo queste relazioni siamo quindi certi che tutte e sole le informazioni ricavabili dalla Statica del corpo rigido sono state utilizzate. Conseguentemente, se alla fine il sistema non fosse risolvibile, la causa non dovr`a essere ricercata in una impostazione incompleta o incoerente ma in pi` u profonde ragioni di tipo fisico. Inoltre, non si ottiene alcun vantaggio inserendo nel sistema una ulteriore equazione, per esempio l’annullamento del momento rispetto a un altro polo. Per convincersene `e sufficiente

114

5.1. PROBLEMI CON CORPI RIGIDI IN QUIETE

ricordare che in un sistema di azioni con risultante nulla, come deve essere quello che si sta cercando dato che il corpo `e in equilibrio, il momento risultante non dipende dal polo. Pertanto se il momento risultante `e nullo per un polo lo `e per ogni altro. Dal punto di vista algebrico, in effetti, l’ulteriore equazione potrebbe essere ottenuta come combinazione lineare di quelle suggerite. In certi casi la scelta di condizioni di equilibrio leggermente diverse da quelle standard potrebbe sembrare vantaggiosa. Nell’esempio, il sistema risolvente potrebbe essere ottenuto anche con: • una equazione di risultante in direzione x • una equazione di momento con polo in B • una equazione di momento con polo nell’intersezione delle rette d’azione delle reazioni Ta e Tc . Il lettore pu`o verificare che il nuovo sistema `e composto da equazioni disaccoppiate (la sua matrice `e diagonale) e pertanto `e di immediata soluzione. Ricorrere a questo tipo di espedienti `e per`o generalmente sconsigliato, soprattutto quando si affrontano problemi nuovi o complessi. Avere la garanzia di scrivere un sistema completo e coerente `e pi` u importante del vantaggio di saltare qualche passaggio algebrico correndo il rischio di dimenticare qualche condizione fondamentale. Per questo motivo, non saranno sviluppate specifiche considerazioni finalizzate a ottenere sistemi risolventi algebricamente pi` u semplici al solo scopo di agevolare la soluzione manuale.

5.1.2 Problemi del secondo tipo Una semplice modifica dei carichi rende il problema precedente del secondo tipo. Esempio 5.2: Lamiera in equilibrio in configurazione da determinarsi Risolvere il problema dell’esempio 5.1 nel caso in cui la forza F abbia verso opposto.



Partiamo come di consueto dall’ipotesi che il corpo sia in equilibrio nella configurazione data. I punti a,b,c,d del procedimento di soluzione sono identici all’esempio precedente. e) Soluzione del sistema Con i nuovi carichi la soluzione diventa: Ta = 966 N Tb = 848 N Tc = −1131 N f ) Analisi critica dei risultati e loro presentazione La soluzione non `e accettabile dal punto di vista fisico: per esercitare l’azione di vincolo necessaria all’equilibrio nella configurazione data la fune (c) dovrebbe essere compressa. Concludiamo quindi che il corpo non pu`o stare in equilibrio nella configurazione data con i carichi e i vincoli previsti. Questa conclusione non esclude peraltro che si possa ottenere l’equilibrio in configurazioni diverse. Affrontiamo pertanto il problema considerandolo del secondo tipo.

115

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

b) Identificazione dei carichi e dei vincoli Se la fune c tende a comprimersi sotto l’azione del carico, possiamo supporre che si incurvi e non eserciti alcuna azione sulla lamiera e quindi la eliminiamo dallo schema statico, almeno fino a prova contraria. La mancanza della fune (c) modifica quindi le condizioni di vincolo del corpo. Se esiste una condizione di equilibrio, che ovviamente non pu`o essere quella data, `e da ricercarsi nella configurazione rappresentata in figura 5.5 con l’angolo θ incognito.

θ

θ

(a)

(b)

(c)

A

B P F

D

C

Figura 5.5: Possibile configurazione di equilibrio incognita nel caso di forza orizzontale invertita con la la fune (c) lenta

Lo schema statico, non riportato per brevit`a, `e analogo a quello dell’esercizio precedente ma comprende solo gli appoggi corrispondenti alle funi (a) e (b). Lo schema di corpo libero preliminare `e rappresentato in figura 5.6. c) Imposizione delle condizioni di equilibrio Usiamo le stesse equazioni dell’esempio precedente per ottenere il sistema:  −Ta sin θ − Tb sin θ + F = 0  Ta cos θ + Tb cos θ − P = 0  −Ta cos θ · L + P · L/2 + F · H = 0

Ta θ

Tb

θ

A

B P

y

F

x

D

C

Figura 5.6: Schema di corpo libero preliminare in cui la fune (c) non agisce

116

5.1. PROBLEMI CON CORPI RIGIDI IN QUIETE

d,e) Discussione del sistema risolvente e soluzione Si tratta di un sistema non lineare nelle incognite θ, Ta e Tb . In questo caso, si pu` o ricavare Ta cos θ dalla terza equazione, da cui Tb cos θ dalla seconda e, dividendo nella prima per Ta cos θ si ottiene un’equazione in tan θ che porta all’unica soluzione: θ = 0.668 ( = 38.3◦ ) Ta = 1230 N Tb = 61.8 N f ) Analisi critica dei risultati A questo punto, in una situazione reale, si dovrebbe verificare che B disti dal punto in cui la fune (c) `e collegata al muro meno della lunghezza della fune (c) stessa. Se, come rappresentato nella figura 5.1, le funi (b) e (c) sono vincolate alla stessa quota, questa condizione `e senz’altro verificata. La lamiera pu`o quindi raggiungere l’equilibrio anche con la forza F diretta a destra ma in una configurazione diversa da quella di partenza.

5.1.3 Considerazioni sull’equilibrio per i problemi di primo e di secondo tipo Il confronto tra gli esempi 5.1 e 5.2 `e utile per discutere la differenza tra le condizioni di equilibrio che si realizzano nei problemi di primo e di secondo tipo. Nel primo caso, in cui l’insieme dei vincoli ha complessivamente molteplicit`a 3 (tre appoggi semplici efficaci ognuno con molteplicit`a 1), la configurazione di equilibrio data `e garantita anche se il carico esterno (per esempio F ) subisce modifiche almeno entro certi limiti. A tale proposito, il lettore pu`o verificare che, fissato il peso, qualunque valore di F compreso tra 0 e 884.5 N `e compatibile con l’equilibrio della lamiera nella configurazione data. Inoltre tali limiti sono connessi con la natura unilaterale degli appoggi. In effetti, se i tre vincoli fossero appoggi ideali completi (bilateri), non sussisterebbero limiti ai carichi applicabili alla lamiera per avere l’equilibrio nella configurazione data, ovviamente prescindendo da considerazioni sulla resistenza della lamiera e delle connessioni con il telaio. Nel problema del secondo tipo, i vincoli attivi hanno molteplicit`a complessiva pari a 2, essendo due appoggi semplici. Come conseguenza, la configurazione di equilibrio dipende dalle caratteristiche del carico. La lamiera non `e in effetti completamente vincolata al telaio, potendosi muovere nel piano, verso destra, con una traslazione non rettilinea. Dal punto di vista cinematico potremmo in effetti classificarla come un meccanismo con un grado di libert` a (un parallelogramma articolato). Si pu`o notare che dei tre gradi di libert`a della lamiera libera (corpo rigido nel piano), solo 2 sono vincolati. In molte situazioni pratiche questo tipo di soluzione non `e soddisfacente. Spesso si richiede che i vincoli definiscano la configurazione del corpo per carichi che assumono valori variabili in un intervallo. La ragione di questa necessit`a risiede nel fatto che i carichi possono modificarsi nel funzionamento e spesso sono anche di incerta previsione. Ulteriori considerazioni sulle caratteristiche dell’equilibrio saranno sviluppate nel capitolo 7.

117

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

5.2 Problemi con forze d’inerzia Essendo lo scopo del corso effettuare l’analisi strutturale di componenti di macchine, che sono generalmente organi in movimento, `e opportuno cominciare ad affrontare problemi di corpi estesi in cui sono significative le forze d’inerzia. Esempio 5.3: Barra in rotazione Una barra di sezione circolare (diametro D = 60 mm e lunghezza L = 970 mm) di lega leggera (densit`a γ = 3.1 kg/dm3 ) `e saldata al manicotto M che, tramite due cuscinetti A e B, con B bloccato assialmente, ruota a n = 110 giri/min attorno a un perno verticale fisso (figura 5.7). Nella configurazione data e relativamente al sistema di riferimento indicato: 1) tracciare lo schema di corpo libero della barra 2) determinare le azioni che la barra trasmette al manicotto 3) determinare le azioni che i singoli cuscinetti trasmettono al perno

M α=20°

L=9

70

0 D=6

M

70

A

y

B

x

Figura 5.7: Barra in rotazione

a) Identificazione dell’elemento in equilibrio e sua modellazione Consideriamo la barra come un corpo rigido continuo. Dato che il diametro `e molto minore della lunghezza possiamo considerare la barra un solido monodimensionale e ridurla nel modello alla sua linea d’asse. Assumendo il sistema di riferimento x − y in rotazione insieme con la barra (sistema non inerziale), il problema diventa di statica nel piano. b) Identificazione dei carichi e dei vincoli Il manicotto pu`o essere considerato telaio, almeno per rispondere alla prima domanda, in quanto non ha possibilit`a di moto piano rispetto a questo. Il diametro del manicotto non `e indicato nel disegno e si assume trascurabile rispetto alle dimensioni significative del problema. La saldatura tra barra e manicotto realizza una connessione completa tra i due elementi, impedendo ogni componente di moto relativo, pertanto `e schematizzabile come un incastro. La barra (la cui massa complessiva `e

118

5.2. PROBLEMI CON FORZE D’INERZIA

8.50 kg) `e soggetta al peso proprio e alle forze d’inerzia. In questo caso la barra `e ferma nel sistema non inerziale in rotazione uniforme, per cui l’unica forza d’inerzia agente `e di trascinamento ed `e centrifuga. Il peso proprio `e una forza di volume uniformemente distribuita, mentre la forza centrifuga `e una forza di volume non uniforme. L’intensit`a della densit`a volumica di forza centrifuga in un punto della barra aumenta, insieme con l’accelerazione di trascinamento, in misura direttamente proporzionale alla distanza del punto dall’asse di rotazione. Assunto per la barra un modello monodimensionale, i carichi di volume saranno schematizzati come distribuzioni lineari di forze applicate sulla linea d’asse. Essendo il peso complessivo della barra pari a 83.4 N, la corrispondente densit`a lineare vale: 0.086 N/mm, quantit`a numericamente uguale al peso di una fetta di barra avente 1 mm di spessore in direzione assiale. Per determinare la distribuzione di forza centrifuga, si pu`o procedere come segue.

s ds

r Figura 5.8: Schema per il calcolo delle forze centrifughe

Considerato (figura 5.8) un elemento di barra di lunghezza ds posto a distanza s dal manicotto (0 < s < L) e quindi a distanza r = s · cos α dall’asse di rotazione, il modulo della forza centrifuga su di esso agente dFc vale: dFc = dm · ω 2 r = γ ·

πD2 ds · ω 2 s cos α 4

in cui ω = 2πn e la velocit`a angolare. La forza centrifuga per unit`a di lunghezza della 60 ` barra fc in tale punto `e pertanto: fc =

dFc dm 2 = ω s cos α ds ds

2

πD dove dm a lineare di massa della barra. ds = γ 4 = 8.765 kg/m rappresenta la densit` Nell’effettuare questa valutazione, che coinvolge le forze d’inerzia, si deve prestare attenzione alle unit`a di misura in modo che l’accelerazione di trascinamento sia espressa in m/s2 per avere le forze espresse in N:    −3 2 2πn 2  s πD2 2 3 π(60 · 10 )m 3 fc = γ ω s cos α = 3.1 · 10 kg/m m cos α = 4 4 60 1000

= 1.093 · s N/m dove s `e espresso in mm. Per avere l’espressione in N e mm `e necessario effettuare una ulteriore conversione: fc = 1.093 · 10−3 · s N/mm

119

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

Lo schema statico della barra `e rappresentato nella figura 5.9. 0.5 N/mm

Figura 5.9: Schema statico della barra con la rappresentazione dei vincoli e dei carichi (in scala)

Si pu`o osservare che la risultante delle forze centrifughe vale 1 Fc = 1.093 · 10−3 · L2 = 514.2 N 2 ed equivale alla massa totale della barra moltiplicata per l’accelerazione del centro di massa della barra stessa (che si trova a L/2 dal manicotto). Questo risultato `e una conseguenza del teorema del moto del centro di massa per i sistemi di punti materiali. Per inciso, osserviamo che l’asse centrale delle forze centrifughe non passa per il centro di massa perch´e la distribuzione non `e uniforme. Applicando le relazioni sviluppate nel capitolo 3, si pu`o verificare, che, trattandosi di una distribuzione triangolare, l’asse centrale delle forze d’inerzia interseca l’asse della barra in un punto che si dista s = 2/3L dal manicotto. Riducendo i carichi distribuiti a forze concentrate staticamente equivalenti e caratterizzando l’incastro con le reazioni vincolari esplicabili, si ottiene lo schema di corpo libero preliminare di figura 5.10. W

S 2/3L L/2

T y

Fc = 514.2 N

x P= 83.4 N

Figura 5.10: domanda 1

Schema di corpo libero preliminare per la soluzione della

c,d,e) Imposizione delle condizioni di equilibrio, risolvente e soluzione

discussione del sistema

Le equazioni cardinali nel sistema indicato in figura 5.10 e con polo nel manicotto sono le seguenti: R x = 0 ⇒ T + Fc = 0

120

5.2. PROBLEMI CON FORZE D’INERZIA

Ry = 0 ⇒

S−P =0

2L sin α L cos α + Fc =0 2 3 Il sistema algebrico risultante ha l’unica soluzione: Mz = 0 ⇒

W −P

T = −514.2 N S = 83.4 N W = −75.7 · 103 Nmm f ) Analisi critica dei risultati e presentazione Il risultato ottenuto `e plausibile. I segni negativi indicano che la previsione sul verso di alcune componenti dell’azione esercitata sulla barra dalla saldatura non `e confermata (ne terremo conto nello schema di corpo libero definitivo), ma sono compatibili con la bilateralit`a del vincolo. Risposta alla domanda 1) 83.4 N 514.2 N 75.7 Nm

−3

1.093·10 · s N/mm

0.086 N/mm 1.06 N/mm

Figura 5.11: Schema di corpo libero definitivo

Nella schema di corpo libero definitivo di figura 5.11, le scale con cui sono rappresentate le reazioni vincolari e i carichi non sono confrontabili. Le forze concentrate sono espresse in N, le forze distribuite in N/mm e il momento in Nm, per chiarezza le relative frecce sono state quindi disegnate con spessori diversi. Come di consueto, nello schema di corpo libero definitivo le azioni sono rappresentate con il loro verso effettivo e sono accompagnate dal modulo, in modo da mostrare in modo chiaro e completo l’insieme delle azioni esterne agenti sul corpo. Il complesso sistema di azioni statiche rappresentato nello schema di corpo libero definitivo deve essere autoequilibrato (a meno che non sia stato commesso qualche errore nella soluzione!). Risposta alla domanda 2) La corretta applicazione del terzo principio ai risultati ottenuti nella risposta precedente permette di concludere chele azionirichieste sono:   514.2 0  Nm una forza di componenti:  −83.4  N e un momento di componenti:  0 0 75.7 Risposta alla domanda 3) Il manicotto pu`o essere considerato un corpo rigido di massa trascurabile su cui agiscono, come carichi, le azioni dovute alla saldatura che sono state calcolate nella seconda domanda. Il manicotto `e vincolato al telaio (il perno) da una cerniera (il cuscinetto B)

121

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

e da un appoggio (il cuscinetto A). Le azioni prodotte dalla saldatura sono considerate applicate in corrispondenza del centro del cuscinetto A punto a cui converge l’asse della barra. Questa semplificazione `e coerente con l’ipotesi di trascurare le dimensioni radiali del manicotto. In presenza di una quotatura pi` u completa, sarebbe stato possibile localizzare con maggiore precisione il ‘centro’ della saldatura punto in cui `e pi` u corretto applicare i carichi. Tuttavia, tale dettaglio non risulta importante ai fini della valutazione delle reazioni sui cuscinetti se le dimensioni del disegno sono in scala e il raggio del manicotto `e effettivamente piccolo rispetto alla lunghezza della barra. Lo schema statico `e rappresentato nella figura 5.12(a) e il corrispondente schema di corpo libero preliminare nella figura 5.12(b). 75.7 Nm 514.2 N

75.7 Nm

V

83.4 N

83.4 N

514.2 N

y

U x H

(a)

(b)

Figura 5.12: Schema statico (a) e schema di corpo libero (b) del manicotto considerato un corpo rigido di estensione radiale trascurabile

Le reazioni vincolari valgono: V = −567 N, U = 1082 N e H = 83.4 N. Lo schema di corpo libero definitivo per il manicotto `e riportato in figura 5.13. 75.7 Nm 567 N

514.2 N 83.4 N

1082 N 83.4 N

Figura 5.13: Schema di corpo libero definitivo del manicotto con le forze trasmesse dal perno attraverso i cuscinetti

Le forze trasmesse al perno dal cuscinetto superiore A e inferiore B sono pertanto (dal terzo principio):     −3406 3920 ~A =  0 ~ B =  −83.4  N N R R 0 0 Nota. La forza trasmessa dai cuscinetti `e in buona parte dovuta al momento W e la componente assiale della forza su B `e pi` u di un ordine di grandezza inferiore a quella radiale, conclusione che giustifica l’impiego di un cuscinetto radiale (invece che misto) per questa applicazione.

122

5.3. PROBLEMI CON ATTRITO

5.3 Problemi con attrito In questo paragrafo sono analizzati alcuni problemi che richiedono la schematizzazione degli effetti prodotti dall’attrito. Come discusso nel capitolo precedente, la presenza di attrito richiede di distinguere le condizioni di strisciamento, attrito cinetico, da quelle di adesione, attrito statico, e impone una verifica a posteriori delle ipotesi fatte. Esercizio guidato 5.1: Corpo rigido con attrito statico Un blocco di marmo (densit`a: γ = 1.9 kg/dm3 ) a forma di parallelepipedo (L = 2000 mm, H = 550 mm, W = 700 mm `e appoggiato alle estremit`a come rappresentato in figura 5.14. Attraverso un cavo avvolto su una puleggia che si trova all’altezza H1 = 1200 mm dal pavimento, si tenta di sollevarne lo spigolo in B. Determinare: 1) la forza minima Tmin da esercitare al cavo necessaria per il sollevamento 2) il coefficiente di attrito statico minimo perch´e nell’istante del sollevamento, con la forza pari a Tmin , il blocco non scorra in A.

A

L=2000

H1 =1200

H=550

α 1 =50°

B

Figura 5.14: Sollevamento di un blocco di marmo

` proposta solo una traccia dello svolgimento ma `e utile sviluppare compiutamente le E varie fasi della soluzione. Supponendo che il piano su cui giace il cavo sia nella mezzeria dello spessore, il problema pu`o essere considerato bidimensionale. Ai fini dell’equilibrio globale, il peso del blocco pu`o essere considerato come un carico concentrato di 14.35 kN applicato nel suo centro di massa. La fune materializza un vincolo di appoggio unilatero. Qualche difficolt`a pu` o sorgere nell’identificazione dei vincoli in A e B: ammettendo la presenza di contatti con attrito (statico), si dovrebbe considerare in entrambi i punti una cerniera. Tuttavia, la prima domanda richiede una condizione di distacco in B che si pu`o esplicitare imponendo l’annullamento delle relative reazioni vincolari: appena il blocco si stacca, viene meno la forza normale mutua e di conseguenza anche la forza di attrito. Al distacco, lo schema statico e lo schema di corpo libero preliminare risultano pertanto raffigurati nella figura 5.15.

123

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

Tmin

Tmin S

P = 14350 N

P = 14350 N

R (b)

(a)

Figura 5.15: Schema statico (a) e schema di corpo libero preliminare (b) in fase di incipiente distacco

Imponendo le equazioni cardinali, `e possibile ricavare le tre incognite scalari (Tmin = 12.18 kN, R = 5.02 kN e S = −7.83 kN) si risponde cos`ı alla prima domanda: il tiro minimo richiesto al sollevamento in caso di non scorrimento in A `e di 12.18 kN. La componente verticale R della reazione di contatto in A, che risulta positiva, `e garantita dall’appoggio unilatero, la componente orizzontale deve essere prodotta dall’attrito statico. Affinch´e questa componente possa essere esercitata `e necessario che il coefficiente di attrito µs soddisfi la relazione: µs >

7.83 = 1.56 5.02

Da ci`o si ottiene la risposta alla seconda domanda: il coefficiente di attrito statico minimo per evitare lo scorrimento di A `e 1.56. In effetti `e un valore piuttosto elevato perch´e si possa effettivamente affidarsi all’attrito di contatto per ottenere tale condizione di sollevamento. Se, come prevedibile, il coefficiente di attrito statico `e inferiore a 1.56, il sollevamento cambia completamente e di conseguenza anche il modo di affrontare il problema. Non risulta infatti possibile effettuare il sollevamento nella configurazione data perch´e il blocco comincer`a a scorrere sulla base in corrispondenza di un tiro della fune inferiore a Tmin . Il movimento modifica la posizione del blocco, e quindi l’angolo α, prima dell’eventuale sollevamento di B, come discusso nel prossimo esempio. Esempio 5.4: Corpo rigido con attrito cinetico Con gli stessi dati del problema precedente, assumendo un coefficiente di attrito, sia statico sia cinetico, in A e in B pari a µ = 0.4, calcolare: 1) il tiro della fune T1 in corrispondenza del quale il blocco comincia a scorrere 2) l’angolo di inclinazione α2 della fune in corrispondenza del quale il blocco comincia a sollevarsi in B e il corrispondente valore del tiro della fune T2 3) il lavoro fatto dall’argano che tira la fune per portare il blocco in condizioni di sollevamento. 

124

5.3. PROBLEMI CON ATTRITO

Si tratta di un problema che non pu`o essere a rigore definito statico nel sistema di riferimento del pavimento, poich´e il blocco `e in moto sotto l’azione dei carichi agenti. Tuttavia, assumeremo la velocit`a di scorrimento molto bassa e circa costante nel percorso, in modo da poter trascurare l’effetto delle forze d’inerzia anche nel sistema di riferimento del blocco, sia nelle fasi iniziali del movimento sia durante lo scorrimento. Un’altra semplificazione importante, concessa dal testo stesso, consiste nell’assumere l’uguaglianza tra i coefficienti di attrito statico e cinetico. Come `e noto, il coefficiente di attrito statico `e generalmente pi` u elevato di quello cinetico. La differenza tra i coefficienti comporta che nelle prime fasi del moto, appena superate le condizioni di aderenza, si manifestano effetti dinamici solitamente non trascurabili, fenomeno cos`ı detto dello stickslip (termine inglese ma di uso comune, letteralmente: bloccato-scorrevole). Gli effetti dello stick-slip possono essere rilevanti nella valutazione del comportamento di componenti di macchina, ma un loro esame completo richiede modelli dinamici che vanno oltre i limiti del corso. Nella fase iniziale, quando il tiro `e inferiore a T1 e il blocco non scorre, lo schema statico del problema e il corrispondente schema di corpo libero preliminare sono riportati in figura 5.16: 0.013 N/mm2

T

0.013 N/mm2

T

V

S U

R

(a)

(b)

Figura 5.16: Schema statico (a) e schema di corpo libero preliminare (b) per un valore di T minore di quello necessario a produrre lo scorrimento

Si pu`o verificare che le reazioni vincolari non possono essere ottenute con il consueto procedimento di soluzione, anche se `e dato il valore di T . In effetti, si hanno 4 incognite (R, S, V , U ) con tre equazioni indipendenti e il sistema lineare che si ottiene applicando le cardinali risulta indeterminato. In termini fisici si pu`o dire che il corpo `e vincolato in modo ridondante: vi sono pi` u vincoli di quanti strettamente necessari per annullare i gradi di libert`a del corpo rigido e garantirne equilibrio. Come vedremo, questa ridondanza di vincoli non significa che manchi la soluzione, infatti, interponendo due doppi dinamometri ideali nelle zone di appoggio del blocco, le reazioni vincolari potrebbero essere misurate. Come vedremo pi` u avanti nel corso, le reazioni vincolari possono essere anche calcolate, ma rinunciando all’ipotesi di infinita rigidezza del blocco. Se il blocco non pu`o essere considerato infinitamente rigido non `e lecito concentrare il suo peso nel baricentro per questo motivo in figura 5.16) il peso `e stato rappresentato come carico distribuito. Rimandiamo ai prossimi capitoli le tecniche di soluzione per la statica dei corpi vincolati in modo ridondante. In effetti, la soluzione nella condizione iniziale di figura 5.16 non `e richiesta. Quando il blocco comincia a scorrere, infatti, in entrambi i contatti le componenti di attrito non sono pi` u indipendenti dalle componenti normali perch´e: • hanno verso tale da opporsi al moto relativo • la loro intensit`a `e data da µN dove N `e la corrispondente forza normale di contatto.

125

5. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NEL PIANO

Pertanto, in condizioni di scorrimento, le incognite scalari che definiscono completamente le reazioni vincolari diventano una per ogni contatto da cui si pu`o tracciare lo schema di corpo libero preliminare di figura 5.17 sulla base del quale si conclude che il problema pu`o essere risolto anche in ipotesi di blocco infinitamente rigido. α

T

μR

μS P

R

S

Figura 5.17: Schema di corpo libero del blocco che scorre (verso destra) sugli appoggi in posizione generica

Risolvendo il sistema delle equazioni cardinali (ricordiamo che il blocco si muove a bassa velocit`a assunta costante), si ottiene: µP cos α + µ sin α   P H S (α) = + T (α) cos α − sin α 2 L P H R (α) = − T (α) cos α 2 L Alla prima domanda si risponde valutando il tiro della fune per α = α1 = 50◦ . Nella prima fase del movimento il tiro della fune vale quindi: T1 = T (α1 ) = 6048 N. Per rispondere alla seconda domanda `e necessario risolvere l’equazione trigonometrica che si ottiene imponendo l’annullamento della reazione dell’appoggio B (condizione che comincia a manifestarsi nell’istante di incipiente sollevamento): T (α) =

S(α2 ) = 0 da cui α2 = 71.8◦ . Il calcolo del lavoro richiede una integrazione, in quanto il tiro della fune e l’angolo formato con la direzione del moto del punto di applicazione variano con α. Chiamato s lo spostamento orizzontale del punto B, si ricava che:   1 1 s = (H1 − H) − tan α1 tan α e quindi differenziando: H1 − H dα sin2 α Per cui (terza domanda) il lavoro `e dato da: Zα2 H1 − H T (α) · cos α dα =1.114 kJ sin2 α ds =

α1

L’integrale pu`o essere calcolato con un metodo numerico, per esempio con la regola dei trapezi, avvalendosi di un foglio elettronico.

126

Capitolo 6

Statica del corpo rigido nello spazio Lo studio dei problemi tridimensionali di corpo rigido `e pi` u impegnativo di quello dei problemi piani. In primo luogo, la casistica dei vincoli, anche di quelli elementari, `e molto pi` u vasta. In effetti, avendo un corpo rigido nello spazio ben 6 gradi di libert`a, sono possibili pi` u modalit`a per limitarne il movimento. Nello spazio, inoltre, risulta meno agevole visualizzare e rappresentare le configurazioni geometriche e i moti. Un’altra complicazione, per niente trascurabile dal punto di vista operativo, consiste nella mancanza di una simbologia universalmente accettata per indicare i vincoli elementari nello spazio. Questa carenza impone di tracciare il diagramma di corpo libero preliminare, invece del consueto schema statico, come primo passo per la soluzione del problema. Nel capitolo sono presentati i principali vincoli elementari per il corpo esteso nei modelli tridimensionali. Come nel caso piano, l’attrito sar`a assunto generalmente trascurabile, a meno di situazioni particolari in cui esso deve essere specificamente preso in esame. I vincoli discussi non esauriscono le possibili realizzazioni pratiche. Tuttavia, un vincolo reale pu`o essere ragionevolmente ricondotto a una opportuna combinazione dei vincoli elementari presentati. Per alcuni vincoli elementari si riconosce la naturale estensione degli omonimi vincoli piani. In certi casi l’estensione `e meno diretta, in quanto nello spazio sono possibili diverse varianti. Vi sono inoltre vincoli tipici dello spazio che non hanno equivalenti nei problemi piani. Nell’ultima parte del capitolo alcuni esempi illustrano i metodi per affrontare problemi tridimensionali.

6.1 Vincolo di appoggio semplice nello spazio Analogamente al caso piano, l’appoggio semplice nello spazio vincola un punto A del corpo ad appartenere a una superficie α che ha in A una normale n ˆ univocamente definita. Spesso la superficie α `e un piano, ma questo non `e necessario. In ogni caso, l’univocit`a della normale implica che la superficie abbia in A un (unico) piano tangente. L’azione statica esercitata dall’appoggio semplice sul corpo `e schematizzabile con una forza applicata in A avente la direzione di n ˆ . Anche nello spazio, l’appoggio semplice ha quindi molteplicit`a 1. Nello schema di corpo libero preliminare, l’appoggio semplice `e rappresentato da una forza concentrata in A avente intensit`a S incognita (`e quindi incognito anche il verso). Dal punto di vista cinematico, la zona del corpo in corrispondenza del punto A pu`o avere i seguenti moti concessi dall’appoggio semplice: • traslazione con direzione generica nel piano normale a n ˆ (2 DOF) • rotazione attorno a un generico asse passante per A (3 DOF).

127

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Il vincolo di appoggio semplice nello spazio pu`o essere realizzato costruttivamente con una bielletta tra due snodi sferici (vedi oltre). Il contatto puntiforme su una superficie regolare senza attrito, per esempio il contatto tra i denti lubrificati di alcuni tipi di ingranaggi, il collegamento con una fune (oppure catena, cinghia, ecc. . . ) sono esempi di appoggi semplici anche nello spazio, con la caratteristica dell’unilateralit`a. Anche nello spazio, i contatti unilaterali saranno considerati appoggi semplici a tutti gli effetti fino alla soluzione del sistema, salvo successivamente eliminarli, o modificarli, se non dovessero risultare efficaci. Lo schema statico e il corrispondente schema di corpo libero per l’appoggio semplice nello spazio sono riportati nella figura 6.1.



A

A

S (a)

(b)

Figura 6.1: Appoggio semplice nello spazio: (a) schema statico con bielletta tra due snodi sferici; (b) diagramma di corpo libero preliminare

6.2 Cerniere tridimensionali Nello spazio si identificano vari vincoli a cui si attribuisce il nome di cerniera. Tutti i tipi di cerniera tridimensionale hanno la caratteristica comune di impedire al punto A di un corpo esteso di avere movimenti di traslazione (almeno) in un determinato piano α. Tuttavia, le varie cerniere tridimensionali possono impedire anche altre componenti di movimento e sono ` necessario considerare che la classificazione usata nel presente conseguentemente distinte. E testo e la relativa nomenclatura non `e universalmente accettata.

6.2.1 Cerniera piana nello spazio La cerniera piana nello spazio `e la cerniera con la molteplicit`a pi` u bassa tra tutte le cerniere tridimensionali (`e la meno vincolante). Consideriamo il punto A di un corpo esteso e un piano α passante per A, una cerniera piana nello spazio agisce in modo da impedire solo il movimento di traslazione di A in ogni direzione che giace sul piano α. La zona del corpo attorno ad A pu`o quindi: • traslare nella direzione normale al piano α (1 DOF) • ruotare attorno a un qualunque asse passante per A (3 DOF). Come per ogni caso ideale, il vincolo deve essere in grado di esercitare in A le azioni statiche energeticamente associate ai moti impediti che consistono pertanto in due componenti di forza (S e T ) tra loro indipendenti giacenti sul piano α. Nello schema statico preliminare, come consuetudine, assumeremo tali forze mutuamente ortogonali. La cerniera piana nello spazio ha quindi molteplicit`a 2 ed `e il vincolo tridimensionale pi` u simile alla cerniera del modello piano. Dal punto di vista costruttivo, per un albero, una cerniera piana nello spazio pu`o essere realizzata con un cuscinetto orientabile non assialmente bloccato. In questo caso, il piano α

128

6.2. CERNIERE TRIDIMENSIONALI

ha come normale il versore n ˆ dell’asse dell’albero in A e quindi le reazioni vincolari sono due forze tra loro ortogonali applicate all’albero in direzione normale all’asse dell’albero stesso, come evidenziato in figura 6.2.

α



S





A

A

A

T (c)

(b)

(a)

Figura 6.2: Cerniera piana nello spazio: a) soluzione costruttiva, b) piano α su cui sono esercitate le reazioni vincolari, c) schema di corpo libero preliminare

Estendendo le considerazioni sviluppate nel capitolo 4, possiamo ragionevolmente assumere come cerniere piane nello spazio anche i cuscinetti radiali a sfere (non orientabili) e le bronzine corte, entrambi non assialmente bloccati, purch´e le inclinazioni dell’albero siano di piccola entit`a.

6.2.2 Cerniera sferica La cerniera sferica impone al punto A di assumere una posizione definita nello spazio. La zona del corpo attorno ad A non pu`o avere pertanto alcun moto di traslazione ma non ha alcun impedimento alla rotazione attorno a un asse qualunque passante per A. Per impedire i moti traslatori, la cerniera sferica deve poter trasmettere al corpo una generica forza nello spazio applicata in A. La reazione vincolare `e pertanto caratterizzabile da tre componenti scalari indipendenti: S, T , V (solitamente assunte a due a due perpendicolari). Sono esempi di realizzazioni pratiche di cerniere sferiche: menischi sferici (tipico `e il portapenne del notaio) e snodi sferici da considerarsi con attrito trascurabile. Per gli alberi, una cerniera sferica `e realizzabile con un cuscinetto orientabile assialmente bloccato. Valgono le solite considerazioni per i cuscinetti a sfere e per le bronzine corte assialmente bloccate che possono essere considerate cerniere sferiche quando l’inclinazione dell’albero `e contenuta.

S

A

V A

T (a)

(b)

Figura 6.3: Esempio di realizzazione pratica di una cerniera sferica a) e relativo schema di corpo libero preliminare b)

In biomeccanica, possono essere considerate con buona approssimazione cerniere sferiche alcune importanti articolazioni del corpo umano, quali le connessioni del femore al bacino, dell’omero alla spalla e della testa al tronco.

129

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Come anticipato, un elemento rigido di massa trascurabile tra due cerniere sferiche (non concentriche) realizza la bielletta tridimensionale che `e usata come schema per l’appoggio semplice nello spazio. Infatti, essendo soggetta a due sole forze, la bielletta pu`o trasmettere solo una coppia di braccio nullo le cui forze giacciono sulla retta congiungente i centri delle cerniere sferiche.

6.2.3 Cerniera completa Una cerniera completa `e un vincolo pi` u forte della cerniera sferica, oltre a limitare le traslazioni della zona del corpo vicina ad A ne impedisce anche ogni componente di rotazione non parallela a un asse passante per A di dato versore n ˆ . Alla zona limitrofa ad A `e quindi consentito un solo grado di libert`a identificabile come la rotazione attorno all’asse n ˆ . Tale moto `e l’unico che possiede l’intero corpo esteso se considerato infinitamente rigido. La cerniera completa ha quindi molteplicit`a 5 in quanto pu`o esercitare le seguenti azioni statiche scalari indipendenti: • 3 componenti di forza S, T e V , applicate al punto A (come la cerniera sferica) • 2 componenti di momento W e H, considerate applicate in A e aventi direzioni perpendicolari all’asse n ˆ Per un albero, in uno schema tridimensionale, la cerniera completa `e materializzata dall’insieme dei suoi cuscinetti (se collocati in una zona di limitata estensione assiale) che in effetti gli consentono la sola rotazione attorno all’asse. Esempi costruttivi sono pertanto: una coppia di cuscinetti obliqui contrapposti, una coppia di cuscinetti radiali di cui uno assialmente bloccato, una bronzina ‘lunga’ bloccata assialmente.



nˆ W

A

A

(a)

S

S W

V T H (b)

V T

A

H

(c)

Figura 6.4: Esempio di realizzazione di una cerniera completa (a), diagramma di corpo libero preliminare con le componenti di momento indicate con doppia freccia (b) o con freccia a nastro(c)

La figura 6.5 mostra come una cerniera completa in A possa essere schematizzata anche come l’insieme di una cerniera sferica pi` u una cerniera piana nello spazio collocate in due punti distinti A1 e A2 (purch´e vicini). Con tale schematizzazione, le reazioni vincolari sono rappresentate da 5 componenti di forza (3 per la cerniera sferica in A1 e 2 per la cerniera piana nello spazio in A2 ). La scelta di questo schema di vincolo composto pu`o essere suggerita dalla necessit`a di distinguere la sollecitazione a carico di ognuno dei cuscinetti. Per applicare questo modello `e peraltro necessario conoscere la distanza A1 A2 . Un esempio di cerniera completa in ambito biomeccanico `e costituito dall’articolazione del ginocchio. La parte inferiore della gamba, infatti, pu`o ruotare attorno a un asse orizzontale che `e approssimativamente perpendicolare alla direzione del moto quando si cammina in avanti. In effetti, una piccola rotazione della parte inferiore della gamba attorno all’asse del femore `e consentita ma, come gli atleti sanno, non `e conveniente sfruttare tale grado di libert`a.

130

6.3. SLITTA, PATTINO O GUIDA PRISMATICA

A1

A2

Q S

nˆ A2

V

A A1

U T (b)

(a)

Figura 6.5: Cerniera completa schematizzata come cerniera sferica pi` u cerniera piana nello spazio. La distanza tra i cuscinetti A1 A2 deve essere nota per discriminare le reazioni vincolari

6.2.4 Cerniera completa assialmente libera La cerniera completa assialmente libera `e materializzata da una bronzina lunga senza spallamenti o da una coppia di cuscinetti entrambi liberi assialmente. Tale vincolo ha molteplicit` a 4 e pu`o essere staticamente schematizzato con: • due componenti di forza T e S agenti in direzioni normali all’asse • due componenti di momento W e H equiversi alle due forze. Una cerniera completa assialmente libera pu`o essere considerata anche come una coppia di cerniere piane nello spazio poste nelle vicinanze. Tale schema richiede in effetti sempre 4 le reazioni vincolari indipendenti (in questo caso tutte componenti di forza). Questa equivalenza `e la versione tridimensionale dell’equivalenza tra bipendolo e coppia di appoggi semplici discussa nel capitolo 4 (bronzina lunga assialmente libera). A1

A2



Q

S W

A

S

(a)

A2

A

T H



U

A1

T (b)

(c)

Figura 6.6: Cerniera completa libera assialmente: tipica realizzazione a), schematizzata come vincolo in A b), oppure come coppia di cerniere piane nello spazio c)

6.3 Slitta, pattino o guida prismatica Il pattino, che pu`o essere considerato una estensione allo spazio del bipendolo, toglie alla zona limitrofa ad A tutti i moti di rotazione pi` u due moti di traslazione, consentendone la sola traslazione nella direzione n ˆ dell’asse del pattino.

131

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Come illustrato in figura 6.7, le azioni statiche esercitate dal pattino, vincolo che ha molteplicit`a 5, sono: • due forze T e S perpendicolari all’asse • tre componenti di momento W e H e K . Esempi costruttivi per questo vincolo sono molto frequenti nelle macchine utensili: una guida a coda di rondine 6.7(a), un manicotto ‘lungo’ con linguetta, un profilo scanalato. Esistono anche guide prismatiche con contatto di rotolamento (cuscinetti lineari a sfere) che realizzano condizioni di vincolo slitta limitando efficacemente le forze di attrito tra gli elementi in moto relativo.

S



K

W A

A

(a)

T

H

(b)

Figura 6.7: Guida prismatica nello spazio: a) soluzione costruttiva a coda di rondine, b) corrispondente schema di corpo libero preliminare

6.4 Incastro spaziale L’incastro spaziale `e la diretta estensione dell’incastro piano, si tratta infatti di un vincolo completo avente molteplicit`a 6 che quindi toglie tutti i gradi di libert`a di un corpo rigido, potendo esercitare nella zona attorno ad A un generico sistema statico composto da: • tre forze mutuamente perpendicolari • tre momenti mutuamente perpendicolari. Esempi pratici di incastro spaziale sono: saldature, incollaggi, imbullonamenti (come le flangie nelle tubazioni). Due tratti di albero realizzati con parti distinte possono essere rese solidali per mezzo di un incastro materializzato da un giunto rigido. Vi sono molte soluzioni costruttive per il giunto rigido (che saranno studiate nei successivi corsi di Costruzioni Meccaniche), tuttavia, indipendentemente dai dettagli realizzativi, dal punto di vista statico, il giunto rigido determina una connessione completa tra le estremit`a di due alberi, consentendo la trasmissione di tutte le sei componenti delle azioni statiche.

6.5 Giunto universale Frequentemente si presenta il problema di collegare un albero motore con un albero di trasmissione parallelo. Se i due alberi sono supportati in modo indipendente (generalmente entrambi sono vincolati con cuscinetti che nel complesso realizzano due cerniere complete distinte) `e possibile che gli assi di rotazione non siano coincidenti, come mostrato in figura 6.8(a). In questi casi il ricorso a un giunto rigido non `e corretto.

132

6.6. GUIDA O VINCOLO ELICOIDALE

Per permettere la trasmissione del moto rotatorio tra gli alberi paralleli in presenza di un (limitato) errore di coassialit`a, sono disponibili elementi di collegamento detti giunti universali. Indipendentemente dalle soluzioni costruttive (giunto di Holdam, giunto a denti, doppio giunto cardanico, ecc. . . ) il giunto universale ideale determina la corrispondenza del solo moto rotatorio dei due alberi attorno ai loro assi, ovvero l’albero condotto ruota dello stesso angolo dell’albero motore. Dal punto di vista statico questo comporta la possibilit`a di esercitare una azione mutua di momento avente la direzione comune degli assi degli alberi. A Motore

(a)

W A

(b)

Figura 6.8: Giunto universale di collegamento tra due alberi coassiali: a) schema statico e b) schema dell’azione statica esercitata sull’albero di trasmissione

Il giunto universale ha pertanto molteplicit`a 1, lo schema di corpo libero `e rappresentato da una componente di momento applicato in A avente direzione dell’asse dell’albero, come mostrato in figura 6.8(b).

6.6 Guida o vincolo elicoidale La guida o vincolo o coppia elicoidale, materializzato dal collegamento tra il dado e la vite, sempre trascurando l’attrito, `e un vincolo tipicamente tridimensionale. Elementi con vincoli elicoidali si trovano in molti componenti di macchina, sia per realizzare collegamenti smontabili sia per ottenere cinematismi in grado di convertire il moto rotatorio in traslatorio o viceversa. Esempi tipici di collegamenti elicoidali sono viti, bulloni e prigionieri, mentre per le applicazioni cinematiche basta ricordare il comando della morsa da banco e la vite madre del tornio. Per fissare le idee, consideriamo una vite che si accoppia in un foro filettato realizzato su un elemento fisso (che consideriamo telaio). Il movimento consentito alla vite dall’accoppiamento `e caratterizzato da una rotazione e da una traslazione, entrambe le velocit`a, di traslazione e di rotazione, sono quindi definite da vettori aventi la direzione dell’asse del cilindro su cui si avvolge l’elica. Il movimento consentito dall’accoppiamento elicoidale `e quindi analogo a quello permesso da una cerniera completa non assialmente bloccata con la notevole differenza che, nella guida elicoidale, i moti di traslazione e di rotazione non sono indipendenti. Considerato un sistema cartesiano ortonormale con l’asse z parallelo all’asse del cilindro su cui si avvolge l’elica (con verso arbitrario), vale infatti la seguente relazione: ϕ s = (−1)k 2π np

(6.1)

i cui simboli indicano:

133

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

• ϕ l’angolo (in radianti) di rotazione della vite attorno all’asse, considerato positivo con la regola della mano destra (il pollice `e equiverso a z), • s lo spostamento assiale della vite (positivo se equiverso con z), • p il passo della filettatura dato dalla distanza tra due creste successive del filetto misurata in direzione z (in generale si possono considerare due generici punti omologhi su fianchi successivi), • n il numero di principi, che indica di quanti passi avanza assialmente la vite quando ruota di un angolo giro, • k l’indice di forma (k = 0 vite destra, k = 1 vite sinistra). L’indice di forma definisce il legame tra i versi dei moti di avanzamento e di rotazione. Se la vite avanza nel senso del pollice della mano destra quando viene fatta ruotare nel verso indicato dalle altre dita, allora `e chiamata vite destra o destrorsa (k = 0, figura 6.9(a)). Nel caso contrario, si parla di vite sinistra o sinistrorsa (k = 1, figura 6.9(b)). Per le viti destre i vettori velocit`a angolare della vite e velocit`a di traslazione dei punti dell’asse sono equiversi. Nella quasi totalit`a dei casi, gli accoppiamenti elicoidali sono realizzati con viti destre a un principio (k = 0 e n = 1).

p

(a)

(b)

Figura 6.9: Schemi di viti a due principi: (a) vite destra k = 0; (b) vite sinistra k = 1

Dalla descrizione cinematica si comprende che una vite rigida ha un solo grado di libert`a e, quindi, che il vincolo elicoidale ha molteplicit`a 5. Per caratterizzare le reazioni vincolari `e opportuno considerare che il vincolo pu`o esercitare in A le quattro azioni della equivalente cerniera completa libera assialmente ovvero: • due forze normali all’asse della vite (T e S) • due momenti normali all’asse della vite (W e H) pi` u una combinazione di: forza assiale Fz e momento assiale Mz , grandezze legate dalla relazione: Mz · 2π + (−1)k Fz · np = 0 (6.2) in cui, per l’idealit`a del vincolo, l’effetto dell’attrito sui filetti `e stato trascurato. Dal punto di vista fisico l’insieme delle azioni statiche costituiscono l’effetto complessivo prodotto dalle complesse distribuzioni di forze di superficie che si manifestano nelle parti elicoidali in contatto. La caratterizzazione dettagliata (punto per punto) di tali distribuzioni `e impossibile da ottenersi senza una conoscenza completa della effettiva geometria delle eliche, delle tolleranze di accoppiamento e prescindendo dalla deformabilit`a degli elementi in contatto. Questo livello di dettaglio `e necessario se si analizzano problemi connessi con la verifica o la progettazione degli

134

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

organi dell’accoppiamento (per esempio per il calcolo dell’usura, del rendimento, ecc. . . ) ma per fortuna non `e necessario per effettuare considerazioni di equilibrio complessivo, almeno se l’attrito `e trascurabile. Lo schema di corpo libero dell’accoppiamento elicoidale, `e mostrato nella figura 6.10 in cui `e evidenziato l’effetto dell’indice di forma. Per tracciare lo schema di corpo libero preliminare, `e opportuno infatti considerare che i versi delle componenti trasversali all’asse z delle reazioni vincolari (forze e momenti) possono essere scelti arbitrariamente mentre il verso di una sola delle componenti assiali `e libero, essendo l’altro conseguenza dell’indice di forma. Pu`o essere utile ricordare che nella vite destra i vettori delle reazioni vincolari forza assiale Fz e momento assiale Mz sono discordi, mentre sono concordi nella vite sinistra. Si osservi che i versi sono opposti a quelli dei relativi moti. Il fatto che il prodotto dei versori delle componenti assiali sia discorde dal prodotto dei versori delle associate velocit`a consegue dalla propriet`a comune a tutti i vincoli ideali che impedisce alle reazioni vicolari di fare lavoro quando il corpo di muove. Con riferimento alla figura 6.10, tenendo conto del fattore di forma nello schema di corpo libero preliminare con l’opportuna scelta dei versi delle azioni assiali, la relazione 6.2 deve essere usata con i moduli: MA · 2π = FA · np (6.3)

W S A

A

T MA

(a)

W S

FA

(b)

T

A

H

FA MA

H

(c)

Figura 6.10: Accoppiamento elicoidale tra una vite e una piastra (telaio). a) disegno convenzionale e schemi di corpo libero preliminari per la vite: b) filettatura destra, c) filettatura sinistra

6.7 Problemi di statica del corpo rigido nello spazio Nel seguito sono risolti e discussi alcuni problemi di statica del corpo rigido nello spazio con particolare attenzione alla schematizzazione dei vincoli.

6.7.1 Problemi con le cerniere Esempio 6.1: Barra tubolare quadrata Una barra di acciaio (densit`a δ = 7.8 kg/dm3 ) avente sezione tubolare quadrata, lato esterno a = 105 mm e spessore t = 8 mm, `e solidale a un perno che ruota attorno a un asse orizzontale in A su due bronzine (A1 e A2 ) e in C `e sostenuta dalla fune verticale t1 collegata in corrispondenza del piano mediano della barra. In B, la barra sostiene il perno

135

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

di una puleggia attorno alla quale `e avvolta la fune t2 (α = 35◦ )che giace su un piano parallelo a y 0 − z 0 . Tutti gli attriti possono essere trascurati. a) Determinare il massimo valore Fmax della forza F che pu`o essere esercitata sulla fune t2 perch´e si abbia equilibrio nella configurazione data. b) Considerando di applicare una forza F = Fmax /2, esprimere, nel sistema di riferimento indicato, le azioni statiche complessivamente trasmette al telaio in A.  Si tratta di un problema di statica del corpo rigido nello spazio. Il corpo esteso rigido continuo AC, che comprende il perno della puleggia B, `e soggetto ai carichi: • peso proprio (forza uniformemente distribuita) di intensit`a totale pari a P = 498.8 N, che, ai fini dell’equilibrio globale, `e schematizzabile come una forza concentrata applicata nel centro di massa della barra; • tiro della fune che si riduce a due forze applicate nel centro della puleggia B di intensit`a F (in effetti questo carico si ottiene considerando l’equilibrio della puleggia, procedimento pi` u volte attuato e che si considera noto). Si osservi che il tiro del cavo `e da considerarsi un carico parametrico in quanto nella varie fasi dell’esercizio `e richiesto di analizzarne gli effetti. La barra AC `e vincolata con: • una cerniera spaziale completa in A • un appoggio semplice in C.

z’ y’

t2

α

t1 1.5α

a

x’ A

C B 6a 20 a F

2.2 a

a

A2

A1

z’

y’

0.5a

C

x’

Figura 6.11: Disegno della barra

136

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

L’identificazione del tipo di cerniera `e immediata sulla base di considerazioni cinematiche: vincolata dal solo supporto in A, la barra potrebbe soltanto ruotare attorno all’asse del perno. Lo schema di corpo libero preliminare `e riportato in figura 6.12 che evidenzia le incognite statiche: le componenti di forza S, V , U , T e le componenti di momento Q e W . Q

V

z’ W

S

U

F

x’

F P

y’ T

Figura 6.12: Schema di corpo libero preliminare della barra

Le equazioni cardinali sono le seguenti (`e stato usato A come polo):  (Rx0 = 0) ⇒ S = 0     Ry0 = 0 ⇒ U + F sin α = 0    (Rz 0 = 0) ⇒ V + F (1 + cos α) − P + T = 0 (Mx0 = 0) ⇒ F (1 + cos α) · 6a − P · 10a + T · 20a = 0      My0 = 0 ⇒ W − F (1 + cos α) · a = 0   (Mz 0 = 0) ⇒ Q + F sin α · a = 0 in particolare, dalla quarta `e possibile ricavare T : T =

3 P − F (1 + cos α) 2 10

Poich´e l’appoggio in C `e unilatero, l’azione di vincolo sar`a esercitabile solo se T risulter` a positiva (concorde con il verso assunto). Dalla condizione T > 0 si ricava la riposta a): Fmax =

5P = 457.0 N 3 (1 + cos α)

Ponendo F = 228.5 N, la soluzione del sistema `e la seguente:  S=0     U = −F sin α = −131.1 N    V = P − F (1 + cos α) − T = −41.57 N  T = 124.7 N     W = F (1 + cos α) · a = 4.364 · 104 Nm   Q = −F sin α · a = −1.376 · 104 Nm da cui, lo schema di corpo libero definitivo:

137

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

z’

13760 Nmm 131.1 N

41.57 N

43640 Nmm 228.5 N

x’

y’

228.5 N 124.7 N 0.238 N/mm

Figura 6.13: Schema di corpo libero definitivo della barra

nel quale il peso proprio `e stato rappresentato come carico uniformemente distribuito sull’asse della barra (trattandosi di un corpo esteso con una dimensione prevalente sulle altre). Sulla base del terzo principio `e immediato fornire la risposta b): una forza di componenti   0  131.1  N 41.57 e un momento di componenti: 

 0  −4.364  104 Nmm 1.376

Nell’esempio appena discusso, osserviamo che la cerniera completa non esplica completamente la sua azione di vincolo, essendo nulla la componente della forza in direzione dell’asse del perno. Questo risultato `e dovuto al fatto che il carico agente sul corpo non ha componenti nella direzione dell’asse della cerniera. Esempio 6.2: Portellone La figura 6.14 illustra un portellone quadrato (a = 600 mm), avente massa M = 40 kg uniformemente distribuita, che `e tenuto in posizione (β = 40◦ ) dalla cordicella EB. Il portellone `e vincolato al muro verticale da una coppia di cardini il cui dettaglio costruttivo `e riportato nella figura. Dopo aver tracciato lo schema di corpo libero all’equilibrio: a) valutare la forza orizzontale minima Fmin che si deve applicare in C per chiudere il portellone; b) supponendo di esercitare la forza Fmin costantemente in C e sempre nella stessa direzione fino a chiusura, valutare la velocit`a con cui il punto C impatta sul muro.

138

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

0.1a

E

E 0.12a

x

C

B

z y

a

a

β a z

A

D

y

x

Figura 6.14: Portellone aperto

Si tratta di un problema di corpo esteso, che assumiamo rigido, nello spazio. Il carico `e rappresentato dal peso proprio che, per l’analisi di equilibrio complessivo, pu`o essere ricondotto a una forza concentrata P = 392.4 N applicata nel centro del quadrato. L’aspetto pi` u interessante della modellazione consiste nella schematizzazione dei vincoli. Nel punto B `e immediato identificare un appoggio semplice (unilatero) materializzato dalla cordicella attaccata al muro (telaio). Si pu`o notare che il versore del cavo n ˆ si ricava con semplici passaggi partendo dalle quote del disegno:     nx −0.868 BE n ˆ =  ny  = =  −0.135  |BE| 0.478 nz Anche i cardini A e D sono vincoli, in quanto impediscono al portellone di muoversi liberamente nello spazio esercitando azioni statiche a priori incognite. Come tutti i vincoli ‘reali’, `e necessario identificare i vincoli elementari pi` u ragionevoli per rappresentarli. I due cardini, costruttivamente uguali, sono facilmente riconducibili a cerniere, il problema si sposta quindi sull’identificazione del tipo di cerniera pi` u adatta. Sulla base della forma del cardine (evidenziata dall’ingrandimento) si potrebbe azzardare il vincolo di cerniera spaziale completa per entrambi. Tuttavia tale ipotesi, che prevede che ognuno dei cardini sia in grado di definire non solo la posizione del centro del perno ma anche il suo asse, non `e molto plausibile se si considera che: • in una applicazione del tipo considerato, il gioco del perno sulla sede del cardine `e sicuramente significativo, • l’estensione assiale del vincolo, supposto rappresentato in scala nel disegno, `e piccola rispetto alle dimensioni caratteristiche del problema dell’ordine di a • gli elementi costruttivi dei cardini non sono infinitamente rigidi • il portellone sar`a costruito in modo che sia agevole il funzionamento e presumibilmente anche il montaggio.

139

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

In effetti se, per esempio A fosse una cerniera completa, a parte la rotazione attorno al perno, tale vincolo sarebbe da solo in grado di mantenere il portellone in equilibrio. ` da dubitare per`o che tale equilibrio possa effettivamente manifestarsi senza l’intervento E dell’altro cardine D. In termini pratici, nessun installatore farebbe affidamento, nemmeno durante il montaggio, al solo cardine A, anche con il portellone verticale appoggiato al muro. Possiamo infatti prevedere che l’eventuale azione di momento (avente direzione x) che il cardine unico A dovrebbe esercitare, si manifesterebbe solo dopo il recupero completo dei giochi, quindi con una sensibile inclinazione del portellone (attorno all’asse x) e producendo una forte sollecitazione degli elementi che costituiscono il cardine. Pertanto, dato che in esercizio, ovvero con entrambi i cardini in posizione, tale inclinazione non `e consentita, una significativa componente x di momento non pu`o essere esercitata dal vincolo A. Possiamo concludere che entrambi i cardini agiscono in modo da mantenere i vertici inferiori del portellone in posizione ma che nessuno dei due sarebbe efficace per determinare l’orientamento del perno e agisse da solo. L’asse attorno a cui il portellone pu`o ruotare `e pertanto definito dall’azione combinata dei due cardini. Da queste considerazioni ricaviamo che in A e in D sono schematizzabili cerniere sferiche o cerniere piane nello spazio. Per discriminarle, `e necessario ancora riferirsi allo schema costruttivo. Entrambi i cardini sono in grado di esercitare forze generiche su un piano parallelo a x − z. Tuttavia se conseguentemente assumessimo per entrambi il vincolo di cerniera piana nello spazio, il portellone sarebbe libero di traslare in direzione y. In effetti, i macroscopici giochi assiali sui perni che si osservano nel dettaglio costruttivo indicano che tale movimento `e permesso. In pratica per`o se sotto l’azione di una spinta in direzione y il portellone scorresse assialmente, uno dei perni raggiungerebbe il fondo corsa e il corrispondente cardine potrebbe esercitare anche una forza in direzione y. Tale cardine quindi assumerebbe le caratteristiche di una cerniera sferica. Dal disegno non `e possibile stabilire in quale dei due perni si verifica il contatto assiale. Situazioni di questo tipo si presentano spesso in pratica, perch´e l’effettivo funzionamento pu`o dipendere da quantit`a, spesso piccole, che non sono completamente definite in fase di progetto o non sono controllabili in esercizio. In questi casi la soluzione pi` u ragionevole consiste nel risolvere il problema tendo conto di tutte le possibilit`a ovvero, per il caso in esame considerare in alternativa: 1. il cardine A una cerniera sferica e D una cerniera piana nello spazio 2. il cardine D una cerniera sferica e A una cerniera piana nello spazio. Alla fine si dovr`a verificare che tutti i conseguenti modelli forniscano risultati tali da garantire le condizioni di sicurezza. Ci si pu`o chiedere: se l’azione complessiva dei due cardini lascia al corpo rigido la sola rotazione attorno all’asse AD, perch´e non considerarli entrambi come un’unica cerniera completa? Questo ragionamento ha la sua validit`a, in effetti per l’equilibrio complessivo del portellone, e per l’analisi del suo moto, lo schema statico con un’unica cerniera completa fornisce risultati coerenti con quelli ottenibili dai modelli di vincolo proposti. Tuttavia, poich´e tale cerniera completa `e costruttivamente realizzata con elementi la cui distanza (a) `e una dimensione caratteristica del problema, non `e individuabile un punto, o meglio una zona di dimensioni ‘piccole’, in cui le reazioni vincolari della cerniera completa sono applicate. La situazione `e infatti diversa dal caso discusso nel paragrafo 6.2.3 dove la coppia di

140

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

cuscinetti occupava una zona di estensione assiale contenuta rispetto alle dimensioni significative del corpo (lunghezza dell’albero). Nel caso del portellone, la separazione dell’azione vincolare in due cerniere facilita la comprensione della fisica del problema e permette di valutare in modo pi` u accurato le azioni statiche scambiate tra portellone e telaio. La schematizzazione con cerniera completa unica non consentirebbe, per esempio, di individuare immediatamente quale dei due cardini `e pi` u sollecitato.

T V z y

P

H

x

S U R

Figura 6.15: Schema di corpo libero preliminare con cerniera sferica in A

Sulla base dello schema di corpo libero preliminare di figura 6.15, in cui la cerniera sferica `e stata posta in A, dalle equazioni cardinali si ottengono le seguenti relazioni (A assunto come polo per il calcolo dei momenti):  (Rx = 0) ⇒ R + H + T · nx = 0     (R  y = 0) ⇒ U + T · ny = 0   (Rz = 0) ⇒ S + V + T · nz − P = 0 (Mx = 0) ⇒ V · a − T · ny · a cos β − P · a/2 = 0      (M y = 0) ⇒ T · nx · a cos β − T · nz · a sin β + P · a/2 · sin β = 0   (Mz = 0) ⇒ T · ny · a sin β − H · a = 0

 R = 123.9     S = 147.6    U = 17.52 V = 182.8      H = −11.3   T = 129.7

con i risultati espressi in N. Lo schema di corpo libero definitivo `e rappresentato in figura 6.16. E’ lasciata come esercizio la verifica delle seguenti affermazioni. • Se si inverte il tipo di cerniera tra i due cardini A e D, la soluzione `e molto simile: l’unica differenza consiste nel fatto che la componente y della reazione (sempre di 17.5 N) `e applicata in D invece che in A. • Il tiro del filo si trova correttamente anche assumendo un vincolo unico di cerniera completa attorno all’asse AD localizzata in qualunque punto dell’asse di rotazione. • Assumendo come parametro di confronto il modulo della reazione vincolare, il cardine in A `e leggermente pi` u sollecitato del cardine in D (indipendentemente dalla modellazione dei vincoli)

141

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

129.7 182.8

z y 392.4 x

11.3 147.6

17.5

123.9

Figura 6.16: Schema di corpo libero definitivo con cerniera sferica in A, forze in N (a rigore il peso proprio dovrebbe essere rappresentato come una distribuzione uniforme applicata su tutto il portellone)

Per rispondere alla domanda a), `e necessario considerare che l’applicazione di una forza orizzontale F in C permette l’equilibrio nella configurazione data se il cavo rimane teso. La forza minima per chiudere il portellone `e quindi determinata dalla condizione di annullamento del tiro del cavo. Anche se non `e difficile dimostrarlo rigorosamente, si intuisce che la forza orizzontale minima per chiudere il portellone deve essere esercitata in direzione x (la componente y non sarebbe efficace). Per determinare la forza minima di chiusura `e pertanto sufficiente ripetere il ragionamento svolto precedentemente, eliminando il vincolo in B e assumendo in C una reazione di appoggio semplice avente direzione x. Si ottiene in questo modo: Fmin = 164.6 N ` lasciato al lettore il compito di verificare che la forza necessaria per mantenere il portelE lone in equilibrio durante la fase di chiusura `e inferiore a Fmin e quindi che, se tale forza `e mantenuta costante, una parte del lavoro da questa fatto sar`a trasformato in energia cinetica del sistema. Il lavoro complessivamente svolto dalla forza se mantenuta costante durante la chiusura (domanda b)) vale: L = Fmin · a · sin β = 63.48 J Trascurando gli attriti, il lavoro `e convertito in variazione di energia potenziale e in energia cinetica. Indicando con: 1 I = M · a2 = 4.8 kgm2 3 il momento d’inerzia di massa del portellone rispetto all’asse di rotazione, il bilancio energetico nell’istante della chiusura fornisce la relazione: 1 2 a Iω = L − M g (1 − cos β) 2 2 la velocit`a angolare all’impatto vale quindi: ω = 3.87 rad/s a cui corrisponde una velocit`a finale di C pari a: vC = 2.32 m/s

142

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Esempio 6.3: Freno L’albero rappresentato in figura 6.17, ruota a n = 2500 giri/min nel senso indicato, sostenuto da una coppia di cuscinetti radiali a sfere A e B, di cui A assialmente bloccato. Sulla superficie esterna del disco D di raggio RD = 195 mm e massa mD = 12 kg agisce un freno azionato da un attuatore idraulico che esercita sulla pastiglia una forza F . All’estremit` a, l’albero porta un volano cilindrico V di massa mV = 30 kg e raggio RV = 245 mm. Albero e dischi sono in acciaio. Il coefficiente d’attrito tra la pastiglia e il disco `e µ = 0.3. Trascurando le forze peso, e sapendo che l’albero deve essere arrestato in t0 = 3.5 s: a) valutare il modulo della forza F che deve esercitare l’attuatore; b) valutare, nel sistema indicato, l’azione statica esercitata dall’albero sul cuscinetto B durante la frenatura; c) disegnare lo schema di corpo libero definitivo del corpo composto dall’albero dal disco del freno e dal volano.

F z’

Sez. E-E

z’

x’

y’

y’

E D

A

V

x’ B

∅ 36

∅40 E

150

250

60

Figura 6.17: Albero frenato

6n1con parti in movimento e attrito cinetico. Consideriamo il sistema Si tratta di unFig. problema di riferimento indicato solidale con l’albero e quindi non inerziale. Se la forza frenante µF e` costante nel tempo di frenatura, il moto rotatorio risulter`a uniformemente decelerato, da cui, essendo la velocit`a angolare iniziale: ω0 = 2πn/60 = 261.8 rad/s si ricava il modulo dell’accelerazione angolare: α = ω/t0 = 74.8 rad/s2 . La legge di moto permette di valutare le forze d’inerzia che, trascurato il peso, sono gli unici carichi agenti. Per chiarire la distribuzione dei carichi d’inerzia, consideriamo un generico istante durante la fase di frenatura. Ogni elemento infinitesimo del volano (volume dV ) `e soggetto a due componenti di forza d’inerzia entrambe di trascinamento: una componente radiale (centrifuga) e una componente tangenziale, che hanno moduli rispettivamente: dfc = dm · ar = γ · ω 2 r · dV e dft = dm · at = γ · αr · dV

143

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

in cui r `e la distanza dell’elemento infinitesimo in esame dall’asse di rotazione, γ la densit`a del materiale e ω = ω0 − αt la velocit`a angolare istantanea. Le componenti radiali e tangenziali delle azioni inerziali distribuite sono schematizzate nella figura 6.18 in cui il volano `e mostrato dalla parte negativa dell’asse y 0 . Considerando le forze d’inerzia come distribuzioni volumiche, entrambe hanno andamento costante in direzione circonferenziale e linearmente variabile in senso radiale. Si pu`o osservare che la distribuzione delle forze centrifughe pu`o essere considerata come un insieme di coppie di braccio nullo e quindi `e autoequilibrata. Ovviamente diverso sarebbe il caso in cui a ruotare fosse un oggetto non circolare, oppure se il disco ruotasse attorno a un diverso asse. Pertanto, ai fini dell’equilibrio complessivo del disco, e quindi dell’albero con i dischi, le forze centrifughe non sono, in questo caso, rilevanti e possono essere ignorate nel seguito.

ω

ω

Fig. 6n2 r

df c

z’

df t x’

y’

(b)

(a)

Figura 6.18: tangenziali

Forze d’inerzia distribuite sul disco: a) centrifughe e b)

Le forze d’inerzia tangenziali (figura 6.18(b)) che non sono autoequilibrate, possono essere considerate infinite coppie di braccio non nullo che globalmente producono un momento risultante avente direzione parallela a y 0 . Il polo pi` u conveniente per il calcolo del momento risultante MV `e il centro del disco: Z Z MV = rdft = α γr2 dV = IV α V olano

V olano

in cui IV indica il momento d’inerzia di massa del volano rispetto al suo asse di rotazione: 1 IV = mV · RV2 = 0.9 kgm2 2 da cui si ottiene: MV = 67.35 Nm In generale, il verso delle forze d’inerzia deve essere valutato a priori. A tale proposito `e utile verificarne il segno sia attraverso la definizione (il verso `e opposto alle rispettive accelerazioni di trascinamento) sia attraverso considerazioni di tipo fisico, basate sulla circostanza che le azioni d’inerzia tendono a opporsi alle modifiche del moto inerziale del corpo su cui agiscono. In questo caso infatti il momento delle forze d’inerzia tende a mantenere la velocit`a angolare costante.

144

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Un analogo ragionamento vale per il disco del freno per il quale: 1 2 ID = mD · RD = 0.228 kgm2 2 MD = 17.07 Nm A rigore, anche l’albero, composto da due cilindri coassiali, ha un suo carico d’inerzia dello stesso tipo. Tuttavia, una semplice valutazione, lasciata come esercizio, mostra che il valore del momento delle forze d’inerzia dell’albero `e trascurabile rispetto a quello dei dischi, Si osservi infatti la dipendenza del momento d’inerzia di massa I dal raggio esterno del disco. Possiamo a questo punto tracciare il diagramma di corpo libero preliminare, tenendo conto che, essendo in condizioni di attrito cinetico, le azioni del contatto strisciante sono definite a meno di un’unica quantit`a scalare.

0.3F

F

R z’ y’

A

x’

V

U

MV

B T

Fig. 6n3

Q MD

S

Figura 6.19: Schema di corpo libero preliminare

I cuscinetti sono stati assunti orientabili, o almeno sufficientemente orientabili, in modo che A, che `e assialmente bloccato, sia schematizzabile come una cerniera sferica e B come una cerniera piana nello spazio. I momenti delle forze d’inerzia del disco del freno e del volano sono stati rappresentati come momenti concentrati applicati ai rispettivi dischi. Una valutazione immediata mostra l’uguaglianza tra il numero di incognite 6 e il numero di equazioni indipendenti della statica per un corpo rigido nello spazio. Le equazioni cardinali, per l’equilibrio alla rotazione `e stato usato il polo A, permettono di ottenere il seguente sistema  risolvente, che ammette soluzione unica:  S + Q − 0.3F = 0 F = 1443         T = 0   Q = 162     R+U −F =0 R = 902 con soluzione (valori in N): −F · 150 + U · 400 = 0 S = 271           −0.3F · 195 + M + M = 0 T =0 V D     0.3F · 150 − Q · 400 = 0 U = 541 Da ci`o otteniamo: la risposta a) F = 1443 N e la risposta b) una forza di modulo 565 N avente componenti nel sistema indicato:   −162.3  0 N −541 (Attenzione al terzo principio!) La figura 6.20 `e la risposta c):

145

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

67.35 Nm

1443 N 541 N

433 N 902 N

V

B

Fig. 6n4

162 N A

17.07 Nm 271 N

Figura 6.20: Schema di corpo libero definitivo

Con riferimento all’esempio precedente sono opportuni alcuni chiarimenti sulla notazione e sui simboli. Al termine momento d’inerzia si attribuiscono in Meccanica almeno tre diversi significati che coesistono negli argomenti del presente corso. • La propriet`a inerziale di un corpo esteso rotante dovuta alla distribuzione spaziale della massa, solitamente riferita all’asse di rotazione, grandezza che ha come dimensioni [M L2 ] e si misura generalmente in kgm2 . Come nell’esempio esaminato, indicheremo generalmente questa quantit`a con la lettera I e, per evitare ambiguit`a, la chiameremo momento d’inerzia di massa. • La caratteristica geometrica delle sezioni che ha dimensioni [L4 ], grandezza che generalmente si misura in mm4 , che chiameremo momento d’inerzia d’area o di sezione (vedi appendice D), indicata con la lettera J. • Sono solitamente indicati come momenti d’inerzia anche le quantit`a MV e MD ottenute nel precedente esempio che sono dimensionalmente momenti e si misurano in Nm (o pi` u frequentemente Nmm). Per evitare confusione nel seguito saranno chiamati momenti delle forze d’inerzia.

Esempio 6.4: Albero di trasmissione con catene Un albero di trasmissione ruota a velocit`a costante di 250 giri/min su due cuscinetti radiali a sfere B e C (figura 6.21). La potenza di 10 kW `e fornita dalla catena in A e trasmessa alla catena in D (a = 30 mm). Trascurando il peso proprio: a) determinare nel sistema indicato le azioni statiche che l’albero trasmette al cuscinetto B; b) tracciare lo schema di corpo libero definitivo per l’albero pi` u le ruote di catena con una rappresentazione in assonometria.  Nel normale funzionamento, il tiro del ramo lento di una catena pu`o essere solitamente trascurato. Il carico sull’albero comprese le ruote di catena `e dato dal tiro T0 della catena in A, che pu`o essere ricavato dai dati di potenza: W = T0 · ω · 10a essendo ω = 2πn/60 (attenzione alle unit`a di misura!), da cui si ottiene T0 = 1273 N. Per quanto riguarda i

146

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

vincoli: il cuscinetto in B `e una cerniera sferica mentre il cuscinetto in C `e una cerniera piana nello spazio. Non `e difficile prevedere quale dei rami della catena condotta eserciti il tiro e collocare un appoggio in corrispondenza del relativo punto di inizio contatto con la ruota. In assenza di tale previsione sarebbe necessario ipotizzare entrambe le possibilit` a e verificare a posteriori che solo una di esse consente l’equilibrio con la catena che esercita un’azione compatibile con il vincolo unilatero.

10a

x’

z’

20 a

A 2a

y’

20 a

B

C y’

20 a

2.6a

z’ x’

D 15a

(b)

(a)

Figura 6.21: Albero di trasmissione: a) vista di fianco, b) vista dall’alto

Lo schema di corpo libero preliminare `e mostrato in figura 6.22 e le equazioni di equilibrio sono le seguenti:  RB1 + RC1 − T = 0     R  B3 + RC3 + T0 = 0   RB2 = 0 T  0 · 10a − T · 15a = 0     RB1 · 10a + T · 10a = 0   −RB3 · 10a − T0 · 20a = 0 dalle quali si ottiene la risposta a): 

 848  0 N 2546

147

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Ramo lento A B

RC1 Ramo teso

C

A

RB1

C

B RB2RB3 RC3

D

T0=1273 N x’

D T

z’ y’

Ramo teso Ramo lento (b)

(a)

Figura 6.22: Schema (a) di funzionamento dei rami delle catene e diagramma (b) di corpo libero preliminare

Fig 6n6 Lo schema di corpo libero definitivo (risposta b) `e rappresentato in figura 6.23.

A 2546 N B 1698 N C D

1273 N 849 N 1273 N 849 N

Figura 6.23: Schema di corpo libero definitivo

Fig 6n7

6.7.2 Altri tipi di vincolo Nei prossimi esempi sono illustrati casi in cui compaiono anche altri vincoli tridimensionali. Esempio 6.5: Chiave fissa Un meccanico usa una chiave fissa (schema in figura 6.24) per serrare una vite destra che `e gi`a a fondo corsa in A. Il piano x0 − y 0 `e orizzontale e, per il serraggio, il meccanico esercita con la mano destra una forza verticale in D pari a P = 300 N. Nel sistema di riferimento indicato, determinare: a) l’azione che il meccanico esercita in G con la mano sinistra;

148

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

b) il conseguente schema di corpo libero definitivo della chiave; c) le azioni statiche che la chiave esercita sulla testa della vite.  Assunta la chiave fissa come un corpo rigido, consideriamo le interazioni con gli altri elementi per identificare carichi e vincoli. Questo problema presenta le tipiche difficolt` a di schematizzazione dei casi in cui `e necessario ricondurre a modelli ideali carichi e vincoli ‘reali’, specialmente quando dovuti all’intervento dell’operatore umano. In questo caso, `e ragionevole assumere che l’operazione sia eseguita da un meccanico esperto che usa l’attrezzo in modo corretto e con efficienza. Questa ipotesi comporta che egli cercher` a di minimizzare le forze che deve esercitare per ottenere il risultato voluto.

200

A A B

y’ 100

C D

D 100 100

F E z’ G

y’ x’

x’ z’

G 200

(a)

(b)

Figura 6.24: Chiave fissa: a) rappresentazione assonometrica dell’attrezzo in Fig 6n8 uso, b) vista dall’alto

In corrispondenza del punto A potrebbe sembrare che agisca un vincolo di guida prismatica. Tuttavia, il gioco tra la chiave e la testa della vite (presumibilmente vari decimi di mm), necessario per l’impiego pratico dell’attrezzo, rende poco verosimile assumere che la posizione dell’asse della chiave sia determinata dal solo montaggio sulla testa della vite. Per convincersene basta pensare all’effetto che produrrebbe sull’assetto della chiave anche il solo peso proprio, che peraltro `e un carico trascurabile. La testa della vite impedisce in effetti al punto A della chiave solo di spostarsi nello spazio e di ruotare attorno all’asse della vite (la vite `e gi`a a fondo corsa). Identifichiamo quindi in A un vincolo di molteplicit`a 4, non compreso nei vincoli elementari esaminati, che pu`o essere considerato la sovrapposizione di una cerniera sferica e di un giunto universale con asse parallelo a y 0 . Con la mano destra il meccanico esercita un carico che, con ragionevole approssimazione, pu`o essere rappresentato da una forza applicata in D avente direzione verticale e verso opposto a z 0 . La mano sinistra, invece, svolge una funzione di vincolo perch´e viene controllata in modo da mantenere l’attrezzo nella corretta configurazione, indipendentemente dall’entit`a delle azioni statiche che devono essere esercitate, almeno entro i limiti fisiologici. Dal punto di vista del modello, l’azione esercitata dalla mano sinistra `e pertanto una reazione vincolare e quindi una incognita. Il vincolo pi` u semplice richiesto in G per mantenere l’assetto della chiave senza che intervengano reazioni non necessarie, o peggio azioni che contrastano l’operazione di serraggio, consiste in una cerniera piana nello spazio avente asse parallelo a y 0 .

149

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

A

120 N A

U D 300 N

S

60 Nm

W

V Q

D 300 N

180 N

R G

G

(b)

(a)

Figura 6.25: Schemi di corpo libero: a) preliminare, b) definitivo

Fig 6n9

Nell’ipotesi di un comportamento razionale ed efficiente dell’operatore, lo schema di corpo libero preliminare `e rappresentato in figura 6.25(a). Imponendo le sei equazioni cardinali (polo nel punto A) si ottiene il sistema lineare:  R+U =0     Q=0    S+V −P =0 −S · 500 + P · 300 = 0      P · 200 − W = 0   R · 500 = 0 la cui soluzione (forze in N, momenti in Nm) `e:  R=0     U =0    Q=0 S = 35 P = 180      V = 25 P = 120   W = 60 Risposta a): una forza di componenti  0  0 N 180 

Lo schema di corpo libero definitivo `e riportato in figura 6.25b) (risposta b) L’azione esercitata sulla testa della vite (risposta c) `e cmpessivamente data da una forza e un momento con componenti rispettivamente:     0 0  0  N  60  Nm −120 0 Nota. Osserviamo che l’azione statica esercitata sulla testa della vite ha una componente utile (quella di momento) che `e responsabile dell’azione di serraggio e una componente inutile (la forza) che `e conseguenza dal tipo di attrezzo impiegato. Con una chiave a tubo sulla quale `e esercitabile un’azione di puro momento, tale reazione di forza poteva essere eliminata.

150

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

La soluzione di molti problemi strutturali `e condizionata, spesso in misura determinante, da come un operatore umano usa effettivamente la macchina o la struttura. Il comportamento umano non `e sempre facilmente prevedibile e ci`o impone all’analista l’obbligo di formulare ipotesi, talvolta anche molto pesanti, per ottenere un modello calcolabile. Questa operazione non `e facile e risulta spesso anche incerta e quindi discutibile. Per esempio, si pensi all’analisi di elementi strutturali di veicoli per i quali le sollecitazioni sono fortemente dipendenti dallo stile di guida che varia molto da un utilizzatore all’altro e, per lo spesso individuo, cambia secondo le circostanze. In questi casi, soprattutto quando vi sono condizioni critiche per la sicurezza, il metodo pi` u rigoroso consiste nel ricorre alla rilevazione diretta, che generalmente comporta onerose misure ed elaborazioni statistiche. Peraltro, anche in presenza di dati statistici esaurienti, risulta necessaria una notevole dose di buon senso per definire il modello di calcolo, perch´e non `e possibile, e talvolta nemmeno opportuno, modellare tutti i possibili comportamenti dell’operatore. Spesso, l’analista assume un atteggiamento cautelativo, ovvero si pone dalla parte della sicurezza, esasperando i comportamenti dell’operatore, adottando la cos`ı detta progettazione a prova di stupido (fool-proof design). Tuttavia, anche tale strategia impone la necessit`a di fissare limiti ragionevoli che non possono prevedere tutte le possibilit`a. Inevitabilmente lo stupido ha sempre pi` u fantasia del progettista ed esisteranno sempre modalit`a di uso, o di abuso, della macchina non previste in fase di progetto. Nel caso della chiave, per esempio, nulla impedirebbe all’operatore di esercitare con la mano sinistra anche una qualunque componente orizzontale di forza (nel verso delle y 0 positive), inoltre molte altre azioni di forza o di momento (in varie direzioni) potrebbero essere esercitate con ognuna delle mani, sfruttando l’estensione della zona di contatto e l’attrito, e producendo effetti che facilitano o contrastano il serraggio della vite. Appare evidente quindi che la soluzione ottenuta `e fortemente condizionata dalle varie ipotesi di uso ‘razionale’ dell’attrezzo che sono state assunte contando su una sufficiente esperienza professionale dell’operatore. Esempio 6.6: Giunto elicoidale La barra orizzontale EH in figura 6.26 avente massa 12 kg `e collegata in E a una vite di manovra (elica destra, passo 5 mm, 1 principio) e in H al cavo HG. La vite pu` o ruotare attorno ai cuscinetti orientabili A e B ed `e collegata al giunto universale D. Nella configurazione indicata il sistema risulta in equilibrio. Trascurando il peso proprio della vite e gli attriti: a) tracciare lo schema di corpo libero della barra; b) determinare il momento che il giunto D trasmette alla vite; c) fornire nel sistema di riferimento indicato le azioni statiche che la vite esercita sui cuscinetti.

151

6. STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

D A G

G

300

150 z’

z’ x’

y’

y’

x’

H

100

E

350

B

Figura 6.26: Braccio con accoppiamento elicoidale

Fig 6n10 Lo schema di corpo libero del braccio (figura 6.27(a)) `e tracciato tenendo conto che la vite `e destra e quindi attribuendo alle reazioni assiali del vincolo elicoidale versi opposti. Trattandosi di un unico corpo rigido, il peso proprio pu`o essere concentrato nel baricentro. Si osservi che le incognite effettive sono 6 per il legame tra FA e MA , per cui le equazioni cardinali sono potenzialmente sufficienti a determinare la soluzione. 117.2 N

MA W S R

FA

y’

93.3 Nmm

z’ x’

0.266 N

E

Q

T

20.41Nm

117.7 N H

(a)

0.336 N/mm

0.596 N H

(b)

Figura 6.27: Schemi di corpo libero:(a) preliminare e (b) definitivo per il braccio

Fig 6n11 Lo schema di corpo libero definitivo `e (risposta a) rappresentato in figura 6.27b). Si pu`o osservare come alcune componenti delle reazioni vincolari sono relativamente piccole (sono rappresentate fuori scala nel disegno). In effetti tali azioni potrebbero essere trascurate in una situazione pratica e sono riportate per motivi didattici. Per la risposta b) `e sufficiente considerare l’equilibrio della vite che risulta nel suo complesso sollecitata dalle azioni trasmesse dalla madrevite (che ora non sono pi` u incognite) ed `e vincolata da una cerniera completa (l’insieme dei due cuscinetti) pi` u il giunto universale. L’equilibrio alla rotazione attorno all’asse della vite permette di determinare la reazione di momento richiesta:   0  0  Nmm −93.26

152

6.7. PROBLEMI DI STATICA DEL CORPO RIGIDO NELLO SPAZIO

Per rispondere alla domanda c, `e necessario separare i due cuscinetti nello schema statico. Poich´e non ci sono ragioni per assumere che i cuscinetti siano forzati assialmente, assumiamo che il montaggio assiale sia realizzato con un piccolo gioco di entit`a non rilevante. Pertanto uno dei due cuscienetti sar`a in contatto (cerniera sferica) mentre l’altro sar`a assialmente libero (cerniera piana nello spazio). Sulla base dei risultati ottenuti, non `e difficile prevedere quale cuscinetto eserciti la funzione di cerniera sferica, tuttavia in situazioni pi` u complicate pu`o essere necessario formulare una ipotesi e verificarla a posteriori, considerando la natura unilaterale del contatto sullo spallamento. 93.3 Nmm A2

A1 y’

z’ x’

117.7 N B3 B2

0.596 N B1

Figura 6.28: Schema di corpo libero preliminare con la separazione dei cuscinetti Fig 6n12

Nella figura 6.28 `e mostrato lo schema di corpo libero preliminare in cui il cuscinetto B `e stato assunto come cerniera sferica. L’equilibrio pu`o essere imposto sul corpo composto, albero pi` u braccio, ottenendo una significativa semplificazione dei calcoli. Il risultato A1 = −0.067 N, A2 = 51.0 N, B1 = −0.2 N, B2 = −51.0 N e B3 = 117.2 N conferma la validit` a ~ ~ dell’ipotesi sui vincoli. Indicando con RA la forza in A e RB la forza in B la risposta c `e quindi:     0.2 0.067 N R~A =  −51.0  N ; R~B =  51.0 −117.2 0.0

153

Capitolo 7

Statica delle strutture di corpi rigidi Nel presente capitolo i metodi sviluppati per lo studio dell’equilibrio dei singoli corpi sono estesi allo studio di insiemi di corpi: le strutture. La statica delle strutture non richiede nuovi principi o metodi, tuttavia, la possibilit`a di collegare tra loro molti corpi con diversi vincoli rende l’analisi statica un compito non sempre banale. Per questo motivo, sono presentati procedimenti generali che facilitano la classificazione e la soluzione dei problemi. Nel capitolo sono discussi vari esempi con particolare riferimento ai casi meno complessi di strutture composte da corpi rigidi nel piano.

7.1 Concetto di struttura e calcolo dei gradi di libert` a 7.1.1 Strutture e macchine Con il termine struttura (structure) si intende un insieme di corpi, generalmente estesi, collegati tra loro e al telaio per mezzo di vincoli sui quali agiscono carichi. Poich´e finora sono stati sviluppati modelli meccanici per i punti materiali e per i corpi estesi infinitamente rigidi, salvo indicazioni contrarie, considereremo strutture di corpi rigidi connessi con vincoli ideali. Un punto materiale o un corpo rigido che appartiene a una struttura `e generalmente chiamato elemento della struttura. I carichi che gravano sulla struttura sono applicati a tutti o ad alcuni degli elementi. Risolvere un problema di statica delle strutture implica, in generale, determinare le reazioni vincolari in modo che sia garantito l’equilibrio di ogni elemento. La nozione di equilibrio si estende in modo naturale dal singolo elemento alla struttura completa: una struttura `e in equilibrio statico se lo sono tutti gli elementi che la compongono. Ricordiamo che l’equilibrio statico richiede che il corpo, in questo caso la struttura, e una sua parte, sia fermo, rispetto a un definito sistema di riferimento, per un intervallo di tempo non nullo. Peraltro, i metodi della statica permettono di risolvere anche problemi di strutture che hanno elementi in movimento, almeno quando il loro moto `e conosciuto. In questi casi si possono adottare sistemi di riferimento, generalmente tra loro diversi, solidali ai corpi in movimento, introducendo, quando necessario, le forze d’inerzia in modo analogo a come `e stato fatto per analizzare l’equilibrio del punto materiale e del singolo corpo rigido. Una struttura pu`o essere definita anche dal punto di vista funzionale, considerando il compito che essa svolge. La funzione ‘strutturale’ di un insieme di corpi tra loro connessi consiste nel trasferire i carichi dai punti dove sono effettivamente applicati, al telaio. Consideriamo una gru da cantiere, che esemplifica una tipica struttura meccanica. Un carico significativo consiste

155

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

nella forza applicata al gancio di sollevamento, che dipende dalla massa che la gru solleva e dal suo moto. La struttura gru trasferisce questo carico, dal gancio al telaio, rappresentato dal basamento di sostegno della gru stessa. Nello svolgimento della funzione strutturale gli elementi che compongono la gru sono sollecitati secondo modalit`a e intensit`a che dipendono, oltre che dal carico, dalla loro posizione e da come sono mutuamente connessi. L’obiettivo della statica delle strutture consiste nella determinazione quantitativa di tali sollecitazioni, ovvero nella valutazione delle azioni statiche applicate su ogni singolo elemento. Si comprende pertanto come lo schema di corpo libero definitivo di ogni elemento, costituisca la soluzione completa dell’analisi statica della struttura. Oltre alla gru, sono esempi di strutture: un ponte, il portale di un carroponte, il telaio di una pressa, il traliccio di una condotta elettrica, il carrello di atterraggio di un velivolo, ecc. . . . Di norma, macchine complete o loro parti sono anche strutture. Una macchina `e un insieme composto di elementi in moto relativo controllato che svolgono funzioni energetiche o cinematiche. Tramite il moto dei suoi elementi, infatti, una macchina permette di convertire l’energia. Il compito funzionale del sistema di propulsione di un veicolo (motore a combustione interna pi` u trasmissioni) consiste nel trasformare l’energia termica della combustione in energia cinetica, tuttavia esso svolge anche fondamentali funzioni strutturali. In esercizio, infatti molte parti del motore sono sottoposte a carichi, per esempio la spinta sul pistone dovuta alla pressione nel cilindro allo scoppio, che devono essere trasferiti al telaio, in questo caso la strada, per consentire la trazione. Le azioni che agiscono sugli elementi delle strutture sono tipicamente: forze di volume, come il peso proprio e le forze d’inerzia, e forze di superficie che sono interazioni elettromagnetiche di contatto con fluidi o altri corpi solidi, spesso le forze di superficie sono dovute ai vincoli. Nel caso dell’analisi strutturale delle macchine, una particolare considerazione deve essere dedicata alle forze d’inerzia, che spesso rappresentano i carichi di volume prevalenti. In un motore alternativo, si pensi per esempio alle bielle, le elevate accelerazioni degli elementi in movimento rendono le forze d’inerzia un carico che pu`o superare di pi` u ordini di grandezza il peso proprio. In varie circostanze, nello studio strutturale di un componente di macchina, il peso proprio pu`o in effetti essere trascurato. L’importanza attribuita da un ingegnere industriale al peso proprio come carico nell’analisi strutturale `e generalmente diversa da quella considerata da un ingegnere civile. Per un edificio o un ponte, infatti, il peso proprio costituisce spesso il carico dominante e quindi quello che determina le caratteristiche di forma e di dimensioni che devono essere attribuite alla struttura. In effetti, uno dei principali compiti strutturali di una costruzione civile consiste nel mantenere se stessa in equilibrio, per quanto possano essere importanti anche carichi di contatto (esercitati dal vento e dalle persone e dagli oggetti sostenuti) e i carichi d’inerzia (dovuti al sisma o alle oscillazioni indotte dalla variabilit`a degli altri carichi). Generalmente, invece, un componente meccanico `e realizzato per muoversi, spesso rapidamente e con leggi talvolta complesse, e quindi per sopportare, come carichi prevalenti, forze di contatto e forze d’inerzia. Come il singolo corpo, anche una intera struttura pu`o essere schematizzata con un modello bidimensionale se esiste un piano sul quale si possono rappresentare la geometria di tutti i suoi elementi e le forze agenti (carichi e reazioni vincolari). Come sempre, quando il modello piano `e applicabile, si ottiene una notevole semplificazione nella rappresentazione del problema e nella sua soluzione. Sulla base di queste considerazioni, si pu`o constatare che la statica delle strutture `e una diretta estensione della statica dei singoli corpi che la compongono. Non `e in effetti necessario alcun nuovo principio fisico nell’analisi. Tuttavia, appena il numero dei costituenti supera qualche unit`a, soprattutto se il problema `e tridimensionale, lo studio si complica dal punto di vista operativo, talvolta in modo considerevole. Come vedremo, il numero di incognite e, di

156

` 7.1. CONCETTO DI STRUTTURA E CALCOLO DEI GRADI DI LIBERTA

conseguenza, il numero di equazioni di equilibrio, pu`o diventare elevato e questo impone un particolare rigore nel procedimento di impostazione e di soluzione. I problemi di statica delle strutture sono pertanto pi` u complessi, ma non pi` u difficili, di quelli finora affrontati. Come pi` u volte ricordato, le vere difficolt`a si trovano nella schematizzazione del problema (identificazione di corpi, carichi e vincoli) pi` u che nel successivo procedimento di soluzione. Tuttavia, nel caso delle strutture, proprio a causa della maggiore complessit`a, una tecnica razionale e codificata di soluzione `e consigliata.

7.1.2 Vincoli interni L’unico elemento di novit`a nello studio delle strutture consiste nella presenza dei vincoli interni (internal contraints). Mentre un vincolo esterno, come quelli finora considerati, connette un elemento della struttura con il telaio, un vincolo interno permette l’interazione tra due elementi che compongono la struttura. Nella figura 7.1 `e schematizzata un struttura piana di impiego frequente, denominata arco a tre cerniere, composta da due corpi estesi: (1) e (2), connessi tra loro da una cerniera B (vincolo interno) e al telaio da altre due cerniere A e C (vincoli esterni). B F

1 2

A

C

Figura 7.1: Arco a tre cerniere nel piano

Come mostrato in figura 7.1, il carico `e costituito da una forza concentrata F applicata in un punto del corpo (1). La struttura nel suo complesso consente di trasferire questo carico al telaio in corrispondenza delle cerniere A e C. Affinch´e si realizzi questa condizione di equilibrio, nella struttura si manifesta un complesso insieme di azioni vincolari interne ed esterne che, insieme con i carichi, sollecitano i due elementi.

7.1.3 Gradi di libert` a complessivi di una struttura ` utile definire il numero totale di gradi di libert` E a dei corpi che compongono la struttura. Tale quantit`a, che indicheremo con N , `e facilmente calcolabile quando gli elementi della struttura sono rigidi. Il procedimento `e esemplificato nel caso dell’arco a tre cerniere di figura 7.1: • la struttura deve essere scomposta nei suoi costituenti rigidi, eliminando idealmente tutti i vincoli interni ed esterni, nell’esempio si ottengono due corpi rigidi nel piano • il numero totale di gradi di libert`a N si ottiene sommando i gradi di libert`a di tutti gli elementi rigidi liberi, nell’esempio N = 3 + 3 = 6. ` utile ricordare che anche singoli punti materiali possono essere elementi di una struttura come E nell’esempio seguente.

157

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

Esempio 7.1: Gradi di libert`a Calcolare il numero totale di gradi di libert`a N per la struttura piana in figura 7.2.

F

Figura 7.2: Struttura piana

Si tratta di due corpi rigidi connessi a formare un arco a tre cerniere. L’arco a tre cerniere sostiene, tramite due funi, un anello su cui `e applicato il carico. L’anello `e un punto materiale, le funi rappresentano vincoli interni alla struttura poich´e connettono tra loro elementi della stessa. La struttura `e pertanto composta da due corpi rigidi e un punto materiale nel piano variamente connessi, pertanto avremo che: N = 3 + 3 + 2 = 8.

7.2 Impostazione di un problema di statica delle strutture 7.2.1 Condizione di equilibrio per una struttura A meno che non siano richieste valutazioni specifiche, per esempio una particolare componente di una reazione vincolare, la conclusione di un problema di statica delle strutture consiste nel tracciamento dello schema di corpo libero definitivo di ogni elemento della struttura. Il compito dell’analisi consiste pertanto nella determinazione di tutte le reazioni vincolari interne ed esterne. Per una ampia e importante classe di strutture di corpi estesi, questo risultato pu`o essere ottenuto in modo relativamente semplice, applicando il modello di corpo rigido e le equazioni cardinali. Il procedimento di soluzione consegue direttamente dall’applicazione del principio di Eulero e dalla imposizione delle condizioni di equilibrio dei singoli elementi rigidi costituenti. Il principio formulato da Leonard Euler (1707-1783), gi`a di fatto usato per i sistemi di punti materiali, pu`o essere esteso alle strutture: una struttura `e in equilibrio se lo sono tutte le sue parti e quindi, in particolare, tutti gli elementi che la compongono. Sulla base di questo presupposto, se una struttura `e in equilibrio, l’analisi statica pu`o essere effettuata seguendo la procedura di seguito descritta: • scomporre la struttura nei suoi elementi rigidi costituenti eliminando vincoli interni ed esterni

158

7.2. IMPOSTAZIONE DI UN PROBLEMA DI STATICA DELLE STRUTTURE

• sostituire ai vincoli eliminati, interni ed esterni, le azioni statiche che questi possono esercitare ottenendo lo schema di corpo libero preliminare della struttura • imporre l’equilibrio di ogni elemento rigido utilizzando le equazioni cardinali • discutere e risolvere il sistema ottenuto che, nel caso di problemi del primo tipo, `e lineare e ha come incognite le reazioni vincolari interne ed esterne Si pu` o osservare che `e stato riproposto il procedimento di soluzione sistematicamente applicato nei casi pi` u semplici dei capitoli precedenti. Vi sono per`o alcune novit`a che `e opportuno discutere prima di affrontare la soluzione di alcuni problemi.

7.2.2 Considerazioni sulle condizioni di equilibrio: metodo generale di soluzione Consideriamo in primo luogo la presenza dei vincoli interni. Nell’analisi dell’equilibrio un singolo corpo esteso, le azioni statiche dei vincoli sono necessariamente esercitate dal telaio sul corpo e le reazioni di terzo principio a tali azioni statiche sono applicate al telaio. Dato che il telaio `e in equilibrio statico per definizione, indipendentemente da come `e sollecitato, le azioni su di esso agenti non sono rilevanti per la soluzione del problema e pertanto sono generalmente ignorate nel procedimento di soluzione. In presenza di vincoli interni, al contrario, entrambe le componenti della coppia di azione-reazione esercitate dal vincolo agiscono su elementi (necessariamente diversi) della struttura e quindi sono importanti per l’equilibrio della struttura. Pertanto `e ora fondamentale considerarle entrambe e, ovviamente, applicare il terzo principio in modo corretto. Un altro aspetto delicato dell’impostazione consiste nella selezione delle equazioni cardinali e nella definizione delle parti di struttura su cui imporre l’equilibrio. Da questo punto di vista, la procedura proposta non presenta ambiguit`a: la struttura deve essere scomposta nei suoi elementi rigidi costituenti su ognuno dei quali devono essere imposte le equazioni cardinali. Tuttavia, tale modo di procedere non `e l’unico possibile e pu`o anche non essere il pi` u conveniente. Infatti, in virt` u del principio di Eulero, nulla vieta di considerare, in aggiunta o in alternativa, l’equilibrio di parti della struttura costituite da pi` u elementi, talvolta chiamate ` lecito imporre le equazioni cardinali anche approppriato complesse e volendo sottostrutture. E all’intera struttura, considerata nel suo insieme come corpo esteso. L’aggregazione di pi` u elementi produce equazioni di equilibrio nelle quali alcune reazioni vincolari interne non sono presenti. Consideriamo per esempio una sottostruttura composta da due corpi rigidi incernierati tra loro. Le forze mutue scambiate in corrispondenza della cerniera interna non compaiono nelle equazioni cardinali complessive di equilibrio della sottostruttura in quanto, essendo azioni interne, costituiscono un sistema autoequilibrato (sono una coppia di braccio nullo) e quindi non influenzano risultante e momento risultante. Considerando che un insieme composto da n elementi ha 2n − 1 sottoinsiemi distinti non vuoti, si deduce che il numero di modi in cui `e possibile scomporre una struttura in parti diventa molto grande appena il numero di elementi supera qualche unit`a. Nell’analisi di una struttura complessa applicando il metodo dell’aggregazione di parti in modo non appropriato, si corre il rischio di dimenticare qualche condizione di equilibrio significativa, oppure, di scrivere equazioni di equilibrio, apparentemente diverse, ma sostanzialmente equivalenti, ovvero combinazioni lineari di equazioni gi`a imposte. Queste insidie sono certamente da evitare, poich´e il passo successivo alla scrittura del sistema consiste nella valutazione della sua risolubilit`a, problema talvolta di non facile soluzione se equazioni e incognite sono in numero significativo. Per evitare rischi di questo genere, nel seguito useremo il seguente metodo:

159

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

l’equilibrio di sottostrutture pi` u essere considerato per ottenere un sistema risolvente pi` u semplice se la struttura in esame ha un comportamento strutturale noto, di fatto appartiene a una classe di strutture gi`a studiata, diversamente si adotter`a il procedimento generale che prevede di imporre l’equilibrio di ogni componente rigida. Il sistema risolvente ottenuto dal procedimento generale offre infatti garanzie di: • indipendenza: le equazioni sono linearmente indipendenti a causa dall’origine fisica delle equazioni cardinali e del fatto che si applicano a corpi distinti • completezza: non esistono altre equazioni di equilibrio significative, l’equilibrio delle parti rigide `e condizione sufficiente per l’equilibrio della struttura. La soluzione ottenuta dal procedimento generale fornisce inoltre tutto e solo quanto si possa dedurre dalla Statica pertanto, quando il sistema pu`o essere risolto, il risultato produce tutte le informazioni necessarie per tracciare lo schema di corpo libero di ogni elemento della struttura. Le analisi di rigidezza e resistenza sviluppate nei prossimi capitoli, in genere, richiedono tutte queste informazioni. Di fronte a problemi nuovi, come sono quasi tutti quelli affrontati dallo studente che inizia lo studio di questa disciplina, il procedimento generale rappresenta quindi la via pi` u sicura anche se non sempre la pi` u rapida. Il sistema che deriva dall’applicazione del procedimento generale contiene tutte le componenti delle reazioni vincolari interne ed esterne del problema e le equazioni del sistema risolvente sono generalmente accoppiate (molte equazioni contengono pi` u incognite). Tuttavia, come osservato, la soluzione del sistema `e una questione di algebra elementare e chi lo risolve pu`o tollerare qualche passaggio in pi` u se ha la garanzia che il sistema sia completo e coerente. Questa sicurezza ha un valore ancora maggiore quando, come succede nella professione, la soluzione algebrica `e demandata al computer. Nella figura 7.3 `e mostrato lo schema di corpo libero preliminare dell’arco a tre cerniere mostrato in figura 7.1 per l’applicazione del metodo generale. Si osservi come il punto B sia stato separato in due punti (chiamati B1 e B2 in relazione ai corpi di appartenenza) in modo da separare le componenti di azione-reazione che in corrispondenza della cerniera interna i due corpi si scambiano. W F

V

V

B1

B2

2L

W

1

A

2

y

S

U x

K

C L

L

T

L

Figura 7.3: Scomposizione della struttura di figura 7.1 nelle sue parti elementari e schema di corpo libero preliminare

160

7.3. SCRITTURA DEL SISTEMA RISOLVENTE E DISCUSSIONE

7.3 Scrittura del sistema risolvente e discussione Nel presente paragrafo `e mostrato come ottenere e discutere il sistema algebrico risolvente per un problema generale di statica delle strutture. L’arco a tre cerniere nello schema di corpo libero di figura 7.3 `e utilizzato come esempio, ma i risultati sono generalizzabili a tutte le strutture di corpi rigidi nel piano e nello spazio.

7.3.1 Schema di corpo libero preliminare per una struttura L’arco a tre cerniere pu`o essere considerato, almeno fino a prova contraria, un problema di statica del primo tipo, avendo una configurazione che assumiamo nota all’equilibrio. I corpi estesi componenti sono considerati rigidi. Dall’esame dello schema di corpo libero preliminare ottenuto con il procedimento generale e mostrato in figura 7.3, si possono fare le seguenti considerazioni: • le cerniere in A e C (vincoli esterni) sono sostituite dalle reazioni vincolari agenti sui relativi elementi della struttura (le azioni sul telaio non sono rilevanti) • la cerniera in B `e sostituita da due coppie di azione e reazione: V rappresenta il modulo della azione mutua orizzontale e W quella verticale • per motivi di chiarezza grafica, i punti di applicazione delle reazioni della cerniera B sono distinti in B1 e B2 (punti appartenenti ai corpi 1 e 2 rispettivamente), in effetti, B1 e B2 pur appartenendo a corpi diversi occupano la stessa posizione geometrica (il punto B) • i vincoli sono eliminati dal disegno e sostituiti dalle relative reazioni • non ci sono ambiguit`a relativamente ai corpi su cui le varie azioni sono applicate • l’uso del terzo principio consente di modellare staticamente la cerniera interna B come quelle esterne: `e caratterizzata da due incognite scalari indipendenti V e W • i versi delle reazioni sono scelti a caso; per semplificare il calcolo di risultanti e momenti le direzioni sono fatte coincidere con quelle degli assi del sistema cartesiano di riferimento adottato • per i vincoli interni l’arbitrariet`a `e limitata al verso di una delle componenti della coppia di azione-reazione, l’altra componente `e imposta dal terzo principio • alla fine del calcolo alcune delle reazioni incognite potrebbero risultare negative (o nulle), ma di questo ci preoccuperemo nel tracciamento dello schema di corpo libero definitivo • come ormai pi` u volte verificato nei casi esaminati, non si ottiene alcun effettivo vantaggio tentando di prevedere il verso effettivo delle reazioni vincolari in questa fase. La struttura ha un numero totale di gradi di libert`a N = 6 (2 corpi rigidi liberi nel piano). Data la corrispondenza che sussiste tra i gradi di libert`a di un corpo rigido e il numero di equazioni scalari indipendenti di equilibrio, N rappresenta anche il numero massimo di equazioni di equilibrio indipendenti che si possono imporre con il metodo generale. Introduciamo a questo punto una nuova importante quantit`a: M , che individua il numero di componenti statiche necessarie per caratterizzare tutti i vincoli, ovvero, il numero di incognite scalari indipendenti del problema. Nel caso in esame M = 6. Si riscontra una coincidenza tra il numero di equazioni indipendenti (N = 6) e il numero di incognite (M = 6) che `e di buon auspicio per l’esistenza e l’unicit`a della soluzione del sistema.

161

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

Rileviamo che `e sempre opportuno confrontare N con M , peraltro entrambi sono facilmente calcolabili, ma che, sfortunatamente, il confronto non `e conclusivo per stabilire le caratteristiche del sistema, come ampiamente evidenziato nel seguito del capitolo.

7.3.2 Forma del sistema risolvente A questo punto `e possibile scrivere le sei equazioni di equilibrio per i due corpi. Scegliamo A come polo per (1) e C per (2):   (R = 0) ⇒ K − V = 0  x     (R = 0) ⇒ S − W − F = 0 corpo(1)  y    (Mz = 0) ⇒ V · 2L − W · 2L − F ·  L=0 (7.1)  (Rx = 0) ⇒ V + T = 0      (Ry = 0) ⇒ U + W = 0 corpo(2)    (Mz = 0) ⇒ −V · 2L − W · L = 0 lasciando le sole incognite ai primi membri:  K −V =0     S−W =F    V · 2L − W · 2L = F · L  V +T =0     U +W =0   −V · 2L − W · L = 0

(7.2)

otteniamo un sistema con la forma consueta dei problemi di statica del primo tipo che, scritto in forma matriciale, diventa: AX = P (7.3) la matrice (incompleta) del sistema `e la  1  0   0 A=  0   0 0

seguente: 0 −1 0 0 0 1 0 −1 0 0 0 2L −2L 0 0 0 1 0 1 0 0 0 1 0 1 0 −2L −L 0 0

       

(7.4)

ed `e composta di quantit`a costanti note, che rappresentano gli elementi geometrici del problema stesso, il vettore delle incognite:   K  S     V    (7.5) X=  W    T  U raccoglie le reazioni vincolari mentre il vettore dei termini noti:   0  F     F ·L    P=   0   0  0

162

(7.6)

7.4. CLASSIFICAZIONE DEI PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

dipende dai carichi e dalla posizione dei loro punti di applicazione. Data la semplicit`a del problema, si pu`o procedere direttamente alla soluzione del sistema (7.1) per sostituzione, ottenendo la seguente unica soluzione:        

K S V W T U





      =      

1 4 1 −2 −1 2

   F   6  

(7.7)

Dal risultato (7.7) si procede al tracciamento dello schema di corpo libero definitivo della struttura (figura 7.4) nel quale le reazioni vincolari delle cerniere sono state sommate (vettorialmente) in modo da evidenziarne la risultante. 0.373 F B1

F

B2 0.373 F

1 0.687 F

75.9°

2

y x

A

0.373 F 63.4° C

Figura 7.4: Schema di corpo libero definitivo per la struttura (si osservi che tutte le reazioni di modulo 0.373F hanno la stessa retta d’azione BC)

La figura 7.4 mostra chiaramente come i vari elementi risultino sollecitati quando l’arco a tre cerniere svolge la sua funzione strutturale, che consiste nel trasferire la forza F dal punto in cui `e effettivamente applicata al telaio.

7.4 Classificazione dei problemi di statica delle strutture Quando un problema di statica delle strutture `e tale che tutte le reazioni vincolari possono essere ottenute in modo univoco risolvendo il sistema delle equazioni cardinali, diremo che il problema `e isostatico. Il prefisso iso indica un’uguaglianza tra i gradi di libert`a della struttura e le condizioni effettive di vincolo. In un problema isostatico i vincoli sono necessari e sufficienti per garantire l’equilibrio nella configurazione data sotto i carichi applicati. La condizione di isostaticit`a, che spesso viene effettivamente cercata nella progettazione delle strutture, non `e peraltro l’unica possibile. In relazione alla geometria del sistema, al tipo di carichi e di vincoli `e possibile infatti avere altre condizioni di staticit`a. Se le condizioni di vincolo sono insufficienti per l’equilibrio, il problema `e classificato come labile o ipostatico. Se, al contrario, l’insieme dei vincoli `e ridondante rispetto alla condizione di isostaticit` a, il problema `e detto iperstatico. Le caratteristiche del problema che consentono di classificarlo in modo rigoroso sono deducibili dalle propriet`a algebriche del sistema risolvente.

163

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

7.4.1 Analisi del sistema risolvente Come osservato, il sistema lineare non omogeneo (7.3) ottenuto nell’esempio analizzato `e tipico dei problemi di statica delle strutture del primo tipo. La matrice del sistema A `e in genere N × M dato che: • N `e il numero totale di gradi di libert`a della struttura equivalente al numero di equazioni scalari ottenibili dalle cardinali e quindi al numero di righe della matrice • M `e il numero di componenti scalari incognite che definiscono l’insieme delle reazioni vincolari e quindi il numero di colonne della matrice M : reazioni vincolari

z   A=   

}| a11 .. .. a1M .. .. .. .. .. .. aN 1 .. .. aN M

{           

(7.8) N : gradi di libert` a totali

Nel caso esaminato, la matrice A `e quadrata 6 × 6. In generale, le condizioni di risolubilit`a del sistema (7.3) sono definite dal teorema di Rouch´e-Capelli basato sul confronto tra il rango rA della matrice del sistema A e il rango rB della matrice completa B N × (M + 1) che si ottiene bordando la matrice A, tipicamente a destra, con la colonna dei termini noti:   a11 .. .. a1M P1  .. ..  ..    ..  .. B = (A |P ) =  .. (7.9)   .. ..  .. aN 1 .. .. aN M PN Ricordiamo che il rango di una matrice, definito come l’ordine del pi` u grande minore quadrato con determinante non nullo che da essa pu`o essere estratto, indica il massimo numero di righe, o di colonne, linearmente indipendenti. In relazione ai valori dei ranghi rA e rB e dei parametri N e M possono verificarsi varie situazioni, sulla base delle quali il problema di statica `e classificato. In primo luogo osserviamo che, necessariamente deve essere: • rA 6 rB essendo A una sottomatrice di B • rA 6 N dato che non `e possibile scrivere un numero di equazioni indipendenti maggiore del numero totale di gradi di libert`a.

7.4.2 Problemi isostatici In base alla definizione data all’inizio del paragrafo, un problema `e isostatico quando l’insieme delle relazioni di equilibrio deducibile dalle equazioni cardinali ammette una soluzione unica. Dal punto di vista matematico ci` o comporta che il numero di incognite M sia uguale al numero di equazioni linearmente indipendenti del sistema: rA . Questa relazione, scritta in forma simbolica, `e quindi la seguente: problema isostatico ⇔ rA = rB = M Molto spesso, come nell’esempio esaminato, rA = N , tuttavia, come alcuni esempi mostreranno, quest’ultima uguaglianza non sempre si verifica.

164

7.4. CLASSIFICAZIONE DEI PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

7.4.3 Problemi labili Consideriamo lo schema rappresentato in figura 7.5, in cui, dal punto di vista cinematico, si riconosce un manovellismo di spinta centrato (anche detto meccanismo biella-manovella). Questa struttura di corpi rigidi `e ottenuta dall’arco a tre cerniere precedentemente analizzato sostituendo la cerniera C con un appoggio semplice.

B

L

L

F

2F 1

A

α

2 α

C

Figura 7.5: Manovellismo di spinta centrato

In questo caso si possono comunque scrivere 6 equazioni indipendenti (infatti N = 6) ma vi sono solo M = 5 reazioni vincolari incognite. La matrice A `e rettangolare ‘alta’ 6 × 5 e il suo rango `e quindi necessariamente minore di 6. La matrice B `e invece 6 × 6 e pu`o quindi avere rango 6. Se effettivamente rB = 6 (ovvero rA < rB ) per il teorema di Rouch´e-Capelli il sistema (7.3) `e impossibile. Si pu`o verificare che questa condizione effettivamente si manifesta nella configurazione rappresentata in figura 7.5 (assumendo F 6= 0 e qualunque angolo α). Risulta evidente che la condizione rA < rB dipende anche dalla colonna aggiunta dei termini noti e quindi l’eventuale labilit`a di un problema non `e dovuta solo a una carenza di vincoli ma anche al tipo di carichi effettivamente esercitati sulla struttura. La mancanza di soluzione del sistema ha una importante interpretazione fisica: nella configurazione data con i carichi agenti, i vincoli non possono esercitare una azione statica che permette l’equilibrio della struttura. La caratteristica di ipostaticit`a esprime l’inadeguatezza dell’insieme delle reazioni vincolari a equilibrare i carichi dati nella configurazione specifica. Non possiamo con ci`o affermare che la struttura non sia in grado di trovare un equilibrio, ma sicuramente questo non potr`a esserci nella configurazione data con i carichi agenti. Una struttura in condizioni di labilit`a si comporta come un meccanismo che tende a muoversi sotto l’azione dei carichi di quantit`a che possono essere anche molto piccole (ma non nulle) per assumere, eventualmente, una configurazione di equilibrio diversa da quella data. Se si vuole esaminare il comportamento della struttura con metodi statici, il problema deve quindi essere considerato del secondo tipo e deve essere ricercata una eventuale configurazione di equilibrio diversa da quella data. Alternativamente, `e possibile considerare la struttura come un meccanismo e determinare la legge di moto dei suoi elementi con le equazioni della dinamica. Questo procedimento prevede che i costituenti subiscano accelerazioni e quindi che, per i sistemi di riferimento a essi solidali, compaiano anche le forze d’inerzia. La definizione rigorosa di problema `e labile o ipostatico `e quindi la seguente: problema labile ⇔

rA < rB

Per un problema labile, l’intero (positivo) rB − rA , generalmente denominato grado di labilit` a, individua il numero minimo di reazioni vincolari indipendenti da aggiungere a quelle presenti per mantenere l’equilibrio, oppure dal punto di vista cinematico, il numero di gradi di

165

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

libert`a che definiscono i moti che i carichi possono produrre per il meccanismo in esame nella data configurazione. A prima vista si potrebbe pensare che la condizione di labilit`a possa essere immediatamente dedotta dal fatto che la matrice A `e rettangolare ‘lunga’, ovvero dal fatto che vi sono pi` u gradi di libert`a (N ) rispetto al numero di reazioni vincolari predisposti per mantenere l’equilibrio (M ). In molti casi questa coincidenza si verifica, tuttavia vi sono situazioni, anche di notevole interesse, in cui tale conclusione `e falsa, come mostrano vari esempi discussi nei prossimi paragrafi.

7.4.4 Problemi iperstatici Consideriamo il problema schematizzato nella figura 7.6, analogo all’esempio di figura 7.5 ma con un incastro in C.

L

B

L

F

2F 1

A

α

2 α

C

Figura 7.6: Problema iperstatico

Il lettore pu`o verificare che in questo caso entrambe le matrici sono rettangolari ‘larghe’: la matrice A `e 6 × 7 e la matrice B `e 6 × 8. Poich´e nel caso specifico (α 6= 0) la matrice A ha rango 6, necessariamente sar`a anche rB = 6 e quindi il sistema risolvente ha soluzione. Per`o, il numero di incognite M = 7 `e maggiore del numero di equazioni linearmente indipendenti (rA = 6), pertanto `e possibile determinare 6 reazioni vincolari solo se la settima `e nota. Dal punto di vista matematico, il sistema `e quindi risolvibile ma indeterminato e ammette ∞1 soluzioni. Dal punto di vista fisico significa che l’insieme dei vincoli `e sovrabbondante, ovvero che la struttura possiede un complesso di vincoli indipendenti maggiore di quanto strettamente necessario per garantire l’equilibrio statico nella configurazione con i carichi dati. Questi problemi sono chiamati iperstatici e il numero di reazioni vincolari sovrabbondanti M − rA `e detto grado di iperstaticit` a. In particolare, il problema rappresentato in figura 7.6 ha grado di iperstaticit`a 1 ed `e detto una volta iperstatico. La definizione rigorosa di iperstaticit`a `e quindi la seguente: problema iperstatico ⇔

rA = rB e M > rA

L’iperstaticit`a del problema, quando `e effettiva, non pu`o essere risolta ricorrendo a trucchi algebrici. Non producono quindi alcun effetto sulla indeterminatezza del sistema ottenuto con il metodo generale espedienti del tipo: assumere altri poli per il calcolo dei momenti o aggiungere equazioni di equilibrio per altre sottostrutture. Le nuove equazioni sarebbero combinazioni lineari di quelle gi`a scritte e la loro presenza non modificherebbe il rango della matrice A. Non `e inoltre corretto affermare che i problemi iperstatici non sono risolvibili nell’ambito della statica, per quanto anche su certi libri si pu`o travare una frase di tale tipo. Infatti, dal

166

` DEI PROBLEMI ISOSTATICI 7.5. PARTICOLARITA

punto di vista algebrico, le equazioni cardinali forniscono un eccesso di soluzioni che garantiscono l’equilibrio statico (ben ∞M −rA ). Inoltre, `e improprio anche affermare che la soluzione fisica non sia unica e quindi concludere che le reazioni vincolari in una struttura come quella di figura (7.6) siano effettivamente indeterminate. In effetti, collocando un dinamometro nella cerniera B, una definita, e ovviamente unica, misura della reazione vincolare sarebbe fornita anche in condizioni di iperstaticit`a! Ci`o che si pu`o correttamente asserire `e che, in un problema iperstatico, le sole equazioni cardinali non permettono di discriminare tra le infinite soluzioni equilibrate quella che effettivamente si manifesta. Infatti, come avremo modo di verificare nel seguito del corso, nei problemi iperstatici il comportamento strutturale, e quindi lo schema di corpo libero degli elementi costituenti, risulta influenzato in modo determinante dalle modalit` a con cui gli elementi si deformano quando sono sollecitati, per quanto piccole possano essere tali deformazioni. Nei problemi iperstatici infatti l’indeterminatezza del sistema risolvente `e conseguenza del modello di corpo infinitamente rigido che, in questi casi, si rivela inadeguato a descrivere un aspetto essenziale del comportamento strutturale del corpo esteso. La soluzione completa dei problemi iperstatici `e pertanto rimandata a quando saranno disponibili modelli in grado di descrivere il comportamento dei corpi estesi deformabili. Per ora limiteremo l’analisi alla classificazione del problema e alla valutazione del grado di iperstaticit`a.

7.5 Particolarit` a dei problemi isostatici Come illustrato nel paragrafo precedente, classificare un problema di statica delle strutture, ovvero stabilire se `e iso-, ipo- o iper-statico, impone in teoria il confronto tra i ranghi delle matrici del sistema risolvente. Salvo casi particolari, pertanto, non `e possibile classificare un problema solo sulla base della configurazione geometrica della struttura, che influenza solo la matrice A, prescindendo dai carichi che hanno effetto sulla matrice B. Gli esempi che seguono mostrano come una stessa struttura pu`o avere varie caratteristiche statiche in relazione ai carichi.

7.5.1 Problemi isostatici in relazione al carico applicato In base alla definizione, un problema `e isostatico quando l’insieme delle equazioni cardinali ammette una soluzione unica, che si traduce nelle relazioni: rA = rB e M = rA , la prima garantisce l’esistenza e la seconda l’unicit`a della soluzione. Osserviamo che in questa definizione non compare il numero totale di gradi di libert`a N , l’apparente incongruenza si pu`o spiegare con il seguente esempio. Esempio 7.2: Pendolo isostatico In figura 7.7 `e mostrato un pendolo fisico realizzato con una barra di acciaio di sezione quadrata 40 × 40 mm e lunghezza l = 750 mm in posizione verticale. Classificare il problema e, nel caso sia isostatico, tracciare lo schema di corpo libero definitivo.

167

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

y x

Figura 7.7: Pendolo fisico in verticale soggetto al peso proprio

Si tratta di un problema di corpo rigido nel piano, peraltro una struttura molto semplice costituita da un unico corpo. Per determinare le reazioni vincolari possiamo considerare il peso proprio come una forza concentrata nel baricentro (P = 91.8 N), e tracciare lo schema di corpo libero preliminare: S T

y x

P

Figura 7.8: Schema di corpo libero preliminare

Prendendo come polo l’estremo inferiore del pendolo si pu`o scrivere il seguente sistema con N = 3 e M = 2:   Rx = T = 0 Ry = S − P = 0  Mz = −T · L = 0 la soluzione si ottiene immediatamente per sostituzione:  T =0 S=P Scrivendo le matrici: 

   1 0 1 0 0 A= 0 1  eB= 0 1 P  −L 0 −L 0 0 si pu`o osservare che rA = rB = M = 2, infatti la terza equazione `e identica alla prima e pu`o essere eliminata senza alterare il sistema. Sulla base della definizione, il problema `e quindi isostatico, in effetti, nella configurazione data, abbiamo ottenuto l’unica soluzione che soddisfa le condizioni di equilibrio. Lo schema di corpo libero definitivo `e il seguente:

168

` DEI PROBLEMI ISOSTATICI 7.5. PARTICOLARITA

91.8 N

0.122 N/mm

Figura 7.9: Schema di corpo libero definitivo

nel quale la natura distribuita del peso proprio `e stata ripristinata con la rappresentazione di una azione uniformemente distribuita sull’asse. L’esempio illustra una situazione in cui il problema `e isostatico anche se M < N . Per fugare il sospetto che la soluzione ottenuta dipenda da una scelta fortunata del polo, scelto in modo che due delle tre equazioni coincidessero, `e istruttivo provare a modificarlo. Si osservi peraltro che, per i principi generali delle statica, la modifica del polo non pu`o produrre alcun effetto sulla classificazione del problema. Per esempio, se si sceglie il polo sulla cerniera, la seconda cardinale produce la reazione: 0=0 identit`a che, ovviamente, non altera il rango di alcuna matrice del sistema. Dal punto di vista fisico possiamo affermare che, effettivamente, il corpo libero ha un numero di gradi di libert` a (3) superiore alla molteplicit`a complessiva dell’insieme dei vincoli (2), tuttavia il carico applicato `e tale da poter comunque essere equilibrato dalle reazioni vincolari. Consideriamo una variante del problema discusso nell’esempio 7.2. Esercizio guidato 7.1: Pendolo con forza orizzontale Al pendolo fisico di figura 7.7 si applica una forza orizzontale F = 5 N all’estremit`a inferiore, studiare le condizioni di equilibrio nella configurazione data e classificare il problema.  Dallo schema di corpo libero preliminare di figura 7.10 si possono imporre le seguenti equazioni di equilibrio (scritte in modo analogo all’esempio precedente):   Rx = T + F = 0 Ry = S − P = 0  Mz = −T · L = 0 con:



   1 0 1 0 −F A= 0 1  eB= 0 1 P  −L 0 −L 0 0

Si verifica che in questo caso rA = 2 e rB = 3, pertanto il sistema `e impossibile e, di conseguenza, il problema risulta labile con grado di labilit`a pari a 1. Dal punto di vista fisico, si pu`o concludere che, in presenza di questo carico, l’insieme dei vincoli non permette

169

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

l’equilibrio del pendolo in configurazione verticale, conclusione che era peraltro facilmente prevedibile, data la semplicit`a del problema.

Figura 7.10: Schema di corpo libero preliminare del pendolo con una forza orizzontale

` lasciata come esercizio la soluzione del problema considerato Completamento. E del secondo tipo assumendo che la forza F conservi intensit`a direzione e verso e rimanga applicata all’estremo della barra anche se questa cambia la sua posizione. In particolare si dimostri che: • una configurazione di equilibrio si trova per un angolo di inclinazione del pendolo di 6.22◦ (anche se non `e l’unica) • in tale posizione il problema diventa nuovamente isostatico, per`o non nella configurazione geometrica data.

I due ultimi esempi dimostrano che un problema di statica non `e in genere classificabile sulla base della sola configurazione (geometria e vincoli) essendo fondamentale anche la modalit`a con cui la struttura `e caricata. Lo stesso pendolo `e risultato isostatico nel primo caso e labile nel secondo. Nel secondo caso inoltre, il problema `e stato classificato labile nella configurazione data ma isostatico nella configurazione di equilibrio. Possiamo osservare che questa conclusione `e valida per molti problemi di statica del secondo tipo che sono labili nella configurazione di partenza e diventano isostatici quando raggiungono una configurazione di equilibrio.

7.5.2 Strutture intrinsecamente isostatiche Esiste una importante categoria di strutture che sono conformate in modo tale che il problema risulta isostatico per qualunque carico che si applichi. Chiameremo queste strutture intrinsecamente o incondizionatamente isostatiche. Data l’indipendenza della classificazione del problema dal carico, l’intrinseca isostaticit`a deriva dalla configurazione geometrica degli elementi, dal tipo di vincoli e dalla loro disposizione. La condizione di intrinseca isostaticit`a si traduce matematicamente nella relazione: struttura intrinsecamente isostatica ⇔ rA = N = M che non impone alcuna condizione sui carichi e quindi sulla matrice B. L’effetto della geometria sulle caratteristiche statiche di una struttura `e discusso nel seguente esempio.

170

` DEI PROBLEMI ISOSTATICI 7.5. PARTICOLARITA

Esempio 7.3: Intrinseca isostaticit`a Classificare staticamente la struttura costituita da un singolo corpo rigido vincolato (figura 7.11) con una cerniera in A e un appoggio in B tra loro distanti L 6= 0. La reazione in B ha una retta d’azione inclinata di α rispetto alla retta AB. Discussione il problema al variare del parametro α.

S

α A L

B

R

T

y x

(b)

(a)

Figura 7.11: Corpo rigido vincolato con una cerniera e un appoggio semplice: a) schema statico e b) schema di corpo libero preliminare

Trattandosi di un singolo corpo rigido nel piano: N = 3. Determiniamo la matrice A assumendo come polo la cerniera in A e come incognite T , S e R (quindi M = 3):   1 0 − cos α A =  0 1 sin α  0 0 L sin α ricaviamo che: det(A) = L sin α da cui si ottengono le seguenti alternative: 1. rA = 3 se L sin α 6= 0 2. rA = 2 se L sin α = 0 Nel primo caso la struttura `e intrinsecamente isostatica: le reazioni vincolari possono essere ottenute in modo univoco con le equazioni cardinali, qualunque sia il carico agente sul corpo. Nel secondo caso la classificazione statica `e condizionata dal carico, come vedremo in un prossimo esempio che analizza proprio questo tipo di configurazioni. Si pu` o osservare che la condizione 2) dell’esempio precedente, L sin α = 0, equivale a imporre l’appartenenza del punto A alla retta d’azione della reazione vincolare dell’appoggio in B. Dato che non sono state poste limitazioni alla forma del corpo e alla disposizione dei vincoli, possiamo generalizzare il risultato ottenuto con seguente affermazione: un corpo rigido piano vincolato con una cerniera e un appoggio `e intrinsecamente isostatico se la retta d’azione della reazione dell’appoggio non passa per il centro della cerniera.

7.5.3 Riconoscimento di strutture intrinsecamente isostatiche Per dimostrazione diretta, il lettore pu`o verificare che sono intrinsecamente isostatiche anche le seguenti strutture piane:

171

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

• un corpo rigido incastrato in un punto • un corpo rigido su tre appoggi se le rette d’azione delle reazioni vincolari non hanno un punto in comune (compreso il punto improprio, ovvero la direzione) • un corpo rigido vincolato con un bipendolo e un appoggio, purch´e le tre biellette non siano parallele • un arco a tre cerniere purch´e i centri delle cerniere non siano allineati . Sono intrinsecamente isostatiche anche le seguenti strutture nello spazio: • un corpo rigido incastrato in un punto • un corpo rigido vincolato con una cerniera completa e un appoggio se la retta d’azione della reazione dell’appoggio non ha punti in comune con l’asse della cerniera (compreso il punto improprio) • un corpo rigido su 6 appoggi se le rette d’azione delle reazioni vincolari non hanno alcun punto in comune (compresi i punti impropri) Questi esempi non esauriscono ovviamente le possibili configurazioni delle strutture intrinsecamente isostatiche, ma costituiscono una base sufficientemente ampia per affrontare molti problemi di pratico interesse. L’identificazione a priori di una struttura intrinsecamente isostatica consente infatti di evitare la classificazione basata sulla definizione algebrica, operazione spesso lunga e complessa.

7.6 Alcune particolarit` a di problemi non isostatici In questo paragrafo sono analizzati alcuni problemi di statica la cui classificazione richiede una certa attenzione. Si tratta di situazioni limite in cui pi` u vincoli producono moti tra ` opportuno ricordare che nello studio della statica delle macchine loro non indipendenti. E le configurazioni di una struttura sono variabili nel tempo e non `e inconsueto che situazioni del tipo descritto possano manifestarsi, tra l’altro inducendo condizioni di sovrasollecitazione per gli elementi della struttura.

7.6.1 Arco a tre cerniere allineate L’arco a tre cerniere allineate di figura 7.12 `e un caso interessante di una struttura che non e` intrinsecamente isostatica a causa della particolare configurazione geometrica. Nello specifico, siamo interessati a classificare il problema e quindi a discutere le caratteristiche di risolvibilit`a del sistema in relazione al tipo di carico applicato. Esempio 7.4: Arco a tre cerniere allineate L’arco a tre cerniere allineate di figura 7.12 `e sollecitato da una forza P la cui direzione, individuata dall’angolo α, `e da considerarsi il parametro di discussione. Classificare il problema in relazione al valore di α.

172

` DI PROBLEMI NON ISOSTATICI 7.6. ALCUNE PARTICOLARITA

y L1/2

L1/2 P A 1

L2 P

C 2

U

W

S

α B

x

K

V

T

V W

(b)

(a)

Figura 7.12: Arco a tre cerniere allineate: a) schema statico e b) schema di corpo libero preliminare

La struttura non `e intrinsecamente isostatica, a causa dell’allineamento delle cerniere, anche se N = M = 6. Il sistema risolvente `e il seguente:      K −P cos α 1 0 −1 0 0 0      0 1 0 −P sin α −1 0 0    S     0 0 0 −L1 0 0   V   −P (L1 /2) sin α  =      W    0 0 1 0 0 1 0            0 0 0 T 0 1 0 1 U 0 0 0 0 0 0 L2 Si verifica che det(A) = 0, essendo rA = 5, per cui possono verificarsi le seguenti condizioni: 1. rB = 6: la soluzione non esiste e il problema `e labile 2. rB = 5: la soluzione esiste e quindi il problema pu`o essere isostatico (la soluzione `e unica) o iperstatico (la soluzione `e indeterminata). ` interessante effettuare la classificazione evitando la determinazione diretta del rango E delle matrici ma risolvendo direttamente il sistema per sostituzione. Dalle ultime due equazioni si ricava: U =0 W =0 mentre dalla terza si ottiene:

P sin α 2 questi risultati sono incompatibili (soluzione impossibile o problema labile) a meno che P 2 sin α = 0. Escludendo, almeno per il momento, il caso di P = 0 (struttura senza carico applicato), `e possibile proseguire nella soluzione solo se α = 0 oppure se α = π e quindi se la forza ha la retta d’azione che passa per le cerniere. In questo caso il sistema diventa risolvibile ma indeterminato, sono infatti soluzioni tutte le ∞1 seguenti: W =

K − V = −P T +V =0 Il problema `e quindi una volta iperstatico, infatti si verifica che rA = rB = 5 e M = 6. Non si possono discriminare le reazioni vincolari prescindendo dalla deformabilit`a degli elementi che formano la struttura.

173

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

Dall’esempio si conclude che in un arco a tre cerniere allineate, se il carico `e una forza che non ha retta d’azione passante per i centri delle cerniere, non esiste soluzione statica e il problema `e labile. Come conseguenza si prevede un movimento verticale della cerniera centrale. Si potrebbe obiettare che la cerniera centrale pu`o spostarsi verticalmente solo ammettendo l’allungamento di almeno uno dei corpi (1) e (2), condizione non permessa dal vincolo di infinita rigidezza dei corpi stessi. Questa argomentazione si dimostra per`o poco sostenibile sia da un punto di vista teorico sia sulla base di semplici considerazioni pratiche. Dal punto di vista teorico osserviamo infatti che, se la cerniera B si abbassa (o si alza) di una quantit`a infinitesima di ordine 1, la variazione di lunghezza richiesta ai corpi per assecondare tale spostamento `e quantificabile in un infinitesimo di ordine 2. Infatti, consideriamo per semplicit`a di calcolo le due barre di uguale lunghezza (L1 = L2 ), indicata con dθ la rotazione del corpo (1), lo spostamento verticale della cerniera B vale: dy = L1 tan(dθ) = L1 dθ mentre l’allungamento del corpo 1 (allontanamento dei centri delle cerniere A e B) vale: dL1 =

L1 L1 1 − L1 = (dθ)2 = (dy)2 cos(dθ) 2 2L1

Pertanto, dal punto di vista matematico, l’abbassamento del punto centrale `e consentito da un allungamento che `e dato da una quantit`a infinitesima rispetto alla prima. Per rendersi conto delle conseguenze di tali differenze di ordine di infinitesimo, `e utile una valutazione quantitativa semplificata che consideri quantit`a finite piccole. Supponiamo, per fissare le idee, L1 = L2 = 1 m, e ∆θ = 0.001 rad. Questi dati comportano uno spostamento verticale della cerniera centrale di ∆y = 1 mm e un aumento complessivo del percorso ABC di ∆L1 + ∆L2 = 1.0 µm. Pertanto l’aumento di distanza delle cerniere `e una quantit`a mille volte inferiore rispetto allo spostamento verticale della cerniera stessa (chiaramente finch´e quest’ultimo spostamento `e piccolo). Affrontiamo ora il problema dal punto di vista pratico e consideriamo che non esistono corpi infinitamente rigidi e cerniere senza giochi. Il caso numerico esaminato nel capoverso precedente consente di prevedere che un gioco diametrale complessivo sui perni delle tre cerniere pari a solo 1.0 µm (quindi in media 0.34 µm su ognuna) consentirebbe un movimento verticale libero della cerniera centrale di ±1 mm senza necessit`a di applicare alcuna forza. Pertanto se le tre cerniere reali (con giochi normali dell’ordine del centesimo) fossero allineate, lo spostamento verticale di B sotto carico sarebbe quindi inevitabile e la conseguente inclinazione dei due corpi assumerebbe un valore finito, per quanto piccolo, che `e necessario considerare ai fini dell’equilibrio. L’equilibrio pertanto sarebbe raggiunto in una configurazione in cui le tre cerniere non sono comunque allineate. Da qualunque punto di vista si esamini il problema, si conclude che nella configurazione a cerniere allineate un carico con asse centrale non passante per le cerniere non pu`o essere staticamente equilibrato dai vincoli. Questa conclusione conferma l’analisi preliminare che aveva identificato il problema come labile, anche se la labilit`a `e limitata alla sola configurazione di allineamento delle cerniere. Come conseguenza ricaviamo che, a rigore, `e impossibile allineare in orizzontale una catena, o un cavo, avente massa sotto l’effetto del peso proprio. Un certo abbassamento, per quanto minimo, `e infatti inevitabile. Volendo risolvere il problema con cerniere nominalmente allineate, sarebbe quindi necessario conoscere il gioco effettivo sui perni e la deformabilit`a degli elementi che compongono la struttura. Si tratterebbe in ogni caso di un problema del secondo tipo con la configurazione di equilibrio necessariamente diversa da quella allineata. Nella pratica costruttiva, situazioni in cui la configurazione di equilibrio e le conseguenti sollecitazioni dipendono in modo molto marcato da piccole quantit`a, come il gioco sui perni, sono

174

` DI PROBLEMI NON ISOSTATICI 7.6. ALCUNE PARTICOLARITA

generalmente da evitarsi. In questi casi, infatti, le reazioni vincolari possono assumere valori molto elevati in dipendenza da parametri che non possono essere controllati con la precisione necessaria. La labilit`a della struttura di figura 7.12, nel caso di allineamento delle cerniere, pu`o essere interpretata anche con considerazioni cinematiche. La traiettoria di B, considerato come punto appartenente al corpo (1), `e una circonferenza di centro A e raggio L1 . Analogamente, la traiettoria di B, considerato solidale a (2), `e una circonferenza di raggio L2 e centro C. Nel caso di allineamento delle cerniere, le due traiettorie localmente coincidono come posizione e come tangente. Pertanto, in condizioni di allineamento delle cerniere, la configurazione consente al punto B un movimento tangenziale infinitesimo e quindi i vincoli non sono indipendenti. Considerazioni del tutto analoghe si possono ripetere anche per un corpo vincolato con una cerniera e un appoggio (figura 7.11) quando il centro della cerniera appartiene alla retta d’azione della reazione dell’appoggio. Anche l’esempio dell’arco a tre cerniere allineate `e utile per ricordare che la condizione N = M , non si verifica solo quando la struttura `e isostatica ma che, in relazione alla configurazione dei vincoli e dei carichi, pu`o essere soddisfatta anche in problemi labili o iperstatici, e pertanto non pu`o essere usata come criterio generale e sicuro per classificare un problema.

7.6.2 Problemi iperstatici particolari Consideriamo il seguente esempio in cui si osserva come anche l’iperstaticit`a possa dipendere dalle modalit`a di carico. Esempio 7.5: Diversi tipi di iperstaticit`a Classificare il problema di figura 7.13 al variare dell’angolo α di inclinazione della forza, considerata non nulla e applicata nel punto di mezzo di una barra rigida incernierata al telaio alle estremit`a. L P

A

α

B

Figura 7.13: Barra rigida tra due cerniere

E’ lasciato al lettore il disegno dello schema di corpo libero preliminare e la verifica delle affermazioni: • N = 3 e M = 4, da questo risultato si tenderebbe a ritenere la struttura eccessivamente vincolata e a presumere il problema 1 volta iperstatico; • se α 6= π/2+kπ il problema `e effettivamente 1 volta iperstatico in quanto rA = rB = 3 ma M = 4 La condizione pi` u interessante da discutere `e quindi α = π/2 + kπ, che rappresenta la situazione di carico perpendicolare alla congiungente i centri delle cerniere. Lo schema di corpo libero preliminare `e il seguente, in cui, per fissare le idee, `e stato assunto α = −π/2:

175

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

y x

S K

W

P

π/2

V

Figura 7.14: Schema di corpo libero con il carico trasversale

La soluzione del sistema `e la seguente: S = W = P/2 e K = −V Dal punto di vista matematico, la soluzione dimostra l’esistenza di ∞1 possibili reazioni vincolari che garantiscono l’equilibrio. La struttura `e pertanto una volta iperstatica, tuttavia possiamo osservare come questa iperstaticit`a sia di tipo particolare. La soluzione mostra infatti chiaramente che le componenti orizzontali delle reazioni vincolari, che costituiscono la parte indeterminata della soluzione, non dipendono in alcun modo dal carico esterno. Nella discussione dell’esempio precedente `e stato osservato che per un carico che consiste ` interesin una forza verticale le reazioni orizzontali delle cerniere non dipendono dal carico. E sante porsi la seguente domanda: se non sono prodotte dal carico, da quale causa dipendono fisicamente K e V ? Per rispondere, `e utile esaminare le modalit`a con cui la struttura viene installata. Questa analisi permette di evidenziare una interessante caratteristica delle strutture iperstatiche che le distingue in modo sostanziale da quelle isostatiche. Per collegare il corpo AB al telaio, si pu`o fissare prima la cerniera A e successivamente la B, l’ordine non ha alcun effetto sulle considerazioni che seguono. Non si presenta alcuna difficolt`a per inserire il perno della prima cerniera: il corpo AB `e all’inizio completamente libero nel piano e pu`o essere disposto in modo da far collimare i centri dei fori delle parti fissa e mobile della cerniera A. La stessa facilit`a di montaggio pu`o non verificarsi per la seconda cerniera. Infatti, assemblata la cerniera A, al corpo AB rimane un solo grado di libert`a e la sua estremit`a B `e vincolata a descrivere una circonferenza di centro A e raggio L. Se il centro del foro della parte fissa della cerniera B appartiene a tale circonferenza, il montaggio sar`a possibile, diversamente l’inserimento del perno diventa impossibile se non per la presenza di giochi sui perni o per la deformabilit`a degli elementi della struttura. Se il corpo AB risulta pi` u lungo (o pi` u corto) del dovuto, diciamo che siamo in presenza di un errore di montaggio. Poich´e sappiamo che tutti i corpi sono sempre, in qualche misura, deformabili, e i perni sono generalmente accoppiati con gioco nelle cerniere, il montaggio pu`o essere, in pratica, eseguito anche in presenza di errori, purch´e ragionevolmente piccoli. Supponiamo, per fissare le idee, che il corpo AB sia un po’ pi` u corto del necessario e che l’errore sia superiore ai giochi di accoppiamento dei perni. Per inserire il perno sar`a necessario allungare il corpo quanto basta per far collimare i centri della cerniera B. L’allungamento pu`o essere prodotto applicando una forza esterna all’estremit`a libera del corpo. Appena inserito il perno, la forza esterna pu`o essere rimossa, da questo momento infatti, sar`a l’azione stessa del vincolo a esercitare la forza necessaria per mantenere il corpo AB allungato della quantit`a necessaria. Dopo il montaggio con errore quindi, anche in assenza di carichi, le cerniere eserciteranno sul corpo un sistema autoequilibrato di forze. Tale sistema di forze (nel caso in esame una

176

7.7. IL MONTAGGIO DI ALBERI DI TRASMISSIONE

coppia di braccio nullo) `e proprio quello rappresentato dalle componenti K e V previste dalla soluzione. Peraltro, l’intensit`a di tali reazioni `e valutabile solo se `e nota l’entit`a dell’errore di montaggio e si prendono in considerazione le caratteristiche di deformabilit`a della struttura. Nelle strutture iperstatiche un sistema di reazioni prodotte dai vincoli che sia globalmente autoequilibrato ma non identicamente nullo pu`o essere generato, oltre che da errori di montaggio, anche da effetti termici. Supponiamo, per esempio, che l’elemento AB sia stato montato, senza errori, in inverno e che il materiale di cui `e realizzato l’elemento abbia un coefficiente di dilatazione termico pi` u elevato di quello del telaio (generalmente assunto nullo). In estate dobbiamo prevedere la presenza di reazioni vincolari K e V dovute al solo fatto che `e aumentata la temperatura. ` opportuno osservare che generalmente, nei problemi iperstatici, gli errori di montaggio E e le variazioni termiche producono effetti significativi con reazioni vincolari da essi prodotte anche superiori a quelle dovute ai carichi. La valutazione quantitativa di questi effetti sar` a possibile solo dopo aver sviluppato modelli per la deformabilit`a dei corpi. Possiamo per ora soltanto affermare che, in assenza di errori di montaggio e di effetti termici, non c’`e ragione per prevedere la presenza di azioni K e V nella struttura in esame. Pertanto, in assenza di indicazioni specifiche su effetti della temperatura o errori di montaggio, nel caso di solo carico verticale il problema esaminato pu`o essere di fatto risolto come se fosse isostatico. In altri termini, le reazioni orizzontali delle cerniere, per quanto esercitabili sulla base di sole considerazioni di equilibrio, non sono giustificabili da alcuna causa fisica e quindi sono nulle.

7.6.3 Errori di montaggio sulle strutture isostatiche ` interessante notare che nelle strutture isostatiche le reazioni vincolari prodotte da errori di E montaggio o da effetti termici sono identicamente nulle. Questa affermazione pu`o essere dedotta in modo diretto e semplice. Consideriamo la forma generale del problema statico espressa dal sistema (7.3), e supponiamo che la struttura sia priva di carichi esterni, ovvero il vettore P sia nullo. Se la struttura `e isostatica sappiamo che le reazioni vincolari si ricavano univocamente dal sistema e quindi essendo X = 0 soluzione (il sistema `e omogeneo) non esistono altre possibilit`a. L’effetto pratico di questo risultato `e molto importante: le reazioni vincolari, interne ed esterne, delle strutture isostatiche non dipendono in alcuna misura da (piccoli) errori di montaggio o da effetti termici. Questo suggerisce l’impiego di montaggi di tipo isostatico quando le tolleranze geometriche non possono essere molto strette e/o quando si prevedono variazioni significative di temperatura in esercizio.

7.7 Il montaggio di alberi di trasmissione Per esemplificare le problematiche connesse con gli effetti prodotti dal tipo di staticit`a di una struttura, `e utile prendere a riferimento la situazione di un albero di trasmissione su cuscinetti. Consideriamo il problema nel piano, `e infatti evidente che l’albero dovr`a essere montato in modo che sia permessa la rotazione attorno al proprio asse. In condizioni normali `e consigliato un montaggio che, a parte la rotazione attorno all’asse, realizzi condizioni di intrinseca isostaticit` a. In tal modo sono scongiurate sollecitazioni sui cuscinetti non indotte dai carichi ma dovute a errori di montaggio o a effetti termici. Un montaggio intrinsecamente isostatico molto semplice pu`o essere realizzato con una sola coppia di cuscinetti. Se non `e garantita la perfetta coassialit` a tra i centri dei cuscinetti, per esempio perch´e essi sono montati su sedi distinte, il montaggio consigliato `e quello indicato in figura 7.15 nella quale, in uno schema statico piano, il cuscinetto

177

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

A rappresenta una cerniera e il cuscinetto B un appoggio (struttura intrinsecamente isostatica).

A

Figura 7.15: cuscinetti

B

Montaggio intrinsecamente isostatico di un albero su due

Come gi`a osservato nei capitoli precedenti, se gli errori di coassialit`a, o le deformazioni dell’albero sotto carico, sono di piccola entit`a, `e possibile adottare una coppia di comuni cuscinetti a sfere non orientabili (meno costosi). In alcune applicazioni `e necessario per` o vincolare l’albero in modo da limitare al massimo le sue distorsioni sotto carico. Questo risultato pu`o essere ottenuto disponendo pi` u di due cuscinetti in linea, come mostrato in figura 7.16, adottando quindi una soluzione di vincoli ridondanti che rende il problema generalmente iperstatico. In questi casi, `e in necessario garantire la coassialit`a delle sedi dei cuscinetti per evitare che albero e supporti siano sollecitati ancora prima che agiscano i carichi. Nei montaggi iperstatici, per contenere le reazioni dovute agli errori di montaggio si possono in generale adottare due strategie: 1. garantire la sufficiente coassialit`a delle sedi dei cuscinetti con strette tolleranze geometriche 2. adottare opportuni sistemi di registrazione e regolazione (per esempio spessori calibrati, fori di fissaggio ad asola, ecc. . . ) in modo da allineare i centri dei cuscinetti sull’asse dell’albero in fase di montaggio.

A

B

C

Figura 7.16: Montaggio di un albero su tre cuscinetti

Entrambe le soluzioni sono per`o economicamente onerose e quindi giustificabili solo se effettivamente necessarie. Montaggi iperstatici di alberi sono frequenti nelle macchine utensili (per esempio nell’albero della fresatrice), applicazioni in cui la rigidezza `e un requisito vitale per il funzionamento della macchina. Peraltro, considerate le necessarie caratteristiche di precisione dimensionale richieste a una macchina utensile, `e ragionevole pretendere che le sedi dei cuscinetti siano allineate con tolleranze di coassialit`a molto strette.

178

7.8. ESEMPI DI STRUTTURE E LORO CLASSIFICAZIONE STATICA

Esercizio 7.1: Identificazione di un montaggio Considerato l’albero di figura 7.17, supponendo che il montaggio sia stato eseguito senza errori, non vi siano effetti termici e il carico sia una forza concentrata applicata sull’asse dell’albero; verificare le seguenti affermazioni: a) se la forza P ha la direzione dell’asse dell’albero, il problema `e isostatico e le forze sui cuscinetti possono essere determinate con la sola statica; b) se la forza P ha una componente normale all’asse dell’albero, il problema piano `e una volta iperstatico.

A

B

C

P

Figura 7.17: Albero su tre cuscinetti con carico concentrato

7.8 Esempi di strutture e loro classificazione statica Sono proposti alcuni esempi di strutture e indicati metodi per la loro classificazione che non richiedono la dimostrazione completa basata sull’analisi matematica del sistema risolvente. Una certa abilit`a nell’identificare la caratteristica statica del problema `e opportuna, soprattutto in vista della progettazione, fase nella quale `e necessario decidere a priori il grado di ridondanza da assegnare ai vincoli. Per motivi di semplicit`a grafica, i corpi estesi sono rappresentati come barre rettilinee che saranno considerate rigide. Tuttavia, `e opportuno considerare che la forma dei corpi (se rigidi) non `e generalmente importante per la classificazione del problema. I carichi rappresentati saranno considerati gli unici agenti e, salvo indicazione contraria, saranno assunti non nulli. Il lettore pu`o sviluppare la soluzione numerica dei problemi (quando isostatici) assumendo: F = 15 kN , L = 280 mm, l’angolo BCD retto e il punto H di applicazione della forza medio del segmento CD. Esercizio 7.2: Intrinseca isostaticit`a Dimostrare che la struttura piana in figura 7.18 `e intrinsecamente isostatica e che in particolare: rA = rB = M = N = 9

179

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

C F H 30°

B

D A L

L

Figura 7.18: Mensola che supporta un arco a tre cerniere

Il precedente esercizio 7.2 pu`o essere svolto in modo sintetico sulla base delle seguenti considerazioni. Supponiamo di assemblare la struttura, un procedimento potrebbe essere il seguente: 1. si incastra la barra AD al telaio, realizzando in tal modo una struttura intrinsecamente isostatica e quindi, dal punto di vista statico, la barra AD (se rigida) pu`o essere a tutti gli effetti considerata una estensione del telaio; 2. sulla barra AD si realizza un arco a tre cerniere B, C, D non allineate, anch’esso intrinsecamente isostatico. Questo procedimento di assemblaggio di sottostrutture intrinsecamente isostatiche garantisce che tutti i vincoli sono indipendenti e sempre pari al numero di gradi di libert`a introdotti con l’aggiunta di corpi o di sottostrutture. Assemblando sottostrutture intrinsecamente isostatiche si ottiene quindi sempre una struttura intrinsecamente isostatica. Esercizio 7.3: Labilit`a Dimostrare che la struttura piana in figura 7.19 `e labile e: rA = M = 11 e rB = N = 12 C F B D A

Figura 7.19: Mensola che supporta un arco a tre cerniere sconnesso

Come nel caso precedente, possiamo ancora procedere per via sintetica. Assemblando le tre barre a formare il triangolo BCD si realizza un elemento rigido (`e ancora un arco a tre cerniere non allineate) che ha i gradi di libert`a di un unico corpo rigido nel piano, infatti `e possibile spostarlo nel piano ma esso conserva la sua forma e le dimensioni. Questo corpo viene successivamente collegato con una cerniera all’estremo della mensola AB (intrinsecamente isostatica). Il triangolo pu`o ruotare quindi liberamente attorno a B e non `e pertanto possibile mantenerlo in equilibrio con il carico indicato che, evidentemente, produce un incipiente moto di rotazione attorno alla cerniera B.

180

7.8. ESEMPI DI STRUTTURE E LORO CLASSIFICAZIONE STATICA

Notiamo un aspetto interessante dello schema statico di figura 7.19. In B `e rappresentata una cerniera ma, dal punto di vista costruttivo e anche statico, essa `e doppia. In effetti, nel ` necessario punto B sono posizionate due cerniere che collegano tra loro tre corpi due a due. E tenere in considerazione questo fatto nel calcolo di M (il contributo di cerniera doppia al numero di incognite `e infatti di 4) e, conseguentemente, nello schema di corpo libero preliminare, dove devono essere riportate 4 incognite statiche indipendenti. Nella figura 7.20 `e illustrato in dettaglio lo schema di corpo libero preliminare che evidenzia le quattro reazioni S, T, U e V necessarie per quantificare l’effetto statico della cerniera doppia B. Si osservi che il terzo principio `e stato applicato nel modo consueto e che il punto comune B `e stato rappresentato separato nel piano per motivi di chiarezza grafica dopo aver eliminato la cerniera doppia. C U S+T

B

V T D S

A V+U

Figura 7.20: Dettaglio dello schema di corpo libero per la cerniera doppia

In quest’ultimo esempio, si pu`o verificare che se la forza F `e inclinata in modo che la sua retta d’azione passa per B, il problema diventa isostatico (rA = rB = 8) anche se non intrinsecamente, `e quindi possibile trovare lo schema di corpo libero per tutti gli elementi della struttura nella configurazione data. Dato che il passaggio della retta di applicazione della forza F da B `e una condizione necessaria per l’equilibrio, si pu`o usare questa circostanza per risolvere il problema del secondo tipo di figura 7.19 e trovare la configurazione di equilibrio nel caso in cui la forza F conservi l’intensit`a e la direzione e sia costantemente applicata in H. In tal caso, con considerazioni geometriche si individuano due condizioni di equilibrio (una stabile e l’altra instabile) con il punto H posto sulla verticale rispettivamente sotto e sopra B. In ognuna delle due configurazioni la struttura ritorna a essere isostatica, anche se non intrinsecamente. Esercizio 7.4: Problema iperstatico Dimostrare che il problema in figura 7.21 `e una volta iperstatico e che: rA = N = 6, rB = M = 7. C F B

D

A

Figura 7.21: Problema iperstatico

181

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

Notiamo che si sta cercando di collegare a una mensola AD un corpo rigido (il triangolo BCD) tramite due cerniere. In questo caso, come mostrato in un precedente esempio, la struttura diventa sensibile agli errori di montaggio e a deformazioni termiche. Pertanto, a meno di particolari condizioni di carico, ci si deve attendere un certo grado di iperstaticit`a. Per valutarlo `e sufficiente considerare che la sostituzione di una delle cerniere con un appoggio (per esempio che agisce verticalmente) renderebbe il problema intrinsecamente isostatico. Conseguentemente, se la reazione vincolare orizzontale eliminata fosse nota (per esempio misurata con un dinamometro) il problema sarebbe univocamente risolvibile con la statica. Questo significa che il problema di partenza ha ∞1 soluzioni e quindi `e una volta iperstatico. ` interessante osservare una particolarit`a di questo problema. Se fossero richieste le azioni E statiche trasmesse dal telaio alla struttura, avremmo potuto rispondere usando solo le equazioni della statica anche se il problema `e nel suo complesso iperstatico. A tale scopo infatti `e sufficiente considerare l’intera struttura come corpo rigido e imporre le condizioni globali di equilibrio. Si tratta di un caso in cui l’iperstaticit`a `e dovuta alla ridondanza dei vincoli interni. Problemi di questo tipo sono definiti internamente iperstatici ed esternamente isostatici. Il grado di iperstaticit`a pu`o essere anche pi` u elevato e un problema pu`o essere internamente ed esternamente iperstatico, come per esempio se si aggiunge un ulteriore appoggio verticale esterno in D. Esercizio 7.5: Problema labile particolare Dimostrare che il problema schematizzato in figura 7.22 `e labile anche se M = N = 9 dato che rB = rA + 1 = 9. C F B D A

Figura 7.22: Problema labile con sottostruttura internamente iperstatica

Nell’ultimo esempio si osserva un altro caso in cui il confronto diretto tra M e N fornisce una fuorviante indicazione di isostaticit`a. Per evidenziare l’apparente contraddizione, osserviamo che nulla impedisce alla parte di struttura a destra della cerniera doppia B di ruotare sotto carico. Da questo punto vista, il problema `e simile a quello in figura 7.19 e l’impossibilit`a di avere equilibrio nella configurazione data dimostra la labilit`a. Tuttavia, se lo affrontiamo come problema del secondo tipo, e quindi modifichiamo la configurazione in modo che H si trovi sulla verticale di B, giungiamo a un problema una volta internamente iperstatico del quale siamo in grado di valutare le azioni dell’incastro ma non quelle delle cerniere (a meno di un parametro). In effetti, la struttura nella configurazione di partenza, per quanto labile, `e sensibile agli errori di montaggio nella parte BCD. In questo caso l’uguaglianza tra M e N deriva da una compensazione tra un grado di labilit`a e uno di iperstaticit`a interna.

182

7.9. CONSIDERAZIONI GENERALI SULLA STATICA DELLE STRUTTURE

7.9 Considerazioni generali sulla statica delle strutture L’analisi delle caratteristiche statiche delle strutture, con riferimento agli esempi discussi nel capitolo, permette di fare alcune considerazioni generali. • La classificazione statica di una struttura che non rientra in casi noti richiede il calcolo dei ranghi delle matrici del sistema risolvente e il confronto con il numero di incognite, dato che il semplice confronto tra M e N non `e generalmente risolutivo. • L’inadeguatezza della classificazione basata su M e N `e giustificata dal fatto che tali quantit`a non sono influenzate dalle effettive disposizioni dei vincoli e dei carichi. Pu` o infatti verificarsi che i vincoli siano non indipendenti o che i carichi siano tali da rendere identicamente nulle alcune componenti delle reazioni vincolari. Per questo la caratteristica di staticit`a (iso ipo o iper) `e attribuibile al problema e non alla struttura. • Nelle strutture intrinsecamente isostatiche le reazioni vincolari sono univocamente determinate dalle equazioni cardinali per ogni condizione di carico, quindi per le strutture intrinsecamente isostatiche `e sempre M = N ma non vale il viceversa. • Per identificare una struttura intrinsecamente isostatica `e utile adottare il procedimento di assemblaggio ideale di sottostrutture che sono gi`a state classificate come intrinsecamente isostatiche. • Nei problemi isostatici, intrinsecamente e non, le reazioni vincolari interne ed esterne dipendono unicamente dai carichi, in particolare, se i carichi sono nulli le reazioni vincolari sono tutte nulle. La linearit`a del problema comporta anche che le reazioni vincolari aumentino con lo stesso fattore dei carichi (purch´e questi siano variati tutti nella stessa misura) • Nei problemi isostatici, piccoli errori di montaggio o effetti deformativi dovuti a variazioni ` peraltro evidente che significativi di temperatura non modificano le reazioni vincolari. E errori di montaggio possono alterare la configurazione geometrica della struttura e quindi, indirettamente, anche le reazioni vincolari. • Se la struttura `e labile, le reazioni vincolari non possono essere determinate con le equazioni cardinali nella configurazione data. Vi sono due possibilit`a per risolvere il problema in questi casi: 1. studiare la struttura in regime dinamico, determinando le leggi di moto delle sue parti e le conseguenti accelerazioni prodotte dal mancato equilibrio statico 2. ipotizzare il raggiungimento di una configurazione di equilibrio statico, che `e in genere incognita, e risolvere un problema del secondo tipo. In entrambi i casi, in ogni istante in sistemi di riferimento solidali ai corpi in moto e quindi considerando le forze d’inerzia oppure nella configurazione di equilibrio incognita, il problema diventa in genere isostatico. • Un problema iperstatico ha alcune componenti delle reazioni vincolari che rimangono indeterminate anche dopo che sono state imposte tutte le condizioni di equilibrio della statica. Tale indeterminazione non pu`o essere superata prescindendo dalle caratteristiche deformative degli elementi della struttura ed `e quindi conseguenza dell’inadeguatezza del modello di corpo infinitamente rigido.

183

7. STATICA DELLE STRUTTURE DI CORPI RIGIDI

• In un problema iperstatico le reazioni vincolari dipendono in generale dai carichi, da errori di montaggio e da effetti termici. • Vi sono problemi iperstatici in cui alcune componenti delle reazioni vincolari non dipendono dai carichi ma sono prodotte da errori di montaggio o da effetti deformativi dovuti alla temperatura. In assenza di errori di montaggio o di differenze di temperatura tali reazioni vincolari sono considerate nulle.

184

Capitolo 8

Problemi di statica delle strutture Nel presente capitolo sono proposti alcuni problemi di statica delle strutture per la soluzione completa dei quali, che consiste nel tracciamento dello schema di corpo libero definitivo di tutti gli elementi, sono applicate le nozioni presentate nei capitoli precedenti. Nei vari esempi `e posta particolare attenzione alle fasi di impostazione, analisi e soluzione del sistema, partendo dallo schema statico del problema e, quindi, assumendo che la schematizzazione dei carichi e dei vincoli sia gi`a stata effettuata. Sono analizzate in dettaglio alcune tecniche di soluzione delle strutture reticolari.

8.1 Strutture piane Nel presente paragrafo sono esaminate alcune strutture bidimensionali. Il primo problema rappresenta una struttura con corpi fermi mentre il successivo ha alcune parti in movimento. Esempio 8.1: Arco a tre cerniere con anello Tracciare lo schema di corpo libero definitivo degli elementi della struttura rappresentata in figura 8.1 (a = 100 mm e F = 3 kN) nella quale i corpi rigidi AC e OB di massa trascurabile sono connessi con cerniere, mentre i cavi 1 e 2 sono ideali.

Figura 8.1: Struttura piana

185

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Il tiro dei cavi si pu`o determinare imponendo preliminarmente l’equilibrio dell’anello E, per cui possiamo trasformare il problema nel seguente pi` u semplice.

Figura 8.2: Problema di figura 8.1 in cui sono stati calcolati i tiri delle funi che possono ora essere assunti come carichi

Dalla figura 8.1 si ricavano le seguenti propriet`a geometriche xD = 2×5 3.5 a, sin α1 = p √ 2 2 2 2 3.5/ 2 + 3.5 = 0.868 e sin α2 = 2/ 2 + (7 − xD ) = 0.435. Gli angoli possono essere calcolati per la rappresentazione grafica (anche se non servono per la soluzione): α1 = 119.7◦ e α2 = 25.77◦ . I tiri delle funi sono rappresentabili in componenti cartesiane nel sistema indicato (forze espresse in kN):  T1

cos α1 − sin α1



 = 2.708

−0.496 −0.868



 e T2

cos α2 − sin α2



 = 1.492

0.901 −0.435



La struttura in figura 8.2 `e intrinsecamente isostatica (arco a tre cerniere non allineate). Si pu`o osservare che la cerniera B non interrompe la continuit`a del corpo AC. L’azione statica esercitata dai vincoli esterni e interni sugli elementi della struttura `e evidenziata dallo schema di corpo libero preliminare in figura 8.3.

Figura 8.3: Schema di corpo libero preliminare

Si perviene al sistema risolvente imponendo l’equilibrio di entrambi i corpi liberi (prima cardinale rispetto agli assi x e y e seconda cardinale con polo A per il corpo AC e polo O

186

8.1. STRUTTURE PIANE

per il corpo OB):  K + V + T1 cos α1 = 0     S + W − T1 sin α1 = 0    W · 5a − T1 sin α1 · 9a = 0 Q − V + T2 cos α2 = 0      U − W − T2 sin α2 = 0   V · 3.5a − W · 5a − T2 cos α2 · 2a − T2 sin α2 · xD = 0 da cui, per sostituzione diretta, si ottiene il risultato numerico:     K −6.000  S   −1.881       V   7.344   =   W   4.232  kN      U   4.881  Q 6.000 e lo schema di corpo libero definitivo.

Figura 8.4: Soluzione del problema: schema di corpo libero definitivo, forze espresse in kN e rappresentate in scala

Esempio 8.2: Regolatore di Watt Nella figura 8.5 `e schematizzato un regolatore di Watt che gira attorno all’asse OA. La barretta AC (di lunghezza b = 400 mm) che porta all’estremit`a C la massa M = 120 g, pu`o ruotare attorno alla cerniera A. La barretta DB (di lunghezza a = 150 mm) pu` o spostarsi verticalmente tramite il manicotto D, mentre in B `e collegata con una cerniera a un secondo manicotto libero di scorrere sull’asta AC. Nella configurazione indicata (con α = 40◦ ) il manicotto D appoggia su uno spallamento dell’asse di rotazione. Attriti sui vincoli e masse delle barrette sono trascurabili. a) Tracciare lo schema di corpo libero della struttura a velocit`a di rotazione nulla. b) Determinare la velocit`a angolare ω1 alla quale si ha il sollevamento del manicotto D.

187

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

c) Tracciare lo schema di corpo libero della struttura quando il regolatore ruota a ω2 = ω1 /2

Figura 8.5: Schema di regolatore di Watt

Assumendo un sistema di riferimento che ruota solidalmente al regolatore, il problema pu`o essere esaminato nel piano. Per la simmetria `e sufficiente analizzare solo met`a della struttura. Quando la velocit`a di rotazione ω non `e nulla, `e necessario aggiungere al peso (M g) della massa M anche la forza centrifuga M ω 2 b sin α. Altri carichi sono trascurabili in quanto lo sono le masse degli altri elementi. Per quanto riguarda lo schema dei vincoli, osserviamo che: • in A `e presente una cerniera che collega la barretta AC al telaio (in questo caso l’albero OA) • in D vi `e un incastro: il manicotto appoggiato non consente alla barretta DB alcun movimento. Tuttavia, se il manicotto si solleva il vincolo diventa un bipendolo (l’appoggio verticale `e unilatero) • in B vi `e un vincolo interno tra le due barrette che, come osservato nel capitolo 4, complessivamente corrisponde a un appoggio semplice con retta d’azione normale alla direzione AC Nella figura 8.6 `e riportato lo schema statico della struttura e il corrispondente schema di corpo libero preliminare. Essendo AB = a/ sin α, il sistema risolvente `e il seguente:  R + T cos α + M ω 2 b sin α = 0       S + T sin α − M g2 = 0  T · a/sin α + M ω b sin α · b cos α − M g · b sin α = 0 U − T cos α = 0      V − T sin α = 0   −W − T sin α · a = 0

188

8.1. STRUTTURE PIANE

Per rispondere alla domanda a) si pone ω = 0 e si perviene alla seguente unica soluzione, dimostrando in modo diretto che il problema `e isostatico:

       

R S T U V W





      =      

−0.994 0.343 1.297 0.994 0.834 −125.1

       

in cui le forze (R, S, T, U, V ) sono espresse in N e il momento W in Nmm. Lo schema di corpo libero definitivo `e rappresentato nella figura 8.7a).

Figura 8.6: Schema statico a) e schema di corpo libero preliminare b)

Per rispondere alla domanda b) ricaviamo V dalla terza e dalla quinta equazione del sistema. Quando ω = ω1 = 5.66 rad/s (= 54.0 giri/min) la reazione V si annulla. Pertanto per ω > ω1 la reazione verticale cambierebbe di segno indicando che l’equilibrio nella configurazione data sarebbe garantito solo da una forza verticale diretta verso il basso che non pu`o essere esercitata dal contatto unilatero. Lo schema di corpo libero quando il regolatore ruota a ω2 = 2.83 rad/s (domanda c)) e` rappresentato in figura 8.7.

189

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Figura 8.7: Schemi di corpo libero definitivo per: a) ω = 0 e b) ω = 2.83 rad/s

Nota. Il lettore pu`o verificare che, considerando il regolatore completo con doppia massa (come in figura 8.5), la reazione vincolare di incastro in O `e composta solo da una componente verticale di forza. Questo risultato `e dovuto alla simmetria.

Esercizio 8.1: Regolatore di Watt sollevato Con riferimento all’esempio 8.2, verificare che l’innalzamento del manicotto dal piattello, che indichiamo con y(D), `e espresso dalla seguente tabella in funzione della velocit`a angolare. ω(rad/s) 5.658 11.316 16.975 22.633

y(D)(mm) 0 149.5 166.0 171.6

Suggerimento. Si tratta di un problema piano del secondo tipo in cui la configurazione di equilibrio dipende dal carico (nello specifico dalla velocit`a angolare). La soluzione pu`o essere facilitata dalla constatazione che, appena il piattello si solleva, l’elemento DB risulta completamente scarico.

8.2 Strutture reticolari Nel presente paragrafo `e analizzata la classe delle strutture reticolari per le quali il sistema pu`o essere risolto in modo rapido con una opportuna scelta delle incognite. Anche se si tratta di situazioni particolari, le strutture reticolari trovano diversi campi di applicazione nella pratica costruttiva. Il procedimento di soluzione semplificato `e utile perch´e consente anche di acquisire una capacit`a predittiva delle propriet`a dalla soluzione. Gran parte delle considerazioni

190

8.2. STRUTTURE RETICOLARI

`e dedicato allo studio dei casi piani, un cenno alla soluzione di problemi tridimensionali `e fornito alla fine del capitolo. Una struttura `e detta reticolare se ogni corpo esteso costituente ha un diagramma di corpo libero costituito da un’unica coppia di braccio nullo. Nel caso piano, una struttura reticolare `e di solito composta da corpi estesi, di forma qualunque, ognuno dei quali porta due cerniere non necessariamente alle estremit`a. Le cerniere sono gli unici vincoli con cui gli elementi della struttura sono collegati tra loro o al telaio, in certi casi una cerniera pi` u essere sostituita da un appoggio semplice. Le cerniere sono talvolta chiamate nodi della struttura reticolare. Affinch´e la struttura possa considerarsi reticolare, inoltre, i carichi devono essere forze applicate ai nodi.

8.2.1 Arco a tre cerniere reticolare Nella figura 8.8 `e rappresentato lo schema statico di un arco a tre cerniere non allineate caricato in corrispondenza della cerniera interna. Poich´e la struttura `e intrinsecamente isostatica, il problema pu`o essere risolto con il metodo standard, tuttavia, identificata come struttura reticolare, la soluzione si ottiene in modo ancora pi` u semplicemente e diretto.

Figura 8.8: Arco a tre cerniere reticolare

Consideriamo lo schema di corpo libero di un generico elemento della struttura reticolare. Non essendovi, per definizione, azioni esterne oltre a quelle applicate ai centri delle cerniere, sul corpo possono agire al pi` u due forze, ognuna in corrispondenza di una cerniera, e, per l’equilibrio, tali forze devono costituire una coppia di braccio nullo. Del generico sistema di forze che sollecita ogni singolo elemento della struttura reticolare risultano quindi sempre noti: • i punti di applicazione (i nodi del corpo) • e la retta d’azione (la congiungente i nodi). Come mostrato in figura 8.9, lo schema di corpo libero definitivo dipende quindi solo dall’intensit`a e dal verso di due (sole) forze. Generalizzando, la soluzione statica di una struttura reticolare composta di n elementi richiede la determinazione di (soltanto) n incognite scalari. La riduzione delle incognite (sarebbero in genere 3n nel procedimento standard) produce una corrispondente semplificazione del sistema risolvente. Adottando una convenzione universalmente accettata, nello schema di corpo libero preliminare le forze agenti su ogni corpo sono assunte divergenti come mostrato in figura 8.9, ovvero si attribuisce alle forze incognite il verso che induce un allontanamento dei nodi corrispondenti. Questa convenzione presume pertanto che ogni elemento della struttura si comporti staticamente come una fune ideale. In realt`a, dato che l’elemento della struttura `e in genere un corpo rigido pu`o essere in equilibrio anche se sottoposto a una coppia di forze convergenti. Pertanto, se il

191

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Figura 8.9: reticolare

Schema di corpo libero preliminare dell’arco a tre cerniere

segno del risultato `e positivo,le forze effettivamente agenti sull’elemento sono del tipo previsto e l’elemento risulta tirato durante il funzionamento, se viceversa, il segno del risultato `e negativo, le forze agenti sul corpo producono un’azione che tende a comprimerlo. Come abbiamo pi` u volte sottolineato `e peraltro conveniente prescindere dalla previsione iniziale del segno del risultato che sar`a rappresentato coerentemente nel diagramma di corpo libero definitivo. Il seguente esempio illustra l’applicazione pratica del procedimento di soluzione. Esempio 8.3: Arco a tre cerniere reticolare Tracciare lo schema di corpo libero definitivo per gli elementi della struttura rappresentata in figura 8.10, in cui il disco 1, calettato su un cuscinetto in A, `e collegato alla barra rigida 2 connessa a due cerniere (B e C). I dati sono i seguenti: R = 250 mm, F = 700 N , α = 40◦ , β = 27◦ , γ = 15◦ .

Figura 8.10: Struttura reticolare intrinsecamente isostatica

Sfruttiamo la caratteristica reticolare della struttura per ridurre a due le incognite statiche (N1 e N2 ) in modo che siano sufficienti due sole equazioni di equilibrio indipendenti. A tale scopo si pu`o sfruttare l’equilibrio del nodo B, fisicamente materializzato dal perno della cerniera, che pu`o essere considerato un punto materiale di massa trascurabile sul quale agiscono: la forza esterna e le reazioni (di terzo principio) delle forze N1 e N2 . Ipotizzando che le forze N1 e N2 agenti sugli elementi siano positive secondo la convenzione, lo schema di corpo libero preliminare del nodo B risulta rappresentato nella figura 8.11.

192

8.2. STRUTTURE RETICOLARI

Figura 8.11: Schema di corpo libero preliminare del nodo B

Il sistema risolvente `e il seguente:  Rx = F cos β − N1 cos α + N2 cos γ = 0 Ry = F sin β − N1 sin α − N2 sin γ = 0 la cui soluzione `e: N1 = 572 N e N2 = −192.2 N dalla quale si ottiene lo schema di corpo libero definitivo per gli elementi della struttura (figura 8.12) dal quale possono essere ricavate tutte le caratteristiche della soluzione. La determinazione delle reazioni vincolari esterne, nel sistema di riferimento indicato, `e lasciata al lettore. Il segno negativo dell’incognita N2 `e stato interpretato nello schema di corpo libero definitivo tramite il cambiamento del verso delle forze agenti sul corpo 2 rispetto allo schema preliminare. Possiamo osservare che, ai fini dell’equilibrio della struttura nella configurazione data e con i carichi agenti, il corpo 1 potrebbe essere sostituito da un cavo ideale che connette i punti A e B. A causa del segno negativo della corrispondente reazione statica, un’analoga sostituzione non potrebbe invece essere effettuata per il corpo 2.

Figura 8.12: Schema di corpo libero definitivo per gli elementi della struttura

193

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Esercizio 8.2: Struttura reticolare con soluzione standard Risolvere il problema precedente con il metodo standard e verificare che la soluzione `e identica a quella ottenuta.  ` istruttivo adottare due modellazioni sulla base delle considerazioni Suggerimento. E seguenti. 1. Considerare la struttura un arco a tre cerniere non allineate (N = M = rA = 6). In questo caso la forza F~ deve essere applicata a uno dei due corpi in corrispondenza di B (non `e necessario considerare nel modello il perno della cerniera). Verificare che lo schema di corpo libero definitivo non `e influenzato dalla scelta del corpo su cui la forza F~ `e supposta agire. Verificare che la forza F~ pu`o essere arbitrariamente ripartita sui due corpi scomponendola in due forze F~1 e F~2 purch´e valga la relazione F~ = F~1 + F~2 . 2. Considerare la struttura composta da 3 corpi: disco 1, barra 2 e perno della cerniera B. In questo caso N = M = rA = 8, la forza esterna pu`o essere assunta applicata al perno. Le reazioni vincolari incognite sono: 2 forze sulla cerniera A e 2 sulla cerniera C, mentre per la B vi sono 4 incognite scalari: due componenti che definiscono l’azione scambiata dal disco 1 e il perno e due componenti (indipendenti delle prime) che definiscono l’interazione tra la barra 2 il perno.

8.2.2 Strutture reticolari pi` u complesse: metodo dei nodi e delle sezioni Il confronto della soluzione del problema precedente con quella ottenuta dal metodo standard dimostra l’efficacia del metodo di soluzione reticolare. Il metodo di soluzione reticolare finora adottato, basato sull’equilibrio del nodo, assunto come punto materiale privo di massa, `e chiamato metodo dei nodi. Per le strutture reticolari esiste un altro procedimento, talvolta ancora pi` u efficace, noto come: metodo delle sezioni. Per ragioni di semplicit`a grafica, negli esempi che seguono gli elementi delle strutture reticolari sono rappresentati come corpi di forma rettilinea. Effettivamente, a causa della semplicit`a e del basso costo, le barre rettilinee sono frequentemente utilizzate nella pratica costruttiva per realizzare strutture reticolari, tuttavia, `e opportuno ricordare che la forma dei corpi costituenti non ha effetti sul procedimento di soluzione. Esempio 8.4: Struttura reticolare in generale Determinare le sollecitazioni degli elementi della struttura reticolare di figura 8.13 in cui i nodi sono disposti su triangoli equilateri di lati a = 500 mm e con carico P = 1.8 kN.

194

8.2. STRUTTURE RETICOLARI

Figura 8.13: Struttura reticolare con nodi su triangoli equilateri

` sempre opportuno classificare il problema prima di risolverlo. Il procedimento costrutE tivo evidenzia che si tratta di una struttura intrinsecamente isostatica perch´e si ottiene per sovrapposizione di archi a tre cerniere non allineate. Possiamo pertanto aspettarci la condizione N = M = rA . Per calcolare N e M `e utile numerare gli elementi della struttura e identificare i nodi come mostrato nella figura 8.14 in cui si contano 10 corpi rigidi (nel piano) e 7 nodi. Il numero totale di gradi di libert`a della struttura vale: N = 10 · 3 = 30.

Figura 8.14: Tipica designazione dei nodi (con lettere) e degli elementi (con numeri) di una struttura reticolare

Meno immediata appare la valutazione del numero di reazioni vincolari indipendenti del metodo standard. Infatti, mentre alcune cerniere dello schema sono semplici (nello specifico: A e G) in quanto connettono due elementi, o un elemento al telaio, altre sono cerniere multiple in quanto connettono pi` u di due corpi. Per esempio, alla cerniera C convergono tre elementi (1, 3 e 4) e quindi essa `e una cerniera doppia composta da una cerniera che connette 1 e 3 e una cerniera che connette 1 e 4 geometricamente coincidenti nel punto C. Con il procedimento di soluzione standard, `e quindi necessario considerare come incognite vincolari indipendenti due componenti per l’interazione tra 1 e 3 e due per l’interazione tra 1 e 4. La cerniera doppia C contribuisce pertanto al computo di M con 4 unit`a. Si pu`o osservare che il numero di cerniere coincidenti in un nodo `e dato dal numero di corpi estesi che vi convergono (telaio compreso) meno 1. La seguente tabella rappresenta le cerniere dell’esempio:

195

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Nodo A B C D E F G Totale

n. cerniere 1 3 2 3 3 2 1 15

M 2 6 4 6 6 4 2 30

Considerando quindi il corretto numero di cerniere semplici per ogni nodo, si ottiene il valore previsto delle incognite del metodo standard. Anche in questo caso, la soluzione risulta notevolmente semplificata rispetto al metodo standard se si adotta lo schema di soluzione reticolare, in quanto il sistema risolvente `e di 10 equazioni in 10 incognite. Il sistema risolvente prodotto dal metodo dei nodi `e tuttavia composto da equazioni accoppiate (ovvero che contengono pi` u incognite) e per risolverlo sono necessarie alcune sostituzioni parziali. Il metodo delle sezioni consente in questo caso di ottenere 10 equazioni disaccoppiate, ognuna contenente una sola incognita. Il metodo `e basato sulla possibilit`a di scrivere equazioni di equilibrio indipendenti (generalmente di momento) considerando sottostrutture ottenute da opportuni tagli ideali, come illustrato nella figura 8.15.

Figura 8.15: Esemplificazione del metodo delle sezioni

Nell’esempio di figura 8.15 il taglio interrompe, in corrispondenza dei nodi, la continuit`a dei tre elementi 4, 5 e 6 e le azioni esterne agenti nella sottostruttura a destra del taglio sono note (P ). Osserviamo, per inciso, che le azioni sulla parte sinistra non sono note, a meno di avere gi`a determinato le reazioni vincolari esterne. Consideriamo la sottostruttura a destra del taglio. Per il principio di Eulero, essendo parte di una struttura in equilibrio, la sottostruttura pu`o essere considerata un unico corpo esteso in equilibrio. Su tale corpo agiscono carichi e reazioni vincolari, questi ultimi derivano proprio dalle azioni trasmesse dagli elementi interrotti dal taglio, come schematizzato nella figura 8.15. Poich´e sono stati sconnessi tre elementi, le incognite scalari del problema di equilibrio sono tante quante le condizioni indipendenti ottenibili dalle cardinali e quindi il problema pu`o essere risolto direttamente a prescindere dall’equilibrio delle altre parti. Vediamo come una opportuna scelta delle equazioni di equilibrio permetta di ottenere la matrice A del problema parziale in forma diagonale. Indicando con H45 il punto di

196

8.2. STRUTTURE RETICOLARI

intersezione delle rette d’azione delle reazioni incognite N4 e N5 , l’equazione di equilibrio a momento della sottostruttura rispetto a H45 contiene necessariamente solo l’incognita N6 . Infatti, chiamato h = a · sin (π/3) l’equazione di equilibrio si scrive come: N6 · h − P · 1.5a = 0 Il procedimento pu`o essere ripetuto per il polo H65 (che coincide con il nodo B) in modo da ottenere una equazione in cui compare solo la reazione N4 . L’intersezione H46 `e per` o un punto improprio (o punto all’infinito), essendo le rette d’azione di N4 e N6 parallele. Questo fatto pu`o sembrare una complicazione del metodo, in realt`a `e immediato rendersi conto che imporre l’equilibrio a momento rispetto a un punto improprio equivale a imporre l’equilibrio della risultante nella direzione perpendicolare alla direzione del punto improprio stesso. In effetti, l’equazione di risultante verticale per la sottostruttura: −N5 · sin (π/3) − P = 0 contiene solo l’incognita N5 . Una serie di ulteriori tagli aventi caratteristiche simili completa la soluzione. Il risultato finale `e riportato nella seguente tabella: i Ni (kN)

1 -2.078

2 1.039

3 2.078

4 -2.078

5 -2.078

6 3.118

7 6.235

8 -6.235

9 -6.235

10 9.353

Si pu`o verificare che la soluzione `e indipendente dalla dimensione della struttura, in tutte le equazioni compaiono infatti solo i valori adimensionali h/a = sin (π/3). L’applicazione del metodo delle sezioni richiede pertanto che: sia possibile effettuare un taglio ideale, che interessi non pi` u di tre elementi, in modo da dividere la struttura reticolare in due parti su almeno una delle quali siano completamente note le azioni esterne agenti. Per una struttura reticolare piana intrinsecamente isostatica, una opportuna combinazione del metodo dei nodi e del metodo delle sezioni permette spesso di giungere alla soluzione del sistema in modo rapido. Esercizio 8.3: Confronto tra metodi di soluzione Data la struttura reticolare di figura 8.16 che ha i nodi collocati in corrispondenza dei vertici di quadrati di lato a = 260 mm e sottoposta a un carico P = 3.5 kN: a) verificare che N = M = 39; b) risolvere la struttura con il metodo dei nodi; c) risolvere la struttura con il metodo delle sezioni.

197

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Figura 8.16: Struttura reticolare con geometria quadrata

Suggerimento. In questo caso non sono note a priori tutte le azioni agenti su alcuna delle due parti in cui la struttura pu`o essere divisa dal taglio ideale, tuttavia, le reazioni vincolari esterne possono essere preliminarmente determinate imponendo l’equilibrio dell’intera struttura.

Esercizio 8.4: Combinazione dei metodi di soluzione Per la struttura reticolare in figura 8.17 con P = 20 kN, in cui gli elementi 5 e 6 si incrociano ma non sono connessi, le coordinate dei nodi sono fornite dalla seguente tabella: Nodo x (mm) y (mm)

A 0 0

B 1250 0

C 0 2400

D 800 2400

a) Verificare che N = M = 18, b) Risolvere la struttura

Figura 8.17: Struttura reticolare

198

E 400 2600

8.3. STRUTTURE PARZIALMENTE O APPROSSIMATIVAMENTE RETICOLARI

Suggerimento. Non `e possibile determinare subito il valore delle reazioni vincolari esterne. Questo non significa ovviamente che il problema sia iperstatico, in effetti la struttura `e intrinsecamente isostatica. Data la configurazione, le reazioni esterne sono ottenibili solo insieme a quelle interne. Un’opportuna combinazione dei metodi dei nodi e delle sezioni `e adatta a questo caso: l’equilibrio del nodo E fornisce le reazioni N1 e N2 , che successivamente possono essere usate per l’equilibrio delle sottostrutture ottenute eliminando gli elementi 1 e 2, ecc. . . .

8.3 Strutture parzialmente o approssimativamente reticolari I vantaggi pratici dell’analisi reticolare suggeriscono di sfruttarla anche in situazioni in cui parti della struttura sono sollecitate o vincolate in modo da non essere esattamente reticolari. Consideriamo il seguente esempio. Esempio 8.5: Struttura quasi reticolare Risolvere la struttura di figura 8.18 (a = 400 mm, P = 1 kN).

Figura 8.18: Struttura quasi reticolare

Si tratta di una struttura intrinsecamente isostatica ma non reticolare perch´e il carico non `e applicato ai nodi. Tuttavia, solo l’elemento 1 `e anomalo perch´e sottoposto a tre forze: il carico P pi` u due forze concentrate in A e in B (che non possono avere retta d’azione AB). L’elemento 1 avr`a pertanto uno schema di corpo libero diverso da una coppia di braccio nullo. Questo fatto tuttavia non impedisce di determinare lo schema di corpo libero degli altri elementi usando i procedimenti sviluppati per le strutture reticolari. La reazione dell’appoggio esterno pu`o essere ottenuta tramite l’equilibrio alla rotazione globale della struttura attorno alla cerniera esterna. Tagli che interessano l’elemento 1, come per esempio quello rappresentato nella figura 8.19, non sono adatti per l’applicazione del metodo delle sezioni. Infatti, non `e possibile prevedere a priori la direzione dell’azione scambiata dall’elemento 1 e suoi nodi. Questo fatto impedisce che si possano ottenere immediatamente le reazioni N3 e N4 con il metodo delle sezioni.

199

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Figura 8.19: Taglio ideale non sfruttabile per il metodo delle sezioni

Con i metodi delle sezioni e dei nodi si possono tuttavia determinare le reazioni: N2 , N5 , N6 , N7 , N8 e N9 . Per l’equilibrio del nodo C, essendo note le reazioni N7 e N8 , si ricavano N3 e N4 con il sistema 2 × 2:  N3 + N4 · sin α = 0 N4 · cos α − N7 + N8 = 0 dove sin α = 0.848. Il lettore pu`o verificare che per la parte reticolare della struttura la soluzione `e data dalla tabella seguente: i Ni /P

2 -0.688

3 -0.167

4 0.197

5 0

6 -0.491

7 0.365

8 0.26

9 0.26

Dalla soluzione si ricavano anche le reazioni per l’elemento 1. Nella figura 8.20 sono rappresentati gli schemi di corpo libero (preliminare e definitivo) dell’elemento 1.

Figura 8.20: Situazione dell’elemento 1: a) schema di corpo libero preliminare (sulla base dell’ipotesi reticolare del resto della struttura) e b) schema definitivo sulla base dei valori della tabella

` interessante osservare che l’elemento 5 non `e sollecitato e quindi potrebbe essere E rimosso dalla struttura senza modificare la soluzione. Si osservi che, in assenza del corpo 5, il problema esaminato sarebbe ancora isostatico, ma la struttura non sarebbe pi` u intrinsecamente isostatica e quindi, sotto altri carichi potrebbe diventare labile. Con riferimento al precedente esempio 8.5, il lettore pu`o verificare che, sostituendo il carico P con un sistema a esso equivalente sempre applicato all’elemento 1 (per esempio due forze verticali pari a P/2 simmetricamente applicate rispetto alla retta d’azione di P ), lo schema

200

8.3. STRUTTURE PARZIALMENTE O APPROSSIMATIVAMENTE RETICOLARI

di corpo libero degli elementi della struttura non cambia escluso l’elemento 1 stesso. In una struttura isostatica infatti, se si applica sistema autoequilibrato su un elemento, gli altri elementi non ne risentono in alcun modo. Nei problemi isostatici, la sostituzione di sistemi con altri staticamente equivalenti ha quindi solo un effetto locale sulla soluzione. Il seguente esercizio rappresenta una interessante applicazione di questo fatto. Esercizio 8.5: Carico nodale equivalente Verificare che la struttura reticolare di figura 8.21, ottenuta da quella dell’esempio 8.5 precedente sostituendo al carico applicato all’elemento 1 un sistema staticamente equivalente composto di forze applicate ai nodi, ha la stessa soluzione (lo stesso schema di corpo libero definitivo), escluso il solo elemento 1.

Figura 8.21: Carico nodale equivalente al caso di figura 8.18

Questa constatazione permette di ottenere soluzioni approssimate, ma in molti casi sufficientemente accurate, anche con carichi non applicati ai nodi, come per esempio carichi distribuiti dovuti al peso proprio o alle forze d’inerzia. Esempio 8.6: Struttura approssimativamente reticolare La struttura rappresentata in figura 8.22 (a = 1250 mm e b = 800 mm) `e utilizzata per sorreggere le due barre orizzontali 1 e 2 ognuna avente massa M = 200 kg. L’unico carico significativo `e rappresentato dal peso proprio delle barre 1 e 2, le altre barre hanno massa trascurabile. Ottenere la soluzione con il metodo di analisi delle strutture reticolari.

Figura 8.22: Stuttura per sostenere le barre pesanti orizzontali 1 e 2

201

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Su ognuna delle barre pesanti, di peso P = M g = 1962 N, il carico `e distribuito uniformemente lungo l’asse ed `e staticamente equivalente a due forze verticali di intensit`a P/2 applicate agli estremi della barra stessa. La struttura reticolare approssimata equivalente `e rappresentata nella figura 8.23

Figura 8.23: Stuttura reticolare equivalente

La struttura reticolare di figura 8.23 ha la seguente soluzione: i Ni (kN)

1 -6.131

2 -1.533

3 5.46

4 -0.981

5 1.82

6 1.533

Si pu`o inoltre osservare che, essendo state determinate in modo corretto le azioni esercitate degli elementi non pesanti, `e anche possibile ripristinare le condizioni di carico effettive delle barre 1 e 2 e tracciarne i diagrammi di corpo libero definitivo corretti come mostrato in figura 8.24.

Figura 8.24: Schema di corpo libero definitivo (corretto) delle barre pesanti

A commento degli ultimi esempi, osserviamo che i metodi dei nodi e delle sezioni hanno permesso una rapida soluzione approssimata che `e stata successivamente corretta localmente per rappresentare il comportamento degli elementi sui quali agiscono carichi non nodali. Tale

202

8.4. CLASSIFICAZIONE DELLE STRUTTURE RETICOLARI

correzione talvolta pu`o essere peraltro poco rilevante, specialmente se i carichi sono di tipo distribuito. Osserviamo, per esempio, che i diagrammi di corpo libero delle due barre pesanti dell’ultimo esempio sono quantitativamente diversi tra loro e che la barra 1 svolge un compito strutturale pi` u gravoso della barra 2, pur essendo soggetta allo stesso carico esterno. In effetti, l’elemento di una struttura `e sottoposto ad azioni vincolari dipendenti dalla sua posizione che spesso sono prevalenti rispetto ai carichi esterni su di esso direttamente applicati. Per giustificare tale affermazione, basta considerare che le reazioni vincolari (interne o esterne) sono conseguenza dal carico complessivo agente sulla struttura. In strutture reticolari composte da molti elementi `e quindi presumibile che lo schema di corpo libero ottenuto dalla soluzione reticolare approssimata sia gi`a sufficientemente accurato, in particolare per gli elementi che devono svolgere i compiti strutturali pi` u gravosi. Nello specifico, il lettore pu`o confrontare la soluzione corretta di figura 8.24 con quella ottenuta dall’ipotesi reticolare che prevede, per le barre pesanti, le sole azioni prodotte da N1 e N2 . Anche in questo caso, in cui gli elementi non sono molto numerosi (si confronti la struttura esaminata con il braccio di una gru da cantiere), la soluzione reticolare approssimata prevede correttamente su tutti gli elementi, 1 e 2 compresi, le azioni che hanno l’intensit`a maggiore. Pertanto, in strutture quasi reticolari soggette anche a significativi carichi distribuiti, come per esempio il peso, la spinta del vento o le forze d’inerzia in tralicci di bracci gru, elettrodotti o capriate di coperture, la semplificazione reticolare `e comunemente accettata.

8.4 Classificazione delle strutture reticolari Il metodo di soluzione reticolare non `e ovviamente efficace se la struttura reticolare `e iperstatica. In questo caso il sistema risolvente rimane indeterminato e, necessariamente, almeno qualcuna delle reazioni non potr`a essere ottenuta con le sole considerazioni di equilibrio. Ricordando che la classificazione della natura del problema non pu`o essere generalmente effettuata sulla base del confronto diretto tra N e M , sono illustrati alcuni esempi di strutture reticolari con particolare riferimento alla loro classificazione statica. Esempio 8.7: Classificazione di strutture reticolari: 1 Classificare la struttura reticolare in figura 8.25.

Figura 8.25: Struttura apparentemente iperstatica

Il numero totale di gradi di libert`a `e N = 9 × 3 = 27 , il calcolo di M pu`o essere effettuato tramite la seguente tabella:

203

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

Nodo A B C D E F Totale

n. cerniere 2 3 2 2 2 3 14

M 4 6 4 4 4 6 28

A prima vista il problema sembra 1 volta iperstatico. In effetti, la struttura reticolare sconnessa dal telaio `e realizzata con archi a tre cerniere non allineate e quindi pu`o essere assimilata a un unico corpo rigido. Per la struttura non vincolata al telaio risulta in effetti M = 24 e N = 27 e quindi si ha una differenza di 3 gradi di libert`a pari a quelli di un corpo rigido libero nel piano. Tale corpo rigido `e successivamente collegato al telaio con due cerniere. Questa situazione `e gi`a stata analizzata nel capitolo precedente e le conclusioni sono quindi: • se Q 6= 0 la struttura `e effettivamente 1 volta iperstatica; allo scopo di renderla isostatica `e necessario eliminare un vincolo semplice, per esempio si pu`o sostituire una cerniera esterna con un appoggio semplice • se Q = 0 la struttura `e isostatica in quanto, se non vi sono errori di montaggio o effetti termici, le reazioni orizzontali delle cerniere esterne non dipendono dai carichi.

Esempio 8.8: Classificazione di strutture reticolari: 2 Classificare la struttura in figura 8.26

Figura 8.26: Struttura internamente iperstatica

Anche in questo caso si ottiene una apparente ridondanza di vincoli: N = 18 e M = 19. Si noti che le reazioni vincolari esterne possono per`o essere valutate. Le reazioni vincolari interne rimangono invece indeterminate e il problema `e effettivamente 1 volta internamente iperstatico. Per poterlo risolvere `e necessario eliminare un vincolo interno. Il lettore pu`o verificare che il problema diventa isostatico se si elimina uno qualunque degli elementi della

204

8.4. CLASSIFICAZIONE DELLE STRUTTURE RETICOLARI

struttura. Ci`o significa che, chiamato i tale elemento, le reazioni interne dipendono oltre che dal carico anche da Ni (effettivamente si ottengono ∞1 soluzioni).

Esempio 8.9: Classificazione di strutture reticolari: 3 Classificare la struttura in figura 8.27.

Figura 8.27: Struttura la cui classificazione dipende dal carico

Anche la classificazione di questo problema (per il quale N = M = 18) non `e immediata. Il lettore dovrebbe essere in grado di verificare le seguenti affermazioni: • se P = 0 (e Q 6= 0) il problema `e 1 volta iperstatico • se P 6= 0 il problema `e, nella configurazione data, labile indipendentemente da Q) L’allineamento della cerniera tripla A con le cerniere esterne `e la causa di questa caratteristica.

Esempio 8.10: Molteplicit`a delle cerniere Classificare la struttura in figura 8.28.

Figura 8.28: Cerniera che non interrompe la continuit`a

Questo esempio evidenzia l’importanza dell’esame dello schema statico. Come si pu` o osservare in figura 8.28 la cerniera in A `e diversa dalla cerniera A dell’esempio precedente.

205

8. PROBLEMI DI STATICA DELLE STRUTTURE

In questo caso l’elemento orizzontale BC non `e sconnesso dalla cerniera A che ha molteplicit`a 2 (la situazione `e evidenziata dall’ingrandimento). Sull’elemento BC non agiscono quindi due sole forze ma, in generale, tre forze (in corrispondenza dei punti A, B e C), la struttura non `e pertanto completamente reticolare. Si tratta in ogni caso di una struttura intrinsecamente isostatica che pu`o essere risolta considerando che `e reticolare escluso ` lasciato al lettore il compito di ottenere la soluzione scegliendo i dati a l’elemento BC. E piacimento e usando il metodo proposto per le strutture parzialmente reticolari. La soluzione delle strutture reticolari nel piano pu`o essere facilitata da considerazioni che si ricavano in modo diretto dalle propriet`a dell’equilibrio. Consideriamo due (soli) elementi i e j di una struttura reticolare connessi in un nodo A (come in figura 8.29a)) in modo che le rette di azione delle eventuali reazioni siano non parallele. Per l’equilibrio del nodo A, se non agiscono forze esterne, necessariamente Ni = Nj = 0. Quindi gli elementi i e j sono scarichi e possono essere eliminati nello schema statico prima di procedere nella soluzione.

Figura 8.29: Situazioni particolari di elementi convergenti in un nodo scarico: a) due elementi con reazioni che hanno rette d’azione non parallele e b) tre elementi, due dei quali con rette d’azione parallele

Consideriamo la situazione di figura 8.29b), in cui sul nodo A convergono 3 elementi con le seguenti caratteristiche: le forze esercitate da i e da j sono parallele mentre la forza esercitata dall’elemento k ha direzione diversa. In questo caso, se sul nodo A non sono esercitate altre forze, valgono le relazioni: Ni = Nj e Nk = 0. La dimostrazione `e lasciata per esercizio. Nella prosecuzione del calcolo pertanto l’elemento k pu`o essere eliminato e, volendo, gli elementi i e j riuniti in un unico elemento.

8.5 Strutture reticolari nello spazio Le strutture reticolari sono usate anche in tre dimensioni. Affinch´e possa essere soggetto solo a una coppia di braccio nullo, l’elemento di una struttura nello spazio deve essere privo di carichi diretti e connesso al resto della struttura (o al telaio) tramite una coppia di cerniere sferiche. Al posto di una cerniera sferica vi possono essere, in alcuni casi, un appoggio o una cerniera piana nello spazio. L’unit`a di base per realizzare strutture reticolari nello spazio, ovvero l’equivalente tridimensionale all’arco a tre cerniere non allineate, `e rappresentata dal tetraedro non degenere di figura 8.30a). Il tetraedro `e composto da 3 corpi estesi ognuno dei quali `e vincolato al telaio con una cerniera sferica ed `e connesso agli altri due da una quarta cerniera sferica comune (doppia). Inoltre, i centri delle 4 cerniere A, B1 , B2 e B3 non devono essere complanari, in modo che individuino i vertici di un tetraedro a facce triangolari non degenere, di volume non nullo.

206

8.5. STRUTTURE RETICOLARI NELLO SPAZIO

Con combinazioni di tetraedri di questo tipo si possono realizzare complesse strutture reticolari isostatiche nello spazio.

Figura 8.30: Schema di struttura tetraedrica nello spazio a) e schema di corpo libero del nodo in comune b)

Se si applica una forza P in corrispondenza del nodo comune A, le tre reazioni vincolari, essendo tre vettori linearmente indipendenti (a causa della non complanarit`a dei nodi), possono essere individuate univocamente imponendo l’equilibrio del nodo (figura 8.30b)). ` interessante analizzare la natura statica del problema di figura 8.30a). Si ottiene immediaE tamente: N = 3 × 6 = 18, e, considerando che vi sono tre cerniere sferiche semplici (3 × 3 = 9) e una cerniera sferica doppia (2 × 3 = 6), il numero di incognite del metodo standard `e pertanto M = 15. La differenza (N − M = 3) suggerisce che la struttura ha tre gradi di libert` a. In effetti, per ognuno dei tre corpi estesi i vincoli non impediscono la rotazione attorno alla retta congiungente i centri delle relative cerniere. Tuttavia, se la struttura `e caricata solo da forze sui nodi, non vi sono azioni che tendono a produrre rotazioni degli elementi collegati. Si pu` o quindi affermare che la struttura tetraedrica non degenere, se caricata solo sui nodi `e isostatica (anche se non intrinsecamente) in quanto le reazioni vincolari (Ni con i = 1, 2, 3) sono univocamente individuabili dalle equazioni cardinali. Per un carico qualunque, la struttura pu`o essere isostatica o anche labile. La labilit`a si verifica se il carico agente su qualche elemento ha una componente non nulla di momento rispetto alla retta congiungente i nodi. Se i quattro nodi appartengono a un piano α il tetraedro con vertici A, B1 , B2 e B3 degenera in un solido di volume nullo, equivalente tridimensionale dell’arco a tre cerniere allineate del caso piano. Per il tetraedro degenere caricato con una forza applicata sul nodo A si verifica che: • `e labile (localmente) se il carico nodale ha componente normale al piano α; • `e generalmente una volta iperstatico se la forza nodale appartiene al piano α.

207

Capitolo 9

Il modello di trave e le caratteristiche di sollecitazione Il capitolo tratta i modelli matematici che permettono di descrivere la forma degli elementi di una struttura. La descrizione della forma di un corpo esteso `e necessaria per consentire la previsione delle sue sollecitazioni. Dopo la definizione dei principali modelli strutturali per i corpi estesi mono-dimensionali e bi-dimensionali, il capitolo sviluppa in modo approfondito il modello di corpo mono-dimensionale: la trave. Particolare attenzione `e dedicata alla definizione del fondamentale concetto di caratteristica di sollecitazione per la trave e alla discussione del suo significato fisico. Il capitolo si conclude con la descrizione di metodi operativi che consentono di calcolare le caratteristiche di sollecitazione.

9.1 Modelli geometrici degli elementi strutturali L’inserimento della forma dei corpi nell’analisi meccanica rappresenta una novit`a. Nel modello di punto materiale l’estensione del corpo, e quindi a maggior ragione la sua forma, `e trascurata per definizione, ma anche nel modello di corpo esteso, in particolare rigido, la forma non conta dato che sono significativi solo i punti, o le zone, in cui sono applicate le azioni statiche (carichi o reazioni vincolari). Per questo in tutte le considerazioni finora svolte, la maggior parte delle propriet`a geometriche dei corpi estesi non `e stata presa in considerazione. Tuttavia, la forma di un elemento strutturale rappresenta un aspetto fondamentale, infatti `e sufficiente considerare che ‘progettare’ consiste in buona parte nel ‘dimensionare’ ovvero nel definire le caratteristiche geometriche di un elemento, oltre che scegliere i materiali e i processi di fabbricazione. La forma di un elemento strutturale `e completamente definita dal disegno meccanico costruttivo che contiene l’insieme di tutte le quote, ovvero i parametri geometrici macroscopici (quote nominali) e di dettaglio (tolleranze dimensionali, di forma e quote di rugosit`a). Il numero di quote che definiscono la forma di un particolare meccanico, per quanto elementare come un perno o un semplice albero di trasmissione, `e generalmente molto elevato. Fortunatamente molti dettagli della forma, essenziali nella realizzazione e nel montaggio, non hanno effetti significativi sul comportamento strutturale. Per esempio, `e ragionevole assumere che la tolleranza sul diametro di un albero nella zona di accoppiamento con un cuscinetto, quota fondamentale per il montaggio, non influenzi direttamente il comportamento strutturale dell’albero. Nel caso specifico si pu`o quindi trascurare l’effetto che tale tolleranza ha sul livello di carico che l’albero pu`o sopportare prima di danneggiarsi o sulla distorsione indotta sull’asse dell’albero dalle sollecitazioni in esercizio. La tolleranza infatti definisce una dimensione dell’ordine dei centesimi di millimetro mentre il diametro nominale `e generalmente dell’ordine delle decine di millimetri.

209

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Realizzare un adeguato modello geometrico per un elemento strutturale comporta trascurare le quote non influenti allo scopo di ottenere una forma trattabile matematicamente perch´e definita da un numero piuttosto ridotto di parametri significativi. La possibilit`a di trascurare molti dettagli geometrici della forma di un corpo `e essenziale per ottenere modelli strutturali comprensibili e significativi nonch´e calcolabili con risorse ragionevoli. La tendenza che si sta attualmente diffondendo, che sfrutta la possibilit`a offerta dai programmi di calcolo di produrre modelli strutturali in modo automatico direttamente dai modelli CAD, in effetti pu`o essere dispendiosa e spesso si rivela anche dannosa. Infatti, la trasformazione di un modello geometrico-tecnologico, sviluppato allo scopo di costruire e assemblare l’elemento, in un modello strutturale, comporta necessariamente una serie di modifiche che l’analista (o il programma) eseguono in modo pi` u o meno consapevole. Se tale trasformazione `e operata da un analista competente, il modello geometrico finale risulter`a adatto all’analisi strutturale. La generazione automatica produce invece modelli strutturali generalmente caratterizzati da un eccesso di dettagli che talvolta nascondono gli aspetti pi` u significativi del problema. Lo studio delle fondamentali propriet`a geometriche degli elementi strutturali elementari, esposta nel presente capitolo, ha anche lo scopo di contrastare questa tendenza. La semplificazione (in particolare geometrica) `e infatti una necessit`a soprattutto in fase di progettazione, quando la struttura ancora non esiste e deve essere concepita per svolgere determinate funzioni. Per sviluppare tali capacit`a di previsione `e fondamentale cominciare a prendere pratica con ragionevoli semplificazioni della geometria. Come gi`a ricordato, la necessit`a di eseguire i calcoli in modo manuale `e un forte stimolo alla semplificazione ed `e quindi molto utile in questa fase di apprendimento.

9.2 Solidi tri-dimensionali e bi-dimensionali Allo scopo di modellare/semplificare la forma geometrica di un elemento strutturale complesso, il primo aspetto da prendere in considerazione `e il numero di dimensioni significative. Vi sono corpi che sono intrinsecamente tri-dimensionali (3-D) in quanto non presentano alcuna dimensione prevalente o trascurabile sulle altre. Per esempio, un pistone, la testa di un motore e la ganascia di una morsa sono oggetti tridimensionali. Per corpi tridimensionali la modellazione geometrica non `e agevole e l’analisi strutturale difficilmente pu`o essere condotta con strumenti analitici. Fortunatamente queste situazioni non sono molto frequenti, esistono infatti ragioni di tipo tecnologico-costruttivo che spingono verso la realizzazione e l’impiego di elementi che hanno una o anche due dimensioni geometriche ‘piccole’ rispetto alle altre. Per esempio, se l’elemento `e ottenuto per fusione, devono generalmente essere evitate zone di forte spessore (per ridurre il rischio di distorsioni o la formazione di cavit`a di ritiro), analogamente, adottando la saldatura, l’assemblaggio prevede il ricorso a lamiere o profilati unificati, semilavorati che solitamente hanno uno spessore piccolo rispetto alle altre dimensioni. In genere, pertanto, `e molto frequente trovare elementi strutturali che siano riconducibili a corpi bi-dimensionali (2-D) o mono-dimensionali (1-D).

9.2.1 Solidi bi-dimensionali Un corpo bi-dimensionale ha una dimensione, lo spessore (thickness), che `e una quantit`a ‘piccola’ rispetto alle altre quote che ne caratterizzano la forma. Sono tipici elementi bidimensionali: le lamiere, i solai e i muri di un edificio, la fusoliera degli aerei, lo scafo di una imbarcazione, i recipienti in pressione, il fasciame delle tubazioni, la pala di un’elica o di una turbina. In campo biomeccanico sono elementi strutturali bidimensionali: le ossa della scatola cranica o delle parti iliache e le scapole.

210

9.2. SOLIDI TRI-DIMENSIONALI E BI-DIMENSIONALI

Dal punto di vista geometrico, il vantaggio che si ottiene identificando un elemento come solido bi-dimensionale consiste nella possibilit`a di rappresentarlo in modo sufficientemente accurato attraverso la descrizione di una superficie. La superficie caratteristica dei solidi bi-dimensionali raggruppa i punti a met`a spessore ed `e pertanto chiamata superficie media. Una superficie (anche se si sviluppa nello spazio) `e un continuo bi-dimensionale poich´e sono sufficienti due parametri geometrici (invece che tre) per definire la posizione di un suo generico punto. Un solido bi-dimensionale `e caratterizzabile geometricamente da una superficie a ogni punto della quale `e associata una quantit`a scalare che rappresenta lo spessore locale. Dal punto di vista matematico la superficie media `e una funzione di due parametri (variabili reali) che definisce le coordinate dei suoi punti: xS = xS (λ, µ) yS = yS (λ, µ) zS = zS (λ, µ)

(9.1)

con (λ, µ) definiti in un dominio Ω di R2 . Spesso la funzione che definisce la superficie media `e rappresentata in forma esplicita, o come spesso si dice, ha parametrizzazione cartesiana: zS = f (xS , yS )

(9.2)

in cui Ω `e un sottoinsieme del piano x − y. In certi casi sono usati parametri pi` u comodi per la definizione della geometria, per esempio coordinate cilindriche o sferiche nei solidi di rivoluzione. Oltre alla funzione che individua la superficie media, `e necessaria anche una funzione che fornisce lo spessore locale: h = h (λ, µ) (9.3) lo spessore `e misurato nella direzione normale alla superficie media. Perch´e lo spessore sia definito la superficie media deve essere almeno localmente regolare, ovvero deve esistere un piano tangente e una direzione normale. In effetti, in un solido bi-dimensionale si possono tollerare locali irregolarit`a della superficie media, per esempio un gradino (discontinuit`a della funzione) oppure uno spigolo (discontinuit`a nel gradiente). Tuttavia, l’area totale della superficie media in corrispondenza dei punti di irregolarit`a dovr`a essere nulla e, quindi, le zone di irregolarit` a devono essere limitate a punti isolati o, al massimo, a linee. Come conseguenza, le funzioni (9.1) o (9.2) saranno assunte continue e differenziabili (vedi appendice E) quasi ovunque nel dominio di definizione Ω. Quando l’analisi strutturale richiede che siano valutate anche le propriet` a di curvatura della superficie, le funzioni (9.1) o (9.2) dovranno essere derivabili almeno due volte. Per le stesse ragioni, anche la funzione dello spessore (9.3) sar`a assunta continua quasi ovunque, limitando a punti isolati o a linee le eventuali zone di cambio brusco di spessore. La necessit`a di avere una geometria regolare in quasi tutti i punti del dominio deriva dal fatto che le conclusioni deducibili dal modello bi-dimensionale non sono molto accurate in vicinanza delle zone di irregolarit`a (dello spessore o della superficie media). In ogni punto della superficie media di un corpo bi-dimensionale, lo spessore deve essere una quantit`a ‘piccola’ rispetto alle quote che definiscono la forma della superficie media. La quantificazione di ‘piccolo’ non `e definibile a priori, a rigore si dovrebbe infatti dire che la modellazione bi-dimensionale di un corpo `e tanto pi` u accurata quanto pi` u lo spessore `e piccolo. Per fissare le idee, nel caso di superfici medie piane, lo spessore dovrebbe essere molto inferiore ai parametri che definiscono le caratteristiche geometriche del contorno. Nel caso di superfici medie non piane, lo spessore dovrebbe essere anche non maggiore di 1/5 del minimo raggio di curvatura locale della superficie. Per l’analisi strutturale, i solidi bi-dimensionali sono classificati in relazione alle caratteristiche geometriche della superficie media e delle modalit`a con cui sono applicate le azioni esterne.

211

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

9.2.2 Lastre o membrane Si definisce lastra o membrana (membrane) un elemento strutturale bi-dimensionale con superficie media piana caricato con azioni statiche riconducibili a forze (concentrate o distribuite) agenti in direzione appartenente al piano medio o aventi asse centrale sul piano stesso. Un esempio di lastra `e riportato nella figura 9.1, il disco di un freno `e un caso interessante di lastra circolare che sar`a studiato nell’ultima parte del corso.

Figura 9.1: Lastra forata

9.2.3 Piastre Una piastra (plate) `e un solido bi-dimensionale che ha la forma geometrica della lastra, ovvero una superficie media piana, ma `e caratterizzata dal fatto di essere sollecitata anche da carichi normali al piano medio o da forze piane non simmetriche rispetto al piano medio. Nella tecnica si identificano molti elementi che possono essere schematizzati come piastre, tipici esempi sono: la piattaforma per i tuffi, il solaio di un edificio, che `e sollecitato dal peso proprio e dal contatto delle persone e dai mobili che sorregge, i fondi piani di un barile (recipiente in pressione di forma cilindrica). A differenza delle lastre, le piastre, considerate come corpi non infinitamente rigidi, tendono a deformarsi in modo che la superficie media perde la forma piana. Una piastra pu`o essere sollecitata anche con carichi da lastra (figura 9.2).

Figura 9.2: Esempio di piastra

9.2.4 Gusci Un guscio (shell) `e un oggetto bi-dimensionale la cui superficie media si sviluppa nello spazio (non `e una porzione di piano), come mostrato in figura 9.3. Sono tipici esempi di gusci: le cupole, i recipienti in pressione, i gomiti delle tubazioni, la scatola cranica, gli elementi

212

9.3. I SOLIDI MONO-DIMENSIONALI: LE TRAVI

dello scafo di una imbarcazione, della fusoliera di un aereo o della scocca di un veicolo. I gusci possono essere sollecitati sul loro piano medio (tali sollecitazioni sono pertanto dette membranali) e anche con azioni normali al piano medio.

Figura 9.3: Esempio di guscio

9.3 I solidi mono-dimensionali: le travi Nello studio delle strutture riveste una importanza fondamentale il solido mono-dimensionale chiamato trave (beam). Si considera trave un corpo che ha una forma allungata e quindi una dimensione prevalente sulle altre. Sono tipici elementi strutturali riconducibili a travi: un albero, un perno, una spina, una vite, una catena, un cavo, un profilato, un lungo tratto di tubo, una punta di trapano. Molti esempi di trave si trovano anche in biomeccanica, la maggior parte delle ossa dello scheletro `e schematizzabile con elementi mono-dimensionali: la colonna vertebrale (nel suo complesso), il femore, l’omero e le costole. Nel campo dello sport, tipiche travi sono: sci, remi, giavellotti, aste (per il salto con l’asta), bilancieri per i pesi, pali e traversa della porta. Molte strutture, anche complesse, sono realizzate collegando elementi trave. Basta considerare, per esempio, i tralicci che sono assemblati, per imbullonatura o saldatura, di spezzoni di profilati commerciali, oppure le strutture degli edifici realizzati in acciaio. In certi casi, anche elementi composti possono essere considerati nel loro complesso come travi: il braccio di una gru da cantiere, ottenuto per assemblaggio di elementi trave pi` u piccoli, per certe valutazioni `e schematizzabile come un’unica trave. La grande diffusione delle travi nelle applicazioni trova giustificazioni di tipo tecnologicoeconomico oltre che di tipo prettamente strutturale. Le travi infatti possono essere ottenute con processi produttivi adatti alla grande serie come: la laminazione, la trafilatura e l’estrusione applicabili a molte classi di materiali (metalli, materie plastiche, materiali compositi). La forma `e particolarmente adatta a facilitarne lo stoccaggio e il trasporto, prima della messa in opera. Fin dai tempi antichi, in effetti dalla preistoria, la disponibilit`a di travi naturali, sotto forma di ossa di animali, canne, tronchi e rami d’albero, ha permesso la realizzazione di utensili, armi e mezzi di trasporto. La forma mono-dimensionale facilita anche la realizzazione di vari procedimenti di collegamento (saldatura, imbullonatura, rivettatura, incollaggio) cos`ı che, con le travi, si possono costruire strutture di notevoli dimensioni, di forma complessa e di elevate prestazioni come per esempio: coperture di grandi dimensioni, strutture aeronautiche, telai di veicoli e motoveicoli, sospensioni automobilistiche, pianali di carrozze ferroviarie, ecc. . . . La semplicit`a della forma `e anche alla base dell’uso di elementi trave per quasi tutti i provini con cui sono misurate le principali propriet`a meccaniche dei materiali (basti pensare alla basilare prova di trazione). Il largo impiego delle travi `e giustificato anche da motivazioni di tipo specificamente strutturale. Dovendo connettere strutturalmente due punti, il corpo esteso pi` u semplice, e quindi in genere pi` u leggero ed economico, `e una proprio una trave rettilinea che ha i due punti come estremi. Come esempio si pensi al telaio della bicicletta, che pu`o essere pensato come un

213

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

insieme di travi che connettono i punti dove sono applicate le forze (sella, asse della catena, manubrio e assi delle ruote). Poich´e, analogamente alla bicicletta, in molte strutture i carichi principali sono applicati in punti definiti, una struttura a travi risulta spesso razionale. Non `e casuale, quindi, la circostanza che lo stesso processo di evoluzione abbia privilegiato elementi trave per realizzare le parti strutturali di molti esseri viventi, particolarmente quando la funzione strutturale `e critica. Un esempio molto significativo `e rappresentato dalle penne degli uccelli, elementi che consentono la sostentazione e la propulsione nel volo. In questo caso la spinta dell’aria `e trasmessa al ‘telaio’ (lo scheletro dell’ala) attraverso il calamo, la parte centrale robusta della penna, che costituisce una vera e propria trave di origine biologica la cui forma `e stata ottimizzata dalla selezione naturale per garantire il migliore compromesso tra resistenza e leggerezza. Vi `e, infine, ma non ultima per importanza, una spiegazione di tipo culturale che ha determinato la diffusione dell’elemento trave nelle opere realizzate dall’uomo. La relativa semplicit`a del modello matematico della trave e la conseguente facilit`a con cui `e possibile comprenderne il comportamento fisico, ha condizionato e condiziona il progettista. Come vedremo, infatti, a differenza degli altri elementi strutturali (bi- o tri-dimensionali) l’analisi strutturale di una trave `e generalmente eseguibile in forma analitica, spesso anche con calcoli relativamente semplici. Un ingegnere che si occupa di strutture acquista con l’esperienza una sensibilit`a professionale che gli permette di ‘prevedere’ il comportamento strutturale di una trave. Prima della diffusione del calcolo strutturale assistito dal computer, la possibilit`a di effettuare analisi sufficientemente accurate di elementi strutturali bi- e tri-dimensionali era molto ridotta e la conseguente scarsa confidenza nella previsione del loro comportamento in fase di progetto ha costituito un freno al loro impiego. Tradizionalmente, la maggior parte delle nozioni fisiche e di calcolo impartite nei corsi di Meccanica delle Strutture, in particolare nei corsi di base, sono dedicate alle travi. Se si guarda l’indice, anche il presente corso non costituisce una eccezione, per quanto, in previsione di un impiego pi` u diffuso dei moderni strumenti di calcolo, l’ultima parte cerca di superare questo limite. Il retaggio culturale di interpretare quasi tutto come trave, ha generato alcune deformazioni professionali interessanti e curiose. Per esempio, nel gergo di chi si occupa di automobili, `e comune il termine ‘rigidezza torsionale’ per indicare una particolare caratteristica di qualit`a del telaio di un veicolo. Se si fissa l’asse delle ruote posteriori e si applica una coppia di forze in corrispondenza delle ruote anteriori, la rigidezza torsionale misura la capacit`a del telaio di contrastare l’inclinazione relativa degli assi delle ruote. Come vedremo, la rigidezza torsionale `e una propriet`a specifica delle travi, e quindi, a rigore, `e definita per solidi aventi una dimensione prevalente. In questo caso, mentre sembra ragionevole identificare il telaio di una vettura di Formula 1 come una trave, appare certamente discutibile attribuire caratteristiche mono-dimensionali a certe vetture di uso urbano che hanno una forma parallelepipeda (o quasi cubica). Per molte di queste vetture, volendole modellare come travi, `e indubbiamente difficile individuare la direzione in cui il solido mono-dimensionale caratteristico si estende (verso l’alto, di fianco?!). A fronte di questa situazione, possiamo quindi fornire una definizione euristica di trave, che per quanto possa sembrare poco rigorosa, `e molto usata in pratica: una trave `e il modello per la forma di qualunque corpo esteso il cui comportamento strutturale non si saprebbe modellare diversamente. Questa definizione giustifica la comune pratica che prevede, in mancanza di strumenti di calcolo pi` u sofisticati oppure di tempo, di assumere il modello di trave piuttosto che rinunciare alla previsione del comportamento strutturale. Per esempio, un trampolino per i tuffi `e con

214

9.4. MODELLO MATEMATICO DI TRAVE

ottima approssimazione schematizzabile come una trave ma anche la piattaforma, che sarebbe pi` u correttamente da considerarsi una piastra, pu`o essere esaminata come una trave almeno in prima approssimazione.

9.4 Modello matematico di trave In questo paragrafo si cercher`a di dare un po’ di rigore alla definizione di solido monodimensionale, ricordando che a tale modello saranno comunque ricondotti solidi che hanno necessariamente tre dimensioni. La caratteristica di mono-dimensionalit`a della trave consiste sostanzialmente nel fatto che la sua forma `e riconducibile a parametri geometrici associati ai punti di una linea. Supponiamo data una figura piana non degenere (di area non nulla) Ω che `e chiamata sezione (section) della trave. Sulla sezione `e individuabile in modo univoco il suo punto centrale caratteristico G che rappresenta il baricentro geometrico (figura 9.4). La definizione

d

Ω G

Figura 9.4: Sezione corrente di una trave

di baricentro geometrico per una sezione piana, le sue propriet`a e le tecniche per localizzarlo sono discusse nell’appendice D. Si definisce inoltre diametro della sezione d il valore massimo della distanza tra tutte le coppie dei punti della sezione. Supponiamo di muovere la sezione Ω in modo che il suo baricentro descriva una traiettoria Γ, detta linea d’asse o semplicemente asse (axis), che sia regolare (continua e differenziabile) quasi ovunque. Durante il movimento, la sezione pu`o anche modificare la sua forma. La linea d’asse non deve quindi essere necessariamente rettilinea, tuttavia il moto della sezione deve essere tale che la tangente locale alla linea d’asse (vedi appendice E) sia parallela alla normale n ˆ al piano di sezione. Consideriamo il solido costituito da tutti i punti dello spazio raggiunti dai punti della sezione nel movimento come in figura 9.5. Affinch´e a tale solido possano essere attribuite caratteristiche di trave, ovvero sia un solido mono-dimensionale, `e necessario che il diametro della sezione, o il massimo dei diametri se la sezione `e variabile, sia una quantit` a piccola rispetto alle dimensioni che descrivono la forma della linea d’asse. In particolare, d deve essere ben minore della lunghezza della linea d’asse e inoltre, se l’asse `e curvo, d deve essere molto minore anche del locale raggio di curvatura. Se queste condizioni sono soddisfatte oppure, nelle zone del solido dove tali condizioni sono soddifatte, il modello di trave fornisce una previsione adeguata del comportamento strutturale del corpo. Con il modello di trave, infatti, il solido viene ricondotto alla linea d’asse Γ a ogni punto della quale `e associata una sezione con l’insieme delle sue propriet`a geometriche caratteristiche (area, assi d’inerzia, momenti d’inerzia, ecc. . . ). In base alla definizione risulta che, data una trave e un punto A della sua linea d’asse, la sezione locale `e definita dall’intersezione della trave stessa con il piano per A che ha normale sulla tangente alla linea d’asse. Nel modello mono-dimensionale una zona di estensione inferiore o al pi` u paragonabile a d `e in genere considerata puntiforme, ovvero di estensione trascurabile. Conseguentemente, nel

215

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

modello di trave, le azioni applicate a una sezione, come le reazioni vincolari, diventano azioni concentrate (forze o momenti) e le azioni distribuite di superficie o di volume (in genere carichi) sono modellate come distribuzioni lineari. Tutte le azioni, concentrate o distribuite, sono quindi generalmente assunte applicate ai punti dell’asse. Nelle zone della trave dove il diametro della sezione non `e piccolo, per esempio dove d `e confrontabile con il raggio di curvatura della linea d’asse, il modello di trave sviluppato potr`a comunque essere impiegato ma le previsioni avranno un livello di precisione pi` u basso.

Figura 9.5: Generazione di una trave: movimento di una sezione (in generale di forma variabile) in modo che il suo baricentro descriva una linea Γ localmente normale alla sezione stessa

Riassumendo, una trave `e identificata dal punto di vista matematico da una linea Γ, che rappresenta il luogo dei baricentri delle sue sezioni, a ogni punto della quale `e associata la sezione corrente Ω univocamente individuata dall’intersezione della trave con il piano passante per il punto che ha normale localmente coincidente con il versore tangente alla linea d’asse. Rispetto a un sistema di riferimento cartesiano x0 , y 0 , z 0 (figura 9.5) la linea d’asse `e rappresentabile in forma parametrica come:  0    xG f1 (λ) 0  =  f (λ)  OG (λ) =  yG (9.4) 2 0 zG f3 (λ) in cui λ `e una variabile scalare definita in un intervallo di R1 . Analogamente ai solidi bidimensionali, l’ipotesi che la linea d’asse sia regolare quasi ovunque implica che gli eventuali punti di discontinuit`a e i punti angolosi siano in numero finito (e piccolo). In tal modo, il versore tangente alla linea d’asse e la sezione corrente con le sue propriet`a geometriche sono caratteristiche della trave definite univocamente quasi in ogni punto. Per individuare la posizione della sezione lungo l’asse `e spesso considerato il parametro naturale s ovvero l’ascissa curvilinea di Γ, che, dopo aver fissato arbitrariamente un punto origine e un verso di percorrenza rappresenta la distanza con segno misurata seguendo la linea d’asse (figura 9.6). La relazione (9.4) diventa in questo caso:   g1 (s) OG (s) =  g2 (s)  (9.5) g3 (s) Una trave si classifica in relazione alle propriet`a della linea d’asse e alla forma della sezione.

216

9.4. MODELLO MATEMATICO DI TRAVE

Figura 9.6: Ascissa curvilinea s definita sull’asse Γ della trave

9.4.1 Travi a sezione costante o uniforme In molti casi, la sezione di una trave non cambia lungo l’asse, ne sono esempi: le barre (tonde, quadrate, rettangolari o poligonali), i profilati unificati e i trafilati. Nella figura 9.7 sono riportate alcune tipiche sezioni aperte denominate: a) sezione a T (T shaped) b) sezione a I (I beams) secondo l’UNI travi IPE c) sezione a doppio T o a H (Wide flange section) secondo l’UNI travi HE d) sezione a C o a U (C shaped)

Figura 9.7: Tipiche sezioni aperte

La parte indicata con (1) nella figura 9.7 `e chiamata piattabanda (flange) mentre la parte (2) anima (web). Nella figura 9.8 sono rappresentate tipiche sezioni chiuse per travi, denominate: a) sezione tubolare circolare (circular section) b) sezione tubolare quadrata (square box section) c) sezione tubolare rettangolare o a cassone (box section) I libri di disegno e i manuali tecnici riportano le caratteristiche geometriche dei profilati unificati da cui `e possibile ricavare la maggior parte delle quantit`a geometriche necessarie allo studio strutturale (posizione del baricentro, area, momenti d’inerzia, ellisse d’inerzia, assi principali, ecc. . . ). Pertanto, dovendo esaminare una trave con sezione unificata non `e generalmente opportuno calcolare le caratteristiche geometriche dalle definizioni ma conviene cercarle nei manuali. A tale proposito, `e utile ricordare che spesso nei manuali le quantit`a geometriche sono espresse in cm (e nei suoi derivati) per cui `e necessaria una conversione.

217

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Figura 9.8: Tipiche sezioni chiuse

9.4.2 Travi a sezione variabile In una trave a sezione variabile, Ω dipende dalla posizione s lungo l’asse. Nelle applicazioni dell’ingegneria meccanica `e molto frequente trovare travi a sezione variabile, basta considerare gli alberi, che tipicamente presentano diversi diametri in conseguenza delle funzioni che svolgono le diverse zone. Generalmente, si assume che la dipendenza dei parametri geometrici della sezione sia continua rispetto all’ascissa curvilinea s, escluso al pi` u un piccolo numero di punti di discontinuit`a. Questo implica che la variazione di sezione si manifesta in modo graduale come, per esempio, nella trave di figura 9.5. In corrispondenza di brusche variazioni di sezione, come nello spallamento di un albero (figura 9.9), definiremo due sezioni che, in relazione al verso di percorrenza dell’asse definito dall’ascissa curvilinea, rappresentano, rispettivamente, la sezione che precede e la sezione che segue la discontinuit`a. Come mostrato nella figura 9.9, le due sezioni saranno considerate le estensioni continue delle sezioni che precedono e seguono il punto A dell’asse avente ascissa curvilinea sA , cos`ı definite: • sezione in A− : ΩA− = lim Ω (s) s→s− A

• sezione in A+ : ΩA+ = lim Ω (s) s→s+ A

Figura 9.9: Definizione delle due sezioni che caratterizzano un punto di discontinuit` a

Al punto di discontinuit`a A sono associate entrambe le sezioni (ΩA− e ΩA+ ) in modo che le eventuali considerazioni strutturali siano effettuate su ognuna di esse (come se fossero sezioni distinte anche se condividono l’ascissa curvilinea). Tuttavia, `e opportuno osservare che, analogamente agli elementi bi-dimensionali, le conclusioni che si traggono dal modello di trave non saranno particolarmente accurate in corrispondenza dei punti di discontinuit`a. In queste zone, infatti, l’ipotesi di mono-dimensionalit`a non `e molto stringente in quanto la forma geometrica locale richiede l’introduzione di altre quantit`a (in particolare: il raggio di raccordo dello spallamento, l’eventuale gola, ecc. . . ) che non sono comprese nelle propriet`a delle sezioni ΩA− e ΩA+

218

9.5. SISTEMA DI RIFERIMENTO LOCALE DELLA TRAVE

ma che possono essere molto rilevanti per il comportamento strutturale locale. Ne consegue che il modello di trave riproduce solo grossolanamente le propriet`a geometriche del corpo se le sezioni non variano gradualmente con s. Una trave `e considerata a sezione costante se tutte le caratteristiche geometriche della sezione sono indipendenti dall’ascissa curvilinea s compreso l’orientamento. Consideriamo, per esempio, una lunga punta da trapano, nella zona centrale la sezione ha una forma che pu`o essere ritenuta costante, tuttavia l’orientamento della sezione varia lungo l’asse (la punta si avvolge su un’elica). In questo caso, per quanto la forma della sezione non cambi, l’orientamento degli assi principali d’inerzia dipende da s e la trave `e da considerarsi a sezione variabile.

9.4.3 Classificazione delle travi in base alla forma dell’asse In relazione alla forma della linea d’asse Γ, si distinguono: • travi ad asse rettilineo, per esempio: i raggi della ruota della bicicletta, il mandrino del tornio, l’albero di una barca a vela; • travi ad asse curvilineo piano quando `e possibile individuare un piano su cui giace la linea d’asse (non localmente rettilinea) per esempio: una molla a balestra, la lama di una sciabola, il cerchio della ruota di una bicicletta; • travi ad asse gobbo quando non esiste alcun piano che contenga l’asse, come: l’albero motore di un 4 cilindri, il filo di una molla a elica, molte ossa lunghe dello scheletro. Spesso si trovano travi con asse rettilineo a tratti (piano o gobbo), come per esempio: un albero motore o gran parte del telaio di una bicicletta. In corrispondenza di punti in cui l’asse `e discontinuo (per esempio negli alberi con eccentrici) oppure dove l’asse `e continuo ma presenta spigoli (albero motore), le caratteristiche geometriche della sezione e talvolta la stessa normale n ˆ locale non sono definibili. Analogamente a quanto fatto per le sezioni con forma discontinua, anche in questi casi si procede definendo la sezione che precede ΩA− e la sezione che segue ΩA+ il punto di irregolarit`a A della linea d’asse. Nella figura 9.10 `e rappresentata una trave ottenuta saldando due tubi (uno quadro l’altro rettangolare) e sono indicate le sezioni convenzionali che si associano allo spigolo A. I dettagli costruttivi che definiscono la locale geometria della connessione tra i tratti (nel caso specifico i cordoni di saldatura) non sono compresi nel modello monodimensionale e quindi non hanno effetti sul modello. Anche in questi casi, per motivi analoghi a quelli dovuti alla discontinuit`a della forma della sezione, la soluzione locale prevista dal modello monodimensionale `e generalmente caratterizzata da significative approssimazioni.

9.5 Sistema di riferimento locale della trave Per lo studio del comportamento strutturale della trave si introduce un sistema di riferimento locale cartesiano ortonormale destrorso. L’aggettivo locale indica la caratteristica fondamentale di questo sistema di essere associato alla sezione in esame della trave. Vi `e pertanto un sistema di riferimento per ogni sezione ΩA e quindi almeno un sistema per ogni punto A dell’asse o per ogni valore dell’ascissa curvilinea s. In un punto di discontinuit`a o di spigolo della linea d’asse A `e inoltre possibile avere sistemi di riferimento distinti per le sezioni ΩA− e ΩA+ . Nel caso pi` u generale di trave con asse gobbo e sezione variabile (figura 9.5), date due sezioni distinte, i relativi sistemi locali hanno gli assi omonimi generalmente non paralleli. Per motivi pratici, in previsione dell’uso estensivo che sar`a fatto di questi sistemi di riferimento, agli assi locali sono riservati i nomi tipici: x, y e z. I sistemi di riferimento locali per la trave sono definiti in base alle seguenti convenzioni:

219

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Figura 9.10: Definizione delle sezioni in corrispondenza di un punto angoloso dell’asse

• l’origine coincide con il baricentro della sezione (appartiene quindi all’asse della trave) • l’asse z ha la direzione normale n ˆ al piano di sezione e quindi coincide con la tangente locale alla linea d’asse della trave • gli altri due assi x e y, che necessariamente giacciono sul piano della sezione corrente Ω, sono allineati con le direzioni centrali principali d’inerzia della sezione (rispettando l’orientamento destrorso del riferimento). Si noti che i versi degli assi locali non sono definiti dalla convenzione. Tuttavia, `e consigliabile scegliere l’asse z equiverso al senso crescente delle ascisse curvilinee dell’asse della trave. In questo modo, per zone limitrofe alla sezione corrente ΩA (a meno di infinitesimi di ordine superiore se l’asse non `e rettilineo), la coordinata locale coincide con la variazione dell’ascissa curvilinea: z = s − sA e, se l’asse `e regolare almeno localmente, vale, anche con il segno, l’utile relazione tra i differenziali: dz = ds Nel seguito il verso dell’asse z sar`a sistematicamente scelto in questo modo. Il sistema di riferimento locale `e mostrato nella figura 9.11.

s x z

Γ

y Figura 9.11: Sistema di riferimento locale della trave, `e rappresentata l’ellisse centrale d’inerzia della sezione i cui assi hanno le direzioni di x e y

Come dimostrato nell’appendice D, ogni sezione non degenere ha sempre almeno una coppia di assi centrali principali d’inerzia, tra loro ortogonali, che possono essere individuati sulla base delle propriet`a geometriche della sezione. Ricordiamo in particolare che:

220

9.6. CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE PER LE TRAVI

• per una sezione con due assi di simmetria (per esempio una sezione rettangolare oppure a doppio T) gli assi del sistema locale si individuano immediatamente in quanto coincidono con gli stessi assi di simmetria; • anche se la sezione ha un solo asse di simmetria (per esempio una sezione a T o un triangolo isoscele), l’identificazione degli assi x e y `e semplice: uno di essi coincide con l’asse di simmetria e l’altro `e ortogonale e passa per il baricentro; • per certe sezioni (per esempio: il cerchio e i poligoni regolari, ma anche particolari sezioni di forma non regolare o simmetrica), l’ellisse centrale d’inerzia `e un cerchio, in tal caso tutte le rette baricentriche sono principali d’inerzia e la scelta degli assi x e y pu`o essere effettuata sulla base della convenienza pratica. La porzione di solido monodimensionale compresa tra due sezioni `e chiamata concio di trave. Riveste una particolare importanza il concio infinitesimo, o concio elementare, limitato da due sezioni i cui baricentri distano tra loro ds, come mostrato in figura 9.12. In una trave di sezione uniforme e asse localmente rettilineo, il concio elementare ha la forma di un cilindro retto con basi parallele Ω(s), Ω(s+ds) e altezza ds = dz. Per travi ad asse curvilineo, le basi del concio infinitesimo sono tra loro inclinate dell’angolo infinitesimo dθ = ds/R dove R `e il raggio di curvatura locale della linea d’asse (vedi appendice E). Se R >> d, ovvero se il raggio di curvatura locale della linea d’asse `e molto maggiore del diametro della sezione (come dovrebbe per l’ipotesi di trave), gli effetti di tale inclinazione possono essere in molti casi trascurati e si pu`o assumere che anche una trave curva si comporti localmente come se fosse rettilinea.

Γ ds = dz

Figura 9.12: Concio infinitesimo di trave

9.6 Caratteristiche di sollecitazione per le travi In questo paragrafo sono introdotte alcune grandezze meccaniche fondamentali nello studio del comportamento strutturale delle travi: le caratteristiche di sollecitazione di una sezione. Consideriamo una trave che svolge la sua funzione strutturale e quindi si torva sotto carico in condizioni di equilibrio statico, le caratteristiche di sollecitazione definiscono le azioni statiche interne che una sezione trasmette e quindi quantificano la funzione strutturale della sezione stessa.

9.6.1 Azioni statiche trasmesse dalle sezioni di una trave e loro natura Prima di fornire una definizione rigorosa di caratteristica di sollecitazione e di illustrare una procedura per effettuarne il calcolo, o la misura, `e utile discutere il seguente semplice problema di statica nel piano che aiuta a chiarire il significato fisico di tale quantit`a.

221

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Esempio 9.1: Funzione strutturale della sezione di estremit`a di una mensola La mensola orizzontale AB di figura 9.13 con sezione a doppio T di acciaio avente massa lineare di 21 kg/m riceve una forza F = 300 N da un cavo collegato in corrispondenza del baricentro della sezione d’estremit`a. Tracciare lo schema di corpo libero definitivo e rappresentare le azioni statiche complessivamente scambiate dalla mensola con il telaio.

A

B

45°

2500

F

Figura 9.13: Trave piana ad asse rettilineo

Si tratta di un problema intrinsecamente isostatico nel piano, per il quale le reazioni vincolari sono ottenibili con le equazioni cardinali. Nella figura 9.14 `e rappresentato lo schema di corpo libero definitivo della trave all’equilibrio e le azioni statiche trasmesse al telaio. 727 N 1.174 kNm 212 N 1.174 kNm

A

B

212 N

0.206 N/mm

300 N

727 N

Figura 9.14: Schema di corpo libero definitivo e azioni sul telaio

L’identificazione del corpo come trave giustifica la scelta di assumere per il peso proprio una distribuzione uniforme su una linea invece che una distribuzione uniforme sul volume. Per lo stesso motivo, l’azione del cavo, che si manifesta in una distribuzione di forze di contatto esercitata nella zona di attacco del cavo stesso, `e stata rappresentata da una forza concentrata. In effetti, la regione della trave in cui si esercita l’azione del cavo ha un diametro molto minore del diametro della sezione e quindi `e ’puntiforme’ nello schema mono-dimensionale. Si pu`o osservare per`o che nella schematizzazione dei carichi sono state conservate le caratteristiche statiche complessive ovvero la risultante e il momento risultante rispetto al baricentro della sezione in corrispondenza della quale il carico `e applicato. In modo analogo, anche le reazioni vincolari, che sono forze di superficie scambiate con il telaio in corrispondenza della sezione di incastro, sono state ridotte ad azioni statiche equivalenti applicate al baricentro della sezione d’estremit`a A. Nell’esempio le reazioni vincolari consistono in una forza nel piano e un momento avente direzione normale al piano. Sulla base delle nozioni sviluppate nei capitoli precedenti, si pu`o affermare che il compito

222

9.6. CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE PER LE TRAVI

strutturale della trave AB consiste nel trasferire i carichi dai punti dove questi sono effettivamente applicati al telaio. Le azioni agenti sulla sezione in A, evidenziate nello schema di corpo libero di figura 9.14, rappresentano l’effetto complessivo, riportato al baricentro, della distribuzione di forze superficiali di natura elettromagnetica che il telaio esercita sui punti della sezione estrema della trave. Si comprende come la conoscenza di tali azioni sia necessaria per effettuare la locale verifica di resistenza, ovvero per valutare se la trave, in corrispondenza della sezione A, `e adeguata a svolgere la funzione strutturale. La conoscenza di tali azioni non `e peraltro sufficiente allo scopo dato che la verifica non pu`o prescindere anche dalle propriet`a geometriche della sezione,forma ed estensione, e dalle caratteristiche fisiche del materiale della trave. Quando si effettua la verifica di resistenza di una trave nel suo complesso `e per`o necessario garantire che ogni sezione sia in grado di svolgere la sua funzione strutturale. Per estendere il procedimento applicato per la sezione di estremit`a, `e necessario rispondere alla seguente domanda: quale azione statica `e trasmessa in corrispondenza di una generica sezione quando la trave svolge la sua funzione strutturale? Come vedremo, in molti casi i soli metodi della statica permettono di dare una risposta completa anche a tale domanda. Per illustrare il procedimento che permette di valutare l’azione statica trasmessa da una sezione generica, consideriamo per esempio la sezione di mezzeria ΩC della trave dell’esempio precedente. In corrispondenza di C, pu`o essere identificato un vincolo interno tra le due parti AC e CB della trave che, rispettivamente, precedono e seguono la sezione in esame, rispetto ` immediato identificare tale vincolo interno come un incastro al verso dell’ascissa curvilinea. E poich´e, in corrispondenza di C, non `e permesso alcun movimento relativo di traslazione o di rotazione tra le due facce appaiate. Il termine movimento relativo `e stato evidenziato per rimarcare che si tratta di un vincolo interno e quindi non tale da impedire il moto complessivo della sezione ΩC . In effetti, se consideriamo la trave come corpo deformabile, c’`e da attendersi uno spostamento della sezione C (oltre che una sua distorsione) in conseguenza dell’applicazione del carico, tuttavia questo spostamento deve essere comune alle due facce appaiate sulla sezione, a meno di ammettere distacco o compenetrazione di materia. Le reazioni vincolari dell’incastro interno in C sono valutate nel seguente esempio. Esempio 9.2: Funzione strutturale della sezione di mezzeria Determinare le azioni statiche trasmesse in corrispondenza della sezione C di mezzeria della mensola del precedente esempio 9.1.  L’analisi pu`o partire dallo schema di corpo libero definitivo ottenuto nell’esempio precedente. Essendo richiesta l’azione di un incastro `e necessario effettuare l’eliminazione del vincolo e la sua sostituzione con le azioni statiche esercitabili. Dato che viene rimosso un vincolo interno, nello schema di corpo libero sono rilevanti sia le azioni sia le reazioni (di terzo principio) in quanto entrambe sono applicate a parti del corpo. Lo schema di corpo libero preliminare `e riportato nella figura 9.15. Per valutare le reazioni vincolari interne si pu`o indifferentemente imporre l’equilibrio di una delle due parti in cui la sconnessione ha diviso la trave. Risulta infatti evidente che il risultato deve essere il medesimo in quanto l’insieme delle azioni esterne agenti sulla trave `e globalmente autoequilibrato. Al lettore `e lasciato il compito di verificare che la soluzione: R = 470 N, S = 212 N e W = 0.426 kNm, si ottiene effettivamente imponendo l’equilibrio per ciascuna delle parti.

223

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

727 N 1.174 kNm

C

A

B

212 N

0.206 N/mm W

W

300 N

R

S S R

Figura 9.15: Schema di corpo libero preliminare che evidenzia le mutue azioni che possono essere trasmesse dalla trave in corrispondenza della sezione di mezzeria ΩC

Le azioni statiche complessive applicate dall’incastro interno alle due sezioni ottenute dal taglio sono rappresentate nella figura 9.16.

Figura 9.16: Azioni mutue scambiate in corrispondenza della sezione C

Consideriamo una delle due facce ottenute dal taglio effettuato in corrispondenza della sezione in C, per fisare le idee quella a sinistra nella figura 9.16, ci chiediamo: di quali azioni fisiche le quantit`a R, S e W sono caratteristiche statiche equivalenti, considerate applicate nel baricentro C della sezione ΩC ? Analogamente alla sezione di incastro, anche per la sezione C dobbiamo prevedere che le azioni scambiate siano applicate in modo distribuito e che siano di natura elettromagnetica. In questo caso, per`o, tali azioni sono interne alla trave. Lo studio dettagliato delle interazioni elettromagnetiche interne dei materiali solidi sar`a sviluppato in seguito (capitolo 12), tuttavia, sono gi`a disponibili gli elementi per svilupparne alcune interessanti anticipazioni. Nei solidi, gli atomi o le molecole costituenti si aggregano in una struttura regolare (cristallo) e le forze che tali costituenti si possono scambiare sono alla base delle caratteristiche di coesione del materiale stesso. Supponiamo, per semplicit`a grafica, che la struttura cristallina sia di tipo cubico e che gli elementi costituenti, in una rappresentazione bi-dimensionale, siano disposti in righe, che indichiamo con numeri, e in colonne, che indichiamo con lettere greche, come

224

9.6. CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE PER LE TRAVI

mostrato in figura 9.17 con un forte ingrandimento. Evidenziamo in particolare le due colonne di atomi α e β che risultano separate dal taglio effettuato in corrispondenza della sezione C.

Figura 9.17: sezione C

Schema della struttura cristallina in corrispondenza della

Per ripristinare l’equilibrio delle due parti separate dal taglio, `e necessario che sugli atomi che si trovano affacciati alla superficie esposta siano applicate proprio le azioni che prima del taglio erano trasmesse dal legame di tipo elettromagnetico che `e stato eliminato dal taglio stesso. Consideriamo, per esempio, l’atomo α4 . Prima di effettuare il taglio l’atomo α4 interagiva ` possibile ammettere l’esistenza fortemente con β4 e meno intensamente con gli atomi β3 e β5 . E di interazioni anche tra α4 e gli altri atomi della fila β, tali interazioni per`o erano certamente molto pi` u deboli a causa della maggiore distanza. Possiamo invece certamente trascurare le interazioni tra α4 e gli atomi della colonna γ, e a maggior ragione delle successive, perch´e la colonna β esercita un effetto schermante sulle interazioni elettromagnetiche (gabbia di Faraday). Come conseguenza, `e possibile concludere che il taglio elimina solo le interazioni elettromagnetiche che si scambiano atomi limitrofi che appartengono alle due file affacciate al taglio stesso (ai due strati in un modello cristallino tridimensionale). Per tale motivo chiameremo queste interazioni elettromagnetiche interne a corto raggio. Le quantit`a R, S e W rappresentano pertanto le caratteristiche statiche, riferite al baricentro della sezione, delle distribuzioni di forze di superficie di tipo elettromagnetico a corto raggio che si scambiano gli strati di atomi affacciati alla sezione C. Si comprende quindi come la trave possa sopportare tali interazioni solo entro certi limiti prima che venga pregiudicata l’integrit` a del reticolo cristallino.

9.6.2 La definizione delle caratteristiche di sollecitazione Le caratteristiche di sollecitazione sono le grandezze fisiche che, opportunamente definite da una convenzione, quantificano le azioni statiche complessivamente scambiate dagli strati di atomi affacciati a una generica sezione di trave quando la sezione svolge la sua funzione strutturale. Una definizione coerente e non ambigua impone di tener conto che le azioni in oggetto sono interne e quindi sono sempre presenti anche le loro reazioni di terzo principio anch’esse applicate comunque a punti della trave. In termini operativi, con riferimento alla figura 9.17, ci aspettiamo quindi di ottenute le stesse caratteristiche di sollecitazione considerando sia le azioni esercitate sugli atomi dello strato α sia quelle trasmesse sugli atomi dello strato β. Per eliminare l’ambiguit`a tra azione e reazione e rendere la definizione coerente, `e necessario stabilire una convenzione. Quando si effettua il taglio in corrispondenza di una sezione (nel caso esaminato la C) si espongono in effetti due strati di atomi: α e β nell’esempio. Il taglio

225

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

produce quindi sempre due facce che hanno la stessa forma della sezione ΩC . Per distinguere le due facce si ricorre alla nozione di versore normale uscente dal corpo, ovvero che ha la coda nel materiale e che punta verso l’esterno. Di conseguenza, avendo preventivamente fissato il sistema di riferimento locale della sezione, una delle due facce avr`a la normale uscente equiversa con l’asse z, l’altra la normale uscente controversa. Con una definizione universalmente accolta nella meccanica dei solidi, si assume positiva la faccia che ha la normale esterna equiversa a z e negativa l’altra. Distingueremo le due facce usando i segni + e − posti all’apice del simbolo della sezione come mostrato in figura 9.18. Nella trave di figura 9.17, avendo scelto l’asse z diretto verso destra, la faccia positiva Ω+ e materializzata dagli atomi dello strato α mentre la C ` faccia negativa Ω− dagli atomi dello strato β. C

Figura 9.18: Faccia positiva, equiversa a z, e faccia negativa, controversa a z, prodotte da un taglio in una sezione C: a) modello di trave bi-dimensionale, b) modello di trave tridimensionale

Per evitare confusione nella notazione, `e opportuno osservare che gli apici + e − introdotti in questo paragrafo hanno un significato diverso dagli omonimi apici introdotti nei paragrafi precedenti per distinguere le sezioni in corrispondenza delle discontinuit`a della linea d’asse. Gli apici attuali, che sono applicati al simbolo della sezione Ω, servono infatti per distinguere le facce prodotte dal taglio in un’unica sezione. Gli apici dei paragrafi precedenti, che si applicano al nome della sezione (per esempio A) oppure all’ascissa curvilinea, hanno allo scopo di individuare sezioni appaiate, ma distinte. Per chiarire la differenza pu`o essere utile considerare che tutte le sezioni, una volta sconnesse con il taglio, evidenziano sia una faccia positiva sia una faccia negativa e che le due facce hanno la stessa forma e le stesse dimensioni e su ognuna di esse agiscono le stesse azioni, a parte il segno, in virt` u del terzo principio. Diversamente, con riferimento alla figura 9.10, ΩA− e ΩA+ rappresentano sezioni diverse che, per quanto adiacenti nello schema monodimensionale, hanno forma diversa e sistema di riferimento locale diverso. Come conseguenza ΩA− e ΩA+ possono avere anche caratteristiche di sollecitazione diverse. Inoltre, ognuna delle due sezioni poste in corrispondenza di una discontinuit`a ha una faccia con normale equiversa e una faccia con normale controversa a z, per esempio, in figura 9.10, le facce Ω+ e Ω− hanno la stessa forma tubolare quadrata mentre le facce Ω+ e Ω− hanno la stessa A− A− A+ A+ forma tubolare rettangolare.

226

9.6. CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE PER LE TRAVI

Gran parte del lavoro di preparazione necessario definire le caratteristiche di sollecitazione `e stato svolto. A questo punto `e sufficiente considerare le azioni agenti su una delle due facce e valutare, nel sistema di riferimento locale della trave, le componenti delle azioni statiche complessive riferite al baricentro della sezione stessa. Se si prende in esame la faccia positiva, tale operazione fornisce direttamente il risultato definitivo in modulo e segno, mentre, se si considera la faccia negativa `e necessario cambiare il segno a tutte le componenti. Il cambiamento di segno imposto da questa regola compensa il cambiamento di verso delle azioni statiche connesso con il terzo principio e garantisce che il risultato finale sia indipendente dalla faccia che `e stata usata per effettuare il calcolo. Si giunge pertanto alla seguente definizione: le caratteristiche di sollecitazione in una sezione di trave rappresentano le caratteristiche statiche globali, riferite al baricentro e rappresentate nel sistema di riferimento locale, della distribuzione delle azioni elettromagnetiche a corto raggio esercitate sulla faccia positiva della sezione oppure, in modo equivalente: le caratteristiche di sollecitazione in una sezione di trave rappresentano l’opposto delle caratteristiche statiche globali, riferite al baricentro e rappresentate nel sistema di riferimento locale, della distribuzione delle azioni elettromagnetiche a corto raggio esercitate sulla faccia negativa della sezione. Per fissare le idee, consideriamo la faccia positiva. In generale, le azioni statiche si riducono ~ , le componenti cartesiane a due vettori: una forza risultante F~ e un momento risultante M locali di tali vettori hanno i seguenti nomi e simboli: • componente Fz della forza F~ : forza normale (normal (or axial) force), N • componente Fx della forza F~ : forza di taglio (shear (or tangential) force) in direzione x, Tx • componente Fy della forza F~ : forza di taglio in direzione y, Ty ~ : momento torcente (torque), Mz • componente Mz del momento M ~ : momento flettente (bending moment) in direzione • componente Mx del momento M x, Mx ~ : momento flettente in direzione y, My . • componente My del momento M Nei problemi piani, come ampiamente mostrato nel seguito, tre componenti delle caratteristiche di sollecitazione risultano identicamente nulle.

9.6.3 Procedimento di calcolo delle caratteristiche di sollecitazione Nel paragrafo precedente sono state definite sei grandezze scalari con segno indipendenti che quantificano in modo completo le azioni elettromagnetiche scambiate dagli strati di atomi affacciati alla sezione in esame. Tale definizione non `e per`o operativa, in quanto la distribuzione delle interazioni non `e generalmente nota e anche la sua misura non sarebbe un compito agevole. Come vedremo, anzi, sotto particolari ipotesi, nella pratica si applica il procedimento inverso: dalla conoscenza delle caratteristiche di sollecitazione si determina come le azioni elettromagnetiche interne si distribuiscono nei vari punti della sezione.

227

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Da queste considerazioni appare quindi evidente la necessit`a di sviluppare un metodo operativo per ottenere le caratteristiche di sollecitazione. In effetti, per problemi di travi di cui si conosce lo schema di corpo libero definitivo, le caratteristiche di sollecitazione possono essere calcolate sulla base di semplici considerazioni di statica. Il metodo di calcolo pu`o essere verificato con riferimento alla sezione C della figura 9.13. Individuata la sezione di interesse, la separazione ideale che sconnette l’incastro interno determina due sottotravi, una che si estende verso la parte positiva dell’asse z (indipendentemente dalla sua forma) e l’altra che si estende verso la parte delle z negative. Se, come consigliabile, l’asse z `e stato assunto equiverso all’ascissa curvilinea s, rispetto a una sezione C, la parte di trave che si estende verso le z positive consiste nella sotto-trave con s > sC . Applicando le regole della statica `e immediato verificare che: le azioni statiche applicate sulla faccia positiva di una sezione sono staticamente equivalenti al sistema delle azioni esterne che agiscono sulla sottotrave che si estende verso le z positive. Di conseguenza, per ottenere le caratteristiche di sollecitazione `e sufficiente calcolare, nel sistema di riferimento locale della sezione, le componenti della risultante e del momento risultante dei carichi agenti sulla parte di trave che si estende verso le z positive. Talvolta pu`o essere pi` u conveniente riferirsi alla sottotrave che si estende verso le z negative (s < sC ). In questo caso vale la regola: le azioni statiche applicate alla faccia positiva di una sezione sono staticamente equivalenti al sistema delle azioni esterne che agiscono sulla sottotrave che si estende verso le z negative cambiate di segno. Pertanto, considerando la sottotrave che si estende verso le z negative, `e necessario calcolare risultante e momento risultante rispetto al baricentro della sezione in esame e invertire il segno dei risultati. ` evidente che se il sistema delle azioni esterne dello schema di corpo libero `e autoequiE librato (come deve essere se non abbiamo sbagliato la statica!), si ottiene lo stesso risultato indipendentemente dalla sottotrave che si considera. Esercizio 9.1: Caratteristiche di sollecitazione nel caso piano Applicare il procedimento di calcolo per determinare le caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni A, B, C e D del problema in figura 9.19 usando il sistema di riferimento e l’ascissa curvilinea indicati e considerando per tutte le sezioni le azioni agenti su entrambe le sottotravi. I risultati possono essere verificati nella tabella. C

A

D

B

z

s

0.206N/mm

y 2500

45° 300 N

Figura 9.19: Trave piana ad asse rettilineo: caratteristiche di sollecitazione in 4 sezioni

228

9.7. EFFETTI PRODOTTI DALLE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Sezione A B C D

Ascissa s (mm) 0 2500 1250 2000

N (N) 212 212 212 212

T y (N) 727 212 470 315

M x (kNm) -1.174 0 -0.426 -0.132

Nel precedente problema piano sono significative (possono essere diverse da zero) solo tre delle sei caratteristiche di sollecitazione. Per un problema nello spazio, in generale, le caratteristiche di sollecitazione possono essere tutte diverse da zero. Esercizio 9.2: Caratteristiche di sollecitazione nello spazio Verificare i dati nella tabella con le caratteristiche di sollecitazione di alcune sezioni della mensola in figura 9.20 caricata all’estremo da due forze: P = 20 kN e F = 15 kN.

Figura 9.20: Trave nello spazio

Sezione A− A+ B C+ D−

s (mm) 2500 2500 1250 0 3500

N (kN) -15 0 -15 -15 0

T x (kN) 0 -15 0 0 -15

T y (kN) 20 20 20 20 20

M x (kNm) 0 -20 -25 -50 0

M y (kNm) -15 -15 -15 -15 0

M z (kNm) -20 0 -20 -20 0

Altri esempi sono discussi nei prossimi paragrafi.

9.7 Effetti prodotti dalle caratteristiche di sollecitazione Per analizzare l’effetto che le singole caratteristiche di sollecitazione producono in una sezione di trave, `e utile considerare lo schema di corpo libero del concio infinitesimo in corrispondenza della sezione in esame. Per semplicit`a, prendiamo a riferimento una trave con asse localmente rettilineo (le travi con asse curvo saranno esaminate in seguito) e assumiamo che non agiscano sul concio carichi esterni concentrati. In tale situazione, le uniche azioni significative esercitate

229

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Figura 9.21: Effetti prodotti dalle singole caratteristiche di sollecitazione, assunte positive, su un concio infinitesimo: schema generale di un problema tridimensionale

sul concio sono le caratteristiche di sollecitazione applicate sulle sue facce. Inoltre, a meno di variazioni infinitesime, le azioni statiche agenti sulle basi del concio rappresentano, a meno di infinitesimi, le condizioni della faccia equiversa e della faccia controversa all’asse z per la sezione in esame. Nella figura 9.21 sono rappresentate le singole caratteristiche di sollecitazione agenti sul concio quando hanno segno positivo.

9.7.1 Effetto della forza normale Una forza normale positiva (N > 0) esercita una azione che tende ad allontanare le basi del concio nella direzione dell’asse o, in termini pi` u intuitivi, che tende ad allungare o a stirare le fibre del concio nella direzione dell’asse z (figura 9.22a). Se la forza normale `e negativa (N < 0), l’azione risulta controversa alla precedente e quindi tende ad avvicinare le basi del concio (figura 9.22b) producendo una compressione o compattazione delle fibre del concio. Nel materiale del concio la forza normale produce pertanto una trazione assiale se `e positiva mentre una compressione assiale se `e negativa. Il motivo per cui alla trazione corrisponde una forza normale positiva (e alla compressione una negativa) consegue dalla convenzione che fissa come positiva la faccia con la normale esterna equiversa a z. Come vedremo, questa convenzione `e generale nella meccanica dei solidi e vale anche nella definizione dello stato di tensione locale del materiale. Pu`o essere opportuno considerare che, accettata tale convenzione, il segno delle forza normale ha senso fisico dato che estendere `e effettivamente diverso da compattare (si pensi al fenomeno della rottura per rendersene conto). Il segno della forza normale non dipende infatti dal verso assunto per l’sse z, che invece `e arbitrario. A tale proposito `e utile verificare che N non cambia negli esempi trattati se si inverte il verso di z.

230

9.7. EFFETTI PRODOTTI DALLE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

N>0

N 0 e in una espansione per N < 0.

9.7.2 Effetto della forza di taglio

Ty>0

z

y

Figura 9.23: Effetto prodotto dal taglio Ty positivo, in tratteggio l’effetto deformativo prevalente (qualitativo)

Nella figura 9.23 `e riprodotto lo schema di corpo libero di un concio (visto dalla punta dell’asse x) sul quale agisce il solo taglio Ty (positivo). Come si pu`o intuire su base empirica, la forza di taglio tende a generare uno scorrimento relativo delle basi del concio nella direzione dell’asse y. In un concio deformabile il taglio produce quindi lo spostamento relativo di una faccia rispetto all’altra nella direzione del taglio stesso, in modo analogo allo scorrimento delle carte in un mazzo. In realt`a, per quanto l’effetto deformativo prevalente sia quello descritto, la distorsione prodotta dal taglio sul concio `e ben pi` u complessa. Ritorneremo sull’argomento con lo studio delle travi elastiche nella parte terza del corso. L’effetto prodotto della componente Tx agente nella direzione perpendicolare `e lo sesso a parte l’orientamento.

9.7.3 Effetto del momento torcente La figura 9.24 illustra l’azione prodotta sul concio elementare dal solo momento torcente (positivo). Si intuisce che in un concio deformabile tale caratteristica tende a generare una

231

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

rotazione relativa delle basi attorno all’asse z. Il momento torcente trasforma pertanto il concio cilindrico in un elemento di forma elicoidale. Mz>0 z

x

y

Figura 9.24: Effetto prodotto dal momento torcente Mz positivo, in tratteggio l’effetto deformativo prevalente

Anche in questo caso, `e stata sommariamente descritta solo la propriet`a pi` u evidente del processo deformativo che, come nel caso del taglio, `e pi` u complesso e dipende dalla forma della sezione e dal materiale della trave.

9.7.4 Effetto del momento flettente Il momento flettente, o flessione, costituisce una delle caratteristiche di sollecitazione pi` u importanti perch´e generalmente produce gli effetti pi` u significativi per la resistenza e la rigidezza di una trave. La figura 9.25 illustra come un momento flettente Mx positivo tenda a produrre una rotazione relativa delle sezioni del concio attorno all’asse x del momento. Mx>0 x x

z z y

y

Figura 9.25: Effetto prodotto dal momento flettente Mx positivo, in tratteggio l’effetto deformativo prevalente. Il concio `e rappresentato in vista dalla parte della punta dell’asse x

Il momento Mx produce quindi trazione (estensione) delle fibre del concio che si trovano nella parte delle y positive e compressione (contrazione) delle fibre collocate dalla parte opposta, dove le y sono negative. Il segno del momento flettente individua univocamente quale delle due parti della sezione `e soggetta a effetti di trazione o estensionali. L’effetto deformativo indotto (trazione o compressione) `e disuniforme sulla sezione della trave e tende ad assumere i valori ` interessante analizzare anche l’efestremi nei punti collocati a maggiore distanza dall’asse x. E fetto prodotto dal momento flettente sulla forma della linea d’asse di una trave deformabile. Un tratto di trave deformabile, rettilineo prima dell’applicazione di carichi che producono momento flettente, tende ad assumere una (generalmente debole) curvatura. Questo effetto consegue dal fatto che, come mostrato nella figura 9.25, le facce del concio elementare deformato in flessione non sono pi` u parallele e quindi la linea d’asse deformata, per rimanere normale al piano di

232

9.8. PROBLEMI PIANI DI TRAVI

sezione, deve conseguentemente incurvarsi. In effetti, il termine inglese bending deriva del verbo to bend che significa piegare. Effetti del tutto simili sono prodotti dalla componente flessionale My , con qualche differenza di tipo algebrico che `e utile evidenziare. La figura 9.26 mostra come un momento My produca l’analogo effetto di rotazione relativa delle facce del concio e il conseguente incurvamento dell’asse della trave, ovviamente in un piano perpendicolare rispetto a Mx . La sezione risulta ancora parzializzata in fibre che si estendono e fibre che si contraggono, tuttavia si nota una differenza sul segno: se, come in figura, il momento My `e positivo le fibre tese sono collocate dalla parte delle x negative. x My>0 x y

z

z y

Figura 9.26: Effetto prodotto dal momento flettente My positivo, in tratteggio l’effetto deformativo prevalente. Il concio `e rappresentato in vista dalla parte della punta dell’asse y

Avendo assunto il sistema locale destrorso, possiamo pertanto affermare che: un momento flettente Mx positivo produce estensione nelle fibre con y positive, mentre un momento flettente My positivo produce estensione nelle fibre con x negative.

9.8 Problemi piani di travi Come varie volte osservato, la determinazione delle reazioni vincolari nei problemi di statica u semplice se possono essere ottenuti schemi bi-dimensionali. La stessa conclusione `e valida `e pi` anche per lo studio delle azioni interne delle travi. Perch´e un problema strutturale di una trave sia piano `e necessario che: • l’asse Γ delle trave appartenga a un piano (detto α ) • per tutte le sezioni uno degli assi principali d’inerzia appartenga al piano α • le forze esterne (carichi e reazioni vincolari) devono avere componenti e centri di spinta solo nel piano α • le azioni esterne di momento (carichi e reazioni vincolari) devono avere componenti solo normali al piano α. Nel seguito, per problemi piani, quando non diversamente indicato, assumeremo il sistema di riferimento e le ascisse curvilinee come in figura 9.19, con l’asse x che punta verso l’osservatore. Nei problemi piani si verifica immediatamente che solo tre delle sei caratteristiche di sollecitazione sono significative (ovvero possono essere non nulle), con il sistema di riferimento adottato: N , Ty e Mx . Per questo motivo nei problemi piani di trave le caratteristiche di sollecitazione

233

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

sono designate talvolta con la notazione senza pedici: N , M e T . Tuttavia, rinunceremo a questa notazione semplificata in modo da sviluppare relazioni direttamente estendibili ai problemi tridimensionali. Come consuetudine per i problemi piani, anche il momento flettente pu`o essere rappresentato con la semplice freccia curva (non a nastro) in quanto per la sua direzione non sorgono ambiguit`a. Nella figura 9.27 `e riportato lo schema generale di corpo libero del concio elementare per problemi piani sul quale sono rappresentate le caratteristiche di sollecitazione positive. La figura 9.27 pu`o essere usata anche come schema per ricordare la convenzione sui segni delle caratteristiche: ogni singolo carico agente su una parte della struttura produce un contributo positivo sulle caratteristiche di sollecitazione quando risulta equiverso ai vettori indicati.

Figura 9.27: Schema di corpo libero generale delle azioni interne agenti sul concio nel caso piano: sono riportate sulle due facce le caratteristiche di sollecitazione assunte positive

Nel seguito sono proposti alcuni esempi di calcolo delle caratteristiche di sollecitazione per problemi piani. Esempio 9.3: Caratteristiche per carichi concentrati Determinare le caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni A, B e C (sA = 0, sB = a e sC = 3a) della trave rettilinea in figura 9.28 in cui a = 200 mm e F = 350 N. F

A

C

B

2a

a

Figura 9.28: Problema piano con carico concentrato

L’aspetto interessante del problema consiste nel trattamento delle azioni concentrate. Lo schema di corpo libero infatti indica che sia i carichi sia le reazioni vincolari sono forze concentrate applicate a punti dell’asse della trave. Nella pratica questo significa che le effettive zone di applicazione delle forze (che ovviamente non possono essere puntiformi) hanno una estensione paragonabile (o inferiore) al diametro d della trave. La presenza di forze concentrate crea qualche problema di definizione per le caratteristiche di sollecitazione che pu`o essere superato con una opportuna scelta delle sezioni in cui valutare le

234

9.8. PROBLEMI PIANI DI TRAVI

caratteristiche stesse. In particolare, la sezione B sar`a separata in due sezioni in corrispondenza dei punti B − e B + , la prima delle quali precede e la seconda segue il punto di applicazione della forza, rispetto al senso di s. Entrambe le sezioni ΩB − e ΩB + dovranno sopportare le rispettive caratteristiche di sollecitazione e, nella verifica, saranno trattate, a tutti gli effetti, come sezioni distinte. Si pu`o obiettare che in questo modo, considerando solo cosa succede un po’ prima e un po’ dopo il punto di effettiva applicazione del carico, si trascurano proprio gli effetti diretti prodotti sulla trave dal carico concentrato. Questa osservazione `e corretta, tuttavia `e necessario sempre considerare che gli effetti diretti del carico dipendono da caratteristiche locali (zona e distribuzione delle effettive azioni agenti) che non sono descritte nel modello di trave. Per analizzare tali effetti diretti, quando sono ritenuti importanti, `e quindi necessario introdurre modelli strutturali pi` u dettagliati che, almeno localmente, sono 2-D o 3-D. Il lettore pu`o verificare la seguente tabella che raccoglie i valori della caratteristiche di sollecitazione richieste. Sezione A+ B− B+ C−

s (mm) 0 400 400 600

N (N) 0 0 0 0

T y (N) 117 117 -233 -233

M x (Nm) 0 46.7 46.7 0

Esempio 9.4: Caratteristiche per carichi concentrati con asse ramificato Determinare le caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni A, B e C (sA = 0, ecc. . . ) della trave rettilinea AC in figura 9.29 (a = 150 mm) alla quale `e connesso un braccio su cui agisce una forza F = 600 N.

a

F

A

C

B

a

2a

Figura 9.29: Problema piano con carico concentrato e asse ramificato

Con considerazioni analoghe a quelle sviluppate nell’esempio precedente, si ottiene la tabella seguente. Sezione A+ B− B+ C−

s (mm) 0 300 300 450

N (N) 600 600 0 0

T y (N) -200 -200 -200 -200

M x (Nm) 0 -60 30 0

235

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

Esempio 9.5: Caratteristiche con carichi distribuiti Determinare le caratteristiche di sollecitazione nella sezione di mezzeria C (sC = a) della trave di figura 9.30 in cui il carico `e distribuito lungo l’asse con un andamento lineare rispetto all’ascissa s. Tracciare lo schema di corpo libero del concio infinitesimo in corrispondenza di C. Valori numerici: a = 120 mm, p0 = 35 N/mm. C

p0

A

B

a

a

Figura 9.30: Problema piano con carico distribuito

` necessario ottenere lo schema di corpo libero definitivo. E C

p0

A

B 1 p0 a 3

2 p0 a 3

Figura 9.31: Schema di corpo libero definitivo

Rispetto alla sezione ΩC , sulla sottotrave che si estende verso l’asse z negativo le azioni esterne sono: una forza concentrata in A e una distribuzione triangolare (da s = 0 a s = a) di cui `e facilmente calcolabile la risultante (p0 a/4) e l’ascissa del centro di spinta (s = 2a/3). Le caratteristiche in C si ottengono calcolando risultante e momento risultante di queste due forze rispetto a C e cambiandone il segno. Il lettore pu`o verificare il risultato effettuando il calcolo anche con le azioni agenti sulla sottotrave che si estende verso le z positive. In tal caso la distribuzione dei carichi `e trapezoidale e pu`o essere conveniente considerarla equivalente a due forze concentrate (p0 a/2 applicata in s = 3a/2 e p0 a/4 applicata in s = 5a/3). I risultati sono: N = 0, Ty = 350 N e Mx = 0.126 kNm. Lo schema di corpo libero del concio centrale `e rappresentato in 9.32. 350 N C

0.126 kNm

z 0.126 kNm 350 N y

Figura 9.32: Schema di corpo libero del concio centrale

236

9.8. PROBLEMI PIANI DI TRAVI

Non sono state rappresentate le forze esterne agenti sul concio perch´e, essendo proporzionali all’estensione assiale ds, sono infinitesime, mentre le azioni interne sono quantit` a finite. Dallo schema di corpo libero si ricava immediatamente che, in corrispondenza di C, le fibre inferiori della trave sono tese e le fibre superiori sono compresse dalla flessione (in effetti in C `e Mx > 0).

Esempio 9.6: Trave con asse curvo In figura 9.33 `e rappresentata la trave AB di sezione uniforme avente asse circolare (raggio R = 550 mm) disposto su un piano verticale. Il materiale `e omogeneo, la massa totale `e M = 40 kg e la trave `e soggetta al solo peso proprio. Determinare le caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni C (sC = Rπ/4) e D (sD = Rπ/2) e disegnare gli schemi di corpo libero dei relativi conci elementari.

Figura 9.33: Trave ad asse circolare

Indichiamo con θ = s/R la coordinata angolare che determina la posizione della generica sezione, con P = M g = 392.4 N il peso totale della trave e con p = P/(πR) = 0.227 N/mm il carico (uniforme) per unit`a di lunghezza applicato all’asse della trave. La lunghezza del concio infinitesimo pu`o essere espressa in funzione del parametro angolare essendo: ds = Rdθ. Considerazioni di equilibrio conducono allo schema di corpo libero definitivo di figura 9.34. Consideriamo la sezione C (θC = π/4), la valutazione della forza normale deve tener conto dell’inclinazione dell’asse z locale. Valutiamo i carichi che precedono la sezione, i tre contributi (forze P e P/π applicati in A e carico distribuito p tra 0 e RθC ) sono dati dalla relazione seguente: h i Rθ N = − Pπ cos θC + P sin θC − 0 C pR sin θC dθ = − Pπ [cos θC + (π − θC ) sin θC ] = −296.4 N

237

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

B

P

π p D

θ P

z

C

A

P

π

y

s

Figura 9.34: Schema di corpo libero definitivo

Nel calcolo dell’integrale si deve tener conto che l’angolo θC `e una costante. In modo analogo si determina il taglio e il momento flettente: h i Rθ Ty = − Pπ sin θC − P cos θC − 0 C pR cos θC dθ = − Pπ [sin θC + (θC − π) cos θC ] = 119.8 N Mx = − =

PR π

h

PR π

(1 − cos θC ) − P R sin θC +

R θC 0

i pR2 (sin θC − sin θ) dθ =

(π − θC ) sin θC = 0.1145 kNm

Dato che le formule ottenute sono generali, per avere la soluzione nella sezione D `e sufficiente sostituire θC con θD = π/2 e si ottiene: N = −196.2 N, Ty = −124.9 N e Mx = 0.1079 kNm. I diagrammi di corpo libero definitivo dei due conci elementari sono mostrati nella figura 9.35.

6 29

.4

1 0.

N

5 14

.8

N

m kN

0.1079 kNm

196.2 N

y

y

9 11

124.9 N

z

z

N

N

196.2 N

.8

.4

D

0.1079 kNm

9 11

6 29

m kN

124.9 N

11 0.

C

45

Figura 9.35: Schemi di corpo libero dei conci elementari per le sezioni C e D

Esempio 9.7: Trave con asse circolare e carico radiale uniforme Verificare che tutte le sezioni della trave circolare con carico radiale uniforme p di figura

238

9.8. PROBLEMI PIANI DI TRAVI

9.36a) sono soggette solo a forza normale e valutarla. B

B

pR

R

R

p

p

C

C

θC

s

A

A

pR

a)

b)

Figura 9.36: Trave curva soggetta a carico radiale uniforme a) e relativo schema di corpo libero definitivo b)

Le reazioni vincolari, valutabili come nell’esempio precedente, sono rappresentate nella figura 9.36b). Consideriamo una generica sezione C individuata dalla coordinata angolare θC , le caratteristiche di sollecitazione sono valutate considerando i carichi agenti nella parte della z negative.   Z θC pR sin (θC − θ) dθ = pR [cos θC + 1 − cos θC ] = pR N = − −pR cos θC − 0

 Z Ty = − −pR sin θC +

θC

 pR cos (θC − θ) dθ = pR [− sin θC + sin θC ] = 0

0

Mx = pR2 (1 − cos θC ) −

Z

θC

pR2 sin (θC − θ) dθ = 0

0

Si verifica che forza normale `e l’unica caratteristica non nulla e il suo valore `e indipendente da s.

Esercizio 9.3: Varianti sull’anello Con considerazioni simili a quelle sviluppate nel precedente esempio 9.7 verificare che, per una trave con asse circolare sotto un carico radiale uniformemente distribuito, le seguenti affermazioni sono vere: • lo stesso stato di sollecitazione `e prodotto in un settore di anello di qualunque angolo se l’appoggio nell’estremo B ha reazione diretta tangenzialmente alla circonferenza • la condizione di sola forza normale costante `e prodotta anche in un anello completo • in un anello completo di raggio R = 250 mm e massa M = 30 kg uniformemente distribuita posto in rotazione a n = 600 giri/min attorno a un asse che passa per il centro e diretto come la normale al piano che contiene l’asse della trave: la forza normale `e di 4712 N (peso proprio trascurato).

239

9. IL MODELLO DI TRAVE E LE CARATTERISTICHE DI SOLLECITAZIONE

9.9 Problemi tridimensionali di travi In questo paragrafo sono proposti alcuni esempi di calcolo delle caratteristiche in casi tridimensionali (non riconducibili al piano). Esempio 9.8: Trave ad asse rettilineo Sulla piattabanda della mensola con sezione a T di figura 9.37 `e applicata una distribuzione triangolare di pressione con valore massimo p = 0.5 MPa. Determinare le caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni di estremit`a A e B. A p C x

z y

s

x

B

z y

B=60

L=700

Figura 9.37: Trave rettilinea con carico di pressione non uniforme

Nella figura `e rappresentato il sistema di riferimento della trave. Si tratta di una trave ad asse rettilineo e sezione costante quindi i sistemi di riferimento locali hanno assi paralleli ed equiversi per tutte le sezioni. Tuttavia, la natura del carico (che non `e simmetrico rispetto al piano yz) rende il problema tridimensionale. Non `e necessario ottenere lo schema di corpo libero definitivo poich´e sono note tutte le azioni agenti dalla parte delle z positive per entrambe le sezioni da esaminare. La valutazione per la sezione B `e immediata: non essendoci carichi oltre il punto B, la sezione risulta completamente scarica. D’altra parte anche considerazioni di tipo fisico suggeriscono che, essendo la faccia Ω+ B priva di azioni applicate e priva di interazioni con il resto del materiale, non agiscono forze elettromagnetiche. Da ci`o si ricava che anche le caratteristiche statiche complessive di tale distribuzione sono nulle. Per la sezione A `e necessario calcolare risultante e momento risultante della distribuzione di pressione. Le caratteristiche di sollecitazione non nulle sono le seguenti: Ty = pLB/2 = 10.5 kN, Mx = −pL2 B/4 = −3.675 kNm e Mz = pLB 2 /12 = 0.105 kNm La presenza del momento torcente testimonia la natura tridimensionale del problema. Le caratteristiche di sollecitazione in A sono connesse alle reazioni vincolari. Il lettore rappresenti graficamente le azioni trasmesse dalla trave al telaio sulla base delle caratteristiche di sollecitazione calcolate ed effettui il calcolo delle caratteristiche anche per la sezione di mezzeria C.

Esempio 9.9: Trave con asse curvo nello spazio Calcolare le caratteristiche di sollecitazione in corrispondenza delle sezioni A, B, C e D del semianello di figura 9.38 con R = 500 mm incastrato in A e caricato in B al quale

240

9.9. PROBLEMI TRIDIMENSIONALI DI TRAVI

`e applicata la forza F = 250 N avente direzione normale al piano contenente l’asse della trave.

Figura 9.38: Trave curva nello spazio

L’asse y `e entrante nel piano di rappresentazione, la seguente tabella fornisce la soluzione (sono riportate solo le caratteristiche non identicamente nulle): Sezione A+ B− C D Generica

θ 0+ π− π/4 π/2 0 1, bi = L · cos ϕi , Wi = P · bi e ϕi+1 = Wi /µ. Nel caso in esame il risultato dell’applicazione del procedimento di approssimazioni successive `e riportato nella seguente tabella:

304

11.5. EFFETTI PRODOTTI DAL CAMBIAMENTO DELLA GEOMETRIA SOTTO CARICO

ϕi (◦ ) 0 52.21633 31.992 44.28583 37.37987 41.49256 39.11221 40.51528 39.69657 40.17722 39.89602 40.06087 39.96435

i 0 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12

bi (mm) 1000 612.6818 848.1221 715.8655 794.628 749.0418 775.9119 760.2328 769.4378 764.0526 767.2097 765.3611 766.4443

Wi (kNm) 1 0.612682 0.848122 0.715865 0.794628 0.749042 0.775912 0.760233 0.769438 0.764053 0.767210 0.765361 0.766444

e rappresentato graficamente nel diagramma di figura 11.10. Osserviamo che il procedimento iterativo converge all’angolo esatto, ed `e immediato verificare che lo stesso tipo di convergenza si verifica anche per tutte le altre grandezze, in particolare, il braccio e il momento esercitato dalla molla. Si pu`o inoltre notare che una approssimazione ragionevole `e raggiunta dopo un numero non eccessivo di passi. Purtroppo, l’esito favorevole del procedimento iterativo non `e sempre scontato. In certi casi, in particolare se la configurazione di equilibrio `e molto diversa da quella di partenza, la soluzione richiede un numero di passi pi` u elevato e, talvolta, il procedimento pu`o anche risultare divergente (le escursioni angolari aumentano invece che ridursi). Inoltre, l’individuazione di una condizione di equilibrio non esclude che ve ne possano essere altre, ed eventuali configurazioni di equilibrio instabile non sono generalmente ottenibili con procedimenti di questo tipo. 60

ϕ (°) ϕ i (°)

50 40 30 20 10

Fig.11.10

0 0

1

2

3

4

5

6

7

8

9

10

11

12

13

ii Figura 11.10: Soluzione iterativa con l’angolo espresso in gradi

L’andamento oscillante delle successive approssimazioni del procedimento numerico attorno al risultato finale, evidenziato dal grafico in figura 11.10, non ha un significato fisico, in particolare non `e assimilabile alla riproduzione di un fenomeno di oscillazione smorzata. L’algoritmo adottato non modella infatti alcuna azione dinamica (inerzia o smorzamento) per cui l’evoluzione della configurazione rispetto al passo di iterazione i ha una spiegazione di tipo esclusivamente numerico. Pur con queste precauzioni si pu`o concludere che, in assenza di procedimenti di calcolo pi` u sofisticati, il metodo iterativo proposto `e spesso efficace per risolvere numericamente molti problemi del secondo tipo. La tabella `e stata infatti ottenuta con elementari calcoli diretti

305

11. STATICA DEI CORPI DEFORMABILI

eseguibili con una calcolatrice o, pi` u convenientemente, con un semplice foglio elettronico. Se il procedimento converge, quando il modulo della variazione tra il valore della grandezza stimata nei passi i e i − 1 `e inferiore di una soglia prefissata (che pu`o essere fissata considerando l’incertezza attesa per il risultato o la precisione richiesta) il procedimento pu`o essere arrestato e la condizione dell’ultimo passo risulta generalmente una soddisfacente soluzione.

11.5.3 Ipotesi dei piccoli spostamenti Se nell’esempio del paragrafo precedente aumentiamo la rigidezza della molla portandola al valore µ = 2.692021061 kNm/rad, la configurazione di equilibrio si realizza per ϕ = 20◦ . L’algoritmo iterativo produce in questo caso il grafico di figura 11.11 e la seguente tabella. i 0 1 2 3 4 5 6 7 8

ϕi (◦ ) 0 21.28356 19.83192 20.02127 19.9973 20.00034 19.99996 20.00001 20.00000

bi (mm) 1000 931.7954 940.6919 939.5656 939.7088 939.6906 939.6929 939.6926 939.6926

Wi (kNm) 1 0.931795 0.940692 0.939566 0.939709 0.939691 0.939693 0.939693 0.939693

25

ϕϕi (°) (°)

20 15

Fig.11.11

10 5 0 0

1

2

3

4

5

6

7

8

i Figura 11.11: convergenza del procedimento nel caso in cui l’angolo di equilibrio `e di 20◦

Come era da attendersi, osserviamo che: • una risposta sufficientemente accurata `e ottenibile con un numero di passi inferiore rispetto al caso precedente • lo stesso effetto pu`o essere prodotto con una molla meno rigida se viene ridotto il carico, per cui la rapidit`a della convergenza dipende dalla differenza tra la configurazione di equilibrio (finale) e la configurazione indeformata (di partenza) • la rapida convergenza si verifica pur con una inclinazione significativa della barra, dato che 20◦ sono una macroscopica deviazione dall’orizzontalit`a per molti componenti meccanici anche significativamente deformabili.

306

11.5. EFFETTI PRODOTTI DAL CAMBIAMENTO DELLA GEOMETRIA SOTTO CARICO

Per il problema in esame `e possibile quantificare l’errore di approssimazione dovuto al procedimento di calcolo introducendo la seguente quantit`a adimensionale: ei =

ϕ i − ϕ∞ ϕ∞

che misura in termini relativi l’errore di stima che si commette arrestando il procedimento all’i-esima iterazione. Nella figura 11.12 sono riportati gli andamenti dell’errore relativo in funzione del passo di iterazione per diversi valori dell’angolo di equilibrio. Si deduce che quando la configurazione di equilibrio `e vicina a quella di partenza, gi`a il primo passo dell’iterazione fornisce una stima ragionevole della deformata. Questa osservazione `e confermata dal grafico di figura 11.13 in cui `e rappresentato l’errore commesso nella prima approssimazione e1 in funzione del valore esatto dell’inclinazione. Osserviamo che per angoli di inclinazione previsti inferiori a 0.3

40°

0.2

ϕ∞

ee

0.1

20° 10°

Fig.11.12



0 -0.1 -0.2 -0.3 0

1

2

3

4

5

6

ii

7

8

9

10

11 12

13

Figura 11.12: Errore nell’iterazione per 4 diversi angoli di equilibrio

10◦ l’errore relativo al primo passo `e inferiore a 1% (e quindi accettabile per la gran parte delle stime tecniche) e per angoli previsti inferiori a 3◦ l’errore al primo passo `e inferiore a 0.1%. Questo risultato pu`o essere generalizzato: se la prima iterazione, riferita alla geometria indeformata, prevede una variazione di configurazione relativamente piccola rispetto alla configurazione di partenza, la stima della deformata pu`o essere accettata. Quando il procedimento iterativo `e arrestato al primo passo, si dice che `e assunta l’ipotesi di corpi o strutture poco deformabili. La soluzione ottenuta nell’ipotesi di corpi poco deformabili non `e esatta perch´e l’errore che si commette `e nullo solo al limite, ovvero per variazioni di configurazione infinitesime. Tuttavia, la previsione di processi deformativi di piccola entit`a, per quanto mai infinitesimi, basata sulla prima iterazione `e molto frequente in pratica, perch´e `e efficiente ed efficace infatti: • (efficiente) l’ipotesi dei corpi poco deformabili consente una valutazione molto rapida della loro deformabilit`a • (efficiente) la possibilit`a di riferirsi alla configurazione indeformata (nota a priori) permette di conservare la linearit`a del problema, con notevoli vantaggi sulla modellazione e sulla soluzione • (efficace) dato che una elevata rigidezza `e una necessit`a per molte strutture, gli spostamenti sotto carico devono essere piccoli, non tanto per le difficolt`a di calcolarli quanto per ragioni funzionali

307

11. STATICA DEI CORPI DEFORMABILI

1

Fig.11.13

0.1

e1

e1

0.01 0.001 0.0001 0.00001 0.000001 0.1

1

ϕϕ∞(°)(°)

10

100

Figura 11.13: Errore commesso nella prima approssimazione in funzione del valore finale dell’angolo

• (efficace) moltissime strutture devono essere poco deformabili. Dal punto di vista operativo, il metodo che sar`a sistematicamente adottato nei calcoli in cui si considera la deformabilit`a `e pertanto il seguente: 1. si assume l’ipotesi di corpo, o struttura, poco deformabile 2. sulla base di tale ipotesi si stimano le distorsioni sotto carico assumendo che la configurazione di riferimento sia quella iniziale e arrestando il procedimento iterativo al primo passo 3. se il risultato indica piccole distorsioni, l’analisi `e da considerarsi accettabile e terminata 4. la validit` a dell’ipotesi di corpo poco deformabile `e verificabile a posteriori 5. infatti, se le variazioni di configurazione stimate al primo passo sono considerate grandi, possono darsi due casi: • le distorsioni sono gi`a eccessive per la struttura; per quanto ottenute con una presumibile significativa approssimazione, il modello ha quindi gi`a evidenziato una inadeguatezza funzionale della struttura che dovr`a essere irrigidita • la struttura pu`o tollerare una distorsione elevata (`e impiegata per deformarsi molto), il risultato dimostra quindi l’inadeguatezza dell’ipotesi di corpo poco deformabile e indica la necessit`a di migliorare l’analisi deformativa, per esempio continuando le iterazioni o usando altri metodi per risolvere il problema del secondo tipo. Come si pu`o notare, la soluzione basata sull’ipotesi di corpo poco deformabile `e utile in ogni circostanza.

11.5.4 Quando le distorsioni possono essere considerate piccole? Per poter accettare a posteriori l’ipotesi di corpo poco deformabile `e necessario rispondere alla domanda: i valori che definiscono la distorsione (spostamenti o rotazioni) trovati con la prima iterazione, sono effettivamente piccoli? In generale, per rispondere in modo rigoroso, sarebbe necessario continuare l’iterazione e studiare l’evoluzione e la convergenza. In tal modo per`o, si perdono i vantaggi di semplicit`a connessi con l’ipotesi di corpo poco deformabile.

308

11.6. MECCANICA DEI CORPI POCO DEFORMABILI SOTTO CARICHI QUASI STATICI

Nella pratica, si risponde ricorrendo all’esperienza accumulata nella soluzione di classi di problemi simili. Per una quantit`a angolare (espressa in radianti) il concetto di piccolo pu`o essere quantificato in termini assoluti: un angolo `e piccolo se il suo valore `e molto minore dell’unit` a. −3 −2 Per fissare le idee, possiamo considerare piccolo un angolo minore di (10 ÷ 10 )rad. Uno spostamento `e invece una grandezza dimensionata ed `e quindi necessario confrontarlo con una quantit`a omogenea di riferimento, caratteristica del problema, per stabilire se `e piccolo. In genere, nei problemi di travi, lo spostamento di un punto della linea d’asse pu`o essere considerato piccolo quando `e inferiore al diametro della sezione. Questa scelta `e coerente con la teoria dei corpi monodimensionali per i quali il diametro della sezione `e considerato una lunghezza piccola per definizione. Pertanto, se in una trave gli spostamenti dei punti della linea d’asse sono un ordine di grandezza inferiori alla lunghezza della trave, l’ipotesi di corpi poco deformabili `e generalmente accettabile con buona approssimazione. Anche per i corpi bidimensionali, per esempio le piastre, gli spostamenti sotto carico possono essere considerati piccoli quando sono inferiori allo spessore. Non sempre spostamenti cos`ı esigui sono riscontrati nelle strutture di travi, controesempi ben noti sono: la canna da pesca, il trampolino per i tuffi e l’attrezzo usato nel salto con l’asta. Per queste travi gli spostamenti sotto carico risultano molto maggiori del diametro e in alcuni casi risultano addirittura paragonabili alla stessa lunghezza della linea d’asse. In Meccanica un’importante classe di elementi strutturali, le molle, hanno caratteristiche deformative analoghe perch´e sono impiegate proprio perch´e possono modificare molto la loro forma sotto carico. ` evidente che lo studio di questi elementi, effettuata con l’ipotesi dei corpi poco deformabili, E pu`o portare talvolta a previsioni inadeguate. Nell’esame di problemi nuovi, quando l’esperienza non `e di guida, oppure quando le stime di primo tentativo non producono spostamenti piccoli, `e necessario abbandonare l’ipotesi dei corpi poco deformabili. In questi casi, problemi di ‘grandi spostamenti’, la pratica suggerisce di adottare strumenti specifici di analisi strutturale assistita da computer. Questi problemi non sono trattati diffusamente nel presente corso per cui, a parte situazioni elementari e alcuni casi particolari, nel seguito faremo l’ipotesi che la meccanica dei corpi deformabili sia generalmente applicabile.

11.6 Meccanica dei corpi poco deformabili sotto carichi quasi statici Nel seguito del corso, saranno in genere esaminate strutture per le quali le variazioni di geometria sotto carico sono quantitativamente piccole e le pulsazioni proprie sufficientemente elevate e quindi generalmente trattabili come corpi poco deformabili soggetti a carichi quasi statici (si pensi per esempio a un tipico albero di trasmissione). Nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili, il modello di corpo infinitamente rigido pu`o essere reinterpretato, in modo fisicamente pi` u ragionevole, come il limite a cui tende un corpo deformabile quando `e moderatamente sollecitato. Non si deve quindi ravvisare alcuna contraddizione tra il modello di corpo rigido e il modello di corpo poco deformabile tanto che, in molte circostanze, `e coerente usare entrambi i modelli per lo stesso corpo nello stesso problema. Siccome il modello rigido `e comunque il pi` u semplice, continueremo quindi ad adottarlo quando possibile, anche in presenza di una piccola deformabilit`a. Solo nei casi in cui il modello rigido non `e applicabile, perch´e il problema `e iperstatico o perch´e `e richiesta la variazione di forma, considereremo le sue distorsioni che saranno valutate in prima approssimazione (effettuando il solo primo passo dell’iterazione). Come conseguenza, nella meccanica dei corpi poco deformabili, le differenze tra le caratteristiche di sollecitazione valutabili nella configurazione indeformata e quelle ’effettive’, valutabili nella configurazione deformata di equilibrio, sono quindi general-

309

11. STATICA DEI CORPI DEFORMABILI

mente trascurate. Per esempio, la forza normale che si manifesta nella mensola di figura 11.8 a causa della deformabilit`a pu`o essere rilevante per analizzare una canna da pesca ma la sua presenza non `e giustificata in un albero di trasmissione. Per una mensola poco deformabile su cui agisce un carico trasversale applicato all’estremit`a, assumeremo quindi: taglio costante, forza normale nulla e momento flettente variabile linearmente con s, esattamente come nel modello di trave infinitamente rigida. L’ipotesi di corpo poco deformabile comporta anche un’altra fondamentale semplificazione. Per strutture poco deformabili realizzate con materiali che hanno un comportamento elastico lineare (ovvero che, come vedremo, sono simili a molle ideali), il generico spostamento di un qualunque punto della struttura risulta proporzionali all’intensit`a dei carichi agenti. Ci`o permette di ottenere l’effetto deformativo totale prodotto da un carico complesso, per esempio l’insieme di pi` u forze applicate in punti diversi, dalla sovrapposizione degli effetti deformativi prodotti delle singole forze. Il seguente esempio illustra come risolvere un simile problema nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili. Esempio 11.3: Trave rigida su due supporti elastici con diverse condizioni di carico Nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili, determinare l’inclinazione della barra rigida su supporti elastici di figura 11.14. Verificare la validit`a del principio di sovrapposizione degli effetti.

P

Q

B

C k2

k1 L/2

L/4

Fig.11.14

L/4

Figura 11.14: Barra rigida su appoggi elastici

La meccanica dei corpi poco deformabili si pu`o ragionevolmente applicare in questo caso nell’ipotesi di spostamenti non superiori a 0.1L ovvero un ordine di grandezza inferiori alla dimensione caratteristica del problema. Per l’analisi dell’equilibrio `e lecito trascurare la differenza tra la configurazione deformata (barra inclinata di un angolo θ rispetto all’orizzontale) e quella di riferimento. Le molle si abbassano di una quantit`a proporzionale alla reazione vincolare, e coerentemente con le ipotesi, possono essere approssimate come appoggi ideali. Se le distorsioni sono piccole siamo quindi ricondotti al problema elementare intrinsecamente isostatico di un corpo rigido nel piano per il quale le reazioni vincolari ` lasciato al lettore il compito di verificare che possono essere ottenute dalle sole cardinali. E le forze esercitate dalla barra sulle molle (dirette verso il basso) valgono: 1 (2P + Q) 4 1 RC = (2P + 3Q) 4 ` E quindi immediato stimare l’abbassamento dei punti B e C, e poich´e nel caso di piccoli spostamenti l’angolo di inclinazione pu` o essere confuso con il seno e la tangente (tan θ ∼ = RB =

310

11.6. MECCANICA DEI CORPI POCO DEFORMABILI SOTTO CARICHI QUASI STATICI

sin θ ∼ = θ), si pu`o ricavare la prima approssimazione dell’inclinazione della barra (positiva se oraria): RB RC 1 k 2 − k1 = θ= [2P (k1 − k2 ) + Q (3k1 − k2 )] L 4Lk1 k2 Se l’angolo cos`ı ottenuto `e θ  1 (valore in radianti), le ipotesi fatte sono consistenti e il risultato accettabile. Osserviamo che l’angolo di inclinazione, e conseguentemente qualsiasi altra grandezza statica e deformativa, `e espressa da una combinazione lineare dei carichi applicati. Risulta pertanto verificata la sovrapposizione degli effetti. Ci`o consegue della linearit`a del comportamento elastico delle molle ma anche dalla piccola entit`a degli spostamenti che hanno permesso di stimare le reazioni vincolari in base alla geometria indeformata e successivamente di approssimare al primo ordine le funzioni trigonometriche seno e tangente.

Un’altra importante conseguenza della limitatezza delle distorsioni ammissibili `e connessa alla classificazione statica di certi problemi strutturali e quindi al modo di risolverli. Ritorniamo al problema di figura 11.9, e supponiamo che il carico produca un abbassamento dell’estremo C pari a 0.01L (=10 mm), un semplice calcolo mostra che il conseguente spostamento orizzontale di C `e pari a 5 · 10−5 L (=0.05 mm). La componente orizzontale dello spostamento `e quindi di entit`a tale da poter essere trascurato anche rispetto agli spostamenti verticali che, per quanto piccoli, sono ritenuti significativi (nel caso in esame sono dell’ordine di 10−2 L e quindi 2000 volte superiori). Sulla base di considerazioni di questo tipo, il problema rappresentato in figura 11.15, che classificheremo labile nell’ipotesi di corpi infinitamente rigidi, lo sar`a anche assumendo l’ipotesi di corpi poco deformabili. In effetti, il primo passo dell’algoritmo di soluzione non pu`o essere eseguito perch´e l’equilibrio risulta impossibile nella configurazione indeformata. Il seguente esempio elementare illustra questa problematica.

P

Fig.11.15 Figura 11.15: Struttura labile anche in regime di piccoli spostamenti

Esempio 11.4: Molle scariche Un corpo di massa m appoggiato su un piano orizzontale (figura 11.16 (a)) `e collegato a due molle ideali uguali di costante k inizialmente orizzontali e non pretensionate. Viene rimosso l’appoggio in modo che il corpo risulti soggetto al peso proprio. Determinare lo spostamento verticale v della massa B all’equilibrio.

311

11. STATICA DEI CORPI DEFORMABILI

m B

C

D

a) l0

l0

Fig.11.16 C

D

b) v B mg Figura 11.16: Massa attaccata a una coppia di molle non pretensionate: a) configurazione iniziale con appoggio, b) configurazione in equilibrio con massa libera

Consideriamo esaurito il transitorio dinamico che si verifica dopo l’eliminazione dell’appoggio quando i moti oscillatori sono stati dissipati dalle forze viscose. Come osservato, non `e possibile partire dalla configurazione indeformata con il procedimento iterativo perch´e il problema `e labile. Per imporre l’equilibrio `e necessario quindi considerare subito una configurazione con le molle allungate e quindi inclinate. L’equazione non lineare risolvente `e: v mg v−r  2 = 2k 1 + lv0 la cui soluzione pu`o essere ottenuta con un procedimento grafico-numerico come mostrato in figura 11.17. IL risultato evidenzia in particolare come la posizione di equilibrio della massa dipenda in modo marcatamente non lineare dal carico. La curva che fornice la posizione verticale all’equilibrio in funzione del carico ha una pendenza iniziale infinita a ulteriore dimostrazione del fatto che nella configurazione indeformata il problema `e labile. Per configurazioni di equilibrio non molto distanti dall’orizzontale (v/l0 < 0.1) `e possibile ottenere una soluzione analitica approssimata utilizzando lo sviluppo del binomio:   1 x2 ∼ x1⇒ √ = 1− 2 1 + x2 da cui si ricava 1 2

 3 v mg ∼ = l0 2kl0

e quindi r

mgl02 k relazione che mostra come per piccole distorsioni lo spostamento all’equilibrio dipenda dalla radice cubica del carico. v∼ =

312

3

11.6. MECCANICA DEI CORPI POCO DEFORMABILI SOTTO CARICHI QUASI STATICI

2

vv/l/l00

1.5

Fig.11.17

1

0.5

0 0

1

mgmg/(2kl /(2kl0)) Figura 11.17: Posizione di equilibrio in funzione dei parametri del problema (valori adimensionalizzati)

Un’interessante variante del problema precedente `e fornita dal seguente esempio in cui le molle sono precaricate tramite un forzamento iniziale e il problema, divenuto iperstatico, manifesta uno spostamento lineare ai bassi carichi. Esempio 11.5: Molle precaricate Considerare il sistema dell’esempio precedente in cui le molle sono montate pretensionate Fig.11.18 (figura 11.18) in modo che, quando la massa `e appoggiata al tavolo, ognuna di esse risulti pi` u lunga di una quantit`a pari a l1 rispetto al valore a riposo. mg

B

C l0+l1

D v

l0+l1

Figura 11.18: Equilibrio nel caso di molle precaricate

Si tratta di un problema iperstatico con forzamento. In virt` u del pretensionamento (T1 = kl1 ) le molle possono contrastare da subito lo spostamento verticale della massa indotto dal peso proprio, per cui `e applicabile il procedimento di soluzione basato sull’ipotesi di corpi poco deformabili. Per motivi didattici determiniamo comunque l’equazione risolvente del problema del secondo tipo e successivamente confrontiamo la soluzione approssimata con la prima iterazione. Usando il procedimento applicato nell’esempio precedente, si ottiene la seguente equazione non lineare: v mg v − r 2  2 = 2k 1 + ll10 + lv0

313

11. STATICA DEI CORPI DEFORMABILI

che differisce da prima per il termine l1 /l0 dipendente dal pretensionamento. La presenza di questo parametro modifica sostanzialmente il problema, come si pu`o osservare dalla soluzione. In effetti, se il pretensionamento `e significativo (basta che sia l1 > v) `e valida la seguente approssimazione: s     2 s l1 2 v l1 2 l1 ∼ 1+ + 1+ =1+ = l0 l0 l0 l0 e l’equazione risolvente si riduce alla seguente (lineare): v

l1 ∼ mg = l0 + l1 2k

che fornisce lo spostamento: mg (l0 + l1 ) v∼ = 2T1 Quest’ultima relazione dimostra che, in presenza di pretensionamento, lo spostamento della massa `e direttamente proporzionale al carico (finch´e non diventa eccessivo) e pu`o essere previsto con l’ipotesi di corpi poco deformabili. Infatti, con riferimento allo schema di corpo libero di figura 11.19, coerentemente con l’ipotesi di strutture poco deformabili, si pu`o assumere che: • il tiro delle molle rimanga invariato rispetto alla condizione indeformata (l’ulteriore allungamento delle molle dovuto a v `e piccolo rispetto a l1 ) per cui T ∼ = T1 = kl1 • il seno dell’angolo di inclinazione delle molle `e approssimabile come: sin θ ∼ = tan θ = v l0 +l1

• in base alla prima cardinale si pu`o scrivere: 2T sin θ − mg = 0 dalla quale si ricava la stessa relazione prima ottenuta dalla linearizzazione dell’equazione risolvente.

mg T

T

θ

Fig.11.19

Figura 11.19: Schema di corpo libero della massa all’equilibrio

Il sistema meccanico appena esaminato `e lo schema unidimensionale che esemplifica il funzionamento delle corde tese. In particolare `e stato verificato che lo spostamento, quando `e piccolo, risulta inversamente proporzionale al precarico delle molle. La spiegazione della possibilit`a di

314

11.6. MECCANICA DEI CORPI POCO DEFORMABILI SOTTO CARICHI QUASI STATICI

accordare la corda della chitarra, ovvero di variarne la frequenza propria, modificandone il tiro `e da ricercarsi nella caratteristica di questo tipo di struttura di avere una rigidezza dipendente dal precarico. Al lettore `e lasciato il compito di verificare che, per piccole oscillazioni trasversali, la pulsazione propria della struttura analizzata vale: s 2T1 Ω= m (l0 + l1 ) Si ricordi che il periodo del modo proprio definisce la costante di tempo caratteristica per valutare la durata dei transitori che producono significativi effetti dinamici. Pu`o essere, invece, non immediato rispondere alla seguente domanda: cosa succede alla frequenza propria se T1 = 0? La domanda equivale alla seguente: quale nota emette una corda non tesa?

315

Parte II

Meccanica dei solidi

317

Capitolo 12

Lo stato di tensione Il capitolo presenta la tensione che pu`o essere considerata una delle principali grandezze introdotte e utilizzate nell’ambito del presente corso. La prima parte del capitolo `e dedicata alla discussione sulla natura fisica della tensione e ai problemi connessi con la sua definizione. Successivamente sono affrontati alcuni importanti problemi formali connessi con la rappresentazione matematica della tensione in un sistema di coordinate cartesiane. In particolare, `e esaminato il modo con cui le componenti della tensione mutano in conseguenza di una rotazione degli assi. Tutte le valutazioni quantitative sullo stato di tensione sono sviluppate prendendo come base sistemi di coordinate cartesiane, nell’ultima parte `e mostrato come sia naturale estenderle anche ad altri comodi sistemi di coordinate curvilinee ortogonali.

12.1 Cosa misura la tensione 12.1.1 La natura fisica della tensione Le caratteristiche di sollecitazione per le travi introdotte nel capitolo 9 costituiscono il primo esempio di grandezze fisiche che quantificano le azioni elettromagnetiche interne agenti in un corpo esteso caricato e vincolato. La grandezza fisica tensione (stress) generalizza tale nozione in quanto consente di quantificare le azioni elettromagnetiche interne in un generico punto di un corpo a prescindere dalla forma del corpo stesso, dal tipo di materiale di cui `e costituito e dalle azioni esterne che su di esso agiscono. Consideriamo come esempio il concio di una trave soggetto solo a momento flettente. Dal capitolo 9 `e noto che il materiale risulta diversamente sollecitato nei vari punti del concio dato che sono previste zone tese e zone compresse. Il tentativo `e pertanto quello di definire la tensione come una grandezza fisica che rappresenti quantitativamente in modo completo il tipo e il livello della coazione a cui il materiale `e sottoposto in un punto di un corpo. Per un concio di trave inflesso, in particolare, `e evidente che la conoscenza della tensione in ogni suo punto `e il presupposto per la verifica di resistenza perch´e consente di individuare dove il materiale risulta pi` u sollecitato (i punti critici della sezione) e il livello di tali sollecitazioni. ` E utile premettere che la grandezza fisica tensione pu`o risultare di non immediata comprensione. Come vedremo, infatti, esistono difficolt`a, anche di natura concettuale, nella sua stessa definizione e, inoltre, si render`a necessario introdurre un nuovo tipo di grandezza per rappresentare la tensione nelle sue componenti. Dimostreremo infatti che non `e possibile ricondurla a uno scalare e nemmeno a un vettore. Per evidenziare come queste difficolt`a siano effettive, `e utile

319

12. LO STATO DI TENSIONE

qualche considerazione di carattere storico. Se ci riferiamo al concetto di tensione nei solidi, prescindendo quindi dal concetto di pressione nei fluidi, grandezza fisica simile ma di pi` u semplice comprensione, i primi tentativi di definizione sono attribuibili a Galileo Galilei nei primi anni del 1600. Nel secolo successivo la nozione di tensione nei solidi `e stata usata da grandi scienziati, tra i quali Leonard Euler (1707-1783), vari membri della dinastia dei Bernoulli (Daniel, Jacob, Jacques e John), Charles Coulomb (1736-1806), Giuseppe Luigi Lagrange (1736-1813) e ` Claude Navier (1785-1836), allo scopo di risolvere vari problemi di meccanica delle strutture. E interessante constatare come tali autori siano riusciti ad affrontare e risolvere problemi di analisi strutturale anche complessi che richiedevano la nozione di tensione, sostanzialmente in assenza di una definizione fisica e matematica completa e coerente di tale grandezza. L’atteggiamento spregiudicato nella soluzione dei problemi di Fisica e Matematica, basato sulla completa fiducia nell’intuizione, `e tipico della scienza del settecento e ha costituito la base del ripensamento critico sui fondamenti operato nel corso dell’ottocento. In effetti, il concetto di tensione come grandezza fisica `e stato sistematizzato, nel modo in cui `e attualmente accettato, solo nella prima met`a dell’ottocento soprattutto per opera di Augustin Cauchy (1789-1857). A tale scopo, lo scienziato francese si `e avvalso di alcuni degli strumenti concettuali pi` u rigorosi dell’Analisi Matematica che si stavano definendo nello stesso periodo. La travagliata gestazione della definizione di tensione ha pertanto interessato un arco temporale di oltre due secoli durante il quale la grandezza `e stata usata, in modo pi` u o meno rigoroso ed esplicito, da autori che rappresentavano le vette della cultura scientifica spinti spesso dalla necessit`a di risolvere importanti problemi pratici. La nozione di tensione serve infatti per verificare la resistenza di strutture civili (ponti, strade, edifici), per progettare macchinari e mezzi di trasporto (la fine del settecento coincide con l’inizio dell’era industriale) nonch´e, purtroppo, anche per realizzare armi e strumenti per la logistica delle forze armate (non `e un caso ´ coles francesi, che i primi fondamentali sviluppi della disciplina siano riconducibili alle Grand E promosse e fortemente sostenute da Napoleone). Non deve quindi sorprendere se l’acquisizione del concetto di tensione richieda pi` u di una superficiale lettura del presente capitolo, possibilmente accompagnata da un po’ di esercizio e di ripensamento critico. Fortunatamente, rispetto ai tempi di Cauchy, ora possiamo avvalerci una pi` u chiara e solida conoscenza della natura della materia (nuclei, elettroni, cristalli) e delle interazioni fisiche che la dominano. Questo quadro di conoscenze ci permette di formulare modelli che risultano coerenti con le leggi fondamentali della Fisica e quindi ci appaiono pi` u facilmente giustificabili.

12.1.2 Le principali ipotesi In generale, assumeremo che il materiale su cui agisce la tensione sia: • solido • continuo Per materiale solido intendiamo un aggregato cristallino ogni elemento del quale (atomo nei metalli, ione nei sali, molecola nei solidi covalenti, . . . ) occupa una posizione definita rispetto agli altri elementi. L’aggregato cristallino presenta quindi una configurazione regolare e periodica nello spazio. Nel seguito, per semplicit`a, chiameremo atomi gli elementi costituenti del reticolo cristallino, tuttavia le considerazioni sono valide non solo per il legame metallico ma anche per quello ionico e covalente in cui gli elementi possono essere ioni o molecole. A rigore, ogni singolo atomo non `e in equilibrio statico nel reticolo a causa dell’agitazione termica che induce un complesso moto oscillatorio tridimensionale. Tuttavia, `e possibile assumere per ogni atomo una posizione caratteristica considerando la media delle coordinate spaziali

320

12.2. IL VETTORE TENSIONE

del suo baricentro nel tempo. In condizioni di riferimento, generalmente assunte quando il corpo non `e sollecitato da azioni esterne ed `e a temperatura costante e uniforme (di solito la temperatura ambiente), la distanza tra atomi limitrofi del cristallo di un dato materiale solido risulta fissata e costituisce una propriet`a caratteristica del materiale stesso. In condizioni di riferimento, trascurando il moto di agitazione termica, il singolo atomo si pu`o pertanto considerare in equilibrio e, di conseguenza, la forza risultante su di esso agente mediamente nulla. Per continuo si intende un corpo, o pi` u propriamente il substrato materiale che lo costituisce, per il quale sia possibile estrarre, in corrispondenza di ogni suo punto, un frammento parallelepipedo di dimensioni piccole a piacere (detto elemento caratteristico) tale the possa essere considerato un corpo avente le consuete propriet`a fisico-geometriche, in particolare: massa, volume e superficie. La forma del frammento non `e in effetti rilevante, tuttavia dato che saranno considerati prevalentemente sistemi di coordinate cartesiane, il parallelepipedo rettangolo sar` a la forma tipica che attribuiremo all’elemento caratteristico di volume. Per un continuo, quindi, il parallelepipedo infinitesimo, o elementare, che contiene il punto in esame sar`a considerato l’unit`a elementare di materia costituente il corpo. Notiamo subito una incoerenza tra le ipotesi fondamentali: la nozione di continuo contrasta in modo evidente con la natura particellare del materiale solido cristallino che `e necessariamente comporta distribuzioni discrete-discontinue di propriet`a. La contraddizione pu`o essere superata in modo analogo a quanto fatto per la definizione delle grandezze intensive, come la densit`a (vedi capitolo 3). Per quanto piccoli siano considerati gli elementi di volume caratteristici, compresi i parallelepipedi elementari aventi aree e volumi infinitesimi, si assumer` a infatti che, in ogni caso, contengano un numero elevatissimo di atomi. In altri termini, per evitare contraddizioni con il modello di continuo-solido `e possibile definire solo grandezze che sono macroscopiche, anche se intensive in quanto riferite all’unit`a di volume o di superficie. Le tensioni sono quindi legate in modo non esplicito alle interazioni dalle particelle costituenti la materia. Analogamente alla densit`a di massa, la tensione rappresenta pertanto un valor medio spazio-temporale delle interazioni interne e, di conseguenza, non `e una grandezza adatta per rappresentare il comportamento dei singoli atomi in un reticolo. Per descrivere e prevedere le interazioni della materia alla scala delle distanze interatomiche (o meno) `e infatti necessario ricorrere a modelli basati sulla Meccanica Quantistica con approcci che esulano dalla Meccanica Classica e dagli scopi del corso. Questo fatto deve essere chiaro ma, come gi`a osservato per altre propriet`a intensive del continuo, non rappresenta tuttavia un vero limite quando la tensione viene usata per la previsione del comportamento strutturale macroscopico dei materiali. La tensione diviene infatti la grandezza di riferimento per la descrizione dei fenomeni macroscopici della meccanica dei materiali e delle strutture.

12.2 Il vettore tensione 12.2.1 Condizione di riferimento e condizione sollecitata La figura 12.1 rappresenta la situazione di un generico corpo solido che si trova prima in condizioni di riferimento (figura 12.1a)) e che successivamente viene vincolato e caricato. In particolare, `e interessante esaminare la situazione in un suo generico punto B in corrispondenza del quale si vuole determinare lo stato di coazione conseguente all’applicazione dei carichi. Allo schema generale di figura 12.1 si far`a riferimento nel seguito del capitolo. Per definire meglio il problema senza perdere in generalit`a, assumeremo le seguenti ipotesi: • prima dell’applicazione dei carichi il corpo (solido e continuo) si trova nelle condizioni di riferimento: forze esterne assenti e temperatura uniforme e costante (figura 12.1a))

321

12. LO STATO DI TENSIONE

Figura 12.1: Generico corpo solido continuo: a) in condizioni di riferimento, b) vincolato e sollecitato in condizioni di equilibrio statico

• il corpo `e vincolato e sollecitato in modo che, a regime, si trovi in condizioni di equilibrio statico sotto l’azione dei carichi (sui quali non poniamo limiti: forze di volume, di superficie, ecc. . . ) e delle reazioni vincolari (figura 12.1b)) • `e nota la configurazione di equilibrio (rappresentata in figura 12.1b)) nella quale i carichi e le reazioni vincolari sono a regime • il corpo `e poco deformabile, pertanto, sotto l’effetto dei carichi, la forma e le dimensioni non sono significativamente diverse da quelle della configurazione di riferimento (il contorno del corpo nella configurazione di riferimento `e riportato in figura 12.1b con linea tratteggiata). Nonostante queste ipotesi siano generalmente valide nell’ambito del presente corso, nel seguito del capitolo verranno effettuate alcune generalizzazioni per considerare situazioni in cui non sono applicabili (in particolare per corpi in movimento e per materiali non solidi). Sappiamo che una struttura trasferisce i carichi (nello schema di figura 12.1 p e F ) dai punti, o pi` u correttamente dalle zone, in cui sono effettivamente applicati al telaio. La funzione strutturale `e svolta grazie all’insorgenza di reazioni elettromagnetiche interne che consistono proprio nello stato di tensione (o coazione, o cimento) del materiale. Dal punto di vista fisico possiamo giustificare le reazioni interne come una perturbazione delle forze che mantengono aggregato il reticolo cristallino, ovvero che definiscono la posizione di un atomo rispetto agli altri. Come sappiamo, in generale, `e prevedibile che il livello delle reazioni interne sia diverso nei vari punti del corpo e che quindi vi siano zone pi` u sollecitate di altre. L’esperienza indica che ogni materiale solido ha specifici limiti per tali livelli di coazione, il superamento dei quali comporta l’insorgere di modifiche irreversibili del reticolo cristallino che si manifestano con lo scorrimento di piani atomici (snervamento) o con la definitiva separazione di piani atomici (rottura). Per descrivere quantitativamente lo stato di coazione ci poniamo la seguente domanda: come caratterizzare le azioni elettromagnetiche interne che interessano il generico punto B o, pi` u propriamente nell’ipotesi del continuo, l’elemento infinitesimo di materiale che contiene B? A tale riguardo `e opportuno ricordare una propriet`a fondamentale delle azioni elettromagnetiche interne della materia che `e gi`a stata sfruttata nel capitolo 9 per definire le caratteristiche di sollecitazione. Poich´e i campi elettromagnetici possono essere schermati dai conduttori e in un aggregato cristallino globalmente neutro cariche positive e negative sono uniformemente distribuite anche a livello del singolo elemento del continuo, le forze interne di interazione sono a corto raggio. Ne consegue che ogni atomo del reticolo interagisce di fatto solo con quelli contigui mentre le forze che esso scambia con tutti gli altri atomi del cristallo possono essere

322

12.2. IL VETTORE TENSIONE

trascurate. Il campo delle forze di coesione dell’atomo centrato in B `e quindi attivo solo per gli atomi che si trovano a una distanza prossima alla distanza interatomica. Nella figura 12.2 questa situazione `e semplificata considerando un modello piano con reticolo a geometria quadrata in cui i legami tra l’atomo in B e gli altri del cristallo sono rappresentati con molle ideali. Si osservi che l’atomo in B non `e collegato con gli atomi lontani e con quelli che ‘non vede’, in coerenza con la caratteristica a corto raggio delle interazioni interne. Come osservato, nella condizione di riferimento, in cui non sono applicate azioni esterne (figura 12.2a)), le forze che sollecitano il materiale in B sono nulle e il reticolo risulta imperturbato (nella idealizzazione tutte le molle sono in condizioni di riposo). Diversamente, con il carico applicato sul corpo, si manifesta una distorsione della geometria del reticolo, rappresentata in forma molto esagerata in figura 12.2b), con le singole molle che possono risultare allungate o contratte. L’insieme delle forze trasmesse dalle varie molle attaccate all’atomo in B pu`o essere interpretato quindi come una idealizzazione semplificata dello stato di coazione localmente agente. In effetti, sono proprio le distorsioni del reticolo che, nel loro insieme, concorrono ad alterare la forma complessiva del corpo e, quindi, permettono la misura delle forze stesse. A questo riguardo `e utile ricordare la definizione statica di forza data nel capitolo 1. La quantificazione della distorsione del reticolo associata allo stato di coazione `e fondamentale nella meccanica dei continui e il suo esame quantitativo sar`a affrontato in un prossimo capitolo. Per ora consideriamo l’aspetto qualitativo della distorsione assumendo, in coerenza con l’ipotesi di corpo poco deformabile, che la variazione di forma sia piccola.

Figura 12.2: Forte ingrandimento del reticolo cristallino in cui sono schematizzate con molle ideali le interazioni elettromagnetiche dell’atomo in B con gli altri atomi del reticolo: a) condizione di riferimento con reticolo imperturbato e molle scariche, b) reticolo perturbato dall’azione dei carichi esterni con le molle che esercitano forze tra gli atomi

Estendendo la procedura adottata per definire e quantificare le azioni interne nelle travi, effettuiamo un taglio in corrispondenza di B e successivamente ristabiliamo la condizione precedente tramite l’intervento di opportune azioni applicate sulle facce prodotte dal taglio stesso. Rispetto al caso delle travi il problema appare ora un po’ pi` u complesso in quanto: • non risulta definita la superficie su cui effettuare il taglio, che nel caso della trave era il piano di sezione

323

12. LO STATO DI TENSIONE

• non `e data l’estensione della sconnessione, che nel caso della trave era l’intera sezione stessa. Questa generalit`a impone quindi una procedura pi` u articolata per la definizione. Come mostrato in figura 12.3, consideriamo una generica superficie Ω passante per B. A tale superficie richiediamo solo di essere sufficientemente regolare (differenziabile) in B, in modo che siano definiti un unico piano tangente locale e un’unica retta normale locale. Indichiamo con n ˆ uno dei (due) versori della normale. Il verso di n ˆ pu`o essere, almeno per ora, scelto arbitrariamente dato che lo sviluppo che segue non ne risulta influenzato. Consideriamo quindi una porzione arbitraria ∆Ω della superficie per la quale il punto B sia centrale e supponiamo di eliminare tutti i legami elettromagnetici che interessano le coppie di atomi collocati a cavallo di ∆Ω. In un esperimento ideale ci`o comporterebbe di entrare nel reticolo cristallino (figura 12.2) e di recidere tutte le molle che sono attraversate dalla porzione di superficie ∆Ω. L’eliminazione dei legami genera quindi all’interno del corpo due nuove superfici libere, le due facce del taglio, che hanno la stessa forma e la cui area comune sar`a indicata con ∆A. In analogia con le facce ottenute dalla sconnessione della sezione in una trave, la faccia la cui normale esterna `e equiversa con n ˆ sar`a chiamata faccia positiva e indicata con ∆Ω+ mentre la faccia opposta, la cui normale esterna `e −ˆ n sar`a chiamata faccia negativa e indicata con ∆Ω− . Notiamo per inciso che, per ogni superficie regolare che delimita una porzione di spazio occupata da un corpo, la normale esterna `e univocamente definita essendo un vettore con coda nel materiale e punta verso l’esterno del corpo.

Figura 12.3: Superficie regolare interna al corpo e passante per il punto B

In una trave non si produce alcuna modifica delle condizioni di equilibrio locale o globale eseguendo un taglio in corrispondenza di una sezione scarica (le cui caratteristiche di sollecitazione sono nulle). Analogamente, se nella zona B lo stato di coazione `e nullo (le molle erano a riposo prima del taglio), la recisione dei legami non altera la condizione di equilibrio del reticolo cristallino e gli atomi conservano la loro posizione originaria. Nessuna azione deve essere quindi applicata per ripristinare la condizione precedente. Al contrario, se uno stato di coazione era presente prima della recisione e generava interazioni tra gli atomi sconnessi, il taglio delle molle produce una locale distorsione del reticolo, idealmente rilevabile con una modifica della posizio-

324

12.2. IL VETTORE TENSIONE

ne relativa degli atomi delle due facce che prima erano appaiati. Questa situazione `e mostrata nello schema di figura 12.4 in cui `e evidenziato il profilo della superficie ∆Ω ottenuto per intersezione con il piano di rappresentazione (figura 12.4a)). Si pu`o notare l’effetto di distorsione locale prodotto dalla recisione delle molle sugli atomi collocati nella zona del taglio (la linea tratteggiata). Nella figura 12.4b) sono rappresentati gli atomi nel caso di assenza di tensione mentre nella figura 12.4c) si osserva la loro posizione in presenza di tensione. Nelle figure 12.4b) e 12.4c) sono riportati anche i profili delle facce ∆Ω+ e ∆Ω− prodotte dalla recisione delle molle sul piano di rappresentazione e su di essi sono identificati i punti B + e B − in cui il punto B `e stato idealmente separato. Non si dimentichi che nella figura le distorsioni prodotte dal taglio sono state enormemente amplificate per motivi di chiarezza grafica. Come si pu`o osservare, ogni faccia e le relative caratteristiche sono designate con un apice che richiama la convenzione della normale esterna: quando la normale esterna `e equiversa al versore n ˆ `e usato l’apice + e quando controversa l’apice −.

Figura 12.4: Schema della sezione del reticolo dopo il taglio ideale: a) piano di rappresentazione per le successive immagini e direzione di vista, b) reticolo non sollecitato e c) reticolo distorto perch`e prima della sconnessione era in presenza di tensioni.

` interessante rispondere alla seguente domanda: quali azioni statiche devono essere appliE cate sulle due facce ∆Ω+ e ∆Ω− per ripristinare la condizione originaria del reticolo e quindi per riportare gli atomi alla loro posizione originaria? La risposta `e strettamente connessa con lo stato di tensione dato che erano proprio le azioni esplicate dalle interazioni elettromagnetiche eliminate dalla recisione delle molle che mantenevano il reticolo nella condizione originaria. Per ripristinare la configurazione, `e necessario pertanto applicare su ognuna delle facce esattamente la distribuzione di azioni che l’altra faccia esercitava prima del taglio o, se si preferisce, `e necessario applicare ai vari atomi le forze che prima esercitavano le molle che sono state recise. In generale, su ognuna delle facce devono quindi essere applicati due sistemi di forze che, per il terzo principio, hanno caratteristiche statiche uguali e contrarie. Consideriamo tali azioni

325

12. LO STATO DI TENSIONE

statiche applicate ai rispettivi punti caratteristici B + e B − delle facce come indicato nella figura 12.5, indicando con ∆R il modulo della risultante e ∆M il modulo del momento risultante riferito a B. I singoli vettori rappresentati nella figura 12.5 sono designati con l’apice (+ o −) per identificare la faccia sulla quale agiscono. Per il terzo principio deve essere: ~ + = −∆R ~− ∆R ~ + = −∆M ~− ∆M La figura 12.5 potrebbe suggerire che le due risultanti abbiano rette d’azione diverse, ma si tratta di una distorsione dovuta all’amplificazione degli spostamenti relativi degli atomi necessaria per rendere lo schema comprensibile. Inoltre, sotto l’azione delle distribuzioni applicate per ripristinare la configurazione originaria le facce prodotte dal taglio sono riportate a combaciare e, di conseguenza i punti B + e B − , quando tali azioni sono esercitate, coincidono con il punto B.

B−

ΔM

ΔR





ΔR +

ΔM +

B+

Figura 12.5: Schema statico delle azioni complessive che devono essere applicate alle due facce dopo il taglio per riportarle a combaciare.

` utile sottolineare le seguenti propriet`a delle distribuzioni di azioni statiche applicate per E ripristinare la configurazione: • sono state identificate con ∆R e ∆M le caratteristiche statiche complessive dei sistemi di forze superficiali di natura elettromagnetica che fisicamente sono forze a corto raggio • considerando il terzo principio, le informazioni sulle caratteristiche statiche complessive che si ricavano esaminando una faccia possono essere ottenute anche dall’altra • fissata una faccia, il sistema di forze applicate su una superficie estesa `e sempre staticamente caratterizzabile, in termini globali, tramite la risultante e il momento risultante rispetto a un polo (nel caso specifico il punto caratteristico della sezione B) • entrambi i vettori, risultante e momento risultante, sono in genere non nulli e genericamente inclinati rispetto alla normale della faccia ~ + e ∆M ~ + sono quantit`a estensive • le caratteristiche statiche di ogni faccia, per esempio ∆R che dipendono (in intensit`a direzione e verso) della porzione ∆Ω considerata, per tale motivo sono stati indicati con il prefisso ∆; `e quindi prevedibile che tali vettori abbiano propriet`a, in particolare i moduli, che dipendono dell’estensione dell’area del taglio ∆A • in genere, considerando una diversa superficie passante per lo stesso punto B, e quindi per esempio con un’altra normale locale, si ottiene una diversa coppia di risultante e momento risultante, anche a parit`a di forma ed estensione della porzione di superficie sezionata.

326

12.2. IL VETTORE TENSIONE

12.2.2 Definizione di vettore tensione Allo scopo di rendere la definizione indipendente dall’arbitraria estensione ∆A del taglio `e necessario passare da grandezze estensive a grandezze intensive, adottando la tecnica sfruttata per definire altre grandezze fisiche dei continui, come la densit`a di massa o le distribuzioni di forza nel capitolo 3. Per fissare le idee, poniamo l’attenzione sulla faccia positiva, anche se, come sar`a mostrato, lo stesso risultato si ottiene considerando la faccia opposta. Il rapporto tra la risultante delle forze agenti su ∆Ω+ e l’area della faccia stessa ∆A: ~+ ∆R ∆A

(12.1)

`e una grandezza vettoriale che ha le dimensioni di una forza per unit`a di superficie. Considerando porzioni di superficie ∆Ω di estensione sempre pi` u ridotte (tutte che abbiano B come punto caratteristico), possiamo chiederci se il rapporto (12.1) converga a un limite. Affinch´e i termini del rapporto (12.1) siano significativi `e necessario che ∆Ω sia comunque una superficie di separazione del materiale, indipendentemente dalla sua estensione. Da qui si evidenzia la necessit`a del modello continuo che fornisce la base teorica perch´e l’operazione di limite: ~+ ∆R ∆A→0 ∆A lim

(12.2)

possa essere effettuata. ` importante osservare che, al limite per ∆A → 0, quasi tutte le caratteristiche geometriche E della superficie regolare Ω diventano ininfluenti in quanto ∆Ω tende a coincidere, a meno di infinitesimi di ordine superiore, con il piano tangente a Ω in B. Questo fatto implica che quando ∆Ω si riduce a una areola infinitesima attorno a B la superficie stessa pu`o essere considerata piana e, almeno per quanto riguarda l’entit`a delle azioni trasmesse, `e completamente caratterizzata dall’estensione ∆A e dalla normale n ˆ . In termini simbolici, dato il punto B, indichiamo questa dipendenza esplicitamente scrivendo che per ∆A → 0: ~ + = ∆R ~ + (∆A, n ∆R ˆ) A rigore, il valore del limite (12.2) non pu`o essere misurato, nemmeno tramite l’esperimento ideale, data la natura particellare della materia, ma possono essere ottenuti solo rapporti finiti. Non essendoci modo di verificare sperimentalmente l’esistenza del limite (12.2) e, ovviamente, nemmeno di effettuarne il calcolo, `e necessario assumere che tale limite esista e sia finito. Ipotizzeremo pertanto l’esistenza della grandezza vettoriale intensiva finita definita dalla relazione: ~ + (∆A, n ∆R ˆ) ~ lim =t (12.3) ∆A→0 ∆A tale grandezza `e nota come vettore tensione (traction). Dal punto di vista matematico, ~+ ammettere l’esistenza del limite finito (12.3) equivale ad assumere che le due quantit`a ∆R e ∆A siano infinitesimi dello stesso ordine (rispetto alle lunghezze) e quindi che le forze di superficie interne a corto raggio possano essere considerate uniformemente distribuite al limite sulle superfici su cui agiscono. L’esistenza di un vettore finito ~t comporta pertanto che, per ogni condizione di sollecitazione, in ogni punto di un continuo, su ogni superficie piana di estensione sufficientemente piccola, in termini matematici avente area infinitesima, la densit` a superficiale di forza connessa alle azioni elettromagnetiche interne sia uniforme. In questo modo si interpreta la relazione: ~+ ~t = dR (12.4) dA

327

12. LO STATO DI TENSIONE

che identifica il vettore tensione come il rapporto tra la risultante infinitesima di una distribuzione uniforme di forze agente su una porzione infinitesima di superficie e l’area della superficie ~ + e ∆A infinitesimi dello stesso ordine, il stessa. Osserviamo inoltre che, essendo per ipotesi ∆R rapporto (12.4) diventa indipendente dall’estensione dell’area e quindi che il vettore tensione per un punto B dipende solo dalla normale n ˆ . Quando opportuno, espliciteremo questa dipendenza tramite la relazione: ~+ dR ~t (ˆ n) = (12.5) dA Il vettore tensione ~t, e ogni sua componente, `e dimensionalmente una forza divisa per un’area e quindi la sua unit`a nel S.I. `e il pascal Pa (1 Pa = 1 N/m2 ). Il pascal `e una unit`a troppo piccola per rappresentare livelli di tensione significativi nella meccanica strutturale e, in pratica, `e sostituita da multipli, tra i quali i pi` u usati il Mega-pascal: 1 MPa = 106 Pa 2 9 (=1 N/mm ) e il Giga-pascal: 1 GPa = 10 Pa.

12.2.3 Le azioni di momento e i materiali semplici Con l’obiettivo di identificare la grandezza intensiva associata, prendiamo ora in esame il momento risultante delle azioni esercitate sulla faccia positiva e quindi il seguente limite: ~+ ∆M =µ ~ ∆A→0 ∆A lim

(12.6)

In coerenza con l’ipotesi precedentemente assunta per l’esistenza del limite (12.1), si dimostra per`o che: µ ~ =0 (12.7) Per l’esistenza del limite finito (12.3), infatti, la distribuzione delle forze agenti sulla faccia ∆Ω+ tende a uniformarsi quando l’area diventa piccola, per cui una sovrastima del momento ~ + , calcolato rispetto a un generico punto della faccia, pu`o essere ottenuto moltiplicando la ∆M ~ + per un braccio b che sia dello stesso ordine di grandezza del diametro di ∆Ω. risultante ∆R Se per esempio si assume per ∆Ω una forma quadrata e, in modo cautelativo, la distribuzione di forze superficiali `e considerata fortemente sbilanciata verso un vertice e il polo B vicino al vertice opposto, l’ordine di grandezza di una √ maggiorazione del momento ∆M si ottiene con un braccio pari alla diagonale del quadrato b ≈ 2∆A. Anche se si cambia √ la forma della sezione, la precedente relazione conserva la dipendenza generale che `e: b ≈ k · ∆A, con k costante adimensionale. Da questo risulta: ~ + ~ + ~ + √ ∆R · b ∆R · k · ∆A ∆M √ |~ µ| = lim 6 lim ≈ lim = ~t · lim k · ∆A = 0 ∆A→0 ∆A→0 ∆A→0 ∆A→0 ∆A ∆A ∆A (12.8) L’annullamento del limite (12.8) `e conseguenza delle caratteristiche dimensionali e degli ordini di grandezza delle quantit`a coinvolte e non dipende dalla forma della sezione ∆Ω. All’uguaglianza (12.7) si perviene anche, in modo pi` u intuitivo, considerando B come il baricentro delle sezioni ∆Ω. Questa scelta `e lecita dato che il baricentro `e un punto interno caratteristico alla sezione qualunque dimensione e forma abbia la sezione stessa (se monoconnessa). Tenendo conto che la distribuzione di forze superficiali tende uniformarsi al limite, il centro di spinta tende a coincidere con il baricentro della sezione, per cui il momento risultante calcolato rispetto a tale punto al limite si annulla. Possiamo pertanto concludere che: il solo vettore ~t (ˆ n) caratterizza localmente lo stato di coazione di un solido continuo.

328

12.2. IL VETTORE TENSIONE

Come gi`a osservato, la natura fisica delle quantit`a intensive ~t e µ ~ `e discutibile a causa della non operativit`a della loro definizione che dipende del limite per ∆A → 0. Esiste in ~ + e ∆R ~ + con ∆A effetti una dimensione al di sotto della quale i rapporti tra le quantit`a ∆M perdono significato fisico perch´e il modello stesso di materiale continuo `e discutibile. L’elemento pi` u piccolo sulle cui facce il vettore tensione definito in (12.5) ha senso fisico deve infatti contenere un grande numero di atomi pertanto ~t deve essere considerata una grandezza fisica macroscopica anche se intensiva. A causa di questo fatto possono essere sviluppati modelli di continuo, denominati continui polari, nei quali si ammette che anche il vettore µ ~ possa essere non nullo. Questa ipotesi `e giustificabile dal punto di vista fisico nel caso in cui il materiale: • abbia una microstruttura (o, pi` u correttamente, una mesostruttura) fibrosa con elementi aventi lunghezza caratteristica d √ • la scala dimensionale ∆A sulla quale sono definiti ~t e µ ~ sia dello stesso ordine di grandezza di d. I continui polari sono usati per modellare il comportamento di cristalli liquidi o di certi agglomerati particellari. Nell’ambito del presente corso, e in generale nell’ingegneria meccanica, l’ipotesi µ ~ = 0 `e comunque da considerarsi di validit`a generale e non risulta limitante. I materiali per i quali si assume µ ~ = 0 sono chiamati materiali semplici.

12.2.4 Componenti locali del vettore tensione ` stato evidenziato che, per un generico punto B, il vettore tensione dipende unicamente E dalla normale n ˆ e per sottolineare questo fatto, `e stata introdotta la notazione con dipendenza ~ esplicita: t (ˆ n). La definizione, ovvero il limite (12.3), `e stata ottenuta prendendo in esame la faccia positiva per la quale n ˆ `e la normale esterna. Se ripetiamo il procedimento considerando la faccia negativa ∆Ω− avente normale esterna −ˆ n, si ottiene: ~− dR ~t (−ˆ n) = dA che definisce la forza per unit`a di superficie localmente applicata alla faccia ∆Ω− . Dato che ~ + = −∆R ~ − e quindi dR ~ + = −dR ~ − , vale la relazione: ∆R ~t (−ˆ n) = −~t (ˆ n)

(12.9)

che pu`o essere considerata una conseguenza del terzo principio riferito alle azioni elettromagnetiche interne a corto raggio. Non vi sono pertanto ragioni significative per privilegiare una faccia del taglio rispetto all’altra e quindi, nelle considerazioni che seguono, faremo riferimento generalmente alla faccia positiva. La figura 12.6a) schematizza l’effetto prodotto localmente dal vettore tensione agente su una areola ∆Ω che assumeremo piccola in modo che il vettore tensione possa essere considerato uniforme. Si osserva che la rappresentazione realistica della tensione non `e molto chiara dal punto di vista grafico. Per rendere pi` u semplice ed esplicativo lo schema statico faremo uso della rappresentazione mostrata in figura 12.6b) nella quale la cilindricit`a della freccia dovrebbe suggerire che si tratta di una azione distribuita sull’area e non di una forza concentrata in un suo punto. ` interessante analizzare le componenti scalari del vettore tensione. A tale scopo consideE riamo sulla faccia positiva ∆Ω+ e un sistema cartesiano locale (figura 12.7) cos`ı definito: • origine in B

329

12. LO STATO DI TENSIONE

G t ( nˆ )

G t ( nˆ )



nˆ ΔΩ +

ΔΩ +

B

B

(a)

(b)

Figura 12.6: Rappresentazione del vettore tensione agente su un areola molto piccola attorno a B: a) rappresentazione pi` u realistica che mostra la natura distribuita della tensione e b) rappresentazione convenzionale con freccia ‘cilindrica’.

• assi con versori mutuamente perpendicolari n ˆ , rˆ e qˆ, il primo dei quali coincidente con la normale esterna e gli altri giacenti sul piano tangente. Poich´e, essendo µ ~ = 0, non servono considerazioni sul momento locale, e quindi sui prodotti vettoriali, non `e necessario richiedere che il sistema locale sia destrorso. Possiamo quindi ordinare gli assi locali arbitrariamente senza che questo abbia effetto sulle considerazioni che seguono.

G t ( nˆ )

nˆ rˆ

ΔΩ +



B

Figura 12.7: Sistema di riferimento locale della faccia positiva

Le componenti del vettore tensione ~t (ˆ n) nel sistema di riferimento locale si ricavano per moltiplicazione con i versori: σnn = ~t (ˆ n) · n ˆ (12.10)

330

σqn = ~t (ˆ n) · qˆ

(12.11)

σrn = ~t (ˆ n) · rˆ

(12.12)

12.2. IL VETTORE TENSIONE

Le tre quantit`a scalari con segno ottenute sono state identificate in modo naturale introducendo una coppia di pedici ai quali `e attribuito il seguente significato: • il primo pedice identifica il versore, o l’asse, su cui `e proiettato il vettore tensione • il secondo pedice identifica il versore, o l’asse, della normale esterna alla faccia in esame (figura 12.8).

τ ( nˆ )



G t ( nˆ ) σ nn rˆ

σ rn

B

σ qn qˆ Figura 12.8: Proiezione del vettore tensione sugli assi locali e definizione delle sue componenti locali

Consideriamo ora la faccia negativa ∆Ω− e su questa un sistema di riferimento locale che abbia gli stessi assi del sistema precedente ma versi opposti, quindi con versori: −ˆ n, −ˆ r e − qˆ. Questa scelta `e coerente con quanto richiesto per un sistema locale, infatti per la faccia negativa −ˆ n `e il versore della normale esterna e −ˆ r e −ˆ q sono versori sul piano tangente. I sistemi di riferimento locali delle due facce hanno per`o una differenza: uno `e destrorso e l’altro `e sinistrorso, ma, per quanto gi`a anticipato, questa caratteristica non ha effetti per l’analisi della tensione. Se si proietta il vettore tensione agente sulla faccia negativa ~t (−ˆ n) sugli assi del relativo sistema di riferimento locale si ottengono le stesse tre quantit`a scalari (in modulo e segno) ottenute per la faccia positiva. Infatti formalmente si ha: ~t (−ˆ n) · (−ˆ n) = −~t (ˆ n) · (−ˆ n) = ~t (ˆ n) · n ˆ = σnn ~t (−ˆ n) · (−ˆ q ) = −~t (ˆ n) · (−ˆ q ) = ~t (ˆ n) · qˆ = σqn ~t (−ˆ n) · (−ˆ r) = −~t (ˆ n) · (−ˆ r) = ~t (ˆ n) · rˆ = σrn Concludiamo che, fissata una giacitura definita dalla normale n ˆ e un sistema di riferimento locale di cui la normale `e uno degli assi, `e possibile definire univocamente tre quantit`a scalari, indipendenti dalla faccia che si considera, con cui si caratterizza completamente il vettore tensione. Appare evidente l’analogia con le caratteristiche di sollecitazione per le travi che, similmente, possono essere ottenute considerando indifferentemente le azioni agenti sulla faccia positiva o sulla faccia negativa della sezione.

331

12. LO STATO DI TENSIONE

12.2.5 Natura ed effetti delle componenti locali del vettore tensione Svincolati dalla necessit`a di precisare la faccia, possiamo esaminare il significato fisico delle tre componenti che individuano il vettore tensione nel sistema locale. Cominciamo con la quantit`a σnn , detta componente normale (normal component) del vettore tensione o tensione normale (normal stress). Come indica il nome stesso, la tensione normale individua una forza per unit` a di superficie che agisce in direzione normale alla faccia sulla quale `e applicata. Se la componente normale `e positiva (σnn > 0) l’azione elettromagnetica `e di trazione (tension, tensile stress) e quindi tende ad allontanare (o separare) le coppie di atomi che si trovano a cavallo della superficie ∆Ω (figura 12.9). Viceversa se σnn < 0 l’azione `e di compressione (compression, compressive stress) (o di compattamento) e tende ad avvicinare le coppie di atomi a cavallo di ∆Ω. ` interessante osservare che una tensione normale di compressione pu`o essere sopportata E anche dai fluidi ed `e rappresentata proprio dalla pressione. La capacit`a di trasmettere componenti tensionali non solo compressive `e invece peculiare dei solidi. A differenza dei liquidi, i solidi possono infatti sopportare componenti tensionali di trazione, come mostrato in figura 12.9, almeno entro certi limiti, senza che il reticolo cristallino sia irreversibilmente alterato. Se le componenti positive di tipo σnn crescono eccessivamente si possono per`o produrre rotture nel cristallo (frattura (fracture)).



B

(a)



B

(b)

Figura 12.9: Effetto distorcente (schematizzato) di una componente normale di trazione, del tipo σnn > 0, su un reticolo cristallino (la distorsione `e esagerata per motivi grafici)

Una componente non normale del vettore tensione `e chiamata tensione di taglio (shear stress) o tensione tangenziale (tangential stress). Le tensioni tangenziali esercitano sulle coppie di atomi che si trovano a cavallo della faccia ∆Ω azioni che tendono a spostarli in una direzione appartenente alla faccia stessa. L’effetto delle tensioni tangenziali `e pertanto quello di far scorrere (o scivolare) gli strati atomici parallelamente al piano su cui agiscono. Si tratta quindi di azioni simili a quelle prodotte dalle forze di attrito sugli atomi collocati sulla superficie esterna di due corpi in contatto. L’effetto prodotto su un cristallo i cui atomi sono disposti secondo una geometria quadrata `e schematizzato in figura 12.10. Si osserva quindi una distorsione che trasforma i quadrati in parallelogrammi (o rombi) con una conseguente modifica degli angoli retti. Tale effetto deformativo ricorda quello che si produce in un mazzo di carte da gioco tramte una piccola e regolare traslazione relativa delle carte. Anche le componenti tangenziali della tensione sono peculiari dei solidi perch´e i fluidi non possono esercitarle, almeno quando sono in condizioni di quiete. Infatti, se non vi fossero

332

12.2. IL VETTORE TENSIONE



B

(a)



B

(b)

Figura 12.10: Effetto distorcente (schematizzato) di una componente tangenziale tipo σrn su un reticolo cristallino (distorsione esagerata per motivi grafici)

legami cristallini in grado di esercitare una azione coesiva (in particolare le molle a 45◦ ), le componenti tangenziali indurrebbero uno scorrimento indefinito degli strati atomici. Questo ` `e in effetti il fenomeno che si manifesta nei fluidi nei quali le molecole scorrono l’una sull’altra finch´e sono soggette a componenti tangenziali e trovano l’equilibrio solo quando tali componenti si annullano. I solidi, al contrario, mostrano una certa capacit`a di sopportare le tensioni tangenziali, sempre entro limiti caratteristici del materiale, senza che i legami del reticolo siano compromessi. Come avviene per le componenti normali, quando tali limiti sono superati, alcuni legami atomici si rompono e i piani cristallini scorrono significativamente l’uno sull’altro spostandosi di quantit`a pari a multipli interi alla distanza interatomica. In tali circostanze il solido manifesta un comportamento che, sotto vari aspetti, `e simile a quello di un fluido e le distorsioni prodotte nel reticolo hanno caratteristiche di irreversibilit`a (plasticit`a o viscosit` a). Nelle comuni applicazioni strutturali questi processi deformativi che alterano permanentemente la forma degli elementi strutturali non sono tollerabili. In genere, per i materiali considerati nel presente corso, gli effetti prodotti dalle componenti tangenziali della tensione non dipendono: • dal segno, • e dalla direzione su cui agiscono. Come conseguenza, le direzioni dei versori rˆ e qˆ e il loro verso sono generalmente irrilevanti e risulta di interesse solo l’intensit`a complessiva delle tensioni tangenziali. La seguente relazione: q 2 + σ2 (12.13) τ (ˆ n) = σrn qn fornisce il modulo della componente tangenziale agente sulla faccia normale a n ˆ . Il modulo della componente tangenziale pu`o essere pi` u facilmente calcolato anche senza introdurre i versori del piano tangente usando la sola conoscenza normale n ˆ . Infatti `e possibile sottrarre al vettore ~t (ˆ n) la sua componente σnn n ˆ: τ (ˆ n) = |t (ˆ n) − σnn n ˆ | = |t (ˆ n) − (t (ˆ n) n ˆ) n ˆ|

(12.14)

Il vettore tensione agente in un punto su una faccia con generica normale n ˆ `e caratterizzato pertanto dalla componente normale σnn , a cui sono associati effetti deformativi di allontanamento o di avvicinamento dei piani cristallini, e dalla componente tangenziale τ (ˆ n) a cui sono

333

12. LO STATO DI TENSIONE

associati effetti deformativi di scorrimento. Quando la direzione n ˆ `e implicita, per semplicit`a di notazione la componente normale viene spesso indicata con σ e quella tangenziale con τ . Nella figura 12.11 sono rappresentate in forma convenzionale le varie componenti del vettore tensione nel sistema locale. Si osservi che per le componenti normali `e stata usata la consueta freccia cilindrica mentre per le componenti tangenziali una freccia a nastro che ne evidenzia l’azione statica.

τ ( nˆ ) G t ( nˆ )





σ nn

σ qn (a)



σ nn

σ nn

σ rn

σ rn qˆ





σ qn qˆ (b)



τ ( nˆ ) qˆ (c)

Figura 12.11: Rappresentazione delle componenti del vettore tensione: a) nel sistema locale, b) in tutte le sue componenti, e c) nelle sue componenti normali e tangenziale

12.3 Il modello matematico dello stato di tensione 12.3.1 Lo stato di tensione non ` e una grandezza vettoriale Dalla discussione del paragrafo precedente potrebbe sembrare che a ogni punto B sia associabile un vettore tensione ~t (per esempio tramite le sue componenti σ e τ ) e quindi che lo stato di coazione di un corpo solido sia riconducibile a un campo vettoriale, in modo analogo, per esempio, a un campo di forze o di velocit`a. La situazione `e in effetti pi` u complessa, dato che, 0 ˆ se per lo stesso ˆ , si ottiene un vettore tensione   punto B si considera un’altra normale n 6= n 0 ˆ ~ ~ diverso: t n 6= t (ˆ n). La circostanza tra i due vettori `e stata infatti esplicitata evidenziando la dipendenza da n ˆ di tutti i quantificatori finora introdotti per definire la coazione: il vettore tensione ~t (ˆ n) e le sue componenti scalari locali σnn e τ (ˆ n). In effetti, se si cambia la normale n ˆ , le molle interessate dalla recisione ideale sono diverse e pertanto `e anche intuibile che il corrispondente vettore tensione risulti diverso. La differenza non `e solo nel suo aspetto che potrebbe dipendere dal semplice cambiamento degli assi del sistema locale, ma `e proprio fisica. Due vettori tensione ottenuti nello spesso punto su due giaciture distinte sono infatti differenti in intensit`a, direzione e verso. Fissata una normale n ˆ , il vettore ~t (ˆ n) evidenzia quindi solo una (molto) parziale propriet`a dello stato di tensione locale perch´e quantifica l’azione mutua che si scambiano soltanto i due strati atomici separati dal piano normale a n ˆ . Dato che nel generico punto B vi sono ∞2 piani distinti e per ognuno di essi `e definibile il corrispondente vettore tensione, lo stato di tensione in un punto `e caratterizzabile da non meno di ∞2 vettori tensione, uno per ogni distinta giacitura. Tutte queste mutue azioni sono trasmesse dal materiale che si trova in corrispondenza di B e quindi lo studio degli effetti della tensione non pu`o prescindere da questa complessit`a. Possiamo concludere che:

334

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

lo stato di tensione in un punto `e l’insieme di tutti gli ∞2 vettori tensione ~t (ˆ n) o, ~ pi` u rigorosamente, l’immagine del dominio di t (ˆ n) quando n ˆ spazza tutte le direzioni dello spazio. Dato che, come anticipato, il segno e la direzione delle componenti tangenziali sono ininfluenti, considerando significativa solo la componente σnn e la risultante τ (ˆ n), la precedente definizione pu`o essere leggermente semplificata: lo stato di tensione in un punto `e l’insieme delle coppie di scalari σnn e τ (ˆ n) (in 2 genere ∞ ), una coppia per ogni versore n ˆ. Le precedenti definizioni evidenziano la necessit`a di ottenere per lo stato di tensione una rappresentazione che condensi in un numero finito di informazioni le caratteristiche di ∞2 campi vettoriali contemporaneamente attivi. Il prossimo paragrafo descrive in che modo questo problema sia stato affrontato e risolto seguendo l’impostazione proposta da Augustin Cauchy nel 1821.

12.3.2 Il parallelepipedo elementare e il suo schema di corpo libero Per comprendere la definizione di tensione data da Cauchy, `e utile esaminare le azioni agenti su un elemento infinitesimo di volume che rappresenta il costituente del corpo continuo. Una analogia per il presente ragionamento pu`o essere ricercata nell’esame meccanico del concio elementare del capitolo 9 che costituisce l’elemento costitutivo per le travi. Definiamo un sistema di riferimento cartesiano ortonormale con assi x, y, z (o x1 , x2 , x3 ) e versori ˆi, ˆj e kˆ ed estraiamo idealmente un parallelepipedo infinitesimo di centro B con spigoli paralleli agli assi coordinati, come mostrato in figura 12.12. Il parallelepipedo elementare presenta sei facce

Figura 12.12: Parallelepipedo infinitesimo di centro B

rettangolari infinitesime, nella figura 12.12 le tre facce positive (ovvero che hanno normale esterna al parallelepipedo equiversa a uno degli assi del sistema) sono in vista mentre le tre facce negative si vedono in trasparenza. Con i pedici identifichiamo le giaciture delle facce e le grandezze associate (il pedice 1 `e riferito al primo versore, 2 al secondo e 3 al terzo) mentre con l’apice (+ o −) distinguiamo le facce positive e negative. Per esempio dΩ− e la faccia che ha 2 ` + − ˆ normale esterna −j. Nella figura 12.12 sono evidenziate le facce dΩ1 e dΩ1 che hanno normali parallele al primo asse, entrambe aventi area dA1 = dy · dz. Le azioni agenti sul parallelepipedo, necessarie per tracciarne lo schema di corpo libero, sono: • forze di volume, applicate su tutti gli atomi del parallelepipedo • forze di superficie applicate sugli atomi localizzati sulle sei facce.

335

12. LO STATO DI TENSIONE

Le forze di volume sono tipicamente il peso proprio e, se il sistema di riferimento non `e inerziale, le forze d’inerzia, mentre le forze di superficie sono le interazioni elettromagnetiche a corto raggio esercitate sugli atomi posti sulla frontiera del parallelepipedo, ovvero sono quantificate dai vettori tensione delle sei facce. Date le dimensioni infinitesime del corpo in esame, `e corretto assumere che il peso e le forze d’inerzia siano uniformemente distribuite sul volume del parallelepipedo e le interazioni elettromagnetiche siano uniformemente distribuite sull’area di ogni singola faccia. Da questa considerazione deriva che, ai fini dell’equilibrio del parallelepipedo elementare, le forze di volume possono essere trascurate. Infatti la risultante delle forze di volume `e infinitesima di ordine 3 in dxi mentre le risultanti delle forze di superficie sono infinitesime di ordine 2. Questa discussione sugli infinitesimi sar`a approfondita in un prossimo paragrafo. Lo schema di corpo libero del parallelepipedo elementare `e pertanto completamente definito da 6 vettori tensione, ognuno agente su una faccia. Consideriamo le due facce opposte di figura 12.12, i relativi vettori tensione su di esse agenti sono diversi per due motivi: • si tratta di sezioni poste in posizioni diverse • le loro normali esterne sono opposte. La prima differenza pu`o essere trascurata, almeno per ora, dato che le due facce distano di una quantit`a infinitesima (dx) e quindi che il vettore tensione subisce al pi` u una variazione infinitesima passando da una all’altra. In base a tale considerazione, la seconda differenza pu`o essere considerata in modo semplice, applicando il terzo principio:    ~t −ˆi = −~t ˆi Pertanto possiamo affermare che, a meno di differenze infinitesime, il vettore tensione agente a, la stessa direzione e verso opposto rispetto al vettore sulla faccia dΩ− 1 ha la stessa intensit` + tensione agente sulla faccia dΩ1 . Ripetendo il ragionamento per le altre coppie di facce opposte, concludiamo che lo schema di corpo libero del parallelepipedo infinitesimo `e completamente caratterizzato, a meno di differenze infinitesime, da tre sole coppie di vettori tensione. Lo schema di corpo libero del parallelepipedo in figura 12.13a) tutti i vettori tensione:    `e evidenziato   dove  sono rappresentati   ~t ˆi , ~t ˆj e ~t kˆ sulle facce positive e ~t −ˆi , ~t −ˆj e ~t −kˆ sulle facce negative. Nella figura 12.13b) sono rappresentati solo i vettori agenti sulle facce positive e quindi le grandezze che contengono le informazioni necessarie e sufficienti per definire lo schema di corpo libero del parallelepipedo elementare.

12.3.3 Componenti dei vettori tensione: matrice di Cauchy Dato che il parallelepipedo elementare `e stato orientato con gli spigoli paralleli agli assi, la terna dei versori del riferimento cartesiano generale pu`o essere usata come terna locale per ognuna delle tre facce positive del parallelepipedo elementare. Infatti, per ogni faccia positiva uno dei tre assi rappresenta la normale esterna e gli altri due giacciono sulla faccia. In coerenza la logica dei pedici definita nel paragrafo precedente per le componenti locali del vettore tensione, `e possibile rappresentare i tre vettori tensione in componenti nel sistema di riferimento generale. In particolare si ha:       σ11 σ12 σ13      ~t ˆi =  σ21  , ~t ˆj =  σ22  , ~t kˆ =  σ23  σ31 σ32 σ33

336

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

G t iˆ

()

()

G t kˆ

G t − ˆj

( )

()

G t −iˆ

( )

G t ˆj

()

( )

G t −kˆ

()

G t kˆ

G t iˆ

kˆ iˆ

G t ˆj

()

ˆj

(a)

(b)

Figura 12.13: Parallelepipedo infinitesimo con le azioni significative agenti su tutte le facce (a) e solo sulle facce positive (b)

in cui il primo pedice individua la componente cartesiana del vettore tensione (1 `e relativo al ˆ e il secondo pedice individua la direzione normale primo versore ˆi, 2 al secondo ˆj e 3 al terzo k) della faccia su cui agisce il relativo vettore tensione. Le precedenti componenti possono essere identificate anche usando come pedici i nomi degli assi:       σxx σxy σxz      ~t ˆi =  σyx  , ~t ˆj =  σyy  , ~t kˆ =  σyz  σzx σzy σzz Dato che i tre vettori tensione sintetizzano le informazioni necessarie e sufficienti per identificare lo schema di corpo libero del parallelepipedo elementare, `e utile raggrupparne ordinatamente le componenti per formare la matrice di Cauchy:   σ11 σ12 σ13        S = ~t ˆi , ~t ˆj , ~t kˆ =  σ21 σ22 σ23  (12.15) σ31 σ32 σ33 Osserviamo che le componenti della matrice di Cauchy (12.15) sono riferite a un definito sistema di cartesiano e che la matrice si ottiene affiancando le tre colonne delle componenti cartesiane dei vettori tensione agenti sulle facce che hanno normale esterna equiversa agli assi coordinati. Nella costruzione della matrice di Cauchy `e necessario rispettare l’ordine e i versi degli assi: la prima colonna `e relativa al vettore tensione agente sulla prima faccia positiva, ecc. . . . Esempio 12.1: Significato dei termini della matrice di Cauchy Tracciare lo schema di corpo libero di un parallelepipedo infinitesimo con spigoli paralleli agli assi evidenziando solo le seguenti componenti di tensione (valori in MPa): a) σ22 = −30 ; b) σ33 = 60 ; c) σ12 = 30 ; d) σ21 = 30 ; e) σ31 = −60  Nelle seguenti figure le componenti di tensione proposte sono rappresentate con il parallelepipedo in assonometria e in proiezioni ortogonali.

337

12. LO STATO DI TENSIONE

σ 22 = −30MPa



ˆj



30MPa

30MPa

ˆj iˆ 30MPa

30MPa

Figura 12.14: Caso a : σ22 = −30 MPa

σ 33 = 60MPa



ˆj



60MPa

60MPa

kˆ ˆj 60MPa

60MPa

Figura 12.15: Caso b : σ33 = 60 MPa

σ 12 = 30MPa



ˆj



30MPa

ˆj iˆ 30MPa

Figura 12.16: Caso c : σ12 = 30 MPa

338

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

σ 21 = 30MPa



ˆj



ˆj

30MPa

30MPa

iˆ 30MPa

30MPa

Figura 12.17: Caso d : σ21 = 30 MPa

σ 31 = −60MPa



ˆj



60MPa



60MPa

iˆ 60MPa

60MPa

Figura 12.18: Caso e : σ31 = −60 MPa

Dato che la matrice di Cauchy definisce le azioni agenti sull’elemento infinitesimo, la condizione di equilibrio del generico parallelepipedo elementare dipende apparentemente dalle 9 quantit`a scalari: σij (con i, j = 1, 2, 3). Ci chiediamo: `e possibile assegnare arbitrariamente il valore delle componenti della matrice di Cauchy e ottenere uno stato di tensione equilibrato ` importante chiarire che la domanda non riguarda il livello per il parallelepipedo elementare? E delle tensioni, ovvero non siamo interessati (almeno per ora) a verificare se lo stato di tensione sia sopportabile dal reticolo senza produrre danno. La questione `e di natura pi` u profonda, si tratta di stabilire se una scelta arbitraria delle componenti della matrice S possa costituire una violazione della condizione fondamentale di equilibrio del parallelepipedo. Considerando due facce opposte, `e immediato verificare (vedi figura 12.13a) che i relativi vettori tensione costituiscono una coppie di forze e quindi che necessariamente il parallelepipedo `e in equilibrio alla traslazione Questa conclusione `e chiaramente verificata per qualsiasi terna di  in ogni   direzione.   ˆ ˆ ˆ ~ ~ ~ vettori t i , t j , t k sia scelta. L’equilibrio alla rotazione non `e per`o altrettanto scontato, visto che le coppie di forze agenti sulle facce opposte potrebbero avere di braccio non nullo e quindi generare un momento complessivo netto. Consideriamo, per semplicit`a di rappresentazione grafica, la componente z dell’eventuale momento risultante. A tale scopo, nella figura 12.19a) `e mostrato il parallelepipedo elementare visto da z e, sempre per semplicit`a ma senza perdere in generalit`a, sono rappresentate le sole componenti di tensione che possono contribuire alla componente z del momento risultante. Le tensioni normali sono riconducibili a coppie di

339

12. LO STATO DI TENSIONE

braccio nullo, come `e evidente in figura 12.19b), per cui per l’equilibrio alla rotazione attorno a z sono interessanti solo le componenti tangenziali rappresentate nella figura 12.19c).

Figura 12.19: Schema per l’equilibrio alla rotazione del parallelepipedo elementare: a) schema di corpo libero visto da z , b) risultanti applicate ai centri di spinta delle facce, c) in evidenza solo le componenti significative per il momento attorno a z (Q il polo)

Assunto il vertice Q come polo, considerando che due delle quattro componenti tangenziali hanno braccio nullo, la componente z del momento vale quindi: dMz = − (σ12 dxdz) dy + (σ21 dydz) dx = (σ21 − σ12 ) dV

(12.16)

dove `e stato indicato con dV = dxdydz il volume del parallelepipedo. La scelta del polo Q `e ovviamente ininfluente in quanto il sistema di forze ha risultante nulla. Siccome il volume del parallelepipedo `e arbitrario ma non nullo e all’equilibrio la componente del momento espressa dalla relazione (12.16) deve annullarsi per la seconda cardinale, vale la relazione: σ12 = σ21

(12.17)

Considerando tutte le condizioni indipendenti di equilibrio alla rotazione, si ottengono analoghe relazioni per le altre coppie di pedici, quindi in generale deve essere: σij = σji

(12.18)

per ogni i, j = 1, 2, 3. La relazione (12.18) pu`o anche essere scritta come: S = ST

(12.19)

pertanto concludiamo che il rispetto della seconda cardinale impone la simmetria della matrice di Cauchy. Per questo la matrice di Cauchy sar`a spesso rappresentata come segue:   σ11 σ12 σ 13 σ22 σ23  S= (12.20) Sym σ33

340

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

Sono pertanto 6 le componenti che definiscono i tre vettori tensione agenti sulle facce del parallelepipedo elementare nel sistema di riferimento dei suoi spigoli e quindi sono 6 le quantit` a scalari indipendenti necessarie e sufficienti per rappresentare il suo schema di corpo libero. Dato che deriva in modo immediato dalle condizioni di equilibrio, la simmetria della matrice di Cauchy `e una propriet`a fondamentale, universalmente valida per tutti i continui (solidi e fluidi), per tutti i tipi di sollecitazione, in ogni istante, sia in condizioni di quiete sia in condizioni di moto. La simmetria della matrice di Cauchy rende indistinguibili le componenti tangenziali con i pedici invertiti. Dal punto di vista fisico ci`o implica che non si pu`o manifestare una componente di tensione fuori diagonale senza che si manifesti anche la simmetrica. Per esempio, non pu`o esistere uno stato di tensione con σ12 = 10 MPa e σ21 = 0. La permutabilit` a dei pedici consente di formare la matrice di Cauchy invece che affiancando ordinatamente i vettori colonna (relazione (12.15)), sovrapponendo vettori tensione riga (sempre comunque nel rispetto dell’ordine degli assi):  h  iT  ~ ˆ  h t  i i   T    ~t ˆj    h  iT  ~t kˆ In effetti altri testi usano quest’ultima definizione ma ci`o non comporta alcuna differenza ne sostanziale ne formale per quanto riguarda la matrice S e la sua interpretazione. Tuttavia, nell’ambito del presente corso useremo sempre la definizione (12.15), per cui il primo pedice `e riferito alla componente della tensione e il secondo alla normale della faccia su cui la componente agisce. Si pu`o verificare che nel caso in cui il momento per unit`a di superficie µ ~ non sia da ritenersi nullo, la matrice di Cauchy perde la simmetria. Per i solidi polari `e generalmente σij 6= σji se i 6= j, tuttavia, come anticipato, tali modelli non saranno trattati nel corso. Esercizio 12.1: Rappresentazione di matrici di Cauchy Tracciare lo schema di corpo libero di parallelepipedi elementari sui seguenti matrici di Cauchy (valori in MPa)      10 0 −20 0 40 0 −10 0      −20 0 0 0 10 Sym 0 Sym 0 Sym

quali agiscono le  0 0  40

12.3.4 Il tetraedro di Cauchy e le condizioni di equilibrio La matrice S determina lo schema di corpo libero del parallelepipedo elementare in un generico punto B evidenziando i vettori tensione agenti sulle facce coordinate. Tuttavia lo stato di tensione pu`o essere considerato noto se si conosce il vettore tensione per ogni giacitura. Cauchy ha per`o mostrato che il vettore tensione agente su una generica giacitura di normale n ˆ , anche se non direttamente espresso dalla matrice S, pu`o essere ottenuto da questa con una semplice elaborazione. In un dato sistema di riferimento cartesiano rappresentiamo le componenti σij della matrice di Cauchy S, le componenti ni della normale n ˆ alla faccia sulla quale agisce il vettore tensione ~t (ˆ n) le cui componenti ti devono essere determinate (sempre riferite ai soliti assi). In forma di componenti i due vettori sono espressi dalle matrici colonne:

341

12. LO STATO DI TENSIONE



 n1 n ˆ =  n2  n3



e

 t1 ~t (ˆ n ) =  t2  t3

Come mostrato in figura 12.20, dato n ˆ , `e sempre possibile tagliare il parallelepipedo elementare con un piano avente normale n ˆ in modo da isolare un solido di forma tetragonale, chiamato tetraedro di Cauchy, avente volume infinitesimo non nullo. Il tetraedro di Cauchy ha tre facce coordinate e la quarta, che chiamiamo per semplicit`a faccia obliqua, che ha normale esterna n ˆ . Dalla figura 12.21 si deduce che ognuna delle facce coordinate `e la proiezione ortogonale

Figura 12.20: Esempi di estrazione di tetraedri di Cauchy dal parallelepipedo elementare

nel sistema di riferimento dato della faccia obliqua. Indichiamo con dΩn la faccia obliqua del tetraedro (normale a n ˆ ) e con dΩ1 , dΩ2 e dΩ3 , `e le facce coordinate usando, come ormai consuetudine, il pedice numerico per identificare la normale alla faccia stessa. Per non appesantire la notazione l’apice (+ o −) che individua se la faccia proiettata `e positiva o negativa `e omesso. Per inciso si osservi che nel caso della figura 12.21 le facce proiettate sono tutte negative. Indicando con dAn l’area della faccia dΩn e con dAi l’area della generica faccia proiettata dΩi

Figura 12.21: Identificazione delle facce per il generico tetraedro di Cauchy

(i = 1, 2, 3), vale la relazione: dAi = |ni | dAn

(12.21)

Infatti, con riferimento alla figura 12.22, i triangoli P, S, Q (dΩ3 ) e P, R, Q (dΩn ) hanno in comune il lato di base P Q mentre le altezze relative alla base comune sono rispettivamente HS e HR. L’altezza del triangolo proiettato `e la proiezione dell’altezza del triangolo obliquo per cui: 1 dA3 = |P Q| |RH| cos θ = dAn cos θ 2 342

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

ˆ θ `e uguale infine, dato che il vettore HR e la normale n ˆ sono perpendicolari cos`ı come HS e k, all’angolo formato da n ˆ con l’asse z e quindi, per definizione cos θ = n3 , essendo n3 il terzo coseno direttore di n ˆ. Nel caso rappresentato in figura 12.21 tutte le componenti della normale n ˆ sono positive per cui il valore assoluto nell’espressione (12.21) `e inutile per cui la relazione si pu`o semplificare: dAi = ni dAn

(12.22)

Figura 12.22: Proiezione della faccia dΩ3

Il tetraedro di Cauchy `e un sottocorpo del parallelepipedo elementare pertanto: • le forze di volume sono trascurabili rispetto alle forze di superficie • essendo il parallelepipedo in equilibrio, per il principio di Eulero, anche il tetraedro `e in equilibrio • essendo il tetraedro un volume infinitesimo, la tensione esercitata su ciascuna delle sue facce pu`o essere considerata uniformemente distribuita e quindi caratterizzata dal relativo vettore tensione. Pertanto risulta agevole scrivere la prima cardinale per l’equilibrio alla traslazione del tetraedro di Cauchy:       ~t (ˆ n) dAn + ~t −ˆi dA1 + ~t −ˆj dA2 + ~t −kˆ dA3 = 0 in cui `e stato considerato che, nella situazione di figura 12.21, le facce proiettate dΩi (i = 1, 2, 3) sono negative essendo la loro normale esterna opposta ai versori principali del sistema cartesiano. Applicando la relazione (12.6) che esprime il terzo principio, dividendo ambo i membri per dAn (operazione lecita essendo dAn > 0) e considerando la relazione (12.22), si ottiene la seguente fondamentale uguaglianza:      ~t (ˆ n) = ~t ˆi n1 + ~t ˆj n2 + ~t kˆ n3 (12.23) Consideriamo ora le situazioni in cui la normale n ˆ ha anche componenti negative. Nel caso di figura 12.20b) in cui n1 > 0, n2 < 0 e n3 > 0 le relazioni (12.21) diventano: dA1 = n1 dAn

dA2 = −n2 dAn

dA3 = n3 dAn

in questo caso per`o la facce proiettata dΩ2 `e positiva (la normale esterna `e equiversa all’asse) per cui la prima cardinale per il tetraedro si scrive come segue:       ~t (ˆ n) dAn + ~t −ˆi dA1 + ~t ˆj dA2 + ~t −kˆ dA3 = 0

343

12. LO STATO DI TENSIONE

Il segno negativo necessario nella relazione che lega l’area della sezione proiettata alla relativa componente di n ˆ `e quindi compensato dal cambio di segno del versore normale alla faccia relativa. Questa considerazione dimostra quindi la validit`a generale della relazione (12.23) che non dipende dal sistema di riferimento, il quale potrebbe essere anche sinistrorso, o dalla scelta di n ˆ. La relazione (12.23) si pu`o esprimere in questo modo: il vettore tensione agente su una generica faccia normale a n ˆ si ottiene come combinazione lineare dei vettori tensioni agenti sulle facce coordinate positive del tetraedro elementare usando come coefficienti le componenti del versore normale esterno alla faccia stessa. La relazione (12.23) pu`o essere sviluppata in componenti cartesiane:       σ11 σ12 σ13 ~t (ˆ n) =  σ21  n1 +  σ22  n2 +  σ23  n3 σ31 σ32 σ33 ed `e esprimibile anche come prodotto matriciale righe per colonne:    σ11 σ12 σ13 n1 ~t (ˆ n) =  σ21 σ22 σ23   n2  = Sˆ n σ31 σ32 σ33 n3

(12.24)

Esempio 12.2: Identificazione delle forze su un elemento di volume Data la matrice di Cauchy (valori in MPa) :   40 30 −20 −10 0  S= Sym −50 determinare i vettori tensione e valutare le componenti normali e i moduli delle componenti tangenziali che agiscono sulle facce le cui normali sono: a) la trisettrice del primo ottante b) il vettore (1, 3, −4)T c) Verificare inoltre che il vettore tensione agente sul piano (−0.253, 0.167, −0.953)T ha componente tangenziale trascurabile.

normale

a 

Risposta a) Il versore della trisettrice `e:

344

  1 1   1 n ˆ=√ 3 1

12.3. IL MODELLO MATEMATICO DELLO STATO DI TENSIONE

da cui per la (12.21) il vettore tensione espresso nello stesso sistema di riferimento ha componenti (valori in MPa):   28.9 ~t =  11.55  −40.4 Le componenti di ~t sono: σ = 0.0

e

τ = 50.90MPa

Questo risultato evidenzia che gli strati di atomi a cavallo di questo piano si scambino una azione solamente tangenziale. Il modulo del vettore tensione vale ~t = 50.9 MPa.

Risposta b) 

   1 0.196 1 n ˆ = √  3  =  0.588  26 −4 −0.784 pertanto il vettore tensione: 

 41.2  ~t =  0 35.3 ha componenti locali: σ = −19.62 MPa

e τ = 50.6 MPa

Gli strati di atomi separati da questo piano si scambiano una componente di taglio e una azione normale compressiva. Il modulo del vettore tensione vale ~t = 54.2 MPa. L’esempio dimostra che, come anticipato, nello stesso punto vettori tensione agenti su facce distinte sono effettivamente diversi e che, in genere, modificando n ˆ , ~t cambia anche in modulo, oltre in direzione e verso.

12.3.5 Le caratteristiche del vettore tensione ottenute dalla matrice di Cauchy Quando `e nota la matrice di Cauchy in un punto, sfruttando la relazione (12.24) ~t (ˆ n) = Sˆ n `e ` opportuno soffermarsi possibile ottenere tutte le propriet`a dello stato tensione in quel punto. E sulle seguenti generali considerazioni valide per ogni stato di tensione agente nel generico punto B. • Interpretando ~t (ˆ n) come una funzione vettoriale definita nel dominio delle giaciture di tutti i piani che passano per B, l’immagine del dominio rappresenta proprio lo stato di tensione. • La legge ~t (ˆ n) = Sˆ n che fornisce il vettore tensione per ogni giacitura pu`o essere considerata anche come una trasformazione lineare tra le componenti di ~t e le componenti del versore normale alla superficie. • La matrice di Cauchy S raccoglie quindi in forma ordinata i coefficienti della legge lineare che trasforma il campo vettoriale delle normali nel campo vettoriale dei vettori tensione applicati alle relative superfici.

345

12. LO STATO DI TENSIONE

• La matrice S, per quanto raccolga solo le componenti dei tre vettori tensione agenti sulle facce coordinate positive, contiene tutte le informazioni necessarie e sufficienti per determinare il vettore tensione di una qualunque giacitura. Possiamo quindi concludere che tutte le propriet`a delle interazioni elettromagnetiche interne a corto raggio agenti in un punto sono ottenibili tramite semplici manipolazioni algebriche dalla matrice S. La matrice di Cauchy `e pertanto una rappresentazione dello stato di tensione in un punto. Il seguito del paragrafo illustra questa affermazione. Supponiamo che nel punto in esame sia nota la matrice di Cauchy in un definito (qualunque) sistema di riferimento cartesiano. Tale sistema cartesiano, che in questo contesto chiamiamo generale, `e impiegato per esprimere in componenti le varie grandezze che saranno determinate. Su un generico piano fissiamo, come in figura 12.7, una terna cartesiana locale che ha, come consuetudine, n ˆ il versore della normale uscente e rˆ e qˆ i versori nel piano stesso. Il vettore tensione: ~t (ˆ n) = Sˆ n espresso in componenti nel sistema di riferimento generale si scrive quindi come:      t1 σ11 σ12 σ13 n1 ~t (ˆ σ22 σ23   n2  n ) =  t2  =  t3 Sym σ33 n3 la componente normale al piano del vettore tensione ~t, ovvero σnn , si ottiene moltiplicando scalarmente il vettore tensione per la normale n ˆ . Come `e noto (vedi appendice A), tale operazione pu`o essere effettuata in componenti eseguendo il prodotto righe per colonne dopo aver trasposto il primo dei due fattori:      n1  t1 σnn = t1 t2 t3  n2  = n1 n2 n3  t2  n3 t3 in forma simbolica:

T

n) σnn = ~t(ˆ n) n ˆ=n ˆ T~t(ˆ

(12.25)

Come mostra la relazione (12.25), l’ordine dei fattori non `e influente (il prodotto scalare `e commutativo) mentre `e necessario che il primo fattore sia trasposto allo scopo di effettuare correttamente il prodotto matriciale. La forma esplicita della tensione normale agente sulla faccia con normale n ˆ `e quindi:    σ11 σ12 σ13 n1  σ22 σ23   n2  σnn = n ˆ T Sˆ n = n1 n2 n3  (12.26) Sym σ33 n3 che si pu`o ricavare da entrambe le relazioni (12.25) essendo S simmetrica (S = ST ). Il modulo della componente tangenziale del vettore tensione si ottiene dalla seguente:  τ (ˆ n) = Sˆ n− n ˆ T Sˆ n n ˆ (12.27) Per separare le singole componenti tangenziali (σrn e σqn ), si direzioni dei versori piani locali:  σ11 σ12  T~ T  σ22 σrn = rˆ t(ˆ n) = rˆ Sˆ n = r 1 r2 r 3 Sym

346

proietta il vettore tensione nelle   σ13 n1 σ23   n2  σ33 n3

(12.28)

` TENSORIALI DELLO STATO DI TENSIONE 12.4. LE PROPRIETA

 σqn = qˆT~t(ˆ n) = qˆT Sˆ n=

q1 q2 q3



  σ12 σ13 n1  σ22 σ23   n2  Sym σ33 n3 σ11

(12.29)

Nella convenzione adottata, σrn rappresenta la componente della tensione tangenziale in ` interessante rispondere alla domanda: quanto direzione rˆ agente sulla faccia normale a n ˆ. E vale la componente tangenziale in direzione n ˆ che agisce sulla faccia normale a rˆ? Quantit` a che, in base alla solita convenzione, si indica come σnr . Usando la procedura algebrica appena sviluppata, la risposta appare immediata, infatti `e sufficiente invertire rˆ e n ˆ nella relazione (12.28):    σ11 σ12 σ13 r1  σ22 σ23   r2  σnr = n ˆ T~t(ˆ r) = n ˆ T Sˆ r = n1 n2 n3  Sym σ33 r3 peraltro, per la simmetria di S, il risultato che si ottiene `e lo stesso della relazione (12.28). In effetti, essendo σnr uno scalare, vale l’identit`a: σnr = (σnr )T e, ricordando che (A · B)T = BT · AT , si ha: T σnr = (σnr )T = n ˆ T Sˆ r = rˆT ST n ˆ = rˆT Sˆ n = σrn Questo risultato era peraltro prevedibile, essendo conseguenza della condizione di equilibrio alla rotazione del parallelepipedo elementare. Tale condizione infatti deve `e valere non solo per il paˆ peraltro arbitrariamente rallelepipedo con spigoli paralleli ai versori del sistema generale ˆi, ˆj e k, assunto, ma anche per il parallelepipedo con gli spigoli diretti come i versori n ˆ , rˆ e qˆ. Si pu`o concludere che, dato un generico stato di tensione in un punto e due facce con normali i versori rˆ e sˆ tra loro perpendicolari, ovvero tali che: rˆT sˆ = 0 le componenti tangenziali con pedici rs e rs, chiamate componenti tangenziali reciproche, devono essere uguali: σrs = σsr (12.30) Questa propriet`a generale dello stato di tensione (valida per tutti i materiali semplici) `e chiamata legge di reciprocit` a delle tensioni tangenziali e si pu`o esprimere nel modo seguente: dato un punto sullo spigolo di un generico diedro retto, le componenti nella direzione perpendicolare allo spigolo delle tensioni tangenziali agenti sui piani del diedro hanno la stessa intensit`a e, se non sono nulle, o convergono allo spigolo oppure divergono da esso. La figura 12.23 illustra situazioni ammissibili e non ammissibili per le componenti tangenziali reciproche agenti sulle facce adiacenti di un generico diedro retto.

12.4 Le propriet` a tensoriali dello stato di tensione 12.4.1 Lo stato di tensione per un parallelepipedo ruotato Sulla base dei risultati ottenuti nel paragrafo precedente, `e possibile risolvere il seguente problema: data la matrice di Cauchy per un parallelepipedo elementare con spigoli paralleli

347

12. LO STATO DI TENSIONE

Figura 12.23: Tensioni tangenziali reciproche agenti su un diedro retto: a) e b) schemi in cui la simmetria del tensore di Cauchy `e rispettata, c) e d) situazioni che violano la condizione di equilibrio alla rotazione e che non possono manifestarsi in un materiale semplice

agli assi, determinare la matrice di Cauchy per un parallelepipedo elementare ruotato rispetto al primo. La situazione `e esemplificata in figura 12.24 nella quale i parallelepipedi sono stati rappresentati traslati per motivi di chiarezza grafica, ma devono essere considerati centrati nello stesso punto. Nella figura 12.24, sono indicati con n ˆ , rˆ e qˆ i versori della terna ortonormale che definisce l’orientamento degli spigoli del parallelepipedo ruotato. La matrice di Cauchy da determinarsi deve contenere le informazioni relative alle componenti dei tre vettori tensione agenti sulle facce positive del parallelepipedo ruotato, ovvero ~t (ˆ n), ~t (ˆ r) e ~t (ˆ q ), che sono ottenibili con le seguenti relazioni:

Figura 12.24: Parallelepipedo elementare genericamente ruotato

~t (ˆ n) = Sˆ n ~t (ˆ r) = Sˆ r ~t (ˆ q ) = Sˆ q

348

` TENSORIALI DELLO STATO DI TENSIONE 12.4. LE PROPRIETA

Affiancando i tre vettori (colonne) secondo la solita procedura, si ottiene la seguente matrice:  S∗ = ~t (ˆ n) , ~t (ˆ r) , ~t (ˆ q) (12.31) che `e stata indicata con S∗ perch´e, pur rappresentando lo stesso stato di tensione nello stesso punto, in genere `e algebricamente diversa da S. Dato che la matrice S∗ rappresenta lo stato di tensione agente sulle facce del parallelepipedo ruotato ma in componenti riferite agli assi iniziali ˆ non risulta di immediata interpretazione. In particolare, pur valendo anche di versori ˆi, ˆj e k, per le facce del cubetto ruotato la legge di reciprocit`a delle tensioni tangenziali, la matrice S∗ non `e simmetrica. Per convincersene, basta scrivere per esteso la relazione (12.31):   n1 r1 q 1 (12.32) S∗ = S ·  n2 r2 q2  n3 r3 q 3 e verificare che, se il parallelepipedo `e effettivamente ruotato, la matrice dei versori `e unitaria, pertanto, se S `e simmetrica S∗ non pu`o esserlo. Dal punto di vista dell’interpretazione, risulta invece molto pi` u significativo esprimere le componenti dei vettori tensione agenti sulle facce del parallelepipedo ruotato nel sistema di riferimento locale definito dai versori degli spigoli stessi. Questo comporta di esprimere le componenti locali dei vettori tensione agenti sulle singole facce e quindi di ripetere, per ogni faccia e per ogni componente, il calcolo effettuato nel paragrafo precedente. Si ottiene in tal modo una nuova matrice che indichiamo come:   σnn σnr σnq ¯= σrr σrq  (12.33) S Sym σqq ¯ la quale, per la legge di reciprocit`a delle tensioni tangenziali, `e simmetrica. La matrice S `e una nuova rappresentazione dello stato di tensione nel punto esaminato, infatti contiene le informazioni sullo stato di tensione delle facce di un parallelepipedo centrato nel punto. Sottolineiamo che, per quanto rappresentino lo stesso stato di tensione, le tre matrici S, S∗ e ¯ S sono effettivamente distinte, salvo casi particolari che saranno discussi in seguito. La matrice ¯ differisce da S∗ perch´e le sue componenti rappresentano gli stessi vettori ma riferiti ad assi S ¯ `e diversa da S perch´e contiene vettori agenti ruotati. A maggior ragione quindi, la matrice S su facce ruotate in un riferimento cartesiano diverso. Per ulteriore chiarimento, nella figura ¯ ovvero le 12.25 `e mostrato il significato geometrico della prima colonna delle matrici S∗ e S, componenti del vettore tensione agente sulla faccia normale a n ˆ proiettato sulle terne generale e locale rispettivamente. ` utile raccogliere in un’unica espressione le operazioni con cui `e stata ottenuta la matrice E ¯ Valgono le seguenti relazioni (generalizzazione delle (12.26), (12.28) e (12.29)) : finale S. T  T   n1 r1 q 1 n1 r1 q 1 n1 r1 q 1 ¯ =  n2 r2 q2  S∗ =  n2 r2 q2  S  n2 r2 q2  S n3 r3 q 3 n3 r3 q 3 n3 r3 q 3 

(12.34)

¯ hanno una evidente interpretazione fisica: A differenza di S∗ , le componenti della matrice S ¯ `e la matrice di Cauchy del punto in esame quando si adotta il riferimento cartesiano con S ¯ come S, deve essere simmetrica e i suoi termini possono versori n ˆ , rˆ e qˆ. Per questo motivo S, essere direttamente identificati come componenti normali e tangenziali delle azioni agenti sulle facce positive del parallelepipedo ruotato.

349

12. LO STATO DI TENSIONE

G t ( nˆ )



kˆ ˆj



iˆ G t ( nˆ )

G t ( nˆ )







σ 31*



ˆj



σ11*

* σ 21

(a)

σ 31 ( = σ qn )



σ11 ( = σ nn )

σ 21 ( = σ rn ) (b)

Figura 12.25: Significato di alcune componenti delle prime colonne delle ¯ proiezioni del vettore ~t (ˆ matrici S∗ e S, n): a) sugli assi di versori ˆi, ˆj, kˆ e b) sugli assi locali di versori n ˆ , rˆ e qˆ

¯ sono quindi forme, pi` Le matrici S, S∗ e S u o meno utili e significative, che rappresentano in modo completo il medesimo stato di tensione. Si noti per`o che, per interpretarne correttamente i componenti, ovvero in modo da ottenere da esse i vettori tensione, `e necessario aver definito il sistema di assi rispetto al quale sono espresse le componenti del vettore tensione e degli spigoli del parallelepipedo elementare. Questa variabilit`a nella rappresentazione in componenti dello stesso stato di tensione non deve sorprendere, `e sempre opportuno ricordare che lo stato di tensione rappresenta una collezione di ∞2 vettori tensione i quali possono essere rappresentati in sistemi di riferimento diversi. Esempio 12.3: Matrice di Cauchy Data la matrice di Cauchy nel sistema di riferimento generale (valori in MPa):   −60 30 20 20 −50  S =  30 20 −50 10 e un parallelepipedo con spigoli: • il primo in direzione (1, −2, −5)T • il secondo sul piano x − y,

350

` TENSORIALI DELLO STATO DI TENSIONE 12.4. LE PROPRIETA

¯ per il parallelepipedo elementare ruotato, rispettivamente nel determinare le matrici S∗ e S sistema originario e nel sistema locale.  Determiniamo i versori degli spigoli nel sistema dato:     1 0.183 1 n ˆ = √  −2  =  −0.365  30 −5 −0.913 

 a 1  b  rˆ = √ 2 a + b2 0 con a e b tali che sia: rˆ · n ˆ = 0. Delle due soluzioni ne scegliamo una:   0.894 rˆ =  0.447  0 da cui il versore del terzo spigolo:  0.408 qˆ = n ˆ ∧ rˆ =  −0.816  0.408 

e quindi i vettori tensione nel sistema originario:   −60 30 20 0.183 20 −50   −0.365 S∗ = S · (ˆ n, rˆ, qˆ) =  30 20 −50 10 −0.913

 0.894 0.408 0.447 −0.816  = 0 0.408

 −40.17 −40.25 −40.83 35.78 −24.50  =  43.82 12.78 −4.47 53.07 

e i vettori tensione nel sistema degli spigoli: 

 −35 −16.33 −46.96 ¯ = (ˆ −20 −47.47  S n, rˆ, qˆ)T · S∗ =  −16.33 −46.96 −47.47 25

12.4.2 Legge di trasformazione per rotazione e definizione di tensore Allo scopo di evidenziare le propriet`a della grandezza fisica tensione, `e fondamentale esaminare il modo con cui le componenti della matrice di Cauchy cambiano in conseguenza di una rotazione del sistema di riferimento (figura 12.26). La questione pu`o essere formulata in questo modo: data una matrice di Cauchy S, che definisce lo stato di tensione di un parallelepipedo ˆ e una terna di assi con versori ˆi0 , ˆj 0 , kˆ0 elementare rispetto a un sistema di riferimento ˆi, ˆj, k,

351

12. LO STATO DI TENSIONE

ottenuta per rotazione rigida dalla terna precedente, ricavare la matrice di Cauchy S0 nel nuovo sistema.

Figura 12.26: Rotazione del sistema di assi

Si tratta del medesimo problema risolto nel precedente paragrafo in cui `e stata ottenuta ¯ E ` per`o opportuno effettuare qualche formale modifica dei simboli per precisare la matrice S. alcune convenzioni. Come spiegato nell’appendice A, il sistema di riferimento ruotato `e definito in modo univoco dalla matrice di trasformazione (o di rotazione) che contiene le componenti dei versori nuovi, ordinati e affiancati in colonna, espressi nelle coordinate originarie:   l11 l12 l13   L = ˆi0 , ˆj 0 , kˆ0 =  l21 l22 l23  (12.35) l31 l32 l31 La matrice di rotazione `e unitaria: LT = L−1 e det (L) = 1. La matrice di Cauchy nel nuovo sistema di coordinate, che indicheremo in modo naturale come S0 , `e la collezione ordinata delle componenti dei vettori tensione, rappresentati nel sistema nuovo, che agiscono sulle facce del parallelepipedo con spigoli paralleli ai nuovi assi. Per ottenere S0 applichiamo pertanto la formula (12.34), considerando che la matrice L ha lo stesso significato della matrice dei versori degli spigoli (ˆ n, rˆ, qˆ). Vale quindi la seguente fondamentale relazione: S0 = LT · S · L

(12.36)

Poich´e la matrice di Cauchy `e la collezione completa delle componenti scalari dello stato di tensione, la relazione (12.36) pu`o essere considerata come la dimostrazione formale del fatto che la tensione non ` e una grandezza vettoriale. Infatti, come dimostrato nella appendice A, le componenti di una grandezza vettoriale si modificano in conseguenza di una rotazione del sistema di riferimento con una legge che prevede una singola moltiplicazione per la matrice L. Per esempio, se consideriamo il versore normale a una faccia, oppure il vettore tensione agente su una faccia, che nel sistema originario sono rappresentati rispettivamente come n ˆ e ~t, nel sistema nuovo le loro componenti diventano: n ˆ 0 = LT n ˆ

(12.37)

~t0 = LT~t

(12.38)

La relazione (12.36) dimostra che S esprime una grandezza tensoriale (tensor quantity) o, pi` u brevemente, un tensore (tensor). Per la precisione, la tensione in un punto `e un tensore cartesiano simmetrico del secondo ordine. Possiamo infatti assumere la seguente prima definizione generale di tensore o grandezza tensoriale:

352

` TENSORIALI DELLO STATO DI TENSIONE 12.4. LE PROPRIETA

un tensore cartesiano del secondo ordine `e una quantit`a le cui componenti si modificano per una rotazione degli assi in conformit`a con la relazione (12.36). La matrice di Cauchy S `e pertanto la rappresentazione in componenti nel sistema ˆi, ˆj, kˆ del tensore delle tensioni (stress tensor) o tensore di Cauchy mentre la matrice S0 `e la rappresentazione dello stesso tensore nel sistema ˆi0 , ˆj 0 , kˆ0 . La nozione di tensore `e basilare nella Meccanica dei Continui, nel seguito del corso saranno infatti introdotte varie altre grandezze tensoriali, ma i tensori sono strumenti fondamentali anche in molte importanti branche della Matematica e della Fisica, tra cui la Geometria Differenziale e la Relativit`a Generale. Lo studio delle propriet`a dei tensori `e pi` u complesso di quello dei vettori ma l’approccio che si adotta `e simile. In particolare, una grandezza vettoriale possiede caratteristiche intrinseche comuni a tutti, indipendentemente dalla natura della grandezza fisica o geometrica che rappresenta. Per esempio, ogni vettore possiede una intensit`a e ha caratteristiche di direzione e verso. Anche i tensori condividono propriet`a essenziali comuni a tutti e quindi indipendenti dalla specifica grandezza fisica rappresentata. Una propriet`a essenziale comune `e proprio espressa dalla (12.36) che definisce la legge generale con cui le componenti di un qualunque tensore (cartesiano del secondo ordine) variano in conseguenza di una rotazione del sistema di assi. Le relazioni (12.37) o (12.38) sono esempi dell’analoga propriet`a vettoriale. Nel prossimo capitolo, prendendo come riferimento il tensore di Cauchy, saranno sviluppati i metodi con cui `e possibile estrarre le propriet`a essenziali necessarie per comprendere pi` u chiaramente la natura delle grandezze tensoriali. Il tensore di Cauchy `e infatti la prima grandezza tensoriale che introduciamo nello studio ma `e stata anche la prima grandezza fisica identificata e studiata come quantit`a tensoriale. Da tensione deriva il nome stesso tensore, successivamente esteso a molte altre grandezze anche non meccaniche. Vale anche la seguente seconda definizione generale di tensore: un tensore cartesiano del secondo ordine `e una trasformazione lineare che associa a un campo vettoriale un altro campo vettoriale. che `e giustificata dalla relazione: ~t (ˆ n) = Sˆ n la quale evidenzia come S sia la collezione dei coefficienti della combinazione lineare che permette di passare dal campo vettoriale delle normali n ˆ al campo vettoriale associato dei relativi vettori tensione ~t. La seconda definizione implica che un tensore del secondo ordine possa essere rappresentato, in un definito sistema di riferimento, tramite una matrice, ovvero un insieme di quantit`a scalari ordinato mediante una coppia di indici. Se il tensore connette campi vettoriali di R3 , gli indici variano nell’insieme {1, 2, 3} e la matrice `e 3 × 3 (tensore del secondo ordine tridimensionale o nello spazio), se la relazione lineare connette vettori di R2 gli indici variano nell’insieme {1, 2} e la matrice `e 2 × 2 (tensore del secondo ordine bidimensionale o piano). Nella matrice di Cauchy `e stato convenuto che il primo indice sia riferito alla componenti di ~t (identifica l’asse su cui si proietta la componente del vettore tensione) e che il secondo indice individui n ˆ (identifica la normale alla faccia). Per la simmetria della matrice, `e peraltro equivalente adottare la convenzione inversa sull’ordine dei pedici. Verifichiamo che le due definizioni di tensore precedentemente proposte sono equivalenti. Partiamo dall’ipotesi che esistano due campi vettoriali connessi da un tensore in base alla seconda definizione e verifichiamo che da questo deriva la legge di trasformazione delle componenti cartesiane espressa dalla relazione (12.36). Per la seconda definizione vale la seguente relazione (tutte le componenti sono espresse nel sistema originario): ~t = Sˆ n

353

12. LO STATO DI TENSIONE

ci chiediamo come i membri di questa relazione si modificano se vogliamo esprimerla in un sistema ruotato definito dalla matrice L. Moltiplicando quindi ambo i membri per LT : LT~t = LT Sˆ n al secondo membro inseriamo, senza alterare il risultato, la matrice identica I = LL−1 : LT~t = LT SIˆ n = LT SLL−1 n ˆ per l’unitariet`a della matrice di rotazione L−1 = LT , la precedente relazione pu`o essere trasformata come:  LT~t = LT SL LT n ˆ in cui la parentesi `e stata introdotta solo per rendere l’espressione immediatamente interpretabile. Si riconosce al primo membro il vettore tensione e al secondo il versore normale, entrambi espressi nelle componenti riferite al sistema ruotato e quindi la relazione pu`o essere formalmente riscritta come:  0 ~t0 = LT SL n ˆ Da questa concludiamo che la matrice LT SL contiene proprio i coefficienti della combinazione lineare che collega i due vettori n ˆ 0 e ~t0 espressi dalle nuove componenti. Pertanto la matrice T L SL `e proprio la rappresentazione del tensore nel sistema nuovo e pu`o essere indicata con ` lasciato come esercizio il compito di dimostrare, usando un S0 , da cui la relazione (12.36). E procedimento speculare, che dalla prima definizione deriva la seconda. La nozione di tensore pu`o essere ulteriormente generalizzata allo scopo di rappresentare grandezze che definiscono relazioni lineari tra pi` u di due campi vettoriali o anche tra campi tensoriali. In questo modo sono definibili tensori di ordine superiore al secondo la cui rappresentazione richiede pi` u di due indici. Con tale generalizzazione, molte grandezze fisiche possono essere interpretate come quantit`a tensoriali di ordine opportuno. I normali vettori possono, per esempio, essere considerati tensori del primo ordine. In effetti i vettori sono esprimibili in componenti da quantit`a associate a un singolo indice. Inoltre gli scalari si possono considerare tensori di ordine zero (non richiedono indici). Nell’ambito del presente corso saranno considerati prevalentemente tensori cartesiani simmetrici del secondo ordine nel piano o nello spazio (oltre alla tensione sono di ordine due i tensori: di deformazione, di inerzia delle sezioni, di curvatura e di flessione per i solidi bidimensionali, ecc. . . ). Quando non diversamente specificato, indicheremo queste quantit`a semplicemente con il termine tensore, assumendo impliciti gli attributi cartesiano simmetrico del secondo ordine.

12.4.3 Lo studio delle propriet` a di una grandezza tensoriale Per effettuare la verifica di resistenza di un elemento strutturale `e necessario determinare lo stato di tensione in ogni suo punto allo scopo di identificare il punto pi` u sollecitato (il punto critico). Un corpo che sta svolgendo una funzione strutturale pu`o essere pertanto interpretato come un dominio dello spazio a ogni punto del quale `e associato un tensore di tensione. Risulta ` prevedibile che l’analisi di un campo cos`ı definito un campo tensoriale (tensor field). E tensoriale sia pi` u impegnativa dello studio di un campo vettoriale. In effetti, un tensore presenta un numero maggiore di componenti e una pi` u complicata legge di trasformazione con la rotazione degli assi. ` importante ricordare che, anche se non `e possibile prescindere dalle sue componenti scalari E per poterlo trattare in termini operativi, il tensore non deve essere identificato con la matrice che lo rappresenta in uno specifico riferimento. Alcune ragioni a sostegno di questa affermazione sono state gi`a discusse nel presente capitolo, tuttavia, a questo punto, essendo nota la legge

354

` TENSORIALI DELLO STATO DI TENSIONE 12.4. LE PROPRIETA

generale di trasformazione delle componenti (12.36), la questione pu`o essere meglio precisata. L’aspetto della matrice S `e conseguenza dello stato di tensione agente nel punto in esame ma anche della scelta della terna cartesiana di riferimento. Ricordiamo infatti che, a differenza delle caratteristiche di sollecitazione per la trave, in cui la terna di riferimento `e imposta da una convenzione, per la definizione della matrice di Cauchy l’orientamento della terna cartesiana `e libero. Tuttavia, poich´e deve essere soddisfatta la relazione (12.36), `e interessante chiedersi quanto della rappresentazione del tensore dipenda dal sistema di riferimento e quanto sia invece una propriet`a intrinseca. Il tensore di Cauchy `e rappresentabile con 6 grandezze scalari indipendenti (ovvero che possono essere fissate a piacimento) ma ricordiamo che sono necessarie 3 quantit`a geometriche per definire l’orientamento del sistema di riferimento. In termini matematici, la matrice S ha 6 parametri mentre la matrice L ne ha 3. Si ricava quindi che esistono alcune quantit`a caratteristiche del tensore che permangono in tutte le possibili rappresentazioni S0 di S o, in altri termini, che sono indipendenti dalla scelta del sistema di assi e quindi dalla matrice L. Una quantit` a che possiede tale propriet`a, ovvero che ha una rappresentazione indipendente dal sistema di riferimento, si chiama invariante (invariant) del tensore o, pi` u correttamente, invariante per rotazione. Le propriet`a invarianti sono in genere nascoste nella rappresentazione matriciale e la loro estrazione richiede una opportuna elaborazione della matrice. Questo studio sar`a affrontato in modo sistematico nel prossimo capitolo, tuttavia `e possibile anticipare alcune considerazioni di carattere generale che permettono di prevedere almeno il numero degli invarianti. In tre dimensioni, per lo stato di tensione di un punto si possono scrivere ∞6 (in genere diverse) matrici di Cauchy ma devono essere identicamente soddisfatte ∞3 relazioni del tipo (12.36). Si nota una analogia formale con l’analisi dei gradi di libert`a per il moto di un corpo rigido nello spazio (6 DOF) quando `e vincolato con tre vincoli semplici indipendenti, per esempio con una cerniera sferica ideale. In quest’ultimo problema, per identificare la configurazione del corpo sono necessarie e sufficienti tre coordinate lagrangiane, essendo tre (6 DOF liberi − 3 DOF vincolati) i gradi di libert`a residui. Similmente concludiamo che esiste una terna di invarianti del tensore di Cauchy. Come per il corpo rigido vincolato con una cerniera sferica `e possibile scegliere le tre coordinate lagrangiane in infiniti modi diversi (alcuni pi` u comodi o espressivi altri meno), analogamente vi sono infinite terne di propriet`a invarianti del tensore di Cauchy. Non pu`o essere per`o modificato il numero di tali caratteristiche indipendenti, come non pu` o essere cambiato il numero di gradi di libert`a del corpo rigido sfericamente incernierato. Per un tensore cartesiano del secondo ordine nel piano, gli invarianti costituiscono invece una coppia, infatti, una matrice simmetrica 2 × 2 ha tre parametri indipendenti ma vi sono ∞1 modi di ruotare gli assi cartesiani nel piano. Vale quindi la legge: le propriet`a invarianti di un tensore del secondo ordine simmetrico costituiscono una terna nello spazio e una coppia nel piano. Dato che gli invarianti non sono modificati dalla rotazione del sistema di riferimento, il loro studio permette di evidenziare le propriet`a essenziali del tensore e quindi di chiarirne la natura fisica.

12.4.4 Simboli nomi e convenzioni Nel presente paragrafo sono presentati alcuni tra i pi` u comuni modi di rappresentare il tensore di Cauchy e le sue componenti come si trovano nella letteratura tecnica. La notazione introdotta, che verr`a rispettata sistematicamente, `e rappresentata dalle seguenti matrici:     σ11 σ12 σ 13 σxx σxy σ xz  σ21 σ22 σ23   σyx σyy σyz  σ31 σ32 σ33 σ zx σzy σzz

355

12. LO STATO DI TENSIONE

la prima, con i pedici in forma numerica, `e pi` u comoda nei calcoli perch´e gli indici sono manipolabili algebricamente. La seconda, con i pedici letterali, `e considerata pi` u espressiva dal punto di vista geometrico e, per questo, `e frequentemente adottata nello studio degli elementi strutturali (travi e solidi bidimensionali) per i quali gli assi di riferimento convenzionali sono generalmente indicati come: x, y, z. Per la simmetria del tensore, la notazione con indici invertiti e` equivalente: il primo indice riferito alla faccia su cui la componente agisce e il secondo alla direzione d’azione della componente. In certi testi le componenti normali e tangenziali sono distinte diversificando le lettere come segue:     σ11 τ12 τ 13 σxx τxy τ xz  τ21 σ22 τ23   τyx σyy τyz  τ31 τ32 σ33 τ zx τzy σzz alcuni autori inoltre, ritenendo che la presenza della lettera σ sia sufficiente per definire la natura normale della componente tensionale, non riportano il doppio pedice per i termini diagonali e ‘semplificano’ la precedente notazione nel modo seguente:     σ1 τ12 τ 13 σx τxy τ xz  τ21 σ2 τ23   τyx σy τyz  τ31 τ32 σ3 τ zx τzy σz La presentazione di varianti alla notazione non deve essere interpretata come un incoraggiamento, al contrario, si tratta di un avvertimento per quello che si pu`o trovare e che contribuisce ` invece consigliato adottare una rappresenspesso a rendere l’argomento poco comprensibile. E tazione coerente e non ambigua per questa importante grandezza. A favore della convenzione proposta si possono addurre varie motivazioni. • L’utilit`a di usare simboli diversi (σ e τ ) per indicare componenti di un’unica grandezza fisica `e discutibile (si immagini di fare lo stesso con le componenti di un vettore). • La caratteristica normale o tangenziale delle componenti della matrice di Cauchy `e completamente definita (anche nel verso, oltre che nella direzione) dalla semplice logica dei pedici e dal segno della componente stessa. • L’uso del doppio pedice (numerico o letterale) `e coerente con la natura tensoriale della quantit`a rappresentata e quindi aiuta a ricordare, per esempio, che i termini della matrice hanno un significato strettamente connesso con il sistema di riferimento scelto e con la posizione che occupano all’interno della matrice. • Quando gli elementi del tensore sono distinti in base al doppio pedice numerico, `e rispettato il consueto modo di numerare e disporre i termini di una matrice (il primo pedice `e riferito alla riga il secondo alla colonna). • La convenzione dei pedici numerici `e coerente con la modalit`a di rappresentare i vettori come matrici colonna e rende corretta, anche formalmente, l’operazione di prodotto righe per colonne, ampiamente sfruttata nelle relazioni proposte. A margine di queste considerazioni sui vari modi di rappresentare il tensore di tensione, mi permetto un commento che pu`o sembrare meramente estetico. Il termine tensione (stress) `e talvolta reso in italiano con sforzo, come, per esempio, in espressioni del tipo: matrice o tensore degli sforzi, sforzo normale, sforzo di taglio, ecc. . . Pur non potendo addurre motivi sostanziali per considerare improprie tali espressioni, non riesco a rinunciare a esplicitare la mia contrariet`a all’uso di un vocabolo cos`ı poco elegante che ha la forma tipica dei termini spregiativi. La mia

356

12.5. ALTRI MODI DI RAPPRESENTARE I TENSORI

avversione `e in parte motivata anche dalla constatazione che il termine sforzo viene spesso usato per indicare indistintamente tensioni e caratteristiche di sollecitazione. In certi testi, per esempio, lo sforzo normale indica sia la forza normale N agente sulla sezione di una trave sia la componente σnn dello stato di tensione agente in un punto della sezione (e analoga ambiguit`a si osserva per lo sforzo di taglio). In questi casi `e invece doveroso, ma anche pi` u semplice e corretto, chiamare la caratteristica N forza normale e la componente σnn tensione normale. In tal modo si sottolinea, tra l’altro, la diversa natura delle due quantit`a: la prima, dimensionalmente una forza, `e la componente di un vettore, la seconda, dimensionalmente una forza per unit`a di superficie, `e la componente di un tensore. A mio avviso, in un contesto tecnico o scientifico, `e pertanto apprezzabile ogni sforzo per evitare l’uso del termine sforzo. In conclusione di queste considerazioni, pu`o essere utile riordinare i termini anglosassoni per una corretta interpretazione e traduzione della letteratura tecnica e scientifica. • Il termine tensione `e correttamente tradotto in inglese con stress, da cui: tensore di tensione stress tensor, stato di tensione stress state e campo di tensione (o campo tensionale) stress field, ecc. . . • Il termine inglese tension si traduce con trazione (o tensione di trazione) e significa quindi: σnn > 0; il termine tension `e spesso contrapposto a compression (compressione) che significa σnn < 0. Il termine tension pu`o essere talvolta pi` u precisamente reso con tensile stress (letteralmente tensione di trazione) mentre il termine compression con compressive stress. • Il termine traction, che nella letteratura tecnica anglosassone identifica precisamente ~t, non deve essere tradotto con trazione, ma con vettore tensione. In inglese tecnico traction `e infatti una grandezza vettoriale che definisce completamente l’effetto prodotto dallo stato di tensione su una superficie ben identificata, spesso una superficie esterna del corpo. Il vettore tensione, traction, ha infatti, in generale, componenti normali, che possono essere di trazione o di compressione, e componenti tangenziali.

12.5 Altri modi di rappresentare i tensori 12.5.1 Il tensore di Cauchy in coordinate non cartesiane Nella maggior parte dei problemi trattati nel corso saranno adottate coordinate rettilinee cartesiane ortogonali che sono le pi` u semplici da usare. Nella figura 12.27 `e esemplificata la definizione della matrice di Cauchy per un generico punto B. Gli spigoli del relativo elemento di volume sono definiti in modo da rispettare la variazione delle coordinate ovvero si estendono ` evidente che se si usano le consuete coordinella direzione di crescita delle coordinate stesse. E nate cartesiane ortogonali, i versori locali sono paralleli ed equiversi agli assi coordinati globali e sono gli stessi per tutti i punti dello spazio. Con riferimento alla figura 12.27 osserviamo inoltre che, in coordinate cartesiane ortogonali: • tutti gli elementi infinitesimi di volume sono uguali, indipendentemente dalla loro posizione, gli spigoli hanno infatti lunghezze dx, dy, dz, e sono orientati nello spesso modo • la figura evidenzia solo le componenti del tensore di tensione (assunte positive) che agiscono sulle facce in vista del parallelepipedo elementare • le azioni agenti sulle facce non in vista (di verso opposto) non sono state rappresentate per ragioni di chiarezza grafica

357

12. LO STATO DI TENSIONE

Figura 12.27: Componenti della matrice di Cauchy in coordinate cartesiane

• tutte le facce in vista sono positive (le loro normali esterne sono equiverse agli assi) e tutte le componenti positive della matrice di Cauchy appaiono quindi equiverse agli assi relativi al loro primo pedice • per le componenti tangenziali si verifica il rispetto della legge di reciprocit`a. Per la soluzione di alcuni problemi possono per`o risultare pi` u comode coordinate curvilinee, come per esempio coordinate cilindriche oppure sferiche. Quando non saranno impiegate coordinate cartesiane ci limiteremo al caso di coordinate curvilinee ortogonali ovvero, come descritto nell’appendice A con le linee di livello delle differenti coordinate che si intersecano formando angoli retti. I versori del sistema di riferimento locale delle coordinate curvilinee ortogonali sono pertanto mutuamente perpendicolari per cui l’elemento infinitesimo di volume, sulle cui facce sono definite le componenti della matrice di Cauchy, `e ancora un parallelepipedo retto a meno di infinitesimi di ordine superiore. L’ortogonalit`a delle coordinate permette quindi l’estensione immediata della nozione di tensore di tensione introdotta nel presente capitolo e le relative propriet`a che saranno descritte nel prossimo anche all’elemento di volume non cartesiano. Consideriamo un punto B e l’elemento di volume in coordinate cilindriche che lo circonda come in figura 12.28. Osserviamo in particolare che:

eˆz

z rdθ

eˆθ

B dz

eˆr

dr

σ rθ 0 x

y

θ

r

σ θθ σ zθ

σ zz σ rz σ rz σ zr σθr

σ rr

Figura 12.28: Componenti della matrice di Cauchy in coordinate cilindriche

• il sistema locale di assi, rappresentato dalla terna di versori eˆr , eˆθ e eˆz , `e ortonormale, le

358

12.5. ALTRI MODI DI RAPPRESENTARE I TENSORI

direzioni di due di essi dipendono dal valore della coordinata angolare θ del punto, il verso dei versori `e definito dal senso di crescita della relativa coordinata • con riferimento alla terna locale, sono ancora definibili univocamente 3 facce positive e 3 facce negative • l’elemento di volume `e, a meno di infinitesimi di ordine 2, un parallelepipedo retto con facce rettangolari mutuamente perpendicolari • gli elementi infinitesimi di volume di spigoli dr, rdθ, dz non sono in genere uguali per tutti i punto dello spazio, in quanto la lunghezza degli spigoli in direzione circonferenziale dipende da r, inoltre sono diversamente orientati • le convenzioni sviluppate per l’elemento infinitesimo di volume cartesiano sono estendibili all’elemento in coordinate cilindriche, in particolare si possono notare i pedici che designano le componenti della matrice di Cauchy nel sistema locale:   σrr σrθ σ rz  σθr σθθ σθz  σ zr σzθ σzz • anche nella figura 12.28 le componenti di tensione sono considerate tutte positive e sono rappresentate solo quelle agenti sulle facce in vista • a causa del punto di osservazione, la faccia superiore dΩz e quella esterna dΩr sono positive mentre la faccia laterale dΩθ `e negativa, di conseguenza i versi delle componenti di tensione agenti sulla faccia dΩθ sono controverse rispetto agli assi locali. Sulla base delle precedenti osservazioni, che possono essere estese a qualsiasi sistema di coordinate curvilinee ortogonali, tra cui quelle sferiche, risulta chiaro che la trasformazione del tensore di tensione da un sistema di coordinate ortogonali a un altro si effettua in modo analogo a una rotazione di assi cartesiani sfruttando le relazioni (12.36).

12.5.2 Notazione tensoriale con indici (*) Come anticipato, i tensori rappresentano grandezze tramite le quali si effettuano trasformazioni lineari tra quantit`a vettoriali o tensoriali. La natura lineare del legame tra due o pi` u grandezze prescinde dal sistema di coordinate, pertanto la rappresentazione tensoriale consente di formulare grandezze e leggi fisiche in modo indipendente dal tipo di coordinate (possono anche assumersi generali coordinate curvilinee non ortogonali). Questa generalit`a `e uno dei motivi per cui i tensori sono strumenti operativi comodi per formulare leggi fisiche anche in uno spazio geometrico non euclideo. Nell’ambito del presente corso saranno considerati esclusivamente sistemi di riferimento localmente ortogonali pertanto non saranno sfruttate tutte le caratteristiche di invarianza dei tensori con i sistemi di coordinate. Tuttavia anche nell’ambito di sistemi di coordinate localmente cartesiani ortogonali, i vantaggi derivanti dall’impiego dei tensori risulteranno evidenti nella definizione delle leggi che descrivono il comportamento di materiali ed elementi strutturali. Analogamente a una grandezza vettoriale, per poterla trattare quantitativamente, una grandezza tensoriale `e rappresentata come la collezione ordinata (o, pi` u precisamente, strutturata) delle sue componenti che sono quantit`a scalari. Come conseguenza, `e necessario definire un sistema di coordinate e una regola che associa le componenti agli assi del sistema locale. La regola di associazione sfrutta un opportuno numero di variabili indice che sono identificate generalmente con lettere latine minuscole come: i, j, k, m, n, q, r, s, . . . . Per le variabili indice di vettori

359

12. LO STATO DI TENSIONE

o tensori definiti nello spazio tridimensionale, il dominio di definizione `e l’insieme D = {1, 2, 3}, per grandezze definite nel piano D = {1, 2}. Un vettore nello spazio, per esempio una forza F~ che in forma di matrice si indica con:   F1  F2  F3 pu`o essere rappresentato come grandezza indicizzata nel modo seguente: Fi forma semplificata della seguente: Fi con i ∈ D il dominio D di variazione dell’indice `e sempre implicito nel problema e quindi `e generalmente omesso. I vettori possono essere considerati tensori di ordine 1 perch´e la loro forma indicizzata richiede un solo indice. Quando sono espressi come grandezze indicizzate, anche i vettori seguono le regole formali dei tensori. Le variabili indice non devono essere confuse con i versori (come per esempio i con ˆi), e quando le due quantit`a compaiono nello stesso contesto, devono essere usate opportune forme di differenziazione, come l’accento circonflesso, la freccia sovrapposta o il grassetto, per evitare ambiguit`a. Peraltro, la notazione con indici permette di operare esclusivamente sulle componenti e quindi, negli sviluppi analitici, generalmente, non `e richiesta l’indicazione esplicita dei versori degli assi. In notazione indicizzata si possono rappresentare anche le matrici, ovvero i tensori di ordine 2 e, per naturale estensione, anche i tensori di ordine pi` u elevato. L’esempio pi` u semplice `e la matrice identica I, che in notazione indicizzata `e universalmente rappresentata dal delta di Kronecker:  1 se i = j δij = 0 se i 6= j Per identificare le matrici sono necessarie due variabili indice (con nomi diversi), ognuna delle quali scorre il proprio dominio indipendentemente dall’altra. Come conseguenza, una grandezza tridimensionale a due indici distinti definisce una tabella 3 × 3 (2 × 2 se la grandezza `e bidimensionale). Esempi ormai noti di quantit`a con due indici sono: • la matrice di trasformazione delle coordinate: lij • il tensore di Cauchy: σij Si possono rappresentare tensori di ordine superiore come i seguenti: • λijk tensore del terzo ordine (con tre indici) • cijkn tensore del quarto ordine (con quattro indici) Mentre i vettori e le matrici (tensori di ordine 1 e 2, rispettivamente) possono essere naturalmente rappresentati in componenti su un foglio di carta, per i tensori di ordine superiore al secondo la situazione `e pi` u complicata. Per esempio, un tensore di ordine 3 pu`o essere interpretato come una sequenza ordinata di matrici o, con un po’ di fantasia, come una matrice tridimensionale. Un tensore del quarto ordine pu`o essere considerato come una collezione ordinata di tensori del terzo ordine, ecc. . . . La notazione indicizzata non pone limiti all’ordine dei tensori rappresentabili.

360

12.5. ALTRI MODI DI RAPPRESENTARE I TENSORI

Con le variabili indice, si possono scrivere in forma compatta anche operazioni tra grandezze indicizzate. Per esempio, la somma tra due vettori ai e bj : rk = ak + bk oppure il loro prodotto scalare: s=

X

ak bk = a1 b1 + a2 b2 + a3 b3

k∈D

Nel caso dei prodotti, spesso si conviene di sottointendere il simbolo di somma sull’indice (o sugli indici) che compaiono ripetuti in una espressione monomia (regola di Einstein sugli indici ripetuti). Il prodotto scalare tra due vettori `e pertanto esprimibile come: s = ak bk Si noti che il seguente prodotto: ϕkn = ak bn solo in apparenza simile al precedente, `e effettuato su tutte le singole coppie di componenti dei due vettori (senza farne la somma) e quindi definisce un tensore di ordine due, come il simbolo al primo membro (una quantit`a a due indici) indica chiaramente. Si pu`o verificare che la seguente espressione rappresenta la forma compatta del prodotto righe per colonne tra la matrice aij e il vettore xj : bi = aij xj con j indice ripetuto, il cui risultato `e ovviamente un vettore. La seguente espressione: cij = ain bnj rappresenta, in notazione indicizzata, il classico prodotto righe per colonne tra due matrici. Si noti che l’indice ripetuto (n) `e il secondo nella prima matrice e il primo nella seconda. Questo ordine `e necessario se si vuole effettuare il prodotto righe per colonne, che in genere non `e commutativo. Nel seguente prodotto il monomio dei fattori presenta due indici ripetuti: s = aij bij e quindi si devono ritenere sottointese due sommatorie: una sull’indice i e l’altra sull’indice j. In forma estesa la relazione precedente pu`o essere pertanto scritta come: aij bij = a11 b11 + a12 b12 + a13 b13 + a21 b21 + ........ + a33 b33 che ha come risultato lo scalare (grandezza senza pedici) somma dei 9 prodotti tra tutte le componenti omonime delle due matrici. Si tratta in effetti di una particolare moltiplicazione tra i due tensori aij e bij (una specie di prodotto scalare tra le rispettive matrici) che non abbiamo mai impiegato ma che sar`a alla base della definizione di lavoro delle azioni interne. La seguente moltiplicazione, solo in apparenza simile alla precedente ma senza ripetizione dei pedici: cijnm = aij bmn ha un significato molto diverso, definisce infatti un tensore del quarto ordine. In notazione indicizzata, la legge che trasforma le rappresentazioni dei vettori tra due sistemi cartesiani mutuamente ruotati si scrive come: x0i = lji xj

361

12. LO STATO DI TENSIONE

notimao che in questa relazione `e ripetuto il primo indice della matrice, in effetti il vettore deve essere moltiplicato per la trasposta della matrice di rotazione. Il prodotto delle singole componenti `e commutativo e quindi `e indifferente l’ordine dei fattori, mentre `e fondamentale l’ordine dei pedici: x0i = lji xj = xj lji La regola di trasformazione dei tensori di ordine 2 per rotazione degli assi si scrive in notazione indicizzata nel modo seguente: 0 σij = lmi lni σmn = σmn lmi lni

Anche in questo caso `e fondamentale la posizione degli indici ripetuti nelle matrici di rotazione. Quest’ultima relazione `e la forma indicizzata della definizione stessa di tensore del secondo ordine. Analogamente pu`o essere definita la legge di trasformazione della rappresentazione per tensori di ordine qualunque. Per esempio, un tensore del quarto ordine modifica le sue componenti in conseguenza di una rotazione degli assi in base alla seguente relazione: c0ijmn = lpi lrj lsm ltn cprst che pu`o essere considerata come la definizione stessa di tensore del quarto ordine. Si osservi che nell’ultima relazione sono sottointesi ben 4 simboli di somma.

362

Capitolo 13

Propriet` a dello stato di tensione Il capitolo presenta le principali propriet`a del tensore di Cauchy. La determinazione e lo studio degli autovalori della matrice S permette di evidenziare le principali caratteristiche fisiche della tensione. Sulla base delle propriet`a invarianti `e, in particolare, possibile classificare lo stato di tensione. Il capitolo propone inoltre alcune rappresentazioni grafiche utili per visualizzare lo stato di tensione e, pi` u in generale, altre grandezze tensoriali. Una particolare attenzione `e dedicata alla rappresentazione di Mohr, considerata uno degli strumenti pi` u efficaci per evidenziare le propriet`a di uno stato di tensione. Nell’ultima parte del capitolo `e esaminata la condizione di equilibrio dell’elemento di volume infinitesimo e sono ricavate le equazioni indefinite di equilibrio che descrivono il modo generale con cui la tensione pu`o variare all’interno di un corpo continuo.

13.1 Lo studio degli autovalori 13.1.1 La ricerca degli invarianti Il capitolo precedente ha evidenziato come l’elaborazione della matrice di Cauchy S, definita ˆ consenta in un punto per un dato sistema di riferimento cartesiano ortogonale di versori ˆi, ˆj e k, di ottenere tutte le propriet`a dello stato di tensione nel punto stesso. La relazione: ~t (ˆ n) = Sˆ n

(13.1)

fornisce infatti il vettore tensione ~t (pi` u precisamente le sue componenti rispetto ai versori ˆi, ˆj ˆ e k) che agisce su una generica giacitura la cui normale esterna `e n ˆ . La matrice S `e pertanto la ˆ La matrice rappresentazione del tensore di tensione nel sistema di riferimento di versori ˆi, ˆj e k. 0 S , che rappresenta lo stesso stato di tensione rispetto a una terna di assi ruotati di versori ˆi0 , ˆj 0 e kˆ0 , si otiene con la relazione: S0 = LT · S · L (13.2) Considerando le relazioni (13.1) e (13.2) e ricordando la propriet`a di simmetria della matrice di Cauchy, si `e concluso che 6 grandezze scalari indipendenti definiscono completamente lo stato di tensione in un punto. Tuttavia, almeno per i materiali solidi di interesse del presente corso, solo una terna di queste quantit`a ha un effettivo significato fisico. Infatti, come mostra la relazione (13.2), lo stesso stato di tensione pu`o essere rappresentato con ∞3 diverse matrici di Cauchy, considerando l’arbitrariet`a con cui `e stato scelto l’orientamento del sistema di assi. Pertanto, in generale, a ogni stato di tensione sono associabili 3 grandezze scalari indipendenti il cui valore non dipende dalla direzione degli assi del sistema. Ognuna di queste 3 quantit` a `e

363

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

chiamata invariante (invariant), o pi` u rigorosamente invariante per rotazione, dello stato di tensione. Lo studio degli invarianti facilita la comprensione della grandezza fisica tensione. Per ogni tensore di tensione, individuata una terna di suoi invarianti indipendenti, se ne possono ottenere infinite altre dato che una generica funzione degli invarianti `e a sua volta un invariante. Allo scopo di individuare una terna di invarianti indipendenti, `e utile affrontare il seguente problema: dato uno stato di tensione, e quindi una matrice di Cauchy in un sistema di riferimento, determinare, se esiste, una giacitura sulla quale il relativo vettore tensione abbia solo componente normale. La presenza della sola componente normale equivale all’assenza di componenti tangenziali. Il problema `e formulabile analiticamente come segue: trovare, se esiste, un versore n ˆ tale che sia verificata la relazione: ~t (ˆ n) ∝ n ˆ

(13.3)

La proporzionalit`a tra le componenti di due vettori equivale infatti al parallelismo. La relazione (13.3) pu`o essere riscritta sotto forma di uguaglianza se si introduce un opportuno fattore moltiplicativo: ~t (ˆ n) = σˆ n (13.4) Nel problema formulato matematicamente con la relazione (13.4) le incognite effettive sono le componenti di n ˆ (l’eventuale giacitura da determinare) ma anche lo scalare σ non `e noto a priori. Il significato fisico di σ `e peraltro facilmente identificabile. Da considerazioni dimensionali si ricava subito che σ `e una tensione, inoltre, supposto che esista effettivamente la giacitura cercata, la cui normale indichiamo con n ˆ 0 , per la relazione (13.4) deve essere ~t (ˆ n0 ) = σˆ n0 . La 0 quantit`a σ rappresenta pertanto la componente normale locale di ~t (ˆ n ) e quindi `e σ = σn0 n0 . Questa uguaglianza giustifica il simbolo usato per identificarla.

13.1.2 La soluzione algebrica La relazione (13.4) di pu`o esprimere  σxx σxy  σyy Sym

nel seguente sistema lineare:     σxz nx nx σyz   ny  = σ  ny  σzz nz nz

(13.5)

in cui: la matrice di Cauchy `e da considerarsi nota, le componenti di n ˆ sono le incognite e lo scalare σ pu`o essere trattato come un parametro. Alla condizione di proporzionalit`a tra ~t (ˆ n) e n ˆ imposta con il sistema (13.5) deve essere associata la condizione di unitariet`a (ˆ n `e un versore) che le incognite devono soddisfare: n2x + n2y + n2z = 1 L’equazione (13.5) pu`o essere scritta come:   (σxx − σ) nx + σxy ny + σxz nz = 0 σyx nx + (σyy − σ) ny + σyz nz = 0  σzx nx + σzy ny + (σzz − σ) nz = 0

(13.6)

(13.7)

oppure, in forma sintetica: (S − σI) n ˆ=0

(13.8)

Dato che le componenti della matrice di Cauchy sono note, le uguaglianze (13.7) o (13.8) definiscono un sistema lineare omogeneo nelle incognite nx , ny , nz parametrico in σ. Il teorema di Rouch´e-Capelli fornisce le condizioni da imporre al parametro σ per la risolvibilit`a del sistema (13.7). In relazione al valore del parametro σ, si verificano infatti le seguenti possibilit`a condizionate dal valore del determinante del sistema:

364

13.1. LO STUDIO DEGLI AUTOVALORI

1. det (S − σI) 6= 0 2. det (S − σI) = 0 Il primo caso `e di interpretazione immediata. Se la matrice del sistema non `e singolare l’unica soluzione di (13.7) `e quella identicamente nulla (nx = ny = nz = 0) ma tale soluzione non `e accettabile perch´e incompatibile con la condizione di unitariet`a espressa dalla relazione (13.6). La mancanza di soluzione ha una interpretazione fisica: se si sceglie ad arbitrio un valore del parametro σ, che indichiamo con σ ¯ , non esiste in genere alcun piano su cui il vettore tensione abbia solo componente normale pari a σ ¯ . In altri termini, ammesso che esista un piano a cui il vettore tensione `e normale, la sua componente deve essere determinata opportunamente. Consideriamo il secondo caso e assegniamo in (13.7) a σ un valore che annulla il determinante. Il sistema lineare (13.7) diventa quindi indeterminato e, tra le infinite soluzioni per le incognite nx , ny , nz , `e, in linea di principio, possibile trovarne qualcuna che rispetti anche la condizione di unitariet`a. Il problema originario `e pertanto ricondotto alla determinazione degli eventuali zeri dell’equazione in σ: det (S − σI) = 0 (13.9) e quindi all’analisi spettrale della matrice S. Gli zeri dell’equazione (13.9), detta equazione caratteristica di S, sono gli autovalori della matrice S. Sviluppando la (13.9) si ottiene la seguente l’equazione algebrica di terzo grado,: σ 3 − I1 σ 2 + I2 σ − I3 = 0

(13.10)

dove `e stato posto: I1 = σxx + σyy + σzz (13.11) σyy σyz 2 2 2 + σzy σzz = σxx σyy + σyy σzz + σxx σzz − σxy − σxz − σyz (13.12) 2 2 2 I3 = det S = σxx σyy σzz − σxx σyz − σyy σxz − σzz σxy + 2σxy σyz σxz (13.13)

σ σxy I2 = xx σyx σyy

σxx σxz + σzx σzz

I coefficienti dell’equazione caratteristica si possono ricordare essendo ricavabili dai minori di S relativi agli elementi della diagonale, pi` u precisamente: • I1 `e la traccia di S (la somma dei determinanti diversi di ordine 1 che si estraggono dagli elementi della diagonale) • I2 `e la somma dei determinanti di ordine 2 diversi che si estraggono dagli elementi della diagonale • I3 `e il determinante di S (l’unico minore di ordine 3 che contiene gli elementi della diagonale). Con il calcolo diretto si pu`o verificare che i coefficienti dell’equazione caratteristica non cambiano se si ruota il sistema di riferimento. Le quantit`a I1 , I2 e I3 sono chiamati invarianti principali del tensore di tensione. Poich´e la matrice S `e simmetrica, l’equazione caratteristica ha sempre tre soluzioni reali che possono avere diversa molteplicit`a (1, 2 o anche 3). Dato che gli zeri di una equazione dipendono esclusivamente dai coefficienti dell’equazione stessa, anche gli autovalori di S sono invarianti per rotazione. Identificati con σ1 , σ2 e σ3 gli autovalori, (due di essi o anche tutti possono assumere lo stesso valore) deve essere infatti: σ 3 − I1 σ 2 + I2 σ − I3 = (σ − σ1 ) (σ − σ2 ) (σ − σ3 )

365

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

per cui tra gli invarianti principali e gli autovalori valgono le seguenti relazioni: I1 = σ1 + σ2 + σ3 I2 = σ1 σ2 + σ2 σ3 + σ1 σ3 I3 = σ1 σ2 σ3 che permettono di ottenere gli invarianti principali conoscendo gli autovalori. Per invertire le precedenti relazioni, ovvero per risolvere l’equazione di terzo grado (13.10), si pu`o operare numericamente oppure ricorrere al procedimento analitico riportato nell’appendice A. Gli autovalori σ1 , σ2 e σ3 della matrice S sono chiamati anche tensioni principali del tensore di Cauchy. Nel seguito sono analizzati i casi che si presentano in relazione alla molteplicit`a delle soluzioni dell’equazione caratteristica.

13.1.3 Tre autovalori distinti Consideriamo il caso in cui l’equazione caratteristica non abbia soluzioni coincidenti: σ1 6= σ2 6= σ3 , e quindi vi siano tre autovalori distinti per la matrice di Cauchy. Sostituendo il primo degli autovalori nel sistema (13.7) si ottiene:   (σxx − σ1 ) nx + σxy ny + σxz nz = 0 σyx nx + (σyy − σ1 ) ny + σyz nz = 0 (13.14)  σzx nx + σzy ny + (σzz − σ1 ) nz = 0 la matrice del sistema (13.14) `e necessariamente singolare e, poich´e l’autovalore σ1 ha molteplicit`a 1, il suo rango `e 2. Le soluzioni del sistema (13.14) non cambiano quindi se si elimina una qualunque delle sue equazioni:  (σxx − σ1 ) nx + σxy ny + σxz nz = 0 (13.15) σyx nx + (σyy − σ1 ) ny + σyz nz = 0 Il sistema lineare (13.15) ammette ∞1 soluzioni che possono essere ottenute esprimendo due incognite in funzione della terza, come per esempio:  nx = kx nz (13.16) ny = ky nz in cui i coefficienti kx e ky hanno una espressione che `e omessa per semplicit`a ma facilmente calcolabile risolvendo il sistema (13.15). Imponendo la condizione di unitariet`a (13.7), si ottengono le due soluzioni opposte:     nx kx  ny  = q ±1  ky  (13.17) 2 + k2 1 + k nz 1 x y che individuano, per`o, un’unica direzione. La direzione comune ai versori ottenuti dalla relazione (13.17) `e detta direzione principale dello stato di tensione associata alla tensione principale σ1 . Scelto a piacere uno dei due versori della direzione principale, definiamo il versore principale associato al primo autovalore che indichiamo con:   kx 1  ky  n ˆ1 = q (13.18) 1 + kx2 + ky2 1

366

13.1. LO STUDIO DEGLI AUTOVALORI

e, come l’autovalore associato, lo identifichiamo con il pedice 1. Dal punto di vista algebrico vale quindi l’identit`a: ~t (ˆ n1 ) = σ 1 n ˆ1 Con lo stesso procedimento, si determinano gli autovettori n ˆ2 e n ˆ 3 associati rispettivamente agli autovalori σ2 e σ3 . Dalla propriet`a generale di ortogonalit`a degli autovettori delle matrici reali simmetriche `e noto che i tre autovettori trovati sono mutuamente perpendicolari, quindi: n ˆi · n ˆj = 0

con

i 6= j

relazioni che possono essere sintetizzate in forma compatta usando il delta di Kronecker: n ˆi · n ˆ j = δij

(13.19)

Esempio 13.1: Analisi algebrica di uno stato tensionale Determinare gli invarianti principali, gli autovalori e i versori degli autovettori associati del seguente tensore di Cauchy (valori in MPa)   20 30 −20 −10 −30  S= Sym −50  Viene applicato il procedimento sviluppato in questo paragrafo per cui sono forniti soltanto i risultati numerici (per semplicit`a sono omesse le unit`a di misura). Gli invarianti principali valgono: I1 = −40 , I2 = −2900 , I3 = 77000 e gli autovalori (MPa): σ1 = −23.42,

σ2 = −66.23,

Gli autovettori associati hanno i seguenti versori:     0.634 0.051 n ˆ 1 =  −0.705  , n ˆ 2 =  0.449  0.319 0.892 Si pu`o verificare che il  20 30 ~t (ˆ −10 n1 ) =  Sym

σ3 = 49.65



 0.772 n ˆ 3 =  0.549  −0.320

vettore tensione agente sulla faccia normale a n ˆ1:       −20 0.634 −14.84 0.634 −30   −0.705  =  16.51  = −23.4  −0.705  = σ1 n ˆ1 −50 0.319 −7.460 0.319

`e effettivamente normale alla faccia su cui agisce e ha come componente la tensione principale associata. Considerando un parallelepipedo elementare con gli spigoli orientati come le direzioni principali, `e interessante rispondere alla domanda: qual `e la rappresentazione dello stato di tensione in tale sistema locale? Oppure, in modo equivalente: qual `e la rappresentazione del tensore di

367

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

Cauchy in un sistema di riferimento con assi orientati come le direzioni principali? La risposta pu`o essere ottenuta per via algebrica tramite la relazione (13.2) sapendo che la matrice di trasformazione consiste nella collezione degli autovettori normalizzati: L = (ˆ n1 , n ˆ2, n ˆ3) Tale calcolo peraltro non `e necessario poich´e lo schema di corpo libero del parallelepipedo elementare orientato secondo le direzioni principali `e facilmente identificabile: sulle sue facce, che sono principali, agiscono solo componenti normali la cui intensit`a `e data proprio dalle tensioni principali. La matrice di Cauchy nel sistema principale ha pertanto forma diagonale e gli autovalori costituiscono i suoi elementi non identicamente nulli:   σ1 0 0 σ2 0  (13.20) S0 =  Sym σ3 Questo risultato `e generale e ha una interessante conseguenza: per qualsiasi stato di tensione in un punto, `e sempre possibile trovare una terna di assi mutuamente perpendicolari, gli autovettori, che definiscono un sistema di riferimento nel quale la matrice di Cauchy `e diagonale e i cui elementi significativi sono gli autovalori. A questa propriet`a si pu`o dare una interpretazione fisica: per qualsiasi stato di tensione in un punto esiste sempre un parallelepipedo elementare, opportunamente orientato, sulle cui facce agiscono solo tensioni normali, gli spigoli del parallelepipedo definiscono le direzioni principali dello stato di tensione e le tensioni agenti sulle facce sono le tensioni principali. ` opportuno sottolineare che questa `e una propriet`a generale del tensore di Cauchy e che E non `e condizionata dal tipo o dal livello di tensione, dalla natura del materiale (vale infatti anche per i fluidi) o dalle condizioni del punto in esame il quale pu`o essere in quiete o animato da qualsiasi tipo di moto. La precedente propriet`a `e quindi una caratteristica universale dello stato di tensione in base alla quale `e garantita sempre l’esistenza di una terna di tensioni normali che identificano o, se si preferisce, sintetizzano, la natura fisica dello stato di tensione. Per l’immediatezza della loro interpretazione fisica, le tensioni principali si candidano, pi` u che gli invarianti principali, a rappresentare gli elementi caratteristici dello stato di tensione. Se il materiale ha un comportamento meccanico di tipo isotropo, ovvero se le sue propriet`a sono indipendenti dalla direzione in cui `e sollecitato, non `e importante l’orientamento della direzione principale rispetto a un riferimento esterno. In questo caso le tensioni principali sono quindi sufficienti anche per caratterizzare gli effetti che lo stato di tensione produce localmente sul materiale. Questo fatto si sfrutta sia per valutare gli effetti deformativi dello stato tensionale sia per quantificare il rischio che la tensione lo danneggi. Tali aspetti saranno affrontati nel seguito, `e tuttavia opportuno comprendere la ragione per cui le tensioni principali sono i parametri di riferimento per classificare lo stato di tensione. Esempio 13.2: Rappresentazioni grafiche dello stato di tensione Rappresentare gli schemi di corpo libero del parallelepipedo elementare nel sistema dato e nel sistema delle direzioni principali per il seguente stato di tensione (valori in MPa):   20 30 −20 −10 −30  S= Sym −50

368

13.1. LO STUDIO DEGLI AUTOVALORI

Figura 13.1: Schema di corpo libero per il parallelepipedo orientato secondo gli assi, sono rappresentate le componenti tensionali sulle sole facce in vista

66.23

kˆ iˆ

23.42

ˆj

nˆ2 nˆ1 49.65

nˆ3

Figura 13.2: Schema di corpo libero per il parallelepipedo con gli spigoli nelle direzioni principali, sono rappresentate le componenti tensionali sulle sole facce in vista

13.1.4 Due soli autovalori coincidenti Consideriamo il caso in cui l’equazione caratteristica abbia soluzione: σ1 = σ2 6= σ3 . L’analisi relativa all’autovalore σ3 , che ha molteplicit`a uno, `e identica alla precedente e porta alla determinazione di un’unica direzione principale, di versore n ˆ 3 , associata a tale tensione principale. Consideriamo quindi le direzioni associate ai due autovalori coincidenti. Sostituendo σ1 nella relazione (13.14) il rango della matrice del sistema si riduce a 1 per cui `e possibile eliminare due delle tre equazioni del sistema (13.14) e ottenere la seguente equazione equivalente: (σxx − σ1 ) nx + σxy ny + σxz nz = 0 che ammette ∞2 soluzioni esplicitabili come:  σxy  nx = σ1 −σxx ny + n = ny  y nz = nz

σxz σ1 −σxx nz

considerando la condizione di unitariet`a, le soluzioni accettabili si riducono a ∞1 . Per identificare tali soluzioni `e sufficiente ricordare la propriet`a di ortogonalit`a degli autovettori che `e

369

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

generale e vale anche in presenza di autovalori coincidenti. Pertanto, gli autovettori associati alle tensioni principali con valore comune σ1 = σ2 , dovendo essere ∞1 e tutti normali a n ˆ3, identificano tutte e sole le coppie di direzioni tra loro perpendicolari che appartengono al piano con normale n ˆ 3 . Le seguenti propriet`a si applicano quindi alla situazione in esame: • oltre n ˆ 3 , tutte le direzioni normali a n ˆ 3 risultano principali di tensione • ogni parallelepipedo elementare che abbia uno spigolo nella direzione di n ˆ 3 ha tutti gli spigoli nelle direzioni principali di tensione • ogni faccia che contiene n ˆ 3 `e soggetta a sola tensione normale di componente pari a σ1 = σ2 .

Esercizio 13.1: Due autovalori coincidenti Verificare che gli autovalori dello stato di tensione dato dalla matrice (valori in MPa):   9.00 −4.068 −3.528 −6.552 −14.354  S= Sym −2.448 sono σ1 = σ2 = 10 e σ3 = −20, e rappresentare lo schema di corpo libero di parallelepipedi variamente orientati ma con uno spigolo nella direzione   0.746  −0.170  0.644

13.1.5 Tre autovalori coincidenti e stato di tensione idrostatico Consideriamo infine il caso in cui tutti gli autovalori coincidono e indichiamo con σ0 il loro valore comune. Con le solite considerazioni `e possibile verificare che il sistema (13.14) si riduce all’identit`a (matrice con rango nullo), quindi per la condizione di unitariet`a del modulo di n ˆ, 2 si ottengono ∞ soluzioni. Qualunque versore dello spazio `e soluzione del problema e quindi `e autovettore della matrice di Cauchy. Un parallelepipedo comunque orientato sar`a quindi soggetto a sola tensione normale σ0 su ogni sua faccia. La condizione di coincidenza di tutti gli autovalori di S si verifica se e solo se la matrice di Cauchy `e diagonale:   σ0 0 0 S = σ0 I =  0 σ0 0  (13.21) 0 0 σ0 infatti solo una matrice proporzionale alla matrice identica ha la stessa forma per qualunque orientamento degli assi, come dimostra il seguente calcolo in cui L `e la matrice di rotazione:   σ0 0 0 S0 = LT SL = σ0 LT IL =  0 σ0 0  0 0 σ0 Riconosciamo in questo stato di tensione la condizione che si manifesta nei fluidi in quiete, e nei fluidi ideali anche in movimento, universalmente nota come legge di Pascal:

370

13.1. LO STUDIO DEGLI AUTOVALORI

in ogni punto di un fluido in quiete la pressione si esercita costante in tutte le direzioni. Per questo motivo uno stato di tensione del tipo (13.21) `e chiamato idrostatico. ` interessante osservare che i fluidi possono mantenersi in equilibrio statico solo se ogni E parallelepipedo elementare `e sottoposto a uno stato di tensione idrostatico e con tensione principale di valore negativo (σ0 < 0). Se le tensioni principali fossero tra loro diverse, come mostreremo nei prossimi paragrafi, vi sarebbero inevitabilmente piani su cui la componente tangenziale del vettore tensione non `e nulla. Sotto l’effetto di tensioni tangenziali le molecole del fluido scorrerebbero e quindi non potrebbe esservi equilibrio statico. Il valore comune degli autovalori deve inoltre essere negativo perch´e le molecole del fluido, che non sono in grado di manifestare significative interazioni di tipo attrattivo, tenderebbero ad allontanarsi indefinitamente. Nella nostra convenzione la tensione idrostatica di un fluido `e pertanto una quantit` a necessariamente negativa. Chi si occupa di fluidodinamica assume invece positiva la pressione ` necessario dei fluidi per evitare la sistematica presenza del segno meno in tutte le equazioni. E ricordare questo fatto per evitare banali errori quando si affrontano problemi in cui liquidi e solidi interagiscono, come nello studio delle condotte o dei recipienti in pressione. Nei casi in cui dovremo occuparci di fluidi, per coerenza con entrambe le convenzioni, chiameremo tensione idrostatica la quantit`a σ0 che `e sempre negativa e rappresenta un elemento della diagonale del tensore di Cauchy e pressione p la quantit`a opposta, e quindi sempre positiva, come in fluidodinamica, ovvero: σ0 = −p. Non `e difficile convincersi che un fluido in quiete `e in grado di sopportare solo tensioni idrostatiche con σ0 < 0. Per modificare la tensione idrostatica in un fluido si pu`o racchiuderlo in un contenitore il cui volume pu`o essere variato, per esempio un cilindro con una delle basi scorrevoli. Per semplicit`a, consideriamo un cilindro infinitamente rigido con la base mobile, pistone, che realizza una tenuta perfetta e senza attrito. Per variare il volume del fluido, possiamo esercitare in corrispondenza delle basi due forze che costituiscono un coppia di braccio nullo. Se applichiamo una azione di tipo compressivo (la coppia di forze `e convergente), la tensione idrostatica nel fluido viene ridotta in senso algebrico e quindi la pressione aumenta. In genere, una azione compressiva anche quando diventa molto intensa pu`o essere sopportata senza problemi da un fluido sia liquido sia aeriforme. Pi` u interessante `e descrivere il comportamento dei fluidi quando si invertono le forze e la coppia tende ad aumentare il volume del recipiente. In questo caso si verifica sperimentalmente che la pressione del fluido si riduce e quindi la componente idrostatica della tensione nel fluido cresce per cui, da negativa che era all’inizio, tende a diventare nulla. Per un fluido aeriforme, l’aumento del volume a disposizione determina un aumento della distanza media tra le molecole e quindi una riduzione della frequenza con cui le molecole stesse colpiscono l’unit`a di superficie delle pareti. L’effetto macroscopico `e quindi una riduzione della pressione che per`o non pu`o comunque mai annullarsi (si ricordi a tale proposito l’equazione di stato dei gas perfetti). L’espansione del recipiente contenente un liquido produce un fenomeno un po’ pi` u complicato. Al crescere della forza esterna, anche la pressione del liquido diminuisce ma solo fino a raggiungere un livello caratteristico, che dipendente dal liquido e dalla temperatura, in corrispondenza del quale il liquido comincia a bollire e quindi si trova all’interno del recipiente in equilibrio con il suo vapore. Da questo momento, nel recipiente `e quindi presente anche una fase aeriforme che pu`o espandersi indefinitamente senza che la pressione possa mai annullarsi. Si conclude quindi che, indipendentemente dall’intensit`a dell’azione espansiva esercitata sul recipiente, la pressione sul fluido contenuto non pu`o annullarsi, in altri termini non `e fisicamente possibile sottoporre un fluido a stati di tensione con componente idrostatica positiva. Un solido, al contrario, `e in grado di sopportare componenti idrostatiche sia di compressione sia di trazione, almeno entro certi limiti, prima di danneggiarsi. Inoltre, come ricordato, un solido pu`o sopportare anche stati di tensione che hanno autovalori diversi, e quindi caratteriz-

371

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

zati da piani su cui agiscono componenti tangenziali. Consideriamo un bicchiere pieno d’acqua liquida posto su un piano orizzontale. La configurazione del fluido, in particolare l’orizzontalit`a della superficie libera e il fatto che l’acqua riempie completamente il volume sottostante del contenitore, `e conseguenza del fatto che solo in tale configurazione lo stato di tensione `e idrostatico di compressione in ogni punto, sia pure con intensit`a che varia con la profondit`a secondo quanto previsto dalla legge di Stevino. Contribuisce in modo determinante a realizzare lo stato di tensione idrostatico nel fluido l’azione esercitata dalle pareti del bicchiere sull’acqua. In effetti, se le pareti del bicchiere si rompessero, la conseguente alterazione dello stato di tensione che, sotto l’effetto del solo peso proprio e della reazione del solo piano orizzontale non potrebbe pi` u essere idrostatico, darebbe luogo alla prevedibile dispersione dell’acqua. Se la stessa acqua fosse invece ghiacciata, le pareti del bicchiere non sarebbero necessarie per l’equilibrio, il contenuto del bicchiere potrebbe agevolmente sopportare le azioni esterne, dovute al peso proprio e alla reazione verticale sulla base, reagendo internamente con un campo di tensione non uniforme e non idrostatico.

13.2 Classificazione dello stato di tensione Uno stato di tensione `e classificato sulla base degli autovalori. I seguenti tipi di tensione si manifestano frequentemente negli elementi strutturali e sono riprodotti nelle prove meccaniche sui materiali. Uno stato di tensione in cui tutte le tensioni principali sono non nulle `e detto triassiale (triaxial). La condizione di triassialit` a non comporta vincoli sull’uguaglianza delle tensioni principali, uno stato tensione idrostatico, ovviamente non nullo, `e infatti triassiale. Stati di tensione triassiali si manifestano in corpi che hanno dimensioni confrontabili, e quindi che richiedono modelli strutturali tridimensionali, e in genere, nelle zone dove sono applicate forze e reazioni vincolari oppure dove vi sono brusche variazioni del contorno, come vicino a cave o spallamenti in un albero. Non `e facile realizzare generiche condizioni di triassialit`a uniformi su volumi estesi e, di conseguenza, non esistono prove standard in cui tutto il materiale di un provino `e sottoposto a condizioni controllate di tensione triassiale, in particolare con componenti di trazione. Uno stato di tensione che ha una sola tensione principale nulla, o comunque trascurabile rispetto alle altre, si chiama biassiale (biaxial). Lo stato di tensione biassiale `e molto comune ` generalmente biassiale negli elementi strutturali e viene riprodotto in varie prove meccaniche. E lo stato di tensione che si ottiene come soluzione per gli elementi strutturali monodimensionali (travi) e bidimensionali (lastre, piastre e gusci). Biassiale `e anche lo stato di tensione che si ha sulla superficie esterna libera, ovvero non caricata o vincolata, di ogni corpo, modellabile indifferentemente come solido mono- bi- o anche tri-dimensionale. Dato che i livelli estremi di tensione si manifestano quasi sempre sulla superficie dei corpi (si pensi, per esempio, alla flessione di una trave), lo stato biassiale `e di notevole interesse dal punto di vista delle applicazioni. Alcuni particolari stati biassiali hanno un nome specifico: • stato di tensione equibiassiale (equibiaxial): σ1 = σ2 6= 0 e σ3 = 0 tipico, per esempio, delle membrane dei tamburi o dei recipienti sferici pressurizzati di piccolo spessore (caso particolare le bolle di sapone) • stato di tensione di taglio puro (pure shear): σ1 = −σ2 6= 0 e σ3 = 0, tipico delle travi tubolari soggette a torsione. Lo stato di tensione monoassiale o uniassiale (uniaxial, monoaxial), in cui una sola tensione principale `e diversa da zero: σ1 6= 0 e σ2 = σ3 = 0 `e tipico nelle travi soggette a forza

372

13.2. CLASSIFICAZIONE DELLO STATO DI TENSIONE

normale e a flessione. Lo stato monoassiale `e in particolare prodotto nella prova di trazione che `e usata per misurate le principali propriet`a meccaniche di un materiale. Consideriamo uno stato biassiale, o anche monoassiale come caso limite, e un sistema cartesiano con l’asse z parallelo alla direzione principale che ha autovalore nullo. Sulle facce normali a z non vi sono tensioni tangenziali, perch´e kˆ `e una direzione principale, e nemmeno tensioni normali, per la biassialit`a. La forma pi` u generale per il tensore di Cauchy in tale sistema `e quindi la seguente:   σxx σxy 0 σyy 0  S= Sym 0 con la terza colonna e la terza riga identicamente nulle. Uno stato di tensione esprimibile in questo modo `e chiamato stato piano di tensione (plane stress). Per uno stato piano di tensione esiste quindi un sistema di riferimento nel quale si pu`o adottare, senza perdere informazioni, una rappresentazione bidimensionale del tensore di Cauchy:   σxx σxy S= (13.22) Sym σyy Il tensore dipende quindi da tre sole componenti scalari indipendenti significative. La matrice (13.22) conserva le note propriet`a tensoriali, in particolare, la legge di trasformazione con la rotazione, e le caratteristiche spettrali. La determinazione degli autovalori per uno stato di tensione piano `e facilitata dal fatto che l’equazione caratteristica `e di secondo grado. ` utile considerare che non sempre l’aspetto della matrice di Cauchy rivela a prima vista E il tipo di tensione che agisce nel punto. Per classificare la tensione `e generalmente necessario estrarre gli autovalori, come si verifica risolvendo il seguente esercizio. Esercizio 13.2: Identificazione di stati di tensione Verificare che gli stati di tensione rappresentati dalle seguenti matrici di Cauchy hanno le caratteristiche indicate a fianco. Rappresentare i tensori nel loro sistema principale e tracciare lo schema di corpo libero del corrispondente parallelepipedo elementare.   1.333 3.333 −0.667 8.333 −1.667 : stato monoassiale a) S =  Sym 0.333   9.667 −1.356 −1.176 4.483 −4.785 : stato equibiassiale b) S =  Sym 5.851   6.027 4.665 1.729 −2.389 10.547 : stato piano di tensione (biassiale) c) S =  Sym −13.638   −3.023 3.151 8.472 2.696 3.168 : stato di taglio puro d) S =  Sym 0.326

373

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

13.3 Rappresentazione di Mohr Lo studio delle propriet`a dello stato di tensione pu`o essere convenientemente effettuato per classi. Cominceremo con il pi` u semplice stato monoassiale per poi passare al biassiale e infine al triassiale. A tale scopo `e di notevole utilit`a una rappresentazione grafica proposta da Otto Mohr (1835-1918).

13.3.1 Tensione monoassiale Uno stato di tensione monoassiale, in un sistema cartesiano avente l’asse x nella direzione principale con autovalore non nullo, `e espresso dalla matrice:   σ1 0 0 0 0  S= Sym 0 negli esempi numerici e nelle figure che seguono, si considera come esempio: σ1 = 50 MPa. Lo stato monoassiale `e un caso particolare di plane-stress, per cui possiamo, almeno per ora, semplificare l’analisi limitandoci a considerare le componenti tensionali relative agli assi x e y:   σ1 0 S= 0 0 Determiniamo quindi le azioni esercitate su facce con normale nel piano x − y allo scopo di tracciare gli schemi di corpo libero di parallelepipedi elementari genericamente ruotati attorno a z. In questo modo, come mostra la figura 13.3, il parallelepipedo pu`o essere facilmente rappresentato come un rettangolo osservato da z + . Identifichiamo con A e B le due facce positive del parallelepipedo: la faccia A risulta scarica mentre sulla faccia B agisce una tensione normale pari a σ1 = 50 MPa. Ricordiamo che l’identificazione delle azioni eserciate sulle sole facce positive `e sufficiente per definire lo stato di tensione e quindi lo schema di corpo libero del parallelepipedo. Per i motivi che saranno chiariti tra poco, `e opportuno distinguere le due facce positive del parallelepipedo in relazione all’orientamento delle loro normali esterne rispetto agli assi del sistema di riferimento. Guardando la figura da z + , la normale esterna alla faccia A (ˆj) si ottiene per rotazione antioraria di π/2 della normale esterna della faccia B (ˆi) mentre, ovviamente, la normale esterna a B si ottiene per rotazione oraria di π/2 della normale esterna ad A. Questa circostanza viene indicata affermando che: • A `e la faccia antioraria • B e la faccia oraria. Consideriamo ora una rotazione del parallelepipedo, definita dalla coordinata angolare α come mostrato nella figura 13.4 (nel disegno e nelle valutazioni numeriche che seguono si considera α = +π/6). Identifichiamo le propriet`a del parallelepipedo ruotato e il suo sistema di riferimento locale con l’apice e, in particolare, le nuove facce positive che sono: A0 antioraria e B 0 oraria. Le azioni esercitate sulle facce del parallelepipedo ruotato possono essere determinate applicando le formule di rotazione del tensore. La matrice di trasformazione degli assi piani `e la seguente:   cos α − sin α L= sin α cos α per cui, nel sistema locale ruotato, il tensore diventa pieno:

374

α

13.3. RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

A 50

50

B ˆj iˆ Figura 13.3: Stato monoassiale visto da z + : sono indicate con A e B le facce positive normali agli assi piani

A′

B′

α ˆj

ˆj′ iˆ′

iˆ Figura 13.4: Parallelepipedo ruotato attorno all’asse z

0

T



S = L SL = σ1

(cos α)2 − sin α cos α − sin α cos α (sin α)2





50 = 4

√    3 − 37.5 −21.65 3 √ = −21.65 12.5 − 3 1

e lo schema di corpo libero `e riportato in figura 13.5.

12.5 21.65

A′

37.5

B′

α

37.5

ˆj iˆ

ˆj′ iˆ′

12.5

Figura 13.5: Schema di corpo libero del parallelepipedo ruotato, valori numerici per σ1 = 50 MPa e α = +30◦

Essendo le facce A0 e B 0 non principali, su di esse si manifestano anche tensioni tangenziali. Le singole componenti della matrice di Cauchy per il parallelepipedo ruotato sono espressioni quadratiche delle funzioni trigonometriche della coordinata angolare α, che con le formule elementari di duplicazione possono essere ridotte a funzioni armoniche di 2α: σx0 x0 = σ1 (cos α)2 =

σ1 (1 + cos 2α) 2

(13.23)

375

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

σ1 (1 − cos 2α) (13.24) 2 σ1 σx0 y0 = −σ1 sin α cos α = − sin 2α (13.25) 2 Il piano di Mohr `e una rappresentazione cartesiana delle componenti del vettore tensione agente su una faccia in cui la componente normale `e riportata in ascisse e la componente tangenziale in ordinate. Pertanto ogni faccia del parallelepipedo `e rappresentata sul piano di Mohr con un punto. Allo scopo di permettere a tale strumento grafico di rappresentare coerentemente, almeno per rappresentare gli stati di tensione piani, l’insieme delle combinazioni tensionali che si producono su entrambe le facce positive del parallelepipedo genericamente ruotato, `e introdotta la seguente convenzione: σy0 y0 = σ1 (sin α)2 =

sul piano di Mohr le componenti tangenziali sono rappresentate con il loro segno per le facce antiorarie e con il segno opposto per le facce orarie. Nella figura 13.6a) `e riprodotto il piano di Mohr e sono riportati, coerentemente con la convenzione, i punti corrispondenti alle facce positive dei parallelepipedi nelle due configurazioni angolari considerate. Se ora consideriamo tutti i possibili orientamenti del parallelepipedo, ov-

Figura 13.6: Rappresentazione di Mohr: a) delle facce A; B, A0 , B 0 e b) circonferenza per tutte le combinazioni dello stato monoassiale

vero tutti i valori di α, le equazioni (13.22), (13.24) e (13.25) definiscono sul piano di Mohr ` un luogo geometrico che visualizza la situazione delle facce positive genericamente orientate. E  immediato verificare che tale luogo `e una circonferenza di centro C σ21 , 0 e raggio R = |σ21 | come mostrato in figura 13.6b). Dalla figura 13.6b) possono essere ricavate le seguenti considerazioni facilmente generalizzabili. • La rotazione di una faccia corrisponde a una equiversa rotazione del punto rappresentativo sul piano di Mohr attorno al centro C della circonferenza. • Sul piano di Mohr gli angoli sono raddoppiati e quindi a una rotazione α della faccia del parallelepipedo corrisponde una rotazione 2α del punto rappresentativo sul piano di Mohr. • La faccia A del parallelepipedo si pu`o ottenere ruotando la faccia B di 90◦ , in effetti sul piano di Mohr il punto caratteristico di A si ottiene dal punto caratteristico di B con una rotazione di 180◦ . • Due facce ortogonali del parallelepipedo sono rappresentate da punti diametralmente opposti della circonferenza di Mohr (AB e A0 B 0 sono infatti diametri della circonferenza)

376

13.3. RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

• Il punto caratteristico di B 0 si ottiene dal punto caratteristico di B con una rotazione antoraria di 60◦ , in effetti la faccia B 0 `e ruotata in senso antiorario di 30◦ rispetto a B. Come mostrato nelle figure 13.7a) e b), consideriamo la generica faccia P contenente la direzione z e inclinata di un generico angolo α e chiamiamo le componenti tensionali agenti su P : σ (α) e τ (α). Se il verso delle tensioni tangenziali non `e rilevante la rappresentazione sul piano di Mohr di tutti i punti rappresentativi di P si riduce alla semicirconferenza superiore di figura 13.7c) (ricordiamo che per definizione τ (α) ≥ 0). Situazioni nelle quali `e possibile prescindere dal segno delle tensioni tangenziali sono piuttosto frequenti per cui spesso la rappresentazione di Mohr `e ridotta al semipiano superiore nel quale si riportano le componenti (σ, τ ), come in figura 13.7c). Con questa rappresentazione semplificata non interessa distinguere se la faccia rappresentata sia oraria o antioraria ma, di conseguenza, si qpossono perdere informazioni sul l’orientamento delle sezioni. Considerando che ~t (α) = σ (α)2 + τ (α)2 , si ricava un’altra interessante interpretazione dei punti sul piano di Mohr ovvero si evidenzia che la loro distanza dall’origine rappresenta il modulo del vettore tensione agente sulla faccia corrispondente.

Figura 13.7: Stato di tensione monoassiale: a) parallelepipedo ruotato di un angolo α, superficie inclinata di α rispetto alla faccia principale, c) semicerchio di Mohr con le componenti σ (α) e τ (α)

Usando la rappresentazione di Mohr `e agevole verificare le seguenti propriet`a generali dello stato di tensione monoassiale (tensione principale significativa σ1 ): • sulle facce di un parallelepipedo inclinato rispetto alle direzioni principali (ovviamente di un angolo non multiplo di 90◦ ) si manifestano sempre tensioni tangenziali • il massimo valore delle tensioni tangenziali, quantit`a generalmente indicata con τmax , `e la met`a di |σ1 |: τmax = |σ1 | /2 • sul piano di Mohr la tensione tangenziale massima si trova sui punti della circonferenza posti a 90◦ rispetto ai punti che individuano le direzioni principali e quindi tale condizione si manifesta su facce ruotate di 45◦ come mostra la figura 13.8.

13.3.2 Tensione biassiale Uno stato di tensione biassiale rappresentato nel riferimento delle direzioni principali ha la seguente matrice di Cauchy:   σ1 0 0 σ2 0  S= Sym 0

377

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

Figura 13.8: Parallelepipedo ruotato a 45◦ rispetto alle direzioni principali sulle cui facce il materiale trasmette le tensioni tangenziali massime

che pu`o essere ridotta nel piano:  S=

σ1 0 0 σ2



Negli esempi che seguono consideriamo i seguenti valori: σ1 = 50 MPa e σ2 = 10 MPa. Operando come nel caso monoassiale, `e facile ottenere la rappresentazione di Mohr delle facce principali A e B e delle facce di un generico parallelepipedo ruotato attorno a z di un angolo α. Si verifica in effetti che l’insieme dei punti che corrispondono alle facce A0 e B 0 `e sempre una circonferenza il cui diametro ha ora estremi in σ1 e σ2 come mostrato in figura 13.9.

σ rn

10

A

B′

25

50

50

R

2α B

A

B ˆj iˆ

10



25

C

σ nn

50

A′

Figura 13.9: Stato biassiale e sua rappresentazione di Mohr

Con il metodo algebrico si ottengono infatti le seguenti relazioni: σ x0 x0 =

σ1 + σ2 σ1 − σ2 + cos 2α 2 2

σ1 + σ2 σ1 − σ2 − cos 2α 2 2 σ1 − σ2 σx0 y0 = − sin 2α 2

σy 0 y 0 =

(13.26) (13.27) (13.28)

 |σ1 −σ2 | 2 dalle quali si ricava il nuovo circolo di Mohr che ha centro in C σ1 +σ . 2 , 0 e raggio R = 2 Si pu`o in effetti considerare lo stato monoassiale come un caso particolare di quello biassiale ponendo σ2 = 0. Il seguente esempio illustra l’utilit`a della rappresentazione di Mohr per l’analisi degli stati biassiali.

378

13.3. RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

Esempio 13.3: Stato biassiale Tramite la rappresentazione di Mohr, classificare e determinare le direzioni principali dello stato di tensione piano:   −15 −20 S= −20 30

30 B ( −15, 20 )

A

σ rn 25

20 15

15 20

ˆj iˆ

B

σ nn 25

50

A ( 30, −20 )

30 Figura 13.10: Schema di corpo libero e rappresentazione di Mohr delle facce

Non `e difficile classificare lo stato di tensione con il metodo analitico, tuttavia questo esempio dimostra come la rappresentazione di Mohr sia altrettanto efficiente e possa essere pi` u adatta per dare un senso fisico alle valutazioni. Il primo passo consiste nel rappresentare sul piano di Mohr le due facce le cui componenti normali e tangenziali sono espresse dalla matrice di Cauchy. A tale scopo `e opportuno distinguere la faccia oraria e antioraria e porre la dovuta attenzione ai segni delle ordinate (figura 13.10): • la faccia A con σyy = 30 e σxy = −20 `e antioraria quindi la sua rappresentazione di Mohr `e A (30, −20) • la faccia B con σxx = −15 e σyx = −20 `e oraria quindi rappresentazione di Mohr B (−15, − (−20)) = B (−15, 20) Le due facce sono a 90◦ quindi i rispettivi punti individuano il diametro del cerchio di Mohr. Da ci`o si deducono il centro e il raggio:   −15 + 30 C , 0 = C (7.5, 0) 2 s s   σyy − σxx 2 30 + 15 2 2 R= + σxy = + 202 = 30.1 2 2 e si pu` o tracciare il cerchio (figura 13.11). Dall’ascissa del centro e dal raggio si ottengono quindi gli autovalori: σxx + σxx σ1 = + R = 37.6 2 σxx + σxx σ2 = − R = −22.6 2

379

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

B ( −15, 20 )

σ rn 25

R E

σ nn

D

─25

C

25

50

41.6° ─25

A ( 30, −20 )

Figura 13.11: Cerchio di Mohr per lo stato biassiale

Lo stato di tensione `e quindi biassiale. Per ottenere le giaciture delle facce principali, ovvero gli autovettori, consideriamo per esempio la faccia che corrisponde al punto D con autovalore σ1 (figura 13.11). Sul piano di Mohr, tale punto si ottiene ruotando il punto A in senso antiorario di un angolo pari a:   |σxy | β = arcsin = 41.6◦ R una rotazione antioraria di β/2 = 20.8◦ del parallelepipedo. Lo schema di corpo libero del parallelepipedo orientato nelle sue direzioni principali `e riportato nella figura 13.12.

Figura 13.12: Tensioni e direzioni principali

Esercizio 13.3: Stato biassiale analizzato con Mohr Con riferimento al precedente esempio 13.3, considerando solo facce che contengono l’asse z, determinare il valore massimo delle tensioni tangenziali e individuare a giacitura dei piani su cui la tensione tangenziale `e 1/2 del valore massimo.

380

13.3. RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

13.3.3 Tensione triassiale Consideriamo infine uno stato triassiale: 

σ1

0 σ2

S= Sym

 0 0  σ3

e come caso numerico: σ1 = 50 MPa, σ2 = 10 MPa e σ3 = −20 MPa (figura 13.13). Consideriamo



20

ˆj



D A

50

10

B

Figura 13.13: Stato triassiale nel sistema principale

un sistema di riferimento con gli assi orientati nelle direzioni principali (figura 13.13) e, in un primo tempo, osserviamo il parallelepipedo dalla parte dall’asse z + in tutte le configurazioni assunte sulle facce quando il parallelepipedo ruota attorno all’asse z stesso. La componente z dello stato di tensione, che si manifesta con una azione normale sulle facce frontali rispetto al punto di vista, non produce alcun effetto sulle tensioni agenti delle facce laterali. Pertanto, la variazione con l’angolo di rotazione delle componenti di tensione agenti sulle facce laterali `e lo stesso che si avrebbe considerando l’equivalente stato di tensione biassiale. La rappresentazione delle facce A0 e B 0 `e pertanto identica a quella mostrata nel paragrafo precedente. La circonferenza di Mohr con diametro in corrispondenza degli autovalori σ1 e σ2 rappresenta quindi le componenti dello stato di tensione di tutti i piani che contengono l’asse z, come mostrato in figura 13.14. I piani corrispondenti ai punti della circonferenza hanno normale esterna con componente z identicamente nulla, ovvero del tipo n ˆ T = (nx , ny , 0). Possiamo ripetere le precedenti considerazioni osservando il parallelepipedo da un altro asse principale. Nella figura 13.15 sono esaminate rotazioni attorno all’asse x e quindi le componenti di vettori tensione per piani che hanno normale del tipo: n ˆ T = (0, ny , nz ). Nella figura 13.16 sono considerate le rotazioni attorno a y e quindi la condizione di piani che hanno normale del tipo: n ˆ T = (nx , 0, nz ). Anche se nello spazio la nozione non `e utile come nel piano, per ognuna delle tre circonferenze di Mohr sopra definite, `e possibile stabilire la faccia oraria e la faccia antioraria, in modo che anche il segno delle corrispondenti componenti delle tensioni tangenziali sulle varie facce possa essere definito senza ambiguit`a. I piani finora considerati non esauriscono evidentemente tutti gli ∞2 piani che passano per il punto in esame. Rimangono infatti escluse le facce che non contengono alcuna delle direzioni principali, come quella rappresentata in figura 13.17 la cui normale esterna ha tutte le componenti non nulle: n ˆ T = (nx , ny , nz ). Per una faccia di normale n ˆ , in genere con tutte le componenti non nulle rispetto alle direzioni principali, valutiamo algebricamente il vettore

381

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA



σ rn

ˆj



τ (α )

A

σ nn

2α B

A σ (α )

B′

B

B′ (σ (α ) ,τ (α ) )

25

D

25

50

α

Figura 13.14: Rappresentazione di Mohr delle componenti del vettore tensione per uno stato triassiale dei piani che contengono la direzione principale 3



α

ˆj



σ rn 25

D

σ (α )

τ (α )

A′ (σ (α ) ,τ (α ) ) 2α

σ nn

D

A

─25

25

A

B Figura 13.15: Rappresentazione di Mohr delle componenti del vettore tensione per uno stato triassiale dei piani che contengono la direzione principale

kˆ ˆj



σ rn

α

B′ (σ (α ) ,τ (α ) ) 25

D σ (α )

B′

τ (α )



A

B

D 25

─25

50

B ─25

Figura 13.16: Rappresentazione di Mohr delle componenti del vettore tensione per uno stato triassiale dei piani che contengono la direzione principale 2

382

σ nn

13.3. RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

kˆ ˆj



D



A

B Figura 13.17: Giacitura che non contiene alcuna direzione principale

tensione ~t = Sˆ n. Se rinunciamo ad attribuire il segno della componente tangenziale e ne consideriamo solo il modulo, il corrispondente punto nel piano di Mohr avr` a ascissa σ = σnn = n ˆ T Sˆ n (con il suo segno) e ordinata la quantit`a non negativa: τ = ~t − σnn n ˆ . Si pu`o dimostrare che, come rappresentato in figura 13.18: il punto (σ, τ ) rappresentativo della faccia genericamente orientata appartiene alla figura racchiusa dalle tre semicirconferenze superiori di Mohr

σ rn

kˆ iˆ

ˆj 25

σ

D τ

A

(σ , τ ) B

D ─25

A

25

σ nn

50

B ─25

Figura 13.18: Rappresentazione delle componenti del vettore tensione per una faccia che non contiene alcuna direzione principale

In geometria una figura piana il cui contorno `e definito da archi di circonferenza `e chiamata lunula e la particolare lunula compresa da tre semicirconferenze complete `e chiamata arbelo. Nel caso delle tensioni, le tre semicirconferenze che hanno gli estremi dei diametri in corrispondenza delle tensioni principali definiscono l’arbelo di Mohr (figura 13.19). Vale anche la relazione inversa: dato un generico punto dell’arbelo di Mohr (contorno incluso), esiste almeno un piano le cui componenti di tensione sono le coordinate del punto. Concludiamo queste considerazioni con l’importante propriet`a: l’arbelo di Mohr `e la rappresentazione grafica del codominio completo della funzione ~t (ˆ n) e quindi evidenzia lo stato di tensione in un punto.

383

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

La rappresentazione di Mohr `e il modo migliore per vedere un tensore cartesiano di ordine 2. In effetti, nel caso del tensore di Cauchy, l’arbelo di Mohr fornisce la rappresentazione delle sollecitazioni trasmesse da tutti gli ∞2 piani e quindi evidenzia effettivamente l’insieme completo delle azioni elettromagnetiche interne a corto raggio che deve sopportare il materiale soggetto a tale stato di tensione.

τ

σ σ3

σ2

σ1

Figura 13.19: Arbelo di Mohr per uno stato di tensione triassiale

Esempio 13.4: Arbelo di Mohr Dato lo stato di tensione definito dalla matrice:   20 0 0 −10 0  S= Sym −40 verificare che i punti rappresentativi dei vettori tensione agenti sui piani normali ai vettori (1, −2, 3) e (−10, 6, 5) appartengono all’arbelo di Mohr.  Il vettore tensione per il primo piano (che indichiamo con A1 ) `e dato da:       20 0 0 5.35 1 1 ~t =  −10 0  √  −2  =  5.35  14 Sym −40 −32.1 3 e le sue componenti sono quindi: σ = ~t · n ˆ = −27.1 τ = ~t · n ˆ − σˆ n = 18.7 Per l’altro piano (chiamato A2 ) le componenti risultano: σ = 3.98 e τ = 22.4. rappresentazione di Mohr `e mostrata in figura 13.20.

384

La

13.4. ANALISI DEGLI STATI DI TENSIONE CON LA RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

σ rn 25

A1

A2

σ nn ─50

25

─25

─25

Figura 13.20: Appartenenza dei punti all’arbelo di Mohr

13.4 Analisi degli stati di tensione con la rappresentazione di Mohr Rappresentiamo gli stati di tensione precedentemente classificati sul piano di Mohr. A tale proposito `e opportuno considerare che, per quanto la classificazione sia effettuata in base agli autovalori non nulli, ogni stato di tensione ha tre tensioni principali e quindi `e sempre rappresentato da un arbelo di Mohr limitato da tre semicirconferenze. Nei casi in cui due tensioni principali coincidono la relativa circonferenza si riduce a un punto e il corrispondente l’arbelo degenera. Lo stato triassiale con autovalori distinti `e stato esaminato nel paragrafo precedente, consideriamo quindi uno stato biassiale con autovalori distinti (σ1 6= σ2 ):   σ1 0 0 σ2 0  S= Sym 0 Per semplicit`a, supponiamo che il sistema di riferimento con assi x, y, z sia orientato come gli autovalori. I tipici arbeli di Mohr che derivano da questo stato di tensione sono mostrati nella figura 13.21. Osserviamo che due diametri delle tre semicirconferenze di Mohr devono avere estremi nell’origine. L’origine `e quindi interna (figura 13.21(a)) se gli autovalori non nulli sono discordi (σ1 σ2 < 0) mentre `e esterna (figura 13.21(b)) se gli autovalori non nulli sono concordi (σ1 σ2 > 0). Questa osservazione pu`o essere utile per determinare il valore massimo della tensione tangenziale τmax che il materiale deve sopportare nel punto in esame e per individare la giacitura su cui tale tensione si manifesta (il piano a cui corrisponde il punto D nella figura 13.21). Come vedremo, in molti casi, la quantit`a τmax `e un indicatore molto significativo degli effetti che lo stato di tensione produce sul materiale. La τmax equivale alla massima elongazione verticale dell’arbelo ed `e quindi uguale al raggio della circonferenza massima. Nel caso di tensioni principali discordi (figura 13.21(a)) si ha quindi: 1 τmax = |σ1 − σ2 | 2

385

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

τ τ max

τ D

τ max

D

σ σ2

σ1

σ σ2

σ1

(b)

(a)

Figura 13.21: Arbeli di Mohr per stati biassiali: a) tensioni principali significative discordi σ1 σ2 < 0 e b) tensioni principali significative concordi σ1 σ2 > 0.

dove l’introduzione del valore assoluto permette di non ordinare gli autovalori algebricamente. Il punto D appartiene alla circonferenza che ha estremi in σ1 , σ2 quindi il piano su cui si manifesta τmax contiene l’asse z e la sua giacitura si ottiene ruotando la faccia principale (normale a x oppure a y) di 45◦ attorno all’asse z. Nel caso di tensioni principali concordi (figura 13.21(b)), la tensione tangenziale massima appartiene invece alla semicirconferenza che ha estremi l’origine (punto che corrisponde alla faccia normale a z) e il maggiore valore assoluto della tensione principale, nell’esempio: σ1 . Vale pertanto la seguente relazione: τmax =

1 max (|σ1 | , |σ2 |) 2

Il piano su cui si manifesta τmax `e diverso rispetto al caso precedente. Per fissare le idee supponiamo che, come nella figura 13.21(a), sia |σ1 | > |σ2 |, dato che D appartiene alla circonferenza definita dalle tensioni principali agenti sulle facce normali a x e a z, il piano con la massima tensione tangenziale si ottiene ruotando la faccia normale a x (oppure a z) di 45◦ attorno all’asse y. Nella figura 13.22 `e mostrato l’arbelo di Mohr di uno stato di tensione di taglio puro (σ1 = −σ2 ) per il quale si ha: τmax = |σ1 | = |σ2 | Come mostrato nella figura 13.23, il massimo valore della tensione tangenziale si manifesta su facce ottenute ruotando il parallelepipedo attorno all’asse z di 45◦ . Si pu`o osservare che quando il parallelepipedo assume tale orientamento, sulle sue facce non agiscono tensioni normali, da qui il nome di taglio puro. Per analizzare lo stato si tensione equibiassiale (σ1 = σ2 ) `e utile considerare uno stato di tensione quasi equibiassiale in cui, per esempio `e σ2 = 0.95σ1 , il cui arbelo di Mohr `e mostrato nella figura 13.24. In questo caso l’arbelo tende a schiacciarsi sulla semicirconferenza massima. In effetti, per il caso equibiassiale l’arbelo degenera effettivamente nella semicirconferenza esterna come mostrato in figura 13.25. In questo caso ai punti della semicirconferenza (come E e D) corrispondono infiniti piani in quanto tali punti sono il risultato della contrazione (o degenerazione) di un intero segmento. In particolare, le condizioni di massima tensione tangenziale (corrispondenti al punto D) si manifestano su tutti i piani tangenti al cono di semiapertura 45◦ avente asse

386

13.4. ANALISI DEGLI STATI DI TENSIONE CON LA RAPPRESENTAZIONE DI MOHR

τ τ max

D

B

A

σ2

σ

σ1

Figura 13.22: Stato di tensione di taglio puro

σ1

τ max = σ 1

A

σ1

D

D

45°

B

ˆj iˆ Figura 13.23: Stato di tensione di taglio puro nelle direzioni principali e sul parallelepipedo ruotato a 45◦ che evidenzia solo componenti tangenziali

τ

σ σ 2 σ1 Figura 13.24: Stato di tensione quasi equibiassiale

387

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

τ D E

σ1 = σ 2

σ

Figura 13.25: Arbelo di Mohr per il caso equibiassiale

nella direzione z (in generale l’autovettore che corrisponde alla tensione principale nulla). Il punto in corrispondenza dell’origine (in cui l’arbelo non `e contratto) rappresenta un unico pia` evidente che per lo stato equibiassiale non esistono piani con combinazioni (σ, τ ) che non no. E appartengono alla semicirconferenza. Un ragionamento analogo, esemplificato nella figura 13.26, porta all’arbelo degenere per uno stato monoassiale. Anche in questo caso il punto caratteristico di un generico piano deve appartenere alla semicirconferenza e i suoi punti (come E e D), escluso questa volta l’estremo con tensione normale non nulla, rappresentano infiniti piani. In particolare, il punto D, in corrispondenza del quale si ha la massima tensione tangenziale, rappresenta tutti i piani tangenti al cono di semiapertura 45◦ con asse coincidente con la direzione principale dell’autovalore non nullo. Uno stato di tensione monoassiale e uno stato di tensione equibiassiale che hanno la stessa tensione principale non nulla hanno quindi arbeli di Mohr indistinguibili. A parit`a di tensione principale non nulla, questi stati di tensione hanno quindi anche il medesimo valore della massima tensione tangenziale. La stessa rappresentazione nel piano di Mohr giustifica l’evidenza sperimentale, che sar`a discussa in un prossimo capitolo, che tali stati di tensione producano effetti simili sul materiale, per esempio per quanto riguarda lo snervamento.

τ

τ

D E

σ

σ2 (a) Figura 13.26: monoassiale

388

σ1

σ1 Stato di tensione:

σ

(b) a) biassiale quasi monoassiale e b)

` DELLO STATO DI TENSIONE 13.5. ALTRE RAPPRESENTAZIONI E PROPRIETA

Per lo stato di tensione idrostatico (σ1 = σ2 = σ3  σ0 0 σ0 S= Sym

= σ0 ):  0 0  σ0

si verifica la degenerazione estrema dell’arbelo di Mohr in un singolo punto (figura 13.27) del-

τ

σ σ0 Figura 13.27: Arbelo degenere di Mohr per lo stato di tensione idrostatico.

l’asse delle σ. La rappresentazione evidenzia le peculiarit`a dello stato idrostatico, in particolare: • la rappresentazione matriciale invariante per rotazione • la mancanza di piani su cui si manifestano tensioni tangenziali • il fatto che tutti gli ∞2 piani hanno la medesima tensione normale pari a σ0 .

13.5 Altre rappresentazioni e propriet` a dello stato di tensione 13.5.1 Rappresentazione di Haigh-Westergaard La rappresentazione di Mohr `e molto utile per comprendere gli effetti prodotti da uno stato di tensione perch´e ne evidenzia in modo immediato le caratteristiche tensoriali. Sono stati proposti tuttavia anche altri strumenti grafici per rappresentare lo stato di tensione. Tutte le rappresentazioni, piano di Mohr incluso, sono utili prevalentemente nello studio dei materiali isotropi per i quali non `e importante l’orientamento degli assi principali e le tensioni principali sono sufficienti per caratterizzare gli effetti prodotti dallo stato di tensione.

σ3 10 10

10

σ2

σ1 S Figura 13.28: Rappresentazione nello spazio di Haigh-Westergaard di uno stato di tensione triassiale

389

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

Lo spazio di Haigh-Westergaard prevede di rappresentare uno stato di tensione in un diagramma cartesiano tridimensionale le cui coordinate sono le tensioni principali. Un esempio `e fornito nella figura 13.28 in cui `e visualizzato lo stato di tensione:   50 0 0 10 0  S= Sym −20 Con riferimento alla figura 13.29, si possono verificare le seguenti affermazioni relative alla rappresentazione di Haigh-Westergaard:

σ3 54.7°

idrostatico 54.7° 54.7°

taglio puro

σ1

σ2

45° 45°

equibiassiale

Figura 13.29: Rappresentazione di alcuni stati di tensione notevoli nello spazio di Haigh-Westergaard

• l’origine `e lo stato di tensione nullo • uno stato di tensione `e tanto pi` u intenso quanto pi` u il suo punto caratteristico `e lontano dall’origine • i punti appartenenti agli assi rappresentano stati monoassiali • i punti appartenenti ai piani coordinati rappresentano stati di tensione piani • gli stati di tensione idrostatici sono rappresentati dai punti appartenenti alla trisettrice del primo ottante • le bisettrici dei piani coordinati rappresentano stati di tensione equibiassiali (bisettrici principali) o stati di tensione di taglio puro (bisettrici secondarie). Quando lo stato di tensione `e piano (biassiale o monoassiale) si pu`o usare il pi` u comodo piano di Haigh-Westergaard che consiste nella proiezione ortogonale dello spazio di HaighWestergaard in direzione dell’autovalore nullo. Gli stati piani sono rappresentati nella figura 13.30.

13.5.2 Decomposizione dello stato di tensione Consideriamo un generico stato di tensione (mono-, bi- o tri-assiale) rappresentato nel suo sistema principale:   σ1 0 0 σ2 0  S= Sym σ3

390

` DELLO STATO DI TENSIONE 13.5. ALTRE RAPPRESENTAZIONI E PROPRIETA

σ2 taglio puro equibiassiale 45°

σ1 45°

Figura 13.30: Piano di Haigh-Westergaard per stati di tensione piani con i luoghi caratteristici per gli stati equibiassali e taglio puro

in alcune analisi `e questo modo:  σ1 0  σ2 Sym

utile considerarlo come la sovrapposizione di due stati di tensione definiti in      0 σ0 0 0 σ1 − σ0 0 0  0 = σ0 0  +  σ2 − σ0 0 σ3 Sym σ0 Sym σ3 − σ0

(13.29)

in cui lo scalare:

1 1 (σ1 + σ2 + σ3 ) = I1 (13.30) 3 3 `e chiamato tensione media (mean stress) ed `e evidentemente un invariante (per rotazione) e il tensore:   σ0 0 0 σ0 0  (13.31) SI =  Sym σ0 σ0 =

`e chiamato componente idrostatica (hydrostatic component) dello stato di tensione S, mentre il tensore differenza:   σ1 − σ0 0 0  σ2 − σ0 0 SD = S − SI =  (13.32) Sym σ3 − σ0 `e chiamato componente deviatorica (deviatoric component) dello stato di tensione o deviatore di tensione (stress deviator). In generale, uno stato di tensione ha sia componente idrostatica sia componente deviatorica (si pensi per esempio allo stato monoassiale), ma `e evidente che uno stato di tensione idrostatico ha componente deviatorica nulla. Uno stato di tensione che, al contrario, ha componente idrostatica nulla `e detto deviatorico. Nella rappresentazione di Mohr la tensione media σ0 , che determina l’intensit`a della componente idrostatica, `e il baricentro dei punti di intersezione dell’arbelo con l’asse delle σ e quindi `e connessa alla posizione dell’arbelo in direzione orizzontale. Uno stato di tensione `e deviatorico quando il suddetto baricentro `e nell’origine, perch´e ci`o si verifichi `e necessario e sufficiente che una tensione principale sia opposta alla somma delle altre due (la traccia della matrice di

391

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

Cauchy `e nulla). Uno stato di tensione di taglio puro `e quindi deviatorico ma esistono infiniti stati deviatorici diversi dal taglio puro. Un elevato modulo della componente idrostatica, ovvero uno stato di tensione fortemente idrostatico, indica che l’arbelo `e molto spostato a destra (se σ0 > 0) o a sinistra (se σ0 < 0) mentre una intensa componente deviatorica implica che i tre estremi dei cerchi sono lontani dal baricentro e quindi che l’arbelo `e esteso (il cerchio massimo ha grande raggio). Poich´e la tensione tangenziale massima misura l’estensione dell’arbelo (`e proprio il raggio del cerchio massimo), non stupisce che la componente deviatorica dello stato di tensione sia collegata all’intensit`a delle tensioni tangenziali agenti nel punto, in effetti gli stati di tensione idrostatici che hanno componente deviatorica nulla hanno anche τmax = 0 . La componente deviatorica dello stato di tensione viene usata per analizzare degli effetti che uno stato di tensione produce sulla resistenza allo snervamento dei materiali. A tale scopo sono di particolare interesse gli invarianti principali del deviatore, generalmente indicati con: J1 , J2 e ` lasciata al lettore la verifica delle seguenti relazioni che legano gli invarianti del deviatore J3 . E e del tensore di Cauchy: J1 = 0 (13.33)  1 2 J2 = I1 − 3I2 (13.34) 3  1 2I13 − 9I1 I2 + 27I3 (13.35) J3 = 27 Alcune propriet`a dello stato di tensione si ottengono considerando il vettore tensione che si manifesta sul piano che ha come normale la trisettrice delle direzioni principali. Tale giacitura `e chiamata piano ottaedrico (octaedral plane) e ottaedriche sono denominate le componenti del vettore tensione agente su tale piano. Si verifica in particolare che: • la componente normale del vettore tensione agente sul piano ottaedrico `e pari alla tensione media: σoct = σ0 • la componente tangenziale del vettore tensione agente sul piano q ottaedrico dipende solo q 2(I12 −3I2 ) dal secondo invariante principale del deviatore: τoct = 23 J2 = 3 Le componenti ottaedriche sono usate per sviluppare considerazioni energetiche relative alle azioni interne (che saranno riprese in un prossimo capitolo) e hanno anche un interessante significato statico. Se si considera una superficie sferica Ω di raggio ρ con centro nel punto in esame e le componenti normale σ e tangenziale τ del vettore tensione agente sui punti della sfera, il loro valor medio quando il raggio ρ tende a zero sono date dalle seguenti relazioni: Z 1 hσi = lim σdS = σ0 (13.36) ρ→0 4πρ2 Ω

1 hτ i = lim ρ→0 4πρ2

r

Z τ dS =

3 τoct 5



Esercizio 13.4: Legame tra tensore di Cauchy e suo deviatore Verificare le relazioni (13.34) e (13.35)

392

(13.37)

13.6. EQUAZIONI INDEFINITE DI EQUILIBRIO DELL’ELEMENTO SOLIDO ELEMENTARE

Esercizio 13.5: Propriet`a medie locali dello stato di tensione (*) Verificare le relazioni (13.36) e (13.37)

13.6 Equazioni indefinite di equilibrio dell’elemento solido elementare Analogamente a quanto fatto per il concio di trave nel capitolo 10, `e interessante considerare le variazioni che lo stato di tensione presenta quando si passa da una faccia a quella opposta del parallelepipedo elementare. Le facce opposte sono in effetti separate da distanze infinitesime e quindi `e lecito attendersi che anche le componenti di tensione su di esse agenti differiscano, per quanto di quantit`a infinitesime. ∂σ xz ⎞ ⎛ ⎜ σ xz + ∂z dz ⎟ dxdy ⎝ ⎠

σ xx dydz

kˆ ˆj

σ xy dxdz

iˆ ∂σ xx ⎞ ⎛ ⎜ σ xx + ∂x dx ⎟ dydz ⎝ ⎠

f x dxdydz

∂σ xy ⎞ ⎛ dy ⎟ dxdz ⎜ σ xy + ∂y ⎝ ⎠

σ xz dxdy

Figura 13.31: Schema di corpo libero del parallelepipedo elementare con le azioni che hanno componente in direzione x

Esaminiamo l’equilibrio del parallelepipedo elementare sottoposto alla condizione di carico pi` u generale. Nello sviluppo che segue consideriamo le azioni che hanno componenti nella direzione x, per le altre sar`a sufficiente ripetere il ragionamento modificando gli indici. Dallo schema di corpo libero illustrato nella figura 13.31 si osserva che: • `e stato considerato un parallelepipedo elementare con un generico orientamento sulle cui facce agiscono tutte le componenti di tensione • le forze di volume o di massa, in genere il peso e le forze d’inerzia, sono staticamente equivalenti a un forza applicata al baricentro del parallelepipedo elementare, la componente nella direzione x `e quindi data da fx dxdydz • non sono considerate forze esterne di tipo concentrato in quanto non giustificabili dal punto di vista fisico nell’ipotesi di continuo tridimensionale • le forze di superficie esercitate sulle sei facce, effetto della tensione, sono rappresentate nello schema tramite le loro risultanti applicate ai baricentri (centri di spinta) delle relative facce • sono considerate tutte componenti positive dello stato di tensione quindi forze equiverse agli assi sulle facce positive e controverse sulle facce negative

393

` DELLO STATO DI TENSIONE 13. PROPRIETA

• sono ammesse variazioni infinitesime delle componenti di tensione sulle coppie di facce opposte, a tale proposito sono introdotte le derivate parziali perch´e ogni componente di tensione varia in generale nelle diverse direzioni essendo funzione di tre coordinate. La prima cardinale in direzione x si esprime come:    ∂σ σxx + ∂σ∂xxx dx dydz − σxx dydz + σxy + ∂yxy dy dxdz − σxy dxdz + σxz +

∂σxz ∂z dz



dxdy − σxz dxdy+

+fx dxdydz = 0 che si semplifica nella seguente: ∂σxy ∂σxz ∂σxx dxdydz + dydxdz + dzdxdy + fx dxdydz = 0 ∂x ∂y ∂z

(13.38)

Il fattore differenziale comune a tutti i termini della relazione (13.38) `e il volume del parallelepipedo (infinitesimo ma non nullo) e pu`o quindi essere eliminato. Facendo il calcolo anche per le altre componenti si ottengono le seguenti uguaglianze: ∂σxx ∂σxy ∂σxz + + + fx = 0 ∂x ∂y ∂z

(13.39)

∂σyz ∂σyx ∂σyy + + + fy = 0 (13.40) ∂x ∂y ∂z ∂σzx ∂σzy ∂σzz + + + fz = 0 (13.41) ∂x ∂y ∂z chiamate equazioni indefinite di equilibrio del parallelepipedo elementare le quali, discendendo direttamente della prima cardinale, devono essere soddisfatte in ogni circostanza. La validit`a delle equazioni indefinite si estende anche al caso in cui il punto sia in movimento, se si ha l’accortezza di adottare un sistema di riferimento solidale al baricentro del parallelepipedo e si introducono nelle forze di volume anche le eventuali forze d’inerzia. In molti casi in Meccanica, le forze di volume sono trascurabili, perch´e producono effetti tensionali molto pi` u piccoli rispetto a quelli dovuti alle forze applicate per contatto. Le equazioni indefinite si semplificano allora nelle seguenti: ∂σxx ∂σxy ∂σxz + + =0 ∂x ∂y ∂z

(13.42)

∂σyx ∂σyy ∂σyz + + =0 (13.43) ∂x ∂y ∂z ∂σzx ∂σzy ∂σzz + + =0 (13.44) ∂x ∂y ∂z Le equazioni indefinite suggeriscono pertanto la presenza di gradienti di tensione all’interno dei solidi e, di conseguenza, l’esistenza di variazioni nei valori delle componenti tensionali quando si passa da una faccia a quella opposta. Come evidenziato dalle relazioni (13.39,13.40,13.41), i gradienti di tensione sono conseguenza diretta delle forze di volume, tuttavia, anche in assenza di forze di volume, gradienti di tensione possono manifestarsi all’interno del corpo purch´e si compensino come indicato dalle relazioni (13.32,13.43,13.44). Si osservi per`o che se tali gradienti sono finiti, le variazioni di tensione che si possono manifestare tra due facce opposte del parallelepipedo sono quantit`a infinitesime dello stesso ordine della distanza delle facce (o superiori). Dal punto di vista matematico, le equazioni indefinite di equilibrio costituiscono nel loro insieme un sistema di equazioni differenziali lineari alle derivate parziali, non omogenee se vi sono forze di volume, che hanno come:

394

13.6. EQUAZIONI INDEFINITE DI EQUILIBRIO DELL’ELEMENTO SOLIDO ELEMENTARE

• dominio di definizione: la regione occupata dal corpo in esame • incognite: le 6 componenti di tensione (funzioni della posizione e quindi delle coordinate) • termini noti: le forze di volume (anch’esse in genere variabili con la posizione) • condizioni al contorno: le azioni esercitate sulla superficie del corpo (carichi di contatto e vincoli). La discussione sui metodi per risolvere questo fondamentale ma complesso problema della fisica-matematica, che porta alla determinazione del campo di tensione in ogni punto del corpo in esame, e soprattutto le sue pratiche applicazioni, costituisce l’argomento della parte finale del corso. Possiamo tuttavia anticipare alcune interessanti considerazioni generali sulla risolvibilit`a del problema, confrontando il numero delle incognite con quello delle equazioni disponibili. Osserviamo che le equazioni di equilibrio (13.39,13.40,13.41) forniscono 3 condizioni indipendenti. Si potrebbe obiettare che non sono state considerate le condizioni derivanti dalla seconda cardinale, ma non `e corretto. In effetti, l’imposizione dell’equilibrio alla rotazione conduce alla condizione di simmetria del tensore di Cauchy (`e lasciato al lettore il compito di dimostrare che le variazioni infinitesime di tensione sulle facce opposte non modificano questo risultato). La seconda cardinale `e quindi gi`a considerata nel bilancio, con la riduzione da 9 a 6 delle incognite del problema. Pertanto, dato che vi sono 6 funzioni incognite σij (x, y, z) con solo 3 equazioni di equilibrio, dobbiamo affrontare un tipico problema iperstatico. Effettivamente si tratta di un problema ben ∞3 volte iperstatico! In analogia con i problemi di meccanica del corpo rigido e delle strutture gi`a affrontati, concludiamo quindi che nella meccanica del continuo le sole condizioni di equilibrio non permettono di discriminare tra tutti gli infiniti campi di tensione equilibrati quello che effettivamente si manifesta. Come per tutti i problemi iperstatici, che rimangono indeterminati nell’ipotesi di infinita rigidezza, la soluzione del problema non `e ottenibile senza considerare che il continuo si deforma. Di conseguenza ‘e necessario stabilire come le azioni statiche modificano la forma dei corpi e quindi, nel caso specifico, come le tensioni distorcono il cubetto elementare. Appare pertanto evidente la necessit`a di integrare le equazioni indefinite di equilibrio con equazioni adatte a modellare la deformabilit`a del mezzo continuo. Similmente allo studio della statica dell’elemento infinitesimo, che ha portato alla definizione della tensione, `e necessario definire in modo quantitativo il generico cambiamento di forma del parallelepipedo elementare. Inoltre `e necessario anche sviluppare un modello che quantifichi la distorsione del parallelepipedo elementare quando `e sottoposto allo stato di tensione. Le equazioni che descrivono la variazione di forma, e quindi sono di natura geometrica e hanno validit`a universale, sono chiamate equazioni di congruenza (compatibility equations). Le relazioni che descrivono il comportamento meccanico del materiale legando il fenomeno deformativo allo stato di tensione sono chiamate equazioni costitutive (constitutive equations). Queste ultime sono di natura fondamentalmente empirico-sperimentale e quindi sono specifiche per ogni materiale o classe ` infatti evidente, per esempio, che il comportamento di un acciaio `e diverso, di materiali. E almeno dal punto di vista quantitativo, da quello per esempio di un polimero o di una gomma. Le equazioni di congruenza e le equazioni costitutive sono sviluppate nei prossimi quattro capitoli, alla fine dei quali sar`a possibile verificare che l’insieme di tutte queste condizioni rende effettivamente risolvibile il problema della meccanica dei continui.

395

Capitolo 14

La deformazione Partendo dal problema tipico delle verifiche di rigidezza, il capitolo sviluppa la nozione di variazione di configurazione o deformazione di un continuo. La prima parte del capitolo `e dedicata all’analisi delle trasformazioni affini che rappresentano le variazioni di configurazione descrivibili nel modo pi` u semplice dal punto di vista matematico. In particolare, `e presentato il problema diretto, che consiste nel determinare le deformazioni di un corpo quando `e noto il campo di spostamento di ogni suo punto. Il problema diretto `e in generale sempre risolvibile per quanto preveda equazioni non lineari se le variazioni di configurazione sono intense. Per variazioni di configurazione di piccola entit`a, le deformazioni possono invece essere ottenute elaborando gli spostamenti con relazioni di tipo lineare. Nella seconda parte del capitolo `e introdotto il tensore delle piccole deformazioni che costituisce la grandezza fondamentale per lo studio dei corpi poco deformabilic he sar`a ogetto del seguito del corso. Nella terza parte del capitolo l’analisi deformativa `e estesa a variazioni di forma molto pi` u generali che non sono affini. Alcune ragionevoli restrizioni sulle propriet`a di regolarit`a del campo di spostamento definiscono le trasformazioni congruenti che permettono di modellare tutti i processi deformativi di pratico interesse. L’esame delle trasformazioni congruenti `e facilitato dall’osservazione che esse sono affini al limite. Si verifica infatti che, ogni parallelepipedo elementare che subisce una trasformazione congruente si trasforma in modo affine. Nell’ultima parte del capitolo `e affrontato il problema inverso che consiste nel determinare il campo di spostamento quando `e dato il campo di deformazione. L’analisi del problema inverso evidenzia l’esistenza di restrizioni sul modo con cui le componenti del campo di deformazione possono variare nello spazio. Tali condizioni sono formalmente espresse dalle equazioni di Beltrami-Michell.

14.1 Necessit` a dell’analisi deformativa L’analisi strutturale ha lo scopo di verificare che ogni elemento di una macchina o di una struttura sia in grado di svolgere la sua funzione. A un elemento meccanico sono generalmente demandati compiti cinematico-funzionali, in quanto partecipa alla conversione di energia o determina il movimento di definiti punti, e compiti strutturali, che consistono nel trasferire i carichi dalle zone dove questi ultimi sono effettivamente applicati al telaio. Per garantire tutto ci`o `e necessario che nel funzionamento: 1. il materiale non subisca danni significativi anche nelle condizioni estreme, 2. la forma dell’elemento non si discosti apprezzabilmente da quanto previsto in fase di progetto (la forma di riferimento `e definita dalle quote del disegno).

397

14. LA DEFORMAZIONE

Per garantire il primo requisito sono effettuate le verifiche di resistenza (strength), mentre per il secondo sono effettuate le verifiche di rigidezza (stiffness). In generale, un elemento meccanico deve essere adeguatamente resistente e sufficientemente rigido. La verifica di resistenza conduce al confronto tra lo stato di tensione che si ha in ogni punto, in pratica nei punti critici, con un livello di tensione ritenuto ammissibile per il materiale e determinato con prove specifiche. Nel caso di una struttura di travi, per esempio, la verifica di resistenza prevede l’individuazione delle sezioni potenzialmente critiche (come spiegato nel capitolo 10) e, successivamente, dei punti critici di tali sezioni, allo scopo di selezionare il punto pi` u sollecitato della struttura. La resistenza di un componente `e pertanto una caratteristica di tipo locale per cui, nel caso la verifica evidenzi una inadeguatezza, pu`o essere efficace un intervento mirato a irrobustire solo la zona critica, per esempio consistente in un aumento locale delle dimensioni della sezione. In una verifica di rigidezza `e generalmente richiesto di determinare di quanto la posizione di alcuni punti della struttura si modifichi sotto carico rispetto alla configurazione di riferimento, di solito definita dal disegno in condizioni di struttura scarica. La verifica di rigidezza si riduce quindi a confronti tra spostamenti di punti o rotazioni di segmenti con corrispondenti valori ritenuti ammissibili. A differenza della resistenza, l’intervento per modificare la rigidezza di una struttura, in genere per aumentarla, `e di tipo globale.

C

D W2 F F

W1

A

B

Figura 14.1: Schema di trasmissione meccanica

L’analisi della deformabilit`a dei corpi `e necessaria per effettuare le verifiche di rigidezza, per le quali il modello di corpo infinitamente rigido `e ovviamente inadeguato, ma `e richiesta anche per effettuare le verifiche di resistenza. Nei problemi iperstatici `e stata evidenziata l’impossibilit`a di determinare le reazioni vincolari, e quindi anche le caratteristiche di sollecitazione, a causa del fatto che la soluzione dipende in modo determinante dalla deformabilit`a degli elementi strutturali. Il modello di corpo deformabile permette in effetti, come vedremo, di eliminare l’indeterminatezza con un procedimento che riconduce un problema iperstatico alla sovrapposizione di problemi isostatici. Inoltre, anche nei problemi isostatici di travi, il modello di corpo infinitamente rigido consente di spingere l’analisi delle azioni interne solo fino alle caratteristiche di sollecitazione ovvero all’individuazione delle sezioni critiche. Considerando che un concio elementare di trave `e composto da infiniti parallelepipedi elementari, anche se le caratteristiche di sollecitazione sono note, non `e possibile valutare lo stato di tensione prodotto da queste in ogni singolo punto. La determinazione della tensione in ogni punto di una sezione, argomento che sar`a affrontato nella parte III del corso, pu`o in effetti essere considerato un problema infinitamente volte iperstatico (le sei componenti di tensione sono incognite in ognuno degli ∞2

398

` DELL’ANALISI DEFORMATIVA 14.1. NECESSITA

punti della sezione) e quindi altamente indeterminato se si prescinde dalla deformabilit` a del materiale. L’esempio che segue illustra la necessit`a del modello deformativo nell’analisi strutturale in meccanica. In figura 14.1 `e schematizzata una tipica trasmissione realizzata con due ingranaggi cilindrici a denti dritti calettati su due alberi ad assi paralleli che girano su cuscinetti radiali non orientabili a sfere. La potenza meccanica `e immessa nella trasmissione dal giunto universale W1 e raccolta dal giunto W2 (le frecce indicano i versi di rotazione degli alberi). Nel funzionamento, come illustrato nella figura 14.1, i denti in presa, che materializzano un vincolo interno di appoggio semplice, si scambiano la forza di contatto F . Il calcolo delle caratteristiche geometriche delle dentature (angolo di pressione, modulo, addendum, dedendum, spessore dei dischi degli ingranaggi, ecc. . . ) `e generalmente basato sull’ipotesi di un comportamento ideale con elementi infinitamente rigidi. Tuttavia, sotto carico, gli alberi, considerati come travi, sono sottoposti ` presumibile quindi che la loro linea d’asse a: momento torcente, momento flettente e taglio. E subisca una distorsione, come `e mostrato, in modo amplificato, nella figura 14.2. C

D W2

W1

A

B

Figura 14.2: Trasmissione meccanica con alberi distorti dal carico (distorsione amplificata

Almeno le seguenti quantit`a geometriche (distorsioni) devono essere opportunamente limitate per garantire il corretto funzionamento della trasmissione: • lo spostamento relativo degli ingranaggi e quindi l’aumento di interasse degli alberi in corrispondenza della zona di contatto • l’inclinazione relativa degli assi delle ruote dentate • l’inclinazione degli assi degli alberi in corrispondenza dei cuscinetti. Imporre limiti, che spesso sono piuttosto stretti, a tali quantit`a pu`o condizionare le scelte di progetto pi` u della necessit`a di garantire la resistenza degli alberi stessi. Sono infatti molti i casi in cui le dimensioni, la forma e il materiale degli elementi strutturali sono determinati in base alle esigenze di rigidezza piuttosto che da quelle di resistenza. Il soddisfacimento dei requisiti di rigidezza, oltre che giustificato dalla necessit`a di consentire la trasmissione del moto in condizioni accettabili, e quindi vicine a quelle previste in fase di disegno, ha importanti conseguenze indirette anche sulla resistenza e sulla durata della trasmissione dato che: • una eccessiva deformabilit`a degli alberi determina anomale condizioni di contatto sui fianchi dei denti in presa che riducono la durata della trasmissione e ne aumentano la rumorosit`a

399

14. LA DEFORMAZIONE

• una eccessiva inclinazione relativa delle sedi dei cuscinetti li rende inadatti a funzionare come appoggi e impone di sostituirli con cuscinetti orientabili • una eccessiva deformabilit`a degli alberi pu`o causare l’insorgenza di fenomeni oscillatori non voluti e non prevedibili con l’analisi statica. Come osservato nel capitolo 1, la deformabilit`a sotto carico `e una caratteristica universale comune a ogni corpo, tanto che il fenomeno `e sfruttato per la misura stessa delle forze (si ricordi il principio su cui `e basato il funzionamento del dinamometro). Inoltre, come spiegato nel capitolo 11, quando la configurazione di un corpo `e modificata dal carico, il problema di statica diventa del secondo tipo e quindi generalmente non lineare. A questo proposito `e importante premettere che, nell’ambito del presente corso, saranno presi in considerazione solo elementi strutturali poco deformabili il cui cambiamento di forma, anche quando non pu`o essere trascurato, sar`a comunque di modesta entit`a. Date le stringenti richieste di rigidezza generalmente imposte dal corretto funzionamento dei componenti di macchina, l’ipotesi di corpi poco deformabili non `e particolarmente penalizzante. Tale ipotesi consente di applicare modelli lineari semplificati, basati sulle tecniche di soluzione dei problemi del primo tipo con cui, come discusso nel capitolo 11, si ottengono stime valide per moltissimi casi di pratico interesse.

14.2 Il campo di spostamento 14.3 Le componenti del campo di spostamento Qualsiasi informazione richiesta in una verifica di rigidezza pu`o essere dedotta se `e nota la posizione finale di ogni punto del corpo dopo l’applicazione del carico. Consideriamo la situazione generale rappresentata in figura 14.3 dove `e riportato il corpo nella configurazione di riferimento Ω, generalmente senza carichi applicati, e nella configurazione distorta Ω∗ quindi sotto carico. Le propriet`a geometriche riferite alla configurazione distorta saranno generalmente indicate con l’asterisco.

Ω P

G u

kˆ iˆ

O

ˆj

Ω* P*

Figura 14.3: Corpo nella configurazione di riferimento e nella configurazione distorta

Consideriamo un unico sistema di riferimento, in genere cartesiano ortogonale destrorso, rispetto al quale le coordinate di un generico punto P prima della distorsione sono indicate come OP (x1 , x2 , x3 ) oppure (x, y, z). Dopo la distorsione il punto si trover`a nella posizione P ∗ ` consuetudine utilizzare come misura individuata dal vettore OP ∗ (x∗1 , x∗2 , x∗3 ) o (x∗ , y ∗ , z ∗ ). E della variazione di configurazione il campo di spostamento, definito come: ~u = OP ∗ − OP = P P ∗

400

14.3. LE COMPONENTI DEL CAMPO DI SPOSTAMENTO

che in componenti si indica come:      ∗  u x1 − x1 u1  u2  =  v  =  x∗2 − x2  w x∗3 − x3 u3

(14.1)

Le componenti del vettore spostamento (displacement) vengono anche chiamate frecce (`e utile sottolineare che il termine tecnico freccia non si traduce letteralmente in inglese con arrow ). In questo modo risulta definito un campo vettoriale, generalmente tridimensionale, il cui dominio `e la regione occupata dal corpo indeformato Ω e le cui componenti sono funzioni delle coordinate (iniziali) del generico punto P :     u1 (x1 , x2 , x3 ) u (x1 , x2 , x3 ) ~u (~x) =  u2 (x1 , x2 , x3 )  =  v (x1 , x2 , x3 )  (14.2) u3 (x1 , x2 , x3 ) w (x1 , x2 , x3 ) Il campo di spostamento, o alcune sue caratteristiche, costituiscono di solito l’incognita in una analisi di rigidezza. Per motivi didattici, tuttavia, in un primo tempo supporremo il campo di spostamento noto, come se fosse stato rilevato con un oneroso procedimento di misura che fornisce la posizione iniziale e finale di ogni punto del corpo. Per giustificare lo spostamento dei punti del corpo `e plausibile identificare, almeno qualitativamente, due cause: 1. lo spostamento rigido del corpo stesso 2. la variazione di forma di parti del corpo. Poich´e uno spostamento rigido rappresenta una variazione di configurazione che conserva le distanze mutue di tutte le coppie dei punti del corpo, la variazione di forma `e quindi associabile ` facile prevedere che, per il comportamento del materiale, alla modifica delle distanze dei punti. E rivestono interesse solo le variazioni di forma, tuttavia `e necessario ricordare che deformazioni e moti rigidi concorrono insieme a determinare il campo di spostamento e, come vedremo, la loro separazione non `e una operazione semplice da effettuarsi, sia da un punto di vista teorico sia operativo. Il seguente esempio chiarisce questo concetto. α

Esempio 14.1: Deformazione di un trampolino Analizzare il campo di spostamento di un trampolino per i tuffi (figura 14.4) sollecitato da un carico verticale F concentrato in B.

A

C

B

D

P

Figura 14.4: Trampolino, considerato come mensola deformabile, nella configurazione di riferimento con due punti caratteristici

401

14. LA DEFORMAZIONE

In figura 14.5 `e rappresentata la configurazione della mensola deformata dal carico a tratto pieno e la configurazione indeformata con linea tratteggiata. Giustifichiamo lo ` spostamento del punto di estremit`a P che, nel caso in esame, ha la freccia massima. E sufficiente tracciare i diagrammi delle caratteristiche per rendersi conto che il tratto di α mensola compreso tra B e P non `e sollecitato. Possiamo pertanto prevedere che, anche considerando il materiale deformabile, tale tratto non subisca alcuna distorsione e che tutti i suoi punti conservino la distanza mutua anche dopo l’applicazione del carico. Una qualsiasi porzione di mensola nel tratto BP subisce pertanto solo uno spostamento rigido. Questa situazione `e esemplificata dall’ingrandimento della porzione quadrata in D che, a seguito dell’applicazione del carico, subisce uno spostamento rigido (una traslazione pi` u una rotazione) ma rimane di forma quadrata. La parte AB della mensola `e invece sollecitata e quindi il suo materiale `e, in misura pi` u o meno marcata, distorto. Infatti la porzione quadrata in C, a causa dell’applicazione del carico, risulta spostata e ruotata rispetto alla posizione originaria ma anche la sua forma `e alterata (non `e pi` u quadrata). F A≡A*

P

C* B*

G u ( P) D*

P*

Figura 14.5: Mensola nelle configurazioni indeformata e deformata

Le seguenti osservazioni possono essere tratte dall’esempio precedente: • nella regione in cui si trova il punto che subisce lo spostamento massimo (P ) la distorsione `e nulla, quindi una porzione di materiale nei pressi di P subisce solo uno spostamento rigido • in generale, una porzione di materiale che si trova nella parte compresa tra A e B `e soggetta a uno spostamento rigido ma anche a una distorsione • la distorsione si manifesta come una modifica della forma e delle dimensioni delle parti del corpo • nel caso generale, per una generica porzione del corpo, spostamento rigido (traslazione e rotazione) e distorsione sono presenti insieme • le zone a ridosso dell’incastro in A subiscono le distorsioni massime (questo `e desumibile dal fatto che A `e la sezione critica) ma, essendo vincolate al telaio, non sono soggette a spostamenti o rotazioni.

402

14.3. LE COMPONENTI DEL CAMPO DI SPOSTAMENTO

L’apparente contrasto evidenziato nell’esempio, per cui i massimi spostamenti si verificano nelle zone limitrofe a P dove le distorsioni sono nulle mentre l’inverso si verifica in A, non `e raro, anche se non si pu`o dire che sia la regola generale. La giustificazione sar`a variamente esaminata nel seguito del corso, `e opportuno tuttavia ricordare questo esempio che dimostra chiaramente come il campo di spostamento non sia una immediata conseguenza del processo deformativo. In generale, infatti, lo spostamento di ogni singolo punto rappresenta l’effetto complessivo, o integrato, delle modifiche di forma delle varie parti dell’intero corpo. Nell’esempio, il punto P si sposta in quanto gli elementi della zona AB subiscono distorsioni. Vi sono due importanti conseguenze di questo fatto: • dal punto di vista del calcolo, lo spostamento di un punto pu`o essere ottenuto con procedimenti che richiedono il calcolo di integrali estesi all’intera struttura • per aumentare la rigidezza di una struttura, e quindi per ridurre gli spostamenti di certi punti sotto carico, `e necessario attuare interventi che coinvolgono gran parte della struttura, talvolta tutta. Nel caso della mensola, per esempio, se `e necessario ridurre la freccia massima sotto carico, non avrebbe alcun effetto aumentare la sezione nella zona in cui questo spostamento si verifica (cio`e in P ) mentre si dovrebbe intervenire sull’intero tratto AB. La soluzione del problema diretto, ovvero la definizione della deformazione, consiste proprio nell’estrarre dall’informazione contenuta nel campo di spostamento la componente distorcente epurandola dalla componente rigida della variazione di configurazione.

14.3.1 Propriet` a di regolarit` a del campo di spostamento Nella meccanica dei solidi `e consuetudine assumere alcune ipotesi di regolarit`a che un campo di spostamento considerato ammissibile deve soddisfare. Alcune di queste condizioni sono del tutto naturali, altre sono imposte dalla necessit`a di effettuare elaborazioni matematiche, in particolare derivate spaziali, sulle funzioni che esprimono le componenti dello spostamento. Quando il campo di spostamento soddisfa queste ipotesi diremo che la variazione di configurazione `e congruente (compatible). In primo luogo, come conseguenza del principio di conservazione della materia, si richiede che due punti distinti nella configurazione di partenza rimangano tali anche dopo la trasformazione. La stessa caratteristica `e richiesta anche per la legge di trasformazione inversa. Dal punto di vista matematico ci`o equivale a imporre che l’applicazione che associa P con P ∗ sia una funzione biunivoca (una applicazione uno a uno) definita sul dominio Ω la cui immagine `e Ω∗ . Da ci`o consegue che nella variazione di configurazione: • un corpo, o una sua parte, avente volume finito non nullo deve mantenere un volume finito non nullo, per quanto il volume possa variare • una superficie, un insieme bidimensionale dello spazio, avente area finita non nulla deve conservare la forma di una superficie con area finita non nulla • una linea, un insieme monodimensionale dello spazio, di lunghezza finita non nulla deve rimanere una linea di lunghezza finita non nulla. Si richiede inoltre che la trasformazione sia continua. Dal punto di vista fisico ci`o comporta che non sono considerate congruenti trasformazioni che producono il distacco di parti, come per esempio fratture. Spesso `e richiesto un grado ancora maggiore di regolarit`a, con l’imposizione di condizioni di differenziabilit` a del campo di spostamento o di deformazione, in modo che sia possibile derivare le funzioni rispetto alle coordinate (almeno le derivate prime, talvolta anche

403

14. LA DEFORMAZIONE

derivate di ordine superiore). La condizione di differenziabilit`a del campo di spostamento in ogni punto impedisce che una qualunque superficie che sia regolare nella configurazione indeformata manifesti pieghe a spigolo vivo a seguito della distorsione. Consideriamo alcune conseguenze dell’ipotesi di congruenza relative a una regione tridimensionale di forma qualunque ∆Ω che si trasforma in ∆Ω∗ . • La natura topologica della figura ∆Ω `e la stessa di quella della figura ∆Ω∗ (per esempio se la prima non ha fori lo stesso vale per la seconda, se la prima ha la forma di un toro sar`a toroidale anche la seconda, ecc. . . ). • I punti della superficie di ∆Ω (punti di frontiera) si trasformano in punti della superficie di ∆Ω∗ e i punti interni di ∆Ω si trasformano in punti interni di ∆Ω∗ . • Se la superficie di ∆Ω ha uno spigolo, i suoi punti si trasformano in punti di uno spigolo anche per ∆Ω∗ . • Gli eventuali vertici (intersezioni di spigoli) rimangono vertici. Delle trasformazioni del cubo (a) rappresentate in figura 14.6 solo la (b) `e congruente.

ΔΩ *

ΔΩ

(b)

(a)

(c)

(d)

(e)

Figura 14.6: Trasformazioni del cubo ∆Ω (a): di tipo congruente in ∆Ω∗ (b) e di tipo non congruente in (c), (d) e (e). La trasformazione (c) non conserva la topologia, la (d) conserva la topologia ma non la regolarit`a (compare un nuovo spigolo) la (e) mostra un difetto di biunivocit`a: tutti i punti di una faccia sono collassati in una linea

14.3.2 Un esempio monodimensionale Per comprendere le implicazioni dell’ipotesi di congruenza sulle propriet`a generali di una trasformazione, `e istruttivo analizzare il caso semplice della trasformazione di un solido unidimensionale nel piano. Consideriamo come corpo indeformato Ω il segmento dell’asse x di estremi A e B (figura 14.7) i cui punti subiscono spostamenti solo in direzione y. Pertanto le coordinate dei punti dopo la distorsione e il campo di spostamento possono essere rappresentati rispettivamente come:  ∗  x =x u=0 e ∗ ∗ y = f (x ) v = f (x∗ )

404

14.3. LE COMPONENTI DEL CAMPO DI SPOSTAMENTO

Figura 14.7: Funzione differenziabile di R1 interpretata come una trasformazione regolare dei punti del segmento [a, b]

` facile rendersi conto dove y = f (x) `e una funzione nota, definita nell’intervallo chiuso [a, b]. E che la regolarit`a (continuit`a e differenziabilit`a) della funzione f (x) nel suo dominio garantisce che la trasformazione abbia le caratteristiche richieste per la congruenza, si riconoscono, in particolare, i due estremi dell’arco deformato come i trasformati degli estremi del segmento iniziale, si verifica l’assenza di discontinuit`a e di spigoli, ecc. . . . La differenziabilit`a della funzione f (x) implica inoltre che in ogni punto valga una relazione del tipo: dy = m · dx dove m = f 0 (x). La figura 14.8 illustra una interessante interpretazione geometrica di questo risultato. Anche se la trasformazione porta il corpo inizialmente rettilineo ad assumere una forma curva, ogni suo segmento infinitesimo dΩ di lunghezza dx `e trasformato in un segmento infinitesimo dΩ∗ . Nella trasformazione il segmento infinitesimo `e soggetto a una traslazione (in verticale) e a una rotazione (di un angolo α = arctan (m)) inoltre, in genere, subisce anche una √ distorsione, dato che la sua lunghezza iniziale dx diventa dx 1 + m2 .

Figura 14.8: Trasformazione lineare di un generico segmento infinitesimo quando il campo di spostamenti `e definito da una funzione differenziabile

Possiamo quindi concludere che, in una trasformazione il cui campo di spostamento `e definito da una funzione biunivoca e differenziabile, un segmento finito diventa in genere un arco di curva ma un segmento infinitesimo rimane un segmento infinitesimo. La legge pi` u generale di

405

14. LA DEFORMAZIONE

trasformazione che conserva i segmenti `e la trasformazione lineare, detta anche trasformazione affine. In effetti, se limitiamo il dominio al solo segmento dΩ centrato in P (xP , 0), la legge che definisce la trasformazione locale descritta nella figura 14.8 `e la seguente relazione lineare:  ∗ x =x y ∗ = f 0 (xP ) (x − xP ) + f (xP ) o in termini di spostamento: 

u=0 v = f 0 (xP ) · x + f (xP ) − f 0 (xP ) · xP

Nelle ultime due relazioni i parametri f (xP ), f 0 (xP ) e xP sono costanti. La relazione ottenuta `e una particolare trasformazione affine che nella sua forma pi` u generale, per un dominio bidimensionale, si esprime come:        u a11 a12 x d1 = + v a21 a22 y d2 con aij e di opportune costanti. ` possibile pertanto concludere che: E ogni trasformazione congruente `e affine al limite intendendo il limite nel senso del comportamento di porzioni di dominio di estensione infinitesima. Per motivi di semplicit`a, la precedente affermazione `e stata illustrata per la trasformazione di un dominio monodimensionale ma non `e difficile verificarne la validit`a per trasformazioni congruenti generali che interessano anche domini bidimensionali o tridimensionali. Nella figura 14.9 `e mostrata una trasformazione congruente per un corpo tridimensionale che, dato che gli spigoli del corpo non rimangono rettilinei, certamente non `e affine. Tuttavia, ogni parallelepipedo infinitesimo del corpo indeformato si trasforma in un parallelepipedo, anche se in genere non retto, per cui subisce una trasformazione affine. Analogamente al dominio monodimensionale della figura 14.7, diremo pertanto che la trasformazione rappresentata in figura 14.9 non `e affine in grande ma, essendo congruente, `e affine al limite.

Figura 14.9: Una trasformazione congruente `e affine al limite

Data l’importanza che rivestono anche per lo studio delle pi` u generali trasformazioni congruenti, nel prossimo paragrafo sono richiamate le principali propriet`a delle trasformazioni affini.

406

14.4. TRASFORMAZIONI AFFINI

14.4 Trasformazioni affini 14.4.1 Definizione di trasformazione affine La legge che definisce una trasformazione affine (in grande) non dipende dalla posizione del corpo, dalla sua forma e dalle sue dimensioni. Per semplicit`a faremo quindi riferimento a un corpo che, nella condizione indeformata, `e un parallelepipedo retto. In questo modo che le conclusioni di qusto pargrafo potranno essere naturalmente estese ai parallelepipedi infinitesimi anche nel caso pu`o generale di trasformazioni congruenti. In coordinate cartesiane, una generale trasformazione affine `e rappresentabile come una relazione lineare a parametri costanti che lega le coordinate ~x∗ del punto nella condizione deformata P ∗ con le coordinate ~x del punto iniziale P . Tale trasformazione pu`o essere scritta come: ~x∗ = B~x + d~

(14.3)

con B e d~ costanti (non dipendenti dalle coordinate). In forma estesa, per un corpo tridimensionale, la relazione precedente si esplicita come:      ∗   x1 d1 x1 b11 b12 b13  x∗2  =  b21 b22 b23   x2  +  d2  x3 d3 x∗3 b31 b32 b33 Il campo di spostamenti associato a una trasformazione affine si ricava immediatamente: ~u = x~∗ − ~x posto: A=B−I

(14.4)

~u = A~x + d~

(14.5)

si ottiene la relazione fondamentale: che, esplicitata in componenti per un corpo tridimensionale, diventa:        u1 a11 a12 a13 x1 d1  u2  =  a21 a22 a23   x2  +  d2  u3 a31 a32 a33 x3 d3

(14.6)

~ dimensionalmente una lunghezza, ha una semplice interpretazione geometrica. Se Il vettore d, la matrice A `e nulla, la trasformazione (14.5) descrive una traslazione rigida e il vettore d~ rappresenta lo spostamento comune di tutti i punti del corpo. Nel caso pi` u generale in cui A 6= 0, d~ rappresenta lo spostamento del punto che, prima della trasformazione, si trovava nell’origine degli assi. Rimandiamo l’interpretazione della matrice A limitandoci a osservare che i suoi termini sono numeri puri. Dal punto di vista matematico, non vi sono restrizioni sul segno e sull’intensit`a dei parametri della trasformazione (aij e di ) della trasformazione affine e nemmeno sono date condizioni sulla ` invece matrice A nel suo complesso (A pu`o o meno essere: singolare, simmetrica, ecc. . . ). E opportuno considerare le restrizioni imposte ai parametri che definiscono la legge di affinit` a per garantire che la trasformazione abbia senso fisico, ovvero sia congruente. Notiamo che, essendo la relazione (14.3) che lega la posizione finale a quella iniziale dei punti, lineare a parametri costanti, la legge di trasformazione `e necessariamente continua con tutte le sue derivate. Per garantire la congruenza `e per`o anche necessario imporre la biunivocit`a ovvero l’invertibilit` a della relazione (14.3). Per verificare la corrispondenza uno a uno tra i punti di Ω e quelli di

407

14. LA DEFORMAZIONE

Ω∗ , supponiamo note le coordinate del generico punto P ∗ e cerchiamo (l’unico) punto P da cui proviene. Matematicamente tale problema `e ricondotto alla soluzione del sistema lineare (14.3) in cui x∗i sono noti e xi incogniti. Per il teorema di Rouch´e-Capelli il sistema ha soluzione unica se e solo se la matrice B = I + A `e non singolare, ovvero se: det (I + A) 6= 0

(14.7)

La condizione di invertibilit`a (14.7) `e per`o necessaria ma ancora non sufficiente per garantire la congruenza della trasformazione affine. Consideriamo nella configurazione iniziale il cubo di spigoli unitari orientati come gli assi coordinati (quindi il primo spigolo `e (1, 0, 0)T , il secondo (0, 1, 0)T e il terzo (0, 0, 1)T ). Con la relazione (14.3) si possono ottenere le componenti degli spigoli dopo la trasformazione, che sono rispettivamente:       1 + a11 a12 a13  a21  ,  1 + a22  ,  a23  (14.8) a31 a32 1 + a33 Tali vettori coincidono con le colonne della matrice B. Il volume V ∗ del parallelepipedo deformato si pu`o ottenere calcolando il valore assoluto del prodotto misto dei vettori spigoli (vedi appendice A) che coincide con il valore assoluto del determinante della matrice B: V ∗ = |det (I + A)|

(14.9)

Si ricava quindi che la condizione matematica di invertibilit`a della trasformazione lineare `e interpretabile fisicamente come la condizione di non annullamento del volume. Inoltre, a meno di accettare un processo deformativo che permetta la riflessione speculare della materia, `e anche necessario che la terna degli spigoli trasformati sia destrorsa come la terna iniziale. Questa condizione impone che il prodotto misto degli spigoli deformati abbia lo stesso segno (nel caso specifico positivo) del prodotto misto degli spigoli indeformati (vedi appendice A). Pertanto per la congruenza della trasformzione affine deve essere soddisfatta la condizione: det (I + A) > 0 Concludiamo che: in una trasformazione affine congruente il determinate della matrice I + A deve essere strettamente positivo. Dato che, per le considerazioni prima svolte, vale la relazione: V ∗ = V · det (I + A)

(14.10)

in una trasformazione affine definita dal campo di spostamento (14.5), la quantit`a adimensionale ∗ det (I + A) = VV esprime il fattore di variazione di volume e, quindi, `e: • maggiore di 1 per una distorsione dilatativa, ovvero che avviene con un aumento di volume (essendo la massa costante, il materiale riduce la densit`a) • minore di 1 per una contrazione volumica (il materiale si addensa) • unitaria per una trasformazione che conserva il volume (isocora). ` opportuno sottolineare che variazioni di volume significative, ovvero con det (I + A) che E si discosta sensibilmente dall’unit`a, sono comuni negli aeriformi, tuttavia, pur in modo meno evidente, il fenomeno si osserva in genere anche nei liquidi e nei solidi. La constatazione che in liquidi e solidi le variazioni di volume sono piccole non significa che gli effetti prodotti possano essere sempre trascurati. In particolare, nelle nostre analisi, le variazioni relative di volume sono dello stesso ordine di grandezza delle altre deformazioni.

408

14.4. TRASFORMAZIONI AFFINI

Esempio 14.2: Sfera di gomma Una sfera Ω di elastomero (γ = 1.1 kg/dm3 ) raggio R = 30 mm tangente al triedro fondamentale e con centro nel primo ottante, subisce una trasformazione affine definita da:     0.2 −0.3 0.4 10 A =  −0.6 −0.2 0.5  e d~ =  20  mm −1 0 0.3 5 a) Verificare che la trasformazione `e congruente b) Determinare la posizione del centro della sfera dopo la trasformazione c) Determinare il volume della sfera e la densit`a del materiale a seguito della trasformazione e le variazioni relative delle stesse rispetto ai valori iniziali. 

Risposta a) det (I + A) = 1.484 > 0

Risposta b) Il centro C prima della trasformazione `e dato dal vettore OC = (30       10 30 1.2 −0.3 0.4 OC ∗ =  −0.6 0.8 0.5   30  +  20  =  5 30 −1 0 1.3

30 30)T mm per cui:  49 41  mm 14

Risposta c) Indicando con V ∗ e γ ∗ rispettivamente il volume e la densit`a dopo la trasformazione: V ∗ = V · det (I + A) = 0.168 dm3 γ∗ =

γ = 0.741 kg/dm3 det (I + A)

da cui le variazioni in termini relativi: V∗−V = 0.484 = 48.4% V γ∗ − γ = −0.326 = −32.6 % γ

14.4.2 Propriet` a delle trasformazioni affini Le seguenti propriet`a di una trasformazione congruente affine in grande sono facilmente verificabili con considerazioni elementari di geometria analitica:

409

14. LA DEFORMAZIONE

• rette e piani si trasformano rispettivamente in rette e piani • rette parallele e piani paralleli prima della deformazione rimangono paralleli (anche se in genere non conservano le direzioni originarie) • un rettangolo in genere diventa un parallelogrammo (come caso particolare pu`o rimanere un rettangolo) • una conica di un certo tipo (ellisse, iperbole o parabola) rimane una conica dello stesso tipo • un cerchio in genere diventa un’ellisse • un parallelepipedo retto diventa un parallelepipedo (in genere non retto) • una sfera in genere diventa un ellissoide (se non rimane una sfera). Esaminiamo la generica trasformazione congruente affine di un corpo avente la forma di un parallelepipedo retto, ovvero un esaedro con le facce che hanno uno spigolo in comune tra loro perpendicolari. Consideriamo ognuna delle tre quaterne di spigoli con la stessa direzione. Nella trasformazione gli spigoli di ogni quaterna devono rimanere rettilinei e paralleli e modificare la loro lunghezza nella stessa misura. Il corpo pertanto conserva la forma parallelepipeda perch´e `e sempre formato da tre coppie di facce piane e parallele. Tuttavia gli spigoli possono assumere lunghezze diverse da prima e le facce precedentemente rettangolari, in genere, diventano parallelogrammi. Inoltre due spigoli convergenti in un vertice, dopo la trasformazione, formeranno in genere un angolo diverso da 90◦ . Esempio 14.3: Analisi della trasformazione affine di un cubo Verificare che la trasformazione affine definita da:   0.2 −0.3 −0.4 0.4  e A =  −0.5 0.2 −0.1 0.0 0.3

 2 d~ =  2  mm 3 

`e congruente e disegnare in assonometria il cubo Ω di lato unitario con vertice nell’origine e spigoli sui semiassi positivi e il suo trasformato Ω∗ .  La trasformazione `e congruente in quanto: det (I + A) = 1.641 > 0 z

Ω*

P*

Ω

P

y

x Figura 14.10: Trasformazione affine del cubo unitario. Il disegno `e in scala e in assonometria cavaliera, `e individuato anche lo spigolo P e il suo trasformato P∗

410

14.4. TRASFORMAZIONI AFFINI

La figura 14.10 mostra che la trasformazione comprende una traslazione, una rotazione e una distorsione che sono completamente descritte dalla legge data. Nella trasformazione il cubo modifica significativamente il suo volume che aumenta del 64.1%.

Esempio 14.4: Determinazione dei parametri di una trasformazione affine Determinare la matrice A della trasformazione affine che trasforma i vettori di componenti:       1 −2 −3 ~v1 =  −1  ~v2 =  3  ~v3 =  −4  3 0 2 rispettivamente nei vettori: 

 1 ~v1∗ =  3  0



 3 ~v2∗ =  1  3



 4 ~v3∗ =  2  −1 

Non `e determinabile il vettore d~ in quanto la trasformazione `e definita a meno di una traslazione generica. Supponendo che la matrice cercata esista, `e possibile imporre le condizioni: ~vi∗ = (I + A) ~vi con i = 1, 2, 3. Raccogliamo le componenti dei vettori nelle seguenti matrici:     1 −2 −3 1 3 4 V =  −1 3 −4  e V∗ =  3 1 2  3 0 2 0 3 −1 che possono essere sintetizzate nella seguente relazione matriciale: V∗ = (I + A) V in cui i termini di A sono incogniti. Osserviamo che sono disponibili 9 relazioni lineari nelle 9 incognite aij , pertanto `e possibile ottenere la soluzione. Formalmente: I + A = V∗ V−1 quindi: A = V∗ V−1 − I Affinch´e queste operazioni possano essere eseguite `e necessario che sia soddisfatta la relazione: det V · det V∗ > 0 che garantisce entrambe le condizioni necessarie per individuare univocamente una trasformazione congruente affine. Infatti, considerati i due parallelepipedi (non retti) che hanno come spigoli le due terne di vettori:

411

14. LA DEFORMAZIONE

• entrambi devono essere non degeneri (entrambi i prodotti misti dei vettori spigolo non possono essere nulli) • le terne corrispondenti devono essere dello stesso tipo, entrambe destrorse o sinistrorse (i prodotti misti sono concordi). La soluzione numerica `e: 

 −2.132 0.245 0.792 A =  −0.189 −0.792 1.132  −0.396 0.736 −0.623

14.5 Definizione di deformazione 14.5.1 Le componenti della deformazione Siamo ora in grado di dare una prima definizione di deformazione (strain), almeno per i corpi che subiscono trasformazioni affini in grande: la deformazione `e l’insieme delle informazioni necessarie e sufficienti per definire la variazione della forma di una qualunque parte di un corpo Il concetto sar`a successivamente esteso alle trasformazioni congruenti generali in modo naturale. In una trasformazione affine in grande ogni parte del corpo `e soggetta alla medesima variazione di forma indipendentemente da dove si trovi, dalla sua forma e dalla sua estensione. Pertanto possiamo considerare il cambiamento di forma del corpo pi` u semplice da modellare: un parallelepipedo retto con spigoli aventi lunghezze iniziali b1 , b2 e b3 che prima della trasformazione `e allineato con gli assi coordinati, come mostrato in figura 14.11.

z

Ω b3

b2

b1

y

x Figura 14.11: Parallelepipedo retto prima della trasformazione affine

Per costruire un modello fisico del parallelepipedo indeformato, si possono realizzare 3 quaterne di sottili stecche rettilinee aventi lunghezze b1 , b2 e b3 che successivamente sono incollate in modo che formino, a due a due, angoli retti. In effetti, la forma del parallelepipedo `e completamente definita dopo aver assemblato uno dei suoi triedri, come per esempio quello mostrato in figura 14.12. Il completamento del modello `e infatti immediato poich´e comporta di incollare

412

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

gli altri lati in modo che in ogni vertice convergano tre spigoli rispettandone l’orientamento (le stecche di lunghezza bi sono tra loro parallele).

z G b3 G b1

G b2

y

x Figura 14.12: Triedro fondamentale del parallelepipedo iniziale, il resto della figura si ottiene riportando le altre 3 terne di spigoli (una per ogni orientazione) parallelamente agli spigoli indicati

Nella figura 14.13, insieme con il parallelepipedo di riferimento Ω `e rappresentato anche il corpo Ω∗ che ha subito la trasformazione affine il quale, come osservato, `e ancora un paralle` interessante chiedersi: quali informazioni minimali (quali lepipedo, in genere, non pi` u retto. E quote) servono per realizzare il modello del parallelepipedo deformato? Applichiamo il procedimento costruttivo adottato per realizzare il modello fisico del parallelepipedo indeformato. Anche Ω∗ , infatti, ha tre quaterne di spigoli uguali e paralleli e, dopo averne realizzato un vertice con l’incolaggio di tre stecche, il completamento del modello non richiede ulteriori informazioni. In primo luogo `e quindi necessario costruire le tre quaterne di stecche del parallelepipedo Ω∗ . I vettori che definiscono gli spigoli del triedro deformato si possono ricavare dalla legge di trasformazione affine: ~b∗ = (I + A) ~bi (14.11) i per la realizzazione del modello fisico `e peraltro sufficiente conoscere la sola lunghezza dei nuovi ~ ∗ ~ ∗ spigoli bi = bi rispetto ai precedenti bi = bi . Allo scopo di rendere le variazioni di lunghezza b∗i − bi indipendenti dall’estensione del corpo, effettuiamo la seguente normalizzazione sulla lunghezza iniziale: b∗ − b 1 ε11 = 1 b1 ε22 =

b∗2 − b2 b2

ε33 =

b∗3 − b3 b3

definendo in tal modo tre quantit`a adimensionali ognuna chiamata deformazione estensionale (extensional strain). In forma simbolica possiamo quindi scrivere (in questo caso non si applica la regola degli indici ripetuti): εii =

b∗i − bi bi

(14.12)

con i = 1, 2, 3. Vale la seguente definizione:

413

14. LA DEFORMAZIONE

z

Ω*

Ω

y

x Figura 14.13: Parallelepipedo retto indeformato e parallelepipedo generico deformato

la deformazione estensionale εii (con i ∈ {1, 2, 3}) `e un numero puro che misura la variazione relativa di lunghezza di un segmento che prima della trasformazione era parallelo all’asse xi . ` evidente che se si conoscono le lunghezze degli spigoli del parallelepipedo iniziale e le tre deE formazioni estensionali, si hanno le informazioni necessarie e sufficienti per costruire le quaterne di stecche del modello del parallelepipedo deformato. A questo punto `e possibile procedere alla realizzazione di un vertice, e quindi al completamento del modello, sfruttando il parallelismo degli spigoli di uguale lunghezza. Per realizzare lo spigolo sono necessarie informazioni sull’orientamento relativo delle stecche, dato che gli angoli in genere non si conservano retti nella trasformazione. Per incollare gli spigoli di lunghezza b∗1 e b∗2 `e quindi necessario conoscere ∗ come in figura 14.14(a). l’angolo compreso, che indichiamo con α12

Figura 14.14: Disposizione relativa degli spigoli: (a) i primi due segmenti sono connessi univocamente nel vertice comune, (b) il cono di asse ~b∗2 e ango∗ lo di semiapertura α23 e infine (c) completamento dello spigolo con la terza informazione angolare.

∗ formato dallo spigolo di lunghezza b∗ e quello Supponiamo che sia noto anche l’angolo α23 3 di lunghezza b∗2 . Come mostra la figura 14.14(b), vi sono infinite configurazioni per il terzo

414

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

spigolo che soddisfano questa condizione e che corrispondono a tutte le direzioni delle rette ∗ . La collocazione del terzo spigolo appartenenti al cono di asse ~b∗2 e angolo di semiapertura α23 ∗ pu`o essere effettuata dopo che sia dato anche l’angolo α13 il quale permette di definire un nuovo ∗ ) a cui lo spigolo di lunghezza b∗ deve appartenere. cono (di asse ~b∗1 e angolo di semiapertura α13 3 In generale, i due coni hanno due generatici in comune ma per una sola verifica la condizione per cui i vettori del tetraedro deformato hanno il prodotto misto concorde con quello del triedro originario. ∗ formati dagli spigoli del parallelepipedo deformato, Per convenzione, invece degli angoli αij si considerano i loro complementari. Pertanto le tre informazioni angolari necessarie per assemblare il vertice sono definite dalle seguenti quantit`a adimensionali (gli angoli sono espressi in radianti): π ∗ γ12 = − α12 2 π ∗ γ13 = − α13 2 π ∗ γ23 = − α23 2 ognuna chiamata deformazione angolare (angular strain) ingegneristica. In forma compatta: π ∗ γij = − αij (14.13) 2 con i, j = 1, 2, 3 e i 6= j. Vale la seguente definizione: la deformazione angolare γij (con i, j ∈ {1, 2, 3} e i 6= j) misura in radianti la riduzione dell’angolo retto che prima della trasformazione era formato dai segmenti paralleli agli assi xi e xj . Per motivi che saranno chiariti successivamente, vengono introdotte anche le tre quantit`a scalari (sempre con i, j ∈ {1, 2, 3} e i 6= j): γij εij = (14.14) 2 talvolta chiamate deformazioni angolari tensoriali. Mantenere le due definizioni (14.13) e (14.14) per le deformazioni angolari, anche se evidentemente non necessario, `e utile nella pratica ed `e una consuetudine universalmente accettata nella letteratura tecnica e scientifica. Come vedremo, per alcune formule risulta pi` u conveniente usare le γij per altre le εij . Possiamo quindi concludere che, sei quantit`a adimensionali, tre deformazioni estensionali ε11 , ε22 e ε33 e tre deformazioni angolari γ12 , γ13 e γ23 , sono le informazioni necessarie e sufficienti che permettono di costruire il vertice deformato e quindi il parallelepipedo. Tali grandezze, nel loro insieme e opportunamente strutturate, costituiscono pertanto una definizione completa e coerente di deformazione. La conoscenza delle componenti deformative, estensionali e angolari, non permette ovviamente di definire l’intera legge di trasformazione affine. Questo risultato `e giustificabile sia con considerazioni algebriche sia geometriche. La trasformazione affine `e infatti definita da 12 ~ per cui 6 grandezze sono insufficienti. In effetti, parametri (9 della matrice A e 3 del vettore d) i parametri della deformazione consentono di costruire un modello fisico del parallelepipedo deformato, ma evidentemente, non forniscono alcuna informazione sulla sua collocazione nello spazio. Il parallelepipedo deformato pu`o infatti essere soggetto a un generico spostamento rigido definito da 6 ulteriori quantit`a scalari indipendenti, tre delle quali definiscono la traslazione (per esempio del centro) e tre l’orientamento.

415

14. LA DEFORMAZIONE

Esempio 14.5: Analisi di una trasformazione affine Determinare le deformazioni estensionali relazione:  0.2 −0.3 A =  −0.5 0.2 −0.1 0.0

e angolari della trasformazione affine data dalla    −0.4 2 0.4  e d~ =  2  mm 0.3 3

il cui effetto sul cubo elementare `e stato illustrato in figura 14.10.

 

 1 Consideriamo lo spigolo unitario parallelo all’asse x (~b1 =  0  mm), lo spigolo 0 deformato ha componenti:   1.2 ~b∗ = (I + A) ~b1 =  −0.5  mm 1 −0.1 e quindi lunghezza: b∗1 = 1.304 mm, da cui: ε11 =

b∗1 − b1 = 0.304 b1

In modo analogo si ottiene: ε22 = 0.237,

ε33 = 0.418

Consideriamo l’angolo formato dagli spigoli che in origine erano paralleli gli assi x e y, ∗ pu` o essere ottenuto dal prodotto scalare degli spigoli deformati, vale infatti la l’angolo α12 relazione: ~b∗ · ~b∗ ∗ cos (α12 ) = 1∗ 2∗ = −0.595 b1 · b 2 dalla quale si deduce che gli spigoli deformati formano un angolo ottuso il cui valore `e: ∗ α12 = 2.208 = 126.5◦

pertanto, le deformazioni angolari ingegneristiche e tensoriali sono rispettivamente: γ12 = −0.638

e ε12 = −0.323

γ13 = −0.453

e ε13 = −0.227

Analogamente si verifica che:

γ23 = 0.349

e ε23 = 0.175.

14.5.2 Significato delle deformazioni e loro limiti Si hanno deformazioni estensionali positive quando la lunghezza del relativo spigolo aumenta e negative quando diminuisce. Nel caso esaminato nell’ultimo esempio, le deformazioni esten-

416

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

sionali sono tutte positive e quindi tutti gli spigoli subiscono una dilatazione. L’interpretazione quantitativa delle deformazioni estensionali `e immediata: una deformazione estensionale pari a 0.2 significa che lo spigolo aumenta del 20% quindi, se per esempio era lungo 50 mm diventa 60 mm. Una deformazione estensionale pari a −0.3 indica una contrazione del 30%, un segmento lungo 50 mm diventa di 35 mm. Le deformazioni angolari, espresse in radianti e quindi anch’esse numeri puri, sono positive quando l’angolo retto si riduce. Nell’ultimo esempio gli angoli retti tra gli assi x e y e tra gli assi x e z aumentano dato che le relative deformazioni angolari sono negative mentre l’angolo tra gli assi y e z si riduce (attenzione: la rappresentazione assonometrica della figura 14.10 distorce gli angoli!). Sulla base della definizione, la variazione di angolo tra lo spigolo i e lo spigolo j `e lo stesso se si inverte l’ordine degli spigoli, valgono quindi le identit`a: γij = γji

(14.15)

εij = εji

(14.16)

` interessante chiedersi: `e possibile assegnare a piacimento il valore delle sei componenti E deformative e ottenere una trasformazione congruente? In effetti i limiti di tipo matematico ai valori delle componenti di deformazione che garantiscono la congruenza sono piuttosto ampi. In particolare, le deformazioni estensionali devono essere: εii > −1

(14.17)

in quanto un segmento pu`o dilatarsi senza limiti (dal punto di vista matematico) mentre pu` o contrarsi al massimo fino a ridursi (quasi) a un punto. In pratica, deformazioni estensionali molto grandi possono essere prodotte solo per certi materiali e in particolari processi. Come esempi, si consideri l’esperienza comune di tirare un elastico fino ad aumentarne la lunghezza di 10 volte (εii ∼ 10), oppure un processo di trafilatura in cui cilindri metallici di altezze contenute (pochi decimetri) danno luogo a fili lunghissimi. Possiamo peraltro anticipare che deformazioni estensionali cos`ı intense non sono compatibili con il comportamento elastico dei materiali cristallini, quali sono per esempio i metalli, e si possono osservare solo negli elastomeri. In effetti, deformazioni intense nei metalli sono di tipo plastico o viscoso. Anche le deformazioni angolari devono sottostare a vincoli generali connessi alle condizioni di congruenza. L’angolo formato da una coppia di spigoli che prima era retto, dopo la trasformazione deve essere necessariamente un angolo positivo e convesso. Questo implica che: π π < γij < 2 2 π π − < εij < 4 4 Per organizzarle in modo strutturato, le componenti di deformazione εij sono rispettando la posizione definita dai pedici nella seguente matrice 3 × 3 simmetrica:   ε11 ε12 ε13 ε22 ε23  D= Sym ε33 −

(14.18) (14.19) raccolte

(14.20)

la cui diagonale contiene quindi le deformazioni estensionali e nelle altre posizioni sono collocate le deformazioni angolari (tensoriali). Appare evidente l’analogia con la matrice di Cauchy e quindi `e naturale chiedersi: la matrice D `e la rappresentazione di un tensore? Notevoli sarebbero i vantaggi ottenibili in caso di risposta positiva. In particolare, la matrice ricavata applicando le leggi di trasformazione dei tensori

417

14. LA DEFORMAZIONE

per rotazione degli assi potrebbe essere interpretata come quella di partenza. I suoi elementi diagonali rappresenterebbero quindi le deformazioni estensionali dei segmenti orientati secondo i nuovi assi e, analogamente, gli elementi fuori diagonale le relative deformazioni angolari. La relazione (14.20), pur rappresentando la particolare condizione deformativa del parallelepipedo con gli spigoli allineati agli assi, consentirebbe quindi di determinare la deformazione di un parallelepipedo orientato in modo qualunque. Potremmo quindi adottare tecniche di calcolo analoghe a quelle sviluppate per la matrice di Cauchy e ottenere le componenti deformative per direzioni anche non parallele agli assi. In particolare, la deformazione estensionale di un segmento di versore n ˆ , che indichiamo in modo naturale con il simbolo εnn , sarebbe espressa dalla relazione: εnn = n ˆ T Dˆ n (14.21) e la deformazione angolare relativa a una generica coppia di direzioni perpendicolari, che prima della trasformazione hanno versori m ˆ e qˆ (con m ˆ · qˆ = 0), sarebbe data dalla relazione: εmq = m ˆ T Dˆ q = qˆT Dm ˆ = εqm

(14.22)

Quindi, se la matrice D fosse effettivamente la rappresentazione cartesiana di un tensore, da essa sarebbero deducibili tutte le caratteristiche deformative estensionali e angolari del materiale del parallelepipedo e quindi sarebbe completamente definita la deformazione stessa. Potremmo quindi concludere che D rappresenta la deformazione in modo analogo al come S rappresenta la tensione. L’uso ripetuto del condizionale pu`o indurre a sospettare che la soluzione non sia cos`ı semplice, come in effetti dimostra l’esempio seguente nel quale, per motivi di chiarezza e di semplicit`a, `e esaminato un caso bidimensionale. L’estensione allo spazio sar`a sviluppata nel prossimo paragrafo. Esempio 14.6: Trasformazione affine di un quadrato La trasformazione del quadrato Ω (ABCD) di lato c definita nella figura 14.15 `e prodotta facendo ruotare rigidamente dell’angolo θ tutti i segmenti verticali attorno ai loro punti di ordinata nulla (|A∗ B ∗ | = |A∗ D∗ | = c) e successivamente facendo traslare rigidamente la figura in orizzontale in modo che sia xA∗ = 1.5c.

y C

D

θ

Ω

D*

C*

Ω*

x A

B

A*

B*

Figura 14.15: Trasformazione affine di un quadrato nel piano

a) Verificare che la trasformazione `e affine.

418

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

b) Determinare i limiti dell’angolo θ perch´e sia congruente. c) Valutare la matrice D. d) Determinare le deformazioni estensionali nella direzione delle diagonali e confrontarle con i valori ottenibili applicando la relazione (14.21) 

Risposta a) La trasformazione conserva i segmenti e il parallelismo e infatti `e affine in grande. In effetti `e immediato verificare che `e descritta dalla seguente legge lineare: x∗ = x + y · sin (θ) + 1.5c y ∗ = y · cos (θ) per cui:  A=

0 sin (θ) 0 cos (θ) − 1

 e

d~ =



1.5c 0



Risposta b) I limiti per l’angolo θ si ottengono sia con considerazioni analitiche: det (I + A) = cos (θ) > 0

da cui

− π2 < θ <

π 2

sia con dirette considerazioni geometriche (equazione (14.18)).

Risposta c) La matrice D si ricava dalla definizione, osservando che entrambe le deformazioni estensionali sono nulle e la deformazione angolare (positiva) `e 2θ :  D=

0 θ/2 θ/2 0



θ = 2



0 1 1 0



Risposta d) La deformazione (esatta) della diagonale principale che ha la direzione del  estensionale  √ 1 versore n ˆ = 22 , in base alla definizione, `e: 1 εnn =

|A∗ C ∗ | − |AC| p = 1 + sin (θ) − 1 |AC|

mentre se si applica la relazione (14.21) si ottiene: n ˆ T Dˆ n=

θ 2

419

14. LA DEFORMAZIONE



Per l’altra diagonale, avente la direzione del versore m ˆ =

εmm =

2 2



−1 1

 , si ottiene:

|D∗ B ∗ | − |DB| p = 1 − sin (θ) − 1 |DB| m ˆ T Dm ˆ =−

θ 2

Il risultato ottenuto nell’esempio precedente `e generale e dimostra che le relazioni (14.21) non forniscono l’esatta valutazione delle deformazioni estensionali per segmenti che non sono orientati come agli assi. Il lettore pu`o verificare che lo stesso vale anche per le deformazioni angolari usando la relazione (14.22). Si pu`o per`o osservare che, se la matrice di deformazione ha elementi piccoli rispetto all’unit`a, ovvero se |εij |  1, le differenze tra le previsioni fatte con le relazioni (14.21) e (14.22) e i valori esatti diventano trascurabili. In particolare, nell’ultimo esempio, le deformazioni sono tutte piccole se: |θ|  1 ma in tal caso, usando lo sviluppo in serie di McLaurin: εnn =

p

1 + sin (θ) − 1 ∼ =



θ 1 ˆ T Dˆ n 1+θ−1∼ =1+ θ−1= =n 2 2

Questa conclusione pu`o essere generalizzata: se tutti i moduli dei termini della matrice D sono molto inferiori all’unit`a, i termini stessi possono essere considerati con buona approssimazione i componenti del tensore cartesiano di deformazione. Dal punto di vista pratico, per i fenomeni deformativi di interesse nel presente corso, la condizione |εij |  1 non `e molto penalizzante. Ricordiamo infatti che siamo interessati a sviluppare la meccanica dei corpi poco deformabili per cui nel seguito assumeremo sistematicamente che la matrice D rappresenti un tensore con sufficiente approssimazione. Come conseguenza, sfrutteremo a pieno tutte le propriet`a tensoriali senza che questo produca errori significativi. In effetti, come mostrato nei prossimi capitoli, lo studio di materiali cristallini elastici di interesse nelle costruzioni impone limitazioni di carattere fisico all’entit`a delle deformazioni per cui i massimi valori di |εij | sono generalmente dell’ordine di 10−3 . Dato che le deformazioni di interesse hanno moduli molto inferiori all’unit`a, `e consuetudine esprimerle in milionesimi. Per esempio, una deformazione ε = 0.00073 viene generalmente indicata come ε = 730 · 10−6 che spesso si scrive: ε = 730 µε e si legge: 730 microepsilon, oppure ` opportuno ricordare che, essendo le deformazioni grandezze adimensionali, il microstrain. E microepsilon µε `e una unit`a di misura fittizia. Nell’ambito del corso i valori tipici delle deformazioni sono pertanto dell’ordine delle centinaia, al massimo delle migliaia, di microepsilon. Nel caso dell’ultimo esempio, assumendo per l’angolo il valore θ = 10−3 (1000 µε), si ottiene per l’allungamento della diagonale principale n ˆ T Dˆ n = 5.0 · 10−4 = 500 µε contro il valore esatto di εnn = 4.99875 · 10−4 = 499.875 µε. L’assunzione della natura tensoriale di D comporta quindi un errore di 0.025% che pu`o essere ritenuto trascurabile nelle consuete applicazioni.

420

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

14.5.3 La matrice delle deformazioni D dedotta dalla matrice A (*) Dato che una trasformazione affine `e completamente definita dalla matrice A e dal vettore ~ si ricava che la matrice di deformazione D deve potersi ricavare da tali parametri. L’analisi d, che segue risolve questo problema e generalizza le considerazioni svolte nel paragrafo precedente chiarendo la natura tensoriale delle piccole deformazioni. Osserviamo in primo luogo che il vettore d~ non ha effetti sulla deformazione in quanto definisce una traslazione, pertanto `e interessante trovare D dalla matrice A. Questo problema ha una soluzione unica che pu`o essere ottenuta generalizzando il calcolo sviluppato nell’esempio del paragrafo precedente. Un segmento di lunghezza unitaria ~b1 , che prima della trasformazione aveva la direzione dell’asse x, diventa (equazione (14.11)):     1 1 + a11 ~b∗ = (I + A)  0  =  a21  (14.23) 1 0 a31 la deformazione estensionale (extensional strain) ε11 , per definizione, vale quindi: q q ε11 = ~b∗1 − 1 = (1 + a11 )2 + a221 + a231 − 1 = 1 + 2a11 + a211 + a221 + a231 − 1 le altre deformazioni estensionali, elementi diagonali della matrice, si ottengono analogamente. In generale quindi, con i ∈ {1, 2, 3}, si ha: q εii = 1 + 2aii + a21i + a22i + a23i − 1 (14.24) Per calcolare le deformazioni angolari si pu`o ricorrere al prodotto scalare che permette di ottenere il coseno dell’angolo formato dai trasformati di vettori che prima erano paralleli ed equiversi agli assi. In particolare, sempre in base alla relazione (14.11), il segmento unitario ~b2 parallelo ed equiverso a y diventa:     0 a12 ~b∗ = (I + A)  1  =  1 + a22  2 0 a32 e quindi dalla relazione (14.24) e tenendo conto che ~b∗i = 1 + εii , si ottiene: T   1 + a a 11 12 ~∗ ~∗ 1 ∗ ) = b1 · b2 =  a21   1 + a22  (1+ε11 )(1+ε = cos (α12 ~ 22 ) |b∗1 ||~b∗2 | a31 a32 

a12 + a21 + a11 a12 + a21 a22 + a31 a32 p 1 + 2a11 + a211 + a221 + a231 1 + 2a22 + a212 + a222 + a232

=p

da cui, la deformazione angolare: γ12 = 2ε12

π = − arccos 2

a12 + a21 + a11 a12 + a21 a22 + a31 a32 p p 1 + 2a11 + a211 + a221 + a231 1 + 2a22 + a212 + a222 + a232

! (14.25)

Per le altre componenti si ottiene: γ13 = 2ε13

π = − arccos 2

a13 + a31 + a11 a13 + a21 a23 + a31 a33 p p 1 + 2a11 + a211 + a221 + a231 1 + 2a33 + a213 + a223 + a233

!

421

14. LA DEFORMAZIONE

γ23 = 2ε23

π = − arccos 2

a23 + a32 + a12 a13 + a22 a23 + a32 a33 p p 1 + 2a22 + a212 + a222 + a232 1 + 2a33 + a213 + a223 + a233

!

Si pu`o osservare come il legame tra gli elementi della matrice A e gli elementi di D sia fortemente non lineare e, per le deformazioni angolari, richieda anche funzioni trascendenti. Tale non linearit`a `e la causa della natura non tensoriale della matrice D evidenziata nel paragrafo precedente. Consideriamo infatti un sistema di riferimento ruotato, definito dalla matrice L (vedi appendice A). La relazione generale (14.5): ~u = A~x + d~ nel sistema ruotato diventa:  ~u0 = LT u = LT A~x + LT d~ = LT AL LT ~x + LT d~ = A0 ~x0 + d~0 per cui si ha: T

A0 = L AL Concludiamo che A `e un tensore doppio (non simmetrico). Siccome D `e ottenuta con una trasformazione non lineare di A, i suoi componenti non possono seguire la stessa legge di trasformazione per rotazione degli assi. In effetti, chiamata D0 la matrice di deformazione nel sistema ruotato, ovvero quella che si ottiene elaborando la matrice A0 con le relazioni (14.24) e (14.25), e definita: ¯ = LT DL D (14.26) la matrice ottenuta applicando la regola di rotazione dei tensori alla matrice D, si verifica che: ¯ 6= D0 D

(14.27)

¯ e D0 `e utile Allo scopo di quantificare in forma sintetica le differenze tra le matrici D sfruttare la norma euclidea: v u 3 3 uX X kBk = t (bij )2 i=1 j=1

che quantifica l’intensit`a complessiva di una matrice. Il parametro:

D ¯ − D0 δ= kD0 k

(14.28)

rappresenta quindi la differenza in termini relativi tra le due matrici. Nel seguente esempio `e mostrato il procedimento per ottenere la matrice di deformazione e sono esaminati gli effetti del cambiamento del sistema di riferimento. Esempio 14.7: Propriet`a tensoriali approssimate Data la trasformazione affine definita dalla matrice:   0.1 −0.3 −0.6 0.4  A =  −0.5 0.2 −0.1 0.0 −0.8 a) determinare la matrice delle deformazioni D nel sistema dato,

422

14.5. DEFINIZIONE DI DEFORMAZIONE

b) determinare la matrice A0 nel sistema di riferimento ruotato definito dei versori:       0.408 −0.824 −0.393 ˆi0 =  0.816  , ˆj 0 =  0.137  e kˆ0 =  0.561  −0.408 −0.549 0.729 c) valutare la matrice D0 nel nuovo sistema di riferimento e verificare la disuguaglianza (14.27), determinando la differenza relativa delle matrici con la relazione (14.28). 

Risposta a) Analizzando i vettori trasformati dei segmenti unitari paralleli agli assi si ottiene la seguente:   0.212 −0.334 −0.662 0.237 0.397  D= Sym −0.252 I componenti della matrice D sono quantit`a confrontabili con l’unit`a e quindi la deformazione `e intensa, per esempio i segmenti paralleli a y si dilatano del 23.7% e l’angolo formato dagli assi x e z diventa di circa 166◦ . Il numero kDk = 1.257 `e effettivamente un quantificatore (leggermente maggiorato) dell’ordine di grandezza dei termini della matrice.

Risposta b) Dalla definizione, la matrice di cambiamento delle coordinate vale:   0.408 −0.824 −0.393 0.137 0.561  L =  0.816 −0.408 −0.549 0.729 e da questa si ottiene la matrice di trasformazione affine nel nuovo sistema:   −0.267 0.05 0.449 A0 = LT AL =  −0.219 −0.426 0.913  0.078 0.423 0.193 ` quindi possibile valutare la matrice di deformazione D0 nel sistema ruotato elaborando i E trasformati dei nuovi versori principali come nel caso della risposta a):   −0.231 −0.051 0.093 −0.286 0.609  D0 =  Sym 0.568 Anche se rappresenta lo stesso processo deformativo, la matrice di deformazione D0 `e diversa dalla precedente D perch´e `e riferita ad assi diversi. Tuttavia, come anticipato, non `e ottenibile dalla precedente per semplice trasformazione tensoriale, infatti:   −0.115 −0.17 0.022 ¯ = LT DL =  −0.511 0.533  D Sym 0.824

423

14. LA DEFORMAZIONE

Risposta c) Le differenze tra le componenti della matrice di deformazione D0 e della matrice trasformata ¯ hanno, in questo caso, lo stesso ordine di grandezza degli elementi delle matrici stesse, a D dimostrazione che non `e corretto trattare D come un tensore. Il parametro:

D ¯ − D0 δ= = 0.384 kD0 k indica che la differenza ‘complessiva’ tra le due matrici `e dell’ordine del 38% e questo numero rappresenta una stima dell’errore che si commetterebbe trattando la matrice D come un tensore. La non linearit`a del legame tra le matrici A e D costituisce una complicazione teorica e operativa non trascurabile, soprattutto quando si devono ottenere informazioni su A a partire dalla matrice di deformazione. Tale procedimento inverso produce infatti un sistema di equazioni non ` evidente che lineari del tipo (14.24) e (14.25) la cui soluzione in forma analitica non `e nota. E tali difficolt`a non sussisterebbero se il legame fosse lineare e quindi anche D avresse propriet`a tensoriali. ¯ e D0 si riduce quando la norma della matrice Si pu`o per`o dimostrare che la differenza tra D ¯ D diventa piccola, ovvero che: ¯ = D0 lim D ¯ kDk→0 la matrice D tende quindi ad assumere caratteristiche tensoriali quando i suoi componenti diventano piccoli in modulo. Non `e per`o necessario che i termini della matrice D siano infinitesimi perch´e la relazione: ¯ ∼ D = D0 possa essere usata nelle applicazioni. A tale proposito `e interessante osservare la figura 14.16 che mostra l’errore che si commette assumendo la matrice D come un tensore. Il grafico `e stato ottenuto considerando la trasformazione dell’ultimo esempio nel quale alla matrice A `e stato applicato un fattore moltiplicativo 0 < λ 6 1. La differenza relativa tra le norme delle matrici ¯ e D0 `e riportata in funzione della norma della matrice di deformazione. Dalla figura 14.16 D si ricava una indicazione di carattere generale: quando i termini della matrice di deformazione sono dell’ordine del permille o inferiori (ovvero |εij |max ∼ 1000 µε), la differenza tra le matrici ¯ e D0 , e quindi l’errore che si commette identificando D come tensore, `e inferiore all’unit`a D percentuale. Possiamo pertanto concludere che: la matrice di deformazione D pu`o essere considerata con sufficiente approssimazione un tensore doppio simmetrico quando le sue componenti sono dell’ordine di 10−3 o inferiori. Come gi`a osservato, nella meccanica dei corpi poco deformabili, in particolare nello studio del comportamento elastico, la restrizione kDk ∼ 10−3 non `e molto gravosa mentre i vantaggi che si ricavano da questa assunzione sono notevoli.

14.6 Tensore delle piccole deformazioni 14.6.1 Decomposizione dalla matrice A In questo paragrafo `e sviluppato un procedimento diretto per ottenere una approssimazione sufficientemente accurata della matrice D a partire dalla matrice della trasformazione affine A

424

14.6. TENSORE DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

11 ─1 100.1

δ

─2 0.01 10 ─3 0.001 10

0.0001 10─4 0.00001 10─5 1.E-06 ─6

10

1.E-05 ─5

10

1.E-04 ─4

10

1.E-03 ─3

10

1.E-02 ─2

10

1.E-01 ─1

10

1.E+00

1

D ¯ e D0 in funzione Figura 14.16: Differenza relativa tra le matrici D dell’intensit` a della deformazione

che pu`o essere usato nello studio dei corpi poco deformabili. Supponiamo di conoscere A e da questa di aver ricavato la matrice D (non `e ancora necessario assumere che la deformazione sia piccola) con il procedimento mostrato nel paragrafo precedente. La matrice A contiene 9 componenti scalari indipendenti mentre la matrice D solo 6: quali informazioni sono contenute nei 3 parametri in eccesso di A? Per rispondere a questa domanda ricordiamo che quando `e stato costruito il modello fisico del parallelepipedo deformato (sfruttando tutte e sole le informazioni di D) la sua collocazione nello spazio non `e stata comunque definita. Considerato che `e possibile dare al parallelepipedo deformato qualunque spostamento rigido, il campo di spostamenti ~ e di una rotazione rigida. Pertanto i tre parametri `e definito a meno di una traslazione (d) in eccesso della matrice A dovranno essere in qualche modo connessi alla rotazione rigida del parallelepipedo deformato ovvero al suo orientamento rispetto al sistema di riferimento. La matrice A contiene quindi informazioni sulla deformazione e sulla rotazione rigida del parallelepipedo deformato. Sfortunatamente, nel caso generale, la separazione dei due contributi non `e agevole perch´e: • il legame tra A e D `e non lineare, in particolare se D `e intensa • la rotazione rigida nello spazio non `e una grandezza vettoriale. Tuttavia, nel caso in cui i moduli dei termini della matrice A siano piccoli rispetto all’unit` a (si ricordi che aij sono numeri puri), sia la deformazione sia la rotazione rigida sono piccole e si ottengono i seguenti vantaggi: • la matrice D, anch’essa necessariamente piccola kDk  1, pu`o essere considerata un tensore • la rotazione rigida, anch’essa di piccola entit`a, pu`o essere approssimata con una grandezza vettoriale • le due componenti di deformazione e di rotazione rigida si compongono additivamente e possono quindi essere facilmente separate algebricamente. Per questi motivi, assumeremo generalmente |aij |  1 in modo che sia facilmente identificabile la parte della matrice A che rappresenta la rotazione rigida e si possa ottenere una soddisfacente approssimazione della matrice di deformazione D. Per chiarire il procedimento consideriamo la forma che assume la matrice A quando rappresenta una rotazione rigida senza deformazione.

425

14. LA DEFORMAZIONE

14.6.2 Rotazioni rigide Una rotazione rigida trasforma una terna di versori ortonormali destrorsi in una nuova terna di versori ortonormali destrorsi e quindi la relativa matrice di trasformazione B = I + A `e unitaria, per cui: (I + A)T = (I + A)−1 (14.29) Quando rappresenta una rotazione rigida, come ogni matrice unitaria nello spazio, anche A dipende da tre soli parametri scalari indipendenti. Tali parametri possono essere definiti in vario modo, per esempio: le componenti cartesiane di una terna di versori ortogonali, la direzione dell’asse di rotazione e l’angolo di rotazione, gli angoli di Eulero, ecc. . . . Esaminiamo la possibilit`a di usare una grandezza vettoriale per rappresentare una rotazione rigida nello spazio attorno a un asse. Un modo naturale per attribuire a tale grandezza caratteristiche vettoriali consiste nell’assumere: • il modulo pari all’entit`a della rotazione (in radianti) • la direzione coincidente con l’asse di rotazione, • il verso definito dalla regola della mano destra. Pertanto, una rotazione di 30◦ attorno a z (antioraria vista da z + ) diventerebbe:   0 π  ~ 0 θ= 6 1 mentre il vettore:



 1 π θ~ = − √  1  2 3 1

sarebbe interpretato come una rotazione di 90◦ attorno alla trisettrice in senso orario se vista ` noto per`o dalla Meccanica dei corpi rigidi che l’effetto complessivo di due dal primo ottante. E rotazioni (attorno ad assi non paralleli) dipende dalla sequenza delle singole rotazioni, pertanto la somma di due rotazioni non `e commutativa e non vale la regola del parallelogramma (che invece `e commutativa). Una rotazione finita non `e pertanto esprimibile in componenti. Il seguente esempio illustra questa situazione. Esempio 14.8: Non vettorialit`a delle rotazioni finite Verificare che una rotazione rigida di 45◦ attorno all’asse z definita con le regole proposte nel presente paragrafo non ha le caratteristiche di una grandezza vettoriale.  Interpretata come vettore, la rotazione data avrebbe la seguente rappresentazione cartesiana:     0 0 θ~ =  0  =  0  θ π/4 Tale rotazione pu`o essere invece descritta in modo formalmente corretto tramite la corrispondente trasformazione affine, la cui matrice `e la seguente:     cos (θ) − 1 − sin (θ) 0 −0.293 −0.707 0 cos (θ) − 1 0  =  0.707 −0.293 0  A =  sin (θ) 0 0 0 0 0 0

426

14.6. TENSORE DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

che, come `e immediato verificare, soddisfa la relazione (14.29). Osserviamo alcune interessanti propriet`a della matrice A appena ottenuta: gli elementi con pedici invertiti sono opposti e il termine a12 `e il seno dell’angolo di rotazione attorno all’asse z cambiato di segno. Consideriamo ora un diverso sistema di riferimento (sempre cartesiano ortogonale destrorso) e valutiamo le due rappresentazioni della rotazione (vettoriale e matriciale) rispetto ai nuovi assi. Per fare un esempio numerico, consideriamo un sistema di assi con la seguente matrice di trasformazione:   0.229 −0.967 −0.111 L =  0.688 0.242 −0.684  0.688 0.081 0.721 Se la rotazione fosse un vettore, le sue componenti θ~0 nel nuovo sistema dovrebbero ottenersi dalla relazione: θ~0 = LT θ~ e quindi sarebbero: 

   0 0.54 θ~0 = LT  0  =  0.064  θ 0.566 Interpretando questo risultato, dovremmo concludere che la componente della rotazione attorno al nuovo asse z 0 vale: θ30 = 0.566 Siamo per`o certi che la matrice della trasformazione nel nuovo sistema:   −0.154 −0.494 0.202 T A0 = L AL =  0.526 −0.291 −0.47  0.089 0.504 −0.141 rappresenta correttamente la affinit`a, essendo A un tensore. Se interpretiamo i coefficienti della matrice A0 nel nuovo riferimento come abbiamo fatto con i corrispondenti coefficienti di A nell’originario, notiamo varie incongruenze. In particolare gli elementi con pedici misti di A0 non sono uguali e opposti e il termine a012 = −0.494 differisce dall’opposto del seno dell’angolo di rotazione rispetto all’asse z 0 appena stimato, infatti: − sin θ30 = − sin (0.566) = −0.536 6= −0.494 La proiezione sull’asse z 0 della rotazione data non `e pertanto θ30 = 0.566 e quindi dobbiamo constatare che la rotazione non `e un vettore. Il seguente esempio illustra come la situazione cambi quando le rotazioni sono piccole.

427

14. LA DEFORMAZIONE

Esempio 14.9: Piccole rotazioni Ripetere l’esercizio proposto nel precedente esempio 14.8 assumendo rotazione mille volte π inferiore θ = 4000 . 

   cos (θ) − 1 − sin (θ) 0 −0.308 · 10−3 −0.7854 0 cos (θ) − 1 0  =  0.7854 −0.308 · 10−3 0  10−3 A =  sin (θ) 0 0 0 0 0 0 

In questo caso gli elementi diagonali di A sono piccoli rispetto agli elementi fuori diagonale non nulli. Nel sistema ruotato, le componenti dell’angolo vettoriale e per la matrice di trasformazione diventano:   0.54 θ~0 =  0.064  · 10−3 0.566   −0.162 · 10−3 −0.5660 0.0632  10−3 0.5661 −0.306 · 10−3 −0.5406 A0 =  −3 −0.0628 0.5406 −0.148 · 10 Similmente a quanto osservato per A, gli elementi diagonali di A0 sono trascurbili e gli elementi con pedici invertiti sono, con sufficiente approssimazione, uguali in modulo e di segno opposto: a0ij ∼ = −a0ji . Per quanto riguarda l’interpretazione del termine a012 , osserviamo infine che:  − sin θ30 = − sin 0.5663 · 10−3 = −0.5663 · 10−3 ∼ = 0.5660 · 10−3 una differenza sicuramente trascurabile. Generalizzando i risultati ottenuti negli ultimi due esempi, concludiamo che, se una trasformazione affine `e una piccola rotazione (non nulla): • la rotazione stessa pu`o essere considerata una grandezza vettoriale rappresentabile in componenti con la definizione precedentemente proposta • i termini della diagonale di A (e di A0 per ogni L) diventano trascurabili rispetto ai termini fuori diagonale non nulli • la matrice A (e di conseguenza A0 ) tende a diventare emisimmetrica: A ∼ = −AT • i termini fuori diagonale di A (e di A0 ) possono essere considerati, con sufficiente approssimazione e con una opportuna convenzione sui segni, le componenti della rotazione rispetto agli assi coordinati. Con semplici considerazioni geometriche (vedi il prossimo esempio) si verifica infatti che la trasformazione affine corrispondente a una piccola rotazione di componenti:   θx θ~ =  θy  θz

428

14.6. TENSORE DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

con θ~  1 `e rappresentata dalla seguente matrice di trasformazione: 

 0 −θz θy 0 −θx  A =  θz −θy θx 0

(14.30)

Esempio 14.10: Legge di trasformazione per piccole rotazioni Verificare che nel caso di piccole rotazioni vale la relazione: ~u = A~x = θ~ ∧ ~x  Per piccole rotazioni dalla relazione (14.30) segue:      ˆi ˆj kˆ 0 −θ3 θ2 x1 −θ3 x2 + θ2 x3 0 −θ1   x2  =  θ3 x1 − θ1 x3  = θ1 θ2 θ3 ~u =  θ3 x1 x2 x3 −θ2 θ1 0 x3 −θ2 x1 + θ1 x2

=



   θ1 x1 =  θ2  ∧  x2  θ3 x3

Dall’ultimo esempio 14.10 si ricava che, derivando ~u = θ~ ∧ ~x rispetto al tempo, si ottiene la ~ u nota relazione cinematica tra la velocit`a periferica ~v = d~ a angolare ω ~ = ddtθ del un dt e la velocit` moto di un corpo rigido: ~v = ω ~ ∧ ~x Si pu`o osservare che quest’ultima relazione `e esatta (indipendentemente dall’intensit`a della velocit`a angolare) in quanto dθ~ `e una rotazione infinitesima e quindi `e una grandezza vettoriale come ω ~.

14.6.3 Tensori di rotazione e di deformazione I risultati raggiunti nei punti precedenti forniscono gli elementi concettuali necessari per sviluppare un efficace procedimento di separazione delle parti rigida (rotazione) e deformativa della matrice A. Consideriamo una trasformazione affine con matrice A piccola e definiamo la seguente matrice:  1 Θ= A − AT (14.31) 2 che rappresenta la parte emisimmetrica della matrice di trasformazione. Se la trasformazione fosse una semplice rotazione rigida piccola, la matrice A sarebbe gi`a emisimmetrica per cui Θ = A. Nel caso generale assumiamo che Θ rappresenti la componente di rotazione rigida della trasformazione. A rigore tutto questo vale solo al limite per |aij | → 0 in effetti, nelle trasformazioni finite, la parte emisimmetrica di A approssima la componente di rotazione rigida della trasformazione.

429

14. LA DEFORMAZIONE

Definiamo quindi la matrice: E=A−Θ=

 1 A + AT 2

(14.32)

ottenuta togliendo da A la parte che rappresenta la rotazione rigida. La matrice E `e quindi la parte simmetrica della matrice di trasformazione e, conseguentemente, dovrebbe rappresentare la componente deformativa della trasformazione. La matrice E `e una combinazione lineare dei tensori A e AT per cui `e anch’essa un tensore (evidentemente simmetrico). La questione diventa quindi: `e corretto interpretare il tensore E come la deformazione? Oppure, pi` u esplicitamente, che legame esiste tra la matrice E e la vera matrice di deformazione ` D? E corretto attribuire agli elementi diagonali di E il significato di deformazioni estensionali e a quelli fuori diagonale il significato di deformazioni angolari? Verificheremo che, come prevedibile, la risposte a queste domande sono tutte positive ma a condizione che i termini delle matrici A, E, Θ e D siano in modulo molto inferiori dell’unit`a. Considerando il procedimento adottato per ottenerla, `e chiaro che non basta che la sola matrice E sia piccola. In effetti, la parte simmetrica della matrice A rappresenta la deformazione se anche la parte emisimmetrica rappresenta la rotazione rigida. Quindi entrambe le parti devono essere piccole, e di conseguenza, la matrice A nel suo complesso deve essere piccola (kAk  1). Solo se A `e piccola quindi, le componenti deformativa e rigida della trasformazione sono approssimabili rispettivamente dalle parti simmetrica ed emisimmetrica e queste si combinano additivamente. La combinazione additiva delle due componenti produce notevoli vantaggi operativi perch´e elimina le non linearit`a precedentemente evidenziate che caratterizzano legame tra A e D. In coerenza con i presupposti della meccanica dei corpi poco deformabili, nel seguito assumeremo che kAk  1 come ipotesi di base e quindi considereremo sempre la deformazione come la componente simmetrica della matrice di trasformazione. Questo significa che, da ora in poi, se non diversamente indicato, sar`a sempre: E≡D

(14.33)

almeno salvo verifiche a posteriori sull’entit`a di deformazioni e rotazioni. Per questi motivi, la grandezza descritta dalla matrice E `e generalmente definita tensore delle piccole deformazioni. Se anche una sola delle matrici Θ o E dovesse rivelarsi non piccola, il calcolo effettuato assumendo la relazione (14.33) risulterebbe in genere poco preciso ma i metodi per migliorarlo non sono elementari e quindi non saranno trattati sistematicamente nel presente corso. Nell’esempio che segue sono valutate le varie matrici introdotte per un semplice caso piano ed `e verificata la validit`a della relazione (14.33) per trasformazioni piccole. Esempio 14.11: Approssimazione della deformazione nel piano La trasformazione affine del quadrato Ω nel parallelogramma Ω∗ mostrata in figura 14.17 avviene in tre fasi. Nella prima fase i lati verticali, che rimangono indeformati, sono fatti ruotare tutti dell’angolo θ attorno al loro punto di ordinata nulla, nella seconda tutti i ∗B∗ segmenti orizzontali sono uniformemente dilatati del fattore: 1 + χ = AAB infine, nella terza, la figura `e ruotata rigidamente di ϕ attorno al vertice A∗ . Determinare le matrici piane e analizzarle per il caso numerico: θ = 5◦ , ϕ = 10◦ e χ = 0.1 che descrive la trasformazione (piuttosto intensa) rappresentata in scala nella figura.

430

14.6. TENSORE DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

y

C* C

D

θ

D*

C*

D*

Ω*

Ω

B*

ϕ A

B

(a)

A*

B*

x

A*

(c)

(b) Figura 14.17: Trasformazione affine piana

I dati consentono di ottenere immediatamente la matrice esatta delle deformazioni D in base alla definizione e la matrice A della trasformazione affine:     χ 2θ 0.1 0.044 D= = θ 0.044 0 2 0  A=

(1 + χ) cos (ϕ) − 1 − sin (ϕ − θ) (1 + χ) sin (ϕ) cos (ϕ − θ) − 1



 =

0.083 −0.087 0.191 −3.805 · 10−3



da quest’ultima si ricavano le parti emisimmetrica e simmetrica:    1 0 -0.139 T Θ= A−A = 0.139 0 2    1 0.083 0.052 A + AT = E= 0.052 −3.805 · 10−3 2 Si osserva che, nel caso in esame con una trasformazione piuttosto intensa kAk = 0.27, sia per la parte deformativa kDk = 0.12 sia per quella rigida (quantificabile approssimativamente con kΘk = 0.2), E `e effettivamente abbastanza diversa da D. Anche in condizioni cos`ı lontane dalle ipotesi, tuttavia, si nota che E approssima D, la differenza relativa kD−Ek kDk `e infatti pari al 17%.

Esercizio 14.1: Deformazione nel piano Con riferimento all’esempio 14.11 precedente, verificare i seguenti punti. a) La matrice di rotazione rigida Θ definisce effettivamente una rotazione attorno a z. b) La componente 1,2 della matrice Θ approssima l’opposto della media aritmetica degli angoli di rotazione attorno all’asse z dei due segmenti che all’inizio erano paralleli a x e y. c) Riducendo di un fattore 10 deformazioni e angoli (χ = 0.01, θ = 0.5◦ e ϕ = 1◦ ), quindi con kAk = 0.022 la differenza tra E e D diventa del 1.7%.

431

14. LA DEFORMAZIONE

d) Anche la differenza tra Θ12 e l’opposto della media aritmetica degli angoli di rotazione `e nell’ordine del percento quando la trasformazione `e ridotta di un fattore 10. e) Se si applica una ulteriore riduzione di un fattore 10 (χ = 0.001, θ = 0.05◦ e ϕ = 0.1◦ ) si ha: kAk = 1.2 · 10−3 per cui l’ipotesi delle piccole deformazioni diventa accettabile, in effetti in questo caso kD−Ek kDk = 0.02% f) Se si riduce solo la componente deformativa della trasformazione (per esempio assumendo χ = 0.001 e θ = 0.05◦ ) ma si mantiene elevata la rotazione rigida (ϕ = 10◦ ), la matrice di deformazione D diventa piccola mentre E rimane elevata. Questo fatto deriva dalla inadeguata riproduzione della rotazione rigida e dalla conseguente imprecisa decomposizione additiva di A.

In alcuni testi la parte simmetrica della matrice di trasformazione `e chiamata tensore delle deformazioni infinitesime, ma tale definizione `e da considerarsi impropria. In effetti, `e vero che E rappresenta la deformazione tanto pi` u precisamente quanto pi` u piccole sono le sue componenti e quindi l’uguaglianza E = D si verifica, a rigore, solo al limite. Tuttavia, quando le componenti deformative (e rotatorie) sono in modulo entro le migliaia di microepsilon l’approssimazione E = D pu`o considerarsi valida per tutti gli scopi pratici. Componenti εij dell’ordine di 10−3 , per quanto piccole rispetto all’unit`a, sono deformazioni molto intense per molti materiali e quindi non sono certamente definibili infinitesime, sia dal punto di vista matematico sia, a maggior ragione, da quello fisico. Pertanto, quando `e necessario rimarcare che la matrice E rappresenta una approssimazione e risulta utile distinguerla da altri quantificatori che possono essere usati per definire la deformazione, indicheremo E con il termine appropriato di tensore delle piccole deformazioni. Come mostrato anche nell’ultimo esempio, se kAk ∼ 10−3 , il tensore delle piccole deformazioni approssima le componenti deformative esatte di D con la precisione del permille. In effetti si pu`o dimostrare che gli errori relativi connessi con l’approssimazione delle piccole deformazioni sono dello stesso ordine di grandezza dei termini della matrice A. Possiamo quindi fissare per deformazioni e rotazioni il livello di 10−2 al di sotto del quale `e tecnicamente lecito tollerare le approssimazioni di tipo geometrico della meccanica dei corpi deformabili. Dato che le componenti deformative sono grandezze adimensionali, `e frequente nelle elaborazioni ottenere somme algebriche con addendi di primo grado in εij insieme con addendi di grado maggiore o contenenti prodotti di deformazioni. Coerentemente con l’ipotesi delle piccole deformazioni, i termini non lineari saranno quindi trascurati senza che ci`o comporti una perdita di precisione nel risultato. Per esempio, componenti di E come: ε11 = 2.0 · 10−3 , ε12 = 3.5 · 10−3 sono ottenute con un procedimento che in principio introduce un errore relativo dell’ordine del millesimo delle quantit`a stesse. Pertanto, in termini rigorosi, dovremmo considerarle come: ε11 = 2.0 · 10−3 ± 2 · 10−6 , ε12 = 3.5 · 10−3 ± 3.5 · 10−6 per ricordare che, in questo caso, il modello delle piccole deformazioni ha una imprecisione intrinseca stimabile nell’ordine del microepsilon. Il prodotto delle due deformazioni: ε11 · ε12 = 2.0 · 10−3 · 3.5 · 10−3 = 7.0 · 10−6

432

14.7. TRASFORMAZIONI NON AFFINI

ha lo stesso ordine di grandezza dell’incertezza dei singoli fattori e quindi `e una quantit`a trascurabile rispetto a questi. A maggior ragione saranno trascurati i cubi o i prodotti di tre deformazioni. La seguente approssimazione `e quindi valida nell’ambito delle piccole deformazioni: 3ε11 + 2ε12 − ε211 + 4ε11 ε12 + ε312 = 3ε11 + 2ε12 = 13 · 10−3 Dall’analisi sviluppata finora sulle trasformazioni affini possiamo quindi trarre la seguente considerazione generale, di notevole importanza pratica: se le componenti della matrice di trasformazione sono in modulo inferiori a 10−2 la matrice delle deformazioni ha caratteristiche tensoriali e pu`o essere bene approssimata mediante il tensore delle piccole deformazioni.

14.7 Trasformazioni non affini Rispetto a un riferimento cartesiano di coordinate x1 , x2 , e x3 , consideriamo un corpo Ω sottoposto a una trasformazione congruente (quindi non necessariamente affine) rappresentata dal campo di spostamento:   u1 (x1 , x2 , x3 ) ~u (~x) =  u2 (x1 , x2 , x3 )  u3 (x1 , x2 , x3 ) Fissato un punto generico P del corpo, sappiamo che la trasformazione `e affine al limite, per cui tutte le considerazioni finora sviluppate, esatte o approssimate, possono essere applicate a un parallelepipedo di dimensioni infinitesime in corrispondenza di P . La trasformazione affine di tale parallelepipedo sar`a definita dalle 9 componenti della matrice locale A e, se questa `e piccola, potr`a essere separata nelle componenti deformativa e rigida. A tale scopo, consideriamo il parallelepipedo elementare con il vertice di coordinate minime in P e gli spigoli paralleli agli assi. Differenziando le componenti di spostamento rispetto alle coordinate, si ottiene:    ∂u1 ∂u1 ∂u1 dx1 ∂x1 ∂x2 ∂x3  2 ∂u2 ∂u2   dx2  = ∇~uT · d~x d~u =  ∂u (14.34) ∂x1 ∂x2 ∂x3  ∂u3 ∂u3 ∂u3 dx 3 ∂x ∂x ∂x 1

2

3

Questa relazione fornisce le variazioni dello spostamento che si producono nel corpo quando si passa da P a un punto infinitamente vicino. La matrice delle derivate, che devono essere calcolate in P , `e per il parallelepipedo elementare una costante, pertanto per  i punti Q del parallelepipedo elementare, che sono a distanze infinitesime dx1 dx2 dx3 da P , la relazione (14.34) pu`o essere interpretata nel modo seguente: le componenti dello spostamento relativo d~u di Q rispetto a P sono una funzione lineare delle coordinate relative di Q rispetto a P . Questa constatazione rappresenta la verifica formale della trasformazione affine del parallelepipedo elementare il quale, quindi, si trasforma in un parallelepipedo infinitesimo in genere non retto. La matrice della trasformazione affine A coincide con la matrice delle derivate prime calcolate in P . Osservando i pedici dei simboli e la loro disposizione, concludiamo inoltre che la matrice della trasformazione affine locale `e il gradiente trasposto dello spostamento: ∇~uT = A

(14.35)

Come caso particolare, la matrice A pu`o essere ottenuta come gradiente trasposto della funzione di spostamento anche nelle trasformazioni affini in grande. Per verificarlo, `e sufficiente

433

14. LA DEFORMAZIONE

derivare le relazioni lineari definite dalla relazione (14.3) rispetto alle coordinate cartesiane. A differenza di una trasformazione affine in grande, in cui la matrice A `e la stessa per l’intero corpo, in una trasformazione congruente generica il gradiente di spostamento `e in genere una funzione della posizione (ovvero ∇~uT dipende da ~x). Questo comporta che i parallelepipedi elementari relativi a due punti distinti si trasformano entrambi in modo affine ma, in generale, diversamente l’uno dall’altro, pertanto nel corpo sia la componente rigida sia quella deformativa sono in genere diverse da punto a punto. Supponiamo che per tutti i punti del corpo e per tutti i parallelepipedi elementari di cui `e idealmente costituito siano valide le ipotesi della meccanica dei corpi poco deformabili, e quindi che: • le componenti di ~u in Ω siano piccole rispetto alle dimensioni del corpo, • le componenti del gradiente ∇~uT siano ovunque piccole rispetto all’unit`a, allora, per ogni parallelepipedo elementare la deformazione `e espressa dal tensore ottenuto dalla parte simmetrica del locale gradiente di spostamento. La matrice delle piccole deformazioni `e quindi:  1 (14.36) E= ∇~u + ∇~uT 2 In questo modo risulta definito un campo tensoriale che, sempre con riferimento al sistema cartesiano dato, associa a ogni punto del corpo il relativo tensore delle piccole deformazioni: E (x1 , x2 , x3 ). Se i gradienti di spostamento sono piccoli, alle componenti di E `e possibile attribuire il consueto significato di deformazioni estensionali e angolari del parallelepipedo elementare locale. La forma generale delle componenti di E `e per i, j = 1, 2, 3:   ∂uj 1 ∂ui εij = + (14.37) 2 ∂xj ∂xi le deformazioni estensionali sono quindi: ε11 = e le deformazioni angolari:   1 ∂u1 ∂u2 ε12 = + , 2 ∂x2 ∂x1

∂u1 , ∂x1

ε13

1 = 2

ε22 =



∂u2 , ∂x2

∂u1 ∂u3 + ∂x3 ∂x1

ε33 =

∂u3 ∂x3

,

1 = 2

 ε23

(14.38)



∂u2 ∂u3 + ∂x3 ∂x2

 (14.39)

Le componenti delle rotazioni rigide locali sono deducibili dai termini fuori diagonale della matrice:  1 Θ= ∇~uT − ∇~u (14.40) 2 I seguenti esempi illustrano le applicazioni delle formule precedenti a solidi monodimensionali e bidimensionali in un dominio piano. Esempio 14.12: Deformazione di un continuo monodimensionale Il segmento Ω di estremi A (0, 0) e B (d, 0) `e trasformato nel tratto di curva Ω∗ in base al seguente campo di spostamento piano:   2 d u = 0.1x − 0.05 xd λ + 10   3 v = 0.5x − 0.6 xd2 λ + d4

434

14.7. TRASFORMAZIONI NON AFFINI

Determinare per λ = 1 la componente estensionale ε11 del tensore delle piccole deformazioni e rappresentarla in funzione dell’ascissa del punto indeformato confrontandola con il valore esatto. Ripetere il calcolo con λ = 0.01

y P* A*

Ω* B*

x

A P

Ω

B

Figura 14.18: Trasformazione congruente di un solido monodimensionale

La trasformazione non `e affine e infatti: ε11 (= E11 ) =

 x ∂u = 0.1 1 − ∂x d

la deformazione dipende dalla posizione (i vari elementi del segmento subiscono allungamenti diversi). L’allungamento esatto si ottiene dalla relazione: s r   2  x 2  x 4 ∂u 2 ∂v x ε11 (= D11 ) = 1+ + −1 = 1 + 0.46 − 0.22 − 1.79 + 3.24 −1 ∂x ∂x d d d Come mostra la figura 14.19, l’approssimazione delle piccole deformazioni appare piuttosto grossolana. In effetti le deformazioni sono intense. 0.8 0.64

D11 E11

0.6 εxx( xxi)

ε

ex(11 xxi)

0.4

0.2 0 0

0 0

0.2

0.4

x /xxid

0.6

0.8

1 1.0001

d Figura 14.19: Andamento delle deformazioni estensionali per λ = 1 in funzione della posizione (indeformata), confronto tra il valore esatto (D11 ) e quello ottenuto nell’ipotesi di piccole deformazioni (E11 )

Nel caso λ = 0.01 si ottiene:  x ε11 (= E11 ) = 0.001 1 − d

435

14. LA DEFORMAZIONE

contro il valore esatto di r ε11 (= D11 ) =

1 + 0.00202 − 2.001 · 10−3

 x 4  x 2 x + 324 · 10−6 −1 − 179 · 10−6 d d d

Il confronto `e riportato nella figura 14.20. 1.5 1.012

εεxx11( xxi)

D11 E11

1

⎡⎣10ex(−xx3i⎤⎦) 0.5 0 0

0

0.2

0.4

0.6

x /xxdi

0

0.8

1 1.0001

d

Figura 14.20: Confronto nel caso di λ = 0.01 (le deformazioni sono espresse in 10−3 : millesimi o milliepsilon)

Esempio 14.13: Analisi di un campo di spostamenti piano Dato il campo di spostamenti piano: 2

u = 0.01x − 0.06 yd − 0.04 xy d + 1.5d y2 x3 v = 0.03x + 0.05 d2 + 0.04 d definito sul quadrato di vertici A (0, 0), B (d, 0), C (d, d) e D (0, d), tracciare le mappe della deformazione angolare ε12 e della componente θz della rotazione rigida attorno a z.

y C

D

D*

C*

Ω*

Ω

B* A

B

x

A*

Figura 14.21: Trasformazione piana non affine

Nella figura 14.21 sono rappresentati i corpi piani prima e dopo la deformazione. Il

436

14.8. PROBLEMA INVERSO E EQUAZIONI DI CONGRUENZA

gradiente piano di spostamento `e dato dalla matrice:   ∂u ∂v  1 − 4 yd ∂x ∂x = 0.01 ∇~u = ∂u ∂u −12 yd − 4 xd ∂y ∂y

3 + 15 8 yd

 x 2 d



i cui termini sono dell’ordine dei decimi. Siamo pertanto sopra il margine stabilito per l’accettazione delle piccole deformazioni e ci attendiamo che le nostre previsioni siano affette da errori relativi dell’ordine di (10-20)%. Le matrici richieste sono:  E = 0.01

Θ = 0.01

1 − 4 yd sym

3 2



+

x d

+ 6 yd +

− 6 yd + 8 yd



0 3 2

x d

15 2

 x 2 d

h

3 2

+

x d

15 2

 x 2 d

+ 6 yd +



15 2

 x 2 d

i !

0

I risultati sono rappresentati nella figura 14.22.

ε12

θz

Figura 14.22: Mappe della deformazione angolare ε12 e della rotazione rigida εp12 attorno a z: θz = −Θ12 (ottenute conθzil computer e rappresentate sul corpo indeformato)

14.8 Problema inverso e equazioni di congruenza 14.8.1 Il problema inverso (*) Finora ci siamo occupati di definire e valutare le deformazioni in un corpo risolvendo quello che `e chiamato il problema diretto: date le funzioni ui (x1 , x2 , x3 ) che definiscono il campo di spostamento, determinare il campo di deformazione Il problema diretto `e sempre risolvibile con la sola condizione che il campo di spostamento rappresenti una trasformazione congruente. Il procedimento comporta infatti di valutare il gradiente di spostamento e di elaborarne le componenti. Se i gradienti di spostamento sono piccoli, il compito `e facilitato dalla possibilit`a di usare la matrice delle piccole deformazioni E

437

14. LA DEFORMAZIONE

per approssimare D. Se i gradienti di spostamento sono grandi, E rappresenta una (talvolta grossolana) approssimazione di D e per avere una soluzione accurata l’elaborazione deve essere effettuata usando il procedimento non lineare presentato nel paragrafo 14.5.3. Anche in quest’ultimo caso la procedura di soluzione del problema diretto, per quanto pi` u articolata e algebricamente pi` u complessa, `e comunque completamente definita e il risultato che si ottiene `e unico. Il problema diretto consiste quindi nell’ottenimento di derivate delle componenti di spostamento e in una loro successiva elaborazione espressa da formule esplicite. Nella pratica spesso si presenta per`o il problema inverso, definito come: dato il campo di deformazione D (x1 , x2 , x3 ) determinare il campo di spostamento ui (x1 , x2 , x3 ) che lo ha prodotto. Per comprendere l’utilit`a del problema inverso `e sufficiente riferirsi a uno degli esempi presentati all’inizio del capitolo, come la trasmissione meccanica riprodotta nelle figure 14.1 e 14.2. La verifica di rigidezza per le strutture richiede infatti di valutare lo spostamento di alcuni punti rappresentativi del corpo, per esempio i denti degli ingranaggi in contatto, e di confrontarlo con valori ammissibili. Supponiamo di conoscere come tutti i singoli elementi infinitesimi dell’albero si deformano sotto l’azione dei carichi (per esempio sapendo valutare come i singoli conci della trave si deformano sotto l’effetto delle caratteristiche di sollecitazione), in che modo si pu`o ricavare lo spostamento di un punto del corpo? Come `e stato anticipato, lo spostamento di un singolo punto non pu`o essere ottenuto in base alla sola deformazione locale della zona in cui il punto si trova, dato che lo spostamento `e una quantit`a che, in misura pi` u o meno marcata, risente dalla deformazione di tutti i punti della struttura. In termini matematici, se il problema diretto comporta che la deformazione sia ottenuta dallo spostamento per derivazione, il problema inverso richiede che lo spostamento sia ottenuto dalla deformazione tramite una integrazione. Il problema inverso `e in genere molto pi` u impegnativo del problema diretto, come il seguente esempio elementare dimostra. Esempio 14.14: Problema inverso nel piano Il quadrato A (0, 0), B (d, 0), C (d, d), D (0, d) sotto carico presenta il seguente campo di deformazione: ! 2 5y 2 xy 1 + − 3 1 − 3y 2 2 2 d 2d d D = 0.01 sym 2 + 10 xy d2 sapendo che il punto A si sposta in A∗ (1.1d, 0) e che il punto B ∗ rimane sull’asse x, determinare la posizione dei vertici B ∗ , C ∗ , D∗ dopo la deformazione.  Assumiamo senz’altro l’ipotesi di corpo poco deformabile dato che l’ordine di grandezza dei gradienti di spostamento `e del percento. Considerando che E = D, le deformazioni estensionali forniscono le seguenti componenti del gradiente di spostamento:   3y 2 ∂u ∂x = ε11 = 0.01 1 − d2 xy  ∂v ∂y = ε22 = 0.01 2 + 10 d2 Da queste, tramite integrazione indefinita, si ottengono le seguenti espressioni per le componenti del campo di spostamento:   R 3xy 2 u (x, y) = ∂u dx =0.01 x − + f1 (y) ∂x d2   R ∂v 2 v (x, y) = ∂y dy =0.01 2y + 5 xy + f2 (x) d2

438

14.8. PROBLEMA INVERSO E EQUAZIONI DI CONGRUENZA

in cui le funzioni f1 (y) , f2 (x) (formalmente le costanti di integrazione) possono essere scelte arbitrariamente (ovviamente nell’ambito delle funzioni sufficientemente regolari). Dalle componenti di spostamento si pu`o ottenere l’espressione della deformazione angolare:    2 df1 (y) ∂v 2 (x) γ12 = ∂u + + ∂x = 0.01 − 6xy + 0.01 5 yd2 + dfdx = 2 ∂y dy d   df1 (y) df2 (x) y2 6xy = 0.01 − d2 + 5 d2 + dy + dx che deve corrispondere al termine fuori diagonale della matrice di deformazione (γ12 = 2ε12 ):     xy y2 df1 (y) df2 (x) xy 5 y2 0.01 −6 2 + 5 2 + −3 2 + = 2 · 0.01 1 + d d dy dx 2 d2 d La precedente relazione semplificata diventa: df1 (y) df2 (x) + = 0.02 dy dx Ricaviamo quindi che il primo membro della relazione deve essere costante. Dato che il primo addendo non pu`o dipendere da x e il secondo da y, l’unica possibilit`a perch´e la loro somma sia costante `e che entrambi gli addendi siano indipendenti sia da x sia da y e quindi costanti, per cui si pu`o porre: df1 (y) =c dy df2 (x) = 0.02 − c dx dove c `e una costante da determinarsi. Integrando le precedenti equazioni si ottengono le relazioni: f1 (y) = cy + c1 f2 (x) = (0.02 − c) x + c2 con c1 e c2 ulteriori costanti di integrazione. Le componenti di spostamento sono quindi date da:   2 u (x, y) = 0.01 x − 3xy + cy + c1 d2   2 v (x, y) = 0.01 2y + 5 xy + (0.02 − c) x + c2 d2 Il campo di spostamento ottenuto dipende da 3 costanti di integrazione. Questa indeterminatezza era prevedibile considerando che finora `e stata esaminata solo la variazione di forma del corpo e quindi la configurazione dei suoi punti pu`o essere nota a meno di un generico spostamento rigido del corpo nel piano. Tale spostamento `e definito proprio da 3 coordinate lagrangiane. Le costanti di integrazione sono infatti determinabili in base alla conoscenza della posizione finale di alcuni punti. Dallo spostamento del punto A, si ricava: u (0, 0) = 1.1d v (0, 0) = 0 e il fatto che il punto B ∗ rimane sull’asse x si traduce nell’ulteriore relazione: v (0, d) = 0

439

14. LA DEFORMAZIONE

y D

C

C*

D*

Ω

Ω*

x B A*

A

B*

Figura 14.23: Il corpo prima e dopo la deformazione

Alla fine si ottiene: c = 0.02, c1 = 1.1d e c2 = 0 da cui il campo di spostamento finale:   2 u (x, y) = 0.01 x + 2y − 3xy + 1.1d 2  d 2 v (x, y) = 0.01 2y + 5 xy d2 Da queste espressioni `e quindi ottenibile la forma distorta del corpo, rappresentata nella figura 14.23, e i seguenti risultati numerici: B ∗ (2.11d, 0), C ∗ (2.10d, 1.07d) e D∗ (1.12d, 1.02d). ` lasciato al lettore il compito di considerare, anche solo qualitativamente, quanto il probleE ma inverso si complichi in termini matematici se le deformazioni non sono piccole e il legame tra la matrice di deformazione e il gradiente di spostamento, invece che essere lineare, diventa del tipo indicato nelle relazioni (14.24) e (14.25).

14.8.2 Equazioni di congruenza Nel paragrafo precedente `e stato mostrato come affrontare il problema inverso e quindi ottenere il campo di spostamento quando `e noto il campo di deformazione ed `e definita la posizione del corpo deformato nello spazio, per esempio in base alla conoscenza della posizione finale di alcuni suoi punti. Il problema inverso presenta per`o altre criticit`a che non sono state evidenziate nell’esempio. Consideriamo per semplicit`a sempre un problema bidimensionale e un dominio in ogni punto del quale sia nota la matrice D 2 × 2, proponiamoci di ottenere il campo di spostamento ~u (x1 , x2 ) nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili. Dal punto di vista matematico ci`o comporta che sono date 3 funzioni di R2 : ε11 (x1 , x2 ) ,

ε12 (x1 , x2 ) ,

ε22 (x1 , x2 )

dalle quali devono essere dedotte 2 funzioni di R2 : u1 (x1 , x2 ) ,

u2 (x1 , x2 ) .

Se le tre funzioni di partenza sono qualunque, `e evidente che il problema, in generale, diventa impossibile avendo imposto in ogni punto pi` u condizioni che incognite. Possiamo interpretare questo risultato nel modo seguente: non c’`e alcuna garanzia che le tre funzioni εij (x, y), sia pure

440

14.8. PROBLEMA INVERSO E EQUAZIONI DI CONGRUENZA

regolari con tutte le derivate, derivino effettivamente da un campo di spostamento. In termini geometrici ci`o significa che, per quanto ogni singolo parallelepipedo elementare di cui `e costituito il corpo si deformi in modo congruente, non `e assicurato che dal loro assemblaggio si ottenga un corpo globalmente congruente. In termini intuitivi, la costruzione del corpo deformato ottenuta mettendo insieme, come in un puzzle, i singoli parallelepipedi elementari deformati, a un certo punto potrebbe diventare impossibile perch´e alcuni elementi non trovano pi` u spazio (e quindi dovrebbero compenetrarsi) mentre tra altri si possono formare spazi vuoti. La congruenza globale del corpo impone pertanto che le funzioni che descrivono le variazioni spaziali delle componenti di deformazione non siano indipendenti. In altri termini, devono esistere opportune relazioni che legano le componenti deformative che garantiscono la globale congruenza. Nel caso bidimensionale l’unica relazione necessaria per rendere il problema correttamente formulato si pu`o ottenere in modo piuttosto semplice. A tale scopo, supponiamo che la soluzione del problema inverso effettivamente esista e quindi che le componenti di deformazione siano prodotte da un campo di spostamento congruente, valgono allora le seguenti relazioni:   ∂u1 1 ∂u1 ∂u2 ∂u2 ε11 = , ε12 = + , ε22 = ∂x1 2 ∂x2 ∂x1 ∂x2 Supponiamo inoltre che le funzioni siano sufficientemente regolari in modo da poter derivare le componenti di deformazione fino al secondo ordine (e quindi gli spostamenti fino al terzo). Per il teorema di Schwartz sull’invarianza dell’ordine di derivazione, si ha:     3 ∂ 2 ε12 ∂ 3 u2 1 ∂2 ∂u1 ∂u2 1 ∂ u1 + = = + = ∂x1 ∂x2 2 ∂x1 ∂x2 ∂x2 ∂x1 2 ∂x1 ∂x22 ∂x2 ∂x21     1 ∂ 2 ∂u1 ∂ 2 ∂u2 1 ∂ 2 ε11 ∂ 2 ε22 = + + = 2 ∂x22 ∂x1 ∂x21 ∂x2 2 ∂x22 ∂x21 La relazione che infine si ottiene: ∂ 2 ε12 1 = ∂x1 ∂x2 2



∂ 2 ε11 ∂ 2 ε22 + ∂x22 ∂x21

 (14.41)

rappresenta il legame cercato ed `e chiamata equazione di congruenza (compatibility equation). Estendendo il ragionamento al caso tridimensionale si ricavano 6 equazioni differenziali alle derivate parziali che esprimono la generale condizione di risolvibilit`a del problema inverso e che sono chiamate, dopo Eugenio Beltrami (1835-1900) e John Michell (1863-1940), equazioni di Beltrami-Michell. Tre equazioni di Beltrami-Michell sono le analoghe della relazione (14.41): ! ∂ 2 εij 1 ∂ 2 εii ∂ 2 εjj + (14.42) = ∂xi ∂xj 2 ∂x2j ∂x2i con i, j = {1, 2, 3} e i 6= j, mentre le altre tre si possono ottenere per rotazione dei pedici dalla seguente:   ∂εjk ∂ 2 εii ∂ ∂εki ∂εij = − + + (14.43) ∂xj ∂xk ∂xi ∂xi ∂xj ∂xk con i, j, k = {1, 2, 3} e i 6= j 6= k. ` utile osservare che le condizioni di congruenza di Beltrami-Michell sono uguaglianze tra le E derivate seconde di componenti di deformazione, pertanto, se le deformazioni sono uniformi nel dominio, risultano identicamente soddisfatte. Questo fatto era prevedibile, dato che un campo uniforme di deformazione `e prodotto da una trasformazione affine in grande. Con lo stesso ragionamento si ottiene per`o anche il seguente importante teorema, che sfrutteremo nel seguito:

441

14. LA DEFORMAZIONE

un campo di deformazione le cui componenti sono funzioni lineari delle coordinate cartesiane soddisfa identicamente le equazioni di congruenza. Il campo di deformazione pi` u generale con tali caratteristiche si scrive come: εij = αij +

3 X

βijk xk

k=1

con αij e βijk indipendenti dalla posizione (per la simmetria del tensore di deformazione deve essere ovviamente: αij = αji e βijk = βjik ). Se almeno uno dei parametri βijk non `e nullo, un campo di deformazione di questo tipo non rappresenta una trasformazione affine in grande.

442

Capitolo 15

Analisi di corpi deformati Assumendo valida la meccanica dei corpi poco deformabili, nel capitolo sono evidenziate le propriet` a invarianti del tensore di deformazione. Il tensore delle piccole deformazione `e successivamente impiegato per determinare variazioni del volume, della lunghezza e della superficie di parti di un corpo che subisce una deformazione. ` esaminato un particolare processo deformativo non affine utile nello studio degli elemenE ti strutturali sollecitati in flessione ed `e presentata l’ipotesi deformativa della conservazione delle sezioni piane per le travi (ipotesi di Eulero-Bernoulli) e la sua estensione per i solidi bidimensionali. Nell’ultima parte del capitolo sono fornite le basi concettuali dei metodi con cui affrontare lo studio di corpi deformabili per i quali la configurazione finale `e sensibilmente diversa da quella di riferimento.

15.1 Applicazioni delle piccole deformazioni Consideriamo un corpo che subisce una trasformazione definita dal campo di spostamento:   u1 (x1 , x2 , x3 ) ~u (~x) =  u2 (x1 , x2 , x3 )  u3 (x1 , x2 , x3 ) assumendo che le funzioni che definiscono le componenti di spostamento siano definite, insieme con le derivate di ogni ordine necessario all’analisi, quasi ovunque nel corpo in esame, ovvero in tutti i punti esclusi al pi` u quelli appartenenti a un insieme di misura nulla. Come `e stato dimostrato nel precedente capitolo, se: 1. le componenti di spostamento sono ovunque piccole rispetto alle dimensioni caratteristiche del corpo

2. i gradienti di spostamento sono ovunque piccoli rispetto all’unit`a: ∇~uT  1; si pu`o assumere che:  • E = 12 ∇~u + ∇~uT `e la rappresentazione cartesiana di un tensore doppio simmetrico la parte simmetrica del gradiente di spostamento • E `e interpretabile come matrice delle deformazioni D • al tensore delle piccole deformazioni E sono applicabili le considerazioni valide in generale per i tensori cartesiani simmetrici del secondo ordine e quindi: le leggi di trasformazione per rotazione degli assi, le propriet`a invarianti, i valori e le direzioni principali, la rappresentazione di Mohr, ecc. . .

443

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Nel seguito del paragrafo sono discusse le pi` u interessanti propriet`a tensoriali della deformazione.

15.1.1 Deformazioni e direzioni principali dello stato di deformazione Consideriamo un generico tensore di deformazione che, rispetto a un sistema di riferimento fissato, che chiamiamo generale, `e rappresentato dalla matrice:   ε11 ε12 ε13 ε22 ε23  E= (15.1) Sym ε33 La conoscenza del significato geometrico delle componenti della matrice ci permette di stabilire come si deforma un parallelepipedo elementare il cui triedro `e parallelo agli assi del sistema generale. Applicando le note propriet`a dei tensori, `e possibile per`o valutare come si deforma anche un parallelepipedo elementare orientato in modo qualunque. Infatti le deformazioni estensionali e angolari di un parallelepipedo elementare ruotato sono espresse dai termini della matrice che si ottiene dal doppio prodotto: E0 = LT EL in cui L `e la matrice unitaria che raccoglie i versori del triedro del parallelepipedo ruotato espressi nel sistema di riferimento generale. Da ci`o segue che, dato un versore generico n ˆ , la deformazione estensionale in tale direzione εnn si ottiene con la relazione: εnn = n ˆ T Eˆ n (15.2) e, data una coppia di versori n ˆ em ˆ tra loro perpendicolari (quindi con prodotto scalare nullo n ˆ ·m ˆ = 0) la deformazione angolare associata (met`a della riduzione dell’angolo retto da loro individuato) si ottiene con la relazione: εnm = n ˆ T Em ˆ =m ˆ T Eˆ n = εmn

(15.3)

` interessante rispondere alla domanda: esistono coppie di direzioni mutuamente perpendiE colari che rimangono perpendicolari dopo la trasformazione? Dal punto di vista matematico la domanda pu`o essere formulata come: dato E, trovare n ˆem ˆ per cui valgano le seguenti relazioni: • n ˆ ·m ˆ = 0 condizione di perpendicolarit`a prima della deformazione • n ˆ T Em ˆ =m ˆ T Eˆ n = 0 condizione di deformazione angolare nulla e quindi di perpendicolarit`a dopo la deformazione. La condizione di conservazione della perpendicolarit`a pu`o essere evidenziata in un modo ancora pi` u comodo. Supponiamo che esistano effettivamente due versori n ˆ em ˆ con le caratteristiche precedenti, allora n ˆ `e perpendicolare sia a m ˆ (dato che n ˆ ·m ˆ = 0) sia a Em ˆ (dato che n ˆ · (Em) ˆ = 0). Da ci`o deriva immediatamante che m ˆ e Em ˆ devono essere paralleli. Ovviamente anche n ˆ e Eˆ n dovranno essere paralleli. Pertanto, la condizione di conservazione della perpendicolarit`a, o deformazione angolare nulla, `e verificata per i versori che mantengono la direzione quando se ne moltiplicano le componenti per E. Questa condizione si esprime come: Eˆ n = εˆ n

(15.4)

` evidente l’analogia con il problema gi`a affrontato per il dove ε `e una quantit`a da valutarsi. E tensore di Cauchy nel capitolo 12 che conduce all’analisi spettrale della matrice. Seguendo lo stesso procedimento si possono ottenere le propriet`a del tensore E richiamate nei punti seguenti.

444

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

• Il tensore di deformazione ha 3 autovalori reali: ε1 , ε2 e ε3 che sono gli zeri dell’equazione caratteristica (eventualmente tutti o in parte coincidenti). Tali quantit`a sono ora chiamate deformazioni principali. • In corrispondenza di ognuna delle deformazioni principali `e identificabile una direzione principale, che `e l’autovettore associato, tale che: Eˆ ni = ε i n ˆ i con i = 1, 2, 3. • Due autovettori associati ad autovalori distinti sono perpendicolari: ε1 6= ε2 ⇒ n ˆ1 · n ˆ 2 = 0. • In ogni punto gli autovettori individuano tre direzioni mutuamente perpendicolari dette direzioni principali dello stato di deformazione. • Quando si verifica una coincidenza di autovalori si hanno infinite direzioni principali. • In un corpo soggetto a una trasformazione congruente non affine, le caratteristiche della deformazione, e in particolare le direzioni principali, generalmente cambiano da un punto a un altro. • Se si rappresenta il tensore nel sistema di riferimento che ha gli assi nelle direzioni principali, si ottiene la matrice diagonale:   ε1 0 0 ε2 0  (15.5) E= Sym ε3 • Il parallelepipedo elementare orientato con gli spigoli nelle direzioni principali si deforma conservando gli angoli retti. Concludiamo quindi con la seguente considerazione che permette di rappresentare nel modo pi` u semplice le propriet`a di ogni deformazione congruente: in ogni punto esiste sempre un parallelepipedo elementare, opportunamente orientato, la cui trasformazione consiste nella parte deformativa comprendente un allungamento o accorciamento degli spigoli che per`o restano mutuamente perpendicolari e nella parte rigida comprendente una traslazione pi` u una rotazione. Esempio 15.1: Analisi spettrale Determinare le deformazioni principali e perpendicolari dopo la trasformazione per il  300  E= Sym

le direzioni degli spigoli che si conservano seguente tensore di deformazione (in µε):  −40 120 −120 60  −80 

Gli autovalori del tensore sono: ε1 = −186.6,

ε2 = −49.15,

ε3 = 335.8

e le corrispondenti direzioni principali:     −0.221 −0.163 n ˆ 1 =  −0.722  , n ˆ 2 =  0.690  , 0.655 0.705



 0.961 n ˆ 3 =  −0.049  0.270

445

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Come ogni tensore del secondo ordine, anche il tensore di deformazione pu`o essere rappresentato sul piano di Mohr nel quale le combinazioni di tutte le deformazioni estensionali e angolari (in modulo e dimezzate) formano l’arbelo di Mohr. Esempio 15.2: Arbelo di Mohr delle deformazioni Rappresentare nel piano di Mohr lo stato di deformazione dell’esempio precedente e, con tale diagramma, determinare: a) la massima deformazione estensionale b) la massima deformazione angolare c) le direzioni in cui si manifesta la massima deformazione angolare.

γ /2 522.4 / 2

D

ε −186.6

−49.15

335.8

Figura 15.1: Arbelo di Mohr (valori in microepsilon)

La massima deformazione estensionale corrisponde all’autovalore maggiore: εmax = ε3 = 335.8 µε La massima deformazione angolare `e misurata dal diametro della pi` u estesa circonferenza di Mohr: γmax = ε3 − ε1 = 522.4 µε La deformazione angolare massima `e rappresentata dal punto D che appartiene alla circonferenza relativa a rotazioni del parallelepipedo attorno al secondo autovettore. Le direzioni che presentano la massima deformazione angolare sono quindi nel piano normale a n ˆ2 e formano angoli di 45◦ con le altre direzioni principali. Quindi: γmax = 2 |εmq | √

con: m ˆ =

2 2



(ˆ n1 + n ˆ 3 ) e qˆ =

2 2

(ˆ n1 − n ˆ 3 ).

15.1.2 Deformazioni di volume Il processo deformativo in genere produce variazioni di volume e quindi di densit`a locale del materiale. Il calcolo delle variazioni di volume `e immediato se si rappresenta la deformazione nel sistema principale (procedura per altro sempre applicabile). Dato che il parallelepipedo

446

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

elementare rimane retto, la variazione relativa di volume si ottiene in base alla definizione tramite la seguente relazione: εV =

dV ∗ − dV (1 + ε1 ) dx1 (1 + ε2 ) dx2 (1 + ε3 ) dx3 − dx1 dx2 dx3 = = dV dx1 dx2 dx3 = (1 + ε1 ) (1 + ε2 ) (1 + ε3 ) − 1

sviluppando il prodotto si ottiene: εV = ε1 + ε2 + ε3 + ε1 ε2 + ε1 ε3 + ε2 ε3 + ε1 ε2 ε3

(15.6)

Come `e stato dimostrato nel capitolo precedente, in ipotesi di piccole deformazioni, `e lecito trascurare i prodotti delle deformazioni rispetto ai valori delle deformazioni stesse, per cui si pu`o scrivere: εV = ε1 + ε2 + ε3 (15.7) ma dato che la traccia della matrice `e invariante per rotazione (`e il primo invariante principale) si pu`o scrivere anche: εV = ε11 + ε22 + ε33 (15.8) Pertanto: la deformazione di volume `e data dalla traccia della matrice di deformazione. In termini di funzione spostamento si ha quindi: εV =

∂u1 ∂u2 ∂u3 + + ∂x1 ∂x2 ∂x3

(15.9)

Esercizio 15.1: Espressione della deformazione di volume Verificare che la relazione (15.6) equivale alla relazione esatta dimostrata nel capitolo precedente:  εV = det I+∇~uT − 1 Nota. Bastano i termini diagonali del gradiente di spostamento. In base a una delle relazioni (15.7), (15.8) e (15.9) `e possibile associare a ogni parallelepipedo elementare la sua variazione relativa di volume. La variazione complessiva di volume che si produce in un corpo Ω in seguito a una deformazione si pu`o quindi ottenere integrando, sul dominio del corpo indeformato, la quantit`a εV : Z ∆V = V ∗ − V = εV dΩ (15.10) Ω

La possibilit`a di effettuare il calcolo del volume del corpo deformato a partire dalla geometria indeformata (che `e quindi nota) rappresenta un grande vantaggio operativo.

447

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Esempio 15.3: Variazioni di volume Determinare la variazione di volume dei seguenti corpi: a) il cubo di spigolo a posto nel primo ottante con vertice nell’origine e spigoli paralleli agli assi (figura 15.2(a)), b) il cilindro circolare retto del primo ottante avente raggio a altezza 2a asse parallelo a z e tangente ai piani xz e yz con una base sul piano xy (figura 15.2(b)). con il seguente campo di spostamento: xyz  −3 u = −z − 6 zy a − 4 a2 10  2 3 −3 v = x + 5 xa2 − 4 ya + 3 xz a 10  2 2 2 − 4 za + 3 ya2z 10−3 w = y + xz a2

z z

y

y

x

x (b)

(a)

Figura 15.2: Corpi di dimensioni finite prima della deformazione

La deformazione di volume si ottiene dalla relazione (15.9):   ∂u ∂v ∂w yz y xz z y2 εV (x, y, z) = + + = −4 2 − 8 + 2 2 − 8 + 3 2 10−3 ∂x ∂y ∂z a a a a a Risposta a) Per il cubo la variazione di volume `e: Za Za Za ∆V = εV (x, y, z) dxdydz = − 7.5 · 10−3 a3 0

0

0

Risposta b) Per il cilindro `e opportuno usare coordinate cilindriche r, θ e z con origine sull’asse del cilindro. La trasformazione di coordinate `e la seguente: x = a + r cos θ

e

y = a + r sin θ

e l’elemento infinitesimo di volume `e: dΩ = rdθdrdz. La variazione complessiva di volume diventa quindi: ! Z2a Za Z2π (a + r sin θ) z y (a + r cos θ) z z (a + r sin θ)2 ∆V = −4 −8 +2 −8 +3 rdθdrdz = a2 a a2 a a2 0

0

0

= −28.5 · 10−3 πa3

448

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

15.1.3 Deformazioni di linee Le variazioni di lunghezza di linee regolari, o al pi` u composte di tratti regolari, possono essere ottenute attraverso la parametrizzazione della linea (vedi appendice E). Con riferimento alla figura 15.3, consideriamo il caso in cui sia nota la parametrizzazione naturale di una linea Γ, ovvero le coordinate del generico punto P siano espresse in funzione dell’ascissa curvilinea s misurata lungo la linea stessa. La curva `e individuata da tre funzioni, che supponiamo sufficientemente regolari, con cui sono individuate le coordinate del generico punto P :   x (s) OP =  y (s)  . z (s) Il versore della tangente pu`o essere espresso in funzione di s come:

Γ*

z

P*

Γ

nˆ P s

y

O

ds P

x Figura 15.3: Curva regolare indeformata e deformata

  x (s) d d  y (s)  n ˆ (s) = OP = ds ds z (s) l’elemento infinitesimo di linea n ˆ ds dopo la deformazione assume una lunghezza che `e formalmente esprimibile come: ds∗ = [1 + εnn (s)] ds (15.11) dove εnn (s) = n ˆ T Eˆ n

(15.12)

`e la locale deformazione estensionale dell’elemento di linea, in genere anch’essa funzione della posizione di P e quindi di s. La lunghezza dell’intera linea deformata `e pertanto data da: Z Z ∗ ∗ l = ds = (1 + εnn (s)) ds Γ

Γ

Pertanto con parametrizzazione naturale la variazione complessiva di lunghezza della linea si ottiene con la relazione: Zl ∗ ∆l = l − l = εnn (s) ds (15.13) 0

449

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Esempio 15.4: Propriet`a geometriche di un quadrato deformato Dopo aver verificato che lo stato di deformazione piano: −3

E = 10

1 + 6 xy + a2 Sym

y3 a3

− 32 + x a

y 2a

2

2

+ 3x − 5xy 2a2 2 2a3 + 6 ay − 8 xa3y

!

definito sul quadrato di vertici A (0, 0), B (a, 0), C (a, a), D (0, a) di figura 15.4 sia congruente, determinare: a) la variazione di lunghezza del lato CD b) la variazione di lunghezza della diagonale BD c) la variazione del perimetro d) la variazione di lunghezza dell’arco di parabola con vertice in A e passante per C. y C

D

Ω

x A

B

Figura 15.4: Dominio quadrato

La congruenza si verifica dal soddisfacimento delle equazioni di Beltrami-Michell.

Risposta a) Il lato CD `e di immediata parametrizzazione: x = s e y = a con 0 6 s 6 a, e la deformazione estensionale coincide con la ε11 :    as a3 s εnn (s) = 10−3 1 + 6 2 + 3 = 10−3 2 + 6 a a a da cui: ∆lCD =

Za 

2+6

s  −3 10 ds =5 · 10−3 a a

0

Risposta b) √ √ √ Per la diagonale BD si ha: x = a − 22 s e y = 22 s con 0 6 s 6 2a. Anche in questo   √ −1 2 caso n ˆ= 2 non dipende da s, mentre la deformazione estensionale varia con s: 1 ! √ √ s s2 3 2 s3 T −3 εnn (s) = n ˆ Eˆ n = 10 1+2 2 +3 2 − a a 2 a3

450

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

e quindi: √ a Z 2

∆lBD =

−3

10

! √ √ √ s 3 2 s3 7 2 s2 ds = 1+2 2 +3 2 − · 10−3 a a a 2 a3 2

0

Risposta c) Per valutare la variazione del perimetro, si possono sommare le variazioni di lunghezza dei singoli lati (la curva `e infatti regolare a tratti). Il risultato `e: ∆lABCD = ∆lAB + ∆lBC + ∆lCD + ∆lDA = 10−3 (1 + 0 + 5 + 3) a = 9 · 10−3 a

Risposta d) Per la parabola `e conveniente la parametrizzazione cartesiana: y=

x2 a

la lunghezza del segmento elementare di curva si ottiene dalla relazione (vedi appendice E): s r  2 dy x2 ds = 1 + dx = 1 + 4 2 dx dx a da cui `e possibile trovare la lunghezza iniziale (non richiesta): s  2 Z Za dy dx = 1.479a l = ds = 1+ dx 0

Γ

Sempre   in funzione del parametro x determiniamo il versore tangente alla curva nel punto x2 x, a :   1 1 n ˆ (x) = q 2x 2 a 1 + 4 xa2 che, in questo caso, `e ovviamente funzione della posizione. La deformazione estensionale diventa:  4 6 x x 3 + 24 xa − 41 xa −3 1 − 6 a + 18 a εnn (x) = 10 2 1 + 4 xa da cui si ottiene: Z



Za

ds − l =

∆l = Γ

s εnn (x)

 1+

dy dx

2

dx =8.677 · 10−4 a

0

451

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Esempio 15.5: Lunghezza di una linea nello spazio Dato il seguente campo di deformazione: 

1−

E = 10−3 

α

x a

Sym

2 2+ 3 4 2

y a

 

determinare la variazione di lunghezza dell’arco di elica destra (figura 15.5) che si avvolge con passo p = a/2 su un cilindro con asse su z e raggio R = a. L’elica parte dal punto A (a, 0, 0) e termina nel punto B (a, 0, a/2). z B

s A

y

R

θ

x

Figura 15.5: Un passo di elica destrorsa

Parametrizzata nella coordinata angolare θ, l’elica si esprime come: x = a cos θ y = a sin θ θ z = a 4π con 0 6 θ 6 2π (si tratta di un passo completo). La lunghezza del segmento infinitesimo di curva indeformata, espresso in funzione del parametro `e dato da: r p 1 dθ ds = dx2 + dy 2 + dz 2 = a 1 + 16π 2 e il versore tangente locale:     dx − sin θ 1  1  cos θ  dy  = q n ˆ (θ) = ds 1 1 1 + 16π2 dz 4π Anche il tensore di deformazione dipende dal parametro:   1 − cos θ 2 2 + sin θ  3 4 E (θ) = 10−3  Sym 2 Da tutto ci`o: εnn (θ) = n ˆ (θ)T E (θ) n ˆ (θ) e quindi Z2π ∆l =

r εnn (θ) a 1 +

1 dθ =1.211 · 10−2 a 16π 2

0

Nota: l’integrazione `e stata eseguita applicando un semplice procedimento numerico con l’ausilio di un foglio elettronico.

452

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI

15.1.4 Deformazione di superfici Nei problemi piani la variazione di area di una regione si ottiene in modo analogo alla variazione di volume dei solidi. Infatti, un generico tensore di deformazione nel piano:   ε11 ε12 E= Sym ε22 pu`o sempre ridursi in forma diagonale:  E=

ε1 0 Sym ε2



per cui la variazione relativa di superficie (la deformazione d’area) `e data da: εA = (1 + ε1 ) (1 + ε2 ) − 1 = ε1 + ε2 + ε1 ε2 Pertanto per piccole deformazioni si pu`o scrivere: εA = ε1 + ε2 = ε11 + ε22 =

∂u ∂v + ∂x ∂y

(15.14)

Per una trasformazione congruente non affine la deformazione d’area dipende dalla posizione e la variazione complessiva di area di una regione piana Ω si ottiene per integrazione: Z ∗ ∆A = A − A = εA dxdy (15.15) Ω

Esempio 15.6: Variazione d’area di figure piane Dato il campo di spostamento nel piano: u = 10−3 (x + 2y − a4 xy + a42 x2 y) v = 10−3 (x − 3y + a23 x2 y 2 )

α

determinare la variazione dell’area e la deformazione superficiale media: a) del triangolo di vertici (0, 0) , (2a, 0) , (0, a) (figura 15.6(a)) b) del cerchio di raggio a e centro (a, 0) (figura 15.6(b)).

y

y

Ω

(a)

x

x

(b) Figura 15.6: Domini piani

453

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

Gli elementi diagonali del tensore di deformazione sono:   1 − a4 y + a82 xy ε12 −3 E = 10 Sym −3 + a43 x2 y da cui:

  2  x 2x 1 εA = −2 + 4y + 2 − 10−3 a3 a a

Risposta a) Per il triangolo la parametrizzazione cartesiana `e adeguata in quanto il dominio `e espresso dalle relazioni: 0 6 x 6 2a e 0 6 y 6 a − x2 . La variazione d’area si ottiene con il seguente integrale doppio:  2  Z2a a−x/2 Z  x 22 2x 1 −3 ∆A = 10 −2 + 4y dydx = − 10−3 a2 = −1.467 · 10−3 a2 + 2 − 3 a a a 15 0

0

Tenendo conto che l’area iniziale del triangolo era a2 , la deformazione superficiale media vale: ∆A = −1.467 · 10−3 hεA i = A

Risposta b) Per il cerchio `e pi` u comoda la parametrizzazione polare: x = a + r cos θ y = r sin θ dato che, nelle coordinate r, θ, il dominio si esprime semplicemente come: 0 6 r 6 a e 0 6 θ < 2π e l’elemento infinitesimo di area diventa: rdθdr. La variazione complessiva di area `e data da: −3

∆A = 10

  Za Z2π  1 2 1 2 −2 + 4r sin θ (a + r cos θ) + 2 (a + r cos θ) − rdθdr = a3 a a 0

0

∆A = −2 · 10−3 πa2 e quindi la superficiale media del cerchio vale: hεA i =

∆A = −2 · 10−3 A

Consideriamo ora il caso pi` u generale di una superficie che si sviluppa nello spazio come in figura 15.7. Il calcolo della variazione d’area `e analogo al caso precedente ma risulta un po’ pi` u complesso determinare la deformazione locale d’area in ogni punto della superficie e anche effettuare l’integrazione sul dominio. Come al solito assumeremo la superficie regolare (in questo caso differenziabile) quasi ovunque e quindi in ogni suo punto `e generalmente definito un unico

454

15.1. APPLICAZIONI DELLE PICCOLE DEFORMAZIONI







Figura 15.7: Superficie regolare che si sviluppa nello spazio

piano tangente. Determinato il versore normale al piano tangente n ˆ , si possono scegliere due direzioni rˆ e qˆ, perpendicolari tra loro e a n ˆ , che giacciono sul piano stesso. Rappresentando il tensore di deformazione nel sistema di versori n ˆ , rˆ e qˆ, `e immediato verificare la seguente relazione (sempre in ipotesi di piccole deformazioni): εA = εrr + εqq

(15.16)

Si pu`o perviene a un risultato analogo anche con un approccio diverso. Consideriamo un parallelepipedo elementare con una faccia (base) sul piano tangente e quindi con uno spigolo (altezza) in direzione n ˆ . Per questo calcolo non `e importante identificare le direzioni degli spigoli di base. La variazione relativa di volume del parallelepipedo, che si ottiene immediatamente come traccia del tensore di deformazione, pu`o essere espressa anche in funzione della variazione dell’area di base εA e della variazione dell’altezza del parallelepipedo εnn . Infatti, sempre in ipotesi di piccole deformazioni, vale la relazione: εV = (1 + εA ) (1 + εnn ) − 1 dove: εnn = n ˆ T Eˆ n Si ottiene pertanto la seguente espressione alternativa della relazione (15.16): εA = εV − εnn = ε11 + ε22 + ε33 − n ˆ T Eˆ n

(15.17)

Con questo procedimento la deformazione d’area `e valutata sulla base della conoscenza del solo versore normale e non `e richiesto alcun cambiamento di riferimento. Esempio 15.7: Variazione d’area di una superficie cilindrica Dato il campo di deformazione:  E = 10−3 

1−

x a

Sym

2 2+ 3 4 2

y a

 

determinare la variazione della superficie laterale del cilindro circolare retto (figura 15.8) avente raggio R = a altezza H = a/2 con asse su z e base sul piano xy e il corrispondente valor medio della deformazione superficiale.

455

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

z

a/2

θ

y

a x Figura 15.8

In questo caso sono comode le coordinate cilindriche: x = r cos θ y = r sin θ z=z nelle quali la superficie in esame si esprime come: r = a, 0 6 θ < 2π, 0 6 z 6 a/2, l’elemento infinitesimo di superficie `e dato da adθdz e il versore normale alla superficie, indipendente da z, vale:   cos θ n ˆ =  sin θ  0 La deformazione d’area `e quindi data dall’equazione (15.17):     1 − cos θ 2 2 + sin θ cos θ    sin θ  = 3 4 εA = 10−3 6 − cos θ − cos θ sin θ 0  Sym i 2 0 h = 10−3 3 − cos θ + 2 (cos θ)2 − 4 sin θ cos θ + (cos θ)3

La variazione complessiva d’area del cilindro `e quindi: ∆A = 10−3

Za/2Z2π h 0

i 3 − cos θ + 2 (cos θ)2 − 4 sin θ cos θ + (cos θ)3 adθdz = 4 · 10−3 πa2

0

e la deformazione media: hεA i =

∆A = 4 · 10−3 A

15.2 Deformazione di un elemento che subisce un incurvamento Nello studio degli elementi strutturali monodimensionali e bidimensionali in genere gli effetti deformativi pi` u significativi sono connessi con le caratteristiche flessionali che, come anticipato

456

15.2. DEFORMAZIONE DI UN ELEMENTO CHE SUBISCE UN INCURVAMENTO

` quindi utile analizzare la variazione nel capitolo 9, tendono a incurvare l’elemento stesso. E di configurazione prodotta in un incurvamento da un punto di vista puramente geometrico e quindi prescindendo dalla causa che lo produce. Consideriamo un corpo piano avente forma rettangolare (una striscia) con lunghezza l e altezza h il cui contorno `e rappresentato nella figura 15.9 a tratto pi` u spesso nella configurazione iniziale Ω e a tratto sottile in quella deformata Ω∗ . α

y C

θ R P* H* P

O

Ω* h

x

H

l

Ω

Figura 15.9: Elemento piano incurvato

` possibile descrivere un incurvamento (o piegatura) nel modo seguente: E • i segmenti della striscia che originariamente erano paralleli all’asse x assumono la forma di archi di circonferenze tutte con centro C (si noti che, volendo rappresentare C correttamente in scala, la figura richiederebbe un foglio molto pi` u alto) • ogni elemento che originariamente giaceva sull’asse x rimane della stessa lunghezza, questo significa che ogni parte dell’asse della striscia non subisce allungamenti o accorciamenti • `e chiamato R il raggio dell’arco di circonferenza che corrisponde all’asse deformato della striscia (per il punto precedente la lunghezza di tale arco `e l) • i segmenti originariamente paralleli a y rimangono segmenti e dopo l’incurvamento appartengono a rette convergenti in a C • ogni elemento di linea che originariamente aveva direzione y, indipendentemente dalla sua posizione, conserva la sua lunghezza, di conseguenza il segmento P ∗ H ∗ ha la stessa lunghezza di P H. L’esame qualitativo della variazione di configurazione mostra che: • la trasformazione non `e affine (`e sufficiente osservare che alcuni segmenti sono trasformati in archi di circonferenza)

457

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

• i segmenti originariamente paralleli a x collocati nella regione in cui y > 0 si accorciano, mentre quelli con y < 0 si allungano, in generale quindi `e prevedibile che si manifesti nella striscia una componente deformativa estensionale assiale variabile con la distanza del punto considerato dall’asse x, ovvero in simboli: εxx = εxx (y) • dato che i segmenti originariamente verticali non variano la lunghezza: εyy = 0 • tutte le coppie di segmenti infinitesimi originariamente orientati come x e y diventano paralleli rispettivamente alla circonferenza e al raggio locali, quindi l’angolo retto si conserva e pertanto: εxy = 0. La trasformazione prodotta `e quindi caratterizzabile dal seguente campo di deformazione (piano):   εxx (y) 0 D= (15.18) 0 0 Per esplicitare la funzione εxx (y), `e necessario considerare il campo di spostamento. Dato un punto generico P (x, y) del corpo e quindi con 0 6 x 6 l e − h2 6 y 6 h2 , chiamato θ l’angolo OCP ∗ , vale la relazione: x θ= (15.19) R Si pu`o osservare che l’angolo θ misura di quanto l’asse verticale che passa per P ruota in conseguenza della piegatura della striscia e anche l’inclinazione locale (rispetto all’asse x) della circonferenza di centro C che passa per P ∗ . Per un generico punto del dominio vale la relazione: 0 6 θ 6 Rl . Tenendo conto che:       x R sin θ −y sin θ ∗ ∗ ∗ , OH = e H P = OP = y R (1 − cos θ) y cos θ il campo di spostamento P P ∗ = OH ∗ + H ∗ P ∗ − OP `e esprimibile come: u (x, y) = (R − y) sin θ − x v (x, y) = (R − y) (1 − cos θ)

(15.20)

Le ipotesi di corpo poco deformabile, che impongono piccoli spostamenti e piccole deformazioni, si traducono per il caso in esame nelle seguenti condizioni: • gli spostamenti sono piccoli se la barretta `e incurvata su un cilindro di grande raggio, quindi se: R  l • le deformazioni sono piccole se i segmenti orizzontali non sono eccessivamente lontani dall’asse, quindi se l’estensione verticale della striscia `e contenuta: h  l. Sotto queste condizioni (h  l  R), tutti gli angoli di inclinazione sono quindi piccoli: θ  1, per cui `e consentito sviluppare le funzioni trigonometriche dell’angolo (15.20) in serie di Taylor e limitarsi a considerare i primi termini. Risulta quindi: u (x, y) = (R − y) θ − x 2 v (x, y) = R θ2 e, tenendo conto della relazione (15.19), si ottiene: u (x, y) = −yθ = − xy R 2 x2 v (x, y) = R θ2 = 2R

458

(15.21)

15.2. DEFORMAZIONE DI UN ELEMENTO CHE SUBISCE UN INCURVAMENTO

Possiamo inoltre approssimare D con E e quindi ottenere la deformazione come parte simmetrica del gradiente di spostamento:  y  −R 0 E= (15.22) 0 0 In questo modo `e dimostrato che l’incurvamento (se piccolo) della striscia risulta effettivamente caratterizzato da un campo di deformazione in cui l’unica componente non nulla `e la deformazione estensionale assiale. Si verifica inoltre che la εxx ha un gradiente costante in direzione trasversale: y εxx = − (15.23) R L’esempio seguente mostra un applicazione del problema analizzato. Esempio 15.8: Barretta incurvata Una barretta di plexiglass avente sezione quadrata con lato a = 4 mm e lunghezza l = 150 mm viene fatta aderire (senza stirare o comprimere la sua fibra centrale) alla superficie esterna di un rullo di acciaio avente diametro D = 1.7 m. Stimare la rotazione relativa delle sezioni di estremit`a della barretta e la massima deformazione estensionale a cui `e sottoposto il materiale.  Con sufficiente approssimazione possiamo assumere che la barretta si deformi (almeno nel piano normale all’asse del rullo) con modalit`a analoghe a quelle descritte nel paragrafo. Non esercitando alcuna azione che allunga o accorcia la barretta, possiamo assumere che l’asse conservi la dimensione originaria e che la sezione rimanga quadrata di lato a (quest’ultima ipotesi non `e riscontrabile sperimentalmente ma si pu`o verificare che gli effetti prodotti della variazione di forma della sezione non sono significativi per le valutazioni richieste). Il raggio di curvatura della linea d’asse della barretta vale pertanto: R=

D a + = 852 mm 2 2

l’angolo di rotazione relativo delle sezioni di estremit`a `e quindi dato da: l = 0.176 (= 10◦ ) R

θmax =

L’angolo non `e proprio piccolo perch´e si possa accettare senza riserve l’ipotesi di corpo poco deformato, tuttavia procediamo con l’approssimazione: εxx = −

y 852

il valore massimo della deformazione si manifesta nei punti pi` u lontani dall’asse della a barretta: y = − 2 dove si ha: εmax =

a = 2.347 · 10−3 2R

I risultati del precedente esempio possono essere generalizzati con le seguenti considerazioni. • Il processo deformativo dell’incurvamento `e caratterizzato da un campo di deformazione che, nel sistema di riferimento adottato, ha la sola componente non nulla εxx .

459

15. ANALISI DI CORPI DEFORMATI

• Il campo di deformazione non `e uniforme (infatti la trasformazione non `e affine) ma `e funzione della coordinata trasversale y. • In ogni punto P l’unica deformazione estensionale significativa `e nella direzione dell’asse della barretta e risulta tanto pi` u intensa quanto pi` u il punto in esame `e lontano dalla linea centrale. • La linea centrale non subisce allungamenti o accorciamenti, per questo `e chiamata linea neutra (neutral line). • La deformazione estensionale `e legata alla distanza del punto dalla linea neutra da una semplice legge di proporzionalit`a diretta, il valore assoluto del coefficiente di proporzionalit`a `e il reciproco del raggio di curvatura della linea neutra. • Il segno meno che compare nella relazione (15.23) si giustifica considerando che i punti con y > 0 subiscono una contrazione e i punti con y < 0 una estensione. Come descritto nell’appendice E, la curvatura di una linea, quantit`a che sar`a indicata generalmente con k, `e data in modulo dal reciproco del raggio di curvatura. La curvatura `e uno scalare finito che caratterizza completamente la forma di un tratto infinitesimo di curva regolare, compreso, come caso limite, anche un tratto rettilineo che ha curvatura nulla k = 0. Inoltre, `e adottata la convenzione di attribuire alla curvatura di una linea piana parametrizzata cartesianamente il segno della componente trasversale y del raggio di curvatura. Nell’esempio di figura 15.9 il raggio di curvatura CP ∗ `e controverso a y per cui vale la relazione: k=−

1 R

L’espressione generale che fornisce la deformazione estensionale in una striscia il cui asse `e sottoposto a una curvatura k `e quindi, in modulo e segno, la seguente: εxx = k · y

(15.24)

La precedente relazione `e valida (in modulo e segno) anche se il centro di curvatura C ha ordinata negativa (si suggerisce al lettore di verificarlo considerando i segni delle varie quantit`a). Possiamo quindi concludere che, in presenza di un gradiente di deformazione estensionale costante dato dalla relazione (15.24), il coefficiente moltiplicativo della coordinata trasversale y pu`o essere interpretato come il reciproco del raggio di curvatura, con il segno corretto stabilito dalla convenzione, della linea deformata che prima della piegatura aveva equazione y = 0.

15.3 Conservazione delle sezioni piane Il processo deformativo descritto e analizzato nel precedente paragrafo pu`o essere considerato il pi` u semplice tra le trasformazioni non affini in grande poich´e presenta una sola componente deformativa non nulla descritta da una dipendenza lineare da una coordinata cartesiana. Abbiamo osservato nel precedente capitolo che un tale campo di deformazione soddisfa le equazioni di congruenza per qualunque valore della curvatura k. Il processo deformativo descritto, basato su considerazioni di tipo esclusivamente geometrico, non richiede ipotesi sul comportamento del materiale, pertanto le condizioni che portano alla reazione (15.24) sono molto generali. In effetti si verifica che la relazione (15.24) caratterizza l’incurvamento congruente per vari tipi di materiale (elastico e non elastico) ed `e applicabile anche in situazioni pi` u complesse con materiali che hanno propriet`a non omogenee (per esempio negli stratificati).

460

15.3. CONSERVAZIONE DELLE SEZIONI PIANE

Per questa generalit`a, la relazione di congruenza (15.24) `e assunta come modello geometrico generale nell’analisi di componenti strutturali inflessi. Si verifica infatti che, anche per inflessioni particolari in cui la relazione (15.24) non risulta perfettamente soddisfatta, nondimeno riesce a cogliere la parte pi` u significativa del processo deformativo stesso. Nel caso di una trave, il processo deformativo descritto dalla relazione (15.24) prevede che le sezioni rimangano piane dopo la deformazione e che l’asse deformato sia sempre localmente normale alla sezione stessa. Assumere che un trave si deformi nel rispetto di tali condizioni si indica come ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli o ipotesi della conservazione delle sezioni piane perpendicolari all’asse. Nella sua forma pi` u generale per un problema piano di travi, l’ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli prevede che la deformazione assiale dei punti della sezione sia espressa dalla seguente relazione: εzz = ky + e

(15.25)

in cui k e e sono quantit`a che possono dipendere solo dall’ascissa curvilinea s della trave e quindi sono comuni a tutti i punti di ogni sezione. L’interpretazione geometrica dei due parametri della relazione (15.25), almeno nell’ambito dei corpi poco deformabili, `e immediata. Nel caso in cui e = 0, la formula di Eulero-Bernoulli diventa: εzz = ky che `e identica alla relazione (15.24), e quindi k rappresenta la curvatura (con segno) della α linea deformata che prima dell’incurvamento aveva equazione y = 0 ovvero `e la curvatura dell’asse deformato della trave. Nella figura 15.10 sono mostrati gli schemi che permettono di ricordare la convenzione sui segni delle curvature per le travi. Se, viceversa, k = 0 la C

k >0

Ω*

k 0 (estensione) • ε˜ > εzz per ε˜ < 0 (contrazione)

466

15.4. TRASFORMAZIONI DEFORMATIVE INTENSE (*)

• per deformazioni piccole l∗ ∼ = l i due quantificatori tendono a coincidere:   l∗ l∗ − l + l l∗ − l ∼ l∗ − l ε˜ = ln = ln = ln 1 + = εzz = l l l l Quando |ε| < 10−2 i due quantificatori sono indistinguibili ai fini pratici.

15.4.3 Grandi spostamenti e grandi deformazioni Quando si manifestano deformazioni plastiche in zone di dimensioni relativamente estese rispetto alla struttura, sia gli spostamenti sia i gradienti di spostamento sono significativi. Esempi si trovano nel collasso plastico di certi elementi strutturali (tipicamente gli assorbitori d’urto) o in alcuni processi tecnologici quali imbutiture profonde o stampaggi. I problemi che derivano dall’analisi di questi fenomeni sono marcatamente del secondo tipo perch´e caratterizzati da molte e significative non linearit`a che, in generale, sono connesse a: • modifica sostanziale della geometria sotto carico rispetto alla configurazione di partenza (grandi spostamenti), • complesso legame tra il gradiente di spostamento e le deformazioni (elevati gradienti di spostamento) • fenomeni di contatto (monolateralit`a dei vincoli e attriti) • comportamento costitutivo del materiale (plastico o viscoso). Per affrontare in modo operativo l’insieme di queste non linearit`a `e di fatto necessario l’impiego del computer e di programmi dedicati che effettuano una analisi progressiva (lineare a tratti). Anche per queste analisi la deformazione `e in genere descritta in termini di true-strain.

467

Capitolo 16

La legge costitutiva Il capitolo tratta la legge costitutiva che rappresenta la relazione che lega lo stato di tensione allo stato di deformazione. Nella prima parte `e esaminato il contributo energetico delle azioni interne che `e fondamentale per la comprensione della meccanica dei corpi deformabili. Dopo aver richiamato il problema mediante l’analisi di semplici sistemi deformabili discreti, `e affrontato il caso dei corpi deformabili continui. In particolare `e evidenziato il legame energetico generale che sussiste tra i tensori di tensione e di deformazione e dimostrato che la densit` a del lavoro sviluppato dalle forze interne si ottiene come un particolare prodotto tra tali tensori. Nella parte finale del capitolo `e introdotto il modello costitutivo pi` u semplice per un materiale solido deformabile mediante la definizione delle propriet`a di omogeneit`a di isotropia e di elasticit`a lineare.

16.1 Il lavoro delle forze agenti su corpi deformabili discreti 16.1.1 Lavoro delle forze esterne e lavoro delle forze interne In ogni sistema di punti materiali, rigido o deformabile, discreto o continuo, il teorema delle forze vive impone che il lavoro complessivo fatto da tutte le forze agenti, interne ed esterne, sia uguale alla variazione complessiva di energia cinetica. Esaminiamo alcune conseguenze del teorema delle forze vive in situazioni di specifico interesse per il corso. Consideriamo per esempio un corpo rigido, vincolato in modo almeno isostatico, sul quale venga applicato un caricamento progressivo, ovvero tale per cui tutti i carichi siano portati gradualmente dalla condizione iniziale, in cui sono nulli, al loro valore finale. Dato che nessun punto del corpo `e soggetto a movimenti, l’energia cinetica complessiva del corpo non cambia a seguito del caricamento (nel sistema di riferimento solidale al corpo l’energia cinetica `e identicamente nulla) e quindi le forze agenti complessivamente non fanno lavoro. Inoltre, sempre per l’infinta rigidezza e la staticit` a del problema, anche i punti di applicazione dei carichi non subiscono spostamenti, per cui i lavori fatti dalle singole forze esterne sono tutti identicamente nulli. Dal teorema delle forze vive si ricava quindi che anche le forze interne fanno, in questo caso, lavoro nullo. Per giustificare in modo diretto l’ultima conclusione, particolarmente interessante per i nostri scopi, consideriamo il complesso delle forze interne che si manifesta durante il caricamento. Come `e noto: • le forze interne sono necessariamente in ogni circostanza un sistema autoequilibrato, indipendentemente dal fatto che il corpo sia infintamente rigido e si trovi o meno in equilibrio statico • un sistema autoequilibrato di forze comunque complesso `e sempre costituito da un insieme

469

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

(anche infinito) di coppie di braccio nullo con le singole forze applicate ai punti materiali mutuamente interagenti appartenenti al corpo in esame. Riprendendo alcuni risultati presentati nel capitolo 1, verifichiamo che una coppia di braccio nullo fa lavoro se i punti su cui sono applicate le due forze hanno uno spostamento relativo nella direzione della retta congiungente i punti, e quindi se i punti di applicazione si avvicinano oppure si allontanano. Con riferimento allo schema di figura 16.1, consideriamo due punti A e B che interagiscono in modo repulsivo e disponiamo, per comodit`a, l’asse x sulla loro congiungente. Per il terzo principio, la coppia delle forze di interazione si esprime come: F~AB = F ˆi ;

F~BA = −F ˆi

A seguito di un generico spostamento virtuale dei punti, il corrispondente lavoro virtuale complessivo fatto dalle forze `e dato dalla relazione: δL = −F · δxA + F · δxB = F · (δxB − δxA ) = F · δ (xB − xA ) Nell’esempio in esame xA < xB e l’interazione `e repulsiva (F > 0) per cui le forze interne fanno lavoro positivo se δ (xA − xB ) > 0 ovvero se i punti si allontanano. La relazione precedente ha per`o validit`a generale ed `e corretta anche in senso algebrico, pertanto il segno del lavoro `e positivo se la coppia di forze di iterazione `e equiversa al moto relativo dei punti e negativo se `e controversa. Talvolta pu`o essere conveniente determinare il segno del lavoro considerando il segno della potenza sviluppata dalla coppia. A tale scopo consideriamo un sistema di riferimento con origine in uno dei punti, per esempio A, dato che in tale sistema A `e necessariamente fermo, la potenza sviluppata dalla forza F~BA agente su tale punto `e identicamente nulla e la potenza complessiva sviluppata dalla coppia equivale alla potenza sviluppata dall’altra forza. Pertanto `e sufficiente calcolare il prodotto scalare, con il suo segno, tra la forza F~AB agente su B e la velocit`a relativa di B rispetto ad A, ovvero ~vB − ~vA . Nel caso in figura 16.1 si ha quindi: W =F

d (xB − xA ) dt

Il lettore verifichi come esercizio che la stessa formula `e ottenuta anche da un osservatore solidale con il punto B e da qualsiasi altro osservatore (fisso o mobile, inerziale o meno). La potenza sviluppata dalla coppia di iterazione risulta quindi indipendente dal sistema di riferimento.

G FBA

A

B

G FAB

x

Figura 16.1: Interazione repulsiva tra due punti materiali

In un corpo rigido, sia che esso si trovi o meno in equilibrio statico, ogni coppia di punti ha distanza mutua fissa e quindi velocit`a relativa nulla, pertanto le forze interne non possono sviluppare potenza e quindi non fanno lavoro. Per un corpo rigido l’energia cinetica pu`o pertanto essere variata solo se le forze esterne fanno lavoro. Perch´e le forze esterne possano fare lavoro il corpo rigido non deve quindi essere in condizioni di isostaticit`a ma deve potersi muovere sotto carico. Il problema del lavoro fatto delle forze `e pi` u interessante per un corpo deformabile, dato che in generale: • le forze esterne possono fare lavoro, quantit`a che sar`a indicata come: Lext ,

470

16.1. IL LAVORO DELLE FORZE AGENTI SU CORPI DEFORMABILI DISCRETI

• le forze interne possono fare lavoro: Lint , • l’energia cinetica pu`o variare: ∆K. Il teorema delle forze vive si pu`o esplicitare come: Ltot = Lext + Lint = ∆K relazione che evidenzia il contributo fornito dalle forze interne e dalle forze esterne nella modifica dell’energia cinetica dei punti costituenti il corpo. L’aspetto interessante per gli argomenti del corso consiste nella circostanza che in un corpo deformabile i lavori Lext e Lint sono entrambi significativi anche se il corpo `e vincolato in modo da risultare isostatico (o anche iperstatico). Per un corpo deformabile iso o ipertaticamente vincolato, inoltre, anche l’energia cinetica pu`o variare perch´e si possono manifestare movimenti di parti del corpo pur nel rispetto delle condizioni di vincolo. Tuttavia, se si considerano caricamenti quasi statici (vedi capitolo 11), la variazione di energia cinetica `e trascurabile anche in un corpo deformabile, per cui, come conseguenza del teorema delle forze vive, si ottiene la seguente importante relazione: Lext + Lint = 0 (16.1) che si pu` o esprimere come: nel caricamento quasi statico di un corpo deformabile, pi` u in generale di una struttura di corpi deformabili, la somma del lavoro fatto dalle forze esterne e del lavoro fatto dalle forze interne `e costantemente nullo. Per ottenere la relazione (16.1) non `e stata fatta alcuna ipotesi sulla natura delle forze interne o sul tipo di processo deformativo, pertanto per un caricamento quasi statico la legge precedente `e universale. Nel seguito sono discusse alcune applicazioni a sistemi deformabili discreti.

16.1.2 Lavori fatti da forze interne dissipative e conservative in sistemi discreti Nel prossimo esempio `e esaminato un sistema materiale con un numero finito di gradi di libert`a nel quale le forze interne che fanno lavoro, dette anche energeticamente attive, sono dovute all’attrito e quindi sono dissipative. Esempio 16.1: Forze interne dissipative Il corpo in esame, rappresentato dal cilindro telescopico di figura 16.2, `e costituito da tre tubi rigidi coassiali che, a causa dell’attrito sulle tenute, scorrono se si applica una forza assiale maggiore o uguale a F = 3 kN. Per forze assiali di intensit`a inferiore, l’attrito statico sulle tenute impedisce lo scorrimento e rende il sistema rigido. Il cilindro telescopico `e collocato in una morsa la cui ganascia mobile B viene avvicinata lentamente alla ganascia fissa A di 2s = 20 mm. Calcolare separatamente: a) il lavoro fatto dalle forze esterne, b) il lavoro fatto dalle forze interne.

471

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

A

1

C

2

D

B

3

(a) 2s s

s

(b) Figura 16.2: Sistema discreto con forze interne di natura dissipativa: a) configurazione iniziale e b) configurazione al termine dall’avvicinamento quasi statico prodotto delle ganasce

Risposta a) Data la lentezza del movimento, `e lecito trascurare effetti inerziali, pertanto, in condizioni di scorrimento, la morsa esercita sul cilindro una coppia di forze di braccio nullo ognuna avente intensit`a pari a 3 kN. Per calcolare il lavoro fatto dalle forze esterne, consideriamo un sistema di riferimento solidale alla ganascia fissa A. Il contributo energetico della forza RA esercitata dalla ganascia A `e nullo e il calcolo pu`o limitarsi al lavoro fatto dalla forza esercitata dalla ganascia B: Lext = F · 2s = 3000 · 0.02 = 60 J ` lasciata come esercizio la verifica che il risultato non cambia se si asume un sistema di E riferimento solidale alla ganascia mobile. Il lavoro complessivo delle forze esterne `e quindi pari al prodotto tra l’intensit`a comune delle forze esercitate dalle ganasce (che rimane inalterata durante il moto) e la variazione relativa della distanza dei punti di applicazione. La coppia che rappresenta le forze esterne `e compressiva e, come prevedibile, fa lavoro positivo perch´e i punti di applicazione si avvicinano. La velocit`a relativa dei punti di applicazione delle forze `e equiversa all’azione della coppia delle forze esterne (se si adotta la convenzione della meccanica dei solidi che deriva dalla normale esterna, sono entrambe quantit`a negative) per cui anche la potenza istantanea delle foze esterne `e positiva. Intuitivamente il segno positivo del lavoro si giustifica in quanto il moto dei punti di applicazione asseconda il verso della spinta, ovvero l’azione esercitata dalle ganasce tende a compattare il cilindro telescopico che in effetti si accorcia.

Risposta b) Per il calcolo del lavoro delle forze interne `e necessario considerare l’interazione dei punti in corrispondenza delle zone di scorrimento nelle quali si manifesta l’attrito. Esaminiamo in particolare la guarnizione C.

472

16.1. IL LAVORO DELLE FORZE AGENTI SU CORPI DEFORMABILI DISCRETI

F

C1 C2

x

F

C1

x

G v21 C2

(a)

(b)

Figura 16.3: Schema dell’interazione in C: a) forze mutue dei punti appartenenti ai due sfili in movimento mutuo (la guarnizione non `e rappresentata), b) velocit` a relativa del punto C2 visto da C1

Come mostra la figura 16.3, il moto relativo dei due punti interagenti `e controverso alla coppia delle forze di attrito che su di essi si manifesta. Le due forze che attraverso la guarnizione sono esercitate sui punti C1 e C2 tenderebbe infatti a farli scorrere uno rispetto all’altro nel verso opposto rispetto al moto effettivamente prodotto, per cui la potenza sviluppata `e negativa. Si verifica quindi una situazione analoga a quella di due punti soggetti a una interazione repulsiva costretti ad avvicinarsi (oppure due punti che si attraggono e sono allontanati). In questo caso, la coincidenza che in ogni istante si verifica tra le posizioni assiali dei punti interagenti C1 e C2 rende pi` u agevole identificare il segno della potenza considerando la velocit`a relativa piuttosto che il segno del lavoro considerando lo spostamento relativo. Il lavoro complessivo fatto delle forze interne Lint `e dato dalla somma algebrica dei lavori fatti dalle interazioni di attrito sui due sfili che scorrono: Lint = (−F · s) + (−F · s) = −60 J Nel sistema in esame vi sono molte altre coppie di braccio nullo che insieme definiscono tutte le forze interne, in particolare le interazioni elettromagnetiche che si manifestano all’interno dei singoli sfili. Tali interazioni agiscono per`o su parti rigide e il loro contributo al lavoro `e quindi nullo. Nel prossimo esempio `e considerato un altro sistema discreto non rigido nel quale le forze interne sono prodotte dall’azione di molle elastiche ideali (forze interne conservative). Esempio 16.2: Forze interne conservative Verificare la relazione (16.1) per un sistema costituito da tre masse A, B e C collocate su un piano orizzontale senza attrito e collegate da molle ideali (k1 = 2k2 = 4 N/mm) con A vincolata al telaio. All’inizio le molle sono nella configurazione naturale e il caricamento quasi statico consiste nell’applicazione di una forza orizzontale Q al punto C fino al valore finale QF = 120 N.

473

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

A

k1

A*

B k2

C

ˆj iˆ

C*

B*

(a)

QF (b)

Figura 16.4: Corpo deformabile elastico discreto: a) nella configurazione di partenza e b) nella configurazione di equilibrio al raggiungimento del valore finale del carico.

In questo esempio le molle non sono considerate corpi costituenti la struttura deformabile, in effetti sono assunte ideali e quindi senza massa, e costituiscono il mezzo fisico con cui si pu`o manifestare l’interazione tra le coppie di punti A, B e C che costituiscono il corpo discreto stesso (interazione elastica). Durante il caricamento quasi statico, tutte le forze (interne ed esterne) variano per cui il calcolo dei lavori deve essere eseguito tramite integrazione. Quando le forze variano `e spesso utile distinguere il loro valore corrente dal valore finale. A tale scopo sar`a usato il pedice F (che indica Finale) per identificare i valori delle grandezze (forze e spostamenti) raggiunti al termine del caricamento, mentre i simboli senza pedice rappresentano i valori durante il caricamento. Quindi la forza applicata sar`a: 0 6 Q 6 QF , lo spostamento del punto B: 0 6 uB 6 uBF , ecc. . . . Gli spostamenti finali dei punti B e C valgono rispettivamente: uBF = |BB ∗ | = uCF = |CC ∗ | =

QF = 30 mm k1

QF QF + = 90 mm k1 k2

Poich´e si tratta di un sistema elastico ideale in condizioni quasi statiche, lo spostamento uC ∈ [0, uCF ] del punto C cresce proporzionalmente alla forza esterna Q, e il valore corrente della forza pu`o essere espresso in funzione dello spostamento corrente dell’estremo C semplicemente come: Q (uC ) = QF uuCF . Il lavoro fatto dalle forze esterne `e quindi dato da: u ZCF

Lext =

QF QF u2CF QF uCF uC duC = = = 5.4 J uCF uCF 2 2

0

Per calcolare il lavoro fatto dalle forze interne `e necessario considerare le azioni esercitate tra le masse tramite gli elementi deformabili, dato che le forze he agiscono all’interno delle masse rigide non fanno lavoro. Consideriamo, per esempio, le forze che si scambiano i punti B e C e il relativo schema di corpo libero durante il processo deformativo. Come illustrato nella figura16.5, in virt` u del terzo principio, le forze scambiate dai punti B e C per effetto della molla 2 sono opposte a quelle applicate sugli estremi della molla stessa.

474

16.1. IL LAVORO DELLE FORZE AGENTI SU CORPI DEFORMABILI DISCRETI

B

C

Q

B

Q

C

Q QF

QF

Q

QF

QF

Figura 16.5: Tre fasi del processo deformativo: a) schema delle forze interne esercitate sui punti B e C e b) forze applicate alla molla di connessione.

Calcoliamo il lavoro fatto dalle forze di interazione tra B e C che `e quindi dovuto alla molla 2 e che, per questo, chiamiamo Lint2 . Assumiamo un sistema di riferimento solidale a B, anche in questo caso peraltro la scelta del sistema di riferimento non ha effetti sul risultato. La forza applicata in B non fa lavoro ed `e sufficiente determinare il lavoro fatto dalla forza applicata dalla molla 2 in C. Lo spostamento che interviene nel calcolo (spostamento di C rispetto a B), che per semplicit`a di notazione indichiamo con u = uC − uB , coincide con l’allungamento della molla 2. Il valore finale dell’allungamento vale: uF = uCF −uBF = 60 mm. Durante il caricamento, il modulo della forza di interazione cresce proporzionalmente all’allungamento u per cui, in base alla definizione, il lavoro complessivo fatto dalle forze che agiscono sui punti B e C `e dato da: ZuF −QF

Lint2 =

u −QF (uCF − uBF ) du = = −3.6 J uF 2

0

Analogamento si pu`o ottenere il lavoro fatto dalle forze interne agenti sui punti A e B connessi dalla molla 1: u ZBF

−QF

Lint1 =

uB −QF uBF duB = = −1.8 J uBF 2

0

Il segno negativo di entrambi i contributi del alvoro interno `e coerente con la circostanza che le molle esercitano forze attrattive su punti in allontanamento. In effetti la molla elastica ideale quando `e sollecitata a partire dalla condizione di riposo reagisce opponendosi alla causa che cerca di alterarne la dimensione. Con riferimento all’esempio 16.2 precedente, possiamo osservare che il lavoro fatto dalle forze applicate sulle molle `e invece positivo e vale complessivamente 5.6 J. Come previsto, il lavoro fatto dalle forze esterne `e quindi uguale alla somma dei lavori fatti dalle forze agenti sulle molle. Un analogo ragionamento vale anche per il cilindro con attrito dell’esempio 16.1: il lavoro delle forze esterne `e uguale alla somma dei lavori fatti per far scorrere le single coppie di sfili. Queste considerazioni giustificano la seguente conclusione che ha validit`a generale: in un caricamento quasi statico il lavoro fatto dalle forze esterne si ripartisce nel corpo sotto forma di lavori parziali che modificano la posizione relativa dei punti. Nel caso di forze interne dissipative il lavoro fatto per variare la configurazione dei punti

475

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

risulta perduto dal punto di vista meccanico, viceversa, se le forze interne sono conservative, tale lavoro pu`o essere recuperato. La ripartizione del lavoro complessivo fatto dalle forze esterne nelle varie zone del corpo dipende dalla natura del corpo stesso e dalle sue caratteristiche locali di deformabilit`a, come dimostra l’esempio 16.2 in cui il lavoro sulle due molle `e diverso. Nel prossimo paragrafo queste considerazione saranno estese ai sistemi continui. Esercizio 16.1: Segno dei lavori In entrambi gli esempi precedenti 16.1 e 16.2, invertire il verso delle forze esterne e verificare che valgono lo stesso le relazioni: a) Lext = −Lint b) Lext > 0

16.2 Forze interne sui continui deformabili 16.2.1 Lavoro virtuale fatto delle tensioni sul parallelepipedo elementare Nei sistemi continui, le interazioni interne (elettromagnetiche a corto raggio) sono quantificate in ogni posizione del corpo dal tensore di Cauchy. Analogamente ai sistemi discreti, anche per i continui le interazioni interne non fanno lavoro se non sono modificate le distanze relative delle facce del parallelepipedo elementare su cui le componenti di tensione sono esercitate, pertanto il lavoro fatto delle tensioni `e nullo se il parallelepipedo subisce un movimento rigido. Le tensioni sono quindi energeticamente attive solo in presenza di una deformazione del parallelepipedo elementare. Analogamente agli esempi elementari del precedente paragrafo, per quanto riguarda la definizione e il segno dei lavori `e opportuno tener conto che, per il parallelepipedo elementare le tensioni rappresentano le forze esterne significative (le altre forze esterne sono di volume e quindi infinitesime rispetto alle azioni superficiali). Pertanto si conclude che: in un caricamento quasi statico, il lavoro fatto dalle forze interne, che sono attive dentro il parallelepipedo elementare, `e l’opposto del lavoro fatto dalle tensioni. ` importante sottolineare che tale relazione tra i lavori non `e condizionata dal tipo di materiale E o dalla natura delle interazioni interne le quali, pertanto, possono essere o meno conservative. Ci proponiamo di ottenere una espressione generale che esprima il lavoro virtuale fatto dalle tensioni agenti sul parallelepipedo elementare quando questo subisce un generico spostamento virtuale. A tale scopo, consideriamo un parallelepipedo elementare in equilibrio sotto l’effetto di uno stato di tensione S:   σ11 σ12 σ13 σ22 σ23  S= Sym σ33 e, in tale condizione, sottoponiamo il parallelepipedo a una modifica virtuale della configurazione (non importa definire la causa che la produce). La variazione di configurazione `e descritta completamente dal campo di spostamento virtuale δ~u le cui componenti, in quanto virtuali, possono essere assunte di entit`a piccola a piacere. Per questo `e corretto considerare la variazione di configurazione come la sovrapposizione di una traslazione virtuale del centro del parallelepipedo, di una rotazione virtuale δΘ e di una deformazione virtuale δE. Inoltre, sempre per

476

16.2. FORZE INTERNE SUI CONTINUI DEFORMABILI

la virtualit`a dello spostamento, la componente emisimmetrica del gradiente di spostamento definisce esattamente la rotazione virtuale rigida mentre la componente simmetrica rappresenta in modo accurato la variazione virtuale di forma del parallelepipedo elementare. Se la matrice δE fosse nulla, la distanza mutua di ogni coppia di punti appartenenti al parallelepipedo non sarebbe alterata e il lavoro virtuale fatto dalle tensioni sarebbe nullo. Come conseguenza, `e sufficiente considerare l’effetto prodotto sul lavoro virtuale dalla sola parte deformativa di δ~u. Consideriamo in una prima fase una deformazione virtuale caratterizzata dalla sola componente estensionale in direzione x:   δε11 0 0 0 0  δE =  Sym 0

dxδε11

σ 22 dxdz

σ 22 dxdz σ 11dydz

σ 12 dxdz σ 11dydz

C

σ 21dydz A

ˆj iˆ

D

B E

σ 21dydz

σ 12 dxdz σ 22 dxdz

(a)

σ 12 dxdz σ 11dydz

σ 11dydz

C*

σ 21dydz ˆj

A* iˆ

D*

B* E*

σ 21dydz

σ 12 dxdz

σ 22 dxdz (b)

Figura 16.6: Elemento di volume sotto tensione (a) prima della variazione di configurazione e (b) dopo l’applicazione della deformazione virtuale con componente: δε11 .

Nella figura 16.6 `e rappresentato il parallelepipedo elementare visto dall’asse z prima e dopo la variazione virtuale di configurazione. Si osserva che: • sono evidenziati i punti caratteristici del parallelepipedo (il vertice A e i centri B, C, D ed E delle facce) prima e dopo la modifica di configurazione • per chiarezza grafica le componenti z dello stato di tensione non sono rappresentate • l’allungamento della base del rettangolo prodotto dalla deformazione estensionale `e stato notevolmente amplificato per renderlo apprezzabile graficamente • le deformazioni angolari sono tutte nulle e quindi il parallelepipedo rimane retto. Dato che la traslazione rigida non ha effetti sul lavoro, si pu`o assumere che il punto A∗ abbia le stesse coordinate di A e la rotazione rigida del parallelepipedo sia nulla (come in figura 16.6). La virtualit`a del cambiamento di configurazione comporta che le tensioni agenti sulle facce rimangano inalterate durante la distorsione. Per calcolare i lavori virtuali fatti dalle singole componenti di tensione `e lecito ridurre le distribuzioni superficiali agenti sulle varie facce a forze risultanti (infinitesime) applicate ai relativi centri di spinta. Essendo le componenti di

477

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

tensione uniformemente distribuite su ogni singola faccia (il parallelepipedo `e elementare), il centro di spinta coincide con il baricentro della faccia stessa, per esempio: la forza risultante orizzontale di taglio σ12 dxdz `e applicata sul punto C, ecc. . . . Con riferimento alla figura 16.6, si pu` o osservare che: • le forze agenti sulla faccia verticale (normale a x) negativa non fanno lavoro perch´e il centro B non si sposta • sulla faccia verticale positiva la componente tangenziale σ21 dydz non fa lavoro perch´e il punto di applicazione D si muove perpendicolarmente alla forza • le componenti normali σ22 dxdz agenti sulle facce orizzontali non fanno lavoro perch´e lo spostamento di C e di E `e in direzione x • le singole componenti tangenziali σ12 dxdz agenti sulle facce orizzontali fanno lavoro perch´e i centri di spinta si spostano in orizzontale di |EE ∗ | = |CC ∗ | = 21 · δε11 dx, ma il lavoro virtuale della componente agente sulla faccia positiva `e compensato dal lavoro opposto fatto dalla componente agente sulla faccia negativa • anche se non rappresentate, `e facile verificare che nessuna componente delle tensioni in direzione z fa lavoro (i punti di applicazione hanno componente z dello spostamento nulla) • sulla faccia verticale positiva la componente normale σ11 dydz fa lavoro virtuale: δ (dL) = σ11 dydz · δε11 dx = σ11 δε11 dxdydz (in effetti l’allontanamento dei punti di applicazione della coppia di braccio nullo `e |DD∗ | = δε11 dx). Indicando con dV = dxdydz il volume del parallelepipedo elementare, il lavoro virtuale complessivo fatto dalle tensioni in questo caso vale quindi: δ (dLten ) = σ11 δε11 dV

(16.2)

A giustificazione del simbolo un po’ complicato che `e stato usato per rappresentare il lavoro virtuale nella relazione (16.2) `e opportuno ricordare che la grandezza calcolata `e il lavoro fatto dalle tensioni agenti sul parallelepipedo elementare per una variazione virtuale di configurazione. Pertanto, il risultato `e una quantit`a nel contempo virtuale (nelle deformazioni) e infinitesima (nel volume). Consideriamo una variazione virtuale di configurazione con una sola componente deformativa di tipo angolare, per esempio δγ12 , e quindi caratterizzata dalla seguente matrice:     δγ12 0 δε12 0 0 0 2 0 0 = δE =  0 0  Sym 0 Sym 0 Dalla figura 16.7 si deduce che: • le componenti delle forze in direzione z non fanno lavoro • le componenti normali dello stato di tensione fanno complessivamente lavoro nullo (il lettore verifichi che due di queste tensioni fanno in effetti lavoro ma la somma `e nulla) • la componente tangenziale σ21 dydz non fa lavoro perch´e i punti di applicazione B e D si spostano trasversalmente alla forza (si ricordi che la deformazione deve essere virtuale e che l’angolo in figura 16.7 `e stato ingrandito per chiarezza grafica)

478

16.2. FORZE INTERNE SUI CONTINUI DEFORMABILI

δγ 12

σ 22 dxdz

σ 12 dxdz σ 11dydz

C

σ 11dydz σ 21dydz A

ˆj iˆ

D

B E

σ 21dydz

σ 12 dxdz

σ 22 dxdz σ 12 dxdz

σ 11dydz

C* σ 11dydz B* D* σ 21dydz σ 21dydz E* ˆj A* σ 12 dxdz iˆ

σ 22 dxdz

σ 22 dxdz (b)

(a)

Figura 16.7: Elemento di volume sotto tensione (a) prima della variazione di configurazione e (b) dopo l’applicazione di una deformazione virtuale angolare δγ12 .

• la sola componente tangenziale σ12 dxdz agente sulla faccia superiore fa lavoro dato da: σ12 dxdz · δγ12 dy = σ12 δγ12 dxdydz. Il lavoro ottenuto ha una espressione analoga al caso precedente: δ (dLten ) = σ12 δγ12 dV

(16.3)

Sfruttando la simmetria dei tensori di Cauchy e di deformazione si ha: σ12 δγ12 = σ12 (δε12 + δε21 ) = σ12 δε12 + σ21 δε21 per cui la relazione (16.3) si pu`o anche scrivere come: δ (dLten ) = (σ12 δε12 + σ21 δε21 ) dV

(16.4)

Le precedenti valutazioni possono essere estese a una variazione virtuale di configurazione del parallelepipedo che contiene tutte le componenti estensionali e angolari della deformazione. Si ottengono in tal modo le seguenti espressioni generali, tra loro equivalenti, che esprimono il lavoro virtuale fatto da un generico stato di tensione agente sul parallelepipedo elementare quando questo `e sottoposto a una generica deformazione virtuale: δ (dLten ) = (σ11 δε11 + σ22 δε22 + σ33 δε33 + σ12 δγ12 + σ13 δγ13 + σ23 δγ23 ) dV

(16.5)

δ (dLten ) = (σ11 δε11 + σ22 δε22 + σ33 δε33 + σ12 δε12 + σ13 δε13 + σ23 δε23 + σ21 δε21 + σ31 δε31 + σ32 δε32 ) dV (16.6) La relazione (26.6) pu`o essere scritta in forma indicizzata come: δ (dLten ) = σij δεij dV

16.2.2 Densit` a volumica del lavoro virtuale fatto delle tensioni Le espressioni del lavoro virtuale (16.5) e (26.6) hanno validit`a generale dato che sono state ottenute sotto le sole ipotesi:

479

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

• di equilibrio del parallelepipedo elementare, da cui deriva la simmetria del tensore di Cauchy, • di congruenza del processo deformativo per cui la trasformazione del parallelepipedo elementare `e affine. In particolare, non sono state poste condizioni sul materiale del continuo o sulla natura e la causa delle deformazioni. Come consuetudine nello studio dei corpi continui, `e utile definire la quantit`a intensiva associata al lavoro fatto dalle tensioni: lten =

dLten dV

(16.7)

per cui dalle (16.5) e (26.6) si ottiene il lavoro virtuale per unit` a di volume detto anche densit` a volumica del lavoro virtuale δl fatto dalle tensioni nel punto generico: δlten = σ11 δε11 + σ22 δε22 + σ33 δε33 + σ12 δγ12 + σ13 δγ13 + σ23 δγ23

(16.8)

δlten = σ11 δε11 +σ22 δε22 +σ33 δε33 +σ12 δε12 +σ13 δε13 +σ23 δε23 +σ21 δε21 +σ31 δε31 +σ32 δε32 (16.9) L’espressione (16.8) `e la somma di 6 termini mentre l’equivalente (16.9) ne contiene 9. In effetti, la deformazione angolare ingegenristica γij ingloba le due deformazioni angolari tensoriali εij e εji . Indipendentemente dal numero di termini, `e interessante osservare che: tensione e deformazione sono grandezze energeticamente associate Le relazioni (16.8) e (16.9) hanno in effetti la forma tipica del lavoro virtuale ottenuta in tutti i casi finora esaminati. A tale proposito si ricordi il prodotto scalare di una forza per lo spostamento virtuale del suo punto di applicazione, oppure il prodotto scalare del momento per la rotazione virtuale della sua zona di applicazione. Anche in questo caso il lavoro virtuale risulta espresso dalla somma dei prodotti di componenti omonime e, dato che le componenti di forza sono riferite all’unit`a di superficie e il corpo in esame `e infitesimo, il risultato `e un lavoro specifico (lavoro per unit`a di volume). Nei calcoli faremo uso pi` u frequentemente della relazione (16.8), tuttavia, la relazione (16.9) appare pi` u rigorosa dal punto di vista formale. In effetti la relazione (16.9) esplicita la somma dei prodotti di tutte le componenti omonime dei tensori di tensione e di deformazione virtuale: δlten =

3 X 3 X

σij δεij

i=1 j=1

relazione che in notazione contratta (si noti il doppio indice ripetuto che sottintende la doppia somma) diventa semplicemente: δlten = σij δεij Questo prodotto scalare tra i tensori non ` e il prodotto righe per colonne delle rispettive matrici (il risultato di tale operazione sarebbe una matrice 3 × 3 e non uno scalare!) e per distinguerlo lo indichiamo con il simbolo ◦ ovvero: δlten = S ◦ δE

(16.10)

Osserviamo che una particolare componente tensionale produce un contributo positivo al lavoro virtuale se la omonima componente deformativa ha lo stesso segno. Per esempio, una tensione normale di trazione agente su una faccia normale a n ˆ (σnn > 0), contribuisce al

480

16.2. FORZE INTERNE SUI CONTINUI DEFORMABILI

lavoro con un termine positivo se il continuo si dilata nella direzione n ˆ (ovvero se εnn > 0) e lavoro negativo se il continuo si contrae (εnn < 0). Analogamente, una componente di tensione tangenziale positiva σqm fa lavoro positivo se l’angolo retto qˆ, m ˆ su cui le tensioni coniugate agiscono si riduce γqm > 0. Questo risultato consegue dalle definiziono assunte sui segni delle componenti di entrambi i tensori di tensione e di deformazione per cui `e fondamentale che tali convenzioni siano rispettate per mantenere la coerenza. Si pu`o inoltre verificare che `e stata ritrovata anche per il continuo la propriet`a caratteristica delle forze interne: se la variazione di configurazione del parallelepipedo elementare `e uno spostamento rigido, essendo E = 0, il lavoro fatto dalle tensioni, e quindi il lavoro fatto dalle forze interne che `e l’opposto, `e nullo. Il calcolo del lavoro fatto dalle tensioni `e del tutto simile se, sotto l’azione del tensore S il parallelepipedo subisce una variazione di configurazione infinitesima invece che virtuale. Infatti, in una deformazione infinitesima dE `e lecito assumere che lo stato di tensione subisca variazioni al pi` u infinitesime che possono quindi essere trascurate. Pertanto, si definisce: dlten =

3 X 3 X

σij dεij

(16.11)

i=1 j=1

la variazione di densit`a volumica di lavoro fatto dalle tensioni in conseguenza della variazione infinitesima di configurazione, relazione che pu`o essere scritta anche come: dlten = σij dεij = S ◦ dE

(16.12)

Dal punto di vista dimensionale, essendo le deformazioni numeri puri, la quantit`a lten , che esprime un lavoro per unit`ahdi volume del con la tensione e quindi nelle i h materiale, i h`e omogenea i 2 3 3 unit`a del SI `e espressa in N/m = Nm/m = J/m . Usando il MPa come unit` a per la tensione, se le deformazioni sono calcolate in µε la densit`a volumica del lavoro risulter` a espressa in J/m3 che `e l’unit`a base nel SI. Se le deformazioni sono espresse in epsilon la densit`a risulter`a invece espressa in 10 N/mm2 = 1mJ/mm3 (millijoule al millimetro cubico) che `e una unit`a mista. Peraltro, la densit`a volumica del lavoro fatto delle tensioni rappresenta raramente una quantit`a richiesta e generalmente costituisce uno strumento per il calcolo di tensioni, deformazioni o spostamenti e le sue unit`a di misura sono poco interessanti.

16.2.3 Densit` a del lavoro fatto dalle tensioni in una trasformazione finita Consideriamo una variazione finita di configurazione, comunque piccola in modo che sia valida la meccanica dei corpi poco deformabili, che porti il parallelepipedo elementare da uno stato di partenza a uno stato finale. Ci proponiamo di valutare il lavoro fatto dalle tensioni agenti sul parallelepipedo elementare nell’intero processo. Un problema simile si presenta nel calcolo del lavoro fatto da una forza applicata a un punto materiale nelle condizioni generali, ovvero quando la traiettoria del punto di applicazione deve essere suddivisa in piccoli segmenti in corrispondenza di ognuno dei quali la forza possa considerarsi costante (vedi capitolo 1). Analogamente, per calcolare il lavoro fatto dallo stato di tensione agente sul parallelepipedo elementare nell’intero processo, si suddivide il processo deformativo in una sequenza di passi, ognuno caratterizzato da una variazione di deformazione molto piccola, in modo che la tensione possa ritenersi costante nell’ambito di ogni passo. Si suppone inoltre che in ogni configurazione parziale raggiunta nel processo deformativo, le componenti di tensione siano note. Per descrivere il processo deformativo e la corrispondente tensione agente sul parallelepipedo introduciamo un parametro scalare λ variabile nell’intervallo [λ0 , λF ]. Lo stato di tensione

481

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

iniziale `e quindi S (λ0 ), quello finale S (λF ). Ogni stato intermedio S (λ) con λ0 < λ < λF `e formalmente espresso dalla relazione:   σ11 (λ) σ12 (λ) σ13 (λ) σ22 (λ) σ23 (λ)  S (λ) =  Sym σ33 (λ) Con il medesimo parametro definiamo anche la deformazione E (λ) che, rispetto alla configurazione iniziale, il parallelepipedo elementare accumula durante il prcesso deformativo:   ε11 (λ) ε12 (λ) ε13 (λ) ε22 (λ) ε23 (λ)  E (λ) =  Sym ε33 (λ) Assumendo che le funzioni εij (λ) siano sufficientemente regolari (almeno derivabili per quasi tutti i valori di λ) e che i loro moduli siano di piccola entit`a (corpo poco deformabile), si pu`o ottenere la variazione infinitesima di deformazione corrispondente a una variazione dλ del parametro (il singolo passo elementare del processo deformativo):  dε (λ) dε (λ) dε (λ)  11



 dE (λ) =  Sym

12

dλ dε22 (λ) dλ

13

dλ dε23 (λ) dλ dε33 (λ) dλ

  dλ

(16.13)

In base alla relazione (16.12) il contributo alla densit`a di lavoro fatto delle tensioni nella variazione infinitesima di configurazione vale quindi: dlten = S (λ) ◦ dE (λ) La densit`a di lavoro fatto dalle tensoni per l’intero processo deformativo `e pertanto data dall’integrale: ZλF lten = S (λ) ◦ dE (λ) (16.14) λ0

Esempio 16.3: Densit`a del lavoro in una trasformazione finita Un parallelepipedo elementare subisce una variazione di configurazione definita sul parametro λ ∈ [0, 1] tramite i seguenti tensori di deformazione E (λ) e di tensione S (λ):     2 1 + λ −2λ 2 + λ2 5 − λ2 −2 + λ2  MPa λ 1  10−3 ; S (λ) = 102  1 − λ2 λ3 E (λ) = λ  2 Sym −5 Sym −λ a) Determinare gli stati di tensione e di deformazione iniziali e finali. b) Valutare il lavoro per unit`a di volume complessivamente fatto dalle tensioni nell’intero processo deformativo. 

482

16.2. FORZE INTERNE SUI CONTINUI DEFORMABILI

Risposta a) 

   0 0 2 5 −2 0 0  ; S (0) =  1 0  102 MPa E (0) =  Sym 0 Sym 0     2 2 −2 3 4 −1 1 1  10−3 ; S (1) =  0 1  102 MPa E (1) =  Sym −5 Sym −1 0

Risposta b) In base alla relazione (16.13), il tensore di deformazione incrementale vale:   2 1 + 2λ −4λ 2λ 1  10−3 dλ dE (λ) =  Sym −5 da cui, per la relazione (16.14): Z1 lten =

S (λ) ◦ dE (λ) = 3.167 mJ/mm3

0

il lavoro complessivo risulta positivo. In certi casi `e usato come parametro λ il tempo t, per cui la relazione (16.13) diventa:  dε (t) dε (t) dε (t)  11

12

13

dt

dt dε22 (t) dt

dt dε23 (t) dt dε33 (t) dt

 dE (t) =  Sym

  dt

(16.15)

La quantit`a tensoriale:  dE (t)  = dt

dε11 (t) dt

dε12 (t) dt dε22 (t) dt

Sym

dε13 (t) dt dε23 (t) dt dε33 (t) dt

  

(16.16)

che esprime la rapidit`a con cui la deformazione varia nel tempo, `e chiamata velocit` a di deformazione (strain rate) e si rappresenta talvolta con il punto sovrapposto (con la notazione tipica delle derivate temporali in Meccanica Razionale):   ε˙11 ε˙12 ε˙13 dE (t) ˙ (t) =  ε˙22 ε˙23  (16.17) =E dt Sym ε˙33 In analogia con il caso elementare della singola forza agente su un punto materiale, la potenza specifica sviluppata dalle tensioni (numericamente pari al lavoro fatto dalle tensioni nell’unit` a di tempo e nell’unit`a di volume) si esprime come: w=

3 X 3 X

σij ε˙ij

(16.18)

i=1 j=1

483

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

relazione che con le altre notazioni diventa: ˙ = σij ε˙ij w =S◦E

(16.19)

16.3 Lavoro complessivo fatto dalle forze per deformare un corpo esteso 16.3.1 Lavoro fatto dalle tensioni e lavoro fatto delle forze esterne In questo paragrafo viene mostrato come calcolare il lavoro fatto da tutte le forze esterne Lext e il lavoro complessivamente fatto dalle tensioni agenti in un continuo deformabile Lten durante un caricamento monotono. Consideriamo il lavoro fatto dalle forze esterne. In figura 16.8 `e mostrato un tipico problema di statica dei continui deformabili nell’ambito della meccanica dei solidi poco deformabili: un corpo vincolato in modo (almeno) isostatico sul quale sono esercitati carichi crescenti che lo portano dalla configurazione iniziale alla configurazione finale di equilibrio. Per calcolare Lext in modo diretto `e necessario identificare: • le azioni esterne che fanno lavoro • le quantit`a deformative a queste energeticamente associate • l’evoluzione del processo deformativo e di carico in modo da poter calcolare il lavoro nel percorso. Nell’esempio di figura 16.8, le forze esterne sono costituite dalle due forze concentrate F e Q e dalle reazioni vincolari all’incastro. Se assumiamo il vincolo ideale e un osservatore fisso sul telaio (situazione tipica), le reazioni vincolari non sono energeticamente attive e il lavoro delle forze esterne `e fatto dai soli carichi. Supponiamo che attraverso il parametro λ ∈ [λ0 , λF ] si possano esprimere i carichi e lo spostamento dei corrispondenti punti di applicazione: ˆj

A

iˆ (a)

B

F /2 Q / 2 (b)

F (c)

Q Figura 16.8: Processo di caricamento di una mensola deformabile in condizioni quasi statiche: a) configurazione iniziale, b) configurazione intermedia, c) configurazione finale.



 0 F~ (λ) =  −F (λ)  , 0

484



 −Q (λ) ~ (λ) =  0  Q 0

16.3. LAVORO COMPLESSIVO FATTO DALLE FORZE PER DEFORMARE UN CORPO ESTESO



 uAx (λ) ~uA (λ) =  uAy (λ)  , uAz (λ)



 uBx (λ) ~uB (λ) =  uBy (λ)  uBz (λ)

Il lavoro delle forze esterne si ottiene della definizione: ZλF Lext =

F~ (λ) · d~uA (λ) +

λ0

ZλF

~ (λ) · d~uB (λ) Q

λ0

in componenti scalari:

Lext

 ZλF  duAy (λ) duBx (λ) dλ − Q (λ) · = −F (λ) dλ dλ λ0

Nel caso in esame, Lext `e senza dubbio positivo dato che i punti di applicazione dei carichi si spostano entrambi in verso concorde alle relative forze. Con riferimento allo stesso esempio di figura 16.8 calcoliamo il lavoro fatto dalle tensioni. Consideriamo Ω il dominio geometrico che rappresenta il corpo nella configurazione di partenza e supponiamo che, per ogni punto P ∈ Ω con posizione iniziale di coordinate (x, y, z), sia nota la storia deformativa e tensionale che si manifesta durante il caricamento in funzione del solito parametro λ ∈ [λ0 , λF ]. Il procedimento sviluppato nel paragrafo precedente fornisce la densit` a di lavoro fatto dalle tensioni nella variazione completa di configurazione per ogni parallelepipedo elementare che rappresenta una funzione scalare di punto (pi` u rigorosamente un campo scalare definito su Ω): ZλF lten (x, y, z) = S (λ) ◦ dE (λ) λ0

Poich´e la storia tensionale e deformativa dipende dalla posizione di P , il campo scalare lten (x, y, z) assume in genere valori diversi da un punto all’altro. Il lavoro complessivo fatto dalle tensioni nell’intero corpo, Lten , `e ottenibile quindi integrando la densit`a di lavoro sull’intero dominio in modo da considerare il contributo di tutti i parallelepipedi elementari: Z Lten = lten (x, y, z) dV (16.20) Ω

Dato che il corpo `e composto da tutti i parallelepipedi elementari e considerando che: • la tensione rappresenta il carico che agisce sulle singole parti elementari • la tensione `e la manifestazione puntuale dei carichi applicati • la deformazione descrive la variazione di forma delle parti elementari • la deformazione `e la manifestazione puntuale degli spostamenti indotti dai carichi, possiamo concludere che: in un corpo continuo in condizioni di caricamento quasi statico il lavoro fatto delle forze esterne agenti `e uguale al lavoro fatto delle tensioni: Lext = Lten

485

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

Poich´e non sono state fatte ipotesi sul materiale o sulla natura del processo deformativo, per un caricamento quasi statico l’uguaglianza del lavoro delle forze esterne e del lavoro complessivo fatto dalle tensioni `e universale. In un qualunque corpo sottoposto a un caricamento quasi statico possiamo quindi assumere che il lavoro fatto dalle forze esterne si distribuisca nel volume del corpo sotto forma di densit`a di lavoro fatto dalle tensioni. In genere, tale distribuzione non risulta uniforme dato che, nelle zone in cui si manifesta una elevata tensione e nel contempo anche la deformazione `e pi` u intensa, la densit`a locale del lavoro fatto dalle tensioni `e maggiore. Un risultato analogo `e stato riscontrato nei sistemi discreti esaminato nel primo paragrafo. Nel caso delle molle, per esempio, il lavoro fatto dalle forze esterne si ritrova nel lavoro fatto sulle singole molle in misura dipendente da quanto queste si allungano. In un caricamento che non sia quasi statico, l’uguaglianza precedente non vale dato che i singoli parallelepipedi sarebbero in movimento e dovremmo mettere in bilancio anche la loro energia cinetica. In tal caso si otterrebbe quindi, per il teorema delle forze vive: Lext = Lten + ∆K Pertanto, se all’inizio del caricamento il corpo era in queste, il lavoro delle forze esterne `e sempre maggiore di quello fatto dalle tensioni. Torniamo al caso di caricamento quasi statico, dato che in virt` u della relazione (16.1) si ha: Lext + Lint = 0 per i corpi continui vale l’importante relazione: Lint = −Lext = −Lten = −

Z ZλF X 3 X 3 Ω λ0

σij dεij dV

(16.21)

i=1 j=1

Pertanto: in condizioni di caricamento quasi statico il lavoro fatto delle interazioni interne agenti in un corpo continuo `e l’opposto del lavoro fatto dalle forze esterne, e quindi dalle tensioni. Esempio 16.4: Giustificazione del segno negativo nella relazione (16.21) Un parallelepipedo elementare sottoposto a uno stato di tensione monoassiale di trazione σ11 = 150 MPa costante viene allungato di ε11 = 20 µε. Calcolare: a) la densit`a di lavoro fatto dalle tensioni b) la densit`a di lavoro fatto dalle forze interne.  La risposta a) `e immediata: lten = σ11 ε11 = +300 J/m3 il segno `e evidentemente positivo dato che la coppia di braccio nullo che rappresenta la forza esterna agente sul parallelepipedo `e applicata in modo da estenderlo. Di conseguenza le forze interne, risposta b), fanno un lavoro negativo che vale: lint = −300 J/m3

486

16.3. LAVORO COMPLESSIVO FATTO DALLE FORZE PER DEFORMARE UN CORPO ESTESO

Per giustificare questo risultato `e sufficiente considerare che, sotto l’azione dello stato di tensione, gli atomi costituenti il reticolo si trovano a una distanza relativa (in direzione x) maggiore rispetto alla distanza naturale che avrebbero a materiale scarico, per cui le interazioni che si manifestano tra di essi sono di tipo attrattivo (riporterebbero il reticolo nella condizione naturale se la tensione cessasse). Se in tali condizioni l’agente esterno aumenta ulteriormente la loro distanza inducendo una deformazione estensionale positiva, il lavoro fatto dalle interazioni sar`a negativo.

16.3.2 Considerazioni termodinamiche relative al lavoro fatto dalle tensioni ` interessante esaminare il fenomeno della variazione di configurazione prodotta in un corpo E deformabile da un caricamento quasi statico considerando il corpo come un sistema termodinamico che `e in grado di scambiare energia con l’ambiente esterno sotto forma di lavoro e/o di calore. In tutti gli esempi esaminati nel presente capitolo, le forze esterne modificano la configurazione dei corpi su cui sono applicate e fanno complessivamente lavoro positivo. Dato che in un caricamento quasi statico il contributo dell’energia cinetica `e trascurabile per definizione, risulta interessante rispondere alla domanda: dove va l’energia che viene immessa nel sistema termodinamico tramite il lavoro fatto delle forze esterne? Oltre che per un corpo deformabile nel suo complesso, la medesima domanda pu`o essere posta anche per ogni sua porzione e quindi, in particolare, per ogni parallelepipedo elementare per il quale il lavoro `e fatto dalle tensioni. Dal primo principio della termodinamica `e noto che l’energia che dall’ambiente viene immessa in un sistema, sotto forma di lavoro e/o di calore, non pu`o svanire ed `e necessario ritrovarla sotto identificabili variazioni di forme di energia interna. Gli esempi elementari discussi all’inizio del capitolo rappresentano a questo proposito due situazioni limite di notevole interesse. Nel caso del cilindro telescopico, trascurando il calore che il corpo scambia con l’ambiente nel breve tempo in cui avviene il compattamento assiale, il lavoro positivo fatto delle forze esterne viene completamente trasformato in aumento dell’energia interna di tipo termico. Tale incremento di energia pu`o essere rilevato sperimentalmente come aumento di temperatura di alcune parti del corpo, in particolare dalle guarnizioni e delle zone adiacenti alla superficie di scorrimento. Dal punto di vista fisico, l’aumento locale di temperatura consiste in un incremento dell’energia cinetica media di alcune molecole che compongono il corpo per cui, a livello microscopico, il teorema delle forze vive `e soddisfatto. Peraltro, considerando il secondo principio della termodinamica, il disordine che caratterizza il moto termico molecolare non consente di utilizzare completamente tale incremento di energia cinetica per produrre lavoro meccanico. La riconversione, anche parziale, dell’energia termica in lavoro richiede infatti un ciclo termico e quindi la presenza di almeno un’altra sorgente pi` u fredda che, inevitabilmente, ricever`a un po’ di calore. Tutto ci`o comporta una perdita netta per cui `e recuperabile solo una parte del lavoro inizialmente immesso nel sistema. Inoltre, se il corpo non `e perfettamente isolato termicamente ma, come generalmente accade, si trova in contatto con l’ambiente, l’aumento di temperatura prodotto nello scorrimento con attrito, dopo un po’ di tempo, non sar`a pi` u rilevabile. In questo caso, l’energia immessa nel sistema come lavoro meccanico `e inizialmente immagazzinata come energia interna termica e successivamente ceduta all’ambiente sotto forma di calore. Il lavoro fatto dalle forze esterne sul sistema non potr`a pi` u essere, in queto caso, recuperato nemmeno parzialmente. Nella pratica, quindi, il lavoro fatto dalle forze esterne per produrre processi deformativi di scorrimento con attrito o simili, `e da considerarsi completamente perduto. Questo `e ci`o che avviene, per esempio, nel normale frenamento dei mezzi di trasporto. Dal punto di vista termodinamico, il caricamento quasi statico descritto nell’esempio delle

487

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

molle appare sotto vari aspetti alquanto diverso. Anche in quel caso il lavoro fatto dalle forze esterne `e positivo e il sistema incrementa la sua energia interna. Tale energia pu`o per`o essere completamente riconvertita in lavoro meccanico (le molle compresse possono essere usate come elemento motore per qualche altro processo) per cui l’aumento di energia interna `e quindi di tipo meccanico. Diremo in questo caso che le forze interne sono di tipo conservativo. Come ricordato nel capitolo 1, l’energia potenziale di un campo di forze conservative `e definita, a meno di una costante additiva arbitraria, dall’opposto del lavoro che le forze del campo fanno in corrispondenza di una variazione di configurazione. Se la variazione di configurazione `e prodotta in condizioni quasi statiche, quindi in assenza di variazioni significative di energia cinetica, l’opposto del lavoro fatto dalle forze interne `e pari al lavoro fatto dalle forze esterne. Pertanto possiamo concludere che: se le forze interne di un corpo deformabile sono conservative, in un caricamento quasi statico la variazione di energia interna meccanica totale del corpo `e pari al lavoro fatto dalle forze esterne. Se un corpo si comporta in modo che il lavoro fatto dalle forze esterne `e completamente trasformato in energia interna di tipo meccanico si dice che `e perfettamente elastico (elastic) e l’energia interna associata `e chiamata energia elastica (elastic energy). Come discusso nel seguito, l’elasticit`a di un solido `e connessa con la natura dei legami molecolari che mantengono l’integrit`a del reticolo cristallino. Dato che il cristallo rimane integro nel processo deformativo, le variazioni di energia sono effettivamente associate agli effetti di campi elettromagnetici conservativi. Le deformazioni che si manifestano nel parallelepipedo elementare quando le forze interne sono conservative sono chiamate deformazioni elastiche (elastic strains). La Scienza dei materiali ha evidenziato l’esistenza di altri e diversi processi deformativi che, a livello del cristallo, consistono in scorrimenti finiti di atomi, associati al movimento delle dislocazioni e che, quindi, prevedono la rottura e la ricostituzione dei legami atomici. Tali processi deformativi non possono essere quasi statici in quanto il passaggio delle dislocazioni produce locali intense vibrazioni negli atomi che si trovano vicini al piano di scorrimento e quindi, inevitabilmente, dissipano energia meccanica. Dal punto di vista macroscopico le deformazioni prodotte in tali processi sono chiamate plastiche (plastic) o viscose (viscous) secondo le modalit`a e la cinetica con cui si sviluppano. Il lavoro che le forze esterne fanno quando il materiale subisce processi deformativi plastici o viscosi viene quindi completamente trasformato in energia interna di tipo termico e non pu`o essere direttamente recuperato sotto forma di lavoro meccanico. In generale, quando si carica staticamente un corpo deformabile il processo deformativo coinvolge forze interne conservative e dissipative e produce deformazioni che sono in parte elastiche e in parte plastiche e viscose, per cui in un caricamento quasi statico il lavoro complessivamente fatto dalle forze esterne su un corpo deformabile in parte varia l’energia elastica del corpo e in parte viene dissipato in energia termica. Questo vale anche per il parallelepipedo elementare caricato dalle tensioni. Nell’ambito del presente corso sono considerati processi deformativi di tipo elastico per cui, tendo conto anche delle considerazioni sviluppate nel paragrafo precedente, possiamo formulare la seguente legge, che sar`a molto impiegata nel seguito: in un caricamento quasi statico il lavoro fatto dalle tensioni sul parallelepipedo elementare di materiale elastico `e immagazzinato nel volume del parallelepipedo sotto forma di energia elastica. La scelta di considerare esclusivamente il comportamento di materiali che si deformano elasticamente `e dettata sia da ragioni di semplicit`a, essendo il comportamento costitutivo elastico

488

16.4. IL MATERIALE OMOGENEO ISOTROPO ELASTICO LINEARE

il pi` u semplice da modellare, sia da motivi di pratica utilit`a. Infatti, l’elasticit`a del materiale garantisce che il caricamento non produca alterazioni permamenti all’elemento strutturale e quindi possa essere ripetuto. Tale caratteristica `e fondamentale in molte strutture meccaniche che sono sottoposte a carichi ciclici o variabili nel tempo.

16.4 Il materiale omogeneo isotropo elastico lineare L’esame energetico del processo deformativo fornisce alcuni importanti strumenti concettuali e operativi con in quali `e possibile sviluppare un modello in grado di descrivere il comportamento costitutivo di un materiale solido. Per modello costitutivo (constitutive model) di un materiale si intende una legge, spesso un semplice legame funzionale, che connette i tensori di deformazione e di tensione. La legge costitutiva (constitutive law) pertanto consente di valutare in modo quantitativo come si deforma un parallelepipedo elementare se `e sottoposto a un definito stato di tensione oppure, viceversa, quale tensione deve essere applicata per deformare un parallelepipedo elementare in un certo modo. La conoscenza del modello costitutivo del singolo elemento `e necessaria quindi per valutare la distorsione di un elemento strutturale nel suo complesso (verifiche di rigidezza). La definizione e le propriet`a dello stato di tensione sono state derivate da considerazioni di equilibrio, quindi dalla Statica, mentre le propriet`a dello stato di deformazione sono state dedotte dalla congruenza e sono quindi di origine geometrica. Finora non `e stato necessario considerare la natura fisica del materiale, se si esclude, e solo per certi aspetti, l’ipotesi che il materiale sia solido. In particolare, abbiamo assunto la capacit`a del continuo di sopportare all’equilibrio anche componenti tensionali tangenziali e normali di trazione. Le propriet`a costitutive sono invece specifiche dei materiali e le relative leggi, di natura empirica, devono essere ricavate sperimentalmente. Infatti, le leggi costitutive si deducono partendo dalla misura della deformazione che stati controllati di tensione producono nel materiale in esame. Data la variet`a di materiali e le differenze di comportamento che anche uno stesso materiale mostra se cambiano le condizioni ambientali (si pensi anche al solo effetto della temperatura), `e disponibile un elevato numero di leggi costitutive. Le leggi costitutive sono infatti l’oggetto della Meccanica dei Materiali che `e una disciplina molto vasta e della quale nel presente corso si danno solo i fondamenti. Nello specifico prenderemo in esame una classe di materiali che mostrano un comportamento costitutivo molto semplice ma di fondamentale interesse applicativo. Si tratta dei materiali: Isotropi, Omogenei, Lineari ed Elastici (I.O.L.E.).

16.4.1 Materiali costitutivamente omogenei In primo luogo ci limiteremo a considerare corpi realizzati con materiale omogeneo (homogenous material) ovvero con propriet`a costitutive uguali in ogni punto. Dal punto di vista operativo possiamo adottare la seguente definizione: per una propriet`a un materiale `e omogeneo se, estratti due campioni aventi la stessa forma e le stesse dimensioni da diverse posizioni di un corpo, qualunque prova meccanica in grado di rilevare tale propriet`a non permette di risalire alla posizione originaria dei campioni. Se il materiale `e omogeneo per una caratteristica costitutiva, i due campioni sono pertanto indistinguibili e interscambiabili ai fini della relativa misura. Al contrario, per un materiale costitutivamente non omogeneo `e possibile, almeno in linea di principio, identificare a posteriori la posizione originaria del campione. Per esempio, dato un cubetto estratto da una trave di cemento armato, non `e difficile stabilire con prove di compressione o di durezza se apparteneva

489

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

al tondino di acciaio oppure a una zona di cemento. Il cemento armato `e in effetti un materiale non omogeneo per la durezza e la resistenza a compressione, oltre che per molte altre propriet`a. In termini matematici, l’omogeneit`a costitutiva implica che la legge costitutiva se ha una espressione analitica, questa non pu`o contenere esplicitamente le coordinate del punto e quindi `e invariante per traslazione. Evidentemente, tale propriet`a di invarianza traslazionale `e relativa alla sola relazione che lega tensioni e deformazioni e non richiede che tensioni e deformazioni siano esse stesse uniformi nel corpo. Sono costitutivamente omogenei con sufficiente approssimazione molti materiali di interesse applicativo quali: le leghe metalliche, come gli acciai e le leghe leggere, i materiali polimerici e gli elastomeri. Alcuni materiali, chiamati compositi, sono realizzati appositamente non omogenei per sfruttare specifiche sinergie che si producono proprio per il diverso comportamento costitutivo delle fasi omogenee che li compongono. Come esempio di materiale non omogenero, oltre al gi`a citato cemento armato, si pu`o considerare il composito realizzato con fibre di carbonio e matrice polimerica che `e un materiale usato in applicazioni in cui `e necessario un elevato rapporto tra resistenza o rigidezza e peso. Anche alcuni trattamenti termici o termomeccanici, come la cementazione o la nitrurazione, generano materiali non omogenei per i quali il diverso comportamento costituivo della zona superficiale rispetto alle zone interne permette di contrastare gli effetti prodotti da forti sollecitazioni superficiali locali (per esempio nelle piste dei cuscinetti) lasciando al componente elevate caratteristiche di duttilit`a.

16.4.2 Materiali isotropi Un materiale `e costitutivamente isotropo (isotropic) se le sue propriet`a non dipendono dalla direzione. In termini matematici `e isotropa una quantit`a invariante per rotazione degli assi. La nozione di isotropia si applica pertanto solo a propriet`a fisiche che hanno caratteristiche direzionali e sono quindi descritte da vettori o tensori. Non ha infatti senso chiedersi, per esempio, se la densit`a di massa `e isotropa, visto che tale propriet`a, essendo uno scalare, `e invariante per rotazione degli assi. Peraltro, molte propriet`a meccaniche dei materiali, come la rigidezza e la resistenza che analizzeremo a fondo, ma anche varie altre propriet`a fisiche, come le conducibilit`a termica e elettrica o la dilatabilit`a termica, hanno caratteristiche direzionali. Per comprendere il concetto di isotropia costitutiva conviene riferirsi a un contro-esempio e considerare l’anisotropia (anisotropy). Un materiale fibroso, come una lastra di composito o una tavola di legno massello, `e tipicamente anisotropo dal punto di vista costitutivo. Supponiamo, per esempio, di voler caratterizzare una lastra di carbo-resina nei confronti della resistenza (strength) a trazione. A tale scopo facciamo estrarre dalla lastra due provini uguali per forma e dimensioni, uno con l’asse parallelo alle fibre di carbonio e l’altro con l’asse perpendicolare. Supponiamo che, dopo l’estrazione, i provini siano verniciati in modo da nascondere l’orientamento delle fibre. Nonostante la verniciatura, dato che la capacit`a di sopportare carichi prima di rompersi `e molto maggiore se il materiale `e sollecitato nel senso delle fibre, l’esito delle prove permetter`a di identificare l’orientamento originario del provino. In tali circostanze concluderemo che il materiale in esame `e anisotropo per quanto riguarda la resistenza a trazione. Possiamo quindi assumere la seguente definizione operativa: Per una determinata propriet`a, un materiale `e isotropo in un punto se, estratto localmente un piccolo provino, non `e possibile riconoscerne l’orientamento originario tramite la misura di tale propriet`a. Dal punto di vista matematico, considerato un materiale isotropo per una certa caratteristica, le singole componenti scalari della quantit`a che descrive tale propriet`a devono rimanere invariate in conseguenza di una generica rotazione degli assi del sistema di riferimento. In particolare, sappiamo che, ruotando gli assi, le componenti di entrambi i tensori S ed E in genere

490

16.4. IL MATERIALE OMOGENEO ISOTROPO ELASTICO LINEARE

mutano, tuttavia, se il materiale `e costitutivamente isotropo, la legge che lega i tensori (con tutti i relativi parametri) deve avere la stessa rappresentazione in ogni sistema.

16.4.3 Materiali elastici Nella letteratura si possono trovare definizioni diverse di elasticit` a (elasticity) che tuttavia sono tutte, almeno per gli scopi del presente corso, sostanzialmente equivalenti. Come per l’omogeneit`a e l’isotropia anche per l’elasticit`a ci proponiamo di fornire una definizione operativa basata sull’interpretazione di un esperimento. In pratica ci chiediamo: come si deve comportare sperimentalmente un corpo costituito con materiale elastico? A tale scopo, vincoliamo il corpo in esame al telaio (generalmente la ganascia fissa di una macchina di prova) in modo da poter esercitare su di esso un controllato sistema di carichi. Applichiamo quindi il carico in modo quasi statico aumentano progressivamente l’intensit`a a partire dalla condizione di di riferimento (generalmente a corpo scarico). La prima parte della prova in cui i carichi crescono si chiama fase di carico (loading phase). Successivamente, sempre in modo quasi statico, riportiamo il carico al valore iniziale attuando la fase di scarico (unloading phase). La fase di scarico pu`o essere effettuata con sequenze qualunque, anche diverse da quelle di carico. Per esempio, nel caso di un corpo caricato con due forze, queste possono raggiungere il massimo crescendo insieme con la medesima legge (caricamento omotetico) ed essere successivamente riportate a zero in sequenza (prima una e dopo l’altra). Durante l’intera prova misuriamo e registriamo, oltre al carico applicato, almeno una grandezza deformativa del corpo che in linea di principio pu`o essere qualunque, come per esempio: lo spostamento di un punto, l’allontanamento di due punti, la variazione dell’area o del volume di una porzione del corpo, ecc. . . . Il materiale del corpo `e elastico (elastic) se a scarico completato, quando il carico `e tornato al valore iniziale, tutte le grandezze geometriche misurate assumono il valore iniziale. Pertanto vale questa definizione: se, dopo un processo di carico-scarico completo, un corpo non manifesta alcuna deformazione il materiale di cui `e composto ha avuto un comportamento costituito elastico. Alcune caratteristiche generali dei materiali elastici, ampiamente sfruttate nel seguito, sono elencate nei punti seguenti. • Le propriet`a di un materiale elastico non sono modificate dal caricamento, il comportamento meccanico non `e pertanto influenzato dal tempo o dalla storia di sollecitazione precedentemente subita dal materiale; il materiale elastico non ha quindi memoria della storia passata e, di conseguenza, la legge costitutiva non dipende esplicitamente dal tempo. • Se su un corpo costituito di materiale elastico e vincolato in modo almeno isostatico, si applica carico che fa lavoro, e questo viene fatto aumentare in modo omotetico (ovvero le azioni correnti sono: P = λPF , Q = λQF , M = λMF con λ ∈ [0, 1]), una qualunque grandezza deformativa del corpo `e biunivocamente legata al livello λ del carico stesso. • Un caso particolare della propriet`a precedente, ma con notevoli conseguenze, `e rappresentato dal corpo costituito dal parallelepipedo elementare in cui S `e il carico ed E la grandezza deformativa: un materiale elastico `e caratterizzato da un legame funzionale biunivoco tra S ed E. • In un caricamento quasi statico, il lavoro complessivamente fatto dalle forze esterne applicate in modo quasi statico su un corpo elastico pu`o essere completamente recuperato,

491

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

pertanto le interazioni interne responsabili del comportamento elastico sono conservative ed `e quindi definibile una energia potenziale elastica (elastic energy) complessiva del corpo • L’energia elastica complessiva immagazzinata in un corpo sar`a indicata U . • L’energia elastica U accumulata in un corpo elastico continuo `e pari al lavoro fatto dalle forze esterne e quindi anche al lavoro fatto dalle tensioni sull’insieme dei suoi parallelepipedi elementari: U = Lext = Lten • L’energia elastica accumulata in una porzione qualunque di un corpo elastico `e pari al lavoro fatto dalle forze esterne agenti sulla porzione stessa. Considerando come parte un parallelepipedo elementare, il lavoro fatto dalle tensioni lten dV si trasforma quindi in variazione di energia elastica interna dU , per cui: dU = lten dV • Dato che il parallelepipedo elementare `e infinitesimo e omogeneo per definizione, l’energia elastica pu`o essere considerata uniformemente distribuita nel volume del parallelepipedo • La densit` a di energia elastica (elastic energy density), che rappresenta la grandezza intensiva associata all’energia elastica e che sar`a indicata con ω, `e quindi per definizione: ω=

dU dV

• Per un materiale elastico in caricamento quasi-statico la densit`a di energia elastica `e uguale alla densit`a di lavoro fatto dalle tensioni: ω = lten • In un ciclo chiuso di carico-scarico quasi statico, il lavoro complessivamente fatto dalle forze esterne sul corpo, e dalle tensioni su ogni singolo parallelepipedo, `e nullo. • In un caricamento quasi statico di un corpo elastico, carichi e spostamenti (cos`ı come tensioni e deformazioni) variano nel tempo in fase, ovvero non si producono ritardi o anticipi tra le variazioni del carico e le conseguenti variazioni delle propriet`a geometriche prodotte dal carico. Le caratteristiche di perfetta elasticit`a descritte nei punti precedenti non sono, a stretto rigore, riscontabili sperimentalmente in alcun materiale dato che, come conseguenza del secondo principio della termodinamica, processi perfettamente conservativi e reversibili non esistono a livello macroscopico. Tuttavia, il modello di materiale elastico `e di notevole utilit`a pratica in quanto si verifica che: tutti i materiali solidi a temperature assolute inferiori a un terzo della temperatura di fusione (o di cambio di fase) manifestano un comportamento che pu`o essere considerato elastico con sufficiente approssimazione, almeno fino a che le tensioni non superano livelli caratteristici del materiale.

492

16.4. IL MATERIALE OMOGENEO ISOTROPO ELASTICO LINEARE

Dato che la reversibilit`a nel comportamento costitutivo `e fondamentale per l’esercizio di molti organi meccanici, il rispetto dei limiti termici e tensionali che garantiscono il comportamento elastico `e, in genere, una condizione necessaria per la verifica strutturale. In altri termini, in molte situazioni la verifica di resistenza del materiale ne impone generalmente il comportamento elastico. Dal punto di vista fisico `e opportuno distinguere due classi di materiali elastici: • i materiali cristallini, tipicamente i metalli • gli elastomeri: le gomme. Come osservato nei precedenti capitoli, la deformazione dei materiali solidi `e la manifestazione macroscopica di modifiche della posizione relativa degli atomi nel reticolo. Nella deformazione elastica di un cristallo, la tensione altera solo debolmente la forma e le dimensioni del cristallo (vedi capitolo 12) e ogni atomo rimane connesso con gli stessi atomi con i quali interagiva elettromagneticamente prima che la tensione fosse applicata. La conservazione della topografia del cristallo impone quindi che gli spostamenti relativi degli atomi siano piccoli e ci`o spiega il motivo per cui le deformazioni elastiche nei materiali cristallini devono essere piccole. Le deformazioni elastiche nelle gomme sono invece spiegabili con un meccanismo diverso e pi` u complesso. Un elastomero pu`o essere infatti rappresentato come una matassa aggrovigliata di lunghe catene polimeriche gli elementi delle quali sono tenuti insieme da forti legami longitudinali. In condizioni naturali, senza tensioni applicate, tali catene hanno assi di forma complicata a causa di deboli legami secondari che si manifestano trasversalmente tra le diverse catene e tra diversi tratti di una stessa catena. Applicando una trazione monoassiale crescente si determina la rottura progressiva dei legami secondari a cui consegue un graduale stiramento delle catene e un loro allineamento nella direzione principale dello stato di tensione. Quando il carico viene ridotto, i legami secondari tendono a ricostituirsi, anche se non esattamente nelle stesse posizioni e modalit`a, e di conseguenza si produce il riaggrovigliamento delle catene che rende il processo deformativo quasi reversibile. Tale meccanismo deformativo, completamente diverso da quello dei cristalli, giustifica il peculiare comportamento elastico delle gomme. In particolare, gli elastomeri possono essere deformati elasticamente a livelli vari ordini di grandezza pi` u elevati rispetto ai cristalli, inoltre le deformazioni delle gomme sono generalmente accompagnate da processi dissipativi (comportamento visco-elastico) molto pi` u marcati rispetto a quanto si verifica nei materiali elastici cristallini. Nel seguente esempio `e discusso il modo con cui si pu`o verificare l’elasticit`a del materiale di un corpo, tramite l’interpretazione di una prova di carico-scarico. Esempio 16.5: Prova sperimentale per la verifica di elasticit`a Consideriamo il corpo di figura 16.9a) che `e caricato da una forza di modulo Q, applicata nello stesso punto e che conserva nel caricamento la direzione. Nella fase di carico la forza viene fatta crescere da zero al valore finale QF e successivamente, dopo un tempo di mantenimento, viene riportata a zero con la legge temporale mostrata in figura 16.9b). Durante la prova `e misurato l’allontanamento dei punti A e B ovvero la quantit` a |A∗ B ∗ − AB| che `e rappresentata su un grafico cartesiano insieme al corrispondente valore

493

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

del modulo Q del carico. Discutere in base al tipo di curva ottenuta le propriet`a di elasticit`a del materiale. 

Q

Q QF

A B

t t2

t1

t3

(b)

(a)

Figura 16.9: Corpo genericamente sollecitato (a) da un ciclo completo di carico e scarico (b)

Consideriamo il tempo t come parametro e, per comodit`a, indichiamo con d (t) la distanza tra i punti A e B, quantit`a che, al tempo iniziale t = 0, assume il valore: d (0) = |AB| = d0 . La grandezza deformativa di interesse `e quindi definita dalla relazione: u (t) = d (t) − d0 In ogni istante, con il carico applicato Q (t), rappresentato nella figura 16.9b), si misura il corrispondente valore di u (t) il cui grafico `e riportato in figura 16.10.

u

t t1

t2

t3

Figura 16.10: Rilievo dello spostamento relativo dei punti A, B durante la prova

Dal confronto dei grafici di u (t) e Q (t) si ricavano varie indicazioni che suggeriscono l’elasticit`a del materiale, in particolare: • lo spostamento relativo u ritorna a zero quando il carico viene eliminato • il modulo dello spostamento relativo cresce quando il carico aumenta e diminuisce in fase di scarico • quando il carico `e stazionario anche lo spostamento relativo rimane costante.

494

16.4. IL MATERIALE OMOGENEO ISOTROPO ELASTICO LINEARE

Pu` o essere utile sottolineare che, anche se il materiale `e perfettamente elastico, le curve Q (t) e u (t) non necessariamente sono simili, ovvero sovrapponibili se normalizzate sul loro valore massimo. Tuttavia, se il materiale `e elastico non pu`o mai verificarsi che una curva aumenti e l’altra diminuisca nemmeno localmente. Per evidenziare le caratteristiche di elasticit`a del materiale `e opportuno considerare t come parametro e rappresentare l’andamento di Q in funzione di u (o viceversa), ottenendo in tal modo una curva carico-spostamento (load-displacement curve). Se il materiale `e elastico, la curva carico-spostamento `e del tipo rappresentato in figura 16.11. Q

carico

( u1 , Q1 ) ≡ ( u2 , Q2 ) scarico

u Figura 16.11: Curva carico-spostamento per un materiale elastico

Dalla figura si ricava che: • la curva nella fase di carico (che rappresenta i valori relativi all’intervallo [0, t1 ]) `e ripercorsa nella fase di scarico, ovvero vi `e un’unica curva carico-spostamento per le fasi di carico e di scarico • l’intervallo in cui il carico rimane fisso [t1 , t2 ] `e rappresentato da un unico punto, se il carico si mantiene costante il processo deformativo si arresta • se la prova viene ripetuta, anche con una diversa evoluzione temporale del carico (ma senza superare QF ), si ottiene una curva carico-spostamento sovrapposta alla precedente • la curva carico-spostamento pu`o essere non lineare. La figura 16.12 mostra invece una curva carico-spostamento per un corpo il cui materiale ha un comportamento non elastico. Sarebbe pi` u appropriato affermare che, in questo caso, il materiale del corpo ha deformazioni non solo elastiche. Si osserva infatti che: • la curva di scarico non ritorna all’origine, per cui alla fine del ciclo di carico-scarico la distanza dei punti A e B `e diversa dal valore iniziale e ci`o implica che rimane nel corpo una deformazione anche dopo la rimozione del carico, il materiale ha quindi accumulato nel processo deformativo deformazioni residue, • la curva di scarico `e diversa da quella di carico • nella fase di carico sono state prodotte anche deformazioni plastiche o viscose oltre a quelle elastiche.

495

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

Q

( u1 , Q1 ) ≡ ( u2 , Q2 )

carico

scarico

u Figura 16.12: Curva carico-spostamento per un materiale che ha un comportamento non solo elastico

Quello descritto nell’esempio precedente non `e l’unico esperimento che si pu`o realizzare per evidenziare l’elasticit`a del materiale (e non `e nemmeno il pi` u adatto), conclusioni analoghe possono infatti essere ottenute anche con carichi pi` u complessi e considerando altre propriet`a deformative. L’esempio `e per`o significativo per fare alcune fondamentali considerazioni. Prendendo a riferimento una curva di carico-scarico per un parallelepipedo elementare, il cui carico `e completamente rappresentato dal tensore di tensione e la variazione di forma dal tensore di deformazione, una legge costitutiva elastica si pu`o quindi esprimere come una relazione funzionale biunivoca: S = f (E) (16.22) con la quale indichiamo formalmente la propriet`a che qualunque componente tensionale σij rappresentata su un diagramma in funzione di una qualunque deformativa εrs ha le caratteristiche della funzione Q (u) di figura 16.11. Si osservi che dal punto di vista matematico, la semplicit`a della relazione (16.22) `e solo apparente, in effetti la legge lega due grandezze tensoriali e quindi f `e una funzione definita in R6 con valori in R6 .

16.4.4 Materiali elastici lineari La pi` u semplice relazione matematica del tipo (16.22) `e definita da una relazione lineare a parametri costanti. Il legame costitutivo lineare implica che il grafico che riporta una componente del tensore di Cauchy in funzione di una componente del tensore di deformazione `e una retta. Se i valori iniziali sono considerati nulli, quindi `e fissata la condizione di riferimento a parallelepipedo scarico e indeformato, la relazione lineare diventa di semplice proporzionalit`a diretta: la retta passa per l’origine. In termini generali, il legame (16.22) per un materiale lineare si pu`o esprimere quindi come: σmn =

3 X 3 X

qmnij εij

(16.23)

cmnij σij

(16.24)

i=1 j=1

oppure con la relazione inversa: εmn =

3 X 3 X i=1 j=1

Le grandezze qmnij e cmnij , chiamate costanti elastiche (elastic constants) rispettivamente di rigidezza (stiffness) e di deformabilit` a (compliance), sono caratteristiche del materiale e devono essere misurate.

496

16.5. EQUAZIONE COSTITUTIVA PER UN MATERIALE ELASTICO LINEARE

Esempio 16.6: Materiale elastico lineare Rappresentare la curva carico-spostamento per un corpo realizzato di materiale elastico lineare in un esperimento di carico-scarico quasi statico.  Riprendiamo l’esempio precedente, nel caso di comportamento elastico lineare del materiale e in condizioni di validit`a della meccanica dei corpi poco deformabili la curva sperimentale carico-spostamento assume la forma riportata in figura 16.13 Q

carico

( u1 , Q1 ) ≡ ( u2 , Q2 ) scarico

u Figura 16.13: Curva carico-spostamento per un materiale elastico-lineare

` importante osservare che una curva carico-spostamento non lineare potrebbe Nota. E essere ottenuta anche in un esperimento in cui il materiale ha comportamento costitutivo elastico lineare. Le non linearit`a della curva carico-spostamento potrebbero infatti derivare anche da effetti di tipo geometrico dovuti ai grandi spostamenti (vedi capitolo 11) come, per esempio, sensibili modifiche della configurazione sotto carico oppure variazioni delle condizioni di vincolo indotte dalla modifica di configurazione. In generale, per`o, nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili con vincoli ideali, la linearit`a costitutiva implica anche la linearit`a della generica curva carico-spostamento.

16.5 Equazione costitutiva per un materiale elastico lineare Si verifica sperimentalmente che tutti i solidi cristallini sottoposti a stati tensionali non molto intensi manifestano un comportamento lineare elastico e la loro legge costitutiva pu`o essere quindi rappresentata dalla relazione (16.23) oppure dalla sua inversa equivalente (16.24) chiamate leggi di Hooke generalizzate. Lo scienziato inglese Robert Hooke (1635-1702) fu infatti il primo a evidenziare la legge empirica di proporzionalit`a che lega tensioni e deformazioni nei solidi. Conformandosi a una consuetudine diffusa tra gli scienziati dell’epoca, Hooke ‘pubblic` o’ la legge da lui scoperta sotto forma di anagramma ‘ceiiinosssttuv ’. L’anagramma celava in effetti la frase ‘sic tensio ut vis’ che, in linguaggio moderno, si pu`o tradurre letteralmente come: tanta estensione quanta forza. La legge di Hooke nella forma che sar`a presentata nel presente paragrafo `e chiaramente successiva e richiede la formulazione moderna dei tensori di tensione e deformazione.

16.5.1 Tensori di rigidezza e di deformabilit` a e loro rappresentazione matriciale Dalle leggi di Hooke generalizzate (16.23) e (16.24) si deduce che le propriet`a costitutive di un materiale elastico lineare sono rappresentabili tramite una coppia di tensori del quarto ordine con componenti scalari aventi 4 pedici. In effetti, il tensore di rigidezza (stiffness tensor), le

497

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

cui componenti sono qmnij , pu`o essere interpretato come l’insieme ordinato dei coefficienti della trasformazione lineare che associa al campo tensoriale delle deformazioni il campo tensoriale delle tensioni. Il tensore di deformabilit` a (compliance tensor), con componenti cmnij , definisce la trasformazione lineare inversa. Dato che ognuno dei pedici pu`o assumere 3 valori, un materiale elastico lineare `e quindi descritto da 34 = 81 costanti elastiche, tante sono le quantit`a cmnij , e altrettante le qmnij . Fortunatamente, il numero di propriet`a elastiche indipendenti che determinano le 81 componenti di ciascuno dei tensori di elasticit`a `e, come vedremo, molto inferiore. Infatti, come abbiamo verificato nel caso dei tensori di ordine 2, anche per i tensori di elasticit`a devono essere rispettate alcune propriet`a generali per cui non tutte le 81 cmnij (o le qmnij ) possono essere fissate arbitrariamente. Allo scopo di evidenziare le dipendenze esistenti tra le costanti elastiche, `e necessario esaminare le caratteristiche invarianti dei tensori di elasticit`a e quindi esplicitare come le componenti si modificano con la rotazione del sistema di riferimento. Questo studio, che consentirebbe di identificare tutte le possibili anisotropie dei materiali elastici cristallini, esula dal programma del corso e sar`a effettuato solo a grandi linee. Un significativo sfoltimento delle costanti elastiche si ottiene peraltro in modo semplice, considerando la simmetria di entrambi i tensori di tensione e di deformazione. Dato che σij = σji , l’inversione degli indici i e j nella relazione (16.24) non deve produrre alcun effetto, e da ci`o consegue che: cmnij = cmnji . Analogamente per la simmetria di E deve essere anche: cmnij = cnmij . La riduzione del numero di costanti elastiche indipendenti legate alle simmetrie dei tensori S ed E pu`o essere evidenziata calcolando direttamente il numero di condizioni di uguaglianza dei coefficienti elastici con elementari considerazioni di algebra combinatoria. Tuttavia, questa valutazione e, sopratutto, la conseguente semplificazione della legge costitutiva, pu`o essere meglio evidenziata ricorrendo alla notazione introdotta da Woldemar Voight (1850-1919). Voight ha proposto di effettuare una formale vettorializzazione dei tensori di ordine 2 in modo da poterli rappresentare, invece che nella forma consueta di matrici quadrate, come matrici colonna:     σ11 ε11  σ22   ε22       σ33   ε33      ~σ =   ; ~ε =  γ23   σ23     σ13   γ13  σ12

γ12

Tramite la notazione di Voight sono evidenziate solo le 6 componenti scalari indipendenti di S ed E. Si osservi che nei vettori di Voight sono inseriti prima i termini diagonali delle matrici (con somma degli indici crescente) e successivamente i termini fuori diagonale (con somma degli indici decrescente) e che nel vettore delle deformazioni sono riportate le componenti angolari ingegneristiche γ. Il legame costitutivo (16.23) pu`o essere scritto in notazione di Voight come segue:      Q11 Q12 Q13 Q14 Q15 Q16 ε11 σ11    σ22   Q21 .. .. .. .. ..       ε22    ε33   σ33   Q31 .. .. .. .. ..      (16.25)  σ23  =  Q41 ..   γ23  .. .. .. ..       σ13   Q51 .. .. .. .. ..   γ13  σ12

Q61

..

..

..

..

Q66

γ12

e in forma contratta: ~σ = Q~ε

498

(16.26)

16.5. EQUAZIONE COSTITUTIVA PER UN MATERIALE ELASTICO LINEARE

La relazione (16.26) definisce Q che `e chiamata matrice di rigidezza del materiale. I coefficienti della matrice di rigidezza Qhg , con h, g = 1..6, sono legati biunivocamente alle componenti del tensore di rigidezza, infatti, `e immediato verificare che: Q11 = q1111 , 2Q16 = q1112 = q1121 , ecc. . . . La matrice Q rappresenta pertanto il tensore di rigidezza del quarto ordine qmnij nella notazione di Voight. Si osservi che nella notazione di Voight, `e possibile rappresentare la rigidezza su un foglio in forma strutturata (ovvero con la corretta logica dei pedici) e completa (in tutte le sue componenti scalari). La rappresentazione diretta del tensore qmnij sarebbe invece molto pi` u problematica. La relazione (16.26) pu`o essere invertita:      σ11 C11 C12 C13 C14 C15 C16 ε11    ε22   C21 .. .. .. .. ..    σ22        ε33   C31 .. .. .. .. ..   σ33   =  (16.27)    γ23   C41 .. .. .. .. ..    σ23      γ13   C51 .. .. .. .. ..   σ13  γ12

C61

..

..

..

..

C66

σ12

in forma compatta: ~ε = C~σ

(16.28)

in cui C `e la matrice di deformabilit` a. Tra le due matrici vale la relazione: C = Q−1

(16.29)

Il legame costitutivo scritto in notazione di Voight (16.26) o (16.28) evidenzia che, essendo le matrici costitutive 6 × 6, le costanti elastiche indipendenti di un materiale elastico lineare non possono essere pi` u di 36. La riduzione da 81 a 36 consegue quindi direttamente dalla simmetria dei tensori S ed E.

16.5.2 Densit` a del lavoro fatto dalle tensioni e densit` a di energia elastica Calcoliamo la densit`a del lavoro che fanno le tensioni applicate su un parallelepipedo elementare di materiale elastico lineare per portarlo, in modo quasi statico, dallo stato indeformato a una generica deformazione piccola ma finita. Nella notazione di Voight lo stato iniziale (indeformato) `e definito dal vettore deformazione ~ε = 0 mentre lo stato finale (generico) `e rappresentato dal vettore ~ε. Allo scopo di applicare la relazione (16.8), dividiamo il processo deformativo in una sequenza di variazioni infinitesime (e quindi virtuali) di configurazione d~ε per ognuna delle quali la densit`a del lavoro fatto dalle tensioni vale: dlten = σ11 dε11 + σ22 dε22 + σ33 dε33 + σ12 dγ12 + σ13 dγ13 + σ23 dγ23 = ~σ T d~ε

(16.30)

in cui ~σ rappresenta il vettore di Voight della tensione corrente S e quindi dipende dalla condizione deformativa raggiunta in quella configurazione. La relazione (16.30) mostra che i vettori di Voight ~σ ed ~ε sono energeticamente connessi. Poich´e in un materiale elastico, anche non lineare, la densit`a di energia elastica `e funzione della configurazione corrente (e quindi della deformazione E o ~ε), `e possibile esplicitare formalmente ω in funzione delle componenti di ~ε: ω (~ε) = ω (ε11 , ε22 , ε33 , γ12 , γ13 , γ23 ) differenziando la precedente relazione si ottiene la variazione di energia elastica connessa con una variazione infinitesima di configurazione: dω =

∂ω ∂ω ∂ω ∂ω ∂ω ∂ω dε11 + dε22 + dε33 + dγ12 + dγ13 + dγ23 ∂ε11 ∂ε22 ∂ε33 ∂γ12 ∂γ13 ∂γ23

499

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

Dato che dω = dlten dalla relazione precedente e dalla (16.31), entrambe valide per qualunque combinazione di componenti di d~ε, si ricava: ∂ω ∂ω ∂ω ∂ω ∂ω ∂ω = σ11 , = σ22 , = σ33 , = σ12 , = σ13 , = σ23 ∂ε11 ∂ε22 ∂ε33 ∂γ12 ∂γ13 ∂γ23 Possiamo pertanto concludere che: per un materiale elastico, non necessariamente lineare, la densit`a di energia elastica pu`o essere espressa come funzione delle componenti deformative e la derivata parziale di tale funzione calcolata rispetto a una componente del vettore di deformazione di Voight restituisce l’omologa componente tensionale. ` opportuno sottolineare che la precedente propriet`a consegue dalla sola ipotesi di esistenza E delle funzione di densit`a di energia elastica ω (~ε), a prescindere dalla forma della funziona stessa e quindi richiede solo la condizione di conservativit`a delle forze interne ovvero l’elasticit`a del materiale. Consideriamo il caso particolare, ma molto utile, di un materiale elastico lineare per il quale la tensione corrente `e esprimibile come combinazione lineare delle componenti deformative correnti. In questo caso si ha: dlten = ~σ T d~ε =

6 X 6 X

Qhg εg dεh

h=1 g=1

da cui, effettuando l’integrazione sul percorso deformativo, si ottiene: Z~ε lten (~ε) =

1 1 dlten = ~εT Q~ε = ~σ T ~ε 2 2

(16.31)

0

dove con l (~ε) indica il lavoro per unit`a di volume fatto dalle tensioni per portare il parallelepipedo dalla condizione di riferimento alla deformazione generica ~ε. Essendo il materiale elastico, il lavoro fatto dalle tensioni `e uguale all’energia elastica accumulata pertanto, la densit`a di energia di un materiale elastico lineare quando viene raggiunto uno stato di deformazione generico ~ε e di tensione ~σ vale: 1 1 (16.32) ω = ~σ T ~ε = (σ11 ε11 + σ22 ε22 + σ33 ε33 + σ12 γ12 + σ13 γ13 + σ23 γ23 ) 2 2 R Il fattore moltiplicativo 21 , che formalmente deriva dall’integrazione ( xdx = 21 x2 + c), `e una evidente conseguenza della linearit`a della legge costitutiva in virt` u della quale, durante il processo deformativo, le tensioni crescono proporzionalmente alle deformazioni. Il fattore ha la stessa origine del medesimo coefficiente che compare nell’espressione dell’energia elastica delle molle ideali. Dato che ogni componente di tensione dipende linearmente delle deformazioni, la densit`a di energia elastica per un materiale elastico lineare `e quindi una forma quadratica delle deformazioni elastiche raggiunte: 1 ω (~ε) = ~εT Q~ε 2

(16.33)

i cui coefficienti (a parte il fattore 12 ) sono le componenti della matrice di rigidezza. Per un materiale elastico lineare, la densit`a di energia elastica, in quanto forma quadratica delle deformazioni, pu`o essere derivata fino a qualunque ordine. Consideriamo in particolare le derivate seconde, per esempio: ∂2ω ∂ ∂ω ∂σ22 = = ∂ε11 ∂ε22 ∂ε11 ∂ε22 ∂ε11

500

16.5. EQUAZIONE COSTITUTIVA PER UN MATERIALE ELASTICO LINEARE

dalla relazione (16.27) si ha: σ22 = Q21 ε11 + Q22 ε22 + Q23 ε33 + Q24 γ23 + Q25 γ13 + Q26 γ12 dalla quale si ricava: ∂2ω = Q21 ∂ε11 ∂ε22 invertendo l’ordine delle derivazioni si ottiene invece: ∂2ω ∂ ∂ω ∂σ11 = = = Q12 ∂ε22 ∂ε11 ∂ε22 ∂ε11 ∂ε22 Per l’indipendenza dell’ordine di derivazione (teorema di Schwartz) ricaviamo quindi che: Q12 = Q21 e, ripetendo il calcolo per tutte le coppie di componenti deformative, concludiamo che la matrice di rigidezza ` e simmetrica. La stessa propriet`a vale ovviamente anche per la matrice di deformabilit`a. Pertanto, l’esistenza di una funzione ω (~ε) per la densit`a di energia elastica implica che un materiale elastico lineare abbia non pi` u di 21 costanti elastiche indipendenti che sono le quantit`a che definiscono una generica matrice simmetrica 6 × 6. In certi testi, per ragioni di tipo storico, un materiale la cui densit`a di energia `e esprimibile come funzione dello stato di deformazione viene indicato come iperelastico o materiale di Green in onore di George Green (1793-1841). Un materiale che mostra un generico legame funzionale tra tensione e deformazione del tipo (16.22), in particolare lineare, `e invece chiamato materiale di Cauchy. Il materiale che sar`a considerato nel presente corso `e lineare elastico ed `e quindi un materiale di Green-Cauchy. I solidi cristallini poco sollecitati sono materiali di Green-Cauchy. La simmetria delle matrici di rigidezza e di deformabilit`a, conseguente all’esistenza di una densit`a di energia elastica, `e una caratteristica generale che ritroveremo sotto altra forma anche in contesti diversi. Esempio 16.7: Giustificazione del fattore

1 2

nell’espressione dell’energia

Si consideri un materiale elastico lineare la cui legge costitutiva `e espressa dalla relazione:      σ11 2 −0.5 0.5 ε11  σ22  =  1.5 −0.4   ε22  σ12 Sym 1 γ12 semplificata per le sole componenti piane e in cui le tensioni devono essere espresse in MPa e le deformazioni in µε. Viene prodotto un caricamento graduale con legge temporale di deformazione:      2 ε11 (t) 100  ε22 (t)  =  −150  t µε con 0 6 t 6 tF tF γ12 (t) 80 a) Determinare lo stato di tensione finale (componenti piane) b) Tracciare i diagrammi delle componenti piane della tensione in funzione delle deformazioni omonime durante il processo deformativo c) Determinare la densit`a di energia elastica immagazzinata. 

501

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

Risposta a) Lo stato di tensione finale si ottiene per moltiplicazione diretta:     315 σ11  σ22  =  −307  MPa 70 σ12 Per l’elasticit`a del materiale, lo stato di tensione `e indipendente dall’evoluzione del processo deformativo che porta alla condizione finale.

Risposta b) Il tempo pu`o essere considerato un parametro, il processo deformativo `e omotetico (le componenti crescono con la stessa legge) e lo stesso vale per le tensioni per la linearit`a costitutiva.

σ ij

(100,315)

componenti 11

(80, 70 ) componenti 12

ε11 , ε 22 , γ 12 ( −150,307 ) componenti 22 Figura 16.14: Curve tensione deformazione

Risposta c) La densit`a di energia elastica si ottiene dalla densit`a del lavoro fatto dalle tensioni. Il risultato `e indipendente dalla storia di carico per cui possiamo assumere un aumento omotetico delle componenti. Il lavoro per unit`a di volume prodotto dalla componente σ11 `e dato dall’area del triangolo sotteso dalla curva σ11 − 11 (figura 16.15). Il grafico illustra come il fattore 12 derivi della crescita contemporanea della tensione e della deformazione energeticamente associata. La densit`a di energia complessiva (comprendente tutte le componenti) vale: 4.157 · 104 J/m3 .

σ 11

(100,315)

ε11 Figura 16.15: Lavoro per unit`a di volume fatto dalla componente σ11

502

16.5. EQUAZIONE COSTITUTIVA PER UN MATERIALE ELASTICO LINEARE

16.5.3 Limiti di natura termodinamica ai valori delle costanti elastiche Alcune importanti conseguenze generali possono essere dedotte del fatto che la densit` a dell’energia interna per un materiale elastico lineare `e una forma quadratica delle deformazioni. Consideriamo un parallelepipedo elementare di materiale elastico lineare il quale, partendo dalla condizione naturale (~ε = 0), sia sottoposto a un caricamento progressivo caratterizzato da una sola componente tensionale non nulla, per fissare le idee assumiamo solo σ12 > 0. In generale, nel parallelepipedo si pu`o manifestare una deformazione caratterizzata da tutte le componenti, questa situazione si verifica effettivamente in un materiale genericamente anisotropo. Non `e semplice fornire previsioni generali sull’entit`a, o anche solo sul segno, delle varie componenti di deformazione prodotte nell’esperimento, tuttavia, almeno sulla componente γ12 che `e la quantit` a energeticamente associata alla tensione non nulla, `e possibile fare alcune considerazioni. In primo luogo, osserviamo che la γ12 non pu`o essere nulla poich´e, se cos`ı fosse, il parallelepipedo si comporterebbe come un corpo infinitamente rigido, almeno per tale tipo di sollecitazione. In effetti, se fosse γ12 = 0 il parallelepipedo pur essendo caricato non accumulerebbe alcuna energia elastica. A maggior ragione, la γ12 non pu`o avere segno discorde dalla componente tensionale energeticamente associata, quindi deve essere: σ12 · γ12 > 0, perch´e, diversamente, il parallelepipedo avrebbe, per lo meno su questa componente, un comportamento analogo a quello di una molla con costante elastica negativa (una tale molla si allungherebbe se schiacciata!). Un corpo fatto di un simile materiale, se fatto rimbalzare a terra, acquisterebbe energia cinetica a ogni impatto, e permetterebbe quindi di realizzare un moto perpetuo di prima specie. Pertanto, per il principio di conservazione dell’energia, gli elementi diagonali della matrice di deformabilit`a Cii , che legano componenti deformative e tensionali energeticamente connesse, e per questo si chiamano termini di accoppiamento diretto, devono essere tutti strettamente positivi. Positivi devono quindi essere anche i termini diagonali della matrice di rigidezza. Consideriamo pertanto un parallelepipedo elementare di materiale elastico lineare (anche genericamente anisotropo) sottoposto a uno stato di tensione che ha una sola componente non nulla. Ricaviamo che, in generale, lo stato di tensione debba produrre la componente deformativa omologa che deve avere segno concorde con la componente tensionale e possa produrre componenti deformative con pedici diversi. Le componenti deformative con pedici diversi sono giustificate dalla presenza dei termini fuori diagonale non nulli della matrice di deformabilit`a. Le componenti deformative con pedici diversi, e quindi non energeticamente associate, possono essere nulle, avere lo stesso segno o anche segno opposto della componente tensionale. I termini fuori diagonale delle matrici di elasticit`a, detti termini di accoppiamento misto, possono quindi essere positivi, negativi o nulli. Se il parallelepipedo elementare `e sollecitato da un generico stato di tensione in cui sono presenti pi` u componenti non nulle, non si pu`o escludere che, a causa degli accoppiamenti misti, qualche componente deformativa (per esempio la solita γ12 ) assuma segno opposto alla omologa componente tensionale e quindi che, all’equilibrio, possa essere: σ12 · γ12 < 0. In tal caso, nel processo di caricamento la componente σ12 far`a lavoro negativo e tender`a a ridurre la densit` a di energia elastica immagazzinata nel parallelepipedo (lavoro fatto dal parallelepipedo sull’ambiente esterno). Tuttavia, considerato che necessariamente in questo caso sono energeticamente attive anche altre componenti tensionali, per evitare il paradosso del moto perpetuo, `e necessario che il contributo negativo della coppia σ12 γ12 sia pi` u che compensato da quello positivo fatto dalle altre componenti. Per il rispetto del primo principio della termodinamica si ricava quindi che il lavoro fatto da un generico stato di tensione per deformare un parallelepipedo elastico a partire dalla configurazione scarica per portarlo a qualunque stato di deformazione, e quindi l’energia elastica associata a un generico stato deformativo non nullo, `e una quantit` a positiva, pertanto:

503

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

per un materiale lineare elastico, fissato convenzionalmente a zero il valore della densit`a di energia quando la deformazione `e nulla, la densit`a di energia elastica `e una forma quadratica definita positiva delle componenti di deformazione. Si pu`o prevedere quindi che, per rispettare tale condizione per ogni stato di deformazione `e necessario, ma non sufficiente, che tutti i termini di accoppiamento diretto siano positivi. I termini di accoppiamento misto, che possono essere positivi, negativi o nulli, devono infatti assumere valori contenuti entro definiti intervalli di ammissibilit`a. La densit`a di energia elastica per un materiale elastico lineare pu`o essere espressa anche come forma quadratica definita positiva delle tensioni: 1 ω (σ11 , σ22 , σ33 , σ23 , σ13 , σ12 ) = ~σ T C~σ 2

(16.34)

espressione che si ottiene esplicitando nella relazione (16.33) la dipendenza lineare delle deformazioni dalle tensioni.

16.6 La sovrapposizione degli effetti nella meccanica dei corpi elastici Come la mensola di figura 16.8, spesso un corpo deformabile `e sollecitato da varie forze che fanno lavoro. In tali circostanze `e interessante considerare la relazione che sussiste tra la deformata complessivamente prodotta da tutti i carichi e le deformate prodotte dai singoli carichi agenti separatamente. Se il materiale del corpo `e elastico e i vincoli sono ideali, la deformata prodotta dal carico complessivo dipende, per definizione stessa di elasticit`a, solo dalle caratteristiche finali del carico e non dalle modalit`a (storie temporali e sequenze) con cui le singole forze sono applicate. Questa caratteristica consegue dalla sola conservativit`a delle forze interne e quindi vale anche in presenza di elasticit`a non lineare (un materiale di Green pu`o avere una densit`a di energia elastica anche non quadratica rispetto alle deformazioni) e di non linearit`a geometriche (grandi spostamenti) o di vincolo (contatti unilateri). La sola ipotesi di elasticit`a del materiale `e sufficiente quindi per garantire che la stessa configurazione finale sia raggiunta dal corpo facendo crescere le forze esterne tutte con la medesima legge temporale (caricamento omotetico) oppure, per esempio, portando le singole forze al valore finale una dopo l’altra, o in qualsiasi altro modo. Tuttavia, anche se il risultato deformativo finale non dipende dalla sequenza di caricamento, in un corpo elastico in presenza di non linearit`a, di qualunque tipo queste siano, una generica grandezza deformativa non `e in genere ottenibile come semplice somma algebrica degli effetti che su tale grandezza sono prodotti dai singoli carichi agenti da soli. Tuttavia, se il problema `e completamente lineare (in termini costitutivi, geometrici e di vincolo) tale procedimento `e invece applicabile. Questa notevole propriet`a esprime il principio di sovrapposizione degli effetti (P.S.E.) per i corpi deformabili: nella meccanica dei corpi poco deformabili con vincoli ideali, se il materiale `e elastico lineare, una generica componente deformativa prodotta dall’azione di pi` u carichi che agiscono insieme pu`o essere ottenuta dalla somma algebrica della stessa componente deformativa prodotta dall’azione indipendente dei carichi. Nei seguenti esempi `e discussa l’applicabilit`a del P.S.E. in casi semplici.

504

16.6. LA SOVRAPPOSIZIONE DEGLI EFFETTI NELLA MECCANICA DEI CORPI ELASTICI

Esempio 16.8: Canna da pesca All’estremo C di una canna da pesca di carbo-resina, vincolata come una mensola (figura 16.16), `e applicata una forza verticale P lentamente crescente da zero fino a PF = 15 N e misurato l’abbassamento v di C. Nell’intervallo di valori esaminato, le misure P − v (forze in N e spostamenti in mm) sono approssimabili con la relazione empirica: P (v) = av 3 + bv dove a = 6.4 · 105 e b = 0.14. Si verifica inoltre che la precedente relazione riproduce in modo sufficientemente preciso sia la fase di carico sia quella di scarico. Cosa si pu`o concludere sull’elasticit`a del materiale? Se il materiale `e elastico, valutare l’energia complessivamente ` applicabile il P.S.E. in questo caso? accumulata nella canna al massimo carico. E 15 B

C PF/4

10

P

C*

P (N)

v

PF 5

0 0

10

20

30

40

50

v (mm) Figura 16.16: Configurazioni di una canna da pesca durante un caricamento. I rombi sono misure sperimentali la linea continua la legge P (v) indicata nel testo

L’elasticit`a del materiale `e verificabile dalla coincidenza delle curve di carico e scarico. ` in effetti noto che il materiale carbo-resina `e con buona approssimazione elastico lineare, E almeno entro i limiti tensionali che non lo danneggiano. In questo caso la non linearit` a della curva P (v) non `e quindi dovuta al legame costitutivo ma ai grandi spostamenti, come gi`a osservato nel capitolo 12. La non linearit`a della funzione carico-spostamento, che si manifesta con la concavit`a della curva P (v), `e infatti pi` u marcata ai livelli pi` u alti del carico. L’energia elastica immagazzinata pu`o essere comunque valutata in base al primo principio della termodinamica, tenendo conto che P `e l’unica forza esterna che fa lavoro. Considerando che lo spostamento misurato `e la quantit`a energeticamente associata a P : ZvF Lext =

P (v)dv = U = 275 Nmm 0

con vF = v (PF ) = 50 mm. Poich´e il grafico di figura 16.16 riporta la forza in funzione della grandezza deformativa energeticamente associata, il lavoro `e rappresentato dell’area sottostante la curva di carico. Lo stato di tensione `e sicuramente variabile nei punti della canna (basti considerare che anche le caratteristiche di sollecitazione variano lungo l’asse) e

505

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

quindi l’energia elastica complessiva si distribuisce nel corpo con una densit`a non uniforme. In questo caso il P.S.E. non `e applicabile nonostante l’elasticit`a lineare del materiale. Per verificarlo `e sufficiente considerare il carico finale come sovrapposizione di due forze uguali pari a PF /2. La singola forza dimezzata produrrebbe infatti uno spostamento:   PF v = 34.6 mm 2 e quindi la somma degli effetti separati darebbe:     PF PF +v = 69.2 mm 6= v (PF ) = 50 mm v 2 2

Esempio 16.9: Spostamenti di un albero soggetto a carichi concentrati All’albero di acciaio in figura 16.17 sono applicate le forze trasversali P e Q. Tramite due comparatori centesimali sono misurate le frecce verticali vB e vD , rispettivamente dei punti di applicazione B e D, mentre si eseguono caricamenti con diverse sequenze di applicazione delle forze (il segno degli spostamenti `e scelto concorde con l’asse y). Le misure mostrano che: • quando ognuna delle forze agisce da sola, gli spostamenti di entrambi i punti variano proporzionalmente all’intensit`a della forza • per ognuna delle 4 combinazioni possibili (ognuno degli spostamenti prodotto da ognuna delle forze) la curva carico-spostamento `e ripercorsa nella fase di scarico.

300

A

∅50

150 B

150 C

D

y

∅60

z P

Q

Figura 16.17: Albero di acciaio

La seguente tabella fornisce le frecce dei punti B e D in corrispondenza dei valori estremi dei carichi quando questi sono applicati da soli (per esempio: vB,P `e la freccia del punto B quando agisce il solo carico P al suo valore finale): Carico (kN) P = 9.0 Q = 5.0

506

vB (mm) vB,P = 0.30 vB,Q = −0.14

vD (mm) vD,P = −0.25 vD,Q = 0.37

16.6. LA SOVRAPPOSIZIONE DEGLI EFFETTI NELLA MECCANICA DEI CORPI ELASTICI

a) Determinare lo spostamento complessivo di ognuno dei punti B e D quando sono applicate entrambe le forze al valore massimo b) Calcolare il lavoro fatto dalle singole forze per raggiungere il valore massimo quando agiscono separatamente c) Determinare l’energia elastica immagazzinata nell’albero quando entrambe le forze hanno raggiunto il valore massimo.  Il materiale (solido cristallino) e l’entit`a delle frecce (valori verosimili per una pratica applicazione ed effettivamente piccoli rispetto alle dimensioni caratteristiche del corpo) suggeriscono che si tratta di un problema elastico lineare sia dal punto di vista costitutivo sia dal punto di vista geometrico e dei vincoli. I dati riportati nella tabella mostrano che quando agisce una sola forza lo spostamento del suo punto di applicazione `e equiverso alla forza. Il lavoro fatto da una forza esterna agente da sola `e pertanto positivo, in coerenza con il primo principio della termodinamica. Al contrario, lo spostamento dell’altro punto quando agisce una sola forza risulta di segno discorde alla forza. Questo fatto non costituisce una violazione di principi generali poich´e la quantit`a deformativa non `e energeticamente associata al carico e quindi pu`o essere, rispetto a questo, concorde o discorde (o anche nulla). In effetti, applicando solo P (verso le y positive) `e plausibile che l’inflessione della parte dell’albero tra i cuscinetti e la generale congruenza produca uno spostamento verso l’alto dell’estremo D.

Risposta a) Risulta quindi applicabile il P.S.E. e gli spostamenti complessivi dei punti B e D prodotti da entrambe le forze quando raggiungono il valore finale si possono ottenere sommando (algebricamente) gli spostamenti prodotti dai carichi agenti da soli: vB,tot = vB,P + vB,Q = 0.16 mm vD,tot = vD,P + vD,Q = 0.12 mm

Risposta b) Il lavoro fatto dalle singole forze quando agiscono separatamente pu`o essere valutato in base alla definizione. Tenendo conto che lo spostamento del punto di applicazione di ognuna delle forze cresce proporzionalmente al livello di carico applicato, si ha: 1 LP = P vB,P = 1.33 J 2 1 LQ = QvD,Q = 0.921 J 2

507

16. LA LEGGE COSTITUTIVA

Risposta c) L’energia elastica globalmente accumulata quando agiscono entrambi i carichi e raggiungono il valore finale `e pari al lavoro fatto dalle forze. Dato che il problema `e elastico, la sequenza di caricamento non pu`o avere effetto sull’energia elastica finale accumulata, pertanto per effettuare il calcolo la sequenza di caricamento pu`o essere scelta arbitrariamente. Un modo comodo per calcolare tale lavoro consiste nell’assumere che i carichi crescano insieme con la medesima legge temporale (caricamento omotetico). Per la linearit`a, infatti, anche gli spostamenti dei punti di applicazione cresceranno con la stessa legge temporale e alla fine il lavoro complessivo fatto da entrambe le forze sar`a: 1 1 Lext = P vB,tot + QvD,tot = U = 0.982 J 2 2 Osserviamo che il lavoro totale non ` e la somma dei lavori fatti separatamente dalle due forze quando agiscono da sole. Non si deve per`o considerare questa circostanza in contrasto con il P.S.E. L’energia infatti non `e una funzione lineare del carico (nel caso in esame `e in effetti una funzione quadratica) e non vi `e quindi nulla di anomalo nel risultato ottenuto. Su questo fatto ritorneremo con maggiore cura tra qualche capitolo.

Esercizio 16.2: Applicabilit`a del P.S.E. Verificare che il P.S.E. pu`o essere applicato con sufficiente approssimazione anche per la canna da pesca dell’esempio precedente se l’esperimento `e limitato al carico massimo di 4 N. In particolari applicazioni trovano impiego speciali molle progettate allo scopo di manifestare un comportamento elastico non lineare. In certi ammortizzatori di impiego veicolistico, per esempio, questo risultato `e ottenuto mediante molle di acciaio di forma elicoidale a passo variabile caricate in compressione. Poich´e l’acciaio per molle (acciaio armonico) `e con ottima approssimazione elastico lineare, la non linearit`a della curva carico-spostamento della molla deve essere di origine geometrica. In questo caso `e infatti sfruttato l’ingombro assiale delle spire, alcune delle quali vanno progressivamente a pacco nell’accorciamento. Quando due spire si toccano perdono la capacit`a di deformarsi ulteriormente per cui, sotto carico, la parte attiva della molla si riduce e la relativa costante elastica aumenta. Una molla di questo tipo presenta quindi una curva carico-accorciamento concava verso l’alto simile a quella mostrata in figura 16.15. Una struttura deformabile che diviene pi` u rigida all’aumentare del carico `e chiamata tenso-irrigidente (stress-stiffening). Il comportamento inverso (stress-softening), sempre dovuto a effetti di non linearit`a geometriche, `e realizzato nelle molle a tazza per le quali l’andamento della curva che esprime la forza assiale in funzione dello schiacciamento `e, almeno nella prima fase del funzionamento, concavo verso il basso.

508

Capitolo 17

Il materiale elastico lineare omogeneo isotropo Per un materiale elastico lineare omogeneo e isotropo definito nel precedente capitolo, viene proposta la descrizione della procedura sperimentale per misurare le propriet`a costitutive e la sua interpretazione. Sono definite le principali costanti elastiche, modulo di Young e rapporto di Poisson, e ricavate le matrici di deformabilit`a e di rigidezza del materiale e l’espressione della densit`a di energia elastica. Le due costanti elastiche permettono di definire completamente la legge di Hooke che rappresenta la legge costitutiva completa per tale tipo di materiale. La disponibilit`a della legge di Hooke permette finalmente di affrontare il problema della meccanica strutturale dei corpi deformabili. Nella seconda parte del capitolo sono discussi i primi elementari problemi iperstatici per risolvere i quali sono impiegate tutte le considerazioni finora sviluppate nel corso e che comprendono: le equazioni di equilibrio della statica, le equazioni geometriche di congruenza e le equazioni costitutive del materiale. Nell’ultima parte del capitolo, tramite una schematica modellazione del reticolo cristallino, `e fornita una giustificazione fisica della legge di Hooke e, in particolare, del fenomeno della contrazione poissoniana nel caso elastico.

17.1 La legge di Hooke per il materiale elastico lineare omogeneo e isotropo 17.1.1 L’effetto dell’isotropia sulle matrici elastiche Nel capitolo precedente il numero di costanti di un materiale elastico lineare `e stato ridotto da 81 a 21 tenendo conto della simmetria del tensore di Cauchy (condizione di equilibrio) e della simmetria del tensore di deformazione (condizione di congruenza) nonch´e del primo principio della termodinamica e l’esistenza di un potenziale per la densit`a di energia. Le caratteristiche costitutive del materiale sono pertanto definite da una matrice di deformabilit`a del tipo:   C11 C12 C13 C14 C15 C16  C22 C23 C24 C25 C26      C C C C 33 34 35 36  C=  C44 C45 C46     Sym C55 C56  C66 o, equivalentemente, dalla matrice inversa di rigidezza. Ulteriori riduzioni del numero di costanti elastiche indipendenti si possono ottenere considerando:

509

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

• le propriet`a di invarianza dei tensori di elasticit`a con la rotazione degli assi • le eventuali simmetrie del materiale (gradi di anisotropia). In effetti, per il materiale isotropo, che ha il massimo grado di simmetria, molti accoppiamenti misti tra componenti tensionali e deformative non possono essere attivi e, di conseguenza, i corrispondenti termini fuori diagonale delle matrici di elasticit`a devono essere identicamente nulli. L’esempio seguente illustra il tipico ragionamento che giustifica la precedente affermazione. Esempio 17.1: Annullamento di termini di accoppiamento misti Dimostrare che in un materiale isotropo il temine C16 della matrice di deformabilit`a `e nullo.  Consideriamo un parallelepipedo elementare sottoposto a uno stato di tensione uniassiale di trazione con la sola componente σ11 non nulla (nel seguito `e assunta positiva). Oltre a un necessario allungamento ε11 ed eventualmente ad altre componenti deformative, se il termine C16 fosse non nullo (per fissare le idee, consideriamolo anch’esso positivo) si manifesterebbe anche la deformazione angolare positiva: γ12 = C16 · σ11 come mostrato nella figura 17.1. Per quanto possa apparire inverosimile che il parallelepipedo, essendo semplicemente ‘tirato’, abbia deformazioni angolari, un processo deformativo del genere non violerebbe nessuna legge generale e, in effetti, pu`o essere effettivamente osservato in un materiale fibroso (con le fibre non parallele agli assi coordinati).

B

C

ˆj A iˆ

D (a)

σ 11

γ 12 B*

A*

C*

σ 11 D*

(b)

Figura 17.1: Parallelepipedo elementare (a) indeformato e (b) deformato sotto l’effetto di uno stato di tensione monoassiale.

Tuttavia, per un materiale isotropo, la dissimmetria della variazione di forma in corrispondenza di simmetrie costitutiva e di carico non `e giustificabile. Infatti, se ripetiamo l’esperimento applicando la stessa tensione monoassiale σ11 dopo aver ruotato il parallelepipedo di 180◦ attorno al suo asse baricentrico in direzione y (o anche in direzione x), ci dovremmo aspettare l’esito deformativo rappresentato nella figura 17.2, con la deformazione angolare γ12 negativa. Ma, per definizione di isotropia, il comportamento deformativo del provino non pu`o dipendere dal suo orientamento e quindi `e necessario che anche l’eventuale deformazione angolare sia la stessa (in modulo e segno) nei due esperimenti. Siccome lo zero `e l’unico numero che `e uguale al suo opposto, dobbiamo concludere che necessariamente γ12 = 0 e quindi che in un materiale isotropo non vi pu`o essere accoppiamento tra σ11 e γ12 . Pertanto deve essere: C16 = 0.

510

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

ˆj

C

B

D

A



(a)

B*

C*

σ 11

σ 11

A*

D* (b)

Figura 17.2: La medesima prova monoassiale ottenuta dopo aver ribaltato il provino attorno all’asse verticale: (a) indeformato e (b) deformato sotto l’effetto dello stesso stato monoassiale.

Generalizzando le considerazioni sviluppate nell’esempio alle altri componenti, si conclude che in un materiale isotropo non pu`o esserci alcun accoppiamento tra tensioni normali e deformazioni angolari e quindi la matrice di deformabilit`a deve avere la seguente forma:   C11 C12 C13 0 0 0  C22 C23 0 0 0     C33 0 0 0    C=  C 0 0 44    Sym C55 0  C66 con una ulteriore riduzione a 9 delle costanti elastiche. Sempre per l’isotropia del materiale, il comportamento in una direzione deve inoltre essere uguale a quello in qualunque altra. In termini operativi ci`o implica che, per esempio, un provino estratto con l’asse in direzione x si deve comportare come un provino estratto con l’asse in direzione y oppure z. Questo fatto implica che la matrice di deformabilit`a deve rimanere inalterata se si scambiano gli indici 1, 2 e 3 nei tensori di tensione e deformazione, per cui devono valere le relazioni: C11 = C22 = C33 C12 = C13 = C23 C44 = C55 = C66 In definitiva la matrice di deformabilit`a pu`o essere espressa in funzione di 3 sole quantit`a scalari:   C11 C12 C12 0 0 0  C11 C12 0 0 0     C 0 0 0  11   (17.1) C=  C 0 0 44    Sym C44 0  C44

511

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

La stessa struttura si riscontra anche per la matrice di rigidezza:  Q11 Q12 Q12 0 0 0  Q Q 0 0 0 11 12   Q11 0 0 0 Q=  Q 0 0 44   Sym Q44 0 Q44

       

(17.2)

Come vedremo, `e possibile una ulteriore riduzione che porta a 2 le costanti elastiche indipendenti dalle quali tutti gli elementi non nulli delle matrici di elasticit`a dipendono.

17.1.2 La prova di trazione Con considerazioni teoriche generali la complessit`a delle matrici di elasticit`a (17.1) e (17.2) `e stata ridotta in modo considerevole, a questo punto le propriet`a costitutive del materiale elastico lineare isotropo devono essere ottenute sperimentalmente. Per effettuare la misura `e opportuno tener conto che: • qualunque stato di tensione `e rappresentabile nel sistema principale come una matrice diagonale (capitolo 12) • per l’isotropia del materiale, l’orientamento del sistema di riferimento non `e rilevante e quindi `e lecito orientare gli assi parallelamente agli autovettori dello stato di tensione • l’effetto deformativo prodotto da un generico stato di tensione equivale a quello prodotto da tre stati monoassiali mutuamente perpendicolari, ognuno caratterizzato dalla tensione principale corrispondente • in base al principio di sovrapposizione degli effetti, valido per un materiale elastico lineare, l’effetto deformativo complessivo `e ottenibile come somma dell’effetto deformativo dei singoli stati monoassiali. La legge costitutiva generale di un materiale elastico lineare isotropo `e quindi deducibile dall’esame del comportamento deformativo prodotto da uno stato di tensione monoassiale, che peraltro `e il pi` u semplice da ottenersi sperimentalmente e da analizzare. Il problema di tipo sperimentale, consiste nel realizzare uno stato di tensione monoassiale uniforme su un volume macroscopico di materiale (provino (specimen)) in modo che sia possibile rilevare: • le tensioni come rapporto tra forze e aree • le deformazioni come rapporti tra spostamenti e distanze di punti. L’ottenimento di stati tensionali uniformi e di corrispondenti trasformazioni affini in grande su un corpo macroscopico `e un problema fondamentale nella sperimentazione meccanica dei materiali. Nel caso in esame le ipotesi di omogeneit`a e di isotropia rendono tale compito relativamente semplice, tuttavia la stessa facilit`a non si riscontra nella sperimentazione dei materiali non omogenei o non isotropi e per altri stati di tensione. Le propriet`a elastiche di un materiale si possono rilevare tramite la prova di trazione il cui schema `e riportato nella figura 17.3a). Il provino presenta una parte centrale cilindrica di lunghezza e raggio con valori nominali H e R (pi` u in generale la parte centrale pu`o essere prismatica) che `e opportunamente raccordata verso le zone di estremit`a che hanno sezione maggiorata e sono conformate (tipicamente con codoli filettati) in maniera da consentirne l’afferraggio nelle ganasce di una macchina di prova universale. Una delle estremit`a, in figura

512

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

5 2

1 H 2R 3

P (a)

4

(b)

Figura 17.3: Schema della prova monoassiale di trazione (a): configurazione di prova: 1) provino, 2) ganascia fissa della macchina di prova, 3) ganascia mobile, 4) cilindro idraulico per l’attuazione del carico, 5) cella di carico; (b) schema statico del provino considerato come trave durante la prova.

quella superiore, `e incastrata alla traversa fissa della macchina di prova dove una cella di carico rileva la componente assiale della forza trasmessa al provino (reazione vincolare d’incastro). L’altra estremit`a del provino `e fissata alla ganascia mobile della macchina di prova che pu` o scorrere su una guida prismatica sotto l’azione di un attuatore, generalmente costituito da un martinetto idraulico. L’attuatore `e a doppio effetto e permette di esercitare sul provino trazioni o compressioni. Di solito la prova viene effettuata sollecitando il provino in trazione. In un modello piano, lo schema statico della prova `e rappresentato in figura 17.3b). Per l’omogeneit`a e l’isotropia del materiale e per la simmetria geometrica del problema, sotto un carico costituito da una coppia di braccio nullo con le forze applicate a due punti dell’asse, le estremit`a del provino tendono ad allontanarsi senza movimenti laterali o rotazioni relative, il bipendolo risulta quindi scarico e il problema `e isostatico, anche se non intrinsecamente. Nella figura 17.4 `e mostrato lo schema di corpo libero definitivo e il diagramma dalla forza normale, l’unica caratteristica di sollecitazione non identicamente nulla. La parte utile del provino `e costituita dal cilindro centrale calibrato nella quale, se si escludono le zone vicine ai raccordi, si manifesta uno stato di tensione monoassiale uniforme a cui corrisponde una deformazione affine in grande. Come conseguenza, tutti i parallelepipedi elementari appartenenti a tale zona hanno lo stesso stato di tensione e deformazione e quindi tale comportamento `e indipendente dalle dimensioni del parallelepipedo stesso. Questa importante caratteristica di uniformit`a della soluzione pu`o essere evidenziata in vario modo con l’esame strumentale diretto del provino ma `e giustificabile anche con considerazioni generali basate sulla simmetria e sull’uniformit`a della soluzione che sono quindi molto utili per acquisire il senso fisico del fenomeno della deformabilit` a elastica dei materiali. A tale scopo, `e conveniente adottare per la parte interessante del provino un sistema di riferimento convenzionale per un modello di trave fissando l’asse z sull’asse del provino e gli assi x e y generici nel piano di sezione (figura 17.5). Data l’indeterminazione degli

513

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

F

N=F

F (a)

(b)

Figura 17.4: (a) schema di corpo libero del provino considerato come trave durante la prova e (b) diagramma della forza normale

assi centrali principali d’inerzia della sezione (l’ellisse centrale d’inerzia `e circolare) per l’esame dell’elementi di volume possono essere usati anche gli assi locali delle coordinate cilindriche r, θ e z. Considerazioni di simmetria e di uniformit`a giustificano le seguenti previsioni del comportamento della zona centrale del provino. Dato che il materiale `e omogeneo e isotropo, tutte le sezioni sono uguali e la caratteristica di sollecitazione uniforme (tutte le sezioni sono egualmente critiche) si deduce che gli stati di tensione e deformazione non variano con l’ascissa assiale parallela a z. A rigore questa conclusione `e esatta solo per la parte centrale di un provino molto lungo (idealmente infinito), tuttavia l’osservazione sperimentalmente mostra che variazioni assiali dello stato di tensione-deformazione si manifestano solo vicino ai raccordi e che si estinguono a una distanza da questi dell’ordine del diametro, inoltre tali effetti possono essere ridotti con l’aumento del raggio di raccordo. Per la simmetria assiale, o assialsimmetria, del problema (carichi, vincoli, propriet`a del materiale e geometria), lo stato di tensione-deformazione non pu`o variare nemmeno con l’angolo θ, in effetti l’esito della prova non `e influenzata dalla posizione angolare del provino rispetto al suo asse. Non possono essere presenti componenti tangenziali di tensione in corrispondenza dei piani di simmetria (e quindi su nessun piano che contiene l’asse), per cui: σrz = σθz = 0. Questa `e una propriet`a generale dei problemi strutturali con materiali omogenei e isotropi che presentano un piano di simmetria speculare della geometria e del carico. Infatti, osservando la struttura dalla direzione opposta, o allo specchio, il problema si presenterebbe identico e quindi sul piano di simmetria le tensioni tangenziali, che apparirebbero di segno invertito, devono essere nulle. Lo stato di tensione-deformazione non pu`o avere una significativa dipendenza nemmeno da r, dato che r 6 R e la quantit`a R  H `e una dimensione piccola del problema (solido traviforme). Allo scopo di rendere evidente questa propriet`a della soluzione, supponiamo per assurdo che il concio abbia, per esempio, una componente deformativa εzz variabile con r, come rappresentato in figura 17.6. Dato che la deformazione non dipende da z, tutti i conci dovranno per`o deformarsi nello stesso modo e ci`o `e in evidente contrasto con la congruenza del processo deformativo poich´e zone adiacenti di conci contigui dovrebbero localmente compenetrarsi o separarsi. Nella parte utile del provino i conci possono quindi deformarsi solo conservando la forma di dischi: un esempio di conservazione delle sezioni piane perpendicolari all’asse. A stretto rigore, una debole dipendenza dello stato di tensione-deformazione da r non si manifesta

514

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

z y B

θ

H

r

2R

x

Figura 17.5: Sistemi di coordinate comodi per l’analisi del provino

nelle zone vicino ai raccordi che devono quindi essere escluse dalla misura. La conservazione delle sezioni piane `e verificabile sperimentalmente. A tale scopo pu`o essere impiegato un provino di materiale trasparente (per esempio plexiglass) ottenuto incollando due semiprovini in corrispondenza di una sezione della zona utile. Se una delle due superfici incollate `e resa opaca, per esempio `e verniciata, la sua variazione di forma sotto carico pu` o essere osservata. In modo ancora pi` u semplice, pu`o essere praticato nel provino un piccolo foro trasversale (con diametro molto inferiore a R in modo che la sua presenza non alteri sensibilmente le caratteristiche della sezione) e si pu`o verificare che sotto carico il foro rimane rettilineo.

(a)

(b)

Figura 17.6: Deformata ipotetica di un concio in cui la εzz `e funzione di r: a) assonometria, b) vista di fianco della geometria indeformata e deformata.

Nella zona utile del provino lo stato di tensione-deformazione non dipende pertanto da r, θ e z. Tale condizione di uniformit`a implica l’assenza di qualsiasi componente piana dello stato di tensione, ovvero `e necessario che sia: σxx = σyy = σxy = 0 (in coordinate cilindriche: σrr = σθθ = σθr = 0). Vi sono vari modi per verificare la precedente affermazione. Per esempio, se una di queste componenti (consideriamo la σyy ) non fosse nulla, dovendo essere uniforme, avrebbe lo stesso valore per esempio su un diametro ma, come mostrato in figura 17.7, questo non sarebbe compatibile con l’equilibrio del semiconcio. La superficie laterale del cilindro r = R `e scarica (non interagisce elettromagneticamente con nulla)  e quindi, preso un punto qualunque sul contorno la cui normale esterna `e n ˆ T = nx ny 0 , il corrispondente vettore tensione `e nullo ~t = Sˆ n = 0. Poich´e questa condizione deve essere verificata per ogni direzione piana, la sottomatrice 2 × 2 di S in alto a sinistra deve essere nulla, e quindi: σxx = σyy = σxy = 0. L’unico stato di tensione uniforme che soddisfa tutte le limitazioni evidenziate dalle consi-

515

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

y

x Figura 17.7: Violazione dell’equilibrio del semiconcio in presenza di una componente σyy non nulla

derazioni precedenti `e il seguente: 

0

S= Sym

0 0

 0 0  σzz

la cui forma `e evidentemente la stessa nel sistema cartesiano e nel sistema polare.

17.1.3 Misure nella prova di trazione Data l’uniformit`a, la deformazione nella zona utile del provino pu`o essere misurata rilevando la variazione di forma di un volume macroscopico che pu`o essere costituito da un tratto esteso della zona centrale. L’osservazione diretta evidenzia che le caratteristiche deformative di un provino sotto un carico di trazione sono coerenti con le previsioni generali descritte nel punto precedente. In particolare, la parte centrale di un provino metallico (per esempio di acciaio) si deforma come descritto nei punti seguenti: • rimane cilindrica e quindi non si manifestano deformazioni angolari nei sistemi di riferimento adottati: εxy = εxz = εyz = 0, • si allunga assialmente evidenziando una deformazione estensionale positiva: εzz > 0, • si contrae trasversalmente in misura uguale in tutte le direzioni piane manifestando quindi una deformazione estensionale negativa nel piano normale a z indipendente dalla coordinata angolare θ e dalla distanza r dall’asse, • la sezione conserva quindi la medesima forma iniziale ma, in conseguenza di una estensione assiale del provino, subisce una riduzione omotetica: εxx = εyy (= εrr = εθθ ). Lo stato di deformazione elastico in tutta la zona centrale risulta pertanto completamente definito dal tensore:     εxx 0 0 εrr 0 0 εyy 0  =  εθθ 0  E= Sym εzz Sym εzz per cui solo due grandezze devono essere misurate. La deformazione assiale εzz viene generalmente rilevata con un strumento, detto estensometro, installato come mostrato in figura 17.8. L’estensometro `e munito di due coltelli che, prima di applicare il carico, sono mantenuti a una distanza di riferimento h con l’inserzione di un perno. La distanza di reierimento dei coltelli `e una caratteristica dello strumento (spesso

516

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

1

h

H

3

2

Figura 17.8: Misura della variazione di lunghezza assiale: dell’estensometro, 2 e 3 coltelli di misura

1 corpo

h = 1 pollice = 25.4 mm). Quando l’estensometro `e installato, le punte dei coltelli sono fatte aderire alla superficie laterale del provino con opportune mollette, non rappresentare in figura 17.8. Dopo aver assicurato i coltelli alla superficie del provino, il perno di fissaggio viene disinserito in modo da consentire ai coltelli di seguire il moto relativo dei punti di adesione. Opportuni sensori interni generano un segnale elettrico proporzionale allo spostamento relativo dei coltelli stessi: ∆h = h∗ − h. Per evitare che le zone dei raccordi influenzino la misura l’estensometro va collocato il pu`o possibile nella zona centrale ed `e opportuno che la differenza H − h sia almeno pari a (4 ÷ 5) R. In modo analogo `e possibile misurare la variazione del diametro del provino: 2∆R = 2 (R∗ − R). La prova di trazione `e generalmente condotta in controllo di spostamento. Una servovalvola immette nel martinetto della macchina di prova una portata costante di olio che determina una legge di allontanamento a velocit`a costante (molto bassa, dell’ordine dei mm/min) delle ganasce e quindi delle estremit`a del provino. Durante l’allontanamento sono acquisiti in tempo reale e mandati su un registratore i segnali provenienti: • dall’estensometro assiale: ∆h • dall’estensometro diametrale: 2∆R • dalla cella di carico F . Nella figura 17.9 sono rappresentate tipiche curve carico-spostamento ottenibili con un provino metallico se la prova viene arrestata a un livello non eccessivo di allungamento (per un acciaio potrebbe essere ∆h < 10−3 h). Le curve rappresentate sono tipiche di un materiale lineare elastico e sono ripercorse nella fase di scarico quando, facendo defluire l’olio dall’attuatore, il provino `e riportato nella condizione di partenza.

17.1.4 Costanti elastiche principali Allo scopo di rendere le curve rilevate sperimentalmente indipendenti dalle particolari dimensioni del provino in modo da evidenziare le propriet`a del materiale in prova, si procede a normalizzare le variazioni di lunghezza con le relative dimensioni iniziali e la forza normale con l’area della sezione del provino, ottenendo rispettivamente deformazioni e tensioni. Per le deformazioni si determinano le seguenti componenti estensionali: εzz =

∆h h 517

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

F

F

Δh

ΔR

(a)

(b)

Figura 17.9: Curve carico spostamento per un provino di acciaio in campo elastico per una prova di trazione.

2 · ∆R 2R Allo scopo di normalizzare la forza, in linea di principio, dovrebbe essere considerata l’area della sezione sotto carico (ovvero A∗ = π(R + ∆R)2 ), tuttavia per l’analisi di corpi poco deformabili si considera l’area della sezione nominale del provino A = πR2 (questo argomento `e ripreso nell’ultimo paragrafo del capitolo), ottenendo: εxx = εyy =

σzz =

F F = A πR2

La normalizzazione trasforma il grafico di figura 17.9(a) in quello di figura 17.10 nel quale `e evidenziato il legame costitutivo di proporzionalit`a diretta tra la componente normale assiale della tensione e la omologa componente estensionale di deformazione. La proporzionalit`a tra le due grandezze `e formalmente espressa dalla relazione: σzz = E · εzz

(17.3)

che pu`o essere considerata la definizione della caratteristica costitutiva E chiamata modulo elastico (elastic modulus) o modulo di Young (Young modulus) in onore di Thomas Young (1772-1829).

σ zz

ε zz Figura 17.10: Curva tensione assiale - deformazione assiale (universalmente chiamata curva σ − ε) per un materiale lineare elastico ricavata interpretando una prova di trazione.

518

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

Il modulo elastico ha le dimensioni della tensione (per i metalli generalmente si misura in GPa = 109 Pa = 103 MPa) e rappresenta la principale propriet`a di rigidezza del materiale. Infatti, tanto maggiore `e E tanto meno il materiale tende a deformarsi elasticamente sotto tensione. Un materiale infinitamente rigido pu`o essere considerato come il limite di un materiale elastico per cui: E1 → 0. Essendo la componente εzz energeticamente associata all’unica componente tensionale non nulla σzz , il provino si allunga sotto l’effetto di una tensione assiale di trazione, per cui dovr`a necessariamente essere E > 0. L’osservazione sperimentale evidenzia anche la tendenza naturale del provino di trazione a contrarsi trasversalmente, pertanto tra le deformazioni estensionali trasversali εxx (= εyy = εrr = εθθ ) e la deformazione assiale εzz vale una legge di proporzionalit`a illustrata dal diagramma di figura 17.11. In onore di Sim´eon-Denis Poisson (1781-1840), tale fenomeno `e definito effetto Poisson o contrazione poissoniana. Vale pertanto la seguente relazione:

ε xx ε zz

Figura 17.11: Deformazioni trasversali rispetto a quelle longitudinali in una prova di trazione.

εxx = −νεzz

(17.4)

con la quale si definisce la seconda costante elastica ν, quantit`a adimensionata chiamata rapporto di Poisson (Poisson ratio). Il segno negativo inserito nella definizione (17.4) `e convenzionale e trova giustificazione nell’osservazione che, generalmente, i materiali quando tirati monoassialmente tendono contrarsi trasversalmente. Il segno meno rende pertanto il rapporto di Poisson una quantit`a positiva per quasi tutti i materiali. Dalle relazioni (17.3) e (17.4) si ottiene la seguente relazione di proporzionalit`a: εxx = −

ν σzz E

(17.5)

valida evidentemente solo per uno stato di tensione monoassiale che ha la sola componente σzz non nulla. Le grandezze E e ν sono talvolta chiamate costanti elastiche ingegneristiche del materiale e, come vedremo, sono necessarie e sufficienti per caratterizzare il comportamento costitutivo di un materiale lineare elastico omogeneo isotropo per ogni stato di tensione. I loro valori per i pi` u comuni materiali di interesse strutturale sono riportati nella seguente tabella.

519

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

Materiale Carbonio (diamante) Tungsteno Acciaio al carbonio (ferro-α policristallino) Acciaio inox austenitico (Ni>10%) Leghe di Rame Alluminio (leghe di Al) Polivinilcloruro (PVC) Poliammide (Nylon) Polistirene Polietilene Elastomero (gomma naturale)

E (GPa) 1050÷1200 411 206 195 110÷120 68÷71 2.5÷4.2 1.8÷2.8 0.50 0.133 0.5 · 10−3

ν Anisotropo 0.29 0.30 0.30 0.34 0.33 0.35 0.35 0.33 0.40 0.49

Tabella 17.1. Costanti elastiche a temperatura ambiente di comuni materiali usati nelle costruzioni. I valori riportati sono indicativi e alcuni di essi, in particolare E per le leghe e le materie plastiche, possono variare sensibilmente in relazione alla composizione, ai trattamenti e alla temperatura.

17.1.5 La legge di Hooke Come osservato, per un generico stato di tensione con la matrice di Cauchy piena `e sempre possibile scegliere una terna di assi cartesiani rispetto alla quale lo stato di tensione `e espresso da una matrice diagonale e quindi `e interpretabile come la sovrapposizione di tre stati monoassiali mutuamente perpendicolari:         0 0 0 0 0 0 σ11 0 0 σ11 0 0  0 0  σ22 0  +  0 0 + σ22 0  =  Sym σ33 Sym 0 Sym 0 Sym σ33 Se il materiale `e elastico lineare, in regime di piccole deformazioni, vale il principio di sovrapposizione degli effetti, per cui, nel sistema di riferimento principale, si manifesta il seguente stato di deformazione: σ11 ν ε11 = − (σ22 + σ33 ) E E σ22 ν ε22 = − (σ11 + σ33 ) (17.6) E E σ33 ν ε33 = − (σ11 + σ22 ) E E relazione nella quale si riconoscono i termini di accoppiamento diretto, che determinano, come nella relazione (17.3), le deformazioni associate alle omologhe tensioni tramite il modulo di Young e i termini di accoppiamento misto che descrivono gli effetti poissoniani come nella relazione (17.5). Osserviamo che, nello stesso sistema di riferimento, anche il tensore di deformazione ha forma diagonale. Le relazioni (17.6) permettono di trarre le seguenti conclusioni sul comportamento costitutivo di un materiale elastico lineare omogeneo isotropo: • il tensore di tensione e il tensore di deformazione elastica associato hanno le medesime direzioni principali (talvolta si dice che i due tensori sono paralleli) • uno stato di tensione piano, in genere, non produce uno stato di deformazione piano

520

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

• uno stato di tensione deviatorico (caso particolare il taglio puro) non modifica il volume del materiale • uno stato di tensione idrostatico produce una deformazione volumica pura senza distorsioni angolari. La verifica delle precedenti affermazioni `e suggerita come utile esercizio di applicazione delle relazioni (17.6). Anche se le relazioni (17.6) costituiscono una legge costitutiva completa, dato che permettono di determinare la deformazione per uno stato di tensione qualunque, ma, per essere applicate, richiedono l’analisi spettrale di S e la rotazione degli assi. Risulta quindi utile generalizzare la legge costitutiva per un sistema di riferimento qualunque nel quale il tensore di Cauchy pu` o presentare anche componenti tangenziali. Come passo intermedio di questo calcolo, consideriamo uno stato di tensione di taglio puro che, come dimostrato nel capitolo 12, `e rappresentabile con la matrice:   0 σxy 0 0 0  S= Sym 0 e determiniamo, nello stesso sistema di riferimento, la corrispondente deformazione elastica prodotta in un materiale che segue la legge (17.6). Per semplicit`a di notazione, ma senza perdere in generalit`a, consideriamo il problema nel piano x − y in modo da operare con due componenti:   0 σxy S= σxy 0 Tramite il cambiamento di coordinate definito dalla seguente matrice (rotazione degli assi di 45◦ ): √   2 1 −1 L= 1 1 2 il tensore `e rappresentato in forma diagonale:     σxy 0 σ11 0 0 T = S = L SL = 0 −σxy 0 σ22 il problema `e cos`ı ricondotto all’esame dell’effetto deformativo delle sole tensioni normali e la relazione (17.6) fornisce: σ11 ν 1+ν ε11 = − (σ22 + 0) = σxy E E E σ22 ν 1+ν − (σ11 + 0) = −σxy ε22 = E E E La deformazione nel sistema di assi principali `e quindi:   1+ν σxy 0 0 E = 0 −σxy E ` ora sufficiente applicare la legge di rotazione inversa per rappresentare il tensore di deformaE zione nel sistema originario (con assi x − y), si ottiene quindi:     1+ν 0 σxy 0 εxy 0 T E = LE L = = σxy 0 εxy 0 E Tramite questa semplice valutazione, che potrebbe essere sostituita da una ben pi` u complessa e onerosa verifica sperimentale diretta, perveniamo alla seguente conclusione:

521

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

in un materiale elastico lineare omogeneo isotropo uno stato di tensione con una sola componente tangenziale σij 6= 0 (i 6= j) produce una deformazione elastica in cui `e non nulla la sola componente omologa εij . In termini di deformazioni angolari ingegneristiche (i 6= j) `e quindi valida la relazione: γij = 2εij =

2 (1 + ν) σij E

La quantit`a: G=

E 2 (1 + ν)

(17.7)

che esprime il fattore di proporzionalit`a tra tensione tangenziale e deformazione angolare ingegneristica omologa: σij = G · γij (17.8) `e chiamata modulo di rigidezza tangenziale (shear modulus) del materiale. Considerando le relazioni (17.6) e (17.8) e applicando il principio di sovrapposizione degli effetti, per un sistema di riferimento qualunque in cui lo stato di tensione `e espresso dalla matrice:   σxx σxy σxz  σyy σyz  Sym σzz si ottiene la seguente forma generale della legge di Hooke: σxx ν − (σyy + σzz ) E E σyy ν εyy = − (σxx + σzz ) E E σzz ν εzz = − (σxx + σyy ) (17.9) E E σxy γxy = G σxz γxz = G σyz γyz = G L’uso delle tre costanti elastiche E, ν e G `e generale nella letteratura tecnica, tuttavia `e opportuno ricordare che le tre quantit`a sono legate dalla relazione (17.7), per cui due sole sono effettivamente indipendenti per un materiale elastico lineare e isotropo. εxx =

Esempio 17.2: Provino in trazione Un provino di trazione di acciaio ferritico avente dimensioni: H = 70 mm e R = 5 mm `e sottoposto a una forza assiale di 20 kN. Determinare: a) lo stato di tensione e di deformazione nel sistema di riferimento locale di trave b) la massima tensione tangenziale e la massima deformazione angolare c) l’allontanamento dei coltelli di un estensometro con base di misura h = 25.4 mm e la riduzione del diametro d sotto carico

522

17.1. LA LEGGE DI HOOKE PER IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO E ISOTROPO

d) la differenza relativa tra il valore della tensione calcolata sulla base dell’area effettiva, stimata sotto carico, rispetto al valore ottenuto considerando l’area nominale. 

Risposta a) Consideriamo le dimensioni nominali del provino tra cui l’area della sezione: A = 78.54 mm2 da cui:

F = 254.6 MPa A Si osservi che tale livello di tensione `e piuttosto intenso anche per un acciaio. A questo stato tensionale corrisponde uno stato di deformazione di componenti: σzz εzz = = 1236 µε, εxx = εyy = −νεzz = −371 µε E σzz =

da cui, nel sistema di riferimento della trave:     0 0 0 −371 0 0 0 0  MPa; E =  −371 0  10−6 S= Sym 254.6 Sym 1236

Risposta b) La risposta `e immediata se si usano i diagrammi di Mohr: σzz = 127.3 MPa; γmax = εzz + εxx = 1607 µε τmax = 2 Si pu`o osservare che: G=

τmax E = 79 GPa = 2 (1 + ν) γmax

Risposta c) ∆h = h · εzz = 0.031 mm = 31 µm ∗

d − d = ∆d = d · εxx = 2R · εxx = −0.0037 mm = −3.7 µm I valori sono piuttosto contenuti come conseguenza dell’elevata rigidezza del materiale.

Risposta d) Una ragionevole approssimazione della tensione riferita all’area sotto carico `e data da: σ ˜zz =

F = 254.8 MPa π (R + R · εxx )2

la differenza relativa `e:

σ ˜zz − σzz = 0.07% σzz quindi inferiore a una parte su mille.

523

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

17.2 Densit` a di energia e interpretazione delle costanti elastiche 17.2.1 Matrici di deformabilit` a e di rigidezza e densit` a di energia elastica In base alla relazione (17.9), `e possibile esprimere i termini della matrice di deformabilit`a in funzione delle costanti ingegneristiche: C11 = E1 , C12 = − Ev e C44 = G1 , e rappresentare la matrice di deformabilit`a C del materiale elastico lineare omogeneo isotropo come:      εxx 1 −ν −ν 0 0 0 σxx  εyy     σyy  1 −ν 0 0 0       εzz     σzz  1 1 0 0 0      (17.10)   σyz   γyz  = E  2 (1 + ν) 0 0       γxz     σxz  Sym 2 (1 + ν) 0 γxy

2 (1 + ν)

Per inversione si ottiene la matrice di rigidezza Q:    1−ν 2ν 2ν 2 1−2ν 1−2ν σxx 1−2ν 2ν 1−ν  σyy   2 1−2ν 1−2ν    1−ν  σzz   2 1−2ν   = G  σyz       σxz   Sym

0 0 0 1

0 0 0 0 1

σxy

0 0 0 0 0 1

       

σxy

εxx εyy εzz γyz γxz γxy

       

(17.11)

Da queste matrici, sulla base delle relazioni (17.9) e (17.10), si possono ricavare le espressioni generali della densit`a di energia elastica ω in funzione dei valori correnti della deformazione o ` utile ottenere le espressioni della densit`a di energia elastica per alcuni stati di della tensione. E tensione particolari che saranno pi` u volte sfruttate nel seguito del corso. Uno stato di tensione monoassiale, per esempio con solo σxx , produce le componenti di deformazione: εxx , εyy e εzz , solo la prima `e energeticamente associata alla componente tensionale e quindi la densit`a di energia elastica diventa: 2 1 1 σxx 1 ω = σxx · εxx = E · ε2xx = 2 2 2 E

(17.12)

Per uno stato di tensione di taglio puro `e possibile scegliere un sistema di assi in cui il tensore di Cauchy ha un unico termine non diagonale diverso da zero, che possiamo indicare con σxy . Nello stesso sistema di riferimento, la deformazione elastica ha solo la componente angolare omologa non nulla, per cui l’energia elastica associata diventa: 2 1 σxy 1 1 2 ω = σxy · γxy = G · γxy = 2 2 2 G

(17.13)

Spesso `e interessante valutare quanto un corpo modifichi il suo volume in conseguenza di uno stato tensionale. Si evidenzia in questo modo una propriet`a costitutiva analoga alla caratteristica di compressibilit`a dei fluidi. A tale scopo consideriamo uno stato di tensione idrostatico:   1 0 0 1 0  SI = σ0  Sym 1 che produce la deformazione volumica pura: 

 0 0 1 − 2ν  1 0  EI = σ0 E Sym 1

524

1

` DI ENERGIA E INTERPRETAZIONE DELLE COSTANTI ELASTICHE 17.2. DENSITA

Ricordando che la variazione relativa di volume εV `e la traccia del tensore di deformazione, si definisce modulo di rigidezza volumico (bulk modulus) K la costante di proporzionalit` a della relazione: σ 0 = K · εV (17.14) che vale: K=

E 3 (1 − 2ν)

(17.15)

Per uno stato di tensione idrostatico la densit`a di energia elastica `e pertanto esprimibile con una delle seguenti espressioni equivalenti: 1 1 1 σ02 ω = σ0 · εV = K · ε2V = 2 2 2K

(17.16)

Come osservato nel capitolo 12, ogni stato di tensione pu`o essere scomposto in una parte idrostatica e una parte deviatorica: S = SI + SD In un materiale lineare elastico omogeneo isotropo la parte idrostatica produce solo variazione di volume mentre la parte deviatorica produce una deformazione senza modifica di volume. Si verifica quindi un disaccoppiamento energetico completo tra le due componenti tensionali e, per questo fatto, si pu`o dimostrare che anche la densit`a di energia elastica totale pu`o essere ottenuta sommando la densit`a di energia prodotta dai due stati di tensione che agiscono separatamente: ω = ωI + ωD

(17.17)

In formule, considerando la parte deviatorica:   σxx − σ0 σxy σxz  σyy − σ0 σyz SD =  Sym σzz − σ0 e il corrispondente stato di deformazione solo distorcente:  D  D εxx εD xy εxz D  εD ED =  yy εyz Sym εD zz si ottiene: 2      i 1 1 h D 2 D 2 D 2 D 2 D 2 ω = ωI + ωD = Kε2V + G 2 εD + 2 ε + 2 ε + γ + γ + γ (17.18) xx yy zz xy xz yz 2 2 Esempio 17.3: Comprimibilit`a di solidi e liquidi I liquidi sono generalmente considerati incomprimibili perch´e in genere si confrontano con gli altri fluidi ovvero gli aeriformi (gas e vapori). In realt`a, sotto pressione, anche i liquidi manifestano una riduzione di volume. Tale caratteristica `e quantificata dal fattore di compressibilit`a c definito come il rapporto tra la riduzione relativa di volume e la pressione che la determina, per cui c = 1/K. Per esempio, alle comuni pressioni di impiego si misura per l’olio idraulico un fattore di compressibilit`a colio = 6 · 10−10 Pa−1 . Confrontare

525

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

la compressibilit`a dell’olio con l’equivalente compressibilit`a volumica dei comuni materiali da costruzione, in particolare i metalli.  Posto quindi: c=

1 3 (1 − 2ν) = K E

si ottiene la seguente tabella: Materiale Acciaio al carbonio (ferro-α policristallino) Leghe di Rame Alluminio (leghe di Al) Polivinilcloruro (PVC) Polistirene Elastomero (gomma naturale)

c = 1/K MPa−1 5.8 · 10−12 8.0 · 10−12 1.5 · 10−11 2.7 · 10−10 1.2 · 10−9 1.2 · 10−7



c/colio 0.001 0.013 0.024 0.457 2.00 200

Le comuni leghe metalliche da costruzione sono pertanto molto meno comprimibili dell’olio (e dei liquidi in generale). La comprimibilt`a dei materiali polimerici `e invece confrontabile con quella dell’olio. Ci`o comporta che nei problemi in cui le deformazioni elastiche sono significative, anche la deformabilit`a dei liquidi pu`o essere da considerare.

17.2.2 Limiti delle costanti elastiche Le espressioni ottenute della densit`a di energia elastica dei vari stati di tensione, consentono di evidenziare i limiti termodinamici che devono essere rispettati dai valori delle costanti elastiche per garantire un aumento di densit`a di energia quando, partendo dalla condizione indeformata, si realizza un generico stato di tensione. Ogni espressione della densit`a dell’energia elastica in funzione della deformazione elastica deve quindi essere definita positiva. Dalla relazione (17.12), valida per lo stato monoassiale, si ottiene la condizione gi`a discussa sul segno del modulo elastico: E>0 (17.19) mentre dalla relazione (17.13), valida per il taglio puro, si deduce che anche il modulo di rigidezza tangenziale deve essere strettamente positivo: G>0

(17.20)

In effetti tali quantit`a sono fattori nei termini diagonali della matrice di rigidezza per cui definiscono accoppiamenti diretti. La positivit`a di E e G deteremina un limite inferiore, non immediatamente evidente, ai valori che pu`o assumere il rapporto di Poisson:   E {E > 0} ∩ >0 ⇒ ν > −1 2 (1 + ν) Il limite superiore di ν deriva invece dall’espressione (17.16) che impone anche al modulo K di essere strettamente positivo, per cui:   E {E > 0} ∩ >0 ⇒ ν < 0.5 3 (1 − 2ν)

526

` DI ENERGIA E INTERPRETAZIONE DELLE COSTANTI ELASTICHE 17.2. DENSITA

Pertanto deve essere in generale: − 1 < ν < 0.5

(17.21)

Le condizioni sui moduli elastici (K > 0, G > 0) garantiscono che la densit`a di energia elastica (17.18), che `e valida per uno stato di deformazione qualunque per quanto scritta in una forma particolare, sia una forma quadratica definita positiva. Infatti, le espressioni che contengono le deformazioni sono combinazioni lineari di quantit`a non negative (somme di quadrati) con coefficienti K e G. La relazione (17.21) dimostra che un materiale elastico lineare omogeneo isotropo in condizioni monoassiali di trazione non pu`o contrarsi trasversalmente pi` u della met`a di quanto di allunga longitudinalmente. Nel caso limite (non raggiungibile per un materiale elastico lineare omogeneo isotropo) in cui ν = 0.5, la deformazione in condizioni monoassiali di trazione avverrebbe senza variazione di volume (la traccia della matrice di deformazione sarebbe nulla) anche in presenza di una componente tensionale idrostatica positiva. Un materiale isotropo con ν = 0.5 risulterebbe in effetti infinitamente rigido alle variazioni di volume. Una contrazione trasversale pari a met`a dell’estensione longitudinale si verifica in condizioni monoassiali nelle deformazioni plastiche dei metalli, le quali, in effetti, avvengono a volume costante. Pertanto, talvolta si sente dire che il rapporto di Poisson tende a 0.5 quando le deformazioni sono plastiche. Questa affermazione `e scorretta poich´e il rapporto di Poisson `e una costante elastica e la sua definizione come rapporto tra componenti trasversali e longitudinali non `e pi` u valida in presenza di deformazioni anche plastiche. Se si indica come effetto Poisson il fenomeno per cui in condizioni monoassiali una contrazione trasversale consegue all’allungamento nella direzione del carico, si pu`o correttamente affermare che, quando il processo deformativo diventa prevalentemente plastico, il rapporto tra le contrazioni e l’allungamento tende a 0.5. A questo riguardo `e opportuno sottolineare che, quando subisce una deformazione elastica, un materiale lineare omogeneo isotropo in genere varia il suo volume, per cui in campo elastico l’effetto Poisson non ` e una conseguenza della conservazione del volume. Pi` u avanti nel capitolo sar`a mostrato come l’effetto Poisson si possa spiegare per la presenza dei legami diagonali tra gli atomi nel reticolo cristallino. Si ricorda infine che, per un materiale elastico lineare omogeneo isotropo, nessuna variazione di volume `e prodotta da uno stato di tensione deviatorico e quindi, come caso particolare, da uno stato di taglio puro.

17.2.3 Costanti elastiche nei materiali comuni Un provino fatto con un materiale che ha ν negativo quando tirato nella prova uniassiale, oltre ad allungarsi in direzione assiale, manifesta anche un aumento di sezione. Per quanto tale comportamento possa sembrare anomalo, non `e violata alcuna condizione fisica generale (il tessuto goretex ne `e un esempio), a condizione che la deformazione trasversale sia inferiore a quella assiale, dato che deve essere: ν > −1. L’evidenza sperimentale mostra che l’ampia variabilit`a di valori per ν termodinamicamente ammissibili non `e stata sfruttata dalla natura. In effetti, i materiali elastici isotropi ‘reali’, pur avendo moduli elastici che differiscono per vari ordini di grandezza, hanno rapporti di Poisson positivi e vicini tra loro, in genere infatti: 0.2 < ν < 0.35 (come mostra la tabella 17.1). Questo stretto campo di variazione ha indotto gli studiosi di elasticit`a nel corso dell’ottocento a discutere per decenni se il rapporto di Poisson fosse effettivamente una propriet`a costitutiva propria di ogni materiale oppure una costante universale, comune a tutti i solidi elastici isotropi. In particolare Cauchy, sostenitore della seconda ipotesi, sulla base un modello atomico ante litteram ` singolare che tale risultato, per aveva previsto che ν dovesse valere 0.25 per tutti i materiali. E

527

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

quanto non corretto ma ragionevole, sia stato ottenuto in assenza di qualsiasi conoscenza sulla struttura atomica della materia. In seguito, strumenti di misura delle deformazioni sempre pi` u precisi hanno definitivamente mostrato che il rapporto di Poisson `e una propriet`a costitutiva specifica dal materiale e quindi deve essere ottenuto sperimentalmente. La deformazione trasversale connessa con l’effetto Poisson `e un fenomeno deformativo naturale che si manifesta nel solido elastico. Le facce trasversali del parallelepipedo elementare sollecitato monoassialmente sono infatti scariche e non c’`e bisogno di sollecitarle perch´e il parallelepipedo si deformi anche trasversalmente. L’accoppiamento deformativo poissoniano (tra le εyy o le εxx e le σzz ) non appare strano se si considera la natura tensoriale di tensione e deformazione (basti pensare ai diagrammi di Mohr) e la conseguente complessiva sollecitazione del materiale che negli infiniti piani del parallelepipedo ha infinite combinazioni di componenti normali e tangenziali. La deformabilit`a elastica, macroscopicamente descritta dal modulo di Young e dal rapporto di Poisson, `e infatti conseguenza dalla complicata interazione elettromagnetica esistente tra gli elementi del reticolo che `e spiegabile in forma razionale solo con i modelli quantistici della fisica dello stato solido. Gli elastomeri mostrano i moduli di Poisson pi` u elevati e quindi vicini al limite superiore termodinamicamente ammissibile. Sperimentalmente, si verifica che in effetti le deformazioni elastiche di una gomma sono con buona approssimazione isocore (il volume si conserva e quindi εV = 0). Anche questo fatto si giustifica considerando il meccanismo deformativo elastico degli elastomeri, fondamentalmente diverso da quello dei cristalli. Se si vuole adottare la legge di Hooke per descrivere il comportamento di un elastomero, `e comunque necessario adottare valori di ν che rispettino i limiti termodinamici (per esempio si pu`o porre: ν = 0.499). Sono peraltro disponibili leggi costitutive non lineari specifiche per gli elastomeri, non riconducibili alla legge di Hooke, con le quali `e possibile riprodurre rigorosamente il comportamento isocoro (εV = 0). I moduli elastici di rigidezza (E, G e K) sono manifestazioni macroscopiche dell’intensit`a dei legami elettromagnetici che tengono insieme gli elementi del cristallo. Non stupisce quindi che, in relazione alla grande variet`a di materiali presenti in natura o prodotti artificialmente, tali grandezze presentino una enorme variabilit`a: dalle gomme pi` u morbide ai carburi pi` u rigidi vi ` stata inoltre osservata una buona correlazione sono svariati ordini di grandezza di differenza. E tra la rigidezza di un materiale espressa da una delle quantit`a E, G o K e la sua temperatura di liquefazione. In effetti, sia il fenomeno deformativo sia il processo di cambiamento di stato, anche se in modo diverso, risultano influenzati dall’intensit`a del legame cristallino. La rigidezza di un materiale `e una propriet`a volumica perch´e il processo deformativo elastico coinvolge i legami di tutti gli atomi del parallelepipedo elementare. Per questo motivo, il modulo elastico di una lega `e generalmente determinato dal modulo elastico del costituente principale. La situazione `e particolarmente evidente per gli acciai, soprattutto per quelli basso legati, la cui rigidezza `e determinata dal ferro, che rappresenta l’elemento di lega dominante. A differenza di molte altre importanti propriet`a meccaniche, come per esempio la durezza o la resistenza, il modulo elastico appare di fatto insensibile alla presenza di elementi di lega, che formano altre fasi, e alla disposizione spaziale delle stesse fasi che pu`o essere variata con i trattamenti termici. Per questa ragione, acciai diversi o lo stesso acciaio trattato diversamente possono mostrare propriet`a meccaniche che differiscono anche di un ordine di grandezza ma hanno sostanzialmente lo stesso modulo elastico. Per esempio, il modulo elastico del tipico acciaio Inox CrNi1810, bench´e circa 1/3 del suo contenuto non sia ferro, `e inferiore solo del 5% agli acciai al carbonio basso legati che sono costituti da ferro quasi al 100 Da queste considerazioni si ricava la conclusione generale che quando un acciaio `e scelto per le propriet` a di rigidezza (vi sono infatti applicazioni in cui la resistenza non `e critica) `e opportuno ricorrere ad acciai dolci meno costosi.

528

17.3. SOLUZIONE GENERALE DEL PROBLEMA ELASTICO

Esercizio 17.1: Deformazioni elastiche Due provini di trazione aventi dimensioni: H = 120 mm e R = 8 mm uno di acciaio ferritico l’altro di lega di alluminio sono sottoposti a una forza assiale di 45 kN. Valutare e confrontare: a) la variazione relativa di volume verificando che `e positiva (il volume del provino aumenta in trazione) b) la variazione relativa di densit`a del materiale c) la densit`a di energia elastica immagazzinata nel materiale d) l’energia elastica complessivamente immagazzinata nella parte cilindrica del provino

17.3 Soluzione generale del problema elastico La possibilit`a di trattare in modo quantitativo la deformabilit`a dei materiali consente di affrontare finalmente il problema generale della meccanica dei solidi e quindi di valutare i campi di tensione σij , di deformazione εij e di spostamento ui (con i, j = 1, 2, 3) di un generico corpo vincolato e caricato. Per ogni parallelepipedo elementare, e quindi per ogni punto del corpo, nell’ipotesi di validit`a della meccanica dei corpi poco deformabili e assumendo per il materiale un comportamento elastico lineare omogeneo isotropo, le equazioni che sono state sviluppate fino a questo punto sono: • 3 equazioni di equilibrio indefinito dell’elemento di volume (capitolo 13): ∂σi1 ∂σi2 ∂σi3 + + + fi = 0 ∂x1 ∂x2 ∂x3 • 6 equazioni di congruenza che legano gli spostamenti alle deformazioni (capitolo 14):   ∂uj 1 ∂ui εij = + 2 ∂xj ∂xi • 6 equazioni costitutive espresse dalla legge di Hooke in una delle sue varianti. Le equazioni di congruenza possono essere sostituite dalle equazioni di Beltrami-Michell (vedi sempre il capitolo 14) che garantiscono l’esistenza di un campo di spostamento congruente per il campo di deformazione dato. Disponiamo pertanto di 15 equazioni valide in ogni punto: le prime 9 sono equazioni differenziali alle derivate parziali, si ricordi che i campi incogniti sono funzioni della posizione e quindi delle coordinate (x1 , x2 , x3 ), e le ulteriori 6 sono equazioni algebriche. Data l’origine `e evidente che tutte le equazioni sono fisicamente indipendenti. Nelle ipotesi fatte, tutte le predette equazioni sono lineari e questa loro caratteristica garantisce l’applicabilit`a del principio di sovrapposizione degli effetti per il problema generale della meccanica dei solidi elastici deformabili. Consideriamo ora le grandezze che devono essere determinate per valutare la resistenza e la rigidezza in un problema strutturale, ovvero le incognite scalari del problema. In ogni punto `e necessario conoscere:

529

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

• 6 componenti di tensione σij • 6 componenti di deformazione εij • 3 componenti di spostamento ui per un totale di 15 incognite. ` quindi stato formulato un problema differenziale lineare nel quale le funzioni incognite sono E in numero pari alle equazioni indipendenti che le legano. Riscontriamo pertanto i presupposti perch´e il problema sia ben posto. In effetti, `e stato dimostrato che, se si escludono situazioni di evidente incompatibilit`a delle condizioni al contorno, peraltro prive di significato fisico: il problema strutturale statico elastico lineare in regime di piccoli spostamenti e piccole deformazioni ammette sempre soluzione e questa `e unica. L’esistenza e l’unicit`a non implicano che la soluzione analitica per un generico problema sia di agevole ottenimento. In effetti, soprattutto in problemi tridimensionali, sono pochissimi e molto particolari i casi in cui la soluzione `e disponibile in forma chiusa. Tuttavia, la consapevolezza dell’esistenza e dell’unicit`a della soluzione permette: • di validare una soluzione in qualsiasi modo ottenuta, anche per intuito;, perch´e basta inserire direttamente la soluzione nelle equazioni e verificare che sia equilibrata, congruente e che soddisfi la legge di Hooke (per l’unicit`a una diversa funzione non potrebbe essere soluzione) • di sviluppare vari metodi, che possono essere analitici ma anche e soprattutto numerici, per ottenere una soluzione sufficientemente approssimata. Gran parte dei prossimi capitoli riguarderanno la discussione e la soluzione di classi di problemi di questo tipo per le quali sar`a utile il teorema di esistenza e unicit`a della soluzione elastica. Possiamo in effetti affrontare gi`a da ora la soluzione di alcuni problemi iperstatici elementari. Esempio 17.4: Cubo elastico premuto contro un piano liscio rigido Un cubo di materiale elastico omogeneo isotropo di costanti elastiche E e ν (per una valutazione numerica si pu`o considerare un materiale polimerico) di spigolo a = 100 mm ha la base appoggiata su un piano rigido senza attrito ed `e sottoposto a una pressione p = 2 MPa uniformemente distribuita sulla faccia opposta (figura 17.12). Determinare la distribuzione di pressione che si manifesta sulla faccia appoggiata. p

kˆ iˆ

ˆj

a

Figura 17.12: Cubo elastico compresso contro una parete rigida liscia.

530

17.3. SOLUZIONE GENERALE DEL PROBLEMA ELASTICO

Se si considera il corpo come un punto materiale, la soluzione `e banale in quanto il problema `e isostatico (anche se non intrinsecamente) e la forza di contatto (la reazione vincolare) si ottiene immediatamente. Tuttavia la richiesta non si limita alla valutazione della risultante ma impone di valutare la distribuzione della reazione vincolare sulla faccia in contatto. Ci`o richiede di considerare il corpo come esteso e continuo e rende il problema molto pi` u complesso e interessante. La mancanza di attrito permette di limitare alla sola componente normale la reazione vincolare in ogni punto di contatto e quindi possiamo considerare che l’incognita si manifesti come una opportuna distribuzione di pressione. L’intuito potrebbe suggerire che la pressione di contatto sia uniformemente distribuita sulla faccia inferiore, ma un esame pi` u critico dovrebbe far sorgere almeno qualche dubbio: sulla base di quali considerazioni possiamo, per esempio, escludere che i fianchi liberi del cubo modifichino il comportamento locale del corpo generando nella zona vicino ai lati del quadrato di base una pressione diversa rispetto alle zone centrali? Il problema presenta in effetti infinite incognite e le condizioni di equilibrio e le simmetrie non sono sufficienti per assicurare a priori l’uniformit` a della distribuzione della reazione vincolare. Se interpretato nel continuo, il problema pu` o pertanto essere classificato come infinitamente volte iperstatico. Questa situazione `e tipica nella meccanica dei corpi continui per i quali `e generalmente richiesto lo stato di tensione in ognuno dei suoi infiniti punti. Dato che il materiale pu`o essere considerato di Hooke e che, almeno fino a prova contraria, `e assunto sufficientemente rigido da poter applicare la meccanica dei corpi poco deformabili (tali presupposti potranno essere riscontrati a posteriori), ipotizziamo una soluzione e verifichiamo che questa soddisfi tutte le equazioni della meccanica dei solidi. Guidati dall’intuizione iniziale, assumiamo che lo stato di tensione sia uniforme e monoassiale e quindi simile a quello che si manifesta nel provino di trazione. Nel sistema di riferimento indicato, il tensore di Cauchy sar`a quindi del tipo:   0 0 0 0 0  S= Sym σzz per ogni punto del corpo. Tale stato di tensione soddisfa evidentemente le equazioni di equilibrio all’interno del corpo (sono trascurate per evidenti motivi le forze di volume) ma `e anche necessario che siano soddisfatte le condizioni di equilibrio al contorno ovvero sulle facce non vincolate dove sono applicati i carichi che sono forze di superficie note, eventualmente nulle. Sulle facce non vincolate la distribuzione di forza di superficie applicata dall’esterno deve infatti eguagliare il locale vettore tensione. In particolare, sulla faccia superiore deve essere:   ~t kˆ = −pkˆ mentre sulle 4 facce laterali con normale esterna m ˆ sar`a: ~t (m) ˆ =0 Nel caso in esame, `e facile verificare che lo stato di tensione ipotizzato soddisfa identicamente la condizione sulle facce laterali scariche mentre la condizione sulla faccia superiore `e soddisfatta se si pone: σzz = −p. Possiamo quindi concludere che il campo di tensione uniforme:   0 0 0 0 0  S= Sym −p

531

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

rispetta le condizioni di equilibrio sia all’interno del corpo sia sulle superfici non vincolate. Restano ancora da verificare le altre equazioni. Imponendo la legge di Hooke per valutare le deformazioni:   ν 0 0 p ν 0  E=  E Sym −1 sono implicitamente soddisfatte le equazioni costitutive. La soluzione ipotizzata conduce a uno stato di deformazione uniforme sul corpo e quindi a una trasformazione affine in grande. Per verificare il soddisfacimento della congruenza potremmo introdurre il campo di spostamenti, ma in questo caso `e pi` u conveniente avvalersi delle equazioni di Beltrami-Michell che, senza calcolarlo, garantiscono l’esistenza di un campo di spostamenti congruente che genera il campo di deformazione dato. In effetti, come discusso nel capitolo 14, un campo di deformazione uniforme soddisfa certamente le equazioni di Beltrami-Michell. Verificato il soddisfacimento dell’equilibrio, della congruenza e del legame costitutivo, si pu`o quindi affermare che la soluzione ipotizzata `e la soluzione effettiva e unica del problema. Si pu`o quindi procedere numericamente per valutare l’effettiva modifica di forma e verificare l’accettabilit`a delle ipotesi di corpo poco deformabile (a tale proposito si osservi che le variazioni relative delle lunghezze dei lati sono dell’ordine di p/E). Nel caso in esame tutti i riscontri sono favorevoli per cui `e verificato che il risultato `e plausibile e quindi la pressione sulla faccia inferiore `e effettivamente uniforme. Possiamo quindi affermare, a posteriori, che non vi `e alcun effetto di bordo dovuto alle pareti laterali del cubo che sono scariche. In effetti, il vettore tensione `e nullo su tutte le facce verticali del cubo in ogni punto anche interno.

Esempio 17.5: Cubo elastico lateralmente vincolato premuto contro un piano Il cubo dell’esempio precedente, con spigolo a e costanti elastiche E e ν, `e inserito in una scanalatura di larghezza pari allo spigolo con pareti lisce e rigide in modo che non possa espandersi in direzione x. Determinare la pressione sulle facce laterali se, come nell’esempio precedente, `e applicata una pressione uniforme sulla faccia superiore.  ` per`o evidente che Anche in questo caso ipotizziamo uno stato di tensione uniforme. E lo stato di tensione non pu`o essere monoassiale. Infatti l’espansione laterale prodotta in condizioni monoassiali non sarebbe congruente con il vincolo trasversale che impedisce al cubo di dilatarsi in direzione x. Ipotizziamo quindi uno stato biassiale uniforme con una ulteriore componente normale(incognita) della tensione in direzione x. Dal punto di vista fisico giustifichiamo tale componente con l’effetto della pressione laterale incognita:   σxx 0 0 0 0  S= Sym σzz Considerazioni di equilibrio in direzione z, analoghe a quelle fatte nell’esempio precedente, impongono che: σzz = −p. Indicando la componente tensionale incognita come σxx = q, lo stato di tensione ipotizzato `e quindi:   q 0 0 0 0  S= Sym −p

532

17.3. SOLUZIONE GENERALE DEL PROBLEMA ELASTICO

che `e sicuramente equilibrato all’interno e sulle superfici in cui `e applicato il carico. Lo stato di deformazione ottenuto dalla legge di Hooke `e il seguente (notare l’applicazione del P.S.E.):    q  ν Ep 0 0 0 0 E ν Ep 0 + −ν Eq 0 = E= p Sym −E Sym −ν Eq   q + νp 0 0 1   ν (p − q) 0 = E Sym − (p + νq) Anche le equazioni di congruenza sono soddisfatte all’interno, ma `e necessario che il cubo non si estenda lateralmente, per cui `e necessario imporre anche: εxx = 0 La condizione che impone la congruenza del cubo deformato con il vincolo laterale fornisce quindi l’equazione che manca per ottenere l’incognita: q + νp = 0 da cui: q = −νp Constatiamo che la parete laterale esercita sul cubo una pressione pari a ν volte quella esercitata dalla parete inferiore. Il lettore pu`o verificare che, rispetto al caso precedente: • la riduzione dell’altezza del cubo `e inferiore • la componente idrostatica dello stato di tensione `e pi` u negativa • la tensione tangenziale massima che il materiale deve sopportare rimane immutata • la densit`a di energia elastica e quindi anche l’energia totale immagazzinata nel cubo `e inferiore.

Esercizio 17.2: Cubo lateralmente contenuto Dato lo stesso cubo dei precedenti esempi con tutte le facce laterali (oltre a quella inferiore) vincolate da superfici lisce e rigide. Verificare che: a) Lo stato di tensione `e uniforme e triassiale b) La pressione sulle pareti laterali `e la stessa e vale

ν 1−ν p

c) Lo spostamento della faccia superiore `e ancora minore (ma comunque non nullo) d) L’energia elastica immagazzinata nel cubo `e pari al lavoro fatto dalle forze esterne (si considerino tutte le facce del cubo)

533

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

Esercizio 17.3: Parallelepipedi compressi Le dimensioni del cubo negli esempi precedenti non sono rilevanti per lo stato di tensione. Si ripetano gli esercizi con un parallelepipedo orientato come gli assi ma con spigoli di lunghezza diversa, verificando che anche la forma della sezione trasversale non `e significativa.

Esercizio 17.4: Cilindri compressi Un cilindro di PVC `e inserito senza gioco significativo in un foro cieco coassiale eseguito su un corpo di rigidezza infinita. Trascurando l’attrito e applicando sulla faccia libera del cilindro una pressione p, determinare lo stato di tensione e le pressioni esercitate sulla faccia laterale e sul fondo del foro. Si osservi come in questo caso il cilindro trasmetta alla cavit`a un carico diverso da quello che produrrebbe un liquido nelle stesse condizioni di pressurizzazione.

Esercizio 17.5: Cilindri di gomma compressi Ripetere l’esercizio precedente con un cilindro di gomma usando la legge di Hooke con ν = 0.49.

Esercizio 17.6: Cavit`a con olio Un cilindro di raggio 2 cm `e riempito d’olio fino a un livello di 5 cm. Supponendo le pareti del cilindro infinitamente rigide, valutare la forza assiale che deve essere applicata al pistone in modo che si abbassi di 0.1 mm.

Esercizio 17.7: Provino di trazione: zona centrale Assumendo che alla fine del raccordo la forza esercitata sulla parte centrale di un provino di trazione sia uniformemente distribuita sulla sezione: a) verificare che la tensione monoassiale uniforme `e l’unica possibile per un materiale di Hooke nella zona centrale b) dimostrare che la forma della sezione (purch´e sia la stessa lungo l’asse) non `e rilevante per la tensione.

In generale possiamo concludere che per risolvere un problema di meccanica del continuo `e necessario imporre che siano soddisfatte tutte le seguenti tre condizioni: • statiche (o di equilibrio), • geometriche (o di congruenza) e • costitutive (comportamento del materiale).

534

17.4. ALTRE ESPRESSIONI DELLA LEGGE DI HOOKE (*)

Questo procedimento, che da ora in poi sar`a adottato sistematicamente, `e molto pi` u generale di quanto possa sembrare dagli esempi di statica dei corpi poco deformabili affrontati in questo corso. In effetti la sua validit`a si estende: • al regime dinamico, per il quale `e sufficiente introdurre sistemi non inerziali e le conseguenti forze d’inerzia (in generale potrebbe essere richiesto un sistema di riferimento diverso per ogni parallelepipedo elementare) • in condizioni di grandi spostamenti e grandi deformazioni, con la conseguente modifica delle equazioni di congruenza e con l’equilibrio imposto nella configurazione deformata • a materiali con comportamenti costitutivi diversi, come per esempio elastici non isotropi, non omogenei o non lineari, oppure materiali con deformazioni anche termiche, plastiche, viscose, e anche materiali non solidi (liquidi e gas), materiali che cambiano fase, materiali che hanno memoria, tessuti biologici, ecc. . . . In tali circostanze la legge costitutiva `e generalmente pi` u complessa e non essere semplicemente rappresentabile con un legame algebrico diretto tra tensione e deformazione. Ogni generalizzazione rispetto alle ipotesi adottate nel corso comportano complicazioni, spesso notevoli, anche di tipo teorico dovute prevalentemente alla perdita di linearit`a di qualcuna delle equazioni e quindi alla mancanza di garanzia sull’esistenza e unicit`a della soluzione. Anche i procedimenti di soluzione approssimati diventano in tali casi notevolmente pi` u complessi e onerosi. Rimanendo nell’ambito dei materiali elastici lineari omogenei isotropi e della meccanica dei solidi poco deformabili, il problema fisico pu`o quindi essere considerato completamente risolto. Il seguito del corso consiste nello sviluppo di tecniche per modellare e risolvere classi di problemi strutturali di interesse nelle applicazioni. L’approccio generale consister`a nello sviluppo di procedimenti che forniscono una previsione non sempre necessariamente esatta ma comunque sufficientemente approssimata. In linea del tutto generale, il tipo di approssimazioni ammesse consistono nella rinuncia al soddisfacimento esatto di tutte le equazioni in ogni punto della struttura. Soluzioni tecnicamente accettabili si ottengono infatti anche imponendo le condizioni di equilibrio e di congruenza e le leggi costitutive solo in media, operando su domini infinitesimali non puntuali e ma aventi una o pi` u dimensioni finite, come per esempio i singoli conci di una trave.

17.4 Altre espressioni della legge di Hooke (*) Nella letteratura tecnica e scientifica la legge di Hooke `e talvolta espressa in modi diversi da quello finora proposto, anche con l’introduzione di altre costanti elastiche che peraltro sono esprimibili in funzione delle costanti ingegneristiche fondamentali: E e ν. Per esempio, in onore dello scienziato francese Gabriel Lam´e (1795-1870), si chiamano costanti di Lam´e le seguenti quantit`a: E µ= 2 (1 + ν) λ=

νE (1 − 2ν) (1 + ν)

la prima delle quali equivale a G. Possono essere utili le relazioni inverse che danno le costanti ingegneristiche a partire da quelle di Lam´e: E=µ

3λ + 2µ λ+µ

535

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

ν=

λ 2 (λ + µ)

Il bulk modulus si pu`o quindi esprimere come: K=

3λ + 2µ 3

Per mezzo delle costanti di Lam´e la legge di Hooke pu`o essere scritta in modo particolarmente semplice e adatto alla formulazione analitica con quantit`a indicizzate. Nel seguito sono riportati alcuni esempi nei quali si usa il delta di Kroneker δij e la convenzione di Einstein sugli indici ripetuti. La legge di Hooke con le tensioni al primo mebro diviene infatti: σij = 2µεij + λεkk δij La relazione inversa (con le deformazioni al primo menbro) `e pi` u semplice se espressa con le costanti ingegneristiche: 1+ν ν εij = σij − σkk δij E E La densit`a di energia elastica si pu`o scrivere anche come: ω=

1 (λεkk εll + 2µεij εij ) 2

Considerando la componente deviatorica della deformazione: εD ij = εij −

εkk δij 3

la relazione (17.18) si pu`o scrivere come:   1 2µ D ω= + λ (εll )2 + µεD ij εij 2 3 che mostra le condizioni a cui devono essere sottoposte le costanti di Lam´e perch´e ω sia una forma quadratica definita positiva: 2µ +λ>0 3 µ>0 queste limitazioni equivalgono alle analoghe discusse precedentemente. Pu`o essere utile ricordare che, per quanto il rapporto di Poisson ν (simbolo compreso) si sia imposto come il parametro pi` u usato per quantificare la contrazione traversale in campo elastico, `e possibile trovare testi in cui `e impiegato il suo reciproco: m=

1 ν

grandezza da certi autori chiamata modulo di Poisson. Purtroppo il termine modulo di Poisson viene spesso attribuito anche alla quantit`a ν (al posto del corretto ‘rapporto di Poisson’). Anche se queste ambiguit`a dovrebbero essere evitate, osserviamo che nella grande maggioranza dei casi, indipendentemente da come viene chiamato, ci si riferisce al rapporto ν e inoltre, per fortuna, il valore numerico della quantit`a permette in genere di risolvere l’ambiguit`a (ν ' 13 ; m ' 3).

536

17.5. GIUSTIFICAZIONE DELL’EFFETTO POISSON PER UN MODELLO ELEMENTARE DI RETICOLO (*)

17.5 Giustificazione dell’effetto Poisson per un modello elementare di reticolo (*) Per un cristallo con struttura cubica semplice, l’effetto delle interazioni elettromagnetiche interne `e grossolanamente schematizzabile come nella figura 17.13. Osserviamo che: • la dimensione caratteristica del reticolo indeformato `e d0 • il reticolo `e orientato in modo che la tensione uniassiale sia nella direzione z di uno spigolo • `e rappresentato un singolo piano atomico sul quale la tensione uniassiale si manifesta con una forza per unit`a di lunghezza pari a σzz d0 • sono evidenziate le interazioni di ogni atomo con gli atomi√pi` u vicini (distanti d0 ) e con quelli in corrispondenza delle diagonali delle facce (distanti 2d0 ), le altre interazioni sono state trascurate • per simmetria, le molle orientate come gli spigoli (verticali e orizzontali) hanno la stessa rigidezza k1 , e le molle sulle diagonali hanno rigidezza comune k2 in generale diversa da k1 • considerata la distanza relativa tra gli atomi, `e presumibile che le molle diagonali siano meno rigide di quelle dei lati (k2 < k1 ) per quanto tale propriet`a del reticolo dovr`a essere confermata dalla misura. Consideriamo l’equilibrio di un atomo posto sullo spigolo del cubo elementare del reticolo riprodotto nella figura 17.14 e, tenendo conto che su ogni spigolo concorrono 4 cubi mentre su una faccia solo 2, si ha: • le rigidezze delle molle degli spigoli sono divise per 4 • le molle diagonali sono divise per 2 • la forza applicata sul singolo atomo `e relativa a un quarto della forza applicata alla faccia superiore: F = 14 σzz d20 . Supponiamo inoltre che la forza applicata e la rigidezza delle molle siano tali che il problema possa essere risolto nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili, in effetti stiamo riproducendo deformazioni elastiche. Pertanto, chiamando ∆x = ∆y e ∆z rispettivamente l’allungamento delle molle orizzontali e verticali avremo: εzz =

∆z d0

εxx = εyy =

∆x d0

L’allungamento delle molle diagonali verticali vale: s   2  2 q √ √ 1 ∆x 1 ∆z (d0 + ∆x)2 + (d0 + ∆z)2 − 2d0 = 2d0  1+ + 1+ − 1 2 d0 2 d0 √ che, nell’ipotesi ipotesi di piccoli spostamenti, diventa: ∆x+∆z . Le molle diagonali orizzontali 2 analogamente si allungano di: ∆x + ∆y √ √ = 2∆x 2

537

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

k1 k2

d 0σ zz k1

d0 z

x

Figura 17.13: Faccia di un reticolo elastico di tipo cubico.

Le equazioni di equilibrio alla traslazione, in direzione x e z rispettivamente, per l’ atomo sullo spigolo diventano quindi: √  √ k1 2 k2 √ 2 k2 ∆x + ∆z √ − ∆x − 2∆x − =0 4 2 2 2 2 2  √ k2 ∆x + ∆z 2 k1 √ =0 F − ∆z − 2 4 2 2 2 dalla prima, tenendo conto che nelle condizioni di carico scelte: ν = − ∆x ∆z , si ricava la relazione: ν= Indicando con ρ =

k2 k1

k2 k1 + 3k2

il rapporto tra le rigidezze delle molle, si ha: ν=

ρ 1 + 3ρ

il cui andamento `e rappresentato nel grafico di figura 17.15. Interpretando la soluzione ottenuta in termini fisici, possiamo affermare che, per allungare il cristallo in direzione z il carico deve far dilatare, oltre alle molle verticali, anche le molle diagonali poste sulle facce verticali. Data l’obliquit`a, le molle diagonali tese producono una componente di forza orizzontale che, agendo sugli spigoli del cubo, tende ad avvicinarli in direzione x. Questo avvicinamento `e contrastato dalle molle orizzontali (sia sugli spigoli sia sulle diagonali orizzontali) che reagiscono comprimendosi. La configurazione di equilibrio si realizza quando la contrazione nel piano determina una risultante orizzontale nulla sul singolo atomo dato che non ci sono carichi esterni agenti tale direzione (σxx = 0). In un reticolo a struttura cubica semplice `e quindi proprio la presenza delle molle diagonali a giustificare l’effetto Poisson, infatti `e ν = 0 se k2 = 0.

538

17.5. GIUSTIFICAZIONE DELL’EFFETTO POISSON PER UN MODELLO ELEMENTARE DI RETICOLO (*)

F=

d 02σ zz 4

z

y k1 / 4

k2 / 2

x

k1 / 4

Figura 17.14: Schema di corpo libero della faccia elementare.

Dall’equazione di equilibrio in direzione z si ottiene anche la seguente relazione che fornisce il modulo elastico: σzz k1 1 + 5ρ + 4ρ2 E= = εzz d0 1 + 3ρ Con le precedenti relazioni sembra possibile risalire alle propriet`a del legame atomico: k1 , k2 sulla base delle caratteristiche elastiche macroscopiche (E, ν) e della dimensione reticolare d0 . Tuttavia `e necessario considerare che il modello proposto `e piuttosto grossolano e pu`o essere usato solo per fornire una giustificazione poco pi` u che qualitativa del comportamento elastico macroscopico. In effetti, i cristalli hanno in genere strutture diverse e spesso sensibilmente pi` u complesse rispetto a quella modellata (sono tipicamente: cubiche a corpo centrato, cubiche a facce centrate, esagonali compatte, tetraedriche, ecc. . . ). Le considerazioni di equilibrio dei singoli atomi dovrebbero quindi essere conseguentemente adattate. Inoltre si pu`o verificare che un cristallo cubico semplice, come quello schematizzato, non ha un comportamento isotropo per cui, date le rigidezze k1 e k2 , se si ruota il reticolo di un angolo diverso da 90◦ , in genere il modulo elastico risulta diverso da quello precedentemente calcolato (in altri termini: E 6= 2G (1 + ν)). In effetti, la struttura dei reticoli cristallini determina necessariamente la presenza di direzioni preferenziali e di conseguenza, i monocristalli e quindi i singoli grani in una lega metallica hanno propriet`a elastiche generalmente anisotrope. In genere, per`o, in un materiale policristallino, i grani hanno forme approssimativamente tondeggianti, senza direzioni privilegiate, e diametri molto inferiori alle dimensioni caratteristiche del problema strutturale, inoltre, i piani atomici di grani diversi hanno un orientamento casuale uniformemente distribuito nello spazio. Come conseguenza di una media spaziale del comportamento deformativo dei singoli grani, a livello macroscopico il materiale non mostra direzioni preferenziali e appare isotropo. ` comunque utile ricordare che alcuni processi produttivi, come la laminazione o la trafiE latura, possono generare grani di forma allungata orientati preferenzialmente in una direzione. La conseguente fibrosit`a microstrutturale pu`o indurre deboli anisotropie anche delle propriet` a elastiche. Tale anisotropia `e dovuta alla forma allungata dei grani e non all’orientamento dei piani cristallini all’interno dei singoli grani, e si giustifica con il diverso comportamento della

539

17. IL MATERIALE ELASTICO LINEARE OMOGENEO ISOTROPO

0.25 0.20

ν

0.15 0.10 0.05 0

0

0.2

0.4

0.6

0.8

1

ρ = k2 / k1 Figura 17.15: Rapporto di Poisson per un reticolo cubico in funzione del rapporto tra la rigidezza delle molle.

zona irregolare del reticolo che caratterizza i bordi di grano rispetto alle zone interne reticolarmente molto pi` u regolari. Per esempio, in una lamiera di acciaio prodotta da laminazione, il modulo elastico misurato con un provino estratto nella direzione di laminazione pu`o differire di qualche percento da quello misurato in un provino estratto nel senso trasversale. Differenze di questo ordine di grandezza verranno nel seguito trascurate. Esercizio 17.8: Spostamenti imposti (*) Un reticolo cubico i cui spigoli sono vincolati a muoversi solo in direzione z riproduce le condizioni del materiale in un provino tirato lungo l’asse z vincolato a non contrarsi ν trasversalmente. Sapendo che in tale caso lo stato di tensione `e: σxx = σyy = 1−ν σzz , usando un modello dedotto dalla figura 17.14 determinare il legame tra le rigidezze delle molle e il rapporto di Poisson.

17.6 True stress vs engineering stress Come `e stato osservato, la tensione rappresenta dimensionalmente il rapporto tra una forza e l’area della sezione su cui tale forza globalmente agisce. A rigore, per un materiale deformabile la tensione di Cauchy dovrebbe essere valutata considerando l’area sotto carico, ovvero quella che si manifesta quando il corpo `e effettivamente sottoposto alla forza ed `e quindi deformato. Nell’interpretazione della prova di trazione, da cui abbiamo dedotto i moduli elastici, `e stata invece considerata l’area della sezione iniziale, o sezione nominale. A causa della non linearit`a geometrica connessa alla modifica della configurazione del corpo sotto carico, l’uso dell’area corrente comporta una complicazione sia nella formulazione della legge costitutiva sia nella soluzione del problema strutturale. Infatti, considerando la geometria deformata si ottiene un tipico problema del secondo tipo: le deformazioni dipendono costitutivamente dalle tensioni ma per valutare le tensioni `e necessario sapere come il corpo si deforma, ecc. . . . Sia l’area della sezione nominale sia l’area della sezione corrente possono essere usate per definire la tensione. In generale, si ottiene un risultato diverso e, secondo il caso, pu`o essere pi` u corretto, oppure conveniente, adottare l’una o l’altra definizione. La tensione valutata sulla

540

17.6. TRUE STRESS VS ENGINEERING STRESS

base dell’area nominale A della sezione: σzz =

F A

`e generalmente chiamata tensione ingegneristica (engineering stress) mentre la tensione valutata in base all’area A∗ della sezione deformata dal carico: σ ˜zz =

F A∗

`e chiamata tensione vera (true stress). Nell’ambito dei corpi poco deformabili la differenza tra i due precedenti quantificatori dello stato tensionale `e trascurabile. Questo deriva dal fatto che per i solidi cristallini le deformazioni elastiche sono al pi` u dell’ordine di 10−3 per cui le differenze relative A e A∗ e quindi tra σzz e σ ˜zz sono al massimo dell’ordine del permille. Non sembra quindi giustificato introdurre complicate non linearit`a costitutive per cogliere effetti che sono dello stesso ordine di grandezza delle approssimazioni generalmente tollerate nella meccanica dei corpi poco deformabili. Nel presente corso pertanto, le caratteristiche geometriche delle sezioni su cui le tensioni sono valutate saranno sempre quelle nominali (iniziali, a corpo indeformato) senza che tale scelta abbia effetti significativi sul risultato. ` interessante osservare che l’adozione della tensione ingegneristica, oltre a evidenti motivaE zioni di tipo pratico, ha anche una giustificazione di tipo fisico, almeno per lo studio di materiali di tipo cristallino in regime elastico. Come pi` u volte affermato, le deformazioni elastiche sono conseguenza delle forze applicate ai singoli atomi del reticolo che modificano debolmente la configurazione di equilibrio naturale dai legami elettromagnetici interni. Considerando il caso uniassiale schematizzato nella figura 17.13, si osserva che, all’aumentare del carico complessivo (di trazione), gli atomi tendono in generale ad avvicinarsi in direzione trasversale, ma anche che, nonostante questo, il carico agente su ogni singolo legame atomico cresce in misura proporzionale al carico applicato. In effetti, se la deformazione `e elastica, il numero di atomi che appartengono a un piano perpendicolare all’asse (gli atomi che si dividono il carico) non muta durante il caricamento, anche in presenza dell’effetto Poisson. Mentre la tensione ingegneristica cresce proporzionalmente al carico applicato, la tensione vera cresce col carico pi` u che proporzionalmente. Non stupisce quindi se la linearit`a che si osserva nel grafico carico-spostamento sia riprodotta fedelmente nel grafico tensione ingegneristica-deformazione da cui `e ricavato il valore del modulo elastico E. Quindi sarebbe necessario introdurre una legge costitutiva non lineare per esprimere il legame tensione veradeformazione per giustificare la legge sperimentale lineare carico-spostamento. Pertanto, per i materiali cristallini in campo elastico la tensione ingegneristica non solo `e pi` u semplice della tensione vera ma `e anche fisicamente pi` u rappresentativa. Per questi materiali, che costituiscono la norma nel presente corso, non si devono quindi avere dubbi a non adottare la tensione vera dato che, nei fatti, `e pi` u vera la tensione ingegneristica! Vi sono peraltro situazioni in cui la tensione vera diventa pi` u significativa di quella ingegneristica, in particolare: • per gli elastomeri con elevate deformazioni • per i materiali soggetti a predominanti deformazioni plastiche o viscose. In tali circostanze i due quantificatori tensionali possono differire significativamente e, inoltre, il reticolo cristallino viene alterato dal caricamento anche nella disposizione degli atomi e cambia il numero di atomi che, nella sezione, si ripartiscono il carico. Il carico agente sul singolo atomo in tali casi `e pi` u correttamente descritto dalla true stress.

541

Capitolo 18

Propriet` a di resistenza e verifiche Oltre alle costanti elastiche che definiscono il comportamento costituivo vi sono molte altre propriet`a dei materiali ricavabili dalla prova di trazione anch’esse fondamentali nelle costruzioni meccaniche. Tra queste figurano le propriet`a di resistenza la conoscenza delle quali `e necessaria per garantire che il materiale sia impiegato in condizioni di sicurezza. Il capitolo descrive le principali propriet`a meccaniche dei materiali da costruzione sollecitati in modo quasi statico. Particolare attenzione `e dedicata alla condizione di snervamento che rappresenta il livello di sollecitazione sopra il quale il materiale manifesta deformazioni non solo elastiche. Viene descritto il modo con cui `e valutabile la tensione di snervamento tramite la prova di trazione uniassiale e definita la tensione ammissibile del materiale che fissa il limite superiore della tensione monoassiale che garantisce il comportamento costitutivo elastico lineare. La definizione di snervamento `e successivamente estesa a un generale stato di tensione pluriassiale e sono introdotti i criteri di snervamento di Tresca e di von Mises. Con la nozione di tensione equivalente o ideale `e quindi sviluppato un metodo operativo per ricondurre uno stato di tensione qualunque a uno stato uniassiale ugualmente pericoloso ai fini dello snervamento. Il confronto diretto tra la tensione equivalente e la tensione ammissibile del materiale permette quindi la verifica a resistenza del componente. Nell’ultima parte del capitolo `e definito il coefficiente di sicurezza che rappreenta il risultato finale di ogni verifica di resistenza allo snervamento.

18.1 Determinazione della resistenza allo snervamento 18.1.1 Completamento della prova di trazione fino a rottura Molte delle principali propriet`a meccaniche di un materiale si ottengono elaborando la prova di trazione che viene prolungata fino alla rottura del provino. Ricordiamo che la prova di trazione `e tipicamente condotta in controllo di spostamento, ovvero in modo che la servovalvola di controllo immetta nell’attuatore della macchina di prova una portata d’olio tale da imporre un allontanamento relativo degli estremi del provino a (bassa) velocit`a costante, indipendentemente da come si comporta il materiale. Durante la prova, la cella di carico misura la forza di trazione che viene conseguentemente applicata al provino. In controllo di spostamento non si verifica nulla di anomalo nemmeno alla rottura, la macchina infatti continua ad allontanare gli estremi del provino, ormai separati, mentre la cella di carico da quel momento segna forza normale nulla. Come `e stato fatto nel capitolo 17 per determinare le propriet`a elastiche, i dati direttamente rilevati nella prova (forza assiale e allontanamento di due punti della parte cilindrica del provino) vengono normalizzati con due quantit`a costanti, rispettivamente: l’area iniziale della sezione e

543

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

la distanza iniziale dei punti. Come conseguenza, la curva tensione–deformazione (σ–) che cos`ı si ottiene ha la stessa forma della curva forza normale–allungamento (F –s). Sappiamo dai capitoli precedenti che la curva tensione–deformazione ai bassi carichi `e lineare per tutti i solidi, tuttavia l’evidenza sperimentale mostra che, proseguendo la prova, la curva pu`o mostrare andamenti pi` u complessi e diversi secondo il tipo di materiale in esame. In effetti, per alcuni materiali, come per esempio i ceramici, la curva di trazione rimane lineare fino alla rottura del provino. In questi casi si osserva che le parti in cui il provino si separa alla rottura possono essere fatte ricombaciare in modo che con i frammenti `e ricostituibile la forma originaria del provino. Un materiale che manifesta tale comportamento raggiunge la rottura quando sono state prodotte solo deformazioni elastiche ed `e detto fragile (brittle). La fragilit` a (brittleness) `e in genere una caratteristica propria di un materiale ma pu`o essere favorita dall’ambiente, come la bassa temperatura o la presenza di idrogeno, oppure dalle condizioni di carico, come l’elevata velocit`a di applicazione (urti). Le rotture fragili si verificano con il minimo lavoro fatto dai carichi per cui sono generalmente improvvise e catastrofiche in quanto `e difficle che il fenomeno di separazione si arresti una volta che sia stato innescato. Come regola generale, nei materiali da costruzione la fragilit`a `e pertanto una caratteristica da evitare o, quanto meno, da limitare. I tipici materiali da costruzione devono quindi possedere un sufficiente grado di duttilit` a (ductility) che `e una caratteristica per cui si deformano non solo elasticamente prima di rompersi. La duttilit`a si evidenzia quindi con l’insorgenza di marcate non linearit`a della curva tensione–deformazione. Tali non linearit`a sono generalmente manifestazioni di deformazioni non elastiche che interessano il cristallo e che possono essere quantitativamente prevalenti rispetto alle deformazioni elastiche. Infatti, nei materiali duttili, le parti del provino dopo la rottura presentano una forma molto diversa da quella iniziale a testimonianza che notevoli processi deformativi permanenti, o irreversibili, si sono prodotti prima che il provino giungesse a rottura. Analizziamo l’esito di una prova di trazione condotta fino alla rottura su un tipico materiale duttile, come un acciaio al carbonio da costruzione, la cui curva tensione-deformazione `e riprodotta in figura 18.1. Dalla figura si possono trarre alcune interessanti considerazioni: • la zona A, in cui la curva `e lineare, rappresenta il comportamento elastico • in corrispondenza del punto B si evidenzia una perdita di linearit`a che, in questo caso, `e caratterizzata da una brusca deviazione dalla linearit`a con una riduzione del valore della forza trasmessa al provino (calo della tensione di prova) • il fenomeno che si verifica in B che rappreenta la condizione di inizio della fase in cui il materiale manifesta un comportamento costitutivo non lineare, `e chiamato snervamento (yielding) o, pi` u propriamente, primo snervamento • nella successiva fase B − C la curva di trazione `e caratterizzata da una pendenza molto inferiore rispetto al campo elastico, in certe zone, o per certi materiali, la curva dopo lo snervamento `e praticamente orizzontale in certi casi `e orizzontale all’inizio e poi appare debolmente crescente fino al punto C • nella fase B − C il materiale si deforma anche plasticamente ovvero, oltre al fenomeno deformativo elastico, si attiva anche un processo deformativo simile a quello che produce lo scorrimento in un liquido molto viscoso. Per produrre lo scorrimento plastico, il provino richiede una forza normale che risulta poco influenzata dalla deformazione, per questo motivo la curva di trazione `e in tale zona di fatto orizzontale se paragonata alla fase elastica

544

18.1. DETERMINAZIONE DELLA RESISTENZA ALLO SNERVAMENTO

• nella fase B − C la parte calibrata di interesse del provino rimane cilindrica pur subendo un allungamento significativo (si osservino i valori realistici sull’asse delle deformazioni), la trasformazione `e quindi ancora affine in grande ed `e corretto ottenere la εzz dalla misura dell’estensometro • la curva generalmente raggiunge e supera un massimo (il punto C) in corrispondenza del quale si osserva l’inizio della strizione (necking) ovvero di una riduzione non pi` u uniforme della sezione nel tratto precedentemente calibrato del provino (la posizione assiale in cui si verifica la strizione `e casuale) • dal punto C in poi, si manifesta una localizzazione del processo deformativo per cui le deformazioni plastiche continuano a progredire nella sola zona di strizione, pertanto l’interpretazione della curva tensione–deformazione diventa discutibile a causa del fatto che entrambe le quantit`a σ e  non sono pi` u uniformi e quindi non rappresentano il comportamento del materiale • nella parte decrescente finale C −D il processo deformativo plastico diventa quindi sempre pi` u inteso nella sola zona di strizione e la sezione minima si riduce rapidamente fino alla rottura in corrispondenza del punto D • considerando il comportamento deformativo del provino nella fase compresa tra lo snervamento e la rottura, gli effetti prodotti dallo scorrimento plastico sono largamente dominanti.

σ zz [ MPa ]

C

600

B

D

400

200

A

ε zz [ % ] O 5

10

15

20

25

30

Figura 18.1: Curva tensione-deformazione per un acciaio dolce fino a rottura: A Fase elastica, B snervamento, C inizio della strizione, D rottura.

In relazione al comportamento mostrato in figura 18.1 alcuni materiali hanno caratteristiche di duttilit`a meno marcate. Per tali materiali la curva di trazione dopo lo snervamento pu` o risutare sempre crescente senza presentare un massimo locale con derivata nulla. La limitata duttilit`a pu`o quindi comportare che si raggiunga la rottura senza che si abbia la strizione.

18.1.2 Tensione di snervamento e tensione ammissibile per lo snervamento Per analizzare il fenomeno dello snervamento `e utile effettuare una prova di carico–scarico che preveda nella fase di carico (loading phase) il superamento della condizione di snervamento B. Con riferimento alla figura 18.2, supponiamo di adottare un provino dello stesso

545

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

materiale di quello con cui `e stata ottenuta la curva 18.1 ma, per chiarezza grafica, le scale delle deformazioni sono notevolmente amplificate. Nella fase di carico, fino al punto C, l’esperimento fornisce la curva precedente (a meno della naturale dispersione del materiale e delle misure). Raggiunto il punto C l’immissione dell’olio viene interrotta con la chiusura della valvola di alimentazione dell’attuatore. Se non si interviene con altre operazioni e si lascia l’olio nell’attuatore, si osserva che la forza normale letta dalla cella di carico, e quindi anche la tensione (C) agente nel provino, rimane costante nel tempo al valore σzz . Successivamente, mediante l’apetura della valvola di deflusso dell’olio, il provino `e scaricato. Se il materiale avesse subito solo una deformazione elastica, nella fase di scarico (unloading phase) la curva tensione– deformazione seguirebbe a ritroso la curva di carico fino all’origine. Invece, come mostra la figura 18.2, il provino si riporta nella condizione di tensione nulla con le quantit`a σ– che descrivono una curva di scarico che ha l’andamento lineare C − D caratterzzato dalla stessa pendenza del tratto elastico iniziale.

σ zz [ MPa ] 600

Δσ

C

B 400

B’

200

A

ε zz [ % ]

D O 0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

Figura 18.2: Prova di carico-scarico nei pressi dello snervamento.

Alla fine del ciclo di carico–scarico il provino pu`o essere smontato e misurato e si osserva che la parte centrale risulta pi` u lunga dello 0.6% rispetto al valore iniziale mentre il diametro del provino si `e ridotto di 0.3% (di quanto `e variato il volume?). Tale modifica di forma `e permanente in quanto, se non si interviene con altre azioni, il provino conserva per sempre tali caratteristiche geometriche. Per uniformit`a, dobbiamo assumere che ogni parallelepipedo elementare della parte centrale del provino `e caratterizzato dalle stesse deformazioni e quindi che il ciclo di carico–scarico ha prodotto nel materiale deformazioni permanenti o deformazioni plastiche (plastic strains) uniformemente diffuse. Pertanto, nel corso della prova il materiale non ha manifestato un comportamento deformativo solo elastico. L’esame dell’esperimento conduce alle seguenti considerazioni. • Le deformazioni plastiche sono state prodotte durante la fase di carico nel tratto tra B e C poich´e, se lo scarico fosse avvenuto prima di raggiungere B, le deformazioni permanenti non sarebbero state osservate. • Quando il provino si trova nella condizione C (a valvola chiusa e sotto carico) sono presenti (C) nel materiale due componenti deformative: una elastica dovuta allo stato di tensione σzz e una plastica che si `e accumulata nei processi di scorrimento che hanno interessato l’intera fase B − C. Quando si trova nel tratto B − C si dice quindi che il materiale ha un comportamento elasto-plastico.

546

18.1. DETERMINAZIONE DELLA RESISTENZA ALLO SNERVAMENTO

• Dopo essere stato scaricato, il provino perde, insieme con la tensione, anche la componente elastica della deformazione e, alla fine (punto D), rimane affetto dalla sola componente plastica. La fase C − D, nella quale solo le deformazioni elastiche si modificano, si chiama pertanto scarico elastico (elastic download). • Lo snervamento rappresenta la condizione in cui cominciano a manifestarsi i fenomeni deformativi plastici ovvero gli scorrimenti permanenti di piani cristallini. Quando la perdita di linearit`a della curva `e evidente, il valore di tensione a cui questo fenomeno si manifesta `e chiamato tensione di snervamento (yielding stress) e indicato con σS (molti testi anglosassoni lo indicano con σY S oppure, pi` u semplicemente, con S). La tensione di snervamento `e una fondamentale propriet`a di resistenza del materiale che permette di prevedere, per la tensione applicata in uno stato monoassiale, se il materiale si comporta elasticamente: σzz < σS . Per un materiale che, come in figura 18.2, sollecitato oltre il limite elastico, ha una curva (B) lineare fino a B e poi mostra un brusco calo della tensione di prova BB 0 , si definisce σzz 0 (B ) snervamento superiore e σzz snervamento inferiore. Si verifica per`o che in diversi (B) (B 0 ) provini dello stesso materiale la sovratensione ∆σ = σzz − σzz `e una quantit`a piuttosto dispersa influenzata da disturbi anche di piccol entit`a (come vibrazioni, variazioni della velocit` a di applicazione del carico, piccole eccentricit`a del carico, deformabilit`a della macchina di prova, ecc. . . ). Dato che lo snervamento inferiore `e invece molto meno influenzato da questi effetti, (B 0 ) per materiali che mostrano curve di trazione di questo tipo `e opportuno assumere σS = σzz (nel caso esaminato σS = 400 MPa). Generalmente, i materiali metallici mostrano un comportamento in compressione speculare rispetto a quello in trazione, almeno fino a che la componente plastica della deformazione non diventa molto grande (> 0.1), per cui in condizioni monoassiali la condizione di comportamento elastico `e espressa da |σzz | < σS . Si osservi quindi che, per definizione, σS `e una quantit` a positiva. Se la prova viene continuata dopo il raggiungimento del punto D (figura 18.3), quindi ri-immettendo olio nell’attuatore, la curva ripercorre in fase di carico il tratto D − E per poi riprendere dopo il punto E l’andamento che avrebbe seguito se lo scarico non fosse stato effettuato. Nella fase C − D − E il materiale si comporta quindi elasticamente e ulteriori deformazioni permanenti si manifestano solo dopo che la condizione E `e stata raggiunta. Si osserva quindi che il limite del campo elastico del materiale risulta pi` u elevato rispetto alla condizione iniziale. In effetti, se la fase A − B − C − D fosse stata eseguita a nostra (E) insaputa, la misura dello snervamento avrebbe fornito come risultato σS = σzz . L’accumulo di deformazione plastica ha quindi prodotto un aumento della tensione di snervamento del materiale: (E) (C) (B) σzz = σzz > σzz Questo fenomeno `e chiamato incrudimento (strain hardening) ed `e caratteristico dei materiali che hanno una curva di trazione crescente con la deformazione plastica accumulata. La possibilit` a di aumentare la tensione di snervamento con un processo di preliminare deformazione plastica `e effettivamente sfruttato in certi manufatti e semilavorati che sono prodotti con lavorzioni per deformazione plastica a freddo. Molti materiali, come gli acciai fortemente legati, in particolare gli inossidabili, e certe leghe di alluminio e di rame, hanno curve tensione–deformazione del tipo rappresentato in figura 18.4 nelle quali non si osserva un evidente passaggio dal regime elastico a quello elasto-plastico. In questi casi non `e immediato definire la condizione di snervamento perch´e le deformazioni plastiche si accumulano gradualmente con l’aumentare della tensione senza che vi sia una vera

547

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

σ zz [ MPa ] 600

C

B

E

400

200

A

ε zz [ % ]

D O 0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

Figura 18.3: Ricarico dopo il ciclo di carico-scarico elasto-plastico con il raggiungimento dello snervamento a un livello superiore per un materiale incrudente

e propria soglia del comportamento elastico. La tensione di snervamento viene quindi definita assumendo un livello convenzionale di deformazione permanente, considerato significativo. Per molte applicazioni, soprattutto per effettuare le verifiche strutturali in condizioni di caricamento quasi statico, il livello di riferimento delle deformazioni permanenti `e fissato allo 0.2%. In figura 18.4 `e mostrata la curva tensione–deformazione tipica di un acciaio inossidabile e la corrispondente determinazione dello snervamento convenzionale e della relativa tensione di snervamento. Considerato sull’asse delle deformazioni il punto che corrisponde al valore della deformazione permanente minima convenzionale (nell’esempio 0.2% = 2000 µε) viene tracciata la retta parallela al tratto iniziale della curva di trazione fino all’intersezione B. In questo modo, quando il materiale `e sottoposto a una tensione monoassiale inferiore al livello di snervamento (che nel caso in esame `e 500 MPa), la deformazione plastica che si manifesta risulta inferiore a 0.2%.

σ zz [ MPa ] 600

σS

B

400

A 200

ε zz [ % ] 0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

Figura 18.4: Determinazione dello snervamento allo 0.2% per un materiale con perdita graduale della linearit`a

Si deve peraltro considerare che non sempre livelli di deformazione plastica anche cos`ı bassi sono tollerabili, soprattutto se il materiale deve sopportare sollecitazioni cicliche, e quindi per

548

` DI RESISTENZA 18.2. ALTRE PROPRIETA

certi scopi sono definite tensioni di snervamento con soglie di deformazione permanente inferiore (un valore talvolta usato `e 0.05%). Peraltro, se la soglia `e molto bassa la determinazione di σS diviene pi` u incerta a causa della dispersione delle misure sperimentali che rappresentano i punti della curva e della conseguente difficolt`a di determinare con accuratezza la pendenza iniziale e l’intersezione. Quando si effettua una verifica strutturale `e richiesto che un definito fenomeno indesiderato non si manifesti. Spesso le verifiche di resistenza impongono che il materiale abbia un comportamento elastico e quindi `e necessario garantire che, con adeguati margini, lo snervamento non sia mai raggiunto. A tale scopo viene definita la caratteristica del materiale tensione ammissibile (allowable stress) che identificheremo con σam qunatit`a che, al massimo, `e pari alla tensione di snervamento: σam 6 σS (18.1) La tensione ammissibile `e solitamente inferiore alla tensione di snervamento per motivi di cautelativit`a nei confronti delle variazioni delle propriet`a effettive del materiale (non sempre i materiali che si impiegano possono essere effettivamente misurati e quindi `e necessario fidarsi delle dichiarazioni dei fornitori). La tensione ammissibile `e quindi una propriet`a di resistenza del materiale che deve essere fornita insieme con il materiale. Possiamo quindi dare la seguente definizione: uno stato di tensione monoassiale con autovalore σ1 non nullo produce nel materiale deformazioni elastiche se |σ1 | 6 σam , nel caso in cui tale condizione non sia verificata il comportamento elastico non `e garantito e lo stato di tensione `e considerato non ammissibile. ` evidente che il superamento della condizione di ammissibilit`a non implica la rottura del E materiale (in linea di principio pu`o non implicare nemmeno lo snervamento se il superamento `e conteunto) tuttavia non essendo garantito il comportamento elastico, nel seguito tale condizione sar`a considerata una mancata verifica di resistenza e quindi non sar`a tollerata.

18.2 Altre propriet` a di resistenza Dall’esame quantitativo della prova di trazione si ricavano altre importanti propriet`a meccaniche del materiale. In particolare, consideriamo ancora il caso di carico–scarico di figura 18.2, l’area sottesa dalla curva chiusa di contorno O − A − B − B 0 − C − D − O rappresenta il lavoro per unit` a di volume fatto dalle tensioni in conseguenza del processo deformativo prodotto. Tale lavoro, dal punto di vista meccanico, `e dissipato e, in effetti, si ritrova sotto forma di energia termica. Il provino infatti si scalda in maniera rilevabile durante la fase elasto-plastica della prova (conoscendo il calore specifico del materiale, il lettore pu`o calcolare come esercizio l’ordine di grandezza dell’aumento di temperatura). L’area sottesa dall’intera curva di trazione pu`o quindi essere interpretata come il lavoro per unit`a di volume necessario per portare a rottura il provino di trazione. Tale quantit`a, W in figura 18.5, misura la tenacit` a (toughness) del materiale. La massima deformazione che si misura nel provino `e chiamata allungamento percentuale a rottura AR e quantifica la duttilit` a (ductility) del materiale, ovvero la capacit` a di sopportare intense deformazioni plastiche prima di rompersi. Le norme che definiscono il modo di condurre e interpretare la prova di trazione, le pi` u usate sono la UNI in Europa e la ASTM (American Society for Testing and Materials) in USA, prescrivono un procedimento di interpetazione pi` u articolato di quello qui descritto a grandi linee, in particolare allo scopo di garantire che la zona di strizione sia all’interno del tratto di misura della deformazione, ma la sostanza `e la stessa.

549

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

σ zz [ MPa ]

σR σS

600

400

W 200

ε zz [ % ] 5

10

15

20

25

30

AR Figura 18.5: Propriet` a meccaniche deducibili dalla prova di trazione

La massima tensione ingegneristica (riferita alla sezione nominale) misurata nella prova `e definita dalla norma UNI tensione di rottura (ultimate stress) e si indica con σR . Notiamo che il termine inglese ultimate stress `e pi` u appropriato poich´e si tratta di una tensione estrema di prova che non necessariamente corrisponde alla rottura del materiale. In effetti, se il provino manifesta la strizione prima di rompersi, in corrispondenza di σR si verifica l’inizio della strizione ovvero l’insorgere di un fenomeno di collasso plastico locale che solo successivamente porta alla rottura del materiale. Peraltro, se invece di operare in controllo di spostamento, ovvero imponendo un allontanamento progressivo agli estremi del provino, la prova fosse condotta in controllo di carico, ovvero regolando la portata dell’olio in modo daincrementare il carico nel tempo (la servovalvola permette anche questa meno consueta modalit`a di prova), quando la forza normale raggiunge il valore Nmax = A0 σR si avrebbe effettivamente la rottura istantanea del provino. In controllo di carico il tratto decrescente della curva non pu`o infatti manifestarsi. Le tensioni di snervamento σS e di rottura σR sono le fondamentali propriet`a di resistenza statica per i materiali che hanno impieghi strutturali. In particolare, per realizzare i componenti a cui sono demandati i compiti strutturali pi` u gravosi sono di norma scelti materiali con elevata resistenza. Per applicazioni sui mezzi di trasporto, specialmente velivoli, `e spesso richiesto il massimo rapporto tra la resistenza meccanica e la densit`a (o il peso specifico), propriet`a chiamata resistenza specifica. Tuttavia, anche le altre caratteristiche meccaniche ricavate dalla prova di trazione sono importantissime per la scelta del materiale nelle costruzioni. Una elevata duttilit`a, definita dall’allungamento a rottura AR , `e evidentemente necessaria per i materiali con cui realizzare componenti tramite processi di deformazione plastica, come: stampaggio, imbutitura o piegatura. In questo caso, infatti, la duttilit`a permette il processo di fabbricazione stesso e inoltre, il componente `e spesso posto in esercizio direttamente al termine delle lavorazioni e quindi `e fondamentale che il materiale non abbia subito danni e conservi ancora adeguate propriet`a meccaniche. Una elevata tenacit`a W `e richiesta per i componenti (specie se ottenuti per saldatura) che in esercizio possono essere soggetti a urti o a carichi fortemente concentrati che possono produrre elevati picchi di tensione anche solamente in zone di estensione limitata. In queste condizioni, un materiale che per rompersi richiede un elevato lavoro specifico costituisce una garanzia contro i rischi di rottura catastrofica (frattura fragile). Nelle verifiche di resistenza sviluppate nell’ambito del presente corso saremo prevalentemente interessati alla resistenza allo snervamento, tuttavia `e bene ricordare che nella progettazione

550

` DI RESISTENZA 18.2. ALTRE PROPRIETA

meccanica i materiali devono essere scelti in base anche alle altre propriet`a. Il seguente semplice esempio pu`o essere molto istruttivo. Esempio 18.1: Materiali duttili e fragili Analizzare la resistenza di due bicchieri aventi la stessa forma e le stesse dimensioni, uno di vetro e uno di materiale polimerico. Le curve di trazione di due materiali sono schematicamente riprodotte in figura 18.6.

σ zz 1

2

ε zz Figura 18.6: Curve di trazione per il vetro (1) e per un materiale polimerico (2)

Si tratta di due materiali che hanno un comportamento a trazione piuttosto diverso. Il vetro `e molto pi` u resistente del materiale polimerico ma `e fragile e la sua duttilit`a pu`o essere trascurata. Se il bicchiere viene usato con cura, la capacit`a di sopportare carichi prima di danneggiarsi `e molto maggiore se `e fatto di vetro. Viceversa se non `e garantito che l’uso sia adeguato, ma, per esempio, non si pu`o escludere che il bicchiere cada sul pavimento o che riceva colpi durante il lavaggio, `e ovviamente consigliato l’uso del polimero. Non `e infatti possibile rompere un bicchiere di polipropilene semplicemente facendolo cadere dal tavolo. Il bicchiere di vetro si spezza ma non si piega (permanentemente) mentre il bicchiere di materiale plastico si piega ma non si spezza! In prima approssimazione la tenacit`a pu`o essere espressa dal prodotto della resistenza per la duttilit`a: AR W ≈ σS (18.2) 100 Dato che la tenacit`a rappresenta il lavoro specifico (lavoro per unit`a di volume) che deve essere speso per portare a rottura un materiale in una prova monoassiale, in genere `e difficile che tale valore possa essere migliorato significativamente per un certo materiale, per esempio con trattamenti termici o meccanici. Per certi acciai, per esempio, un trattamento termico che aumenta la resistenza generalmente ne riduce la duttilit`a e viceversa. Tipicamente, la tempra aumenta la σR e riduce AR mentre la ricottura esalta la duttilit`a a scapito della resistenza, come mostrato in figura 18.7. Un effetto simile si ottiene in un materiale incrudente con la deformazione plastica a freddo. Tale procedimento infatti aumenta lo snervamento ma riduce la deformazione a rottura.

551

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

σ zz [ MPa ] c 600

b 400

a 200

ε zz [ % ] 5

10

15

20

25

30

Figura 18.7: Curve di trazione tipiche per un acciaio legato dopo che ha subito diversi trattamenti termici: a) ricotto (bassa resistenza elevata duttilit`a); b) bonificato (valori intermedi di resistenza e duttilit`a) e c) temprato: alta resistenza e bassa duttilit` a

18.3 Lo snervamento in condizioni non monoassiali Lo stato di tensione a cui un materiale `e sottoposto in esercizio `e in genere multiassiale, frequentemente biassiale. Si pone quindi il seguente problema di notevole interesse applicativo: dato un materiale con una tensione ammissibile σam (misurata mediante la prova di trazione), uno stato di tensione:   σxx σxy σxz σyy σyz  S= Sym σzz pu`o essere applicato in modo che rimanga in campo elastico? La domanda si pu`o riformure in questi termini: sapendo che uno stato di tensione monoassiale in cui l’autovalore non nullo `e compreso nell’intervallo [−σam , σam ] `e ammissibile, `e possibile stabilire l’ammissibilit`a di uno stato di tensione non monoassiale? La risposta a queste domande `e pi` u complessa di quanto ci si possa attendere. Nell’analisi del comportamento elastico fatta nel capitolo precedente, la caratterizzazione del comportamento monoassiale `e stata sufficiente per ottenere il comportamento generale (legge di Hooke) perch´e, rimanendo in campo elastico, `e stato sfruttato il principio di sovrapposizione degli effetti. Lo snervamento `e per`o un fenomeno connesso con la non linearit`a del comportamento costitutivo, per cui non stupisce se la sovrapposizione non sia pi` u applicabile. Allo scopo di semplificare il problema, ma senza una significativa perdita di generalit`a, assumiamo che il materiale sia omogeneo e isotropo anche per le caratteristiche plastiche. Assumiano quindi che provini di trazione estratti dallo stesso corpo in zone diverse e con diverso orientamento producano la stessa curva di trazione entro i margini tipici delle dispersioni sperimentali. Il materiale `e quindi assunto omogeneo e isotropo oltre che per il modulo elastico e rapporto di Poisson anche per lo snervamento, l’incrudimento e la duttilit`a. L’evidenza sperimentale conferma questa ipotesi, in particolare per i metalli allo stato ricotto, ma `e opportuno ricordare che l’ipotesi di isotropia delle propriet`a plastiche `e pi` u pesante dell’ipotesi di isotropia elastica. In effetti, molte lavorazioni di deformazione plastica, come piegatura, laminazione e trafilatura,

552

18.3. LO SNERVAMENTO IN CONDIZIONI NON MONOASSIALI

specie se eseguite a freddo, possono indurre significative anisotropie nello snervamento e nella duttilit`a. Assumiamo inoltre che il materiale abbia lo stesso snervamento in trazione e in compressione Per un materiale isotropo `e lecito scegliere il sistema di riferimento principale di tensione in modo da minimizzare il numero di parametri tensionali che passano da 6 a 3:   σ1 0 0 σ2 0  S= Sym σ3 In linea di principio, la determinazione dello snervamento pu`o essere affrontato sperimentalmente realizzando varie prove in ognuna della e quali un generico stato tensionale multiassiale sia applicato a un provino. A tale scopo, consideriamo l’autovalore di modulo maggiore (che indichiamo con σ1 ) e i rapporti ρ2 = σσ12 e ρ3 = σσ31 ; in modo che lo stato di tensione si possa esprimere come:   1 0 0 ρ2 0  S = σ1  Sym ρ3 La prova `e eseguita in modo da far crescere gradualmente σ1 conservando i rapporti di multiassilit`a ρ2 e ρ3 costanti. Durante la prova, un estensometro misura una qualunque grandezza deformativa ε, come, per esempio, l’allontanamento relativo di due punti M e N : ε=

|M ∗ N ∗ | − |M N | |M N |

Si traccia quindi il grafico di σ1 in funzione di ε. Per gli scopi che ci proponiamo la scelta dei punti di misura M e N non `e rilevante. Dato che ai bassi carichi il materiale si comporta elasticamente, come schematizzato nella figura 18.8, il primo tratto della curva σ1 –ε `e rettilineo, successivamente il materiale (se non `e fragile) comincia a scorrere plasticamente e la curva manifesta le tipiche non linearit`a che si riscontrano nella prova di trazione uniassiale. Con i consueti criteri, si determina quindi il livello della tensione σ1 , che indichiamo con σ ¯1 , a cui insorgono gli scorrimenti plastici. Se la curva ha una perdita di linearit`a non evidente si pu` o usare il criterio dello 0.2%.

σ1 B

σ1

A

ε

Figura 18.8: Curva tensione deformazione per una prova non monoassiale

553

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

Concludiamo quindi che per i rapporti di multiassialit`a ρ2 e ρ3 , lo snervamento si manifesta quando lo stato di tensione raggiunge il livello:   σ ¯1 0 0 ¯= ρ2 σ ¯1 0  S Sym ρ3 σ ¯1 L’esperimento pu`o essere interpretato sul piano di Mohr come in figura 18.9 che mostra lo stato di tensione prodotto nel provino (nell’esempio: ρ2 = 0.25, ρ3 = −0.25) quando il materiale si trova in campo elastico (punto A in figura 18.8) e quando viene raggiunto lo snervamento (punto B). Sul piano di Mohr lo sviluppo della prova si evidenzia come un rigonfiamento omotetico dell’arbelo il quale all’inizio `e degenere nell’origine e, all’aumentare del parametro di carico σ1 , si espande mantenendo invariati i rapporti tra gli autovalori.

τ B

A

σ σ3

σ2

σ1

Figura 18.9: Arbelo di Mohr per due condizioni di carico nella prova

Un modo efficace per visualizzare la prova multiassiale `e offerto dallo spazio di HaighWestergaard (vedi capitolo 13), nel quale stati di tensione omotetici crescenti costituiscono una sequenza di punti appartenenti a un segmento che parte dall’origine. In figura 18.10 `e mostrato la rappresentazione gli stati di tensione con ρ2 = 0.25 e ρ3 = −0.25.

σ3

σ1

σ2

σ1

A B

Figura 18.10: Prova di carico multiassiale omotetica nello spazio di HaighWestergaard

L’approccio sperimentale, che consentirebbe la soluzione del problema proposto, `e purtroppo inapplicabile per i motivi di seguito riportati. • Se si escludono alcuni stati biassiali, non `e fisicamente realizzabile una prova in cui uno stato di tensione multiassiale uniforme sia applicabile su una porzione del provino che

554

18.3. LO SNERVAMENTO IN CONDIZIONI NON MONOASSIALI

abbia volume finito e tale da risultare accessibile per poterne misurare deformazione e tensione. • Anche limitando l’esame agli stati biassiali, `e necessario impiegare una macchina di prova e un tipo di provino che sono entrambi molto pi` u complessi e costosi rispetto agli equivalenti per la prova monoassiale (i costi della macchina di prova biassiale, del provino e della prova stessa sono almeno un ordine di grandezza superiore a quelli monoassiali equivalenti). Oltre alle precedenti difficolt`a, per altro di per s´e gi`a sufficienti, ne esiste un’altra connessa con il numero di prove necessarie per effettuare una caratterizzazione completa dello snervamento multiassiale. Dovrebbe, in effetti, essere effettuata una prova per ogni coppia di parametri ρ2 e ρ3 , ognuno dei quali varia nell’intervallo [−1, 1]. Per cui, anche sfruttando l’isotropia del materiale e l’indipendenza dello snervamento dal segno delle tensioni, e quindi riducendo il dominio di analisi nel campo: −1 6 ρ2 6 ρ3 6 1, sarebbero comunque ∞2 le prove necessarie. Disponendo in linea teorica dei mezzi e delle risorse necessari per effettuare un numero sufficientemente elevato di prove con rapporti di multiassialit`a diversi, per ognuna di esse si potrebbe rappresentare nello spazio di Haigh-Westergaard il relativo punto di svervamento B (ρ2 , ρ3 ). Ogni punto B cos`ı determinato, a meno delle incertezze di misura e della dispersione delle propriet`a del materiale, appartiene alla superficie di snervamento del materiale che delimita la regione di ammissibilit` a ovvero il luogo dei punti caratteristici degli stati di tensione per cui il materiale si comporta elasticamente. Alcune propriet`a della superficie di snervamento nello spazio di Haigh-Westergaard possono peraltro essere anticipate sulla base delle seguenti considerazioni generali: • per l’isotropia del materiale, la superficie di snervamento deve essere invariante per permutazione degli assi • dato che il segno delle tensioni non `e influente, la superficie deve essere simmetrica rispetto all’origine • siccome il materiale a tensione bassa `e elastico, il luogo di ammissibilit`a, il cui confine `e la superficie di snervamento, deve contenere l’origine • l’intersezione della superficie di snervamento con gli assi dista dall’origine σS (gli assi rappresentano stati monoassiali) • `e stato dimostrato che la caratteristica di dissipativit`a delle deformazioni plastiche, ovvero la necessit`a che il lavoro fatto dalle tensioni per produrre deformazioni plastiche debba comunque essere positivo, implica che la superficie di snervamento sia convessa. Limitando l’analisi agli stati di tensione piani (biassiali o monoassiali), la rappresentazione di Haigh-Westergaard risulta pi` u agevole perch´e si limita al piano σ1 − σ2 . L’intersezione della superficie di snervamento con il piano σ1 − σ2 determina una linea schematizzata in figura 18.11 che ha le seguenti caratteristiche: • il contorno della zona elastica `e convesso e limitato e quindi la linea di snervamento `e continua e chiusa anche se la superficie di snervamento nello spazio pu`o essere non limitata • anche nel piano la linea di snervamento interseca gli assi a distanza σS dall’origine (condizioni monoassiali di trazione o di compressione) • `e sufficiente caratterizzare solo 1/4 dello sviluppo della linea di snervamento, in questo caso infatti ρ3 = 0 e l’unico rapporto di biassialit`a significativo `e compreso tra il valore corrispondente al taglio puro e quello dello stato equibiassiale −1 6 ρ2 6 1.

555

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

σ2

σS

Equibiassiale

B

−σ S

A

σS

σ1

Taglio puro

−σ S Figura 18.11: Luogo sperimentale di snervamento per stati di tensione piani (mono o biassiali) nel piano di Haigh-Westergaard.

La difficolt`a di ottenere la superficie, o anche solo la curva, di snervamento per via sperimentale, ha indotto a risolvere il problema in esame usando un criterio di snervamento (yielding criterion). Il procedimento identifica una caratteristica scalare dello stato di tensione che `e ritenuta significativa per produrre lo scorrimento plastico e quindi la sua incipiente manifestazione. A causa della grande variet`a di materiali, sono stati proposti molti criteri di snervamento, nel seguito ci limiteremo a presentarne due tra i pi` u utilizzati per metalli e polimeri.

18.4 Lo snervamento secondo Tresca 18.4.1 Il criterio di snervamento di Tresca Lo scienziato francese Henri Tresca (1814-1885) ha sviluppato un criterio di snervamento multiassiale partendo dall’ipotesi che le deformazioni plastiche siano determinate dalle sole componenti tangenziali dello stato di tensione. Le attuali conoscenze sulla struttura cristallina dei metalli e sul meccanismo di deformazione plastica, che sappiamo essere prevalentemente prodotto da scorrimenti di piani atomici conseguenti al moto delle dislocazioni, rendono l’ipotesi di Tresca molto verosimile. Per inciso, diversa doveva apparire la situazione nell’ottocento quando l’autore propose il criterio ancora prima che fosse chiarita la natura atomica della materia. Interpretiamo il criterio di Tresca considerando il caricamento omotetico di uno stato di tensione triassiale generale usando piano di Mohr. Come mostra la figura 18.12, quando la tensione `e bassa (stati A) le combinazioni σ − τ determinano arbeli di scarsa estensione e quindi i vettori tensione che i piani cristallini devono trasmettersi all’equilibrio hanno moduli contenuti. Secondo Tresca lo scorrimento plastico, e quindi il raggiungimento delle condizioni di snervamento, non possono prodursi su un generico piano se la componente tangenziale della tensione risulta inferiore a un valore di soglia che `e caratteristico del materiale stesso. Sappiamo che il piano critico, quello su cui si manifesta il valore massimo della tensione tangenziale, ha la normale inclinata di 45◦ rispetto alle direzioni principali con autovalori estremi. Siccome il materiale `e assunto isotropo, non `e per`o rilevante la giacitura del piano critico ma solo l’intensit`a delle tensioni tangenziali che tendono a far scorrere le dislocazioni. Secondo Tresca, quindi, l’arbelo pu`o essere fatto espandere con il materile che si comporta elasticamente fino a che la tensione tangenziale agente sul piano critico raggiunge un valore caratteristico del materiale, quantit`a che possiamo definire tensione tangenziale di

556

18.4. LO SNERVAMENTO SECONDO TRESCA

τ

τ

τ τS

A

τ max

τ max

B

τ max

σ

σ

σ

Figura 18.12: Caricamento omotetico nel piano di Mohr per uno stato di tensione triassiale (ρ2 = 0.25, ρ3 = −0.25): A stati elastici, e B raggiungimento dello snervamento.

snervamento τS . Quando viene raggiunto tale livello, il materiale si trova in condizioni che corrispondono a quelle che si realizzano nella prova uniassiale quando σzz = σS e quindi `e in fase di incipiente scorrimento plastico. Il criterio di snervamento di Tresca, chiamato anche criterio della massima tensione tangenziale, `e pertanto definito dalla relazione: τmax = τS

(18.3)

nella quale il primo membro τmax `e una quantit`a che deve essere calcolata mentre il secondo τS `e una propriet`a del materiale che deve essere misurata. Possiamo quindi formulare il seguente criterio di equivalenza per lo snervamento secondo Tresca: due stati di tensione sono equivalenti ai fini dello snervamento se hanno lo stesso valore della tensione tangenziale massima. La figura 18.13 mostra tre stati di tensione che, secondo il criterio di snervamento di Tresca, sono equivalenti ai fini dello snervamento. Dalla figura si ricavano alcune interessanti

τ τS

σ Figura 18.13: Stati di tensione equivalenti secondo Tresca

conseguenze che derivano dall’applicazione del criterio di Tresca:

557

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

• in relazione alla definizione delle condizioni di snervamento `e rilevante l’estensione verticale dell’arbelo di Mohr, non ha invece alcun effetto il suo posizionamento orizzontale • in altri termini, lo snervamento secondo Tresca non `e influenzato dalla componente idrostatica dello stato di tensione (quantit`a che pu`o essere indifferentemente positiva o negativa e avere modulo arbitrariamente grande) • il parametro tensionale che determina il rischio di snervamento τmax `e rappresentato dal raggio, o se si preferisce dal diametro, del massimo cerchio di Mohr, e quindi dipende dalla distanza dei due autovalori estremi e non `e influenzato dall’autovalore intermedio.

18.4.2 La tensione equivalente secondo Tresca Un modo operativo per applicare un criterio di snervamento consiste nel definire di uno stato di tensione monoassiale equivalente che `e caratterizzabile da una singola tensione (principale) denominata tensione equivalente (equivalent stress) o tensione ideale (ideal stress) e indicata con σeq o σid . Nelle ipotesi di Tresca, lo stato di tensione monoassiale equivalente deve avere lo stesso τmax dello stato di tensione dato. In generale quindi, dato che per Tresca due stati di tensione sono equivalenti se hanno lo stesso diametro del cerchio massimo, si ha: uno stato di tensione generico con autovalori σ1 , σ2 e σ3 `e equivalente secondo il criterio di Tresca a uno stato di tensione monoassiale il cui autovalore significativo vale: σeq = max |σi − σj |

(18.4)

i,j

La definizione di tensione equivalente per Tresca `e illustrata con la rappresentazione di Mohr in figura 18.14.

τ

σ eq σ1

σ2

σ3

σ

Figura 18.14: Tensione equivalente secondo Tresca

In base alla definizione si pu`o osservare che la tensione equivalente `e una quantit`a non negativa. Inoltre, essendo una funzione degli autovalori, la tensione equivalente `e un invariante per rotazione del tensore di Cauchy. Sarebbe infatti inaccettabile che da uno stato di tensione si ricavassero diverse tensioni equivalenti a causa del cambio del sistema di riferimento e della relativa modifica della rappresentazione delle sue componenti. Il procedimento per verificare se uno stato di tensione multiassiale `e elastico si sviluppa quindi in due passi:

558

18.4. LO SNERVAMENTO SECONDO TRESCA

1. il calcolo della tensione equivalente secondo il criterio di snervamento 2. il confronto diretto della tensione equivalente con la tensione di snervamento (o meglio con la tensione ammissibile del materiale). Osserviamo che il confronto pu`o essere ora eseguito in quanto sono considerate quantit` a che hanno lo stesso significato fisico. Il vantaggio appare evidente: anche per quanto riguarda la determinazione delle condizioni di snervamento, la propriet`a ricavata dalla semplice prova di trazione sembra sufficiente. Considerando per`o che il principio di sovrapposizione degli effetti non vale per i fenomeni plastici, pu`o essere opportuno chiedersi: tale procedimento `e effettivamente rigoroso e generale? La risposta non pu`o essere ottenuta per via teorica, la validit`a della previsione `e infatti connessa con la effettiva capacit`a del criterio di descrivere adeguatamente il fenomeno dello snervamento per stati di tensione non monoassiali (per i quali `e banalmente verificato). Su questa interessante questione, che si pu`o derimere solo sperimentalmente, torneremo pi` u avanti nel capitolo quando potremo confrontare criteri di snervamento diversi. La disponibilit`a di una formula esplicita per la tensione equivalente consente di determinare il luogo dei punti di snervamento e quindi di visualizzare la superficie di snervamento nel spazio di Haigh-Westergaard per un materiale che snerva coerentemente con il criterio di Tresca per gli stati triassiali. Se la tensione di snervamento `e σS il luogo di snervamento si ottiene infatti imponendo: σeq = σS oppure, esplicitamente: max |σi − σj | = σS i,j

(18.5)

L’equazione (18.5), con i valori assoluti e l’estrazione del massimo, `e elegante simbolicamente ma per essere calcolata operativamente richiede di essere esplicitata nei vari casi. Non `e difficile rendersi conto che si possono ottenere 6 casi distinti, ognuno dei quali si traduce in una relazione del tipo: σ3 − σ1 = σS questa, in particoalre, si applica allo stato di tensione rappresentato in figura 18.14. Le relazioni lineari che in questo modo si ottengono, rappresentano nello spazio di Haigh-Westergaard semplici piani. La superficie di snervamento `e pertanto costituita dalle 6 porzioni di piano mostrate in figura 18.15. Si pu`o dedurre che, per un materiale che snerva seguendo il criterio di Tresca: • la superficie di snervamento `e un prisma retto a base esagonale regolare che ha per asse la trisettrice del primo ottante q • il lato dell’esagono di base `e uguale a 23 σS • la superficie di snervamento si estende indefinitamente nella direzione dell’asse del prisma • l’estensione illimitata del dominio elastico suggerisce che esistono stati di tensione elevati quanto si vuole (anche con tensioni che hanno componenti superiori a σS ) che il materiale sopporta senza snervare • questo risultato `e coerente con l’osservazione che la componente idrostatica dello stato di tensione non influenza lo snervamento, in effetti per potersi allontanare molto dall’origine rimanendo all’interno del prisma la componente idrostatica diventa prevalente

559

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

σ3

σ2

σ1

Figura 18.15: Superficie di snervamento secondo Tresca

• il fatto che il materiale possa essere indefinitamente sollecitato in modo triassiale senza snervare non significa che esso possa sopportare tensioni alte quanto si voglia, ma solo che, in tali condizioni, il materiale non mostra la tendenza a snervare • un materiale portato in condizioni di elevato stato triassiale di trazione pu`o infatti rompersi prima di snervare; la rottura in tali condizioni si manifesta pertanto con caratteristiche fragili anche se il materiale in condizioni di prova monoassiale potrebbe manifestare elevate caratteristiche di duttilit`a, • una elevata componente idrostatica di trazione `e quindi una causa meccanica di fragilit`a (ovvero dovuta allo stato di tenione e non alle caratteristiche costitutive), questo fenomeno `e fondamentale nella meccanica della frattura • stati di tensione idrostatici di compressione di intensit`a anche enorme possono invece essere sopportati da qualunque materiale (omogeneo e isotropo) che rimane in campo elastico e non si rompe (evidenze sperimentali di tale comportamento sono state effettivamente ottenute). Per gli stati piani, il luogo di snervamento di Tresca `e mostrato in figura 18.16. Si osserva

σS

σ2

−σ S

σS

σ1

−σ S Figura 18.16: Regione elastica per stati piani σ3 = 0 secondo Tresca

che:

560

18.5. LO SNERVAMENTO SECONDO VON MISES

• l’esagono non `e regolare perch´e il prisma `e intersecato con un piano non normale al suo asse • per stati di tensione piani il dominio elastico non si estende indefinitamente (uno stato di tensione idrostatico non nullo non pu`o essere piano) • il punto della linea di snervamento pi` u vicino all’origine si ha in corrispondenza di una tensione di taglio puro, tra gli stati di tensione piani il taglio puro `e infatti quello che presenta il valore pi` u elevato della tensione tangenziale a parit`a del massimo modulo delle tensioni principali • le curve di livello della tensione equivalente, che rappresentano stati di tensione piani aventi la stessa distanza dalla condizione di snervamento, sono esagoni omotetici al contorno (in figura 18.16 sono raffigurati con linea tratteggiata gli stati di tensione equivalenti a σS /2.

18.5 Lo snervamento secondo von Mises 18.5.1 Il criterio di snervamento di von Mises In un articolo del 1913, Richard von Mises (1883-1953) propose un criterio di snervamento che pu`o essere sviluppato interpetando il fenomeno dell’insorgenza delle deformazioni plastiche con considerazioni di tipo energetico. Dato che, come spesso succede, analoghi risultati erano stati ottenuti precedentemente e indipendentemente anche da altri studiosi, in letteratura questo criterio si pu`o trovare attribuito a Maxwell-Huber-Hencky-von Mises. Per quanto possa sembrare ragionevole assumere che esista un limite alla densit`a di energia elastica ω che un materiale `e in grado di accumulare prima che si sviluppino deformazioni plastiche, un criterio di snervamento basato su ω `e smentito dall’evidenza sperimentale. In effetti, come gi`a discusso, per uno stato idrostatico lo snervamento non si manifesta mai, indipendentemente dal livello tensionale e, di conseguenza, anche dalla densit`a di energia. Come evidenziato nel capitolo 12, ogni stato di tensione `e peraltro sempre separabile nella parte idrostatica e nella parte deviatorica o distorcente: S = SI + SD Questa relazione, scritta nel sistema principale dello strato di tensione, diventa:       σ1 0 0 σ0 0 0 σ1 − σ0 0 0   σ2 0  =  σ0 0  +  σ2 − σ0 0 Sym σ3 Sym σ0 Sym σ3 − σ0 dove σ0 = 31 (σ1 + σ2 + σ3 ). Applicando la legge di Hooke si verifica inoltre che nel parallelepipedo elementare la componente idrostatica SI produce una semplice deformazione isotropa con variazione di volume, mentre la componente deviatorica SD produce una variazione di forma a volume costante (trasformazione isocora). Si pu`o inoltre verificare che la componente di tensione idrostatica non fa lavoro se la deformazione `e isocora e la componente di tensione deviatorica non fa lavoro in una deformazione isotropa, le due componenti dello stato di tensione non sono pertanto energeticamente accoppiate. Come conseguenza, se si calcola la densit`a di energia elastica relativa alla componente idrostatica ωI e la densit`a di energia elastica ωD relativa alla componente deviatorica vale l’importante relazione: ω = ωI + ωD

(18.6)

561

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

La possibilit`a offerta dai materiali elastici isotropi di separare additivamente l’effetto volumico e l’effetto distorcente, oltre che in termini di tensione e di deformazione, anche in termini energetici, `e alla base del criterio di equivalenza allo snervamento di von Mises: due stati di tensione sono equivalenti ai fini dello snervamento se hanno la stessa densit`a di energia distorcente. Secondo von Mises quindi, materiale pu`o accumulare una densit`a di energia alta quanto si vuole in condizioni idrostatiche ma mostra un limite, caratteristico del materiale stesso, alla capacit`a di sopportare sollecitazioni di tipo distorcente. L’espressione dell’energia distorcente in funzione degli autovalori dello stato di tensione, che pu`o essere ottenuta come esercizio, `e la seguente: i 1+ν h ωD = (σ1 − σ2 )2 + (σ1 − σ3 )2 + (σ2 − σ3 )2 (18.7) 6E A prima vista, il criterio di von Mises pu`o sembrare molto diverso da quello di Tresca. Come vedremo, alcune differenze effettivamente sussistono, tuttavia l’esclusione della componente idrostatica della tensione comporta che, anche per von Mises, sia ininfluente la collocazione dell’arbelo di Mohr sull’asse delle σ mentre `e fondamentale la sua estensione. Diversamente da Tresca peraltro, nel criterio di von Mises svolge un ruolo anche la tensione principale intermedia, per cui non `e altrettanto agevole identificare due stati di tensione equivalenti secondo von Mises in base alla loro rappresentazione sul piano di Mohr.

18.5.2 La tensione equivalente secondo von Mises In manienra analoga a quanto fatto per Tresca, definiamo la tensione equivalente, o ideale, secondo von Mises σid o σeq di uno stato di tensione plurissiale come l’autovalore non nullo dello stato di tensione monoassiale che ha la medesima densit`a di energia distorcente di quello dato. In formule, la condizione di equivalenza si scrive come: i 1+ν 1+ν h 2 (σeq )2 = (σ1 − σ2 )2 + (σ1 − σ3 )2 + (σ2 − σ3 )2 6E 6E Da questa relazione si ricava l’espressione della tensione equivalente secondo von Mises in funzione delle tensioni principali: r h i 1 σeq = (σ1 − σ2 )2 + (σ1 − σ3 )2 + (σ2 − σ3 )2 (18.8) 2 La relazione (18.8) mostra che anche la tensione equivalente di von Mises `e un invariante di ` utile anche l’espressione della tensione equivalente quando rotazione del tensore di Cauchy. E lo stato di tensione `e riferito a un sistema di assi non principali: r h i 1 2 + σ2 + σ2 σeq = (σxx − σyy )2 + (σxx − σzz )2 + (σyy − σzz )2 + 6 σxy (18.9) xz yz 2 Analogamente a quanto fatto per il criterio di Tresca, la superficie di snervamento prevista dal criterio di von Mises per un materiale che ha tensione di snervamento σS pu`o essere rappresentata nello spazio di Haigh-Westergaard. L’espressione analitica della superficie `e data dalla relazione: (σ1 − σ2 )2 + (σ1 − σ3 )2 + (σ2 − σ3 )2 = 2σS2 (18.10) per cui tratta di una quadrica. Anche la superficie di snervamento di von Mises deve estendersi indefinitamente nella direzione della trisettrice del primo ottante e quindi, considerando anche le

562

18.5. LO SNERVAMENTO SECONDO VON MISES

σ3

σ2 σ1 Figura 18.17: Superficie di snervamento secondo von Mises

simmetrie dovute all’isotropia, la quadrica non pu`o essere q che un cilindro circolare retto (figura 18.17). Si pu`o verificare che il raggio del cilindro vale 23 σS . La sezione del cilindro con il piano σ1 − σ2 , mostrata in figura 18.18, rappresenta il contorno del luogo di ammissibilit`a secondo von Mises per stati di tensione piani. Si tratta di una ellisse con l’asse maggiore nella direzione dello stato di tensione equibiassiale. Le linee di isolivello, che evidenziano stati piani di tensione equivalenti secondo von Mises, sono ellissi omotetiche al contorno (nella figura `e mostrato la linea di livello degli stati equivalenti a condizioni monoassiali con σ1 = σS /2). L’espressione della tensione equivalente per stati piani di tensione (σ3 = 0) `e per il sistema principale la seguente: q σeq = σ12 + σ22 − σ1 σ2 (18.11) oe per assi x − y genericamente orientati la seguente: q 2 + σ 2 − σ σ + 3σ 2 σeq = σxx xx yy yy xy

σS

(18.12)

σ2

−σ S

σS

σ1

−σ S Figura 18.18: Regione elastica per stati piani σ3 = 0 secondo von Mises

563

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

18.6 Confronto tra i criteri di snervamento Come osservato, nonostante le diverse ipotei fisiche, i due criteri di snervamento presentati non sembrano produrre previsioni molto diverse. La ragione `e legata al fatto che per entrambi i criteri le condizioni di scorrimento plastico non risentono della componente idrostatica dello stato di tensione mentre sono fondamentalmente influenzate dalla componente deviatorica. Il confronto diretto, reso evidente dalla rappresentazione di Haigh-Westergaard, `e proposto nella figura 18.19.

σ3

Idrostatico

σS

σ2

−σ S

Equibiassiale

σS

σ2

σ1

Taglio puro

σ1

−σ S a)

b)

Figura 18.19: Confronto tra i criteri di Tresca e von Mises con i relativi luoghi di snervamento: a) nello spazio di Haigh-Westerggard e b) nel piano σ1 − σ2 per stati piani di tensione

L’osservazione della figura e alcuni calcoli, che possono essere eseguiti come utile esercizio, permettono di giungere alle seguenti considerazioni generali: • il prisma esagonale di Tresca `e inscritto nel cilindro di von Mises e, di conseguenza, per gli stati piani l’esagono non regolare `e iscritto nell’ellisse • il due criteri producono necessariamente la stessa previsione per gli stati monoassiali e idrostatici, ma la coincidenza si verifica anche per altre condizioni (gli spigoli del prisma) • nel caso piano la coindidenza si ha anche per lo stato di tensione equibiassiale in cui entrambi i criteri prevedono una tensione equivalente pari al modulo di uno degli autovalori non nulli • il risultato del punto precedente pu`o essere giustificato ricordando che, a parit`a di tensioni principali estreme, gli arbeli di Mohr per uno stato monoassialo e uno stato equibiassiale sono indistinguibili • il criterio di Tresca `e pi` u cautelativo (conservative) di quello di von Mises, questo significa che, quando i risultati non sono coincidenti, il criterio di Tresca prevede il raggiungimento dello snervamento per livelli di tensione meno elevati; in altri termini la tensione equivalente di von Mises `e minore o uguale di quella di Tresca, con l’uguaglianza che si ha solo quando cilindro e prisma si toccano (in particolare per stati monoassiali, equibiassiali e idrostatici)

564

18.6. CONFRONTO TRA I CRITERI DI SNERVAMENTO

• per gli stati piani di tensione, la massima differenza relativa (circa il 14%) tra le previsioni dei due criteri si verifica per il taglio puro (in tale condizione si ha effettivamente la massima distanza relativa dell’ellisse dall’esagono) Premesso che, pur non essendo gli unici, i criteri proposti sono i pi` u usati nella pratica, ci si pu`o chiedere: quale criterio `e pi` u opportuno scegliere? In molti casi l’adozione di una specifica normativa comporta implicitamente l’uso di un criterio. Per esempio, le norme per le costruzioni in acciaio e le norme europee per i recipienti in pressione fanno riferimento al criterio di von Mises. In generale si pu`o tener conto delle seguenti considerazioni: • alcuni materiali hanno un comportamento meglio descritto dal criterio di Tresca altri da quello di von Mises • `e evidente che una prova monoassiale non permette di discriminare tra i due criteri, per cui `e necessario eseguire prove di snervamento almeno biassiali (la prova di taglio puro `e la pi` u discriminante) • per quei (pochi) materiali che hanno subito una caratterizzazione multiassiale dello snervamento, i punti del luogo di snervamento ottenuti sperimentalmente mostrano, in genere, la tendenza a collocarsi nella zona compresa tra il cilindro (l’ellisse) di von Mises e il prisma (l’esagono) di Tresca • si deve peraltro considerare che in prove di questo tipo la dispersione non `e trascurabile e differenze dell’ordine di varie unit`a percentuali nella tensione di snervamento `e una normale conseguenza della naturale disomogeneit`a e anisotropia dei materiali, anche dei pi` u qualificati • la differenza di previsione dei criteri `e quindi spesso mascherata dalla dispersione intrinseca delle propriet`a di snervamento • evidenze sperimentali suggeriscono che, di solito, i metalli che hanno una curva di trazione monoassiale con una parte orizzontale dopo lo snervamento (come gli acciai dolci) tendono a comportarsi come prevede Tresca mentre i materiali con snervamento graduale (acciai legati e leghe leggere) sono meglio rappresentati dal criterio di von Mises • considerando gli stati piani, tenendo presente che la regione elastica nella rappresentazione di Haigh-Westergard non pu`o presentare concavit`a, tra tutti i criteri con luoghi di snervamento che passano per i 4 punti degli assi distanti σS dall’origine e per i 2 punti dello stato equibiassiale ± (σS , σS ), il criterio di Tresca `e il pi` u cautelativo • il criterio di Tresca non `e per`o traducibile in un efficiente algoritmo numerico (a causa dei valori assoluti e dei confronti che sono presenti nella formula della tensione ideale), pertanto nei codici di calcolo di analisi strutturale `e universalmente diffuso il criterio di von Mises • la superficie di snervamento di von Mises nello spazio di Haigh-Westergaard `e differenziabile (ha la normale definita in ogni punto) mentre quella di Tresca non ha normale definita negli spigoli, questo fatto rende notevolmente pi` u vantaggioso il criterio di von Mises per lo sviluppo dei modelli usati nell’analisi del comportamnto deformativo elasto-plastico (argomento sviluppato nella teoria della plasticit`a che non `e in programma). Un recente episodio fornisce un interessante esempio di come talvolta la scelta di un criterio possa apparire di carattere ‘filosofico’ o ‘politico’ pi` u che tecnico. Il riferimento `e alla

565

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

norma ASME (American Society of Mechanical Engineering) per i recipienti in pressione che rappresenta un vero monumento tecnico in cui `e distillata una esperienza ormai centenaria di progettazione, calcolo, collaudo, esercizio, ecc. . . , relativa a fondamentali manufatti, che vanno dai componenti dell’industria chimica, alle condotte per il trasporto di gas e alle centrali nucleari. Fino a pochi anni fa la norma prescriveva di effettuare le valutazioni di resistenza sulla base del criterio di Tresca. La ragione era di tipo generale: si trattava del criterio pi` u cautelativo per cui la norma ASME era anche, per questo aspetto, dalla parte della sicurezza. Come vedremo nella parte finale del corso, lo stato di tensione tipico dei recipienti cilindrici in pressione `e prevalentemente biassiale con rapporto di biassialit`a solitamente vicino a ρ = 0.5, per cui la differenza di tensioni equivalenti tra Tresca e von Mises `e significativa. Recentemente l’equivalente norma europea EN (derivata dall’ISO) ha acquistato una maggiore diffusione a livello mondiale e varie nazioni e compagnie hanno cominciato ad acquistare recipienti in pressione progettati e prodotti in base a tale standard. In effetti, le differenze con le ASME non sono molto grandi ma una di tali differenze, era proprio il criterio di snervamento: le norme europee prevedono infatti il criterio di von Mises. Anche in questo caso non `e facile stabilire il motivo della scelta, che probabilmente `e basato sul fatto che, almeno nelle pi` u recenti applicazioni dei recipienti in pressione, sono impiegati acciai legati. L’adozione di un criterio leggermente meno cautelativo, o, secondo i punti di vista, pi` u adatto a rappresentare i materiali effettivamente impiegati, ha comportato che, a parit`a di prestazioni e di dimensioni, i recipienti progettati con le norme europee fossero meno spessi di quelli progettati con le ASME. Considerando che nella costruzione di grandi recipienti e di lunghe condotte si impiegano centinaia se non o migliaia, di tonnellate di acciaio di qualit`a (spesso anche saldato a piena penetrazione), negli ultimi anni il sensibile rincaro delle materie prime ha prodotto che differenze di spessore anche di qualche unit`a percentuale siano diventate significative. Il risultato `e stato che, nelle pi` u recenti versioni della norme ASME, il criterio di von Mises `e stato affinacato a quello di Tresca. Si sar`a trattato di un riconoscimento da parte degli Americani di una inadeguatezza della loro centenaria procedura, oppure la scelta `e stata una conseguenza dalla riduzione di fatturato dell’industria americana? Esempio 18.2: Espressioni semplificate delle tensioni equivalenti Con un’opportuna scelta del sistema di riferimento, nelle travi `e rappresentabile come:  σ τ  0 S= Sym

lo stato di tensione piano che si verifica  0 0  0

in cui σ e τ sono quantit`a note (e almeno una delle due `e assunta non nulla). Classificare lo stato di tensione, rappresentarne l’arbelo di Mohr ed esprimere le tensioni equivalenti di Tresca e di von Mises in funzione di parametri: σ e τ .  Se τ = 0 lo stato di tensione `e monoassiale, mentre `e biassiale in ogni alto caso (se σ = 0 `e taglio puro). Lo schema di corpo libero del parallelepipedo (visto dalla direzione con autovalore nullo) e il relativo arbelo di Mohr sono rappresentati nella figura 18.20. Il diagramma di Mohr `e stato tracciato sulla base delle seguenti considerazioni: • una tensione principale `e necessariamente nulla • con gli assi scelti, le due facce A e B sono rispettivamente antioraria e oraria e la loro rappresentazione sul piano di Mohr `e conseguente (nella figura 18.20 σ eτ sono state considerate positive)

566

18.6. CONFRONTO TRA I CRITERI DI SNERVAMENTO

• dato che la direzione z `e principale, nel piano di Mohr punti A e B appartengono necessariamente a una circonferenza che delimita l’arbelo e sono diametralmente opposti • escludendo il caso, peraltro elementare, di tensione monoassiale, i due autovalori non nulli hanno segno opposto (dato che `e nulla la tensione principale intermedia), la circonferenza di diametro AB `e pertanto quella di diametro massimo • rispetto alla figura, il verso opposto di τ modificherebbe la posizione dei punti A e B sul piano di Mohr (si collocherebbero infatti in posizione simmetrica rispetto all’asse orizzontale) ma non avrebbe alcun effetto sugli autovalori e quindi sulla forma dell’arbelo.

(σ ,τ )

A

τ A

y

B

σ

σ1

σ2

x

σ3

B

Figura 18.20: Schema di corpo libero e diagramma di Mohr per lo stato di tensione dato

Per ottenere le tensioni equivalenti dei due criteri, ricaviamo le tensioni principali. Dato che il semicerchio massimo che delimita l’arbelo, rappresentato in figura 18.21, passa per i punti (0, |τ |) e (σ, |τ |):  • il centro del cerchio ha coordinate σ2 , 0 q  σ 2 • il raggio vale: R = + τ2 2 • le tensioni principali piane sono quindi: σ1 = σ3 =

σ 2 σ 2

−R +R

La tensione equivalente secondo Tresca (il diametro del cerchio massimo) vale pertanto: p σeq,T resca = σ 2 + 4τ 2 mentre la tensione equivalente di von Mises, che pu`o essere ottenuta dalla equazione (18.8), vale: p σeq,M ises = σ 2 + 3τ 2

567

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

(σ ,τ )

( 0,τ )

σ1

⎛σ ⎞ C ⎜ ,0 ⎟ ⎝2 ⎠

σ3

Figura 18.21: Contorno esterno dell’arbelo di Mohr

Nota. Si ricordi che le due espressioni trovate, spesso usate nel seguito, sono applicabili solo per particolari stati piani di tensione e rappresentati in sistemi riferimento tali per cui la matrice contiene solo una componente normale e una tangenziale. Si pu`o verificare che tali espressioni non sono infatti invarianti per rotazione. Notiamo che per questi stati di tensione le formule mostrano con evidenza la maggiore cautelativit`a del criterio di Tresca rispetto a quello di von Mises.

18.7 La verifica di resistenza e il coefficiente di sicurezza Per un elemento strutturale Ω, il cui materiale ha una tensione ammissibile σam , supponiamo di aver risolto il problema elastico e quindi di conoscere il campo di tensione-deformazione che soddisfa le condizioni di equilibrio e di congruenza e rispetta la legge costitutiva. Siamo finalmente in grado di verificare se il materiale si comporta effettivamente in modo elastico e possiamo quindi risolvere in modo razionale e completo il problema della verifica di resistenza allo snervamento del componente. Sulla base delle considerazioni sviluppate nel paragrafo precedente, scegliamo un criterio di snervamento per cui a ogni punto del corpo `e associabile la locale tensione equivalente, ovvero una grandezza scalare non negativa che quantifica l’effetto prodotto dallo stato di tensione calcolato nei confronti del fenomeno dello snervamento. In questo modo si determina pertanto un campo scalare che risulta definito sul corpo in esame Ω: σeq (x, y, z) > 0 Risolvendo il problema di massimo: σeq,max =

max σeq (x, y, z)

(18.13)

(x,y,z)∈Ω

u elevato della tensione equivalente, che ovviamente `e quindi possibile determinare il valore pi` esiste ed `e unico anche se pu`o manifestarsi in pi` u punti di Ω. La ricerca del massimo della funzione σeq (x, y, z) `e generalmente effettuata in modo euristico, tramite un procedimento simile a quello adottato per individuare le sezioni critiche nelle travature. Spesso infatti `e agevole identificare i punti, o le zone, dove le tensioni sono pi` u intense e quindi `e prevedibile che siano situati i massimi locali della tensione equivalente. Questo procedimento permette di ridurre il dominio di ricerca del massimo a un sottoinsieme di Ω in modo spesso notevole. La conclusione dell’analisi `e la seguente:

568

18.7. LA VERIFICA DI RESISTENZA E IL COEFFICIENTE DI SICUREZZA

se σeq,max 6 σam l’elemento `e verificato a resistenza (allo snervamento); viceversa l’elemento `e non verificato. Se il componente `e verificato si ottiene un doppio risultato positivo: 1. risultano verificate a posteriori alcune importanti ipotesi del modello tra cui il comportamento costitutivo e le piccole deformazioni 2. il materiale `e impiegato entro i limiti di sicurezza per quanto riguarda il rischio di un locale snervamento. Dovrebbe essere chiaro che il mancato superamento della verifica non equivale alla previsione di uno snervamento e, a maggior ragione, di una rottura del materiale. Il comportamento effettivo di un componente che non risulta verificato dipende infatti da molti altri aspetti tra i quali: di quanto la tensione ammissibile `e stata superata, l’estensione delle zone di non ammissibilit` a (l’insieme dei punti dove σeq > σam ), il tipo di comportamento dopo snervamento (materiale fragile o duttile), le modalit`a di sollecitazione (in controllo di carico o di spostamento), l’andamento temporale del carico (lento, impulsivo, ciclico), ecc. . . . L’esame di questi fondamentali aspetti sono lasciati ai successivi corsi di costruzioni meccaniche. La non verifica di un componente indica peraltro che lo stato di tensione-deformazione, calcolato in ipotesi di elasticit` a del materiale, potrebbe non essere corretto e soprattutto evidenzia che, almeno in qualche punto, il materiale risulta eccessivamente sollecitato. Pertanto, `e necessario prevedere interventi di adeguamento che in genere comportano di: • ridurre i carichi, o • aumentare le sezioni, o • cambiare il materiale. La verifica di resistenza allo snervamento si conclude con la determinazione del coefficiente di sicurezza del componente cos`ı definito: η=

σam σeq,max

(18.14)

La verifica di resistenza allo snervamento di un componente strutturale produce quindi un quantit`a adimensionale, perch´e il componente sia verificato, deve essere: η>1

(18.15)

Le seguenti considerazioni permettono di interpretare il coefficiente di sicurezza: • per un componente verificato a resistenza il coefficiente di sicurezza non pu`o essere inferiore all’unit`a • il coefficiente di sicurezza di una struttura `e il minimo tra i coefficienti di sicurezza dei suoi componenti • il coefficiente di sicurezza per una struttura esprime il fattore per il quale possono essere moltiplicati tutti i carichi (aumento omotetico) fino a che le condizioni limite di ammissibilit`a sono raggiunte nel punto pi` u critico per lo snervamento • per incrementare il coefficiente di scurezza (aumentare i margini contro lo snervamento) si pu`o, come mostra la relazione (18.14), aumentare il numeratore cambiando il materiale, o diminuire il denominatore intervenendo sui carichi o sulle dimensioni.

569

` DI RESISTENZA E VERIFICHE 18. PROPRIETA

La verifica di resistenza di una struttura, la cui corretta esecuzione rappresenta uno dei principali obiettivi del corso, consiste pertanto nel calcolare η assicurandosi che sia maggiore di 1. In fase di progetto, invece, il coefficiente di sicurezza deve essere fissato in modo che sia definibile una struttura in grado di garantirlo. Dal punto di vista del progettista vi pu`o quindi essere la necessit`a di stabilire quale coefficiente di sicurezza sia corretto fissare. Come `e tipico nella tecnica, il valore opportuno di η deriva da un compromesso tra esigenze contrastanti: • η alto implica margini di sicurezza elevati ma comorta l’impiego di materiale poco sollecitato (materiale in eccesso e peso elevato) • η basso (ovviamente sempre η > 1) implica margini di sicurezza ridotti ma risparmio di materiale. La scelta del coefficiente di sicurezza in fase di progetto permette di tener conto, in maniera complessiva anche se non sempre del tutto razionale, delle inevitabili incertezze che concorrono nella verifica di resistenza, tra le quali: • approssimazioni del modello previsonale e della sua soluzione numerica • variabilit`a delle effettive condizioni di carico • dispersione delle effettive propriet`a del materiale • differenze tra la geometria progettata e quella effettivamente realizzata • lievi alterazioni indotte dall’uso improprio o da interventi manutentivi eseguiti in modo non rigoroso. Visto che il coefficiente di sicurezza compensa la non completa conoscenza del fenomeno che `e inevitabile in fase di progetto, alcuni lo definiscono coefficiente di ignoranza. Un altro elemento che influenza la scelta del coefficiente di sicurezza `e l’effetto che un eventuale malfunzionamento connesso con lo snervamento produrrebbe (fermo macchina, danni materiali, pericoli per l’ambiente e le persone). Nella progettazione di un componente di ampia diffusione, come un piccolo elettrodomestico o un trapano portatile, realizzato con materiali di normale reperimento commerciale, soprattutto se esercito in condizioni di non facile prevedibilit`a non `e opportuno adottare coefficienti di sicurezza troppo vicini all’unit`a. L’estremo opposto si verifica quando sono progettati mezzi di trasporto, soprattutto velivoli, per i quali il risparmio di peso `e essenziale. Potrebbe sembrare un controsenso, ma si verifica che gli aerei di linea, che sono i mezzi di trasporto pi` u sicuri se riferiti alle persone trasportate per km, sono progettati con i coefficienti di sicurezza pi` u bassi. Se gli aerei fossero progettati con i coefficienti di sicurezza normalmente adottati per esempio per i trattori agricoli, non potrebbero sollevarsi in volo. Per evitare che coefficienti di sicurezza non molto superiori dell’unit`a (per fissare le idee 1.2 ÷ 1.5) non penalizzino la sicurezza `e quindi necessario adottare: • modelli e strumenti di calcolo particolarmente accurati e possibilmente suffragati da verifiche sperimentali a posteriori anche con prove in piena scala e in esercizio • materiali con alta qualificazione e procedure realizzative e di esercizio (tecnologie, collaudi e manutenzione) fortemente controllate • conduzione automatica o effettuata da personale altamente qualificato (un pilota `e certamente pi` u condizionato dell’autista di un trattore nell’uso del suo mezzo di trasporto!)

570

18.7. LA VERIFICA DI RESISTENZA E IL COEFFICIENTE DI SICUREZZA

• condizioni operative imposte e presenza di sistemi di controllo in modo che i limiti di progetto non possano essere superati in esercizio (regolamentazione dei voli, sistemi di controllo del traffico aereo, scatole nere, ecc. . . ). Sotto la spinta della riduzione delle risorse energetiche e ambientali, l’adozione di bassi coefficienti di sicurezza si sta diffondendo anche nella progettazione dei mezzi di trasporto navali ` utile ricordare che la riduzione del coefficiente di e terrestri e dei comuni beni strumentali. E sicurezza, anche se ottenuto a fronte di adeguate procedure di progettazione, realizzazione ed esercizio, tende comunque a rendere il prodotto pi` u vulnerabile nei confronti di eventi eccezionali o imprevisti. Se, infatti, un trattore agricolo fosse progettato con coefficienti di sicurezza aeronautici, oltre che costare presumibilmente troppo ed essere quindi fuori mercato, potrebbe mostrare notevoli criticit`a in esercizio, considerata l’imprevedibilit`a delle condizioni a cui `e inevitabilmente sottoposto. Quando il coefficiente di sicurezza `e basso, risulta pertanto pi` u corretto valutare i margini di sicurezza basandosi sull’analisi affidabilistica con la quale sono presi in considerazione oltre ai valori caratteristici dei parametri, la loro variabilit`a e le conseguenze del malfunzionamento. L’approccio affidabilistico, che fornisce la probabilit`a di malfunzionamento e il danno economico atteso, `e senza dubbio pi` u razionale ma, come intuibile, `e molto pi` u complesso e costoso. Approcci di questo tipo si dimostrano quindi adatti alla progettazione di componenti di elevata rilevanza tecnica ed economica come gli aerei oppure i grandi impianti di trasformazione o produzione dell’energia, in particolare le centrali nucleari.

571

Parte III

Meccanica degli elementi monodimensionali

573

Capitolo 19

Trave soggetta a forza normale In questo capitolo e nei prossimi `e sviluppato il modello meccanico che permette di valutare lo stato di tensione-deformazione degli elementi strutturali monodimensionali sotto l’effetto delle varie caratteristiche di sollecitazione. Il modello `e basato sui risultati ottenuti nei capitoli 9 e 10 relativi all’analisi delle travi come elementi strutturali (solidi monodimensionali) e sullo studio dello stato di tensione e deformazione dei corpi continui elastici (parte II della dispensa). Alla fine di questa parte sar`a possibile determinare, nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili e con materiale elastico lineare omogeneo isotropo, lo stato di tensione-deformazione in un qualunque punto di una trave di normale impiego sottoposta a un carico generico e valutare la variazione di forma della trave stessa. Con tali metodi saranno quindi eseguite le verifiche di resistenza e di rigidezza delle travature sia isostatiche sia iperstatiche. In questo capitolo, chiariti presupposti generali e i limiti del modello tensionale e deformativo per i solidi mnodimensionali che si intende sviluppare, `e esaminato il comportamento delle travi soggette a forza normale.

19.1 Il principio di De Saint Venant Il modello che ci proponiamo di sviluppare per determinare la soluzione completa dello stato di tensione e deformazione del solido elastico monodimensionale rappresenta la pi` u semplice approssimazione per descrivere il comportamento strutturale di un continuo deformabile. L’approssimazione `e principalmente fondata su un principio generale, storicamente attribuito allo scienziato francese Barr´e De Saint Venant (1797-1886), che pu`o essere cos`ı formulato: in un solido monodimensionale (che pu`o essere iperstatico, isostatico o anche labile) un carico esterno rappresentabile con un sistema autoequilibrato applicato in una zona che ha estensione inferiore al diametro della sezione produce effetti tensionali e deformativi solo locali Con il termine locale si intende che la soluzione (i campi di tensione e di deformazione) ha valori non trascurabili in una zona di estensione confrontabile con il diametro della sezione. ` importante sottolineare che il principio di De Saint Venant non `e un teorema ed `e quindi E possibile trovarne contro-esempi, come nel caso illustrato in figura 19.1b). Tuttavia, in quasi tutti i casi di pratica utilit`a, la validit`a del principio `e confermata da evidenze sperimentali e da soluzioni complete del problema elastico che si possono ottenere con pi` u accurati modelli bidimensionali o tridimensionali. Il principio di Saint Venant pu`o essere formulato anche nel modo seguente che risulta pi` u comodo da impiegare in termini operativi:

575

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

se si escludono zone aventi estensione confrontabile con il diametro della sezione dove le azioni esterne sono applicate, lo stato tensionale e deformativo di una trave dipende solo dalle caratteristiche di sollecitazione, pertanto, nelle zone in cui le caratteristiche sono nulle la trave `e da considerarsi localmente non sollecitata e indeformata.

B

a)

B

b)

Figura 19.1: Esempio e controesempio della validit`a del principio di Saint Venant una trave isostatica sollecitata in B da una coppia di braccio nullo: a) la trave `e una barra cilindrica che appare deformata e sollecitata solo nelle zone vicine alla sezione B, b) la trave `e un tubolare di spessore sottile in cui l’effetto deformativo e tensionale interessa una parte della trave di estensione maggiore del diametro

In effetti, un carico applicato in un zona di piccola estensione rispetto al diametro che ha risultante e momento risultante entrambi nulli non altera le caratteristiche di sollecitazione ` opportuno considerare che, in generale, le zone di applicazione del carico sono della trave. E caratterizzate da tensioni e deformazioni locali che possono essere anche molto elevate ma che non sono descritte dal modello di trave. Tali regioni saranno chiamate zone di estinzione degli effetti locali. La teoria della trave, sviluppata nel corso `e basata su questa assunzione per cui saranno sistematicamente trascurati gli effetti, tensionali e deformativi, direttamente prodotti delle azioni esterne rispetto a quelli indotti dalle caratteristiche di sollecitazione. Le seguenti considerazioni conseguono dall’ipotesi di De Saint Venant e devono essere tenute presenti per una corretta interpretazione dei risultati: • la soluzione del modello di trave, in particolare per quanto concerne le tensioni, e quindi per l’analisi di resistenza, `e accurata lontano dalle zone dove le azioni esterne concentrate (carichi o reazioni vincolari) sono applicate • la soluzione ottenuta `e per`o accettabile anche nelle zone di applicazione dei carichi quando questi sono distribuiti e regolari, ma pu`o essere localmente molto grossolana se le azioni esterne sono di tipo concentrato • oltre alle regioni di applicazione dei carichi, sono zone di estinzione anche quelle in cui la trave presenta brusche variazioni di sezione oppure discontinuit`a o punti angolosi per la linea d’asse • l’analisi tensionale accurata nelle zone di estinzione richiede che la geometria locale sia descritta con modelli pi` u che monodimensionali perch`e divengono significativi parametri della forma e delle dimensioni che non sono considerati nel modello monodimensionale;

576

19.2. LA TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

tali modelli ,spesso tridimensionali, sono pi` u complessi e richiedono in genere approcci di tipo numerico • la soluzione del modello di trave tende a essere pi` u regolare di quella ottenibile con analisi pi` u accurate, come conseguenza i picchi di tensione risultano sottostimati; il modello monodimensionale quindi non `e in generale cautelativo (conservative) per le verifiche di resistenza • in certi casi, i picchi di tensione nelle zone di estinzione possono essere stimati sulla base di procedimenti approssimati che correggono localmente la soluzione di Saint Venant, pertanto la soluzione otenuta dal modello di trave pu`o essere comunque considerata una prima approssimazione • il modello di Saint Venant `e corretto in media (nella sezione) ed `e quindi in genere adatto a descrivere il comportamento globale della trave, per questo motivo la sua applicazione nelle verifiche di rigidezza comporta in generale errori minori rispetto alle verifiche di resistenza. Nel seguito, in particolare negli esempi, saranno discussi vari aspetti legati al trattamento, o all’esclusion,) delle zone di estinzione. In generale, l’analisi accurata degli effetti locali, effettuata sia in modo analitico sia in modo approssimato, `e rimandata ai successivi corsi di costruzioni meccaniche. Oltre al principio di Saint Venant, salvo esplicite indicazioni contrarie, assumeremo: • la validit`a della meccanica dei corpi poco deformabili: piccoli spostamenti e piccole deformazioni • il modello costitutivo elastico lineare omogeneo e isotropo (legge di Hooke) per il materiale della trave sar`a quindi sempre possibile avvalersi del principio di sovrapposizione degli effetti.

19.2 La trave soggetta a forza normale Come ampiamente trattato nell’interpretazione della prova di trazione nei capitoli 17 e 18, un concio di trave soggetto a forza normale N , indipendentemente dalla forma della sezione, presenta uno stato di tensione monoassiale e uniforme (nella sezione) con l’unica componente non nulla, nel sistema di riferimento della trave, data da: σzz =

N A

(19.1)

in cui A `e l’area della sezione. Osserviamo che: • nel rispetto delle convenzioni adottate per le caratteristiche di sollecitazione e per lo stato di tensione, la relazione (19.1) `e valida anche algebricamente • lo stato di tensione `e monoassiale, per cui: σeq =

|N | A

• il materiale della sezione `e uniformemente sollecitato, quindi nella sezione possiamo scrivere anche: |N | (19.2) σeq,max = A

577

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

• dato che la forma della sezione non `e rilevante, per ridurre le tensioni a parit`a di forza normale, `e necessario aumentare l’area della sezione • anche la deformazione `e uniforme nella sezione e la componente estensionale assiale vale: εzz =

N EA

• per l’uniformit`a della deformazione sulla sezione, nella trave soggetta a forza normale le sezioni si conservano piane • per effetto Poisson, ogni segmento posto sulla sezione subisce una deformazione estensionale di segno opposto a quello della linea d’asse, tuttavia per le ipotesi fatte, la variazione dimensionale della sezione non `e considerata nel calcolo delle tensioni (in pratica useremo sempre l’engineering stress invece che il true stress) • la grandezza deformativa associata alla forza normale, ovvero l’effetto deformativo significativo del concio, `e quindi la deformazione estensionale della linea d’asse, grandezza che sar`a indicata con: e che equivale alla deformazione estensionale assiale calcolata nel baricentro della sezione: N e = εzz (0, 0) = (19.3) EA • la quantit`a EA, che nella relazione precedente lega la caratteristica di sollecitazione alla grandezza deformativa associata, `e chiamata: rigidezza assiale (axial stiffness) della sezione e dipende dall’area della sezione e dal materiale di cui `e composta. Come vedremo, anche per le altre caratteristiche di sollecitazione `e utile introdurre un parametro che permette di ottenere il valore massimo della tensione prodotta nella sezione dalla caratteristica in esame. Tale quantit`a, chiamata modulo di resistenza della sezione. In questo caso il modulo di resistenza normale `e cos`ı definito: WN =

|N | σeq,max

(19.4)

Il modulo di resistenza `e una quantit`a geometrica della sezione e, nel caso della forza normale, `e espresso semplicemente dall’area della sezione: WN = A

(19.5)

` interessante valutare l’energia elastica che si accumula in un concio elementare sollecitato E da forza normale. Tale quantit`a pu`o essere ottenuta con due metodi equivalenti: • dal lavoro fatto dalle forze esterne agenti sul concio • dall’integrale della densit`a di energia elastica accumulata nel volume del concio. Nel primo caso le azioni significative agenti sul concio (assunto come solido elementare monodimensionale) sono le due componenti della forza normale che, a meno di infinitesimi, costituiscono una coppia di braccio nullo di forze con componente pari a N . Dato che il concio elementare ha estensione assiale ds e sotto l’azione della forza normale di allunga di eds, tenendo conto che carico e allungamento crescono proporzionalmente, il lavoro fatto dalle forze esterne sul concio elementare vale: 1 dLext = N eds (19.6) 2

578

19.2. LA TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

una quantit`a infinitesima perch´e il concio elementare ha volume infinitesimo: dV = Ads. Anche il secondo procedimento `e facilmente attuabile. Per uno stato di tensione monoassiale la densit`a di energia elastica si esprime infatti come: ω=

2 1 σzz 2 E

L’energia elastica immagazzinata nel concio, il quale `e un solido con base la sezione corrente Ω e altezza ds, vale quindi: Z  dU = ωdxdy ds Ω

essendo la densit`a di energia elastica uniforme nella sezione, l’integrale `e immediato: Z  2 1 σzz Ads dU = ω dxdy ds = ωAds = 2 E Ω Tenendo conto delle relazioni 19.1 e 19.2, si ottiene infine l’espressione: 1 dU = N eds 2

(19.7)

L’energia elastica immagazzinata nel concio per effetto della forza normale pu`o quindi essere espressa come: 1 N2 1 1 · ds = EAe2 · ds (19.8) dU = N e · ds = 2 2 EA 2 Faremo spesso uso di una delle seguenti espressioni equivalenti dell’energia elastica per unit` a di lunghezza: dU 1 N2 1 1 = = EAe2 = N e (19.9) ds 2 EA 2 2 che rappresenta la quantit`a intensiva dell’energia elastica per il solido monodimensionale, ovvero `e numericamente pari all’energia elastica immagazzinata in un concio di altezza unitaria sottoposto a forza normale. Osserviamo che: • la forza normale N e l’allungamento locale della linea d’asse e sono quantit`a energeticamente associate • il fattore 1/2 deriva dalle linearit`a geometrica e costitutiva • la formula (19.9) `e tipica dei sistemi elastici con comportamento lineare, il cui esempio elementare `e rappresentato dalla molla ideale, nel caso in esamen il ruolo della costante della molla k `e svolto dalla rigidezza assiale della sezione.

Esempio 19.1: Esame di una barretta di acciaio sottoposta a forza normale Una barretta di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3, σam = 450 MPa), avente lunghezza l = 240 mm e sezione quadrata di lato a = 5 mm, `e saldata al telaio e soggetta al carico P = 8 kN come mostrato in figura 19.2. Verificare a resistenza la barretta, determinare di quanto si allunga, calcolare il lavoro fatto dalle forze esterne ed esaminare lo stato di tensione-deformazione.

579

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

D

C

B

P

Figura 19.2: Barretta in trazione

Se la forza P `e applicata in asse con la barretta, per esempio tramite un cavo teso, l’unica caratteristica di sollecitazione `e la forza normale e questa `e uniforme sull’asse. Le zone di estinzione sono in corrispondenza delle sezioni B e D dove le sollecitazioni sono trasmesse alla trave rispettivamente dalla saldatura d’angolo e dal contatto con il perno di collegamento con il golfare. Lo stato di tensione che troveremo sar`a quindi corretto nelle sezioni tipo C, che, peraltro per le ipotesi di Saint Venant, comprendono oltre il 90% del volume della barretta. Lo schema di corpo libero di un concio fuori delle zone di estinzione `e mostrato nella figura 19.3 in assonometria e in vista di fianco.

z

z

x

σ zz =

y

N A

y

Figura 19.3: Schema di corpo libero di un concio di tipo C della barretta estratto in una zona in cui la soluzione di De Saint Venant `e accurata: a) assonometria; b) vista da x.

Numericamente si ottiene: σzz = σeq,max =

8 · 103 = 320 MPa 52

che fornisce il coefficiente di sicurezza: η=

σam σeq,max

=

450 = 1.4 320

Possiamo quindi affermare che, nell’ambito della teoria della trave, la barretta `e verificata a resistenza. La deformazione della linea d’asse vale: e=

N σzz 320 = = = 1553µε EA E 206 · 103

L’allungamento complessivo della barretta `e quindi: ∆l = l · e = 0.388 mm

580

19.2. LA TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Valutiamo l’area sotto carico. Le deformazioni estensionali nella sezione sono: εxx = εyy = −νe = −466µε e quindi la deformazione d’area vale: εA = εxx + εyy = −932µε L’area della sezione si riduce pertanto di meno di una parte su mille per cui, in termini assoluti, passa da A = 25 mm2 a A∗ = 24.98 mm2 . Nonostante il materiale sia significativamente sollecitato, la deformazione `e compatibile con i livelli prescritti dalla meccanica dei corpi poco deformabili. Il lavoro fatto dalle forze esterne pu`o essere ottenuto in vari modi. Nel sistema di riferimento del telaio, l’unica forza esterna che compie lavoro `e P , tenendo conto che questa aumenta proporzionalmente allo spostamento del suo punto di applicazione, il quale raggiunge il valore finale ∆l, si pu`o scrivere: 1 Lext = P · ∆l = 1.553 J 2 Per la conservazione dell’energia, tale lavoro `e accumulato sotto forma di energia elastica nell’intera barretta. L’energia elastica si ottiene sommando il contributo dell’energia immagazzinata nei singoli conci, o pi` u rigorosamente, integrando la densit`a di energia per unit` a di lunghezza sull’asse della trave: Zl U=

Zl dU =

0

dU ds = ds

0

Zl

1 N2 1 N2 ds = l = 1.533 J 2 EA 2 EA

0

G t (α )

nˆ rˆ



N

τ (α )

z

α



σ (α )

G t (α )

y α Figura 19.4: Taglio obliquo

Per fornire una interpretazione fisica dello stato di tensione nella barretta `e utile eseguire un taglio ideale con inclinazione α rispetto al piano di sezione, come in figura 19.4, in modo da evidenziare la condizione tensionale di piani non normali agli assi di riferimento. Indicando con Aα l’area della sezione obliqua, vale la relazione: Aα = a

a A = cos (α) cos (α)

581

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Il vettore tensione applicato ai punti della sezione, che indichiamo con ~t (α), `e uniforme anche sulla sezione obliqua e, pertanto, deve avere direzione parallela all’asse della trave, dato che una componente in direzione x o y, per uniformit`a, produrrebbe una risultante trasversale non equilibrata. Vale quindi la relazione: t (α) =

N N = cos (α) Aα A

Le componenti normale e tangenziale del vettore tensione sono quindi date da: N 1−cos(2α) 2 σ (α) = t (α) · cos (α) = N A cos (α) = A 2 N sin(2α) τ (α) = t (α) · sin (α) = N sin (α) · cos (α) = A A 2

Si ritrovano le note dipendenze angolari che definiscono il cerchio di Mohr per lo stato monoassiale. Si possono in effetti ottenere le precedenti relazioni anche partendo dal tensore di Cauchy nel sistema di riferimento locale della trave (con la sola componente non nulla σzz = N A ) e considerando che: σ (α) = σnn τ (α) = σrn

Esercizio 19.1: Verifica di una barretta in lega leggera Una lega leggera (E = 76 GPa, ν = 0.3,σam = 250 MPa) viene impiegata in sostituzione dell’acciaio nel caso dell’esempio 19.1, determinare, il carico P per avere lo stesso coefficiente di sicurezza a resistenza. In corrispondenza di tale carico determinare: l’allungamento della barretta, la riduzione d’area della sezione, l’energia elastica immagazzinata, il massimo valore della tensione tangenziale a cui `e sottoposto il materiale, e la massima deformazione angolare.

19.3 Estensioni ed esempi La teoria semplificata sviluppata nel paragrafo precedente `e utile per risolvere interessanti problemi pratici che coinvolgono elementi trave soggetti a forza normale. Nel paragrafo sono discusse varie applicazioni con la soluzione di esempi e l’indicazione di esercizi la cui soluzione permette di familiarizzare con i procedimenti e soprattutto con le relative approssimazioni.

19.3.1 Zone di estinzione Non sempre le zone di estinzione sono limitare alle estremit`a della trave. Carichi, vincoli e anomalie della forma della trave possono infatti manifestarsi anche lungo la trave stessa come nel seguente esempio. Esempio 19.2: Perno con spallamento Determinare il carico P da applicare al perno a due diametri BCD di figura 19.5

582

19.3. ESTENSIONI ED ESEMPI

(d1 = 50 mm, d2 = 35 mm, l1 = 250 mm e l2 = 400 mm) di acciaio inox (E = 196 GPa, ν = 0.3 e σam = 350 MPa) in modo che il coefficiente di sicurezza sia η = 2.1. Dopo aver evidenziato le zone di estinzione, dove la teoria della trave `e da ritenersi localmente non molto accurata, con il carico determinato, valutare: a) la massima tensione tangenziale a cui `e sottoposto il materiale b) la variazione complessiva di lunghezza del perno BCD c) l’energia elastica immagazzinata nel tratto CD.

d1

B

d2

C

D P

l2

l1

Figura 19.5: Perno a due diametri

La forza normale `e costante sulla trave con: N =P tutte le sezioni del tratto CD sono critiche pertanto la forza applicabile vale: P = 160.4 kN Da questo si ricava la risposta alle altre domande:

Risposta a τmax = 83.3 MPa

Risposta b La discontinuit`a della sezione consiglia di separare il dominio in due zone nelle quali `e facilmente estrimibile la deformazione assiale: ( N 0 < s < l1 EA1 e (s) = N l 1 < s < l1 + l 2 EA2 da cui: Z ∆lBD =

l1 +l2

Z e (s) ds =

0

0

l1

N ds + EA1

Z

l1 +l2

l1

N ds = P EA2



l1 l2 + EA1 EA2

 = 0.444 mm

583

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Risposta c L’energia per unit`a di lunghezza: dU 1 N2 1 P2 = = ds 2 EA (s) 2 EA (s) per il tratto interessato vale quindi: UCD =

1 P 2 l2 = 0.027 J 2 EA2

Attenzione alle unit`a di misura! Nota. Costituisce zona di estinzione, oltre alle estremit`a, anche la regione attorno allo spallamento. Nella figura 19.6 `e mostrato l’andamento qualitativo della componente σzz in varie sezioni nei pressi dello spallamento. C1

C2 C3

C4

C5

Figura 19.6: Andamento qualitativo della componente tensionale σzz nei pressi dello spallamento

Lo stato di tensione presenta picchi che sono tanto pi` u intensi quanto pi` u ci si avvicina alla sezione di discontinuit`a. La teoria dell’elasticit`a e modelli tridimensionli dimostrano in effetti che il campo di tensione elastico `e singolare in un intaglio rientrante acuto. Pertanto se il raggio di raccordo in corrispondenza dell’apice dell’intaglio `e nullo vi sono componenti del tensore di Cauchy che tendono all’infinito avvicinandosi all’apice. Se il raggio di raccordo non `e nullo la tensione `e limitata ma raggiunge un massimo che dipende fondamentalmente dal raggio di raccordo stesso (una quantit`a che necessariamente `e inferiore alla dimensione caratteristica della sezione). Si verifica inoltre che, nella zona dell’intaglio, ai forti e variabili gradienti tensionali `e associata anche una condizione di locale triassialit`a. Le osservazioni ricavate per l’esempio possono essere generalizzate per cui, si pu`o concludere che, in genere, il campo di tensione nella zona degli intagli `e elevato, complesso e pluriassiale. Tutte queste caratteristiche non sono colte dal modello monodimensionale.

584

19.3. ESTENSIONI ED ESEMPI

Si osserva peraltro che la soluzione di trave (tensione uniassiale uniforme nella sezione) rappresenta comunque il valor medio della componente σzz per la sezione. Esercizio 19.2: Verifica di un perno con due diametri Sul perno dell’esempio 19.2 viene applicato un carico di pressione uniforme che ha intensit` a p nella sezione D e 2p nella sezione anulare dello spallamento in C. Valutato il valore di p che determina un coefficiente di sicurezza a resistenza pari a η = 2.1, evidenziare le zone di estinzione del problema e rispondere alle stesse domande dell’esempio precedente.

19.3.2 Sezioni gradualmente variabili Il seguente esempio mostra come la soluzione di Saint Venant sia invece molto pi` u accurata nel caso in cui la trave mostri una sezione gradualmente variabile con l’ascissa curvilinea. Esempio 19.3: Trave tubolare tronco-conica Una trave tubolare BD di lega leggera (E = 76 GPa, ν = 0.3 e σam = 250 MPa) con spessore costante h = 2 mm e raggio variabile linearmente con l’ascissa curvilinea (RB = 50 mm, RD = 30 mm, l = 500 mm), come mostrato in figura 19.7, `e compressa dal carico P . Determinare il massimo valore del carico che garantisce il comportamento ammissibile del materiale e il corrispondente accorciamento della trave. 2 RB 2 RD P D

B

l

Figura 19.7: Trave tubolare tronco-conica

Le propriet`a geometriche variano con l’ascissa curvilinea s (origine in B) nel modo seguente: RD − RB R (s) = RB + s l h i A (s) = π R (s)2 − (R (s) − h)2 Dato che la forza normale `e uniforme: N = −P , D `e la sezione critica per cui il massimo carico per l’ammissibilit`a vale: h i 2 P = σam · A (l) = σam π RD − (RD − h)2 = 91.1 kN L’accorciamento dell’asse della trave si determina dalla deformazione assiale: e (s) =

N EA (s)

Si ricava quindi la variazione di lunghezza del singolo concio: e (s) · ds

585

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

espressone che, per ottenere l’accorciamento complessivo, deve essere integrata sull’asse della trave: Z l N Pl 2RD − h ∆l = l∗ − l = ds = − · log = −1.251 mm 2πh (RD − RB ) 2RB − h 0 EA (s)

La soluzione ottenuta nell’esercizio 19.3 `e a rigore criticabile. Consideriamo, infatti, il vettore tensione ~t che deriva dalla soluzione ottenuta per una generica sezione della trave e che `e mostrato nella figura 19.8. Si pu`o verificare che, con lo stato monoassiale trovato, su



α

t z

y Figura 19.8: Trave tubolare troncoconica: dettaglio della soluzione

una generica giacitura tangente al cono e quindi con normale n ˆ , si prevede il seguente vettore tensione (dimostrarlo come esercizio):   0  σzz ~t (ˆ n) =  0 sin α   D dove con α = tan−1 RB −R `e stato indicato il semiangolo della conicit`a. La soluzione trovata l prevede quindi sulla faccia laterale esterna del cono due componenti tensionali locali date da: σnn = σzz · (sin α)2 τ = σzz · sin α cos α che invece dovrebbero essere nulle poich´e agiscono su una superficie libera. Dobbiamo quindi concludere che la soluzione ottenuta non rispetta la condizione di equilibrio locale e che l’errore `e legato alla conicit`a della trave (in effetti le componenti sarebbero entrambe nulle se la trave fosse cilindrica e quindi sin α = 0). La soluzione di riferimento usata per il problema `e stata infatti ottenuta per travi aventi sezione uniforme. Tuttavia, nel caso esaminato sin α = 0.04 per cui l’errore che si commette `e dell’ordine di qualche unit`a percentuale ed `e quindi tollerabile dal punto di vista pratico. Nell’ultima parte del corso vedremo come, schematizzando il corpo dell’esempio precedente con un modello di guscio, sia possibile ottenere una soluzione non affetta da questa approssimazione.

586

19.3. ESTENSIONI ED ESEMPI

` peraltro evidente che, se la conicit`a fosse pi` E u marcata, la soluzione ottenuta con il modello monodimensionale potrebbe risultare affetta da errori significativi. D’altra parte, in tal caso il modello sarebbe discutibile tanto che, se la conicit`a diventasse localmente vicina a 90◦ , la trave avrebbe localmente una forma simile a uno spallamento, con le conseguenze discusse nel punto precedente. Esercizio 19.3: Varianti sulla trave tronco-conica Con i dati dell’esempio 19.3: a) verificare la relazione: Lext = U b) valutare la variazione complessiva del volume del materiale elastico c) determinare l’aumento del raggio esterno della sezione di mezzeria.

19.3.3 Carichi applicati lungo l’asse della trave In modo analogo a come `e stata trattata la variazione continua di sezione pu`o essere considerata una trave soggetta a carichi assiali distribuiti. Anche in questi casi l’ipotesi di De Saint Venant si dimostra valida in quanto `e significativo il solo effetto prodotto dalla caratteristica di sollecitazione indotta dai carichi, mentre l’azione diretta dei carichi stessi `e trascurabile. Consideriamo il seguente esempio. Esempio 19.4: Cilindro soggetto al peso proprio Un cilindro di gomma (E = 0.5 MPa, ν = 0.49 e γ = 1.1 kg/dm3 ) avente diametro φ = 150 mm e lunghezza l = 2000 mm `e sospeso per una base al soffitto. Determinare l’allungamento complessivo del cilindro dovuto al peso proprio e l’energia elastica in esso immagazzinata, verificando che quest’ultima `e uguale al lavoro fatto dalle forze esterne. P B

P

B s

B

N (s)

q

D

D

D

Figura 19.9: Barra cilindrica appesa al soffitto, schema di corpo libero e diagramma della forza normale

Indicato con P = 381.4 N il peso complessivo della barra, la forza normale `e data da:  s N (s) = P 1 − l

587

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

ricaviamo quindi: Z



∆l = l − l = 0

l

N (s) 1 Pl ds = = 43.16 mm EA 2 EA

L’energia immagazzinata vale: Z U= 0

l

1 [N (s)]2 1 P 2l ds = = 5.487 J 2 EA 6 EA

(Attenzione alle unit`a di misura: il calcolo diretto con le unit`a consuete fornisce il valore in mJ). Le forze esterne sono distribuite pertanto su ogni concio di estensione assiale ds `e applicata una forza elementare di intensit`a: qds dove con q = Pl `e indicata la densit`a lineare del peso. Ogni forza elementare agente sul concio generico in posiszione s far`a quindi un lavoro dato da: dLext =

1 · qds · w (s) 2

dove: • w (s) `e lo spostamento assiale finale del concio di ascissa s dovuto al carico • il fattore 12 consegue dalla solita ipotesi geometrico-costitutiva di comportamento lineare elastico, per cui carico e spostamento crescono insieme. La funzione spostamento assiale finale relativa alla sezione generica di ascissa s si ottiene con la seguente integrazione: Z s N (s1 ) w (s) = ds1 EA 0 nella quale la variabile di integrazione s1 ha lo stesso significato dell’ascissa curvilinea s ed `e diversificata per chiarezza di notazione. Si ottiene pertanto il lavoro delle forze esterne come doppia integrazione: Z s  Z l Z l 1 1P N (s1 ) 1 P 2l Lext = qw (s) ds = ds1 ds = EA 6 EA 0 2 0 2 l 0

Per trattare carichi assiali concentrati `e suggerita la divisione del dominio in intervalli contigui separati dalle solite zone di estinzione. Esempio 19.5: Trave tubolare Un tubo di PVC (E = 2.6 GPa, σam = 5 MPa) rappresentato in figura 19.10 avente lunghezza l = 600 mm, diametro esterno d = 50 mm e spessore h = 4 mm presenta, in corrispondenza della sezione C, un setto al quale `e collegato un cavo metallico che sorregge il peso P . Determinato il peso che produce nel tubo un coefficiente di sicurezza a resistenza pari a 2, determinare la forza assiale F che si deve applicare in D in modo che la lunghezza

588

19.3. ESTENSIONI ED ESEMPI

complessiva del tubo non vari rispetto alla condizione indeformata. Verificare il tubo sotto l’effetto combinato dei due carichi.

d

D

C

B

F

2 l 5

3 l 5 P

Figura 19.10: Tubo di PVC

Con il solo peso P , risulta sollecitata in compressione la sola parte BC del tubo. Si ricava pertanto: σam A P = = 1.445 kN η Con l’applicazione anche del carico F , la forza normale diventa:  F − P per 0 < s < 53 l N (s) = F per 35 l < s < l da cui si ottiene la seguente equazione in F : Z ∆l = 0

l

N (s) ds = EA

Z 0

3 l 5

F −P ds + EA

Z

l 3 l 5

F ds =0 EA

che fornisce: F = 0.6P = 0.867 kN e quindi il diagramma della forza normale rappresentato in figura 19.11 con il quale si verifica che le sezioni critiche diventano quelle della regione CD e il coefficiente di sicurezza aumenta, rispetto alla condizione in cui agiva solo il carico P , passando da 2 a 3.3.

N ( kN )

0.867 C

B

D

−0.578 Figura 19.11: Forza normale nel tubo di PVC

Nota. Le zone di estinzione, oltre alle estremit`a della trave, comprendono anche la regione del setto dove lo stato di tensione risulter`a perturbato dalla forma locale del corpo. Anche in assenza della forza esercitata dal cavo, con il carico dovuto alla sola forza F il setto contrasterebbe localmente la libera deformazione poissoniana della sezione C.

589

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Esercizio 19.4: Perno compresso

∅12

∅30

L’elemento di lega leggera (E = 76 GPa, ν = 0.3 e σam = 250 MPa) rappresentato in figura 19.12 `e collocato all’interno di una morsa con i piani delle ganasce normali all’asse. Determinare il massimo avvicinamento consentito alle ganasce.

∅50

70 90

90

Figura 19.12: Perno in lega leggera

19.4 Problemi iperstatici La disponibilit`a di un modello strutturale completo che ingloba le equazioni di equilibrio, di congruenza e la legge costitutiva permette di affrontare anche la soluzione di problemi iperstatici. Nel presente paragrafo sono proposti alcuni esempi elementari che illustrano i principali metodi di soluzione. Ai procedimenti generali di soluzione dei problemi iperstatici sar`a dedicato il capitolo 25.

19.4.1 Il metodo delle forze Il seguente esempio illustra il classico procedimento di soluzione dei problemi iperstatici. Esempio 19.6: Problema iperstatico Effettuare la verifica di resistenza della barra rettilinea BCD (figura 19.13) di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e σam = 300 MPa) con sezione A = 400 mm2 e lunghezza l = 660 mm che, prima di essere caricata dalla forza asiale F = 84 kN applicata in C, `e vincolata senza errori di montaggio sulle due cerniere B e D. B

C

2 l 3

D

F

1 l 3

Figura 19.13: Barra iperstatica

590

19.4. PROBLEMI IPERSTATICI

Risolviamo il problema usando il principio di sovrapposizione degli effetti per i corpi deformabili considerandolo la combinazione di due problemi ausiliari come mostrato in figura 19.14. B

C

F

D

a)

+ B

C

D

X

b)

Figura 19.14: Schema di applicazione del principio di sovrapposizione che riduce un problema 1 volta iperstatico alla sovrapposizione di due problemi a) e b) ausiliari isostatici

Osserviamo in particolare che: • i problemi ausiliari, entrambi isostatici perch´e definiti sul sistema principale ottenuto dal problema originario con una opportuna eliminazione di vincoli, si distinguono per le sole condizioni di carico • il problema a) consiste nel sistema principale con il carico vero (che quindi `e noto) • il problema b) consiste nel sistema principale caricato dalla sola iperstatica (quindi incognita) che corrisponde alla reazione prodotta dal vincolo elementare eliminato • esistono molti altri (infiniti in realt`a) sistemi principali validi e quindi altrettanti diversi modi di impostare la sovrapposizione degli effetti, tuttavia queste varianti sono nella pratica tutte equivalenti. Possiamo risolvere in modo completo (e determinare: tensioni, deformazioni, spostamenti, energia . . . ) i due problemi ausiliari, imponendo le solite equazioni, dato che si tratta di problemi isostatici di travi elastiche sottoposte a forza normale. Per sovrapposizione, determiniamo quindi una soluzione del problema iperatico originario per ogni valore di X con la garanzia che, a meno di aver commesso errori grossolani, questa `e equilibrata, rispetta le equazioni costitutive e anche la congruenza locale dei conci. Il rispetto di tali condizioni `e conseguenza dal fatto che i problemi ausiliari sono isostatici. La congruenza globale della soluzione complessiva non risulta per`o garantita, dato che, fissato un valore ‘a caso’ di X si trova per il punto D uno spostamento assiale (che `e funzione di X oltre che di F ) in genere non nullo e quindi non compatibile con il vincolo nel problema di partenza. Da questa considerazione si ricava pertanto una condizione di congruenza che permette di chiudere il problema imponendo proprio che sia nullo lo spostamento assiale della sezione in corrispondenza del vincolo ridondante che `e stato eliminato. In formule, indicati con δDF e con δDX gli spostamenti della sezione D (che assumiamo positivi se verso destra nella figura 19.14) prodotti nel sistema principale rispettivamente dal carico F e dalla reazione X, la condizione di congruenza diventa: δD = δDF + δDX = 0

591

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Nel caso esaminato: δDF =

F 2 l; EA 3

δDX =

X l EA

da cui si ottiene:

2 X=− F 3 Tra tutte le reazioni orizzontali iperstatiche che soddisfano l’equilibrio, l’unica che garantisce anche le condizioni di congruenza e costitutive `e quella appena trovata. Il fatto di aver ottenuto il segno negativo si interpreta, come di consueto, concludendo che la reazione vincolare effettiva ha verso opposto a quello ipotizzato nello schema di soluzione. Il problema di partenza `e quindi completamente equivalente al problema isostatico indicato nella figura 19.15 e quindi ha anche le medesime caratteristiche di sollecitazione, le stesse tensioni, gli stessi spostamenti, ecc. . . . B

B

C

F

+28

D

D

C

2 F 3

N ( kN )

−56 Figura 19.15: Determinazione della reazione iperstatica e diagramma della forza normale definitiva

L’individuazione dell’incognita iperstatica consente quindi la soluzione completa del problema. Nel caso specifico, risultano critiche le sezioni nel tratto CD e il coefficiente di sicurezza della trave vale: η = 2.14.

Esercizio 19.5: Ulteriori valutazioni per la trave iperstatica Con riferimento all’esempio 19.6 e alla figura 19.13: a) determinare lo spostamento orizzontale del punto C b) determinare separatamente Lext e U verificandone l’uguaglianza c) verificare che la stessa soluzione pu`o essere ottenuta sconnettendo il vincolo in B invece che quello in D

Il procedimento di soluzione del problema iperstatico descritto nell’esempio 19.6 `e chiamato metodo delle forze in quanto usa le reazioni vincolari come incognite. Nel capitolo 25 il metodo delle forze sar`a esteso a strutture di travi genericamente sollecitate e anche pi` u volte iperstatiche. In questa introduzione `e sufficiente cominciare a familiarizzare con il ragionamento alla base del metodo che pu`o essere sintetizzato nei punti seguenti:

592

19.4. PROBLEMI IPERSTATICI

• nel problema iperstatico sono eliminati alcuni vincoli (o componenti di vincolo) in modo da rendere il problema isostatico (determinazione del sistema principale) • la reazione, o le reazioni se il problema `e pi` u volte iperstatico, che in tal modo vengono eliminate diventano le incognite del metodo delle forse • il problema iperstatico originario `e ricondotto alla sovrapposizione di problemi isostatici che sono risolvibili con la meccanica dei corpi elastici poco deformabili • per ogni combinazione delle reazioni vincolari iperstatiche si ottiene una soluzione che `e sicuramente equilibrata, rispetta l’equazione costitutiva ed `e congruente in quasi tutto il dominio • non `e per`o garantita la congruenza proprio in corrispondenza dei vincoli eliminati • in corrispondenza di ognuno dei vincoli eliminati `e peraltro possibile imporre una condizione di congruenza specifica (quindi una condizione per ogni incognita) che permette di scrivere un sistema di equazioni con cui risolvere il problema • dato che il problema iperstatico originario ha soluzione unica (come conseguenza della linearit`a) il sistema che si ottiene dal metodo dele forze `e lineare nonch´e risolvibile e determinato • ottenute le reazioni iperstatiche, il problema iperstatico originario `e ricondotto alla sovrapposizione di problemi isostatici su cui agiscono carichi alla fine noti e pu`o quindi essere risolto in ogni aspetto. Con il metodo delle forze `e possibile affrontare anche problemi iperstatici che presentano errori di montaggio o forzamenti, come mostrato nell’esempio che segue. Esempio 19.7: Struttura con forzamento Risolvere il problema dell’esempio 19.6 sapendo che la barra `e stata realizzata pi` u corta di ∆ = 0.30 mm rispetto alla condizione di montaggio eseguito.  Consideriamo lo stesso sistema principale usato nell’esempio 19.6, come nella figura 19.16.

Δ B

C

F

D

X

Figura 19.16: Sistema principale, condizione prima del montaggio

A causa dell’errore di montaggio, in questo caso il punto D alla fine dovr`a essere portato (sotto l’effetto del carico e della reazione vincolare iperstatica) a coincidere con la posizione del centro della cerniera sul telaio. La relativa condizione di congruenza diventa quindi: δD = δDF + δDX = ∆

593

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

dalla quale si ricava: 2 EA X=− F + ∆ = −18.55 kN 3 l Nota. Determinare la reazione vincolare che si manifesta subito dopo che `e stato effettuato il montaggio, prima che il carico F sia applicato.

19.4.2 Metodo degli spostamenti Esiste un metodo duale rispetto al metodo delle forze per ottenere la soluzione dei problemi iperstatici, detto metodo degli spostamenti nel quale sono adottate come incognite quantit`a geometriche invece che statiche. Consideriamo ancora l’esempio 19.7. Esempio 19.8: Applicazione del metodo degli spostamenti Determinare le reazioni vincolari del problema in figura 19.17 (barra BCD di acciaio E = 206 GPa, ν = 0.3, σam = 300 MPa con sezione A = 400 mm2 e lunghezza l = 660 mm, vincolata senza errori di montaggio con carico F = 84 kN) usando il metodo degli spostamenti.  Consideriamo come grandezza deformativa incognita lo spostamento (assunto positivo se verso destra) del punto C, quantit`a che indichiamo con wC . Se tale grandezza fosse nota, per esempio fosse stata misurata, il problema sarebbe immediatamente risolto. Infatti, indicando con il pedice 1 le grandezze che si riferiscono al tratto BC e con il pedice 2 quelle del tratto CD, valgono le seguenti relazioni: εzz1 =

wC 2 , 3l

εzz2 = −

wC 1 3l

dalle quali `e immediato ricavare le tensioni nei due tratti e quindi le rispettive forze normali: 3 wC N1 = EA , 2 l

N2 = −3EA

wC l

La soluzione trovata `e ovviamente congruente e rispetta le equazioni costitutive per ogni valore di wC ma, proprio in relazione al valore di wC , non `e garantito che sia equilibrata. Sappiamo peraltro che esiste sicuramente un valore dell’incognita che corrisponde alla condizione corretta e quindi per determinarlo imponiamo una condizione di equilibrio significativa. A tale scopo `e sufficiente prendere in esame l’equilibrio assiale di qualunque ` possibile imporre l’equilibrio assiale concio (anche finito) che contenga la sezione C. E anche dell’intera barra. Lo schema di corpo libero `e mostrato in figura 19.17 nella quale le forze normali sono state rappresentate positive in coerenza con la definizione (prima di determinare il segno del risultato non `e noto il loro segno effettivo).

N1

C

F

N2

Figura 19.17: Condizione di equilibrio per il metodo degli spostamenti

594

19.4. PROBLEMI IPERSTATICI

La prima cardinale diventa: N2 − N1 + F = 0 e sostituendo si ottiene l’equazione: −3EA

wC 3 wC − EA +F =0 l 2 l

che permette di determinare l’incognita: wC =

2 Fl 9 EA

dalla quale le caratteristiche di sollecitazione richieste: N1 =

F ; 3

2 N2 = − F 3

e quanto altro `e necessario. Il metodo degli spostamenti ricerca pertanto l’unica soluzione equilibrata nell’insieme delle soluzioni automaticamente congruenti e costitutivamente corrette. I due metodi proposti, nonch´e le possibili varianti miste attuabili nel caso di problemi pi` u volte iperstatici, sono equivalenti per quanto concerne la possibilit`a di ottenere la soluzione. Non vi sono infatti problemi che uno solo dei metodi permette di risolvere e, ovviamente, i risultati dei due procedimenti sono sempre coincidenti. La scelta tra i due metodi `e quindi legata al tipo di problema e agli strumenti di calcolo disponibili ma spesso `e anche motivata dalla consuetudine. In genere, i problemi poche volte iperstatici sono pi` u agevolmente risolvibili con il metodo delle forze. Questo fatto consegue dalla maggiore abitudine che si acquisisce a risolvere problemi strutturali usando la statica (le condizioni di equilibrio) rispetto all’uso di procedimenti che sfruttano la cinematica o l’analisi geometrica (come per esempio il principio dei lavori virtuali). Vi sono per`o casi in cui il metodo degli spostamenti `e pi` u efficace in quanto la parametrizzazione geometrica, ovvero l’uso di incognite di spostamento, `e particolarmente conveniente. Il metodo degli spostamenti `e per esempio alla base di molte tecniche risolutive di tipo numerico per problemi strutturali complessi, tra le quali il Metodo degli Elementi Finiti che sar`a argomento di corsi successivi. Nel Metodo degli Elementi Finiti il metodo degli spostamenti permette di formulare algoritmi risolutivi per problemi migliaia (talvolta anche ben pi` u) volte iperstatici. Nell’ambito del presente corso il metodo delle forze sar`a applicato pi` u spesso. Il seguente esempio mostra tuttavia una situazione in cui la parametrizzazione geometrica `e relativamente semplice e il metodo degli spostamenti diventa conveniente anche per la soluzione manuale.

595

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Esempio 19.9: Struttura sostenuta da cavi La barra metallica BC (h = 500 mm), che pu`o essere considerata infinitamente rigida, `e incernierata in B e sostenuta da tre cavi deformabili aventi la medesima sezione A = 50 mm2 realizzati con materiale polimerico avente rigidezza E = 2.5 GPa. Nell’ipotesi di assenza di errori di montaggio, determinare il tiro dei cavi con un carico P = 2 kN.

h

H

3

1 B

2

α2

α1

D3≡C

h

P

D2

D1 h

α3

h

Figura 19.18: Barra rigida con cavi di sostegno

Nell’ipotesi, ragionevole ma che dovr`a essere verificata a posteriori, che tutti i cavi siano tesi, il problema `e due volte iperstatico. Il metodo delle forze richiederebbe una duplice sconnessione e l’imposizione di un sistema di 2 equazioni di congruenza. Nel caso in esame, tuttavia, l’infinita rigidezza della barra permette una semplice parametrizzazione geometrica della deformazione. Come incognita deformativa pu`o essere usata l’inclinazione sotto carico della barra θ, coordinata angolare assunta positiva se oraria nella rappresentazione indicata. Per le consuete ipotesi, l’inclinazione della barra sotto carico potr`a essere assunta molto piccola: |θ|  1, per cui, considerando gli effetti deformativi al primo ordine in θ, `e semplice esprimere gli spostamenti dei punti di attacco dei cavi alla barra che risultano solo verticali verso il basso. Il generico punto Di (i = 1, 2, 3) si abbassa di: δi = ihθ e quindi il cavo i-esimo subisce un allungamento di: ∆li = ihθ sin αi = √

i hθ 1 + i2

Si ricavano pertanto la deformazione, la tensione e infine la forza normale (il tiro) di ogni cavo: i ∆li Ni = EA = EA θ li 1 + i2 Si perviene infine alla seguente equazione significativa di equilibrio (seconda cardinale della barra con polo la cerniera B): 3 X i=1

596

Ni ih sin αi − 3hP = 0

19.5. PROBLEMI PROPOSTI

dalla quale si ottiene la rotazione: θ = 0.048 = 2.76◦ e il corrispondente tiro dei tre cavi: N1 = 3.012 kN;

N2 = 2.41 kN;

N3 = 1.807 kN

A posteriori si verifica infine che • la variazione di configurazione `e effettivamente piccola • tutti i cavi sono tesi.

Esercizio 19.6: Ulteriori valutazioni per la trave con cavi di sostegno Considerare la barra dell’esempio 19.9 sostenuta da 5 cavi collegati in punti che la dividono in parti uguali. Si osservi che in questo caso il problema diventa 4 volte iperstatico e il vantaggio del metodo degli spostamenti rispetto a quello delle forze `e ancora pi` u evidente.

19.5 Problemi proposti Il seguente problema dimostra come sia possibile indirizzare le forze verso il telaio modificando la rigidezza relativa delle parti di una struttura. Tale risultato non `e ottenibile nelle strutture isostatiche nelle quali le reazioni vincolari dipendono solo dalla configurazione geometrica e dalle condizioni di equilibrio e non dal comportamento costitutivo. Esercizio 19.7: Equiripartizione delle reazioni vincolari Determinare il rapporto tra i diametri ψ = φφ12 che deve essere scelto nell’esempio di figura 19.19 (errori di montaggio trascurabili) in modo che il carico F sia equilibrato da reazioni vincolari aventi la stessa intensit` a per le due cerniere.

φ1

B

0.6l

C

F

φ2

D

0.4l

Figura 19.19: Barra a due diametri

Il seguente esercizio mostra come sia possibile ottenere una soluzione in cui il materiale `e uniformemente sollecitato. Solidi di questo tipo, definiti di uniforme resistenza, sono talvolta ricercati per realizzare strutture ottimali dal punto di vista del risparmio di peso.

597

19. TRAVE SOGGETTA A FORZA NORMALE

Esercizio 19.8: Solido di uniforme resistenza Con riferimento allo schema del figura 19.19, sulle due parti della barra sono prodotti diversi trattamenti termici che determinano tensioni ammissibili rispettivamente date da: σam1 e σam2 . Determinare il rapporto σσam1 tale che tutte le sezioni della barra siano am2 ugualmente critiche (si osservi che il risultato `e indipendente dal rapporto dei diametri). Il seguente esercizio mostra invece come sia possibile ottenere una soluzione in cui `e massimizzata la rigidezza. Esercizio 19.9: Solido di massima rigidezza (*) Con riferimento allo schema del figura 19.19, conservando il volume totale del materiale, determinare il rapporto tra i diametri ψ = φφ12 che determina il minimo spostamento del punto di applicazione del carico (e quindi il valore minimo dell’energia elastica immagazzinata) nell’ipotesi che ognuna delle cerniere possa sopportare una forza non superiore a 0.8F . I seguenti esercizi riassumono vari aspetti trattati nel capitolo. Esercizio 19.10: Barra semitubolare in rotazione La barra BCD di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3, σam = 300 MPa, γ = 7.8 kg/dm3 , φ1 = 2φ2 = 60 mm e l = 450 mm) rappresentata in figura 19.20, ha sezione piena nella parte BC e tubolare nella parte CD. La barra `e posta in rotazione attorno a un asse verticale passante per B e appoggia per tutta la sua lunghezza su un piano orizzontale liscio (non rappresentato). Determinare la velocit`a angolare per avere un coefficiente di sicurezza pari a 1.5 e con tale velocit`a determinare: a) l’allungamento complessivo della barra b) l’allungamento della parte CD c) l’energia elastica immagazzinata nella barra d) la massima deformazione angolare che il materiale deve sopportare e) la variazione complessiva di volume della barra.

B

φ1

C

0.5l

φ2

0.5l

Figura 19.20: Barra con parte tubolare

598

D

19.5. PROBLEMI PROPOSTI

Esercizio 19.11: Variante iperstatica dell’esercizio 19.10 Risolvere l’esercizio 19.10 nell’ipotesi che l’estremo D sia vincolato a strisciare su una superficie verticale liscia senza errori di montaggio.

Esercizio 19.12: Variante iperstatica con forzamento dell’esercizio 19.10 Risolvere l’esercizio 19.10 nell’ipotesi che l’estremo D sia vincolato da una superficie verticale liscia ma che, a barra ferma, questa risulti compressa a causa di una interferenza di montaggio di 0.4 mm.

Esercizio 19.13: Variante iperstatica con gioco dell’esercizio 19.10(*) Nell’esercizio 19.10, l’estremo D `e alla fine vincolato a strisciare su una superficie verticale liscia ma, a barra ferma, vi `e un gioco radiale per cui il punto D `e inizialmente scostato dalla superficie. Sapendo che il gioco viene recuperato, e quindi il punto D comincia a strisciare, quando la barra gira a una velocit`a tale per cui il suo coefficiente di sicurezza `e 5: a) determinare la velocit`a angolare per avere coefficiente di sicurezza 2 b) con tale velocit`a determinare, rispetto alla condizione di barra ferma, l’aumento di raggio della circonferenza su cui ruota il punto C.

599

Capitolo 20

Trave soggetta a flessione Il capitolo analizza il comportamento delle travi rettilinee soggette a flessione. Nella prima parte `e presentato l’esperimento della flessione retta di una barretta con sezione rettangolare e dedotta la formula di Navier per la flessione come conseguenza dell’ipotesi deformativa di Eulero-Benoulli. La teoria `e successivamente generalizzata a travi di sezione qualunque allo scopo di sviluppare procedimenti adatti per le verifiche di resistenza e di rigidezza. Nella parte centrale del capitolo `e considerato l’effetto combinato delle due componenti flessionali (flessione deviata). Nella parte finale, il capitolo affronta l’effetto combinato di una generica flessione e della forza normale. L’analisi degli effetti della flessione `e fondamentale per le verifiche dato che `e molto frequente che il momento flettente sia la caratteristica pi` u gravosa e quindi pi` u significativa per gli elementi strutturali.

20.1 L’esperimento della flessione retta Come per la forza normale, anche per la flessione (bending) `e possibile eseguire un esperimento che permette di evidenziare l’effetto prodotto dalla sola caratteristica di sollecitazione su un tratto rettilineo di trave. Consideriamo, per iniziare, un problema schematizzabile nel piano: una barretta rettilinea di sezione uniforme che, per semplicit`a, ha forma rettangolare di dimensioni b × h. Generalizzeremo successivamente i risultati a sezioni di forma qualunque.

P

h

B

R

b

x

y

z a

C

y

H

Q

a

Figura 20.1: Attrezzatura per la prova di flessione su quattro punti

Come mostrato in figura 20.1, la barretta `e collocata in una semplice attrezzatura composta da un elemento rigido superiore e 4 perni disposti in modo che una forza trasversale P , applicata

601

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

in corrispondenza del piano di simmetria, produca sulla trave un sistema di quattro forze esterne di uguale intensit`a, come rappresentato in figura 20.2(a). Le figure 20.2(b e c) evidenziano come il tratto centrale della trave, compreso tra le sezioni C e Q, sia soggetto solo a momento flettente ` stata quindi ottenuta una Mx e, in tale zona, questo sia costante lungo l’asse della trave. E porzione di trave soggetta alla sola caratteristica di sollecitazione in esame. Se si escludono le zone di estinzione che sono in corrispondenza dei perni che esercitano le azioni esterne, la parte centrale della barretta svolge pertanto, per la prova di flessione, il ruolo della parte centrale del provino nella prova di trazione. La configurazione rappresentata in figura 20.1 `e spesso usata nella Meccanica dei Materiali per applicare azioni flettenti uniformi e si chiama prova di flessione su quattro punti (four points bending). Adottando per la barretta un materiale trasparente, `e possibile effettuare un rilievo diretto del processo deformativo che la sollecitazione produce, in particolare nella zona centrale. A tale scopo, si pu`o realizzare la trave incollando due semibarrette di plexiglass aventi sezione h × b/2 dopo aver grigliato con linee longitudinali e trasversali una delle superfici da incollare. P 2

P 2

B

R

a)

z P 2

a

C

Q

y Ty

B

P 2



a

P 2

Mx C

R

b)

R

c)

Q

C

B

P 2

Pa 2

Q

Figura 20.2: Analisi della prova di flessione su quattro punti: a) diagramma di corpo libero definitivo; b) diagramma del taglio e c) diagramma del momento flettente

L’aspetto della zona centrale del provino, prima e dopo l’applicazione del carico, `e illustrato nella figura 20.3.

a) b) Figura 20.3: Rappresentazione della zona centrale della barretta: indeformata e b) deformata dal momento flettente

602

a)

20.1. L’ESPERIMENTO DELLA FLESSIONE RETTA

L’osservazione diretta della zona centrale del provino, lontano dalle zone di estinzione, mostra che: • il piano medio grigliato si conserva sullo stesso piano dopo l’applicazione del carico • le linee longitudinali, che nella condizione iniziale erano parallele all’asse della trave, assumono nella deformata una forma curva • i segmenti che all’inizio erano normali alla linea d’asse (ovvero giacevano sulla sezione della trave) rimangono rettilinei • ogni linea longitudinale deformata ha curvatura costante, ovvero `e un arco di circonferenza; questo esito era prevedibile se si considera che nella zona centrale tutti i conci hanno le stesse propriet`a (geometriche e costitutive) e sono sollecitati dalla medesima caratteristica di sollecitazione, pertanto devono subire la stessa variazione di forma (risultato incompatibile con linee longitudinali deformate aventi curvatura variabile con l’ascissa curvilinea) • i segmenti trasversali, che prima erano paralleli, nella configurazione deformata risultano convergenti nel medesimo punto O • il punto O `e il centro di tutte le circonferenze su cui si avvolgono le linee longitudinali deformate.

O

Figura 20.4: Interpretazione qualitativa del processo deformativo

L’osservazione dimostra quindi che, sotto l’effetto di un momento flettente uniforme, una trave rettilinea si deforma in modo che la linea d’asse diventa un arco di circonferenza mentre le sezioni si conservano piane e perpendicolari all’asse deformato. Per la flessione, quindi, l’ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli (vedi paragrafi 15.2 e 15.3) `e verificata sperimentalmente. Sempre l’evidenza sperimentale mostra che il processo deformativo appena descritto `e molto generale e caratterizza la risposta alla flessione anche per travi con asse inizialmente curvo. Si verifica inoltre che si deformano in tal modo anche travi realizzate con materiale non elasticolineare (per esempio elasto-plastico o viscoso). In base all’analisi geometrica della piegatura

603

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

effettuata nel capitolo 15, possiamo esprimere in forma matematica il processo deformativo imponendo che la componente assiale della deformazione estensionale sia una funzione lineare della coordinata trasversale y: εzz (y) = kx · y + e (20.1) relazione che dipende da due parametri geometrici il cui significato `e stato evidenziato nel capitolo 15: • e `e una quantit`a adimensionale che esprime la deformazione estensionale della linea baricentrica (infatti `e: εzz (0) = e) • kx rappresenta la curvatura (il cui modulo `e il reciproco del raggio di curvatura) della linea baricentrica (il pedice x si giustifica considerando che la curvatura `e indotta dal momento Mx ). Ricordiamo che la curvatura `e una quantit`a algebrica e il suo segno `e positivo se, come nell’esempio rappresentato, il raggio di curvatura `e equiverso con l’asse trasversale (in questo caso l’asse y). Si verifica inoltre sperimentalmente che il risultato evidenziato nella relazione (20.1) `e valido per ogni tipo di sezione di trave, a condizione che l’asse x sia centrale principale d’inerzia.

20.2 La formula base della flessione Per ottenere lo stato di tensione-deformazione completo nella parte centrale della barretta in flessione `e necessario effettuare alcune altre considerazioni e introdurre nel modello la legge costitutiva. A questo proposito nel seguito considereremo il materiale elastico lineare omogeneo isotropo, definito dalle costanti elastiche E e ν, e limiteremo l’esame a flessioni moderate in modo da poter applicare la meccanica dei corpi poco deformabili. Dato che la deformazione della parte centrale della barretta non dipende dall’ascissa curvilinea, lo stesso risultato vale anche per lo stato tensionale. Consideriamo una generica sezione nella parte centrale della barretta, il vettore tensione `e nullo sul suo contorno per cui sui lati esterni verticali (lunghi h) devono essere nulle tutte le componenti di tensione che hanno pedice x (ovvero per x = ± 2b deve essere: σxx = σyx = σzx = 0) mentre sui lati orizzontali (lunghi b) devono annullarsi tutte le componenti tensionali con pedice y (per y = ± h2 deve essere: σxy = σyy = σzy = 0). Poich´e h e b sono quantit`a geometriche necessariamente ‘piccole’ `e plausibile che le componenti di tensione con pedici x o y, dovendo annullarsi sul contorno, non possano assumere valori significativi nemmeno all’interno della sezione. Questa considerazione suggerisce che lo stato di tensione abbia come unica componente significativa la σzz (ovviamente funzione della posizione) e quindi che nella barretta si manifesti un campo tensionale monoassiale variabile nel dominio. In ipotesi di monoassialit`a `e quindi possibile esprimere la componente significativa dello stato di tensione mediante la legge di Hooke in modo immediato: σzz (y) = E · kx · y + E · e Si osservi che la precedente relazione dipende solo dai due parametri geometrici kx ed e. Avendo gi`a impiegato le relazioni costitutive (legge di Hooke) e la condizione di congruenza (ipotesi di Eulero-Bernoulli), il problema potr`a chiudersi (con la determinazione di kx ed e) imponendo due condizioni di equilibrio indipendenti. A tale proposito ricordiamo il significato fisico delle caratteristiche di sollecitazione, ovvero l’effetto complessivo, integrato sulla sezione, delle tensioni agenti sulla faccia del concio. Possiamo quindi imporre due equazioni di equilibrio

604

20.2. LA FORMULA BASE DELLA FLESSIONE

significative (la condizione di taglio nullo risulta identicamente soddisfatta) con le seguenti relazioni: Z (20.2) N = σzz dxdy Ω

Z Mx =

σzz ydxdy

(20.3)



nelle quali la sezione corrente `e stata indicata genericamente come al solito con Ω. La relazione (20.2) pu`o essere risolta separatamente, infatti sostituendo si ha: Z 0 = (E · kx · y + E · e) dxdy Ω

dato che il materiale `e omogeneo, E e le quantit`a kx ed e (caratteristiche dell’intera sezione) non dipendono dalla posizione sulla sezione, `e possibile quindi portarle fuori dal segno di integrale e ottenere: Z Z 0 = E · kx · ydxdy + E · e · dxdy Ω



espressione in cui gli integrali hanno esclusiva natura geometrica. Il primo integrale `e infatti il momento statico della sezione calcolato rispetto all’asse x (vedi appendice D): Sx , mentre il secondo `e l’area della sezione stessa: A. Si ha quindi: 0 = E · kx · Sx + E · e · A L’asse x `e centrale per definizione e pertanto risulta: Sx = 0, inoltre, dato che la quantit` a EA (la rigidezza assiale della sezione definita nel capitolo 19) `e strettamente positiva, l’equazione (20.2) fornisce come risultato: e=0 Si `e quindi dimostrato che in flessione la fibra baricentrica non subisce deformazioni estensionali e quindi che l’asse della trave si incurva su un arco di circonferenza senza allungarsi o contrarsi. La soluzione della seconda equazione di equilibrio `e a questo punto immediata: Z Mx = E · kx · y 2 dxdy Ω

Tenendo conto che, per definizione, Jx =

R

y 2 dxdy `e il momento d’inerzia centrale principale



della sezione (vedi appendice D), ricaviamo la seguente relazione fondamentale della flessione: kx =

Mx EJx

(20.4)

In base a tale relazione `e possibile esprimere la legge di dipendenza della tensione dalla posizione: Mx σzz = y (20.5) Jx chiamata formula di Navier in onore dello scienziato francese Claude-Louis Navier (1785 ` opportuno considerare che le relazioni finali ottenute (20.4) e (20.5) legano quantit` –1836). E a di varia natura (statiche e geometriche) alcune delle quali sono componenti vettoriali o tensoriali con segno. Perch´e la coerenza formale sia garantita `e necessario che tutte le convenzioni

605

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

finora adottate (sulle caratteristiche di sollecitazione, sulle curvature, sulle componenti tensionali, ecc. . . ) siano rispettate, pena il rischio di commettere errori di segno. Si noti come la formulazione matematica della flessione si giovi in modo determinante della scelta del sistema di riferimento locale (centrale principale d’inerzia) per la sezione della trave. Ottenuta la soluzione del problema elastico, possiamo verificare a posteriori per sostituzione diretta che, sempre escludendo le zone di estinzione, sono effettivamente soddisfatte le equazioni indefinite di equilibrio, le equazioni di congruenza di Beltrami-Michell e le equazioni di Hooke. Inoltre possiamo verificare la correttezza dell’ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli per le travi rettilinee con sezione uniforme in condizioni di sollecitazione di flessione. Esempio 20.1: Mensola in accaio La trave a mensola BC in figura 20.5 di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3, σam = 300 MPa) avente sezione rettangolare b × h = 10 mm × 20 mm e lunghezza l = 300 mm `e caricata da un momento M0 applicato all’estremit`a C. Determinare il massimo M0 applicabile e, in corrispondenza di tale valore, lo spostamento del baricentro della sezione C. C

B

M0

z

y Figura 20.5: Mensola in flessione

La mensola `e soggetta a un momento flettente uniforme: Mx = M0 . Valutiamo prima il carico massimo applicabile. Lo stato di tensione `e uniassiale per cui la tensione equivalente `e data dal modulo della massima tensione normale: σeq,max =

M0 h Jx 2

tale valore pu`o al pi` u raggiungere la tensione ammissibile, da cui essendo Jx = 3 4 6.667 · 10 mm , si ricava: M0 = 0.2 kNm.

bh3 12

=

Con esclusione delle zone di estinzione, l’asse deformato della trave assume la forma di un arco di circonferenza e conserva la sua lunghezza. La curvatura `e: kx =

M0 = 1.456 · 10−4 mm−1 EJx

e il raggio di curvatura dell’asse deformato: Rx =

1 = 6.867 · 103 mm |kx |

come mostrato nella figura 20.6. Si pu`o osservare che, come conseguenza dell’ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli, per ogni sezione l’inclinazione della linea d’asse equivale alla rotazione della sezione stessa. In particolare, la rotazione della sezione estrema vale: θC =

606

l = kx · l = 0.044 (= 2.50◦ ) Rx

20.2. LA FORMULA BASE DELLA FLESSIONE

O

θC

Rx

θC θC

C*

z

B≡B*

C

y

Figura 20.6: Asse indeformato e asse incurvato dalla flessione (la posizione del centro di curvatura `e fortemente avvicinata e la curvatura stessa `e amplificata per ragioni di chiarezza grafica)

Semplici considerazioni geometriche permettono di valutare le componenti del vettore spostamento CC ∗ = (0, vC , wC )T del baricentro della sezione estrema nel sistema di riferimento della trave: vC = Rx · (cos θC − 1) = −6.55 mm wC = Rx · sin θC − l = −0.095 mm A posteriori possiamo osservare che lo spostamento previsto dal modello adottato (peraltro riferito al punto dell’asse con la freccia massima) `e dello stesso ordine di grandezza della dimensione trasversale della trave, quindi l’ipotesi di corpo poco deformabile `e plausibile e il risultato pu`o essere accettato con un ragionevole grado di approssimazione. Notiamo inoltre che lo spostamento assiale del punto C `e due ordini di grandezza inferiore rispetto a quello trasversale: wC = 0.015 vC Possiamo quindi prevedere che lo spostamento assiale dei punti dell’asse sia dello stesso ordine di grandezza (se non inferiore) dell’approssimazione con cui `e valutato lo spostamento verticale e quindi in genere potr` a essere trascurato. Nel seguito del corso si far`a spesso l’ipotesi di considerare significativo solo lo spostamento trasversale dei punti della linea d’asse sotto l’effetto della flessione in base di considerazioni quantitative di questo tipo.

Esercizio 20.1: Variante della mensola Ripetere l’esercizio precedente considerando la mensola incastrata in modo che il lato lungo della sezione sia orientato come l’asse x.

607

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

20.3 Considerazioni sulla formula di Navier 20.3.1 Verifiche di resistenza in flessione Si osserva, sia sperimentalmente sia analiticamente, che formula di Navier ottenuta per la sezione rettangolare `e corretta per ogni tipo di sezione e pu`o pertanto essere usata allo scopo di valutare la resistenza di una qualunque trave inflessa realizzata con materiale che segue la ` oppoertuno porre attenzione al fatto che nella formula di Navier (20.5) legge di Hooke. E compaiono solo quantit`a geometriche e statiche (la caratteristica di sollecitazione) mentre sono assenti le propriet`a costitutive. Questo implica che lo stato di tensione, a parit`a di momento flettente, non dipende dal materiale della trave (purch´e abbia un comportamento elastico lineare omogeneo isotropo) ma solo dalla forma e dalla estensione della sezione. In pratica, una trave di polietilene e una di acciaio aventi la stessa forma e soggette allo stesso momento flettente hanno la medesima distribuzione di tensioni. Se a prima vista questo risultato pu`o sembrare poco verosimile, `e utile ricordare che un risultato analogo `e stato ottenuto anche per la tensione prodotta dalla forza normale nel capitolo 19. Non si pu`o evidentemente affermare la stessa ` infatti evidente che, a parit`a di sezione e di momento flettente, la cosa per la deformazione. E trave di acciaio subir`a un incurvamento (una curvatura) molto meno pronunciata della trave di polietilene, come peraltro mostra chiaramente la relazione (20.4) nella quale il modulo elastico compare a denominatore. Esempio 20.2: Verifica di una trave con sezione a T Una trave di acciaio con σam = 300 MPa ha sezione a T come in figura 20.7 (a = 6.0 mm). Valutare il coefficiente di sicurezza a resistenza sapendo che la sezione critica `e sottoposta a un momento flettente Mx = 0.4 kNm. 5a 2a

B

x

b

6a

G a

A y Figura 20.7: Sezione a T

La posizione del baricentro e il momento d’inerzia principale rispetto all’asse x si determinano con i procedimenti dell’appendice D. Verificare che: b = 5.5a = 33 mm

e

Jx =

244 4 a = 1.054 · 105 mm4 3

Lo stato di tensione ha componente significativa σzz che cresce in modulo proporzionalmente con la distanza del punto esaminato dall’asse x. L’andamento delle tensioni assiali sulla sezione `e rappresentabile come un piano inclinato che, nel caso in esame, produce componenti di trazione nella parte inferiore della sezione (per le y positive) e componenti

608

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

compressive nella parte superiore della sezione. Le tensioni si annullano sui punti della sezione in corrispondenza dell’asse x.

B

σ zz < 0

x

B

x

G

σ zz < 0 G

σ zz > 0 σ zz > 0

A

A

Figura 20.8: Sezione a T: andamento delle tensioni dovute a Mx : tipico andamento a ‘spiovente di tetto’

Se, come di consueto, il segno delle tensioni non si considera rilevante per la verifica allo snervamento, i punti critici della sezione sono rappresentati da tutti quelli che si trovano nel lato a cui appartiene il punto A per i quali assume il valore massimo la quantit`a: |y| = b. Da ci`o si ricava: Mx |σzz |max = σeq,max = b = 125.2 MPa Jx Dato che lo stato di tensione `e monoassiale, tale valore corrisponde alla tensione equivalente massima (per qualsiasi criterio), si ha: η=

σam σeq,max

= 2.4

Generalizzando i risultati dell’esempio 20.2, data una sezione qualunque sottoposta a momento flettente Mx : • le tensioni σzz nel piano di sezione hanno un andamento caratterizzato da una rappresentazione a piano inclinato • il luogo dei punti della sezione con tensioni nulle appartiene alla retta intersezione del piano di rappresentazione delle tensioni e il piano di sezione • il luogo dei punti con tensione nulla `e chiamato asse neutro • l’asse neutro divide la sezione in due regioni, una con le fibre tese l’altra con le fibre compresse • la componente σzz cresce in modulo in misura direttamente proporzionale alla distanza del punto in esame dall’asse neutro • le linee di livello delle tensioni sono rette parallele all’asse neutro • dato che una funzione lineare ha gradente costante, non `e possibile avere punti stazionari (massimi o minimi locali) per la funzione σzz (x, y) • i punti critici per una sezione in flessione sono quindi necessariamente sul bordo esterno e, nel caso in cui questo sia poligonale, uno dei vertici `e necessariamente il punto critico.

609

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

Il massimo modulo della tensione σzz `e pari al massimo valore della tensione equivalente e quindi si manifesta nel punto critico della sezione. Vale pertanto la relazione: σeq,max =

|Mx | |y|max Jx

(20.6)

Indichiamo con modulo di resistenza a flessione (secondo l’asse x) la grandezza Wx che permette di ricavare la massima tensione equivalente direttamente dalla caratteristica di sollecitazione sulla base della relazione: σeq,max =

|Mx | Wx

Dalla formula di Navier si ricava che il modulo di resistenza a flessione vale: Wx =

Jx |y|max

(20.7)

ed `e, come osservato, una propriet`a di natura geometrica della sezione non dipendente dal materiale. Per molte sezioni di pratico interesse tale quantit`a `e ricavabile dai manuali tecnici.

Re

b

bi hi

Ri

x

x

a

h

x a

y

y

a)

b)

y

c)

Figura 20.9: Sezioni tipiche

Per le sezioni rappresentate in figura 20.9 le propriet`a geometriche rilevanti per la flessione sono riportate nella tabella seguente. Sezione Note

a) Corona circolare Per ogni: 0 6 Ri < Re

Jx |y|max Wx

1 4π

Re4 − Ri4



Re π 4Re

 4

Re4 − Ri

b) Tubolare rettangolare Per ogni foro rettangolare centrale con gli stessi assi  1 3 3 12 bh − bi hi h 2 1 6h

bh3 − bi h3i



c) Triangolo equilatero



3 4 a 96 √ a 3 3 a3 32

Dal punto di vista dimensionale: [Wx ] = [L]3 pertanto, a parit`a di momento flettente, di materiale e di forma della sezione, raddoppiando tutte le quote della sezione, come in un ingrandimento fotografico, la resistenza a flessione aumenta di ben 8 volte.

610

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

20.3.2 Verifiche di rigidezza in flessione Nelle ipotesi fatte, possiamo concludere che la linea d’asse subisce un accorciamento o un allungamente solo quando la trave `e sottoposta a forza normale in base alla relazione: e=

N EA

e subisce un incurvamento a causa del momento flettente in base alla relazione: kx =

Mx EJx

(20.8)

La quantit`a EJx che compare a denominatore nella relazione (20.8), `e chiamata rigidezza flessionale (bending stiffness) della sezione. Infatti, maggiore `e la rigidezza flessionale tanto pi` u elevato `e il momento flettente richiesto per produrre una determinata curvatura della linea d’asse. Curvatura della linea d’asse e momento flettente sono quantit`a energeticamente associate e, per verificarlo, si pu`o procedere in vari modi. Consideriamo, per esempio, l’energia elastica immagazzinata in un concio elementare sollecitato da momento flettente: Z dU = ωdxdy · ds Ω

essendo lo stato di tensione monoassiale: ω=

2 1 σzz 1 Mx2 2 = y 2 E 2 Jx2 E

da cui si ottiene: Z dU = Ω

1 Mx2 2 1 Mx2 y dxdy · ds = 2 Jx2 E 2 Jx2 E

Z

y 2 dxdy · ds =

1 Mx2 · ds 2 EJx



Pertanto, l’energia elastica per unit`a di lunghezza immagazzinata in una trave inflessa pu` o essere espressa da una delle seguenti espressioni equivalenti: dU 1 Mx2 1 1 = = Mx kx = EJx kx2 ds 2 EJx 2 2

(20.9)

Si osservi che le precedenti relazioni (20.9) hanno la stessa struttura delle analoghe formule ottenute per la forza normale nel capitolo 19. Anche in questo caso il consueto fattore 1/2 deriva dalla linearit`a del modello e dal fatto che nelle espressioni sono riportati i valori finali delle grandezze. ` istruttivo dedurre le precedenti relazioni anche dal lavoro fatto dalle forze esterne sul E concio elementare. Le sezioni di un concio elementare di estensione assiale ds sottoposto a momento flettente Mx hanno una rotazione relativa espressa da: dθ = kx · ds

(20.10)

relazione che si deduce dalla figura 20.10 ricordando che il modulo della curvatura `e il reciproco del raggio di curvatura. Il lavoro fatto dai due momenti contrapposti (le azioni esterne sul concio) vale quindi: 1 1 dLext = Mx dθ = Mx kx ds 2 2 611

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE



Mx

Mx

ds

Figura 20.10: Incurvamento del concio elementare e conseguente rotazione relativa delle sezioni di estremit` a

come volevasi verificare. La relazione (20.10) pu`o anche essere espressa come: kx =

dθ ds

(20.11)

che permette di interpretare la curvatura anche come il gradiente dell’inclinazione delle sezioni (e quindi anche l’inclinazione della linea d’asse) rispetto alla coordinata d’asse della trave. In effetti, tanto pi` u incurvato `e l’asse tanto pi` u rapidamente cambia la sua inclinazione spostandosi lungo l’asse stesso. Esempio 20.3: Deformata di una mensola La trave a mensola in lega leggera (E = 76, GPa, ν = 0.3, σam = 320 MPa) di lunghezza l = 600 mm e sezione circolare con raggio R = 25 mm `e soggetta a un carico trasversale P applicato all’estremit`a C. Valutato il massimo valore di P ammissibile per le sollecitazioni flessionali, determinare lo spostamento verticale del baricentro della sezione C dovuto alla flessione della barra e la rotazione dalla stessa sezione.

2R

P

B C

s

z

y

l

Figura 20.11: Mensola con carico d’estremit`a

La mensola `e soggetta a momento flettente ma anche a taglio, costante e pari a Ty = P , pertanto la soluzione completa del problema potr`a essere ottenuta solo dopo che saranno esaminati anche gli effetti tensionale e deformativo di questa caratteristica. Riprenderemo infatti questo elementare ma fondamentale problema (affrontato gi`a da Galileo nella sua ultima opera Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica pubblicata nel 1638) nel capitolo 22. Possiamo peraltro anticipare che, come sar`a dimostrato, l’effetto prevalente, sia per la resistenza sia per la rigidezza, `e prodotto proprio dalla flessione e che il taglio svolge, in questo caso, un ruolo marginale per cui trascurarlo non comporta errori significativi.

612

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

Un altro elemento che differenzia il caso in esame da quelli finora affrontati nell’ambito della flessione `e connesso con il fatto che il momento flettente `e variabile con l’ascissa curvilinea essendo: Mx (s) = −P · (l − s) Tuttavia, come abbiamo fatto per la forza normale nel capitolo 19, possiamo considerare che ogni concio si comporti come se fosse sollecitato dal momento flettente locale. Stiamo ancora una volta applicando il principio di De Saint Venant in base al quale lo stato di tensione e di deformazione del concio `e determinato delle caratteristiche di sollecitazione su di esso agenti, indipendentemente dal comportamento degli altri conci (compresi quelli vicini). Se il gradiente assiale del momento flettente `e modesto, la validit`a di questa ipotesi `e verificata da modelli tridimensionali e dall’evidenza sperimentale. Le previsioni non sono invece corrette in zone caratterizzate da forti gradienti assiali di momento flettente ma tali condizioni si verificano in corrispondenza di carichi di momento concentrato oppure di forze esterne concentrate trasversali di verso opposto applicate in punti vicini. Forti gradienti di flessione sono quindi localizzati in zone di estinzione nelle quali, per i ben noti motivi, il modello monodimensionale non `e comunque molto accurato. Per la resistenza a flessione la sezione critica `e all’incastro. Nell’ambito della teoria monodimensionale, quindi escludendo gli effetti locali, si ha: σeq,max =

Pl Wx

per avere un coefficiente di sicurezza unitario deve essere quindi: P = σam

π R3 Wx = σam = 6.55 kN l 4 l

Possiamo valutare la curvatura per ogni sezione: kx (s) =

−P · (l − s) EJx

quantit`a che assume il valore massimo (in modulo) nella sezione di incastro (k (0) = 1.684 · 10−4 mm−1 ) e valore nullo nella sezione C. Per determinare la freccia in C `e possibile considerare la sequenza dei conci aventi varia curvatura che sono impilati da B a C. Assumendo che lo spostamento dei punti della linea d’asse abbia solo componente v (s) in direzione dell’asse y (la componete assiale w `e in effetti trascurabile nella meccanica dei corpi poco deformabili, come gi`a osservato), possiamo scrivere la relazione: dv (s) θ (s) = − ds in cui l’angolo di rotazione (piccolo) della sezione corrente θ (s) (positivo se equiverso all’asse x in base alla regola della mano destra) `e stato approssimato con la sua tangente (il coefficiente angolare della funzione v (s)). Il segno negativo della relazione precedente si giustifica considerando che una pendenza positiva della funzione freccia (quando v (s) cresce all’aumentare di s) determina una rotazione della sezione in senso discorde all’asse x. In base alla relazione (20.11) possiamo scrivere: kx (s) =

d2 v (s) dθ (s) =− ds ds2

613

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

sostituendo si ottiene l’equazione differenziale: d2 v (s) P · (l − s) = 2 ds EJx che pu`o essere integrata direttamente: P v (s) = EJx



ls2 s3 − 2 6

 + c1 s + c2

Le costanti di integrazione si ottengono considerando che la sezione B non subisce spostamento ne rotazione: dv v (0) = = 0 ⇒ c1 = c2 = 0 ds s=0 Da ci`o otteniamo per la forma dell’asse inflesso la cubica: v (s) =

P (3l − s) · s2 6EJx

v (l) =

P l3 = 20.2 mm 3EJx

e quindi la freccia in C:

La rotazione della sezione si ottiene analogamente:  P P l2 dv 2 = − = − 2ls − s = −0.051 = −2.90◦ θ (l) = − ds s=l 2EJx 2EJ x s=l Questo procedimento di soluzione sar`a oggetto di approfondimento nel capitolo 24. La freccia della sezione C pu`o essere ottenuta in modo diretto con un approccio energetico, considerando che la forza P `e l’unica azione esterna che fa lavoro e che `e richiesta proprio la grandezza geometrica a questa energeticamente associata: v (l), quantit`a che per semplicit`a di notazione indichiamo con δ (conservando il segno positivo se diretta nel verso di y). Il lavoro complessivo delle forze esterne vale: 1 Lext = P · δ 2 dove il solito fattore 1/2 tiene conto che il problema `e lineare e che sono state espresse le grandezze finali (a caricamento completato). L’energia elastica immagazzinata nella trave a causa del momento flettente pu`o essere ottenuta per integrazione diretta in R1 : l

Z U= 0

1 P 2 l3 Mx2 ds = 2EJx 6 EJx

Eguagliando si ottiene lo stesso risultato del calcolo precedente: δ=

P l3 = 20.2 mm 3EJx

I metodi energetici per valutare gli spostamenti saranno generalizzati nel capitolo 24.

614

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

20.3.3 Sezione di forma ottimale per la flessione La formula di Navier indica che la tensione massima in una sezione inflessa dipende dall’estensione, come era ragionevole aspettarsi, ma anche dalla forma della sezione. A differenza di quanto osservato per la forza normale, per la flessione si pone quindi l’interessante problema di determinare la forma ottimale per resistere a flessione. Come `e consueto in ingegneria, i problemi di massimo o minimo (problemi di ottimizzazione) sono sempre vincolati. Nel caso specifico, fissato il materiale, possiamo assumere due tipi di vincolo: la quantit`a di materiale con cui realizzare la sezione, quindi la sua area A, e l’ingombro della sezione stessa, ovvero la regione piana disponibile per contenerla. Il solo primo vincolo rende il problema di ottimo non definito dato che, in linea di principio, `e possibile disporre il materiale in modo da rendere il modulo di resistenza grande quanto si vuole. Per rendersene conto `e sufficiente pensare a una sezione rettangolare di lati: b × h con il solo vincolo b × h = A. Il lettore pu`o verificare preliminarmente che la resistenza massima per la trave si ottiene disponendo il lato lungo (che indichiamo con h) perpendicolarmente alla direzione del vettore momento. Chiamato con ρ = hb > 1 il coefficiente adimensionale che esprime il fattore di forma della sezione, si verifica che: bh2 1 Wx = = b3/2 · h3/2 6 6

 1/2 h A3/2 √ ρ = b 6

pertanto il modulo di resistenza pu`o essere in teoria aumentato quanto si vuole scegliendo la sezione lunga e stretta (qualcosa di simile viene effettivamente fatto per le lame dei coltelli e delle seghe a nastro). B

H

x

y Figura 20.12: Riempimento di uno spazio rettangolare B × H con un’area pari a A = BH 3 in modo ottimale per la resistenza a flessione

Per avere un problema di ottimo ben posto imponiamo anche una limitazione allo spazio entro cui la trave deve essere contenuta. Non si tratta di un semplice espediente matematico dato che i vincoli di ingombro sono in genere fondamentali nella progettazione meccanica e spesso sono anche molto condizionanti. Per semplicit`a, supponiamo che lo spazio a disposizione per contenere la sezione sia un rettangolo di dimensioni: B × H tali per cui, ovviamente, la trave di area data si possa inserire (e quindi tale che A 6 B × H). La forma che rende massimo il modulo di resistenza in questo caso `e costituita da una disposizione del materiale il pi` u lontano possibile dall’asse x, come evidenziato nella figura 20.12 in cui `e stato rappresentato il caso particolare: A = 31 (B × H). Non `e difficile dimostrare che, con i vincoli indicati, la forma rappresentata `e ottimale anche per la rigidezza flessionale in quanto tale sezione ha anche il massimo momento d’inerzia Jx .

615

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

Esercizio 20.2: Sezione ottima Verificare che la forma migliore per la resistenza a flessione tra quelle rappresentate in figura 20.13 `e effettivamente quella simmetrica (∆ = 0).

H −Δ 6 H

H +Δ 6

Figura 20.13: Ricerca della sezione ottima

Nella pratica sorge anche la necessit`a di mantenere integra la sezione in modo da far lavorare la trave come un solido monodimensionale unico piuttosto che come due travi distinte. Infatti, non si deve dimenticare che la forma ottimale `e stata dedotta considerando valida la formula di Navier la quale prevede l’ipotesi di Eulero-Benoulli per l’intera sezione. Inoltre, dato che la flessione `e generalmente accompagnata dal taglio, come sar`a evidenziato nel capitolo 22, sorge la necessit`a di rinunciare all’ottima disposizione del materiale per ottenere il ragionevole compromesso rappresentato dalla sezione a doppio T (figura 20.14). Talvolta si impiegano sezioni a T anche se meno performanti a flessione. Le propriet`a d’inerzia e di resistenza a

b R0

tw

h

x

y

tf

Figura 20.14: Tipica sezione a doppio T con le relative quote

flessione di queste sezioni standardizzate (normal-profili) si trovano sui manuali tecnici o su internet. Per motivi di tipo tecnologico o funzionale, oppure quando la trave `e sottoposta oltre che a flessione anche a torsione, `e opportuno e talvolta necessario, derogare dalle forme a doppio T

616

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

o a T. Quando `e necessario conservare comunque buone prestazioni flessionali il materiale deve essere comunque collocato il pi` u lontano possibile dalla fibra baricentrica. Buone prestazioni flessionali (e torsionali) si ottengono quindi con sezioni tubolari rettangolari o circolari. In relazione ai compromessi, `e significativo come esempio, la sezione del binario che `e una trave in cui la sollecitazione flessionale `e molto importante. In tal caso le due ‘piattabande’ sono state configurate in modo da essere anche cinematicamente e geometricamente compatibili con gli elementi accoppiati. La parte superiore della rotaia deve accogliere, con una opportuna forma bombata, la ruota e il relativo bordino stabilizzatore mentre la parte inferiore `e costituita da una piattabanda allargata in modo da distribuire la forza di contatto su un’ampia superficie resa necessaria del fatto che il materiale della traversina `e meno resistente di quello della rotaia.

20.3.4 Considerazioni generali sulla verifica a flessione di travi In fase di progetto o di ideazione `e spesso molto utile effettuare stime della risposta strutturale di una soluzione, anche se si prevede di eseguire successive valutazioni con maggiore livello di precisione. Quando la fisica del fenomeno `e chiara, le stime preliminari possono essere eseguite in modo rapido per ottenere, nel caso peggiore, almeno l’ordine di grandezza del risultato. Talvolta `e possibile avere sottostime o sovrastime e, in casi favoorevoli, anche l’intervallo entro cui la soluzione si colloca. In fase di progetto si verificano situazioni in cui indicazioni di questo tipo, anche se grossolane, possono rilevarsi determinanti per guidare le scelte fondamentali come valutare se qualcosa di importante deve essere modificato, nella geometria o nei materiali, prima di intraprendere calcoli dispendiosi o verifiche sperimentali. Questo tipo di previsioni, che possiamo considerare il risultato dell’applicazione di un modello zero, sono generalemnte basate sull’analisi dimensionale e sull’analogia e sono giustificate se semplice applicazione. Tuttavia, `e opportuno ribadirlo, la formulazione di un modello zero non sempre `e facile, perch´e richiede una solida conoscenza del fenomeno in esame e un certo intuito. Cimentarsi con il modello zero, anche a posteriori, `e perlatro un ottimo esercizio. Il modello zero `e consigliato anche nella fase di verifica in quanto pu`o scongiurare che qualche errore grossolano nei calcoli pi` u accurati, generalmente pi` u articolati e quindi meno verificabili, possa compromettere il risultato. Nel seguente esempio sono proposte valutazioni preliminari di resistenza e di rigidezza per una trave inflessa. Esempio 20.4: Stime di resistenza e rigidezza Determinare l’ordine di grandezza delle tensioni e delle frecce per la barra di piombo (E = 5 GPa, ν = 0.3, σam = 20 MPa, γ = 11.4 kg / dm3 ) schematizzata in figura 20.15 avente lunghezza l = 2.0 m e sezione quadrata di lato a = 50 mm, appoggiata agli estremi e soggetta al peso proprio. P l B

C

Figura 20.15: Trave appoggiata con carico distribuito

617

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

In questo problema, semplice e isostatico, la valutazione della tensione massima di flessione non richiede alcuna semplificazione perch´e il modulo del momento flettente massimo, che si manifesta in mezzeria, si ottiene con una formula gi`a elementare. Dopo aver valutato il peso totale P (per le formule che seguono il valore della densit`a `e convertito in γ = 11.4 · 10−6 kg /mm3 ) P = γga2 l = 559 N si ha: Mmax =

Pl γg 2 2 = l a = 0.14 kNm 8 8

La tensione equivalente massima vale quindi: σeq,max =

2 Mmax γg 6l2 a2 3γg l2 −6 l = = = 7.36 · 10 = 6.71 MPa W 8 a3 4 a a

La valutazione corretta della freccia massima richiede invece un calcolo non elementare (vedi l’esempio 20.3) che prevede la determinazione dell’espressione analitica del momento flettente in funzione di s, l’integrazione di una equazione differenziale e l’imposizione delle condizioni al contorno. Cerchiamo di ottenere quindi una stima applicando ragionevoli modelli zero. La freccia massima δmax , che, per simmetria, si verifica anch’essa nella sezione centrale, `e prodotta dall’effetto del momento flettente, per cui: • `e direttamente proporzionale al carico applicato e quindi al peso complessivo: δmax ∝ P • `e inversamente proporzionale alla rigidezza flessionale della sezione:  4 −1 a −1 δmax ∝ (EJx ) = E 12 inoltre dipender`a da una certa potenza della lunghezza della trave. Pertanto cui poniamo per tentativo: δmax ∝ ln = (ψl)n dove ψ `e un fattore adimensionale. In termini qualitativi possiamo considerare la quantit`a ψl come una lunghezza efficace, o lunghezza equivalente, della trave. Essendo la trave appoggiata agli estremi, ψl sar`a una frazione della lunghezza totale. Raccogliendo le relazioni precedenti, possiamo scrivere: δmax = (ψl)n

P 4 E a12

= 12 (ψl)n

P Ea4

L’esponente n si ricava dalla condizione di uniformit`a dimensionale (il secondo membro deve essere una lunghezza) per cui: n = 3 e quindi: δmax = 12ψ 3

P l3 Ea4

Questa relazione permette di effettuare una prima stima della freccia, assumendo  ragionevolmente il fattore adimensionale nell’intervallo ψ = 41 ; 13 : δmax ∼ (26 ÷ 63) mm Si pu`o osservare che la freccia massima dipende in modo marcato dalla lunghezza efficacie e quindi dal fattore ψ (che in questo caso compare elevato al cubo), e questa circostanza `e piuttosto frequente nei problemi flessionali. Per migliorare la stima di ψ `e opportuno ricorrere a ragionevoli analogie del caso specifico con problemi elementari noti.

618

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

Nel caso in esame, la deformata dell’asse della trave `e una curva simmetrica con il massimo nel centro, come mostrato in figura 20.16a). Il comportamento di met`a della barra `e identico a quello di una mensola similmente caricata come illustrato in figura 20.16b) (il lettore pu`o verificare che le caratteristiche di sollecitazione coincidono). Si pu`o quindi ottenere una sovrastima ragionevole della freccia assumendo, come mostrato in figura 20.16c), il modello di una mensola di lunghezza 2l caricata all’estremo con un carico pari a P2 . Si ottiene quindi: 3 P 2l 1 P l3 δ2 = = = 36 mm > δmax 3EJx 24 EJx P l P 2

P 2

P 2

P 2

δ max

δ max

δ2

a)

b)

c)

Figura 20.16: Schema per ottenere una ragionevole sovrastima della freccia massima per analogia con casi elementari noti: a) schema di corpo libero del problema originario in configurazione deformata; b) problema ausiliario con la stessa freccia; c) problema ausiliario elementare in cui la freccia `e maggiorata per aver trascurato l’effetto del carico distribuito

1 Si verifica che questo procedimento equivale ad assumere ψ = √ = 0.35. Per inciso, 3 24 il valore corretto della freccia flessionale del problema originale (che il lettore pu`o ottenere risolvendo il problema differenziale) vale:

δmax =

5 P l3 = 22.4 mm ⇒ ψ = 0.235 384 EJx

Il precedente esempio suggerisce modalit`a con cui ottenere espressioni di carattere generale utili per prevedere la resistenza e la rigidezza di travi inflesse. In particolare, se, come in figura 20.17, la trave `e caricata solo da forze concentrate trasversali all’asse, tutte proporzionali a un valore di riferimento che indichiamo con P , la tensione massima nella trave vale: Pl σeq,max = κ (20.12) Wx dove il fattore adimensionale (o fattore di forma) κ `e una funzione di rapporti tra quantit` a geometriche omogenee che definiscono la forma della trave e la localizzazione dei carichi. La

619

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

P n1P

δ max

n2 P

Figura 20.17: Trave soggetta a forze trasversali concentrate tutte normalizzate rispetto a un carico di riferimento

tensione massima `e proporzionale al momento flettente massimo, che a sua volta `e proporzionale al livello di carico P e alla lunghezza della trave l (dimensione rappresentativa dei bracci del momento) ed `e inversamente proporzionale al modulo di resistenza. L’esame della formula (20.12) suggerisce le considerazioni: • se, a parit`a di carico e di sezione, si raddoppia la lunghezza assiale di una trave, la tensione massima e, conseguentemente, tutte le componenti di tensione e di deformazione raddoppiano • se, a parit`a di carico e di lunghezza, si raddoppiano tutte le dimensioni della sezione, dato che [Wx ] = [L]3 , la tensione massima (con tutte le componenti tensionali e deformative) diventa 1/8 del valore precedente e quindi il coefficiente di sicurezza a resistenza aumenta di 8 volte • se, a parit`a di carico, si raddoppiano tutte le dimensioni della trave, la tensione massima diventa 1/4 del valore precedente e il coefficiente di sicurezza a resistenza aumenta di 4 volte. Nel caso esaminato la freccia massima `e esprimibile da una relazione del tipo: δmax = λ

P l3 EJx

(20.13)

con λ fattore adimensionale per la rigidezza. Per quanto riguarda la dipendenza dell’angolo di inclinazione massimo delle sezioni rispetto ai parametri del problema, vale invece la relazione (che si ottiene con una verifica dimensionale diretta): θmax = α

P l2 EJx

(20.14)

In modo analogo si ricava pertanto che: • se, a parit`a di carico e di sezione, si raddoppia la lunghezza della trave, tutti gli spostamenti e, di conseguenza, anche la freccia massima, diventano 8 volte maggiori, mentre e le rotazioni delle sezioni crescono solo di 4 volte • se, a parit`a di carico e di lunghezza, si raddoppiano tutte le dimensioni della sezione, dato che [Jx ] = [L]4 , le frecce e diventano 1/16 dei valori precedenti • se, a parit`a di carico, si raddoppiano tutte le dimensioni della trave, le frecce si dimezzano rispetto ai valori precedenti mentre le rotazioni si riducono a 1/4. Considerando un carico trasversale distribuito lungo l’asse p (s), riportabile, tramite una funzione adimensionale fissa f (s), a un valore di riferimento p0 (spesso il valore massimo, ma

620

20.3. CONSIDERAZIONI SULLA FORMULA DI NAVIER

p0

p ( s ) = p0 ⋅ f ( s )

δ max

Figura 20.18: Trave soggetta a carichi trasversali distribuiti riferibili, tramite una funzione fissa f (s), a un valore di riferimento p0

non necessariamente) tale per cui: p (s) = p0 · f (s), si ottengono le seguenti formule, adatte per verifiche di resistenza e rigidezza: σeq,max = κ

p0 l 2 ; Wx

δmax = λ

p0 l 4 ; EJx

θmax = α

p0 l 3 EJx

Nel caso in cui i carichi distribuiti dipendano direttamente dalla geometria della trave (per esempio il peso proprio o le forze d’inerzia) `e utile esprimere le relazioni evidenziando che le risultanti dei carichi sono proporzionali alla massa complessiva della trave: P ∝ γAl (con A area della sezione e γ la densit`a). Le formule assumono la seguente forma: σeq,max = κγ

Al2 ; Wx

δmax = λγ

Al4 ; EJx

θmax = λγ

Al3 EJx

Pertanto, in condizioni di carico proporzionale alla massa della trave: • a parit`a di sezione, raddoppiando la lunghezza di una trave, tensioni e deformazioni aumentano di 22 = 4 volte; gli spostamenti, e di conseguenza la freccia massima, diventano ben 24 = 16 volte maggiori mentre le rotazioni delle sezioni sono 23 = 8 volte maggiori h i • a parit`a di lunghezza, raddoppiando tutte le dimensioni della sezione, dato che WAx = h i [L]−1 , tensioni e deformazioni risultano dimezzate mentre, essendo JAx = [L]−2 , spostamenti e rotazioni diventano 1/4 del valore precedente • se si raddoppiano tutte le dimensioni della trave, tensioni, deformazioni e anche le rotazioni raddoppiano mentre le frecce diventano 4 volte maggiori dei valori precedenti. Come si pu`o osservare, le propriet`a meccaniche che misurano la capacit`a di una trave di sopportare la flessione (per resistenza o rigidezza) possono dipendere marcatamente dalla scala del problema. Questo fatto rende impossibile la riproduzione in scala perfetta del comportamento strutturale e indica l’esistenza di limiti alle dimensioni che le strutture possono raggiungere senza che sia necessario modificare le caratteristiche dei materiali. Esercizio 20.3: Dipendenze dimensionali Verificare le seguenti formule che esprimono le dipendenze dai parametri significativi per la tensione equivalente massima, la freccia massima e la rotazione massima nel caso di carichi riconducibili ad azioni di momenti concentrati aventi asse x e riferiti al valore M0 . σeq,max = κ

M0 ; Wx

δmax = λ

M0 l 2 ; EJx

θmax = α

M0 l EJx

621

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

20.4 Analisi della deformazione complessiva di una trave inflessa Ritorniamo all’esperimento iniziale del capitolo per descrivere in modo completo la deformazione della barretta considerata come corpo tridimensionale. Nella zona centrale, la validit`a della soluzione di De Saint Venant comporta che la formula di Navier costituisce la soluzione esatta del problema in quando soddisfa tutte le equazioni della teoria dell’elasticit`a in ogni punto. In particolare esaminiamo il campo di deformazioni. Essendo lo stato di tensione monoassiale, lo stato di deformazione corrispondente, nel sistema di riferimento della trave assume la seguente forma:   εxx 0 0 εyy 0  E= Sym εzz in cui la deformazione estensionale assiale `e gi`a stata ottenuta nel primo paragrafo: εzz = Mx EJx y = kx · y. Nella figura 20.19 il processo deformativo corrispondente nel piano y − z viene mostrato notevole amplificato per i consueti motivi di chiarezza grafica. O

Rx =

EJ x 1 = kx Mx

Mx

Mx

z y Figura 20.19: Deformata amplificata di una trave in flessione (caso con Mx > 0) vista da x

Le altre componenti deformative principali (estensionali nel piano della sezione) sono dovute all’effetto Poisson per cui, considerando che lo stato di tensione `e monoassiale, si esprimono come: Mx εxx = εyy = −νεzz = −ν y = −νkx · y EJx Possiamo affermare che in flessione la sezione rimane piana ma sicuramente subisce una distorsione a causa dell’effetto Poisson. Dato che siamo in campo elastico e nell’ambito di validit`a della meccanica dei corpi poco deformabili, le variazioni di forma della sezione non sono significative in relazione agli effetti prodotti sulla flessione stessa, analogamente a come `e stata considerata ininfluente la variazione di sezione per la caratteristica di forza normale. Tuttavia, per vari motivi, `e interessante esaminare qualitativamente il processo deformativo della sezione, in particolare in relazione all’effetto prodotto dalle deformazioni trasversali εxx . Dalla relazione: εxx = −ν · εzz per valori tipici del rapporto di Poisson (ν = 0.3), possiamo affermare che nella parte di sezione dove le deformazioni εzz sono positive (zona delle fibre tese) le deformazioni trasversali εxx

622

20.4. ANALISI DELLA DEFORMAZIONE COMPLESSIVA DI UNA TRAVE INFLESSA

sono negative e quindi la sezione tende localmente a contrarsi in direzione x (una contrazione analoga avviene in direzione y ma questo effetto non `e interessante). Viceversa, nella parte della sezione in cui le fibre sono assialmente compresse la sezione tende a dilatarsi in direzione x. Non dovrebbe essere necessario ricordare che tale processo deformativo `e la naturale conseguenza dell’effetto Poisson e quindi nel materiale si manifesta spontaneamente, senza necessit` a di tensioni normali in direzione x o y. La modalit`a in cui la distorsione della sezione si produce `e deducibile in base alla legge con cui le deformazioni trasversali variano con la posizione y: εxx = kx0 y

(20.15)

kx0 = −νkx

(20.16)

dove `e stato indicato: Nella relazione (20.15) si riconosce la formula che descrive la deformata di un processo di piegamento con la fibra centrale (in questo caso `e l’asse x deformato) che si incurva senza subire dilatazioni e la relativa parzializzazione in fibre trasversalmente allungate e contratte. Il segno negativo nella relazione (20.15) indica che la curvatura dell’asse x deformato `e opposta a quella dell’asse z deformato. La grandezza kx0 viene per questo chiamata contro-curvatura (anticlastic curvature). Il modulo della contro-curvatura `e inferiore alla curvatura principale proprio del rapporto di Poisson.

x

y Rx′ =

Rx

ν

 3 Rx

O′ Figura 20.20: Deformata amplificata della sezione rettangolare di una trave in flessione (caso con Mx > 0) vista da z

Una rappresentazione amplificata della forma della sezione `e riportata in figura 20.20. L’effetto deformativo complessivo `e visualizzato nella figura 20.21. In generale la superficie baricentrica piana della trave, che, prima dell’applicazione del momento, `e definita dalla relazione y = 0, si trasforma in una superficie a sella (vedi appendice E) le cui curvature principali sono proprio kx e kx0 . In selle con raggi di curvatura che hanno gli stessi centri (O e O0 ) si trasformano anche tutti i piani paralleli a y = 0. L’aspetto pi` u interessante di questa analisi `e rappresentato dalla forma delle superfici laterali della sezione, quelle che prima della deformazione avevano equazione: x = − 2b e x = 2b . Come si pu`o osservare dalla figura 20.21, tali piani si trasformano in superfici che mantengono una

623

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

Mx

Mx z

x

y Figura 20.21: Deformata amplificata di una trave con sezione rettangolare soggetta a flessione

intersezione rettilinea con i piani di sezione. Si tratta quindi di superfici composte da rette (superfici rigate). Consideriamo due barrette uguali e sollecitate dallo stesso momento flettente, se le affianchiamo lateralmente, le superfici combaciano in ogni punto. Questo significa che non vi `e la necessit`a di trasmettere alcuna mutua azione per mantenere la congruenza e quindi che la soluzione trovata (la formula di Navier) `e effettivamente indipendente dalla larghezza b della sezione. Queste considerazioni saranno fondamentali nello studio delle piastre inflesse per le quali l’estensione in direzione trasversale `e dello stesso ordine di grandezza dell’estensione assiale.

x2 x1

x

y1

y2

y

Figura 20.22: Affiancamento di due barrette uguali ed egualmente inflesse: equivalenza con la soluzione della flessione di una barretta di larghezza doppia sottoposta a un momento doppio

20.5 Flessione retta e flessione deviata La teoria della flessione sviluppata finora `e sufficiente per analizzare i problemi piani. In questo ambito la notazione potrebbe essere semplificata, per esempio si pu`o indicare con k (invece che kx ) la curvatura principale, dato che non c’`e ambiguit`a nella sua interpretazione. Nei problemi tridimensionali `e per`o frequente che sulla sezione sia applicato un momento flettente con entrambe le componenti. In questo paragrafo `e considerato tale problema a partire dall’esame dell’effetto dell’altra componente di momento flettente.

624

20.5. FLESSIONE RETTA E FLESSIONE DEVIATA

20.5.1 Momento flettente nella direzione principale y La formula di Navier pu`o essere estesa per considerare l’effetto prodotto dal momento flettente applicato nell’altra direzione principale d’inerzia: My . Data l’arbitrariet`a nella scelta dei nomi degli assi, non dobbiamo aspettarci differenze significative nelle nuove espressioni, le quali possono sostanzialmente essere ottenute per scambio dei nomi degli assi. Tuttavia `e necessario ricordare che nella definizione delle componenti di un momento (che sono il risultato di un prodotto vettoriale) l’orientamento degli assi `e fondamentale. In particolare, se si rispetta l’ordine destrorso del sistema di riferimento locale (propriet`a che a questo punto diventa formalmente importante) si pu`o verificare che la tensione prodotta da My vale: σzz = −

My x Jy

(20.17)

Come illustrato nella figura 20.23, il segno negativo `e facilmente giustificabile: un momento flettente My positivo produce compressione dalla parte delle x positive e trazione dalla parte delle x negative. My > 0

My > 0

x

y

Figura 20.23: Barretta di sezione rettangolare sotto l’effetto di My > 0

L’asse neutro, ovvero il luogo dei punti della sezione in cui le tensioni σzz sono nulle, `e la retta y di equazione x = 0 e quindi, come prima, `e ancora dato dall’asse del momento. Per la verifica di resistenza si definisce un equivalente modulo di resistenza a flessione My : Wy =

|My | |x|max Jy

(20.18)

parametro che, come nel caso precedente, permette di valutare direttamente la tensione equivalente massima nota la caratteristica di sollecitazione. Il momento My produce una curvatura della linea d’asse nel piano x − z il cui valore, in modulo e segno, `e espresso dalla relazione: ky = −

My EJy

(20.19)

Valgono considerazioni simili a quelle sviluppate nel precedente paragrafo anche in reazione alla contro-curvatura. Considerando entrambe le componenti di momento flettente, possiamo pertanto concludere che quando un tratto rettilineo di trave `e sollecitato in flessione e il momento flettente ha la direzione di uno degli assi centrali principali d’inerzia della sezione: • l’asse della trave si incurva in un piano normale alla direzione del momento • l’asse neutro coincide con l’asse del vettore momento questo tipo di sollecitazione `e chiamato flessione retta e il corrispondente problema `e piano.

625

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

20.5.2 Applicazione di entrambi i momenti flettenti La condizione di sollecitazione in una sezione per cui entrambi i momenti flettenti sono diversi da zero, che equivale all’applicazione di un momento flettente risultante che ha direzione non coincidente con alcuno degli assi centrali principali d’inerzia, `e chiamata flessione deviata. Il comportamento della trave in flessione deviata pu`o essere studiato sperimentalmente. A tale scopo, come mostrato in figura 20.24, si possono realizzare opportuni anelli aventi un foro centrale sagomato come la sezione, da collocarsi in corrispondenza dei punti di applicazione delle forze e utilizzare l’attrezzatura per flessione su 4 punti.

P

β

h

x

B

R

z b

y

C

a

H

Q

a

Figura 20.24: Prova di flessione deviata

Si pu`o verificare che se, rispetto alla condizone di flessione retta, si ruota il provino attorno all’asse z di un angolo β 6= i π2 , in ogni sezione della trave nella parte di interesse (tra C e Q) le caratteristiche di sollecitazione sono: Mx = MF l cos β =

Pa cos β; 2

in cui `e definito MF l =

My = MF l sin β =

Pa sin β 2

Pa q 2 = Mx + My2 2

(20.20)

il momento flettente risultante.

x β

y

Pa M Fl = 2

y Figura 20.25: Azioni sulla faccia positiva della sezione corrente nel tratto CQ

L’evidenza sperimentale mostra che, nel tratto centrale, escluse le zone di estinzione: • l’asse della barretta si deforma assumendo una curvatura costante • il piano a cui appartiene l’asse deformato non `e quello della figura 20.24 per cui il problema non `e pi` u piano.

626

20.5. FLESSIONE RETTA E FLESSIONE DEVIATA

L’analisi della flessione deviata pu`o essere notevolmente facilitata se, invece di affrontarla direttamente, si applica il principio di sovrapposizione degli effetti e si considera come somma di due flessioni rette in quadratura. La formula di Navier diventa in questo caso: σzz =

My Mx y− x Jx Jy

(20.21)

L’andamento delle tensioni normali sulla sezione `e pertanto sempre lineare e ha il consueto andamento a spiovente di tetto. L’asse neutro, ovvero il luogo dei punti non sollecitati, si ottiene sempre imponendo la condizione: σzz = 0 ⇒

My Mx y− x=0 Jx Jy

la quale restituisce l’equazione di una retta che passa dall’origine degli assi (il baricentro della sezione): My Jx y= x (20.22) Mx Jy Il coefficiente angolare di tale retta esprime la tangente trigonometrica dell’angolo formato dall’asse neutro con l’asse x. Si osserva che: • se Jx 6= Jy l’asse neutro non `e sull’asse del momento, che infatti ha coefficiente angolare: My Mx

• se Jx < Jy (e quindi verso l’asse x

Jx Jy

< 1), rispetto alla direzione del momento, l’asse neutro `e ruotato

• rispetto all’asse del momento, l’asse neutro `e inclinato verso l’asse del sistema di riferimento che ha il momento d’inerzia inferiore • l’andamento delle tensioni normali `e lineare e le linee di livello sono rette parallele all’asse neutro, pertanto il punto critico della sezione `e quello posto a maggiore distanza dall’asse neutro • il punto critico `e necessariamente sul contorno esterno della sezione • se la sezione `e poligonale, uno dei vertici convessi `e sicuramente il punto critico. Per effettuare la verifica di resistenza in flessione deviata `e opportuno procedere nel modo seguente: • tracciare l’asse neutro • individuare qualitativamente i possibili punti critici • sostituire le loro coordinate nella formula generale di Navier (rispettando i segni) e determinare a posteriori il punto critico.

Esempio 20.5: Verifica di resistenza in flessione deviata Data un atave con sezione a T rappresentata in figura 20.26, sapendo che a = 6.0 mm e che il materiale `e acciaio con σam = 300 MPa e E = 206 GPa, valutare il coefficiente di

627

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

sicurezza a resistenza sapendo che la sezione critica `e sottoposta a: Mx = −0.3 kNm e My = 0.3 kNm

2a

5a

G

x

b

6a

M Fl

a

y Figura 20.26: Flessione deviata per una sezione a T.

Dalle geometria ricaviamo: b = 33 mm;

A = 576 mm2 ;

Jx = 1.054 · 105 mm4 ;

e quindi che la flessione `e deviata essendo: diventa:

Jx Jy

Jy = 0.277 · 105 mm4

= 3.81 6= 1. L’equazione dell’asse neutro

y = −3.81x Come si vede dalla figura 20.27, rispetto al vettore momento l’asse neutro `e ruotato verso l’asse y (che ha il minimo momento d’inerzia). Sostituendo le coordinate dei vertici individuati nella figura 20.27, si determina che il punto critico `e B2 = (−2.5a, −2.5a) da cui: σeq,max = |σzz (−2.5a, −2.5a)| = 205.4 MPa e quindi si conclude che la sezione `e verificata a resistenza con: η = 1.46 Lo spostamento dei punti della linea d’asse non appartiene al piano contenente z e perpendicolare al vettore momento ma nel piano contenente z e perpendicolare all’asse neutro. Il valore della curvatura complessiva della linea d’asse su tale piano si ottiene come risultante (vettoriale) delle curvature principali: |k| =

q

kx2 + ky2 =

q

(−1.382 · 10−5 )2 + (−5.267 · 10−5 )2 = 5.446 · 10−5 mm−1

pertanto il raggio di curvatura della linea d’asse deformato vale: R=

628

1 = 18.36 m |k|

20.5. FLESSIONE RETTA E FLESSIONE DEVIATA

B2

x

B1

trazione

G

compressione

M Fl asse neutro B3

y Figura 20.27: Asse neutro, linee di livello delle tensioni normali e individuazione qualitativa dei punti potenzialmente critici della sezione (i vertici pi` u lontani dall’asse neutro)

La retta di applicazione del momento e la retta che contiene l’asse neutro sono legate tra loro tramite le propriet`a geometriche d’inerzia della sezione. Infatti `e possibile usare una costruzione geometrica per ottenere l’asse neutro a partire dalla direzione del vettore momento, sfruttando l’ellisse centrale d’inerzia della sezione. Esempio 20.6: Asse neutro con metodo grafico Determinare l’asse neutro con procedimento grafico per il problema dell’esempio 20.5. Applicare il procedimento anche alla condizione: Mx = 2My .  L’asse neutro si pu`o ricavre sfruttando le propriet`a polari dell’ellisse centrale d’inerzia i cui semiassi hanno lunghezze: r r Jy Jx ρx = = 13.53 mm; ρy = = 6.93 mm. A A

x

G

x

M Fl

y a)

y b)

Figura 20.28: Flessione deviata: a) elisse centrale d’inerzia e b) costruzione dell’asse neutro per Mx = −My

629

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

La costruzione, illustrata in figura 20.28b), consiste nel tracciare le due rette perpendicolari alla direzione del momento che sono tangenti all’ellisse. L’asse neutro `e la retta che passa per i punti di tangenza. Nella figura 20.29 `e rappresentato l’asse neutro per il caso Mx = 2My .

x M Fl

y Figura 20.29: Costruzione geometrica dell’asse neutro con Mx = 2My

Se L’ellisse centrale d’inerzia della sezione `e circolare (Jx = Jy ), la flessione risulta sempre retta e quindi asse neutro e asse del momento sono paralleli per qualunque rapporto Mx /My . Nel caso di una figura assial-simmetrica,per esempio la sezione di un albero o di un tubo circolare di spessore costante, la verifica di resistenza si esegue quindi come nel seguente esempio. Esempio 20.7: Verifica di un albero inflesso La sezione critica di un albero in acciaio avente diametro 2R = 45 mm `e sollecitata dai momenti flettenti: Mx = 0.6 kNm e My = −0.4 kNm; determinare la tensione ammissibile del materiale perch´e il coefficiente di sicurezza a resistenza sia η = 3 e, in tali condizioni, determinare la curvatura della linea d’asse locale.  Per una sezione circolare la coppia di assi centrali principali pu`o essere scelta in modo arbitrario. Quindi una opportuna inclinzione degli assi x e y avrebbe evidenziato una sola componente di momento e il problema di una flessione solo apparentemente deviata non si sarebbe posto. Tuttavia, proprio per l’arbitrariet`a con cui possono essere considerati gli assi locali, alla situazione proposta dal testo si perviene spesso nella verifica degli alberi, dato che gli assi del sistema sono scelti preliminarmente sulla base di considerazioni di altro tipo (tipicamente per semplificare la determinazione dello schema di corpo libero). Supponiamo, come succede spesso, di dover effettuare solo la verifica di resistenza a flessione e di essere interessati a conoscere non tanto la posizione sulla circonferenza esterna in cui il massimo valore della tensione si manifesta ma solo il valore massimo del modulo della tensione. A tale scopo `e opportuno ottenere il valore del momento flettente complessivo (modulo del momento flettente) che vale: q MF l = Mx2 + My2 = 0.721 kNm e considerare che esister`a sicuramente un punto del contorno della sezione in cui la tensione

630

20.5. FLESSIONE RETTA E FLESSIONE DEVIATA

equivalente assume il valore estremo dato da: σeq,max =

MF l = 80.6 MPa Wx

La prima risposta `e quindi: σam = ησeq,max = 242 MPa e la relativa curvatura: k=

MF l = 1.739 · 10−5 mm−1 EJx

Vi sono altre sezioni, anche di forma strana, che non sono circolari (o tubolari circolari) ma che hanno comunque l’ellisse d’inerzia circolare. Per queste `e opportuno considerare che il procedimento sopra illustrato pu`o essere usato per determinare la curvatura complessiva della linea d’asse, ma non per la verifica di resistenza, come illustrato nel seguente esempio. Esempio 20.8: Rigidezza e resistenza di una sezione quadrata in flessione Tracciare il grafico della rigidezza flessionale e del modulo di resistenza a flessione per una sezione quadrata di lato a = 35 mm in funzione dell’angolo β formato dal vettore momento flettente risultante MF l con la direzione di un lato. B1

B2

G

x β M Fl

B4

B3

y

Figura 20.30: Flessione in una sezione non circolare con ellisse d’inerzia circolare

La scelta del sistema di figura 20.30, che prevede gli assi paralleli ai lati del quadrato, `e arbitraria anche se naturale. Poteva infatti essere considerata alternativamente la coppia delle diagonali (che sono anch’esse assi di simmetria della figura) ma anche qualsiasi altra coppia di assi centrali perpendicolari dato che per tutti Jx = Jy e Jxy = 0 . La flessione `e quindi retta per ogni valore di β e l’asse neutro `e sempre parallelo al vettore momento flettente. La curvatura `e pertanto data dalla relazione: k=

MF l 4

E a12

e la rigidezza flessionale della sezione risulta indipendente da β. In termini fisici, se nell’esperimento di figura 20.24 si considerasse una barretta di sezione quadrata h = b, l’asse deformato della barretta apparterrebbe sempre al piano del foglio e la sua curvatura sarebbe sempre la stessa indipendentemente dall’orientamento angolare della provetta.

631

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

L’indipendenza dal’orinetamento non vale per la resistenza. Infatti, anche se l’asse neutro `e sempre parallelo al momento, il punto della sezione pi` u lontano da questo dipende dall’orientamento. Se ci limitiamo a considerare angoli 0 6 β 6 π2 (la soluzione `e in effetti periodica e basterebbe 0 6 β 6 π4 ) i punti critici saranno B1 o B3 . Usando il sistema di riferimento di figura 20.30 si ottiene quindi: σeq,max =

|Mx | a |My | a |cos β| + |sin β| |cos β| + |sin β| MF l = 6 MF l + = Jx 2 Jy 2 Wx a3

da cui si ricava: W (β) =

Wx a3 = 6 (|cos β| + |sin β|) |cos β| + |sin β|

L’andamento di W (β) `e rappresentato nella figura 20.31, dalla quale si osserva che il valore minimo della resistenza si verifica quando il momento ha la direzione della diagonale ed `e √ 2 e parallelo a un lato). 2 = 0.707 volte il valore massimo (ottunuto quando il momento ` W (β ) Wx

1 0.8 0.6 0.4 0.2 0 0

15

30

45

β ( °)

60

75

90

Figura 20.31: Modulo di resistenza a flessione per una sezione quadrata

Esercizio 20.4: Resistenza di una sezione rettangolare Una mensola con sezione rettangolare (b = 10 mm; h = 30 mm; σam = 200 MPa) e lunghezza l = 300 mm, `e sollecitata in corrispondenza del baricentro della sezione estrema libera con una forza F perpendicolare all’asse z. Considerando solo l’effetto flessionale, tracciare il grafico polare del valore massimo del modulo di F applicabile in funzione dell’angolo β formato dalla forza con l’asse x (assunto nella direzione del lato minimo).

Esercizio 20.5: Sezione rettangolare Una mensola con sezione rettangolare (b = 10 mm; h = 30 mm; E = 76 GPa) e lunghezza l = 300 mm, `e sollecitata in corrispondenza del baricentro della sezione estrema libera con una forza F = 0.6 kN perpendicolare all’asse z. Considerando solo l’effetto flessionale e un caricamento quasi statico: a) determinare le componenti piane (x − y) dello spostamento del punto di applicazione

632

20.6. CARICO NORMALE ECCENTRICO

della forza per β = 0; π6 ; π4 ; π2 (β `e l’angolo formato dalla forza F con il lato minimo della sezione) b) tracciare nel piano x − y il luogo descritto dal baricentro della sezione libera se la direzione della forza applicata descrive un angolo giro completo.

Esercizio 20.6: Sezione a L Una mensola di acciaio (b = 5 mm, σam = 400 MPa,E = 206 GPa) avente sezione a L, come in figura 20.32, e lunghezza l = 450 mm deve essere sollecitata con un momento M0 applicato nella sezione libera. a) Calcolare il valore massimo del momento che pu`o essere applicato nella direzione del lato minore della L e, per tale carico, determinare le componenti dello spostamento del baricentro della sezione estrema. b) Determinare in quale direzione pu`o essere applicato il momento M0 di massima intensit`a.

b 7b b

5b Figura 20.32: Sezione a L

20.6 Carico normale eccentrico Forza normale e momenti flettenti producono tutti nei punti della trave uno stato di tensione uniassiale. Risulta quindi interessante considerare l’effetto combinato di tali caratteristiche di sollecitazione nelle verifiche strutturali. Per la verifica di rigidezza, la sovrapposizione `e banale in quando gli effetti deformativi sono separati: la forza normale induce una dilatazione della linea d’asse e mentre la flessione induce curvature, in generale entrambe: kx e ky . Per le travi con asse rettilineo e materiale elastico lineare omogeneo isotropo, pertanto, la forza normale non fa lavoro quando viene applicata una flessione e viceversa. Inoltre, le due componenti di flessione inducono curvature su piani perpendicolari e quindi una non fa lavoro quando agisce l’altra. Quando si verifica questa circostanza diremo che le caratteristiche di sollecitazione sono energeticamente disaccoppiate e l’analisi deformativa si pu`o eseguire indipendentemente. La verifica di resistenza invece `e pi` u interessante in quanto le tre caratteristiche di sollecitazione producono sul materiale il medesimo effetto (uno stato uniassiale con componente

633

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

principale σzz ) e quindi concorrono tutte insieme alla definizone del punto critico e del livello massimo di tensione.

20.6.1 Campo tensionale Si pu`o verificare che una condizione di carico che determina una sollecitazione di forza normale pi` u flessione (in generale deviata) `e staticamente equivalente a una coppia di forze normali eccentriche. L’esperimento che permette di esaminare tale condizione `e rappresentato in figura 20.33. Per questo motivo tale condizione di sollecitazione `e generalmente chiamata carico normale eccentrico.

F

x

G

z

y C

F

Figura 20.33: Esperimento di carico normale eccentrico su una trave di sezione rettangolare

Indicando con xC e yC le coordinate, nel piano di sezione, dell’asse centrale del sistema di forze equivalente a F , `e di immediata verifica che le caratteristiche di sollecitazione nel tratto di trave compreso tra le due piastre di applicaione dei carichi non dipendono dalla posizione assiale e sono date da: N = F ; Mx = F · yc ; My = −F · xc Si osservi che il risultato `e corretto in modulo e segno, assunto che il segno di F sia positivo quando produce trazione N > 0, come rappresento in figura 20.33. Lo stato di tensione in un generico punto della trave tra le due piastre di applicazione dei carichi `e monoassiale e la sua componente significativa σzz si ottiene per sovrapposizione degli effetti: My N Mx σzz = + y− x (20.23) A Jx Jy relazione nella quale, come consuetudine, `e stata indicata con A l’area della sezione. Sostituendo l’espressione delle caratteristiche si ottiene: σzz =

F F · yc F · xc + y+ x A Jx Jy

dove, nel termine della flessione M y, i due segni negativi si compensano. Mettendo in evidenza il fattore F/A e ricordando la definizione di raggi d’inerzia (appendice D) si ottiene l’espressione finale:   F y · yc x · xc σzz = · 1 + 2 + 2 A ρx ρy Questa relazione pu`o essere generalizzata per considerare anche forze normali eccentriche com` infatti immediato verificare che vale la seguente formula generale: pressive. E   N y · yc x · xc σzz = · 1+ 2 + 2 (20.24) A ρx ρy

634

20.6. CARICO NORMALE ECCENTRICO

Il precedente risultato giustifica le seguenti considerazioni valide in generale per qualunque condizione di carico normale eccentrico: • la componente significativa σzz dello stato di tensione ha un andamento lineare con le coordinate piane • la rappresentazione grafica di σzz `e uno ‘spiovente di tetto’ • i punti critici appartengono al contorno della sezione e, se questa `e poligonale, sono da ricercarsi nei vertici. La differenza con il caso di flessione deviata (ovviamente se N 6= 0) `e rappresentata dalla circostanza che l’asse neutro non passa per il baricentro della sezione. L’equazione dell’asse neutro `e infatti la seguente: y · yc x · xc + 2 +1=0 (20.25) ρ2x ρy che pu`o essere utile anche in forma segmentaria: y 2 − ρyxc

x

+

=1

ρ2

(20.26)

− xyc

Possiamo interpretare la relazione (20.25) come una legge che lega ogni punto del piano C (xC , yC ) (considerato come centro di spinta della forza F ) all’asse neutro nC a questo associato, come mostrato nell’esempio seguente. Esempio 20.9: Asse neutro per sezione tubolare Per la sezione tubolare rettangolare di figura 20.34 avente spessore b = 10 mm, tracciare l’asse neutro associato al centro di spinta C.

4b C

6b

x

G

y Figura 20.34: Carico normale eccentrico applicato su un vertice di una sezione rettangolare tubolare

Le propriet`a della sezione sono le seguenti: A = 1600 mm2

Jx = 6.133 · 105 mm4

Jy = 2.933 · 105 mm4

ρx = 19.58 mm ρy = 13.54 mm

635

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

Essendo C (2b, −3b), l’equazione dell’asse neutro risulta: −0.078 · y + 0.109 · x + 1 = 0 che come equazione segmentaria si esprime come: y x + =1 12.78 −9.17 L’asse neutro nC associato al centro di spinta C `e rappresentato nella figura 20.30a). C

nC

x

ρy

C

G

nC

ρx

x

12.78

y

CS

−9.17

y

a)

b)

Figura 20.35: Asse neutro per carico normale eccentrico: a) rappresentazione in scala dell’asse b) costruzione grafica

Nella figura 20.35b) `e mostrato un procedimento grafico equivalente alla soluzione analitica appena ottenuta e che `e applicabile per centri di spinta esterni all’ellisse centrale d’inerzia. Il procedimento si sviluppa nei seguenti passi: • tracciare in scala nel piano x − y l’ellisse centrale d’inerzia della sezione • individuare il punto CS CS (−xc , −yc ))

simmetrico di C

rispetto al baricentro (ovvero:

• condurre da CS le tangenti all’ellisse centrale d’inerzia • la retta che passa per i punti di tangenza `e l’asse neutro associato a C

L’esempio 20.9 illustra come l’asse neutro sia l’antipolare del centro di spinta rispetto all’ellisse centrale d’inerzia.

20.6.2 Reciprocit` a e nocciolo centrale d’inerzia L’esame dell’equazione (20.25) che individua l’asse neutro permette di fare alcune interessanti considerazioni: • il baricentro e il centro di spinta appartengono allo stesso semipiano individuato dall’asse neutro, pertanto le σzz in C e in G sono concordi

636

20.6. CARICO NORMALE ECCENTRICO

• se il centro di spinta appartiene a un asse principale d’inerzia, l’asse neutro `e perpendicolare a tale asse • se il centro di spinta si allontana dal baricentro, l’asse neutro si avvicina al baricentro, in tal caso gli effetti flessionali tendono a diventare prevalenti su quelli dovuti alla forza normale e lo stato di tensione tende alla flessione pura (in genere deviata) • viceversa, se il centro di spinta tende ad avvicinarsi al baricentro l’asse neutro se ne allontana, nel caso limite in cui C = G la trave `e soggetta a sola forza normale e l’asse neutro perde di significato (formalmente diventa la retta impropria del piano di sezione). La relazione (20.25), che fornisce l’asse neutro, mostra una evidente simmetria rispetto alle coordinate del punto C e alle coordinate (x, y) di un punto appartenente alla retta nC . Invertendo tali grandezze, la relazione (20.25) rimane in effetti invariata. Questa propriet` a algebrica ha una interessante interpretazione statica nella seguente legge di reciprocit`a: indicato con nC l’asse neutro dovuti al centro di spinta C, il centro di spinta di un punto D ∈ nC ha l’asse neutro nD che contiene il punto C. Pertanto, tracciando gli assi neutri di tutti i punti della retta nC , si ottiene il fascio di rette proprio che ha centro C. La relazione tra centri di spinta e realtivo asse neutro `e quindi una relazione che associa biunivocamente punti (centri di spinta) e rette (assi neutri) del piano e viceversa. In base alla legge di reciprocit`a si pu`o concludere anche che i centri di spinta che producono assi neutri passanti per un dato punto Q sono allineati su una retta e che tale retta `e proprio nQ , ovvero l’asse neutro con centro di spinta in Q. Esempio 20.10: Tracciamento di assi neutri per un rettangolo Per la sezione rettangolare di figura 20.36, considerare gli assi neutri relativi a centri di spinta appartenenti all’asse x: C = (xC , 0).

b

C

x

nC

G

h

y Figura 20.36: Asse neutro per carico normale eccentrico sull’asse x per un rettangolo

Dalla relazione (20.26) si ricava: x=−

ρ2y b2 =− xc 12 · xc

In accordo con quanto anticipato, si verifica che:

637

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

• l’asse neutro `e parallelo all’asse y • quando xC → 0 l’asse neutro si allontana dal baricentro • quando |xC | → ∞ l’asse neutro tende all’asse y baricentrico.

Esempio 20.11: Asse neutro tangente al contorno Prendendo spunto dall’esempio 20.10, `e interessante chiedersi: per quale posizione del centro di spinta l’asse neutro risulta tangente al contorno della sezione?  Il problema `e di semplice soluzione: −

b2 b =± 12 · xc 2

le due soluzioni per centri di spinta appartenenti all’asse x sono quindi: xc = ∓

b 6

I centri di spinta che appartengono al segmento individuato da: b b − < xc < 6 6

e

yc = 0

hanno pertanto l’asse neutro `e esterno alla sezione e quindi la relativa distribuzione di tensione σzz , per quanto variabile nella sezione, ha lo stesso segno in tutti i punti. Le considerazioni svuluppate nell’esempio 20.11 possono essere generalizzate in modo da consentire di rispondere alla domanda: qual `e il luogo geometrico dei centri di spinta per i quali l’asse neutro `e esterno alla sezione? Si individua in questo modo una figura caratteristica della sezione chiamata nocciolo d’inerzia. Esempio 20.12: Nocciolo d’inerzia Determinare il nocciolo d’inerzia della sezione rettangolare.



Esercizi di questo tipo si risolvono agevolmente sfruttando il teorema di reciprocit`a. Per il rettangolo abbiamo gi`a individuato un segmento orizzontale appartenente al nocciolo d’inerzia, analogamente si verifica che vi appartengono anche i punti con: −

638

h h < yC < 6 6

e

x=0

20.6. CARICO NORMALE ECCENTRICO

b 3 h

G

x

b

h 3

y

Figura 20.37: Nocciolo d’inerzia per un rettangolo

Nella figura 20.37 `e mostrato il nocciolo d’inerzia per il rettangolo. In base al legame di reciprocit`a, possiamo infatti associare a ogni lato del contorno della sezione il corrispondente centro di spinta il quale diventa un vertice del nocciolo d’inerzia e, a ogni lato del nocciolo associare il relativo centro di spinta che `e un vertice del contorno della sezione. nC

G

x

x

C

G

x

G

C

nC C

nC

y

y

y

Figura 20.38: Applicazione della legge di reciprocit`a per individuare il contorno del nocciolo d’inerzia

Il nocciolo d’inerzia ha alcune interessanti caratteristiche valide in generale: • contiene il baricentro • `e una figura convessa • ogni suo segmento di contorno corrisponde a un vertice della sezione • ogni suo vertice corrisponde a un tratto rettilineo dell’inviluppo convesso della sezione. L’inviluppo convesso della sezione `e definito dalla forma che assume un anello elastico teso di spessore trascurabile (un gommino ideale) avvolto attorno alla sezione. Se il contorno esterno della sezione non presenta concavit`a il suo contorno `e equivale all’inviluppo convesso. Un cotroesempio `e esaminato nell’esempio seguente.

639

20. TRAVE SOGGETTA A FLESSIONE

Esempio 20.13: Nocciolo d’inerzia per sezione concava Determinare il nocciolo d’inerzia della sezione in figura 20.39.

2R

R Figura 20.39: Sezione non convessa

L’inviluppo convesso `e rappresentato nella figura 20.40, insieme con il nocciolo centrale d’inerzia:

Figura 20.40: Nocciolo d’inerzia per una sezione non convessa con contorno curvilineo

` lasciato al lettore il compito di localizzazione e quotare il nocciolo d’inerzia, attivit`a che E pu`o essere effettuata sulla scorta delle seguenti indicazioni: • il vertice superiore del nocciolo `e associato al lato rettilineo in basso della figura • i lati rettilinei del contorno del nocciolo appartengono agli assi neutri che hanno come centri di spinta i due vertici dell’inviluppo convesso della figura • la parte curvilinea del contorno del nocciolo `e l’inviluppo degli assi neutri che si ottengono con i centri di spinta appartenenti alla parte circolare del contorno della sezione.

Il nocciolo d’inerzia `e una propriet`a esclusivamente geometrica (non costitutiva) della sezione di una trave per cui, come tale, pu`o essere trovato nei manuali tecnici per le sezioni comuni. Se il centro di spinta `e interno al nocciolo e la forza normale `e negativa, tutti i punti della sezione sono in compressione, viceversa la sezione risulta parzializzata in zone tese e zone compresse. Questa considerazione `e di fondamentale importanza quando si impiegano materiali non resistenti a trazione, come i materiali lapidei. La conoscenza del nocciolo d’inerzia `e utile anche per il dimensionamento di plinti e platee di fondazione, elementi interrati o appoggiati ` pertanto necessario al terreno che sono sostanzialmente caricati da forza normale eccentrica. E che sulla loro superficie inferiore l’azione di vincolo sia compressiva in ogni punto allo scopo di evitare distacchi. Nel dimensionamento dei elementi realizzati con materiali metallici l’interesse per questa propriet`a geometrica `e peraltro limitato.

640

Capitolo 21

Trave soggetta a torsione In questo capitolo `e trattato il problema della torsione per una trave con asse rettilineo. Il problema della torsione `e molto importante in Meccanica dato che molti elementi impiegati per trasmettere la potenza sono significativamente sollecitati da tale caratteristica: `e sufficiente pensare agli alberi di trasmissione. Purtroppo, a differenza della flessione e della forza normale per le quali in una trave con asse rettilineo e di materiale lineare elastico omogeneo isotropo, lo stato tensionale `e esprimibile con semplici formule generali, la soluzione per la torsione non `e altrettanto immediata. In generale, infatti, per la torsione di una trave avente sezione di forma qualunque, la soluzione esatta del problema elastico, comporta l’integrazione di una equazione differenziale alle derivate parziali e quindi, nella pratica, un approccio di tipo numerico. Per fortuna vi sono classi di sezioni per cui esistono soluzioni esatte altre invece approssimate ma che permettono la previsione della resistenza e della rigidezza mediante procedimenti algebrici di immediata applicazione e adatti per gli scopi pratici. Si verifica inoltre che a tali classi appartengono le sezioni che hanno la forma migliore per resistere a torsione per cui il loro studio `e particolarmente utile anche ai fini pratici. Il capitolo pertanto invece di affrontare il problema nella sua generalit`a per poi arrivare ai casi di interesse, segue il percorso inverso. Partendo dall’esame del problema pi` u semplice sono generalizzate le considerazioni ai casi pi` u complessi per giungere a sviluppare un insieme di procedure che in genere permette di risolvere i pi` u frequenti problemi di torsione nel campo delle costruzioni meccaniche con un adeguato livello di precisione.

21.1 Torsione di tubo circolare di piccolo spessore Trattiamo per prima la situazione pi` u semplice: un tubo circolare di spessore sottile realizzato di materiale elastico lineare omogeneo isotropo. Per risolvere questo problema possiamo sfruttare il massimo livello di simmetria e di uniformit`a. L’esperimento `e illustrato nella figura 21.1a): una trave tubolare di piccolo spessore `e incastrata a una estremit`a al telaio e caricata all’altra con un sistema di forze equivalente a un momento M0 che ha la direzione dell’asse del tubo. L’unica caratteristica di sollecitazione presente nella trave tubolare `e quindi: Mz = M 0 Sperimentalmente si pu`o immaginare di collegare all’estremo libero del tubo un braccio (non rappresentato in figura per semplicit`a) su cui esercitare una opportuna coppia di forze. Se il tubo `e sufficientemente lungo, escluse le zone di estinzione, si identifica la parte interessante del provino che, analogamente alla prova di trazione e alla prova di flessione pura, consiste in un tratto rettilineo di trave con sezione uniforme (indipendente da s) sollecitato da un’unica caratteristica, anch’essa uniforme.

641

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

21.1.1 Definizione della geometria Come evidenziato nella figura 21.1b), la geometria della sezione `e definita dalle seguenti propriet`a: • Re e Ri : raggio esterno e raggio interno, rispettivamente • t = Re − Ri : spessore del tubo • Rm =

1 2

(Re + Ri ) : raggio della circonferenza media Γm

Γm Ri

x

Rm

t

l

Re

M0 a)

y b)

Figura 21.1: Tubo di spessore sottile vincolato e caricato in modo da essere sottoposto a sola caratteristica di sollecitazione torsionale uniforme: a) vista assonometrica b) sezione corrente in vista frontale dalla parte delle z positive

In questo paragrafo faremo le seguenti ipotesi e i risultati ottenuti saranno tanto pi` u corretti quanto pi` u le disuguaglianze indicate (soprattutto la prima) saranno forti: • t  Rm : il tubo ha spessore trascurabile rispetto al raggio per cui i tre raggi possono essere confusi tra loro: Ri ∼ = Rm ∼ = Re • Rm  l: il tubo `e una trave in modo che si possa evidenziare una significativa zona centrale in cui la soluzione di trave (alla De Saint Venant) `e valida. Le propriet`a geometriche fondamentali della sezione, rispettivamente: area, momenti d’inerzia centrali principali e momento polare, sono fornite dalle relazioni seguenti:  A = π Re2 − Ri2 = 2πRm t (21.1)  π  π 3 Re4 − Ri4 = Re2 + Ri2 Rm t ∼ t (21.2) = πRm 4 2  π 3 J0 = Jx + Jy = Re4 − Ri4 ∼ t (21.3) = 2πRm 2 in cui il simbolo ∼ = indica che l’uguaglianza `e tollerata nell’ambito di questo paragrafo in quando lo spessore `e piccolo. Sar`a utile anche la quantit`a: Jx = Jy =

2 Am = πRm

(21.4)

che rappresenta l’area sottesa dalla circonferenza media (da non confondersi con l’area della sezione!)

642

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

Nella figura 21.2 sono riportati gli assi e le coordinate che saranno spesso anche nel seguito del capitolo. Le coordinate cilindriche appaiono evidentemente consigliate per il caso in esame, in particolare il dominio della sezione si descrive in modo immediato: Ri 6 r 6 Re oppure Rm − 2t 6 r 6 Rm + 2t . Si noti che la r minuscola `e una coordinata che non deve essere confusa con le varie R maiuscole che sono invece parametri del problema. Nel seguito sar`a utile anche un sistema di coordinate cartesiane curvilinee basate sull’ascissa ` evidente la relazione: λ misurata lungo la circonferenza media. E λ = Rm θ

x

x

θ

λ r

r

y

y a)

b)

Figura 21.2: Sistemi di riferimento e coordinate usate nella definizione del problema: a) coordinate cilindriche, b) in sostituzione della coordinata angolare θ si pu` o usare l’ascissa curvilinea λ lungo la circonferenza media.

Le coordinate (θ, r, z) e (λ, r, z) condividono i versori degli assi locali come mostrato nella figura 21.3. Si osserva che la terna locale `e cartesiana ortogonale per cui le definizioni dei tensori di deformazione e di tensione possono essere estese immediatamente anche in queste coordinate.

x

θ eˆr

r

eˆz eˆθ = eˆλ

y

Figura 21.3: Terna cartesiana ortonormale dei versori locali

21.1.2 Deduzione dello stato di tensione La scelta delle coordinate locali permette di scrivere il tensore di Cauchy nel modo seguente:   σθθ σθr σθz σrr σrz  S= (21.5) Sym σzz

643

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

le cui componenti sono definite sull’elemento di volume staccato nella terna locale. La simmetria assiale della geometria e della sollecitazione, l’indipendenza della soluzione dalla coordinata assiale della trave e le propriet`a di uniformit`a del materiale, permettono di prevedere molte delle componenti tensionali, se rappresentate sistema di coordinate adottato. A tale scopo, `e sufficiente considerare che, nella parte centrale del provino, lo stato di tensione: • lo stato di tensione non pu`o dipendere da s (o se si preferisce da z) in virt` u della spesso considerata simmetria di ripetizione: tutti i conci sono uguali e ugualmente sollecitati • lo stato di tensione non pu`o dipendere da θ per l’assialsimmetria del problema: il provino si comporta in modo che non dipende dal suo orientamento angolare • lo stato di tensione pu`o dipendere solo debolmente da r in quanto l’intervallo di varia  t t zione di tale coordinata r ∈ Rm − 2 , Rm + 2 ha una estensione assunta trascurabile t  Rm rispetto a una dimensione che a sua volta deve essere piccola per il problema monodimensionale: Rm  l. Come conseguenza, se una componente della matrice (21.5) `e non nulla in un punto, dovr`a assumere lo stesso valore nell’intero dominio. Sulla dipendenza della soluzione da r, che ora assumeremo come ipotesi, avremo modo di ritornare nel seguito del capitolo. Cominciamo quindi a escludere la componente σzz perch´e, diversamente, risulterebbe agente sulla sezione della trave una forza normale data da N = σzz A. Sono nulle anche tutte le componenti tensionali che contengono il pedice r come illustra la figura 21.4. Questa considerazione `e basata sul fatto che le facce cilindriche (interna ed esterna) sono scariche per cui il vettore tensione agente su di esse deve essere nullo (con tutte le componenti). Se le componenti sono nulle in un punto l’uniformit`a le rende nulle ovunque.

σrr

σ zr

σ rz

a)

b)

σ rθ

σ θr

c)

Figura 21.4: Annullamento delle componenti tensionali con pedice r: a) tensione normale σrr ; b) tensione tangenziale σrz agente sulla sezione a cui corrisponde la tensione coniugata σzr che in corrispondenza dei bordi dello spessore dovrebbe agire sulle facce libere del tubo; c) analogo schema per la tensione σzθ e la rispettiva coniugata σθz necessariamente nulla sulle superfici laterali

L’annullamento della componente normale σθθ , talvolta chiamata tensione circonferenziale (hoop stress) ´e illustrata in figura 21.5a), si giustifica considerando l’equilibrio di un elemento di tubo ottenuto sezionando un concio con un (qualunque) piano che contiene l’asse z. La presenza di una componente σθθ uniforme, per esempio positiva, darebbe luogo a uno schema di corpo libero come rappresentato in figura 21.5b), palesemente non in equilibrio alla traslazione del sottoconcio verso l’alto. Si ricordi infatti che nessuna componente con risultante verso l’alto `e presente sui piani di sezione. Alla luce di quanto ottenuto rimane possibile la sola componente: σθz = σzθ

644

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

σθθ

σ θθ a)

σ θθ b)

Figura 21.5: Componente tensionale σθθ : a) azione su un elemento di volume se positiva; b) effetto sull’equilibrio di un sottoconcio

che non pu`o essere anch’essa nulla in quanto il solido non accumulerebbe energia elastica e non potrebbe quindi deformarsi e che, per le ipotesi fatte, sar`a uniforme. La matrice di Cauchy nelle coordinate cilindriche `e pertanto la seguente:   0 0 σθz 0 0  S= (21.6) Sym 0 da cui si deduce che lo stato di tensione uniforme cercato `e di taglio puro. La soluzione ottenuta `e illustrata in figura 21.6.

σ θz

σ zθ

σ zθ

x

z

σ θz

a)

b)

y

σ θz

x

z

y c)

Figura 21.6: Componente σθz = σzθ : a) effetto sull’elemento infinitesimo di volume; b) andamento, o circolazione, delle tensioni tangenziali sulla sezione corrente; c) vista di fianco dell’elemento infinitesimo di volume con evidenziate anche le componenti coniugate σzθ che sollecitano a taglio le fibre longitudinali della trave

Lo stato di tensione in ogni punto `e quindi caratterizzato da un arbelo di Mohr del tipo rappresentato nella figura 21.7. Si osserva che le tensioni principali sono nelle direzioni inclinate di 45◦ rispetto alle generatrici (le direzioni con il massimo effetto tangenziale) e, come mostrato in figura 21.8 inviluppano (ovvero sono in ogni suo punto tangenti) a due famiglie di eliche mutuamente perpendicolari che si avvolgono sul cilindro. Una curva che inviluppa una direzione principale `e chiamata linea isostatica (stress trajectory) e, in generale, in un corpo le linee isostatiche sono costituite da tre famiglie di curve mutuamente perpendicolari (viste le propriet`a delle direzioni principali). Le isostatiche hanno propriet`a che ricordano le linee di flusso in fluidodinamica e le linee di campo nei campi vettoriali. In particolare, si dimostra che dove le isostatiche si addensano il livello tensionale `e pi` u elevato.

645

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

τ

σ zθ

σ nn Figura 21.7: Arbelo di Mohr per i punti del cilindro

σ zθ

+ σ zθ

σ θz

x

z

− σ zθ a)

M0

y

b)

Figura 21.8: Tubo in torsione: a) stato di tensione nel fasciame cilindrico per un elemento orientato nel sistema di riferimento originario e orientato nelle direzioni principali e b) rappresentazione delle isostatiche piane: a tratto continuo le isostatiche di trazione e tratteggiate quelle di compressione

Nel caso del tubo sottile in torsione le tre famiglie di isostatiche sono costituite dalle eliche appena identificate nonch´e dalle rette radiali (parallele all’asse r). Per un momento torcente positivo (come rappresentato in figura 21.8 le isostatiche di trazione sono eliche destrorse e quelle di compressione sinistrorse. Si osservi che l’inclinazione delle eliche (45◦ rispetto all’asse z) non dipende dal livello tensionale. Possiamo a questo punto utilizzare una semplice equazione di equilibrio per determinare l’unica incognita scalare del problema. L’ovvia condizione consiste nell’imporre che le tensioni tangenziali agenti sulla faccia positiva della sezione siano staticamente equivalenti al momento torcente complessivo. Come mostrato nella figura 21.9, il contributo al momento della forza infinitesima dF = σθz · dA agente sull’elemento di area si ottiene con il braccio r (che deve essere valutato rispetto al baricentro della sezione), pertanto:

x dF =σ θz⋅dA

z r

y Figura 21.9: Contributo dell’elemento infinitesimo di superficie al momento torcente

646

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

dMz = σθz dA · r per cui il momento complessivo `e dato da: Z σθz rdA

Mz = Ω

dove, come di consueto, Ω rappresenta il dominio di integrazione ovvero la sezione corrente a corona circolare. Per valutare l’integrale precedente sfruttiamo l’ipotesi che la tensione `e costante nel dominio e che l’area pu`o essere espressa come un insieme di elementi dA = t · dλ come mostrato in figura 21.10.

x

θ

t dλ

Rm

σ θz y Figura 21.10: Elemento d’area in modo da trasformare l’integrale di superficie in un integrale di linea

Si ha infatti: Z

....tdλ =

....dA = Ω

2πR Z m

Z

....tdλ 0

Γm

pertanto: 2πR Z m

σθz r · tdλ

Mz = 0

Approssimando il valore corrente del raggio con il suo valore medio: Mz ∼ =

2πR Z m

2πR Z m

2 dλ = 2πRm t · σθz

σθz Rm · tdλ = σθz Rm t 0

0

da cui la formula finale: σθz ∼ =

Mz Mz = 2 2πRm t 2Am t

(21.7)

in cui il simbolo ∼ = ha il solito significato (rafforzato dalla condizione t  Rm ). Prima di analizzare il risultato ottenuto possiamo osservare che, in base alla relazione (21.3), la precedente si pu`o anche esprimere come: ∼ Mz R m σθz = (21.8) J0 Tutte le espressioni ottenute mostrano che lo stato di tensione dipende solo dalla caratteristica di sollecitazione (come sempre in misura direttamente proporzionale) e da propriet` a

647

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

geometriche della sezione ma non dal materiale. In altri termini, come peraltro gi`a osservato anche per la forza normale nel capitolo 19, lo stato di tensione `e lo stesso in un tubo di acciaio e in uno di gomma a parit`a di momento torcente e di geometria della sezione (non sar`a ovviamente lo stesso il livello deformativo!). Se questo risultato pu`o a prima vista apparire controintuitivo, `e opportuno ricordare che deriva direttamente da universali considerazioni di simmetria e di equilibrio che non hanno richiesto alcuna ipotesi costitutiva. In effetti, a differenza dalla flessione in cui la formula di Navier era conseguenza anche dell’elasticit`a del materiale, in questo caso l’unico vincolo che imponiamo al materiale `e che abbia una simmetria cilindrica nelle sue propriet`a meccaniche. Pertanto la soluzione `e valida anche se il materiale `e portato al di l`a del limite elastico (ovvero `e allo snervamento) e, in particolari casi, anche se non `e isotropo (purch´e le direzioni di anisotropia siano elicoidali, come in certi compositi tubolari in cui le fibre sono avvolte elicoidalmente). Dato che il modulo della tensione tangenziale trovata `e la tensione tangenziale massima che sollecita il materiale della trave, possiamo scrivere: |Mz | ∼ |Mz | τmax ∼ = 2 t = J0 2πRm R m

e quindi ricavare il modulo di resistenza a torsione per la sezione tubolare sottile l’espressione: 2 W0 = 2πRm t = 2Am t =

J0 Rm

(21.9)

grandezza che, come sempre, permette di valutare la componente massima della tensione direttamente dalla caratteristica di sollecitazione: |Mz | τmax ∼ = W0

(21.10)

Esempio 21.1: Torsione di una lattina di bibita Una lattina di bibita `e realizzata con un cilindro di lega leggera (E = 76 GPa, ν = 0.3 e σam = 250 MPa) di lunghezza l = 200 mm, diametro d = 70 mm e spessore t = 0.15 mm. Determinare il momento torcente ammissibile per la lattina.  Come si pu`o osservare, lo spessore (peraltro un valore verosimile) `e tale per cui le ipotesi fatte sono effettivamente ragionevoli tanto che non ha senso ingegneristico nemmeno distinguere il raggio medio da quello esterno o nominale, pertanto: Rm =

d = 35 mm 2

da cui: W0 = 1.155 · 103 mm3 Usando l’ipotesi di Tresca (capitolo 18) abbiamo: σid,max = 2τmax = 2

Mz W0

assumendo che la tensione ideale massima possa arrivare al valore di ammissibilit`a: Mz = 144.3 Nm

648

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

Usando il criterio di Von Mises si ottiene: σid,max =



3τmax

da cui: Mz,am = 166.6 Nm Nota. Nel taglio puro si ha la massima differenza nella previsione dei due criteri di snervamento.

Esercizio 21.1: Dimensionamento di un tubo in flesso-torsione Un tubo di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e σam = 350 MPa) avente diametro d = 100 mm e spessore t = 5 mm nella sezione critica `e sottoposto a Mx = Mz . Determinare il massimo valore di Mz ammissibile considerando i criteri di snervamento di Tresca e di Von Mises.

21.1.3 Deformazione del tubo sottile in torsione Pu`o essere interessante chiedersi, che tipo di distorsione, almeno dal punto di vista qualitativo, ci aspettiamo nell’esperimento del tubo in torsione? Sempre per ragioni di simmetria `e prevedible che, almeno nella regione centrale (ovvero escluse le zone di estinzione), il tubo rimarr`a di forma cilindrica. Il cilindro, potrebbe quindi, almeno in linea di principio, subire una variazione di raggio e una variazione di lunghezza assiale (tali processi deformativi sono in effetti compatibili con la conservazione della forma cilindrica), tuttavia l’effetto deformativo pi` u evidente e soprattutto necessario, `e un attorcigliamento (twist), ovvero una rotazione relativa progressiva delle sezioni del tubo attorno all’asse z. Fissata la sezione all’incastro, l’attorcigliamento del tubo determina infatti una rotazione della sezione di estremit`a che `e necessaria se vogliamo che il carico esterno M0 faccia lavoro in modo che il solido assorba energia elastica e quindi si deformi. Prima di quantificare queste grandezze nell’ipotesi che il materiale segua la legge di Hooke, `e per`o possibile escludere le componenti deformative estensionali nel sistema di riferimento ∗ = R + ∆R cilindrico. Osserviamo intanto che un aumento di raggio medio da Rm a Rm m m produrrebbe un corrispondente aumento della circonferenza media e quindi una deformazione estensionale in direzione θ data da: ∗ − 2πR 2πRm ∆Rm m εθθ = = . 2πRm Rm In modo analogo la deformazione assiale sarebbe connessa con la variazione della lunghezza ∆l del tubo: ∆l l∗ − l εzz = = l l e la deformazione estensionale radiale con la variazione di spessore ∆t: t∗ − t ∆t = . t t Tuttavia le componenti normali dello stato di tensione sono identicamente nulle nel sistema dato per cui la legge di Hooke (capitolo 17) prevede che, rispetto agli stessi assi, siano nulle anche le omonime componenti deformative estensionali. Pertanto da: εrr =

εθθ = εrr = εzz = 0

649

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

si ricava che: ∆Rm = ∆t = ∆l = 0. Concludiamo quindi che la torsione non altera la forma del tubo, il quale sotto torsione conserva quindi il raggio, la lunghezza e lo spessore. Abbiamo ricavato questa conclusione in ipotesi di elasticit`a lineare, tuttavia si dimostra (e si verifica sperimentalmente) che lo stesso vale anche se il tubo snerva e anche se il processo deformativo `e molto intenso. Se il tubo iniziale non viene in qualche modo marcato, `e quindi impossibile rendersi conto che sia sotto l’effetto di un momento torcente guardandone la deformata perch´e la sua forma `e indistinguibile da quella iniziale. Dal punto di vista fisico la deformazione si manifesta quindi con una progressiva rotazione rigida attorno all’asse z delle corone circolari che formano le sezioni, un fenomeno simile a quello che si ottiene con un pila di monete ognuna delle quali `e fatta ruotare di un piccolo angolo rispetto alla precedente. Se sull’esterno del tubo indeformato `e stata tracciata una generatrice, l’effetto deformativo pu`o invece essere evidenziato perch´e la linea precedentemente retta assume la forma di un’elica (molto poco inclinata) che si avvolge sul tubo. L’esperimento `e rappresentato nella figura 21.11.

a)

b)

M0

Figura 21.11: Deformata di un tubo in torsione: a) cilindro indeformato sul quale sono state tracciate alcune circonferenze e una generatrice; b) cilindro deformato con le circonferenze che rimangono indeformate e sullo stesso piano e sono solo ruotate attorno all’asse z mentre la generatrice si avvolge elicoidalmente sul tubo

Il processo deformativo descritto `e giustificabile considerando lo stato di tensione. La componente tensionale non nulla σθz produce infatti, per la legge di Hooke, l’omonima deformazione angolare: σθz γθz = G e, considerando che la sezione del tubo `e mantenuta verticale dal vincolo e dalla simmetria, questo produce l’elicoidalit`a della generatrice come mostrato nella figura 21.12 in cui la deformazione angolare `e stata esagerata per motivi di chiarezza grafica. L’elicoidalit`a della generatrice produce quindi una rotazione progressiva delle varie sezioni. Indicato con ϕ l’angolo corrente di cui la generica sezione ruota rispetto a quella fissa (nell’incastro), la situazione `e mostrata nella figura 21.13. La lunghezza dell’arco si pu`o ottenere in due modi diversi: Rm · ϕ (l) = l · γθz in cui `e stata fatta l’ipotesi (valida nell’ambito dei corpi poco deformabili) che l’angolo γθz sia piccolo. La rotazione della sezione di estremit`a diventa quindi: ϕ (l) =

650

l · γθz Rm

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

σ θz

σ zθ

γθ z z

x

y a)

b)

Figura 21.12: Vista laterale del tubo con a) elemento di volume soggetto allo stato di tensione e b) ingrandimento dell’elemento di volume deformato e indeformato.

Quest’angolo `e da considerasi l’effetto cumulato dell’attorcigliamento del tubo, grandezza geoemtrica che si esprime quindi come la variazione di rotazione delle sezioni rispetto alla posizione assiale o, pi` u rigorosamente, come il gradiente assiale della rotazione:   dϕ dϕ ψ= = (21.11) ds dz Nel caso in esame, essendo la soluzione indipendente da s, l’attorcigliamento si pu`o anche ottenere come rapporto incrementale: ψ=

γθz ϕ (l) = l Rm

che, espresso in funzione della tensione, si esprime come: σθz ψ= GRm

(21.12)

Rm

ϕ (l )

B B*

γθ z

x x

z y

y

z

B B*

l

a)

b)

Figura 21.13: Deformata del tubo: a) effetto di rotazione rigida dalla sezione di estremit` a con la rotazione complessiva e b) angolo di inclinazione della generatrice deformata rispetto alla a generatrice indeformata.

L’attorcigliamento `e pertanto la propriet`a deformativa energeticamente associata al momento torcente (analogamente alla curvatura della linea d’asse che `e energeticamente associata al momento flettente). La relazione per il tubo sottile si ottiene per sostituzione diretta: ψ=

Mz Mz Mz = = 4A2 t 3 m G2πRm t GJ0 G Lm

(21.13)

in cui Lm = 2πRm `e il perimetro del contorno medio. Si verifica che la rigidezza torsionale: GJ0 ha una espressione analoga alla rigidezza flessionale: EJx .

651

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

Esempio 21.2: Evidenza delle tensioni σzθ Evidenziare con un semplice esperimento la presenza delle tensioni σzθ



Mentre l’esistenza delle tensioni tangenziali σθz agenti sulla sezione corrente si giustifica intuitivamente con facilit`a per la loro natura equilibrante il momento torcente, la presenza delle coniugate σzθ pu`o lasciare perplessi. Ovviamente per chi ha chiare le propriet`a dello stato di tensione la condizione di simmetria rende le σzθ altrettanto evidenti, ma `e utile evidenziarne la natura con un semplice esperimento che pu`o essere fatto da tutti. Realizziamo un elemento tubolare avvolgendo un cartoncino rettangolare attorno a un asse parallelo al lato pi` u lungo, allo scopo un foglio da disegno A4 `e perfetto. Per realizzate una rudimentale ‘trave’ tubolare incolliamo i lembi sovrapposti con una striscia di nastro adesivo disposta sulla generatrice (l’esperimento riesce meglio se si realizzano pi` u starti aumentando lo spessore del tubo per renderlo pi` u robusto alle sollecitazioni). Applichiamo quindi manualmente una torsione con due coppie contrapposte alle estremit`a: come si verifica lo scollamento o la rottura del nastro? L’evidenzia mostra che i due elementi di nastro scorrono uno rispetto all’altro in direzione assiale e che successivamente sempre in tale direzione si muovono uno rispetto all’altro i lembi liberi del cartoncino una volta che il nastro sia scollato o rotto. Se il tubo fosse integro (realizzato tubolare dall’inizio) tali azioni sarebbero trasmesse direttamente dal materiale (senza necessit`a di passare dal nastro) proprio tramite componenti σzθ .

21.1.4 Energia elastica Nel caso esaminato `e immediato ottenere l’angolo di rotazione complessivo della sezione di applicazione del carico: ϕ (l) = ψ · l In generale la relazione `e quindi: Zl ϕ (l) =

ψds

(21.14)

0

Da ci`o `e ottenibile il lavoro fatto delle forze esterne: 1 Lext = M0 · ϕ (l) 2 Sostituendo le espressioni precedentemente trovate si ottiene: 1 Lext = U = Mz · ϕ (l) 2 L’energia elastica `e uniformemente distribuita sui conci della trave per cui l’energia per unit`a di lunghezza vale: dU 1 1 Mz2 1 = Mz · ψ = = GJ0 · ψ 2 (21.15) ds 2 2 GJ0 2 Questa relazione ha la stessa struttura dell’analoga relazione ottenuta per la flessione retta. Notiamo in particolare che: • l’attorcigliamento ψ `e la grandezza deformativa energeticamente associata la momento torcente, (in termini fisici, come anticipato nel capitolo 9 la torsione produce una rotazione assiale relativa tra sezioni successive di una trave)

652

21.1. TORSIONE DI TUBO CIRCOLARE DI PICCOLO SPESSORE

• l’attorcigliamento (come la curvatura k) ha le dimensioni del reciproco di una lunghezza • l’attorcigliamento `e legato alla deformazione angolare del materiale dalla relazione: ψ=

γθz Rm

(21.16)

Esercizio 21.2: Deformazione ed energia elastica di un tubo sottile in torsione Il tubo di lega leggera (E = 70 GPa, ν = 0.3 e σam = 280 MPa) in figura 21.14 avente diametro d = 80 mm, spessore t = 3 mm e lunghezza 2l = 450 mm `e sottoposto a due carichi di momento come indicato in figura 21.14. Considerando il criterio di snervamento di Tresca, determinare il massimo valore di M0 ammissibile. Con tale carico: a) valutare le rotazioni ϕB e ϕC delle sezioni B e C b) calcolare l’energia elastica U immagazzinata nel tubo c) verificare direttamente la relazione: Lext = U

2M 0 C

B

l

M0

l

Figura 21.14: Tubo in torsione non uniforme

Esercizio 21.3: Torsione di un tubo iperstaticamente vincolato Un tubo di lega leggera (E = 70 GPa, ν = 0.3 e σam = 280 MPa) avente diametro d = 80 mm, spessore t = 3 mm e lunghezza 2l = 450 mm `e incastrato alle estremit` a e sottoposto a un carico di momento come indicato in figura 21.15. Determinato il massimo carico che pu`o essere applicato, con tale valore valutare: a) la rotazione ϕB della sezione B b) l’energia elastica U immagazzinata nel tubo.

653

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

M0 B

l 4

3 l 4

Figura 21.15: Tubo iperstatico in torsione

Nota. Per usare il metodo delle forze si pu`o sconnettere idealmente il tubo a destra in modo da determinare il momento da applicare in tale sezione (la relazione vincolare) perch´e ` anche possibile sfruttare il metodo degli spostamenti, la sua rotazione assiale sia nulla. E per esempio assumendo la rotazione ϕB della sezione B come incognita. Nel caso in esame il carico deve essere determinato dopo aver risolto il problema iperstatico. Questa `e una situazione tipica e si deve evitare di confondere l’incognita iperstatica con il carico parametrico. A tale scopo si pu`o lasciare il carico M0 in forma simbolica e per poi determinarne il valore ammissibile dopo avere risolto l’iperstatica. Dato per`o che il problema `e lineare e che le tensioni sono proporzionali a M0 , si pu`o anche assumere per il carico in valore unitario per poi aumentarlo di un fattore pari al coefficiente di sicurezza.

Esercizio 21.4: Torsione di un tubo rastremato iperstaticamente vincolato (*) Un tubo di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e σam = 400 MPa) avente diametro medio d = 100 mm, spessore linearmente variabile tra t0 = 3 mm e 2t0 e lunghezza l = 650 mm, `e incastrato alle estremit`a come in figura in figura 21.16. Determinata la distanza a che definisce la posizione della sezione B dove deve essere applicato il carico in modo che le reazioni vincolari esterne siano uguali: a) determinare il valore massimo di M0 per avere coefficiente di sicurezza η = 2.5 b) calcolare la corrispondente rotazione assiale ϕB e della sezione B c) verificare direttamente la relazione: Lext = U . l

2t0

M0

t0

Rm B

a

Figura 21.16: Tubo iperstatico in torsione con spessore rastremato

654

21.2. TRAVE ASSIALSIMMETRICA IN TORSIONE

Nota. Il problema iperstatico pu`o essere risolto considerando una rigidezza torsionale funzione della posizione.

21.2 Trave assialsimmetrica in torsione La soluzione del tubo sottile `e alla base anche della soluzione per il cilindro pieno e del tubo circolare di spessore qualunque.

21.2.1 Barra cilindrica piena Il procedimento di soluzione per determinare la condizione di un cilindro di raggio R in torsione, `e basato sulla possibilit`a di considerarlo come un insieme di tubi di spessore infinitesimo concentrici. Essendo per tali elementi costituenti t = dr, risultano perfettamente soddisfatte le condizioni richieste per la teoria del tubo sottile e quindi la soluzione trovata nel precedente paragrafo `e esatta. Con riferimento alla figura 21.17, consideriamo uno dei tubi costituenti avente raggio generico r 6 R. Sotto l’effetto dell’azione torcente possiamo pensare che ogni singolo tubo subisca ` evidente che tale processo deformativo non determina distacco assiale o un attorcigliamento. E radiale dei singoli strati dato che essi, come dimostrato, conservano raggio e lunghezza.

R x

r

z

dr

l a)

M0

y b)

Figura 21.17: Cilindro in torsione: a) esperimento ideale e b) sezione corrente con elemento infinitesimo costituente.

` per`o anche necessario che, per congruenza, i vari strati non scorrano tangenzialmente. E Se tracciamo sulla sezione di estremit`a un segmento radiale OB, come indicato in figura 21.18, l’esperimento mostra che il segmento rimane rettilineo dopo la deformata e semplicemente ruota attorno al baricentro dell’angolo ϕ. Si osserva quindi che anche il cilindro sotto torsione conserva tutte le caratteristiche geometriche della sezione. Ogni sezione infatti rimane indeformata e nel proprio piano, semplicemente ruota rigidamente attorno all’asse della trave dell’angolo di torsione. Tutti i tubi elementari costituenti condividono pertanto l’angolo di torsione e quindi anche il suo gradiente assiale (ovvero l’attorcigliamento ψ = dϕ dz ), tali grandezze possono quindi essere attribuite alla sezione nel suo complesso. I vari tubi avendo per`o raggi diversi, dovranno deformarsi in modo conseguente e quindi la deformazione angolare `e, in base alla relazione (21.16) direttamente proporzionale dalla distanza dal centro: γθz = ψ · r

655

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

x

B

ϕ

O

z B*

y Figura 21.18: Cilindro in torsione: effetto deformativo osservato sulla sezione di estremit` a.

In base alla legge di Hooke dalla precedente relazione ricaviamo la corrispondente espressione per le tensioni: σθz = Gψ · r (21.17) Anche la torsione per il cilindro solido genera quindi nel materiale uno stato di tensione di taglio puro ma con intensit`a proporzionale alla distanza dal centro. L’andamento delle tensioni sulla faccia corrente della trave `e illustrato nella figura 21.19 in forma quantitativa e qualitativa. In particolare la figura 21.19b) mostra i cerchi concentrici (equispaziati) che rappresentano le linee localmente parallele al vettore trazione sulla sezione e che sono spesso indicate come linee di flusso delle tensioni tangenziali.

σθ z a)

b)

Figura 21.19: Tensioni tangenziali nella sezione corrente di una barra cilindrica in torsione: a) andamento dei moduli b) linee di livello dello stato tensionale che corrispondono alle linee di flusso delle tensioni tangenziali.

L’espressione generale per la verifica della trave `e quindi ancora: σθz =

Mz · r J0

(21.18)

del tutto analoga alla formula di Navier per la flessione (capitolo 20). Da questo ricaviamo quindi che il modulo di resistenza a torsione: W0 = e la rigidezza torsionale:

J0 π = R3 R 2

π GJ0 = G R4 2

(21.19)

(21.20)

21.2.2 Tubo cilindrico in torsione L’esperimento mostra che la medesima soluzione si estende anche al caso del tubo in torsione di spessore radiale qualunque con raggio interno Ri e raggio esterno Re . La soluzione generale `e illustrata in figura 21.20.

656

21.2. TRAVE ASSIALSIMMETRICA IN TORSIONE

Re Ri

σθ z a)

b)

Figura 21.20: Tensioni tangenziali nella sezione corrente di un tubo in torsione: a) andamento dei moduli b) linee di livello dello stato tensionale che corrispondono alle linee di flusso delle tensioni tangenziali.

Per questo caso `e immediato verificare che valgono le stesse formule ottenute per il cilindro (con l’unica differenza che Ri 6 r 6 Re ). In particolare, il modulo di resistenza resistenza a torsione si esprime come:  J0 π W0 = = Re4 − Ri4 Re 2Re e per la rigidezza:  π GJ0 = G Re4 − Ri4 2 Esercizio 21.5: Torsione e flessione di un tubo non sottile La mensola in figura 21.21 realizzata con un tubo di σam = 400 MPa) avente raggio esterno Re = 50 mm, lunghezza l = 10Re `e caricata con una forza applicata lunghezza b = l/2 solidamente fissato alla sezione B. determinare:

acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e spessore t = Re − Ri = 15 mm e all’estremo di un braccio rigido di Trascurando gli effetti del taglio,

a) il punto critico della sezione critica e il coefficiente di sicurezza con il criterio di Tresca b) la rotazione ϕB e della sezione B attorno all’asse z c) lo spostamento del punto C di applicazione del carico nella direzione del carico stesso d) confrontare le precedenti soluzioni con quelle ottenibili facendo l’ipotesi di tubo sottile.

P

x

B

b

C

z l

y Figura 21.21: Tubo in flesso-torsione

657

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

Esercizio 21.6: Variante dell’esercizio precedente Con gli stessi dati dell’esercizio precedente rispondere alle medesime domande con riferimento alla figura 21.22 in cui `e stato aggiunto un tratto rigido al braccio di carico. l

B b

P b

Figura 21.22: Tubo in flesso-torsione

21.3 Considerazioni sulla torsione di un elemento assialsimmetrico Nei paragrafi precedenti `e stata ottenuta la soluzione della torsione per una trave tubolare circolare in torsione realizzata in materiale elastico lineare omogeneo isotropo in termini di tensioni e deformazioni. La soluzione finale per il tubo comprende le altre (cilindro pieno e tubo di spessore sottile) come casi particolari ed `e quindi la pi` u generale. Anche se la soluzione `e stata ottenuta attraverso un esame critico di una serie di esperimenti, si pu`o verificare a posteriori che essa soddisfa le equazioni di equilibrio e di congruenza globali e locali, oltre che quella costitutiva, per cui `e la soluzione. Per una generica trave circolare cilindrica in torsione, possiamo quindi riassumere le seguenti propriet`a: • le sezioni conservano la loro forma ed estensione e la distorsione si manifesta come una rotazione rigida della sezione attorno all’asse z • lo stato di tensione `e di taglio puro in ogni punto (esclusa la linea d’asse se la sezione la contiene in cui la tensione `e nulla) per cui il materiale non subisce variazioni di volume nemmeno localmente • l’aspetto della superficie esterna rimane inalterato dalla torsione che si manifesta solo se si tracciano linee con componenti in direzione assiale • nell’ambito della meccanica dei corpi poco deformabili, le generatrici si avvolgono su eliche poco inclinate • a meno di effetti di ordine superiore, piccoli cerchi tracciati sulla superficie esterna (aventi raggio molto minore del raggio esterno della sezione) in conseguenza dell’applicazione del momento torcente assumono la forma di ellissi con assi inclinati di 45◦ rispetto alla

658

21.3. CONSIDERAZIONI SULLA TORSIONE DI UN ELEMENTO ASSIALSIMMETRICO

generatrice locale del cilindro indeformato (gli assi dell’ellisse sono nella direzione delle isostatiche) • lo stato di tensione sulla sezione corrente della trave `e caratterizzato da un vettore tensione che ha solo componenti tangenziali • le tensioni tangenziali agenti sulla sezione ‘circolano’ sulla sezione stessa, sono tangenti ai bordi (interno ed esterno) e hanno intensit`a che cresce in misura direttamente proporzionale alla distanza dall’asse • le linee di flusso delle tensioni tangenziali sulla sezione sono linee chiuse (circonferenze) che non possono interrompersi e non possono toccare i contorni • i punti pi` u sollecitati della sezione sono quindi in corrispondenza del bordo esterno. Come vedremo, l’interesse per queste sezioni non `e accademico, infatti la forma tubolare `e ottimale per la torsione (in relazione sia alla resistenza sia alla rigidezza). A questa conclusione si perviene intuitivamente per considerazioni di simmetria, ma la questione sar`a approfondita nel seguito. Una trave alla quale `e attribuita la funzione strutturale principale di trasmettere torsione dovrebbe quindi avere sezione possibilmente di tale forma. Non `e un caso quindi che gli alberi di trasmissione nelle applicazioni aeronautiche siano tubolari. I seguenti esempi illustrano alcune propriet`a della soluzione richiamate nell’elenco precedente. Esempio 21.3: Tangenza delle tensioni di taglio al bordo libero Dimostrare che una eventuale tensione agente sulla sezione di una trave in corrispondenza di un bordo libero deve avere componente normale al bordo identicamente nulla.  Consideriamo un punto B appartenente al bordo della sezione (nel caso di un tubo pu` o essere in corrispondenza del raggio esterno ma anche di quello interno). Indichiamo con n ˆ la direzione normale locale al bordo e con tˆ la direzione tangente. In generale, la componente tangenziale del vettore tensione agente sulla sezione nel punto B potr`a essere scomposta nelle due componenti locali: σnz e σtz . Se, per assurdo, fosse σnz 6= 0, il teorema di reciprocit`a del tensore di Cauchy imporrebbe la presenza anche della componente σzn 6= 0. Tale tensione ha quindi direzione z ed `e applicata alla faccia con normale n che appartiene a una superficie esterna laterale della sezione per cui `e scarica. In modo analogo si pu`o dimostrare che anche una eventuale componente normale deve essere identicamente nulla sul bordo: σnn = 0. Non vi sono invece limitazioni teoriche invece per la componente che scorre lungo il bordo σtz la cui componente coniugata: σzt pu`o manifestarsi. Da ci`o ricaviamo che le linee di flusso delle tensioni tangenziali devono mantenersi parallele ai bordi liberi della sezione.

Esempio 21.4: Campo di spostamento Esprimere in coordinate cartesiane il campo di spostamento dei punti di un tubo circolare in torsione.

659

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

x

O

z

B

θ

B*

ϕ

y Figura 21.23: Schema per lo spostamento di un generico punto della sezione

Come mostrato nella figura 21.23 il generico punto B (di coordinate polari (r, θ, z) e cartesiane (x, y, z)) si sposta rimanendo sulla propria circonferenza. In coordinate cilindriche la posizione del punto deformato `e: rB ∗ = r;

θB ∗ = θ + ϕ;

zB ∗ = z

dove ϕ rappresenta la rotazione attorno all’asse z della sezione a cui il punto appartiene (che in generale sar`a funzione della posizione assiale della sezione: ϕ (s)). La stessa condizione pu`o essere espressa in coordinate cartesiane, con riferimento agli assi indicati nella figura 21.23 si ha: p p xB ∗ = x2 + y 2 · cos (θ + ϕ) ; yB ∗ = x2 + y 2 · sin (θ + ϕ) espressioni che possono essere esplicitate sviluppando le funzioni trigonometriche: p p xB ∗ = x2 + y 2 · [cos θ cos ϕ − sin θ sin ϕ] ; yB ∗ = x2 + y 2 · [sin θ cos ϕ + cos θ sin ϕ] Considerando che:

x

cos θ = p

x2

+

y2

;

y sin θ = p 2 x + y2

da cui: xB ∗ = x cos ϕ − y sin ϕ;

yB ∗ = y cos ϕ + x sin ϕ

e quindi si ottiene: ux = u = x (cos ϕ − 1) − y sin ϕ;

uy = v = x sin ϕ − y (cos ϕ − 1) ;

uz = w = 0

Queste espressioni sono esatte per qualunque livello di rotazione della sezione ϕ (si consideri che ϕ pu`o essere significativo anche se le deformazioni sono piccole nel caso in cui la trave sia molto lunga). Peraltro, se anche la rotazione ϕ `e piccola (come generalmente avviene nella meccanica dei corpi poco deformabili, basti pensare a un albero di trasmissione), possiamo assumere: ϕ  1 e quindi `e lecito approssimare le funzioni trigonometriche arrestando al primo ordine il loro sviluppo di Mac Laurin. Si ottiene quindi: ux = u = −y · ϕ;

uy = v = x · ϕ;

uz = w = 0

La parte significativa dello spostamento (a meno di effetti di ordine 2 in ϕ o superiori) ha le componenti cartesiane che in modulo sono direttamente proporzionale alla rotazione della

660

21.4. TORSIONE PER UNA SEZIONE GENERICA

sezione e alla coordinata cartesiana coniugata. In queste ipotesi, come discusso anche nel capitolo 14, la rotazione della sezione pu`o essere considerata una grandezza vettoriale: ϕ ~ = ϕ · eˆz per cui lo spostamento di ogni punto B della sezione `e ottenibile dalla relazione vettoriale: ~u = ϕ ~ ∧ OB dalla quale infatti risulta formalmente: eˆx eˆy eˆz 0 0 ϕ x y 0

= −ϕy · eˆx + ϕx · eˆy

Come mostrato nell’esempio precedente, la condizione delle sezioni piane e la rotazione rigida (di piccola entit`a ϕ  1) attorno al centro si verifica quando le componenti piane dello stato di spostamento dei punti della sezione soddisfano le condizioni: ux = −y · ϕ uy = x · ϕ

(21.21)

uz = 0 Partendo dal precedente campo di spostamento e applicando le equazioni di congruenza, si ottengono facilmente le deformazioni. Da queste, con la legge di Hooke, si possono ricavare le tensioni e successivamente, per integrazione le caratteristiche di sollecitazione e infine le condizioni di equilibrio. La teoria quindi pu`o essere formalmente dedotta a partire da tali ipotesi di spostamento e verificata a posteriori (metodo inverso).

21.4 Torsione per una sezione generica Sfortunatamente, come sar`a mostrato subito, la teoria sviluppata per la trave tubolare non pu`o essere estesa alle sezioni di altra forma. Anche se si considera che, in caso di torsione prevalente, la forma che si dovrebbe adottare `e quella tubolare, non sono da escludersi situazioni in cui una componente torsionale (anche se secondaria) possa essere trasmessa da sezioni di forma non ottimale. Inoltre, come vedremo, `e possibile che la sezione sia molto vulnerabile a torsione se non ha caratteristiche geometriche adatte. A differenza della flessione, il problema generale della torsione non ha purtroppo una soluzione elementare. Nel presente paragrafo, dopo aver esaminato alcuni aspetti generali del problema, sono discussi i metodi che si possono adottare per risolverlo.

21.4.1 Il problema generale della torsione Analizziamo in primo luogo il motivo per cui la soluzione ottenuta nel caso della sezione a corona circolare non `e valida per sezioni di forma diversa. Nella figura 21.24 `e proposta ` stato quindi assunto che la l’applicazione della precedente soluzione alla sezione rettangolare. E tensione tangenziale sia di intensit`a direttamente proporzionale alla distanza dal centro e che le linee di flusso siano circonferenze concentriche.

661

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

b

x σ zθ = σ zy

C

y σ θz

H

x

H

z

h

σ yz

σ θ z = σ yz

B B

y

C

z

σθ y

σ xz = 0

σ θ z = σ yz

σ θ z = σ xz

Figura 21.24: Sezione rettangolare: proposta di soluzione elementare

Per quanto tale soluzione possa sembrare plausibile per i punti che si trovano sugli assi di simmetria (come H e B nella figura 21.24), lo stato di tensione non `e sicuramente accettabile per i punti del contorno come C in cui la condizione che le tensioni tangenziali devono essere tangenti al contorno risulta violata. Questa osservazione impone di effettuare una revisione completa dell’analisi precedentemente. Se lo stato di tensione non ha le caratteristiche di semplicit`a sperate, anche lo stato di spostamento dei punti della trave, al contrario del caso precedente, non `e agevole da rappresentare matematicamente. In particolare, si dimostra che per trave con sezione non tubolare circolare, per esempio rettangolare, le sezioni non si conservano piane. Una esperienza diretta pu`o essere condotta facilmente usando una semplice gomma da cancellare di forma parallelepipeda sufficientemente lunga. Se si evidenzia con un tratto di matita il contorno rettangolare di una sezione (per esempio quella centrale) e successivamente si mette la gomma in torsione con le mani, si evidenzia abbastanza chiaramente che i lati del contorno non sono pi` u rettilinei quando deformati. Si intuisce quindi che, in generale, anche gli altri punti della sezione non appartengono pi` u a un piano. Tale distorsione `e caratterizzata quindi oltre che da un attorcigliamento qualitativamente analogo al caso precedente, anche da uno spostamento in direzione z variabile nella sezione che viene talvolta indicato ingobbamento (warping). De Saint Venant ha proposto una soluzione per il problema di una trave in torsione avente sezione qualunque, basata su una ipotesi deformativa che conserva qualche caratteristica del caso circolare e introduce la possibilit`a dell’ingobbamento: ux = − (y − cy ) · ϕ uy = (x − cx ) · ϕ

(21.22)

uz = w (x, y) in particolare lo spostamento in direzione assiale dei punti della sezione `e definito dalla funzione w (x, y) che `e indipendente da s. Le ipotesi adottate da De Saint Venant prevedono quindi per le componenti piane dello spostamento un moto rigido della sezione attorno a un punto del piano stesso (non necessariamente il baricentro se la sezione non `e simmetrica) e un generico ingobbamento. La soluzione del problema `e quindi definita dal parametro di rotazione ϕ, dalla posizione del centro di rotazione (cx , cy ) e dalla funzione w (x, y) di due variabili definita sulla sezione.

662

21.4. TORSIONE PER UNA SEZIONE GENERICA

Tale teoria potrebbe essere completamente sviluppata con le competenze finora accumulate nel corso. Per ragioni di brevit`a si preferisce per`o esporne solo alcuni elementi generali. Come si pu`o prevedere, la sola condizione di equilibrio del momento torcente (che nel caso della sezione a corona circolare permette di ricavare ϕ e da questo tutto il resto) non `e pi` u sufficiente. In questo caso `e necessario ricorrere a tutte le equazioni della meccanica del continuo (equilibrio, congruenza e costitutive) che alla fine portano, oltre che a tre condizioni algebriche di equilibrio (sul momento torcente e sui tagli nelle direzioni dei due assi piani), a una equazione differenziale alle derivate parziali (lineare del secondo ordine) nella funzione incognita: w (x, y). La soluzione di tali equazioni, con le opportune condizioni al contorno, fornisce lo stato di spostamento completo e quindi, tramite il procedimento a ritroso descritto nel paragrafo precedente, anche lo stato di deformazione e di tensione in ogni punto. Purtroppo, sono pochissime le sezioni per le quali `e ottenibile una soluzione in forma analitica esprimibile tramite combinazione finita di funzioni elementari. Tra queste si annoverano: sezioni ellittiche (anche con un foro ellittico omotetico) e sezioni a forma di triangolo equilatero. Come si intuisce, non si tratta di sezioni che abbiano interesse nelle applicazioni per cui le relative soluzioni analitiche costituiscono poco pi` u che curiosit`a di tipo matematico. Per la sezione rettangolare per esempio (quadrata come caso particolare) la soluzione pu` o essere ottenuta tramite soluzione numerica. Tale soluzione pu`o essere espressa in forma analitica ma tramite uno sviluppo infinito di funzioni (spesso si usano per tale scopo le serie di Fourier). Per il lettore interessato tutte queste soluzioni possono essere reperite su qualunque testo classico di teoria dell’elasticit` a.

21.4.2 La soluzione per analogia L’attuale disponibilit`a di strumenti di calcolo e di algoritmi numerici per risolvere equazioni differenziali alle derivate parziali permette di ottenere soluzioni numeriche del problema della torsione con il livello di precisione necessario. In passato tuttavia le difficolt`a operative nella soluzione di tali equazioni costituiva un limite molto forte anche per le applicazioni pratiche per cui venivano fatti notevoli sforzi per trovare metodi alternativi. Uno di questi metodi `e basato sulle analogie fisiche. Vi sono infatti vari fenomeni, anche in branche anche molto diverse della Fisica, che sono dominati dalle medesime equazioni differenziali. Alcuni di questi problemi si prestano meglio di altri per essere riprodotti in modo sperimentale e consentono una pi` u agevole accessibilit`a per la misura oppure una maggiore accuratezza delle misure stesse. Un esempio che potrebbe essere familiare `e l’analogia termica-elettrica tra la propagazione del calore nei solidi ` noto infatti che la legge di Fourier e la propagazione della corrente elettrica nei resistori. E per il flusso del calore `e analoga alla legge di Ohm. Determinare il campo di temperatura in un problema termico stazionario `e pertanto analogo a trovare il potenziale elettrico in un conduttore avente la stessa forma. La difficolt`a analitica per i due problemi `e la medesima ma, per esempio, la misura di un potenziale elettrico (con un voltmetro) pu`o essere molto pi` u semplice, immediata e accurata e meno costosa della misura della temperatura. Il fisico tedesco Ludwig Prandtl (1875-1953) osserv`o che il problema della torsione della trave elastica ha una interessante analogia nell’ambito della stessa meccanica strutturale. Eseguiamo su una tavola rigida un foro avente la stessa forma della sezione come in figura 21.25 e incolliamo sulla superficie superiore una sottile membrana elastica dopo averla tesa uniformemente in ogni direzione piana (ovvero averla allungata con uno stato tensione piano equibiassiale di trazione). Sollecitiamo quindi la membrana con una pressione nella parte inferiore della tavola allo scopo di produrne il rigonfiamento. Prandtl ha verificato che il problema del rigonfiamento della membrana `e analogo a quello della torsione della trave elastica alle seguenti condizioni:

663

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

• il foro riproduce in scala la forma della sezione • il comportamento della membrana, come il materiale della trave, `e elastico lineare omogeneo isotropo • lo stato iniziale di pretensionamento della membrana `e equibiassiale e il suo spessore `e trascurabile (la membrana perfetta da questo punto di vista `e una bolla di sapone) • il rigonfiamento prodotto dalla pressione `e di piccola entit`a in modo che l’incremento di tensione nella membrana dovuto alla pressione sia trascurabile rispetto al livello di pretensionamento • come conseguenza, lo spostamento fuori piano della membrana `e piccolo rispetto alla dimensione caratteristica del foro.

Figura 21.25: Preparazione dell’esperimento di analogia della membrana per una sezione rettangolare

Quando le condizioni di analogia sono soddisfatte si verifica che: • le linee di livello della membrana sono simili alle linee di flusso delle tensioni tangenziali • in ogni punto della sezione (o della membrana) la massima pendenza del piano tangente locale (il modulo del gradiente q della superficie della membrana) `e analoga al valore della componente tangenziale τ =

2 + σ2 σxz yz

• dato un punto e una direzione n ˆ = (nx , ny ), la pendenza del piano tangente alla membrana in tale direzione `e analoga alla componente σtz in cui tˆ `e perpendicolare a n ˆ • il volume sotteso dal rigonfiamento della membrana `e analogo al momento torcente complessivamente trasmesso dalla sezione. Il vantaggio di poter accedere alla superficie della membrana consente di effettuare misure dirette di grandezze che, nel caso di interesse, si manifestano invece all’interno della trave. Per i nostri scopi tuttavia, non potendo eseguire in pratica l’esperimento, sfrutteremo l’analogia per altre ragioni. Dato che il comportamento deformativo della membrana `e spesso facilmente intuibile, possiamo accettare con semplicit`a varie propriet`a soluzione che sarebbero di difficile comprensione se considerate propriet`a elastiche della sezione in torsione. ` in particolare interessante ritrovare la soluzione in analogia per il semplice caso del ciE lindro in torsione. Il foro in questo caso `e circolare e la membrana si gonfia per formare un segmento sferico. Se il segmento sferico `e poco scostato dal piano esso pu`o essere accuratamente approssimato da un paraboloide di rotazione. Si intuisce immediatamente che linee di livello sono effettivamente circonferenze concentriche e il livello di tensione (gradiente) `e massimo sul bordo ed `e zero nel dentro, dove infatti la tensione tangenziale `e nulla. La pendenza massima della membrana (il modulo della tensione tangenziale) cresce linearmente allontanandosi dal centro.

664

21.5. TORSIONE PER UNA SEZIONE RETTANGOLARE

21.5 Torsione per una sezione rettangolare 21.5.1 Soluzione approssimata generale Guidati dall’analogia della membrana cerchiamo di giustificare la soluzione della torsione per la sezione rettangolare. Consideriamo una generica sezione di lati b × h ma, per fissare le idee, indichiamo con h il alto pi` u lungo. Nelle espressioni seguenti `e pertanto implicita la condizione h > b e il rapporto di forma del rettangolo ρ = hb sar`a quindi nell’intervallo: 0 < ρ 6 1 al primo estremo del quale vi sono rettangoli molto allungati e all’altro sezioni quadrate.

Figura 21.26: Rigonfiamento della membrana per una sezione rettangolare con ρ = 0.618.

Il rigonfiamento della membrana per una sezione rettangolare (`e esemplificato il rettangolo aureo ρ = 0.618) `e mostrato nella figura 21.26.

Figura 21.27: Linee di livello e profili della membrana in corrispondenza degli assi di simmetria per una sezione rettangolare con ρ = 0.618.

Le linee di livello della membrana `e mostrato nella figura 21.27 mentre il corrispondente andamento delle tensioni tangenziali nella sezione nella figura 21.28. L’analogia della membrana evidenzia le seguenti propriet`a, confermate dalla soluzione analitica, che sono di pratica utilit`a: • la tensione massima si manifesta in H il punto medio del lato pi` u lungo (si noti che, in contrasto con quanto succede per il cerchio, H `e il punto del contorno pi` u vicino al centro della sezione)

665

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

• nel punto medio del lato corto B si ha un minimo locale della tensione tangenziale (`e il punto pi` u sollecitato del lato corto) • il vettore tensione `e diretto perpendicolarmente alla direzione radiale solo in corrispondenza degli assi • i vertici del rettangolo (dove la soluzione ingenua avrebbe localizzato le tensioni estreme) sono invece scarichi, infatti la presenza di due bordi liberi impone che entrambe le componenti σxz e σyz siano nulle (la membrana `e in tale zona mantenuta orizzontale sia in direzione x sia in direzione y).

b B

x

H

z

h

C

y Figura 21.28: Andamento delle tensioni tangenziali in corrispondenza degli assi di simmetria per una sezione rettangolare con ρ = 0.618.

Le seguenti formule, di tipo empirico ma accurate al percento, permettono di ottenere indicazioni adeguate per effettuare la verifica di resistenza a torsione della sezione rettangolare. Le componenti significative dello stato di tensione si possono esprimere come: τH = τmax = τB =

|Mz | α · hb2

|Mz | β · hb2

(21.23) (21.24)

dove le quantit`a adimensionali α e β dipendono solo dalla forma della sezione e quindi dal rapporto ρ. Le seguenti espressioni (empiriche) forniscono valori con precisione dell’ordine del percento: 1 α (ρ) = 3 · (1 + 0.6095ρ + 0.8863ρ2 − 1.8023ρ3 + 0.9100ρ4 ) β (ρ) =

1 2.227 · (1 + 0.5775ρ + 0.6886ρ2 − 0.0148ρ3 − 0.0926ρ4 )

Il modulo di resistenza a torsione per la sezione rettangolare `e quindi: W0 = α · hb2

666

(21.25)

21.5. TORSIONE PER UNA SEZIONE RETTANGOLARE

Per quanto riguarda la rigidezza, valutiamo momento d’inerzia polare di una sezione quadrata: J0 =

 hb 2 h + b2 12

Anche per la rigidezza, la sezione rettangolare ha per`o un comportamento meno preformante della sezione circolare che ha il medesimo momento d’inerzia polare. Per evidenziare questo fatto, `e consuetudine introdurre un momento d’inerzia polare equivalente che pu`o essere interpretato come il momento d’inerzia di una sezione circolare (o tubolare) che ha la stessa rigidezza della sezione data. Il momento d’inerzia polare equivalente `e in genere espresso come: J0eq = η · J0

(21.26)

in cui η `e un fattore adimensionale (inferiore a 1) che dipende dalla forma della sezione (e quindi dal parametro ρ) ed `e ben approssimato dalla seguente espressione:     ρ2 63 ρ4 η (ρ) = 4 − 1 − ρ 1 + ρ2 25 12 Con la rigidezza torsionale si ottiene quindi l’attorcigliamento: ψ=

dϕ Mz = ds G · J0eq

Nella figura 21.29 sono riportati gli andamenti dei precedenti parametri adimensionali che forniscono lo stato di tensione e la rigidezza per generiche sezioni rettangolari. 1.0

η

α, β, η

0.8 0.6

β

0.4

α

0.2 0.0 0.0

0.2

0.4

0.6

0.8

1.0

ρ = b/h Figura 21.29: Andamento dei principali parametri adimensionali per la verifica delle sezioni rettangolari in funzione del rapporto di lunghezza dai lati.

La seguente tabella fornisce i valori numerici di tali funzioni.

667

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

ρ 0.00 0.05 0.10 0.15 0.20 0.25 0.30 0.35 0.40 0.45 0.50 0.55 0.60 0.65 0.70 0.75 0.80 0.85 0.90 0.95 1.00

α 0.333 0.323 0.312 0.302 0.291 0.282 0.273 0.265 0.258 0.251 0.246 0.240 0.236 0.232 0.228 0.225 0.222 0.218 0.215 0.212 0.208

β 0.449 0.436 0.422 0.408 0.393 0.378 0.364 0.350 0.336 0.322 0.309 0.296 0.284 0.273 0.262 0.252 0.242 0.233 0.224 0.216 0.208

η 0.000 0.010 0.037 0.080 0.135 0.198 0.268 0.340 0.413 0.483 0.549 0.610 0.663 0.709 0.747 0.778 0.801 0.818 0.831 0.839 0.845

Tab21.1 Tabulazione dei fattori adimensionali per le verifiche di resisetnza e digidezza di sezioni rettangolari con diversi rapporti tra i lati.

21.5.2 Casi asintotici Le condizioni estreme per i parametro di forma ρ = hb si verificano quando la sezione `e quadrata ρ = 1 e quando `e molto allungata ρ → 0. L’esame del primo caso `e lasciato al lettore con il seguente istruttivo esercizio. Esercizio 21.7: Confronto cerchio-quadrato in torsione Una trave a mensola lunghezza l = 600 mm di sezione quadrata di alto a = 50 mm di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3) avente tensione ammissibile σam = 300 MPa `e sollecitata all’estremo libero con un momento M0 che determina solo torsione. Determinare il massimo valore di M0 applicabile, la rigidezza torsionale della sezione e il massimo angolo di rotazione mutua delle sezioni di estremit`a. Valutare le stesse quantit`a per travi dello stesso materiale che hanno la stessa lunghezza e lo stesso materiale con sezioni circolari con le seguenti caratteristiche: a) il diametro pari al lato del quadrato (cerchio iscritto nel quadrato) b) lo stesso ingombro radiale (cerchio circoscritto) c) la stessa quantit`a di materiale.

Consideriamo una sezione sezione a parte sottile (channel section) di forma rettangolare molto allungata tale per cui vale la condizione ρ = b/h 6 0.1. Non `e difficile immaginare

668

21.6. TORSIONE DI TRAVI RICONDUCIBILI AL CASO DELLA SEZIONE RETTANGOLARE

che in tali circostanze la membrana assume la forma di una tegola che ha una forma cilindrica per quasi tutta la sua lunghezza. La condizione critica del punto medio H `e pertanto condivisa da gran parte dei punti dei lati lunghi della sezione. Per ρ 6 0.1 `e conveniente usare le seguenti espressioni per la resistenza: |Mz | τH = τmax = 3 2 hb |Mz | τB = 0.449 · hb2 e quindi: 1 W0 = hb2 (21.27) 3 mentre per la rigidezza, tenendo conto delle seguenti espressioni asintotiche: η (ρ) →

4ρ2 ∼ 2 = 4ρ 1 + ρ2

il momento d’inerzia equivalente pu`o essere espresso come segue: 1 J0eq = hb3 3

(21.28)

21.6 Torsione di travi riconducibili al caso della sezione rettangolare 21.6.1 Travi a parte sottile non rettilinea Tenendo conto dell’analogia della membrana, non `e difficile prevedere che, a parit`a di estensione longitudinale h e di larghezza b, le pendenze massime e il volume sotteso dalla membrana non sono significativamente diverse nei casi rappresentati in figura 21.30.

Rm = h / 2π

b Rm = h / π

h

a)

b

b)

b

c)

Figura 21.30: Sezioni che hanno un comportamento torsionale simile sia per resistenza sia per rigidezza.

Pertanto una trave ottenuta per piegatura di una lamiera sottile ha un comportamento torsionale poco dipendente dalla forma del profilo della piegatura e, in genere, poco adatto a resistere a momenti torcenti significativi. Esercizio 21.8: Confronto tra sezioni aperte e chiuse Una trave a parete sottile `e ottenuta piegando una lamiera di spessore b = 3 mm in acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e σam = 250 MPa) come indicato in figura 21.31a) con a = 50 mm. La lunghezza della trave `e l = 600 mm. Trascurando i raccordi, determinare:

669

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

a) il modulo di resistenza a torsione b) la rigidezza torsionale. Con una lamiera identica si realizza, tramite calandratura e successiva saldatura longitudinale, una sezione tubolare come mostrato in figura 21.31b). Determinare: 1) il rapporto tra i massimi momenti torcenti che possono essere applicati alle due sezioni 2) il rapporto tra le rigidezze torsionali 3) gli angoli di rotazione relativa delle sezioni di estremit`a quando entrambe le travi sono sottoposte al massimo momento torcente ammissibile.

a

a

a

a

a)

b)

Figura 21.31: Sezioni aperte e chiuse realizzate con la stessa lamiera dello stesso materiale

21.6.2 Travi composte di parti rettangolari Molti profilati commerciali sono realizzati con forme che richiamo l’assemblaggio di pi` u rettangoli. Se, come mostrato nella figura 21.32a) i rettangoli hanno spessore diverso, l’applicazione diretta della soluzione ottenuta per il rettangolo non `e applicabile. Si pu`o tuttavia ricorrere a una soluzione approssimata considerando che il momento torcente complessivo si deve ripartire tra le parti rettangolari della sezione. Nel caso in figura 21.32a) la condizione di equilibrio si scrive come: Mz = Mz1 + Mz2 in cui Mz1 e Mz2 sono le parti del momento torcente agenti sui rettangoli 1 e 2 rispettivamente. Il problema si sposta quindi nel determinare il criterio di ripartizione. A tale scopo notiamo che sotto carico le due sottotravi rettangolari devono rimanere congruenti per cui devono avere lo stesso attorcigliamento: Mz1 Mz2 = GJ0eq1 GJ0eq2 Il momento torcente si ripartisce pertanto in misura direttamente proporzionale alla rigidezza torsionale delle sotto-sezioni: Mz1 = Mz

670

GJ0eq1 ; GJ0eq1 + GJ0eq2

Mz2 = Mz

GJ0eq2 GJ0eq1 + GJ0eq2

21.6. TORSIONE DI TRAVI RICONDUCIBILI AL CASO DELLA SEZIONE RETTANGOLARE

H1

c

1

d

a

t

H2

a)

2

b)

Figura 21.32: Sezione a T considerata un assemblato di rettangoli

Dopo aver determinato il momento agente su ognuno dei rettangoli, `e possibile individuare il punto critico della sezione composta che sar`a uno dei punti medi dei lati lunghi dei rettangoli costituenti: H1 o H2 in figura 21.32b). La rigidezza torsionale dell’intera sezione `e pertanto la somma delle rigidezze torsionali dei rettangoli costituenti: Mz ψ= GJ0eq1 + GJ0eq2 Esempio 21.5: Torsione di una sezione a T Determinare il modulo di resistenza e la rigidezza torsionale della sezione di acciaio (E = 206 GPa, ν = 0.3 e σam = 350 MPa) in figura 21.32 sapendo che: a = 50 mm, t = 10 mm, c = 45 mm e d = 18 mm.  Per applicare direttamente le formule del paragrafo precedente definiamo: h1 = c, b1 = d e h2 = a, b2 = t (`e necessario designare con h il lato maggiore). Nella seguente tabella sono riportati i parametri significativi delle sottosezioni:   i ρi αi ηi J0eqi mm4 Mzi /Mz 1 0.4 0.258 0.413 6.548 · 104 0.817 4 2 0.2 0.291 0.135 1.462 · 10 0.183 Il momento d’inerzia equivalente totale della sezione vale: J0eq = J0eq1 + J0eq2 = 8.011 · 104 mm4 Nel modello adottato, il rettangolo 1 trasmette la parte principale del momento torcente, essendo la sua rigidezza torsionale pi` u di 4 volte maggiore dell’altro. La tensione tangenziale nei punti Hi vale quindi: J Mz J0eqi Mzi 0eq = τHi = αi b2i hi αi b2i hi quindi il modulo di resistenza a torsione della sezione `e:   J0eq 2 W0 = min αi bi hi J0eqi

671

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

nel caso in esame si ha che il punto critico `e H1 e quindi:  W0 = min 4.602 · 103 , 7.97 · 103 = 4.602 · 103 mm3 La rigidezza torsionale della sezione vale: GJ0eq = 6.347 · 109 Nmm2

Il procedimento di soluzione approssimato ottenuto per assemblaggio di sottosezioni rettangolari pu`o essere attuato in modo del tutto analogo anche se le parti sono pi` u di 2, come le travi a doppio T. Sezioni di questo tipo hanno comunque una scarsa efficienza a torsione e travi cos`ı realizzate dovrebbero essere sollecitate con tale caratteristica solo da carichi secondari. L’esercizio che segue rappresenta una interessante dimostrazione quantitativa di questa affermazione. Esercizio 21.9: Contronto tra sezione circolare e a T Con riferimento alla sezione a T della figura 21.32, verificare che, realizzando la trave con una barra cilindrica dello stesso materiale, si sarebbe potuto ottenere un peso: a) del 49% a parit`a di resistenza b) del 54% a parit`a di rigidezza. Nota. La soluzione cilindrica inoltre produrrebbe una riduzione anche dell’ingombro della sezione oltre che dell’impiego di materiale. Il lettore pu`o esaminare una ulteriore variante del problema che permette di ridurre ulteriormente il materiale impiegato. Si pu`o infatti scegliere una trave tubolare a parit`a di resistenza e di ingombro. In questo caso la sezione dovr`a avere lo stesso diametro esterno della sezione data ma spessore da determinarsi. Tale esercizio pu`o essere inoltre effettuato anche a parit`a di rigidezza invece che di resistenza.

21.7 Travi tubolari non circolari Come mostrato nel paragrafo precedente le sezioni dei profilati non sono adatte a trasmettere carichi torsionali significativi per cui nel caso che tale caratteristica di sollecitazione sia prevalente `e opportuno ricorrere a travi con sezione circolare possibilmente tubolare. Vi sono per`o situazioni in cui le travi tubolari circolari non risultano applicabili. Come mostrato nel presente paragrafo `e comunque possibile ottenere comportamenti torsionali efficienti anche con travi tubolari a profilo non circolare. Nella figura 21.33 `e rappresentata la geometria di una generica sezione tubolate non circolare a cui faremo riferimento nel seguito. In particolare, si osserva il profilo medio dello spessore (indicato dalla linea chiusa Γm ) sul quale `e fissata un’origine O da cui `e misurata l’ascissa curvilinea λ . Risulta comodo rappresentare la sezione con un sistema di coordinate curvilinee ortogonali che definiscono la terna cartesiana locale di versori: • eˆλ tangente al profilo medio • eˆρ normale al profilo medio sul piano dela sezione

672

21.7. TRAVI TUBOLARI NON CIRCOLARI

tmin

Γm

O t (γ )

eˆz

λ

eˆρ

eˆλ

Figura 21.33: Definizioni geometriche per una sezione tubolare non circolare.

• eˆz normale al piano di sezione. La sezione `e quindi definita completamente dalle propriet`a della curva piana Γm e dalla funzione t (λ) che definisce lo spessore locale (misurato in direzione ρ). Faremo l’ipotesi che, a meno di un limitato numero di punti esista sempre una tangente alla linea media e un (univoco) valore locale dello spessore. In corrispondenza di irregolarit`a della linea media (punto angolosi o discontinuit`a) o dello spessore (variazioni brusche) ci comporteremo in modo analogo a quanto fatto per le zone di singolarit`a nei solidi monodimensionali. La teoria che segue, storicamente attribuita all’ingegnere tedesco Rudolf Bredt (1842-1900), fornisce previsioni tanto pi` u valide quanto pi` u lo spessore t (λ) `e piccolo rispetto alle propriet` a lineari di Γm . In particolare, per ogni λ, lo spessore dovrebbe essere molto minore del raggio di curvatura di Γm . Tuttavia, come siamo ormai abituati a fare, applicheremo la teoria di Bredt per lo studio di tutte le sezioni tubolati.

21.7.1 Teoria di Bredt per la resistenza L’andamento qualitativo delle tensioni tangenziali in una sezione tubolare `e rappresentato in figura 21.34 in modo che sia rispettata la propriet`a di tangenza ai contorni (interno ed esterno) della sezione. La teoria di Bredt sulla torsione delle sezioni tubolari di piccolo spessore `e basata sulle seguenti ipotesi: • lo stato di tensione `e di taglio puro in ogni punto della sezione e la componente significativa `e: σλz • la tensione tangenziale σλz non varia in direzione della coordinata trasversale ρ e pu` o dipendere al pi` u solo da λ. La scelta del sistema di riferimento locale manifesta quindi tutti i suoi vantaggi dato che in ogni punto della sezione il tensore di Cauchy si pu`o scrivere semplicemente come:   0 0 σλz 0 0  S= Sym 0 Si pu` o notare la coerenza delle ipotesi di Bredt con lo stato di tensione che abbiamo verificato manifestarsi in un tubo circolare sottile infatti l’unica differenza `e una mera formalit`a dovuta

673

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

Γm σ λz eˆz eˆλ

eˆρ

Figura 21.34: Andamento qualitativo delle tensioni tangenziali nella sezione di Bredt

all’uso della ascissa curvilinea invece che quella angolare, ma i versori locali coincidono. In effetti, la sezione tubolare circolare sottile `e una sezione di Bredt. Da queste ipotesi lo stato di tensione si ottiene in modo diretto sulla base di sole considerazioni di equilibrio. In primo luogo osserviamo una interessante propriet`a del ‘flusso’ delle tensioni tangenziali che potrebbe essere ottenuto da considerazioni matematiche di continuit`a ma che `e pi` u istruttivo ottenere come conseguenza di una condizione di equilibrio. Nella figura 21.35 `e mostrato lo schema di corpo libero di un sottoconcio di trave tubolare ottenuto considerando due sezioni separate da una distanza assiale ∆l (qualunque) e compreso tra due valori (qualunque) dell’ascissa curvilinea λ2 > λ1 . Le uniche azioni esterne sul sottoconcio sono le tensioni tangenziali σλz agenti sulle facce normali all’asse della trave e le tensioni tangenziali coniugate σzλ agenti sulle facce che contengono le direzioni z e ρ. Il sottoconcio `e in equilibrio e quindi, in particolare, dovr`a essere rispettata la prima cardinale in direzione dell’asse della trave, espressa dalla relazione: −σzλ (λ1 ) · t (λ1 ) · ∆l + σzλ (λ2 ) · t (λ2 ) · ∆l = 0 e quindi:

λ = λ1

σ zλ ( λ1 )

t ( λ1 )

σ λ z ( λ1 ) σ λ z ( λ2 ) λ = λ2

t ( λ2 )

σ zλ ( λ2 ) Δl

Figura 21.35: Schema di corpo libero del generico sottoconcio.

σzλ (λ1 ) · t (λ1 ) = σzλ (λ2 ) · t (λ2 )

674

21.7. TRAVI TUBOLARI NON CIRCOLARI

Dato che i due valori di λ sono stati scelti arbitrariamente, la precedente relazione dimostra che il prodotto tra le tensioni tangenziali e lo spessore locale `e costante: σλz (λ) · t (λ) = Φλz

(21.29)

Si nota una perfetta analogia con il flusso di un fluido perfetto in un canale bidimensionale se si associa alla tensione tangenziale la velocit`a (l’analogia idrodinamica della torsione era stata in effetti gi`a evidenziata da Gustav Robert Kirchhoff (1824,1887)). La relazione precedente permette quindi di prevedere che il valore massimo della tensione tangenziale si manifesta nei punti in cui la sezione `e pi` u stretta, per cui: τmax =

|Φλz | tmin

come illustrato nella figura 21.36.

σ λz τ max

τ min

Figura 21.36: Andamento delle tensioni tangenziali una sezione di Bredt in corrispondenza dei valori estremi.

Lo stato di tensione completo `e pertanto determinato da un’unica quantit`a scalare Φλz che, nell’analogia idrodinamica, corrisponde al flusso o alla portata delle tensioni tangenziali. Si pu`o prevedere che il flusso Φλz dipender`a (ovviamente in misura direttamente proporzionale) dal momento torcente nonch´e dalle propriet`a geometriche della sezione (in particolare dalle caratteristiche della linea media dello spessore). Per completare la formulazione `e necessario considerare la condizione di equilibrio complessiva della sezione in base alla quale le tensioni agenti sulla faccia positiva della sezione nel loro complesso devono essere staticamente equivalenti alla caratteristica di sollecitazione. Calcoliamo il momento risultante prodotto dalle tensioni tangenziali che circolano nella sezione rispetto al baricentro. A tale scopo `e utile dividere la sezione in elementi rettangolari elementari che, per ogni punto B appartenente a Γm , si estendono per l’estensione dello spessore t (λ) e hanno l’altra dimensione infinitesima dλ, come illustrato nella figura 21.37. Per le ipotesi di Bredt, la distribuzione delle tensioni agenti sull’elemento infinitesimo di sezione t (λ) · dλ ha l’asse centrale che passa per B e risultante: dF = σλz (λ) · t (λ) · dλ diretta tangenzialmente al contorno medio. Il contributo di dF al momento torcente si ottiene moltiplicando dF per il relativo braccio che `e rappresentato la distanza GH del baricentro della sezione della tangente al contorno per B. Anche il braccio dipende dalla posizione di B e, per questo, lo indichiamo con b (λ). Vale quindi al relazione: dMz = b (λ) · σλz (λ) · t (λ) · dλ

675

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

x

z

b (λ )

Γm

y

H x

G

G z



B

y

eˆρ

B

eˆλ t (λ )

Figura 21.37: Contributo dell’elemento infinitesimo di sezione al momento torcente complessivo.

L’effetto complessivo `e dato quindi da un integrale di linea (calcolato sul percorso medio) che, nelle coordinate scelte, diventa un integrale in R1 : Z Mz = b (λ) · σλz (λ) · t (λ) · dλ Γm

Il calcolo di questo integrale non `e meno complesso di quanto potrebbe sembrare. Infatti, considerando che il prodotto σλz (λ) · t (λ) = Φλz non dipende dalla variabile di integrazione, si ha: Z Mz = Φλz b (λ) dλ Γm

e quindi il problema `e ridotto all’integrazione lungo il percorso della distanza del baricentro dalla tangente. Il risultato di tale integrazione ha un interessante significato geometrico che `e mostrato nella figura 21.38a). Indicando con C il punto del contorno medio in corrispondenza di λ + dλ, il triangolo elementare GBC ha base dλ altezza `e b (λ), per cui la sua area dAm vale: dAm =

1 · b (λ) · dλ 2

` pertanto evidente che integrare dAm sul contorno medio equivale a sommare le aree di E tutti i triangoli del tipo GBC e quindi il risultato `e l’area Am della figura piana il cui contorno `e il profilo medio Γm , come mostrato in figura 21.38. Definendo quindi: Z 1 Am = b (λ) dλ 2 Γm

si ricava la formula di Bredt per lo stato di tensione: σλz (λ) =

Mz 2Am · t (λ)

(21.30)

Notiamo che il flusso delle tensioni tangenziali (che `e costante lungo il profilo) vale: Φλz =

676

Mz 2Am

(21.31)

21.7. TRAVI TUBOLARI NON CIRCOLARI

G b (λ ) dAm B dλ C

Γm

Am

a)

b)

Figura 21.38: Significato geometrico della quantit`a:

1 2

R

b (λ) dλ

Γm

Il modulo di resistenza a torsione per la sezione di Bredt si esprime quindi come: W0 = 2Am tmin

(21.32)

Alle stesse formule eravamo gi`a pervenuti nel caso del tubo circolare, ma tale circostanza non deve sorprendere dato che anche tale figura `e una trave di Bredt. Si possono trarre le seguenti conclusioni valide in generale per sezioni tubolari sottili anche non circolari e quindi utili nella progettazione di travi significativamente caricate a torsione: • per ottenere la condizione di sfruttamento ottimale del materiale `e opportuno che lo spessore della sezione sia uniforme, diversamente esister`a necessariamente qualche punto lungo il contorno meno sollecitato rispetto alla media • fissati il materiale e lo spessore, il momento torcente massimo trasmissibile dipende solo dall’area sottesa dal percorso medio • fissati il materiale e lo spessore, il peso della trave dipende invece dal perimetro del percorso medio • fissato il materiale, il peso e lo spessore, e quindi il perimetro del percorso medio, la soluzione migliore per la resistenza a torsione si ottiene massimizzando l’area sottesa dal percorso medio • dato che la circonferenza `e la figura piana che a parit`a di perimetro sottende l’area massima (in base al noto problema di Didone), `e dimostrato che la sezione tubolare circolare di piccolo spessore costante `e la migliore soluzione per trasmettere la torsione. Possiamo quindi concludere che travi con sezioni tubolati con parete di spessore basso e possibilmente uniforme sono indicate quando la torsione `e la caratteristica di sollecitazione prevalente. In tali circostanze `e opportuno che il percorso medio sia scelto in modo da sottendere la maggiore area possibile con gli ingombri disponibili.

21.7.2 Stima di Bredt della rigidezza Per valutare la rigidezza torsionale della sezione di Bredt `e comodo ricorrere al metodo energetico. Consideriamo una trave avente lunghezza l, incastrata a un estremo e caricata

677

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

all’altro da un momento M0 che produce solo torsione M0 = Mz , Il lavoro fatto dal carico vale: 1 1 Lext = M0 · ϕ (l) = Mz · ϕ (l) 2 2 dove ϕ (l) `e la rotazione attorno a z della sezione estrema libera. Con la formula di Bredt (21.30) `e valutabile la tensione in ogni punto della trave e quindi anche la densit`a di energia elastica: σ2 ω = λz 2G per integrazione sull’intera trave si pu`o valutare l’energia elastica complessivamente accumulata: Zl Z U=

ωdAds 0 Ω

Data l’indipendenza della soluzione dalla coordinata curvilinea assiale s, l’integrale esterno `e immediato: Z U = l ωdA Ω

l’integrale sulla sezione Ω richiede invece un po’ pi` u di cura. Usando le consuete coordinate locali definite per la sezione di Bredt (figura 21.33) e assumendo, come nel paragrafo precedente, l’elemento d’area dA = t (λ) · dλ, l’integrale sulla sezione pu`o essere ancora ricondotto a un integrale di linea da effettuarsi sul contorno medio Γm : Z Z Z 2 σλz (λ) t (λ) dλ ωdA = ω · t (λ) dλ = 2G Ω

Γm

Γm

2 (λ) · t (λ)2 = Moltiplicando e dividendo la funzione integranda per t (λ), si ottiene il termine σλz Φ2λz che, essendo costante sul contorno medio e quindi indipendente da λ, pu`o essere estratto dal segno di integrazione: Z Z 2 σλz (λ) · t (λ)2 1 σ 2 (λ) · t (λ)2 dλ dλ = λz 2G t (λ) 2G t (λ) Γm

Γm

Considerando la formula di Bredt per la tensione (21.30) si ottiene: Z Z 1 Mz2 dλ ωdA = 2G 4A2m t (λ) Ω

Γm

e quindi l’espressione per la rotazione della sezione di estremit`a: Z Mz l dλ ϕ (l) = 2 4Am G t (λ) Γm

Dato che nelle condizioni scelte l’attorcigliamento `e costante, si ha quindi ψ = ottiene la formula finale per la rigidezza delle sezioni di Bredt: ψ=

Mz 4A2m G R dλ Γm

678

t(λ)

ϕ l

da cui si

21.7. TRAVI TUBOLARI NON CIRCOLARI

Il momento d’inerzia polare equivalente per la sezione di Bredt vale pertanto: 4A2m J0eq = R dλ Γm

(21.33)

t(λ)

Nel caso in cui lo spessore della sezione sia uniforme t (λ) = t0 , l’integrale a denominatore diventa banale, indicando con Lm il perimetro del percorso medio, in tal caso si ha infatti: J0eq =

4A2m · t0 Lm

(21.34)

Possiamo concludere che la sezione tubolare circolare con spessore sottile `e ottimale anche per la rigidezza. Esempio 21.6: Torsione di una sezione a cassone Determinare resistenza e rigidezza della sezione a cassone di lega leggera (E = 76 GPa, ν = 0.3 e σam = 250 MPa) rappresentata in figura 21.39 con i seguenti dati: a = 160 mm, b = 90 mm, ta = 2tb = 6 mm.

tb

b ta

a Figura 21.39: Sezione a cassone.

Il contorno medio dello spessore `e un rettangolo di lati a − tb e b − ta per cui l’area sottesa `e: Am = (a − tb ) (b − ta ) = 1.319 · 104 mm2 Sono critici i punti che appartengono ai lati verticali della sezione (dove lo spessore `e minore): W0 = 2Am tb = 7.913 · 104 mm3 Il massimo momento torcente trasmissibile per l’ammissibilit`a del materiale in base al modello di Tresca vale: σam Mz,am = W0 = 9.891 kNm 2 Per valutare la rigidezza `e necessario determinare l’integrale:   Z dλ a − t b b − ta =2 + = 108.3 t (λ) ta tb Γm

da cui: J0eq = 6.422 · 106 mm4

679

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

e quindi la rigidezza torsionale: GJ0eq = 1.877 · 1011 Nmm2

Esercizio 21.10: Caratteristiche torsionali a parit`a di ingombro e materiale Confrontare in termini di resistenza torsionale e rigidezza torsionale le sezioni di figura 21.40 che hanno la stessa area e lo stesso comportamento flessionale rispetto all’asse orizzontale. 2c

10c

10c c

c

10c

10c a)

b)

Figura 21.40: Sezioni con lo stesso comportamento flessionale rispetto all’asse orizzontale.

Esercizio 21.11: Effetto della forma del profilo medio Piegando e saldando una lamiera di spessore t = 3 mm si ottengono le sezioni tubolari indicate in figura 21.41, tutte con la stessa lunghezza del contorno medio: Lm = 50t. Determinare i rapporti tra i moduli di resistenza e tra le rigidezze torsionali rispetto ai relativi valori massimi.

2t a)

t

t

b)

c)

t d)

t e)

Figura 21.41: Sezioni tubolati con vari profili medi: a) tubolare schiacciato, b) triangolo equilatero, c) quadrato, d) esagono regolare, e) circonferenza.

680

21.8. APPLICAZIONI DELL’ANALOGIA DELLA MEMBRANA ALLE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

21.8 Applicazioni dell’analogia della membrana alle sezioni in parete sottile L’analogia della membrana, a cui abbiamo fatto riferimento per giustificare le formule della torsione per le sezioni rettangolari, pu`o essere utile anche per giustificare le espressioni valide per altre sezioni ed `e utile per prevederne il comportamento strutturale e per fare confronti. Nel presente paragrafo si considera l’applicazione della teoria della membrana al comportamento torsionale di sezioni in parete sottile. Si considerano sezioni in parte sottile quelle la cui geometria `e caratterizzabile dalla linea Γm , che definisce la posizione media dello spessore, e da uno spessore locale. Lo spessore della parete, non necessariamente costante lungo il profilo, ` deve essere piccolo rispetto alle propriet`a lineari di Γm , in particoalre della sua lunghezza Lm . E opportuno distinguere le sezioni in parete sottile che hanno il contorno chiuso (sezioni tubolari) da quelle che hanno il contorno medio aperto.

21.8.1 Sezioni tubolari i parete sottile Per applicare l’analogia della membrana alle sezioni tubolari `e necessario considerare che: • il dominio di interesse, quindi la regione che deve essere ricoperta dalla membrana elastica libera, ha un contorno esterno e uno interno • entrambi i contorni sono linee di flusso delle tensioni tangenziali e quindi devono essere linee di livello (linee a quota costante) della membrana pressurizzata. Come mostrato in figura 21.42a), l’esperimento si ottiene come sempre incollando la membrana elastica C equibiassialmente pretensionata su un piano rigido A sul quale `e stato praticato ` pero necessario incollare un foro che ha la stessa forma del contorno esterno della sezione. E alla membrana anche un elemento rigido B che ha la forma del contorno interno della sezione. Quando il sistema viene pressurizzato (da sotto) la membrana si deforma e, di conseguenza, l’elemento B tende a sollevarsi con un movimento rigido. Per garantire che, indipendentemente dalla forma della membrana, il contorno interno della sezione abbia sotto pressione livello costante `e necessario, come mostrato in figura 21.42b), che l’elemento B sia vincolato al telaio con una guida prismatica verticale ideale.

C

A

B

B

A

a)

b)

Figura 21.42: Esperimento per l’analogia della membrana applicata a una sezione tubolare: a) elementi piani rigidi, b) sezione che mostra la guida verticale dell’elemento rigido interno B che deve traslare verticalmente.

Supponiamo di eseguire l’esperimento per riprodurre il caso elementare di una sezione tu` intuitivo prevedere che la membrana sotto pressione si bolare circolare di piccolo spessore. E

681

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

deformi assumendo una forma conica. Indipendentemente dalla forma del contorno medio, tuttavia, se lo spessore della parte `e piccolo (ipotesi geometrica di Bredt) la forma della membrana pressurizzata sar`a comunque localmente conica, come mostrato in figura 21.43. In coerenza con le analoghe propriet`a della soluzione di Bredt, si ricava quindi che: • le linee di livello della membrana sono parallele ai contorni come le linee di flusso delle tensioni tangenziali • la pendenza massima della membrana si manifesta nella direzione normale al contorno medio e le tensioni tangenziali sono parallele al contorno • la pendenza della membrana in direzione normale al contorno medio `e costante quindi le tensioni tangenziali non variano nella direzione dello spessore • la pendenza massima della membrana `e inversamente proporzionale alla distanza tra i contorni, analogamente alla legge di dipendenza della tensioni tangenziali con lo spessore • il flusso delle tensioni tangenziali `e in analogia con il dislivello tra i punti B e C (lo scorrimento assiale della guida prismatica). C

B A

p

Figura 21.43: Sezione della membrana anulare sotto pressione.

Dato che il momento trasmesso `e in analogia con il volume sotteso dalla membrana (che comprende anche il volume sotto l’elemento rigido B), si comprende come una sezione tubolare sia molto pi` u efficiente di una sezione equivalente ma aperta. Infatti se, come mostrato nella figura 21.44, consideriamo una sezione equivalente aperta, anche un piccolo istmo manterrebbe la parte interna B solidale alla parte esterna impedendone l’innalzamento. In tali condizioni, a parit`a di tensione tangenziale massima (e quindi di pendenza massima della membrana) il momento trasmissibile, proporzionale al volume sotto la membrana, si ridurrebbe in modo determinate.

C

A B

B

p

A

a)

b)

Figura 21.44: Differenze nel caso di sezione analoga ma non chiusa.

682

21.8. APPLICAZIONI DELL’ANALOGIA DELLA MEMBRANA ALLE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

21.8.2 Sezioni aperte in parete sottile Usando l’analogia della membrana, `e interessante approfondire il confronto tra il comportamento torsionale di sezioni in parete sottile che hanno profilo medio Γm aperto e chiuso. Facciamo in un primo tempo riferimento al pi` u semplice caso di profilo medio circolare e spessore costante, come in figura 21.45, per poi generalizzare a geometrie pi` u complesse. Ricordando che la pendenza massima della membrana (il modulo del gradiente) `e in analogia con il valore massimo del modulo delle tensioni tangenziali e che la direzione di massima pendenza della membrana (la direzione del vettore gradiente) `e normale alla direzione del flusso delle tensioni tangenziali stesse, deduciamo che le linee di flusso delle tensioni tangenziali sono necessariamente, per qualsiasi forma della sezione, linee chiuse. Se il profilo medio della sezione `e una linea chiusa, le linee di flusso delle tensioni si avvolgono attorno il contorno interno come mostrato in figura 21.45a). Invece se il contorno medio `e una linea aperta le linee di flusso delle tensioni tangenziali devono chiudersi attorno al contorno medio, come mostrato in figura 21.45b).

a)

b)

Figura 21.45: Andamento delle linee di tensione in sezioni: a) aperte e b) chiuse.

Sfruttando l’analogia della membrana `e possibile quantificare anche il livello tensionale, almeno se lo spessore locale t `e piccolo. Nel caso della sezione anulare, spessore piccolo implica la costanza delle tensioni tangenziali nella direzione dello spessore per cui, come mostrato in figura 21.46a), l’asse centrale delle azioni agenti sull’elemento di area avente lati t e dλ risulta posizionato a met`a spessore. La risultante di tali azioni (per unit`a di lunghezza) ovvero il flusso delle tensioni tangenziali che scorrono nella sezione, in generale pu`o essere definita come: Zt/2 Φλz =

σλz dρ −t/2

e in questo caso vale: Φλz = σλz t Per una sezione in parete sottile con il contorno medio Γm chiuso, la grandezza Φλz pu`o essere interpretata come un vettore applicato a Γm esempre localmente tangente, come mostrato in 21.46b). Si noti che Φλz ha dimensioni F L−1 e rappresenta quindi una distribuzione lineare di forza che, in effetti, nel caso in esame `e applicata a tutti i punti di Γm . Come gi`a osservato, il momento risultante prodotto dalla distribuzione di σλz agente sulla sezione e quindi anche della distribuzione di Φλz agente sul contorno medio, `e dato dalla relazione (21.31) qui riscritta: Mz = 2Am Φλz

683

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

Γm

Γm t

σ λz

Φλ z

eˆz eˆλ

eˆρ a)

b)

Figura 21.46: Effetto delle tensioni tangenziali per una sezione anulare sottile ridotto alla sua risultante applicata all’asse centrale.

e, nell’analogia della membrana, Φλz `e il prodotto della pendenza della membrana per lo spessore della parete, rappresenta il dislivello tra il bordo interno e quello esterno, il quale `e costante lungo il contorno. Da questo si comprende come la quantit`a Am Φλz sia in analogia con il volume sotteso dalla membrana quando quest’ultima `e pressurizzata. La situazione cambia sostanzialmente nel caso di sezione con profilo aperto. Nell’ipotesi che lo spessore sia piccolo rispetto alle propriet`a geometriche della linea media del profilo (in particolare al suo raggio di curvatura), come nel caso evidenziato per le sezioni rettangolari sottili, la membrana assume localmente una forma a tegola cilindrica. Il rigonfiamento `e quindi caratterizzato da un massimo centrale con pendenze di segno opposto dai due lati. Il flusso globale delle tensioni nello spessore `e nullo e tensioni tangenziali in una parte dello spessore circolano in un verso mentre nell’altra hanno verso contrario. Il sistema di forze parallele agenti sull’elemento infinitesimo tdλ ha pertanto risultante nulla ed equivale a una coppia. La pendenza della membrana ha un andamento lineare nella direzione trasversale eˆρ al contorno medio, e assume il valore nullo in corrispondenza del centro, come illustrato in figura 21.47a).

Γm

Γm

t

2 t 3 Φλ z

σ λz Φλ z

a)

b)

Figura 21.47: Effetto delle tensioni tangenziali per una sezione sottile aperta in cui le azioni tangenziali locali sono state ridotte a una coppia equivalente di vettori flusso.

684

21.8. APPLICAZIONI DELL’ANALOGIA DELLA MEMBRANA ALLE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

Il valore del flusso che attraversa met`a spessore della parete: Φλz

Zt/2 = |σλz |dρ 0

vale:

|σγz,max | t 1 = |σγz,max | t 2 2 4 Considerando che il centro di spinta di una distribuzione triangolare applicata su un segmento di lato l `e localizzato a 2l/3 dal punto di zero, il contorno della linea su cui il flusso di Φλz `e applicato racchiude un regione la cui area `e circa pari a: Φλz =

2 A0 ∼ = A 3 Nel caso di sezione con spessore costante si ha quindi: 2 A0 ∼ = Lm t 3 in cui Lm `e la lunghezza del profilo medio. L’area racchiusa dalla linea di applicazione del flusso Φλz `e in effetti un po’ minore di 32 A dato che alle estremit`a del contorno medio la forma della membrana non pu`o essere cilindrica. Per tener conto di questo, nel caso di sezione con spessore costante si pu`o migliorare i modello considerando l’area sottesa data dall’espressione: 2 A0 ∼ = (Lm − t) t 3 Si noti peraltro che la correzione non `e quantitativamente significativa se: t  Lm . Per una sezione in parete sottile la relazione di Bredt: Φλz =

Mz 2A0

ha pertanto validit`a generale se si interpreta A0 come l’area racchiusa dalla linea a cui `e applicata Φλz . Pertanto si ricava: σλz,max =

4Φλz 2Mz = tmin A0 tmin

dove tmin `e il minino valore dello spessore. Il modulo di resistenza a torsione vale quindi: W0 =

A0 tmin 2

(21.35)

Per la rigidezza torsionale di una sezione in parete sottile, si pu`o adottare la seguente relazione approssimata che fornisce il momento d’inerzia polare equivalente: 4A20 J0eq = R dλ Γm

(21.36)

t(λ)

la quale, nel caso di spessore costante diventa: J0eq =

4A20 t Lm

con Lm la lunghezza del profilo medio nello spessore.

685

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

Esercizio 21.12: Sezione rettangolare soluzione approssimata Confrontare la soluzione ottenuta nel presente paragrafo con la soluzione presentata per la sezione rettangolare considerando diversi rapporti tra i lati.

Esercizio 21.13: Sezioni aperte irregolari e confronti Stimare la resistenza torsionale e la rigidezza torsionale delle sezioni di acciaio illustrate in figura 21.48 con i seguenti dati: Lm = 120mm, t1 = 10mm, t2 = 18mm; R1 = 45mm, R2 = 60mm, e = 6mm. Nel caso della sezione a) confrontare il risultato con quello di una sezione rettangolare avente la stessa altezza e la stessa area. Nel caso b) confrontare la soluzione con una sezione chiusa avente la stessa forma. t2 R2 R1 Lm

t1

a)

e

b)

Figura 21.48: Sezioni aperte a parete sottile

21.9 Effetti locali Per la simmetria del tensore di Cauchy, in corrispondenza dei vertici delle sezioni rettangolari le tensioni tangenziali sono nulle. Per lo stesso motivo la tensione tangenziale `e nulla in corrispondenza di ogni vertice esterno per qualunque sezione in torsione per qualsiasi angolo formato dai lati che vi convergono, come, per esempio, in una sezione esagonale piena o nel punto B di figura 21.49. In corrispondenza di tali zone, infatti, la membrana `e tenuta incollata in due direzioni distinte e quindi `e costretta ad arrivare nel vertice con pendenza nulla da tutte le direzioni. La soluzione ha invece caratteristiche completamente diverse nel caso di vertici rientranti, come per esempio il punto C nella figura 21.49. Indichiamo come rientrante un vertice per cui l’angolo misurato nella regione dove vi `e materiale `e concavo, ovvero α > π (nel punto C tale angolo `e circa 270◦ ). La soluzione analitica del problema della torsione mostra infatti che in corrispondenza di concavit`a lo stato tensionale locale `e in generale pi` u intenso. In particolare, se il vertice rientrante ha raggio di raccordo R0 nullo, il valore teorico della tensione diventa singolare, ovvero tende a infinito al vertice. Per rendersi conto di questa situazione si pu`o pensare all’andamento della membrana che in tali zone presenta effettivamente una partenza brusca e quindi una pendenza iniziale infinita (si dimostra infatti che indicando con r la distanza dal vertice, l’altezza

686

21.9. EFFETTI LOCALI

B

αB

C

αC

H Figura 21.49: Sezione circolare con scanalatura longitudinale.

della membrana `e asintoticamente dato da una relazione tipo C · rm(α) con l’esponente m < 1 che dipende all’angolo α). Il significato fisico di tali singolarit`a e il modo con cui tenerne conto nella verifica strutturale `e un problema non semplice che supera i limiti del presente corso e sar`a approfondito adeguatamente nei successivi insegnamenti di costruzioni meccaniche. Con le attuali conoscenze possiamo peraltro prevedere che si tratta di una problematica del tutto simile a quella esaminata nel caso degli spallamenti degli alberi nel capitolo 19. Poich´e generalmente i materiali strutturali hanno una certa duttilit`a (vedi capitolo 18), picchi di tensione molto localizzati non sono in effetti pericolosi se la trave `e sottoposta a carichi statici. In effetti, nei pressi dell’apice di un intaglio acuto il materiale supera localmente la condizione di primo snervamento e manifesta una localizzata plasticit`a che limita lo stato tensionale al livello dello snervamento. Se tale processo interessa una piccola frazione del volume (in questo caso sarebbe in effetti una piccola zona della sezione della trave) `e generalmente tollerato sia per la resistenza sia per la rigidezza. Se viceversa si adottano materiali fragili, come i ceramici o gli acciai temprati, la questione diviene molto pi` u critica. Infatti in tal caso il materiale non ha significative capacit`a di deformarsi plasticamente e raggiunta la tensione massima si rompe. La decoesione che si produce anche se molto localizzata genera di solito una fessura che riduce ulteriormente lo spessore locale della sezione e generalmente `e caratterizzata da un apice con raccordo ancora pi` u severo dell’intaglio di partenza. In genere quindi per un materiale fragile il superamento locale delle condizioni di resistenza del materiale induce un fenomeno di rottura di tipo catastrofico che interessa l’intero componente anche se il resto del materiale della sezione era, prima dell’innesco, molto meno sollecitato. Effetti pericolosi dei picchi locali si hanno anche nei materiali duttili quando i carichi sono ripetuti (fenomeno della fatica) oppure quando sono applicati repentinamente (in caso di urto). Per le finalit`a del presente corso, si pu`o fare riferimento alle seguenti considerazioni valide in generale per le sezioni in torsione: • vertici rientranti generano condizioni di locale sovrasollecitazione per cui `e prevedibile che il punto critico della sezione sia uno di essi piuttosto che il punto determinato sulla base delle considerazioni finora svolte (nel caso di figura 21.49 per esempio, il punto critico `e sicuramente C e non H) • lo stato di tensione tangenziale determinato con la teoria proposta finora nel presente capitolo (che non considera gli effetti di intaglio) `e comunque utile anche se si vogliono considerare i picchi locali e per l’attuale corso sar`a comunque considerata sufficiente; in altri termini sar`a per ora consentito verificare la sezione di figura 21.49 considerando critico il punto H con l’implicita assunzione di impiegare materiali duttili e con carichi non ciclici e non impulsivi

687

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

• se invece `e necessario avere almeno una stima delle tensioni estreme in corrispondenza degli spigoli rientranti (per esempi `e noto che il materiale della trave `e fragile) si pu`o correggere la tensione nominale (ottenuta localmente senza considerare gli spigoli) con opportuni fattori geometrici (fattori di intaglio) reperibili in articoli scientifici e testi specifici. Nell’ultimo caso `e spesso sufficiente effettuare una stima per la quale si pu`o fare riferimento alle seguenti considerazioni: • il picco di tensione `e limitato (ovvero la soluzione non `e singolare) se vi `e un raccordo di raggio R0 non nullo in corrispondenza del vertice rientrante • il valore del picco di tensione `e in generale dominato dal valore di R0 ed `e elevato se il raggio `e piccolo • quando anche gli effetti locali sono importanti, nella progettazione la cura per i dettagli geometrici locali come R0 diventa fondamentale • la presenza di picchi locali nei vertici rientranti non produce comunque un significativo effetto sul comportamento deformativo globale della sezione, pertanto la rigidezza torsionale della trave pu`o essere stimata con buona approssimazione trascurando gli effetti locali. Per definire una procedura approssimata con cui stimare i picchi nel caso di materiali fragili `e opportuno distinguere i seguenti casi: a) spigoli rientranti in sezioni in cui lo spessore `e piccolo rispetto al diametro della sezione, come avviene nei profilati dell’esempio di figura 21.50a) b) spigoli rientranti in sezioni massive, come nel caso di figura 21.50b) che mostra un ingrandimento di una sezione sul contorno della quale `e presente una cava profonda c raggiata sul fondo; c deve essere significativamente minore della dimensione caratteristica della sezione (per esempio se la sezione `e cilindrica il raggio c  R, se `e un tubolare o un profilato lo spessore locale c  t) Il primo passo per la determinazione della tensione tangenziale massima che si manifesta nel punto H consiste nel determinare la tensione tangenziale nominale τnom che rappresenta la tensione tangenziale che si avrebbe nella zona in assenza di effetti locali. Nel caso di parte sottile, τnom si pu`o ottenere con le formule sviluppate per le sezioni profilate o rettangolari mentre nel caso della sezione massiva la tensione nominale pu`o essere assunta pari al valore che si avrebbe sulla superficie libera in assenza dell’intaglio (la σθz,max nel caso di una sezione circolare).

t c R0

t

R0

H

H

a)

b)

Figura 21.50: Sezioni tipiche con vertici rientranti: a) sezione in parete sottile: profilato a C b) sezione massiva con intaglio superficiale.

688

21.9. EFFETTI LOCALI

Il valore massimo della tensione si ottiene quindi con la relazione: τmax = τH = k · τnom dove il fattore k, chiamato coefficiente d’intaglio, `e un numero puro che nei due casi esaminati `e dato dalle seguenti relazioni: r   t 3 caso a): ka (R0 , t) = max 1.74 ;1 (21.37) R0 r c caso b): kb (R0 , c) = 1 + 2 (21.38) R0 Per entrambi i casi, `e interessante notare che il coefficiente di intaglio risulta molto influenzato dal raggio di raccordo quando questo `e piccolo rispetto alla dimensione caratteristica della geometria dell’intaglio. Gli esempi che seguono illustrano alcune applicazioni di queste formule. Esempio 21.7: Intaglio in una sezione a L Una trave con sezione a L come in figura 21.51 (t = 5 mm, a = 30 mm) deve essere realizzata con un materiale ceramico che sopporta una tensione normale massima σam = 5 MPa. Determinare come il massimo momento torcente applicabile dipende del raggio di raccordo dello spigolo rientrante nell’intervallo 0 < R0 < 2t.

t a

R0

t

H

B a Figura 21.51: Sezione a L di materiale ceramico.

Per un materiale in condizioni di taglio puro la tensione normale massima `e per ogni punto in modulo pari alla tensione tangenziale massima per cui la condizione ammissibile in questo caso diventa: τmax = σam La tensione nominale massima pu`o essere ottenuta con le formule per la sezione rettangolare lunga: W0 = 3 (2a − t) t2 in assenza di effetti locali la sezione sarebbe quindi in grado di trasmettere un momento torcente pari a: Mz,max = σam · W0 = 20.63 Nm Dato il tipo di materiale, `e per`o opportuno considerare anche i picchi. Il punto H `e sicuramente il punto critico perch´e gli altri spigoli non sono rientranti (quindi non serve

689

21. TRAVE SOGGETTA A TORSIONE

raccordarli). Il rapporto tra il momento trasmissibile rispetto al massimo ottenibile `e espresso dalla relazione: Mz,max Mz,am (R0 ) = ka (R0 , t) Il risultato con t = 5 mm `e rappresentato nella figura 21.52. M z ,am ( R0 ) M z ,max

1 0.8 0.6 0.4 0.2 0

0

0.5

1

1.5

2

R0 / t Figura 21.52: Effetto di indebolimento prodotto dal raccordo.

Osserviamo che anche un raggio di raccordo relativamente dolce R0 = t determina un quasi dimezzamento della resistenza della sezione. Se il raccordo fosse R0 = 1 mm la sezione avrebbe una resistenza ridotta a 1/3.

Esempio 21.8: Cava di linguetta Determinare l’effetto di indebolimento prodotto da una cava di linguetta UNI 6604 Forma A in un albero di acciaio avente diametro 2R = 50 mm nel caso di materiale fragile in condizioni di carico statico.

B

R0

c

H

R Figura 21.53: Sezione corrente di un albero con tipica cava di linguetta UNI 6604 Forma A.

690

21.9. EFFETTI LOCALI

Dalla norma ricaviamo che, compatibilmente con le tolleranze, la profondit`a della cava `e 5.50 6 c 6 5.70 mentre il raccordo 0.25 6 R0 6 0.40 (quote espresse in mm). Il caso in esame `e simile all’intaglio di tipo b, ttuativa pu`o notare che la forma della cava non `e esattamente quella rappresentata nella figura 21.50b) perch´e l’angolo dell’intaglio nella cava di linguetta, `e di 270◦ . Per si pu`o dimostrare che la formula proposta per il coefficiente di intaglio (che si riferisce a angoli di 360◦ ) `e cautelativa, per cui possiamo considerare che la riduzione di resistenza dvuto agli effetti locali `e non maggiore di: Mz,am 1 1 q = = Mz,max kb (R0 , c) 1 + 2 Rc0 Si ha quindi: • per la situazione pi` u favorevole c = 5.5 mm, R0 = 0.40 mm: • per la situazione peggiore c = 5.7 mm, R0 = 0.25 mm:

Mz,am Mz,max

Mz,am Mz,max

' 0.12

' 0.095

In base alla valutazione, la presenza della cava riduce quindi la resistenza torsionale dell’albero circa di un ordine di grandezza. La valutazione effettuata `e sicuramente cautelativa sia per la modellazione della geometria dell’intaglio sia per aver trascurato eventuali effetti benefici della duttilit`a del materiale. Tuttavia il risultato `e utile come anticipazione per futuri approfondimenti poich´e evidenzia l’importanza che, nella progettazione meccanica, deve essere dedicata alle caratteristiche (non elastiche) di duttilit`a del materiale e ai dettagli locali della geometria, in particolare in presenza di carichi affaticanti. Il lettore pu` o confrontare tale risultato con la resistenza di un albero cilindrico avente diametro dato da 2R − c, ovvero considerando la riduzione della sezione resistente prodotto dalla cava senza effetto di intaglio.

691

Capitolo 22

Trave soggetta a taglio In questo capitolo `e trattato il comportamento tensionale e deformativo delle travi rettilinee soggette a taglio. La soluzione analitica di questo problema, anche limitata all’ambito dell’elasticit`a lineare, pu`o essere ottenuta per una sezione di forma qualunque solo integrando una equazione differenziale alle derivate parziali, similmente al caso generale della torsione. Rinunciando quindi alla soluzione generale che non ha una grande valenza applicativa, il capitolo sviluppa metodi approssimati adatti pr effeturare verifiche di resistenza e rigidezza per le sezioni pi` u comuni. Nella prima parte `e analizzato il comportamento della sezione rettangolare che rappresenta l’unico caso in cui `e disponibile una soluzione analitica semplice. Estendendo tale risultato `e possibile ottenere un modello approssimato applicabile in altri casi di pratico interesse che comprendono le sezioni circolari e tubolari nonch´e le sezioni a parete sottile a cui possono essere ricondotte travi con ampia diffusione come tubi e profilati. Fortunatamente gli effetti tensionali e soprattutto deformativi dovuti al taglio sono raramente significativi nelle verifiche strutturali di elementi travi. Questo risultato, ampiamente discusso nel capitolo, consente di dare validit`a all’applicazione di metodi semplificati. Nell’ultima parte del capitolo `e fatto cenno al problema generale del taglio mediante l’esame dell’effetto di accoppiamento con la caratteristica torsionale che si verifica quando la sezione non `e simmetrica.

22.1 La prova di taglio I precedenti capitoli, nei quali `e stato esaminato il comportamento delle travi sottoposte alle altre caratteristiche di sollecitazione, sono stati preceduti dall’esame di un esperimento di riferimento in cui il tratto di interesse della trave, avente sezione uniforme, asse rettilineo e lunghezza finita, `e sottoposto all’effetto di azioni esterne applicate agli estremi in modo tale che la zona di interesse fosse interessata solo alle azioni interne prodotte dalla caratteristica in esame. Purtroppo questo esperimento non `e realizzabile per il taglio non solo fisicamente ma anche idealmente. Consideriamo la trave rettilinea a mensola di figura 22.1 soggetta alla caratteristica di sollecitazione uniforme e pari a: Ty (s) = F Questa configurazione sperimentale rappresenta pertanto quanto di meglio si possa ottenere per esaminare gli effetti del taglio Ty se si trascurano, come al solito, i conci vicini dalle estremit` a (le zone di estinzione di De Saint Venant). Tuttavia, il comportamento tensionale e deformativo di tale trave `e necessariamente influenzato anche dalla caratteristica flessionale Mx , come dimostrano i diagrammi delle caratteristiche riportati in figura 22.2. Tutti i conci della

693

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

x

z

l

F y

Figura 22.1: Esperimento del taglio

trave sono effettivamente sollecitati dallo stesso taglio Ty (s) = F ma, se si esclude l’estremo libero, che peraltro `e in zona di estinzione, nessun concio `e sottoposto solo a taglio. Questo risultato `e conseguente al fatto che taglio e flessione sono connessi dalla relazione di equilibrio indefinita del concio: dMx Ty = (22.1) ds che `e valida per ogni concio (sul quale non agisca alcun carico di momento distribuito) e che

s

Ty

z

x

a)

+F

y −Fl

Mx

b)

Figura 22.2: Caratteristiche di sollecitazione indotte nella mensola dal carico trasversale: a) taglio uniforme, b) flessione variabile lungo l’asse.

`e stata discussa e sistematicamente usata nello studio dei solidi monodimensionali nei capitoli precedenti. Ne risulta che l’effetto del taglio `e sistematicamente accompagnato da quello flessionale. Sappiamo peraltro che, nel caso di gradiente non elevatissimo di momento flettente e fuori dalle zone di estinzione, gli effetti della flessione per una trave con asse rettilineo di materiale elastico sono deducibili dalla formula di Navier (capitolo 20). In generale infatti, nella sezione corrente, lo stato di tensione dovuto alla flessione `e monoassiale e dato da una distribuzione lineare in x e y di σzz . L’effetto deformativo della flessione consiste nell’incurvamento della linea d’asse con la conservazione delle sezioni piane normali all’asse deformato (l’ipotesi di Eulero-Bernoulli `e corretta per la flessione). La conseguente trasformazione dei conci in elementi con lati superiore e inferiore curvi e le sezioni piane `e nota. Siamo pertanto in grado di separare a posteriori gli effetti tensionali e deformativi di taglio e flessione che nell’esperimento di riferimento rappresentato in figura 22.1 sono sovrapposti.

694

22.2. LA SEZIONE RETTANGOLARE

22.2 La sezione rettangolare Consideriamo una trave rettilinea a mensola come nell’esperimento di figura 22.1 con la sezione rettangolare uniforme di lati b × h rappresentata in figura 22.3a), ci proponiamo di prevedere l’effetto tensionale prodotto dal solo taglio. Lo stato di tensione dovuto alla flessione per una sezione generica `e dato da: σzz =

Mx Mx y = 12 3 y Jx bh

Per l’equilibrio globale, `e necessario che la distribuzione dei vettori tensione agenti sulla faccia positiva della sezione corrente Ω debba avere risultante in direzione y. Le componenti normali sigmazz della flessione non danno alcun contributo ed `e quindi necessario che sulla sezione si manifestino componenti tensionali di tipo σzy . In particolare deve essere soddisfatta la relazione (prima cardinale): Z σyz dxdy = hσyz i · A

Ty = Ω

in cui hσyz i indica il valore medio della tensione tangenziale nella sezione e A = bh l’area della sezione stessa. Analizziamo la soluzione pi` u semplice che consiste nell’assumere la componente tensionale σzy uniforme nella sezione, come illustrato nella figura 22.3b).

b B x

h

z y

σzy σyz

σyz

x

z y a)

b)

Figura 22.3: Sollecitazioni indotte dal taglio: a) sezione rettangolare e b) ipotesi tensionale elementare

Si verifica per`o immediatamente che tale distribuzione viola condizioni di equilibrio locale. La simmetria del tensore di Cauchy impedisce infatti che la componente tensionale σzy si manifesti in corrispondenza dei lati del contorno paralleli a x. Analogamente a quanto visto per la torsione, possiamo quindi concludere che, qualunque forma abbia la sezione: `e possibile che su una sezione corrente di trave si manifestino tensioni tangenziali non nulle, ma, in corrispondenza dei bordi liberi, possono agire solo componenti parallele al contorno stesso. Dato pertanto che le tensioni tangenziali σzy devono annullarsi per y = − h2 e per y = all’interno della sezione esse dovranno assumere un massimo maggiore del valor medio:

h 2,

σyz,max > hσyz i L’ipotesi di tensione uniforme quindi, oltre che non essere localmente equilibrata, non appare nemmeno cautelativa.

695

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

Per superare questa difficolt`a, lo scienziato russo Dimitrii Ivanovich Jourawski (1821-1891) assunse che per il caso esaminato la tensione non variasse in direzione x ma solo in direzione y. In forma analitica, l’ipotesi di Jourawski si scrive quindi come: σyz = σyz (y) e, in forma grafica `e illustrata in figura 22.4.

σyz ( y) x z

y Figura 22.4: Ipotesi di Jourawski per la sezione rettangolare

Per ottenere la dipendenza delle tensioni tangenziali dalla posizione y si ricorre a un approccio simile a quello adottato per la formula di Bredt nel capitolo 21. Come mostrato in figura 22.5, per un concio di trave di estensione assiale (generica) ∆s, consideriamo il sotto-concio rappresentato da tutti i punti che hanno ordinata maggiore di un livello prefissato: y > y 0 . Indicheremo con l’apice tutte le grandezze che si riferiscono al sottoconcio, in particolare la sezione corrente: Ω0 .

σzy ( y′) Δs

x

z

y′

Ω′

y

Figura 22.5: Sottoconcio di trave ottenuti considerando i punti che hanno ordinata maggiore di un livello prefissato.

Come si vede in figura 22.5, sulla superficie superiore del sottoconcio, la cui area `e b × ∆s, agisce la (sola) componente tensionale tangenziale σzy (rappresentata positiva) e questa `e uniformemente distribuita perch´e: • non dipende da s dato che taglio e sezione non cambiano lungo l’asse e quindi tutti i conci sono sollecitati nello stesso modo dal taglio

696

22.2. LA SEZIONE RETTANGOLARE

• non dipende da x perch´e σzy `e coniugata di σyz la quale `e costante sulla corda per l’ipotesi di Jourawski. Indichiamo quindi tale tensione come: σyz y 0



allo scopo di esplicitare il fatto che in genere si ottiene un valore che dipende dalla posizione y 0 del taglio. Appare evidente che, se sul sottoconcio agissero solo componenti tangenziali, la prima cardi` quindi necessario considerare il contributo anche nale in direzione z non sarebbe soddisfatta. E delle altre azioni assiali che non possono derivare direttamente dall’effetto del taglio. L’apparente contraddizione si risolve tenendo conto che la presenza del taglio impone l’esistenza di un gradiente assiale di momento flettente, come indicato dalla relazione (21.1). Ne consegue che i momenti dovuti alla flessione agenti sulle due sezioni del concio devono essere diversi. L’effetto sul sottoconcio del gradiente assiale del momento flettente `e illustrato in figura 22.6. Si osservi che nella figura `e stata riprodotta una condizione di sollecitazione generica con tutte le quantit`a rappresentate considerate positive allo scopo di facilitare l’ottenimento della formuala in senso algebrico. Lo schema di corpo libero di un generico concio di trave dell’esperimento avrebbe dovuto considerare che il momento flettente `e negativo ma i risultati che si ottengono sono identici.

σzz ( s +Δs) σzy ( y′)

z

x y′

Ω′

Δs

y

σzz ( s)

σzy ( y′)

σzz ( s +Δs)

Δs

σzz ( s +Δs)

a)

b)

Figura 22.6: Sottoconcio con l’effetto di tutte le azioni esterne che hanno componente assiale assunte positive: vista di fianco; b) rappresentazione assonometrica.

Usando la formula di Navier per valutare gli effetti della flessione, imponiamo la prima cardinale del sottoconcio in direzione z: Z Z  Mx (s + ∆s) Mx (s) − ydxdy + ydxdy − b∆s · σzy y 0 = 0 Jx Jx Ω0

Ω0

in cui Jx `e il momento d’inerzia dell’intera sezione (nel caso specifico Jx = quindi: Z  Mx (s + ∆s) − Mx (s) 1 0 σzy y = ydxdy b∆s Jx

bh3 12 ).

Si ricava

Ω0

Considerando che i momenti Mx non dipendono dalle varabili di integrazione (il momento

697

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

flettente cambia lungo l’asse ma ha un valore unico per ogni sezione), si ottiene: Z  1 Mx (s + ∆s) − Mx (s) ydxdy σzy y 0 = bJx ∆s Ω0

Osserviamo che: • il rapporto

Mx (s+∆s)−Mx (s) ∆s

`e semplicemente il taglio: Ty

• l’integrale `e il momento statico rispetto all’asse centrale principale d’inerzia x della sottosezione Ω0 (vedi appendice D) e pertanto lo esprimiamo formalmente come Sx0 . Si ottiene quindi la seguente formula di Jourawski   Ty Sx0 σyz y 0 = σzy y 0 = bJx

(22.2)

La tensione tangenziale `e quindi variabile perch´e il momento statico Sx0 dipende dalla posizione y 0 . Prima di esplicitare la dipendenza dai parametri geometrici della sezione rettangolare osserviamo che, in coerenza con quanto richiesto: • per y 0 = annulla

h 2

la sottosezione Ω0 degenera in un segmento e il relativo momento statico si

• per y 0 = − h2 la sottosezione Ω0 coincide con l’intera sezione corrente Ω il cui momento statico `e nullo perch´e l’asse x `e centrale. Esempio 22.1: Formula di Jourawski per la sezione rettangolare Esplicitare la formula di Jourawski per la sezione rettangolare, determinando il valore massimo della tensione tangenziale e i punti critici sulla sezione per gli effetti del taglio.

b

h

x

z y′

Ω′

G′

yG′

h 2

y Figura 22.7: Sezione e sottosezione rettangolare

Con riferimento alla figura 22.7, il momento d’inerzia dell’intera sezione `e Jx =  l’ordinata del baricentro G0 della sottosezione Ω0 che ha area A0 = b · h2 − y 0 vale:   1 h yG0 = + y0 2 2

698

bh3 12 ,

e

22.2. LA SEZIONE RETTANGOLARE

per cui: Sx0 y

 0

1 0 = A0 y G = 2

"  # h 2 − y 02 2

La componente σyz ha la seguente espressione: " "  0 2 #  0 2 # 0  T S T 3 y 3 y y y x σyz y 0 = = 1− = hσyz i 1 − bJx 2 bh h/2 2 h/2 Le tensioni tangenziali σyz hanno l’adamento parabolico che `e mostrato nella figura 22.8.

x

z

H

z

σyz ( y) y

a)

σyz

x

y

b)

Figura 22.8: Andamento delle tensioni tangenziali σyz dovute al taglio Ty nella sezione rettangolare: a) qualitativo b) profilo quantitativo

Risultano critici tutti i punti appartenenti all’asse x. La formula ottenuta nel precedente esempio 22.1 fornisce la tensione tangenziale in funzione della posizione nella sezione. Usando direttamente la variabile y invece della equivalente y 0 , possiamo semplificare l’espressione come segue: " "   #   # 3 Ty y 2 3 y 2 σyz (y) = 1− = hσyz i 1 − (22.3) 2A h/2 2 h/2 ` stato dimostrato che per la sezione rettangolare la soluzione ottenuta in base alla formula di E Navier e all’ipotesi di Jourawski soddisfa le equazioni di equilibrio, di congruenza e costitutive per la trave elastica rettangolare in regime di piccoli spostamenti e deformazioni (fuori dalle zone di estinzione) per cui `e la soluzione del problema proposto. Valgono le seguenti considerazioni: • la tensione tangenziale massima dovuta al taglio si verifica in corrispondenza dei punti dell’asse x • la distribuzione di σyz (y) ha un andamento parabolico e quindi il valore massimo `e pari a 3/2 del valore medio • lo stato di tensione prodotto dalla caratteristica Ty dove non nullo `e di taglio puro in tutto il volume della trave (con intensit`a non uniforme)

699

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

• si verifica una condizione di complementariet`a da considerarsi favorevole per la resistenza, infatti la caratteristica associata della flessione ha i punti pi` u sollecitati collocati dove gli effetti tensionali prodotti dalla caratteritica taglio sono nulli e, viceversa, le tensioni massime dovute al taglio si manifestano nei punti dell’asse neutro per la flessione. Indicando con τmax il valore estremo del modulo delle tensioni tangenziali dovute al taglio, per la sezione rettangolare possiamo scrivere: τmax =

3 |Ty | 2 A

per cui il modulo di resistenza al taglio per il rettangolo vale: 2 WT = A 3 Generalizzando, per una sezione di forma qualunque la tensione tangenziale massima dovuta al taglio `e espressa dalla relazione: |Ty | τmax = µ (22.4) A con l’introduzione del fattore di resistenza al taglio µ un parametro adimensionale che dipende dalla forma della sezione ed `e necessariamente maggiore di 1. Per una generica sezione, il modulo di resistenza al taglio si pu`o esprimere come: A µ

WT =

(22.5)

relazione che dimostra come, in coerenza con tutte le altre caratteristiche di sollecitazione, anche per il taglio, la tensione massima dipenda solo da propriet`a geometriche e non costitutive. Come per la forza normale, il modulo di resistenza a taglio `e proporzionale all’area della sezione e quindi alla sua estensione, tuttavia in questo caso la presenza del fattore µ esplicita la ` interessante osservare che il fattore µ `e uguale a 3 per tutte le dipendenza anche dalla forma. E 2 sezioni rettangolari, indipendentemente dal rapporto tra i lati. Ne consegue che, per esempio, per una mensola con sezione rettangolare (non quadrata), come in figura 22.1 le tensioni massime σzz possono dipendere marcatamente da come `e orientamenta l’ellisse d’inerzia rispetto all’asse della forza applicata mentre le tensioni tangenziali massime dovute al taglio non ne risentono. In un problema tridimensionale, se la sezione rettangolare `e sottoposta a entrambe le componenti di taglio Ty e Tx la soluzione si pu`o ottenere per sovrapposizione degli effetti. In tal caso si manifestano infatti anche componenti: " "   #   # 3 Tx x 2 3 x 2 σxz (x) = 1− = hσxz i 1 − 2A b/2 2 b/2 e il punto pi` u sollecitato `e il baricentro dove: q τmax =

700

3 2

Tx2 + Ty2 A

22.3. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO

Esercizio 22.1: Resistenza a taglio di una sezione quadrata Data una mensola avente sezione quadrata di lato a, caricata come in figura 22.1 ma con una forza F che forma un anglo θ con il semiasse positivo dell’asse x. Determinare in funzione dell’angolo θ il modulo di resistenza a taglio: WT (θ) =

F τmax

22.3 La teoria approssimata del taglio La formula di Jourawski, che prevede in modo corretto le tensioni tangenziali per una sezione rettangolare, pu`o essere estesa anche ad altre sezioni. Essendo basata su una condizione di equilibrio complessiva del sottoconcio che ha validit`a generale, la formula fornisce previsioni sulle tensioni dovute al taglio che sono corrette in media. Tuttavia, l’ipotesi che le tensioni tangenziali siano costanti su tutto il segmento di separazione del sottoconcio non sempre `e verificata e quindi la soluzione pu`o non essere accurata puntualmente. Per certe sezioni `e opportuno scegliere la forma del sottoconcio in modo opportuno allo scopo di ottenere previsioni pi` u precise, come dimostrano i prossimi sottoparagrafi. Dato che, in genere, il soddisfacimento puntuale delle equazioni dell’elasticit`a non `e garantito da un procedimento che impone solo una condizione di equilibrio per una porzione macroscopica, l’applicazione della formula di Jourawski alle sezioni non rettangolari `e chiamata teoria approssimata del taglio.

22.3.1 Sezione circolare La sezione circolare `e importante nella pratica per gli alberi e per i perni, elementi strutturali che spesso sono soggetti a caratteristiche di sollecitazione di taglio anche intense. Con un sottoconcio che ha la corda di separazione a met`a della sezione, `e possibile stimare la tensione tangenziale agente sull’asse baricentrico applicando il procedimento di Jourawski come mostrato nella figura 22.9. Dato che il momento statico del semicerchio rispetto al diametro vale S 0 = 32 R3 (vedi appendice D) e che la larghezza della corda `e b = 2R, vale la relazione: σyz (0) =

Ty 23 R3 Ty S 0 4 Ty = π 4 = bJx 2R 4 R 3 πR2

Per determinare la tensione negli altri punti della sezione definiamo, come per il rettangolo, la sottosezione Ω0 come la parte di sezione le cui ordinate superano la posizione generica y 0 . Si ottiene in questo modo il segmento circolare illustrato in figura 22.10a). In questo caso oltre al momento statico, anche la corda b dipende dalla posizione y 0 . L’applicazione della formula di Jourawski, lasciata come verifica al lettore, fornisce la seguente relazione:   y 2  Ty S 0 4 Ty σyz (y) = = 1− (22.6) b (y) · Jx 3 πR2 R che dimostra come, anche in questo caso, nonostante la diversa forma della sezione, l’andamento previsto per le tensioni σyz nell’ipotesi di Jourawski `e parabolico in y.

701

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

R x

z

H

σyz ( 0) y Figura 22.9: Applicazione della formula di Jourawski alla sezione circolare per la stima delle tensioni nella fibra neutra

Si pu`o verificare che la distribuzione delle tensioni ottenuta non `e corretta in ogni punto, (an) tuttavia fornisce il valore esatto del valore medio dalla soluzione analitica σyz (x, y) sulla generica corda. Vale quindi la relazione: R b/2

(an) −b/2 σyz (x, y) dx

b

x

z

  y 2  4 Ty = 1− 3 πR2 R

x y′

z B

Ω′

y b ( y′ )

y a)

σyz ( y) b)

Figura 22.10: Determinazione delle tensioni in una sezione circolare: a) definizione del sottoconcio b) ipotesi di Jourawski.

(an)

Peraltro, la variazione delle tensioni σyz (x, y) lungo la singola corda non `e molto elevata e, per gli scopi pratici, l’approssimazione con il suo valore medio `e accettabile. La soluzione di Jourawski presenta per`o anche una diversa anomalia che si evidenzia considerando, per esempio il punto B sul contorno della sezione, come mostrato nella figura 22.10b). Per la simmetria del tensore di Cauchy, `e infatti necessario che le tensioni tangenziali siano parallele a ogni contorno scarico della sezione. Allo scopo di correggere questa incoerenza, conservando la precedente soluzione per le componenti σyz , `e stato proposto di aggiungere opportune componenti orizzontali σxz in modo che la tensione tangenziale risultante risulti tangente al contorno. Questo risultato si ottiene assumendo per ogni corda una dipendenza lineare di σxz dalla posizione x, come

702

22.3. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO

` lasciato al lettore il compito di verificare che l’espressione schematizzato nella figura 22.11. E delle tensioni tangenziali σxz (dipendenti da entrambe le coordinate) coerenti con lo schema proposto `e il seguente: 4 Ty x · y σxz (x, y) = − 3 πR2 R2 In generale la tensione tangenziale in ogni punto della sezione vale: s q  y 2 2 x2 · y 2 T 4 y 2 2 τ (x, y) = [σyz (y)] + [σxz (x, y)] = 1− + 3 πR2 R R4 Si pu`o verificare che, anche introducendo le componenti orizzontali, il punto critico `e localizzato in corrispondenza della retta baricentrica (la fibra neutra per la flessione). Pertanto vale la relazione: 4 Ty τmax = 3A e quindi per la sezione circolare: µ = 43 . Notiamo che il cerchio `e una figura pi` u efficiente del rettangolo per sopportare il taglio. A parit`a di area e di materiale, il taglio che pu`o essere trasmesso da una trave a sezione circolare `e maggiore del 12.5% rispetto a quella di una trave a sezione rettangolare essendo: 9 3 4 u materiale nella zona centrale 2 / 3 = 8 = 1.125. In effetti il cerchio ha comparativamente pi` dove le tensioni dovute al taglio sono pi` u intense e, di conseguenza il rapporto tra il massimo delle tensioni e il valore medio (il fattore µ) `e inferiore a quello del rettangolo.

x

θ

z

σxz ( x, y) σyz ( y)

y σyz

x

σxz

σyz tanθ

Figura 22.11: Introduzione delle tensioni tangenziali σxz per rispettare la condizione di tangenza al contorno.

703

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

Esercizio 22.2: Resistenza a taglio di una sezione trapezia Data la sezione trapezia isoscele di figura 22.12, applicare la teoria approssimata del taglio per determinare sotto l’effetto di un taglio Ty : a) la posizione del punto pi` u sollecitato b) il fattore di resistenza a taglio. Confrontare le soluzioni che si ottengono trascurando o considerando la presenza di tensioni tangenziali in direzione x.

2c

x 4c c

y Figura 22.12: Sezione trapezia simmetrica

22.3.2 Sezione circolare tubolare Per una sezione tubolare di raggio medio Rm e spessore t, l’applicazione del procedimento di Jourawski determina due corde, come indicato nella figura 22.13.

t Rm

x

x

z

z

σyz ( 0) σyz ( y)

y

a)

y

b)

Figura 22.13: Sezione tubolare circolare: a) tensioni in corrispondenza dell’asse neutro e b) sezione in posizione generica.

La presenza di una superficie superiore per il sottoconcio formata da due rettangoli separati,

704

22.3. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO

non costituisce una effettiva difficolt`a nella determinazione delle tensioni tangenziali dato che, per simmetria, non vi `e ragione di ritenere che le tensioni siano diverse nelle due semi-corde. Il valore di b da usare nella formula approssimata `e quindi la somma delle due semi-corde. Tuttavia, se l’ipotesi di Jourawski `e ragionevolmente applicabile per le corde baricentriche, come in figura 22.13a), le solite considerazioni sulla necessit`a della tangenza delle tensioni tangenziali al contorno richiederebbe una successiva correzione con componenti orizzontali in corrispondenza delle altre corde, come in figura 22.13b). Si pu`o notare inoltre che avvicinandosi agli estremi della figura, la larghezza della corda b aumenta e supera significativamente lo spessore del tubo, pertanto in tali zone diviene sempre meno plausibile considerare costanti le tensioni tangenziali sulla corda stessa. Non vi sono peraltro particolari ragioni che impongono di effettuare il taglio del sottoconcio con un piano parallelo all’asse x. In effetti, un sottoconcio come rappresentato in figura 22.14a) pu`o essere usato altrettanto correttamente allo scopo di imporne l’equilibrio in direzione dell’asse della trave. Dal punto di vista matematico, si tratta di considerare un sottoconcio in coordinate polari con la possibilit`a di sfruttare anche i vantaggi che derivano da tale parametrizzazione per la sezione in esame. Infatti, come mostrato in figura 22.14a), pu`o essere convenientemente adottata la coordinata angolare θ, oppure la coordinata curvilinea sul contorno medio della sezione λ che, in questo caso `e: λ = Rm θ Con questa definizione del sottoconcio, si ottengono due vantaggi: • il valore della corda da usare nella formula approssimata b = 2t non dipende dalla posizione λ • le tensioni tangenziali, che nelle coordinate scelte sono: σλz o σθz , risultano naturalmente tangenti ai contorni, per cui la simmetria del tensore di Cauchy `e rispettata senza l’introduzione di correzioni. ` infatti ragionevole che le tensioni tangenziali, in analogia con la soluzione di Bredt, ‘scorrano’ E nella sezione mantenendosi tangenti ai contorni e che, se lo spessore `e piccolo t  Rm , siano approssimativamente costanti in direzione radiale. Come conseguenza, con questo schema di sottoconcio, la formula di Jourawski fornisce risultati pi` u accurati e tende alla soluzione esatta t per Rm → 0. ` lasciato al lettore il compito di verificare che per un tubo circolare di piccolo spessore, E l’espressione delle tensioni tangenziali `e la seguente: σθz (θ) = 2

Ty cos θ A

Il valore massimo si verifica per θ = 0 + kπ e quindi ancora in corrispondenza dei punti dell’asse neutro della corrispondente flessione e vale: τmax = |σθz (0)| = 2

|Ty | A

Pertanto per la sezione tubolare sottile µ = 2. Dato che per la sezione circolare piena si ha µ = 34 , `e presumibile che per una sezione ` quindi ragionevolmente tubolare circolare di spessore non piccolo si abbia 43 < µ < 2. E cautelativo assumere µ = 2 per la verifica di tutti i tubi cilindrici di pratico interesse, anche se non di piccolo spessore.

705

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

Rm

x

θ

λ Ω′

x

z

z

σλz ( λ)

y

a)

y

b)

Figura 22.14: Sezione tubolare circolare con sottoconcio ottenuto tramite sezioni radiali: a) definizione della coordinata angolare e curvilinea sul percorso medio, b) andamento delle tensioni tangenziali, costanti in direzione radiale, che fluiscono nello spessore.

22.4 La teoria approssimata del taglio per le sezioni in parete sottile La teoria approssimata del taglio `e applicabile per prevedere in modo piuttosto accurato la resistenza di travi in parete sottile, come per esempio i profilati. Come nel caso della sezione tubolare considerata nel paragrafo precedente, lo spessore dei profilati `e in genere molto inferiore al diametro della sezione per cui la geometria pu`o essere adeguatamente descritta dalla linea Γm in corrispondenza della posizione media nello spessore della parete e dal valore locale dello spessore. Anche se non `e sviluppata la teoria generale del taglio per sezioni a parete sottile, l’analisi critica di alcuni esempi di pratico interesse consente di illustrarne le ipotesi fondamentali e indica come applicarla e generalizzarla.

22.4.1 Taglio per una sezione a doppio T In figura 22.15a) `e rappresentata una tipica sezione a doppio T che `e generalmente usata per travi che devono sopportare flessioni prevalenti di tipo Mx a cui `e associato il taglio Ty . L’applicazione elementare della formula di Jourawski basata su sottoconci definiti da tagli paralleli all’asse x, come in figura 22.15b), produce il risultato qualitativamente rappresentato in figura 22.15c). Possiamo osservare la presenza di discontinuit`a nell’andamento delle tensioni σyz in corrispondenza dei punti di connessione dell’anima con le piattabande. La discontinuit`a `e giustificata nella formula di Jourawski dalla brusca variazione del valore della corda b che passa da tw nell’anima a c nella piattabanda (il modello semplificato della geometria non tiene conto del raccordo che comunque non eliminerebbe la discontinuit`a). L’assunzione che le tensioni σyz sono costanti nello spessore dell’anima appare plausibile ma `e invece poco verosimile che esse si uniformino immediatamente nell’intera estensione della piattabanda. Inoltre, un valore di σyz non nullo, per quanto basso, in corrispondenza per esempio del punto D (vedi figura 22.15a)) non `e compatibile con la simmetria del tensore di Cauchy. Come sappiamo, infatti, il valore ottenuto `e valido solo come media sullo spessore della corda e, in questo caso, la previsione risulta grossolana. Prima di procedere con una

706

22.4. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO PER LE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

c

tw z

x

h

H D

a)

σyz

z

x

y1′ y2′

B y

tf

b)

y

c)

Figura 22.15: Sezione a doppio T: a) parametri geometrici principali b) sottoconci definiti da tagli paralleli all’asse x; c) corrispondenti andamenti della tensione tangenziale σyz dovute a un taglio Ty .

proposta di miglioramento del modello, `e tuttavia utile che il lettore verifichi di aver compreso il procedimento di calcolo risolvendo il seguente esercizio. Esercizio 22.3: Sezione a doppio T Con riferimento alla sezione in figura 22.15, considerando i seguenti dati: h = 300 mm, c = 120 mm, tw = 8 mm, tf = 20 mm e una forza di taglio Ty = 100 kN, verificare che: a) µ = 3.28 b) σyzH = τmax = 47.6 MPa σyzB = 39.6 MPa c) il valore massimo della tensione valutato nella piattabanda `e σyzD = 2.64 MPa.

Analogamente a come `e stato fatto per la sezione tubolare, anche in questo caso `e conveniente considerare il profilato come una sezione a parete sottile definita da una linea media Γm (che riproduce il doppio T) sulla quale `e definita una ascissa curvilinea λ e, associata a questa, una funzione che esprime lo spessore locale t (λ), come rappresentato in figura 22.16. In questo schema `e naturale rappresentare la plausibile ipotesi che le tensioni tangenziali seguano il profilo medio, disponendosi parallelamente al contorno locale e che, essendo lo spessore piccolo rispetto al diametro della sezione, siano costanti sulla corda. La conseguente soluzione per lo stato tensionale `e mostrata in figura 22.17. Osserviamo che: • l’andamento delle tensioni nell’anima `e identico a quello ottenuto nella soluzione precedente (in effetti `e cambiato solo il nome dell’ascissa curvilinea ma in tale zona σλz = σyz )

707

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

Γm

x

x λ = λ1 λ = λ2

Ω′

y

y

a)

Ω′ b)

Figura 22.16: Sezione a doppio T come sezione a parete sottile definita da un profilo medio Γm e dalla funzione di spessore locale e corrispondente scelta dei sottoconci: a) per i punti dell’anima λ = λ1 il sottoconcio `e come prima; b) per la piattabanda λ = λ2 l’ascissa curvilinea segue il profilo medio e il sottoconcio `e una parte della piattabanda.

σλz = σxz

Γm

H

x t (λ )

λ

σλz =σyz

τ = σλz

B C

y

a)

b)

c)

Figura 22.17: Modello migliorato per l’esame della sezione a doppio T: a) profilo medio nello spessore; b) schema qualitativo del flusso delle tensioni tangenziali nella sezione c) andamento quantitativo dei moduli delle tensioni nei vari punti della sezione.

708

22.4. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO PER LE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

• nell’anima l’andamento delle tensioni `e parabolico, la dipendenza quadratica di S 0 da λ `e giustificata dal fatto che, considerando sottosezioni Ω0 con inizio in posizioni λ diverse 0 variano linearmente con λ nell’anima, sia l’area A0 sia l’ordinata del suo baricentro yG • rispetto alla soluzione con tagli paralleli a x, la previsione dello stato tensionale nelle piattabande cambia significativamente • nell’attuale modello le piattabande sono sollecitate da tensioni del tipo σxz • notiamo che, quando si considerano sottoconci che appartengono alla piattabanda, l’ordi0 non cambia mentre l’area A0 varia linearmente con λ, l’andamento nata del baricentro yG delle tensioni lungo il profilo nelle piattabande `e quindi lineare in λ • il passaggio da componenti σyz in B a componenti σxz in C `e dovuto a una diramazione del flusso delle tensioni tangenziali nelle due parti della piattabanda a una loro distribuzione su una larghezza maggiore (tipicamente tf > tw ) fenomeno che si realizza nella zona di connessione tra anima e piattabanda • nella zona di attacco tra anima e piattabanda si manifestano effetti locali simili a quelli evidenziati negli spigoli rientranti per la torsione e che possono essere trattati in modo analogo • i raccordi che sono previsti in tali zone permettono di limitare i valori di picco delle tensioni tangenziali locali. Per verificare di aver compreso l’applicazione del modello `e utile risolvere l’esercizio 22.4 seguente. Esercizio 22.4: Sezione a doppio T: modello di sezione a parete sottile Con riferimento alla sezione in figura 22.15 e con i dati: h = 300 mm, c = 120 mm, tw = 8 mm, tf = 20 mm e forza di taglio Ty = 100 kN, verificare che: a) µ = 3.28 b) σyzH = τmax = 47.6 MPa,

σyzB = 39.6 MPa,

σxzC = 7.93 MPa

c) il valore medio della tensione σxz nella piattabanda `e 3.96 MPa.

22.4.2 Soluzione semplificata per la sezione a doppio T Per entrambe le soluzioni proposte con i diversi modelli di applicazione della teoria approssimata del taglio, possiamo concludere che, soprattutto per sezioni con l’anima stretta: • il materiale dell’anima `e particolarmente sollecitato • l’andamento della tensione nell’anima `e parabolico ma con gradienti relativamente modesti per cui la tensione non varia molto nell’anima • le tensioni tangenziali nelle piattabande sono basse anche nel secondo modello pi` u realistico a causa della diramazione del flusso delle tensioni e del maggiore spessore della piattabanda rispetto all’anima

709

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

• la conformazione della sezione a doppio T con anima sottile `e tale per cui il taglio Ty `e sopportato in modo prevalente dal materiale dell’anima e il contributo del materiale posto nelle piattabande, che invece `e determinante per il comportamento flessionale, pu`o essere trascurato. Queste osservazioni suggeriscono un modello semplificato, ma che per le pratiche situazioni `e spesso sufficientemente accurato, nel quale si assume che solo il materiale dell’anima trasferisca il taglio e con una distribuzione uniforme. Indicando con Aw = (h − 2tf ) tw l’area dell’anima, con riferimento alla figura 22.18 si ha pertanto: • la tensione massima vale τmax = |σyzH | ∼ =

Ty Aw

• la tensione stimata anche nel punto B vale

Ty Aw

• la tensione stimata nel punto C per continuit`a vale |σxzC | ∼ =

tw Ty 2tf Aw

=

Ty . 2tf (h−2tf )

Aw

x

x

τmax

H

B C a)

y

b)

σxz C

Figura 22.18: Modello semplificato la sezione a doppio T con anima stretta: a) definizione dell’area dell’anima Aw b) andamento dei moduli delle tensioni nei vari punti della sezione.

Questo modello prevede quindi per la sezione a doppio T il fattore di resistenza a taglio: µ=

A Aw

Spesso il taglio non `e la caratteristica di sollecitazione dominante per la sezione per cui questo tipo di semplificazione pu`o essere sufficiente nella pratica. Si nota peraltro che se l’anima `e molto stretta il modulo di resistenza a taglio della sezione (WT = A/µ) pu`o diventare il suo punto debole. L’indicazione di mettere pi` u materiale possibile in corrispondenza delle piattabande allo scopo di ottimizzare la sezione per la flessione, contrasta quindi con la necessit`a di garantire un minimo di resistenza al taglio ed `e alla base dei compromessi proposti nelle sezioni a doppio T di tipo unificato.

710

22.4. LA TEORIA APPROSSIMATA DEL TAGLIO PER LE SEZIONI IN PARETE SOTTILE

Esercizio 22.5: Sezione IPE 200 La sezione unificata IPE 200 ha le seguenti principali caratteristiche: h = 200 mm, c = 200 mm, tw = 5.6 mm, tf = 8.5 mm, verificare che a) il valore esatto del coefficiente di resistenza a taglio nella direzione dell’anima vale µ = 4.321 b) il modello semplificato sottostima la tensione tangenziale massima di meno dello 0.1% (si tratta di un caso particolarmente favorevole dovuto comunque al valore basso del rapporto tra l’area dell’anima e l’area totale) c) in corrispondenza della piattabanda il modello semplificato sovrastima la tensione tangenziale massima del 14%.

22.4.3 Altre sezioni profilate simmetriche La teoria approssimata del taglio come applicata per la sezione a doppio T nel paragrafo precedente pu`o essere generalizzata per prevedere le tensioni tangenziali di sezioni in parte sottile anche di altra forma, almeno quando sono simmetriche rispetto all’asse del taglio. Il seguente esempio illustra l’applicazione per una sezione a T. Esempio 22.2: Sezione a T Per la sezione a T di figura 22.19a) con: h = 80 mm, c = 40 mm, tw = 3 mm, tf = 5 mm e una forza di taglio Ty = 25 kN. Tracciare l’andamento qualitativo quotato delle tensioni tangenziali e determinare il fattore di resistenza a taglio per la sezione.

c C B tf G

x

h tw y Figura 22.19: Sezione a T.

Individuata la posizione del baricentro (vedi figura 22.20a)): d = 56.32 mm, si pu` o ottenere il momento d’inerzia: Jx = 2.443 · 105 mm4

711

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

Nelle sezioni in parete sottile `e utile fissare lungo il contorno medio Γm una ascissa curvilinea, che chiameremo λ, che permetta di individuare univocamente ogni posizione interessante nella sezione. Fissata l’origine di λ per esempio in O, come in figura 22.20a), dividiamo il percorso medio in due tratti rettilinei che definiscono i punti della piattabanda (λ < 2c ) e dell’anima ( 2c < λ < 2c + h − tf ), come mostrato in figura 22.20. Si pu`o osservare che il percorso medio presenta una interruzione in corrispondenza della zona di attacco tra anima e piattabanda (per un tratto di lunghezza pari a tf /2). Tale quantit`a deve peraltro essere piccola rispetto al diametro della sezione se questa `e in parete sottile. In corriposndenza dei punti in cui il profilo medio subisce ramificazioni, queste interruzioni sono necessarie per evitare che il materiale della sezione sia considerato pi` u volte nel calcolo. D’altra parte la zona di attacco dell’anima alla piattabanda costituisce una classica ’zona di estinzione’ anche per la teoria di Jourawski e, se necessario, deve essere trattata in modo specifico. Nella zona di attacco il flusso delle tensioni tangenziali che arivano dall’anima si dirama nella piattabanda ed `e caratterizzato da linee di flusso curve, inoltre le tensioni tangenziali, che localmente hanno entrambe le componenti piane, si addensano sui raccordi. Si osservi che l’ascissa curvilinea λ non presenta alcuna discontinuit`a, per cui λ = 2c − individua il punto C della piattabanda mentre λ = 2c + il punto B dell’anima. I parametri geometrici richiesti nell’equazione di Jourawski sono:  tf per λ < 2c b (λ) = tw per λ > 2c  1 tf (2h − 2d − tf ) λ per λ < 2c 0 S (λ) = per λ > 2c 2 tw (h + c/2 − tf − λ) (2d − c/2 + tf − h + λ)

σxz C

O λ≤

x

G

c 2

σyz B

x

c c ≤ λ ≤ + h −t f 2 2

d y

a)

y

b)

x

σyz G

y

c)

Figura 22.20: Analisi della sezione a T: a) coordinata curvilinea e sottoconcio per la piattabanda; b) sottoconcio per l’anima; c) andamento delle tensioni tangenziali.

L’andamento dello stato di tensione tangenziale conseguente `e mostrato in figura 22.20c) e i valori numerici di interesse sono i seguenti:     c− ∼ c tf ∼ ∼ σxzC ∼ σ 43.3 MPa; σ σ + = = 144.5 MPa = λz yzB = λz 2 2 2

712

22.5. L’EFFETTO DEFORMATIVO DOVUTO AL TAGLIO

τmax = σyzG

∼ = σλz



c tf − +h−d 2 2



∼ = 162.3 MPa

Il massimo si manifesta nel baricentro della sezione, in corrispondenza del quale si ottiene il coefficiente di resistenza a taglio: µ = 2.76

Come nel caso della torsione, anche per il taglio la presenza di spigoli rientranti pu`o essere pericolosa se si usano materiali fragili oppure se i carichi sono ciclici o impulsivi. Per stimare le concentrazioni di tensioni, si pu`o adottare un approccio simile a quello sviluppato per la torsione, usando come tensione nominale il valore ricavato dalla formula di Jourawski. Consideriamo la sezione a T esaminata nell’esempio 22.2 dove, per poter fare considerazioni quantitative, supponiamo che il raccordo tra anima e piattabanda abbia un raggio R0 = 3 mm. Per stimare il coefficiente di intaglio possiamo usare l’espressione introdotta nel capitolo 21: r   t 3 ka (R0 , t) = max 1.74 ;1 R0 per una geometria simile. Considerando il raccordo dalla parte dell’anima abbiamo:   s   tw 3 2 ; 1 = 1.373 ka = max 1.74  R0  da cui il valore stimato per il picco locale di tensione `e τ = ka |σyzB | = 198.4 MPa Considerando il flusso delle tensioni nella piattabanda, il coefficiente di intaglio diventa: r   3 tf ka = max 1.74 ; 1 = 2.05 R0 da cui il relativo picco di tensione: τ = ka |σxyC | = 88.9 MPa I due valori non coincidono in quanto i coefficienti di intaglio sono stati ottenuti con formule approssimate (si ricordi che sono state prese in prestito dalla torsione) e i risultati ottenuti sono indicativi per avere poco pi` u che gli ordini di grandezza dei picchi. In casi di questo genere `e opportuno operare in modo cautelativo e assumere il valore stimato pi` u elevato. Come si pu`o osservare, nella stima effettuata, la presenza del raccordo determina che, per il taglio Ty , il punto critico della sezione non `e pi` u il baricentro. Tuttavia l’aumento locale di tensioni tangenziali non `e cos`ı intenso da costituire elemento di preoccupazione anche se `e impiegato un materiale non molto duttile.

22.5 L’effetto deformativo dovuto al taglio 22.5.1 Analisi della deformazione dovuta al taglio Consideriamo la variazione di configurazione prodotta dal taglio in una trave rettilinea. Come per l’effetto tensionale, non `e possibile realizzare un esperimento in cui l’effetto deformativo

713

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

del taglio si manifesti da solo su un tratto finito di trave. Anche nelle condizioni pi` u semplici, infatti, la trave presenta una deformata in cui gli effetti di taglio e flessione sono sovrapposti. Per semplificare l’esame del fenomeno consideriamo ancora il caso mostrato in figura 22.1 in cui una trave a mensola, avente sezione rettangolare uniforme, `e caricata con una forza trasversale nel baricentro della sezione all’estremo libero. Sappiamo infatti che per questo caso la formula di Jourawski `e corretta. Nella figura 22.21 `e riprodotta schematicamente la mensola deformata vista dalla punta dell’asse x. Dato un generico punto appartente alla linea d’asse, che ha posizione iniziale B e posizione deformata B ∗ , nell’ambito dei corpi poco deformabili possiamo prevedere che: • per simmetria, lo spostamento BB ∗ non ha componenti in diresione x, quindi: u = 0 • a causa dell’assenza di forza normale, la componente assiale dello spostamento w `e trascurabile (tale valore `e in effetti considerato nullo nella meccanica dei corpi poco deformabili) • l’unica componente significativa dello spostamento, che `e in direzione y, viene quindi indicata con il simbolo v • in generale lo spostamento in direzione y dei punti della linea d’asse `e funzione della loro ascissa curviliea e quindi lo indicheremo come: v (s).

l B

C z

a)

y B*

C*

F s

vFl ( s )

b)

v ( s)

vT ( s ) Figura 22.21: Schema della deformata di una trave a mensola: a) rispetto al profilo laterale iniziale (punti appartenenti al contorno della sezione sul piano mediano x = 0) sono mostrati il profilo laterale prodotto dalle sole azioni deformative flessionali e quello complessivo della trave deformata dovuto anche all’effetto del taglio; b) effetto deformativo sui punti della linea d’asse.

Come evidenziato nello schema di figura 22.21b) lo spostamento verticale dei punti della linea d’asse pu`o essere considerato come somma di due termini: v (s) = vF l (s) + vT (s) in cui:

714

22.5. L’EFFETTO DEFORMATIVO DOVUTO AL TAGLIO

• vF l (s) `e il contributo dovuto al fatto che la trave `e sottoposta a momento flettente • vT (s) `e il contributo del taglio. ` opportuno rimarcare che tale separazione pu`o essere effettuata solo formalmente e che E l’esperimento evidenzia solo l’effetto combinato dei due contributi. Il contributo flessionale allo spostamento della linea d’asse per questo problema `e stato ampiamente discusso nel capitolo 19 dove `e stato giustificato dal fatto che i conci della trave sono incurvati dal momento flettente (in misura direttamente proporzionale alla loro distanza dall’estremo libero). Nel capitolo 19 `e stata calcolata la freccia massima dovuta al solo effetto flessionale: F l3 F l3 vF l (l) = =4 3EJx Ebh3 La conoscenza della forma di tutti i conci inflessi dal momento permette di valutare lo spostamento di tutti i punti della trave applicando le ipotesi deformative di Eulero-Bernoulli. Nella figura 22.21 `e mostrato con linea tratteggiata quale sarebbe il profilo deformato della trave se fossse soggetta al solo momento flettente dovuto al carico applicato. Se si considera il campo di spostamento associato al solo taglio, ottenuto come differenza tra lo spostamento effettivo e quello dovuto alla sola flessione: v − vF l , si ottiene il risultato mostrato in figura 22.22.

γ

vT ( s )

vT ( l )

Figura 22.22: Schema della deformata di una trave a mensola in cui l’effetto flessionale `e stato eliminato in modo che sia evidenziato solo il contributo del taglio Ty = F costante.

L’osservazione della figura 22.22 consente di giungere alle seguenti conclusioni: • l’asse della trave deformata dal solo taglio `e rettilineo e (uniformemente) inclinato di un angolo γ • lo stesso effetto di rotazione `e prodotto su tutti i segmenti paralleli all’asse della trave • lo spostamento dei punti della linea d’asse `e proporzionale a s, per piccoli spostamenti: vT (s) = γ · s • i segmenti che prima della deformazione avevano la direzione dell’asse y non si conservano retti ma assumono tutti la medesima forma a esse (come sempre escluse le zone di estinzione). Se consideriamo che tutti i conci della trave sono uguali e sollecitati dalla medesima caratteristica di sollecitazione, una deformata in cui tutti si deformino nello stesso modo `e prevedibile. Anche la forma a ‘esse’ assunta dai conci deformati pu`o essere giustificata se si considera che lo

715

22. TRAVE SOGGETTA A TAGLIO

stato di tensione indotto nella trave da Ty `e di taglio puro con intensit`a nulla agli estremi, superiore e inferiore, e valore massimo nel baricentro. Nella figura 22.23 `e evidenziato il processo deformativo di vari elementi della trave posti a varia distanza dal baricentro.

γ

dΩ*



γ

B

B C

C

D H D

γ yzmax H

a)

b)

c)

d)

Figura 22.23: Schema della deformata di un concio di trave sotto l’effetto del taglio a) sezione corrente con elementi deformati; b) gli stessi elementi prima dell’applicazione del carico con le tensioni tangenziali previste dalla teoria del taglio c) effetto deformativo delle tensioni (solo deformazioni angolari) e infine d) rotazione rigida applicata a tutti che ne ripristina la configurazione data in a).

Si osservi che l’elemento infinitesimo dΩB `e scarico e, in effetti, subisce solo uno spostamento rigido (traslazione di γ · s e rotazione rigida di γ) necessario affinch`e rimanga congruente con il profilo superiore della trave. Diversamente, l’elemento baricentrico dΩH subisce, oltre a un analogo movimento rigido, anche una deformazione angolare: γyz,max =

Ty τmax =µ G GA

Sotto l’effetto del taglio pertanto le sezioni della trave non si conservano piane e quindi l’ipotesi di Eulero-Bernoulli non descrive questo processo deformativo.

22.5.2 Rigidezza a taglio della sezione L’angolo di inclinazione γ della linea d’asse rappresenta l’effetto deformativo associato al taglio. Per determinarlo quantitativamente `e utile applicare il metodo energetico che prevede di imporre l’uguaglianza tra il lavoro fatto dal carico esterno in conseguenza dello spostamento del punto di applicazione dovuto al solo effetto deformativo del taglio e l’energia elastica immagazzinata nella trave per le tensioni-deformazioni prodotte dal taglio stesso: 1 1 F · vT (l) = 2 2

Zl Z

2 + σ2 σyz xz dxdyds G

0 Ω

Questa relazione si pu`o esplicitare tendo conto che: F = Ty

716

e

vT (l) = γ · l

22.5. L’EFFETTO DEFORMATIVO DOVUTO AL TAGLIO

per cui vale la reazione: Zl Z

2 + σ2 σyz l xz dxdyds = G G

Z

0 Ω

2 2 σyz + σxz dxdy



Se le tensioni possono essere ottenute in modo sufficientemente accurato tramite la teoria approssimata del taglio, tenendo conto che, con un aopportuna scelta della direzione di λ si pu` o 2 + σ 2 = σ 2 , si ottiene: sempre scrivere σyz xz λz Zl Z

2 σλz dxdyds

0 Ω

Ty2 l = 2 Jx

da cui: Ty γ= GJx2

Z 

S0 b

Z 

S0 b

2 dxdy



2 dxdy



L’espressone non pu`o essere ulteriormente esplicitata perch´e la funzione integranda dipende dalla posizione nella sezione e l’integrale deve essere effettuato per ogni sezione particolare. 2 ha le dimensioni di una superficie Una semplice analisi mostra per`o che la quantit`a R  S0Jx2 b



dxdy

e quindi `e una grandezza proporzionale all’area della sezione. Possiamo quindi scrivere la relazione generale: Jx2 A = R S 0 2 χ dxdy b Ω

che definisce il parametro adimensionale: A χ=

R  S 0 2 Ω

b

dxdy

Jx2

chiamato fattore di rigidezza a taglio della sezione. Il fattore di rigidezza a taglio `e un altro parametro di forma della sezione che tipicamente appartiene all’intervallo: 1 0; v′′ < 0 R D

B

(a)

z y

B* B* s

D z

C

B R

(b)

y

kx = −

1 < 0; v′′ > 0 R

Figura 24.5: Raggio di curvature e curvatura della linea d’asse

prima forma dell’equazione della linea elastica: d2 v Mx =− 2 ds EJx

(24.4)

che si scrive comunemente in questo modo: EJx v 00 = −Mx

(24.5)

La relazione (24.5) rappresenta una equazione differenziale ordinaria lineare del secondo ordine, generalmente non omogenea, chiamata equazione della linea elastica del II ordine. Dato che, per valutare la deformata delle linea d’asse della trave con tale equazione `e necessario esprimere analiticamente il momento flettente, l’equazione del secondo ordine `e adatta per risolvere problemi isostatici. Consideriamo i seguenti esempi. Esempio 24.3: Linea elastica per una mensola Determinare l’equazione della linea elastica per una trave a mensola con carico all’estremit` a.

743

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

l

C

B

EJx

D P

Figura 24.6: Mensola con carico trasversale all’estremo

Si tratta del classico problema isostatico di Galileo per il quale la determinazione dell’espressione analitica del momento flettente `e immediata: Mx (s) = −P · (l − s) (in questi calcoli `e fondamentale il rispetto delle convenzioni sui versi degli assi e sui relativi segni della grandezza scalari coinvolte). Si procede alla doppia integrazione dell’equazione: v 00 = ottenendo:

P · (l − s) EJx

  P s2 v = · ls − + c1 EJx 2   2 P s3 s v= + c1 s + c2 · l − EJx 2 6 0

Le precedenti espressioni contengono le consuete due costanti di integrazione che si ricavano dalle C.C. in questo caso evidenti (incastro in B): 1) v (0) = 0 2) v 0 (0) = 0 Sostituendo si ottiene c1 = c2 = 0, da cui l’espressione finale: v=

P · (3l − s) s2 6EJx

che dimostra come la linea elastica sia una polinomiale cubica. Sfruttando il risultato ottenuto dell’ultimo esempio, possiamo valutare tutte le grandezze deformative di interesse. In particolare, la freccia in C, il punto dell’asse che ha il massimo spostamento, la cui espressione `e: P l3 vC = v (l) = 3EJx Ritroviamo quindi il valore noto della freccia per la mensola senza il contributo deformativo del taglio. Questo risultato `e coerente con il fatto che, avendo assunto l’ipotesi deformativa di Eulero-Bernoulli, sono stati considerati solo gli effetti deformativi flessionali. Sarebbe possibile inglobare nell’equazione della linea elastica anche il contributo del taglio ma, considerata la sua scarsa entit`a, la complicazione che ne consegue non `e giustificata. Possiamo sfruttare la soluzione completa per ottenere altre interessanti informazioni sulla trave deformata, come per esempio la rotazione della sezione di estremit`a oppure della sezione

744

24.3. EQUAZIONE DELLA LINEA ELASTICA PER SPOSTAMENTI TRASVERSALI

di mezzeria D. Queste valutazioni sono immediate se si tiene conto che, sempre in base all’ipotesi di Eulero-Bernoulli, le sezioni si conservano piane e normali alla linea d’asse deformata. Chiamata θ (s) la rotazione della sezione generica (assunta positiva quando equiversa con l’asse x secondo la regola della mano destra) vale la seguente relazione: θ (s) = −v 0 (s)

(24.6)

nella quale, in base alle solite ipotesi di corpi poco deformabili (|θ (s)|  1), `e stato assunto l’angolo in radianti pari alla sua tangente trigonometrica. La relazione precedente permette di dare una ulteriore interpretazione geometrica alla derivata prima della freccia. Nell’esempio 24.3, si ottiene in particolare: 1 P l2 θC = −v 0 (l) = − 2 EJx   l 3 P l2 θD = −v 0 =− 2 8 EJx Il seguente problema `e particolarmente istruttivo. Esercizio 24.1: Spostamento degli estremi della sezione Assumere la trave in figura 24.6 di sezione quadrata con lato a = 0.2l e determinare lo spostamento completo (con entrambe le componenti piane), dei punti C1 e C1 estremi appartenenti all’asse y della sezione C evidenziati in figura 24.7.

a

C1 C2 Figura 24.7: Estremo libero dela mensola in figura 24.6

Esempio 24.4: Linea elastica con carico di momento Valutare la linea elastica nel problema rappresentato in figura 24.8 e determinare rotazione e spostamento della sezione di estremit`a. l B

C M

EJx

Figura 24.8: Mensola con carico di momento

La soluzione dell’equazione `e particolarmente semplice in questo caso dove il momento flettente `e costante: Mx (s) = M

745

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Le C.C. sono le stesse dell’esempio precedente e la soluzione finale `e quindi: v 0 (s) = −

M · s; EJx

v (s) = −

M s2 · EJx 2

che dimostra come la linea elastica sia una parabola con vertice nell’origine. La rotazione della sezione di estremit`a vale quindi (come previsto): θC = −v 0 (l) =

Ml EJx

mentre, dal punto di vista della figura 24.8, il punto C si alza (la v (l) `e infatti negativa) di: 1 M l2 δC = −v (l) = 2 EJx

Al lettore attento non dovrebbe essere sfuggita un’incongruenza con le considerazioni sviluppate nel capitolo 20. In effetti, nell’ultimo esempio 24.4 `e riprodotta la condizione di flessione retta di una trave rettilinea per la quale (escluse come sempre le zone di estinzione) `e noto che la linea d’asse deformata `e un arco di circonferenza e non, come `e stato appena trovato, un arco di parabola. L’apparente contraddizione si risolve tenendo conto che: • la soluzione corretta `e effettivamente l’arco di circonferenza della quale l’arco di parabola `e una approssimazione • in questo caso l’errore non dipende dall’aver trascurato l’effetto deformativo del taglio, dato che tale caratteristica `e assente, ma dall’aver trascurato il contributo della derivata prima nella espressione della curvatura • considerando l’espressione esatta della curvatura `e possibile dimostrare (risolvendo per`o una complessa equazione differenziale non lineare) che la soluzione `e effettivamente un arco di circonferenza • come si pu`o facilmente verificare, la curvatura prevista dalla linea elastica parabolica `e esatta nell’incastro, in tal punto, in effetti, la derivata prima `e nulla e non si manifestano gli effetti dell’approssimazione. Possiamo concludere che la parabola trovata rappresenta un’ottima rappresentazione polinomiale della circonferenza esatta. Il seguente esempio dovrebbe permettere al lettore di rendersi conto dell’esiguit`a degli effetti di tali approssimazioni nelle situazioni di pratico interesse. Esempio 24.5: Mensola con momento: confronto Considerare l’esempio 24.4 con i dati: materiale acciaio (E = 206 GPa, σam = 500 MPa), lunghezza l = 1 m sezione quadrata di lato a = 60 mm. Determinato il massimo momento M che pu`o essere applicato per la resistenza, si confrontino la frecce massime calcolate usando la deformata circolare e l’approssimazione parabolica.  Il massimo momento applicabile in condizioni di ammissibilit`a vale: M = σam Wx = σam

746

Jx 1 = a3 σam = 18 kNm a/2 6

24.3. EQUAZIONE DELLA LINEA ELASTICA PER SPOSTAMENTI TRASVERSALI

Sotto tale carico la linea d’asse assume la curvatura (esatta): kx =

2 σam M = = 8.091 · 10−5 mm−1 EJx a E

ovvero la linea d’asse deformata diventa un arco di circonferenza con raggio: R=

a E 1 = = 12.36 m kx 2 σam

L’angolo al centro su cui si avvolge l’arco di circonferenza, che equivale alla rotazione della sezione C, vale quindi: θC =

l l σam =2 · = 0.081 (= 4.64◦ ) R a E

Notiamo che tale angolo `e espresso (a parte il fattore 2 che dipende dalla forma della sezione) dal prodotto di due numeri puri, il primo, rapporto tra lunghezza e diametro della trave, dobbiamo aspettarci che in genere sia dell’ordine delle decine, mentre il secondo `e un numero molto piccolo (per l’acciaio e i normali materiali strutturali `e dell’ordine di 10−3 ). Il basso valore numerico di θC quindi non stupisce anche in questo esempio in cui per una trave piuttosto snella il materiale `e stato portato al limite di ammissibilit`a. Lo spostamento verticale (verso l’alto) esatto vale quindi: δC = R [1 − cos (θC )] = 40.431 mm Il valore che si ottiene dalla linea elastica `e: δCappr =

1 M l2 l2 σam = = 40.453 mm 2 EJx a E

da cui si ricava l’errore dovuto all’approssimazione della curvatura: er =

δCappr − δC = 0.055% δC

Per quanto nell’esempio considerato lo spostamento sia significativo (δC ≈ a), l’errore `e trascurabile ai fini di ogni valutazione tecnica. In particolare, `e da presumere che l’incidenza degli effetti locali sul valore della freccia massima sia molto pi` u significativa. Non sempre il procedimento adottato negli esempi precedenti consente di ottenere la soluzione. In un problema iperstatico infatti, non `e possibile esprimere la funzione momento flettente prima di ottenere la soluzione. Per questi casi `e necessario sviluppare ulteriormente l’equazione della linea elastica del secondo ordine introducendo, oltre alla congruenza e alle equazioni costitutive, anche le condizioni che derivano dall’equilibrio. A tale scopo effettuiamo la derivazione membro a membro dell’equazione della linea elastica del secondo ordine ottenendo:   d d2 v dMx EJx 2 = − ds ds ds Anche nella valutazione degli spostamenti trasversali, per motivi di semplicit`a ma senza significativa perdita di generalit`a, assumiamo che la sezione sia uniforme o, al pi` u, vari debolmente con l’ascissa s in modo che la rigidezza flessionale possa essere estratta dall’operatore di derivazione.

747

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Notiamo inoltre che la derivata del momento flettente `e il taglio (capitolo 9): dMx = Ty ds pertanto possiamo scrivere la relazione: d3 v = −Ty (24.7) ds3 che rappresenta l’equazione della linea elastica del terzo ordine. Tale relazione consente di attribuire un significato fisico alla derivata terza della freccia trasversale perch´e dimostra che tale quantit`a `e strettamente legata alla caratteristica di sollecitazione taglio. Questo passaggio non `e ancora risolutivo dato che di solito nemmeno l’espressione analitica del taglio `e direttamente disponibile nei problemi iperstatici. Si procede quindi a un’ulteriore derivazione nella quale `e sfruttata ancora l’ipotesi di sezione uniforme, o debolmente variabile, e la seguente equazione indefinita di equilibrio del concio (capitolo 10): EJx

dTy +p=0 ds Si ottiene infine la relazione:

d4 v = p (s) (24.8) ds4 che rappresenta l’equazione della linea elastica del quarto ordine. Finalmente la grandezza in ingresso, il termine noto dell’equazione differenziale, `e direttamente il carico e quindi il procedimento di soluzione non prevede alcuna preliminare valutazione di statica (tutto il fenomeno `e inglobato nell’equazione, anche l’equilibrio). Anche i problemi iperstatici possono pertanto essere risolti con l’equazione del quarto ordine 24.8. I seguenti esempi illustrano le modalit`a di applicazione del procedimento. EJx

Esempio 24.6: Linea elastica per trave iperstatica Determinare la linea elastica per lo schema descritto nella figura 24.9. p

B

C

EJx l

Figura 24.9

A causa dell’iperstaticit`a siamo indotti a partire dall’equazione del quarto ordine. Il carcio per unit`a di lunghezza trasversale `e costante per cui la sequenza delle derivazioni `e la seguente: d4 v EJx 4 = p ds 3

EJx ddsv3 = ps + c1 2 2 EJx ddsv2 =p s2 + c1 s + c2  dv 1 s3 s2 = p + c + c s + c 1 2 2 3 ds EJx 6  1 s4 s3 s2 v = EJx p 24 + c1 6 + c2 2 + c3 s + c4

748

24.3. EQUAZIONE DELLA LINEA ELASTICA PER SPOSTAMENTI TRASVERSALI

Prima di procedere alla determinazione delle costanti, `e opportuno considerare il risultato ottenuto. L’espressione polinomiale di 4 grado finale `e ancora non specializzata dalle C.C. e quindi rappresenta la forma pi` u generale che pu`o assumere la linea elastica per un tratto rettilineo di trave sollecitato da un carico trasversale uniformemente distribuito. Allo scopo di individuare le costanti di integrazione nel caso dei vincoli in esame `e necessario imporre 4 C.C. che devono essere determinate in corrispondenza delle sezioni di estremit`a. Notiamo che, in generale, essendo partiti da una equazione di ordine 4, `e possibile dare condizioni: • sulla funzione: v • sulla derivata prima e quindi sull’inclinazione delle sezioni: θ = −v 0 2

• sulla derivata seconda e quindi sul momento flettente: EJx ddsv2 = −Mx 3

• sulla derivata terza e quindi sul taglio: EJx ddsv3 = −Ty . Nel caso in esame, per l’incastro nella sezione B, dovranno valere le seguenti condizioni: 1) v (0) = 0 2) v 0 (0) = 0 Si pu`o osservare che non `e per`o possibile imporre in B condizioni sulle derivate di ordine pi` u elevato dato che questo implicherebbe la conoscenza di flessione o taglio all’origine (grandezze che saranno sperabilmente note solo alla fine del calcolo). Passiamo quindi all’esame dell’altro estremo del dominio. Una condizione `e evidente: 3) v (l) = 0 non si pu`o prevedere invece l’inclinazione della sezione in C (presumibilmente un valore non nullo) e nemmeno il taglio (che `e in modulo pari all’intensit`a della reazione vincolare dell’appoggio). Sappiamo per`o che in tale sezione il momento flettente `e nullo (basta considerare i carichi a valle della sezione. . . ). Da ci`o deriva l’ultima condizione necessaria: 4) EJx v 00 (l) = 0 ⇒ v 00 (l) = 0 Si scrive quindi il seguente sistema lineare (a tale scopo si osservi che nel corso dell’integrazione dell’equazione differenziale sono state gi`a ottenute le espressioni analitiche delle varie derivate che ora sono utili):   c4 = 0 c1 = − 58 pl      c =0  c2 = 18 pl2 3 4 3 2 ⇒ p l + c1 l6 + c2 l2 + c3 l + c4 = 0 c =0      24  3 l2 c4 = 0 p 2 + c1 l + c2 = 0 da cui il risultato: p v (s) = 24EJx



5 1 s − ls3 + l2 s2 8 8 4

=

 =

 p 2s2 − 5ls + 3l2 s2 = 48EJx

p (3l − 2s) (l − s) s2 48EJx

Il seguente schema evidenzia la forma della linea elastica (con frecce molto amplificate).

749

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

p C

B

Figura 24.10: Andamento qualitativo della linea elastica

La soluzione, oltre a fornire direttamente tutti gli spostamenti dei singoli punti della linea d’asse, permette di valutare tramite le derivate degli spostamenti anche le inclinazioni e le caratteristiche di sollecitazione. Nota: con la soluzione, il lettore calcoli la freccia massima e l’ascissa della sezione in cui questa si verifica. L’equazione della linea elastica del quarto ordine comprende come casi particolari quella di terzo e quella di secondo ordine, per cui pu`o essere usata per risolvere qualunque problema, anche se isostatico. Tuttavia, quando `e possibile, lo sforzo richiesto per la determinazione della funzione momento flettente produce un vantaggio che si manifesta con il dimezzamento del numero di condizioni al contorno e quindi di incognite nel sistema lineare risolvente. Se si usa l’equazione del secondo ordine non si possono evidentemente imporre condizioni sulle derivate di ordine 2 o superiori (taglio, momento e carico sono infatti gi`a inglobati nell’espressione del momento flettente). Esempio 24.7: Applicazione dell’equazione del IV ordine Risolvere il problema isostatico in figura 24.11 con l’equazione del IV ordine. l B

C M

EJx Figura 24.11: Trave isostatica con carico di momento

Il tratto di trave `e scarico per cui l’equazione `e: EJx

d4 v =0 ds4

che ha la seguente soluzione generale:  3  1 s s2 v= c1 + c2 + c3 s + c4 EJx 6 2 Le C.C. sono, per la sezione B: 1) v (0) = 0 2) EJx v 00 (0) = 0

750

24.4. ALTRE APPLICAZIONI DELLA LINEA ELASTICA

e per la sezione C: 3) v (l) = 0 4)

− EJx v 00 (l) = M

Si ottiene quindi: v=

  M M l2 s − s3 = l2 − s2 s 6lEJx 6lEJx

Esercizio 24.2: Applicazioni della linea elastica Valutare per i problemi rappresentati in figura 24.12 l’equazione della linea elastica, il valore della massima freccia e della massima rotazione individuando le sezioni in cui queste condizioni si manifestano. l

p C

B

EJx

B EJx ⎛ p ⋅ sin ⎜ π ⎝

(a)

l C

(b)

s⎞ ⎟ l⎠

Figura 24.12: Esempi per l’applicazione del metodo della linea elastica: a) carico lineare, b) carico sinusoidale

24.4 Altre applicazioni della linea elastica Il metodo della linea elastica risolve in modo completo il problema delle travi iperstatiche ma la sua applicazione pu`o essere spesso poco efficiente. Consideriamo in particolare il seguente problema. Esempio 24.8: Carico concentrato Impostare la soluzione per la determinazione della linea elastica per il problema iperstatico schematizzato in figura 24.13.

751

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

a

F

D

B

EJx

C

l

Figura 24.13: Carico concentrato non all’estremit`a

Il problema `e solo apparentemente simile ai casi precedenti perch´e la presenza di un carico concentrato in un punto interno del dominio determina una significativa differenza nel modo in cui la soluzione pu`o essere ottenuta. Sappiamo infatti che un carico concentrato produce un salto della funzione taglio e un punto angoloso nella funzione momento. A meno che non si vogliano introdurre formulazioni specifiche per rappresentare funzioni discontinue (gradini di Heaviside, delta di Dirac) che sono strumenti utili pi` u dal punto di vista formale che nella pratica operativa della soluzione, il modo consueto per affrontare il problema delle discontinuit`a consiste nel separare il dominio in pi` u intervalli contigui. All’interno di ogni intervallo le funzioni incognite e le loro derivate sono rappresentate da funzioni regolari (continue con le loro derivate fino all’ordine necessario). Nell’esempio in particolare abbiamo: (0, l) = (0, a) ∪ (a, l) per cui del problema cerchiamo una soluzione che rappresentiamo come:  v1 (s) con s ∈ (0, a) = I1 v (s) = v2 (s) con s ∈ (a, l) = I2 Non `e in genere necessario fare specifiche considerazioni sui valori da attribuire alle caratteristiche di sollecitazione nelle sezioni di estremit`a dei sottodomini. Tali punti rappresentano infatti zone di estinzione dove la soluzione `e inevitabilmente grossolana e la verifica `e condotta considerando i valori limite (destro e sinistro) delle caratteristiche, come dovrebbe essere ben noto. Useremo quindi le seguenti relazioni per la funzione spostamento: v (a− ) = lim v (s) = v1 (a) s→a−

v (a+ ) = lim v (s) = v2 (a) s→a+

ma anche per le derivate di ordine n superiore: dn v dsn dn v dsn

(a− ) = lim

s→a−

(a+ ) = lim

s→a+

dn v dsn dn v dsn

(s) = (s) =

dn v1 dsn dn v2 dsn

(a) (a)

Con tali ipotesi, il problema differenziale viene nella pratica diviso in due parti. Nel primo sottodominios ∈ (0, a) = I1 l’equazione differenziale diventa: EJx

d4 v1 =0 ds4

con soluzione generale: v1 (s) =

752

1 EJx

 c11

s3 s2 + c12 + c13 s + c14 6 2



24.4. ALTRE APPLICAZIONI DELLA LINEA ELASTICA

In questa espressione le costanti di integrazione hanno doppio pedice, il primo `e riferito al dominio. Nel secondo dominio abbiamo analogamente: EJx 1 v1 (s) = EJx



d4 v2 =0 ds4

s3 s2 c21 + c22 + c23 s + c24 6 2



Sono state introdotte ben 8 costanti di integrazione e dobbiamo quindi cercare altrettante condizioni al contorno dei sottodomini. Alcune di queste condizioni sono di facile individuazione: nell’incastro in B: 1) v1 (0) = 0 2) v10 (0) = 0 nell’estremo C: 3) v20 (l) = 0 e inoltre, dato che la reazione vincolare in direzione y in C `e nulla, ovvero Ty (l) = 0: 4)

− EJx v2000 (l) = 0

Agli estremi della trave non possono essere date altre condizioni per cui le 4 rimanenti devono essere cercate in corrispondenza del punto D. Notiamo in primo luogo che per congruenza (Eulero-Bernoulli) in D deve esserci continuit`a della linea d’asse e dell’inclinazione della sezione (pendenza della linea d’asse), per cui: 5) v1 (a) = v2 (a) 6) v10 (a) = v20 (a) `e da notare che queste due ultime condizioni sono sempre applicabili in conrrispondenza di ogni intersezione tra tratti di trave che siano congruenti. Le ulteriori condizioni sono da ricercarsi sulle derivate di ordine superiore e quindi su momento e taglio in D. In corrispondenza di un carico di forza concentrato trasversale sappiamo che la funzione momento flettente `e continua, per cui: 7)

− EJx v100 (a) = −EJx v200 (a)

mentre la funzione taglio subisce un salto il cui modulo `e dato proprio dall’intensit`a del carico concentrato. Per l’equilibrio in direzione y del concio che contiene la sezione D deve infatti valere la relazione:   −Ty a− + F + Ty a+ = 0 che si traduce nell’ultima condizione al contorno: 8) EJx v1000 (a) + F − EJx v2000 (a) = 0 Nota. Si pu`o osservare che prima della C.C. numero 8, tutte le equazioni scritte erano omogenee (senza termini noti) per cui avrebbero l’unica soluzione nulla (trave con asse ` infatti proprio con l’ultima fondamentale condizione che il carico F rettilineo e scarica!). E viene introdotto nel problema. Anche se dovrebbe essere chiaro, `e importante ricordare la necessit`a del rigoroso rispetto delle convenzioni sui segni e sui versi, per evitare di sbagliare banalmente il segno del risultato.

753

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Esempio 24.9: Carico distribuito discontinuo Impostare il problema differenziale della determinazione della linea elastica per il problema rappresentato in figura 24.14 l/2

p

B

D

EJx

C

l

Figura 24.14: Carico distribuito non continuo

In questo caso il carico:  p (s) =

0 p

s < l/2 s > l/2

non `e rappresentabile con una espressione di s unica su tutto il dominio e anche questo fatto impone la suddivisione del dominio in due sottointervalli:  v1 (s) s < l/2 v (s) = v2 (s) s < l/2 Il problema si presta per essere risolto sia con l’equazione del secondo sia con l’equazione del quarto ordine. Nel seguito sono proposte entrambe le soluzioni per confronto. Soluzione con l’equazione del secondo ordine. Il momento flettente `e:   pl 3 l−s s < l/2 2 2 Mx (s) = 2 p s > l/2 2 (l − s) da cui si hanno i seguenti due problemi differenziali:   pl 3 00 v1 = − l−s 2EJx 2 v200 = −

p (l − s)2 2EJx

con le C.C. seguenti: 1) 2) 3) 4)

v1 (0) = 0 v10 (0) = 0 v1 (l/2) = v2 (l/2) v10 (l/2) = v20 (l/2)

Soluzione con l’equazione del quarto ordine. Con la medesima notazione, le equazioni differenziali diventano: d4 v1 =0 ds4 d4 v2 p = 4 ds EJx

754

24.4. ALTRE APPLICAZIONI DELLA LINEA ELASTICA

Le 8 C.C. necessarie sono, seguenti: 5) 6) 7) 8)

oltre alle 4 imposte per il problema del secondo ordine, le − EJx v100 (l/2) = −EJx v200 (l/2) − EJx v1000 (l/2) = −EJx v2000 (l/2) − EJx v200 (l/2) = 0 − EJx v2000 (l/2) = 0

le prime due rappresentano la condizioni di continuit`a per flessione e taglio in corrispondenza di D mentre le ultime la condizione della sezione estrema C che ha entrambe le caratteristiche di sollecitazione nulle.

Esempio 24.10: Linea elastica con rigidezza discontinua Impostare il problema differenziale della determinazione della linea elastica per il problema schematizzato in figura 24.15. M

EJx2

EJx1 B

D

l/2

C

l/2

Figura 24.15: Trave con rigidezza flessionale discontinua

Anche per questo semplice problema, isostatico e con caratteristiche di sollecitazione definite con un’unica espressione sul dominio, `e necessario operare la divisione del dominio a causa alla discontinuit`a della rigidezza flessionale. Le equazioni della linea elastica sono infatti valide in ipotesi di sezione costante, o al pi` u debolmente variabile, e quindi non sono applicabili nel punto di cambio brusco di sezione (peraltro una zona di estinzione del problema di trave). Dobbiamo quindi ancora assumere:  v1 (s) s < l/2 v (s) = v2 (s) s < l/2 Con l’equazione del secondo ordine, abbiamo su tutto il dominio: Mx (s) = −M per cui le due equazioni diventano: M EJx1 M v200 = EJx2

v100 =

con le seguenti C.C.: 1) 2) 3) 4) Nota: il lettore determini le altre 4 con l’equazione del quarto ordine.

v1 (0) = 0 v20 (l) = 0 v1 (l/2) = v2 (l/2) v10 (l/2) = v20 (l/2) C.C. necessarie per risolvere il problema differenziale

755

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Si comprende come il numero di sottointervalli e, di conseguenza il numero di C.C., diventi molto elevato quando la trave presenta diversi cambi bruschi di sezione e varie zone di applicazione del carico. In questi casi il rango del sistema lineare risolvente diviene cos`ı elevato da richiedere nella pratica una soluzione numerica basata sul computer. Vi `e pertanto il rischio di perdere il senso fisico della soluzione, la quale appare determinata da una serie di condizioni astratte i cui effetti non sono sempre evidenti. In pratica inoltre le verifiche di rigidezza sono spesso specifiche perch´e richiedono la valutazione della freccia o della rotazione di alcune sezioni (spesso di una sola). Per valutazioni di questo tipo il metodo della linea elastica appare quindi efficace (risolve in modo simile problemi iso- e iper-statici) ma non molto efficiente. In effetti, per ottenere la freccia di una singola sezione il metodo richiede di valutare la freccia di tutte le sezioni. Nel seguito del capitolo sar`a sviluppata una tecnica adatta a valutare in modo diretto una determinata quantit`a deformativa. Il metodo della linea elastica tuttavia `e interessante dal punto di vista teorico perch´e costituisce l’esempio pi` u semplice della soluzione completa del problema elastico dei corpi deformabili inglobando le condizioni di equilibrio di congruenza e costitutive (ne vedremo l’utilit`a anche in alcuni prossimi capitoli). Il metodo della linea elastica diventa inoltre anche di pratica utilit`a quando `e necessario valutare propriet`a globali della deformata come, per esempio, la freccia massima (o la massima rotazione) e non `e noto in quale sezione tale condizione si verifichi. Esercizio 24.3: Appoggio elastico Impostare il problema della linea elastica nel caso di figura 24.16. p D B

EJx C

k l/2

l/2

Figura 24.16: Trave su supporto elastico

Suggerimenti: a) `e necessario separare il dominio in due parti b) il problema `e iperstatico e quindi deve essere usata le equazioni del quarto ordine c) quattro condizioni al contorno (2+2) si ricavano agli estremi B e C d) tre delle C.C. nel punto D sono di continuit`a per: spostamento, rotazione e momento flettente e) l’ultima condizione `e relativa al salto del taglio in D:       l l l 000 000 EJx · v1 − k · v1 − EJx · v2 =0 2 2 2

756

24.5. IL TEOREMA DI CASTIGLIANO

24.5 Il teorema di Castigliano La linea elastica risolve il problema della valutazione della deformazione della trave tramite l’approccio basato sulle equazioni di equilibrio (infatti conduce a una equazione risolvente di tipo differenziale). Come `e tipico in Meccanica, la soluzione pu`o essere ricercata anche con ` noto dalla l’approccio energetico (o variazionale) che conduce a equazioni di tipo integrale. E Fisica che nei casi in cui i campi di forze sono conservativi, come nel caso specifico, questi ultimi metodi possono essere molto pi` u efficienti. Il metodo energetico `e stato gi`a varie volte applicato nei capitoli precedenti per valutare grandezze deformative nelle travi sfruttando la seguente relazione fondamentale: Lext = U valida per i corpi con materiali elastici in condizioni di caricamento quasistatico. Se la travatura `e sostenuta con vincoli ideali, le reazioni vincolari non fanno lavoro e il primo membro equivale al lavoro fatto dai carichi, il secondo membro `e invece ottenibile integrando la densit`a di energia nel volume o, in pratica, i contributi energetici delle caratteristiche di sollecitazione sulla linea d’asse. Affinch´e il metodo energetico nella sua formulazione pi` u diretta sia risolutivo `e necessario il soddisfacimento dei seguenti presupposti: • il problema deve essere isostatico, in modo da poter determinare le caratteristiche di sollecitazione e da queste l’energia totale • deve agire un unico carico • sia richiesta la sola valutazione della quantit`a deformativa energeticamente associata al carico. Sotto tali ipotesi il principio di conservazione dell’energia permette la soluzione del problema nel modo pi` u semplice e diretto. Tuttavia, se anche solo una delle precedenti condizioni non u carichi che fanno lavoro o `e richiesta `e verificata, ovvero il problema `e iperstatico, vi sono pi` una grandezza deformativa non energeticamente associata al carico, l’equazione di bilancio, che `e pur sempre valida, non consente da sola di risolvere il problema. Il teorema presentato in quasto paragrafo, dovuto a Carlo Alberto Castigliano (1847 – 1884), rappresenta uno strumento fondamentale per lo sviluppo dei metodi energetici con cui `e possibile valutare una qualunque componente di spostamento per un qualsiasi punto di una struttura deformabile genericamente vincolata e caricata Senza perdere in generalit`a assumeremo nel seguito i seguenti presupposti (le ipotesi del teorema di Castigliano): • il caricamento `e quasi statico • il materiale `e lineare elastico • `e valida la meccanica dei corpi poco deformabili (piccoli spostamenti e piccole deformazioni) per quanto una versione pi` u generale del teorema (che non sar`a trattata) pu`o essere ottenuta anche in ipotesi di sola elasticit`a. Le precedenti ipotesi conducono alla possibilit`a di applicare, anche per la struttura deformabile, il principio di sovrapposizione degli effetti nelle seguenti forme:

757

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

la configurazione deformata conseguente all’azione di pi` u carichi `e la stessa indipendentemente dall’ordine con cui i carichi raggiungono la condizione finale equivalente a: la deformata prodotta da due condizioni di carico `e data dalla somma delle deformate che i due carichi producono agendo da soli. Per presentare e dimostrare il teorema di Castigliano consideriamo il caso di riferimento illustrato in figura 24.17 nel quale una trave `e sottoposta all’azione di due carichi (forze concentrate). Supponiamo, in particolare, di voler prevedere l’abbassamento dell’estremo C. 2 l 3

l C

B

(a)

P

Q

δB

δC

B*

(b)

C* Q P

Figura 24.17: Schema per l’applicazione del teorema di Castigliano: a) trave indeformata (infinitamente rigida) b) trave all’equilibrio sotto carico (spostamenti amplificati)

Si tratta di una situazione in cui, per quanto l’energia si conservi, la presenza di due carichi che fanno lavoro non permette la soluzione diretta con la semplice applicazione della conservazione dell’energia. Sia l’energia elastica immagazzinata nella struttura sia il lavoro delle forze esterne dipendono dai due carichi. In particolare, l’energia pu`o essere espressa come funzione del valore finale che i carichi assumono: U (P, Q) e, almeno nel caso esaminato, pu`o essere ottenuta esplicitamente, essendo il problema isostatico. Il lettore verifichi per l’esempio in figura 24.17 che l’energia elastica U (P, Q) `e una funzione quadratica dei carichi (come faremo quasi sistematicamente, si assuma la trave deformabile solo a flessione con rigidezza EJx , trascurando l’effetto deformativo del taglio e il relativo contributo energetico). Indicati con δB e δC gli spostamenti verticali dei punti di applicazione dei carichi Q e P rispettivamente, se assumiamo che i carichi raggiungano il valore finale con la medesima legge (caricamento monotono), il lavoro delle forze esterne sar`a espresso dalla relazione: 1 1 Lext = Q · δB + P · δC 2 2 Il solito fattore 12 deriva come sempre dalla linearit`a del problema e gli spostamenti δB e δC rappresentano le grandezze energeticamente associate ai carichi (in effetti ogni semiprodotto `e il lavoro fatto dalla singola forza). Pertanto il bilancio energetico pu`o essere formalmente espresso come: 1 1 U (P, Q) = Q · δB + P · δC 2 2 Come anticipato, per quanto il secondo membro della precedente relazione si possa valutare, l’equazione non consente di ottenere il valore degli spostamenti dei punti di applicazione dei carichi perch´e sono presenti due incognite.

758

24.5. IL TEOREMA DI CASTIGLIANO

Supponiamo a questo punto di produrre una variazione infinitesima del carico P , che viene portato al valore P + dP , e consideriamo le conseguenze di tale variazione sulla relazione di bilancio. L’energia elastica subisce una conseguente variazione e assume il valore formalmente espresso dalla relazione: ∂U (P, Q) dP ∂P

U (P + dP, Q) = U (P, Q) +

in cui la derivata parziale evidenzia che l’energia dipende anche dall’altro carico (mantenuto costante). Per calcolare l’effetto prodotto da dP sul lavoro totale fatto dalle forze esterne, conviene considerare una diversa sequenza di applicazione dei carichi sfruttando il principio di sovrapposizione (nella sua prima formulazione). Eseguiamo quindi il caricamento nel modo seguente: • nella prima fase, applicazione quasi statica del carico elementare dP • nella seconda fase, applicazione quasi statica dell’ulteriore carico effettivo Q e P La figura 24.18, che schematizza la linea d’asse della trave alla fine delle varie fasi del caricamento, permette di osservare che: • nella prima fase viene prodotta una variazione infinitesima di configurazione • dato che la condizione di partenza non `e influente (per il principio di sovrapposizione nella seconda formulazione), il caricamento prodotto nella seconda fase produce un ulteriore spostamento dei punti di applicazione uguale a quello del problema originario (nel quale dP non c’`e). C

B

dδ C

dP C

B

δB Q

(a)

δC

(b)

dP P

Figura 24.18: Successive fasi in cui `e attuata la sequenza di caricamento

Sulla base di queste considerazioni possiamo calcolare il lavoro fatto dalle forze esterne che ha i seguenti contributi: • nella prima fase `e attiva la sola forza dP che produce un lavoro pari a: 1 dP · dδC 2 si noti il solito fattore 12 che deriva dal fatto che carico e spostamento finale sono raggiunti in un processo di caricamento graduale. • durante la seconda fase vengono portate al valore finale le forze P e Q per cui il loro lavoro sar`a: 1 1 Q · δB + P · δC 2 2

759

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

• nella seconda fase `e per`o sempre attiva la forza infinitesima dP che contribuisce al lavoro complessivo con la quantit`a: dP · δC Il lavoro complessivamente fatto dai carichi alla fine della seconda fase `e quindi espresso dalla somma: 1 1 1 dP · dδC + Q · δB + P · δC + dP · δC 2 2 2 in cui il primo addendo `e infinitesimo di ordine 2 e pu`o essere trascurato rispetto agli altri (due sono quantit`a finite e l’ultimo `e infinitesimo del primo ordine). Possiamo quindi imporre il bilancio energetico nella condizione di carico finale Q e P + dP ottenendo la relazione: 1 1 ∂U (P, Q) Q · δB + P · δC + dP · δC = U (P, Q) + dP 2 2 ∂P dalla quale, tenendo conto del bilancio energetico quando il carico `e costituito solo da Q e P , otteniamo finalmente la relazione: ∂U (P, Q) (24.9) δC = ∂P che esprime il teorema di Castigliano: in un problema lineare elastico in regime di corpi poco deformabili, la componente di spostamento energeticamente associata a un carico `e uguale alla derivata parziale dell’energia elastica calcolata rispetto al carico stesso. Se il carico rispetto al quale si effettua la derivata `e un momento concentrato il risultato rappresenta la componente della rotazione della zona in cui il momento `e applicato nella direzione e nel verso del momento stesso. Il seguente esempio illustra una applicazione elementare del teorema di Castigliano. Esempio 24.11: Applicazione del teorema di Castigliano a un caso elementare Verificare il teorema di Castigliano per una molla ideale di costante elastica k a cui `e applicata la forza F come in figura 24.19. B

C

F

Figura 24.19: Molla in trazione

L’energia elastica espressa in funzione del carico (in questo caso `e unico) `e: U (F ) =

1 F2 2 k

per cui, in base al teorema di Castigliano, lo spostamento di B nella direzione (e verso) di F vale: F dU (F ) δB = = dF k

760

24.6. APPLICAZIONI DEL TEOREMA DI CASTIGLIANO

Osserviamo la coerenza dimensionale del teorema: la derivata parziale dell’energia ([F orza]× [spostamento]) fatta rispetto a una forza produce effettivamente uno spostamento, mentre la derivata fatta rispetto a un momento ([F orza] × [spostamento]) produce un numero puro. Nel prossimo paragrafo sono illustrati vari esempi di applicazione del teorema di Castigliano.

24.6 Applicazioni del teorema di Castigliano Valutiamo spostamento e rotazione della sezione di estremit`a di una trave a mensola caricata con una forza P e un momento M applicati nella sezione B. P M

(a)

B l

θ δ

(b)

B*

Figura 24.20: Mensola con carico generico all’estremit`a: a) carichi b) schema amplificato della deformata

Indichiamo con δ e θ le grandezze deformative energeticamente associate ai due carichi, che rappresentano rispettivamente lo spostamento verticale e la rotazione della sezione B quando le due azioni esterne sono agenti. Siccome il teorema di Castigliano fornisce quantit`a energeticamente associate, i segni di spostamento e rotazione indicati nella figura, sono implicitamente definite dai versi dei relativi carichi. Per un confronto con la soluzione ottenibile dalla linea elastica, usando le solite convenzioni sui sistemi di riferimento e sui segni, si ha in particolare: δ = v (l) θ = −v 0 (l) Trascuriamo gli effetti deformativi del taglio per cui i due carichi produrranno, se agiscono separatamente, le seguenti caratteristiche di sollecitazione: MxP (s) = −P · (l − s) MxM (s) = M da cui risulta che le energie immagazzinate nella trave nel caso in cui le due azioni esterne agissero da sole sarebbero: Z UP = 0

l

1 [−P · (l − s)]2 1 P 2 l3 ds = 2 EJx 6 EJx Z

UM = 0

l

1 M2 1 M 2l ds = 2 EJx 2 EJx

Quando i due carichi agiscono insieme, per il P.S.E., il momento flettente `e: Mx (s) = MxP (s) + MxM (s) = −P · (l − s) + M

761

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

e l’energia elastica totale vale: Z l Z l 1 [−P · (l − s) + M ]2 1 [−P · (l − s)]2 − 2P · (l − s) M + M 2 U (P, M ) = ds = ds EJx EJx 0 2 0 2 Si pu`o osservare che U (P, M ) non `e la somma delle energie immagazzinate quando i due carichi agiscono separatamente, dato che in generale si ha: U (P, M ) 6= U (P, 0) + U (0, M )

(24.10)

Questo fatto si giustifica, dal punto di vista algebrico, in base alla presenza del doppio prodotto nello sviluppo del quadrato del termine binomiale mentre, dal punto di vista fisico, dalla circostanza che l’energia ha una dipendenza quadratica dai carichi. In effetti, il principio di sovrapposizione vale anche per l’energia solo quando i carichi sono non energeticamente associati, ovvero quando applicando il primo carico il punto di applicazione del secondo non si sposta nella direzione energeticamente associata al secondo carico (abbiamo visto un caso interessante di questa situazione di disaccoppiamento per la densit`a di energia distorcente e volumica per i materiali isotropi). Nel caso in esame, i due carichi sono energeticamente associati e questo si pu`o prevedere dal fatto che il momento M produce un abbassamento di B e, dualmente, il carico P produce una rotazione della sezione di estremit`a. Pertanto un carico compie lavoro quando l’altro `e applicato. Sviluppando l’integrale dell’energia si ottiene l’espressione: U (P, M ) =

1 P 2 l3 1 P M l2 1 M 2 l − + 6 EJx 2 EJx 2 EJx

nella quale si riconosce il termine misto centrale aggiuntivo rispetto ai contributi energetici dei due carichi che agiscono separatamente. Con il teorema di Castigliano si ottengono gli spostamenti generalizzati richiesti: δ=

∂U 1 P l3 1 M l2 = − ∂P 3 EJx 2 EJx

1 P l2 Ml ∂U =− + ∂M 2 EJx EJx in cui si riconoscono i contributi deformativi prodotti dai due carichi. Consideriamo l’espressione dello spostamento verticale: 1 P l3 1 M l2 δ = δp + δM = − 3 EJx 2 EJx nella quale si vede che, come intuibile, la forza P tende ad abbassare la sezione B mentre il momento M tende a sollevarla e lo spostamento complessivo `e la somma algebrica dei due contributi. Possiamo scrivere la relazione che lega i carichi alle grandezze deformative energeticamente associate in forma matriciale:     l2 l   l P δ 3 −2 = M θ EJx − 2l 1 θ=

` immediato verificare che la matrice della trasformazione lineare che lega le due quantit`a `e E rappresentata dalla matrice delle derivate seconde dell’energia elastica (matrice Hessiana): !    ∂2U ∂2U δ P 2 ∂M ∂P ∂P = (24.11) ∂2U ∂2U θ M 2 ∂P ∂M ∂M

762

24.6. APPLICAZIONI DEL TEOREMA DI CASTIGLIANO

chiamata anche matrice di deformabilit` a della struttura e spesso indicata come: !  l2 l  ∂2U ∂2U l 2 ∂M ∂P ∂P 3 −2 C= = ∂2U ∂2U EJx − 2l 1 ∂P ∂M ∂M 2

(24.12)

Si pu` o osservare che: • la matrice C `e simmetrica per il teorema di Schwartz • il termine fuori diagonale (termine misto o di accoppiamento) `e presente quando i carichi sono energeticamente associati (uno fa lavoro quando agisce l’altro). Per il primo principio della termodinamica sappiamo che, qualunque sia la combinazione dei valori dei carichi P e M , rispetto alla condizione iniziale di struttura scarica, la trave aumenta la sua energia elastica, per cui i carichi dovranno nel loro insieme fare lavoro necessariamente positivo. Ne consegue che dovr`a essere:    δ 1 P M Lext = >0 θ 2 e quindi che la forma quadratica: P

M



 C

P M



`e definita positiva. La matrice di deformabilit`a deve quindi avere tutti gli autovalori reali positivi. Un ragionamento analogo `e stato sviluppato nel capitolo 17 in relazione alla densit` a di energia elastica. Talvolta viene introdotta anche la matrice di rigidezza della struttura, definita come: Q = C−1

(24.13)

tramite la quale si ottengono i carichi che producono determinati spostamenti energeticamente associati:     δ P (24.14) =Q θ M Per lo stresso motivo anche la matrice di rigidezza `e reale simmetrica con autovalori positivi. Il seguente esempio illustra un errore che si potrebbe commettere con una applicazione non attenta del teorema di Castigliano. Esempio 24.12: Due carichi con lo stesso valore Determinare l’abbassamento dell’estremo C nella trave di figura 24.21. P

P C

B l/2

l/2

Figura 24.21: Mensola con due carichi aventi lo stesso valore

763

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Una applicazione impropria del teorema di Castigliano potrebbe portare in questo caso a esprimere l’energia come funzione del carico rappresentato da un’unica grandezza scalare e quindi formalmente risulterebbe: U (P ) La derivata fatta rispetto a P fornisce effettivamente uno spostamento (dal punto di vista dimensionale `e corretto), tuttavia questa quantit`a non sarebbe lo spostamento richiesto. In effetti tale quantit`a deve interpretarsi come la grandezza energeticamente associata al carico P che `e l’insieme delle due forze ed `e pertanto la somma degli spostamenti verticali dei due punti di applicazione. Infatti: U (P ) = Lext =

1 1 (P · δB + P · δC ) = P (δB + δC ) 2 2

Per applicare il teorema in modo corretto `e quindi necessario identificare con un simbolo specifico il carico il cui spostamento associato `e richiesto, come nello schema in figura 24.22: P

F C

B l/2

l/2

Figura 24.22: Diversificazione dei nomi per le variabili di carico

in modo che il suo effetto diretto sull’energia sia esplicitato e separato dal resto: U (P, F ) In questo modo `e possibile ottenere lo spostamento correttamente (la derivata parziale lascia il carico applicato in B inalterato): ∂U (P, F ) ∂F Eseguita la derivata, `e ora possibile ripristinare il valore corretto della forza in C: ∂U (P, F ) δC = ∂F F =P Si verifichi che l’applicazione corretta del teorema (trascurando gli effetti deformativi del taglio) conduce al risultato: 7 P l3 δC = 16 EJx

Un’altra interpretazione non consueta del teorema `e illustrata nel seguente esempio.

764

24.6. APPLICAZIONI DEL TEOREMA DI CASTIGLIANO

Esempio 24.13: Come interpretare la derivata parziale di Castigliano nel caso di un carico uniformemente distribuito su un segmento? p B

C

l/2

l/2

Figura 24.23: Mensola con carico distribuito

In questo caso l’energia (solo flessionale) ha la seguente espressione: U (p) =

17 p2 l5 960 EJx

l’applicazione diretta del teorema di Castigliano fornirebbe il seguente risultato: dU (p) 17 pl5 = dp 480 EJx Possiamo attribuire qualche significato fisico a tale grandezza? In primo luogo osserviamo che la quantit`a ottenuta `e dimensionalmente un’area, inoltre sappiamo che deve essere energeticamente associata al carico rispetto al quale `e stata effettuata la derivata dell’energia. Il lavoro fatto dal carico pu`o in effetti esprimersi come: Z Lext = 0

l/2

1 1 p · v (s) ds = p · 2 2

Z

l/2

v (s) ds 0

dove v (s) `e lo spostamento in direzione y della linea d’asse. Pertanto la quantit`a ottenuta `e il seguente integrale: Z l/2 v (s) ds 0

e rappresenta l’area spazzata dai punti sui quali `e applicato il carico, come mostrato nella figura 24.24. B

C

B* C*

Figura 24.24: Grandezza geometrica energeticamente associata al carico uniformemente distribuito su un segmento

765

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

24.7 Generalizzazione del teorema di Castigliano In molti casi `e necessario determinare lo spostamento di un punto in assenza di un carico energeticamente associato. Un uso intelligente del teorema di Castigliano permette di risolvere anche questo problema come illustra il seguente esempio. Esempio 24.14: Trave con carico distribuito Determinare la rotazione della sezione di estremit`a B della trave indicata in figura 24.25 soggetta a un carico uniformemente distribuito (rigidezza flessionale: EJx ). p B l

Figura 24.25: Mensola con carico trasversale uniformemente distribuito

Il problema potrebbe essere immediatamente risolto se in corrispondenza della sezione B vi fosse un carico esterno di momento energeticamente associato alla rotazione che deve essere valutata. In assenza di un carico effettivamente agente, introduciamo un carico fittizio che indichiamo con Φ. Dato che interessa la rotazione, il carico fittizio sar`a un momento esterno applicato in B, il verso pu`o essere scelto arbitrariamente, dobbiamo solo ricordare che il segno del risultato sar`a condizionato da tale scelta. La situazione della trave con il carico vero e il carico fittizio `e mostrata nella figura 24.26. p B

Φ

l

Figura 24.26: Mensola con carico fittizio

Implicitamente soo considerare positive le rotazioni che, rispetto al punto di vista della figura, sono orarie (equiverse a Φ). Per applicare il teorema di Castigliano esprimiamo l’energia (che consideriamo solo flessionale) prodotta dal momento flettente complessivo: p Mx (s) = Mxp (s) + MxΦ (s) = − · (l − s)2 − Φ 2 da cui l’energia totale `e: Z U (p, Φ) = 0

l

 [Mx (s)]2 l ds = 3p2 l4 + 20pl2 Φ + 60Φ2 2EJx 120EJx

La rotazione della sezione B nel problema con il carico vero pi` u il carico fittizio `e data dalla relazione:  ∂U (p, Φ) l θB (p, Φ) = = pl2 + 6Φ ∂Φ 6EJx

766

24.7. GENERALIZZAZIONE DEL TEOREMA DI CASTIGLIANO

in cui si riconoscono i contributi del carico vero e del carico fittizio. A questo punto (solo adesso!) possiamo sbarazzarci del carico fittizio e, annullando Φ, trovare la rotazione della sezione B prodotta dal solo carico vero: θB (p, 0) =

pl3 6EJx

Il procedimento esemplificato nell’esempio precedente pu`o essere generalizzato come segue: • `e introdotto il carico fittizio Φ energeticamente associato alla grandezza deformativa di interesse • `e calcolata l’energia totale prodotta dal carico vero e dal carico fittizio: U (p, Φ) • `e applicato il teorema di Castigliano per trovare lo spostamento associato a Φ: (p,Φ) • il valore del carico fittizio `e infine annullato per ottenere il risultato: ∂U∂Φ

∂U (p,Φ) ∂Φ

Φ=0

.

Esercizio 24.4: Freccia massima Determinare abbassamento e rotazione della sezione B nella trave in figura 24.27 (considerare il solo effetto flessionale e la rigidezza relativa EJx ). p B l

Figura 24.27: Mensola con carico lineare

Esercizio 24.5: Freccia per una stuttura reticolare Le aste della travatura reticolare rappresentata in figura 24.28 hanno la stessa sezione con rigidezza assiale EA. Determinare lo spostamento completo (componenti orizzontale e verticale) del punto di applicazione del carico B.

767

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

1.5a

a

P B

Figura 24.28: Struttura reticolare

24.8 L’integrale di Mohr Otto Mohr ha formalizzato il procedimento descritto nel paragrafo precedente e ha proposto una formula risolutiva esplicita per il calcolo di un generico spostamento generalizzato (spostamento o rotazione) per un qualunque punto di una struttura isostatica di travi. Consideriamo lo schema di figura 24.29 che esemplifica una travatura isostatica, in generale nello spazio, soggetta a un carico qualunque (forze concentrate, distribuite, momenti applicati, ecc. . . ) per la quale vogliano valutare lo spostamento di un punto B nella direzione della retta n.

Q M

p n B F

Figura 24.29: Generica struttura isostatica di travi nello spazio

L’applicazione del teorema di Castigliano prevede di introdurre un carico fittizio Φ nella direzione della retta n come indicato nella figura 24.30. Il calcolo dell’energia richiede di valutare: • le caratteristiche di sollecitazione prodotte dal carico vero (figura 24.29) indicate nel seguito con il pedice P , che, in generale, saranno funzioni dell’ascissa curvilinea: NP (s) ,

MxP (s) ,

MyP (s) ,

TxP (s) ,

TyP (s) ,

MzP (s) ;

• le caratteristiche di sollecitazione prodotte dal carico fittizio (figura 24.30): NΦ (s) ,

768

MxΦ (s) ,

MyΦ (s) ,

TxΦ (s) ,

TyΦ (s) ,

MzΦ (s) ;

24.8. L’INTEGRALE DI MOHR

B

n

Φ

Figura 24.30: Carico fittizio energeticamente associato alla grandezza deformativa di interesse

In base al principio di sovrapposizione, le caratteristiche di sollecitazione indotte nella struttura dal carico fittizio possono essere espresse nel modo seguente: NΦ (s) = ΦNu (s) , MxΦ (s) = ΦMxu (s) , MyΦ (s) = ΦMyu (s) , TxΦ (s) = ΦTxu (s) , TyΦ (s) = ΦTyu (s) , MzΦ (s) = ΦMzu (s) ; che permettono di evidenziare a fattore l’intensit`a del carico fittizio. Le funzioni: Nu (s) ,

Mxu (s) ,

Myu (s) ,

Txu (s) ,

Tyu (s) ,

Mzu (s) ;

possono pertanto essere interpretate come le caratteristiche di sollecitazione prodotte nella struttura da un carico fittizio unitario applicato in B nella direzione della retta n, come indicato nella figura 24.31.

n B

1

Figura 24.31: Carico unitario energeticamente associato alla grandezza deformativa di interesse

Si pu`o osservare che sia le funzioni con pedice P (dovute al carico vero) sia quelle con pedice u (dovute al carico fittizio unitario) sono valutabili a priori (prima di applicare Castigliano) tramite le definizioni di caratteristica di sollecitazione e le consuete regole della statica. L’energia elastica complessivamente accumulata nella trave per effetto del carico vero pi` u quello fittizio sar`a quindi: ( Z 1 [NP (s) + ΦNu (s)]2 1 [MxP (s) + ΦMxu (s)]2 + + ... U (P, Φ) = 2 EA 2 EJx Struttura

1 [TyP (s) + ΦTyu (s)]2 1 [MzP (s) + ΦMzu (s)]2 ... + + GA 2 2 GJ0eq χ

) ds

dove, per brevit`a, sono stati riportati quattro dei sei contributi energetici all’integrale. Come indicato, il dominio di integrazione comprende l’intera struttura. Nel seguito dello sviluppo

769

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

consideriamo solo il primo termine (relativo alla forza normale), per gli altri il risultato `e analogo: ( ) Z 1 [NP (s)]2 + 2ΦNP (s) Nu (s) + Φ2 [Nu (s)]2 U (P, Φ) = + ... ds 2 EA Struttura

Dato che il dominio di integrazione non dipende dalla variabile Φ, nell’applicazione del teorema di Castigliano possiamo derivare sotto il segno di integrale. Si ottiene: ( ) Z 1 2NP (s) Nu (s) + 2Φ [Nu (s)]2 ∂U (P, Φ) = + ... ds ∂Φ 2 EA Struttura

A questo punto `e possibile eliminare il carico esploratore ponendo Φ = 0 e ottenere il risultato:   Z NP (s) Nu (s) δ= + ... ds (24.15) EA Struttura

L’espressione completa dell’integrale di Mohr, che risolve il generale problema iniziale, `e quindi la seguente: ) ( Z NP Nu MxP Mxu MyP Myu TxP Txu TyP Tyu MzP Mzu + + + GA + GA + ds (24.16) δ= EA EJx EJy GJ0eq χ χ Struttura

x

y

nella quale sono stati reintrodotti tutti i contributi energetici e, per semplicit`a di rappresentazione, `e stata omessa la dipendenza delle caratteristiche di sollecitazione dall’ascissa curvilinea. Sono interessanti le seguenti considerazioni. • Lo spostamento si ottiene integrando sull’intera struttura i prodotti delle caratteristiche omonime dovute al carico vero e al carico esploratore unitario. • Il fattore 21 , tipico dei termini energetici, non `e presente nell’integrale di Mohr perch´e `e compensato dal fattore 2 che deriva dal doppio prodotto dei binomi elevato al quadrato. • I termini che compaiono nell’integrale hanno a denominatore le corrispondenti rigidezze (anche le rigidezze sono funzioni di s se la trave `e a sezione variabile). • Il carico unitario `e un espediente matematico per il calcolo e non ha effetti sul comportamento fisico della struttura (pu`o essere considerato come un ‘sensore’ numerico, messo in modo da rilevare lo spostamento che interessa). • Un carico di momento unitario fornisce la componente della rotazione dell’elemento di trave su cui `e applicato attorno all’asse del vettore momento unitario stesso. • Il segno del risultato `e coerente con il verso del carico esploratore: se `e positivo lo spostamento risulta equiverso al versore del carico esploratore. • Per determinare lo spostamento complessivo di un punto in un generico problema tridimensionale `e necessario applicare il procedimento tre volte, adottando per i carichi esploratori unitari tre direzioni non linearmente dipendenti (generalmente conviene sceglierle mutuamente perpendicolari) • La formula di Mohr `e generale e pu`o essere usata per risolvere qualunque problema di rigidezza, anche quelli che abbiamo gi`a affrontato (non `e per`o sempre il metodo pi` u efficiente).

770

24.8. L’INTEGRALE DI MOHR

Esempio 24.15: Rigidezza di una molla Con l’integrale di Mohr trovare l’allungamento della molla ideale di lunghezza a riposo l e di costante elastica k in figura 24.32a). C

B

F

(a) l C

B

F

(b)

EA

Figura 24.32: Interpretazione monodimensionale del comportamento elastico di una molla

Una molla ideale pu`o essere considerata nel suo complesso come un’asta piuttosto deformabile (si tratta di una grossolana approssimazione che identifica l’asse delle molla come l’asse dell’asta). In tal caso `e immediato verificare che la rigidezza assiale dell’asta equivalente vale: EA =k l Applichiamo un carico F all’estremo libero dell’asta e calcoliamo il corrispondente allungamento usando Mohr. Lo schema dei due carichi `e mostrato in figura 24.33. C

B

F

(a) C

B 1

(b)

Figura 24.33: Carico vero e carico unitario

Ricaviamo: NP (s) = F

e

Nu (s) = 1

e quindi per Mohr: Z δ= AstaEquivalente

NP Nu ds = EA

Zl

F ·1 Fl F ds = = EA EA k

0

771

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Esercizio 24.6: Freccia per una mensola Tramite l’integrale di Mohr ottenere la formula della freccia per la mensola inflessa da un carico trasversale P applicato all’estremo libero: δ=

P l3 3EJx

e verificare che, se si considera anche il contributo energetico del taglio, per lo stesso problema si ottiene la formula: P l3 Pl δ= + GA 3EJx χ

24.9 L’integrale di Mohr come applicazione del principio dei lavori virtuali ` per`o Abbiamo ottenuto l’integrale di Mohr come conseguenza del teorema di Castigliano. E possibile dimostrarne la correttezza anche con un procedimento apparentemente diverso basato sull’applicazione del principio dei lavori virtuali (PLV) ai corpi deformabili. In effetti, il calcolo degli spostamenti effettuato con l’integrale di Mohr su alcuni testi `e chiamato applicazione del principio dei lavori virtuali. Allo scopo di giustificare tale definizione, e anche per chiarire alcune considerazioni che saranno sviluppate nel seguito, `e fornita una breve spiegazione. Dalla Statica, sappiamo che se un corpo `e in equilibrio, il lavoro virtuale fatto da tutte le forze agenti per un qualunque spostamento virtuale compatibile con i vincoli `e nullo. Come spiegato nell’appendice B, ricordiamo che la caratteristica di virtualit`a dello spostamento (che non ne impone l’effettiva realizzabilit`a) implica che le forze possano considerarsi invariate in conseguenza della modifica di configurazione. La caratteristica di virtualit`a permette quindi di esprimere il lavoro virtuale come semplice prodotto scalare delle forze per gli spostamenti virtuali dei punti di applicazione (senza la necessit`a di effettuare integrali). Nell’appendice B, il PLV `e stato proposto come possibile alternativa alle equazioni cardinali nella soluzione dei problemi di statica dei corpi rigidi. L’estensione ai corpi deformabili dovrebbe a questo punto risultare naturale. L’unica novit`a consiste nel fatto che per i corpi deformabili nel calcolo del lavoro virtuale devono essere considerate anche le forze interne (che sappiamo essere energeticamente attive). Per i corpi deformabili del PLV si esprime quindi come segue: un corpo deformabile in equilibrio statico, il lavoro virtuale complessivo fatto delle forze esterne e delle forze interne `e nullo per qualunque spostamento virtuale: in formule: δLext + δLint = 0

(24.17)

Ricordiamo che, in un corpo deformabile, il lavoro fatto dalle forze interne `e l’opposto del lavoro che fanno le tensioni. Per cui il PLV pu`o anche essere formulato nel modo seguente: un corpo deformabile in equilibrio statico il lavoro virtuale fatto dalle forze esterne `e uguale al lavoro virtuale fatto dalle tensioni ovvero: δLext = δLten

772

(24.18)

24.9. L’INTEGRALE DI MOHR COME APPLICAZIONE DEL PRINCIPIO DEI LAVORI VIRTUALI

Nell’applicazione del PLV ai corpi deformabili `e necessario che gli spostamenti virtuali ristettino, oltre che i vincoli esterni (come avviene per i sistemi di corpi rigidi), anche i vincoli interni, ovvero il campo degli spostamenti virtuali deve essere congruente. Consideriamo il problema rappresentato nella figura 24.34 che consiste nel determinare lo spostamento verticale della sezione centrale B di una trave appoggiata agli estremi e soggetta a un carico uniformemente distribuito. p

D

C EJx

B l

Figura 24.34: Trave appoggiata soggetta a carico uniforme

Sotto l’effetto del carico, la linea d’asse subisce uno spostamento verticale e con semplici considerazioni si pu`o verificare che la linea elastica `e una polinomiale di quarto grado in s. Dato che tale spostamento `e prodotto dal carico effettivo, indichiamo la funzione spostamento della linea d’asse vP (s). Come ormai `e consuetudine, consideriamo l’effetto deformativo prodotto solo dal momento flettente prodotto dal carico, che indichiamo con: MxP (s). Tale funzione si 2 p p ricava facilmente: MxP (s) = pl e mostrato 2 (l − s) − 2 (l − s) = 2 (l − s) s. Il momento MxP (s) ` nella figura 24.35. B

C

D

M xP ( s ) Figura 24.35: Momento flettente dovuto al carico vero: MxP (s)

 Per valutare lo spostamento del punto di mezzeria della trave δB = vP 2l con l’integrale di Mohr, dobbiamo considerare il problema ausiliario mostrato in figura 24.36 in cui `e evidenziato il carico esploratore unitario richiesto con il relativo momento flettente: 1

C

D

(a)

B B

C

D

(b)

M xu ( s )

Figura 24.36: Trave appoggiata soggetta al carico unitario di interesse

 Mxu (s) =

1 2s 1 2 (l

s< − s)

l 2

s>

l 2

Per applicare al problema in esame il principio dei lavori virtuali, consideriamo come problema di riferimento la struttura su cui agisce il carico esploratore unitario e come campo di

773

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

spostamenti virtuali quello prodotto nella stessa struttura dal carico vero. Si pu`o osservare che il campo di spostamenti prodotto dal carico vero, essendo la soluzione di un problema di meccanica dei continui, `e senza dubbio congruente e soddisfa le condizioni di vincolo esterno. Nel problema di riferimento il lavoro virtuale fatto delle forze esterne (il carico esploratore) vale quindi solo: δLext = 1 · δB dato che il carico esploratore `e l’unica forza esterna che fa lavoro (i vincoli sono ideali). Il lavoro virtuale fatto delle tensioni indotte nel corpo dal carico esploratore pu`o essere calcolato concio per concio, considerando, come premesso, le sole azioni flettenti: Z

l

Mxu (s) · kP (s) ds

δLten = 0

dove `e stata indicata con kP (s) =

MxP (s) EJx

la curvatura virtuale del concio che `e, per la nostra scelta dello spostamento virtuale, la curvatura prodotta dal carico vero. L’applicazione del PLV a questo esempio porta quindi alla uguaglianza: Z l MxP (s) Mxu (s) δB = ds (24.19) EJx 0 ovvero all’integrale di Mohr. Esercizio 24.7: Freccia massima Verificare che, considerando i soli effetti flessionali, la freccia massima del problema in figura 24.36 `e: 5 pl4 δB = 384 EJx

24.10 Il teorema di Betti Un utile teorema attribuito a Enrico Betti (1823-1892), noto anche come teorema di reciprocit`a, si applica a problemi nei quali si verifica una inversione tra il ruolo dei carichi e quello degli spostamenti. Con riferimento alla figura 24.37 consideriamo i seguenti problemi reciproci per i quali `e assunta significativa solo l’energia dovuta alla flessione (il ragionamento vale anche se si considera l’effetto delle altre caratteristiche). a) Problema I: data una struttura sollecitata da una forza P applicata in B con direzione n, determinare lo spostamento di C nella direzione m. b) Problema II: data una struttura sollecitata da una forza P applicata in C con direzione m, determinare lo spostamento di B nella direzione n. Nella figura 24.38 sono riportati gli andamenti dei momenti flettenti utili per il calcolo dell’integrale di Mohr nel problema I. Sono indicati, in particolare, con Mxu1 (s) il momento prodotto da un carico unitario applicato in C in direzione m e con Mxu2 (s) il momento flettente prodotto da un carico unitario applicato in B in direzione n (che ha le caratteristiche del versore

774

24.10. IL TEOREMA DI BETTI

Pb. I

P

Pb. II

δC

C

C m

m

δB

P B n

n

(a)

B

(b)

Figura 24.37: Schema per l’applicazione del teorema di reciprocit`a

della forza P ). Per il principio di sovrapposizione, il momento flettente prodotto nella struttura dalla forza P sar`a: P · Mxu2 (s). Ricaviamo quindi che, per il problema I: Z P · Mxu2 (s) · Mxu1 (s) δI,C = ds EJx Struttura

Affrontiamo ora il problema duale (problema II) nel quale carico effettivo e carico esplora1

Pb. I

C m P B

n

M xu1 ( s )

(a)

C

1

M xu 2 ( s )

C

1 B

(b)

(c)

Figura 24.38: Momenti flettenti rilevanti per la soluzione del problema I con l’integrale di Mohr

tore sono scambiati. Per il problema duale il momento prodotto dal carico vero `e pertanto: P · Mxu1 (s), mentre il momento prodotto dal carico esploratore `e: Mxu2 (s). Lo spostamento richiesto vale quindi: Z P Mxu1 (s) Mxu2 (s) δII,B = ds EJx Struttura

Si osserva quindi che, per entrambi i problemi, `e stato svolto lo stesso calcolo quindi gli risultati sono uguali. Da ci`o ricaviamo una formulazione del teorema di Betti: per una struttura, composta di materiale elastico lineare e in regime di validit`a meccanica dei corpi poco deformabili, sollecitata da una forza P avente direzione n applicata in B, lo spostamento di C nella direzione m `e uguale allo spostamento che si manifesta in B nella direzione n se la stessa forza P `e applicata in C nella direzione m.

775

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

Il teorema di Betti pu`o essere espresso anche in altre forme, adatte a specifiche applicazioni. In effetti, nel caso elementare esaminato sono state considerate due condizioni di carico prodotte da una singola forza, mentre la reciprocit`a `e una propriet`a pi` u generale. Consideriamo due strutture identiche e ugualmente vincolate (in modo da essere almeno isostatiche), la prima sottoposta a un sistema di carico che identifichiamo con il pedice 1 e la seconda con un sistema di carico identificato con il pedice 2. I carichi possono essere di qualsiasi tipo: forze concentrate, distribuite nel volume, sulla superficie, momenti, ecc. . . e loro arbitrarie combinazioni. Q1

W1

Ω p1

Ω

R2

p2

W2

F1

F2

Q2

(a)

(b)

Figura 24.39: Generalizzazione del teorema di reciprocit`a

In entrambi i casi i carichi produrranno un campo di (piccoli) spostamenti che identifichiamo ` evidente che i campi di spostamento che cos`ı si con i pedici 1 e 2 come i relativi carichi. E ottengono sono congruenti per cui `e possibile calcolare il lavoro virtuale fatto da un sistema di carico facendo il prodotto scalare delle forze con gli spostamenti elastici (e i momenti con le rotazioni). Con tali premesse il teorema di reciprocit`a si pu`o generalizzare come segue: il lavoro virtuale fatto dai carichi del sistema 1 con gli spostamenti prodotti dal sistema 2 `e uguale al lavoro virtuale fatto dai carichi del sistema 2 con gli spostamenti del sistema 1 in simboli:

Z

Z P1 u2 dV =



P2 u1 dV

(24.20)



Vi `e anche un’altra interessante conseguenza del teorema di Betti. Consideriamo, come in figura 24.40 un corpo su cui agiscono due forze P e Q che possono essere esercitate in punti diversi e in direzioni diverse. P

n

B Q C m

Figura 24.40: Interpretazione energetica del teorema di reciprocit`a

Supponiamo che i carichi siano applicati in sequenza, per esempio prima P e poi Q e consideriamo lo spostamento del punto B durante il caricamento. Nella prima fase il punto B si sposter`a proporzionalmente al carico P fino a che questo non raggiunge il valore finale. Da

776

24.10. IL TEOREMA DI BETTI

questo momento in poi il carico P rimane fisso e viene applicato Q. Dato che, per effetto di Q, anche B in genere si sposta, la forza P far`a un ulteriore lavoro. Un analogo effetto si ha per il punto C quando invertiamo l’ordine di applicazione dei carichi. Consegue dal teorema di Betti che: il lavoro fatto dalla forza P quando viene applicata la forza Q `e uguale al lavoro fatto dalla forza Q quando viene applicata la forza P . Per verificare la precedente affermazione `e sufficiente effettuare il calcolo degli spostamenti reciproci, ovvero prodotti da un carico sul punto di applicazione dell’altro. In particolare, come schematizzato in figura 24.41 indichiamo con δB e la componente nella direzione n dello spostamento complessivo indotto in B dalle due forze. Tale componente di spostamento pu` o essere considerata composta da due contributi: δB = δBP +δBQ il primo dovuto a P e il secondo a Q. Analogamente, indichiamo con δCP la componente in direzione m dello spostamento indotto in C dal carico P . B*

δB

B n

C*

δC

C m

Figura 24.41: Rappresentazione amplificata degli spostamenti

Usando due carichi esploratori unitari, identificati con i pedici 1 e 2, rispettivamente paralleli ed equiversi a P e a Q, che producono nella struttura rispettivamente i momenti flettenti Mu1 (s) , Mu2 (s), con l’integrale di Mohr si ricava: Z Z Q · Mu1 (s) · Mu2 (s) Mu1 (s) · Mu2 (s) δBQ = ds = Q ds EJx EJx Struttura

e

Z δCP =

Struttura

P · Mu1 (s) · Mu2 (s) ds = P EJx

Struttura

Z

Mu1 (s) · Mu2 (s) ds EJx

Struttura

Pertanto il lavoro fatto dalla forza P quando viene applicata la forza Q vale: Z Mu1 (s) · Mu2 (s) P · δBQ = P · Q ds = Q · δCP EJx Struttura

Si pu` o osservare che questa conseguenza del teorema di reciprocit`a era gi`a stata evidenziata. In effetti `e stato dimostrato che i due spostamenti energeticamente associati ai carichi possono essere ottenuti tramite la matrice di deformabilit`a della struttura con la seguente relazione: !    ∂2U ∂2U P δB 2 ∂P ∂Q∂P = ∂2U ∂2U δC Q ∂P ∂Q ∂Q2 per cui la componente dello spostamento di C dovuta a P vale: δCP = nente dello spostamento di B dovuta a Q vale δBQ =

∂2U ∂P ∂Q Q.

∂2U ∂P ∂Q P

e la compo-

Il lavoro reciproco vale quindi:

∂2U ∂P ∂Q

P · δBQ = Q · δCP = · Q · P . Il teorema di reciprocit`a pu`o essere pertanto considerato una conseguenza della simmetria della matrice di deformabilit`a.

777

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

24.11 Applicazioni dell’integrale di Mohr e del teorema di Betti L’integrale di Mohr `e uno strumento molto efficace per risolvere problemi di deformabilit`a in strutture isostatiche di travi come si pu`o osservare nei seguenti esempi. Esempio 24.16: Analisi deformativa di una struttura reticolare La seguente struttura reticolare (a = 400 mm) `e composta di aste in lega leggera (E = 75 GPa, σam = 250 MPa) aventi la stessa sezione di area A = 600 mm2 . Dopo aver determinato il massimo valore di P compatibile con la resistenza, determinare a) lo spostamento del punto B b) la rotazione dell’asta 1 c) l’allontanamento dei punti B e H (punto medio tra C e D) d) la variazione dell’angolo BCD P

a

a

D

B 2

a

P 1

4

H 3 5 6

C

Figura 24.42: Struttura reticolare

In questo caso `e evidente che gli effetti deformativi dipendono dalla sol forza normale che `e l’unica caratteristica attiva. Indichiamo con j = 1..6 l’indice che identifica la generica asta la cui lunghezza `e rappresentata con l(j) . Lasciamo al lettore il compito di determinare (j) le forze normali dovute al carico P nelle varie aste che indichiamo come: NP , con j = 1..6.

Risposta a Posssiamo prevedere che il punto B si sposti sia in orizzontale sia in verticale. Pertanto `e necessario ottenere due componenti di spostamento. Usiamo a tale proposito due carichi esploratori indipendenti come nello schema di figura 24.43 : 1

B

D

B

D 1

C

C

(a)

(b)

Figura 24.43: Schema per la determinazione delle componenti dello spostamento di B: a) orizzontale e b) verticale

778

24.11. APPLICAZIONI DELL’INTEGRALE DI MOHR E DEL TEOREMA DI BETTI

Il primo carico fornir`a lo spostamento orizzontale di B (che risulter`a positivo se verso sinistra) e il secondo la componente verticale dello spostamento (positivo se verso il basso). (j) Indichiamo con Nu1 , con j = 1..6, le forze normali indotte nelle aste dal carico esploratore (j) orizzontale e con Nu2 , con j = 1..6, le forze normali indotte da quello verticale. Tali caratteristiche devono essere valutate usando le consuete tecniche di soluzione delle strutture reticolari (metodo dei nodi, delle sezioni. . . ). Gli spostamenti richiesti saranno quindi: • spostamento orizzontale verso sinistra: 6

(j)

(j)

(j)

(j)

X N · Np Nu1 (s) · NP (s) u1 ds = l(j) EA EA

Z δ1 =

j=1

Struttura

• spostamento verticale verso il basso: 6

X N · Np Nu2 (s) · NP (s) u2 ds = l(j) EA EA

Z δ2 =

j=1

Struttura

Risposta b Un modo corretto ma non molto rapido per procedere potrebbe essere di valutare gli spostamenti completi degli estremi B e C (in effetti quelli di B sono gi`a noti dalla risposta precedente) e quindi di determinare l’inclinazione con considerazioni geometriche. Si pu` o invece procedere in modo diretto usando il carico unitario come nello schema di figura 24.44. D

B

1

C

Figura 24.44: Carico fittizio per valutare la rotazione dell’asta BC

Per evitare conflitto di notazione, indichiamo tale carico esploratore con il pedice 3. Osserviamo infatti che la grandezza geometrica energeticamente associata al momento esploratore unitario `e la rotazione della sezione su cui applichiamo il momento. D’altra parte, l’asta BC pu`o subire solo un allungamento o un accorciamento per cui il suo asse rimane rettilineo e la rotazione della linea d’asse `e la medesima in ogni sezione. Da ci`o si ricava che il risultato non dipende dalla sezione dell’asta BC su cui posizioniamo il momento unitario. Un’altra interessante osservazione pu`o essere ottenuta a questo riguardo. Con il momento esploratore applicato la struttura non pu`o pi` u essere considerata reticolare (ma solo parzialmente reticolare) in quanto l’elemento BC `e soggetto anche a flessione, indipendentemente dal punto in cui il momento esploratore `e applicato. Tuttavia, essendo nullo il momento flettente prodotto dal carico effettivo, nell’integrale di Mohr il momento flettente

779

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

` pertanto sufficiente considovuto al carico esploratore non fornisce alcun contributo. E derare le sole forze normali indotte (ovviamente in tutte le aste) dal momento unitario, (j) grandezze che chiameremo: Nu3 , con j = 1..6. La rotazione richiesta (positiva se oraria) vale quindi: 6

(j)

(j)

X N · Np Nu3 (s) · NP (s) u3 ds = l(j) EA EA

Z θBC = δ3 =

j=1

Struttura

Risposta c Anche per questa valutazione esiste un procedimento di soluzione poco razionale che prevede la valutazione degli spostamenti dei punti B e H separatamente. Il metodo diretto di soluzione si pu`o per`o intuire risondendosi alla domanda: qual `e il carico esploratore unitario energeticamente associato all’allontanamento dei punti B e H? La risposta `e evidentemente una coppia di braccio nullo come indicato nella figura 24.45. 1

B H

1

Figura 24.45: Carico fittizio per valutare l’allontanamento dei punti B e H

Anche in questo caso sono significative le sole forze normali indotte in tutte le aste dalla (j) coppia (carico esploratore 4), che indicheremo con Nu4 , con j = 1..6. L’allontanamento dei punti vale quindi:

Z ∆lBH = δ4 = Struttura

6

(j)

(j)

X N · Np Nu4 (s) · NP (s) u4 ds = l(j) EA EA j=1

Risposta d A questo punto dovrebbe essere evidente il modo di procedere con l’applicazione diretta dell’integrale di Mohr. In effetti, la grandezza statica energeticamente connessa con la rotazione angolare relativa delle aste BC e CD, come mostrato nella figura 24.46, `e una coppia di momenti unitari controversi applicati ognuno a un’asta.

780

24.11. APPLICAZIONI DELL’INTEGRALE DI MOHR E DEL TEOREMA DI BETTI

D

B

1 1

α

C

Figura 24.46: Carico fittizio per valutare la riduzione dell’angolo α

Indicate le caratteristiche di forza normale prodotte da tale coppia di momenti con il pedice 5, la variazione dall’angolo α = BCD vale quindi: 6

(j)

(j)

X N · Np Nu5 (s) · NP (s) u5 ds = l(j) EA EA

Z ∆α = δ5 =

j=1

Struttura

Per come sono stati scelti i versi dei momenti esploratori, un risultato positivo indicherebbe che le due aste tendono ad avvicinarsi, ovvero che l’angolo compreso si riduce.

Esempio 24.17: Variazione di volume Un corpo Ω (figura 24.47) avente forma arbitraria costituito con materiale lineare elastico omogeneo isotropo `e libero nello spazio (o vincolato in modo non ridondante) ed `e sottoposto a una coppia di braccio nullo con forze di intensit`a F applicate ai punti B e C distanti d. Determinare la variazione di volume complessiva del corpo. Ω

F C

F

B

Figura 24.47: Applicazione del teorema di Betti

Questo problema rappresenta un esempio classico di quanto il teorema di reciprocit` a possa essere efficace e generale. Consideriamo il caso dato come problema 1 e un problema ausiliario (problema 2) in cui allo stesso corpo `e applicato un carico di forza di superficie normale uniforme t applicata su tutta la superficie del corpo come mostrato nella figura 24.48. Si pu`o verificare immediatamente che lo stato di tensione soluzione del problema 2 `e idrostatico e uniforme e vale:   1 0 0 S2 = t  1 0  = tI Sym1 per cui il campo di deformazione `e dato da: t t E2 = (1 − 2ν) I = I E 3K

781

24. RIGIDEZZA DELLE TRAVI

dove K `e il bulk modulus. Ω

Figura 24.48: volume

t=1

C

B

Carico unitario energeticamente associato all’aumento di

La grandezza deformativa energeticamente associata al carico del problema 2 `e la variazione di volume ∆V2 = εv V in quanto: 1 1 Lext2 = U2 = εv t · V = t · ∆V2 2 2 L’allontanamento dei punti B e C nel problema 2 vale: ∆d2 = d ·

t 3K

Per il teorema di Betti, se combiniamo le forze del primo problema con il campo di spostamenti del secondo e viceversa, si ottiene: F · ∆d2 = t · ∆V1 da cui, sostituendo, il risultato: F ·d ∆V1 = 3K Si conclude che, risultato piuttosto sorprendente, la variazione di volume indotta dalla coppia di forze `e indipendente dalla forma del corpo stesso e, oltre che ovviamente dal carico e dal materiale, dipende solo dalla distanza dei punti di applicazione della coppia.

Esercizio 24.8: Applicazioni del teorema di reciprocit`a Verificare direttamente il teorema di reciprocit`a considerando i problemi di figura 24.49. EJx

B

P

C

D l

l

B

M

(a)

C D

(b)

Figura 24.49: Trave isostatica per la verifica del teorema di Betti

782

Capitolo 25

Travature iperstatiche Il capitolo affronta l’analisi dei problemi iperstatici di travi mediante la descrizione e l’applicazione sistematica del metodo delle forze. Sono in particolare ricavate le formule di congruenza, o di Mu ¨ller-Breslau, ed `e mostrato come applicarle per risolvere generali problemi iperstatici di travi, anche in presenza di errori di montaggio o forzamenti. Il capitolo non introduce alcuna novit`a teorica rispetto a quanto gi`a discusso nei precedenti, in particolare nel capitolo 24, tuttavia la notevole variet`a di casi che si possono presentare rende utile la discussione dei metodi di soluzione. Per questo motivo in questo capitolo ancora pi` u che in altri, gli esempi sono funzionali alla spiegazione e anche la soluzione degli esercizi proposti `e da considerarsi utile per acquisire le necessarie competenze anche teoriche.

25.1 Generalizzazione del metodo delle forze Il metodo delle forze `e stato introdotto nel capitolo 19 dove `e stato impiegato come alternativa al metodo degli spostamenti per risolvere semplici problemi iperstatici. Con l’integrale di Mohr siamo ora in grado di determinare lo spostamento di un qualsiasi punto in una generica direzione per ogni problema isostatico di travi. Questo strumento analitico permette di applicare in modo molto generale ed efficace il metodo delle forze che viene nel seguito richiamato con riferimento a un problema di travi una volta iperstatico. Se, come mostrato nella figura 25.1, si elimina opportunamente un vincolo semplice e si sostituisce con la reazione vincolare associata, si ottiene un problema ausiliario isostatico che presenta, oltre al carico effettivo, un carico incognito provvisoriamente indicato con X (successivamente le incognite iperstatiche saranno definite in modo leggermente diverso con una notazione adatta a descrivere anche problemi pi` u volte iperstatici). Il problema ausiliario `e quindi isostatico con un carico che pu`o essere considerato parametrico. P

P B

C

=

B

C X

Figura 25.1: Schema di soluzione di un problema iperstatico con il metodo delle forze

Essendo il problema ausiliario isostatico, se viene risolto correttamente (nel rispetto delle leggi costitutive del materiale, di congruenza interna ed esterna con i vincoli non ridondanti),

783

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

per ogni valore dell’incognita X si ottiene una soluzione che rispetta le condizioni di equilibrio globali e locali. Pertanto, considerando tutti i valori che possono essere assegnati a X, `e formalmente individuato un sottoinsieme delle soluzioni problema originario (rappresentato dalla linea Γ nella figura 25.2) di tutte le soluzioni che rispettano le cardinali.

Soluzioni equilibrate

Γ X

Figura 25.2: iperstatico

Metodo delle forze:

effetto della modifica dell’incognita

Data la linearit`a del problema originario e l’unicit`a della sua soluzione, un solo valore di X (e quindi un solo punto della linea Γ) `e per`o corretto e evidentemente individua la condizione per cui la soluzione, oltre che essere equilibrata e costitutivamente corretta, `e anche completamente congruente. Nel caso in esame se per la trave si usa un modello deformativo coerente con le condizioni precedenti, la condizione di congruenza si ottiene imponendo che lo spostamento dell’estremo C (la grandezza energeticamente associata alla reazione incognita X) assuma proprio il valore che rispetta il vincolo che `e stato eliminato nel problema originario. Nel caso in esame lo spostamento dell’estremo C complessivo, ovvero prodotto dal carico P e da X, deve essere nullo. L’individuazione del valore corretto di X deriva pertanto dall’impostazione di una equazione di congruenza come rappresentato nello schema dell figura 25.3. Soluzioni equilibrate

Γ X Soluzioni congruenti

Figura 25.3: Metodo delle forze: unicit`a della soluzione

Con un esempio guida, nel prossimo paragrafo `e sviluppato il procedimento generale di soluzione che porta alle equazioni di congruenza di Mu ¨ller¨ller-Breslau,in onore di Henrich Mu Breslau, (1851-1925).

25.2 Equazioni di M¨ uller-Breslau L’integrale di Mohr costituisce la base per la soluzione dei problemi iperstatici di travi con il metodo delle forze. La formulazione generale del procedimento `e ottenuta come immediata generalizzazione di alcuni esempi. In tutti i problemi esaminati del presente capitolo, quando riferiti a problemi piani, si far`a riferimento al consueto sistema locale di assi cartesiani e alla ascissa curvilinea tipicamente assunta, come rappresentato nella figura 25.4.

784

¨ 25.2. EQUAZIONI DI MULLER-BRESLAU

Esempio 25.1: Problema iperstatico elementare Determinare le caratteristiche di sollecitazione della trave ad asse rettilineo di figura 25.4. p C

z

B

s l

y

Figura 25.4: Trave uniformemente caricata una volta iperstatica

Supponiamo che la trave sia installata senza errori di montaggio, quindi con reazioni vincolari nulle in assenza del carico p, e consideriamo significativi i soli effetti deformativi flessionali. Queste ipotesi saranno successivamente eliminate. La soluzione di questo semplice problema volta iperstatico nel piano pu`o essere ottenuta anche con il metodo della linea elastica (vedi il capitolo 24). Per applicare il metodo delle forze, `e necessario eliminare i vincoli ridondanti (nel caso specifico uno solo) in modo da ottenere una struttura isostatica (`e consigliabile che sia intrinsecamente isostatica). La struttura resa isostatica con l’eliminazione dei vincoli ridondanti definisce un problema isostatico ausiliario la cui struttura `e generalmente chiamata sistema principale (SP). Come vedremo, vi sono infiniti modi per ottenere questo obiettivo, tuttavia, ai fini della soluzione, i sistemi principali che possono essere usati sono, di fatto, tutti equivalenti. Una soluzione che appare naturale consiste nella eliminazione dell’appoggio in C in modo da avere un SP rappresentato da una trave a mensola come in figura 25.5.

B

C

Figura 25.5: Sistema principale

In base al principio di sovrapposizione, il problema iperstatico pu`o essere trattato come la sovrapposizione di due problemi isostatici: • il primo problema `e rappresentato dal sistema principale su cui agisce il carico effettivamente applicato nel problema originario(la condizione di carico effettivo e le quantit`a associate saranno individuate con il pedice P ) • il secondo problema `e definito dal SP su cui agisce, come unico carico, la reazione vincolare iperstatica (l’azione statica prodotta dal vincolo elementare eliminato). In vista di generalizzare il procedimento di soluzione a problemi con pi` u di una iperstatica, conveniamo di chiamare X1 l’incognita iperstatica stessa (il pedice 1 si riferisce alla prima incognita iperstatica e in questo esempio `e pleonastica essendo l’unica). L’applicazione del PLV si schematizza quindi come nella figura 25.6.

785

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

p B

C

+ X1

C B

1

Figura 25.6: Sovrapposizione degli effetti sul sistema principale

Nella quale si osserva come la soluzione del problema originario sia ottenibile dalla sovrapposizione delle soluzioni di due problemi isostatici. Come osservato nel paragrafo precedente, la soluzione che in questo modo si ottiene `e sicuramente equilibrata (per ogni valore di X1 ) perch´e il sistema principale `e isostatico. Il valore corretto di X1 sar`a quindi determinato dal soddisfacimento di una equazione di congruenza che stabilisce una condizione di tipo geometrico sullo spostamento generalizzato (spostamento o rotazione) energeticamente associato alla reazione vincolare iperstatica (che pu`o essere una componente di forza o di momento). Nel caso in esame, la condizione di congruenza `e in effetti relativa allo spostamento verticale dell’estremo C. Con una notazione che diventer`a generale, scriviamo la condizione di congruenza in questo modo: δ1 = δ1P + X1 δ11 i cui simboli hanno il seguente significato (coerente con la precedente definizione dei pedici): • δ1 spostamento generalizzato energeticamente associato alla prima incognita iperstatica; per il caso in esame lo spostamento verticale dell’estremo C nel problema iperstatico di figura 25.4 che dovr`a quindi essere nullo • δ1P spostamento generalizzato energeticamente associato alla prima reazione vincolare iperstatica nel sistema principale sotto la condizione di carico effettivo (lo spostamento verticale dell’estremo C nel problema di sinistra in figura 25.6) • δ11 spostamento generalizzato energeticamente associato alla prima iperstatica nel sistema principale con la condizione di carico prodotta dalla prima reazione vincolare iperstatica di intensit` a unitaria (lo spostamento verticale dell’estremo C nel problema di destra in figura 25.6). Per determinare i valori di tali spostamenti `e molto efficace l’integrale di Mohr. A tale scopo definiamo, in modo sempre conseguente con la notazione, le seguenti caratteristiche di sollecitazione: • MxP (s): momento flettente nel sistema principale dovuto al carico vero • Mxu1 (s): momento flettente nel sistema principale dovuto alla prima reazione vincolare iperstatica unitaria (il pedice u pu`o essere considerato implicito e tale quantit`a spesso si indicher`a pi` u sinteticamente con Mx1 (s)). Dato che i problemi sono isostatici, le precedenti caratteristiche si possono valutare in base alla sola statica, per l’esempio in esame valgono: p MxP (s) = − (l − s) 2 2

786

¨ 25.2. EQUAZIONI DI MULLER-BRESLAU

Mxu1 (s) = l − s Non dovrebbe essere necessario ricordare l’esigenza dello stretto rispetto delle convenzioni sui versi e sui segni. L’equazione di congruenza nella notazione di Mohr si scrive quindi come segue: Z

Z

MxP (s) Mxu1 (s) ds + X1 EJx

δ1 =

[Mxu1 (s)]2 ds EJx

Sistemaprincipale

Sistemaprincipale

per il caso in esame: Z 0= 0

l

− p2 (l − s) 3 ds + X1 · EJx

Z

l

0

(l − s) 2 ds EJx

da cui si ottiene la relazione vincolare iperstatica: 3 X1 = pl 8 Tutte le caratteristiche del problema (tensioni, deformazioni, spostamenti, rotazioni, caratteristiche di sollecitazione, reazioni vincolari, ecc. . . ) possono essere valutate tramite la sovrapposizione degli effetti. Il problema di partenza `e infatti identico a quello isostatico con i carichi veri e le reazioni ridondanti appena valuatate, come indicato nella figura 25.7. p

p

=

C B

C B

3 pl 8

Figura 25.7: Equivalenza tra il problema iperstatico iniziale e il problema isostatico definito sul sistema principale

Possiamo quindi rispondere alla richiesta: Ty (s) = −X1 + p (l − s) Mx (s) = MxP (s) + X1 · Mxu1 (s) nel caso specifico:  Ty (s) = p

Mx (s) =

 5 l−s 8

p (l − s) (4s − l) 8

I diagrammi sono riporati nella figura 25.8.

787

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

5 l 8 B

5 pl 8 −

3 − pl 8 C

Ty

D

1 2 pl 8

Mx

C B

Figura 25.8: Caratteristiche di sollecitazione definitive

Esercizio 25.1: Modifica del sistema principale Risolvere il problema dell’esempio 25.1 usando il sistema principale rappresentato in figura 25.9. p C B

= p B

C

+ X1

1 B

C

Figura 25.9: Modifica del sistema principale

Suggerimenti. Formalmente si tratta di risolvere la stessa equazione di congruenza: δ1 = δ1P + X1 δ11 in cui i termini assumono il significato di seguito specificato: • δ1 rotazione (positiva se antioraria) della sezione B nel problema dato, e quindi, nel caso in esame, zero. • δ1P rotazione della sezione B nel sistema principale prodotta dal carico effettivo. • δ11 rotazione della sezione B nel sistema principale prodotta dalla reazione vincolare iperstatica di intensit`a unitaria.

Nell’esempio che segue il metodo `e applicato per risolvere un problema due volte iperstatico.

788

¨ 25.2. EQUAZIONI DI MULLER-BRESLAU

Esempio 25.2: Problema due volte iperstatico Determinare le caratteristiche di sollecitazione per il problema di figura 25.10. p

EJx C

B l

Figura 25.10: Trave con doppio incastro

Il problema pu`o essere risolto con il metodo delle forze eliminando solo due reazioni vincolari. Sappiamo infatti che, in questo caso, in assenza di errori di montaggio, la reazione vincolare di forza assiale esercitata dagli incastri `e nulla, per cui lo schema risolvente `e mostrato in figura 25.11. p

B

C

+ X1

1 B

C

+ X2

B

C

1 Figura 25.11: Schema per la sovrapposizione degli effetti in un problema due volte iperstatico

Le due incognite iperstatiche potranno essere individuate con l’imposizione di altrettante condizioni di congruenza che, come nel caso precedente, coinvolgono le grandezze geometriche energeticamente associate alle iperstatiche. Formalmente si pu`o infatti imporre il seguente sistema di equazioni di Mu ¨ller-Breslau:  δ1 = δ1P + X1 δ11 + X2 δ12 δ2 = δ2P + X1 δ21 + X2 δ22 alcuni termini del quale hanno un significato del tutto simile al caso precedente in coerenza con i relativi pedici: • δ1 rotazione (positiva se antioraria perch´e definita dalla scelta del verso del momento di reazione) della sezione C nel problema dato, e quindi, nel caso in esame, zero; • δ1P rotazione (sempre antioraria) della sezione C nel sistema principale prodotta dal carico effettivo; • δ11 rotazione antioraria della sezione C nel sistema principale prodotta dalla prima reazione vincolare iperstatica di intensit`a unitaria; • δ2 spostamento verticale (positivo se verso l’alto) della sezione C nel problema dato, e quindi nel caso in esame zero; • δ2P spostamento verticale verso il basso della sezione C nel sistema principale prodotta dal carico effettivo

789

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

• δ22 spostamento verticale verso il basso della sezione C nel sistema principale prodotta dalla seconda reazione vincolare iperstatica di intensit`a unitaria Rispetto al problema con un solo grado di libert`a, costituiscono una novit`a i termini misti: • δ12 rotazione antioraria della sezione C nel sistema principale dovuto alla seconda reazione vincolare iperstatica di intensit`a unitaria • δ21 spostamento verticale verso il basso della sezione C nel sistema principale prodotta dalla prima reazione vincolare iperstatica di intensit`a unitaria. Osserviamo che i termini misti sono uguali δ12 = δ21 per il teorema di Betti. Procediamo con il calcolo dei vari spostamenti generalizzati considerando che i momenti flettenti di interesse nel sistema principale sono i seguenti: MxP (s) =

p 2l − s (l − s)2 6 l

Mxu1 (s) = 1 Mxu2 (s) = l − s Con l’integrale di Mohr si ottiene: δ1P = −

1 pl3 ; 8 EJx

δ2P = −

11 pl4 ; 120 EJx

δ12 = δ21 =

1 l2 2 EJx

In questo esempio i termini della diagonale principale della matrice possono essere ottenuti anche senza scomodare l’integrale di Mohr si riferiscono in effetti a soluzioni di casi elementari ben noti: l 1 l3 δ11 = ; δ22 = EJx 3 EJx La soluzione del sistema di Mu ¨ller-Breslau fornisce i seguenti risultati: X1 = −

7 1 2 pl ; X2 = pl 20 20

Lo schema statico finale `e rappresentato in figura 25.12: p

pl 2 20 B

C

7 pl 20

Figura 25.12: Soluzione rappresentata nel sistema principale

Le caratteristiche di sollecitazione definitive del problema iperstatico originario si ottengono per sovrapposizione:  1 p Ty (s) = 3l2 − 10s2 20 l  1 p Mx (s) = MxP (s) + X1 · Mxu1 (s) + X2 · Mxu2 (s) = − 2l3 − 9l2 s + 10s3 60 l

790

¨ 25.2. EQUAZIONI DI MULLER-BRESLAU

Nella figura 25.13 sono rappresentati i relativi diagrammi. −

3 l = 0.548l 10 3 pl 20

B

D

Ty

C −



1 2 pl 30

D B

7 pl 20

C

1 2 pl 20

Mx

0.021pl 2 Figura 25.13: Caratteristiche di sollecitazione definitive

Come generalizzazione dell’esempio precedente, possiamo concludere che per un problema n volte iperstatico `e sempre possibile scrivere n equazioni di congruenza, o di Mu ¨ller-Breslau, formalmente come: n X δi = δiP + Xj δij con i = 1..n (25.1) j=1

in cui: • δi rappresenta lo spostamento generalizzato associato all’iperstatica i nel problema iperstatico originario • δiP rappresenta lo spostamento generalizzato associato all’iperstatica i nel sistema principale prodotto dal carico effettivo • δij rappresenta lo spostamento generalizzato associato all’iperstatica i nel sistema principale dovuto all’iperstatica j di intensit`a unitaria. Per il teorema di reciprocit`a: δij = δji

(25.2)

Esercizio 25.2: Verifica del grado di iperstaticit`a per elemento deformabile Verificare che il problema rappresentato nella figura 25.14, in assenza di errori di montaggio, `e effettivamente due volte iperstatico.

791

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

F

EJx

C

B

l 4

3 l 4

Figura 25.14: Problema iperstatico con carico concentrato

Suggerimento. Come discusso nella prima parte del corso, se la trave avesse una deformabilit`a trascurabile non vi sarebbero ragioni per prevedere l’esistenza di componenti orizzontali delle reazioni vincolari. Pu`o peraltro sorgere il dubbio che questo fatto non sia vero nell’ipotesi di corpo deformabile. Per dimostrare tale fatto anche per i corpi poco deformabili, `e sufficiente risolvere il problema senza ricorrere all’ipotesi che la reazione orizzontale sia nulla. Il lettore imposti quindi il problema considerandolo tre volte iperstatico, usando, per esempio, come iperstatiche le tre componenti della reazione vincolare che ppotrebbero essere esercitate in C. Sar`a subito evidente che, non essendoci accoppiamento energetico tra le caratteristiche normali e flessionali, la componente assiale della forza di reaione risulter`a nulla in assenza di carichi assiali. Completare l’esercizio determinando le reazioni vincolari.

Esercizio 25.3: Indirizzamento dei flussi di forza Con riferimento alla schema di figura 25.15, determinare il fattore adimensionale λ in modo che le componenti di momento delle reazioni dei due incastri abbiano lo stesso modulo. F

λEJx

EJx C

B

3 l 4

l 4

Figura 25.15: Controllo delle reazioni vincolari nei problemi iperstatici

Nota. Si osservi come anche in questo caso, l’ipertatcit`a del problema consenta, tramite l’opportuno scelta della rigidezza delle parti della struttura, di dirigere il flusso delle forze preferenzialmente verso alcuni vincoli. Si ricordi che la modifica della rigidezza relativa della parti `e inefficace per avere lo stesso risultato in un problema isostatico.

Esercizio 25.4: Struttura piana La struttura in figura 25.16 `e ottenuta saldando due spezzoni di tubo aventi la stessa sezione. Tracciare i diagrammi delle caratteristiche e individuare le sezioni critiche.

792

¨ 25.2. EQUAZIONI DI MULLER-BRESLAU

EJx, EA p B

C

l 3

l D

Figura 25.16: Struttura iperstatica nel piano

Nota. In questo caso il problema `e iperstatico dato che le reazioni vincolari producono tutte effetti flessionali in qualche parte della struttura. Si risolva il problema considerando anche l’energia associata alla forza normale (oltre alla flessione) e successivamente si valuti la soluzione trascurando il contributo della forza normale. Per le valutazioni numeriche si consideri la trave di acciaio con l = 600 mm, Rext = 25 mm, t = 5 mm, p = 20 N/mm e si confrontino quantitativamente le due soluzioni. Il risultato dell’esercizio precedente indica che quando in una struttura iperstatica di travi abbastanza snelle (come dovrebbero in effetti essere in quanto travi) la stessa sezione `e soggetta a flessione e forza normale, il comportamento deformativo `e dominato dalla flessione. Pertanto in questi casi la valutazione dei coefficienti di Mu ¨ller-Breslau pu`o limitarsi alla determinazione dei termini flessionali. Ovviamente tale osservazione non `e applicabile alle strutture reticolari di aste (in cui la flessione `e assente) oppure a situazioni in cui gli elementi soggetti a forza normale hanno sezioni ridotte rispetto agli elementi inflessi, come per esempio quando si usano cavi per sostenere o irrigidire travi. Esercizio 25.5: Mensola con cavo La mensola indicata in figura 25.17 `e irrigidita da un (unico) cavo montato senza precarico. Tracciare i diagrammi delle caratteristiche per la mensola.

EA p

a

C

EJx

B

a

a

Figura 25.17: Mensola irrigidita con un cavo

Nota. In questo caso `e opportuno considerare l’energia flessionale per la mensola ma anche l’energia estensionale per il cavo. Il problema `e una volta iperstatico, il lettore provi a risolverlo usando diversi sistemi principali.

793

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

25.3 Calcoli di deformabilit` a per strutture iperstatiche Anche per i problemi iperstatici possono essere interessanti le verifiche di rigidezza. Esaminiamo come applicare i metodi energetici nel seguente problema le cui caratteristiche di sollecitazione sono state determinate nel paragrafo precedente. Esempio 25.3: Verifiche di rigidezza per un problema iperstatico Determinare la rotazione della sezione centrale D della trave in figura 25.18. p

EJx B

D l

C

Figura 25.18: Trave con due incastri

Si potrebbe applicare direttamente il procedimento di Mohr considerando un carico esploratore unitario (in questo caso un momento) in D e quindi trovare il momento flettente da questo generato nel problema originario come nello schema di figura 25.19:

1 B

D

C

Figura 25.19: Carico unitario per determinare la rotazione della sezione di mezzeria

Questo procedimento richiede per`o di risolvere due problemi iperstatici: • il problema dato (figura 25.18), allo scopo di determinare le caratteristiche di sollecitazione effettive, in particolare il momento flettente Mx (s) (questo esercizio `e gi`a stato risolto nel paragrafo precedente e possiamo quindi giovarci della soluzione) • il problema di figura 25.19 con il caico dato dal momento esploratore unitario, anche questo due volte iperstatico, necessario per ottenere il momento flettente prodotto dal carico esploratore: Mxu (s). Una semplice considerazione per`o permette di evitare la soluzione del secondo problema iperstatico. Sappiamo infatti che, risolto il primo problema iperstatico, si perviene alla definizione di un problema isostatico che equivale a quello dato (figura25.12)per tutte le sue propriet`a, quindi anche per la rotazione richiesta. Possiamo quindi applicare il momento unitario al sistema principale (isostatico) usato per risolvere il primo problema iperstatico e determinare lo spostamento per quello. Nel caso in esame lo schema di soluzione `e mostrata nella fugura 25.20.

794

` PER STRUTTURE IPERSTATICHE 25.3. CALCOLI DI DEFORMABILITA

1

B

C D

B

D

C

M xu ( s ) Figura 25.20: Applicazione dell’integrale di Mohr al sistema principale

 Mxu (s) =

1 0

0 < s < l/2 l/2 < s < l

per cui la rotazione richiesta vale: Z θD = 0

l

Mx (s) · Mxu (s) ds = EJx

Z 0

l/2

 p − 60l 2l3 − 9l2 s + 10s3 · 1 1 pl3 ds = − EJx 1920 EJx

Esempio 25.4: Linea elastica tramite Mohr Con riferimento al problema di figura 25.18, determinare l’espressione della linea elastica tramite l’integrale di Mohr.  Per quanto il problema possa essere risolto direttamente integrando l’equazione differenziale della linea elastica e imponendo le opportune condizioni al contorno, la disponibilit` a della soluzione iperstatica ci permette di ottenere la soluzione in modo semplice anche con l’integrale di Mohr. Osserviamo che lo spostamento verticale (nel verso dell’asse y) di un punto H, di ascissa generica s, si ottiene con Mohr usando un carico esploratore unitario applicato in H in direzione y, come mostrato nella figura 25.21. Come illustrato nell’esempio 25.3, usiamo il problema isostatico equivalente per risolvere il problema nel modo pi` u semplice.

1

s B

H

C

M xu ( s1 , s ) B

H

C

Figura 25.21: Applicazione dell’integrale di Mohr con carico in posizione generica

Il momento dovuto al carico esploratore `e una funzione della posizione e dell’ascissa ` necessario usare due simboli distinti per la posizione in cui `e collocaro il del punto H. E

795

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

carico esploratore unitario, che sar`a indcato con s, e per la posizione della generica sezione, indicata con s1 , anche se tali quantit`a hanno lo stesso significato geometrico. Il momento flettente nel punto di ascissa s1 del SP dovuto al un carico esploratore applicato nel punto di ascissa s vale pertanto:  − (s − s1 ) 0 < s1 < s Mxu (s1 , s) = 0 s < s1 < l da cui otteniamo, per integrazione diretta, la soluzione: Z δH = v (s) = 0

l

Mx (s1 ) · Mxu (s1 , s) ds1 = EJx =

s

Z 0

 p − 60l 2l3 − 9l2 s1 + 10s31 · (s1 − s) ds1 = EJx

1 p (2l + s) (l − s)2 s2 120 lEJx

Esercizio 25.6: Freccia massima Con riferimento all’esempio 25.4, determinare nel modo pi` u diretto la sezione in cui si ha la freccia massima. Nota: la freccia massima si manifesta nel punto in cui l’inclinazione della sezione `e nulla.

25.4 Iperstatiche interne Come `e stato anticipato nel capitolo 7, vi sono problemi che possono essere classificati come esternamente isostatici e altri come internamente iperstatici. In questi ultimi casi, le reazioni vincolari esterne possono essere ottenute con le cardinali ma, in generale, non `e possibile con sole condizioni di equilibrio tracciare i diagrammi e quindi effettuare le verifiche strutturali complete. Il seguente esempio illustra questa situazione. Esempio 25.5: Sistema internamente ipestatico Tracciare i diagrammi delle caratteristiche per la struttura in figura 25.22. P H B

EJx

60°

D

C b

L

b

b

Figura 25.22: Struttura internamente iperstatica

796

25.4. IPERSTATICHE INTERNE

Per quanto le reazioni esterne siano di immediata determinazione, le caratteristiche della zona centrale della struttura (nei tratti di trave i cui assi formano il triangolo CDH) non si possono valutare senza conoscere le reazioni vincolari delle cerniere interne. Il problema `e una volta internamente iperstatico e per risolverlo `e necessario eliminare un vincolo semplice interno nel triangolo CDH. Anche se, come vedremo, non `e la soluzione pi` u semplice, possimao adottare il sistema principale di figura 25.23 nel quale la cerniera interna in D `e stata trasformata in un appoggio semplice. P

H 60°

60°

C

+ X1

D

C

1 1 D

Figura 25.23: Sistema principale per una iperstatica interna

Osserviamo che: • in generale `e necessario considerare gli effetti prodotti sia dall’azione sia dalla reazione dell’iperstatica interna perch´e entrambe sono applicate sulla struttura e quindi generano caratteristiche energeticamente rilevanti • per chiarezza grafica la bielletta `e stata rappresentata di estensione finita, le due forze esploratrici unitarie sono peraltro applicate nella medesima posizione D • una forza esploratrice (quella diretta a destra nello schema di figura 25.23) `e applicata al tratto DH mentre l’altra agisce sul tratto orizzontale BCDL. Come fatto precedentemente, procediamo alla determinazione delle caratteristiche indotte dal carico vero e dalla coppia di carichi esploratori. Anche in questo caso possiamo considerare solo l’effetto delle azioni flessionali. I termini dell’equazione di Mu ¨ller-Breslau sono quindi: Z MxP (s) · Mxu1 (s) δ1P = ds EJx Struttura

Z δ11 =

[Mxu1 (s)]2 ds EJx

Struttura

Il calcolo operativo degli integrali in questo caso suggerisce di sudividere la struttura in 5 sottodomini in ognuno dei quali `e utile definire una ascissa curvilinea specifica per esprimere le caratteristiche. Per analogia e generalizzazione dovrebbe essere evidente il significato dei termini dell’equazione di congruenza. La grandezza deformativa energeticamente associata alla coppia di forze esploratrici `e l’allontanamento orizzontale dei due estremi della cerniera che nel sistema principale risultano svincolati dal carrellino. Pertanto δ1 sar`a nullo. L’equazione di congruenza si riduce quindi alla seguente: 0 = δ1P + X1 δ11 che fornisce la componente orizzontale della reazione vincolare.

797

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

Nel problema precedente si nota una simmetria speculare completa: della geometria, dei carichi e delle reazioni vincolari. In questi casi tramite la scelta di un opportuno sistema principale, si possono ottenere vantaggi operativi nel calcolo dei termini di Mu ¨ller-Breslau dato che alcune componenti risultano identicamente nulle e altre possono essere valutate integrando solo su met`a struttura e raddoppiando il risultato. Allo scopo di conservare la simmetria anche per il sistema principale, lo schema di soluzione mostrato in figura 25.24 `e particolarmente indicato e i vantaggi possono essere verificati risolvendo il seguente esercizio e confrontandolo con l’esempio precedente 25.5. Esercizio 25.7: Ipertatica interna per conservare la simmetria Identificare il significato dei termini dell’equazione di Mu ¨ller-Breslau per il problema 25.22 adottando il sistema principale di figura 25.24 e risolvere il problema. P

1

C

+ X1

D

C

1

D

Figura 25.24: Iperstatica interna di momento

Il ricorso alle iperstatiche interne non `e utile solo per risolvere problemi internamente iperstatici. In certi casi la scelta di una iperstatica interna pu`o risultare vantaggiosa per semplificare i calcoli anche per problemi esternamente iperstatici. Un esempio classico `e offerto dalla, cos`ı detta, trave continua ovvero una lunga trave rettilinea vincolata con molti appoggi, come un binario ferroviario. Consideriamo a tale proposito il seguente esempio. Esempio 25.6: Trave continua Impostare la soluzione del problema tre volte iperstatico mostrato in figura 25.25 (trave continua). p B

C

EJx 4l

Figura 25.25: Trave continua su appoggi equidistanziati

Il sistema principale pu`o essere definito sfruttando tre iperstatiche esterne come nello schema di figura 25.26 che illustra l’applicazione del principio di sovrapposizione e i diagrammi delle caratteristiche necessari per ottenere il termini δ del sistema di Mu ¨ller-Breslau.

798

25.4. IPERSTATICHE INTERNE

p

M xP ( s )

+ X1

1

M xu1 ( s )

1

+ X2

1

M xu 2 ( s )

1

+ X3

1

1

M xu 3 ( s )

Figura 25.26: Possibile schema di soluzione con reazioni vincolari incognite esterne

Con questo metodo di soluzione i δ rappresentano gli spostamenti (positivi se verso l’alto) dei punti in corrispondenza degli appoggi intermedi. Operativamente, per ottenere i δ `e necessario: • integrare su tutto il dominio [0, 4l] • dividere il dominio in vari sottointervalli (per esempio per ottenere il coefficiente δ12 `e necessario usare tre sottointervalli). In alternativa pu`o essere usato il sistema principale ilustrato in figura 25.27 che sfrutta iperstatiche interne. p

M xP ( s )

+ X1 + X2 + X3

1

1

1

M xu1 ( s ) 1

1

M xu 2 ( s ) 1

M xu 3 ( s )

Figura 25.27: Sistema principale con iperstatiche interne

Si osservi che sono stati lasciati inalterati i vincoli esterni e che, in questo caso, i δ rappresentano le rotazioni relative degli estremi dei tratti di trave interrotti dalle sconnessioni interne. Solo apparentemente il problema ha la stessa complessit`a computazio-

799

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

nale del precedente, in effetti, un esame attento mostra che per ottenere i coefficienti di Mu ¨ller-Breslau: • gli integrali devono essere eseguiti solo una ridotta parte del dominio (per esempio δ12 si ottiene integrando solo nell’intervallo [l, 2l] e δ1P nei due intervalli [0, l] ∪ [l, 2l]) • molti degli integrali richiesti sono uguali • la matrice del sistema tende ad assumere una struttura a prevalenza diagonale che ne facilita l’inversione. I vantaggi pratici prodotti dall’adozione di questo sistema principale diventano molto significativi quando il numero di iperstatiche aumenta, si pensi al binario ferroviario.

25.5 Errori di montaggio, forzamenti e tolleranze geometriche Lo schema di soluzione di Mu ¨ller-Bresalu si presta anche all’esame degli effetti prodotti nelle strutture iperstatiche dagli errori di montaggio e dai forzamenti. Consideriamo il seguente esempio. Esempio 25.7: Cuscinetti non errore di coassialit`a Un albero di acciaio (diametro φ = 25 mm e lunghezza totale: 5l = 450 mm) `e calettato su tre cuscinetti orientabili. Attraverso misure si determina che il centro del cuscinetto C si trova ∆ = 0.75 mm sotto la congiungente dei centri dei cuscinetti di estremit`a, come esemplificato nella figura 25.28. Determinare le sollecitazioni prodotte nell’albero dal solo montaggio. B

D

C EJx

3l

2l

Figura 25.28: Albero su tre cuscinetti non allineati

Per lo studio di problemi iperstatici affetti da errori di montaggio, `e necessario prestare attenzione a come l’errore di montaggio `e definito (tipo e segno). Questa analisi pu`o essere spesso facilitata se si esamina il procedimento di montaggio. Nel caso specifico, l’albero (che assumiamo prevalentemente caricato da forze perpendicolari all’asse) sarebbe in condizioni isostatiche se fosse montato su due soli cuscinetti, per cui il sistema principale per l’applicazione del metodo delle forze pu`o essere considerato quello che rappresenta la condizione di montaggio non ridondante (montaggio isostatico). Assumiamo, in un primo tempo, che l’albero sia montato prima sui cuscinetti estremi B e D in coerenza con la scelta del sistema principale rappresentato in figura 25.29.

800

25.5. ERRORI DI MONTAGGIO, FORZAMENTI E TOLLERANZE GEOMETRICHE

B

C

D

Figura 25.29: Sistema principale che prevede il preliminare montaggio dell’albero sui cuscinetti di estremit`a e successivamente del cuscinetto centrale

Rispetto a questa configurazione, l’errore di montaggio (in intensit`a e verso), `e rappresentato dalla distanza del centro del cuscinetto intermedio C dall’asse indeformato del` necessario sottolineare che tale l’albero e quindi proprio: ∆ = 0.75 mm (figura 25.30). E quantit`a deve essere nota (in intensit`a e verso) se si vogliono considerarne gli effetti. D

B C

Δ

Figura 25.30: Schema dell’errore di montaggio

Il sistema principale adottato impone in modo naturale come iperstatica la reazione vincolare del cuscinetto che viene collegato per ultimo e che, a causa dell’errore di montaggio, determina la condizione di forzamento iniziale dell’albero. Scegliamo il verso dell’incognita iperstatica come indicato nella figura 25.31. 1

B

D

C 3l

2l

Figura 25.31: Carico esploratore unitario per la soluzione iperstatica

Scriviamo la consueta relazione di congruenza di Mu ¨ller-Breslau: δ1 = δ1P + X1 δ11 Il significato dei vari δ `e il seguente: spostamento verticale (verso il basso) del punto C rispetto alla condizione in cui l’albero `e montato sui cuscinetti B e D, rispettivamente: • δ11 abbassamento di C quando `e applicata la sola reazione iperstatica unitaria (il l3 lettore verifichi che vale 12 5 EJx ) • δ1P abbassamento di C quando `e applicato il carico, nel caso specifico tale valore `e nullo perch´e non vi sono carichi applicati • δ1 abbassamento di C quando l’albero si trova nella condizione di montaggio effettiva, quindi `e uguale a ∆ = +0.75 mm.

801

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

La relazione di congruenza si scrive quindi come:

∆ = X1 ·

12 l3 5 EJx

dalla quale si ricava la reazione vincolare iperstatica a montaggio effettuato. 5 EJx ∆ = 1.69 kN 12 l3

X1 =

Nella figura 25.32 `e rappresentato lo schema di corpo libero a montaggio effettato e i diagrammi delle caratteristiche prodotti dal solo errore di montaggio. 1.693kN

B

D C

0.677kN

1.016kN −1.016kN

B

D

C

Ty

0.677kN

B

D

Mx

C 0.183kNm

Figura 25.32: Soluzione e caratteristiche di sollecitazione per l’albero appena dopo il montaggio

Il momento flettente `e dato dall’espressione: EJx Mx (s) = 3 ∆ l



s 6 l−s 4

s < 3l s > 3l

Si pu`o verificare che nella sezione critica la tensione dovuta al momento flettente arriva al valore: σzz = 119 MPa Nota la reazione iperstatica, `e possibile valutare ogni grandezza tensionale e deformativa dell’albero. In particolare potrebbe essere interessante valutare le inclinazioni relative degli anelli interni ed esterni dei cuscinetti, supponendo che gli anelli esterni di tutti i cuscinetti siano su una sede coassiale con la retta BD. Il problema si riduce alla determinazione dell’inclinazione dell’albero a montaggio effettuato usando tre integrali di Mohr. Per esempio, l’inclinazione dell’albero in D `e ottenibile con lo schema di figura 25.33.

802

25.5. ERRORI DI MONTAGGIO, FORZAMENTI E TOLLERANZE GEOMETRICHE

B

D

1

B

D

M xu =

1

s 5l

Figura 25.33: Determinazione dell’inclinazione dell’albero in corrispondenza del cuscinetto D

da cui si ricava: Z5l θD =

Mx (s) · Mxu (s) 2∆ ds = EJx 3 l

= 5.56 · 10−3 = 0.32◦



0

Per gli altri cuscinetti, usando lo stesso verso per il relativo momento esploratore, si ottiene:  7 ∆ θB = − = −4.86 · 10−3 = −0.28◦ 12 l  1∆ θC = = 1.39 · 10−3 = 0.08◦ 6 l

Il seguente esempio chiarisce il motivo per cui `e necessario porre attenzione alla definizione dell’errore e della procedura di montaggio. Esempio 25.8: Modifica della sequenza di montaggio Con riferimento all’esempio precedente, considerare la possibilit`a di effettuare il montaggio prima dei cuscinetti B e C e successvamente di forzare l’asse dell’albero a passare per il centro di D.  Dato il principio di sovrapposizione `e evidente che la sollecitazione prodotta nell’albero sar`a la stessa. Tuttavia per evitare di incorrere in errori di interpretazione `e importante seguire il ragionamento. Il montaggio preliminare (non ridondante) sui cuscinetti B e C implica che il sistema principale adottato nell’analisi `e quello mostrato in figura 25.34. B

D

C

3l

2l

Figura 25.34: Schema di montaggio che prevede di fissare per ultimo il cuscinetto in D

803

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

Questa scelta impone una rivalutazione dell’errore di montaggio che ora, essendo relativo al cuscinetto D, diventa uno spostamento verso l’alto da imporre all’estremo dell’albero pari a: 5 ∆D = ∆ = 1.25 mm 3 Adottando la reazione iperstatica come nello schema di figura 25.35, l’equazione di Mu ¨ller-Breslau diventa: B

D

C

3l

1

2l

Figura 25.35: Sistema principale con reazione iperstatica unitaria

−∆D = X1 · δ11 con δ11 =

20 EJx 3 l3

Risolvendo si ottiene:

1 EJx ∆ = −1.016 kN 4 l3 Si verifica quindi che, come previsto, lo schema di corpo libero dell’albero `e lo stesso del caso precedente. Tuttavia, se si calcolano le grandezze deformative (per esempio, come prima, le inclinazioni dell’albero in corrispondenza dei cuscinetti) si trovano valori diversi. Con l’attuale sistema principale, la condizione geometrica di riferimento `e costituita dall’albero montato su B e C e non, come nel caso precedente, su B e D. Da ci`o consegue che le inclinazioni ottenute con l’attuale schema differiscono tutte di una stessa quantit`a da \ `e lasciato al lettore quelle precedentemente calcolate (la differenza `e proprio l’angolo CBD, il compito di verificarlo). X1 = −

Esercizio 25.8: Giunti tra alberi di trasmissione coassiali Due alberi di trasmissione di acciaio (con diametri φ1 = 25 mm, φ2 = 20 mm e lunghezze definite da l = 250 mm) devono essere collegati tramite un giunto. Gli alberi sono supportati in modo indipendente per cui, come mostrato in figura 25.36, sono definiti i relativi assi prima di collegare il giunto. Si osserva che gli assi sono paralleli ma disassati di ∆ = 0.25 mm. Si confrontino le seguenti soluzioni costruttive: a) un giunto che impone agli estremi degli alberi di avere la stessa posizione ma non vincola l’inclinazione relativa delle sezioni C e D; b) un giunto rigido con il quale le sezioni di estremit`a degli alberi sono rese completamente solidali.

804

25.5. ERRORI DI MONTAGGIO, FORZAMENTI E TOLLERANZE GEOMETRICHE

l

B

l

Δ

C EJx1

l

EJx2

H

D

Figura 25.36: Alberi coassiali ma disassati

Suggerimenti. A montaggio effettuato, per il problema piano nel primo caso si stabilir` a una cerniera interna che connette i punti C e D, mentre nel secondo caso il giunto realizza un vincolo interno di incastro. Dato che non vi sono forzamenti o carichi nella direzione dell’asse, la prima soluzione determina un problema una volta iperstatico la seconda due volte. In questo caso sembra naturale partire dalla condizione di alberi montati senza giunto e quindi `e possibile adottare iperstatiche interne come negli schemi seguenti. Per il caso a) , il sistema principale con le iperstatiche unitarie `e mostrato nella figura 25.37 B

1

C

H

1 D

Figura 25.37: Schema di montaggio con la reazione iperstatica nel caso di giunto che impone solo la collimazione degli assi

in cui la congruenza `e definita (significato dei δ) dall’avvicinamento relativo dei punti C e D rispetto alla condizione di giunto smontato. L’equazione di Mu ¨ller-Breslau si scrive quindi come: ∆ = X1 · δ11 Nel caso b), come illustrato nello schema di figura 25.38, `e necessario introdurre anche l’azione mutua di momento, richiesta per ripristinare la congruenza angolare.

X1

1

B

C 1

X2

H D

C

B 1

1

H

D

Figura 25.38: Schema di montaggio con la reazione iperstatica nel caso di giunto rigido che impone la congruenza completa delle sezioni degli alberi

Il significato dei δ1 `e lo stesso del caso precedente, mentre i δ2 rappresentano la rotazione relativa delle sezioni che si affacciano al giunto. Dato che le sezioni prima del forzamento so-

805

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

no parallele e tali devono rimanere anche dopo il montaggio, le due equazioni di congruenza diventano: ∆ = X1 · δ11 + X2 · δ12 0 = X1 · δ21 + X2 · δ22

Gli esempi finora considerati si riferiscono all’esame degli effetti prodotti dal solo forzamento (o errore di montaggio). In generale, la struttura `e soggetta anche a carichi esterni oltre agli eventuali forzamenti o errori di montaggio, come nel caso seguente. Esempio 25.9: Barra con spostamento imposto Una barra di acciaio, avente sezione b × h = 15 mm × 4 mm e lunghezza 2l = 800 mm incastrata in B, `e inizialmente appoggiata su un piano orizzontale liscio. Successivamente, come illustrato in figura 25.39, viene introdotto sotto la barra un perno rigido di diametro φ = 3.5 mm e fatto scivolare fino alla sezione di mezzeria D. Determinare il diagramma del momento flettente e lo spostamento verticale dell’estremo C. l

l h

B

C

C*

D*

B

Figura 25.39: Barra flessibile con un perno inserito

Come mostra la figura 25.39, la barra all’inizio `e completamente scarica (nel senso delle caratteristche di sollecitazione) perch´e il peso proprio (che in questo caso, date le dimensioni, produce effetti deformativi non trascurabili) `e, concio per concio, equilibrato dall’appoggio sul piano. Dopo l’inserimento del perno, tuttavia, la barra si stacca dal piano e la reazione dell’appoggio continuo si annulla, per cui il peso proprio esercita il suo effetto anche sulla posizione di C. Consideriamo lo schema di congruenza mostrato in figura 25.40. p

C B

+ X1

C B

1

Figura 25.40: Impostazione della soluzione iperstatica

Nel seguito indichiamo:

806

E = 206 GPa, Jx =

bh3 12

= 80 mm4 , p = γgbh =

25.5. ERRORI DI MONTAGGIO, FORZAMENTI E TOLLERANZE GEOMETRICHE

4.591 · 10−3 Nmm−1 . I momenti di interesse sono: 1 MxP (s) = p · (2l − s)2 2  l−s sl e l’equazione di Mu ¨ller-Breslau: δ1 = δ1P + X1 · δ11 con: δ1 = φ = 3.5 mm Z2l δ1P =

MxP (s) · Mx1 (s) 17 pl4 =− = −5.05 mm EJx 24 EJx

0

δ11 =

l3 = 1.294 mm 3EJx

da cui si ricava la relazione vincolare iperstatica: X1 =

24EJx φ + 17pl4 = 6.61 N 8l3

e quindi le caratteristiche di sollecitazione definitive:  1 2 2 p · (2l − s) + X1 · (l − s) Mx (s) = MxP (s) + X1 Mx1 (s) = 2 1 2 p · (2l − s)

s≤l s>l

il cui grafico `e riprodotto nella figura 25.41.

Mx

−0.367Nm

B 1.173Nm

C D

Figura 25.41: Momento flettente finale

Per valutare l’innalzamento del punto C introduciamo un carico esploratore unitario (diretto verso l’alto) in modo da ottenere il seguente momento unitario: Mxu (s) = 2l − s da cui:

Z2l δC =

Mx (s) · Mxu (s) 5 11 pl4 ds = φ − = 7.12 mm EJx 2 48 EJx

0

807

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

L’esempio precedente mostra che, in presenza di forzamento e di carico, la relazione di Mu ¨ller-Breslau (per un problema una volta iperstatico) assume una forma generale in cui tutti i contributi sono significativi. La reazione vincolare iperstatica `e data da: δ1 − δ1P δ11 in cui il denominatore `e certamente positivo mentre il numeratore pu`o essere positivo negativo o anche nullo. Si pu`o osservare che, in relazione ai segni dei due spostamenti che formano il numeratore, il primo connesso con l’errore di montaggio (o il forzamento) e il secondo con la distorsione indotta dal carico, il modulo della reazione vincolare iperstatica pu`o aumentare o diminuire. In termini fisici, l’errore di montaggio pu`o produrre un aumento ma anche una riduzione della reazione vincolare iperstatica e analoghi effetti (anche se non sempre dello stesso segno) sono prodotti su tutte le altre grandezze tensionali e deformative del problema. Questa considerazione giustifica la cura che deve essere dedicata alla valutazione dei segni e dei versi delle varie quantit`a. X1 =

Esercizio 25.9: Approfondimento dell’esempio precedente (*) Con riferimento al problema precedente, trascurando l’attrito tra il perno e barra e il piano di appoggio: a) calcolare la forza orizzontale che deve essere applicata al perno per mantenerlo in posizione b) valutare il lavoro che deve fare la forza applicata al perno per farlo avanzare dalla posizione C alla posizione D in modo quasi statico

L’esempio seguente discute un classico problema di forzamento. Esempio 25.10: Bullone precaricato Come mostrato in figura 25.42, un bullone di acciaio M 12 × 1 `e avvitato su un manicotto coassiale di lega leggera (E2 = 76 GPa) con diametro esterno φe = 24 mm, diametro interno φi = 16 mm e lunghezza l = 200 mm. Stimare la forza di serraggio in funzione del numero di giri che si imprimono al dado rispetto alla vite dopo che sia stato recuperato il gioco assiale.

φe

B

C l

Figura 25.42: Bullone forzato su un mozzo tubolare

Se fosse libero, il dado avanzerebbe assialmente a ogni giro di un passo p = 1(mm), per cui con n giri il forzamento assiale `e: ∆ = n·p

808

25.5. ERRORI DI MONTAGGIO, FORZAMENTI E TOLLERANZE GEOMETRICHE

tale grandezza rappresenta di quanto la parte attiva (in trazione) della vite sarebbe pi` u corta del manicotto cilindrico se l’avvitamento del dado fosse eseguito con i due corpi separati. Lo schema di congruenza in figura 25.43 definisce l’iperstatica interna (il forzamento da recuperare `e stato amplificato nel disegno):

Δ

B

1

1

Cb

Cm

Figura 25.43: Schema concettuale per il forzamento

I vari δ rappresentano l’avvicinamento tra gli estremi del bullone Cb e del manicotto Cm . A montaggio eseguito Cb e Cm devono coincidere per cui si ha: ∆ = X1 · δ11 In questo problema sono significative le sole rigidezze assiali. Indicate con il pedice b le grandezze dello stelo del bullone e con m quelle del manicotto, abbiamo: δ11 = da cui si ottiene: X1 =

l Eb Ab

l l + Eb Ab Em Am p n = 52.5n kN + EmlAm

Si realizzano pertatno 52.5 kN di preserraggio assiale per ogni giro del dado. Nota. Il risultato mostra l’elevata intensit`a delle forze che si producono nel caso di forzamenti che coinvolgono la rigidezza assiale. In molti problemi iperstatici non si ha un errore di montaggio o un forzamento controllato ma effetti simili sono prodotti dalla non perfetta realizzazione dei vincoli o della geometria della struttura. In genere sono fornite relative tolleranze di forma o di montaggio che definiscono non tanto una posizione controllata degli elementi quanto intervalli di ammissibilit`a. In teoria quindi `e necessario effettuare le verifiche strutturali assumendo che la quantit`a tollerata assuma tutti i valori compresi nel campo di tolleranza. In pratica, considerata la linearit`a del problema, `e generalmente sufficiente esaminare il comportamento della struttura in corrispondenza dei valori estremi del campo di tolleranza, come nel seguente esempio. Esempio 25.11: Albero su tre supporti L’albero di trasmissione di acciaio in figura 25.44 (φ = 30 mm, l = 250 mm, σam = 200 MPa) `e calettato su tre supporti con cuscinetti orientabili. La planarit` a della superficie su cui i supporti sono fissati non `e molto accurata per cui il centro del supporto C si trova entro un intervallo di ±0.5 mm rispetto all’asse dei centri BD. Oltre a trasmettere un momento torcente pari a M0 = 0.1 kNm l’albero `e sottoposto in corrispondenza dell’estremo D anche a un carico di momento M0 (diretto come l’asse x). Determinare le forze che l’abero pu`o trasmettere ai cuscinetti e verificare l’albero.

809

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

l

l

B

D

C

φ

M0

M0

z

y Figura 25.44: Montaggio iperstatico con tolleranza di posizione

Il sistema principale e la reazione iperstatica sono illustrate nello schema di figura 25.45 dal quale si ricava: B

D

C 1

Figura 25.45: Sistema principale

δ1P = −0.191 δ11 = 3.179 · 10−4 Consideriamo i casi estremi del campo di tolleranza. a) Il supporto C `e nella posizione pi` u elevata: δ1 = +0.5 da cui si ottiene: X1 = +2.173 kN e quindi lo schema di corpo libero e diagramma della flessione riportati in figura 25.46. δ1 = +0.5mm

C

B

D

1.286kN

0.886kN

B

D

C

0.1kNm 2.173kN −0.222kNm

Mx 0.1kNm

Figura 25.46: Schema della deformata e delle sollecitazioni a montaggio eseguito nell’ipotesi di disallineamento di un certo segno

810

25.6. ESEMPI DI STRUTTURE IPERSTATICHE

b) Il supporto C `e nella posizione pi` u bassa: δ1 = −0.5 da cui si ottiene: X1 = −0.973 kN e lo schema della figura 25.47 B

C

0.973kN

B 0.686kN

D

δ1 = −0.5mm

D 0.1kNm

C

0.286kN

0.1kNm

Mx

0.171kNm

Figura 25.47: Schema della deformata e delle sollecitazioni a montaggio eseguito nell’ipotesi di disallineamento di segno opposto

La condizione pi` u gravosa, in questo esempio sia per i cuscinetti sia per l’albero, si verifica quindi nel caso a). Effettivamente, un posizionamento del cuscinetto C con il centro che si trova sotto la congiungente degli estremi `e concorde con la freccia che il carico produrrebbe nel punto C se l’albero fosse sostenuto solo dai supporti estremi. Il coefficiente di sicurezza vale quindi (non si dimentichi il contributo del momento torcente!): η = 2.1 Nota. Ripetere l’esercizio con un intervallo di tolleranza di ±0.2 mm e determinare di quanto possa essere aumentato il carico M0 per ottenere lo stesso coefficiente di sicurezza.

25.6 Esempi di strutture iperstatiche Talvolta una parte di struttura `e molto rigida per cui il suo contributo diretto all’energia (e quindi agli spostamenti) pu`o essere trascurato. I coefficienti dell’equazione di Mu ¨ller-Bresalu possono allora ottenersi integrando i termini di Mohr solo sulle parti deformabili della struttura. Esempio 25.12: Manicotto di elavata rigidezza Come illustrato nella figura 25.48, un cilindro di materiale polimerico (E = 3.0 GPa, σam = 25 MPa, φ = 10 mm, l = 250 mm) `e incastrato in B. Dopo aver inserito il manicotto

811

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

di acciaio CD con gioco radiale trascurabile, la sezione estrema D viene appoggiata al telaio senza errori e nel centro del manicotto `e applicata una forza trasversale F . Determinare il massimo valore di F compatibile con la resistenza del cilindro e, in corrispondenza di tale valore, calcolare l’inclinazione in gradi del manicotto rispetto alla retta BD. l

l

B

C

φ

D



F

Figura 25.48: Elemento di rinforzo molto pi` u rigido

La presenza del manicotto metallico rende di fatto indeformabile la parte CD della struttura, dato che, come `e facile verificare, la rigidezza della sezione del manicotto `e circa 1000 volte superiore a quella della barra. Pertanto, il contributo degli integrali di Mohr `e significativo solo per la parte BC del dominio. Usiamo lo schema della figura 25.49. C

B

D

EJ x = ∞

EJ x

1

Figura 25.49: Sistema principale e schema di soluzione

 MxP (s) =

F· 0

3 2l

 −s

s < 32 l s > 32 l

Mx1 (s) = 2l − s da cui i coefficienti dell’equazione di congruenza: Z l MxP (s) · Mx1 (s) 19 F l3 δ1P = ds = EJx 12 EJx 0 Z l [Mx1 (s)]2 7 l3 δ11 = ds = EJx 3 EJx 0 che risolta fornisce: 19 X1 = − F 28 e quindi il seguente momento flettente definitivo:   F · 23 l − s − 19 s < 23 l 28 F (2l − s) MxP (s) = 19 − 28 F (2l − s) s > 32 l Le sezioni potenzialmente critiche sono B e C − i cui momenti flettenti sono: 1 MxP (0) = F l; 7

812

MxP (l) = −

5 Fl 28

25.6. ESEMPI DI STRUTTURE IPERSTATICHE

La sezione critica `e quindi la C − e la massima forza applicabile vale: Fmax = 55.0 N Per determinare l’inclinazione del manicotto `e sufficiente applicare (ovviamente nel sistema principale) a qualunque punto del manicotto un carico esploratore unitario di momento (per esempio equiverso con l’asse x). In tal modo si ottiene la seguente espressione: Z θ= 0

l

Mx (s) · 1 1 Fmax l2 ds = − = −2.39◦ EJx 56 EJx

Nota: la verifica di resistenza pu` o essere eseguita solo alla fine dalla soluzione del problema iperstatico. Nell’esempio il carico F `e stato lasciato espresso e il risultato ottenuto in forma analitica. In casi pi` u complicati pu`o essere opportuno procedere per via numerica nell’esecuzione degli integrali per cui `e necessario fissare un valore del carico (generalmente unitario) per poter ottenere il risultato. In assenza di errori di montaggio, considerata la linearit`a, il risultato (reazioni vincolari, caratteristiche, tensioni, ecc. . . ) risulter`a peraltro proporzionale all’intensit`a del carico.

Esercizio 25.10: Manicotto rigido scaricato Ripetere l’esercizio precedente nell’ipotesi che, come illustrato nella figura 25.50, il manicotto di acciaio sia scaricato nella parte centrale in modo da essere in contatto con il cilindro di materiale polimerico solo in corrispondenza delle sezioni di estremit`a. l

l

B

D

C

F Figura 25.50: Manicotto rigido scaricato

In varie circostanze anche i vincoli possono avere una deformabilit`a significativa. seguente esempio `e illustrato il caso di appoggi elastici.

Nel

Esempio 25.13: Appoggi elastici Una barretta BD di acciaio di lunghezza 2l = 320 mm) con sezione rettangolare (b = 18 mm e h = 3 mm) `e incernierata in B e appoggiata a due molle aventi rigidezze kC = 30 N/mm e kD = 15 N/mm, come mostrato in figura 25.51. Determinare l’abbassamento dei punti C e D quando agisce la forza F = 150 N.

813

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

l

F

l

C

D

B

kC

h

kD

Figura 25.51: Trave iperstatica su appoggi deformabili

Risolviamo il problema una volta iperstatico usando il sistema principale e l’iperstatica che sono riportati in figura 25.52. C

D

B

kC

kD

1

Figura 25.52: Soluzione con iperstatica esterna

In questo caso, oltre alla deformabilit`a flessionale della barretta sono importanti le deformabilit`a delle molle. Bisogna quindi considerare i termini di Mohr relativi anche a tali elementi. Una molla, nel suo complesso, pu`o essere considerata come un elemento trave (di elevata deformabilit`a) sottoposta a forza normale per cui i relativi termini di Mohr sono del tipo: Z lm NP N1 ds EAm 0 dove NP e N1 sono le forze normali agenti sulla molla rispettivamente prodotte dal carico e dalla reazione iperstatica unitaria, e lm e EAm la lunghezza assiale e la rigidezza assiale della trave equivalente. Si ha quindi: Z lm NP N1 lm NP N1 ds = NP N1 = EAm EAm k 0 m in cui `e stata introdotta la rigidezza complessiva della molla: k = EA lm . Nel caso in esame: Z 2l Z lmC NP C N1C 2 F L3 F MxP (s) Mx1 (s) δ1P = ds+ ds = +4 EJx EAC 3 EJx kC 0 0 Z 2l Z Z lmC lmD 2 N1C [Mx1 (s)]2 12 2 L3 4 1 δ11 = ds+ ds + ds = + + EJx EAC EAD 3 EJx kC kD 0 0 0 in cui si distinguono i contributi all’abbassamento dell’estremo svincolato della molla D nel sistema principale prodotti dalla deformabilit`a della trave e quelli dei supporti (si osservi che la molla in D non ha effetto sull’abbassamento dovuto al solo carico). Si ricava la reazione vincolare iperstatica:

X1 = −F

814

2 L3 4 3 EJx + kC 2 L3 4 1 3 EJx + kC + kD

= −114.9 N

25.6. ESEMPI DI STRUTTURE IPERSTATICHE

Le molle risultano entrambe compresse rispettivamente con forze normali: ND = X1 = −114.9 N

NC = −2 (F + X1 ) = −70.2 N

e

Ricaviamo quindi gli spostamenti richiesti: vC =

−NC = −1.26 mm kC

e

vD =

−ND = −8.74 mm kD

Nell’esempio seguente viene considerato un caso in cui i vincoli possono essere unilateri. Esempio 25.14: Tubo strallato Come mostrato in figura 25.53, un tubo di acciaio di diametro esterno φ = 50 mm, spessore t = 3 mm e lunghezza 2l = 2400 mm `e incernierato in B e vincolato tramite due cavi (chiamati stralli) di acciaio aventi sezione equivalente AC = 5 mm2 . Sullo strallo GD `e collocato un tenditore con filetti di passo p = 0.75 mm. Rispetto alla condizione in cui sono stati recuperati i giochi, il tenditore `e ruotato di 2.5 giri e successivamente il tubo `e sollecitato dalla forza F = 0.7 kN. Determinare lo spostamento del punto D sotto carico. D

F

l

C

EJ x

EAC

l

G

H

B

l

l

Figura 25.53: Elemento strallato

Nella figura 25.54 `e mostrato il dettaglio costruttiva del tenditore (o tiracavi). Le estremit`a hanno filetti con eliche opposte (una destrorsa e l’altra sinistrorsa) in modo che, impedita la rotazione delle viti, per ogni giro dell’elemento centrale gli estremi si avvicinano (o si allontanano) di 2p.

Figura 25.54: Tiracavi

Per il problema una volta iperstatico pu`o essere usato il sistema principale di figura 25.55.

815

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

D

z

y

C

s1

s2

s3

G

H

B

1

Figura 25.55: Schema di soluzione con iperstatica esterna

Considerando la rigidezza delle varie parti, sono significative per il problema: • la deformabilit`a flessionale del tubo BCD, • la deformabilit`a assiale degli stralli GC e CH. A rigore, la parte CB del tubo `e soggetta anche a forza normale, tuttavia la rigidezza assiale del tubo `e 88 volte maggiore di quelle dei cavi. Le caratteristiche di sollecitazione significative per il calcolo dei coefficienti di Mu ¨ller-Breslau sono dati dai diagrammi di figura 25.56. D

− Fl

D

M xP

C

C

−2 2F

+2F G

NP

H

B

G

B

H

Figura 25.56: Caratteristiche di sollecitazione rilevanti per la soluzione



−F s3 −F (2l − s3 ) √ NP (s2 ) = −2 2F

MxP (s3 ) =

s3 6 l s3 > l

Osserviamo che il cavo CH risulterebbe compresso, tuttavia `e necessario verificare che i cavi siano in trazione nella condizione finale, nella quale l’effetto del tenditore `e presumibilmente determinante. Nel corso della soluzione, quindi, i cavi devono essere

816

25.6. ESEMPI DI STRUTTURE IPERSTATICHE

trattati come comuni aste in grado di esercitare forze normali di trazione ma anche di compressione. L’effetto della forza unitaria produce solo forze normali indicate nella figura 25.57. D

N1u

C

+1

+1

G

− 2

B

H

Figura 25.57: Caratteristiche di sollecitazione normali

 N1u (s3 ) =

−2 0

s3 6 l s3 > l

N1u (s1 ) = N1u (s2 ) = 1 Trascurando il contributo della deformabilit`a assiale del tubo, abbiamo: δ1 = 2np = 3.75 mm √

Z δ1P = 0 √

Z δ11 = 0

2l

2l

NP (s2 ) · N1u (s2 ) = −3.26 mm EAC

[N1u (s1 )]2 + EAC



Z 0

2l

[N1u (s2 )]2 = 3.295 · 10−3 mm EAC

da cui ricaviamo: X1 = 2.13 kN A questo punto `e necessario verificare che i cavi siano effettivamente in trazione. Nella condizione finale il cavo GC ha forza normale N1 = X1 = 2.13 kN mentre il cavo CH ha forza normale N2 = NP (s2 ) + X1 · N1u (s2 ) = 148 N. Entrambi i cavi sono quindi tesi e il calcolo effettuato risulta corretto a posteriori. Per rispondere alla domanda preliminare `e necessario introdurre il carico ausiliario nel sistema principale come mostrato in figura 25.58.

817

25. TRAVATURE IPERSTATICHE

D

G

B

1

H

Figura 25.58: Carico esploratore per determinare la freccia alla sommit`a

Il carico esploratore unitario produce nel sistema principale le seguenti caratteristiche significative: Mxu (s3 ) = MxPF(s3 ) Nu (s2 ) = NPF(s2 ) lo spostamento richiesto vale quindi: Z δC = 0

2l 1 F

[MxP (s3 )]2 ds3 + EJx



Z 0

2l 1 F

[NP (s2 )]2 ds2 = 31.9 + 9.2 = 41.1 mm EAC

in cui sono stati distinti i contributi dovuti alla deformabilit`a flessionale del tubo e alla deformabilit`a dei cavi. Nota. Se il precarico fosse stato meno intenso e il cavo CH fosse risultato alla fine compresso, l’esercizio doveva essere rifatto eliminando tale cavo (il problema sarebbe divenuto ` evidente che in tal caso solo un cavo avrebbe irrigidito la struttura e lo isostatico). E spostamento del punto C sarebbe stato di conseguenza maggiore. Il pretensionamento dei cavi ha pertanto un effetto irrigidente sulla struttura perch´e permette a entrambi i cavi di svolgere la oro funzione strutturale anche se il secondo subisce una riduzione della forza normale.

818

Capitolo 26

Stabilit` a Nel funzionamento delle strutture `e normale che i carichi, anche quelli che possono essere considerati statici, subiscano variazioni nel tempo oppure che intervengano carichi accidentali non sempre completamente previsti in fase di verifica. L’effettiva realizzazione della struttura pu`o inoltre determinare quote che differiscono, di solito in misura non elevata, dai valori nominali. Per essere tollerate `e necessario che tali modeste variazioni determinino altrettanto modeste modifiche dei parametri strutturali significativi (tensioni massime e spostamenti). Perch´e questo accada la condizione di equilibrio della struttura deve essere stabile (stable). Il capitolo affronta il problema della stabilit`a delle condizioni di equilibrio per una struttura. Rinunciando a trattare l’importante e vasto argomento da punto di vista formale e generale, il capitolo `e finalizzato allo sviluppo di metodi per valutare le condizioni di stabilit`a di strutture elastiche. Nella prima parte `e esaminato il caso elementare della stabilit`a di sistemi articolati rigidi sotto l’effetto di carichi costanti. Tale studio permette di evidenziare diversi approcci con cui `e possibile esaminare una condizione di equilibrio per determinarne la caratteristica di stabilit`a. Successivamente `e considerato l’effetto di campi di forze non uniformi che permette di introdurre il concetto fondamentale di carico critico. L’esame `e quindi esteso a sistemi articolati rigidi con vincoli di tipo elastico con pi` u gradi di libert` a. L’ultima parte del capitolo esamina i sistemi elastici continui ai quali sono estesi i metodi di analisi e di previsione sviluppati nei casi discreti.

26.1 Concetti elementari sulla stabilit` a dell’equilibrio Alcune fondamentali considerazioni sulla stabilit`a dell’equilibrio nei problemi di statica sono state anticipate nel capitolo 2. Alla luce di quanto esaminato successivamente possiamo concludere che, per una struttura di corpi rigidi caricata e vincolata in modo isostatico, la statica fornisce un’unica soluzione con spostamenti nulli (problema isostatico del primo tipo). Per questi casi quindi il problema della stabilit`a dell’equilibrio non si pone, dato che non `e possibile che il sistema evolva verso configurazioni diverse da quella di riferimento. La questione `e invece di interesse nel caso di problemi del secondo tipo nei quali la configurazione di equilibrio `e il risultato delle valutazioni. In generale per i problemi del secondo tipo: • l’equazione risolvente `e non lineare per cui pu`o ammettere pi` u soluzioni • le configurazioni di equilibrio possono essere molteplici e distinte, alcune stabili altre instabili • le configurazioni di equilibrio dipendono dai carichi, spesso in modo non lineare.

819

` 26. STABILITA

Il problema della stabilit`a ella configurazione di equilibrio si pone pertanto quando la struttura pu`o in qualche misura cambiare configurazione sotto carico e la configurazione di equilibrio `e incognita. Tale situazione si ottiene per i sistemi di corpi rigidi se hanno almeno un grado di labilit`a (meccanismi), tuttavia se la struttura `e composta di corpi continui deformabili (quindi ha infiniti gradi di libert`a) il problema della stabilit`a `e significativo anche se il sistema di vincoli nel suo complesso determina una condizione di isostaticit`a, o anche di iperstaticit`a, come ampiamente chiarito nella seconda parte del presente capitolo. Consideriamo il problema elementare del secondo tipo rappresentato dal pendolo elementare schematizzato in figura 26.1: un corpo puntiforme di massa m, sotto l’effetto del solo peso proprio P = mg, fissato a una barretta rigida di massa trascurabile avente lunghezza l vincolata al telaio in A tramite una cerniera completa ideale. Consideriamo il problema dal punto di vista statico allo scopo di determinare le configurazioni di equilibrio. Si tratta di un problema piano del secondo tipo e la struttura ha un grado di labilit`a parametrizzabile usando come lagrangiana per esempio la coordinata angolare θ.

y

g

A x

z

θ

m P = mg

Figura 26.1: Pendolo elementare

Le due configurazioni di equilibrio fisicamente distinte: θ = 0 e θ = π (dal punto di vista matematico ve ne sono infinite se si considerano i multipli degli angoli giri) sono rappresentate in figura 26.2. La seconda cardinale impone che l’equilibrio si ottiene solo se la retta d’azione della forza peso passa per A.

P

P a)

b)

Figura 26.2: Pendolo elementare in equilibrio: a) configurazione stabile e b) configurazione instabile

In entrambe le configurazioni le equazioni cardinali risultano soddisfatte e gli schemi di ` interessante porsi la seguente domanda: cosa succede se corpo libero sono autoequilibrati. E

820

` DELL’EQUILIBRIO 26.1. CONCETTI ELEMENTARI SULLA STABILITA

la configurazione di equilibrio viene debolmente modificata e successivamente il sistema ritorna sotto l’effetto del solo peso proprio? Non `e importante, almeno per ora, definire la causa di tale perturbazione che pu`o essere per esempio: un leggero carico laterale, un piccolo cedimento, una vibrazione del telaio, ecc.. L’evidenza mostra che, una piccola perturbazione prodotta a partire da una condizione di equilibrio stabile innesca un fenomeno oscillatorio, smorzato dagli inevitabili effetti dissipativi, i quali alla fine riportano il pendolo nella condizione di equilibrio stabile. Se invece si perturba una condizione di equilibrio instabile, il sistema, appena lasciato a se stesso, tende ad allontanarsi dalla condizione di equilibrio. Non `e escluso che alla fine del transitorio dinamico anche in questo caso il moto si esaurisca e che il sistema raggiunga una configurazione di equilibrio. Si tratta per`o di una configurazione distinta dal quella iniziale e generalmente molto distante da quella (nel caso in esame il pendolo in effetti si trover`a alla fine nella configurazione con θ = 0). Tale comportamento non `e in genere tollerato nella verifica strutturale dato che quasi sicuramente il funzionamento della struttura sar`a nel frattempo compromesso. Possiamo quindi fornire una prima definizione di stabilit`a/instabilit`a dell’equilibrio: un sistema che viene spostato leggermente da una condizione di equilibrio e successivamente lasciato a se stesso (con la cessazione dell’azione perturbante) se l’equilibrio `e stabile mostra la tendenza a oscillare occupando configurazioni vicine alla configurazione iniziale per poi arrestarsi nei pressi della configurazione di equilibrio, se l’equilibrio `e instabile il moto iniziale del sistema `e invece di allontanamento, anche se alla fine il moto si arresta il sistema assume una configurazione significativamente diversa da quella iniziale. ` importante sottolineare che la stessa definizione di stabilit`a impone di considerare il E comportamento del sistema in una configurazione diversa, anche se di poco, da quella di equilibrio e questa circostanza `e comune a tutti i metodi di analisi che saranno esaminati nel capitolo. Consideriamo varie definizioni di stabilit`a che saranno usate nel seguito come strumenti per l’analisi della stabilit`a dell’equilibrio anche in casi molto pi` u complessi.

26.1.1 Definizione I: effetto della variazione di configurazione di equilibrio Un modo per esaminare la stabilit`a di una configurazione di equilibrio consiste nel variare la configurazione tramite una distorsione, generalmente piccola ma sempre compatibile con i vincoli, ed esaminare come il sistema evolve sotto l’effetto dei soli carichi. Quando il sistema viene spostato dalla configurazione di equilibrio, i moduli e le direzioni dei carichi agenti possono o meno modificarsi tuttavia, in generale, cambiano i loro punti di applicazione. Per esempio, nel caso del pendolo semplice, dopo lo scostamento il carico rimane inalterato ma la sua retta d’azione non passa pi` u per il centro della cerniera e quindi produce un momento non nullo M rispetto a tale polo. Nel caso di una variazione di configurazione prodotta a partire dalla condizione di equilibrio stabile, il momento M agisce nel verso opposto all’angolo di rotazione indotto nel pendolo e quindi tende a riportare il pendolo nella condizione di equilibrio. In questo caso il carico produce un’azione di contrasto alla perturbazione. Assunto positivo il verso dell’asse z per momenti e rotazioni, di ha: M = −P l · sin θ Per perturbazioni angolari di piccola entit`a la componente del momento si pu`o approssimare come: M = −P l · θ

821

` 26. STABILITA

e quando il sistema `e lasciato libero, la legge di moto `e espressa dalla relazione: M =I

d2 θ dt2

in cui I = ml2 `e il momento d’inerzia di massa del pendolo rispetto al fulcro A. Per piccoli perturbazioni il moto `e pertanto descritto dall’equazione differenziale: −mglθ = ml2

d2 θ dt2

dalla quale si ottiene la nota equazione armonica del pendolo semplice: d2 θ + Ω2 θ = 0 dt2 q dove Ω = gl `e la pulsazione propria del pendolo. Se l’angolo iniziale del pendolo `e θ0 , la legge completa del moto, in assenza di effetti dissipativi, `e quindi: θ = θ0 cos (Ωt) la quale dimostra che il pendolo non si allontana angolarmente dalla posizione di equilibrio pi` u del valore iniziale. Consideriamo il pendolo nella configurazione instabile, il momento `e in questo caso equiverso all’angolo di perturbazione pertanto, sempre per piccoli angoli, vale la relazione: mglθ = ml2

d2 θ dt2

la cui soluzione `e esponenziale: θ = θ0 eΩt Pertanto come previsto, l’inizio del moto `e caratterizzato da un allontanamento indefinito dalla posizione di equilibrio instabile.

26.1.2 Definizione II: effetto di un carico secondario Esaminiamo l’effetto prodotto da un debole carico secondario che tende a modificare la posizione di equilibrio stabile come mostrato nella figura 26.3.

θ F a)

P

b)

P

Figura 26.3: Pendolo elementare in equilibrio stabile: a) effetto del solo peso proprio e b) effetto combinato del peso e di un debole carico laterale.

In questo problema del secondo tipo `e necessario determinare la configurazione di equilibrio quando oltre al peso agisce anche la forza orizzontale: F l · cos θ − P l sin θ = 0

822

` DELL’EQUILIBRIO 26.1. CONCETTI ELEMENTARI SULLA STABILITA

Limitando la ricerca dell’equilibrio all’intervallo 0 6 θ 6 π, si ottiene l’unica soluzione:   F θ = arctan P Osserviamo che se, come previsto, la forza perturbante `e di modesta entit`a (ovvero F  P ): • θ ∼ = PF  1 ovvero la configurazione di equilibrio perturbata `e vicina alla condizione di partenza • la perturbazione `e tanto pi` u modesta quanto inferiore `e l’intensit`a relativa dell’azione perturbante • anche la nuova configurazione di equilibrio `e stabile. Consideriamo, come in figura 26.4, la medesima forza perturbante applicata a un pendolo in condizione di equilibrio instabile.

P

θ

a)

b)

F P

Figura 26.4: Pendolo elementare in equilibrio instabile: a) effetto del solo peso proprio e b) effetto combinato del peso e di un piccolo carico laterale.

Anche in questo caso cerchiamo la soluzione nell’intervallo: 0 6 θ 6 π che, come mostra la figura 26.4b) vale:   F θ = π − arctan P Osserviamo pertanto che in questo caso: • anche se PF  1, la posizione di equilibrio `e molto distante da quella di origine (nel caso specifico `e tanto pi` u lontana quanto pi` u F `e piccola) • la posizione di equilibrio trovata `e stabile. Concludiamo quindi che un piccolo carico applicato in modo da modificare la condizione di equilibrio, esaurito un eventuale transitorio dinamico, produce una variazione geometrica modesta nel caso in cui il sistema parta da una configurazione stabile. La nuova configurazione, che `e anch’essa stabile, risulta tanto pi` u vicina a quella di partenza quanto pi` u basso `e il carico perturbante. Si dice in questo caso che gli effetti dipendono con continuit`a dalle perturbazioni per cui non si commettono errori significativi trascurando l’effetto dei carichi secondari.

823

` 26. STABILITA

Nel caso si parta da una configurazione di equilibrio instabile, la posizione di equilibrio raggiunta sotto l’effetto dei carichi e della perturbazione `e invece sensibilmente lontana da quella di partenza e la distanza delle due configurazioni non dipende con continuit`a dalla perturbazione. Partendo da una condizione di instabilit`a la posizione di effettivo equilibrio dipende quindi in modo determinate dall’azione di carichi secondari anche di debole intensit`a, situazione generalmente non tollerabile in fase di progetto.

26.1.3 Definizione III: lavoro fatto dalle forze perturbanti Consideriamo sempre l’esempio illustrato in figura 26.3 e supponiamo che la forza perturbante F sia applicata in modo quasi statico con lo scopo di spostare il pendolo di un piccolo angolo θ e alterare in modo modesto la posizione di equilibrio senza significativi effetti cinetici. Per calcolare il lavoro fatto dall’azione perturbante, che `e chiamato LP er , notiamo che forza e spostamento del suo punto di applicazione sono equiversi. Se consideriamo angoli piccoli, possiamo assumere la seguente approssimazione per la forza che produce lo spostamento del sistema di un angolo generico θ in condizioni quasi-statiche: F (θ) = P tan θ ∼ = Pθ Il lavoro richiesto per produrre uno spostamento (piccolo) di entit`a pari a θ0 vale quindi: LP er

∼ =

Zθ0 P θ · l · dθ = P l

θ02 2

0

ed `e una quantit`a positiva. Per produrre lo stesso spostamento in condizioni quasi statiche a partire dalla configura instabile come in figura 26.3, sempre limitandoci a una variazione angolare θ0 piccola, la forza da applicare al pendolo `e opposta allo spostamento e quindi vale: F (θ) = −P tan θ ∼ = −P θ Il lavoro fatto dalla forza perturbante `e quindi negativo: LP er ∼ =

Zθ0 −P θ · l · dθ = −P l

θ02 2

0

Concludiamo che se vogliamo perturbare un sistema dall’equilibrio `e necessario fare un lavoro positivo se `e in equilibrio stabile, viceversa se l’equilibrio `e instabile l’azione perturbante fa lavoro negativo. In termini pratici concludiamo che `e necessario che l’azione perturbante sia sostenuta energeticamente per modificare un equilibrio stabile, mentre nel caso di equilibrio instabile, una volta che la perturbazione `e innescata l’energia necessaria per produrre la variazione di configurazione `e disponibile dal sistema stesso (tanto che l’azione perturbante deve fare lavoro negativo se non si vuole aumento di energia cinetica).

26.1.4 Definizione IV: bilancio energetico In molte circostanze i carichi agenti su una struttura `e dato da forze conservative (per esempio: peso proprio, forze centrifughe, forze elastiche, ecc. . . ) o a queste riconducibili. Come `e stato chiarito, in questi casi l’approccio energetico alla soluzione dei problemi di meccanica risulta particolarmente conveniente. Non fanno eccezione le considerazioni relative alla stabilit`a dell’equilibrio.

824

` DELL’EQUILIBRIO 26.1. CONCETTI ELEMENTARI SULLA STABILITA

Definiamo a tale scopo l’energia potenziale totale (total potential energy) del sistema che indicheremo come Π (pigreco maiuscolo). In questi casi sappiamo dalla Fisica che la condizione di equilibrio si verifica nei punti in cui la funzione potenziale totale `e stazionaria (ha il differenziale nullo). L’applicazione al caso del pendolo semplice, dove l’energia potenziale totale `e solo gravitazionale, `e illustrata in figura 26.5.

Δ

θ

θ Δ

a)

b)

Figura 26.5: Pendolo elementare esaminato con considerazioni energetiche: a) rispetto a una condizione di equilibrio stabile lo spostamento induce un aumento di energia potenziale totale del sistema: ∆Π > 0; b) rispetto a una condizione di equilibrio instabile lo spostamento riduce l’energia potenziale totale del sistema: ∆Π < 0.

Fissando a zero il livello di energia potenziale totale nella condizione di equilibrio si ha, per il caso stabile: Π = mg∆ = mgl (1 − cos θ) mentre nel caso instabile: Π = mg∆ = −mgl (1 − cos θ) Le due energie potenziali sono rappresentate in funzione dell’angolo nella figura 26.6.

Π

1

0.5

1

0

a)

0.5

1

0.5

0

Π

0.5

1

θ

θ b)

Figura 26.6: Energia potenziale totale per il pendolo semplice rispetto alla condizione di equilibrio: a) stabile e b) instabile.

Per alterare una posizione di equilibrio stabile `e quindi necessario aumentare l’energia potenziale totale del sistema. Questo risultato `e coerente con quanto evidenziato nel paragrafo

825

` 26. STABILITA

precedente per cui in condizioni di caricamento quasi statico (energia cinetica trascurabile) l’effetto perturbante deve fornire un lavoro positivo per perturbare il sistema. Nel caso di equilibrio instabile l’energia potenziale si riduce quando il sistema `e spostato dall’equilibrio, `e pertanto direttamente disponibile un lavoro che si pu`o trasformare in energia cinetica e questo spiega la tendenza del sistema ad allontanarsi naturalmente dalla condizione di equilibrio anche in assenza di altre forze. Se l’equilibrio `e definito da una condizione di stazionariet`a (derivata prima nulla) del potenziale totale, la condizione di stabilit`a `e legata alla concavit`a della funzione potenziale: se nel punto di equilibrio la funzione Π `e concava verso l’alto e ha derivata seconda non nulla, questa d2 Π sar`a necessariamente positiva. Infatti, indicando con χ = dθ2 la derivata seconda nel punto θ=0

di equilibrio, l’energia potenziale `e localmente approssimabile (a meno di termini di ordine 3 o superiori) dall’espressione: 1 Π (θ) ∼ = χ · θ2 2 per cui la condizione di stabilit`a `e legata al segno del coefficiente χ. Supponiamo di sostituire il pendolo con un’asta rigida avente sempre massa trascurabile e lunghezza l e sempre incernierata all’estremo A ma sull’estremo libero sia applicata una forza esterna equivalente al peso della massa m, ovvero avente modulo pari a mg costante ` immediato verificare che schema di corpo libero `e e costantemente diretta verso il basso. E indistinguibile dal caso precedente per cui anche in questo caso si identificano due condizioni di equilibrio: • una stabile, in cui l’asta `e in trazione • una instabile in cui l’asta `e in compressione. In questo caso l’energia potenziale del sistema (rispetto alla condizione di equilibrio) pu`o essere calcolata come l’opposto del lavoro fatto dalla forza esterna in conseguenza della variazione di configurazione, infatti: • nel caso stabile: Π (θ) = − (−P · ∆) = P l (1 − cos θ) • nel caso instabile: Π (θ) = − (P · ∆) = −P l (1 − cos θ).

26.2 Campi di forza non uniformi Gli esempi discussi nel precedente paragrafo si riferiscono a situazioni in cui l’unica forza agente `e il peso (o una equivalente forza uniforme e costantemente parallela a se stessa) e il sistema `e composto di parti rigide con vincoli ideali. In tali casi la questione della stabilit`a della configurazione di equilibrio `e di tipo prettamente geometrico e risulta indipendente dall’intensit`a del carico applicato. Per esempio, un pendolo che ha la massa sotto il fulcro `e in condizione di equilibrio stabile per qualsiasi valore della massa appesa e, viceversa, il pendolo `e sempre instabile se la massa `e sopra la cerniera. Quando il sistema `e soggetto a campi di forze non uniformi `e invece tipico che una condizione di equilibrio possa essere stabile o instabile oltre che per la configurazione anche per il livello del carico applicato. Questo aspetto `e molto importante per le considerazioni che seguono e viene presentano in questo paragrafo attraverso lo studio il comportamento di un pendolo semplice la cui cerniera A `e posta corrispondenza dell’asse verticale di rotazione di una giostra che ruota a velocit`a angolare costante ω, come mostrato in figura 26.7. Consideriamo la velocit`a angolare come il parametro del problema. ` evidente che il caso di giostra ferma ω = 0 `e equivalente a quello esaminato nel paragrafo E precedente per cui la configurazione θ = 0 `e di equilibrio stabile e θ = π instabile. Se la giostra

826

26.2. CAMPI DI FORZA NON UNIFORMI

ω

ω A

l

θ

mω 2l ⋅ sin θ

mg Figura 26.7: Pendolo semplice sull’asse di una giostra che ruota a velocit`a angolare costante

`e in rotazione non si pu`o escludere che la forza centrifuga (attiva nel sistema di riferimento della giostra) possa determinare altre configurazioni di equilibrio. Cerchiamo tutte le eventuali configurazioni di equilibrio nel dominio: 0 6 θ 6 π. Trattando il problema del secondo tipo con coordinata lagrangiana θ, la condizione di equilibrio significativa si ottiene, come nel caso precedente, per esempio imponendo l’annullamento del momento rispetto al polo A nel sistema di riferimento della giostra: mω 2 l sin θ · l cos θ − mgl sin θ = 0 La relazione precedente diventa:  sin θ · ω 2 l · cos θ − g = 0 Si evidenziano due fattori che possono annullarsi nell’intervallo considerato: il primo fattore fornisce le consuete configurazioni di equilibrio del pendolo che quindi permangono per ogni valore della velocit`a angolare: sin θ = 0 ⇒ θ1 = 0 ; θ2 = 0 Pi` u interessante `e il secondo fattore: ω 2 l · cos θ − g = 0 ⇒ cos θ =

g ω2l

Si ottiene da questo una equazione trigonometrica che pu`o essere discussa graficamente come in figura 26.8 dove si ricerca l’intersezione delle curve:  y = cos θ y = ωg2 l Si osserva che: • se la giostra gira lentamente (ω 2 < gl ), l’equazione non ha soluzioni reali e quindi non vi sono altre configurazioni di equilibrio oltre a quelle gi`a note • se invece la velocit`a angolare `e sufficientemente elevata si manifesta una ulteriore configurazione di equilibrio che `e indicata con θ3 .

827

` 26. STABILITA

La velocit`a angolare che determina la comparsa della una nuova condizione di equilibrio `e chiamata velocit` a critica: r g ωcr = l

1.5

ω 2l < g ω 2l > g

1 0.5 0

θ3

y = cos θ

π /4

0

π /2

θ Figura 26.8: Soluzione grafica dell’equazione: ω 2 l · cos θ − g = 0.

Le seguenti considerazioni sono di notevole interesse: • se ω < ωcr il pendolo si comporta in modo simile a quando la giostra `e ferma, per cui vi sono due condizioni di equilibrio: θ1 = 0 `e stabile mentre θ2 = π `e instabile  • se ω > ωcr compare la nuova configurazione di equilibrio θ3 = ar cos ωg2 l che `e l’unica stabile mentre le altre due diventano instabili. La dimostrazione delle precedenti affermazioni si ottiene esaminando la funzione potenziale totale del sistema che in questo caso `e espressa dalla relazione: 1 Π (θ) = mgl (1 − cos θ) − mω 2 l2 (sin θ)2 2 in cui si riconoscono i contributi del peso e della forza centrifuga. Il lavoro fatto dalla forza centrifuga `e infatti: l ·Zsin θ 1 Lcentr = mω 2 r · dr = mω 2 (l · sin θ)2 2 0

Come mostrato dal grafico in figura 26.9, quando la velocit`a angolare `e inferiore al valore critico la curva potenziale ha un solo minimo e un solo massimo, in coerenza con quanto anticipato. Se ω > ωcr l’effetto centrifugo produce una ulteriore inflessione nella curva che determina un nuovo minimo e trasforma instabile la configurazione θ1 = 0, che a giostra ferma o lenta era stabile. Se la giostra ruota sopra la velocit`a critica qualsiasi effetto perturbante produce pertanto la tendenza per il pendolo a disporsi (all’equilibrio) nella configurazione con θ = θ3 . ` interessante chiedersi quale condizione di equilibrio si manifesti nella configurazione θ1 = 0 E in corrispondenza proprio del valore critico della velocit`a angolare. Come si vede dalla figura 26.9, il raggiungimento della velocit`a critica trasforma una condizione di minimo del potenziale (concavit`a verso il basso) in una condizione di massimo (concavit`a vero il basso). La condizione di discrimine tra equilibrio stabile e instabile viene chiamato equilibrio indifferente (neutral). In termini matematici l’equilibrio indifferente `e tale per cui vi sono nei pressi

828

26.2. CAMPI DI FORZA NON UNIFORMI

Π ω < ωcr ω > ωcr

0

θ1

θ3

θ2 π

π /2

0

θ

Figura 26.9: Effetto della velocit`a di rotazione sul potenziale totale.

della configurazione data infinite condizioni di equilibrio, ovvero `e caratterizzato da un potenziale piatto come mostrato nello schema di figura 26.10. Nella pratica la condizione di equilibrio indifferente si ottiene quando la funzione Π (θ) ha nel punto di equilibrio derivata seconda nulla per cui `e localmente (almeno fino al secondo ordine) indistinguibile da una retta orizzontale.

Π

θ0

Π

Π

θ

θ0

a)

θ

θ0

θ

b)

c)

Figura 26.10: Schema concettuale delle condizioni di equilibrio: a) stabile, b) indifferente e c) instabile.

I casi esaminati nella figura 26.10 sono riassunti nello schema seguente: dΠ d2 Π • caso a) condizione di equilibrio: dθ θ0 = 0 e di stabilit`a: dθ2 > 0 θ0

• caso b) condizione di equilibrio: • caso c) condizione di equilibrio:

dΠ dθ θ0

= 0 e di indifferenza:

dΠ dθ θ0

= 0 e di instabilit`a:







d2 Π dθ2 θ

=0

0



d2 Π dθ2 θ

Pcr

θ0

θ

Figura 26.13: Soluzione grafica dell’equazione: sin θ =

µ Pl

·θ

Come si pu`o osservare dalla figura 26.13, quando il coefficiente angolare della retta `e maggiore di 1, ovvero quando: µ >1 Pl l’unica intersezione `e in corrispondeza dell’origine e quindi rappresenta la soluzione nulla. Pertanto in tali condizioni la configurazione verticale `e di equilibrio stabile. Se il coefficiente angolare della retta `e inferiore a 1 si hanno invece altre intersezioni che dimostrano l’esistenza di altre possibili configurazioni di equilibrio in cui la barra `e inclinata. Il discrimine `e rappresentato dalla condizione di tangenza della retta con la sinusoide. Se, fissata la rigidezza della molla e la lunghezza della barra, consideriamo il livello di carico come parametro il valore che determina l’insorgenza di altre condizioni di equilibrio diventa: Pcr =

µ l

(26.2)

ed `e chiamato carico critico (buckling load). Si pu`o verificare che: • per carichi di trazione (P < 0 ⇒ (e quindi `e stabile)

µ Pl

< 0) la configurazione verticale `e l’unica di equilibrio

• anche per carichi che producono compressione ma con P < Pcr la condizione di equilibrio verticale `e stabile • per un carico di compressione P > Pcr la configurazione verticale diventa instabile mentre `e stabile una delle due possibili θ = ±θ0 , quindi una qualunque perturbazione produrrebbe l’allontanamento della barra dalla configurazione verticale e, alla fine di un eventuale transitorio dinamico, si prevede l’arresto della barra in corrispondenza di uno di tali angoli

832

` DI SISTEMI RIGIDI CON VINCOLI ELASTICI 26.3. STABILITA

• la condizione di discrimine P = Pcr rende la configurazione verticale di equilibrio localmente indifferente. La figura 26.14 raccoglie in forma grafica tutte le soluzioni dell’equazione non lineare 26.1 in relazione al valore del carico di punta P . Osserviamo che:

P E D

C P>P cr

Pcr B

θ0 O

P < Pcr

θ

Figura 26.14: grafico delle soluzioni dell’equazione 26.1

• per valori di P < Pcr la soluzione `e rappresentata dal tratto verticale OB giustificato dal fatto che la soluzione `e unica: θ = 0 • per P > Pcr la curva che rappresenta le soluzioni presenta una biforcazione per cui il tratto verticale si separa nei due rami opposti e simmetrici BC e BD, che rappresentano soluzioni stabili, e nel ramo BE che rappresenta soluzioni instabili (per questo `e rappresentato con il tratteggio) • in corrispondenza della biforcazione i rami stabili della soluzione partono con tangente orizzontale; questo fatto ha una conseguenza molto importante: appena il carico di punta supera anche di poco il carico critico la configurazione di equilibrio stabile si differenzia in modo molto marcato da quella iniziale • la configurazione stabile che si determina oltre il carico critico potrebbe non essere tollerata nell’ambito del comportamento di strutture poco deformabili (in pratica anche la molla avr`a un limite di estensibilit`a nel suo comportamento ideale) • se il carico di punta `e aumentato ulteriormente rispetto al grafico in figura, i rami stabili possono presentare ulteriori biforcazioni che rappresentano condizioni di equilibrio difficilmente raggiungibili in pratica in controllo di carico perch´e ottenute con rotazioni di multipli di angoli giri dell’asta. Allo scopo di fornire una ulteriore giustificazione fisica del fenomeno dell’instabilit`a in condizioni di carico di punta, le seguenti considerazioni possono essere utili. Se la barra sotto carico viene leggermente inclinata il carico (se compressivo) genera rispetto al perno un momento che tende a incrementare l’inclinazione della barra, quindi ha un effetto instabilizzante. L’inclinazione della barra `e contrastata dall’azione della molla la quale quindi esercita un momento stabilizzante. Se il carico di punta `e modesto l’effetto stabilizzante, che dipende solo dalla rigidezza della molla, risulta prevalente e il sistema, anche se perturbato, manifesta la tendenza a ritornare nella configurazione originaria. Se invece il carico `e superiore al livello critico l’azione

833

` 26. STABILITA

stabilizzante della molla risulta insufficiente. Con questa interpretazione appare evidente il motivo per cui un carico di trazione non instabilizza la barra (sia il carico sia la molla producono effetti stabilizzanti).

26.3.2 Soluzione con metodo energetico ` interessante esaminare il problema della barra compressa anche tramite l’energia potenE ziale totale. Fissata a zero nella condizione di riferimento, l’energia potenziale totale per una generica inclinazione θ `e data dall’energia immagazzinata nella molla pi` u l’opposto del lavoro fatto dalla forza P come in figura 26.15 e quindi vale: Π (θ) = U (θ) − L

(26.3)

nel caso esaminato:

P

Δ

θ

Figura 26.15: Schema di applicazione dell’approccio energetico

1 1 Π (θ) = µθ2 − P ∆ = µθ2 − P l · (1 − cos θ) 2 2 Il lavoro fatto dal carico di punta `e dato dal semplice prodotto della forza per lo spostamento del suo punto di applicazione in quanto la variazione di configurazione `e indotta a carico esterno applicato e costante. L’andamento della funzione potenziale totale che , come prevedibile, risulta influenzata all’intensit`a del carico di punta `e rappresentata in figura 26.16. Per valori moderati (P < Pcr ) il primo termine 12 µθ2 prevale e la funzione ha una forma che si discosta poco da una parabola. Da ci`o consegue che, come osservato nella soluzione statica, per P < Pcr l’unica soluzione stabile `e quella verticale. Per un elevato valore del carico di punti invece l’effetto della componente del carico sul potenziale P l · (1 − cos θ) diventa sempre pi` u importante finch´e conferisce all’origine caratteristiche di massimo (condizione di equilibrio instabile). Per P > Pcr divengono stabili le condizioni di minimo rappresentate dall’inclinazione θ0 . La condizione di discrimine si verifica quando la concavit`a nell’origine si annulla ed `e rappresentata nella figura 26.16 dalla linea tratteggiata. Il passaggio dalla condizione stabile a quella instabilie si verifica quindi quando: d2 Π =0 dθ2 θ=0 e questa equazione ha soluzione: P =

834

µ = Pcr l

` DI SISTEMI RIGIDI CON VINCOLI ELASTICI 26.3. STABILITA

Π (θ )

P < Pcr P = Pcr

θ0

P > Pcr

θ

Figura 26.16: Energia potenziale in funzione della posizione per vari valori del carico di punta

Si osserva che per P = Pcr la funzione potenziale Π ha in effetti nell’origine uno zero di ordine 4.

26.3.3 Soluzione con modello linearizzato Gli approcci sviluppati per determinare il carico critico sono coerenti e conducono alla medesima soluzione. Entrambi richiedono di considerare il problema del secondo tipo e di esaminare (in senso statico o energetico rispettivamente) configurazioni diverse da quella di equilibrio. Nel primo caso il procedimento `e finalizzato alla ricerca di una condizione di locale indifferenza dell’equilibrio, nel secondo la condizione cercata consiste nell’annullamento della concavit`a della funzione potenziale totale. Dato che, in genere, lo scopo di queste analisi `e limitata a determinare il carico critico che `e considerata una condizione di funzionamento che non deve essere raggiunta o superata, la soluzione pu`o essere semplificata dal punto di vista formale. L’analisi pu`o essere infatti limitata al comportamento della struttura in una configurazione, che pur essendo diversa da quella di partenza perch´e il problema `e comunque del secondo tipo, la differenza sia contenuta in modo che risulti sufficiente considerare solo i primi termini dello sviluppo in serie di Taylor delle funzioni in esame. Consideriamo per primo l’approccio statico. L’equazione risolvente completa: µθ − P l · sin θ = 0 per piccoli angoli si semplifica nella seguente relazione lineare: µθ − P lθ = 0 che `e conveniente scrivere come: (µ − P l) · θ = 0

(26.4)

In generale, il problema della stabilit`a, quando ci si limita a variazioni di configurazione di piccola entit`a nei pressi della condizione di partenza, si riduce quindi a una equazione: • lineare (a causa degli scostamenti piccoli) • omogenea nella coordinata lagrangiana (dato che la configurazione a spostamento nullo `e di equilibrio) • parametrica nel carico di punta.

835

` 26. STABILITA

La soluzione banale dell’equazione lineare non `e interessante (dato che, come anticipato, era gi`a nota), ne ricerchiamo quindi altre che si trovano solo se l’equazione diventa indeterminata e quindi solo se: µ − Pl = 0 Questa condizione conduce alla relazione: P =

l = Pcr µ

Ricaviamo quindi la seguente interpretazione: per P 6= Pcr l’equazione di equilibrio linearizzata ha solo la soluzione θ = 0 (in effetti `e l’unica configurazione di equilibrio nei pressi dell’origine per tali carichi), per P = Pcr tutte le configurazioni (ovviamente nei pressi di quella indeformata) sono di equilibrio. Abbiamo quindi identificato la condizione di equilibrio indifferente P = Pcr che determina il carico critico. Nella figura 26.17 sono riportate tutte le soluzioni dell’equazione linearizzata 26.4: il tratto BD riproduce adeguatamente l’andamento effettivo della soluzione dell’equazione non lineare completa (rappresentata dal tratto curvo BC) in corrispondenza del punto significativo di biforcazione.

P E

P > Pcr Pcr B

O

C D

P < Pcr

θ

Figura 26.17: Grafico delle soluzioni dell’equazione 26.4

La linearizzazione `e utile anche per semplificare l’applicazione del metodo energetico. Nei pressi della configurazione di partenza vale infatti la relazione:   1 2 θ2 1 1 2 ∼ Π (θ) = µθ − P l · (1 − cos θ) = µθ − P l · 1 − 1 + = (µ − P l) · θ2 2 2 2 2 Il potenziale `e quindi approssimabile nell’origine con una forma quadratica, ovvero graficamente una parabola la cui concavit`a ha il segno del coefficiente, nel caso in esame: µ−P l. Dato che, per definizione, in una posizione di equilibrio il potenziale e la sua derivata sono nulli, `e sufficiente valutare il segno della forma quadratica in qualsiasi altro punto (vicino all’origine) per verificare se l’equilibrio `e stabile (potenziale positivo) o instabile (potenziale negativo).

26.3.4 Considerazioni riassuntive Anche se `e stato esaminato un semplice esempio particolare, da questo `e possibile trarre alcune conclusioni che hanno validit`a generale: • l’instabilit` a (buckling)buckling dell’equilibrio elastico `e un fenomeno connesso con i carichi che producono caratteristiche normali compressive

836

` DI SISTEMI RIGIDI CON VINCOLI ELASTICI 26.3. STABILITA

• sistemi compressi possono essere stabilizzati con elementi elastici • si identifica un carico (detto carico critico) che determina il massimo valore per cui la struttura `e stabile nella configurazione indeformata • il carico critico `e una caratteristica della struttura compressa e, in generale, dipende da parametri geometrici e dalla deformabilit`a, nel caso esaminato infatti Pcr = µl • per aumentare la stabilit`a di una struttura compressa (ovvero aumentarne il carico critico) `e necessario aumentare la rigidezza e/o ridurre la sua estensione assiale • sono sensibili al fenomeno dell’instabilit`a le strutture compresse, snelle e relativamente deformabili, quindi, per esempio, i puntoni lunghi nelle strutture reticolari. Per quanto riguarda i procedimenti per effettuare previsioni del carico critico: • il metodo statico e il metodo energetico conducono a conclusioni coerenti • per l’analisi in condizioni di carico superiore al carico critico (analisi dopo l’instabilit` a (post-buckling analysis)) `e necessario affrontare lo studio di equazioni non lineari • in molti casi tale complessa analisi non `e necessaria perch´e la stessa perdita della stabilit` a rappresenta un fenomeno non tollerato • per valutare il solo carico critico `e possibile effettuare linearizzazioni che rendono il problema molto pi` u semplice senza tuttavia pregiudicare la corretta previsione del carico critico stesso. Esercizio 26.2: Instabilit`a di sistemi articolati con un grado di libert`a Con riferimento alla figura 26.18 e considerando noti i parametri indicati, determinare i valori del carico critico delle varie configurazioni. Usare sia il metodo statico sia il metodo energetico. Per un confronto quantitativo tra le soluzioni costruttive si pu`o assumere: l1 = 0.6l, l2 = 0.6l, k2 = 2k, k1 = 3k, µ = 0.1kl2 . (Attenzione al caso d.)

P

P

P

P

P

k2

k E

E

l2

l2

k1

k

l1 C

C

b)

l2

k

l

D

l

a)

μ

μ

l 5

l 5

c)

d)

l1

l 5

l1

e)

Figura 26.18: Sistemi con un solo grado di libert`a sotto carico di punta.

837

` 26. STABILITA

26.4 Stabilit` a di sistemi rigidi con pi` u gradi di libert` a Con una semplice estensione dei metodi sviluppati nel paragrafo precedente valutiamo il carico critico per il sistema articolato di figura 26.19a) in cui le barre in compressione sono rigide e le molle di torsione in corrispondenza delle cerniere ideali.

P

P E

θ2 l2

μ2

μ2 (θ 2 − θ1 )

D

l1

μ1

C

μ2 (θ 2 − θ1 )

θ1 μ1θ1

a)

b)

Figura 26.19: Sistema articolato di barre rigide con molle ideali in compressione: a) configurazione da verificare; b) generica variazione di configurazione e relativo schema di corpo libero preliminare parziale.

Il sistema ha due gradi di libert`a per cui `e necessario considerare due parametri lagrangiani, nel caso in esame appare naturale considerare le coordinate angolari θ1 e θ2 che definiscono le rotazioni delle barre. Lo schema di figura 26.19b) riproduce una generica variazione di configurazione che rispetta la congruenza. Dato che `e richiesto il solo carico critico, consideriamo senz’altro una variazione di configurazione prossima a quella di riferimento, in modo che si possano accettare le approssimazioni: θ2 sin θi ∼ = θi ; cos θi ∼ =1− i 2 e si ottengano direttamente equazioni risolventi linearizzate. Per questo problema il metodo statico (la ricerca di configurazioni leggermente variate che siano comunque di equilibrio) `e riconducibile a due equazioni significative di momento: l’equilibrio a rotazione dell’intera struttura rispetto alla cerniera C e l’equilibrio della sola barra 2 rispetto alla cerniera D:  µ1 θ1 − P · (l1 θ1 + l2 θ2 ) = 0 µ2 · (θ2 − θ1 ) − P l2 θ2 = 0 La seguente forma matriciale:      µ1 − P l1 −P l1 θ1 0 = −µ2 µ2 − P l2 θ2 0 permette di evidenziare che il sistema risolvente `e: • lineare • omogeneo

838

` DI SISTEMI RIGIDI CON PIU ` GRADI DI LIBERTA ` 26.4. STABILITA

• parametrico in P . Come nel paragrafo precedente, cerchiamo soluzioni non banali del sistema. In questo caso ci`o comporta l’annullamento del determinate che porta a una equazione di secondo grado nel parametro P (equazione caratteristica):   µ1 − P l1 −P l1 det = l1 l2 P 2 − [µ1 l2 + µ2 (l1 + l2 )] P + µ1 µ2 = 0 −µ2 µ2 − P l2 Al solo scopo di semplificare l’algebra, consideriamo il seguente caso particolare: l1 = l2 = l; µ1 = 2µ; µ2 = µ e l’equazione caratteristica diventa: l2 P 2 − 4µlP + 2µ2 = 0 Le due soluzioni sono:

 √ µ µ PI = 2 − 2 = 0.059 l l  √ µ µ PII = 2 + 2 = 0.341 l l Sostituendo il valore PI nel sistema risolvente si ha:  µ1 θ1 − PI · (l1 θ1 + l2 θ2 ) = 0 µ2 · (θ2 − θ1 ) − PI l2 θ2 = 0 Una equazione `e necessariamente combinazione lineare dell’altra e pu`o essere ignorata, pertanto il sistema fornisce la seguente soluzione indeterminata: per P = PI



θ1 =

1 √ θ2 ∼ = 0.4θ2 1+ 2

Dal punto di vista fisico si pu`o concludere che per tale valore del carico di punta `e prevedibile una condizione di equilibrio indifferente caratterizzata da una deformata che (per piccoli angoli) si sviluppa secondo quanto indicato dalla soluzione, ovvero con θ1 concorde con θ2 e il primo pari al 40% del secondo. In corrispondenza del secondo zero della equazione caratteristica si ottiene: per P = PII



θ1 =

1 √ θ2 ∼ = −2θ2 1− 2

quindi la corrispondente configurazione `e una deformata caratterizzata da angoli di segno opposto. Le due soluzioni sono qualitativamente illustrate in figura 26.20. Si tenga conto che, in condizione di indifferenza, la deformata `e definita a meno di un fattore moltiplicativo arbitrario. Supponiamo che alla struttura in esame sia applicato, a partire da zero, un carico di punta che cresce lentamente (caricamento quasi statico), il suo presumibile comportamento pu`o essere cos`ı previsto: finch´e il carico `e inferiore al minimo dei valori che annullano il determinate (nel caso esaminato PI ), la condizione indeformata `e di equilibrio stabile. Al raggiungimento di PI divengono di equilibrio anche le configurazioni rappresentate in figura 26.20a) e per carichi P > PI la configurazione verticale diviene di equilibrio instabile. Il carico critico per la struttura `e quindi dato da: Pcr = min {PI ; PII } .

839

` 26. STABILITA

P = PI

a)

P = PII

b)

Figura 26.20: Modi di perdita della stabilit`a in corrispondenza dei due carichi critici.

Anche le configurazioni rappresentate in figura 26.20b) diverrebbero di equilibrio se il carico di punta potesse raggiungere il valore PII senza prima aver prodotto l’instabilit`a. Tuttavia, `e evidente che questa condizione non `e ottenibile a meno che sia realizzato qualche strano tipo di vincolo (per esempio attuato con sistemi attivi e quindi non elementare) in grado di impedire ai due angoli di manifestarsi concordemente. Queste considerazioni possono essere generalizzate ad altre strutture caricate di punta con due o anche pi` u gradi di libert`a. Supponiamo, in particolare, che un sistema compresso stabile per bassi valori del carico di punta abbia vincoli elastici concentrati e sia riconducibile a un sistema con n gradi di libert`a. L’imposizione dell’equilibrio in una configurazione generica (vicina alla condizione indeformata) genera un sistema lineare omogeneo parametrico in P con dimensione n. La condizione di indifferenza dell’equilibrio, ovvero l’annullamento del determinante del sistema, fornisce una equazione caratteristica algebrica di grado n in P . Il carico critico per la struttura `e il valore minimo degli zeri reali dell’equazione caratteristica. In corrispondenza di tale valore `e possibile trovare, per sostituzione nel sistema lineare, una modalit`a di deformata tale per cui, fissata una coordinata lagrangiana, le altre n − 1 possono essere determinate. Tale risultato fornisce quindi la forma, o il modo, con cui si prevede che la struttura perda la configurazione rettilinea iniziale in corrispondenza del raggiungimento del carico critico. Non sfugge che il problema ha molte analogie con quello dell’analisi degli autovalori. Gli zeri dell’equazione algebrica sono infatti talvolta chiamati valori caratteristici o autovalori del problema della stabilit`a e le modalit`a di perdita della configurazione rettilinea autovettori (i quali come al solito definiti a meno di un fattore moltiplicativo). Gli autovalori pi` u elevati del minimo, e i relativi autovettori, non hanno in genere interesse pratico dato che la struttura non riesce a sperimentarli perch´e perde la configurazione di equilibrio rettilinea a un carico inferiore. Come mostra il seguente esercizio, l’equazione caratteristica per la valutazione del carico critico si ottiene anche con il metodo energetico. Esercizio 26.3: Metodo energetico per sistemi con pi` u gradi di libert`a Determinare il carico critico della struttura in figura 26.19 con il metodo energetico. Suggerimento. Considerando una generica configurazione diversa da quella deformata

840

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

si scriva l’espressione dell’energia potenziale tenendo conto che, come nel caso con un solo grado di libert`a, `e data dal contributo dell’energia elastica delle molle e dall’opposto del lavoro fatto dal carico di punta. Considerando angoli piccoli, l’espressione del potenziale pu`o essere ricondotto a una forma quadratica delle coordinate lagrangiane la quale, nell’origine, ha valore e gradiente entrambi nulli. Allo scopo di imporre la condizione di stabilit` a, a `e sufficiente che la forma quadratica sia definita positiva e quindi che tutte le concavit` nell’origine siano verso l’alto. Questa condizione si verifica se il determinante della matrice Hessiana (la matrice delle derivate seconde) `e positivo. La condizione di indifferenza dell’equilibrio coincide pertanto con l’annullamento del determinate Hessiano nell’origine.

Esercizio 26.4: Carichi critici con pi` u gradi di libert`a Con riferimento alla figura 26.21 e considerando noti i parametri indicati, determinare i valori del carico critico e la modalit`a di perdita della stabilit`a delle varie configurazioni. Per un confronto quantitativo tra le varie configurazioni si pu`o assumere: l1 = 0.6l, l2 = 0.6l, k2 = 2k, k1 = 3k, µ = 0.1kl2 .

P

P

k2

P

P

k E

E

k2 l2

μ

l2

l2

μ2 D

D

D

=

D

=

l2

k1

E

=

E

l1

k1 l1

l1

=

l1 C

a)

C

b)

C

c)

C

d)

Figura 26.21: Sistemi con un due gradi di libert`a sotto carico di punta.

Nota: attenzione al caso d.

26.5 Il problema di Eulero Leonhard Euler (1707 –1783) affront`o e risolse il problema della stabilit`a di una trave elastica continua vincolata e caricata di punta rappresentato in figura 26.22. Supponiamo, almeno per ora, che il problema sia piano e che i punti dell’asse della trave possano avere spostamenti solo in direzione y e z e, inoltre, che gli spostamenti trasversali siano descritti in modo sufficientemente accurato considerando il solo comportamento flessionale della trave (applicando la solita ipotesi di corpo traviforme).

841

` 26. STABILITA

P D

EJ x l z

y C

Figura 26.22: Problema di Eulero

26.5.1 Soluzione approssimata con modello discreto Il problema di Eulero pu`o essere affrontato e risolto in modo approssimato mediante una discretizzazione della trave in elementi rigidi collegati da molle come rappresentato nella figura 26.23. A tale scopo dividiamo la trave in n parti di uguale lunghezza collegati a due a due con molle torsionali di opportuna rigidezza in modo da realizzare un modello discreto con n − 1 gradi di libert`a.

P

P

P D

l /3

l/2

μ3 μ2

l/2

l /3

μ3

μn

l/n

l /3

C

a)

b)

c)

Figura 26.23: Problema di Eulero discretizzato con elementi rigidi connessi da vincoli ideali e molle: a) un grado di libert`a; b) due gradi di libert`a; c) n − 1 gradi di libert` a

Perch´e i modelli con un numero finito di gradi di libert`a siano ragionevoli approssimazioni del problema di Eulero `e necessario attribuire alle molle una rigidezza appropriata che dipende dal numero di suddivisioni e che indichiamo con µn . A tale scopo imponiamo che sia riprodotto il

842

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

comportamento flessionale locale della trave, come illustrato nella figura 26.24. Questo risultato si ottiene assumendo che l’elemento unitario della trave discretizzata di lunghezza nl , abbia le sezioni di estremit`a che manifestano la stessa rotazione relativa delle estremit`a dei tratti equivalenti di trave quando sottoposti allo stesso momento flettente.

M

M

μn l/n

l/n

Δθ

EJ x

Δθ

M

M a)

b)

Figura 26.24: Rigidezza delle molle per riprodurre il comportamento flessionale della trave in una suddivisione in n elementi rigidi uguali: a) elemento unitario discretizzato e b) tratto di trave inflessa di uguale lunghezza.

Si ricava: ∆θ =

M M l = µn EJx n

da cui il valore di rigidezza delle molle da usare in funzione del numero di elementi: µn =

EJx n l

` prevedibile che il modello discreto sar`a grossolano per bassi valori di n tuttavia, per valori di E n sufficientemente elevati, la discretizzazione del problema di Eulero appare ragionevole. Nella figura 26.25 `e riportata la soluzione del carico critico per i nodelli discreti (lo zero pi` u basso dell’equazione caratteristica) che, operativamente, `e stata ottenuta con procedimento numerico e un calcolatore. Il grafico riporta, per alcuni valori di n, il carico critico normalizzato rispetto al valore limite. Il grafico mostra una evidente tendenza del procedimento verso la convergenza con l’accostamento dei punti a un asintoto che rappresenta il carico critico ‘esatto’ del problema di Eulero. In particolare `e stato verificato che per n = 10 l’errore dovuto alla discretizzazione `e inferiore a 2%. Il procedimento di soluzione appena descritto, basato su una ragionevole riduzione degli infiniti gradi di libert`a della trave a un numero finito, ma sufficientemente elevato, rappresenta lo schema generale con cui sono attuate le tecniche di soluzione dei problemi strutturali basate sul computer.

26.5.2 Soluzione con il modello continuo Il carico critico del problema di Eulero pu`o essere tuttavia ottenuto in modo formalmente esatto (ovvero non affetto da errori di discretizzazione) con un procedimento analitico che considera la trave come un continuo monodimensionale: corpo con infiniti gradi di libert` a. In figura 26.26 `e rappresentato lo schema monodimensionale del problema teorico di Eulero: una trave con asse rettilineo caricata di punta da una forza applicata all’estremo e perfettamente centrata sull’asse che genera solo compressione. In un primo tempo esaminiamo il problema come bidimensionale per cui assumiamo che i punti dell’asse della trave possano spostarsi solo nel piano y − z. Come rappresentato in figura 26.26b) supponiamo che, sotto l’effetto

843

` 26. STABILITA

PI ( n )

1

PI ( ∞ )

0.8 0.6 0.4 0.2 0

0

2

4

n

6

8

10

Figura 26.25: Valore del minimo autovalore in funzione del numero di suddivisioni del modello discreto della trave. Nel grafico il carico critico `e stato normalizzato con il valore asintotico.

del carico di punta che rimane costante, una azione perturbante produca una generica (ma congruente) modifica della linea d’asse che rappresentiamo, come consuetudine, con la funzione di spostamento v (s). Per valutare il solo carico critico, possiamo considerare lo spostamento dovuto all’effetto perturbante di piccola entit`a per cui `e lecito descrivere il problema con le equazioni della linea elastica sviluppate nel capitolo 24.

P

P

D

EJ x l

s

Δ

D*

v (s) B*

B

z

z

y C

a)

y C = C*

b)

Figura 26.26: Schema del problema di Eulero: a) situazione imperturbata con asse rettilineo e b) effetto di una generica perturbazione che modifica leggermente la forma della linea d’asse.

Nella configurazione perturbata si nota che: • oltre alla forza normale nelle varie sezioni della trave si manifestano anche caratteristiche flessionali di taglio • la comparsa delle nuove caratteristiche `e giustificata dal fatto che, applicando lo stesso schema di soluzione dei problemi del secondo tipo adottato per i modelli discreti, le

844

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

caratteristiche devono essere definite con riferimento al sistema locale solidale alla linea d’asse nella configurazione deformata • l’effetto deformativo pi` u significativo `e connesso con la flessione per cui il contributo del taglio sar`a come consuetudine trascurato. Pu`o essere utile notare che per quanto la forza normale sia alterata dalla perturbazione (in quasi tutte le sezioni infatti si ha: |N | < P ), lo spostamento assiale ∆ del carrellino, evidenziato nella figura 26.26, `e dovuto prevalentemente a un effetto geometrico connesso con la flessione e non alla variazione di forza normale (che peraltro produce un contributo di segno opposto). Trascurando la variazione di lunghezza della linea d’asse indotto dalla variazione della forza normale (che si pu`o dimostrare `e un effetto di ordine superiore), si assume che ogni concio di trave conservi, nella configurazione perturbata, la lunghezza che aveva quando l’asse era rettilineo. La proiezione della linea d’asse della direzione della congiungente gli estremi `e pertanto inferiore a causa della sola inclinazione della linea d’asse stessa. La perturbazione indotta sulla forma dell’asse consente al carico (che rimane costante in conseguenza della perturbazione) di fare lavoro positivo pari a L = P ∆ ma, nel contempo, la perdita di rettilineit`a dell’asse richiede una certa energia elastica, dovuta in gran parte alla flessione. Analogamente al caso discreto, si potrebbero determinare le condizioni per cui il primo contributo energetico eguaglia e supera il secondo. Riprenderemo l’approccio energetico per i sistemi continui nella parte finale del capitolo, per ora affrontiamo il problema di Eulero con l’approccio statico e cerchiamo la condizione di equilibrio indifferente, ovvero soluzioni di equilibrio non banali v (s) 6= 0, come in figura 26.26b). Valutato nella configurazione deformata, il momento flettente vale (con il suo segno): Mx (s) = P · v (s)

(26.5)

da cui, tramite l’equazione della linea elastica del secondo ordine, si ricava la relazione: −EJx

d2 v (s) = Mx (s) = P · v (s) ds2

da cui l’equazione differenziale: P d2 v (s) + · v (s) = 0 ds2 EJx Dato che nei problemi di statica, l’unica variabile indipendente `e l’ascissa curvilinea s, non ci sono ambiguit`a se si usa l’apice per rappresentare le derivate: df = f0 ds La grandezza

P EJx

`e, per il caso in esame, necessariamente positiva per cui `e lecito porre: k2 =

P EJx

(26.6)

Si ottiene infine la seguente equazione differenziale ordinaria omogenea del secondo ordine a coefficienti costanti: v 00 + k 2 v = 0 (26.7) che descrive il problema di Eulero. Si tratta di una equazione ben nota nella Fisica Matematica che ha la soluzione generale di tipo armonico: v (s) = A · sin (ks + ϕ) = A1 · sin ks + A2 · cos ks

(26.8)

845

` 26. STABILITA

i cui due parametri A, ϕ oppure A1 , A2 devono essere determinati in base alle condizioni al contorno. Dato che l’equazione risolvente 26.7 `e omogenea, la funzione nulla (A = 0 oppure A1 = A2 = 0) `e sempre tra le sue soluzioni, l’interesse `e tuttavia, come anticipato, per le eventuali soluzioni non banali. Considerando che i due estremi della trave non possono spostarsi trasversalmente, le Condizioni al Contorno per il problema in esame sono:  v (0) = 0 v (l) = 0 che generano il sistema lineare: 

A2 = 0 A1 · sin kl + A2 · cos kl = 0

il quale, scritto in forma di matrice, diventa:      0 1 A1 0 = sin kl cos kl A2 0 Il problema `e stato quindi ricondotto, come per i casi discreti, alla determinazione delle soluzioni non nulle di un sistema lineare omogeneo la cui matrice `e parametrica nel carico di punta P (attraverso il parametro k). Soluzioni non banali del sistema algebrico sono quindi connesse alla condizione di singolarit`a della matrice e quindi alla soluzione dell’equazione che si ottiene annullando il determinate:   0 1 = − sin kl = 0 det sin kl cos kl Per tale equazione, ricordando che k > 0, otteniamo le infinite soluzioni: kn l = n · π

con

n = 1, 2, 3 . . .

Questo risultato non sorprende se si considera che il problema ha infiniti gradi di libert`a ed `e ragionevole aspettarsi altrettanti valori caratteristici a ognuno dei quali `e associata una modalit`a di perdita della stabilit`a. Come per il caso discreto, il carico critico fisicamente significativo `e rappresentato dal valore minimo delle soluzioni dell’equazione caratteristica, che indichiamo come consuetudine con PI e che si ottiene con n = 1. In questo modo si perviene alla formula di Eulero: EJx Pcr = π 2 2 (26.9) l Sostituendo l’autovalore nel sistema lineare risolvente si determina l’autovettore corrispondente che rappresenta (sempre a meno di un fattore moltiplicativo) la forma della linea d’asse che descrive il modo con cui la trave di Eulero si deforma in condizioni di incipiente perdita di stabilit`a:  s v (s) = A1 · sin π (26.10) l Ci`o dimostra che la trave di Eulero perde la stabilit`a in modo che il suo asse assume, almeno fino a che gli spostamenti sono contenuti, la forma di un arco completo di sinusoide con due flessi consecutivi in corrispondenza degli estremi della trave. Tale risultato `e illustrato in figura 26.27.

846

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

l

P

a)

EJ x Pcr

b)

Figura 26.27: Perdita della stabilit`a per una trave di Eulero: a) situazione imperturbata b) forma della linea d’asse in condizione di equilibrio indifferente in corrispondenza del (primo) carico critico.

26.5.3 Considerazioni sul problema di Eulero Si pu` o verificare che il carico critico espresso dalla relazione 26.9 `e effettivamente l’asintoto orizzontale ottenuto nella figura 26.25 come limite della trave discretizzata. La formula di Eulero conferma le previsioni ottenute nei casi discreti e dimostra che, sono a rischio di instabilit` a le travi: • caricate di punta in compressione • che hanno sezioni aventi bassa rigidezza flessionale • con elevata lunghezza. Esaminiamo le altre soluzioni dell’equazione caratteristica del problema di Eulero e in particolare il secondo autovalore: EJx n = 2 ⇒ PII = π 2 2 l 2

al quale corrisponde il seguente modo di instabilit`a:   s v (s) = A1 · sin π l/2 che rappresenta un doppio arco di sinusoide. Come gi`a osservato in condizioni normali questa condizione di instabilit`a non pu`o essere raggiunta. La configurazione rettilinea infatti diventa instabile quando il carico supera il primo carico critico (che `e solo 1/4 del secondo) e la trave diventa un arco di sinusoide. L’incremento di carico oltre il primo carico critico tende a inflettere la trave ulteriormente (e presumibilmente a metterla fuori uso per sollecitazioni flessionali) ben prima che il carico raggiunga il secondo autovalore. Tuttavia, se la trave e vincolata in modo da mantenere in asse il suo punto centrale, il primo modo risulta inibito e la forma rettilinea rimane stabile fino al raggiungimento del secondo autovalore, come illustrato nella figura 26.28, diventa quindi il carico critico per questo nuovo problema. Pu`o essere interessante considerare che in condizioni ideali (asse rettilineo, carico perfettamente centrato e nessun carico trasversale) il vincolo centrale non svolge alcuna funzione statica in quanto la sua reazione vincolare `e nulla non solo nella configurazione di equilibrio indeformata ma anche nelle condizioni di equilibrio inflesse dopo la perdita della stabilit`a. Tuttavia la sua

847

` 26. STABILITA

l/2

l/2

P

a)

EJ x Pcr

b)

Figura 26.28: Raggiungimento del secondo carico critico di Eulero con l’introduzione di un vincolo di stabilizzazione posto nel centro

sola presenza `e determinante per la stabilit`a del sistema dato che il carico critico `e aumentato di un fattore 4. Esercizio 26.5: Stabilit`a di una stecca da disegno Una stecca da disegno da 50 cm di materiale polimerico γ = 1.0 kg / dm3 avente sezione rettangolare di 45 mm × 3 mm se appoggiata agli estremi in configurazione orizzontale sotto l’effetto del peso proprio si inflette nel centro di 2 mm. Determinare il carico critico per la stabilit`a se la stecca `e caricata di punta agli estremi. Valutare il carico critico se qualcuno sostiene la stecca nel centro mentre si applica la compressione.

Esercizio 26.6: Applicazioni delle formula di Eulero Usando la formula di Eulero, valutare il carico critico delle strutture rappresentate in figura 26.29 realizzate tutte con travi aventi la stessa sezione. Tracciare la forma qualitativa del modo in cui la struttura perde la configurazione rettilinea al primo carico critico, in particolare si esamini la differenza tra i casi b) e c).

P

P

P

P

D

D

D

D

C

C

C

l/2 EJ x l/2 C

a)

b)

c)

d)

Figura 26.29: Varianti del problema di Eulero

848

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

Esercizio 26.7: Carichi critici superiori Determinare l’espressione generale per tutti gli autovalori del problema di Eulero e verificare che le deformate critiche sono rappresentate da sequenze di archi completi di sinusoide.

Con un procedimento analogo quello sviluppato per la trave di Eulero `e possibile ottenere il carico critico anche per altre condizioni al contorno, come mostra il seguente esempio. Esempio 26.1: Instabilit`a di una mensola caricata di punta Determinare il carico critico di una mensola caricata di punta come in figura 26.30a).

l

s C

y

D

z

B

v (s) C

a)

EJ x D

δD

B* D

*

b)

P

Figura 26.30: Carico critico per una mensola: a) schema statico e b) rappresentazione della deformata

Assunta, come in figura 26.30b), una generica deformata congruente e considerando (provvisoriamente) lo spostamento δD dell’estremo D come parametro si pu`o scrivere l’espressione del momento flettente: Mx (s) = −P · (δD − v (s)) da cui si ottiene l’equazione della linea elastica: −EJx v 00 (s) = −P · (δD − v (s)) Ponendo ancora k 2 =

P EJx ,

si ha: v 00 + k 2 v = k 2 δD

che rappresenta una equazione differenziale simile all’equazione 26.7 ma, in questo caso, non omogenea. In effetti la non omogeneit`a `e solo apparente perch´e la funzione identicamente nulla soddisfa l’equazione (in tal caso infatti anche δD `e nullo). Esprimiamo comunque il risultato in modo generale come somma della soluzione della omogenea associata e di una soluzione particolare della non omogenea: v(s) = A1 · sin ks + A2 · cos ks + δD

849

` 26. STABILITA

Le C.C. sono per questo caso:   v (0) = 0 v 0 (0) = 0  v (l) = δD la terza delle quali rappresenta la definizione del parametro questo caso a un sistema lineare omogeneo parametrico:     0 1 1 A1  1 0 0   A2  =  sin kl cos kl 0 δD

fittizio. Si perviene anche in  0 0  0

Dalla condizione di singolarit`a per la matrice del sistema deriva una equazione caratteristica di tipo trigonometrico e, considerando il minimo valore delle sue soluzioni fisicamente significative, si ottiene il seguente risultato: Pcr = π 2

EJx (2l)2

Si pu`o verificare che la deformata instabile nel caso della mensola esaminata nell’esempio precedente `e rappresentata da un quarto di onda come mostrato nella figura 26.31a).

l D

Pcr

C

a)

D*

Pcr b)

2l Figura 26.31: Trave a mensola caricata di punta: a) deformata critica e b) trave di Eulero con lo stesso carico critico.

La figura 26.31 evidenzia che la stessa deformata `e ottenuta in una trave di Eulero avente la stessa sezione ma lunghezza doppia. In effetti i due problemi hanno lo stesso carico critico. Il risultato precedente pu`o essere generalizzato per tutte le situazioni in cui una trave caricata di punta `e vincolata in modo da potersi instabilizzare assumendo una deformata composta ` utile introdurre la lunghezza libera di inflessione o lunghezza da tratti di funzione armonica. E equivalente di Eulero lEu che rappresenta, in modo equivalente: • la lunghezza della trave di Eulero avente la stessa sezione e lo stesso carico critico • la distanza tra due flessi della deformata critica. La formula generale della stabilit`a per varie condizioni di vincolo si pu`o quindi scrivere come: EJx Pcr = π 2 2 (26.11) lEu

850

26.5. IL PROBLEMA DI EULERO

Esercizio 26.8: Lunghezze libere di inflessione Verificare le lunghezza libere di inflessione indicate nello schema di figura 26.32 per una trave caricata di punta variamente vincolata.

l

2l

l/2

l

l/2

2l

l/4

a)

b)

c)

d)

e)

f)

g)

Figura 26.32: Lunghezze libere di inflessione per vari tipi di vincolo

Non sempre le condizioni di vincolo consentono di prevedere la lunghezza libera di inflessione in base a considerazioni elementari. Tuttavia, quando `e individuabile una regione entro cui si colloca la posizione dei flessi, si pu`o effettuare una stima del carico critico e, spesso, il risultato `e sufficientemente accurato per molte situazioni di pratico interesse. Consideriamo, per esempio, il caso rappresentato in figura 26.33 che non rientra nelle situazioni elementari di figura 26.32. All’instabilit`a la linea elastica deformata ha sicuramente un flesso in D (il momento flettente `e infatti necessariamente nullo in tale sezione) mentre la posizione dell’altro flesso, che indichiamo con B, non `e immediatamente identificabile.

l

s

D

P

C

B* Figura 26.33: Carico critico per una mensola con l’estremo vincolato

Un intervallo entro cui si pu`o ragionevolmente collocare la posizione del flesso B, per esempio tracciando manualmente una deformata plausibile, `e il seguente: l l lEu < sB < ⇒ 0.67 < < 0.75 4 3 l Il problema precedente `e risolto in modo esatto nel seguente esempio nel quale `e mostrato come applicare il procedimento esatto della linea elastica nella suzioe di problemi di instabilit` a.

851

` 26. STABILITA

Esempio 26.2: Mensola con estremo appoggiato Determinare il carico critico per la trave di figura 26.33 avente sezione uniforme assumendo un modello piano.  Appena l’asse della trave perde la configurazione rettilinea il vincolo all’estremo D pu`o esercitare la sua reazione e il problema diviene iperstatico. In maniera analoga a quanto fatto nell’esempio precedente, adottiamo una variabile di comodo per facilitare la scrittura dell’equazione differenziale della linea elastica, in questo caso, rappresentata dalla reazione vincolare Q, come mostrato nella figura 26.34. Il momento flettente nella configurazione deformata si esprime come:

v (s)

D

C

B*

P

Q

Figura 26.34: Schema statico con reazione vincolare parametrica

Mx (s) = P · v (s) + Q · (l − s) Con le consuete notazioni si ricava l’equazione differenziale: v 00 + k 2 v = −

Q (l − s) EJx

che, come nell’esempio predente, `e formalmente (ma non fisicamente) non omogenea. La soluzione generale `e la seguente: v(s) = A1 · sin ks + A2 · cos ks −

Q (l − s) P

Imponendo le condizioni al contorno:   v (0) = 0 v 0 (0) = 0  v (l) = 0 si ottiene il consueto sistema lineare omogeneo parametrico in     A1 0 1 − Pl 1   1 A2  =  0 P Q sin kl cos kl 0

P:  0 0  0

La condizione di singolarit`a della matrice si traduce nell’equazione trigonometrica caratteristica: tan kl = kl che pu`o essere risolta graficamente cercando le intersezioni (nel semipiano delle ascisse positive) tra le funzioni:  y=x y = tan x

852

` 26.6. VERIFICHE DI STABILITA

come mostrato in figura 26.35. Una stima della prima intersezione positiva si pu`o ottenere usando l’asintoto verticale x = 23 π come approssimazione della funzione tangente e ottenendo: 2 3 kl ∼ = l = π ⇒ lEu ∼ 2 3 Si ottiene pertanto il valore previsto come limite del dominio per la posizione del flesso nella stima preliminare. Tramite determinazioni numeriche si pu`o migliorare l’approssimazione del risultato che con precisione alla quarta cifra vale: kl ∼ = 4.493π ⇒ lEu ∼ = 0.7l

y 5 4 3 2 1 0 0

1

π

2

2

3

4

5

6

x

3 π 2

Figura 26.35: Schema per la soluzione grafica dell’equazione tan kl = kl

26.6 Verifiche di stabilit` a 26.6.1 L’instabilit` a nelle strutture Il fenomeno dell’instabilit`a introduce un nuovo fenomeno che deve essere considerato nella verifica di resistenza delle strutture. Se una trave compressa `e sollecitata oltre il carico critico presenta infatti un comportamento che in molti casi non `e tollerato. L’esame completo della trave di Eulero, con la valutazione del suo comportamento postbuckling (argomento che non `e sviluppato nell’ambito del corso), mostra una curva carico assiale - spostamento trasversale massimo P − vmax caratterizzata da una biforcazione simile a quella osservata per i problemi discreti. In figura 26.36 `e riportato in ascisse il valore della  freccia laterale massima (vmax = v 2l ) all’equilibrio per una trave di Eulero ideale in funzione del carico di punta. Lo spostamento laterale della linea d’asse `e nullo (e unico) quando P < Pcr , la curva si biforca in corrispondenza del punto B quando `e raggiunta la condizione di instabilit` a P = Pcr . Dei tre rami che dipartono dalla biforcazione quello verticale tratteggiato B − E,

853

` 26. STABILITA

che rappresenta la configurazione di asse rettilineo, `e relativo a condizioni di equilibrio instabile mentre i rami continui definiscono forme inflesse stabili. Per carichi maggiori di quello critico, la trave tende quindi ad assumere la forma curva (a destra o a sinistra casualmente) e le sue sezioni devono quindi trasmettere anche caratteristiche flessionali. Si osserva che, come nei casi discreti, la parte iniziale dei rami stabili della curva di biforcazione `e praticamente orizzontale per cui anche deboli incrementi di carico oltre il valore critico generano spostamenti trasversali notevoli a cui corrispondono effetti flessionali significativi. Spesso il superamento delle condizioni di instabilit`a prelude quindi al collasso della trave per presso-flessione.

P E

P > Pcr Pcr B P < Pcr

vmax Figura 26.36: Grafico qualitativo della freccia massima dovuta al carico di punta nel problema ideale di Eulero con la biforcazione al carico critico

Non sempre tuttavia il fenomeno dell’instabilit`a `e di per s´e catastrofico e vi sono situazioni in cui alcuni elementi strutturali lavorano normalmente in condizioni di instabilit`a. In questi casi per`o, sono adottate soluzioni costruttive che limitano le frecce trasversali che la trave pu`o assumere, per esempio con l’introduzione di opportuni vincoli che intervengono solo a un certa distanza dalla posizione indeformata. In certe applicazioni il carico critico `e raggiunto in controllo di spostamento ovvero in modo che la posizione relativa degli estremi della trave con un sistema rigido. In questi casi il fenomeno dell’instabilit`a diventa autolimitante per il valore del carico di punta e pu`o essere vantaggiosamente sfruttato. Per chiarire questo concetto, consideriamo di inserire una trave rettilinea abbastanza flessibile in una morsa rigida le cui ganasce sono avvicinate progressivamente. In relazione al tipo di vincolo tra gli estremi della trave e le ganasce si determina una lunghezza libera di inflessione e quindi un carico critico. All’inizio della compressione, finch´e la trave rimane rettilinea, la forza di serraggio cresce linearmente (e rapidamente) con l’avvicinamento delle ganasce, raggiunto il carico critico la trave perde l’assetto rettilineo e assume la forma definita dal suo primo modo di instabilit`a. Dato che, come mostrato in figura 26.36, la curva di carico `e crescente anche dopo la biforcazione, il raggiungimento del carico critico in questo caso non determina nulla di catastrofico. In effetti, se superata la condizione critica si interrompe l’avvicinamento delle ganasce, la trave rimane inflessa ed esercita sulle ganasce una coppia di forze il cui modulo `e leggermente superiore al carico critico. Inoltre, se a partire da tale condizione si riallontanando le ganasce la curva di carico viene ripercorsa a ritroso e la trave torna alla fine nelle condizioni di partenza. Se invece si procede ad avvicinare le ganasce, la reazione vincolare rimane quasi costante e pari al valore del carico critico crescendo in modo lentamente con l’avvicinamento delle ganasce. Per una trave sufficientemente deformabile flessionalmente e realizzata con materiale alto snervante (condizioni tipiche delle molle), le ganasce possono essere avvicinate in misura significativa anche molto maggiore (di ordini di grandezza)

854

` 26.6. VERIFICHE DI STABILITA

rispetto all’avvicinamento che produce l’instabilit`a. L’intero processo avviene con il materiale che si comporta elasticamente per cui pu`o essere anche ripetuto. In questo modo sfruttando l’instabilit`a `e stato realizzato un sistema elastico non lineare che, sopra un definito livello di spostamento, reagisce con una forza praticamente indipendente dallo spostamento. Tale tipo di struttura pu`o avere utili applicazioni, in effetti su un principio simile lavorano per esempio le molle a tazza. ` peraltro evidente che, se la struttura opera in controllo di carico, ovvero con un carico E di punta che viene aumentato indipendentemente dallo spostamento del suo punto di applicazione, come potrebbe essere il caso del pilastro di sostegno di un serbatoio che viene riempito progressivamente di liquido, il raggiungimento dell’instabilit`a ha conseguenze completamente diverse. In tal caso se il carico critico `e superato, per equilibrare il peso imposto, `e necessario che la trave si deformi molto in direzione laterale e ci`o pu`o produrre eccessive sollecitazioni flessionali le quali, anche prima del raggiungimento dell’equilibrio, possono portare il materiale in condizioni non ammissibili. Gli effetti dell’instabilit`a di un elemento strutturale devono pertanto essere valutati anche in relazione al comportamento complessivo della struttura, al grado di ridondanza dei vincoli (iperstaticit`a) e alle modalit`a con cui i carichi sono applicati. Questa problematica si manifesta in modo evidente nella verifica delle strutture reticolari di aste la cui analisi statica porta alla determinazione delle forze normali agenti sulle singole aste. Per i tiranti la verifica allo snervamento `e sufficiente mentre per i puntoni `e ora necessario confrontare anche il modulo della forza normale con il carico critico allo scopo di verificare se l’elemento `e o meno stabile. Se la struttura reticolare `e isostatica tutti gli elementi sollecitati sono necessari perch´e la struttura svolga la sua funzione strutturale e quindi l’instabilit`a anche di un singolo puntone non `e tollerabile. Se la struttura `e iperstatica `e viceversa possibile che l’instabilit`a di uno (o pochi) puntoni possa essere tollerata. Si osservi tuttavia che, in questo caso, `e necessario sviluppare una completa analisi non lineare post-buckling che non `e argomento del corso.

26.6.2 La verifica delle travi compresse Nella verifica di un elemento compresso su cui agisce la forza normale N < 0 `e quindi necessario considerare le seguenti condizioni: • snervamento: |σzz | = σeq = • stabilit`a: |σzz | =

|N | A

|N | A

< σam

x < π 2 lEJ 2 A Eu

Ricordando che il raggio d’inerzia (vedi D) rappresenta il semiasse dell’ellisse centrale d’inerzia: ρ2x =

Jx A

la condizione per la verifica alla stabilit`a diventa: |σzz | < π 2 E

ρ2x 2 lEu

Introducendo il parametro adimensionale λx =

lEu ρx

(26.12)

855

` 26. STABILITA

chiamato snellezza (slenderness), la relazione si semplifica nella seguente: |σzz | <

π2E λ2

(26.13)

Le due condizioni per la verifica degli elementi compressi possono essere raccolte nel grafico generale mostrato in figura 26.37 dove sono riportati con linee tratteggiate i luoghi che corrispondono alle condizioni di snervamento e di instabilit`a.

σ zz

σ zz =

π 2E λ2

σ zz = σ am

λ0

λ

Figura 26.37: Condizione limite di ammissibilit`a per le travi compresse

I punti del primo quadrante che si trovano sotto a entrambe le curve definiscono la regione di ammissibilit`a in cui il materiale `e in campo elastico e il puntone rettilineo `e in condizioni di stabilit`a. Il valore di snellezza in cui i due criteri producono la stessa previsione ovvero: r E λ0 = π (26.14) σam `e considerato il discrimine tra i puntoni tozzi (λ < λ0 ) e i puntoni snelli (λ > λ0 ). I primi sono previsti cedere per snervamento i secondi per instabilit`a. Si pu`o osservare che λ0 dipende solo dalle propriet`a di rigidezza e di resistenza del materiale. Nell’ambito di una stessa classe di materiali (quindi a parit`a di E), i materiali con elevata resistenza hanno λ0 basso per cui la loro verifica `e generalmente dominata dalla condizione di instabilit`a. Nel caso di puntoni in acciaio si ha: λ0 ∼ 100 per le leghe a basso contenuto di carbonio (acciai dolci o inox austenitici) mentre λ0 ∼ 40 per gli acciai legati ad alta resistenza (come gli acciai armonici). Le condizioni per il raggiungimento dello snervamento e dell’instabilit`a possono essere considerate limiti asintotici per cui, come mostrato in figura 26.37, quando la snellezza `e vicina a λ0 il dominio effettivo di ammissibilit`a ha un contorno inferiore a entrambe le curve limite. Per tali puntoni la plasticit`a gioca un ruolo anche per la stabilit`a e si manifesta un fenomeno sinergico che pu`o essere modellato. Le normative per la stabilit`a degli elementi in acciaio suggeriscono espressioni con cui `e possibile approssimare accuratamente la curva limite anche in questa zona. Per semplicit`a, nell’ambito del presente corso `e considerato sufficiente effettuare la verifica separatamente per i due fenomeni determinando il relativo coefficiente di sicurezza e assumendo il minore dei due.

26.6.3 Considerazioni sulla tridimensionalit` a Finora sono stati esaminati solo problemi di stabilit`a nel piano, `e per`o necessario sottolineare che questa ipotesi in molte situazioni non `e giustificata e pu`o portare a previsioni completamente sbagliate. Assumere una deformata piana implica infatti di prevedere implicitamente

856

` 26.6. VERIFICHE DI STABILITA

l’intervento di vincoli che impediscono all’asse della trave di uscire dal piano di modellazione. Come tutti i vincoli, anche i vincoli di simmetria hanno un effetto stabilizzante per cui la loro presenza pu`o produrre una significativa (e pericolosa) sovrastima del carico critico. In termini fisici si pu`o affermare che per quanto risultino rispettate tutte le condizioni per applicare un modello piano nella soluzione del problema di statica, non vi sono ragioni per cui la deformata instabile della struttura debba essere piana. La situazione `e illustrata nel seguente esempio. Esempio 26.3: Mensola IPE Determinare il massimo carico assiale applicabile alla la mensola di acciaio in figura 26.38 avente sezione IPE 100 UNI 5398-78 con i seguenti dati: E = 206 GPa, σam = 450 MPa, A = 10.31 cm2 , ρx = 4.07 cm, ρy = 1.24 cm, l = 1.2 m (queste unit`a sono tipiche in un manuale tecnico).

l P

z

x

z

y

a)

y

b)

Figura 26.38: Mensola di acciaio compressa: ingrandimento della sezione

Jy < Jx

a) vista di fianco, b)

Il massimo valore del carico assiale per lo snervamento `e Pam = Aσam = 464 kN Se consideriamo il problema nel piano della figura 26.38a), il carico critico sarebbe: Pcr = π 2

EJx = 603 kN (2l)2

La trave sembrerebbe quindi tozza e il carico massimo sopportabile dominato dallo snervamento del materiale. Non vi `e tuttavia nessuna ragione per assumere che la deformata si conservi nel piano y − z, nel perdere la stabilit`a la trave potrebbe scegliere infatti di inflettersi nel piano x − z. Il carico critico calcolato in questa ipotesi `e: Pcr = π 2

EJy (2l)2

= 56.0 kN

Nel piano y − z si ha infatti la minima rigidezza flessionale ed `e evidente che raggiunto un carico assiale di 56.0 kN la mensola si instabilizzer`a in tale direzione. Concludiamo quindi che il massimo carico applicabile `e 56.0 kN e prevediamo una perdita di instabilit`a nel piano x − z. Nell’esempio 26.3 i vincoli e i carichi consentono alla trave di deformarsi in modo libero in entrambi i piani principali di flessione per cui `e facilmente prevedibile che l’instabilit` a si manifesti nella direzione in cui la rigidezza `e pi` u bassa. In casi come questi `e quindi opportuno che la trave non abbia una grande differenza di rigidezza flessionale nelle sue direzioni principali

857

` 26. STABILITA

e quindi la forma ottimale dei puntoni snelli `e tubolare. Il prossimo esempio illustra una condizione di instabilit`a meno banale. Esempio 26.4: Stabilit`a di una biella Per la biella rappresentata in figura 26.39 determinare il migliore rapporto tra i semiassi dell’ellisse centrale d’inerzia della sua sezione per ottenere la massima stabilit`a in compressione. Sez. H − H

H C

D

a)

z

x

y

y

H

b)

z

x

l Figura 26.39: Biella con il tipico schema di collegamento alle estremit`a: a) vista di fianco, b) vista dall’alto

In questo caso l’azione dei vincoli `e diversa nei due piani. Come illustrato in figura 26.40, il comportamento della biella `e riconducibile a una trave di Eulero nel piano y − z, con lunghezza di inflessione pari a l, mentre nel piano x − z le estremit`a sono vincolate in modo da non inclinarsi per cui la lunghezza libera di inflessione `e l/2.

Pcr1

D

C z

Pcr1

a)

y

Pcr 2

D

C z

Pcr 2

b)

x Figura 26.40: Schemi per la perdita della stabilit`a della biella nei due piani principali d’inerzia: a) nel piano y − z vista di fianco e b) nel piano x − z vista dall’alto

Pertanto si ha: Pcr1 = π 2

EJx EA = π 2 2 ρ2x ; 2 l l

Pcr2 = π 2

EJy 2 EA 2  = π 2 4ρy l 2 l 2

Se vogliamo impedire che vi sia una direzione preferenziale di instabilit`a `e necessario

858

` 26.6. VERIFICHE DI STABILITA

imporre l’uguaglianza dei due carichi critici da cui risulta: ρx = 2ρy e quindi: Jx = 4Jy

Il seguente esempio dimostra l’importanza dei fori da centro per le forature eseguite con punte da trapano lunghe. Esempio 26.5: Stabilit`a di una punta di trapano Stimare di quanto pu`o essere aumentata la forza di penetrazione che si pu`o esercitare su una punta da trapano che fora una superficie piana se la foratura `e precedentemente preparata con un foro da centro.  Se si vuole considerare l’effettiva elicoidalit`a della punta, l’analisi della stabilit`a `e un problema tridimensionale piuttosto complesso. Per semplificare, trascuriamo l’effetto irrigidente dei profili elicoidali e assumiamo come elemento strutturale solo l’anima circolare della punta. Con questa ipotesi, che `e anche cautelativa, l’ellisse d’inerzia `e un cerchio per cui non si identificano direzioni preferenziali di perdita della stabilit`a. Sempre per semplicit`a, trascuriamo anche la variazione di rigidezza della punta in funzione della posizione assiale. Gli schemi di foratura nei due casi sono schematizzati in figura 26.41.

a)

b)

Figura 26.41: Schemi di perdita della stabilit`a di una punta da trapano: a) foratura su una superficie non preparata, b) foratura dopo l’esecuzione di un foro da centro.

Se il foro `e eseguito senza preparazione, la punta quando arriva a contatto con la superficie non risente di significativi vincoli laterali per cui si composta come una mensola e la sua lunghezza di libera di inflessione `e due volte la sua lunghezza 2l. Nel caso b) invece il foro da centro impedisce all’estremo della punta di spostarsi fuori asse per cui lo schema di vincolo `e riconducibile a un appoggio e la lunghezza libera di inflessione `e 0.7l. Data la

859

` 26. STABILITA

dipendenza dal quadrato della snellezza, si ottiene: Pcr,b = 8Pcr,a ovvero che il foro da centro ha prodotto un incremento di stabilit`a di quasi un ordine di grandezza. In alcune strutture snelle soggette a compressione sono impiegati elementi al solo scopo di aumentare la stabilit`a. Consideriamo come esempio il traliccio di figura 26.42 e supponiamo che sia soggetto a un carico di compressione. Si verifica che gli elementi che trasmettono il carico sono i montanti mentre gli elementi trasversali, chiamati rompitratta, sono di fatto scarichi. I rompitratta sono per`o di fondamentale per il funzionamento del traliccio in quanto impediscono ai montanti di instabilizzarsi con lunghezze di inflessione pari alla loro lunghezza. I rompitratta svolgono infatti la funzione di limitare la lunghezza libera di inflessione dei montanti e quindi aumentano la capacit`a portante della struttura anche se non trasmettono direttamente il carico.

rompitratta montante

Figura 26.42: Schema di traliccio

26.7 Effetto dei carichi trasversali (*) Finora sono state considerate travi rettilinee sollecitate da carichi centrati sull’asse che, in condizioni di stabilit`a, producono solo compressone. In queste condizioni lo spostamento trasversale della trave `e nulla fino al raggiungimento dell’instabilit`a e non vi sono effetti flessionali prima del superamento del carico critico, come mostrato nella figura 26.36. Spesso l’elemento compresso `e per`o soggetto anche a carichi trasversali oppure il carico di punta non `e perfettamente centrato per cui le deflessioni e le conseguenti sollecitazioni flessionali sono presenti anche prima del raggiungimento del carico critico. In queste circostanze il primo passo per la verifica consiste nell’eseguire la solita analisi basata sulla sovrapposizione degli effetti in cui i due effetti (prodotti dalla forza normale e dalla flessione) sono considerati separatamente. Tuttavia se le trave `e particolarmente flessibile e il materiale `e alto snervante (come nel caso delle molle) `e possibile che vi sia un effetto sinergico delle due caratteristiche di sollecitazione per cui la forza normale contribuisce alla deflessione. In figura 26.43 `e illustrato il comportamento di una trave snella e flessibile sottoposta a un carico trasversale pi` u un carico di punta.

860

26.7. EFFETTO DEI CARICHI TRASVERSALI (*)

p (s) B

a)

v0 B p (s) P B

v0 B

b)

vB P

Pcr

c)

vB Figura 26.43: Trave snella presso-inflessa: a) carico trasversale da solo e relativa deformate, b) l’introduzione del carico assiale produce un incremento anche della freccia flessionale (effetto di ordine 2), c) andamento della curva che fornisce il carico assiale in funzione dello spostamento massimo in confronto con la situazione di carico trasversale nullo.

Per fissare le idee, consideriamo di applicare alla trave prima il carico laterale e quindi il carico assiale ricordando che, in ipotesi di elasticit`a del materiale, il risultato finale non dipende dalla sequenza di caricamento. In presenza del solo carico laterale p (s) lo spostamento trasversale, che `e indicato con v0 (s), pu`o essere ottenuto con i soliti metodi (linea elastica o integrale di Mohr) sulla base dell’andamento del momento flettente. Se la trave non `e molto rigida flessionalmente, lo spostamento trasversale prodotto da carichi trasversali produce un significativo braccio per il carico assiale successivamente applicato e quindi anche quest’ultimo contribuisce a incrementare il momento flettente e quindi la freccia finale che `e indicata con ` evidente che nell’ambito dei corpi poco deformabili tale effetto sinergico `e trascurabile v (s). E e diventa importante solo per travi snelle. Come si vede, la curva di carico assiale-spostamento massimo `e diversa da quella prevista nel caso di carico assiale puro: • la curva non parte dall’origine • non vi `e nessun tratto perfettamente verticale anche se la prima parte `e molto ripida • scompare una vera e propria biforcazione e quindi un evidente fenomeno di instabilit` a • quando il carico assiale approssima il carico critico, lo spostamento trasversale tende per` o a diventare molto marcato e generalmente le conseguenti tensioni non sono pi` u tollerabili • il verso dello spostamento trasversale della trave al raggiungimento del carico critico non u casuale ma `e indirizzato nel verso degli spostamenti prodotti dal carico iniziale. `e pi`

861

` 26. STABILITA

Per quanto una analisi completa del fenomeno richiederebbe un approccio non lineare (almeno per i grandi spostamenti), `e stato verificato che lo spostamento trasversale pu`o essere ragionevolmente approssimato dalla seguente relazione (di natura semiempirica) che pu`o essere usata per stimare l’effetto sinergico del carico assiale sulla deformata flessionale: v (s) ≈

v0 (s) 1 + PNcr

La relazione dimostra che l’effetto amplificante del carico assiale si manifesta solo quando la forza normale (che nella relazione deve essere riportata con il suo segno) `e una frazione significativa del carico critico. Quando N → −Pcr la relazione indica che lo spostamento trasversale (e quindi anche il momento flettente) tende a infinito e riproduce l’asintoto orizzontale previsto dalla soluzione elementare di Eulero. La relazione precedente `e ancora valida, sia pure con le medesime approssimazioni, anche se la forza assiale produce trazione (N > 0). In questo caso il carico assiale tende a ridurre la freccia dovuta al carico trasversale perch´e incrementa il denominatore. Nelle travi snelle, pertanto, una forza normale positiva ha per la flessione un effetto irrigidente (stress stiffening) mentre una forza normale di compressione ha una azione deformante (stress softening)

26.8 Metodi approssimati per la determinazione del carico critico (*) Spesso il tipo di vincolo o di carico `e diverso dai casi elementari esaminati oppure la trave ha sezione variabile e non `e ottenibile una lunghezza libera di inflessione in modo da poter ricondurre immediatamente il problema a una trave di Eulero equivalente. La soluzione basata sull’imposizione dell’equilibrio in condizioni deformate `e un metodo generale ma spesso, come per tutti i procedimenti basati sulla linea elastica, oneroso dal punto di vista computazionale. Spesso `e per`o sufficiente ottenere una ragionevole approssimazione del carico critico perch´e questo non sempre costituisce un limite stringente alla verifica. In molto casi pratici una precisione relativa del (20 − 30)% `e pi` u che sufficiente e l’approccio approssimato per la stima del carico critico basato sull’approccio energetico descritto in questo paragrafo `e quindi molto utile. Per illustrarlo riprendiamo il caso elementare rappresentato figura 26.44 della mensola compressa la cui soluzione esatta `e nota e per il quale valutiamo il carico critico con il metodo energetico. Δ B

D

v (s)

C

θ

ds

P

B* D

a)

ds

P



*

b)

Figura 26.44: Mensola caricata di punta: a) schema della deformata, b) proiezione assiale di un elemento infinitesimo di linea

Ipotizziamo che, con il carico assiale applicato, un agente perturbante, la cui causa non `e rilevante, modifichi la forma della linea d’asse. Supponiamo inoltre che tale perturbazione sia

862

26.8. METODI APPROSSIMATI PER LA DETERMINAZIONE DEL CARICO CRITICO (*)

compatibile con i vincoli, interni ed esterni, e sia di piccola entit`a in modo che la deformata della trave possa essere adeguatamente descritta con i consueti modelli della meccanica dei corpi deformabili. Nel caso in figura 26.44 la perturbazione della linea d’asse `e definita da una funzione v (s) che, per rispettare i vincoli di congruenza interni, deve avere una sufficiente regolarit`a (continua e derivabile) e, per rispettare il vincolo esterno di incastro, deve essere nulla e con tangente nulla nell’origine (v (0) = v 0 (0) = 0). La presenza di tale perturbazione si giustifica energeticamente (quindi si pu`o autosostenere) solo se il bilancio energetico `e favorevole, ovvero se, in corrispondenza della nuova configurazione, il potenziale totale Π `e inferiore rispetto alla condizione di asse rettilineo. L’approccio energetico per i problemi continui `e pertanto fondato su basi analoghe a quello impiegato nei problemi con un numero finto di gradi di libert`a. Vi `e per`o una significativa differenza formale perch´e, in questo caso, il potenziale totale Π non `e una semplice funzione di un numero finito di coordinate lagrangiane ma `e un funzionale Π (v) che dipende dagli infiniti gradi di libert`a della deformata, ovvero dalla funzione v (s). Nell’ipotesi che la funzione v (s) sia nota, `e peraltro possibile valutare la variazione di potenziale, o il semplice potenziale se si assume, come `e consuetudine, che il suo valore sia nullo quando la trave `e flessionalmente indeformata v (s) = 0: Π (v) = U (v) − L (v) L’energia elastica richiesta per consentire la distorsione v (s) `e data da: Zl U (v) =

2 1 EJx v 00 (s) ds 2

0

mentre il lavoro fatto dalle forze esterne nella distorsione stessa `e esprimibile come: L (v) = P · ∆ dove ∆ `e lo spostamento assiale del punto D di applicazione del carico che si verifica in conseguenza della distorsione (figura 26.44). Si deve ricordare che lo spostamento ∆ del punto D si manifesta mentre il carico P `e agente e, di conseguenza, nell’espressione del lavoro non compare il solito fattore 1/2. Nel caso esaminato, dato che siamo interessati alla sola determinazione del carico critico e quindi lo spostamento trasversale della linea d’asse v (s) pu`o assunto piccolo, la forza assiale nei conci deformati pu`o essere considerata sempre data da N = −P . Lo spostamento assiale di D non `e quindi influenzato dalla forza assiale ma `e dovuto solo all’inclinazione θ dei conci della trave. Sempre per la piccolezza della funzione v (s) `e lecito assumere: θ (s) = v 0 (s) per cui la riduzione della proiezione del concio infinitesimo generico di estensione assiale ds nella direzione dell’asse indeformato `e data da: θ2 d∆ = (1 − cos θ) ds ∼ = ds 2 L’espressione del lavoro fatto dal carico diventa quindi: Zl L (v) = P ·

Zl d∆ = P ·

0

1 0 2 v (s) ds 2

0

863

` 26. STABILITA

Il funzionale finale che esprime il potenziale totale diventa quindi: Zl Π (v) =

2 1 EJx v 00 (s) ds − P · 2

0

Zl

1 0 2 v (s) ds 2

0

Se tale quantit`a `e positiva, la configurazione iniziale `e stabile mentre se `e negativa l’equilibrio `e instabile. Il problema `e quindi spostato alla individuazione della funzione v (s) da usare nell’espressione del funzionale da cui dipende il segno del risultato. Il caso della mensola in esame `e noto, per cui sappiamo che, in condizioni di perdita della stabilit`a, la trave tende a inflettersi assumendo la forma di un quarto di arco di coseno. Nel seguente esempio `e analizzato il funzionale in tale condizione. Esempio 26.6: Soluzione esatta Con riferimento alla figura 26.44, determinare il potenziale totle assumendo la deformata esatta che si manifesta in condizione di instabilit`a:  πs  v (s) = a · 1 − cos 2l  Come discusso, la deformata critica `e definita a meno di un fattore moltiplicativo arbitrario (nell’espressone indicata rappresentato dall’ampiezza a) il quale non ha effetto sulla forma della linea d’asse ma solo sull’entit`a dello spostamento il quale `e effettivamente indeterminato nelle condizioni di instabilit`a. Con tale scelta per v (s) si ottiene: v 0 (s) = a

 πs  π ; sin 2l 2l

v 00 (s) = a

 πs  π2 cos 4l2 2l

per cui, come prevedibile, lo stesso fattore moltiplicativo arbitrario a `e presente in tutte le derivate della funzione. Il potenziale diventa quindi: Zl Π (v) =

 2 Zl   πs 2  πs 2 1 π 1 π EJx a 2 cos ds − P · a sin ds 2 4l 2l 2 2l 2l

0

0

 π4 π 2 2 π 2 a2 2 2 EJ a − P a = π EJx − 4P l2 x 3 3 64l 16l 64l e, come era da attendersi, `e una funzione quadratica del fattore a.Il coefficiente del termine a2 ha il segno della derivata seconda del potenziale che coincide con il segno della quantit`a: Π (v) =

π 2 EJx − 4P l2 Il potenziale presenta pertanto un minimo locale (e quindi la configurazine indeformata `e stabile) se tale quantit`a `e positiva mentre il potenziale ha un massimo locale se tale quantit`a `e negativa (configurazione indeformata instabile). Il discrimine, che fornisce la condizione di carico critico, si ottiene quindi imponendo nulla la derivata seconda e quindi: Pcr = π 2

864

EJx EJx 2 = 2.467 l2 (2l)

26.8. METODI APPROSSIMATI PER LA DETERMINAZIONE DEL CARICO CRITICO (*)

Possiamo concludere che se nel procedimento descritto `e usata come deformata perturbata quella che effettivamente si verifica nell’instabilit`a (a meno di un fattore moltiplicativo arbitrario), la condizione che deriva dall’annullamento del coefficiente del termine quadratico del potenziale fornisce il carico critico esatto. In formule si ha quindi: Rl Π=0



Pcr =

0

2 1 00 2 EJx (v (s)) ds

Rl 0

1 2

(v 0 (s))2 ds

Dal punto di vista operativo per`o questo procedimento mostra una criticit`a: come pu`o essere applicato se la forma assunta dalla linea d’asse in condizioni di instabilit`a non `e nota? In pratica u difficile da ottenersi della cono`e infatti presumibile che la conoscenza dell’autovettore sia pi` scenza dell’autovalore corrispondente. L’utilit`a pratica del metodo proposto consiste nel fatto che una stima del carico critico si ottiene anche assumendo una ragionevole approssimazione della deformata (dell’autovettore). Per rendersene conto `e utile il seguente esempio. Esempio 26.7: Soluzione approssimata con deformata parabolica Applicare la procedura energetica nel caso in cui si assuma come deformata della linea d’asse una parabola.  Per rispettare le condizioni di vincolo e la congruenza e garantire che la funzione di spostamento che rappresenta la perturbazione sia definita a meno di una costante moltiplicativa arbitraria assumiamo: v (s) = a ·

 s 2 l

Con questa parametrizzazione il coefficiente moltiplicativo a rappresenta fisicamente lo spostamento massimo della trave. Il calcolo dei termini del potenziale `e elementare: Zl U (v) =

1 EJx 2



2a l2

2 ds = 2

EJx 2 a l2

0

Zl L (v) = P

1  as 2 2 a2 2 2 ds = P 2 l 3 l

0

Sempre imponendo l’annullamento del coefficiente del termine quadratico a2 , si ottiene il carico critico approssimato: EJx Pcr = 3 2 l

Osserviamo che l’espressione ottenuta per il carico critico nell’esempio precedent `e dimensionalmente esatta e contiene la corretta dipendenza da tutte le grandezze del problema. Il valore `e per`o sovrastimato e questo esisto `e sistematico e facilmente giustificabile. Assumere infatti una deformata diversa da quella che effettivamente si manifesta nell’instabilit`a equivale a condizionare la trave a deformarsi in un modo particolare, ovvero a introdurre, in modo indiretto, forme di vincoli interni alla trave. Come tutti i vincoli, anche questi hanno un effetto stabilizzante e quindi producono una sovrastima del carico critico.

865

` 26. STABILITA

L’esempio mostra quindi che assumendo per la deformata una generica funzione v (s) in generale si ha: Rl 1 2 00 2 EJx (v (s)) ds Pcr 6 0 l R 1 2 0 2 (v (s)) ds 0

con il valore minimo che `e il carico critico esatta che si ottiene quando viene usata la forma che definisce il primo modo di perdita della stabilit`a. La relazione precedente offre anche vari suggerimenti che permettono di effettuare stime pi` u accurate (o approssimazioni successive) del carico critico. L’espressione dell’energia elastica immagazzinata nella trave inflessa pu`o essere espressa anche tramite la relazione: Zl 1 (Mx (s))2 U= ds 2 EJx 0

in cui `e esplicitato il momento flettente invece della curvatura. Nel caso in cui il metodo energetico sia applicato usando la funzione v (s) corretta, il calcolo dell’energia elastica con le due formule porta allo stesso risultato e il carico critico previsto `e lo stesso. Vi possono invece essere differenze nel calcolo dell’energia, e quindi del carico critico, quando l’espressione usata per v (s) `e approssimata. Dato che si ha genralemnte una maggiore confidenza nella previsione della funzione spostamento rispetto alla sua derivata seconda, la stima dell’energia che si ottiene integrando il momento `e di solito migliore e conseguentemente risulta pi` u corretto il valore del relativo carico critico. Il seguente esempio dimostra questa affermazione. Esempio 26.8: Energia ottenuta con il momento Applicare la procedura energetica nel caso in cui si assume una parabola come deformata della linea d’asse e si valuti l’energia sulla base del momento invece della curvatura.  Assumendo lo stesso modello per la perturbazione: v (s) = a ·

 s 2 l

il momento flettente dovuto al carico di punta `e dato da: Mx (s) = −P · (v (l) − v (s)) = −

 aP · l2 − s2 2 l

e quindi la curvatura stimata dal momento `e: kx (s) = −

aP l2 EJx

· l2 − s2



Questa espressione `e pi` u verosimile della precedente approssimazione in cui la curvatura era assunta costante, per esempio prevede correttamente l’annullamento della curvatura all’estremit`a s = l. L’espressione dell’energia diventa: Zl U= 0

866

· l2 − s2 1 − aP l2 2 EJx

2 ds =

4 a2 P 2 l 15 EJx

26.8. METODI APPROSSIMATI PER LA DETERMINAZIONE DEL CARICO CRITICO (*)

da cui il potenziale totale: 2 a2 4 a2 P 2 l 2 Pl −P Π= = a2 15 EJx 3 l 3 EJx



2 EJx P− 2 5 l



Imponendo, come nell’esempio precedente, l’annullamento del coefficiente che moltiplica a2 si ottiene: EJx Pcr = 2.5 2 l x Si osservi che il valore esatto che `e Pcr = 2.467 EJ l2

La sovrastima rispetto al valore esatto in questa valutazione `e solo del 1.3% contro il 22% del caso precedente. Il semplice miglioramento della previsione dell’energia elastica ha prodotto una valutazione del carico critico che, da un punto di vista tecnico, pu`o essere considerata soddisfacente. La consapevolezza che il metodo energetico approssimato determina necessariamente una sovrastima del carico critico permette di applicare anche procedimenti che permettono il miglioramento della stima (successive approssimazioni) come illustrato nel seguente esempio. Esempio 26.9: Affinamento del modello approssimato Aumentare la precisione di stima del carico critico della mensola con il metodo energetico con una opportuna scelta della funzione di deformazone.  Usiamo una approssimazione polinomiale di grado superiore con le solite limitazioni sulle condizioni di compatibilit`a. Un modello deformativo descritto da una espressione del tipo:    s 3  s 2 v (s) = a · + α· l l in cui α `e un parametro adimensionale che pu`o essere scelto opportunamente, `e potenzialmente migliorativo rispetto al caso precedente perch´e lo contiene come caso particolare (α = 0). Impostando il calcolo come nell’esempio precedente si ottiene una stima del carico critico per ogni valore di α, formalmente: Pcr (α). Il procedimento `e facilmente programmabile con un calcolatore che permette di valutare gli integrali in forma numerica e quindi di ottenere una tabulazione della funzione Pcr (α). Appare evidente che la soluzione migliore u basso. Il lettore interessato pu`o verificare che `e quella che determina il carico critico pi` per il caso in esame valutando l’energia tramite il momento flettente la miglior stima si ha per α = −0.283 e che con tale valore si ha: Pcr = 2.468

EJx l2

una previsione affetta da una sovrastima di solo 0.03%. I seguenti esercizi ed esempi evidenziano le potenzialit`a del metodo energetico approssimato.

867

` 26. STABILITA

Esercizio 26.9: Mensola a due diametri La mensola a due diametri, in cui la parte a diametro maggiore ha momento d’inerzia assiale J doppio della parte a diametro minore, pu`o essere vincolata nei due modo rappresentati in figura 26.45. Usando il metodo energetico verificare che i carichi critici (approssimati) sono: EJx EJx Pcr,a = 2.07 2 ; Pcr,b = 1.35 2 l l

P

P

l/2

J /2

J

l/2

J

J /2

a)

b)

Figura 26.45: Mensola a due diametri: a) irrigidimento nella zona di incastra b) irrigidimento nella zona di estremit`a

Esercizio 26.10: Mensola con sezione variabile Determinare il carico critico della mensola in figura 26.46 avente lunghezza l e una sezione circolare con diametro variabile lungo lasse in modo che il momento d’inerzia assiale `e dato dalla relazione:  s Jx (s) = J · 1 − 2l P

s

Figura 26.46: Mensola caricata di punta con sezione uniformemente variabile

868

26.8. METODI APPROSSIMATI PER LA DETERMINAZIONE DEL CARICO CRITICO (*)

Nota. Con un modello di deflessione cubica del tipo:    s 3  s 2 v (s) = a · + α· l l si ottiene il valore minimo per α = −0.19 a cui corrisponde: Pcr = 2.06 EJ . l2

Esempio 26.10: Mensola con carico distribuito Valutare la condizione di criticit`a per una mensola di figura 26.47 caricata assialmente in modo uniformemente distribuito (schema di una colonna soggetta al peso proprio). q

s

Figura 26.47: Mensola verticale soggetta a un carico assiale uniformemente distribuito

Il calcolo del lavoro fatto dalla forza esterna in questo caso `e leggermente pi` u complicato. Considerando un elemento di trave di lunghezza ds posto a distanza s1 dall’incastro, il lavoro elementare fatto dalla forza esterna localmente agente qds vale infatti: dL = qds · ∆ (s1 ) dove ∆ (s1 ) `e lo spostamento assiale della sezione dovuto alla perturbazione e quindi dato da: Zs1 1 0 2 ∆ (s1 ) = v (s) ds 2 0

Il lavoro complessivo fatto del carico risulta quindi: Zl L= 0

q ∆ (s1 )qds1 = 2

Z l Zs1 0

2 v 0 (s) dsds1

0

Usando la solita rappresentazione cubica con il parametro ottimale α = −0.4 si ottiene il risultato: EJ qcr = 7.84 3 l La soluzione analitica, che in questo caso si pu`o ottenere con un procedimento piuttosto complesso che sfrutta anche delle funzioni di Bessel, fornisce la soluzione: qcr = 7.83

EJ l3

869

Parte IV

Appendici

871

Appendice A

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali In questa appendice sono richiamate le nozioni fondamentali che consentono di trattare le grandezze geometriche e fisiche in forma matematica. Dopo l’introduzione dei sistemi di riferimento cartesiani sono illustrate le fondamentali propriet`a e le operazioni elementari sui vettori. Sono richiamate le regole che consentono di rappresentare le componenti di un vettore in diversi sistemi di riferimento cartesiani. I paragrafi 8 e 9 sono dedicati alle propriet`a elementari dei tensori e alle regole per valutare la loro rappresentazione in diversi sistemi di riferimento. Nell’ultimo paragrafo sono fornite indicazioni utili per l’impiego di sistemi di coordinate non cartesiane, in particolare cilindriche e sferiche.

A.1 Sistemi cartesiani ortonormali destrorsi L’adozione di un sistema di coordinate consente di rappresentare grandezze geometriche e fisiche anche di natura complessa (vettori, tensori) sotto forma di insiemi ordinati di quantit` a scalari, dette componenti. La rappresentazione in componenti rende possibile l’uso delle regole dell’Algebra e dell’Analisi Matematica nella soluzione dei problemi in cui le grandezze vettoriali sono impiegate. Una delle caratteristiche fondamentali che rende tale una legge fisica consiste nell’indipendenza dall’osservatore e dal sistema di coordinate associato. Tale invarianza, detta anche principio di relativit` a, conferisce oggettivit`a alla interpretazione dei fenomeni fisici perch´e implica che osservatori diversi concordino sulla previsione del fenomeno che si verificher`a. Dal principio di relativit`a consegue la possibilit`a di scegliere osservatore e sistema di coordinate in modo conveniente allo scopo di rendere pi` u semplice la descrizione matematica del fenomeno. Proprio per questa generalit`a, `e per`o opportuno convenire su un sistema di coordinate che, salvo indicazioni contrarie, sar`a considerato di definizione. Quando non diversamente specificato, il sistema di coordinate sar`a Cartesiano Ortonormale Destrorso (C.O.D.). Conseguentemente, molte relazioni ottenute tra le componenti delle grandezze fisiche (in particolare quelle vettoriali) sono formalmente valide solo in questo riferimento e quindi, adottarne uno diverso pu` o richiedere l’adeguamento delle formule, anche se solo per il valore di qualche segno. Il sistema C.O.D. usato per rappresentare lo spazio tridimensionale (talvolta chiamato spazio Euclideo) `e definito da tre versori (vettori adimensionali di modulo unitario) mutuamente perpendicolari. La posizione relativa dei versori non `e completamente arbitraria, dovendo essere soddisfatte le seguenti regole: • l’origine (punto O) pu`o essere fissata arbitrariamente: vi sono ∞3 possibilit`a;

873

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

• il primo versore, generalmente indicato con il simbolo ˆi, ha direzione e verso arbitrari (l’accento circonflesso al posto della freccia indica un versore), per questa scelta vi sono ∞2 possibilit` a (tante quante sono le posizioni che pu`o assumere la punta di ˆi che appartiene alla superficie sferica di centro O e raggio unitario); • il secondo versore (simbolo ˆj) deve essere perpendicolare a ˆi, di questi versori ve ne sono ∞1 tanti quanti i punti di una circonferenza di raggio unitario con centro O giacente su un piano la cui normale `e ˆi; ˆ deve essere perpendicolare sia a ˆi sia a ˆj. Il fatto che i versori • il terzo versore (simbolo k) formino, a due a due, angoli retti si indica dicendo che il sistema `e Cartesiano Ortogonale, il fatto che essi abbiano la medesima lunghezza (unitaria) conferisce al sistema la caratteristica di normalit` a. Si pu`o osservare che vi sono solamente due possibilit`a per il terzo versore, corrispondenti ai versi della retta normale al piano passante per O e contenente le direzioni di ˆi e ˆj. Il sistema `e destrorso (right-handed) se il versore kˆ `e scelto in uno dei seguenti modi equivalenti: 1. la punta del versore kˆ appartiene al semispazio dal quale si vede il secondo versore ˆj ottenuto come rotazione antioraria (positiva) del primo versore ˆi di 90◦ ; 2. il versore kˆ ha il verso di avanzamento di una vite destra fatta ruotare nel senso con cui ˆi si sovrappone a ˆj percorrendo l’angolo minimo (di 90◦ ). Al posto della vite pu`o essere usata anche la mano destra: incurvando le quattro dita dall’indice al mignolo nel senso di far sovrapporre ˆi a ˆj percorrendo l’angolo minimo, il pollice ˆ risulta equiverso a k; 3. disponendo pollice indice e medio della mano destra in modo che siano a due a due ˆ perpendicolari: pollice, indice e medio sono equiversi rispettivamente a ˆi, ˆj e k. I versori cos`ı ottenuti: ˆi, ˆj e kˆ sono detti versori base del sistema di riferimento. Nella figura A.1 ` opportuno ricorda`e fornita una tipica rappresentazione assonometrica di un sistema C.O.D.. E

Figura A.1: Sistema cartesiano ortonormale destrorso

re che il concetto di verso di rotazione, orario (clockwise) o antiorario (counterclockwise), pu`o essere ambiguo quando si descrivono moti o posizioni angolari nello spazio. Volendo utilizzare tale nozione, `e necessario specificare il punto di osservazione: le lancette dell’orologio si muovono in senso orario se il quadrante `e osservato direttamente, ma si vedrebbero girare in senso antiorario se si potessero osservare in trasparenza dalla parte della cassa dell’orologio. Tale ambiguit`a non si manifesta quando i versi di rotazione sono definiti in base alla regola della mano destra. Gli assi del sistema C.O.D. sono rette passanti per O e contenenti uno dei tre versori appena definiti: • il primo asse, parallelo a ˆi, `e indicato con la lettera x (oppure con x1 )

874

A.2. RAPPRESENTAZIONE DEI VETTORI

• il secondo asse, parallelo a ˆj, `e indicato con la lettera y (oppure con x2 ) ˆ `e indicato con la lettera z (oppure con x3 ) • il terzo asse, parallelo a k, Pu`o essere utile osservare che in alcuni testi i sistemi cartesiani ora definiti sono chiamati levogiri invece che destrorsi. Peraltro, anche se si tratta di una mera questione convenzionale, un termine che si riferisce alla sinistra per indicare un sistema definito con una regola basata sulla mano destra pu`o essere causa di confusione. Per questo motivo nel corso si user`a sistematicamente solo il temine destrorso. Un sistema cartesiano in cui l’asse z ha la direzione opposta `e chiamato sinistrorso (lefthanded). Dato un sistema destrorso, se si cambia il verso di uno degli assi, si ottiene un sistema sinistrorso (e viceversa). Nei problemi piani gli assi cartesiani sono solo due, solitamente: x e y. Se gli assi di un sistema piano sono rappresentati, come frequentemente, in modo che y si ottiene da x per rotazione antioraria di 90◦ , possiamo affermare che, in una naturale estensione tridimensionale C.O.D., stiamo osservando il piano x − y da un punto caratterizzato da una z positiva. Nei problemi piani il punto di vista `e pertanto implicito nella rappresentazione degli assi e quindi il verso di rotazione, orario o antiorario, non `e ambiguo. Nei problemi piani il verso antiorario `e generalmente assunto come positivo per definire il segno delle rotazioni (coordinate angolari) e delle grandezze da queste derivate (per esempio velocit`a e accelerazioni angolari).

A.2 Rappresentazione dei vettori Un generico vettore nello spazio `e individuato da una terna di quantit`a scalari (dette componenti del vettore) che rappresentano le proiezioni (con il relativo segno) del vettore sugli assi di riferimento nell’ordine stabilito. Allo scopo di usare le regole dell’algebra matriciale nel trattamento dei vettori, si conviene di considerare i vettori come matrici composte di una colonna e tre righe (due righe nel caso di vettori piani). Per trasformare il vettore in una matrice riga si esegue l’operazione di trasposizione. In certi casi per caratterizzare una grandezza vettoriale `e fondamentale definirne anche il punto di applicazione (si parla in questo caso di vettori applicati), talvolta questa specificazione non `e rilevate (vettori liberi). Un vettore applicato `e descritto da una coppia di vettori: uno rappresenta le componenti del vettore stesso l’altro le componenti del vettore posizione del suo punto di applicazione. Nel seguito sono riportate diverse forme usate per rappresentare un vettore o sue caratteristiche: 1. rappresentazione sintetica: F~ 2. rappresentazione del modulo: F~ = F 3. versore corrispondente: Fˆ = F~ /F 4. rappresentazione in termini di componenti vettoriali: F~ = Fxˆi + Fy ˆj + Fz kˆ oppure F~ = F1ˆi + F2 ˆj + F3 kˆ     F1 Fx 5. rappresentazione come matrice: F =  Fy  oppure  F2  e quindi : Fz F3   FT = Fx Fy Fz = F1 F2 F3

875

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

6. rappresentazione in termini di componenti scalari: Fi . Si considera che l’indice i assume tutti i valori in un insieme finito di interi con numerosit`a pari alla dimensione del vettore stesso. Se il vettore `e definito nello spazio: i = 1, 2, 3, mentre nel piano i = 1, 2. Per identificare i pedici si usano generalmente lettere latine minuscole: i, j, k, m, n, q, r, s... le prime non devono essere confuse con i versori cartesiani. Questa notazione `e particolarmente utile per rappresentare operazioni tra quantit`a che hanno uno o pi` u indici. Dalla regola per ottenere il versore di un vettore dato, detta normalizzazione, si ricava che il versore conserva solo le caratteristiche geometriche di direzione e verso del vettore originario, perdendo la propriet`a di intensit`a e le dimensioni fisiche. Il modulo di un vettore rappresentato in componenti cartesiane si ottiene dal teorema di Pitagora: q q F = Fx 2 + Fy 2 + Fz 2 = F1 2 + F2 2 + F3 2 Questa relazione pu`o anche essere scritta in forma pi` u compatta come: v u 3 uX F =t Fi 2 i=1

oppure, dato che il campo di variazione dell’indice `e implicito nel problema anche: sX F = Fi 2 i

` talvolta adottata la convenzione di Einstein sugli indici ripetuti. La presenza di un indice E che compare due volte in una espressione monomia sottintende l’operazione di somma su tutto l’intervallo di variazione dell’indice stesso, per cui il modulo si esprime come: p F = Fi Fi

A.3 Operazioni con i vettori A.3.1 Somma algebrica Si verifica immediatamente che le operazioni di somma e differenza tra vettori, che sono definite in base alla regola del parallelogramma, coincidono con le equivalenti operazioni di somma e differenza dei trinomi delle componenti: ˆ + (Rxˆi + Ry ˆj + Rz k) ˆ = (Fx + Rx )ˆi + (Fy + Ry )ˆj + (Fz + Rz )k) ˆ (Fxˆi + Fy ˆj + Fz k) ~ pu`o essere espresso in forma di matrice dalla somma matriciale e anche che il vettore F~ + R degli addendi: F + R essendo:       Fx Rx Fx + R x ~ =  Fy  +  R y  =  Fy + R y  F~ + R Fz Rz Fz + R z In termini di componenti: Fi + R i Perch´e la somma (o differenza) di due vettori abbia significato fisico essi devono essere dimensionalmente omogenei e le loro componenti devono essere rappresentate nelle stesse unit`a. Inoltre,

876

A.3. OPERAZIONI CON I VETTORI

per poter effettuare le operazioni in termini di componenti (e quindi in particolare in forma matriciale), i vettori devono essere rappresentati nello stesso sistema di riferimento. In modo naturale si definiscono le regole del prodotto di uno scalare a per un vettore F~ :     a · Fx Fx a · F~ = aFxˆi + aFy ˆj + aFz kˆ = a ·  Fy  =  a · Fy  = aF a · Fz Fz Come il prodotto tra quantit`a scalari, anche in questo caso, l’omogeneit`a dimensionale tra i fattori non `e richiesta.

A.3.2 Prodotto scalare ~ pensati applicati allo stesso punto, se non sono paralleli individuano in Due vettori F~ e R modo univoco un piano. Su tale piano i due vettori definiscono due angoli, il minore di questi `e chiamato angolo compreso tra i due vettori e, nel seguito, sar`a chiamato α (vedi figura A.2). Se i vettori sono paralleli ed equiversi α = 0, se paralleli e controversi α = 180◦ . ~ `e uno scalare s ottenuto moltiplicando i moduli dei Il prodotto scalare tra due vettori F~ · R vettori e il coseno dell’angolo compreso: ~ = F · R · cos α s = F~ · R in particolare si verifica facilmente che: ˆi · ˆi = 1 e ˆi · ˆj = 0. Quindi il prodotto scalare tra due versori di base `e 1 se i fattori sono uguali e 0 se sono diversi. Tenendo conto di questo e ~ pu`o essere usando la rappresentazione in componenti, il prodotto scalare tra i due vettori F~ e R ottenuto sfruttando la propriet`a distributiva del prodotto di due trinomi algebrici:     ~ = Fxˆi + Fy ˆj + Fz kˆ · Rxˆi + Ry ˆj + Rz kˆ = Fx · Rx + Fy · Ry + Fz · Rz F~ · R

Figura A.2: Angolo compreso tra due vettori

Se i vettori sono rappresentati in forma di componenti nello stesso sistema C.O.D., il loro prodotto scalare s si ottiene quindi sommando i prodotti delle componenti omonime. Questo risultato corrisponde al prodotto matriciale (righe per colonne) che formalmente richiede di trasporre il primo vettore. La formula che segue mostra modi equivalenti per ottenere il prodotto scalare:   Rx  ~ = F · R · cos α = Fx · Rx + Fy · Ry + Fz · Rz = Fx Fy Fz ·  Ry  = FT · R s = F~ · R Rz Da ognuna delle precedenti uguaglianze si dimostra che il prodotto scalare gode della propriet` a ` anche immediato verificare, tramite la definizione, che il prodotto scalare tra commutativa. E due versori fornisce il coseno dell’angolo compreso. Il prodotto scalare ha una espressione molto compatta nella notazione di Einstein: s = Fi R i Al prodotto scalare sono associate le grandezze energetiche: lavoro e potenza. Per definire tali quantit`a si moltiplica scalarmente le forza per lo spostamento, o la velocit`a, del suo punto di applicazione, rispettivamente.

877

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

A.3.3 Prodotto vettoriale ~ `e un vettore V ~ che ha, per Il prodotto vettoriale (o prodotto vettore) tra due vettori F~ ∧ R definizione, le seguenti caratteristiche: • il modulo `e dato dalla relazione V = F · R · sin α (con α angolo compreso) ~ =0 • se i vettori sono paralleli (o almeno uno di essi `e nullo) F~ ∧ R ~ `e la normale al piano individuato dai vettori F~ e R ~ • la direzione di V ~ coincide con quello di avanzamento della vite destra fatta ruotare in modo • il verso di V ~ (il secondo fattore) descrivendo l’angolo compreso da sovrapporre F~ (il primo fattore) a R α (al posto della vite pu`o essere usata la mano destra). Dalle precedenti propriet`a si ricava che dati tre punti nello spazio C P e Q (figura A.3), moltiplicando vettorialmente i due vettori geometrici CP e CQ, il modulo del prodotto fornisce l’area del parallelogramma di cui i vettori sono lati adiacenti.

Figura A.3: Significato geometrico del modulo del prodotto vettoriale tra due vettori geometrici con il punto di coda coincidente

Il prodotto vettoriale non `e commutativo, vale infatti la relazione: ~ = −R ~ ∧ F~ F~ ∧ R La regola che fornisce il verso del prodotto vettoriale `e identica a quella con cui `e stato definito il terzo versore base del sistema C.O.D.. In effetti, per tale sistema di riferimento, vale la seguente relazione: kˆ = ˆi ∧ ˆj Si verifica dalla definizione che il prodotto di un versore per se stesso `e nullo: ˆi ∧ ˆi = 0. Considerando le relazioni: ˆj ∧ kˆ = ˆi, ma kˆ ∧ ˆj = −ˆi, si osserva che il prodotto vettoriale tra due versori base distinti fornisce il terzo versore base con il segno che dipende dalla sequenza dei fattori. Una regola mnemonica per il segno `e rappresentata nella figura A.4: il segno del prodotto di due versori base `e positivo se i fattori si susseguono nello schema di figura A.4 in verso antiorario e negativo se si susseguono in verso orario.

Figura A.4: Regola per il segno per il prodotto vettoriale tra due versori base

878

A.3. OPERAZIONI CON I VETTORI

Analogamente a quanto osservato per il prodotto scalare, adottando un sistema C.O.D., anche il prodotto vettoriale tra due vettori pu`o essere effettuato sviluppando con le regole dell’algebra il prodotto tra i trinomi della rappresentazione in componenti:     ~ = Fxˆi + Fy ˆj + Fz kˆ ∧ Rxˆi + Ry ˆj + Rz kˆ = Fx Rxˆi ∧ ˆi + Fx Ryˆi ∧ ˆj + ..... F~ ∧ R tenendo conto del prodotto tra i versori base definito dalle regole precedenti, dei 9 termini dello sviluppo completo, 3 sono identicamente nulli mentre gli altri si possono ottenere sviluppando il seguente determinante: ˆ ˆi ˆj k ~ = Fx Fy Fz F~ ∧ R Rx Ry Rz secondo gli elementi della prima riga. Il prodotto vettoriale consente di definire l’importante grandezza Meccanica: il momento di una forza.

A.3.4 Prodotto misto ~ S ~ e T~ con la coda nello spesso punto. Pu`o essere Consideriamo tre vettori geometrici R, interessante valutare il volume del parallelepipedo (in genere non retto) di cui i tre vettori costituiscono gli spigoli. A tale scopo basta ricordare che il prodotto vettoriale di due di essi fornisce (a meno del segno) l’area di una base. Quindi, chiamata A l’area della base relativa a ~ e S, ~ vale la relazione: R ~ ∧S ~ = Aˆ R n in cui n ˆ `e un versore normale al piano di base. L’altezza relativa alla base si ottiene proiettando il terzo vettore T~ sulla normale n ˆ e quindi effettuando (sempre a meno del segno) il prodotto scalare. Il volume del parallelepipedo `e pertanto dato dal seguente valore assoluto:   ~ ∧S ~ V = T~ · Aˆ n = T~ · R L’argomento del valore assoluto `e il prodotto scalare del prodotto vettoriale tra i tre vettori dati e per questo si chiama prodotto misto. Considerando le regole esposte nei precedenti paragrafi `e immediato verificare che il prodotto misto `e lo scalare che si ottiene calcolando il determinate:   Tx Ty Tz ~ ∧S ~ = Rx Ry Rz T~ · R Sx S y Sz che contiene le componenti dei tre vettori disposti in ordine per righe. Dalle precedenti definizioni ricaviamo alcune interessanti propriet`a del prodotto misto, nel seguito elencate: • il prodotto misto `e una quantit`a algebrica il cui segno dipende dall’ordine dei fattori • scambiando due fattori il prodotto misto cambia solo di segno • il modulo del prodotto misto tra tre vettori geometrici fornisce il volume del parallelepipedo

879

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

• il modulo del prodotto misto tra tre vettori geometrici `e 6 volte il volume del tetraedro a basi triangolari (piramide triangolare) definito dai tre vettori • se i tre vettori sono complanari il prodotto misto `e nullo • il confronto del prodotto misto con lo zero `e quindi il pi` u semplice criterio di complanarit`a per vettori nello spazio e si applica anche a vettori non geometrici (come velocit`a, accelerazioni, forze. . . .) • dati tre vettori di moduli assegnati, il loro prodotto misto ha il massimo valore assoluto quando i vettori sono mutuamente ortogonali     • ˆi · ˆj ∧ kˆ = 1 mentre per esempio, −ˆi · ˆj ∧ kˆ = −1, pertanto il prodotto misto tra vettori mutuamente ortogonali `e positivo se i vettori sono ordinati in modo da riprodurre una terna destrorsa, negativo se sono ordinati in modo sinistrorso • il segno del prodotto misto conserva il significato anche se i vettori non sono mutuamente perpendicolari, in questo caso il prodotto `e positivo se la terna `e una distorsione angolare (senza riflessioni) di una terna destrorsa (e negativo se `e una distorsione di una terna sinistrorsa).

A.4 Versori e coseni direttori Le componenti cartesiane di un generico versore vˆ :   vx vˆ =  vy  vz possono essere ottenute formalmente moltiplicando scalarmente il versore con i versori base, per esempio: vx = vˆ · ˆi = 1 · 1 · cos θx = cos θx Le componenti di un versore coincidono infatti con i coseni degli angoli che il versore forma con i corrispondenti assi cartesiani (figura A.5). Per tale motivo le componenti di un versore sono anche chiamate coseni direttori.

Figura A.5: Angoli formati da un versore con gli assi

L’angolo compreso tra due vettori pu`o essere ottenuto in modo semplice (specialmente nello spazio) tramite i prodotti. In particolare, il coseno dell’angolo compreso tra due vettori si ricava direttamente dal prodotto scalare dei loro versori corrispondenti. Il valore assoluto del seno dell’angolo compreso `e invece ottenuto dal modulo del prodotto vettoriale dei versori.

880

A.5. SISTEMI DI RIFERIMENTO RUOTATI: MATRICE DI TRASFORMAZIONE

A.5 Sistemi di riferimento ruotati: matrice di trasformazione Per evidenziare alcune propriet` a della soluzione di un problema, `e spesso utile cambiare il sistema di riferimento. Per quanto una grandezza fisica non possa cambiare nella sua natura se si modifica il sistema di riferimento, possiamo in generale attenderci differenze nella sua rappresentazione in componenti. Le leggi con cui le componenti mutano con il sistema di riferimento devono pertanto essere di carattere generale a garanzia del principio di relativit` a. Per fissare le idee, chiameremo originario o di partenza il sistema in cui `e nota la rappresentazione della grandezza di interesse e nuovo o di arrivo il sistema in cui vogliamo determinare la rappresentazione. Tale attribuzione `e arbitraria e le relazioni di passaggio da un sistema di riferimento all’altro sono simmetriche. Tuttavia, la distinzione `e utile per evitare banali ma facili errori generati proprio dalla reciprocit`a del problema. In modo naturale, chiamiamo originario il sistema nel quale sappiamo calcolare direttamente tutte le quantit` a in esame. Come rappresentato in figura A.6, gli assi e le grandezze relative al sistema nuovo sono indicate con simboli apostrofati (x0 , y 0 , z 0 , iˆ0 , ecc...) mentre le corrispondenti quantit` a del sistema originario sono rappresentate senza apostrofo (x, y, z, ˆi, ecc. . . ). Si pu`o osservare che

Figura A.6: Sistema originario (di partenza) con assi x, y e z, e sistema nuovo (di arrivo) con assi x0 , y 0 e z 0

se gli assi omonimi dei due sistemi sono paralleli ed equiversi, ovvero se il sistema nuovo si ottiene per semplice traslazione di quello originario, la legge di trasformazione `e banale. Tra due sistemi traslati, infatti, non vi sono differenze nella rappresentazione delle componenti dei vettori, l’unica precauzione consiste nel fatto che risultano modificate di quantit`a costanti le componenti delle posizioni dei punti (questo potrebbe avere qualche effetto nel trattamento dei vettori applicati). Pi` u interessante `e la situazione in cui le terne dei versori base dei due sistemi hanno direzioni diverse, ovvero sono sistemi mutuamente ruotati. Per rappresentare una grandezza nel nuovo sistema risulta necessario che l’orientamento dei nuovi assi sia completamente definito rispetto agli assi originari. A tale scopo consideriamo i versori nuovi scritti in componenti originarie:       l11 l12 l13 ˆi0 =  l21  ˆj 0 =  l22  kˆ0 =  l23  l31 l32 l33 e raccogliamo ordinatamente tali valori in una matrice, disponendo le colonne seguendo la

881

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

numerazione degli assi: ˆi0 l11 L =  l21 l31 

ˆj 0 l12 l22 l32

kˆ0  l13 l23  l33

Chiamiamo L la matrice di trasformazione. Come illustrato nella figura A.7, il termine

Figura A.7: Significato geometrico dei termini che compongono la prima colonna della matrice di trasformazione L

generico della matrice di trasformazione lnm rappresenta la n−esima componente (originaria) del m−esimo versore nuovo oppure, in modo equivalente, il coseno dell’angolo compreso tra l’originario n−esimo versore e il nuovo m−esimo versore, in forma analitica: lnm = cos (αnm0 ) Si osservi che, in genere, la matrice di trasformazione non ` e simmetrica, per esempio: l13 = ˆi · kˆ0 6= kˆ · ˆi0 = l31 Riassumendo, la regola per costruire correttamente la matrice L `e la seguente: disporre in colonna i versori nuovi rappresentati nelle componenti originarie rispettando il loro ordine.

A.6 Propriet` a della matrice di trasformazione Per i sistemi C.O.D. la matrice di trasformazione `e unitaria (l’inversa e la trasposta coincidono): L−1 = LT e il suo determinate vale uno: det L = |L| = 1. ` immediato verificare che moltiplicando la matrice L per il primo versore del sistema E originario (scritto in forma algebrica come matrice colonna), si ottengono le componenti (nel sistema originario) del primo versore nuovo:     1 l11 L · ˆi = L ·  0  =  l21  = ˆi0 0 l31

882

A.7. LEGGE DI TRASFORMAZIONE DEI VETTORI PER ROTAZIONE DEGLI ASSI

e che analoghe uguaglianze valgono per gli altri versori. La relazione: ˆi0 = L · ˆi pu`o essere interpretata anche come una applicazione lineare che trasforma il versore ˆi nel versore ˆi0 (si ricordi che entrambi i versori devono essere espressi nello stesso sistema di riferimento, qualunque esso sia: il vecchio, il nuovo o anche un altro). Moltiplicando ambo i membri di tale uguaglianza per L−1 si ha: ˆi = L−1 · ˆi0 = LT · ˆi0 (A.1) in cui `e stata sfruttata l’unitariet`a di L. A questo punto `e utile chiedersi: come si ottengono le componenti del versore originario ˆi nel sistema nuovo? In coerenza con le notazioni finora usate, le componenti di ˆi nel sistema nuovo possono essere indicate come:  0  l11 0   l21 0 l31 La risposta si ottiene direttamente dalla relazione lineare (A.1), basta infatti usare la trasformazione (A.1) rappresentando entrambi i versori in componenti nel sistema nuovo in cui:    0  1 l11 0  ˆi0 =  0  , ˆi =  l21 0 0 l31 sviluppando i calcoli si ottiene la risposta, ovvero la rappresentazione del primo versore originario in coordinate nuove:  0      l11 1 l11 0  = LT  0  =  l ˆi =  l21 12  0 l31 0 l13 `e da osservare, in particolare, l’ordine di pedici del risultato. Dato che (1, 0, 0) rappresentano le componenti del primo versore originario nel sistema originario, ricaviamo la seguente regola generale: moltiplicando LT per le componenti originarie del versore dell’asse x, si ottengono le sue componenti espresse nel sistema nuovo. Questa regola di trasformazione pu`o essere applicata anche ai versori degli altri assi.

A.7 Legge di trasformazione dei vettori per rotazione degli assi Consideriamo un generico vettore le cui componenti nel sistema originario sono:   v1 ~v =  v2  v3 ci chiediamo come questo vettore sia rappresentato in un sistema cartesiano nuovo individuato dalla matrice di trasformazione L (che ovviamente supponiamo nota). Per rispondere basta applicare la regola di trasformazione trovata nel precedente paragrafo valida per i versori base e la propriet`a distributiva del prodotto rispetto alla somma. Infatti la relazione: ~v = v1ˆi + v2 ˆj + v3 kˆ

883

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

scritta nel sistema nuovo diventa:  0          v1 1 0 0 v1  v20  = v1 LT  0  + v2 LT  1  + v3 LT  0  = LT  v2  v30 0 0 1 v3 in forma compatta possiamo quindi scrivere la seguente relazione di trasformazione: ~v 0 = LT~v

(A.2)

valida per ogni grandezza vettoriale e per ogni coppia di sistemi C.O.D.. La relazione A.2 pu`o essere esplicitata in termini di componenti come: vk0 =

3 X

lki vi =

X

i=1

lki vi

(A.3)

i

Con la convenzione di Einstein la legge di modifica delle componenti vettoriali per rotazione degli assi si semplifica nella seguente: vk0 = lki vi (A.4) in cui `e i l’indice di somma. Si pu`o osservare che l’ordine dei fattori non `e rilevante per cui possiamo anche scrivere: vk0 = vi lki mentre `e importante l’ordine dei pedici nella quantit`a lki . In particolare, per coerenza con le convenzioni assunte, il primo pedice k si riferisce alla componente nel sistema nuovo e il secondo i (l’indice di somma) alla componente nel sistema originario. La trasformazione inversa si esprime formalmente come: 0 0 vi vk = lki

e data la caratteristica di unitariet`a della matrice di trasformazione (L−1 = LT ) vale inoltre la relazione: 0 lki = lik per cui la trasformazione inversa si pu`o anche scrivere come: vk = lik vi0 Pu`o essere utile osservare che la convenzione che `e stata adottata per rappresentare la matrice di trasformazione non `e universale. Alcuni testi assumono come matrice di trasformazione la trasposta di L, raccogliendo in riga invece che in colonna in versori nuovi. Questa diversa scelta non modifica la sostanza delle relazioni presentate, tuttavia comporta uno scambio di L ` quindi opportuna con LT e una inversione nella posizione dei pedici nelle formule relative. E una certa attenzione alle definizioni quando si consultano testi diversi. La legge di trasformazione (A.2) caratterizza completamente il modo con cui le componenti di una qualunque quantit`a vettoriale (forza, spostamento, velocit`a, ecc...) si modificano nel passaggio da un sistema C.O.D. a un altro ruotato. Di conseguenza, `e possibile definire vettoriale ogni grandezza le cui componenti cambiano a seguito di una rotazione degli assi seguendo la legge (A.2). La rappresentazione di una grandezza scalare (come per esempio la densit`a o la temperatura) non risulta alterata da una rotazione degli assi cartesiani. Quando una quantit`a gode di tale caratteristica si chiama invariante (per rotazione). Pertanto, le componenti di una grandezza vettoriale non sono invarianti, tuttavia, possono essere identificate alcune propriet`a di una

884

A.8. I TENSORI E LA LORO LEGGE DI TRASFORMAZIONE

grandezza vettoriale che non mutano anche se si ruotano gli assi. Un esempio di propriet` a invariante di un vettore `e il modulo che, per il principio di relativit`a, deve rimanere lo stesso in tutti i sistemi di riferimento. L’invarianza del quadrato del modulo `e dimostrata formalmente nel seguente calcolo:  0   v1 T  ~v 0 · ~v 0 = v10 v20 v30  v20  = LT · ~v · LT · ~v = (~v )T · L · LT · ~v = ~v · ~v v30 in cui `e stata sfruttata la propriet`a di unitariet`a della matrice di trasformazione. Oltre al modulo, sono invarianti anche tutte le funzioni del solo modulo. Non sono invarianti le propriet`a di orientamento di un vettore, per esempio i coseni direttori.

A.8 I tensori e la loro legge di trasformazione Definiamo tensore (cartesiano di ordine 2) una trasformazione lineare tra due campi vettoriali, ovvero una grandezza che permette di ottenere un vettore mediante combinazione lineare delle componenti di un altro vettore. La forma pi` u generale per tale tipo di trasformazione, scritta in forma algebrica `e la seguente: ~v = A · ~u che espressa in componenti rispetto a un sistema cartesiano diventa:      v1 a11 a12 a13 u1  v2  =  a21 a22 a23   u2  v3 a31 a32 a33 u3 In genere, il tensore `e rappresentabile in componenti cartesiane per mezzo di una matrice i cui elementi sono quantit`a scalari (solitamente dimensionate) ordinate tramite una coppia di indici. La matrice A, che fornisce una rappresentazione cartesiana del tensore, non `e necessariamente simmetrica. Scritto in termini di componenti (e in notazione di Einstein) il legame lineare diventa: X vi = aij uj = aij uj j

In analogia a quanto fatto nel paragrafo precedente per i vettori, ci proponiamo di determinare la legge con cui le componenti cartesiane del tensore A cambiano in conseguenza di una rotazione degli assi. A tale scopo `e sufficiente operare le seguenti trasformazioni algebriche sull’uguaglianza ~v = A · ~u: LT · ~v = LT A · ~u = LT AI · ~u = (LT AL)LT · ~u dove



 1 0 0 I= 0 1 0  0 0 1

`e la matrice identica, che talvolta si indica in componenti tramite il delta di Kroneker:  1 se i = j δij = 0 se i 6= j

885

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

Dalle precedenti identit`a, tendo conto che ~v 0 = LT~v e ~u0 = LT ~u si ottiene: ~v 0 = A0 · ~u0 in cui: A0 = LT AL

(A.5)

La matrice A0 contiene i coefficienti della combinazione lineare che lega i campi vettoriali ~v 0 e ~u0 espressi nel sistema nuovo ed `e pertanto la rappresentazione del tensore nel sistema nuovo. La relazione (A.5) esplicitata in componenti diventa: XX XX a0km = lki aij lmj = lki lmj aij (A.6) i

j

i

j

che in notazione di Einstein si semplifica nella seguente: a0km = lki lmj aij

(A.7)

Come nella trasformazione vettoriale, per lij deve essere rispettato l’ordine dei pedici: il primo e` relativo alla grandezza espressa nelle coordinate nuove. Possiamo quindi concludere che i tensori (cartesiani di ordine 2) sono grandezze che modificano le loro componenti per rotazione degli assi secondo la doppia moltiplicazione per la matrice di trasformazione espressa dalle uguaglianze (A.5) o in componenti dalla (A.7). La relazione (A.5) pu`o quindi essere assunta come definizione formale di grandezza tensoriale (di ordine 2), analogamente a quanto fatto per le grandezze vettoriali con le relazioni (A.2) o (A.4). Talvolta i vettori vengono chiamati tensori di ordine uno (indicando che la loro legge di rotazione richiede una semplice moltiplicazione per la matrice di trasformazione) e gli scalari tensori di ordine zero (sono invarianti per rotazione). Non esistono limiti all’ordine di un tensore che pu`o essere anche a molti indici. L’ordine del tensore rappresenta il numero di volte per cui `e necessario moltiplicarne le componenti per la matrice di rotazione allo scopo di ottenere la rappresentazione in un sistema ruotato. La legge di trasformazione `e sempre dello stesso tipo, come mostra la relazione seguente che definisce, con la notazione di Einstein in cui sono omesse ben quattro sommatorie, la trasformazione delle componenti di un tensore del quarto ordine cijmn : c0rsut = lri lsj lum ltn cijmn Tensori con ordine maggiore di due non sono facilmente rappresentabili sotto forma di tabelle, per esempio in tensore di ordine 3 (a tre pedici) `e rappresentabile con una pila di matrici (una matrice tridimensionale!). Per questo motivo, la notazione con i pedici diventa indispensabile per trattare simbolicamente tensori di ordine elevato e la convenzione di Einstein semplifica notevolmente le operazioni algebriche sui componenti. Nella Meccanica dei solidi e delle strutture si incontrano tensori che nella grande maggioranza sono cartesiani del secondo ordine e anche simmetrici, ovvero hanno componenti rappresentabili con matrici simmetriche. Esempi importanti sono: • i tensori di tensione e di deformazione, generalmente definiti nello spazio tridimensionale (in un sistema cartesiano a tre assi) e, quindi, con una rappresentazione matriciale 3 × 3 • i tensori di inerzia delle sezioni, di flessione e di curvatura per piastre e gusci definiti in sistemi di riferimento piani. Nei casi bidimensionali, i tensori sono esprimibili con matrici 2 × 2 e la loro legge di trasformazione (A.5) usa matrici di trasformazione, anch’esse 2 × 2, che contengono le componenti piane dei versori nuovi. Dato che quasi tutti i tensori trattati nel corso sono cartesiani di ordine due, quando non espressamente specificato, l’ordine sar`a sottointeso.

886

A.9. INVARIANTI E AUTOVALORI DI UN TENSORE SIMMETRICO A COMPONENTI REALI

A.9 Invarianti e autovalori di un tensore simmetrico a componenti reali Consideriamo un tensore cartesiano di ordine due rappresentato da una matrice 3 × 3 simmetrica a valori reali:   σ11 σ12 σ13 σ22 σ23  S= Sym σ33 Come abbiamo dimostrato nel paragrafo precedente, le componenti di S variano in conseguenza di una rotazione degli assi cartesiani con una legge ben definita. Analogamente a quanto osservato per le quantit`a vettoriali, anche per i tensori esistono funzioni delle componenti σij che non cambiano per rotazione degli assi. Similmente, tali quantit`a sono chiamate invarianti del tensore S. Gli invarianti, non dipendendo dal particolare sistema di riferimento adottato per rappresentare le componenti il tensore, si rivelano particolarmente utili per caratterizzare la grandezza fisica rappresentata dal tensore stesso. Con calcoli di tipo algebrico (basati sulla relazione (A.5)) `e possibile verificare che le seguenti funzioni delle componenti del tensore sono invarianti per rotazione:

σ σ12 I2 = 11 σ21 σ22

σ11 σ13 + σ31 σ33

I1 = σ11 + σ22 + σ33 σ22 σ23 2 2 2 + σ32 σ33 = σ11 σ22 + σ22 σ33 + σ11 σ33 − σ12 − σ13 − σ23

2 2 2 I3 = det S = σ11 σ22 σ33 − σ11 σ23 − σ22 σ13 − σ33 σ12 + 2σ12 σ23 σ13

tali quantit`a sono rispettivamente: • I1 la traccia della matrice (somma degli elementi sulla diagonale principale) • I2 la somma dei determinanti delle sottomatrici di rango 2 diverse che contengono gli elementi della diagonale principale • I3 il determinante della matrice I1 , I2 e I3 sono chiamati invarianti principali di S. Ogni funzione degli invarianti principali `e un invariante. Gli autovalori della matrice S si ottengono risolvendo la seguente equazione algebrica di terzo grado chiamata equazione caratteristica: |S − σ · I| = σ 3 − I1 σ 2 + I2 σ − I3 = 0

(A.8)

con I la matrice identica. Nel caso che la matrice S sia reale simmetrica, l’equazione caratteristica ammette sempre tre radici reali (σ1 , σ2 e σ3 ) non necessariamente tutte distinte. Si pu`o osservare che gli invarianti principali compaiono (attenzione ai segni alterni) ai coefficienti dell’equazione caratteristica (A.8) e, dato che le soluzioni di una equazione algebrica dipendono soltanto dai coefficienti, anche gli autovalori sono invarianti di S. Gli autovalori sono detti anche valori principali del tensore. A ogni autovalore si S `e associato un autovettore di S. Si verifica che per ogni tensore rappresentabile con matrice reale simmetrica esiste (almeno) una terna di autovettori tra loro mutuamente ortogonali. Nel caso di autovalori distinti, le tre direzioni degli autovettori sono distinte. Se consideriamo un sistema di riferimento avente assi nelle direzioni degli autovettori,

887

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

la legge (A.5), dove L contiene gli autovettori normalizzati, trasforma la matrice S nella seguente forma:   σ1 0 0 σ2 0  S0 =  Sym σ3 in cui gli elementi sulla diagonale sono proprio gli autovalori. L’equazione caratteristica associata a un tensore cartesiano simmetrico di ordine 2 pu`o essere risolta in forma chiusa tramite il seguente procedimento (esatto) riportato senza dimostrazione. 1. valutare l’angolo (in radianti): 1 φ = · arccos 3

2I13 − 9I1 I2 + 27I3 3/2 2 I12 − 3I2

!

2. calcolare direttamente gli autovalori σk con k = 1, 2, 3 di S con la relazione:   q 2 I1 2 2 σk = I1 − 3I2 · cos φ + (k − 1) π + 3 3 3 Nel caso di tensori piani (rappresentabili con matrici 2×2), il calcolo degli autovalori `e ricondotto a una semplice equazione di secondo grado.

A.10 Coordinate non cartesiane In alcuni problemi, la forma dei corpi suggerisce l’uso di coordinate non cartesiane. Per analizzare corpi a simmetria assiale (chiamati anche assialsimmetrici) come dischi, tubi o manicotti `e comodo un sistema di coordinate cilindriche (o polari nel piano) mentre per i corpi a simmetria centrale pi` u essere conveniente il sistema di coordinate sferiche. In questo paragrafo sono presentate le nozioni fondamentali per l’impiego delle coordinate non cartesiane.

A.10.1 Coordinate cilindriche e coordinate curvilinee ortogonali In coordinate cilindriche (di cui le coordinate polari sono la riduzione bidimensionale) la posizione di un punto `e individuata con tre grandezze scalari non omogenee: una coordinata angolare e due coordinate lineari. Lo schema `e illustrato nella figura A.8.

Figura A.8: Schema per la definizione delle coordinate cilindriche (o polari)

Il sistema di coordinate cilindriche si definisce con:

888

A.10. COORDINATE NON CARTESIANE

• un punto origine O • un asse cartesiano, di solito chiamato asse z, che ha origine in O • il piano α che passa per O ed `e normale all’asse z • una semiretta Γ con origine in O giacente sul piano α. Per determinare la corrispondenza con le coordinate cartesiane, consideriamo un sistema cartesiano che abbia: l’origine in O, il medesimo asse z e il semiasse x positivo coincidente con la semiretta Γ. La posizione del punto generico P le cui coordinate cartesiane sono (x, y, z) `e individuato in coordinate cilindriche nel modo seguente: • si proietta P ortogonalmente sul piano α individuando il punto H • si definisce la coordinata radiale data dalla distanza r = |OH|, r `e una coordinata di lunghezza non negativa che equivale anche alla distanza di P dall’asse z • si definisce la coordinata angolare θ (chiamata anche anomalia) in base all’angolo di cui deve ruotare attorno a O la semiretta Γ in modo che passi per H. Il segno della coordinata angolare θ `e stabilito con la regola della mano destra considerando positive le rotazioni in cui il pollice `e equiverso all’asse z. Dato che la coordinata angolare `e ciclica basta considerare il suo dominio entro una intervallo di 2π radianti, con un solo estremo incluso per avere biunivocit`a, tipicamente : θ ∈ [0, 2π) oppure θ ∈ (−π, π] • la terza coordinata `e la stessa z cartesiana. le seguenti relazioni permettono di passare da coordinate cilindriche e cartesiane e viceversa:   x = r cos θ y = r sin θ  z=z p   r = x2 + y 2 θ = arctan xy  z=z Consideriamo il generico punto P di coordinate cilindriche (rP , θP , zP ) e supponiamo di aumentare una delle sue coordinate di una quantit`a infinitesima lasciando inalterate le altre. Si definisce in questo modo un punto leggermente spostato che indichiamo con Q, il vettore P Q `e una quantit`a infinitesima che normalizzata fornisce il versore corrispondente alla coordinata variata. Se, per esempio modifichiamo la coordinata angolare, otteniamo Q (rP , θP + dθ, zP ) per cui P Q `e un vettore parallelo al piano α. Normalizzando P Q otteniamo il versore eˆθ parallelo al piano α e tangente al cilindro con asse z che passa per P . In modo analogo si definiscono i versori associati alle altre coordinate: eˆr e eˆz . I tre versori definiscono una terna ` immediato verificare che eseguendo di assi chiamati assi locali delle coordinate nel punto P . E questa operazione in un sistema di coordinate cartesiane i versori locali coincidono con i versori generale del sistema, ovvero valgono le seguenti relazioni: ∀P : eˆx = ˆi, eˆy = ˆj, eˆz = kˆ per questo motivo le terne di assi locali non sono interessanti quando si usano sistemi di coordinate cartesiane.

889

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

Quando la terna locale varia da un punto all’altro le coordinate sono dette curvilinee. Le coordinate polari, per esempio, sono curvilinee perch´e in due punti che hanno una diversa coordinata angolare i versori eˆr e eˆθ hanno direzioni diverse. Tuttavia, si pu`o facilmente verificare che in ogni punto, i versori locali eˆr , eˆθ e eˆz sono mutuamente perpendicolari, pertanto le coordinate cilindriche sono curvilinee ortogonali. La posizione relativa di un punto Q che si trova vicino a P pu` o essere espressa in componenti riferite agli assi locali di versori eˆr , eˆθ e eˆz . Le coordinate locali sono pertanto cartesiane ortogonali e questo consente, almeno nell’ambito di domini infinitesimi, di di usare le formule pi` u semplici, come per esempio la formula di Pitagora per le distanze. Anche se non saranno usate nel corso, `e opportuno ricordare che si possono definire anche coordinate non ortogonali (rettilinee o curvilinee) per le quali gli assi locali non sono mutuamente perpendicolari. In coordinate cartesiane, l’elemento infinitesimo di volume in corrispondenza di un generico punto P (xP , yP , zP ) `e definito dai punti le cui coordinate sono date dalle relazioni: x ∈ [xp , xp + dx] ,

y ∈ [yp , yp + dy] ,

z ∈ [zp , zp + dz]

ˆ che definiscono un parallelepipedo rettangolo di spigoli ˆidx, ˆjdy, kdz orientato come gli assi globali e avente forma e volume indipendenti dalla posizione P (figura A.9(a)). Il volume del solido elementare in coordinate cartesiane vale: dV = dxdydz e le aree delle facce (dAx `e la faccia normale all’asse x, ecc. . . ): dAx = dydz,

dAy = dxdz,

dAz = dxdy

L’elemento di volume in coordinate cilindriche in corrispondenza di P (rP , θP , zP ) `e definito dai punti per cui: r ∈ [rp , rp + dr] , θ ∈ [θp , θp + dθ] , z ∈ [zp , zp + dz] che ha la forma di uno spicchio infinitesimo di settore cilindrico le cui caratteristiche geometriche cambiano in relazione della posizione di P . (figura A.9(b)).

Figura A.9: Elementi infinitesimi in coordinate (a) cartesiane e (b) cilindriche

Gli spigoli del solido elementare sono i seguenti (vedi anche la figura A.10): d~sr = eˆr dr,

d~sθ = eˆθ rdθ,

d~sz = eˆz dz

che rappresentano vettori infinitesimi mutuamente perpendicolari. Il volume del solido elementare si pu`o pertanto ottenere dal semplice prodotto dei moduli (uguale al modulo del del prodotto misto): dV = rdrdθdz

890

A.10. COORDINATE NON CARTESIANE

un analogo ragionamento permette di ottenere le aree delle facce che, a meno di infinitesimi di ordine superiore al primo, valgono: dAr = rdθdz,

dAθ = drdz,

dAz = rdθdr

dove dAr `e l’area della faccia con normale eˆr ecc. . . .

Figura A.10: Elemento infinitesimo in coordinate cilindriche visto dalla punta dell’asse z (o elemento piano in coordinate polari)

A.10.2 Coordinate sferiche La definizione delle coordinate sferiche, una lineare e due angolari, `e illustrata nella figura A.11) richiede di definire: • un punto origine O • un asse cartesiano z, di solito chiamato asse polare, con origine in O • un piano α passante per O e normale all’asse z (piano equatoriale) • una semiretta Γ con origine in O giacente sul piano α • il punto H proiezione ortogonale del punto generico P sul piano α • un sistema di coordinate cartesiane con centro O, il medesimo asse z e il semiasse x positivo coincidente con la semiretta Γ.

Figura A.11: Schema per la definizione delle coordinate sferiche

Il punto generico P , le cui coordinate cartesiane sono (x, y, z), `e individuato in coordinate sferiche in questo modo:

891

Sistemi di riferimento e quantit` a vettoriali e tensoriali

• la coordinata radiale r = |OP | `e la distanza dall’origine (r =

p

x2 + y 2 + z 2 )

• la coordinata angolare θ (chiamata longitudine) `e determinata dall’angolo di cui deve ruotare la semiretta Γ attorno a O in modo che passi per H. L’angolo `e misurato con la regola della mano destra a partire dal semiasse x positivo per cui si considerano positive le rotazioni in cui il pollice `e equiverso all’asse z. La coordinata angolare `e ciclica pertanto `e sufficiente considerare il suo dominio entro un intervallo di 2π radianti (con un solo estremo incluso per avere biunivocit` a) tipicamente : θ ∈ [0, 2π) oppure θ ∈ (−π, π] • la coordinata ϕ (latitudinale) `e l’angolo formato dal segmento OP e il semiasse z positivo ϕ ∈ [0, π]. Sono usate varie convenzioni per l’origine di tale coordinata. In ambito geografico (e astronomico) l’origine `e fissata sull’equatore z = 0 per cui si distingue in latitudine nord o latitudine sud. In termini rigorosi, se l’origine `e fissata nel polo Nord (il punto con z = r) come in figura  A.12, la coordinata angolare ϕ dovrebbe essere indicata π π come colatitudine ϕ ∈ − 2 , 2 ). Tra le coordinate sferiche e cartesiane valgono le seguenti relazioni che si ottengono con elementari considerazioni geometriche:   x = r cos θ sin ϕ y = r sin θ sin ϕ  z = r cos ϕ  p 2 2 2   r = x +y +z y θ = arctan x   ϕ = arccos √ 2 z 2

x +y +z 2

Le coordinate sferiche generalmente usate per individuare la posizione geografica di un punto sulla superficie della Terra `e esemplificato in figura A.12.

Figura A.12: Coordinate sferiche sulla Terra. N: polo Nord, S: polo sud, E: equatore, M: Meridiano di riferimento (Greenwich). Sono rappresentati anche i versori locali delle coordinate sferiche orientati secondo la normale alla sfera, e le direzioni ovest-est del parallelo e del nord-sud del meridiano locali

L’elemento di volume in coordinate sferiche in corrispondenza del generico punto P (rP , θP , ϕP ) `e definito dalla regione di spazio in cui:

892

A.10. COORDINATE NON CARTESIANE

r ∈ [rp , rp + dr] ,

θ ∈ [θp , θp + dθ] ,

ϕ ∈ [ϕp , ϕp + dϕ]

Essendo i versori locali eˆr , eˆθ e eˆϕ mutuamente perpendicolari, anche le coordinate sferiche sono curvilinee ortogonali e gli spigoli dell’elemento infinitesimo `e un parallelepipedo, a meno di infinitesimi di ordine superiore. Gli spigoli del solido elementare in coordinate sferiche sono: d~sr = eˆr dr,

d~sθ = eˆθ r sin ϕdθ,

d~sϕ = eˆϕ rdϕ

il volume vale quindi: dV = r2 sin ϕdrdθdϕ e l’area delle facce, a meno di infinitesimi di ordine superiore al primo, `e dato da: dAr = rdθ · r sin ϕdϕ = r2 sin ϕdϕdθ dAθ = rdϕdr dAϕ = r sin ϕdθdr In analogia con le coordinate sferiche possono essere definite anche coordinate curvilinee ortogonali adatte a rappresentare la forma di solidi assialsimmetrici generati per rivoluzione di una linea piana attorno a un asse. Esempi sono discussi nell’appendice E e applicazioni si trovano nei gusci di rivoluzione.

893

Appendice B

Regole pratiche per il calcolo numerico Generalmente una valutazione tecnica si conclude con la determinazione di quantit`a numeriche. Anche quando l’ingegnere `e chiamato a esprimere un giudizio oppure a operare una scelta, quasi sempre `e guidato dal confronto tra due (o pi` u) quantit`a. Questa circostanza dimostra l’importanza dell’aspetto numerico dalla soluzione dei problemi e, in particolare, evidenzia la necessit`a di metodo e rigore nel trattamento delle quantit`a numeriche e nella loro presentazione. Senza entrare nel merito di questioni teoriche, in questa Appendice sono fornite alcune regole operative utili per poter effettuare un razionale trattamento delle quantit`a numeriche necessario per risolvere gli esercizi proposti e generalmente adeguato per quasi tutte le situazioni pratiche.

B.1 L’importanza delle valutazioni numeriche La soluzione di un esercizio, al pari della soluzione di un problema professionale, `e spesso ` facile priva di valore se non si perviene al risultato numerico oppure questo non `e adeguato. E rendersi conto che, ai fini pratici, un errore di calcolo pu`o comportare conseguenze altrettanto serie quanto un errore concettuale. Queste ovvie considerazioni sono ribadite perch´e spesso gli studenti mostrano una propensione a: • privilegiare l’aspetto concettuale e simbolico della soluzione e a sottovalutare quello numerico • pensare che qualcun altro deve farsi carico delle valutazioni numeriche • non porre la necessaria cura nel trattamento delle quantit`a numeriche, con particolare riferimento alla scelta coerente delle dimensioni e delle conseguenti unit`a di misura. Le conoscenze e le abilit`a richieste per effettuare correttamente e razionalmente le valutazioni numeriche sembrano elementari e, probabilmente anche per questo, nell’esecuzione dei ‘calcoli’ ` spesso viene meno l’interesse e l’attenzione dedicata alla fase di impostazione del problema. E inoltre opportuno sottolineare che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, i rischi di errore connessi con la scarsa attenzione agli aspetti numerici crescono in modo significativo allorch´e, invece di utilizzare procedimenti di calcolo manuali (basati sull’uso di calcolatrici) si impiega il computer. In effetti, le moderne simulazioni basate sul computer richiedono l’inserimento di grandi quantit`a di dati in larga misura di tipo numerico. Inoltre, dato che i risultati di complesse elaborazioni sono difficili da verificare in modo completo con procedimenti indipendenti, il corretto trattamento dei dati di ingresso rappresenta una necessit`a.

895

Regole pratiche per il calcolo numerico

Vi `e infine un argomento fondamentale di tipo culturale a favore di una rigorosa disciplina nel trattamento numerico degli esercizi. La fattibilit`a delle scelte tecniche `e generalmente un ` ben noto che certi materiali consentano soluproblema di ordini di grandezza e di quantit`a. E zioni che sarebbero impossibili con l’uso di altri materiali proprio per la differenza quantitativa ` eseguendo metodicamente i calcoli di alcune propriet`a (rigidezza, resistenza, densit`a, ecc. . . ). E e ragionando sulle quantit`a che lo studente comincia a valutare la fattibilit`a pratica di certe soluzioni. Si tratta di un primo importante passo verso l’acquisizione di una sensibilit`a che `e tipica dei tecnici esperti in un settore e che consente loro, di fronte a un problema specifico, di prenderne in esame gli aspetti pi` u significativi trascurando i dettagli marginali.

B.2 Precisione, numero di cifre significative e arrotondamenti Quando si tratta una quantit`a numerica `e sempre opportuno considerarne l’origine. Certe quantit`a, spesso rappresentate da numeri puri (quantit`a adimensionali), possono essere considerate esatte, come le seguenti: √ • costanti che derivano da teoremi dell’algebra o della geometria (π , e, 2,. . . ), • fattori definiti da convenzioni e da conversioni di unit`a di misura, come : 1 min = 60 s, 100 = 25.4 mm, (il doppio apice indica il pollice (inch)) ecc. . . • numeri interi o razionali che derivano, direttamente o indirettamente, da operazioni di conteggio, per esempio: il numero di bulloni in un flangia, il numero di assi di un camion, il rapporto di trasmissione tra due ruote dentate, ecc. . . tutte le altre quantit`a sono approssimate (o pi` u propriamente incerte) poich´e derivano, in modo diretto o indiretto, da misure o da stime. Per scrivere in forma numerica una quantit`a `e solitamente usata la rappresentazione decimale che pu`o essere in virgola mobile o in virgola fissa (come la notazione scientifica). Concentriamoci per il momento sulla notazione scientifica e consideriamo a titolo di esempio la seguente massa: m = 6.52 · 104 kg il numero 6.52 `e rappresentato con 3 cifre significative (significant digit(s)) e l’esponente 4 indica l’ordine di grandezza (magnitude) ed `e riferito all’unit`a di misura. In mancanza di una indicazione specifica, conveniamo che la precisione (assoluta) (precision) di un numero sia definita dall’unit`a della sua cifra meno significativa. Ne consegue che la massa indicata ha una precisione di 0.01 · 104 kg (equivalente a 100 kg). Questo significa che si assume che la massa abbia un valore effettivo (o presunto o pi` u probabile) compreso nell’intervallo (quantit`a espresse in kg): 6.52 · 104 − 21 0.01 · 104 ≤ m ≤ 6.52 · 104 + 12 0.01 · 104 la cui ampiezza `e data proprio dalla precisione assoluta. Il rapporto tra la precisione assoluta e il valore assoluto della grandezza (quando questa `e non nulla) definisce la precisione relativa (relative precision) del numero. La precisione relativa `e quindi una quantit`a adimensionale. Nel caso in esame la precisione relativa vale 1/652 ∼ = 0.0015 ovvero `e di poco superiore a una parte su 1000 e si dice pertanto che `e dell’ordine del permille. La precisione relativa `e indipendente dall’ordine di grandezza della quantit`a a cui si riferisce ed `e strettamente connessa al numero di cifre significative con cui la quantit`a `e espressa (nel caso in esame 3).

896

B.3. SCELTA DELLA PRECISIONE OPPORTUNA

Senza entrare in dettagli, si fa notare che definizioni analoghe si trovano nella teoria degli errori di misura per le grandezze fisiche. Misurando la differenza di potenziale di una pila con un voltmetro di tipo digitale (adeguatamente tarato), la minima quantit`a rilevabile dallo strumento determina la precisione da attribuire alla tensione della pila, mentre il numero di cifre (stabili) del display determina l’ordine di grandezza della sua precisione relativa. Talvolta, la precisione relativa pu`o risultare ambigua per la presenza degli zeri nella rappresentazione della quantit`a. Spesso infatti gli zeri che seguono le cifre significative non nulle sono omessi. Per esempio, si assume comunemente che 4.20 e 4.2 siano quantit`a uguali, a rigore invece, se i due numeri rappresentano una quantit`a non esatta, essi sono diversi perch´e hanno diverse caratteristiche di precisione. Se la precisione relativa del numero fosse di tre cifre, 4.20 sarebbe la rappresentazione corretta mentre la rappresentazione 4.2 indica una precisione relativa di un ordine di grandezza peggiore. Un’altra causa di ambiguit`a `e connessa alla rappresentazione in virgola mobile. Per esempio, in mancanza di altre indicazioni, non `e chiaro se il numero 0.0034 abbia una precisione relativa di 5 cifre o solo di due. Questa ambiguit` a deriva dall’uso della sequenza iniziale di cifre 0 usata nella rappresentazione in virgola mobile per sostituire l’esponente della rappresentazione in virgola fissa. Quando il contesto non risolve l’ambiguit`a, `e opportuno ricorrere alla notazione scientifica. Nell’ultimo caso si avrebbero le seguenti rappresentazioni non ambigue 3.4000 · 10−3 (precisione relativa alla quinta cifra) e 3.4 · 10−3 (precisione relativa di due cifre). Spesso nei calcoli `e necessario operare l’arrotondamento. Scelta con criterio la precisione relativa con cui rappresentare il risultato, `e necessario controllare la cifra successiva a quella meno significativa: se questa `e 0, 1, 2, 3 o 4 l’arrotondamento `e fatto per difetto (troncamento), viceversa l’arrotondamento `e fatto per eccesso, considerando il minimo numero superiore che ha la precisione richiesta. L’arrotondamento `e effettuato sul valore assoluto e il segno si conserva. Esempio B.1: Arrotondamenti Numero di partenza 34.26 -34.26 34.26 634.26

Precisione richiesta 0.1 (al decimo) 0.1 (al decimo) 1 (all’unit`a) 10 (alla decina)

Risultato 34.3 -34.3 34 630

Arrotondamento per eccesso eccesso difetto difetto

B.3 Scelta della precisione opportuna La rappresentazione numerica di una quantit`a deve essere coerente con la precisione della grandezza. Per esempio, il diametro di un perno, se misurato con un calibro che ha la risoluzione di un decimo di millimetro `e scritto correttamente nel modo seguente: 10.3 mm (precisione assoluta del decimo di millimetro, precisione relativa di tre cifre). Se lo stesso perno fosse stato misurato con un comparatore centesimale (che discrimina il centesimo di mm), il diametro diventerebbe 10.30 mm (precisione del centesimo di mm, precisione relativa alla quarta cifra). ` scorretto (oltre che inutile e spesso dannoso) usare pi` E u cifre decimali di quante competono alle caratteristiche di precisione della grandezza da rappresentare. L’eccesso di cifre produce infatti i seguenti inconvenienti: • i tempi di soluzione e di controllo del calcolo aumentano • cresce la probabilit`a di commettere errori banali, per esempio di trascrizione

897

Regole pratiche per il calcolo numerico

• un errore banale (di calcolo o di trascrizione) `e compiuto con una probabilit`a che pu`o essere considerata indipendente dalla posizione della cifra nel numero ma le conseguenze dell’errore non sono indipendenti dalla posizione della cifra sbagliata (e quindi dal numero di cifre) • un numero gravato di cifre inutili `e pi` u difficile da ricordare e da verificare. Nella soluzione dei problemi,le quantit`a devono essere elaborate per ottenere il risultato finale e ci`o comporta che il grado di precisione dei risultati finali non pu`o essere superiore a quello dei dati di ingresso. La propagazione degli errori dai dati ai risultati `e un argomento di Analisi Numerica che richiede una trattazione molto pi` u approfondita di quella che pu`o essere contenuta in una Appendice. Questi problemi possono essere importanti anche nel campo dell’analisi assistita da computer, soprattutto quando si affrontano fenomeni complessi con modelli descritti da equazioni non lineari. Nel seguito sono fornite alcune regole di carattere generale che possono essere applicate nella maggioranza dei calcoli manuali e che quindi sono utili per la soluzione dei problemi proposti nel presente corso. I numeri approssimati devono essere inseriti nelle espressioni con l’adeguato numero di cifre decimali. Il numero di cifre decimali del risultato di una elaborazione deve essere congruente con quello dei dati di ingresso. Per queste ragioni `e opportuno usare le seguenti regole pratiche: 1. quando due numeri approssimati sono moltiplicati o divisi tra loro, il risultato deve essere rappresentato con lo stesso numero di cifre del numero che ha la minore precisione relativa 2. quando si esegue la somma o la differenza tra due numeri approssimati, il risultato deve essere rappresentato in modo che la sua precisione assoluta sia pari a quella del numero meno preciso. Nei calcoli, le quantit`a intermedie, contenute nella memoria dei sistemi di elaborazione, devono essere conservate con tutte le cifre disponibili, questo non ha costo e riduce gli errori di approssimazione numerica. Per`o, quando viene presentato un risultato (parziale o finale), le due regole precedenti dovrebbero essere rispettate. Anche se si possono trovare (in effetti poche) eccezioni, si pu`o generalmente ammettere che nella tecnica, raramente si trattano quantit`a con precisione relativa superiore al permille. Di solito, quantit`a che differiscono tra loro per frazioni del percento sono considerate equivalenti. Per convincersene basta pensare a tutte le quantit`a che definiscono gli oggetti di normale consumo come i prodotti alimentari, oppure le misure fisiologiche (peso, altezza). Pertanto, nella rappresentazione dei numeri approssimati, le cifre oltre alla terza significativa non hanno generalmente alcun significato. Nelle situazioni in cui `e richiesta una maggiore precisione relativa, si rendono necessarie cure e attenzioni specifiche, per il controllo delle condizioni e la scelta dei sistemi di misura, tipiche dei laboratori metrologici con ambiente controllato e personale qualificato. Quando la precisione di un numero approssimato `e imprecisata, si pu`o ricorrere alla seguente regola pratica che assicura una rappresentazione numerica adeguata e ragionevole: • se il numero ha come cifra pi` u significativa 1 (al massimo 2) `e opportuno rappresentarlo con 4 cifre • se la prima cifra `e maggiore di 1 `e opportuno rappresentarlo con 3 cifre. Questo garantisce una precisione relativa dell’ordine del permille. Esempi di quantit`a cos`ı rappresentate sono: 1.234; 0.01578; 2.98; 4.06; 8.70; ecc. . . Le quantit`a esatte, quando non intere, come per esempio π, sono generalmente disponibili nella memoria delle calcolatrici con un numero di cifre pi` u che sufficiente.

898

B.3. SCELTA DELLA PRECISIONE OPPORTUNA

Esempio B.2: Diagonale del quadrato Calcolare la diagonale di una lamiera quadrata di lato a = 32.5 mm.



Dalla geometria elementare sappiamo che la diagonale d del quadrato si ottiene con l’espressione: √ d = 2 · cos(π/4)a = 2a Sembrerebbe di dover moltiplicare un numero esatto per un numero approssimato. In √ effetti, si pu`o ottenere 2 direttamente dalla calcolatrice (`e pi` u immediato e sicuro che digitare 1.414 . . .) e moltiplicare il risultato (un numero decimale illimitato non periodico) per 32.5. In base a quanto detto, il risultato del prodotto non pu`o avere una precisione relativa superiore al peggiore dei fattori, per cui `e opportuno scrivere: d = 46.0 mm arrotondando alla terza cifra significativa il numero visualizzato sul display che, scritto con pi` u cifre, sarebbe: 45.962 . . . . Le cifre successive alla terza non hanno alcun significato poich´e non `e plausibile ottenere la diagonale con una precisione maggiore di quella con cui `e stato misurato il lato, che costituisce il punto di partenza√dell’elaborazione. Anche sul fatto che il fattore adimensionale (in valore: 2 = 2 · cos(π/4)) sia effettivamente un numero esatto si potrebbe opinare. Non possiamo certo assumere che la lamiera sia un quadrato perfetto con angoli di 90◦ assolutamente precisi! Sulla base di questa osservazione ricaviamo quindi che, non potendo ammettere che la precisione relativa della misura degli angoli retti sia migliore del permille, la diagonale rappresentata con 3 cifre ha una precisione presumibilmente eccessiva.

899

Appendice C

Applicazioni del principio dei lavori virtuali In questa appendice sono presentati i concetti fondamentali del principio dei lavori virtuali. Sono in particolare discussi alcuni problemi di statica che evidenziano pregi e difetti del metodo di soluzione basato sul principio dei lavori virtuali rispetto al metodo basato sulle equazioni cardinali.

C.1 Il principio dei lavori virtuali Nei problemi di Meccanica (Statica e Dinamica) si possono generalmente seguire due vie diverse ma che conducono al medesimo risultato. La prima, che `e quella privilegiata nel presente corso, deriva dall’equazione fondamentale della meccanica F~ = m~a e, per questo, `e chiamata approccio differenziale. La soluzione dei problemi di Statica basata sulle equazioni cardinali ne costituisce un esempio di applicazione. La seconda via `e basata sull’applicazione del teorema delle forze vive e quindi prevede il calcolo dei lavori delle forze. Questo approccio conduce a equazioni nelle quali la funzione incognita, la legge di moto o la configurazione di equilibrio, compare sotto il segno di integrale. I metodi di soluzione di questo tipo sono indicati come energetici o variazionali. Quando le forze agenti sul sistema in esame sono conservative, l’applicazione dei metodi energetici pu` o essere molto conveniente. In tali casi in effetti `e possibile definire opportune funzioni (energie potenziali) che permettono di calcolare i lavori delle forze sulla base delle sole configurazioni iniziali e finali a prescindere dalle traiettorie dei punti del sistema. Il seguente esempio piano illustra l’applicazione del metodo energetico nella soluzione di problemi di statica. Esempio C.1: Equilibrio di un pendolo semplice Analizzare da un punto di vista energetico le condizioni di equilibrio di un pendolo semplice (figura C.1) costituito da un punto materiale di massa m collegato al telaio tramite una barretta di lunghezza l avente massa trascurabile.  Si tratta di un problema del secondo tipo (vedi capitolo 2) facilmente risolvibile con le equazioni cardinali che dimostrano l’esistenza di due configurazioni di equilibrio distinte: una per θ = 0 e una per θ = π. Consideriamo la configurazione di equilibrio con la massa in basso (θ = 0) e il corrispondente schema di corpo libero (figura C.2) della massa stessa.

901

Applicazioni del principio dei lavori virtuali

Figura C.1: Pendolo semplice

Supponiamo di effettuare uno spostamento della massa compatibile con i vincoli, nel caso in esame ci`o consiste nel produrre una rotazione del pendolo. A seguito della variazione di configurazione, i punti di applicazione delle forze si spostano e, di conseguenza, le forze agenti possono compiere lavoro. Per semplificare il calcolo dei lavori, consideriamo variazioni virtuali di configurazione che, per definizione, sono tali da non produrre alterazioni nelle forze agenti.

Figura C.2: Schema di corpo libero nella posizione di equilibrio inferiore

Nel caso del pendolo, la rotazione virtuale sar`a indicata con il simbolo δθ. Possiamo osservare che, con la variazione di configurazione in figura C.2, il lavoro virtuale complessivo fatto dalle forze agenti sul punto `e nullo, essendo il movimento virtuale della massa m perpendicolare a entrambe le forze su di essa agenti. Lo stesso si verifica anche per l’altra posizione di equilibrio (θ = π). Consideriamo invece il pendolo in una qualunque altra posizione θ 6= kπ (con k ∈ N ). Lo schema di corpo libero del punto materiale `e riportato in figura C.3 dove la forza esercitata dal braccetto non `e precisata in modulo. Dalle equazioni cardinali sappiamo che tale configurazione non `e di equilibrio statico. In effetti, se da tale posizione si effettua uno spostamento virtuale (rotazione δθ), il lavoro virtuale totale delle forze (il contributo di T `e nullo indipendentemente dal modulo perch´e la forza `e perpendicolare alla traiettoria) `e la seguente quantit`a non nulla:

δL = −mgl · sin θ · δθ

902

C.2. EQUIVALENZA DEL P.L.V. CON LE EQUAZIONI CARDINALI

Figura C.3: Schema di corpo libero in una generica posizione inclinata

L’esempio precedente C.1 illustra il seguente Principio dei Lavori Virtuali (P.L.V.): in un sistema in equilibrio statico, il lavoro virtuale fatto da tutte le forze agenti per qualunque spostamento virtuale dei suoi punti (purch´e compatibile con i vincoli) `e nullo. Cos`ı formulato, il P.L.V. `e molto generale e si applica, oltre che a singoli punti materiali, anche a sistemi di punti materiali, indipendentemente dalla complessit`a del sistema, purch´e siano considerate tutte le forze agenti: interne ed esterne, conservative e non. In particolare, nel caso di sistemi non rigidi, il lavoro virtuale fatto dalle forze interne `e fondamentale. Come le equazioni cardinali della statica, anche il P.L.V. pu`o essere esteso alla soluzione di problemi dinamici, con l’impiego di opportuni sistemi di riferimento e l’introduzione delle forze d’inerzia.

C.2 Equivalenza del P.L.V. con le equazioni cardinali Nell’esempio seguente `e verificata l’equivalenza tra gli approcci basati sul P.L.V. e sulle equazioni cardinali. Esempio C.2: P.L.V. ed equazioni cardinali Consideriamo un corpo rigido libero nel piano su cui agiscono i seguenti carichi: un momento M0 e due forze F e T , rispettivamente applicate nei punti A e B che distano tra loro a. Determinare il legame tra i carichi affinch´e il corpo sia in equilibrio nella configurazione rappresentata in figura C.4.

Figura C.4: Corpo rigido libero nel piano

903

Applicazioni del principio dei lavori virtuali

Con le equazioni cardinali, il problema pu`o essere risolto immediatamente (per esempio, assumendo A come polo): R x = Fx + T x = 0 R y = Fy + T y = 0 M zA = M0 + Ty · a = 0 ` necessario caratterizzare nel modo Cerchiamo la condizione di equilibrio con il P.L.V.. E pi` u generale il moto virtuale del sistema. In questo caso, si tratta di un corpo rigido libero nel piano per cui deve essere rispettato solo il vincolo interno di rigidezza. Il generico spostamento virtuale piano del corpo `e completamente rappresentato da tre quantit`a scalari virtuali indipendenti che caratterizzano i tre gradi di libert`a. Tra le infinite terne di quantit`a indipendenti, si pu`o scegliere: δuA e δvA , che individuano lo spostamento virtuale del punto A, e δθ che individua la rotazione virtuale del corpo attorno ad A. La figura C.5 mostra il corpo prima (contorno a tratto continuo) e dopo (contorno tratteggiato) lo spostamento virtuale, con i punti di applicazione delle forze nella nuova configurazione: A∗ e B ∗ .

Figura C.5: Moto virtuale del corpo rigido

Per calcolare il lavoro virtuale complessivo `e necessario esprimere lo spostamento dei punti di applicazione delle azioni agenti in funzione delle quantit`a scalari indipendenti assunte per caratterizzare la variazione di configurazione. Per la forza F il calcolo del lavoro risulta immediato. Le componenti cartesiane dello spostamento virtuale del punto B (ovvero il vettore BB ∗ ) si calcolano con considerazioni geometriche elementari, dato che gli spostamenti virtuali possono essere assunti infinitesimi: δuB = δuA δvB = δvA + a · δθ Il lavoro virtuale totale si ottiene sommando i tre contributi: δL = Fx · δuA + Fy · δvA + Tx · δuB + Ty · δvB + M0 · δθ In questo caso, le forze interne non intervengono nel bilancio in quanto, essendo il corpo rigido, fanno lavoro nullo. Tenendo conto delle relazioni scritte per lo spostamento di B e raccogliendo i termini, si ottiene la relazione: δL = (Fx + Tx ) · δux + (Fy + Ty ) · δuy + (M0 + Ty · a) · δθ = 0 che rappresenta una combinazione lineare delle quantit`a scalari indipendenti δux , δuy , δθ che definiscono lo spostamento virtuale. Sulla base del P.L.V., l’equilibrio si verifica se il lavoro virtuale `e nullo per ogni valore assunto dagli spostamenti virtuali. Questa condizione `e soddisfatta se e solo se tutti i coefficienti della combinazione lineare sono nulli.

904

C.3. SOLUZIONE DI PROBLEMI DI MECCANICA CON IL P.L.V.

Dall’esempio `e immediato verificare che l’annullamento dei coefficienti della combinazione lineare con cui `e espresso il lavoro virtuale conduce alle stesse uguaglianze che si ottengono imponendo le equazioni cardinali. Per quanto non sia vantaggioso dal punto di vista dei calcoli, lo spostamento virtuale del corpo poteva essere espresso adottando, come quantit`a scalari indipendenti, lo spostamento δuC e δvC di un qualunque altro punto C (al posto di A) e la rotazione del corpo attorno a C (tale rotazione `e ovviamente ancora δθ, essendo il corpo rigido). Le relazioni che si ottengono dal P.L.V. con questa diversa scelta dei parametri sono combinazioni lineari di quelle ottenute ` lasciata al lettore la verifica che scegliere C come punto di riferimento nell’esempio precedente. E per gli spostamenti corrisponde ad assumere C stesso come polo per il calcolo del momento nelle equazioni cardinali.

C.3 Soluzione di problemi di Meccanica con il P.L.V. Come illustrato nei prossimi esempi, il P.L.V. pu`o essere impiegato al posto delle equazioni di equilibrio per risolvere anche problemi che riguardano meccanismi e strutture. Esempio C.3: P.L.V. per l’analisi di meccanismi Con il P.L.V. valutare la forza orizzontale F che deve essere applicata in C per mantenere in equilibrio il meccanismo a un grado di libert`a (manovellismo di spinta centrato) composto da due barre rigide di lunghezza a connesse con vincoli ideali rappresentato in figura C.6. Il carico `e costituito da un momento puro M0 applicato al corpo AB. Verificare che il punto di applicazione del momento non ha effetto sul valore di F .

Figura C.6: Manovellismo di spinta centrato

Possiamo assumere la coordinata angolare α come coordinata lagrangiana ed esprimere lo spostamento virtuale di tutti i punti del sistema in funzione della sua variazione virtuale δα. Anche in questo caso, essendo i corpi infinitamente rigidi e i vincoli ideali (senza attrito), le forze interne non fanno lavoro. Per esprimere il lavoro virtuale, `e necessario ottenere in funzione di δα la rotazione del corpo AB (spostamento energeticamente associato al momento applicato) e lo spostamento orizzontale del punto C. Osserviamo che δα > 0 se α cresce e quindi, per come `e stata definita la coordinata angolare α, se AB ruota in senso antiorario. Considerando un asse cartesiano orizzontale centrato in A e diretto verso C, l’ascissa di C `e data da: xC = 2a cos α

905

Applicazioni del principio dei lavori virtuali

differenziando si ottiene: dxC = −2a sin α · dα Considerando lo spostamento virtuale infinitesimo, si pu`o scrivere: δxC = −2a sin α · δα da cui si ottiene il lavoro virtuale complessivo: δL = −M0 · δα − F · δxC = (−M0 + 2F a sin α) · δα Affinch´e il lavoro virtuale sia nullo per ogni spostamento virtuale, deve essere: −M0 + 2F a · sin α = 0 dalla quale si giunge alla soluzione: F =

M0 2a · sin α

Possiamo notare l’estrema efficienza del procedimento, che ha fornito il risultato senza richiedere la soluzione di un sistema di equazioni (a differenza del metodo basato sulle cardinali). Tuttavia, la soluzione con il P.L.V. richiede una sintesi geometrico-cinematica del meccanismo che potrebbe non essere facile in altri casi. Il P.L.V. `e spesso utile per determinare propriet`a particolari dalla soluzione, come il valore di alcune componenti delle azioni statiche. Tuttavia, per problemi in cui `e richiesta la soluzione completa, con il tracciamento dello schema di corpo libero di tutti i corpi costituenti, il vantaggio del P.L.V. rispetto al metodo basato sulle cardinali generalmente viene meno. Gli esempi precedenti sembrano indicare che il P.L.V. sia applicabile solo a meccanismi, in quanto richiede che nel sistema possano prodursi spostamenti. Il metodo pu`o essere invece adattato facilmente anche alla soluzione di problemi isostatici, come illustra il seguente esempio. Esempio C.4: P.L.V. per la soluzione di problemi isostatici Considerato l’arco a tre cerniere di figura C.7 di geometria e carico analogo allo schema dell’esempio precedente, usando il P.L.V., determinare: a) la reazione orizzontale applicata dal telaio al punto C b) la forza verticale che i due elementi AB e BC si scambiano in corrispondenza della cerniera in B

906

C.3. SOLUZIONE DI PROBLEMI DI MECCANICA CON IL P.L.V.

Figura C.7: Arco a tre cerniere

La cerniera in C impedisce il moto orizzontale esercitando una opportuna componente orizzontale di forza. Per ottenere (solo) tale componente della reazione vincolare, eliminiamo la componente orizzontale del vincolo geometrico, trasformando la cerniera in un appoggio verticale. Come consuetudine, `e necessario introdurre nello schema di corpo libero la reazione vincolare (incognita) associata al grado di libert`a svincolato. Si ottiene in tal modo lo stesso schema del precedente esempio rappresentato in figura C.6. La risposta alla domanda a) `e pertanto la soluzione dell’esempio precedente. Possiamo riconoscere in questo procedimento il tracciamento di una sorta di schema di corpo libero preliminare parziale nel quale `e evidenziata, oltre ai carichi, solo l’incognita statica che interessa valutare. La risposta alla domanda b) pu`o essere ottenuta in modo analogo, tenendo conto che, essendo in questo caso richiesta la reazione di un vincolo interno, entrambe le componenti di azione-reazione sono significative (possono fare lavoro) e devono essere riportate nello schema di corpo libero preliminare parziale. L’applicazione del P.L.V. `e illustrata nella figura C.8, che evidenzia i seguenti aspetti:

• eliminando la reazione verticale, la cerniera in B diventa un appoggio semplice (interno),

• la struttura isostatica di partenza diventa un meccanismo a un grado di libert`a in cui le due forze opposte T devono essere tali da mantenere l’equilibrio nella configurazione indicata,

• la componente verticale della forza che i due corpi si scambiano in B (per il terzo principio) agisce su parti separate della struttura: B1 e B2 nello schema,

• entrambe le componenti T fanno lavoro.

907

Applicazioni del principio dei lavori virtuali

Figura C.8: Sconnessione parziale di un vincolo interno per valutare la componente verticale della reazione vincolare

Per trovare gli spostamenti virtuali verticali dei punti B1 e B2 in conseguenza della solita rotazione virtuale δα del corpo AB (assunta α come coordinata lagrangiana), `e sufficiente considerare che la distanza AC = a cos α + a cos β deve rimanere costante, per cui differenziando si ha la relazione: −a sin α · dα − a sin β · dβ = 0 inoltre, se si tiene conto che, nella configurazione data α = β, dalla relazione precedente si ricava: dα = −dβ Poich´e la quota verticale dei due punti B1 e B2 `e: yB1 = a sin α yB2 = a sin β lo spostamento verticale (positivo verso l’alto) dei punti B1 e B2 `e rispettivamente: dyB1 = a cos α · dα dyB2 = a cos β · dβ = −a cos α · dα pertanto, il lavoro virtuale complessivo dovuto a δα = dα risulta: δL = −M0 · dα + T · dyB1 − T · dyB2 = −M0 · dα + T a cos α · dα − T (−a cos α · dα) = = (−M0 + 2T a cos α) · δα da cui per il P.L.V., si ottiene la risposta: T =

M0 2a cos α

Come nella soluzione con le equazioni cardinali, il segno positivo o negativo del risultato indica se il verso effettivo della reazione `e concorde o discorde da quello presunto nello schema di corpo libero preliminare.

908

C.4. EFFICACIA DEL P.L.V.

C.4 Efficacia del P.L.V. In alcuni problemi il P.L.V. si dimostra veramente efficace, come illustrato negli esempi seguenti, il primo nel piano e il secondo nello spazio. Esempio C.5: Pantografo moltiplicatore di forza Determinare la forza agente sul cavo AB nel pantografo di figura C.9 al cui estremo `e applicata la forza F .

Figura C.9: Pantografo moltiplicatore di forza

Volendo risolvere il problema con le equazioni cardinali, si dovrebbe impostare un sistema lineare di oltre 20 equazioni. La soluzione `e peraltro univocamente determinabile, essendo il problema isostatico. Si osservi peraltro che la struttura non `e reticolare. In questo caso, per rispondere alla specifica domanda, il P.L.V. `e efficacissimo. Eliminiamo il cavo AB e lo sostituiamo con la forza che esso pu`o esercitare sul pantografo in B. Il pantografo pu`o essere considerato come la sequenza di 7 triangoli isosceli uguali che si allargano (o si restringono) tutti della stessa quantit`a. Pertanto, indicando con δxB lo spostamento orizzontale del punto B, lo spostamento orizzontale dell’estremo C sar`a: δxC = 7δxB . Il tiro del cavo `e quindi 7 volte pi` u intenso del modulo della forza F . Pu`o essere interessante osservare che il fattore di amplificazione della forza risulta indipendente dall’angolo di apertura del pantografo, pertanto il fattore di amplificazione si mantiene costante durante il funzionamento anche se il pantografo modifica sensibilmente la sua configurazione.

Esempio C.6: Morsa Il meccanismo a vite di una morsa sfrutta `e tale per cui, in conseguenza di una rotazione completa, le ganasce si avvicinano di p = 5 mm. Sulla vite di comando `e montata una maniglia rettilinea di lunghezza b = 300 mm perpendicolare all’asse della vite stessa. All’estremit`a della maniglia `e esercitata una forza P = 200 N, in direzione normale al piano individuato dagli assi della maniglia e della vite. Determinare la forza di chiusura S della morsa.  Si tratta di un problema che, come il precedente, pu`o essere risolto in modo immediato con il P.L.V., prescindendo dalle caratteristiche costruttive e dimensionali della morsa

909

Applicazioni del principio dei lavori virtuali

(ovviamente considerando gli elementi rigidi e gli attriti trascurabili). Infatti, supponendo di produrre una rotazione δθ della maniglia, il lavoro complessivo sar`a: δL = P b · δθ − S

p · δθ 2π

e quindi S=

2πb · P = 377 · P = 75.4 kN p

Come `e tipico per le morse con attrito trascurabile, si osserva che il meccanismo amplifica notevolmente la forza (motrice) F nella forza (resistente) S. Il P.L.V. permette di evidenziare in modo immediato che il fattore di amplificazione delle forze `e pari al reciproco del rapporto tra i corrispondenti spostamenti dei punti di applicazione delle forze (misurati nella direzione delle forze stesse). In presenza di attrito nei vincoli, il problema si complica perch´e le reazioni vincolari sono in grado di fare lavoro. In questi casi useremo il metodo delle equazioni cardinali.

910

Appendice D

Propriet` a geometriche delle sezioni Nello studio del comportamento strutturale delle travi, lo stato di tensione prodotto dalle caratteristiche di sollecitazione pu`o essere valutato in molti casi in modo analitico se sono note alcune propriet`a geometriche globali della sezione. Le stesse caratteristiche di sollecitazione sono definite con riferimento al sistema locale della sezione, determinato in base alle propriet` a geometriche della sezione stessa. In particolare, l’origine del sistema locale `e localizzata nel baricentro della sezione e l’orientazione degli assi `e legata alle propriet`a d’inerzia. Nella presente appendice sono definite le principali propriet`a geometriche delle sezioni e sono sviluppati metodi per la loro determinazione. Sono inoltre fornite indicazioni pratiche su come ottenere tali propriet`a per sezioni di forma complessa a partire dalle caratteristiche degli elementi costituenti reperibili dalla consultazione di manuali tecnici.

D.1 Definizioni Nel seguito sono esaminate sezioni piane generalmente di area non nulla (figure non degeneri) che occupano un dominio bidimensionale limitato indicato con Ω avente contorno la linea chiusa Γ, come schematizzato in figura D.1. La sezione pu`o essere composta di pi` u parti separate, pu` o presentare fori e quindi vi possono essere pi` u linee di contorno. Si assume che il contorno Γ sia costituito da un numero finito di tratti regolari di linea, ovvero continui e derivabili (vedi Appendice E), in modo che, escluso al pi` u un numero finito di punti (gli eventuali punti angolosi), sia definibile una retta tangente al contorno. Per rappresentare le coordinate dei punti si far`a uso di vari sistemi di riferimento cartesiani bidimensionali con gli assi giacenti nel piano della sezione. In conformit`a con la notazione adottata per le caratteristiche di sollecitazione delle travi, la designazione classica x − y sar` a riservata agli assi del sistema di riferimento con origine nel baricentro e con le direzioni centrali principali d’inerzia. Per i sistemi di riferimento che non hanno queste caratteristiche saranno impiegati simboli con (uno o pi` u) apici, come per esempio: x0 − y 0 o x00 − y 00 . Nella figura D.1 `e visualizzata una sezione in un generico sistema di riferimento cartesiano piano. L’area A della figura `e il valore (positivo) dell’integrale doppio: Z A = dx0 dy 0 (D.1) Ω

Questa operazione, come noto dall’Analisi Matematica, consiste nell’effettuare la somma delle aree infinitesime di tutti i rettangoli elementari (aventi lati dx0 e dy 0 ) del piano che appartengono al dominio Ω della sezione (figura D.1).

911

Propriet` a geometriche delle sezioni

Figura D.1: Generica sezione in un sistema cartesiano piano

Esempio D.1: Area di un settore parabolico Calcolare l’area della sezione rappresentata in figura D.2, consistente nella porzione di  parabola di equazione y 0 = 14 x02 + 1 che si trova sotto la retta passante per i punti B(−2, 1.25) e C(4, 4.25) (le quantit`a numeriche sono espresse in mm).

Figura D.2: Esempio di sezione costituita da un segmento parabolico nel sistema cartesiano x0 − y 0

La retta BC ha equazione y 0 = 0.5x0 + 2.25, pertanto l’area si ottiene con il seguente integrale doppio: ! Z4 Z 0.5x0 +2.25 A= dy 0 dx0 = 9 mm2 −2

1 (x02 +1) 4

Poich´e le misure lineari sono state espresse in mm, l’area risulter`a espressa in mm2 . Il ricorso al calcolo dell’integrale (D.1) per valutare un’area `e raro nei casi pratici. Molto spesso, infatti, una sezione pu`o essere scomposta in un numero finito di parti (o sottosezioni) di forma semplice (rettangoli, triangoli, porzioni di cerchio, ecc. . . ) le cui aree sono valutabili con le formule della geometria elementare. Sfruttando la propriet`a di additivit`a dell’integrale, l’area della figura composta (similmente a molte altre propriet`a geometriche di seguito introdotte) si ottiene come somma delle aree delle sue parti. Il calcolo dell’integrale diventa necessario quando il contorno della figura `e formato da tratti non circolari o rettilinei dei quali l’espressione analitica `e nota, come nell’esempio precedente.

912

D.2. MOMENTI STATICI E BARICENTRO

Esempio D.2: Area di una sezione composta Calcolare l’area della sezione in figura D.3 quotata in mm.

Figura D.3: Sezione scomponibile in porzioni di forma elementare

La sezione pu`o essere scomposta in un rettangolo di lati 50 mm e 40 mm, un triangolo rettangolo di cateti 40 mm e 40 mm e un semicerchio di raggio 25 mm (tutte le misure sono considerate precise al mm). L’area vale pertanto: A = 40 · 50 +

1 π · 402 + · 252 = 3.78 · 103 mm2 2 2

il risultato `e stato rappresentato con una precisione relativa pi` u che sufficiente, tenendo conto delle caratteristiche di precisione dei dati di ingresso (come indicato nell’appendice B).

D.2 Momenti statici e baricentro D.2.1 Definizione di momento statico e sue propriet` a Dato un sistema di assi x0 − y 0 e origine O0 (come in figura D.1), si definisce momento statico (first static moment) o momento del primo ordine della sezione Ω rispetto all’asse x0 il seguente integrale doppio: Z y 0 dx0 dy 0

S x0 =

(D.2)



in cui le aree dei rettangoli infinitesimi appartenenti a Ω sono moltiplicate per la loro ordinata y 0 prima di essere sommate. In modo analogo `e definito il momento statico rispetto all’asse y 0 : Z Sy0 = x0 dx0 dy 0 (D.3) Ω

Dalle definizioni dei momenti statici si possono effettuare le seguenti osservazioni: • il momento statico `e dimensionalmente equivalente a un volume (generalmente si misura in mm3 ); • nell’integrale compare la distanza con segno dall’asse indicato a pedice (il valore dell’altra coordinata rispetto al pedice);

913

Propriet` a geometriche delle sezioni

• a differenza dell’area, per il momento statico `e rilevante anche la posizione della sezione rispetto all’asse; pertanto A `e una quantit`a invariante con il sistema di riferimento, mentre i momenti statici S non lo sono; • il momento statico `e una quantit`a con segno; per esempio nel caso in figura D.1, Sx0 e Sy0 sono entrambi positivi, invece se la sezione fosse contenuta completamente nel secondo quadrante sarebbe Sx0 > 0 e Sy0 < 0; • se l’origine degli assi `e all’interno del contorno esterno di una sezione, il segno del momento statico non `e immediatamente prevedibile, in questo caso Sx0 potrebbe essere positivo, negativo o anche nullo. Il momento statico deve il suo nome a una evidente analogia meccanica. Si consideri una lamiera di materiale omogeneo avente densit`a e spessore tale che il peso per unit`a di superficie sia unitario. Se dalla lamiera viene ritagliata una porzione avente la stessa forma di Ω e si dispone tale corpo su un piano orizzontale con assi x0 e y 0 , il momento statico della sezione Sx0 `e numericamente uguale alla componente x0 del momento risultante delle forze peso calcolato rispetto all’origine O0 e Sy0 numericamente uguale alla componente y 0 . Per il calcolo dei momenti statici di sezioni di forma complessa si possono ripetere considerazioni analoghe a quelle fatte per l’area. Anche in questo caso, le propriet`a di additivit`a dell’integrale permettono di scomporre la sezione in sottosezioni aventi forme semplici.

D.2.2 Effetto del cambiamento del sistema di riferimento Per sviluppare tecniche di calcolo basate sulla scomposizione della sezione in parti semplici, `e utile analizzare in che modo i momenti statici variano se si modifica il sistema di riferimento. In primo luogo consideriamo l’effetto prodotto sul momento statico dallo spostamento dell’origine del sistema di riferimento ovvero da una traslazione degli assi. Consideriamo una sezione i cui

Figura D.4: Traslazione di assi dal sistema originario x0 − y 0 al sistema nuovo x00 − y 00 avente centro in O00 che ha coordinate (a0 , b0 ) nel sistema originario

momenti statici Sx0 e Sy0 sono noti rispetto al sistema x0 − y 0 (sistema originario). Valutiamo i momenti statici rispetto agli assi x00 − y 00 di un sistema traslato (sistema nuovo) il cui centro `e collocato nel punto O00 . Il centro del nuovo sistema `e definito dalle coordinate (a0 , b0 ) riferite al sistema originario, come mostrato in figura D.4. Il singolo apice per le grandezze a0 e b0 indica che sono coordinate riferite agli assi originari. In base alle definizioni (D.2) e (D.3), si ottengono le relazioni: Z Z Z Z  0 0 00 00 00 0 0 0 0 0 0 Sx00 = y dx dy = y − b dx dy = y dx dy − b dx0 dy 0 (D.4) Ω

914







D.2. MOMENTI STATICI E BARICENTRO

Z Sy00 =

x00 dx00 dy 00 =



Z

 x0 − a0 dx0 dy 0 =



Z

x0 dx0 dy 0 − a0



Z

dx0 dy 0

(D.5)



riassumibili nelle seguenti formule di facile memorizzazione: Sx00 = Sx0 − b0 A

(D.6)

Sy00 = Sy0 − a0 A

(D.7)

` opportuno osservare che, esclusa l’area A, le quantit`a indicate nelle relazioni (D.6) e (D.7) E hanno segno e, pertanto, la corretta applicazione di tali formule richiede rigore e attenzione nella definizione degli assi, delle relative coordinate nonch´e nell’identificazione del sistema originario (singolo pedice) e di quello nuovo (doppio pedice).

D.2.3 Definizione di baricentro Se i momenti statici nel sistema originario sono noti, le relazioni (D.6) e (D.7) consentono di rispondere alla domanda: esiste un punto, che chiameremo G, da considerarsi il centro del sistema nuovo, rispetto al quale i momenti statici Sx00 e Sy00 sono entrambi nulli? Per rispondere `e necessario discutere le equazioni che si ottengono dalle relazioni (D.6) e 0 (le (D.7) ponendo a zero i primi membri e considerando come incognite a0 = x0G e b0 = yG coordinate di G nel sistema originario): 0 S x0 − y G ·A = 0

Sy 0 −

x0G · A

=0

(D.8) (D.9)

Poich`e le (D.8) e (D.9) sono equazioni di primo grado con A > 0, esse hanno sempre un’unica soluzione: S x0 0 yG = (D.10) A Sy 0 (D.11) x0G = A Si pu`o quindi concludere che: data una qualunque sezione e una coppia di direzioni perpendicolari, esiste sempre, ed `e unico, un punto G tale per cui i momenti statici calcolati rispetto agli assi passanti per G e paralleli alle direzioni date sono nulli. Il punto G `e detto baricentro della sezione Ω. Un asse rispetto al quale il momento statico `e nullo `e detto centrale per la sezione. Nell’ambito della geometria delle sezioni gli aggettivi centrale, baricentrale e baricentrico sono sinonimi. Si indicano indifferentemente come rette centrali o rette baricentriche le rette che passano per G e quindi hanno momento statico nullo. Esempio D.3: Calcolo del baricentro in base alla definizione Determinare il baricentro del segmento di parabola di figura D.2 sulla base della definizione.  Rispetto agli assi cartesiani indicati nella figura D.2, possono essere valutati i momenti statici tramite i seguenti integrali: ! Z4 Z 0 0.5x +2.25

S x0 = −2

y 0 dy 0

dx0 = 16.65 mm3

1 (x02 +1) 4

915

Propriet` a geometriche delle sezioni

Figura D.5: Determinazione delle coordinate del baricentro

Z4 Sy 0 =

Z

!

0.5x0 +2.25

0

x dy −2

0

dx0 = 9.00 mm3

1 (x02 +1) 4

0 = da cui, ricordando che l’area `e 9 mm2 , si ha: x0G = 9.00/9.00 = 1.00 mm e yG 16.65/9.00 = 1.85 mm.

D.3 Propriet` a del baricentro e calcolo del momento statico di figure complesse D.3.1 Alcune propriet` a del baricentro Si pu`o dimostrare che, partendo da un qualunque sistema di riferimento, anche con assi diversamente orientati, si ottengono per G coordinate generalmente diverse ma che individuano lo stesso punto sulla sezione. La posizione relativa del baricentro rispetto a una sezione `e pertanto una propriet`a invariante della sezione stessa e pu`o essere determinata utilizzando un sistema di riferimento qualsiasi. Ritornando all’analogia della piastra di densit`a uniforme descritta nel paragrafo precedente, il baricentro corrisponde al centro di massa e appartiene all’asse centrale del sistema delle forze peso. Sulla base delle considerazioni finora sviluppate o da esse deducibili, `e possibile elencare le seguenti propriet`a del baricentro che possono essere utili nella soluzione dei problemi: • per una figura il baricentro `e unico e pu`o essere scelto il sistema di riferimento pi` u conveniente per ottenerne le coordinate; • se il baricentro non `e noto, le sue coordinate sono ricavabili (come indicato dalle relazioni (D.10) e (D.11) dal rapporto tra momenti statici e area; • in molte circostanze la posizione del baricentro `e nota a priori, in tal caso le relazioni (D.10) e (D.11) possono essere utili per calcolare i momenti statici; • chiamati x0min e x0max rispettivamente i valori minimo e massimo (in senso algebrico, ovvero x0min < x0max ) delle ascisse dei punti di una sezione non degenere, deve essere x0min < x0G < x0max ; analogamente per le ordinate. Questa propriet`a `e indipendente dall’orientamento del sistema di assi e si pu`o formulare anche come segue: se supponiamo

916

` DEL BARICENTRO E CALCOLO DEL MOMENTO STATICO DI FIGURE COMPLESSE D.3. PROPRIETA

di tendere un anello di elastico sul contorno esterno di una sezione in modo che non si producano grinze, il baricentro della sezione `e interno alla figura sottesa dall’elastico; • la posizione del baricentro non ha nulla di fisico, nel caso di una sezione anulare (per esempio la sezione di un tubo) il baricentro occupa una posizione in cui non vi `e materiale; • se una retta r del piano `e centrale (ovvero `e tale per cui `e nullo il suo momento statico: Sr = 0), allora r passa per il baricentro; • tutti e soli gli assi che hanno momento statico nullo per una sezione (l’insieme degli assi centrali) costituiscono il fascio di rette proprio con punto comune il baricentro; • se una figura `e simmetrica rispetto a un asse q, il momento statico Sq `e nullo, quindi l’asse di simmetria `e una retta centrale e contiene il baricentro; • se una figura ha due assi di simmetria, il baricentro `e la loro intersezione, da questa propriet`a, si ricava la posizione del baricentro di molte figure geometriche elementari: quadrati, rettangoli, rombi, cerchi, corone circolari, ecc. . . ; • il baricentro di un triangolo `e l’intersezione delle mediane, in particolare il baricentro divide i segmenti di mediana in due parti, una di lunghezza doppia dell’altra. Un’altra interessante propriet`a del baricentro, utile in varie circostanze, permette di calcolare il volume V del toro generato per rotazione di una figura piana attorno a un asse esterno alla figura stessa (l’asse pu`o anche intersecare il contorno ma non punti interni al dominio Ω). Consideriamo, come esempio, il solido generato per rotazione di Ω attorno all’asse x0 come rappresentato in figura D.6. Il volume pu`o essere ottenuto con un integrale doppio, sommando i volumi infinitesimi dV degli anelli di raggio y 0 generati dalla rotazione delle sezioni elementari dx0 dy 0 attorno all’asse x0 .

Figura D.6: Generazione di un solido torico tramite la rotazione della sezione Ω attorno all’asse x0

Z V =

2πy 0 dx0 dy 0

(D.12)



917

Propriet` a geometriche delle sezioni

sviluppando i calcoli si ottiene la relazione: 0 V = 2πSx0 = 2πyG A

(D.13)

che si pu`o enunciare come segue (teorema di Guldino): il volume di un toro ottenuto per rotazione di una figura piana (avente qualsiasi forma) attorno a un asse non interno `e pari all’area della figura moltiplicata per il percorso compiuto nella rotazione dal baricentro della figura. Il teorema di Guldino `e valido anche nel caso di rotazioni non complete, e pu`o essre esteso anche al calcolo dell’area della superficie laterale del solido torico. Per ottenere l’area della superficie `e necessario moltiplicare il perimetro della figura Γ che lo genera per il percorso del baricentro della linea Γ stessa (attenzione: la linea di contorno `e una figura piana degenere e il suo baricentro in genere non coincide con il baricentro della figura sottesa Ω). Esempio D.4: Applicazione del teorema di Guldino Calcolare il volume V e la superficie totale St dell’anello in figura D.7 con R2 > R1 .

Figura D.7: Sezione di un anello circolare completo

Sulla base del teorema di Guldino, poich´e per simmetria il centro del cerchio `e il baricentro sia della figura Ω sia della circonferenza di contorno Γ, sar`a: V = πR12 · 2πR2 = 2π 2 R12 R2 S t = 2πR1 · 2πR2 = 4π 2 R1 R2

Nel prossimo esempio il teorema di Guldino `e utilizzato ‘al contrario’ per determinare il baricentro del semicerchio.

918

` DEL BARICENTRO E CALCOLO DEL MOMENTO STATICO DI FIGURE COMPLESSE D.3. PROPRIETA

Esempio D.5: Baricentro del semicerchio Determinare il baricentro del semicerchio di raggio R con il teorema di Guldino.

Figura D.8: Baricentro del semicerchio

Il semicerchio ha un asse di simmetria, pertanto per determinare la posizione di G `e sufficiente calcolarne la distanza c dal segmento di contorno (figura D.8). La rotazione completa del semicerchio attorno al segmento di contorno genera la sfera di raggio R il cui volume `e 4/3πR3 pertanto: πR2 4 2πc · = πR3 2 3 da cui si ottiene la posizione del baricentro: c=

4 ∼ R = 0.4244R 3π

Nota. Il lettore interessato pu`o determinare il baricentro del contorno.

D.3.2 Baricentro di figure composte La relazione tra momento statico e posizione del baricentro `e utile per determinare il baricentro di una sezione scomponibile in parti semplici quando per ognuna delle parti sono note (o facilmente ottenibili) l’area e la posizione del baricentro. Il seguente esempio illustra una applicazione. Esempio D.6: Baricentro di sezioni composte Individuare la posizione del baricentro per la sezione riportata in figura D.3.

919

Propriet` a geometriche delle sezioni

Figura D.9: Figura scomposta in parti semplici di cui sono note le posizioni dei baricentri

Consideriamo un sistema di riferimento comodo per individuare le coordinate dei punti della sezione, come riportato nella figura D.9. La sezione pu`o essere scomposta in tre parti (Ω1 , Ω2 , Ω3 ) diversamente ombreggiate in figura D.9, per ognuna delle quali l’area (A1 = 981.7 mm2 , A2 = 2000 mm2 , A3 = 800 mm2 ) e la posizione dei baricentri `e di immediata determinazione (valori in mm): G1 (25.0, 50.6), G2 (25.0, 20.0) e G3 (63.3, 13.33). Sfruttando le propriet`a di additivit` a e le relazioni (D.8) e (D.9), si ottengono l’area e i momenti statici complessivi della sezione: A = A1 + A2 + A3 = 3.782 · 103 mm2 Sx0 = 981.7 · 50.6 + 2000 · 20.0 + 800 · 13.33 = 1.004 · 105 mm3 Sy0 = 981.7 · 25.0 + 2000 · 25.0 + 800 · 63.33 = 1.252 · 105 mm3 da cui le coordinate del baricentro della sezione composta si deducono immediatamente: x0G =

1.252 · 105 = 33.1 mm 3.782 · 103

1.004 · 105 = 26.5 mm 3.782 · 103 Il baricentro G della sezione composta `e rappresentato nella figura D.9. 0 yG =

Generalizzando il procedimento descritto nell’esempio precedente, `e possibile dimostrare il seguente teorema: le coordinate del baricentro di una sezione composta sono le medie aritmetiche ponderate delle omonime coordinate dei baricentri delle sottosezioni con peso pari alle rispettive aree in forma analitica:

n P

x0G =

i=1

Ai x0Gi

n P i=1

0 Ai yGi

0 ; yG = (D.14) A A 0 ) rappresentano rispettivamente l’area e il baricentro della i-esima in cui Ai e Gi (x0Gi , yGi sottosezione, con i = 1..n e n il numero delle sottosezioni.

920

D.4. MOMENTI D’INERZIA

L’esempio precedente illustra la facilit`a con cui le propriet`a complessive possono essere ottenute quando si pu`o effettuare una scomposizione in parti elementari aventi aree e baricentri noti. La soluzione del problema avrebbe richiesto calcoli pi` u laboriosi se il baricentro fosse stato determinato tramite integrazione. Il procedimento di scomposizione si applica anche a sezioni con fori, un foro pu`o essere infatti considerato una regione di area negativa che si sovrappone a una figura senza fori, come mostrato nell’esempio seguente. Esempio D.7: Baricentro di una semicorona circolare Determinare il baricentro di una semicorona circolare di raggio esterno R2 e raggio interno R1 (con R2 > R1 ).  Con riferimento alla figura D.10, considerazioni di simmetria suggeriscono che x0G = 0, il problema si riduce pertanto alla valutazione dell’ordinata di G.

Figura D.10: Baricentro di una semicorona circolare

Il momento statico della sezione rispetto all’asse x0 (ottenuto come ‘pieno meno vuoto’) vale:  π 4 π 4 2 3 Sx0 = R22 · R2 − R12 · R1 = R2 − R13 2 3π 2 3π 3 da cui S x0 4 R23 − R13 0 yG = = 3π R22 − R12 A

D.4 Momenti d’inerzia D.4.1 Definizioni I momenti del secondo ordine o momenti d’inerzia (second order moments) di una sezione rispetto a una coppia di assi cartesiani x0 − y 0 sono definiti dalle relazioni: Z Jx0 = y 02 dx0 dy 0 (D.15) Ω

Z Jy0 =

x02 dx0 dy 0

(D.16)

x0 y 0 dx0 dy 0

(D.17)



Z Jx0 y0 = Ω

921

Propriet` a geometriche delle sezioni

Nei primi due integrali sono sommate le aree dei rettangoli elementari dx0 dy 0 moltiplicati per il quadrato della distanza rispetto all’asse a cui si riferisce il momento (l’asse indicato dal pedice). Per tale motivo Jx0 e Jy0 sono chiamati momenti d’inerzia assiali. Il terzo `e l’integrale sull’area del prodotto delle coordinate ed `e chiamato momento d’inerzia centrifugo o misto. ` definito anche il momento d’inerzia polare, che si ottiene integrando sulla sezione il E quadrato della distanza r0 del rettangolo elementare dall’origine O0 degli assi: Z (D.18) JO0 = r02 dx0 dy 0 Ω

Essendo r02 = x02 + y 02 si ottiene la relazione generale: JO0 = Jx0 + Jy0

(D.19)

D.4.2 Principali propriet` a dei momenti d’inerzia In base alle definizioni, si possono ricavare alcune propriet`a dei momenti d’inerzia per sezioni non degeneri, che risultano particolarmente utili nella soluzione di molti problemi: • i momenti d’inerzia sono, dimensionalmente, distanze elevate alla quarta potenza e, generalmente, si esprimono in mm4 ; • il nome (e anche la definizione) ricorda le equivalenti propriet`a d’inerzia di massa dei corpi rigidi, le grandezze appena definite sono tuttavia quantit`a di natura geometrica. Per evitare confusione, nel presente corso le omonime propriet`a d’inerzia di massa sono indicate con il simbolo I; • consideriamo una lamiera piana di piccolo spessore h avente forma equivalente a Ω e densit`a γ uniforme tale che il prodotto γ · h (che rappresenta la densit`a per unit`a di superficie) sia unitario; per un sistema di assi x0 − y 0 − z 0 tale che il piano medio della lamiera giaccia sul piano x0 − y 0 , si pu`o verificare che: il momento d’inerzia di massa attorno all’asse x0 (Ix0 ) `e numericamente uguale al Jx0 della sezione, Iy0 `e numericamente uguale a Jy0 e Iz 0 numericamente uguale a JO0 (a rigore le uguaglianze per gli assi x0 e y 0 sono verificate al limite per h → 0); • i momenti d’inerzia assiali, e quindi anche quello polare, sono quantit`a strettamente positive, qualsiasi sia la sezione (non degenere) e il sistema di riferimento; • il momento d’inerzia centrifugo pu` o essere positivo, negativo o anche nullo (nel caso di figura D.1, essendo la sezione completamente contenuta nel primo quadrante, il momento centrifugo `e positivo); • data una retta n del piano, il momento d’inerzia assiale rispetto a n, che indichiamo con Jn , `e definito assumendo un sistema di riferimento piano con l’asse x0 coincidente con n (l’origine pu`o essere scelta in un qualunque punto di n) e calcolando il momento d’inerzia assiale Jx0 ; • anche i momenti d’inerzia sono additivi e quindi `e possibile calcolarli ricorrendo alla tecnica delle sottosezioni.

922

D.4. MOMENTI D’INERZIA

Esempio D.8: Calcolo dei momenti d’inerzia per un settore di parabola Determinare i momenti d’inerzia della sezione in figura D.2 rispetto agli assi.

Z4 Jx0 =

!

0.5x0 +2.25

Z

02

y dy

0.5x0 +2.25

Z

Jy0 =

dx0 = 37.98 mm4

! x02 dy 0

dx0 = 25.2 mm4

1 (x02 +1) 4

−2

Z4

0

1 (x02 +1) 4

−2

Z4



0.5x0 +2.25

Z

Jx0 y0 =

! x0 y 0 dy 0

dx0 = 24.74 mm4

1 (x02 +1) 4

−2

JO0 = Jx0 + Jy0 = 63.18 mm4

Esempio D.9: Propriet`a d’inerzia di una semicorona circolare Determinare le propriet`a d’inerzia della semicorona circolare di figura D.10 rispetto agli assi rappresentati.  Per considerazioni di simmetria possiamo anticipare che Jx0 y0 = 0, infatti a ogni rettangolo elementare con una definita ascissa ne corrisponde uno con l’ascissa opposta che annulla il contributo nell’integrale (D.17). I momenti assiali si calcolano pi` u convenientemente in coordinate polari. Tenendo conto che: x0 = r cos θ si ottiene: Jx0

,

y 0 = r sin θ

e

dA = rdθdr

  ZR2 Zπ  π =  r2 sin2 θrdθ dr = R24 − R14 8 0

R1

 ZR2 Zπ  π Jy0 =  r2 cos2 θrdθ dr = R24 − R14 8 

R1

0

Il risultato poteva essere ottenuto senza eseguire gli integrali, sulla base delle seguenti considerazioni (valide per entrambi gli assi x0 e y 0 ): • il momento d’inerzia `e una propriet`a additiva e si pu`o calcolare come ‘pieno meno vuoto’; • rispetto al centro, un semicerchio ha il momento d’inerzia polare pari alla met`a del cerchio completo; • il momento d’inerzia assiale di un cerchio completo rispetto a un suo diametro `e met` a del momento d’inerzia polare: Jx = 12 JO ,

923

Propriet` a geometriche delle sezioni

• il momento d’inerzia polare per un cerchio di raggio R rispetto al centro vale: JO = π 4 2R .

D.5 Variazione dei momenti d’inerzia per traslazione del sistema di riferimento Anche per la determinazione delle propriet`a d’inerzia, la scomposizione in parti semplici `e spesso comoda, per cui `e utile analizzare come variano i momenti del secondo ordine quando si modifica il sistema di riferimento. Consideriamo, in primo luogo, l’effetto della traslazione degli assi come rappresentato in figura D.4. Analogamente al procedimento adottato per i momenti statici, supponiamo di conoscere le propriet`a d’inerzia nel sistema originario x0 − y 0 e proponiamoci di valutarle nel sistema nuovo traslato x00 − y 00 il cui centro ha coordinate (originarie) (a0 , b0 ). Il calcolo `e riportato solo per l’asse x00 : Z Z Z Z Z 2 Jx00 = y 002 dx00 dy 00 = y 0 − b0 dx0 dy 0 = y 02 dx0 dy 0 − 2b0 y 0 dx0 dy 0 + b02 dx0 dy 0 Ω









l’espressione per tutti i momenti d’inerzia, tenendo conto delle precedenti definizioni, `e pertanto la seguente: Jx00 = Jx0 − 2b0 · Sx0 + b02 · A (D.20) Jy00 = Jy0 − 2a0 · Sy0 + a02 · A

(D.21)

Jx00 y00 = Jx0 y0 − a0 · Sx0 − b0 · Sy0 + a0 b0 · A

(D.22)

Si pu`o osservare che le formule di traslazione per i momenti d’inerzia contengono, oltre ai momenti d’inerzia della sezione nel sistema originario, anche i momenti statici. Le relazioni devono essere applicate con attenzione, in particolare riguardo ai segni delle quantit`a a0 e b0 (coordinate di O00 nel sistema originario) e Sx0 e Sy0 . Particolarmente interessanti risultano le formule che consentono di effettuare la traslazione degli assi quando il sistema originario `e centrale, come in figura D.11:

Figura D.11: Traslazione rispetto a un sistema centrale

Jx00 = Jx0 + b02 · A

924

(D.23)

D.5. VARIAZIONE DEI MOMENTI D’INERZIA PER TRASLAZIONE DEL SISTEMA DI RIFERIMENTO

Jy00 = Jy0 + a02 · A

(D.24)

Jx00 y00 = Jx0 y0 + a0 b0 · A

(D.25)

in cui (a0 , b0 ) sono le coordinate del centro del sistema nuovo rispetto al baricentro della figura. Dalle relazioni (D.23), (D.24) e (D.25) si deduce che: data una generica retta centrale m, ogni altra retta n parallela e distinta ha un momento d’inerzia maggiore, in simboli: Jn > Jm . Il momento d’inerzia assiale delle rette aventi una certa direzione cresce quindi con la loro distanza dal baricentro. Le rette centrali godono pertanto di una interessante propriet`a di minimo: data una qualunque direzione del piano, tra tutte le rette del fascio improprio con tale direzione, quella centrale ha il minimo momento d’inerzia assiale.

Esempio D.10: Propriet`a d’inerzia di un rettangolo rispetto agli assi di simmetria Calcolare i momenti d’inerzia per un rettangolo di base B e altezza H (figura D.12) rispetto al sistema centrale con assi paralleli ai lati.  Il calcolo pu`o essere effettuato direttamente nel sistema centrale x0 − y 0 , tuttavia, allo scopo di esemplificare l’applicazione delle relazioni (D.23), (D.24) e (D.25), valutiamo prima le propriet`a d’inerzia nel sistema x00 −y 00 centrato nello spigolo, come rappresentato in figura D.12.

Figura D.12: Determinazione delle propriet`a d’inerzia di un rettangolo

Sulla base della definizione si ottiene:   ZB ZH B · H3 Jx00 =  y 002 dy 00  dx00 = 3 0

0

ZH Jy00 =



ZB

 0

ZB Jx00 y00 = 0

 x002 dx00  dy 00 =

H · B3 3

0

H  Z B2 · H 2 x00  y 00 dy 00  dx00 = 4 0

925

Propriet` a geometriche delle sezioni

Le caratteristiche d’inerzia del sistema centrale possono essere determinate dalle relazioni (D.23), (D.24) e (D.25) tenendo conto che x0 − y 0 `e centrale e che il centro O00 ha coordinate a0 = −B/2 e b0 = −H/2: B · H3 Jx0 = (D.26) 12 e quindi Jy0 = H · B 3 /12; Jx0 y0 = 0. ` utile memorizzare la relazione (D.26). Essa evidenzia che, per aumentare il momento E d’inerzia di un rettangolo rispetto a uno degli assi di simmetria, `e pi` u efficace aumentare la dimensione in direzione perpendicolare all’asse piuttosto che in direzione parallela. Dalle conclusioni dell’esempio precedente si potrebbe erroneamente pensare che un sistema centrale di assi ha il momento centrifugo nullo. Il lettore pu`o peraltro verificare che le propriet`a di inerzia del segmento di parabola in figura D.2 rispetto al sistema centrale x0 − y 0 parallelo al sistema dato valgono: Jx0 = 7.17 mm4 , Jy0 = 16.2 mm4 e Jx0 y0 = 8.1 mm4 . In generale, si pu`o invece dimostrare che per ogni origine O esiste (almeno) una coppia di assi cartesiani per i quali il momento centrifugo `e nullo. Questa propriet`a vale ovviamente anche per i sistemi baricentrici in cui O ≡ G.

D.6 Variazione delle propriet` a d’inerzia per rotazione del sistema di riferimento D.6.1 Formule di rotazione A differenza dei momenti statici, per i quali le relazioni (D.8) e (D.9) rendono poco utile l’analisi degli effetti prodotti della rotazione degli assi, per i momenti del secondo ordine questo studio risulta particolarmente interessante. Consideriamo un sistema nuovo x00 − y 00 ottenuto per rotazione della coordinata angolare θ dal sistema originario x0 − y 0 come indicato in figura ` opportuno osservare che θ misura (in radianti) l’angolo di cui deve ruotare uno degli D.13. E assi originari per sovrapporsi (in direzione e verso) con l’omonimo asse nuovo. La coordinata angolare θ `e positiva quando la rotazione `e antioraria vista dalle z positive (come indicato in figura D.13). Calcolando le propriet`a d’inerzia nel sistema nuovo sulla base della definizione e

Figura D.13: Rotazione del sistema di riferimento

tenendo conto che tra le coordinate originarie e nuove esiste la relazione (vedi Appendice A): x00 = x0 cos θ + y 0 sin θ y 00 = −x0 sin θ + y 0 cos θ

926

` D’INERZIA PER ROTAZIONE DEL SISTEMA DI RIFERIMENTO D.6. VARIAZIONE DELLE PROPRIETA

con semplici trasformazioni trigonometriche si ottiene: Jx00 = Jx0 cos2 θ − Jx0 y0 sin 2θ + Jy0 sin2 θ

(D.27)

Jy00 = Jx0 sin2 θ + Jx0 y0 sin 2θ + Jy0 cos2 θ

(D.28)

 Jx0 − Jy0 Jx00 y00 = Jx0 y0 cos2 θ − sin2 θ + sin 2θ (D.29) 2 Le relazioni (D.27), (D.28) e (D.29) dimostrano che la rotazione degli assi modifica i momenti d’inerzia con le regole analoghe alle componenti dei tensori. A tale proposito `e opportuno notare un problema formale connesso con la notazione. La valutazione del momento assiale, per fissare le idee consideriamo per esempio Jy0 , richiede l’integrale del prodotto di due coordinate riferite all’asse x0 . A rigore, usando la notazione a doppio pedice, tipica delle componenti tensoriali, tale quantit`a dovrebbe essere pi` u propriamente rappresentata con il simbolo Jx0 x0 . Analogamente, il momento assiale Jx0 dovrebbe essere indicato come Jy0 y0 . Non ci sono problemi di notazione per il momento centrifugo, che abbiamo gi`a rappresentato con il doppio pedice. L’uso della notazione a doppio pedice per i momenti assiali purtroppo non `e consueta nella letteratura tecnica. Per uniformit`a con l’uso corrente, anche nel presente corso i momenti assiali saranno quindi indicati con un solo pedice. Come conseguenza, allo scopo di impiegare le formule generali dei tensori, `e necessario collocare opportunamente i momenti assiali nella matrice indipendentemente dal simbolo usato come pedice. Per i due sistemi di riferimento in esame, definiamo quindi le seguenti matrici d’inerzia:     Jy0 Jx0 y0 Jy00 Jx00 y00 0 00 J = e J = Jx0 y0 Jx0 Jx00 y00 Jx00 nelle quali si riconosce che la posizione n, m `e occupata dal momento ottenuto integrando sull’area il prodotto delle coordinate xn e xm . Le matrici d’inerzia hanno quindi i momenti assiali sulla diagonale principale e il momento centrifugo fuori diagonale e sono simmetriche per definizione. Le formule di rotazione possono essere memorizzate (vedi Appendice A) usando la matrice di rotazione:   cos θ − sin θ L= sin θ cos θ le cui colonne raccolgono i versori del sistema nuovo (ˆi00 e ˆj 00 rispettivamente), rappresentati con componenti nel sistema originario. Si pu`o verificare infatti che le relazioni (D.27), (D.28) e (D.29) sono equivalenti alla seguente relazione matriciale sintetica: J00 = LT J0 L

(D.30)

L’uguaglianza (D.30) definisce il modo in cui le componenti della matrice d’inerzia si modificano per rotazione degli assi, e dimostra che le propriet`a d’inerzia di una sezione costituiscono un tensore cartesiano del secondo ordine simmetrico, per questo motivo detto: tensore d’inerzia della sezione. Esempio D.11: Tensore d’inerzia rappresentato in sistemi ruotati Determinare il tensore d’inerzia della sezione rettangolare B = 20 mm, H = 50 mm relativo al sistema cartesiano centrale rappresentato in figura D.14 con gli assi ruotati di 30◦ in senso orario rispetto ai lati.

927

Propriet` a geometriche delle sezioni

Figura D.14: Sistema centrale ruotato

Assumendo come riferimento originario il sistema centrale con gli assi paralleli ai lati (sistema x0 −y 0 in figura D.14), θ = −π/6 e sulla base delle propriet`a d’inerzia del rettangolo ottenute nel paragrafo precedente, possiamo scrivere (valori in mm4 ):   0.333 0 0 · 105 J = 0 2.083 la matrice di trasformazione da x0 − y 0 a x00 − y 00 `e la seguente:  √  1 3 √1 L= 3 2 −1 quindi la matrice richiesta vale (valori in mm4 ):     0.771 −0.758 Jy00 Jx00 y00 00 · 105 = J = −0.758 1.646 Jx00 y00 Jx00

D.6.2 Propriet` a tensoriali dei momenti d’inerzia: momenti principali e assi principali Identificati i momenti d’inerzia come le componenti di un tensore doppio simmetrico, le propriet`a d’inerzia di una sezione possono essere studiate con le tecniche generali sviluppate per le grandezze tensoriali. La legge di trasformazione tensoriale (D.30) `e valida per un generico sistema di riferimento con origine in qualunque punto del piano. Tuttavia le caratteristiche d’inerzia pi` u interessanti di una sezione sono quelle relative ai sistemi centrali e lo studio si concentrer`a prevalentemente su questi ultimi. Fissata l’origine, la legge di rotazione (D.30), corrispondente alle (D.27), (D.28) e (D.29), `e rappresentabile nel piano di Mohr in cui a ogni asse n corrisponde un punto avente ascissa uguale al momento d’inerzia assiale Jn e ordinata legata al momento d’inerzia centrifugo Jnm (in cui m `e rappresenta l’asse perpendicolare a n). Per la corretta collocazione dei punti corrispondenti sul piano di Mohr, `e necessario ricordare che la loro ordinata ha lo stesso segno del momento centrifugo quando `e riferita all’asse

928

` D’INERZIA PER ROTAZIONE DEL SISTEMA DI RIFERIMENTO D.6. VARIAZIONE DELLE PROPRIETA

antiorario (normalmente l’asse y), mentre il punto corrispondente all’asse orario (asse x) ha ordinata di segno discorde. A causa della notazione a singolo pedice, la componente che si riferisce all’asse antiorario `e quindi la Jx0 . Da ci`o consegue che i due punti che individuano una  0 , Jx0 y 0 generica matrice d’inerzia nel piano di Mohr hanno coordinate rispettivamente: J e x  Jy0 , −Jx0 y0 . Nella figura D.15 `e rappresentata la circonferenza di Mohr delle propriet`a centrali d’inerzia per il rettangolo 20 mm×50 mm considerato nel paragrafo precedente. Si possono fare le seguenti osservazioni:

Figura D.15: Circonferenza di Mohr per le propriet`a d’inerzia dei sistemi centrali del rettangolo 20 × 50 (valori in 105 mm4 )

• i punti diametralmente opposti sulla circonferenza di Mohr individuano due assi ortogonali, infatti distano 180◦ sul cerchio che corrisponde a un angolo di 90◦ nel piano della sezione; • i punti T e V rappresentano rispettivamente gli assi x00 e y 00 della figura D.14, infatti le loro coordinate nel piano di Mohr T (1.646, −0.758)105 mm4 e V (0.771, 0.758)105 mm4 corrispondono alle componenti della matrice d’inerzia J00 ; • il punto T rappresenta l’asse x00 , la sua ordinata `e concorde con il momento centrifugo, il segno del momento centrifugo `e invece discorde dall’ordinata del punto V che rappresenta l’asse y 00 ; • il punto P sul circolo di Mohr si ottiene con una rotazione antioraria di π/3 partendo da T e quindi rappresenta un asse ottenuto per rotazione antioraria di π/6 dell’asse x00 sul piano della sezione; • P e Q sono i punti rappresentativi degli assi x0 e y 0 (rispettivamente) in figura D.14, per questi assi il momento centrifugo `e nullo. Per ogni sezione non degenere e per ogni punto origine O nel suo piano, `e quindi definibile una matrice d’inerzia che risulta reale e simmetrica e con i momenti d’inerzia assiali strettamente positivi. Queste caratteristiche garantiscono l’esistenza di due autovalori reali positivi per ogni matrice d’inerzia. Gli autovalori sono chiamati momenti principali d’inerzia relativi al centro O. Per ogni origine O, in corrispondenza di uno dei momenti principali d’inerzia (autovalore della matrice d’inerzia), `e determinabile una direzione principale d’inerzia (l’autovettore associato) che rappresenta l’asse passante per O rispetto al quale il momento assiale `e l’autovalore. Nel piano di Mohr, i momenti principali d’inerzia sono individuabili dalle intersezioni della circonferenza con l’asse dei momenti assiali. Dalla rappresentazione di Mohr si ricava anche l’equivalente definizione:

929

Propriet` a geometriche delle sezioni

una coppia di assi perpendicolari sono principali d’inerzia se e solo se il momento centrifugo `e nullo. Particolare importanza nella Meccanica delle strutture riveste il sistema centrale principale d’inerzia di una sezione, che gode delle seguenti propriet`a: • `e centrale, ovvero ha l’origine nel baricentro G • `e principale, ovvero ha gli assi diretti nelle direzioni principali d’inerzia. Il sistema centrale principale d’inerzia `e usato per definire le caratteristiche di sollecitazione delle travi. Per questo motivo, agli assi di tale sistema sono riservati i simboli senza apici: x, y, Jx , Jy . Il primo passo nello studio del comportamento strutturale di una trave consiste nell’individuare i sistemi centrali principali d’inerzia delle sue sezioni.

D.6.3 Determinazione delle propriet` a centrali principali d’inerzia Per valutare gli assi centrali principali d’inerzia `e utile considerare le seguenti propriet`a: • se una sezione ha un asse di simmetria n, l’asse n `e centrale principale d’inerzia; • in presenza di un asse di simmetria n, il sistema centrale principale della sezione si determina appena individuato il baricentro G (che peraltro appartiene a n); infatti, l’altro asse centrale principale `e la retta perpendicolare a n passante per G; • se una sezione ha due assi di simmetria (che quindi sono necessariamente perpendicolari), questi sono centrali e principali; • se una sezione ha i momenti d’inerzia centrali principali uguali tra loro, la circonferenza di di Mohr degenera in un punto e quindi tutte le direzioni centrali sono principali. Questa propriet`a `e ovviamente posseduta dal cerchio e dalla corona circolare ma anche ` inoltre possibile realizzare infinte altre dal quadrato e da tutti i poligoni regolari. E sezioni, non necessariamente regolari o simmetriche, con questa caratteristica.

Esempio D.12: Propriet`a centrali d’inerzia per il semicerchio Determinare le propriet`a centrali principali d’inerzia per il semicerchio.

Figura D.16: Sistema centrale d’inerzia per il semicerchio

Nei paragrafi precedenti sono state determinate la posizione del baricentro del semicerchio e le propriet`a d’inerzia rispetto al sistema x0 − y 0 (figura D.16). Data la simmetria,

930

` D’INERZIA PER ROTAZIONE DEL SISTEMA DI RIFERIMENTO D.6. VARIAZIONE DELLE PROPRIETA

possiamo affermare immediatamente che il sistema x − y rappresentato in figura D.16 `e centrale principale d’inerzia. Essendo: Jx0 = π8 R4 , in base alla relazione (D.23) risulta: 16R2 πR2 π = Jx = R4 − 8 9π 2 2



π 8 − 8 9π



R4 = 0.1098R4

pertanto il tensore d’inerzia del semicerchio relativo al sistema centrale principale di figura D.16 `e il seguente:   π/8 0 J= R4 0 π/8 − 8/(9π)

Esempio D.13: Propriet`a centrali d’inerzia per un triangolo rettangolo Calcolare le propriet`a centrali d’inerzia di un triangolo rettangolo con cateti H = 60 mm e B = 35 mm.  Usiamo un sistema di riferimento comodo x00 − y 00 (vedi figura D.17) per valutare le propriet`a d’inerzia (le distanze sono espresse in mm e i momenti in mm4 ):   00 ZB H−Hx Z /B BH 3   Jx00 =  y 002 dy 00  dx00 = = 6.3 · 105 12 0

ZB Jy00 =

0



00 H−Hx Z /B

HB 3  x002 dy 00  dx00 = = 2.144 · 105 12

  0

ZB Jx00 y00 =

0



00 H−Hx Z /B



H 2B2  x00 y 00 dy 00  dx00 = = 1.838 · 105 24

  0



0

Figura D.17: Propriet`a d’inerzia di un triangolo rettangolo

931

Propriet` a geometriche delle sezioni

con le formule di traslazione si ottengono le propriet`a d’inerzia nel sistema centrale ` possibile usare le relazioni (D.23), (D.24) e (D.25) x0 − y 0 che ha assi paralleli ai cateti. E tenendo conto che a0 = −B/3 e b0 = −H/3:

Jx0 = Jx00 − b02 A = 2.1 · 105

Jy0 = Jy00 − a02 A = 0.715 · 105

Jx0 y0 = Jx00 y00 − a0 b0 A = −0.613 · 105 Poich´e il momento centrifugo non `e nullo, il sistema centrale x0 − y 0 non `e principale. La circonferenza di Mohr (riportata in figura D.18) ha per diametro il segmento T V con: T (2.1, −0.613) · 105 e V (0.715, 0.613) · 105 che rappresentano rispettivamente gli assi x0 e ` immediato determinare centro C e raggio RM del cerchio di Mohr: C(1.407, 0.0) · 105 y0. E e RM = 0.925 · 105 e quindi l’angolo 2α = arcsin(0.613 · 105 /RM ) = 0.724 = 41.5◦ . Le propriet`a centrali principali d’inerzia sono quindi:

Jx = (1.407 + 0.925) · 105 = 2.332 · 105 mm4

Jy = (1.407 − 0.925) · 105 = 0.483 · 105 mm4

L’asse principale d’inerzia x (punto P sulla circonferenza di Mohr) si trova ruotando l’asse x0 di 20.75◦ in senso antiorario. Il sistema centrale principale `e rappresentato nella figura D.19.

Figura D.18: Circonferenza di Mohr per le propriet`a centrali d’inerzia del triangolo di figura D.17

932

D.7. RAGGI D’INERZIA ED ELLISSE CENTRALE D’INERZIA

Figura D.19: Sistema centrale principale per il triangolo

L’assegnazione di x (o y) a uno degli assi centrali principali d’inerzia per la sezione di una trave `e arbitraria, anche se il sistema di riferimento nel suo complesso (x−y −z) dovrebbe essere destrorso. Volendo conservare la nozione di rotazione positiva quando `e antioraria, `e opportuno che tutti i sistemi di riferimento piani usati (originari e nuovi) siano osservati dal semispazio con le z positive. Questa accortezza `e stata adottata in tutti gli esempi riportati. Dalle considerazioni finora svolte, si deduce una interessante propriet`a degli assi centrali d’inerzia. Chiamato n l’asse principale con il minore momento d’inerzia (nel caso del triangolo di figura D.19 l’asse y), ogni altra retta m del piano `e tale per cui: Jn ≤ Jm . Infatti, considerando la circonferenza di Mohr, risulta immediato verificare che qualsiasi altra retta del fascio proprio con centro G ha momento d’inerzia pi` u elevato, e rispetto a una generica retta baricentrica, qualsiasi altra retta parallela ha un momento d’inerzia maggiore, come dimostrato dalla relazione (D.23). Pertanto: l’autovalore minore del tensore centrale d’inerzia `e il momento d’inerzia assiale minimo tra tutte le rette del piano. Si pu`o osservare che il fatto che la retta con il minimo momento d’inerzia assiale sia centrale costituisce un’ulteriore propriet`a del baricentro.

D.7 Raggi d’inerzia ed ellisse centrale d’inerzia Data una sezione e un asse n (non necessariamente centrale) rispetto al quale il momento d’inerzia assiale `e Jn , si definisce raggio d’inerzia la lunghezza ρn , definita dalla seguente relazione: r Jn (D.31) ρn = A Il raggio d’inerzia rappresenta la distanza dall’asse n alla quale dovrebbe essere idealmente concentrata l’intera area della sezione, per avere lo stesso momento d’inerzia. Data una sezione della quale sia stato individuato il sistema centrale principale d’inerzia x − y, `e possibile determinare i corrispondenti raggi centrali principali d’inerzia ρx e ρy . Come in figura D.20, si possono riportare sull’asse x i punti che distano ρy da G e sull’asse y

933

Propriet` a geometriche delle sezioni

i punti che distano ρx da G. Questi quattro punti individuano gli assi di un’ellisse, chiamata ellisse centrale d’inerzia, che riassume le pi` u significative propriet`a della sezione: • il centro dell’ellisse coincide con G; • gli assi dell’ellisse indicano le direzioni centrali principali d’inerzia; • la lunghezza dei semiassi (raggi centrali principali d’inerzia) permette di ricavare facilmente i momenti centrali principali d’inerzia. Per questi motivi, in molti manuali tecnici, le sezioni sono quotate insieme con le loro ellissi centrali d’inerzia. Nel sistema centrale principale, l’equazione dell’ellisse centrale d’inerzia `e la seguente:  2   2 x y + =1 (D.32) ρy ρx Per evitare possibili errori di memorizzazione, si osservi che il semiasse dell’ellisse sull’asse x `e ρy (e viceversa) come evidenziato dalla relazione (D.32). Nel caso in cui i due momenti centrali principali d’inerzia siano uguali la circonferenza di Mohr degenera in un punto e l’ellisse centrale d’inerzia diventa un cerchio. Si comprende come, in questo caso, una qualunque coppia di assi centrali tra loro perpendicolari siano un sistema principale. Esempio D.14: Ellisse centrale d’inerzia Tracciare l’ellisse centrale d’inerzia per la sezione triangolare dell’esempio precedente. Dai risultati ottenuti si ricava: s

2.332 · 105 = 14.9 mm 1.05 · 103

s

0.483 · 105 = 6.78 mm 1.05 · 103

ρx =

ρy =

e l’ellisse centrale d’inerzia della sezione `e rappresentata in figura D.20.

Figura D.20: Ellisse centrale d’inerzia per una sezione triangolare di figura D.17

934



D.8. CARATTERISTICHE D’INERZIA DI FIGURE COMPLESSE

D.8 Caratteristiche d’inerzia di figure complesse I procedimenti di calcolo sviluppati nei paragrafi precedenti consentono di ottenere le caratteristiche d’inerzia di sezioni composte elaborando con semplici operazioni algebriche le propriet`a geometriche (area, posizione del baricentro, ellisse centrale d’inerzia) dei costituenti. Questi procedimenti sono utili perch´e spesso sono realizzate travi saldando profilati unificati e nei manuali tecnici si trovano le propriet`a geometriche delle sezioni. unificate Nell’esempio che segue sono determinate le caratteristiche centrali principali d’inerzia della sezione composta di figura D.21 il cui baricentro stato individuato nel paragrafo D.3.2 . Esempio D.15: Valutazione delle propriet`a d’inerzia di una sezione composta Determinare le propriet`a centrali d’inerzia della sezione di figura D.21. Le propriet`a delle sottosezioni sono riassunte nella seguente tabella in cui l’angolo αi rappresenta l’inclinazione dell’asse principale xi della i -esima sottosezione rispetto all’asse x0 (essendo i = 1, 2, 3 l’indice della sottosezione). Quantit`a Area Ai x0Gi 0 yG i ρx i ρy i αi

Ω1 (i = 1) 981.7 25 50.61 6.608 12.5 0

Ω2 (i = 2) 2000 25 20 11.547 14.434 0

Ω3 (i = 3) 800 63.33 13.33 6.667 11.547 -45

Unit`a mm2 mm mm mm mm gradi

Figura D.21: Caratteristiche geometriche delle sottosezioni

Per ottenere le caratteristiche d’inerzia complessive rispetto al sistema centrale x00 − y 00 , `e opportuno scrivere, per ognuna delle sottosezioni, le propriet`a d’inerzia in sistemi di riferimento locali (centrati nei baricentri delle singole sottosezioni) e con assi orientati come x0 − y 0 , che indicheremo come xi 0 − yi 0 . Per le sottosezioni 1 e 2 il calcolo `e immediato poich´e θ1 = θ2 = 0: J1,x1 0 = J1,x1 = A1 (ρx1 )2 ;

J1,y1 0 = J1,y1 = A1 (ρy1 )2

J2,x2 0 = J2,x2 = A2 (ρx2 )2 ;

J2,y2 0 = J2,y2 = A2 (ρy2 )2

935

Propriet` a geometriche delle sezioni

J1,x1 0 y1 0 = J2,x2 0 y2 0 = 0 per il triangolo invece `e necessario operare una rotazione. Poich´e l’asse nuovo x3 0 `e ottenuto per rotazione antioraria di 45◦ dell’asse x3 locale, la matrice di trasformazione (θ3 = +π/4) `e: √   2 1 −1 L= 1 1 2 quindi la matrice d’inerzia del triangolo nel sistema locale di assi paralleli a x3 0 − y3 0 `e: 

J3,y3 0 J3,x3 0 y3 0

J3,x3 0 y3 0 J3,x3 0



1 = 2



1 1 −1 1



0 A3 (ρy3 )2 0 A3 (ρx3 )2



1 −1 1 1



A questo punto `e necessario effettuare tre traslazioni per ottenere i valori in corrispondenza del baricentro globale con assi: x00 − y 00 . Nelle relazioni (D.23), (D.24) e (D.25), poniamo: a0i = x0G − x0Gi 0 0 b0i = yG − yG i

e quindi, definendo, per la generica sottosezione i-esima 2

Ji,xi 00 = Ji,xi 0 + b0i Ai 2

Ji,yi 00 = Ji,yi 0 + a0i Ai Ji,xi 00 yi 00 = Ji,xi 0 yi 0 + a0i b0i Ai si ottengono le caratteristiche globali sommando i tre contributi. I valori numerici sono raccolti nella seguente tabella. Momento d’inerzia Ji,xi 0 Ji,yi 0 Ji,xi 0 yi 0 Ji,x00 Ji,y00 Ji,x00 y00

Ω1 (i = 1) 0.4287 1.534 0 6.119 2.180 -1.917

Ω2 (i = 2) 2.667 4.167 0 3.521 5.482 1.060

Ω3 (i = 3) 7.111 7.111 -0.356 2.106 8.019 -3.547

Totale

11.745 15.681 -4.404

nell’ultima colonna sono riportati i momenti della sezione completa dai quali si possono ricavare: i momenti principali, i raggi d’inerzia e le direzioni principali:  J=

Jy 0 0 Jx



 =

18.54 0

0 8.89



105 mm4

l’asse principale x risulta inclinato di 33◦ (in senso orario) rispetto all’asse x00 , ρx = 15.3 mm e ρy = 22.1 mm (vedi figura D.22)

936

` DI ALCUNE FIGURE ELEMENTARI D.9. PROPRIETA

Figura D.22: Propriet` a centrali d’inerzia della figura composta (quote in mm)

Si pu`o notare che, nel caso di una figura complessa, `e necessario un certo lavoro algebrico per giungere al risultato finale. Nella pratica, per effettuare questi calcoli `e opportuno avvalersi di adatti strumenti, come, per esempio, i fogli elettronici. Vale la pena anche ricordare che i moderni programmi CAD forniscono direttamente le propriet`a geometriche delle sezioni, effettuando in modo automatico le integrazioni e le trasformazioni necessarie. Nella pratica professionale, pertanto, dovendo valutare le caratteristiche di una sezione complessa (per esempio composta di pi` u di due o tre parti semplici) pu`o convenire munirsi di adatti strumenti operativi prima di addentrarsi in un complesso e rischioso calcolo diretto. Questa appendice non ha infatti lo scopo di sviluppare abilit`a di calcolo, ma di chiarire il significato geometrico delle quantit` a geometriche e il loro modo di variare con il sistema di riferimento.

D.9 Propriet` a di alcune figure elementari La seguente tabella `e relativa a figure elementari dall’unione delle quali `e possibile costruire sezioni di forma complessa. Nella seconda colonna sono riportate indicazioni sull’area e sulla posizione del baricentro, nella terza, quando opportuno, sono indicate le propriet`a d’inerzia rispetto a particolari sistemi di riferimento. Nell’ultima colonna sono fornite le caratteristiche relative al sistema centrale principale d’inerzia. Gli angoli sono espressi in radianti.

937

Propriet` a geometriche delle sezioni

938

` DI ALCUNE FIGURE ELEMENTARI D.9. PROPRIETA

939

Appendice E

Propriet` a differenziali di linee e superfici I principali elementi strutturali, travi, lastre, piastre e gusci, possono essere rappresentati con modelli geometrici monodimensionali o bidimensionali. Lo studio delle propriet`a geometriche delle linee e delle superfici `e quindi necessario per descrivere la forma di tali elementi. In questa appendice sono richiamate le principali propriet`a di linee e superfici e gli strumenti matematici necessari per determinarle ricavabili da teoremi di Analisi Matematica e Geometria Differenziale. In genere, si assumer`a che gli enti geometrici studiati abbiano una sufficiente regolarit` a (continuit`a e differenziabilit`a) che consente di effettuare le operazioni richieste. Per quanto questo modo di procedere non sia rigorosissimo dal punto di vista formale, si osserva che la regolarit`a richiesta `e generalmente verificata nelle forme degli elementi di interesse per l’analisi strutturale. La prima parte dell’appendice `e dedicata alle propriet`a delle linee e trova applicazione nella descrizione geometrica delle travi delle travi (in particolare con assi non rettilinei e tridimensionali) e nello studio della deformazione delle travi anche rettilinee (in particolare nella teoria della linea elastica). La seconda parte tratta le superfici ed `e utile per lo studio della deformata delle piastre e nella teoria membranale dei gusci di piccolo spessore. In vista dell’analisi dei gusci assialsimmetrici `e sviluppato lo studio delle propriet`a di curvatura delle superfici di rivoluzione.

E.1 Definizione e descrizione analitica di una linea E.1.1 Linee regolari nello spazio Per valutare quantitativamente le principali propriet`a geometriche di una linea, piana o spaziale, `e utile rappresentarla in forma analitica. Un arco di linea Γ (figura E.1) pu`o essere descritto da una relazione parametrica del tipo:     xP f1 (λ) OP (λ) =  yP  =  f2 (λ)  (E.1) zP f3 (λ) che individua in un sistema di riferimento cartesiano le coordinate del suo punto generico P , essendo λ un parametro reale definito in un intervallo λ ∈ [λA , λB ] di R1 . Le coordinate dei punti A e B, estremi dell’arco, sono date da: OP (λA ) = OA e OP (λB ) = OB

941

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Figura E.1: Linea nello spazio

Assumeremo certamente che le funzioni parametriche nella relazione (E.1) siano continue e quindi che la linea non sia spezzata ma, in generale, anche una pi` u elevata regolarit`a richiedendo la derivabilit`a della funzione (E.1) rispetto a λ, almeno fino al secondo ordine, escluso al pi` u un numero finito di punti della linea. In presenza di punti di discontinuit`a della pendenza (spigoli o punti angolosi della linea), la linea sar`a suddivisa in parti contigue per ognuna delle quali sono verificate le condizioni di regolarit`a. In particolare, indicato con λ0 il parametro che corrispondente a un punto angoloso, assumeremo che esistano i limiti a cui le derivate (prima e seconda) tendono quando λ tende a λ0 sia da destra sia da sinistra (per quanto tali limiti possano essere distinti). Anche se non `e necessario che il parametro λ abbia un significato (fisico o geometrico), nella pratica raramente esso `e del tutto arbitrario. Per esempio, quando la linea descrive la traiettoria di un punto in movimento, solitamente si usa come parametro il tempo λ = t. Per rappresentare forme geometriche, spesso si assume come parametro l’ascissa curvilinea, che rappresenta la distanza con segno misurata lungo la linea a partire da un punto (origine) stabilito preliminarmente sulla linea stessa. L’ascissa curvilinea sar`a generalmente indicata con la lettera s. Quando si usa l’ascissa curvilinea s, la parametrizzazione `e chiamata naturale. Talvolta `e conveniente usare una parametrizzazione cartesiana nella quale λ coincide con una delle coordinate cartesiane. Le propriet`a geometriche della linea possono essere ricavate elaborando le funzioni parametriche (E.1), come mostrato nel seguito.

E.1.2 Versore tangente e retta tangente Un vettore infinitesimo d~t tangente alla linea si ottiene come limite del vettore secante P Q (figura E.2) quando Q tende a P . Individuando Q con una variazone di ∆λ dell parametro rispetto al suo valore in P si pu`o scrivere:    0  df1 (λ) f1 (λ) dOP (λ) d~t = lim [OP (λ + ∆λ) − OP (λ)] =  df2 (λ)  = dλ =  f20 (λ)  dλ ∆λ→0 dλ df3 (λ) f30 (λ) Un versore tangente alla linea (ovviamente ve ne sono due opposti) nel punto generico, e quindi in funzione del parametro λ, si ottiene per normalizzazione:  0  f1 (λ) 1  f20 (λ)  tˆ = p 0 (E.2) 0 2 f1 (λ) + f2 (λ)2 + f30 (λ)2 f 0 (λ) 3

942

E.1. DEFINIZIONE E DESCRIZIONE ANALITICA DI UNA LINEA

Nel seguito saranno effettuate numerose derivazioni di funzioni scalari e vettoriali. Quando si trattano funzioni di una sola variabile, e quindi non vi sono ambiguit`a sulla variabile indipendente, la derivata sar`a indicata come di consueto con l’apostrofo all’apice del simbolo della funzione (opportunamente ripetuto per le derivate di ordine superiore): f 0 (λ) =

df (λ) , dλ

f 00 (λ) =

df 0 (λ) d2 f (λ) = dλ dλ2

Si pu`o osservare la grandezza normalizzante necessaria per ottenere il versore tangente `e la lun-

Figura E.2: Determinazione del vettore tangente

ghezza del tratto infinitesimo di curva ds corrispondente alla variazione dλ del parametro. Per semplicit` a supponiamo che l’ascissa curvilinea s sia una funzione (almeno localmente) crescente del parametro λ per cui la lunghezza infinitesima del tratto di curva `e ottenibile con il teorema di Pitagora: q ds =

f10 (λ)2 + f20 (λ)2 + f30 (λ)2 dλ

da questa uguaglianza si pu`o ottenere per integrazione la lunghezza l (A, B) del tratto di curva compresa tra due punti A e B individuati dai parametri λA e λB : Z l (A, B) = Γ

ZλBq ds = f10 (λ)2 + f20 (λ)2 + f30 (λ)2 dλ λA

che trasforma un integrale definito sulla linea Γ (integrale di linea) in un semplice integrale in R1 . Con la parametrizzazione naturale si ottiene:   g1 (s) OP (s) =  g2 (s)  g3 (s) il versore tangente `e fornito direttamente dalla derivata:  0  g1 (s) tˆ =  g20 (s)  g30 (s)

(E.3)

in effetti: l (A, B) = |sB − sA |. La verifica della relazione (E.3) `e lasciata come esercizio al lettore.

943

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Esempio E.1: Tangente a una linea nello spazio Calcolare il versore tangente nei punti estremi della linea elicoidale avente raggio R0 e passo p con θ ∈ [0, π]: θ R0 cos(θ), R0 sin(θ), p 2π

OP (θ) =

T 

In questo caso, il parametro della curva `e l’angolo θ di avvolgimento sull’elica.   −R0 sin(θ) dOP (θ)  R0 cos(θ)  = dθ p 2π

La lunghezza corrispondente a una variazione infinitesima del parametro risulta: r  p 2 dθ ds = R02 + 2π e quindi: 

1

tˆ(θ) = q

R02 +

p 2π

 −R0 sin(θ)  R0 cos(θ)  2 p 2π

L’elica pu`o essere rappresentata facilmente anche con parametrizzazione naturale essendo s e θ proporzionali:  OP (s) =  q con s ∈ 0, 2π R02 +

R0 cos q

s 2

p R02 +( 2π )

p 2 2π

, R0 sin q

s 2

p R02 +( 2π )

,

q ps p 2 2π R02 +( 2π )

T



Il versore tangente consente di ottenere l’approssimazione lineare (al primo ordine) della linea:  0  f1 (λ) ∆λ OP (λ + ∆λ) ∼ = OP (λ) +  f20 (λ)  p 0 2 f1 (λ) + f20 (λ)2 + f30 (λ)2 f30 (λ) relazione che con parametrizzazione naturale si semplifica nella seguente: OP (s + ∆s) ∼ = OP (s) + ∆s · tˆ Dato un punto della linea (e quindi fissato λ), queste ultime relazioni possono essere interpretate come una funzione lineare nel parametro ∆λ. Tali relazioni rappresentano in effetti l’equazione parametrica della retta tangente alla linea nel punto considerato. In corrispondenza di un punto angoloso di ascissa curvilinea s0 , le derivate non sono definite. Tuttavia, per l’esistenza dei limiti destro e sinistro della derivate, sono definibili una retta + tangente prima del punto angoloso (s → s− 0 ) e una retta tangente dopo lo stesso (s → s0 ). L’angolo formato da tali rette misura quindi la locale variazione brusca di direzione.

944

E.2. APPROSSIMAZIONE AL SECONDO ORDINE DELLE LINEE PIANE

Nel caso di parametrizzazione naturale, il versore tangente `e automaticamente diretto nel verso di percorrenza naturale della linea definito dal senso di crescita di s mentre con una generica parametrizzazione λ potrebbe risultare controverso.

E.2 Approssimazione al secondo ordine delle linee piane E.2.1 Cerchio osculatore e curvatura Consideriamo una curva nel piano x − y definita dalla rappresentazione parametrica:     xP g1 (s) OP (s) = = yP g2 (s) l’estensione al caso tridimensionale sar`a trattato successivamente. Sulla base di quanto ottenuto nel paragrafo precedente, per un generico punto P di ascissa s possiamo determinare i due versori:  0   0  g1 (s) g2 (s) tˆ = , n ˆ = g20 (s) −g10 (s) il primo dei quali `e il noto versore tangente alla linea in P mentre il versore n ˆ , chiamato versore normale, individua la direzione della retta passante per P perpendicolare alla tangente, chiamata retta normale. In ipotesi di regolarit`a della linea nel punto generico P (in questo caso richiediamo che le funzioni abbiano nel punto anche le prime due derivate continue), cerchiamo la circonferenza del piano che meglio approssima localmente la linea. Tale circonferenza `e chiamata osculatrice e il cerchio corrispondente osculatore. Dato che circonferenza osculatrice e linea devono avere tangente comune in P , il centro C del cerchio osculatore, chiamato anche centro di curvatura locale della linea, deve appartenere alla retta normale. La distanza tra C e P , ovvero il raggio R del cerchio osculatore, chiamato anche raggio di curvatura locale, si ricava con il seguente metodo. Consideriamo un punto Q della linea con ascissa curvilinea s + ∆s e l’unico cerchio

Figura E.3: Definizione del cerchio osculatore e sua determinazione

che passa per P e Q e ha centro sulla normale alla curva per P . Il centro C ∗ di tale cerchio pu` o ∗ essere considerato una approssimazione di C e possiamo prevedere che C tenda a C quando Q si avvicina a P . Se la distanza tra P Q `e molto minore di C ∗ P , il raggio R∗ del cerchio di centro C ∗ sar`a: ∆s ∗ R = ∆ϕ

945

Propriet` a differenziali di linee e superfici

dove ∆ϕ rappresenta l’angolo tra P C ∗ e C ∗ Q (in radianti). Passando al limite per Q che tende a P , R∗ tende al raggio di curvatura locale R e vale la seguente relazione: ∆s ds = R = lim (E.4) dϕ ∆s→0 ∆ϕ Osserviamo per`o che se P `e interno a un tratto rettilineo della linea, il limite (E.4) non `e finito dato che ∆ϕ `e identicamente nullo sotto una certa distanza P Q. Situazioni analoghe si presentano anche se P `e un punto di flesso e simili. Per evitare questa singolarit`a, si introduce la curvatura, il cui modulo `e il reciproco del raggio di curvatura definito come: ∆ϕ dϕ 1 = |k| = (E.5) = lim R ∆s→0 ∆s ds La curvatura assume valori molto alti nelle zone con raggi di curvatura piccoli, mentre, nei tratti rettilinei o nei punti di flesso `e nulla. Una linea regolare ha pertanto curvatura finita in ogni punto. Dalla definizione (E.5) deduciamo che la curvatura `e una grandezza che nel S.I. si misura in m−1 , nel presente corso pi` u frequentemente sar`a espressa in mm−1 . Quando P e Q sono vicini tanto che il tratto di curva P Q pu`o essere approssimato con l’arco della circonferenza osculatrice, l’angolo ∆ϕ sotteso dai raggi CP e CQ (vedi figura E.3) `e lo stesso di quello formato dalle tangenti alla linea nei punti P e Q, essendo le tangenti perpendicolari ai rispettivi raggi. Dalla definizione (E.5) si ricava pertanto che: la curvatura di una linea piana misura la rapidit`a con cui cambia l’inclinazione della tangente al variare dell’ascissa curvilinea. Possiamo interpretare la curvatura di una linea in termini cinematici. Supponiamo di essere su un carrellino molto corto (a rigore di lunghezza ds) che vogliamo si muova con velocit`a di traslazione di modulo costante lungo la linea mantenendo anche, in ogni istante, la direzione della tangente alla linea stessa. La curvatura della linea `e in questo caso proporzionale alla velocit`a angolare del carrellino, e quindi proporzionale all’angolo del volante necessario per seguire la traiettoria. La circonferenza `e la linea piana che ha curvatura costante, coincide con la sua circonferenza osculatrice, in effetti la variazione di pendenza che si produce spostandosi di una definita quantit`a `e la stessa in ogni suo punto.

E.2.2 Il calcolo della curvatura Consideriamo in che modo si pu`o ottenere la curvatura partendo dalla rappresentazione parametrica della linea. La variazione di pendenza della linea pu`o essere ricavata dal prodotto scalare dei due versori tangenti nei punti P e Q aventi ascissa curvilinea s e s + ∆s, rispettivamente:   cos (∆ϕ) = tˆ(s) · tˆ(s + ∆s) = tˆ(s) · tˆ(s) + ∆tˆ = 1 + tˆ(s) · ∆tˆ in cui `e stato posto ∆tˆ = tˆ(s + ∆s) − tˆ(s). Semplificando, si ottiene: cos (∆ϕ) − 1 = tˆ(s) · ∆tˆ e quindi, considerando che tˆ = tˆ + ∆tˆ = 1, vale la seguente uguaglianza:   tˆ(s) + ∆tˆ · tˆ(s) + ∆tˆ = 1 + 2tˆ(s) · ∆tˆ + ∆tˆ· ∆tˆ = 1 che porta alla relazione: 2 [cos (∆ϕ) − 1] + ∆tˆ· ∆tˆ = 0

946

E.2. APPROSSIMAZIONE AL SECONDO ORDINE DELLE LINEE PIANE

Dividendo per il quadrato della lunghezza P Q si ottiene: ∆tˆ ∆tˆ 2 [1 − cos (∆ϕ)] = · 2 ∆s ∆s (∆s) e quindi, passando al limite per Q che tende a P , il singolo fattore al secondo membro diventa:   d2 OP d dOP ∆tˆ = = lim ∆s→0 ∆s ds ds ds2 Per il primo membro, si pu`o sviluppare il coseno fino al secondo ordine, in modo da ottenere la formula finale per la curvatura: 2



k =

dϕ ds

2

 =

d2 OP ds2

2 (E.6)

In termini di componenti, il modulo della curvatura si pu`o esprimere pertanto come: q |k| = g100 (s)2 + g200 (s)2

(E.7)

Per una linea piana, il valore assoluto della curvatura `e quindi il modulo del vettore che si ottiene derivando due volte rispetto alla ascissa curvilinea le componenti cartesiane del vettore posizione. Esempio E.2: Calcolo della curvatura per una circonferenza Verificare la formula (E.7) nel caso della circonferenza.



Consideriamo una circonferenza parametrizzata in coordinate polari: f1 (ϕ) = xC + R0 cos (ϕ) f2 (ϕ) = yC + R0 sin (ϕ) con ϕ ∈ [0, 2π). In questo caso, si pu`o ottenere facilmente la parametrizzazione in funzione dell’ascissa curvilinea s = R0 ϕ:   g1 (s) = xC + R0 cos Rs0   g2 (s) = yC + R0 sin Rs0 calcolando le derivate seconde: g100 (s) = − R10 cos g200 (s) = si ottiene:

s |k| =

1 cos R0



s R0





s  R0  − R10 sin Rs0

2



1 + sin R0



s R0

2 =

1 R0

che rappresenta la curvatura esatta, ovviamente indipendente da s.

947

Propriet` a differenziali di linee e superfici

E.2.3 Calcolo della curvatura con parametrizzazione cartesiana Spesso le linee sono i risultati di equazioni differenziali (l’esempio tipico `e alla linea elastica nelle travi) e hanno come parametro una coordinata cartesiana (figura E.4). In questi casi, almeno localmente, la linea `e definita da una funzione: y = f (x) che pu`o essere interpretata come la parametrizzazione: f1 (x) = x f2 (x) = f (x) Il calcolo diretto della curvatura di linee cos`ı rappresentate `e molto utile nel corso. Consideriamo un caso semplice.

Figura E.4: Linea con parametrizzazione cartesiana

Esempio E.3: Curvatura nel vertice di una parabola Calcolare la curvatura nel vertice della parabola y = f (x) = ax2  Scritta nella forma parametrica: f1 (x) = x e f2 (x) = ax2 , la lunghezza dell’arco infinitesimo si ottiene dal paragrafo E.1.2: q ds = 1 + (2ax)2 · dx Nel vertice, dove l’inclinazione della linea `e nulla, la lunghezza dell’arco infinitesimo ds e la variazione del parametro x coincidono (ds = dx), per cui risulta indifferente derivare rispetto a s oppure rispetto a x. Inoltre, la distanza della linea dalla tangente coincide localmente con le differenze di ordinate y. Sar`a quindi: q |k| = f100 (x)2 + f200 (x)2 = f 00 (x) = 2 |a|

Il risultato ottenuto nell’esempio pu`o essere generalizzato nella seguente regola:

948

E.2. APPROSSIMAZIONE AL SECONDO ORDINE DELLE LINEE PIANE

la curvatura di una linea piana rappresentata da una funzione del tipo y = f (x) in cui x e y sono lunghezze, espresse nelle stesse unit`a di misura, `e data da |k| = f 00 (x)

(E.8)

nei punti in cui la funzione ha derivata prima nulla. Nel caso in cui la linea abbia nel punto P pendenza non nulla, il problema risulta pi` u complicato, infatti, la differenza tra la curvatura locale differisce dalla derivata seconda della funzione per due motivi: q • la parametrizzazione non `e naturale e ds = 1 + f 0 (x)2 dx 6= dx, • la differenza tra la variazione angolare ∆ϕ e la variazione di derivata prima (dϕ 6= d (f 0 (x))). La derivata prima `e infatti la tangente trigonometrica della pendenza della linea rispetto all’asse x. La seconda differenza `e giustificabile geometricamente se si considera che la funzione f misura la proiezione sull’asse y dello scostamento tra Q e P e non nella direzione della normale alla linea in P (vedi figura E.5). Entrambe le differenze possono essere annullate adottando un sistema di riferimento cartesiano locale che, come mostrato in figura E.5, ha origine nel punto P e l’asse x1 sulla tangente. Nel sistema locale l’espressione della funzione diventa: y1 = f1 (x1 ) e le nuove ordinate della curva sono misurate nella direzione della normale in P . Il modulo della curvatura `e quindi esattamente espresso dalla derivata seconda: |k| = f100 (x1 ) Indicato con ϕ l’angolo di inclinazione dell’asse x1 rispetto a x, valgono le seguenti relazioni nelle vicinanze del punto P :

Figura E.5: Sistema locale per il calcolo della curvatura esatta

∆y = f (x + ∆x) − f (x) − ∆x · tan ϕ f1 (∆s) = ∆y · cos ϕ

949

Propriet` a differenziali di linee e superfici

∆s = ∆x1 =

∆x cos ϕ

combinandole, si ottiene f1 (∆s) = [f (x + ∆s · cos ϕ) − f (x) − ∆s · sin ϕ] · cos ϕ La funzione f1 pu`o quindi essere derivata direttamente (indifferentemente rispetto a s o a x1 dato che ds = dx1 ) per ottenere: d2 f d2 f d2 f1 (s) 2 · cos ϕ = = (cos ϕ) · (cos ϕ)3 ds2 dx2 [d (s · cos ϕ)]2 1 Tenendo conto che (cos ϕ)2 = 1+(tan e tan ϕ = f 0 (x), si perviene alla formula esatta della ϕ)2 curvatura nel sistema originale valido per una linea piana in un punto con inclinazione generica:

|k| =

|f 00 (x)| [1 + f 0 (x)2 ]3/2

(E.9)

Esempio E.4: Curvatura in un punto generico di una parabola Calcolare la curvatura della parabola y = ax2 nel punto (x0 , ax20 ).



Le derivate prima e seconda valgono rispettivamente 2ax0 e 2a, per cui la curvatura diventa: |2a| |k (x0 )| = 3/2 1 + 4a2 x20 Come era prevedibile, la curvatura diminuisce (il cerchio oscillatore si allarga) allontanandosi dal vertice della parabola e la derivata seconda misura la curvatura in modo esatto solo nel vertice.

E.2.4 Calcolo approssimato della curvatura La relazione (E.9) indica una dipendenza non lineare tra la curvatura e la derivata prima della funzione. Tale non linearit`a si estende alle equazioni differenziali in cui compare la curvatura, complicandone la soluzione in modo notevole. Per fortuna, in molte situazioni di pratico interesse, la curvatura deve esser calcolata per linee rappresentate da funzioni la cui derivata prima `e una quantit`a piccola rispetto all’unit`a |f 0 (x)| 0) P `e esterno al segmento Cx Cy , se P `e intermedio tra Cx e Cy le due curvature hanno segno opposto (kxx · kyy < 0). Ma la curvatura di una superficie in un punto `e caratterizzata se `e nota la curvatura di ogni linea Γ intersezione della superficie con un qualunque piano del fascio contenente z e ` interessante analizzare il seguente problema: le curvature normali kxx e kyy passante per P . E caratterizzano completamente la curvatura locale della superficie in P ? Poich´e per il punto P passano ∞1 linee Γ (una per ogni piano del fascio), mentre le curvature normali sono state definite usando solamente due piani, `e lecito aspettarsi una risposta negativa. Consideriamo infatti un versore m ˆ nel piano x − y che forma un angolo α con l’asse x, come mostrato in figura E.9:     mx cos α m ˆ = = my sin α Il piano passante per P contenente la direzione dell’asse z e il versore m ˆ individua sulla superficie la linea Γm la quale in P ha una curvatura che, con naturale estensione dei simboli, si indica con kmm . Per calcolare tale curvatura, determiniamo l’espressione analitica della curva Γm , usando come parametro con l’ascissa curvilinea µ sulla retta del piano x − y con origine sulla proiezione di P e direzione m. ˆ Dato che: ξ = mx µ e η = my µ, sostituendo nella equazione (E.17), si ottiene l’espressione analitica per Γm : ϕm (µ) = da cui:

i 1 h (xx) f (xp , yp ) m2x + 2f (xy) (xp , yp ) mx my + f (yy) (xp , yp ) m2y · µ2 + ....... 2

h i kmm = − f (xx) (xp , yp ) m2x + 2f (xy) (xp , yp ) mx my + f (yy) (xp , yp ) m2y

Osserviamo quindi che la curvatura della linea non dipende solo dalle due curvature normali della superficie (rappresentate dal primo e dal terzo addendo), ma anche dalla derivata mista.

956

E.5. APPROSSIMAZIONE DELLE SUPERFICI AL SECONDO ORDINE

Figura E.9: Curvatura normale in direzione generica

Esempio E.6: Calcolo della curvatura di una superficie Determinare tutte le curvature normali kmm nell’origine della funzione: z = 3x2 − 6xy − 2y 2  Si tratta di una funzione che ha piano tangente orizzontale nell’origine, per cui le curvature normali si ottengono in modo esatto dalle derivate seconde: ∂2z = −kxx = 6, ∂x2 la derivata mista `e:

∂2z = −kyy = −4 ∂y 2

∂2z = −6 ∂x∂y

indicando con α l’angolo di inclinazione della retta m rispetto all’asse x si ottiene: kmm = −6 (cos α)2 + 12 cos α sin α + 4 (sin α)2

E.5.3 Curvatura svergolante o svergolamento Nel punto precedente `e stato dimostrato che, per ottenere la curvatura normale per una curva Γm genericamene orientata in un punto, `e necessario conoscere anche la derivata mista f (xy) (xP , yP ). Per questo, viene definito una nuova componente di curvatura, detta svergolamento (o curvatura svergolante), grandezza che non ha una equivalente per le linee. In analogia alle curvature normali, una superficie che ha piano tangente orizzontale in un punto P , lo svergolamento (esatto) `e definito da:   ∂ ∂ kxy = − f (x, y) (E.18) ∂x ∂y (xP ,yP )

957

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Essendo la funzione f (x, y) regolare, vale l’indipendenza della derivata mista dall’ordine di derivazione per cui:     ∂ ∂ ∂ ∂ kyx = − f (x, y) f (x, y) =− = kxy ∂y ∂x ∂x ∂y (xP ,yP ) (xP ,yP ) Il significato geometrico dello svergolamento si ottiene dalla definizione (E.18): lo svergolamento kxy rappresenta quanto rapidamente cambia l’inclinazione in direzione x quando ci si sposta in direzione y. Possiamo osservare che: • la relazione E.18 `e simmetrica rispetto all’ordine degli assi, pertanto la definizione vale anche se si scambiano x e y • il segno meno nella definizione dello svergolamento `e coerente con la definizione delle curvature normali • l’interpretazione geometrica rende conto del termine ‘svergolante’ usato per questa grandezza. Si conclude che le tre curvature kxx , kyy e kxy sono necessarie e sufficienti per definire la curvatura normale in ogni direzione essendo: kmm = kxx m2x + 2kyx mx my + kyy m2y

(E.19)

Come le curvature normali, anche lo svergolamento dipende dall’orientamento degli assi x − y usati nella rappresentazione della funzione. Possiamo chiederci: quale sarebbe lo svergolamento in P se la funzione fosse riferita a una coppia di direzioni, sempre tra loro perpendicolari ma non parallele agli assi x e y? Per rispondere a questa domanda consideriamo una coppia di versori perpendicolari qˆ e m ˆ appartenenti al piano x − y:     qx −my qˆ = = qy mx e calcoliamo, in modo simile a quanto fatto per kmm , lo svergolamento kmq associato alle direzioni m ˆ e qˆ. Applicando la definizione, dobbiamo valutare come l’inclinazione della superficie in direzione m ˆ varia spostandosi in direzione qˆ. Fissata una coordinata ρ nella direzione qˆ con origine nella proiezione di P , tenendo conto che ξ = mx µ + qx ρ = mx µ − my ρ e η = my µ + qy ρ = my µ + mx ρ, la funzione (E.17) pu`o scriversi come: h ϕ (µ, ρ) = 12 f (xx) (xp , yp ) · (mx µ − my ρ)2 + 2f (xy) (xp , yp ) · (mx µ − my ρ) (my µ + mx ρ) + i + f (yy) (xp , yp ) · (my µ + mx ρ)2 + .......... da cui, per derivazione mista si ottiene: kmq = kqm = −

∂2ϕ = kxx mx qx + kxy (mx qy + my qx ) + kyy my qy ∂µ∂ρ

(E.20)

Lo svergolamento e le due curvature normali permettono quindi di calcolare ogni componente di curvatura, normale e svergolante, per qualsiasi direzione nel piano tangente.

958

E.5. APPROSSIMAZIONE DELLE SUPERFICI AL SECONDO ORDINE

E.5.4 Il tensore di curvatura Introducendo la seguente matrice simmetrica di curvatura, riferita agli assi x − y,:   kxx kxy K= kyx kyy

(E.21)

le relazioni (E.19) e (E.20) possono essere scritte in forma compatta. Infatti, le curvature normali e svergolanti, per una generica coppia di assi perpendicolari m ˆ e qˆ, si ottengono con i seguenti prodotti: kmm = m ˆ T Km ˆ e kmq = m ˆ T Kˆ q = qˆT Km ˆ = kqm Poich´e queste relazioni sono valide per qualunque coppia di rette ortogonali appartenenti al piano x−y, possono essere usate per definire la legge di trasformazione della matrice di curvatura per rotazione degli assi attorno a z: K0 = LT KL (E.22) dove L rappresenta la matrice di trasformazione 2 × 2 degli assi sul piano x − y. Dalla relazione (E.22) si deduce che: la curvatura K `e un tensore doppio simmetrico piano. Le propriet`a della curvatura di una superficie riportate nei seguenti punti sono ricavate direttamente dalle propriet`a generali dei tensori. • In ogni punto di una superficie regolare, esiste sempre (almeno) una coppia di direzioni perpendicolari giacenti sul piano tangente, le direzioni principali di curvatura, per i quali lo svergolamento `e nullo e le corrispondenti curvature normali, le curvature principali, assumono valori estremi. • Rispetto agli assi principali, la matrice di curvatura assume la forma diagonale:   k1 0 K= 0 k2 • Come illustrato nella figura E.10, anche per la curvatura `e applicabile la rappresentazione di Mohr. • Con il digramma di Mohr, sono immediatamente identificabili le curvature principali che ordiniamo algebricamente in modo che k1 6 k2 ed `e possibile individuare le rispettive direzioni principali di curvatura (tra loro perpendicolari). • Ogni curvatura normale `e compresa tra i valori principali: k1 6 kmm 6 k2 . • I piani che contengono la normale e ognuna delle direzioni principali di curvatura sono piani di simmetria locale per la superficie ottenuta come scostamento della superficie data dal suo piano tangente. • Se in un punto passa un piano di simmetria per una superficie, esso individua necessariamente una direzione principale di curvatura. • La presenza di un piano di simmetria comporta che anche la direzione a esso normale `e principale di curvatura (a causa della ortogonalit`a degli autovettori della matrice reale simmetrica). • Lo svergolamento massimo, il cui valore in modulo `e 12 |k1 − k2 |, si manifesta su assi inclinati di 45◦ rispetto ai piani che contengono direzioni principali di curvatura.

959

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Figura E.10: Cerchio di Mohr per le curvature

E.5.5 Classificazione locale delle superfici La forma locale di una superficie regolare `e definita sulla base delle curvature principali. Punto ellittico. Un punto `e chiamato ellittico se tutte le sue curvature normali kmm hanno lo stesso segno. Questo si verifica quando per ogni direzione m, ˆ i centri di curvatura appartengono allo stesso semispazio rispetto al piano tangente. Sono ellittici tutti i punti di un ellissoide o di un paraboloide. Per un punto ellittico la circonferenza di Mohr delle curvature `e tutta a destra, o tutta a sinistra, rispetto all’asse verticale, ovvero le curvature principali sono concordi: k1 · k2 > 0 Quando le curvature principali sono uguali (non nulle): k1 = k2 6= 0 il cerchio di Mohr degenera in un punto e la superficie non presenta in P svergolamento per alcuna coppia di assi. La superficie ha quindi forma localmente sferica e il punto P `e detto sferico. Il punto sferico `e l’unico per il quale lo svergolamento `e nullo per ogni coppia d’assi. Sono punti sferici, oltre ovviamente tutti punti di una sfera, anche i punti delle superfici di rivoluzione in corrispondenza dell’asse di simmetria (purch´e ovviamente localmente differenziabili), come per esempio in un paraboloide circolare o in un ellissoide di rotazione (i punti pi` u lontani di una palla da rugby)ma non in un cono. Punto di sella. Si ha un punto di sella quando le curvature principali sono discordi, e quindi i centri di curvatura principali sono da parti opposte rispetto al piano tangente. Il cerchio di Mohr delle curvature contiene in questo caso l’origine e si possono trovare due direzioni m ˆ1 e m ˆ 2 in cui la curvatura normale `e nulla. Intersecando la superficie con un piano contenente la direzione z e una di tali direzioni, si individua una linea la cui circonferenza osculatrice degenera nella locale retta tangente. Le direzioni m ˆ1 e m ˆ 2 non sono in genere a 45◦ rispetto alle direzioni principali (escludendo il caso particolare di sella perfettamente emisimmetrica con k1 = −k2 , come la funzione z = xy nell’origine). Punti di sella si trovano anche nelle superfici di rivoluzione, per esempio nelle zone del ‘collo’ di una bottiglia. Casi particolari. ` interessante considerare i casi in cui il cerchio di Mohr passa dall’origine ovvero quando E almeno una delle curvature principali `e nulla. Se l’altra curvatura principale non `e nulla, la

960

E.5. APPROSSIMAZIONE DELLE SUPERFICI AL SECONDO ORDINE

superficie `e localmente riconducibile a un cilindro. Hanno questa caratteristica anche i punti di un cono (escluso il vertice) e i punti delle superfici di rotazione in cui la linea generatrice ha un flesso. Il caso estremo si verifica quando: k1 = k2 = 0 per cui il circolo di Mohr degenera nell’origine e la superficie `e localmente indistinguibile dal piano tangente, a meno di termini del terzo ordine o superiori. Ovviamente, un piano ha curvature principali nulle in ogni suo punto.

E.5.6 Valori esatti delle curvature per superfici con parametrizzazione cartesiana (*) Quando `e necessario determinare i valori esatti delle curvature, come per le linee, anche per le superfici le derivate seconde dovrebbero essere calcolate in un sistema di riferimento cartesiano con gli assi collocati sul piano tangente locale. Se questo cambiamento di coordinate non viene fatto, come `e stato verificato per le linee, le curvature calcolate con le derivate seconde sono approssimate e da considerarsi accettabili solo se le pendenze del piano tangente sono piccole rispetto all’unit`a: mmax  1 (vedi equazione E.15). Se invece le pendenze sono significative, il valore esatto della curvatura `e ottenibile dalla rappresentazione cartesiana senza cambiamento di sistema di riferimento introducendo espressioni non lineari delle derivate prime. Come `e da aspettarsi, il calcolo esatto delle curvature per le superfici `e pi` u complicato rispetto a quello delle linee. Pu`o essere peraltro adottato il seguente procedimento (riportato senza dimostrazione). 1. Traslare la funzione verticalmente di −zP in modo che il punto P appartenga al piano x − y, ottenendo la funzione: g (x, y) = f (x, y) − f (xP , yP ) che ha le stesse derivate e le stesse curvature di f . 2. Individuare la direzione di massima pendenza del piano tangente nel punto P e calcolare le quantit`a: q mmax = f (x) (xp , yp )2 + f (y) (xp , yp )2 ψ = 1 + m2max 3. Scegliere sul piano x − y due assi cartesiani x1 e y1 , con origine in P di cui uno (per fissare le idee assumiamo x1 ) abbia la direzione della massima pendenza del piano tangente. 4. Calcolare la matrice di trasformazione delle componenti piane: L (la matrice dei coseni direttori dei nuovi assi x1 e y1 rispetto ai vecchi x e y). 5. Esprimere la funzione g (che chiameremo g1 (x1 , y1 )) nelle nuove coordinate tenendo conto che:       x x1 xp =L + y y1 yp 6. Sviluppare al secondo ordine la funzione g1 (x1 , y1 ) nelle componenti x1 e y1 in modo da ottenere l’espressione: g1 (x1 , y1 ) = ±mmax x1 +

 1 Ax21 + 2Bx1 y1 + Cy22 + ..... 2 961

Propriet` a differenziali di linee e superfici

e quindi ottenendo i coefficienti A, B e C della parte quadratica. Il segno del termine lineare dipende dal verso assunto per l’asse x1 ma tale arbitrariet`a non ha effetto sul risultato. 7. Considerato un sistema di riferimento cartesiano x2 e y2 sul piano tangente, con l’asse y2 coincidente con y1 , il tensore di curvatura esatto vale:     A/ψ 3/2 B/ψ kx2 x2 kx2 y2 =− ky2 x2 ky2 y2 B/ψ C/ψ 1/2 dove A, B e C sono i coefficienti precedentemente valutati. L’introduzione della direzione di massima pendenza garantisce che le varie coppie di assi definite nel procedimento siano mutuamente perpendicolari.

E.6 Superfici di rivoluzione E.6.1 Definizioni generali e sistema di riferimento locale Molti gusci impiegati in pratica hanno superfici medie di rivoluzione, per esempio: recipienti in pressione, ugelli e tubazioni. Per le superfici di rivoluzione le curvature principali (esatte) possono essere determinate in modo pi` u semplice. Una superficie di rivoluzione `e ottenuta ruotando, generalmente di 360◦ , attorno a una retta, detta asse di rotazione, ζ (zeta dell’alfabeto greco) una linea piana complanare Γg , detta linea generatrice. Allo scopo di evidenziarne le propriet`a geometriche in modo naturale, per le superfici di rivoluzione `e opportuno introdurre coordinate e assi locali. Per la definizione di tali grandezze `e comoda l’analogia con il sistema di coordinate sferiche usate per la definizione delle posizioni geografiche. La linea generatrice Γg (per la Terra un meridiano) si ottiene intersecando

Figura E.11: Superficie di rivoluzione con gli assi locali (vista e sezione)

la superficie di rivoluzione con un semipiano (semipiano assiale) che si appoggia all’asse ζ. Per semplicit`a, la generatrice `e supposta una linea regolare e non intersecante l’asse di rotazione. Sono convenzionalmente individuate: • una generatrice di riferimento Γ0 che definisce l’origine della coordinata angolare di longitudine (sulla Terra `e il meridiano di Greenwich) • un verso di rotazione (vedi figura E.11).

962

E.6. SUPERFICI DI RIVOLUZIONE

La coordinata che determina la posizione angolare (attorno all’asse ζ) del semipiano assiale che contiene il punto generico P rispetto alla generatrice di riferimento, individua la longitudine, ed `e indicata con θ. La latitudine (o colatitudine) `e determinata dall’angolo ϕ che misura l’inclinazione della normale alla generatrice in P rispetto all’asse di rotazione. In alcuni casi la definizione di latitudine per una generica superficie di rivoluzione pu`o essere ambigua e ϕ potrebbe non individuare univocamente la posizione del punto P lungo la sua generatrice. Infatti, a differenza della sfera, il centro di curvatura per una generatrice non semicircolare `e diverso da punto a punto ed `e quindi possibile che lo stesso valore di inclinazione sia assunto dalla normale in pi` u punti della generatrice (anche infiniti, come per esempio nelle superfici cilindriche o coniche). Per superare questa difficolt`a, sulla generatrice viene assunta una ascissa curvilinea s, che individua univocamente la posizione di P e stabilisce il senso di percorrenza della generatrice stessa. Su ogni punto della superficie `e definito un sistema di riferimento cartesiano locale con le seguenti regole: • il versore tˆϕ tangente alla generatrice `e diretto nel verso crescente dell’ascissa curvilinea s, • il versore normale n ˆ `e orientato verso l’esterno della superficie (ovvero dalla parte opposta all’asse di rotazione), a tale versore `e associato l’asse rettilineo locale z della superficie, • il versore tˆθ `e ortogonale ai primi due e dato dalla relazione tˆθ = tˆϕ ∧ n ˆ in modo che la terna tˆθ , tˆϕ , n ˆ (in questo ordine) sia ortonormale destrorsa. Il verso di tˆθ individua il senso crescente della longitudine. L’intersezione della superficie con un piano per P normale all’asse ζ individua una circonferenza (detta parallelo). Il vettore tˆθ , che localmente giace sul parallelo, individua il verso della corrispondente ascissa curvilinea chiamata µ.

E.6.2 Curvature delle superfici di rivoluzione Per le superfici di rivoluzione, le propriet`a locali di curvatura possono essere individuate sulla base delle considerazioni seguenti: • la superficie di rotazione `e costruibile conoscendo le propriet`a geometriche della linea generatrice e la posizione della generatrice stessa rispetto all’asse di rotazione, `e prevedibile quindi che anche le curvature della superficie siano deducibili da queste informazioni • la superficie viene considerata nel sistema locale che ha assi definiti dai versori tˆθ , tˆϕ e n ˆe le curvature sono ottenute in modo esatto, indipendentemente dall’inclinazione del piano tangente • essendo contenuta in un piano di simmetria, la direzione tˆϕ `e principale di curvatura, e quindi lo `e anche la direzione tˆθ . Nel sistema locale, il tensore di curvatura pu`o quindi esprimersi come:   kθθ 0 K= 0 kϕϕ

963

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Figura E.12: Locale conicit`a delle superfici di rivoluzione

dobe, con il solito significato dei simboli, sono indicate con kθθ e kϕϕ le curvature normali (e in questo caso anche principali) nelle direzioni tˆθ e tˆϕ rispettivamente, che sono chiamate curvature longitudinale e latitudinale. La curvatura latitudinale kϕϕ `e direttamente riconducibile alla curvatura della linea generatrice Γg (linea che ha una pendenza solitamente non trascurabile) e pu`o essere valutata con i metodi riportati nei paragrafi precedenti. Per determinare kθθ `e utile considerare la figura E.12 che evidenzia come, localmente, la superficie di rivoluzione possa essere approssimata con un cono che ha vertice in V intersezione tra l’asse di simmetria e la retta tangente alla generatrice. L’intersezione della superficie di rotazione con un piano normale al foglio e a tˆϕ genera una linea con centro di curvatura in Cθ che rappresenta il punto in cui la normale alla generatrice interseca l’asse di rotazione. La situazione generale `e schematizzata nella figura E.13 che mostra entrambi i centri di curvatura e i rispettivi raggi.

Figura E.13: Curvature per una superficie di rivoluzione

Le seguenti considerazioni sul segno delle curvature sono utili per la soluzione di problemi di statica dei gusci. Si noti che esse sono coerenti con le convenzioni sui segni finora assunte (in particolare il verso dell’asse z locale). • La curvatura kθθ `e sempre positiva. • La curvatura kϕϕ `e di segno positivo (come in figura E.13) in un punto ellittico. La

964

E.6. SUPERFICI DI RIVOLUZIONE

curvatura kϕϕ `e negativa quando il centro di curvatura Cϕ `e dalla parte opposta di Cθ rispetto a P (ovvero Cϕ `e esterno alla superficie come nel ‘collo di bottiglia’). • La curvatura kϕϕ pu`o essere anche nulla. In tal caso la superficie `e localmente cilindrica o conica (per esempio nel flesso della generatrice del ‘collo di bottiglia’). • I raggi di curvatura relativi alle direzioni principali (quando esistono finiti), sono dati in modulo dalle relazioni: Rθ = |P Cθ | = 1/|kθθ | e Rϕ = |P Cϕ | = 1/|kϕϕ |

Esempio E.7: Curvature in un paraboloide di rotazione Calcolare le curvature di un paraboloide di rotazione la cui generatrice `e espressa dalla relazione (in cui a > 0 e Rς `e la distanza del punto P dall’asse di rotazione): ζ = aRς2

Figura E.14: Curvature di un paraboloide di rotazione

Il modulo della curvatura kϕϕ `e gi`a stato calcolato nell’esempio E.4. Si deve solo porre attenzione al segno, in quanto ora l’asse z `e normale uscente dalla superficie, per cui: kϕϕ (Rς ) =

2a 1 + 4a2 Rς2

3/2

l’altra curvatura principale della superficie di rotazione si ottiene con considerazioni elementari di geometria analitica piana: kθθ (Rς ) =

2a 1 + 4a2 Rς2

1/2

Nella figura E.15 sono rappresentati gli andamenti delle curvature principali. Si pu`o osservare che le due curvature principali coincidono (solo) nel vertice, che quindi, rappresenta l’unico punto sferico del paraboloide, tutti gli altri sono ellittici. Dal grafico si pu`o ricavare l’errore che si commetterebbe calcolando direttamente le derivate seconde della rappresentazione cartesiana del paraboloide:  f (x, y) = a x2 + y 2 = aRς2 per il quale si stimerebbero k1 = k2 = 2 in ogni punto P .

965

Propriet` a differenziali di linee e superfici

Figura E.15: Andamento delle curvature principali in un paraboloide di rotazione in funzione dell’inclinazione della generatrice

Il lettore pu`o verificare che, applicando le relazioni del paragrafo E.5.6, le curvature principali si possono ricavare in modo esatto anche partendo dalla rappresentazione cartesiana. L’unica differenza che si ha, rispetto alla soluzione del solido di rivoluzione, `e il segno. La causa di questa apparente incongruenza `e da ricercarsi nella diversa direzione dell’asse usato per definire le quote della superficie rispetto al piano degli assi di riferimento.

E.6.3 Relazioni tra quantit` a angolari e ascisse curvilinee per le superfici di rivoluzione Talvolta `e utile esprimere il legame tra le coordinate angolari di latitudine e longitudine e le corrispondenti ascisse curvilinee misurate rispettivamente lungo il meridiano e il parallelo. Per uno spostamento lungo il meridiano la relazione `e immediata: dϕ = kϕϕ ds =

ds Rϕ

Si noti che, come anticipato, per un solido di rotazione generico, la curvatura kϕϕ `e solitamente funzione della posizione. In particolare, se la curvatura meridiana `e nulla, la relazione precedente non consente di definire univocamente la latitudine. Per calcolare il corrispondente spostamento sul parallelo basta ricordare che, per definizione, la longitudine indica la rotazione del semipiano assiale per P rispetto al semipiano assiale della generatrice Γ0 di riferimento. L’angolo di longitudine pu`o essere misurato considerando la rotazione del segmento Cζ P (di lunghezza Rζ ) essendo Cζ il punto dell’asse di simmetria pi` u vicino a P . Vale pertanto la relazione: dµ = Rζ dθ come illustrato dalla figura E.16. Essendo Rζ = Rθ sin ϕ, risulta: dµ =

966

dθ sin ϕ kθθ

E.6. SUPERFICI DI RIVOLUZIONE

Figura E.16: Definizione del centro Cζ

Le precedenti relazioni permettono di ottenere utili espressioni per l’area dell’elemento infinitesimo di superficie per superfici di rivoluzione: dA = ds · dµ =

Rζ sin ϕ dϕdθ dϕdθ = kϕϕ kθθ kϕϕ

Nel caso di una sfera di raggio R0 , essendo: kϕϕ = kθθ = 1/R0 , la formula dell’area si semplifica in: dA = R02 sin ϕ · dϕdθ

967

Glossario delle keywords analisi dopo l’instabilit` a post-buckling analysis 837

deformazione strain . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 412

anima web . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217

deformazione angolare angular strain . . . . . . . . . 415

anisotropia anisotropy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 490

deformazione estensionale extensional strain . 421

antiorario counterclockwise . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874

deformazioni elastiche elastic strains . . . . . . . . . . 488 deformazioni plastiche plastic strains . . . . . . . . . 546

appoggio semplice simple support . . . . . . . . . . . . . 96

deformazione vera true strain, natural strain . 466

asse axis . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 attorcigliamento twist . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 649

densit` a di energia elastica elastic energy density . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 492

autoequilibrato self-balanced . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 66

densit` a volumica volumetric density . . . . . . . . . . . . 72

baricentro centroid . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 80 biassiale biaxial . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 372

densit` a volumica media mean volumetric density . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72

braccio arm . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 58

destrorso right-handed . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874 deviatore di tensione stress deviator . . . . . . . . . . 391

campo tensoriale tensor field . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354

diagramma di corpo libero definitivo o finale final free body diagram . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 36

carico load . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 carico critico buckling load . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 832 catene chain(s) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

diagramma di corpo libero preliminare preliminary free body diagram . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 35

cautelativo conservative . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 577

duttilit` a ductility . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 549

cella di carico load cell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 20

elasticit` a elasticity . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 491

centro di taglio shear centre . . . . . . . . . . . . . . . . . . 721

elastico elastic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 491 energia elastica elastic energy . . . . . . . . . . . . . . . . . 488

cerniera hinge . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 97

energia potenziale elastica elastic energy . . . . . 492

cifre significative significant digit(s) . . . . . . . . . . . 896

energia potenziale totale total potential energy . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 825

cinghie belt(s) . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33 componente component . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 23 componente normale normal component . . . . . . 332

equazione di congruenza compatibility equation . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 441

componente idrostatica hydrostatic component . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391

equazioni di congruenza compatibility equations . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395

componente deviatorica deviatoric component 391

equazioni costitutive constitutive equations . . . 395

compressione compression, compressive stress

equibiassiale equibiaxial . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 372

332

equilibrio indifferente neutral . . . . . . . . . . . . . . . . . 828

congruente compatible . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 403

fase di carico loading phase . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 545

continuo continuum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 70

fase di scarico unloading phase . . . . . . . . . . . . . . . 546

contro-curvatura anticlastic curvature . . . . . . . . 623

fili o cavi cables . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31

coppia couple . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 64

flessione bending . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 601

corpo rigido rigid body . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

flessione su quattro punti four points bending 602

costanti elastiche elastic constants . . . . . . . . . . . . 496

forza force . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3

criterio di snervamento yielding criterion . . . . . 556

forza d’inerzia o forza apparente inertia force . . 12

curva carico-spostamento load-displacement curve . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 495

forza di taglio shear (or tangential) force . . . . . . 227

deformabilit` a compliance . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 496

forza per unit` a di superficie traction . . . . . . . . . . . 76

forza normale normal (or axial) force . . . . . . . . . 227

969

ELENCO ...

fragile brittle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 544

precisione (assoluta) precision . . . . . . . . . . . . . . . . 896

fragilit` a brittleness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 544

precisione relativa relative precision . . . . . . . . . . . 896

frattura fracture . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 332

progettazione a prova di stupido fool-proof design . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 151

gradi di libert` a degrees of freedom . . . . . . . . . . . . . 92 grandezza tensoriale tensor quantity . . . . . . . . . . 352 guscio shell . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212 incastro fixed constraint, built-in constraint . . . . 99 incrudimento strain hardening . . . . . . . . . . . . . . . . 547 indifferente neutral . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46 ingobbamento warping . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 662 instabile unstable . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 46

provino specimen . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 512 pulegge pulleys . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 31 punto materiale particle . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 30 quantit` a di moto momentum . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 rapporto di Poisson Poisson ratio . . . . . . . . . . . . . 519 reazione vincolare constraint reaction . . . . . . . . . . 11 resistenza strength . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 490 rigidezza stiffness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 496

l’instabilit` a buckling . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 836

rigidezza assiale axial stiffness . . . . . . . . . . . . . . . . 578

invariante invariant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 364

rigidezza flessionale bending stiffness . . . . . . . . . 611

isotropo isotropic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 490

rigido (aggettivo) stiff . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

lastra o membrana membrane . . . . . . . . . . . . . . . . 212

rigido rigid . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 87

lavoro work . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 24

risultante resultant . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 33

lavoro virtuale virtual work . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26

scarico elastico elastic download . . . . . . . . . . . . . . 547

legge costitutiva constitutive law . . . . . . . . . . . . . 489

sezione section . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215

libbra pound . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

sezione a parte sottile channel section . . . . . . . . 668

linea isostatica stress trajectory . . . . . . . . . . . . . . . 645

sinistrorso left-handed . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 875

linea neutra neutral line . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 460

snellezza slenderness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 856

lunghezza lenght . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4

snervamento yielding . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 544

massa mass . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4

spessore thickness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 210

materiale omogeneo homogenous material . . . . 489

spostamento displacement . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 401

modello costitutivo constitutive model . . . . . . . . 489

spostamento virtuale virtual displacement . . . . . 26

modulo di Young Young modulus . . . . . . . . . . . . . 518 modulo di rigidezza volumico bulk modulus . . 525 modulo di rigidezza tangenziale shear modulus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 522 modulo elastico elastic modulus . . . . . . . . . . . . . . 518 molla spring . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 464 momenti d’inerzia second order moments . . . . . 921 momento moment . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57 momento flettente bending moment . . . . . . . . . . 227 momento statico first static moment . . . . . . . . . . 913 momento torcente torque . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 227 omogeneo homogeneus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 72 orario clockwise . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 874 ordine di grandezza magnitude . . . . . . . . . . . . . . . . 896

stabile stable . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 819 stato piano di tensione plane stress . . . . . . . . . . . 373 strizione necking . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 545 struttura structure . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 155 supporto support . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 taglio puro pure shear . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 372 tempo time . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4 tenacit` a toughness . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 549 tensione stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 356 tensione ammissibile allowable stress . . . . . . . . . . 549 tensione circonferenziale hoop stress . . . . . . . . . . 644 tensione di taglio shear stress . . . . . . . . . . . . . . . . . 332 tensione di rottura ultimate stress . . . . . . . . . . . . 550 tensione di snervamento yielding stress . . . . . . . 547 tensione equivalente equivalent stress . . . . . . . . . 558

peso weight . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 5

tensione ideale ideal stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 558

piano ottaedrico octaedral plane . . . . . . . . . . . . . . 392

tensione ingegneristica engineering stress . . . . . 541

piastra plate . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

tensione media mean stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 391

piattabanda flange . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 217

tensione normale normal stress . . . . . . . . . . . . . . . 332

plastiche plastic . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 488

tensione tangenziale tangential stress . . . . . . . . . 332

pollice inch . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 896

tensione vera true stress . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 541

potenza power . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 26

tenso-irrigidente stress-stiffening . . . . . . . . . . . . . . 508



ELENCO ...

tensore tensor . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 352 tensore delle tensioni stress tensor . . . . . . . . . . . . 353 tensore di deformabilit` a compliance tensor . . . . 498 tensore di rigidezza stiffness tensor . . . . . . . . . . . 497 telaio frame . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 95 trave beam . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 triassiale triaxial . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 372 trazione tension, tensile stress . . . . . . . . . . . . . . . . . 332 uniassiale uniaxial, monoaxial . . . . . . . . . . . . . . . . . 372 velocit` a di deformazione strain rate . . . . . . . . . . . 483 vettore tensione traction . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 327 vincoli interni internal contraints . . . . . . . . . . . . . . 157 vincolo constraint . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 11 viscose viscous . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 488



View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF