LAVORARE STANCA PAVESE CESARE

April 14, 2017 | Author: Lucia Red | Category: N/A
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LAVORARE STANCA Il suo primo libro - da lui stesso così considerato - fu Lavorare stanca(Firenze 1936; edizione definitiva, 1943), una raccolta di poesie che denotano nell'autore il riallacciarsi ad un ambito regionale, crepuscolare (accentuato in direzione popolaresca, dialettale in confronto con il parlato borghese crepuscolare). Così spiega Cesare Pavese: "... Contro il sospetto che il mio sia un piedmontese revival, sta la buona volontà di credere a un possibile allargamento dei valori piemontesi. La giustificazione? Questa: non è letteratura dialettale la mia - tanto lottai d'istinto e di ragione contro il dialettismo -; non vuole essere bozzettistica - e pagai d'esperienza - cerca di nutrirsi di tutto il miglior succo nazionale e tradizionale; tenta di tenere gli occhi aperti su tutto il mondo ed è stata particolarmente sensibile ai tentativi e ai risultati nord americani, dove mi parve di scoprire un tempo un analogo travaglio di formazione. O forse il fatto che ora non mi interessa più la cultura americana, significa che ho esaurito questo punto di vista piemontese? Credo di sì; almeno, il punto di vista come l'ho ottenuto finora.".1 Questi valori piemontesi sono ben evidenziati in tutte le sue opere. Per fare un esempio, la poetica di Lavorare stanca è di una sconvolgente novità rispetto agli ultimi modelli della tradizione ottocentesca, libera da ogni provincialismo. ... "Camminammo più di mezzora. La vetta è vicina, sempre aumenta d'intorno il frusciare e il fischiare del vento. Mio cugino si ferma ad un tratto e si volge: "Quest'anno scrivo sul manifesto: - Santo Stefano è sempre stato il primo nelle feste della valle del Belbo - e che la dicano quei di Canelli.". Poi riprende l'erta. Un profumo di terra e di vento ci avvolge nel buio, qualche lume in distanza: cascine, automobili che si sentono appena; e io penso alla forza che mi ha reso quest'uomo, strappandolo al mare, alle terre lontane, al silenzio che dura. Mio cugino non parla dei viaggi compiuti. Dice asciutto che è stato in quel luogo e in quell'altro e pensa ai suoi motori." ... "Ma quando gli dico Ch'egli è tra i fortunati che han visto l'aurora nelle isole più belle della terra, al ricordo sorride e risponde che il sole si levava che il giorno era vecchio per loro.".2

Qui, viene accentuata in modo particolare la direzione popolaresca presa da Pavese, soprattutto nei versi 3/7 in cui rende pesantemente il suo campanilismo paesano e le sempre più presenti rivalità fra paese e paese. Il segno crepuscolare lo si nota subito dopo i sopraddetti versi: quel ritornare con la mente al

paese dal quale egli è lontano - a causa del confino - lo rende malinconico e questo sarà l'inizio dello stile dello scrittore piemontese che fa riscontrare spesso nelle sue poesie e nei suoi romanzi quest'onda di malinconia. A mio parere una delle più belle poesie di Pavese, forse la più profonda per maturità e serietà di ogni singola parola, maliziosamente inserita al posto giusto è sicuramente Esterno: "Quel ragazzo scomparso al mattino non torna. Ha lasciato la pala ancor fredda, all'uncino - era l'alba nessuno ha voluto seguirlo: si è buttato su certe colline. Un ragazzo dell'età che comincia a staccare bestemmie non sa fare discorsi. Nessuno ha voluto seguirlo. Era un'alba bruciata di febbraio, ogni tronco colore del sangue aggrumato. Nessuno sentiva nell'aria il tepore più duro. Il mattino è trascorso e la fabbrica libera ogni operaio. Nel bel sole qualcuno - il lavoro riprende fra mezz'ora - si stende a mangiare affamato. Ma c'è un umido dolce che morde nel sangue e alla terra dà brividi verdi. Si fuma e si vede che il cielo è sereno e lontano le colline son viola. Varrebbe la pena di restarsene lunghi per terra nel sole. Ma buon conto si mangia. Chissà se ha mangiato quel ragazzo testardo? Dice un secco operaio, che, va bene, la schiena si rompe al lavoro, ma mangiare si mangia. Si fuma persino. L'uomo è come una bestia, che vorrebbe far niente. Son le bestie che sentono il tempo, e il ragazzo l'ha sentito all'alba. E ci sono dei cani che finiscono marci in un fosso. La terra prende tutto. Chi sa se il ragazzo finisce dentro un fosso affamato? E' scappato nell'alba senza fare discorsi, con quattro bestemmie, alto il naso nell'aria. Ci pensano tutti aspettando il lavoro, come un gregge svogliato.".3

Un ragazzo dunque, un giovane operaio di una fabbrica da cui fugge in una fredda mattina di febbraio. Fugge perché nell'aria ha sentito qualcosa che nessun altro poteva sentire ed è corso a sdraiarsi sulle colline. Aveva sentito l'arrivo della primavera. "Nessuno voleva seguirlo.". Gli ultimi versi di questa poesia, fan capire che i compagni della fabbrica, nonostante le parole dure, sentono che quel ragazzo ha fatto qualcosa che non sarà facilmente accantonabile; ora avvertono dentro una pena nuova, un sentimento inquieto che non conoscevano. Anche in questa poesia, come nella precedente, Pavese tiene ben evidenziato il titolo della raccolta originale, appunto Lavorare stanca, in quanto nella prima poesia, I mari del sud, vi è un sordo lamento, quasi una eco lontana che narra la tristezza e la depressione nel vedere il sole sorgere all'alba quando il lavoro è già iniziato da tempo e, nella seconda poesia, Esterno, con tono pesante, ma finemente sarcastico, facendo notare che il lavoro in fabbrica rompe sì la schiena, ma

permette di mangiare e "addirittura" di fumare. Due tipi di stanchezza dunque: una di tipo fisico, accentuata maggiormente; l'altra una fatica mentale, l'arrugginirsi dei sentimenti verso la natura ed una rassegnazione alla propria condizione attuale, di stampo quasi leopardiano: "... e il naufragar m'è dolce in questo mar.". Note al testo: 1 C. PAVESE, Il mestiere di vivere, Milano 1981, ed. Euroclub, pag. 13 2 C. PAVESE, Poesie edite ed inedite, Milano 1980, ed. Euroclub 3 C. PAVESE, op. cit. pag. 105-106

LO STILE Lavorare stanca, quindi, prima opera pavesiana? Pavese stesso ha cercato di dare al suo operato un ordine cronologico, in cui, oltre alle tappe stesse, indicava chiaramente i vari passaggi stilistici e tecnici, attraverso i quali è maturata la sua evoluzione poetica: Lavorare stanca Carcere - Paesi tuoi Bella estate - Spiaggia Feria d'agosto La terra e la morte I Dialoghi con Leucò Il Compagno La casa in collina Il diavolo sulle colline Tra donne sole La luna e i falò

- 1930 - 1933 - 1936 - 1938 - 1940 - 1938 - 1939 - 1940/41 - 1941 - 1942 - 1943 - 1944 - 1945 - 1945 - 1946 - 1947 - 1948 - 1948 - 1949 - 1949

Parola e sensazioni naturalismo poesia in prosa e consapevolezza dei miti gli estremi: naturalismo e simbolo staccati Realtà simbolica

Questo quadro rende l'idea di come Pavese, ad un anno dalla sua morte, vedesse ed inquadrasse quello che aveva fatto. In questo disegno cronologico, tracciato da Pavese stesso, c'è però una lacuna: infatti ha escluso una parte degli scritti giovanili, che invece acquistano oggi, un'importanza di gran lunga superiore a quella che lo stesso autore gli attribuiva. E' vero che Pavese prende le mosse dal 1930 e mostra quindi di vedere in Lavorare stanca la prima opera meritevole di considerazione; spesso però gli autori non sono i migliori critici di sé stessi o non lo sono in egual misura lungo tutto l'arco della loro produzione letteraria. Il giudizio autocritico di Pavese è stato troppo severo. Escludere i racconti giovanili, tra cui l'importantissimo Ciau Masino, - come introduzione a tutto lo stile pavesiano - è un grave errore. Ciau Masino è un blocco di racconti che costituisce, nel suo insieme, quasi un romanzo e acquista molta importanza nell'opera di Pavese per due ragioni fondamentali: la prima è che

in questi racconti si trovano già accennati quasi tutti i temi che saranno svolti in seguito da Pavese; in secondo luogo troviamo già posti i problemi di linguaggio che poi saranno fondamentali nell'opera pavesiana. Il linguaggio di Ciau Masino appare come una lingua nuova, diversa sia rispetto alla lingua italiana, sia, soprattutto, al linguaggio letterario di quegli anni. Il linguaggio letterario italiano era teso verso una dimensione neo classicheggiante, mirava al bello scrivere, che non sempre significa uno scrivere appropriato, come diceva Leopardi, raggiungendo risultati stilistici tutt'altro che indifferenti. Ciau Masino ha come sfondo la Torino degli anni trenta, che corrisponde all'unico mondo che Pavese abbia veramente conosciuto, oltre a quello delle Langhe (la sua giovinezza è infatti trascorsa tra Torino e le Langhe). Non dimentichiamo che a Torino c'è stata nel '21 l'occupazione delle fabbriche; che a Torino l'antifascismo era molto sentito proprio per l'estrazione operaia e proletaria della maggior parte della popolazione e che i germi antifascisti erano anche molto diffusi negli strati borghesi/medio-borghesi. Questo clima particolare incide in modo determinante e decisivo sulla formazione di Pavese. Torino è vista come una città miticamente tentacolare, che le fabbriche e le ciminiere rendono così diversa da Milano, da Roma, da Firenze; una città in cui era ancora possibile pensare ad un concetto di vita libera e di campagna proprio perché, appena fuori città, la campagna contrastava decisamente con l'immagine industriale della metropoli. Tutto ciò stimolava nel giovane Pavese una serie di suggestioni che sono poi penetrate nella sua opera. Torino era a parte, isolata; infatti le prime incerte lettere che Pavese indirizzava al di fuori del suo centro torinese sono intimidite e risentono del complesso d'inferiorità che spesso i piemontesi hanno, perché si sentono un po' stranieri in patria e imparano la lingua italiana come una lingua straniera. Così Pavese, possiamo veramente dirlo, ha imparato la lingua italiana come una lingua straniera; l'ha sempre considerata quasi come una lingua di un altro paese e, proprio per questo, il suo lavoro di stile e di linguaggio risulta così interessante. A quell'epoca la letteratura che dominava era quella francese; mettersi a contatto con essa sarebbe stata per lui la soluzione più tranquilla e più semplice. Invece, Pavese scopre l'America, anticipando un orientamento letterario che si sarebbe affermato poi. Egli vedeva nell'America la possibilità di realizzare quei concetti di libertà intellettuale pratica che nella provincia italiana e nella letteratura italiana stentava ad individuare. Ecco perché Pavese giovane è importante, significativo; in quanto lontano dal modo di concepire la letteratura, a quel tempo. Quindi, ecco perché Ciau Masino diventa un punto di riferimento importante: perché le storie parallele dell'intellettuale Masino e dell'operaio Masin, riflettono tutta questa situazione.

CIAU MASINO

Questa raccolta di racconti si articola su due filoni: il primo è quello dell'intellettuale Masino, intellettuale in senso lato; l'altro riguarda la vita dell'operaio Masin. Masino e Masin: due nomi così simili ma non uguali; non a caso il primo intellettuale, scrittore di canzonette ritmate a blues - già qui Pavese aveva ben chiaro il suo sogno americano - si realizza a livello personale, vive spensieratamente, passa le serate nelle osterie con gli amici; insomma, Masino riesce addirittura ad ottenere l'autorizzazione per andare in America (che è sempre stato il sogno di Pavese, che non riuscirà mai a realizzare) . Masin, al contrario, operaio, è una figura triste, dall'inizio alla fine; la storia di un fallimento, antiteticamente a quella di Masino, che è tutta un realizzarsi. La vita di Masino è simbolica di tutto ciò a cui Pavese tendeva. Masin, invece, per contrasto, rappresenta l'impossibilità dell'operaio di inserirsi in una vita che non sia contrassegnata sempre da una lotta continua e senza speranza. Masin è un fallito; a lui manca qualcosa che Masino possiede: il riuscire nella vita. Non a caso, infatti, Masin è un nome dialettale, paesano, mentre Masino è un nome italiano. Il dialetto entra in evidenza, anche perché Masin nella raccolta risulta più importante di Masino, più significativo, per il fatto che nasce da un'autentica invenzione letteraria, mentre per Masino, Pavese aveva dei modelli ben precisi. Vorrei citare alcune tra le disavventure accadute a Masin, che reputo importanti e di piacevole lettura: la prima disavventura capitata a Masin è quella di un tema - si era iscritto alle scuole serali per uscire dal suo ghetto psicologico e sociale - su Pietro Micca, che egli svolge in modo irriverente per il sottofondo politico che lo anima: irridendo Pietro Micca, Masin irride gli ideali di patria, gli ideali della società patriottico-borghese e per questa ragione viene espulso da scuola. Il titolo del tema era il seguente: "Parlate del gesto eroico di Pietro Micca. Suo rapporto coll'idea di famiglia e l'idealità del sacrificio. La perenne giovinezza della figura dell'eroe.". Svolgimento: "Pietro Micca fu un eroe del 1706. I torinesi si difendevano contro il re Vittorio Amedeo III. Una notte mentre la città era nell'infausto riposo i francesi, cercarono di penetrare dentro le mura sotterranee, dentro questi luoghi c'erano le polvere e uno dei soldati chiamato Pietro Micca di Biella, mediante l'erismo e il sacrificio nel sentire il rumore tese gli orecchi e pensò che erano in cantina e mandando un soldato a portargli da bere per passare il tempo. Il compagno che bevvero insieme gli disse di fuggire con lui, ma Pietro Micca gli rispose che erano sul dovere di sentinella e non dovessero abbandonare il posto. Pietro Micca fu quando che comandò bene il picchetto e ha detto sempre; state pronti ragazzi che abbiamo la patria in pericolo. Ma l'eroe biellese non sapendo che tutti gli uomini hanno grande paura e mentre egli solo beveva nel barile i commilitoni insieme erano tutti scappati. Onde Pietro Micca si

mise sull'attenti e pensando alla patria, perché bevette un'ultima volta ch'era proprio l'ultima e fece scoppiare la mina con una grande fiammata che s'incendiò nel corridoio e così è stata salvata la patria e le rovine le vedono ancora sicché il monumento sorge, qui l'eroe s'immortalò tenendo vicino sulla piazza il barile dove bevè l'ultima volta prima di morire.".1 Questo tema di Masin è un modello dal punto di vista linguistico, una pagina d'antologia che oggi, alla rilettura, costituisce una sorpresa per l'impasto fra lingua e dialetto in cui Pavese crea una lingua nuova. In Masin c'è il desiderio di evadere, di trovare una condizione di libertà; di poter disporre di se stesso senza eccessivi condizionamenti, soprattutto senza padrone. Ma la vita di Masin è un susseguirsi di disavventure. Infatti uscito dalla scuola, Masin, che è un collaudatore di macchine, durante il suo lavoro investe e uccide una persona. Gli viene tolta la patente e viene licenziato. Nel breve volgere di due giorni Masin si trova ad essere uno sbandato. Decide allora di rifugiarsi nelle Langhe in cerca di lavoro. C'è quindi già dai primi anni di Pavese scrittore, la mitizzazione della terra langhigiana. Dopo successivi cambiamenti di lavoro, licenziamenti, Masin torna a Torino, dove comincia a frequentare il mondo del varietà e dei locali notturni. Anche questo ha un suo significato: il giovane Pavese aveva una certa curiosità per il mondo dell'avanspettacolo, simbolo della perdizione. Grazie a questa esperienza letteraria e stilistica e già avendo alle spalle l'esperienza di Lavorare stanca, Pavese può cominciare a scrivere Il carcere. Note al testo 1 C:PAVESE, Racconti, Torino, ed. Einaudi, pagg. 24-25

IL CARCERE Negli scritti giovanili e soprattutto in Ciau Masino, Pavese ha bruciato molte delle storie e delle infatuazioni che altrimenti lo avbrebbero, forse, accompagnato per tutta la vita. Quando uscì Il carcere, pubblicato insieme a La casa in collina in Prima che il gallo canti, alla critica sembrò strano, dato che insieme ai racconti Pavese aveva inserito le date di compilazione dei singoli racconti, (Il carcere '38/39; La casa in collina '47/48) che un piccolo capolavoro quale fu definito Il carcere fosse scaturito dalla penna di uno scrittore con così poca esperienza. Pavese rispose che le date erano effettivamente quelle e che non gli era costata nessuna fatica la produzione del racconto. Il Pavese in prosa, se escludiamo Ciau Masino, comincia dal 1936 e dal '31 abbiamo il lavoro saggistico e di traduzione sulla letteratura americana. E' vero che Pavese non scrive racconti e romanzi, ma in fondo è abbastanza giustificato, in questo periodo, dal fatto che da un lato abbiamo il periodo più ricco di Lavorare stanca e dall'altro abbiamo il forte impegno nelle traduzioni e nei saggi

sulla letteratura americana. Cioè è vero che Pavese non scrive racconti e romanzi, ma tutte le sue forze sono concentrate in questa ricerca che darà frutti più precisi in seguito. Nel '36, infatti, Pavese sente ormai che l'idea della poesia-racconto viene ad essere un qualche cosa di sperimentato al massimo, viene in sostanza ad essere un approccio letterario ormai meccanico e, a quel punto, allora il discorso si allarga naturalmente e dalla poesia si sfocia nel racconto. (...) "i racconti che Pavese comincia a scrivere nel '36 sono a loro volta degli esperimenti che portano avanti il lavoro iniziato con Lavorare stanca, ma che di per sè già costituiscono come un'esperienza precisa e valida di per sè. Quindi documento, è vero, di un trapasso tecnico dalla poesia alla prosa, ma anche un documento di un lavoro letterario non casuale, non occasionale, non estraneo al lavoro di Pavese. Questi racconti, a partire da Terra d'esilio, del '36, sono tutti perfettamente inseriti nell'opera di Pavese.". (...) "In fondo, Pavese non scrive racconti per scrivere racconti, come spesso capita a molti scrittori. Non dimentichiamoci che allora le condizioni storiche e letterarie erano ben diverse: scrivere sulla terza pagina di un giornale, significava scegliere una determinata tendenza letteraria. Allora, tra il '30 e il '40, prima si scriveva un racconto, poi si pensava a pubblicarlo. E quindi, proprio per questo, i racconti acquistano nell'ambito dell'opera pavesiana un pregio e un peso letterario tutt'altro che indifferente, perché sono il documento di una ricerca condotta giorno per giorno nell'ambito della ricerca letteraria.".1 Comunque, dopo questa parentesi sulla formazione del racconto pavesiano, passiamo al 1949. A Prima che il gallo canti; perché risulta composto tra il '38 e il '48. Dieci anni, dieci anni di lavoro per la composizione e la pubblicazione di un volume di due romanzi brevi? No, Il carcere, primo romanzo; il secondo, La casa in collina, tra il '47 e il '48. Cominciamo con l'analizzare il primo dei due romanzi, lasciato in sospeso per dieci anni, cosa che a Emilio Cecchi parve priva di senso. In una lettera del 17 gennaio '49, Pavese scrive in questi termini, rispondendo alle allusioni di Cecchi: "Caro Cecchi, si rassegni, Il carcere, il primo dei racconti del Gallo canti, non venne più ritoccato dopo il 1938, se non nei nomi propri per ragioni di discrezione. Pare strano anche a me, ma lo scrissi così, nel primo tentativo di uscire dal mondo di Lavorare stanca, e due mesi prima di buttarmi, stimolato dal postino di Cain, a Paesi Tuoi. Il curioso è che me n'ero finora vergognato, e soltanto accorgendomi che La casa in collina gli faceva da riscontro, m'indussi a pubblicarlo.".2 Pavese quindi si vergognava di un suo libro e si decise a pubblicarlo solo dopo essersi reso conto delle affinità che lo avvicinavano ad un romanzo appena terminato. Non meno significativa è la risposta di Cecchi alla lettera di Pavese: "Curiosità, io avrei creduto ci fosse stata una patinatura o una casellatura in data più relativamente recente. Se ne impara sempre.".3

Dunque il carcere che ha un precedente in Terra d'esilio, Pavese lo scrive ben prima di Paesi tuoi, che, fino ad allora era considerata l'opera più significativa di Pavese. Il carcere è quindi molto importante nell'ambito della storia pavesiana perché è l'anello che congiunge l'esperienza di Lavorare stanca e Paesi tuoi. Come già detto, Pavese è un grande sperimentatore. In Ciau Masino, si sentiva, quasi premonitoriamente, il sogno americano del giovane autore e, da un punto di vista letterario, ciò che di utile ci poteva essere al fine di una perfezione di stile. Ora , che anche con Il carcere ha superato la poesia-racconto di Lavorare stanca, si fa avanti con tematiche che a livello di contenuti sono simili alle precedenti, ma che mirano ad un perfezionamento della forma. Passiamo allora a citare brevemente ciò che Pavese propone ne Il carcere. Questo racconto sviluppa la storia di un confinato politico durante il fascismo; è infatti la storia di Pavese stesso, anche perché il luogo del confino è Brancaleone calabro e il personaggio, Stefano, rispecchia emotivamente l'uomo Pavese. Stefano è un ragazzo introverso che non riesce a comunicare né con il maresciallo dei carabinieri (rappresenta in questo caso l'autorità costituita e cioè tutto il mondo dell'ufficialità che Pavese non accettava) né con gli abitanti del luogo. I suoi rapporti con il luogo erano più aperti, soprattutto nei confronti del mare (luogo mitico per Pavese; si noti anche la traduzione dell'opera americana Moby Dick) che Pavese definisce come "la quarta parete della sua prigione, una vasta parete di colori e di frescura dentro la quale avrebbe potuto scordare la cella.".4 Questo per quanto riguarda i rapporti col luogo, mentre per i rapporti umani vi è un cambiamento; infatti questi rapporti, poi, prendono un loro ritmo di confidenza e Stefano diventa amico, non solo del maresciallo, ma anche degli abitanti del posto. I rapporti con le donne, invece, svelano il vero carattere di Stefano, vale a dire la solitudine, ch'egli stesso chiama vigliaccheria, in sostanza la sua incapacità a comunicare, che riflette anche uno stato d'animo, che è quello di Pavese stesso. Così sembra che ogni volta che si offra amicizia e amore a Stefano egli ne abbia paura, mentre sembra attratto da ciò che è fuori dal proprio mondo. Questo si era già notato anche in Ciau Masino in cui Masin, personaggio scaturito dalla pura fantasia di Pavese, era il personaggio chiave dei due racconti proprio per questo motivo. Tornando a Stefano de Il carcere, entrano a questo punto in gioco i due personaggi femminili: Elena, la padrona di casa, che è remissiva, quasi materna, che gli si concede e che ad un certo punto vorrebbe veramente essere amata come lei ama Stefano. Questi però non prova nulla per lei, non sente nessun desiderio, poiché tutti i suoi desideri sono rivolti ad un'altra donna, a Concia, la ragazza che aveva veduto girare in paese. Pavese così la descrive: "la sola con un passo scattante e contento, quasi una danza impertinente, levando erta sui fianchi il viso bruno e caprigno con una sicurezza che era un sorriso. Era una serva, perché andava scalza e a volte portava acqua.".5 Da un lato quindi, Stefano vede la realtà subita, quindi Elena, la Elena sottomessa e, dall'altro, antiteticamente, la realtà, non subita,

ma quella fantastica. Segue che a Stefano giunga il messaggio di un altro confinato politico che lo invita a trovarsi e ad incontrarsi per avviare un dialogo. Questo messaggio permetterebbe a Stefano di uscire dal guscio dei due contrari sopracitati che lo circonda. Stefano, invece, si lascia sfuggire questa possibilità, non rispondendo all'invito. Poi, successivamente, arriva il condono e Stefano può tornare a casa. Note al testo: 1, 2 e 3 PAUTASSO, Dispense di storia della letteratura italiana, Milano, Istituto universitario di lingue moderne. 4 C.PAVESE, Prima che il gallo canti, Il carcere, Torino 1959, ed. Einaudi, pag. 9 5 C.PAVESE, op. cit., pag. 16

LA SPIAGGIA Abbandoniamo La bella estate per passare al romanzo che, cronologicamente, chiude quello che potrebbe essere considerato il periodo giovanile di Pavese: La spiaggia. Qui egli ha lasciato da parte i suoi villani, i suoi operai, i suoi sabbiatori, ecc..., cioè tutta quella serie di personaggi che popolavano il mondo di Lavorare stanca e Paesi tuoi, per cercare di scoprire com'era fatta l'altra faccia della società. Così facendo, si era gettato nel mondo della borghesia, per vedere cosa pensavano, cosa dicevano, coloro che passavano le vacanze al mare piuttosto che sul Po. Pavese si è trasformato nel ruolo di narratore, registrando i fatti di cui sono protagonisti i personaggi de La spiaggia: Doro, sua moglie Clelia, Guido e Berti. Questi i quattro personaggi attorno a cui ruota la vicenda narrata. In questo romanzo, Pavese, si limita a narrare oggettivamente i fatti come avvengono, senza allusioni alcune e soprattuto escludendo i simboli. Il narratore, dovrebbe trascorrere le vacanze nella casa al mare di Doro e Clelia. Prima di partire, però, Doro gli chiede di accompagnarlo in un viaggio nelle Langhe. In quel momento il matrimonio di Doro e Clelia è in crisi e per Doro un viaggio nelle Langhe significa un ritorno alle origini, mentre per il narratore è solo un'occasione per ascoltare l'amico, stare un po' con lui in un momento così difficile. Dopo il viaggio nelle Langhe arrivano al mare. Qui entrano in gioco tutti e quattro i personaggi: l'affascinante ambiguità di Clelia, di cui Berti, giovane studente, s'innamora; la ritrosia di Doro; la saggezza di Guido, il solito compagno di spiaggia. Berti è il tipico personaggio pavesiano: scontento, insicuro, che sta per affrontare la vita, che è ancora nella felice condizione di ragazzo qui si vede un'affinità con Ginia de La tenda. Quindi Pavese registra i vari discorsi che questo gruppo borghese fa sulla spiaggia. Questi discorsi riescono a far capire la vita che è in corso. I personaggi riescono a dare una dimensione reale a ciò che si racconta. Il romanzo si chiude con il rientro a Torino e, mentre Berti è deluso di come sono andate le cose, Clelia troverà invece nella maternità quell'appagamento che finora le era sempre mancato. In questo contrasto si trova tutto Pavese, con le sue delusioni, con le sue amarezze, con le sue gioie. Dopo questo romanzo si ha un periodo di silenzio che coincide con la guerra e, tra La spiaggia e il romanzo che segue, Il compagno, vi è un altro libro, che è l'unica raccolta di racconti che Pavese abbia pubblicato mentre era in vita, Feria d'agosto, che esce alla fine del '45 e che raccoglie una piccola parte dei racconti di Pavese. Non è però il solito libro che raccoglie dei racconti, che spesso un autore pubblica, piuttosto è un libro, o meglio, un romanzo a più sfaccettature e rappresenta qualche cosa di più proprio per il modo con cui Pavese l'ha costruito. Non bisogna dimenticare che Pavese aveva in disparte Il carcere e La tenda, che non aveva ancora pubblicati per inserirli poi nei due volumi, Prima che il gallo canti e La bella estate, per i motivi già citati nella lettera a Cecchi.1 Infatti possiamo considerare Feria d'agosto come un esperimento con cui Pavese ha posto le basi per la comprensione della sua ricerca

affidata ai racconti. Questo libro si suddivide in tre parti: la prima, intitolata Il mare, ha come obiettivo della ricerca il tentativo dei personaggi che compaiono di arrivare al mare. Pavese stesso considerava in modo particolare il mare, come ad esempio, ne Il carcere, dove esso rappresentava una parte importante nella vita di Stefano. E' rappresentato anche qui l'elemento mitico, così come è mito anche la città, soggetto della seconda parte del libro. Di qui la contrapposizione tra la città e la campagna. La città è vista come la scoperta di un mondo nuovo, un mondo da penetrare, da conoscere, da dominare. Nella terza parte troviamo, invece, La vigna, ed ecco che ci troviamo immersi nella campagna, nel mondo contadino, in quel mondo che Pavese considerava veramente suo. La campagna non è solo il luogo dove si coltiva il grano o la vite, dove ci sono le cascine anzichè le case o le fabbriche come in città, ma rappresenta il luogo dove si ripete ritualmente una serie di fatti, di avvenimenti, nei quali si ritrova il senso antico della vita. Feria d'agosto, come già detto, fa da ponte tra La spiaggia e Il compagno, ma vale di per sè, dato che Pavese fissa in questi racconti i punti essenziali della sua tematica e della sua visione culturale delle cose. Pavese non ha mai dato molta importanza ai suoi racconti, dato che molti rimasero inediti fino alla sua morte, ma Feria d'agosto, forse per la divisione in tre parti che evidenzia in modo particolare le tematiche dell'autore, fu pubblicato. In Feria d'agosto - da ricordare che è stato scritto durante la guerra, dal '40 al '45 - bisogna tener conto anche della sua riflessione poetica, dove acquista un'importanza notevole la teoria del ricordo, del riconoscere, collegata al mito dell'infanzia. In pratica, Pavese, diceva che quello che si è visto da bambini rimane nella mente e, quando viene ricordato, in quel momento viene veramente conosciuto. Quindi ricordare e riconoscere significano in realtà conoscere. L'infanzia è il primo approccio con la realtà delle cose, non è altro che un immagazzinare esperienza, che poi emergerà in seguito ed allora la conoscenza è raggiunta. Di qui nasce la sua poetica del ritorno alle origini, del ricordo contadino, che non sono fatti tecnici, ma un vero e proprio modo di conoscere la realtà. Ora per Pavese inizia un duro periodo di vita con se stesso: la guerra continua ed alcuni suoi amici, tra cui Antonicelli, che era presidente del Comitato di Liberazione, Mila, Giolitti, non esitano a partire per le montagne, affiancando la lotta partigiana. Pavese no; si rifugia durante tutto il periodo della guerra nelle Langhe. In questo periodo, in cui avveniva la grande tragedia della guerra civile, Pavese, solo, chiuso nel suo mondo, veniva sempre più maturando quei temi che abbiamo incontrato poi in Feria d'agosto e che troveranno un'enunciazione ben più precisa ne I dialoghi con Leucò, che usciranno nel '47 e che Pavese considerava la sua opera più importante. In breve: mentre questo atroce dramma coinvolgeva tutti, Pavese si chiuse in se stesso, ad osservare, a darne un'interpretazione tutta sua. A colpo d'occhio il non aver partecipato alla Resistenza potrebbe costituire un motivo di critica e di accusa di viltà. Ma ognuno di noi ha un suo temperamento, che non si può ignorare; c'è chi è portato per la lotta e chi, invece, alla partecipazione fisica a certi avvenimenti non riesce a dare un senso. Ma in fin dei conti Pavese, sia pur indirettamente, ha partecipato anch'egli alla Resistenza, col portare avanti quelle esigenze di libertà che erano di tutti. Le ha portate avanti da scrittore.

Note al testo: 1 Vedi capitolo Il Carcere

IL COMPAGNO E I DIALOGHI CON LEUCÒ Ora, nell'immediato dopoguerra, troviamo due libri, distanti l'uno dall'altro e diametralmente opposti, che sembrano quasi scritti da due autori diversi: Il compagno e I Dialoghi con Leucò. Due

libri diversi perche il Pavese de Il compagno è lo scrittore che tenta, lui che non ha partecipato alla lotta armata, di ripensare a quello che aveva preceduto la Resistenza, alle tensioni, alle paure e, tutto questo, determinava un romanzo di carattere politicamente impegnato. Accanto a Il compagno abbiamo invece I Dialoghi con Leucò,libro meno impegnato, in cui, sotto la forma del dialogo, vengono discussi i problemi della vita contemporanea, ma tutti traslati sul piano mitologico. Da ricordare è anche il periodo in cui vennero scritti i Dialoghi. Pavese s'innamora di Bianca Garufi, con cui scrisse a quattro mani Fuoco grande. Egli dedica il libro (I Dialoghi con Leucò) a lei con un sottile artificio: Leucò, infatti, è la versione greca del nome Bianca. Inoltre vi è in Pavese una maturazione sia linguistica, sia umana. Vi è, infatti, un'avvicinamento dell'uomo all'eternità, alla vita dopo la morte. Era evidente che un libro come Il compagno riscuotesse un certo successo, data la tematica pressoché attuale, mentre era altrettanto evidente che I Dialoghi con Leucò suscitasse ammirazione ed invidia per l'enorme cultura che rivelava. Nel '47, forse, si pensava che il modo migliore per parlare della realtà fosse quello di farla rivivere, non quello di mitizzarla con eroi da tragedia greca. Pavese replica con un'operazione ben precisa, con un ripensamento della realtà attuale, attraverso l'esperienza degli antichi.

IL COMPAGNO Il compagno, dei due libri era certo il più facile. E' la storia di un giovane torinese, Pablo, che passa il suo tempo tra un'osteria e l'altra, suonando la chitarra. Da qui nascono gli incontri che egli fa con donne e uomini; ma la vicenda prende ben presto la sua strada, che si snoda attorno al rapporto con Linda, la ragazza di Amelio, il quale durante un viaggio in motocicletta ha un incidente e resta paralizzato (come nel racconto Fedeltà, scritto nel '38). La figura di Amelio compare in primo piano all'inizio, poi sembra lasciata ad un destino ormai privo di senso. Ma ecco che Amelio diventa il punto di riferimento di tutta la storia: egli svolgeva un'attività politica ben precisa, a cui Pablo non pensava e dalla quale poi Linda, che gli si è fatta amica, vorrebbe tenerlo distante. L'ambiente è quello popolare e proletario delle borgate torinesi, su cui s'innesta una certa curiosità che Pavese aveva per l'avanspettacolo. Ad un certo punto, infatti, s'inserisce nella vicenda un amico di Linda, Lubrani, impresario teatrale, che fa conoscere a Pablo qualche attore e gli fa scoprire la vita notturna del dopo teatro. Pablo continua a tirare avanti la propria vita senza uno scopo preciso, pur tendando di uscirne: fa il camionista, cerca in qualche modo di trovare quel senso, soprattuto per poter vivere con Linda. Nella seconda parte, Pavese sposta la vicenda a Roma, dove Pablo si trasferisce dopo la rottura con Linda. Si fa nuovi amici, ha una nuova donna che ha ereditato dal marito, morto, un negozio da ciclista. Ma soprattutto Pablo si accosta alla politica. Il romanzo cambia subito tono: da quella che era la descrizione dell'ambiente torinese, ora diventa la cospirazione politica nella periferia romana. Però per Pavese l'ambiente torinese era più importante dell'ambiente della capitale dove ha inserito la tematica principale del libro - e lo si riscontra anche durante la lettura del testo - in modo che la prima parte risulta narrativamente più importante della seconda parte romana. Evidentemente a Pavese manca, in quest'ultima parte, quella possibilità di resa espressiva che gli offriva Torino. Al capoluogo piemontese era chiaramente più legato e, per esso, sentiva un interesse ben preciso, mentre per Roma, l'esposizione dei fatti risulta solo molto descrittiva. Quindi Il compagno,il romanzo politicamente più impegnato di Pavese, a mio avviso non risulta essere fra le sue opere più importanti, proprio per le discordanze e gli squilibri sopra scritti. Ma leggendo il compagno si resta tuttavia colpiti per come Pavese sia riuscito a raccontare la cospirazione politica senza entrare in un ambito mitico ed eroico, bensì raccontandola minuziosamente, entrando anche nei minimi particolari. Una vita vista al di là del mito e della retorica. Effettivamente, nella cospirazione, si è sempre pensato all'eroe, a colui che saziava di gesta eroiche tutta la storia. Qui, invece, ci troviamo di fronte a dei personaggi che non hanno nulla di eroicamente degno di considerazione, nessuna dimensione storica intellettuale: sono degli operai i quali, a modo loro, cercano di dare alla loro attività politica un senso preciso.

IL DIAVOLO SULLE COLLINE Il romanzo che segue cronologicamente I dialoghi con Leucò è La casa in collina, che però abbiamo già incontrato per ragioni di confronto col romanzo che, insieme ad esso, compone il libro Prima che il gallo canti. E' Il diavolo sulle colline il romanzo che segue e viene inserito nel libro La bella estate. Narra di tre giovani studenti torinesi: Oreste, Pieretto e il narratore, che passano il loro tempo, soprattutto quello notturno, a vagare per la città sulla collina - ancora tema evidente il motivo della collina, che per Pavese è un modo di vivere. Questi giovani conversano molto, parlano di temi comuni ai giovani e che fanno parte della loro vita. Una sera incontrano sulla collina una macchina, con un uomo all'interno che sembra svenuto o addirittura morto. Quest'uomo, Poli - che diventerà il vero protagonista del racconto - è in preda ad una crisi provocata da un eccesso di sostanze stupefacenti. Poli diventerà molto importante in quanto farà sorgere ai giovani, con la sua vita, il dubbio che possa esistere una vita diversa da quella che essi conducono. Con l'arrivo dell'estate i tre giovani vanno in casa di Oreste nelle Langhe. Accanto alla casa di Oreste c'è quella di Poli e, inevitabilmente, finiscono col ritrovarsi. A Torino i ragazzi incontrarono l'amante di Poli, che poi si uccise, mentre qui incontrano la moglie. Le giornate passate in compagnia di Poli sono giornate in cui le conversazioni toccano i temi scottanti della vita e della morte, ma soprattutto è il problema della droga il problema chiave. Poli lascia capire come grazie alla droga l'uomo possa acquistare una lucidità ed una capacità di giudizio che altrimenti non avrebbe. Oreste, che si era innamorato della moglie di Poli, Gabriella, deve lasciarla perché, nonostante tutto, ella è ancora innamorata del marito. Poli, in seguito, avrà una crisi ancora più acuta e il romanzo si chiuderà col ritorno dei tre ragazzi a Torino. Qui la narrazione è tutta impostata sulla conversazione e sul dialogo, lasciando poche concessioni alle descrizioni. Il paesaggio, però, non è estraneo al corso della narrazione perché si fonde col gioco dei personaggi, diventando esso stesso un protagonista ed un elemento essenziale della vicenda. Abbiamo notato come Pavese sia passato da uno stile di narrazione-monologo, caratterizzata in Paesi tuoi e, in parte, anche ne Il compagno, al dialogo di questi ultimi libri; passaggio che cominciava a profilarsi ne La spiaggia e che arriva alla maturazione attraverso i racconti, proprio con Il diavolo sulle colline.

TRA DONNE SOLE Anche il terzo romanzo di La bella estate tratta temi drammatici come abbiamo in Il diavolo sulle colline, ma qui la dimensione della vita risulta ancora più tragica. Tra donne sole, appunto il terzo romanzo, è anch'esso la registrazione attraverso il dialogo e la conversazione, di fatti e di avvenimenti che ruotano attorno a Clelia, la protagonista, registrando così un ulteriore diario degli altri. L'ambiente che troviamo in questo romanzo è l'ambiente della borghesia torinese. La novità e importanza di questo romanzo sta nel fatto che Pavese riesce a far concordare il tempo della memoria di Clelia - protagonista - con il tempo quotidiano. Clelia, partita alla ricerca di un mondo infantile, trova la grottesca e banale tragedia di queste donne, di questa Torino, di questi sogni realizzati. Questa realizzazione di Clelia, partita da Torino ancora ragazza è un fatto molto importante del romanzo in quanto poi ella torna donna, ricca d'esperienza e, quindi, di possibilità di giudizio. A Roma, dove si era trasferita, ha fatto carriera e ritorna poi in quella Torino da cui era partita, con la coscienza di aver realizzato qualcosa. Il ritorno a Torino, però, non è casuale; deve, infatti, aprire per conto della ditta presso la quale lavora, una grande sartoria. Tornando aTorino trova un mondo che non è più il suo: allora viveva in un ambiente proletario, abitava in una casa popolare. Clelia però non si sente legata al mondo della società-bene che frequenta, anche perché la

sua posizione ha come religione unica il solo lavoro, mentre la società-bene passava il proprio tempo a spettegolare. La stessa sera che Clelia arriva a Torino, nel suo albergo avviene un tentato suicidio da parte di una ragazza. Rosetta, la ragazza che aveva tentato il suicidio, viene conosciuta poi da Clelia perché fa parte di quel gruppo di amiche che ella finirà per frequentare. Il pensiero di Clelia è sempre fisso al perché quella ragazza avrebbe dovuto suicidarsi. Sembra un che di misterioso; pare che Rosetta abbia avuto una relazione con un'amica, Mornina e che quella sia la motivazione del tentativo di suicidio. Ma in realtà il problema è più profondo e resta sempre nell'animo di Rosetta. La conclusione del racconto è anche la conclusione della storia di Rosetta. Infatti, quando sembrava tutto dimenticato, anzi quando sembrava che Rosetta avesse addirittura recuperata una certa felicità, ella scompare e, questa volta, si uccide davvero. Un altro romanzo che si conclude con un contrasto: il suicidio di Rosetta, il fallimento della vita; dall'altra parte abbiamo il realizzarsi della vita da parte di Clelia, il realizzarsi del suo lavoro. Ancora una volta Pavese non si limita a narrare le vicende dei suoi personaggi, bensì li fa parlare, esprimere; insomma, fa raccontare a loro stessi la storia della loro vita. Quello che è strano è il fatto del suicidio di Rosetta che avviene nello stesso identico modo in cui avverrà, un anno più tardi, quello di Pavese: una stanza d'albergo, dei sonniferi, nessuna apparente ragione. Ora, meditando sull'affermazione precedente, viene spontaneo riguardare all'indietro, nei vari personaggi femminili che abbiamo incontrato. Clelia, soprattuto, rispecchia quello a cui Pavese aspirava: la libertà, le soddisfazioni; Rosetta, la sua pena segreta, il suicidio. I precedenti personaggi femminili, anch'essi copia conforme dei sogni di Pavese. I personaggi maschili, invece, rappresentano il Pavese reale: Stefano, Corrado, personaggi la cui scommessa, con un margine di rischio molto ampio, è quasi sempre perduta. Ad esempio, la scommessa di Clelia è vinta, mentre quella di Stefano, di Corrado e di altri personaggi no.

LA LUNA E I FALÒ In La luna e i falò, opera conclusiva dell'attività di Pavese, troviamo raccolti i temi che abbiamo trovato, passo passo, in tutta l'opera pavesiana; abbiamo il tema del ritorno: il protagonista ritorna a S.Stefano Belbo, da dove era partito ancora ragazzo per recarsi in America, dove si è arricchito e ora può permettersi una vita agiata. Non è più il ragazzino che veniva mandato a lavorare nei campi, ma è qualcuno oggi che potrebbe essere a sua volta padrone. Altro tema tipico pavesiano è il ritornare con la mente a quella che è stata la vita da ragazzo, però vista alla luce dei nuovi tempi e si tramuta in una ricerca dell'identità del protagonista con il mondo che, oggi, davanti a se, vede ovviamente cambiato. Tutto è cambiato sotto il profilo storico: c'è stata la guerra, la Resistenza, ma è cambiato soprattutto perché è cambiato lui. In La luna e i falò, Pavese è riuscito a sintetizzare tutti gli schemi che aveva in precedenza sperimentato. È riuscito a racchiudere anche i suoi miti: il mito della città e della campagna, della fuga e del ritorno e anche, chiaramente, il mito dell'America, ormai tipico dei libri di Pavese, in quanto resta solo un sogno, perché in America non c'è mai andato e non ci andrà mai. Poi ci sono tutti i suoi odii, i suoi interessi, la sua curiosità di conoscere e di capire la vita contadina. Abbiamo insomma il raggiungimento di una perfezione di stile, perché la sintesi di cui sopra non si attua solo nei contenuti, ma soprattutto nello stile. E questo, Pavese lo sapeva? Ne era cosciente o è un fatto casuale? Difficile dirlo, ma a mio parere sembra abbastanza chiaro che Pavese avesse in mente, a questo punto, un disegno ben articolato del suo operato, in modo da poter raggiungere quella perfezione stilistica, che per anni era andato cercando. Ad esempio, il dialetto. Il dialetto in La luna e i falò, si fonde così bene con la lingua in modo da non trovare alcun distacco. Questo era stato uno degli esperimenti di Pavese e ora, alla conclusione del suo operato, è giunto a quel perfetto impasto tanto cercato. Il dialogo non è così ben evidenziato come abbiamo visto in Tra donne sole, comunque i dialoghi tra Nuto, l'amico d'infanzia del narratore ed il narratore stesso, sono però molto significativi, per come riescono a tornare con la

mente al passato con un dialogo attivato al presente, ad esempio come il ragazzino Cinto, nel quale il protagonista vede se stesso in tenera età. Infine il tempo, che sappiamo per l'opera pavesiana aver molta importanza. Qui il tempo non è solo il ricordo del protagonista, ma fa da contrasto alle vicende narrate e si fonde con il paesaggio. Tempo che ha un suo ritmo ben preciso, ma che diventa frenetico col precipitare degli eventi, i tragici avvenimenti della guerra, della Resistenza, di alcuni di questi personaggi che, con la morte, determinano il decadere, non solo dell'uomo, ma dell'intera società. La morte, elemento anch'esso tipico dei romanzi di Pavese, esplode, qui, nelle pagine finali de La luna e i falò con la stessa violenza con cui esplode nella parte finale di Paesi tuoi. Qui vi è una scena drammatica, come nel caso di Gisella di Paesi tuoi,in cui un personaggio, Valino, compie l'eccidio della propria famiglia e dà fuoco alla casa. Accanto a questo c'è la morte di Irene e Santina, due delle ragazze che il protagonista aveva conosciuto da bambino ed è questo il trascorrere del tempo. Il trascorrere della vita, che viene annientato dal ritmo inarrestabile della realtà che brucia ogni cosa che trova sul proprio cammino. A mio parere, questo è il libro più bello di Pavese, sia per la riuscita compattezza delle varie situazioni, per il suo risultare scorrevole, sia perché studiando tutto l'operato di Pavese ci si sente sollevati vedendo come un uomo sia riuscito a dire tutto quello che aveva da dire, non dicendolo e basta, ma facendo notare come sia difficile comunicare, soprattutto con sè stessi, tanto che sono stati necessari anni di sperimentazione, sia di stile del comunicare, sia di contenuti, che hanno reso Pavese cosciente di sè stesso e del suo modo di vivere. In questo libro, Pavese è riuscito a trasformare ogni cosa, ogni evento, ogni personaggio in mito e in simbolo, che era poi l'obiettivo a cui egli tendeva. A questo punto Pavese, dopo essere riuscito ad avere veramente uno stile, dopo averli consumati tutti adoperandoli, forse, ha chiuso anche la sua capacità d'inventare ancora uno stile. Arrivato alla perfezione con La luna e i falò, l'esperienza si è chiusa. Chissà, forse non sarebbe più stato in grado di mettere a punto nuovi stili. In questo senso La luna e i falò, a mio parere, è l'opera conclusiva; non per il fatto che non abbia più scritto perché è morto, ma proprio perché non aveva più niente da inventare. Se non fosse morto, sarebbe rimasto un Pavese che sarebbe riuscito solo a concepire nuove edizioni di La luna e i falò. In pratica, se non si fosse suicidato l'uomo Pavese, si sarebbe suicidato lo scrittore Pavese, in quanto avrebbe avuto coscienza di essere al limite estremo, di aver detto cioè, tutto quello che aveva da dire. Il 27 agosto 1950, in una camera d'albergo a Torino, Cesare Pavese si tolse la vita. Lasciò scritto a penna sulla prima pagina de I dialoghi con Leucò: "Perdono a tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.".1 Con ciò egli ci lascia a questa vita che, a mio parere, va vissuta per quanto ridicola e senza senso possa sembrare, ma lasciandoci rimanda a noi ciò che a lui era stato mandato da anni d'esperienza: il riuscire a comunicare con gli altri. C'è da ricordare, inoltre, che Pavese, con le sue opere e le sue pene è forse riuscito a farci comprendere come nel mondo, così visse la solitudine.

Note al testo: 1 OGGI, Trent'anni della nostra vita, Milano 1977, ed. Rizzoli, pag. 22

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