LAUTREAMONT - I Canti Di Maldoror
January 9, 2022 | Author: Anonymous | Category: N/A
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CANTO PRIMO
Voglia il cielo che il lettore, reso ardito e momentaneamente feroce come ciò che legge, trovi, senza perdere l'orientamento, il suo cammino scosceso e selvaggio attraverso le paludi desolate di queste pagine oscure e avvelenate; infatti, a meno che non applichi alla lettura una logica rigorosa e una tensione intellettuale pari almeno alla sua diffidenza, le esalazioni mortali di questo libro gli impregneranno l'anima come l'acqua lo zucchero. Non è bene che tutti leggano le pagine che seguono; pochi soltanto potranno assaporare senza pericolo questo frutto amaro. Perciò, anima timorosa, prima di avventurarti oltre in queste lande inesplorate, volgi indietro i tacchi, e non in avanti. Ascolta bene ciò che ti dico: volgi indietro i tacchi, non in avanti, come lo sguardo di un figlio che rispettosamente si distolga dall'augusta contemplazione del viso materno; o piuttosto come un angolo a perdita d'occhio di uno stormo di gru intirizzite e pensierose che d'inverno voli possente attraverso il silenzio, a vele spiegate, verso un punto determinato dell'orizzonte da cui si alzi all'improvviso un vento strano e forte, ad annunciar tempesta. A questa vista la gru più vecchia, che da sola è l'avanguardia, scuote la testa come persona saggia e fa schioccare il becco; non è contenta (neppure io lo sarei, al suo posto), e il suo vecchio collo, sguarnito di piume e contemporaneo di tre generazioni di gru, si muove con ondulazioni irritate, presaghe del temporale che si avvicina. Dopo aver scrutato più volte in ogni direzione, con sangue freddo, con gli occhi dell'esperienza, prudentemente, la prima (a lei spetta il privilegio di mostrare le piume della coda alle altre gru d'intelligenza inferiore), con il suo vigile grido di vedetta malinconica per respingere il nemico comune, con flessibilità vira la punta della figura geometrica (forse è un triangolo, ma non si scorge il terzo lato formato nello spazio da questi strani uccelli migratori), ora a babordo, ora a tribordo, come un abile capitano; e, manovrando con ali che non appaiono più grandi di quelle di un passero, poiché non è sciocca imbocca un altro cammino filosofico, più sicuro. Lettore, è forse l'odio che vuoi ch'io invochi all'inizio di quest'opera? E chi ti dice che non ne fiuterai a volontà le rosse esalazioni, immerso in voluttà innumerevoli, con le tue narici orgogliose, dilatate e secche,
rovesciandoti sul ventre come uno squalo, nell'aria bella e nera, lentamente e maestosamente, come se tu capissi davvero l'importanza di quest'atto e l'importanza non minore del tuo legittimo appetito? Ti garantisco, o mostro, ch'esse rallegreranno i due buchi informi del tuo muso schifoso, a condizione però che prima t'impegni a respirare per tremila volte di seguito la coscienza maledetta dell'Eterno! Allora le tue narici, dilatate da un piacere ineffabile, da un'estasi immobile, non chiederanno niente di meglio allo spazio odoroso di profumi e d'incenso; saranno finalmente sazie di una felicità completa, come gli angeli che abitano nella magnificenza e nella pace dei gradevoli cieli. In poche righe stabilirò che Maldoror fu buono durante i suoi primi anni, in cui visse felice; ecco fatto. In seguito si accorse di essere nato cattivo: straordinaria fatalità! Occultò il suo carattere finché gli fu possibile, per molti anni; ma alla fine, a causa di questa concentrazione innaturale, ogni giorno il sangue gli montava alla testa; finché, non riuscendo più a sopportare una vita simile, si gettò con decisione nella carriera del male... dolce atmosfera! Chi l'avrebbe detto! quando baciava un bambino dal roseo viso, avrebbe voluto staccargli le guance con un rasoio, e l'avrebbe fatto assai spesso se Giustizia, con il suo lungo corteo di punizioni, non glielo avesse impedito. Non era bugiardo, confessava la verità e diceva di essere crudele. Umani, avete udito? e osa riaffermarlo con questa penna tremante! Così, dunque esiste una potenza più forte della volontà... Maledizione! La pietra pretende di sottrarsi alle leggi della gravità? Impossibile. È impossibile che il male voglia allearsi al bene. Proprio come dicevo prima. C'è gente che scrive per cercare il plauso umano, mettendo a frutto nobili qualità del cuore inventate dall'immaginazione o realmente possedute. Io, uso il mio genio per dipingere le delizie della crudeltà! Delizie non momentanee, artificiali, ma che sono iniziate con l'uomo e con lui finiranno. Forse che il mio genio non è in grado di allearsi con la crudeltà nelle segrete risoluzioni della Provvidenza? o, per il fatto di essere crudeli, non si può avere del genio? Le mie parole ne saranno la prova; basta che mi ascoltiate, se davvero lo volete... Scusate, mi sembrava che mi si fossero rizzati i capelli sulla testa; ma non è niente: con la mano sono riuscito facilmente a rimetterli nella posizione originaria. Chi canta non
pretende che le sue cavatine siano una novità; anzi, si compiace che i pensieri alteri e malvagi del suo eroe siano presenti in ogni uomo. Per tutta la vita ho visto gli uomini dalle spalle strette compiere, senza una sola eccezione, atti stupidi e numerosi, abbrutire i loro simili e pervertire le anime con ogni mezzo. I motivi delle loro azioni li definiscono "la gloria". Assistendo a tali spettacoli, ho cercato di ridere come gli altri; ma ciò, strana imitazione, mi era impossibile. Allora ho preso un coltello dalla lama ben affilata e mi sono tagliato le carni nei punti in cui le labbra si riuniscono. Per un istante credetti di aver raggiunto il mio scopo. Osservai in uno specchio quella bocca straziata di mia volontà! Errore! Del resto, il sangue che colava abbondante dalle due ferite impediva di distinguere se si trattasse veramente del riso degli altri. Ma, dopo un confronto di pochi attimi, mi resi conto che il mio riso non era simile a quello degli umani; cioè, non ridevo. Ho visto gli uomini, con testa orrida e occhi terribili infossati nell'orbita oscura, superare la durezza della roccia, la rigidità dell'acciaio fuso, la crudeltà dello squalo, l'insolenza della gioventù, il furore insensato dei criminali, i tradimenti dell'ipocrita, gli attori più straordinari, la tenacia dei preti, e gli esseri più impenetrabili, i più freddi dei mondi e del cielo; sfiancare i moralisti impegnati a scoprire il loro cuore, e far ricadere su di loro la collera implacabile del cielo. Li ho visti tutti insieme, ora col pugno più robusto rivolto contro il cielo, come quello di un fanciullo perverso contro la madre, probabilmente eccitati da qualche spirito infernale, gli occhi carichi di un rimorso cocente e insieme pieno d'odio, in un silenzio glaciale, senza il coraggio di manifestare le meditazioni vaste e ingrate nascoste nel loro seno, piene a tal punto d'ingiustizia e di orrore, e rattristare di compassione il Dio misericordioso; e ora, a ogni attimo del giorno, dall'inizio dell'infanzia alla fine della vecchiaia, diffondendo anatemi incredibili, privi di senso comune, contro tutto ciò che respira, contro se stessi e la Provvidenza, prostituire le donne e i bambini, e disonorare così le parti del corpo consacrate al pudore. Allora i mari sollevano le acque, inghiottono le assi dei pontili nei loro abissi; gli uragani, i terremoti, rovesciano le case; la peste, le malattie più diverse decimano le famiglie in preghiera. Ma gli uomini non se ne accorgono. Li ho anche visti arrossire, impallidire di vergogna per la loro condotta su questa terra; raramente. Tempeste, sorelle degli uragani; firmamento bluastro di cui non ammetto la bellezza; mare ipocrita, immagine del mio cuore; terra, dal seno misterioso; abitanti
delle sfere; universo intero; Dio, che l'hai creato con magnificenza, sei tu che invoco: mostrami un solo uomo che sia buono! Ma la tua grazia decuplichi le mie forze naturali, perché alla vista di un simile mostro potrei morire di stupore; si muore per meno. Bisogna lasciarsi crescere le unghie per quindici giorni. Oh! com'è dolce strappare brutalmente dal suo letto un bambino che ancora non ha niente sul labbro superiore e, con gli occhi bene aperti, fingere di passargli soavemente la mano sulla fronte, carezzandogli indietro i suoi bei capelli! Poi, all'improvviso, quando meno se lo aspetta, affondargli le unghie lunghe nel tenero petto, ma senza farlo morire; se morisse ci perderemmo, più tardi, lo spettacolo delle sue miserie. Poi si beve il suo sangue, leccando le ferite; e per tutto questo tempo, che dovrebbe durare un'eternità, il bambino piange. Niente è buono quanto il suo sangue, succhiato nel modo che ho detto, ancora bello caldo, per non parlare della bontà delle lacrime, amare come il sale. Uomo, hai mai assaggiato il tuo sangue, quando per caso ti sei tagliato un dito? È buono, vero? perché non ha sapore. Inoltre, non ti ricordi di aver portato un giorno, durante le tue lugubri riflessioni, il cavo della mano sul tuo volto malaticcio, bagnato da ciò che ti cadeva dagli occhi? mano che poi fatalmente si dirigeva verso la bocca, che a lunghi sorsi attingeva a quella coppa, tremante come i denti dell'alunno che scruta obliquamente colui che è nato per opprimerlo, le lacrime? Come sono buone, vero? perché hanno il sapore dell'aceto. Si direbbe che sono le lacrime di colei che ama di più; ma le lacrime di bambino sono più gradevoli al palato. Lui non tradisce, perché ancora non conosce il male: colei che ama di più, prima o poi tradisce... lo indovino per analogia, benché io non sappia cosa siano l'amicizia, l'amore (è probabile che non li accetterò mai, perlomeno da parte della razza umana). Dunque, poiché il tuo sangue e le tue lacrime non ti disgustano, nutriti, nutriti con fiducia delle lacrime e del sangue dell'adolescente. Bendagli gli occhi, mentre lacererai le sue carni palpitanti; e, dopo aver udito per lunghe ore le sue grida sublimi, simili ai rantoli acuti che in battaglia escono dalle gole dei feriti agonizzanti, allora, essendoti spostato in altro luogo, come una valanga ti precipiterai dalle stanze accanto, e fingerai di accorrere in suo aiuto. Gli slegherai le mani, con i nervi e le vene gonfie, restituirai la vista ai suoi occhi smarriti, e ti rimetterai a leccare le lacrime e il sangue. Com'è vero allora il pentimento! La scintilla divina che è in noi, e appare tanto raramente, si mostra; troppo tardi! Com'è travolto
dall'affetto il cuore, consolando l'innocente a cui si è inflitto del male: «Adolescente, che hai appena sofferto dolori crudeli, chi mai ha potuto commettere su di te un crimine che non saprei qualificare? Sventurato! Quanto devi soffrire! Lo sapesse tua madre, non sarebbe più vicina alla morte, tanto aborrita dai colpevoli, di quanto non lo sia io in questo momento. Ahimè! cosa sono dunque il bene e il male! Sono forse un'unica cosa, attraverso cui testimoniamo con rabbia la nostra impotenza, e la passione di raggiungere l'infinito perfino con i mezzi più insensati? Oppure sono due cose diverse? Sì... meglio che siano la stessa cosa... altrimenti, che ne sarà di me il giorno del giudizio! Adolescente, perdonami: proprio chi sta di fronte al tuo volto nobile e sacro ti ha spezzato le ossa e lacerato le carni, che ora penzolano qua e là dal tuo corpo. È stato forse un delirio della mia ragione malata, forse un istinto segreto che non dipende dai miei ragionamenti, come quello dell'aquila che strazia la sua preda, a farmi commettere questo crimine; eppure soffrivo quanto la mia vittima! Perdonami, adolescente. Una volta usciti da questa vita transitoria, voglio che restiamo allacciati in eterno; formare un solo essere, la mia bocca incollata alla tua. Ma in questo modo la mia punizione non sarà completa. Allora sarai tu a lacerare me, senza mai fermarti, con i denti e le unghie contemporaneamente. Per quest'olocausto espiatorio, adornerò il mio corpo di ghirlande profumate; e soffriremo entrambi, io a essere lacerato, tu a lacerare me... la mia bocca incollata alla tua. O adolescente dai capelli biondi e dagli occhi così dolci, farai ora ciò che ti consiglio? Tuo malgrado, voglio che tu lo faccia, e renderai felice la mia coscienza». Dopo aver parlato così, nello stesso tempo avrai inflitto il male a un essere umano e da quello stesso essere sarai amato: è la felicità più grande che sia dato concepire. Più tardi potrai ricoverarlo all'ospizio, perché il paralitico non potrà più guadagnarsi da vivere. Diranno che sei buono, e le corone d'alloro e le medaglie d'oro nasconderanno i tuoi piedi nudi, sparsi sulla grande tomba, dal volto vecchio. O tu, di cui non voglio scrivere il nome su questa pagina che consacra la santità del crimine, io lo so che il tuo perdono fu immenso come l'universo. Ma io, esisto ancora! Ho stretto un patto con la prostituzione per seminare il disordine nelle famiglie. Ricordo la notte che precedette quest'alleanza pericolosa. Vidi di fronte a me una tomba. Udii una lucciola, grande come una casa, che mi disse: «Ora ti faccio luce. Leggi l'iscrizione. Quest'ordine supremo non viene da me». Una vasta luce color sangue, alla cui vista le mie
mascelle si misero a battere e le braccia si abbandonarono inerti, si diffuse nell'aria fino all'orizzonte. Mi appoggiai a un muro in rovina, stavo per cadere, e lessi: «Qui giace un adolescente che morì di petto: sapete perché. Non pregate per lui». Molti uomini forse non avrebbero avuto il mio coraggio. Intanto, una bella donna nuda venne a sdraiarsi ai miei piedi. E io a lei, con volto triste: «Puoi rialzarti». Le tesi la mano con cui il fratricida sgozza la sorella. La lucciola, a me: «Prendi una pietra e uccidila». «Perché?» le dissi. Lei a me: «Stai attento, tu sei il più debole, e io sono la più forte. Costei si chiama Prostituzione». Le lacrime negli occhi, la rabbia nel cuore, sentii nascere in me una forza sconosciuta. Presi una grossa pietra; dopo molti sforzi, la sollevai a fatica fino all'altezza del petto; con le braccia me la misi in spalla. Scalai una montagna fino alla vetta: da lassù, schiacciai la lucciola. La sua testa sprofondò nel terreno per l'altezza di un uomo; la pietra rimbalzò fino all'altezza di sei chiese. Andò a ricadere in un lago le cui acque si abbassarono per un attimo, turbinando, scavando un immenso cono rovesciato. La calma riapparve alla superficie; la luce di sangue non brillò più. «Ahimè! ahimè! - esclamò la bella donna nuda; - che hai mai fatto?». Io a lei: «Ti preferisco a lei; perché ho pietà degli sventurati. Non è colpa tua se la giustizia eterna ti ha creata». Lei a me: «Un giorno gli uomini mi renderanno giustizia; non ti dico altro. Lasciami andare, a nascondere la mia tristezza infinita in fondo al mare. Soltanto tu e i mostri schifosi che brulicano in quei neri abissi non mi disprezzate. Tu sei buono. Addio, tu che m'hai amata». Io a lei: «Addio! Ancora una volta: addio! Ti amerò per sempre! Da questo momento abbandono la virtù». Per questo, o popoli, quando udrete il vento d'inverno gemere sul mare e lungo le sue coste, o sopra le grandi città che da molto tempo sono in lutto per me, o attraverso le fredde regioni polari, dite: «Non sta passando lo spirito di Dio: non è altro che il sospiro acuto della prostituzione, unito ai gemiti gravi del Montevideano». Fanciulli, sono io a dirvelo. Allora, pieni di misericordia, inginocchiatevi; e gli uomini, più numerosi dei pidocchi, pronuncino lunghe preghiere. Al chiaro di luna, vicino al mare, nei luoghi isolati della campagna, vediamo, immersi in riflessioni amare, che ogni cosa assume forme gialle, incerte, fantastiche. L'ombra degli alberi, ora in fretta, ora lentamente, corre, viene, ritorna, in forme diverse, si appiattisce, aderisce al suolo. Un tempo, quando mi lasciavo trasportare dalle ali della giovinezza, tutto questo mi faceva sognare, mi pareva strano; ora, mi sono abituato. Il vento
geme attraverso le foglie le sue languide note, e il gufo canta il suo grave lamento, che fa rizzare i capelli a chi lo ascolta. Allora i cani, furiosi, spezzano le catene, fuggono dalle fattorie lontane; in preda alla follia, corrono qua e là per la campagna. Si fermano di colpo, guardano da ogni parte con inquietudine selvaggia, con occhi di fuoco; e come gli elefanti, prima di morire, gettano nel deserto un ultimo sguardo al cielo, sollevando disperatamente la proboscide, lasciando pendere inerti le orecchie, così i cani lasciano penzolare le orecchie, sollevano la testa, gonfiano il collo terribile, e si mettono ad abbaiare, ora come un fanciullo che grida per la fame, ora come un gatto ferito al ventre sopra un tetto, come una donna che sta per partorire, come un moribondo malato di peste all'ospedale o come una fanciulla che canta un'aria sublime, contro le stelle del nord, contro le stelle dell'est, contro le stelle del sud, contro le stelle dell'ovest; contro la luna; contro le montagne, simili in lontananza a rocce giganti che giacciono nell'oscurità; contro l'aria fredda che aspirano a pieni polmoni e rende rosso, infuocato, l'interno delle loro narici; contro il silenzio della notte; contro le civette che con volo obliquo sfiorano loro il muso, portando nel becco un topo o una rana, nutrimento vivo, dolce per i piccoli; contro le lepri che scompaiono in un batter d'occhio; contro il ladro che fugge al galoppo sul suo cavallo dopo aver commesso un crimine; contro i serpenti che scuotono le brughiere e fanno tremare loro la pelle, e digrignare le zanne; contro il loro stesso latrare che li impaurisce; contro i rospi che stritolano con un colpo secco di mascella (perché si sono allontanati dallo stagno?); contro gli alberi le cui foglie, mollemente cullate, sono altrettanti misteri che essi non capiscono e vogliono scoprire coi loro occhi fissi, intelligenti; contro i ragni sospesi tra le loro lunghe zampe, che si arrampicano sugli alberi per mettersi in salvo; contro i corvi che durante il giorno non hanno trovato niente da mangiare e tornano al nido con ala stanca; contro gli scogli della riva; contro i fuochi che appaiono sui pennoni delle navi invisibili; contro il rumore sordo delle onde; contro i grandi pesci che, nuotando, mostrano il dorso nero e poi sprofondano nell'abisso; e contro l'uomo che li rende schiavi. Dopo di che si rimettono a correre per la campagna, saltando con le zampe insanguinate sopra i fossati, i sentieri, i campi, le erbe e le pietre scoscese. Si direbbero colpiti dalla rabbia, alla ricerca di un vasto stagno in cui calmare la sete. I loro ululati prolungati atterriscono la natura. Sventura al viaggiatore che si è attardato! Gli amici dei cimiteri si avventeranno su di lui, lo dilanieranno, lo divoreranno con la bocca grondante di sangue; poiché non
hanno certo denti guasti. Gli animali selvaggi, non osando avvicinarsi per partecipare al pasto di carne, fuggono a perdita d'occhio, tremanti. Dopo qualche ora, i cani, sfiniti dal correre di qua e di là, quasi morti, la lingua fuori dalla bocca, si avventano gli uni contro gli altri senza sapere ciò che fanno, e si dilaniano in mille brandelli con una rapidità incredibile. Non agiscono così per crudeltà. Un giorno mia madre, con occhi vitrei, mi disse: «Quando sarai a letto e udrai i latrati dei cani nella campagna, nasconditi sotto le coperte, non deridere quello che fanno: hanno una sete insaziabile d'infinito, come te, come me, come il resto degli umani dal volto pallido e lungo. Anzi, ti permetto di stare alla finestra a contemplare lo spettacolo, che è assai sublime». Da quel giorno rispetto l'auspicio della morta. Anch'io, come i cani, ho bisogno dell'infinito... Non posso, non posso soddisfare questo bisogno! Sono figlio dell'uomo e della donna, così mi hanno detto. Ciò mi stupisce... credevo di essere di più! Per il resto, che m'importa da dove vengo? Se fosse potuto dipendere dalla mia volontà, avrei preferito essere figlio della femmina dello squalo, la cui fame è amica della tempesta, e della tigre, di cui è nota la crudeltà: non sarei così malvagio. Voi che mi guardate, allontanatevi da me, perché il mio respiro esala veleno. Nessuno ha ancora visto le rughe verdi della mia fronte; né le ossa sporgenti del mio volto magro, simili alle lische di qualche grande pesce, o agli scogli che coprono le rive del mare, o alle scoscese montagne alpestri che spesso percorsi quando avevo sulla testa capelli di un altro colore. E quando mi aggiro intorno alle abitazioni degli uomini, nelle notti tempestose, con gli occhi ardenti, i capelli flagellati dal vento delle tempeste, isolato come una pietra in mezzo a un sentiero, mi copro il volto avvizzito con un pezzo di velluto, nero come la fuliggine che riempie l'interno dei camini: gli occhi non devono essere testimoni della bruttezza che l'Essere supremo, con un sorriso d'odio possente, ha deposto su di me. Ogni mattina, quando il sole si alza per gli altri, diffondendo nella natura la gioia e il calore salutari, guardando fisso lo spazio pieno di tenebre senza che nessuno dei miei lineamenti si muova, accovacciato sul fondo della mia caverna amata, in una disperazione che m'inebria come il vino, con le mani potenti mi ferisco il petto, lo riduco in brandelli. Eppure lo sento che non sono colpito dalla rabbia. Eppure lo sento che non sono il solo a soffrire! Eppure lo sento che respiro! Come un condannato che prova i suoi muscoli, riflettendo sulla loro sorte, e presto salirà sul patibolo, in piedi sul mio pagliericcio, ad occhi chiusi, lentamente giro il collo da destra a sinistra, da sinistra a destra, per ore intere; non cado
morto stecchito. Ogni tanto, quando il collo non può più continuare a girare nella stessa direzione e si ferma, per rimettersi a girare nella direzione opposta, all'improvviso guardo l'orizzonte attraverso i radi interstizi lasciati dalla sterpaglia fitta che ricopre l'entrata: non vedo nulla! Nulla... tranne le campagne che danzano in turbine con gli alberi e le lunghe file di uccelli che attraversano l'aria. Ciò mi sconvolge il sangue e il cervello... Chi dunque mi colpisce sulla testa con una sbarra di ferro, come un martello batte l'incudine? Io mi propongo, e non ne sono emozionato, di declamare a gran voce la strofa seria e fredda che ora ascolterete. Fate attenzione a ciò che contiene e guardatevi dalla penosa impressione che inevitabilmente lascerà, come un marchio, nelle vostre immaginazioni turbate. Non crediate che io stia per morire, perché non sono ancora uno scheletro e la vecchiaia ancora non si è incollata alla mia fronte. Di conseguenza, eliminiamo subito ogni idea di paragone col cigno nel momento in cui la sua esistenza se ne vola via; di fronte a voi c'è soltanto un mostro, di cui sono lieto che non possiate vedere il volto, meno orribile tuttavia della sua anima. Eppure non sono un criminale... Ma basta, su questo punto. Non è passato molto tempo da quando ho rivisto il mare e calcato il ponte dei vascelli, e i miei ricordi sono vivi come se l'avessi lasciato ieri. Tuttavia, se vi è possibile, restate calmi quanto me in questa lettura che già mi pento di offrirvi, e non arrossite al pensiero di ciò che è il cuore umano. O polipo dallo sguardo di seta! tu, la cui anima è inseparabile dalla mia; tu, il più bell'abitante del globo terrestre, e che comandi a un serraglio di quattrocento ventose; tu, in cui risiedono nobilmente, come nella loro residenza naturale, di comune accordo, con legame indistruttibile, la dolce virtù comunicativa e la grazia divina, perché non sei con me, il tuo ventre di mercurio contro il mio petto di alluminio, seduti insieme su qualche scoglio della riva, a contemplare questo spettacolo che adoro! Vecchio oceano, dalle onde di cristallo, tu somigli proporzionalmente a quei segni azzurrognoli che si vedono sul dorso martoriato dei mozzi; tu sei un livido immenso, applicato sul corpo della terra: mi piace questo paragone. Così, al tuo primo apparire, un soffio lungo di tristezza che si potrebbe credere il mormorio della tua brezza soave, passa, lasciando tracce incancellabili sull'anima profondamente sconvolta, e tu richiami alla memoria dei tuoi amanti, senza che se ne rendano sempre conto, i rudi
inizi dell'uomo, quando fa la conoscenza del dolore che non lo lascerà più. Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, la tua forma armoniosamente sferica, che rallegra il volto grave della geometria, mi ricorda fin troppo i piccoli occhi dell'uomo, simili a quelli del cinghiale per la piccolezza e a quelli degli uccelli notturni per la perfezione circolare del contorno. Eppure, in tutti i secoli, l'uomo si è creduto bello. Suppongo tuttavia che l'uomo creda alla propria bellezza solo per amor proprio; ma che non sia bello davvero, e che lo sospetti; infatti, perché mai guarderebbe con tanto disprezzo il volto del proprio simile? Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, tu sei il simbolo dell'identità: sempre eguale a te stesso. Non cambi in modo essenziale, e se in qualche luogo le tue onde sono infuriate, più lontano, da qualche altra parte, sono nella calma più completa. Non sei come l'uomo, che si ferma per strada a guardare due mastini che si azzannano al collo, ma non si ferma quando passa un funerale; che al mattino è disponibile e la sera di cattivo umore, che oggi ride e domani piange. Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, non sarebbe impossibile che tu nascondessi nel tuo seno future utilità per l'uomo. Già gli hai dato la balena. Non lasci indovinare facilmente agli occhi avidi delle scienze naturali i mille segreti della tua intima organizzazione: sei modesto. L'uomo si vanta senza sosta, e per delle sciocchezze. Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, le diverse specie di pesci che nutri non si sono giurate fraternità. Ogni specie vive per proprio conto. I temperamenti e le conformazioni che variano in ognuna di esse spiegano in maniera soddisfacente ciò che all'inizio appare soltanto un'anomalia. Accade lo stesso con l'uomo, che non ha le stesse scusanti. Se un pezzo di terra è occupato da trenta milioni di esseri umani, costoro si sentono in dovere di non immischiarsi nell'esistenza dei loro vicini, inchiodati come radici al pezzo di terra che hanno sotto i piedi. Scendendo dal grande al piccolo, ogni uomo vive come un selvaggio nella sua tana, e raramente ne esce per andare a trovare il suo simile, come lui accovacciato in un'altra tana. La grande famiglia universale degli umani è un'utopia degna della logica più mediocre. Inoltre, dallo spettacolo delle tue mammelle feconde deriva la nozione d'ingratitudine, perché il pensiero va subito a quei numerosi genitori così ingrati verso il Creatore da abbandonare il frutto della loro miserabile unione. Io ti saluto, vecchio oceano!
Vecchio oceano, la tua grandezza materiale può essere comparata soltanto alla misura ipotizzabile della potenza attiva che è stata necessaria per generare la totalità della tua massa. È impossibile abbracciarti con un solo sguardo. Per contemplarti, bisogna che la vista giri il suo telescopio, con un movimento continuo, verso i quattro punti dell'orizzonte, proprio come un matematico, per risolvere un'equazione algebrica, è costretto a esaminare separatamente i diversi casi possibili, prima di risolvere la difficoltà. Per sembrare grasso, l'uomo mangia sostanze nutritive e compie altri sforzi, degni di una sorte migliore. Si gonfi quanto vuole, questa rana adorabile. Stai tranquillo, mai eguaglierà la tua grandezza; così almeno suppongo. Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, le tue acque sono amare. Esattamente lo stesso gusto del fiele che la critica distilla sulle belle arti, sulle scienze, su ogni cosa. Se qualcuno ha del genio, lo si fa passare per un idiota; se un altro ha un bel corpo, diventa un gobbo disgustoso. L'uomo deve sentire con forza la propria imperfezione, dovuta per almeno tre quarti a lui soltanto, per criticarla così! Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, gli uomini, malgrado l'eccellenza dei loro metodi e nonostante l'aiuto dei mezzi d'indagine della scienza, non sono ancora riusciti a misurare la vertiginosa profondità dei tuoi abissi; ne possiedi alcuni che le sonde più lunghe, più pesanti, hanno riconosciuto inaccessibili. Ai pesci... è concesso: agli uomini, no. Mi sono chiesto spesso cosa fosse più facile da esplorare, se la profondità dell'oceano o le profondità del cuore umano! Spesso, con la mano alla fronte, in piedi sui vascelli, mentre la luna si dondolava tra i pennoni in modo irregolare, mi sono sorpreso a sforzarmi di risolvere questo difficile problema, astraendo da tutto ciò che non fosse il fine che perseguivo! Sì, cosa è più profondo, cosa è più impenetrabile tra i due: l'oceano o il cuore umano? Se trent'anni di esperienza della vita possono far piegare la bilancia, fino a un certo punto, verso l'una o l'altra delle due soluzioni, mi sarà concesso di dire che, nonostante la sua profondità, l'oceano non può essere messo sullo stesso piano, in un confronto su questo aspetto, con la profondità del cuore umano. Sono stato in rapporto con uomini che erano stati virtuosi. Morivano a sessant'anni, e nessuno mancava di esclamare: «Hanno fatto il bene su questa terra, cioè hanno praticato la carità: tutto qui, non è poi gran cosa, chiunque può fare altrettanto». Chi potrà mai capire perché mai due amanti che il giorno prima si idolatravano, per una parola male interpretata si separano, uno verso oriente, l'altro verso occidente, spinti dall'odio, dalla
vendetta, dall'amore e dal rimorso, per non vedersi più, ognuno ammantato nella sua fierezza solitaria? Miracolo che ogni giorno si rinnova, e non per questo è meno miracoloso. Chi potrà mai capire perché assaporiamo non solo le disgrazie generali dei nostri simili ma anche quelle particolari degli amici più cari, pur essendone nello stesso tempo afflitti? Un esempio incontestabile per chiudere la serie: ipocritamente l'uomo dice «sì» e pensa «no». È per questo che i cinghialetti umani hanno tanta fiducia gli uni negli altri e non sono egoisti. La psicologia ha ancora molti progressi da compiere. Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, sei talmente potente che gli uomini l'hanno imparato a proprie spese. Hanno un bell'impiegare tutte le risorse del loro genio... incapaci come sono di dominarti. Hanno trovato il loro padrone. Dico che hanno trovato qualcosa più forte di loro. Questo qualcosa ha un nome. Questo nome è: l'oceano! La paura che ispiri loro è tale che ti rispettano. Nonostante ciò, fai danzare il valzer alle loro macchine più pesanti, con grazia, eleganza e facilità. Imponi loro salti ginnici fino al cielo e tuffi mirabili fino nel fondo dei tuoi domini: un saltimbanco ne sarebbe invidioso. E sono fortunati quando non li avvolgi definitivamente nelle tue spire ribollenti, per andare a vedere, senza ferrovia, nelle tue viscere acquatiche, come stanno i pesci e soprattutto come stanno loro stessi. L'uomo dice: «Io sono più intelligente dell'Oceano». È possibile, è perfino assai vero; ma l'oceano è per lui più temibile di quanto lui non sia temibile per l'oceano: non è necessario dimostrarlo. Questo patriarca osservatore, coevo delle prime epoche del nostro globo sospeso, sorride di pietà quando assiste alle battaglie navali delle nazioni. Ecco qui un centinaio di leviatani usciti dalle mani dell'umanità. Gli ordini enfatici dei superiori, le grida dei feriti, le cannonate, sono solo rumori per annientare qualche secondo. Ora sembra che il dramma sia finito, e che l'oceano si sia messo qualcosa nel ventre. Le fauci sono formidabili. Come devono essere grandi verso il basso, in direzione dell'ignoto! Infine, a coronare la stupida commedia, che non è neppure interessante, si vede in mezzo al cielo qualche cicogna attardata dalla stanchezza, che si mette a gridare senza arrestare l'ampiezza del suo volo: «Ma guarda!... Brutto segno! Là sotto c'erano dei puntini neri; ho chiuso gli occhi, e sono scomparsi». Io ti saluto, vecchio oceano! Vecchio oceano, grande scapolo, quando percorri la solitudine solenne dei tuoi flemmatici regni giustamente t'inorgoglisci della tua nativa magnificenza, e degli elogi autentici che mi affretto a farti. Voluttuosamente cullato dai molli effluvi della tua maestosa lentezza, che
è il più grandioso tra gli attributi di cui il potere supremo ti ha gratificato, svolgi, al centro di un oscuro mistero, sulla tua intera sublime superficie, con la calma consapevolezza della tua eterna potenza, le tue onde incomparabili. Si seguono parallele, separate da brevi intervalli. Appena una diminuisce, un'altra le va incontro ingrossandosi, accompagnate dal malinconico rumore della schiuma che si dissolve per avvertirci che tutto è schiuma. (Così gli esseri umani, onde viventi, muoiono uno dopo l'altro, con monotonia; senza lasciare, tuttavia, rumore di schiuma). L'uccello di passaggio riposa su di esse con fiducia, e si abbandona ai loro movimenti pieni di grazia fiera, finché le ossa delle sue ali non abbiano recuperato il vigore consueto per continuare il pellegrinaggio aereo. Vorrei che la maestà umana non fosse altro che l'incarnazione del riflesso della tua. Chiedo molto, e questo auspicio sincero è per te glorioso. La tua grandezza morale, immagine dell'infinito, è immensa come le riflessioni del filosofo, come l'amore della donna, come la bellezza divina dell'uccello, come le meditazioni del poeta. Tu sei più bello della notte. Rispondimi, oceano, vuoi essermi fratello? Muoviti impetuoso... di più... ancora di più, se vuoi che io ti paragoni alla vendetta di Dio; allunga i lividi artigli aprendoti un varco sul seno... bene, così. Svolgi le tue onde spaventose, orrido oceano, solo da me compreso; cado di fronte a te, prosternato alle tue ginocchia. La maestà dell'uomo è presa a prestito; non mi farà impressione: tu sì. Oh! quando avanzi, con la cresta alta e terribile, circondato dalle tue tortuose sinuosità come da una corte, magnetico e selvaggio, facendo rotolare le tue onde una sull'altra, consapevole di ciò che sei, e intanto emetti dalle profondità del petto, come oppresso da un rimorso immenso che non riesco a scoprire, quel muggito sordo e perpetuo che gli uomini temono tanto, anche quando ti contemplano, al sicuro, tremanti sulla riva, allora vedo bene che non mi spetta il diritto insigne di dirmi eguale a te. Per questo, di fronte alla tua superiorità, io ti darei tutto il mio amore (e nessuno sa quanto amore contengano le mie aspirazioni al bello), se tu non mi facessi dolorosamente pensare ai miei simili, che formano con te il più ironico contrasto, l'antitesi più buffonesca che mai si sia vista nella creazione: non posso amarti, ti detesto. Ma perché allora ritorno a te, per la millesima volta, alle tue braccia amiche che si dischiudono a carezzarmi la fronte che scotta, che al loro contatto vede scomparire la febbre! Non conosco il tuo destino nascosto; tutto ciò che ti riguarda m'interessa. Dimmi dunque se sei la dimora del principe delle tenebre. Dimmelo... dimmelo, oceano (a me soltanto, per non rattristare chi ancora non ha conosciuto altro che le
illusioni), dimmi se è il soffio di Satana a creare le tempeste che sollevano fino alle nubi le tue acque salate. Devi dirmelo, perché io mi rallegrerò di sapere l'inferno tanto vicino all'uomo. Voglio che sia questa l'ultima strofa della mia invocazione. Quindi, ancora una volta soltanto, voglio salutarti e dirti addio! Vecchio oceano dalle onde di cristallo... I miei occhi s'inumidiscono di lacrime abbondanti, e non ho la forza di proseguire; perché sento che è giunto il momento di tornare tra gli uomini, dall'aspetto brutale; ma coraggio! Facciamo un grande sforzo e compiamo, con il senso del dovere, il nostro destino su questa terra. Io ti saluto, vecchio oceano! Non mi si vedrà, nella mia ultima ora (questo lo scrivo sul letto di morte), circondato da preti. Voglio morire cullato dall'onda del mare in tempesta, in piedi sulla montagna... gli occhi verso l'alto, no: so che il mio annientamento sarà totale. Del resto, non avrei grazia da sperare. Chi apre la porta della mia stanza funebre? Avevo detto che nessuno doveva entrare. Chiunque tu sia, vattene; ma se credete di scorgere qualche segno di dolore o di paura sul mio volto di iena (uso questo paragone anche se la iena è più bella di me, e più piacevole a vedersi), disingannatevi: si avvicini pure. Siamo in una notte d'inverno, e gli elementi si scontrano da ogni parte, e l'uomo ha paura, e l'adolescente medita qualche crimine contro uno dei suoi amici, se è quale io fui nella mia giovinezza. Il vento, i cui sibili lamentosi rattristano l'umanità, qualche istante prima dell'ultima agonia mi porti via sulle ossa delle sue ali, per il mondo, impaziente della mia morte. Godrò ancora, in segreto, dei numerosi esempi della malvagità umana (un fratello ama assistere, senza essere visto, alle imprese dei suoi fratelli). L'aquila, il corvo, l'immortale pellicano, l'anatra selvatica, la gru viaggiatrice, risvegliati, tremanti di freddo, mi vedranno passare nel bagliore dei lampi, spettro orribile e contento. Non sapranno che cosa mai significhi. Sulla terra, la vipera, l'occhio grosso del rospo, la tigre, l'elefante; nel mare, la balena, lo squalo, il pesce martello, l'informe razza, il dente della foca polare, si chiederanno che cosa sia questa deroga alla legge della natura. L'uomo, tremante, tra i gemiti incollerà la fronte a terra: «Sì, vi supero tutti con la mia crudeltà innata, crudeltà che non è dipeso da me far scomparire. Per questo vi mostrate tanto prosternati davanti a me? oppure perché mi vedete attraversare, fenomeno nuovo, come una cometa terrificante, lo spazio insanguinato? (Una pioggia di sangue cade dal mio vasto corpo, simile a una nube nerastra che l'uragano spinga davanti a sé). Non abbiate alcun timore, bambini, non voglio maledirvi. Il male che mi
avete fatto è troppo grande, troppo grande è il male che io ho fatto a voi, perché sia volontario. Voi avete camminato per la vostra strada, io per la mia, simili entrambe, entrambe perverse. Necessariamente abbiamo dovuto incontrarci, in questa somiglianza di carattere; l'urto che ne è seguito ci è stato reciprocamente fatale». Allora gli uomini rialzeranno poco a poco la testa, riprendendo coraggio, e allungheranno il collo per vedere chi è a parlare così. E all'improvviso il loro volto infuocato, decomposto, mostrando le passioni più terribili, farà tali smorfie che i lupi ne avranno paura. Tutti insieme scatteranno in piedi come una molla immensa. Che imprecazioni! che voci lacerate! Mi hanno riconosciuto. Ecco che gli animali della terra si uniscono agli uomini, fanno udire i loro bizzarri clamori. Non più odio reciproco; i due odi sono rivolti contro il nemico comune, contro di me; si avvicinano per assenso universale. Venti che mi sostenete, sollevatemi ancora più in alto; io temo la perfidia. Si, scompariamo poco a poco dai loro occhi, ancora una volta testimone delle conseguenze delle passioni, completamente soddisfatto... Io ti ringrazio di avermi risvegliato con il movimento delle tue ali, o rinolofo, il cui naso è sormontato da una cresta a forma di ferro di cavallo: mi accorgo, infatti, che purtroppo non si trattava d'altro che di una malattia passeggera, e con disgusto sento che rinasco alla vita. Qualcuno dice che venivi verso di me per succhiare quel po' di sangue che si trova nel mio corpo: perché quest'ipotesi non è realtà? Una famiglia intorno a una lampada posta sul tavolo. - Figlio, dammi le forbici che sono su quella sedia. - Non ci sono, madre. - Allora vai a cercarle nell'altra stanza. Ti ricordi, mio dolce signore, quando facevamo voti per avere un bambino, e saremmo rinati una seconda volta, e sarebbe stato il sostegno della nostra vecchiaia? - Ricordo, e Dio ci ha esauditi. Non abbiamo di che lamentarci per la nostra sorte su questa terra. Ogni giorno benediciamo la Provvidenza per i suoi benefici. Il nostro Edouard possiede tutte le grazie di sua madre. - E le virili qualità del padre. - Ecco le forbici, madre: finalmente le ho trovate. Egli riprende il suo lavoro... Ma qualcuno si è presentato alla porta d'ingresso e contempla per qualche istante la scena che si offre ai suoi occhi:
- Che significa questo spettacolo? C'è molta gente meno felice di questi qui. Ma che razza di ragionamenti si fanno per amare l'esistenza? Allontanati, Maldoror, da questo tranquillo focolare; il tuo posto non è qui. Si è ritirato! - Non so come ciò possa accadere, ma sento che le facoltà umane si danno battaglia nel mio cuore. La mia anima è inquieta, senza sapere perché; l'atmosfera è pesante. - Donna, provo le tue stesse impressioni; tremo al pensiero che ci capiti qualche sventura. Abbiamo fiducia in Dio; è in lui la speranza suprema. - Madre, faccio fatica a respirare; mi fa male la testa. - Anche tu, figlio mio! Ora ti inumidisco la fronte e le tempie con l'aceto. - No, buona madre... Guardate, appoggia il corpo alla spalliera della sedia, è stanco. - Qualcosa mi agita dentro, ma non so spiegare cos'è. Ora il minimo oggetto mi disturba. - Come sei pallido! La fine di questa veglia non giungerà senza che qualche funesto evento ci sprofondi tutti e tre nel lago della disperazione! Odo, in lontananza, le grida prolungate del più straziante dolore. - Figlio mio! - Ah, madre!... ho paura! - Su, dimmi se soffri. - Non soffro, madre... No, non dico la verità. Il padre non si rimette dallo stupore: - Sono le grida che si odono talvolta nel silenzio delle notti senza stelle. Eppure, benché udiamo queste grida, chi le lancia non è qui vicino; questi gemiti si possono udire a tre leghe di distanza, trasportati dal vento da una città all'altra. Mi avevano parlato spesso di questo fenomeno; ma non avevo mai avuto l'occasione di giudicare io stesso la sua veridicità. Donna, mi parlavi di sventure; se mai vi fu sventura più reale nella lunga sventura del tempo, è la sventura di chi ora turba il sonno dei propri simili... Odo, in lontananza, le grida prolungate del più straziante dolore. - Voglia il cielo che la sua nascita non sia una calamità per il suo paese, che l'ha respinto dal suo seno. Va di contrada in contrada, aborrito ovunque. Alcuni dicono che è oppresso da una specie di follia originaria, fin dall'infanzia. Altri credono di sapere che sia di una crudeltà estrema e
istintiva, di cui lui stesso si vergogna, e che i suoi genitori ne sono morti di dolore. Altri ancora sostengono che nella sua giovinezza sia stato bollato con un soprannome; che ne è rimasto inconsolabile per il resto della sua esistenza, perché la sua dignità ferita vi vedeva una prova flagrante della malvagità degli uomini, che si rivela nei primi anni, per aumentare in seguito. Questo soprannome era il vampiro!... Odo, in lontananza, le grida prolungate del più straziante dolore. - Aggiungono che di giorno, di notte, senza tregua né riposo, incubi orribili gli fanno sgorgare il sangue dalla bocca e dagli orecchi; e che spettri si siedono al capezzale del suo letto, e gli gettano in faccia, spinti loro malgrado da una forza ignota, ora con voce dolce, ora con voce simile ai ruggiti dei combattimenti, con insistenza implacabile, quel soprannome sempre vivo, sempre ripugnante, e che perirà soltanto con l'universo. Alcuni hanno affermato che è stato l'amore a ridurlo in quello stato; o che le sue grida testimoniano il pentimento di qualche crimine sepolto nella notte del suo passato misterioso. Ma i più pensano che sia un orgoglio smisurato a torturarlo, come Satana un tempo, e che vorrebbe eguagliare Dio... Odo, in lontananza, le grida prolungate del più straziante dolore. - Figlio mio, queste sono confidenze eccezionali; ti compiango per averle udite alla tua età, e spero che non imiterai mai quell'uomo. Parla, Edouard; rispondi che non imiterai mai quell'uomo. - O madre amatissima, cui devo la luce, ti prometto, se la santa promessa di un bambino ha qualche valore, che mai imiterò quell'uomo. - Benissimo, figlio mio; bisogna obbedire alla propria madre, in qualunque cosa. Non si odono più i gemiti. - Donna, hai finito il tuo lavoro? - Mi manca ancora qualche punto a questa camicia, anche se abbiamo prolungato la veglia fino a tardi. - Neppure io ho finito un capitolo iniziato. Approfittiamo dell'ultima luce della lampada, perché quasi non c'è più olio, e ognuno finisca il proprio lavoro Il bambino ha esclamato: - Se Dio ci lascia vivere! - Angelo radioso, vieni a me; andrai per i prati dal mattino alla sera, non lavorerai. Il mio magnifico palazzo è costruito con mura d'argento, colonne d'oro e porte di diamanti. Andrai a dormire quando vorrai, al
suono di una musica celeste, senza dire le preghiere. Quando, al mattino, il sole mostrerà i suoi raggi splendidi e l'allodola felice si porterà via il suo grido, a perdita d'occhio, nell'aria, potrai restare ancora a letto finché non ne sarai stanco. Camminerai sui tappeti più preziosi; sarai costantemente avvolto in un'atmosfera composta delle essenze profumate dei fiori più odorosi. - È tempo di riposare il corpo e lo spirito. Alzati, madre di famiglia, sulle caviglie muscolose. È giusto che le tue dita irrigidite abbandonino l'ago del lavoro eccessivo. Gli eccessi non hanno niente di buono. - Oh! quanto sarà soave la tua esistenza! Ti darò un anello magico; quando ne ruoterai il rubino diverrai invisibile come i principi nei racconti di fate. - Riponi le tue armi quotidiane nell'armadio protettore, mentre per parte mia sistemo le mie cose. - Quando lo rimetterai nella sua posizione consueta, riapparirai quale la natura ti ha formato, o giovane mago. Questo perché ti amo e aspiro a farti felice. - Vattene, chiunque tu sia; non afferrarmi per le spalle. - Figlio mio, non addormentarti, cullato dai sogni dell'infanzia: la preghiera in comune non è iniziata, e i tuoi abiti non sono ancora sistemati con cura su una sedia... In ginocchio! Eterno creatore dell'universo, tu mostri la tua bontà inesauribile perfino nelle minime cose. - Dunque non ami i limpidi ruscelli, in cui scivolano migliaia di pesciolini rossi, azzurri, argentati? Li prenderai con una rete così bella che per suo conto li attirerà, fino ad esserne piena. Dalla superficie vedrai sassi lucenti più lisci del marmo. - Madre, guarda quegli artigli; diffido di lui, ma la mia coscienza è tranquilla perché non ho niente di cui rimproverarmi. - Tu ci vedi, prosternati ai tuoi piedi, oppressi dal sentimento della tua grandezza. Se qualche pensiero orgoglioso si insinua nella nostra immaginazione, subito lo respingiamo con la saliva dello sdegno, e te ne dedichiamo l'irremissibile sacrificio. - Lì ti immergerai con fanciulle che ti stringeranno tra le braccia. Usciti dal bagno, intrecceranno per te corone di rose e garofani. Avranno ali trasparenti di farfalla, e capelli lunghi e ondulati, fluttuanti intorno alla gentilezza della loro fronte. - Anche se il tuo palazzo fosse più bello del cristallo, non uscirei da questa casa per seguirti. Credo che tu non sia altro che un impostore, dato
che mi parli così piano per paura di farti sentire. È una cattiva azione abbandonare i genitori. Non sarò certo un figlio ingrato. Quanto alle tue ragazzine, non sono certo belle quanto gli occhi di mia madre. - L'intera nostra vita si è esaurita nei cantici della tua gloria. Resteremo come finora siamo stati, fino a quando riceveremo da te l'ordine di lasciare questa terra. - Quelle fanciulle ti obbediranno al minimo cenno, e non penseranno che a farti piacere. Se desideri l'uccello che mai non riposa, loro te lo porteranno. Se desideri la vettura di neve che in un batter d'occhio trasporta sul sole, loro te la porteranno. Cosa non ti porterebbero! Ti porterebbero perfino il cervo volante, grande come una torre, alla cui coda sono sospesi con lacci di seta uccelli di ogni specie. Bada a te... ascolta i miei consigli. - Fai quello che vuoi; non voglio interrompere la preghiera per chiedere aiuto. Anche se il tuo corpo svanisce quando cerco di allontanarlo, sappi che non ti temo. - Al tuo cospetto niente è grande, tranne la fiamma che un cuore puro esala. - Rifletti su quanto ti ho detto, se non vuoi pentirtene. - Padre celeste, scongiura, scongiura le sciagure che possono abbattersi sulla nostra famiglia. - Non vuoi dunque ritirarti, spirito malvagio? - Conserva questa sposa amata, che mi ha consolato nei miei scoraggiamenti... - Poiché mi rifiuti, ti farò piangere, e digrignare i denti come un impiccato. - E questo figlio amante, le cui caste labbra si schiudono ai baci dell'aurora della vita. - Madre, mi strangola... Padre, aiutatemi... Non riesco più a respirare... La vostra benedizione! Un grido d'immensa ironia si è alzato nei cieli. Guardate come le aquile, stordite, cadono dall'alto delle nubi, roteando su se stesse, letteralmente folgorate dalla colonna d'aria. - Il suo cuore non batte più... Ed anche lei è morta insieme con il frutto delle sue viscere, frutto che non riconosco più, tanto è sfigurato Sposa mia! Figlio mio!... Ricordo un tempo lontano in cui fui sposo e padre.
Si era detto, di fronte al quadro che si offrì ai suoi occhi, che non avrebbe sopportato una simile ingiustizia. Se è efficace il potere che gli spiriti infernali gli hanno concesso, o che piuttosto egli trae da se stesso, questo fanciullo, prima che la notte fosse trascorsa, non doveva essere più. Colui che non sa piangere (sempre ha respinto dentro di sé la sofferenza) notò che si trovava in Norvegia. Alle isole Faeroer, assisté alla ricerca dei nidi degli uccelli di mare nei crepacci a picco, e si stupì che la corda di trecento metri che sostiene l'esploratore sopra il precipizio fosse stata scelta tanto robusta. In ciò vedeva (qualunque cosa se ne possa dire) un chiaro esempio della bontà umana, e non poteva credere ai propri occhi. Se fosse stato lui a dover preparare la corda, vi avrebbe praticato dei tagli in più punti, perché si rompesse precipitando il cacciatore in mare! Una sera si diresse verso un cimitero, e gli adolescenti che si divertono a violare i cadaveri delle belle donne morte da poco poterono udire, se lo vollero, la seguente conversazione, perduta nel quadro di un'azione che si svolgerà contemporaneamente. - Non è vero, becchino, che vorresti chiacchierare con me? Un capodoglio si alza a poco a poco dal fondo del mare e mostra la testa sopra le acque, per vedere la nave che passa per quei luoghi solitari. La curiosità nacque con l'universo. - Amico, mi è impossibile scambiare delle idee con te. Da molto tempo i dolci raggi della luna fanno brillare il marmo delle tombe. È l'ora silenziosa in cui più di un essere umano sogna di veder apparire donne incatenate che trascinano i loro sudari coperti di macchie di sangue, come un cielo nero, di stelle. Colui che dorme emette gemiti simili a quelli di un condannato a morte, finché si sveglia e si rende conto che la realtà è tre volte peggiore del sogno. Devo finire di scavare questa fossa con la mia vanga infaticabile, perché domattina sia pronta. Per fare un lavoro serio, non bisogna fare due cose nello stesso tempo. - E lui crede che scavare una fossa sia un lavoro serio! Credi che scavare una fossa sia un lavoro serio! - Quando il selvaggio pellicano si decide a offrire il proprio petto ai suoi piccoli perché lo divorino, avendo a testimone solo colui che seppe creare un tale amore, per indurre gli uomini alla vergogna, per quanto il sacrificio sia grande, quest'atto si comprende. Quando un giovane vede tra le braccia dell'amico la donna che idolatrava, allora si mette a fumare un sigaro; non esce di casa, e stringe un'amicizia indissolubile con il dolore;
quest'atto si comprende. Quando un allievo interno, in un liceo, è governato per anni, che sono secoli, dalla mattina alla sera e dalla sera al giorno dopo, da un paria della civiltà che gli tiene continuamente gli occhi addosso, sente le vampate tumultuose di un odio acceso e vivo salirgli al cervello come un fumo denso, e gli sembra che stia per scoppiare. Dal momento in cui è stato gettato in carcere fino a quello, imminente, in cui ne uscirà, una febbre intensa gli ingiallisce la faccia, gli avvicina le sopracciglia, e gli infossa gli occhi. Di notte riflette, perché non vuole dormire. Di giorno, il suo pensiero si slancia oltre i muri della dimora dell'abbrutimento, fino al momento in cui fugge o viene espulso, come un appestato, da quel chiostro eterno; quest'atto si comprende. Scavare una fossa spesso supera le forze della natura. Come vuoi, straniero, che la zappa rimuova questa terra, che prima ci nutre e poi ci dà un letto comodo, riparato dal vento dell'inverno che soffia con furia in questa fredda contrada, quando colui che tiene la zappa con mani tremanti, dopo aver palpato convulsamente per tutto il giorno le guance degli ex-vivi che rientrano nel suo regno, vede, la sera, davanti a sé, scritto a lettere di fuoco su ogni croce di legno, l'enunciato del problema spaventoso che l'umanità non ha ancora risolto: la mortalità o l'immortalità dell'anima? Il creatore dell'universo: gli ho sempre conservato il mio amore; ma se dopo la morte non dobbiamo più esistere, perché mai quasi ogni notte vedo aprirsi le tombe, e i loro abitanti sollevano lentamente i coperchi di piombo per andare a respirare l'aria fresca? - Interrompi il tuo lavoro. L'emozione ti toglie le forze; mi sembri debole come il giunco; continuare sarebbe una grande follia. Io sono forte; prenderò il tuo posto. Tu, fatti da parte; se non lavoro bene, mi darai dei consigli. - Come sono muscolose le sue braccia, e che piacere guardarlo vangare la terra con tanta facilità! - Un dubbio inutile non deve tormentare il tuo pensiero; tutte queste tombe, sparse in un cimitero come i fiori in un prato, paragone privo di verità, sono degne di essere misurate con il compasso sereno del filosofo. Le allucinazioni pericolose possono venire di giorno; ma vengono soprattutto di notte. Dunque non stupirti delle visioni fantastiche che i tuoi occhi credono di percepire. Durante il giorno, quando lo spirito riposa, interroga la tua coscienza; essa ti dirà, con sicurezza, che il Dio che ha creato l'uomo con una particella della propria intelligenza possiede una bontà illimitata, e che dopo la morte terrestre accoglierà nel proprio seno
quel capolavoro. Perché piangi, becchino? Perché queste lacrime, simili a quelle di una donna? Ricordalo bene; è per soffrire che siamo su questo vascello disalberato. Per l'uomo è un merito che Dio l'abbia giudicato capace di vincere le sue sofferenze più gravi. Parla, e poiché secondo i tuoi voti più cari non si dovrebbe soffrire, se la tua lingua è fatta come quella degli altri uomini, di' in cosa consisterebbe la virtù, ideale che ognuno si sforza di raggiungere. - Dove sono? Non ho cambiato carattere? Sento un soffio potente di consolazione sfiorare la mia fronte rasserenata, come la brezza della primavera rianima le speranze dei vecchi. Chi è quest'uomo il cui sublime linguaggio ha detto cose che il primo venuto non avrebbe mai pronunciato? Quale musicale bellezza nella melodia incomparabile della sua voce! Preferisco sentir parlare lui che altri cantare. Eppure, più l'osservo e meno il suo volto mi pare sincero. L'espressione generale dei suoi lineamenti contrasta singolarmente con quelle parole che soltanto l'amore di Dio ha potuto ispirare. La sua fronte, solcata da qualche ruga, è segnata da una stigmata indelebile. Questa stigmata, che l'ha invecchiato precocemente, è onorevole o infamante? Le sue rughe devono essere osservate con venerazione? Lo ignoro, e temo di saperlo. Anche se dice ciò che non pensa, credo tuttavia che abbia le sue ragioni per agire come ha fatto, eccitato dai resti in brandelli di una carità in lui distrutta. È assorto in meditazioni che mi sono ignote, e raddoppia la sua lena in un lavoro arduo che non è abituato a intraprendere. Il sudore gli bagna la pelle, e lui non se ne accorge. È più triste dei sentimenti che ispira la vista di un bambino nella culla. Oh! com'è cupo!... Da dove vieni? Straniero, permettimi di toccarti, e le mie mani, che raramente stringono quelle dei vivi, s'impongano sulla nobiltà del tuo corpo. Qualunque cosa accada, saprei di che si tratta. Questi capelli sono i più belli che abbia mai toccato in vita mia. Chi sarebbe tanto audace da contestare che non conosco la qualità dei capelli? - Che vuoi da me, mentre scavo una tomba? Al leone non piace essere disturbato mentre mangia. Se non lo sai, te lo insegno io. Su, sbrigati, fai quello che desideri. - Ciò che rabbrividisce al mio contatto, facendo rabbrividire anche me, è carne, non c'è dubbio. È vero... non sto sognando! Ma chi sei dunque, tu che stai chino a scavare una tomba, mentre io, come un ozioso che mangia il pane altrui, non faccio niente? È l'ora di dormire, o di sacrificare il proprio riposo alla scienza. In ogni caso, nessuno è assente
dalla propria casa, e ognuno è attento a non lasciare aperta la porta, per non lasciar entrare i ladri. Si chiude nella propria stanza meglio che può, mentre le ceneri del vecchio camino sanno ancora riscaldare la sala con un po' di calore. Tu non fai come gli altri; i tuoi abiti denotano un abitante di qualche paese lontano. - Benché non sia stanco, è inutile scavare di più la fossa. Ora spogliami; poi, mi ci metterai dentro. - La conversazione che entrambi stiamo tenendo, da qualche istante è tanto strana che non so cosa risponderti... Credo che egli voglia scherzare. - Sì, sì, è vero, volevo scherzare; non pensare più a quanto ho detto. Si è accasciato, e il becchino si è affrettato a sostenerlo! - Che hai? - Sì, sì, è vero, avevo mentito... ero stanco, quando ho lasciato la zappa... era la prima volta che mi dedicavo a questo lavoro... non pensare più a ciò che ho detto. - La mia opinione prende una consistenza sempre maggiore: è qualcuno che soffre dispiaceri spaventosi. Il cielo mi tolga l'idea di interrogarlo. Preferisco rimanere nell'incertezza, tanta è la pietà che mi ispira. E poi, questo è certo, non vorrebbe rispondermi: comunicare il proprio cuore in questo stato anormale significa soffrire due volte. - Lasciami uscire da questo cimitero; proseguirò per la mia strada. - Le gambe non ti reggono; durante il cammino ti perderai. È mio dovere offrirti un rustico letto; non ne ho un altro. Fidati di me; l'ospitalità non richiederà la violazione dei tuoi segreti. - O pidocchio venerabile dal corpo sprovvisto di elitre, un giorno mi rimproverasti aspramente di non amare a sufficienza la tua sublime intelligenza che non si lascia leggere; forse avevi ragione, dal momento che non sento neppure della riconoscenza per costui. Fanale di Maldoror, dove guidi i suoi passi? - Da me. Che tu sia un criminale che non ha avuto la precauzione di lavarsi la mano destra col sapone dopo aver commesso il suo misfatto, e facilmente riconoscibile dall'ispezione della mano; o un fratello che ha perduto la sorella; o qualche monarca spodestato, in fuga dal proprio regno, il mio palazzo veramente grandioso è degno di accoglierti. Non è stato costruito con diamanti e pietre preziose, e infatti non è altro che una povera capanna mal costruita; ma questa celebre capanna ha un passato storico che il presente rinnova senza sosta. Se potesse parlare stupirebbe anche te, che a quanto pare non ti stupisci di niente. Quante volte, e lei con
me, mi sono visto sfilare di fronte le bare funebri con il loro contenuto di ossa ben presto più tarlate dei battenti della mia porta a cui mi appoggiavo. I miei sudditi innumerevoli aumentano ogni giorno. Per rendermene conto, non ho bisogno di fare censimenti a periodi fissi. Qui è come tra i vivi; ognuno paga un'imposta proporzionale alla ricchezza della dimora che si è scelta; e se un avaro rifiutasse di versare la sua quota-parte, ho l'ordine, parlando alla sua persona, di fare come gli uscieri: non mancano certamente gli sciacalli e gli avvoltoi bramosi di consumare un buon pasto. Ho visto schierarsi sotto le bandiere della morte colui che fu bello; colui che alla fine di una vita non è imbruttito; l'uomo, la donna, il mendicante, i figli di re; le illusioni della giovinezza, gli scheletri dei vecchi; il genio, la follia; la pigrizia, e il suo contrario; colui che fu falso, e colui che fu vero; la maschera dell'orgoglioso, la modestia dell'umile; il vizio incoronato di fiori e l'innocenza tradita. - Certamente non rifiuto il tuo giaciglio, che è degno di me, finché giunga l'aurora che non tarderà. Ti ringrazio della tua benevolenza... Becchino, è bello contemplare le rovine delle città; ma è più bello contemplare le rovine degli umani! Il fratello della sanguisuga camminava a passi lenti nella foresta. Si ferma più volte, aprendo la bocca per parlare. Ma ogni volta gli si chiude la gola, e ricaccia dentro lo sforzo abortito. Finalmente esclama: «Uomo, quando t'imbatti in un cane morto, rovesciato, appoggiato a una chiusa che gli impedisce di muoversi, non andare, come fanno gli altri, a prendere con la mano i vermi che gli escono dal ventre rigonfio, per poi osservarli con stupore, e poi aprire un coltello, e farne a pezzi un gran numero, dicendoti che anche tu non sarai nulla di più di quel cane. Quale mistero cerchi? Né io né le quattro zampe natatorie dell'orso marino dell'oceano Boreale siamo riusciti a risolvere il problema della vita. Fai attenzione, la notte si avvicina, e tu sei lì da stamani. Che dirà la tua famiglia, e la tua sorellina, vedendoti arrivare così tardi? Lavati le mani, riprendi la strada che va dove dormi... Chi è quell'essere laggiù, all'orizzonte, che osa avvicinarsi a me senza paura, a salti obliqui e tormentati; e quale maestosità, unita a una serena dolcezza! Il suo sguardo, benché dolce, è profondo. Le palpebre enormi giocano con la brezza, e sembrano vivere. Mi è sconosciuto. Fissando i suoi occhi misteriosi, il mio corpo trema; è la prima volta da quando ho succhiato le secche mammelle di ciò che si chiama una madre. Quando ha parlato, tutto nella natura si è zittito e ha provato un grande
brivido. Poiché ti piace venire a me, come attratto da una calamita, non mi opporrò. Com'è bello! Mi addolora dirlo. Devi essere potente, perché hai un volto più che umano, triste come l'universo, bello come il suicidio. Ti aborrisco quanto posso, e preferisco vedere un serpente allacciato intorno al mio collo fin dall'inizio dei secoli piuttosto che i tuoi occhi... Come!... sei tu, rospo!... grosso rospo! sventurato rospo!... Perdono!... perdono!... Che vieni a fare su questa terra dove sono i maledetti? Ma che ne hai fatto delle tue pustole vischiose e fetide, per avere un aspetto così dolce? Quando scendesti dall'alto, per un ordine superiore, con la missione di consolare le diverse razze di esseri esistenti, ti abbattesti sulla terra con la rapidità del nibbio, con le ali non stanche per quella corsa lunga e magnifica; ti vidi! Povero rospo! Come pensavo, allora, all'infinito, e insieme alla mia debolezza. "Eccone un altro che è superiore a quelli della terra, mi dicevo: e ciò per volere divino. Ma perché non anch'io? A che scopo l'ingiustizia nei supremi decreti? È insensato il Creatore; tuttavia è il più forte, e la sua collera è terribile!". Da quando mi sei apparso, monarca degli stagni e delle paludi! coperto da una gloria che appartiene soltanto a Dio, mi hai in parte consolato; ma la mia ragione vacillante s'inabissa di fronte a tanta grandezza! Chi sei dunque? Rimani... oh! rimani ancora su questa terra! Ripiega le tue bianche ali, e non guardare in alto con palpebre inquiete... Se parti, partiamo insieme!». Il rospo si sedette sulle cosce posteriori (così simili a quelle dell'uomo!) e mentre le lumache, i millepiedi e le chiocciole fuggivano alla vista del loro nemico mortale, prese la parola in questi termini: «Maldoror, ascoltami. Guarda la mia faccia, calma come uno specchio, e credo di possedere un'intelligenza pari alla tua. Un giorno mi chiamasti il sostegno della tua vita. Da allora non ho smentito la fiducia che mi avevi accordato. Non sono altro che un semplice abitante dei canneti, è vero; ma, grazie al rapporto che ho avuto con te, prendendo da te soltanto ciò che vi era di bello, la mia ragione è cresciuta, e posso parlarti. Sono venuto verso di te, per toglierti dall'abisso. Coloro che si dicono tuoi amici ti guardano, stupiti e costernati, ogni volta che ti incontrano, pallido e curvo, nei teatri, nelle pubbliche piazze, nelle chiese, o mentre stringi tra due cosce nervose un cavallo che galoppa soltanto di notte, portando il suo padrone-fantasma avvolto in un lungo mantello nero. Abbandona i pensieri che rendono il tuo cuore vuoto come un deserto; bruciano più del fuoco. La tua mente è talmente malata che tu non te ne accorgi, e credi di essere nella tua condizione naturale ogni volta che ti escono di bocca parole insensate, anche se piene di una grandezza
infernale. Sventurato! che cosa hai detto dal giorno della tua nascita? O triste resto di un'intelligenza immortale che Dio aveva creato con tanto amore! Non hai generato altro che maledizioni, più spaventose della vista di pantere affamate! Io, preferirei avere le palpebre incollate, il corpo privo di gambe e di braccia, aver assassinato un uomo, piuttosto che essere te! Perché io ti odio. Perché avere quel carattere che mi stupisce? Con quale diritto vieni su questa terra, a deridere coloro che la abitano, rottame putrido sballottato dallo scetticismo? Se qui non ti piace, devi tornare nelle sfere da cui vieni. Un abitante delle città non deve risiedere nei villaggi, come uno straniero. Lo sappiamo che negli spazi esistono sfere più spaziose della nostra, e i cui spiriti hanno un'intelligenza che non possiamo neppure concepire. Ebbene, vattene! ritirati da questo mobile suolo!... mostra finalmente la tua essenza divina, che finora hai nascosto; e, prima possibile, dirigi il tuo volo ascendente verso la tua sfera, che non invidiamo affatto, orgoglioso che sei! Non sono ancora riuscito a capire se sei un uomo o più che un uomo! Addio, dunque; non sperare più di ritrovare il rospo sulla tua strada. Tu sei stato la causa della mia morte. Io, parto per l'eternità, ad implorare il tuo perdono». Se è logico talvolta affidarsi all'apparenza dei fenomeni, questo primo canto finisce qui. Non essere severo con chi, ancora, si limita a provare la sua lira: restituisce un suono così strano! Eppure, se vuoi essere imparziale, già riconoscerai una forte impronta, sia pure tra le imperfezioni. Quanto a me, mi rimetto al lavoro per far apparire un secondo canto, in un lasso di tempo che non sia troppo lungo. La fine del diciannovesimo secolo vedrà il suo poeta (tuttavia, all'inizio, non deve cominciare con un capolavoro, ma seguire la legge della natura); è nato sulle rive americane, alla foce della Plata, là dove due popoli, un tempo rivali, attualmente si sforzano di superarsi nel progresso materiale e morale. Buenos-Aires, la regina del Sud, e Montevideo, la civetta, si tendono una mano amica attraverso le acque argentine del grande estuario. Ma la guerra eterna ha stabilito il suo dominio distruttore sulle campagne, e miete con gioia vittime numerose. Addio, vecchio, e pensa a me, se mi hai letto. Tu, giovane, non disperarti; malgrado la tua opinione contraria, il vampiro ti è amico. Contando l'acaro sarcopto che produce la scabbia, avrai due amici! FINE DEL PRIMO CANTO
CANTO SECONDO
Dov'è finito quel primo canto di Maldoror da quando la sua bocca, piena di foglie di belladonna, se lo lasciò sfuggire attraverso i regni della collera, in un momento di riflessione? Dov'è finito quel canto? Esattamente, non si sa. Non l'hanno trattenuto gli alberi, non il vento. E la morale, che passava da quelle parti, non presagendo di avere in quelle pagine incandescenti un energico difensore, l'ha visto dirigersi a passo fermo e sicuro verso i recessi oscuri e le fibre segrete della coscienza. Ciò che è almeno acquisito per la scienza è che da allora l'uomo dalla faccia di rospo non riconosce più se stesso, e cade spesso in accessi di furore che lo rendono simile a una belva dei boschi. Non è colpa sua. In ogni tempo aveva creduto, con le palpebre ripiegate sotto le resede della modestia, di essere fatto soltanto di bene, e di una minima quantità di male. Bruscamente gli rivelai, scoprendo in piena luce il suo cuore e le sue trame, che al contrario è composto soltanto di male, e di una minima quantità di bene che i legislatori fanno fatica a non lasciar evaporare. Io, che non gli insegno niente di nuovo, vorrei che non provasse un odio estremo per le mie amare verità; ma la realizzazione di questo auspicio non sarebbe conforme alle leggi della natura. Infatti io strappo la maschera dal suo volto traditore e pieno di fango, e faccio cadere una dopo l'altra, come palle d'avorio sopra un bacile d'argento, le sublimi menzogne con cui inganna se stesso: è allora comprensibile che egli non ordini alla calma d'imporgli le mani sul volto anche quando la ragione disperde le tenebre dell'orgoglio. Per questo, l'eroe che metto in scena si è attirato un odio irriducibile attaccando l'umanità, che si credeva invulnerabile, attraverso la breccia di assurde tirate filantropiche; come granelli di sabbia se ne stanno ammucchiate nei suoi libri, di cui talvolta, quando la ragione mi abbandona, rischio di apprezzare la comicità così ridicola ma noiosa. Egli l'aveva previsto. Non basta scolpire la statua della bontà sul frontespizio delle pergamene contenute nelle biblioteche. O essere umano! eccoti, ora, nudo come un verme, alla presenza della mia spada di diamante. Abbandona il tuo metodo; non è più tempo di fare l'orgoglioso: lancio verso di te la mia preghiera, nell'atteggiamento della prosternazione. C'è qualcuno che osserva i minimi movimenti della tua vita colpevole; e tu sei
avvolto nelle reti sottili della sua accanita perspicacia. Non fidarti di lui quando ti volta le spalle, perché ti guarda; non fidarti di lui quando chiude gli occhi, perché continua a guardarti. È difficile supporre che, quanto ad astuzia e malvagità, tu abbia preso la temibile risoluzione di superare il parto della mia immaginazione. I suoi minimi colpi vanno a segno. Con qualche precauzione, si può insegnare a chi crede di ignorarlo che i lupi e i briganti non si divorano tra loro: forse non è loro abitudine. Riponi dunque tra le sue mani, senza paura, la cura della tua esistenza: la guiderà in un modo a lui noto. Non credere all'intenzione, che egli fa brillare alla luce del sole, di correggerti; in realtà gli interessi mediocremente, per non dire meno; ancora non avvicino alla verità totale la benevola misura della mia verifica. Ma il fatto è che gli piace farti del male, con la persuasione legittima che tu divenga malvagio quanto lui, e che l'accompagni nell'abisso spalancato dell'inferno, quando l'ora sarà suonata. Il suo posto è segnato da molto tempo, là dove si vede una forca di ferro a cui sono appese catene e gogne. Quando il destino lo porterà lì, il funebre imbuto non avrà mai gustato preda più saporita, né lui avrà contemplato dimora più conveniente. Mi sembra di parlare in un modo intenzionalmente paterno, e che l'umanità non abbia il diritto di lamentarsi. Afferro la penna che costruirà il secondo canto... strumento strappato alle ali di qualche pigargo rosso! Ma... che accade alle mie dita? Le articolazioni rimangono paralizzate appena inizio il mio lavoro. Eppure ho bisogno di scrivere... Impossibile! Ebbene, ripeto che ho bisogno di scrivere il mio pensiero: ho il diritto, come chiunque, di sottopormi a questa legge naturale Ma no, ma no, la penna rimane inerte!... Guardate, ecco il lampo che brilla lontano attraverso le campagne. Il temporale percorre lo spazio. Piove... Piove ancora... Come piove!... È esplosa la folgore... si è abbattuta sulla mia finestra socchiusa e mi ha steso sul pavimento, colpito in fronte. Povero giovane! il tuo viso era già assai truccato dalle rughe precoci e dalle deformità congenite, per aver bisogno, per di più, di questa lunga cicatrice sulfurea. (Suppongo che la ferita sia guarita, il che non avverrà tanto presto). Perché questo temporale, e perché la paralisi delle mie dita? È un avvertimento dall'alto per impedirmi di scrivere e di considerare meglio ciò a cui mi espongo distillando la bava dalla mia bocca quadrata? Ma questo temporale non mi ha certo fatto paura. Che m'importerebbe di una legione di temporali! Questi agenti della polizia celeste compiono con zelo il loro penoso dovere, a giudicare
sommariamente dalla mia fronte ferita. Non ho certo da ringraziare l'Onnipotente della sua notevole perizia; ha scoccato la folgore in modo da tagliarmi la faccia esattamente in due, a partire dalla fronte, dal punto in cui la ferita è stata più pericolosa: un altro si congratuli con lui! Ma i temporali attaccano qualcuno che è più forte di loro. Così dunque, orribile Eterno dal volto di vipera, è stato necessario che, non contento di aver sistemato la mia anima tra i confini della follia e i pensieri di furore che uccidono lentamente, tu abbia per di più considerato conveniente alla tua maestà, dopo un maturo esame, farmi uscire dalla fronte una coppa di sangue!... Ma in fin dei conti, chi ti dice niente? Tu sai che non ti amo, e che anzi ti odio: perché insisti? Quando mai la tua condotta la smetterà di avvolgersi nelle parvenze della bizzarria? Parlami con franchezza, come a un amico: ma insomma, non ti rendi conto che nella tua odiosa persecuzione mostri uno zelo ingenuo, di cui nessuno dei tuoi serafini oserebbe rilevare la totale ridicolaggine? Quale collera ti prende? Sappi che se tu mi lasciassi vivere al riparo dalle tue persecuzioni, la mia riconoscenza ti sarebbe garantita... Su, Sultano, con la tua lingua toglimi di torno questo sangue che insozza il pavimento. La bendatura è finita: la fronte tamponata mi è stata lavata con acqua e sale, e ho incrociato le bende sul volto. Il risultato non è infinito: quattro camicie piene di sangue e due fazzoletti. A prima vista non si crederebbe che Maldoror contenga tanto sangue nelle sue arterie; poiché sul suo volto brillano soltanto i riflessi del cadavere. Ma insomma, è così. Forse è più o meno tutto il sangue che il suo corpo potesse contenere, ed è probabile che non ne resti molto. Basta, basta, avido cane; lascia il pavimento così com'è; il tuo ventre è pieno. Non devi continuare a bere; perché non tarderai a vomitare. Ora sei sazio convenientemente, vai a cuccia nel canile; ritieni di navigare nella felicità, dal momento che per tre immensi giorni non penserai alla fame, grazie ai globuli che ti sei cacciato nel gozzo, con una soddisfazione solennemente visibile. Tu, Lemano, prendi una scopa; anch'io vorrei prenderne una, ma non ne ho la forza. Tu capisci, vero?, che non ne ho la forza. Riponi le tue lacrime nel loro fodero; altrimenti crederò che non hai il coraggio di contemplare, con sangue freddo, il grande sfregio provocato da un supplizio già perduto, per me, nella notte dei tempi passati. Andrai alla fontana, a prendere due secchi d'acqua. Lavato il pavimento, riporrai questi panni nella stanza accanto. Se la lavandaia torna stasera, come deve fare, glieli consegnerai; ma poiché piove molto da un'ora, e continua a piovere, non credo che uscirà di casa; allora verrà domattina. Se lei ti
chiede da dove venga tutto quel sangue, non sei obbligato a risponderle. Oh! quanto sono debole! Non importa; avrò comunque la forza di sollevare la penna, e il coraggio di scavare il mio pensiero. Che ci ha guadagnato il Creatore a tartassarmi, come fossi un bambino, con un temporale che porta la folgore? Non per questo desisto dalla mia decisione di scrivere. Queste bende mi disturbano, e l'atmosfera della mia stanza respira il sangue. Non giunga mai il giorno in cui Lohengrin e io passeremo per strada, uno di fianco all'altro, senza guardarci, sfiorandoci di gomito, come due passanti frettolosi! Oh! mi si lasci fuggire lontano, per sempre, da una tale supposizione! L'Eterno ha creato il mondo quale è: dimostrerebbe una grande saggezza se, nel tempo strettamente necessario per spezzare la testa di una donna con una martellata, dimenticasse la sua siderea maestà, per rivelarci i misteri tra i quali soffoca la nostra esistenza, come un pesce sul fondo di una barca. Ma lui è grande e nobile; ci vince tutti con la potenza delle sue concezioni; se si mettesse a parlamentare con gli uomini, tutte le vergogne gli schizzerebbero in faccia. Ma... quanto sei miserabile! perché non arrossisci? Non basta che l'esercito dei dolori fisici e morali che ci circonda sia stato generato: il segreto del nostro destino straccione non ci è rivelato. Lo conosco, l'Onnipotente... e anche lui dovrebbe conoscermi. Se per caso camminiamo sullo stesso sentiero, la sua vista penetrante mi vede arrivare da lontano: allora prende una via traversa, per evitare il triplice dardo di platino che la natura mi dette come lingua! Mi farai il piacere, o Creatore, di lasciarmi sfogare i miei sentimenti. Maneggiando le ironie terribili con mano ferma e fredda, ti avverto che il mio cuore ne conterrà a sufficienza per provocarti fino alla fine della mia esistenza. Colpirò la tua carcassa vuota; ma con tanta forza che m'incarico di farne uscire le residue particelle d'intelligenza che tu non hai voluto dare all'uomo perché saresti stato geloso di renderlo eguale a te, e che sfrontatamente ti eri nascosto nelle budella, bandito astuto, come se non sapessi che un giorno o l'altro io le avrei scoperte con il mio occhio sempre aperto, e le avrei rapite, e le avrei spartite con i miei simili. Ho fatto come dico, e ora non ti temono più; da potenza a potenza trattano con te. Dammi la morte, per far sì che la mia audacia si penta: mi scopro il petto e attendo con umiltà. Apparite dunque, irrisorie vastità di castighi eterni! dispiegamenti enfatici di attributi eccessivamente vantati! Egli si è dimostrato incapace di arrestare la circolazione del mio sangue che lo sfida. Eppure ho prove che egli non
esita a spegnere, nel fiore degli anni, il respiro di altri umani che hanno appena gustato le gioie della vita. È semplicemente atroce; ma soltanto per la debolezza della mia opinione! Ho visto il Creatore che, solleticando la sua inutile crudeltà, appiccava incendi in cui perivano i vecchi e i bambini! Non sono io a iniziare l'attacco; è lui che mi costringe a farlo girare come una trottola con la frusta dalle corde d'acciaio. Non è forse lui a fornirmi accuse contro se stesso? Non si esaurirà il mio estro spaventevole! Esso si nutre degli incubi insensati che tormentano la mia insonnia. È a causa di Lohengrin che quanto precede è stato scritto; torniamo dunque a lui. Nel timore che in seguito diventasse come gli altri uomini, dapprima avevo deciso di ucciderlo a coltellate non appena avesse superato l'età dell'innocenza. Ma ho riflettuto, e saggiamente, in tempo, ho abbandonato la mia decisione. Egli non sospetta che la sua vita è stata in pericolo per un quarto d'ora. Tutto era pronto, il coltello era stato acquistato. Lo stiletto era grazioso, poiché amo la grazia e l'eleganza perfino negli strumenti di morte; ma era lungo e appuntito. Una sola ferita al collo, perforando con cura una delle arterie carotidi, e credo che sarebbe bastato. Sono contento della mia condotta; più tardi mi sarei pentito. Dunque, Lohengrin, fai quello che vuoi, agisci come preferisci, chiudimi per tutta la vita in una prigione oscura, con scorpioni come compagni di prigionia, oppure strappami un occhio finché non cada a terra, mai ti farò il minimo rimprovero; sono tuo, ti appartengo, non vivo più per me. Il dolore che mi infliggerai non sarà paragonabile alla felicità di sapere che colui che mi ferisce con le sue mani assassine è temprato in un'essenza più divina di quella dei suoi simili! Sì, è ancora bello dare la propria vita per un essere umano, e così conservare la speranza che non tutti gli uomini siano cattivi, poiché ce n'è pur stato uno che ha saputo attrarre a sé, con forza, le diffidenti ripugnanze della mia simpatia amara!... È mezzanotte; non si vede più un solo omnibus dalla Bastille alla Madeleine. Mi sbaglio; eccone uno che appare all'improvviso come se uscisse da sottoterra. I pochi passanti in ritardo lo scrutano con attenzione perché non sembra somigliare a nessun altro. Sull'imperiale siedono uomini dall'occhio immobile, come quello di un pesce morto. Sono stretti gli uni contro gli altri, e sembra che abbiano perduto la vita; del resto, il numero regolamentare non è superato. Quando il cocchiere dà una frustata ai cavalli, si direbbe che sia la frusta a muovere il suo braccio, e non il braccio la frusta. Cosa può essere quell'insieme di esseri bizzarri e muti?
Sono abitanti della luna? A momenti si sarebbe tentati di crederlo; ma somigliano piuttosto a dei cadaveri. L'omnibus, che ha fretta di arrivare all'ultima stazione, divora lo spazio e fa crepitare il selciato... Fugge! Ma una massa informe lo insegue accanita, sulle sue tracce, tra la polvere. «Fermate, vi prego; fermate ho le gambe gonfie per aver camminato tutto il giorno... non mangio da ieri... i miei genitori mi hanno abbandonato... non so più cosa fare... sono deciso a tornare a casa, e ci arriverei presto se mi concedeste un posto... sono un bambino di otto anni e ho fiducia in voi...». Fugge!... Fugge!... Ma una massa informe lo insegue accanita, sulle sue tracce, tra la polvere. Uno degli uomini dall'occhio freddo dà un colpo di gomito al vicino, e sembra che esprima il proprio disappunto per quei gemiti dal timbro argentino che giungono al suo orecchio. L'altro china la testa in modo impercettibile, come per assentire, e poi sprofonda di nuovo nell'immobilità del suo egoismo, come una tartaruga nel suo guscio. Nei lineamenti degli altri viaggiatori, tutto rivela gli stessi sentimenti dei primi due. Le grida si fanno udire ancora per due o tre minuti, sempre più acute di secondo in secondo. Si vedono finestre aprirsi sul viale, e un volto sconvolto, con un lume in mano, dopo aver gettato un'occhiata sulla strada, richiude con impeto la persiana, per non apparire più... Fugge! Fugge!... Ma una massa informe lo insegue accanita, sulle sue tracce, tra la polvere. Soltanto un giovane, immerso nelle sue fantasticherie, in mezzo a quei personaggi di pietra, sembra che provi pietà per la sventura. Non osa alzare la voce in favore del bambino che crede di poterlo raggiungere con le sue piccole gambe indolenzite; perché gli altri uomini gli gettano occhiate di disprezzo e di autorità, e lui sa che contro tutti non può fare nulla. Con il gomito appoggiato sulle ginocchia e la testa tra le mani, si chiede stupefatto se è proprio questo ciò che si chiama la carità umana. Allora si rende conto che non è altro che una parola vana, che non si trova più neppure nel dizionario della poesia, e confessa con franchezza il proprio errore. E si dice: «In effetti, perché interessarsi di un bambino? Lasciamolo stare». Eppure una lacrima ardente è scivolata lungo la guancia di quest'adolescente che ha appena bestemmiato. Penosamente si passa una mano sulla fronte, come per allontanare una nube la cui opacità gli oscura l'intelletto. Si agita, ma invano, nel secolo in cui è stato gettato; sente che quello non è il suo posto, e tuttavia non può uscirne. Terribile prigione! Fatalità schifosa! Lombano, da quel giorno sono contento di te! Non smettevo di osservarti mentre il mio volto rivelava la stessa indifferenza di quello degli altri viaggiatori. L'adolescente si alza con un
moto di sdegno, e vuole andarsene, per non partecipare neppure involontariamente a un'azione malvagia. Gli faccio un cenno, e si risiede al mio fianco... Fugge!... Fugge!... Ma una massa informe lo insegue accanita, sulle sue tracce, tra la polvere. All'improvviso le grida cessano; perché il bambino ha urtato con il piede una pietra sporgente e, cadendo, si è ferito alla testa. L'omnibus è scomparso all'orizzonte, e ormai non si vede altro che la strada silenziosa... Fugge!... Fugge!... Ma una massa informe non lo insegue più con accanimento, sulle sue tracce, tra la polvere. Guardate quel cenciaiolo che passa, curvo sulla sua fioca lanterna; ha più cuore lui di tutti i suoi simili dell'omnibus. Ha raccolto il bambino; siate certi che lo guarirà e non lo abbandonerà come hanno fatto i suoi genitori. Fugge! Fugge! Ma, dal luogo in cui si trova, lo sguardo penetrante del cenciaiolo lo insegue con accanimento, sulle sue tracce, tra la polvere! Razza stupida e idiota! Ti pentirai di comportarti in questo modo. Te lo dico io. Te ne pentirai, vedrai, te ne pentirai. La mia poesia consisterà soltanto nell'attaccare con ogni mezzo l'uomo, questa bestia feroce, e il Creatore, che non avrebbe dovuto generare gentaglia simile. I volumi si ammucchieranno sui volumi, fino alla fine della mia vita, eppure in essi si vedrà soltanto quest'idea, sempre presente alla mia coscienza! Durante la mia passeggiata quotidiana, passavo ogni giorno per un vicolo; ogni giorno una snella ragazzina di dieci anni mi seguiva a distanza, rispettosamente, lungo quella strada, guardandomi con palpebre simpatiche e curiose. Era alta per la sua età, e la sua vita era slanciata. Abbondanti capelli neri, divisi in due sulla testa, cadevano in trecce indipendenti su spalle marmoree. Un giorno, mi stava seguendo come di consueto; una popolana l'afferrò per i capelli con le sue braccia muscolose, come il turbine afferra la foglia, assestò due schiaffi brutali su una guancia fiera e muta, e ricondusse in casa quella coscienza smarrita. Invano facevo l'indifferente; non mancava mai di perseguitarmi con la sua presenza ormai inopportuna. Quando imboccavo un'altra strada per proseguire il mio cammino, si fermava, compiendo un violento sforzo su se stessa, alla fine del vicolo, immobile come la statua del Silenzio, e non smetteva di guardare davanti a sé, finché non fossi scomparso. Una volta la ragazzina mi precedette nella via e mi camminò davanti con il mio stesso passo. Se camminavo in fretta per superarla, lei quasi correva per mantenere eguale la distanza; ma se io rallentavo, perché ci fosse un intervallo sufficientemente grande tra lei e me, allora anche lei rallentava, con la
grazia dell'infanzia. Giunta alla fine del vicolo, si voltò lentamente in modo da sbarrarmi il passo. Non ebbi il tempo di scostarmi, e mi trovai davanti al suo volto. I suoi occhi erano gonfi e rossi. Capivo facilmente che voleva parlarmi, e non sapeva in che modo farlo. Divenuta improvvisamente pallida come un cadavere, mi chiese: «Avrebbe la bontà di dirmi che ora è?». Le dissi che non portavo orologio, e mi allontanai rapidamente. Da quel giorno, bambina dall'immaginazione inquieta e precoce, non hai più rivisto, nel vicolo, il giovane misterioso che penosamente batteva col sandalo pesante il selciato degli incroci tortuosi. L'apparizione di quella cometa infuocata non risplenderà più, come un triste soggetto di curiosità fanatica, sulla facciata della tua osservazione delusa; e spesso penserai, troppo spesso, forse sempre, a colui che non sembrava preoccuparsi dei mali, né dei beni, della vita presente, e se ne andava a caso, con un volto orribilmente morto, i capelli irti, il passo vacillante, e le braccia che nuotavano alla cieca nelle acque ironiche dell'etere, come per cercarvi la preda sanguinante della speranza, continuamente sballottata, nelle regioni immense dello spazio, dallo spazzaneve spietato della fatalità. Non mi vedrai mai più, e io non ti vedrò più!... Chissà? Forse quella bambina non era quello che mostrava di essere. Forse, sotto un involucro di ingenuità, nascondeva un'astuzia immensa, il peso di diciotto anni, e il fascino del vizio. Si sono viste venditrici d'amore espatriare allegramente dalle isole Britanniche e varcare lo stretto. Irradiavano le loro ali, volteggiando in sciami dorati di fronte alla luce parigina; e a vederle dicevate: «Ma sono ancora delle bambine; non hanno più di dieci o dodici anni». In realtà ne avevano venti. Oh! in questo caso, supponendo che fosse così, siano maledetti i meandri di quella strada oscura! Orribile! orribile! ciò che vi accadde. Credo che sua madre la picchiasse perché non faceva il suo mestiere con sufficiente abilità. È possibile che fosse soltanto una bambina, e allora la madre è ancora più colpevole. Ma non voglio affatto credere a questa supposizione, che è soltanto un'ipotesi, e preferisco amare, in quel carattere fantasioso, un'anima che si svela troppo presto... Ah! vedi ragazzina, ti chiedo di non comparirmi più davanti agli occhi, se mai mi ritrovassi a passare per quel vicolo. Potrebbe costarti caro! Già il sangue e la vergogna mi salgono alla testa, a flotti bollenti. E io sarei un essere talmente generoso da amare i miei simili? No, no! L'ho deciso fin dal giorno della mia nascita! Non mi amano, loro! Si vedranno i mondi distruggersi, e il granito scivolare come un cormorano sulla superficie dei flutti, prima che io tocchi la mano
infame di un essere umano. Indietro... indietro, quella mano!... Ragazzina, non sei un angelo, e alla fine diventerai come le altre donne. No, no, te ne supplico; non riapparire più davanti alle mie sopracciglia aggrottate e losche. In un attimo di smarrimento potrei afferrarti le braccia, torcerle come un panno lavato da cui si strizza l'acqua, o spezzarle fragorosamente come due rami secchi, e poi fartele mangiare a forza. Potrei, prendendoti la testa tra le mani, con aria carezzevole e dolce, affondare le mie dita avide nei lobi del tuo cervello innocente, per estrarne, col sorriso sulle labbra, un grasso efficace per lavare i miei occhi doloranti per l'insonnia eterna della vita. Potrei, cucendo le tue palpebre con un ago, privarti dello spettacolo dell'universo e metterti nell'impossibilità di trovare la tua strada; non sarò certo io a farti da guida. Potrei, sollevando il tuo corpo vergine con un braccio di ferro, afferrarti per le gambe, farti roteare intorno a me come una fionda, concentrare le mie forze descrivendo l'ultima circonferenza, e lanciarti contro il muro. Ogni goccia di sangue schizzerà su un petto umano, a terrorizzare gli uomini, a porre davanti a loro l'esempio della mia malvagità! Senza tregua si strapperanno brandelli e brandelli di carne; ma la goccia di sangue rimane indelebile, al suo posto, e brillerà come un diamante. Stai tranquilla, darò a una mezza dozzina di domestici l'ordine di custodire i resti venerati del tuo corpo, e di preservarli dalla fame dei cani voraci. Il corpo è certamente rimasto appiccicato al muro come una pera matura, e non è caduto a terra; ma i cani sanno compiere alti salti, se non si fa attenzione. Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina dei giardino delle Tuileries! I suoi occhi arditi lanciano frecce a qualche oggetto invisibile, in lontananza, nello spazio. Non deve avere più di otto anni, eppure non si diverte come converrebbe. Dovrebbe almeno ridere e passeggiare con qualche compagno, invece di restare solo; ma non è nel suo carattere. Com'è carino quel bambino che se ne sta seduto su una panchina del giardino delle Tuileries! Un uomo, mosso da un disegno segreto, si siede accanto a lui, sulla stessa panchina, con fare equivoco. Chi è? Non ho bisogno di dirvelo; lo riconoscerete dalla sua conversazione tortuosa. Ascoltiamoli, non disturbiamoli: - A che pensavi, bambino? - Pensavo al cielo.
- Non serve che tu pensi al cielo; è già abbastanza pensare alla terra. Sei dunque stanco di vivere, tu che sei appena nato? - No, ma chiunque preferisce il cielo alla terra. - Ebbene, non io. Poiché il cielo è stato fatto da Dio, come la terra, stai pur certo che vi incontrerai gli stessi mali di quaggiù. Dopo la morte non sarai ricompensato secondo i tuoi meriti; infatti, se su questa terra ti infliggono ingiustizie (come più tardi proverai, per esperienza), non c'è ragione perché nell'altra vita non te ne vengano inflitte ancora. Ciò che puoi fare di meglio è non pensare a Dio, e farti giustizia da te, dal momento che ti viene rifiutata. Se uno dei tuoi compagni ti offendesse, non saresti forse felice di ucciderlo? - Ma è proibito! - Non quanto credi. Si tratta soltanto di non farsi prendere. La giustizia stabilita dalle leggi non vale niente; conta soltanto la giurisprudenza dell'offeso. Se tu detestassi uno dei tuoi compagni, non ti renderebbe infelice l'idea di avere ad ogni istante il pensiero di lui davanti agli occhi? - È vero. - Ecco dunque un compagno che ti renderebbe infelice per tutta la vita; infatti, vedendo che il tuo odio è soltanto passivo, non la smetterebbe mai di provocarti e di farti impunemente del male. C'è dunque un solo mezzo per far cessare questa situazione; sbarazzarsi del proprio nemico. Ecco dove volevo arrivare, per farti capire su quali basi è fondata la società attuale. Ognuno deve farsi giustizia da sé, altrimenti è soltanto un imbecille. Colui che riporta la vittoria sui propri simili è il più astuto e il più forte. Non vorresti, un giorno, dominare i tuoi simili? - Sì, sì. - Allora devi essere il più forte e il più astuto. Sei ancora troppo giovane per essere il più forte; ma fin da oggi puoi usare l'astuzia, lo strumento più bello degli uomini di genio. Quando il pastore Davide colpì in fronte il gigante Golia con una pietra lanciata con la fionda, non è forse ammirevole notare che soltanto grazie all'astuzia Davide ha vinto il suo avversario, e che se, al contrario, si fossero affrontati in un corpo a corpo, il gigante l'avrebbe schiacciato come una mosca? Lo stesso vale per te. In una guerra aperta, mai potrai vincere gli uomini su cui sei ansioso di imporre la tua volontà; ma con l'astuzia potrai lottare da solo contro tutti. Desideri le ricchezze, i bei palazzi e la gloria? o mi hai ingannato quando mi hai dichiarato queste nobili pretese?
- No, no, non v'ingannavo. Ma è con altri mezzi che vorrei ottenere ciò che desidero. - Allora non otterrai proprio niente. I mezzi, virtuosi e bonari non portano a nulla. Occorre impegnare leve più energiche e intrighi più sapienti. Prima che tu diventi celebre con la tua virtù e raggiunga il tuo scopo, altri cento avranno tutto il tempo di farti capriole sulla schiena e di terminare la carriera prima di te, e così non vi sarà più posto per le tue idee anguste. Occorre saper abbracciare con maggiore apertura l'orizzonte del tempo presente. Per esempio, hai mai sentito parlare della gloria immensa che procurano le vittorie? Eppure le vittorie non si compiono da sole. Occorre versare sangue, molto sangue, per generarle e deporle ai piedi dei conquistatori. Senza i cadaveri e le membra sparse che tu scorgi nella pianura dove saggiamente si è prodotta la carneficina, non ci sarebbero guerre, e senza guerre non vi sarebbero vittorie. Come vedi, quando si vuole diventare celebri, è necessario immergersi con grazia in fiumi di sangue alimentati dalla carne da cannone. Il fine giustifica i mezzi. La prima cosa, per diventare celebri, è avere denaro. Ora, poiché tu non ne hai, occorrerà assassinare per procurarsene; ma poiché non sei sufficientemente forte per maneggiare il pugnale, fatti ladro, nell'attesa che le tue membra si siano irrobustite. E affinché si irrobustiscano più in fretta, ti consiglio di fare ginnastica due volte al giorno, un'ora al mattino e un'ora la sera. In questo modo potrai tentare il delitto, con un certo successo, a partire dall'età di quindici anni, invece di aspettare fino a venti. L'amore della gloria giustifica tutto, e forse, più tardi, padrone dei tuoi simili, farai loro del bene quasi pari al male che avrai fatto loro all'inizio!... Maldoror si accorge che il sangue ribolle nella testa del suo giovane interlocutore; le sue narici sono dilatate, e le labbra emettono una leggera schiuma bianca. Gli tasta il polso; le pulsazioni sono velocissime. La febbre si è impadronita di quel corpo delicato. Teme le conseguenze delle proprie parole; si defila, lo sciagurato, contrariato per non essersi potuto intrattenere più a lungo con quel bambino. Se in età matura è tanto difficile dominare le passioni, in bilico tra il bene e il male, che cosa può mai accadere in una mente ancora piena d'inesperienza? e quanta energia relativa può occorrergli in più? Il bambino se la caverà con tre giorni di letto. Voglia il cielo che il contatto materno porti la pace in quel fiore sensibile, fragile involucro di un'anima bella!
Là, in un boschetto circondato di fiori, dorme l'ermafrodito, profondamente assopito sull'erba bagnata dalle sue lacrime. La luna ha liberato il suo disco dalla massa delle nubi, e accarezza con i suoi pallidi raggi questo dolce volto di adolescente. I suoi lineamenti esprimono l'energia più virile, e insieme la grazia di una vergine celeste. Niente in lui sembra naturale, neppure i muscoli del corpo, che si aprono un varco attraverso i contorni armoniosi di forme femminili. Ha il braccio ricurvo sulla fronte, l'altra mano appoggiata sul petto, come per comprimere i battiti di un cuore chiuso a qualsiasi confidenza, e greve del pesante fardello di un segreto eterno. Stanco della vita, e vergognoso di camminare tra esseri che non gli somigliano, la disperazione si è impadronita della sua anima, e se ne va solo, come il mendicante della valle. Come si procura di che vivere? Anime pietose vegliano da vicino su di lui, senza che lui sospetti questa sorveglianza, e non lo abbandonano: è così buono! è così rassegnato! Talvolta parla volentieri con coloro che hanno il carattere sensibile, senza toccar loro la mano, e si tiene a distanza, nel timore di un pericolo immaginario. Se gli si chiede perché ha scelto per compagna la solitudine, i suoi occhi si alzano al cielo e a stento trattengono una lacrima di rimprovero verso la Provvidenza; ma non risponde a questa domanda imprudente che diffonde, sulla neve delle sue palpebre, il rossore della rosa mattutina. Se la conversazione si dilunga, diventa inquieto, volge gli occhi verso i quattro punti dell'orizzonte come per cercare di sfuggire la presenza di un nemico invisibile che si stia avvicinando, saluta bruscamente con la mano, si allontana sulle ali del suo pudore attento, e scompare nella foresta. In genere lo prendono per pazzo. Un giorno, quattro uomini mascherati, che avevano ricevuto degli ordini, si gettarono su di lui e lo legarono saldamente in modo che potesse muovere soltanto le gambe. La frusta abbatté le rudi corregge sulla sua schiena, e gli dissero di dirigersi immediatamente verso la strada che porta a Bicêtre. Sotto i colpi si mise a sorridere, e parlò loro con tanto sentimento e intelligenza di molte scienze umane che aveva studiato, e che rivelavano una grande istruzione in uno che ancora non aveva superato la soglia della giovinezza, e dei destini dell'umanità, svelando interamente la nobiltà poetica della sua anima, che i suoi guardiani, profondamente atterriti dall'azione che avevano commesso, gli slegarono le membra spezzate, si gettarono alle sue ginocchia chiedendo un perdono che fu accordato, e si allontanarono con i segni di una venerazione che di solito non è concessa agli uomini. Dopo questo avvenimento, di cui si parlò molto, il suo segreto fu indovinato da
chiunque, ma si fingeva di ignorarlo, per non aumentare le sue sofferenze; e il governo gli concede una pensione onorevole, per fargli dimenticare che per un istante avevano voluto rinchiuderlo a forza, senza verifica preliminare, in un ospizio per pazzi. Lui, usa la metà di quel denaro, e il resto lo dà ai poveri. Quando vede un uomo e una donna a passeggio in un viale di platani, sente che il proprio corpo si scinde in due dall'alto in basso; e che ognuna delle nuove parti va a stringere uno dei passanti; ma non è altro che un'allucinazione, e la ragione non tarda a ristabilire il proprio dominio. Per questo evita di mescolarsi sia agli uomini che alle donne; il suo pudore eccessivo, nato dall'idea di essere un mostro, gli impedisce di accordare a chiunque la sua ardente simpatia. Crederebbe di profanarsi, e crederebbe di profanare gli altri. Il suo orgoglio gli ripete questo assioma: «Ognuno resti nella propria natura». Il suo orgoglio, ho detto, perché teme che unendo la sua vita a un uomo o a una donna, prima o poi gli venga rinfacciata come una colpa enorme la conformazione del suo organismo. Allora si trincera nel suo amor proprio, offeso da quest'empia supposizione che viene da lui soltanto, e insiste a rimanere solo, tra i tormenti e senza consolazione. Là, in un boschetto circondato di fiori, dorme l'ermafrodito, profondamente assopito sull'erba bagnata dalle sue lacrime. Gli uccelli, risvegliati, contemplano rapiti quel volto malinconico attraverso i rami degli alberi, e l'usignolo non vuole far udire le sue cavatine di cristallo. Il bosco è diventato augusto come una tomba, per la presenza notturna dell'ermafrodito sventurato. O viaggiatore smarrito per il tuo spirito d'avventura che ti ha fatto abbandonare tuo padre e tua madre fin dalla più tenera età; per le sofferenze che la sete ti ha procurato nel deserto; per la patria che forse cerchi dopo aver errato a lungo, proscritto, in contrade straniere; per il tuo corsiero, fedele amico, che ha sopportato con te l'esilio e le intemperie dei climi che il tuo umore vagabondo ti faceva percorrere; per la dignità assegnata all'uomo dai viaggi in terre lontane e in mari inesplorati, tra i ghiacci polari o sotto l'influenza di un sole torrido, non toccare con la mano, come con un fremito di brezza, quei riccioli sparsi a terra, che si confondono con l'erba verde. Allontanati di molti passi, e così farai meglio. Questa chioma è sacra; è stato l'ermafrodito a volerlo. Non vuole che labbra umane bacino religiosamente i suoi capelli, profumati del soffio della montagna, e nemmeno la fronte, che in questo momento risplende come le stelle del firmamento. Ma è meglio credere che sia proprio una stella, scesa dalla sua orbita, attraverso lo spazio, su questa fronte maestosa che ora circonda col
suo chiarore di diamante, come un'aureola. La notte, scostando col dito la sua tristezza, si veste di tutti i suoi incanti per festeggiare il sonno di quest'incarnazione del pudore, di quest'immagine perfetta dell'innocenza degli angeli: il brusio degli insetti è meno percettibile. I rami inchinano su di lui la loro folta elevazione per ripararlo dalla rugiada, e la brezza, facendo risuonare le corde della sua arpa melodiosa, invia i suoi accordi gioiosi, attraverso il silenzio universale, verso queste palpebre abbassate che credono di assistere, immobili, al concerto cadenzato dei mondi sospesi. Sogna che è felice; che la sua natura corporea è mutata; o che, almeno, ha spiccato il volo su una nube purpurea, verso un'altra sfera, abitata da esseri della sua stessa natura. Ahimè! che la sua illusione si prolunghi fino al risveglio dell'aurora! Sogna che i fiori gli danzano intorno come immense ghirlande folli, e lo impregnano dei loro profumi soavi, mentre lui canta un inno d'amore tra le braccia di un essere umano di magica bellezza. Ma non è altro che un vapore crepuscolare ciò che le sue braccia stringono; e quando si sveglierà, le sue braccia non lo stringeranno più. Non svegliarti, ermafrodito; non svegliarti ancora, te ne supplico. Perché non vuoi credermi? Dormi... dormi ancora. Che il tuo petto si sollevi, perseguendo la chimerica speranza della felicità, te lo permetto; ma non aprire gli occhi. Ah! non aprire gli occhi! Voglio lasciarti così, per non essere testimone del tuo risveglio. Forse un giorno, con l'aiuto di un libro voluminoso, in pagine commosse racconterò la tua storia, spaventato da ciò che essa contiene e dagli insegnamenti che ne derivano. Finora non ho potuto farlo; perché, ogni volta che ho voluto, lacrime abbondanti cadevano sulla carta, e le dita mi tremavano, senza che si trattasse di vecchiaia. Ma voglio ormai averlo questo coraggio. Sono indignato di non avere più nervi di una donna, e di svenire come una ragazzina ogni volta che penso alla tua grande miseria. Dormi... dormi ancora; ma non aprire gli occhi. Ah! non aprire gli occhi! Addio, ermafrodito! Non mancherò, ogni giorno, di pregare il cielo per te (se fosse per me, non lo pregherei affatto). La pace sia nel tuo seno! Quando una donna dalla voce di soprano emette le sue note vibranti e melodiose, all'ascolto di quest'umana armonia gli occhi mi si riempiono di una fiamma latente e lanciano scintille dolorose, mentre nelle mie orecchie sembra che rimbombi il rintocco a martello delle cannonate. Da dove può venire questa ripugnanza profonda per tutto ciò che ha a che fare con l'uomo? Se gli accordi si liberano dalle fibre di uno strumento, con voluttà
ascolto le note perlate che fuggono in cadenza attraverso le onde elastiche dell'atmosfera. La percezione trasmette al mio udito appena un'impressione di dolcezza capace di sciogliere i nervi e il pensiero; un assopimento ineffabile avvolge con i suoi magici papaveri, come un velo che attenui la luce del giorno, la potenza attiva dei miei sensi e le forze vive della mia immaginazione. Si racconta che io nacqui tra le braccia della sordità! Nei primi tempi della mia infanzia, non udivo ciò che mi dicevano. Quando, con difficoltà estrema, riuscirono a insegnarmi a parlare, soltanto dopo aver letto su un foglio ciò che qualcuno vi scriveva riuscivo a comunicare a mia volta il filo dei miei ragionamenti. Un giorno, giorno nefasto, crescevo in bellezza e innocenza; e ognuno ammirava l'intelligenza e la bontà del divino adolescente. Molte coscienze arrossivano contemplando i limpidi lineamenti in cui la sua anima aveva stabilito il proprio trono. Soltanto con venerazione ci si avvicinava a lui, perché nei suoi occhi si scorgeva lo sguardo di un angelo. Ma no, lo sapevo bene che le rose felici dell'adolescenza non sarebbero fiorite in eterno, intrecciate in ghirlande capricciose, sulla sua fronte nobile e modesta che tutte le madri baciavano con frenesia. Già cominciava a sembrarmi che l'universo, con la sua volta stellata di globi impassibili e irritanti, forse non era ciò che avevo sognato di più grandioso. Un giorno, dunque, stanco di calcare il sentiero scosceso del viaggio terrestre e di aggirarmi barcollando come un ubriaco tra le oscure catacombe della vita, alzai lentamente i miei occhi spleenetici, circondati da un gran cerchio bluastro, verso la concavità del firmamento, e osai penetrare, io, così giovane, i misteri del cielo! Non trovando ciò che cercavo, sollevai più in alto le palpebre stravolte, più in alto ancora, fino a quando scorsi un trono, formato di escrementi umani e d'oro, su cui troneggiava, con orgoglio idiota, col corpo ricoperto di un sudario di lenzuola d'ospedale non lavate, colui che si autodefinisce il Creatore! Teneva in mano il tronco putrido di un uomo morto e lo portava, alternativamente, dagli occhi al naso e dal naso alla bocca; una volta alla bocca, si può indovinare cosa ne facesse! I suoi piedi erano immersi in una vasta pozza di sangue in ebollizione, dalla cui superficie sporgevano, come tenie dal contenuto di un vaso da notte, due o tre teste prudenti, che subito si riabbassavano con la rapidità di una freccia: una pedata ben assestata sull'osso del naso, era il compenso noto della rivolta contro il regolamento, provocata dal bisogno di respirare un'altra atmosfera; quegli uomini infatti non erano pesci! Anfibi tutt'al più, nuotavano tra due acque in quel liquido immondo!... finché, non avendo più niente in mano, il Creatore, con i
primi due artigli del piede, afferrò per il collo un altro tuffatore, come in una tenaglia, e lo sollevò in aria, fuori dalla melma rossastra, salsa squisita! Con quello, faceva come con l'altro. Prima gli divorava la testa, le gambe e le braccia, e per ultimo il tronco, finché non rimaneva più niente; le ossa, le sgranocchiava. E così di seguito, per le altre ore della sua eternità. Talvolta esclamava: «Io vi ho creati; ho dunque il diritto di fare di voi ciò che voglio. Non mi avete fatto nulla, non dico il contrario. Vi faccio soffrire, per il mio piacere». E riprendeva il suo pasto crudele, muovendo la mascella inferiore che gli agitava la barba piena di cervella. Lettore, quest'ultimo particolare non ti fa venire l'acquolina in bocca? Non tutti possono mangiare simili cervella, così buone, freschissime, pescate da appena un quarto d'ora nel lago dei pesci. Con le membra paralizzate e la gola muta, contemplai per un po' lo spettacolo. Per tre volte rischiai di cadere all'indietro, come un uomo che subisce un'emozione troppo forte; per tre volte riuscii a rimettermi in piedi. Non una fibra del mio corpo rimaneva immobile; e io tremavo, come trema la lava all'interno di un vulcano. Alla fine, poiché il mio petto oppresso non riusciva a espellere con sufficiente rapidità l'aria che dà la vita, le labbra della bocca mi si schiusero, e lanciai un grido... un grido talmente lacerante... che lo udii! Le barriere del mio orecchio si sciolsero bruscamente, il timpano scricchiolò sotto l'urto di quella massa d'aria sonora spinta lontano da me con energia, e accadde un fenomeno nuovo nell'organo condannato dalla natura. Avevo appena udito un suono! Un quinto senso si rivelava in me! Ma quale piacere avrei potuto trovare in una simile scoperta? Ormai il suono umano giunse al mio orecchio unito al sentimento del dolore generato dalla pietà per una grande ingiustizia. Quando qualcuno mi parlava, ricordavo ciò che un giorno avevo visto al di sopra delle sfere visibili, e la traduzione dei miei sentimenti soffocati in un urlo impetuoso il cui timbro era identico a quello dei miei simili! Non potevo rispondergli, perché i supplizi esercitati sulla debolezza dell'uomo, in quello schifoso mare di porpora, mi passavano davanti alla fronte ruggendo come elefanti scorticati, e sfioravano con le loro ali di fuoco i miei capelli calcinati. Più tardi, quando conobbi meglio l'umanità, a questo sentimento di pietà si unì un intenso furore contro questa tigre matrigna i cui figli diventati insensibili non sanno che maledire e fare il male. Audacia della menzogna! dicono che in loro il male è soltanto eccezionale!... Ma ora, è finita da un pezzo; da molto tempo non rivolgo più la parola a nessuno. E tu, chiunque tu sia, quando mi sarai accanto, le corde della tua glottide non si lascino sfuggire
nessuna intonazione; la tua laringe immobile non si sforzi di superare l'usignolo; e tu stesso non cercare in alcun modo di farmi conoscere la tua anima attraverso il linguaggio. Mantieni un religioso silenzio, e niente lo interrompa; incrocia umilmente le mani sul petto, e china in basso le palpebre. Te l'ho detto, dopo la visione che mi fece conoscere la verità suprema, fin troppi incubi mi hanno succhiato avidamente la gola, per notti e giorni, perché io abbia ancora il coraggio di rinnovare, sia pure con il solo pensiero, le sofferenze che provai in quell'ora infernale, il cui ricordo mi perseguita senza tregua. Oh! quando udite la valanga di neve cadere dall'alto della fredda montagna; e la leonessa che si lamenta, nel deserto arido, per la scomparsa dei suoi piccoli; e la tempesta che compie il proprio destino; e il condannato che mugghia in carcere, alla vigilia della ghigliottina; e il polipo feroce che racconta alle onde del mare le sue vittorie sui nuotatori e sui naufraghi, dite, queste voci maestose non sono forse più belle del ghigno dell'uomo? Esiste un insetto che gli uomini nutrono a proprie spese. Non gli devono nulla; ma lo temono. Costui, cui non piace il vino preferendo il sangue, se i suoi legittimi bisogni non venissero soddisfatti sarebbe capace, grazie a un potere occulto, di diventare grosso come un elefante, e di schiacciare gli uomini come spighe. E allora bisogna vedere come lo rispettano, come lo circondano di venerazione canina, come è stimato e considerato al di sopra degli animali della creazione. Come trono gli offrono la testa, e lui affonda gli artigli alla radice dei capelli, con dignità. Più tardi, quando è grasso ed entra in età avanzata, imitando i costumi di un popolo antico lo si uccide per non fargli sentire i malanni della vecchiaia. Gli si fanno funerali grandiosi, come a un eroe, e la bara, che lo conduce direttamente verso il coperchio della tomba, è portata a spalla dai notabili della città. Sopra la terra umida che il becchino rimuove con la pala sagace, si pronunciano frasi multicolori sull'immortalità dell'anima, sulla nullità della vita, sulla volontà inesplicabile della Provvidenza, e il marmo si richiude per sempre su quell'esistenza laboriosamente occupata, ridotta ormai a cadavere. La folla si disperde, e la notte non tarda a coprire con le sue ombre i muri del cimitero. Ma consolatevi, umani, della sua dolorosa perdita. Ecco che avanza la sua innumerevole famiglia, di cui vi ha generosamente gratificati affinché la vostra disperazione fosse meno amara e quasi addolcita dalla gradevole presenza di questi aborti arcigni, che più tardi diverranno
magnifici pidocchi, adorni di una notevole bellezza, mostri dai modi di un saggio. Ha covato con ala materna molte dozzine di uova amate sui vostri capelli disseccati dal succhiare accanito di quei temibili estranei. È giunto in fretta il periodo in cui le uova sono scoppiate. Non temete, non tarderanno a diventare grandi quegli adolescenti filosofi, durante questa vita effimera. Cresceranno talmente in fretta che ve lo faranno sentire, con i loro artigli e le loro proboscidi. Voi non sapete perché non vi divorano le ossa della testa e si accontentano di estrarvi, con la loro pompa, la quintessenza del sangue. Aspettate un istante, ve lo dirò: è perché non ne hanno la forza. Siate certi che se la loro mascella fosse conforme alla misura dei loro auspici infiniti, il cervello, la retina degli occhi, la colonna vertebrale, il vostro corpo intero, ci finirebbero dentro. Come una goccia d'acqua. Osservate con un microscopio un pidocchio al lavoro sulla testa di un giovane mendicante di strada; poi mi racconterete. Sfortunatamente sono piccoli questi briganti della lunga chioma. Non andrebbero bene per il servizio militare; non hanno la statura necessaria richiesta dalla legge. Appartengono al mondo lillipuziano della coscia corta, e i ciechi non esitano a relegarli tra gli infinitamente piccoli. Guai al capodoglio che si battesse contro un pidocchio. Malgrado la sua mole, sarebbe divorato in un batter d'occhio. Non resterebbe neppure la coda per andare ad annunciare la notizia. L'elefante si lascia accarezzare. Il pidocchio, no. Non vi consiglio di tentare questa prova pericolosa. Guai a voi se la vostra mano è pelosa, o anche soltanto composta di ossa e di carne. Le vostre dita sono spacciate. Si spezzeranno come sotto tortura. La pelle scompare per uno strano incantesimo. I pidocchi sono incapaci di compiere tutto il male che la loro immaginazione medita. Se incontrate un pidocchio sulla vostra strada, tirate avanti e non leccategli le papille della lingua. Vi accadrebbe qualche guaio. È già accaduto. Non importa, sono già contento della quantità di male che ti infligge, o razza umana; vorrei soltanto che te ne facesse di più. Fino a quando conserverai il culto tarlato di questo dio insensibile alle tue preghiere e alle offerte generose che gli tributi in olocausto espiatorio? Vedi, quell'orribile manitù non è riconoscente per le grandi coppe di sangue e di cervella che tu spandi sui suoi altari, devotamente decorati di ghirlande di fiori. Non è riconoscente... perché i terremoti e le tempeste continuano a infierire fin dall'inizio di tutte le cose. Eppure, spettacolo degno di nota, più si mostra indifferente e più tu lo ammiri. Si vede che diffidi dei suoi attributi, che nasconde; e il tuo ragionamento si
fonda su questa considerazione, che soltanto una divinità di una potenza estrema può mostrare tanto disprezzo verso i fedeli che obbediscono alla sua religione. Per questo, in ogni paese esistono dèi diversi: qui, il coccodrillo; là, la meretrice; ma quando si tratta del pidocchio, a questo sacro nome, universalmente baciando le catene della loro schiavitù, tutti i popoli s'inginocchiano insieme sull'augusto sagrato, davanti al piedistallo dell'idolo informe e sanguinario. Il popolo che non obbedisse ai propri istinti servili e fingesse di ribellarsi, presto o tardi scomparirebbe dalla terra, come la foglia d'autunno, annientato dalla vendetta del dio inesorabile. O pidocchio dalla pupilla raggrinzita, finché i fiumi verseranno la discesa delle loro acque negli abissi del mare; finché gli astri graviteranno sul sentiero della loro orbita; finché il vuoto muto non avrà orizzonte; finché l'umanità si dilanierà i fianchi con guerre funeste; finché la giustizia divina scaglierà le sue folgori vendicatrici su questo globo egoista; finché l'uomo misconoscerà il proprio creatore e lo provocherà non senza ragione e con disprezzo, il tuo regno sull'universo sarà assicurato, e la tua dinastia estenderà le sue spire di secolo in secolo. Io ti saluto, sole levante, liberatore celeste, nemico invisibile dell'uomo. Continua a dire alla sporcizia di unirsi a lui in amplessi impuri, e a prometterle, con giuramenti non scritti nella polvere, che essa rimarrà in eterno la sua amante fedele. Bacia di tanto in tanto la veste di quella grande impudica, in memoria dei servigi importanti che non manca di renderti. Se non seducesse l'uomo con le sue mammelle lascive, è probabile che non potresti esistere, tu che sei il prodotto di quest'accoppiamento ragionevole e conseguente. O figlio della sporcizia! di' a tua madre che se abbandona l'alcova dell'uomo, camminando per una strada solitaria, sola e senza sostegno, vedrà compromessa la sua esistenza. Le sue viscere, che ti hanno portato per nove mesi tra le loro pareti profumate, si commuovano un istante al pensiero dei pericoli che correrebbe, poi, il loro tenero frutto, così carino e tranquillo, ma già freddo e feroce. Sporcizia, regina degli imperi, conserva agli occhi del mio odio lo spettacolo della crescita insensibile dei muscoli della tua progenie affamata. Per raggiungere questo scopo, lo sai che ti basta avvinghiarti più strettamente ai fianchi dell'uomo. Puoi farlo, senza inconvenienti per il tuo pudore, poiché entrambi siete sposati da molto tempo. Quanto a me, se mi è lecito aggiungere qualche parola a questo inno di gloria, dirò che ho fatto costruire una fossa di quaranta leghe quadrate e
di analoga profondità. Lì giace, nella sua verginità immonda, una vivente miniera di pidocchi. Riempie il fondo della fossa, e poi serpeggia, in larghe dense vene, in ogni direzione. Ecco in che modo ho costruito questa miniera artificiale. Ho strappato un pidocchio femmina dai capelli dell'umanità. Mi hanno visto giacere con lei per tre notti consecutive, e quindi l'ho gettata nella fossa. La fecondazione umana, che in altri casi simili sarebbe stata nulla, questa volta fu accettata dalla fatalità; e in capo a qualche giorno migliaia di mostri, brulicanti in un groviglio compatto di materia, nacquero alla luce. Questo groviglio schifoso divenne, col tempo, sempre più immenso, acquisendo al tempo stesso la liquida proprietà del mercurio, e si ramificò in molte branche, che attualmente si nutrono divorandosi a vicenda (la natalità è più alta della mortalità) ogni volta che non getto loro in pasto un bastardo appena nato, di cui la madre desiderava la morte, o un braccio che vado a tagliare a qualche fanciulla, di notte, con l'aiuto del cloroformio. Ogni quindici anni le generazioni di pidocchi che si nutrono dell'uomo diminuiscono sensibilmente, e predicono esse stesse, infallibilmente, l'epoca imminente della loro completa distruzione. Infatti l'uomo, più intelligente del suo nemico, riesce a vincerlo. Allora, con una pala infernale che accresce le mie forze, estraggo da quella miniera inesauribile blocchi di pidocchi, grandi come montagne, li spezzo a colpi di scure, e li trasporto, nelle notti profonde, nelle arterie delle città. Là, a contatto con la temperatura umana, si dissolvono come nei primi giorni della loro formazione nelle gallerie tortuose della miniera sotterranea, si scavano un letto nella ghiaia, e come spiriti nocivi si diffondono in rivoli nelle abitazioni. Il guardiano della casa abbaia sordamente, perché gli sembra che una legione di esseri sconosciuti penetri i pori dei muri e porti il terrore al capezzale del sonno. Forse avete udito anche voi, una volta nella vita, quella specie di latrati dolorosi e prolungati. Con i suoi occhi impotenti, tenta di penetrare l'oscurità della notte; perché il suo cervello di cane non capisce cosa stia accadendo. Quel ronzio lo irrita, e si sente tradito. Milioni di nemici si abbattono così su ogni città, come nugoli di cavallette. E per quindici anni è fatta. Combatteranno l'uomo, procurandogli ferite cocenti. Dopo questo lasso di tempo, ne invierò altri. Quando frantumo i blocchi di materia animata, può accadere che un frammento sia più denso di un altro. I suoi atomi si sforzano con rabbia di separare il loro agglomerato, per andare a tormentare l'umanità; ma la coesione resiste nella sua durezza. In una convulsione suprema, producono uno sforzo tale che la pietra, non potendo disperdere i suoi principi vitali,
balza da sola in alto, come per effetto della polvere da sparo, e ricade, sprofondando compatta nel suolo. Talvolta il contadino pensieroso scorge un aerolito fendere verticalmente lo spazio dirigendosi, in basso, verso un campo di mais. Non sa da dove venga quella pietra. Ecco che avete, chiara e succinta, la spiegazione del fenomeno. Se la terra fosse coperta di pidocchi, come di granelli di sabbia la riva del mare, la razza umana sarebbe annientata, in preda a dolori terribili. Che spettacolo! E io, con ali d'angelo, immobile nell'aria, a contemplarlo. O matematiche severe, io non vi ho dimenticato da quando le vostre lezioni sapienti, più dolci del miele, filtrarono nel mio cuore come un'onda rinfrescante. Istintivamente, fin dalla culla, aspiravo a bere alla vostra fonte, più antica del sole, e ancora continuo a calcare il sacro vestibolo del vostro tempio solenne, io, il più fedele dei vostri iniziati. C'era del vago nella mia mente; un non so che di denso come il fumo; ma seppi salire religiosamente i gradini che portano al vostro altare, e voi avete scacciato quel velo oscuro, come il vento scaccia la procellaria. Avete messo al suo posto una freddezza eccessiva, una prudenza convinta e una logica implacabile. Con l'aiuto del vostro latte fortificante, la mia intelligenza si è rapidamente sviluppata e ha assunto proporzioni immense, nella chiarezza meravigliosa che donate con prodigalità a chi vi ama di amore sincero. Aritmetica! algebra! geometria! grandiosa trinità! luminoso triangolo! Chi non vi ha conosciuto è un insensato! Meriterebbe la prova dei massimi supplizi; c'è infatti un cieco disprezzo nella sua ignorante incuranza; ma chi vi conosce e apprezza non vuole più nessuno dei beni della terra; si contenta dei vostri magici godimenti e, portato sulle vostre ali oscure, non desidera altro che innalzarsi, con volo leggero, costruendo una spirale ascendente, verso la volta sferica dei cieli. La terra, ormai, gli mostra soltanto illusioni e fantasmagorie morali; ma voi, o matematiche concise, con la rigorosa concatenazione delle vostre tenaci proposizioni e la costanza delle vostre ferree leggi, fate risplendere, davanti agli occhi abbagliati, un potente riflesso di quella verità suprema di cui si nota l'impronta nell'ordine dell'universo. Ma l'ordine che vi circonda, rappresentato soprattutto dalla perfetta regolarità del quadrato, caro a Pitagora, è ancora più grande; perché l'Onnipotente si è rivelato completamente, lui e i suoi attributi, in quel lavoro memorabile che consiste nel far uscire dalle viscere del caos i vostri tesori di teoremi e i vostri magnifici splendori. Nelle epoche antiche e nei tempi moderni, più
di una grande immaginazione umana vide il proprio genio, atterrito, contemplare le vostre figure simboliche tracciate sulla carta bruciante, come altrettanti segni misteriosi, vivi di un respiro latente, che il volgare profano non comprende e che altro non erano che la rivelazione splendente di assiomi e geroglifici eterni, esistiti prima dell'universo, e che a lui sopravviveranno. Essa si chiede, china sul precipizio di un fatale punto interrogativo, come mai le matematiche contengano tante grandezze imponenti e tanta incontestabile verità, mentre, paragonandole all'uomo, in quest'ultimo non trova che falso orgoglio e menzogna. Allora quello spirito superiore, rattristato, a cui la nobile familiarità dei vostri consigli fa sentire ancora di più la piccolezza dell'umanità e la sua incomparabile follia, affonda la testa canuta nella mano scarna, e resta assorto in meditazioni soprannaturali. Piega le sue ginocchia davanti a voi, e la sua venerazione rende omaggio al vostro volto divino, come all'immagine vera dell'Onnipotente. Durante la mia infanzia, mi appariste in una notte di maggio, ai raggi della luna, in un prato verdeggiante, sulle rive di un limpido ruscello, tutte e tre eguali per grazia e pudore, tutte e tre maestose come regine. Avanzaste di qualche passo verso di me, con le lunghe vesti fluttuanti e vaporose, e mi attiraste verso le vostre fiere mammelle, come un figlio benedetto. Allora mi precipitai, con le mani contratte sul vostro bianco seno. Con riconoscenza, mi sono nutrito della vostra manna feconda, e ho sentito che l'umanità cresceva in me, e diventava migliore. Da allora, o dee rivali, non vi ho abbandonato. Da allora, quanti progetti energici, quante simpatie, che credevo di aver impresso sulle pagine del mio cuore come sul marmo, hanno cancellato lentamente dalla mia ragione disillusa le loro linee configurative, come l'alba nascente cancella le ombre della notte! Da allora, ho visto la morte con l'intenzione, visibile a occhio nudo, di popolare le tombe, devastare i campi di battaglia concimati con il sangue umano, e far spuntare fiori mattutini sopra il funebre ossame. Da allora, ho assistito alle rivoluzioni del nostro globo; i terremoti, i vulcani, con la loro lava infuocata, il simún del deserto e i naufragi della tempesta hanno avuto la mia presenza come spettatore impassibile. Da allora, ho visto numerose generazioni umane alzare, al mattino, le ali e gli occhi verso lo spazio, con la gioia inesperta della crisalide che saluta la sua ultima metamorfosi, e morire, la sera, prima del tramonto, a testa curva, come i fiori appassiti che il sibilo lamentoso del vento fa oscillare. Ma voi, rimanete sempre le stesse. Nessun cambiamento, nessun vento appestato sfiora le rocce scoscese e le vallate immense della vostra identità. Le
vostre piramidi modeste dureranno più delle piramidi d'Egitto, formicai innalzati dalla stupidità e dalla schiavitù. La fine dei secoli vedrà ancora, alte sulle rovine dei tempi, le vostre cifre cabalistiche, le vostre laconiche equazioni e le vostre linee scultoree, sedute alla destra vendicatrice dell'Onnipotente, mentre le stelle sprofonderanno, con disperazione, come trombe marine, nell'eternità di una notte orribile e universale, e l'umanità, con il volto ghignante, penserà a fare i suoi conti con l'ultimo giudizio. Grazie, per i servigi innumerevoli che mi avete reso. Grazie, per le qualità diverse di cui avete arricchito la mia intelligenza. Senza di voi, nella mia lotta contro l'uomo forse sarei stato vinto. Senza di voi, egli mi avrebbe fatto rotolare nella sabbia e baciare la polvere dei suoi piedi. Senza di voi, con un artiglio perfido mi avrebbe lacerato la carne e le ossa. Ma sono stato in guardia, come un atleta esperto. Voi mi deste la freddezza che nasce dalle vostre sublimi concezioni, esenti da passioni. Me ne servii per respingere con sdegno le gioie effimere del mio breve viaggio e per scacciare dalla mia soglia le offerte simpatiche ma ingannevoli dei miei simili. Voi mi deste la prudenza ostinata che si decifra ad ogni passo nei vostri mirabili metodi di analisi, di sintesi e di deduzione. Me ne servii per disorientare le astuzie perniciose del mio nemico mortale, per attaccarlo a mia volta con abilità, e affondare nelle viscere dell'uomo un pugnale acuminato che gli rimarrà conficcato per sempre nel corpo; perché di questa ferita non guarirà mai. Voi mi deste la logica, che è l'anima stessa dei vostri insegnamenti pieni di saggezza; con i suoi sillogismi, il cui labirinto tanto più è complicato e più è comprensibile, la mia intelligenza sentì raddoppiare le sue forze audaci. Grazie a questo terribile alleato, scoprii nell'umanità, nuotando verso i bassifondi, davanti allo scoglio dell'odio, la malvagità nera e schifosa, che marciva tra miasmi deleterî, ammirandosi l'ombelico. Per primo, scoprii, nelle tenebre delle sue viscere, quel vizio nefasto, il male!, in sé superiore al bene. Con quest'arma avvelenata che mi concedeste, feci scendere dal suo piedistallo, costruito dalla viltà dell'uomo, lo stesso Creatore! Digrignò i denti e subì quest'ingiuria ignominiosa, perché aveva per avversario qualcuno più forte di lui. Ma io lo lascerò in disparte, come una cosa da niente, per abbassare il mio volo... Il pensatore Cartesio fece un giorno questa riflessione: nulla di solido era stato costruito su di voi. Era un modo ingegnoso per far capire che il primo venuto non poteva scoprire subito il vostro inestimabile valore. Infatti, cosa c'è di più solido delle tre qualità principali già nominate, che si elevano, intrecciate come un'unica corona, sull'augusta
sommità della vostra colossale architettura? Monumento che si accresce senza sosta di scoperte quotidiane, nelle vostre miniere di diamante, e di esplorazioni scientifiche nei vostri magnifici domini. O matematiche sante, possiate, con il vostro perpetuo commercio, consolare il resto dei miei giorni della malvagità dell'uomo e dell'ingiustizia del Grande Tutto! «O lampada dal becco d'argento, i miei occhi ti scorgono nell'etere, compagna della volta delle cattedrali, e cercano la causa di tale sospensione. Si dice che i tuoi bagliori illuminino, di notte, la folla di coloro che vengono ad adorare l'Onnipotente, e che tu mostri ai pentiti la via che conduce all'altare. Ascolta, è molto probabile; ma... hai proprio bisogno di rendere tali favori a chi non devi nulla? Lascia sprofondate nelle tenebre le colonne delle basiliche; e quando una folata della tempesta su cui turbina il demonio, trascinato nello spazio, penetrerà con lui nel luogo santo, spargendovi il terrore, invece di lottare con coraggio contro la raffica appestata del principe del male, spegniti repentinamente sotto il suo respiro febbrile, perché lui possa, senza essere visto, scegliere le sue vittime tra i credenti inginocchiati. Se farai questo, potrai dire che ti dovrò tutta la mia felicità. Quando splendi così, diffondendo i tuoi chiarori incerti ma sufficienti, io non oso abbandonarmi ai suggerimenti del mio carattere, e rimango, sotto il portico sacro, a guardare attraverso il portale socchiuso coloro che sfuggono alla mia vendetta, nel grembo del Signore. O lampada poetica! tu che mi saresti amica se potessi capirmi, perché, quando i miei piedi calcano il basalto delle chiese nelle ore notturne, ti metti a brillare in un modo che, lo confesso, mi sembra straordinario? Allora i tuoi riflessi si colorano delle bianche sfumature della luce elettrica; l'occhio non può fissarti, e tu rischiari con una fiamma nuova e possente i minimi dettagli del canile del Creatore, come se fossi in preda a una santa collera. E quando io mi ritraggo dopo aver bestemmiato, tu ridiventi impercettibile, modesta e pallida, sicura di aver compiuto un atto di giustizia. Dimmi un po': è forse perché conosci i meandri del mio cuore che, quando mi accade di comparire là dove tu vegli, ti affretti a indicare la mia presenza perniciosa, e a volgere l'attenzione degli adoratori verso il lato dove si è mostrato il nemico degli uomini? Sono incline a questa opinione; anch'io, infatti, comincio a conoscerti; e so chi sei, vecchia strega che vegli tanto bene sulle moschee sacre, dove si pavoneggia, come la cresta di un gallo, il tuo curioso padrone. Vigile custode, ti sei data una missione folle. Ti avverto: la prima volta che mi segnalerai alla prudenza dei miei simili
aumentando i tuoi bagliori fosforescenti, poiché non mi piace questo fenomeno ottico, che del resto non è ricordato in nessun libro di fisica, io ti prendo per la pelle del petto avvinghiando i miei artigli alle croste della tua nuca tignosa, e ti getto nella Senna. Non voglio credere che, quando non faccio nulla, tu ti comporti consapevolmente in modo a me nocivo. Là, ti permetterò di brillare quanto mi piacerà; là, mi deriderai con un sorriso inestinguibile; là, convinta dell'incapacità del tuo olio criminale, tu lo orinerai con amarezza». Dopo aver così parlato, Maldoror non esce dal tempio e rimane con gli occhi fissi sulla lampada del luogo santo... Crede di vedere una specie di provocazione nell'atteggiamento di quella lampada che gli procura un'estrema irritazione con la sua presenza inopportuna. Egli si dice che se in quella lampada è racchiusa un'anima, è certo vile se non risponde con sincerità a un attacco leale. Batte l'aria con le braccia nervose e vorrebbe che la lampada si trasformasse in uomo; le farebbe passare un brutto quarto d'ora, si ripromette. Ma come può una lampada trasformarsi in uomo? Non è naturale. Egli non si rassegna, e va a cercare, sul sagrato della miserabile pagoda, un sasso piatto, dal taglio affilato. Lo lancia in aria con forza... la catena viene spezzata nel mezzo, come l'erba dalla falce, e lo strumento del culto cade a terra spargendo il suo olio sulle lastre di pietra... Afferra la lampada per portarla fuori, ma essa resiste e si fa più grande. Gli sembra di vedere delle ali sui suoi fianchi, e la parte superiore assume la forma di un busto d'angelo. Il tutto fa per alzarsi in aria, per prendere il volo; ma egli, con mano ferma, lo trattiene. Una lampada e un angelo che formano uno stesso corpo, ecco una cosa che non si vede spesso. Egli riconosce la forma della lampada; riconosce la forma dell'angelo; ma non riesce a scinderle nella propria mente; infatti, nella realtà, sono incollate l'una all'altra, e formano un corpo unico, indipendente e libero; ma egli crede che una nube gli abbia ottenebrato gli occhi e gli abbia fatto perdere, in parte, l'eccellenza della vista. Tuttavia si prepara a lottare con coraggio, perché il suo avversario non ha paura. Gli ingenui raccontano, a chi è disposto a crederlo, che il sacro portale si richiuse da solo ruotando sui cardini afflitti, affinché nessuno potesse assistere a quell'empia lotta, le cui peripezie stavano per svolgersi dentro la cinta del santuario violato. L'uomo con il mantello, mentre riceve ferite crudeli da una spada invisibile, tenta di avvicinare alla bocca il volto dell'angelo; non pensa che a questo, e ogni suo sforzo tende a questo scopo. L'angelo perde energia e sembra presagire il proprio destino. Lotta ormai debolmente, e già si vede il momento in cui l'avversario potrà
baciarlo a suo agio, se è questo che vuol fare. Ebbene, il momento è giunto. Con i suoi muscoli serra la gola dell'angelo che non riesce più a respirare, e gli rovescia il volto appoggiandoselo sul petto odioso. Per un attimo è commosso dalla sorte che attende quell'essere celeste di cui avrebbe fatto volentieri il proprio amico. Ma dice a se stesso che costui è il messo del Signore, e non può trattenere il suo corruccio. Ecco fatto, qualcosa di orribile sta rientrando nella gabbia del tempo! Si china e avvicina la lingua imbevuta di saliva a quella guancia angelica che getta sguardi supplici. Fa passare per un po' la lingua su quella guancia. Oh! guardate!... ma guardate!... la guancia bianca e rosa è diventata nera come un carbone! Esala miasmi putridi. È la cancrena; non è più possibile dubitarne. Il male corrosivo si stende sul volto intero e, da lì, esercita le sue furie sulle parti inferiori; presto l'intero corpo non è altro che una vasta piaga immonda. Lui stesso, spaventato (perché non credeva che la sua lingua contenesse un veleno di tale violenza), raccoglie la lampada e fugge dalla chiesa. Una volta fuori, scorge nell'aria una forma nerastra, con ali bruciate, che penosamente dirige il suo volo verso le regioni del cielo. Si scrutano l'un l'altro, mentre l'angelo sale verso le altezze serene del bene, e lui, Maldoror, scende invece verso gli abissi vertiginosi del male... Che sguardo! Tutto ciò che l'umanità ha pensato da sessanta secoli, e ciò che ancora penserà nei secoli successivi, potrebbe agevolmente esservi contenuto, tante furono le cose che si dissero in quel supremo addio! Ma si trattava, è evidente, di pensieri più elevati di quelli che scaturiscono dall'intelligenza umana; innanzitutto a causa dei due personaggi, e poi della circostanza. Quello sguardo li unì in un'amicizia eterna. Egli si stupisce che il Creatore possa avere missionari di animo tanto nobile. Crede, per un istante, di essersi ingannato, e si chiede se abbia fatto bene, come ha fatto, a seguire la via del male. Il turbamento è passato; egli persevera nella sua decisione; è glorioso, secondo lui, vincere presto o tardi il Grande Tutto, per regnare al suo posto sull'universo intero, e su legioni di angeli così belli. Quell'angelo gli fa capire, senza parole, che riprenderà la propria forma primitiva man mano che risalirà verso il cielo; lascia cadere una lacrima, che rinfresca la fronte di colui che gli ha inflitto la cancrena; e poco a poco scompare, come un avvoltoio innalzandosi tra le nubi. Il colpevole guarda la lampada, causa di quanto precede. Corre come un insensato attraverso le strade, si dirige verso la Senna e lancia la lampada oltre il parapetto. Essa volteggia per qualche istante, e affonda definitivamente nelle acque limacciose. Da quel giorno, ogni sera, al calare
della notte, si vede una lampada splendente emergere e mantenersi con grazia sulla superficie del fiume, all'altezza del ponte Napoléon, con due graziose ali d'angelo al posto dei manici. Avanza lentamente sulle acque, passa sotto le arcate del ponte della Stazione e del ponte di Austerlitz, e prosegue la sua scia silenziosa sulla Senna, fino al ponte dell'Alma. Una volta giunta lì, risale facilmente il corso del fiume, e in capo a quattro ore torna al punto di partenza. E così via, per tutta la notte. I suoi bagliori bianchi come la luce elettrica, fanno scomparire i lampioni a gas che fiancheggiano le due rive, tra cui essa avanza come una regina solitaria, impenetrabile, con un sorriso inestinguibile, senza che il suo olio si sparga con amarezza. All'inizio i battelli le davano la caccia; ma essa sventava quegli sforzi vani, sfuggiva ad ogni inseguimento, tuffandosi vezzosa e riapparendo più lontana, a grande distanza. Ora i marinai superstiziosi, quando la vedono, remano in direzione opposta e trattengono le loro canzoni. Quando passate sopra un ponte, di notte, fate bene attenzione; siete certi di veder brillare la lampada qua o là; ma dicono che non si mostri a chiunque. Quando passa sui ponti un essere umano che ha qualcosa sulla coscienza, immediatamente essa spegne i propri riflessi, e il passante spaventato fruga invano, con sguardo disperato, la superficie e il limo del fiume. Egli sa che cosa significa. Vorrebbe credere di aver visto il celeste bagliore; ma dice a se stesso che la luce proveniva dalla prua dei battelli o dal riflesso dei lampioni a gas; e ha ragione... Lo sa che è stato lui a provocare quella scomparsa; e, immerso in tristi pensieri, affretta il passo per raggiungere la propria dimora. Allora la lampada dal becco d'argento riappare alla superficie, e prosegue il suo cammino, con arabeschi eleganti e capricciosi. Ascoltate i pensieri della mia infanzia, quando mi svegliavo, umani dalla verga rossa: «Mi sono appena svegliato, ma il mio pensiero è ancora intorpidito. Ogni mattina sento un peso nella testa. Raramente trovo riposo durante la notte, perché sogni orribili mi tormentano, quando riesco ad addormentarmi. Di giorno, il mio pensiero si affatica in meditazioni bizzarre, mentre i miei occhi errano a caso nello spazio; e di notte non riesco a dormire. Ma allora, quando devo dormire? Eppure la natura ha bisogno di reclamare i propri diritti. Poiché la disdegno, essa mi rende pallido il volto, e mi fa brillare gli occhi con la fiamma acre della febbre. Del resto, non chiederei di meglio che non sfinirmi la mente in continue riflessioni; ma anche se non lo volessi, i miei sentimenti costernati mi
trascinerebbero inevitabilmente verso quella china. Mi sono accorto che gli altri bambini sono come me; ma più pallidi ancora, e le loro sopracciglia sono aggrottate come quelle degli uomini, nostri fratelli maggiori. O Creatore dell'universo, questa mattina non mancherò di offrirti l'incenso della mia preghiera infantile. Talvolta lo dimentico, e ho notato che in quei giorni mi sento più felice del solito; il petto mi si dilata, libero da ogni costrizione, e io respiro più agevolmente l'aria profumata dei campi; invece, quando compio il penoso dovere, ordinato dai miei genitori, di rivolgerti quotidianamente un cantico di lodi, accompagnato dalla noia inseparabile che mi provoca la sua laboriosa invenzione, allora sono triste e irritato per il resto del giorno, perché non mi sembra logico e naturale dire ciò che non penso, e cerco il ritiro delle solitudini immense. Se ad esse chiedo la spiegazione di questo strano stato della mia anima, esse non mi rispondono. Vorrei amarti e adorarti, ma sei troppo potente, e nei miei inni c'è paura. Se, con una sola manifestazione del tuo pensiero, puoi distruggere o creare dei mondi, le mie deboli preghiere non ti saranno utili; se, quando ti piace, invii il colera a devastare le città o la morte a rapire con i suoi artigli, senza alcuna distinzione, le quattro età della vita, io non voglio legarmi a un amico tanto temibile. Non che l'odio diriga il filo dei miei ragionamenti; ma, al contrario, ho paura del tuo odio, che, per un ordine capriccioso, può uscirti dal cuore e diventare immenso come le ali aperte dei condor delle Ande. I tuoi divertimenti equivoci non sono alla mia portata, e probabilmente ne sarei la prima vittima. Tu sei l'Onnipotente; non ti contesto questo titolo, perché tu solo hai il diritto di portarlo, e i tuoi desideri, dalle conseguenze funeste o fauste, hanno un termine soltanto in te stesso. Ecco precisamente perché sarebbe per me doloroso camminare a fianco della tua crudele tunica di zaffiro, non come tuo schiavo ma potendo diventarlo da un momento all'altro. È vero che quando scendi in te stesso per scrutare la tua condotta sovrana, se il fantasma di un'ingiustizia passata, commessa nei confronti di questa sventurata umanità che ti ha sempre obbedito come il tuo amico più fedele, erige di fronte a te le vertebre di una spina dorsale vendicatrice, il tuo occhio torvo lascia cadere la lacrima spaventata del rimorso tardivo, e allora, con i capelli irti, credi tu stesso di prendere sinceramente la risoluzione di appendere per sempre ai cespugli del nulla i giochi inconcepibili della tua immaginazione di tigre, che sarebbe burlesca se non fosse deplorevole; ma so anche che la costanza non ha fissato nelle tue ossa, come un tenace midollo, l'arpione della sua eterna dimora, e che
ricadi assai spesso, tu e i tuoi pensieri ricoperti dalla nera lebbra dell'errore, nel lago funebre delle cupe maledizioni. Voglio credere che queste siano incoscienti (benché rinchiudano in sé il loro veleno fatale), e che il male e il bene, uniti insieme, si diffondano a balzi impetuosi dal tuo regale petto cancrenoso, come il torrente dalla roccia, per il segreto incantesimo di una forza cieca; ma niente me ne fornisce la prova. Troppo spesso ho visto i tuoi denti immondi sbattere di rabbia, e il tuo augusto volto, coperto dal muschio del tempo, arrossire come un carbone ardente a causa di qualche microscopica futilità commessa dagli uomini, per potermi fermare più a lungo davanti all'insegna di quest'ipotesi bonaria. Ogni giorno, a mani giunte, innalzerò verso di te gli accenti della mia umile preghiera, perché ciò è dovuto; ma, ti supplico, la tua provvidenza non pensi a me; lasciami perdere, come il vermiciattolo che striscia sottoterra. Sappi che preferirei nutrirmi avidamente delle piante marine di isole sconosciute e selvagge, trascinate in quei luoghi dalle onde tropicali nel loro seno schiumoso, piuttosto di sapere che tu mi osservi e riponi nella mia coscienza il tuo scalpello ghignante. Essa ti ha appena rivelato la totalità dei miei pensieri, e spero che la tua prudenza applaudirà facilmente il buon senso di cui essi conservano l'incancellabile impronta. A parte queste riserve sul genere di relazioni più o meno intime che devo intrattenere con te, la mia bocca è pronta, a qualsiasi ora del giorno, a esalare, come un soffio artificiale, il fiotto di menzogne che la tua gloriuccia esige severamente da ogni essere umano, non appena l'aurora s'innalza bluastra, cercando la luce nelle pieghe di raso del crepuscolo, come io cerco la bontà, mosso dall'amore del bene. I miei anni non sono molti, eppure sento già che la bontà non è altro che un assieme di sillabe sonore; non l'ho trovata in nessun luogo. Tu lasci intravedere troppo il tuo carattere; bisognerebbe nasconderlo con maggiore accortezza. Del resto, forse mi sbaglio, forse lo fai apposta, poiché meglio di chiunque altro sai come comportarti. Gli uomini, loro, considerano glorioso imitarti; per questo la santa bontà non riconosce il proprio tabernacolo nei loro occhi selvaggi: tale padre, tale figlio. Qualunque cosa si debba pensare della tua intelligenza, ne parlo da critico imparziale. Non chiedo di meglio che essere stato indotto in errore. Non desidero mostrarti l'odio che ti porto e che covo con amore, come una figlia prediletta; meglio infatti nasconderlo ai tuoi occhi e assumere soltanto, davanti a te, l'aspetto di un censore severo, incaricato di controllare i tuoi atti impuri. Così cesserai ogni rapporto attivo con costui, lo dimenticherai e distruggerai completamente
quell'avida cimice che ti rode il fegato. Preferisco piuttosto farti udire parole fantasiose e dolci... Sì, sei stato tu a creare il mondo e tutto ciò che racchiude. Sei perfetto. Nessuna virtù ti manca. Sei molto potente, lo sanno tutti. L'universo intero intoni, a ogni ora, il tuo cantico eterno! Gli uccelli ti benedicono spiccando il volo nella campagna. Le stelle ti appartengono Così sia!». E dopo simili inizi, stupitevi di trovarmi come sono! Cercavo un'anima che mi somigliasse e non riuscivo a trovarla. Frugavo ogni angolo della terra; la mia perseveranza era inutile. Eppure non potevo rimanere solo. Occorreva qualcuno che approvasse il mio carattere; occorreva qualcuno che avesse le mie stesse idee. Era mattina; il sole si alzò all'orizzonte in tutta la sua magnificenza, ed ecco che davanti ai miei occhi si alza anche un giovane la cui presenza generava fiori sui suoi passi. Mi si avvicinò e, porgendomi la mano: «Sono venuto a te, a te che mi cerchi. Benediciamo questo giorno felice». Ma io: «Vattene; non ti ho chiamato; non ho bisogno della tua amicizia». Era sera; la notte cominciava a stendere il nero del suo velo sopra la natura. Una bella donna, che appena distinguevo, stendeva anche su di me la sua influenza incantatrice, e mi guardava con compassione; ma non osava parlarmi. Io dissi: «Avvicinati, in modo che io possa distinguere nettamente i lineamenti del tuo volto; perché la luce delle stelle non è abbastanza forte per illuminarli a questa distanza». Allora, con andatura modesta e gli occhi bassi, sfiorò l'erba del prato dirigendosi verso di me. Appena la vidi: «Vedo che la bontà e la giustizia hanno eletto residenza nel tuo cuore; noi non potremmo vivere insieme. Ora ammiri la mia bellezza, che ha sconvolto più di una donna; ma, prima o poi, ti pentiresti di avermi consacrato il tuo amore, perché non conosci la mia anima. Non che ti sarei infedele, questo no: a colei che si dà a me con tanto abbandono e fiducia, io mi do con altrettanta fiducia e altrettanto abbandono; ma mettitelo bene in testa e non dimenticarlo mai: i lupi e gli agnelli non si guardano con occhi dolci». Ma di che avevo bisogno, io che rifiutavo con tanto disgusto ciò che vi era di più bello nell'umanità! di che avessi bisogno, non avrei saputo dirlo. Non ero ancora abituato a rendermi conto, rigorosamente, dei fenomeni della mia mente per mezzo dei metodi raccomandati dalla filosofia. Mi sedetti su una roccia, vicino al mare. Una nave aveva appena spiegato tutte le vele per allontanarsi da quei luoghi: un punto impercettibile era apparso all'orizzonte, e si avvicinava poco a poco, spinto
dalla raffica, ingrandendosi rapidamente. La tempesta stava per iniziare i suoi attacchi, e già il cielo si oscurava, diventando di un nero schifoso, quasi quanto il cuore dell'uomo. La nave, che era un grande vascello da guerra, aveva appena gettato tutte le sue ancore, per non essere infranta sugli scogli della costa. Il vento fischiava infuriato dai quattro punti cardinali, lacerava le vele. I tuoni scoppiavano tra i lampi e non riuscivano a sovrastare il rumore dei lamenti che si udivano sulla casa senza fondamenta, sepolcro mobile. Il rollio di quelle masse d'acqua non era riuscito a spezzare le catene delle ancore; ma i colpi avevano aperto una falla sui fianchi della nave. Breccia enorme; le pompe non bastano a respingere le masse d'acqua salata che si abbattono schiumeggiando sul ponte, come montagne. La nave in difficoltà spara cannonate d'allarme; ma affonda lentamente... maestosamente. Chi non ha visto un vascello affondare in mezzo all'uragano, nell'intermittenza dei lampi e dell'oscurità più profonda, mentre coloro che contiene sono affranti dalla disperazione che sapete, costui non conosce gli incidenti della vita. Finalmente, dall'interno dei fianchi del vascello prorompe un grido universale di dolore immenso, mentre il mare raddoppia i suoi attacchi spaventosi. È il grido lanciato dall'abbandono delle forze umane. Ognuno si avvolge nel mantello della rassegnazione, e rimette la propria sorte nelle mani di Dio. Ci si ammucchia l'uno sull'altro, come un gregge di pecore. La nave in difficoltà spara cannonate d'allarme; ma affonda lentamente... maestosamente. Hanno fatto funzionare le pompe per tutto il giorno. Inutili sforzi. La notte è scesa, fonda, spietata, per concludere questo spettacolo grazioso. Ognuno si dice che una volta nell'acqua non potrà più respirare; per quanto torni indietro, lontano, con la memoria, non si riconosce nessun pesce per antenato; ma si esorta a trattenere il respiro il più a lungo possibile, per prolungare la vita di due o tre secondi; è questa l'ironia vendicatrice che vuole rivolgere alla morte... La nave in difficoltà spara cannonate d'allarme; ma affonda lentamente... maestosamente. Nessuno sa che il vascello, affondando, provoca una potente circonvoluzione delle onde; che il limo fangoso si è mescolato alle acque torbide, e che una forza proveniente da sotto, contraccolpo della tempesta che devasta in alto, imprime all'elemento movimenti sussultorî e nervosi. Così, malgrado la provvista di sangue freddo raccolta in precedenza, il futuro annegato, dopo più ampia riflessione, dovrà sentirsi fortunato se prolungherà la propria vita, nei vortici dell'abisso, della metà di una respirazione ordinaria, a far buon peso. Gli sarà dunque impossibile ingannare la morte, suo voto
supremo. La nave spara cannonate d'allarme; ma affonda, lentamente... maestosamente. Errore. Non spara più cannonate, non affonda. Il guscio di noce si è inabissato completamente. O cielo! come si può vivere dopo aver provato tante voluttà! Mi era stato appena concesso di essere testimone delle agonie di morte di molti miei simili. Minuto per minuto, seguivo le peripezie delle loro angosce. Ora prendeva il sopravvento il mugolio di qualche vecchia impazzita di paura. Ora, il solo guaìto di un poppante impediva di udire i comandi di manovra. Il vascello era troppo lontano perché io percepissi disfintamente i gemiti che le raffiche mi portavano; tuttavia mi avvicinavo io a loro con la volontà, e l'illusione ottica era completa. Ogni quarto d'ora, quando un colpo di vento più forte degli altri, emettendo i suoi lugubri accenti tra le grida delle procellarie atterrite, spezzava la nave con una frattura longitudinale, e aumentava i lamenti di coloro che stavano per essere offerti in olocausto alla morte, io mi affondavo nella guancia la punta aguzza di un ferro, e segretamente pensavo: «Loro soffrono di più!». Così, almeno avevo un termine di paragone. Dalla riva li apostrofavo, lanciando loro imprecazioni e minacce. Mi sembrava che dovessero udirmi! Mi sembrava che il mio odio e le mie parole, superando la distanza, annientassero le leggi fisiche del suono, e giungessero distinte alle loro orecchie assordate dai muggiti dell'oceano infuriato. Mi sembrava che dovessero pensare a me, ed esalare la loro vendetta in rabbia impotente! Di tanto in tanto gettavo lo sguardo verso le città addormentate sulla terraferma; e vedendo che nessuno sospettava che un vascello stesse affondando a qualche miglio dalla riva, con una corona di uccelli da preda e un piedistallo di giganti acquatici dal ventre vuoto, riprendevo coraggio e mi tornava la speranza: ero dunque sicuro della loro rovina! Non potevano fuggire! Per maggior precauzione, ero andato a prendere il mio fucile a due colpi, così, se qualche naufrago fosse stato tentato di raggiungere gli scogli a nuoto per sfuggire a una morte imminente, una pallottola nella spalla gli avrebbe fracassato il braccio, impedendogli di attuare il suo piano. Nel momento più furioso della tempesta, vidi galleggiare sulle acque, con sforzi disperati, una testa energica dai capelli irti. Inghiottiva acqua a litri e sprofondava nell'abisso, sballottato come un sughero. Ma presto riappariva, con i capelli grondanti; e, fissando lo sguardo sulla riva, sembrava che sfidasse la morte. Il suo sangue freddo era ammirevole. Una larga ferita sanguinante, provocata da qualche punta di scoglio nascosto, sfregiava il suo volto intrepido e nobile. Non doveva avere più di sedici anni perché, attraverso i lampi che
illuminavano la notte, si scorgeva sul suo labbro appena una lanugine di pesca. E ora, era a soli duecento metri dalla scogliera; e lo distinguevo facilmente. Che coraggio! Che spirito indomabile! E in quale modo l'immobilità della sua testa sembrava sfidare il destino, mentre con vigore fendeva l'onda i cui solchi si aprivano a fatica davanti a lui!... Avevo già deciso. Dovevo mantenere la mia promessa: l'ultima ora era suonata per tutti, nessuno doveva sfuggire. Questa, la mia risoluzione; niente l'avrebbe cambiata... Si udì un suono secco, e subito la testa affondò, per non riapparire più. Questo delitto non mi procurò tutto il piacere che si potrebbe credere; proprio perché non ne potevo più di uccidere, e ormai continuavo a farlo per una semplice abitudine, di cui non si può fare a meno, ma che procura soltanto un debole godimento. I sensi sono smorzati, induriti. Che voluttà si poteva provare per la morte di quell'essere umano, quando ce n'erano più di un centinaio che stavano per offrirsi a me, in spettacolo, nella loro ultima lotta contro i flutti, una volta sommersa la nave? In quella morte non provavo neppure l'attrazione del pericolo, perché la giustizia umana, cullata dall'uragano di quella notte spaventosa, sonnecchiava nelle case a pochi passi da me. Oggi che gli anni pesano sul mio corpo, lo dico con sincerità, come una verità suprema e solenne: non ero così crudele come si è poi detto tra gli uomini; ma a volte la loro malvagità esercitava le sue devastazioni perseveranti per anni interi. Allora il mio furore non conosceva più limiti; ero assalito da accessi di crudeltà, e diventavo terribile con chi si avvicinava al mio sguardo torvo, se apparteneva alla mia razza. Se invece era un cavallo o un cane, lo lasciavo passare: avete udito che ho detto? Sfortunatamente, la notte di quella tempesta ero in preda a uno di quegli accessi, la mia ragione era svanita (perché di solito ero altrettanto crudele, ma più prudente); e tutto ciò che allora mi fosse caduto tra le mani doveva perire; non pretendo di giustificare i miei torti. La colpa non è tutta dei miei simili. Mi limito a constatare ciò che è, in attesa dell'ultimo giudizio che già ora fa sì che mi gratti la nuca Ma che m'importa dell'ultimo giudizio! La mia ragione non svanisce mai; lo dicevo per ingannarvi. E quando commetto un crimine, so ciò che faccio: non volevo fare altro! In piedi sullo scoglio, mentre l'uragano mi frustava i capelli e il mantello, spiavo in estasi la forza della tempesta che si accaniva su una nave, sotto un cielo senza stelle. Seguii, con atteggiamento trionfale, tutte le peripezie di quel dramma, dall'istante in cui il vascello gettò le ancore fino al momento in cui s'inabissò, abito fatale che trascinò nelle viscere del mare coloro che se ne erano rivestiti
come di un mantello. Ma si avvicinava il momento in cui io stesso sarei stato coinvolto come attore in quelle scene della natura sconvolta. Quando il luogo in cui il vascello aveva sostenuto il combattimento mostrò chiaramente che era andato a passare il resto dei suoi giorni al pianterreno del mare, allora coloro che erano stati trascinati via con i flutti riapparvero, in parte, in superficie. Si afferrarono per la vita, due a due, tre a tre; era il modo per non salvarsi la vita; infatti i loro movimenti diventavano impacciati, e colavano a picco come brocche bucate... Cos'è quell'esercito di mostri marini che fende rapido i flutti? Sono sei; hanno pinne vigorose, e si aprono un varco attraverso le onde sollevate. Di tutti quegli esseri umani che agitano le quattro membra in quel continente poco stabile, ben presto gli squali fanno una frittata senza uova, e se la dividono secondo la legge del più forte. Il sangue si mescola alle acque, e le acque si mescolano al sangue. I loro occhi feroci rischiarano a sufficienza la scena della carneficina... Ma cos'è, ancora, quel tumulto d'acque, laggiù, all'orizzonte? Si direbbe una tromba d'aria in avvicinamento. Che colpi di remo! Vedo cos'è. Un'enorme femmina di squalo viene a prendere parte al pasticcio di fegato d'anatra, e a mangiare del bollito freddo. È furiosa, perché arriva affamata. Ha inizio una lotta tra lei e gli squali per disputarsi le poche membra palpitanti che galleggiano qua e là, senza dir nulla, sulla superficie della crema rossa. Morde a destra e a sinistra, provocando ferite mortali. Ma tre squali vivi la circondano ancora, ed è costretta a roteare in ogni direzione per sventare le loro manovre. Con emozione crescente, fino allora sconosciuta, lo spettatore segue dalla riva questa battaglia navale di nuovo genere. Il suo sguardo è fisso su quella coraggiosa femmina di squalo, dai denti così forti. Non esita più, imbraccia il fucile, e, con la consueta abilità, piazza la sua seconda pallottola nella branchia di uno degli squali nell'istante in cui si mostra sopra un'onda. Restano due squali, che dimostrano un accanimento ancora maggiore. Dall'alto dello scoglio, l'uomo dalla saliva salmastra si getta in mare e nuota verso il tappeto gradevolmente colorato, impugnando il coltello d'acciaio che non lo abbandona mai. Ormai ogni squalo ha un proprio nemico. Avanza verso il suo stanco avversario e, con calma, gli affonda nel ventre la lama aguzza. La cittadella mobile si sbarazza facilmente dell'ultimo avversario... Il nuotatore e la femmina di squalo, da lui salvata, si trovano di fronte. Si guardarono negli occhi per qualche minuto; e ognuno si stupì di trovare tanta ferocia nello sguardo dell'altro. Girano in tondo nuotando, non si perdono di vista, e tra sé si dicono: «Finora mi sono ingannato; eccone uno
più malvagio di me». Allora, di comune accordo, tra due acque scivolarono l'uno verso l'altra, con ammirazione reciproca, e la femmina di squalo scostava l'acqua con le pinne, e Maldoror batteva l'acqua con le braccia; e trattennero il respiro, con venerazione profonda, desiderosi entrambi di contemplare, per la prima volta, il proprio ritratto vivente. Giunti a tre metri di distanza senza il minimo sforzo, bruscamente caddero l'uno sull'altra, come due calamite, e si abbracciarono con dignità e riconoscenza, in una stretta tenera come quella di un fratello e di una sorella. I desideri carnali seguirono da vicino questa dimostrazione d'amicizia. Due cosce nervose s'incollarono strette alla viscida pelle del mostro, come due sanguisughe; e, con le braccia e le pinne avvinghiate intorno al corpo dell'oggetto amato che avvolgevano con amore, con le gole e i petti che presto non furono altro che una sola massa glauca dalle esalazioni di alghe; in mezzo alla tempesta che continuava a infuriare; al bagliore dei lampi; avendo per letto di nozze l'onda schiumeggiante, trascinati da una corrente sottomarina come in una culla, rotolando su se stessi verso le profondità ignote dell'abisso, si unirono in un accoppiamento lungo, casto e schifoso!... Finalmente avevo trovato qualcuno che mi somigliasse!... Ormai non ero più solo nella vita!... Aveva le mie stesse idee! Avevo di fronte il mio primo amore! La Senna trascina un corpo umano. In circostanze simili, assume un portamento solenne. Il cadavere gonfio galleggia sulle acque; scompare sotto l'arcata di un ponte; ma, più lontano, lo si vede riapparire, roteando lentamente su se stesso come una ruota di mulino, affondando a intervalli. Un battelliere, con l'aiuto di una pertica, l'aggancia mentre passa, e lo riporta a terra. Prima di trasportare il corpo alla Morgue, per un po' lo lasciano sull'argine, per riportarlo in vita. La folla compatta si raccoglie intorno al corpo. Quelli che non riescono a vedere perché si trovano dietro, spingono finché possono quelli che stanno davanti. Ognuno si dice: «Io non mi sarei annegato». Il giovane suicida viene compianto; viene ammirato; ma non imitato. Eppure ha trovato estremamente naturale darsi la morte, giudicando che niente sulla terra fosse in grado di soddisfarlo, e avendo più alte aspirazioni. Ha un aspetto distinto, e abiti ricchi. Avrà diciassette anni? Morire così giovane! La folla paralizzata continua a lanciargli i suoi sguardi immobili... si fa notte. Ognuno si ritira in silenzio. Nessuno osa voltare l'annegato per fargli vomitare l'acqua che gli riempie il corpo. Si teme di passare per sensibili, e nessuno si muove, trincerato
dentro il collo della sua camicia. Uno se ne va, fischiettando acre un assurdo motivetto tirolese; l'altro fa schioccare le dita come nacchere... Ossessionato dai suoi pensieri tetri, Maldoror, sul suo cavallo, passa accanto a quel luogo con la velocità del lampo. Scorge l'annegato; questo gli basta. Subito ha fermato il destriero, ed è sceso dalla staffa. Senza disgusto solleva il giovane, e gli fa rigettare l'acqua in abbondanza. Al pensiero che quel corpo inerte potrebbe rivivere sotto la sua mano, sente il cuore trasalire a tale eccellente impressione, e il suo coraggio raddoppia. Sforzi vani! Sforzi vani, ho detto, ed è vero. Il cadavere resta inerte, e si lascia voltare in ogni direzione. Gli massaggia le tempie; friziona questo membro, e quell'altro; per un'ora gli soffia nella bocca, premendo le sue labbra contro le labbra dello sconosciuto. Finalmente gli sembra di sentire un battito leggero sotto la mano appoggiata su quel petto. L'annegato vive! In quel momento supremo, si poté notare che numerose rughe scomparvero dalla fronte del cavaliere, e lo ringiovanirono di dieci anni. Ma, ahimè, le rughe torneranno, forse domani, forse appena si sarà allontanato dalle rive della Senna. Intanto l'annegato apre gli occhi velati e, con un sorriso flebile, ringrazia il suo benefattore; ma è ancora debole, e non riesce a compiere nessun movimento. Salvare la vita a qualcuno, com'è bello! E come riscatta dalle colpe, quest'azione! L'uomo dalle labbra di bronzo, fino a quel momento impegnato a strapparlo alla morte, osserva il giovane con maggiore attenzione, e i suoi lineamenti non gli sembrano sconosciuti. Pensa che tra l'asfissiato dai capelli biondi e Holzer non ci sia molta differenza. Guardateli, come si abbracciano teneramente! Non importa! L'uomo dalla pupilla di diaspro ci tiene a conservare l'apparenza di un contegno severo. Senza dire una parola, prende l'amico, lo mette in groppa, e il corsiero si allontana al galoppo. Holzer, che ti credevi tanto ragionevole e forte, hai visto, per tua esperienza, quanto sia difficile conservare in un accesso di disperazione il sangue freddo di cui ti vanti. Spero che non mi provocherai più un simile dispiacere, e io, per parte mia, ti ho promesso di non attentare mai alla mia vita. Ci sono ore, nella vita, in cui l'uomo dalla capigliatura pidocchiosa lancia, con occhio fisso, sguardi selvaggi sulle verdi membrane dello spazio; perché gli sembra di udire, davanti a sé, gli schiamazzi ironici di un fantasma. Barcolla e china la testa: ciò che ha udito, è la voce della coscienza. Allora si precipita fuori di casa, con la rapidità di un pazzo, prende la prima direzione che si offre al suo stupore, e divora le rugose
pianure della campagna. Ma il giallo fantasma non lo perde di vista, e lo insegue con eguale velocità. A volte, in una notte di bufera, mentre legioni di polipi alati, da lontano simili ai corvi, planano al di sopra delle nubi, dirigendosi con rapido volo verso le città degli umani con la missione di avvertirli di cambiare condotta, il ciottolo dall'occhio cupo vede passare due esseri al bagliore del lampo, uno dietro l'altro; e, asciugando una furtiva lacrima di compassione che gli cola dalla palpebra gelida, esclama: «Certo, se lo merita; è proprio giusto». Detto questo, riprende il suo atteggiamento feroce, e continua a osservare, con tremito nervoso, la caccia all'uomo e le grandi labbra della vagina d'ombra da cui colano senza tregua, come un fiume, immensi spermatozoi tenebrosi che spiccano il volo nell'etere lugubre, nascondendo col vasto dispiegarsi delle loro ali di pipistrello la natura intera e le solitarie legioni di polipi, divenute tetre alla vista di tali folgorazioni sorde e inesprimibili. Ma intanto continua lo steeple-chase tra i due infaticabili corridori, e il fantasma lancia dalla bocca torrenti di fuoco sulla schiena calcinata dell'antilope umana. Se, nel compimento di questo dovere, incontra per strada la pietà che vuole sbarrargli il passo, cede con ripugnanza alle sue suppliche e lascia fuggire l'uomo. Il fantasma fa schioccare la lingua, come per dire a se stesso che l'inseguimento è ormai finito, e torna al suo canile, fino a nuovo ordine. La sua voce di condannato si ode negli strati più lontani dello spazio; e quando il suo urlo spaventoso penetra nel cuore umano, dicono che costui preferirebbe avere per madre la morte piuttosto che il rimorso per figlio. Affonda la testa fino alle spalle nelle complicazioni terrose di un buco; ma la coscienza volatilizza quest'astuzia da struzzo. Lo scavo evapora, goccia d'etere; appare la luce col suo corteo di raggi, come un volo di chiurli che si abbatta sulle lavande; e l'uomo si ritrova di fronte a se stesso, con gli occhi sbarrati e smorti. L'ho visto dirigersi verso il mare, risalire un promontorio frastagliato e battuto dalla schiuma, e poi precipitarsi tra i flutti come una freccia. Ecco il miracolo: il cadavere riappariva, l'indomani, sulla superficie dell'oceano, che riportava a riva quel rottame di carne. L'uomo si liberava dallo stampo che il suo corpo aveva scavato nella sabbia, strizzava l'acqua dai capelli bagnati, e riprendeva, con fronte muta e china, il cammino della vita. La coscienza giudica severamente i nostri pensieri e i nostri atti più segreti, e non s'inganna. Poiché è spesso impotente a prevenire il male, non smette di braccare l'uomo come una volpe, soprattutto nell'oscurità. Occhi vendicatori, che la scienza ignorante chiama meteore, diffondono una fiamma livida, passano roteando su se
stessi, e articolano parole di mistero... che lui comprende! Allora il suo capezzale è sconvolto dai sussulti del suo corpo schiacciato sotto il peso dell'insonnia, ed egli ode la sinistra respirazione dei vaghi rumori della notte. L'angelo del sonno, colpito mortalmente alla fronte da una pietra sconosciuta, abbandona il suo compito e risale verso i cieli. Ebbene, io mi presento per difendere l'uomo, questa volta; io, il dispregiatore di ogni virtù; io, che non ho potuto dimenticare il Creatore, dal giorno glorioso in cui, rovesciando dal loro zoccolo gli annali del cielo, ai quali, per non so quale imbroglio infame, erano consegnate la sua potenza e la sua eternità, gli applicai le mie quattrocento ventose sotto l'ascella e gli feci emettere grida terribili... Uscendogli dalla bocca, si trasformarono in vipere e andarono a nascondersi tra gli sterpi e le mura in rovina, in agguato di giorno, in agguato di notte. Queste grida, diventate rettili, e dotate di innumerevoli spire, con una testa piccola e appiattita, e occhi perfidi, hanno giurato di arrestarsi di fronte all'innocenza umana; e quando questa si muove tra i viluppi delle macchie, o sul versante opposto dei dirupi, o sulla sabbia delle dune, non tarda a cambiare idea. Se tuttavia è ancora in tempo; perché l'uomo talvolta sente il veleno penetrare nelle vene delle proprie gambe attraverso un morso quasi impercettibile, prima che abbia avuto il tempo di tornare sui propri passi e di prendere il largo. È così che il Creatore, conservando un ammirevole sangue freddo perfino nelle sofferenze più atroci, sa trarre, dal loro stesso seno, germi nocivi agli abitanti della terra. Quale fu dunque il suo stupore quando vide Maldoror, mutato in polipo, avanzare contro il suo corpo con le otto zampe mostruose, ognuna delle quali, solida correggia, avrebbe potuto facilmente abbracciare la circonferenza di un pianeta! Preso alla sprovvista, si dibatté per qualche istante contro quella stretta vischiosa che si serrava sempre più... temevo qualche brutto colpo da parte sua; dopo essermi nutrito in abbondanza dei globuli di quel sangue sacro, mi staccai bruscamente dal suo corpo maestoso, e mi nascosi in una caverna, che da allora divenne la mia dimora. Dopo ricerche infruttuose, non riuscì a trovarmi. È passato molto tempo; ma credo che ora sappia dov'è la mia dimora; evita di entrarci; viviamo come due monarchi vicini, che conoscono le loro forze rispettive, non riuscendo a vincersi l'un l'altro, e sono stanchi delle inutili battaglie del passsato. Mi teme, e io temo lui; ognuno, senza essere vinto, ha provato i rudi colpi dell'avversario; e finisce lì. Eppure sono pronto a ricominciare la lotta, quando lo vorrà. Ma non si aspetti un momento favorevole ai suoi piani segreti. Resterò sempre in guardia, tenendogli gli
occhi addosso. Che non invii più sulla terra la coscienza e le sue torture. Ho insegnato agli uomini le armi con cui si può combatterla con profitto. Non si sono ancora familiarizzati con lei, ma tu sai che, per me, è come la paglia che il vento si porta via. È questo il peso che le attribuisco. Se volessi approfittare dell'occasione che si presenta di rendere più sottili queste discussioni poetiche, aggiungerei addirittura che do più importanza alla paglia che alla coscienza; perché la paglia è utile al bue che la rumina, mentre la coscienza non sa far altro che mostrare i suoi artigli d'acciaio. Questi subirono uno scacco penoso il giorno in cui mi si pararono davanti. Poiché la coscienza era stata inviata dal Creatore, ritenni opportuno non lasciarmi sbarrare il passo da lei. Se si fosse presentata con la modestia e l'umiltà proprie del suo rango, e da cui non avrebbe mai dovuto allontanarsi, l'avrei ascoltata. Non mi piaceva il suo orgoglio. Stesi una mano e stritolai gli artigli tra le mie dita; caddero in polvere sotto la pressione crescente di quel mortaio di nuova specie. Tesi l'altra mano, e le strappai la testa. Poi scacciai quella donna fuori dalla mia casa, a colpi di frusta, e non la rividi più. Ho conservato la sua testa in ricordo della mia vittoria... Con una testa in mano, di cui rosicchiavo il cranio, sono rimasto eretto, su un piede solo, come l'airone, sull'orlo del precipizio scavato nei fianchi della montagna. Mi hanno visto scendere nella valle, mentre la pelle del mio petto era immobile e calma, come il coperchio di una tomba! Con una testa in mano, di cui rosicchiavo il cranio, ho nuotato nei gorghi più pericolosi, ho sfiorato gli scogli mortali, e mi sono tuffato più in basso delle correnti per assistere, da estraneo, ai combattimenti dei mostri marini; mi sono allontanato dalla riva, fino a perderla di vista nonostante la mia vista acuta; e i granchi schifosi, con il loro magnetismo paralizzante, si aggiravano intorno alle mie membra che fendevano le onde con movimenti robusti, senza osare avvicinarsi. Mi hanno visto tornare sano e salvo a riva, mentre la pelle del mio petto era immobile e calma, come il coperchio di una tomba! Con una testa in mano, di cui rosicchiavo il cranio, ho superato i gradini ascendenti di una torre elevata. Sono giunto, con le gambe stanche, sulla piattaforma vertiginosa. Ho guardato la campagna, il mare; ho guardato il sole, il firmamento; respingendo col piede il granito che non indietreggiò, con un supremo grido di scherno ho sfidato la morte e la vendetta divina, e mi sono precipitato come una pietra nella bocca dello spazio. Gli uomini udirono l'urto doloroso e rimbombante che risultò dall'incontro tra il suolo e la testa della coscienza, che avevo abbandonato durante la caduta. Mi hanno visto scendere con la lentezza dell'uccello,
sostenuto da una nube invisibile, e raccogliere la testa per costringerla a essere testimone di un triplice delitto che avrei compiuto quello stesso giorno, con la pelle del petto immobile e calma come il coperchio di una tomba! Con una testa in mano, di cui rosicchiavo il cranio, mi sono diretto verso il luogo dove sorgono i pali che sostengono la ghigliottina. Ho sistemato sotto la mannaia la grazia soave dei colli di tre fanciulle. Esecutore delle alte opere della giustizia, mollai la corda con l'esperienza evidente di un'intera vita; e il ferro triangolare, abbattendosi obliquo, troncò tre teste che mi guardavano con dolcezza. Poi sistemai la mia sotto il pesante rasoio, e il boia si accinse a compiere il proprio dovere. Tre volte la mannaia scese lungo le guide con rinnovato vigore; tre volte la mia carcassa materiale, soprattutto alla base del collo, fu scossa fino alle fondamenta, come quando in sogno ci si immagina di venire schiacciati da una casa che crolla. Il popolo stupefatto mi lasciò passare; mi lasciò allontanare dal luogo funebre; mi vide aprirmi con i gomiti i suoi flutti ondulatori, e muovermi, pieno di vita, avanzando diritto davanti a me, a testa eretta, mentre la pelle del mio petto era immobile e calma, come il coperchio di una tomba! Avevo detto che volevo difendere l'uomo, questa volta; ma temo che la mia apologia non sia l'espressione della verità; e, di conseguenza, preferisco tacere. L'umanità applaudirà riconoscente questa decisione! È tempo di stringere il freno alla mia immaginazione, e di fermarmi un istante, lungo il cammino, come quando si guarda la vagina di una donna; è bene esaminare il cammino percorso, e poi slanciarsi, con le membra riposate, in un balzo impetuoso. Compiere una corsa in un unico sforzo non è facile; e le ali si stancano molto, in un volo elevato, senza speranza né rimorsi. No... non spingiamo più a fondo la torva muta delle zappe e degli scavi, attraverso le miniere esplosive di questo canto empio! Il coccodrillo non cambierà una sola parola del vomito uscito da sotto il suo cranio. Tanto peggio se qualche ombra furtiva, eccitata dal lodevole scopo di vendicare l'umanità aggredita ingiustamente da me, apre surrettiziamente la porta della mia stanza, sfiorando il muro come l'ala di un gabbiano, e affonda un pugnale tra le costole del predatore di rottami celesti! Tanto vale che l'argilla dissolva i suoi atomi, in un modo o nell'altro. FINE DEL SECONDO CANTO
CANTO TERZO
Ricordiamo dunque i nomi di quegli esseri immaginari di natura angelica che la mia penna, nel secondo canto, ha tratto da un cervello che splende di un bagliore da loro stessi emanato. Muoiono fin dalla nascita, come quelle scintille di cui l'occhio riesce appena a seguire la rapida estinzione sulla carta bruciata. Léman!... Lohengrin!... Lombano!... Holzer!... siete apparsi per un attimo, rivestiti delle insegne della giovinezza, al mio orizzonte affascinato; ma vi ho lasciato ricadere nel caos, come campane di palombaro. Non ne uscirete più. Mi basta aver conservato il vostro ricordo; dovete cedere il posto ad altre sostanze, forse meno belle, che genererà il traboccare tempestoso di un amore deciso a non calmare la sua sete presso la razza umana. Amore affamato, che divorerebbe se stesso se non cercasse il proprio nutrimento nelle finzioni celesti; creando, alla lunga, una piramide di serafini, più numerosi degli insetti che brulicano in una goccia d'acqua, li intreccerà in un'ellisse che farà turbinare intorno a sé. Intanto il viaggiatore, fermo di fronte allo spettacolo di una cateratta, se solleva il volto vedrà in lontananza un essere umano trascinato verso la cantina dell'inferno da una ghirlanda di vive camelie! Ma... silenzio! l'immagine fluttuante del quinto ideale si disegna lentamente, come le incerte sinuosità di un'aurora boreale, sul piano vaporoso della mia intelligenza, e assume sempre più una consistenza determinata... Mario e io andavamo lungo la riva. I nostri cavalli, con il collo teso, fendevano le membrane dello spazio, e strappavano scintille ai ciottoli della spiaggia. La tramontana, che ci colpiva in pieno volto, irrompeva nei nostri mantelli, e faceva volteggiare all'indietro i capelli delle nostre teste gemelle. Il gabbiano, con i suoi gridi e i movimenti d'ala, invano tentava di avvisarci della possibile prossimità della tempesta, ed esclamava: «Ma dove vanno, con quel galoppo insensato?». Noi non dicevamo niente; immersi nella fantasticheria, ci lasciavamo portare via sulle ali di quella corsa furiosa; il pescatore che ci vedeva passare, veloci come l'albatro, e credeva di scorgere, in fuga davanti ai suoi occhi, i due fratelli misteriosi, com'erano stati chiamati perché stavano sempre insieme, si affrettava a farsi il segno della croce, e si nascondeva con il suo cane paralizzato sotto qualche roccia profonda. Gli abitanti della costa avevano
udito raccontare cose strane su quei due personaggi, che apparivano sulla terra, in mezzo alle nubi, nelle grandi epoche di calamità, quando una guerra spaventosa minacciava di piantare il suo arpione nel petto di due paesi nemici, o quando il colera si preparava a lanciare, con la sua fionda, la putredine e la morte in intere città. I più anziani predoni di relitti aggrottavano le sopracciglia, con aria grave, affermando che i due fantasmi, di cui ognuno aveva notato la vasta apertura delle ali nere, durante gli uragani, sopra i banchi di sabbia, sopra gli scogli, erano il genio della terra e il genio del mare, che portavano in giro per l'aria la loro maestà, durante le grandi rivoluzioni della natura, uniti da un'amicizia eterna, la cui rarità e gloria hanno generato lo stupore della gomena indefinita delle generazioni. Si diceva che, volando fianco a fianco come due condor delle Ande, amavano librarsi, in cerchi concentrici, tra gli strati atmosferici più vicini al sole; che in quei luoghi si nutrivano delle essenze più pure della luce; ma che a fatica si decidevano ad abbassare l'inclinazione del loro volo verticale verso l'orbita spaventata in cui rotea in delirio il globo umano, abitato da spiriti crudeli che si massacrano tra loro nei campi in cui ruggisce la battaglia (quando non si uccidono con perfidia, in segreto, nel centro delle città, con il pugnale dell'odio o dell'ambizione), e che si nutrono di esseri pieni di vita come loro e posti qualche gradino più in basso nella scala delle esistenze. Oppure, quando prendevano la ferma risoluzione, per indurre gli uomini al pentimento con le strofe delle loro profezie, di nuotare, dirigendosi a grandi bracciate verso le regioni siderali, dove un pianeta si muoveva in mezzo a dense esalazioni d'avarizia, d'orgoglio, di imprecazioni e sghignazzate, che si sprigionavano come vapori pestilenziali dalla sua superficie schifosa, e sembrava piccolo come una palla, quasi invisibile a causa della distanza, essi non mancavano mai di trovare occasioni per pentirsi amaramente della loro benevolenza misconosciuta e disprezzata, e andavano a nascondersi nel fondo dei vulcani, per conversare col fuoco vivo che bolle nei tini dei sotterranei centrali, o in fondo al mare, per riposarsi gradevolmente la vista disillusa sui mostri più feroci dell'abisso, che apparivano loro dei modelli di dolcezza, al confronto dei bastardi dell'umanità. Scesa la notte, con la sua oscurità propizia, si lanciavano fuori dai crateri dalla cresta di porfido, fuori dalle correnti sottomarine, e si lasciavano dietro, molto lontano, il roccioso vaso da notte su cui si dimena l'ano stitico dei cacatua umani, finché non riuscivano a distinguere più il profilo sospeso dell'immondo pianeta. Allora, addolorati per il loro tentativo infruttuoso, tra le stelle che
compativano il loro dolore e sotto lo sguardo di Dio, l'angelo della terra e l'angelo del mare si abbracciavano piangendo!... Mario e colui che gli galoppava al fianco non ignoravano le voci vaghe e superstiziose che raccontavano, durante le veglie, i pescatori della costa, sussurrando intorno al focolare, con le porte e le finestre ben serrate; e intanto il vento della notte, desideroso di riscaldarsi, fa udire i suoi sibili intorno alla capanna di paglia, e scuote col suo vigore quelle fragili mura circondate alla base da frammenti di conchiglie portati dalle morenti sinuosità delle onde. Noi non parlavamo. Che si dicono due cuori innamorati? Niente. Ma i nostri occhi esprimevano tutto. Io lo avverto di avvolgersi meglio nel mantello, e lui mi fa notare che il mio cavallo si allontana troppo dal suo: ognuno è interessato alla vita dell'altro quanto alla propria; non ridiamo. Si sforza di sorridermi; ma vedo che il suo volto porta il peso dei terribili segni che vi ha scavato la riflessione, costantemente china sulle sfingi che sconcertano con sguardo obliquo le grandi angosce dell'intelligenza dei mortali. Vedendo che le sue manovre sono inutili, distoglie gli occhi, morde il suo freno terrestre con la bava della rabbia, e osserva l'orizzonte che fugge al nostro avvicinarsi. A mia volta mi sforzo di ricordargli la sua giovinezza dorata, che chiede soltanto di addentrarsi nei palazzi dei piaceri, come una regina; ma lui nota che le parole mi escono con difficoltà dalla bocca scarna, e che gli anni della mia primavera sono trascorsi, tristi e glaciali, come un sogno implacabile che trascina con sé, sulle tavole dei banchetti e sui letti di raso, dove sonnecchia la pallida sacerdotessa d'amore pagata con i bagliori dell'oro, le amare voluttà del disincanto, le rughe pestilenziali della vecchiaia, lo sgomento della solitudine e le fiaccole del dolore. Vedendo che le mie manovre sono inutili, non mi stupisco di non poterlo rendere felice; l'Onnipotente mi appare rivestito dei suoi strumenti di tortura, in tutta la splendente aureola del suo orrore; distolgo gli occhi e osservo l'orizzonte che fugge al nostro avvicinarsi... I nostri cavalli galoppavano lungo la riva come sfuggendo lo sguardo umano... Mario è più giovane di me; l'umidità e la schiuma salata che spruzza fino a noi portano il contatto del freddo sulle sue labbra. Gli dico: «Stai in guardia!... stai in guardia!... chiudi le labbra, una contro l'altra; non vedi gli artigli aguzzi della screpolatura che ti solca la pelle di ferite cocenti?». Fissa la mia fronte, e mi risponde con i movimenti della lingua: «Sì, li vedo, quei verdi artigli; ma non turberò la condizione naturale della mia bocca per farli fuggire. Guarda se mento. Poiché sembra che sia questa la volontà della Provvidenza, voglio conformarmi ad essa. La sua volontà avrebbe
potuto essere migliore». Ed io esclamai: «Ammiro questa nobile vendetta». Volli strapparmi i capelli; ma lui me lo proibì con uno sguardo severo, e io gli obbedii con rispetto. Si faceva tardi, e l'aquila tornava al suo nido, scavato negli anfratti della roccia. E lui mi disse: «Ti presterò il mio mantello per proteggerti dal freddo: io non ne ho più bisogno». Gli risposi: «Guai a te se fai quello che dici. Non voglio che un altro soffra al mio posto e soprattutto tu». Non rispose, perché avevo ragione; ma io mi misi a consolarlo, a causa del tono troppo impetuoso delle mie parole... I nostri cavalli galoppavano lungo la riva, come sfuggendo lo sguardo umano... Rialzai la testa, come la prua di un vascello sollevata da un'onda enorme, e gli dissi: «Piangi? Te lo chiedo, re delle nevi e delle nebbie. Non vedo lacrime sul tuo volto, bello come il fiore del cactus, e le tue palpebre sono asciutte come il letto di un torrente; ma distinguo, in fondo ai tuoi occhi, un catino colmo di sangue in cui bolle la tua innocenza, morsa al collo da uno scorpione della specie grande. Un vento violento si abbatte sul fuoco che riscalda la caldaia e ne sparge le fiamme oscure fuori dalla tua orbita sacra. Ho avvicinato i miei capelli alla tua rosea fronte e ho sentito odore di bruciato, perché presero fuoco. Chiudi gli occhi, altrimenti il tuo volto, calcinato come la lava del vulcano, cadrà in cenere nel cavo della mia mano». E lui si volgeva verso di me, senza badare alle redini che teneva in mano, e mi contemplava con tenerezza, lentamente abbassava e risollevava le sue palpebre di giglio, come il flusso e il riflusso del mare. Volle rispondere alla mia audace domanda, ed ecco come lo fece: «Non occuparti di me. Come i vapori dei fiumi salgono lungo i fianchi della collina, e una volta giunti alla cima si lanciano nell'atmosfera formando nubi, così le tue inquietudini sul mio conto sono insensibilmente aumentate senza un motivo ragionevole, e formano sopra la tua immaginazione il corpo ingannevole di un miraggio desolato. Ti assicuro che non c'è fuoco nei miei occhi, benché in essi io provi la stessa sensazione che proverei se il mio cranio fosse immerso in un casco di carboni ardenti. Come vuoi che le carni della mia innocenza bollano nel catino, se non odo che grida debolissime e confuse, che per me non sono che i gemiti del vento che passa sopra le nostre teste? È impossibile che uno scorpione abbia fissato la sua dimora e le sue pinze aguzze nel fondo della mia orbita triturata; credo piuttosto che siano tenaglie vigorose a frantumare i nervi ottici. Eppure sono del parere, come te, che il sangue che riempie il catino mi sia stato estratto dalle vene da un boia invisibile, durante il sonno della notte scorsa. Ti ho atteso a lungo, amato figlio
dell'oceano; e le mie braccia assopite hanno iniziato una lotta vana con Colui che si era introdotto nel vestibolo della mia casa... Sì, sento che la mia anima è imprigionata nel chiavistello del mio corpo, e non può liberarsi per fuggire lontano dalle rive battute dal mare umano, e non essere più testimone dello spettacolo della livida muta delle sciagure che senza tregua insegue, attraverso le paludi e le voragini dell'abbattimento immenso, gli umani camosci. Ma non mi lamenterò. Ho ricevuto la vita come una ferita, e ho proibito al suicidio di guarire la cicatrice. Voglio che il Creatore ne contempli, in ogni ora della sua eternità, il crepaccio spalancato. È questo il castigo che gli infliggo. I nostri corsieri rallentano la velocità dei loro piedi di bronzo; i loro corpi tremano, come il cacciatore sorpreso da un branco di pecari. Non devono mettersi ad ascoltare ciò che diciamo. A forza di stare attenti, la loro intelligenza crescerebbe, e forse potrebbero capirci. Guai a loro; soffrirebbero di più! In effetti, pensa soltanto ai cinghialetti dell'umanità: il grado d'intelligenza che li separa dagli altri esseri della creazione, non sembra forse che sia loro accordato soltanto al prezzo irrimediabile di sofferenze incalcolabili? Imita il mio esempio, e il tuo sperone d'argento si affondi nei fianchi del tuo corsiero...». I nostri cavalli galoppavano lungo la riva, come se fuggissero l'occhio umano. Ecco che passa danzando la pazza, mentre ricorda vagamente qualcosa. I ragazzi la inseguono a sassate, come se fosse un merlo. Lei brandisce un bastone, e finge d'inseguirli, poi riprende la sua corsa. Ha perso una scarpa per strada, e non se ne accorge. Lunghe zampe di ragno circolano per la sua nuca; sono soltanto i suoi capelli. Il suo volto non somiglia più al volto umano; esplode in risate da iena. Si lascia sfuggire brandelli di frasi in cui, ricucendoli, pochissimi troverebbero un significato chiaro. La sua veste, bucata in più punti, compie movimenti bruschi intorno alle gambe ossute e infangate. Avanza diritta davanti a sé come la foglia del pioppo, portata via, lei, la sua giovinezza, le sue illusioni e la sua felicità passata, che rivede attraverso le nebbie di un'intelligenza distrutta dal turbine delle facoltà inconsce. Ha perduto la grazia e la bellezza originarie; la sua andatura è ignobile, e il suo fiato puzza d'acquavite. Se gli uomini fossero felici su questa terra, allora sì che ci si dovrebbe stupire. La pazza non fa alcun rimprovero, è troppo fiera per lamentarsi, e morirà senza aver rivelato il proprio segreto a coloro che si interessano a lei, ma a cui ha proibito di rivolgerle mai la parola. I ragazzi la inseguono a sassate,
come se fosse un merlo. Ha lasciato cadere dal seno un rotolo di carta. Uno sconosciuto lo raccoglie, si chiude in casa per tutta la notte e legge il manoscritto, che conteneva ciò che segue: «Dopo molti anni di sterilità, la Provvidenza m'inviò una figlia. Per tre giorni m'inginocchiai nelle chiese e non smisi di ringraziare il grande nome di Colui che finalmente aveva esaudito i miei voti. Nutrivo del mio latte colei che era più della mia vita, e che vedevo crescere rapidamente, dotata di tutte le qualità dell'anima e del corpo. E lei mi diceva: "Vorrei avere una sorellina per giocare con lei; raccomanda al buon Dio di mandarmene una; e, per ricompensarlo, intreccerò per lui una ghirlanda di violette, di menta e di gerani". Per tutta risposta, me la portavo al seno e l'abbracciavo con amore. Sapeva già interessarsi agli animali, e mi chiedeva perché la rondine si contenta di sfiorare con l'ala le capanne degli uomini, senza osare entrarvi. Ma io mi avvicinavo un dito alla bocca, come per dirle di mantenere il silenzio su questo grave problema, di cui ancora non volevo farle capire gli elementi, per non colpire, con una sensazione eccessiva, la sua immaginazione infantile; e mi affrettavo a distogliere la conversazione da quest'argomento, penoso da trattare per ogni essere appartenente alla razza che ha esteso un dominio ingiusto sugli altri animali della creazione. Quando lei mi parlava delle tombe del cimitero, dicendomi che in quell'atmosfera si respiravano i piacevoli profumi dei cipressi e delle semprevive, evitavo di contraddirla; ma le dicevo che quella era la città degli uccelli, che li cantavano dall'aurora al crepuscolo della sera, e che le tombe erano il loro nido, in cui, sollevando il marmo, dormivano di notte con la loro famiglia. Tutti i vestiti graziosi che la coprivano, li avevo cuciti io, e cosi i merletti dai mille arabeschi che riservavo alla domenica. D'inverno, aveva il suo posto legittimo intorno al grande caminetto; infatti si considerava una persona seria e, durante l'estate, i prati riconoscevano la soave pressione dei suoi passi, quando si avventurava, con la sua reticella di seta attaccata in cima a un giunco, dietro ai colibrì pieni d'indipendenza, e alle farfalle dagli zigzag sconcertanti. "Che fai, piccola vagabonda, mentre la minestra ti aspetta da un'ora, con il cucchiaio che perde la pazienza?". Ma lei esclamava, saltandomi al collo, che non l'avrebbe fatto più. L'indomani scappava di nuovo attraverso le margherite e le resede; tra i raggi del sole e il volo turbinante degli insetti effimeri; della vita conoscendo soltanto la coppa prismatica, non ancora il fiele; felice di essere più grande della cinciallegra; burlandosi della capinera che non canta bene come l'usignolo; mostrando di nascosto la lingua al brutto corvo che la guardava
paternamente; e graziosa come un gattino. Non dovevo godere a lungo della sua presenza; si avvicinava il tempo in cui avrebbe dovuto, in modo inatteso, dire addio agli incanti della vita, lasciando per sempre la compagnia delle tortore, delle starne e dei verdoni, il chiacchiericcio del tulipano e dell'anemone, i consigli delle erbe della palude, lo spirito acuto delle ranocchie, e la freschezza dei ruscelli. Mi raccontarono cos'era accaduto; perché io non fui presente all'avvenimento che ebbe per conseguenza la morte di mia figlia. Se ci fossi stata, avrei difeso quell'angelo a prezzo del mio sangue... Maldoror passava con il suo bulldog, vede una fanciulla che dorme all'ombra di un platano; all'inizio la scambiò per una rosa... Non si può dire cosa sorse prima nella sua mente, se la vista della fanciulla o la decisione che ne seguì. Si spoglia rapidamente, come un uomo che sa ciò che sta per fare. Nudo come una pietra, si è gettato sul corpo della fanciulla, e le ha tolto la veste per commettere un attentato al pudore... alla luce del sole! Su, non farà tanti complimenti!... Non insistiamo su quest'atto impuro. Con l'animo scontento, si riveste precipitosamente, lancia un'occhiata prudente alla strada polverosa su cui nessuno cammina, e ordina al bulldog di strangolare, con il movimento delle sue mascelle, la fanciulla insanguinata. Indica al cane della montagna il luogo dove respira e urla la vittima sofferente, e si ritira in disparte per non essere testimone della penetrazione dei denti aguzzi nelle vene rosa. L'esecuzione dell'ordine poté sembrare severa al bulldog. Credette che gli si chiedesse ciò che già era stato compiuto, e quel lupo dal muso mostruoso si contentò di violare a sua volta la verginità di quella bambina delicata. Dal suo ventre lacerato, il sangue cola di nuovo lungo le gambe, attraverso il prato. I suoi gemiti si uniscono ai guaiti dell'animale. La fanciulla gli mostra la croce d'oro che le ornava il collo, perché la risparmi; non aveva osato presentarla agli occhi feroci di colui che, per primo, aveva avuto l'idea di approfittare della debolezza della sua età. Ma il cane non ignorava che, se avesse disobbedito al padrone, un coltello lanciato da sotto una manica gli avrebbe aperto bruscamente le budella, senza alcun preavviso. Maldoror (quanto ripugna pronunciare questo nome!) udiva le agonie del dolore, e si stupiva che la vittima avesse la vita tanto dura da non essere ancora morta. Si avvicina all'altare sacrificale, e vede come si comporta il suo bulldog, dedito a bassi istinti, con la testa alta sopra la fanciulla, come un naufrago solleva la propria sopra le onde infuriate. Gli dà un calcio e gli spacca un occhio. Il bulldog, furioso, fugge per la campagna, trascinandosi dietro,
per un tratto di strada che per quanto fosse breve era sempre troppo lungo, il corpo della fanciulla sospesa, che si liberò soltanto grazie ai sobbalzi della fuga; ma teme di attaccare il padrone, che non lo rivedrà mai più. Questi estrae dalla tasca un temperino americano, composto di dieci o dodici lame che servono a diversi usi. Apre le zampe angolose di quest'idra d'acciaio; e, munito di un tale scalpello, vedendo che l'erba non era ancora scomparsa sotto il colore di tanto sangue versato, si accinge, senza impallidire, a frugare con coraggio nella vagina della sventurata fanciulla. Da questo foro dilatato estrae successivamente gli organi interni; le budella, i polmoni, il fegato e finalmente anche il cuore vengono strappati dalle loro fondamenta e trascinati alla luce del sole attraverso l'apertura spaventosa. Il sacrificatore si rende conto che la fanciulla, pollo svuotato, è morta da molto tempo; mette fine alla crescente perseveranza delle sue devastazioni, e lascia che il cadavere dorma di nuovo all'ombra del platano. Il temperino, abbandonato lì vicino, fu poi raccolto. Un pastore, testimone del crimine di cui non si era scoperto l'autore, lo raccontò soltanto molto tempo dopo, quando fu ben sicuro che il criminale aveva raggiunto incolume la frontiera, e che lui non aveva più da temere la vendetta certa a cui sarebbe stato esposto in caso di rivelazioni. Compiansi l'insensato che aveva commesso un misfatto non previsto dal legislatore, e senza precedenti. Lo compiansi perché è probabile che non avesse più l'uso della ragione quando maneggiò il pugnale dalla lama quattro volte tripla, lacerando da cima a fondo le pareti delle viscere. Lo compiansi perché, se non era pazzo, la sua condotta vergognosa doveva covare un odio ben grande contro i suoi simili, per infierire in quel modo sulle carni e le arterie di una bambina inoffensiva, che fu mia figlia. Assistetti alla sepoltura di quei resti umani, con rassegnazione muta; e ogni giorno vengo a pregare su una tomba». Alla fine di questa lettura, lo sconosciuto non riesce più a conservare le forze, e sviene. Riprende i sensi, e brucia il manoscritto. Aveva dimenticato quel ricordo della sua giovinezza (l'abitudine attenua la memoria!); e dopo vent'anni di assenza, tornava in quel paese fatale. Non comprerà bulldog!... Non converserà con i pastori!... Non andrà a dormire all'ombra dei platani!... I ragazzi la inseguono a sassate, come se fosse un merlo. Tremdall ha toccato per l'ultima volta la mano a colui che si assenta volontariamente, sempre in fuga davanti a se stesso, sempre perseguitato dall'immagine dell'uomo. L'ebreo errante si dice che, se lo scettro della
terra appartenesse alla razza dei coccodrilli, non fuggirebbe in questo modo. Tremdall, in piedi sulla vallata, si è portato una mano davanti agli occhi, per concentrare i raggi solari e rendere più acuta la propria vista, mentre l'altra palpa il seno dello spazio, con il braccio orizzontale e immobile. Chino in avanti, statua dell'amicizia, guarda, con occhi misteriosi come il mare, arrampicarsi sul pendio della costa le uose del viaggiatore, che si aiuta con il bastone ferrato. La terra sembra mancargli sotto i piedi, e se anche lo volesse non potrebbe trattenere le lacrime e i sentimenti: «È lontano; vedo la sua sagoma camminare su uno stretto sentiero. Dove sta andando, con quel passo pesante? Nemmeno lui lo sa... Eppure, sono sicuro che non sto dormendo; chi si avvicina, e va incontro a Maldoror? Com'è grande, il drago... più di una quercia! Si direbbe che le sue ali biancastre, serrate da forti attacchi, abbiano nervi d'acciaio, tanto facilmente fendono l'aria. Il suo corpo inizia con un busto di tigre, e termina con una lunga coda di serpente. Non ero abituato a vedere cose simili. Ma cos'ha sulla fronte? Vi vedo scritta, in una lingua simbolica, una parola che non riesco a decifrare. Con un ultimo colpo d'ala si è portato vicino a colui di cui conosco il timbro della voce. Gli ha detto: "Ti aspettavo, e anche tu aspettavi me. L'ora è giunta; eccomi. Leggi, sulla mia fronte, il mio nome scritto in segni geroglifici". Ma lui, appena ha visto arrivare il nemico, si è mutato in un'aquila immensa, e si prepara al combattimento, facendo schioccare di contentezza il becco adunco, volendo dire con ciò che s'incarica lui, da solo, di mangiare la parte posteriore del drago. Eccoli che tracciano cerchi sempre meno concentrici, spiando i loro mezzi reciproci, prima di combattere; fanno bene. Il drago mi sembra più forte; vorrei che riportasse la vittoria sull'aquila. Sto per provare grandi emozioni, di fronte a uno spettacolo in cui una parte del mio essere è impegnata. Drago potente, ti inciterò con le mie grida, se occorre, perché è interesse dell'aquila essere vinta. Ma che aspettano ad attaccarsi? Provo un'ansia mortale. Su, drago, inizia per primo l'attacco. Gli hai appena inferto un secco colpo d'artiglio: niente male. Ti assicuro che l'aquila l'ha sentito; il vento porta via con sé la bellezza delle sue piume macchiate di sangue. Ah! l'aquila ti strappa un occhio con il becco, e tu le avevi strappato soltanto la pelle; bisognava fare attenzione. Bravo, prenditi la rivincita, e spezzale un'ala; niente da dire, i tuoi denti di tigre sono ottimi. Se tu potessi avvicinarti all'aquila mentre volteggia nello spazio, e precipita in basso verso la campagna! Me ne rendo conto, l'aquila ti incute un certo rispetto, anche quando cade. È a terra, non potrà più
rialzarsi. La vista di tutte quelle ferite aperte m'inebria. Volale intorno rasoterra e, con i colpi della tua coda squamata di serpente, finiscila, se puoi. Coraggio, bel drago; affonda nel suo corpo i tuoi artigli vigorosi, e il sangue si mescoli al sangue, a formare ruscelli in cui non vi sia acqua. Facile a dirsi, non a farsi. L'aquila ha appena concepito un nuovo piano strategico di difesa, motivato dalle vicende sventurate di quella lotta memorabile; è prudente. Si è seduta saldamente, in una posizione irremovibile, sull'ala che le resta, sulle due cosce, e sulla coda che prima le serviva da timone. Affronta sforzi più straordinari di quelli che le sono stati imposti fino a questo momento. Ora si gira rapida come la tigre, e non ha l'aria di stancarsi; ora si sdraia sul dorso, con le due forti zampe in aria, e, con sangue freddo, guarda ironicamente l'avversario. Bisognerà, in fin dei conti, che io sappia chi sarà il vincitore; il combattimento non può durare in eterno. Penso alle conseguenze che ne deriveranno! L'aquila è terribile, e compie salti enormi che scuotono la terra, come se stesse per spiccare il volo; eppure lo sa che le è impossibile. Il drago non si fida; crede che l'aquila da un momento all'altro lo attaccherà dal lato dove gli manca l'occhio Me sventurato! È proprio ciò che accade. Come ha potuto il drago lasciarsi prendere per il petto? Ha un bel giocare d'astuzia e di forza; lo vedo che l'aquila, avvinghiata a lui con tutte le sue membra, come una sanguisuga, affonda sempre più il becco, nonostante le nuove ferite che riceve, fino alla radice del collo, nel ventre del drago. Le si vede soltanto il corpo. Sembra a proprio agio; non ha fretta di uscirne. Certamente cerca qualcosa, mentre il drago dalla testa di tigre emette muggiti che risvegliano le foreste. Ecco l'aquila, che esce da quella caverna. Aquila, come sei orribile! Sei più rossa di una palude di sangue! Anche se tieni nel becco nervoso un cuore palpitante, sei talmente coperta di ferite che a stento riesci a sostenerti sulle tue zampe piumate; e barcolli, senza schiudere il becco, accanto al drago che muore tra spaventose agonie. La vittoria è stata difficile; non importa, l'hai conseguita: bisogna, almeno, dire la verità... Tu agisci secondo le regole della ragione, spogliandoti della forma di aquila mentre ti allontani dal cadavere del drago. E così, Maldoror, sei stato vincitore! E così, Maldoror, hai vinto la Speranza! Ormai la disperazione si nutrirà della tua sostanza più pura! Ormai rientri, a passi decisi, nella carriera del male! Benché io sia, per così dire, abituato alla sofferenza, l'ultimo colpo che hai inferto al drago non ha mancato di farsi sentire in me. Giudica tu stesso se soffro! Ma tu mi fai paura. Guardate, guardate, in lontananza, quell'uomo in fuga. Su di lui,
terra eccellente, la maledizione ha fatto crescere il suo folto fogliame; è maledetto e maledice. Dove dirigi i tuoi sandali? Dove vai, esitante come un sonnambulo sopra un tetto? Che il tuo destino perverso si compia! Maldoror, addio! Addio fino all'eternità, in cui non ci ritroveremo insieme!». Era una giornata di primavera. Gli uccelli diffondevano i loro cantici gorgheggiando, e gli umani, restituiti ai loro diversi doveri, si immergevano nella santità della fatica. Tutto lavorava al proprio destino: gli alberi, i pianeti, gli squali. Tutto, tranne il Creatore! Se ne stava disteso sulla strada, con gli abiti a brandelli. Il suo labbro inferiore penzolava come un cavo sonnifero; i suoi denti non erano lavati, e la polvere si mischiava alle bionde onde dei suoi capelli. Intorpidito da un pesante sopore, schiacciato contro i sassi, il suo corpo compieva inutili sforzi per rialzarsi. Le forze l'avevano abbandonato, e lui giaceva lì, debole come il lombrico, impassibile come la corteccia. Fiotti di vino colmavano i solchi scavati dai sussulti nervosi delle sue spalle. L'abbrutimento, dal grugno di porco, lo copriva con le sue ali protettrici e lo guardava amorevolmente. Le sue gambe, dai muscoli distesi, spazzavano il suolo come due pennoni ciechi. Il sangue gli colava dalle narici: nella caduta aveva sbattuto la faccia contro un palo... Era ubriaco! Orribilmente ubriaco! Ubriaco come una cimice che durante la notte avesse masticato tre botti di sangue! Riempiva l'eco di parole incoerenti, che mi guarderò bene dal ripetere qui; se l'ubriacone supremo non rispetta se stesso, io devo rispettare gli uomini. Sapevate che il Creatore... si ubriacasse? Pietà per quelle labbra, insozzate nelle coppe dell'orgia! L'istrice, che passava di lì, gli affondò gli aculei nella schiena, e disse: «Questo è per te. Il sole è a metà della sua corsa: lavora, fannullone, e non mangiare il pane altrui. Aspetta un po' e vedrai, se chiamo il cacatua dal becco adunco». Il picchio e la civetta, che passavano di lì, gli affondarono nel ventre il becco intero, e dissero: «Questo è per te. Che ci vieni a fare sulla terra? Forse per offrire agli animali questa lugubre commedia? Ma né la talpa, né il casuario, né il fenicottero ti imiteranno, te lo giuro». L'asino, che passava di lì, gli sferrò un calcio sulla tempia, e disse: «Questo è per te. Che ti avevo fatto perché tu mi dessi delle orecchie così lunghe? Tutti, perfino il grillo, mi disprezzano». Il rospo, che passava di lì, gli lanciò uno sputo di bava sulla fronte, e disse: «Questo è per te. Se tu non mi avessi fatto l'occhio così grosso, e ti avessi visto nello stato in cui ti vedo ora, avrei castamente
nascosto la bellezza delle tue membra sotto una pioggia di ranuncoli, di myosotis e di camelie, perché nessuno ti vedesse». Il leone, che passava di lì, chinò la sua faccia regale, e disse: «Per me, io lo rispetto, anche se il suo splendore ci sembra, per il momento, eclissato. Voi, che fate gli orgogliosi e siete soltanto dei vigliacchi perché l'avete attaccato mentre dormiva, sareste contenti se, messi al suo posto, doveste sopportare da parte dei passanti le ingiurie che non gli avete risparmiato?». L'uomo, che passava di lì, si fermò davanti al Creatore misconosciuto; e, tra gli applausi della piattola e della vipera, defecò per tre giorni sul suo augusto volto! Guai all'uomo, per quest'ingiuria; poiché non ha rispettato il nemico, steso in quel miscuglio di fango, di sangue e di vino, indifeso e quasi esanime!... Allora il Dio sovrano, finalmente risvegliato da tutti quegli insulti meschini, si rialzò come poté; barcollando andò a sedersi su una pietra, con le braccia penzoloni come i due testicoli del malato di petto; e gettò uno sguardo vitreo, senza fiamma, sulla natura intera, che gli apparteneva. O umani, voi siete i bambini terribili; ma, vi supplico, risparmiamo questa grande esistenza che non ha ancora finito di smaltire il liquore immondo, e, non avendo più abbastanza forza per reggersi in piedi, è ricaduta, pesantemente, su quella roccia, su cui si è seduta, come un viandante. Guardate quel mendicante che passa; ha visto che il derviscio gli tendeva un braccio affamato, e, senza sapere a chi faceva l'elemosina, ha gettato un pezzo di pane in quella mano che implora misericordia. Il Creatore gli ha espresso la propria riconoscenza con un cenno della testa. Oh! non saprete mai quanto diventi difficile tenere costantemente in mano le redini dell'universo! A volte il sangue sale alla testa, quando ci si impegna a trarre dal nulla un'ultima cometa, con una nuova razza di spiriti. L'intelligenza, troppo scossa da cima a fondo, si ritira come un vinto, e può cadere, per una volta nella vita, negli smarrimenti di cui siete stati testimoni! Una lanterna rossa, bandiera del vizio, appesa all'estremità di una sbarra, dondolava la sua carcassa sotto la frusta dei quattro venti, sopra una porta massiccia e tarlata. Un corridoio lercio, che puzzava di coscia umana, dava su un cortile dove galli e galline razzolavano, più magri delle loro ali. Sul muro che faceva da cinta al cortile, sul lato ovest, erano state praticate parsimoniosamente varie aperture, chiuse da uno sportello a griglia. Il muschio ricopriva questo corpo d'edificio che senza dubbio era stato un convento e attualmente serviva da dimora, insieme al resto della
costruzione, a tutte quelle donne che mostravano ogni giorno, a chi entrasse, l'interno della loro vagina in cambio di un po' d'oro. Ero su un ponte, i cui piloni affondavano nell'acqua fangosa di un fossato di cinta. Dalla sua superficie elevata contemplavo nella campagna quella costruzione china sulla propria vecchiaia e i minimi dettagli della sua architettura interna. Talvolta la griglia di uno sportello si alzava su se stessa cigolando, come sotto la spinta ascendente di una mano che violentasse la natura del ferro: un uomo mostrava la sua testa nell'apertura libera per metà, si faceva avanti con le spalle su cui cadevano scaglie d'intonaco, e faceva poi seguire, in questa laboriosa estrazione, il corpo coperto di ragnatele. Poggiando le mani, come una corona, sulle immondizie di ogni genere che schiacciavano il suolo con il loro peso, mentre ancora la sua gamba era imprigionata nelle torsioni della griglia, riprendeva così la sua posizione naturale, andava a immergere le mani in un catino zoppo la cui acqua insaponata aveva visto sollevarsi e cadere generazioni intere, e poi si allontanava, più in fretta possibile, da quei vicoli suburbani, per andare a respirare l'aria pura verso il centro della città. Quando il cliente era uscito, una donna completamente nuda usciva fuori nello stesso modo, e si dirigeva verso lo stesso catino. Allora i galli e le galline accorrevano a frotte dai diversi punti del cortile, attratti dall'odore seminale, la rovesciavano a terra nonostante i suoi sforzi vigorosi, calpestavano la superficie del suo corpo come un letamaio, e straziavano a colpi di becco, finché ne usciva il sangue, le labbra flaccide della sua vagina gonfia. Le galline e i galli, con il gozzo sazio, tornavano a raspare l'erba del prato; la donna, ripulita, si rialzava tremante, coperta di ferite, come quando ci si sveglia dopo un incubo. Lasciava cadere lo straccio che si era portata per asciugarsi le gambe; non avendo più bisogno del catino comune, tornava nella sua tana, come ne era uscita, ad attendere il prossimo cliente. Alla vista di un simile spettacolo, volli penetrare anch'io in quella casa! Stavo per scendere dal ponte quando vidi, sulla traversa di un pilastro, quest'iscrizione in caratteri ebraici: «Voi che passate su questo ponte, non andate in quel luogo. Vi dimora il crimine, in compagnia del vizio; un giorno, gli amici attesero invano un giovane che aveva varcato la porta fatale». La curiosità vinse il timore; in capo a qualche istante, giunsi davanti a uno sportello la cui griglia era costituita da solide sbarre strettamente incrociate. Volli guardare all'interno, attraverso quel fitto setaccio. All'inizio non riuscii a vedere niente; ma non tardai a distinguere gli oggetti che si trovavano nella stanza buia, grazie ai
raggi del sole che attenuava la propria luce e presto sarebbe scomparso all'orizzonte. La prima e unica cosa che colpì la mia vista fu un bastone biondo, composto di corni incastrati gli uni negli altri. Quel bastone si muoveva! Camminava per la stanza! I suoi sussulti erano talmente forti che l'impiantito ne tremava; con le due estremità apriva brecce enormi nel muro, e sembrava un ariete scagliato contro la porta di una città assediata. I suoi sforzi erano inutili; i muri erano costruiti in pietra da taglio, e quando urtava la parete lo vedevo incurvarsi come una lama d'acciaio e rimbalzare come una palla elastica. Non era dunque di legno, quel bastone! Poi notai che si arrotolava e srotolava con facilità, come un'anguilla. Benché fosse alto come un uomo, non rimaneva diritto. Talvolta ci provava, e mostrava una delle sue estremità davanti alla griglia dello sportello. Compieva balzi impetuosi, ricadeva a terra e non riusciva a sfondare l'ostacolo. Mi misi a guardarlo sempre più attentamente, e vidi che era un capello! Dopo una grande lotta con la materia che lo circondava come una prigione, andò ad appoggiarsi contro il letto che si trovava in quella camera, con la radice posata su un tappeto e la punta accostata al capezzale. Dopo qualche attimo di silenzio, durante il quale udii singhiozzi rotti, alzò la voce e parlò: «Il mio padrone mi ha dimenticato in questa stanza; e non viene a prendermi. Si è alzato da questo letto a cui sono appoggiato, e si è pettinato la chioma profumata senza pensare che prima ero caduto a terra. Eppure, se mi avesse raccolto, non avrei trovato sorprendente questo atto di semplice giustizia. Mi abbandona in questa stanza chiusa da quattro mura, dopo essersi avvolto nelle braccia di una donna. E che donna! Le lenzuola sono ancora umide del loro tiepido contatto e recano, nel loro disordine, l'impronta di una notte trascorsa ad amare ...». E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E il mio occhio di nuovo s'incollava alla griglia con maggiore energia!... «Mentre la natura intera sonnecchiava nella sua castità, lui si è accoppiato con una donna degradata, in amplessi lascivi e impuri. Si è abbassato fino a lasciar avvicinare alla sua faccia augusta guance spregevoli per la loro abituale impudenza, inaridite della loro linfa. Lui non arrossiva, ma io arrossivo per lui. È certo che si sentiva felice di dormire con una simile sposa di una notte. La donna, stupita dall'aspetto maestoso dell'ospite, sembrava provare voluttà incomparabili, e gli baciava il collo con frenesia!». E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E il mio occhio di nuovo s'incollava alla griglia con maggiore energia! «... Io, intanto, sentivo delle pustole avvelenate, che crescevano più numerose a causa del suo insolito
ardore per i godimenti della carne, avvolgere la mia radice col loro fiele mortale, e assorbire con le loro ventose la sostanza generatrice della mia vita. Più si abbandonavano ai loro movimenti insensati, più sentivo calare le mie forze. Nel momento in cui i desideri corporali raggiungevano il parossismo del furore, mi accorsi che la mia radice si afflosciava su se stessa, come un soldato colpito da un proiettile. Spenta in me la fiamma della vita, come un ramo morto mi staccai dalla sua testa illustre; caddi a terra, senza coraggio, senza forza, senza vitalità; ma con una profonda pietà per colui al quale appartenevo; ma con un eterno dolore per il suo volontario smarrimento...». E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E il mio occhio di nuovo s'incollava alla griglia con maggiore energia!... «Se almeno avesse circondato, con la sua anima, il seno innocente di una vergine. Sarebbe stata più degna di lui, e la degradazione sarebbe stata minore. Bacia con le sue labbra quella fronte coperta di fango, su cui gli uomini hanno camminato con il tallone polveroso!... Aspira con narici spudorate le emanazioni di quelle due ascelle umide!... Ho visto la loro membrana contrarsi per la vergogna, e le narici, dal canto loro, si rifiutavano a quella respirazione infame. Ma né lui né lei prestavano alcuna attenzione agli avvertimenti solenni delle ascelle, alla repulsione cupa e livida delle narici. Lei alzava le braccia ancora di più, e lui, con una spinta più forte, affondava il volto nella loro cavità. Ero costretto ad essere complice di quella profanazione. Ero costretto ad essere spettatore di quell'ancheggiare inaudito; ad assistere all'accoppiamento forzato di quei due esseri, le cui nature diverse erano separate da un abisso incommensurabile...». E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E il mio occhio di nuovo s'incollava alla griglia, con maggiore energia! «Quando fu sazio di respirare quella donna, volle strapparle i muscoli ad uno ad uno; ma, poiché era una donna, la perdonò e preferì far soffrire un essere del proprio sesso. Chiamò dalla cella vicina un giovane che era venuto in questa casa per passare qualche momento di svago con una di quelle donne, e gli ingiunse di venire a mettersi a un passo dai suoi occhi. Da molto tempo giacevo a terra. Non avendo la forza di sollevarmi sulla mia radice infuocata, non riuscii a vedere cosa fecero. Quel che so è che appena il giovane gli fu a portata di mano, brandelli di carne caddero ai piedi del letto e mi finirono accanto. Mi raccontarono, sottovoce, che gli artigli del mio padrone li avevano strappati dalle spalle dell'adolescente. Costui, in capo a qualche ora, dopo aver lottato contro una forza più grande, si alzò dal letto e si ritirò maestosamente. Era letteralmente
scorticato dalla testa ai piedi; trascinava attraverso il pavimento di pietra della stanza la sua pelle rivoltata. Diceva a se stesso che il suo carattere era pieno di bontà; che gli piaceva credere buoni anche i suoi simili; che per questo aveva acconsentito al desiderio del distinto straniero che l'aveva chiamato accanto a lui; ma che mai e poi mai si sarebbe aspettato di essere torturato da un boia. Da un boia simile, aggiungeva dopo una pausa. Si diresse infine verso lo sportello, che pietosamente, di fronte a quel corpo privo di epidermide, si aprì fino al livello del suolo. Senza abbandonare la sua pelle, che poteva servirgli ancora, se non altro come mantello, tentò di scomparire da questo luogo malfamato; appena si fu allontanato dalla camera, non riuscii a vedere se aveva avuto la forza di raggiungere la porta d'uscita. Oh! come si allontanavano con rispetto le galline e i galli, nonostante la fame, da quella lunga striscia di sangue sulla terra imbevuta!». E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E i miei occhi di nuovo s'incollavano alla griglia con maggiore energia!... «Allora, colui che avrebbe dovuto pensare di più alla propria dignità e alla propria giustizia, si rialzò con fatica sul gomito stanco. Solo, tetro, disgustato e schifoso!... Si vestì lentamente. Le monache, sepolte da secoli nelle catacombe del convento, risvegliate di soprassalto dai rumori di quella notte orribile, che si scontravano tra loro in una cella situata sopra i loculi, si presero per mano e vennero a formare un girotondo funebre intorno a lui. E mentre lui cercava i ruderi del suo antico splendore e si lavava le mani con lo sputo per poi asciugarsele nei capelli (era meglio lavarle con lo sputo che non lavarsele affatto, dopo un'intera notte passata nel vizio e nel crimine), esse intonarono le preghiere lamentose per i morti, quando qualcuno è sceso nella tomba. Infatti il giovane non doveva sopravvivere a lungo a quel supplizio perpetrato su di lui da una mano divina, e le sue agonie terminarono durante il canto delle monache...». Mi ricordai dell'iscrizione sul pilastro; capii com'era finito il pubere sognatore che i suoi amici attendevano ancora ogni giorno dal momento della sua scomparsa E mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E i miei occhi di nuovo s'incollavano alla griglia con maggiore energia!... «I muri si scostarono per lasciarlo passare; le monache, vedendolo spiccare il volo nell'aria, con ali che fino a quel momento aveva nascosto nella sua veste di smeraldo, ripresero in silenzio il loro posto sotto il coperchio della tomba. È partito per la sua dimora celeste, lasciandomi qui; questo non è giusto. Gli altri capelli sono rimasti sulla sua testa; intanto io giaccio, in questa lugubre stanza, sul pavimento coperto di sangue rappreso, di brandelli di
carne secca; questa stanza è diventata dannata da quando lui vi è entrato; nessuno vi entra più; eppure io vi sono rinchiuso. Dunque è fatta! Non vedrò più le legioni degli angeli avanzare in fitte falangi, né gli astri errare per i giardini dell'armonia. Ebbene, sia... saprò sopportare la mia sventura con rassegnazione. Ma non mancherò di dire agli uomini cos'è accaduto in questa cella. Darò loro il permesso di disfarsi della loro dignità, come di un vestito inutile, poiché hanno l'esempio del mio padrone; consiglierò loro di succhiare la verga del crimine, poiché un altro l'ha già fatto...». Il capello tacque... E io mi chiedevo chi potesse essere il suo padrone! E i miei occhi di nuovo s'incollavano alla griglia, con maggiore energia! Subito esplose il tuono; un bagliore fosforico penetrò nella stanza. Arretrai, mio malgrado, per non so quale istinto ammonitore; benché mi trovassi lontano dallo sportello, udii un'altra voce, ma questa volta strisciante e fioca, per paura di farsi udire: «Non fare simili balzi! Taci... taci... se qualcuno ti udisse! ti rimetterò tra gli altri capelli; ma prima lascia che il sole tramonti all'orizzonte, affinché la notte copra i tuoi passi... non ti ho dimenticato; ma ti avrebbero visto uscire, e io sarei stato compromesso! Oh! sapessi come ho sofferto da quel momento! Tornato in cielo, i miei arcangeli mi hanno circondato con curiosità; non hanno voluto chiedermi il motivo della mia assenza. Loro, che mai avevano osato alzare gli occhi su di me, gettavano, sforzandosi di indovinare l'enigma, sguardi stupefatti sul mio volto abbattuto, benché non scorgessero il fondo di quel mistero, e si comunicavano sottovoce pensieri che temevano in me qualche inatteso cambiamento. Piangevano lacrime silenziose; sentivano vagamente che non ero più lo stesso, divenuto inferiore alla mia identità. Avrebbero voluto sapere quale funesta decisione mi aveva fatto varcare le frontiere del cielo, per venire ad abbattermi sulla terra, e assaporare voluttà effimere che essi disprezzano profondamente. Notarono sulla mia fronte una goccia di sperma, una goccia di sangue. La prima era sgorgata dalle cosce della cortigiana! La seconda era zampillata dalle vene del martire! Stigmate odiose! Rosoni inamovibili! I miei arcangeli hanno ritrovato, impigliati nei roveti dello spazio, i brandelli fiammeggianti della mia tunica di opale, fluttuanti sopra i popoli a bocca aperta. Non hanno potuto ricostruirla, e il mio corpo resta nudo davanti alla loro innocenza; castigo memorabile della virtù abbandonata. Guarda i solchi che si sono scavati un letto sulle mie guance scolorite: sono la goccia di sperma e la goccia di sangue, che filtrano lentamente lungo le mie rughe aride. Giunte al labbro superiore, compiono uno sforzo immenso e penetrano nel santuario della
mia bocca, attratte come una calamita dalla gola irresistibile. Mi soffocano queste due gocce implacabili. Fino a questo momento, mi ero creduto l'Onnipotente; ma no; devo abbassare il collo davanti al rimorso che mi grida: "Sei solo un miserabile!". Non fare simili balzi! Taci... taci... se qualcuno ti udisse! ti rimetterò tra gli altri capelli; ma prima lascia tramontare il sole all'orizzonte, affinché la notte copra i tuoi passi Ho visto Satana, il grande nemico, raddrizzare gli ossuti grovigli della carcassa sopra il suo torpore di larva, e, in piedi, trionfante, sublime, arringare le sue truppe riunite; e, poiché lo merito, deridermi. Ha detto di stupirsi molto che il suo orgoglioso rivale, sorpreso in flagrante delitto dal successo finalmente realizzato di uno spionaggio perpetuo, potesse abbassarsi al punto di baciare la veste della corruzione umana, con un viaggio di lungo corso tra gli scogli dell'etere, e far perire tra le sofferenze un membro dell'umanità. Ha detto che quel giovane, stritolato nell'ingranaggio dei miei raffinati supplizi, forse sarebbe potuto diventare un'intelligenza geniale; e consolare gli uomini, su questa terra, con canti mirabili di poesia, di coraggio, contro i colpi della cattiva sorte. Ha detto che le monache del convento-lupanare non ritrovano più il sonno; si aggirano per il cortile, gesticolando come automi, schiacciando con il piede i ranuncoli e i lillà; folli di sdegno, ma non abbastanza da non ricordare la causa che generò quella malattia nel loro cervello... (Eccole venire avanti, rivestite del loro bianco sudario; non si parlano; si tengono per mano. I loro capelli cadono in disordine sulle spalle nude; un mazzetto di fiori neri è inclinato sul loro seno. Monache, tornate nei vostri loculi; la notte non è ancora scesa del tutto; è solo il crepuscolo... O capello, lo vedi tu stesso; da ogni lato sono assalito dal sentimento scatenato della mia depravazione!). Ha detto che il Creatore, che si vanta di essere la Provvidenza di tutto ciò che esiste, si è comportato con molta leggerezza, per non dire di più, offrendo un simile spettacolo ai mondi stellati; infatti ha affermato chiaramente l'intenzione di andare a riferire nei pianeti orbicolari in quale modo io mantengo, con il mio esempio, la virtù e la bontà nella vastità dei miei regni. Ha detto che la grande stima che provava per un così nobile nemico era svanita dalla sua immaginazione, e che preferiva appoggiare la mano sul seno di una fanciulla, benché si tratti di un atto di esecrabile malvagità, piuttosto che sputare sul mio volto ricoperto di tre strati di sangue e di sperma mischiati, per non sporcare il suo sputo bavoso. Ha detto di credersi, giustamente, superiore a me non nel vizio, ma nella virtù e nel pudore; non nel crimine ma nella giustizia.
Ha detto che bisognava attaccarmi a una graticola, per le mie colpe innumerevoli; farmi bruciare a fuoco lento in un braciere ardente, e poi gettarmi in mare, sempre che il mare accettasse di accogliermi. E che, dal momento che mi vantavo di essere giusto, io che l'avevo condannato alle pene eterne per una piccola rivolta, senza gravi conseguenze, dovevo dunque fare severa giustizia su me stesso, e giudicare imparzialmente la mia coscienza carica di iniquità... Non fare balzi simili! Taci... taci... se qualcuno ti udisse! ti rimetterò tra gli altri capelli, ma prima lascia che il sole tramonti all'orizzonte, affinché la notte copra i tuoi passi». Si fermò un istante; benché non lo vedessi, capii, da quella pausa necessaria, che l'onda dell'emozione gli sollevava il petto, come un ciclone vorticoso solleva una famiglia di balene. Petto divino, un giorno insozzato dall'amaro contatto delle tette di una donna senza pudore! Anima regale, abbandonata, in un momento di oblio, al granchio della corruzione, al polipo della debolezza di carattere, allo squalo dell'abbiezione individuale, al boa della morale assente, e alla lumaca mostruosa dell'idiotismo! Il capello e il suo padrone si abbracciarono stretti come due amici che si rivedono dopo una lunga assenza. Il Creatore continuò, come un imputato che ricompaia davanti al proprio tribunale: «E gli uomini, cosa penseranno di me, di cui avevano un'opinione tanto elevata, quando conosceranno gli errori della mia condotta, l'avanzare esitante del mio sandalo nei labirinti fangosi della materia, e la direzione del mio tenebroso cammino attraverso le acque stagnanti e gli umidi giunchi della palude dove, ricoperto di nebbie, muggisce bluastro il crimine dalla zampa tetra!... Mi rendo conto che in futuro dovrò lavorare molto per la mia riabilitazione, per riconquistare la loro stima. Io sono il Grande Tutto; eppure, per un aspetto, resto inferiore agli uomini che ho creato con un po' di sabbia! Racconta loro un'audace menzogna, e di' che non sono mai uscito dal cielo, costantemente rinchiuso con le cure del trono tra i marmi, le statue e i mosaici dei miei palazzi. Mi sono presentato di fronte ai celesti figli dell'umanità; ho detto loro: "Scacciate il male dalle vostre capanne, e lasciate entrare nel vostro focolare il mantello del bene. Colui che alzerà la mano su uno dei suoi simili infliggendogli in seno una ferita mortale col ferro omicida, non speri mai negli effetti della mia misericordia, e tema le bilance della giustizia. Andrà a nascondere nelle foreste la propria tristezza; ma il fruscìo delle foglie nelle radure canterà alle sue orecchie la ballata del rimorso; e lui fuggirà da quei luoghi, punto al fianco dal rovo, dal pungitopo e dall'azzurro cardo, con i suoi rapidi passi avvinghiati dalla
flessibilità delle liane e dai morsi degli scorpioni. Si dirigerà verso i ciottoli della spiaggia; ma l'alta marea, con i suoi spruzzi e il suo pericoloso avvicinarsi, gli racconterà che il suo passato non le è ignoto; e lui precipiterà la sua corsa cieca verso la corona della scogliera, mentre i venti stridenti dell'equinozio, penetrando nelle grotte naturali del golfo e nelle cave aperte sotto la muraglia delle rocce risonanti, muggiranno come le mandrie immense dei bufali delle pampas. I fari della costa lo inseguiranno fino ai limiti del settentrione con i loro riflessi sarcastici, e i fuochi fatui delle maremme, semplici vapori in combustione, con le loro danze fantastiche faranno rabbrividire i peli dei suoi pori, rendendo verde l'iride dei suoi occhi. Che il pudore si trovi a proprio agio nelle vostre capanne, e sia al sicuro all'ombra dei vostri campi. In questo modo i vostri figli diventeranno belli, e s'inchineranno riconoscenti davanti ai genitori; altrimenti, gracili e rattrappiti come la pergamena delle biblioteche, avanzeranno a grandi passi, guidati dalla rivolta, contro il giorno della propria nascita e la clitoride della madre impura". Come vorranno gli uomini obbedire a queste leggi severe, se lo stesso legislatore si rifiuta per primo di attenervisi?... E la mia vergogna è immensa quanto l'eternità!». Udii il capello perdonargli, con umiltà, la sua segregazione, poiché il suo padrone aveva agito per prudenza e non per leggerezza; e l'ultimo pallido raggio di sole che rischiarava le mie palpebre si ritirò dai dirupi della montagna. Girato verso di lui, lo vidi ripiegarsi come un sudario... Non fare balzi simili! Taci... taci... se qualcuno ti udisse! Ti rimetterà tra gli altri capelli. E ora che il sole è tramontato all'orizzonte, tu, vecchio cinico, e tu dolce capello, entrambi allontanatevi strisciando dal lupanare, mentre la notte, stendendo la sua ombra sul convento, copre i vostri passi che si allungano furtivamente nella pianura Allora il pidocchio, uscendo all'improvviso da dietro un promontorio, mi disse, rizzando gli artigli: «Cosa pensi di tutto questo?». Ma io non volli rispondergli. Mi ritirai, e giunsi sul ponte. Cancellai l'iscrizione originaria, e la sostituii con questa: «È doloroso conservare, come un pugnale, un tale segreto nel cuore; ma giuro di non rivelare mai ciò di cui sono stato testimone quando penetrai, per la prima volta, in quel terribile torrione». Gettai via, oltre il parapetto, il temperino che mi era servito a incidere quelle lettere; e, facendo qualche rapida riflessione sul carattere del Creatore infante, che purtroppo doveva, ancora per molto tempo, far soffrire l'umanità (l'eternità è lunga), sia con l'esercizio della crudeltà, sia con lo spettacolo ignobile dei cancri provocati da un grande vizio, chiusi gli occhi come un uomo ubriaco, al pensiero di
avere per nemico un essere simile, e ripresi tristemente il mio cammino attraverso i dedali delle strade. FINE DEL TERZO CANTO CANTO QUARTO
È un uomo o una pietra o un albero che sta per iniziare il quarto canto. Quando il piede scivola sopra una rana, si prova una sensazione di disgusto; ma quando si sfiora appena il corpo umano con la mano, la pelle delle dita si sgretola come le scaglie di un blocco di mica spezzato a colpi di martello; e, come il cuore di uno squalo morto da un'ora palpita ancora, sul ponte, con tenace vitalità, così le nostre viscere si sconvolgono da cima a fondo, per molto tempo dopo quel contatto. Tanto è l'orrore che l'uomo ispira al proprio simile! Può darsi che mi sbagli, esprimendomi in questo modo; ma può anche darsi che dica la verità. Conosco, concepisco una malattia più terribile degli occhi gonfi per le lunghe meditazioni sullo strano carattere dell'uomo; ma ancora la sto cercando... e non sono riuscito a trovarla! Non credo di essere meno intelligente di un altro, eppure, chi oserebbe affermare che sono riuscito nelle mie investigazioni? Quale menzogna uscirebbe dalla sua bocca! L'antico tempio di Denderah è situato a un'ora e mezzo dalla riva del Nilo. Oggi, falangi innumerevoli di vespe si sono impadronite dei canali di scolo e dei cornicioni. Volteggiano intorno alle colonne come le onde folte di una chioma nera. Uniche abitanti del freddo portico, custodiscono l'entrata dei vestiboli, come per un diritto ereditario. Paragono il ronzio delle loro ali metalliche all'urto incessante dei ghiacci che precipitano gli uni contro gli altri durante il disgelo dei mari polari. Ma, se considero la condotta di colui al quale la Provvidenza concesse il trono su questa terra, le tre ali del mio dolore fanno udire un mormorio più grande! Quando una cometa, nella notte, appare improvvisa in una regione del cielo dopo ottant'anni di assenza, mostra agli abitanti della terra e ai grilli la sua coda brillante e vaporosa. Non ha certo coscienza di quel suo lungo viaggio; non è così per me: appoggiato con i gomiti al capezzale del mio letto, mentre il profilo merlettato di un orizzonte arido e tetro si erge vigoroso sullo sfondo della mia anima, mi lascio assorbire dai sogni della compassione e arrossisco
per l'uomo! Tagliato in due dalla tramontana, il marinaio, dopo il suo quarto di notte, si affretta a raggiungere l'amaca: perché questa consolazione non mi è data? Il pensiero di essere caduto, volontariamente, nella stessa bassezza dei miei simili, e che meno di chiunque altro ho il diritto di pronunciare lamenti sulla nostra sorte che resta incatenata alla crosta indurita di un pianeta, e sull'essenza della nostra anima perversa, mi penetra come un chiodo di forgia. Si sono viste esplosioni di grisou annientare famiglie intere; ma queste conobbero l'agonia per poco tempo, perché la morte è quasi immediata tra le macerie e i gas deleterî: ma io... esisto sempre, come il basalto! Nel mezzo come all'inizio della vita, gli angeli somigliano a se stessi: da quanto tempo io non somiglio a me stesso! L'uomo ed io, murati entro i limiti della nostra intelligenza, come spesso un lago entro una cinta d'isole di corallo, invece di unire le nostre forze rispettive per difenderci dal caso e dalla sventura, ci allontaniamo tremanti d'odio e prendiamo due strade opposte, come se ci fossimo reciprocamente feriti con la punta di una daga! Si direbbe che l'uno comprenda il disprezzo che ispira all'altro; mossi dall'incentivo di una dignità relativa, evitiamo con cura di indurre in errore l'avversario; ognuno se ne sta per proprio conto, e non ignora che la pace proclamata non potrebbe essere mantenuta. Ebbene, sia! Divenga eterna la mia guerra contro l'uomo, dato che ognuno riconosce nell'altro la propria degradazione... dato che entrambi sono nemici mortali. Che io debba riportare una vittoria disastrosa o soccombere, il combattimento sarà bello: io, solo, contro l'umanità. Non mi servirò di armi costruite con il legno o il ferro; con il piede respingerò gli strati di minerali estratti dalla terra: la sonorità potente e serafica dell'arpa diverrà, sotto le mie dita, un talismano temibile. In più di un'imboscata l'uomo, questa scimmia sublime, mi ha già trafitto il petto con la sua lancia di porfido: un soldato non mostra le proprie ferite, per gloriose che siano. Questa guerra terribile seminerà il dolore tra i due partiti: due amici che con ostinazione cercano di distruggersi, che dramma! Due pilastri, che non era difficile, e ancor meno possibile, scambiare per baobab, si scorgevano nella vallata, più grandi di due spilli. Erano infatti due torri enormi. E benché a prima vista due baobab non somiglino a due spilli, e nemmeno a torri, tuttavia, impiegando abilmente i trucchi della prudenza, si può affermare, senza timore di avere torto (poiché, se quest'affermazione fosse accompagnata da una sola particella di timore,
non sarebbe più un'affermazione; sebbene uno stesso nome esprima questi due fenomeni dell'anima che presentano caratteri abbastanza netti per non essere confusi con leggerezza), che un baobab non è talmente diverso da un pilastro da vietare il paragone tra queste due forme architettoniche... o geometriche... o l'una e l'altra... oppure né l'una né l'altra o piuttosto forme alte e massicce. Così ho appena trovato, e non ho la pretesa di dire il contrario, gli epiteti adeguati ai sostantivi «pilastro» e «baobab»: e si sappia bene che non è senza gioia unita ad orgoglio che lo faccio notare a coloro che, sollevate le palpebre, hanno preso la lodevolissima risoluzione di scorrere queste pagine mentre la candela arde se è notte, e il sole risplende se è giorno. E inoltre, anche quando una potenza superiore ci ordinasse, nei termini più chiaramente precisi, di rigettare negli abissi del caos il paragone giudizioso che ognuno ha certamente potuto assaporare impunemente, anche allora, e soprattutto allora, non si perda di vista quest'assioma principale, le abitudini contratte con gli anni, i libri, il contatto con i propri simili, e il carattere inerente a chiunque, che si sviluppa in rapida efflorescenza, imporrebbero allo spirito umano la stigmata irreparabile della recidiva, nell'uso criminale (criminale se ci si pone per un momento e spontaneamente dal punto di vista della potenza superiore) di una figura retorica che molti disprezzano, ma molti altri incensano. Se il lettore trova troppo lunga questa frase, accetti le mie scuse; ma non si attenda delle bassezze da parte mia. Posso confessare le mie colpe, ma non aggravarle con la mia viltà. I miei ragionamenti urteranno talvolta contro i sonagli della follia e l'apparenza seria di ciò che in fin dei conti è soltanto grottesco (benché secondo certi filosofi sia abbastanza difficile distinguere la buffoneria dalla malinconia, essendo la vita stessa un dramma comico o una commedia drammatica); e tuttavia è permesso a chiunque uccidere mosche e perfino rinoceronti, per riposarsi ogni tanto da un lavoro troppo arduo. Per uccidere delle mosche, ecco il modo più sbrigativo, benché non sia il migliore: si schiacciano tra le prime due dita della mano. La maggior parte degli scrittori che hanno trattato a fondo quest'argomento ha calcolato, con grande verosimiglianza, che in molti casi è preferibile tagliar loro la testa. Se qualcuno mi rimprovera di parlare di spilli, come di un argomento radicalmente frivolo, noti senza pregiudizio che spesso gli effetti più grandi sono stati prodotti dalle più piccole cause. E, per non allontanarmi ancora di più dal quadro di questo foglio di carta, non è evidente che il laborioso frammento di letteratura che sto componendo dall'inizio di questa strofe, forse verrebbe meno
apprezzato se si fondasse su una spinosa questione di chimica o di patologia interna? Del resto, tutti i gusti sono naturali; e quando, all'inizio, ho paragonato i pilastri agli spilli con tanta precisione (non pensavo certamente che un giorno mi sarebbe stato rimproverato), mi sono basato sulle leggi dell'ottica, che hanno stabilito che più lontano è il raggio visivo da un oggetto, e più l'immagine si riflette diminuita sulla retina. Così, ciò che l'inclinazione del nostro spirito alla farsa prende per una miserabile battuta di spirito, spesso non è altro, nel pensiero dell'autore, che un'importante verità proclamata maestosamente! Oh! quel filosofo insensato che scoppiò a ridere vedendo un asino che mangiava un fico! Non invento nulla: i libri antichi hanno raccontato con i più ampi dettagli questa volontaria e vergognosa spoliazione della nobiltà umana. Non so ridere, io. Non ho mai saputo ridere, anche se più volte ho tentato di farlo. È molto difficile imparare a ridere. O piuttosto, credo che un sentimento di ripugnanza nei confronti di questa mostruosità costituisca un segno essenziale del mio carattere. Ebbene, sono stato testimone di qualcosa di più forte: ho visto un fico che mangiava un asino! E tuttavia non ho riso; francamente, nessuna parte boccale si è mossa. Il bisogno di piangere s'impadronì di me con tanta forza che i miei occhi lasciarono cadere una lacrima. «Natura! natura!» esclamai singhiozzando, «lo sparviero dilania il passero, il fico mangia l'asino e la tenia divora l'uomo!». Senza prendere la risoluzione di proseguire oltre, mi chiedo se ho parlato del modo in cui si uccidono le mosche. Sì, non è vero? È altrettanto vero che non avevo parlato della distruzione dei rinoceronti! Se certi miei amici pretendessero il contrario, non li ascolterei, e mi ricorderei che la lode e la lusinga sono due grandi pietre d'inciampo. Tuttavia, allo scopo di soddisfare il più possibile la mia coscienza, non posso impedirmi di far notare che questa dissertazione sul rinoceronte mi trascinerebbe oltre i confini della pazienza e del sangue freddo, e, per parte sua, probabilmente scoraggerebbe (abbiamo anzi il coraggio di dire «certamente») le generazioni presenti. Non aver parlato del rinoceronte dopo la mosca! Almeno, come scusa passabile, avrei dovuto ricordare prontamente (e non l'ho fatto!) quest'omissione non premeditata, che non stupirà chi abbia studiato a fondo le contraddizioni reali e inesplicabili che dimorano nei lobi del cervello umano. Niente è indegno per un'intelligenza grande e semplice: il più piccolo fenomeno della natura, se contiene del mistero, diverrà per il saggio materia inesauribile di riflessione. Se qualcuno vede un asino che mangia un fico o un fico che mangia un asino (queste due circostanze non
si presentano spesso, tranne che in poesia), siate certi che dopo aver riflettuto due o tre minuti per sapere quale condotta adottare, abbandonerà il sentiero della virtù e si metterà a ridere come un gallo! Tra l'altro, non è stato ancora dimostrato esattamente che i galli aprano apposta il becco per imitare l'uomo e fare una smorfia tormentata. Definisco smorfia negli uccelli ciò che ha lo stesso nome nell'umanità! Il gallo non abbandona mai la propria natura, meno per incapacità che per orgoglio. Insegnate loro a leggere, e si ribellano. Non è un pappagallo, che rimarrebbe estasiato di fronte alla propria debolezza, ignara e imperdonabile! Oh! avvilimento esecrabile! quanto somigliamo a un capra quando ridiamo! La quiete della fronte è scomparsa per far posto a due enormi occhi di pesce che (non è deplorevole?)... che... che si mettono a brillare come fari! Spesso mi accadrà di enunciare solamente le proposizioni più buffonesche... non trovo che ciò diventi un motivo perentoriamente sufficiente per allargare la bocca! Non posso impedirmi di ridere, mi risponderete; accetto questa spiegazione assurda, ma allora sia un riso malinconico. Ridete, ma nello stesso tempo piangete. Se non riuscite a piangere con gli occhi, piangete con la bocca. Se anche questo è impossibile, urinate; ma vi avverto che in questo caso un liquido qualsiasi è necessario per attenuare l'aridità che il riso, dai tratti spaccati all'indietro, si porta nei fianchi. Quanto a me, non mi lascerò sconcertare dal buffo chiocciare e dal muggito originale di coloro che trovano sempre qualcosa da ridire in un carattere che non somiglia al loro, perché è soltanto una delle innumerevoli trasformazioni intellettuali che Dio, senza allontanarsi da un tipo primordiale, creò per governare le ossute carcasse. Fino ai nostri tempi, la poesia ha percorso una falsa strada; innalzandosi fino al cielo o strisciando fino a terra, ha misconosciuto i principi della propria esistenza, ed è stata, non senza ragione, costantemente sbeffeggiata dalla gente perbene. Non è stata modesta... la qualità più bella che debba esistere in un essere imperfetto! Io voglio mostrare le mie qualità; ma non sono abbastanza ipocrita per nascondere i miei vizi! Il riso, il male, l'orgoglio, la follia, appariranno di volta in volta tra la sensibilità e l'amore della giustizia, e serviranno da esempio allo stupore umano; ognuno vi si riconoscerà, non quale dovrebbe essere ma quale è. E forse questo semplice ideale, concepito dalla mia immaginazione, supererà tuttavia tutto ciò che la poesia ha finora trovato di più grandioso e sacro. Infatti, se lascio trasparire i miei vizi attraverso queste pagine, si crederà ancora di più alle virtù che vi faccio risplendere, e di cui porrò l'aureola talmente in alto che i più grandi geni dell'avvenire
testimonieranno una sincera riconoscenza nei miei confronti. Così, dunque, l'ipocrisia sarà decisamente scacciata dalla mia dimora. Vi sarà, nei miei canti, un'imponente prova di potenza, per il fatto di disprezzare in tal modo le opinioni comuni. Egli canta solo per sé, e non per i suoi simili. Non ripone la misura della sua ispirazione nella bilancia umana. Libero come la tempesta, si è arenato sulle spiagge indomabili della sua terribile volontà! Non teme niente, tranne se stesso. Nei suoi combattimenti soprannaturali, attaccherà l'uomo e il Creatore, e con vantaggio, come quando il pesce spada affonda la sua spada nel ventre della balena: sia maledetto dai suoi figli e dalla mia mano scarna, chi persiste a non comprendere gli implacabili canguri del riso e gli audaci pidocchi della caricatura!... Si scorgevano due torri enormi nella vallata; l'ho detto all'inizio. Moltiplicandole per due, il prodotto era quattro... ma non distinguevo molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica. Proseguii la mia strada, con la febbre nel volto, ed esclamavo continuamente: «No no... non distinguo molto bene la necessità di quest'operazione aritmetica!». Avevo udito stridii di catene e gemiti dolorosi. Nessuno ritenga possibile, passando in quel luogo, moltiplicare le torri per due affinché il prodotto sia quattro! Alcuni sospettano che io ami l'umanità come se fossi sua madre e l'avessi portata per nove mesi nei miei fianchi profumati; ecco perché non passo più nella vallata in cui s'innalzano le due unità del moltiplicando! Una forca si ergeva dal suolo; a un metro da terra era appeso per i capelli un uomo, con le braccia legate dietro. Le gambe gli erano state lasciate libere per accrescere i suoi tormenti e fargli desiderare maggiormente qualunque cosa che fosse l'opposto delle braccia legate. La pelle della fronte era talmente tesa dal peso della sospensione che il volto, condannato dalla circostanza all'assenza dell'espressione naturale, somigliava alla concrezione pietrosa di una stalattite. Da tre giorni subiva quel supplizio. Gridava: «Chi mi scioglierà le braccia? chi mi scioglierà i capelli? Mi slogo in movimenti che servono soltanto a staccarmi maggiormente dalla testa la radice dei capelli; la sete e la fame non sono le cause principali che m'impediscono di dormire. È impossibile che la mia esistenza si prolunghi oltre i limiti di un'ora. Qualcuno mi apra la gola con un ciottolo tagliente!». Ogni parola era preceduta e seguita da urla intense. Mi slanciai dal cespuglio dietro cui stavo nascosto, e mi diressi verso quel fantoccio o pezzo di lardo appeso al soffitto. Ma ecco che dal lato opposto
arrivarono danzando due donne ubriache. Una reggeva un sacco e due fruste dalle corde di piombo, l'altra un barile pieno di catrame e due pennelli. I capelli grigiastri della più anziana fluttuavano al vento come i brandelli di una vela stracciata, e le caviglie dell'altra sbattevano tra loro come i colpi di coda di un tonno sul cassero di una nave. I loro occhi brillavano di una fiamma così nera e forte che all'inizio non credetti che quelle due donne appartenessero alla mia specie. Ridevano con una disinvoltura talmente egoista, e i loro lineamenti ispiravano una tale ripugnanza, che non dubitai un attimo di avere davanti agli occhi i due esemplari più schifosi della razza umana. Mi nascosi di nuovo dietro il cespuglio e rimasi immobile, come l'acantophorus serraticornis che mostra soltanto la testa fuori dal nido. Si avvicinavano con la rapidità della marea; appoggiando l'orecchio al suolo, il suono, distintamente percepito, mi portava lo scuotimento lirico dei loro passi. Quando le due femmine di orango furono giunte sotto la forca, per qualche secondo fiutarono l'aria; mostrarono, con i loro gesti strampalati, la quantità davvero notevole di stupore che derivò dalla loro esperienza, quando si accorsero che in quei luoghi non era cambiato nulla: la conclusione della morte, conforme ai loro auspici, non era sopraggiunta. Non si erano degnate di sollevare la testa per sapere se la mortadella si trovasse ancora allo stesso posto. Una disse: «Ma è possibile che tu respiri ancora? Hai la vita dura, mio diletto marito». Come quando due cantori, in una cattedrale, intonano alternandosi i versetti di un salmo, la seconda rispose: «Non vuoi dunque morire, grazioso figlio mio? Dimmi dunque come hai fatto (si tratta certamente di qualche maleficio) a spaventare gli avvoltoi? In effetti la tua carcassa è diventata così magra! Lo zefiro la dondola come una lanterna». Ciascuna prese un pennello e incatramò il corpo dell'impiccato... ciascuna prese una frusta e alzò le braccia... Ammiravo (era assolutamente impossibile non fare come me) con quale energica precisione le lame di metallo, invece di scivolare sulla superficie, come quando ci si batte contro un negro e si compiono sforzi inutili, da incubo, per afferrarlo per i capelli, aderivano, grazie al catrame, fin dentro le carni segnate da solchi profondi quanto poteva ragionevolmente permetterlo l'impedimento delle ossa. Mi sono messo al riparo dalla tentazione di trovare voluttuoso quello spettacolo eccessivamente curioso, ma meno profondamente comico di quanto fosse lecito attendersi. Eppure, nonostante le buone risoluzioni prese in precedenza, come non riconoscere la forza di quelle donne, i muscoli di quelle braccia? La loro abilità, che consisteva nel colpire le
parti più sensibili, come il volto e il basso ventre, sarà da me ricordata solo se aspirerò all'ambizione di raccontare tutta la verità! A meno che, incollando le mie labbra una all'altra, soprattutto in senso orizzontale (ma nessuno ignora che è questo il modo più comune per provocare tale pressione), io non preferisca mantenere un silenzio gonfio di lacrime e misteri, la cui penosa manifestazione sarà incapace di nascondere, non solo altrettanto bene ma anzi meglio ancora delle mie parole (infatti non credo di sbagliarmi, anche se non è certamente necessario negare in linea di massima, pena il rischio di contravvenire alle più elementari regole dell'abilità, le ipotetiche possibilità di errore) i risultati funesti provocati dal furore che mette in funzione i secchi metacarpi e le robuste articolazioni: anche quando non ci si ponesse dal punto di vista dell'osservatore imparziale e dell'esperto moralista (è quasi assai importante informare che io non ammetto, almeno interamente, questa restrizione più o meno fallace), il dubbio, a tale riguardo, non avrebbe la facoltà di estendere le sue radici; infatti non lo suppongo, per il momento, tra le mani di una potenza soprannaturale, e perirebbe immancabilmente, forse non improvvisamente, in mancanza di una linfa in grado di adempiere le condizioni simultanee di nutrizione e di assenza di materie velenose. È evidente, altrimenti non leggetemi, che io metto in scena soltanto la timida personalità della mia opinione: lungi da me, tuttavia, il pensiero di rinunciare a diritti che sono incontestabili! Certo, non è mia intenzione combattere l'affermazione, in cui brilla il criterio della certezza, che esiste un modo più semplice d'intendersi; consisterebbe, lo traduco con poche parole che ne valgono tuttavia più di mille, nel non discutere: è più difficile da mettere in pratica di quanto non voglia generalmente pensare il comune mortale. «Discutere» è il termine grammaticale, e molte persone troveranno che non bisognerebbe contraddire, senza un voluminoso allegato di prove, ciò che ho appena steso sulla carta; ma la cosa cambia notevolmente, se è lecito concedere al proprio istinto d'impiegare una rara sagacia al servizio della sua circospezione, quando formula giudizi che altrimenti sembrerebbero, siatene persuasi, di un'audacia che sfiora le rive della fanfaronata. Per chiudere questo piccolo incidente, che si è spogliato da solo della sua ganga con una leggerezza tanto irrimediabilmente deplorevole quanto fatalmente piena d'interesse (cosa che ognuno non avrà mancato di verificare, a condizione che abbia auscultato i suoi ricordi più recenti), è bene, se si possiedono facoltà in perfetto equilibrio, o meglio se la bilancia dell'idiotismo non ha di gran lunga la meglio sul piatto in cui
stanno i nobili e magnifici attributi della ragione, e cioè, per essere più chiaro (poiché finora sono stato soltanto conciso, cosa che molti non ammetteranno, a causa delle mie lungaggini soltanto immaginarie, perché rispondono al loro scopo di incalzare, con lo scalpello dell'analisi, le fuggitive apparizioni della verità fin dentro i loro ultimi trinceramenti), se l'intelligenza predomina a sufficienza sui difetti sotto il cui peso l'hanno in parte soffocata l'abitudine, la natura e l'educazione, è bene, lo ripeto per la seconda e ultima volta, perché, a forza di ripetere, si finirebbe, in genere non è falso, con il non capirsi più, tornare con la coda tra le gambe (posto che sia vero che io ho una coda) al drammatico argomento messo alla prova in questa strofe. È utile bere un bicchier d'acqua prima di riprendere il seguito del mio lavoro. Preferisco berne due, piuttosto che farne a meno. Così, in una caccia a un negro in fuga attraverso la foresta, a un momento convenuto ogni membro del gruppo appende il fucile alle liane, e ci si riunisce tutti insieme all'ombra di una macchia, per placare la sete e calmare la fame. Ma la sosta dura soltanto qualche secondo, l'inseguimento viene ripreso con accanimento, e l'hallalì non tarda a risuonare. E come l'ossigeno è riconoscibile dalla proprietà che possiede, senza orgoglio, di riaccendere un fiammifero che presenti qualche punto d'ignizione, così si riconoscerà l'adempimento del mio compito dalla premura che dimostro nel ritornare sull'argomento. Quando le femmine si videro nell'impossibilità di trattenere la frusta, che la stanchezza lasciò cadere dalle loro mani, posero giudiziosamente fine all'attività ginnica che avevano svolto per quasi due ore e si ritirarono, con una gioia non sprovvista di minacce per l'avvenire. Mi diressi verso colui che mi chiamava in aiuto, con un occhio glaciale (infatti la perdita di sangue era così grande che la debolezza gli impediva di parlare e, pur non essendo io un medico, era mia opinione che l'emorragia si fosse manifestata nel volto e nel basso ventre), e gli tagliai i capelli con un paio di forbici, dopo avergli slegato le braccia. Mi raccontò che sua madre, una sera, l'aveva chiamato nella sua stanza, e gli aveva ordinato di spogliarsi per passare la notte a letto con lei, e, senz'attendere alcuna risposta, la maternità si era spogliata di tutti i suoi vestiti, intrecciando di fronte a lui i gesti più impudichi. Allora egli si era ritirato. Inoltre, con i suoi perpetui rifiuti si era attirato la collera della moglie, che si era cullata nella speranza di una ricompensa qualora fosse riuscita a indurre il marito a prestare il suo corpo alle passioni della vecchia. Esse decisero, con un complotto, di appenderlo a una forca preparata precedentemente in qualche luogo non frequentato, e
di lasciarlo perire insensibilmente, esposto ad ogni miseria e ad ogni pericolo. Non senza mature e numerose riflessioni, piene di difficoltà quasi insuperabili, alla fine erano giunte a orientare la loro scelta sul raffinato supplizio che aveva visto dileguarsi il suo esito soltanto grazie all'aiuto insperato del mio intervento. I segni più vivi della riconoscenza sottolineavano ogni sua espressione e davano alle sue confessioni un valore non certo esiguo. Lo portai nella capanna più vicina; infatti era svenuto, e abbandonai i contadini soltanto dopo aver lasciato loro la mia borsa perché curassero il ferito, e dopo essermi fatto promettere che avrebbero prodigato allo sventurato, come a un loro figlio, i segni di una simpatia perseverante. A mia volta raccontai loro l'accaduto e mi avvicinai alla porta, per rimettere il piede sul sentiero; ma ecco che, dopo aver fatto un centinaio di passi, tornai automaticamente sui miei passi; entrai di nuovo nella capanna e, rivolgendomi agli ingenui proprietari, esclamai: «No, no... non crediate che tutto questo mi stupisca!». Questa volta mi allontanai definitivamente; ma la pianta dei piedi non riusciva ad appoggiarsi in modo sicuro: un altro avrebbe potuto non accorgersene! Il lupo non passa più sotto la forca che innalzarono, in un giorno di primavera, le mani intrecciate di una sposa e di una madre, come quando faceva prendere alla sua immaginazione affascinata la via di un pasto illusorio. Quando vede all'orizzonte quella chioma nera, ondeggiante al vento, non incoraggia la propria forza d'inerzia, e prende la fuga con una velocità incomparabile! Bisogna vedere, in questo fenomeno psicologico, un'intelligenza superiore all'istinto ordinario dei mammiferi? Senza attestare niente, e senza niente prevedere, mi sembra che l'animale abbia capito che cos'è il crimine! Come potrebbe non capirlo, quando degli esseri umani, proprio loro, hanno respinto fino a questo punto indescrivibile il dominio della ragione, per lasciar sussistere, al posto di questa regina spodestata, soltanto una vendetta selvaggia! Sono sporco. I pidocchi mi rodono. I porci, quando mi guardano vomitano. Le croste e le escare della lebbra hanno squamato la mia pelle, coperta di pus giallastro. Non conosco l'acqua dei fiumi né la rugiada delle nubi. Sulla mia nuca, come sopra un letamaio, cresce un fungo enorme dai peduncoli ombrelliferi. Seduto sopra un mobile informe, da quattro secoli non muovo le membra. I miei piedi hanno messo radici nel suolo e compongono, fino al ventre, una sorta di vegetazione viva, piena di ignobili parassiti, che non è più carne e non deriva ancora dalla pianta.
Eppure il mio cuore batte. Ma come potrebbe battere, se la putredine e le esalazioni del mio cadavere (non oso dire «corpo») non lo nutrissero in abbondanza? Sotto l'ascella sinistra si è stabilita una famiglia di rospi, e quando uno di essi si muove mi fa il solletico. State attenti che non ne scappi uno, e non venga a grattarvi con la bocca l'interno dell'orecchio: poi, sarebbe capace di entrarvi nel cervello. Sotto l'ascella destra c'è un camaleonte che dà loro una caccia perpetua, per non morire di fame: ognuno deve vivere. Ma quando un partito sventa completamente le astuzie dell'altro, non trovano niente di meglio da fare che lasciarsi in pace a vicenda, e succhiano il grasso delicato che mi ricopre le costole: ci sono abituato. Una vipera malvagia ha divorato la mia verga, e ne ha preso il posto: mi ha reso eunuco, quell'infame. Oh! se avessi potuto difendermi con le mie braccia paralizzate; ma credo piuttosto che si siano mutate in ceppi. Comunque sia, è importante constatare che il sangue non viene più a farvi scorrere il suo rossore. Due piccoli istrici, che non crescono più, hanno gettato a un cane, che non ha rifiutato, l'interno dei miei testicoli: e si sono sistemati all'interno dell'epidermide, lavata con cura. L'ano è stato intercettato da un granchio; incoraggiato dalla mia inerzia, con le sue chele fa la guardia all'ingresso, e mi fa molto male! Due meduse hanno varcato i mari, immediatamente allettate da una speranza che non fu delusa. Con attenzione hanno scrutato le due parti carnose che formano il didietro umano e, aggrappandosi al loro profilo convesso, le hanno talmente schiacciate con una pressione costante che i due pezzi di carne sono scomparsi, mentre sono rimasti due mostri usciti dal regno della viscosità, eguali per colore, forma e ferocia. Non parlate della mia colonna vertebrale, perché è una spada. Sì, sì... non ci pensavo... la vostra domanda è giusta. Desiderate sapere, non è vero, come mai si trovi piantata verticalmente nelle mie reni? Neppure io lo ricordo molto chiaramente; tuttavia, se mi decido a considerare un ricordo ciò che forse non è altro che un sogno, sappiate che l'uomo, quando ha saputo che avevo fatto voto di vivere con la malattia e l'immobilità finché non avessi vinto il Creatore, camminò, dietro di me, in punta di piedi, ma non così piano da non essere udito. Non percepii più niente, per un istante che non fu lungo. Questo pugnale acuminato penetrò fino all'impugnatura tra le due spalle del toro delle feste, e la sua ossatura fremette come un terremoto. La lama aderisce con tale forza al corpo, che nessuno finora è riuscito ad estrarla. Gli atleti, i meccanici, i filosofi, i medici, hanno tentato, volta a volta, i mezzi più diversi. Non sapevano che il male che l'uomo ha fatto non può più essere
disfatto! Ho perdonato alla profondità della loro ignoranza originaria, e li ho salutati con le palpebre degli occhi. Viandante, quando mi passerai accanto, non rivolgermi, te ne supplico, la minima parola di consolazione: indeboliresti il mio coraggio. Lascia che io riscaldi la mia tenacia alla fiamma del martirio volontario. Vattene... che io non t'ispiri alcuna pietà. L'odio è più bizzarro di quanto pensi; la sua condotta è inesplicabile, come l'apparenza spezzata di un bastone piantato nell'acqua. Quale mi vedi, posso ancora fare escursioni fino alle muraglie del cielo, alla testa di una legione di assassini, e tornare ad assumere quest'atteggiamento per meditare, di nuovo, sui nobili progetti della vendetta. Addio, non ti tratterrò più a lungo; e, per istruirti e preservarti, rifletti sulla sorte fatale che mi ha condotto alla rivolta, quando forse ero nato buono! Racconterai a tuo figlio ciò che hai visto; e, prendendolo per mano, fagli ammirare la bellezza delle stelle e le meraviglie dell'universo, il nido del pettirosso e i templi del Signore. Sarai stupito di vederlo così docile ai consigli della paternità, e lo ricompenserai con un sorriso. Ma quando crederà di non essere osservato, getta lo sguardo su di lui, e lo vedrai sputare la sua bava sulla virtù; ti ha ingannato, colui che è disceso dalla razza umana, ma non t'ingannerà più: ormai saprai che ne sarà di lui. O padre sventurato, prepara, per accompagnare i passi della tua vecchiaia, il patibolo incancellabile che mozzerà la testa di un criminale precoce, e il dolore che ti mostrerà la via che conduce alla tomba. Sul muro della mia stanza, quale ombra disegna, con potenza incomparabile, la fantasmagorica proiezione della sua sagoma rattrappita? Quando impongo al mio cuore quest'interrogativo, delirante e muto, è meno per la maestà della forma che per il quadro della realtà, che la sobrietà dello stile si comporta in tal modo. Chiunque tu sia, difenditi; mi accingo infatti a dirigere verso di te la fionda di un'accusa terribile: quegli occhi non ti appartengono... dove li hai presi? Un giorno vidi passare davanti a me una donna bionda; li aveva eguali ai tuoi: tu glieli hai strappati. Vedo che vuoi far credere alla tua bellezza; ma nessuno ci crede, e io meno di chiunque altro. Te lo dico perché tu non mi prenda per uno sciocco. Tutta una serie di uccelli rapaci, appassionati della carne altrui e difensori dell'utilità della caccia, belli come scheletri che sfoglino panocos dell'Arkansas, volteggiano intorno alla tua fronte come servitori sottomessi e graditi. Ma è una fronte? Non è difficile esitare molto a crederlo. È talmente bassa che è impossibile verificare le prove, numericamente
esigue, della sua equivoca esistenza. Non te lo dico per divertirmi. Forse non hai fronte, tu che fai passeggiare sul muro, come il simbolo mal riflesso di una danza fantastica, il febbrile traballare delle tue vertebre lombari. Chi dunque ti ha scotennato? Se è stato un essere umano, da te rinchiuso per vent'anni in una prigione ed evaso per preparare una vendetta degna delle sue rappresaglie, ha fatto ciò che doveva e io l'applaudo; soltanto, perché un soltanto c'è, non è stato abbastanza severo. Adesso somigli a un Pellerossa prigioniero, almeno (notiamolo preliminarmente) per l'espressiva assenza di capigliatura. Non che non possa ricrescere, dato che i fisiologi hanno scoperto che perfino i cervelli asportati alla lunga ricompaiono, negli animali; ma il mio pensiero, fermandosi a una semplice constatazione che non è sprovvista, per quel poco che ne posso capire, di una voluttà enorme, non si spinge, neppure nelle sue più ardite conseguenze, fino alle frontiere di un augurio per la tua guarigione, e, anzi, mettendo in opera la sua più che sospetta neutralità, ha fondate ragioni di considerare (o almeno di auspicare) come presagio di più grandi sventure, ciò che per te non può essere altro che una momentanea privazione della pelle che ti copre la superficie della testa. Spero che tu mi abbia capito. E anche se il caso ti permettesse, per un miracolo assurdo ma non, talvolta, ragionevole, di ritrovare quella pelle preziosa che la religiosa vigilanza del tuo nemico ha conservato come il ricordo inebriante della sua vittoria, è quasi estremamente possibile che, anche quando si fosse studiata la legge delle probabilità solo da un punto di vista matematico (ora, è risaputo che l'analogia traspone facilmente l'applicazione di questa legge agli altri campi dell'intelligenza), il tuo timore legittimo, ma un po' esagerato, di un raffreddamento totale o parziale, non rifiuterebbe l'occasione importante, anzi unica, che si presentasse in modo così opportuno, anche se brusco, di preservare le diverse parti del tuo cervello dal contatto con l'atmosfera, soprattutto d'inverno, con un copricapo che a buon diritto ti spetta in quanto è naturale, e che ti sarebbe permesso, inoltre (sarebbe incomprensibile che tu lo negassi), di tenere costantemente sulla testa senza correre il rischio sempre spiacevole di infrangere le regole più semplici di una correttezza elementare. Non è vero che mi ascolti con attenzione? Se mi ascolti meglio, la tua tristezza non potrà certo staccarsi dall'interno delle tue rosse narici. Ma poiché sono molto imparziale, e non ti detesto quanto dovrei (se mi sbaglio, dimmelo), tuo malgrado porgi l'orecchio ai miei discorsi, come spinto da una forza superiore. Io non sono malvagio come te: ecco perché il tuo genio s'inchina spontaneamente
davanti al mio... In effetti, io non sono malvagio come te! Hai appena gettato uno sguardo sulla città costruita sul fianco di questa montagna. E ora, cosa vedo? Tutti gli abitanti sono morti! Ho orgoglio quanto un altro, ed è un vizio in più averne forse di più. Ebbene, ascolta... ascolta, se la confessione di un uomo che ricorda di essere vissuto un mezzo secolo sotto forma di squalo nelle correnti sottomarine che costeggiano l'Africa, t'interessa abbastanza vivamente per prestargli la tua attenzione, se non con amarezza, almeno senza l'errore irreparabile di mostrare il disgusto che ti ispiro. Non getterò ai tuoi piedi la maschera della virtù, per apparire ai tuoi occhi quale sono; infatti non l'ho mai portata (se questa tuttavia è una scusa); e, fin dai primi istanti, se osservi attentamente i miei lineamenti, mi riconoscerai come un tuo rispettoso discepolo nella perversità, ma non come un tuo temibile rivale. Poiché non ti contendo la palma del male, non credo che un altro lo faccia: prima dovrebbe eguagliarmi, e questo non è facile... Ascolta, a meno che tu non sia la debole condensazione di una nebbia (tu nascondi il tuo corpo da qualche parte, e io non posso incontrarlo): un mattino in cui vidi una ragazzina che si sporgeva su un lago per cogliervi un loto rosa, con precoce esperienza lei rese più sicuri i suoi passi; si sporgeva sulle acque quando i suoi occhi incontrarono il mio sguardo (è vero che, da parte mia, ciò non avveniva senza premeditazione). Subito barcollò come il turbine generato dalla marea intorno a uno scoglio, le sue gambe si piegarono e, cosa meravigliosa a vedersi, fenomeno che si realizzò come è vero che sto parlando con te, cadde fino in fondo al lago: strana conseguenza, non colse più ninfacee. Ma che fa lì sotto?... non mi sono informato. Senza dubbio la sua volontà, che si è schierata sotto la bandiera della liberazione, impegna lotte accanite contro la putrefazione! Ma tu, mio signore, sotto il tuo sguardo gli abitanti delle città sono improvvisamente distrutti, come un formicaio schiacciato dal tallone dell'elefante. Forse non sono appena stato testimone di un esempio dimostrativo? Vedi... la montagna non è più gioiosa... resta isolata come un vecchio. È vero, le case esistono; ma non è un paradosso affermare sottovoce che non potresti dire lo stesso di coloro che in esse non esistono più. Già le esalazioni dei cadaveri giungono fino a me. Non le senti? Guarda quegli uccelli da preda che attendono che ci allontaniamo per iniziare il pasto gigantesco; ne arriva una nube perpetua dai quattro punti dell'orizzonte. Ahimè! erano già venuti, dato che vidi le loro ali rapaci tracciare sopra di te il monumento delle spirali, come per incitarti ad affrettare il crimine. Il tuo odorato non riceve dunque il minimo
effluvio? L'impostore non è nient'altro... I tuoi nervi olfattivi sono finalmente scossi dalla percezione di atomi aromatici: questi s'innalzano dalla città annientata, benché non abbia bisogno di fartelo sapere. Vorrei abbracciarti i piedi, ma le mie braccia non stringono altro che un vapore trasparente. Cerchiamo questo corpo introvabile, che tuttavia i miei occhi scorgono: merita, da parte mia, i più numerosi segni di un'ammirazione sincera. Il fantasma si prende gioco di me: mi aiuta a cercare il suo corpo. Se gli faccio segno di restare al suo posto, ecco che mi rimanda lo stesso segno... Il segreto è scoperto; ma non, lo dico con franchezza, per mia maggiore soddisfazione. Tutto è spiegato, nei dettagli grandi e minimi; non importa richiamare questi ultimi alla mente, come, per esempio, gli occhi strappati alla donna bionda: questo non è quasi niente! Non mi ricordavo, dunque, che anch'io ero stato scotennato, anche se soltanto per cinque anni (il tempo esatto l'avevo dimenticato) avevo rinchiuso un essere umano in una prigione, per essere testimone dello spettacolo delle sue sofferenze, poiché mi aveva rifiutato, avendone il diritto, un'amicizia che non si concede a esseri come me? Poiché fingo d'ignorare che il mio sguardo può dare la morte, perfino ai pianeti che roteano nello spazio, non avrà torto chi pretenderà che io non possiedo la facoltà dei ricordi. Ciò che mi resta da fare è spezzare questo specchio, mandarlo in frantumi, con l'aiuto di una pietra... Non è la prima volta che l'incubo della perdita momentanea della memoria stabilisce la sua dimora nella mia immaginazione, quando, per le inflessibili leggi dell'ottica, mi accade di essere messo di fronte alla mia immagine, e di non riuscire a riconoscerla! Mi ero addormentato sulla scogliera. Chi per un'intera giornata ha inseguito lo struzzo attraverso il deserto senza riuscire a raggiungerlo, non ha avuto il tempo di prendere del cibo e di chiudere gli occhi. Se è lui a leggermi, è in grado d'indovinare, a rigore, quale sonno pesò su di me. Ma quando la tempesta ha spinto verticalmente un vascello, con il palmo della mano, in fondo al mare; se, sulla zattera, dell'intero equipaggio non resta che un uomo, rotto dalle fatiche e dalle privazioni di ogni genere; se il maroso lo sballotta come un relitto, per ore più lunghe della vita dell'uomo; e se una fregata, che solca più tardi quei luoghi desolati con la carena spezzata, scorge lo sventurato che trascina per l'oceano la sua scarna carcassa, e gli reca un soccorso che ha rischiato di giungere tardivo, io credo che questo naufrago intuirà ancora meglio fino a quale punto giunse l'assopimento dei miei sensi. Il magnetismo e il cloroformio,
quando se ne danno la pena, sanno talvolta generare simili catalessi letargiche. Esse non hanno alcuna somiglianza con la morte: dirlo sarebbe una grande menzogna. Ma veniamo subito al sogno, affinché gli impazienti, affamati di letture simili, non si mettano a ruggire come un banco di capodogli macrocefali che si battono tra loro per una femmina incinta. Sognavo di essere entrato nel corpo di un porco, e non mi era facile uscirne, e sguazzavo i miei peli nelle paludi più fangose. Era come una ricompensa? Oggetto dei miei voti, non facevo più parte dell'umanità! Per quanto mi riguardava, intesi così l'interpretazione, e ne provai una gioia più che profonda. Tuttavia cercavo attivamente quale atto di virtù avessi compiuto per meritare quest'insigne favore da parte della Provvidenza. Ora che ho ripassato nella mia memoria le diverse fasi di quello spaventoso appiattimento contro il ventre del granito, durante il quale la marea, senza che me ne accorgessi, passò due volte sopra un miscuglio irriducibile di materia morta e di carne viva, non è forse inutile proclamare che probabilmente quella degradazione non era altro che una punizione realizzata su di me dalla giustizia divina. Ma chi conosce i propri intimi bisogni o la causa delle proprie gioie pestilenziali? La metamorfosi non sembrò mai altro ai miei occhi che l'alta e magnanima eco di una felicità perfetta, che attendevo da molto tempo. Era finalmente giunto il giorno in cui fui un porco! Provavo i denti sulla corteccia degli alberi; il grugno, me lo contemplavo con delizia. Non rimaneva più la minima particella di divinità: seppi elevare la mia anima fino all'altezza eccessiva di quell'ineffabile voluttà. Ascoltatemi dunque, e non arrossite, inesauribili caricature del bello, che prendete sul serio il risibile raglio della vostra anima sovranamente spregevole; e che non capite perché l'Onnipotente, in un raro momento di buffoneria eccellente, che certamente non supera le grandi regole generali del grottesco, si sia preso, un giorno, il mirifico piacere di far abitare un pianeta da esseri singolari e microscopici, definiti umani, e la cui materia somiglia a quella del corallo vermiglio. Certo, avete ragione di arrossire, ossa e grasso; ma ascoltatemi. Non invoco la vostra intelligenza; le fareste vomitare sangue per l'orrore che essa vi testimonia: dimenticatela, e siate coerenti con voi stessi... A quel punto, più nessuna coercizione. Quando volevo uccidere, uccidevo; ciò, anzi, mi accadeva spesso, e nessuno me lo impediva. Le leggi umane mi perseguitavano ancora con la loro vendetta, anche se non attaccavo la razza che avevo abbandonato così tranquillamente; ma la mia coscienza non mi muoveva alcun rimprovero. Durante il giorno mi battevo con i miei
nuovi simili, e il suolo era disseminato di numerosi strati di sangue coagulato. Ero il più forte, e riportavo tutte le vittorie. Ferite cocenti coprivano il mio corpo; fingevo di non accorgermene. Gli animali terrestri si allontanavano da me, e io rimanevo solo nella mia splendente grandezza. Quale non fu il mio stupore quando, attraversato a nuoto un fiume per allontanarmi dai luoghi che la mia rabbia aveva spopolato, e raggiungere altre campagne per impiantarvi le mie usanze di assassinio e carneficina, tentai di camminare su quella riva fiorita. I miei piedi erano paralizzati; nessun movimento veniva a tradire la verità di quella forzata immobilità. Tra sforzi soprannaturali per continuare il mio cammino, fu allora che mi svegliai e sentii che ridiventavo uomo. La Provvidenza mi faceva così capire, in un modo non inspiegabile, di non volere che, neppure in sogno, i miei progetti sublimi si realizzassero. Tornare alla mia forma primitiva fu per me un dolore così grande che durante la notte ne piango ancora. Le mie lenzuola sono costantemente inzuppate, come se fossero state immerse nell'acqua, e ogni giorno le faccio cambiare. Se non ci credete, venite a vedermi; controllerete, per esperienza diretta, non la verosimiglianza ma proprio la verità della mia asserzione. Quante volte, dopo quella notte passata all'aperto su una scogliera, mi sono mescolato a branchi di porci per riprendere, come di diritto, la mia metamorfosi distrutta! È tempo di abbandonare questi ricordi gloriosi, che non si lasciano dietro altro che la pallida via lattea degli eterni rimpianti. Non è impossibile essere testimoni di una deviazione anormale nel funzionamento latente o visibile delle leggi della natura. Effettivamente, se ognuno si desse la pena ingegnosa d'interrogare le diverse fasi della propria esistenza (senza dimenticarne una sola, perché magari proprio quella era destinata a fornire la prova di ciò che sostengo), ricorderà, non senza uno stupore che in altre circostanze sarebbe comico, di essere stato un giorno testimone, per parlare innanzitutto di cose oggettive, di qualche fenomeno che sembrava superare, e superava veramente, le note nozioni fornite dall'osservazione e dall'esperienza, come, per esempio, le piogge di rospi, il cui magico spettacolo dovette all'inizio non essere compreso dai dotti. E che, un certo altro giorno, per parlare in secondo e ultimo luogo di cose soggettive, la sua anima presentò allo sguardo investigatore della psicologia, non giungerò a dire un'aberrazione della ragione (che tuttavia non sarebbe meno curiosa; al contrario, lo sarebbe di più), ma, almeno, per non fare il difficile con certe persone fredde che mai mi perdonerebbero le
flagranti elucubrazioni della mia esagerazione, uno stato inusuale, assai spesso molto grave, che indica come il limite accordato dal buon senso all'immaginazione è talvolta, malgrado l'effimero patto concluso tra queste due potenze, purtroppo superato dall'energica pressione della volontà, ma anche, il più delle volte, dall'assenza della sua collaborazione effettiva: diamo come prova qualche esempio, di cui non è difficile apprezzare l'opportunità, se tuttavia si prende per compagna un'attenta moderazione. Ne presento due: gli attacchi di collera e le malattie dell'orgoglio. Avverto chi mi legge di stare attento a non farsi un'idea vaga, e, a maggior ragione, falsa, delle bellezze letterarie che io sfoglio, nello sviluppo eccessivamente rapido delle mie frasi. Ahimè! vorrei svolgere i miei ragionamenti e i miei paragoni lentamente e con molta magnificenza (ma chi dispone del proprio tempo?), perché ognuno capisca meglio, se non il mio spavento, almeno il mio stupore, quando, una sera d'estate, mentre il sole sembrava calare all'orizzonte, vidi nuotare, in mare, con larghe zampe d'anatra al posto delle estremità delle gambe e delle braccia, con una pinna dorsale proporzionalmente lunga ed affilata come quella dei delfini, un essere umano, dai muscoli vigorosi, che banchi numerosi di pesci (vidi, nel corteo, tra gli altri abitanti delle acque, la torpedine, l'anarnak groenlandese e lo scorpene-orribile) seguivano con i segni più che evidenti della massima ammirazione. Ogni tanto si tuffava, e il suo corpo vischioso riappariva quasi subito, a duecento metri di distanza. I marsuini, che secondo la mia opinione non hanno usurpato la reputazione di buoni nuotatori, riuscivano appena a seguire da lontano quest'anfibio di nuova specie. Non credo che il lettore abbia modo di pentirsi se porge alla mia narrazione non tanto il dannoso ostacolo di una stupida credulità, quanto il supremo servizio di una profonda fiducia, che discuta legittimamente, con segreta simpatia, i misteri poetici, troppo poco numerosi a suo avviso, che io m'incarico di rivelargli ogni volta che se ne presenti l'occasione, come oggi si è inopinatamente presentata, intimamente penetrata dai tonici sentori delle piante acquatiche, che la tramontana rinfrescante trasporta in questa strofe che contiene un mostro, che si è appropriato dei segni distintivi della famiglia dei palmipedi. Chi parla qui di appropriazione? Si sappia bene che l'uomo, con la sua natura multipla e complessa, non ignora i modi di ampliarne ulteriormente i confini; vive nell'acqua, come l'ippocampo; negli strati superiori dell'aria, come l'ossifraga, e sottoterra, come la talpa, il millepiedi e la sublimità del vermiciattolo. Tale è, nella sua forma più o meno concisa (ma più che meno), l'esatto criterio della
consolazione estremamente fortifìcante che mi sforzavo di far nascere nel mio spirito, quando pensavo che l'essere umano che scorgevo nuotare in lontananza con le quattro membra alla superficie delle onde, come mai lo fece il cormorano più superbo, forse aveva acquisito il nuovo mutamento delle estremità delle gambe e delle braccia soltanto come il castigo espiatorio di qualche crimine sconosciuto. Non era necessario che mi tormentassi la testa per fabbricarmi in anticipo le malinconiche pillole della pietà; infatti non sapevo che quell'uomo, le cui braccia battevano alternativamente l'onda amara, mentre le gambe, con una forza simile a quella posseduta dalle difese a spirale dei narvalo, facevano rifluire gli strati acquatici, non si era appropriato volontariamente di quelle forme straordinarie, più di quanto gli fossero state imposte come un supplizio. Secondo quanto appresi più tardi, ecco la semplice verità: il prolungarsi dell'esistenza in quell'elemento fluido aveva insensibilmente provocato, nell'essere umano che volontariamente si era esiliato dai continenti rocciosi, i mutamenti importanti, ma non essenziali, che avevo notato nell'oggetto che uno sguardo passabilmente confuso mi aveva fatto scambiare, fin dai momenti primordiali della sua apparizione (per una leggerezza inqualificabile, i cui errori generano quel sentimento così penoso che gli psicologi e gli amanti della prudenza comprenderanno facilmente) per un pesce dalla forma strana, non ancora descritto nelle classificazioni dei naturalisti; ma, forse, nelle loro opere postume, anche se io non avevo la scusabile pretesa di propendere per quest'ultima supposizione, immaginata in condizioni eccessivamente ipotetiche. In effetti, quell'anfibio (poiché di anfibio si tratta, senza che sia possibile affermare il contrario) era visibile soltanto per me, fatta astrazione dai pesci e dai cetacei; mi accorsi infatti che alcuni contadini, che si erano fermati a contemplare il mio volto turbato da quel fenomeno soprannaturale, e che inutilmente cercavano di spiegarsi perché i miei occhi fossero costantemente fissi, con una perseveranza che appariva invincibile e che in realtà non lo era, su un punto del mare dove loro non distinguevano che una quantità apprezzabile e limitata di banchi di pesci di tutte le specie, dilatavano l'apertura della loro bocca grandiosa, forse quanto una balena. «Ciò li faceva sorridere, ma non, come me, impallidire, dicevano nel loro linguaggio pittoresco; e non erano tanto stupidi da non notare che, appunto, io non guardavo le evoluzioni campestri dei pesci, ma che la mia vista si dirigeva molto più in avanti». Così, per quanto mi riguarda, girando meccanicamente gli occhi verso la notevole ampiezza di
quelle bocche possenti, mi dicevo, tra me e me, che a meno di trovare nella totalità dell'universo un pellicano grande come una montagna o almeno come un promontorio (ammirate, vi prego, la finezza della restrizione che non perde un pollice di terreno), nessun becco di uccello da preda, o mascella di animale selvaggio, sarebbe mai capace di superare, e nemmeno di eguagliare, uno di quei crateri spalancati, ma troppo lugubri. Eppure, anche se io riservo un ampio spazio al simpatico uso della metafora (questa figura retorica rende molti più servigi alle aspirazioni umane verso l'infinito di quanto si sforzino di immaginarlo normalmente coloro che sono imbevuti di pregiudizi o idee false, che è poi la stessa cosa), è altrettanto vero che la bocca ridicola di quei contadini resta ancora abbastanza larga da inghiottire tre capidogli. Abbreviamo di più il nostro pensiero, siamo seri, e contentiamoci di tre elefantini appena nati. Con una sola bracciata, l'anfibio si lasciava dietro un chilometro di scia schiumante. Nel brevissimo attimo in cui il braccio teso in avanti rimane sospeso in aria prima d'immergersi di nuovo, le sue dita aperte, riunite grazie a una piega della pelle in forma di membrana, sembrava che si slanciassero verso le altezze dello spazio, e afferrassero le stelle. In piedi sullo scoglio, mi servii delle mani come di un portavoce e gridai, mentre i granchi e i gamberi fuggivano verso l'oscurità dei crepacci più segreti: «O tu che nel nuoto vinci il volo delle lunghe ali della fregata, se ancora comprendi il significato dei grandi scoppi di voce che, quale fedele interpretazione del suo intimo pensiero, l'umanità lancia con forza, degnati di fermarti un attimo nel tuo rapido cammino, e raccontami sommariamente le fasi della tua vera storia. Ma ti avverto che non hai bisogno di rivolgermi la parola se il tuo audace progetto è di far nascere in me l'amicizia e la venerazione che io provai per te appena ti vidi compiere per la prima volta, con la grazia e la forza dello squalo, il tuo pellegrinaggio indomabile e rettilineo». Un sospiro, che mi gelò le ossa e fece vacillare lo scoglio su cui poggiavo la pianta dei piedi (a meno che non fossi io stesso a vacillare, per la rude penetrazione delle onde sonore che portavano al mio orecchio un tale grido di disperazione) si udì fin dentro le viscere della terra: i pesci si tuffarono sotto le onde, con il rumore della valanga. L'anfibio non osò avanzare troppo, fino alla riva; ma appena fu sicuro che la sua voce giungeva assai distintamente fino al mio timpano, ridusse il movimento delle sue membra palmate, in modo da sostenere il busto coperto di alghe al di sopra dei flutti muggenti. Lo vidi chinare la fronte, come per invocare, con un ordine solenne, la muta errante dei ricordi. Non osavo
interromperlo in quest'occupazione, santamente archeologica: immerso nel passato, somigliava a uno scoglio. Finalmente prese la parola, in questi termini: «La scolopendra non manca di nemici; la fantastica bellezza delle sue zampe innumerevoli, invece di attirarle la simpatia degli animali, forse, per loro, non è che il possente stimolante di una gelosa irritazione. E non mi stupirei di sapere che quell'insetto è oggetto degli odi più intensi. Ti nasconderò il luogo della mia nascita, che non ha importanza per il mio racconto; importa invece al mio dovere la vergogna che ne ricadrebbe sulla mia famiglia. Mio padre e mia madre (Dio li perdoni!), dopo un anno di attesa videro il cielo esaudire i loro voti: due gemelli, mio fratello e io, vennero alla luce. Ragione di più per amarsi. Non andò come ne parlo. Poiché ero io il più bello dei due e il più intelligente, mio fratello mi prese in odio, e non si dette la pena di nascondere i suoi sentimenti: per questo, mio padre e mia madre riversarono su di me la maggior parte del loro amore, mentre io, con la mia amicizia sincera e costante, mi sforzavo di placare un'anima che non aveva il diritto di rivoltarsi contro chi era stato tratto dalla stessa carne. Allora mio fratello non pose più limiti al suo furore, e mi rovinò, nel cuore dei nostri comuni genitori, con le calunnie più inverosimili. Per quindici anni ho vissuto in una cella, con larve e acqua fangosa per cibo. Non ti racconterò in dettaglio i tormenti inauditi che ho provato, in quella lunga e ingiusta segregazione. A volte, in un momento della giornata, uno dei tre carnefici, a turno, entrava all'improvviso, carico di pinze, di tenaglie e di diversi strumenti di supplizio. Le grida che le torture mi strappavano li lasciavano irremovibili; la perdita abbondante del mio sangue li faceva sorridere. Fratello mio, ti ho perdonato, tu che sei la causa prima di tutti i miei mali! Ma è mai possibile che una rabbia cieca non possa, alla fine, dissigillare i propri occhi? Ho riflettuto molto, nella mia prigione eterna. Quale diventasse il mio odio generale contro l'umanità, puoi indovinarlo. L'intristimento progressivo, la solitudine del corpo e dell'anima, ancora non mi avevano fatto perdere la ragione fino al punto di serbare rancore contro coloro che non avevo smesso di amare: triplice gogna di cui ero schiavo. Riuscii, con l'astuzia, a recuperare la mia libertà! Disgustato degli abitanti del continente, i quali, nonostante si attribuissero il titolo di miei simili, fino a quel momento non sembrava che mi somigliassero in qualcosa (se trovavano che io somigliavo loro, perché mi facevano del male?), diressi la mia corsa verso i ciottoli della spiaggia, fermamente deciso a darmi la morte qualora il mare mi avesse offerto le reminiscenze anteriori di un'esistenza fatalmente
vissuta. Crederesti ai tuoi occhi? Dal giorno in cui fuggii dalla casa paterna, non mi lamento quanto tu pensi di abitare il mare e le sue grotte di cristallo. La Provvidenza, come vedi, mi ha dato in parte la struttura del cigno. Vivo in pace con i pesci, ed essi mi procurano il cibo di cui ho bisogno, come se fossi il loro monarca. Ora lancerò un fischio particolare, purché ciò non ti disturbi, e vedrai come riappariranno». Accadde come egli predisse. Riprese il suo nuoto regale, circondato dal suo corteo di sudditi. E, anche se in capo a qualche secondo era completamente scomparso ai miei occhi, con un cannocchiale riuscii ancora a distinguerlo ai limiti estremi dell'orizzonte. Nuotava con una mano, e con l'altra si asciugava gli occhi, che la terribile necessità di avvicinarsi alla terraferma aveva iniettato di sangue. Aveva agito in quel modo per farmi piacere. Gettai lo strumento rivelatore contro la scarpata a picco; rimbalzò di roccia in roccia, e i suoi frammenti sparsi furono le onde a raccoglierli: tali furono l'ultima dimostrazione e il supremo addio con cui m'inchinai, come in un sogno, di fronte a un'intelligenza nobile e sventurata! Eppure, tutto era reale in ciò che era accaduto durante quella sera d'estate. Ogni notte, immergendo l'ampiezza delle mie ali nella mia memoria agonizzante, evocavo il ricordo di Falmer... ogni notte. I suoi capelli biondi, il suo volto ovale, i suoi lineamenti maestosi, erano ancora impressi nella mia immaginazione... indistruttibilmente soprattutto i suoi capelli biondi. Allontanate, allontanate dunque quella testa senza capelli, levigata come il guscio della tartaruga. Aveva quattordici anni, e io avevo soltanto un anno di più. Che taccia quella lugubre voce. Perché viene a denunciarmi? Ma sono io a parlare. Servendomi della mia lingua per esprimere il mio pensiero, mi accorgo che le mie labbra si muovono, che sono proprio io a parlare. E sono io che, raccontando una storia della mia giovinezza, e sentendo il rimorso penetrarmi nel cuore sono proprio io, a meno che non mi sbagli... sono proprio io a parlare. Avevo soltanto un anno di più. A chi alludo dunque? È un amico che avevo nei tempi passati, credo. Sì, sì, ho già detto come si chiama... Non voglio sillabare di nuovo quelle sei lettere, no, no. È inutile anche ripetere che avevo un anno di più. Chi lo sa? Ripetiamolo, tuttavia, ma con un penoso mormorio: avevo soltanto un anno di più. Anche allora la preminenza della mia forza fisica era un motivo per sostenere, lungo il rude sentiero della vita, chi si era dato a me, piuttosto che per maltrattare un essere visibilmente più debole. Credo in effetti che fosse più debole... Anche allora. È un amico che avevo
nei tempi passati, credo. La preminenza della mia forza fisica... ogni notte... Soprattutto i suoi capelli biondi. Esiste più di un essere umano che ha visto delle teste calve: la vecchiaia, la malattia, il dolore (le tre cose insieme, o separatamente) spiegano questo fenomeno negativo in modo soddisfacente. Tale è, almeno, la risposta che mi darebbe un dotto, se lo interrogassi a questo riguardo. La vecchiaia, la malattia, il dolore. Ma non ignoro (anch'io sono un dotto) che un giorno, poiché lui mi aveva fermato la mano nel momento in cui alzavo il mio pugnale per trafiggere il seno di una donna, lo afferrai per i capelli con un braccio di ferro, e lo feci roteare in aria con una tale velocità che la capigliatura mi rimase in mano, e il suo corpo, lanciato dalla forza centrifuga, andò a sbattere contro il tronco di una quercia Non ignoro che un giorno la sua capigliatura mi rimase in mano. Anch'io sono un dotto. Sì, sì, ho già detto come si chiama. Non ignoro di aver commesso un giorno un atto infame, mentre il suo corpo era proiettato dalla forza centrifuga. Aveva quattordici anni. Quando, in un attacco di alienazione mentale, corro attraverso i campi tenendo stretta al cuore una cosa sanguinante che conservo da molto tempo come una reliquia venerata, i ragazzini che m'inseguono... i ragazzini e le vecchie che m'inseguono a sassate, gemono lamentosi: «È la capigliatura di Falmer». Allontanate, allontanate dunque quella testa calva, levigata come il guscio della tartaruga... Una cosa sanguinante. Ma sono io a parlare. Il suo volto ovale, i suoi maestosi lineamenti. Credo in effetti che fosse più debole. Le vecchie e i ragazzini. Credo che in effetti... cosa volevo dire? credo in effetti che fosse più debole. Con un braccio di ferro. Quell'urto, quell'urto l'ha ucciso? Le sue ossa si sono spezzate contro l'albero... irreparabilmente? L'ha ucciso, quell'urto generato dal vigore di un atleta? Ha conservato la vita, benché le sue ossa si siano spezzate irreparabilmente... irreparabilmente? Quell'urto l'ha ucciso? Temo di sapere ciò di cui i miei occhi chiusi non furono testimoni. In effetti... Soprattutto i suoi capelli biondi. In effetti, fuggii lontano con una coscienza ormai implacabile. Aveva quattordici anni. Con una coscienza ormai implacabile. Ogni notte. Quando un giovane, che aspira alla gloria, a un quinto piano, chino sul suo tavolo da lavoro, nell'ora silenziosa della mezzanotte, percepisce un brusio che non sa a cosa attribuire, gira da ogni parte la testa appesantita dalla meditazione e dai manoscritti polverosi; ma niente, nessun indizio sorpreso gli rivela la causa di ciò che ode tanto flebilmente, anche se lo ode. Si accorge, infine, che il fumo della candela, prendendo lo slancio verso il soffitto, provoca, attraverso l'aria circostante,
le vibrazioni quasi impercettibili di un foglio di carta appeso a un chiodo conficcato nel muro. A un quinto piano. Come un giovane, che aspira alla gloria, ode un brusio che non sa a cosa attribuire, così io odo una voce melodiosa che pronuncia al mio orecchio: «Maldoror!». Ma, prima di porre fine al malinteso, credeva di udire le ali di una zanzara... chino sul suo tavolo da lavoro. Eppure non sogno; che importa che io sia disteso sul mio letto di raso? Con sangue freddo faccio la sagace osservazione che ho gli occhi aperti, anche se è l'ora dei domino rosa e dei balli mascherati. Mai... oh! no, mai!... una voce mortale fece udire quei serafici accenti, pronunciando con tanta dolorosa eleganza le sillabe del mio nome! Le ali di una zanzara... Com'è benevola la sua voce... Dunque mi ha perdonato? Il suo corpo andò a sbattere contro il tronco di una quercia... «Maldoror!». FINE DEL QUARTO CANTO CANTO QUINTO
Il lettore non si irriti con me se la mia prosa non ha la fortuna di piacergli. Tu sostieni che le mie idee sono perlomeno singolari. Ciò che dici, rispettabile uomo, è la verità; ma una verità parziale. Ora, quale abbondante fonte di errori e malintesi è ogni verità parziale! I branchi di storni hanno un loro modo particolare di volare che sembra rispondere a una tattica uniforme e regolare, come sarebbe quella di una truppa disciplinata che obbedisse con precisione alla voce di un solo capo. È alla voce dell'istinto che gli storni obbediscono, e il loro istinto li porta ad avvicinarsi sempre al centro del plotone mentre la rapidità dei volo li trascina in avanti senza sosta; in modo che questa moltitudine di uccelli, così riuniti da una tendenza comune verso lo stesso punto calamitato, andando e venendo senza tregua, circolando e incrociandosi in ogni senso, forma una specie di turbine molto agitato la cui intera massa, senza seguire una direzione veramente certa, sembra avere un movimento generale di evoluzione su se stessa, che risulta dai movimenti particolari di circolazione propri a ognuna delle sue parti, e nel quale il centro, tendendo perpetuamente a svolgersi, ma incessantemente compresso, respinto dallo sforzo contrario delle linee circostanti che su di esso gravano, è costantemente più compatto di ognuna di quelle linee, che a loro volta lo
sono tanto più quanto più sono vicine al centro. Nonostante questo modo singolare di turbinare, gli storni fendono l'aria circostante con rara velocità, e guadagnano sensibilmente, a ogni secondo, un terreno prezioso per il termine delle loro fatiche e il fine del loro pellegrinaggio. Tu, egualmente, non prestare attenzione alla maniera bizzarra con cui io canto ognuna di queste strofe. Ma sii persuaso che gli accenti fondamentali della poesia conservano comunque il loro intrinseco diritto sulla mia intelligenza. Non generalizziamo fatti eccezionali, io non chiedo di meglio: eppure il mio carattere rientra nell'ordine delle cose possibili. Senza dubbio, tra i due termini estremi della tua letteratura, come tu l'intendi, e della mia, c'è un'infinità di termini intermedi, e sarebbe facile moltiplicare le divisioni; ma ciò non risulterebbe di alcuna utilità, e ci sarebbe il pericolo di attribuire dei caratteri di angustia e falsità a una concezione eminentemente filosofica, che cessa di essere razionale appena non è più compresa nei termini in cui è stata immaginata, cioè con ampiezza. Tu sai alleare l'entusiasmo e il freddo interiore, osservatore di umore concentrato; insomma, ti trovo perfetto... E tu non vuoi capirmi! Se non sei in buona salute, segui il mio consiglio (è il migliore che io abbia a tua disposizione) e vai a fare una passeggiata in campagna. Triste compensazione, che ne dici? Quando avrai preso aria, torna a trovarmi: i tuoi sensi saranno più riposati. Non piangere più; non volevo appenarti. Non è vero, amico mio, che fino a un certo punto la tua simpatia per i miei canti è cosa acquisita? Ora, chi t'impedisce di salire gli altri gradini? La frontiera tra il tuo gusto e il mio è invisibile; non riuscirai mai ad afferrarla: è la prova che tale frontiera non esiste. Pensa dunque che in questo caso (mi limito a sfiorare la questione) non sarebbe impossibile che tu avessi sottoscritto un trattato di alleanza con l'ostinazione, questa piacevole figlia del mulo, fonte così ricca d'intolleranza. Se non sapessi che non sei uno sciocco, non ti farei un simile rimprovero. Non è utile per te incrostarti nel guscio cartilaginoso di un assioma che credi incrollabile. Ci sono anche altri assiomi, incrollabili, che procedono parallelamente al tuo. Se hai un'inclinazione spiccata per le caramelle (mirabile farsa della natura), nessuno lo riterrà un crimine; ma coloro la cui intelligenza, più energica e capace di cose più grandi, preferisce il pepe e l'arsenico, hanno buone ragioni per agire in questo modo, senza avere l'intenzione di imporre il loro pacifico dominio a coloro che tremano di paura di fronte a un toporagno o all'espressione eloquente delle superfici di un cubo. Parlo per esperienza, senza voler fare, in questo caso, la parte del provocatore. E così come i rotiferi e i tardigradi possono
essere riscaldati a una temperatura vicina all'ebollizione senza necessariamente perdere la loro vitalità, lo stesso accadrà a te se saprai assimilare con precauzione l'acre sierosità suppurativa che lentamente si sprigiona dall'irritazione provocata dalle mie interessanti elucubrazioni. Non si è forse riusciti a innestare sulla schiena di un topo vivo la coda staccata dal corpo di un altro topo? Prova dunque, nello stesso modo, a trasporre nella tua immaginazione le diverse modificazioni della mia ragione cadaverica. Ma sii prudente. Mentre sto scrivendo, nuovi brividi percorrono l'atmosfera intellettuale: si tratta soltanto di avere il coraggio di guardarli in faccia. Perché fai quella smorfia? E l'accompagni perfino con un gesto che potrebbe essere imitato solo attraverso un lungo tirocinio. Sii persuaso che l'abitudine è necessaria in ogni cosa; e poiché la repulsione istintiva che si era manifestata fin dalle prime pagine è notevolmente diminuita di profondità, in ragione inversa all'applicazione alla lettura, come un foruncolo che venga inciso, bisogna sperare, nonostante la tua testa sia ancora malata, che la tua guarigione non tarderà certamente a entrare nella sua ultima fase. Per me, è indubbio che tu già navighi in piena convalescenza; eppure il tuo volto è rimasto così magro, ahimè! Ma... coraggio! c'è in te uno spirito poco comune, io ti amo, e non dispero della tua completa guarigione, a patto che tu ingerisca qualche sostanza medicamentosa che non farà che affrettare la scomparsa degli ultimi sintomi del male. Come nutrimento astringente e tonico, per prima cosa strapperai le braccia a tua madre (se ancora esiste), le ridurrai in piccoli pezzi e poi li mangerai, nello stesso giorno, senza che un solo lineamento del tuo volto tradisca la tua emozione. Qualora tua madre fosse troppo vecchia, scegli un altro soggetto chirurgico, più giovane e più fresco, sul quale abbia presa la raspa, e le cui ossa tarsiche, quando cammina, trovino agevolmente un punto d'appoggio per far leva: tua sorella, per esempio. Non posso impedirmi di compiangere la sua sorte, e non sono di quelli nei quali un entusiasmo molto freddo non fa altro che ostentare la bontà. Tu e io verseremo per lei, per quella vergine amata (ma non ho prove per stabilire che sia vergine), due lacrime incoercibili, due lacrime di piombo. E sarà tutto. La pozione più lenitiva che ti consiglio, è un catino pieno di pus blenorragico in grumi, in cui siano stati preliminarmente sciolti una cisti pelosa dell'ovaia, un cancro follicolare, un prepuzio infiammato, rovesciato indietro dal glande da una parafimosi, e tre lumache rosse. Se segui le mie prescrizioni, la mia poesia ti accoglierà a braccia aperte, come un pidocchio recide con i suoi baci la radice di un capello.
Vedevo, davanti a me, un oggetto dritto su un poggio. Non distinguevo chiaramente la sua testa, ma già indovinavo che non era di forma consueta, senza precisare tuttavia la proporzione esatta dei suoi contorni. Non osavo avvicinarmi a quella colonna immobile; e anche se avessi avuto a disposizione le zampe deambulatorie di più di tremila granchi (non parlo neppure di quelle che servono alla presa e alla masticazione degli alimenti), sarei comunque rimasto nello stesso posto se un avvenimento di per sé estremamente futile non avesse prelevato un pesante tributo sulla mia curiosità, che faceva scricchiolare le sue dighe. Uno scarabeo, rotolando sul suolo con le mandibole e le antenne una palla i cui elementi principali erano composti di materie escrementizie, avanzava a passi rapidi verso il poggio suddetto, impegnandosi a mettere bene in evidenza la sua volontà di prendere quella direzione. Quell'animale articolato non era molto più grande di una vacca! Se qualcuno dubita di ciò che dico, venga da me, e io soddisferò i più increduli con la testimonianza di buoni testimoni. Lo seguii da lontano, visibilmente incuriosito. Cosa voleva fare di quella grossa palla nera? Lettore, tu che ti vanti senza tregua della tua perspicacia (e non a torto), saresti capace di dirmelo? Ma non voglio sottoporre a dura prova la tua nota passione per gli enigmi. Ti basti sapere che la più mite punizione che io possa infliggerti è farti osservare che questo mistero non ti sarà rivelato (ti sarà rivelato) se non più tardi, alla fine della tua vita, quando intavolerai discussioni filosofiche con l'agonia, sul bordo del tuo capezzale e forse anche alla fine di questa strofe. Lo scarabeo era arrivato ai piedi del poggio. Mi ero messo sulle sue tracce, ed ero ancora a una grande distanza dal luogo della scena; infatti, come gli stercorari, uccelli inquieti quasi fossero sempre affamati, amano stare nei mari che bagnano i due poli, e soltanto accidentalmente si spingono nelle zone temperate, così io non ero tranquillo, e spingevo avanti le gambe con grande lentezza. Ma cos'era dunque la sostanza corporea verso la quale avanzavo? Sapevo che la famiglia dei pellicanacei comprende quattro generi distinti: il matto, il pellicano, il cormorano, la fregata. La forma grigiastra che mi appariva non era un matto. Il blocco plastico che scorgevo non era una fregata. La carne cristallizzata che osservavo non era un cormorano. Ora lo vedevo, l'uomo dall'encefalo privo di protuberanza anulare! Cercavo vagamente, nei recessi della mia memoria, in quale contrada torrida o glaciale avevo già notato quel becco lunghissimo, largo, convesso, a volta, con la cresta prominente, ungulata,
rigonfia e molto adunca all'estremità; quegli orli dentellati, dritti; quella mandibola inferiore, con branche separate fin quasi alla punta; quell'intervallo riempito da una pelle membranosa; quella larga tasca, gialla e sacchiforme, che occupava la gola intera e poteva distendersi considerevolmente; e quelle narici strettissime, longitudinali, quasi impercettibili, scavate in un solco basale! Se quell'essere vivente, dalla respirazione polmonare semplice, dal corpo guarnito di peli, fosse stato un uccello intero fino alla pianta dei piedi, e non soltanto fino alle spalle, allora non mi sarebbe stato tanto difficile riconoscerlo: cosa facilissima a farsi, come ora vedrete voi stessi. Soltanto, per questa volta me ne dispenso; per la chiarezza della mia dimostrazione avrei bisogno che uno di quegli uccelli fosse posto sul mio tavolo da lavoro, magari anche solo impagliato. Non sono abbastanza ricco per procurarmene uno. Seguendo passo per passo un'ipotesi anteriore, avrei subito individuato la sua vera natura e trovato una collocazione nelle classificazioni di storia naturale a colui di cui ammiravo la nobiltà, nella sua posa malaticcia. Con quale soddisfazione di non essere del tutto all'oscuro dei segreti del suo duplice organismo, e con quale avidità di saperne di più, lo contemplavo nella sua durevole metamorfosi! Nonostante non possedesse un volto umano, mi sembrava bello come i due lunghi filamenti tentacoliformi di un insetto; o piuttosto, come un'inumazione precipitosa; o ancora, come la legge della ricostituzione degli organi mutilati; e, soprattutto, come un liquido eminentemente putrescibile! Ma, senza prestare alcuna attenzione a ciò che accadeva nei dintorni, lo straniero guardava sempre di fronte a sé, con la sua testa di pellicano! Un altro giorno riprenderò la fine di questa storia. Continuerò tuttavia la mia narrazione con cupa premura; infatti, se da parte vostra siete impazienti di sapere dove vuole arrivare la mia immaginazione (voglia il cielo che si tratti soltanto dell'immaginazione!), da parte mia ho preso la risoluzione di terminare in una sola volta (e non in due!) quello che avevo da dirvi. Anche se nessuno ha il diritto di accusarmi di mancare di coraggio. Ma, quando ci si trova in presenza di simili circostanze, più di uno sente battere contro il palmo della mano le pulsazioni del cuore. È morto da poco, quasi sconosciuto, in un piccolo porto della Bretagna, un maestro di cabotaggio, vecchio marinaio, che fu l'eroe di una storia terribile. Allora era capitano di lungo corso, e viaggiava per un armatore di Saint-Malo. Dunque, dopo un'assenza di tredici mesi, giunse al focolare domestico nel momento in cui sua moglie, ancora a letto, gli aveva appena dato un erede, al riconoscimento del quale egli non riconosceva a se stesso
alcun diritto. Il capitano non fece trasparire niente della sua sorpresa e della sua collera; freddamente pregò la moglie di vestirsi e di accompagnarlo in una passeggiata sui bastioni della città. Era gennaio. I bastioni di Saint-Malo sono alti e, quando soffia il vento del nord, anche i più intrepidi si tirano indietro. La sventurata obbedì, calma e rassegnata; al ritorno, delirò. Spirò durante la notte. Ma non era che una donna. Mentre io, che sono un uomo, in presenza di un dramma non meno grande, non so se conservai un dominio sufficiente su me stesso affinché i muscoli del mio volto rimanessero immobili! Appena lo scarabeo fu giunto ai piedi del poggio, l'uomo alzò il braccio verso ovest (precisamente in quella direzione, un avvoltoio degli agnelli e un gufo reale della Virginia avevano ingaggiato un combattimento nell'aria), si asciugò sul becco una lunga lacrima che presentava un sistema di colorazione adamantina, e disse allo scarabeo: «Palla sventurata! non l'hai fatta rotolare abbastanza? La tua vendetta non è ancora placata; e già, quella donna, di cui avevi legato con collane di perle le gambe e le braccia, in modo da realizzare un poliedro amorfo, per trascinarla, con i tuoi tarsi, per le vallate e i sentieri, sui rovi e sulle pietre (lasciami avvicinare, per vedere se è ancora lei!), ha visto le proprie ossa scavarsi di ferite, le proprie membra levigarsi per la legge meccanica dell'attrito rotatorio, confondersi nell'unità della coagulazione, e il suo corpo presentare, invece dei lineamenti primordiali e delle curve naturali, la monotona apparenza di un tutt'uno omogeneo che somiglia fin troppo, per la confusione dei suoi diversi elementi stritolati, alla massa di una sfera! È morta da un pezzo; lascia quelle spoglie alla terra, ed evita di accrescere, in proporzioni irreparabili, la rabbia che ti consuma: non è più giustizia; infatti l'egoismo, nascosto nei tegumenti della tua fronte, solleva lentamente, come un fantasma, i drappeggi che lo ricoprono». L'avvoltoio degli agnelli e il gufo reale della Virginia, trascinati insensibilmente dalle peripezie della lotta, si erano avvicinati a noi. A quelle parole inattese lo scarabeo tremò, e quello che in altre occasioni sarebbe stato un movimento insignificante divenne, questa volta, il segno distintivo di un furore che non conosceva più limiti; infatti si sfregò temibilmente le cosce posteriori contro l'orlo delle elitre, facendo udire un rumore acuto: «Chi sei dunque, essere pusillanime? Sembra che tu abbia dimenticato certi strani sviluppi dei tempi passati; non li trattieni nella memoria, fratello. Quella donna ci ha traditi, uno dopo l'altro. Te per primo, me per secondo. Mi sembra che quest'ingiuria non debba (non debba!) scomparire tanto facilmente dal ricordo. Tanto facilmente! La tua natura magnanima ti permette di
perdonare. Ma tu lo sai se, nonostante la situazione anormale degli atomi di questa donna, ridotta a pasta da madia (e non si tratta, ora, di sapere se alla prima investigazione non sarebbe possibile credere che questo corpo sia stato aumentato di una quantità notevole di densità più per l'ingranaggio di due ruote robuste che per gli effetti della mia passione focosa), essa non esista ancora? Taci, e lascia che io mi vendichi». Riprese i suoi maneggi, e si allontanò, spingendo la palla davanti a sé. Quando si fu allontanato, il pellicano esclamò: «Quella donna, con il suo potere magico, mi ha dato una testa di palmipede, e ha trasformato mio fratello in scarabeo: forse si merita trattamenti anche peggiori di quelli che ho appena enumerato». E io, che non ero sicuro di non sognare, intuendo da quanto avevo appena udito la natura delle relazioni ostili che univano, sopra di me, in un combattimento sanguinoso, l'avvoltoio degli agnelli e il gufo reale della Virginia, rovesciai la testa all'indietro come un cappuccio, per dare al gioco dei miei polmoni la libertà e l'elasticità suscettibili, e gridai loro, volgendo gli occhi in alto: «Voialtri, ponete fine alla vostra discordia. Avete ragione entrambi; poiché ad ognuno essa aveva promesso il suo amore, e quindi vi ha ingannati entrambi. Ma non siete i soli. Inoltre vi ha spogliati della vostra forma umana, prendendosi crudelmente gioco dei vostri dolori più santi. E voi esitereste a credermi! del resto, è morta; e lo scarabeo le ha fatto subire un castigo d'impronta incancellabile, malgrado la pietà del primo tradito». A queste parole, misero fine alla loro disputa, e non si strapparono più le piume, né i brandelli di carne: avevano ragione ad agire così. Il gufo reale della Virginia, bello come una dissertazione sulla curva descritta da un cane in corsa dietro al suo padrone, s'inabissò nei crepacci di un convento in rovina. L'avvoltoio degli agnelli, bello come la legge dell'arresto dello sviluppo del petto negli adulti, la cui propensione alla crescita non è in rapporto con la quantità di molecole che il loro organismo assimila, si perse negli strati alti dell'atmosfera. Il pellicano, il cui generoso perdono mi aveva provocato una grande impressione, perché non lo trovavo naturale, riprendendo sul suo poggio la maestosa impassibilità di un faro, come per avvertire i navigatori umani di fare attenzione al suo esempio, e di preservare la loro sorte dall'amore delle tetre maghe, continuava a guardare davanti a sé. Lo scarabeo, bello come il tremito delle mani dell'alcoolizzato, scompariva all'orizzonte. Quattro esistenze in più che era possibile radiare dal libro della vita. Mi strappai un muscolo intero dal braccio sinistro, perché non sapevo più cosa facevo, tanto mi sentivo commosso di fronte a quella quadruplice sventura. E io
che credevo si trattasse di materie escrementizie. Sono proprio una gran bestia. L'annientamento intermittente delle facoltà umane: qualunque cosa il vostro pensiero sia incline a supporre, non si tratta di parole. Almeno, non sono parole come le altre. Alzi la mano chi crederebbe di compiere un atto giusto pregando un boia di scorticarlo vivo. Raddrizzi la testa, con la voluttà del sorriso, chi offrirebbe volontariamente il petto alle pallottole della morte. I miei occhi cercheranno il segno delle cicatrici; le mie dieci dita concentreranno la totalità della loro attenzione nel palpare con cura la carne di quell'eccentrico; verificherò che gli schizzi di cervello abbiano raggiunto il raso della mia fronte. Non è vero che non si troverebbe nell'universo intero un uomo, amante di un simile martirio? Non so cosa significhi ridere, è vero, non avendolo mai provato personalmente. Eppure, quale imprudenza sarebbe sostenere che le mie labbra non si allargherebbero se mi fosse dato di vedere chi sostenesse che, da qualche parte, quell'uomo esiste? Ciò che nessuno auspicherebbe per la propria esistenza, mi è stato assegnato da un destino ingiusto. Non che il mio corpo nuoti nel lago del dolore; poco male. Ma la mente mi s'inaridisce in una riflessione condensata e continuamente tesa; urla come le rane di una palude quando uno stormo di fenicotteri voraci e di aironi famelici viene ad abbattersi sui giunchi delle sue sponde. Felice chi dorme beato in un letto di piume strappate dal petto dell'edredone, senza rendersi conto che tradisce se stesso. Sono più di trent'anni che non dormo. Dal giorno impronunciabile della mia nascita, ho votato alle tavole sonnifere un odio inconciliabile. L'ho voluto io; nessuno sia accusato. Presto, ci si spogli del sospetto abortito. Distinguete, sulla mia fronte, questa pallida corona? Colei che la intrecciò con le sue magre dita, fu la tenacia. Finché un resto di linfa infuocata mi scorrerà nelle ossa, come un torrente di metallo fuso, io non dormirò. Ogni notte costringo il mio livido occhio a fissare le stelle attraverso i vetri della finestra. Per essere più sicuro di me, una scheggia di legno mi tiene aperte le palpebre gonfie. Quando l'aurora appare, mi trova nella stessa posizione, con il corpo appoggiato verticalmente, in piedi, contro l'intonaco della fredda parete. Eppure talvolta mi accade di sognare, ma senza mai perdere per un solo istante il vivo senso della mia personalità e la libera facoltà di muovermi: sappiate che l'incubo nascosto negli angoli fosforici dell'ombra, la febbre che mi palpa il volto con il suo moncherino, ogni animale impuro che allunga il suo artiglio sanguinante,
ebbene, è la mia volontà che, per dare un alimento stabile alla sua perpetua attività, li fa girare in tondo. Infatti, atomo che si vendica nella sua debolezza estrema, il libero arbitrio non teme di affermare, con una potente autorità, ch'esso non conta l'abbrutimento nel numero dei suoi figli: chi dorme è meno di un animale castrato il giorno prima. Benché l'insonnia trascini verso le profondità della fossa questi muscoli che già emanano un odore di cipresso, la bianca catacomba della mia intelligenza non aprirà mai i suoi santuari agli occhi del Creatore. Una segreta e nobile giustizia, verso le cui braccia tese mi slancio d'istinto, mi ordina di incalzare senza tregua quell'ignobile castigo. Nemico temibile della mia anima imprudente, nell'ora in cui si accende una lanterna sulla costa, proibisco alle mie reni sventurate di sdraiarsi sulla rugiada dell'erba. Vincitore, respingo le insidie del papavero ipocrita. È dunque certo che, attraverso questa strana lotta, il mio cuore ha murato i suoi progetti, affamato che mangia se stesso. Impenetrabile come i giganti, io, sono vissuto senza tregua con l'apertura degli occhi spalancata. Perlomeno è accertato che, durante il giorno, ognuno può opporre un'utile resistenza contro il Grande Oggetto Esteriore (chi non conosce il suo nome?); perché, allora, la volontà veglia alla propria difesa con un accanimento notevole. Ma appena il velo dei vapori notturni si stende, anche sui condannati che stanno per essere impiccati, oh! vedere il proprio intelletto tra le mani sacrileghe di un estraneo! Uno scalpello spietato ne scruta le fitte sterpaglie. La coscienza esala un lungo rantolo di maledizione; perché il velo del suo pudore riceve lacerazioni crudeli. Umiliazione! la nostra porta è aperta alla selvaggia curiosità del Bandito Celeste. Non ho meritato questo supplizio infame, o tu, la spia schifosa della mia causalità! Se esisto, non sono un altro. Non ammetto in me questa pluralità equivoca. Voglio risiedere solo, nel mio intimo ragionamento. L'autonomia... oppure mi si trasformi in ippopotamo. Inabìssati sotto terra, o stimmata anonima, e non riapparire più davanti alla mia sconvolta indignazione. La mia soggettività e il Creatore, è troppo per un cervello solo. Quando la notte oscura il corso delle ore, chi non ha combattuto contro l'influenza del sonno, nel suo giaciglio bagnato di un sudore glaciale? Quel letto, che attira al proprio seno le facoltà morenti, non è altro che una tomba composta di tavole di abete squadrate. La volontà si ritrae insensibilmente, come in presenza di una forza invisibile. Una pece vischiosa ispessisce il cristallino degli occhi. Le palpebre si cercano come due amici. Il corpo non è più che un cadavere che respira. Infine, quattro enormi pioli
inchiodano sul materasso la totalità delle membra. E notate, vi prego, che in definitiva le lenzuola non sono altro che sudari. Ecco il turibolo in cui arde l'incenso delle religioni. L'eternità muggisce come un mare lontano, e si avvicina a grandi passi. L'appartamento è scomparso; prosternatevi, umani, nella cappella ardente! Talvolta, sforzandosi inutilmente di vincere le imperfezioni dell'organismo immerso nel sonno più profondo, il senso magnetizzato si accorge con stupore di non essere altro che un macigno sepolcrale, e ragiona mirabilmente, grazie a un'incomparabile sottigliezza: «Uscire da questo giaciglio è un problema più difficile di quanto non si pensi. Seduto sulla carretta, mi portano verso la binarietà dei pali della ghigliottina. Cosa curiosa, il mio braccio inerte ha sapientemente assimilato la rigidità del ceppo. È molto brutto sognare che si va al patibolo». Il sangue scorre a fiotti attraverso il volto. Il petto sussulta ripetutamente, e si gonfia sibilando. Il peso di un obelisco soffoca l'espansione della rabbia. Il reale ha distrutto i sogni della sonnolenza! Chi non sa che quando la lotta si prolunga tra l'io, pieno di fierezza, e il terribile accrescersi della catalessi, la mente allucinata perde il giudizio? Rósa dalla disperazione, si compiace del suo male finché non abbia vinto la natura, e finché il sonno, vedendo che la sua preda gli sfugge, fugga senza ritorno lontano dal suo cuore, con ala irritata e vergognosa. Gettate un po' di cenere sulla mia orbita infuocata. Non fissate il mio occhio che non si chiude mai. Capite le sofferenze che patisco (e tuttavia l'orgoglio è soddisfatto)? Appena la notte esorta gli umani al riposo, un uomo che conosco cammina a grandi passi nella campagna. Temo che la mia risoluzione soccomba sotto i colpi della vecchiaia. Che arrivi, il giorno fatale, in cui mi addormenterò! Al risveglio, il mio rasoio, aprendosi un varco attraverso il collo, proverà che niente, in effetti, era più reale. - Ma chi dunque!... ma chi dunque osa, qui, come un cospiratore, trascinare gli anelli del suo corpo verso il mio nero petto? Chiunque tu sia, eccentrico pitone, con quale pretesto giustifichi la tua presenza ridicola? È un grande rimorso a tormentarti? Perché vedi, boa, la tua selvaggia maestà non ha, suppongo, l'esorbitante pretesa di sottrarsi al paragone che io ne faccio con i tratti del criminale. Questa bava schiumosa e biancastra è per me il segno della rabbia. Ascoltami: lo sai che il tuo occhio è ben lontano dal bere un raggio celeste? Non dimenticare che se il tuo presuntuoso cervello mi ha creduto capace di offrirti qualche parola di consolazione, ciò non può essere provocato soltanto da un'ignoranza totalmente
sprovvista di conoscenze fisiognomiche. Per un certo tempo, beninteso sufficiente, dirigi la luce dei tuoi occhi verso ciò che ho il diritto, come chiunque altro, di chiamare il mio volto! Non vedi come piange? Ti sei sbagliato, basilisco. È necessario che tu cerchi altrove la triste razione di sollievo che la mia radicale impotenza ti sottrae, nonostante le numerose proteste della mia buona volontà. Oh! quale forza, esprimibile in frasi, ti trascinò fatalmente alla tua perdita? È quasi impossibile che io mi abitui a quel ragionamento per cui tu non capisci che, schiacciando sull'erba arrossata, con un colpo di tallone, le curve sfuggenti della tua testa triangolare, io potrei impastare un mastice innominabile con l'erba della savana e la carne dello stritolato. - Scompari prima possibile lontano da me, colpevole dalla livida faccia! L'ingannevole miraggio dello spavento ti ha mostrato il tuo stesso spettro! Dissipa i tuoi ingiuriosi sospetti, se non vuoi che ti accusi a mia volta e ti rivolga una recriminazione che certamente sarebbe approvata dal giudizio del serpentario rettilivoro. Quale mostruosa aberrazione dell'immaginazione ti impedisce di riconoscermi! Dunque non ricordi gli importanti servigi che ti ho reso, gratificandoti di un'esistenza che feci emergere dal caos, e, da parte tua, il voto, per sempre indimenticabile, di non disertare la mia bandiera, per restarmi fedele fino alla morte? Quando eri bambino (la tua intelligenza era allora nella sua fase più bella), per primo ti arrampicavi sulla collina, con la velocità del camoscio, per salutare con un gesto della tua manina i raggi multicolori dell'aurora nascente. Le note della tua voce sgorgavano dalla tua laringe sonora come perle adamantine, e dissolvevano le loro personalità collettive nel vibrante aggregato di un lungo inno d'adorazione. Ora getti ai tuoi piedi, come uno straccio sporco di fango, la longanimità di cui ho dato troppo a lungo prova. La riconoscenza ha visto le proprie radici disseccarsi, come il letto di uno stagno; ma al suo posto è cresciuta l'ambizione, in proporzioni che mi sarebbe penoso definire. Chi è colui che mi ascolta, per avere una tale fiducia nell'abuso della propria debolezza? - E chi sei tu, sostanza audace? No! no!... non m'inganno; e, malgrado le metamorfosi molteplici a cui sei ricorso, sempre la tua testa di serpente risplenderà davanti ai miei occhi come un faro di eterna ingiustizia, e di crudele dominazione! Ha voluto prendere le redini del comando, ma non sa regnare! Ha voluto diventare un oggetto di orrore per tutti gli esseri della creazione, e c'è riuscito. Ha voluto dimostrare che solo lui è il monarca dell'universo, ed è proprio in questo che si è ingannato. O
miserabile! hai atteso finora per udire i mormorii e i complotti che, alzandosi simultaneamente dalla superficie delle sfere, vengono a sfiorare con ala feroce i risvolti papillari del tuo timpano distruttibile? Non è lontano il giorno in cui il mio braccio ti rovescerà nella polvere avvelenata dal tuo respiro, e, strappandoti dalle viscere una vita nociva, lascerà sulla strada il tuo cadavere crivellato di contorsioni, per far sapere al viaggiatore costernato che quella carne palpitante, che colpisce di stupore la sua vista e gli inchioda nel palato la lingua muta, dev'essere ormai paragonata, se si conserva il proprio sangue freddo, soltanto al tronco marcio di una quercia, caduta perché decrepita! Quale pensiero di pietà mi trattiene in tua presenza? Tu stesso, piuttosto, arretra di fronte a me, ti dico, e vai a lavare la tua incommensurabile vergogna nel sangue di un bambino appena nato: sono le tue abitudini. Sono degne di te. Vai... cammina sempre davanti a te. Io ti condanno a diventare errante. Io ti condanno a restare solo e senza famiglia. Cammina continuamente, finché le tue gambe ti rifiutino il loro sostegno. Attraversa le sabbie dei deserti, fino a quando la fine del mondo inghiotta le stelle nel nulla. Quando passerai vicino alla tana della tigre, essa si affretterà a fuggire, per non guardare come in uno specchio il proprio carattere alzato sullo zoccolo della perversità ideale. Ma, quando la stanchezza imperiosa ti ordinerà di arrestare il tuo cammino davanti al pavimento di pietra del mio palazzo, ricoperto di rovi e cardi, fai attenzione ai tuoi sandali a brandelli, e attraversa, in punta di piedi, l'eleganza dei vestiboli. Non è una raccomandazione inutile. Potresti svegliare la mia giovane sposa e il mio bambino, in tenera età, distesi nei loculi di piombo, lungo le fondamenta dell'antico castello. Qualora non prendessi in anticipo le tue precauzioni, potrebbero farti impallidire con le loro grida sotterranee. Quando la tua impenetrabile volontà tolse loro l'esistenza, essi non ignoravano che la tua potenza è temibile, e non avevano alcun dubbio in proposito; ma non si aspettavano affatto (e i loro supremi addii mi confermarono la loro convinzione) che la tua Provvidenza si sarebbe mostrata spietata a tal punto! Comunque sia, attraversa rapidamente quelle sale abbandonate e silenziose, dai rivestimenti di smeraldo, ma dagli stemmi sbiaditi, dove riposano le statue gloriose dei miei antenati. Quei corpi di marmo sono irritati con te; evita i loro sguardi vitrei. È un consiglio che ti dà la lingua del loro unico e ultimo discendente. Guarda come il loro braccio è alzato nell'atteggiamento della difesa provocatoria, con la testa fieramente rovesciata all'indietro. Sicuramente hanno indovinato il male che mi hai
fatto; e, se passi alla portata dei gelidi piedistalli che sostengono quei blocchi scolpiti, la vendetta ti attende. Se la tua difesa ha bisogno di obbiettarmi qualcosa, parla. Ora è troppo tardi per piangere. Bisognava piangere in momenti più convenienti, quando l'occasione era propizia. Se i tuoi occhi sono finalmente aperti, giudica tu stesso quali sono state le conseguenze della tua condotta. Addio! Vado a respirare la brezza delle scogliere; perché i miei polmoni, semisoffocati, chiedono a grandi grida uno spettacolo più tranquillo e virtuoso del tuo! O pederasti incomprensibili, non sarò io a lanciare ingiurie contro la vostra grande degradazione; non io verrò a gettare il disprezzo sul vostro ano infundiboliforme. È sufficiente che le malattie vergognose e quasi incurabili che vi assediano portino con sé la loro immancabile punizione. Legislatori di stupide istituzioni, inventori di una morale angusta, allontanatevi da me, perché io sono un'anima imparziale. E voi, giovani adolescenti, o meglio, giovani ragazze, spiegatemi come e perché (ma tenetevi a debita distanza, perché neppure io so resistere alle mie passioni) la vendetta vi è germinata nel cuore, tanto da attaccare al fianco dell'umanità una simile corona di ferite. Voi la fate arrossire dei suoi figli con la vostra condotta (che io venero!); la vostra prostituzione, offrendosi al primo venuto, impegna la logica dei pensatori più profondi, mentre la vostra esasperata sensibilità colma la misura dello stupore perfino della donna. Siete di una natura meno o più terrestre di quella dei vostri simili? Possedete un sesto senso che a noi manca? Non mentite, e dite cosa ne pensate. Non è una domanda che vi pongo; infatti, da quando frequento come osservatore la sublimità delle vostre grandiose intelligenze, so cosa pensare. Siate benedetti dalla mia mano sinistra, siate santificati dalla mia mano destra, angeli protetti dal mio amore universale. Io bacio il vostro volto, bacio il vostro petto, bacio, con le mie labbra soavi, le diverse parti del vostro corpo armonioso e profumato. Perché non mi avete detto subito ciò che eravate, cristallizzazioni di una bellezza morale superiore? Ho dovuto indovinare da solo gli innumerevoli tesori di tenerezza e castità nascosti dai battiti dei vostro cuore oppresso. Petto adorno di ghirlande di rose e vetyver. Ho dovuto dischiudervi le gambe per conoscervi, ed è stato necessario che la mia bocca si appendesse alle insegne del vostro pudore. Ma (cosa importante da ricordare), non dimenticate di lavare ogni giorno la pelle delle vostre parti, con acqua calda, perché altrimenti cancri venerei spunterebbero infallibilmente sulle commessure spaccate delle mie labbra
inappagate. Oh! se invece di essere un inferno, l'universo non fosse stato altro che un immenso ano celeste, guardate il gesto che faccio in direzione del mio basso ventre: sì, avrei affondato la mia verga attraverso il suo sfintere sanguinante, fracassando, con i miei movimenti impetuosi, le pareti del suo bacino! La sventura, allora, non avrebbe soffiato dune intere di sabbia mobile sui miei occhi accecati; avrei scoperto il luogo sotterraneo dove giace la verità addormentata, e i fiumi del mio sperma vischioso avrebbero così trovato un oceano in cui precipitarsi! Ma perché mi sorprendo a rimpiangere uno stato di cose immaginario e che mai riceverà il sigillo del suo ulteriore compimento? Non diamoci la pena di costruire ipotesi fugaci. Nell'attesa, chi arde dal desiderio di dividere con me il mio letto, venga a trovarmi; ma pongo una condizione rigorosa alla mia ospitalità: non deve avere più di quindici anni. Non creda, da parte sua, che io ne abbia trenta: che importa? L'età non diminuisce l'intensità dei sentimenti, tutt'altro; e, benché i miei capelli siano diventati bianchi come la neve, non è a causa della vecchiaia: è, al contrario, per il motivo che sapete. Io non amo le donne! Neppure gli ermafroditi! Mi occorrono esseri che mi somiglino, sulla cui fronte la nobiltà umana sia segnata con caratteri più netti e incancellabili! Siete certi che quelle che portano lunghi capelli siano della mia stessa natura? Non lo credo, e non diserterò la mia opinione. Una saliva salmastra mi cola dalla bocca, non so perché. Chi me la vuole succhiare, perché io ne sia sbarazzato? Sale... sale sempre! So cos'è. Ho notato che, quando bevo il sangue dalla gola di coloro che si coricano al mio fianco (a torto mi suppongono vampiro, perché così si chiamano i morti che escono dalla loro tomba; mentre io sono vivo), il giorno dopo ne vomito una parte dalla bocca; ecco la spiegazione della saliva infetta. Che volete che ci faccia, se gli organi, indeboliti dal vizio, si rifiutano di compiere le funzioni della nutrizione? Ma non rivelate a nessuno le mie confidenze. Non è per me che ve lo dico; è per voi stessi e per gli altri, affinché il prestigio del segreto trattenga entro i limiti del dovere e della virtù coloro che, calamitati dall'elettricità dell'ignoto, fossero tentati di imitarmi. Abbiate la bontà di guardarmi la bocca (per il momento non ho il tempo di usare una più lunga formula di cortesia); all'inizio essa vi colpisce con l'apparenza della sua struttura, senza mettere il serpente nei vostri paragoni; il fatto è che ne contraggo il tessuto fino alla riduzione estrema, per far credere di avere un carattere freddo. Voi non ignorate che è diametralmente opposto. Ma perché mai non posso guardare, attraverso queste pagine serafiche, il volto di chi mi legge! Se
non ha superato la pubertà, si avvicini! Stringimi a te, e non temere di farmi del male; stringiamo progressivamente i legami dei nostri muscoli. Di più. Sento che è inutile insistere; l'opacità, notevole per più di un motivo, di questo foglio di carta, è un impedimento tra i più considerevoli all'operazione della nostra completa congiunzione. Io ho sempre provato un infame capriccio per la pallida gioventù dei collegi, e i ragazzi smunti delle manifatture! Le mie parole non sono le reminiscenze di un sogno, e avrei troppi ricordi da dipanare se mi fosse imposto l'obbligo di far passare davanti ai vostri occhi gli avvenimenti che potrebbero consolidare con la loro testimonianza la veridicità della mia dolorosa affermazione. La giustizia umana non mi ha ancora sorpreso in flagrante delitto, malgrado l'incontestabile abilità dei suoi agenti. Ho perfino assassinato (non molto tempo fa!) un pederasta che non si prestava sufficientemente alla mia passione; ho gettato il suo cadavere in un pozzo abbandonato, e non si hanno prove decisive contro di me. Perché fremi di paura, adolescente che mi stai leggendo? Credi che voglia fare altrettanto con te? Ti mostri così sovranamente ingiusto... Hai ragione: diffida di me, soprattutto se sei bello. Le mie parti offrono eternamente il lugubre spettacolo della turgescenza; nessuno può sostenere (e quanti vi si sono avvicinati!) di averle viste nello stato di normale quiete, neppure il lustrascarpe che mi ci inferse una coltellata in un momento di delirio. L'ingrato! Cambio d'abito due volte la settimana, ma non è la pulizia il motivo principale della mia determinazione. Se non agissi in questo modo, i membri dell'umanità scomparirebbero nel giro di qualche giorno, in combattimenti prolungati. Infatti, in qualunque contrada io mi trovi, mi molestano continuamente con la loro presenza e vengono a leccarmi la superficie dei piedi. Ma quale potenza possiedono dunque le mie gocce seminali per attrarre tutto ciò che respiri con nervi olfattivi! Vengono dalle rive delle Amazzoni, attraversano le valli bagnate dal Gange, abbandonano il lichene polare, per compiere lunghi viaggi alla mia ricerca, e chiedere alle città immobili se hanno visto passare, per un attimo, lungo i loro bastioni, colui il cui sacro sperma profuma le montagne, i laghi, le brughiere, i promontori e la vastità dei mari! La disperazione di non potermi incontrare (mi nascondo segretamente nei luoghi più inaccessibili, per alimentare il loro ardore) li induce agli atti più deplorevoli. Si mettono in trecentomila dai due lati, e i muggiti dei cannoni preludono alla battaglia. Tutte le ali si muovono insieme, come un solo guerriero. Si formano i quadrilateri, e subito cadono per non rialzarsi più. I cavalli atterriti fuggono in ogni direzione. I proiettili
arano il suolo come meteore implacabili. Il teatro del combattimento ormai non è altro che un vasto campo di carneficina, quando la notte rivela la sua presenza e la luna silenziosa appare tra gli squarci di una nube. Mostrandomi col dito uno spazio di molte leghe ricoperto di cadaveri, la falce vaporosa di quell'astro mi ordina di prendere per un attimo come soggetto di meditative riflessioni le conseguenze funeste che si trascina dietro l'inesplicabile talismano incantatore che la Provvidenza mi accordò. Purtroppo, quanti secoli ancora occorreranno prima che la razza umana perisca interamente grazie alla mia perfida trappola! È così che una mente abile, e che non si vanta, usa, per conseguire i suoi fini, proprio quei mezzi che all'inizio sembrerebbero costituire un ostacolo invincibile. Sempre la mia intelligenza s'innalza verso quest'imponente questione, e voi stessi siete testimoni che non mi è più possibile rimanere sul modesto argomento che inizialmente mi proponevo di trattare. Un'ultima parola... era una notte d'inverno. Mentre la tramontana soffiava tra gli abeti, il Creatore aprì la sua porta tra le tenebre e fece entrare un pederasta. Silenzio! un corteo funebre vi passa accanto. Inclinate verso terra la binarietà delle vostre rotule e intonate un canto d'oltretomba. (Se considerate le mie parole più come una semplice forma imperativa che come un ordine formale fuori luogo, mostrerete di avere dello spirito, e del migliore). È possibile che in questo modo riusciate a rallegrare estremamente l'anima del morto, che va a riposarsi della vita in una fossa. Anzi, per me, il fatto è certo. Notate che non dico che la vostra opinione non possa, fino a un certo punto, essere contraria alla mia; ma ciò che soprattutto importa è possedere nozioni giuste sui fondamenti della morale, in modo che ognuno debba compenetrarsi del principio che ordina di fare agli altri ciò che forse si vorrebbe fosse fatto a noi stessi. Il prete delle religioni apre per primo la marcia, e regge in mano una bandiera bianca, segno della pace, e nell'altra un emblema d'oro che rappresenta le parti dell'uomo e della donna, come a indicare che quelle membra carnali sono per la maggior parte del tempo, fatta astrazione da ogni metafora, strumenti pericolosissimi tra le mani di coloro che se ne servono, quando li manipolano ciecamente per scopi diversi che contrastano tra loro, invece di generare un'opportuna reazione contro la nota passione che causa quasi tutti i nostri mali. In fondo alla sua schiena è attaccata (artificialmente, beninteso) una coda di cavallo, dai folti crini, che spazza la polvere del suolo. Il suo significato è di far attenzione a non abbassarci, con la nostra
condotta, al livello degli animali. La bara conosce la sua strada, e procede dietro la tonaca fluttuante del consolatore. I parenti e gli amici del defunto hanno deciso di chiudere, con la manifestazione della loro posizione, la marcia del corteo. Questo avanza con maestà, come un vascello che fende il mare aperto, e non teme il fenomeno dell'affondamento; infatti, nel momento attuale, le tempeste e gli scogli non si fanno notare se non per la loro spiegabile assenza. I grilli e i rospi seguono a qualche passo di distanza la festa mortuaria; neppure loro ignorano che un giorno si terrà conto della loro modesta presenza ai funerali di chiunque. Parlano tra loro a bassa voce nel loro linguaggio pittoresco (non siate tanto presuntuosi, permettetemi di darvi questo consiglio non interessato, da credere che voi soltanto possediate la preziosa facoltà di tradurre i sensi del vostro pensiero) di colui che più di una volta videro correre attraverso le verdeggianti praterie, e tuffare il sudore delle sue membra nelle onde bluastre dei golfi sabbiosi. All'inizio sembrò che la vita gli sorridesse senza condizioni, e magnificamente lo incoronò di fiori: ma, poiché la vostra stessa intelligenza si accorge, o meglio intuisce, che egli si è fermato ai limiti dell'infanzia, non ho bisogno, fino all'apparizione di una ritrattazione davvero necessaria, di continuare i prolegomeni della mia rigorosa dimostrazione. Dieci anni. Numero rigorosamente ricalcato, per non sbagliarsi, su quello delle dita della mano. È poco ed è molto. Nel caso che ci interessa, tuttavia, conterò sul vostro amore per la verità, affinché pronunciate con me, senza tardare un secondo di più, che «è poco». E, quando rifletto sommariamente a questi tenebrosi misteri, a causa dei quali un essere umano scompare dalla terra altrettanto facilmente di una mosca o una libellula, senza conservare la speranza di tornarvi, mi sorprendo a covare il vivo rimpianto di non poter vivere, probabilmente, abbastanza a lungo per spiegarvi bene ciò che neppure io ho la pretesa di comprendere. Ma, poiché è provato che, per un caso straordinario, non ho ancora perduto la vita da quel tempo lontano in cui iniziai, pieno di terrore, la frase precedente, calcolo mentalmente che non sarà inutile, qui, costruire la confessione completa della mia radicale impotenza, soprattutto quando si tratta, come ora, di quest'imponente e inabbordabile questione. Parlando in generale, è una cosa singolare la tendenza attrattiva che ci porta a ricercare (per poi esprimerle) le somiglianze e le differenze nascoste, nelle loro proprietà naturali, dagli oggetti più opposti tra loro, e talvolta i meno adatti, in apparenza, a prestarsi a questo genere di combinazioni simpaticamente curiose, e che, parola d'onore, attribuiscono graziosamente
allo stile dello scrittore, che si compiace di questa soddisfazione personale, l'impossibile e indimenticabile aspetto di un gufo serioso fino all'eternità. Seguiamo dunque la corrente che ci trascina. Il nibbio reale ha le ali proporzionalmente più lunghe dei bozzagri, e il volo assai più agile: così passa la sua vita nell'aria. Non si riposa quasi mai, e ogni giorno percorre spazi immensi; e tutto questo movimento non è un esercizio di caccia, né inseguimento di preda, e neppure ricognizione; infatti, non caccia; ma sembra che il volo sia il suo stato naturale, la sua situazione favorita. Non si può fare a meno di ammirare il modo in cui lo esegue. Le sue ali lunghe e strette sembrano immobili; è la coda che crede di dirigere tutte le evoluzioni, e la coda non s'inganna: agisce senza tregua. S'innalza senza sforzo; si abbassa come se scivolasse su un piano inclinato; sembra nuotare, più che volare; affretta la sua corsa, la rallenta, si ferma, e rimane come sospeso o fissato allo stesso posto, per ore intere. Non si può scorgere alcun movimento nelle sue ali: anche se apriste gli occhi come la bocca di un forno, sarebbe altrettanto inutile. Ognuno ha il buon senso di confessare senza difficoltà (anche se un po' di malavoglia) di non accorgersi, immediatamente, del rapporto, sia pure remoto, che io segnalo, tra la bellezza del volo del nibbio reale e quella del volto del bambino che si solleva lentamente al di sopra della bara scoperchiata, come una ninfea che fori la superficie delle acque; ecco appunto in cosa consiste l'errore imperdonabile che nasce dall'inamovibile situazione di un'assenza di pentimento che sfiora l'ignoranza volontaria in cui si marcisce. Questo rapporto di calma maestà tra i due termini del mio sarcastico paragone è già fin troppo comune e di un simbolismo sufficientemente comprensibile perché io mi stupisca maggiormente di ciò che può avere, come unica scusa, soltanto quello stesso carattere di volgarità che richiama, su qualsiasi oggetto o spettacolo che ne sia colpito, un profondo sentimento di ingiusta indifferenza. Come se ciò che si vede quotidianamente non dovesse, per questa ragione, risvegliare l'attenzione della nostra ammirazione! Giunto all'ingresso del cimitero, il corteo si affretta a fermarsi; non è sua intenzione avanzare ancora. Il becchino finisce di scavare la fossa; vi si depone la bara con tutte le precauzioni del caso; qualche inattesa palata di terra copre il corpo del bambino. Il prete delle religioni, tra gli astanti commossi, pronuncia qualche parola per bene sotterrare il morto, ancora di più, nell'immaginazione degli astanti. «Dice di essere molto stupito che si versino tante lacrime per un atto talmente insignificante. Testuale. Ma teme di non qualificare a sufficienza ciò che
considera, lui, un'incontestabile felicità. Se avesse creduto che la morte fosse così poco simpatica nella sua ingenuità, avrebbe rinunciato al proprio mandato per non aumentare il legittimo dolore dei numerosi parenti e amici del defunto; ma una voce segreta lo avverte di dar loro qualche consolazione, che non sarà inutile, non fosse altro quella che lasci intravvedere la speranza di un prossimo incontro nei cieli tra colui che morì e coloro che sopravvissero». Maldoror fuggiva a gran galoppo, e sembrava che dirigesse la sua corsa verso le mura del cimitero. Gli zoccoli del suo destriero sollevavano intorno al padrone una falsa corona di fitta polvere. Voi, voi non potete sapere il nome di questo cavaliere; ma io lo so. Si avvicinava sempre di più; il suo volto di platino cominciava a diventare percettibile, anche se la parte inferiore era completamente avvolta in un mantello che il lettore si è guardato bene dal togliere dalla propria memoria e che lasciava scorgere soltanto gli occhi. Nel mezzo del suo discorso, il prete delle religioni diventa improvvisamente pallido, perché il suo orecchio riconosce il galoppo irregolare di quel celebre cavallo bianco che mai abbandonò il suo padrone. «Sì, aggiunse di nuovo, grande è la mia fiducia in questo prossimo incontro; allora si capirà, meglio di prima, quale senso bisognava attribuire alla temporanea separazione dell'anima e del corpo. Chi crede di vivere su questa terra si culla in un'illusione di cui sarebbe importante accelerare l'evaporazione». Il rumore del galoppo aumentava sempre di più; e mentre il cavaliere, restringendo la linea dell'orizzonte, appariva alla vista nel campo ottico delimitato dal portale del cimitero, rapido come un ciclone turbinante, il prete delle religioni riprese più gravemente: «Non sembra che voi sospettiate che costui, che la malattia costrinse a non conoscere altro che le prime fasi della vita, e che la fossa ha appena accolto nel proprio seno, è senza dubbio il vero vivente; ma sappiate almeno che colui di cui scorgete la sagoma equivoca portata via da un cavallo nervoso, e su cui vi consiglio di fissare prima possibile gli occhi, perché ormai non è più che un punto che presto scomparirà nella brughiera, benché abbia vissuto molto, è il solo vero morto». «Ogni notte, nell'ora in cui il sonno è giunto al suo massimo grado d'intensità, un vecchio ragno della specie grande sporge lentamente la testa da un buco aperto nel suolo, in una delle intersezioni degli angoli della stanza. Ascolta attentamente se qualche brusio muove ancora le sue mandibole nell'atmosfera. Data la sua conformazione d'insetto, non può
fare a meno di attribuire mandibole al brusio, se pretende di accrescere di brillanti personificazioni i tesori della letteratura. Appena si è assicurato che il silenzio regni tutt'intorno, ritrae successivamente dalle profondità del suo nido, senza l'aiuto della meditazione, le varie parti del corpo, e avanza a passi misurati verso il mio giaciglio. Cosa notevole! io che faccio indietreggiare il sonno e gli incubi, mi sento paralizzato nella totalità del corpo, quando egli si arrampica lungo i piedi d'ebano del mio letto di raso. Mi stringe la gola con le zampe, e con il ventre mi succhia il sangue. Molto semplicemente! Quanti litri di un purpureo liquore, di cui non ignorate il nome, si è bevuto da quando compie la stessa operazione con una tenacia degna di migliore causa! Non so cosa gli ho fatto, perché si comporti in questo modo con me. Per distrazione gli ho stritolato una zampa? Gli ho sottratto i piccoli? Queste due ipotesi, da verificare, non possono sostenere un esame serio; anzi provocano facilmente in me un'alzata di spalle e un sorriso sulle labbra, benché non ci si debba prendere gioco di nessuno. Attenta a te, nera tarantola; se il tuo comportamento non ha per scusa un sillogismo inconfutabile, una notte mi sveglierò di soprassalto, con un ultimo sforzo della mia volontà agonizzante, romperò l'incantesimo con cui trattieni le mie membra nell'immobilità, e ti schiaccerò tra le ossa delle mie dita, come un pezzetto di materia molliccia. Eppure ricordo vagamente che ti ho dato il permesso di far arrampicare le tue zampe fino all'inizio del mio petto, e da lì fino alla pelle che mi copre il volto; e che perciò non ho il diritto di trattenerti. Oh! chi districherà i miei confusi ricordi! Gli offro in ricompensa il sangue che mi resta: ultima goccia inclusa, ce n'è di che riempire almeno la metà di una coppa d'orgia». Parla, e non smette di spogliarsi. Appoggia una gamba sul materasso, e calcando con l'altra il pavimento di zaffiro per sollevarsi, si trova disteso in posizione orizzontale. Ha deciso di non chiudere gli occhi, per attendere il nemico a piè fermo. Ma non prende ogni volta la stessa decisione, immancabilmente distrutta dall'immagine inesplicabile della sua fatale promessa? Non dice più nulla, e si rassegna con dolore; perché per lui il giuramento è sacro. Si avvolge maestosamente nelle pieghe della seta, disdegna di legare le nappe d'oro delle cortine, e, poggiando i riccioli ondulati dei suoi lunghi capelli neri sulle frange del cuscino di velluto, si palpa con la mano la larga ferita del collo, in cui la tarantola ha preso l'abitudine di sistemarsi, come in un secondo nido, mentre il suo volto esprime una completa soddisfazione. Spera che questa stessa notte (sperate con lui!) assisterà all'ultima rappresentazione
dell'immensa suzione; suo unico auspicio sarebbe infatti che il boia la facesse finita con la sua esistenza: la morte, e sarà contento. Guardate quel vecchio ragno della specie grande che lentamente sporge la testa da un buco nel suolo, in una delle intersezioni degli angoli della stanza. Non siamo più nella narrazione. Ascolta attentamente se qualche brusio muove ancora le sue mandibole nell'atmosfera. Ahimè! ora siamo giunti nel reale, per quanto riguarda la tarantola, e, sebbene si possa mettere un punto esclamativo alla fine di ogni frase, forse non è una ragione per dispensarsene! Si è assicurato che il silenzio regni tutt'intorno; ecco che ritrae successivamente dalle profondità del nido, senza l'aiuto della meditazione, le varie parti del corpo, e avanza a passi misurati verso il giaciglio dell'uomo solitario. Si ferma per un attimo; ma è breve, questo momento di esitazione. Pensa che non è ancora tempo di smettere di torturare, e che prima bisogna fornire al condannato le ragioni plausibili che determinarono l'eternità del supplizio. Si è arrampicato accanto all'orecchio dell'addormentato. Se non volete perdervi una sola parola di ciò che sta per dire, astraetevi dalle vostre occupazioni estranee che ostruiscono il portico della vostra mente, e siate almeno riconoscenti dell'interesse che vi dimostro facendo assistere la vostra presenza alle scene teatrali che mi sembrano degne di provocare una vera attenzione da parte vostra; infatti, chi potrebbe impedirmi di tenere soltanto per me gli avvenimenti che racconto? «Risvegliati, fiamma amorosa dei giorni passati, scheletro scarno. È giunto il tempo di fermare la mano della giustizia. Non ti faremo attendere a lungo la spiegazione che auspichi. Ci ascolti, vero? Ma non muovere le tue membra; ancora oggi subisci il nostro potere magnetico, e l'atonia cefalica persiste: è l'ultima volta. Quale impressione fa alla tua immaginazione il volto di Elsseneur? L'hai dimenticato! E quel Réginald, dal fiero passo, hai inciso i suoi lineamenti nel tuo cervello fedele? Osservalo, nascosto tra le pieghe delle cortine; la sua bocca è vicina alla tua fronte; ma non osa parlarti, perché è più timido di me. Ti racconterò un episodio della sua giovinezza, e ti ricondurrò sulla via della memoria». Da molto tempo il ragno aveva aperto il proprio ventre, da cui si erano precipitati fuori due adolescenti dall'abito azzurro, ognuno con una spada fiammeggiante in mano, e si erano sistemati ai lati del letto, come per custodire, ormai, il santuario del sonno. «Costui, che ancora non ha smesso di guardarti perché molto ti amò, fu il primo di noi due al quale concedesti il tuo amore. Ma lo facesti soffrire spesso, con le durezze del tuo carattere. Egli non smetteva di impiegare ogni sforzo per
non generare in te alcun motivo di lamentela nei suoi confronti: un angelo non ci sarebbe riuscito. Un giorno gli chiedesti se voleva venire a fare un bagno con te, sulla riva del mare. Entrambi, come due cigni, vi lanciaste insieme da una roccia a picco. Tuffatori eminenti, scivolaste nella massa acquea, con la testa tra le braccia distese, che si riunivano alle mani. Per qualche minuto nuotaste tra due correnti. Riappariste a una grande distanza, con i vostri capelli confusi tra loro, e grondanti liquido salato. Ma quale mistero era dunque accaduto sott'acqua, dal momento che si scorgeva una lunga traccia di sangue attraverso le onde? Tornati in superficie, tu continuavi a nuotare, e sembrava che non ti accorgessi della crescente debolezza del tuo compagno. Perdeva rapidamente le forze, ma tu continuavi egualmente a spingere le tue larghe bracciate verso l'orizzonte brumoso, che sfumava davanti a te. Il ferito lanciò grida di allarme, e tu facesti il sordo. Per tre volte Réginald colpì l'eco con le sillabe del tuo nome, e per tre volte tu rispondesti con un grido di voluttà. Si trovava troppo lontano dalla riva per ritornarvi, e invano si sforzava di seguire le scie del tuo passaggio, per raggiungerti e riposare un istante la mano sulla tua spalla. La caccia negativa si prolungò per un'ora, mentre lui perdeva le forze, e tu sentivi crescere le tue. Disperando di eguagliare la tua velocità, rivolse una breve preghiera al Signore per raccomandargli l'anima, si mise sul dorso come quando si fa il morto, in modo che si vedeva il cuore battergli con violenza sotto il petto, e attese che giungesse la morte, per non attendere più. In quel momento, le tue membra vigorose erano a perdita d'occhio, e continuavano ad allontanarsi, rapide come uno scandaglio che si lascia filare. Una barca, che tornava dopo aver gettato le reti al largo, passò da quelle parti. I pescatori presero Réginald per un naufrago, e lo issarono svenuto sulla loro imbarcazione. Si constatò la presenza di una ferita al fianco destro; ognuno di quegli esperti marinai espresse l'opinione che nessuna punta di scoglio o frammento di roccia era in grado di provocare un foro così microscopico e nello stesso tempo così profondo. Soltanto un'arma tagliente, come uno stiletto tra i più aguzzi, poteva arrogarsi il diritto alla paternità di una ferita così sottile. Egli non volle mai raccontare le diverse fasi del tuffo attraverso le viscere dei flutti, e questo segreto l'ha conservato fino ad ora. Adesso scorrono lacrime sulle sue guance un po' scolorite, e cadono sulle tue lenzuola: talvolta il ricordo è più amaro dell'accaduto. Quanto a me, non proverò pietà: significherebbe dimostrarti una stima eccessiva. Non roteare nell'orbita quegli occhi furibondi. Resta calmo, piuttosto. Lo sai che non puoi muoverti. Del resto,
non ho terminato il mio racconto. - Risolleva la tua spada, Réginald, e non dimenticare tanto facilmente la vendetta. Chissà? forse, un giorno, essa potrebbe venire a farti dei rimproveri. Più tardi, provasti dei rimorsi la cui esistenza sarebbe stata effimera; decidesti di riscattare la tua colpa con la scelta di un altro amico, per benedirlo e onorarlo. Con questo mezzo espiatorio cancellavi le macchie del passato, e facevi ricadere su colui che divenne la tua seconda vittima la simpatia che non avevi saputo dimostrare all'altro. Speranza vana; il carattere non si modifica da un giorno all'altro, e la volontà restò eguale a se stessa. Io, Elsseneur, ti vidi per la prima volta, e da quel momento non potei dimenticarti. Ci guardammo per qualche istante, e ti mettesti a sorridere. Abbassavo gli occhi, perché vidi nei tuoi una fiamma soprannaturale. Mi chiedevo se, con il favore di una notte oscura, ti eri lasciato cadere segretamente fino a noi dalla superficie di qualche stella; perché, oggi che non è necessario fingere, lo confesso, tu non somigliavi ai cinghialetti dell'umanità; ma un'aureola di raggi scintillanti avvolgeva la periferia della tua fronte. Avrei desiderato stringere relazioni intime con te; la mia presenza non osava avvicinarsi, di fronte alla sorprendente novità di quella strana nobiltà, e un tenace terrore mi girava intorno. Perché non ho ascoltato quegli avvertimenti della coscienza? Presentimenti fondati. Notando la mia esitazione, arrossisti a tua volta, e porgesti il braccio. Coraggiosamente misi la mia mano nella tua, e, dopo questo atto, mi sentii più forte; ormai un soffio della tua intelligenza era passato in me. Con i capelli al vento, e respirando gli aliti delle brezze, camminammo per qualche istante davanti a noi, attraverso fitti boschetti di lentischi, gelsomini, melograni e aranci, i cui profumi ci inebriavano. Un cinghiale in piena corsa ci sfiorò gli abiti, e una lacrima cadde dal suo occhio quando mi vide con te: non mi spiegavo il suo comportamento. Al calare della notte giungemmo davanti alle porte di una popolosa città. I profili delle cupole, le guglie dei minareti e le sfere di marmo dei belvedere ritagliavano con vigore le loro dentellature attraverso le tenebre, contro l'azzurro intenso del cielo. Ma tu non volesti riposare in quel luogo, benché fossimo sfiniti dalla stanchezza. Costeggiammo la base delle fortificazioni esterne, come sciacalli notturni; evitammo d'incontrare le sentinelle all'erta; e riuscimmo ad allontanarci, per la porta opposta, da quella riunione solenne di animali ragionevoli, civili come i castori. Il volo della folgore portalanterna, il crepitìo delle erbe secche, gli ululati intermittenti di qualche lupo lontano, accompagnavano l'oscurità del nostro cammino incerto attraverso la campagna. Quali erano dunque i tuoi
validi motivi per fuggire gli alveari umani? Mi ponevo questa domanda con un certo turbamento; del resto, le gambe cominciavano a rifiutarmi un servizio per troppo tempo prolungato. Finalmente raggiungemmo il margine di un fitto bosco, i cui alberi erano intrecciati tra loro da un groviglio di alte liane inestricabili, di piante parassite, e di cactus dalle spine mostruose. Ti fermasti davanti a una betulla. Mi dicesti d'inginocchiarmi, per prepararmi a morire; mi accordasti un quarto d'ora per lasciare questa terra. Qualche sguardo furtivo durante la nostra lunga corsa, gettato di sfuggita su di me quando non ti osservavo, certi gesti di cui avevo notato l'irregolarità di misura e di movimento, mi si presentarono subito alla memoria, come le pagine aperte di un libro. I miei sospetti erano confermati. Troppo debole per lottare contro di te, mi rovesciasti a terra come l'uragano abbatte la foglia della tremula. Con un ginocchio sul mio petto e l'altro appoggiato sull'erba umida, mentre una delle tue mani fermava nella sua morsa la binarietà delle mie braccia, vidi l'altra estrarre un coltello dalla guaina appesa alla tua cintura. La mia resistenza era quasi nulla, e io chiusi gli occhi: a una certa distanza, portati dal vento, si udirono i calpestii di una mandria di buoi. Avanzava come una locomotiva, pungolata dal bastone di un mandriano e dalle mascelle di un cane. Non c'era tempo da perdere, ed è ciò che capisti; temendo di non raggiungere il tuo scopo, poiché l'avvicinarsi di un soccorso insperato aveva raddoppiato la mia potenza muscolare, e rendendoti conto che potevi immobilizzarmi soltanto un braccio alla volta, ti contentasti di tagliarmi il polso destro, con un rapido movimento impresso alla lama d'acciaio. Il pezzo, staccato di netto, cadde a terra. Fuggisti, mentre io ero stordito dal dolore. Non ti racconterò come il mandriano mi venne in aiuto, né quanto tempo fu necessario alla mia guarigione. Ti basti sapere che quel tradimento, per me inatteso, mi mise voglia di cercare la morte. Presi parte ai combattimenti, per offrire ai colpi il mio petto. Conquistai gloria sui campi di battaglia; il mio nome era diventato temibile anche per i più intrepidi, tanto la mia mano artificiale di ferro spargeva la carneficina e la distruzione nelle file nemiche. Eppure, un giorno che gli obici tuonavano molto più forte del solito, e gli squadroni, rimossi dalla loro base, turbinavano come fuscelli sotto l'influenza del ciclone della morte, un cavaliere dal portamento ardito avanzò di fronte a me, per disputarmi la palma della vittoria. I due eserciti si fermarono, immobili, per contemplarci in silenzio. Combattemmo a lungo, crivellati di ferite, e con gli elmi infranti. Di comune accordo, cessammo la lotta, per riposarci, e
poi riprenderla con maggiore energia. Pieno di ammirazione per il proprio avversario, ognuno alza la visiera: "Elsseneur!.... Réginald!...", furono queste le semplici parole che le nostre gole ansimanti pronunciarono contemporaneamente. Quest'ultimo, caduto nella disperazione di una tristezza inconsolabile, aveva intrapreso, con me, la carriera delle armi, e i proiettili l'avevano risparmiato. In quali circostanze ci ritrovavamo! Ma il tuo nome non fu pronunciato! Lui ed io, ci giurammo un'amicizia eterna; ma, certo, diversa dalle prime due, di cui eri stato tu l'attore principale! Un arcangelo, sceso dal cielo e messaggero del Signore, ci ordinò di trasformarci in un unico ragno, e di venire ogni notte a succhiarti la gola, fino a quando un ordine venuto dall'alto non arrestasse il corso del castigo. Per quasi dieci anni, abbiamo frequentato il tuo giaciglio. Da oggi, sei libero dalla nostra persecuzione. La vaga promessa di cui parlavi, non a noi la facesti, ma all'Essere che è più forte di te: tu stesso capivi che era meglio sottoporsi a quel decreto irrevocabile. Svegliati, Maldoror! L'incantesimo magnetico che ha gravato sul tuo sistema cerebro-spinale, nelle notti di due lustri, ora svanisce». Si sveglia come gli è stato ordinato, e vede due forme celesti scomparire nell'aria, con le braccia intrecciate. Non cerca di riaddormentarsi. Lentamente, fa uscire dal giaciglio le sue membra, una dopo l'altra. Va a riscaldarsi la pelle gelata ai tizzoni riaccesi del caminetto gotico. Soltanto la camicia gli copre il corpo. Cerca con gli occhi la caraffa di cristallo per inumidire il palato secco. Apre le imposte della finestra. Si appoggia al davanzale. Contempla la luna che gli versa sul petto un cono di raggi estatici, in cui palpitano, come falene, atomi d'argento di una dolcezza ineffabile. Attende che il crepuscolo del mattino venga a portare, con il cambiamento di scenario, un sollievo irrisorio al suo cuore sconvolto. FINE DEL QUINTO CANTO CANTO SESTO
Voi, la cui calma invidiabile non può far altro che abbellirvi il muso, non crediate che si tratti ancora di lanciare, in strofe di quattordici o quindici righe, come uno scolaro di quarta, esclamazioni che saranno considerate inopportune, e sonori chioccolii di gallina cocincinese,
grotteschi quanto potrebbe immaginarlo chi se ne desse la pena; ma è preferibile dimostrare con i fatti le proposizioni che si enunciano. Pretendereste dunque che, per il fatto di aver insultato, come per gioco, l'uomo, il Creatore e me stesso, nelle mie spiegabili iperboli, la mia missione fosse conclusa? No: la parte più importante del mio lavoro sussiste ancora, come compito che rimane da assolvere. Ormai i fili del romanzo muoveranno i tre personaggi nominati sopra: così sarà comunicata loro una potenza meno astratta. La vitalità si diffonderà magnificamente nel torrente del loro apparato circolatorio, e vedrete quanto sarete stupiti voi stessi d'incontrare, là dove all'inizio avevate creduto di vedere soltanto vaghe entità appartenenti al campo della pura speculazione, da un lato l'organismo corporeo con le sue ramificazioni di nervi e le sue membrane mucose, dall'altro il principio spirituale che presiede alle funzioni fisiologiche della carne. Sono esseri dotati di una vita energica che, con le braccia incrociate e il petto immobile, poseranno prosaicamente (ma sono certo che l'effetto sarà poeticissimo) davanti al vostro volto, a qualche passo soltanto da voi, in modo che i raggi solari, colpendo dapprima le tegole dei tetti e i fumaioli dei camini, verranno poi a riflettersi visibilmente sui loro capelli terrestri e materiali. Ma non saranno più anatemi, detentori della specialità di provocare il riso; personalità fittizie che avrebbero fatto bene a rimanere nel cervello dell'autore; o incubi posti troppo al di sopra dell'esistenza ordinaria. Notate che, proprio per questo, la mia poesia non sarà che più bella. Toccherete con le vostre mani ramificazioni ascendenti dell'aorta e capsule surrenali; e poi, sentimenti! I primi cinque racconti non sono stati inutili; erano il frontespizio della mia opera, la spiegazione preliminare della mia poetica futura: ed era per me un dovere, prima di chiudere la valigia e mettermi in cammino verso le contrade dell'immaginazione, avvertire i sinceri amatori della letteratura, con il rapido abbozzo di una generalizzazione chiara e precisa, dello scopo che avevo deciso di perseguire. È dunque mia opinione che ora la parte sintetica della mia opera sia completa e sufficientemente parafrasata. Da essa avete saputo che io mi sono ripromesso di attaccare l'uomo e Colui che lo creò. Per il momento e per più tardi, non avete bisogno di saperne di più! Nuove considerazioni mi sembrano superflue, perché non farebbero che ripetere, in un'altra forma, più ampia, è vero, ma identica, l'enunciato della tesi di cui la fine di questo giorno vedrà il primo sviluppo. Dalle osservazioni che precedono risulta che è mia intenzione iniziare, ormai, la parte analitica; è talmente vero che
soltanto pochi minuti fa ho espresso l'ardente auspicio che voi foste imprigionati nelle ghiandole sudoripare della mia pelle, per verificare la lealtà di quanto affermo, a ragion veduta. Occorre, lo so, sostenere con un gran numero di prove l'argomentazione che si trova compresa nel mio teorema; ebbene, queste prove esistono, e voi sapete che non attacco nessuno senza seri motivi! Rido a gola spiegata quando penso che mi rimproverate di diffondere amare accuse contro l'umanità, di cui sono uno dei membri (questa sola notazione mi darebbe ragione!), e contro la Provvidenza: non ritratterò le mie parole; ma, raccontando ciò che avrò visto, non mi sarà difficile giustificarle, senza altra ambizione se non la verità. Oggi, fabbricherò un romanzetto di trenta pagine; questa misura rimarrà in seguito più o meno stazionaria. Sperando di vedere prontamente, un giorno o l'altro, la consacrazione della mia teoria accettata da questa o quella forma letteraria, credo di aver finalmente trovato, dopo qualche tentativo incerto, la mia formula definitiva. È la migliore, dato che è il romanzo! Questa ibrida prefazione è stata esposta in un modo che forse non sembrerà assai naturale, nel senso che essa sorprende, per così dire, il lettore, che non vede molto bene dove lo si voglia innanzitutto condurre; ma questo sentimento di notevole stupore, al quale si deve in genere tentare di sottrarre coloro che passano il loro tempo a leggere dei libri o degli opuscoli, ho fatto ogni sforzo per provocarlo. In effetti, mi era impossibile fare di meno, malgrado la mia buona volontà: soltanto più tardi, quando qualche romanzo sarà apparso, capirete meglio la prefazione del rinnegato dal volto fuligginoso. Prima di entrare in argomento, trovo stupido che sia necessario (penso che non tutti saranno del mio parere, se mi sbaglio) mettermi accanto un calamaio aperto e qualche foglietto di carta non pesta. Così mi sarà possibile cominciare, con amore, in questo sesto canto, la serie delle poesie istruttive che non vedo l'ora di produrre. Episodi drammatici di implacabile utilità! Il nostro eroe si rese conto che, frequentando le caverne e rifugiandosi in luoghi inaccessibili, trasgrediva le regole della logica e percorreva un circolo vizioso. Infatti, se da un lato, in questo modo, favoriva la propria ripugnanza per gli uomini, grazie al risarcimento della solitudine e della lontananza, e circoscriveva passivamente il proprio orizzonte limitato, tra arbusti intristiti, rovi e lambrusche, dall'altro la sua attività non trovava più alcun alimento per nutrire il minotauro dei suoi istinti perversi. Di conseguenza, decise di riavvicinarsi agli agglomerati
umani, persuaso che tra tante vittime già pronte le sue varie passioni avrebbero trovato ampiamente di che soddisfarsi. Sapeva che la polizia, questo scudo della civiltà, lo ricercava con perseveranza da molti anni, e che un vero e proprio esercito di agenti e di spie gli stava continuamente alle calcagna. Senza riuscire, tuttavia, a scovarlo. Tanto la sua sconvolgente abilità depistava, con suprema eleganza, le astuzie più indiscutibili dal punto di vista del loro successo, e le decisioni della più saggia meditazione. Aveva una facoltà speciale per assumere forme irriconoscibili agli occhi più esperti. Travestimenti superiori, per parlare da artista! Acconciamenti di effetto realmente mediocre, quando penso alla morale. In questo era quasi geniale. Non avete notato la gracilità di un bel grillo, dai movimenti svelti, nelle fogne di Parigi? Non c'è che lui: era Maldoror! Magnetizzando le floride capitali con un fluido pernicioso, le induce in uno stato letargico in cui sono incapaci di sorvegliarsi come dovrebbero. Condizione tanto più pericolosa in quanto insospettata. Oggi è a Madrid; domani sarà a Pietroburgo; ieri si trovava a Pechino. Ma affermare con esattezza il luogo che le imprese di questo poetico Rocambole attualmente terrorizzano, è un'impresa al di sopra delle forze possibili del mio greve raziocinio. Quel bandito si trova, forse, a settecento leghe da questo paese; forse è a qualche passo da voi. Non è facile provocare la totale rovina degli uomini, e ci sono le leggi; ma si può, con un po' di pazienza, sterminare una ad una le formiche umanitarie. Ora, dal giorno della mia nascita, quando vivevo con i primi antenati della nostra razza, ancora inesperto nel tendere i miei agguati; dai tempi remoti, al di là della storia, in cui, attraverso sottili metamorfosi, devastavo, in epoche diverse, le contrade del globo, con le conquiste e le carneficine, e diffondevo la guerra civile tra i cittadini, non ho già schiacciato sotto i miei talloni, membro per membro o collettivamente, generazioni intere, di cui non sarebbe difficile concepire la cifra innumerevole? Il radioso passato ha fatto brillanti promesse all'avvenire: e le manterrà. Per ripulire le mie frasi, impiegherò per forza il metodo naturale, regredendo fino ai selvaggi perché mi diano delle lezioni. Gentlemen semplici e maestosi, la loro bocca graziosa nobilita tutto ciò che cola dalle loro labbra tatuate. Ho appena dimostrato che nulla è risibile su questo pianeta. Pianeta ridicolo, eppure magnifico. Impadronendomi di uno stile che alcuni troveranno ingenuo (e invece è così profondo), me ne servirò per interpretare idee che, sfortunatamente, forse non sembreranno grandiose! In questo modo, spogliandomi dei modi leggeri e scettici dell'ordinaria conversazione, e
sufficientemente prudente per non assumere atteggiamenti non so più cosa avevo intenzione di dire, perché non ricordo l'inizio della frase. Ma sappiate che la poesia si trova ovunque non c'è il sorriso, stupidamente sarcastico, dell'uomo dalla faccia d'anatra. Innanzitutto mi soffierò il naso, perché ne ho bisogno; poi, potentemente aiutato dalla mia mano, riprenderò la penna che le mie dita avevano lasciato cadere. Come poté conservare la costanza della sua neutralità, il ponte del Carrousel, quando udì le grida laceranti che sembravano lanciate dal sacco?
I I negozi di rue Vivienne espongono le loro ricchezze agli occhi meravigliati. Illuminati da numerosi lampioni a gas, i cofanetti di mogano e gli orologi d'oro diffondono attraverso le vetrine fasci di luce abbagliante. Sono suonate le otto all'orologio della Borsa: non è tardi! Appena l'ultimo colpo di martello si è fatto udire, la via il cui nome è stato citato si mette a tremare, e scuote le sue fondamenta dalla place Royale fino al boulevard Montmartre. I passanti affrettano il passo, e si ritirano pensierosi nelle loro case. Una donna sviene e cade sull'asfalto. Nessuno la rialza; ognuno ha fretta di allontanarsi da quel luogo. Le imposte si richiudono con impeto, e gli abitanti sprofondano sotto le coperte. Si direbbe che la peste asiatica abbia rivelato la sua presenza. Così, mentre la maggior parte della città si prepara a nuotare nei piaceri delle feste notturne, rue Vivienne si trova improvvisamente gelata da una specie di pietrificazione. Come un cuore che cessi di amare, ha visto spegnersi la propria vita. Ma, presto, la notizia del fenomeno si diffonde negli altri strati della popolazione, e un silenzio cupo incombe sull'augusta capitale. Dove sono finiti i lampioni a gas? Che ne è delle venditrici d'amore? Nulla... la solitudine e l'oscurità! Una civetta, volando in direzione rettilinea, con una zampa rotta, passa sopra la Madeleine e si slancia verso la barriera del Trône, esclamando: «Si prepara una sciagura». Ora, nel luogo che la mia penna (amico vero che mi fa da compare) ha appena reso misterioso, se guardate dalla parte in cui rue Colbert sbocca in rue Vivienne, vedrete, all'angolo formato dall'incrocio di queste due strade, un personaggio che mostra la propria sagoma e dirige il passo leggero verso i boulevard. Ma, se ci si avvicina di più, in modo da non attirare l'attenzione di quel passante, ci si accorge, con piacevole stupore, che è giovane! Da
lontano, in effetti, lo si sarebbe preso per un uomo maturo. La somma dei giorni non conta più, quando si tratta di valutare la capacità intellettuale di un volto serio. Io sono capace di leggere l'età nelle linee fisiognomiche della fronte: ha sedici anni e quattro mesi! È bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o, ancora, come l'incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; o piuttosto, come quella perpetua trappola per topi che da sola, sempre tesa di nuovo dall'animale catturato, può prendere i roditori all'infinito, e funzionare anche nascosta sotto la paglia; e soprattutto, come l'incontro fortuito sopra un tavolo da dissezione tra una macchina da cucire e un ombrello! Mervyn, questo figlio della bionda Inghilterra, ha appena preso una lezione di scherma dal suo professore, e, avvolto nel suo tartan scozzese, torna dai genitori. Sono le otto e mezzo, e spera di arrivare a casa alle nove: da parte sua è una grande presunzione fingere di essere sicuro di conoscere l'avvenire. Qualche ostacolo imprevisto non può forse essergli di impedimento lungo la strada? E tale circostanza sarebbe così poco frequente da indurlo ad assumersi la responsabilità di considerarla un'eccezione? Perché, piuttosto, non considera un fatto anormale la possibilità che ha avuto finora di sentirsi privo d'inquietudine e, per così dire, felice? Con quale diritto pretenderebbe infatti di raggiungere indenne la propria dimora, mentre qualcuno lo sta spiando e lo segue come la sua preda futura? (Significherebbe conoscere ben poco la professione di scrittore a sensazione, non mettere avanti, almeno, le interrogazioni restrittive dopo le quali giunge immediatamente la frase che sto per terminare). Avete riconosciuto l'eroe immaginario che, da molto tempo, spezza con la pressione della sua individualità la mia sventurata intelligenza! Ora Maldoror si avvicina a Mervyn, per incidere nella propria memoria i lineamenti dell'adolescente: ora, con il corpo proiettato all'indietro, rincula su se stesso come il boomerang d'Australia nella seconda fase della sua traiettoria, o piuttosto come una macchina infernale. Incerto sul da farsi. Ma la sua coscienza non prova alcun sintomo di una qualsiasi emozione embriogenica, come a torto potreste supporre. Lo vidi allontanarsi per un attimo in direzione opposta; era oppresso dal rimorso? Ma ritornò sui suoi passi con nuovo accanimento. Mervyn non sa perché le sue arterie temporali pulsino con forza, e affretta il passo, ossessionato da un terrore di cui lui e voi cercate invano la causa. Occorre dargli atto del suo impegno nello scoprire l'enigma. Perché non si volta indietro? Capirebbe tutto. Si pensa mai ai mezzi più semplici per far cessare uno
stato allarmante? Quando un vagabondo di periferia attraversa un sobborgo, con un'insalatiera di vino bianco nel gozzo e la blusa a brandelli, se scorge, all'angolo di un paracarro, un vecchio gatto muscoloso, contemporaneo delle rivoluzioni a cui hanno assistito i nostri padri, mentre contempla malinconico i raggi della luna che si abbattono sulla pianura addormentata, avanza tortuoso in linea curva e fa un cenno a un cane sbilenco, che si precipita. Il nobile animale della razza felina attende l'avversario con coraggio, e vende a caro prezzo la sua vita. Domani qualche straccivendolo comprerà una pelle elettrizzabile. Perché non è fuggito? Era così facile. Ma, nel caso che attualmente ci interessa, Mervyn complica maggiormente il pericolo con la sua ignoranza. Ha come dei barlumi, eccessivamente rari, è vero, di cui non starò a dimostrare l'incertezza che li copre; tuttavia, gli è impossibile intuire la realtà. Non è profeta, non dico il contrario, né si riconosce la facoltà di esserlo. Giunto sulla grande arteria, svolta a destra e attraversa il boulevard Poissonnière e il boulevard Bonne-Nouvelle. A questo punto del suo cammino, procede lungo rue de Faubourg Saint-Denis, si lascia dietro l'imbarcadero della ferrovia di Strasbourg, e si ferma davanti a un alto portale, prima di aver raggiunto la sovrapposizione perpendicolare di rue Lafayette. Poiché mi consigliate di concludere in questo luogo la prima strofe, per questa volta voglio ottemperare al vostro desiderio. Sapete che, quando penso all'anello di ferro nascosto sotto la pietra dalla mano di un maniaco, un brivido invincibile mi attraversa i capelli?
II Tira il pomo d'ottone, e il portale del palazzo moderno ruota sui cardini. Attraversa a grandi passi il cortile, cosparso di sabbia fine, e sale gli otto gradini della scalinata. Le due statue, poste a destra e a sinistra come fossero le guardiane dell'aristocratica villa, non gli sbarrano il passo. Colui che tutto ha rinnegato, padre, madre, Provvidenza, amore, ideale, per non pensare più che a se stesso, si è ben guardato dal non seguire i passi che precedevano. L'ha visto entrare in uno spazioso salotto del pianterreno, rivestito di corniola intarsiata. Il figlio di famiglia si getta su un sofà, e l'emozione gli impedisce di parlare. Sua madre, con l'abito lungo a strascico, gli si avvicina premurosa, e lo circonda con le braccia. I fratelli, più giovani di lui, si riuniscono intorno al mobile, caricodi un fardello; non
conoscono la vita a sufficienza per farsi un'idea precisa della scena che si sta svolgendo. Infine, il padre alza il bastone, e abbassa sugli astanti uno sguardo pieno di autorità. Appoggiando il polso sui braccioli della poltrona, si allontana dal suo seggio consueto, e avanza, inquieto, benché indebolito dagli anni, verso il corpo immobile dei primogenito. Parla in una lingua straniera, e ognuno lo ascolta in rispettoso raccoglimento: «Chi ha ridotto il ragazzo in questo stato? Il brumoso Tamigi trascinerà ancora una notevole quantità di limo prima che le mie forze siano completamente esaurite. Pare che in questa contrada inospitale non esistano leggi protettive. Se conoscessi il colpevole, costui proverebbe il vigore del mio braccio. Benché io sia in pensione, lontano dalle battaglie navali, la mia spada di commodoro, appesa alla parete, non è ancora arrugginita. Del resto, è facile rifarle il filo. Calmati, Mervyn; ordinerò ai domestici di trovare le tracce di colui che da questo momento cercherò, per farlo perire di mia mano. Donna, togliti di lì e accovacciati in un angolo; i tuoi occhi m'inteneriscono, e faresti meglio a richiudere il condotto delle tue ghiandole lacrimali. Figlio mio, ti supplico, risveglia i tuoi sensi, e riconosci la tua famiglia; è tuo padre che ti parla...». La madre si tiene in disparte, e, per obbedire agli ordini del suo signore, ha preso in mano un libro, e si sforza di restare tranquilla in presenza del pericolo che corre colui che la sua matrice generò. «Bambini, andate a divertirvi nel parco, e fate attenzione, ammirando il nuoto dei cigni, a non cadere nello specchio d'acqua...». I fratelli, con le mani penzoloni, restano muti; tutti, con il tocco sormontato da una piuma strappata all'ala della nottola della Carolina, con i pantaloni di velluto fino al ginocchio e le calze di seta rossa, si prendono per mano e si ritirano dal salotto, avendo cura di premere solo in punta di piedi il pavimento d'ebano. Sono sicuro che non si divertiranno, e passeggeranno gravemente lungo i viali di platani. La loro intelligenza è precoce. Meglio per loro. «... Cure inutili, ti cullo nelle mie braccia, e tu sei insensibile alle mie suppliche. Vorresti rialzare la testa? Ti abbraccerò le ginocchia, se occorre. Ma no... ricade inerte». - «Mio dolce signore, se tu lo permetti alla tua schiava, vado a cercare nel mio appartamento un flacone pieno di essenza di trementina, di cui mi servo abitualmente quando l'emicrania m'invade le tempie, di ritorno dal teatro, o quando la lettura di una narrazione commovente, registrata negli annali britannici della storia cavalleresca dei nostri antenati, getta il mio pensiero trasognato nelle torbiere dell'assopimento». - «Donna, non ti avevo dato la parola, e tu non avevi il diritto di prenderla. Dal giorno della nostra
legittima unione, nessuna nube è venuta a frapporsi tra noi. Sono contento di te, e non ho mai avuto rimproveri da farti: e reciprocamente. Vai a cercare nel tuo appartamento un flacone pieno di essenza di trementina. So che ce n'è uno nei cassetti del tuo comò, e non sarai tu a insegnarmelo. Affrettati a salire i gradini della scala a chiocciola, e torna da me con volto lieto». Ma la sensibile londinese è appena giunta ai primi gradini (non corre veloce come una persona delle classi inferiori) che già una delle sue damigelle di compagnia ridiscende dal primo piano, con le guance imporporate di sudore, con il flacone che, forse, contiene il liquore di vita tra le sue pareti di cristallo. La damigella s'inchina con grazia porgendo la sua offerta, e la madre, con andatura regale, avanza verso le frange che orlano il sofà, unico oggetto che preoccupi la sua tenerezza. Il commodoro, con un gesto fiero ma benevolo, accetta il flacone dalle mani della sua sposa. Vi si bagna un foulard d'India, e si avvolge la testa di Mervyn nei meandri orbicolari della seta. Aspira sali; muove un braccio. La circolazione si rianima, e si odono le grida gioiose di un cacatoa delle Filippine, appollaiato sul vano della finestra. «Chi va là?... Non fermatemi... Dove mi trovo? È una tomba a sorreggere le mie membra intorpidite? Le sue assi mi sembrano morbide... Il medaglione che contiene il ritratto di mia madre, è ancora appeso al mio collo?... Indietro, malfattore dalla testa scarmigliata. Non è riuscito a raggiungermi, e gli ho lasciato tra le dita un lembo del mio farsetto. Staccate le catene dei bulldog, perché stanotte un ladro riconoscibile può introdursi in casa nostra con effrazione, mentre noi saremo immersi nel sonno. Padre mio, madre mia, vi riconosco e vi ringrazio delle vostre cure. Chiamate i miei fratellini. È per loro che avevo comprato delle mandorle tostate, e voglio baciarli». A queste parole, cade in un profondo stato letargico. Il medico, che è stato chiamato in gran fretta, si sfrega le mani ed esclama: «La crisi è passata. Va tutto bene. Domani vostro figlio si sveglierà in forma. Andatevene tutti nei rispettivi giacigli, lo ordino, affinché io rimanga solo accanto al malato, fino all'apparizione dell'aurora e del canto dell'usignolo». Maldoror, nascosto dietro la porta, non si è perduto una sola parola. Ora conosce il carattere degli abitanti del palazzo, e agirà di conseguenza. Sa dove alloggia Mervyn, e non desidera saperne di più. Ha annotato in un taccuino il nome della via e il numero dell'edificio. È la cosa principale. È sicuro di non dimenticarli. Avanza come una iena, senza essere visto, e costeggia i lati del cortile. Scala il cancello con agilità, e per un attimo s'impiglia nelle punte di ferro; con un balzo, è in strada. Si
allontana a passi di lupo: «Mi prendeva per un malfattore, - esclama: - è un imbecille. Vorrei trovarlo un uomo esente dall'accusa che il malato ha rivolto nei miei confronti. Non gli ho tolto un lembo del farsetto, come ha detto. Semplice allucinazione ipnagogica provocata dal terrore. Non era mia intenzione, oggi, impadronirmi di lui; perché ho altri progetti, ulteriori, su quel timido adolescente». Dirigetevi dalla parte dove si trova il lago dei cigni; e più tardi vi dirò perché, nel branco, ce n'è uno completamente nero, e il cui corpo, sorreggendo un'incudine sormontata dal cadavere in putrefazione di un granchio-porro, ispira una diffidenza legittima agli altri suoi acquatici compagni.
III Mervyn è in camera sua; ha ricevuto una missiva. Chi gli scrive una lettera? Il turbamento gli ha impedito di ringraziare l'agente postale. La busta ha i bordi neri, e le parole sono tracciate con una scrittura frettolosa. Deve portare la lettera a suo padre? E se il firmatario glielo vietasse espressamente? Pieno d'angoscia, apre la finestra per respirare i sapori dell'atmosfera; i raggi del sole riflettono le loro prismatiche irradiazioni sugli specchi di Venezia e sulle tende di damasco. Getta la missiva da un lato, tra i libri dal taglio dorato e gli album dalla copertina di madreperla, sparsi sul cuoio sbalzato che ricopre la superficie della sua scrivania di scolaro. Apre il pianoforte e fa scorrere le dita affilate sui tasti d'avorio. Le corde d'ottone non risuonarono. Quest'avvertimento indiretto lo induce a riprendere la carta velina: ma questa indietreggiò, come se fosse stata offesa dall'esitazione del destinatario. Caduta in questa trappola, la curiosità di Mervyn aumenta, ed egli apre il pezzo di cencio preparato. Fino a quel momento aveva visto soltanto la propria scrittura. «Giovanotto, m'interesso a voi; voglio farvi felice. Vi prenderò per compagno e compiremo lunghe peregrinazioni per le isole dell'Oceania. Mervyn, tu sai che io ti amo, e non ho bisogno di provartelo. Mi accorderai la tua amicizia, ne sono convinto. Quando mi conoscerai meglio, non ti pentirai della fiducia che mi avrai testimoniato. Ti proteggerò dai pericoli che la tua inesperienza correrà. Sarò per te un fratello, e i buoni consigli non ti mancheranno. Per più ampie spiegazioni, trovati dopodomani mattina, alle cinque, sul ponte del Carrousel. Se non sarò ancora arrivato, aspettami; ma spero di essere sul posto all'ora giusta. Fai così anche tu. Un inglese non
abbandonerà facilmente l'occasione di vedere chiaro nei propri affari. Giovanotto, ti saluto, e a presto. Non mostrare a nessuno questa lettera». «Tre stelle invece della firma, - esclama Mervyn; - e una macchia di sangue in fondo alla pagina!». Lacrime abbondanti colano sulle strane frasi che i suoi occhi hanno divorato, e che aprono alla sua mente il campo illimitato degli orizzonti incerti e nuovi. Gli sembra (solo dopo la lettura che ha appena terminato) che suo padre sia un po' severo, e sua madre eccessivamente maestosa. Ha dei motivi, che non sono giunti a mia conoscenza e che quindi non potrei trasmettervi, per insinuare che neppure i suoi fratelli gli vanno bene. Si nasconde la lettera nel petto. I suoi professori hanno osservato che quel giorno egli sembrò diverso dal solito; i suoi occhi si sono smisuratamente incupiti, e il velo della riflessione eccessiva è calato sulla regione periorbitale. Ogni professore è arrossito per il timore di non essere all'altezza intellettuale dell'allievo, che tuttavia, per la prima volta, ha trascurato i compiti e non ha lavorato. La sera, la famiglia si è riunita nella sala da pranzo decorata di antichi ritratti. Mervyn ammira i piatti carichi di carni succulente e i frutti odoriferi, ma non mangia; i policromi fiotti dei vini del Reno e il rubino spumeggiante dello champagne s'incastonano nelle strette e lunghe coppe di pietra di Boemia, ma anch'essi lasciano indifferente il suo sguardo. Appoggia il gomito sul tavolo, e resta assorto nei propri pensieri come un sonnambulo. Il commodoro, dal volto riarso dalla schiuma dei mare, si china all'orecchio della sposa: «Il primogenito ha cambiato carattere, dal giorno della crisi; era già fin troppo portato alle idee assurde; oggi fantastica ancora più del solito. Non ero così, io, quando avevo la sua età. Fai finta di non accorgerti di niente. Questo è un caso in cui un rimedio efficace, materiale o morale, può trovare una facile applicazione. Mervyn, tu che apprezzi la lettura dei libri di viaggi e di storia naturale, ora ti leggerò un racconto che non ti dispiacerà. Ascoltami con attenzione; ognuno ne trarrà profitto, io per primo. E voi, bambini, imparate, grazie all'attenzione che saprete prestare alle mie parole, a perfezionare la forma del vostro stile, e a rendervi conto delle più sottili intenzioni di un autore». Come se quella nidiata di adorabili mocciosi avesse potuto capire cos'è la retorica! Disse, e, a un gesto della sua mano, uno dei fratelli si dirige verso la biblioteca paterna, e ne ritorna con un volume sotto il braccio. Intanto vengono tolti i coperti e l'argenteria, e il padre prende il libro. Al nome elettrizzante di "viaggi", Mervyn ha risollevato la testa, e si è sforzato di porre fine alle sue meditazioni fuori luogo. Il libro è aperto più o meno a metà, e la voce
metallica del commodoro dimostra ch'egli è ancora capace, come nei giorni della sua gloriosa giovinezza, di comandare al furore degli uomini e delle tempeste. Assai prima della fine della lettura, Mervyn è ricaduto sul suo gomito, nell'impossibilità di seguire più a lungo il ragionato sviluppo delle frasi passate alla filiera e la saponificazione delle metafore obbligatorie. Il padre esclama: «Non è questo a interessarlo; leggiamo un'altra cosa. Leggi, donna; sarai più fortunata di me, per scacciare il dolore dalle giornate di nostro figlio». La madre non spera più; ha preso tuttavia un altro libro, e il timbro della sua voce di soprano risuona melodiosamente alle orecchie del prodotto della sua concezione. Ma, dopo qualche parola, lo scoraggiamento la invade, e interrompe spontaneamente l'interpretazione dell'opera letteraria. Il primogenito esclama: «Vado a letto». Si ritira, con gli occhi bassi e freddamente fissi, e senza aggiungere altro. Il cane si mette a latrare, lugubre, perché non trova naturale questo comportamento, e il vento da fuori, ingolfandosi ineguale nella fessura longitudinale della finestra, fa vacillare la fiamma, tenuta bassa da due cupole di cristallo rosato, della lampada di bronzo. La madre gli appoggia le mani sulla fronte, e il padre alza gli occhi al cielo. I bambini gettano sguardi sgomenti sul vecchio marinaio. Mervyn chiude a doppia mandata la porta della sua stanza, e la sua mano corre veloce sulla carta: «Ho ricevuto la vostra lettera a mezzogiorno, e mi perdonerete se vi ho fatto attendere la risposta. Non ho l'onore di conoscervi personalmente, e non sapevo se avrei dovuto scrivervi. Ma, poiché la scortesia non alloggia in casa nostra, mi sono deciso a prendere la penna, per ringraziarvi calorosamente dell'interesse che dedicate a uno sconosciuto. Dio mi guardi dal non mostrare riconoscenza per la simpatia di cui mi colmate. Conosco le mie imperfezioni, e non per questo ne vado fiero. Ma, se è giusto accettare l'amicizia di un adulto, lo è altrettanto fargli capire che i nostri caratteri non sono gli stessi. In effetti, mi sembrate più anziano di me, dal momento che mi chiamate «giovanotto», e tuttavia conservo dei dubbi sulla vostra vera età. Infatti, come conciliare la freddezza dei vostri sillogismi con la passione che emanano? Certamente non abbandonerò il luogo che mi ha visto nascere, per accompagnarvi in contrade lontane; ciò sarebbe possibile soltanto a condizione di chiedere, prima, agli autori dei miei giorni, un permesso atteso con impazienza. Ma poiché mi avete ingiunto di conservare il segreto (nel senso cubico della parola) su quest'affare spiritualmente tenebroso, mi affretterò ad obbedire alla vostra incontestabile saggezza. A quanto pare, essa non affronterebbe con piacere
la chiarezza della luce. Dato che sembrate auspicare che io abbia fiducia nella vostra persona (auspicio che non è fuori luogo, mi compiaccio, di confessarlo), abbiate la bontà, vi prego, di testimoniare nei miei confronti una fiducia analoga, e di non avere la pretesa di credere che io sia talmente lontano dal vostro parere da non essere puntuale all'appuntamento, dopodomani mattina, all'ora indicata. Scavalcherò il muro di cinta del parco, perché il cancello sarà chiuso, e nessuno sarà testimone della mia partenza. Per parlare con franchezza, cosa non farei per voi, il cui inesplicabile attaccamento ha saputo prontamente rivelarsi ai miei occhi abbagliati, soprattutto stupiti di una tale prova di bontà che, me ne sono accertato, non mi sarei aspettato? Perché io non vi conoscevo. Adesso vi conosco. Non dimenticate la promessa che mi avete fatto, di passeggiare sul ponte del Carrousel. Nel caso che io vi passassi, ho una certezza, a nessun'altra pari, di incontrarvi e di toccarvi la mano, sempre che quest'innocente manifestazione di un adolescente, che ancora ieri s'inchinava di fronte all'altare del pudore, non debba offendervi con la sua rispettosa familiarità. Ora, non è forse confessabile la familiarità, nel caso di una forte e ardente intimità, quando la perdizione è seria e convinta? E che male ci sarebbe, dopotutto, lo chiedo proprio a voi, se vi dicessi "addio" passando, quando dopodomani, che piova o no, saranno suonate le cinque? Apprezzerete voi stesso, gentleman, il tatto con il quale ho concepito la mia lettera; non mi permetto infatti di dirvi di più, in un foglio volante che potrebbe smarrirsi. Il vostro indirizzo in fondo alla pagina è un rebus. Mi è occorso quasi un quarto d'ora per decifrarlo. Credo che abbiate fatto bene a tracciarne le parole in modo microscopico. Mi dispenso dal firmare, e in ciò vi imito: viviamo in un tempo troppo eccentrico, per stupirci un solo istante di quanto potrebbe accadere. Sarei curioso di sapere in quale modo avete conosciuto il luogo in cui dimora la mia glaciale immobilità, circondata da una lunga serie di sale deserte, immondi carnai delle mie ore di noia. Come dire? Quando penso a voi, il mio petto si agita, rimbombando come il crollo di un impero in decadenza; infatti, l'ombra del vostro amore rivela un sorriso che, forse, non esiste: è così vaga, e muove le sue scaglie in un modo talmente tortuoso! Tra le vostre mani, abbandono i miei sentimenti impetuosi, tavole di marmo nuovissime e ancora vergini di ogni contatto mortale. Pazientiamo fino alle prime luci del crepuscolo mattutino, e, nell'attesa del momento che mi getterà nell'intreccio schifoso delle vostre braccia pestifere, mi inchino umilmente alle vostre ginocchia, e le stringo». Dopo aver scritto questa lettera
colpevole, Mervyn la porta alla posta, e torna a rimettersi a letto. Non contate di trovarvi il suo angelo custode. La coda di pesce non volerà che tre giorni, questo è vero; ma, ahimè, la trave sarà comunque bruciata; e un proiettile cilindro-conico forerà la pelle del rinoceronte, malgrado la fanciulla di neve e il mendicante! Il fatto è che il pazzo incoronato avrà detto la verità sulla fedeltà dei quattordici pugnali.
IV Mi sono accorto di avere un occhio solo, in mezzo alla fronte! O specchi d'argento, incrostati nei pannelli dei vestiboli, quanti servigi mi avete reso con il vostro potere riflettente! Dal giorno in cui un gatto d'angora mi rose, per un'ora, la bozza parietale, come un trapano che perfori il cranio, lanciandosi all'improvviso sulla mia schiena perché avevo fatto bollire i suoi piccoli in un catino pieno d'alcool, io non ho smesso di lanciare contro me stesso la freccia dei tormenti. Oggi, sotto l'impressione delle ferite che il mio corpo ha ricevuto in diverse circostanze, sia per la fatalità della mia nascita, sia per mia stessa colpa; oppresso dalle conseguenze della mia caduta morale (alcune si sono compiute; chi può prevedere le altre?); spettatore impassibile delle mostruosità acquisite o naturali che decorano le aponeurosi e l'intelletto di chi parla, getto un lungo sguardo di soddisfazione sulla dualità che mi compone... e mi trovo bello! Bello come il vizio congenito di conformazione degli organi sessuali dell'uomo, consistente nella brevità relativa del canale dell'uretra e la divisione o assenza della sua parete inferiore, in modo tale che il canale si apre a una distanza variabile dal glande e al disotto del pene; o, ancora, come la caruncola carnosa di forma conica, solcata da rughe trasversali assai profonde, che s'innalza sulla base del becco superiore del tacchino; o piuttosto, come la seguente verità: «Il sistema delle gamme, dei modi e del loro armonico concatenarsi, non si fonda su leggi naturali invariabili, ma è, al contrario, la conseguenza di principi estetici che sono variati con lo sviluppo progressivo dell'umanità, e varieranno ancora»; e, soprattutto, come una corvetta corazzata a torrette! Sì, sostengo l'esattezza della mia asserzione. Non ho illusioni presuntuose, me ne vanto, e non troverei alcun profitto nella menzogna; dunque, ciò che ho detto non dovete affatto esitare a crederlo. Infatti, perché dovrei ispirare orrore a me stesso, di fronte alle testimonianze di elogio che partono dalla mia coscienza? Non
invidio nulla al Creatore; ma che mi lasci scendere il fiume del mio destino, attraverso una serie crescente di crimini gloriosi. Altrimenti, alzando all'altezza della sua fronte uno sguardo irritato per ogni ostacolo, gli farò capire che non è il solo padrone dell'universo; che numerosi fenomeni che dipendono direttamente da una conoscenza più approfondita della natura delle cose depongono in favore dell'opinione contraria, e oppongono una formale smentita alla possibile esistenza dell'unità della potenza. Il fatto è che siamo in due a contemplarci le ciglia delle palpebre, vedi... e tu sai che più di una volta la tromba della vittoria ha squillato nella mia bocca senza labbra. Addio, guerriero illustre; il tuo coraggio nella sventura ispira stima al tuo nemico più accanito; ma Maldoror ti ritroverà presto, per contenderti la preda che si chiama Mervyn. Sarà così realizzata la profezia del gallo, quando intravvide l'avvenire in fondo al candelabro. Voglia il cielo che il granchio-porro raggiunga in tempo la carovana dei pellegrini, e insegni loro in poche parole il racconto dello straccivendolo di Clignancourt!
V Su una panchina del Palais Royal, sul lato sinistro e non lontano dallo specchio d'acqua, un individuo, spuntando da rue de Rivoli, è venuto a sedersi. Ha i capelli in disordine, e i suoi vestiti rivelano l'azione corrosiva di un'indigenza prolungata. Ha scavato un buco nel suolo con un pezzo di legno appuntito, e si è riempito di terra l'incavo della mano. Si è portato alla bocca questo cibo, e precipitosamente l'ha gettato via. Si è rialzato e, appoggiando la testa alla panchina, ha rivolto le gambe in alto. Ma poiché questa posizione funambolesca è al di fuori delle leggi della pesantezza che reggono il centro di gravità, è ricaduto pesantemente sulla tavola, con le braccia penzoloni, il berretto che gli nasconde la metà del volto, e le gambe che battono la ghiaia in una condizione di equilibrio instabile, sempre meno rassicurante. Rimane a lungo in questa posizione. Verso l'ingresso di mezzo, a nord, accanto alla rotonda che contiene una sala da caffè, il braccio del nostro eroe è appoggiato alla cancellata. Il suo sguardo percorre la superficie del rettangolo, in modo da non farsi sfuggire nessuna prospettiva. Conclusa l'investigazione, i suoi occhi ritornano su se stessi, ed egli scorge, in mezzo al giardino, un uomo che esegue una barcollante ginnastica con una panchina su cui si sforza di stabilizzarsi,
compiendo miracoli di forza e abilità. Ma cosa può mai la migliore intenzione, posta al servizio di una giusta causa, contro le sregolatezze dell'alienazione mentale? È avanzato verso il pazzo, l'ha aiutato benevolmente a rimettere la sua dignità in posizione normale, gli ha teso la mano, e si è seduto accanto a lui. Nota che la follia è soltanto intermittente; la crisi è passata; il suo interlocutore risponde logicamente a tutte le domande. È necessario riferire il senso delle sue parole? Perché riaprire, a una pagina qualunque, con premura blasfema, l'in-folio delle miserie umane? Niente è di insegnamento più fecondo. Anche quando non avessi alcun avvenimento vero da farvi ascoltare, inventerei racconti immaginari per travasarli nel vostro cervello. Ma il malato non lo è diventato per proprio piacere; e la sincerità delle sue narrazioni si accorda a meraviglia con la credulità del lettore. «Mio padre era un carpentiere di rue de la Verrerie... Che la morte delle tre Margherite ricada sulla sua testa, e il becco del canarino gli roda in eterno l'asse del bulbo oculare! Aveva preso l'abitudine di ubriacarsi; in quei momenti, quando tornava a casa dopo essere andato per banconi d'osteria, il suo furore diventava quasi incommensurabile, ed egli colpiva indistintamente gli oggetti che si presentavano alla sua vista. Ma presto, di fronte ai rimproveri degli amici, si corresse completamente, e divenne di umore taciturno. Nessuno poteva avvicinarlo, neppure nostra madre. Conservava un segreto risentimento contro l'idea del dovere, che gli impediva di comportarsi a modo suo. Avevo comprato un canarino per le mie tre sorelle; era per le mie tre sorelle che avevo comprato un canarino. Lo avevano rinchiuso in una gabbia, sopra la porta, e i passanti si fermavano, ogni volta, ad ascoltare i canti dell'uccello, ad ammirare la sua grazia fugace e studiare le sue forme sapienti. Più di una volta mio padre aveva dato ordine di far sparire la gabbia e il suo contenuto, perché s'immaginava che il canarino si prendesse gioco della sua persona, lanciandogli il mazzo delle aeree cavatine del suo talento di vocalista. Andò a staccare la gabbia dal chiodo, e scivolò dalla sedia, accecato dall'ira. Una leggera escoriazione al ginocchio fu il trofeo della sua impresa. Dopo essere rimasto per qualche secondo a premersi la parte gonfia con un truciolo, si abbassò i pantaloni, con le sopracciglia aggrottate, prese maggiori precauzioni, si mise la gabbia sotto il braccio e si diresse verso il fondo della bottega. Lì, nonostante le grida e le suppliche della sua famiglia (tenevamo molto a quell'uccello, che era per noi una specie di genio domestico), schiacciò sotto i tacchi ferrati la gabbia di vimini, mentre una grande pialla, che gli
roteava intorno alla testa, teneva a distanza i presenti. Il caso fece sì che il canarino non morisse sul colpo; quel batuffolo di piume viveva ancora, malgrado la maculazione sanguigna. Il carpentiere si allontanò, e richiuse rumorosamente la porta. Mia madre e io ci sforzammo di trattenere la vita dell'uccello, pronta a fuggire via; era vicino alla fine, e il movimento delle ali non si offriva più alla vista che come specchio della convulsione suprema dell'agonia. Intanto le tre Margherite, quando si resero conto che ogni speranza stava per essere perduta, si presero per mano, di comune accordo, e la catena vivente andò ad accovacciarsi, dopo aver spinto a qualche passo di distanza un barile di grasso, dietro la scala, accanto al canile della nostra cagna. Mia madre non desisteva dal suo compito, e teneva il canarino tra le mani per riscaldarlo con il fiato. Io correvo smarrito per tutte le stanze, urtando contro i mobili e gli attrezzi. Ogni tanto una delle mie sorelle mostrava la testa dal fondo della scala per informarsi sulla sorte dello sventurato uccello, e la ritraeva tristemente. La cagna era uscita dal canile e, come se avesse capito l'importanza della nostra perdita, leccava con la lingua della sterile consolazione l'abito delle tre Margherite. Il canarino non aveva più che pochi attimi di vita. Una delle mie sorelle (era la più giovane) mostrò a sua volta la testa nella penombra formata dalla rarefazione della luce. Vide mia madre impallidire, e vide l'uccello che, dopo aver rialzato il collo per la durata di un lampo, per un'ultima manifestazione del suo sistema nervoso, ricadeva tra le sue dita, inerte per sempre. Annunciò la notizia alle sorelle. Queste non fecero udire il rumore di alcun lamento, di alcun mormorio. Il silenzio regnava nella bottega. Non si distingueva altro che l'irregolare scricchiolìo dei frammenti della gabbia che, in virtù dell'elasticità del legno, riprendevano in parte la posizione primordiale della loro costruzione. Le tre Margherite non lasciavano scorrere nessuna lacrima, e il loro volto non perdeva affatto la sua purpurea freschezza; no... rimanevano soltanto immobili. Si trascinarono fino all'interno del canile, e si stesero sulla paglia, l'una accanto all'altra; mentre la cagna, testimone passiva delle loro manovre, con stupore le guardava fare. Più volte mia madre le chiamò; non emisero il suono di alcuna risposta. Stanche per le emozioni precedenti, dormivano, probabilmente! Lei frugò ogni angolo della casa senza vederle. Seguì la cagna, che la tirava per il vestito, verso il canile. La donna si chinò e avvicinò la testa all'entrata. Lo spettacolo di cui ebbe la possibilità di essere testimone, a parte le malsane esagerazioni della paura materna, non poteva che essere straziante, secondo i calcoli della mia mente. Accesi
una candela e gliela porsi; in questo modo, non le sfuggì alcun particolare. Ritrasse la testa coperta di fili di paglia dalla tomba prematura, e mi disse: «Le tre Margherite sono morte». Poiché non potevamo farle uscire da quel posto dal momento che, tenetelo ben presente, erano strettamente abbracciate l'una all'altra, andai a cercare un martello nella bottega, per infrangere la dimora canina. Subito mi misi all'opera di demolizione, e i passanti poterono credere, per poca immaginazione che avessero, che il lavoro non mancava in casa nostra. Mia madre, spazientita per quei ritardi che tuttavia erano indispensabili, si spezzava le unghie contro le assi. Finalmente l'operazione della liberazione negativa terminò; il canile spaccato si aprì da ogni lato; e noi ritirammo dai rottami, una dopo l'altra, dopo averle separate a fatica, le figlie del carpentiere. Mia madre lasciò il paese. Non ho più rivisto mio padre. Quanto a me, dicono che sono pazzo, e imploro la pubblica carità. Quello che so, è che il canarino non canta più». L'ascoltatore approva nel suo intimo questo nuovo esempio portato a sostegno delle sue teorie disgustose. Come se, a causa di un ex avvinazzato, si fosse in diritto di accusare l'umanità intera. Tale è almeno la paradossale riflessione ch'egli cerca d'introdurre nella propria mente; ma essa non può scacciarne gli importanti insegnamenti della grave esperienza. Consola il pazzo con una finta compassione, e gli asciuga le lacrime con il proprio fazzoletto. Lo porta in un ristorante, e mangiano alla stessa tavola. Vanno da un sarto alla moda, e il protetto viene vestito come un principe. Bussano alla portineria di una grande casa di rue SaintHonoré, e il pazzo viene sistemato in un ricco appartamento del terzo piano. Il bandito lo costringe ad accettare la propria borsa e, prendendo il vaso da notte da sotto il letto, lo mette sulla testa di Aghone. «Io ti incorono re delle intelligenze, - esclama con enfasi premeditata; - al tuo minimo richiamo accorrerò; attingi a piene mani ai miei forzieri; ti appartengo anima e corpo. La notte, riporterai la corona di alabastro al suo solito posto, con il permesso di servirtene; ma di giorno, appena l'aurora illuminerà le città, rimettila sulla fronte, come simbolo della tua potenza. Le tre Margherite rivivranno in me, senza contare che sarò tua madre». Allora il pazzo indietreggiò di qualche passo, come se fosse stato preda di un incubo oltraggioso; i tratti della felicità si dipinsero sul suo volto reso rugoso dalle pene; s'inginocchiò, pieno di umiliazione, ai piedi del suo protettore. La riconoscenza era entrata, come un veleno, nel cuore del pazzo incoronato! Volle parlare, e la sua lingua si bloccò. Chinò il corpo in avanti, e ricadde sul pavimento. L'uomo dalle labbra di bronzo si ritira.
Qual era il suo scopo? Farsi un amico a tutta prova, abbastanza ingenuo per obbedire al suo minimo comando. Non poteva capitargli di meglio, e il caso l'aveva favorito. Quello che ha trovato sdraiato sulla panchina, non sa più distinguere, dopo un certo evento della sua giovinezza, il bene dal male. È proprio Aghone che gli serve.
VI L'Onnipotente aveva inviato sulla terra uno dei suoi arcangeli, per salvare l'adolescente da una morte certa. Sarà costretto a scendere di persona! Ma non siamo ancora arrivati a questa parte del nostro racconto, e mi vedo obbligato a chiudere la bocca, perché non posso dire tutto in una volta: ogni trucco ad effetto apparirà al momento giusto, quando la trama di questa finzione non vi troverà alcun inconveniente. Per non essere riconosciuto, l'arcangelo aveva assunto la forma di un granchio-porro, grande come una vigogna. Se ne stava sulla cima di uno scoglio, in mezzo al mare, e attendeva il momento favorevole della marea per operare la sua discesa sulla riva. L'uomo dalle labbra di diaspro, nascosto dietro una sinuosità della spiaggia, spiava l'animale con un bastone in mano. Chi avrebbe desiderato leggere nel pensiero di questi due esseri? Il primo non si nascondeva di avere una difficile missione da compiere: «E come riuscire, - esclamava, mentre le onde sempre più grosse battevano il suo rifugio temporaneo, - là dove il mio signore ha visto fallire più di una volta la sua forza e il suo coraggio? Io, non sono che una sostanza limitata, mentre l'altro, nessuno sa da dove venga e quale sia il suo scopo finale. Al suo nome gli eserciti celesti tremano; e più di uno racconta, nelle regioni che ho lasciato, che lo stesso Satana, Satana, l'incarnazione del male, non è così temibile». Il secondo faceva le seguenti riflessioni, che trovarono un'eco fin nella cupola azzurra che insozzarono: «Sembra pieno d'inesperienza; gli regolerò rapidamente il conto. Viene certamente dall'alto, inviato da colui che ha tanto timore di venire di persona! Vedremo da come si comporta se è tanto imperioso come sembra; non è un abitante dell'albicocca terrestre; tradisce la sua origine serafica con i suoi occhi erranti e indecisi». Il granchio-porro, che da qualche tempo percorreva con lo sguardo uno spazio delimitato della costa, scorse il nostro eroe (questi, allora, si eresse in tutta l'altezza della sua statura erculea), e l'apostrofò nei termini seguenti: «Non tentare la lotta, e
arrenditi. Sono inviato da qualcuno che è superiore a noi due, per caricarti di catene, e porre le due membra complici del tuo pensiero nell'impossibilità di muoversi. Stringere coltelli e pugnali tra le tue dita, questo ormai dev'esserti proibito, credimi; tanto nel tuo interesse che in quello degli altri. Morto o vivo, io ti avrò; ho l'ordine di riportarti vivo. Non mettermi in condizione di dover ricorrere al potere che mi è stato attribuito. Mi comporterò con delicatezza; da parte tua, non oppormi alcuna resistenza. Così riconoscerò, con premura ed allegria, che avrai compiuto un primo passo verso il pentimento». Quando il nostro eroe udì quest'arringa, impregnata di un sale così profondamente comico, fece fatica a conservare la serietà sulla durezza dei suoi lineamenti abbronzati. Insomma, non tutti si stupiranno se aggiungo che finì per scoppiare a ridere. Era più forte di lui! Non ci metteva alcuna cattiva intenzione! Non voleva certo attirarsi i rimproveri dei granchio-porro! Quanti sforzi non fece per scacciare l'ilarità! Quante volte serrò le labbra, per non aver l'aria di offendere il suo stupefatto interlocutore! Disgraziatamente il suo carattere partecipava della natura dell'umanità, e rideva come fanno le pecore! Finalmente smise! Era ora! Per poco non si era soffocato! Il vento portò questa risposta all'arcangelo dello scoglio: «Quando il tuo signore non m'invierà più lumache e gamberi per regolare i suoi affari, e si degnerà di parlamentare personalmente con me, si troverà, ne sono sicuro, il modo per metterci d'accordo, perché io sono inferiore a colui che t'inviò, come tu hai detto così giustamente. Fino a quel momento le idee di riconciliazione mi sembrano premature, e capaci soltanto di produrre un risultato chimerico. Sono ben lontano dal disconoscere ciò che c'è di sensato in ognuna delle tue sillabe; e poiché potremmo affaticare inutilmente la nostra voce, facendole percorrere una distanza di tre chilometri, mi sembra che agiresti con saggezza se tu scendessi dalla tua fortezza inespugnabile e raggiungessi a nuoto la terraferma: discuteremo più comodamente le condizioni di una resa che, per quanto legittima, per me non è certo una prospettiva sgradevole». L'arcangelo, che non si aspettava questa buona volontà, fece spuntare la testa dalle profondità del crepaccio, e rispose: «O Maldoror, è giunto finalmente il giorno in cui i tuoi abominevoli istinti vedranno spegnersi la fiamma d'ingiustificabile orgoglio che li porta alla dannazione eterna! Sarò dunque io a raccontare per primo questo lodevole cambiamento alle falangi dei cherubini, felici di ritrovare uno di loro. Anche tu sai, e non hai dimenticato, che ci fu un'epoca in cui avevi il primo posto tra noi. Il tuo nome volava di bocca in bocca; tu sei,
attualmente, l'argomento delle nostre solitarie conversazioni. Vieni dunque... vieni a fare una pace durevole con il tuo antico signore; ti accoglierà come un figlio smarrito, e non si accorgerà affatto dell'enorme quantità di colpevolezza che tu, come una montagna di corna d'alce innalzata dagli Indiani, hai accumulato sul tuo cuore». Dice, ed estrae ogni parte del suo corpo dal fondo dell'oscura apertura. Si mostra, radioso, sulla superficie dello scoglio; come un prete delle religioni quando ha la certezza di ricondurre all'ovile una pecora smarrita. Sta per saltare in acqua, per dirigersi a nuoto verso l'assolto. Ma l'uomo dalle labbra di zaffiro ha calcolato in anticipo un perfido tiro. Il suo bastone è lanciato con forza; dopo numerosi rimbalzi sulle onde, va a colpire la testa dell'arcangelo benefattore. Il granchio, colpito a morte, cade in acqua. La marea porta a riva il relitto galleggiante. Egli attendeva la marea per operare più facilmente la discesa. Ebbene, la marea è venuta; l'ha cullato con i suoi canti, e l'ha mollemente deposto sulla spiaggia: non è contento, il granchio? Che altro gli serve? E Maldoror, chino sulla sabbia delle spiagge, accoglie tra le braccia due amici, inseparabilmente riuniti dai casi dell'onda: il cadavere del granchio-porro e il bastone omicida! «Non ho ancora perduto la mia abilità, - esclama; - ha soltanto bisogno di esercizio; il mio braccio conserva la sua forza, e il mio occhio la sua precisione». Guarda l'animale inanimato. Teme che gli si chieda conto del sangue versato. Dove nascondere l'arcangelo? E, nello stesso tempo, si chiede se la morte non sia stata istantanea. Si è messo sulla schiena un'incudine e un cadavere; s'incammina verso un vasto specchio d'acqua, le cui rive sono completamente coperte e quasi murate da un groviglio inestricabile di alti giunchi. Dapprima voleva prendere un martello, ma è uno strumento troppo leggero, mentre con un oggetto più pesante, qualora il cadavere dia segni di vita, lo appoggerà a terra e lo ridurrà in polvere a colpi d'incudine. Su, non è certo il vigore che manca al suo braccio; è l'ultima delle sue preoccupazioni. Giunto in vista del lago, lo vede popolato di cigni. Pensa che quello sia un rifugio sicuro; con l'aiuto di una metamorfosi, senza abbandonare il carico si unisce al branco degli altri uccelli. Notate la mano della Provvidenza là dove si era tentati di considerarla assente, e traete profitto dal miracolo di cui sto per parlarvi. Nero come l'ala di un corvo, per tre volte nuotò nel gruppo dei palmipedi dalla bianchezza splendente; tre volte conservò quel colore distintivo che lo assimilava a un blocco di carbone. Il fatto è che Dio, nella sua giustizia, non permise che la sua astuzia potesse ingannare neppure un branco di cigni. Così rimase
ostensibilmente all'interno del lago; ma tutti si mantennero in disparte, e nessun uccello si avvicinò al suo piumaggio vergognoso, per fargli compagnia. E allora, egli circoscrisse i suoi tuffi in una baia appartata, all'estremità dello specchio d'acqua, solo tra gli abitanti dell'aria, come lo era tra gli uomini! Così preludeva all'incredibile evento di place Vendôme!
VII Il corsaro dai capelli d'oro ha ricevuto la risposta di Mervyn. Egli segue in quella pagina singolare la traccia dei turbamenti intellettuali di chi la scrisse, abbandonato alle deboli forze della propria suggestione. Avrebbe fatto molto meglio a consultare i genitori prima di rispondere all'amicizia dello sconosciuto. Non gli verrà alcun beneficio dall'inserirsi, come attore principale, in quell'intrigo equivoco. Ma, insomma, l'ha voluto lui. All'ora indicata, Mervyn, dalla porta di casa sua è andato diritto davanti a sé, seguendo il boulevard Sébastopol fino alla fontana di SaintMichel. Prende il lungosenna dei Grands-Augustins, e attraversa il lungosenna Conti; nel momento in cui passa sul lungosenna Malaquais, vede camminare sul lungosenna del Louvre, parallelamente alla propria direzione, un individuo che porta un sacco sotto il braccio, e sembra esaminarlo con attenzione. I vapori del mattino si sono dissolti. I due passanti spuntano contemporaneamente dai due lati del ponte del Carrousel. Nonostante non si fossero mai visti, si riconobbero! Era davvero patetico vedere quei due esseri, separati dall'età, avvicinare le loro anime attraverso la grandezza dei sentimenti. Almeno sarebbe stata questa l'opinione di quanti si fossero fermati davanti a questo spettacolo, che più d'uno, perfino con una mente matematica, avrebbe trovato commovente. Mervyn, con il volto in lacrime, pensava che stava per incontrare, per così dire all'ingresso della vita, un sostegno prezioso per le future avversità. Siate certi che l'altro non diceva niente. Ecco cosa fece: spiegò il sacco che portava, ne liberò l'apertura e, afferrando l'adolescente per la testa, ne fece entrare l'intero corpo nell'involucro di tela. Annodò con il fazzoletto l'estremità che serviva ad introdurre. Poiché Mervyn lanciava grida acute, sollevò il sacco come un fagotto di biancheria, e lo sbatté più volte contro il parapetto del ponte. Allora il paziente, essendosi accorto dello scricchiolìo delle proprie ossa, tacque. Scena unica, che nessun romanziere saprà mai trovare! Passava un macellaio, seduto sulla carne della sua
carretta. Un individuo gli corre incontro, lo invita a fermarsi, e gli dice: «Ecco qui un cane, chiuso nel sacco; ha la rogna: abbattetelo al più presto». L'interpellato si mostra compiacente. Chi l'ha interrotto, mentre si allontana scorge una ragazzina cenciosa che gli tende la mano. Fin dove può arrivare il colmo dell'audacia e dell'empietà? Lui le fa l'elemosina! Ditemi se volete che io vi introduca, qualche ora dopo, alla porta di un mattatoio fuori mano. Il macellaio è tornato, e ha detto ai suoi compagni, scaricando a terra un fardello: «Sbrighiamoci a uccidere questo cane rognoso». Sono in quattro, e ognuno prende il solito martello. E tuttavia esitavano, perché il sacco si agitava con forza. «Che emozione mi prende?», gridò uno di loro abbassando lentamente il braccio. «Questo cane geme di dolore come un bambino, - disse un altro; - si direbbe che capisca quale sorte lo aspetta». «È loro abitudine, - rispose un terzo; anche quando non sono malati, come in questo caso, basta che il padrone resti assente da casa per qualche giorno, perché si mettano a urlare in un modo che è davvero penoso da sopportare». «Fermatevi!... fermatevi!... gridò il quarto, prima che tutte le braccia si fossero alzate in cadenza per colpire con decisione, questa volta, il sacco. - Fermatevi, vi dico; qui c'è un fatto che ci sfugge. Chi vi dice che questa tela racchiuda un cane? Voglio assicurarmene». Allora, nonostante il sarcasmo dei compagni, snodò il sacco, e ne trasse fuori, una dopo l'altra, le membra di Mervyn! Era quasi soffocato da quella scomoda posizione. Rivedendo la luce, svenne. Il salvatore disse: «Un'altra volta imparate ad essere prudenti anche nel vostro mestiere. Per poco non avete dovuto verificare di persona come non serva a niente praticare l'inosservanza di questa legge». I macellai fuggirono via. Mervyn, con il cuore stretto e pieno di funesti presentimenti, torna a casa e si chiude nella sua stanza. Ho bisogno d'insistere su questa strofe? Eh! chi non deplorerà gli avvenimenti in essa consumati? Aspettiamo la fine per emettere un giudizio ancora più severo. Lo scioglimento sta per precipitare; e, in questo tipo di racconti, in cui, data una passione, di qualunque genere sia, essa non teme alcun ostacolo per aprirsi un varco, non è il caso di diluire in una tazza la gomma-lacca di quattrocento pagine banali. Ciò che può essere detto in una mezza dozzina di strofe, bisogna dirlo e poi tacere.
VIII
Per costruire meccanicamente il cervello di un racconto sonnifero, non è sufficiente sezionare stupidaggini e abbrutire potentemente, a dosi rinnovate, l'intelligenza del lettore, in modo da rendere paralitiche le sue facoltà per il resto della vita, in virtù della legge infallibile della stanchezza; occorre anche, con un buon fluido magnetico, metterlo ingegnosamente nell'impossibilità sonnambolica di muoversi, obbligandolo a oscurarsi gli occhi, contro natura, con la fissità dei vostri. Voglio dire, non per farmi comprendere meglio, ma soltanto per sviluppare il mio pensiero che nello stesso tempo interessa e irrita grazie a un'armonia tra le più penetranti, che io non credo sia necessario, per raggiungere lo scopo che ci si propone, inventare una poesia completamente al di fuori dell'ordinario procedere della natura, e il cui soffio pernicioso sembri sconvolgere perfino le verità assolute; ma ottenere un simile risultato (conforme, del resto, alle regole dell'estetica, se ci si pensa bene) non è tanto facile quanto si pensi: ecco cosa volevo dire. Perciò farò ogni sforzo per riuscirci! Se la morte arresta la fantastica magrezza delle due lunghe braccia delle mie spalle, impegnate nel lugubre schiacciamento del mio gesso letterario, voglio almeno che il lettore in lutto possa dirsi: «Bisogna rendergli giustizia. Mi ha molto rincretinito. Cosa non avrebbe fatto, se avesse potuto vivere più a lungo! è il miglior professore d'ipnotismo che io conosca!». Queste poche parole commoventi saranno incise sul marmo della mia tomba, e i miei mani saranno soddisfatti! - Continuo! C'era una coda di pesce che si agitava in fondo a un buco, accanto a uno stivale scalcagnato. Non era naturale chiedersi: «Dov'è il pesce? Vedo solo la coda che si muove». Infatti, poiché, per l'appunto, si confessava implicitamente di non vedere il pesce, ciò dipendeva dal fatto che in realtà il pesce non c'era. La pioggia aveva lasciato qualche goccia d'acqua sul fondo di quell'imbuto scavato nella sabbia. Quanto allo stivale scalcagnato, alcuni hanno poi pensato che provenisse da un abbandono volontario. Il granchio-porro, in virtù della potenza divina, doveva rinascere dai propri atomi disciolti. Estrasse dal pozzo la coda di pesce, e le promise di riattaccarla al suo corpo perduto, qualora avesse annunciato al Creatore l'impotenza del suo mandatario a dominare le onde infuriate del mare maldororiano. Le prestò due ali d'albatros, e la coda di pesce spiccò il volo. Ma volò verso la dimora del rinnegato, per raccontargli quanto stava accadendo e tradire il granchio-porro. Costui indovinò il progetto della spia e, prima che il terzo giorno fosse giunto alla fine, trafisse la coda del pesce con una freccia avvelenata. La gola della spia emise una debole
esclamazione, che esalò l'ultimo respiro prima di toccare terra. Allora una trave secolare, posta sulla cima di un castello, si eresse in tutta la sua altezza balzando su se stessa, e chiese vendetta a grandi grida. Ma l'Onnipotente, trasformato in rinoceronte, le comunicò che quella morte era meritata. La trave si placò, andò a sistemarsi in fondo al castello, riprese la sua posizione orizzontale, e richiamò i ragni intimoriti perché riprendessero, come in passato, a tessere la loro tela ai suoi angoli. L'uomo dalle labbra di zolfo scoprì così la debolezza della sua alleata; perciò ordinò al pazzo incoronato di bruciare la trave, e di ridurla in cenere. Aghone eseguì l'ordine severo. «Poiché, secondo voi, è giunto il momento, - esclamò, - sono andato a riprendere l'anello che avevo sotterrato sotto una pietra, e l'ho attaccato a una delle cime della gomena. Ecco il pacco». E mostrò una grossa corda, arrotolata su se stessa, di sessanta metri di lunghezza. Il padrone gli chiese cosa facessero i quattordici pugnali. Rispose che rimanevano fedeli, e si tenevano pronti a qualsiasi evenienza, se fosse stato necessario. Il forzato chinò la testa in segno di soddisfazione. Si mostrò sorpreso, e perfino inquieto, quando Aghone aggiunse di aver visto un gallo spezzare in due con il becco un candelabro, tuffare a turno lo sguardo in ciascuna delle due parti, ed esclamare, sbattendo le ali con movimento frenetico: «Non c'è poi tanta distanza quanto si pensi, da rue de la Paix a place du Panthéon. Presto se ne vedrà la lamentevole prova!». Il granchio-porro, montato su un cavallo focoso, correva a briglia sciolta in direzione dello scoglio, testimone del lancio del bastone da parte di un braccio tatuato, rifugio del primo giorno della sua discesa sulla terra. Una carovana di pellegrini era in cammino per visitare quel luogo, ormai consacrato da un'augusta morte. Sperava di raggiungerla, per chiederle urgenti soccorsi contro la trama che si stava preparando, e di cui era venuto a conoscenza. Vedrete, qualche riga più avanti, con l'aiuto del mio silenzio glaciale, che non giunse in tempo per raccontare loro ciò che gli aveva riferito uno straccivendolo nascosto dietro l'impalcatura vicina a una casa in costruzione, il giorno in cui il ponte del Carrousel, ancora impregnato dell'umida rugiada della notte, scorse con orrore l'orizzonte del proprio pensiero allargarsi confusamente in cerchi concentrici, alla mattutina apparizione del ritmico frantumarsi di un sacco icosaedrico contro il suo parapetto calcareo! Prima che esso stimoli la loro compassione con il ricordo di quest'episodio, faranno bene a distruggere dentro di sé il seme della speranza... Per rompere la vostra pigrizia, impiegate le risorse della buona volontà, camminatemi accanto e non
perdete di vista quel pazzo con la testa sormontata da un vaso da notte, che spinge davanti a sé, con la mano armata di un bastone, colui che riconoscereste a stento, se non mi preoccupassi di avvertirvi e di ricordare al vostro orecchio la parola che si pronuncia Mervyn. Com'è cambiato! Con le mani legate dietro la schiena, cammina davanti a sé, come se stesse andando al patibolo, eppure non è colpevole di alcun misfatto. Sono arrivati nella cinta circolare di place Vendôme. Sul cornicione della colonna massiccia, appoggiato alla balaustra quadrata, a più di cinquanta metri di altezza dal suolo, un uomo ha lanciato e srotolato una gomena, che cade fino a terra, a qualche passo da Aghone. Quando si è abituati, una cosa si fa in fretta; ma posso dire che costui non impiegò molto tempo ad attaccare i piedi di Mervyn all'estremità della corda. Il rinoceronte aveva saputo ciò che stava per accadere. Coperto di sudore, apparve ansimante all'angolo di rue Castiglione. Non ebbe neppure la soddisfazione d'iniziare il combattimento. L'individuo che scrutava i dintorni dall'alto della colonna, caricò il revolver, mirò con calma, e premette il grilletto. Il commodoro, che mendicava per le strade dal giorno in cui era iniziata quella che considerava la pazzia di suo figlio, e la madre, che era stata chiamata la fanciulla di neve a causa del suo estremo pallore, sporsero il petto per proteggere il rinoceronte. Inutile premura. La pallottola forò la sua pelle, come un succhiello; si sarebbe potuto credere, con una parvenza di logica, che la morte dovesse apparire infallibilmente. Ma noi sapevamo che in quel pachiderma si era introdotta la sostanza del Signore? Si ritirò con dolore. Se non fosse ben provato ch'egli non fu troppo buono per una delle sue creature, compiangerei l'uomo della colonna! Questi, con un colpo secco del polso, ritrae a sé la corda con la sua zavorra. Posta fuori asse, le sue oscillazioni fanno dondolare Mervyn a testa in giù. Costui afferra svelto con le mani una lunga ghirlanda di semprevive che unisce due angoli consecutivi della base, contro cui urta la fronte. Porta via con sé, nell'aria, ciò che non era un punto fisso. Dopo aver ammucchiato ai propri piedi, in forma di ellissi sovrapposte, gran parte della gomena, in modo che Mervyn resti sospeso a metà altezza dell'obelisco di bronzo, il forzato evaso, con la mano destra, fa assumere all'adolescente un movimento accelerato di rotazione uniforme, su un piano parallelo all'asse della colonna, e con la sinistra raccoglie le spire serpentine del cordame, che giacciono ai suoi piedi. La fionda sibila nello spazio; il corpo di Mervyn la segue ovunque, sempre allontanato dal centro dalla forza centrifuga, sempre conservando la propria posizione mobile ed
equidistante, in una circonferenza aerea, indipendente dalla materia. Il selvaggio civilizzato molla a poco a poco, fino all'altra cima che trattiene con fermo metacarpo, quella che a torto somiglia a una barra d'acciaio. Si mette a correre intorno alla balaustra, tenendosi con una mano alla ringhiera. Questa manovra produce l'effetto di cambiare il primitivo piano di rivoluzione della gomena, e di aumentare la sua forza di tensione, già così considerevole. D'ora in poi, essa rotea maestosamente in un piano orizzontale, dopo essere passata successivamente, con insensibile avanzamento, attraverso numerosi piani obliqui. L'angolo destro formato dalla colonna e dal filo vegetale ha i lati eguali! Il braccio del rinnegato e lo strumento omicida sono confusi nell'unità lineare, come gli elementi atomici di un raggio di luce che penetri nella camera oscura. I teoremi della meccanica mi permettono di parlare in questo modo; ahimè! è risaputo che una forza, aggiunta a un'altra forza, genera una risultante composta dalle due forze primitive! Chi oserebbe sostenere che la fune lineare non si sarebbe già spezzata, senza il vigore dell'atleta, senza la buona qualità della canapa? Il corsaro dai capelli d'oro, all'improvviso e nello stesso tempo, arresta la velocità acquisita, apre la mano e lascia la gomena. Il contraccolpo di questa operazione, così contraria alle precedenti, fa scricchiolare la balaustra fin dento le giunture. Mervyn, seguito dalla corda, somiglia a una cometa che si trascini dietro la coda fiammeggiante. L'anello di ferro del nodo scorsoio, luccicando ai raggi del sole, induce anch'esso a completare l'illusione. Nel percorso della sua parabola, il condannato a morte fende l'atmosfera fino alla riva sinistra, la supera grazie alla forza di propulsione che suppongo infinita, e il suo corpo va a sbattere contro il duomo del Panthéon, mentre la corda stringe in parte con le sue spire la parete superiore dell'immensa cupola. È sulla sua superficie sferica e convessa, che somiglia a un'arancia soltanto per la forma che si vede, a ogni ora del giorno, uno scheletro disseccato che vi è rimasto appeso. Quando il vento lo dondola, si racconta che gli studenti del quartiere Latino, nel timore di una sorte simile, pronuncino una breve preghiera: si tratta di voci insignificanti, a cui non siamo affatto tenuti a credere, capaci soltanto di mettere paura ai bambini. Tiene tra le mani contratte qualcosa come un gran nastro di vecchi fiori gialli. Dobbiamo tenere conto della distanza, e nessuno può affermare, malgrado la testimonianza della propria buona vista, che si tratti realmente di quelle semprevive di cui vi ho parlato, e che una lotta ineguale, iniziata nei pressi dell'Opéra nuova, vide staccare da un piedistallo grandioso. È vero tuttavia
che i panneggi a forma di mezzaluna non vi ricevono più l'espressione della loro definitiva simmetria nel numero quaternario: andate voi stessi a vedere, se non volete credermi. FINE DEL SESTO CANTO
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