Le due città. Paganesimo e cristianesimo in Agostino

April 12, 2017 | Author: Luciano Zappella | Category: N/A
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Le due città Paganesimo e cristianesimo in Agostino

a cura di Luciano Zappella

Carlo Signorelli Editore

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© 2005 by Carlo Signorelli Editore, Milano Edumond Le Monnier S.p.A. Tutti i diritti riservati Prima edizione : gennaio 2005 Edizioni : 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 2005 2006 2007 2008 2009

Questo volume è stato stampato presso Arti Grafiche Battaia & C. s.n.c., Libido san Giacomo – Milano Stampato in Italia – Printed in Italy

Il Sistema di Qualità di Edumomd Le Monnier S.p.A. è certificato da BVQI secondoi la Norma UNI EN ISO 9001:2000 (Vision 2000) per le attività di : progettazione, realizzazione e commercializzazione di testi scolastici, dizionari e supporti

www.pianetascuola.it www.carlosignorellieditore.it In copertina: Agostino in una miniatura di età medievale. Progetto grafico: Cristina Rainoldi Redazione: Ilaria Rimoldi Impaginazione: Compos 90

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Indice Perché «le due città» IL TEMA

1

Il cristianesimo: nascita di una religione

6

1.1

Dall’ebraismo al cristianesimo

6

1.2

Cristianesimo e filosofia ellenistica

7

1.3

Cristianesimo e religione romana

8 9

L’apostolo Paolo ad Atene: il «Dio ignoto» (ágnostos Theós)

I TESTI

5

1.4

Sociologia del cristianesimo primitivo

10

1.5

Cristianesimo e società romana Religioni misteriche e cristianesimo

11 12

2

Paganesimo e cristianesimo tra III e IV secolo

14

2.1

Follia versus razionalità: la reazione pagana al cristianesimo Fu vera persecuzione?

14 15

2.2

Cristianizzazione del mondo e mondanizzazione del cristianesimo

17

2.3

La ‘svolta’ costantiniana Il vescovo e l’imperatore

18 19

2.4

Tolleranza e libertà religiosa

20

1

Agostino tra paganesimo e cristianesimo

22

Agostino: biografia e pensiero Confessiones: la novità di un genere

25 26

Pianti per la morte di Didone (Confessiones I 13, 21-22) La figura di Didone tra Virgilio e Agostino Lingua e stile in Agostino

27 29 31

La scoperta dell’Hortensius (Confessiones III 4, 7-8)

31

Per fare il punto

35

Tolle, lege: tra libri e conversione (Confessiones VIII 12, 28-29) Il racconto della conversione tra memoria e finzione letteraria Spiritualità a confronto: neoplatonismo e cristianesimo

36 40 41

Per fare il punto

42

La reazione pagana

43

In diretta dal passato: l’ara funeraria di Pretestato

45

La funzione sociale del politeismo (Epistula XVI, traduzione)

46

2

5

3

I PERCORSI

1

48

Per fare il punto.

55

Le due città: Roma e Gerusalemme

56

«Agostinismo» politico e teocrazia papale

57

La società romana: domus Sardanapali (De civitate Dei II 20)

59

Per fare il punto

63

Invito ad accettare il cristianesimo (De civitate Dei II 29, 1-2)

64

Il principe ideale (De civitate Dei V 24)

68

Le due città (De civitate Dei XIV 28)

70

Per fare il punto

73

Optima hereditas: cultura classica e cristianesimo nel pensiero medievale 75 1.1

L’‘eredità’: i Padri della chiesa

75

1.2

Gli ‘eredi’: il sapere nel Medioevo

76

Per fare il punto

79

Societas christiana e strutture di potere: cristianesimo e modernità

80

2.1

Fede e politica tra Lutero e Calvino

80

2.2

La «teologia del patto»: chiesa e stato nell’esperienza puritana

82

2.3

Prove di tolleranza: libertà religiosa e libertà di coscienza

83

Per fare il punto

86

‘Morte di Dio’: il cristianesimo alla prova della (post)modernità

87

3.1

Il cristianesimo postmoderno

87

3.2

Cristianesimo e società multireligiosa

89

Per fare il punto

91

2

3

LE PROPOSTE

La ragionevolezza del monoteismo (Epistula XVII)

Invito alla scrittura

92

Proposte per il saggio breve

92

Proposte di approfondimento per il colloquio (‘tesina’)

94

Glossario

96

6

Perché «le due città» Sic quaeramus tamquam inventuri; et sic inveniamus tamquam quaesituri. «Cerchiamo come se stessimo per trovare e troviamo come se stessimo per cercare. Agostino, De Trinitate IX 1, 1

N

ato socialmente, religiosamente, culturalmente e geograficamente periferico, il cristianesimo, nel giro di breve tempo, finisce per occupare il centro della scena. Non interessa qui stabilire se ciò, per il cristianesimo stesso, sia stato un bene oppure no. È questione che riguarda i credenti e i teologi. Dal punto di vista della storia delle idee, invece, è un dato di fatto che il cristianesimo è diventato una delle componenti fondamentali della cultura dell’Occidente. Ora dal momento che «la religione non è solo un sistema cognitivo, un insieme di dogmi: è esperienza significativa e significato ricavato dall’esperienza» (V. Turner, Antropologia della performance, Il Mulino, Bologna 1993, p. 115), anche il cristianesimo ha veicolato il proprio patrimonio teologico grazie ad un processo di inculturazione: tale processo lo ha posto in una situazione di “già e non ancora”, in cui il richiamo alle realtà escatologiche ha le sue radici ben salde nelle strutture del saeculum. E per un cristianesimo che abbandona precocemente la radice originaria (quella ebraica), il saeculum si identifica immediatamente con l’ecumene ellenistico-romana, la sua lingua, la sua cultura, il suo modo di pensare. In questo quadro, Agostino disegna una parabola esemplare: egli ha portato al centro della romanità e del suo sistema di valori un attacco volto a far scoprire, una volta rimossa la patina del paganesimo, il vero significato della propria grandezza, che non consiste tanto nella gloria militare o politica, quanto nell’aver preparato il terreno alla diffusione del cristianesimo. Dietro alla dialettica agostiniana tra città terrena e città celeste si cela non la fuga ascetica dal mondo, non la divisone tra i buoni e i cattivi, ma un potente invito al rinnovamento esistenziale alla luce della rivelazione cristiana intesa come nuovo orizzonte antropologico. Nelle Confessiones e nel De civitate Dei, la cultura antica viene riletta, distillata e tramandata fino a noi come patrimonio da non disperdere perché lì sono le basi del nostro vivere e del nostro pensare. Attraverso i testi agostiniani (forzatamente selettivi, vista la mole della sua produzione) e i percorsi, si è inteso mostrare il difficile, ma anche affascinante rapporto tra il cristianesimo e le strutture sociali, politiche, economiche della cultura europea. Di volta in volta strumento di potere e di coecizione, sorgente di valori civili, causa e pretesto di lotte fratricide, ispiratore di grandi opere letterarie ed artistiche, il cristianesimo ha permeato di sé l’Occidente dandogli un corpo e un’anima.

7

1. Il cristianesimo: nascita di una religione

Il cristianesimo è una religione? La risposta è talmente ovvia che il fatto stesso di porre la domanda appare come una provocazione. Eppure, per almeno due secoli, il movimento cristiano si è pensato secondo categorie non religiose: ciò che si tende a considerare come originario è in realtà un dato secondario, frutto cioè di un processo evolutivo né breve né semplice. Se infatti alla base della fede cristiana c’è l’idea del Dio che si fa uomo, alla base del movimento cristiano ci sono tre matrici identitarie che non si possono trascurare in quanto ne costituiscono, per così dire, il codice genetico: la matrice ebraica, quella ellenistica e quella romana. È quindi necessario svolgere una rapida presentazione del processo storico che ha consentito al cristianesimo di strutturarsi come ‘sistema religioso’.

1.1

Dall’ebraismo al cristianesimo Entrato nella sinagoga di Nazaret per il culto del sabato, Gesù, dopo aver letto un passo del profeta Isaia, tiene una sorta di midrash («omelia»), all’inizio del quale, a commento della parola letta, afferma: «Oggi si è adempiuta questa scrittura che voi udite» (Luca 4,16-30). Indipendentemente dalla questione se questa frase sia stata pronunciata effettivamente da Gesù o a lui attribuita dall’evangelista, l’episodio è importante per diversi motivi. Anzitutto, perché avviene in un contesto pienamente ebraico (la sinagoga). In secondo luogo, perché ci dimostra che Gesù era un ebreo osservante e praticante; le sue dispute con i Farisei rientrano, infatti, nel quadro di una prassi del tutto normale, visto che l’ebraismo del tempo era attraversato al suo interno da parecchie correnti in dialettica tra loro (Farisei, Sadducei, Zeloti, Esseni). In terzo luogo, perché rappresenta l’inizio della sua attività pubblica. In cosa consiste il nucleo fondamentale della predicazione dell’ebreo Gesù? «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino» (Matteo 4,17). Questa è la «buona notizia» (in greco euanghélion) a cui egli ispira il suo insegnamento, la sua predicazione e la sua attività di taumaturgo. Ma questa buona notizia ha come destinatari privilegiati non l’umanità in genere, bensì gli ebrei del suo tempo; ponendosi infatti nel solco di Isaia, Gesù valorizza due categorie tipicamente ebraiche: il profetismo e la tradizione sapienziale. Di conseguenza Gesù non intende fondare nessuna religione alternativa o superiore all’ebraismo. Rivolge, dall’interno, un appello all’ebraismo del suo tempo in vista di un suo rinnovamento, senza però mai rinnegarlo, visto che il Dio di cui parla è lo stesso di cui parlavano i suoi correligionari. Gesù dunque non parte dall’ebraismo per uscirne e proporre un modello alternativo (una nuova religione), ma per ritornare ad esso in ciò che possiede di più autentico.

L’iniziatore: Gesù e l’ebraismo

8

Anche i discepoli erano pienamente ebrei come il loro rabbi («maestro»), cresciuti anch’essi nell’ascolto e nell’ interpretazione della Torah («insegnamento»); dopo essersi ripresi dall’iniziale senso di fallimento causato dalla ignominiosa morte del maestro, operarono, sempre dall’interno dell’ ebraismo, un rovesciamento significativo: mentre Gesù predicò la prossimità del Regno, essi predicarono la persona di Gesù, riconosciuto come il messia (dall’ebraico mashiah, «unto») annunziato dai profeti. I discepoli non predicarono una dottrina, ma una persona. Lo dice bene Paolo: «Noi predichiamo Cristo, potenza di Dio e sapienza di Dio» (I lettera ai Corinzi, 1,24). La buona notizia non è più che il Regno è vicino, ma che il Cristo è il realizzatore del Regno, l’inizio di una nuova era. Questo rovesciamento è determinante, perché affermare Gesù, in quanto Cristo (in greco christòs, «unto»), come nuovo inizio significa vedere in lui il compimento della Promessa, significa rileggere la Torah con occhi nuovi, cioè vedere, in essa, una funzione di annuncio e, in Cristo, la realizzazione di quell’annuncio. È per questo che Giovanni, all’inizio del suo Vangelo, dice: «il lógos è diventato carne» (1,14). Nel prologo di Giovanni, che è una rilettura del prologo del libro della Genesi, un nuovo e definitivo inizio supera il primo inizio. In questo modo Gesù, il Cristo, diventa l’inizio di tutti gli inizi: in lui inizio e fine coincidono, egli è l’alfa e l’omega. Predicare Cristo come il compimento implica quindi tre conseguenze: anzitutto, che la Torah e i profeti vengono interpretati come annunciatori del Cristo (fenomeno dell’adempimento: il Nuovo Testamento compie l’Antico); in secondo luogo, che il popolo ebraico assume una funzione preparatoria e provvisoria (fenomeno della sostituzione: i cristiani sono il nuovo Israele); infine, che l’annuncio cristiano (kérygma) riguarda tutti gli uomini di buona volontà e quindi esce dai confini della Palestina per cominciare il suo viaggio all’interno della cultura ellenistico-romana (fenomeno della missione: tre vangeli su quattro terminano con l’invio dei discepoli).

I continuatori: Cristo come nuovo inizio

1.2

Cristianesimo e filosofia ellenistica Svincolatosi progressivamente dalla sua originaria matrice ebraica, già con Paolo il movimento cristiano fa il suo ingresso in un mondo imbevuto di cultura ellenistica (vd. scheda sul discorso di Paolo ad Atene, p. 9). Il greco diventa la lingua della predicazione e della scrittura (il Nuovo Testamento è scritto tutto in greco). Dal momento, però, che parlare in una certa lingua significa anche acquisire gli schemi mentali che quella lingua veicola, il cristianesimo ridefinisce la propria identità a partire dalla categoria della ‘filosofia’ (sophía). Parlare in greco significa pensare in greco. Ciò non sarà senza conseguenze, perché, a contatto con la filosofia greca, il cristianesimo si struttura in dottrina. La fede ha un contenuto e questo contenuto non più tanto una persona (il Cristo), ma una dottrina. Non a caso, nelle comunità cristiane di lingua greca comincia a farsi strada la figura del didáskalos, colui che ha il compito di insegnare e farsi garante dell’ortodossia (dal greco «retta dottrina»).

Il cristianesimo si struttura in dottrina

Sono due le fasi di questo movimento di inculturazione. Nella prima, il messaggio cristiano fa propria la pluralità delle scuole di pensiero (hairéseis, dal greco haíresis, «scelta») che caratterizzavano il contesto culturale ellenistico. Ne conseguono, da parte pagana, la percezione del cristianesimo come uno dei tanti culti orientali (anche se molto più pericoloso, come si vedrà nel capitolo seguente; vd. p. 14), e, da parte cristiana, la configurazione di una sorta di plurali-

Dal pluralismo al monolitismo dottrinale

9

smo dottrinale in cui, in assenza di una gerarchia normalizzatrice, hanno libero corso posizioni diverse (si pensi soltanto alle varie scuole gnostiche) che danno vita a dibattiti e discussioni. A questa fase espansiva ne segue una di ripiegamento: per effetto di un curioso slittamento semantico, la haíresis, intesa come opzione dottrinaria, viene ridotta al rango di ‘eresia’. Al pluralismo dottrinale succede il monolitismo. Comincia a farsi strada la divaricazione tra una ortodossia sempre più vincente e una eterodossia sempre più minoritaria, anche se per assistere al trionfo della prima sulla seconda bisognerà aspettare la stagione dei concili, dal IV secolo in poi (vd. pp. 18 e ss.). Ripensatosi, dunque, in termini di filosofia, il movimento cristiano si presenta come unica e sola filosofia. La fede finisce per coincidere con la filosofia.

1.3

Cristianesimo e religione romana Man mano che si diffonde nella sfera culturale romama, il cristianesimo è costretto a confrontarsi con una realtà nuova, dalla quale uscirà in qualche modo trasformato. Il concetto di religione, intesa come appartenenza ad una collettività sociale e politica, è un prodotto romano, tanto che l’essere religiosus e l’essere romanus si identificavano. I Romani, infatti, amavano definirsi religiosissimi mortales (cfr., per esempio, Sallustio, De Catiliniae coniuratione 12). In un passo del De natura deorum (II 28, 71), Cicerone afferma: maiores nostri superstitionem a religione separaverunt («i nostri antenati hanno distinto la superstizione dalla religione»). La distinzione tra religio e superstitio è centrale per comprendere l’approccio romano. La religio, lungi dall’essere un insieme codificato di dottrine o di norme morali cui si chiedeva un’adesione intellettuale o interiore, possiede una valenza socio-politica: il culto è funzionale non alla salvezza del singolo, ma alla salvezza della civitas e dei suoi rappresentanti. Ciò che non rientra in questi confini è superstitio, termine con il quale si indicano culti estranei alla civitas, da estirpare non a priori, ma solo nel momento in cui vengono percepiti come sovvertitori della legittimità delle strutture politiche.

Religio e superstitio

Precocemente avvertito come superstitio da autori come Tacito (exitiabilis superstitio: Annales XV 44, 2), Plinio il Giovane (superstitionem pravam et immodicam: Epistula X 96, 8) e Svetonio (superstitionis novae ac maleficae: Vita Neronis 16, 2), il cristianesimo di lingua latina fa proprio, in prima battuta, un atteggiamento difensivo, cercando di confutare le accuse di cui era oggetto. Sennonché, la difesa si trasforma ben presto in rilancio. Sarà Tertulliano, infatti, alla fine del II secolo, a capovolgere i termini della questione: nella sua opera più famosa, l’Apologeticum, non solo dimostra che il cristianesimo non può essere descritto come superstitio, ma addirittura, grazie ad un ribaltamento semantico e concettuale, dichiara che il movimento cristiano può legittimamente essere definito religio, anzi vera religio, contrapposta quindi alla romana religio, considerata superstitio. Declassando, perciò, la religio romana a superstitio e sostituendosi ad essa quale vera religio, il cristianesimo si propone come superamento del paganesimo, sia in termini di adesione personale al credo religioso sia in termini di contenuto ‘razionale’: se la verità della dottrina cristiana è frutto della rivelazione del vero Dio, la mitologia pagana non può che presentare un deficit filosofico-teologico (in questo senso è superstitio). Contemporaneamente, però, prendendo il posto della religio romana come vera religio,

Il cristianesimo come vera religio

10

L’apostolo Paolo ad Atene: il «Dio ignoto» (ágnostos Theós)

L

’intera opera di Luca (Vangelo e Atti gli apostoli) deve essere compresa alla luce del concetto di ‘cammino’: il messaggio cristiano, prefigurato dai profeti (l’ultimo dei quali è Giovanni il battezzatore), varca i confini della Palestina per diffondersi nell’ecumene pagana. L’incontroscontro avviene, significativamente, ad Atene, in un contesto caratterizzato da una forte ricerca del divino, e ha come protagonista assoluto l’apostolo Paolo. Egli, giunto ad Atene nel corso del suo secondo viaggio missionario, tiene il famoso discorso dell’Areòpago, in cui annuncia ai sapienti ateniesi che il “Dio ignoto” è il Dio creatore e giudice della rivelazione biblica. L’episodio è significativo in quanto testimonia il processo di penetrazione del cristianesimo all’interno della cultura ellenistica. Atti degli Apostoli 17, 15-34 Quelli che accompagnavano Paolo, lo condussero fino ad Atene, e, ricevuto l’ordine di dire a Sila e a Timoteo che quanto prima si recassero da lui, se ne tornarono indietro. Mentre Paolo li aspettava ad Atene, lo spirito gli s’inacerbiva dentro nel vedere la città piena di idoli. Frattanto discorreva nella sinagoga con i Giudei e con le persone pie; e sulla piazza, ogni giorno, con quelli che vi si trovavano. E anche alcuni filosofi epicurei e stoici conversavano con lui. Alcuni dicevano: «Che cosa dice questo ciarlatano?» E altri: «Egli sembra essere un predicatore di divinità straniere»; perché annunziava Gesù e la risurrezione. Presolo con sé, lo condussero su nell’Areòpago, dicendo: «Potremmo sapere quale sia questa nuova dottrina che tu proponi? Poiché tu ci fai sentire cose strane. Noi vorremmo dunque sapere che cosa vogliono dire queste cose». Or tutti gli Ateniesi e i residenti stranieri non passavano il loro tempo in altro modo che a dire o ad ascoltare novità. E Paolo, stando in piedi in mezzo all’Areòpago, disse: «Ateniesi, vedo che sotto ogni aspetto siete 1 estremamente religiosi . Poiché, passando, e osservando gli oggetti del vostro culto, ho trovato anche un altare sul quale era scritto: Al dio sconosciuto. Orbene, ciò che voi adorate senza conoscerlo, io ve lo annunzio. Il Dio che ha fatto il mondo e tutte le cose che sono in esso, essendo Signore del cielo e della terra, non abita in templi costruiti da mani d’uomo; e non è servito dalle mani dell' uomo, come se avesse bisogno di qualcosa; lui, che dà a tutti la vita, il respiro e ogni cosa. Egli ha tratto da uno solo tutte le nazioni degli uomini perché abitino su tutta la faccia della terra, avendo determinato le epoche loro assegnate, e i confini della loro abitazione, affinché cerchino Dio, se mai giungano a trovarlo, come a tastoni, benché egli non sia lontano da ciascuno di noi. Difatti, in lui viviamo, ci moviamo, e siamo, come anche alcuni vostri poeti hanno detto: "Poiché siamo anche sua 2 discendenza" . Essendo dunque discendenza di Dio, non dobbiamo credere che la divinità sia simile a oro, ad argento, o a pietra scolpita dall’arte e dall’immaginazione umana. Dio dunque, passando sopra i tempi dell’ignoranza, ora comanda agli uomini che tutti, in ogni luogo, si ravvedano, perché ha fissato un giorno, nel quale giudicherà il mondo con giustizia per mezzo dell’uomo che egli ha stabilito, e ne ha dato sicura prova a tutti, risuscitandolo dai morti». Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni se ne beffavano; e altri dicevano: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta». Così Paolo uscì di mezzo a loro. Ma alcuni si unirono a lui e credettero; tra i quali anche Dionisio l’areopagita, una donna chiamata Damaris, e altri con loro. 1

Nel testo greco il termine è deisidaimonestérous, da deído, «temere» e daímon, «divinità». La citazione è tratta da un passo dei Phainomena di Arato di Soli (315/305-240 a.C. ca.) e dall’Inno a Zeus del filosofo stoico Cleante (304-233 a.C.). 2

L’esordio della predicazione di Paolo nel mondo ellenistico si risolve in una sconfitta: gli ateniesi, cortesemente ma con fermezza, gli fanno capire che i suoi discorsi non hanno futuro, privi come sono della raffinata eloquenza che avrebbe dovuto attestarne l’efficacia argomentativa. Eppure questo è, secondo il racconto degli Atti degli apostoli, l'unico caso in cui Paolo non esita a servirsi della sapienza profana per combattere il paganesimo. Del resto, nella capitale della cultura ellenistica non avrebbe potuto fare diversamente. Proprio in un contesto segnato da un evidente pluralismo cultural-religioso e al cospetto dell’élite intellettuale ateniese, Paolo ritiene di dover illustrare la profonda distanza tra il monoteismo ebraico-cristiano e il politeismo pagano: la proliferazione delle più disparate divinità, con le rispettive rappresentazioni, si scontra con un Dio che, in quanto libero dalla necessità di un culto esteriore, a sua volta libera gli esseri umani dalla necessità di adorarlo. C’è qui l’essenza della predicazione paolina, tutta centrata sul tema della libertà del cristiano.

11

il cristianesimo finisce per assimilarne la logica interna, trasformandosi in religione civile, politica, identitaria. Così, per esempio, il Christianus sum pronunciato dai martiri cristiani di fronte ai tribunali romani si sovrappone al civis romanus sum, mantenendone inalterata però la funzione giuridica: la vera religio fa sì che il civis si identifichi con il Christianus. Si potrebbe quindi affermare che la cristianizzazione della romanità determina la romanizzazione della cristianità. Ripensatosi in termini di religione, il movimento cristiano si presenta come unica e sola religione. La fede finisce per coincidere con la religione.

1.4

Sociologia del cristianesimo primitivo Il cristianesimo si è sviluppato in un arco di tempo così breve e in uno spazio geografico così vasto per precise ragioni spirituali e materiali. Il vettore spirituale è rappresentato dal fatto che il messaggio cristiano si incontra con una sete di spiritualità molto sentita e generalizzata in età imperiale. Il ‘mercato religioso’ ellenistico-romano, infatti, risultava assai fiorente: predicatori, guaritori, maghi, religioni misteriche, esperienze estatiche facevano parte del panorama multireligioso del tempo. Niente di strano allora che, in un mondo saturo di religiosità, il cristianesimo venga percepito o come una variante dell’ebraismo o come uno dei tanti culti misterici diffusi all’epoca (l’identificazione tra Gesù e Mitra non era infrequente: vd. scheda Religioni misteriche e cristianesimo a p. 13). Il vettore materiale è triplice. Il messaggio cristiano si diffonde, dapprima, seguendo la fitta rete delle sinagoghe ellenistiche presenti nelle più importanti città dell’impero (si sa, per esempio, che il cristianesimo giunse più tardi proprio nei territori non segnati dalla presenza ebraica); in secondo luogo, grazie al medium librario (utilizzo del più comodo e resistente codice rispetto al più fragile e limitato rotolo) e linguistico (iniziano le traduzioni nelle lingue locali del Nuovo Testamento scritto in greco); infine, grazie alla rete stradale romana, che consentì ai predicatori itineranti di coprire in breve tempo il vasto territorio imperiale.

La diffusione del messaggio cristiano

In uno dei testi più antichi del cristianesimo primitivo, la Lettera a Diogneto (un breve trattato apologetico scritta in greco verso la metà IIdel II sec.), si possono leggere queste considerazioni: «I cristiani né per regione, né per voce, né per costumi sono da distinguere dagli altri uomini. Infatti, non abitano città proprie, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. […] Vivono nella loro patria, ma come forestieri, partecipano a tutto come cittadini e da tutto sono staccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera» (V 1-5; trad. A. Quacquarelli). ‘Eccentrica normalità’ si potrebbe definire questo quadro. Ma qui è possibile, sia pure con molta cautela, individuare anche una sorta di rappresentazione sociologica del primo cristianesimo, tenendo presente che il cristianesimo precostantiniano, pur partendo da un nucleo centrale di fede condivisa, è piuttosto variegato sia a livello dottrinale sia a livello strutturale. Sarebbe quindi più corretto parlare di cristianesimi.

L’‘eccentrica normalità’ dei cristiani

Il messaggio cristiano, di fatto, non si caratterizzò né venne avvertito come una rivoluzione di carattere sociale (il brano di Diogneto citato sopra lo dimostra chiaramente). Dunque, i primi convertiti non appar-

La composizione sociale delle prime comunità

12

tenevano agli strati più bassi della società e la presenza di schiavi era molto limitata. Dal punto di vista sociologico, e per almeno i primi tre secoli, il cristianesimo si presentò sulla scena come fenomeno prevalente urbano, con scarsa penetrazione in ambiente rurale. Il nucleo sociale più consistente delle comunità vede la presenza di quello che si potrebbe definire ‘ceto medio’: persone libere, dotate di qualche proprietà, lavoratori salariati e artigiani. Solo a partire dal III secolo si assiste a una maggiore articolazione sociale delle comunità cristiane con la presenza di esponenti delle classi medio-alte. Certo, esistevano eccezioni. Alcune fonti cristiane (Ireneo, Tertulliano, Dionigi di Alessandria) parlano dell’adesione al messaggio cristiano da parte di schiavi, liberti imperiali, esponenti politici di alto rango, senatori, addirittura di persone appartenenti all’entourage dell’imperatore. Si tratta però di testimonianze spesso controverse o tendenziose. Rimane il fatto che, almeno sino alla svolta operata dall’imperatore Costantino (313), non si può parlare di un cristianesimo di massa né di societas Christiana. Il cammino che ha condotto il movimento cristiano a dotarsi di una organizzazione interna non è stato lineare. Volendo ridurre il discorso al suo nucleo centrale, ci si potrebbe concentrare su due aspetti: il carattere delle comunità cristiane e la modalità di governo delle stesse. Fin dall’inizio la comunità cristiana si percepisce come ekklesía (in greco «assemblea»): il termine, mutuato dal contesto ellenistico, non identifica una comunità di tipo socioculturale, bensì una comunità di tipo cultuale («assemblea di fedeli»); in essa ci si incontra per celebrare il battesimo e la cena del Signore, due azioni che possiedono, nel contempo, una funzione di pro-memoria dell’azione salvifica del Maestro («Fate questo in memoria di me»: I lettera ai Corinzi 11, 24-25) e una funzione di natura identitaria (si entra a far parte di un gruppo e si prova un senso di appartenenza). Anche se le pratiche liturgiche variavano a livello locale, questa modalità organizzativa rimase il tratto caratterizzante. Per quanto concerne poi il governo dell’ekklesía, emergono sostanzialmente due modelli ecclesiali: un modello carismatico, di matrice paolina, che vede alla guida della comunità persone la cui legittimazione è di natura spirituale (il kárisma, «dono», dello Spirito), e un modello autoritativo, che ha al suo centro la figura dell’epískopos (lett. «sorvegliante», da cui «vescovo»), nella sua funzione di garante della saldezza dottrinale e della coesione comunitaria.

L’organizzazione interna del movimento cristiano

1.5

Cristianesimo e società romana A ben guardare il culto cristiano, fatto di esclusività, segretezza e simbolismo rituale, non era molto diverso da quello di altre espressioni religiose del tempo (in particolare delle religioni misteriche). Ciò che ai Romani risultava incomprensibile era l’interiorizzazione del culto e lo stretto legame tra culto e scelte etiche. Mentre infatti il culto romano era eminentemente un atto ‘pubblico’ cui non era richiesta una particolare adesione interiore, quello cristiano era un atto ‘domestico’, non solo perché si svolgeva in case private (questo però solo fino al III sec.), ma soprattutto perché faceva appello al rinnovamento interiore dell’essere umano nella sua integralità. Da qui l’unione tra culto e comportamenti concreti: la scelta in favore dei poveri, la condivisione dei beni, la fedeltà coniugale, l’onestà negli affari, la mansuetudine nei rapporti sociali erano tutti atteggiamenti che avevano la loro radice nella liturgia

Culto e morale

13

comunitaria, nella quale il riferimento alla vita, alla morte e alla risurrezione di Cristo era centrale. Anche il rifiuto di sacrificare all’imperatore e alle divinità ad esso collegate aveva una motivazione religiosa e delle conseguenze sociali. Negare l’esistenza degli dèi tradizionali e classificarli come demoni malvagi significava, per i romani, fare professione di a-teismo. Opporsi al culto dell’imperatore, considerato indegno di un’adorazione che andava invece rivolta all’unica e vera divinità, significava attentare alla sicurezza dell’impero e quindi del intero corpus sociale. Le accuse di crimini contro la società, di lesa maestà e di ateismo erano la diretta conseguenza di una posizione che, nella comprensione cristiana, non aveva nulla di ‘anarchico’, ma che si poneva in modo coerente con una opzione di fede.

L’‘ateismo’ cristiano e le sue conseguenze sociali

Fatta salva l’inaccettabilità del culto rivolto all’imperatore, i cristiani non erano pregiudizialmente ostili alla partecipazione politica. La linea di condotta, al di là delle differenti sottolineature, rimane sostanzialmente quella tracciata dagli scritti del Nuovo Testamento da cui risultano due atteggiamenti di fondo: mentre si riconosce la legittimità del potere («…non vi è autorità se non da Dio e le autorità che esistono, sono stabilite da Dio»: Lettera ai Romani 13, 1), si sottolinea come ci debba essere distinzione tra sfera religiosa e sfera politica (cfr. Marco 12, 17). Sulla base della sollecitazione neotestamentaria, i primi cristiani, da un lato desacralizzano il potere, opponendosi ad un’istituzione politica che abbia pretese totalitarie, dall’altro reclamano l’autonomia della coscienza individuale, distinguendo tra la doverosa obbedienza alle leggi e la sottomissione muta ad un potere tirannico e ingiusto.

La partecipazione politica

Tema molto trattato dagli scritti biblici, il rapporto tra ricchezza e povertà acquista una particolare importanza nel cristianesimo primitivo. L’esegesi dei testi neotestamentari, in particolare dell’episodio del giovane ricco (Marco 10, 17-31 e paralleli), conduce le comunità cristiane a due prospettive complementari in relazione al buon uso delle ricchezze. Negli ambienti più rigoristi (attivi soprattutto nel II sec.) prevale una visione ascetica e escatologica che spinge alla rinuncia radicale alle ricchezze e a un’esistenza improntata alla povertà evangelica (da questo filone prenderà il via nel III-IV secolo l’esperienza monastica). Alla linea rigorista si sovrappone ben presto una prospettiva di tipo socio-assistenziale che sottolinea la necessità di un’equa distribuzione delle ricchezze all’interno della comunità dei credenti (si veda in particolare il Pastore di Erma, la Didaché, Cipriano e Clemente Alessandrino). Come la politica, insomma, anche le ricchezze non sono né un bene né un male. La discriminante è legata all’uso che se ne fa.

L’uso delle ricchezze

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Religioni misteriche e cristianesimo La diffusione dei culti misterici. Nell’opinione corrente il cristianesimo ha avuto successo in quanto era in grado di rispondere alle grandi domande poste dall’individuo, a differenza della religione romana che appiattiva le esigenze del singolo su quelle della civitas. Le cose non stanno proprio così, se si considera che, soprattutto in età imperiale, accanto alla religione ufficiale, conviveva, senza molte contraddizioni, una miriade di culti chiamati misterici. Il termine indica un insieme di espressioni religiose in grado di svelare, ad un ristretto gruppo di iniziati (mýstes), il disegno del dio e il destino dell’individuo. In un contesto caratterizzato da un esasperato cosmopolitismo sincretista, da un senso di disorientamento, al tempo stesso sociale e spirituale, dalla sempre più evidente crisi della pax romana, si assiste alla diffusione di culti misterici di origine perlopiù orientale: Iside (dall’Egitto), Mitra (dalla Persia), Attis e Cibele (dalla Frigia). In una simile realtà il cristianesimo primitivo è stato avvertito da molti come uno dei tanti culti misterici. In effetti, religioni misteriche e cristianesimo condividevano un indubbio nucleo dottrinario e cultuale: l’idea della rivelazione, la figliolanza divina, un rapporto di ‘fratellanza’ tra appartenenti al gruppo, la prassi dell’iniziazione (non a caso il percorso iniziatico veniva chiamato mystagogía dai cristiani di lingua greca), la presenza di specialisti del sacro, la prospettiva ultraterrena, l’indicibilità del divino. Analogie tra mitraismo e cristianesimo. Fu proprio una di queste religioni misteriche, il mitraismo, a diventare il più serio concorrente del cristianesimo. Le analogie tra Mitra e Gesù Cristo non mancano di sorprendere: la nascita virginale, i dodici seguaci, i miracoli, il fatto di essere nato il 25 dicembre, la morte e la risurrezione, i miracoli. Anche il luogo di culto (chiamato mitreo) e la cerimonia iniziatica presentano elementi analoghi alla liturgia cristiana: il pranzo rituale, con i commensali rivolti in direzione della statua di Mitra, l’uccisione rituale di un toro, la presenza di un altare, la consacrazione del pane e dell’acqua, il fatto che prima del pranzo si svolgeva una sorta di catechesi iniziatica, mentre in alcuni casi ci poteva essere anche un seppellimento rituale, simbolo della morte e della rinascita. Non è un caso quindi che due delle basiliche più note di Roma (San Clemente e Santa Prisca) siano sorte sopra un mitreo ancora oggi perfettamente conservato. Significativamente lo storico francese Ernest Renan (1823-1892) ha affermato: «Se il cristianesimo fosse stato bloccato nel suo sviluppo da una qualche malattia, il mondo sarebbe diventato mitraico».

Per approfondire Sulla nascita e l’evoluzione del cristianesimo si segnala in modo particolare lo studio di M. Sachot, La predicazione di Cristo. Genesi di una religione, Einaudi, Torino 1999 (ma il titolo originale è: L’invention du Christ), che ha il merito di presentare una prospettiva non tradizionale sulle origini cristiane. Importante anche il quadro storico tracciato da G. Filoramo – E. Lupieri – S. Prioco, Storia del cristianesimo. L’antichità, Laterza, Roma–Bari 1997. Sul cristianesimo delle origini, con particolare riferimento alla fede, al culto e all’ethos, si veda il recente studio di G. Theissen, La religione dei primi cristiani, Claudiana, Torino 2004. Il testo della Lettera a Diogneto si trova in: I Padri apostolici, a cura di A. Quacquarelli, Città Nuova, Roma 9 1998 , pp. 353-363. Sul rapporto tra cristianesimo e società romana, si veda il saggio di R. M. Grant, Cristianesimo primitivo e società, Paideia, Brescia 1987 e G. Filoramo – S. Roda, Cristianesimo e società antica, Laterza, Roma–Bari 1992 che presenta un’interessante antologia di testi pagani e cristiani. N.B. Tutti i passi biblici sono citati secondo la Versione Nuova Riveduta (Società Biblica di Ginevra 1994).

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2. Paganesimo e cristianesimo tra III e IV secolo

‘Gli ottant’anni che sconvolsero il mondo!’. Così si potrebbe definire l’arco di tempo che va dal 303 (ultima grande persecuzione contro i cristiani a opera di Diocleziano) al 380 (editto di Teodosio, con cui il cristianesimo è proclamato unica religione dell’impero) e che segna il trionfo del cristianesimo su un paganesimo destinato a sfaldarsi come un castello di sabbia travolto dall’onda cristiana. Questa immagine, tuttavia, è stata dipinta con pennelli e con colori cristiani: le testimonianze cristiane, infatti, più che una storia, tracciano una teologia della storia, tesa a mostrare come il conflitto paganesimocristianesimo fosse una battaglia celeste (cioè cosmico-spirituale) prima ancora che umana (cioè socio-politica). Il dato storico è questo: a partire dal IV secolo, il cristianesimo si dota di una solida politica ecclesiastica, culturale e sociale. Dapprima denigrata socialmente e culturalmente, la nuova religione assume su di sé la dimensione universale che il paganesimo non era più in grado di svolgere.

2.1

Follia versus razionalità: la reazione pagana al cristianesimo «I giudei chiedono un segno e i Greci cercano sapienza, ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che è scandalo per i Giudei e follia per i Greci». Con queste parole si apre la I lettera ai Corinzi (1, 2223) dell’apostolo Paolo, il quale sembra cogliere precocemente la dialettica sapienzafollia, che sarà il tratto distintivo della polemica anticristiana. In effetti, il paganesimo schiera le sue menti migliori per dimostrare come la figura di Gesù e l’annuncio cristiano rientrino nella categoria dell’irragionevolezza. È soprattutto dal IV secolo in poi che il cristianesimo ormai trionfante rovescerà sul paganesimo le stesse accuse di cui era stato oggetto; sarà in particolare Agostino, come si vedrà (vd. pp. 22 ss.), a decretare in modo definitivo l’inconsistenza delle critiche pagane. Nel corso del II secolo, le critiche anticristiane rientravano perlopiù nel quadro dei pregiudizi popolari, inutilmente ammantati da una patina di plausibilità: nel corso delle loro riunioni i cristiani si danno alla antropofagia e all’incesto, adorano una testa d’asino, si inchinano davanti ai genitali dei loro sacerdoti, provocano calamità naturali, compiono sortilegi di ogni sorta. A queste imputazioni, che spesso si traducevano in atti di aperta ostilità (vd. anche Fu vera persecuzione? p. 15), rispondono gli esponenti della cosiddetta prima apologetica latina, Tertulliano, Minucio Felice e Cipriano (II-III secolo), i quali dimostrano come le accuse mosse siano frutto di ignoranza e di malevolenza. A partire dalla fine del II secolo la situazione cambia. Sebbene i pregiudizi continuino a trovare ampio credito negli ambienti meni colti, sono gli intellettuali, soprattutto filosofi neoplatonici, custodi dei valori più autentici della grande tradizione di pensiero

Dai pregiudizi popolari alla confutazione degli intellettuali pagani

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Fu vera persecuzione?

P

er quale motivo i Romani, notoriamente tolleranti in campo religioso, perseguitarono i cristiani? Sulla base di quale fondamento giuridico? Sistematicamente o sporadicamente? Per rispondere a queste domande molto si è scritto e non è possibile in questa sede dare conto di tutte le voci che sono intervenute nel dibattito. Ci si limiterà dunque ad alcune puntualizzazioni. Anzitutto, bisogna sottolineare come il rapporto cristiani-pagani fino al IV secolo non possa essere ridotto ad una storia di persecuzioni, le quali peraltro non furono sistematiche né cronologicamente né geograficamente. Furono quattro gli episodi di maggiore intensità repressiva: le persecuzioni ordinate da Nerone (64), da Domiziano (96), da Decio (250) e da Domiziano (3003-305). Ad esse si devono aggiungere casi sporadici. L’immagine dei cristiani che vengono inviati a frotte in pasto alle fiere appartiene più a certe rappresentazioni cinematografiche o letterarie che non alla realtà storica. Ciò che invece emerge dalla ricerca storica degli ultimi anni è una dinamica complessa: le persecuzioni vanno inserite all’interno del contesto più generale e più sfaccettato dell’incontro-scontro tra paganesimo e cristianesimo. È importante chiedersi, in secondo luogo, se i cristiani venissero perseguitati sulla base di motivazioni religiose o politiche. Del cristianesimo i romani percepivano la valenza religiosa o quella politco-sociale? La domanda, che pure ha visto dividersi gli studiosi, è malposta, dal momento che, secondo la mentalità romana, religione e politica formavano un tutt’uno indissolubile: la persecuzione è stata sia religiosa sia politica, cioè religiosa in quanto politica. Non a caso, gli imperatori che si dimostrarono maggiormente ostili nei confronti dei cristiani furono quelli che, richiamandosi al mos maiorum, perseguivano un rinnovamento politico della compagine imperiale (Traiano, Adriano, Marco Aurelio, Diocleziano). C’è poi la questione dei fondamenti giuridici delle persecuzioni, ancor più importante laddove si consideri che il diritto romano non emetteva condanne a cuor leggero. Anche a questo proposito, sono state avanzate diverse ipotesi: c’è chi ha parlato dell’esistenza di una legge speciale (non confermata però dalle fonti), chi di operazioni fondate sul potere di coërcitio («coercizione») del magistrato, chi infine del fatto che i cristiani venivano condannati per reati comuni. Ciò che emerge con maggiore insistenza dalle fonti, e su cui concorda la maggior parte degli studi più recenti, è che i cristiani venivano denunciati (e spesso condannati) per il crimen nominis Christiani: questa era l’accusa con la quale qualche magistrato zelante cercava di rispondere ad un diffuso senso di disagio dell’opinione pubblica, che vedeva nel modus vivendi dei cristiani (rifiuto dell’impegno politico, della religio tradizionale e del culto imperiale) una minaccia costante alla unità sociale, istituzionale e morale dell’impero. In sostanza, veniva messa in moto la classica dinamica del capro espiatorio, come capisce bene Tertulliano, il più arguto e corrosivo rappresentante dell’apologetica latina, che in merito afferma (Apologeticum 40,1): «Se il Tevere straripa in città, se il Nilo non straripa nelle campagne, se il cielo è rimasto fermo, se la terra ha tremato, se c’è una sventura, un’epidemia, subito si grida “Christianos ad leonem”. Tanti cristiani per un solo leone? Io vi domando: prima di Tiberio, cioè prima della venuta di Cristo, quante disgrazie hanno colpito il mondo e la città?».

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ellenistico-romana, ad assumersi il ‘compito’ di dimostrare l’assurdità del movimento cristiano e del suo sistema teologico. Essi colgono benissimo il pericolo costituito dai cristiani, i quali, rifiutandosi di aderire al culto imperiale e degli déi e astenendosi dalla vita comunitaria, con tutte le conseguenze socio-politiche di tale atteggiamento, finiscono per introdurre nella compagine statale un elemento disgregatore e antisociale. Tra le varie voci intervenute nella polemica, le più significative sono quelle di Celso e Porfirio. Celso, autore dell’Alethès lógos («Discorso veritiero»), sarebbe probabilmente rimasto sconosciuto se l’apologista greco Origene (185-253 ca.) non avesse scritto un Contra Celsum grazie al quale è possibile ricostruire l’essenza delle accuse mosse al cristianesimo da questo filosofo vissuto nella seconda metà del II secolo. Celso è importante perché, lasciando da parte la polemica spicciola e un po’ pettegola, cerca di smontare il messaggio cristiano dall’interno, con argomentazioni solide. Il punto di partenza del suo ragionamento è che solo una tradizione secolare costituisce il fondamento e la veridicità (in greco alétheia, da cui l’aggettivo alethés) di ogni discorso (lógos) filosofico e teologico. Se solo ciò che antico è dotato di valore, che antichità può esibire il cristianesimo? Su quale tradizione si fonda? I suoi dogmi altro non sono altro che invenzioni recenti (quindi irrazionali), buoni solo per le «vecchiette» e gli incolti. Essendo irrazionale in quanto privo di tradizione, il cristianesimo, nova religio, non può pretendere di sostituirsi alla religione dei padri. Anche la mitologia cristiana, se rapportata a quella pagana, appare assurda e priva di significato. Come è possibile, per esempio, credere alla nascita verginale di Gesù? A proposito di questa Celso scrive:

Celso : contro una religione irrazionale e antisociale

Contra Celsum, I 28, trad. di G. Lanata

Di essere nato da una vergine, te lo sei inventato tu. Tu sei nato in un villaggio della Giudea da una donna del posto, una povera filatrice a giornata. Questa fu scacciata dal marito, di professione carpentiere, per comprovato adulterio. Ripudiata dal marito e ridotta a un ignominioso vagabondaggio, clandestinamente ti partorì da un soldato di nome Pantera.

Ma, oltre ad essere irrazionali e immodici (privi cioè di quella moderazione che era virtù tipica del filosofo), i cristiani sono giudicati asociali. Cosa c’è infatti di più antisociale del rifiuto di compiere sacrifici alle divinità cittadine e di prestare giuramento sull’effige dell’imperatore? La religione civile romana non poteva tollerare atti del genere senza scorgere in essi un attentato alla coesione sociale. E Celso coglie molto bene il carattere anarchico e sovversivo del cristianesimo. Qui non è più questione di comportamenti più o meno riprovevoli come l’adorazione della testa di asino. C’è qualcosa di più grave: opponendosi alla filosofia e alla tradizione, il cristianesimo rischia di sconvolgere quel secolare e condiviso sistema di valori che costituiva il cemento della società romana. Da qui la necessità di contrastarlo sul piano filosofico prima ancora che nelle aule dei tribunali. Nel 448 gli imperatori cristiani Valentiniano III e Teodosio II emano un editto nel quale ordinano, tra l’altro, di bruciare «tutte le opere di Porfirio» (Codex Iustinianus I 1,3). Questa decisione è significativa di come il cristianesimo posteriore abbia colto la pericolosità del Contra christianos di Porfirio, tanto che l’opera venne confutata dai migliori pensatori cristiani del IV secolo (Eusebio di Cesarea, Girolamo e Agostino, per non citare che i più noti). Effettivamente, questo allievo di Plotino, vissuto nella seconda metà del III secolo, in una temperie caratterizzata da una profonda crisi che investe tanto le realtà materiali quanto quelle immateriali, si assume un compito ambizioso: abbattere il cristianesimo dalle fon-

Porfirio: il contrasto tra fede e ragione

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damenta dimostrandone anch’egli l’intrinseca irrazionalità. Volendo utilizzare una terminologia moderna, si potrebbe dire che in Porfirio, forse per la prima volta, viene messo a tema il contrasto tra ragione (lógos) e fede (pístis). Esiste una chiara incompatibilità – dice Porfirio – tra la ragionevolezza della filosofia antica e l’irrazionalità del messaggio cristiano, per via del carattere popolare del suo apparato dottrinario che spinge a una superficiale credulità e per via del suo carattere di novità e perciò della sua mancanza di tradizione. Oltretutto, i cristiani sono atei in quanto rifiutano il culto tradizionale. Si chiede infatti Porfirio: Contra Christianos, fr. I, trad. di C. Mutti

Come potrebbero non essere empi e atei coloro che hanno abbandonato i patrii costumi, dai quali tutta la stirpe e tutto lo stato sono tenuti uniti? […] Di quale indulgenza dovranno essere ritenuti degni coloro che da sempre, presso ogni popolo, greco o barbaro, nelle città e nelle campagne, si sono tenuti lontani da templi, iniziazioni e misteri?

2.2 Cristianizzazione del mondo e mondanizzazione del cristianesimo Come è stato possibile che il cristianesimo, tacciato di insensatezza, abbia finito, nel giro di breve tempo, per decretare la ‘morte’ del paganesimo, morte avvenuta non per effetto di un omicidio, ma per consunzione interna? Certo, grazie alla capillare opera di predicazione, di apostolato, di testimonianza e, soprattutto, di radicamento nel tessuto culturale; ma l’elemento decisivo è da rintracciare nel fatto che il cristianesimo fornisce le risposte giuste ad un mondo che stava perdendo i suoi tradizionali punti di riferimento, religiosi e politici.

La ‘fine’ del paganesimo

Sul piano religioso, il cristianesimo sembra rispondere in modo più efficace rispetto al paganesimo alla domanda di sacro che si fa sempre più pressante a partire dalla crisi politica, economica, sociale e culturale che investì l’impero nel III secolo. In questa «epoca di angoscia» (E.R. Dodds) e di trasformazioni, la tradizione pagana non era più in grado di fornire le risposte morali e spirituali di cui una società sempre più smarrita aveva bisogno. Di conseguenza, proposito, è scorretto porre la questione in termini di scontro tra politeismo e monoteismo. La dialettica è piuttosto tra due tipologie di monoteismi: quello sincretista dei pagani (la molteplicità degli dèi è la manifestazione di un Dio unico, padre e signore) e quello assoluto dei cristiani (esiste un solo Dio, trascendente, rivelato dal Figlio). È quest’ultimo che, sia pure attraverso i meandri della coscienza umana, finisce per raccogliere i maggiori consensi. Più che di conversione al cristianesimo, si deve dunque parlare di una naturale evoluzione religiosa del paganesimo stesso verso un monoteismo esclusivista. Il capovolgimento dei rapporti operato da Costantino (280-337), che vede nel monoteismo assoluto dei cristiani l’adeguato fondamento della sua traballante monarchia – introducendo l’idea dell’imperatore per volontà di Dio –, rientra in questo ambito evolutivo.

Il cristianesimo come risposta religiosa

Sul piano politico, risulta di capitale importanza, in questo processo di mondanizzazione del cristianesimo, il ruolo svolto da Eusebio di Cesarea (265-340). Consigliere di Costantino e suo fin troppo entusiasta biografo, egli può essere considerato l’iniziatore di una vera e propria teologia politica, in quanto teorizza lo stretto legame tra ambito politico e ambito religioso. E ciò in due direzioni.

Il cristianesimo come risposta politica

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Da un lato, Eusebio (Vita di Costantino) definisce il ruolo dell’imperatore come luogotenente di Cristo. Il suo ragionamento si può così riassumere. C’è un unico Dio, creatore delle cose visibili e invisibili; quelle visibili le ha delegate al Lógos (Figlio) preesistente. Al momento dell’Incarnazione, il Lógos, a sua volta, delega il reggimento del mondo all’imperatore, che si trova quindi in una posizione di assoluto rilievo. Questo è il motivo per cui Costantino può definire se stesso epískopos tòn ektós (letteralmente: «vescovo di quelli di fuori»), cioè vescovo dei laici a cui compete il reggimento delle realtà secolari, mentre quelle spirituali sono di competenza del clero cristiano. Dall’altro lato, Eusebio dà inizio alla storia della chiesa (la sua opera più famosa è appunto la Storia ecclesiastica). Qui non si tratta soltanto di un genere letterario che, come si sa, ha avuto grande fortuna, ma del fatto che la chiesa entra nella storia fornendone il senso e la direzione: mentre Roma può esibire il suo passato (la tradizione, il mos maiorum) come criterio guida del suo presente, la chiesa vede in Cristo il Signore del tempo e della storia; il presente di Cristo è anticipato dal passato pagano, lo riscatta illuminandolo della sua vera luce e prepara un futuro escatologico universale. Tutto ciò non è senza conseguenze: la cronologia profana diventa cronologia sacra; il tempo circolare (la cui “figura” è Enea) cede il posto al tempo rettilineo (la cui “figura” è Cristo); la storia dell’umanità coincide con la storia della redenzione; all’ecumene pagana, insomma, si sovrappone l’ecumene cristiana.

2.3

La ‘svolta’ costantiniana La figura più rappresentativa di un mondo che si cristianizza mondanizzando il cristianesimo è quella di Costantino. Per quanto generazioni di storici si siano accanite intorno alla conversione al cristianesimo di questo imperatore – sincera o strumentale, precoce o tardiva –, resta il fatto che, una volta spogliata di tutto l’apparato agiografico di cui è stata rivestita, la scelta di Costantino risulta prettamente politica: ragionando da buon romano, egli capisce che per mantenere saldo l’impero è necessario mettersi sotto la protezione di un nuovo Dio. Per far funzionare il complesso motore dell’impero, Costantino ha bisogno di un nuovo carburante: cosa meglio dell’universalismo cristiano per supportare l’universalismo imperiale? Nessuna incoerenza e nessun opportunismo, dunque, ma anche – si badi bene – nessuna rivoluzione. Semplice pragmatismo politico. In questo senso vanno interpretate le sue scelte, dal cosiddetto Editto di Milano del 313 (che concede libertà di culto ai cristiani) alla convocazione del concilio di Nicea del 325 (che condanna l’eresia ariana che negava la divinità di Cristo): la sua è una politica religiosa (supportata dalla teologia politica di Eusebio; vd. sopra) che opera, comunque, in continuità con la tradizione romana. Allorché infatti interviene nelle dispute teologiche e nei problemi disciplinari delle chiese, Costantino si muove sia in qualità di magistrato, incaricato dell’ordine pubblico, sia in quanto pontifex maximus, responsabile della religio dei sudditi.

Il pragmatismo politico di Costantino

La svolta costantiniana conclude una fase e al tempo stesso ne apre una nuova del lento processo che ha condotto il cristianesimo da una posizione critica nei confronti della commistione tra politica e religione (all’insegna del «a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»: Marco 12, 17) a una posizione di garante delle scelte politiche, le quali hanno senso in quanto ispirate dall’alto. Comincia a farsi strada, come si diceva, una vera e propria teologia della storia.

Il cristianesimo a fondamento dell’ideologia imperiale

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La riflessione cristiana (sviluppata soprattutto da Eusebio e Lattanzio), infatti, vede in Costantino la confluenza di due storie: quella sacra e quella profana. Non è il cristianesimo che si assoggetta al saeculum, ma il saeculum che riconosce il cristianesimo, che cioè accoglie Cristo come Signore della storia. Si può quindi dire che, mentre l’impero entra nella storia della salvezza, il cristianesimo entra nell’ideologia imperiale, prendendo il posto di quella religio che assicura l’unità e la sopravvivenza dell’impero stesso. Non a caso, sarà proprio Costantino a superare la tetrarchia dioclezianea e a ricomporre l’unità imperiale. Il monoteismo assoluto si sposa con la monarchia assoluta. Il fatto che la tradizione cristiana (con Lattanzio ed Eusebio) collochi la conversione di Costantino alla vigilia della battaglia di Ponte Milvio del 28 ottobre 312 (e quindi prima dell’acquisizione del potere assoluto sull’impero), mentre quella pagana (con Eutropio) la retrodati collegandola alla vittoria sul rivale Licinio nel 324 (e quindi a seguito della riunificazione sotto di sé di tutto l’impero), non cambia i termini del problema. Costantino, infatti, assume il cristianesimo come collante dell’impero e il cristianesimo assume Costantino come testimone della propria verità. I rischi del cesaropapismo (l’ingerenza del potere politico sugli affari della chiesa) sono già evidenti: esso troverà terreno fertile soprattutto nella parte orientale dell’impero in cui «la basileia terrena è immagine del regno celeste e quindi il sovrano è immagine del Padre e vicario del Logos-Cristo re» (P. Siniscalco, Il cammino di Cristo, pg. 309); in Occidente, invece, cominciano a svilupparsi gli anticorpi dell’opposizione ecclesiastica al potere imperiale, che si esprimono attraverso due forme di contestazione: il monachesimo (rifiuto del saeculum, del mondo, alla ricerca di un più diretto contatto con Dio) e il ruolo sempre crescente della figura del vescovo, come dimostra lo scontro tra Ambrogio e Teodosio (vd. qui sotto Il vescovo e l’imperatore). Il vescovo e l’imperatore Quando il 27 febbraio del 380 l’imperatore Teodosio emana a Tessalonica il Cunctos populos (Codex Theodosianus XVI 1 ,2), editto con il quale il cristianesimo viene dichiarato religione ufficiale dell’impero, Ambrogio è vescovo di Milano da soli sette anni, ma già si appresta a diventare l’interlocutore privilegiato e scomodo dell’imperatore. Se Costantino aveva avuto in Eusebio di Cesarea la sua sponda ecclesiastica, Teodosio avrà in Ambrogio il mastino che si ribella al guinzaglio. Due gli episodi salienti. Nel 388 a Callinico in Siria, alcuni cristiani incendiarono la locale sinagoga; a seguito del fatto, Teodosio intimò al vescovo della città di far ricostruire l’edificio a sue spese. Qualche mese più tardi, Ambrogio scrisse una lettera di fuoco all’imperatore nella quale, in sostanza, accusava Teodosio di aver assunto un provvedimento teso a favorire una religione falsa (l’ebraismo). A ciò aggiunse una sorta di principio di reciprocità: se alcuni ebrei, soprattutto durante l’impero di Giuliano, avevano incendiato delle chiese cristiane senza doverne pagare i danni, per quale motivo si chiedeva di farlo ai cristiani? Si domanda infatti Ambrogio: Ecclesia non vindicata est, vindicabitur sinagoga? (Lettera XIV15). Il secondo episodio si verificò due anni più tardi. A seguito di disordini scoppiati a Tessalonica, alcuni cittadini avevano ucciso il comandante delle truppe dell’Illirico, colpevole, a loro dire, di aver condannato a morte un auriga loro beniamino. L’imperatore decise di usare il pugno di ferro e ordinò alle truppe dei goti di intervenire, provocando così una strage della cittadinanza. Venutone a conoscenza, Ambrogio non esitò a minacciare la scomunica dell’imperatore, ammettendolo ai sacramenti solo dopo una pubblica richiesta di perdono. Come giudicare questi episodi nei quali un vescovo fa valere la propria autorità nei confronti dell’imperatore? Più che espressione di un potere teocratico, gli interventi di Ambrogio mirano alla distinzione dei ruoli: l’imperatore non può intervenire nelle faccende della chiesa, come la chiesa non deve interferire nelle faccende politiche. Tuttavia, dal momento che Imperator intra ecclesiam, non supra ecclesiam est (Ambrogio, Sermo contra Auxentium, 36) , egli deve, da un lato, conformare la propria azione ai principi morali del cristianesimo, e, dall’altro, tutelare la libertà di apostolato. In questo senso, Ambrogio attribuisce al vescovo una funzione di guida morale, anche nei confronti della massima autorità politica. Posizione chiara sul piano teorico, ma destinata a generare frizioni sul piano pratico.

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2.4

Tolleranza e libertà religiosa

Esclusivismo monoteistico cristiano e sincretismo pagano I Romani erano convinti che,

essendo tutti gli esseri umani dipendenti dagli dèi, la sicurezza del singolo e la saldezza dello stato (pax publica) dipendesse dalla capacità di mantenere un buon rapporto con le divinità (pax deorum). Pertanto, una volta che fosse garantita la pax deorum, essi non avevano problemi ad accogliere culti ed espressioni religiose diverse. Del resto, anche il riconoscimento del cristianesimo rientra in questo quadro. È importante tenerlo presente per evitare il rischio di definire tolleranza (concetto moderno, non certo antico) ciò che è invece sincretismo. In questo senso, i Romani erano ‘tolleranti’ in quanto sincretisti. Ma cosa avviene allorché l’esclusivismo monoteistico cristiano si scontra con il sincretismo pagano? Poteva il cristianesimo accettare di essere posto sullo stesso piano di altre forme religiose, rischio tutt’altro che remoto a seguito del suo riconoscimento da parte dell’establishment politico in forza dell’editto di Costantino? Effettivamente, se fino al III secolo, il cristianesimo, ancora minoritario e messo ai margini, rivendica la libertà, a partire dal IV, esso, divenuto maggioritario e accettato, rivendica la verità. In questa nuova situazione, la verità può dare spazio alla tolleranza? E come praticare la tolleranza senza rinunciare alla verità? In breve: come conciliare libertà e verità? Ecco allora che lo scontro fu epocale. E ne è chiara testimonianza la disputa relativa all’altare della Vittoria, l’emblema dell’estremo conflitto ideologico tra paganesimo e cristianesimo rappresentati l’uno dall’insigne esponente dell’aristocrazia pagana e l’altro dal vescovo Ambrogio. Nel 382 l’imperatore Graziano, di fede cristiana, decide di far rimuovere dall’aula della Curia romana uno dei simboli più antichi ed solenni del paganesimo, cioè l’Altare della Vittoria, che era stato fatto collocare lì nel lontano 29 a.C. da Ottaviano Augusto. Due anni dopo, Simmaco, lo stesso che aveva raccomandato Agostino ad Ambrogio per l’incarico di insegnante di retorica a Milano (cfr. Confessiones V 13, 23), in qualità di praefectus urbis Romae, indirizza al nuovo imperatore, l’appena dodicenne Valentiniano II, una accorata supplica (Relatio III) nella quale chiede il ripristino del monumento. Si scatena, in questo modo, una diatriba appassionante e feroce come tutte le battaglie in difesa di simboli identitari. Essa è efficace indice del clima che si respirava all’epoca, con i perseguitati di ieri che sembravano essere diventati i persecutori di oggi: da un lato i pagani che difendono strenuamente la tradizione di Roma, la fede e il culto dei padri, e dall’altro i cristiani che, forti ormai dell’ufficializzazione imperiale, sostengono la novità del cristianesimo, prospettando l’inarrestabilità del processo evolutivo portato da Cristo nella storia. Il ragionamento di Simmaco si potrebbe racchiudere in una sua celebre affermazione: Uno itinere non potest perveniri ad tam grande secretum («Non si può giungere ad un segreto così grande per una sola strada»: Relatio III 10). Se letta in modo superficiale, la frase potrebbe essere vista come una modernissima espressione di tolleranza religiosa: in forza del principio per cui la verità e il divino si possono raggiungere attraverso strade diverse, i cristiani non possono pretendere di aver l’esclusiva della vera religione e dei simboli che la rappresentano. In realtà – e non può essere diversamente – Simmaco continua a ragionare da buon romano e da buon neoplatonico: del primo condivide l’ideale della pax deorum, per cui privare la religione tradizionale di uno dei suoi simboli significa attentare alla compattezza politica dell’impero e attirarsi l’ira divina sottoforma di calamità varie (il tema è tradizionale); del secondo condivide l’idea che la verità si raggiunge solo attraverso una pluralità di vie, cioè attraverso il sincretismo religioso. Ebbene, ad

La posizione di Simmaco

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un cristiano abituato a sentir proclamare il principio dell’«Io sono la via, la verità, la vita» (Giovanni 14, 6), tutto ciò non poteva che apparire inaccettabile. Fine giurista oltre che raffinato teologo, Ambrogio coglie immediatamente l’aporia insita nel ragionamento di Simmaco e, nella sua puntuale replica (Epistulae XVII-XVIII), ne smonta le due argomentazioni centrali. Anzitutto, il paganesimo non può pretendere da un imperatore cristiano un gesto (la ricollocazione dell’Altare) che i cristiani non hanno mai preteso da imperatori pagani; questo in forza del principio per cui una religione non può invocare il sostegno dello stato per rafforzarsi, cosa che – sostiene Ambrogio – il cristianesimo si è sempre guardato bene dal fare. Se il paganesimo vuole avere visibilità, si dia da fare per ottenerla, ma senza invocare provvedimenti imperiali. In secondo luogo, Ambrogio non può accettare il relativismo religioso dei pagani: non è vero, come sostiene Simmaco, che sia impossibile giungere alla verità uno itinere. Se così fosse, verrebbe meno il nucleo stesso del monoteismo cristiano e si aprirebbe la strada all’indifferentismo. Se infatti il paganesimo si muove con incertezza nel tentativo di raggiungere il tam grande secretum, il cristianesimo, alla luce della rivelazione, è in grado di dare un nome e un corpo a questo secretum, cioè Gesù Cristo. Inutile sottolineare come queste affermazioni si situino su un crinale delicato. Bisogna però tener presente che il tema del rapporto tra libertà e verità è posto da Ambrogio in un periodo storico in cui, nel cristianesimo occidentale, va facendosi strada la sensazione sempre più netta che l’abbraccio troppo stretto del potere politico rischiava di soffocare l’autonomia della chiesa. Svincolarsi da questo abbraccio diventa sempre più urgente e la storia dei rapporti tra chiesa e potere politico nell’Occidente medievale lo dimostra.

La posizione di Ambrogio

Per approfondire Il tema del rapporto tra cristianesimo e cultura ellenistico-romana propone una bibliografia sterminata. Oltre ai classici E.R. Dodds, Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia, La Nuova Italia, Firenze 1998 (ed. or. inglese 1965) e A. Momigliano (a cura), Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, Einaudi, Torino 1968, si segnalano: R. Lane Fox, Pagani e cristiani nel mondo mediterraneo dal II secolo a Costantino, Laterza, Roma–Bari 1991; G. Filoramo – S. Roda, Cristianesimo e società antica, Laterza, 4 Roma–Bari 1992; P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero romano, Laterza, Roma–Bari 2000 (1 ed. 1983). I testi degli autori pagani sul cristianesimo sono raccolti in G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani. I: Quadro storico, II: Testi e Documenti, EDB, Bologna 1998 e in F. Ruggiero, La follia dei cristiani: la reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002. Per il testo di Celso, cfr. G. Lanata (a cura), Celso, Il discorso vero, Adelphi, Milano 1987; per quello di Porfirio, cfr. C. Mutti (a cura), Porfirio, Discorsi contro i cristiani, Edizioni AR, Padova 1977. In merito al rapporto tra cristianesimo e impero romano, nei suoi aspetti sociali, culturali e dottrinali, si vedano tra gli altri: P. Brown, Il sacro e l’autorità. La cristianizzazione del mondo romano antico, Donzelli, Roma 1996; A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Laterza, Roma–Bari 1999; E. Dal Covolo – R. Uglione (a cura), Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, LAS, Roma 2001. Sulla figura di Costantino e la sua politica religiosa è utile la lettura di A. Marcone, Pagano e cristiano. Vita e morte di Costantino, Laterza, Roma-Bari 2002 e di L. De Giovanni, L’imperatore Costantino e il mondo pagano, D’Auria, Napoli 2004. Per approfondire l’argomento sulle persecuzioni si vedano i seguenti studi: M. Sordi, I cristiani e l’impero romano, Jaka Book, Milano 1991; G. Jossa, I cristiani e l’impero romano da Tiberio a Marco Aurelio, Carocci, Roma 2001 (ed. or. 1991).

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1. Agostino tra paganesimo e cristianesimo

«Cerchiamo come se stessimo per trovare e troviamo come se stessimo per cercare. Infatti “quando l’uomo pensa di finire, allora comincia” (Siracide 18,6)». Con queste parole, tratte dal De Trinitate (IX 1,1), si potrebbe riassumere, a mo’ di epigrafe, l’esperienza umana, intelettuale e spirituale di Agostino, il pensatore che più di ogni altro ha lasciato la sua impronta non solo sul cristianesimo, ma sulla stessa forma mentis dell’Occidente. La sua riflessione, infatti, è frutto di una ininterrotta ricerca; anche dopo la tormentata adesione al cristianesimo, Agostino non abbandona né il senso della domanda né lo spirito della ricerca; anzi, introdurrà proprio questo spirito nel suo modo di intendere il cristianesimo, nella sua teologia e nella sua etica. Il suo è un pensiero dialettico. Passando infatti attraverso la filosofia neoplatonica, con la sua concezione del Dio unico e trascendente (vd. Agostino: biografia e pensiero p.25 e Spiritualità a confronto p. 41), Agostino giunge a riconoscere come specifico del cristianesimo la dialettica, già paolina, tra la trascendenza di Dio e il suo contemporaneo abbassamento in Cristo, a cui corrisponde la dialettica tra la bontà della creazione e la sua ambiguità, tra il desiderare il bene e lo scegliere il male. Distinguendo poi le due città (civitas Dei e civitas hominis), egli fornirà una risposta duratura al vuoto politico e culturale lasciato dalla caduta dell’impero. Mentre chiude i conti con l’antichità pagana e il suo enorme patrimonio, Agostino apre la strada a un nuovo cristianesimo. Per questo egli diventa il maestro dell’Occidente cristiano (il Medioevo lo chiamerà semplicemente Augustinus magister).

Spirito di ricerca e dialettica di pensiero in Agostino

La liberalizzazione del cristianesimo operata da Costantino e la sua erezione a religione ufficiale con Teodosio non coincisero con l’auspicata pacificazione religiosa e sociale: se infatti i cristiani non riuscivano a capire per quale motivo si potessero ancora tollerare le tracce, ben visibili, del culto pagano, i pagani, a loro volta, non potevano rassegnarsi a veder vilipeso un secolare patrimonio culturale da cui dipendeva la grandezza di Roma. Questo il quadro all’interno del quale si inserisce la figura di Agostino, il quale, quasi strappato a forza dalla sua intenzione di dedicarsi alla vita contemplativa, viene ordinato sacerdote e, nel 395, diventa vescovo di Ippona, in Africa. La geografia non è un dettaglio. La provincia proconsolare d’Africa è stata infatti una delle regioni dell’impero romano in cui il cristianesimo ha attecchito più precocemente e ha prodotto personalità di spicco. Qui aveva preso vita la grande stagione dell’apologetica (Minucio Felice e Tertulliano), qui erano state gettate le basi della teologia (lo stesso Tertulliano), qui la comunità dei credenti si era data solide forme organizzative (Cipriano), qui il sangue dei martiri era stato versato tanto quanto l’inchiostro dei pensatori, qui il paganesimo era stato interlocutore assiduo. Visti i precedenti, Agostino si è probabilmente sentito come il proverbiale nano sopra le spalle dei giganti, finendo altresì per riassumere e superare i precursori sino a giganteggiare a sua volta.

Il panaroma religioso, politico e culturale in cui opera

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Nel frattempo, comunque, il panorama era profondamente cambiato: da un lato, gli imperatori erano diventati cristiani, i provvedimenti legislativi contro i pagani rasentavano la discriminazione, i vescovi erano guide spirituali e punto di riferimento valoriale; dall’altro, il paganesimo continuava a rimanere il terreno da cui era spuntata la pianta cristiana, tanto che molti cristiani continuavano a pensare, ad agire e, in parte, a credere secondo schemi mentali e religiosi tipici della cultura ellenistico-romana. Non era infrequente, per esempio, vedere gli stessi cristiani partecipare alla liturgia e contemporaneamente agli spettacoli del circo. Di fronte a tutto ciò, Agostino prende atto e rilancia. Sulla scia di un Tertulliano (ma senza il suo impeto), egli è apologeta, ma anche costruttore di nuove sintesi teologiche, accusatore implacabile del paganesimo (da lui assorbito in tutte le sue componenti), ma anche consapevole dell’eredità culturale che esso stava lasciando. Il furore iconoclasta dei cristiani lo infastidiva tanto quanto la cecità dei pagani. È come se Agostino si fosse reso conto che non è possibile costruire il futuro senza fare i conti con il passato. La sua polemica si svolge quindi su due versanti, uno interno e uno esterno. Sul fronte interno, Agostino viene a contatto con le componenti eterodosse del cristianesimo con cui si pone in decisa opposizione. Innanzitutto, deve combattere un cristianesimo, soprattutto di marca popolare, ancora imbevuto di superstizione, di culti locali che risentono del sincretismo e dei resti paganeggianti. Ma c’è anche il cristianesimo rigorista dei seguaci del vescovo cartaginese Donato (270355ca.), che, dietro una posizione di intransigenza dottrinale e disciplinare, faticavano a dissimulare una miscela di nazionalismo punico e ansia di riscatto sociale per le classi umili. C’è il cristianesimo estremista e violento dei circoncellioni (da circum cellas, in quanto essi sostavano spesso intorno alle tombe), il braccio armato dei donatisti, gruppi di fanatici che si erano resi responsabili di scorrerie all’interno di chiese e dell’uccisione di preti. C’è infine il cristianesimo pelagiano (eresia che deriva il suo nome dal monaco britannico Pelagio, nato nel 354 ca. e morto dopo il 418) che rivendicava l’importanza della libertà umana nel raggiungimento della salvezza con conseguente svalutazione della Grazia divina. Contro tutti questi ‘cristianesimi’ Agostino farà sentire il peso il peso della propria autorità episcopale e la raffinatezza del proprio pensiero (si veda in particolare De baptismo e De gratia Christi et de peccato originali).

La polemica sul fronte interno

Sul fronte esterno, Agostino deve respingere accuse vecchie e nuove. Le prime vertono sulla presunta incompatibilità tra cristianesimo e i valori socio-politici della romanità. Su questo terreno si era già cimentato Tertulliano, il quale aveva liquidato la questione con un perentorio nec ulla magis res aliena quam publica («nessuna cosa ci è più estranea della cosa pubblica») (Apologeticum 38). A differenza del suo conterraneo, Agostino toglie il cristianesimo dalla sua marginalità e lo pone al centro della scena: non è più il paganesimo che definisce il cristianesimo, ma quest’ultimo che, in certo senso, indica la corretta chiave di lettura dell’altro. Se Tertulliano rifiuta la civitas, Agostino non si sottrae al confronto e la inserisce anzi in un progetto di rinnovamento etico (da questo punto di vista, il carteggio con Massimo di Madaura risulta oltremodo illuminante; vd. pp. 46 e ss.). Le nuove accuse sembrano anticipare la nota tesi di Edward Gibbon (espressa nella sua celebre opera History of the Decline and Fall of the Roman Empire, pubblicata a Londra tra il 1776 e il 1788): se l’edificio imperiale sta crollando, la colpa non può che essere

La polemica sul fronte esterno

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del cristianesimo. Agostino prende sul serio l’imputazione, leggendovi in filigrana lo scontro tra politeismo pagano – di fatto un monoteismo sincretistico, come si è detto – e monoteismo cristiano: l’impero crolla, sostiene Agostino, perché il pantheon romano è il regno della frammentarietà, del disordine religioso e morale. Sancendo l’esaurimento della cultura pagana, se ne sottolinea però anche la sua funzione anticipatoria; in questo senso, la civitas hominis non è antitetica alla civitas Dei, ma una sua preparazione. Prima ancora che il De civitate Dei, sono le Confessiones (vd. Confessiones: le novità di un genere p. 26) il testo in cui Agostino, alla luce della rivelazione, riesamina il proprio passato pagano, denunciandone i limiti, ma, al tempo stesso, facendo trasparire tra le righe il debito di riconoscenza per aver fornito gli strumenti espressivi (vale a dire il patrimonio stilistico-retorico della latinità) alla sua evoluzione umana e spirituale.

Per leggere i testi Per quanto concerne le Confessiones ci si è basati principalmente su G. Vigini, Le Confessioni, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001 (che riporta il testo latino dell’edizione Maurina del 1679, poi ripreso da J.P. Migne, Patrologia Latina 32,659-868, Parigi 1841) e su J.J. O’Donnell, Augustine, Confessions, Clarendon Press, Oxford 1992, 3 voll. (reperibile anche in internet all’indirizzo: www.stoa.org/hippo/index.html). Da ricordare anche le edizioni di M. Skutella (Teubner, Stuttgart 1981) e di L. Verheijen (Corpus Christianorum Latinorum 27, Brepols, Turnhout 1991). Tra le numerose traduzioni italiane delle Confessioni si segnalano, oltre alla già citata di G. Vigini, quelle di G. Chiarini (Fondazione Lorenzo Valla-Mondatori, 5 voll., Milano 1992-1997) e di C. Carena (Einaudi, 7 Torino 2000; NBA I, Città Nuova, Roma 2000 ). Si è conclusa nel 2004 la pubblicazione dell’opera omnia di Agostino, con testo latino e traduzione italiana: essa consta di 37 volumi, divisi in 62 tomi, ed è pubblicata da Città Nuova, Roma. La sigla identificativa è NBA (Nuova Biblioteca Agostiniana) Per approfondire Ci si può fare un’idea del cristianesimo africano al tempo di Agostino leggendo A. Hamman, La vita quotidiana nell’Africa di s. Agostino, Jaka Book, Milano 1989, da integrare con M. Marin – C. Moreschini (edd.), Africa cristiana. Storia, religione, letteratura, Morcelliana, Brescia 2002. Sul pensiero di Agostino, cfr. K. Flash, Agostino di Ippona. Introduzione all’opera filosofica, Il Mulino, Bologna 1983; L. Alici, L’altro nell’io. In dialogo con Agostino, Città Nuova, Roma 1999. In merito all’incontro tra Agostino e Ambrogio, si segnala AA.VV., 387 d.c. Ambrogio e Agostino: le sorgenti dell’Europa, Edizioni Olivares, Milano 2003, che presenta in ricco apparato iconografico sul contesto politico e religioso. Sul rapporto tra cristianesimo e paganesimo in Agostino cfr. L. Storoni Mazzolani, Sant’Agostino e i pagani, Sellerio, Palermo 1987, un testo di piacevole lettura e ricco di dati; in appendice un interessante repertorio (latino e italiano) dei provvedimenti antipagani degli imperatori.

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Agostino: biografia e pensiero Le due anime di Agostino Uno degli aspetti più significativi della vicenda esistenziale di Agostino (Tagaste 354 – Ippona 430) è la sua collocazione all’incrocio tra due mondi: da una parte, la Tarda antichità, un mondo destinato a dissolversi; dall’altra, il Medioevo occidentale, un mondo che sta nascendo sulle macerie del primo. Di Agostino, infatti, si potrebbe dire ciò che Faust dice di se stesso: «Zwei Seelen wohnen, ach, in meiner Brust» («due anime abitano, ahimè, nel mio petto»: J.W. Goethe, Faust I, Vor dem Tore, v. 1112). La tensione dialettica è, per così dire, iscritta nella sua esistenza, a partire dall’infanzia, spesa tra una devota madre cristiana e un esuberante padre pagano (quest’ultimo riceverà il battesimo poco prima della morte), tra l’educazione cristiana nelle pareti domestiche e la formazione pagana a scuola; africano di nascita, vive da romano; originario di un piccolo villaggio, risiede in metropoli come Cartagine, Roma, Milano; attratto dai piaceri della carne, deve confrontarsi con un insopprimibile desiderio di spiritualità. Dal manicheismo al neoplatonismo alla conversione A diciannove anni, la prima svolta. Mentre si trova a Cartagine, abbraccia il manicheismo, una dottrina di matrice gnostica (da gnosis, «conoscenza» di Dio trasmessa direttamente da Cristo ad una ristretta cerchia di iniziati e non attraverso le gerarchie ecclesiastiche) della quale lo affascina il dualismo cosmico e antropologico tra regno delle tenebre e regno della luce: attraverso l’ascesi personale, l’essere umano può esaltare la dimensione spirituale che in lui alberga e giungere alla conoscenza della verità. Sono due i problemi a cui Agostino cerca risposta: l’origine del male (proviene da Dio oppure no?) e il destino dell’essere umano (è libero o predestinato, responsabile delle sue azioni oppure privo di libero arbitrio?). Alla soglia dei ventinove anni, dopo una breve parentesi in cui aderisce allo scetticismo degli Accademici, si accosta al neoplatonismo di cui assimila quella disciplina interiore, fatta di svuotamento e di ascesi mistica fino alla contemplazione della divinità, che costituirà il retroterra della conversione. Ancora oggi gli studiosi continuano ad interrogarsi sull’influsso che ebbe sulla sua conversione la lettura di Plotino (203/4-269/70), il filosofo cui risale il nucleo fondamentale della dottrina neoplatonica. Ciò che qui interessa porre in risalto è, ancora una volta, la coesistenza di due anime: non è che Agostino si converta al cristianesimo da una posizione di totale estraneità o di avversione, bensì egli scopre il cristianesimo dopo aver penetrato il neoplatonismo, come se quest’ultimo fosse il passaggio obbligato per l’approdo a Cristo (del resto, molti sermoni di Ambrogio sono intrisi di riferimenti a Plotino!). Egli è cristiano non nonostante, ma grazie al neoplatonismo. In questo senso Agostino ha potuto operare una suprema sintesi tra sapienza umana e fede. Ricevuto il battesimo da Ambrogio a Milano (24 aprile 387), riparte alla volta dell’Africa dopo aver assistito alla morte della madre Monica. Nel 391 viene ordinato sacerdote a Ippona, città della quale verrà nomiato dapprima vescovo aulisiare (395) e poi titolare dopo la morte di Valerio (396); inizia qui il suo lungo ministero episcopale, fatto di scritti, sermoni trascinanti, polemiche accese. Alla sua morte (28 agosto 430) non lascia alcun testamento, ma dà disposizioni per la custodia della sua biblioteca. Riflessione teologica e attività pastorale Al cospetto della sterminata estensione (93 opere in 252 libri, esclusi lettere e sermoni, che occupano ben 16 volumi [XXXII-LXVII] della Patrologia Latina del Migne;) e della varietà tematica (autobiografia, filosofia, apologetica, dogmatica, morale, pastorale, esegesi, lettere) della produzione agostiniana si potrebbe pensare ad un uomo immerso nei libri e rinchiuso nella torre d’avorio della speculazione. Eppure, Agostino, dal suo osservatorio decentrato di Ippona, non ha mai scisso la riflessione teologia dall’attività pastorale, nella consapevolezza che la seconda nutre la prima e la prima rende più efficace la seconda. In lui il pensiero, lungi dall’essere sterile speculazione, è sempre frutto di esperienza, umana e spirituale; è un pensiero dialogico, in cui compaiono tre interlocutori: Dio, se stesso, l’umanità. Le sue due opere più famose (le Confessiones e il De civitate Dei) costituiscono la prova più evidente del fatto che in Agostino biografia (interiore ed esteriore) e pensiero (teologico e filosofico) formano un tutt’uno indissolubile. Per approfondire Oltre alla Vita di Possidio (testo critico in A.A.R. Bastiaensen, Fondazione Lorenzo Valla–Mondadori, Milano 2 1981 , pp. 127-241), le più importanti biografie moderne si devono a P. Brown, Agostino d’Ippona, Einaudi, 2 Torino 1974 ; H. Chadwick, Agostino, Einaudi, Torino1989; A. Pincherle, Vita di Sant'Agostino, Laterza, 3 Roma–Bari 1988 ; A. Trapé, Agostino: l’uomo, il pastore, il mistico, Città Nuova, Roma 2001 (ed. or. 1976).

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Confessiones: le novità di un genere La struttura e i temi. Nel 397 Agostino pone mano all’opera destinata a diventare uno dei capisaldi della letteratura e della spiritualità occidentale. Non essendo possibile addentrarsi qui nei molteplici aspetti che caratterizzano le Confessiones, ci si limiterà a tratteggiare gli elementi di novità dell’opera. Il primo elemento che colpisce il lettore è l’eterogeneità dei temi trattati: autobiografia, esegesi biblica, speculazione filosofica e riflessione teologica sono i nuclei fondamentali dell’opera. Ciò tuttavia non impedisce di cogliere la struttura di fondo del testo, che può agevolmente essere diviso in due parti: la prima (composta tra il 397 e il 398) comprende i libri I-IX, la seconda (scritta tra il 399 e il 400) i libri X-XIII. La complessità della materia, al limite del disordine espositivo, deriva dal fatto che Agostino sembra procedere per accumulo, quasi che l’ansia di dire debordi dai limiti del testo. Del resto, chi entra in una cattedrale gotica non prova forse una sensazione di stordimento tanti sono gli elementi architettonici e iconografici che la caratterizzano? Il titolo. Il carattere di originalità dell’opera è evidente già nel titolo. Il termine confessio è l’equivalente latino del greco homología che, nel linguaggio del Nuovo Testamento, oltre che la confessio peccatorum e la confessio laudis, indica la confessio fidei. Il titolo, già di per sé un unicum, sottolinea dunque come Agostino non miri tanto alla rivelazione pubblica e alla denuncia delle proprie colpe e dei propri traviamenti, quanto piuttosto al riconoscimento della misericordia divina. Per sviluppare questo tema, avrebbe potuto stendere un corposo trattato teologico; e invece dà spazio ad una testimonianza di vita vissuta, che non tralascia neppure gli aspetti più contraddittori e, appunto, inconfessabili della propria coscienza. Il tutto non per vanagloria, ma per far risaltare la misericordia, la verità e l’amore di Dio (sono questi i tre assi portanti dell’opera). Agostino non parla di sé in modo autoreferenziale: parlare di sé equivale a parlare di Dio. In questo senso, la confessio coincide con la lode, tanto che J. J. O’Donnell (Augustine, Twayne Publishers, Boston 1985, p. 83) ha potuto affermare che «Agostino prega con la penna in mano». L’originalità. Affermare che le Confessiones sono il racconto autobiografico di una conversione, pur non essendo di per sé scorretto, è sicuramente limitativo. Se proprio si vuole parlare di autobiografia, si deve tener presente che lo scopo di Agostino non è informativo ma formativo; a lui non interessa la completezza dell’informazione autobiografica, ma il carattere esemplare degli episodi che racconta. Da questo punto di vista, vale per le Confessiones ciò che vale per i Vangeli, i quali non sono certo delle biografie di Gesù nel senso corrente del termine. Un secondo elemento di originalità consiste nel fatto che il protagonista delle Confessiones non è un solo Agostino, ma, per così dire, ‘tre Agostini’, cioè il teologo, il filosofo e il mistico, i quali appaiono come le parti di un trittico, autonome e, nel contempo, interdipendenti. Da questo intreccio scaturisce l’affascinante sintesi tra ragione, volontà e cuore che rende l’opera così moderna e attuale. Il sentimento non svilisce il pensiero e il pensiero non isterilisce il sentimento. Da qui deriva anche lo stile dialogico dell’opera: l’’io’ di Agostino e il ‘tu’ di Dio innescano la tipica circolarità del dialogo. Confessare la grandezza di Dio (non a caso l’opera inizia con queste parole: Magnus es, Domine) è, per Agostino, la condizione prima per istaurare un colloquio alla pari in cui i due interlocutori si riconoscono interdipendenti. Il dialogo con Dio non è però condotto secondo criteri razionali e speculativi: sarebbe un dialogo sbilanciato tra la fonte della sapienza e un abisso di ignoranza. È piuttosto un dialogo di amore, fatto spesso di silenzi più che di parole. Oltre a dialogare con Dio, Agostino dialoga con se stesso; in quanto interlocutore di se stesso, egli innesca la stessa dinamica che si ritroverà nella Divina Commedia. Come infatti nel poema dantesco ci si trova al cospetto del Dante scrittore e del Dante personaggio, allo stesso modo nelle Confessioni compare un Agostino auctor e un Agostino agens. Il motivo è che che, sempre come la Divina Commedia, l’opera è la riflessione, a posteriori, su un’esperienza non ancora conclusa, de-scrivendo la quale l’auctor rilegge la vicenda passata dell’agens alla luce di una rivelazione che prima non possedeva. Il viaggio a ritroso che compiuto da Agostino diventa allora, come quello dantesco, un viaggio esistenziale e paradigmatico. Scrivendo, Agostino si rilegge e si riconosce oggetto della misericordia di Dio (da qui la confessio); leggendo le Confessioni, ognuno si può riconoscere nella sua esperienza.

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Pianti per la morte di Didone Confessiones I 13, 21-22

I

n quella vera e propria fenomenologia dell’infanzia che è il libro I delle Confessiones, Agostino, parlando del suo rapporto conflittuale con lo studio, riconosce, a distanza di tempo, che tale atteggiamento era frutto della sua incapacità, tipicamente giovanile, di porsi in una prospettiva più ampia: questa gli avrebbe consentito di considerare la fatica dello studio quale base fondamentale per la costruzione di se stesso come essere umano e come scrittore. A ciò si aggiunge, una volta passato dal primo (litterae) al secondo grado di studi (grammatica), la sua propensione a identificarsi con i personaggi delle opere letterarie che via via leggeva. Si sa che tutti, ma specialmente i giovani, tendono ad immedesimarsi con quei personaggi della finzione che, protagonisti di drammatiche vicende amorose, vengono assunti a paradigmi del proprio stato d’animo. Assetato d’amore, tanto da chiedersi «quid erat, quod me delectabat, nisi amare et amari?», («Cos’era che mi piaceva se non l’amare e l’essere amato?») (Conf. II,2.2), il giovane Agostino non può che essere travolto da un sentimento di empatia per la vicenda di Didone. D’altra parte, su un cartaginese come Agostino la figura di Didone doveva esercitare un particolare potere evocativo. E tuttavia, nella prospettiva delle Confessiones, caratterizzata dalla rilettura a posteriori della propria esperienza e dalla conseguente riappropriazione del suo vero significato, Didone viene assunta come esempio per eccellenza di un amore mal riposto, che è esattamente la medesima situazione in cui confessa di trovarsi lo stesso Agostino: come Didone, anch’egli cerca il vero amore su strade accidentate che lo portano a smarrirsi. Il brano che segue, oltre che come un significativo spaccato della fanciullezza di Agostino, può essere letto secondo due prospettive: una pedagogica e una culturale. In ordine alla prima, Agostino sottolinea come l’imparare a leggere e a scrivere non possa andare disgiunto dall’uso che se ne fa: a cosa serve saper leggere se poi si mette questa abilità a servizio di operazioni che poco hanno a che fare con la crescita interiore? Ed è lungo questa linea di pensiero che si sviluppa la prospettiva culturale, riassumibile nel contrasto tra sapere pagano e sapere cristiano. Le opere letterarie, e in particolare l’Eneide, il poema fondativo della romanità, essendo basate sulla finzione (figmenta), sono piene di trappole. Giocando sulla duplicità semantica di error, Agostino osserva come gli errores di Enea siano gli errores della romanità (e quelli della propria giovinezza), contrapposti all’itinerarium animae ad Deum che costituisce il cuore delle Confessiones.

13, 21

Quid enim miserius misero non miserante se ipsum et flente Didonis mortem, quae fiebat amando Aenean, non flente autem mortem suam, quae fiebat non amando te, Deus, lumen cordis mei et panis oris intus animae meae et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meae? Non te amabam et fornicabar abs te et fornicanti sonabat undique: “Euge, euge”. Amicitia enim mundi huius fornicatio est abs te et

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13, 22

“Euge, euge” dicitur, ut pudeat, si non ita homo sit. Et haec non flebam sed flebam Didonem exstinctam ferroque extrema secutam, sequens ipse extrema condita tua relicto te et terră iens in terram; et si prohiberer ea legere, dolerem, quia non legerem quod dolerem. Tali dementiā honestiores et uberiores litterae putantur quam illae, quibus legere et scribere didici. Sed nunc in anima mea clamet Deus meus, et veritas tua dicat mihi: non est ita, non est ita; melior est prorsus doctrina illa prior. Nam ecce paratior sum oblivisci errores Aeneae atque omnia eius modi quam scribere et legere. At enim vela pendent liminibus grammaticarum scholarum, sed non illa magis honorem secreti quam tegumentum erroris significant. […]

13, 21 Quid… meae: «Cosa c’è infatti di più miserabile di un essere miserabile che non commisera se stesso e che piange la morte di Didone, avvenuta per amore di Enea, ma che non piange la propria morte, avvenuta per non amore di te, Dio, luce del mio cuore, pane della bocca interiore della mia anima, potenza che rende feconda la mia intelligenza e grembo del mio pensiero?».

– Quid: il periodo, mirabilmente costruito, è un tipico esempio del procedimento narrativo usato da Agostino nelle Confessiones: la riflessione a posteriori sulla giovanile immedesimazione con la vicenda di Didone (per la quale cfr. il libro IV dell’Eneide) porta Agostino a rovesciare l’exemplum (vd. La figura di Didone tra Virgilio e Agostino p. 29). Non a caso, la struttura sintattica e il lessico utilizzati sono percorsi da una dinamica di identificazione e, al tempo stesso, di contrapposizione: la miser Didone corrisponde al miser Agostino (entrambi sono assetati d’amore); la morte (reale) della prima corrisponde alla morte (spirituale) del secondo; come Didone, anche Agostino è protagonista di un amore mal indirizzato. Dall’altro canto, l’amore per Enea (amando Aenean) è contrapposto al non amore per Dio (non amando te); le tenebre in cui sprofonda Didone sono contrapposte alla luce (lumen) divina; l’amentia di Didone cede il posto alla cogitatio di Agostino. – miserius: miser e furor sono le parole chiave che Virgilio utilizza per descrivere l’affettività totalizzante e disperata di Didone. Più che un mero sfoggio retorico, l’insistenza di Agostino sul campo semantico del miser (si noti il raffinato poliptoto: meserius… misero… miserante) intende ricollegarsi proprio alla demolizione della figura di Didone operata dallo stesso Virgilio. – miserante…flente: participi presenti, in ablativo in quanto concordati con misero (secondo termine di paragone). Alla fine dell’ultimo incontro tra Enea e Didone nell’Ade, Virgilio scrive: nec minus Aeneas casu percussus iniquo // prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem (Eneide VI, 475-476). – Aenean: accusativo con desinenza in –n, tipico dei termini greci. – amando: gerundio ablativo con valore causale. – lumen… panis… virtus… sinum: l’enumerazione per polisindeto dei quattro attributi divini, seguiti ciascuno da un complemento di specificazione (tranne virtus, seguito da un participio congiunto), sembra dare corpo alla transcodificazione del lessico amoroso che esprime la differenza tra l’amore per Enea e l’amore per Dio. Non per niente tutti e quattro hanno un preciso riferimento biblico e i primi due, nel lessico cristiano, indicano la seconda persona della Trinità. In particolare, lumen si rifà a Giovanni 1, 9; 3, 19-21; ma la locuzione lumen cordis mei è assai ricorrente nelle Confessiones (per es. in III 4, 8 e XII 10, 10). – panis: anche qui il riferimento è a Giovanni 6,35.48.59. – animae: già a partire da Tertulliano (fine II secolo), il termine, che in latino significa “soffio vitale” (mentre animus indica piuttosto la razionalità), ha subìto una risemantizzazione in senso cristiano. – virtus: termine con cui la Vulgata (la traduzione in latino della Bibbia operata da Girolamo) traduce l’espressione paolina per indicare «Cristo potenza (in greco dýmanis) di Dio e sapienza (in greco sophía) di Dio». (I lettera ai Corinzi 1, 24). – maritans: il verbo può suggerire nuovamente la contrapposizione rispetto a Didone: il suo amore per Enea è destinato a rimanere infecondo (si ricordi la struggente considerazione di Didone: «Se un figlio, se almeno un figlio da te avessi avuto prima della tua fuga»: Eneide IV, 327-328); mentre l’amore per Dio non può che produrre frutti spirituali. – sinum: anche questa immagine biblica (presente in molti Salmi) viene spesso usata nelle Confessiones: IX 2, 3 (sinum cogitationis), X 8, 13 (memoriae recessus), 8, 14 (ipso ingenti sinu animi mei). – cogitationis meae: cor, anima, mens, cogitatio: ecco i frutti dell’amore divino che, nella concezione di Agostino, possiede una dimensione antropologicamente integrale: cuore e cervello vi sono implicati. Le conseguenze dell’amore di Didone sono invece furor e amentia. Non… sit: «Non ti amavo e ti ero infedele e, mentre ti ero infedele, da ogni parte mi risuonava (il grido): Bravo, bravo! Infatti, l’amore per questo mondo significa lontananza da te, e si dice: Bravo, bravo! perché uno si vergogni se non è così».

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– fornicabar: citazione dal Salmo 73 ,27; anche questa è un’immagine frequente nelle Confessiones. La storia del termine è significativa del processo di risemantizzazione operato dai cristiani. In latino fornicatio indica una costruzione a volta e deriva da fornix, propriamente una camera con il soffitto a botte, spesso luogo di ritrovo delle prostitute; per metonimia, fornix indica pertanto il postribolo. Tertulliano, spinto dalla terminologia biblica, in cui «prostituzione» (in ebraico zôneh) corrisponde a «idolatria», è il primo autore ad utilizzare il termine in senso cristiano per esprimere non soltanto, come si pensa di solito, la trasgressione sessuale, ma principalmente l’idolatria e quindi l’infedeltà a Dio. Da qui la traduzione proposta che, contenendo un’eco della relazione amorosa, risulta più perspicua rispetto a «fornicazione». – Euge: prestito greco (dall’avverbio: eúge), indica un complimento ironico. Trattasi di formula spesso usata dai Salmi (cfr. per esempio 35, 21; 40, 16), qui citati indirettamente da Agostino. – Amicitia: è sinonimo di amor, inteso come inclinazione della volontà per le realtà terrene; tema ricorrente nella trattatistica cristiana. – homo: forma tipica del parlato, assume qui un valore impersonale (nella traduzione «uno»). Da notare il fatto che la proposizione dopo pudeat non è espressa da quod o da accusativo e infinito, ma da una ipotetica. La figura Didone tra Virgilio e Agostino Il mito. Come noto, la figura di Elissa/Didone, fuggita da Tiro, dopo che il fratello Pigmalione le ha ucciso il marito, è strettamente legata alla fondazione di Cartagine. Il mito racconta che la donna, dopo essere approdata sulle coste africane, fece ricorso ad una celebre astuzia: avendo ottenuto dal re indigeno Iarba un terreno tanto grande quanto poteva essere coperto da una pelle di bue, tagliò la pelle in strisce sottilissime, circondando la collina dove poi sarebbe sorta l’acropoli di Cartagine (chiamata Byrsa, che in greco significa ‘pelle di bue’). Oltre che astuta, Didone – che, secondo un’antica etimologia, significherebbe ‘donna virile’ – è anche una donna fedele alla memoria del marito, come dimostra la sua decisione di suicidarsi per non cedere alle insistite proposte di matrimonio avanzate da Iarba. La rilettura virgiliana e agostiniana. Fin qui il mito, sulla cui base Virgilio opera una profonda rilettura, trasformando la virile pudicizia di Didone (trasferita invece sul pius Enea) in una affettività disperata e totalizzante che la porta all’autodistruzione. Lo dimostra il lessico virgiliano della passione che ruota attorno ai campi semantici del fuoco bruciante (uritur / incensa) e del furor (bacchatur / furens). La rilettura ‘ideologica’ consegna così Didone all’immortalità della poesia facendone uno dei personaggi più indimenticabili della letteratura latina. Dopo Virgilio, anche Agostino sottopone il mito di Didone ad un processo di rilettura; mentre però la rilettura del primo è in chiave filoaugustea (la casta Elissa/Didone, cartaginese, tenta inutilmente di sviare il pius Aeneas, prototipo della romanità), quella del secondo è in chiave esistenziale e spirituale. Per Virgilio, Didone muore perché così vuole il fato e, con lei, muore anche il proprio sentimento per Enea (lo si vede benissimo in occasione dell’incontro nell’Ade). Agostino invece prende coscienza che la morte giovanile, causata dal non amore per Dio viene riscattata dall’amore per Dio stesso. Nel brano delle Confessiones proposto, Agostino traccia una sorta di parallelismo oppositivo tra l’atteggiamento di Enea e il suo. Come è noto infatti, l’eroe troiano, quasi sentendosi colpevole della morte di Didone (funeris heu tibi causa fui?: Eneide, v. 458), si affretta a giurare (per siderea iuro, v. 458) la sua estraneità (invitus, regina, tuo de litore cessi, v. 460) e a ribadire di aver agito in nome degli iussa deum (v. 461); tutto ciò lo porta a voler trattenere Didone (Siste gradum, v. 465); di fronte però alla impassibilità della regina (illa solo fixos oculos aversa tenebat, v. 469), egli prosequitur lacrimis longe et miseratur euntem (v. 476). Ebbene, come Enea, anche Agostino si sta voltando indietro a ripercorrere le tracce di un amore giovanile; a differenza di Enea, però, egli non piange per la perdita di Didone, ma per il tempo perso a correr dietro (sequens) alle «realtà ultime» (extrema condita) della creazione divina che lo hanno distolto dal vero oggetto d’amore. Enea rimpiange Didone; Agostino piange sul se stesso fanciullo che piangeva per Didone. Et … dolorem: «Per questo non piangevo ma piangevo per Didone morta cercando col ferro il giorno estremo, mentre io cercavo le realtà ultime della tua creazione dopo averti abbandonato e mentre andavo io, polvere, verso la polvere; e se mi avessero proibito di leggere quelle cose, mi sarei addolorato perché non avrei letto ciò che mi addolorava».

– haec … Didonem: il chiasmo (haec non flebam et flebam Didonem) intende sottolineare la contraddizione tra il piangere per Didone e il non piangere per se stesso; la costruzione chiastica viene iterata subito dopo: Didonem… extrema secutam, sequens ipse extrema condita tua. – exstinctam… secutam: citazione diretta delle prime parole che Enea pronuncia al cospetto di Didone nell’Ade: Infelix Dido, verus mihi nuntius ergo // venerat exstinctam ferroque extrema secutam? (Eneide VI, 456-457). – extrema condita tua: letteralmente: «le cose che hai creato per ultime», cioè le realtà peggiori della creazione. – relicto te: ablativo assoluto con

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valore temporale. Espressione simile in Conf. II 2, 4: sequens impetum fluxus mei relicto te («seguendo l’impeto della mia corrente dopo averti abbandonato»). È questo un altro paragone con Didone: mentre ella viene abbandonata da Enea, Agostino ha abbandonato Dio il quale però non ha abbandonato lui. – terra iens in terram: cfr. «mangerai il pane con il sudore del tuo volto, finché tu ritorni nella terra da cui fosti tratto; perché sei polvere e in polvere ritornerai» (Genesi 3, 19); la locuzione «polvere che va verso la polvere» significa andare incontro alla morte. Il primo terra ha funzione predicativa del soggetto. – si prohiberer: protasi di un periodo ipotetico dell’irrealtà, la cui apodosi è espressa da dolerem; come iubeor e cogor, il verbo prohibeor ha una costruzione personale: la persona cui si proibisce svolge la funzione di soggetto. – quod dolerem: proposizione relativa con attrazione modale del congiuntivo. Il fatto di addolorarsi per non poter leggere ciò che era causa di dolore è segno di dementia, come si dice subito dopo. Tali… didici: «Per effetto di una simile follia quegli studi letterari vengono ritenuti più dignitosi e più arricchenti di quelli grazie ai quali ho imparato a leggere e a scrivere.»

– Tali: nella maggior parte dei manoscritti è attestata la forma talis, altri, invece, riportano la lezione tali facendo di dementia un ablativo. Sembra preferibile quest’ultima lezione (riportata nell’edizione di J.J. O’Donnell): la prima infatti non ha costrutti paralleli in latino (e neppure in Agostino) e costringerebbe a un improbabile cambiamento di numero (il singolare del nominativo dementia contro il plurale del verbo); inoltre, il verbo putor indica un attività mentale che l’ablativo dementia specificherebbe molto bene. In questo modo, la tali dementia di cui parla qui Agostino non è riferita a litterae, bensì al fatto che egli si sarebbe dispiaciuto se non avesse potuto leggere ciò che gli procurava dolore. – dementia: il termine segnala, ancora una volta, il parallelismo con Didone: il suo amore – dice Virgilio – scorre all’insegna del furor (= dementia, amentia) e conduce all’autodistruzione; identificandosi con la vicenda di Didone, il giovane Agostino finisce per apprezzare proprio ciò che lo fa soffrire in quanto lo allontana da Dio. – honestiores: l’aggettivo honestus deriva da honor, termine che indica il centro stesso della concezione antropologica della romanità. – quam: introduce il secondo termine di paragone. – legere et scribere: si ricordi che Agostino parlava il cartaginese e che il latino lo ha appreso grazie ad uno studio precoce, come ricorda lui stesso: «Infatti, quand’ero piccolo, non conoscevo nulla di latino, e tuttavia, applicandomi, l’ho appreso senza paura né castighi anche tra le carezze delle nutrici, gli scherzi di coloro che ridevano e la letizia dei giochi» (Conf. I 14, 23). 13, 22 Sed… legere: «Ma ora nella mia anima gridi il mio Dio e mi dica la tua verità: non è così, non è così. È assolutamente migliore quel primo insegnamento. Infatti ecco che sono più disposto a dimenticare le peregrinazioni di Enea e ogni racconto del genere piuttosto che il leggere e lo scrivere.»

– Sed: posta all’inizio del periodo, l’avversativa segna una netta contrapposizione (rafforzata dal successivo non est ita) tra le convinzioni giovanili e quelle della vita adulta. – doctrina… prior: doctrina è termine comune in Agostino, in senso sia religioso sia profano. In questo caso indica gli insegnamenti elementari (litterae), il leggere e lo scrivere. Prior possiede tanto una valenza temporale (l’insegnamento primario) quanto una valenza assiologica (è più importante leggere e scrivere). Poco prima di questo brano, Agostino aveva affermato: «Erano migliori, perché più sicuri, quei primi studi (primae illae litterae) mediante i quali si formava in me – poi si è formata e ora la possiedo –la capacità di leggere tutto quello che trovo scritto, e di scrivere io stesso, se lo voglio» (Conf. I 13, 20). – errores: il sostantivo è dotato di un’intrinseca ambivalenza semantica, presente del resto anche in italiano (‘errare’ – ‘errore’). In effetti, qualche riga sopra (13.20) Agostino aveva stigmatizzato il fatto di essere stato costretto dai suoi maestri ad imparare a memoria gli Aeneae errores (nel senso di peregrinazioni) e a dimenticarsi invece dei propri errores (nel senso di sbagli). Si tenga presente che sia Enea sia Agostino sono stati protagonisti di un viaggio: l’errare del primo lo conduce alla fondazione di Roma, mentre l’errare del secondo lo conduce alla scoperta della grazia divina. – legere: a dimostrare la superiorità del leggere e dello scrivere rispetto alla lettura dei testi poetici, a chiusura del brano qui riportato Agostino afferma: «se chiedessi quale di queste due conoscenze sarebbe per la vita più dannoso dimenticare, se la lettura e la scrittura oppure le fantasie (figmenta) dei poeti, chi non saprebbe cosa rispoderebbe colui che non abbia perduto completamente il senno?» (Conf. I 13, 22). At … significant: «Si potrà obiettare che sulle soglie delle scuole di grammatica pendono delle tende, ma esse simboleggiano non tanto la dignità del segreto quanto la cortina dell’errore.»

– At enim: seguita da enim, l’avversativa at serve ad anticipare, per smentirla (si veda il successivo sed), l’obiezione di un ipotetico interlocutore (da qui la traduzione). Tale forma è spesso usata da Agostino, soprattutto nel De civitate Dei. – vela: da non confondere con l’omografo velum, «vela di nave». Dal momento che spesso le lezioni si svolgevano in locali aperti o sotto dei portici, era necessario stendere delle tende o dei tappeti, al fine di creare il giusto clima, meteorologico e didattico. – grammaticarum: è il secondo livello di istruzione, quello in cui si studiavano le opere letterarie greche e latine (si veda il brano successivo, p. 000). – honorem secreti … tegumentum erroris: questa affermazione così lapidaria esprime la definitiva condanna nei confronti della cultura pagana: i pagani – dice Agostino –, depositari di un sapere secolare ed elitario (secretum ha, infatti, a che fare con un processo iniziatico riservato a pochi eletti), si illudono che da questo sa-

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pere dipenda l’honor romano, ma non si accorgono che esso si basa su finzioni mitologico-letterarie (tegumentum corrisponde alla finzione letteraria) che propagano ogni sorta di errore. L’‘errare’ di Enea, da cui dipende la grandezza di Roma, si trasforma in un tragico ‘errore’. E allora il velo, lungi dall’essere il simbolo della grandezza della tradizione culturale romana, finisce per svelarne l’errore; non resta che… stendere un pietoso velo.

Lingua e stile in Agostino La forma al servizio del contenuto. Avviato ad una brillante carriera di maestro di retorica, Agostino, dopo la conversione, intrattenne con l’antica disciplina di insegnamento un rapporto conflittuale: da un lato, infatti, come molti altri scrittori cristiani, egli condanna la retorica in quanto retaggio culturale del paganesimo ed espressione della sua forma mentis; dall’altro, non può resistere al fascino della produzione letteraria latina quale serbatoio di risorse retorico-stilistiche che la letteratura cristiana non poteva certo ignorare. La conflittualità trova una sua sintesi feconda nel De doctrina Christiana (scritto tra il 417 e il 427), in cui Agostino concepisce la retorica, espressione della sapientia pagana, come strumento espressivo indispensabile per la diffusione della sapientia cristiana. La retorica classica, ormai ridotta al rango di esercitazione fine a se stessa (la forma a scapito del contenuto), diventa così una risorsa flessibile, volta alla comprensione, da parte dei colti e dei meno colti, del messaggio cristiano (la forma a servizio del contenuto). Come Girolamo, con la Vulgata, ha dato all’Europa la ‘sua’ Bibbia, così Agostino ha dato al cristianesimo occidentale il ‘suo’ lessico teologico e pastorale. La subordinazione della forma al contenuto fa sì che si possa parlare di plurilinguismo agostiniano: la varietà dei generi letterari (omelie, trattati, epistole, esegesi biblica) è strettamente associata alla molteplicità dei registri linguistico-espressivi, pur all’interno del filo conduttore rappresentato dalla costante presenza degli stilemi di matrice biblica. La varietà stilistica delle Confessiones e del de civitate Dei. Di tale varietà stilistica le Confessiones e il De civitate Dei sono la testimonianza più evidente. Nelle Confessiones, lingua e stile si fondono mirabilmente con la dinamica della confessione filtrata dal ricordo: il ritmo della scrittura ha lo stesso andamento discontinuo del ritmo del ricordo. Ecco allora un periodare disordinato e armonico al tempo stesso, ricco di figure fonetiche (allitterazioni, poliptoti, assonanze, omoteleuti), sintattiche (parallelismi, chiasmi, antitesi) e semantiche (metafore, metonimie, similitudini), ma anche di registri espressivi che sono il frutto di un mirabile impasto fra la tradizione letteraria latina e lo stile biblico: ad immagini tratte, per esempio, dai Salmi, si susseguono echi ciceroniani, sallustiani e virgiliani. Diverso invece il clima che si respira nel De civitate Dei. Opera di carattere apologetico, vera e propria sintesi di una riflessione durata decenni, essa è caratterizzata da un periodare più solenne, più ampio, più lucido. Ciò non toglie che anche qui si possa riscontare una evidente pluralità di risorse stilistico-retoriche che sono il segno della stretta unione tra pensiero e scrittura. Alle reminiscenze classiche si uniscono echi biblici, la pacatezza espositiva lascia spesso il posto all’irruenza del registro satirico, l’amabilità del pastore si accompagna alla spietatezza del fustigatore dei costumi, alla precisione argomentativa si alternano divagazioni erudite. Il tutto però all’interno di un quadro in cui le risorse della retorica sono sempre al servizio della verità, «nella convinzione che il linguaggio non è un dominio autonomo e incontrastato di significati, né un esercizio sfrenato di virtuosismo verbale, bensì un complesso di segni che testimoniano, in maniera sempre inadeguata, una realtà infinitamente più ricca e più complessa e che perciò nel momento stesso in cui riescono ad avvicinarla a noi, restano da essa infinitamente lontani.» (L. Alici, Introduzione a La città di Dio, pp. 41-42).

La scoperta dell’Hortensius Confessiones III 4, 7-8

E

ducato da buon cristiano e da buon romano, all’età di diciannove anni Agostino si trova alle prese con la prima, significativa crisi della sua esistenza, e, come spesso accade, è la lettura di un testo a risultare determi-

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nante. Dopo aver studiato litterae a Tagaste e grammatica a Madaura, nel 371, a diciassette anni, si trasferisce a Cartagine per studiare rhetorica. Il programma del terzo anno di corso prevedeva la lettura dell’Hortensius, la perduta opera protrettica di Cicerone. Fu una folgorazione. Il dialogo ciceroniano conteneva infatti una vibrante esortazione allo studio della filosofia. Cicerone, partendo dal presupposto che «tutti vogliamo essere beati», sostiene che sbagliano coloro i quali affermano che «sono beati tutti coloro che vivono a loro piacere », perché «desiderare ciò che non è conveniente è somma infelicità. E non è tanto fonte di infelicità il non conseguire ciò che si desidera, quanto il desiderare ciò che non conviene» (Hortensius, fragm. 39). «Affermazione stupenda e perfettamente vera», commenta a distanza di tempo Agostino (De Trinitate XIII 5, 8), il quale coglie efficacemente il nesso tra ricerca della verità e il suo alto contenuto morale. In questa fase della sua esistenza il giovane Agostino, pur distratto dalle attrattive del bel mondo cartaginese, è alle prese con la necessità di definire quella dimensione spirituale che l’educazione cristiana non aveva cancellato, ma che aveva indirizzato piuttosto verso sentieri tortuosi. La lettura di Cicerone lo esalta e lo deprime al tempo stesso: da un lato, lo affascina l’elevato contenuto morale dell’opera, il pressante invito a perseguire un ideale filosofico disinteressato, lo schiudersi di una verità esistenziale prima ancora che razionale; dall’altro, invece, lo delude la constatazione che l’anelito alla verità non si accorda con gli insegnamenti cristiani ricevuti nell’infanzia che, sia pure messi in discussione, non vengono rifiutati. Agostino si rende conto che Cicerone non può essere una premessa a Cristo. In sostanza, l’incontro con l’Hortensius lo costringe a porsi il problema del rapporto fede–ragione, binomio da lui ancora concepito in termini di opposizione, non di collaborazione: l’ovvia assenza del nome di Cristo nell’opera ciceroniana gli appare la prova del fatto che la sola ragione non conduce alla verità. Nel tentativo di ricomporre la frattura, ecco che Agostino, in una sorta di frenetica ansia, si dedicherà alla lettura della Bibbia, esperienza ancor più deludente (sed visa est mihi indigna: Conf. III 5, 9), prima di abbracciare, con l’entusiasmo del neofita, la dottrina manichea.

4, 7

Inter hos ego imbecilla tunc aetate discebam libros eloquentiae, in qua eminēre cupiebam fine damnabili et ventoso per gaudia vanitatis humanae, et usitato iam discendi ordine perveneram in librum cuiusdam Ciceronis, cuius linguam fere omnes mirantur, pectus non ita. Sed liber ille ipsius exhortationem continet ad philosophiam et vocatur Hortensius. Ille vero liber mutavit affectum meum et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas et vota ac desideria mea fecit alia. Viluit mihi repente omnis vana spes et immortalitatem sapientiae concupiscebam aestu cordis incredibili et surgere coeperam, ut ad te redirem. Non enim ad acuendam linguam, quod videbar emĕre maternis mercedibus, cum agerem annum aetatis undevicesimum iam defuncto patre ante biennium, non ergo ad acuendam linguam referebam illum librum neque mihi locutionem, sed quod loquebatur persuaserat.

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4, 8

[…] hoc tamen solo delectabar in illa exhortatione, quod non illam aut illam sectam, sed ipsam quaecumque esset sapientiam ut diligerem et quaererem et assequerer et tenerem atque amplexarer fortiter, excitabar sermone illo et accendebar et ardebam, et hoc solum me in tanta flagrantia refrangebat, quod nomen Christi non erat ibi […]

4, 7 Inter… Hortensius: «Fra costoro, nel corso di un’età ancora immatura, io studiavo i testi di eloquenza, [disciplina] nella quale bramavo di distinguermi con una finalità deplorevole e fatua attraverso le gioie dell’umana vanità, e secondo il consueto piano di studi ero giunto al libro di un certo Cicerone, la cui eloquenza quasi tutti ammirano, non così invece l’animo. Ebbene quel suo famoso libro contiene un’esortazione alla filosofia e si intitola Ortensio».

– Inter hos: si tratta degli eversores di cui si parla nel capitolo precedente (3, 6), bande di studenti che, animati da spirito goliardico, commettevano insolenze nei confronti degli alunni più deboli. – imbecilla: l’aggettivo deriva probabilmente da im-baculum (da in- con valore privativo + baculum, «bastone»), e significa letteralmente «senza bastone di appoggio»; esso sottolinea l’idea della debolezza e della pusillanimità, propria dell’età giovanile. – cupiebam: il verbo indica il desiderio ardente per qualcosa di riprovevole, cioè i gaudia vanitatis humanae. – ventoso: l’aggettivo esprime il carattere inconcludente, e quindi vano, delle finalità perseguite da Agostino; il concetto della vanitas contiene un probabile riferimento al libro biblico del Qoelet (o Ecclesiaste), laddove si dice «Io ho visto tutto ciò che si fa sotto il sole: ed ecco tutto è vanità, è un correre dietro al vento» (1, 14). – usitato discendi ordine: letteralmente: «secondo l’usato ordine di apprendimento»; usitato è participio passato di usitor, frequentativo di utor. Come si è detto, Agostino ha seguito il normale cursus studiorum, che prevedeva tre tappe fondamentali: lo studio delle litterae, il livello di base in cui si imparava a leggere, scrivere e far di conto, la grammatica, dedicata allo studio della letteratura greca e latina, della storia e della geografia, e infine la rhetorica, gli studi superiori, al cui interno Omero, Virgilio e Cicerone occupavano un posto centrale. – cuiusdam Ciceronis: può sembrare strano che Agostino parli di Cicerone come se fosse uno sconosciuto, specialmente se si considera che proprio Cicerone, insieme a Virgilio e a Varrone, è l’autore latino più citato nelle sue opere. Forse qui Agostino pensa ai destinatari della sua opera che potevano anche non conoscere Cicerone. È tuttavia possibile scorgere in questa genericità una certa polemica antipagana: Cicerone è qualificato come quidam in quanto espressione dei gaudia vanitatis humanae. – pectus non ita: il pectus è l’organo da cui sgorgano i pensieri e i sentimenti che poi assumono forma di parole grazie alla lingua; pectus e lingua indicano, per metonimia, la profondità d’animo e l’eloquenza. – exhortationem: scritto sul modello del Protrettico (dal greco protrépo, «esorto») di Aristotele, il dialogo di Cicerone intende confutare le affermazioni del celebre oratore Quinto Ortensio Ortalo circa l’inutilità della speculazione filosofica. Nella sua arringa, Cicerone sostiene che la filosofia possiede anche una finalità pratica, in quanto consente di raggiungere la felicità attraverso la pratica della virtus. Come noto, l’opera ciceroniano ci è giunta assai frammentaria, ma le numerose citazioni che proprio Agostino ha riportato nel suo De Trinitate ci consentono di farci un’idea del contenuto. Ille… redirem: «In verità quel libro cambiò il mio modo di sentire e cambiò persino le mie preghiere rivolte a te, Signore, e fece diventare diverse le mie aspirazioni. All’improvviso per me ogni vana speranza cominciò a perdere consistenza e desideravo l’immortalità della sapienza con incredibile ardore di cuore e cominciavo a rialzarmi per tornare a te».

– mutavit: l’iterazione del verbo, accompagnata dalla perifrasi fecit alia (trattasi di una variatio), intende evidenziare il carattere decisivo della scoperta di Cicerone, un cambiamento che riguarda il modo di sentire (affectum). Già in un’opera scritta nel ritiro di Cassiciaco (De beata vita 1, 4), Agostino, non ancora battezzato, sottolinea l’importanza dell’incontro con Cicerone. A distanza di vent’anni, in questo passo delle Confessiones, la percezione che la lettura dell’Hortensius ha segnato una svolta nel suo percorso interiore non si è affievolita. – meum… meas… mea: il poliptòto intende evidenziare il cambiamento interiore avvenuto nel giovane Agostino. – Viluit… surgere coeperam: il verbo incoativo viluit (da vilesco, «cominciare a perdere valore») sottolinea il carattere incipiente e dinamico della scoperta, l’avverbio repente ne esprime l’imprevedibilità, mentre il periodo sintattico, formato da tre principali unite tramite polisindeto, ne illustra le conseguenze. – surgere: nel brano seguente (vd. p. 36) in cui Agostino racconta l’epidosio decisivo della sua conversione questo verbo ricorre per ben quattro volte. – ut ad te redirem: chiaro riferimento alla nota parabola del figlio prodigo: «Mi alzerò e andrò da mio padre…» (Luca 15, 18-20). Non… persuaseram: «Ebbene, non per affinare la mia eloquenza, cosa che sembravo pagare con i contributi di mia madre (avevo infatti diciannove anni e mio padre era morto da due anni): non quindi per affinare la mia eloquenza riprendevo quel libro e non mi aveva convinto l’esposizione, ma ciò che veniva esposto».

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– ad acuendam linguam: costrutto del gerundivo con valore finale; come sopra, linguam è metonimia per indicare l’abilità retorica, scopo precipuo dei corsi che Agostino seguiva a Cartagine. – videbar: costruzione personale di videor. – maternis mercedibus: in Conf. II 3, 5 Agostino fa intendere che suo padre spendeva per l’educazione del figlio più di quanto si potesse permettere; il fatto che agli studi del figlio contribuisse la madre Monica significa che, dopo la morte del marito, ella poteva gestire il patrimonio di famiglia. Sappiamo però (cfr. Contra Academicos II 2, 3) che un facoltoso amico, Romaniano, mise a disposizione di Agostino una somma di denaro con la quale egli fu in grado di pagarsi gli studi a Cartagine. – cum agerem annum… undevicesimum: il diciannovesimo anno di età di Agostino va dal novembre 372 al novembre 373. Il cum narrativo ha valore causale. – defuncto patre: ablativo assoluto; pagano di nascita, a differenza della moglie Monica, Patrizio ricevette il battesimo poco tempo prima dalla morte (Conf. IX 9, 22), avvenuta nel 370, allorché Agostino si trovava a Cartagine per il quadriennale corso di retorica. – neque… locutionem, sed quod loquebatur: l’opposizione tra forma (locutionem) e contenuto (quod loquebatur) è indice della serietà della ricerca interiore di Agostino: l’opera di Cicerone lo conquista non per l’eleganza formale, ma per le nuove prospettive spirituali e psicologiche che gli apre, concetto questo più volte ribadito dallo stesso Agostino: «Avevo già imparato da te [Dio] che un argomento non deve sembrare vero perché viene esposto con eloquenza, né falso perché le parole della bocca risuonano confusamente; ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché il discorso è forbito» (Conf. V 6, 10). 4, 8 […] hoc tamen … ibi […]: «[…] tuttavia in quella esortazione soltanto una cosa mi attirava, il fatto cioè che quelle parole mi stimolavano, mi accendevano, mi infiammavano ad amare, ricercare, perseguire, possedere e abbracciare con forza non questa o quella scuola [filosofica], ma la sapienza in sé qualunque fosse, e, in tanto incendio, solo questo mi tratteneva, che lì non ci fosse il nome di Cristo […]».

– tamen: nelle righe precedenti, qui non riportate, Agostino cita un passo della lettera di Paolo ai Colossesi 2, 8-9, per dimostrare come la filosofia possa diventare pericolosa nel momento in cui viene usata come arma di seduzione: «sunt qui seducant per philosophiam». In questa fase della sua ricerca interiore, Agostino avvertiva l’esigenza di una filosofia che non si limitasse ad una dimensione umana, ma che fosse in grado di schiudere orizzonti spirituali e ascetici. – quod: ha valore dichiarativo, come il successivo quod…erat tibi e va collegato a excitabar. – diligerem… amplexarer: i cinque verbi al congiuntivo sono retti da ut con funzione di completiva finale, dipendente da excitabar; essi sono disposti in klimax ascendente e sono legati da omeoteleuto, oltre che possedere una struttura chiastica: diligerem, amplexarer e tenerem vs quaererem e assequerer. – excitabar… et accendebar… et ardebam: l’uso del trikólon polisindetico è tipico dello stile agostiniano; qui si può notare, oltre all’allitterazione, anche l’omeoteleuto e, come nella precedente serie di verbi, l’efficacissimo klimax ascendente. La presenza di un numero così elevato di verbi sinonimici e la loro raffinata disposizione all’interno del periodo denotano la consapevolezza di Agostino maturo quanto al fatto che l’incontro con Cicerone avrebbe avuto conseguenze decisive per il suo percorso interiore. Non si può, comunque, non notare come ad Agostino piaccia scrivere bene e farsi apprezzare per questo; forse non si era ‘convertito’ del tutto. – flagrantia: la metafora dell’‘ardere’, presente nei verbi precedenti, ricorre spesso nel libro III delle Confessioni, che si apre con una vivida descrizione delle infinite attrattive che una città come Cartagine offriva al giovane studente, facendolo bruciare di passione per le belle donne (è proprio in questi anni che Agostino intrecciava la relazione con una donna da cui nascerà il figlio Adeodato) e la bella vita. Tuttavia, il fuoco delle passioni terrene non lo distoglie dalla ricerca di un’esistenza all’insegna della moralità. – refrangebat: la forma è controversa: la maggioranza dei manoscritti riporta questa lezione interpretandola come refringebat (da refringo «rompo, spezzo»); in altri manoscritti compare la variante refrigebat (da refrigo, «mi raffreddo»). In questo caso, ci sarebbe un’opposizione tra il campo semantico del ‘bruciare’ e quello del ‘raffreddarsi’. – nomen Christi: ci si potrebbe legittimamente chiedere come sia possibile che in un’opera di Cicerone Agostino si aspetti la menzione di Cristo. È chiaro che la delusione appartiene, per così dire, non all’Agostino agens, ma all’Agostino auctor: sembra quasi che, ritornando sull’episodio a distanza di anni, egli si rammarichi non tanto con il se stesso giovane quanto con Cicerone, il quale, pur presentando un messaggio così moralmente elevato, non può fare riferimento a Cristo, via, verità e vita. L’assenza del nome di Cristo nell’Hortensius spingerà Agostino verso la Bibbia, la cui povertà stilistico-retorica sarà fonte di inappagamento e premessa per l’adesione al manicheismo.

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PER FARE IL PUNTO… Confessiones I 13, 21-22; III 4, 7-8 SUI TESTI

• Miserius (I 13, 21) è …………………… e appartiene alla stessa area semantica di .......... e di ……………………….. cui è legato dalla figura del…………. • Fornicanti (I 13, 21) è un participio ……………….. con valore …………………… • Ut pudeat (I 13, 21) introduce una proposizione …………………………. • Haec non flebam et flebam Didonem (I 13, 21) è una costruzione ………………. ed esprime ……………………………………………………………………..… • Nella proposizione quod dolerem (I 13, 21) il verbo è al modo congiuntivo perché si tratta di …………… ………………………… • Imbecilla… aetate (III 4, 7) è complemento ……………………………………. • L’espressione fine… ventoso (III 4, 7) è semanticamente analoga all’espressione …………. spes. • I due quod del paragrafo III 4, 8 introducono due proposizioni …………………… e reggono rispettivamente i verbi …………..…………..e …………………. • Sermone illo (III 4, 8) è complemento ……………………………… • Considera il paragrafo III 4, 8 (hoc tamen… non erat ibi) e analizzalo dal punto di vista sintattico. SUI TEMI

• Che tipo di percorso scolastico ha compiuto Agostino? • Che ruolo ha avuto Monica, la madre di Agostino, nella formazione del figlio? • Quali sono i tratti della personalità di Didone che il giovane Agostino apprezza e nei quali si identifica? • Che funzione svolge Didone nel poema di Virgilio? • Rileggi i due brani e ricerca le metafore più significative, spiegandone il significato • Rintraccia i testi biblici citati direttamente o indirettamente nei due brani e rifletti sulla loro pertinenza rispetto al discorso di Agostino. • Che valutazione esprime Agostino circa il valore del sistema educativo romano? • Confronta l’atteggiamento di Virgilio e quello di Agostino nei riguardi di Didone in I 13, 21-22. Quali analogie e quali differenze vi trovi? • Individua i rapporti tra l’Agostino auctor e l’Agostino agens in III 4, 7-8. • Aiutandoti con il manuale di letteratura latina, riassumi i temi principali dell’Hortensius di Cicerone. • Che importanza ha avuto la lettura di Cicerone nel percorso umano e spirituale di Agostino?

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Tolle, lege: tra libri e conversione Confessiones VIII 12, 28-29

I

insoddisfatto dalla lettura di Cicerone, deluso dalle speculazioni fantasiose dei Manichei, Agostino pensa di aver trovato una risposta alla sua ansia di spiritualità nel pensiero neoplatonico, assai diffuso presso i circoli culturali di Milano. Trascendenza di Dio e problema dell’origine del male sono gli ostacoli che Agostino crede di aver superato grazie alla riflessione neoplatonica (vd. Spiritualità a confronto: neoplatonismo e cristianesimo, p. 41), salvo poi accorgersi che anche in essa manca la dimensione cristologica. Come spiegare il ruolo salvifico di Cristo? Come accettare un Dio non chiuso nella sua trascendenza, ma incarnato nel Figlio morto e risorto per il riscatto dell’umanità peccatrice? Ecco allora che, di fronte all’insufficienza del neoplatonismo, Agostino riprende, con nuove domande, la lettura della Bibbia (che in gioventù lo aveva lasciato indifferente), in particolare delle lettere di Paolo, vero e proprio monumento della Rivelazione cristiana. È questo lo scenario in cui si situa il famoso episodio della conversione, preceduto però da due incontri decisivi. Mentre si trova a Milano, Agostino entra in contatto con Simpliciano, principale consigliere di Ambrogio e suo successore. È lui a fargli intravedere la possibilità di conciliare pensiero neoplatonico e fede cristiana e a proporgli la vicenda dell’erudito e scrittore Mario Vittorino, africano come lui, il quale, tra lo stupore dell’élite pagana del tempo, nel 355 si era convertito al cristianesimo in tarda età. Un altro africano, il funzionario di corte Ponticiano, racconta ad Agostino la storia di Antonio (eremita egiziano vissuto tra III e IV sec. d.C.), precursore del monachesimo orientale. Questi due exempla, uniti alla vivacità della chiesa milanese, hanno un effetto dirompente su Agostino, il quale deve però fare ancora i conti con «la carme che aveva desideri contrari alla spirito e lo spirito che aveva desideri contrari alla carne» (Conf. VIII 5, 11). L’episodio qui riportato illustra il momento culminante (agosto 386) di una conversione che è il risultato di un lungo percorso esistenziale e che è passata attraverso varie tappe: è, infatti, conversione filosofica, teologica e etica. Tutte queste tappe sono collegate fra loro unite dal filo di una diversa modalità di lettura dei libri che avevano segnato fino a quel momento l’esistenza di Agostino: è come se l’approdo finale al testo biblico lo avesse costretto a rileggere con occhi diversi i testi letterari e filosofici della gioventù che il testo biblico non smentisce, ma piuttosto riassume conferendo loro un nuovo e autentico significato. La luce della fede non svaluta la ragione umana, ma la pone sotto una nuova prospettiva. Detto in altri termini: la fede richiede intelligenza tanto quanto l’intelligenza stessa parte poi dalla fede per potersi a sua volta comprendere.

12, 28

Ubi vero a fundo arcano alta consideratio traxit et congessit totam miseriam meam in conspectu cordis mei, oborta est procella ingens ferens ingentem imbrem lacrimarum. Et ut totum effunderem cum vocibus suis, surrexi ab Alypio – solitudo mihi ad negotium flendi aptior suggerebatur – et secessi remotius, quam ut posset mihi onerosa esse etiam eius praesentia. Sic tunc eram, et ille sensit; nescio quid enim, puto, dixeram, in quo apparebat sonus vocis meae iam fletu

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12, 29

gravidus, et sic surrexĕram. Mansit ergo ille ubi sedebamus nimie stupens. Ego sub quadam fici arbore stravi me nescio quomodo et dimisi habenas lacrimis, et proruperunt flumina oculorum meorum, acceptabile sacrificium tuum, et non quidem his verbis, sed in hac sententia multa dixi tibi: Et tu, Domine, usquequo? Usquequo, Domine, irasceris in finem? Ne memor fueris iniquitatum nostrarum antiquarum. Sentiebam enim eis me teneri. Iactabam voces miserabiles: “Quamdiu, quamdiu, cras et cras? Quare non modo? Quare non hac hora finis turpitudinis meae?”. Dicebam haec et flebam amarissima contritione cordis mei. Et ecce audio vocem de vicina domo cum cantu dicentis et crebro repetentis quasi pueri an puellae, nescio: “Tolle lege, tolle lege”. Statimque mutato vultu intentissimus cogitare coepi, utrumnam solērent pueri in aliquo genere ludendi cantitare tale aliquid, nec occurrebat omnino audisse me uspiam repressoque impetu lacrimarum surrexi nihil aliud interpretans divinitus mihi iuberi, nisi ut aperirem codicem et legerem quod primum caput invenissem. Audieram enim de Antonio, quod ex evangelica lectione, cui forte supervenerat, admonitus fuerit, tamquam sibi diceretur quod legebatur: Vade, vende omnia, quae habes, da pauperibus et habebis thesaurum in caelis; et veni, sequĕre me, et tali oraculo confestim ad te esse conversum. Itaque concitus redii in eum locum, ubi sedebat Alypius: ibi enim posueram codicem Apostoli, cum inde surrexeram. Arripui, aperui et legi in silentio capitulum, quo primum coniecti sunt oculi mei: Non in comessationibus et ebrietatibus, non in cubilibus et impudicitiis, non in contentione et aemulatione, sed induite Dominum Iesum Christum et carnis providentiam ne feceritis in concupiscentiis. Nec ultra volui legere nec opus erat. Statim quippe cum fine huiusce sententiae quasi luce securitatis infusa cordi meo omnes dubitationis tenebrae diffugerunt.

12, 28 Ubi… praesentia: «Quando poi dal mistero della coscienza la profonda meditazione fece sgorgare e ammassò al cospetto del mio cuore tutta la mia miseria, scoppiò una potente tempesta che causò una potente pioggia di lacrime. E per poterla scaricare tutta con i suoi scrosci, mi alzai (la solitudine mi si presentava come più adatta alla fatica del piangere) e mi allontanai da Alipio quel tanto che non mi fosse di peso anche la sua presenza».

– fundo: l’etimologia del termine rimanda a «terreno», «suolo». Qui Agostino vuole sottolineare la natura tutta interiore e misteriosa (arcano) del processo che l’ha condotto alla conversione, quasi egli avesse dovuto toccare il fondo e svuotarsi per scoprire il senso della propria ricerca. Lo stato d’animo in cui si troverà Dante smarrito nella selva oscura non sarà molto diverso (Inferno I, 1-60). – consideratio: si noti l’allitterazione con traxit, congessit, conspecutm che richiama foneticamente la confessio. – traxit et congessit: la posizione enfatica di questa coppia verbale sembra suggerire la fase del ripiegamento interiore che anticipa lo scoppio della tempesta di lacrime. – oborta est: perfetto indicativo di ob-orior, letteralmente «sorgo», «spunto». – procella ingens: nella descrizione di questa scena, condotta secondo i moduli della poesia epica, si potrebbe scorgere un’iperbole gratuita, frutto di una ricostruzione a posteriori nella quale sembra che la ‘buona’ letteratura prevalga sulla spontaneità della confessione. Non si deve però dimenticare che Agostino, anche dopo aver abbracciato il cristianesimo, continua a rimanere quel maestro di retorica che era da giovane. D’altra parte, ancora oggi nel linguaggio scientifico l’uso di metafore meteorologiche è tutt’altro che infrequente (gli psichiatri, per esempio, parlano spesso di «tempeste pulsionali»). – ferens… lacrimarum: motivo ricorrente nelle Confessiones, il tema delle lacrime e del pianto spicca in particolare nel libro VIII, dedicato al racconto della conversione. L’effetto drammatico viene ulteriormente amplificato dall’omoteleuto, dall’allitterazione e dal poliptoto che legano tra loro i singoli termini della frase: ingens ferens ingentem imbrem lacrimarum. –

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Et ut… eius praesentia: la frase è tutta giocata sulla contrapposizione tra assenza (remotius) e presenza (praesentia), silenzio (solitudo) e frastuono (vocibus). – Alypio: originario di Tagaste e amico di Agostino fin dalla prima infanzia, viene raggiunto a Roma dallo stesso Agostino per poi partire insieme a lui alla volta di Milano. È la persona che segue più da vicino il travaglio interiore di Agostino, diventandone una sorta di alter ego. Non a caso, seguirà l’amico nel ritiro di Cassiciaco, collaborando con lui alla stesura dei Dialoghi di Cassiciaco. – ad negotium flendi: il termine (opposto di otium) vuole sottolineare il travaglio interiore cui Agostino deve far fronte; flendi è gerundio genitivo del verbo fleo. – secessi remotius quam ut: letteralmente «mi ritirai più lontano che la sua presenza non potesse essermi di peso»; ut regge un congiuntivo consecutivo; l’avverbio remote viene usato solo al comparativo o al superlativo. – solitudo: sebbene accompagnato nella sua ricerca interiore da Alipio, nel momento della massima decisione, Agostino sperimenta la solitudine del credente: è quasi un anticipo della scelta di una vita ascetica, dedicata al silenzio e alla meditazione, di cui il ritiro a Cassiciaco, immediatamente successivo, è la testimonianza. Sic… tuum: «Così ero allora e lui se ne accorse: infatti avevo detto, credo, non so cosa da cui appariva il suono della mia voce già gravido di pianto e così mi ero alzato. Lui quindi rimase dove eravamo seduti sopraffatto dallo stupore. Io, non so come, mi sdraiai sotto un albero di fico e sciolsi le briglie del pianto e strariparono i fiumi dei miei occhi, sacrificio a te gradito».

– sensit: data la lunga consuetudine con Agostino, Alipio non ha bisogno di molte parole per capire il suo travaglio interiore e il suo bisogno di solitudine. Anche il parallelismo sintattico (sic eram et ille sensit) sembra sottolineare questa corrispondenza di sentimenti. – surrexeram: il verbo (da surrigo) possiede anche una valenza metaforica: il mettersi in piedi implica una pronta risposta e l’impegno a percorrere una strada diversa. – Mansit: al movimento di Agostino si contrappone la rispettosa immobilità di Alipio. – nimie stupens: particpio con funzione predicativa; lett. «supendosi moltissimo». – sub… fici arbore: vista la rilevanza dell’episodio, non è impossibile che, a distanza di tempo, Agostino ricordi con questa precisione il tipo di pianta sotto il quale si era sdraiato. Tuttavia, è certo che la scena sia frutto di una rielaborazione posteriore condotta sulla base di precise reminiscenze bibliche, in cui confluiscono tre episodi: quello delle coperture con foglie di fico intrecciate da Adamo e Eva (Genesi 3, 7), quello del fico sterile (Matteo 21, 18-22), e quello di Natanaele (Giovanni 1, 47-48). Nei passi in questione il fico - come Agostino avrà modo di commentare nei suoi scritti esegetici - esprime l’idea del peccato originale, della concupiscenza della carne e delle parole che non producono frutto. – dimisi habenas: l’icastica perifrasi ricorre anche in Confessiones II 3, 8 (Relaxabantur etiam mihi ad ludendum habenae, «mi venivano anche sciolte le briglie per il divertimento») allorché Agostino parla della propria giovinezza inquieta. Analoga espressione si trova in Eneide XII 499 (irarumque omnes effundit habenas, «lascia andare tutte le redini dell’ira»). – acceptabile sacrificium tuum: vi è qui un riferimento al Salmo 50, 17-21. Et… meae: «E non proprio con queste parole, ma certo con questo significato ti parlai a lungo: “E tu, Signore, fino a quando? Fino a quando, Signore, durerà la tua ira? Non ricordare le nostre antiche iniquità”. Avvertivo infatti di esserne ancora legato. Proferivo parole piene di angoscia: “Quanto ancora? Quanto? Domani e poi ancora domani? Perché non ora? Perché non in questo momento finisce la mia vergogna”?».

– his verbis: questa espressione che introduce citazioni bibliche ricorre spesso nei libri VII-IX delle Confessioni dedicati al racconto della conversione. Il costante riferimento al testo biblico, in particolare ai Salmi, consente all’Agostino auctor di far uscire l’Agostino agens dai limiti del soggettivismo, collocando il proprio travaglio interiore in un percorso che è scandito dal continuo confronto con la parola di Dio; la scoperta della Bibbia, in particolare delle Lettere di Paolo, è stata, infatti, decisiva per la conversione di Agostino. – “Et tu, Domine, usquequo?… nostrarum antiquarum”: vengono qui fusi due passi dei Salmi 6, 4 e 78, 5.8. Commentando il primo, Agostino afferma: «Non bisogna considerare crudele il Dio a cui sono rivolte le parole: E tu Signore fino a quando?, ma bisogna piuttosto considerarlo come un buon maestro che fa capire all'anima il male che si è procurata da se stessa.» (Enarrationes in Psalmos VI 4). – iactabam voces: espressione simile in Eneide II 768 (ausus quin etiam voces iactare per umbram, «io osai anche lanciare grida nell’ombra»). – cras: l’iterazione di cras, come pure il successivo hac hora, sembra suggellare l’irrevocabilità del momento. L’invito a non differire a domani quello che si potrebbe fare oggi è motivo ricorrente della poesia satirica; si veda in particolare Persio, Satira V 66-68. 12, 29 Dicebam… uspiam: «Dicevo questo e piangevo nella penosissima afflizione del mio cuore. Quand’ecco che sento una voce (proveniente) dalla casa vicina con una cantilena, se di un bambino o di una bambina non lo so, che diceva e ripeteva continuamente: “Prendi, leggi; prendi, leggi”. Subito, cambiata l’espressione del volto, cominciai a pensare intensamente se per caso i bambini durante qualche loro gioco fossero soliti canterellare qualcosa del genere. Ma non mi veniva in mente di averla mai sentita da nessuna parte».

– contritione: da contero («trito», «distruggo»), è termine usatissimo dagli scrittori cristiani per indicare l’umiliazione interiore (cfr. Salmo 50, 19: «Il mio sacrificio, o Dio, è uno spirito contrito, un cuore contrito e umiliato tu non disprezzi, o Dio»). È interessante notare come il verbo ebraico (šbr) sia stato reso, nella tra-

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duzione greca della Bibbia, con syntríibo (lett. «essere a pezzi») da cui il sostantivo latino contritio. – vicina domo: mentre la stragrande maggioranza dei manoscritti delle Confessiones riporta questa lezione, il più antico (il Sessoriano) reca la forma divina domo, che viene però esclusa dalla maggior parte degli studiosi. – cantu: considerando l’avverbio crebro che accompagna il participio repetentis (genitivo perché concordato con pueri an puellae) e più avanti l’uso del frequentativo cantitare, il canto si presenta come una specie di nenia ripetuta ossessivamente, sottolineata anche dalla allitterazione cum cantu … crebro. – quasi pueri an puellae, nescio: interrogativa indiretta disgiuntiva; il significato letterale è: «come se fosse un bambino (ma non lo so), come se fosse una bambina (ma non lo so)». Di chi è dunque questa voce? C’è chi ha parlato di una voce angelica. Anche in questo caso, si potrebbero proporre molte ipotesi. Ma resta il fatto che Agostino, lungi dal voler inserire il tutto in un’atmosfera esoterica, intende invitare il lettore ad entrare insieme a lui nella dimensione del mistero (vd. Il racconto della conversione tra memoria e finzione letteraria, p. 40). – Tolle, lege: nel tardo latino tollere tende a sostituire sumere, capere nel significato di «prendere». Il nesso tolle lege intende sottolineare la peculiarità della conversione di Agostino, giunta al termine di un ‘viaggio intorno ai libri’: da Virgilio a Cicerone ai libri dei manichei e a quelli dei neoplatonici egli approda alla scoperta della Bibbia, libro che gli consente di rileggere con un nuovo sentire le sue precedenti letture. È qui che la sapienza pagana viene illuminata dalla sapienza cristiana. – mutato vultu: ablativo assoluto; anche il participio passato mutato, come il surrexeram di cui sopra, ha un significato metaforico: si allude al cambiamento di mentalità, cioè alla metánoia, termine neotestamentario che indica la conversione. – coepi cogitare: perifrasi per esprimere l’aspetto ingrevviso dell’azione verbale (coepi + infinito). Il verbo esprime efficacemente l’istintivo processo di razionalizzazione cui Agostino sottopone il suono della voce fanciullesca; solo in seguito, la ragione cederà il posto alla contemplazione: dal cogitare si passa al interpretans divinitus. – utrumnam: forma rafforzata dell’avverbio interrogativo; introduce l’interrogativa diretta e dipende da cogitare. – cantitare: frequentativo di cano (letteralmente: «cantare in continuazione»). – aliquo genere ludendi: lett. «in qualche genere del giocare». Repressoque… conversum: «Dopo aver trattenuto la foga delle lacrime, mi alzai, leggendo (in quell’episodio) nient’altro che un ordine divino ad aprire il libro e leggere il primo capitolo che vi avessi trovato. Infatti avevo sentito parlare di Antonio, di come era stato ammonito da un passo evangelico nel quale si era imbattuto, come se fosse rivolto proprio a lui ciò che vi si leggeva: “Vai, vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”; e subito in base a quel detto egli si convertì a te».

– impetu lacrimarum: la locuzione si ricollega all’iniziale imbrem lacrimarum. – divinitus iuberi: letteralmente: «che mi si comandava per volontà divina». – ut aperirem: il verbo iubeo esige la costruzione con ut + congiuntivo solo in presenza di deliberazioni ufficiali del senato o di qualche magistrato; evidentemente, Agostino vule sottolineare la solennità dell’ordine ricevuto. – invenissem: attrazione modale del congiuntivo. – Audieram: allusione a quanto detto in Confessiones VIII 6, 14 a proposito della visita di Ponticiano, il quale racconta ad Agostino e ad Alipio «la storia di Antonio, il monaco egiziano che godeva di grande fama presso i tuoi fedeli ma che noi fino a quel momento ancora non conoscevamo». – Antonio: grazie alla biografia scritta da Atanasio nel IV secolo, Antonio (250-356) diventerà una delle figure più rappresentative del monachesimo anacoretico. È proprio il racconto della storia a spingere Agostino ed Alipio ad abbracciare, sia pure momentaneamente, la vita contemplativa nel ritiro di Cassiciaco. – quod… admonitus fuerit: congiunzione dichiarativa con valore epesegetico. – lectione: termine tecnico per indicare brevi pericopi evangeliche usate nella liturgia e raccolte nei lezionari. – supervenerat: lett. «sul quale si era gettato». – tamquam sibi diceretur: proposizione comparativa ipotetica seguita da una relativa propria (quod legebatur); lett. «come se fosse detto per lui» (sibi è dativo di vantaggio). – “Vade… sequere me”: citazione da Matteo 19, 21. La cosiddetta pericope del giovane ricco era diventata il testo di riferimento per coloro che decidevano di abbracciare la scelta monastica. – tali oraculo… esse conversum: l’infinto (esse conversum) dipende da audieram. All’inizio del IV libro delle Confesioni Agostino condanna la sua giovanile adesione alle pratiche divinatorie così diffuse nel mondo antico; in questo passo invece la terminologia utilizzata (interpretans divinitus; quod primum caput invenissem; forte supervenerat; oraculo) sembra presupporre una lettura della Bibbia affidata al caso. In realtà, interpellare le Sacre Scritture per ricavarne un significato per la propria vita era pratica diffusa nel cristianesimo dell’epoca, in parte presente ancora oggi, specialmente in alcuni filoni del protestantesimo e nei gruppi neocatecumenali. Itaque… diffugerunt: «Così tornai in tutta fretta nel luogo dove sedeva Alipio: lì infatti avevo appoggiato il libro dell’apostolo quando mi ero alzato. Lo afferrai, lo aprii e lessi in silenzio il primo capitolo sul quale si erano diretti i miei occhi: non nelle gozzoviglie e nelle orge, non nelle lussurie e nelle impudicizie, non nella discordia e nell’invidia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo e non indulgete alla carne, seguendo i suoi impulsi sfrenati. Non volli leggere oltre né ce n’era bisogno. Perché subito, alla fine di quel versetto, come per effetto di una luce di certezza che si era riversata sul mio cuore, tutte le tenebre del dubbio si dissolsero».

– concitus: aggettivo con funzione predicativa del soggetto. – redii: si sarà notato come tutta la sequenza della conversione sia percorsa da verbi di movimento (surrexi – secessi – redii – diffugerunt) alternati a verbi di

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quiete (mansit – sedebamus – stravi). Il dinamismo, anche fisico, della conversione è tratto distintivo di tutto il libro VIII: la battaglia della volontà (ego eram, qui volebam, ego, qui nolebam; ego, ego eram. Nec plene volebam nec plene nolebam, 10, 22), il desiderio di non rimandare (Dicebam enim apud me intus: “Ecce modo fiat, modo fiat”, 11, 25), lo sconvolgimento dei sensi (Si vulsi capillum, si percussi frontem, si consertis digitis amplexatus sum genu, quia volui, feci, 8, 20) segnalano il dramma in cui si sta dibattendo Agostino. – posueram: in contrasto con surrexeram (che ricorre qui per la quarta volta nei due paragrafi in esame: surrexi … surrexeram … surrexi … surrexeram), il verbo indica non soltanto l’atto fisico di posare il libro, ma anche il deporre il travaglio spirituale e il giungere finalmente a quella pace interiore di cui testimonia il celeberrimo incipit delle Confessiones: fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te» (I 1,1), peraltro strettamente collegato all’excipit dell’opera: tu … semper quietus es quoniam tua quies tu ipse es» (XIII 38,53). – codicem apostoli: si tratta del libro contenente le lettere di Paolo che Agostino teneva in casa sul tavolo da gioco (mensam lusoriam: VII 6,14) e che si era portato appresso nel giardino. – Arripui, aperui, et legi: il trikólon esprime efficacemente la smania di rispondere all’invito della voce fanciullesca che gli aveva detto: tolle lege. Come si è detto, la scoperta della Bibbia da parte di Agostino avviene, come capiterà secoli dopo a Lutero, proprio grazie alla lettura dell’apostolo Paolo; lo dice lui stesso: «Afferrai con grande avidità (avidissime arripui) i venerabili scritti da te ispirati e, prima di tutto, su quelli dell’apostolo Paolo» (Conf. VII 21, 27). – in silentio: come noto, la lettura silenziosa era pressoché sconosciuta ai romani. Non a caso, quando Agostino vede Ambrogio leggere in silenzio («gli occhi scorrevano le pagine e il cuore ne penetrava il senso, mentre la voce e la lingua tacevano») ne rimane colpito, e così commenta: «la preoccupazione di risparmiare la voce, che diventava rauca facilmente, poteva essere un motivo più che valido per leggere in silenzio» (Conf. VI 3, 3). – “non… concupiscentiis”: qui Agostino cita solo la parte finale del passo di Paolo tratto dalla Lettera ai Romani 13, 12-14. Ci si chiede per quale motivo gli occhi di Agostino cadano proprio su questo passo. Sebbene egli affermi che si sia trattato di una scelta casuale, è evidente che, nella ricostruzione a posteriori, il brano paolino assume un valore paradigmatico: collocato nella sezione parenetica della Lettera ai Romani, esso è infatti contrassegnato dal contrasto tra opere delle tenebre e armi della luce, lo stesso contrasto in cui si è a lungo dibattuto Agostino prima di giungere alla conversione. In effetti, è stata proprio la concupiscenza, cioè l’amore per i piaceri terreni, a impedirgli un approdo più celere alla verità. – dubitationis tenebrae diffugerunt: oltre al riferimento paolino (la luce della grazia che annulla le tenebre del peccato) l’espressione, richiamando per allitterazione fine e infusa, suggella il dissolvimento della procella ingens con cui si era aperto il capitolo 12, 28. Il contrasto tra lux securitatis e dubitationis tenebrae è racchiuso in un efficacissimo chiasmo.

Il racconto della conversione tra memoria e finzione letteraria Anche quando diventa oggetto di racconto e di riflessione a posteriori, una conversione rimane pur sempre un evento misterioso: le componenti psicologiche e spirituali sono infatti così complesse e intrecciate tra loro che è necessario ricorrere a modalità espressive di tipo simbolico. Alla regola non sfugge neppure il racconto della conversione di Agostino. La scena del giardino viene così ricostruita da Agostino: «Vicino alla nostra abitazione c’era un piccolo giardino (hortulus) che usavamo come il resto della casa, dal momento che il nostro ospite, padrone della casa, non ci abitava (…) Mi ritirai dunque in giardino e Alipio mi seguì, passo passo. A dire il vero mi sentivo ancora solo, nonostante la sua presenza, e poi come avrebbe potuto abbandonarmi in quelle condizioni? Sedemmo il più lontano possibile dalla casa. Non era violato il mio segreto, anche se lui era presente, e del resto come avrebbe potuto abbandonarmi in uno stato simile? Ci mettemmo a sedere nel posto più lontano possibile dalla casa» (VIII 8,19). Segue la descrizione del tormento interiore di Agostino, con Alipio che «immobile al mio fianco, attendeva in silenzio l’esito della mia insolita agitazione» (11, 27). Nella sequenza centrale della conversione (sulla quale gli studiosi si sono divisi in molteplici tentativi di interpretazione) Agostino è seduto nel giardino immerso nei suoi pensieri, quando sente una voce infantile; l’istinto lo porta a chiedersi chi e per quale motivo (forse un gioco da bambini) può aver pronunciato quelle parole (piano materiale); solo in seguito interpreta la voce come un comando divino (piano spirituale). È proprio il passaggio dalla realtà materiale a quella spirituale a tracciare il confine tra il vecchio e il nuovo Agostino. Sarebbe stucchevole interrogarsi sulla veridicità dell’episodio, che comunque ha tutta l’aria di essere frutto di una rilettura dell’Agostino auctor, al quale probabilmente interessava porre l’accento sul carattere uditivo più che visivo dell’esperienza. Un interessante parallelo con la vicenda qui descritta è quanto Agostino dice in un sermone (pronunciato pochi anni prima la stesura delle Confessioni) a proposito delle modalità con cui Dio parla all’essere umano: «Sono molti i modi con cui Dio ci parla. A volte tramite qualche documento, come attraverso il libro delle sacre Scritture. Parla

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attraverso qualche elemento del mondo […] Parla attraverso la sorte […] Parla attraverso l’essere umano, come attraverso il profeta. Parla tramite l’angelo, come sappiamo che ha parlato ad alcuni dei patriarchi, dei profeti e degli Apostoli. Parla attraverso una qualche creatura fatta di voce e di suono, come leggiamo e crediamo siano scese delle voci dal cielo, anche se non si vede nessuno con gli occhi. Infine Dio parla all'uomo stesso, non esternamente tramite le sue orecchie o gli occhi, ma interiormente, nell’anima, in varie maniere» (Sermones 12, 4).

Spiritualità a confronto: neoplatonismo e cristianesimo Il neoplatonismo. Fondato da Ammonio Sacca (175-242), ma diventato popolare grazie all’opera di Plotino (203/4-269/70), il neoplatonismo rappresenta il più originale tentativo di conciliare la tradizione razionalista greca con il misticismo orientale. Pur nella pluralità delle scuole (quella siriaca, quella di Atene, quella di Alessandria e di Roma) e degli indirizzi di pensiero, è possibile cogliere i tratti salienti della riflessione neoplatonica. Anzitutto, l’idea che Dio (o l’Uno primo, come lo definisce Plotino) sia trascendente, senza forma e figura (ámorphos e aneídos); in quanto assolutamente Altro, quindi oltre il linguaggio e la ragione, egli è inconoscibile. In secondo luogo, l’idea della creazione del mondo non come atto di volontà, ma come emanazione divina (apórroia). Come il fuoco emana calore (l’immagine è dello stesso Plotino), così la perfezione di Dio, priva di limiti, straripa concretizzandosi in una serie di ipostasi (realtà sostanziali) ordinate gerarchicamente dalla più perfetta alla meno perfetta, a seconda del loro vicinanza all’emanazione divina: l’Uno produce l’intelletto, da cui emana l’anima, la quale a sua volta produce la materia. Infine, l’idea del ritorno all’Uno tramite un percorso di perfezionamento scandito da tappe che riproducono la processione delle ipostasi, l’ultima delle quale è l’estasi, da intendere come immersione nell’Uno. Neoplatonismo ‘cristiano’ e cristianesimo ‘neoplatonico’. La forte sottolineatura della trascendenza divina e il pressante appello all’ascesi personale sono due aspetti che costituiscono il terreno di incontro tra neoplatonismo e cristianesimo, tanto che, sia pure a livello di élites colte, i cristiani erano impegnati in un serrato confronto con il neoplatonismo per far emergere i punti di convergenza. Ciò non significa certo che le differenze venissero nascoste. Il neoplatonismo, per esempio, esasperando la trascendenza divina, intendeva contestare l’antropomorfizzazione cristiana del Dio che si fa uomo. A differenza poi di quella cristiana, che possedeva anche un’apertura sociale e comunitaria, l’ascesi neoplatonica era personale e soggettiva: nel suo percorso di perfezionamento, il neoplatonico non ha bisogno di un apparato ecclesiastico, di azioni rituali né di guide spirituali. Sono però due i temi su cui la distanza era incolmabile. Il primo riguarda la creazione del mondo: mentre il Dio neoplatonico crea non volontariamente, ma per emanazione, il Dio ebraico-cristiano crea per un atto di libera volontà, fondando in questo modo la libertà umana di rifiutare Dio e la sua creazione (vedi la storia di Adamo ed Eva). Il secondo riguarda invece il rapporto tra Dio e l’essere umano: mentre il Dio cristiano, con l’Incarnazione, ‘vuole’ salvare il mondo dal peccato (Dio va verso l’uomo), nella concezione neoplatonica è l’uomo stesso che compie un percorso di ritorno verso la fonte del bene (l’uomo va verso Dio). Agostino e il neoplatonismo. Fra la primavera e l’estate del 386, mentre si trovava a Milano, Agostino entrò in contatto con personalità cristiane che gli offrirono l’opportunità di conoscere e studiare i testi neoplatonici. Pur avendo letto soltanto una parte delle Enneadi di Plotino, nella traduzione latina di Mario Vittorino, Agostino fu come illuminato dai punti di contatto fra neoplatonismo e cristianesimo: la natura assolutamente spirituale di Dio, la generazione del Verbo, l’anima umana illuminata da una luce divina. Restava però ancora da superare lo scoglio rappresentato dall’incarnazione del Verbo e dalla sua morte in croce per la redenzione dell’essere umano, che è poi il nucleo fondamentale della teologia di Giovanni e di Paolo. Sarà proprio la lettura di Paolo a far capire ad Agostino che il Verbo si fa carne proprio per liberare l’uomo dalla schiavitù della carne (cfr. Conf. VII 21, 27).

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PER FARE IL PUNTO… Confessiones VIII 12, 28-29 Sul testo

• flendi (12, 28) è un ……………….. del verbo ……………………….. dipendente da ………... • dimisi habenas (12, 28) è una …………………………. con la quale Agostino vuole esprimere ……………………………………………………. • che differenza semantica esiste tra sentiebam (12, 28) e audio (12, 29)? • cantitare (12, 29) è verbo …………………… di ……………… • tolle, lege (12, 29) è una costruzione ………………………… • utrumnam (12, 29) è un …………………………. e introduce una ………………………… • mutato vultu (12, 29) è un …………………… e ha valore ………………………….. • surrexi (12, 29) è …………………… del verbo ..........………………………. • divinitus (12, 29) è un ………………….. e va collegato al verbo …………………….. • perché iuberi è infinito? • quod… admonitus fuerit (12, 29) è una proposizione …………………………………. che dipende da ……………………….. Sui temi

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Chi è Alipio e che ruolo ha avuto nel cammino di conversione di Agostino? Per quale motivo Agostino si trova a Milano al momento della conversione? Cosa rappresenta per Agostino la figura di Antonio citata nel brano? Qual è il significato allusivo dell’albero di fico sotto il quale si sdraia Agostino? E, in particolare, a quali episodi biblici fa riferimento? Il brano contiene numerose citazioni bibliche. Analizzale e spiega, di volta in volta, per quale motivo vengono citate. Come si può spiegare il fatto che la voce che Agostino sente sia quella di un bambino? E’ una percezione reale o simbolica? Che mutamento contrassegna nell’animo di Agostino? Spiega che cosa rappresenta esattamente la conversione di Agostino. È semplicemente un’adesione al cristianesimo oppure oppure assume altre valenze? Quali? Confronta l’incipit e l’excipit del brano. Cosa si può notare? Quali metafore vengono usate e qual è il loro significato? Rileggi il brano e rintraccia i verbi di movimento, in esso presenti; spiega, poi, il motivo della loro frequenza qui e in tutto il libro VIII. Nel brano compaiono anche verbi di quiete; dopo averli individuati soffermati in particolare su posueram, indicando il valore metaforico che assume. Analizza la conversione narrata in questo passo rispetto alla conversione ‘filosofica’ di Agostino narrata in III 4, 7-8 e illustra in che cosa consistono le differenze.

2. La reazione pagana

Iniziata nel febbraio 380 con il famoso editto di Tessalonica, in cui si afferma, tra l’altro che tutti i popoli devono seguire «la religione data ai Romani dal divino apostolo Pietro» (ossia il cristianesimo ortodosso uscito dal concilio di Nicea), la politica religiosa di Teodosio non conosce soste (cfr. Codex Theodosianus XVI,10): nel dicembre 381 si proibisce ogni forma di sacrifico, pena la proscrizione (proscriptione); nel maggio 385, la pena viene inasprita e si parla di crocifissione (cruciatus); nel febbraio 391 si proibisce l’ingresso tout court nei templi (nemo delubra adeat); nel novembre 392 si vieta ogni forma di sacrificio, pubblico o privato che sia, pena la condanna per alto tradimento (maiestatis reus). L’intento di Teodosio era chiaro e duplice: concludere il processo di cristianizzazione dell’impero e risolvere le controversie dottrinarie che laceravano il cristianesimo. Il mondo doveva diventare cristiano e il cristianesimo doveva diventare ‘cattolico’ (cioè non ariano). Tali provvedimenti, venuti dopo quelli analoghi adottati da Graziano (375-383), ebbero l’effetto di ricompattare le fila dell’élite pagana di Roma, sgomenta nel vedere in pericolo la grande tradizione del passato, ma soprattutto – giova ricordarlo – timorosa di perdere antichi privilegi. Dopo l’intenso quanto fugace tentativo di restaurazione pagana messo in atto da Giuliano (361-363) – dalla storiografia cristiana bollato con l’ingeneroso appellativo di Apostata per il suo ripudio del cristianesimo –, gli ultimi due decenni del IV secolo vedono l’estremo ritorno di fiamma del paganesimo ad opera del Circolo dei Saturnali, che annoverava personalità di spicco dell’aristocrazia senatoria quali Vettio Agorio Pretestato (vd. p. 45), Virio Nicomaco Flaviano, Quinto Aurelio Simmaco (vd. p. 23).

Il tentativo di restaurazione del paganesimo

Non è casuale che il centro di tale riscossa siano stati la città di Roma e il senato: la prima, persa ormai la sua centralità politica, continuava però ad essere lo scrigno che racchiudeva le vestigia più importanti del culto pagano; il secondo rivendicava con orgoglio il suo ruolo di testimone e difensore del glorioso passato. Come infatti attestano numerose iscrizioni (per esempio quella di Pretestato; vd. In diretta dal passato, p. 45), i senatori si davano un gran daffare per ricordare, sulle tombe di famiglia e su altri monumenti privati, di essere stati adepti del culto di Ecate, iniziati ai misteri di Eleusi, sacerdoti di Ercole, Attis, Isidie o Mitra. Di fronte però alla controffensiva imperiale, antisenatoria quanto antipagana, gli ultimi intellettuali pagani diedero il meglio di sé in ambito letterario, quasi volessero preservare, almeno, il patrimonio di pensiero che il furore censorio e distruttivo dei cristiani stava cancellando. La letteratura fu insomma l’ultima roccaforte nella quale rifugiarsi. Ecco allora una vasta operazione di tipo antiquario e filologico tesa a tradurre testi greci, a ritornare su autori come Tito Livio e Virgilio (il suo grande commentatore Servio faceva parte del Circolo dei Saturnali), a riscoprire la figura di Alessandro Magno, a diffondere la Vita di Apollonio di Tiana scritta nel III secolo da Filostrato. Apollonio, filosofoso neopitagorico, vissuto del I sec. d.C., godeva infatti fama di taumaturgo, tanto che i circoli pagani del III-IV sec. lo vollero contrappore a Cristo.

Il crepuscolo del paganesimo

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La testimonianza più alta di questo lavoro di recupero dell’antichità è rappresentata senza dubbio dai Saturnalia di Macrobio (seconda metà del IV secolo), sette libri strutturati sottoforma di dialogo conviviale. Si immagina che, durante le feste di Saturno, alcuni fra i più autorevoli dotti del tempo, riuniti a Roma (nel dicembre del 384) - il primo giorno in casa di Vettio Agorio Pretestato, gli altri due giorni in casa rispettivamente di Virio Nicomaco Flaviano e di Quinto Aurelio Simmaco - conversino su questioni erudite. L’opera è una vera e propria enciclopedia del sapere filosofico, letterario e religioso della paganità. Nel corso della sua attività pastorale, Agostino si trovò spesso alle prese con problemi di ‘convivenza religiosa’, inaspritisi ancor più a seguito dei provvedimenti imperiali che intendevano cancellare ogni traccia di paganesimo. Già a partire dalla metà del IV, ma soprattutto dal V sec., la legislazione antipagana era infatti diventata capillarmente persecutoria: mentre in precedenza il culto pagano, in quanto errore ‘spirituale’, poteva al massimo suscitare nei cristiani un misto di fastidio e di sopportazione, ora esso rientrava a pieno titolo nella categoria del reato. La riprovazione morale cedeva insomma il posto alla sanzione giuridica. La testimonianza più significativa di questo mutato clima è rintracciabile in alcune delle lettere che costituiscono l’Epistolario agostiniano. Nella lettera indirizzata a Massimo di Madaura (Epistulae XVI-XVII; vd. pp. 46 e ss.), per esempio, Agostino, appena ordinato prete, dialoga in modo pacato con il suo interlocutore, cercando di risultare convincente senza essere offensivo. Ben altro tono rispetto allo scambio epistolare con Nettario (Epistulae XC-XCI e CIII-CIV), un alto funzionario pagano che cerca di intercedere presso Agostino, già vescovo di Ippona (siamo nel 408-409), affinché i provvedimenti contro il culto pagano venissero applicati con minore rigidità. All’appello di Nettario ai comuni valori etici (quelli espressi dal De officiis di Cicerone), Agostino risponde con durezza sostenendo come il cristianesimo, lungi dall’aver abolito questi valori, ne fosse diventato il vero interprete e l’unico depositario. Ai toni pacati e ‘tolleranti’ che caratterizzano lo scambio epistolare con Massimo, si contrappone insomma una posizione più rigida, per effetto della quale il paganesimo viene assimilato ad una visione distorta dell’esistenza. Il suo fallimento è sia morale sia politico, mentre la sua sopravvivenza è confinata al patrimonio retorico e letterario di cui il cristianesimo si appropria per esprimere, con parole antiche, il proprio messaggio di rinovamento.

La posizione di Agostino

Per leggere i testi Per le lettere XVI e XVII cfr. NBA XXI/1: introd. M. Pellegrino; traduz. T. Alimonti - L. Carrozzi; note 2 L. Carrozzi, Città Nuova, Roma 1992 . Per approfondire Sulla reazione pagana della seconda metà del IV secolo, si segnalano, oltre alle trattazioni presenti nelle varie storie del cristianesimo già citate, gli studi di J.J. O’Donnell, The demise of paganism, in «Traditio» 35 (1979), pp. 45-88 e di A. Quacquarelli, Reazione pagana e trasformazione della cultura (fine IV secolo d. C.), Edipuglia, Bari 1986. In particolare, su Pretestato vedi il saggio di K. Maijastina, Vettius Agorius Praetextatus. A Senatorial Life in Between (Acta Instituti Romani Finlandiae 26), Roma 2002.

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In diretta dal passato: l’ara funeraria di Pretestato

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ettio Agorio Pretestato (nato intorno al 310 e morto nel 384) fu una delle figure di spicco dell’ultimo paganesimo, tanto che, mezzo secolo dopo la sua morte, Macrobio ne fece il protagonista dei suoi Saturnalia, evidentemente vedendo in lui il sicuro punto di riferimento della resistenza pagana, sebbene sia assai difficile stabilire l’esatta portata della sua attività. Già consigliere per il culto occidentale con Giuliano, che lo nominò proconsole dell’Acaia (362-364), venne eletto prefetto della città di Roma da Valentiniano I nel 367-368. È interessante scoprire come, in qualità di prefetto, Pretestato sia dovuto intervenire per sedare i disordini tra i sostenitori di Ursino e quelli di Damaso, scoppiati in città in seguito all’elezione al papato del secondo; fu proprio lui a dichiarare valida l’elezione di Damaso – si ricordi che la sua candidatura era caldeggiata dall’aristocrazia romana che vedeva in lui un interlocutore più favorevole – e a bandire dalla città Ursino. Al tempo stesso, però, Pretestato prese provvedimenti a sostegno del culto pagano: decretò la demolizione di case private costruite a ridosso dei templi pagani e per il restauro di un tempio dedicato alle dodici maggiori divinità maschili e femminili del pantheon romano (gli Dei Consentes), il cui portico è ancora oggi visibile nel foro romano. Dopo essersi ritirato a vita privata, nel 384 venne nominato all’alta carica di prefetto del pretorio per l’Italia e designato console per l’anno successivo. Fu lui, negli ultimi mesi di vita, a istituire una commissione di inchiesta per indagare su alcuni cristiani che avevano demolito dei templi pagani. L’ara di Vettio Agorio Pretestato e di sua moglie Aconia Fabia Paolina è oggi conservata ai Musei Capitolini di Roma. Si tratta di un parallelepipedo di marmo alto 125 cm., con le quattro facciate occupate da una lunga iscrizione (CIL VI.1779 = ILS 1259-61). La parte centrale così recita: D(is) M(anibus) / Vettius Agorius Praetextatus / augur p[o]ntifex Vestae / pontifex Sol[is] quindecemvir / curialis Herc[u]lis sacratus / Libero et Eleusi[ni]s hierophanta / neocorus tauroboliatus / pater patrum in [r]e publica ver[o] / quaestor candidatus / pr(a)etor urbanus / corrector Tusciae et Umbriae / consularis Lusitaniae / proconsule Achaiae / praefectus urbi / legatus a senatu missus V / praefectus praetorio II Italiae / et Illyrici consul ordinarius / designatus / et Aconia Fabia Paulina c(larissima) f(emina) / sacrata Cereri et Eleusiniis / sacrata apud Eginam Hecatae / tauroboliata hierophantria / hi coniuncti simul vixerunt ann(os) XL //

Agli Dei Mani. Vettio Agorio Pretestato, augure, sacerdote di Vesta, sacerdote del Sole, quindicemviro, curiale di Ercole, iniziato a Libero e ai (misteri) Eleusini, ierofante, neocoro [= custode dei templi], tauroboliato, padre dei padri. Nell’ufficio pubblico questore candidato, pretore urbano, governatore della Tuscia e dell’ Umbria, governatore della Lusitania, proconsole dell’Acaia, prefetto di Roma, legato senatorio per cinque volte, prefetto del pretorio in Italia e in Illiria per due volte, console ordinario designato, e Aconia Fabia Paolina, donna famosissima, iniziata a Cerere e ai (misteri) Eleusini, iniziata a Ecate presso Egina, tauroboliata, ierofante. Vissero insieme per quaranta anni.

I lati destro e sinistro contengono un elogio alla moglie, mentre il lato posteriore riporta un lungo epitaffio dei due coniugi. Al di là delle stlilizzazioni dell’epigrafia funeraria, l’iscrizione offre un interessante spaccato sul tardo paganesimo. In una sorta di ansia tesa a rimarcare la propria appartenenza religiosa, Pretestato non esita a menzionare una lunga serie di iniziazioni religiose, condivise peraltro dalla fedele moglie. Sembra che Pretestato non sia lasciato sfuggire nessuno dei più diffusi culti misterici dell’epoca: il Sol Invctus, i culti eleusini (lo ierofante era il sacerdote che durante i misteri eleusini celebrava il rito e mostrava i sacri segni agli iniziati), il culto di Mitra (tauroboliato è colui che si è sottoposto al taurobolium, un rito in onore di Mitra in cui l'adepto scendeva in una fossa sopra la quale veniva sgozzato un toro, in modo che il sangue di questo cospargesse il neofita), quello di Serapide e della Grande Madre. Stando così le cose non stupisce che Girolamo, in una sua lettera alla nobildonna romana Marcella scritta nel 384, la assicuri che Pretestato, morto da poco, «è ora nel Tartaro» (Epistula XXIII 2). Lo stesso Girolamo racconta che, nel corso della controversia che portò all’elezione di Damaso, Pretestato avesse chiesto al nuovo papa: «Fammi vescovo di Roma e io diventerò cristiano» (Contra Johannem Hierosolymitanum 8). Calunnie maliziose? Probabilmente sì, ma assai indicative del clima che si respirava.

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La funzione sociale del politeismo Epistula XVI

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ra le innumerevoli opere che Agostino ha redatto, un posto significativo è occupato dalle Epistulae, nelle quali vengono affrontate problematiche di varia natura. I due testi qui presentati (il primo in traduzione) offrono uno scorcio di quello che si potrebbe definire un dibattito in punta di penna tra i rappresentanti di due mondi che, mentre difendono la propria visione religiosa, non rinunciano a dialogare. Siamo presumibilmente intorno al 390-391, quando Agostino è appena stato ordinato prete. Il suo interlocutore è il grammaticus Massimo di Madaura, la città natale di Apuleio, nella quale lo stesso Agostino aveva studiato. Egli era uno degli esponenti di punta dell’élite intellettuale del luogo e il fatto che si rivolga al ben più giovane Agostino con un tono di deferenza è chiaro indice dell’elevata considerazione in cui teneva un interlocutore acerbo, ma evidentemente già dotato di una notevole forza dialettica. Come afferma la Storoni Mazzolani (Sant’Agostino e i pagani, cit., pg. 57), «si direbbe che il vecchio retore inviti il giovane a un incontro conciliante, quasi a dimostrargli che lo crede attuabile e non condivide il preconcetto pagano sull’intolleranza cristiana. Fa appello alla sua “filosofia” (intesa da tutti in quegli anni come studio del divino e conoscenza del divino), affinché acconsenta a spiegargli una buona volta chi è il suo Dio». La lettera XVI riporta le parole di Massimo, cui seguirà la risposta di Agostino. 1

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Il desiderio di essere spesso rallegrato dalle tue lettere e dalla ispirazione delle tue parole, con cui di recente mi hai così amabilmente criticato senza che venisse meno l’affetto reciproco, ha fatto sì che io non rinunciassi a contraccambiare, per evitare che tu considerassi il mio silenzio una forma di risentimento. Ma se tu riterrai le mie parole deboli come le mie membra senili, allora ti chiedo di accoglierle con 1 l’indulgenza tipica di un orecchio benevolo . Ora, che il monte Olimpo sia la dimora degli dèi ne favoleggia la Grecia, pur senza prove certe; che però la piazza della nostra città sia invasa da una moltitudine di divinità propizie lo vediamo da noi e ne 2 abbiamo le prove . Indubbiamente, che ci sia un unico sommo Dio, senza inizio, senza discendenza di natura, una sorta di padre grande e straordinario, chi sareb3 be tanto pazzo e imbecille da negarlo come cosa più che certa? Le manifestazioni della sua potenza diffuse nel creato noi le definiamo con nomi diversi, perché è evidente che tutti noi ignoriamo il suo vero nome: Dio è infatti il nome che tutte le espressioni religiose hanno in comune. E capita così, che, mentre sembra che ne salutiamo le membra, per così dire, sparse con invocazioni diverse, senza dubbio lo 4 veneriamo tutto intero . Tuttavia, non posso dissimulare la mia insofferenza verso un così grave errore. Chi infatti può tollerare il fatto che a Giove, scagliatore di fulmini, si anteponga un Migdone? O che a Giunone, a Minerva, a Venere e a Vesta si anteponga una Sanae, 5 e – ah orrore! – l’arcimartire Namfamone a tutti gli dèi immortali? Tra costoro vengono accolte con non minore culto anche Lucita e altre innumerevoli divinità (nomi odiosi agli dèi e agli uomini) le quali, consapevoli dei loro crimini nefandi, sotto l’apparenza di una morte gloriosa, accumulando misfatti su misfatti, hanno trovato 6 coperti d’infamia una fine degna della loro condotta e delle loro azioni . I loro busti, ammesso che sia degno ricordarlo, li frequentano gli stolti, dopo aver abbandonato i templi e trascurato i Mani dei loro antenati, cosicché si avvera il presagio di quel poeta che si sdegnava per tutto questo: e nei templi degli dèi Roma giurerà per le 7 ombre . Ebbene, a me sembra quasi che di questi tempi sia scoppiata una nuova guerra di Azio, nel corso della quale i mostri dell’Egitto osano scagliare i loro strali,

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del tutto effimeri, contro le divinità romane . Ma adesso, o uomo sapientissimo, ti chiedo che, rimosso e messo da parte il vigore dell’eloquenza per la quale sei universalmente noto, tralasciate anche le argomen9 tazioni di Crisippo con le quali eri solito combattere, messa per un attimo in secondo piano la dialettica che si adopera con tutte le sue forze per non lasciare a nessuno alcuna certezza, ti chiedo di dimostrarmi concretamente chi sia codesto Dio che voi cristiani rivendicate come vostro esclusivo possesso e che vi inventate di vedere presente in luoghi remoti. Noi i nostri dèi li adoriamo con devote preghiere alla luce del giorno davanti agli occhi e alle orecchie di tutti i mortali, ce li rendiamo propizi con sacrifici a loro graditi e ci adoperiamo affinché questi atti siano visti e 10 approvati da tutti . Ma, anziano e debole come sono, non intendo proseguire oltre questa disputa e volentieri faccio mia la massima del retore mantovano: ciascuno segua ciò che gli 11 piace . Dopodiché, io non dubito, o illustre signore che ti sei allontanato dalla mia religione, che questa lettera verrà sottratta furtivamente da qualcuno, sarà data alle fiamme o comunque in qualche modo distrutta. Se ciò avverrà, il danno riguarderà il foglio, non certo le mie parole, delle quali conserverò una copia sempre a disposi12 zione di tutti coloro che sono religiosi . Ti proteggano quegli dèi nei quali noi tutti mortali che la terra nutre veneriamo e adoriamo in mille modi, concordemente pur 13 nella varietà, il padre comune di loro e di tutti i mortali .

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Le parole di Massimo mostrano come questa non fosse la prima lettera che i due si erano scambiati, visto che tra loro esisteva un’amichevole frequentazione epistolare, di cui però ci sono rimaste solo questa lettera e la conseguente risposta di Agostino. Si noti anche il tono dimesso con cui l’anziano retore si rivolge al suo interlocutore, anche se la deferenza appare più che altro una forma non troppo dissimulata di captatio benevolentiae. 2

Dopo la premessa, si entra subito in argomento: in quanto pagano illuminato e un po’ scettico, Massimo non crede molto al fatto che la dimora degli dèi sia sul monte Olimpo, liquidandola come favola greca (in lat. Graecia fabulatur); tuttavia, accetta come dato di fatto la protezione che le divinità pubbliche garantiscono alla città di Madaura. 3

Non è che qui Massimo stia rinnegando il politeismo. Semplicemente espone quello che era un modo di sentire molto diffuso presso i circoli intellettuali dell’epoca, impregnati di neoplatonismo, secondo i quali, come si dice subito dopo, la pluralità degli dèi altro non è che la molteplice manifestazione di un Dio unico, padre e signore. L’idea verrà ripresa e ampliata dai Saturnalia di Macrobio. 4

Il ragionamento di Massimo appare del tutto coerente con l’ideale sincretistico dei romani: difendendo il monoteismo politeista della religione tradizionale, implicitamente si chiede – e chiede ad Agostino – per quale motivo i cristiani pretendano di avere l’esclusiva del Dio unico. 5

Massimo non riesce a capire per quale motivo i cristiani rifiutino il culto delle divinità pagane e venerino invece persone che sono state messe a morte a causa della loro fede. I nomi qui citati, deprecabili in quanto barbari, sono quelli di martiri locali. In particolare, Namfamone è uno dei primi martiri cristiani di origine cartaginese, messo a morte con alcuni suoi compagni proprio a Madaura verso il 180. Non a caso viene definito «arcimartire». 6

Come noto, l’Africa cristiana è stata per molti terra di martirio e per un pagano come Massimo è veramente difficile capire come una persona possa accettare di morire in nome di un ideale che la mentalità romana considerava sintomo di follia. Logico quindi che, secondo il gramamticus, quella dei martiri sia una morte falsamente gloriosa, esaltata ad arte per nascondere un’esistenza tutt’altro che limpida.

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È citazone da Lucano, Pharsalia VII 459: «Inque deum templis iurabit Roma per umbras».

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Agli occhi del pagano Massimo il culto dei martiri appare una minaccia sociale, un segno della corruzione dei tempi, un decadimento dei costumi. Il riferimento alla battaglia di Azio non poteva essere più azzeccato, visto che da lì ha avuto inizio la potenza imperiale, cioè la struttura sociopolitica alla cui integrità i cristiani – secondo Massimo – hanno attentato. 9

Con Zenone (332 – 261 a.C.), Crisippo (277 – 204 a.C.) è il fondatore dello stoicismo.

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Esclusivismo cristiano contro sincretismo pagano: così si potrebbe riassumere l’obiezione di Massimo. Emerge qui una delle accuse più radicate nei confronti del culto cristiano, visto dai pagani come antisociale in quanto svincolato da quella dimensione pubblica, e quindi politica, che era garanzia di vera religiosità. I Romani infatti si consideravano religiosissimi e tacciavano i cristiani di ateismo: alla pietas pagana si contrappone l’impietas cristiana. Come si vede, non si è molto distanti dalle critiche mosse da Celso e da Porfirio (vd. pp. 16-17), segno che per Massimo questo era, al di là della pacatezza dei toni, il punto decisivo. 11

Citazione da Virgilio, Bucoliche II 65: «trahit sua quemque voluptas». Questa citazione, con la quale Massimo sembra esaltare la tolleranza dei pagani e implicitamente tagliare corto con la disputa, susciterà la reazione risentita di Agostino.

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Pur ammantata di retorica, la frase conferma quanto detto sopra: per Massimo è del tutto evidente che solo i pagani sono autenticamente religiosi. Dietro queste parole di Massimo si cela una critica e un timore. La critica riguarda la tendenza dei cristiani a voler imporre il proprio credo a tutti i costi, contrariamente all’atteggiamento ‘tollerante’ dei pagani (si pensi alle figure di Simmaco e di Pretestato). L’accenno alla possibilità che la sua lettera venga bruciata esprime il timore che anche i suoi scritti facciano la fine di quelli di altri pagani (su tutti Celso e Porfirio), vittime di veri e propri autodafè da parte di cristiani troppo zelanti (ma non si dimentichi che anche gli scritti di Origene vennero condannati al rogo!).

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L’excipit della lettera ribadisce l’essenza del discorso: il politeismo pagano è, per così dire, il tentativo di penetrare la multiformità del divino, una sorta di concordia discors, come dice molto bene il testo latino: mille modis concordi discordia veneramur et colimus.

La ragionevolezza del monoteismo Epistula XVII

L

o scambio epistolare tra Massimo di Madaura e Agostino deve essere stato piuttosto intenso. Ci si deve quindi rammaricare del fatto che a noi siano giunte solo queste due lettere, da cui emerge in modo efficace la vivacità e l’immediatezza del confronto tra chi tenta di tenere in vita una cultura religiosa ormai al tramonto e chi ha dalla sua solidi argomenti per decretarne, senza sensi di colpa, la vacuità. Ad un Massimo che, nel suo disincanto, cerca di difendere i valori del paganesimo Agostino rinfaccia gola, una per una, le affermazioni più controverse. Memore infatti della lezione di Tertulliano, suo illustre conterraneo, egli non usa giri di parole, non adula il suo interlocutore né, d’altro canto, lo sbeffeggia, bensì demolisce, con colpi ben assestati, un edificio che lui stesso aveva abitato e che ora non riconosce più come la dimora della verità.

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Seriumne aliquid inter nos agimus an iocari libet? Nam sicut tua epistola loquitur, utrum causae ipsius infirmitate, an morum tuorum comitate sit factum, ut malles esse facetior quam paratior, incertum habeo. Primo enim Olympi montis et fori vestri comparatio facta est:

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quae nescio quo pertinuĕrit, nisi ut me commonefaceret in illo monte Iovem castra posuisse, cum adversus patrem bellum gereret, ut ea docet historia, quam vestri etiam sacram vocant; et in isto foro recordarer esse in duobus simulacris unum Martem nudum, alterum armatum, quorum daemonium infestissimum civibus, porrectis tribus digitis contra collocata statua humana comprimĕret. Ergone unquam ego crediderim, mentione illius fori facta, numinum talium memoriam mihi te renovare voluisse, nisi iocari potius quam serio agere maluisses! Sed illud plane quo tales deos quaedam Dei unius magni membra esse dixisti, admoneo, quia dignaris, ut ab huiusmodi sacrilegis facetiis te magnopere abstineas. Siquidem illum Deum dicis unum, de quo, ut dictum est a veteribus, docti indoctique consentiunt, huiusne tu membra dicis esse, quorum immanitatem, vel, si hoc mavis, potentiam, mortui hominis imago compescit? Plura hinc possem dicere; vides enim pro tua prudentia, quam locus late iste pateat reprehensioni. Sed me ipse cohibeo, ne a te rhetorice potius quam veridice agere existimer. Nam quod nomina quaedam Punica mortuorum collegisti, quibus in nostram religionem festivas, ut tibi visum est, contumelias iaciendas putares, nescio utrum refellere debeam, an silentio praeterire. Si enim res istae videntur tam leves tuae gravitati quam sunt, iocari mihi non multum vacat. Si autem graves tibi videntur, miror quod nominum absurditate commoto, in mentem non venerit habere vos et in sacerdotibus Eucaddires, et in numinibus Abaddires. Non puto ego ista tibi cum scribĕres in animo non fuisse, sed more humanitatis et leporis tui, commonefacere nos voluisti ad relaxandum animum, quantă in vestrā superstitione ridenda sint. Neque enim usque adeo teipsum oblivisci potuisses, ut homo Afer scribens Afris, cum simus utrique in Africa constituti, Punica nomina exagitanda existimares. Nam si ea vocabula interpretemur, Namphamo quid aliud significat, quam boni pedis hominem, id est cuius adventus afferat aliquid felicitatis; sicut solemus dicere, secundo pede introisse, cuius introitum prosperitas aliqua consecuta sit? Quae lingua si improbatur abs te, nega Punicis libris, ut a viris doctissimis proditur, multă sapienter esse mandata memoriae. Poenitĕat te certe ibi natum, ubi huius linguae cunabula recalent. Si vero et sonus nobis non rationabiliter displicet, et me bene interpretatum illud vocabulum recognoscis, habes quod succenseas Virgilio tuo, qui Herculem vestrum ad sacra, quae illi ab Evandro celebrantur, invitat hoc modo: Et nos et tua dexter adi pede sacra secundo. Secundo pede optat ut veniat. Ergo venire Herculem optat Namphamonem, de quo tu multum nobis insultare dignaris. Verumtămen si ridēre delectat, habes apud vos magnam materiam facetiarum: deum Stercutium, deam Cloacinam, Venerem Calvam, deum Timorem, deum Pallorem, deam Febrem, et caetera innumerabilia huiuscemodi, quibus Romani antiqui simulacrorum cultores templa fecerunt, et co-

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lenda censuerunt: quae si negligis, Romanos deos negligis; ex quo intellegeris non Romanis initiatus sacris, et tamen Punica nomina, tanquam numinum Romanorum altaribus deditus, contemnis ac despicis. Sed mihi videris omnino plus quam nos fortasse illa sacra nihili pendere, sed ex eis nescio quam captare ad huius vitae transitum voluptatem: quippe qui etiam non dubitaveris ad Maronem confugere, ut scribis, et eius versu te tueri, quo ait: Trahit sua quemque voluptas. Nam si tibi auctoritas Maronis placet, sicut placere significas, profecto etiam illud placet: Primus ab aethereo venit Saturnus Olympo, / Arma Iovis fugiens, et regnis exsul ademptis, et caetera, quibus eum atque huiuscemodi deos vestros vult intellegi homines fuisse. Legerat enim ille multam historiam vetustā auctoritate roboratam, quam etiam Tullius legerat, qui hoc idem in dialogis plus quam postulare auderemus commemorat, et perducere in hominum notitiam, quantum illa tempora patiebantur, molitur. Quod autem dicis, eo nostris vestra sacra praeponi, quod vos publice colitis deos, nos autem secretioribus conventiculis utimur: primo illud abs te quaero, quomodo oblitus sis Liberum illum, quem paucorum sacratorum oculis committendum putatis. Deinde tu ipse iudicas nihil aliud te agere voluisse, cum publicam sacrorum vestrorum celebrationem commemorares, nisi ut nobis decuriones et primates civitatis per plateas vestrae urbis bacchantes ac furentes, ante oculos quasi spectacula poneremus: in qua celebritate, si numine inhabitamini, certe videtis quale illud sit quod adimit mentem. Si autem fingitis, quae sunt ista etiam in publico vestra secreta, vel quo pertinet tam turpe mendacium? deinde cur nulla futura canitis, si vates estis? aut cur spoliatis circumstantes, si sani estis? Cum igitur haec nos et alia, quae nunc praetermittenda existimo, per epistolam tuam feceris recordari, quid nos non derideamus deos vestros, quos abs te ipso subtiliter derideri nemo non intellegit, qui et ingenium tuum novit, et legit litteras tuas? Itaque si aliquid inter nos his de rebus vis agamus, quod aetati tuae prudentiaeque congruit, quod denique de nostro proposito iure a carissimis nostris flagitari potest, quaere aliquid nostra discussione dignum: et eă pro vestris numinibus cura dicere, in quibus non te causae praevaricatorem putemus, quo nos magis commoneas quae contra illos dici possunt, quam pro eis aliquid dicas. Ad summam tamen, ne te hoc lateat, et in sacrilega convicia imprudentem trahat, scias a Christianis catholicis, quorum in vestro oppido etiam ecclesia constituta est, nullum coli mortuorum, nihil denique ut numen adorari, quod sit factum et conditum a Deo, sed unum ipsum Deum qui fecit et condidit omnia. Disserentur ista latius, ipso vero et uno Deo adiuvante, cum te graviter agere velle cognovero.

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Seriumne … habeo: «Trattiamo qualcosa di serio oppure ci piace scherzare? Perché da come parla la tua lettera, io non ho ben capito se il fatto che tu preferisca essere più faceto che impegnato dipenda dalla futilità in sé dell’argomento oppure dall’affabilità del tuo carattere.»

– Seriumne: al fioretto di Massimo risponde la spada di Agostino, il quale, lasciati da parte i convenevoli epistolari, con questo esordio ex abrupto risponde alle critiche del primo senza concedere nulla alla falsa cortesia e invitando il suo interlocutore a rinunciare al suo tono ironico e supponente. La cosa è tanto più sorprendente se è vero, come pensano alcuni, che Massimo è stato il grammaticus presso il quale aveva studiato il giovanetto Agostino a Madaura. – ut… paratior: ut introduce una proposizione sostantiva dopo verbo di accadimento (sit factum). Paratior è il grado comparativo dell’aggettivo paratus, letteralmente «pronto», «disposto» ad affrontare la discussione. – incertum habeo: la locuzione regge l’interrogativa indiretta disgiuntiva (utrum… an… sit factum). La costruzione dell’intero perido è: incertum habeo utrum causae ipsius infirmitate, an morum tuorum comitate sit factum ut malles esse facetior quam paratior Primo … maluisses: «Anzitutto, è stato fatto un confronto tra il monte Olimpo e la vostra piazza, cosa che non capisco bene cosa c’entri, se non per farmi ricordare che su quel monte Giove ha posto il suo accampamento allorché muoveva guerra a suo padre, come insegna quella storia che i vostri definiscono pure sacra, e per rammentarmi che in codesta piazza vi sono due statue di Marte, uno raffigurato nudo e l’altro armato, il cui potere demoniaco, così funesto per i cittadini, viene scongiurato da una statua umana con tre dita protese collocata di fronte ad esse E quindi, visto che hai menzionato quella piazza, potrei mai credere che tu abbia voluto richiamare alla mia memoria tali divinità se tu non avessi preferito scherzare invece che trattare la cosa seriamente?»

– quae… comprimeret: alla principale, introdotta dal nesso relativo, segue una interrogativa indiretta (quo pertinuerit; lett. «non capisco a cosa sia diretta») che regge una finale (ut commonefaceret) dalla quale dipende l’infinitva (Iovem… posuisse) che a sua volta introduce la temporale (cum gereret). La medesima costruzione si ritrova nella seconda parte del periodo: [ut] recordarer (sinonimo di commonefaceret) seguito da un’infinitiva (esse) e da una relativa (quorum… comprimeret). – commonefaceret: il verbo causativo (o fattitivo) indica un’azione provocata dal soggetto. – adversus patrem: secondo la mitologia romana, GioveJuppiter era figlio di Saturno e fratello di Nettuno e Giunone (di cui era anche marito). Venerato come Juppiter Optimus Maximus (JOM), egli era il padre dell’Olimpio e divinità ‘politica’ per eccellenza, tanto che il suo tempio sul Capitolino era il più importante luogo di culto a Roma. Il riferimento all’uccisione del padre da parte di Giove consente ad Agostino di tracciare un implicito confronto con Gesù Cristo che non uccide il Padre, ma muore per l’umanità: Giove rivela la sua potenza sul monte Olimpo, Cristo afferma la propria regalità sul Calvario. – vestri etiam sacram vocant: chiara la polemica contro la mitologia pagana, che spaccia per sacre delle storie caratterizzate dalla violenza e dalla sopraffazione. – in isto foro: si tratta della piazza di Madaura. – statua humana: si sottolinea il carattere superstizioso e demoniaco della religione romana: accanto alle due statue di Marte presenti sulla piazza di Madaura, c’è un simulacro con chiara funzione apotropaica. – crediderim: congiuntivo perfetto con valore potenziale. – nisi iocari… serio agere: vi è qui una ripresa dello stesso motivo che si ritrova all’inizio del paragrafo, che si è aperto con un’interrogativa circa la poca serietà di Massimo. Visto che Massimo aveva messo in ridicolo certe pratiche cristiane (il culto dei martiri, la segretezza del culto, il monoteismo assoluto; vd. pp. 46-48), Agostino pensa bene di ripagarlo con la stessa moneta. Sed … existimer: «Ma proprio in riferimento a quel passo in cui hai detto che siffatti dèi sono delle membra sparse di un unico Dio grande, ti consiglio, visto che me lo consenti, di lasciar proprio perdere facezie sacrileghe di tal genere. Se davvero parli di quel Dio unico sul quale, come è stato detto dagli antichi, concordano sia i dotti sia gli ignoranti, tu dici che sono sue membra [quelle divinità] di cui l’immagine di un uomo morto tiene a freno la crudeltà o, se preferisci, la potenza? Potrei aggiungere più argomenti; data infatti la tua competenza, vedi quanto codesto passo [della tua lettera] sia abbondantemente esposto alla critica. Ma mi tengo a freno da solo affinché tu non pensi che io discuta [servendomi] della retorica più che della verità.»

– quaedam … membra: Massimo aveva infatti dato per scontato che esiste in solo Dio il quale si manifesta in modi diversi (quasi quaedam membra: Epist. XVI 1; vd. p. 47). – illum Deum… consentiunt: citazione indiretta del passo del De re publica di Cicerone in cui Scipione afferma che unum omnium deorum et hominum regem esse omnes docti indoctique consentiunt: «tutti i dotti e gli indotti sono d’accordo nell’affermare che ci sia un solo re di tutti gli dèi e di tutti gli uomini» (I 56). – huiusne… compescit?: riprendendo l’immagine della statua presente nel foro di Madaura, Agostino si chiede come sia possibile che i pagani, monoteisti in linea di principio, ma politeisti di fatto, possano accettare la commistione tra figure umane e divinità, con quest’ultime che vengono placate dalle prime. – possem: congiuntivo imperfetto con valore irreale. – pro tua prudentia: è difficile non scorgere in questa osservazione, solo appartenente adulatoria, una frecciata velenosa nei confronti di Massimo, i cui argomenti mal si conciliano con la sua stessa competenza teologica. – rhetorice… veridice: non si dimentichi che Massimo era un grammaticus, quindi esperto nell’uso della parola. Agostino, anch’egli ex maestro di retorica e quindi in grado di sostenere il confronto dialettico con Massimo, mentre afferma di voler ribattere alle sue accuse con parole di verità, in realtà, nel corso della lettera, non si esime dall’utilizzare un vario e ben studiato repertorio retorico, fatto di domande incalzanti, osserva-

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zioni ironiche, argomentazioni ben ponderate. D’altra parte, sull’esempio di Cicerone e di Plinio il Giovane, l’epistolario di Agostino era concepito per avere una diffusione pubblica. 2. Nam … Abbadires: «Infatti, io non so se debba smentire o passare sotto silenzio il fatto che hai enumerato alcuni nomi punici di defunti, per i quali hai ritenuto di dover scagliare delle offese, a tuo giudizio, divertenti nei confronti della nostra religione. Se infatti alla tua serietà queste cose appaiono tanto leggere quanto effettivamente sono, io non ho molto tempo da perdere a scherzare. Se invece ti sembrano serie, mi meraviglio del fatto che, colpito dalla stranezza dei nomi, non ti sia venuto in mente che anche voi avete tra i sacerdoti certi Eucaddiri e tra le divinità certi Abadirri.

– Nam… praeterire: altro periodo piuttosto complesso la cui costruzione è: nescio utrum refellere debeam an silentio praeterire (interrogatica indiretta disgiuntiva) quod nomina… collegisti quibus… putares (relativa con il congiuntivo per attrazione modale). – religionem: come si è visto nel capitolo 2 (vd. pp. 9-10, 18-19), il termine è ormai entrato stabilmente nel lessico per indicare il cristianesimo, in precedenza definito dai Romani superstitio. – ut tibi visum est: lett. «come ti è parso opportuno». – contumelias iacendas: perifrastica passiva, all’accusativo in quanto dipendente da putares (esse è sottinteso). – nescio utrum repellere… an silentio praeterire: la preterizione serve ad Agostino per far trasparire il proprio sdegno e per rilanciare il discorso teso a confutare Massimo. – vacat: il tono di Agostino si fa sempre più perentorio: non ho tempo da perdere con chi si perde in sciocchezze! – graves: in contrapposizione con leves della frase precedente, intende sottolineare il contrasto tra la serietà intellettuale di Massimo e il modo denigratorio con cui egli affronta argomenti che dimostra di non conoscere. Si noti l’efficacia argomentativa delle due proposizioni ipotetiche dell’oggettività ottenuta grazie al parallelismo oppositivo: Si enim res istae videntur leves / Si autem graves tibi videntur. – quod… non venerit: proposizione sostantiva introdotta da miror (appartenente ai verba affectuum). – Eucaddires… Abaddires: a Massimo che aveva ridicolizzato certi nomi africani annoverati tra i martiri cristiani, Agostino chiede se trova forse più armoniosi gli Eucaddiri che figurano tra i sacerdoti pagani e gli Abaddiri che si trovano tra le divinità. I due termini sono di origine fenicia, rispettivamente khanûk ’addîr, che significa «iniziato alla divinità», e ’āb-’addîr, «padre magnifico». Non puto … consecuta sit: «Non penso che, mentre le scrivevi, codeste cose ti siano sfuggite; piuttosto, per via del tuo carattere affabile e arguto, hai voluto che noi, per divertirci un po’, richiamassimo alla mente quanto vi sia di ridicolo nella vostra superstizione. Infatti, non avresti potuto dimenticarti di te stesso, in quanto uomo africano che scrive agli africani, visto che entrambi viviamo in Africa, a tal punto da ritener giusto biasimare certi nomi punici. Perché, se interpretiamo quei termini, cos’altro significa Namfamone se non ‘uomo dal piede propizio’, cioè uno il cui arrivo è portatore di felicità, come siamo soliti dire che è entrato ‘con piede propizio’ colui dal cui ingresso è scaturita una certa prosperità?»

– in animo non fuisse: lett. «non ti fossero state nella mente». – more humanitatis et leporis: lett. «a causa del carattere di affabilità e arguzia». – quanta… ridenda sint: lett. «quante cose ci siano da deridere nella vostra superstizione». L’interrogativa indiretta, costruita come perifrastica passiva, dipende da nos commonefacere. Agostino, continuando a muoversi sul filo dell’ironia, arriva a smascherare Massimo il quale, deridendo le usanze cristiane, fa risaltare la poca serietà di quelle pagane. – superstitione: come detto sopra, il processo di cristianizzazione della romanità ha determinato uno spostamento lessicale di superstitio che finisce per indicare la religione romana contrapposta al cristianesimo. – homo Afer… Punica nomina exagitanda: nel richiamare a Massimo le comuni origini puniche, Agostino intende smontare la supponenza di un intellettuale che sembra vergognarsi delle sue origini provinciali in nome di quella urbanitas («eleganza», «raffinatezza») che faceva percepire come inferiore tutto ciò che non si riferiva alla civiltà romana. – Namphamo: effettivamente il nome del protomartire Namfamone citato da Massino sembra derivare dall’espressione fenicia na‘am pa‘amw, che significa proprio «colui il cui piede è bello». – felicitatis: genitivo partitivo («qualcosa di felicità»). – secundo pede: la locuzione latina propitio pede o secundo pede (con il suo contrario sinistro pede «piede infausto») identificava una persona che era di buon auspicio incontrare. Massimo, argomenta Agostino, non dovrebbe ridere del nome strano di questo martire dal momento che il suo nome punico contiene il riferimento ad una superstizione che è tipicamente pagana. Quae lingua … despicis: «E se questa lingua è da te riprovata, nega che nei libri punici, come tramandano uomini dottissimi, siano state tramandate molte cose sagge. Certo dovresti rammaricarti di essere nato in una terra dove è ancora calda la culla di questa lingua. Se invece non è ragionevole che ci dispiaccia il suono [di questa lingua] e se riconosci che ho bene interpretato quel vocabolo, allora hai di che prendertela con il tuo Virgilio che così invita il vostro Ercole ai sacrifici celebrati per lui da Evandro: Avvicìnati a noi e alle tue sacre cerimonie ben disposto con piede propizio. Egli desidera che venga con piede propizio. Desidera quindi che venga Ercole Namfamone, a proposito del quale tu ritieni opportuno insultarci molto. E comunque, se ti piace ridere, presso di voi hai grande abbondanza di stupidaggini: il dio Stercuzio, la dea Cloacina, la Venere calva, il dio Timore, il dio Pallore, la dea Febbre, e altre divinità di tal sorta a cui gli antichi Romani, adoratori di statue, eressero templi e considerarono degni di venerazione: se trascuri questi, trascuri gli dèi romani; da ciò puoi capire che tu non sei iniziato ai sacri riti romani e tuttavia disprezzi e denigri i nomi punici come se tu fossi dedito al culto delle divinità romane.»

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– Poeniteat: congiuntivo esortativo. – lingua: si tratta ovviamente della lingua punica. – cunabula: cfr. quanto dice lo stesso Agostino in Conf. I 14, 23. – quod succenseas: relativa impropria con valor consecutivo. – Virgilio tuo: per l’atteggiamento di Agostino nei confronti di Virgilio si veda il brano delle Confessioni su Didone (vd. pp. 27 e ss.). – Evandro: mitico re che dall’Arcadia, giunse in Italia dove fondò la città di Pallanteo. – Et nos… sacra secundo: citazione di Eneide VIII 302. È evidente che l’autorità di Virgilio serve a Agostino per smontare le accuse di Massimo. – Verumtamen… apud vos magnam materiam facetiarum: Massimo, dice Agostino, non dovrebbe fare troppo lo spiritoso nel criticare la bizzarria dei nomi punici visto che anche nel pantheon romano, quanto a stranezze, non mancano esempi eloquenti. – Stercutium… Febrem: Stercuzio (Stercutus o Sterquilinus) era una divinità romana minore che presiedeva alla concimazione dei campi (da stercus, letame); spesso veniva identificato con Picumno, inventore della concimazione dei campi e patrono dei matrimoni e dei neonati di cui proteggeva la crescita. La dea Cloacina (da cloaca, «fogna») sovrintendeva al sistema fognario di Roma. Il culto di Venere Calva risale ad un episodio leggendario avvenuto durante l’assedio dei Galli a Roma nel 390 a.C., quando le donne romane corsero in massa a tagliarsi i capelli per farne delle corde per gli archi e per altre necessità belliche; a ricordo del fatto, venne eretto un tempio a Venere Calva. La dea Febbre proteggeva dalla febbre; in suo onore nell’antica Roma esistevano tre templi, uno dei quali si trovava tra il Palatino e il Velabro. Il dio Pallore e il dio Timore sono divinità legate alla guerra; la loro presenza gettava paura e scompiglio tra i nemici. – quae si negligis, Romanos deos negligis: Agostino sollecita Massimo ad essere coerente: non può infatti prendere il meglio dell’espressione religiosa romana senza considerare anche gli aspetti meno presentabili. – Punica nomina… despicis: non è possibile sapere se Massimo fosse iniziato, come per esempio Pretestato, ad alcuni culti misterici; Agostino, però, stigmatizza il fatto che egli disprezzi le rozze divinità puniche pur conoscendole bene. 3. Sed … molitur: «Mi sembra però che tu, forse ancor più di noi, non tenga in gran conto quei riti, ma che da essi ricavi non so quale diletto per trascorre questa vita, dal momento che non hai neppure esitato a rifugiarti in Marone, come scrivi, e a difenderti dietro il suo verso, che dice: ciascuno segua ciò che gli piace. Se infatti accetti l’autorità di Marone, come mostri di accettarla, di sicuro accetterai anche quel [passo]: Per primo Saturno venne dall'etereo Olimpo // fuggendo le armi di Giove e profugo dopo esser stato privato del suo regno e gli altri versi nei quali egli intende far capire che quel dio e gli altri vostri dèi di questo genere sono stati uomini. Infatti egli aveva letto molta storia rafforzata da una veneranda autorità, [storia] che aveva letto anche Tullio, il quale nei suoi dialoghi menziona questa medesima convinzione più di quanto noi oseremmo pretendere e si sforza di farlo sapere agli uomini, nella misura in cui quei tempi lo consentivano.»

– illa sacra nihili pendere…voluptatem: di sicuro Massimo, da buon intellettuale, non dava dato molto credito alla venerazione di queste divinità riducendola al rango di passatempo e di vacua superstizione; se il popolino pagano – obietta Agostino – si lascia andare a culti superstiziosi, questo non significa che anche il culto cristiano sia frutto di superstizione. – ad huius vitae transitum: complemento di fine; lett. «per il passaggio di questa vita». – quippe qui… non dubitaveris: proposizione relativa impropria (c’è la presenza del congiuntivo) con valore causale accompagnata da quippe. – Primus… ademptis: citazione da Eneide VIII 319-320 con la quale Agostino replica alla citazione virgialiana («ciascuno segua ciò che gli piace») di Massimo. Nel discorso di Evandro infatti vi è l’esaltazione dell’età dell’oro (aurea saecula) portata da Saturno; Agostino intende mostrare come ciò che viene spacciato per dono divino sia in realtà una conquista umana che, in quanto tale, è destinata ad avere vita breve. – Tullius: Agostino si riferisce qui a due passi del De natura deorum (I 42; I 119) in cui Cicerone riporta la dottrina di Evemero di Messina (340-260 a.C.), secondo il quale gli dèi altro non sono che uomini morti divinizzati. – perducere in hominum notitiam… molitur: l’evemerismo si era diffuso a Roma soprattutto presso il circolo degli Scipioni, diventando poi una credenza comune, di cui si servirono anche i Padri della Chiesa per dimostrare la falsità della religione pagana. 4. Quod autem … sani estis: «Quanto poi alla tua affermazione secondo cui i vostri riti sono superiori ai nostri per il fatto che voi adorate gli dei pubblicamente, mentre noi ci serviamo di conventicole piuttosto misteriose, per prima cosa ti chiedo come tu abbia potuto dimenticarti di quel Libero che voi ritenete debba essere sottoposto alla vista di pochi iniziati. Poi tu stesso ammetti di non aver avuto altro fine, allorché ricordi la celebrazione pubblica dei vostri riti, se non che noi avessimo davanti ai nostri occhi, come uno spettacolo, i decurioni e i maggiorenti della città che impazziscono e folleggiano nelle piazze della vostra città: se nel corso di questa cerimonia siete posseduti da un dio, vedete bene che razza di dio sia quello che toglie il senno. Se invece è tutta una finzione, cosa sono questi vostri segreti messi anche in pubblico o a che tende una così turpe menzogna? E poi, perché non presagite nulla sul futuro se siete indovini? O ancora, perché spogliate quelli che vi circondano se siete sani di mente?»

– quod autem dicis: letteralmente: «il fatto poi che tu dica». – praeponi: infinito presente passivo; lett. «che i vostri riti siano anteposti ai nostri». – eo…quod: formula correlativa con la quale si introduce la proposizione causale dell’oggettività (colitis). – secretioribus conventiculis: secretioribus è comparativo assoluto. La notazione si riferisce ad una delle accuse più frequenti mosse al culto cristiano, ritenuto sovversivo e immorale in quanto segreto (ne avevano già parlato Minucio Felice e Tertulliano). – Liberum… paucorum sacratorum: Agostino ha buon gioco nel replicare che culti segreti erano diffusissimi anche presso i pagani, come dimostra l’esempio del dio Bacco che a Madaura veniva adorato con il nome di Liber o Lenaeus Pater da un certo numero di adepti. Un’iscrizione trovata a Mdaourouch - il nome moderno di Madaura - reca il nome di

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un certo Tito Clodio Lovella «edile, duumviro, questore, flamine e sacerdote di Liber Pater». – agere voluisse: lett. «di non aver voltuto fare nient’altro». – decuriones: alti magistrati, in genre senatori delle colonie e dei municipia. – celebritate: allusione ai Baccanali, feste orgiastiche in onore di Bacco-Dioniso, introdotte a Roma verso il 200 a.C. e celebrate il 16 e 17 marzo. Il loro carattere licenzioso e antistatale spiega per quale motivo venissero guardati con sospetto dalle autorità cittadine, tanto che vennero ufficialmente proibiti con il famoso senatoconsulto del 186 a.C. (ne parla diffusamente Livio, Ab urbe condita XXXIX,9-19). Al tempo di Agostino le feste in onore di Bacco avevano perso i loro tratti più sfrenati, ma sopravvivevano come allegre carnevalate. – Si…estis: il paragrafo si chiude con una serie di interrogative inframezzate da frasi ipotetiche (si… quae sunt? cur… si? cur… si?) che conferiscono all’argomentazione una sicura efficacia grazie al procedimento serrato. 5. Cum igitur … dicas: «Dunque, visto che grazie alla tua lettera ci hai fatto ricordare queste cose e altre che ora ritengo sia meglio non affrontare, perché noi non dovremmo deridere i vostri dèi, i quali chiunque conosce la tua intelligenza e legge le tue lettere capisce benissimo che vengono da te stesso sottilmente derisi? Pertanto, se vuoi che su questi temi parliamo tra noi di qualcosa che sia adeguato alla tua età e alla tua saggezza e che da ultimo, in sintonia con il nostro proposito, possa essere preteso a buon diritto dai nostri più cari amici, cerca qualcosa che sia degno della nostra discussione e, a favore delle vostre divinità, vedi di usare argomenti per cui non ti consideriamo un finto difensore della causa, come uno che voglia insegnarci ciò che si può dire contro di esse piuttosto che dire qualcosa in loro difesa.»

– feceris recordari: la perifrasi sostitutiva del verbo causativo (moneo, commonefacio) è rara nella prosa classica. – derideamus: congiuntivo dubitativo. – nemo non: il pronome nemo seguito dalla negazione non assume il significato di «ognuno, tutti» (non meno: «qualcuno»). – vis agamus: il verbo volo, come gli altri verba voluntatis, si costruiscono con il congiuntivo (spesso senza ut) quando i soggetti sono diversi. – pro vestris numinibus… non te causae praevaricatorem: con queste parole Agostino vuole smascherare l’evidente ambiguità di Massimo il quale tende ad associare sotto il comune denominatore della superstizione e del fanatismo popolare tanto il culto pagano quanto quello cristiano, senza rendersi conto che, in questo modo, finisce per difendere ciò che in realtà ridicolizza. Come può infatti sostenere la superiorità del culto pagano se lui stesso ne denuncia i limiti? – in quibus: introduce una relativa impropria con valore consecutivo. – quo… commoneas: introduce una proposizione finale in quanto si trova davanti ad un comparativo (magis). Ad summam … cognovero: «In conclusione, affinché ciò non ti sfugga e non ti trascini imprudentemente in sacrileghe calunnie, sappi che i cristiani cattolici, di cui esiste una comunità ecclesiale anche nella vostra città, non tributano alcun culto ai morti e che, da ultimo, non adorano come divinità niente che sia stato fatto e creato da Dio, ma l’unico Dio che ha fatto e creato tutto. Discuteremo più diffusamente di questi argomenti, con l’aiuto dell’unico e vero Dio, quando avrò constatato che vorrai affrontarli seriamente.»

– scias: cong. esortativo; introduce l’infinitva costruita al passivo (a Christianis… coli). – catholicis: è questo l’aggettivo con cui si definivano i cristiani che non avevano abbracciato l’arianesimo o le altre eresie diffuse all’epoca (donatismo e pelagianesimo in primis). – ecclesia: termine tecnico (dal greco ekklesia) con cui si indicava la comunità cristiana. – nullum coli mortuorum… condidit omnia: a Massimo che criticava l’adorazione di uomini morti (cioè i martiri), Agostino fa notare che i cristiani non divinizzano i martiri (che rimangono creature), ma rendono onori divini a un solo Dio, il Creatore di tutte le cose. La risposta, a dire il vero, è ad usum paganorum, perché, in realtà, più che adorare il Dio creatore (cosa che facevano anche i pagani), i cristiani adorano il Dio di Gesù Cristo, il martire per eccellenza. – quod sit: relativa impropria con valore consecutivo. – factum… condidit: il passaggio dalla diatesi passiva a quella attiva esprime in modo molto icastico la differenza tra l’adorazione riservata alla creatura (quod factum et conditum) e quella riservata al creatore (qui fecit et condidit). Nel corso della lettera infatti Agostino ha sottolieato più volte come la differenza fondamentale tra culto pagano e culto cristiano consista in questo: nel primo si rende onore a dèi che in realtà sono uomini, mentre nel secondo si rende onore al Dio che si è fatto uomo. – graviter agere: secondo i più consueti canoni retorici, la lettera si chiude con la ripresa del motivo con cui si era aperta, cioè l’invito a Massimo a parlare con ponderatezza. Sembra quasi che Agostino voglia sollecitarlo a prendere sul serio la sua religiosità come premessa indispensabile per prendere sul serio quella altrui.

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PER FARE IL PUNTO… Epistulae XVI e XVII Sul testo

• ut malles (1) è una proposizione ……………………… introdotta dal verbo ..........…… • quae nescio quo pertinuerit (1): rifletti sul diverso valore di quae e di quo; il primo è ………………………., mentre il secondo è ……………………………. e introduce una …………………………………………… • crediderim (1) è un ……………..……………………….. con valore ………................. • quam locus late iste pateat (1): quam introduce una proposizione ……………………… • contumelias iacendas (2) è una …………………………. ……………………… • Si autem graves tibi videntur, miror quod nominum absurditate commoto, in mentem non venerit habere vos et in sacerdotibus Eucaddires, et in numinibus Abaddires (2). Analizza il periodo dal punto di vista sintatico. • quod succenseas (2) è relativa ……………………… con valore …………………….. • oblitus sis (4) è ………………………….. del verbo ………………………… • in qua celebritate (4) è un ………………………….………………………… • quo commoneas (5) è una proposizione ……………………, introdotta da quod perché ………………………………. Sui temi

• Chi è Massimo e che rapporto c’era tra lui e Agostino? • Il brano è ricco di proposizioni ipotetiche e di interrogative indirette disgiuntive. Qual è il motivo della loro ricorrenza e il loro valore espressivo? • La lettera è tutta giocata sul filo dell’ironia. Qual è l’atteggiamento mentale di Massimo ridicolizzato da Agostino? • Cosa sono le sacrilegiae facetiae (1) sostenute da Massimo che suscitano la reazione di Agostino? • Qual è, secondo Agostino, il tratto tipico della mitologia pagana? • Come risponde Agostino all’accusa di Massimo circa la segretezza del culto cristiano? • In quali passi del testo Agostino fa risaltare la superiorità del culto cristiano rispetto a quello pagano? • Passa in rassegna l’elenco delle divinità romane (deum Stercutium, deam Cloacinam, Venerem Calvam, deum Timorem, deum Pallorem, deam Febrem: 2) citate da Agostino. Cosa intende dimostrare facendo loro riferimento? • Da un confronto tra l’incipt della lettera e la sua conclusione che osservazioni si possono svolgere? • Rifletti sulla contrapposizione tra nostra religio (2) e vestra superstitio (2). Che significato assumono questi termini nella polemica antipagana di Agostino?

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3. Le due città: Roma e Gerusalemme

Il 24 agosto 410, dopo due anni di assedio, i visigoti guidati da Alarico invasero Roma e la saccheggiarono per tre giorni consecutivi prima di spostarsi verso sud. Era da ottocento anni, dal sacco gallico del 390 a.c., che la città non conosceva uno simile sfregio, destinato ad entrare nell’immaginario collettivo dell’epoca come una catastrofe: per quanto ormai svuotata del suo ruolo politico, Roma rappresentava ancora la continuità di una tradizione più che millenaria e custodiva le vestigia di un passato che sembrava intangibile. E se persino un ‘ciceroniano pentito’ come Girolano affermava che «la fiaccola del mondo s’è spenta e nella rovina di una sola città tutto il genere umano perisce» (In Ezechielem, praefatio I), si può facilmente immaginare il clima di sconcerto che si era diffuso, anche presso molti cristiani (non si dimentichi che a Roma c’erano le reliquie di Pietro e di Paolo), mentre agli occhi dell’élite pagana il fatto doveva apparire come la prova più evidente del fallimento politico-sociale del monoteismo cristiano e della sua morale. È in questo clima che prende forma il De civitate Dei contra paganos, opera in 22 libri scritta da Agostino tra il 412/3 e il 426/7. Nata dall’urgenza dei tempi e dalla necessità di dare una risposta alle accuse dei pagani e di contrastare lo sconcerto dei cristiani, l’opera, più che mera apologia del cristianesimo, finisce per tracciare le linee di una vera e propria teologia della storia, le cui parole d’ordine sono verità, giustizia, amore.

Una teologia della storia: il De civitate Dei

Il contenuto dell’opera: un messaggio per pagani e cristiani Al cospetto del suo magnum

opus et arduum (De civ.: prefazione) è lo stesso Agostino, nelle Retractationes (2.43), a fornire indicazioni circa il contenuto del De civitate. L’opera si può dividere in due parti fondamentali: nella prima (I-X), si confuta la pretesa della religione pagana di essere garante di prosperità e fortuna in questa vita (I-V: insufficienza sociale) e di salvezza ultraterrena (VI-X: insufficienza spirituale); nella seconda (XI-XXII), si delineano i tratti contrapposti della civitas terrena e della civitas caelestis: l’origine (XI-XIV), lo sviluppo e il progresso nel tempo (XV-XVIII) e l’esito escatologico (XIX-XXII). Come le due parti sono tra loro strettamente intrecciate, tanto che la prima è la premessa alla seconda, così i destinatari risultano essere sia i pagani sia i cristiani. Nel chiudere la rassegna storica delle due città, Agostino fa questa considerazione (De civ. Dei XVIII 54, 2):

Civitas terrena e civitas caelestis: un’antitesi mistica e… trad. D. Gentili

Ma concludiamo ormai questo libro, dopo aver esposto fin qui e, per quanto sembrava opportuno, dimostrato quale sia l’evoluzione storica delle due città, la celeste e la terrena, commischiate dall’inizio fino alla fine. La terrena ha creato per sé, da ogni provenienza o anche dagli uomini, i falsi dèi che ha voluto, per sottomettersi a loro mediante l’offerta di vittime. Invece quella celeste, che è esule sulla terra, non crea falsi dèi, ma essa è stata creata dal vero Dio ed essa stessa è la sua vera immolazione. Tutte e due però usano ugualmente i beni temporali e sono colpite dai mali con diversa fede, diversa speranza, diverso amore, fino a che siano separate dal giudizio finale e raggiunga ognuna il proprio fine che non ha fine. Del fine di entrambe si parlerà in seguito.

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Queste parole consentono di cogliere l’essenza della concezione agostiniana delle due città, da intendersi non tanto in senso socio-politico, quanto piuttosto in senso mistico. La differenza tra la civitas terrena e quella caelestis non è di carattere storico, perché entrambe, essendo tra loro permixtae, sono radicate nella provvisorietà della storia, il che esclude, inoltre, che la civitas caelestis sia il regno dei buoni e dei perfetti. La differenza è invece di status: la città celeste è peregrina sulla terra, cioè possiede la consapevolezza che esiste una dimensione ulteriore, che la sua esistenza (terrena) è anticipo della vera esistenza (celeste), mentre la città terrena è priva di un’apertura metastorica (ecco perché, per i pagani, la fine di Roma coincide con la fine del mondo!). Ma tra le due vi è anche una contrapposizione socio-religiosa: la civitas caelestis è preceduta da Dio (ed è pellegrina in attesa di essere celeste), la civitas terrena, invece, precede le sue divinità. Come è noto, infatti, la civitas romana si autolegittimava nel culto pubblico celebrando la propria antichità e ponendosi sotto la protezione degli dei, per cui ogni città aveva le sue divinità e il civis romanus coincideva con l’essere religiosus.

«Agostinismo» politico e teocrazia papale È spesso destino delle grandi opere di avere pessimi lettori. A questa regola non si è sottratta neppure il De civitate Dei, forse il testo di Agostino che ha avuto maggior fortuna dal Medioevo - 376 manoscritti rispetto ai 258 delle Confessiones - ai giorni nostri. A partire dal Medioevo, l’equivoco principale cui è andata soggetta la riflessione agostiniana è consistito nell’identificare la città terrena con il potere politico (impero) e la città celeste con il potere spirituale (chiesa). È quello che H.-X. Arquillière ha definito agostinismo politico (L' augustinisme politique: essai sur la for2 mation des théories politiques du Moyen-Age, J. Vrin, Paris 1972 ), inteso come «la tendenza ad assorbire il diritto naturale nella giustizia soprannaturale, il diritto dello Stato in quello della Chiesa». Mentre infatti Agostino non aveva identificato la città celeste con la chiesa e la città terrena con lo stato, i sostenitori della teocrazia papale affermano la supremazia della chiesa istituzionale come città di Dio sulla terra, con il conseguente primato dell’auctoritas dei papi sulla potestas dei capi politici; da qui, con la riforma di Gregorio VII (1073-1085), la pretesta papale di esercitare il dominio universale sul mondo cristiano, sia sul piano spirituale sia su quello temporale. Saranno papi come Innocenzo III (1198-1216), Innocenzo IV (1243-1254) e Bonifacio VIII (1294-1303) a portare alle estreme conseguenze l’agostinismo politico al servizio della teocrazia papale: una volta dichiaratosi vicarius Christi (e non più solo vicarius Petri), il papa assume su di sé il potere temporale e quello spirituale, delegando il primo ai principi che gli sono sottomessi. Il potere pontificale, potenza spirituale diventata potere ecclesiastico, è assoluto (plenitudo potestatis): chiunque gli resiste, resiste all’ordine stabilito da Dio. Assumendo il diritto naturale dello stato nella giustizia soprannaturale e nel diritto ecclesiastico, i teorici della teocrazia papale, a partire da una lettura superficiale di un passo della Città di Dio (XIX 21), sostengono che, non potendo esistere stato senza giustizia e non potendo esistere vera giustizia se non in Cristo (e nel suo vicario), è necessario che lo stato sia sottomesso al papa. In questo senso, la chiesa è la città di Dio nel mondo terreno e il suo compito è quello di far trionfare la pace e la giustizia. Come si vede, si è lontani dal pensiero autentico di Agostino, il quale riteneva che la città celeste non fosse realizzabile in questa terra e che il diritto naturale dello stato fosse pienamente legittimo.

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Come sottolinea Luigi Alici (Introduzione a La Città di Dio, p. 37), «l’opposizione tra le due città non è tanto una opposizione di luoghi, di strutture o di istituzioni temporali, né di entità cosmico-metafisiche, ma soprattutto un’opposizione tra due diversi modi di concepire la vita, l’uno chiuso nell’orgogliosa ed egoistica affermazione di sé, che nel paganesimo cercava una misera copertura religiosa o politica, l’altro aperto nella fede, nella speranza e nell'amore, che in Cristo e nella Chiesa è in grado di ricostituire e di anticipare l’unità della pienezza dei tempi, stringendo in un abbraccio ideale tempo ed eternità, fede e visione, pace terrena e pace celeste». Pertanto, nella prospettiva del De civitate Dei, lo scontro non è tra Chiesa e Impero: per Agostino, come per altri suoi contemporanei, era pacifico che l’impero avesse una funzione provvidenziale in quanto ad esso si demandavano la sicurezza e l’esercizio del diritto. Non si tratta neppure di uno scontro etnico-religioso tra cristiani e pagani. La vera contrapposizione è piuttosto tra male e bene, tra immanenza e trascendenza, tra esteriorità e interiorità. La civitas caelestis pellegrina sulla terra non ribalta le categorie storiche, culturali e politiche, ma quelle morali, in quanto la potenza cede il posto alla mitezza, la guerra alla pace, la sopraffazione alla giustizia; si chiede, a tal proposito, Agostino: «Remota itaque iustitia, quid sunt regna nisi magna latrocinia?» («Una volta tolta di mezzo la giustizia, cosa sono i governi se non delle grandi ruberie») (De civ. Dei IV 4). Se si perde di vista la dimensione mistica ed escatologica della città di Dio e si appiattisce la civitas terrena al livello di pura entità politica, si finisce per non cogliere la specificità della prospettiva agostiniana. Contrariamente alle ricadute che ebbe una certa lettura del De civitate Dei (il cosiddetto ‘agostinismo politico’; cfr. scheda p. 57), Agostino non ha mai pensato che la città celeste (non coincidente con la chiesa) dovesse imporre le proprie leggi alla città terrena (non identificabile con lo stato), ma ha voluto ricordare ai cristiani che la loro vera patria non è il mondo, nel quale vivono come in esilio.

Un’antitesi etica

Per leggere i testi Il testo latino qui riprodotto è quello dell’edizione Maurina del 1685 (in: Patrologia Latina 41), così 2 come riportato dalla NBA V/1 (1990 ), V/2 (1988) e V/3 (1991), a cura di A. Trapé, R. Russel, S. Cotta, D. Gentili. Questa edizione opera dei confronti con l’edizione critica del Corpus Christianorum vol. 47 (Brepols, Turnhout 1955) che, a sua volta, riprende l’edizione critica di B. Dombart – A. Kalb, Bibliotheca Teubneriana, Leipzig 1928-29. Oltre alla traduzione italiana della NBA V/1-3, si segnalano quelle di L. Alici, Rusconi (I classici del 2 pensiero), Milano 1990 (I ed. 1984); Bompiani (Il pensiero occidentale), Milano 2001, e di C. Carena, Einaudi (Biblioteca della Pleiade), Torino 1992. Per approfondire Come si può immaginare, la bibliografia sul De civitate Dei è sterminata. Oltre alle introduzioni alle edizioni citate sopra, si possono consultare i seguenti studi: G. Lettieri, Il senso della storia in Agostino di Ippona. Il “saeculum” e la gloria nel De civitate Dei, Borla, Roma 1988; E. Cavalcanti (cur.), De civitate Dei. L’opera, le interpretazioni, l’influsso, Herder, Roma 1996; AA.VV., Homo viator. La Città di Dio nel tempo, Città Nuova, Roma 1997.

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La società romana: domus Sardanapali De civitate Dei II 20

L’

intento che muove i primi dieci libri del De civitate Dei è quello di mostrare l’insufficienza morale e civile del politeismo pagano, il quale non è (più) in grado di fornire risposte plausibili in ordine al raggiungimento della felicità terrena e trascendente. Più in particolare, il libro II si sofferma sulla decadenza morale della società romana provocata dall’intrinseca immoralità di una religione i cui dèi, in certo senso, legittimano ogni sorta di depravazione. Ad essi, e non al cristianesimo, deve essere imputato il crollo di Roma sotto le orde barbariche. Nel capitolo qui riportato, Agostino traccia il quadro a tinte fosche di una società ripiegata sul proprio passato, consumistica, edonistica, priva di punti di riferimento che ne possano rilanciare l’azione civilizzatrice. La sete di potere dei politici, la decadenza della giustizia, il diritto del più forte, l’impunità derivante dal denaro, le sperequazioni economiche, la corsa all’accumulo, la stessa acquiescenza degli oppressi: sono tutti segnali evidenti di una crisi tutt’altro che contingente. Le parole di Agostino grondano di una sferzante ironia, di fronte alla quale non si deve commettere l’errore di trasformare lo scrittore in un rancoroso fustigatore di costumi. È indubbio che la rappresentazione risenta di un pathos retorico che conduce l’autore verso un moralismo di stampo quasi sallustiano, ma è pur vero che, dietro le sue parole, si avverte l’eco della grande tradizione profetica, quella, per esempio, che fa dire a un Geremia, su ordine divino: «Esercitate il diritto e la giustizia; liberate dalla mano dell’oppressore colui al quale è tolto il suo; non fate torto né violenza allo straniero, all’orfano e alla vedova; non spargete sangue innocente» (Geremia 22, 3). Non si dimentichi, infatti, che Agostino è figlio della società che critica; e proprio in quanto figlio si sente legittimato non solo ad uccidere, metaforicamente, il padre che l’ha generato, ma anche, profeticamente, ad indicargli un nuovo sentiero.

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Verum tales cultores et dilectores deorum istorum, quorum etiam imitatores in sceleribus et flagitiis se esse laetantur, nullo modo curant pessimam ac flagitiosissimam esse rem publicam. «Tantum stet, inquiunt, tantum floreat copiis referta, victoriis gloriosa, vel, quod est felicius, pace secură sit. Et quid ad nos? Immo id ad nos magis pertinet, si divitias quisque augeat semper, quae cotidianis effusionibus suppetant, per quas sibi etiam infirmiores subdat quisque potentior. Obsequantur divitibus pauperes causā saturitatis atque ut eorum patrociniis quietā inertiā perfruantur, divites pauperibus ad clientelas et ad ministerium sui fastus abutantur. Populi plaudant non consultoribus utilitatum suarum, sed largitoribus voluptatum. Non dura iubeantur, non prohibeantur impura. Reges non curent quam bonis, sed quam subditis regnent. Provinciae regibus non tamquam rectoribus morum, sed tamquam rerum dominatoribus et deliciarum suarum provisoribus serviant, eosque non sinceriter honorent, sed serviliter timeant. Quid alienae vineae potius quam quid suae vitae quisque noceat, legi-

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bus advertatur. Nullus ducatur ad iudices, nisi qui alienae rei domui saluti vel cuiquam invito fuerit importunus aut noxius; ceterum de suis vel cum suis vel cum quibusque volentibus faciat quisque quod libet. Abundent publica scorta vel propter omnes, quibus frui placuerit, vel propter eos maxime, qui habere privata non possunt. Exstruantur amplissimae atque ornatissimae domus, opipara convivia frequententur, ubi cuique libuerit et potuerit, die noctuque ludatur bibatur, vomatur diffluatur. Saltationes undique concrepent, theatra inhonestae laetitiae vocibus atque omni genere sive crudelissimae sive turpissimae voluptatis exaestuent. Ille sit publicus inimicus cui haec felicitas displicet; quisquis eam mutare vel auferre temptaverit, eum libera multitudo avertat ab auribus, evertat a sedibus, auferat a viventibus. Illi habeantur dii veri, qui hanc adipiscendam populis procuraverint adeptamque servaverint. Colantur ut voluerint, ludos exposcant quales voluerint, quos cum suis vel de suis possint habere cultoribus: tantum efficiant, ut tali felicitati nihil ab hoste, nihil a peste, nihil ab ulla clade timeatur». Quis hanc rem publicam sanus, non dicam Romano imperio, sed domui Sardanapali comparaverit? qui quondam rex ita fuit voluptatibus deditus, ut in sepulcro suo scribi fecerit ea sola se habere mortuum, quae libido eius, etiam cum viveret, hauriendo consumpserat. Quem regem si isti haberent sibi in talibus indulgentem nec in eis cuiquam ullā severitate adversantem, huic libentius quam Romani veteres Romulo templum et flaminem consecrarent. 20. Verum … potentior: «In verità, simili adoratori e amanti di codesti dèi, dei cui malvagi misfatti si dilettano di essere anche imitatori, non si preoccupano affatto che lo Stato versi in una condizione di assoluta depravazione. “Basta soltanto che stia in piedi”, dicono, “basta soltanto che prosperi rimpinzato di ricchezze, glorioso di vittorie oppure, cosa che sarebbe più gradita, sicuro nella pace. E che ce ne importa? Anzi a noi interessa piuttosto che ognuno incrementi sempre più le ricchezze che sopperiscano agli sperperi quotidiani, per mezzo dei quali chi è più potente può sottomettere a se stesso anche chi è più debole.»

– sceleribus et flagitiis: la coppia di sostantivi si può intendere come un’endiadi, come pure la successiva coppia di aggettivi superlativi pessimam ac flagitiosissimam. – stet: congiuntivo concessivo, come il successivo floreat. – inquiunt: il verbo, il cui soggetto sottinteso è cultores deorum, introduce un lungo discorso diretto, una sorta di locutio ficta, nel quale Agostino, per bocca di un ipotetico interlocutore, mette in scena le caratteristiche della civitas terrena; ne deriva una spietata critica della società romana, la cui morale risulta improntata a criteri edonistici e utilitaristici. – “tantum floreat… secura sit: l’ironia di Agostino non potrebbe essere più evidente: ciò che ha fatto grande Roma, qui espresso con un efficacissimo trikólon (copiis referta, victoriis gloriosa … pace secura), è ormai destinato a venir meno, a motivo di un’erosione interna. – referta: part. passato di refercio (da farcio), indica ‘l’essere ripieno’. – gloriosa: dato il contesto, nell’aggettivo è possibile cogliere una sfumatura negativa: è chiaro che le vittorie romane, peraltro sempre meno numerose, producono una gloria ormai vuota in quanto residuo del passato. – si… augeat: il costrutto con si, sostituendo la proposizione sostantiva introdotta da quod (come si aspetterebbe visto la presenza di id che il quod + indicativo andrebbe a determinare), conferisce alla frase un valore ipotetico. – quae: introduce una relativa impropria con valore consecutivo. – potentior: la contrapposizione con infirmiores suggerisce l’idea che, ormai, a dominare il quadro è la legge del più forte. Obsequantur … impura: «I poveri assecondino i ricchi per potersi saziare e per poter godere del loro patrocinio in una inoperosa indolenza, i ricchi sfruttino i poveri per le clientele e in funzione della propria alterigia. I popoli applaudano non chi si preoccupa dei loro interessi, ma chi elargisce piaceri. Non si prescrivano gesti impegnativi, non si proibiscano azioni immorali.»

– obsequantur: tutta la sequenza è contrassegnata dall’impiego di congiuntivi esortativi che servono ad Agostino per elencare le storture della società romana. L’ampio discorso tocca i principali aspetti della corruzione, a cominciare dai rapporti sociali, basati sul potere della ricchezza e sulla sua disuguale distribuzione: è noto infatti come non ci possa essere pace senza giustizia sociale. – saturitatis: complemento di causa finale

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(lett. «al fine della sazietà»). – quieta inertia: la critica agostiniana non risparmia i poveri, i quali vengono accusati di avvallare, con la propria accondiscendenza, lo status quo. – divites pauperibus: i due termini in relazione con i precedenti divitibus pauperes individuano il primo dei numerosi chiasmi presenti nel brano (divitibus pauperes… divites pauperibus). Esso sembra quasi visualizzare l’ambiguo e malsano rapporto che vede coinvolti tanto i ricchi quanto i poveri: entrambi, sia pure per opposte ragioni, mirano al mantenimento delle rispettive condizioni sociali. È noto infatti come la società romana fosse largamente basata sul reciproco rapporto tra il cliens e il patronus: il primo, in cambio di obblighi politici ed economici, si rimetteva alla protezione del secondo, che lo difendeva in tribunale e lo sosteneva in caso di bisogno. – utilitatum… voluptatum: la contrapposizione tra utilitas e voluptas e il verbo plaudo tracciano una efficace sintesi dell’interazione che spesso, nel corso dell’impero, si venne a instaurare tra plebe e imperatore, con la prima che chiedeva panem et circensens e il secondo che era ben lieto di elargirglieli. – Non dura… impura: caratterizzata dalla struttura chiastica (dura iubeantur, non prohibeantur impura) e dall’omoteleuto, questa sentenza, secca e senza appello, tipica dell’andamento gnomico, cade come un colpo di scure sulla corruzione del mos maiorum. Certo, non sarebbe stonata in bocca a Sallustio o a Tacito. Reges … timeant: «I governanti non si preoccupino tanto di regnare su persone oneste, quanto piuttosto di regnare su persone sottomesse. Le province obbediscano ai governanti non come a guide dei comportamenti, ma come a padroni delle loro ricchezze e dispensatori dei loro piaceri e non li onorino sinceramente, ma li temano malvagiamente e servilmente.»

– Reges… regnent: dai rapporti sociali si passa all’etica politica, in cui a farla da padrone sono il desiderio di arricchimento, la volontà di sottomissione e la deresponsabilizzazione dei sottomessi. Si noti il bellissimo chiasmo (curent quam bonis… quam subditis regnent) che sembra quasi suggerire il circolo vizioso del potere. – non curent quam bonis, sed quam subditis: ellissi del correlativo tam; anche il verbo curo presenta l’ellissi di ut. Il senso della frase è che gli uomini di potere nei sudditi preferiscono la sottomissione all’onestà. – rectoribus morum: come altri pensatori cristiani del tempo, Agostino condivide, e non potrebbe essere altrimenti, l’idea che i governanti debbano svolgere un’azione etica ispirata ai princìpi dalla morale cristiana. Del resto, dacché gli imperatori abbracciarono il cristianesimo (e valga per tutti l’esempio di Teodosio), la loro azione di governo fu volta alla difesa del cristianesimo e del suo sistema di valori. Non è quindi un caso che Agostino, nel brano riportato più avanti (De civ. Dei V 24; vd. p. 68), delinei i tratti del principe ideale pensando proprio a Teodosio. – rerum: si intende res nel senso di «ricchezze», «averi». – dominatoribus: altro chiasmo: rectoribus morum … rerum dominatoribus. – timeant: con il periodo che va da reges a timeant, scandito da un fitto intreccio di antitesi (bonis/subditis, regnet/serviant, sinceriter/serviliter, honorent/timeant), Agostino esprime una netta critica al potere inteso, da parte dei governanti, come ricerca del consenso all’insegna dell’oderint dum metuant, e, da parte dei sottoposti, come adesione acritica e servile, con la sottomissione per dovere che lascia il posto alla sottomissione per timore. Quid … libet: «Le leggi puniscano chi procura qualche danno alla vigna altrui piuttosto che qualche danno alla propria esistenza. Venga condotto davanti ai giudici soltanto chi ha danneggiato la ricchezza altrui, la casa, la salute oppure ha importunato qualcuno contro la sua volontà; per il resto, delle proprie ricchezze ognuno faccia quello che vuole, con i suoi amici e con tutti coloro che sono d’accordo.»

– Quid… legibus advertatur: altro ambito caratterizzato dalla corruzione è la giustizia, che si limita a sanzionare i reati a danno di terzi a scapito della correzione delle storture morali. Come in precedenza, anche qui Agostino si muove sempre nella prospettiva dello stato etico. La costruzione del periodo è: quisque noceat quid alienae vineae… (lett. «nuocere in qualcosa alla vigna altrui») legibus advertatur («sia punito dalle leggi»). – vitae: l’edizione Maurina riporta la lezione viti («vigna»); in questo caso, il senso della frase sarebbe: «le leggi puniscano chi procura danno alla vigna altrui piuttosto che alla propria». Ci sembra però più perspicua la variante vitae presente in altri manoscritti, visto che Agostino intende stigmatizzare la preoccupazione per i beni materiali (la ricchezza, la casa, la salute) più che per quelli spirituali. – noceat: congiuntivo con valore eventuale; lett. «nuocere in qualcosa alla vigna altrui». – rei domui saluti: si noti l’efficace trikólon asindetico. Tutto il periodo, come il precedente, è giocato sulla contrapposizione tra alienae (alienae vineae; alienae rei domui saluti) e suis (suae vitae; de suis; cum suis): è sufficiente non danneggiare i beni altrui per essere considerati dei cittadini esemplari; poco importa invece se si sperperano i propri averi in una prospettiva egoisticamente utilitaristica (faciat quisque quod libet). Abundent … viventibus: «Abbondino le pubbliche prostitute vuoi a motivo di tutti coloro cui piace servirsene, vuoi, soprattutto, a motivo di coloro che non possono averne di private. Si costruiscano residenze spaziosissime e piene di decori, si tengano con frequenza sontuosi banchetti, nei quali, a seconda del piacere e della possibilità di ciascuno, notte e giorno si giochi, si beva, si vomiti, ci si lasci andare. Dovunque strepitino le danze, i teatri ribollano di voci di ripugnante gioia e di ogni genere di piacere, disumano o depravato che sia. Sia considerato nemico pubblico chi non ama questa felicità; chi tenti di cambiarla o di eliminarla la moltitudine libera non lo faccia parlare, lo cacci di casa, lo elimini dai viventi.»

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– publica scorta: la requisitoria di Agostino prosegue prendendo in considerazione alcuni ambiti della vita associata: la sessualità, le residenze, i banchetti, gli spettacoli teatrali. Inutile sottolineare come, anche al tempo di Agostino, la prostituzione fosse pratica assai diffusa. Le due categorie di prostitute qui menzionate si riferiscono al diverso status sociale delle donne che praticavano tale attività. – vel… vel: a differenza di aut, la congiunzione disgiuntiva vel indica che la distinzione è irrilevante o indifferente per chi parla (in questo caso, il servirsi di due tipologie di prostitute). – frui: infinitiva soggettiva. – placuerit: congiuntivo caratterizzante. – opipara: aggettivo composto da ops, opis («fasto») e da paro («preparo»). – ludatur bibatur, vomatur diffluatur: con questi quattro verbi, uniti per asindeto e per omoteleuto con i quali Agostino delinea l’abbrutimento dei partecipanti ai banchetti: si noti come la gradazione (o klimax) esprima alla perfezione la degradazione fisica e morale dei commensali. In particolare, diffluo indica il progressivo venir meno delle facoltà mentali sommerse dal vino. – Saltationes… theatra: la critica nei confronti degli spettacoli teatrali e circensi ha una lunga tradizione nel pensiero patristico, sia latino (si veda su tutti il De spectaculis di Tertulliano) sia greco (per esempio, Giovanni Crisostomo). – exaestuent: il verbo chiude mirabilmente un periodo, apertosi con concrepent, caratterizzato da un impasto fonetico (fatto di allitterazioni e omoteleuti) di straordinaria efficacia espressiva che mira a riprodurre il frastuono delle danze e delle urla degli spettatori. – publicus inimicus: da intendersi come nemico della cosa pubblica, cioè dello stato e del suo sistema di valori. – avertat ab auribus: lett. «lo allontani dalle orecchie», cioè dalla possibilità di essere ascoltato. – avertat… evertat… auferat: il trikólon asindetico sottolinea l’emarginazione sociale cui sono condannati coloro che non condividono lo stile di vita dei pagani. Illi … timeatur: «Siano ritenuti dèi autentici quelli che garantiscano ai popoli il conseguimento [di questa felicità] e che una volta conseguita la preservino. Siano adorati come vogliano, chiedano i giochi che vogliano, che possono avere con oppure dai propri adoratori: facciano soltanto in modo che per [ottenere] tale felicità non si tema niente dal nemico, niente dalla malattia, niente da qualche calamità.»

– dii veri… servaverint: l’ultimo ambito preso in considerazione è quello religioso: Agostino sottolinea il carattere utilitaristico del paganesimo, con le divinità che sono al servizio della prosperità individuale e collettiva. – procuraverint… servaverint: altri due congiuntivi caratterizzanti. – adipiscendam: l’uso del gerundivo (da adipiscor, concordato con felicitas) dipende dal valore causativo del verbo procuro; lett. «hanno procurato ai popoli di ottenere questa [felicità]». –– voluerint: congiuntivo eventuale, come il successivo voluerint. ludos: allusione alle feste in onore delle divinità pagane. – de suis: l’ablativo di provenienza esprime l’idea che i giochi vengano organizzati a spese degli stessi adoratori. – efficiant, ut: nesso causativo seguito dal congiuntivo. – felicitati: dativo di fine. – nihil ab hoste… timeatur”: viene qui sottolineato il carattere civile della religio romana: come il compito degli dèi è proteggere la comunità sociale dai rovesci della sorte, così il compito dei loro adoratori è ingraziarsene il favore. Quis … consecrarent: «Chi, sano di mente, potrebbe paragonare questo stato, non dirò all’impero romano, ma alla dimora di Sardanapalo? Egli, un tempo, fu un re tanto dedito ai piaceri da far scrivere sul suo sepolcro di possedere, da morto, soltanto le ricchezze che la sua sfrenatezza, quando era ancora vivo, aveva, divorandole, dissipato. E se costoro avessero un re come questo che accondiscende a tali piaceri e che non si oppone a nessuno con severità, gli consacrerebbero un tempio e un flamine più volentieri di quanto abbiano fatto per Romolo gli antichi romani.»

– Quis: al termine del lungo atto di accusa contro la società pagana posto in bocca ad un ipotetico interlocutore, Agostino chiude la sua riflessione con una domanda retorica che ne certifica, attraverso l’eloquente exemplum di Sardanapalo, la validità. – Sardanapali: reso immortale dai famosi versi di Dante («non v’era giunto ancor Sardanapalo / a mostrar ciò che ‘n camera si puote»: Paradiso XV 107-108), Sardanapalo, da identificare probabilmente con il re assiro Assurbanipal (668-626 a.C.), venne assunto dall’antichità come esempio per antonomasia di lussuria e di ricchezza sfrenata. – comparaverit: congiuntivo potenziale. – Qui: nesso relativo, come il successivo quem. – in sepulcro suo scribi: l’iscrizione cui allude Agostino è menzionata da Cicerone: Sardanapalli, opulentissimi Syriae regis, error adgnoscitur, qui incidi iussit in busto: “Haec habeo, quae edi, quaeque exsaturata libido / Hausit; at illa iacent multa et praeclara relicta.” (Tusculanae disputationes, V 35,101). «È noto l’errore di Sardanapalo, il ricchissimo re della Siria, il quale ordinò che sul busto fosse inciso: “Possiedo le cose che ho mangiato e le cose che il piacere appagato / ha assaporato; ma esse giacciono come numerosi e famosissimi relitti”». – isti: sono i romani del tempo di Agostino, cui si contrappongono i Romani veteres. – si… haberent… consecrarent: periodo ipotetico dell’irrealtà. – flaminem: i flamini, divisi in maiores (eletti tra i patrizi in numero di tre) e in minores (eletti tra i plebei in numero di 12), erano sacerdoti addetti al culto di una specifica divinità. Il più alto in grado fra loro era il flamen Dialis (dedito al culto di Giove), cui spettava il diritto della sella curulis (lo scranno riservato ai magistrati più importanti) e l’onore di sedere in senato. Secondo Tito Livio (Ab urbe condita I 20, 2), i tre flamini maggiori (Dialis, Martialis [di Marte], Quirinalis [di Quirino]) vennero creati da Numa Pompilio.

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PER FARE IL PUNTO… De civitate Dei II 20

Sui testi

• Stet (II 20) è congiuntivo con valore …………………… • Rifletti sul valore della proposizione si divitias quisque augeat semper (II 20): di che costrutto si tratta? Da che cosa dipende? • Non dura iubeantur, non prohibeantur impura. Reges non curent quam bonis, sed quam subditis regnent (II 20): analizza la struttura dei due periodi, dal punto di vista grammaticale e sintattico. Quali figure retoriche vi sono, inoltre, impiegate. • Qual è l’etimologia dell’aggettivo noxius (II 20)? • Quisquis eam mutare vel auferre temptaverit, eum libera multitudo avertat ab auribus, evertat a sedibus, auferat a viventibus (II 20): analizza i verbi presenti nel periodo. Esi sono legati da ……………………………….. al fine di evidenziare ………………………………….. • Rintraccia, elencandoli in una tabella, i termini presenti in II 20 che denunciano la corruzione sociale e politica della società pagana.

Sui temi

• Chi era Sardanapalo? In quale brano e perché viene citato da Agostino? • Chi sono i ‘flamini’ e che ruolo avevano nel sistema religioso romano? • Quali sono gli aspetti della società romana che Agostino mette sotto accusa in II 20? È possibile rintracciare un filo conduttore nella sua requisitoria? • Spiega perché Agostino in II 20 utilizza la forma espressiva della locutio ficta per esprimere la propria critica nei confronti della società romana. • Confronta il cap. X del De Catiliniae coniuratione di Sallustio con il brano II 20 di Agostino. Che analogie si possono riscontrare? Quali invece le differenze? • Rintraccia le antitesi concettuali presenti nel brano II 20 e riassumile in un’apposita tabella partendo dalle parole chiave.

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Invito ad accettare il cristianesimo De civitate Dei II 29, 1-2

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opo la sferzante ironia del brano precedente, Agostino, nella sezione finale del II libro, scrive una pagina di rara intensità, nella quale, recuperando le modalità stilistico-retoriche del discorso protrettico, si rivolge alla parte migliore (indoles… laudabilis) della romanità affinché accetti di rinnovare, alla luce del cristianesimo, il proprio patrimonio etico. Il presupposto che sta alla base dell’argomentazione è chiaro: il cristianesimo non si oppone, ma riassume in modo autentico e definitivo quanto c’è sempre stato di buono nella morale pagana, la quale, dal canto suo, non ha mancato di offrire esempi illustri di morale civile. I Romani non sono ancora riusciti ad accettare la civitas caelestis perché non hanno ancora avuto il coraggio di staccarsi dal culto degli dèi e dalla sua morale violenta. La libertà, la pace, la giustizia, i grandi valori etico-civili della romanità, non possono essere autentici finché non saranno purificati dal rinnovamento morale auspicato da Agostino: la vera libertà è libertà dall’errore e la vera pace è fondata sulla giustizia sociale. Agostino, da buon figlio di Roma, non intende di fatto abbattere l’edificio della romanità, ma, per così dire, restaurarlo e portare alla luce le sue potenzialità a lungo nascoste sotto il velo dell’errore. Come afferma infatti Luigi Alici (La città di Dio, p. 168, nota 1) «più che accentuare una dicotomia radicale tra la societas pagana e quella cristiana, Agostino sembra qui maggiormente sensibile alla necessità di reperire una mediazione storica, sia pure ristretta ad alcuni casi eccezionali, tra quelle due realtà, e che idealmente sembra configurarsi nell'idea di iustitia propria della definizione ciceroniana. Tale ideale, ora finalmente libero dai condizionamenti di culti superstiziosi e dalle degenerazioni dell’egoismo, trova nel cristianesimo un contesto umano, ricomposto e risanato dalla vera pietas, in cui si possa filtrare e portare alla compiutezza ciò che di laudabile naturaliter in quella società si è manifestato». Il cambiamento di cittadinanza, cioè il passaggio dalla daemonum societatem alla beatam civitatem, è la condizione indispensabile per il rinnovamento della società. Solo così Roma potrà recuperare la sua antica grandezza.

29, 1 Haec potius concupisce, o indoles Romana laudabilis, o progenies Regulorum, Scaevolarum, Scipionum, Fabriciorum; haec potius concupisce, haec ab illa turpissima vanitate et fallacissima daemonum malignitate discerne. Si quid in te laudabile naturaliter eminet, non nisi vera pietate purgatur atque perficitur, impietate autem disperditur et punitur. Nunc iam elige quid sequaris, ut non in te, sed in Deo vero sine ullo errore lauderis. Tunc enim tibi gloria popularis adfuit, sed occulto iudicio divinae providentiae vera religio quam eligeres defuit. Expergiscĕre, dies est, sicut experrecta es in quibusdam, de quorum virtute perfecta et pro fide vera etiam passionibus gloriamur, qui usquequaque adversus potestates inimicissimas confligentes easque fortiter moriendo vincentes sanguine nobis hanc patriam peperere suo. Ad quam patriam te invitamus et exhortamur, ut eius adiciaris numero civium, cuius quodam modo asylum est vera remissio peccatorum. Non audias degeneres tuos Christo Christianisve detrahentes et accusantes velut tempora mala, cum quaerant tempora, quibus non sit quieta vită, sed potius secura nequi-

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tiă. Haec tibi numquam nec pro terrena patria placuerunt. Nunc iam caelestem arripe, pro qua minimum laborabis, et in ea veraciter semperque regnabis. Illic enim tibi non Vestalis focus, non lapis Capitolinus, sed Deus unus et verus nec metas rerum nec tempora ponit, Imperium sine fine dabit. 29, 2 Noli deos falsos fallacesque requirere; abice potius atque contemne in veram emicans libertatem. Non sunt dii, maligni sunt spiritus, quibus aeternă tua felicitas poenă est. Non tam Iuno Troianis, a quibus carnalem originem ducis, arces videtur invidisse Romanas, quam isti daemones, quos adhuc deos putas, omni generi hominum sedes invident sempiternas. Et tu ipsa non parvā ex parte de talibus spiritibus iudicasti, quando ludis eos placasti, et per quos homines eosdem ludos fecisti, infames esse voluisti. Patĕre assĕri libertatem tuam adversus immundos spiritus, qui tuis cervicibus imposuerant sacrandam sibi et celebrandam ignominiam suam. Actores criminum divinorum removisti ab honoribus tuis: supplica Deo vero, ut a te removeat illos deos, qui delectantur criminibus suis, seu veris, quod ignominiosissimum est, seu falsis, quod malitiosissimum . Bene, quod tua sponte histrionibus et scaenicis societatem civitatis patēre noluisti; evigila plenius! Nullo modo his artibus placatur divina maiestas, quibus humana dignitas inquinatur. Quo igitur pacto deos, qui talibus delectantur obsequiis, haberi putas in numero sanctarum caelestium potestatum, cum homines, per quos eădem aguntur obsequia, non putasti habendos in numero qualiumcumque civium Romanorum? Incomparabiliter superna est civitas clarior, ubi victoriă veritas, ubi dignitas sanctitas, ubi pax felicitas, ubi vită aeternitas. Multo minus habet in sua societate tales deos, si tu in tua tales homines habere erubuisti. Proinde si ad beatam pervenire desideras civitatem, devita daemonum societatem. Indigne ab honestis coluntur, qui per turpes placantur. Sic isti a tua pietate removeantur purgatione Christiana, quo modo illi a tua dignitate remoti sunt notatione censoria. […] 29, 1 Haec … lauderis: «Aspira piuttosto a queste realtà, o pregevole tempra romana, o discendenza dei Regoli, degli Scevola, degli Scipioni, dei Fabrizi; aspira piuttosto a queste realtà, distinguile da quella vergognosissima inconsistenza e ingannevolissima malvagità dei demoni. Se in te risplende per natura qualcosa di pregevole, esso non viene purificato e reso perfetto se non dalla vera pietà, mentre dall’empietà viene disperso e punito. Ora è tempo di scegliere cosa seguire, affinché non in te, ma nel Dio vero senza alcun errore tu possa essere apprezzata.»

– concupisce, o indoles Romana: tutto il brano è una lunga apostrofe, i cui elementi fondamentali sono il vocativo e i verbi all’imperativo. – laudabilis: l’aggettivo, per nulla ironico, esprime la convinzione di Agostino che Roma abbia avuto indubbi meriti nel processo di civilizzazione dell’umanità. Del resto qui Agostino si rivolge alla parte migliore della romanità. – Regulorum… Fabriciorum: i personaggi qui citati sono altrettante incarnazioni del passato eroico di Roma, esempi di virtù civiche (Attilio Regolo), di eroismo (Muzio Scevola), di gloria militare (Scipioni) e di austerità (Gaio Fabrizio). – haec: il pronome dimostrativo si riferisce a quanto detto da Agostino alla fine del § 28, cioè gli insegnamenti, i miracoli, i doni e la bontà del vero Dio. – ab illa… discerne: sulla base dell’antitesi tra haec e illa, i Romani sono invitati a a distinguere, all’interno dei propri valori ciò che risulta ormai superato (turpissima vanitate), vale a dire il culto politeistico (qui indicato con la locuzione daemonum malignitate), da ciò che è in sintonia con i valori cristiani. – Si… laudabile naturaliter eminet… punitur: con la ripresa dell’aggettivo laudabilis, Agostino ribadisce (con periodo ipotetico della oggettività) che la morale romana, in quanto morale naturale, non deve essere considerata esaurita, ma deve passare attraverso un processo di purificazione (purgatur) e di perfezionamento (perficitur) tramite il passaggio dalla impietas (politeismo) alla vera pietas (monoteismo). – impieate: siamo qui al termine di quel lungo processo in base al quale coloro che venivano tacciati di essere impii (i cristiani) rovesciano sugli antichi accusatori la medesima accusa. Il quartetto di verbi (purgatur atque perficitur; disperditur et punitur), caratterizzati dall’omoteleuto, esprimono alla perfezione questa idea. – elige: la scansione degli imperativi dall’inizio del brano (concupisce, discerne, elige) sembra suggerire la progressione del cammino di

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perfezionamento. – errore: si noti l’antitesi con vero Deo. Come si può vedere, l’aggettivo verus ricorre insistentemente in tutto il brano a ribadire la verità del cristianesimo contrapposta all’errore del paganesimo. – lauderis: a chiusura della prima parte del discorso il verbo riprende l’aggettivo laudabilis con cui si era aperto. Tunc … peccatorum: «In passato infatti hai avuto la gloria tra i popoli, ma per un nascosto disegno della divina provvidenza ti è mancata la vera religione da scegliere. Svègliati, è giorno, come ti sei svegliata in alcuni della cui virtù perfetta e delle cui sofferenze a difesa della vera fede noi ci gloriamo, persone che, combattendo in ogni luogo contro le potenze più avverse e vincendole con forza sino alla morte, con il loro sangue per noi hanno generato questa patria. A questa patria ti invitiamo e ti sproniamo affinché tu sia aggiunta al numero dei suoi cittadini, il cui rifugio è in certo qual modo la vera remissione dei peccati.»

– adfuit… defuit: il contrasto tra gloria popularis e vera religio viene sottolineata anche dall’antitesi adfuitdefuit. Nella visione storico-teologica di Agostino – peraltro comune ad altri autori del primo cristianesimo (cfr. in particolare Lattanzio e Eusebio) –, Roma non ha avuto accesso alla vera religione (il cristianesimo) per volontà di Dio; tuttavia, sempre per un disegno provvidenziale, il cristianesimo è nato e si è inculturato proprio nell’impero romano il quale, da Costantino in poi, non può non dirsi cristiano. – quam eligeres: relativa impropria con valore consecutivo. – Expergiscere: imperativo di expergiscor (il successivo experrecta es è indicativo perfetto dello stesso verbo). L’espressione è ricalcata su Paolo: «è ora ormai che vi svegliate dal sonno; perché adesso la salvezza ci è più vicina di quando credemmo. La notte è avanzata, il giorno è vicino» (Lettera ai Romani 13, 11-12). – quibusdam: sono i martiri che hanno combattuto per la vera fede. Si vede bene come la loro gloria (eterna) sia opposta alla gloria (terrena) dei Romani e, al tempo stesso, un’anticipazione della civitas caelestis, a cui Agostino invita i Romani (ad quam patriam te invitamus et exhortamur). – sanguine: citazione da Eneide XI 24-25, in cui, dopo aver ucciso Mesenzio (il re di Caere alleato di Turno), Enea rivolge ai suoi compagni morti un saluto funebre. È evidente la contrapposizione fra la patria di cui parla Enea e quella di cui parla Agostino. – asylum: così era chiamata la piccola vallata che divideva le due sommità del Campidoglio, una specie di zona franca voluta, secondo la leggenda, da Romolo e destinata a raccogliere fuggiaschi e profughi politici, futuri cittadini della nuova città. Nella prospettiva della civitas caelestis, Agostino suggerisce l’idea che il vero asylum sia la remissione dei peccati, come afferma anche nel libro V: «la remissione dei peccati, che raccoglie i cittadini verso la patria eterna, ha, per una certa analogia, qualcosa di simile all’asilo di Romolo, perché l’impunità dei vari delitti radunava lì la moltitudine con cui fondare la città.» (17, 2). Ma si veda anche De civ. I 34. Non … dabit: «Non prestare ascolto ai tuoi [cittadini] degeneri che screditano Cristo e i cristiani e che incolpano i tempi come se fossero malvagi, mentre invece ricercano tempi in cui l’esistenza non sia tranquilla, ma in cui, anzi, la malvagità sia preservata. Questi tempi neppure per la patria terrena ti sono mai piaciuti. Ora è tempo di afferrare quella celeste, per la quale faticherai pochissimo e in essa autenticamente e per sempre regnerai. Lì infatti non il fuoco di Vesta, non la pietra del Campidoglio, ma il Dio unico e vero per te non pone i limiti delle cose né i tempi, ma ti darà un potere senza fine.»

– Christo… detrahentes: come si è detto, uno dei motivi che spinse Agostino a comporre il De civitate Dei fu il rinfocolarsi delle accuse contro i cristiani a seguito del sacco di Roma del 410. – tempora mala: oltre alle accuse contro i cristiani, viene menzionata la tendenza a incolpare non se stessi, ma le circostanze storiche, secondo un vuoto moralismo che, mentre spinge verso una presunta tranquillità (quieta vita), conduce invece alla perpetuazione delle storture morali (secura nequitia). Il rinnovamento interiore a cui Agostino invita i Romani è possibile solo all’interno dei valori condivisi del cristianesimo. – cum quaerant: si propende per il valore avversativo di cum. – quibus: introduce una relativa impropria con valore consecutivo. – arripe: il verbo sembra suggerire l’ineludibilità della scelta a favore della patria caelestis (contrapposta alla terrena), raggiunta la quale ci si può assicurare un regno eterno (semper regnabis) in quanto non di natura politica. – Vestalis focus: il fuoco di Vesta, divinità del focolare domestico, era custodito nel templum Vestae (il tempio rotondo della dea) dal collegio delle Vestali, sei vergini scelte dal Pontifex Maximus. Come ci informa Tito Livio (Ab urbe condita VIII 15; XXI 57) e lo stesso Agostino (De civ. Dei III 5), la Vestale che non rispettava la propria verginità veniva sepolta viva. – lapis Capitolinus: è la statua di Giove conservata nel Capitolium, il tempio in onore di Giove costruito per la prima volta dai Tarquini e più volte restaurato. – nec metas… dabit: citazione dall’Eneide I 278-279, ma con una variazione nella persona e nel tempo dei verbi (c’è ponit anziché pono e dabit anziché dedi). 29, 2 Noli … suam: «Non ricercare dèi falsi e ingannatori; anzi, respingili e disprezzali lanciandoti verso un’autentica libertà. Non sono dèi, sono spiriti malvagi, per i quali la tua felicità eterna è un tormento. Sembra che Giunone non abbia negato ai Troiani, da cui tu trai la tua origine terrena, le rocche romane tanto quanto codesti demoni, che tu consideri ancora dèi, negano ad ogni stirpe umana le sedi eterne. E tu stessa in non piccola parte hai giudicato tali spiriti, allorché li hai placati con giochi e hai voluto che fossero infami gli uomini attraverso i quali hai organizzato i medesimi giochi. Lascia che si rivendichi la tua libertà contro gli spiriti immondi che sul tuo capo avevano imposto la sacra celebrazione della propria ignominia.»

– Noli… requirere: imperativo negativo (noli + infinito). – falsos fallacesque: l’abbandono delle divinità fallaci per abbracciare la libertà che deriva dal culto del vero Dio è tema tipicamente biblico (libro dell’Esodo

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in particolare). Secoli dopo, Dante userà una perifrasi simile per indicare la romanità: «nel tempo de li dèi falsi e bugiardi» (Inferno I 72). – abice: imperativo di abicio, composto di ab- iacio, «scaglio via». – emicans: il verbo (part. pres. di emico, «sgorgo», «zampillo») indica propriamente l’improvvisa e prorompente fuoriuscita di un liquido a lungo compresso. – Non tam Iuno… invident sempiternas: chiaro riferimento all’ira Iunonis (Eneide I 4) – vero e proprio leitmotiv del poema virgiliano – che tenta di impedire (invidisse) la rifondazione di Troia sui colli laziali. Come in origine Giunone si oppose a che i Troiani approdassero alla loro nuova patria (terrena), così – dice Agostino – gli dèi fallaci continuano a precludere ai discendenti di quei Troiani la patria celeste (sedes sempiternas). – tam… quam: proposizione comparativa. – ludis: che grandezza possono avere delle divinità che è possibile placare semplicemente con dei ludi? – infames: è nota la scarsa considerazione sociale in cui erano tenuti nel mondo romano coloro che organizzavano giochi e spettacoli teatrali in occasione di festività religiose. – patere: imperativo presente di patior. – asseri: infinito presente passivo da assero, «rivendico»; considerando il valore proprio del verbo (dichiarare uno libero tramite l’imposizione delle mani sul capo), si può facilmente capire come Agostino inviti i Romani a passare dal culto schiavizzante degli dèi (immundos spiritus) al culto liberante del vero Dio. – sacrandam… celebrandam: i due gerundivi possono essere interpretati come endiadi; lett. «si dovesse consacrare loro e celebrare la loro ignominia». Actores … Romanorum?: «Gli interpreti dei crimini divini li hai rimossi dalle tue cariche: rivolgi suppliche al Dio vero, affinché tenga lontani da te quegli dèi che si dilettano dei propri crimini, veri – cosa oltremodo vergognosa – o falsi che siano – cosa oltremodo subdola. Bene hai fatto a non volere di tua iniziativa che agli istrioni e agli attori fosse accessibile la partecipazione al consorzio cittadino; stai in guardia ancora di più! In nessun modo si placa la maestà divina con azioni che inquinano la dignità umana. In base dunque a quale principio gli dèi che si dilettano di tali ossequi tu ritieni che possano essere annoverati tra le sante potenze celesti, quando poi gli uomini per mezzo dei quali si presentano gli stessi ossequi non hai ritenuto di doverli annoverare tra i cittadini romani qualunque?»

– seu veris… seu falsis: che siano rappresentate sulla scena o che siano ritenute autentiche, resta il fatto che le turpi azioni degli dèi sono incompatibili con il rinnovamento morale che Agostino auspica. – Bene, quod: quod introduce una proposizione sostantiva dipendente dall’avverbio bene con ellissi del verbo fecisti. – histrionibus et scaenicis:: i due termini indicano gli attori di tragedie e di commedie. Come si è detto sopra, a Roma gli attori, considerati homines infames, non godevano di grande reputazione ed erano esposti a frequenti abusi giuridici (vedi sotto la notatio censoria); essendo spesso degli schiavi, non erano considerati appartenenti a pieno titolo alla societas civitatis. – evigila plenius!: viene qui confermata l’idea per cui, secondo Agostino, i romani, per effetto della loro grande tradizione morale, non sono poi così lontani dalla mèta rappresentata dalla patria celeste; basta solo un ultimo sforzo, quello decisivo. – nullo modo… dignitas inquinatur: con questa sentenza Agostino afferma chiaramente come il culto degli dèi non sia autentico nel momento in cui va a discapito della dignità umana. – Quo igitur pacto… Romanorum?: il periodo, piuttosto complesso, è mirabile per equilibrio compositivo: si apre con un nesso interrogativo (quo pacto), i due accusativi deos e homines sono seguiti da una relativa (qui… per quos), vi è contrapposizione tra haberi putas e non putasti habendos. La costruzione è : quo pacto putas deos… haberi in numero… (lett. «in che modo pensi di considerare gli dei … nel numero delle sante potenze celesti»); così pure per l’oggettiva seguente la costruzione è: non putasti homines… habendos (esse) in numero…?. Viene qui smascherata quella che ad Agostino appare un’evidente contraddizione: se, infatti, gli attori che in scena rappresentano le ‘gesta’ immorali degli dèi non godono di grande considerazione sociale, non si capisce perché debbano ancora essere annoverati tra le potenze celesti gli dèi che di questi misfatti sono all’origine. – cum homines… non putasti: la proposizione temporale ha qui una sfumatura avversativa. Incomparabiliter … censoria: «Incomparabilmente più splendente è la città celeste, dove la vittoria è verità, dove la dignità è santità, dove la pace è felicità, dove la vita è eternità. Se ti sei vergognata di avere nel tuo ordine sociale tali uomini, molto meno essa ha nel suo tali dèi. Per cui, se desideri giungere alla città beata, evita la compagnia dei demoni. Sono venerati indegnamente dagli onesti coloro che sono placati per mezzo dei malvagi. Questi ultimi vengano rimossi dalla tua venerazione grazie alla purificazione cristiana allo stesso modo in cui quelli sono stati rimossi dalla tua considerazione grazie alla nota censoria.»

– superna est civitas: a dimostrazione di come la lettura ‘ecclesiastica’ della civitas caelestis sia stata duratura, si può citare la Pentecoste di A. Manzoni, in cui al v. 2 la Chiesa viene definita come «immagine della città superna». – victoria… aeternitas: chiudendo il suo invito alla progenie romana affinché accetti la civitas superna, Agostino, con efficacissima progressione, distingue i valori terreni (victoria, dignitas, pax, vita) da quelli spirituali (veritas, sanctitas, felicitas, aeternitas), facendo notare come i primi siano resi autentici dai secondi. Nella civitas caelestis si realizzerà una suprema sintesi tra questi valori. – Multo minus habet… habere erubuisti: si tratta dell’ennesima contrapposizione tra le due città: in sua societate/in tua [societate]; tales deos/tales homines. – societatem: condizione imprescindibile per essere considerati cittadini della città celeste (beatam societatem) è il netto rifiuto del politeismo (daemonun societatem), il cui culto è basato sulla necessità di placare gli dèi con azioni immorali (per turpes placantur); solo così si può essere considerati persone irreprensibili. – notatione censoria: si tratta di una condanna inflitta dai censori per crimini contro la moralità pubblica; una categoria particolarmente esposta alla notatio censoria era proprio quella degli attori.

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Il principe ideale De civitate Dei V 24

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ome si è detto in precedenza (vd. pp. 56-58), la contrapposizione agostiniana tra civitas terrena e civitas caelestis non può essere ridotta allo scontro tra due visioni socio-politiche alternative tra loro, ma deve essere inquadrata in più ampio orizzonte di natura etica. Agostino non si sogna minimamente di demonizzare la civiltà romana, altrimenti non direbbe che i Romani «disprezzarono gli affari personali a vantaggio dell’interesse comune, che è lo Stato, e del suo erario, si opposero all’avidità, provvidero alla patria con libere elezioni e in forza delle proprie leggi non furono soggetti alla delinquenza e alla passione; grazie a tutte queste pratiche aspirarono come per una via giusta agli onori, al potere e alla gloria; furono onorati presso quasi tutti i popoli, imposero a molti popoli le leggi del loro potere ed oggi presso quasi tutti i popoli hanno la gloria nella letteratura e nella storia» (De civ. Dei V 15; trad. D. Gentili). Quello che ad Agostino sta a cuore è piuttosto una diversa etica del potere per effetto della quale la logica del dominio fine a se stesso cede il passo alla logica del servizio. Muovendosi lungo l’asse dell’utopia platonica (le virtù civili) e del messaggio di Cristo (le virtù cristiane), Agostino non intende contestare né la legittimità dell’impero né – tanto meno – proporre un modello politico alternativo, bensì sottolineare una diversa linea di governo nella quale la passione per la gloria (cupiditas gloriae) viene superata dall’amore per la giustizia (dilectio iustitiae). Non dunque abbattimento delle strutture di potere, ma loro rinnovamento. Quando poi Agostino afferma che «noi attribuiamo la facoltà di concedere il potere regio e imperiale soltanto al vero Dio, il quale dà la felicità nel regno dei cieli soltanto ai giusti, mentre il regno terreno lo concede sia ai giusti sia agli ingiusti» (De civ. Dei V 21; trad. D. Gentili), chiarisce ulteriormente, da un lato, la sua visione provvidenzialistica, e, dall’altro, come la dialettica tra i due tipi di esercizio del potere sia una esemplificazione del contrasto tra le due civitates.

24 Neque enim nos Christianos quosdam imperatores ideo felices dicimus, quia vel diutius imperarunt vel imperantes filios morte placidā reliquerunt, vel hostes rei publicae domuerunt vel inimicos cives adversus se insurgentes et cavēre et opprimere potuerunt. Haec et alia vitae huius aerumnosae vel munera vel solacia quidam etiam cultores daemonum accipere meruerunt, qui non pertinent ad regnum Dei, quo pertinent isti; et hoc ipsius misericordiā factum est, ne ab illo ista qui in eum crederent velut summa bona desiderarent. Sed felices eos dicimus, si iuste imperant, si inter linguas sublimiter honorantium et obsequia nimis humiliter salutantium non extolluntur, et se homines esse meminerunt; si suam potestatem ad Dei cultum maxime dilatandum maiestati eius famulam faciunt; si Deum timent, diligunt, colunt; si plus amant illud regnum, ubi non timent habere consortes; si tardius vindicant, facile ignoscunt; si eandem vindictam pro necessitate regendae tuendaeque rei publicae, non pro saturandis inimicitiarum odiis exserunt; si eandem veniam non ad impunitatem iniquitatis, sed ad spem correctionis indulgent; si, quod aspere coguntur plerumque decernere, misericordiae lenitate et beneficiorum largitate compensant; si luxuriă tanto eis est castigatior, quanto

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posset esse liberior; si malunt cupiditatibus pravis quam quibuslibet gentibus imperare et si haec omnia faciunt non propter ardorem inanis gloriae, sed propter caritatem felicitatis aeternae; si pro suis peccatis humilitatis et miserationis et orationis sacrificium Deo suo vero immolare non neglegunt. Tales christianos imperatores dicimus esse felices interim spe, postea re ipsa futuros, cum id quod exspectamus advenerit. 24 Neque … desiderarent: «Certi imperatori cristiani noi li definiamo ‘felici’ non per il fatto che hanno regnato più a lungo oppure perché hanno lasciato il potere ai figli dopo una morte serena, perché hanno domato i nemici dello Stato oppure perché sono stati in grado di guardarsi dai nemici che insorgevano contro di loro e di schiacciarli. Questi e altri onori o consolazioni di questa esistenza travagliata hanno meritato di riceverli anche certi adoratori dei demoni, i quali non tendono al regno di Dio, a cui tendono invece questi [imperatori]; e ciò è avvenuto grazie alla Sua misericordia affinché coloro che credono in Lui non desiderino da Lui questi riconoscimenti come sommi beni.»

– quosdam: in latino l’aggettivo quidam viene usato per indicare senza però specificare; è sottinteso che, secondo Agostino, la qualifica di ‘felici’ di cui si parla dopo non può essere applicata ispo facto a tutti gli imperatori cristiani. – ideo: avverbio prolettico in correlazione con quia che introduce una serie di proposizioni causali dell’oggettività (i verbi sono infatti all’indicativo). – felices: il cognomen di Felix (lett. «fortunato»), con il quale si sottolineava il favore divino, venne assunto per la prima volta da Lucio Cornelio Silla (81 a.C.) e poi ripreso come titolo ufficiale da altri imperatori (per esempio Commodo e Caracalla). Come risulta dalle iscrizioni ufficiali, l’attributo di Felix venne assegnato a numerosi imperatori cristiani, tra cui Costantino, Costanzo II, Valentiniano II, Valente, Graziano, Teodosio, Arcadio, Onorio. – vel: a differenza di aut, la congiunzione disgiuntiva vel esprime una distinzione irrilevante per chi parla: in questo caso, ad Agostino non interessa specificare i meriti, tutti politici, che hanno consentito ad alcuni imperatori pagani di fregiarsi del titolo di Felix. – imperarunt: forma sincopata di imperaverunt. – imperantes: participio predicativo dell’oggetto; lett. «hanno lasciato i figli governanti». – morte placida: si intende una morte avvenuta non in seguito a congiure di palazzo. È quella che ebbe Costantino, del quale Agostino dice grandaevus aegritudine et senectute defunctus est, filios imperantes reliquit «morì anziano di malattia e di vecchiaia, lasciò l’impero ai figli» (De civ. Dei V 25). – cavere: costruito con l’accusativo della persona, il verbo caveo assume il significato di «guardarsi da». – cultores daemonum: la locuzione indica gli imperatori pagani (per i cristiani infatti il culto riservato all’imperatore era un culto demoniaco). Sempre di Costantino si afferma non supplicantem daemonibus, sed ipsum verum Deum colentem «non supplicava i demoni ma adorava lo stesso Dio vero» (ibid.). – quo: pronome relativo con valore avverbiale, esprime ilo modo a luogo. – isti: si tratta non dei cultores daemonum, ma degli imperatori cristiani. – qui… crederent: attrazione modale del congiuntivo. – summa bona: a differenza degli imperatori pagani, quelli cristiani si attendono una ricompensa non terrena, ma celeste; i summa bona a cui aspirano non appartengono all’ambito puramente politico. Sed … consortes: «Al contrario, li definiamo ‘felici’ se governano secondo giustizia, se tra le parole di coloro che esageratamente li onorano e gli ossequi di coloro che troppo riguardosamente li salutano non si esaltano e si ricordano di essere uomini; se, per diffondere il più possibile il culto di Dio, pongono il proprio potere a servizio della Sua maestà; se temono, amano, adorano Dio; se amano più quel regno nel quale non temono di avere colleghi;»

– Sed: l’avversativa introduce una netta contrapposizione tra le due tipologie di imperatori. Comincia qui un lungo periodo sintattico (principale avversativa seguita da una serie di ipotetiche della oggettività che arrivano fin quasi al termine del brano) nel quale Agostino elenca le virtù del principe ideale. – iuste imperant: l’avverbio non deve far pensare che Agostino contesti la legittimità del potere imperiale; egli piuttosto sottolinea la necessità di un governo ispirato a criteri di equità sociale. – si inter linguas… non extolluntur: la vera gloria non è quella che deriva dall’ossequio dei sudditi, ma quella che deriva dalla sottomissione alla legge divina. Si noti il parallelismo sintattico: sublimiter honorantium… humiliter salutantium. – homines: è chiara la polemica contro la divinizzazione dell’imperatore: non è l’imperatore a dover essere oggetto di culto (cosa che i primi cristiani non hanno mai accettato, anche a prezzo della vita), ma è lui, come si dice in seguito, a favorire la diffusione del culto divino (ad Dei cultum maxime dilatandum) e quindi del cristianesimo. – ad… cultum… dilatandum: gerundivo con funzione finale. – faciunt famulam: famulam è predicativo dell’oggetto suam potestatem; letteralmente «rendono il proprio potere servo [della sua maestà]». – Deum timent diligunt colunt: efficacissimo trikólon asindetico con il quale si riassumono le predisposizioni d’animo dell’imperatore cristiano nei confronti di Dio. – illud regnum: si tratta ovviamente del regno dei cieli. – consortes: è noto che, dopo la riforma politica di Diocleziano (285-305), il potere imperiale è stato suddiviso tra due augusti e due cesari.

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si tardius … compensant: «se puniscono più lentamente, perdonano facilmente; se esercitano la medesima punizione per la necessità di governare e difendere lo Stato, non per soddisfare gli odi delle inimicizie; se accordano il medesimo perdono non per lasciare impunita l’ingiustizia, ma nella speranza di un ravvedimento; se le decisioni sgradevoli che spesso sono costretti a prendere le compensano con la mitezza della misericordia e con la generosità dei benefici;»

– vindicant… ignoscunt: la dialettica tra il punire tardius e il perdonare facile costituisce la discriminante tra un potere personale e un potere che ha di mira il benessere collettivo. I due periodi che seguono, costruiti secondo un evidente parallelismo sintattico (oggetto, due complementi di fine in contrapposizione tra loro, predicato verbale), esplicitano le corrette modalità di esercizio rispettivamente della punizione e del perdono. – vindictam… exserunt: il potere coercitivo dell’imperatore non deve essere esercitato per risolvere controversie private, ma per salvaguardare l’integrità dello Stato. – veniam… indulgent: parallelamente, il perdono non deve essere scambiato per debolezza o, peggio ancora, per accondiscendenza verso l’ingiustizia, ma deve assumere una valenza, per così dire, pedagogica. – indulgent: il verbo presenta qui una costruzione transitiva. – quod aspere… decernere: letteralmente: «ciò che spesso sono costretti a decidere sgradevolmente». si luxuria … neglegunt: «se la dissolutezza è in loro tanto più moderata quanto più potrebbe essere sfrenata; se preferiscono governare sulle passioni malvagie piuttosto che su qualunque popolo e se fanno tutto ciò non per desiderio di una gloria vana, ma per amore della felicità eterna; se per i propri peccati non tralasciano di offrire al loro vero Dio un sacrificio di umiltà, di misericordia e di preghiera.»

– luxuria: nella storia dell’impero romano non mancano certo esempi di dissolutezza; il principe ideale, dice Agostino, è colui che non diventa legge a se stesso, cioè che non fa come la Semiramide dantesca la quale «libito fé licito in sua legge» (Inferno V 56). – quanto posset esse liberior: proposizione comparativa introdotta da quanto in correlazione con tanto della proposizione sovraordinata; l’uso degli avverbi correlativi tanto… quanto (ablativo di misura) è dovuto alla presenza dei due aggettivi comparativi (castigatior e liberior). – quibuslibet: aggettivo indefinito con valore assoluto. – imperare: nella prospettiva di Agostino, il dominio su di sé e sulle proprie passioni (cupiditatibus) è ben più importante del dominio sui popoli (gentibus). – felicitatis aeternae: ecco il motivo per cui solo il principe cristiano può fregiarsi del titolo di Felix: egli infatti non è mosso dal desiderio di conseguire una gloria destinata a svanire (inanis gloriae), ma, come si vedrà nella conclusione, da quello di perseguire la felicità eterna; la prima è oggetto di ardor (desiderio intenso, ma passeggero), mentre la seconda è oggetto di caritas (amore duraturo in quanto fondato su Cristo). – humilitatis et miserationis et orationis: la triade costituita dall’umiltà, dalla misericordia e dalla preghiera (da collegare semanticamente con il trikólon visto sopra: Deum timent diligunt colunt) rappresenta il culmine dell’etica imperiale proposta da Agostino; in quanto capo politico, il principe deve essere anche limpido esempio di virtù cristiane. – sacrificium Deo suo vero: mentre all’imperatore pagano spettava un sacrificio pubblico (di natura materiale), l’imperatore cristiano deve rivolgere il proprio sacrificio (di natura spirituale: humilitatis et miserationis et orationis sacrificium) soltanto a Dio. Tales … advenerit: «Sono questi gli imperatori cristiani che noi definiamo ‘felici’ intanto nella speranza, poi lo saranno realmente quando ciò che aspettiamo giungerà.»

– Tales…. felices: secondo i canoni della ‘composizione ad anello’ l’excipit del brano riprende, a contrario, l’incipit: in sede di esordio Agostino aveva affermato che Neque… nos Christianos… imperatores… felices dicimus; in sede di conclusione, quasi a tirare le somme, sostiene invece che Tales Christianos imperatores dicimus esse felices. – interim… advenerit: a dimostrazione del fatto che l’attributo Felix non ha valore puramente elogiativo, ma indica una ben precisa vocazione morale e spirituale, la conclusione supera l’ambito politico-storico per assumere i tratti dell’attesa (exspectamus) escatologica: l’interim (la provvisorietà della storia) preannuncia il postea (la pienezza del tempo), mentre la spes (la speranza dell’annuncio) è anticipazione della res ipsa (la realizzazione del vero regno, quello divino).

Le due città De civitate Dei XIV 28

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el corso dell’antichità greco-romana (da Platone allo stoicismo, da Cicerone a Seneca), non sono certo mancate ampie riflessioni filosoficopolitiche sulla pólis–civitas, come pure, in ambito cristiano (con Origene, Lattanzio, Ambrogio), sono fiorite teorizzazioni teologiche. Muovendosi lungo questo tracciato, Agostino, che, per ragioni biografiche, si è trovato al cospetto della dissoluzione non soltanto di una città (la Roma saccheggiata dai visigoti nel 410), ma anche di una concezione del mondo, sposta il discorso su un piano più e-

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levato. Ciò che distingue infatti le due città non è una diversa organizzazione politica ed economica, ma un diverso sistema di valori: le due città sono differenti tra loro in ordine alla concezione della gloria, all’esercizio del potere, al significato della sapienza. Questo breve brano, posto a suggello della prima sezione (libri XI– XIV) della seconda parte (XI–XXII) del De civitate Dei, può essere considerato come la sintesi suprema della concezione agostiniana delle due città. Il discrimine è rappresentato dal contrasto tra la vita nella carne e la vita nello spirito, o, per riprendere le parole di Agostino, tra l’amor sui, l’amore egoistico di chi è ripiegato su di sé e non vede altra soluzione ai conflitti che la violenza, e l’amor Dei, la risposta ad un amore che precede l’uomo e gli indica la mèta finale; nella città terrena il criterio ultimo si trova in se stessa, in quella celeste si trova in Dio. Tutto ciò si trasforma in un accorato appello etico al rinnovamento delle strutture di potere e dei rapporti sociali.

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Fecerunt itaque civitates duas amores duo, terrenam scilicet amor sui usque ad contemptum Dei, caelestem vero amor Dei usque ad contemptum sui. Denique illă in se ipsa, haec in Domino gloriatur. Illa enim quaerit ab hominibus gloriam; huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria. Illa in gloria sua exaltat caput suum; haec dicit Deo suo: Gloria mea et exaltans caput meum. Illi in principibus eius vel in eis quas subiugat nationibus dominandi libido dominatur; in hac serviunt invicem in caritate et praepositi consulendo et subditi obtemperando. Illa in suis potentibus diligit virtutem suam; haec dicit Deo suo: Diligam te, Domine, virtus mea. Ideoque in illa sapientes eius secundum hominem viventes aut corporis aut animi sui bona aut utriusque sectati sunt, aut qui potuerunt cognoscere Deum, non ut Deum honoraverunt aut gratias egerunt, sed evanuerunt in cogitationibus suis, et obscuratum est insipiens cor eorum; dicentes se esse sapientes, id est dominante sibi superbia in sua sapientia sese extollentes, stulti facti sunt et immutaverunt gloriam incorruptibilis Dei in similitudinem imaginis corruptibilis hominis et volucrum et quadrupedum et serpentium: ad huiuscemodi enim simulacra adoranda vel duces populorum vel sectatores fuerunt: et coluerunt atque servierunt creaturae potius quam Creatori, qui est benedictus in saecula. In hac autem nulla est hominis sapientia nisi pietas, qua recte colitur verus Deus, id exspectans praemium in societate sanctorum non solum hominum, verum etiam angelorum, ut sit Deus omnia in omnibus.

28. Fecerunt … meum: «Due amori hanno quindi creato due città: quella terrena l’amore di sé [spinto] fino al disprezzo di Dio, mentre quella celeste l’amore di Dio [spinto] fino al disprezzo di sé. In sostanza, la prima cerca la gloria in se stessa, la seconda nel Signore. La prima infatti pretende la gloria dagli uomini; per la seconda invece Dio, testimone della coscienza, è la gloria più grande. La prima innalza il proprio capo nella propria gloria; la seconda dice al proprio Dio: [Sei ] la mia gloria e colui che innalza il mio capo».

– Fecerunt… duo: la costruzione sintattica (scandita da verbo, complemento oggetto e soggetto) pone in risalto l’azione verbale: secondo Agostino infatti le due città sono presenti fin dall’inizio della creazione, come si vede in De cathechizandis rudibus 19, 31: «Due città si estendono dall’inizio del genere umano sino alla fine del tempo, ora mescolate materialmente ma disgiunte moralmente, destinate a separarsi anche materialmente nel giorno del Giudizio». – civitates duas amores duo: non solo questo periodo, ma tutto il brano è costruito secondo un ben preciso parallelismo antitetico che oppone tra loro la città terrena e quella celeste (haec – illa): due città nate da due amori diversi, due tipi di gloria, due modi diversi di intendere il potere, due concezioni della sapienza. Come si può vedere, la sintassi della prima parte del brano (fino a virus mea) è caratterizzata da brevi sintagmi paratattici, dall’uso dell’ellissi, del parallelismo e della variatio. La particola-

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re insistenza su alcuni termini è tipica delle omelie e conferisce un andamento armonico e musicale al testo. – duas… duo: il poliptòto, mentre ne sottolinea i due diversi principi generativi, esprime la relazione oppositiva fra le due città. – amor sui… contemptum sui: si noti la fitta trama dei genitivi oggettivi (sui… Dei… Dei… sui) che qualifica i sostantivi amor e contemptus, disposti chiasticamente secondo un rapporto di opposizione reciproca: l’amor sui porta al contemptus Dei, mentre l’amor Dei conduce al contemptus sui. – usque ad contemptum: moto a luogo figurato. Nel linguaggio cristiano il contemptus mundi non esprime tanto una svalutazione delle realtà terrene, quanto piuttosto il rifiuto di considerare il mondo come realtà fine a se stessa. – in se ipsa… gloriatur: il moto a luogo figurato cede il posto allo stato in luogo figurato, ma si riprendono, variandoli, gli stessi concetti: amor sui = in se ipsa [gloriatur, con ellissi del verbo], amor Dei = in Domino gloriatur. Il tema è già paolino: «Chi si vanta, si vanti nel Signore» (I lettera ai Corinzi 1, 31). – Illa… quaerit… huic est gloria lla: in tutto il brano l’opposizione tra le due città è scandita dai dimostrativi haec– illa, qui sottolineata dalla variatio illa (nominativo) e huic (dativo di interesse). – gloriam… gloria… in gloria… Gloria: l’insistito poliptòto ribadisce le due diverse tipologie di gloria, secondo il consueto procedimento oppositivo: ab hominibus gloriam/Deus… est gloria vs in gloria sua/Gloria [Dei]. – Gloria… meum: citazione del Salmo 3, 4: «tu autem Domine susceptor meus es gloria mea et exaltans caput meum». Nel brano, tutte le affermazioni di Agostino sono suggellate da passi scritturistici, a dimostrazione di come il discorso sulle due città assuma una prospettiva più ampia rispetto ad una mera contrapposizione politica. Illi … mea: «Per la prima sui suoi capi o sulle popolazioni che sottomette domina la sete di dominio; nella seconda si pongono al reciproco servizio nell’amore sia i capi con le loro decisioni sia i sudditi con la loro obbedienza. La prima nei propri uomini di potere apprezza la propria forza; la seconda dice al proprio Dio: Ti amerò, Signore, mia forza».

– Illi… in hac: altra variatio: illi (dativo di interesse) e in hac (stato in luogo). – dominandi libido: il tema della libido dominandi è spesso presente nella storiografia latina, soprattutto in Sallustio (in particolare De Catilinae coniuratione II). Qui però l’ottica è diversa: mentre Sallustio, sottolineando lo sfaldamento del mos maiorum, stigmatizza la corruzione politica e la perduta integrità morale del popolo romano, Agostino auspica la rinuncia alla logica della forza e del dominio nei rapporti tra gli esseri umani; ciò si evince anche dalla contrapposizione semantica tra, da un lato, dominandi… dominatur e, dall’altro, serviunt invicem. Non si deve dimenticare che, secondo Agostino, la libido dominandi è un dato originario della civitas terrena, visto che l’atto fondativo di Roma è sancito dal fratricidio compiuto da Romolo, conseguenza diretta del delitto di Caino (cfr. De civ. Dei XV 5). – caritate: nel lessico cristiano il termine, corrispondente al greco agápe, indica l’amore fraterno. – et praepositi consulendo et subditi obtemperando: si ha qui un altro esempio di parallelismo antitetico: praepositi/subditi, consulendo/obtemperando. Consulendo è gerundio con valore modale, come il successivo obtemperando.– in suis… suam: l’insistita ricorrenza del possessivo di terza persona indica l’autoreferenzialità della città terrena, la quale è incapace di aprirsi ad una prospettiva trascendente: è come se essa, specchiandosi nel proprio passato glorioso e potente (in suis potentibus), si illudesse di salvaguardare la propria grandezza. – mea: citazione del Salmo 17,2, che non a caso è un salmo ‘regale’ in cui il re Davide esalta le opere di Dio. Ideoque … omnibus: «E perciò nella prima i suoi sapienti, che vivono secondo l’uomo, hanno ricercato i beni del proprio corpo o del proprio animo o di entrambi, oppure coloro che hanno potuto conoscere Dio non come Dio lo hanno onorato né l’hanno ringraziato, ma si sono persi in vani ragionamenti e il loro cuore stolto si è ottenebrato; pur affermando di essere sapienti (cioè esaltandosi nella propria sapienza sotto il dominio della superbia), sono diventati stolti e hanno mutato la gloria del Dio incorruttibile a somiglianza dell’immagine di un uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di serpenti (infatti nell’adorare idoli di tal genere sono stati guide di popoli o seguaci): hanno adorato e servito la creatura piuttosto che il Creatore, che è benedetto nei secoli. Nella seconda invece non esiste altra forma di sapienza per l’uomo se non la devozione grazie alla quale si venera rettamente il vero Dio, in attesa di quella ricompensa nella comunità dei santi, non solo degli uomini ma anche degli angeli, affinché Dio sia tutto in tutti.»

– sapientes: dopo aver descritto il diverso modo di intendere la gloria e il potere, è la volta della sapienza. A differenza della prima parte, ci si trova di fronte ad un periodo più articolato in cui il pensiero di Agostino si intreccia con un’ampia citazione tratta dalla Lettera ai Romani di Paolo (1, 21-23. 25). – aut corporis aut animi sui bona… sectati sunt: la filosofia pagana, dice Agostino, non è certo priva di meriti né di spiritualità (basti pensare al neoplatonismo di cui egli era stato seguace); ciò che le manca è il riconoscimento di un Dio che si interessa dell’umanità al tal punto da offrire il proprio figlio per la salvezza di questa. – non ut Deum… in saecula: al fine di cogliere meglio la riflessione agostiniana, è opportuno tener presente che la prima parte della Lettera ai Romani (1, 8 – 4, 25) ha come tema di fondo il fatto che il ‘vangelo’ (da intendere nel significato originario di «buona notizia») è la manifestazione della giustizia di Dio «per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo prima e poi del Greco» (1, 16); nella sezione qui citata da Agostino, Paolo svolge una panoramica sui ‘peccati’ dei pagani, all’insegna dell’antitesi tra sapienza e stoltezza. – in hac: è l’ultima contrapposizione, espressiva e concettuale del brano: in illa/in hac. – hominis: genitivo soggettivo. – societate: l’antitesi ultima tra la societas romana e la societas sanctorum risiede nella dimensione escatologica di quest’ultima, intesa non tanto come fuga dal mondo, ma come sforzo per il suo miglioramento, visto che, nell’ottica cristiana, le realtà terrene sono un anticipo delle realtà ultime. – ut sit…. omnibus: citazione della I lettera ai Corinzi 15, 28.

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PER FARE IL PUNTO… De civitate Dei II 29, 1-2; V 24; XIV 28

Sui testi

• Si quid in te laudabile naturaliter eminet, non nisi vera pietate purgatur atque perficitur, impietate autem disperditur et punitur (II 29, 1). Analizza il periodo dal punto di vista sintattico. Inoltre, i quattro verbi purgatur, perficitur, disperditur e punitur sono legati tra loro da……………… • Expergiscere ed experrecta es (II 29, 1) derivano dal verbo …………………………e sono rispettivamente……………………. e …………………………… • Nella proposizione cum quaerant tempora (II 29, 1) il cum ha valore ………………………………. • Noli requirere (II 29, 2) è ………………………………. In latino, ci sono altri modi per esprimerlo? Se sì, quali?………………………………………………………… • Analizza dal punto di vista sintattico il periodo Quo igitur pacto deos, qui talibus delectantur obsequiis, haberi putas in numero sanctarum caelestium potestatum, cum homines, per quos eadem aguntur obsequia, non putasti habendos in numero qualiumcumque civium Romanorum? (II 29, 2) • Traduci l’espressione cultores daemonum (V 24); essa si riferisce a …………………………………. • Deum timent diligunt colunt (V 24) dal punto di vista stilistico è un …………………………… • Analizza dal punto di vista sintattico il primo periodo del brano XIV 28 (Fecerunt… contemptum sui). • Rintraccia nel brano XIV 28 tutti i dimostrativi haec e illa e analizzane, poi, la funzione logica e il valore espressivo. • Nel brano XIV 28 compare spesso il poliptòto: dopo averne individuato alcuni esempi, spiegane la funzione espressiva.

Sui temi

• Cosa significava per i romani il termine pietas? Cosa significa invece per Agostino? • Qual è l’etimologia dell’aggettivo felix (V 24)? Per quale motivo veniva spesso attribuito agli imperatori romani? • Cosa rappresentano il fuoco di Vesta e la pietra del Campidoglio (II 29,1)? • A chi pensa, in particolare, Agostino quando delinea i tratti del principe ideale (V 24)?

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• Che importanza hanno avuto Costantino e Teodosio per la storia del cristianesimo? • Che concezione socio-politica esprimeva per i Romani il termine civitas? • Quali sono gli aspetti della società romana che Agostino ritiene validi? Quali invece quelli che devono essere corretti? • Nullo modo his artibus placatur divina maiestas, quibus humana dignitas inquinatur (II 29, 2). Spiega il senso di questa affermazione. Qual è il motivo di fondo per cui, secondo Agostino, i Romani dovrebbero abbandonare il politeismo? • Sulla base di II 29 e di V 24, qual è la concezione della storia espressa da Agostino? • Si può affermare che Agostino esprima una visione teocratica del potere (potere esercitato da un’autorità che si ritiene investita da Dio)? Per quale motivo? • In che cosa la civitas caelestis è superiore alla civitas terrena? • In II 29 vi sono alcune citazioni dell’Eneide. Qual è il motivo della loro occorrenza? Perché si può affermare che il De civitate Dei sia una sorta di anti-Eneide? • Dopo aver letto il cap. XV del Principe di Machiavelli, confronta la visione di Agostino con quella del segretario fiorentino circa le qualità che un principe deve avere. • In un’apposita tabella raccogli le espressioni del brano XIV 28 che si riferiscono alla civitas terrena e quelle che si riferiscono alla civitas caelestis. Rifletti poi sulle differenze tra le due città: qual è l’elemento discriminante tra le due?

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1. Optima hereditas: cultura classica e cristianesimo nel pensiero medievale

Capisaldi del sistema culturale compreso tra tarda antichità e medioevo sono la Bibbia e il pensiero patristico; con quest’ultima espressione si indica l’elaborazione dottrinaria degli scrittori dei primi secoli del cristianesimo (II-VII) chiamati ‘Padri della chiesa’. In merito ai rapporti tra cristianesimo e paganesimo, la riflessione patristica può essere riassunta in termini di superamento e di continuità: una nuova e più elevata forma di spiritualità sovrasta e svuota dall’interno la cultura pagana, la quale viene però valorizzata nella sua funzione preparatoria del messaggio cristiano. Si verifica, insomma, un superamento dei contenuti nella continuità delle forme. Scopo del presente percorso è di mostrare come la sintesi tra cultura pagana e tradizione ebraico-cristiana sviluppata dalla cultura medievale le derivi direttamente, quale suprema eredità, dal pensiero patristico, all’interno del quale l’opera di mediazione svolta da Agostino risulta centrale.

1.1

L’‘eredità’: i Padri della chiesa Man mano infatti che il cristianesimo si diffonde nel contesto culturale ellenistico-romano, vengono progressivamente meno le categorie ebraiche che caratterizzavano la mentalità di coloro che avevano scritto la Bibbia cristiana. Ora, dal momento che la Bibbia è il testo che veicola il messaggio della verità, per imporsi il cristianesimo ha bisogno di dotarsi di un patrimonio culturale: ciò significa, in sostanza, elaborare chiavi di lettura della propria concezione religiosa da proporre all’esterno. Tale patrimonio culturale è già disponibile: si tratta della grande tradizione ellenistico-romana che aspetta solo di essere messa al servizio del messaggio cristiano. Pertanto, nel pensiero dei Padri, il metodo esegetico biblico viene applicato anche all’interpretazione del rapporto tra cristianesimo e cultura pagana. Il procedimento è lo stesso: se, tipologicamente (dal greco týpos, «figura»), si legge l’Antico Testamento come anticipazione del Nuovo, allo stesso modo si concepisce la cultura pagana come preparazione dell’avvento del cristianesimo. La verità filosofica pagana è un’ombra della autentica verità, quella di Cristo; la paideía («cultura») greca non è altro che una preparazione alla vera paideía, quella cristiana. Non a caso, come Origene (185ca.–253ca.) applica la filologia greca allo studio della Bibbia, così Clemente di Alessandria (145/150-210 ca.), maestro e collega di Origene, al fine di conciliare cristianesimo e cultura greca, elabora la teologia del Lógos spermatikós («principio generativo»): il Lógos opera una mediazione tra il Padre assolutamente trascendente e il mondo creato; analogamente, sul piano storico, egli media tra economia precedente alla rivelazione ed economia posteriore ad essa. Di conseguenza, i valori della cultura greca sono di origine divina.

Cultura ellenistico-romana e messaggio cristiano

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In Occidente, oltre ad Agostino, risulta fondamentale l’apporto di Ambrogio (339-397) e di Girolamo (384ca.-419/420). Il primo, in una delle sue opere più famose, il De officiis, riprende il modello ciceroniano rileggendolo in chiave cristiana: l’etica pagana improntata allo stoicismo esaltata da Cicerone lascia il posto all’etica cristiana (significativamente il termine officium passa a significare il ‘servizio sacerdotale’). Il secondo, monaco ma anche profondo conoscitore dei classici, oltre che dell’ebraico, mette al servizio del testo biblico tutta la grande tradizione linguistica e retorica che l’antichità gli aveva fornito. Con Clemente e Origene nel mondo greco, con Ambrogio, Girolamo e Agostino nel mondo latino, nasce dunque una sorta di umanesimo cristiano, alla cui base c’è la convinzione che la cultura pagana, se non ha più nulla da dire in termini di contenuti, resi falsi e vani dal messaggio di Cristo, ha invece tutto da dire in termini di trasmissione del messaggio. Il paganesimo è l’ombra, mentre il cristianesimo è il sole. Se non ci fosse il sole, non si sarebbe neppure l’ombra. Ma la visione dell’ombra testimonia l’esistenza del sole.

1.2

Gli ‘eredi’: il sapere nel Medioevo Una delle più importanti opere di Agostino, il De doctrina Christiana, oltre a impostare in termini duraturi il rapporto tra cultura pagana e cristianesimo, ha avuto anche delle ricadute decisive sulla forma mentis dell’uomo medievale. Pur essendo, di per sé, un trattato esegetico, l’opera può essere descritta in termini di semiologia della cultura: se la creazione – dice Agostino – reca in sé l’impronta del Creatore, del Dio uno e trino (le vestigia Trinitais), allora solo Dio è res, ossia pura cosa, mentre tutto il resto è signum, cioè simbolo divino; se il visibile è la via di accesso all’Invisibile, allora il linguaggio dell’Invisibile non può che essere simbolico; questo linguaggio simbolico ha trovato espressione nella Bibbia e nella creazione, realtà entrambe che si attingono non per via di ragione, ma per via di simbolo.

Alle radici del simbolismo medievale

Tra Bibbia e creazione esiste dunque un rapporto strettissimo: entrambe recano i segni della presenza divina, entrambe devono essere oggetto di lettura simbolica, entrambe sono portatrici di un messaggio spirituale. Ecco allora, per fare un solo esempio, che Ugo di san Vittore (di origine inglese, fu teologo e filosofo presso l’abazia parigina di san Vittore, 1096ca-1141) descrive la realtà sensibile come un libro che deve essere letto in chiave simbolica:

La metafora del libro

Ugo di san Vittore, De tribus diebus, 4, trad. S. Vanni Rovighi (in Grande Antologia Filosofica Marzorati, Marzorati, Milano 1973).

Questo mondo sensibile, infatti, è quasi un libro scritto dal dito di Dio, cioè creato dalla virtù divina, e le singole creature sono come figure, non inventate dall’arbitrio dell’uomo, ma istituite dalla volontà divina per manifestare la sapienza invisibile di Dio. Ma come un analfabeta, quando vede un libro aperto, scorge i segni, ma non capisce il senso, così lo stolto e l’uomo animale, che non capisce le cose divine, in queste creature visibili vede l’aspetto esteriore, ma non ne capisce l’interiore significato. Colui che è spirituale, invece, ed è capace di valutare tutte le cose, mentre considera di fuori la bellezza dell’opera, vi legge dentro quanto mirabile sia la sapienza del Creatore. Pure, non vi è nessuno a cui le opere di Dio non appaiano mirabili, anche se l’insipiente mira in esse soltanto l’aspetto esteriore, mentre il sapiente da ciò che vede fuori scorge il pensiero della divina sapienza, così come se di una ed identica scrittura uno lodasse il valore o la forma dei segni, l’altro il senso e il significato.

Brani come questo illustrano alla perfezione la differenza tra il sapere di età moderna e quello di età medievale: il primo, procedendo per analisi, giunge al significato attraverso

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un lavoro di esposizione e di spiegazione, mentre il secondo, procedendo per sintesi, giunge al significato attraverso un lavoro di ricapitolazione. Nel primo caso, la comprensione è frutto di distinzione razionale, nel secondo è frutto di rivelazione divina. Il sapere moderno ha a che fare con il relativo, il sapere medievale con l’assoluto. Mel Medioevo, non può quindi esistere nessuna distinzione tra storia sacra e storia profana né, tanto meno, tra cultura sacra e cultura profana, per il semplice fatto che l’evento Cristo rappresenta l’inizio e la fine, l’alpha e l’omega. Siamo qui al cuore stesso del pensiero medievale: poiché l’Incarnazione di Cristo rappresenta la sintesi perfetta di ogni sapere e di ogni storia, il vero sapere e la vera storia non possono che essere una contemplazione del mistero di Cristo. Dal momento che l’evento Cristo ha abbattuto la barriera tra cultura profana e cultura sacra, che funzione può ancora avere il grande patrimonio letterario e filosofico dell’antichità pagana? L’atteggiamento medioevale nei confronti del «tempo de li dèi falsi e bugiardi» (Dante, Inferno, I 72) riprende, ancorché con voci discordanti, l’impostazione agostiniana, come emerge da un famoso passo del De doctrina Christiana:

La funzione dei classici

Agostino, De doctrina Christiana, II 40, 60, trad. V. Tarulli

Riguardo ai cosiddetti filosofi, massimamente ai platonici, nell’ipotesi che abbiano detto cose vere e consone con la nostra fede, non soltanto non le si deve temere ma le si deve loro sottrarre come da possessori abusivi e adibirle all’uso nostro. […] Lo stesso si deve dire di tutte le scienze dei pagani. Esse racchiudono invenzioni simulate e superstiziose come pure gravi pesi che costringono a un lavoro superfluo, cose tutte che ciascuno di noi, uscendo dal mondo pagano al seguito di Cristo, deve detestare ed evitare. Contengono però insieme a questo anche arti liberali, più consone con il servizio della verità, e alcuni utilissimi precetti morali; presso di loro si trovano anche alcune verità sul culto dell’unico Dio. Tutto questo è come il loro oro e argento, che essi non inventarono ma estrassero da certe – chiamiamole così – miniere della divina Provvidenza, che si espande dovunque. È vero che essi nella loro perversione e iniquità ne abusano per rendere culto ai loro dèi; non per questo però il cristiano, pur separandosi con lo spirito dalla loro miserabile società, deve buttar via tali ritrovati, qualora servano alla giusta missione di predicare il Vangelo. Sarà anche lecito prendere ed adibire ad uso cristiano anche la loro veste, cioè le istituzioni, opera di uomini, che siano aderenti alla convivenza umana, alla quale in questa vita non possiamo sottrarci.

Il testo è importante in quanto traccia la linea di pensiero che caratterizza tutto il Medioevo: dal momento che esiste una sola Verità (quella del Verbo), le opere pagane che contengono concetti veritieri non possono che essere ispirate da Dio. In quanto tali, non sono da rigettare, ma da recuperare per il loro valore ‘estetico’, dal momento che sono dotate di preziose («oro e argento» dice Agostino) risorse stilistiche e retoriche, oltre alle «arti liberali» e « alcuni utilissimi precetti morali». Su questa scia si inserisce anche la riflessione di Severino Boezio (480 ca.-526) e di Aurelio Cassiodoro (490 ca.-583 ca.). Entrambi alti funzionari alla corte del re Teodorico, i due conferiscono un’impronta duratura all’atteggiamento medievale: tra fede cristiana e paganesimo deve sussistere quella che si potrebbe definire una ‘convivenza asimmetrica’, per effetto della quale l’indiscussa egemonia del pensiero cristiano, se non delegittima il valore della cultura classica, la confina però ad ruolo strumentale e subalterno in quanto ne fornisce gli strumenti espressivi più idonei. Tra summae, trésors, specula e repertori di mirabilia, il Medioevo si presenta come aetas encyclopaedica.

Un sapere enciclopedico

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Alla base di tutto regna sovrana l’idea agostiniana che il mondo naturale non può essere concepito in se stesso, ma in quanto traccia del Creatore. La riflessione di Agostino (esposta in particolare nel De doctrina christiana) si può così sintetizzare. Anzitutto, vi è la convinzione che la Bibbia sia il libro per antonomasia, in quanto ha in sé la vera sapienza e indica la via della vera salvezza; pertanto, essa rende obsoleti tutti gli altri libri del paganesimo poiché già li contiene per anticipazione. In secondo luogo, per effetto del peccato originale e in attesa della rivelazione ultima, l’essere umano può penetrare il testo biblico solo attraverso la limitatezza del linguaggio umano, un sistema di segni che cercano di s-velare una verità ri-velata: non si dà conoscenza del testo biblico se non per via allegorica. Da ultimo, proprio perché passa attraverso il linguaggio umano, la comprensione della Parola divina è possibile grazie a un sacro furto: i cristiani si impadroniscono della sapienza pagana (cfr. il passo del De doctrina Christiana sopra citato). Agostino pone dunque il sapere enciclopedico come l’unico strumento per la comprensione del testo biblico: l’esegeta deve conoscere le tre lingue della Bibbia (ebraico, greco, latino), le scienze naturali, l’astronomia, la dialettica, l’eloquenza, la storia, il diritto, le arti meccaniche. Senza questo patrimonio di sapere, che l’antichità pagana mette al servizio del cristianesimo, il testo biblico appare muto. Ecco allora che, sulla scorta di Agostino, Cassiodoro, con le Institutiones Divinarum et Saecularium Litterarum (560), intende offrire ai monaci del monastero di Vivarium una sorta di manuale scolastico, in cui le arti liberali (quelle del trivio, cioè grammatica, dialettica e retorica, e quelle del quadrivio, vale a dire aritmetica, geometria, musica e astronomia) siano propedeutiche allo studio della teologia. Successivamente, il vescovo Isidoro di Siviglia (560 ca.-636), nelle Etymologiae rerum sive origines libri XX (636), tenta di riunire l’insieme delle conoscenze religiose e profane del tempo secondo una chiave di lettura fondata sull’idea che si può conoscere meglio la natura di una cosa solo dopo che si sia conosciuta la natura del suo nome. Infine, con il De rerum naturis o De universo (842) di Rabano Mauro, teologo tedesco e vescovo di Magonza (784 ca.-856), comincia a prendere forma l’universo simbolico medievale nel quale le creature appaiono come segni che rinviano al Creatore.

Per approfondire Una panoramica sull’esegesi patristica e medievale si può leggere in G. Gusdorf, Storia dell’ermeneutica, Laterza, Roma–Bari 1989, mentre sui rapporti tra cultura pagana e pensiero medievale è sempre utile il classico di E.R. Curtius, Letteratura europea e Medio Evo latino, La Nuova Italia, Firenze 1992 (ed. or. 1948). Sul pensiero medievale si vedano gli studi di M. Colish, La cultura del Medioevo, Il Mulino, Bologna 2002 e M.C. Díaz y Díaz, Enciclopedismo e sapere cristiano. Tra tardoantico e alto Medioevo, Jaka Book, Milano 1999. Una brillante panoramica sulle varie componenti della cultura medievale viene tracciata nel recente volume di J. Le Goff, Il cielo sceso in terra. Le radici medievali dell’Europa, Laterza, Roma–Bari 2004. Il brano tratto da De doctrina Christiana si trova in NBA VIII, Roma 1992 (trad. di V. Tarulli). Per l’edizione critica del De tribus diebus, cfr. D. Poirel (ed.), Hugonis de Sancto Victore De tribus diebus, Brepols, Turnhout 2002.

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PER FARE IL PUNTO Conoscenze

• Per i Padri della Chiesa la lettura e l’interpretazione della Bibbia occupava un ruolo centrale. – Qual era il metodo esegetico messo in atto da Clemente Alessandrino e da Origene? – Come si potrebbe definire l’atteggiamento dei Padri della chiesa nei confronti della cultura ellenistico-romana? – Che rapporto c’è tra esegesi biblica e simbolismo medievale?

Competenze

• Il brano del De doctrina Christiana di Agostino citato nel percorso, oltre ad illustrare in modo molto efficace la funzione dei classici, conferisce un’impronta duratiura all’atteggiamento medievale nei confronti della cultura secolare. – In cosa consiste la ‘verità’ dei classici? – Perché per Agostino sono così importanti le arti liberali? – Quali sono i caratteri del simbolismo medievale? – La cultura medievale ha un’impronta essenzialmente enciclopedica. Come si puà spiegare questo fatto?

Capacità

• Questo brano è tratto dalla Epistula XXII che Girolamo scrisse ad Eustochio, figlia di Paola, una matrona romana di cui egli era il padre spirituale. Girolamo parla del rapporto conflittuale con i classici latini, la cui lettura mal si conciliava con una scelta di vita monastica. L’episodio centrale è una sorta di visio mystica in cui Girolamo viene rimproverato di essere più ciceroniano che cristiano.

Girolamo, Epistula XXII 30 (trad. R. Palla in: Gerolamo, Lettere, Rizzoli, Milano 1989)

Quando, molti anni fa, mi amputai, per il regno dei cieli, casa, genitori, sorella, parenti e –cosa più difficile– l'abitudine a pranzi piuttosto lauti, dirigendomi alla volta di Gerusalemme a militare per Cristo, non potevo restar privo della biblioteca che a Roma mi ero messa insieme con molta cura e fatica. E così io, sciagurato, digiunavo per poi leggere Cicerone. Dopo frequenti veglie notturne, dopo le lacrime che mi faceva uscire dal profondo delle viscere il ricordo dei vecchi peccati, prendevo in mano Plauto. E se talvolta, ritornato in me, iniziavo a leggere i profeti, mi faceva orrore quel linguaggio rozzo, non vedendo la luce a causa della cecità degli occhi, non pensavo che fosse colpa degli occhi, ma del sole. Mentre l'antico serpente [= il diavolo] si faceva beffe di me in questo modo, verso la metà della Quaresima la febbre mi penetrò fin nelle midolla e si impadronì del mio corpo esausto, e senza un attimo di tregua –anche a dirlo è incredibile– mi consumò le membra infelici al punto che a stento restavo attaccato alle mie ossa. Intanto si preparava il funerale; tutto il corpo era già freddo ed il calore vitale dell’animo palpitava solo nel povero petto, appena tiepido, quando improvvisamente, rapito nello spirito, vengo tratto davanti al tribunale del Giudice [= Cristo], dove c’erano tanta luce e tanto fulgore irradiato dai presenti che io, gettatomi a terra, non avevo il coraggio di alzare lo sguardo. Interrogato su chi fossi, risposi di essere cristiano. E colui che sedeva disse: «Menti, tu sei ciceroniano, non cristiano; dove c'è il tuo tesoro, c'è anche il tuo cuore [Matteo 6,12]».

– Quali differenze ritrova Girolamo fra la lettura di Plauto e la lettura dei profeti? – Spiega a che cosa allude Girolamo quando accenna alla sua «cecità degli occhi». Sempre nella stessa logica, che cosa è il «sole»? – Perché, secondo le parole del Giudice, non si può essere contemporaneamente «ciceroniano» e «cristiano»? – Confronta l’atteggiamento di Agostino e quello di Girolamo nei confronti dei classici.

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2. Societas christiana e strutture di potere: cristianesimo e modernità

Il passaggio dal Medioevo alla Modernità è contrassegnato da un processo di desacralizzazione. Disincanto del mondo è la felice formula che Marcel Gauchet utilizza per definire questo fenomeno, riassumibile nella dissociazione ontologica tra realtà terrena e realtà celeste. Nella premodernità, infatti, esiste un saldo legame ontologico tra Dio, il mondo e l’essere umano, per effetto del quale tutto si salda a partire dal principio divino e il sapere – come si è visto nel percorso capitolo precedente – altro non è che una continua sintesi; nella modernità, invece, il ritirarsi di Dio nella trascendenza fa sì che il mondo si autonomizzi (dominio scientifico sulla natura), che l’essere umano si profanizzi (passaggio dal tempo ciclico della liturgia al tempo rettilineo della storia e del progresso), che il sapere venga inteso come progettualità (il «saper è potere» di Francesco Bacone). Privato della sua collocazione fissa nell’ordine cosmico, l’essere umano si trova di fronte alla necessità di ridefinire se stesso in un rapporto attivo e libero con la realtà. Siamo alle origini del principio di soggettività che è il principio stesso del moderno. Scopo del presente percorso è di mostrare, nello specifico, come il cristianesimo uscito dalla Riforma protestante, partendo da un terreno certo già fecondo (basti ricordare l’Umanesimo cristiano di Pico della Mirandola e di Erasmo da Rotterdam, le scoperte geografiche, l’affermazione della borghesia), abbia contribuito non poco al processo di modernizzazione, sul piano religioso, politico e sociale. Sia pure attraverso i tornanti dolorosi della storia, le riforme religiose del Cinquecento (cattolica e protestante) hanno fatto da volano alla più generale riforma delle strutture socio-politiche. In particolare, sulla scia della distinzione agostiniana, tra le due città, è il rapporto fede-politica a determinare gli sviluppi più fecondi.

6.1

Fede e politica tra Lutero e Calvino È a tutti noto come al successo della Riforma protestante abbiano concorso non solo motivazioni di carattere teologico ed ecclesiologico, ma anche, se non soprattutto, spinte di carattere politico e sociale. Dal momento che la Riforma non si è sviluppata nel vuoto, ma nella concretezza dello scenario politico del tempo, sia internazionale sia locale, è ovvio che il rapporto fede-politica risulta centrale nella riflessione dei riformatori, in particolare di Lutero e Calvino. Entrata a far parte stabilmente nel pensiero cristiano, la distinzione paolina (legge/evangelo) e poi agostiniana tra realtà terrene (civitas hominis) e realtà spirituali (civitas Dei) viene ripresa da Martin Lutero (1483-1546), il quale elabora la dottrina dei «due regni» (cfr. in particolare Sull’autorità secolare, fino a che punto bisogna prestarle obbedienza del 1523): il regno spirituale è governato dall’evangelo della Grazia, mentre il regno materiale è retto dalla legge; il primo è il regno della libertà ed è governato dall’amore, il secondo è il regno dell’obbedienza ed è governato dalla costrizione. Anche

Lutero: la dottrina dei «due regni»

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a proposito della legge, d’altra parte, Lutero opera una distinzione: esiste infatti la legge divina, assoluta, al cospetto della quale l’essere umano prende coscienza del proprio peccato, e la legge umana, relativa, cui spetta il compito di governare tramite l’imposizione. La legge divina, basata sull’amore, indica la via del bene, la legge umana, invece, basata sulla coercizione, impedisce il male e mira al mantenimento dell’ordine. Nel rivendicare la supremazia della libertà sulla norma, la posizione di Lutero reca in sé il rischio di una svalutazione dell’istituzione ecclesiastica e del potere politico, il quale assume un carattere di necessità e non di valore in sé. In effetti, più preoccupato di difendere gli aspetti dottrinari contro l’offensiva papista, Lutero finì per trascurare l’assetto organizzativo della chiesa, aprendo una sorta di vacanza istituzionale che venne subito colmata dai principi tedeschi, i quali si assunsero il compito di difendere l’opera riformatrice. Sul versante opposto, gli anabattisti (esponenti di una riforma più radicale e per questo duramente contrastati da Lutero) operarono addirittura uno svuotamento dell’ordine socio-politico come conseguenza diretta della loro posizione spiritualista: vivendo infatti sotto il dominio dello Spirito e della Grazia, il credente non è più sottoposto alle leggi di una città che, in quanto realtà terrena, è destinata a venir meno. Per quanto meglio studiato e meglio noto come il teologo della predestinazione, Giovanni Calvino (Jehan Cauvin, 1509–1564) ha svolto un’intesa attività - sia sul piano teorico sia su quello pratico - di organizzatore della chiesa, in quella Ginevra che rimarrà indissolubilmente legata al suo nome. Nell’intento di risolvere le aporie della posizione espressa da Lutero e di scardinare la deriva anabattista, Calvino, che pure non era un politico, sente l’esigenza di chiarire i rapporti tra i due regni. Ridotta nei suoi termini essenziali, quella di Calvino è una concezione ministeriale del magistrato (espressa in particolare nel libro IV della sua opera più importante, la Istituzione della religione cristiana). Anche il politico (come il pastore) risponde alla vocazione divina; il suo ‘ministero’ consiste nel tutelare l’onore di Dio, cioè salvaguardare l’integrità della chiesa promuovendo la diffusione dell’evangelo, e nel garantire l’ordine sociale e civile. In quanto ‘luogotenente’ di Dio, il magistrato è sottoposti al giudizio della sua Parola. Tale impostazione ha spinto molti studiosi a parlare di teocrazia. Ciò è sicuramente vero se si intende che tutto (e quindi anche la sfera politica) dipende da Dio e tutto va a lui riferito. È invece fuorviante se si considera, in primo luogo, che a Ginevra i magistrati ricevevano il potere da elezioni dei cittadini (benché non tutti), quindi ricevevano un’investitura dal basso e non dall’alto, e, secondariamente, che gli stessi magistrati intrattenevano con la legge un rapporto ‘immediato’, cioè non filtrato dall’istituzione religiosa (se così fosse, bisognerebbe parlare di ierocrazia). Si tratta di una precisazione importante perché è in questo snodo concettuale che si situa la distinzione calviniana tra i due regni: nella diade tutta protestante di giustizia e Grazia, Dio afferma la sua giustizia terrena tramite un vicario (il magistrato), ma la sua Grazia rimane sovrana, cioè non ha bisogno di rappresentazioni terrene o di luogotenenti, tanto è vero che, secondo Calvino, il magistrato deve rispondere del suo operato di fronte a Dio, non certo di fronte alla chiesa. Sacralizzazione del magistrato e laicizzazione del potere: questo, in sintesi, il modello calviniano, anche se la ‘collaborazione’ tra il potere religioso e il potere civile non è stata esente da problemi, come è dimostrato dalla tendenza dei due ambiti a interferire nei rispettivi campi d’azione. Contro lo spiritualismo radicale degli anabattistiti, la concezione politica di Calvino mira a ricostituire su questa terra l’Eden perduto da Adamo attraverso una comunità politica di ispirazione cristiana. Saranno i cosiddetti ‘figliastri della Riforma’, calvinisti della secon-

Calvino: la concezione ‘ministeriale’ del magistrato

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da e terza generazione, a rielaborare il modello-Ginevra e a dare vita ad esiti diversificati nella concezione del rapporto tra chiesa e stato, il più significativo dei quali è la cosiddetta ‘teologia del patto’.

6.2

La «teologia del patto»: chiesa e stato nell’esperienza puritana L’idea del patto affonda le sue radici nella categoria biblica dell’Alleanza: una volta tratto il popolo d’Israele dalla schiavitù dell’Egitto, Dio sancisce con esso un patto (in ebraico berît) che impegna ciascuno ad accettare i comandamenti di Dio; in forza di questo libero consenso ad un sistema di leggi, che tutti volontariamente decidono di osservare, il popolo di Israele cessa di essere una massa di schiavi fuggiaschi per diventare un popolo libero. Nella tradizione riformata di matrice calvinista e zwingliana il concetto di patto occupa un ruolo centrale. L’idea di fondo su cui si basa tale concezione è che i credenti, avendo sancito con Dio un patto di salvezza, sottoscrivono una convenzione tra loro per dare vita alla chiesa e allo stato. Due brevi testi bastano ad illustrarla.

L’origine del concetto di ‘patto’

Confutazione dei cavilli degli anabattisti, cit., p. 275.

Dunque il medesimo patto che un tempo Dio stabilì con il popolo di Israele, negli ultimi tempi lo ha stabilito con noi, affinché fossimo con loro [cioè con il popolo ebraico] un solo popolo, una sola chiesa, ed avessimo anche un solo patto.

G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, cit., p. 552

La sostanza e la verità dell’alleanza stipulata con i padri antichi è talmente simile alla nostra da poter essere considerata una stessa cosa. Differisce soltanto nella forma della dispensazione.

È evidente come nella categoria del patto confluiscano gli assi portanti della riflessione protestante: la libertà di coscienza, la vocazione individuale, la responsabilità, la desacralizzazione. È in particolare quella forma di calvinismo che assume il nome di puritanesimo e che si è sviluppata in Inghilterra nella seconda metà del XVI secolo in opposizione all’anglicanesimo a elaborare una vera e propria «teologia del patto» (Covenant theology) che agisce sia a livello ecclesiale sia a livello politico. Come il popolo di Israele, così la comunità ecclesiale è il risultato di un patto, un accordo paritetico che, cancellando ogni assetto gerarchico, annulla la disparità di status sacrale-giuridico tra clero e laici (il principio sottostante è quello del ‘sacerdozio universale’). Non per nulla già Calvino aveva definito la chiesa come «Compagnia dei fedeli», cioè un’associazione (compagnia) di persone legate da un patto (foedus) e da un compito ben preciso: agire in obbedienza alla Parola di Dio e sottoporsi a una disciplina morale e spirituale di regole consensualmente definite. Dal momento quindi che esiste chiesa là dove alcuni credenti si associano in base a una loro libera decisione, la struttura che ne deriva non potrà che riprodurre una forma di autogoverno: in essa tutti, singolarmente e comunitariamente, sono responsabili della conduzione della vita comunitaria e al suo interno le differenze derivano dalla funzione svolta, non dal grado di sacralità di cui ciascuno è investito. Tale concezione darà vita al modello presbiteriano (il governo della chiesa è affidato agli ‘anziani’ o presbiteri), così riassunto in uno scritto puritano del 1644: «nessuno, per quanto degno di rispetto per la sua pietà, sapienza o cultura, o per quanto desideroso di potere, potrà avere nelle

Un modello di chiesa

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mani le redini del governo della chiesa per disporre e fare ciò che gli sembrerà opportuno»; le chiese «si governano e procedono alla determinazione dei propri problemi da sole: il potere risiede nell’assemblea e nelle persone alle quali sono state affidate particolari mansioni» (La piattaforma del regime presbiteriano, in AA.VV., I Puritani, cit., p. 6768). È evidente da queste parole la polemica contro il sistema episcopaliano della chiesa d’Inghilterra nel quale l’arcivescovo (nominato dal re) svolgeva un ruolo primaziale sugli altri vescovi. Nel modello presbiteriano, invece, la legittimazione dell’autorità è di tipo assembleare (gerarchia di assemblee) e si esercita il principio di sussidiarietà (il singolo non deve essere suddito, ma libero e autonomo). Tutto ciò ha delle delle ricadute sul piano socio-politco. In continuità con la riflessione di Calvino, secondo cui, come detto, compito del credente (la sua «vocazione») è anche di trasformare la realtà terrena, i Puritani si servono della teologia del patto non solo per il rinnovamento della chiesa, ma anche per dar vita ad un nuovo assetto statale che consenta ai credenti di poter esprimere liberamente la propria vocazione. Come infatti il governo della chiesa è di tipo assembleare, così l’ordinamento politico è il frutto di una libera associazione di individui in cui il potere proviene dal basso in quanto esito di un accordo pattizio. Si tratta di un concetto molto importante in quanto viene ribaltata la concezione aristotelica dell’uomo naturaliter politico e dello stato come ‘organismo naturale’: l’aggregazione politica non è un prodotto di natura, ma l’esito di un libero patto. Come ben sottolinea M. Walzer (Esodo e rivoluzione), i Puritani, applicando in ambito politico lo schema biblico del patto, offrono una solida base a quella concezione contrattualistica dello stato che sarà elaborata compiutamente dai teorici del pensiero politico moderno, da Hobbes a Rousseau. In questo senso, la vicenda dei calvinisti scozzesi è particolarmente significativa. Per difendere la loro fede e la loro organizzazione ecclesiastica, questi dissenters - concepitisi come una vera e propria «repubblica dei santi» (holy commonwealth) - pretesero che la corona inglese tutelasse non solo la loro libertà di coscienza, ma anche la libertà di culto. Di fronte all’ostilità del potere costituito, decisero di intraprendere un vero e proprio esodo verso la nuova terra promessa, la Nuova Inghilterra. Dopo un viaggio tutt’altro che confortevole, un gruppetto di Puritani radicali, i Pilgrim Fathers, prima di scendere dalla nave che li portò nel Nordamerica, la Mayflower, stipularono il celebre Mayflower Compact (11 novembre 1620): tale accordo sancisce i fondamenti della convivenza civile e politica e pone le basi della distinzione tra sfera politica e sfera religiosa. La successiva ondata migratoria di Puritani e quaccheri inglesi, se da un lato sembra trapiantare nella nuova patria gli stessi conflitti religiosi che si pensava di essersi lasciati alle spalle, dall’altro fa nascere la progressiva consapevolezza che solo il principio della separazione tra chiesa e stato possa garantire la libertà di culto e di coscienza, assicurando al contempo la realizzazione e la felicità dei singoli, come solennemente affermato dalla Dichiarazione di indipendenza americana del 1776.

Un modello di stato

6.3

Prove di tolleranza: libertà religiosa e libertà di coscienza L’esodo dei puritani è la dimostrazione di come i principi della responsabilità individuale e della libertà di coscienza propugnati dalla Riforma fossero destinati ad avere vita difficile. Come infatti già

Eresia e ortodossia: un rapporto difficile

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successo nel III-IV secolo dell’era cristiana, e poi in occasione dei movimenti ereticali del Medioevo, con la Riforma torna a riaffacciarsi il difficile rapporto tra eresia e ortodossia. È qui che i nodi vengono al pettine. In effetti, alle prese con il caso Müntzer (1490ca-1525, il profeta apocalittico, leader della guerra dei contadini del 1525), Lutero, pur avendo affermato che il rogo per gli eretici è contrario al volere dello Spirito Santo, non vede altra soluzione che affidarlo, in quanto ‘eretico’, alla spada secolare per la giusta punizione che si merita. Calvino, dal canto suo, mentre critica aspramente la politica antiprotestante della chiesa romana, non esita, Bibbia alla mano, a ratificare la condanna a morte dell’’eretico’ Michele Serveto (1511-1553), colpevole di sostenere posizioni eterodosse riguardo alla Trinità. La libertà del cristiano, così cara ai Riformatori, sembra insomma mostrare la corda nel momento in cui si tratta di delimitare i confini dell’eresia, tanto all’esterno quanto all’interno, e questo per il semplice fatto che la Riforma (e non può essere diversamente) continua ad operare e a diffondersi in un regime di societas christiana, di cui il principio del cuis regio eius religio è la rappresentazione più chiara. Del resto, dal 380 al 1789 (e in alcuni casi, in Italia per esempio, anche ben oltre), l’appartenenza confessionale ritenuta ‘giusta’ era cosa del tutto ovvia e scontata. A tal proposito, sono interessanti le dichiarazioni di John Locke (1632-1704), nella sua Lettera sulla tolleranza: infatti, mentre afferma che «la tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi di fronte ad una luce così chiara» e mentre fissa in modo assai ‘moderno’ il principio della separazione tra stato («una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili») e chiesa («una libera società di uomini che si uniscono volontariamente per adorare pubblicamente Dio»), si affretta, però, ad aggiungere che «non devono in alcun modo essere tollerati coloro che negano che esista una divinità» (ossia gli atei) e che «non può avere diritto ad essere tollerata dal magistrato quella chiesa in cui tutti coloro che sono ammessi passano per ciò stesso al servizio di un altro sovrano e a lui devono obbedienza» (ossia i cattolici romani). Il fatto è che nella lunga battaglia per l’affermazione della libertà religiosa quale primo passo per la libertà di coscienza e della libertà politica si sono affrontati due nemici: l’autorità derivante dall’infallibilità papale e l’autorità derivante dal ‘libero esame’ delle Sacre Scritture. E, sebbene le motivazioni teologiche fossero confessionalmente diverse, il fuoco che illuminava i roghi cattolici e protestanti era dello stesso colore. Molta acqua, spesso anche torbida, dovrà ancora passare sotto i ponti della storia perché si arrivi ad una declinazione armonica del principio della libertà religiosa e di coscienza.

Locke e il concetto di tolleranza

Il principio protestante del ‘libero esame’ costituisce, comunque, la base fondamentale che consentirà di giungere alle elaborazioni illuministiche del principio di tolleranza, come dimostra la riflessione condotta da due figure poco note, ma significative: Sebastiano Castellione (1515-1563) e Pierre Bayle (1647-1706). Il primo, umanista e teologo francese, alle prese con il “regime cristiano” della repubblica ginevrina, che esploderà in tutta la sua contraddizione nel 1553, con la condanna a morte di Michele Serveto, scriverà un’accorata arringa in difesa della libertà di coscienza e della tolleranza (De haereticis an persequendis sint), in cui si possono leggere frasi come queste: «ognuno si preoccupi di correggere la propria vita e non di condannare gli altri»; «cercare la verità e proclamarla come la si pensa non è mai criminale. Non si dovrebbe imporre a nessuno una convinzione. Le convinzioni sono libere». Da buon protestante,

Dal ‘libero esame’ alla libertà di coscienza

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Castellione sostiene che la verità risiede nel «libero esame», ma riconosce anche il diritto all’errore, da lui definito «la coscienza errante». Il secondo, filosofo razionalista francese e precursore dell’illuminismo, nel denunciare i guasti dell’intolleranza religiosa, insiste sui diritti della coscienza in nome dell’incapacità dell’essere umano di raggiungere la verità religiosa con una certezza razionale (Dizionario storico e critico, 1697). Il conetto di tolleranza deriva quindi dal fatto che nessuna morale e nessuna religione è in grado di offrire una verità certa. Osservando poi la dicotomia esistente tra i principi predicati dai cristiani e il loro comportamento, ne conclude che la fede non influisce sulla morale e che la morale non dipende dalla religione. Pur rimanendo calvinista e credente sino alla fine, Bayle è l’iniziatore, e con largo anticipo, di quella che si potrebbe definire una morale laica.

Per approfondire Per il passaggio dal Medioevo alla modernità si veda il saggio di M. Gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Einaudi, Torino 1992 (ed. or. francese 1985) che sottolinea in modo molto efficace il processo di desacralizzazione come discontinuità tra Dio e il mondo. Circa il rapporto tra protestantesimo e modernità si segnalano E. Bein Ricco, La modernità e il protestantesimo, in AA.VV., Modernità, politica e protestantesimo, Claudiana, Torino 1994, pp. 205254, e G. Cotta, La nascita dell’individualismo politico. Lutero e la politica della modernità, Il Mulino, Bologna 2002. Sulla figura di Giovanni Calvino si veda A.E. McGrath, Giovanni Calvino. Il Riformatore e la sua influenza sulla cultura occidentale, Claudiana, Torino 1991; G. Tourn, Calvino politico, in Modernità, politica e protestantesimo, cit., pp. 15-79. Il concetto di patto quale categoria biblica fondante il contrattualismo politico è stato studiato in modo particolare da M. Walzer, La rivoluzione dei santi. Il puritanesimo alle origini del radicalismo politico, Claudiana, Torino 1996 (ed. or. inglese 1965), e Esodo e rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1986. Da tenere presente anche il volume collettaneo curato da U. Bonanate, I Puritani. I soldati della Bibbia, Einaudi, Torino 1975. Sul tema della tolleranza si veda M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa nell’Età moderna dalla Riforma protestante a Locke, Loescher, Torino 1978; R. Cortese (a cura), La «Lettera sulla tolleranza» di Locke e il problema della tolleranza nella filosofia del Seicento, Paravia, Torino 1990. Per quanto concerne la riflessione di Castellione e Bayle si segnalano i seguenti studi: C. Gilly, Sebastiano Castellione, l'idea di tolleranza e l'opposizione alla politica di Filippo II, in «Rivista storica italiana», CX (1998), pp. 144-166; C. Senofonte, Pierre Bayle: dal calvinismo all’Illuminismo, Edizione Scientifiche Italiane, Napoli 1978; G. Mori, Introduzione a Bayle, Laterza, Roma–Bari 1996. I testi citati si trovano in: U. Zwingli, Confutazione dei cavilli degli anabattisti, in: Scritti teologici e politici, a cura di E. Genre e E. Campi, Claudiana, Torino 1985, p. 275; G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, a cura di G. Tourn, UTET, Torino 1971, vol. I, p. 552; J. Locke, Scritti sulla tolleranza, a cura di D. Marconi, UTET, Torino 1977, pp. 134-138 e 170-172; S. Castellion, La persecuzione degli eretici, a cura di S. Visentin, La Rosa editrice, Torino 1997.

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PER FARE IL PUNTO

Conoscenze

• La Riforma protestante ha cambiato il volto del cristianesimo europeo e ha contribuito non poco al passaggio dal Medioevo all’età moderna. – Che rapporto c’è nella riflessione di Lutero tra legge divina e legge umana? – Illustra la concezione ‘ministeriale’ del magistrato elaborata da Calvino. – Chi sono i puritani e che ruolo hanno avuto nella storia inglese? – Quali sono le radici bibliche del concetto di ‘patto’?

Competenze

Oggi, tralasciando il comportamento e la santità di vita, gli uomini sono soliti giudicare in base alla dottrina e uccidere quelli che dissentono da loro in qualche cosa, anche se per altro verso siano di buoni costumi, il che non deve invece avvenire. Infatti, si dovrebbe perdonare a chi ha commesso una colpa se gli altri aspetti della sua vita siano puri. […] Pertanto, poiché gli uomini vogliono che si uccida e si giudichi sulla base non del comportamento ma della dottrina e poiché non è ancora stato stabilito quale setta sia la migliore (né si potrà farlo prima della venuta del giudice), nel frattempo ci si domanda come bisogna comportarsi nei confronti degli ostinati. A questo punto, se si è dell’opinione che debbano essere uccisi, i fautori di ogni setta verranno uccisi da parte di coloro a una setta diversa. […] Occorre ben guardare chi siano quelli che oggi sono considerati eretici. Si ritengono eretici i papisti, i valdesi, i luterani, gli zwingliani, gli anabattisti e altre sette di questo genere. Io affermo invece che nessuna di queste deve essere di per sé chiamata empia, quand’anche tutte errassero. Tutte credono infatti nel medesimo Dio e nel medesimo Cristo signore e salvatore.

S. Castellione, Contra libellum Calvini, in quo ostendere conatur haereticos iure gladii coercendos esse, in M. Firpo, Il problema della tolleranza religiosa, cit., pp. 120-121

Non contento di aver scritto il De haereticis an sint persequendi, Sebastiano Castellione redasse anche il Contra libellum Calvini, in cui si trova la famosa frase: «Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, è uccidere un uomo». La tolleranza auspicata da Castellione non è tuttavia senza limiti: la vera dottrina va difesa, al limite ricorrendo all’espulsione coatta dalla città di coloro che sostengono tesi “eretiche”; ciò che va assolutamente evitato è la loro condanna a morte. Visti i tempi, non è certo poco. – Su quali considerazioni si basa il rifiuto della condanna a morte espresso da Castellione? – Spiega cosa significa la frase: «si dovrebbe perdonare a chi ha commesso una colpa se gli altri aspetti della sua vita siano puri». – In quali passi del testo è possibile rintracciare l’affermazione del diritto alla coscienza individuale in materia di fede e di dottrina? Capacità

• La dottrina protestante del sacerdozio universale ha desacralizzato il potere e contribuito al processo di democratizzazione delle strutture politiche. – Che differenza c’è tra l’ecclesiologia (concezione della chiesa e sua struttura) cattolica e quella riformata? – Qual è stato il contributo della ‘teologia del patto’ alla nascita dello stato moderno? – Per quale motivo, secondo i Puritani inglesi, la libertà di culto era strettamente legata alla libertà di coscienza?

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3. ‘Morte di Dio’: il cristianesimo alla prova della (post)modernità

«Dio è morto, Marx è morto ... e anch'io oggi non mi sento molto bene!». Questa fulminante battuta di Woody Allen ha il merito di sintetizzare il crollo delle visioni universalistiche, fra le cui macerie è possibile scorgere l’imponente edificio del cristianesimo, concepito da Friedrich Nietzsche come «negazione istituzionalizzata della volontà di vivere» (T. W. Adorno), in quanto esso «ha preso le parti di tutto quanto è debole, abietto, malriuscito; della contraddizione contro gli istinti di conservazione della vita forte ha fatto un ideale; ha guastato persino la ragione delle nature intellettualmente più forti, insegnando a sentire i supremi valori dell’intellettualità come peccaminosi, come fonti di traviamento, come tentazioni» (L’Anticristo, 1888). E se Agostino aveva invitato ad un rinnovamento dell’esistenza individuale, e quindi dell’intera società, in nome di un nuovo umanesimo cristiano, Nietzsche proclama che «in Dio è dichiarata l’inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere!» La ‘morte di Dio’ è l’esito della modernità e la secolarizzazione è la sua espressione più propria. Il termine, nato nell’ambito della teologia protestante e poi passato nella filosofia e nella sociologia della religione, indica la progressiva perdita di rilevanza del fattore religioso, la rimozione dell’autorità ecclesiastica dall’ambito mondano, la demitizzazione della fede, la scristianizzazione della società e, last but non least, l’appropriazione di temi tipicamente cristiani da parte della cultura secolare (si vedano, per esempio, valori come la libertà e l’uguaglianza). E tuttavia, a ben guardare, la secolarizzazione è fenomeno tipicamente europeo (basta consultare le percentuali della frequenza religiosa); al contrario, appena si esce dai confini continentali, ci si rende conto che la situazione mondiale è ben diversa. Dio e il sacro, lungi dall’essere morti ed eclissati, sono tornati ad occupare saldamente il centro della scena.

3.1

Il cristianesimo postmoderno Con queste parole il mediologo francese Régis Debray sintetizza la modalità del credere tipica delle società postindustriali:

Dio nelle società postindustriali

R. Debray, Dio, un itinerario. Per una storia dell’Eterno in Occidente, p. 337

«Alle biblioteche senza lettori, da cui ci si allontana per navigare in Internet, corrispondono delle religioni senza dogmi e dei preti senza sottane. Dalla rete di domani ci si può aspettare un e-God just in time, commutabile grazie ad un telecomando e senza copyright. Un vantaggio per uno svantaggio. Ogni nuova macchina moderna produce una nuova forma di servitù nel mentre ci libera da un’altra. L’alfabeto del deserto ci ha liberato dalle divinità materne e ha affidato, a un popolo unico nel suo genere, la possibilità di essere l’intermediario tra il Signore e le nazioni. Il codice manoscritto ha liberato questo Dio scrit-

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to dalla chiusura nella Terra santa rendendolo universale e condivisibile, non in linea di principio ma di fatto. La stampa manuale ha spezzato la chiusura ecclesiastica per aprirla al libro multilingue a disposizione di tutti. Ha liberato il Dio unico dalla Chiesa unica e il credente dal latino dei chierici. Da cosa ci stanno attualmente liberando la riproduzione digitale e le telepresenze? Dalla nozione di integrità. Dall’idea di totalità integrata. Ne scaturisce un divino in scatola di montaggio, modulabile, atomizzato, opzionale, suscettibile di bricolage, collage e deviazioni. Le religioni senza Dio sono quelle meglio de-totalizzate, deconfessionalizzate, deregolamentate, e sono quindi le più competitive. Lo spirituale non trasmette più su un solo canale, o, piuttosto, ogni confessione ha il proprio, uno tra i tanti, sta a noi fare lo zapping. Dal papa al Dalai Lama passando per sua Beatitudine e il Patriarca autocefalo. Un assortimento di grandi stregoni in libera concorrenza».

È sempre stato così: da duemila anni in qua, il cristianesimo ha veicolato i propri contenuti di fede all’interno di un concreto ambito comunicativo e culturale. In epoca postmoderna, il cristianesimo (o postcristianesimo) appare sempre più delocalizzato, deregolamentato, disarticolato. A dispetto di quanti ne temono o ne auspicano la dissoluzione, il cristianesimo alle soglie del terzo millennio è più vivo che mai, ma sta cambiando geografia e colore: la cristianità europea (o euroamericana) e bianca sta sempre più lasciando il posto ad una multicolore cristianità africana, asiatica e sudamericana. Secondo recenti statistiche, citate nello studio di Philip Jenkins (La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, cit., p. 5), «se compiliamo una proiezione per l’anno 2025 […] avremo 2,6 miliardi di cristiani: di questi, 633 milioni vivrebbero in Africa, 640 in America Latina e 460 milioni in Asia. L’Europa, con i suoi 555 milioni, finirebbe al terzo posto. […] Nel 2050 solo circa un quinto dei tre miliardi di cristiani del mondo sarebbero non-ispanici bianchi. Presto l’espressione ‘un cristiano bianco’ comincerebbe a suonare come un curioso ossimoro, leggermente sorprendente, tipo ‘un buddista svedese’». È appena il caso di notare che ad un cambiamento etno-geografico corrisponde un cambiamento dei paradigmi teologici e delle pratiche di culto.

Deoccidentalizzazione del cristianesimo

Due sociologi della religione americani, Rodney Stark e Laurence Iannaccone, hanno elaborato un ‘nuovo paradigma’ nella sociologia della religione (il ‘vecchio paradigma’ si rifà al concetto di secolarizzazione), secondo il quale il mercato religioso si comporta come il più generale mercato di beni e servizi, in cui la concorrenza regna sovrana e la domanda crea l’offerta. Espressioni come ‘supermarket delle religioni’, ‘self service religoso’, ‘patchwork del sacro’ sono entrate nel linguaggio corrente per indicare il sempre più diffuso fenomeno della personalizzazione delle scelte di fede. Il pluralismo delle opzioni di mercato fa il paio con il pluralismo delle opzioni religiose, sia all’interno della stessa religione (si pensi solo alla molteplicità dei cattolicesimi, per non parlare dei protestantesimi) sia come possibilità di scelta e di contaminazione tra religioni diverse. A ben guardare in fondo, il sincretismo di oggi non è poi molto diverso dal sincretismo diffuso nell’impero romano.

Derelugation religiosa

La possibilità di scelta in campo religioso determina la dinamica del ‘credere senza appartenere’. Sono lontani i tempi in cui le chiese cristiane erano contenitori di identità forti, fonti di norme asso-

Believing without belonging

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lute, distributori di senso. Oggi la loro azione si svolge in un quadro in cui le identità sono mobili, le scelte molteplici e continuamente rinegoziabili, i principi morali sempre più soggettivizzati e precari. Ciò ha determinato la deistituzionalizzazione delle chiese cristiane storiche (cattolica e protestante), per effetto della quale, da un lato, ci si stacca dalla chiesa in quanto istituzione (così come anche da altre istituzioni), e, dall’altro, si privilegia il momento della esperienza (‘con-vivere’) rispetto a quello della credenza condivisa (‘con-credere’). Questi tre fenomeni sommariamente elencati (ma altri se ne potrebbero aggiungere) aprono nuovi scenari non solo sul piano individuale, ma anche nel quadro più generale del rapporto tra esperienza religiosa e appartenenza socio-culturale.

3.2

Cristianesimo e società multireligiosa Ritornate sulla scena pubblica a formare un mosaico spesso di difficile lettura, le religioni sono realtà con cui fare i conti. Il rapporto tra ambito religioso e organizzazione statale chiama in causa il problema della laicità dello stato, intesa come metodo e non come mera ideologia, cioè come modalità di coesistenza libera e democratica tra religioni che non siano strumentalizzate a fini politici né avversate a fini ideologici. Uno stato veramente laico deve garantire una effettiva parità di trattamento tra le istanze religiose e le più varie opzioni filosofiche. Il modello liberale di laicità, basato sulla estraneità dello stato rispetto al fatto religioso, non ha più molto senso nel momento in cui la religione, estromessa con la secolarizzazione, si riaffaccia con il ritorno del sacro e diventa un fenomeno sempre più rilevante nella vita sociale e politica. La sfida cui ci si trova di fronte è la necessità da molti avvertita del passaggio da una laicità per sottrazione (separazione tra sfera pubblica e sfera privata) ad una laicità per addizione (una cornice di pluralismo in cui sia garantita la libertà di ciascuno). L’esempio concreto di tre realtà socio-politiche, simili ma diverse tra loro, è la dimostrazione di come il problema si situi su un crinale delicato.

Stato e religioni: il problema della laicità

La situazione italiana presenta quello che si potrebbe definire un ‘deficit di laicità’, non soltanto sul piano della mentalità, ma anche a livello istituzionale. Come è noto, infatti, la Costituzione italiana regola i rapporti tra lo stato e le espressioni religiose nell’art. 7 e nell’art. 8. Si è in presenza di una sorta di ‘doppio binario’: da un lato, infatti, vi è il Concordato con la chiesa cattolica e dall’altro, vi è lo strumento delle Intese con le altre confessioni religiose. Ciò ha alcune conseguenze piuttosto problematiche in ordine alla laicità dello stato, visto che, di fatto, la chiesa cattolica gode di un trattamento privilegiato. Il tutto in una situazione di sempre più marcato pluralismo religioso, in cui si sta passando dalla religione degli italiani (il cattolicesimo) all’Italia delle religioni.

L’Italia: un deficit di laicità

Nel tentativo di darsi un’anima che non sia solo economica, ma anche spirituale, l’Europa è alle prese con la ridefinizione del suo passato. Tutto ciò, prima ancora che il riferimento più o meno esplicito alle cosiddette ‘radici cristiane’ del continente, chiama in causa i rapporti tra l’Unione degli stati membri e le chiese cristiane. È insomma, ancora una volta, il tema della laicità ad essere sul tappeto. In questo senso, l’articolo 51 della Costituzio-

L’Europa: il tentativo di acquisire un’anima spirituale

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ne Europea in cui si afferma che «l'Unione rispetta e non pregiudica lo status previsto nelle legislazioni nazionali per le chiese e associazioni o comunità religiose degli stati membri» e che si impegna a mantenere «un dialogo aperto, trasparente e regolare con tali chiese», solleva qualche perplessità. Il problema non è tanto il dialogo, ma la sua modalità attuativa: l’aggettivo «regolare» potrebbe infatti lasciar aperta la strada ad una sorta di subalternità dell’ambito politico rispetto alle comunità religiose. E, vista la storia europea, il rischio di un connubio tra trono e altare è sempre in agguato. Mentre nell’ Europa del Seicento ci si uccideva in maniera brutale per questioni religiose, i padri fondatori degli Stati Uniti cercarono al di là dell’oceano quella libertà religiosa che nella madrepatria sembrava impossibile (vd. p. 82). Questo spiega perché fin da subito si sia stabilito che lo stato mai avrebbe dovuto e potuto limitare la libertà religiosa dei singoli. In sostanza, negli Stati Uniti la separazione tra Stato e chiesa protegge le religioni dallo stato, non lo stato dalle religioni. E questo spiega anche la grande fioritura e la rilevanza sociale che l’espressione religiosa gode negli USA. In un paese multiculturale e multireligioso come questo, la libertà di professare la propria confessione religiosa è sacra. La comunità nazionale si guarda bene dall’imporre il suo progetto di Stato sulla religione, ma al contrario autorizza qualsiasi espressione religiosa, salvo quando metta in discussione la libertà degli altri.

Gli Stati Uniti: un esempio di libertà religiosa

Per approfondire Il saggio di R. Debray (Dio, un itinerario. Per una storia dell’Eterno in Occidente, Cortina Editore, Milano 2002) ha il grande merito di tracciare una panoramica assai suggestiva dei processi di inculturazione del cristianesimo in Occidente dalle sue origini ebraiche ai giorni nostri. Sulla secolarizzazione e la ‘rivincita’ di Dio, si vedano R. Rémond, La secolarizzazione. Religione e società nell’Europa contemporanea, Laterza, Bari-Roma 2003 (ed. or. francese 1998); F.-X. Kaufmann, Quale futuro per il cristianesimo?, Queriniana, Brescia 2002; R. Stark – M. Introvigne, Dio è tornato. Indagine sulla rivincita delle religioni in Occidente, Piemme, Casale Monferrato 2003, da affiancare a AA.VV., La religione post-moderna, Glossa, Milano 2003. Sull’evoluzione socio-politica del cristianesimo nel nuovo secolo è caldamente consigliata la lettura di P. Jenkins, La terza chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi Editore, Roma 2004, ricco di dati e di proiezioni statistiche. Sul tema delle radici spirituali dell’Europa, si veda G. Reale, Radici culturali e spirituali dell’Europa. Per una rinascita dell’”uomo europeo”, Cortina Editore, Milano 2003. Per una panoramica sulla situazione religiosa negli Stati Uniti, cfr. lo studio di P. Naso, God Bless America. Le religioni degli americani, Editori Riuniti, Roma 2002.

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PER FARE IL PUNTO

Conoscenze

• Alle soglie del terzo millennio, il cristianesimo si trova nella necessità di ridefinire se stesso alla luce di un panorama socio-culturale sempre più complesso e variegato. – Quali sono, a tuo parere, i cambiamenti più rilevanti che il cristianesimo sta subendo? – Illustra con parole tue il concetto di ‘secolarizzazione’ – Cosa si intende con l’espressione ‘credere senza appartenere’? – Quali sono le sfide che una società multietnica e multireligiosa pone al cristianesimo?

Competenze

• Il rapporto tra visione religiosa e visione laica del mondo è spesso stato fonte di conflitti e di incomprensioni. – Pensi ci sia incompatibilità tra laicità e cristianesimo? – Perché, in una situazione di sempre più marcato pluralismo, un’impostazione laica potrebbe risultare vincente? • Un altro fenomeno nuovo con cui il cristianesimo si deve confrontare è il rapporto tra identità individuale e scelte religiose. – Che impotanza ha secondo te, oggi, l’appartenza religiosa in ordine alla definizione dell’identità individuale? – A tuo parere, i progressi della scienza e della tecnica possono scalzare il cristianeismo in ordine al tema del senso dell’esistenza?

Capacità

Costituzione della Repubblica italiana

• I due articoli della Costituzione Italiana che regolano il rapporto tra lo stato italiano, la chiesa cattolica e le altre confessioni religiose sono il n. 7 e il n. 8. Art. 7: Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale. Art. 8: Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.

– Che cosa si intende con il concetto di «sovranità» chiamato in causa dall’articolo 7 per definire lo stato e la chiesa? – Per quale motivo l’espressione «confessioni religiose diverse dalla cattolica» citata dall’articolo 8 risulta problematica? – Confronta i due articoli: quali contraddizioni si possono individuare?

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Invito alla scrittura

Al termine della lettura, lo studente è invitato a produrre un testo argomentativo su un tema afferente al percorso svolto nel presente volume. Indicativamente tale testo potrà avere la struttura prevista dall’Esame di Stato per il saggio breve oppure configurare l’argomento o lavoro di ricerca per il colloquio (cosiddetta ‘tesina’).

Proposte per il saggio breve Per l’elaborazione del saggio breve è necessario: • dare un titolo alla trattazione; • fare riferimento ai testi originali letti; • fare riferimento ai documenti messi qui di seguito a disposizione; • assumere un atteggiamento critico esprimendo punti di vista personali motivati; • non superare le quattro-cinque colonne di metà foglio protocollo o i 6000 caratteri di word processor.

ARGOMENTO

Cristianesimo antico e società romana: le difficili vie della tolleranza

DOCUMENTI

1. Noi adoriamo un solo Dio, che tutti voi conoscete naturalmente, di fronte ai cui lampi e tuoni voi tremate, di fronte ai cui benefici vi rallegrate. Voi ritenete che esistano anche altri dèi che noi riconosciamo come demoni. Tuttavia, appartiene alla legge umana e al diritto naturale che ognuno adori quello che crede; e la religione dell’uno non danneggia né favorisce un altro. Ma non appartiene alla religione imporre una religione, che deve essere accolta volontariamente, non per costrizione dal momento che anche le vittime sacrificali sono richieste ad un’anima che le accetta volentieri.

Tertulliano, Ad Scapulam 2, 1-2 (ed. critica E. Dekkers, in CCSL 2, Brepols, Turnhout 1954).

Simmaco, Relatio tertia 8-10 (cit. in G. Garbarino, Letteratura latina. III. L’età imperiale, Paravia, Torino 1992, pg. 584)

2. Ognuno ha i suoi costumi, ognuno ha i suoi riti; la mente divina ha distribuito i diversi culti alle città come loro custodi; come a chi nasce viene assegnata un’anima, così ai popoli sono assegnati genii che presiedono ai loro destini. Si aggiunga l’utilità, che soprattutto lega gli dèi agli uomini. Infatti, dal momento che non si può portare alcuna dimostrazione razionale, di dove viene la conoscenza delle divinità meglio che dal ricordo del passato e dalle prove dei favori ricevuti? Se la lunga durata dà autorevolezza alle religioni, dobbiamo conservare una fede che dura da tanti secoli e dobbiamo seguire i nostri padri, i quali hanno seguito i

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loro con risultati così felici. […] Dunque noi chiediamo la pace per gli dèi della patria, per gli dèi della nostra terra. È giusto ritenere che sia un’unica entità quella che tutti gli uomini onorano. Guardiano gli stessi astri, il cielo è comune a tutti, lo stesso universo ci racchiude: che importa con quale sistema ciascuno ricerca la verità? Non si può arrivare attraverso un’unica strada a un mistero così grande. L.F. Pizzolato, Ambrogio e la libertà religiosa nel IV secolo, in E. Dal Covolo – R. Uglione (a cura), Chiesa e impero. Da Augusto a Giustiniano, LAS, Roma 2001, p. 288.

3. Un punto ineludibile per la nostra questione è rappresentato dalla famosa espressione di Simmaco: «Non si può giungere per una strada sola ad un segreto così grande». Essa sembra contenere il principio che la verità è un oggetto immenso che sporge sempre oltre qualsiasi posizione raggiunta, e che così si giustifichi la libertà religiosa. Ma, nello spirito di Simmaco, l'affermazione intendeva dire che si può arrivare al divino solo per tante strade diverse. Poco prima Simmaco aveva infatti affermato che ogni popolo possiede la propria via religiosa. L'affermazione esclude la necessità di una scelta di verità dei percorsi e attribuisce alle religioni stesse l'idea scettica che esse rappresentino tante strade che arrivano, tutte indifferentemente, a tangere il mistero del divino. […] Il fascino dell'affermazione di Simmaco sta quindi in un rapporto che noi moderni stabiliamo tra essa e il nostro concetto di libertà religiosa, che unisce libertà e verità. In realtà essa, nelle intenzioni di Simmaco, esprime una concezione di libertà religiosa tradizionale, addirittura antecedente all'editto di Milano, nobilitata tutt'al più in un senso spiritualistico, immanentistico, di stampo neoplatonico, che cerca, anche per ragioni di convenienza, un concordismo con i cristiani.

E. R. Dodds, Cristiani e pagani in un’epoca di angoscia, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 101

4. Diciamo qualche cosa sulle opinioni che i pagani avevano del cristianesimo e i cristiani del paganesimo, come risultano dalle testimonianze letterarie del tempo. [...] Bisognerà cominciare col mettere in chiaro due punti. In primo luogo la discussione era condotta a parecchi livelli intellettuali e sociali fra loro diversi [...] La nostra conoscenza del dialogo a questo livello è, purtroppo, assai limitata, ma quel che possiamo sapere o congetturare a questo riguardo dovrebbe essere tenuto distinto dal dialogo più sofisticato delle persone colte. In secondo luogo, la discussione non era statica. Tanto il cristianesimo quanto la filosofia pagana durante tutto questo periodo furono implicati in un continuo processo di mutamento e di sviluppo, e i loro rapporti mutavano in proporzione.

F. Ruggiero, La follia dei cristiani: la reazione pagana al cristianesimo nei secoli I-V, Città Nuova, Roma 2002, p. 18

5. Il cristianesimo, radicalmente eterogeneo rispetto al sistema politico, espressione di una dissidenza anomala nella sua novità, viene bollato come follia. [...] Che il cristianesimo, una volta divenuto unica religione ammessa nello stato romano, abbia manifestato una sempre più decisa volontà persecutoria nei confronti del mondo pagano che lo aveva a suo tempo combattuto, è certo qualcosa che in taluno può provocare comprensibilmente sgomento e perplessità. Che si sia servito a tale scopo proprio di quell’accusa di follia che contro di sé era stata impiegata, è un fatto che, al di là della sorpresa, deve suscitare un serio interrogativo di ordine culturale e costituirsi come argomento idoneo a suscitare una sempre più ampia riflessione. Proposte operative Il titolo dovrà essere concepito in modo da destare interesse e suscitare la curiosità di un possibile lettore. Per esempio: ……………………………… Nello svolgimento del saggio potrebbero figurare in progressione i seguenti quattro

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punti (rispettivamente: 1°: il cristianesimo precostantiniano, 2°: il cristianesimo postcostantiniano, 3°: la reazione pagana, 4°: la riflessione di Agostino) con le relative articolazioni: 1° nucleo: L’epoca delle discriminazioni: la fase della contrapposizione. • la religione “politica” dei Romani e l’incompatibilità sociale del cristianesimo; • la rivendicazione della libertà religiosa in Tertulliano (documento n. 1); • i livelli della discussione e del confronto tra pagani e cristiani (documento n. 4); 2° nucleo: Editti di tolleranza: la fase dell’espansione. • il cambiamento di rotta nei confronti del cristianesimo a partire dal IV secolo: le motivazioni politiche e sociali; • il ruolo svolto dagli imperatori “cristiani”, da Costantino a Teodosio; • si può parlare di “intolleranza” cristiana nei confronti del paganesimo? (documento n. 5). 3° nucleo: Pagani alla riscossa: la fase della controreazione • la concezione della libertà religiosa di Simmaco (documento n. 2) • i rapporti tra il monoteismo assoluto dei cristiani e il monoteismo sincretista dei pagani; gli influssi del neoplatonismo; • esprimi un giudizio sulla “tolleranza” pagana espressa da Simmaco (documenti n. 2 e n. 3) 4° nucleo: Le due città: la fase della sintesi • differenza tra città terrena e città celeste (cfr. De civ. Dei XIV 28); • argomenti addotti da Agostino per denunciare l’assurdità delle accuse pagane contro il cristianesimo (cfr. Epistula XVII) • la funzione di ponte tra cultura pagana e cristianesimo svolta da Agostino. Proposte di approfondimento per il colloquio (‘tesina’) A differenza del saggio breve, che si caratterizza per la concentrazione e l’incisività, la tesina mira ad allargare il discorso in una prospettiva pluridisciplinare. Dal momento che i percorsi svolti in questo libro hanno un taglio storicoculturale, è evidente che la prospettiva non può che essere interdisciplinare, essendo coinvolte materie come la letteratura latina, la storia, la filosofia, le letterature moderne.

ARGOMENTO

Laicità, società multireligiosa e pluralismo culturale: quale cristianesimo per il futuro dell’Europa? Come ogni religione, il cristianesimo, pur partendo da un nucleo condiviso di dogmi di origine trascendente (la Rivelazione codificata nel Libro), deve fare i conti con le complesse dinamiche della Storia (sacra) e della storia (profana), al cui interno lo scontro è tra la Tradizione e l’Innovazione. Fin dall’inizio, e ancora oggi, il movimento cristiano si è trovato alle prese con l’esigenza di preservare il proprio patrimonio di fede e la necessità di presentarlo, quindi ridirlo, ad un mondo che cambia, in attesa della Rivelazione finale. Tenendo tutto ciò sullo sfondo, il criterio da seguire per un lavoro di approfondimento sul tema proposto non deve

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prendere in considerazione tanto la “storia del cristianesimo”, quanto il “cristianesimo nella storia”, al fine di mostrare lo stretto legame tra l’aspetto più propriamente religioso e i complessi fenomeni dell’inculturazione. L’impianto generale può essere suddito in tre parti. Nella prima si prendono le mosse dall’oggi per offrire il contesto generale in cui è inserito il cristianesimo; da questo punto di vista, è bene precisare subito i concetti di laicità, multiculturalismo e società multireligiosa. Per un primo orientamento si può consultare la raccolta di saggi contenuta in R. De Vita – F. Berti (a cura), La religione nella società dell’incertezza. Per una convivenza solidale in una società multireligiosa, Franco Angeli, Milano 2001, in cui sociologi, studiosi di scienze sociali e teologi discutono della rilevanza del fatto religioso in un mondo in rapida trasformazione, dei rapporti tra appartenenza sociale e appartenenza religiosa e delle interazioni tra sfera pubblica e religione. Per la situazione religiosa italiana, si veda P. Naso, Il mosaico della fede. Le religioni degli italiani, Baldini&Castoldi, Milano 2000. Nel seconda parte, si svolge una panoramica storica dei rapporti tra cristianesimo e società. Il nucleo di partenza non può che essere la rapida diffusione del cristianesimo nell’ecumene ellenistico-romana, l’incontro-scontro con le strutture sociali, culturali e religiose del tempo, il “rapido” successo dell’etica cristiana rispetto alle visioni concorrenti. È importante far notare come il cristianesimo antico si sia affermato grazie al fenomeno della “doppia sostituzione”: nei confronti dell’ebraismo prima e della cultura pagana poi. Si veda per questo F.-X. Kaufmann, Quale futuro per il cristianesimo?, cit., pp. 19-48. Un secondo nucleo può essere ravvisato nel passaggio dal Medioevo alla modernità, dove occorrerà circoscrivere l’ambito di indagine al rapporto tra cristianesimo e strutture socio-politiche. La progressiva autonomizzazione del potere papale (sacerdotium) da quello imperiale (regnum), l’apporto protestante alla definizione dello stato moderno, con la separazione tra ambito sacro e ambito profano, la libertà di coscienza e di religione come base per i diritti individuali, le guerre di religione e la nascita del concetto moderno di tolleranza, il concetto di persona inviolabile: sono tutti aspetti rilevanti che dimostrano il ruolo fondamentale svolto dal cristianesimo per la definizione di “valori” che costituiscono l’essenza del comune sentire occidentale. Sulla base dello studio di R. Rémond, La secolarizzazione, cit., si può concludere la panoramica storica con un riferimento al processo di mondanizzazione e di secolarizzazione del cristianesimo tipico dell’età odierna: separazione tra fede (fatto privato) e cittadinanza (fatto pubblico), “morte” di Dio, nichilismo, religione di stato, morale religiosa e morale pubblica, il ruolo delle chiese nei regimi totalitari. Nella terza parte, ci si ricollega al quadro tracciato nella prima per spingere lo sguardo sul futuro identitario dell’Europa. Secondo G. Reale, Radici culturali… cit., tre sono le radici culturali dell’Europa: la cultura greca; il messaggio cristiano; la rivoluzione scientifica. Qui non si tratta di tracciare delle graduatorie di rilevanza o di merito, visto che le radici sono tutte importanti per la crescita di una pianta. E d’altra parte le radici cristiane dell’Europa sono fuori discussione, come deve aver mostrato la disamina storica svolta in precedenza. Più interessante è piuttosto una valutazione critica sulla collocazione e sull’apporto che il cristianesimo può ancora offrire all’‘anima’ europea. La spinta propulsiva del cristianesimo si è ormai esaurita e il suo ruolo è ridotto a mero baluardo contro l’islam oppure esso continuerà a rappresentare un imprescindibile orizzonte valoriale? Il cristianesimo ha un futuro in Europa? L’Europa ha un futuro nel cristianesimo?

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Glossario

Allitterazione: ripetizione degli stessi fonemi sia all’inizio di due o più parole consecutive sia all’interno di esse. Spesso l’allitterazione possiede anche una valenza onomatopeica. - Es. consideratio contraxit et congessit… conspectum (Conf. VIII 12, 28). Antitesi: accostamento di due parole o frasi di senso opposto. - Es. bonis… subditis, regnet… serviant, sinceriter… serviliter, honorent… timeant (De civ. Dei II 20). Apostrofe: figura retorica tramite la quale ci si rivolge, in modo vivace o concitato, a un singolo, a una collettività oppure a cosa personificata. Es.: o indoles Romana laudabilis, o progenies Regulorum Scaevolarum, Scipionum Fabriciorum (De Civ. Dei II 29, 1). Asindeto: figura sintattica che consiste nell’eliminazione delle congiunzioni coordinanti tra una serie di termine. - Es. ludatur bibatur vomatur diffluatur (De civ. Dei II 20). Chiasmo: figura sintattica consistente nella disposizione incrociata degli elementi di due sintagmi o di due proposizioni secondo lo schema ABBA (è il contrario del parallelismo). - Es.: Reges non curent quam bonis, sed quam subditis regnent (De Civ. Dei II 20). Ellissi: omissione di un elemento della frase facilmente intuibile. - Es. illa in se ipsa, haec in Domino gloriatur (De civ. Dei XIV 28).

Endiadi: figura sintattica che esprime un unico concetto attraverso due termini tra loro coordinati da congiunzione copulativa. - Es.: in sceleribus et flagitiis (De Civ. Dei II 20). Gradazione: vedi klimax. figura simile Klimax: all’enumerazione, in cui i termini sono disposti in successione logica o emotiva crescente o discendente (in questo secondo caso si parla di antiklimax). - Es.: diligerem et quaererem et assequerer et tenerem atque amplexarer (Conf. III 4, 8). Kólon: membro del periodo dotato di una propria autonomia sintattica o ritmica; i kóla possono essere disposti simmetricamente (parallelismo) o in modo anitetico (chiasmo). Omeoteleuto: figura fonetica consistente nella ripetizione di suoni uguali posti alla fine di due o più parole. - Es.: ingens ferens ingentem imbrem (Conf. VIII 12, 28). Metafora: trasferimento di significato di una parola o di una espressione dal senso proprio al senso figurato. Si tratta in sostanza di una similitudine abbreviata (senza cioè elementi che introducono il paragone). Es. flagrantia, «incendio» per indicare lo stato d’animo (Conf. III 4, 8). Metonimia: tipo di metafora con cui si sostituisce un termine con un altro che abbia con il primo un rapporto di contiguità (per. es. l’effetto per la causa, il contenente per il contenuto, l’autore per l’opera, l’astratto per il concreto). - Es. pectus

per indicare la profondità d’animo (Conf. III 4, 7). Paralleismo: presenza in un periodo di kóla disposti simmetricamente (è il contrario del chiasmo). - Es. tardius vindicant, facile ignoscunt (De civ. Dei V 24). Poliptòto: figura sintattica per effetto della quale una stessa parola viene impiegata a breve distanza con funzioni grammaticali diverse. - Es.: miserius misero non miserante (Conf. I 13, 21). Polisindeto: enumerazione di termini uniti dalla congiunzione coordinativa, generalmente copulativa. - Es.: lumen cordis mei et panis oris intus animae meae et virtus maritans mentem meam et sinum cogitationis meae (Conf. I 13, 21). Preterizione: figura di significato con la quale si finge di voler tacere ciò che in realtà si dice. Es. nescio utrum repellere… an silentio praeterire (Epistula XVII 2). Trikólon: forma di parallelismo sintattico consistente nell’enumerazione di tre membri (kóla) coordinati per polisindeto o per asindeto. - Es.: excitabar sermone illo et accendebar et ardebam (Conf. III 4, 8), per il trikólon polisindetico; si Deum timent diligunt colunt (De Civ. Dei V 24), per il trikólon asindetico. Variatio: figura retorica consistente nella variazione della costruzione sintattica, finalizzata a rendere più vivace il periodo. Es.: Illa enim quaerit ab hominibus gloriam; huic autem Deus conscientiae testis maxima est gloria (De Civ. Dei XIV 28).

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