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December 14, 2016 | Author: mrccrs00 | Category: N/A
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L’immaginario urbano nell’Italia medievale (secoli v-xv) di Jacques Le Goff

Storia dell’arte Einaudi

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Edizione di riferimento:

in Storia d’Italia. Annali, 5. Il paesaggio, a cura di Cesare De Seta, Einaudi, Torino 1982

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Indice

Introduzione

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1. I modelli

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2. Il sistema dei valori spaziali cristiani e la città

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3. La cristianizzazione delle città

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4. La città, la non-città, l’anti-città

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5. Immagine della città e coscienza cittadina

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6. La città, immagine e strumento del potere

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Introduzione

In questo saggio vorrei cercare di riunire due recenti vie di ricerca, per lo piú separate fra loro, e di far concorrere tipi di documenti di rado sfruttati insieme. Da una parte mi propongo di presentare l’immagine materiale delle città italiane nel Medioevo come rivelatrici di una forma, di una struttura. Ma la forma di una città rinvia a modelli ideali, estetici e ideologici. Tre tipi di documenti consentono principalmente di avvicinare questa realtà. Anzitutto l’archeologia, sia l’archeologia morta, prodotta dagli scavi che restituiscono gli antichi materiali di una città (ma scavare nelle città, dove il popolamento, la vita non hanno in generale cessato di esistere negli stessi luoghi, non è facile), sia l’archeologia vivente delle attuali forme urbane, in cui è ancora possibile intuire e dove talvolta ancora funziona, seppur parzialmente, l’antica struttura. Qui si presenta la documentazione grafica dei secoli passati e la documentazione fotografica recente, in particolare quella offerta dalla fotografia aerea, rivelatrice di strutture e di masse. A questo primo tipo di documenti – già diversi – viene ad aggiungersi la testimonianza iconografica, che richiede un’interpretazione piú approfondita per il fatto che le opere d’arte non sono mai una mera rappresentazione. In compenso, la loro deformazione della realtà materiale rivela l’armatura mentale dell’immagine urbana. La rappresentazione delle città nella pittura, nella scultura,

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nella cartografia è una delle migliori testimonianze dell’immaginario urbano. Finalmente, i modelli ideali sono espressi nelle opere teoriche: trattati di urbanistica, di architettura, ma anche opere propriamente ideologiche, vale a dire – per il Medioevo europeo – anzitutto la letteratura religiosa: commenti biblici, sermoni, exempla, trattati teologici e morali in cui compare il tema urbano. Sono tre tipi di documenti che meglio consentono di stringere da presso l’immaginario spaziale della città. D’altra parte vorrei ricorrere anche a documenti in cui si esprime la coscienza urbana degli italiani del Medioevo. A questo proposito si offrono tre insiemi documentari d’importanza diversa. Il primo è uno specifico genere letterario: l’elogio delle città, le «laudes civitatum». Il secondo è formato da testi e temi che riuniscono racconti, leggende, tradizioni sulle città: ciò che gli uomini del Medioevo chiamavano «mirabilia». Il meraviglioso urbano costituisce un capitolo sterminato dell’immaginario urbano, che potrebbe addirittura ridursi ad esso, se si limitasse il significato di immaginario, come non è nei miei propositi. È di grande interesse, infatti, combinare insieme cultura dotta e cultura popolare a proposito della città, al fine di capire il folclore urbano. Finalmente la coscienza urbana medievale – ed è questo l’elemento piú importante – si è espressa in una storiografia originale, un insieme di cronache cittadine, che rappresentano uno dei campi piú ricchi della storiografia medievale, soprattutto in Italia. Questo secondo insieme documentario permette di afferrare l’immaginario temporale della città. Ma sarà anche il caso di sottolineare che questa storia dell’immaginario urbano, in cui sembrano avere la meglio l’estetica e l’ideologia, è anche, e forse anzitutto, una storia sociale e politica. Sociale, perché le contraddizioni e i conflitti che essa rivela, sono soprattutto quelli della società urbana; nella sua struttura mate-

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riale, nella topografia urbana, come pure nella sua ideologia, l’immaginario urbano è modellato dalle tendenze e dagli antagonismi sociali: chierici contro laici, magnati contro popolani, popolo minuto contro popolo grasso. Politica, perché l’immagine urbana è un’espressione e uno strumento del potere. Il patriottismo urbano, che è stato in buona parte un prodotto di questo immaginario, a sua volta, in misura notevole, modellato da quello, ha oscillato cosí fra le immagini di una città divisa contro se stessa, aperta a Satana e alle sue coorti diaboliche, e una città armoniosa, fondata sulla pace, la concordia, piena di fervore religioso e di rispetto per la Chiesa. Ancor piú delle trasformazioni demografiche, tecnologiche, culturali, proprio l’evoluzione sociale e politica ha modellato l’immaginario urbano. Vi ritroviamo facilmente i grandi periodi della storia politica e sociale dell’Italia medievale: un lungo Alto Medioevo, in cui sono presenti l’agonia della città antica e la comparsa di forme e immagini nuove (secoli v-x); un Medioevo comunale, che vede l’apogeo della coscienza urbana (secoli xi-xiii), e un Basso Medioevo signorile, in cui l’immagine urbana è al servizio dei nuovi padroni e dove lo splendore monumentale e urbanistico mira al tempo stesso a mascherare la povertà della vita civile e ad esprimere i nuovi rapporti sociali e politici. Ma prima di tracciare sommariamente la storia di questo immaginario urbano dell’Italia medievale, vorrei fare ancora qualche osservazione. Anzitutto devo dire che ognuna delle direzioni di ricerca da me indicate è già stata ampiamente esplorata e ha dato luogo a lavori importanti1: in effetti si è manifestata attraverso di essi, e in misura notevole, il profondo cambiamento degli studi storici nel nostro tempo. Oltre alla storia vera e propria dell’immaginario – punto avanzato nella ricerca storica2 – lo studio dell’immagine

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urbana è collegata a un rinnovamento della storia dell’arte in diverse direzioni: come ricorso, al tempo stesso, alla struttura e alla storia3, come storia dell’urbanistica e insieme come studio sociologico, come studio formale, studio culturale, studio del potere sulla struttura e sull’immagine urbana4, come iconologia5, come simbolismo dello spazio6. Nei suoi aspetti storiografici, lo studio dell’immagine urbana si ricollega alla storia dei generi7, alla storia del meraviglioso8, alla storia della storiografia9. È una parte essenziale della memoria urbana. Infine, essa utilizza la socio-topografia storica10 e reca il proprio contributo alla nuova storia politica, concepita come antropologia storica del potere11. L’immaginarlo urbano è dunque quell’insieme di rappresentazioni di immagini e d’idee, attraverso le quali una società urbana – o parte di essa, o i suoi ideologi e i suoi artisti, che non di rado sono la stessa cosa – costruisce per se stessa e per gli altri un autopersonaggio, un autoritratto12. Ciò che importa, per lo storico, è capire che questo personaggio ha due facce: una materiale, reale, rappresentata dalla struttura e dall’aspetto della città stessa; l’altra mentale, incarnata nelle rappresentazioni artistiche, letterarie e teoriche della città. L’immaginario urbano consiste insomma nel dialogo fra queste due realtà, fra la città e la sua immagine. In secondo luogo è necessario sottolineare l’originalità italiana nella storia urbana medievale e nelle condizioni sociali, politiche e culturali, che hanno fatto della città italiana medievale un luogo privilegiato dell’immaginario urbano, proprio perché la varietà dei modelli urbani e delle città esistenti nell’Italia medievale può ridursi, a seconda delle varie epoche, a un tipo predominante. La città medievale – lasciando da parte la città bizantina, la città islamica, la città cinese – è un fenomeno europeo. Essa presenta un duplice aspetto: l’eredità

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romana e l’esplosione urbana dei secoli xi-xiii, uno dei fenomeni fondamentali dell’età medievale. La prima si traduce nelle strutture e nei monumenti. Le strutture trasmettono alla città medievale alcuni elementi importanti della maglia urbana, come la forma rettangolare o quadrata del centro urbano, il tracciato delle mura, il palinsesto di un piano regolare, dove le vie si congiungono ad angolo retto, vestigia dei due grandi assi (decumanus e cardo) e del loro incrocio. I monumenti forniscono ricordi, miniere e materiali. Sono i punti di riferimento per meditazioni e sogni; recano all’immagine della città medievale componenti molteplici e contraddittorie: immagini di decadenza e di rinascita, di barbarie e di civiltà, di continuità e di rottura, modelli e antimodelli. Questo retaggio dell’antichità, questa permanenza topografica ha portato alcuni medievisti a insistere sulla continuità che lega la città medievale alla città antica. A mio giudizio, si è vittime cosí di un’illusione, anche per quel che riguarda l’Italia, e sarei tentato di dire soprattutto per quel che riguarda l’Italia, dove la città medievale ha affermato la propria novità prima e piú energicamente che nel resto della cristianità. Questa persistenza di alcune forme e di taluni elementi materiali conta meno, agli occhi dello storico, del cambiamento radicale delle funzioni, del significato, dello spirito. Ora, prima della nascita della nuova città medievale, la città dell’Alto Medioevo è anzitutto negazione e distruzione della città antica. Mi limiterò a indicare sommariamente tre punti fondamentali per l’immagine della città medievale. Il primo è la scomparsa, in seguito a distruzione, abbandono o riconversione, di tutti i monumenti, di tutti i centri della vita sociale, politica, artistica della città romana: i templi, il foro, le terme, i teatri, il circo, lo stadio. Con la scomparsa di questi monumenti e di questi luoghi pubblici viene meno tutta una pratica

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sociale e una cultura, spariscono elementi essenziali dell’immagine, della coscienza, dell’ideologia cittadina: le credenze e le cerimonie legate a divinità pagane, la sociabilità dei luoghi pubblici e degli spazi di riunione, la cultura del corpo (per quel che riguarda l’igiene, la ginnastica e gli sport), lo spettacolo delle maschere, dei combattimenti fra uomini e animali ecc.13. Il secondo punto è la sostituzione del disordine, nell’occupazione dello spazio urbano, alla regolarità dell’urbanistica antica, o meglio la sostituzione dell’ordine geometrico con un nuovo ordine, generatore di irregolarità nella disposizione dei monumenti legati ad esempio alla casualità della localizzazione delle reliquie e dei ricordi dei martiri, alla sinuosità delle vie, all’irregolarità e in generale all’esiguità degli spazi, in seguito alla scomparsa di autorità urbane e di organizzazioni civiche in grado d’imporre una regola urbanistica. L’immagine urbana medievale non ritroverà, o per meglio dire non creerà – perché si tratterà, come vedremo, di creazione – la linea retta se non nella verticalità. Finalmente, la città medievale sarà – in totale contrasto con la città antica – una città di vivi e di morti. I cadaveri non saranno piú rigettati, in quanto impuri, all’esterno dello spazio urbano, ma – secondo l’esempio e per l’attrazione dei corpi dei martiri14 – verranno insediati nel territorio intra muros. Tombe isolate, sepolcri costruiti nelle chiese o cimiteri urbani faranno della città una necropoli al tempo stesso che una città di viventi, e l’immagine urbana avrà un aspetto funerario che contribuirà a trasformarla profondamente. L’inurbamento dei morti è un elemento capitale nella rivoluzione urbana – materiale e mentale – del Medioevo. La città medievale comincia con il cristianesimo. Ma questo non si limita a distruggere o a sostituire parzialmente il corpo e l’immagine della città antica: comincia a modellarla. Anzitutto e soprattutto attraverso la

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costruzione di chiese. La chiesa diventa il monumento urbano per eccellenza e le chiese, nella maggior parte delle città, si può dire monopolizzino l’idea di monumento. La struttura monumentale e ideologica urbana, l’ideogramma urbano consistono nella rete delle chiese. Nelle piú importanti città del tempo, immeschinite per il crollo demografico e l’esodo verso le campagne, il principale monumento diventa la cattedrale e la città, centro di potere al tempo stesso che centro religioso – i due fenomeni si confondono – diventa la sede del vescovo. Tuttavia la cattedrale finirà con l’avere di rado una funzione e un’immagine davvero dominanti nella città: altre chiese, altri monumenti religiosi, in particolare i conventi, saranno centri in concorrenza con la cattedrale. La città medievale sarà policentrica, soprattutto nell’Alto Medioevo, prima che nell’età comunale la piazza imponga un centro alla città, senza peraltro riuscire a far scomparire altri centri tradizionali (quartieri sorti intorno a chiese parrocchiali) o nuovi centri secondari, creati ai quattro angoli della città intorno ai conventi degli ordini mendicanti, sorti nel secolo xiii (predicatori, minori, agostiniani, carmelitani). Alla città medievale il cristianesimo apporta due tratti essenziali per la sua immagine. Il primo è la verticalità, inaugurata dai campanili che ospitano, a partire dal secolo vii, una grande, creazione cristiana, la campana e la cella campanaria, con cui la Chiesa si assicura il dominio sul tempo e sullo spazio: il tempo urbano, fino al secolo xiii in modo esclusivo, poi in misura prevalente, sarà il tempo della Chiesa, il tempo delle campane. Prima che si innalzino le torri delle case aristocratiche e del palazzo comunale, i campanili domineranno la massa e il profilo delle città: a loro apparterrà la verticalità. Il secondo di questi tratti dovuti alla cristianizzazione della città è – in luogo del teatro, dei giochi, delle feste dell’Antichità pagana –

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l’inserimento nella città del cerimoniale cristiano, la liturgia. Certo, la liturgia si dispiega soprattutto all’interno delle chiese, e l’immaginario urbano medievale comporta una parte assai piú grande di interiorità che non l’immaginario urbano antico. Ma la liturgia cristiana straripa fuori delle chiese. Le processioni sono ormai iscritte nel calendario e nella topografia urbana: nuovi itinerari vanno delineandosi nella città, avendo come punti di partenza e di arrivo le chiese, anziché i templi e i monumenti dell’Antichità. A partire dai secoli x e xi nasce la città propriamente medievale, molto diversa dalla città antica. La sua prima funzione non è piú amministrativa o militare, ma economica: la città è anzitutto luogo di produzione, di scambi, di consumi. Una nuova divisione dello spazio urbano viene delineandosi per distinguere i quartieri di lavoro e i quartieri residenziali, le zone di svago e i nuovi centri emergenti, i mercati. Questa attività economica è il prodotto di nuovi cittadini che conquistano ben presto il primo posto nella città: i borghesi. Essi s’impadroniscono a poco a poco del potere nella città, che viene da loro rimodellata a immagine della loro potenza economica, sociale, politica: costruzione individuale delle case delle grandi famiglie nobili o borghesi e soprattutto erezione collettiva dei monumenti comunali e di un nuovo centro preponderante, la piazza. Finalmente la città medievale afferma a poco a poco una funzione culturale originale: si caratterizza – di là dal suo volto religioso, sempre predominante – con la creazione di scuole urbane e il fiorire di feste a carattere laico. Le scuole – anche nelle città diventate sedi universitarie – non modificano tuttavia, come si potrebbe pensare, l’immagine urbana. A lungo, queste università e queste scuole non disporranno di edifici propri e anche quando ne costruiranno, essi saranno privi di carattere monumentale e non concorreranno ad arricchire l’im-

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magine urbana. D’altra parte i conflitti fra universitari e poteri pubblici, come pure la presenza di stranieri nelle università piú importanti limitano la parte che questi centri di istruzione avranno nella formazione e diffusione della coscienza e dell’immagine urbana. Quanto alle feste, sebbene piú o meno fortemente segnate dall’impronta religiosa, esse colorano l’immagine urbana sia di tinte popolari, folcloriche, con una dose piú o meno grande di «paganesimo» (carnevale); sia di toni aristocratici, perché – come ha di recente ricordato Philip Jones15 – la cultura borghese, quando non costituisce un mito, imita la cultura nobiliare o trae molto da essa; sia finalmente di caratteri sportivi, in cui non è facile discernere quanto derivi da sport popolari e quanto appartenga alla cultura fisica e militare della nobiltà (calcio, quintana, palio ecc.). All’interno di questo fenomeno urbano, che si produce e crea il proprio immaginario in tutta la cristianità medievale, le città italiane affermano la loro originalità. Essa è legata anzitutto dal peso dell’eredità antica. La presenza di antichi monumenti è, nelle città italiane del Medioevo, quantitativamente e qualitativamente impressionante, quasi ossessionante. La tarda Antichità vi si prolunga piú che altrove e il peso dell’immagine antica, dopo un semieclissi durante il periodo comunale, ricomparirà prima e con maggiore vivacità che altrove, proponendo i modelli romani di un Rinascimento precoce. Entro questa presenza materiale e ideologica della città antica, graverà in modo particolarmente pesante una realtà al tempo stesso attuale e retrospettiva: Roma. Al fascino, piú o meno grande a seconda delle epoche, dell’antica Roma viene ad aggiungersi il prestigio della Roma papale, sebbene fra la città leonina del secolo ix e la metà del Quattrocento, i pontefici non abbiano lasciato una forte impronta di sé sulla città eterna né con una presenza molto frequente, né con un

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contributo di qualche rilievo alla sua immagine. Tuttavia il giubileo del 1300 mostrerà la forza dell’attrazione romana, rinnovata dal cristianesimo e dal papato. La seconda originalità dell’immaginario urbano italiano è legata alla funzione svolta in Italia – dall’età carolingia fino alla metà del secolo xiii – dagli imperatori germanici. Per la verità, il contributo imperiale all’immaginario urbano italiano è soprattutto negativo. Anche nelle città ghibelline, la presenza molto intermittente dell’imperatore e quella dei suoi rappresentanti si è manifestata in misura molto discreta nei monumenti e nell’urbanistica. In generale, l’Impero apporta una nota repressiva: la cittadella che domina e sembra schiacciare alcune città, la rocca. Invece l’azione imperiale ha segnato la coscienza e l’immaginario delle città italiane in modo negativo, con la traumatizzazione provocata dalla distruzione delle mura, come avvenne a Milano per ordine di Barbarossa o a Napoli per volere di Enrico VI. La terza peculiarità che ha colpito fin dal Medioevo gli uomini del Nord europeo, prima di attirare l’attenzione degli storici moderni, è la presenza massiccia della nobiltà, mentre altrove questa classe sociale rimane per lo piú lontana dalle città, arroccata nei suoi castelli, al centro delle signorie rurali. La presenza dei nobili nelle città italiane del Medioevo vi provoca anzitutto lotte sociali, che si riflettono nell’architettura e nell’urbanistica, imprimendo alla cultura e all’immagine urbana quel carattere nobiliare sottolineato da Philip Jones, forse con qualche esagerazione polemica per reazione alla falsa immagine di una città italiana dominata da specifici valori borghesi. Finalmente la piú importante peculiarità italiana è che la città si è impadronita quasi dappertutto di un proprio territorio rurale, di estensione maggiore o minore, il contado, e ha conquistato la propria autonomia politica, fondando su queste due conquiste un fenomeno

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originale, la città-stato. Si tratta evidentemente di una peculiarità essenziale per l’immagine e l’immaginario delle città italiane del Medioevo. Il rapporto fra città e campagna è per esse piú importante che altrove; ne vedremo il carattere contraddittorio: se la città si apre largamente sulla campagna e questa penetra profondamente nella città, cosí che i due termini sono fortemente complementari, tuttavia la città nei confronti del contado e dei suoi abitanti – e merita sottolineare che, in Italia, «contadino» ha finito col designare tutti i «rustici» – ha un atteggiamento di dominio, di disprezzo e in qualche misura di segregazione. Le mura urbane sono ambigue: da una parte appaiono come una frontiera piena di brecce e di aperture, che lascia passare attraverso le porte un traffico nei due sensi, tale da creare un’osmosi fra città e campagna e da far sí che l’immagine urbana sembri riversarsi fuori dallo spazio propriamente urbano, come una specie di Giano bifronte, che guardi all’interno e all’esterno delle mura; d’altra parte queste mura sono una separazione, una chiusura, un rifiuto della rusticità, quasi il disdegno della verticalità e del monumentale verso le bassure della campagna e la povertà delle sue case e delle sue pievi rurali. Inoltre la città-stato si sente in dovere di tradurre la propria autonomia e la sua potenza politica in un insieme di monumenti e in un’urbanistica che conferiscono all’immagine delle città medievali italiane l’aspetto di una capitale. Ma questa autonomia e la sete di potenza, di allargamento del contado che ne deriva, creano fra le città italiane un antagonismo che raggiunge il massimo proprio nell’immagine che ogni città si costruisce e offre di sé alle altre. È un’immagine di propaganda e di sfida, un’affermazione di orgoglio e uno strumento di lotta. Nell’Italia medievale, l’immaginario urbano è animato dal desiderio di prevalere sulle altre città, in particolare su quella che è la rivale piú aborrita, e insieme sulla

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città che si impone come modello per tutte, Roma16. Spesso la lotta delle città fra loro o contro l’imperatore si cristallizza intorno a immagini simboliche della città: è il caso del carroccio, la cui cattura in una battaglia è una preda essenziale: totem e feticcio dell’immaginario urbano, il carroccio incarna la città stessa17.

Ad esempio, nella collezione «La città nella storia d’Italia», pubblicata a partire dal 198o presso Laterza, Cesare De Seta presenta le città italiane secondo la loro cartografia, quale è stata disegnata fin dal secolo xv, unendo immagini materiali e immagini mentali. 2 e. patlagean, Storia dell’immaginario, in La nuova storia, a cura di J. Le Goff, Milano 198o, pp. 289 sgg. 3 Cfr. g. c. argan e m. fagiolo, Premessa all’arte italiana, in Storia d’Italia Einaudi, vol. I, pp. 729-74. 4 e. guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento, Bari 1981. 5 Si veda e. sereni, Storia del paesaggio agrario italiano, Bari 1962, un commentario di immagini, dove scorgiamo l’influsso della città sul paesaggio rurale, che dovrebbe ispirare un lavoro analogo sul paesaggio urbano. 6 e. castelnuovo e c. ginzburg, Centro e periferia, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. I, pp. 282-352. 7 Si veda piú avanti, a proposito delle «Laudes civitatum» e dei «Mirabilia». 8 j. le goff, Le merveilleux dans l’Occident médiéval, in L’étrange et le merveilleux dans l’Islam médiéval. (Actes du colloque tenu au Collège de France à Paris en mars 1974), Paris 1978, pp. 61 sgg. 9 Di una sterminata bibliografia possiamo segnalare: La storiografia altomedievale, Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, xvii, 1969, Spoleto 1970 (e si veda in particolare m. cagiano de azevedo, Storiografia per immagini, pp. 119-38); o. capitani, Motivi e momenti di storiografia medievale italiana, secoli V-XIV, in Nuove questioni di storia medievale, Milano 1964, pp. 729-8oo, e più in generale b. guenée, Histoire et culture historique dans l’Occident médiéval, Paris 198o. 10 Per esempio, fuori d’Italia, b. geremek, Les marginaux parisiens aux XIVe et XVe siècles, Paris 1976 (cfr. in particolare il cap. iii, La topographie sociale de Paris, pp. 79-110). 11 j. le goff, Is politics still the backbone of history?, in «Daedalus», 1971, pp. 1-19, ripreso in Historical studies today, a cura di F. Gilbert 1

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale e S. Graubard, New York 1972, pp- 337-5512 Cfr. r. trexler, Public life in Renaissance Florence, New York 198o, in particolare pp. 279-33o, dove si esamina per la Firenze del Quattrocento l’immagine che la città vuol dare di sé agli stranieri, sia attraverso le ambascerie che manda, sia in occasione della visita di ospiti illustri. 13 Cfr. g. ville, La gladiature en Occident, Ecole Française de Rome 1981. 14 p. brown, The cult of the Saints. Its rise and function in Latin Christianity, Chicago 1981; j. guyon, La vente des tombes à travers l’épigraphie de la Rome chrétienne, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire. Antiquité», 1974, n. 86, p. 594; j. ch. picard, Espace urbain et sépultures épiscopales à Auxerre, in «Revue d’histoire de l’Eglise de France», 1976, n. 62, p. 220; id., Etude sur l’emplacement des tombes des papes du IIIe au Xe siècle, in «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 1969, n. 81, pp. 735-82. 15 p. jones, Economia e società nell’Italia medievale, Torino 198o, in particolare pp. 3-189. 16 A proposito di confronti e rivalità reale e simbolica fra due città, ecco ad esempio ciò che il milanese bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani, VIII, 3 (edizione a cura di M. Corti, trad. di G. Pontiggia, Milano 1974, pp. 178-79), dice di Ravenna: «In che cosa può Ravenna paragonarsi a Milano? A chi mi volesse dare, posto che ciò fosse possibile, tutta Ravenna con la sua diocesi, non darci in cambio neanche il clima di Milano e la preziosa abbondanza delle sue fonti vive». Quanto a Roma, nei cui confronti Bonvesin ostenta grande reverenza, nondimeno non nasconde – «se mi fosse lecito dire quello che mi piacerebbe senza essere accusato di presunzione» – che gli «sembrerebbe degno e giusto che la sede del papato e le altre dignità fossero trasferite tutte qui [a Milano] da lei [Roma]» (pp. 188-89). La pretesa alla superiorità di una città su un’altra può dar luogo anche a scritti come quello del notaio bolognese della seconda metà del Quattrocento, benedetto morandi, De praestantia urbis Bononiae supra civitatem Senarum, appunto per rivendicare la superiorità di Bologna su Siena. 17 Ecco in bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., p. 157, la descrizione del carroccio milanese: «Un carro che offre agli occhi di tutti gli uomini uno spettacolo meraviglioso, il cosiddetto carroccio, coperto da ogni parte di scarlatto e splendidamente adorno, trainato da tre paia di buoi di straordinaria grandezza e forza, splendidamente rivestiti di panni candidi segnati con una croce rossa». Nel 1248 il carroccio dei cremonesi, alleati di Federico II contro Parma, è catturato dai milanesi e dato come trofeo di guerra alla città di Parma (ibid., p. 139).

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Capitolo primo I modelli.

L’immagine delle città italiane medievali è spesso legata, esplicitamente o implicitamente, a modelli reali o immaginari, estetici e ideologici, storici o escatologici, il cui valore ispira o suggerisce taluni elementi insieme materiali e simbolici della città. Come avviene anche in altri campi dell’immaginario, in quello urbano due eredità appaiono essenziali: quella biblica, che trasmette forme e idee dell’ebraismo e dell’Oriente, e quella romana, evidentemente piú presente in Italia che in altre regioni dell’Occidente medievale. Vi è nella Bibbia un tema urbano fondamentale e ambivalente: in effetti la città comincia male nella storia biblica dell’umanità. L’opposizione fra nomadi e sedentari, fra popolo delle tende e popolo delle città attraversa il Vecchio Testamento, a lungo dominato da un’immagine negativa della città: la prima città è fondata da Caino (Genesi, 4.17), Poi vengono le città maledette di Babele (Genesi, 11.1- 9), di Sodoma e di Gomorra (Genesi, 13.13; 18.20; 19.1-25); Gerico deve la sua notorietà a un episodio decisamente antiurbano: la distruzione miracolosa delle sue mura (Giosuè, 2.7), archetipo di tanti episodi crudeli per le città italiane del Medioevo1. Il tema urbano acquisisce valore positivo e attrazione nella Bibbia solo con l’emergere di Gerusalemme2, la città di Davide e di Salomone, divenuta il centro del potere e della religione, con il Palazzo e il

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Tempio, modelli essenziali della città medievale. Ma contro Gerusalemme si leva ben presto un’anti-città, Babilonia, e l’immagine della città medievale è destinata a oscillare fra due poli: la città di Dio e la città della Bestia dell’Apocalisse, spingendo al massimo l’opposizione fra i due modelli urbani. Al tempo stesso, almeno per quel che riguarda Gerusalemme, l’Apocalisse offusca l’immagine della Gerusalemme terrestre con quella della Gerusalemme celeste, che diventa il modello escatologico ideale della città. Agostino, con l’ideologia delle due città, rafforza l’attrattiva della città di Dio, della Gerusalemme celeste, senza cancellare però la città terrestre, dallo statuto ambiguo, in quanto città transitoria, da un lato caricatura della città divina, dall’altro città dell’uomo fatta – come l’uomo a immagine di Dio – a immagine della città celeste. Il monastero, che s’impone come immagine urbana, viene identificato fin dall’Alto Medioevo con la Gerusalemme celeste incarnata, e molti cristiani ai tempi delle crociate esitano fra la Gerusalemme storica e carnale dell’Oriente e le Gerusalemme ideali dell’Occidente cristiano. L’Apocalisse di san Giovanni ha offerto all’immaginario urbano medievale alcuni tratti essenziali, fornendo una descrizione della Gerusalemme celeste: Aveva un muro grande e alto, aveva dodici porte, e alle porte dodici angeli, e sulle porte erano scritti dei nomi, che sono quelli delle dodici tribú dei figliuoli d’Israele. A Oriente c’erano tre porte, a Settentrione tre porte, a Mezzogiorno tre porte, a Occidente tre porte. E il muro della città aveva dodici fondamenti, e su quelli stavano i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello. E colui che parlava meco aveva una misura, una canna d’oro, per misurare la città, le sue porte, il suo muro. E la città era quadrangolare, e la sua lunghezza era uguale alla larghezza3.

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E dopo la descrizione delle mura, della città e delle porte, fatte di pietre preziose, d’oro e di perle, si dice: Le sue porte non saranno mai chiuse di giorno (e la notte non vi sarà piú), e in lei si porteranno i tesori e la gloria delle nazioni. E niente d’immondo e nessuno che commetta abominazione o falsità vi entreranno, ma quelli soltanto che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello4.

Così, gli elementi essenziali della città ideale sono le mura, le porte, la piazza, mentre la pianta quadrata (o rettangolare) della città vedrà ben presto la concorrenza della pianta circolare, secondo l’idea orientale della perfezione. Come è stato giustamente osservato, «l’immagine di Gerusalemme, proiezione in terra della Gerusalemme celeste, è destinata a diventare, come quella del suo prototipo ideale, un cerchio perfetto, talvolta addirittura un insieme di cerchi concentrici. Tutto il simbolismo medievale ha teso alla glorificazione del cerchio»5. Troviamo ad esempio questo ideale circolare nell’immagine che dà di Milano, alla fine del Duecento, Bonvesin da la Riva, nella sua celebre descrizione celebrativa: Questa stessa città ha forma circolare, a modo di un cerchio; tale mirabile rotondità è il segno della sua perfezione6.

Le dodici porte si ritrovano in due modi nell’urbanistica reale e immaginaria delle città italiane medievali: il tema apocalittico si unisce al tema del cerchio diviso nelle «duedecim horae diei», quali appaiono sul mappamondo dell’Anonimo Ravennate (inizi del secolo viii). A Ravenna, nel 709, «la città viene suddivisa per ragioni militari in undici parti..., piú una dodicesima, dominata dalla chiesa; la divisione in dodici è testimoniata tra l’altro a Bologna e a Genova..., a Spoleto..., a Roma a

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partire dall’xi secolo...; qui sembra accertata la derivazione delle dodici scholae (corpi militari) del periodo bizantino»7. Seppure con prudenza, mi sembra legittimo avanzare l’ipotesi che il prototipo apocalittico – forse inconsapevolmente – abbia pesato su questa partizione dello spazio urbano. L’altro fenomeno legato alle dodici porte della Gerusalemme celeste è l’idea della guardia alle porte della città affidata ai santi protettori – elemento essenziale, come vedremo, dell’immaginario urbano – che svolgono la parte degli angeli nell’Apocalisse. A Milano come a Verona – secondo il Versum de Mediolano civitate (secolo viii) e il Versus de Verona (fra il 796 e l’8o6) – i corpi dei santi della città sono evocati in connessione con i quattro punti cardinali e a Milano, dove compaiono un gruppo di sei martiri e uno di sei vescovi confessori, la localizzazione delle reliquie è indicata secondo i punti cardinali e in prossimità delle mura. Così, i tre martiri il cui culto è piú antico, Vittore, Nabore e Felice, sono inumati a ovest della città8. Vi è finalmente la funzione delle porte, su cui sarà necessario tornare. La porta deve permettere la superiorità dell’interno sull’esterno. La città medievale deve aprirsi di giorno a ciò che l’arricchisce, ma lasciar fuori gli elementi malvagi, e chiudersi di notte al mondo delle tenebre esterne. Invece la città ideale, che riceve i tesori esterni attraverso le sue porte, lascia queste aperte la notte, perché il mondo del male è abolito. Sulla città che attira le ricchezze esterne, vicine e lontane, Bonvesin da la Riva porta ancora la sua testimonianza, descrivendo la sua Milano per metà reale, per metà immaginaria: Qui in abbondanza i mercanti importano da diversi paesi lane, lino, seta, cotone e panni preziosi di ogni genere, e inoltre sale, pepe e altre spezie d’oltremare9.

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Spazio di consumo e di attrazione di beni esterni, la città dev’essere anche uno spazio puro, capace di tenere a distanza il male. In attesa della fine dei tempi, quando non avrà che da ricevere, da ammassare, senza doversi piú difendere, la città è intanto anche uno spazio di esclusione. Tanto piú che il male è sempre pronto ad assalirla. Gerusalemme può, se non diventare Babilonia, assumere almeno un volto babilonico. Il Nuovo Testamento rivela questo duplice volto di Gerusalemme, la città che prima accoglie Gesú, poi lo respinge e lo mette a morte: città benedetta, città maledetta. La città maledetta è Babilonia. Riapriamo l’Apocalisse: È caduta, è caduta Babilonia la Grande, è divenuta albergo di demoni, ricetto di ogni spirito immondo e di ogni uccello impuro e abominevole (18.2).

La città maledetta, ricetto di demoni, è l’immagine babilonica della città, che la pittura italiana medievale ha cosí spesso rappresentato: si pensi soltanto al dipinto di Giotto ad Assisi in cui si vede san Francesco scacciare i diavoli da Arezzo. Questa immagine babilonica della città, eretici e contestatori dell’Occidente medievale sono soliti attribuirla anzitutto alla Chiesa, o meglio a Roma, sede dei papi e della curia. Per Gioacchino da Fiore, fra l’ultimo scorcio del secolo xii e gli inizi del xiii, se Gerusalemme rimane l’immagine della Chiesa quale dovrebbe essere, Roma con cui la Chiesa «reale» si confonde, ha per simbolo Babilonia. Nelle concordanze del Liber Figurarum la coppia Babilonia-Roma è indissociabile10. E l’Anticristo è già nato a Roma. Nel secolo xii, Riccardo di San Vittore, pur senza sfruttare il tema, aveva evocato in Babilonia, «la grande prostituta», una città dai sette colli, facilmente identificabile con Roma11. Per parte sua, il francescano spirituale di Provenza Pietro di Giovanni Olivi, nella sua

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Lectura super Apocalipsim, scritta alla fine del secolo xiii, prevede che alla fine dei tempi non piú Roma, divenuta sede dell’Anticristo, sarà, dopo la sconfitta di questo, sede di Cristo e della sua Chiesa, restaurata e rinnovata, ma Gerusalemme (o un altro luogo)12. Può invece stupire che in un’atmosfera come quella dell’Italia medievale, dove l’immagine della città è in generale fortemente valorizzata, il Paradiso terrestre non sia stato un punto di riferimento molto frequente. Senza dubbio – e qui possiamo scorgere il ruolo dell’immagine e dell’immaginario – il Paradiso della Genesi è un giardino poco adatto per un modello urbano. Tuttavia, nel Medioevo, assistiamo all’urbanizzazione dell’immagine del Paradiso, spesso visto come una città circondata da mura fulgenti, si tratti del Paradiso terrestre o del Paradiso celeste, come appare nella letteratura delle visioni d’oltretomba. In effetti il Paradiso terrestre trasmette soprattutto all’immaginario urbano, con i suoi quattro fiumi, l’idea dell’abbondanza di acque, condizione ideale per la città del Medioevo. Non a caso Bonvesin da la Riva decanta Milano come città di «limpide fonti e fiumi fecondatori», ed è uno dei rari scrittori che attribuisca a Milano l’immagine paradisiaca: Chi osserverà attentamente e diligentemente con i suoi occhi tutte queste cose, non troverà mai, anche girando il mondo intero, un simile paradiso di delizie13.

Quando nel 1256 il comune di Bologna prende la celebre decisione di affrancare tutti i servi viventi nel suo contado – una decisione da cui non sono assenti precisi motivi d’interesse, in quanto può procurare manodopera a buon mercato – fa subito riferimento al Paradiso terrestre e alla libertà originale che vi regnava, come se Bologna si sforzasse di ricreare quel Paradiso di libertà. E il registro in cui quel documento fu trascrit-

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to ricevette il nome di Liber Paradisus. Ma ancora alla fine del periodo che noi chiamiamo Medioevo, il tedesco Thomas Münzer, visitando l’Italia fra il 1485 e il 1495, è affascinato dalle «città adorne, vere immagini del paradiso». Così, soprattutto al richiamo biblico, e in particolare al Nuovo Testamento – anche se indubbiamente il colle di Sion deve avere svolto un ruolo importante – un certo tipo di forma urbana, la città su alture, deve il suo prestigio ideologico: «la città situata su una montagna non può essere nascosta». Questa immagine in nessun paese è piú forte che in Italia. Il rilievo, le condizioni topografiche, sociali e politiche dell’incastellamento, fra il secolo x e il xii, cosí bene descritte da Toubert, hanno moltiplicato, fino al livello del borgo e del villaggio, le incarnazioni di questa immagine urbana. Tanto che possiamo avvertire un certo disagio in Bonvesin da la Riva quando, per fare di Milano la migliore di tutte le città, deve fare l’elogio un po’ imbarazzato della città di pianura. Per metà immaginari, per metà reali, i modelli antichi sono un retaggio ben consistente nel Medioevo. La parte piú concreta è la forma stessa della città romana, rimasta a lungo il nucleo cittadino, e i monumenti che, pur cambiando funzione, avevano tramandato la loro struttura alla città. Cosí a Milano, il re longobardo Adaloaldo, nel 615, viene incoronato nell’anfiteatro. A Lucca, l’anfiteatro diventa la celebre Piazza del Mercato, conservando la tipica forma ovale. Quando poi la cattedrale è eccentrica rispetto alla città comunale, questa restaura spesso l’antico foro: ciò avviene a Milano, a Vercelli, a Verona, a Mantova, a Padova, a Treviso, a Vicenza, a Piacenza, a Parma, a Bologna, a Ravenna, a Firenze, a Pisa, a Lucca, ad Arezzo, a Siena, a Orvieto, ad Assisi e a Narni14. Il caso di Roma è evidentemente particolare. Sul piano materiale, la rovina di Roma, conseguenza della

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caduta dell’Impero, comincia fin dal secolo iv, se nel 376 un editto di Valentiniano e Valente cerca di porre riparo al saccheggio dei monumenti antichi. Un altro editto del 457 cercherà di impedire la demolizione degli antichi edifici. Ma il ricordo dell’antica Roma, cui viene a sommarsi la nuova immagine di centro della Chiesa e del papato, mantiene lungo tutto il Medioevo il prestigio dell’urbe. Già nel secolo viii un inno attribuito a Paolino d’Aquileia, esalta la «Roma felix» che «supera per bellezza tutta la bellezza del mondo». E a partire dal secolo x i pellegrini diretti a Roma cantano: O Roma nobilis, orbis et domina, cunctarum urbium excellentissima15.

Un esempio, in particolare, è interessante: quello del Colosseo. Se un certo numero di templi venne trasformato in chiese (come il Pantheon, divenuto la Rotonda, Santa Maria dei Martiri), il Colosseo, assunto a simbolo della rovina di Roma, come già dice nel secolo viii Beda il Venerabile, divenuto leggendario, associato a miti magici, attraversò il Medioevo senza cristianizzazione, quasi a segnare la continuità della «coscienza cittadina dei romani»16. Roma divenne soprattutto un modello per molte città medievali, in Italia e fuori d’Italia. Padova, Firenze, Pisa, Milano si presentano come un’«altra Roma», una «seconda Roma». Nel Quattrocento e nel Cinquecento la Firenze del Rinascimento apparirà nei sogni degli scrittori e dei poeti – da Francesco Albertini all’Ariosto del Capitolo XI, in lode di Firenze, del 1516 circa – come una nuova Roma, «Firenze come Roma»17. Quando alla fine del secolo xiii Cimabue rappresenta in una vela della Basilica Superiore di Assisi l’Ytalia, la raffigura con un’immagine di Roma, in cui si mescolano monumenti antichi e medievali, che sono spesso – come

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la Rotonda e Castel Sant’Angelo – una rielaborazione di antichi edifici18. Sul piano ideologico, ciò che l’Antichità tramanda alla città medievale è la distinzione e il gioco fra urbs e civitas, fra la città concreta, costruita dagli uomini, e la civitas costituita dagli uomini stessi, secondo la definizione di sant’Agostino: «civitas in civibus est»19. La tendenza segreta dei cristiani e in particolare degli italiani del Medioevo è di far coincidere la città materiale, l’urbs, con la civitas ideale in una nuova immagine urbana.

Un esempio italiano fra molti altri: la rappresentazione di Gerico, con le sue mura, le sue torri, la sua massa urbana, nella porta di bronzo del Ghiberti, nel Battistero di Firenze. 2 s. mahl, Jerusalem in mittelalterlicher Sicht, in Die Welt als Geschichte, t. XXII, 1962, pp. 11-26; a. breuero, Jerusalem dans l’Occident médiéval, in Mélange R. Crozet, Potiers 1966, t. I, pp. 259-71; j. le goff, Guerriers et bourgeois conquérants. L’image de la ville dans la littérature française du XIIe siècle, in Culture, science et développement. Mélanges Charles Morazé, Toulouse 1979, pp. 127-30. «Gerusalemme è il simbolo privilegiato» della simbolistica medievale, ha osservato h. de lubac, Les quatre sens de l’Ecriture, in «Exegèse Médiévale», ii, Paris 1959, n. 1, pp. 645-48. 3 Apocalisse, 21.10-27. Enrico Guidoni (La città europea. Formazione e significato dal IV all’XI secolo, Milano 1978, p. 29) pensa che «anche per la sua irrealizzabilità la città ideale cristiana, la “Gerusalemme celeste” tenderà a identificarsi, per tutti i secoli della crisi urbanistica, piú con il singolo edifizio religioso (basilica, cattedrale, abbazia) che con un insieme urbano. È questa una via suggestiva da seguire per indagare le interrelazioni tra progettazione architettonica e modello prototipico celeste, ma riguarda la storia dell’architettura». Per parte mia vorrei studiare un immaginario urbano, incarnato o no in realtà urbanistiche. 4 Fra le numerose rappresentazioni artistiche della Gerusalemme celeste, i fedeli potevano vedere a Roma quella del mosaico nell’arco trionfale di Santa Maria Maggiore. 5 p. lavedan, Représentation des villes dans l’art du Moyen Age, Paris 1954, p. 12. 1

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., pp. 40-41. guidoni, La città europea cit., pp. 93-94. 8 j. c. picard, Conscience urbaine et culte des saints. De Milan sous Liutprand à Vérone sous Pépin Ier d’Italie, in Hagiographie et sociétés (Colloque de Nanterre), a cura di E. Patlagean e P. Riché, Paris 198r, pp. 455-69. 9 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., p. 101. 10 m. reeves, The influence of prophecy in the later Middle Ages. A study of Joachinianism, Oxford 1969, p. 9. 11 r. manselli, La «Lectura super Apocalipsim» di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medievale, Roma 1955, p. 79. 12 Ibid., p. 229. 13 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., p. 47. 14 Cfr. e. guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 75-76, e la bibliografia. 15 Cfr. j. le goff, L’Italia fuori d’Italia. L’Italia nello specchio del Medioevo, in Storia d’Italia Einaudi, vol. II, pp. 1957-58. Della bibliografia indicata ivi, si veda in particolare, proprio nella prospettiva di una storia dell’immaginario, il classico libro di a. graf, Roma nella memoria e nell’immaginazione del Medio Evo, Torino 1915. 16 a. prandi, Roma medievale: urbs, civitas, cives, in La coscienza cittadina cit., pp. 239-40 e 262; a m. di maco, Il Colosseo, Roma 1971. 17 l. zorzi, Figurazione pittorica e figurazione teatrale, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. I, pp. 445-46. 18 Ibid., pp. 441-43. 19 Sermo de Urbis excidio, enchiridion, 6.6. Cfr. prandi, Roma medievale cit., pp. 239-40, e id., Roma nell’Alto Medioevo, Torino 1968. Isidoro di Siviglia (Etymologiae, xv, 2.1) riprende la definizione: «Nam urbs ipsa moenia sunt, civitas autem non saxa, sed habitatores vocantur». 6 7

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Capitolo secondo Il sistema dei valori spaziali cristiani e la città.

La città s’inserisce in uno spazio: in ogni società, in ogni cultura, questo spazio è orientato, caricato di valori ideali, che s’impongono alle forme, ai volumi, alle direzioni. Nel sistema cristiano, due opposizioni dominano questo inserimento nello spazio: alto e basso, interno ed esterno. I valori sono in alto, in cielo, e nel centro, nel cuore. La salvezza dell’uomo avviene elevandosi e interiorizzandosi. Lo stesso dev’essere per l’essere collettivo che è la città. «È la preminenza di due monumenti che materializzano il gioco dei poteri dominanti: il Tempio e il Palazzo, la Chiesa e il Castello. È il predominio di due movimenti essenziali: quello che alza verso il cielo mura, torri e monumenti, quello che instaura attraverso la porta l’andirivieni fra la cultura interiorizzata e la natura esterna, fra il mondo della produzione rurale e quello del consumo, della fabbricazione di oggetti e dello scambio di beni, fra il rifugio e la partenza verso l’avventura o la solitudine. Dimora ideale di una società dove l’organizzazione dello spazio e dei valori, piú che fra la destra e la sinistra dell’Antichità, si compie fra l’alto e il basso, l’interno e l’esterno, privilegiando la verticalità e l’interiorizzazione»1. Due elementi consentiranno all’ideologia della verticalità di dominare l’immagine urbana: l’invenzione e la diffusione delle campane, a partire dal secolo vii, che fa rizzare nelle città italiane i campanili, e l’inurbamento

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della nobiltà, che costruisce le sue torri entro la cerchia delle mura. Molto presto viene rilevata l’importanza delle torri nell’immagine urbana: già nel Versum de Mediolano, scritto fra il 789 e l’810, le quarantotto torri milanesi, e soprattutto le otto che superano le mura, sono citate come una delle maggiori bellezze della città: Quaranta et octo turres fulget per circuitum, ex quibus octo sunt excelse qui eminent ornnibus2.

Si tenga presente che la torre urbana è una casa, la casa-torre, la cui funzione militare è destinata a farsi sempre minore a vantaggio della funzione residenziale e ostentatoria. La casa-torre è un vero e proprio grattacielo, e anche Bonvesin da la Riva osserva che torri e campanili sono uno dei maggiori ornamenti di Milano: «In città i campanili, costruiti alla maniera delle torri, sono circa centoventi e piú di duecento le campane». È una verticalità che non solo consente di dare slancio verso l’alto all’immagine della città, ma offre anche un punto di osservazione da dove la città può essere ammirata: Se infine qualcuno avesse piacere di vedere la forma della città e la qualità e quantità dei suoi palazzi e di tutti gli altri edifici, salga con grato animo in cima alla torre della corte comunale: di lassú, dovunque volgerà lo sguardo, potrà ammirare cose meravigliose3.

Quando si pensa alle città turrite dell’Italia medievale, vengono subito in mente San Gimignano, Siena, Pavia, Bologna: ma come dimenticare che Roma fu, piú di ogni altra forse, una città di campanili (Santa Prassede, Sant’Eustachio, San Silvestro in Capite, Santa Maria in Cosmedin, Santi Giovanni e Paolo, Santa Maria Maggiore, che formano «un progressivo e via via piú ardito cammino verso forme aeree e snelle»4) e di torri5?

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Il capolavoro della torre campanaria è certamente il campanile di Giotto a Firenze. Ma Opicino de Canestris, nella prima metà del Trecento, ricorda che Pavia merita la sua fama «a motivo non solo del gran numero di alte torri, ma per l’elevatezza dei palazzi e delle chiese»6. Tutta la città si leva verso il cielo in uno slancio di fede o per orgoglio. Sulla dialettica fra interno ed esterno si fonda d’altra parte l’elemento simbolico per eccellenza della città medievale: le mura, con le loro aperture per consentire il passaggio, ossia le porte. Per capire il significato di questo elemento è sufficiente guardare ciò che oggi resta delle antiche cerchie di mura o meglio ancora le opere della pittura medievale. Le mura delimitano la frontiera fra storia e natura, fra cultura e natura, caricando l’immagine urbana di particolari valori storici e culturali: «al di là delle mura non c’è storia, ma natura»7. Esse offrono uno dei principali criteri per definire una gerarchia urbana, consentendo di attribuire una immagine cittadina anche ai centri minori8. La costruzione delle mura è stato «l’impegno piú continuo dei comuni». In una città come Volterra, uno statuto del 1210-22, De muro faciendo, fa obbligo al comune di «costruire ogni anno un tratto di mura»9. Per contro, la distruzione delle mura costituisce uno dei maggiori traumi per le città: Bologna, Napoli, Milano, che vedono le loro mura cadere per ordine degli imperatori svevi, Federico Barbarossa, Enrico VI, Federico II, non dimenticheranno mai l’onta subita10.

j. le goff, Guerriers et bourgeois conquérants. L’image de la ville, in Mélanges Morazé cit., pp. 129-30. Alla dialettica fra interno ed esterno viene a sommarsi quella fra centro e periferia: cfr. e. castelnuovo e c. ginzburg, Centro e periferia cit. 1

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale g. fasoli, La coscienza civica nelle «Laudes civitatum», in La coscienza cittadina cit., p. 22. 3 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., pp. 42-43 4 prandi, Roma medievale cit., p. 257. 5 e. amadei, Le torri di Roma, Roma 1932. 6 De laudibus civitatis ticinensis, a cura di F. Gianani, Pavia 1927, p. 134, cit. in guidoni, La città del Medioevo cit., p. 179. 7 Cfr. g. c. argan e m. fagiolo, Premessa all’arte italiana cit., p. 737. 8 e. guidoni, Introduzione a I centri minori, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. VIII, p. 12. 9 id., La città del Medioevo cit., pp. 87-88. 10 a. i. pini, Origine e testimonianze del sentimento civico bolognese, in La coscienza cittadina cit., p. 153. 2

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Capitolo terzo La cristianizzazione delle città.

Il cristianesimo ha dato una forte caratterizzazione alle città italiane. Basti ricordare due tratti essenziali: la costruzione delle chiese e la funzione attribuita ai santi patroni. Ancor piú dei templi nelle città greco-romane, le chiese diventano i monumenti dominanti delle città medievali, per il loro numero, per i loro valori architettonici e morali, per l’articolarsi del loro sistema (cattedrali, chiese parrocchiali, chiese conventuali). Le città medievali si possono ridurre, in un certo tipo di ideogramma urbano, a una costellazione di chiese. Ancora verso il 1471 Piero del Massaio rappresenta Firenze essenzialmente come una collezione di chiese. E Bonvesin da la Riva poneva fra le prime meraviglie di Milano «le chiese, degne di tale e tanta città», rilevando che esse erano, «soltanto entro le mura, circa duecento, con quattrocentottanta altari»1. Non sempre la cattedrale – vi si è già accennato – ha avuto una funzione centrale nell’immagine topografica della città a causa della sua dislocazione talvolta eccentrica; tuttavia, nelle città episcopali è stata generalmente il primo monumento, il principale tesoro cittadino. Come ha sottolineato per Firenze Raffaello Morghen, «in Santa Reparata ebbero luogo i fatti piú importanti, le cerimonie più solenni, le adunanze di popolo piú

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impegnative della Firenze del Medioevo. Santa Reparata fu uno dei centri della riforma gregoriana dell’xi secolo e la sede della ricostituita vita canonicale in Firenze. In essa si tennero concili famosi, si firmarono trattati, nel pronao della chiesa si amministrava la giustizia, le grandi famiglie si disputavano l’onore di avere i propri stemmi e la sepoltura nella veneranda cattedrale»2. A partire dalla fine del secolo iv cominciò a essere venerato nella maggior parte delle città un santo patrono cittadino: «legato alla comunità-cliente da un vincolo particolare, egli appartiene alla sfera dei rapporti civili piú che non a quella della vita religiosa; è quasi sempre un martire, cui è patria il luogo dove ha versato il proprio sangue [o dove sono custodite le sue reliquie], o un vescovo, che le sue genti ha governate e protette durante la vita terrena; l’intervento del santo soccorre anzitutto alle necessità pubbliche delle civitas»3. E ancora: «una città si forma un gruppo di santi protettori incaricati di difenderla dalla fame, dalla malattia, dalla guerra, e al tempo stesso di assicurarle un certo posto nella gerarchia delle città»4. Sembra che quando a Milano si rinvennero i corpi dei santi Gervasio e Protasio, nel 386, per la prima volta si sia posta sotto la particolare protezione dei santi martiri patroni un’intera comunità cittadina5. Naturalmente Roma diventò molto presto, in modo privilegiato, la città dei santi Pietro e Paolo. Nella seconda metà del secolo v la Passio Agathae, patrona di Catania, attribuisce alla vergine martire il salvataggio della città da un’eruzione dell’Etna. Il santo patrono diventa l’emblema della città ed è raffigurato sulle sue bandiere e sulle monete: san Giovanni sul fiorino, san Marco sul ducato. La sua festa è la piú importante festa cittadina. A Milano il culto del santo patrono è tale che la città è spesso definita «ambrosiana» e «ambrosiani» i suoi abitanti. Già nel Versum de Mediolano (739-40), Milano è

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lodata per i suoi santi protettori6. Per parte sua Bonvesin da la Riva attribuisce alla protezione dei corpi santi quanto all’amore per la libertà dei milanesi il fatto che la città sia sfuggita al dominio di tiranni. La piú terribile sciagura che ha conosciuto Milano è avvenuta quando Federico Barbarossa, dopo aver fatto abbattere le mura, ha sottratto alla città le reliquie dei Re Magi, trasportate a Colonia7. Il destino di Venezia appare piú certo dopo che in seguito alla traslazione da Alessandria del corpo di san Marco (nell’828 secondo la tradizione, in realtà, piú probabilmente alla fine del secolo x) essa diventa la città dell’evangelista dal leone alato8. A Bologna, il culto di san Petronio prende sviluppo solo nel 1141 con il nuovo ritrovamento delle reliquie del santo nel convento di Santo Stefano, ma non si afferma definitivamente prima dell’ultimo scorcio del secolo xiii. Ma una vita del santo gli attribuisce addirittura la ricostruzione della città, distrutta da Teodosio I: «començò a fare le gliexie, spedali, turri e palaxi e caxe»9. Nel suo bel saggio sul culto di sant’Ercolano a Perugia, Anna I. Galletti scrive: «Nel processo di formazione della cosiddetta “coscienza cittadina” del comune medievale italiano si conviene ormai di ritenere fondamentale l’elaborazione di un’immagine paradigmatica della città, che ne raccolga gli aspetti piú gloriosi e rappresentativi, e serva come punto di riferimento culturale per tutti coloro che della realtà comunale sono in qualche modo partecipi. Un’immagine che, fissata in modelli rappresentativi piú o meno stereotipati, riesce talora ad imporsi con tale autorità che, anche dopo secoli, continua a dare della cultura e della mentalità cittadina un’impressione totalizzante ed onnicomprensiva»10. Nel «patrimonio simbolico elaborato dal comune perugino» sant’Eustachio e i suoi attributi, il grifo e le lasche, hanno avuto una funzione di primo piano.

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Finalmente bisogna tener presente che a partire dalla fine del Duecento la Vergine assicura meglio di qualsiasi santo la protezione degli individui e delle collettività: di qui l’aspirazione a porsi sotto la sua particolare protezione. Siena vi riesce e diventa la «civitas Virginis». Milano si sforza, come testimonia Bonvesin: Ed è mirabile come e quanto questa città veneri la vergine Maria. Solo al suo culto infatti sono principalmente dedicate in città trentasei chiese e nel contado sicuramente piú di duecentoquaranta11.

bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., pp. 42-43. r. morghen, Vita religiosa e vita cittadina nella Firenze del Duecento, in La coscienza cittadina cit., p. 221. 3 a. morselli, L’idea e il culto del santo patrono cittadino nella letteratura latino-cristiana, Bologna 1965, p. viii. Sempre da consultare c. peyer, Stadt und Stadtpatron im mittelalterlichen Italien, Zürich 1955. 4 j. c. picard, Conscience urbaine cit., pp. 455-69. 5 Cfr. fasoli, La coscienza civica cit., p. 146 6 Ibid. 7 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., pp. 25, 109 e 163. 8 a. carile, La coscienza civica di Venezia nella sua prima storiografia, in La coscienza cittadina cit., pp. 1o6-7. 9 pini, Origine e testimonianze cit., in La coscienza cittadina cit., p. 155, ma cfr. anche a. m. orselia, Spirito cittadino e temi politico-culturali nel culto di san Petronio, ibid., pp. 283-343. 10 a. f. galletti, Sant’Ercolano, il grifo e le lasche. Note sull’immaginario collettivo nella città comunale, in Forme e tecniche del potere nella città (secoli XIV-XVII), «Annali della Facoltà di Scienze Politiche», Università di Perugia, 1979-8o, n. 16, p. 203. 11 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., p. 43. 1 2

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Capitolo quarto La città, la non-città, l’anti-città.

La città, dietro le sue mura, è la cultura, la sede dei valori. Fuori di essa, solo il monastero – una microcittà – è il focolare di valori comparabili. Fuori della città, di fronte ad essa si apre la non-città, la campagna, e l’anti-città, il deserto-foresta. È questo un tema ben noto alla storiografia italiana: per riprendere i termini di un celebre saggio di Cattaneo, la città è stata il «principio ideale delle istorie italiane»1, ma occorre aggiungere con Cattaneo che «la città formò col suo territorio un corpo inseparabile» e che «il quadro generale» della società italiana «è costituito dal binomio città-campagna»2. L’antagonismo e la complementarità dei due elementi è stata risolta storicamente nel Medioevo con l’imposizione alle campagne del dominio della città3. A volte ha la meglio il disprezzo verso il «rusticus», e come già il classico studio di Merlini ha illustrato, la letteratura italiana del Basso Medioevo e del Rinascimento – una letteratura scritta da cittadini per cittadini – si rivela violentemente ostile verso il «vilan puzolento». A volte, invece, il portaparola della cultura urbana fa l’elogio della campagna, ma solo perché la vede a immagine della città, come una serie di cittadine e di borghi, copie miniaturizzate della dominante. È questa l’immagine che Bonvesin ci dà del contado milanese, disseminato di campanili, di torri, di chiese, in qualche modo come Milano.

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Impossibile, dunque – e l’iconografia medievale italiana lo mostra assai bene5 – accostarsi all’immaginario urbano medievale senza avvertirvi e trovarvi spesso la presenza della campagna, in generale negata per appropriazione o per sdegnoso distacco, e tuttavia vicina alle mura della città, di cui molte volte varca le porte. Ma anche il mondo selvaggio delle foreste non si sottrae del tutto all’azione urbana. Eppure la vera antitesi culturale nel Medioevo, piú che la contrapposizione città-campagna, è l’opposizione fra città e foresta; questa assume la parte di polo di repulsione – tranne che per i monaci – come in Oriente il deserto6. Molte città italiane chiamano i cittadini di recente immigrazione «cives salvatici», quasi fossero cittadini provenienti dalle foreste7. Tuttavia vediamo Bonvesin da la Riva preoccupato d’integrare la foresta nel contado, perché sia sfruttata, se non addomesticata, in quanto riserva di legna per la città8. D’altra parte la foresta, rifugio dei fuorilegge, dei banditi, dei briganti, degli emarginati, fa parte di quel mondo della paura che la città si sforza di esorcizzare con l’ordine e la sicurezza. Finalmente, è il caso di ricordare in questi nostri tempi di ecologisti, che la città è quasi unanimemente ammirata e desiderata dagli uomini del Medioevo. Il sentimento estetico nel Medioevo si è formato in gran parte attraverso lo sguardo sulla città, attraverso l’immagine urbana. Nella Cronica di Salimbene vi è una descrizione di Parma dove a ogni riga troviamo la parola «bello» o «bella»9. Bisogna attendere la seconda metà del secolo xiii e alcuni ambienti francescani contestatori perché l’immagine della città si offuschi e cominci ad affiorare un certo disgusto per lei e il desiderio della natura e della solitudine10.

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale c. cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in Studi storici e geografici, a cura di G. Salvemini e E. Sestan, vol. II, Firenze 1957. Cfr. c. de seta, Città e territorio in Carlo Cattaneo, in «Studi storici», 1975. 2 p. jones, Economia e società nell’Italia medievale: la leggenda della borghesia, in Annali della Storia d’Italia Einaudi, 1 (1978), pp. 187-89. 3 Già il vescovo tedesco Ottone di Frisinga nel secolo xii, scendendo in Lombardia al seguito di suo nipote, l’imperatore Federico Barbarossa, osservava stupito: «Quasi tutta la campagna appartiene alle città». 4 d. merlini, Saggio di ricerche sulla satira contro il villano, Torino 1894. Cfr. c. vivanti, Lacerazioni e contrasti, in Storia d’Italia Einaudi, vol. I, pp. 916 sgg. 5 Cfr. sereni, Storia del paesaggio agrario cit. Un esempio significativo è la rappresentazione del Buon Governo nel Palazzo Pubblico di Siena, su cui ci soffermeremo piú avanti. 6 Si veda j. le goff, La forêt/désert dans l’Occident médiéval, in «Traverses», 1980, n. 19. 7 w. m. bowsky, Cives silvestres: sylvan citizenship and the Sienese commune (1287-1355), in «Bullettino senese di storia patria», 1965; e jones, Economia e società cit., pp. 54-55. 8 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., parla del contado allargato alla foresta e ai romitaggi: «e inoltre gli orti, i frutteti, i prati, le vigne, i pascoli, le selve, le riserve, i fiumi, le fonti vive, gli eremi» (p. 47); e mette in risalto l’uso delle foreste: «Le selve e i boschi e le rive dei fiumi producono legno duro di diverse qualità, adatto a costruzioni e a molti altri usi, e anche l’indispensabile legna da ardere: tanta è la sua abbondanza, che nella sola città è assolutamente certo che se ne bruciano ogni anno piú di centocinquantamila carri» (p. 91). 9 salimbene de adam, Cronica, a cura di G. Scalia, Bari 1966, vol. II, pp. 759-6o (cit. in guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 98-99). 10 Cfr. j. le goff, Ordres mendiants et urbanisation, in «Annales ESC», 1970, pp. 928-3o e 941-43 (a proposito della giustificazione da parte di san Bonaventura della scelta delle città per la costruzione di conventi francescani, e della critica antiurbana di Ubertino da Casale al concilio di Vienne del 1310), Si veda anche f. fossier, La ville dans l’historiographie franciscaine de la fin du xiiie et du début du xive siècle, in Les ordres mendiants et la ville en Italie centrale cit., p. 634, che osserva: «Nei primi anni del secolo xiv si assiste a un cambiamento completo di atteggiamento da parte dei francescani nei confronti della campagna. La città non è piú un rifugio contro il freddo, la solitudine, una natura ostile, ma al contrario un luogo pericoloso da cui talvolta si è costretti a fuggire». 1

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Capitolo quinto Immagine della città e coscienza cittadina.

Le prime testimonianze, di là dal culto di un santo patrono, del formarsi di una coscienza che potremmo dire urbana, piuttosto che già cittadina, senza dubbio viva soprattutto in una piccola élite essenzialmente clericale, sono offerte dal genere letterario che è stato chiamato «laudes civitatum»1. Gli esempi piú antichi sono i già ricordati Versum de Mediolano civitate (fra il 739 e il 749) e il Versus de Verona (fra il 789 e l’810), e il genere si svilupperà per quasi tutto il Medioevo: vi appartengono il De magnalibus Mediolani di Bonvesin da la Riva (1288), come pure il Liber de laudibus civitatis ticinensis di Opicino de Canistris (circa 1338), in cui si esalta la persistenza, il rinnovarsi della tradizione longobarda e del mito di Pavia, città regale. Il Versus de Verona – è stato giustamente osserva2 to – rappresenta «una summa del pensiero urbanistico carolingio»: la «derivazione ovvia dalla ‘Gerusalemme celeste’ dell’Apocalisse, uno spiccato recupero della tradizione antica, un’attenzione per le altre città italiane (sono nominate, oltre le confinanti Brescia e Mantova, le ‘capitali’ Aquileia, Pavia, Ravenna, Roma) e per la posizione territoriale; e un’insistenza sulla funzione protettiva dei santi, disposti ai punti cardinali... infine l’aspetto monumentale della città, nella quale ancora spiccano i grandiosi edifici romani» sono tutte testimonianze di «una profonda aderenza ‘classicistica’ tra

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storia antica e interpretazione cristiana della realtà urbana». L’invenzione di miti di fondazione da parte delle città, in cui la memoria storica è profondamente impregnata di leggende e in cui il passato urbano dell’Italia impone origini anteriori al cristianesimo, obbedisce al desiderio delle città di vantare una nascita quanto piú possibile remota e illustre, cosí da poter rivaleggiare con la città il cui mito originario era fra tutti il piú famoso, Roma. Il mito originario conferisce perciò all’immagine urbana una profondità storica e leggendaria a un tempo. Come ricorda Arturo Graf, «anteriore alla Roma romulea si vantarono Genova, fondata da Giano; Ravenna, fondata da Tubal; Bologna, fondata da Felsino (Felsina), ampliata da Buono (Bononia); secondo che narra Galvano Fiamma, Milano fu edificata 932 anni prima di Roma, Brescia si vantava fondata da Ercole, Torino da Fetonte; persino Chiusi si reputava piú antica di Roma»3. Quanto a Fiesole – come narra Giovanni Villani4 – essa si reputava la prima città fondata in Europa. Fra tutti questi miti, il piú diffuso fu quello delle origini troiane: «In Italia, oltre Padova, cent’altre città si gloriano di troiane origini»5. La città dove questo mito dell’origine troiana è particolarmente interessante, è Venezia: non solo esso permise di affermare che i troiani avevano fondato Castello, il nucleo piú antico di Venezia, ancora prima che Antenore fondasse Padova, ma accreditò l’idea della purezza originaria della città. Appunto in luogo vergine, puro da ogni dominazione, i «liberi troiani» – l’espressione è del cronista Marco, del 1242 – crearono Venezia6. Venezia l’immacolata: l’identificazione con la Vergine, fatta nel Medioevo attraverso il tema artistico dell’incoronazione della Vergine, è resa piú facile.

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I monumenti piú celebri delle città italiane erano, fin dalla tarda antichità, oggetto di descrizioni ed elogi, che molto spesso finivano col trasformarli in luoghi leggendari e magici. Nel secolo xii mirabilia, un termine che consentiva di abbracciare insieme con i miracula anche gli edifici meravigliosi, sia pagani, sia cristiani, divennero una moda tanto più diffusa dalla tendenza dei pellegrinaggi a trasformarsi in turismo. Fra queste meraviglie urbane, le più notevoli sono quelle enumerate e descritte nella guida per pellegrini del secolo xii, i Mirabilia urbis Romae, in cui compaiono le sette meraviglie della città: l’acquedotto Claudio, le terme di Diocleziano, il foro di Nerva, il Palazzo Maggiore, il Pantheon, il Colosseo e la Mole Adriana. Fin dal secolo viii il De septem mundi miraculis, attribuito a Beda, aveva posto fra le sette meraviglie del mondo il Campidoglio. Un altro monumento meraviglioso di Roma – pura creazione della fantasia medievale – era il palazzo della Salvatio Romae, di volta in volta posto sul Campidoglio, sul Gianicolo, ma anche nel Pantheon o nel Colosseo. Questo palazzo circolare, che ricordava l’antica potenza romana, era ornato da settantadue statue, raffiguranti i popoli della terra: quando uno di essi si preparava a ribellarsi a Roma, la statua corrispondente agitava una campana, mentre al sommo dell’edificio un cavaliere di bronzo puntava la lancia verso il paese contro cui si doveva combattere7. Meno nota è la serie dei mirabilia di Napoli, che l’inglese Gervasio di Tilbury, consigliere del re normanno di Sicilia, ha presentato nei suoi Otia imperialia (circa del 1210). Il personaggio centrale è Virgilio, in ossequio alla leggenda medievale che ha visto in lui, piú che un grande poeta, un mago potente. Secondo Gervasio, le mura di Napoli sono incantate, non lasciano entrare nessuna mosca in città, perché Virgilio vi ha fatto piccole sta-

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tuette magiche di animali. Vi è un mercato dove la carne non va in putrefazione. La statua di un giardino meraviglioso si volta verso il Vesuvio quando vi sia minaccia di eruzione e lancia da una tromba un suono antisismico. In un’isola al largo della città sono state scoperte le ossa del vate e nella tomba si è trovato il libro dei segreti, il manuale di magia nera, che i dotti potranno utilizzare8.

La città è una cultura. Essa si rivela negli edifici pubblici e nelle vie. È il luogo d’incontro di dotti e d’illetterati, di chierici e laici, di dominanti e dominati. Il tono le è dato dalla religione, ma la cultura che noi chiamiamo «pagana» o «folclorica», tradizionale o nuova, mescolata di cristianesimo oppure piú o meno «pura», vi trova espressione. Religiosa è la serie piú importante di feste, in cui ha tanta parte la liturgia, e Bonvesin si rivela molto soddisfatto della particolare liturgia che segue Milano dai tempi di sant’Ambrogio. Essa s’inserisce sull’immagine della città soprattutto con le processioni, in particolare quelle legate alla festa del santo patrono. A Bologna, gli statuti sinodali del 1310 regolano la processione in onore di san Petronio (Rubrica XXV: De veneratione beati Petronzi et de ipsius lesto processionaliter celebrando). Sono stati ricostruiti minuziosamente lo svolgimento e l’itinerario della processione tenutasi, per iniziativa del movimento religioso dei Bianchi, nel 1399 a Padova, definita come «una città che rende onore a se stessa nella storia locale delle sue reliquie, dei suoi poteri, dei suoi ordini religiosi piú importanti»9. I documenti permettono di stabilire, in occasione di quella processione: a) gli assi urbani ed extraurbani, b) il fattore tempo integrato allo spazio, che misura e connota i percorsi, c) le immagini di luoghi e di spazi che «disegnano» il paesaggio urbano e campestre (piazze, borghi, verzieri, mercati, suburbi, campi coltivati), d) punti di collegamento, scansioni rappre-

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sentate dalle chiese e dalle porte come «monumenti» in senso lato, cioè come fattori essenziali della «visibilità» del tessuto urbano10. «La struttura della società cittadina» – è stato osservato a proposito di Pavia11 – si trova rispecchiata nella celebrazione del carnevale. Esso se fiorirà soprattutto nel Quattrocento, è già festeggiato nel secolo xiii nella maggior parte delle città italiane. Un testo del domenicano francese Etienne de Bourbon, verso il 1260, ne menziona l’esistenza a Roma con il permesso un po’ preoccupato dei papi12. Nel 1288 Bonvesin da la Riva osserva: È noto che, come godiamo di un rito, per cosí dire, nostro, cosí facciamo anche un carnevale diverso dal carnevale delle altre genti. E anche in questo si manifestano la dignità e la gloria speciale dei milanesi13.

Alessandro Fontana ha evocato mirabilmente la scena immaginaria cittadina che si scatena nelle città italiane di là dal carnevale stesso: sfogo della violenza urbana, piacere della competizione ludica, carattere commemorativo della festa, guerra simbolica, trasposizione di rivalità tra fazioni e quartieri, con i suoi «contrappunti derisori». Cosí «a Roma si inscenavano corse di “bipedi” nel carnevale, con ebrei, donne e vecchi, corse e palii da beffa si facevano in tempo di guerra, come nel 1263, da parte dei pisani sotto le mura di Lucca, e nel 1289 da parte dei fiorentini durante l’assedio di Arezzo; corse “umilianti” di cavalli, bipedi e prostitute ordina Castruccio nel 1325, dopo avere vinto i fiorentini»14. In tal modo la festa derisoria rivela il volto sadico della città, lo spazio di esclusione sociale che colpisce i sessi, i mestieri, le età, i gruppi disprezzati: prostitute, ebrei, cornuti, prosseneti, donne, vecchi, traditori, falsari, che

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venivano talvolta rappresentati in ritratti grotteschi sui muri di edifici pubblici15, che venivano tosati o condotti per le vie della città su una asino a faccia indietro. La festa mette anche in luce uno degli assilli per la massa della popolazione urbana attraverso la messa in scena di una gastronomia onirica, che trasforma la città in immagine del paese di Cuccagna: festa della porchetta a Bologna dal 1279, venerdí «gnoccolare» a Verona, «cuccagna del porco» a Roma, ecc.16. Religiose o profane, le feste sono un’occasione per fare sfoggio degli emblemi della città: il giglio fiorentino, che i Versus Merlini, le profezie di Merlino citate da Salimbene, esaltano17, o stemmi come quello di Bologna, che nella seconda metà del Duecento aggiunge al suo emblema crociato il capo d’Angiò, cioè un lambello con i gigli di Francia18, o i gonfaloni e gli stendardi per le processioni, che sono stati bene analizzati a proposito dell’Umbria della fine del Quattrocento19. Sono immagini emblematiche della città, ma a volte anche di quelle parti della città in cui si divide, i quartieri. A Parma, «ogni vicina voleva avere il proprio vessillo con il proprio santo in occasione delle processioni»20. Bonvesin descrive minuziosamente gli scudi e i colori dei vessilli delle sei porte principali di Milano21. Se l’immagine della città è un’immagine colorata, è anche un’immagine musicale: ancora Bonvesin ritorna due volte sui trombettieri milanesi, orgoglio della città, tanto da condurre una vita «more nobilium». Le loro trombe, suonate «in modo mirabile, diverso da quello di tutti gli altri trombettieri del mondo», esprimono «a un tempo la grandezza e la forza di questa città»22. Una città si distingue, in questo come in altri aspetti dell’immagine urbana: Venezia. Qui le insegne del doge conferiscono alla città un’immagine piú che signorile, quasi monarchica: «spata, fustis, sella» esprimono l’originalità di questo centro unico al mondo23.

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Un ruolo fondamentale nel modellare l’immagine materiale e spirituale della città è stato svolto dal clero sin dal secolo iv. Ma se accanto al vescovo e al clero secolare, i monaci dei conventi urbani dell’Alto Medioevo sono stati (e saranno) agenti attivi della coscienza cittadina, nessuna istituzione, nessun movimento religioso è stato legato alla città e ne ha impregnato e trasformato l’immagine quanto, a partire dal secolo xiii, gli ordini mendicanti: francescani, domenicani, agostiniani, carmelitani, ai quali bisogna aggiungere per l’Italia del Nord, gli umiliati24. I mendicanti modificano anzitutto l’aspetto della città con i loro conventi, divenuti ben presto enormi – nonostante i voti dei loro fondatori Domenico e Francesco – sia per la superficie, sia per l’altezza degli edifici. Nuovi spazi urbani si definiscono intorno ai conventi dei mendicanti, soprattutto perché il loro apostolato è anzitutto un apostolato della parola. Inoltre, con la costruzione di questi conventi si fa strada esplicitamente nella mentalità urbana e nell’urbanistica una preoccupazione estetica, una ricerca del bello, delle proporzioni e delle prospettive, che ha un’espressione particolarmente significativa a Siena alla fine del Duecento25. In effetti, tutto lo spazio urbano viene ristrutturato con l’insediamento degli ordini mendicanti e intorno alle loro sedi. Sotto l’egida del papato, i quattro ordini (nelle città di una certa importanza, o solo due o tre di essi nei centri minori) si insediano quanto piú lontano possibile l’uno dall’altro, ripartendosi in qualche modo lo spazio urbano, che suddividono creando centri secondari importanti, spesso vicino alle porte, in quartieri popolati da immigrati recenti. Con gli ordini mendicanti giungono nuovi santi, a cominciare dai fondatori; si sviluppano nuove devozioni (rosario e varie forme del culto mariano); si celebra-

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no nuove feste; si delineano nuovi itinerari per le processioni. Formati nelle scuole dei loro ordini, qualcuno nelle università, educati secondo i nuovi metodi della scolastica, i frati mendicanti elaborano una vera e propria teologia della città che alimenta il loro apostolato. Da Agostino derivano l’idea della città come «civitas», un insieme di uomini che deve avere gli stessi sentimenti e lo stesso spirito; da Tommaso d’Aquino (e, per suo tramite, da Aristotele), la nozione di «bene comune» e di giustizia, con cui dev’essere regolato il funzionamento della città fino a tradursi nella sua immagine. Taluni, soprattutto tra i francescani, vi aggiungono una visione escatologica ispirata dalla lettura dell’Apocalisse, spesso compiuta attraverso Gioacchino da Fiore, che li sprona a fare della città uno spazio di purezza, di santità, in grado di trasformarla, quando sia giunto il momento, in nuova Gerusalemme. È quello che vorrebbe fare a Firenze, alla fine del Quattrocento, Gerolamo Savonarola. In tutta la loro azione i mendicanti moltiplicano i contatti con i laici, accogliendoli con i loro problemi professionali, familiari, sociali, religiosi. Attraverso la predicazione giungono a racchiudere tutti i cittadini entro una rete d’inquadramento religioso e sociale, che si articola su nuove confraternite. Spesso questi ordini si aprono anche alla città dei morti, ospitando le sepolture, almeno dei piú ricchi e potenti laici, nelle loro chiese. Inoltre costituiscono un potente fattore d’integrazione della nuova società nell’organismo urbano e modellano l’immagine urbana in un’unità strutturata, presentandosi spesso come gli ideologi del «comune delle Arti»26. A differenza di altri paesi della cristianità – è stato notato – la storiografia medievale italiana non ha prodotto molte cronache universali. In compenso l’Italia ha avuto in quantità assai superiore e molto presto cronache cittadine27. Così, anche se manipolata in modo piú

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o meno consapevole dagli autori, la cronaca viene ad aggiungere molto presto all’immagine urbana – di là dalla memoria fantastica delle «laudes» altomedievali – la dimensione temporale che fornisce non solo nomi, date e avvenimenti, ma anche gli attributi della tradizione e del cambiamento. Ciò che colpisce immediatamente è lo stretto nesso esistente fra l’istituzione comunale e lo sviluppo della cronaca urbana. Questa viene scritta spesso entro il quadro di un avvenimento, che è a sua volta un’immagine impressionante della città. Nel 1152 il vecchio Caffaro, che per tutta la sua vita aveva occupato posti di primo piano al servizio di Genova, presenta ai consoli e al consiglio della città la sua cronaca, la prima storia urbana dell’Occidente. Nel 1262 il notaio padovano Rolandino dà pubblica lettura, davanti ai maestri di quell’Università, della sua cronaca28. Arnaldi ha messo in luce questo personaggio importante e affatto originale dell’Italia comunale: il notaio-cronista29. Nella maggior parte delle città italiane troviamo, a partire dal secolo xiii, dei notai, funzionari del comune, che non solo scrivono la cronaca della loro città, ma ricoprono una carica ufficiale e rimunerata di cronisti, in aggiunta alla loro funzione notarile: «la cronaca diviene a poco a poco come una forma d’istituto comunale integrante le magistrature democratiche dell’organismo statale»30. Non stupiremo, dunque, se i cronisti cittadini del Duecento si rivelano tanto ostili ai tiranni e appaiono animati da un patriottismo urbano, portato a commuoversi all’evocazione o alla vista degli emblemi cittadini. Rolandino è artefice della fama di crudeltà del primo tiranno che una città italiana abbia conosciuto, Ezzelino da Romano, signore di Padova dal 1237 al 1256. Egli immagina il dialogo fra un padre esiliato e il suo giovane figlio, che non ha mai visto il carroccio di Padova, evocando con emozione quel simbolo della libertà cit-

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tadina, che avanza «nella gloria e nell’onore», agitando fieramente il «vittorioso vessillo» padovano31. Nel De magnalibus Mediolani, che ci appare come un momento di passaggio dalle «laudes civitatis» alle cronache cittadine, anche il maestro di grammatica milanese Bonvesin da la Riva rende onore ai suoi concittadini per non aver mai tollerato tiranni. Vi è pure, nella sua opera, un aspetto dell’immagine e della fierezza urbana, ben comprensibile nelle città italiane del tempo: l’attenzione rivolta agli aspetti economici: produzione artigianale, produzione agricola del contado, commercio, mercati, alimentazione. La terza funzione, che non sempre ha superato la barriera culturale opposta da cronisti imbevuti di mentalità aristocratica, è presente, se non in primo piano, nell’immagine concreta della città italiana, come pure nelle rappresentazioni della cultura e dell’immaginario. Se tutte le città importanti e meno importanti dell’Italia medievale hanno avuto la loro cronaca, una città in particolare ha avuto una produzione ricca e originale in questo campo: Venezia, che ha avuto persino un doge cronista, Andrea Dandolo (1342-54). La sottile arte di governo veneziana – ha notato Gina Fasoli32 – sapeva approfittare dell’immagine della città e di tutte le risorse che essa offriva per convincere i sudditi della repubblica della perfezione delle istituzioni veneziane. Fin dai primi esordi della storiografia veneziana con Giovanni Diacono, intorno all’anno Mille, il mito dell’«aura Venecia» è presente. Senza dubbio, l’ossessione del mito ha conferito caratteri d’irrealtà e di narcisismo alla produzione trecentesca, ma nel Quattrocento Venezia segue da vicino Firenze nell’adozione dei nuovi canoni storiografici umanistici, che sostituiscono alla narrazione annalistica una riflessione storica, fondata sulla ricerca critica dei documenti, redatta in un latino neoclassico e portata a sostituire gli interventi

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provvidenziali con la volontà, le passioni, gli interessi degli uomini33. Nell’una e nell’altra corrente che Tenenti ha individuato – quella «umanistico-politica», che ha la massima espressione in Leonardo Bruni, e quella «umanisticoerudita», che ha il maggiore esponente in Flavio Biondo34 – rimane centrale l’immagine della città: «Bruni è la storia di Firenze, l’esaltazione umanistica della sua ‘libertas’, Biondo – accanto all’Italia illustrata, alle Decades – è la storia di Venezia e la storia di Roma. Fra gli storici di minore levatura, Poggio Bracciolini è ancora Firenze, Bernardo Giustiniani e Sabellico ancora Venezia»35.

j. k. hyde, Medieval descriptions of cities, in «Bulletin of the John Rylands Library», 1966, n. 48, pp. 3o6-40; g. fasoli, La coscienza civica cit., in La coscienza cittadina cit., pp. 11-44. Per confrontare «realtà» archeologiche e «realtà» immaginarie cfr. j. hubert, Evolution de la topographie et de l’aspect des villes de Gaule du Ve au Xe siècle, in La città nell’Alto Medio Evo, Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, Settimane di Studio, VI, pp. 529 sgg. 2 guidoni, La città europea cit., pp. 94-95. 3 graf, Roma cit., p. 21. 4 g. villani, Cronica, Trieste 1857, p. 9. Sul mito dell’origine troiano-fiesolana di Firenze cfr. d. weinstein, The myth of Florence, in Florentine Studies. Politics and society in Renaissance Florence, a cura di N. Rubinstein, London 1968, pp. 42-44. 5 graf, Roma cit., p. 19. 6 a. carile, La cronachistica veneziana nei secoli XIII e XIV, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI, a cura di A. Pertusi, Firenze 1970, pp. 90-91. Si veda anche g. cracco, Il pensiero storico di fronte ai problemi del comune veneziano, ibid., pp. 45-74; carile, La coscienza civica cit., pp. 95-136; g. fasoli, Nascita di un mito, in Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, Firenze 1958, vol. I, pp. 445-79. 7 le goff, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1974. 8 Ibid. 9 a. f. marcianò e m. spina, La processione dei Bianchi a Padova, 1399. Una fonte per lo studio della città tra Medioevo e Rinascimento, in 1

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale «Storia della Città», 2, 111, 1977, n. 4, pp. 3-30 (la citazione è a p. 8). 10 Ibid., p. 11. 11 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., p. 181. 12 etienne de bourbon, Tractatus de diversis materiis predicabilibus, V, 1, in a. lecoy de ca marche, Anectodes historiques, légendes et apologues tirés du recueil inédit d’Etienne de Bourbon, dominicain du XIIIe siècle, Paris 1877, pp. 423-24. 13 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., p. 181. 14 Cfr. a. fontana, La scena, in Storia d’Italia Einaudi, vol. I, pp. 827 sgg. 15 Ibid., p. 859. 16 Ibid., p. 829. 17 salimbene de adam, Cronica cit., p. 788, e cfr. le goff, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 1977. 18 g. cencetti, Lo stemma di Bologna, in «Bologna. Rivista del Comune», 5, 1937, pp. 18-22; cfr. anche in La coscienza cittadina cit., i saggi di Pini, p. 183, e di Orselli, p. 321. 19 d. arasse, Entre dévotion et culture: fonctions de l’image religieuse au XVe siècle, in Faire croire, École française de Rome 1981, pp. 131-46. 20 l. gatto, Il sentimento cittadino nella «Cronica» di Salimbene, in La coscienza cittadina cit., p. 371. 21 bonvesin da la riva, De magnalibus Mediolani cit., pp. 153-55. 22 Ibid., pp. 65-67 e p. 159. 23 a. pertusi, Quaedam regalia insigna. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia nel Medioevo, in «Studi veneziani», vii, 1965, pp. 3-123; g. fasoli, I fondamenti della storiografia veneziana, in La storiografia veneziana fino al secolo XVI, a cura di A. Pertusi cit., p. 27; g. arnaldi, Andrea Dandolo, doge-cronista, ibid., pp. 199-200. 24 Di una vasta letteratura si tenga presente in particolare: guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 123-85; Les ordres mendiants et la ville en Italie centrale (1220-1350), Colloque de l’École française de Rome, «Mélanges de l’École française de Rome», 89, 1977, vol. II, pp. 557-773 (e in particolare gli studi di G. Barone, L. Capo, F. Fossier, G. Todeschini). Per un caso particolare: cfr. Francescanesimo e società cittadina: l’esempio di Perugia, Pubblicazione del Centro per il Collegamento degli studi medievali e umanistici dell’università di Perugina, 1979. 25 w. braunfels, Mittelalterliche Stadtbaukunst in der Toskana, Berlin 1966. 26 Col Comune delle Arti – scrive r. morghen, La coscienza cittadina cit., p. 222 – un altro popolo si era affermato in Firenze ed altri centri religiosi erano sorti, quali la ricostruita chiesa di Santa Maria

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale Novella e la chiesa di Santa Croce, dominate dai nuovi ordini religiosi dei domenicani e dei francescani», 27 L’argomento e la bibliografia sono sterminati: per questo, ancor piú che per gli altri aspetti dell’immagine urbana, mi limiterò a due o tre punti particolarmente pertinenti. 28 g. arnaldi, Studi sui cronisti della Marca Trevigiana nell’età di Ezzelino da Romano, Roma 1963. 29 id., Il notaio-cronista e le cronache cittadine in Italia, in La storia del diritto nel quadro delle scienze storiche. Atti del I Congresso internazionale della Società italiana di storia del diritto, Firenze 1966, pp. 293-309; g. ortalli, Notariato e storiografia in Bologna nei secoli XIII-XVI, in Studi storici sul notariato italiano, vol. III. Notariato medievale bolognese, vol. II, Roma 1977, pp. 143-89. 30 l. sighinulfi, La cronaca dei Villola nella «Stazione dell’università degli artisti», in «Atti e memorie della deputazione provinciale di storia patria della Romagna», iv, 1923, n. 13, p. 116. Cfr. g. martini, Lo spirito cittadino e le origini della storiografia comunale italiana, in «Nuova rivista storica», liv, 1970. 31 Cfr. arnaldi, Studi sui cronisti cit., pp. 199-201. 32 fasoli, La coscienza civica cit., p. 42 (per la storiografia veneziana si vedano le note 6 e 23). 33 a. pertusi, Gli inizi della storiografia umanistica veneziana nel Quattrocento, in La storiografia veneziana cit., p. 269. 34 a. tenenti, La storiografia in Europa dal Quattrocento al Seicento, in Nuove questioni di storia moderna, Milano 1964. 35 le goff, L’Italia fuori d’Italia cit., p. 2o8o.

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Capitolo sesto La città, immagine e strumento del potere.

Le città dell’Alto Medioevo lasciano intravedere a stento oggi, per le trasformazioni radicali subite in seguito, le realtà materiali, sociali, politiche e ideologiche che hanno presieduto alla loro immagine. Direi che i nuovi poteri si accontentarono di utilizzare l’eredità in parte rovinata e soprattutto trasformata nelle sue funzioni dell’urbanistica antica. La peculiarità italiana consiste nell’ospitare sul suo suolo le sopravvivenze dell’Impero latino e dell’Impero greco insieme con il nuovo capo – ancora debole – della Chiesa, il papa. Ma i re e i principi longobardi, a Pavia, a Spoleto, a Benevento, non hanno fatto altro, mi sembra, che vivere sul passato monumentale romano, mentre Ravenna è rimasta quasi un’escrescenza nel corpo di un’Italia, dove l’influsso bizantino conservava efficacia soltanto nell’ambito del mosaico, della pittura e, in termini più limitati, della liturgia. Il retaggio antico sembra essere sopravvissuto nell’opera dei Gromatici, di cui due manoscritti – uno del secolo vi o vii, l’altro della metà del ix, ritrovati nel Rinascimento, uno a Bobbio, l’altro a Fulda – hanno avuto qualche influenza, seppur c’è stata, solo nell’ambito del Rinascimento romano1. Lo spirito geometrico degli agrimensori antichi, che vi si esprime, non trovava alcun campo di applicazione nel Medioevo. Il solo principio di organizzazione della città – ridot-

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ta a un centro da difendere – è il segno della croce, quale è stato visto da Guidoni, fondandosi sugli esempi di Roma e di Milano: «il cardo e il decumano sono ormai concepiti come semplici ‘segni’, il segno della croce (senza piú coincidere necessariamente con la realtà fisica degli assi viari), collegante basiliche esterne, costruite spesso fuori dalle mura sulla tomba dei martiri, con il centro cittadino; pur nella varietà delle prime applicazioni (tra il iv e il vii secolo), si può notare la costanza del riferimento al segno della croce come capace di redimere e di proteggere la città, ricalcandone spesso la struttura orientata, ma sempre riferendosi all’aspetto religioso, piú che utilitario, della particolare disposizione degli edifici sacri»2. La sola immagine urbanistica nuova è creata dal nuovo potere del papato: verso la metà del secolo ix, papa Leone IV (847-55) fa costruire a protezione della basilica di San Pietro dalla minaccia dei saraceni, la Città leonina, appoggiata al mausoleo di Adriano, divenuto Castel Sant’Angelo. Il modello urbanistico di questa città, fondato sulle porte, le chiese e le mura, e il numero tre (tre porte, tre chiese, tre vie) fu ripreso dallo stesso pontefice nell’854 per una nuova città, Leopoli, fondata per accogliere la popolazione di Centocelle, fino allora dispersa sulle montagne per sfuggire alla minaccia saracena3. A partire dal secolo xii tutto cambia. Nasce una nuova città, in cui il potere è diviso fra la Chiesa, i nobili e il nuovo gruppo sociale che si è soliti chiamare borghese. La Chiesa imprime nell’immagine urbana il suo segno con le sue chiese e i suoi campanili; i nobili con le loro case-torri; i borghesi con gli edifici del nuovo potere collettivo: palazzi comunali, piazze, mercati. La presenza di un potere comunale si nota sempre piú con l’imporsi di piante regolari: le vie si incrociano ad angolo retto, si forma una divisione regolare di strade e di

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piazze, compaiono le insegne del potere urbano, cui ho già accennato. Un vero e proprio «spirito cittadino» è nato: si afferma grazie ai nuovi dirigenti e a loro vantaggio, con l’appoggio degli ordini mendicanti. La ristrutturazione di Venezia, esemplare come caso limite, attesta la profonda trasformazione sociale, politica e urbanistica. Allo schema «a campi e corti», polinucleare, si sovrappone un’organizzazione dello spazio rispondente a tre funzioni: il centro commerciale a Rialto, il centro politico-religioso con il sistema San Marco - Palazzo Ducale, l’attività economica sulle rive della laguna con l’Arsenale a nord, il porto commerciale a sud. La rete delle calli diventa «l’elemento microurbanistico fondamentale»4. Primo segno del nuovo potere è dunque la razionalità urbanistica, caratterizzata da piante regolari e da una prima regolamentazione urbanistica negli statuti cittadini. A Bologna una pianta regolare comincia ad apparire verso la metà del Duecento e gli statuti, in particolare quelli del 1288, fissano le norme relative all’edilizia5. A Volterra gli statuti stabiliscono l’altezza massima delle torri e affermano la preminenza del centro storico raddoppiando le pene inflitte per i reati commessi entro l’area comprendente la piazza comunale e la cattedrale6. A Siena un regolamento del 1222 impone alle nuove case di allinearsi «a corda e recta linea». A Brescia un grande programma attribuito al frate umiliato Alberico da Gambara nel 1237 prevede una crescita della superficie urbana con una regolamentazione estremamente precisa di espropri, la costruzione di nuove mura, un tracciato regolare di strade7. Importanza centrale, nella nuova città, è assunta dalla piazza. Ai suoi lati sorgono i monumenti comunali, lasciando al centro uno spazio di incontri, di rapporti sociali: è il nuovo «spazio simbolico per eccellenza» della città8.

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A Firenze il centro si organizza intorno a due piazze: la piazza di San Giovanni e la piazza della Signoria, che si aggregano i monumenti principali: Battistero, Duomo, Campanile e Palazzo Vecchio9. A Milano, verso la metà del secolo xiii, la creazione della piazza dei Mercanti con al centro il Broletto Nuovo e sei strade convergenti vi rappresenta una «vera e propria sintesi architettonica dell’intera città... l’esempio piú grandioso di quella ricerca del baricentro urbano che il comune persegue per motivi mercantili, ma anche di rappresentatività e di prestigio, e che porta anche qui alla separazione, rispetto alla sede del potere vescovile, ma, ancora una volta, di fronte e in posizione assiale rispetto alla cattedrale»10. A Genova viene aperta una vasta piazza verso il mare, che serve da punto di riferimento in mezzo all’intrico dei carugi, una «piazza faro»11. E la funzione della piazza continua sul finire del Medioevo: a Vigevano, Ludovico il Moro fa costruire nel 1493-94 quello che è stato definito «il primo esempio di una piazza intesa come un edificio unitario», ossia «una piazza in forma di palazzo». A Roma, «il Campidoglio è il centro ideale della città storica, allo stesso modo che San Pietro è il centro ideale della città religiosa». Queste due imprese di Michelangelo rappresentano una rivelazione urbanistica nell’immagine di Roma12. Il secolo xiii vede il sorgere di un nuovo monumento centrale nelle città italiane collegato con la piazza: il palazzo comunale. Esso rivela il nuovo potere laico di fronte al potere episcopale. «La costruzione del palazzo nel centro cittadino ha sempre un significato preciso di presa di potere, a fianco o in contrasto con l’autorità vescovile»13. A differenza dei palazzi reali dell’Alto Medioevo, tutti scomparsi, e dei palazzi episcopali, che

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per la maggior parte sono soltanto un ricordo storico, «i numerosi palazzi comunali giunti fino ai tempi nostri testimoniano ancora della lotta sostenuta dai comuni italiani per la libertà cittadina»14. In Toscana e in Umbria, fra Due e Trecento, le città costruiscono imponenti palazzi comunali: cosí a Firenze, a Siena, a Perugia, a Gubbio, a Todi, a Città di Castello, ecc. Sono imprese che si inseriscono in un potente movimento istituzionale e nel flusso di una forte spinta urbanistica15. Ma questi monumenti non devono farci dimenticare che l’immagine della città si basa su tre reti urbanistiche: quella dei quartieri, quella delle parrocchie e delle contrade, quella delle strade. A Firenze i quartieri, divenuti sestieri e poi tornati nel 1343 a essere quartieri, sono divisi in quattro gonfaloni per quartiere. Il quartiere organizza, insieme con le confraternite, le feste e le processioni, e costituisce un centro essenziale di sociabilità. Con i suoi emblemi, partecipa all’immagine della città16. Invece la via, la cui funzione utilitaria era spesso prevalsa su tutto, comincia ad assumere una nuova fisionomia solo nel Quattrocento. A Firenze, «fin dall’età delle mascherate laurenziane, il tessuto viario viene percepito come uno spazio ludico collettivo»17. L’immagine medievale della città è meno soggetta, soprattutto nei centri minori, alle vicissitudini della ricchezza e della moda18. Ma l’immagine della città cambia profondamente verso la metà del Quattrocento. I principi diventano dei mecenati, sia per ostentare il loro potere, sia per fare delle loro città una vetrina di questo potere, sia per stornare gli animi dei loro sudditi verso la contemplazione estetica e la festa, sia per amore dell’arte. Il grande esempio è Urbino, «città in forma di palazzo», secondo la definizione di Baldassarre Castiglione. L’immagine urbana si allontana dall’immagine

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della città medievale, «confusa e polisensa»19 per unificarsi sotto le nuove regole della prospettiva (un altro modo per rimettere tutti al loro posto) e della veduta, o meglio della veduta lontana, come era di moda tra i pittori fiamminghi. Vasari narra che nel 1454 Innocenzo VIII aveva fatto decorare da Pinturicchio il palazzo del Belvedere, facendogli dipingere una loggia con paesaggi e vedute di Roma, Milano, Genova, Firenze, Venezia e Napoli alla maniera fiamminga20. Ciò che conta, ormai, è il personaggio, l’individuo che guarda da lontano la città mentre l’immagine di questa arretra sullo sfondo. La trasformazione dell’immagine urbana comincia nel Trecento. La città comincia a riempirsi, a mostrare la propria ricettività, accogliendo ospedali, «palazzi austeri» che sostituiscono le case-torri, logge21. Questa sostituzione, accompagnata dall’apertura di nuove arterie e dalla costruzione di giganteschi monumenti (il Duomo di Milano, San Petronio a Bologna ecc.) è particolarmente importante nelle città cadute sotto il dominio visconteo: Parma, Verona, soprattutto Pavia22. Per quel che riguarda le nuove strutture del Quattrocento, meriterà rileggere quel che ne hanno scritto Argan e Fagiolo: «le facciate non sono piú sbarramenti, ma diaframmi comunicanti tra esterni e interni egualmente urbani; i cortili sono piazze entro il palazzo; le scale graduano il passaggio dalla strada alla casa, sono vie interne; gli interni delle chiese sono spazi privilegiati e altamente rivelatori entro lo spazio ‘mondano’ della città. Rivelano, infatti, non tanto il divino in sé, quanto quell’unità profonda di natura e storia che manifesta il disegno divino dello spazio e del tempo. L’architettura, e non soltanto della chiesa, è il ‘vero’ spazio, uno spazio purificato da ogni ‘accidente’, ridotto all’evidenza della propria legge matematica; il tempo che corrisponde a quello spazio è tempo storico; i fatti che si rappre-

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sentano in quello spazio assumono valore di fatti storici»23. Cosí lo spazio dell’architettura urbana raggiunge il tempo della cronaca urbana. Di nuovo, poi, c’è che gli artisti che cambiano la città, fanno anche la teoria della città, e se non scrivono trattati, come Leon Battista Alberti e Francesco Di Giorgio, pensano la città, come faranno il Filarete, immaginando la città di Sforzinda, o Leonardo nei suoi disegni24. Anziché evocare le grandi realizzazioni urbanistiche – dalla Firenze del Brunelleschi a Pienza, a Ferrara, alla Roma di Niccolò V (1447-55) fino a quella di Leone X (1513-21)25 – preferisco rifarmi a due esempi al fine di mostrare le permanenze e le trasformazioni dell’immagine urbana alla fine del Medioevo. L’esempio di Siena, che sarebbe utile poter sviluppare con una vasta documentazione iconografica, mostra l’ossessione per l’immagine urbana esistente nel Tre-Quattrocento. Vi troviamo quasi un tentativo di presa di possesso magica dello spazio urbano attraverso l’immagine, un programma ideologico e un vero e proprio narcisismo urbano. Ecco anzitutto nel Palazzo Pubblico26, sede della Signoria e del Podestà, l’affresco di Simone Martini che rappresenta Guidoriccio da Fogliano, capitano dei senesi, mentre si reca all’assedio di Montemassi. L’opera è quasi coeva (1328) dell’avvenimento (1318): è la città guerriera che sottomette il contado con la forza, in uno squilibrio significativo fra il grande cavaliere, simbolo della potenza della città, e il borgo che spunta sulle colline, di là dalla nuda vastità della campagna, in forma di minuscola città, mentre a sinistra appare il castello militare e il campo dei senesi, con i vessilli al vento. In un’altra sala vi è l’immensa composizione di Ambrogio Lorenzetti: il Buon Governo, gli effetti del Buon Governo in città e in campagna, il Mal Governo e gli effetti del Mal Governo. L’opera fu eseguita fra il

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1337 e il 1340, sotto il governo dei Nove, emanazione della ricca oligarchia mercantile. Già la Maestà di Simone Martini (1315), sempre nel Palazzo Pubblico, aveva espresso un’immagine ideologica della città, divenuta dopo la vittoria di Montaperti sui fiorentini, nel 126o, la «città della Vergine». Le monete proclamano questa particolare consacrazione: «Sena Vetus Civitas Virginis» è la leggenda, e l’immagine della Vergine di Misericordia, che accoglie sotto il suo manto protettore i fedeli, sembra incarnarsi nella piazza del Campo, a forma di manto aperto, in cui tutta la popolazione della città può trovar posto. Il baldacchino della Maestà con le armi della città (lo scudo bianco e nero) e quelle del contado (un leone rampante in campo rosso), i santi protettori intorno alla Vergine, i versetti in lingua volgare, scritti per essere letti dagli alfabetizzanti, l’accento messo sulla giustizia nell’iscrizione sorretta dal Bambino («diligite iustitiam qui iudicatis terram») esprimono chiaramente il carattere programmatico dell’opera. Il Buon Governo, rappresentato da un vegliardo (Vetus Sena), con le insegne della città, lo scettro e il sigillo, ha sopra di sé le tre virtù teologali (in segno di reverenza verso la religione) ed è circondato dalle virtú civili: la pace, la forza, la prudenza, la magnanimità, la temperanza, la giustizia. Ai suoi piedi, la lupa e i gemelli ricordano il mito originario: Siena, fondata da Senio, figlio di Remo, e dunque seconda Roma. Piú importanti ancora i particolari alla sinistra e nel basso dell’affresco: a sinistra ritroviamo esaltata la giustizia, sovrastata dalla sapienza (la cultura, ricordata dalla presenza di un maestro di scuola e dai suoi allievi nella città, è un elemento essenziale del potere nella città, centro culturale), reca in mano la bilancia con due piatti (giustizia distributiva e commutativa); mentre in basso vediamo l’allegoria del bene civico per eccellenza: la concordia, rappresentata da ventiquattro cittadini riccamente abbi-

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gliati, e da uomini d’arme a piedi e a cavallo. È la città dell’ordine, di cui i ricchi borghesi sono i garanti e i beneficiari. Gli effetti del Buon Governo esprimono quattro aspetti essenziali della coscienza civica: anzitutto l’immagine della città, con le sue mura, i monumenti, le case, la cattedrale, l’attività edilizia; poi la dialettica della città e del contado per il tramite della porta, che stabilisce un’armoniosa comunicazione fra la città e la campagna, soprattutto nel senso che va dalla campagna produttrice verso la città consumatrice, per affermare la terza funzione di prosperità e felicità, accanto alla prima del potere e del diritto (il Buon Governo) e alla seconda della forza (Guidoriccio da Fogliano). Vediamo cosí l’agricoltura e l’allevamento nel contado, l’artigianato delle botteghe cittadine e il commercio, rappresentato dalle some delle bestie nella città; in altra parte gli svaghi, nella forma aristocratica della cultura urbana (canti e danze); finalmente, l’allegoria della sicurezza, alta sul contado recando in mano un patibolo, immagine della città repressiva, spesso illustrata nei dipinti con prigioni, gogne e forche. Quasi negli stessi anni Ambrogio Lorenzetti dipingeva un panorama di città in riva al mare (ora alla Pinacoteca di Siena), che nello stato in cui si trova – probabilmente si tratta di un particolare staccato da un dipinto di maggiori proporzioni – rappresenta il primo paesaggio urbano «puro», la prima «natura morta urbana», ideogramma della città medievale per metà reale, per metà immaginaria, con le sue mura e i suoi «grattacieli». Al tempo stesso si sviluppa una serie straordinaria di raffigurazioni urbane sui dorsi di legno dei registri delle due grandi istituzioni finanziarie comunali: la Biccherna e la Gabella27. Si tratta di piccoli quadri che mostrano, a partire dal secolo xiii, i funzionari – chierici e laici

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– delle due istituzioni, con le loro armi e i loro blasoni; essi esprimono chiaramente una particolare ideologia urbana e ci offrono spesso l’immagine della città. Ecco quattro temi significativi, spesso connessi fra loro, che ritornano su queste tavolette: il Buon Governo nel 1344 (ed è – di mano di Ambrogio Lorenzetti – il vegliardo del Palazzo Pubblico), 1385 e 1474; la Vergine patrona e la sua protezione, nel 1451, 1467, 148o (con una superba immagine, per metà reale, per metà immaginaria, della città) e 1487; la città di fronte a due avvenimenti che sono – con la guerra – le due grandi calamità del Basso Medioevo, la peste nel 1437 e il terremoto nel 1467; il contrasto pace e guerra nel 1468, simboleggiato da un piccolo quadro, a metà realistico, a metà allegorico (la mescolanza che dà a tante opere d’arte del tempo un carattere misterioso, un fascino onirico, tipico dell’immaginario urbano), in cui sono rappresentate le finanze in tempo di pace e in tempo di guerra. Bisogna ancora aggiungere il dipinto che orna il dorso di un registro dell’Ospedale di Santa Maria della Scala, in cui si vede il monumento divenuto l’incarnazione in bianco e nero della città: il Duomo. La Pinacoteca di Siena offre un’altra serie di vedute urbane assai significative per il Quattrocento. Ne ricorderò quattro. Il legame fra Siena e Gerusalemme appare nell’Adorazione dei Magi di Bartolo di Fredi (morto a Siena nel 1410), in cui il Duomo di Siena e inserito nell’immagine della città orientale e nella città del Trionfo di Davide di Neroccio di Bartolomeo Landi (1447-1500). Dello stesso pittore, un quadro, che unisce il contemporaneo agli stereotipi tradizionali, mostra San Bernardino predicante in piazza del Campo: la piazza e il Palazzo, la città come spazio della parola, una parola capace di mutare Siena da Babilonia (a destra un diavolo fugge dalla bocca di un’indemoniata) in Gerusalemme. Sano di Pietro, nel 1456, aveva dipinto per commis-

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sione dei Signori del biado del Comune un quadro in cui si scorge la Vergine patrona in atto di chiedere a papa Callisto III di mandare aiuti alimentari a Siena, in preda alla carestia (1455). Qui troviamo tutti i temi: la Vergine, il guelfismo, l’immagine della città (mura, porta con un mulo carico di sacchi, campanile della cattedrale e Torre del Mangia, una fila di muli carichi di sacchi davanti alla città), rapporto fra città e contado, organizzazione a metà sovrannaturale, a metà politica per fronteggiare le calamità. Finalmente, mostrando la persistenza dell’ideogramma urbano medievale, su un affresco della scuola del Riccio (morto poco dopo il 1572) nel Palazzo Pubblico, un santo regge nelle sue mani l’immagine della città turrita, con le sue mura e i suoi monumenti, fra cui – segno dei tempi – il Duomo e la Torre del Mangia raffigurati realisticamente28. L’immagine urbana di una Firenze che passa nel Quattrocento dal rituale del comune a un nuovo rituale (quello della signoria medicea? quello rinascimentale?) è al centro del bel libro di Trexler29. Nuove feste, nuovi monumenti, nuovi itinerari rivelano i cambiamenti sociali, politici e culturali fiorentini. Il rituale della Firenze comunale aveva come momento culminante la festa del patrono cittadino, san Giovanni, e l’itinerario della processione seguiva l’antico tracciato delle mura romane, con un passaggio Oltrarno all’interno della «cerchia antica» (mentre la processione del Corpus Domini, istituita nel secolo xiii dagli ordini mendicanti, ha per punto di partenza e d’arrivo la chiesa domenicana di Santa Maria Novella). Dietro i dignitari del comune, procedono le confraternite, formate dagli adulti e dominate dalle grandi famiglie dei mercanti; seguono i fanciulli e gli adolescenti, le donne e il popolino delle Arti minori, raggruppato in «potenze». Senza dubbio anche come risultato della politica dei

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Medici, che riplasmano la città secondo i loro interessi e i loro gusti, i giovani sono separati dalle confraternite dei loro padri e la solidarietà familiare ne risulta sminuita, mentre la foga della gioventú è canalizzata, cosí come è frenata la violenza del popolino, cliente dei Medici. Ormai il punto culminante del tempo festivo della città si sposta verso l’Epifania (confraternita dei Re Magi) e il carnevale diventa la grande festa cittadina. Il palazzo dei Medici, fuori dall’antico nucleo della città romana, diventa il punto centrale della vita sociale e politica. Savonarola sembra mettere fine a questa nuova immagine di una città dei giovani e del carnevale: la Firenze del Quattrocento, identificata con la Firenze medicea dagli storici, è stata il bersaglio del riformatore domenicano. Di questa città, divenuta ai suoi occhi la città delle prostitute, Babilonia, vuol fare la nuova Roma, la nuova Sion, la nuova Gerusalemme30. Tuttavia egli conserva gli strumenti d’azione dei Medici: giovani e fanciulli, trasformati in giovani angeli, sono sempre gli araldi della nuova Firenze: solo il palazzo dei Medici è stato sostituito dal convento di San Marco, come centro simbolico ed effettivo del potere. Proprio a proposito dell’esecuzione di Savonarola e di due suoi compagni, il 23 maggio 1498, avvenuta nel centro topograficamente permanente da almeno due secoli, la piazza della Signoria, Trexler pone la domanda: «Carnevale o Calvario?»31. Concluderò con lui: «Il fossato che separa la storia sociale dalla storia culturale può essere in gran parte colmato osservando il comportamento delle popolazioni urbane nei loro luoghi sacri e profani». L’immagine della città medievale è il rapporto tra la forma dell’urbs e la struttura della civitas.

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Jacques Le Goff L’immaginario urbano nell’Italia medievale g. martines, «Gromatici veteres». Tra Antichità e Medioevo, in «Ricerche di storia dell’arte», 1976, n. 3, pp. 3-17. 2 guidoni, La città europea cit., p. 31. 3 Ibid., pp. 102-3. 4 m. manieri elia, Città e lavoro intellettuale, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. I, p. 366. 5 Si veda il saggio di A. I. Pini in La coscienza cittadina cit., p. 182. 6 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 84 sgg. 7 Ibid., pp. 90 sgg. 8 fontana, La scena cit., p. 815. 9 zorzi, Il teatro e la città. Saggi sulla scena italiana, Torino 1977; id., La piazza reale-simbolica, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. I, p. 449. 10 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., p. 87. 11 argan e fagiolo, Premessa all’arte italiana cit., p. 767. 12 Ibid., pp. 766 e 769. 13 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., p. 73. 14 c. r. brühl, Il «palazzo» nelle città italiane, in La coscienza cittadina cit., p. 282. 15 c. martini, Todi e Perugia. Il «Palazzo Pubblico» e le istituzioni comunali, in La coscienza cittadina cit., pp. 359-64; n. rodolico e g. marchini, I Palazzi del Popolo nei Comuni toscani del Medioevo, Milano 1962. 16 manieri elia, Città e lavoro intellettuale cit., pp. 364-65. 17 l. zorzi, Strade e cortei, in Storia dell’arte italiana Einaudi, vol. I, p. 451. 18 È questo il caso, ad esempio, di Sanseverino Marche, come è stato illustrato da o. rossi pinelli, ibid., vol. VIII, p. 169. 19 manieri elia, Città e lavoro intellettuale cit., p. 382. 20 lavedan, La représentation de la ville cit., pp. 39-41. 21 manieri elia, Città e lavoro intellettuale cit., p. 374. 22 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 202-3. 23 argan e fagiolo, Premessa all’arte italiana cit., p. 740. 24 Ibid., pp. 758-6o. 25 guidoni, La città dal Medioevo al Rinascimento cit., pp. 215-55. 26 Cfr. e. carli, Il Palazzo Pubblico di Siena, Roma 1963. 27 id, Le tavolette dipinte di Biccherna e di Gabella, Milano 1951. 28 Un celebre esempio di questo ideogramma urbano nelle mani del santo protettore è l’immagine di San Gimignano sorretto dal santo eponimo nel quadro del senese Taddeo di Bartolo (morto nel 1422), nel Museo Civico di San Gimignano. 29 trexler, Public life in Renaissance Florence cit. 30 d. weinstein, Savonarola e Firenze. Profezia e patriottismo nel Rinascimento, Bologna 1976. 31 trexler, Public life in Renaissance Florence cit., p. 552. 1

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