Lauren Graham - Un Giorno, Forse

September 9, 2017 | Author: Sophia | Category: Entertainment (General), Leisure
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Il libro

Quante volte Franny Banks, passeggiando sulla Quinta Avenue con gli anfibi e l’uniforme da cameriera, si è detta: Un giorno, forse, camminerò su questa strada con i tacchi alti e il portamento da vera diva. Quando è arrivata a New York, aspirante attrice e aspirante molte altre cose, Franny aveva un piano: sfondare nel cinema nel giro di tre anni. Ora ne sono passati due e mezzo, e le cose non stanno andando esattamente come sperato. La sola parte che ha ottenuto è stata in uno spot pubblicitario di imbarazzanti maglioni natalizi, e gli unici fan sono i suoi due coinquilini. Forse è il caso di trovarsi un piano B, come le consigliano tutti: Franny già si vede mentre torna a casa da suo padre, sposa l’ex fidanzato storico e «si sistema». Eppure, dentro di sé, sa che non è ancora pronta a tradire il suo sogno e non vuole rinunciare a seguire le orme dei suoi idoli: Diane Keaton e Meryl Streep. La svolta arriverà inaspettata, come in una battuta fuori copione: un giorno, durante lo spettacolo di fine corso alla scuola di recitazione, Franny cade rovinosamente sul palco. Sembra la fine della sua carriera mai decollata, e invece sarà il vero inizio. Tra esilaranti avventure sul set, incontri bizzarri, provini assurdi e un amore inatteso, Franny scoprirà che la vita può sorprenderti molto più di un film.

L’autrice

Lauren Graham è l’amatissima protagonista del telefilm Una mamma per amica. Un giorno, forse è il suo romanzo d’esordio: bestseller negli Stati Uniti, ha conquistato la classifica del New York Times e diventerà una serie tv. lauren-online.net/

LAUREN GRAHAM

UN GIORNO, FORSE

Credo che la personalità venga fuori più chiaramente col passare del tempo. MERYL STREEP Recitare è una felice sofferenza. JEAN-PAUL SARTRE

1

«QUANDO è pronta, inizi», avverte la voce dal fondo. Prontissima. Sono anni che aspetto questo momento. L’audizione più importante di una vita: li stenderò tutti quanti, avrò la parte. Il pensiero mi strappa un sorriso e faccio un respiro profondo: testa alta, corpo vigile, ma rilassato. Okay, via. «Iiiihhh.» Il flebile suono che esce dalla mia gola è a metà tra il sibilo di un pallone che si sgonfia e il rantolo di un gatto asmatico che affoga. Tranquilla. Non ti innervosire. Di nuovo. Ehm. «Braaa… urrp.» Ora il tono è basso e roco, la sirena sguaiata di un barcone che approda in porto, con un bizzarro rumore finale simile all’esplosione di un rutto. Braurrp? Quella non è la mia battuta. Non è nemmeno una parola. Oddio, adesso penseranno che ho ruttato per davvero. In realtà era più un gargarismo, non so quale dei due sia peggio. Mi immagino i commenti: Quell’attrice? Al provino ha praticamente ruttato la parte. Be’, potrebbe tornare utile, nel caso in cui il ruolo ne preveda molti. Seguono risate crudeli, telefoni sbattuti in faccia, le pagine del mio book fotografico trasformate in aeroplanini di carta e lanciate verso il cestino della carta straccia. Fine della carriera, kaputt. «Franny?» Non riesco a vedere chi mi sta parlando a causa del riflettore che mi abbaglia, ma posso giurare che c’è una nota di impazienza nel suo tono. Ho il cuore che batte all’impazzata e le mani sudate. Devo assolutamente trovare la voce, o mi diranno di andarmene. O, peggio, verrò prelevata dal palcoscenico con uno di quei ganci giganti che si vedono nei vecchi film. In epoca elisabettiana si usava lanciare uova marce agli attori, se al pubblico non andavano a genio. Non si fa più, vero? Qui siamo a Broadway, almeno credo. Dubito che possano… Il pomodoro mi colpisce la gamba e atterra sulle nude assi del pavimento. Splat. «Franny? Franny?» Apro un po’ gli occhi. Dalla finestra sopra il letto mi appare una giornata di gennaio grigia e piovigginosa: passato Natale ho tolto le tende dopo uno dei miei buoni propositi per l’anno nuovo, quello di essere mattiniera. Le attrici di successo sono persone disciplinate che si alzano presto per concentrarsi sulla propria arte, mi ero detta, anche quelle che si guadagnano ancora da vivere facendo la

cameriera. Avevo incominciato lasciando la sveglia nel corridoio che separa la mia stanza da quella di Jane, coinquilina nonché mia migliore amica, in modo da essere costretta a uscire dal letto per spegnerla. Avevo anche deciso per l’ennesima volta di smettere di fumare, di non perdere più borse, portafogli e ombrelli e di darci un taglio con le patatine al formaggio. Però, ieri, ho già fumato due sigarette e, anche se il sole è coperto, sono ragionevolmente certa che le otto (l’ora in cui mi ero prefissata di svegliarmi) siano passate da un pezzo. Tre giorni di astinenza dai salatini e l’ombrello sempre accanto all’ingresso sono gli unici risultati, finora. «Franny?» Ancora nel dormiveglia mi giro su un fianco e mi accorgo del pavimento di legno rovinato, dove giace una scarpa da ginnastica. Che strano. Credevo di averle lasciate fuori… Ahi! Un’altra vola per aria, colpisce le coperte e rotola via. «Franny? Scusa, è che non mi hai risposto, quando ho bussato.» La voce di Dan è attutita e leggermente tesa, dietro la porta della mia camera. «Non ti ho colpito, vero?» Ahhh, ecco cos’era: la scarpa. Non un pomodoro. Che sollievo. «Ho sognato che me ne tiravano uno!» grido. «Vuoi che torni più tardi?» chiede lui, nervoso. «Entra!» Probabilmente dovrei alzarmi e trarre d’impaccio Dan, ma fa così freddo. Voglio restare a letto ancora un minuto. «Cosa? Scusa, Franny, non sento. Mi hai detto di svegliarti, ti ricordi?» Credo di sì, ma sono ancora troppo intontita per concentrarmi sui particolari. Normalmente mi sarei rivolta a Jane, ma lavora fino a tardi come assistente personale nel nuovo film con Russell Blakely. Dan si è trasferito nella camera da letto al piano di sotto qualche mese fa, e non gli ho mai prestato particolare attenzione, se non per notare che è fin troppo alto, che trascorre ore e ore a scrivere al computer e che sembra avere il folle terrore di imbattersi in una di noi due quando non siamo presentabili. «Dan! Entra!» «Sei presentabile?» Molto di più, perfino per i suoi standard: indosso i pantaloni della tuta e uno smanicato. Li ho infilati in fretta e furia ieri sera dopo che il termosifone ha sputacchiato acqua calda sul pavimento ed è schiattato con un triste sibilo. Ma questo è quello che ti tocca per cinquecento dollari al mese a Park Slope, Brooklyn. Jane e io condividevamo l’appartamento in un palazzo fatiscente con Bridget, un’amica di vecchia data, finché un bel giorno lei era salita sulla sua scrivania nella banca d’affari in cui lavorava per annunciare che non le importava più niente di diventare milionaria entro i trent’anni. «Siete morti che camminano!» aveva urlato. Poi era svenuta, avevano chiamato un’ambulanza e sua madre si era precipitata da Missoula, Montana, per riportarla a casa. «New York», aveva commentato schioccando la lingua, mentre sistemava in valigia gli abiti della figlia, «non è una città adatta alle ragazze.» Così arrivò Dan, che aveva stretto amicizia a Princeton con il fratello di Jane, il quale ci aveva garantito che era innocuo: tranquillo e responsabile, fidanzatissimo

con una compagna di college, Everett. «Ha fatto medicina, ma al momento credo stia cercando di diventare sceneggiatore», aveva aggiunto. Per poi concludere con il punto definitivo a suo vantaggio: «È ricco di famiglia». Né io né Jane avevamo mai avuto un coinquilino di sesso maschile. «Mi sembra molto moderno, non credi?» avevo osservato. «Moderno?» aveva risposto lei alzando gli occhi al cielo. «Ti prego, stiamo per entrare nel 1995. Fuori moda, piuttosto. L’ennesima versione di Tre cuori in affitto: Jack, Janet e Chrissy.» «Janet e Janet», avevo puntualizzato. La mia amica e io siamo simili sotto molti aspetti: brune, ex studentesse modello, abbiamo letto fino allo sfinimento La casa della gioia di Edith Wharton. «Verissimo», aveva sospirato. «Franny?» riprende Dan, dietro la porta. «Non ti sei riaddormentata, vero? Ho promesso che mi sarei sincerato che…» Tiro un respiro profondo e barrisco, con tutta la potenza che mi consente il mio diaframma: «Daaaaan. Vieeeeeeeniiii». Incredibilmente il lato sinistro del suo viso fa capolino dall’uscio. È soltanto quando si è assicurato che fossi coperta da capo a piedi ed è entrato appoggiando goffamente il lungo corpo alla libreria d’angolo, che vengo folgorata da un pensiero. I miei capelli. Non nutro sentimenti romantici verso Dan, ma sono molto presa dai miei indomabili capelli crespi. Ieri sera, dopo aver fatto la doccia, li ho raccolti ancora bagnati con un elastico di velluto verde: una tecnica che, stando alle precedenti esperienze, li ha probabilmente trasformati in uno spaventoso cespuglio intricato mentre dormivo. Nel disperato tentativo di valutare la gravità del mio stato, simulo uno sbadiglio e contemporaneamente stiro un braccio verso l’alto, sperando di sistemare con disinvoltura il disastro. Per una strana ragione, la combinazione dei movimenti mi fa andare qualcosa di traverso e quasi mi strozzo. «È… è così tardi?» farfuglio tra i colpi di tosse. «Be’, ho fatto un salto fuori, quindi non so da quanto tempo ha smesso di suonare la sveglia», dice Dan. «Ma Frank è in piedi da almeno due ore.» Merda. Sono in ritardo. Frank abita nell’appartamento che vediamo dalle finestre sul retro del nostro palazzo. Conduce una vita misteriosa, solitaria, ma scandita da orari ferrei. Si alza alle 8.00, si siede davanti al pc dalle 9.00 alle 13.00, esce a comprare un sandwich, si rimette davanti allo schermo e ci resta dalle 14.00 fino alle 18.30, sparisce fino alle 20.00, poi guarda la televisione e, dopo tre ore esatte, va dritto a letto. La tabella di marcia non cambia mai. Non si è mai visto nessuno andarlo a trovare. Come tutti i newyorkesi nei confronti degli estranei loro dirimpettai, gli abbiamo dato un soprannome, abbiamo fantasticato su di lui e, se vedessimo che gli sta succedendo qualcosa di spaventoso, chiameremmo di certo il pronto intervento. Ma, come ogni abitante della Grande Mela, se lo incrociassi in metropolitana mi girerei dall’altra parte. «Fa un bel freddo, qui dentro», osserva Dan guardandosi intorno da sotto la lunga frangia castana. Ha sempre bisogno di una bella sforbiciata.

«Dan», ribatto mettendomi seduta e tirandomi le coperte fino alle orecchie, «sei così dotato per l’ovvio. E lanci le scarpe talmente bene! Dovresti proporti alla reception del Plaza per un servizio di sveglia personalizzato. New York ha bisogno di te. Davvero.» Lui mi guarda perplesso per un istante, poi scorgo una luce flebile nei suoi occhi. «Ah!» esclama puntandomi contro indice e pollice a mo’ di pistola. «Era una battuta.» «Uh… sì», ammetto imitando il suo gesto. «Era una battuta.» «Lo sapevi, Franny, che la statua davanti al Plaza rappresenta Pomona, la dea romana protettrice di giardini e frutteti, altrimenti detta Abbondanza?» Soffoco uno sbadiglio. «No! Abbondanza? La statua della donna a seno nudo che sta sopra la fontana?» «Sì, ne sono certo. Quando eravamo a Princeton, Everett ha scritto una tesina sul nudo figurativo di rilevanza artistica di Manhattan. Fu giudicata piuttosto audace», aggiunge abbassando la voce in tono complice. Poi ammicca con le sopracciglia. Temo quasi che stia per dire: «Urca!» Dan ed Everett, e il loro comune interesse per il nudo figurativo di rilevanza artistica di Manhattan. La prova che sono fatti l’uno per l’altra, ma a vederli non si direbbe. Ai miei occhi sembrano più due scienziati che rispettano il reciproco lavoro, non due persone innamorate. «Davvero affascinante, Dan. Credo che lo scriverò nel diario. Senti, se non è troppo disturbo, daresti un’occhiata alla sveglia là fuori e mi diresti l’ora esatta?» «Certamente», risponde lui accennando un inchino formale, come un domestico inglese di fine Ottocento. Esce dalla stanza, poi la sua testa spunta di nuovo. «Sono le dieci e trentatré, per l’esattezza.» Qualcosa nelle sue parole mi fa sobbalzare e devo soffocare una strana inquietudine, la sensazione di essere in ritardo per qualcosa. Ma il mio turno nel locale di cabaret dove servo ai tavoli, inizia soltanto alle tre e mezzo. Avevo in programma di alzarmi prima, però non c’è niente per cui sia davvero in ritardo, niente di niente. Almeno, che io sappia. «Un suggerimento, Franny», riprende Dan, serio. «La prossima volta, se metti la sveglia accanto al letto, dovresti riuscire a sentirla meglio.» «Grazie», replico soffocando una risata. «Domani ci provo.» Fa per andarsene, poi ci ripensa e resta impalato sulla soglia. «Sì, Dan?» «Sei mesi a partire da oggi, vero?» dice, e sorride. «Vorrei essere il primo ad augurarti in bocca al lupo. Sono sicuro che avrai successo.» Fa un altro inchino e se ne va, ciabattando nelle infradito numero quarantotto. Mi lascio cadere sul cuscino e per un istante ho la testa beatamente vuota. Poi mi torna tutto in mente. Che giorno è. Il motivo per cui ho chiesto a Dan di svegliarmi. Perché faccio sogni angoscianti di audizioni e provini. Un’ondata di terrore mi si rovescia addosso, mentre i ricordi si affollano: ieri

sera, guardando il calendario annuale della mia agenda, mi sono resa conto che mancano sei mesi esatti allo scadere del patto che avevo fatto con me stessa appena arrivata a New York: mi ero data tre anni di tempo per ottenere qualche risultato, al termine dei quali, se la mia carriera di attrice non fosse decollata, avrei gettato la spugna. Proprio ieri mi sono ripromessa di alzarmi presto, imparare a memoria un sonetto, andare alla proiezione diurna di un film straniero in lingua originale. Insomma, avrei fatto qualcosa, qualsiasi cosa, per migliorare, per cercare con tutta me stessa di non fallire. Scalcio via le coperte e devo affrontare il gelo della stanza. Devo anche svegliarmi, devo alzarmi, vestirmi per… ecco, non so bene per quale motivo, ancora. Potrei andare a correre… correre, sì! C’è tempo, prima di andare a lavorare, e ho già addosso i pantaloni della tuta, quindi non devo nemmeno cambiarmi. Mi sbarazzo delle babbucce con cui ho dormito e infilo un paio di calzini di spugna che trovo in fondo al cassetto, poi recupero una scarpa. D’ora in avanti correrò tutti i giorni, mi dico mentre mi sdraio per terra e, con un braccio sotto il letto, cerco a tentoni l’altra. Mi rendo conto che non c’è alcun collegamento diretto tra la corsa mattutina e il conseguimento di uno qualunque dei miei obiettivi, non credo che Meryl Streep abbia mai attribuito il merito del suo successo alla propria salute cardiovascolare. Ma dubito che qualcuno mi assegni una parte oggi, e probabilmente nemmeno domani, quindi tanto vale mettersi in moto. E non ho intenzione di illudermi, come ho visto fare a tanti. Si comincia con tre anni, che poi diventano cinque, e infine, senza neanche accorgertene, continui a considerarti un’attrice, però passi la maggior parte del tempo in una tavola calda dove hai il tuo armadietto, indossi l’uniforme di poliestere rosa e servi lasagne tiepide a gente che ti chiama Perfavore. Ho fatto progressi, ma non tali da poter affermare con certezza di aver intrapreso la strada giusta, nella vita. Ho impiegato quasi un anno per ottenere l’ambito posto di cameriera al The Very Funny, dove finalmente, grazie alle mance, ho incominciato a guadagnare abbastanza per pagare l’affitto senza l’aiuto di mio padre. L’anno scorso, dopo aver spedito metodicamente foto e curricula a tutti gli addetti ai lavori, sono stata chiamata dall’agenzia Brill. Loro però si occupano soltanto di spot pubblicitari, campo assai precario: a volte non ho audizioni per settimane di fila. Quest’anno sono stata ammessa alla scuola di recitazione di John Stavros, una delle migliori della città. Ma quando mi sono trasferita a New York, mi immaginavo a muovere i primi passi nel teatro d’avanguardia, recitando in qualche produzione Off-Broadway, magari, e non a massaggiarmi le tempie fingendo di aver bisogno di un analgesico. E un risultato all’anno non era esattamente ciò che avevo in mente. Ancora incastrata a metà sotto il letto, devo raccogliere le forze per spingere un pattino seminuovo da una parte. Spazzo avanti e indietro con il braccio, come sulla neve, anche se incontro molta più resistenza là sotto. Mi arrendo un istante e appoggio la guancia contro il freddo pavimento di legno con un sospiro. «Ti rendi conto che gli attori che sfondano davvero si contano sulle dita di una mano?» mi dice chiunque. «Ti serve un piano B.» È un’idea che non mi piace per

niente (l’unica cosa che abbia mai desiderato è recitare) però ne ho uno, perché in fondo non si sa mai: fare l’insegnante come mio papà e sposare il mio fidanzato storico, Clark. Non è una prospettiva tremenda: mio padre rende l’insegnamento della letteratura discretamente affascinante, e nel caso non riuscissi a realizzare il mio sogno a New York, immagino di poter condurre una normale vita felice con Clark in qualche sobborgo dove lui fa l’avvocato e io, be’, qualcosa che mi tenga impegnata di giorno. Al liceo e all’università ho interpretato ruoli di primo piano in molti spettacoli, non è che però possa andarmene in giro per New York a dire: «Lo so che il mio curriculum è praticamente inesistente, ma avreste dovuto vedermi in Hello, Dolly!» Potrei sempre chiedere qualche consiglio a uno dei pochi attori professionisti che frequentano le lezioni di Stavros con me, tipo James Franklin: sta girando con Arturo DeNucci ed è stato scritturato per il nuovo film di Hugh McOliver, ma prima dovrei trovare il coraggio di rivolgergli la parola. La sola idea mi fa tremare le ginocchia: «Scusa, James? Sono nuova e (ansima) e… cavoli, fa un caldo tremendo! Ecco, mi chiedevo se… (ride istericamente, annaspa)… ecco… com’è possibile che uno così pieno di talento sia anche così fantasmagorico? Ahahahahahahah, scusami (ride sguaiatamente, fugge in preda alla vergogna)». Ho soltanto bisogno di una svolta: e per quella mi serve un vero agente. Non uno che mi procuri apparizioni nelle pubblicità, piuttosto uno che mi faccia ottenere audizioni per ruoli importanti. Ruoli recitati, almeno, o un lavoro stabile; qualcosa che giustifichi anni di sacrificio e che possa, un domani, portarmi in qualità di ospite all’Ed Sullivan Theater. La maggior parte della gente sogna di ricevere un premio ai Tony Awards o di pronunciare il discorso di ringraziamento agli Oscar, ma l’Ed Sullivan è il posto preferito di mio padre, in cui mi portava da bambina, quindi per me è più naturale sognare di raccogliere lì i frutti del mio successo. Sei mesi da oggi, penso, e sento lo stomaco contrarsi. Provare a contare ciascun passo che separa la Franny sdraiata sul gelido pavimento della sua camera da letto di Brooklyn da quella sul palco dell’Ed Sullivan Theater mi disorienta. I due eventi sono separati da un baratro che mi dà le vertigini. Guardiamo il lato positivo, almeno simili momenti riesco a immaginarmeli: sono come due fermalibri, anche se i volumi veri e propri che dovrebbero stare in mezzo non sono ancora stati scritti. Finalmente sfioro la punta rigonfia della mia scarpa da ginnastica e spingo la spalla ancora più sotto il letto: affiora insieme con una scatola di vecchie musicassette del liceo, il mio orsetto Paddington senza uno dei suoi stivali gialli e un cappello di paglia con la tesa ornata di fiori di plastica che Jane mi aveva implorato di buttare l’estate precedente. Ficco di nuovo questi logori simboli del mio passato sotto il letto, mi infilo la scarpa e mi preparo per andare a correre.

2

«CI sono due nuovi messaggi.» Biiip. «Salve, sto cercando Frances Banks. Chiamo dall’ufficio della dietologa Leslie Miles. Ho il piacere di informarla che non è più nella lista d’attesa per la lista d’attesa della dottoressa Miles. Ora il suo nome è passato dalla lista d’attesa della lista d’attesa alla lista d’attesa vera e propria. Congratulazioni. La contatteremo entro i prossimi sedici mesi.» Biiip. «Ciao, Franny, sono Heather, dell’agenzia. Oggi vai all’audizione per il detersivo Niagara, giusto? Dov’è il… Scusa, tutte queste carte! Trovato. Volevo sapere un’altra cosa: hai qualche problema con il fumo? Sto cercando di farti entrare nel casting di uno spot per una marca di sigarette destinato alla TV francese, mi pare, o a qualche altro Paese europeo. Comunque, non è che devi fumare davvero. Non penso che… Jenny, deve fumare davvero? No? Bene, quindi devi soltanto tenere la sigaretta accesa tra le dita. È pagato bene, sai, per il rischio eccetera eccetera. Facci sapere!» Biiip. Oggi ho un vero provino e l’appuntamento mi ha aiutato ad alzarmi senza indugi al mio orario ideale, le 8.00 in punto (be’, se si esclude un ritardo di pochi minuti). Ormai il trionfo è alle spalle e ora, davanti allo specchio del bagno, affronto la mia immagine riflessa, nel tentativo di sembrare minacciosa. Sono un matador che sfida il più furioso dei tori, ma ne uscirò vincitrice. Brandendo con una mano il diffusore del phon, affondo l’altra nel barattolo e tiro su un mucchio di tremolante gel verde. Oggi vi domerò con la quantità: vi ho preso alla sprovvista! Beccatevi questa, capelli! Dopo averli asciugati e piegati al mio volere, è la volta del mio minuscolo, stipatissimo armadio. Col tempo, ho capito che i protagonisti degli spot pubblicitari tendono a suddividersi in tre categorie, quindi ho perfezionato tre divise da audizione: casual chic (donna che fa un lavoro d’ufficio: giacca nera con spalline imbottite, camicia), mamma casual (donna che lavora in casa: camicia di jeans o maglione, pantaloni) e sgualdrina (donna che veste da sgualdrina). Sono talmente abituata a scegliere un abito per impersonare qualcun altro che quando ho il giorno libero fatico a vestirmi da me. Non faccio che provare stili diversi, però non so

bene quale sia il mio. Alcune settimane fa credevo di averlo trovato: gitana. Adoro le gonne ampie e i camicioni ricamati, amo i colori vivaci e sono un tipo informale. Così avevo scelto i capi più svolazzanti che avevo trovato nell’armadio e avevo sfilato orgogliosa davanti a Jane. «C’erano i saldi al mercatino?» mi aveva detto dopo un istante di silenzio. «È il mio nuovo look!» «Cioè tipo cantante folk?» «Jane, dico sul serio. Renditi utile.» Aveva piegato la testa di lato, studiandomi attentamente. «Davvero, Franny, quel che mi viene in mente è che sembri pronta per una fiera dell’agricoltura.» Stasera ho lezione, dopo il provino, quindi la tenuta sarà una via di mezzo tra mamma casual e aspirante attrice: maglione nero, calze nere, gonna corta di lana dello stesso colore e le mie Dr. Martens: scarpe non esattamente da mammina, ma ideali per camminare. Ho indossato questo outfit così spesso, finora, che il total black mi appare un po’ noioso, un po’ banale. Cosa farebbe Jane al posto mio? Tiro fuori una grossa cintura di pelle marrone dal ripiano più alto dell’armadio e me la metto lenta sui fianchi. Come tocco finale, pensando al tempo che fa fuori e al prodotto da reclamizzare (Niagara!), prendo una ciocca di capelli in mezzo alla testa e la lego con un elastico di velluto nero. Il telefono in corridoio incomincia a squillare. «Ciao, papà.» «Pronto?» «Sì. Ho detto: ‘Ciao, papà’.» «Franny? Sono tuo padre.» «Ho capito.» «Come facevi a sapere che ero io?» «Te l’ho spiegato. Adesso abbiamo il Caller ID.» «E si può curare?» «Papà. È l’identificazione di chiamata. Vuol dire che compare il numero dell’altra persona.» «Che invenzione orribile. Chi può desiderare una cosa del genere?» «Così sai chi è.» «Perché non limitarsi a un: ‘Pronto, chi parla?’» «Papà. Che c’è? Ho un’audizione.» «Vengo subito al sodo, allora. Tua zia Mary Ellen vuole che ti ricordi di prenotare una stanza per il matrimonio di Katie.» «Oh, me… raviglioso. Grazie, me l’ero dimenticato.» «La cerimonia è a giugno, e se vuoi alloggiare in quell’albergo sulla spiaggia ha detto di prenotare con largo anticipo.» «Va bene, grazie.» «Franny, sono in pensiero per te.» «Perché?» «Be’, in base ai miei primi calcoli, questo sistema di identificazione telefonica potrebbe farti risparmiare tra i venti e i venticinque secondi al giorno. Sono

preoccupato di come potresti impiegare così tanto tempo libero.» «Ah, ah.» «Uno dei miei studenti mi ha parlato del nuovo telefilm, Friends. Pare che stia spopolando. Forse dovresti mandare il tuo curriculum.» «Papà, non è così che funziona. Inoltre non sono abbastanza magra per la TV.» «Nessuno vuole essere davvero magro come quelle ragazze! Sembrano malate. Tu scoppi di salute.» «Non voglio scoppiare di salute.» «Non dire sciocchezze.» «Voglio essere in salute. Però voglio sembrare malata.» «A questo ti è servito studiare i classici», commenta con un sospiro. Mio padre ama la letteratura e la poesia, la musica sinfonica e l’opera. Ha un minuscolo televisore in bianco e nero con la carta stagnola sull’antenna, per potenziarla, e lo accende solo per guardare il notiziario. Non capisce bene che faccio, ma si sforza di tifare per me. L’anno in cui mi sono trasferita a New York mi ha regalato un’agenda in pelle marrone. «Per segnare gli appuntamenti. Ne avrai anche troppi, garantito.» Siamo sempre stati molto uniti, specialmente dal giorno in cui mi è venuto a prendere a scuola perché mamma era morta: frequentavo la prima media, era l’ora d’arte della prof Peterson, e stavo modellando un portacenere d’argilla quando papà mi portò nella sua Volvo scalcagnata. Mamma era morta in uno scontro frontale perché aveva imboccato per sbaglio un senso unico in contromano. È impossibile, avevo pensato. Ma dentro di me sapevo che mi stava dicendo la verità. Per qualche strana ragione, invece di immaginare il viso di mia madre o cercare di ricordare le ultime parole che mi aveva detto, riuscivo a vedere solo la logora copertina bordeaux di Franny e Zooey, di J.D. Salinger, da cui aveva tratto ispirazione per scegliere il mio nome. Probabilmente era sconvolta, visto che prendere un senso unico al contrario non era il tipo di errore in cui poteva cadere la mia intelligente, scrupolosissima mamma, che sapeva cogliere anche i dettagli più insignificanti. «Guarda che meraviglia, Franny», mi diceva davanti a una tazza di porcellana scheggiata comprata per due soldi al mercatino delle pulci. «Guarda il puntino giallo sui petali rosa. Lo vedi?» Così avevo finto che non stava succedendo a me, ma a qualcun altro. Non so se fosse l’inizio del mio percorso di attrice, ma per la prima volta mi ero resa conto che era più semplice pensare a come comportarmi calandomi nei panni altrui, piuttosto che nei miei, e che fingere era un modo per sentirsi meglio. Più o meno. Dopo aver salutato mio padre, mi sembra di sentire Jane al piano di sotto, di ritorno dal set sul quale lavora, il che significa che potrei recuperare qualcosa da mettere sotto i denti prima di prendere la metro. «Mi hanno messo nella lista d’attesa!» le dico scendendo le scale. «Quella della dietologa famosa?» «Sì. Inoltre volevo chiederti se secondo te ho un problema col fumo.»

«Direi proprio di no», replica lei appoggiando un grosso sacchetto di carta sul ripiano del forno, che nessuno ha mai usato. Indossa un impermeabile di seconda mano e i soliti enormi occhiali da sole vintage con la montatura rossa. Jane è cresciuta nel Greenwich Village e ha stile da vendere. Mentre io sto lì a pensare se abbinare una camicetta nera a un paio di pantaloni dello stesso colore, lei si infila un paio di blue jeans e una maglietta, mette al polso una manciata di vistosi braccialetti e mi guarda come per dire: Visto? Che ci vuole? Compra nei grandi magazzini e nei negozi di seconda mano, eppure fa sembrare costoso tutto ciò che indossa. «Un attimo! Jane Levine, non sei rimasta a lavorare fino a ora, vero?» le dico in tono interrogativo sbirciando nel sacchetto. «Possono farlo?» «Possono fare qualsiasi cosa. Non ho la tessera del sindacato.» Si appoggia con aria melodrammatica allo stipite della porta che separa la cucina dalla camera di Dan e porta languidamente una mano alla fronte. «Questo film», sospira. «Non so se sopravviverò. Russell mi ha mandato a prendere un sandwich lattuga e pomodoro da McDonald’s alle quattro del mattino. Quello a Times Square era chiuso per un servizio fotografico, ma ne ho trovato un altro aperto a Midtown, e adesso Russell mi porta in palmo di mano. Questa mattina, a riprese concluse, ha invitato me e altre due o tre ragazze nella sua roulotte. Abbiamo bevuto dei Mimosa!» Sfodera un sorriso entusiasta. «Credo di essere ubriaca!» Jane sta cercando di diventare produttrice, il che è fantastico, perché è davvero in gamba; inoltre è una che ispira fiducia e sembra sempre avere la risposta pronta anche quando in realtà non sa niente. Nel frattempo, fa l’assistente di produzione del nuovo film con Russell Blakely, Kill Time. A quanto pare, trascorre la maggior parte del tempo a portargli il pranzo, svolgere piccole mansioni da fattorino e sopportare i capricci da primadonna dell’attore. Ogni volta che mi parla di Russell Blakely, mi viene in mente la sua battuta più famosa, quella tratta dal suo ultimo film, Steel Entrapment, quando dice a Cordelia Biscayne: «Tesoro, sono a casa», reggendosi al carrello di un elicottero con una mano, a petto nudo. «Menu del giorno: un assortimento di bagel lasciati sul tavolo del buffet (purtroppo non accompagnati da crema al formaggio) e quella roba cinese col riso che Dan adora, a mio avviso non del tutto disprezzabile.» «Bagel, grazie. E un parere sul mio look, ammesso che tu riesca a vedere qualcosa, dietro quelle lenti.» «Lo sai. Sono una professionista.» Jane abbassa gli occhiali sul naso e mi studia attentamente. «Allora, ovviamente si tratta di un look che ho già visto. Ma oggi è come se mi stesse parlando; anzi, mi grida in faccia la sua fortissima personalità. Mi sta dicendo: Sono una casalinga felice che adora la casa, che si dedica anima e corpo alla sua famiglia e lucida i pavimenti con un ardore che si è visto di rado, nell’emisfero occidentale.» «Fuochino. Ho un amore folle per i panni da bucato.» «Ah. Detersivo per lavatrici! Sei perfetta, hai un’aria così pulita! Sto per cedere all’irresistibile impulso di precipitarmi in lavanderia. Il viso! Familiare, e insieme

una ventata di aria fresca, e i capelli sembrano finalmente domati!» «Grazie, Jane.» «Tuttavia, lascerei perdere la cintura.» Abbandono il mio infelice contributo alla moda sul corrimano della scala e senza un particolare motivo decido di fare un ingresso teatrale in salotto, dove Dan sta lavorando, mettendomi in posa in mezzo alla stanza come una valletta di Ok, il prezzo è giusto! che mostra un nuovo premio. «Dan? Non ho l’aria di qualcuno che indossa abiti lavati di fresco?» «Mmm?» fa, senza alzare lo sguardo. Fallito il mio approccio iniziale, decido di tentarne uno ancora più plateale. «Dan», insisto nella posa ieratica di un sarcofago egizio, «Jane è a casa. Si mangia.» «Grmmmh…» borbotta, continuando a scrivere come un ossesso sul bloc-notes. Alla fine gli batto le mani davanti al naso. «Dan, emergenza! Hai la patta dei pantaloni aperta!» «Cosa?» mi chiede alzando finalmente lo sguardo e scostando la frangia dagli occhi. «Scusa, Franny, è che questi Photar mi stanno dando del filo da torcere.» Sta scrivendo la sceneggiatura per un film di fantascienza con cui vuole partecipare a un concorso. Sono sicura che vincerà. A Princeton era uno studente brillante e nessuno al mondo è più fissato di lui con gli extraterrestri. Quando cerca di descrivermi la trama, mi ritrovo a contare le assi del pavimento, e insieme a paragonare i vantaggi della crema di formaggio alle verdure con quella all’erba cipollina, ma sono certa che sia meglio di come sembra. «Che ne pensi della mia acconciatura? Sto facendo un sondaggio.» Questa volta la mia domanda è sottolineata da un bizzarro passo di danza e da un gesto lezioso. Mi odio. Qualcuno mi fermi. «È… grossa?» azzarda fiducioso. «Come?» «Ecco, è il risultato che volevi ottenere, giusto? Una roba grossa con una specie di fontana di riccioli in cima.» Dalla cucina arriva uno pseudonitrito, come se a Jane uscisse il succo d’arancia dal naso. Peggio ancora, mi accorgo che, in attesa della risposta di Dan, ero rimasta immobile in quella ridicola posa da recita di scuola, coi palmi in su. Mi arrendo e abbasso le mani lungo i fianchi. «Sì, una fontana di riccioli era proprio il risultato che speravo di ottenere. Grazie, Dan.» Sono sulla Settima Avenue e, mentre percorro i sei isolati che mi separano dalla fermata della metro, prendo una decisione: devo smettere di cercare l’approvazione di chiunque, indiscriminatamente. Incluse le persone con cui sono cresciuta e che vedo quando torno a casa per il Ringraziamento; quelli che hanno un qualsiasi lavoro vero, specialmente se richiede tailleur o tacchi a spillo; i miei compagni di corso; i commessi di Barneys; gli sconosciuti che incontro sulla metropolitana; i

tassisti che hanno da ridire sulle mie indicazioni; gli addetti della gastronomia sull’Ottava dove a volte chiedo una porzione extra di maionese; le madri altrui; gli insegnanti di danza, gli istruttori di aerobica o quelli che di solito indossano (o mi hanno visto indossare) la calzamaglia, e fricchettoni che scrivono di strane creature chiamate Photar. Non devo cercare l’approvazione di tutti, anzi, non devo cercare l’approvazione di nessuno. Le attrici dovrebbero essere equilibrate e sicure di sé, come Meryl Streep e Diane Keaton. Dovrei essere più originale e distinguermi dalla massa, proprio come loro. Potrei incominciare a portare cravatte da uomo! Dietro lo sportello, la donna che vende i gettoni per la metro mi scruta diffidente. Mi conosce perché pago il biglietto da un dollaro e venticinque con gli spiccioli, anche con vere e proprie montagne di monetine. Non è un momento di cui vado particolarmente orgogliosa, quello in cui blocco la fila mentre lei conta i miei penny, uno alla volta. Oggi, però, ho le banconote. Ci scambiamo un cenno di intesa, come se la vita potesse riservarci per questo un futuro migliore. Metto il gettone nell’apposita fessura e mentre aspetto la metro decido di impiegare il tempo pensando solo a ciò che è bello, nella speranza di prefigurare un esito positivo per la mia imminente audizione. Ho letto da qualche parte che essere positivi è un’attività molto potente e che bisognerebbe allenare la mente, invece di stare a rimuginare se si hanno abbastanza soldi sul conto per prelevare venti dollari o se verrà mai un giorno in cui la tua vita non sarà misurata in prelievi da venti dollari. Pensa positivo. Pensa positivo. Non è sempre così facile. Mmm. Da qualche parte dovrò pur cominciare. Risultati. Cose positive nella mia vita, ora. Mmm. Sono viva. Partiamo dall’ovvio. Mi pare un buon inizio. Ho trascorso delle belle vacanze con Clark. Non è un risultato, a voler essere precisi, ma è comunque un ricordo piacevole. Ci siamo conosciuti a un corso di orientamento per matricole e da quel giorno siamo diventati inseparabili. Chi all’epoca ci ha conosciuto ha creduto che un giorno ci saremmo sposati. Non ne abbiamo mai parlato seriamente, ma sono certa che è stato anche il nostro pensiero. Dopo il college Clark era stato ammesso alla scuola di specializzazione di legge a Chicago, non alla Columbia, qui a New York, come avevamo progettato. Mi aveva chiesto di partire con lui, di andare a vivere insieme. «A Chicago c’è una scena teatrale molto vivace», insisteva, ma non avevo avuto la forza di rinunciare a New York, non prima di averci almeno provato. Così avevamo stretto una specie di patto: ci saremmo presi una pausa e avremmo tirato le somme una volta terminata l’università. Ecco spiegato il motivo dei tre anni: avevo pensato che se

Clark poteva prendere una laurea in legge in quell’arco di tempo, anch’io avrei avuto la mia opportunità di fare reali progressi. Da allora sono uscita con qualche ragazzo e probabilmente lui ha frequentato altre ragazze, ma sono storie senza importanza. E quando ci vediamo, è come se il tempo non fosse passato. Alla fine ci sposeremo, lui lo sa, non fa che ripetermelo. «Sei sicura di non voler venire con me adesso?» mi ha chiesto l’ultima volta, in aeroporto. «Io, ecco… non ancora.» «D’accordo.» Poi ha aggiunto, ammiccando: «Chiamami, quando cambi idea». A volte, quando le mance sono scarse e i piedi mi fanno male, mi chiedo perché continuo a rimandare l’inevitabile. Mi chiedo perché non prendo quel dannato telefono e mi trasferisco a Chicago, invece di continuare a ostinarmi in un’impresa che ha meno del cinque per cento di probabilità di successo. Eppure, non so perché, non lo faccio. Per quanto stia bene con Clark, quando lo vedo ho le idee confuse. Mi manca, mi manca molto e… Merda. Pensare positivo può essere molto difficile, a volte. Basta abbassare la guardia un istante, e senza accorgertene ti ritrovi a rimuginare e a macerarti. Vorrà dire che restringerò il campo a quanto di bello mi è successo in ambito lavorativo. La mia vita personale non mi è di alcun aiuto. Sono venuta a New York per fare l’attrice: non la fidanzata né la persona felice. Cose belle in ambito lavorativo. Dunque… Almeno un ingaggio l’avevo avuto. Prima del Giorno del Ringraziamento, subito dopo che Dan si era trasferito in casa nostra, mi avevano dato una parte in un breve spot trasmesso da reti locali per un negozio di abbigliamento chiamato Sally’s Wear House. Si trattava di una pubblicità natalizia che sarebbe andata in onda per un tempo limitato, nella quale gli attori indossavano maglioni ingombranti in materiale acrilico e rafia. Il mio aveva un motivo a losanghe bianco e grigio, spalline imbottite, collo e polsini bordati di pelliccia bianca. Dovevo guardare l’obiettivo con aria estasiata e dire: «Che bello». In un’altra scena saltellavo gridando: «Sogno un bianco Natale!» Poi alzavo lo sguardo verso un punto indefinito ed esclamavo: «Ohhh, sta nevicando!» Per festeggiare, eravamo andati tutti e tre in quel ristorantino cinese di cui non ricordo mai il nome. La pubblicità era andata in onda alcune settimane dopo, mentre eravamo seduti a guardare Law & Order; all’inizio ci eravamo messi a strillare eccitati, poi Jane aveva cominciato a rotolarsi per terra dalle risate. Non in modo cattivo, soltanto non riusciva a credere che riuscissi a sembrare felice con quell’orrendo maglione addosso. Fu uno choc vedermi in televisione. Nessuno aveva pensato di infilare una cassetta nel videoregistratore, e in pochi secondi tutto era finito. Quel che ricordo è che il mio viso pareva una luna piena e sembravo molto più alta dell’altra ragazza. «Ma sono enorme!» avevo detto coprendomi il viso e sbirciando tra le dita.

«Non lo sei», mi aveva rassicurato Jane cercando di riprendere fiato, tra una risata e un colpo di tosse. «Sei un’attrice strepitosa, ecco la verità. Ci sono cascata in pieno: ho creduto che adorassi davvero quell’orribile maglione in lana di topo.» «I fiocchi di neve hanno aggiunto un’aria così finta», avevo osservato, ancora sconvolta. «Tu però eri fantastica. Davvero irresistibile.» Poi, finalmente, si era levata la voce di Dan: «Quindi si tratta di una pubblicità di abbigliamento invernale?» «Sì, Dan», aveva replicato Jane lanciandomi un’occhiata. «Credo che siamo unanimemente d’accordo nell’affermare che ciò che abbiamo appreso in questi trenta secondi è che si trattava di una pubblicità di abbigliamento invernale.» Dan aveva annuito assorto, poi aveva sorriso. «Be’, Franny, mi ha colpito. Era molto natalizio. Eri il volto del Natale, Fran.» Ma come si fa a dire a qualcuno che è il volto del Natale? Jane e io ci eravamo scambiate uno sguardo e avevo incominciato immediatamente a formulare una risposta sarcastica, come faccio ogni volta che mi rivolgono un complimento. Tuttavia, qualcosa nel suo tono sincero mi aveva fermato, e per una volta nella vita mi ero limitata ad annuire e ad arrossire, tenendo la bocca chiusa. Per quello spot guadagnai settecento dollari, la somma più cospicua che abbia mai visto su un unico assegno. Ma da allora non ho avuto altri ingaggi. Probabilmente era un fuoco di paglia. Probabilmente non lavorerò mai più. Pensa positivo. Dunque… Quel lavoro l’ho ottenuto. E oggi ho la possibilità di ottenerne un altro. Ecco fatto. Quando la metro arriva, mi siedo e faccio un bel respiro. La linea D, tra Brooklyn e Manhattan, è una delle mie preferite, perché a un certo punto il treno sbuca all’esterno e attraversa il fiume accanto al ponte di Manhattan. A volte mi metto le cuffie e ascolto un po’ di musica, altre compilo il cruciverba del New York Times e altre ancora leggo, ma qualunque sia il mio passatempo in quel momento, non dimentico mai di guardare fuori dal finestrino, anche solo per un istante, mentre il treno attraversa l’East River prima di tuffarsi di nuovo nelle viscere della terra. È soltanto un gesto scaramantico, ma osservare il fiume, le barche, l’enorme cartello a caratteri cubitali rossi con la scritta WATCHTOWER, è un rito che mi ricorda che sono piccola, che sono una delle migliaia, anzi dei milioni, di persone che hanno guardato il fiume prima di me, da una barca o da un’auto o dai finestrini della linea D; che sono arrivate a New York con un sogno, che l’hanno realizzato oppure no, ma che comunque hanno fatto lo stesso sforzo che sto facendo io ora. Mi aiuta a vedere in prospettiva e, per quanto sembri strano, mi dà speranza.

3

NEL posto in cui si tiene il casting del detersivo per lavatrici Niagara c’è uno di quei vecchissimi e claustrofobici ascensori di New York che si muove così lentamente da sembrare fermo, e sono incastrata all’interno con due che hanno l’aria di essere attori in erba accompagnati dalla madre. Sono gemelli, credo, un maschio e una femmina, con i capelli rossi e le lentiggini. La bambina mi rivolge un sorriso raggiante che deve aver perfezionato allenandosi ore e ore allo specchio. Rigira una grossa ciocca lucente intorno a un dito. «Bei capelli», le dico. «Dormo su un cuscino speciale di seta così i boccoli non si schiacciano», mi spiega sorridente. «Fantastico», rispondo sorridendole a mia volta, nonostante non possa competere con la sua radiosità. «Volete premere il bottone per me, bambini? Vado al quarto piano.» «Lo faccio io!» si offre il bambino. « No! Io!» replica la sorella dandogli una leggera spinta. «È me che hanno chiamato.» Il bambino si fa da parte e sorrido comprensiva alla loro madre, ma lei sembra ipnotizzata da una macchia da qualche parte sopra la mia testa, così decido di concentrarmi sui lacci delle scarpe e sopporto il resto dell’interminabile, cigolante salita in silenzio. Anche nei migliori ascensori il tempo può scorrere con inesorabile lentezza. Quando arriviamo la sala d’aspetto è affollata, il che significa che ci devono essere diversi provini. Ci sono bambini e bambine dell’età dei gemelli dell’ascensore; un paio di uomini sulla cinquantina, entrambi in giacca e cravatta; e diverse ragazze che mi somigliano, ma in una versione migliore, più elegante. L’interprete di Franny nell’ipotetico telefilm sulla vita della vera Franny. Mi registro. Nome Ora dell’arrivo Ora del casting Agenzia Numero di Previdenza sociale Mentre riempio le minuscole caselle del foglio dell’iscrizione, scruto la parte già

compilata come un detective alla ricerca di indizi. Sto cercando di capire quante persone hanno già visto oggi, se qualcuna la conosco, se sono della mia stessa agenzia, se sono arrivate puntuali e se hanno una grafia più bella della mia. Qualsiasi cosa faccia in modo diverso da me chi ottiene un lavoro. Se il mio appuntamento fosse stato cinque minuti prima, avrei avuto io la parte? Se avessi disegnato una faccina sorridente al posto della «o» in Penelope, come la persona che si è iscritta prima di me, lavorerei di più? Se fossi stata la prima a sostenere il provino, invece della decima, avrei… «Franny? Sei proprio tu? Ti chiami Franny, vero?» Vorrei sprofondare. Mi hanno scoperto. Mollo la biro più velocemente di quanto avrebbe mai fatto una persona con la coscienza pulita e alzo lo sguardo. «Franny Banks, vero? Sei alle lezioni di Stavros? O mi è andato il cervello in pappa?» La ragazza di fronte a me scoppia a ridere; anzi, si piega in due dalle risate come qualcuno che potrebbe avere davvero il cervello in poltiglia, e continua a ridere a un volume tale che è evidente che non le importa affatto di attirare su di sé l’attenzione di tutti i presenti. Non l’ho mai vista prima e non so come faccia a conoscere me o il mio insegnante, ma quel che mi colpisce di lei sono i capelli, incredibilmente lunghi, lucidi e biondissimi. Inoltre è minuta, come una bambola che ha preso vita o una persona in atteggiamento da bambola, con le mani in avanti, le dita affusolate e protese a reggere un’infinità di oggetti diversi, e i piedi inarcati, pronti a calzare un intero corredo di scarpette di plastica di mille colori. Indossa così tanti braccialetti d’oro tintinnanti che il suo esile polso sembra in procinto di spezzarsi da un istante all’altro sotto il loro peso. Nonostante sia una cupa giornata di gennaio, indossa jeans bianchi che le calzano alla perfezione e le arrivano giusti giusti alle caviglie, come Mary Tyler Moore nel Dick Van Dyke Show, speciale Tropici. «Uh, sì, sono io. Sono Franny.» Mi sembra di sovrastarla. All’improvviso mi sento goffa, come se mi avessero dotato di un braccio in più per sbaglio senza sapere che farmene. «Oddio! Penserai che sono una grandissima maleducata. Ciao! Sono Penelope Schlotzsky. Lo so, è un nome orribile, vero? Probabilmente mi chiederanno di cambiarlo.» Ride di nuovo e lancia la cortina di capelli di lato, in modo che le ricadano tutti su una spalla. Mi sembra quasi di sentire lo spostamento d’aria. Sono a corto di argomenti, situazione che mi capita di rado. Voglio soltanto s apere chi le chiederà di cambiare nome e se queste persone hanno qualche consiglio da darmi in merito a quel che dovrei cambiare di me stessa. «Sono la nuova!» strilla, prima che io possa reagire. «La settimana scorsa è stata la mia prima lezione, ma ero seduta in fondo, tipo paralizzata dal terrore, quindi non ero sicura che fossi tu, o qualcuna che ti assomiglia, ma dovevo, dovevo buttarmi e venire a salutarti perché, ti giuro, sei stata, be’, sei stata la migliore. Uno spasso. Mi hai fatto morire dal ridere. Li stenderai tutti, allo spettacolo di fine corso.» Stavros non incoraggia questo tipo di discorsi tra i suoi studenti. «Pacino o De Niro?» commenterebbe. «Non perdete tempo a fare paragoni. Concentratevi su di

voi.» E mentre sono segretamente lusingata dai suoi complimenti, l’accenno alla performance di fine anno (strombazzato ai quattro venti) mi fa l’effetto di un pugno nello stomaco. Mancano due settimane esatte e ci lavoriamo da mesi: è l’unica opportunità che abbiamo di essere presi in considerazione da agenti, registi e professionisti del settore, che vengono a vederci perché rispettano Stavros e sanno che ha fiuto per il talento. È una serata in cui tutto (o qualcosa, se non altro) può succedere. L’anno scorso, Mary Grace è entrata in un musical di Broadway proprio grazie allo spettacolo e altre due persone hanno trovato un agente, ed è proprio così che James Franklin ha ottenuto il provino che alla fine lo ha portato al film di Arturo DeNucci. È l’esempio migliore di quel che potrebbe accadere. Lui, però, è un attore fantastico: non potrei mai sperare in qualcosa di così clamoroso. Voglio soltanto un agente, o anche solo un appuntamento con un agente. Non mi concedo di sperare nient’altro. «Caspita, grazie!» rispondo. «E benvenuta. Vedrai, ti innamorerai di Stavros.» Sono sincera, tuttavia nella mia voce risuona una nota falsa. Sto cercando di eguagliare il suo entusiasmo, ma con meno vigore, e la combinazione mi fa sembrare finta, come una di quelle signore che vendono pantaloni elasticizzati in TV. Sono così comodi. Non vi accorgerete nemmeno di indossarli. «Oh, Stavros è il migliore!» dice Penelope estasiata. «Sexy da morire, non trovi?» Il nostro insegnante di recitazione è molto attraente, è vero, ma sentirla parlare di lui in questi termini, come se fosse uno di noi, mi mette a disagio. Mi sembra una mancanza di rispetto. «Be’, quando parla è travolgente», è il massimo che riesco a ribattere per assecondarla. «Vero! Così pieno di ardore! Non riesco ancora a credere di essere entrata, soprattutto perché di solito non prende nessuno a pochi giorni dallo spettacolo. Ma immagino che si sia detto: Be’, in fondo ha già un agente alla Absolute e due film in uscita, quindi, perché no, è soltanto l’ennesimo stupido grissino da gestire!» Questo è esattamente il tipo di disinvoltura che ti aspetti da un’attrice, suppongo. Cioè, personalmente non urlerei ai quattro venti che la mia agenzia è la Absolute Artists, la migliore della città, né parlerei dei film che ho fatto, o mi riferirei a me stessa come a uno «stupido grissino», soprattutto ad alta voce e in una stanza piena di gente. Ma d’altra parte, nel mio caso, niente di tutto ciò corrisponderebbe a verità. «Quindi dopo questa tortura andrai a lezione?» mi chiede scostando una ciocca di capelli scandalosamente bionda dal viso. «Ti va di mangiare un’insalata insieme, prima, in quella tavola calda sull’Ottava?» Insalata. Come no. Dovrei mangiarne di più. Ma non mi attira per niente. Anzi, avevo già intenzione di andare in «quella tavola calda» sull’Ottava a consumare la mia consueta cena pre-lezione: formaggio alla griglia, patatine e le parole crociate del New York Times . Ma per qualche ragione mi ritrovo a cercare un pretesto per rifiutare l’invito. «Oh, mi dispiace, non posso. Ho… ecco… un altro casting, dopo questo.» La bugia esce prima che io possa anche solo prendere in considerazione l’idea di

fermarmi in tempo. Se Penelope mi chiede qualcosa sul prossimo casting, mi coglierà completamente impreparata. Magari posso riciclarne uno di qualche settimana fa, ma che succede se c’era anche lei? Per fortuna sembra non importarle granché. «Ottimo!» esclama dandomi una pacca sulla spalla. «Sei perfetta per gli spot pubblicitari. Io faccio pietà. Sono un fiasco totale», urla. Non so perché, ma ne dubito. Anzi, dubito che la parola «fiasco» faccia parte del suo vocabolario. E qualcosa, nel modo in cui mi dice che sono perfetta per gli spot pubblicitari, mi fa gelare il sangue nelle vene. È l’unica spiegazione per quello che mi esce di bocca l’istante successivo. «Già, e a dire il vero, subito dopo, ho delle prove.» Alzo gli occhi al cielo, come per dire: è la mia routine. Un’estate, in campeggio, cercarono di insegnarmi lo sci d’acqua. Rimasi dritta due secondi, prima di cadere. Dimentica di quello che mi avevano spiegato, mi aggrappai alla fune e fui trascinata, sobbalzando sulla superficie del lago finché il conducente finalmente non se ne accorse e spense il motore della barca. È la sensazione che sto provando in questo preciso momento, mentre le bugie si accavallano l’una sull’altra e non riesco più a fermarmi. «Casting e prove!» esclama Penelope come se avesse appena incontrato i suoi due migliori amici di sempre. «Non è aberrante?» «Certo», le dico. «Aberrante.» «Facciamo la prossima volta, allora. Mi ha fatto piacere conoscerti», conclude stringendomi la mano, mentre i braccialetti d’oro tintinnano rumorosamente. «Ci si vede in scena!» Ride e mi saluta con un cenno della mano, un gesto rivolto a me ma che pare includere anche l’intera stanza. Carisma, penso. Ecco quel che succede, quando una persona dotata di carisma entra in una sala piena di estranei. Ipnotizzati, guardiamo Penelope e le sue sottili gambe fasciate di bianco scomparire lungo il corridoio. Dopo che se ne è andata mi sento un po’ depressa, ma non so perché. Anche gli altri sembrano accusare il vuoto che ha lasciato, come se fossero disorientati, confusi. La fissano mentre si allontana, col cuore gonfio di nostalgia, come se sentissero già la sua mancanza. Lentamente si rendono conto che non tornerà, così uno alla volta tornano a leggere, a sfogliare il giornale o a studiare le battute dello spot: una cosa che avrei già dovuto fare da un pezzo. Basta bugie, penso. Perché ho declinato l’invito di Penelope, se si esclude il mio rapporto di amore-odio nei confronti delle insalate? Perché è il tipo di persona che usa la parola «aberrante» per fare la colta? Ora mi toccherà andare nella peggior tavola calda della Sesta Avenue, due isolati più lontano, e spendere molto di più. Concentratevi su voi stessi. In quell’istante decido di diventare amica della bionda. Mi vedo mentre la sostengo e la incoraggio, applaudendo fragorosamente dopo ogni scena che recita a lezione. Sarò cortese, gentile, mangerò più insalata. «Frances Banks, tocca a te.» Una ragazza dall’aria annoiata con un paio di occhiali anni Cinquanta, un abitino baby-doll e un paio di anfibi legge il mio nome dall’elenco degli iscritti.

Merda. Credevo di avere più tempo. Non ho nemmeno dato un’occhiata alle mie battute, neanche a una parola. Sarei dovuta arrivare prima e non sprecare nemmeno un minuto a chiacchierare. Invece me ne sono stata lì ad ascoltare i complimenti di Penelope, provando invidia per i suoi capelli, quando avrei dovuto concentrarmi. Non posso permettermi di sprecare un’opportunità. Ho il cuore in gola, mi manca l’aria. «Pronta?» mi chiede, con una smorfia svogliata che dovrebbe essere un sorriso. «Sì. Assolutamente. Prontissima.» In questo momento sarei la persona più indicata per gestire la scena di un incidente o per effettuare una rianimazione cardiopolmonare. La persona giusta per eseguire una manovra di Heimlich su uno che sta soffocando al ristorante. Perché nei momenti di crisi sono molto, molto calma. Così, mentre la ragazza mette la pellicola nella Polaroid, lancio un’occhiata veloce alle battute, a sangue freddo, mi concentro sul testo e ignoro le indicazioni di sceneggiatura. Non mi sarebbero comunque di molto aiuto, in uno spot come questo, è roba tipo: Inala il profumo inebriante del morbido asciugamano. Mai che dicano: Respira con la bocca a causa del tizio sudato che ha monopolizzato l’asciugatrice della lavanderia a gettoni. Allora, le battute. «Profumare come un fresco giorno di primavera… Farsi travolgere dalle cascate… Niagara: tutta la freschezza della luna di miele racchiusa in un flacone.» Non le ho memorizzate alla perfezione, ma andrà bene. Per fortuna non sembra materiale particolarmente originale. Una volta tanto, sono sollevata di dover sostenere un provino per lo stesso dozzinale spot pubblicitario come ho già fatto fino alla nausea. Tiro un respiro profondo mentre Miss anni Cinquanta mi scatta una foto sullo sfondo di una nuda parete bianca, per poi allegarla al mio book in modo che chi deve selezionare gli attori possa vedere che aspetto ho davvero, prima del trucco. La seguo nella stanza dove si tengono i provini: il pavimento è ricoperto da moquette, non ci sono finestre ed è completamente spoglia, a eccezione di due sedie e un carrello da ufficio con un televisore e un videoregistratore. Su un cavalletto c’è una videocamera, girata verso un segno sul pavimento che indica il punto in cui dovrei stare. Di fronte a me, a pochi metri di distanza, siedono due donne. Entrambe passano i trenta e sfoggiano la stessa pettinatura con capelli lisci come spaghetti e la riga in mezzo. Anni Cinquanta inserisce una cassetta nella videocamera e accanto all’enorme lente nera si accende una lucina rossa. Sembra una terza persona nella stanza, che non parla né sorride, che si limita a fissarmi senza battere ciglio, senza mai distogliere lo sguardo. «Ciao, Franny, come va, alla grande? Grande. È davvero grandioso conoscerti», cantilena Spaghetto numero uno senza alzare lo sguardo. «Se non hai domande sul prodotto puoi dirci come ti chiami e qual è la tua agenzia e cominciare quando ti senti pronta. Grazie mille.» Cerco di deglutire, ma ho la gola secca. In stanze come questa non è facile rompere il ghiaccio. Se avessero voglia di parlare, potrei buttare lì un paio di battute, creare un legame e temporeggiare, in modo da calmarmi. Ma queste tizie sono tutte lavoro, nient’altro che lavoro.

Guardo il foglio. Non ho intenzione di farmi prendere dal panico o di chiedere altro tempo o dir loro che non ho avuto modo di memorizzare le battute. Manterrò la calma, come una vera professionista. Cosa vuole più di qualsiasi altra cosa il tuo personaggio? ci chiede sempre Stavros. Biancheria pulita, mi dico. La cosa che desidero di più al mondo è ottenere un bucato sempre più bianco. Cerco di respirare, ma riesco a inspirare soltanto una minuscola molecola di ossigeno. «Sapete che c’è di difficile, nel mestiere di mamma? Niente.» Biancheria pulita. Sorrido come se avessi la situazione sotto controllo. Il bianco più bianco è ciò che desidero di più al mondo. «Ho sempre tempo per i miei bambini. Vengono sempre al primo posto.» Mi rilasso un po’ e penso a un bambino di nome George a cui facevo da baby-sitter al liceo. Gli piaceva il solletico e non sapeva pronunciare bene il mio nome. «Ho sempre tempo per i miei amici. È tutta questione di equilibrio, sapete?» Spaghetto numero uno e numero due ridacchiano. Almeno credo. O è soltanto frutto della mia immaginazione? Non sento bene, il sangue mi pulsa nelle orecchie. Decido di pronunciare le battute con più enfasi, in modo che sappiano che considero il bucato una faccenda tremendamente seria. « Ho sempre tempo per me stessa. Profumare come una fresca giornata di primavera rende la vita un gioco da ragazzi.» Adesso stanno proprio ghignando, non c’è dubbio. Devo essere stata davvero pessima. Cerco di concludere con un colpo di coda, per mascherare la mia delusione. Il mio bucato è il più pulito del mondo! «Quando mio marito mi chiede come faccio, gli rispondo: ‘È semplice!’ Ogni giorno penso alla nostra luna di miele, alle cascate del Niagara, e mi faccio travolgere dal suo ricordo impetuoso. Niagara: tutta la freschezza della luna di miele racchiusa in un flacone.» Abbasso il foglio e le osservo, sconfitta, ma vedo che sorridono. Anzi, sono raggianti. Si guardano e annuiscono. Non ci sto capendo niente. «Fantastico!» esclama una delle due. «Esilarante.» «Davvero, ottimo lavoro.» «Molto originale!» Non ho idea di come mai sia piaciuta, ma so che devo assecondarle. «Grazie!» replico, e poi, senza un motivo particolare: «Volete che apporti qualche modifica?» Stupida, stupida. Non chiedere di ripeterlo, se non sai nemmeno cos’hai appena fatto, penso. «Mmm…» Mi osservano con il capo leggermente piegato da una parte come due cuccioli nella vetrina di un negozio di animali. Poi si guardano con aria di intesa. «Perché no, giusto per divertimento!» «Sì! Non fraintenderci, è stato forte! Ma stavolta lasciati andare!» «Però mettici tutto il tuo impegno, come prima.» «Sì! Concentrata ma disinvolta, come se stessi chiacchierando con la tua migliore amica.» «Sì! Come se ti stessi confidando con la tua amica del cuore.»

«Sì! Le stai rivelando un grande segreto, ma non è importante. Insomma, è un segreto, però allo stesso tempo è una roba da niente.» «Sì! Con naturalezza.» «Sì! Però mettici tutto il tuo impegno.» «Sì! E per favore, ti faresti una coda di cavallo?» «Sì!» La seconda volta ho le idee ancora più confuse, ma Spaghetto numero uno e numero due ridono di gusto. «Credo che sia più divertente con i capelli sciolti, che dici?» domanda Spaghetto numero uno, e Spaghetto numero due annuisce entusiasta. Quando esco, infilo distrattamente il foglio con le battute nella borsa e mi precipito verso l’ascensore. Vago senza meta per un paio di isolati. Sono così entusiasta all’idea di essere piaciuta a quella gente, che mi sento euforica e disorientata. Alla fine rallento e mi ritrovo a Union Square Park, dove decido di fermarmi a sedere e riflettere su quello che è appena successo. Devo capire perché hanno pensato che andasse bene. Una sigaretta. Non so quanto darei per una sigaretta. Dovrei averne una da qualche parte in fondo alla borsa. Lo so per certo, perché ho finto di dimenticarmene, ma in cuor mio so benissimo che esiste. Recupero il pacchetto, ma non trovo l’accendino. Continuo a rovistare nella borsa, sperando che si materializzi qualcosa. Niente fiammiferi, niente accendino, niente di niente. Sono la vergogna della categoria fumatori. Non ho mai le due cose che dovrei avere contemporaneamente. Tengo comunque la sigaretta spenta in mano, come una coperta di Linus, e guardo il testo dello spot. Per la prima volta lo leggo da cima a fondo. Dalle battute avevo capito che la storia si sarebbe svolta in questo modo: inquadrature generiche di qualcuno che interpreta il ruolo di una mamma fantastica, intenta a giocare con figli generici, a bere un generico tè perfetto con generiche amiche perfette e altre generiche attività da madre perfetta. Ma c’è dell’altro. Il mio stomaco si contrae. Le indicazioni tra una battuta e l’altra dicono l’esatto contrario. Dopo: «Ho sempre tempo per i miei bambini. Vengono sempre al primo posto», c’è scritto: La mamma porta a scuola la figlia mentre sta già suonando la campanella. Dopo la battuta: «Ho sempre tempo per i miei amici», c’è scritto: Guarda la segreteria telefonica con aria colpevole e decide di cancellare le chiamate. Alla fine, la casalinga affannata infila una quantità esorbitante di panni sporchi nella lavatrice e il bucato esce miracolosamente immacolato, mentre il marito la abbraccia e le rivolge uno sguardo di approvazione. Lo spot doveva essere comico. Hanno pensato che il mio tono serio fosse una scelta precisa, mentre in realtà stavo davvero cercando di convincerle di essere un modello di perfezione. Se avessi capito le intenzioni dello spot, lo avrei interpretato in maniera diversa. Con un tono più apertamente sarcastico, per esempio. Avrei cercato di far loro capire che avevo

colto il tono brillante dello spot, che ero in grado di interpretarne l’esatto registro. Invece ho cercato di essere seria e convincente, e le ho fatte ridere. Tutto ciò significa o che non ho idea di cosa sia la comicità, oppure che lo capisco meglio di quanto creda. Hanno riso, non è quello ciò che conta? Scatenare l’ilarità inconsapevolmente vale lo stesso? Non so bene cosa sia successo, in quella stanza. Forse si è consumato un fiasco clamoroso. O uno strepitoso successo. Vorrei poter chiamare qualcuno e chiedere spiegazioni, rivolgermi a un ipotetico giudice celeste che governa tutte le audizioni del mondo, l’onnipotente Dio del Comico, affinché mi aiuti a decifrare questa serie interminabile di eventi incomprensibili. Ma oggi ho soltanto me stessa, su una panchina, con un foglio sgualcito e una sigaretta spenta, e il disperato bisogno di un po’ di sacro fuoco. O almeno di un accendino.

4

LA maggior parte delle strade di Manhattan va in un’unica direzione. Le strade a numerazione dispari vanno a ovest, verso il fiume Hudson, e quelle pari a est; me l’ha insegnato Jane, newyorkese doc. Anche nel nostro quartiere, a Brooklyn, ci sono per lo più strade a senso unico, quindi vedo i familiari cartelli con la freccia bianca e le grosse lettere nere centinaia di volte ogni settimana, ma non li do mai per scontati. Io guardo sempre in entrambe le direzioni, in caso qualcuno non abbia visto il segnale e stia procedendo contromano. Faccio così da sempre. Controllo non una, ma due, anche tre volte, prima di attraversare una strada a senso unico. Ed è così, un martedì pomeriggio prima di andare a lezione, che vedo James Franklin. Sono sicura che non c’era, le prime due volte che ho supervisionato il flusso delle auto dirette a ovest sulla Quarantacinquesima Strada, ma quando controllo per la terza volta, eccolo là. James Franklin, l’attore professionista che continua a seguire le lezioni di recitazione, quello che ha ottenuto la parte nel film con Arturo DeNucci. Indossa un giaccone verde di tipo militare e dei blue jeans scoloriti, e intorno al collo porta una sciarpa a righe blu e rosse. Ha i capelli neri e un po’ mossi. È bello da togliere il fiato. Anche da lontano, si staglia tra la folla, come se il sole brillasse più luminoso su di lui, regalandogli più attenzione e calore che a tutti gli altri. È dall’altra parte della Sesta Avenue e sta andando a ovest, mentre io mi sto dirigendo a nord. Se attraverso la Quarantacinquesima prima che il semaforo diventi rosso e temporeggio con disinvoltura, c’è la possibilità di un incontro fortuito. Forse mi riconoscerà, forse si ricorderà persino come mi chiamo, anche se è rientrato da poco; è stato via per un mese dopo che io avevo appena iniziato a frequentare. Ma se mi riconosce, forse potrei chiedergli un accendino, e magari resteremmo all’angolo della strada a fumare e chiacchierare delle lezioni, oppure mi chiederà se mi va un caffè e andremo a mangiare un boccone e parleremo… Merda. Parleremo di che? Qualcosa mi verrà in mente. Qualcosa di divertente, e lui mi confesserà: Sei simpatica. Non sapevo che fossi così simpatica. Sono davvero contento di averti incontrata. E magari usciremo, qualche volta, e chissà, forse ci innamoreremo. E un giorno ci ritroveremo a passeggiare proprio lungo questa strada e mi dirà: Ti ricordi il giorno in cui ci siamo incontrati proprio qui, per caso? Ma non succederà un bel niente, se oggi mi passa accanto senza vedermi. Attraverso la Quarantacinquesima e mi fermo accanto a un cestino dell’immondizia, frugo nella borsa come se stessi cercando qualcosa da buttare, in

attesa del semaforo verde. Finalmente lo vedo attraversare la strada. Distolgo lo sguardo in modo che non mi sorprenda a fissarlo, e quando alzo di nuovo gli occhi l’ho perso tra la folla. Il mio cuore incomincia a battere all’impazzata ma poi eccolo, e sento il rossore farsi largo sul mio viso. Calmati. Ha una tracolla di tela e un cercapersone alla cintura. La borsa sembra piuttosto piena, tanto che mi domando quale possa esserne il contenuto. Forse è andato a prendere una sceneggiatura che deve studiare per un’audizione. O magari se le fa recapitare da un corriere: ho sentito che funziona così, quando inizi a lavorare sul serio. Magari ci sono dei libri di John Osborne o di Charles Bukowski, perché sta cercando di dare un senso alla sua cupa, tormentata visione del mondo. Scommetto che porta sempre con sé un taccuino, in caso debba annotare un pensiero profondo, eventualità che, ne sono certa, si verifica praticamente ogni giorno. Mentre raggiunge il mio lato della strada mi concentro sulla mia borsa e lancio occhiate al cestino dell’immondizia, sospirando esasperata e frugando platealmente nel tentativo di «trovare» ciò che sto cercando. «Dove accidenti è finito?» dico a voce troppo alta, a beneficio di un pubblico inesistente. Alla fine tiro fuori l’unica cartaccia degna di questo nome su cui riesco a mettere le mani: l’involucro sottile di una gomma da masticare, così impalpabile che, nonostante l’impeto del mio gesto melodrammatico, plana leggero fuori dal cestino, e quando alzo lo sguardo James Franklin si è volatilizzato. Mi guardo intorno sgomenta e la mia borsa scivola giù dalla spalla, che nel frattempo si è afflosciata. Pochi istanti dopo alcuni passanti mi urtano e la borsa, aperta, giace sul marciapiede. Me lo merito, ovviamente, è una punizione per la mia grossolana prova d’attrice e per aver agito senza precauzioni al solo scopo di catturare l’attenzione di James Franklin. Che ora, improvvisamente, mi si è materializzato di fronte. James Franklin è davanti a me. La sua tracolla ha urtato la mia borsa, mentre passava. Un po’ come se si fossero scambiate un bacio. Il pensiero delle borse che si baciano, si innamorano e si mettono pure insieme mi fa sorridere, ed è terribile, perché mi distrae e mi impedisce di escogitare un modo per essere irresistibile. Devo pensare a qualcosa da dire. Qualcosa di arguto. Il tempo a disposizione sta finendo. Lui mi sta fissando. Raccolgo la mia roba e lo guardo con aria ottusa, paralizzata come quelle persone che vincono alla lotteria e sono troppo sconvolte per dire qualcosa, o come un attore durante una premiazione che rimpiangerà tutta la vita di non aver preparato in anticipo il discorso di ringraziamento e, muto, guarda le lancette dell’orologio muoversi inesorabili. Ringrazia tua moglie! vorresti gridargli attraverso lo schermo della televisione, ma l’orchestra incalza ed è ormai tardi. «Oooh, scusa, io…» «Siamo nella stessa classe!» esclamo, un po’ troppo entusiasta. «Oh, davvero?» «Sì! Da Stavros. Frequento da pochi mesi e nel frattempo tu sei mancato… perché… tu… sei un attore… vero…» Le parole mi muoiono in gola e gli sorrido

come un’ebete. «Oh, giusto. Già. Credo di aver capito chi sei…» Annuisce, piano, e mi rivolge un sorriso sghembo. «Sì.» Ha un leggero accento, un po’ strascicato. Dev’essere cresciuto in qualche Stato del Sud. Forse ha passato l’infanzia in una fattoria in Texas, oppure in Georgia. Forse lavorava nel granaio dei suoi e aiutava il padre nel raccolto. Continua a guardarmi. È immobile, non si muove di un millimetro. Io invece vacillo pericolosamente. Cerco di restare ferma, ma è un’impresa impossibile. «Mi piace molto quello che fai a lezione», oso abbassando lo sguardo. «Oh, davvero?» Ho l’impressione che sia in imbarazzo e si guarda le punte delle scarpe. È timido, penso. Chissà come deve sembrargli caotica la metropoli, rispetto al silenzio e agli spazi immensi a cui era abituato. «Sì! Cioè, a imitare Marlon Brando sono capaci tutti, basta sbraitare: ‘Stella! Stella!’ ma il tuo Stanley era, be’, era così originale. Almeno, io la penso così.» Devo darmi una calmata. Spero di non sembrare pretenziosa. Ogni volta che si usa la parola «Brando» in una frase, le probabilità di sembrare saccenti sono piuttosto alte. Faccio un respiro, il primo da quella che mi pare un’eternità. «Comunque», continuo porgendogli la mano e tentando di sostenere il suo sguardo, «io sono Franny.» «Franny. Della classe di Stavros.» Strizza leggermente gli occhi, forse per evitare il fumo della sua sigaretta, anche se ho la sensazione che mi stia studiando. «Hai detto che sei nuova?» «Chi, io? Be’, più o meno. Sono nuova a lezione, ma vivo a New York da due anni. Due anni e mezzo. Ho lavorato per mio padre nella scuola dove insegna e prima ho fatto parte di una compagnia teatrale. Siamo anche andati in tournée. Ah, ho girato pure uno spot pubblicitario. E adesso, be’, eccomi qui!» Argh. Sto blaterando. Almeno non gli ho raccontato che la compagnia teatrale si chiamava Forza, ragazzi! e che portavamo in scena stupide favole nelle scuole elementari degli Stati vicini. Oddio, e se mi chiede che compagnia era? E perché gli ho parlato dello spot? Probabilmente lui non si abbasserebbe mai a farli. «Davvero forte, complimenti», risponde con il suo accento del Sud, sorridendomi. «Il lavoro è lavoro, giusto?» «Esatto! Sì! Il lavoro è lavoro! Com’è vero!» Sono sollevata. Però devo smetterla di ripetere le sue frasi. Si sente uno strano ronzio e James controlla il cercapersone alla cintura. «Scusami. È il mio agente», dice disinvolto. «Devo incontrarlo da qualche parte.» «Quindi non vieni a lezione?» gli domando, con un po’ troppa ansia nella voce. «No», ribatte lui. Poi aggiunge, con il broncio: «Stasera no, cara». Sembra quasi dispiaciuto per me, come se stesse annullando un appuntamento fissato da tempo, o come se parlasse con una bambina di cinque anni a cui hanno appena detto che non può più andare allo zoo. Mi infastidisce l’idea che pensi di avermi delusa, anche se la verità è che sono inspiegabilmente devastata dalla notizia. «Nemmeno io. Nemmeno io vado a lezione, perché, ah, che strana coincidenza,

devo andare a ritirare delle sceneggiature, a dire il vero.» Merda. Basta con le bugie. «Oh, davvero?» «Sì. E poi devo… ecco… ho delle cose da fare, sai… con i miei agenti», dico agitando le mani con aria di mistero. «Davvero fantastico. Con che agenzia sei?» All’improvviso sono troppo stanca per continuare a mentire. «Si chiama Melasonoappenainventata.» «Come?… Oh, ho capito. Era una battuta. Ah.» «Sì, era una battuta. Al momento non ce l’ho un agente fisso. E neanche prima.» «Ah, bene…» James resta in silenzio. Sembra a disagio. Ho rovinato tutto. Non mi rivolgerà mai più la parola. Lo saluterò da lontano, qualche volta, ma per la maggior parte del tempo fingerò che questo incontro non sia mai avvenuto. Ho il volto in fiamme e sto pensando disperatamente a una battuta originale per congedarmi, magari qualcosa che ha detto Diane Keaton in Io e Annie, quando James abbassa la sigaretta e sfodera il suo irresistibile sorriso del Sud. «Posso avere il tuo numero di telefono?» mi chiede. Mi prende alla sprovvista. Come gli sarà saltato in mente? Forse è il suo modo di consolarmi perché non ho un agente. Decido che non mi importa. «Il mio numero? Certo. Hai bisogno di qualcuno che ti rappresenti?» Mi guarda confuso. «No, per… oh. Stavi scherzando. Di nuovo. Ah.» Ha una maniera strana di ridere. Emette un singolo ah, invece di una risata vera e propria. Forse è una di quelle persone con sottile senso dell’umorismo, che non ridono mai sguaiatamente, lacrimando e sbrodolandosi. Strappo un foglietto della mia agenda e ci scrivo il mio numero. Quando mi saluta, mi dà un bacetto sulla guancia sfiorandomi con la barba ispida del mento. «Sono contento di essermi... scontrato con te», ironizza con la sua voce roca, e a momenti mi sciolgo. «E non è un modo di dire», aggiunge disinvolto. E questa volta ride davvero. Evviva! Ora mi toccherà correre, se voglio arrivare a lezione in tempo, ma non mi importa. Farmi largo tra la folla è una sfida che adoro. Sfreccio per la strada senza toccare nessuno. Sembro il personaggio di un videogame, che difende il proprio minuscolo spazio vitale dagli invasori, individua un varco sul marciapiede, accelera per occuparlo prima di qualcun altro, rallenta finché non individua un nuovo varco, in sincrono con la folla che si muove con me eseguendo una complicata coreografia per migliaia di persone. Sono felice. Un ragazzo mi ha chiesto il mio numero di telefono. Andrà tutto bene. Ma sono anche così agitata che corro troppo veloce e riesco ad arrivare a lezione nel momento più sbagliato. Stavros apre le porte del teatro alle cinque e cinquantacinque precise e le chiude alle sei. Se arrivi troppo presto, ti ritrovi in mezzo agli studenti pigiati accanto all’ingresso, la tensione nell’aria è palpabile e

sei costretto a sentire le conversazioni altrui. LE CONSEGUENZE DI ARRIVARE A LEZIONE NEL MOMENTO PIÙ SBAGLIATO I personaggi parlano contemporaneamente, sovrapponendosi. CASEY (sulla ventina, bellissima, un po’ lamentosa, parla con Franny): Franny! Meno male! Hai saputo? Come, a che proposito?! Franny, ti ho lasciato un messaggio, come fai a stare un’ora senza controllare la tua segreteria? Va bene, stammi a sentire. Ti ricordi la dieta di cui ti ho parlato e che stanno facendo tutte le ragazze di Los Angeles? Quella in cui mangi una banana e poi aspetti di morire di fame e poi mangi un uovo sodo e aspetti e quando stai per svenire mangi un’altra banana? Be’… CHARLIE (sulla ventina, meditabondo, rivolto a un ragazzo): Che senso ha andare a vedere quello spettacolo orribile, scusa, che senso ha? È l’immondizia più volgare, dozzinale e commerciale che ci sia in città in questo momento… Cosa? Oh, veramente? Vogliono sostituire il tizio che interpreta quel personaggio? E come l’hai saputo? Sul serio? E pensi di proporti? Dici che potrei provarci anch’io? Cioè, non ti dispiacerebbe? Posso dirlo al mio agente? Insomma, siamo così diversi, amico, non è che siamo in competizione, siamo così dannatamente diversi. No, be’, l’ho detto, certo, ma non intendevo in senso assoluto. Ho assistito a cose peggiori, garantito, e comunque sono entrato dopo l’intervallo, quindi ho visto soltanto il secondo atto. Forse se avessi visto anche il primo la cosa avrebbe avuto più significato… DON (sulla ventina, esuberante, chiacchiera con un compagno): Non lo conosci? Mi prendi in giro? Non ci credo. Da A Little Night Music? Te ne canto un pezzettino. Scusa, faccio fatica… Ho un po’ di sinusite: Or I shall marry the miller’s son, Pin my hat on a nice piece of property. Friday nights for a bit of fun We’ll go dancing. Meanwhile… (Tossisce ripetutamente.) Scusa. No, va tutto bene. Sto bene. Nessun problema. Adesso ricomincio… CASEY: È ovvio che non l’hai ancora provata, senza offesa, ma per fortuna ti ho trovata, perché hanno appena scoperto che una banana contiene un quantitativo enorme di zuccheri, o di enzimi, non ricordo più il termine medico esatto, ma si tratta di una scoperta recentissima e la notizia si sta spargendo in tutta Los

Angeles. Comunque, a quanto pare, le banane sono così piene di zuccheri o nutrienti che probabilmente traggono in inganno il nostro organismo al punto che le scambia per fette di torta… CHARLIE: Be’, non dico che sarei fantastico, ma grazie per averlo pensato. Sono convinto che non sarei male. Cioè, è un ruolo perfetto per le mie corde, ma mi sa che anche tu non saresti affatto male. Dico davvero. Insomma, potrei farlo, credo, e lo farei, se me lo chiedessero, ma temo di avere un problema non tanto con lo spettacolo in sé, ma con il tizio che ci recita, com’è che si chiama? Comunque non importa. Penso solo che non sia granché come attore, non ha intensità, e poi non credo che si possa impostare interamente sul registro passionale, voglio dire, non lo scegli certo tu: un attore deve essere uno strumento… No, lo so, lo so, dicono che potrebbe essere candidato a qualche premio, probabilmente è per questo che se ne va; adesso che pensa di ricevere un premio, probabilmente farà un film, tipo… DON (continua a cantare): It’s a pinch and a wiggle And a giggle in the grass And I’ll pitch the lights fandango CASEY: Dico davvero, è come se mangiassi una torta intera… Non è spaventoso? CHARLIE: Sai chi mi ricorda? E non lo dico perché sono invidioso, ma perché si assomigliano moltissimo. Avvicinati. A James. Ho ragione, eh? Proprio lui; quello stronzo che veniva a lezione, amico. In secondo piano vediamo Franny (vicina ai trent’anni, capelli in uno stato pietoso) voltarsi verso Charlie. CHARLIE (continua): Le ragazze gli sbavano dietro, ma il talento? Tranquillo, non mi sente nessuno. C’è un non so che di fasullo in lui, non credi? Non ci sente nessuno, amico, rilassati. Perché tutti, e dico tutti, adorano quel tizio? La mia è soltanto un’opinione. Comunque… chi se ne frega. Probabilmente la mia è solo invidia. Ho sentito che frequenta Penelope Schlotzsky, amico. Sono incazzato. Avevo una cotta per quella ragazza. James e Penelope, amico. Perché gli idioti con un bel faccino ottengono sempre quello che vogliono? DON (con un crescendo finale): Or I Shall marry The miller’s Son

(Colpi di tosse.) Davvero non la conosci? Argh. Com’è possibile? È di Sondheim! La porta si apre e gli studenti entrano. Franny è l’ultima e mentre chiude la porta, lentamente, tristemente: Dissolvenza

5

«CI sono quattro nuovi messaggi.» Biiip. «Frances, sono io, tuo padre. Se non sbaglio, stasera c’è il tuo spettacolo. Se potessimo parlare davvero, sarei in grado di dirti in bocca al lupo di persona, ma in questi giorni in cui la tecnologia si sta impadronendo delle nostre vite suppongo che dovrò accontentarmi di dirtelo tramite una segreteria. La prossima settimana incominceremo Cuore di tenebra. Chiamami almeno per Il signore delle mosche. E per il matrimonio di Katie… Scusa, non voglio darti il tormento: fammi solo uno squillo.» Biiip. «Franny, sono Casey. Ci vediamo a teatro alle cinque, d’accordo? Possiamo ripetere le battute? Continuo a incasinarmi con quel discorso, quando confesso l’omicidio. Sto morendo di paura, mi sa. Ci vediamo stasera!» Biiip. «Ciao, Franny, sono Clark. Volevo soltanto... be’, sapere come stai. Richiamami.» Biiip. «Ehi, sono Katie, tua cugina. Tuo padre dice che puoi venire solo per il matrimonio e non per la cena prenuziale perché venerdì lavori. Mi raccomando, non preoccuparti, sono già contenta se riesci a venire. Non vedo l’ora di farti conoscere il mio futuro marito. Ci vediamo a giugno.» Biiip. L’applauso sta scemando, ma il sangue pulsa così forte che non riesco a capire se è di quelli che esprimono apprezzamento genuino o commiserazione. Lascio il palco col volto in fiamme e cerco di capire cos’è appena successo, questa sera. Fino a quel momento temevo soltanto che Herb si fosse arrabbiato perché mi ero presa una giornata libera dal lavoro e, ancora più sconcertante, che James Franklin mi avesse chiesto il numero di telefono quando era chiaro che facesse coppia con Penelope. Ma alla luce di quello che è appena successo su quel palcoscenico, tutto ciò che è stato al centro dei miei pensieri nelle ultime due settimane (e per tutta la mia vita, a dire il vero) sembra completamente irrilevante. La scena con Casey era andata piuttosto bene. Avevo interpretato un’avvocatessa che con un serrato interrogatorio le aveva fatto confessare un

omicidio, fra le lacrime, naturalmente. Mentre i macchinisti portavano via il tavolo e le sedie, avevo usato i pochi minuti a disposizione per cambiarmi e mettermi i vestiti di scena per il monologo successivo, dietro le quinte. Non so cosa avessi in mente. Be’, in realtà lo so benissimo. La mia protagonista aveva appena fatto sesso con il suo capo, quindi indossava una vestaglia e sotto era nuda. Cioè, avevo la biancheria indosso, ma solo quella, niente body o sottoveste, in modo da provare sulla pelle quella sensazione di… cosa? Vulnerabilità, immagino. Non lo saprà nessuno, avevo pensato. Sarebbe stato il mio segreto, un segreto tra me e me che speravo mi concedesse un piccolo vantaggio sugli altri. Ma poi qualcosa era andato storto. Chi cade sul palco con indosso una vestaglia? Perché? Perché? Perché? Perché? Il monologo filava liscio, o almeno così credevo. Ora non so più niente. Il pubblico rideva alle mie battute, ma probabilmente questo mi aveva disorientata. Le risate mi avevano fatto perdere il ritmo, costringendomi ad aspettare che si placassero, prima di continuare. Eppure stava andando bene, almeno finché non avevo deciso di sedermi. Era così buio, lassù. E avevo i riflettori negli occhi. Era come il sogno che faccio sempre, quello in cui sono sul palco, pietrificata, senza sapere bene che ruolo interpretare, così nervosa da non riuscire nemmeno a parlare. Ma non avrebbe dovuto essere così complicato trovare l’unico pezzo di arredamento su un palco completamente spoglio. Una sedia: dovevo soltanto sedermi su una sedia, che ci voleva. Quello era stato il primo errore. La mia protagonista non avrebbe dovuto mettersi comoda: era troppo agitata, era appena andata a letto col suo capo… Perché avevo deciso che doveva sedersi? Se solo… No, non ci pensare. E poi l’avevo mancata. Per un soffio. Mentre mi abbassavo, avevo capito che non stavo centrando la sedia, ma credevo di farcela. Ne ero certa. Forse era stato per via della vestaglia di seta di Jane, così scivolosa: molto più scivolosa dell’accappatoio di spugna che avevo usato durante le prove. Ero così contenta quando me l’aveva prestata: era esattamente il tipo di indumento sexy che indosseresti se pensassi di andare a letto col tuo capo, e avevo pensato che quei fiori azzurri e bianchi mi avrebbero fatto risaltare, sul palcoscenico. Non avrei mai dovuto prenderla in prestito. Se solo fossi rimasta fedele al mio accappatoio di spugna, non sarebbe successo niente di tutto questo. Con mio enorme terrore, la vestaglia si era sollevata, mentre scivolavo a terra, spalancandosi come se fossi appena passata sopra una grata della metropolitana. Era impossibile che nessuno tra il pubblico avesse visto il mio… Non ci pensare, ho detto! E poi cos’era successo? Penso di aver detto qualcosa, dopo essere caduta sul pavimento ed essermi affrettata a coprirmi con i lembi della vestaglia. Era seguito un imbarazzante momento di silenzio, in cui ero rimasta pietrificata e il pubblico tratteneva il fiato nell’attesa che parlassi.

E io cosa avevo detto? Ah, giusto. «Da dove arriva, questa?» Oh, no, l’avevo davvero detto? Sì. Non so perché. Non aveva alcun senso. Da dove arriva questa? Che idiota! Non mi era venuto in mente nient’altro. Però gli spettatori ridevano. Almeno credo. O forse erano soltanto trasaliti. No, stavano decisamente sbellicandosi, erano trasaliti quando ero caduta. Per il disgusto di quello che erano stati costretti a vedere, o semplicemente preoccupati per la mia incolumità? Non mi ricordo. E ormai non importa. Comunque fosse, avevo rovinato tutto. Forse non è andata così male, cerco di convincermi mentre esco dal teatro buio e imbocco il corridoio che conduce ai camerini. Forse nessuno ha visto particolari troppo scabrosi. Forse sono riuscita ad agguantare l’orlo della vestaglia in tempo. «Ciao Franny, bel culone.» Oh, lo sapevo. Charlie ha visto ogni cosa. Lo sanno già tutti quanti, che sono caduta. Vorrei sprofondare. «Cosa?» butto lì, cercando di temporeggiare e pensare a una risposta dignitosa. «Bella interpretazione, ho detto.» «Eh?» «Non sei d’accordo? Stasera stiamo andando alla grande.» «Oh, certo. Sì, è vero. A proposito, hai visto il mio monologo?» «No, mi dispiace. Ma ne ho sentita una parte dal monitor. Direi che sei andata benissimo.» «Oh, grazie. Sì, credo di essere andata bene, almeno fino a un certo punto.» «Grande. Be’, allora in bocca al lupo, per le chiamate.» Le chiamate da parte delle agenzie! Me n’ero dimenticata. Probabilmente non ne riceverò nemmeno una, ormai. Ma forse non è andata così male come credo. Forse posso ancora sperare. Se solo (non posso farne a meno!) se solo fossi rimasta in piedi, se solo non avessi mancato la sedia, se solo avessi scelto indumenti meno stupidi. Ho bisogno di chiedere a qualcuno se è stato davvero così orribile, ma gli attori nel backstage stanno aspettando di andare in scena e sono troppo nervosi per parlare. Quelli che mi hanno vista da dietro le quinte probabilmente ora sono scesi dal palco e stanno fumando nella green room retrostante, commentando la propria prova. Non ho nessuna voglia di raggiungerli. Posso affrontare una persona alla volta cercando inutilmente di convincermi che non è andata così male, ma non un esercito di volti compassionevoli. Quindi mi dirigo nel vicolo dietro il teatro. Potrei farmi una sigaretta e starmene per i fatti miei, e magari cercare di capire cos’è successo davvero. Ma ovviamente non sono l’unica ad aver avuto l’idea di uscire; cinque o sei compagni di corso sono già fuori a fumare e chiacchierano in tono sommesso. «Ciao, come va?» mi chiede Don, con sincero interesse.

Don può essere dispettoso e competitivo, ma è anche un’enciclopedia vivente. Ha una collezione enorme di locandine ereditate dal padre, che faceva il regista a Broadway, e le conosce così bene che ormai è convinto non solo di aver visto ogni singolo spettacolo, ma anche di avervi preso parte. «Non saprei. Mi è sembrato che ci fosse qualcosa di strano nel monologo, ma non so bene cosa.» «Non me ne sono accorto», risponde lui, alzando le spalle. Che sollievo! La notizia non si è diffusa. Almeno, non ancora. «Ma ho sentito qualcosa dal monitor. Ne hai saltata una parte», dice scrutandomi. «Davvero?» «Già. Hai dimenticato la parte in cui dici che tua madre sa dove vai il lunedì sera, e che anche lei ha un debole per il tuo capo. Ma erano solo due battute. Sono sicuro che non se n’è accorto nessuno.» Don mi dà le spalle e torna alla sua conversazione, e la mia testa incomincia a girare. Ho dimenticato una parte del monologo. Sono caduta, mostrando a tutti una quantità ancora da determinare del mio corpo nudo e ho saltato delle battute. Quell’informazione fa svanire l’ultimo briciolo di speranza che mi era rimasta, e cioè che, nonostante la cantonata gigantesca, potesse essere andata meglio di quanto temessi. Immagino il pubblico, gli agenti e i professionisti del settore, che probabilmente non conoscerò mai, e all’improvviso sono travolta dalla stanchezza. Vorrei andare a casa, tornare a Brooklyn, infilarmi a letto e nascondermi, ma devo aspettare che abbiano finito tutti per dare una mano a pulire il teatro e poi andare da Stavros per ascoltare il suo giudizio, come se potesse esserci qualcosa da dire, eccetto: La prossima volta vedi di non cadere. Non ho voglia di incontrare nessuno, però non ci sono altri posti in cui nascondersi. Potrei aspettare all’ingresso, ma il pubblico uscirà a momenti. Magari potrei starmene fuori e poi entrare di soppiatto quando la gente comincerà a sciamare. Almeno posso stare da sola. Ma se non rientro non posso prendere il mio cappotto, e dopo pochi minuti davanti al teatro sto già tremando di freddo. Ma è anche una bella sensazione. Ho voglia di sentire qualcosa di concreto. Qualcosa a cui posso dare un nome. Mi assale un senso di profonda tristezza. Il freddo mi aiuta a pensare più lucidamente e posso quasi trovare le parole per descrivere il pensiero cupo a cui non ho ancora dato un nome. Poi, all’improvviso, eccole: Che senso ha? Se abbandonassi il mondo dello spettacolo domani, non lo saprebbe nessuno e non importerebbe ad anima viva. E che genere di individuo vuole lavorare in un mondo completamente indifferente ai suoi sforzi? Se rimanessi, d’altro canto, nessuno mi ringrazierebbe comunque per la presenza. Non sono certo Alexander Fleming, che ha scoperto la penicillina, qualcosa per cui le persone gli sono ancora grate. Se non fossi mai venuta a New York, qualcun altro avrebbe preso il mio posto: in classe, sulla metro, nel locale in cui faccio la cameriera. Chi avrebbe

notato la mia mancanza, guardando lo spot di Sally’s Wear House alla TV? Nessuno mi è grato per averlo interpretato. E nessuno dirà: Se solo Frances Banks ne avesse fatti altri. Che contributo sarebbe stato il suo! Pensate alle vite che avrebbe potuto salvare indossando quel maglione acrilico. Qualcuno mi batte su una spalla. «Non hai freddo?» È James Franklin. L’ultima persona che ho voglia di vedere in questo momento. Dopo quello che è successo, non c’è niente che potrebbe farmi sentire peggio se non ritrovarmi davanti il ragazzo per cui sbavavo e che mi ha chiesto il numero di telefono per non chiamarmi mai. Anche dopo aver saputo che lui e Penelope facevano coppia fissa ho incrociato le dita ogni giorno, nelle ultime due settimane, in attesa di riavvolgere il nastro della segreteria telefonica, sperando che avesse lasciato un messaggio. Ma non era successo. James mi sorride e pesta i piedi, sfregando le mani e soffiandoci sopra. Indossa il suo giubbotto verde militare e la sciarpa a righe blu e rosse. Siamo così vicini che mi accorgo che è fatta a mano e sento una fitta di gelosia al pensiero di chi possa avergliela regalata. «Mi piace il freddo», rispondo, con un tono che spero sia così seducente e misterioso da fargli rimpiangere di non avermi richiamato, mentre cerco di non rabbrividire. «Hai… Eri tra il pubblico?» gli chiedo osservandolo con attenzione. Ti prego, Dio, dimmi di no. «Tra il pubblico? Sì. Ero in piedi, in fondo. Lo spettacolo è finito, hanno appena chiamato gli attori alla ribalta. Stavros sta spiegando come compilare i moduli per le chiamate. Il pubblico uscirà a momenti.» Ho saltato la ribalta, mi ero persino dimenticata che ci fosse. Ho perso la possibilità di andare sul palco con tutti gli altri ed essere vista un’ultima volta in posizione eretta. E le chiamate. In questo istante Stavros starà raccogliendo i moduli sui quali gli agenti e i registi e coloro che si occupano dei casting metteranno una croce accanto al nome delle persone che vogliono rivedere. All’improvviso sento un freddo mortale. Mi stringo le braccia al petto per riscaldarmi e fisso i miei piedi, cercando di darmi un tono. «Sicura di non avere freddo? Vuoi il mio giubbotto?» «No, grazie, sto bene.» «Almeno prendi questa.» James si sfila la lunga sciarpa a righe e me la avvolge intorno al collo. Voglio protestare, ma mi tremano le ginocchia e ho paura che se parlo scoppierò a piangere. Senza contare che mi sento meglio, sapendo che non mi presterebbe la sua sciarpa, se fosse il prezioso regalo di una fidanzata. Questa luce tenue nella mia desolata serata mi rende più audace. «Allora, hai assistito al mio capitombolo?» Almeno facciamola finita. Voglio sapere quanto è stato orribile, dalla voce di qualcuno che l’ha visto. «Sì, ma non è stato niente di che. Un giorno ne riderai. Te la sei cavata egregiamente.» Non è ciò che avrei voluto sentire. Quelli che ammiri per essersela «cavata

egregiamente» non avranno mai un agente; sono persone che stanno guarendo da un cancro o stanno subendo un processo per omicidio. «E ho saltato una parte del monologo», aggiungo, sperando che non se ne sia accorto. «Sì, ho sentito. Ma soltanto perché conosco a memoria l’opera. Nessuno te ne farà una colpa.» Non è esattamente una recensione entusiasta, ma non sembra nemmeno disgustato. Eppure, sta evitando di dirmi quanto voglio sapere. «Ma quando sono caduta… cioè, è stato così terribile? È stato davvero…» «Posso essere sincero?» James mi guarda con aria seria. Sta per dirmi che è persino peggio di quanto pensavo; lo capisco dalla sua espressione. Perché devo sentirlo proprio da lui? Non avrò più il coraggio di guardarlo in faccia. «Certo.» Raddrizzo leggermente la schiena, preparandomi al colpo. «Di solito, ecco… spero che tu non mi fraintenda… ma di solito sei molto castigata, giusto? Nel modo di vestire, intendo. Be’, stasera, e spero di non offenderti se te lo dico, quello che ho visto mi ha fatto capire che, ecco, sotto sotto hai un bel corpicino. Dovresti mostrarlo più spesso. Non solo per sbaglio.» James arrossisce e infila le mani in tasca, poi mi guarda intensamente. Non mi importa se sta mentendo per farmi sentire meglio, perché ci è riuscito alla grande; mi sento meglio. Voglio ringraziarlo, magari abbracciarlo, poi le porte del teatro si spalancano e vediamo Penelope, con indosso una corta pelliccia di un candore abbagliante. Sorride, quando vede James, poi lo sguardo si sposta su di me e di nuovo su di lui, per fermarsi sulla sciarpa a righe intorno al mio collo, e il sorriso sembra svanire, mentre negli occhi si fa strada una punta di sospetto. Però si riprende subito, piega la testa di lato e mi guarda con espressione afflitta, le labbra arricciate in un piccolo broncio. «Povera caaaraaa», esordisce facendosi incontro con le braccia tese. «Vieni qui, tesoro. Mi sa che hai proprio bisogno di un abbraccio.» Mi stringe con una forza sorprendente e posa la testa sul mio petto, poi ci dondoliamo come una coppietta di quattordicenni che balla un lento. «Tesorooo», mormora alla mia clavicola. Con le braccia bloccate lungo i fianchi, rivolgo uno sguardo impotente a James. «Ehm, Pen?» chiama lui dolcemente. «Stavo proprio dicendo a Franny che l’incidente della sedia non è stato niente di che…» «Ma certo!» esclama la ragazza, liberandomi dall’abbraccio con una forza tale che sono costretta a fare un passo indietro. «Niente di che, è ovvio!» «Le stavo dicendo che la sua prova d’attrice non ne ha risentito», aggiunge. «Infatti!» «E che un giorno ne riderà.» «Naturalmente!» annuisce Penelope, sorridendo a James. Gli va accanto e lo prende a braccetto con disinvoltura. «Sì, anzi, sono quasi pronta per riderne, a dire il vero. Ah! Ah! Ah!» esclamo sarcastica. James mi guarda comprensivo, Penelope sorride e cerca di soffocare un risolino, ma non sembra in grado di frenarsi e lentamente la risata esplode e cresce fino a

trasformarsi in un grido selvaggio e sguaiato che culmina in una specie di nitrito. «Be’, sono davvero sollevata», ansima. «Cioè, è divertente, a pensarci bene.» Sghignazza così forte, che non riesce a respirare. Le sorrido sportiva, cercando di assecondarla. Ho detto che ero pronta a riderci sopra, è vero, ma Penelope sembra sull’orlo di una crisi isterica. Si tiene la pancia, piegata in avanti, boccheggiando. «Ma la cosa più esilarante… (ridacchia)… è quando hai detto… (tossisce)… ‘E non è nemmeno lunedì’.» Lancia un urlo che squarcia la gelida aria notturna, poi mi sferra un pugno sul braccio: è animata da intenzioni scherzose, lo so, ma il colpo è abbastanza forte da incrinare qualcosa dentro di me. Quella ragazza ha un agente, un fidanzato, stasera non è caduta sul palcoscenico rivelando al pubblico la sua sconsiderata scelta di biancheria intima, e per qualche inspiegabile ragione sono furiosa con lei. «È vera?» «Eh?» domanda Penelope cercando di prendere fiato. «La tua pelliccia. È vera?» È un colpo basso. Ma il braccio mi fa male e sono sconvolta. Non mi importa niente se la sua pelliccia è vera o finta. Presumo che, pensandoci bene, mi schiererei contro le pellicce fatte di coniglietti che un tempo hanno scorrazzato felici per i prati, ma non è una cosa sulla quale ho riflettuto molto. E anche se lo facessi e un giorno decidessi di non indossare mai lo stesso animale che porta le uova pasquali ai bambini di tutto il mondo, non è da me giudicare qualcuno per le sue scelte in fatto di moda. Peneleope diventa scura in volto e abbassa lo sguardo. «Ecco», dice, «in effetti sì. Anch’io avevo qualche perplessità. Ma apparteneva a mia madre, e così ho pensato: Be’, ormai ce l’ho…» Le parole le muoiono sulle labbra e sfiora con aria distratta il soffice colletto. Quando guarda James, lui la cinge con un braccio e l’attira a sé. Adesso mi sento un verme. Vorrei che anche mia madre mi avesse lasciato qualcosa, oltre all’oscura eredità del mio nome, ispirato a quello di un personaggio letterario le cui gesta più rimarchevoli sono sbocconcellare un sandwich con insalata di pollo e bere un bicchiere di latte per poi svenire durante un appuntamento con un pretenzioso compagno di università. Vorrei avere qualcosa di suo che avesse un significato più profondo, qualcosa da indossare o guardare e che me la faccia ricordare. Ma mia madre aveva imboccato per sbaglio un senso unico contromano e dopo la sua morte la vista dei suoi libri e dei jeans e delle magliette era diventata insopportabile per mio padre, e così si era liberato di tutto. Come faceva a sapere che me ne sarei stata davanti a Penelope Schlotzsky, quindici anni dopo, divorata dalla gelosia nei confronti di una pelliccia vintage? Penelope indossa un soprabito della madre morta e io sto prendendo posizione in merito a una questione che fino a cinque minuti fa non mi interessava neppure. «No… non intendevo… non volevo dire… Tua madre è?… Che cosa commovente. L’hai ereditata dopo la sua?…» Penelope aggrotta la fronte, di solito perfettamente levigata, poi capisce e scoppia a ridere.

«Ma cosa pensavi? Oh, accidenti, no, mia madre non è morta. È viva e vegeta e probabilmente in questo preciso istante starà sorseggiando un drink a bordo piscina. Mi ha prestato la sua pelliccia perché pensava che facesse molto Hollywood!» Dopo aver restituito la sciarpa a James torno dentro e scendo a prendere cappotto e borsa. La sala nel backstage è vuota, ormai, ma devo affrontare Stavros e il suo giudizio: ho una fifa blu. Sono ragionevolmente sicura di aver sprecato l’unica possibilità che avevo. Ci sarà un altro spettacolo, certo, ma a quel punto i tre anni che mi ero concessa per ottenere qualche risultato concreto saranno trascorsi e non voglio cedere al compromesso. Mi rifiuto di trasformarmi in una di quelle persone che si ostinano a non accettare la realtà dei fatti, e cioè che nulla andrà mai come sperato. Una morsa gelida mi stringe il cuore. Forse sono già diventata una di loro, mentre ero occupata a fare altro. Forse non riesco ad accettare la verità, e cioè che i miei sogni non si realizzeranno mai. Forse lo so già, ma non riesco ad ammetterlo. Quanti altri giorni da cameriera mi occorrono, prima di affrontare la realtà? Forse davanti a me ci sono già prove a sufficienza: non ho bisogno di aspettare i risultati dello spettacolo di fine corso, per decidere. Forse devo rassegnarmi al fatto che il tempo a mia disposizione è scaduto. Questa folgorazione mi fa sudare freddo. Sono a New York da due anni e mezzo. Due anni e mezzo in cui ho trovato un lavoro da cameriera con cui sopravvivere e un’agenzia che mi procura ingaggi sporadici nella pubblicità. Che parte o ruolo potrei mai ottenere nei prossimi mesi che mi dica che la recitazione è senza ombra di dubbio la mia strada? Il teatro è quasi vuoto. Stavros mi starà aspettando. Non posso più tergiversare. Gli dirò subito che sto pensando di mollare, così per lui sarà più facile ammettere che forse è la scelta migliore. Magari cercava da tempo di dirmi che non vedeva alcun futuro per me, e sarà sollevato che lo abbia capito da sola. Poi chiamerò mio padre e gli annuncerò che lascio New York. Stai facendo la cosa giusta, tesoro, mi dirà. Ora potrai prendere l’abilitazione per l’insegnamento. Credo proprio che sarà un sollievo avere un vero lavoro. Uno stipendio mensile e una scrivania e un telefono e un fax. Un computer (con qualcuno che mi insegni a usarlo, spero) e colleghi con cui uscire dopo il lavoro per bere una cosa al bar, che mi racconteranno dei loro partner o dei figli o dei lavoretti che stanno facendo in garage. Forse parleremo dei programmi che abbiamo visto in televisione la sera prima e racconterò: Lo sapete che per un po’ di tempo ho tentato la strada della recitazione? Nessuno mi biasimerà per aver mollato. Dicono che è impossibile, comunque. Sarò come le persone normali, e forse è bene così. Forse il mio destino è quello di avere un lavoro normale e una vita normale. Come la maggior parte della gente. Mi sbagliavo a credere di essere diversa. Chiamerò Clark. Gli spiegherò che sono finalmente pronta a sposarlo, come hanno sempre pensato tutti quanti. Anzi, voglio

chiamarlo subito. Magari domani, dopo il mio turno al locale, prenoterò un volo per Chicago. In questo momento il mio piano B mi sembra piuttosto allettante. Penso agli addii che mi aspettano. Mi mancherà mio padre, e anche quel gigante allampanato di Dan, da un certo punto di vista. Sarà dura stare senza Jane, ma Chicago non è poi così lontana. È la decisione giusta. Ora lo so. Lentamente, scendo gli ultimi scalini e arrivo davanti alla porta chiusa del piccolo ufficio di Stavros, sul retro del teatro. Tiro un respiro profondo, poi busso tre volte. Addio, New York.

6

«SAI, Frances, sei andata benissimo, stasera. Ci sono due agenzie che ti vogliono vedere e sono entrambe di tutto rispetto, ma se fosse per me continueresti a studiare un altro anno e non cominceresti a fare audizioni. È una realtà che richiede competenze molto diverse dal lavoro che portiamo avanti qui e potresti sviluppare delle cattive abitudini; quindi per favore, qualsiasi cosa accada, non smettere di studiare. Il mondo dello spettacolo ti risucchierà ogni energia e le lezioni saranno più necessarie che mai; devi continuare ad alimentare il tuo talento. Sei così giovane, e questo mestiere può essere maledettamente sfibrante. Non mollare il teatro. Non perdere di vista i tuoi obiettivi. È molto facile cedere di fronte a un bell’assegno, ma se non stai facendo un lavoro che nutre e arricchisce il tuo talento e regala qualcosa al pubblico, stai soltanto alimentando ciò che abbiamo di peggio dentro di noi. Gli artisti devono riflettere la condizione umana (è quella la nostra missione), e non dimenticare che hai enormi capacità e sei un talento comico naturale, ma è proprio nella comicità che si nascondono le insidie peggiori. Saper far ridere la gente è un dono prezioso, ma ti scongiuro, non fare mai qualcosa di arido e deprimente come quella trasmissione piena di infermiere.» Buongiorno, New York! Fuori dal teatro, la prima persona che vedo è Deena, intenta a fumare con un gruppetto di studenti. È una delle studentesse più anziane, ha una quarantina d’anni ed è ancora piuttosto famosa per il telefilm degli anni Ottanta, Voilà Pierre, che ricordo di aver guardato da bambina e da adolescente. Ma non ne parla mai, quindi non lo faccio nemmeno io. È una delle mie compagne di corso preferite, ma a volte mi chiedo come si sente a essere passata dal ruolo da protagonista in un noto programma televisivo agli spot pubblicitari. E non parlo di spot in cui fa se stessa, l’attrice del celebre telefilm Voilà Pierre, ma quelli in cui interpreta una donna come tante, fingendo di gustare una marca di aranciata dopo l’altra. «Buone notizie?» mi chiede gettando la cenere sul marciapiede. «Be’, a dire il vero sì. Due agenzie.» «Fantastico!» esclama. «Te ne basta una.» «Stasera ho quasi mollato il mondo dello spettacolo», confesso senza fiato, ancora sbalordita per essere passata in un tempo così breve dalla disperazione totale a qualcosa di simile all’euforia. «Di nuovo? Volevi farlo anche due settimane fa.»

«Davvero?» «Sei troppo sensibile», incalza lei ridendo. «Ma va bene così. Hai tutto il tempo per farti le ossa.» Dobbiamo festeggiare il tuo scampato addio al mondo dello spettacolo. Vedo Leighton da Joe Allen. Ci fai compagnia?» Deena e io ci accomodiamo al bancone sfavillante del locale, affollato di attori che hanno appena finito di recitare e amanti del teatro. Questa sera sento quasi di appartenere a questa folla, o come se fosse possibile appartenervi, un domani. «La Absolute! Mi prendi in giro? Complimenti!» Quando le racconto le novità, Deena mi abbraccia forte, stringendomi le braccia con le unghie laccate di rosso. «Sei una diva!» «E un’altra agenzia, la Sparks.» «Sparks! È Barney Sparks! È fantastico: lavora da un sacco di tempo.» Deena solleva il calice di vino, già mezzo vuoto, e sorride. «Un altro brindisi. Sono davvero felice per te. Questo è un segno concreto di incoraggiamento. Penso che potresti farcela prima dello scadere dei tre anni.» Più tardi arriva il fidanzato di Deena, Leighton Lavelle. È alto, ha il naso lungo e riccioli castani che lo fanno assomigliare a un chitarrista rock degli anni Settanta. Deena lo saluta e lui si fa largo tra la folla e la bacia sulle labbra. «Ciao, tesoro», dice, e ordina un drink al barman, prima di incastrare la sua figura allampanata in un minuscolo spazio tra i nostri sgabelli. L’ho già incontrato alcune volte, ma non l’ho mai visto così da vicino. L’anno scorso ha vinto un Tony Award per Shining Country, e lo so che è stupido, ma stare così vicino a un attore che ha ricevuto un premio mi fa venire la pelle d’oca. Ha ancora le tracce del trucco di scena sul colletto della camicia. Cerco di immaginare l’emozione che si prova a essere appena scesi da un palcoscenico di Broadway. Il pensiero mi fa battere il cuore all’impazzata, ma per loro sembra normale. «Com’è andata stasera, amore?» gli chiede Deena. «Non molto bene. Quel teatro fa schifo. Tutta colpa di questo tempo idiota. Hanno alzato il riscaldamento e il pubblico si è praticamente addormentato.» Abbassa lo sguardo, strascica i piedi, poi sorride. «Santo Cielo, ma mi senti? Sto dando la colpa al pubblico. Lo facciamo di continuo, non è vero? Non può essere colpa nostra, giusto?» Deena ride e io la imito. Lui mi guarda con aria di intesa, coinvolgendomi nella conversazione anche se mi conosce appena. Fingo per un istante di essere appena scesa anch’io da quel palco e avere anch’io la mia teoria sul rapporto tra riscaldamento del teatro ed effetti sulla reattività del pubblico. «Che mi dici, Franny?» domanda Leighton. «Quand’è che ti vedremo a Broadway?» «Non lo so», rispondo, e la sola idea mi dà le vertigini. «Un giorno, spero.» Leighton posa una mano sulla spalla di Deena e gioca con una ciocca dei suoi capelli scuri e lucenti. «E tu, amore mio?» «Mai», ribatte allegramente lei. «E perché? È il sogno di ogni attore, quello di recitare a Broadway», protesto, e lei mi sorride indulgente. «Non voglio spegnere il tuo entusiasmo, tesoro. Ma sono fuori dal giro, ormai. E

mi va benissimo così», conclude cingendo la vita di Leighton. «Non ci trovo più alcun senso, e comunque non è che stiano invocando il mio nome a gran voce.» «Non si può mai dire, tesoro», ribatte Leighton. «Sai, Franny, il New York Times ha parlato molto bene di lei.» «È una storia vecchia», osserva Deena, ma sorride. «E per quanto riguarda…» Ho sempre desiderato chiederle del telefilm in cui ha recitato, e stasera, con un drink in mano e l’adrenalina della giornata appena trascorsa ancora in circolo, trovo finalmente il coraggio per affrontare l’argomento. «La TV?» finisce lei, guardando Leighton, che le sorride comprensivo. «Scusa, io…» «Non preoccuparti», mi interrompe scuotendo la testa. «Con te, ne parlo volentieri.» Fa un respiro profondo, poi lo lascia andare. «Be’, è andata così, più o meno: ho iniziato recitando in questa produzione…» «Quella che è piaciuta al Times», aggiunge Leighton. «Sì. Ma poi non avevo più lavorato, e anche se lo spettacolo aveva avuto recensioni positive, si trattava comunque di una piccola produzione, a basso costo, in un teatro minuscolo. Ero sempre al verde. Poi ecco la telefonata del mio agente…» «Il tuo ex agente», afferma Leighton. «Sì, ora non c’è più…» «È ancora tra noi, veramente», puntualizza lui. «Sì, ma non è più il mio agente…» «Un vero stronzo», rivela Leighton, facendomi l’occhiolino. «Si sarebbe dimostrato un vero stronzo, sì, ma in quel momento ero così felice che ci fosse, e lui mi disse…» «Ho un’audizione per te, tesoro», tuba Leighton nella sua migliore imitazione del tipico, viscido agente di Hollywood. «Una cosetta davvero speciale.» «Mi disse che in quel materiale c’erano gli ingredienti per trasformarlo in un successo», continua Deena. «Non capivo che intendesse di preciso, ma sembrava roba grossa. Era una puntata pilota di una serie TV: ‘innovativa’ è stato il termine esatto, credo. Disse che aveva dovuto usare la sua capacità di persuasione per farmi ottenere un provino, visto che non avevo esperienza in campo televisivo, ma avevano accettato di vedermi. Così leggo la sceneggiatura, e mi lascia perplessa, ma sono abituata alle storie in cui non succede niente, quindi non ci faccio troppo caso… «Eri abituata a leggere copioni astratti», sottolinea Leighton. «O di fantasia, non completamente inseriti nella realtà, sì: quindi cerco di immaginare come potrebbe svilupparsi il telefilm. Inoltre, era fortemente connotato da un punto di vista politico…» «Davvero?» le chiedo, sorpresa. «Oh, sì. Prima che lo modificassero e lo mandassero in onda il venerdì sera. In origine era stato pensato come il nuovo Arcibaldo. Quindi chiamai il mio agente…» «Lo stronzo», la corregge Leighton. «Chiamai lo stronzo e chiesi se facessero sul serio. E lui rispose…» Deena fa

una pausa, come se la parte successiva della storia fosse particolarmente difficile da raccontare. «E lui rispose: ‘Può evolversi soltanto in due modi: o è un successo clamoroso, e mi ringrazierai ogni anno alla premiazione degli Emmy, o faranno una puntata pilota, non sfonderà e resterà sempre chiuso in un cassetto. Nessuna via di mezzo’. E se, per qualche motivo, l’avessero mandato in onda e non avesse fatto il botto? Lui allora assicurò…» «Non durerà mai», dicono Deena e Leighton all’unisono, poi lei si porta una mano alla fronte, come se non potesse ancora crederci. «Ma si sbagliava: è durato un sacco di tempo.» «Già», continua Leighton. «Hanno licenziato il produttore esecutivo, eliminato tutti i riferimenti politici sostituendoli con battute dozzinali, aggiunto quel tipo odioso nel cast…» «York, l’idiota?» «Lui», conferma Deena. «E lo hanno spostato al venerdì sera alle venti, dov’è rimasto, senza vincere alcun premio né meritare una pietosa cancellazione, per sette anni. Sette anni della mia carriera, quelli migliori! L’attore che interpretava il capo era un ubriacone e arrivava sul set sempre in ritardo, York si scopava le comparse nella sua roulotte, lo sceneggiatore si credeva una specie di genio. Insomma, è stata un’esperienza fallimentare sotto ogni punto di vista. E questa, amica mia, è la storia di come ho sacrificato gli anni migliori alla tutt’altro che innovativa serie televisiva Voilà Pierre.» «Il gatto parlante francese!» aggiunge trionfante Leighton. «Tutti insieme!» «Sacre bleu!» esclamiamo in coro. «Ed è anche il motivo per cui sono fuori dal mondo dello spettacolo», conclude Deena. «Allora perché continui ad andare a lezione?» le chiede Leighton con aria ironica, e intuisco che conosce già la risposta, ma mi avvicino, perché io non la so, ed è una domanda che mi sono posta spesso anch’io. «Perché, Leighton, mi resta ancora una mossa da fare, una sola a cui tengo davvero, un ultimo sogno che ancora non hanno infranto, e non lascerò questo mondo terribile senza averlo realizzato.» «Diglielo, Dee», la incita Leighton con un sorriso. «Raccontalo a Franny.» «In questa città non c’è attore con un briciolo di talento che non abbia sul suo curriculum un’esperienza che io non ho. E non ho intenzione di gettare la spugna finché non la otterrò anch’io.» «Che cosa?» le chiedo. «Una parte in un telefilm per il quale sarei perfetta, senza ombra di dubbio.» Fa un respiro profondo e strizza gli occhi, poi dice, lentamente e studiatamente: «Non mollerò, finché non otterrò una parte nel mio telefilm preferito: Law & Order». «Non hai mai recitato in Law & Order?» replico sorpresa. «Ma saresti…» «Lo so. Ho persino un po’ di sangue irlandese e italiano nelle vene. Chi conosce gli sbirri e i criminali meglio di me?» «E allora perché non hai fatto un provino?…» «Gli attori conosciuti per aver recitato in un ridicolo telefilm il cui protagonista

principale era un animale parlante a volte fanno fatica a essere presi sul serio.» «Ma è stato otto anni fa!» protesto, indignata. «La cosa buffa di questo mestiere», dice con una nota triste nella voce, «è che non puoi sapere in anticipo come andranno le cose.» Alla fine siamo gli ultimi a uscire dal locale. Ci incamminiamo lungo la Quarantaseiesima Strada, Deena da una parte, io dall’altra e Leighton al centro, proprio come quando eravamo seduti al bancone. Barcollo leggermente. L’aria è più mite, ora, e mi sento euforica. «Vi adoro, ragazzi», proclamo, trattenendo a stento le lacrime, e Deena mi abbraccia forte. «Cavoli. Non reggi l’alcol, eh?» dice, stringendomi a sé. «Be’, anch’io vi adoro, ragazze, è un dato di fatto», aggiunge Leighton. «Deena, luce dei miei occhi, andiamo a casa.» «È tardi, tesoro», osserva Deena, rivolta a me. «Prendi un taxi, vero?» Può essere pericoloso andare in metro fino a Brooklyn a quest’ora. Dovrei chiamare un taxi, ha ragione, ma mi vergogno troppo per dirle che ho soltanto otto dollari in tasca, e probabilmente meno di venti sul conto, quindi non posso nemmeno andare a prelevarli. Domani sera prenderò le mance e un anticipo sullo stipendio, e li porterò direttamente nella parte più schifosa della Quinta Avenue a Brooklyn dove mi cambieranno immediatamente l’assegno a prezzo di una commissione mostruosa. Non posso aspettare il tempo che impiega la banca per liquidarlo o la bolletta della luce andrà in mora. Jane è la mia migliore amica, ma una bolletta non pagata la rende una persona molto pericolosa. Senza aspettare una risposta, Deena mi infila dolcemente in mano una banconota da venti dollari e ferma un taxi. «Me li restituirai la prossima volta. Fatti sentire, questa settimana, d’accordo? Facci sapere come va.» Mentre mi rannicchio sul sedile posteriore e saluto dal finestrino, Leighton grida: «Mi dispiace per la tua sbornia!» e Deena mi manda un bacio. Do al tassista il mio indirizzo e, anche se brontola per la lunghezza del tragitto fino a Brooklyin, alla fine accetta di accompagnarmi e ci avviamo lungo la Nona Avenue. Le insegne al neon che a volte sembrano brillare troppo grandi e desolate ora mi paiono accoglienti e amichevoli. Stasera ammiccano allegre, quasi all’unisono, come se volessero festeggiare, contente che abbia deciso di restare.

7

A CASA, salgo furtiva le scale cercando di fare più silenzio possibile, ma poi mi ricordo che Jane è ancora al lavoro. Mi tolgo le scarpe in salotto, per non disturbare i vicini del piano di sotto, ed entro in cucina in punta di piedi, indugiando davanti alla camera da letto di Dan. Appoggio l’orecchio alla porta, cercando di capire se è ancora sveglio. Spero di sì. Non sono ancora pronta per andare a dormire. Voglio raccontare le novità a qualcuno. Come se mi avesse letto nel pensiero, l’uscio si spalanca e balzo indietro appena in tempo per evitare di essere colpita in pieno viso. Ma non è Dan. Davanti a me, con un cerchietto per capelli in tartaruga e l’accappatoio rosa bordato di verde che è sempre appeso dietro la porta del bagno, c’è Everett. Lei sobbalza. «Oddio!» esclama, portando una mano al petto, e per un istante penso che possa davvero perdere i sensi. «Scusa, sono soltanto io», dico, cercando di darmi un contegno. Sorrido a Everett, ma dentro di me sto morendo dalla vergogna. Non ho visto la sua Chanel al solito posto, sul tavolo del salotto. È in pelle trapuntata blu scuro e ha una catena d’oro al posto della tracolla. Mi ha detto che gliela hanno regalata i suoi genitori per la laurea. Di solito la lascia sul tavolo, sopra un tovagliolo aperto. Quella borsa mi ha sempre affascinata, perché per quanto ne so è l’oggetto più costoso che abbia mai visto così da vicino, ma la faccenda del tovagliolo un po’ mi infastidisce, come se Everett insinuasse che è abituata a ben altri standard di igiene. Eppure è una ragazza adorabile e voglio che si senta a suo agio. Vive a Manhattan e non dorme quasi mai qui a Brooklyn, perché lavora in centro e deve cominciare presto tutti i giorni. «Scusami», ripeto. «Vi ho svegliati?» «Oh, no. Dan dorme come un ghiro, ma domani ho una riunione importante e non riesco a chiudere occhio. Bevi una tazza di tè con me?» Non sono un’assidua consumatrice di tè e non sapevo che ne avessimo, nella nostra credenza semivuota. Dev’essere stata lei a comprare il barattolo rosso dall’aria esotica che sta prendendo da uno dei ripiani più alti della cucina. È affascinante guardarla mentre versa l’acqua bollente dalla teiera. Sono incantata dalla semplicità con cui maneggia il colino che contiene le foglioline, rapita dall’anello di fidanzamento che scintilla sulla sua mano. Chissà se se lo toglie e lo

posa su un tovagliolo, la sera prima di andare a dormire. «Latte o limone?» mi chiede. «Ehm, latte.» Abbiamo la stessa età, ma qualcosa, nei suoi modi formali, mi costringe a sedermi composta sul divano, come se fossi ospite di una vecchia parente, e non nel mio salotto, a Brooklyn. «Allora, Franny.» Si cala il cerchietto sugli occhi e lo rimette al suo posto dietro le orecchie, scostando una ciocca inesistente dalla fronte. «Come va con la recitazione?» Non so bene come spiegarglielo in modo che possa comprendere. Cosa posso dirle? Oh, bene, grazie, oggi è andata alla grande, ma ho paura di non essere abbastanza brava, paura di non diventarlo mai. «Bene, grazie.» Cala il silenzio, mentre sorseggiamo il nostro tè. «Sono appena stata a vedere Il fantasma dell’Opera con la mia famiglia», prosegue lei. «L’hai visto?» «No.» «Ah, è meraviglioso. Che magia! C’è un lampadario gigantesco che spunta dal nulla. È bellissimo.» Immagino di essere nel cast dello spettacolo e di essere costretta ad ascoltare le persone che parlano del lampadario come della loro interpretazione preferita. Sono senza parole. Poi mi ricordo che ha detto di avere una riunione, l’indomani. «Ah, proprio stasera ho scoperto che avrò una serie di appuntamenti con alcuni agenti», butto lì, cercando di riempire il silenzio. «Oh, gli appuntamenti!» commenta, come certe persone potrebbero dire: Oh, il gelato! Oppure: Oh, diamanti gratis! «Sì. Due, per la precisione. Due appuntamenti.» «Ahh. Due appuntamenti? Per il tuo lavoro? È… positivo, vero?» «Sì, io… Mi hanno chiamato due agenzie, stasera. Per gli incontri dobbiamo ancora fissare gli orari, però.» Everett annuisce ma ha l’aria preoccupata, come se diffidasse. «È così difficile, non trovi?» dice, sospirando e scuotendo la testa con aria mesta. «Davvero difficile, sì. Cioè, in che senso?» Everett guarda il soffitto come se si fosse accorta per la prima volta della sua esistenza e batte le palpebre. Ha un profilo tagliente, il corpo è una sequenza di spigoli. C’è qualcosa di così regale ed essenziale, in lei. Non riesco a immaginare che possa ridere sguaiatamente o scoppiare a piangere in preda a una crisi di nervi. Non parla, indugia, e un non so che nei suoi modi mi dice che è abituata a far aspettare la gente. Mi chiedo cosa si provi a non doversi mai preoccupare di riempire il silenzio. Alla fine i suoi occhi si posano di nuovo su di me. «Be’, nel senso: detto tra noi, quando ti ascolto, mi viene in mente anche Dan, e francamente mi preoccupo. Lui sgobba, proprio come se avesse un lavoro vero, ma come faccio a saperlo? Otterrà mai qualche risultato? Come si fa a restare in

attesa che qualcun altro riconosca e premi i tuoi sforzi? Come si convive con questa incertezza?» «Non lo so. Si fa e basta, credo. Non c’è altra soluzione, se non quella di stare a vedere, finché ce la fai.» «E quando capisci che è arrivato il momento di gettare la spugna? Nel caso di Dan, nessuno gli sta dicendo un no vero e proprio, ma nessuno gli sta nemmeno dicendo di sì. È in una specie di enorme vuoto, no?» «Sì, credo di sì.» Everett non mi sta raccontando niente che non abbia già pensato, ma c’è qualcosa di deprimente nella sua descrizione, qualcosa di così poco rassicurante nel suo tentativo di essere comprensiva. «Nel mio lavoro», prosegue, «tra fusioni e sinergie, abbiamo avuto un vero boom. Gli LBO sono ancora le fondamenta del business, ovviamente, ma l’incremento dei flussi del capitale globale si sta concretizzando sotto forma di entrate ancora più consistenti. Viviamo in un momento di grande euforia. E con una sostanziale sicurezza. Lavoriamo sodo, e alla fine della giornata otteniamo un guadagno quantificabile o, a volte, una perdita; ma guardiamo gli stessi numeri e sappiamo di aver fatto qualcosa di concreto. È reale, non so se mi spiego.» Annuisco con forza, per farle capire che sono d’accordo con lei, ma, a dire il vero, il mondo di Everett non mi sembra più quantificabile del mio, e l’unica immagine che si materializza davanti ai miei occhi è una serie di numeri che danzano allegri su uno schermo di computer mentre enormi banconote piovono dal soffitto a fine giornata. La mia mente incomincia a vagare, lontana. Everett si avvicina, infervorata, e mi sforzo di concentrarmi sulle sue parole, ma sono distratta dal suo anello, dal modo in cui cattura la luce, e dalle sue unghie. Sono così lisce, lucide e levigate. Esiste uno smalto che imita il colore naturale delle unghie? O è una base trasparente, e allora è la carne sotto a essere così incredibilmente rosa? Qual è lo scopo? Far vedere che ha messo lo smalto, o dare l’illusione di non portarlo? Usa lo stesso colore anche per le unghie dei piedi, o mette colori più audaci? Nel suo mondo, abbinare il colore dello smalto di mani e piedi è considerato elegante o pacchiano? «Lo pensa davvero», sta dicendo. Merda. Ho perso il filo della conversazione. Non ho idea di quel che mi sta dicendo. «Scusa, dicevi?» «Dan. Pensa che tu abbia un vero talento.» «Sul serio?» «Sì. Mi ha detto che una volta hai girato uno spot pubblicitario, se non sbaglio. E dopo essersi trasferito qui ti è venuto a vedere a teatro. A Broadway, credo. O era Off-Broadway? Mi ha detto che interpretavi due ruoli: quello di una psichiatra e un altro, una governante francese, mi pare.» «Una cameriera inglese. È andato in scena due sere. Non lo definirei nemmeno Off-Broadway. Off-Off-Broadway, piuttosto.» «Sì! Esatto! Mi dice sempre che non ti aveva nemmeno riconosciuta nei panni della cameriera, perché eri così diversa. Lo hai davvero colpito. È il tuo primo

ammiratore. Il primo di una lunga serie!» Everett sembra compiaciuta, come se mi avesse fatto un regalo, come se ora potessi cominciare la collezione dei miei ammiratori, fino a diventare la beniamina del pubblico. «Be’, grazie per avermi tenuto compagnia», conclude, posando la tazza con un leggerissimo tintinnio. «Mi sono divertita un sacco. Avevo una gran voglia di conoscervi meglio. Siete così carine con il mio Dan. Ti lascio il numero del mio ufficio. Se una volta passi dalle mie parti, possiamo pranzare insieme.» Sorrido, anche se mi colpisce la scelta dell’espressione. Forse quelli delle banche pranzano mentre il resto del mondo mangia. «Che buffo», sospira Everett mentre si alza dalla poltrona. «Quando Dan e io ci siamo conosciuti a Princeton, stava studiando medicina. Stava intraprendendo una carriera vera. Ma poi ha rinunciato a tutto, e per cosa? Dovremmo lasciarci alle spalle certe esperienze, non credi? Tipo tagliare i capelli troppo corti per capriccio, o fare il giro d’Europa con lo zaino in spalla. Nell’appartamento di Frank le luci sono spente da ore. Dovrei dormire, ma sono sveglia come un grillo. Ho rivissuto lo spettacolo di fine anno in ogni singolo particolare, ma per qualche ragione ora sto pensando a Dan ed Everett a letto insieme. A dire il vero, non so come, non riesco a immaginarli, per quanto mi sforzi. È quel cerchietto: fatico a immaginare Everett con il cerchietto di tartaruga. Continuo a vederla mentre entra nel letto, si accoccola accanto a lui, mormorando «Ti amo» nel buio. E magari Dan si sveglia, si gira e ripete le stesse parole, ma rivolto a me. Fuori passa un’ambulanza, a sirene spiegate, e spalanco gli occhi. Rivolto a lei, volevo dire. Mormora «Ti amo» a lei. Anche se nessuno sa cosa stavo pensando, arrossisco. Non so perché ho questa assurda fantasia in cui porto un cerchietto che non mi appartiene e una persona che non mi interessa per niente mi dice che mi ama. Forse mi manca Clark. Magari domani lo chiamerò per dargli la buona notizia. Tempo fa mi ha lasciato un messaggio in segreteria, ma continuo a rimandare, non so perché. Forse dovrei aspettare un altro po’. Si sentirebbe peggio, se gli racconto del mio piccolo successo? Avvicinarmi al mio obiettivo, implica che mi sto allontanando da lui. Aspetterò, penso, e per una volta, invece di essere assalita dall’ansia, all’idea dei sei mesi che ancora mi restano mi concedo un pensiero sfrenato. C’è ancora tempo.

8

«CI sono due nuovi messaggi.» Biiip «Frances, sono io, tuo padre. Quello che abita in Connecticut. Te lo dico nel caso in cui le tue lettere, che sono sicuro tu mi abbia mandato, siano state recapitate a un altro padre in un altro Stato. Ti ho spedito l’assegno. Non preoccuparti per i soldi. Non li rivoglio. Però chiamami prima che incominciamo a leggere Ring Lardner, martedì, d’accordo?» Biiip «Franny, ehm, ciao ( fruscio di fogli). Sono James. Franklin (rumore come se esalasse una boccata di fumo, o avesse il fiatone). Eh, senti. Pensavo… be’, perché non ce ne andiamo tutti a bere qualcosa, un giorno di questi? Così, tutto qui.» Biiip Le cose stanno finalmente girando per il verso giusto. Ho ottenuto la parte per la pubblicità del detersivo, ho fissato i due appuntamenti con le agenzie e ho ricevuto una telefonata da James Franklin, anche se il contenuto era piuttosto vago. Ma che importa: la sua irresistibile voce roca è sulla mia segreteria telefonica e non trovo la forza di cancellare il messaggio. L’ho ascoltato allo sfinimento, poi ho deciso di interpellare Jane per decifrarlo. «Mi chiede di uscire, vero?» le chiedo dopo averle fatto ascoltare la registrazione per la terza volta. Jane scuote la testa. «Ha detto: ‘Perché non ce ne andiamo tutti a bere qualcosa?’ Non vuole uscire con te.» «Perché chiamarmi, allora? Secondo me è il suo modo di invitarmi fuori.» «Tutti significa: ti ho chiesto il numero di telefono perché sei carina, ma sto con una, quindi sto raccontando a me stesso una balla colossale – e cioè che mi sono fatto dare il numero perché mi interessa la tua amicizia – e con questo messaggio ti sto invitando a uscire, un giorno di questi, con me e la mia ragazza; cosa che non accadrà mai, ma mi fa sentire un po’ meno stronzo per averti tampinata. Tesoro, ha detto ‘tutti’. Adesso possiamo cancellare il messaggio? Ricordati cos’è successo l’altra volta.» Per lo spot del Niagara, l’agenzia Brill aveva fatto i salti mortali per contattarmi, perché né io né Jane ci eravamo accorte che il nastro della segreteria telefonica era pieno. Così avevo deciso di utilizzare quel servizio in cui ti assegnano una

persona che prende le tue chiamate, come se avessi un vero ufficio e un assistente. All’inizio era elettrizzante comporre il numero per sapere se c’erano nuovi messaggi. Ma dopo qualche giorno e niente in vista, mi era parso di cogliere una nota di compassione nella voce dell’operatore, così avevo chiesto a Dan di fare una telefonata, per avere almeno un messaggio da ascoltare. «Ma cosa devo dire?» aveva chiesto con aria perplessa. «Quello che ti pare», gli avevo risposto. «Fingi di dovermi contattare per qualcosa. Qualcosa di credibile, ma non banale.» «Mi sentirei più tranquillo se avessi più chiari i parametri di questo incarico», aveva commentato con aria pensierosa. «Dan, sono in ritardo. Prendi il titolo di una pièce e inventati il nome di un teatro. Nessuno darà un voto alla tua prestazione, va bene? Voglio soltanto che quel tizio pensi che ho una vita.» Anche se sembrava agitato, sapevo che avrebbe gestito la situazione con la stessa precisione con cui affrontava lo studio, quindi il mattino dopo, quando avevo composto il mio numero, ero piuttosto fiduciosa. «Risponde il numero di Frances Banks», aveva esordito la voce. «Salve, sono io in persona», avevo risposto con sussiego. «Ci sono messaggi per me?» «Sì, signorina Banks. Ha ricevuto una telefonata per una parte.» «Fantastico!» avevo esclamato con il piglio disinvolto di un’attrice che riceve proposte pressoché quotidiane. «Mi può dare tutte le informazioni?» «Si tratta della parte di Martha in Chi ha paura di Virginia Woolf?» Sono troppo giovane, per quel ruolo, ma almeno Dan mi aveva dato una parte da protagonista. «Oh, meraviglioso! La cara vecchia Martha», avevo commentato con calore. Magari l’operatore avrebbe pensato che avevo interpretato quel ruolo decine di volte. E forse avrebbe cambiato tono con me. «All’Old Horse Theater di Princeton, nel New Jersey», aveva aggiunto. Sbagliavo o c’era una nota di sarcasmo, nella sua voce? «Perfetto, grazie.» All’altro capo del telefono era calato il silenzio. «Ha altre informazioni da darmi?» «Ecco, non sono affari miei, ma non ne ho mai sentito parlare, così ho fatto una ricerca e sembra che non esista nessun teatro con quel nome.» Ricerca? Come? Dove? Aveva passato al setaccio lo Stato del New Jersey cercando di smascherare l’inganno? «È un teatro piccolo», risposi in tono indignato. «Piccolo, ma molto rispettato.» «Certo, se lo dice lei. È che abbiamo l’elenco completo dei teatri stabili, e relative categorie, e non l’ho visto da nessuna parte.» Ops. Un elenco completo e relative categorie? Non lo sapevo. «Sì, ma questo è nuovo. E recentemente hanno aggiunto una categoria in più, sa, per… per i teatri d’avanguardia», avevo aggiunto poco convinta, per poi riagganciare bruscamente. Il giorno dopo avevo annullato il servizio e io e Jane ci eravamo ripromesse di tenere la segreteria sgombra. Però non ho intenzione di cancellare il messaggio di James. Non ancora.

Dovevo iscrivermi al sindacato degli attori, ma per farlo avevo bisogno di più di mille dollari. Puoi lavorare una sola volta senza tessera, poi sei obbligato a prenderla, e io stavo per girare il mio secondo spot. Dato che sul mio conto c’erano solo ottanta dollari, avevo telefonato a mio padre per chiedergli di mandarmi il denaro necessario attraverso la Western Union. Aveva accettato, ma c’era voluto un po’ per fargli capire perché dovevo tirar fuori mille dollari per lavorare. «Perché non puoi pagare il sindacato dopo aver incassato il tuo compenso?» «Non posso lavorare, finché non sono iscritta.» «Però sanno che hai fatto il provino per la parte, anche se non sei iscritta.» «Sì.» «E sanno che sarai pagata, perché quel provino era per un lavoro di loro competenza. E adesso sanno che devi iscriverti, perché hai ottenuto la parte.» «Sì.» «Sanno che riceverai il tuo compenso, ma non aspetteranno che tu riceva il denaro per pretendere di essere pagati?» «Papà, esatto.» «E io che credevo che Marx fosse complicato.» Ero stata anche costretta a domandare un giorno libero al locale. Era già il secondo ed Herb mi disse che avrei dovuto fare attenzione a non chiederne altri per almeno un mese, o avrebbe pensato che non prendevo il mio lavoro sul serio. Quel pomeriggio avevo ricevuto il fax con l’orario e il luogo dell’appuntamento, e quando avevo visto il mio nome in cima all’elenco del cast avevo sentito un tuffo al cuore. Sotto la dicitura RUOLO c’era scritto «Moglie». Nello spot pubblicitario per Sally’s Wear House, ero indicata come «Ragazza col maglione n. 3». Non vedo l’ora di interpretare qualcuno con un nome vero. La sveglia suona alle quattro e mezzo del mattino, e per un istante penso che ci siano i ladri. «Chi è?» dico nell’oscurità. Poi mi ricordo. Sono pronta a tempo di record e corro a prendere la metro. Mi siedo accanto a passeggeri con gli occhi gonfi di sonno, in un vagone più silenzioso del solito. Tra la Settantaduesima e Broadway scendo e faccio un isolato a piedi verso il parco, prima di accorgermi che sto andando nella direzione sbagliata. Torno velocemente indietro, senza aspettare che i semafori diventino verdi, destreggiandomi tra le auto. Il traffico non è troppo intenso e il sole è ancora basso in cielo. Supero alcuni furgoni, circondati da coni arancioni e cartelli attaccati ai pali della luce che dicono: DIVIETO DI PARCHEGGIO: RIPRESE CINEMATOGRAFICHE. Dev’essere il set, il mio set. Una ragazza robusta con un enorme berretto di pelliccia col paraorecchie è ferma accanto ai furgoni, intenta a parlare in un walkietalkie. «Ciao, scusa», dico. «Cosa ci fate, qui?» «Reclamizziamo una maionese», mi risponde burbera. Sono nel posto sbagliato. Com’è possibile? Com’è possibile che girino due spot

diversi nello stesso luogo? «Cioè girate una pubblicità per una maionese?» preciso per sicurezza. «Sì», risponde come se fossi dura d’orecchi. «Buongiorno.» E mi dà le spalle. Faccio il giro dell’isolato di buon passo, guardandomi a destra e a sinistra, e incomincio a sudare. Non ci sono altri posti che abbiano l’aria di un set. E in agenzia non ci sarà nessuno che possa aiutarmi. Non ho l’orologio, ma sono sicura di essere in ritardo, ormai. Alla fine torno al punto di partenza, dove alcuni ragazzi massicci stanno scaricando da grossi camion cavi elettrici e borsoni. La ragazza col berretto di pelliccia è ancora lì, adesso sta fumando una sigaretta mentre chiacchiera con un tipo che indossa un cinturone di cuoio a cui è attaccato un walkie-talkie. Quando mi vede, mi guarda con diffidenza. «Uff…» sento che dice a mezza bocca. Mi viene voglia di proseguire. Non voglio parlarle di nuovo. È ovvio che pensi di avere di fronte una mezza squilibrata con la fissa per la maionese. Ma ho bisogno di aiuto. «Salve, scusami, sono di nuovo io. Lo so che qui fate lo spot di una maionese, ma sono un’attrice e mi aspettano per girare la pubblicità di un detersivo per lavatrici, il Niagara. Il set dovrebbe essere nei paraggi. Ho pensato che magari vi conoscete tutti e…» La sua espressione cambia completamente e butta la sigaretta a terra. «Ti stanno cercando», dice il tipo con il walkie-talkie alla cintura. «Oh, merda!» esclama la ragazza. «Mi dispiace. Credevo che fossi… Ciao, sono Mavis, l’assistente dell’assistente. Ti accompagno alla tua roulotte. Hai bisogno di una mano con la borsa?» Mi precede, senza smettere un attimo di parlare. «Mi dispiace, di solito lavoro in produzioni con, be’, attori famosi, non che tu non lo sia… Merda, comunque, dobbiamo sempre rispondere così quando la gente chiede cosa stiamo girando, dobbiamo dire che è una pubblicità di maionese, perché non interessa a nessuno chi interpreta uno spot del genere, e così quelli se ne vanno e non restano a gironzolare e a fare domande e a cercare di vedere Russell Blakely, per dire, ma avrei dovuto… Sull’elenco del cast il tuo personaggio è indicato come ‘Moglie’ e, senza offesa, mi sembri troppo giovane per la parte; cioè, sono sicura che lo farai in modo perfetto, però…» Mentre continua a blaterare, mi accorgo che sto provando una sensazione completamente nuova, qualcosa che non riesco bene a definire. Ero completamente intimidita da Mavis col berretto e il walkie-talkie, ma ora è cambiato tutto e lei mi sta chiedendo scusa, cercando di farmi sentire a mio agio. Mi sta trattando come se fossi una persona importante, come se fosse alle mie dipendenze. Non ho mai avuto qualcuno a mia disposizione e non voglio che Mavis si senta come mi sono sentita io dieci minuti fa. «Ecco, questa è la tua roulotte. Per il trucco e i capelli devi andare nell’altra, la vedi quella grande laggiù? Ti mando subito qualcuno dal guardaroba con i vestiti di scena, dirò che sono stata io a farti arrivare in ritardo, è colpa mia al cento per

cento e spiegherò al regista che…» «Mavis», la interrompo fermandomi davanti alla porta. «Sì?» risponde strizzando gli occhi al sole, il viso semicoperto dalla tesa del suo berretto. «Questo è il mio primo lavoro vero. Non so niente. Per esempio, non ho idea di cosa faccia un’assistente dell’assistente.» Mavis mi sorride e sembra rilassarsi. «È l’assistente dell’assistente regista. In pratica ti dico dove andare e quando, e devo assicurarmi che la tua giornata proceda liscia, senza grane di alcun genere. Ti va un caffè?» «Mmm, certo. Dove lo trovo?» «Te lo porto io.» «No, no, non preoccuparti, mi arrangio.» Non voglio contrariare di nuovo Mavis. «Okaaaay. È che ti aspettano subito al trucco ed è piuttosto complicato spiegarti dov’è il servizio bar. Ci penso io. A meno che… non so… magari hai qualche gusto particolare e pensi che non possa farcela a preparartelo?» Sto solo cercando di essere gentile, perché non mi sognerei mai di chiedere a uno sconosciuto di portarmi un caffè, ma a quanto pare Mavis sembra prenderla come un affronto. Non capisco dove sbaglio. Questo ambiente ha regole diverse da quelle del mondo in cui ho vissuto finora. Chissà se le imparerò mai. «No, niente di speciale. Direi che, ecco, latte e zucchero vanno benissimo, grazie.» «Nessun problema», replica Mavis, con un tono che fa pensare all’esatto contrario. Entro nella roulotte guardaroba, vicino alla mia, e sono sempre più confusa. Ci sono due enormi rastrelliere, una piena di pantaloni kaki, l’altra con trenta o quaranta camicette azzurre, più o meno identiche. «Oh… aspettate… aspettate altre persone?» chiedo a una ragazza dall’aria infastidita. Lei mi guarda come se avessi detto qualcosa di molto strano. «Cosa? Oh, per questi? Noooo. Sono tutti per te.» «Ma non sono tutti uguali?» domando ridendo. «No, anzi, direi che è un bell’assortimento», ribatte sostenuta, come se non ci fosse nulla di cui ridere. «Sono Alicia, a proposito, la costumista.» Mi chiedo come possa sentirsi visto che, nel mio caso, il suo lavoro si limiterà alla scelta di una camicetta azzurra e un paio di pantaloni kaki. «Mi dispiace che siano molti capi, ma non conoscono la differenza tra uno spigato e un gabardine, figuriamoci se provo a proporre accessori come le ghette o qualcosa che abbia stile. Comunque, dovremo provarli tutti. Il cliente ha le idee molto chiare in merito a quello che vuole. Ho insistito perché prendesse in considerazione anche i jeans, ma non voleva niente di troppo metropolitano.» Non so chi sia questo fantomatico «cliente», ma temo già la sua opinione su me e la sua condanna senza appello dei jeans. Quindi provo docilmente una sequenza infinita di pantaloni e fingo di essere d’accordo con Alicia, che li trova tutti

differenti l’uno dall’altro. Alla fine ne individua un paio di suo gradimento, che però mi va stretto in vita. «Perfetti. Facciamo una foto anche con questi addosso. Forse sarà necessario aprirli un po’ dietro. Non dovreste imbrogliare con le misure, ragazze», aggiunge. Si sforza di sorridermi, ma avverto un apunta di irritazione. «Non ho imbrogliato», replico il più gentilmente possibile. «Almeno, non credo.» «Be’, che taglia hai dato, in pollici?» «Non sapevo si misurasse in pollici.» «Be’, per i pantaloni funziona così, adesso. Probabilmente l’equivoco è nato da lì. Non preoccuparti. Starai seduta per la maggior parte del tempo, per fortuna, quindi potremo improvvisare. Come ti dicevo, possiamo aprirli un po’, se occorre.» Non posso credere che voglia rovinare un paio di pantaloni nuovi soltanto per farmi stare più comoda un paio d’ore. E mi sento in colpa a causa delle mie forme. «Qual è la taglia giusta da portare? In pollici, intendo.» Alicia riflette un istante, poi decide che vale la pena istruirmi. Prende fiato. «Be’, io di solito lavoro per il cinema.» Pausa a effetto. «Oh», dico, senza sapere come proseguire. «L’ultima volta, con Cordelia Biscayne.» Inarca un sopracciglio. «Caspita.» Cerco di sembrare colpita il più possibile. «Già. Ero una delle assistenti della costumista. Ma, tornando a noi, bisogna dire che Cordelia è proprio una bambolina, e porta una ventisei, o ventisette. Tu probabilmente indossi una ventinove, o trenta. Quindi», prosegue comprensiva, «non starci troppo male: hai un bel personale e non tutte possono aspirare a essere Cordelia Biscayne, ti pare? Però è comunque un modello a cui tendere.» Tra gli obiettivi che mi sono prefissata, non mi è mai passato per la testa che potessi essere tanto precisa, che potessi ambire a una meta davvero misurabile. Forse è così che ragionano le persone arrivate. Mi chiedo se la differenza tra il successo e il fallimento possa essere quantificata da una taglia di pantaloni. Be’, non mi lamento, potrei dire, ma mi mancano ancora tre pollici per raggiungere la vetta. Penso alla fatica che ho fatto per entrare in una ventinove. Non oso immaginare alle rinunce che dovrei fare per arrivare a una ventisei. Ma trovo giusto, in fondo, che le Cordelia Biscayne di questo mondo siano diverse da noi, e in qualche modo irraggiungibili. Tre pollici o trecento per me non fanno differenza, oggi. «Ciao, sono Carol, la truccatrice. Hai delle allergie o delle preferenze di cui dovrei essere al corrente?» Sono seduta davanti a uno specchio enorme, in mezzo a una parete di specchi, incorniciati da decine di lampadine fluorescenti. Al bagliore accecante dei neon il mio viso non sembra lo stesso che ho a Brooklyn. Mi domando quale dei due sia il mio vero volto. «Mmm, no, non credo», rispondo. Chissà se, col tempo, avrò anch’io delle preferenze in fatto di trucco, e quali saranno. Spero di fare questo lavoro

abbastanza a lungo da svilupparne alcune, in modo da non sentirmi così impreparata di fronte a queste domande. La truccatrice alza un interruttore accanto alla sua postazione e si accendono altre cento lampadine. «Caspita, non pensavo di avere così tante lentiggini.» Non riesco ad abituarmi alla nuova faccia che riflette lo specchio. «Vediamo.» Carol inforca gli occhiali attaccati a una catenina intorno al collo e avvicina il viso al mio. Resto immobile, come se fossi davanti all’occhio attento di un dottore. «Be’. Hai un po’ di lentiggini, è vero. Ma non si notano troppo. Non sono un problema, uniformo il colore della tua pelle, se vuoi.» Sospira. Non penso di piacerle. «Va bene, fantastico. Come credi. Grazie.» «Vuoi una rivista?» mi chiede. «Oh, sì, certo. Grazie ancora.» Non capisco se sia scorbutica di natura o per colpa mia. Sfoglio il National Enquirer. Michael è l’artista più ricco dopo Elvis! Spese pazze per Cordelia Biscayne! Il dramma di Candice Bergen! Vorrei avere qualcos’altro da leggere. Questa roba mi nausea. Ci sono così tante persone da conoscere, penso leggendo le lettere d’amore di Lady D. Moltissimi nomi. Come farò a ricordarmi i nomi di tutti quelli che incontrerò in un solo giorno? Ma non sarà scortese non provarci nemmeno? Mavis, Alicia, Carol, ripeto dentro di me. Mavis, Alicia, Carol. «Preferisci farlo da sola?» Alzo gli occhi dalla rivista e vedo Carol che mi agita davanti al naso uno strano oggetto metallico. Non ho idea di cosa sia né di come dovrei usarlo. «Scusa… a che serve?» Mi guarda da sopra le lenti degli occhiali, sorpresa. «Non ne hai mai visto uno?» «No.» «Impossibile. È un piegaciglia! Sono sicura che tua madre ce l’ha.» Mia madre potrà anche averlo avuto, è vero, ma nel periodo in cui avrei potuto essere interessata a un oggetto del genere, lei non c’era più. Non ho alcuna voglia di spiegarlo a Carol, però. «Oh, certo, è probabile», mi limito a dire. Avvicina lo strumento minaccioso al mio viso, blocca le mie ciglia nella fessura e stringe forte. Ho la sensazione che mi abbiano preso la palpebra, tirando fino a rovesciarla completamente, e mi vengono le lacrime agli occhi. «Tutto bene?» mi chiede. «Sì», replico a denti stretti. Vorrei chiederle se posso continuare da sola, ma temo che mi abbia preso in antipatia e decido di sopportare in silenzio. Le mie ciglia ora sembrano quelle di una bambola che avevo da bambina, che teneva sempre gli occhi spalancati anche quando la mettevi a dormire. È il turno della parrucchiera. «Ciao, sono Debra. Mi occupo io dei tuoi capelli.» (Mavis, Alicia, Carol, Debra.) È una donna di colore sulla cinquantina, con le fossette, e non è per niente scorbutica: «Ma guarda che riccioli! Sicura di non

avere qualcuno con la mia pelle fra i tuoi antenati?» Scoppia a ridere e mi tocca una spalla. «Non preoccuparti. Ci penso io a domarli.» Miracolosamente, sa il fatto suo. Invece di lisciare le ciocche, prende un arricciacapelli e trasforma l’abituale massa crespa e disordinata in una cascata di onde lucide e regolari. Piega la testa di lato e guarda il mio riflesso allo specchio. «Ecco fatto», dice avvolgendo un ricciolo intorno a un dito e tirando leggermente. «Perderanno un altro po’ di volume, prima di arrivare sul set. Sei davvero carina.» Mi dà un buffetto sulla testa e incomincia a riporre i suoi strumenti. Sorrido a lei e la persona allo specchio, quella con il viso e i capelli da star, mi restituisce il sorriso. Non assomiglia per niente alla Franny di Brooklyn: posso soffermarmi a guardarla senza trovare mille difetti, come al solito. Forse il trucco è proprio questo: essere sempre travestita, per interpretare qualcun’altra. Solo così posso davvero apprezzare me stessa. Il «cliente», alla fine, è un gruppo di sette persone, cinque uomini e due donne; indossano completi eleganti e hanno capelli impeccabili. Capisco a malapena i loro nomi, quindi non tento nemmeno di aggiungerli al mio elenco. Mi stringono la mano e si presentano, poi non li vedo più. Però mi giungono riscontri sul loro entusiasmo, oltre il monitor, da dove mi stanno guardando. «Il cliente ha adorato questa ripresa», mi dice Bobby, il regista ( Mavis, Alicia, Carol, Debra, Bobby), e poi: «Il cliente mi chiede se potresti sorridere di più». Sono seduta e recito le mie battute guardando la telecamera, i pantaloni troppo stretti tagliati sul di dietro, la camicetta troppo larga trattenuta sulla schiena da un morsetto a pinza. Davanti ho un’aria molto elegante, ma qualsiasi altra inquadratura rivelerebbe la falsità del mio aspetto, nonché lo sforzo di presentare un’immagine unilaterale di perfezione. Bobby è sulla trentina, sempre accomodante, con riccioli castani che spuntano dal berrettino da baseball dei New York Mets. Sembra molto sicuro di sé e ha una bella stretta di mano. Indossa un paio di jeans e una giacca con scarpe da jogging. Mi dice che di solito lavora nel cinema, quindi queste riprese dovrebbero essere un gioco da ragazzi. «Le luci non saranno troppo forti, così le lentiggini non si vedranno. Mi hanno detto che eri preoccupata.» Mi guarda dritto negli occhi, serio, nel modo in cui un medico potrebbe dire: «Lei ha la leucemia». «No, non intendevo…» Voglio dirgli che si tratta di un equivoco, ma non so come fare, senza dare l’impressione di lamentarmi di Carol, la truccatrice. Decido che è troppo complicato. «Oh, sì, grazie.» Ripeto le stesse battute all’infinito, finché non hanno più alcun significato. Qualcuno con un cronometro mi prende il tempo e per circa quattro ore accelero o rallento di un secondo, due al massimo. Riprese di ventotto secondi sembrano incredibilmente più lunghe di altre di ventisei. Sorridi di più, sorridi di meno, piega

la testa di lato, parla alla telecamera come fosse la tua migliore amica, mettici un po’ di enfasi, ma senza dare l’impressione di voler rifilare una fregatura, non troppo, non troppo poco, divertiti, divertiti di più. Alla fine, una combinazione di velocità, enfasi, entusiasmo o semplice spossatezza li spinge a dire: «Ci siamo! Ci siamo!» Sono confusa, perché so che hanno effettuato diverse riprese: primi piani delle mie mani e della schiuma del detersivo e del bucato che esce dall’asciugatrice. So che useranno le varie riprese e le assembleranno per trasformarle in uno spot, quindi non so perché fosse così importante ottenere proprio quella scena perfetta, ma mi vergogno troppo per chiedere, come se mostrarmi per la principiante che sono potesse far loro cambiare idea sul risultato. Stringo le mani dei clienti e ringrazio, saluto, dico che mi sono divertita, che è anche vero, e una signora dai capelli scuri con un tailleur blu mi dice: «Sei stata fantastica! Mi ricordi un po’ me alla tua età». Poi si avvicina e bisbiglia: «Non preoccuparti, anch’io detestavo le mie lentiggini».

9

BARNEY Sparks, dell’agenzia omonima, aveva risposto di persona alla mia chiamata. Doveva avere qualche problema con il suo telefono, perché sbraitava mentre mi dava il suo indirizzo, dicendomi di passare l’indomani a mezzogiorno. Il suo ufficio era dall’altro lato della città, sulla Quarantesima Strada, dalle parti della Nona Avenue. Il modo più sicuro per raggiungerlo era tagliare dalla Quarantaduesima, che non è la mia strada preferita perché è piena di prostitute e locali che promettono peep show di ogni genere e spacciatori sui marciapiedi che cercano di venderti della sens… sensimilla? So che è un tipo di droga, ma non so di cosa sia fatta, e nemmeno se il nome è corretto. È una camminata estenuante, ma almeno c’è un sacco di gente che, per quanto poco rassicurante, vedrà quando sarò rapita e obbligata a prostituirmi. Salgo quattro rampe di scale per raggiungere l’ufficio. Quando arrivo ho la lingua fuori. Non ci sono segretarie, nell’atrio. «C’è nessuno?» chiamo. «Qua dietro, tesoro!» risuona una voce forte e roca. C’è una scrivania con una finestra alle spalle e librerie alle pareti, piene fino al soffitto di copioni e vecchie locandine teatrali. I titoli sono scritti a pennarello sul margine con un carattere grosso e tremolante, in modo che si possano leggere anche se sono impilate una sopra l’altra. Barney indossa una giacca azzurra e ha folti capelli bianchi tagliati cortissimi. La stanza è impregnata dall’odore di sigaro e polvere, ma è un aroma rassicurante. Ho paura di lasciar trapelare la mia agitazione, soprattutto quando scopro che l’unico modo per sedersi nell’enorme poltrona di fronte alla scrivania è sprofondarci dentro ed esserne inghiottiti. Resisto un minuto, cercando di rimanere elegantemente abbarbicata sul bordo, poi mi arrendo e mi appoggio, ma almeno sembro rilassata. «Frances Banks!» grida Barney. Anche con l’apparecchio acustico al massimo, mi spiega, non ha molta percezione del proprio volume di voce. Non lo fa apposta, ma quando parla, urla. Mi dice che è il suo marchio di fabbrica, e nell’ambiente lo rispettano per questo. «Frances Banks», ripete. «Un nome perfetto! Classico! Banks tiene banco! Lo vedo già a caratteri cubitali sull’Hollywood Reporter.» Fa un respiro ansimante, come ogni volta che è costretto a unire più di due frasi. È un rantolo affaticato e, come la sua voce, estremamente rumoroso. «Un nome di classe per una ragazza di classe. Ma guardati! Sei un vero e proprio ritorno al passato! La ragazza della porta accanto che assomiglia ad Ava Gardner, peccato tu non abbia le sue forme…

Ma cavoli, ho visto il tuo saggio l’altra sera. Il punto che ho preferito è stata la caduta.» Sorrido, ma non capisco se mi sta prendendo in giro. «È una battuta?» «No, tesoro. Sono sempre a caccia di imbranati. Mio padre, il grande regista di Broadway Irving Sparks, diceva sempre: ‘Sanno sorridere tutti quando le cose vanno a gonfie vele. Ma amo incontrare chi lo fa quando è nella merda’. Gli ho fatto da assistente, da giovane, avevo soltanto diciannove anni, e me ne stavo seduto in ultima fila tra il pubblico di Best Foot Forward, quando una ballerina di fila dai capelli rossi ha fatto un capitombolo spaventoso. Si è alzata subito e ha continuato a sorridere. L’ho aspettata fuori dal camerino per chiederle se voleva che le chiamassi un taxi, ed è così che io e la signora Sparks abbiamo dato inizio ai nostri cinquant’anni e oltre di matrimonio. Ma senti questa. Ti ho mai parlato di Ruth Buzzi?» Forse Barney ha dimenticato che questo è il nostro primo incontro. «Mmm, no.» «Un’attrice meravigliosa, una bambola, un talento comico.» Sibilo, rantolo, sospiro, poi: «Mi hanno chiamato, una volta, perché cercavano una ‘alla Ruth Buzzi’, e io ho risposto, ho di meglio, posso darvi l’originale! Sissignori, sono l’agente di Ruth Buzzi. Mi risposero che mi avrebbero richiamato. Sto ancora aspettando, lei non ha avuto la parte, ma è una storia vera, e un giorno, mia cara, cercheranno qualcuno alla Frances Banks, te l’assicuro. Ora dimmi, cosa vorresti combinare, in questo mondo spietato?» È passato molto tempo dall’ultima volta che mi hanno posto una domanda simile, e all’improvviso mi sento a disagio. Sono in imbarazzo a confessare a un estraneo, seppur gentile, le mie speranze. «Ti sto facendo una domanda stupida! È una tortura raccontare i propri desideri, quando non li hai ancora realizzati, vero?» prosegue. «Come fai a sapere cosa desideri, dico bene?» Scoppio a ridere. «Vero!» «Com’era solito ripetere mio padre, il grande regista di Broadway Irving Sparks: ‘Da qualche parte bisogna pur cominciare’. Quindi inizia da dove vuoi e fammi capire. Raccontami, qual è il tuo sogno?» «A dire il vero… ecco, vorrei soltanto… vorrei… lavorare. Con tutta me stessa. Qui, soprattutto. A New York. A teatro. È questo che ho in mente.» «Il teatro è meraviglioso, sono d’accordo con te, anche se credo che tu sia un volto per il grande schermo», ribatte assestandosi qualche colpetto sullo sterno per tossire meglio. «Il teatro era fantastico ai tempi di Ethel Merman. Lei sì che aveva un cachet stratosferico! Ai nostri giorni, con il teatro non mangi, e nemmeno ti compri un bell’appartamento, ma cavoli! Chi sono io per calpestare i tuoi sogni? Sono qui per aiutarti.» Provo un moto d’orgoglio sentendo i suoi complimenti. «Io sono un volto per il grande schermo» è il tipo di frase che potrebbe dire Penelope di sé, ma che io non oserei neanche pensare. «Adesso stammi a sentire, tesoro, ho sensazioni positive riguardo a ciò che ho

visto quella sera sul palcoscenico e vorrei darti una mano a partire. Quindi.» Batte le mani per sottolineare il concetto, come se avesse appena estratto un coniglio dal cappello e volesse assicurarsi che il pubblico l’abbia visto. Sono sbalordita. Ha appena detto che vuole lavorare con me. Credevo che sarebbe stato quasi impossibile sentire una frase del genere nel mio ambiente. Un agente in carne e ossa vuole rappresentarmi. Non sarò costretta a farlo da sola. Sono sconvolta. «Ma? Insomma… dice davvero?» «Sì, tesoro, davvero. Mio padre, il grande regista di Broadway, Irving Sparks, diceva sempre: ‘La classe non è acqua!’ E la tua salterà fuori, prima o poi. Chi può dire quando? È questione di tempismo, fortuna e tenacia. Però. Ce l’hai. Riconosco la classe, quando la vedo.» Voglio dirgli che accetto. Con tutta me stessa. Dentro di me, sento che Barney Sparks è l’agente giusto. Ma qualcosa mi frena. Sarebbe così semplice accettare l’offerta e uscire dall’ufficio con un agente. Forse troppo semplice. Mi guardo intorno, e le vecchie sceneggiature e le locandine che mi avevano accolto con calore quando ero entrata, ora mi sembrano accatastate in pile disordinate, squallide. Il cuoio dei braccioli dell’enorme, bitorzoluta poltrona è consunto, e intravedo l’imbottitura che fuoriesce dalle cuciture, mentre la luce che filtra dalla finestra è sbiadita, come impolverata. Esito. «Ecco, la ringrazio tantissimo, ma questo è il mio primo appuntamento e… ed è tutto nuovo, per me, quindi…» «Quindi ci vuoi pensare. Hai altri appuntamenti. È meraviglioso, cara. Chiamami, quando hai deciso.» Mi alzo a fatica dagli abissi della poltrona gigante e mi sento un po’ a disagio. Abbiamo finito, è chiaro, ma non voglio andarmene. Non ancora. C’è qualcosa che mi trattiene ed esito un istante sulla porta. «Tutto bene, tesoro?» sbraita Barney. «Hai altre domande?» «Oh, no, grazie. Volevo soltanto ringraziarla ancora. Inoltre volevo chiederle se aveva qualche consiglio da darmi.» «Richiesta eccellente. Sono sulla piazza da un sacco di tempo, posso offrirti i consigli che vuoi. Sai, piccole dritte che do ai miei attori, nel caso accettassi di diventarlo anche tu.» «Tipo?» «Mio padre, il famoso regista di Broadway, Irving Sparks, diceva sempre: ‘Non raccontarti storie sulle parti che non hai ottenuto. Impara da un rifiuto e non rimuginarci sopra. Guarda avanti’.» «Oh. Mi sembra giusto.» «Inoltre, soprattutto agli esordi, può essere utile tenere nota delle tue audizioni. Scrivere chi hai incontrato, come ti sei sentita. Cos’è andato storto e cos’è andato bene. Compra un… come si chiama? Mia moglie ce l’ha. Organista.»

«Organizer?» «Esatto.» «Ce l’ho già!» «Che ti avevo detto?» esclama raggiante. «E, in ultimo: se dovessi diventare famosa, non scrivere mai un libro di ricette.» «Oh. Va bene.» «Non è certo un motivo per rescindere un contratto, se hai talento anche per quello. È soltanto una mia piccola fissazione. Gli attori dovrebbero recitare. Non vendere profumi, o scrivere manuali di cucina.» «D’accordo!» esclamo allegra. «Vorrà dire che terrò la pasta al forno per me.» Non ho mai cucinato pasta al forno in vita mia, e con un po’ più di tempo a disposizione avrei potuto pensare a qualcosa di più divertente, ma per qualche strana ragione Barney Sparks scoppia a ridere: «Pasta al forno! Sembra una cosa orribile!» Il boato ansimante della sua risata mi segue lungo le scale. Quando arrivo a casa dopo il turno al locale in cui lavoro, verso le due del mattino, trovo Dan sul divano, con una birra stretta tra le ginocchia, intento a guardare un film in bianco e nero. «Fammi indovinare: Otto e mezzo?» gli chiedo lasciando cadere la mia borsa sul pavimento davanti all’ingresso. Sono felice che ci sia qualcuno sveglio, e di non tornare in una casa buia e silenziosa, dopo una simile giornata. «Complimenti!» dice colpito. «Non è difficile: devi averlo noleggiato almeno cinque volte nell’ultimo mese.» «Lo so», ribatte con un sorriso mite. «Spero di non darvi troppo fastidio, ragazze. Jane ne ha guardato un pezzetto con me, poi ha rinunciato ed è andata a dormire. Mi ha detto che l’ultima volta che lo ha visto fino alla fine, ha sognato di essere inghiottita dal suo cuscino. Ormai è finito: ti va di farmi compagnia?» Mi lascio cadere sul divano accanto a Dan e mi sfilo le scarpe cercando di dare sollievo ai piedi doloranti. «Parla di un regista che sta girando un film di fantascienza, giusto? È per questo che ti piace così tanto?» «Be’, parla di un regista che è in crisi: è bloccato, non trova più l’ispirazione, ha perso ogni interesse nei confronti del film che sta girando e la sua vita privata è un disastro. Forse il film di fantascienza dovrebbe alludere alla perdita della creatività, sta cercando di dare un senso alla sua vita e alla sua arte.» «Oh, tutto qui?» «Sì. La solita, vecchia storia della ricerca quotidiana del significato della vita.» Un’attrice bellissima con un paio di occhiali dice qualcosa al protagonista, interpretato da Marcello Mastroianni. Continua a muovere le labbra anche quando la voce si è fermata. «Non è in sincrono.» «All’epoca i registi italiani doppiavano i dialoghi in un secondo momento», mi spiega Dan ipnotizzato dalle immagini sullo schermo. «E poiché non era interessato

a registrare il sonoro dal vivo, Fellini faceva ascoltare agli attori della musica ad alto volume, durante le riprese, e chiedeva loro di recitare frasi generiche, che poi sostituiva con i dialoghi veri dopo averli scritti, in un secondo momento. Ecco perché le loro bocche non coincidono con le parole, ma anche perché i movimenti sono così fluidi. Sembra quasi che danzino a tempo di musica.» «Che cosa meravigliosa!» Su una spiaggia candida scorrono in processione alcuni personaggi del film, mescolati a saltimbanchi e clown vestiti di bianco. Poi la scena si sposta su una pista di circo, vuota, eccetto il bambino che interpreta Marcello Mastroianni da piccolo, intento a suonare il flauto. Le immagini sfumano e lo schermo diventa nero. Fine. «Oh», ammiro sconcertata. «La fine dovrebbe alludere al fatto che il protagonista ha accettato se stesso: mostrandone la guarigione.» «Oh», ribadisco. «Lo so. Fellini è molto astratto», commenta Dan con gli occhi lucidi. «Una volta lo guardiamo insieme dall’inizio.» «Volentieri.» Gli sorrido, e noto per la prima volta le pagliuzze verdi dei suoi occhi nocciola. All’improvviso la stanza sembra troppo buia e silenziosa e ci ritroviamo seduti troppo vicini, senza il bagliore dello schermo e il sonoro del film sullo sfondo a tenerci compagnia. Mi alzo velocemente e prendo le scarpe dal pavimento. «Meglio che vada a dormire.» «Sì. Anch’io», fa eco Dan, alzandosi e spegnendo la televisione e il videoregistratore. «Aspetta… avevi un appuntamento, oggi, vero?» «Sì.» «Com’è andata?» «Bene, molto bene, direi. Ma non ho ancora termini di paragone per giudicare e penso che sia meglio non prendere decisioni affrettate, sai. Quindi credo che mi prenderò una pausa e, be’, terrò aperte tutte le porte.» Mi sento strana, come se interpretassi un’attrice consumata che ha l’agenda fitta di provini e appuntamenti e li considera normale amministrazione. Ho adorato Barney Sparks e vorrei tanto dirlo a Dan, ma guardo sempre con diffidenza ciò che mi dà l’impressione di essere troppo semplice. Non so bene perché non mi sembra il momento giusto per dirlo, e non so bene perché non ho colto al volo l’occasione di accettare l’offerta di Barney. Mi sento come un attore italiano in un film degli anni Sessanta, che recita battute vuote alla telecamera, in attesa di quelle vere.

10

JOE Melville, uno dei pezzi grossi della Absolute Artists, è libero soltanto alle tre e mezzo, venerdì. Poi vola a Londra da un cliente e non sarà disponibile a ricevermi prima di due settimane. Almeno questo è ciò che mi aveva detto bruscamente al telefono una ragazza con l’accento inglese. Non ho intenzione di rimandare. Tra due settimane potrebbe essere tardi. Joe Melville potrebbe avermi completamente dimenticata. Ma mi aspettano al locale per le quattro e mezzo, venerdì. Ho bisogno di lavorare – ho bisogno di quei soldi –, ma se arrivi in ritardo anche solo di un minuto Herb ti spedisce a casa e chiama a sostituirti uno di quelli che si tiene apposta di scorta. È un sistema brutale, ma in questo modo si assicura la puntualità e non è mai a corto di personale. Eppure, penso che Herb potrebbe venirmi incontro, se gli dicessi in che situazione mi trovo. «Herb, c’è la possibilità – una possibilità molto remota, a dire il vero – che arrivi con qualche minuto di ritardo al lavoro, venerdì, perché ho un appuntamento davvero importante con un’agenzia famosa.» Di solito non mi vanto mai, ma lui è sensibile a certi argomenti. Gli piace attribuirsi il merito di aver lanciato tutti gli artisti che si sono esibiti nel suo locale, artisti che ha trattato a pesci in faccia, ma che poi ricorda con commozione, una volta che sono diventati famosi. «Se sai già che arriverai in ritardo, devo farti sostituire, Franny», sentenzia severo. «No, no, non lo so per certo. È quello che sto cercando di spiegarti. Probabilmente non succederà, Herb, si tratta di una possibilità molto remota.» «Non posso correre il rischio.» Herb guarda troppi telefilm polizieschi. «Come non detto», sospiro. «Non avrei dovuto parlartene. Arriverò puntuale.» «Ricky!» grida Herb al mio collega Ricky, impegnato a riempire i contenitori del sale e del pepe. «Venerdì sostituisci Franny.» «Herb!» Ora sono in preda al panico. Ho bisogno di questo lavoro. «No. Lascia perdere. Non importa. Arriverò in orario, lo giuro. Partirò con largo anticipo e sarò qui puntuale.» I comici seduti al bar – quelli che alzano il gomito – hanno seguito la conversazione e intervengono, insultando Herb e offrendomi una tequila, che vogliono farmi bere davanti a lui. Sono gli unici a cui Herb permette di comandarlo a bacchetta, perché sono i più divertenti e perché non vuole che smettano con

l’alcol. Lui cerca di spaventarli facendo la voce grossa e dicendo: «Qui comando io!» ma gli esce una specie di squittio che li fa ridere ancora di più, quindi alla fine ci rinuncia, e batte in ritirata. Gli uffici della Absolute Artists sono al trentaduesimo piano di un vertiginoso, elegante edificio tra la Cinquantaseiesima Strada e la Quinta Avenue, in mezzo a negozi e appartamenti che non potrei mai permettermi. Vengo da queste parti raramente, per andare a Central Park, anche se mi piace allo stesso modo il parco a Brooklyn. Qui le strade sono ampie e gli edifici molto più alti, ed è pieno di uomini in giacca e cravatta che portano valigette ventiquattrore e attraversano la strada in modo pericoloso. Mi ci vuole qualche minuto per orientarmi, ma alla fine individuo l’edificio, dove mi registro al cospetto di un custode e scrivo l’orario dell’appuntamento e il nome dell’agenzia in un enorme libro che si trova all’ingresso. L’uomo alza il telefono e dice il mio nome a qualcuno all’altro capo. Sto sulle spine, mentre attendo di essere ricevuta, come se fossi un’intrusa e non una persona che ha un appuntamento. Mi torna in mente quando, a sedici anni, tentai di entrare in un locale di East Norwalk con un documento di identità falso. Durante il viaggio in auto avevo cercato di memorizzare la data di nascita della sorella maggiore di Joyce Antonio, ma poi il buttafuori mi aveva chiesto a bruciapelo di che segno zodiacale fossi e mi smascherò subito. Ma questo custode non mi scaccia. Mi porge un cartellino col mio nome stampato sopra e mi dà il permesso di salire. L’ascensore si svuota più o meno al ventesimo piano, quindi uso le pareti a specchio per dare una controllata al viso, ai capelli e al look. Indosso un dolcevita nero, minigonna di lana nera, calze nere e le Dr. Martens. Mi accorgo che la gonna è troppo corta. Cerco di tirarla giù, ma così facendo scopro qualche centimetro di pelle nuda all’altezza dello stomaco. Dobbiamo procurarci uno specchio decente, a casa, penso; uno specchio da parete che non mi obblighi a salire in piedi sul water per vedere la parte inferiore del mio corpo. Forse è per questo che non ho lavorato molto, ultimamente. Ho sempre visto soltanto la parte superiore del mio corpo o quella inferiore; è molto tempo che non mi vedo a figura intera. Forse le due parti non coincidono come credo. E comunque avrei dovuto comprare qualche vestito nuovo, per l’appuntamento. In un negozio pieno di specchi a figura intera. Ho bisogno di un nuovo specchio. Ho bisogno di vestiti nuovi. Ho bisogno di una gonna più lunga. Dovrei tornare a Brooklyn a cambiarmi. Le porte dell’ascensore si aprono. La reception è arredata nei toni rassicuranti di un grigio pastello. Ovunque mi giri, vedo superfici morbide, accoglienti. La moquette sembra lucida seta dai riflessi lunari e il divano di camoscio è stato spazzolato di fresco. C’è una lunga reception dove siedono due degli esseri più belli che abbia mai visto, anche loro

vestiti di grigio. Il prototipo maschile perfetto sta leggendo una sceneggiatura, mentre la sua controparte femminile porta un paio di cuffie e conversa con qualcuno con accento inglese: forse è con lei che ho parlato al telefono. Visto che sembrano entrambi molto occupati, non so a chi rivolgermi, e per un istante li fisso con aria ebete. Forse lui dovrebbe rispondere al telefono che squilla incessantemente, anche se in realtà qui, in Grigiolandia, i telefoni non squillano davvero, ma trillano con garbo, a volume molto basso. «Salve, ehm, ecco, io, be’, io…» «Salve, signorina Banks, benvenuta alla Absolute Artists.» Il tipo mi sorride e si alza, emergendo da dietro la reception per stringermi la mano. Con mio grande sollievo, ha un sorriso sincero e l’aria amichevole. «Mi chiamo Richard; sono il secondo di Joe. Sostituisco Pamela in prima linea mentre è in pausa pranzo. Avverto Joe che è arrivata, nel frattempo gradisce un bicchiere d’acqua o un caffè, o magari una tisana?» Sono così frastornata – cos’è un secondo? E come mai è in prima linea? E perché Pamela mangia alle tre e mezzo del pomeriggio? – che all’improvviso non so più cosa mi piace bere o se mi piace bere, e nemmeno se ho sete. Quindi non rispondo, mentre nella mia mente si affastellano mille interrogativi: mi piacciono le tisane? Dovrei apprezzarle di più? O magari le respingo per principio, perché sono salutari? Ma soprattutto, perché ci sto pensando proprio ora? Non è il momento per prendere una decisione definitiva su un argomento così difficile. «Scotch non ne avete?» dico, e avvampo per l’imbarazzo. Metto una mano su un fianco con aria disinvolta, cercando di nascondere il mio disagio. Misericordiosamente Richard mi sorride. «Magari.» Poi mi fa cenno di seguirlo lungo un corridoio e mi accompagna in una sala riunioni con un grande tavolo ovale circondato da dieci sedie. «Joe sarà subito da lei. Andrà benissimo. Ero tra il pubblico, allo spettacolo, e sono stato io a dirgli che era fantastica.» Mi sorride, mentre chiude la porta alle sue spalle con un clic. L’accenno allo spettacolo mi fa ancora sprofondare di imbarazzo. Spero che non gli abbia raccontato di quella parte. Mi chiedo se la gente continuerà a fermarmi fino alla fine dei miei giorni per chiedermi: «Mi scusi, mi può dire che giorno è oggi?» e scoppiare a ridere. Mi appoggio a disagio alla parete accanto alla porta, senza sapere bene cosa fare. Forse dovrei sedermi. È un modo comune per passare il tempo. Guardo il tavolo enorme e tutte quelle sedie. A meno che non debba arrivare un gruppo, è un luogo strano, per un appuntamento tra due persone. Sì, penso, mi siedo. Ma non so dove, non è facile decidere il posto giusto. Chissà, magari fa parte del provino. Magari mi stanno osservando da una telecamera nascosta, e dovrei incominciare a preoccuparmi, vista la frequenza con cui immagino questa cosa. Mettiamo sia vero: forse la Absolute lavora soltanto con artisti che sceglierebbero di sedersi a capotavola. È così che si comporterebbe una star? È il tipo di personalità che stanno cercando, oppure il contrario? Quella scelta rivela che io penso di essere così speciale e importante da meritare il posto

migliore e quindi implica che sarò un tipo molto esigente e difficile da gestire? Ma perché vorrebbero lavorare con un attore da sedia qualunque? Se mi mettessi su quella al centro, non sarebbe come dire che sono mediocre? Non sarebbe come accontentarsi di un ruolo da comprimario quando potevo avere la parte da protagonista? Se scelgo una sedia qualunque, tanto vale gridare ai quattro venti che ho delle enormi insicurezze e non sarò mai la star di un bel niente, nemmeno di questo tavolo da riunioni. È un’idiozia. Sto farneticando. Scegli una sedia e falla finita, Franny. Sono quasi appoggiata, quando la porta alle mie spalle si apre, urtando lo schienale della mia sedia. «Franny Banks. Salve. Sono Joe Melville. La prego, si metta laggiù in fondo.» Merda. Ho preso il posto sbagliato. Mi alzo goffamente per porgergli la mano. Mi fa cenno di accomodarmi a un capo del tavolo. Sceglie per sé una seduta su un lato, e la cosa mi sconcerta: pensavo che si mettesse dalla parte opposta alla mia, in modo che ci trovassimo l’uno di fronte all’altra, separati da una distanza incolmabile, proprio come succede nei film con re e regine, o con coppie che non si amano molto. Ha l’aspetto di qualcuno che lavora in uno studio legale o in una banca, e non in campo artistico. Il completo blu gli calza a pennello e ha la pelle tesa e liscia, rosea e luminosa, come se si fosse sottoposto a un trattamento per il viso prima di entrare. Il suo colorito mi fa sentire trasandata e inadeguata. Poiché allo spettacolo di fine corso ha mandato Richard, un suo subordinato, mi hanno informato che devo recitare il mio monologo per lui. Una volta seduti, Joe mi fissa un istante, e non so se devo cominciare subito, o dire qualcosa per rompere il ghiaccio, o aspettare che mi faccia qualche domanda o che mi dia il via. Sono già nervosa, perché mi sembra strano recitare in un ufficio e non a teatro, dove percepivo l’energia del pubblico e dei miei compagni di lezione. Dov’ero illuminata dalle luci e non riuscivo a distinguere chiaramente gli spettatori. Ma qui, in questo ufficio, Joe Melville è così vicino che riuscirei a decifrare ogni espressione del suo viso, ammesso che ne faccia. «Cominciamo», dice. «Può attaccare non appena si sente pronta. Chiacchieriamo dopo. Faccia pure con calma.» Le sue parole sono incoraggianti, ma l’espressione è neutra, se non peggio. E quando in una stanza ci sono due persone e una delle due è lì unicamente per vedere l’altra fare qualcosa, l’idea che quella «faccia con calma» è semplicemente ridicola. Eppure ci provo. Respiro a fondo, ma l’aria sembra incastrata e non entra nei polmoni. Ho bisogno di un minuto per calmarmi, ma non posso prendermelo. Ci sono davvero attori che ne avrebbero il coraggio? Sedersi in un angolo a capo chino, uscire due minuti dalla stanza, mettersi a meditare, saltellare o fare quello che preferiscono per riscaldarsi, per «fare con calma», lasciando Joe Melville seduto da solo ad aspettare? Comincerò subito, per dimostrargli che sono pronta, che sono sempre pronta. Attacco il monologo. La protagonista ripete di continuo: «Ho trentadue anni»,

come se fosse la causa di tutto ciò che non funziona nella sua esistenza. Non so come sia avere trentadue anni, ma posso immaginarlo. Penso che si senta bloccata in un’età intermedia, un’età che non costituisce una tappa fondamentale nell’età di un essere umano, ma è più una terra di nessuno, un’età in cui sta incominciando a sentire che le speranze stanno svanendo. La capisco. A teatro avevo recitato la prima parte del monologo in piedi, ma qui dentro il tavolo rende tutto più complicato, così decido di rimanere seduta. La sedia è una poltrocina da ufficio, con le rotelle, e arrivata a metà mi accorgo che la sto muovendo avanti e indietro, come per imitare una camminata. Mi blocco imponendomi di smettere, e così dimentico la battuta successiva. Merda. Ho perso il filo. Esito, cercando di non smarrire la concentrazione. Guardo fuori dalla finestra, come se il mio personaggio stesse riflettendo su qualcosa di importante. Se mi rilasso, mi tornerà in mente; se mi faccio prendere dal panico, no. L’ho imparato a lezione. Se mi rilasso, mi verrà in mente. Se mi faccio prendere dal panico, no. Rilassati. Rilassati. Finalmente, dopo un tempo che mi sembra lungo, lunghissimo, la battuta riaffiora. Concludo il monologo, sorrido timidamente a Joe per fargli capire, nel caso non sia sicuro, che ho finito. «Incantevole», mormora. «Molto divertente.» Il tono è caldo, ma l’espressione è impenetrabile. Non capisco se gli è piaciuto davvero. Dopo un istante unisce le mani davanti al viso, con gli indici rivolti verso l’alto, e li appoggia sulla bocca arricciata, come guglie di una chiesa. Poi si picchietta le labbra con le dita. «Allora, signorina Banks», dice alla fine, «mi racconti di lei.» «Di… me?» «Sì. Mi piacerebbe sapere cosa l’ha portata qui. Perché è venuta a New York. Che lavoro le piacerebbe fare.» «Uhm. Be’. Teatro, soprattutto. Voglio lavorare in teatro e fare l’attrice. L’attrice vera, non un tipo da profumo.» «Mi scusi, cosa c’entra il profumo?» «Sa, voglio recitare, non mi interessa lanciare un mio marchio.» «Capisco. Anche se uno degli artisti che rappresentiamo, Cordelia Biscayne, in questo momento ha un enorme successo con la sua fragranza, Helvetica.» «Helvetica? È un profumo?» «Sì. Avrà visto lo slogan: ‘Helvetica. Un profumo di carattere’. Cordelia ha subito intuito l’importanza che avrà il boom dei computer.» «Oh, è davvero fantastico. Insomma, non vedo l’ora di, be’, di sentire questo profumo.»

«Ora mi dica, cosa l’ha portata a recitare?» Poi fa una pausa, in attesa della mia risposta, ma invece di pensare alla risposta mi ritrovo a immaginare come sarebbe Joe Melville se fosse nervoso, o teso o a casa, in accappatoio. Cerco di figurarmelo vulnerabile o indifeso, ma l’unica immagine che ho davanti agli occhi è quella di un uomo calmo e sicuro di sé, con il volto radioso e roseo. Non so se è un aspetto che mi piace. Non so se c’è qualcosa che mi piace, in lui. Ma soprattutto, non so se gli piaccio, e questo significa che devo convincerlo. «Perché voglio fare l’attrice?» gli faccio eco, cercando di guadagnare tempo. Odio questa domanda, vorrei dirgli. Non c’è una risposta vera e propria. Vorrei dirgli che il mio cervello funziona così e basta. Non l’ho scelto. Leggo qualcosa su una persona e incomincio a immaginare di essere quella persona. Vedo qualcuno per la strada o su un palcoscenico o alla televisione, ovunque, non importa nemmeno che sia reale o un attore che recita un ruolo) e se la persona o il personaggio sono interessanti, mi metto nei loro panni, immagino come si sentono, cosa direi o farei se fossi in loro. Vorrei dirgli che non ricordo di aver deciso di trasformare tutto questo in una carriera. Non mi sono svegliata un bel giorno e ho preso una decisione. Mia madre è morta e ho incominciato a fingere che non fosse successo a me, ho incominciato a immaginare come sarebbe stato avere una vita diversa dalla mia, e fingere è diventato un sollievo. Non è stata una decisione consapevole, a differenza di quando mi sono trasferita a New York; fare l’attrice è più un dato di fatto. È come se quel destino mi avesse scelto. Ma non posso dirglielo, suonerebbe talmente presuntuoso. «Sento di avere qualcosa da dire come artista», tiro fuori alla fine. È una risposta ancora più assurda, perché è falsa, non ho mai pensato una cosa del genere. Inoltre è molto più presuntuosa di quella che ho scartato prima che, se non altro, conteneva almeno un briciolo di verità. C’è qualcosa, in Joe Melville, che mi spinge a comportarmi come qualcuno che non mi piace per niente. Non risponde, così mi sento in dovere di proseguire. È come se avessi perso il controllo. Mi tengo stretta, cercando di evitare la catastrofe. «Ho sempre amato il teatro.» Meno male. Non è originale, ma almeno è vero. «Da bambina, mio padre mi portava a ogni singola rappresentazione che c’era nella nostra cittadina, in Connecticut, e alla maggior parte di quelle di New Haven, e a volte venivamo a New York, anche per gli spettacoli di danza classica e moderna.» Mi fermo. «È un insegnante di letteratura», aggiungo come se questo spiegasse il suo interesse per la danza moderna. Melville annuisce distratto, come se quello che ho appena detto non fosse completamente privo di interesse, ma anche come se avesse la testa da un’altra parte e pensasse alla Borsa, o alla spesa. Ero decisa a convincerlo, ma ora sono nervosa e stordita, e mi ricordo che ho dimenticato di mangiare, stamattina. All’improvviso, ho una voglia disperata di andarmene. Desidero solo che tutto questo abbia fine. «Si renderà conto che questo ambiente è molto competitivo. Si sente pronta per la competizione?»

Inarca leggermente un sopracciglio, come il personaggio malvagio di una favola. Certo che so quanto possa essere competitivo fare l’attore, perché te lo ripetono tutti e non fanno che dirti che soltanto il cinque per cento degli iscritti al sindacato guadagna abbastanza per vivere, e di quel cinque per cento soltanto il due guadagna soldi a palate. Insomma, è Bruce Willis a pagare l’assicurazione sanitaria per tutti, come sottolinea sempre Jane. Certo che me ne rendo conto. «Oh, la cosa non mi preoccupa. Sono molto competitiva. Provengo da una famiglia competitiva.» «Sportivi?» «Santo Cielo, no. Sarebbe proprio buffo.» Scoppio a ridere, pensando a me e mio padre (famosi per aver trascorso un intero fine settimana in salotto a leggere libri, fermandoci soltanto per mangiare pizza surgelata o fare i popcorn) intenti a giocare a tennis, a sciare o a scendere le rapide in canoa. «Competitiva nel senso che da bambina ogni situazione si trasforma in una gara. Io e mio padre abbiamo un’ottima memoria, quindi ci sfidavamo, per esempio, a recitare lunghissimi nonsense a partire da metà. Oppure mi mettevo alla prova: sentivo una canzone alla radio e fingevo di essere in finale in un gioco a premi e di dover indovinare il titolo prima che incominciasse il ritornello, o avrei perso tutto. Creavo di continuo situazioni complicate da cui uscire: quando arrivava il catalogo di vendita per corrispondenza, fingevo di essere costretta a ordinare da lì, e solo da lì, i miei vestiti per tutti i giorni a venire; sembra facile, all’apparenza, perché la scelta è ampia, ma molto difficile, in realtà, se hai un’idea precisa su quel che vorresti indossare il giorno del tuo matrimonio.» Ho il fiato corto. Forse sto parlando troppo. Joe Melville resta in silenzio un istante, poi ripete: «Matrimonio?» «Sì. O magari per il ballo di fine anno. Su quei cataloghi non c’è niente per simili occasioni. A meno di essere una di quelle ragazze davvero alternative e strambe e indossare comunque i loro prodotti, come i pantaloni madras e le scarpe antipioggia.» Dovrei darci un taglio. «E un berretto da cacciatore», aggiungo. Lui mi fissa. «E una bella shopping bag colorata a mo’ di borsetta», dico senza riflettere. Concludo con una risatina, cercando di camuffare questo mio divagare, ma esce fuori un ghigno malvagio. «Inoltre mi hanno appena ingaggiato per uno spot pubblicitario che andrà in onda sulle reti nazionali.» «Già», commenta Joe, non molto colpito. «La pubblicità può costituire una meravigliosa fonte di guadagno.» L’ho perso, ne sono sicura, ma provo con un ultimo affondo e tento di salvare la situazione. Faccio un bel respiro. «Ma per tornare alla competizione: da un certo punto di vista trasformo tutto in una gara, quindi so già di essere una tipa tosta, ed è una qualità innata, e non ho paura di essere rifiutata o respinta, perché ho comunque l’autostima sotto i tacchi,

quindi mi aspetto sempre il peggio, il che è strano, perché invece so che un giorno fortunato potrei riuscire a sfondare. E sono svelta e qualunque cosa ci sia da imparare la posso imparare alla svelta, dato che sono svelta – ah, ah, l’ha capita? – ma tornando alle faccende serie, oggi per esempio ho imparato alla svelta che se non mangio niente, a parte il litro di caffè, sono travolta da un irrefrenabile impulso di parlare di cataloghi di vendita per corrispondenza.» Cerco di sorridergli ostentando sicurezza, ma poi trattengo il sorriso sulle labbra una manciata di secondi di troppo, come se fossi in posa per una fotografia di Natale, e dopo un attimo devo abbassare gli occhi e posare lo sguardo sulle mie scarpe. Non ho più energia per fingere, ma ho bisogno di ricompormi, perché mi sta venendo da piangere. È andata malissimo, niente affatto come avevo immaginato. Oggi avrei dovuto essere un distillato di autocontrollo, per non parlare di quella striscia nuda tra il bordo del mio dolcevita e la cintura della gonna. Ancora una volta, sono frustrata dall’insormontabile divario tra l’immagine della Franny di successo e quella che continua a mettermi i bastoni tra le ruote. Mi obbligo a guardare Joe Melville, preparandomi alla vista di un uomo perplesso, terrorizzato, in procinto di chiamare la sicurezza. E invece sta sorridendo. Davvero. È la prima, innegabile, reazione umana che leggo sul suo viso. Poi comincia a ridere. Almeno credo. Sì, ne sono certa. Sta ridendo, e anche se non è perfettamente udibile, immagino che sia quanto di più simile a una risata è in grado di produrre quest’uomo. Annuisce e sorride e si dondola leggermente avanti e indietro. «Franny Banks, sei uno spasso», sentenzia. Poi piega la testa di lato e la scuote delicatamente. O sta riflettendo, oppure ha appena fatto un tuffo in piscina e sta cercando di far uscire dell’acqua da un orecchio. In ogni caso è passato al tu. «Stavo riflettendo», dice. Meno male, era quello. «Dimmi… insomma… hai altri appuntamenti in agenda?» «Altri… Intende con agenzie?» «Sì.» «No, cioè, sì. Ho incontrato Barney Sparks. Dell’agenzia Sparks.» Joe mi guarda come se avessi detto la cosa giusta. «Ooh, sì, mi ricordo il buon vecchio Barney. Un agente meraviglioso, ai suoi tempi. Ma hai firmato qualcosa?» «Firmato? No.» Penso a Barney, nel suo ufficio, con la giacca consunta. Ero sicura che fosse l’agente ideale, ma non avevo nessuno con cui paragonarlo. Per fortuna non ho firmato niente, e ho aspettato, perché all’improvviso voglio con tutta me stessa che mi prendano qui, in questo posto rivestito di morbida moquette grigia e telefoni dal trillo elegante. «C’è un casting a due passi da qui. Stanno provinando un po’ di nostri attori per un ruolo importante, ma hanno accennato anche a un’altra parte: è molto piccola, di solito non ci manderei mai uno dei miei. Ma vorrei che ti conoscessero, per vedere come va. So che non ti sto dando molto preavviso, ma sei libera?» Devo essere al lavoro tra meno di trenta minuti. Se me ne vado ora, come avevo in programma, e salgo su un taxi (impresa non scontata, all’ora di punta) potrei

arrivare in orario. Se vado al casting, anche se è qui a due passi, sarò in ritardo. Ho giurato a Herb che non sarebbe successo, e questo implicherà che assegnerà il mio turno a qualcun altro, e forse anche il successivo, e forse si arrabbierà al punto da licenziarmi. «Certo», rispondo. «Liberissima.»

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HO escogitato un piano, sono nelle mani di Ricky, il cameriere che aveva rischiato di prendere il mio posto al lavoro, quel giorno. Ma, mentre lo chiamo dal telefono pubblico, fuori dalla Absolute Artists, tutto quello che ho è la sua voce in segreteria. Ricky ha registrato un messaggio lunghissimo in cui esegue un brano del musical Evita per poi prodursi in un’imitazione di Cher, e sembra che passino secoli prima del biiip finale. «Ricky. Ricky. Ricky. Ricky. Sono Franny. Ricky, rispondi! Ti prego. Ti prego, oh, ti supplico ris…» «Franny! Che carina a chiamarmi! Caspita, allora si è sparsa la voce. Vi sono così grato per il vostro interessamento.» «Ricky, meno male che ti ho trovato. Ho un favore... ecco, mi chiedevo... be’, il fatto è che ho un provino per Kevin e Kathy. Devo andarci subito.» «Oh.» Sembra deluso. «Quindi non mi stai chiamando per… Ma fanno ancora Kevin e Kathy?» «Lo so. È quello che ho detto a… be’, all’agente. Però è così. Ormai sono nove anni, e adesso è in pausa, ma tra poco riprenderanno a trasmetterlo e…» «Un attimo. Quindi hai un agente? Per via del saggio?» «Ehm, non ne sono sicura, ma penso di sì. Forse.» «Di già?» «Be’, come ti dicevo, non è proprio sicuro… ma forse sì.» «Oh. Il provino per quale parte sarebbe?» «Si chiama soltanto ‘Ragazza numero uno’.» «Oh. Quindi non mi stavi chiamando perché hai sentito del mio spettacolo?» «No, mi dispiace. Ti chiamavo per vedere se potevi sostituirmi questa sera.» «Già. Il tuo turno. Mmm. Non lo so, Franny. Perché non dici a Herb che chiami uno dei suoi sostituti?» mi chiede con aria un po’ troppo innocente. «Ricky, ti supplico, lo sai come si arrabbia. Ho pensato che magari, se ci andavi tu, si sarebbe confuso, visto che te l’aveva chiesto lui per primo, e chissà, magari avrebbe pensato che era andata proprio così, e cioè che avevamo eseguito i suoi ordini e non mi sarei cacciata nei guai.» Le parole mi muoiono sulle labbra, perché pronunciarle ad alta voce rende il mio traballante piano ancora più inconsistente. Ricky fa un sospiro interminabile. «Va bene.» «Va bene? Davvero? Ricky, grazie mille: davvero, ti devo un favore, e bello

grosso.» All’altro capo del telefono cala il silenzio. Forse non l’ho ringraziato abbastanza. «Grazie davvero. Grazie infinite. Ora dovrei proprio…» «Frances.» «Sì?» «Non mi chiedi del mio spettacolo?» «Cosa? Ma certo! Scusami. Racconta!» «Be’, a dire il vero sono piuttosto entusiasta. Mi hanno appena ingaggiato all’Hooligan, per il mio monologo, Insights.» «All’Hooligan? Ma è grandioso! È… dove resta, esattamente?» «Lo sai. È il pub irlandese sulla Seconda Avenue. C’è quel seminterrato dove Claudia ha tenuto il suo reading di poesia.» «Oh, è vero! Quello! Un posto fantastico. Congratulazioni.» «Anzi, avevo le prove, questa sera.» «Prove? Merda. Mi dispiace. Grazie di nuovo. Almeno, ecco, non dovrai contattare troppa gente, per fissarne di nuove. Visto che è un monologo. E che lo fai tu.» Le mie risate nervose cadono nel vuoto, ma alla fine riesco a mettere giù il telefono, non senza prima averlo ringraziato mille volte e avergli promesso che sarei andata al suo spettacolo. Mentre prendo l’ascensore diretta al mio provino, penso al seminterrato dell’Hooligan. Ci ho recitato una commedia in un atto, una sera, e sono stata in posti peggiori, ma per un istante mi crogiolo nel pensiero che quei giorni siano alle mie spalle. Forse questo ascensore mi sta trasformando da dilettante a professionista, nel breve spazio di venticinque piani. «Mi scusi», dico alla ragazza della reception, dove un cartello scarabocchiato con un pennarello nero dice: CASTING KYLE E CARSON. «Dovrei prendere il copione della ‘Ragazza numero uno’.» Nascosto dietro il bancone c’è un televisorino. Sembra delusa di dover distogliere lo sguardo dallo schermo. «Come prego?» «Mi scusi. Avrei bisogno del copione della ‘Ragazza numero uno’.» Mi guarda dubbiosa. «Mi manda Joe Melville.» A quel nome, metà delle persone nella sala d’attesa alzano lo sguardo. Provo imbarazzo e orgoglio in parti uguali. Non avrei dovuto dirlo così forte, ma mi piace l’effetto che fa. «È qui per la ‘Ragazza che ride’?» «Credo di sì, se è la stessa di cui sto parlando io.» «La ‘Ragazza che ride’ non ha battute. Ride e basta.» «Ride e… quindi nessuna battuta?» «Nessuna. È una ragazza. E ride. Vogliono una risata divertente. Nient’altro. Si accomodi. Saranno da lei tra un attimo.» Mi siedo su un divano pieno di bozzi accanto a una ragazza magrolina con i capelli castani che indossa stivali neri e occhiali dalla montatura stravagante. Dovrei portare stivali con i tacchi invece delle mie Dr. Martens, penso mentre

incomincio a sudare freddo. Dovrei comprare degli occhiali dalla montatura stravagante. Dovrei avere una risata divertente. Una risata divertente. Una risata divertente. Perché non mi viene in mente nulla? Dovrei preparare un elenco di cose che potrebbero chiedermi così, su due piedi. Ogni attore che si rispetti dovrebbe avere in repertorio i pezzi fondamentali: un monologo – leggero e drammatico; una canzone – ritmata e lenta. Ma c’è una grave carenza di informazioni in merito. Oggi ho bisogno di una risata divertente, ma cos’altro dovrei saper fare? Pattinaggio a rotelle, forse: c’è molta richiesta, ultimamente. Barzellette. Dovrei conoscerne di più, in caso mi chiedano di raccontarne una, ma sono una frana, con le barzellette. Mi incasino sempre sul finale. Forse dovrei cercare di impararne a memoria almeno una, perché non si sa mai. Concentrati. Concentrati. Una risata divertente. Merda. Non ho una risata particolarmente divertente, e non riesco a pensare a nessuno che ce l’abbia. Un attimo: Barney Sparks! Ma non credo di essere in grado di imitarla. Troppa ostruzione polmonare, perché possa anche solo pensare di provarci senza rischiare uno svenimento. Chi altro? Mi vengono in mente soltanto persone con risate normali, o Fran Drescher, l’attrice della sitcom La tata. Ma quella è la sua risata. È divertente soltanto se la fa lei. O vogliono proprio questo? La replica di un modello? Adesso riesco a pensare soltanto alla risata di Fran Drescher. Forse farò così. Non mi viene in mente nient’altro. Cercherò di esibirmi in una buona riproduzione. Le ragazze vanno e vengono dalla stanza delle audizioni a velocità incredibile. Sembra che si limitino a entrare, ridere e uscire: niente domande, niente chiacchiere. Sento attraverso la parete sottile: perfomance, reazione. Cerco di non tendere l’orecchio, di restare ferma sulla mia decisione, senza farmi distrarre dalla risata divertente di qualcun altro. Ma è più forte di me: sento una ragazza emettere un suono simile a un clacson che suscita grande consenso, forse dovrei farlo anch’io. Un bel colpo di clacson. È divertente. Li stenderò con una bella risata nasale, sonora, come se avessi il raffreddore o… «Frances Banks.» Merda. Non sono pronta e sono l’ultima, per giunta. Chiederei un altro po’ di tempo, ma non c’è nessuno che possa entrare prima di me. All’improvviso mi ritrovo davanti a quattro persone che mi guardano e continuo a non avere idea di cosa fare. Vicino a me è seduto un uomo con gli occhiali. «Salve, signorina… Banks. Eccoci qui. Come avrà sicuramente capito, siamo alla ricerca della sua risata più divertente. Può incominciare quando si sente pronta.» «Va bene, fantastico!» replico con troppa enfasi. «Devo guardare in camera o…» giro gli occhi confusa, non sapendo dove posarli. «Ah, niente obiettivo, oggi, visto che non ci sono scene vere e proprie da recitare. Ecco, si rivolga ad Arthur», dice indicando un tipo macilento con i capelli rossi e le lentiggini alla sua sinistra, che non sembra troppo felice di essere stato scelto come destinatario della mia risata. «D’accordo, benissimo. Soltanto, mi scusi… avrei una domanda.»

Mi sembra di aver visto l’uomo laggiù in fondo alzare gli occhi al cielo. «Certo.» «Volevo chiedere, ecco… perché la ragazza, che sarei io, sta ridendo?» Cala il silenzio, come se nessuno sapesse rispondere. O forse è la stupidità della mia domanda ad averli ammutoliti. «Be’, è soltanto una gag, capisci?» dice l’uomo con gli occhiali. «Una gag», ripeto. «Sì. Una gag. Un tormentone. Hai presente la risata di Fran Drescher?» «Ma non vogliamo niente di simile», afferma l’uomo in fondo con enfasi. «Certo, quello è il suo marchio di fabbrica: noi vogliamo soltanto una ragazza che ride in modo divertente. Senza motivi particolari», aggiunge l’uomo con gli occhiali. «Va bene, grazie. E, scusatemi, io cosa faccio?» «Faccio?» «Nella vita. Che lavoro faccio?» L’uomo in fondo sta decisamente alzando gli occhi al cielo, al punto che la donna accanto a lui gli dà un colpetto con la sceneggiatura che tiene in mano. «Ecco, ancora non lo sappiamo. Probabilmente sarà la segretaria di Kevin. Hai mai visto il telefilm? Kevin assume segretarie che sono una peggio dell’altra. Come in Murphy Brown.» «Sì.» «Quindi probabilmente lavorerà per Kevin. Ma soprattutto ha questa risata esilarante, che farà piegare in due il pubblico.» «Due scene. Nessuna battuta», taglia corto il tizio in fondo. «Non stare a pensarci troppo.» «Shh», dice la donna con la sceneggiatura. «Va bene. Grazie. Penso di essere pronta.» Guardo Arthur, che si muove a disagio sulla sedia. Penso a Kevin, il protagonista del telefilm, e nella mia testa Arthur e Kevin sono la stessa persona. L’attore che interpreta Kevin ha sui cinquant’anni, ed è ancora un bell’uomo, ma in questo momento sto pensando a quanto fosse irresistibile quando il telefilm è andato in onda la prima volta, dieci anni fa, e io ero ancora al liceo. Esordiva quasi sempre con la battuta: «Buongiorno, signore mie!» frase che era diventata famosa e imitata da tutti. A quei tempi avrei fatto qualunque cosa per essere la sua segretaria, anche solo per un giorno. Se ne avessi avuto la possibilità, specialmente in quel periodo, avrei preso ogni sua parola per oro colato e avrei cercato di fare del mio meglio, nel disperato tentativo di piacergli. Ma forse sarei stata così innamorata e nervosa che mi sarei limitata a ridere adorante a ogni sua parola. La risata è dolce e lieve, all’inizio, e sono io, ma anche l’adolescente goffa di un tempo. Il viso di Arthur si tinge di un rosso acceso e capisco che non è abituato a essere il centro dell’attenzione e che non gli dispiace, in fondo, e questo non fa che renderlo ancora più meraviglioso; fingo che abbia appena detto una battuta divertentissima non solo a me, ma a una stanza piena di gente, e sono travolta da un moto di orgoglio perché mi trovo lì accanto a lui, fiera di stare al suo fianco.

Sono così euforica che la risata cresce e si trasforma in un rantolo, e sto praticamente ansimando, ora, in modo indecoroso, provocante; non riesco a credere di essere io, perché non ho mai avuto il coraggio di farlo neppure in camera da letto, ma, non so come, in questo istante farei di tutto perché Arthur – Kevin, l’attore che fa Kevin – sappia quanto lo ritenga affascinante e speciale e irresistibile e magnifico e il mio gradimento aumenta ancora e sono praticamente senza fiato, così mi calmo e lascio che la risata torni a essere dolce e leggera, e, per finire, esausta, ma felice, lascio andare un sospiro, interrotto da un accenno di singhiozzo involontario, come se avessi bevuto un bicchiere di champagne in un sol fiato. Da quel momento in poi non ho ricordi distinti, ma solo una serie di istantanee che scorrono davanti ai miei occhi: la donna in fondo che mormora: «Hai visto?» all’uomo contrariato, che annuisce e alza le spalle come a dire: Chi l’avrebbe mai immaginato? mentre l’uomo con gli occhiali mi chiede di attendere fuori, per poi richiamarmi subito dopo e comunicarmi che ho ottenuto la parte, e già pregusto il momento magico in cui tornerò all’Absolute e firmerò il contratto nell’ufficio di Joe Melville che mi dirà che ora sono rappresentata da lui e tutti mi sorrideranno e mi stringeranno la mano e poi uscirò di nuovo per strada, nella luce di un meraviglioso tramonto, e saprò che non dovrò sobbarcarmi un turno al locale, perché ho appena ottenuto il secondo ingaggio della settimana e posso permettermi di passeggiare con calma lungo la Quinta Avenue e sognare che un giorno, forse, entrerò in uno di quei negozi lussuosi, invece di guardarne avidamente le vetrine; che un giorno, forse, avrò una vera borsetta e dei tacchi alti, invece di calzare anfibi e portare una borsa di tela con dentro un grembiule, un cavatappi e un levabriciole. Un giorno, forse.

12

«AVEVO capito che preferivi l’altro, il vecchio con l’asma», confessa Jane davanti a un piatto fumante, al ristorante cinese sulla Settima Avenue. Mi ha invitato fuori per festeggiare la mia particina in Kevin e Kathy e abbiamo deciso di ordinare tutti i nostri piatti preferiti. Anche Dan avrebbe voluto esserci, ma i genitori di Everett avevano comprato i biglietti per la Cavalleria rusticana e i Pagliacci al Metropolitan. «L’opera!» avevo esclamato. «Che cosa affascinante.» «Già visto il pacchetto completo», aveva ribattutto, tetro. «Avrei preferito festeggiare insieme con voi.» Continuo a rivedere la sua espressione infelice al momento di salutarci, e all’abbraccio fortissimo che mi ha dato quando siamo uscite, che mi è sembrato diverso da quello destinato a Jane, e penso a com’è felice ogni volta che veniamo in questo ristorante, e al modo in cui lo prendiamo in giro perché infierisce maldestramente con le bacchette sui suoi ravioli. «Ti portiamo qualcosa da mangiare», l’avevo rassicurato, eppure continuava a sembrare tristissimo. «Franny? Mi stai ascoltando?» mi chiede Jane puntando una bacchetta verso di me. «Scusa. Sì. Hai ragione. Preferivo Barney Sparks.» «Allora perché hai firmato con quel Melville dalla faccia rosea?» «Perché la Absolute rappresenta persone famose e sceglie soltanto i migliori. Alla Absolute c’è James Franklin e anche Penelope Schlotzky. Sono fortunata che mi abbiano voluto. E comunque ho accettato il lavoro per cui mi avevano fatto fare il provino, quindi non c’è stato molto da decidere. Si trattava già di un loro ingaggio.» Tutte osservazioni giuste, ma Jane continua a non sembrare convinta. Si limita a commentare con un: «Mmm». «Era destino», sentenzio con aria saggia, facendo un gesto vago che spero sia misterioso e mistico al punto giusto. «Hai detto però che questo Melville ti rende nervosa e ti dà i brividi. Funziona così? Il tuo agente ti deve dare i brividi?» «Non importa. È un rapporto di lavoro. Non siamo amici. Sono affari.» «Secondo me è ciò che dicono le persone nel mondo dello spettacolo quando non hanno amici.» «Mi ha procurato un lavoro vero. Ed era la mia prima audizione.» «Be’, non ho nulla da obiettare in merito. Allora, racconta.» Bevo un sorso di vino e cerco di ricordare esattamente cos’ho provato la sera

prima, sul set, con i riflettori puntati addosso e quattro enormi telecamere che mi giravano intorno. «È come un sogno. Ero nervosa, ma mi sentivo a mio agio. C’era il pubblico, come a teatro. Da un certo punto di vista, non è stato molto diverso dalle mie recite scolastiche. A giudicare dalle risate che senti in televisione, diresti che gli spettatori siano molti di più. Invece i set sono piccoli. E bui. Sono rimasta colpita da certe assurdità.» «Tipo?» «Be’. Fanno tutto su misura. Sapevano la distanza esatta dell’orlo della gonna da terra. Hanno realizzato gli indumenti apposta per me, lavorando di notte. Anche la t-shirt era fatta su misura. La t-shirt. I vestiti che mi compro hanno sempre qualche difetto, cadono male o sono troppo larghi.» Tiro la felpa e la sventolo avanti e indietro. «Guarda, ci ballo dentro.» «Per me ti sta bene», dice Jane, ora alle prese con il suo pollo al limone. «E poi, tu ce l’hai il piegaciglia?» «Sì. Non lo uso mai.» «Be’, io non sapevo nemmeno che esistesse. È uno strumento di tortura. Alle elementari mi rovesciavo da sola le palpebre per impressionare i compagni di classe. E lì c’era qualcuno che lo faceva per me!» racconto corrugando la fronte, e Jane scuote la testa comprensiva. «Mi hanno sistemato trucco e capelli dopo ogni ripresa: non mi sono mai mossa, ma loro continuavano a ritoccarmi il viso. A incipriarmi, anche se non sudavo: quando sono tornata a casa ho dovuto letteralmente grattare via quella roba. Il regista stabiliva la disposizione degli attori, ma Kevin, o Robert, l’attore che interpreta Kevin, continuava a dimenticare la sua e a cambiarla, e così io dovevo riformulare la mia e tenerla a mente nelle riprese successive, perché combaciassero, soltanto che poi quello si dimenticava di nuovo, confondendomi. Ero così impegnata a ricordarmi se avevo sollevato la cornetta con la destra o con la sinistra, che non riuscivo a pensare a nient’altro.» «Ma è andata bene, almeno? Che impressione hai avuto?» «Non saprei. Buona, credo. La gente rideva e molti hanno detto che sono andata bene, ma non ho idea di chi fossero o se avessero dovuto colpire proprio loro. Quella risata però ha scatenato una reazione così positiva nel pubblico, che lo sceneggiatore ha deciso di darmi una battuta.» Jane mi guarda sbalordita. «Non ci credo!» «Lo so. Nemmeno io, ed è davvero stupido, a pensarci bene. Ho interpretato commedie intere, per non parlare di tutte quelle a lezione, ed ero agitata per una misera battuta.» Faccio una pausa e bevo un altro sorso di vino. «Dovevo dire: ‘Sei adorabile’. Così ho fatto la mia risata, ho guardato Kevin con aria ebete e ho detto con un sospiro: ‘Sei adorabile’.» «Esilarante!» «Tutti non facevano che ripetere che è molto raro che accada. Jimmy ha detto che Kevin detesta i cambiamenti dell’ultimo minuto, quindi se vogliono modificare qualcosa di solito lo fanno nelle scene di Kathy.» «Lei com’è?» «Mi trova divertente e per lei è un sollievo che non sembri un’orfana denutrita

come le attrici della mia età.» «Si sente minacciata?» «L’ho pensato anch’io», ammetto abbassando le bacchette e la voce. «Ma è assurdo, non ti pare? Perché dovrebbe avere paura di me? Io sono poco più di una comparsa. È lei la protagonista. Comunque, non so bene come sono andata. È successo così in fretta. Ero disorientata, perché aspettavo che il regista mi dicesse qualcosa sulle motivazioni e sul significato profondo del mio personaggio, come fa Stavros a lezione, ma non è successo. C’è stato soltanto un momento in cui ho ricevuto delle indicazioni. «Cosa ti ha detto?» Cindy, la nostra cameriera, ci passa accanto e Jane ordina un altro giro di drink. «Ha detto», e faccio una pausa plateale: «‘Non ridere prima di porgere a Kevin la tazza di caffè. Prima il caffè, poi la risata’». Jane e io restiamo in silenzio per un istante, ponderando quelle parole. «Oh.» «E sai una cosa? Ha funzionato. La risata era migliore.» «Accidenti», dice scuotendo la testa. «Lo so. E non ho idea del perché.» «Quando lo trasmettono in TV?» «Non lo so. Non hanno ancora deciso la fascia oraria. Devono aspettare che cancellino La signora in giallo, credo.» «Non succederà mai.» «Lo so.» Jane prende le bacchette e raccoglie un boccone di riso alla cantonese ancora fumante. «È tutto così misterioso, non trovi?» mi chiede, e io annuisco con foga. «Esatto! Cioè, aspetta… cosa vuoi dire?» «Be’ mi illudevo di capire il mondo dello spettacolo, ma continua a confondermi. Prendi Russell Blakely, per esempio: è un attore famoso, no? E all’inizio pensavo che la sua vita fosse interessante e speciale, e ridevo a ogni sua battuta, perché mi sembrava davvero la persona più simpatica che avessi mai conosciuto. Mi sembrava migliore degli altri, come se fosse un gradino al di sopra di noi comuni mortali, una persona di un altro pianeta, ecco. Ma più lavoro con lui, più mi rendo conto che è un ragazzo come tanti; bello, atletico, simpatico e brillante, ma comunque normale, uno che ha sposato la ragazza con cui usciva al liceo e non sa nemmeno come ha fatto ad arrivare fino lì. È come se il successo lo avesse preso alla sprovvista e non fa che chiedermi consigli: a volte mi domando se si sia dimenticato che sono soltanto un’assistente personale al suo primo film. Mi ha detto che non entra in un supermercato da tre anni. C’è chi fa la spesa per conto suo. E ha un’aria così infelice. Legge gli articoli che parlano di lui e ne resta sconvolto. Quando non lavora e sua moglie è a Los Angeles, non sa cosa fare ed esce con gente che ha conosciuto sul set, gente che non è davvero sua amica, così si ubriacano e finiscono sui rotocalchi. Credo che qualcuno dovrebbe dargli una mano, o magari fornirgli un manuale con le istruzioni per l’uso. Perché non ha affatto l’aria di godersela», conclude scuotendo la testa, sconsolata.

«Io me la godrei di sicuro», ribatto. «Almeno, credo.» «Sì, anch’io», mi fa eco Jane. «Ma chi può dirlo?» «Chi può dirlo», ripeto, bevendo l’ultimo goccio di vino. «Oh! Un’altra cosa che ho imparato ieri sera!» «Ma di che parli?» «A quanto pare non dobbiamo più lavare i nostri jeans. Me l’ha detto la costumista. Solo lavaggi a secco.» «È assurdo.» «Vero. Prima dobbiamo comprare modelli molto, molto aderenti, in modo da comprimere il più possibile il grasso superfluo. Poi vogliamo che questa compressione resista il più a lungo possibile, giusto? Be’, lavare i blue jeans in acqua li ammorbidisce e diminuisce il quoziente di compressione adiposa. Quindi l’unica soluzione è il lavaggio a secco. Non è terribile?» Jane alza le spalle. «E anche costoso. Ma non credo che abbia fatto crollare la mia fiducia nella civiltà.» «Dài, è un’ingiustizia, non trovi?» «Perché?» «È come se dovessi pagare per indossare i tuoi vestiti.» Jane mi guarda perplessa. «Com’è possibile?» «I vestiti da tintoria sono già i più costosi all’acquisto. E ogni volta che li porti, è come se pagassi altri tre dollari.» «Devi pagare anche per lavare i vestiti normali, se vogliamo considerarla da questo punto di vista. Anche una lavanderia automatica ha un costo.» «Ma non così alto. E puoi fare da sola. Il lavaggio a secco è come una società segreta alla quale non puoi avere accesso. Per quanto tu faccia, sei nelle loro mani. Puoi avere una laurea, però non puoi lavare a secco i tuoi vestiti. Non ti diranno mai come si fa. Nessuno ha mai visto da vicino quelle macchine. Pensaci. Se le tengono nascoste dietro a tutti quegli appendiabiti, ci sarà un motivo. Non vogliono che tu decifri il loro codice segreto. Non lo permetteranno a nessuno. Nessuno. Nemmeno ai ricchi. Conosci qualche ricco che ne abbia una in casa? No. Anche loro devono prendere i vestiti sporchi e portarli in lavanderia. Come tutti.» «Sono sicura che per quello abbiano delle persone apposta. Inoltre a New York fanno le consegne a domicilio.» «Comunque le lavanderie a secco ti hanno in pugno. Sei nelle loro mani. I vestiti che hanno bisogno di un lavaggio a secco ti guardano dall’alto al basso.» «Di chi è la colpa, secondo te: dei vestiti, o dei professionisti del settore?» «Questi sono inutili sofismi, cara mia.» «La nuova cospirazione della pulitura a secco mi fa venire in mente il tuo terrore del ferro da stiro.» «Il lavaggio a secco è molto peggio, anche se quella del ferro da stiro è un’altra società segreta impenetrabile. Conosci qualcuno che ti può dire perché l’asse da stiro ha quelle dimensioni? Qual è lo scopo della sua forma a tavola da surf ? Perché è così difficile da chiudere? Deve forse restare aperta nella tua stanza per giorni e giorni? E com’è possibile stirarci delle maniche, là sopra? Per non parlare

dei colletti.» «Lo sai cosa dovresti fare con la camicia che non riesci a stirare?» «Lo so, lo so. Portarla in una lavanderia a secco. Ma ho paura di andare nella nostra, ora che il signor Wu ha visto la mia pubblicità. Non fa che chiedermi se può attaccare un mio primo piano alla parete. Quella in fondo, interamente rivestita di fotografie.» «Certo. Penso che sia un’idea carina. Perché non gliene regali una? È orgoglioso di averti come cliente.» «Ma non hai mai fatto caso che tra tutti quei primi piani non ce n’è uno di un personaggio, non dico famoso, ma nemmeno lontanamente riconoscibile?» «Non è vero: c’è…» «A parte lui, voglio dire. Dubito sia mai andato lì davvero.» «Pensi che il signor Wu se lo sia inventato? E che abbia preso una foto e abbia falsificato l’autografo? Su, sentiamo, da chi avrebbe avuto la fotografia?» «A volte lo si vede, per strada. Non lo so, a me è successo. Perché a parte lui, a parte quella persona molto famosa, riconosci altri, su quella parete?» «Be’, c’è una foto del cast di Cats con i protagonisti nei loro abiti di scena… Non li riconosco uno a uno, ma direi che la foto è originale.» «A parte un gruppo di gatti più o meno credibili.» «Aspetta: sì, c’è quell’attrice, che mia madre adorava, era in quel telefilm poliziesco degli anni Sessanta, come si chiamava?…» «The Uniforms?» «Sì! Paula comesichiama.» «Paulette Anderson.» «Esatto! Anche lei è famosa.» «Jane. Paulette Anderson è morta da almeno dieci anni. Te lo sto dicendo. Temo che la mia fotografia su quella parete non porterà fortuna. È come se, regalando il mio primo piano al signor Wu, mi condannassi all’anonimato per l’eternità.» «Meglio l’anonimato della morte. Meglio l’anonimato di Cats, per quanto mi riguarda. E se quella foto non fosse falsa?» «Be’, vorrà dire che finirò a decorare la lavanderia del signor Wu con i morti, degli sconosciuti, un gruppo di gatti o Bill Cosby.»

13

«NESSUN nuovo messaggio.» Biiip. Erano tre settimane che non avevo audizioni e incominciavo a diventare nervosa. Joe mi aveva chiamato il lunedì dopo le riprese di Kevin e Kathy per congratularsi con me e dirmi di passare alla Absolute a conoscere gli altri agenti, perché «non stavano più nella pelle». Ma i primi quindici giorni erano stati così pieni di audizioni e provini che non eravamo riusciti a fissare un appuntamento. E nelle successive tre settimane l’agenzia non mi aveva più chiamata. Facevo del mio meglio per prepararmi a ogni audizione, ma non avevo mai avuto giornate così fitte in vita mia. Era tutta una cascata di fogli che uscivano dal fax e corse frenetiche da un capo all’altro della città. Finita la carta, dimenticavo continuamente di comprarla, e così all’audizione mi toccava eseguire una lettura recitativa della mia parte, e talvolta mi presentavo completamente impreparata. E poi c’era stato il provino per cui avevo studiato, per una particina in una commedia di Broadway diretta da Mike Stanley, ma ero talmente nervosa all’idea di conoscerlo che avevo saltato una pagina intera; lui non mi aveva chiesto di ripetere e, quando mi aveva domandato con chi avessi studiato, mi era venuto un vuoto e non ero riuscita a dire il nome di Stavros. Tornata a casa, ero scoppiata a piangere. «Gli sei sembrata un po’ acerba», mi aveva spiegato Richard, con tatto. Durante le prime settimane Joe rispondeva al telefono, quando chiamavo in agenzia, ma ora l’unica persona con cui riuscivo a parlare era Richard, il suo assistente. All’inizio pensavo che andasse bene così, visto che era stato lui a venire a vedermi, ma incominciavo a temere che mi avessero messo in secondo piano. Era stato Richard a mandarmi dal fotografo che «Joe adora» per scattare delle foto da allegare al mio portfolio, anche se ne avevo fatte di nuove da poco, che mi erano costate più di cento dollari. Richard mi aveva riferito che Joe le riteneva troppo stucchevoli e commerciali e c’era anche bisogno di qualcosa che mettesse in luce il mio profilo di attrice drammatica, non solo comica. A mio parere mi conferivano un’aria più che altro rigida e arrabbiata, ma lui mi aveva garantito che avrebbero assunto un aspetto completamente diverso, dopo il ritocco: un processo scrupoloso che prevedeva l’utilizzo di un microscopico pennello per eliminare le imperfezioni sui negativi, prima della stampa. L’intervento era durato due settimane, e le foto erano costate trecento dollari. Non avevo più le lentiggini e la zona del contorno occhi era più bianca del resto del viso, ma continuavo ad avere l’aria arrabbiata.

Pensavo che, in attesa delle nuove fotografie, fosse normale non avere audizioni. Ma di chiamate nemmeno l’ombra anche una settimana dopo aver lasciato le mie foto in agenzia. Temevo che quelle tre settimane fossero una specie di periodo di prova per dimostrare che la parte nel telefilm Kevin e Kathy non era stata un colpo di fortuna, e adesso che l’avevo sprecata si erano dimenticati di me. Avevo letto su Backstage che è importante ricordare al tuo agente che sei disponibile e interessata a lavorare, per cui mi ero fatta forza e avevo telefonato alla Absolute. Ma poiché non avevo un vero motivo per chiamare, al telefono mi ero impappinata. C’era Joe? Ovviamente no. Richard, dispiaciuto, mi spiegò che era in riunione, ma potevo dire a lui. «Oh, ecco… non fa niente.» «Sicura?» «Certo, be’, già che siamo qui, mi chiedevo se ci fosse qualcosa che posso fare, o non fare, o, ecco, come sta andando con le mie foto?» «I primi piani?» «Sì, quelli nuovi, tanto per saperlo… Joe ha scelto quella in cui ho la mano sul mento e l’espressione seria, vero?» «Credo di sì… Aspetta, ce l’ho qui da qualche parte… sì, hai la mano sul mento e la testa leggermente piegata di lato.» «Esatto. Non sarà… ecco, non sarà un po’ sdolcinata? E quindi nessuno mi cerca?» Non volevo lamentarmi né sollevare l’argomento. Chissà come gli ero sembrata scortese, come se volessi insegnargli il suo lavoro. Avevo soltanto bisogno di qualcuno che mi spiegasse perché non stesse succedendo niente. «Franny, Joe adora questa foto. E anch’io, ma Joe ne va proprio matto, ed è un mago, quando si tratta di scegliere quelle che meglio ti rappresentano. Quindi non ci sono problemi. Devi solo aspettare. Mi dispiace.» Era calato il silenzio. Forse Richard voleva aggiungere qualcosa, ma poi aveva cambiato idea. «Quindi… c’è altro, Franny?» «No, grazie. Nient’altro. Volevo soltanto, be’, farmi viva.» «Hai fatto bene, Franny. Grazie. Farò sapere a Joe che hai chiamato. Per farti viva.» Sentirlo dire da Richard mi aveva fatto stare ancora peggio. Credevo che la mia vita avrebbe subito una svolta radicale, con un agente, ma era identica a prima, a parte il fatto che stavo spendendo molto di più. Finalmente mi arrivò il compenso per Kevin e Kathy e con mio enorme stupore mi resi conto che più di metà era finito in tasse e commissione dell’agenzia. «Tutto qui?» avevo chiesto a Dan mentre studiava l’assegno. Speravo che ci fosse un errore, o magari che avessi fatto qualche sbaglio compilando il modulo fiscale. Ma lui me lo restituì scuotendo la testa. «Ti stanno tassando come se guadagnassi quelle cifre ogni settimana», mi aveva spiegato.

«Ma non è vero», avevo replicato sconsolata, notando il suo sguardo di comprensione. Senza contare i turni che Herb mi aveva tolto per punizione per non essere andata al lavoro quel fatidico venerdì, oltre al costo del servizio fotografico. Ero stata costretta ad arrotondare al Best Intentions, un locale per cerimonie dove avevo lavorato poco dopo essermi trasferita in città. All’inizio, assistere a quei matrimoni dalla mia postazione in fondo alla sala era stato commovente. Durante i brindisi scoppiavo regolarmente a piangere, persino mentre lucidavo i bicchieri. Dopo un po’, però, le spose, con le loro continue richieste, avevano incominciato a stancarmi, la sala era diventata impersonale e dozzinale, e mi ero trasformata in una di quelle cameriere esauste che incominciano a guardare l’orologio alle undici in punto e strappano di mano agli invitati ubriachi bicchieri mezzi pieni. Forse sarebbe andata diversamente se avessi firmato con Barney Sparks. Se avessi chiamato lui, per farmi viva, non credo mi sarei sentita in imbarazzo. Inoltre non aveva assistenti, quindi avrebbe dovuto rispondermi di persona. Ma non potevo permettermi di pensarci: ho firmato un contratto di un anno con la Absolute. Essere rappresentata da un agente è un passo avanti, non c’è dubbio: qualcosa di concreto, una conquista reale. Ma dubito che averne uno che non ti chiama mai sia meglio che non averne affatto. Anzi, forse è peggio. Prima non mi sentivo così rifiutata, visto che semplicemente non mi vedevano. Ora qualcuno mi aveva notata, ma sembrava aver già cambiato idea. Dopo la sesta settimana senza telefonate dalla Absolute, avevo chiamato mio padre. «Credo che in agenzia si siano dimenticati di me.» «Credo che mia figlia si sia dimenticata di me.» «Papà.» «Chi parla?» «Ah. Ah. Sono tua figlia, l’attrice disoccupata.» «Dio sia ringraziato, è viva!» «Credo di aver bisogno di un manager.» «Perché? Credevo avessi un agente.» «Infatti. Ma non mi procura audizioni.» «Se non hai audizioni, a cosa ti serve un manager?» «Mi aiuterebbe a ottenere delle audizioni.» «Come può riuscirci, se non ce la fa nemmeno il tuo agente?» «Be’, i manager hanno meno clienti, e possono dedicarti più tempo.» «Allora perché hai firmato con un agente? Perché non cercare subito un manager?» «Un agente ci vuole. Solo loro possono discutere contratti. Gli agenti ti rappresentano in esclusiva, a differenza dei manager.» «Quindi tutti possono spacciarsi per manager?»

«Più o meno.» «Allora potrei chiamare il tuo agente e dirgli che sono il tuo manager e che sta trascurando la mia cliente preferita.» «Grazie, papà.» Alcuni giorni dopo Jane e io siamo sul divano del salotto a fare zapping quando finiamo su una sitcom, Still Nursing. Dan sta lavorando lì accanto, ma ci rassicura sempre che non lo disturbiamo, perché ha l’inspiegabile capacità di estraniarsi completamente. Infatti il nostro cicaleccio è come un costante rumore bianco in forma umana. È una qualità utile, per un coinquilino. «Forse non ho l’aspetto giusto», osservo, ipnotizzata dall’attrice sullo schermo. «Giusto per cosa?» «Be’, in generale. Per il mondo dello spettacolo. Forse è quello il motivo per cui non mi chiamano dall’agenzia.» «E quale sarebbe l’aspetto giusto, secondo te?» «Be’, più simile alle protagoniste di Still Nursing.» Indico il televisore, dove una bionda procace in minigonna e camice aperto sta tentando di riattaccare la flebo a un paziente anziano montandogli sopra e soffocandolo «accidentalmente» con il seno prosperoso. Il pubblico è in visibilio. «Ooh. Di pessimo gusto.» Jane liquida la scena con un gesto della mano. «Ecco il tramonto definitivo della civiltà. Un solo infermiere con tutte quelle dottoresse! Che premessa! Ma guardale: non ce n’è una che sia credibile. Metà di loro si è rifatta le tette tra la prima e la seconda stagione. O vogliono farci credere che gli sono cresciute all’improvviso nel giro di sei mesi? Per favore! E comunque sono troppo magre.» La dottoressa bionda fa cadere la cartella portablocco e mentre si china per raccoglierla il bip del cardiomonitor accelera velocemente. Risate. «Sì, ma forse è ciò che le persone dovrebbero dire di me. Come quando l’Enquirer pubblica titoli tipo: ‘Ridotta a pelle e ossa!’ La gente non compra quelle riviste perché pensa che le persone in copertina abbiano un aspetto orribile, le compra perché invidia la loro magrezza. Sarei orgogliosa se si dicesse di me: ‘È magra da far paura’, o ‘Hai visto quell’attrice, Franny Banks? Datele una merendina, sembra che debba svenire da un minuto all’altro’. Questo è ciò che la gente vuole. Ciò che spinge la gente ad adorarti.» «Credo che ti prenderò uno di quei video di autoaiuto.» «Casey mi ha raccontato che a Los Angeles fumano un’erba che ti toglie la fame. Dicono che è così che le protagoniste di Still Nursing sono diventate pelle e ossa.» Jane scuote la testa e mi parla dolcemente, come a un bambino nel mezzo di una crisi di sonnambulismo. «Quella Casey? La modella che sul palco piange sempre?» «Sì. È un tipo d’erba molto costosa, però, e non è facile procurarsela, se non hai le amicizie giuste. Lei l’ha avuta da un ex compagno di liceo. Magari riesce a

farmene avere un po’. Forse dovrei incominciare a fumare quella roba.» Jane preme il telecomando e il telefilm sparisce dallo schermo. Si volta a guardarmi. «Frances. Davvero. Di questo passo, prima o poi ti troveranno cadavere alle tre di notte in una camera d’albergo del Chelsea Hotel, e finirai nel suo lungo elenco di morti sospette. Sei un’attrice. È l’unica cosa che importa. E comunque, l’ultima volta che abbiamo fumato un po’ d’erba, ti sei addormentata.» Mi appoggio allo schienale del divano con un sospiro. «Ma deve esserci un trucco. Non è possibile che se ne vadano tutti in giro con i crampi allo stomaco e quell’aspetto meraviglioso. Devono sapere qualcosa di cui non siamo al corrente. O peggio: non c’è alcun trucco. Forse è quella la differenza tra un attore di successo e un fallito. Forse non ho abbastanza forza di volontà. Sono troppo preoccupata di sentirmi bene per aver voglia di sentirmi male come ogni attrice di successo che si rispetti.» «Cosa c’è di male nel sentirsi bene? Le persone trascorrono la vita intera perseguendo quell’obiettivo. Non è che devi per forza avere un aspetto terribile ogni santo giorno. Si deve mangiare per vivere, dovresti saperlo bene. E comunque quelli non sono canoni estetici universalmente riconosciuti. Non tutti trovano attraenti le attrici di quella sitcom, a parte gli idioti che la guardano. Un programma idiota per gente idiota. Perché non puoi essere semplicemente te stessa e trovare gente a cui piaci?» «Lo so. Hai ragione. Ehi, potrei sempre tagliarmi i capelli come Rachel di Friends.» «Franny. Quel taglio ce l’ha perfino la mia ex matrigna, e tutte le sue amiche. Ormai non è più trendy. Sei arrivata tardi.» «Vedi? È proprio quello che sto cercando di dirti. Resto sempre indietro. Le attrici di successo hanno fantastici tagli di capelli che anticipano le mode e che ogni donna vorrebbe copiare. Dovrei pensare meno al mio lavoro e molto di più ai miei capelli.» «Dov’è finita la ragazza che credeva che avrebbe trovato un agente se avesse imparato a memoria un sonetto di Shakespeare al giorno? Un’idea altrettanto stupida, ma almeno più produttiva. E studiare testi intelligenti, come hai sempre detto? Dove sono finiti il teatro, e la verità, e la funzione dell’attore e tutto quanto il resto di cui farneticavi?» «Adesso ho un agente. Sto cercando di sfondare. Ma ci sono delle regole. Mi importa ancora del ruolo dell’attore. Sto soltanto cercando di essere una professionista. Di averne almeno l’aspetto.» «Può darsi. Non lo so. Non riesco a immaginare Diane Keaton o Meryl Streep ossessionate da un taglio di capelli o da Still Nursing. Non è più importante il talento?» «Non lo so, non so più niente. Una volta lo pensavo. Ma ora credo che siano il talento e un bel taglio di capelli. Sono confusa. Penso che sia tutto importante. Forse dovrei diventare vegana.» «Frances, dico davvero. Torna in te. Non riuscirai mai ad assomigliare a quelle cretine. Ma se vuoi, come dire, avvicinarti alla perfezione, smetti di fumare e

scarta il ripieno dei tuoi muffin. Compra un libro su una sana e buona alimentazione.» «So già tutto su una sana e buona alimentazione», la interrompo. Jane mi guarda dubbiosa. «Davvero? Dimmi il nome di tre gruppi alimentari.» «Facile: cinese, messicano, sandwich al tonno.» Lei scuote la testa e le sorrido dolcemente. «Ho comprato della verdura, la settimana scorsa.» «Sì, ho visto. Non vorrei sconvolgerti, ma recenti studi hanno dimostrato che c’è una leggera differenza, a livello di apporto nutritivo, tra degli spinaci lasciati a marcire nel frigorifero e degli spinaci ingeriti.» «Dettagli.» «Mi arrendo», annuncia diretta in cucina. «Caffè?» Fisso il mio bagel, che sembra ricambiare lo sguardo, sospettoso. Forse Jane ha ragione. Forse ho bisogno di più disciplina. Chissà che cosa mangia Penelope Schlotzky di domenica. Di sicuro non bagel. Forse sono loro, il mio problema. Anche se non mi pare un grosso quantitativo di cibo. Decido di finire questo e poi di non mangiare tutto il giorno. Eccetto un’insalata, magari. O una zuppa. No. Dentro a una zuppa può nascondersi un’infinità di alimenti. Sì, ne sono ragionevolmente certa: la zuppa è apparentemente innocente, ma contiene un sacco di calorie. Brodo di pollo. Ha solo sette calorie. Ce l’avranno alla tavola calda? Dove posso procurarmelo?… «Non devi cambiare, Franny. Secondo me stai bene così come sei.» Ci metto un secondo prima di capire che è Dan a parlare. Mi ero completamente dimenticata della sua presenza. Non aveva mai dato segno di seguire le nostre conversazioni, prima d’ora. È assodato che si estrania dal mondo circostante, quando scrive: di solito dobbiamo chiamarlo due o tre volte per ottenere la sua attenzione, e soltanto allora alza lo sguardo, fissandoci come se lo avessimo appena svegliato da un sogno. Mi domando se abbia ascoltato tutte le conversazioni tra me e Jane, in questi mesi, ma Dan è un ragazzo sincero, non si comporterebbe mai in modo subdolo. Se lo avessimo distratto, si sarebbe unito alla conversazione o ci avrebbe cacciato fuori per lavorare in pace. È strano, ma sono sicura che in tutti questi mesi non ci abbia mai prestato ascolto. Questa è la prima volta. «Grazie, Dan», è quanto riesco a dirgli.

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«CHE roba è?» Mi chiede Jane allarmata. L’ammetto, ho ceduto al richiamo dell’abisso. Non guadagno abbastanza. Al locale ho un solo turno alla settimana, a causa dello strano sistema di Herb, che premia i camerieri più solerti con più lavoro, in modo che chi è stato penalizzato per qualche motivo fa ancora più fatica a riprendersi. Almeno mantengo il mio turno serale del venerdì, grazie al quale riesco a pagare, più o meno, l’affitto. Anche al Best Intentions si va a rilento. Le riprese del film di Russell Blakely sono finite e Jane non passa più le notti sul set. Scende la scala con indosso degli stivali patchwork in pelle lucida anni Sessanta, una minigonna scamosciata azzurra e un giubbotto imbottito rosso con un colletto di finta pelliccia trovato da Bolton sull’Ottava Strada. Lei ci scova sempre qualcosa, mentre io di solito finisco col comprare l’ennesimo paio di calze nere a metà prezzo. Indossa i suoi occhiali vintage, il che significa che è pronta per uscire. Normalmente niente la distoglierebbe dal suo obiettivo. Ecco perché capisco che la poltiglia presente nella ciotola tra le mie mani deve avere davvero un pessimo aspetto. «Che schianto! Dove hai preso quegli stivali?» Forse riesco a distrarla parlando di moda. «Non pensare di distrarmi parlandomi di moda. Dico davvero: cos’è?» «Ehm… cibo?» «Per astronauti?» «No, è un nuovissimo prodotto dietetico. L’ho acquistato tramite una televendita.» Ho cercato di reagire provando diete differenti. Per ora, nessuna ha funzionato. Ma questa volta è diverso. «Mi stai dicendo che hai pagato per questa roba?» «Oh, certo, Jane, e ne è valsa la pena. Si chiama TastiLife e non è solo cibo per un dimagrimento rapido, ma un fantastico, saporitissimo stile di vita!» «Se lo dici tu», replica riluttante. Perché mi sembra così sospettosa? Devo farle capire. «Jane, lo so che l’aspetto non è dei più invitanti, ma l’altro giorno, a lezione, James Franklin diceva che sul set in cui sta lavorando lo usano tutti. A Hollywood!» «Davvero? A Hollywood?» squittisce lei. «Jane, davvero. Hai visto quella pubblicità? Io perdo, e tu?» «Sì, ho visto la gente che si tiene i pantaloni in modo da far vedere i chili in meno. Quindi… è stato James a consigliartelo?»

«Sì, ma non… non mi ha detto che avevo bisogno di dimagrire. Stavamo chiacchierando, alla fine della lezione: sono stata io a tirare in ballo l’argomento. Gli avevo chiesto del film e lui è stato così gentile da parlarmene.» «Mmm…» dice Jane sospettosa. «Ma quando hai incominciato a prenderlo? Non l’ho mai visto, nel frigorifero.» «Infatti, e questa è la cosa più bella: non serve metterlo in frigorifero. Sono confezioni di prodotto liofilizzato. Devi soltanto aggiungere dell’acqua!» «Liofilizzato?» «Lo so, è assurdo, ma è comodissimo, perché puoi portarlo con te e prepararlo all’istante.» «Perché non ti limiti a mangiare cibo sano, alimenti che non abbiano bisogno di essere reidratati?» «Lo sai perché: non riesco a controllarmi. In questo modo invece imparo a misurare le quantità di cibo che assumo. Tutto quello che mi occorre per un pasto bilanciato è contenuto in una confezione di prodotto, così elimino lo stress di una dieta vera e propria.» «Sembri quasi l’adepta di una setta religiosa. E cosa succede quando torni alla realtà, quella in cui devi pensare con la tua testa?» «Spero di essere così indebolita da non provare più alcuna attrazione nei confronti del cibo.» «Mi sembra un piano fantastico. Di che parlano da Leeza, oggi?» «Credo ‘Donne che non vorrebbero più essere giudicate dalle loro migliori amiche’.» «Molto spiritoso. Vado a lavorare. Vuoi che mi porti dietro il cavo del televisore?» «Ciao, Jane.» Dopo che è uscita, mi trascino in salotto, lanciando occhiate circospette all’apparecchio. Lo so, Jane mi sta soltanto prendendo in giro: non ho sviluppato nessuna dipendenza da quel talk-show, anche se so che nella puntata di oggi parleranno di animali straordinari e in particolare di un cane che riesce ad allacciare le scarpe al suo padrone. E Jane ha ragione, tutto sommato: ultimamente sto guardando troppa TV. È cominciato con gli assegni per la pubblicità del detersivo Niagara: quando hanno iniziato ad arrivare con minor frequenza, ho pensato di verificare che non ci fossero errori – magari mandavano in onda la pubblicità decine di volte e dimenticavano di pagarmi – così passo i pomeriggi facendo zapping, contando gli spot e confrontando il numero di passaggi con le cifre degli assegni. Quel giorno ero stata subito meglio a sentire i consigli di Leeza che parlava di ispirazione e di come trovarla dentro di noi. Durante il programma fornisce anche molte dritte utili per dimagrire, e così avevo scoperto la dieta a base di cavolo, che avrebbe funzionato sicuramente, se non avessi detestato il cavolo. Inoltre Leeza ospita spesso personaggi famosi, oppure gente comune che ha affrontato e superato prove tremende di vario genere: magari un giorno dovrò interpretare un personaggio molto particolare e mi ricorderò di qualcuno che ho visto nel suo

programma. Quindi posso sicuramente affermare che il tempo trascorso a guardarlo ha una funzione didattica. Ma soprattutto, subito dopo va in onda la soap opera La valle dei pini. All’inizio la vedevo per pochi minuti, finito il talk-show e prima dello stacco pubblicitario. Ne ero stranamente affascinata. La usavo come esercizio, mettendo alla prova le mie capacità recitative con quei dialoghi forzati, ripetendo le battute ad alta voce per farle più naturali e chiedendomi se fossero gli attori a renderle così ridicole o se era un’impresa impossibile, visto quanto erano effettivamente stucchevoli. Ma ormai sono stata risucchiata in un vortice e mi sorbisco entrambi i programmi dall’inizio alla fine, a volte anche Il gioco delle coppie, una trasmissione che, decisamente, non mi arricchisce in nessun modo. In parte è colpa di Dan, che non è quasi mai a casa. Non ho idea di dove vada a scrivere, ma di sicuro non nel nostro salotto, e se soltanto fosse qui più spesso forse mi vergognerei troppo per restarmene tutto il pomeriggio sdraiata sul divano. Sono molto sincera con me stessa, lo ammetto: La valle dei pini mi ha catturata, al punto che penso ai suoi protagonisti come se fossero persone reali e mi preoccupo per loro nel fine settimana. Come farà CoCo Breckenridge a nascondere la verità sull’omicidio del suo gemello? mi chiedo. Ogni venerdì mi riprometto di non guardarlo più, ma poi arriva il lunedì e la tensione mi divora. A volte, quando sono molto frustrata, immagino di dare il benservito a Joe Melville, ma non avrei mai il coraggio di ferire i suoi sentimenti, e mi sembra un po’ illogico dire a qualcuno che non ti chiama mai di non chiamarti più. Forse si sente a disagio perché sa di aver commesso uno sbaglio, e magari spera che, ignorandomi, possiamo fingere che non ci siamo mai incontrati e sarà risparmiata a entrambi l’onta di affrontare i rispettivi fallimenti. Di conseguenza mi sento in colpa per lui. È vero, provo sentimenti piuttosto contorti per qualcuno che non fa nemmeno parte della mia vita. Leeza incomincia a mezzogiorno, quando mi alzo, perché non ho motivi per svegliarmi prima. Jane ne sta facendo un affare di Stato, come se il mio fosse un vero problema. Mi chiama in continuazione dal lavoro. «Sono preoccupata per te. Sei depressa.» «Sto bene.» «Ma se sembri Frances Farmer!» replica Jane in tono melodrammatico. «Ho un animo sensibile e creativo, proprio come quella diva nevrotica e sfortunata. È un momento difficile.» «Se torno a casa e ti trovo a divorare del gelato direttamente dal barattolo e a guardare Harry ti presento Sally, chiamo la polizia.» «Cosa possono fare: arrestarmi per comportamento stereotipato?» Perciò quando squilla il telefono, alle undici e mezzo, mi precipito a rispondere. Farò la spiritosa fingendo di essere di buon umore, con Jane. Piena di brio, come se fossi sveglia da ore. «Set di Qualcuno volò sul nido del cuculo», esordisco pimpante. «Pronto? Sono Richard, della Absolute Artists. Cercavo Franny.» Mi metto seduta sul letto, come se potesse vedermi sdraiata a un orario così

indecoroso, con indosso ancora i pantaloncini e la maglietta con cui ho dormito. Mi schiarisco la voce e cerco di sembrare più sveglia che posso. «Sono me! Sono lei!» No, così non può andare. «Sono io.» «Buongiorno. Ti ho svegliata?» «No, niente affatto. Ho un, ehm, un brutto raffreddore.» «Oh, accidenti. È molto grave? Joe ha un’audizione per te.» «Guarisco in fretta.» «Fantastico!» «Fantastico!» «Allora, l’appuntamento sarebbe oggi…» «Oggi?» «Tra due ore.» «Oggi?» Oh, no. Sono due settimane che non faccio altro che dormire e trascinarmi a lezione e al lavoro. Non ho fatto esercizio. Ho a malapena messo fuori il naso di casa. Non sono pronta. Sono uno straccio. «Direi che è fantastico!» «Mi dispiace di avertelo comunicato all’ultimo minuto. Hanno bisogno di un’attrice per La valle dei pini.» «Come?» «La valle dei pini, la soap opera. Insomma, il telefilm pomeridiano. Lo conosci?» «Mi prendi in giro.» «Mmm, no. La segui?» Sento che il cuore sta per esplodermi nel petto. Non riesco a crederci. La valle dei pini! Che fortuna! Forse andrà bene, questa volta. Forse non sono così rivoltante e stucchevole. Sono un genio che si è autoesiliato, allontanandosi dal pazzo mondo dello show business per affinare la sua arte, con rigore e pazienza, in attesa della sua rivincita. Era destino! «Sì, la conosco. Molto bene, a dire il vero.» «Fantastico. Allora corri più veloce che puoi. I provini chiudono alle due. Ti mando via fax le battute e l’indirizzo. Se hai domande, chiamaci, e in bocca al lupo.» «Grazie.» Devo sbrigarmi. Per un istante resto in mezzo alla stanza con il telefono in mano, pietrificata. Dovrei farmi una doccia. È necessario? Credo di sì. E i capelli? Se li lavo, dovrò asciugarli. Farò una doccia ma non mi laverò i capelli. Metterò un asciugamano in testa per non bagnarli. Dov’è il mio completo da sgualdrina? La maggior parte delle donne in quel telefilm si veste in modo volgare, eccetto l’attrice più anziana, Angela Bart, che veste un volgare classico. Metterò il reggiseno push up. Dov’è??? Esco dalla doccia a tempo di record. Uso la salvietta che avevo in testa per asciugarmi. Per una volta, l’umidità ha reso un servizio ai miei capelli. Sento il rumore del fax, il fruscio dei fogli che cadono sul pavimento. Sono curiosa di leggerli. Darò un’occhiata prima di vestirmi, per essere sicura di scegliere il look

più adatto. Corro al fax e leggo la prima pagina. ABSOLUTE ARTISTS - APPUNTAMENTO OGGETTO: Franny Banks/Lettura La valle dei pini DATA: Mercoledì, 12 aprile 1995 ORARIO: 14.30 INDIRIZZO: ABC Studios, Sessantaseiesima Strada, n. 49, quinto piano REFERENTE: Jeff Ross e Jeff Bernbaum, Casting ANALISI PERSONAGGIO ARKADIA SLOANE: 23-25 anni. Arkadia è la figlia perduta del miliardario Ellis Sloane. Si pensava che Arkadia fosse morta per annegamento per mano della terza moglie del playboy miliardario Peter Livingstone, l’imprenditrice miliardaria Angela Bart, che sperava di essere nominata unica erede della fortuna del marito, ma poi si scopre che la ragazza è sopravvissuta al tentativo di omicidio raggiungendo a nuoto la riva, anche se all’epoca aveva soltanto otto mesi. Col piglio e la sfrontatezza che le hanno permesso di sopravvivere da neonata, Arkadia arriva all’albergo Pinetree Lodge pronta a prendersi una rivincita e a infrangere alcuni cuori. Deve recitare con disinvoltura in abbigliamento succinto, deve essere bellissima. Appartenenza etnica qualsiasi. Interno giorno - Pinetree Lodge. Angela Bart dà istruzioni a un fattorino mentre altri dipendenti dell’albergo assistono alcuni clienti. Arkadia Sloane, di una bellezza mozzafiato, entra portando una valigia. Si ferma nella hall, studiando Angela. Uno dopo l’altro, i dipendenti e gli ospiti notano Arkadia. Si fermano, paralizzati dal suo splendore regale. Finalmente anche Angela si accorge di lei. ANGELA: Sì? Posso aiutarla? ARKADIA (ride nervosamente): «Sì! (si ricompone): No. Mi scusi. È soltanto che è molto divertente, detto da lei.» ANGELA: Mi scusi, mi chiamo Angela Bart. Ci conosciamo? ARKADIA: Purtroppo sì. ANGELA: Se ci siamo già incontrate, non me lo ricordo. Mi dispiace. Lei è davvero bella, lo sa? Arkadia scoppia in un pianto dirotto.

ARKADIA: Bella? Se so di essere bella? No, non lo so! L’unica cosa che so è che mi chiamo Arkadia Sloane! E so anche che ha cercato di uccidermi quando avevo otto mesi! Se sono bella? È l’unica cosa che non so, Angela. Ma so che un’amorevole coppia di agricoltori mi ha raccolto sulle rive di un torrente, nel Vermont meridionale. I loro raccolti erano devastati dalla grandine e dai parassiti, i loro figli avevano già lasciato la casa, non avevano bisogno né desideravano un altro figlio, ma mi hanno preso con sé; una coppia che – sempre amorevolmente – era convinta che gli specchi fossero opera del diavolo. Credevano in una vita onesta e di duro lavoro, ma semplice, il più semplice possibile! Così sono cresciuta senza specchi, senza rossetto, senza spazzole e pettini, senza biancheria intima decente. Ma sono arrivata fino a New York, dove ho lottato con le unghie e con i denti e mi sono fatta un nome nel campo della lingerie: ha mai sentito parlare della linea di biancheria intima Il Lamento di Arkadia? Angela ha un sussulto. ANGELA: Tu? Le lacrime solcano le guance di Arkadia. ARKADIA: Sì, Angela, sono io. Adesso ti scusi? Ti scusi, adesso? ANGELA: Sì, ti chiedo scusa. Te l’ho chiesto ancora prima di sapere che avrei dovuto scusarmi… Angela spalanca le braccia, per dare il benvenuto ad Arkadia. ANGELA (continua): Ma ti sbagli. Ti sbagli sul mio conto. Sono così felice che tu sia qui. E anche tuo padre lo sarà, tesoro. Ti prego, lascia che ti presenti a tutti quanti. Venite qui subito! Ospiti e dipendenti dell’albergo si stringono intorno ad Arkadia, poi, tutti insieme… TUTTI: Benvenuta a Pinetree Lodge! Primo piano su Arkadia: sorpresa, felice, stanca e un po’ sprezzante… Abbasso la pagina, incredula. Merda. Non posso farlo.

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PRIMA di rendermi conto di quello che sto facendo, ho richiamato Richard. «Il fax è arrivato?» mi chiede. «Oh. Sì. Ecco…» «Le battute sono un po’ grossolane, lo so, ma te la caverai benissimo!» «Non credo di farcela.» «Cioè?» «Questa cosa – senza contare la faccenda della biancheria intima – dove tutti si fermano a guardarla perché è bellissima, insomma, per favore… e poi, alla fine, dovrei sembrare stanca e sprezzante, com’è possibile? E singhiozzare, per giunta? Non riesco a capire…» «Franny, sei nervosa. È da un po’ di tempo che non fai audizioni. Jeff e Jeff sono ottimi professionisti, però, e sono gentili. Sanno che non hai avuto tempo per prepararti. Seguono altri progetti, oltre a La valle dei pini. Vogliamo soltanto che ti vedano. Certo, se non senti tuo il materiale, posso sempre dire a Joe che…» «No, no», lo interrompo facendo velocemente marcia indietro. «È soltanto, ecco, un momento di… cioè… sono soltanto nervosa, come dicevi. Non importa. Vado subito.» «Cerca di divertirti, Franny. È solo un’audizione.» Sono sulla linea D, che passa sul ponte di Manhattan, e ripasso mentalmente le battute. Almeno è quello che penso, finché non sento la mia voce. «Oh!» esclamo un po’ troppo forte, e una ragazza seduta di fronte a me alza lo sguardo dal suo libro e mi fissa avidamente, come se non vedesse l’ora di godersi lo spettacolo di una delle tante sciroccate che affollano i vagoni della metro e speri che aggiunga qualcos’altro. Leggo le pagine, cercando di farle sembrare più reali. Ma la sceneggiatura è davvero maldestra. Quei «Mi scusi» e il discorso con le informazioni sul passato del personaggio… nessuno parla così. Penso a Stavros. Lui direbbe: sincerità, dire quello che pensi e pensare quello che dici, tieni conto dei fatti. Devo soltanto usare quello che ho imparato a lezione e andrà bene. I fatti: una bambina abbandonata torna per vedere suo padre. È diventata una donna di successo, ma è rimasta lontana per molto tempo. Perché? Quando analizziamo una sceneggiatura, Stavros ci dice sempre che dobbiamo chiederci: Perché proprio oggi? Cos’ha di diverso questo giorno da qualsiasi altro?

Perché ha scelto questo giorno, per incontrarlo? Non lo so; non ho abbastanza informazioni. A lezione avremmo avuto a disposizione la sceneggiatura completa, non una singola scena, e l’avremmo studiata per settimane. Avremmo letto le opinioni in proposito; avremmo discusso di come altri registi e altri attori avevano interpretato il materiale. Com’è possibile riuscirci, con quattro fogli di un fax e venticinque minuti di tempo? Da un certo punto di vista, nelle ultime settimane ho guardato così spesso la soap da avere comunque una base, seppur casuale. Conosco il personaggio con cui sta parlando; conosco il suo mondo. Però Arkadia è nuova, in città. Nessuno dei protagonisti ha mai parlato con lei. Nelle ultime puntate Angela Bart ha temuto di avere un cancro, che poi si è rivelato un reflusso gastrico, e ha ricevuto le chiavi della città di Pinetree per le attività di carattere umanitario che ha svolto, anche se il suo impegno nasconde l’intenzione di candidarsi a sindaco e sottrarre i fondi della campagna elettorale per comprare delle «pillole della giovinezza» che si procura illegalmente a Guam. Conosco molto bene il suo mondo, ma di certo non mi aiuta a interpretare Arkadia nel modo giusto. Senza contare il pianto. Non ho mai dovuto piangere durante un provino, figuriamoci singhiozzare, come richiedono le indicazioni di scena. A lezione sono riuscita a tirar fuori una lacrima o due, ma non riesco a immaginare di scoppiare in singhiozzi davanti a degli sconosciuti. Quindi dovrò essere così coinvolgente e convincente che non se ne accorgano neanche. Rendilo tuo, dice sempre Stavros. Ha ragione! Devo fare così. Gli farò vedere la mia Arkadia. Una donna che è tornata a casa per la prima volta, che è ferita e arrabbiata perché è stata rifiutata e che, per qualche strana ragione, ha scelto questo giorno per riprendersi quanto le è stato tolto, senza versare una lacrima. Quando mi registro nell’ingresso (nome, casting, piano, orario dell’appuntamento) e prendo il mio tesserino (Frances Banks, visitatore; casting Jeff e Jeff, trentaquattresimo piano), sono piena di speranze. Mi sono convinta che conosco Arkadia Sloane come se fosse una persona in carne e ossa. Ho relegato in un recesso della mia mente domande fastidiose, tipo: Come ha fatto a scoprire l’identità del suo vero padre, relegata com’era in una fattoria del Vermont? E com’è possibile che una neonata di otto mesi riesca a nuotare fino alle rive di un torrente? E perché qualcuno dovrebbe voler acquistare della lingerie chiamata Il lamento di Arkadia? Ma ora non importa. Io sono Arkadia. Mi sento piuttosto sicura. Mentre salgo mi accorgo di avere ancora ai piedi le mie Dr. Martens. L’ascensore è pieno, quindi devo rannicchiarmi in un angolo per evitare di colpire qualcuno mentre le sfilo e metto i tacchi alti. Quando alzo lo sguardo, siamo già al trentesimo piano, manca poco. Mi infilo la scarpa sinistra e ficco gli anfibi nella borsa mentre le porte si aprono. Esco dall’ascensore, in precario equilibrio. Avrei dovuto indossare i tacchi per la strada e camminare per un paio di isolati, in modo da abituarmi, ma è troppo tardi per preoccuparmene, ormai. L’ascensore separa le due ali dell’edificio: a sinistra c’è una grande porta in vetro satinato con una targa luccicante che dice: SHINY PRODUCTIONS. A destra c’è un’altra porta simile con un foglio di carta attaccato sopra. Sul foglio è

disegnata una grossa freccia e sotto c’è scritto: CASTING. Sono arrivata. Finalmente: la mia prima vera audizione da tempo. Sono di nuovo in pista. Oggi è il primo giorno della mia vera carriera di attrice. «Ricordo ancora il momento della svolta», dirò davanti al pubblico che affolla l’Ed Sullivan Theater. «Paradossalmente, nonostante l’enorme quantità di spettacoli teatrali che ho fatto in questi anni, l’audizione non era per una commedia; anzi. Era per una soap opera.» E il pubblico scoppierà a ridere, divertito e sorpreso. Le porte dell’ascensore si aprono di nuovo con un trillo, depositando nuove persone nell’ingresso e riportandomi bruscamente alla realtà. Non posso restare qui a fantasticare su quanto di meraviglioso non è ancora successo. Il cuore sembra volermi esplodere nel petto e le mani mi tremano così tanto che devo usare ogni mia forza per aprire la porta. Dietro un ampio bancone siede un ragazzo pallido con la cravatta, il viso magro seminascosto da pile di manoscritti e un enorme mazzo di fiori. Dalla sua scrivania sporge una cartellina portablocco su cui si legge ISCRIZIONI e vado in quella direzione senza un attimo di esitazione, perché non voglio sembrargli indecisa o inesperta. Annoto il mio nome e il numero della previdenza sociale con mano malferma, ma sento un moto d’orgoglio quando, per la prima volta, posso compilare la casella sotto la scritta AGENZIA. Scrivo Absolute Artists e mi sento un po’ più sicura. Forse è la mia immaginazione, ma il ragazzo pallido alla reception sembra fissarmi con aria curiosa; o magari è disprezzo? Si vede così tanto che sono una principiante? Non mi importa. Non ho alcuna intenzione di farmi intimorire. Lo guardo e gli sorrido con aria di sfida, e penso ad Arkadia alla fine della scena, sprezzante e vulnerabile, e la comprendo più che mai. È un segno! Mi ricorderò di come mi sono sentita. Lo userò nel mio lavoro. Lui sembra voler dire qualcosa, ma non gli permetterò di farmi sentire insicura, quindi me ne vado decisa, proprio come avrebbe fatto il mio personaggio. Poi mi accorgo che sono l’unica bianca nella stanza. Sui due divani a forma di L che circondano il bancone della reception sono sedute almeno quindici ragazze di colore, tra le più belle che abbia mai visto. Giovani e snelle e appariscenti, strizzate dentro top minuscoli e minigonne. Voglio fuggire, tornare a Brooklyn, nascondermi nella mia camera da letto senza tende alle finestre e non uscire mai più. Dire che non sono la ragazza che cercano è un eufemismo. Non avevo nemmeno idea che esistesse un tipo di bellezza del genere a New York, o nel mondo intero; figuriamoci se sono adatta per la parte. Non sono nemmeno della tinta giusta. Però è strano… come faranno a giustificare il colore della pelle della figlia di Peter Sloane? In una soap possono fare qualsiasi cosa: riportare in vita persone morte, svegliarle da un coma profondo. Ma pensavo che la madre di Arkadia fosse Mary Marlowe, l’ereditiera di razza caucasica che… «Senta, lei?» Il ragazzo pallido spinge indietro gli occhiali e mi guarda sospettoso.

«Sì?» «È sicura di trovarsi nel posto giusto?» Raddrizzo le spalle e lo guardo con aria di sufficienza. Non riuscirà a farmi sentire vulnerabile. No. «Sì, sono sicura», ribatto decisa. Sono forte. Sono sicura di me. Sono Arkadia Sloane. «Sicura? È qui per il profumo Aroma d’ebano?» Cosa? «Oh. No. Io, ecco, sono qui per La valle dei pini.» «Immaginavo. È al piano sbagliato. Il casting per la soap è al trentaquattresimo piano. Questo è il trentatreesimo.» «Oh. Oh! Meno male!» farfuglio. «Cioè, non volevo, ecco, non intendevo… Ero perplessa perché… vede…» Indico il divano alle mie spalle, disarmata. Il ragazzo spinge di nuovo gli occhiali sul naso e si avvicina. «Non si preoccupi», mormora. «Sono modelle.» Quando raggiungo il trentaquattresimo piano e mi iscrivo alle audizioni giuste, sono troppo esausta per preoccuparmi delle ragazze che devo affrontare, che a un primo sguardo sono meno esotiche ma altrettanto minacciose delle modelle del piano di sotto. Come fanno a sapere quale abito indossare? Sembrano aver studiato il look sullo stesso manuale, che apparentemente prevede lunghi capelli lisci e rossetto opaco. Sono così strepitose, prese singolarmente, che sembrano fondersi in una sola, enorme massa indistinta di bellezza. Ai miei occhi, il gruppo diventa un’unica entità: le Bellissime. Cerco di rimuoverle dalla mente, tenendo la testa bassa, studiando le battute e aggrappandomi ai sottili fogli del fax, ormai sgualciti. Un uomo tarchiato con corti capelli ricci e un maglione azzurro attillato con il collo a V apre la porta accompagnando fuori una delle Bellissime. La ragazza ha il viso lucido e leggermente sudato. Ha pianto, è evidente. Sento una fitta allo stomaco. «Ottimo lavoro, Taylor», dice l’uomo dolcemente. «Davvero eccellente.» «Grazie, Jeff.» Si tampona le palpebre con l’anulare della mano destra, per non sbavare la generosa passata di mascara che sembra essere rimasta intatta, come per magia. «È stato un onore recitare quelle battute», dichiara prima di andarsene, piena di orgoglio. Un onore? Recitare quelle battute? È così che ci si deve comportare? E le persone ci cascano davvero? Jeff guarda la sua cartellina portablocco. «Frances Banks? Tocca a te.» Respiro profondamente e cerco di alzarmi dalla sedia con grazia, proprio come Arkadia. Ma uno dei miei tacchi si incastra nel folto tappeto e perdo la scarpa. «Oplà», dice Jeff tenendomi la porta aperta mentre la recupero. «Meglio piantarla di bere a pranzo», farfuglio. «Lasciami fuori, dolcezza», mormora Jeff. «È l’unico modo.» «Non bevo davvero… non intendevo…»

Ma siamo già nella stanza delle audizioni e Jeff si sta sedendo. «Jeff, ti presento Franny Banks», dice Jeff-Maglione attillato a Jeff-Camicia sbottonata. «La manda Joe Melville.» «Ottimo. No, no, non così lontano, cara, devi metterti qui, dov’è la sedia. Qui.» «Qui? Devo stare in piedi? O sedermi? Sulla sedia?» «Come preferisci, angelo mio: all’occhio della telecamera non sfugge niente.» Non ci avevo mai pensato. È terribile. Per un istante, fisso la macchina montata su un treppiede di fronte a me. Poi mi viene in mente che se all’occhio della telecamera non sfugge niente, ora mi sta osservando, mentre la fisso con aria ebete. Ho già fatto audizioni di fronte alla telecamera, ma per spot pubblicitari: in quel caso devi guardare direttamente l’obiettivo, in una specie di sfida a chi cede per primo. Oggi, però, leggerò delle battute con una persona, mentre la telecamera mi osserverà da un’altra inquadratura, e il mio compito è fingere che non lo sappia. È mia alleata, penso. Ma quando guardo quella lente fredda e nera con la coda dell’occhio, istintivamente mi atteggio, come se cercassi di fare colpo su di lei. «L’abbiamo già vista, Jeff? La conosciamo?» «La confondi con l’altra Franny.» «C’è un’altra Franny? Chi è?» «Oh, si chiama Franny? Stavo pensando ad Annie.» «Quale Annie?» «Annie O’Donnell? No, McDonnell? Non mi ricordo.» «Chi?» «Hai capito. Quella con i capelli rossi. Che ha recitato nel film di Lars Vogel.» «Un’altra storia d’amore?» «Esatto.» «Annie MacDonald!» «Sì!» «Annie e Franny sono completamente diverse, Jeff. Sei un disastro con i nomi.» «Quindi questa Franny non la conosciamo. Franny – non Annie – noi non ti conosciamo.» Stanno parlando tra loro da così tanto tempo, che non so se devo rispondere, o se si tratta semplicemente di un’osservazione che vogliono condividere con me. Prima che possa decidere, Jeff chiede: «Quanti anni hai?» «Non sono domande da fare, Jeff.» «Franny, a quanto pare non sono tenuto a sapere quanti anni hai.» Alza gli occhi al cielo e strizza l’occhio a Jeff-Maglione attillato. «Be’, sono informazioni riservate», dico accennando un sorriso poco convincente. «Ma perché non ti conosciamo? Franny, perché?» Esito. Questa è la mia prima vera audizione, ecco il perché. E se compio il minimo errore, probabilmente anche l’ultima. «Be’, forse perché sono appena entrata nella schiera dei conoscibili», farfuglio. I due Jeff esitano, poi scoppiano a ridere. «La schiera dei conoscibili! Ahahahahah! Ho trovato il nome per la mia nuova band!»

«Sei troppo vecchio per avere una band, tesoro.» «Ma non troppo per darle un nome, giusto?» I due Jeff continuano a ridere, poi sospirano e finalmente si ricompongono. «Scusaci, siamo un po’ frastornati. Stiamo lavorando ininterrottamente da tre giorni. Abbiamo dovuto girare di nuovo alcune scene; piuttosto insolito, per una soap.» «A meno che qualcuno non vomiti durante le riprese, non le buttiamo mai via. Anzi, probabilmente le useremmo anche in quel caso. Perché i tempi sono strettissimi.» «Cos’è successo all’altra attrice?» chiedo, e i Jeff si scambiano uno sguardo. «L’hanno trovata con un enorme quantitativo di coca…» «Coca… Cola. Vero, Jeff?» «Esatto. Stavo proprio per dirlo.» «Per lei era un vero sballo, non è vero, Jeff?» «Sì. Proprio una consumatrice accanita!» «Allora. Torniamo a noi, Franny. È alta, vero, Jeff?» «Mmm. Alta e carina.» «Grazie», dico con un sorriso. «Franny, quanto sei alta?» «Jeff, non si chiede.» «Ma se fosse troppo alta per Angela? Lo sai com’è fatta.» «E che capelli! Franny, che origini hai?» «E non puoi chiederle nemmeno quello, Jeff. Fa’ il bravo.» «Uff. Tutte queste leggi.» «Non importa. Posso rispondere. Sono irlandese.» Annuiscono e mi sorridono, aspettando il resto. «I miei capelli non aggiungeranno nulla di più, comunque. Sono conosciuti per essere molto sensibili e piuttosto litigiosi, sapete.» I due Jeff cominciano di nuovo a sbellicarsi dalle risate. «Ahahahahah! I capelli vengono da un’altra parte!» «Forse sono ebrei!» «O rumorosi capelli italiani!» «Quei capelli ci faranno causa!» «Ahahahahahah!» Quando siamo pronti per leggere le battute, mi sento abbastanza a mio agio. Maglione attillato legge insieme con me, ripetendo sottovoce alcune mie battute. La cosa mi distrae, ma mi impegno per concentrarmi. Supero il monologo prolisso con disinvoltura. Non sono stata impeccabile, ma credo di aver trasmesso un po’ del dolore di Arkadia, un po’ del suo orgoglio. «Be’, a me è piaciuta. Che ne pensi, Jeff?» «Mmm, anche a me. Rifacciamolo e cerchiamo di divertirci, questa volta, Franny. Mettici un po’ più di intensità, magari.» Merda. Un po’ più di intensità. Vuole che pianga. Probabilmente vuole vedere se riuscirò a scoppiare in lacrime. Devo escogitare un modo per convincerli che può

funzionare anche senza piangere. La seconda volta leggo il monologo più dolcemente, quasi a bassa voce, ma non riesco comunque a piangere. Però sono contenta, perché scopro dentro di me qualcosa di nuovo. Non ho abbassato intenzionalmente il tono di voce, ma ho immaginato che Arkadia avesse pensato a lungo alle parole da dire ad Angela Bart, ripetendole nella sua mente per anni, e ora che ne aveva la possibilità non sentiva più il bisogno di gridare, per farsi sentire. Questa versione di Arkadia non avrebbe mai pianto, avevo pensato, perché aveva eretto un muro intorno a sé. Quindi era logico che non volesse mostrare ad Angela Bart i suoi veri sentimenti. Era logico per me, almeno, e questo era quanto di più importante. Avevo creato la mia Arkadia. Quando termino di leggere, i due Jeff si guardano e sorridono, soddisfatti di ciò che avevano appena visto. «Fantastico, tesoro.» «Contenti di averti conosciuta.» «Ottima lettura.» «Per non parlare dei capelli.» «Chiudi il becco, Jeff.» «Fatti gli affari tuoi, Jeff.» Fuori c’è aria di temporale. Mi avvio lungo la Sessantaseiesima Strada ingobbita per contrastare la furia del vento. Quando mi accorgo che lo sforzo è in parte dovuto ai tacchi alti che ho ancora ai piedi, mi fermo in un angolo e mi cambio le scarpe. Ho le guance infuocate, e non è a causa del vento gelido. «Ottima lettura», hanno detto. Inoltre è stato divertente parlare con loro. E non hanno commentato il fatto che non sia riuscita a piangere. Chissà se mi daranno la parte. Chissà quanto impiegheranno per decidere. Forse dovrei controllare la segreteria telefonica. Ma è troppo presto. C’erano ancora delle ragazze, nella sala d’aspetto. Dovranno vederle, prima della selezione. O no? Forse stanno già chiamando l’agenzia. Non c’è stato bisogno di fare provini a nessun’altra ragazza, dopo di lei, stanno dicendo a Richard o a Joe in questo preciso momento. È perfetta per la parte. Forse dovrei telefonare alla Absolute. No, è meglio aspettare. Stare calma. A ripensarci, magari dovrei davvero chiamare Richard per dirgli che è andata bene, così quando parlerà con loro avrà a disposizione più informazioni. Forse ha già lasciato un messaggio per me e vuole che lo richiami. Forse sta cercando di contattarmi in questo preciso istante. Così mi fermo a un telefono pubblico. «Ci sono tre nuovi messaggi.» Ho il cuore in gola, mentre digito il mio codice e aspetto che parta la segreteria telefonica. Biiip. «Ciao Franny, sono Gina, della Brill. Mi chiedevo se sapessi fare giochi di

destrezza, tipo i giocolieri. Inoltre, come te la cavi con il pattinaggio su ghiaccio? Cercano qualcuno che sappia fare entrambe le cose per la pubblicità di una birra. Inoltre, hai problemi con la birra? Fammi sapere!» Biiip. «Frances, sono io, tuo padre. Per un attimo ho temuto che a Manhattan avessero eliminato i telefoni, ma a quanto pare esistono ancora. Richiamami, per favore. Sono tuo padre.» Biiip. «Ciao, Franny, sono Clark. A quanto pare non riusciamo mai a beccarci. Ti richiamo più tardi.» Biiip. Non voglio chiamare mio padre e parlare del matrimonio di Katie né chiamare Clark, o nessun altro, finché non so se avrò una buona notizia da raccontare. Faccio un patto con me stessa: nessuna telefonata prima di aver comprato il giornale, mangiato qualcosa, preso un caffè e completato le parole crociate del New York Times. Solo allora chiamerò Richard o controllerò di nuovo la segreteria telefonica. Andando alla tavola calda mi fermo a prendere il giornale e delle Marlboro Lights. Sono tre giorni che non compro sigarette e di recente ho giurato di nuovo che smetterò di fumare, ma in questo periodo sono troppo agitata per farlo. Smetterò la settimana prossima. Ho quasi finito il caffè e il sandwich al formaggio quando mi rendo conto che oggi è venerdì. Avrei dovuto pensare a che giorno era prima di impegnarmi a non fare altre telefonate se non dopo aver completato le parole crociate. Dal mio séparé vedo una cabina telefonica dall’altra parte della strada: non c’è nessuno, e il suo richiamo è irresistibile. Riesco sempre a completare il cruciverba del mercoledì, e a volte anche quello del giovedì. Ma quello del venerdì è particolarmente difficile. Non sono nemmeno a metà. Forse è irrilevante, visto che ho stretto il patto con troppo anticipo. Ma non voglio correre nessun rischio. Non so cosa darei, per controllare la segreteria telefonica. Le gambe mi tremano sotto il tavolo, e la mano stringe convulsamente la matita. Pago il conto, mi precipito fuori e chiamo Richard. Sono in attesa, nella cabina; ho i nervi a fior di pelle e rabbrividisco per il freddo, con le parole crociate ancora in mano. Faccio un nuovo patto con me stessa. Non infrangerò mai più alcun patto, lo giuro, a condizione che questa volta – questa volta soltanto – rompere un patto non mi porti sfortuna. Fa’ che sia una buona notizia, e giuro che… «Franny! Hai ricevuto il mio messaggio?» «No. Non li ho ancora ascoltati.» «Be’, te l’ho appena lasciato. Ascolta, sei piaciuta moltissimo!» Ha funzionato! Anche se non ho completato il cruciverba. Grazie, grazie. «Dici davvero?» Cerco di sembrare disinvolta, ma la mia voce è carica di tensione. «Sì! Hanno detto che sei riuscita a dare un senso a quella merda di monologo –

testuali parole – e che gli sei sembrata sveglia e piena di personalità.» «Davvero?» «Davvero! Ottimo lavoro, per una prima lettura.» «Grazie!» «Non vedo l’ora di mostrarti a tutti!» Sono confusa. La conversazione sembra giunta al termine. «Un attimo. Tutto qui?» «Che vuoi dire?» «Voglio dire», continuo mentre qualcosa si spezza dentro di me. Cerco di controllarmi, schiarendomi la voce. «Voglio dire, non ho avuto la parte?» «La parte?» risponde lui, confuso. «Oh, no, questa era soltanto una lettura preliminare. Dovrai superare altre prove.» «Oh», sospiro sollevata, all’idea che non sia finita lì. «E qual è il prossimo passo?» «Be’, a Jeff e Jeff sei piaciuta tantissimo, come ti dicevo. Però sai meglio di me che, per quanto sia andata bene oggi, non hanno il potere di darti il lavoro.» «No?» «No, no. Scusami. Non pensavo che Joe… be’, comunque, lascia che ti spieghi. Loro si occupano del casting, sono le prime persone a cui devi piacere, e a volte le più difficili. Fanno leggere le battute e scelgono i migliori, proponendoli ai produttori. Non parlo necessariamente degli attori più capaci, ma soltanto di quelli più adatti alla parte. Poi c’è la lettura con i produttori, a volte con il regista, o con gli altri attori, sai, per vedere se c’è feeling… Ho visto sottoporre persone a tre, quattro provini per una parte piccola, di poche battute, in produzioni mediocri. È un mondo molto competitivo, possono permettersi di fare gli schizzinosi e prendersi il tempo che vogliono per trovare la persona giusta. Difficilmente si tratta di un percorso breve.» Non ne avevo idea. Le sue parole hanno un senso, ma non avrei mai pensato che ci fosse qualcos’altro da affrontare, dopo oggi, anche se me la sono cavata bene. «È solo che l’altra volta, quando ho ottenuto la parte per la pubblicità, pensavo che sarebbe stato più semplice.» «Sì, lo so. Però quello è stato un caso piuttosto raro.» «Quindi non ci sarà nessuna seconda lettura?» «Non questa volta. Finisce qui. Questa volta.» «Va bene», concludo con qualcosa a metà tra un colpo di tosse e un accenno di singhiozzo. «Franny, sei andata molto bene. È un risultato positivo. Sei andata alla grande, per una lettura preliminare. Hai affermato tu stessa che questo ruolo non lo sentivi, giusto? Hai eseguito una lettura eccellente per un ruolo che non è nelle tue corde, giusto? E adesso ti hanno vista e gli sei piaciuta e ti terranno in considerazione la prossima volta, per qualcosa di adatto a te.» Mi sento così stupida. Lo so che ha ragione. Non mi vedevo affatto in quella parte: e chi potrebbe, del resto? Ottenerla non avrebbe avuto alcun senso. Eppure una piccola parte di me lo avrebbe voluto. Devo far conoscere la Franny che pensa

di essere una vincente con la Franny che si crede una perdente e vedere se possono raggiungere un compromesso e convivere. «Franny. È stato un successo. Abbiamo lavorato settimane per portarti in quella stanza e ora è successo e hai fatto un’ottima impressione. Se può farti sentire meglio, fingiamo che non ti abbia detto nulla, avevano già deciso. Prenderanno una delle attrici della nostra agenzia. Quella di oggi era un’audizione dell’ultimo minuto in caso la trattativa non fosse andata in porto. Ma in pratica hanno già scelto. Era un’audizione di sicurezza, insomma.» Sapere che non ho mai avuto una possibilità concreta mi fa sentire ancora peggio. «Oh. Ottimo. Grazie. Hai ragione, mi sento meglio.» «Guardala da questo punto di vista, Franny. Hai perso un lavoro che non hai mai avuto. Non è come essere licenziati, ti pare?» Mentre me ne sto con la mano stretta intorno alla cornetta, mi sembra di sentire il rumore di una sirena o un allarme, in lontananza. È una sensazione che non ricordo di aver mai provato: come se sapessi che sta per accadere qualcosa di brutto ma non riuscissi bene a metterlo a fuoco. Il rumore diventa più forte e all’improvviso sono nervosa, ma non come se dovessi fare un’audizione; come se avessi fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa di cui potrei pentirmi. Ma cosa? Qualcosa, nelle parole di Richard: Hai perso un lavoro che non hai mai avuto. Non è come essere licenziati. L’allarme mi esplode nell’orecchio, con tutto il suo fragore: la consapevolezza di quello che ho appena fatto, e delle sue conseguenze. È venerdì e sono le quattro passate: e il mio preziosissimo turno al locale di cabaret è cominciato da un pezzo. È venerdì e sono le quattro passate, e sono sicura al cento per cento che sono appena stata licenziata.

16

HERB non ha nemmeno sollevato il telefono per dirmi di persona che non ho più un lavoro. Ha mandato Ricky a darmi la notizia. «Qua è il caos più totale. Siamo stati presi d’assalto da un branco di liceali. È meglio che te ne parli io, credimi. Nessuno dei tuoi sostituti ha risposto alla chiamata e Herb è incavolato nero.» «Ma forse se provo a spiegargli…» «Ha detto che ti ha dato una possibilità di troppo. Che ormai sei fuori dal gioco. Sai, un insieme di frasi fatte da telefilm poliziesco. Puoi venire a ritirare l’ultimo assegno dopo mercoledì. Mi dispiace, Franny. Verrai comunque al mio spettacolo, vero?» «Certo.» Poi, il martedì successivo, a lezione, Penelope Schlotzky è arrivata con un nuovo taglio di capelli illuminato da colpi di sole. Ha passato le dita tra le lunghe ciocche bionde e ha commentato, con indifferenza: «Oh, questo? Me li hanno tagliati loro. Per lavoro. Ho dovuto farlo». E aveva pronunciato la parola «lavoro» con lo stesso tono con cui avrebbe potuto pronunciare la parola «galera». «Di cosa parlava?» avevo chiesto a Casey. «Credo sia la nuova protagonista di La valle dei pini», mi aveva risposto alzando le spalle. «Oh, davvero?» avevo replicato cercando di non sembrare troppo sorpresa. «Ho fatto un provino per quella parte.» «Dici sul serio?» aveva domandato lei, colpita. «Caspita. L’unica cosa che ho fatto la scorsa settimana è un provino per un profumo, Aroma d’ebano.» «A momenti lo facevo anch’io!» avevo esclamato, e Casey mi aveva guardato divertita, mentre Stavros abbassava le luci. «Ti spiego dopo», avevo bisbigliato nell’oscurità. Penelope Schlotzky, avevo pensato. Ovvio. Anch’io l’avrei scelta, per quella parte. Però mi bruciava. Com’è possibile che sentissi mia quella parte, quando non c’era mai stata una sola possibilità concreta di ottenerla? Quindi, quando Stavros aveva assegnato a me e a James Franklin una scena insieme, ero meno entusiasta del solito. Ho bisogno di un lavoro come quello della sua ragazza, non di un cuore infranto. Eppure qualche giorno dopo, quando sento la sua voce, o quella che mi sembra essere la sua voce, che parla nella segreteria al piano di sopra, corro così forte che sbatto il ginocchio contro la scala, mentre mi allungo a prendere il telefono.

«Oh, cioè, pronto?» dico col fiato corto. «Franny?» «Sì?» «Sono James Franklin.» «Oh, ciao.» Devo coprire il ricevitore con una mano, mentre cerco di prendere fiato. Sto annaspando. «Ti senti bene?» «Sì. E tu? Ti senti bene?» ribatto decisa. «Se… mi sento bene?» dice confuso. Cerco di cambiare tono e sembrare più spigliata. «Cioè, come stai? Tutto bene?» «Sì, tutto bene. In questo momento sono dalle tue parti. Ti va di fare due passi? Magari potremmo lavorare alla nostra scena, se sei libera.» Se sono libera? Non saprei. Sarebbe decisamente più figo se non lo fossi, ma mi piacerebbe fare qualcosa, visto che si dà il caso che io sia libera. E comunque, non mi sta chiedendo di uscire, quindi la regola per cui non bisogna mai accettare più di un invito lo stesso giorno non vale, in questo caso. Non vale, quando si tratta di compagni di corso che si vedono soltanto per preparare insieme una scena. Però esito. Dalle mie parti? Brooklyn è enorme. Non gli ho mai detto dove abito. Per quanto ne so, in questo momento potrebbe essere a Coney Island e volermi invitare a fare due passi sul molo. «Come lo sai?» Il mio tono è misterioso e deciso, credo, come se fossi il detective di un romanzo poliziesco inglese. Passo al setaccio le brumose strade di Londra con la mia lente di ingrandimento, alla ricerca di indizi invisibili ai più. «Come so… cosa?» dice, dopo un istante. «Come sai dove abito?» Forse non solo ha tenuto il mio numero di telefono, ma ha fatto delle ricerche su di me. Forse mi ha cercato sull’elenco telefonico, anche se suppongo siamo sotto il nome di Jane. Quindi deve esser stato molto difficile scovarmi. Poi mi viene in mente: James è sotto contratto con la mia stessa agenzia. Forse ha chiamato Richard e gli ha detto che aveva bisogno di contattarmi, e chissà, magari in questo momento in ufficio staranno parlando di noi. Forse se in agenzia sospettano che frequenti un attore che fa audizioni e lavora, mi terranno un po’ più in considerazione. Comunque, mi ha trovato, concludo piena di orgoglio. È riuscito a trovarmi, quindi significa che gli interesso, almeno un po’. «Ho letto il tuo indirizzo nel foglio dei contatti, a lezione. Inoltre abito qui vicino.» Oh, giusto. Il foglio dei contatti di Stavros. Me ne ero dimenticata. Ci sono gli indirizzi e i numeri di telefono degli studenti in modo che possiamo esercitarci insieme. Quindi per lui non è stato molto difficile. Ma quel giorno, per la strada, mi aveva chiesto il numero di telefono. Perché lo voleva, se lo aveva già? «Allora, che senso aveva chiedermi il numero di telefono, quel giorno?» Chiudo gli occhi e sprofondo nell’imbarazzo. Chiudi quella bocca, mi dico. Lavorerete insieme per le prossime tre o quattro settimane. Calmati.

«Perché volevo chiamarti, credo.» «Perché non prendere il mio indirizzo direttamente dal foglio, allora?» Per qualche assurda ragione, sto cercando di rovinare tutto, ancor prima che ci sia qualcosa da rovinare. Si schiarisce la voce. «Perché volevo chiamarti come James, non come studente di Stavros.» Da idiota maldestra mi sto trasformando a genio assoluto. Sono stata diretta e audace, come una donna sicura di sé, e in cambio del mio coraggio ho ricevuto una risposta piacevole e sincera. Devo comportarmi sempre così, essere sfrontata e piena di energia. Sono come la donna nella pubblicità del profumo. Giro per le vie di Manhattan con un morbido tailleur giallo, tacchi vertiginosi e la ventiquattrore, quindi non sono soltanto una donna di enorme successo e indipendente, ma irresistibile. Immagino me e James che passeggiamo mano nella mano a Brooklyn, un posto in cui non ho mai passeggiato mano nella mano con nessuno. Scuoto la testa, cercando di chiarirmi le idee. È ridicolo pensare a James come a un possibile fidanzato. È il mio compagno di corso. Siamo nella stessa classe. Lavoriamo insieme, tutto qui. È stato carino a dirmi che voleva chiamarmi come James, ma in realtà non lo ha fatto, quindi non significa niente. Inoltre, per quanto ne so, sta con Penelope, il che significa che gli piace qualcuno che quando firma mette una faccia sorridente al posto della «o». Se gli piace una come lei, io non sono di certo il suo tipo. Devo comportarmi in modo più professionale. È un attore affermato in un mondo che ho soltanto immaginato, e voglio essere abbastanza calma da imparare qualcosa dalla sua esperienza. «Porti le Dr. Martens anche tu!» esclamo mentre scendo gli scalini dell’ingresso. Calma e professionale, avevo detto? Ma la domanda non sembra scoraggiarlo. Mi sorride come se avessi appena pronunciato la battuta più simpatica del mondo. «Ti va un caffè, prima?» Spiega che non abita lontano, ma mentre scendiamo verso la Quinta Avenue mi accorgo che non mi sono mai allontanata così tanto da casa mia. La Brooklyn che conosco scompare velocemente alle mie spalle, gli alberi secolari sono sostituiti da bidoni traboccanti di immondizia, gli edifici eleganti da case a schiera più spoglie. Ci fermiamo in un punto dove non sono mai stata, dove ce lo preparano dietro una griglia di metallo e ce lo porgono da una minuscola apertura che chiudono a chiave dopo che abbiamo pagato. L’uomo dietro la griglia mi guarda come se avessi appena invaso il suo territorio. «Adoro qui», commenta James soffiando sul caffè per raffreddarlo. «Vero caffè cubano. Mi ricorda un posto vicino a dove sono cresciuto, a Hoboken.» Ne bevo un sorso e a momenti vomito, per quanto è caldo, forte e sabbioso. «Mmm, delizioso», commento con un sorriso tirato. «Aspetta, sei del New Jersey? Che buffo. Ero convinta fossi del Sud. Io e la mia coinquilina pensavamo che fossi una specie di cowboy.» Non avrei dovuto dirgli che era stato argomento delle nostre discussioni. Mi sto

esponendo un po’ troppo. La donna col tailleur giallo e la ventiquattrore è già un lontano ricordo. Ma questa volta è lui, ad arrossire. «Oh, vero. Mi dispiace. Ero…» Le parole gli muoiono sulle labbra e alza lo sguardo al cielo. Ha la pelle che tende ad arrossarsi facilmente. Me lo immagino a pascolare pecore nella brughiera scozzese o irlandese, in un posto nebbioso e selvaggio, con indosso un rustico maglione di lana color panna e degli stivali verdi, magari mentre fuma la pipa. Cosa c’è, in James, che mi spinge a immaginarlo altrove, nelle vesti di qualcun altro, ogni volta che ce l’ho davanti? Non dovrebbe essere abbastanza, come fantasia? Non che questa lo sia. Mi sono fatta alcune domande su di lui, è vero, ma adesso sto soltanto lavorando con un compagno di classe che, guarda caso, trovo attraente, il che rende oggi una gran bella giornata, e non una fantasia. «Probabilmente stavo lavorando a qualcosa, e forse, boh, si è insinuato nella realtà senza che me ne accorgessi.» Sono colpita. James stava studiando un personaggio, forse per il film con Arturo DeNucci, ed era così concentrato che, senza rendersene conto, aveva continuato a usare l’inflessione dialettale del personaggio anche fuori dal set. Vorrei fargli altre domande, ma credo di averlo adulato abbastanza, per ora. Ritrovo un po’ della compostezza della donna col tailleur giallo e mi sforzo di non farmela più sfuggire. La scena che ci è stata assegnata è tratta da The Bue Cabin, una commedia che è appena andata in scena a Off-Broadway e che parla di una donna che abbandona il futuro marito sull’altare, prima di pronunciare il fatidico «Sì». Ancora con l’abito da sposa indosso fugge più lontano che può, finché non si ritrova in mezzo al nulla e bussa alla porta dell’unico rifugio che trova, un cottage isolato nei boschi. Ha bisogno di un posto dove dormire: all’inizio non vuole avere a che fare con il burbero eremita che ci trova dentro, e lui la tratta con ostilità, ma alla fine si aprono e si innamorano. L’appartamento di James è al piano terra di una fila di case di mattoni rossi. Quando entriamo è buio e non riesco a vedere bene la stanza, ma intravedo il giardino sul retro. Dice che lo condivide con il vicino del piano di sopra, anche se una parte è solo sua. «La mia sala fumatori», la chiama. Accende alcune candele, un gesto che considererei romantico, di solito, anche se mi rifiuto di indugiare in pensieri del genere. Le donne in tailleur giallo sono concentrate sul lavoro e non si fanno distrarre da poche candele accese allo scopo, ancora da accertare, di sorprenderle. Una volta abituata alla penombra, vedo che, anche se piccola, la stanza è pulita e ben organizzata, persino formale. Non so perché, ma sono stupefatta; immagino che la maggior parte dei ragazzi che conosco non siano così a loro agio. Nella stanza non ci sono molti mobili, ma ciascuno ha le dimensioni giuste e l’esatta collocazione, e più mi soffermo a guardare, più mi accorgo che sono antichi e molto costosi. È tutto così imponente che la stanza, in confronto, sembra vergognarsi della sua modestia. È come se James fosse un nobile d’altri tempi,

costretto a fuggire in fretta e furia da una grande dimora per trasferirsi in una casa molto meno attraente per la quale ha dovuto scegliere soltanto i suoi mobili preferiti. Ci sono anche dei quadri alle pareti: dei dipinti a olio, uno che raffigura un uomo in uniforme, uno con un cesto di frutta, e alcuni disegni a carboncino che non sfigurerebbero in un museo. Il letto è fatto con cura e corredato da cuscini e le due finestre che danno sul giardino sono coperte da tende di velluto rosso scuro. «Accidenti.» «Grazie.» Fa una pausa. «Penso che vivere in un bel posto sia importante, in fondo noi attori siamo artisti e di conseguenza più ricettivi a ciò che ci circonda. Gli oggetti scadenti ci distraggono, sono ostacoli che mettiamo lungo il nostro cammino quando abbiamo paura di raccontare la verità.» Poi si ferma e arrossisce. «Scusami. Chissà come ti sono sembrato presuntuoso.» Penso alla mia stanza, sull’Ottava Avenue: poster alle pareti, pigiami arrotolati sul letto, asciugamani appoggiati allo schienale della sedia, scarpe ovunque. Sono disordinata perché sto evitando qualche «verità»? Credevo di essere soltanto disordinata. Ma forse la mia mancanza di ordine sta cercando di dirmi qualcosa. Come mi sentirei, se mi prendessi di più sul serio e pensassi a me stessa come a un’«artista», come fa James? Le sue parole mi erano apparse un po’ altezzose, è vero. Ma forse mi ha fatto quell’effetto soltanto perché non rifaccio mai il letto. «Non sei presuntuoso. Anzi, è un concetto stimolante. Non ho mai pensato alla mia stanza come a un prolungamento della mia… be’, della mia arte. Sono più il tipo che pensa: Non ho tempo per questa roba.» Rido, ma c’è una nota stonata; è una risata troppo forte e senza freni, per un posto così bello. Caotica, proprio come la mia stanza. Come se mi avesse letto nel pensiero, James dice: «Interessante, non trovi? Sentirsi talmente a disagio in un posto sconosciuto, da diventare più consapevole di sé? Forse la mancanza di un legame con un posto estraneo può davvero darti la libertà di aprirti e vederti per ciò che sei. Pensavo che venire qui potesse aiutarti con Kate. Lei era rigida, ma il contatto con un estraneo in un posto non familiare le permette di aprirsi e liberarsi. Di respirare». È tutto molto interessante, ma chi diavolo è questa Kate? James mi guarda con aria di aspettativa. «Kate?» «Il tuo personaggio. Nella commedia.» Oh, vero. Kate. Mi ero quasi dimenticata che siamo qui per studiare la commedia e due protagonisti, Kate e Jeffrey, anche se in realtà a quanto pare ci stiamo già lavorando, visto che James non ha smesso un secondo di parlare della commedia e del lavoro che dovremmo fare. Il personaggio di Jeffrey aveva deciso di sparire dopo la morte della moglie e si era creato un piccolo rifugio isolato nel cottage tra i boschi. Kate aveva avuto una vita protetta, all’interno di un mondo conosciuto, finché non era fuggita dall’altare. Il cottage le è completamente estraneo, come lo è per me l’appartamento di James.

Venire qui è stata un’idea geniale. Sto imparando tantissimo. È così intelligente. «Sei così intelligente», gli dico. «Sei così bella», dice lui. Poi cala il silenzio. Vedo le lettere sospese nell’aria, tra di noi. Una parte di me vorrebbe scacciarle e guardarle precipitare a terra, liquidandole con una battuta o una frase profonda, ma voglio anche che restino sospese nell’aria, per assaporare il complimento ancora un istante. È stato così rapido e facile: aveva detto sul serio? Era stato James a dirlo, o faceva già parte dello studio? Forse si era già calato nella parte. Ma non ho alcuna intenzione di chiederglielo.

17

SI è fatto buio nell’appartamento di James Franklin, e l’atmosfera è piacevolmente intima. Ha acceso altre candele e abbassato le luci. Abbiamo provato la scena all’infinito, finché le battute hanno perso il loro significato. Voleva continuare, ma l’ho convinto a fermarsi per una pausa. Usciamo nel piccolo giardino sul retro per condividere una sigaretta – l’ultima – che ci passiamo come se fossimo amici di vecchia data. «Perché vieni ancora a lezione?» gli chiedo, e immediatamente me ne pento. Arrossisco, ma il mio imbarazzo non lo scoraggia. Mi sorride, con aria pensierosa. «Cosa vuoi dire?» ribatte, aspirando una lunga boccata di fumo e porgendomi la sigaretta dalla parte del filtro, come si dà un paio di forbici. «Tu lavori già. Noi andiamo a lezione per migliorare, ottenere un ingaggio e non dover più studiare. Quindi perché segui ancora le lezioni?» «Non voglio smettere di imparare. Se smetto, ho paura che diventerò uno di quegli attori troppo pieni di sé. Anche Arturo studia ancora.» «Davvero?» «Sì. Prende lezioni private, ma ogni tanto va ancora da Ivanka.» Ivanka Pavlova è l’altra insegnante di grido di New York, anche se ogni volta che viene fatto il suo nome Stavros ha un moto di insofferenza. «Provate a farlo con Ivanka», dice quando qualcuno dei suoi studenti recita in modo vistoso, un po’ troppo sopra le righe. «Com’è?» «Arturo, intendi?» «Sì. Com’è lavorarci insieme? Non voglio sapere com’è dal punto di vista personale. Mi interessa come attore. Per esempio, cos’è che… cos’è che lo rende così fantastico, secondo te?» «Credo il fatto che sia autentico.» «Autentico?» «Sì. È come se non fingesse, capisci?» Annuisco, come se capissi. «È sempre così vero.» James fa una pausa, forse in dubbio se proseguire o meno. «Per esempio, l’altro giorno abbiamo girato una scena, cioè, avremmo dovuto girare una scena – siamo due sbirri, no – insomma, lui è mio padre ed è in missione con me, ma lui non vuole, è preoccupato, perché sono una testa calda. E quindi siamo in auto e nel momento in cui avrebbe dovuto esplodere e gridarmi in faccia: ‘Scendi subito! Ho detto di scendere subito!’ o una cosa del genere, be’, lui

ha deciso che quella frase non era plausibile, quindi non l’ha detta. Punto.» «Caspita.» «Già.» «Però, un attimo. Non capisco: se non ha detto niente, com’è andata a finire?» «Chi lo sa? Forse scriveranno delle nuove battute. O faranno un altro ciak. O magari sarà perfetto così. Arturo ha un istinto incredibile.» «Ma perché non è arrivato fino in fondo e basta?» «Perché non gli sembrava autentico, in quel momento.» «Con tutti i soldi che gli danno.» «Proprio perché è così autentico.» «Una cosa che fa parte del suo lavoro, no?» «Ma lui è un artista.» «Sì, ma è tutta una finzione. Insomma, sono d’accordo con te: è molto autentico, è un artista, però è anche vero che niente di quello che facciamo è realmente autentico.» «Cosa vuoi dire?» «Che non siete veri poliziotti.» «Mmm…» «È tutto inventato. Giusto? È esattamente questo il succo del nostro mestiere. Far sembrare reale qualcosa di inventato.» «Non è soltanto un mestiere: è un’arte.» «Certo. Capisco.» Ma non capisco davvero. Mi sento già in colpa a stare troppo tempo sotto la doccia e consumare l’acqua calda. Non posso immaginare di dire a un gruppo di persone che non posso girare una scena perché non la reputo abbastanza autentica. Ma Arturo DeNucci è senz’ombra di dubbio un grande attore. Forse è questo il punto. Forse sarei un’attrice migliore, se non mi preoccupassi di essere così riguardosa. «Certo, sono d’accordo: esiste una categoria di comportamenti accettabili», ribatte James. «Ma con Arturo, vale la pena. Lo spiegavo a Penny quando stavamo insieme. ‘Non farla, quella soap’, le dicevo. ‘Ti ammoscerà, perché in quel tipo di recitazione non sei libera. Soltanto pagine e pagine di stronzate che devono essere realizzate a qualunque costo, uno sviluppo della storia improbabile, e non c’è possibilità di scelta, se non girare e non pensarci più. Non c’è nessuna bellezza in quella roba, cazzo.’» Se non ho capito male, mi ha appena detto che non sta più con Penelope. Normalmente sarei al settimo cielo, ma in questo momento ho la testa che mi scoppia, muoio di fame e mi bruciano gli occhi. Per stasera ho esaurito le energie. «Sono le dieci passate», gli dico stirandomi. «Sono sfinita. Devo mangiare qualcosa.» «Proviamo la scena ancora una volta, ti prego. Soltanto una», insiste. «Dimentichiamoci di tutti i gesti e i movimenti che abbiamo usato finora e improvvisiamo. Buttiamo tutto all’aria.» «Perché?»

«Così, per divertimento. Seguiamo l’istinto.» «Cioè?» «Ridere a sproposito, mettersi a saltare, roba del genere. Non ci sono scelte sbagliate. Sorprendimi.» L’euforia che mi aveva travolto a inizio serata è svanita. L’idea di saltare senza motivo mi irrita. Sono stanca, voglio mangiare qualcosa che mi farà male e infilarmi a letto. Le pose attoriali di James mi danno sui nervi. Non voglio «buttare all’aria» il lavoro svolto nelle ultime ore. Pensavo fosse questo lo scopo delle prove: sapere cosa fare e come farlo, quando arriverà il momento di recitare davanti a tutti. Un atteggiamento come il suo mi sembra inutile e arrogante. James mi guarda con i suoi profondi occhi nocciola, aspettando una risposta. Ma sul suo viso scorgo l’ombra di un sorriso e mi accorgo che la sua è una provocazione: sta tirando la corda, anche se sa che non mi piace. Non voglio dargliela vinta. «Saltare è un’idea stupida.» «Cos’è stupido: il pensiero di saltare o il fatto di avertelo proposto?» «Tutte e due.» «E cos’altro trovi stupido?» Si sta divertendo a vedermi storcere la bocca e recalcitrare. Fa parte della sfida. «Questo gioco. È un gioco stupido.» «Nient’altro?» «Voglio andare a casa.» «Comincia con le battute.» «Cosa?» «Avanti. Incomincia. E lasciati andare. Forza.» Finora abbiamo usato l’ingresso dell’appartamento come porta per la nostra scena. Quindi esco e mi preparo a entrare come ho già fatto decine di volte, questa sera; soltanto che ora sono furiosa. James è uno studente di recitazione, proprio come me, e il fatto che abbia girato qualche film non gli dà il diritto di dirmi come fare. Provare insieme con lui mi ha aiutato a guardarlo sotto una nuova luce. Non sono più in soggezione come quando abbiamo incominciato. Non ho più nessuna voglia di seguire le sue direttive. Non ho nessuna intenzione di assecondarlo in questo stupido esperimento. Entro. La scena è identica, ma anche diversa. Recito le stesse battute, ma distrattamente. I punti importanti li faccio alla bell’e meglio, e metto enfasi su dettagli minimi. Non sempre funziona, anzi, a volte non ha alcun senso, ma non importa. Voglio finire il prima possibile. Sto soltanto cercando il modo per concludere in fretta, assecondando il suo desiderio di farmi arrabbiare. Non ho paura di lui. Le emozioni che provavo all’inizio della serata sono svanite. Non ho più voglia di conquistare James. Abbiamo creato un piccolo spazio per le prove accanto all’angolo cottura, spostando il tavolo e le sedie lungo le pareti. È sufficiente per lavorarci, anche se il letto di James ci limita nei movimenti, occupando gran parte dello spazio. Stiamo provando l’ultima scena del primo atto, quando Kate è esausta, dopo aver raccontato la sua storia. Ha corso per ore e non dorme da due giorni. «Voglio solo

dormire», afferma. «Solo dormire.» Le indicazioni di scena dicono: Kate si sdraia sul pavimento e si addormenta. Finora ho sempre fatto così, recitando le battute con voce assonnata. Questa volta, però, quando entro sono completamente sveglia. Sono agitata. Non riesco a smettere di muovermi. Misuro a grandi passi la stanza e guardo ovunque, ma ignoro James/Jeffrey. Non so perché, ma non voglio più guardarlo. I miei occhi si posano sul letto, perfetto e senza una piega con una coperta blu che ha l’aria di essere di seta. Mi fermo di botto. Tiro via il copriletto e lo butto per aria. Sotto, c’è una morbida trapunta e tiro via anche quella, lanciandola via e lasciandola cadere sul pavimento. Poi cerco di tirare indietro il lenzuolo: impresa non facile, perché è ripiegato saldamente sotto il materasso. Da un certo punto di vista, lo sforzo mi è di aiuto; in qualche modo, attenua la mia frustrazione. Voglio disfare quel letto: me lo merito. Sono stanca. Lui è prepotente. E chi è nato a Hoboken, in New Jersey, non dovrebbe avere nessun accento del Sud. Alla fine, dopo essermi accanita sul lenzuolo, lo sollevo così in alto che il tessuto si gonfia come una vela sopra la mia testa. Lo sbatto alcune volte prima di lasciare che si posi dolcemente, poi mi avvento di nuovo su di lui, appallottolandolo per sgualcirlo il più possibile. Lo prendo e me lo drappeggio addosso in una versione esagerata del mio modo casinista di dormire. Infine crollo nel groviglio, in mezzo al letto. Non ho mai degnato James di uno sguardo. Non mi importa quello che pensa di me e non voglio che questa nuova, eccitante sensazione svanisca. «Voglio solo dormire», dico con il viso rivolto al soffitto. «Solo dormire.» In risposta c’è il silenzio, com’è naturale, perché la scena è arrivata al termine, eppure sento che manca ancora qualcosa. Non so bene se è davvero finita, o se stiamo ancora facendo questo strano esperimento. So soltanto che non sarò io a spezzare l’incantesimo. Aspetterò la notte intera, se necessario. Non è lui ad avere la situazione sotto controllo. Sono io. Avverto il suo peso sul letto. Non l’ho nemmeno sentito attraversare la stanza, ma ora è seduto su un angolo; lo so perché la sua presenza ha inclinato il materasso. Resta lì, senza muoversi, per quella che mi sembra un’eternità. Le punte delle sue dita mi sfiorano il piede. Restano lì, sospese, come mani su una macchina per scrivere in attesa del permesso di incominciare, ma poi il suo palmo si posa. La mano è calda e abbastanza grande da cingermi quasi tutto il piede, stringendolo forte, come in segno di saluto. Mi sta toccando il piede. Mi sta toccando il piede. Nessuno mi ha mai toccato il piede così. Nell’indecisione, sono paralizzata. Forse la sua prossima mossa sarà risalire lungo la mia gamba e poi… oddio, quand’è che mi sono depilata, l’ultima volta? Ci sta provando? È una specie di primo bacio? E se è così, cosa faccio? E ammesso che voglia fare qualcosa, qual è la reazione più appropriata, quando ricevi un’avance, ehm, podologica? Inoltre la mia lotta con le lenzuola è stata così furibonda che sono praticamente immobilizzata. Dovrei

produrmi in una sorta di goffo esercizio addominale, per tirarmi su e districarmi e studiare bene la sua espressione: senza vederlo in viso è difficile capire le sue intenzioni e di conseguenza capire come mi sento io. Forse potrei tirar via il piede in segno di rifiuto, o muovere le dita in segno di incoraggiamento, ma entrambe le reazioni mi sembrano troppo audaci. Prima di poter decidere, James mi sovrasta, il peso sostenuto dalle braccia, come se stesse facendo le flessioni. Non mi tocca, ma è sopra di me, i capelli che gli cadono sul viso. Mi sorride e ha le guance arrossate. «Non hai idea di quanto sei meravigliosa, vero?» «Grazie.» Mi accorgo di essere davvero bloccata. In circostanze normali striscerei sotto di lui per allontanarmi, rovinando l’atmosfera, ma faccio fatica a muovermi e non voglio rovinare la mia prova d’attrice che, a quanto pare, lo ha colpito molto, scendendo dal letto in modo goffo. Quindi decido di star ferma ancora un attimo, facendogli credere che la situazione stia prendendo gli sviluppi che voglio io. Ma James sembra interpretare diversamente il mio atteggiamento. Mi sta guardando negli occhi. Non so perché. «Non hai idea di quanto sei meravigliosa, vero?» ripete. Non sapevo cosa dire la prima volta, e non so cosa dire nemmeno ora. Sto avvampando. Vorrei muovere le braccia. Riesco a spostare le gambe di qualche centimetro, ma la cosa non mi consola. Voglio scendere dal letto e non riesco a chiedergli di darmi una mano ad alzarmi. È come se corpo e voce fossero bloccati insieme, e finché non decidono di ripartire non ho scampo. «Mmm… senti…» Ma, prima che io possa aggiungere altro, mi sfiora le labbra con un bacio leggero. Uno solo. Delicato, quasi casto, come se non volesse che lo prendessi troppo sul serio. E qualcosa nella combinazione tra il senso di claustrofobia, la vicinanza con il suo corpo, il fatto che nessuno mi baci da tanto tempo e il suo tocco leggero sprigiona da me tutta la sfrontatezza della manager in tailleur giallo. Così, senza rendermene conto gli dico: «Hai paura di baciarmi sul serio?» Sul viso di James passa un’espressione di sorpresa, come se le mie parole non avessero alcun senso. L’aura da donna manager si dissolve. L’ho sconvolto. Ho fatto uno sbaglio. Ma come posso aver frainteso i suoi segnali? Mi ha toccato un piede. Lo ha stretto tra le dita. E mi ha baciata. Ed è ancora sopra di me, santo cielo. Ma un attimo: la sorpresa è svanita. Forse non c’è mai stata. James mi guarda in modo diverso, adesso, intensamente, pieno di desiderio. Si abbassa piano accanto a me, appoggia il mento su una mano e mi sfiora le labbra con un dito, facendomi venire la pelle d’oca. Poi, come gli avevo chiesto, mi bacia sul serio. Un po’ di tempo dopo mi alzo in piedi. Non so nemmeno cos’è successo. A un certo punto ci siamo tirati su e abbiamo bevuto del vino, prima di crollare di nuovo

sul letto, ma sono sempre a stomaco vuoto e il cocktail di stanchezza, fame e baci mi ha portato sull’orlo del delirio. Sto sognando. Dev’essere così. Non posso aver trascorso le ultime due ore a baciare James Franklin. Grazie, donna manager! «Ti accompagno a casa», mi dice sulla porta, la mano sulla mia nuca, mentre mi attira a sé. Se non me ne vado in fretta, non ci riuscirò più. «Te l’ho detto, sto bene. Non è lontano.» «Questa strada non è il massimo, di notte.» «Ecco perché ho questo», dico mostrandogli lo spray al peperoncino attaccato al portachiavi. «Vivo a New York, bello.» «Ah, certo. Sei una vera dura, me ne sono accorto.» Mi scosta una ciocca di capelli dal viso e mormora: «In fondo, stasera mi sei praticamente saltata addosso». Mi stacco bruscamente, perché ho bisogno di vedere l’espressione sul suo viso. Sta scherzando? Non mi piace per niente. «Cosa stai… Non direi proprio che ti sono ‘saltata addosso’. Anche tu eri piuttosto… be’… eccitato», ribatto confusamente. «Tranquilla, Franny. Ti prendevo in giro. Desideravo che succedesse dal giorno in cui ti ho incontrata per la strada. Volevo mantenere un atteggiamento professionale, stasera; sì, certo ci ho messo un po’ del secondo atto per aggiungere del pepe, ma senza passare i limiti. Ma tu… Sei stata fantastica.» Mi attira a sé, stringendomi forte. «Sono contento che tu mi sia saltata addosso. Davvero.» Richiude la porta alle mie spalle dopo un ultimo bacio; un bacio che assaporo solo in parte, perché nella mia mente si affollano mille pensieri. Percorro la strada fino a casa di corsa; il quartiere è così buio e quieto da mettere i brividi e ho la sensazione opprimente di aver fatto qualcosa di cui mi pentirò. Come ha potuto dire, anche solo per scherzo, che gli sono saltata addosso? E a cosa alludeva, quando ha accennato al secondo atto? La nostra scena è alla fine del primo. Si è sbagliato. Ne sono certa. Dovrò dare un’occhiata al copione, quando arrivo a casa. Mentre mi avvicino, rallento il passo. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. È una notte bellissima, fredda e silenziosa, ormai mi sono riscaldata e posso rallentare. Voglio gustarmi la serata da sola, prima che svanisca. È stata meravigliosa. Prima le prove, poi il resto… mi sono sentita forte e intelligente e carina, con James, per quasi tutto il tempo. Mi fermo davanti ai gradini dell’ingresso e vedo le luci accese in salotto. C’è qualcuno, in casa. Sveglio. Spero sia Jane, che è tornata a casa tardi e non vede l’ora di raccontarmi com’è Russell Blakely e cosa si prova a osservare una star del cinema sul set. È curioso quanto sia vicina a quel mondo, e allo stesso tempo lontana, lavorando fino a tarda sera per settantacinque dollari al giorno. O magari è Dan, seduto al tavolo del salotto, che sogna di vedere la sua sceneggiatura vincere un festival di fantascienza. Ci diamo tutti da fare come matti, ma siamo così distanti dalla meta. È come spiare da una finestra una festa a cui non siamo ammessi, una festa alla quale non sapremmo indossare l’abito giusto o come parlare, nemmeno

se qualcuno ci avesse invitato. Scommetto che è Dan, che ha finito di scrivere e sta guardando la televisione, con la seconda birra appoggiata in precario equilibrio tra le gambe. Ne rovescia sul pavimento almeno una alla settimana, perché non vuole appoggiare le bottiglie sul «tavolino bello», quello che Jane e io abbiamo raccattato per strada alcuni anni fa, in un giorno di raccolta rifiuti. Non so perché sto pensando a Dan e al tavolino. Sono fuori da così tanto tempo che sto incominciando a tremare di freddo. Dovrei andare a dormire prima di iniziare a preoccuparmi del significato di questa serata, ammesso che ne abbia uno. Dovrei farmi un bel sonno ristoratore. Dovrei alzarmi presto, domani mattina, e andare a correre. Giuro a me stessa di entrare in casa e salutare i miei coinquilini e poi dirigermi subito in camera, fermandomi soltanto per dare un’occhiata fuori della finestra e vedere cosa sta guardando Frank in TV, prima di andare a studiarmi le battute del The Blue Cabin, in modo da memorizzare al massimo il lavoro di stasera. Arturo DeNucci probabilmente resta alzato fino a tardi e studia le battute anche dopo una lunga serata di prove. Sono sicura che lo fa anche James. Sono stanca, ma mi sento una vera attrice. Una seria, in procinto di diventare un’artista autentica. THE BLUE CABIN ATTO II, SCENA I Il sipario si alza su Kate,come l’abbiamo lasciata alla fine del primo atto, addormentata su una pelle di pecora accanto al camino. Jeffrey è seduto vicino a lei. Kate si muove e tira via le coperte. Jeffrey cerca di coprirla senza svegliarla. Lei apre gli occhi. Lui si china su di lei, impacciato. JEFFREY: Non hai idea di quanto sei meravigliosa, vero? KATE: Non avrei mai dovuto raccontarti quella storia. JEFFREY (beffardo): Ho ragione, vero? Non hai idea di quanto sei meravigliosa. KATE (lo respinge): Non è divertente. Smettila. Te l’ho detto, non ho bisogno di nessuno. Merda. Oh, merda.

18

È COME ho sempre pensato. Ho finto di essere una persona sicura, e ho trovato la vera personalità che ho sempre sperato fosse sepolta sotto quell’altra, quella di sempre, tutta dubbi e zero autostima. Fingendo di essere la Franny che avrei voluto ho convinto qualcuno (e a momenti anche me stessa) che lo sono davvero. James e io ci siamo visti praticamente ogni giorno, dalla sera delle prove, e il brivido della novità fa passare in secondo piano il tarlo che mi rode lo stomaco da quando sono stata licenziata. Soldi. Da dove li tirerò fuori? «Quindi stai fingendo di essere un’altra persona?» mi chiede Jane scuotendo la testa perplessa. Stiamo bevendo due Margarita ghiacciati nel ristorante messicano della Settima Avenue, come mille altre volte. Ma questa è una delle prime sere in cui non sono da James e mi sento strana, come se fossi andata a rivedere il mio vecchio liceo dopo gli anni passati al college. «No, non proprio», rispondo frantumando un pezzettino di ghiaccio con la cannuccia. «Cioè, all’inizio non avevo capito che James stava recitando, quindi si è trattato di un caso, ma è come se avessi trovato la mia vera personalità. Sono finalmente me stessa, più di quanto non lo sia mai stata. È come se mi stessi davvero trasformando nella Franny che dovevo essere.» «Quindi stai effettivamente fingendo di essere un’altra persona.» «Jane. Parlo sul serio. Credo che potrebbe essere un nuovo inizio.» «E cos’è successo alla sua ragazza?» «Penelope? Hanno rotto», le spiego laconicamente, prendendo una tortilla. «Ha ottenuto la parte in quella soap e ha cambiato nome. Non riesco a crederci.» Jane annuisce con aria solenne, ma ha lo sguardo vacuo e aggrotta la fronte. «Jane, mi stai ascoltando?» «Mi chiedevo… Se, per qualche ragione tu – la nuova tu, insomma – cambiassi nome, questo comporterebbe un’inversione di rotta, allontanandoti dalla Franny che dovevi essere, o ti avvicinerebbe di più a lei?» «Jane.» «Sono confusa.» «Ascolta. Ha cambiato il nome in Penny De Palma.» «Come Brian De Palma?» «Capisci? Lo ha scelto apposta. Ha cambiato il nome, e fin qui va bene, ma in modo che la gente lo possa associare a quello di un famoso regista. Non è assurdo?»

«Assurdo e molto astuto, direi. Chi lo sa? Forse lui è davvero suo parente.» «Perché la difendi?» «Non la sto difendendo, ho solo detto: ‘Chi lo sa?’ E poi, al diavolo, che t’importa?» «No, lei… Non è che me ne importi qualcosa. È soltanto che suona così falso: mi scoccia, tutto qui.» «Quindi non t’importa. Sei solo scocciata.» «Esatto.» «Più scocciata che altro.» «Già.» Jane annuisce seria. «Be’, lei si è presa la tua parte, ma a quanto sembra tu ti sei presa il suo ragazzo. Mi pare uno scambio equo.» Arrossisco di vergogna, pensando ai miei commenti meschini su Penny e alla notte trascorsa con James. Nelle ultime settimane non abbiamo praticamente messo il naso fuori dal suo appartamento, ma a dire la verità è l’unico posto di cui abbiamo bisogno, almeno per ora. Cerco di soffocare una risata, ma sale comunque in superficie e scoppio a ridere come una cretina. «Oddio», sbotta Jane. «Ordiniamo, per favore. Mi viene la nausea solo a guardarti.» Però sorride, mentre prende il menu, e so che è felice per me. «Jane», dico avvicinandomi e abbassando la voce. «Davvero. Lo so che l’ho appena conosciuto, ma non credo di essermi mai sentita così in vita mia.» Lei si avvicina a sua volta e mi scruta in viso. «Sicura? Non ti sei mai sentita così in vita tua? Mai? Nemmeno con Velcroman?» Rido e penso a quel ragazzo che ho frequentato per un mese, un comico conosciuto nel locale in cui lavoravo e che effettivamente possedeva una quantità impressionante di oggetti con la chiusura velcro: scarpe, portafogli, tracolla, il cappellino rosso con la riga nera, il giubbotto azzurro che indossava sempre. «Quanto mi manca quello scracc che mi segnalava il suo arrivo!» sospira malinconica. «Sì, Jane, nemmeno con Velcroman.» «Aveva per te una tale adesione.» «Jane.» «Quindi», prosegue, «vuoi dire che questo bellimbusto ti piace persino più di Poloviola?» Phil era un attore che avevo conosciuto a lezione e con cui ero uscita un paio di volte, ma Jane si era rifiutata di imparare il nome di una persona che indossava sempre la stessa maglietta color vino. «Si sarà dimenticato che l’ha messa anche l’ultima volta», avevo tentato di giustificarlo. «E comunque sono sicura che ne ha più di una. Mi ha detto che è il suo colore preferito.» «E tu hai intenzione di uscire con un ragazzo il cui colore preferito è il viola?» «Sì.» «E la cosa non ti crea alcun problema?» Sorrido al ricordo di quei personaggi di secondo piano e annuisco. «Sì, sono

ragionevolmente certa che James mi piaccia più di Poloviola. Possiede camicie di molti colori diversi.» Appoggia il menu e mi guarda con espressione seria. «Franny, credi che lui sia… insomma, hai pensato a Clark?» Ovviamente sì. James è decisamente su un altro livello, rispetto a Velcroman e Poloviola. E naturalmente mi sono chiesta cosa farei, nel caso la nostra relazione prendesse una piega seria. Clark, ho conosciuto una ragazzo, gli direi al telefono, eliminando ogni nota allegra nella voce per non ferirlo. Non abbiamo mai pensato a come gestire il rapporto, nell’eventualità che uno di noi si innamori di un’altra persona. Non so bene come ci si comporta in queste situazioni e non sono sicura di volerci pensare, per ora. E comunque è troppo presto: non so nemmeno se c’è qualcosa da dirgli. «Be’, vedrò.» «Va bene», ribatte lei comprensiva, concentrandosi sul menu. «Allora, Fran, in realtà sono l’ultima che potrebbe aprire bocca sull’argomento, e lasciami dire ancora una volta che stai da favola, ma cosa vuoi mangiare stasera, se posso chiedere? Vogliamo ordinare la solita bomba calorica, o preferisci, che so, una bella porzione di cubetti di ghiaccio?» «Non ne ho idea. Ho troppa fame per pensare lucidamente. Non ho ancora mangiato, oggi.» «Cosa? Sono le nove. Come fai a stare in piedi?» «Be’, io… sto bene. In realtà sto provando una cosa nuova.» «Oh.» «Ho escogitato un modo alternativo di considerare il cibo: se ci pensi bene, le calorie sono un po’ come il denaro, no?» «Mmm. Nooo.» «Cioè, ci tocca – parlo per me, quindi mi tocca – un certo numero di calorie al giorno, giusto? Diciamo un centinaio: ovviamente non è così, ma immagina di paragonarle a delle banconote, tipo a cento dollari. Fingiamo che io sia ricca, che mi trovi in Francia, e che qualcuno mi dia cento dollari al giorno da spendere.» «Non ti seguo…» «Ascolta. Sono in Francia e ho a disposizione cento dollari al giorno da spendere come voglio. Be’, all’inizio penserei che la cosa migliore da fare è usarli un poco alla volta, per farli durare il più a lungo possibile; prima un caffè, poi un pacchetto di gomme…» «Perché uno vorrebbe andare fino in Francia a comprare delle gomme?» «Ma poi capisco che, se risparmio il mio denaro, arrivata a sera mi resterà l’intera somma da spendere, e allora invece di cento pacchetti di chewing-gum potrei usare l’intera cifra per qualcosa di più grande e più bello, come un cappellino alla moda, per esempio. Non trovi che sia più sensato?» «Però», obietta Jane scuotendo la testa, «che mangeresti? Il cappellino?» «Comunque, se fossi in Francia, in questo momento avrei in tasca i soldi che non ho speso in gomme.» Poso le mani sul tavolo, trionfante. «Quindi ordineremo la nostra bomba calorica.»

«Esatto.» Tira un sospiro di sollievo appoggiando il menu in un angolo del tavolo, e la nostra abituale cameriera, dall’aria totalmente inespressiva, viene a prendere le ordinazioni. «Oggi sembra più felice del solito», osserva Jane. «Non è vero?» «Decisamente pimpante.» Jane dà un’occhiata alla sala, piena di coppiette e famiglie con bambini al seguito. «A quanto pare gli abitanti del quartiere si sono messi d’accordo per riprodursi contemporaneamente.» «Ti ricordi quando ci siamo trasferite?» «In giro c’erano soltanto lesbiche dall’aria intellettuale, con le loro scarpe comode», sospira Jane. «E anziani.» «Questo quartiere non diventerà trendy, vero?» «Vuoi dire un posto con buoni ristoranti?» «E negozi che vendono gioielli che non siano fatti a mano?» «Gesù, spero di no. Non riesco a immaginarlo. Siete già venuti qui, tu e James?» «No… non ancora.» «Siete stati al nostro ristorante cinese?» «No.» «E dove andate di solito?» Da nessuna parte, mi dico; non a cena, almeno. Andiamo quasi sempre alla caffetteria cubana a prenderci il nostro espresso dal gusto acre e alla tavola calda che sa di olio rancido, dietro casa sua. E a letto. «Più che altro ordiniamo al take-away. Sushi», aggiungo, come se potesse fargli guadagnare dei punti. «Inoltre mi accompagnerà al matrimonio di mia cugina.» «Davvero? Fantastico!» Sto liberamente interpretando la conversazione che ho avuto con James dopo avergli chiesto di accompagnarmi al matrimonio di Katie Finnegan. JAMES (leggendo una sceneggiatura, distratto): Ah, che pensiero romantico. FRANNY (ottimista): Allora… è un sì? JAMES: Be’, ci provo. Darò un’occhiata all’agenda. FRANNY: Sono i miei parenti preferiti. Siamo molto legati. E sono simpaticissimi. JAMES: Oh, davvero? FRANNY: Sì, sono pazzi furiosi e… eh, eh (ride come al ricordo di qualcosa di esilarante) fortissimi. Una volta… be’… non so come dire… è difficile descriverlo. Ma fidati. JAMES: Sì, come ti dicevo (si alza e le dà un buffetto sulla testa), devo prima

capire se riesco a conciliarlo con i miei impegni. FRANNY: Quindi può darsi? JAMES (allontanandosi, forse per fumare una sigaretta): Esatto, dolcezza. «Mi accompagnerà, forse. Se non lavora.» «Ti accompagnerà, o forse ti accompagnerà?» chiede sospettosa. «Jane. È un attore molto impegnato.» «E questi attori non vanno ai matrimoni?» «Gli attori molto impegnati hanno continuamente appuntamenti.» «Vorrà dire che ti accompagno io, se Foularino non viene. Mi diverto sempre un mondo alle feste dei Finnegan.» «Jane, ti prego. Non incominciare. Non indossa sempre il foulard.» «E invece sì. L’ho visto.» «Una volta. Lo hai visto una volta sola, quando abbiamo fatto le prove a casa.» «Ho un sesto senso per queste cose.» «Non puoi appioppargli un soprannome. È una persona vera, non una caricatura.» «Non occorre che tu me lo dica. Solo una persona vera porgerebbe la mano al piede della mia migliore amica.» «Jane, non è andata proprio così. È stato molto romantico e…» Per fortuna arriva il nostro formaggio fuso al peperoncino. «Ascolta», mi dice tuffando una patatina in quegli abissi cremosi. «Sei tu quella con la personalità nuova di zecca. Io sono la stessa Jane di sempre.» «Brindiamo, allora», dico. E i nostri Margarita si toccano tintinnando.

19

«CI sono tre nuovi messaggi.» Biiip. «Frances, sono tuo padre. Ti ho rinnovato l’abbonamento al New Yorker . Non voglio assillarti, ma ti ricordo il matrimonio. Vieni in treno? Questa settimana incominciamo Delitto e castigo, uno dei miei preferiti, come sai. Rileggilo, se hai bisogno di ricordarti che la vita potrebbe anche andare peggio. Non sei in prigione, soltanto nel mondo dello spettacolo.» Biiip. «Salve, questo messaggio è per Frances Banks. La chiamo dall’agenzia interinale Girl Friday. Abbiamo dato un’occhiata al suo curriculum e siamo spiacenti di non poterla aiutare, in questo momento. A quanto pare non ha particolari esperienze di lavoro d’ufficio e non abbiamo richieste per receptionist, per ora. Chiami pure tra qualche mese o nel caso possa acquisire nuove competenze, come l’uso di Windows 95.» Biiip. «Ciao, tesoro. Che serata incredibile! Sono qui fuori e ti penso… Non posso farci niente, tesoro. Allora (boccata di fumo) ci becchiamo più tardi?» Biiip. Il messaggio mi strappa un sorriso, poiché so che «ci becchiamo più tardi» significa che le probabilità di vederci sono quasi del cento per cento. Del novanta per cento, almeno. È da James, fare programmi. L’unico problema è che mentre passo il mio tempo abbandonandomi a intense serate di passione, restando alzata fino a tardi e dormendo fino a mezzogiorno, sembra che non ci sia più un solo posto da cameriera disponibile in tutta Manhattan. I lavoretti saltuari che ho sempre svolto in passato per arrotondare non sono abbastanza regolari, ho fatto un paio di provini senza alcun risultato e lo spot del detersivo Niagara non va più in onda. Ho un disperato bisogno di lavorare. Ma non ci sono nozze in vista, con ricevimenti serali, e così ho cominciato a fare la cameriera ai pranzi, dove però non si prendono mance e il turno, più breve, è pagato meno. Meglio di niente, però; quindi ogni sera lavo la mia divisa – una camicetta bianca e un paio di pantaloni neri in tessuto sintetico – e il mattino dopo telefono, combattuta tra il desiderio di lavorare e quello di restare a casa, perché i pranzi, per la maggior parte allestiti in desolate, squallide sale conferenza, sono

tristissimi. All’agenzia di catering continuano a promettermi che le cose andranno meglio a giugno, quando incomincerà la stagione dei matrimoni, ma io ho necessità di una svolta adesso. Finora sono riuscita a non chiamare mio padre per farmi prestare dei soldi. Ma sento che non potrò resistere ancora a lungo. Incrocio le dita, mentre attendo in linea che mi dicano se c’è qualcosa per me, mentre nel cuore palpitano vaghe speranze. Fa’ che non sia la peggiore delle ipotesi, almeno. «Franny?» «Sì?» «Allora, abbiamo un buffet alla United Electric, in centro. Due cameriere. Apparecchiatura, sgombero e servizio bevande. Può andare?» Non è la peggiore delle ipotesi, ma quasi. Appena un gradino sopra il garzone. Piazzi enormi scaldavivande con recipienti colmi di una sbobba che gli impiegati prendono da sé, poi porti loro da bere e te ne stai in un angolo della sala in attesa finché non è ora di sparecchiare. Non è nemmeno un lavoro da cameriera. C’è soltanto una cosa che potrebbe renderlo peggiore. «Tenuta normale?» «No, mi dispiace, hanno la loro divisa.» Questo è il male peggiore, il livello di degradazione totale. Penso all’uniforme sintetica, indossata da centinaia di persone prima di me, scolorita e sformata. Poi però rifletto sul mio conto in banca. «Va bene.» «Porta anche un paio di collant e la retina per capelli.» Deve aver sentito il mio sospiro. Profondo, inconsolabile. «Domani andrà meglio», aggiunge. Credevo di essere uscita con largo anticipo, ma il treno si è fermato tra due stazioni senza motivo apparente, inoltre tutti i miei collant erano pieni di buchi quindi mi ero fermata in un negozio sulla strada, dove l’unico paio di calze disponibile era di un improbabile color mattone. Arrivo in ritardo e la mia collega è la classica cameriera a vita, stagionata a dovere. Non si presenta né si preoccupa di chiedermi come mi chiamo. «Muoviti, sei in ritardo», esordisce brusca. «Quei vassoi non si muovono da soli.» Infilo velocemente la scomoda uniforme sintetica e quando armeggio con i fornelli dello scaldavivande sono già in un bagno di sudore. Almeno non mi conosce nessuno. «Franny? Franny? Sei proprio tu?» Mi volto e vedo una donna attraente che indossa un elegante tailleur scuro. La voce è familiare, ma non la riconosco. «Mi dispiace, non…» E poi capisco. È Genevieve, Genevieve Parker: avevamo la stanza sullo stesso

piano del dormitorio, ai tempi del college. Dolce, intelligente Genevieve, sempre a sgobbare sui libri ma altrettanto disponibile. Aveva rappresentato una felice presenza nella mia vita quotidiana; poi, per qualche ragione, ci eravamo perse di vista. Non l’ho riconosciuta perché qualche anno è passato. E perché deve aver perso quindici chili. «Oddio! Genevieve!» Poso il vassoio di metallo e l’abbraccio. Ha le unghie fresche di manicure e i capelli profumano come se fosse appena uscita da un costoso salone di bellezza. «Hai un aspetto fantastico! Cosa ci fai da queste parti?» «Sono stata assunta da poco. Ora lavoro qui.» «Be’, che coincidenza! Anch’io lavoro qui!» le dico con un sorriso e un gesto della mano che abbraccia la sala in tutto il suo squallore, come se ne fossi l’orgogliosa proprietaria. «Voilà!» aggiungo senza molta convinzione. Con una mano asciugo una goccia di sudore che mi sta scendendo lungo la fronte, e le dita sfiorano l’elastico della retina fermacapelli. Per un istante mi ero dimenticata del mio aspetto. Guardo l’uniforme e avvampo. Genevieve mi osserva e mi sento morire. «Cioè, questo non è il mio… è una cosa temporanea. Lavoro qui, ma solo per oggi.» «Certo, ma naturale!» ribatte Genevieve allegra. «E comunque, anch’io sono appena uscita dalla scuola di legge e solo di recente… be’…» Le parole le muoiono sulle labbra, mentre annaspa alla disperata ricerca di qualche analogia tra le nostre situazioni, ma c’è un abisso che ci separa, come se ci trovassimo sui lati opposti di un enorme burrone. Ho anch’io i miei piani, ma trovarmi di fronte ai risultati concreti dei progetti di vita di una persona normale mi sconvolge. Le persone normali dopo il college vanno alla scuola di legge, si specializzano, trovano un lavoro, poi ottengono una promozione e quindi un lavoro migliore. Dopo la laurea, Genevieve è entrata nello staff di uno studio legale ed è servita da camerieri in una sala conferenze, mentre io ho interpretato Biancaneve nei teatri di provincia e sono diventata la cameriera che serve le persone con un lavoro vero. «Allora», riprende con lo stesso sorriso smagliante. «Stai ancora cercando di sfondare nel mondo dello spettacolo?» «Esatto», rispondo, le mani sui fianchi come un supereroe in tutina sintetica. «E… come sta andando?» mi chiede lei, un po’ incerta. «Sta andando…» e di punto in bianco scoppio a ridere. «Sta andando alla grande… così a gonfie vele che…» cerco di dire, ma non riesco a finire la frase. All’improvviso, la situazione mi sembra esilarante. Sono euforica. Mi trovo in quella squallida stanza, con la mia sciatta divisa che stride con il tailleur elegante di Genevieve, l’orribile retina per capelli e le calze color mattone, mentre la mia ex compagna mi chiede come sta andando la mia carriera. Cosa potrebbe esserci di più comico? Mi tappo la bocca, soffocando le risate nel tentativo di non attirare l’attenzione della mia collega scorbutica, che per fortuna è sparita. Poi anche Genevieve incomincia a ridere e all’improvviso torniamo a essere le ragazze di un tempo, stordite per il troppo studio e il poco sonno. Alla fine ci ricomponiamo.

«Sono così contenta di averti vista, Gen», le dico asciugandomi gli occhi. «Non me la passo male, lo giuro.» «Davvero, Franny, lo so che stai bene. Con tutto il lavoro che hai fatto a scuola – con il tuo talento – riuscirai senz’altro a sfondare.» «Oh, grazie.» Con la coda dell’occhio vedo la mia goffa collega dirigersi verso di noi con un vassoio di bicchieri. «Cavoli, devo andare.» «Aggiornami velocemente», riprende Genevieve. «Sei ancora in contatto con qualcuno del college?» «Con Jane: viviamo insieme, a Brooklyn.» «Oh, fantastico! Dille che la saluto.» «Sì, e poi, vediamo, Eliza e Bridget, per un po’, ma ora Eliza è in un kibbutz, e Bridget ha avuto come un…» «Sì, sì, ho saputo», dice Genevieve con aria complice. «Ma adesso sta bene. Insegna Jazzercise.» Sorride. «Ho saputo anche questo.» «E, be’, Clark si è trasferito a Chicago. Anche se ci sentiamo ancora.» Vedo un’ombra sul suo viso. «Davvero?» mi chiede cauta. «Quindi gli hai parlato di recente?» «Be’, l’ho sentito qualche settimana fa, o forse è passato un po’ più di tempo, adesso che ci penso. Anzi, sarà meglio che lo chiami. Siamo il ‘piano B’ l’uno dell’altra, per stupido che possa sembrare, e lui…» «Franny», mi interrompe Genevieve con una strana nota affilata nella voce. «Ecco. Pensavo che… sai, Clark e io eravamo alla scuola di legge nello stesso periodo. Soltanto per un anno, ma…» Qualcosa di gelido mi stringe il cuore in una morsa. Qualcosa a cui non riesco a dare un nome. «Oh, è vero!» esclamo con troppo entusiasmo. «Certo: anche tu hai studiato a Chicago, me ne ero dimenticata!» Mi sforzo di fare un paio di calcoli. All’improvviso sento che è di fondamentale importanza capire in che periodo Clark e Genevieve hanno frequentato insieme. Lei aveva finito il college un anno prima di noi e si era iscritta subito alla scuola di legge. Clark, dal canto suo, si era preso un periodo sabbatico; ecco perché a Chicago si erano visti soltanto per un anno. Clark aveva viaggiato ed era andato in Sudamerica a insegnare l’inglese. Poi aveva fatto uno stage in un’azienda di cui non ricordo più il nome. Era correttore di bozze, quello me lo ricordo, e aveva orari tremendi. Come si chiamava quel posto? Faccio un patto dentro di me: se ricordo il nome prima che lei parli, allora qualsiasi cosa stia per dirmi non sarà così tremenda. Ti prego, non dirmi che esci con Clark, Genevieve, ti prego. Gli darei ragione, lo so. Sei dolce e carina e hai una bella carriera davanti, ma ti prego, non dirmelo. Dove lavorava? Il nome, santo cielo… «Spero di fare la cosa giusta, ma visto che ovviamente non lo sai, mi sentirei in colpa se non ti dicessi che Clark si è appena fidanzato con mia sorella.» Mentre nel mio cervello si deposita questa semplice sequenza di parole, il mio corpo sembra essere in ritardo. Per un istante, mentre metabolizzo il significato

letterale di quella frase, ringrazio il cielo di non avere reazioni fisiche di nessun genere. Poi la realtà mi travolge così violentemente che a momenti mi si piegano le ginocchia. «Oh!» esclamo allegra, mentre dentro di me è come se mi avessero trascinato sott’acqua. «È una notizia meravigliosa!» «È successo all’improvviso. Sono sicura che te lo voleva annunciare di persona.» «Meravigliosa», ripeto. «Davvero. Forse avrei dovuto richiamarlo, che ne pensi?» Il mio sorriso è così tirato che mi fa male la pelle del viso. Se fosse un elastico, si sarebbe già spezzato. «Franny…» Mi posa una mano sul braccio, ma all’improvviso mi vergogno della divisa e del tessuto ruvido sotto la sua mano curata, e mi ritraggo. «Va tutto bene», protesto debolmente. Ma Genevieve non sembra affatto convinta, così poso la mano accanto alla sua, in modo che restino entrambe sul rigido tessuto marrone. «Davvero. Va tutto bene.» In quella sala conferenze do il meglio di me come attrice. Sorrido e mi congratulo con Genevieve, augurando a sua sorella la massima felicità. Le servo da bere, restando calma anche quando la stanza si riempie di uomini anziani in completo blu e mocassini marroni che chiedono acqua gasata, caffè e qualche sporadico cocktail. Pulisco i vassoi dagli avanzi di stufato e li metto su un carrello che porto in un montacarichi, giù fino alla caffetteria principale. Ringrazio l’altra cameriera, ricevendo in risposta un borbottio incomprensibile. Ripongo l’uniforme nell’armadietto e vado in bagno a lavarmi le mani. Soltanto quando mi rinfresco il viso, scorgendo la mia immagine riflessa nello specchio, sono sul punto di crollare. Sono andati avanti. Non è che non desideri la felicità di Clark. Una parte di me è davvero contenta per lui. Se la sorella di Genevieve è come lei, sarà certamente simpatica. È quello che ha sempre voluto: sistemarsi e metter su famiglia. Forse ho finto di volerlo anch’io, quando in realtà non era così. In fondo sapevo che non mi avrebbe aspettato per sempre, sapevo che sui piani B gli adulti non possono fare affidamento. È roba da adolescenti che non sono pronti a crescere. È ovvio che due fidanzati non lasciano passare intere settimane senza parlarsi. All’improvviso mi rendo conto che il nostro «patto» era semplicemente l’unico modo che conoscevamo per chiudere quella relazione. Ma averlo appreso così in fretta mi sconvolge; il Clark che mi aveva detto: «Chiamami, quando cambi idea», non è più mio; è di un’altra. Non so come, mi ritrovo sulla linea D diretta a Brooklyn. Non ricordo di essermi incamminata verso la stazione, né di essere salita sulla metro. Sono appena le tre, ma il vagone è pieno di gente che va a fare acquisti e di pendolari usciti in anticipo dal lavoro e non c’è un posto per sedersi. In precario equilibrio cerco un appiglio, mentre il treno acquista velocità e la mano scivola sulla liscia superficie d’acciaio, contendendo la presa sicura ad altre cinque o sei persone. Oggi, New York mi fa

capire che sto lottando per conquistare il mio spazio e che dovrò soffrire per non perderlo.

20

ADESSO chiamo James, penso mentre mi trascino sui gradini dell’ingresso e cerco le chiavi. Stasera non aspetterò che mi telefoni per dirmi: «Ci becchiamo più tardi». Non c’è una regola che mi impedisca di chiamarlo e chiedergli di uscire. Apriremo una bottiglia di vino e mi aiuterà a dimenticare questa giornata orribile. Ma quando arrivo in cima alle scale, con le chiavi in mano, noto che la porta è socchiusa e Dan è sdraiato sul divano con gli occhi chiusi e una birra accanto a lui sul pavimento. Non credo di averlo mai colto in questa posizione, le gambe tanto lunghe che i piedi spenzolano fuori. Sono talmente abituata a vederlo al suo solito posto, seduto al tavolo del salotto, che qualsiasi cambiamento mi sconvolgerebbe, specialmente questo. «Dan?» mormoro. Non capisco se stia dormendo oppure no. «Eh?» dice senza sollevare le palpebre. «Dormi?» «No.» «Stai male?» «No.» Ma non si muove. Poso piano la borsa, come se, nonostante ciò che mi ha appena detto, fosse insieme addormentato e ammalato. Mi sfilo le scarpe e attraverso il salotto in punta di piedi, salgo la scala e vado in camera mia. Decido di chiamare James dopo la doccia, sperando che si faccia vivo lui per primo. Mi concederò di dare un’occhiata alla segreteria telefonica soltanto dopo essermi preparata per uscire. Se non baro, se sono forte, funzionerà. Sono sicura che avrà lasciato un messaggio, a quel punto. Faccio la doccia e poi mi asciugo i capelli con il phon. Per via del rumore non sento niente, quindi non so se il telefono ha già squillato. Non cederò: non ancora. Metto un po’ di trucco e prendo in prestito i pendenti di Jane, decisione che mi obbliga ad attraversare il corridoio dove è piazzato l’apparecchio. È una sfida, ma guardo tenacemente davanti a me. Torno di corsa nella mia camera e infilo un paio di blue jeans, poi li tolgo e metto una lunga maglia nera con delle calze dello stesso colore. Quando sbircio il display della segreteria, sono passati almeno trenta minuti ed eccolo! Un numero uno lampeggia allegramente. «C’è un nuovo messaggio.» Biiip. «C’è qualcuno in casa? Ciao Fran, sono io, Clark. Eh… Ascolta, sono mortificato. Io, ecco, Genevieve mi ha detto che ti ha visto, oggi. Volevo parlartene, ma, ecco…

Vorrei spiegarti, mi richiami? Mi sento…» Premo il pulsante della segreteria e la voce si spegne con un pietoso biiip. Per un istante penso di telefonargli, ma a che scopo? Immagino già quel che mi dirà. Lo richiamerò domani, la prossima settimana, mai. Quando scendo, Dan è ancora nella stessa posizione. «Franny?» dice senza muoversi. «Sì?» «Facciamo qualcosa?» «In che senso?» Dan resta in silenzio un attimo. «Eri in centro?» mi chiede alla fine, con una strana calma nella voce. «Sì.» «Possiamo tornarci?» Sono combattuta. Detesto ammetterlo, ma spero ancora in James. Poi penso che mi sentirei uno straccio ad attenderlo proprio la sera in cui ho saputo che non c’è più nessuno ad aspettarmi e in fondo il suo «ci becchiamo più tardi» non è un appuntamento. Non uno vero, almeno. Forse non sarebbe male se James chiamasse e non mi trovasse ad attenderlo. «Oh… d’accordo. A fare cosa?» Si mette seduto e appoggia le lunghe gambe a terra, poi si sfrega gli occhi e mi guarda, come se credesse di essere in un sogno. «Ecco, ho avuto una giornataccia.» «Che coincidenza! Anch’io.» «Mi dispiace, Fran. Forse mi puoi capire, allora; insomma, puoi aiutarmi? Non so bene come reagire.» «Come reagire?» «Ti sembrerà assurdo, ma non ho molta esperienza in questo campo.» «Okay…» «Non sono cresciuto in una famiglia particolarmente espansiva, non so se mi capisci.» «Sì.» «E a dire il vero non ho molta dimestichezza nemmeno, ecco, con il fallimento. O con il concetto di fallimento.» Vorrei chiedergli cos’è successo, ma all’improvviso vedo Dan a quindici anni, con i capelli arruffati e l’espressione seria e tutte le aspettative e la pressione sulle sue spalle. Non so perché, ma sento che è meglio dargli tempo. «Allora hai trovato la persona che fa al caso tuo. Sappi che ho una discreta esperienza nel settore del fallimento», gli dico. «Grandioso. Insomma, non volevo dire grandioso, ma grazie. Facciamo qualcosa, allora.» «Tipo?» «Andiamo da qualche parte. A teatro, magari.» «Non ho un soldo.» «Offro io.»

«Dan, non puoi permettertelo nemmeno tu. È troppo costoso per entrambi. Andiamo a bere una birra qua vicino.» «Una birra non servirà a niente. Facciamo qualcosa di avventato. Andiamo a uno spettacolo. Andiamo al botteghino discount e vediamo che c’è in cartellone.» Mi guarda e trovo la situazione un po’ snervante: è così diverso, oggi, così triste e vulnerabile. «Va bene», mi arrendo, perché non posso rifiutare questa nuova, strana versione di un Dan bisognoso di aiuto. Sul treno che ci riporta a Manhattan e, più tardi, mentre siamo in fila e aspettiamo di comprare un biglietto scontato, cerco di distrarlo. Gli racconto la mia giornata, scelgo però la versione «disavventura stravagante», una scena bizzarra tratta da un vecchio episodio di Lucy ed io. È un sollievo riderci su, prendere in giro me e la mia ridicola divisa sintetica. Raccontare a Dan la parte più esilarante di quell’esperienza fa sì che quella peggiore svanisca. Ma, nonostante questo, non gli dico di Clark. Non sono pronta a riderne; non ancora. È troppo fresca e troppo viva. Sento un dolore alla bocca dello stomaco, come se mi avessero sferrato un pugno a tradimento. Presto ci ritroviamo davanti al cartellone, dove possiamo vedere quali sono gli spettacoli scontati. Il lungo elenco mi fa palpitare come se fossi una bambina la mattina di Natale, ma i prezzi, anche ridotti, fanno paura. «Cosa vediamo?» mi chiede Dan. Voglio scegliere lo spettacolo giusto, che lo faccia sentire meglio, che ci tiri su di morale, e che tolga l’amaro a entrambi. Poi lo vedo. «Il fantasma dell’Opera.» «Scherzi?» ribatte lui divertito. «Lo hai già visto?» «No, ma ti facevo più una tipa impegnata, da teatro sperimentale.» «Oggi abbiamo bisogno di qualcosa di eclatante e poco impegnativo. Inoltre è in cartellone da sei o sette anni. Chissà se avremo la possibilità di vederlo, in futuro. Facciamo i turisti, solo per stasera.» Dan mi guarda, i capelli sugli occhi, e per la prima volta da quando l’ho visto sul divano mi sembra di buon umore. «Ci sto.» «Ci stai?» «Sì, facciamo i turisti», ripete allegro. «Sì!» «Cos’altro fanno i turisti, di solito?» I suoi occhi brillano. «Lo so! Dopo andiamo a bere qualcosa da Sardi’s.» «E vediamo quante caricature riusciamo a riconoscere!» «Rinuncio in partenza», dice un po’ preoccupato. «Non ho nessuna possibilità di batterti.» Dan e io ci scambiamo occhiate perplesse quando il lampadario precipita alla fine del primo atto, pericolosamente vicino alla nostra testa. Però devo

ammetterlo: sono emozionata e lo spettacolo è appassionante. Il pubblico entusiasta esplode in un applauso fragoroso, e per un momento vengo travolta dall’entusiasmo e dalla sensazione di essere parte di qualcosa. Fuori, la sera è limpida e le insegne dei teatri lampeggiano senza posa, reclamando la nostra attenzione. Le persone si riversano sui marciapiedi e i taxi si contendono un posto a colpi di clacson. Dan mi guarda e sorride. «Senza pensarci, cosa ti è rimasto impresso dello spettacolo?» Vorrei rispondere: gli attori, le loro voci ammalianti e le musiche; vorrei parlare della bellezza dei costumi o persino della barca che ha magicamente attraversato il palco in quella che sembrava acqua vera, ma non ci riesco. «Il lampadario», esclamiamo all’unisono, e scoppiamo a ridere. «È così imbarazzante! Dovevamo fare i turisti solo per finta», dico dopo aver ripreso fiato. «Qual è la prossima tappa, lamentarci di quanto sia sporca la città?» «E affollata.» «E di come sono tutti così incivili.» «E di come si fa a sopportare questo continuo frastuono?» «Per non parlare della criminalità.» «Andiamocene di qui e saliamo in cima all’Empire State Building.» La sala del ristorante è meravigliosa, con le sue pareti bordeaux e le lampade schermate sui tavolini, ma il menu è troppo costoso e la gente seduta ai tavoli incute soggezione, così troviamo due sgabelli e ci accomodiamo al bar. Il barman, in smoking, papillon e giacca cremisi che si intona alle pareti, arriva subito e aspetta la nostra ordinazione in deferente silenzio. La sua presenza mi intimidisce, lasciandomi senza parole. «Io, mmm… vediamo…» Sono ipnotizzata dalla fila di preziose bottiglie di liquore che ci guardano nella penombra, schierate come variopinti soldati dietro il bancone, in attesa di ricevere ordini. «Io…» «Posso?» interviene Dan, posandomi una mano sul braccio. «Certo», rispondo sollevata. Si schiarisce la voce. «La signora prende un Sidecar, io un Dirty Martini agitato, non mescolato, grazie.» Il barman fa un cenno compito e se ne va, e io batto le mani ammirata. «Caspita!» dico. «Scusami: sono andata in confusione. Forse è stato il papillon. Lo hai davvero colpito.» «Lo abbiamo convinto, sì», conferma Dan con un sorriso. «Non ho la più pallida idea di cosa abbiamo ordinato, ma il fatto che il cameriere sia dalla nostra parte mi tranquillizza. Grazie.» «Al tuo servizio, Fran.» Sono contenta di vederlo più sereno, ma sento anche una stretta allo stomaco, per averlo obbligato a fare le ordinazioni come se fosse il mio cavaliere. Chiamami, quando cambi idea. Scuoto la testa, scacciando via il pensiero.

«Hai visto le vecchie cabine telefoniche in legno, all’ingresso?» gli chiedo, e lui annuisce. «Con i portacenere e le poltrone in pelle?» aggiunge. «E la porta a vetro, per avere più intimità?» «Dovrebbero essere ovunque così. Posti adatti a lunghe, intime conversazioni.» «O lunghe, orribili conversazioni con il conforto di drink e sigarette», ribatto allegra. «Le cabine telefoniche avevano ancora le porte che si chiudevano, la prima volta che sono venuto a New York con i miei», racconta Dan. «In quelle di Londra c’è un sacco di spazio.» «Sono bellissime, di quel rosso acceso.» «Ci sei stata?» «No, ho visto le foto.» «Londra ti piacerebbe.» «Ne sono sicura.» «Dovremmo andarci.» Lo guardo. «Dovremmo?…» «Oh, volevo dire che dovresti andarci, un giorno», si corregge Dan, arrossendo. «A vedere le cabine telefoniche», aggiunge debolmente. «Scusa. La forza dell’abitudine. È che continuo a pensare come se fossi in coppia. Everett mi ha lasciato.» «Dan, mi dispiace tanto…» ma arrivano i drink e lui mi interrompe. «Ne parleremo con calma un’altra volta. Adesso godiamoci questi.» Solleva il suo Martini e mi fa cenno di imitarlo. Sembra non trovare le parole per il brindisi più appropriato, poi si illumina in volto: «Al teatro!» «Al teatro!» gli faccio eco, avvicinando il mio bicchiere al suo. Voglio chiedergli di Everett, sapere cos’è successo, però il Sidecar che ha ordinato è dolce e forte e le domande vengono spazzate via dal suo sapore morbido e intenso. Scivola giù che è un piacere e dopo un po’ ne ordiniamo un altro, ma questa volta Dan prende uno scotch con ghiaccio. «Assaggialo», mi esorta porgendomi il suo bicchiere. «Bisogna centellinarlo.» Avvicino cautamente le labbra per catturarne solo un piccolo goccio, ma la gola va a fuoco e incomincio a tossire. «Come fai a berlo?» gli dico tirando fuori la lingua e battendomi il petto in modo plateale. «Mio padre ci ha iniziati da piccoli», rivela Dan in tono inquietante. Poi sospira e corruga la fronte, facendo tintinnare il ghiaccio. «Allora…» riprende dopo un minuto. «Hanno rifiutato la mia sceneggiatura.» «Scherzi: com’è possibile?» ribatto sconvolta. Sere dopo sere passate a scrivere, una gran fatica. Mi sembra impossibile che Dan possa fallire in qualcosa. «Everett ha detto che questo non ha niente a che fare con la sua decisione, ma penso fosse la sua ultima speranza.» «Speranza?» gli chiedo timidamente. «Speranza che il mio lavoro venga riconosciuto. Per lei è privo di senso. Una

perdita di tempo.» Scola il resto dello scotch in un sorso e appoggia il bicchiere con un colpo secco. «E sai qual è la cosa che mi spaventa di più?» «Dimmi.» «È successo ieri: sono tornato a casa e ho deciso di cominciare da capo, continuare a lavorare alla sceneggiatura, proporla a qualcun altro. Mi impegnerò di più, ho pensato. Ma non sono venuto a capo di nulla. Non sono riuscito a scrivere. Non mi è mai successo prima. Non mi è mai capitato di non riuscire a scrivere.» Ricordo la sera in cui avevo chiacchierato con Everett, quando aveva paragonato il lavoro di Dan a una specie di rito giovanile di passaggio – «fare il giro d’Europa con lo zaino in spalla», erano state le sue parole – e mi aveva parlato entusiasta del musical e dei suoi effetti speciali, quelli che io e Dan avevamo appena sfottuto. Ma non credo che abbia bisogno di sapere perché lui ed Everett non erano fatti l’uno per l’altra o che le persone, secondo una mia personale teoria, si dividono in due gruppi a seconda della loro reazione davanti al lampadario del Fantasma dell’Opera. Mi accorgo che ho posato la mano sul suo braccio, e che sto accarezzando distrattamente la sua giacca di velluto, nel tentativo di calmarmi, credo, e di calmarlo. Mi ritraggo in fretta e mi ricompongo. Poi ordiniamo un altro giro, e Dan anche un quarto, e la folla nella sala diventa più rada, le luci si affievoliscono e le bottiglie dietro il bancone si sfaldano in una macchia indistinta, simile a un acquerello astratto. Mentre paga il conto cerco di ricordare quand’è stata l’ultima volta in cui ho bevuto tre drink di fila a stomaco vuoto, se si esclude qualche cracker al formaggio. Quando cerco di alzarmi, a momenti perdo l’equilibrio e devo afferrarmi allo sgabello per non cadere. Comunque, l’ultima volta che ho bevuto tre superalcolici in rapida successione è mai. «Elisciabeth Taylor?» farfuglio mentre indico una delle caricature in cornice sulla parete, avvicinandomi al punto da baciare il vetro. Strizzo gli occhi, ma ancora non riesco a mettere a fuoco la firma sotto il disegno. «Naaa», dice Dan, alle mie spalle. «Stocardscianning, credo.» «Eeeh?» «’Spetta…» si schiarisce la voce, riprende fiato e appoggia una mano alla parete. «Stockard Channing. Credo.» «Oooh, sì! Proprio lei! La adoro, e tu?» dico voltandomi a guardare Dan e battendo le mani. «È bellissima, vero? E così piena di talento! L’ho vista in…» Dan appoggia l’altra mano alla parete e all’improvviso sono avvolta da una specie di tenda umana: preme il suo corpo contro il mio e mi bacia, appassionatamente e dolcemente, e il mondo intorno scompare. Nessun rumore, nessun passato o presente, niente di niente, soltanto io e Dan che ci baciamo, mentre Stockard Channing ci guarda, le labbra rosso pastello tese in un sorriso di approvazione. In lontananza il silenzio è rotto dal suono debole di posate che tintinnano. E anche quello è rilassante, come campanelle agitate da una brezza leggera. Non ho mai baciato nessuno in pubblico. Non così. Clark non era particolarmente espansivo. Mi teneva per mano, ma nient’altro. E non ho neanche mai illuso nessuno, anche se cerco di convincermi che un bacio da ubriaca non è certo

imperdonabile. Domani mattina mi sentirò sicuramente a disagio, travolta dai sensi di colpa. Lo so già, nonostante l’ebbrezza alcolica. Ma per una sera, mi abbandono al piacere. Stasera sembra inevitabile. Se solo non mi fossi imbattuta in Genevieve, se solo non avessi trovato Dan sdraiato sul divano, se solo James mi avesse telefonato, se solo le luci del bar non fossero così piacevolmente fioche, se solo non avessi smesso di guardare il ritratto di Stockard Channing. È come se non potessi farci niente, come se dovesse accadere. Non è successo nulla, mi rassicurerà Jane domani mattina. Ne avevate bisogno. Siete soltanto due amici che hanno avuto un attimo di smarrimento. Adesso dovete soltanto stare alla larga l’uno dall’altra per un po’. E, senza nemmeno discuterne, io e Dan faremo esattamente così. A partire da domani, tirerò una riga tra me e lui, come se fossimo due bambini sul sedile posteriore di un’automobile che hanno bisogno di erigere un muro immaginario per credere di avere ciascuno il proprio spazio. D’ora in poi starò più attenta. Lo prometto. In fondo, so meglio di chiunque altro cosa può accadere, quando si imbocca un senso unico contromano.

21

«C’È un nuovo messaggio.» Biiip. «Franny. Sono Richard, della Absolute Artists. Chiamami non appena senti il mio messaggio. Ho un’offerta per te.» Biiip. Sono le parole che aspetto da mesi, e finalmente eccole, registrate novantacinque minuti fa, stando alla voce digitale della segreteria. Eppure non ho ancora richiamato Richard. Ho fatto la cameriera per una grossa azienda di investimenti nel quartiere finanziario e sono tornata da un quarto d’ora dal negozio dietro l’angolo, dove ho comprato una mela ammaccata, uno yogurt ai mirtilli e due aperitivi alcolici (scontati). Sono senza fiato, neanche fossi tornata dalla mia corsa quotidiana, ma mi sento anche calma e concentrata, come se dovessi affrontare un esame decisivo per una materia in cui sono preparatissima. Sistemo tutto in frigorifero. Poi cambio idea e tiro fuori la mela, posandola sul ripiano della cucina. La guardo, quasi che potesse aprire la bocca e dirmi qualcosa, poi afferro un coltello dal cassetto e ne taglio quasi metà, evitando il torsolo e i semi. Le do un morso: è più buona di quanto sembrasse. La finisco e metto le mani appiccicose sotto il rubinetto; le lavo, scuoto via l’acqua in eccesso e le asciugo con cura nello strofinaccio della cucina. Dal centro del locale potrei sfiorare le pareti in qualsiasi direzione, ma anche in questo minuscolo spazio mi sento perduta. Potrei trovarmi in mezzo all’oceano, e sarebbe uguale. L’agitazione è tale da avermi intorpidito completamente. Devo essere in stato di choc. Ho un lavoro, ho un lavoro. Dopo tanto tempo, finalmente ho un lavoro! Ma quale? Ho fatto un provino per un remake di Brigadoon in un teatro di Poughkeepsie. Ho partecipato a un’audizione per il ruolo dell’assistente stramba di Legs, la nuova sitcom ambientata in un’agenzia di modelle che vede tra le protagoniste un famoso volto degli anni Settanta. Ho fatto un provino per una serie poliziesca in cui un detective lavora con il suo collega fantasma. Avrei dovuto impersonare la parte di una donna a cui rubano la borsa. Poi uno per due ruoli in due diverse soap, dove avrei dovuto inmpersonare una studentessa che dice: «Qualcuno ha i compiti per domani?» Senza contare quello per condurre una trasmissione per bambini in programma il sabato mattina, un altro per pubblicizzare una linea di frullatori su un canale di televendite e un altro ancora per

una battuta, in un film con Eve Randall, che recitava più o meno così: «Cosa desidera ordinare?» Forse si tratta proprio di questo: «Cosa desidera ordinare?» Alle persone del casting ero piaciuta. O no? Che giorno era? Com’ero vestita? Potrei guardare sulla mia agenda, ma preferirei ricordarmelo da sola. Il lavoro per il quale mi hanno chiamato deve distinguersi dagli altri; deve avere qualcosa che lo rende speciale. «Cosa desidera ordinare?» chiedo ad alta voce nella nostra minuscola cucina a una Eve Randall immaginaria. «Il piatto del giorno è la zuppa di pollo», aggiungo con un sorriso. Il copione prevedeva soltanto la prima battuta, però avevo preparato un di più, nel caso ci fosse margine per improvvisare; volevo dimostrare che avevo pensato alla cameriera non in modo astratto, ma come a una persona nel bel mezzo di una giornata come tante; una ragazza che si era alzata tardi perché aveva litigato con il suo ragazzo la sera prima, che aveva letto l’elenco dei piatti del giorno in cucina e li aveva annotati sul suo taccuino, o chissà, magari era una di quelle cameriere che li conoscono a memoria. Tutto è incominciato con una battuta in un film con Eve Randall, racconterò al pubblico che affolla Una serata con Frances Banks. Cosa desidera ordinare? dirò, proprio come nel film, il mio primo film, e il pubblico scoppierà a ridere entusiasta. Finalmente trovo il coraggio di chiamare in agenzia. «Pronto, sono Franny Banks. C’è Richard?» chiedo alla receptionist. «Attenda in linea, Franny. Le passo subito Joe.» Joe? Joe Melville? Ora sono nervosa, visto che non ci sentiamo da parecchio. Però, mi dico, magari è uno che ti parla soltanto quando c’è un vero lavoro di cui discutere. Ma certo! Joe ti chiama soltanto se è davvero necessario: dev’essere così che funziona! Se solo lo avessi capito prima, invece di preoccuparmi a lungo del suo silenzio. Dopo un’attesa che mi sembra interminabile, la musica in sottofondo si interrompe, anche se in realtà non deve essere trascorso più di un minuto. «Ciao, Franny, congratulazioni, hai ottenuto la tua prima parte.» Joe sembra sicuro di sé e disinvolto, come se fossimo amici di vecchia data. Non voglio correggerlo, ma il mio primo lavoro è stato per Kevin e Kathy. Non rendere tutto più complicato, mi rimprovero. Pensa positivo. «Oh, grazie! Se escludiamo Kevin e Kathy.» Per fortuna Joe non dice nulla, così lo incalzo. «Sono entusiasta. Cioè, lo sarò senz’altro, non appena scoprirò di che si tratta.» Joe copre il ricevitore con una mano e per un attimo non sento niente. «Scusami», riprende. «Pensavo che te lo avessero detto. Zombie Pond, con Michael Eastman, la parte della protagonista femminile.» Un attimo. Ho partecipato a un casting per un film con quel titolo, ma non riesco a ricordare il copione né di aver sostenuto un provino per il ruolo di protagonista femminile. Poi mi torna in mente. La scena era praticamente senza battute. Quel personaggio era tra i protagonisti? Non ricordo di essere andata bene. Non c’era molto dialogo: dovevo strillare, più che altro. E tremare di paura e singhiozzare,

finché gli zombie non mi legavano per rinchiudermi in cantina con indosso soltanto la biancheria intima. È questo il lavoro? «Un attimo. Scusa. Parli della ragazza rinchiusa in cantina?» «Esatto!» dice Joe entusiasta. «Sei piaciuta tantissimo!» Sarò la protagonista femminile in un film con Michael Eastman e interpreterò una ragazza torturata dagli zombie in mutande e reggiseno? Ma non ho nessuna esperienza. Perché dovrebbero assegnarmi un ruolo di primo piano? Non ho mai recitato in un film. Non sono presentabile, in mutande e reggiseno. Devo smettere subito di mangiare, possibilmente per sempre. D’altra parte, mi concedo di provare un barlume di orgoglio. Sono abbastanza brava per stare sul set con Michael Eastman. L’ho visto l’altra sera su Entertainment! Entertainment! mentre passeggiava in canotta su una spiaggia, mano nella mano con un’attrice che frequenta. Reciterò in un film con lui? James sarà colpito. Be’, non proprio, forse, se non altro non inorridito. Immagino di essere l’attrice che tiene per mano sulla spiaggia. Mi vedo già al suo fianco, anche se non sono proprio io. È come se la mia testa fosse avvitata su quel corpo sottile, fasciato dal suo minuscolo bikini rosa. Noi due, in riva al mare, rapiti dai rispettivi addominali. Joe copre di nuovo il ricevitore e mormora qualcosa, poi dice: «No, scusami, non quella ragazza, non la protagonista. Insomma, non la parte per cui hai sostenuto il provino. È per la parte di Sheila, la fidanzata del college; la si vede nei flashback». Oh. La passeggiata sulla spiaggia si interrompe bruscamente. Sheila. Non mi avevano dato l’intero copione, quindi non so se sia un bel ruolo. È naturale che non sia la protagonista. Ma la mia improvvisa retrocessione è comunque motivo di delusione. A quanto pare Joe non ha il quadro sotto controllo. Ora mi insospettisco. E se non l’avessi nemmeno ottenuta la parte? «Quindi sei sicuro? Ho il lavoro? Non devo fare un altro provino, o incontrare i produttori?» «No. La parte di Sheila è tua. Il mondo del cinema è diverso da quello della televisione. Il regista ha molto più potere. Inoltre il personaggio, per quanto importante per la trama, non ha molte battute, quindi il materiale relativo alla tua audizione è stato sufficiente.» «Va bene», rispondo un po’ diffidente. Copre di nuovo il ricevitore e sento fruscio di fogli e la sua voce attutita che sbraita ordini a qualcuno. «Allora, vediamo, ecco qui, ti leggo l’analisi del personaggio: Sheila viene uccisa dagli zombie durante l’ultimo anno del college. La tragedia spinge Sutton a cercare vendetta, la rabbia lo porta a diventare uno scienziato e a mettere a punto un siero letale che trasforma gli zombie da morti viventi a morti veri e propri, in modo da sterminarli eccetera eccetera…» Sento altri bisbigli, poi: «Mi dispiace, non sapevo che non ti avessero dato la sceneggiatura. Cercano sempre di mantenere il mistero, intorno a questi film horror. Comunque, ti mandiamo il materiale. Sono soltanto due scene, ma si tratta di un personaggio indimenticabile, come ti dicevo. Congratulazioni. Il regista ti ha trovata perfetta, il prototipo della ragazza della

porta accanto, tutta sani principi, la cui morte ispira un uomo a vendicarsi. Testuali parole. Adesso dacci un’occhiata e poi discuteremo le clausole e penseremo alla copertura assicurativa. D’accordo?» Ho capito tutto, eccetto l’ultima parte, in cui ha parlato di clausole e coperture. Sarà gergo da addetti ai lavori, qualcosa che ha a che fare con il sindacato o il contratto. Lo scoprirò. Per ora, voglio soltanto riattaccare e guardare il materiale, vedere come agisce e parla questo «personaggio indimenticabile». A giudicare da quello che ha detto Joe, anche se è una parte piccola, di sicuro è qualcosa di più di un: «Cosa desidera ordinare?» Sento qualcuno che sale velocemente le scale, quasi senza far rumore, e capisco che Jane è tornata a casa. Dan fa i gradini con passo pesante e deciso. Lui non si affretta quasi mai. Non sto più nella pelle. Potremo leggere insieme il copione per il mio primo lavoro vero. Il fax incomincia a squillare, ma so che impiegherà un po’ prima di sputare tutto, quindi mi precipito al piano di sotto a raccontare a Jane la novità. «Jane! Ho un lavoro!» Lei molla i sacchetti della spesa sul ripiano della cucina e batte le mani, raggiante. «Oddio! È fantastico! Di cosa si tratta?» «È un film dell’orrore. Una specie di thriller. Non mi hanno fatto leggere il copione completo. Con Michael Eastman, che non è proprio il più grande attore del mondo, però…» «Franny, smettila. Non denigrarti. Potrebbe essere anche Bozo il clown, non mi interessa. È una notizia meravigliosa.» «In realtà Bozo lo ha letto, il copione. Ma alla fine hanno ritenuto che facesse troppa paura e hanno optato per dei morti viventi. Si intitola Zombie Pond.» «Sarai in un film con Michael Eastman e un branco di zombie? È il top! Com’è il tuo personaggio?» «Interpreto la sua ragazza, che viene assassinata, mentre lui, per vendetta, fa strage di zombie! Non so nient’altro. Mi hanno detto che è una parte indimenticabile. Mi stanno spedendo le battute via fax proprio in questo istante.» Sentiamo aprire la porta d’ingresso e Dan fa capolino con le guance arrossate e un sacchetto di carta che sicuramente contiene la sua birra serale. Non ricordo quando l’ho visto l’ultima volta: sono secoli che non è più seduto al suo solito posto, al tavolo del soggiorno, né davanti alla televisione, a sorseggiare la sua birra, e da quella sera da Sardi’s non abbiamo più parlato seriamente. È passato così tanto tempo che se penso al nostro bacio mi sembra solo un sogno. Però mi fa sempre piacere vederlo. «Dan! Farò un film di zombie!» «Un film di zombie?» «Frena il tuo entusiasmo. Lei interpreta una persona viva», commenta Jane strizzandogli l’occhio. «Molto divertente.» Poi mi guarda. «È fantastico, Franny!» E, in tono minaccioso, aggiunge: «Stanno venendo a prenderti, Barbara».

«Cosa?» «Stanno ve… Oh, non importa. È una battuta famosa. La notte dei morti viventi. Lasciamo perdere, la lezione di zombie è rimandata a data da destinarsi. Nel frattempo, ho qui con me una bottiglia di birra ad alta gradazione per un brindisi. Di che parte si tratta?» «Me la stanno mandando via fax in questo preciso istante. Vado a prendere i fogli così la guardiamo insieme.» «Ho un’idea», dice Jane. «Perché tu e Dan non la leggete ad alta voce? Lui può dire le battute di Michael Eastman!» «No grazie», risponde Dan accigliandosi. «Pessima idea. Sono un cane, come attore.» «Ooh, ti prego», insisto con un sorriso. «Mi piacerebbe moltissimo. Sarebbe come una lettura recitativa.» «Il recitativo del redivivo!» declama Jane. «Avanti, Dan, è la tua occasione. Fallo per Franny. Ti prometto che sarò un critico benevolo.» «Ne dubito», obietta lui, poi alza le spalle. «Va bene, Franny, leggerò le battute con te.» Mi precipito su per le scale facendo due gradini alla volta. «Chi è Michael Eastman?» lo sento chiedere a Jane al piano di sotto. Eccoli, sul pavimento, i fogli che contengono il mio primo lavoro vero, il mio primo personaggio vero, con un nome vero. «Sheila», dico ad alta voce, cercando di mettermi nei panni di qualcuno che non sia un numero o una semplice comparsa. Decido di non dare nemmeno una sbirciatina preliminare. È un esercizio che facciamo anche a lezione, quando Stavros ci dà le battute di un copione che non abbiamo mai visto e le leggiamo ad alta voce, costruendo il personaggio e improvvisando frase dopo frase. Lo adoro. A volte do il meglio di me proprio in quel momento, e non dopo aver studiato e provato la parte, quando ormai ho avuto il tempo di mettere in dubbio le mie scelte. Prendo i fogli, cinque in tutto, ancora arrotolati, e mi precipito di sotto. Dan ha inforcato gli occhiali, come sempre quando lavora seriamente a qualcosa. Ha l’aria piuttosto nervosa, neanche se fosse in procinto di pronunciare il suo discorso da rappresentante di classe. Jane si è calata nei panni del regista e dopo aver addossato a una parete il tavolo del soggiorno incomincia a spostare le sedie. «Devo sapere dove si svolge l’azione, per allestire il set», annuncia studiando la disposizione dei mobili con piglio da professionista. «Fammi dare un’occhiata. Sono due scene, vero?» Divide le pagine in due blocchi, poi prende quelle della prima scena e legge. LABORATORIO Interno giorno. Sutton è chino sul microscopio. Nel laboratorio fa un caldo terribile. Un rivolo di sudore scivola dalla fronte e cade sul vetrino. Sospira. Ora gli toccherà ricominciare da capo. Si toglie la maglietta, nel tentativo di rinfrescarsi.

La fidanzata di Sutton, Sheila (sulla ventina, volto acqua e sapone), entra in laboratorio. Jane scoppia a ridere, abbassando le pagine. «Ahahahahahah! Togliti la maglietta, Dan!» Crolla sul divano piegata in due dalle risate. «Jane, per favore», la imploro. «Datti una calmata. Stai rovinando i fogli. Possiamo cercare di essere seri? Dan, puoi restare vestito, per quanto mi riguarda. Allora, Jane: chi ha la prima battuta?» «Tu. Scusami, Sheila. Tieni.» Jane mi porge il plico e siede composta. «Pronto?» chiedo a Dan. «Pronto», risponde, ma non è del tutto convinto. «Ci passiamo le pagine, va bene? Senza guardare quello che viene dopo ogni battuta.» «D’accordo», dice. «Ciak… si gira!» esclama Jane. SHEILA (entra piano, guarda Sutton, assorbito dal suo lavoro, poi): Tot toc. Salve, professore. La disturbo? SUTTON: Non sono ancora professore. E no, non mi disturbi. Anzi, stavo proprio pensando a te. SHEILA: Be’, lo spero proprio, visto che sei mezzo nudo. SUTTON (ride): Be’, fa un caldo insopportabile, più che altro. E ho pensato che non c’era nessuno, se si escludono le cavie. SHEILA (ride): Be’, ti lascio lavorare, allora. Volevo solo darti questo, per stasera (apre la borsa e porge a Sutton un pacchetto incartato). SUTTON (prende il pacchetto): Grazie. Cos’è? SHEILA (sorride con aria maliziosa): È un segreto. Per questa sera. Vietato sbirciare. Promesso? SUTTON: Promesso. SHEILA: Bene. Allora ci vediamo stasera? SUTTON: Ci vediamo stasera. Primo piano su Sutton mentre Sheila se ne va. Fissa il pacchetto e la porta dalla quale è appena uscita Sheila. Ha uno sguardo pieno d’amore; è travolto dai sentimenti che prova per lei. Una lacrima gli solca la guancia, e sorride.

SUTTON (continua): Stasera. Nel soggiorno cala il silenzio. Jane ci guarda, poi si alza e applaude entusiasta. «Ssssìììììì! Siete stati incredibili! Ho sentito la passione! Il caldo insopportabile! Gli esperimenti di laboratorio! Le cavie! Ho visto tutto! Ho riso! Ho pianto! È stato meglio di Cats!» «Jane, ti prego, abbassa la voce», le dico, ma sto ridendo anch’io. «Però parlo sul serio», ironizza lei con un sorriso. «È una scena piuttosto lunga!» «Posso renderla indimenticabile, non credi?» le chiedo piena d’orgoglio. «Senza ombra di dubbio», risponde lei. «Così ingenua e innocente! La ragazza di Michael Eastman!» Dan stringe ancora i fogli tra le mani, tenendoli così vicino al viso che gli sfiorano gli occhiali e non riesco a decifrare la sua espressione. «Dan? Cosa ne pensi? C’è di peggio, no?» «Ero concentrato sulla lettura ad alta voce», ribatte Dan un po’ brusco. «Ma non sei tu il protagonista, in questa scena», lo rimprovera Jane. Poi aggiunge, più accomodante: «Avanti, rilassati. Di’ una parola gentile a Franny sul suo nuovo lavoro». Dan ci pensa un istante, poi afferma: «Il dialogo non è malvagio, anche se ci sono troppe frasi che incominciano con be’». Esita, poi, come se non potesse farne a meno, incalza: «E quella lacrima alla fine non è per niente realistica». Jane e io lo fissiamo. Poi ci scambiamo un’occhiata perplessa. È tutto ciò che ha da dire sul mio primo, vero lavoro? «Si intitola Zombie Pond, Dan», replico. «Non credo che il realismo fosse una loro priorità.» «Be’», fa Jane sarcastica. «Leggiamo la seconda scena, okay? Siete pronti?» «Mi dispiace, ragazze. Io faccio schifo, non sono un attore. Vorrei darvi una mano. Posso dare un’occhiata alle mie battute?» «Certo», rispondo in uno slancio di generosità, poi mi volto verso Jane e alzo gli occhi al cielo. «Questi perfezionisti!» «Tieni, James Dean», dice Jane porgendogli il foglio. «È una pagina sola. Quanto sei melodrammatico! Ti consiglio di continuare con la fantascienza, Danny.» Dan prende il foglio, stringendolo tra le mani. Legge con una lentezza snervante, ci sta mettendo una vita e comincio a scalpitare. Voglio sapere cosa succede, quali sono le mie battute. «Stai contando i be’, Dan?» scherzo, cercando di mettergli fretta. Ma lui tace. «Dan, sembra che tu stia leggendo il tuo necrologio», lo incalza Jane. «Datti una mossa.» Finalmente alza lo sguardo e ci fissa con espressione seria. «È impossibile», afferma. «Impossibile? Cosa vuoi dire? Ti riferisci alle mie battute?» «No. Non ce ne sono, in questa scena. Ma non si può. Non possono farlo.»

«Dan, di che parli? Fammi vedere.» Gli strappo i fogli dalle mani col cuore in gola. A CASA DI SUTTON Interno notte. Sutton e Sheila stanno facendo l’amore. Dallo stereo si leva la voce bassa e calda di un cantante soul. Panoramica sul pavimento. La telecamera si sofferma su una scarpa da ginnastica di Sutton. Sul reggiseno di Sheila. Sul comodino c’è una scatolina di velluto vuota. Vediamo i resti dell’involucro e mentre la telecamera si avvicina al letto ci accorgiamo che si tratta di un collage fatto in casa, semplice ma bellissimo, con la parola «sì» ripetuta cento volte in dimensioni e forme e colori diversi. Lei sapeva che quella notte sarebbe stata speciale. Ha accettato la proposta di matrimonio e l’anello che porta al dito ne è la prova. Primo piano del viso di Sheila. È a cavalcioni su Sutton e geme dolcemente, quando – all’improvviso – spalanca gli occhi. Annaspa, alla ricerca di un po’ di ossigeno, mentre un fiotto di sangue le soffoca un grido in gola. Non riesce a respirare! La telecamera scende per mostrare uno zombie che spunta dal suo ventre: sta lacerando le sue carni per uscire, emettendo grida orribili per lo sforzo. Ma non è uno zombie come tutti gli altri: è più piccolo e ha il viso raccapricciante di un bambino, allo stesso tempo sinistro e innocente, e anche lui è alla disperata ricerca di ossigeno, un morto vivente appena nato! Sutton grida, cerca di fermare l’emorragia, ma sa che è troppo tardi, hanno preso Sheila, l’hanno uccisa. E questa consapevolezza ne fa maturare un’altra, mentre la realtà di ciò che è appena accaduto si fa largo nella sua coscienza e sul suo viso si dipinge un’espressione inorridita… SUTTON (mormora): Sono tornati… stanno nascendo… Dissolvenza «Hai capito, adesso?» mi chiede Dan agitando le mani in aria. «È scandaloso.» «Il reggiseno di Sheila?» dico. «Il collage non c’entra!» esclama Jane scorrendo il copione. «Non possono decidere di cambiare le regole come se niente fosse», continua Dan. «Lo sanno tutti che gli zombie non possono nascere; è ridicolo.» Io sto ancora leggendo la pagina. «Uno zombie spunta… ehi, da dove?!» domando infine. «Oh, ho capito», continua Jane. «Sheila sapeva che Sutton le avrebbe chiesto di diventare sua moglie, così ha fatto un collage con la parola sì.» «A cavalcioni?» dico. «Geme dolcemente?» «Non possono ignorare come se niente fosse le convenzioni del genere horror», prosegue Dan indignato. «Gli zombie sono sempre stati dei morti viventi. Come fanno a riprodursi? Sono usciti dalle tombe, dall’aldilà…»

«Oh, cavoli, non ci avevo nemmeno fatto caso…» osserva Jane. «Be’, è ovvio, cioè, non è obbligatorio saperlo. Ma io li ho visti tutti e ti garantisco che…» «…che sei a seno nudo», conclude Jane. «Merda.» «Devono seguire delle regole, e… un attimo. Cosa? A seno nudo?» chiede Dan impallidendo. «Oh. Oh, Franny. Merda.» «Sono a seno nudo», ripeto. Merda.

22

NON so come comportarmi, con questo film, così ho fatto un sondaggio. JAMES FRANKLIN: Non c’è niente di cui vergognarsi. Il nostro corpo è il nostro strumento. JOE MELVILLE: Vediamo cosa posso fare con questa clausola. Forse riusciamo a ridurre al minimo la tua… be’, la tua esposizione. RICHARD: Joe è l’uomo giusto per consigliarti. JANE: Non saprei. Cosa ti dice il tuo istinto? PAPÀ: Non so, tesoro. Questa settimana leggiamo Dorothy Parker, la tua preferita. CASEY: Oddio. Michael Eastman è così figo! DAN: Vado… vado a fare la spesa, ti serve qualcosa? Secondo Joe Melville, il regista è «un tipo speciale» e aveva accettato di girare Zombie Pond per fare un favore ai produttori della casa cinematografica, perché gli avrebbero fatto fare altri due film, dopo: più piccoli, più interessanti, delle storie basate sui personaggi. Joe aveva detto che se l’agenzia partecipava a questo film avrebbe potuto essere l’inizio di un rapporto professionale molto più lungo. «In questo lavoro i contatti sono fondamentali», aveva concluso. «Pensavo fosse una questione di talento.» Joe aveva riso, poi mi aveva guardato confuso. «Era una battuta, vero?» «Mi hanno dato una parte in un film dell’orrore», dico a Dave, un ragazzo con cui ho lavorato un paio di volte per la società di catering. Siamo accanto all’ingresso di un palazzo di uffici, in centro, e fumiamo una sigaretta prima di incominciare il turno in una delle solite, squallide sale da pranzo. Dave è un cabarettista trasandato con una capigliatura assurda e ha una trentina d’anni, anche se potrebbe essere più giovane. Quando facevo la cameriera da Herb mi sono resa conto che questo tipo di lavoro tende a far invecchiare precocemente, quindi non provo

nemmeno a indovinare. «È fantastico», risponde dando un tiro alla sigaretta. «Sono contento per te.» «Però non so ancora se accetterò. La mia parte prevede una scena a seno nudo.» «Allora?» mi chiede Dave. «Qual è il problema, le tue tette hanno una forma strana?» «No, assolutamente.» «Allora cosa te ne frega? O magari sei sommersa dalle offerte di lavoro?» «Sono qui con una schifosissima borsa a tracolla il cui contenuto include un cavatappi, un taccuino per le ordinazioni e un allegro assortimento di biro. Ovviamente no, non sono sommersa dalle offerte di lavoro.» «Non accettare», mi dice Deena mescolando il ghiaccio della sua vodka, mentre ce ne stiamo sedute da Joe Allen, dopo la lezione di Stavros. Ho deciso di star fuori a bere con lei dopo aver controllato i messaggi della segreteria da un telefono pubblico fuori dal teatro. Nessuna notizia da James. E non era a lezione, come spesso capita, anche se mi fa sentire disorientata. «Hanno detto che si vedrà, ecco, per pochi secondi. Poi lo zombie mi squarcia il ventre e muoio. È tutto scritto nella clausola. È molto dettagliata, in merito a quanto seno si vede e per quanto tempo.» Mi accorgo che, mentre parlo del mio petto, le sto premendo contro la busta con le due pagine della clausola. «È tutto scritto nero su bianco, da un avvocato.» Deena scuote la testa. «Ho bisogno di soldi», insisto debolmente. «Non sei così disperata.» «Invece sì. Mi hanno licenziata, ricordi? Non ho nessuna assicurazione. Devo farmi quattro otturazioni.» «Non puoi accettare un lavoro soltanto per denaro. Che ne è dei tuoi sogni? Scegliere soltanto i film in cui credi, come le attrici che ammiri? Pensi che Diane Keaton si spoglierebbe in un film di zombie?» «Chi lo sa? Magari domani saltano fuori proprio i vecchi film di zombie girati da lei. Forse ne faranno un’antologia, in videocassetta.» «Smettila.» «Non sto perdendo di vista i miei sogni. Il regista è uno di quelli bravi. E si tratta soltanto del mio corpo: tutti ne hanno uno. Il mio è uno strumento. Il tempo che mi ero imposta sta per scadere e non ho ancora dimostrato che posso farcela. Mi stanno offrendo di recitare delle vere battute in un vero film. È un segno che sto andando nella direzione giusta. Ho bisogno di quel segno.» «Non hai bisogno di questo lavoro.» «Non ne ho altri.» «Per ora. Non ne hai altri, per ora.» «E se fosse l’unico che riuscirò mai a ottenere? E se accettarlo portasse nuovi lavori e quindi la carriera, la felicità, il successo internazionale, l’amore, dei capelli

migliori, mentre rifiutarlo significasse nessun altro lavoro e finissi col passare il resto dei miei giorni nell’anonimato, a servire pollo fritto, a raccontare a tutti questa storia, la storia dell’occasione perduta della mia vita, e mi ritrovassi con le caviglie gonfie e le vene varicose?» Deena finisce la vodka. Poi mi prende la mano e mi guarda seria. «Frances. Ascoltami. Sei un’attrice di talento, giusto? E sei bellissima.» «Ho talento, forse. So che posso essere una brava attrice, sì. Ma riguardo al resto, ho qualche dubbio.» «Mi prendi in giro? Lo dici per dire. Per scherzo. Ma dentro di te sai benissimo di esserlo, non è così?» «Forse. A volte.» «Ascolta, te lo dico io, allora. Devi credermi. Oggi è il giorno in cui devi incominciare ad avere fiducia in te stessa. Nessuno può farlo al posto tuo. E ti assicuro che se rifiuti quest’offerta un giorno ne riceverai almeno un’altra migliore. Forse addirittura due, nell’arco di una vita. Forse. Adesso ti fa sorridere. Ma so come ti sentirai, davanti a quella macchina da presa. A tremare, coperta da un asciugamano, mentre un paio di tecnici sistemano cavi e riflettori. A cavalcioni di Michael Eastman, o più verosimilmente della sua controfigura, perché quel tizio non si spreca a lavorare, questo è certo, mentre quelli degli effetti speciali ti versano addosso del sangue finto e ti sistemano meglio lo zombie di plastica che hai incollato in mezzo alle tette, soltanto per ottenere un’inquadratura migliore. Arriva il regista, cerca di farti sentire a tuo agio, e mentre ti guarda negli occhi per farti capire che non è uno di quelli viscidi ti racconta del divano che ha comprato per la casa nuova negli Hamptons. Tu vorresti morire. Torni a casa e scoppi a piangere. Andrà più o meno così, Fran.» Deena sta sicuramente esagerando. Non riesco a immaginare uno scenario così tremendo. A dire il vero non riesco a immaginare proprio niente. «Ma si tratta di pochi giorni. Anche se mi sentirò a disagio, sono soltanto pochi giorni in cui guadagnerò metà di quello che ho guadagnato l’anno scorso. In tutto l’anno. Senza contare gli extra. E ho una clausola che mi protegge. Dovresti leggerla. È un papiro lunghissimo e dettagliato. E più la leggi, più diventa assurda. Persino divertente.» «Non è divertente. Non è assurda. Si tratta del tuo corpo. Su una pellicola, per sempre. Nudo, con un regista esordiente, in un film dell’orrore. Meriti di meglio.» «Be’, a quanto pare il mondo dello spettacolo non sembra pensarla come te», replico, un po’ disillusa, sul mio sgabello. «Non posso meritare di meglio, se nessuno mi propone lavori migliori, non pensi? Quindi forse questa parte è esattamente ciò che merito. Perfetta per me, in questo momento.» «Forse lo credi, ma ti sbagli. Domani potrebbero offrirti qualcosa di più. Si tratta del tuo esordio. Se scendi a compromessi ora, all’inizio della tua carriera, prima ancora di esserti data una possibilità, dove ritieni di poter arrivare?» «In alto, immagino.» «Ascolta. Ho un amico: voleva sfondare nel cinema. È andato a Los Angeles. Era il migliore attore della classe di recitazione. Non c’era gara. Va a Los Angeles e non trova lavoro. Le prova tutte. Ha una moglie e una bambina. Alla fine fa un

colloquio per un impiego in un parco a tema. Ha sentito che pagano bene. Lui è un ragazzo robusto, forte. Gli dicono che potrebbe impersonare Fred Flintstone in uno degli spettacoli per i bambini. La paga è fantastica. All’inizio dello spettacolo deve fare il suo ingresso su un enorme scivolo ad acqua, come se fosse Fred che scende la parete di roccia all’inizio del cartone, hai presente?» «Intendi quando dice: ‘Yabba-dabba-doo’?» «Esatto. È bravo, ha studiato. E lo pagano per dire: ‘Yabba-dabba-doo’. Ma a lui sta bene. Un giorno, pensa, sarò un attore famoso. Oggi, sarà il Fred Flinstone migliore del mondo. Prende molto sul serio il suo lavoro.» «Va beeene», e scuoto la testa perplessa. «Quindi si prepara per la parte, va alla grande. Entra nel team; a lui e ai suoi compagni insegnano a esibirsi allo stesso identico modo. Tutti gli spettacoli devono essere uguali: è una regola del parco, non ci devono essere esibizioni migliori o peggiori. Durante l’addestramento, imparano a scendere dallo scivolo con le mani alzate e a dire: ‘Yabba-dabba-doo’, come alla tele. Poi arriva un nuovo ragazzo: forse è amico di qualcuno o figlio di qualcuno. Comunque, lui non riesce a venire giù con le braccia alzate. Quindi ripetono l’addestramento da capo, in modo che gli spettacoli siano identici. Il mio amico si ribella, e segue il modello originale. Si caccia nei guai. Vogliono che si adegui. Lui rifiuta.» Deena si alza dallo sgabello e si avvicina. «E allora lo licenziano.» Poi si siede di nuovo e allontana il bicchiere vuoto. «Me ne versi un altro, Patrick?» chiede al barman. «Ti va qualcosa da mangiare? Dividiamo un’omelette?» Fisso Deena, poi mi guardo intorno come se mi fossi persa qualcosa, qualcosa che avrei dovuto notare e che invece non ho visto. «Un attimo: tutto qui?» «Tutto qui.» «Quindi, la morale della storia è che bisogna lottare per ciò in cui crediamo, anche se si tratta di uno stupido dettaglio che può farci perdere il lavoro?» «La morale è questa: ci sarà sempre qualcuno che ti dirà che va benissimo stare con le braccia abbassate quando tu sai che non è vero. Ci sarà sempre qualcuno che sostiene che un gatto parlante è all’avanguardia. L’unica cosa che hai, e che non è nelle mani di una decina di altre persone, è la consapevolezza di cosa è giusto e cosa è sbagliato. Non devi accettare un lavoro che ti fa stare male. In questo mondo è facilissimo illudersi di amare qualcosa che non si ama davvero soltanto perché si è lusingati dal fatto di essere stati scelti. La morale è questa: tutte le attrici, da Meryl Streep a quella che fa La signora del West, hanno le tette. Non tutte le attrici riescono a dire di no. No è l’unico potere che abbiamo.» Prendo la scusa di andare in bagno per usare il telefono del corridoio. Controllo la segreteria e scopro che James mi ha invitato ad andare a casa sua, «se per te non è troppo tardi», e sento un brivido dentro. Vedo il mio sorriso riflesso nel vetro di Evita, una delle locandine incorniciate che rivestono la parete. Quando torno, ci sono due bicchieri pieni che ci aspettano al bar. «Io, ecco…» «Niente omelette.»

«È così evidente?» «Sei radiosa», ribatte Deena, stringendomi un braccio. «Possiamo annullare l’ordinazione, Patrick?» Lui annuisce. «Grazie. Scusami», dico infilandomi il giubbotto. All’improvviso è come se fossi in ritardo per un appuntamento, come se facessi aspettare qualcuno, anche se sono quasi le dieci di sera e ho appena ricevuto la sua chiamata. «Cosa ne pensa?» «Secondo lui dovrei farlo. Il nudo non lo disturba. E ha sentito parlare bene del prossimo film del regista.» «Be’, allora mi arrendo. Forse ha ragione: ha occhio, per queste cose.» «Cosa intendi?» Deena fa una pausa, come se avesse detto una cosa a sproposito e ora volesse scegliere le parole con più attenzione. «Niente.» «Avanti.» «Niente. È solo… Lo conosco da anni, ormai, dai suoi esordi, prima che…» Le parole le muoiono sulle labbra e sembra bloccata. «Spara.» «Be’, ha questa tendenza a mettersi con le ragazze più brave e dotate: sai, quelle con più probabilità di sfondare.» Trattengo il fiato, in attesa che Deena mi dica qualcosa che giustifichi la sua espressione seria, ma a quanto pare ha finito e tiro un sospiro di sollievo. «Pensavo che volessi raccontarmi qualcosa di brutto su di lui. Forse lo faceva, in passato, ma a quanto pare sono un’eccezione. Deve aver perso il suo fiuto…» «Franny. Devi darci un taglio.» La voce di Deena è stizzita, ora. «Come?» «Non vuoi proprio capire.» «Non…» «Sai quanti studenti hanno ricevuto delle offerte di lavoro, oltre a te, dopo lo spettacolo di fine corso?» «No.» «Due. Entrambi uomini.» «Pensavo che Molly…» «Era un appuntamento con una piccola agenzia, e le hanno detto che hanno già molte ragazze del suo tipo. Tu, Fritz e Billy siete stati gli unici. Hai superato una prova difficile, hai raggiunto un traguardo molto ambito e non te ne sei nemmeno accorta. Non ti rendi proprio conto di quanto sei in gamba. Non ti vedi con i miei occhi, o con quelli di James.» «È già tanto se mi vede», ribatto cercando di stemperare l’atmosfera, ma Deena non sembra affatto divertita. «Voglio il meglio, per te. Hai almeno il doppio del mio talento, ma in questi anni ho imparato alcune cose. Farò qualsiasi cosa per impedirti di commettere i miei stessi errori. Non voglio ritrovarti in una sitcom con un gatto parlante, mi capisci?»

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«NON leggerlo ad alta voce! Ti prego, James, ti supplico.» Voglio che smetta, ma non posso fare a meno di ridere, mentre James è ai piedi del letto e tiene il mio contratto in mano con fare solenne, come un messaggero shakespeariano venuto a leggere l’editto del re. Si schiarisce la voce. «Signore e signori, soltanto per questa sera, va in onda lo spettacolo: La cavalcata di Lady Godiva.» «Sera? Ma sono le undici di mattina! Buuuu! Volevo vedere Starlight Express!» Sfoglia le pagine in modo teatrale e si inchina a un pubblico immaginario. «Con riferimento all’accordo tra bla bla bla, d’ora in poi indicati con il nome di ‘produttore’ e Frances Banks, d’ora in poi indicata con il nome di ‘artista’… » «Chi sarebbe?! Mai sentita!» lo interrompo. «Per il film di cui in oggetto attualmente intitolato Zombie Pond, d’ora in poi indicato con il nome di ‘pellicola’.» «Ti prego! Basta! Non leggere tutti i…» «Chiedo scusa, a quanto pare ci sono delle interferenze.» James abbassa i fogli. «Sì, signora?» «Davvero, ti supplico, non leggere i… dettagli. È imbarazzante.» «Signora, faccia silenzio, per cortesia. Ehm. Come dicevo, il ‘produttore’ girerà una ripresa dall’alto di Sutton e Sheila a letto, in cui Sutton è a torso nudo e Sheila indossa un pigiama di seta…» «No! Fermati! Perché non una camicia da notte di flanella? O una bella felpa?» dico continuando a ridere. «L’ ‘artista’ acconsente a girare quella che d’ora in poi sarà indicata con il nome di ‘summenzionata scena di sesso’, in cui: Sutton sbottonerà lentamente il pigiama di Sheila, baciandole prima un seno e poi l’altro, mentre il pigiama…» «Aiuto! Qualcuno mi aiuti!» strillo, affondando il viso nel cuscino. «A questo punto una creatura (d’ora in poi definita con il nome di ‘creatura’) emergerà dal ventre di Sheila, indi una breve inquadratura (due-cinque secondi) del torace maciullato di Sheila e del piccolo zombie (‘creatura’). Subito dopo Sheila crolla a terra morta e non occorreranno ulteriori scene di nudo. Il produttore garantisce l’inaccessibilità del set a tutti, a esclusione della troupe e del resto del cast e il divieto di accesso dei fotografi durante le riprese. Eccetto quanto specificato in questa sede, bla bla bla, l’accordo resta valido bla bla bla, fine. Signore e signori, giunge così al termine lo spettacolo di questa sera. Non si

effettuano rimborsi. Siate generosi con le mance, grazie e buonanotte.» Applaudo e salto entusiasta sul letto. «Brillante! Che interpretazione! Non vedo l’ora di vedere il sequel!» «Il lato oscuro di Lady Godiva.» «Lady Godiva: la nuda verità.» «Aspettando Lady Godiva!» Crolliamo sul letto, senza fiato. «Davvero, James, è stata una vera tortura. Sentirlo descritto minuziosamente, in modo tanto cinico. Non riesco a pensare che stiano parlando di me. Come fanno a sapere cosa indosserò e che inquadrature faranno?» «Cercano di essere precisi in modo che tu non abbia brutte sorprese. È il lavoro di un bravo agente. Stabilire i limiti con largo anticipo in modo che non ti ritrovi, sul set, obbligata a fare qualcosa che non ti senti di fare.» «Già», dico. Sono ancora indecisa, ma sentire James parlare in modo così competente mi è di conforto. «Quindi funziona?» mi chiede. «Ti senti più a tuo agio?» «Sì. No. Non lo so. A sentirlo da te, è divertente. Potresti leggere l’elenco del telefono e farlo sembrare un capolavoro.» Mi sorride. «Quindi… perché sei ancora indecisa?» «Lo so che non è cinema impegnato. Però l’altra scena mi piace, si tratta di un ruolo abbastanza importante, e non riesco ancora a credere che potrei recitare in un film vero, che sarà proiettato al cinema. Ma non so come potrei sentirmi, a recitare a seno nudo… Sarà imbarazzante? Uno schifo?» «Perché imbarazzante?» «Be’, senti, si tratta del mio corpo.» «Quindi?» «Non so bene come…» «Come ti sentirai, o come sarà vederti nuda in un film?» «Entrambe le cose, direi.» «Ma sei bellissima.» «Lo dici tu.» «Ne dubiti?» «Certo.» «Non dovresti.» Mi scosta una ciocca di capelli dal viso, poi mi sfiora una guancia. «Capisco che sia difficile conquistare sicurezza in se stessi. Ma come ti dicevo, il corpo, per noi attori, è uno strumento. Dobbiamo riuscire a guardarci con distacco, altrimenti non riusciremo mai a entrare in un personaggio; in nessun personaggio. Sono pronto a ingrassare venti chili e a radermi a zero, per calarmi in una parte. Non sei d’accordo?» «Sì», rispondo, anche se non ne sono completamente convinta. Mi guarda fisso negli occhi. Per un istante penso che stia per baciarmi, invece si avvicina e mormora: «E comunque, se vuoi, ti posso aiutare». «Grazie. Mi hai già aiutato tantissimo con la lettura ad alta voce, senza contare

l’interpretazione di qualche minuto fa…» «No, intendevo un’altra cosa. Sto guadagnando parecchio. Per questo nuovo film con Hugh McOliver mi daranno una bella cifra.» «Oh, è magnifico», replico, ma non capisco dove voglia andare a parare, parlandomi dei suoi compensi. «E, non che la cosa possa aiutarti per questo lavoro, però se volessi, in futuro…» Le parole gli muoiono sulle labbra e sul suo viso si apre un sorriso come se non vedesse l’ora di rivelarmi un segreto molto succoso. Non capisco più niente. «In futuro… cosa?» «Se volessi salire sul carro dei vincitori.» «Scusa, non ti seguo.» «Avanti, Franny, non dirmi che non ci hai mai pensato. Non ti è mai passato per la testa?» «Cosa?» «Non fraintendermi. Penso che tu sia bellissima così come sei, te l’ho detto, ma se volessi rifartele, per essere più sicura, più competitiva, ecco, in modo da non torturarti ogni volta che ti propongono una scena di nudo… Capiterà ancora, credimi. Quindi perché non eliminare il problema alla radice? A Los Angeles quasi tutte le ragazze lo fanno, e con risultati davvero naturali…» È come se mi avesse sferrato un pugno nello stomaco. Lo guardo sbalordita. «Stai parlando di… mi stai suggerendo di… vuoi regalarmi un paio di tette nuove?» Il sorriso svanisce dalle sue labbra. «Franny, no, mi dispiace, scusami. Calmati. Insomma, sì, era quello che cercavo di dirti, ma soltanto perché mi sembrava che ti stessi tormentando inutilmente. Volevo soltanto darti una mano. Io… pensavo parlassimo della stessa cosa, trovare più fiducia in se stessi.» «Non sono sicura che parlassimo della stessa cosa», ribatto con un groppo in gola e trattenendo a stento i singhiozzi. «Me ne vado.» «No.» «Devo. Dov’è la mia scarpa?» «Aspetta. Non fare così. Stai fraintendendo. Sei arrabbiata.» «Invece ti sbagli. Non sono per niente arrabbiata. È solo che adesso la pompa allunga-pene che ti ho comprato per il compleanno mi sembra così banale.» «Vedi? È divertente. Hai fatto una battuta. Ne stiamo ridendo.» «Non ne stiamo ridendo. Si chiama sarcasmo e sto uscendo sbattendo la porta. Sto andando via. Con un’uscita in grande stile.» «Franny, si tratta di un equivoco gigantesco. Ti prego, non andartene.» Mi volto e gli lancio un’occhiata il più possibile minacciosa, considerato il fatto che ho soltanto una scarpa indosso. «Perché? Mi vuoi proporre un lifting prima dei trent’anni, già che ci sei?» Fa un respiro profondo e nei suoi occhi scorgo una dolcezza che non ho mai visto prima. «No», mormora. «Non voglio che tu te ne vada perché ti amo.» Lo ammetto, queste erano le sole parole che James poteva pronunciare per

spingermi a restare, e che non mi aspettavo di sentirgli dire, non oggi almeno, e probabilmente nemmeno in futuro. Ma nel mio cervello si affollano sentimenti contrastanti, quindi mi ritrovo stranamente sospesa, e non so se è meglio che finisca di allacciarmi l’unica scarpa, o che mi butti sul letto, esausta e sollevata. Sono indecisa. E con un piede scalzo. «Cosa?» «Sono sincero. Ti amo. Davvero. È un po’ che te lo volevo dire.» «Okay…» «E non sono nemmeno riuscito a parlarti della prima.» Adesso sono davvero confusa. «Di che?» «La prima del film con Arturo. Fra tre settimane. Volevo chiederti di accompagnarmi.» James mi ha detto che mi ama, ed è sconvolgente quasi quanto il fatto che mi abbia appena chiesto di partecipare a un evento mondano insieme con lui. Non nel suo appartamento, e neppure tra gente comune, ma in mezzo a persone piuttosto famose. Sono confusa, non so nemmeno cosa prendere in considerazione per prima. «Ma pensavo che non… Hai detto che non potevi venire al matrimonio di mia cugina a causa delle riprese.» «Sì, proprio perché le hanno spostate per consentirmi di andare alla proiezione.» Per un istante penso che potrebbero spostarle ancora e lasciarlo libero per il matrimonio, ma ovviamente un conto è il lavoro, un conto una festa di famiglia. James raccoglie il mio maglione dal pavimento, e vedo l’altra scarpa, poi si avvicina per porgermi entrambi gli indumenti. Sul suo viso c’è sempre la stessa espressione vulnerabile e temo di aver ferito i suoi sentimenti. «Ascolta, domani parto per Los Angeles e ho il fine settimana completamente libero. Perché non vieni con me? Posso chiedere alla produzione di…» «Questo fine settimana c’è il matrimonio di mia cugina.» Mi sento avvampare di rabbia. Sarebbe potuto venire, se avesse voluto. È solo che non gli andava. «Oh, è vero. Senti, quando ho detto che ho il fine settimana libero, intendevo che ho un sacco di lavoro da fare con Hugh per preparare le scene di martedì nel deserto, quindi mi sono tenuto del tempo per lavorare. Però se vieni con me possiamo mangiare qualcosa insieme e stare un po’ vicini.» James si accosta, ma io mi ritraggo, perché non sono ancora pronta per una riconciliazione. Il suo lavoro è importante. Lo so. È una spiegazione perfettamente ragionevole per non venire al matrimonio. Non so come continuo ad avvertire una nota stonata, ma d’altro canto non so cosa significhi trovarsi su un set di un kolossal con le stelle del cinema. «Fammi capire: non puoi venire perché martedì devi lavorare? E lunedì?» «Be’, non lo so ancora, hanno detto che piove.» «Capisco», affermo sostenuta, non posso però fare a meno di pensare che un giorno di pioggia nel deserto sia un’eventualità estremamente improbabile. «Senti, come ti ho detto, gireremo in pieno deserto, solo non so quando, di preciso. Non mi piace l’idea di non vederti fino ad allora. Ti prego, accompagnami

alla prima. E dopo, spero che ci butteremo questa discussione alle spalle. Sei molto speciale, per me.» Ci salutiamo con gesti affettuosi, ma il mio cuore è altrove. Mi sento lontana, come se guardassi me stessa da qualche metro di distanza. Per strada, alla luce del sole, incomincio a pensare lucidamente e vengo travolta da un’ondata di imbarazzo. Forse stava soltanto cercando di darmi l’aiuto di cui credeva avessi bisogno. Sono confusa e disorientata, mi sembra di essermi appena svegliata in una casa che non conosco e, per un istante, non sapessi più dove mi trovo. Però di una cosa sono sicurissima. Ho bisogno di un telefono, ma non subito. Prima voglio allontanarmi un po’ da casa di James. Percorro di buon passo i due isolati che mi separano dall’angolo tra la Settima Avenue e Union Street. Sono vicina a casa, e anche se potrei usare il mio telefono senza dover lottare contro il frastuono del traffico non voglio aspettare un minuto di più. «Pronto? Sono Franny Banks. Cercavo Joe Melville, per favore.» La receptionist mi mette in linea, ma a quanto pare Joe non ne vuole sapere di rispondere. La musica in sottofondo è sempre la stessa, ci sono poi strane interferenze che mi infastidiscono. Vorrei allontanare il ricevitore dall’orecchio, ma ho paura di non sentire Joe, quando prenderà la chiamata. Per distrarmi, guardo l’ingresso del Muffin Café, un negozietto malandato dall’altra parte della strada. Entra una persona, poi un’altra, e un’altra ancora. Quando la prima esce, con un caffè e qualcosa che ha tutta l’aria di un bagel, mi rendo conto che da quando sono in linea qualcuno ha tostato il bagel, l’ha farcito di crema di formaggio e l’ha incartato, poi ha fatto conversazione spicciola, ha preso il denaro e magari ha dato il resto, e questo arco di tempo è appena diventato la mia nuova definizione di eternità. «Franny?» È Richard, e non Joe, e sono delusa, però sono anche sollevata di non dover spiegare ciò che sto per dire al cospetto del calmo, silenzioso abisso che può essere Joe Melville al telefono. «Richard, ciao. Senti, mi dispiace tanto, davvero, ma non posso fare quel film.» «Film?» «Il film. Non posso farlo. Sono mortificata. Ci ho pensato tanto e ho capito che non me la sento di spogliarmi. Non che sia per forza riprovevole. E non c’entrano nemmeno gli zombie: senza offesa per gli zombie, i mostri o gli squali assassini. Anzi, non accetterei nemmeno se fosse Lo squalo, che è uno dei miei dieci film preferiti. Be’, a pensarci bene, ritiro quello che ho appena detto, visto che se Steven Spielberg… No, sai che ti dico? Rifiuterei anche se mi chiamasse Spielberg. La scena di nudo, intendo. E mi dispiace tanto. Magari penserai che sono una dilettante. Lo so che questo è il mio primo lavoro vero e spero che Joe non se la prenda: o magari vorrà discuterne con me, che ne pensi? Quindi, mi dispiace, vorrà dire che richiamerò quando torna. Cioè quando?» «Quando?…» «Scusami. Quando torna Joe? Per richiamarlo.»

Segue una lunga pausa, poi Richard si schiarisce la voce. «Mi dispiace dovertelo dire, Franny, ma Joe non c’è.» «No? Certo, vista l’ora. Sarà in pausa. Non importa. Richiamerò doma…» «No, Franny, intendo che Joe non c’è più. E ascolta, non ha niente a che fare con…. Anche se avessi accettato la parte, non sarebbe cambiato niente. Devi saperlo.» «Cambiato niente? Scusa, non capisco…» «Avrebbe dovuto… Sono certo che ti chiamerà domani per spiegarti. Da ieri, Joe Melville non lavora più qui.»

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«CI sono tre nuovi messaggi.» Biiip. «Frances, sono tuo padre. Spero che mi riconoscerai ancora, quando ci rivedremo dai Finnegan. Vieni, vero? Con Jane? Richiamami, per favore. Mi piacerebbe… C’è una cosa… Richiamami, per favore. Uno dei miei studenti mi ha parlato di questo nuovo telefilm, E.R. Credo che si chiami così. Ci sono dei medici, immagino. Comunque, sembra che sia un buon programma, e penso che dovresti contattarli.» Biiip. «Frances, sono Joe Melville. Mi dispiace lasciarti un messaggio, ma nei prossimi giorni non sarò reperibile per via della, ecco, della transizione. Volevo dirti che è stato un piacere lavorare con te, ma ho aperto una nuova agenzia, più piccola e più esclusiva, e rappresenterò un gruppo ristretto; i nomi, be’, più importanti, quelli di richiamo, capisci, hanno deciso di seguirmi. Volevo ringraziarti e augurarti in bocca al lupo.» Biiip. «Franny, sono Richard, dall’ufficio di Joe. Volevo dirti che è stato un piacere lavorare con te. Ho fatto il possibile per convincere uno degli altri agenti a tenerti, ma da quando Joe se n’è andato stanno dando tutti fuori di matto e per il momento nessuno vuole prendere gente nuova. Nel nuovo ufficio sarò soltanto un assistente, altrimenti ti rappresenterei io stesso. Cerca di stare bene e sentiamoci, se ti va. Vorrei poterti essere più di aiuto. Forse in un futuro non troppo lontano? Comunque, in bocca al lupo.» Biiip. «Congiuntivite?» continuo a ripetere, come se questo potesse farla sparire dall’organismo di Jane. «Congiuntivite? Hai la congiuntivite? Come fai a esserne sicura?» «Per esempio guardandomi allo specchio.» «Forse hai soltanto qualcosa in un occhio. Un’allergia?» «Mi dispiace, Franny. Non è la prima volta. Riconosco i sintomi. È molto contagiosa. Non posso venire.» Jane doveva accompagnarmi al matrimonio di Katie. Aveva noleggiato l’auto a suo nome. E aveva la congiuntivite. «Se non vieni, non potrò andare nemmeno io. C’è lo sciopero della metro, quindi

non posso prendere il treno. Non ho un soldo, sono senza patente. Non posso noleggiare un’auto.» Mi ero accorta di essermi dimenticata il portafogli da James soltanto il mattino dopo essere stata da lui, quando ero uscita a comprare dei bagel per colazione. Gli avevo lasciato un messaggio, ma probabilmente era già in volo per Los Angeles. «Merda. Mi ero dimenticata della patente!» esclama Jane mentre mi guarda comprensiva con l’occhio sano. «Ho trovato. Potrei darti la mia carta d’identità e tu potresti fingere di essere me.» «Ottima pensata. Mi bastano un paio di lenti colorate, una carnagione olivastra e capelli lunghi e lisci, credo che potrei farcela, in un’ora.» «Stavo soltanto cercando di darti una mano.» «Lo so. Scusami. Vorrà dire che resterò a casa.» Ma il solo pensiero mi riempie di tristezza. Non ho mai saltato un matrimonio dei Finnegan. Sono mesi che non vedo mio padre, che non gli parlo. I suoi ultimi messaggi erano strani. Forse si sente solo. «Io posso noleggiare l’auto. E accompagnarti.» Dan è sulla soglia della cucina, e arrossisco all’idea che mi faccia da cavaliere a un matrimonio. «Oh, grazie. Davvero. Ma saranno delle nozze folli. Saresti un pesce fuor d’acqua. È una famiglia di matti. E non abbiamo tempo per procurarti l’abito.» «Tutte le famiglie sono matte. E il vestito ce l’ho. Nell’armadio.» Ho sempre visto Dan in jeans e maglietta. Per quanto ne sappia, non ha nemmeno una giacca elegante o un cappotto. D’inverno indossa un giubbotto azzurro troppo leggero, per il clima di New York, ma ogni volta che gli chiedo se ha freddo risponde di no, che sta bene. Ha una camicia bianca e una azzurra che usava quando andava a cena con Everett. Non gli ho mai visto addosso una cintura, o una cravatta o un paio di calzini che non siano quelli di spugna. Però, a quanto pare, ha un completo elegante. «Ma ho prenotato una sola stanza, al motel, ecco…» balbetto. «Una sola. Quindi…» Non riesco a immaginare di portarlo al matrimonio. Al solo pensiero, mi sento terribilmente nervosa. La nostra vita è tornata alla normalità: siamo coinquilini, andiamo al nostro ristorante cinese preferito tutti e tre insieme, ce ne stiamo sul divano a guardare Law & Order tentando di indovinare l’assassino. La routine quotidiana ha eclissato quello che è successo la sera del Fantasma dell’Opera. Non voglio uscire da questi confini rassicuranti, non voglio andare via da Brooklyn: figuriamoci passare la notte con lui in un motel. Ma la prospettiva di rinunciare al matrimonio di Katie, di non vedere mio padre, è ancor più dolorosa. «Che sciocchezza», si intromette Jane. «Avevamo comunque prenotato una doppia. Quindi, che problema c’è? Siete già abituati a dormire sotto lo stesso tetto. Costruite una parete di cuscini, inventatevi qualcosa. È il matrimonio di Katie Finnegan, dannazione! Voi ci andrete! Evviva!» Jane mi sorride come se si fosse già deciso. «E cosa dirò a James?» «La verità.»

«Ma non pensi che la storia del portafogli, oltre allo sciopero, alla tua congiuntivite e all’apparizione inspiegabile dello smoking possano sembrargli sospette?» «No. Penso che: ‘Le riprese sono nel mezzo del deserto e non so quando riuscirò a contattarti’, sia un’affermazione sospetta. Ti poteva accompagnare, se voleva davvero.» «Jane, sta lavorando», protesto, ma lei alza gli occhi al cielo. «Ascolta, Dan.» Mi volto e gli metto le mani sulle spalle, guardandolo negli occhi come un allenatore di football che sta facendo il discorso della vittoria. «Davvero. Non importa, se devo rinunciare. Sei sicuro di volerlo fare? Sicuro che vuoi passare così il sabato sera? Circondato da una folla di irlandesi ubriachi?» La mia intenzione era di metterla sul ridere, alleggerendo l’atmosfera e permettendo a Dan di tirarsi indietro e ritrattare: «No, mi dispiace, ci ho ripensato e non voglio più venire». Ma mentre me ne sto con le mani sulle sue spalle, sorprendentemente forti sotto la maglietta sdrucita, il mio viso proteso verso di lui, che è altissimo e mi fa sentire minuscola in confronto, e lo guardo in quei profondi occhi nocciola piantati nei miei, la sera da Sardi’s mi travolge, e tutto questo tempo in cui ho finto che il nostro bacio non sia mai esistito viene spazzato via in un attimo. Adesso gli dirò che non dovrebbe accompagnarmi al matrimonio di Katie. Adesso chiamo mio padre e gli spiego che mi dispiace, che ci vedremo un’altra volta. Adesso tolgo le mani dalle spalle di Dan e non lo toccherò mai più. «Sì», risponde senza esitare. «Sono sicuro.»

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«INSISTO. Eravamo al liceo insieme. Per forza. Ne sono sicuro. Davvero non sei andata al Carter? Che strano. Hai un’aria così familiare. Allora come faccio a conoscerti? Sei cosa? Davvero? Non hai l’aspetto di un’attrice. Senza offesa, sei molto carina, ma pensavo che fossero anoressiche, in quell’ambiente. Quale programma? Una pubblicità? Oh, no, ne dubito. Non guardo la televisione. Cioè, ogni tanto faccio un po’ di zapping, ma no. Per non parlare degli spot. Senza offesa. Però dico davvero, come faccio a conoscerti? Forse abbiamo frequentato un campo estivo insieme?» «Congratulazioni, Franny! È fantastico! Ricordi all’ultimo matrimonio, quando hai detto che volevi recitare? E io ti ho detto: ‘Come sono le mance?’ Ricordi? Ahahahahaha! Perché quelli che dicono di essere attori di solito fanno i camerieri? L’hai capita? «Però tuo padre mi ha detto che volevi diventare una professionista a tutti gli effetti. Un’attrice teatrale. Cos’è successo? Hai un agente, giusto? Meglio di niente, no? Come? Avevi un agente, ma ora non ce l’hai più? Oh, è terribile! «Hai visto, Len? te l’avevo detto che non si è rifatta il naso. È la TV che lo fa sembrare così strano. Schiacciato. Non so come, ma sembravi anche molto più vecchia. Io gliel’avevo detto, Franny. Gli avevo detto: ‘Len, Franny non si rifarebbe mai il naso. E anche se prendesse una simile decisione, perché scegliere un naso piccolo e schiacciato che la invecchia? È colpa della TV’, gli ho detto. So che le telecamere ti fanno sembrare molto più grasso, come se pesassi dieci chili di più. Quindi probabilmente modificano anche la faccia. Solo cinque chili? Be’, sembrano molti di più. Forse è colpa del nostro televisore. Ne abbiamo comprato uno nuovo. È tutto molto più grande che nella realtà. Però le attrici di quella sitcom sono davvero deliziose, che vitini da vespa! Forse sembri più grasso soltanto con le pubblicità…» Zia Elaine non smette di parlare, se non per prendere fiato, e alla fine stringo l’avambraccio di Dan in una muta richiesta di aiuto. «Ci può scusare un attimo?» la interrompe educatamente, guidandomi con la mano dietro la mia schiena. «Franny e io dobbiamo… dobbiamo chiamare la babysitter.» Per un attimo temo che zia Elaine senta la risata che cerco di soffocare, ma sembra non farci caso e, senza un attimo di esitazione, si gira e attacca bottone con un’altra vittima. «Scusa, non sapevo bene come aiutarti», dice Dan timido. «Era la scusa

preferita di mia madre.» «Non preoccuparti», rispondo con un sorriso, contenta di avere Dan al mio fianco, nelle vesti di un’enorme guardia del corpo. «Spero di avergli lasciato cibo a sufficienza, al bambino.» I matrimoni dei Finnegan si svolgono come sempre in un gigantesco gazebo allestito nel giardino della vecchia, enorme casa dei miei zii a Madison, in Connecticut. Da bambina l’adoravo perché era sulla spiaggia. Pensavo che fossero molto fortunati, un po’ come essere in vacanza tutto l’anno. La casa sarebbe bellissima se rinfrescassero il grigio scrostato delle pareti, riparassero le vecchie persiane bianche che pendono dai cardini o falciassero l’erba del prato più di due volte all’anno. Ma per quanto la sorella di mio padre, Mary Ellen, cerchi di dare una parvenza di ordine, con otto figli è un’impresa disperata. All’epoca eri fortunato se trovavi una coperta sul letto, però io andavo sempre a dormire felice, anche se dovevo usare come cuscino la mia felpa appallottolata. Dai Finnegan il caos è sempre regnato sovrano, ma c’è sempre stato qualcuno disponibile a giocare con te. Quando eravamo loro ospiti, mia madre e la zia Mary Ellen restavano alzate dopo averci messo a letto. Stavano sulle sdraio a chiacchierare e mi addormentavo al fragore delle loro risate e con la voce di Joni Mitchell che usciva dalle finestre aperte della veranda. Non posso fare a meno di pensarci, ora, mentre me ne sto davanti all’oceano e mi guardo in giro alla ricerca di mio padre, chiedendomi se anche lui è assalito dalla mia stessa nostalgia, ma non riesco a trovarlo, tra la folla. Gli ospiti sono stati invitati a indossare lo smoking e l’abito lungo, ma è soltanto per divertimento: per il resto, la festa è semplice e alla buona. «L’ora dell’aperitivo» (che consiste in un paio di frigoriferi pieni di ghiaccio e lattine di birra) si tiene sulla spiaggia davanti a casa. Ora è pieno di gente, ma Katie mi vede e si fa largo a gomitate, strillando: «Sei magrissima!» stringendomi in un abbraccio. «Oh, salve», saluta Dan, lanciandomi uno sguardo d’intesa. Poi si sfila le scarpe e il velo, li butta sulla sabbia e si getta nell’oceano insieme con il neosposo, anch’egli vestito da capo a piedi. «È una tradizione di famiglia», spiego a Dan visibilmente sconvolto. «Hanno un abito speciale che usano per tuffarsi. Indosseranno quello vero per il ricevimento.» Di solito, l’aperitivo è il momento che preferisco, ma dopo il terzo grado di questa sera sono contenta di entrare nel gazebo e sedermi a tavola. Mio padre si è già accomodato e mi rivolge uno sguardo così impaziente che mi scioglie il cuore. Gli sono mancata, penso. Porta lo stesso abito che gli ho visto addosso una decina di volte. Gli calza ancora a pennello, ma i risvolti sono lucidi a causa dell’usura. Si è tagliato i capelli da poco, e c’è qualcosa in lui di sorprendentemente giovanile. Lo abbraccio forte. «Sei bellissima!» esclama continuando a tenermi stretta. «Vero?» chiede Dan, e gli lancio un sorriso imbarazzato da sopra la spalla di papà. Un gruppo scalcagnato di musicisti del posto, habitué alle feste dei Finnegan,

suona una versione appena riconoscibile di Strangers in the Night. La sedia accanto a mio padre è vuota, e mio cugino Tom e sua moglie Beth sono seduti di fronte, impegnati a impedire che il loro bambino mangi il centrotavola. Dan va a prendere da bere. «Sembra un bel tipo», commenta papà appena siamo soli. «Molto educato.» «Lo è. Ma non stiamo insieme.» «Me lo avevi detto.» «Len ed Elaine mi hanno chiesto se mi sono rifatta il naso.» «Non sanno cosa dire. Sono contenti per te. Le persone non sono abituate a vedere gli attori di persona», replica stringendomi il braccio. «Attrice è una parola grossa. Ho girato due stupide pubblicità per la televisione in quasi tre anni e ora mi ritrovo a dover rispondere alle domande assurde di questi estranei. Praticamente non ho visto i miei cugini, stasera. È già tanto se ho visto te.» «Abbiamo il resto della serata. Lo sai, queste feste finiscono sempre a tarda ora. Adesso ascolta, avrei voluto che mi richiamassi, perché…» «Papà, io ti chiamo. Ti chiamo un sacco di volte. Ma tu non te ne accorgi perché non posso lasciarti messaggi in segreteria, dato che non ce l’hai.» « N o n voglio nessuna segreteria telefonica. Un messaggio registrato è un’informazione superflua, nel migliore dei casi. Sostieni che ho bisogno di quella diavoleria per sapere che mi hanno chiamato quando non ero in casa? O dovrei lasciare un messaggio registrato in cui dico che non sono in casa, o che sono troppo occupato per rispondere? So già che non sono in casa, visto che sono la persona che non è in casa.» «Ma i miei messaggi sono un modo di farti sapere che ti ho chiamato.» «Se chiami e non rispondo, sai già che ero occupato e non potevo parlare. E io ottengo la stessa informazione quando sento la tua segreteria: so che non sei in casa o che sei troppo occupata per rispondere. Se avessimo entrambi la segreteria telefonica, la situazione potrebbe andare avanti all’infinito, senza riuscire mai a parlare. Ti sto venendo incontro, rifiutandomi di comprarla. Se il telefono squilla…» La presenza di una strana donna alle sue spalle mi distrae. Indossa un vestito azzurro e vacilla leggermente, come se non sapesse se sedersi o meno. Magari ha semplicemente alzato il gomito. Dev’essere una lontana parente un po’ brilla, ma è strano, perché non credo di averla mai vista prima, alle feste dei Finnegan. Che sia Maureen, la cugina di mia zia, quella che abita a Ithaca? Posa una mano sulla spalla di mio padre; di certo lo confonde con qualcun altro, dal momento che, se io non la conosco, non la conosce nemmeno lui. Forse dovrei avvertirlo che è stato preso di mira da una tipa alticcia che lo ha scambiato per un altro, una donna che ha stranamente l’aria di volerlo baciare. «Papà?…» «Eddie?» Conosce il suo nome, quindi non è un’estranea; non per lui, almeno. Anzi, a giudicare dallo sguardo di mio padre, quando si volta e si alza per salutarla, non è affatto un’estranea.

«Franny», annuncia raggiante, «voglio presentarti una persona.» Si chiama Mary Compton ed è un’oculista che ha conosciuto quando aveva «quel problema alla cornea», di cui mi deve aver parlato ma di cui non mi ricordo. È divorziata e, con mio grande orrore, ha una ragazza «della mia età», notizia che mi spinge a immaginare un ipotetico futuro in cui la figlia della dottoressa Mary Compton e io siamo obbligate a frequentare negozi e locali e fingere di divertirci perché i nostri genitori escono insieme. «Ho sempre desiderato una sorella!» mi confiderà la figlia di Mary, io e lei sedute in un caffè alla moda. Mio padre e Mary sembrano ignari della nuvola scura che si addensa sopra la mia testa, mentre chiacchierano disinvolti. «Mary ha dovuto fare un intervento d’urgenza, stasera», spiega lui rivolgendole un sorriso radioso. «È una fortuna che sia riuscita a venire.» Annuisco, sperando di risultare convincente. Quando Dan torna con i drink, sprofondo nella mia sedia e bevo la birra d’un fiato. Mentre papà fa le presentazioni, li guardo assente, senza capire perché mi sento così strana. Vorrei davvero essere contenta di conoscere questa nuova persona che piace a mio padre. Vorrei farle delle domande e farla ridere e mostrarle come mi ha educato bene. Invece sono stranamente silenziosa, e non riesco a pensare a un solo argomento di conversazione. Per fortuna, Dan prende il mio posto e si informa del suo lavoro, e del fatto che ha vissuto a Londra dieci anni, ascoltandola mentre racconta di sua figlia a Oxford, e di come ha conosciuto mio padre. Mi sforzo di annuire e sorridere nei momenti giusti, ma faccio fatica a concentrarmi. Come un automa, osservo mio padre comportarsi in questo modo strano. È irriconoscibile, sono ipnotizzata da lui e non riesco a smettere di guardarlo, anche se la sua espressione sdolcinata mi dà un po’ la nausea. Sorride così tanto da sembrare mezzo matto. La chiama «La dottoressa», dice cose come: «La dottoressa e io abbiamo adorato la stagione sinfonica di New Haven», e lei ride alzando gli occhi al cielo. «È così imbarazzante quando mi chiama in questo modo, vero, Frances?» mi chiede lei facendomi l’occhiolino con aria complice. «Come se fossi uno di quei conduttori radiofonici che rispondono alle domande degli ascoltatori fingendosi dei medici.» «A dire il vero, mi chiamo Franny», ribatto, e la mia voce ha un tono stranamente freddo. «Certo! Scusami. Lo sapevo. Sono soltanto un po’ nervosa, non vedevo l’ora di conoscerti», aggiunge timidamente, e mio padre si volta verso di lei, estasiato. Portano la cena, e finalmente riesco a farfugliare qualcosa, mentre mangiucchio il mio hamburger. I Finnegan organizzano sempre un barbecue, invece dei buffet, e di solito adoro questo cibo casalingo e rassicurante, ma stasera non ho appetito. «Vuoi ballare con me?» mi invita Dan, una volta che hanno sparecchiato e la torta è stata servita. E anche se in un’altra circostanza avrei rifiutato, soprattutto di ballare un lento, sono sollevata di avere una scusa per alzarmi da tavola. «Sì, con piacere.»

Dan mi prende per mano, guidandomi dolcemente verso la pista da ballo. Mi accorgo subito che sa ballare: è un danzatore provetto. La sua guida è dolce e sicura e mi lascio trasportare. «Va tutto bene, Franny?» «Sì, tutto bene», rispondo. «Non so perché mi comporto così. Soltanto che… guardali: sono così carini. Non immaginavo che mio padre potesse mai diventare una persona carina.» «Però sembra molto felice.» «Lo so. Infatti. E ovviamente voglio che lo sia. È che non ha mai portato nessuno a una festa di famiglia, finora.» «Capisco», dice Dan attirandomi a sé in modo che possa sentirlo nonostante la musica. È la frase giusta da dire e appoggio la testa alla sua spalla, grata di non dover spiegare altro. Mia cugina Katie si fa largo nella folla, mano nella mano con il marito. Indossa ancora l’abito da sposa, ma ha tolto i tacchi e ha infilato un paio di comode scarpe da ginnastica. Lei abbraccia gli ospiti, mentre lui stringe loro la mano, e di tanto in tanto si fermano a ballare con alcune coppie sulla pista. Quando ci scorge, si stacca un attimo dal marito e mi raggiunge, mettendosi tra noi. «Il tuo ragazzo è terribilmente carino!» strilla. «Non ci avevo fatto attenzione, prima.» «È il mio coinquilino, Katie», le spiego con enfasi, senza guardare Dan. «Te l’ho detto, il mio fidanzato doveva lavorare. A proposito, eri bellissima, oggi.» «Sì», aggiunge Dan. «E anche la cerimonia.» «Grazie, Fran. Grazie, coinquilino.» Katie gli rivolge un’occhiata complice e lo squadra dalla testa ai piedi. «Sei un ottimo ballerino», ammette con uno scintillio nello sguardo. «Grazie», risponde Dan accennando un inchino. «Sinatra però è soltanto l’antipasto, vi avviso.» «Sono stato informato del programma.» Dan mantiene il tono formale, ma si lascia scappare un sorriso. «Buon per te, perché dopo cena sarà il turno del dj e questo posto diventerà tremendo», annuncia Katie. «Una volta che i vecchi se ne saranno andati, comincerà la vera musica. E quando dico vera, intendo i classici, l’avanguardia, e la robaccia. Va bene tutto, pur di ballare, pur di farvi scatenare tutta la notte. Non ci tiriamo indietro di fronte a niente. Non sei troppo raffinato per questa roba, Fred Astaire, vero?» «Ovviamente no», risponde lui gonfiando il petto. «Mi piace», confessa Katie. «Sicura che non sia il tuo fidanzato?» «Ah, ah», rido. Sono contenta che apprezzi il primo ragazzo che le presento dopo Clark. Dopo che se n’è andata, Dan e io continuiamo a ballare senza parlare. È un silenzio rassicurante, quello che c’è tra noi. Grazie ai tacchi, riesco a posare comodamente le braccia sulle sue spalle. Dietro di lui, vedo il cielo al tramonto e le

luci del gazebo che si accendono l’una dopo l’altra, rendendo l’atmosfera magica e intima. «Allora, come fai ad avere un abito elegante?» gli chiedo guardandolo negli occhi. «Be’, vedi, era obbligatorio. Al college facevo parte di un gruppo vocale.» «No!» esclamo, indietreggiando di un passo e cercando di immaginare Dan in un’allegra schiera di cantanti in smoking. «Eccome», incalza orgoglioso. «Davvero? Cantavi in uno di quei cori?» «Sì. È così difficile crederci?» «Sono sorpresa, più che altro. Non ti ho mai sentito nemmeno fischiettare. E quindi facevate quelle esibizioni da avanspettacolo?» «Non eravamo quel tipo di formazione Avevamo un repertorio insolito, da un punto di vista musicale. Facevamo parodie, che hanno riscosso un buon successo. Siamo stati anche al…» «Al?» «Be’, siamo stati al Tonight Show.» «Cosa? Il Tonight Show? Perché non me l’hai mai detto?» «Non lo so», dice abbassando lo sguardo. «Non volevo vantarmi.» Vorrei rimproverarlo per aver mantenuto il segreto, ma c’è qualcosa di irresistibile in lui, in questo momento – l’imbarazzo di chi non è abituato ad avere l’attenzione su di sé – e sono travolta da un moto di tenerezza. «Mi piacerebbe vederlo, un giorno», confesso, e lui arrossisce. «È un tasto dolente.» «E perché?» «Be’, provengo da una famiglia di medici da tre generazioni e credo di aver disatteso, ecco, parecchie aspettative. Sono stato il primo, a sottrarmi a questa responsabilità.» «Vuoi dire che considerano la tua apparizione al Tonight Show un gesto di ribellione?» «Lo hanno considerato una distrazione, un capriccio artistico», ribatte in tono asciutto. «In seguito, quando ho dichiarato che volevo scrivere, mio padre ha dato la colpa al coro, come se un’attività creativa avesse scatenato un processo inarrestabile. Ma la carriera di medico, com’è stato per generazioni prima di me, ecco, non faceva per me. Prima di andare in trasmissione, ho comunicato a mio padre che avevo intenzione di abbandonare medicina per fare lo sceneggiatore. L’idea di guadagnarmi da vivere scrivendo per il cinema di qualunque genere, be’, è stata piuttosto difficile da digerire. Rappresento una sconfitta, per loro. Mio padre mi ha escluso dal mio fondo fiduciario e non ha mai visto la trasmissione.» «E come fai a…» «A vivere?» «Sì.» «Ho ereditato una piccola somma da un prozio che ha sempre desiderato fare il pittore. Quando si esaurirà, mi cercherò un lavoro. Oppure tornerò a casa in

ginocchio, e di conseguenza a studiare medicina.» «Quindi anche tu ti sei dato un tempo massimo per realizzare il tuo sogno!» Sorride. «Sì. Proprio come te.» Penso a Dan, seduto in soggiorno, nel nostro appartamento di Brooklyn, chino sui suoi appunti e sul computer; mentre mangia il solito pollo economico comprato nella solita, squallida tavola calda; mentre sorseggia la sua birra senza appoggiarla sul tavolino; e l’idea che creda di aver deluso tutti smuove qualcosa dentro di me. Riesco quasi a sentirlo, un rumore secco e dolce al tempo stesso, come un foglio di carta strappato da un bloc-notes, e all’improvviso provo enorme rispetto nei suoi confronti. Gli voglio bene, ma non solo: sono orgogliosa di lui. Con mio grande sollievo, capisco che i sentimenti che provo per lui sono completamente diversi da quelli che nutro per James. Con James, c’è passione: è eccitante stare insieme con lui. Quel che sento per Dan assomiglia più a una luce calda, come quelle che splendono nel gazebo, ed è altrettanto contenuta. È una brava persona, penso. Nient’altro. Più tardi, prima di The Rhythm of the Night e dopo I Saw the Sign, mio padre e Mary vengono a salutarci. Sono sudati e con le guance rosse; sotto le luci abbassate, mio padre sembra un ragazzino. All’improvviso mi vergogno del mio comportamento; vorrei tornare indietro e rifare tutto, conoscerla meglio, e più in generale mostrarle una versione migliore di me. «No, non andate via!» esclamo prendendo la dottoressa per mano. «Dobbiamo», risponde mio padre ancora senza fiato. «È stato un piacere conoscerti, finalmente», dice Mary dandomi un bacio. «Spero di rivederti presto.» «Anch’io.» E sono sincera. Io e Dan trascorriamo le due ore successive ballando ogni genere di canzone idiota. Alle prime note di Rock Lobster dei B-52’s, mi accorgo di non reggermi più in piedi. «Sono allo stremo delle forze», confesso a Dan, senza fiato. «Meno male», ribatte lui. «Sono fradicio.» «Dobbiamo svignarcela», gli grido per sovrastare la musica assordante. «Se Katie ci vede, siamo fregati.» «D’accordo», e mi sorride, accettando la sfida. «Tu vai a destra, io a sinistra, e ci incontriamo fuori.» Per fortuna il dj mette su This Is How We Do It e la pista da ballo viene presa d’assalto. Prendo dal tavolo la borsetta vintage che mi ha prestato Jane, e sgattaiolo fuori, con l’aria disinvolta di chi non ha alcuna intenzione di andarsene, ma semplicemente di voler prendere una boccata d’aria. Fuori, l’oscurità è totale e devo aspettare qualche secondo prima che gli occhi si abituino. «Psst», bisbiglia Dan dietro un albero. La luce della luna si riflette sulla superficie dell’oceano e mi illumina la strada, mentre vado verso la spiaggia. «Corriamo!» mormoro, e scatto, improvvisamente euforica e su di giri.

Raggiungo la spiaggia prima di Dan, mi tolgo le scarpe e prendo fiato, cullata dal rumore delle onde che mi lambiscono i piedi. Vedo il motel in lontananza. Quando ci siamo registrati ho dato un’occhiata veloce alla stanza: c’è stato appena il tempo di appoggiare le nostre borse sui letti e cambiarci velocemente prima del matrimonio. Ma ora scorgo l’insegna al neon che brilla dolcemente e mi ricordo della stanza, dei due letti vicini, del bagno da condividere, dei turni per lavarci i denti e fare la doccia. «Franny?» Dan è dietro di me. È troppo buio per distinguerne i tratti del viso, ma è vicino, e il mio cuore incomincia a battere forte. Sono sudata a furia di ballare e la brezza che spira dal mare mi fa venire la pelle d’oca. Sento che sta per baciarmi e incomincio a tremare. Devo impedire che succeda, a qualunque costo. Non voglio che fraintenda: per me è soltanto un amico. Ma sono paralizzata e non ho la forza di allontanarmi. Non distinguo bene l’espressione sul suo volto, e non trovo le parole per spiegargli i miei sentimenti; lui si avvicina, e sento l’odore della birra nel suo respiro. Mi prende la mano e la porta al petto, così sento il battito del suo cuore, poi fa un altro passo verso di me, ed è così vicino che mi sovrasta, riparandomi dal vento. Ma non posso permettere che accada; non voglio che le cose cambino, tra noi, anche se una parte di me lo vuole. «Non farlo», dico troppo bruscamente, e Dan si paralizza. «Non farlo», ripeto senza motivo, visto che nessuno dei due si è mosso di un millimetro. Restiamo lì, per un tempo che mi sembra interminabile, immobili, accompagnati dalle onde del mare e dal battito del cuore di Dan, sotto il palmo della mia mano.

26

QUELLA notte resto sveglia a fissare il soffitto, ascoltando Dan russare beato e infastidita dalla sua capacità di dormire mentre io non ci riesco, quasi lo facesse apposta, come se il fatto di tenermi sveglia fosse un altro limite che sta deliberatamente e impunemente oltrepassando. Il mattino dopo è ancora peggio. Vuole pagare lui la stanza a tutti i costi, un gesto che mi irrita, per qualche strana ragione. Mentre lo aspetto prendo un quotidiano locale dalla pila sul tavolino della hall e mi faccio scudo. Lo leggerò in auto così avrò una scusa per non parlare, penso. Ma in auto mi accorgo che è uno di quei foglietti con un solo articolo striminzito sul pensionamento di un’insegnante del liceo e altre trentadue pagine di pubblicità e annunci. Resta pur sempre l’unica corazza che ho per ripararmi da una conversazione, quindi fingo che sia la lettura più avvincente che abbia mai fatto, finendo quasi per crederci. Sono così assorbita dall’offerta prendi due-paghi uno di una pizzeria che quando sento la voce di Dan faccio un salto. «Sembra Atene, vero?» osserva, lanciandomi un’occhiata. Cosa dovrei rispondere? Gli ho già detto che non sono mai stata a Londra. Perché quindi dovrei essere stata ad Atene, con tutte le città che ci sono al mondo? Chi si crede di essere, con la sua cultura, il suo abito elegante e il suo stupido gruppo vocale? «Sicuramente lo sai meglio di me», dico rigida. «Eh?» mi chiede con aria confusa. «Non ci sono mai stata.» «Non sei mai stata dove?» «Ad Atene», dico alzando la voce. «Quindi non so come sia, laggiù.» Cerca inutilmente di trattenere un sorriso. «Ho detto: ‘Sembra vada bene’. Finora. Il viaggio.» «Oh», ribatto mortificata. Alla fine James mi aveva chiamato da Los Angeles, aveva detto al portiere di aprire il suo appartamento e avevo recuperato la mia borsa, Jane aveva incominciato a lavorare sul set del nuovo film con Julia Hampton, e io e Dan trascorrevamo le nostre giornate a camminare senza posa nelle nostre stanze, separati, ma uniti dalla stessa irrequietezza. Udivo i suoi passi sul parquet scricchiolante, lo sentivo aprire il frigorifero, lo immaginavo contemplarne l’interno

con aria assorta, nella speranza che qualche nuovo contenuto si fosse materializzato all’improvviso sui suoi ripiani, dall’ultima volta in cui ci aveva guardato dentro. Scendo la scala in silenzio, per non disturbarlo. Voglio fare due passi, lasciare un curriculum in un ristorante, andarmene da qualche parte. Ovunque. «Sono bloccato, non riesco a scrivere», annuncia dal solito posto al tavolo del soggiorno, alzando appena lo sguardo dallo schermo del computer. «Io non ho un agente e non riesco a trovare un lavoro», ribatto dalle scale. «Andiamo al cinema?» «Magari», dico, e lui chiude immediatamente il computer. Usciamo senza guardare il giornale o informarci sui film in programmazione. Il sole splende e le cime degli alberi di Prospect Park sono di nuovo verdi. Percorriamo Atlantic Avenue, le nostre scarpe da ginnastica che non fanno rumore sul marciapiede. La strada affollata davanti al cinema è un mondo a parte, rispetto al nostro quartiere assonnato: piena di pendolari che scendono da autobus e metro e gente che affolla i negozi. C’è soltanto un film che non è ancora incominciato: una commedia romantica con Cordelia Biscayne nella parte di una fotografa di matrimoni sfortunata in amore. «Capturing Kate?» leggo perplessa. «A quanto pare sa immortalare l’amore sulla pellicola fotografica, ma nella vita reale non riesce a mettere bene a fuoco», commenta in tono asciutto, leggendo la locandina accanto al botteghino. Di solito mi piacciono le sue commedie: sono sicuramente meglio dei film in cui difende con coraggio persone accusate ingiustamente o lotta con tenacia contro una malattia misteriosa. Questo titolo però mi suona falso, oggi. Nel film, Kate è combattuta tra due uomini: un affascinante, esperto commerciante d’arte di Manhattan, che la vuole rendere famosa e trascinarla in una vita di feste e mondanità, e un fotografo ancora più seducente, ma molto più gentile e modesto, che vorrebbe portarla con sé nei Paesi poveri del mondo per farne una fotoreporter. Sui titoli di coda, dopo che Kate ha scelto, in modo prevedibile, il ragazzo giusto, scorre un romantico montaggio delle foto che i protagonisti si sono scattati a vicenda in posti esotici. Non riesco a trattenere un sospiro, nella sala buia. Sulla strada del ritorno, ho il morale a terra. Ho mal di testa a causa della Coca light che ho tracannato e i miei occhi non si sono ancora abituati alla luce del sole. Dan sembra leggero, felice, dice che si è divertito. «Non riesco a credere che ti sia piaciuto», e rabbrividisco anche se non fa freddo. «Perché? Perché sono un maschio?» «No, perché era un film stupido. Non era nemmeno ben scritto.» «Al contrario, alcune battute erano piuttosto brillanti. Non c’è niente di più difficile da scrivere di una relazione sentimentale verosimile.» Cammina col viso rivolto al sole e le mani in tasca. «Ma non era verosimile per niente. Quel triangolo amoroso era così irreale! La protagonista è combattuta tra un coglione pieno di soldi e un bravo ragazzo che

sembra povero, ma che alla fine si rivela altrettanto ricco. Due ore di pellicola per raccontarlo agli spettatori? E questa assurdità del ‘triangolo amoroso’ mi dà profondamente sui nervi. Conosci qualcuno a cui sia capitato davvero? A me non è mai successo. Soprattutto di essere combattuta tra il ragazzo giusto interpretato dall’attore più famoso del momento e il ragazzo palesemente sbagliato interpretato dal secondo attore più famoso del momento. E poi, perché la protagonista deve sempre avere un’amica spiritosa? E perché ha sempre i capelli scuri?» «Be’, Franny, anche tu hai un’amica così, e si dà il caso che abbia i capelli scuri.» «Sbagliato. Sono io la sua amica spiritosa con i capelli scuri.» «Oh, te lo concedo. Potresti benissimo interpretare entrambi i ruoli. Ascolta, la storia d’amore, in questi film, non ha lo scopo di tenerti in sospeso fino alla fine. È un espediente, il pretesto per mostrare lati diversi della protagonista, i suoi conflitti. Un modo per rappresentare in forma drammatica le sue lotte interne. Le persone si immedesimano. Questi schemi narrativi vengono utilizzati perché la maggior parte della gente li ha vissuti in prima persona e ne coglie il senso.» «Be’, io non li ho mai vissuti. Poi, perché sempre un triangolo? Perché non un quadrato, o un ottagono? Mi sembra molto più realistico.» «Hai vissuto un ottagono amoroso?» «No, ma sai, se non stai insieme con qualcuno che ami davvero, è molto più complicato di uno stupido triangolo. Il problema non è essere tentati da un’altra persona. Ci sono centinaia di persone per cui potrei provare qualcosa. O trovi la tua anima gemella, oppure sono moltissimi gli uomini che potrebbero essere quelli giusti, se solo li avessi conosciuti in un altro momento, o se loro non provassero ancora qualcosa per la loro ex, o altro ancora. È soprattutto una questione di tempistiche. Io ho una relazione soddisfacente, ma incontro almeno tre uomini ogni giorno con cui vorrei uscire.» «Tre? E la chiami una relazione soddisfacente?» Dan sorride, e questo mi innervosisce ancora di più. «Stai travisando le mie parole. Non voglio dire che mi innamoro del primo sconosciuto che incontro, ma ci penso e mi chiedo chi potrebbe essere; sarà il ragazzo che incrocio nella metro? O magari…» Dan mi guarda in attesa, le parole però mi muoiono sulle labbra, perché mi rendo conto che forse non stiamo parlando soltanto del film. Non mi arrendo, decisa ad affermare la mia idea. «Poi c’è anche il lavoro: insomma, è tutta la mia vita, quindi forse non riesco a essere obiettiva… E comunque, è facilissimo cadere in un ottagono amoroso.» Mi fermo di colpo in mezzo al marciapiede e a momenti una vecchietta con il trolley pieno di spesa mi viene addosso. «Mi scusi», le dico sconvolta. «Comunque, non stavo parlando di noi.» Dan mi guarda incuriosito e si ferma. «Non l’ho mai detto.» «No. Giusto. Lo so. Nemmeno io. Stavo soltanto cercando di spiegare quanto sia ridicolo il concetto di triangolo.» «Capisco.» «Affermando che esistono anche altre forme di relazione amorosa.»

«Mmm», annuisce. «Altre forme. Altre forme di sentimenti», ripeto come un’idiota, come se ciò potesse ribadire il concetto. «Ma non hai mai vissuto un triangolo amoroso.» «No, mai.» «Non hai mai provato sentimenti per due persone contemporaneamente, non ti sei mai sentita confusa?» «No», affermo senza guardarlo negli occhi. «Ti va di parlare di quello che è successo al matrimonio?» mi chiede Dan dolcemente, dopo una pausa. «No. Perché? Cosa c’è da dire?» «Ti ho preso la mano e a quanto pare ti ha turbato.» «Oddio, non ci avevo neppure pensato.» «No? E non hai mai pensato neppure alla serata da Sardi’s?» «No, mai, no davvero. Mi sarà venuta una crisi d’ansia, al matrimonio, non saprei.» «Già. Hai incominciato a sudare.» «Davvero?» «E a tremare?» «Be’…» «Perché ti ho preso per mano.» «Sì, cioè, no. Per quello che significava, immagino.» «C’è qualcosa tra di noi, non credi?» «Non lo so…» replico, allontanandomi inconsciamente di qualche passo. «Be’, io provo qualcosa. Decisamente. E ci penso da… Attenta alla buca delle lettere!» «Possiamo smettere di parlarne?» ribatto, girandomi appena in tempo per evitare il cassonetto di metallo; poi incomincio a camminare spedita, cercando di allontanarmi da lui. «Anch’io lo ignoro», continua Dan alle mie spalle. «Volevo dirti solo questo. Non so nemmeno io cosa significhi.» Le parole di Dan mi costringono a fermarmi. Ma c’è anche qualcos’altro di particolare, che mi paralizza. La delusione. Sono delusa di sapere che anche Dan ha le idee confuse su ciò che è successo: o che non è successo. Chissà perché, ma non me lo aspettavo. Mi giro e torno lentamente sui miei passi. «Insomma», confessa Dan guardandosi timidamente la punta dei piedi, «sto ancora cercando di metabolizzare il fatto che fino a poco tempo fa ero fidanzato. E non riesco più a lavorare, non ci riesco, e mi sento come se…» «Dan», lo interrompo puntando i piedi, con una strana sfumatura sarcastica nella voce. «Ti prego. Non mi devi alcuna spiegazione. In fondo, sono fidanzata.» Dan arrossisce leggermente, forse a causa del mio tono. «Davvero? Un tizio che non ho mai conosciuto anche se abito con te, che ti telefona per dirti di andare a casa sua a tarda sera? È quello, il tuo fidanzato?» E anche se James non ha mai usato quel termine e io non l’ho mai chiamato in

quel modo, l’insinuazione di Dan non mi piace. «Sì», ribadisco con tutta la sicurezza che riesco a raccogliere. «Franny, se questo fosse il film della tua vita e ti trovassi in un triangolo amoroso (alquanto impossibile, considerate le tue validissime teorie sulle forme) te la sentiresti davvero di affermare che è lui il ragazzo che sceglierà la nostra protagonista? Puoi davvero dire che è quello giusto?» «Perché stai paragonando la mia vita a un film, adesso?» «Facevo soltanto un’ipotesi.» «E chi andrebbe a vedere un film del genere? Non succede mai niente. Come potrebbero intitolarlo? Mance a New York? Giovani, carine e disoccupate? Mamma ho perso Joe Melville?» «Magari mi sbaglio. Ma forse quello che ti ha infastidito del film è che hai riconosciuto qualcosa di te in quello che ti ostini a definire un luogo comune inverosimile.» Dan non lo fa apposta, non è una persona meschina, ma le sue parole colpiscono dove fa più male. Ancora peggio, in questa discussione, è che non possiamo metterci una pietra sopra e archiviarla per sempre, visto che dobbiamo entrambi tornare nello stesso appartamento. Vorrei tanto arrivare a casa e raccontare al mio coinquilino di questo strano pomeriggio che ho trascorso con un ragazzo che conosco e di come mi ha insultato con le sue improbabili supposizioni. Non posso: quel ragazzo e il mio coinquilino sono la stessa persona. Non ci resta che camminare in silenzio. Che disastro. Forse dovrei andarmene. Strano che non ci abbia ancora pensato. Forse perché di solito sono contenta di trovarlo sul divano, con la birra in precario equilibrio tra le gambe, e guardare la TV insieme con lui. E se mi trasferissi? Sono sicura che Jane e io non ci perderemmo di vista. Sarebbe difficile trovare una casa nuova, altrettanto spaziosa e relativamente poco costosa, ma non posso più aspettare. È tutto troppo complicato. Come sarebbe, se non vivessi più nel nostro appartamento? Mi mancherebbe, quella casa. Mi mancherebbe la luce che inonda la mia stanza al mattino, la vista dei tetti degli altri appartamenti, Frank, il nostro vicino, con i suoi rituali, un giorno dopo l’altro, i bellissimi pavimenti in legno che annunciano chi sta salendo le scale, scricchiolando in modo diverso a seconda del peso e dell’umore della persona. E lo ammetto, mi mancherebbe anche Dan. Mi piace guardare Law & Order con lui, anche se indovina sempre il colpevole rovinandomi il finale. Mi mancherebbero le sue spiegazioni contorte sulla scelta di quella particolare inquadratura. Mi mancherebbero i suoi commenti su un dialogo che trova particolarmente poetico. Ho imparato molto, osservando attraverso i suoi occhi. Ma i sentimenti che provo per lui mi confondono, e doverlo vedere sempre non mi aiuterà a fare chiarezza. Che riesca a sfondare entro il periodo di tempo che mi sono concessa, o che decida di lasciare New York, devo affrontare il fatto che vivere sotto lo stesso tetto con Dan è diventato alquanto difficile.

Immagino che dovrei trasferirmi.

27

«CI sono tre nuovi messaggi.» Biiip. «Ehi, sono Deena. Mi hanno preso per Law & Order. È questa settimana. Dimmi in bocca al lupo! Ci vediamo a lezione, tesoro.» Biiip. «Salve, chiamo dall’ufficio di Dave O’Brien, per Kevin e Kathy. Volevamo soltanto farle sapere che la puntata andrà in onda martedì prossimo alle 20.30. Abbiamo cercato di contattare la sua agenzia, ma, be’… comunque, era solo per farle sapere.» Biiip. «Ciao, tesoro. Non vedo l’ora di vederti. Ti manderò un fattorino con i vestiti e il pass. Fatti trovare pronta alle 18.30, ti passerà a prendere un’auto, d’accordo? La proiezione è alle 19.00, sii puntuale.» Biiip. James è tornato a New York e i miei dubbi si sono sciolti come neve al sole. Era abbronzato, a dimostrazione dei giorni trascorsi a lavorare nel deserto, ed era più irresistibile che mai. Però il suo messaggio mi aveva confuso. Credevo che ci andassimo insieme, alla prima del film. «Mi passerà a prendere un’auto?» gli chiedo quando mi risponde al telefono. «Intendi un’auto a noleggio?» «No. Un’auto con un autista. Per portarti qui.» «Vuoi dire una limousine?» «Be’, non proprio. Una berlina. Va bene lo stesso?» «Certo! Cioè, non ho mai… Ma tu dove sarai?» «Noi del cast dobbiamo andare prima. Ci vediamo in fondo al red carpet.» Muoio dalla curiosità, ma non ho intenzione di chiedergli come farò a capire dove inizia o dove comincia il red carpet. Me lo figuro come il vortice da cui escono Dorothy e Toto per incamminarsi lungo la strada di mattoni gialli. Immagino un comitato di accoglienza di piccoli Munchkin e Glinda, la strega buona, che mi aiuterà a trovare la strada. «Va bene, perfetto», gli rispondo, cercando di sembrare più sicura di quanto non sia in realtà.

Quel pomeriggio, un fattorino arriva con una borsa porta abiti. Dentro ci sono due meravigliosi abiti da cocktail, entrambi con l’etichetta ancora attaccata. «Li ha comprati per te?» mi domanda Jane, colpita. «Be’, sì, però devo sceglierne soltanto uno.» «Sono abiti griffati», commenta sfiorando il tessuto di raso. «Quale dovrei mettere, secondo te?» «Be’, devo vederteli indosso, ovviamente», replica piegando la testa di lato con piglio da professionista. «Di primo acchito, direi che con quello nero vai sul sicuro, ma con quello verde diventerai un’icona.» Dopo averli provati entrambi una decina di volte davanti allo specchio del bagno, decido di indossare quello verde con la scollatura vertiginosa. Metto i tacchi più alti che ho, bellissimi da guardare ma quasi impossibili da portare, ed entro nella stanza di Jane con una mano sul fianco e un piede davanti all’altro, come una modella. «Ho deciso che voglio essere un’icona.» «Sono così orgogliosa di te!» strilla. Mi trucco in modo più accentuato del solito e Jane mi aiuta a raccogliere i capelli con una miriade di forcine. Studio la mia immagine riflessa allo specchio. James resterà senza fiato, penso orgogliosa. Scendo con grazia la scala, ai piedi della quale mi aspettano Jane e Dan, raggianti come se partecipassi a un ballo scolastico. Mi avvicino e lui arrossisce e si lascia andare a un lungo fischio di apprezzamento. «Caspita», mormora con voce roca. Jane annuisce soddisfatta col fare di un’esperta. «Divina.» Poi lo chignon incomincia a cedere sulla nuca e Jane mi riporta in bagno per piantarmi in testa altre forcine. Sento l’autista suonare il citofono e mi precipito all’ingresso col cuore in gola, poi non trovo più il rossetto così mi tolgo le scarpe e corro di sopra, dopo lo recupero da sotto il lavandino del bagno. Scendo di nuovo e mi fermo un istante in cucina, dove infilo le scarpe e cerco di riprendere fiato. «Hai dei soldi?» mi chiede Dan. «Per la mancia all’autista.» «Merda! Mi sono dimenticata», esclamo, sentendomi già fuori luogo nel ruolo di attrice invitata a una prima. Lui sfila un biglietto da dieci e uno da venti dal portafogli e li mette nella mia borsetta. Vederlo lottare con la chiusura della minuscola borsetta di seta, la stessa che ho preso in prestito da Jane per il matrimonio di Katie, mi commuove, e per un istante vorrei restare a casa a guardare la TV insieme con lui, invece di tuffarmi nel misterioso mondo delle prime. Devo fare altri tre viaggi al piano di sopra per recuperare la cipria, cambiare il reggiseno («Si vedono le spalline, mettine uno nero», mi suggerisce Jane) e dare un’ultima controllata al trucco e ai capelli. Finalmente, mi fermo sulla soglia con un ta-daa e Dan e Jane mi salutano con un applauso. Scendo le scale un po’ incerta sui tacchi, tenendomi stretta alla balaustra, e trovo davanti a casa la berlina nera tirata a lucido, con l’autista che mi sta aspettando accanto alla portiera aperta. Esito un istante e guardo a destra e a sinistra, sperando che i vicini mi vedano, ma

c’è soltanto un vecchio con un cagnolino in fondo all’isolato e salgo in auto inosservata. L’autista si chiama Benny, e mi chiede che musica voglio ascoltare. «Non importa. Quello che preferisce.» Si sintonizza su un canale che trasmette vecchi brani dei Carpenters e per dieci minuti mi incanto a guardare fuori dal finestrino, godendomi la musica e la sensazione di freschezza e morbidezza dei sedili in pelle nera. Vado a una prima. Mi sento bella e sicura di me, come Diane Keaton o Meryl Streep alla prima di un loro film, circondate da amici e fan. Un giorno, forse… L’auto scivola dolcemente, lontana anni luce dal fracasso dei taxi. Dopo un po’ vedo un portacenere sul bracciolo del sedile e una scatola di fazzolettini, e alcune mentine nel vano portaoggetti. «Posso fumare, Benny?» «Certo, signora.» Ed è in quel momento che mi accorgo che la pochette sulle ginocchia non è affatto una borsetta, ma la mia agenda in pelle marrone. «Ops!» Devo aver posato la borsetta sul tavolino dell’ingresso mentre salutavo Jane e Dan, e nella fretta di uscire ho preso l’agenda al posto suo. «Se ha finito le sigarette, signora, posso offrirgliene una.» «Sì, grazie, io… le ho dimenticate», dico cercando di scacciare il senso di panico che si sta facendo largo nel petto. Benny mi porge una sigaretta al mentolo da un pacchetto spiegazzato che estrae dalla tasca interna della giacca e mi tiene l’accendino acceso senza togliere gli occhi dalla strada. Apro il finestrino ed espiro profondamente. Non ho la cipria. Non ho il rossetto. Non ho le chiavi di casa. Non ho denaro. Non ho l’invito alla proiezione. Inoltre, come faccio a tornare a casa? Probabilmente andremo da James, dopo la prima, ma se non lo trovo? All’improvviso il nostro programma sembra così inconsistente, e senza borsetta mi sento completamente disarmata per affrontare la serata. «Benny… mi accompagnerà anche a casa?» «No, signora. Soltanto all’evento.» «Oh», mormoro rassegnata. È troppo tardi per tornare indietro. Abbiamo già attraversato il ponte di Brooklyn e James si è raccomandato di essere puntuale. Devo trovarlo non appena arrivo. Stringo leggermente le labbra. Il rossetto c’è ancora, ma dovrò stare attenta a non toglierlo senza accorgermene. Cerco di tenerle leggermente dischiuse, ma così diventano secche. Ora ho mal di testa a causa dell’ansia, della sigaretta al mentolo e delle forcine. La prima si tiene allo Ziegfeld, dove sono stata una volta con Jane a vedere una

riedizione di Funny Girl. Ma mentre giriamo l’angolo sulla Sesta Avenue e imbocchiamo la Cinquantaquattresima Strada, stento a riconoscerlo. Anche se è buio, la facciata è così abbagliante che sembra illuminata dal sole. I marciapiedi davanti al teatro brulicano di gente, mentre l’altra parte della strada è stipata da una folla che saluta e scatta fotografie. Un’auto della polizia e due furgoni della TV stanno bloccando il traffico e un poliziotto con un fischietto dirotta le auto verso l’isolato vicino. «Non riesco ad avvicinarmi più di così, signora. Pensa di farcela, da qui?» «Sì, io… grazie.» Ma la mia voce è metallica, distante. Benny accosta e scende dall’auto. Per un attimo sono confusa, spero che abbia cambiato idea e abbia deciso di accompagnarmi fino all’ingresso. Ma poi fa il giro dell’auto e mi apre la portiera. Scendo, un po’ malferma sui tacchi alti. «Grazie mille, Benny. Ho dimenticato il… non ho…» Benny mi sorride e mi rivolge un cenno del capo. «Non si preoccupi, signora, le auguro una buona serata.» Mentre si allontana, mi avvio lungo il marciapiede. Ho percorso pochi metri, ma Benny e la buia intimità dell’auto mi sembrano già svaniti, inghiottiti dalla notte. Cerco di muovermi il più elegantemente possibile, anche se ho la sensazione di camminare in punta di piedi. Tengo la testa china e mi dirigo verso quella che spero sia l’entrata. Il red carpet sembra finire contro un cordone di velluto e una ragazza in abito nero, con una cartellina portablocco in una mano e un walkie-talkie nell’altra. Mi guardo intorno sperando di vedere James ma non c’è da nessuna parte. Esito un istante e guardo la ragazza che lascia passare alcune persone senza controllare il loro nome sull’elenco degli invitati. Forse non controllerà nemmeno il mio. Decido di superarla. Faccio finta di non vederla. Cerco di sembrare sicura, come se andassi di fretta, ma il mio tentativo mi si ritorce contro bruscamente quando il tacco si incastra nel tappeto e vado a sbattere contro la sua cartellina. «Ehi!» esclama, sorreggendomi. «Mi scusi», e subito mi sistemo il vestito cercando di sembrare disinvolta. «Posso aiutarla?» «Mi scusi. Sì. Sono… be’, un’ospite. Stasera…» «Va beeene», dice squadrandomi dalla testa ai piedi. «Posso vedere l’invito?» «Io non… Cioè, l’avevo, ma l’ho dimenticato a casa.» La ragazza sospira, come se si aspettasse quelle parole. «Insomma, con chi è?» «Con James Franklin», rispondo speranzosa. «James Franklin, l’attore?» domanda con palpabile diffidenza. «Io… sì.» «Cioè, è con lui?» insiste continuando a squadrarmi. «Sì, sono con lui, sì.» «Ma lui è già arrivato», obietta. «Lo so. Me l’ha detto. Mi sta aspettando dentro.» «La sta aspettando?»

Sono stanca di sentirla ripetere incredula ogni mia singola risposta, ma le mie frasi sembrano poco credibili persino a me. Perché non siamo venuti insieme? Perché sono lì da sola, sentendomi come un’imbucata a una festa? «Sì, mi sta aspettando.» Mi fissa ancora scettica. «Dunque, come ha detto che si chiama?» mi chiede. «Franny, cioè, Frances Banks.» Mentre cerca il mio nome sull’elenco, si avvicina una coppia. Con la coda dell’occhio, intuisco che sono famosi e felici, un uomo e una donna fatti l’uno per l’altra. «Ciao, Taylor!» esclama la voce squillante della donna famosa. Taylor alza lo sguardo dal portablocco e l’espressione diventa raggiante, come se le avessero appena comunicato che entrerà a far parte della squadra delle cheerleader. «Eeehiiiii!» esclama. «Ciao, Penny! Sei divina!» Capisco che è lei prima ancora di voltarmi, ma fino all’ultimo conservo nel cuore la tenue speranza di sbagliarmi; prego che non sia Penelope Schlotzsky (ora Penny De Palma) la ragazza meravigliosa che brilla di luce propria alle mie spalle, prego davvero non sia lei, ad assistere alla mia umiliazione. Ma quando mi giro, la prima cosa che mi balza agli occhi è il suo abito. Identico al mio. Penny De Palma e io indossiamo lo stesso vestito. Lei mi guarda sbalordita e batte le palpebre incredula, come se cercasse di togliere un pelo di ciglia dagli occhi. Poi, un istante dopo, sul suo viso torna il sorriso e si ricompone. «Franny!» mi saluta calorosamente. «Sembriamo gemelle! Hai un aspetto meraviglioso!» Mi rendo conto che sono una maschera di stupore e chiudo la bocca nel tentativo di darmi un contegno. «Grazie! Oh, anche tu sei splendida.» E lo è davvero. Il vestito le sta d’incanto e i lunghi capelli biondi spiccano sul verde brillante della seta. Porto una mano alla nuca, dove sento i bitorzoli di forcine e capelli, e prego di non averne una che sporge, in questo esatto istante. «Vi conoscete?» le chiede Taylor incredula. «Ciao, Frances, è un piacere vederti», dice Joe Melville, che spunta dal nulla. Non avevo ancora notato l’accompagnatore di Penny, visto che era girato di spalle a parlare con altri, e ora sono sicura di essere rossa come un peperone, perché mi sento in fiamme. Non potrebbe andare peggio. Non mi faranno entrare e verrò umiliata non solo davanti a Penny De Palma, ma anche davanti al mio ex agente. «Oh, ciao, Joe.» Adesso sembra che stia leggendo una favola per bambini ad alta voce. C’era una volta… Sono tentata di continuare, ma lui ha visto qualcuno che conosce e mi ha voltato di nuovo le spalle. «Con chi sei?» mi chiede Penny guardandosi intorno. «Sono… ecco, avevo appuntamento con James, ma ho dimenticato il pass perché ho preso l’agenda invece della borsetta e mi dispiace di avere il tuo stesso vestito, e credo proprio che tornerò a casa.» Mi aspetto uno sguardo pietoso, un sorriso imbarazzato, una frase di

circostanza. Ma Penny De Palma mi prende la mano e mi guarda negli occhi. «Che sciocchezze. Sei mia ospite.» Prende la mia agenda e la sbatte contro il petto di Joe Melville. «Tieni», gli dice, e mi fa passare accanto a Joe e Taylor e diverse altre persone che si accalcano nella speranza di intravedere qualche celebrità. Sul marciapiede di fronte al teatro sono ammassati i fotografi. Alcuni sono sicuramente su qualche alzata o gradinata, perché sono altissimi e disposti come sugli spalti di uno stadio. Mi nascondo in un angolo, mentre Penny si mette in posa davanti a loro. I flash incominciano a scattare come enormi fuochi d’artificio bianchi nel cielo. «Penny! Penny! Penny! Penny! Penny! Penny!» Urlano come se fosse lontanissima, ripetono il suo nome in preda all’isteria, ostinati. Sembrano quasi arrabbiati, come se fossero delusi, come se non fosse all’altezza delle loro aspettative. Lei si limita a sorridere e a salutarli come se fossero vecchi amici affettuosi e non gridassero come pazzi furiosi. Mi guarda e mi fa cenno di raggiungerla, e quando scuoto la testa mi prende per mano. «Avanti!» «Penny, aspetta… non so come…» «Girati di lato, altrimenti gli obiettivi ti appiattiranno», mi dice all’orecchio in modo che possa sentire. «Un piede davanti all’altro. Come me! Con i nostri vestiti potremmo finire nella pagina dei gossip!» E mi trascina nello spazio vuoto di fronte al muro di flash abbaglianti, dove è appesa un’enorme locandina del film. Mette una mano su un fianco e mi dice di fare lo stesso, come ballerine di fila. «Ragazzi», dice spostando i capelli su una spalla. «Io e la mia amica abbiamo deciso di indossare lo stesso vestito, stasera! Non siamo fuori di testa?» Cerco di non chiudere gli occhi e faccio del mio meglio per sorridere, ma ho le labbra che tremano, le ginocchia che vacillano. Penelope mi trascina davanti ai giornalisti, instancabile, e racconta a tutti perché siamo vestite allo stesso modo, arricchendo la storia di dettagli inventati, spiegando come mai abbiamo escogitato questo scherzo eccentrico e quanto ci siamo divertite. «La mia amica, Franny, e io, siamo completamente matte!» racconta a un giornalista di Entertainment! Entertainment! «Facciamo a gara a chi è più pazza!» «Ti stai divertendo?» mi chiede, mentre mi spinge verso un’altra intervista. «Io… credo di sì.» Le sono grata per l’aiuto, ma la verità è che non so se le ho detto la verità. «Non avevo idea… sei così famosa.» «Oh, quello?» liquida il mio commento con un gesto della mano. «Lo fanno con tutti. Sono i pubblicitari a dirgli il mio nome. Non sanno chi sono, non sanno nemmeno se sono qualcuno. Gridano e fanno le foto a chiunque, per sicurezza.» A Penny sembra non importare, ma io mi vergogno, all’idea di aver frainteso un altro elemento di questo mondo sconcertante. Il frastuono della folla aumenta e dietro di me sento i fotografi gridare: «Arturo, Arturo, Arturo!» Mi volto, ed eccolo, Arturo DeNucci, a pochi passi da me. Senza esitare, Penny si fa largo tra la folla che lo circonda e gli porge la mano.

«Arturo, piacere di conoscerti. Sono Penny De Palma. Ammiro moltissimo il tuo lavoro.» Arturo DeNucci sembra divertito e la fissa, continuando a stringerle la mano. «Penny?…» «De Palma», dice lei. «Come il regista.» «Sei italiana?» le chiede scettico. «No», risponde orgogliosa. «Sono di Tampa!» Più tardi, mentre Penny parla con un altro giornalista, si avvicina un uomo in giacca e cravatta dall’aria aggressiva. «Mi scusi», esordisce guardando Penny, esasperato. «Forse mi può aiutare… Ho Annelise Carson, qui, dovrebbe essere la prossima a parlare con E! E! ma quelli di Brad Jacobsen continuano a passarci davanti.» «Mi dispiace», rispondo, anche se non ho idea di cosa stia parlando. «Be’, magari può… Penny ha quasi finito…» «Oh, sì, credo di sì.» «Quindi, un attimo: siete insieme, vero? Vi ho visto chiacchierare.» «Mmm, siamo insieme, direi di sì.» «Mi scusi, sono sicuro di averla già vista, ma in questo momento ho un vuoto: è la sua agente, vero? O la sua manager?» Mi sorride, teso, e so che tornerà serio quando capirà che non posso aiutarlo e perché non conosco nessuno e sono l’ultima persona che può fare qualcosa per lui. «No, mi dispiace», gli dico. «Non sono nessuno.»

28

PENELOPE e io veniamo divise, quando l’uomo in giacca e cravatta spinge la sua cliente davanti a me in modo che venga intervistata. Faccio un cenno a Penny, per dirle che l’aspetterò all’interno, ma non mi vede e sono inghiottita dalla folla e trasportata dal fiume di persone. Chiunque cerca di avvicinarsi, superarmi, superare altri, andare davanti, arrivare primo, e non devo nemmeno sforzarmi, per muovermi. Poi lo vedo, davanti a me, in lontananza. So che è lui, anzi, lo riconosco dalla nuca, dal modo in cui i capelli si arricciano leggermente sul colletto della camicia azzurra. E alla vista di quel piccolo frammento di James, sono travolta dal sollievo. Lotto con tutte le mie forze per resistere alla corrente che mi spinge in avanti e finalmente mi faccio largo verso un piccolo varco, proprio dietro a James. Ma quando gli tamburello con le dita su una spalla per attirare la sua attenzione, non si volta. Picchietto un’altra volta, con più decisione. «…come dicevo ad Arturo, è il nostro lavoro, in qualità di artisti…» Sta parlando con un giornalista, si gira e mi vede. «Solo un istante», mi apostrofa in tono sgarbato, poi torna dal giornalista. «Come dicevo, sta tutto nel legame con la storia, con il mondo della storia e il messaggio…» Sono sicura che mi ha riconosciuta, anche se nei suoi occhi non c’era nulla del modo in cui mi guarda di solito. Non mi ha sorriso né fatto l’occhiolino; niente per farmi capire che è contento di vedermi. Non voglio attirare la sua attenzione di nuovo, ma ho paura che non lo troverò più, se entro in sala da sola. Così aspetto, a disagio, sentendomi completamente fuori luogo. Non so che fare né dove guardare, e allora mi concentro sulla sua testa, come se fosse la mia missione del giorno, come se James fosse una nuova specie animale che devo studiare. Urtata dalla folla, resisto. Sono uno scoglio nell’oceano, l’unica che non si muove. Non sono particolarmente affascinante per attirare gli sguardi, di sicuro non uno dei bellissimi pesci dai colori sgargianti che continuano a nuotarmi accanto, soltanto un ostacolo da superare velocemente. Occupo un po’ di spazio. Nient’altro. Finalmente James conclude l’intervista e si volta. «Dentro», avverte brusco, senza guardarmi. La ressa è aumentata ed entrare è ancora più difficile. Vedo l’ingresso davanti a noi, ma stiamo avanzando così lentamente, guadagnando pochi centimetri alla volta, che mi sembra una meta irraggiungibile. A un certo punto James e io

veniamo separati dalla folla, e mentre vengo trascinata via d’istinto allungo una mano e cerco le sue dita, perché non ho alcuna intenzione di perderlo di vista un’altra volta. Le nostre mani si sfiorano, ma prima che possa stringergli le dita mi allontana come se fossi un’ape sul punto di pungerlo; poi procede deciso, le mani saldamente lungo i fianchi, senza guardarsi indietro. La folla si riversa nella quiete relativa del teatro e ci ritroviamo nell’atrio come oggetti depositati dalla corrente sulla riva; mi guardo intorno, frastornata. Impiego qualche istante per abituarmi all’oscurità e cerco James, non vedo però nessuno o niente di familiare. «Franny?» dice qualcuno nel buio, alla mia sinistra. «Da questa parte.» Con mia sorpresa, James mi afferra e a momenti cado dai miei tacchi. Mi trascina dietro un angolo, dove c’è una fila di telefoni a gettoni, e mi bacia con passione, premendo il suo corpo contro il mio. Sul momento mi lascio trasportare, poi lo respingo. Non riesco nemmeno a respirare. «Perché… tu», balbetto. «Cazzo fai?» «Cosa?» «Si può sapere che ti è preso? Mi hai ignorato. Mi hai respinto.» «Oh, quello. Sì.» «Sì?» «Franny, siamo in pubblico.» «Lo so, ma sei stato tu a invitarmi.» «Sì. A vedere il film. È il mio lavoro.» «Ma… Pensavo che mi avessi invitato come tua ragazza.» «Sì. E infatti siamo qui. Perché sei la mia ragazza. Sei molto carina, a proposito.» «Penny De Palma ha lo stesso vestito. Ne hai comprato uno anche per lei?» «Davvero?» ribatte, per niente preoccupato. «Molto divertente. Non l’ho nemmeno scelto io: è stato uno dei miei assistenti personali.» «Oh», commento delusa, come se per qualche ragione quell’informazione rendesse la situazione ancora più deprimente. «Quindi come funziona? Posso stare qui con te, al buio, ma non posso… non ci possono vedere insieme?» «Be’, è meglio di no; voglio dire, non credo che sia una buona idea», mi spiega come se fosse ovvio. «Perché no?» «Franny, ne stai facendo una questione di Stato», continua accennando un sorriso. «È solo che siamo circondati da giornalisti. Il film avrà tantissime recensioni.» «Quindi?» «Non mi va che frughino nella mia vita privata.» «Per questo volevi che ci incontrassimo qui?» «Più o meno. Arturo voleva bere un drink con me, prima.» «Pensavo fosse un incontro con tutto il cast.» «Infatti. Io e Arturo ci siamo già visti.» «E non potevi portarmi con te?»

«No. Lui è molto geloso della sua privacy.» «Non capisco il bisogno improvviso di riservatezza. Perché ti importa? Cosa succede se lui viene a sapere (o chiunque altro) che hai una… una… Mi hai detto che mi ami.» «Infatti. Ma si tratta del nostro spazio.» Conto fino a dieci, cercando di calmarmi, perché sono sull’orlo di una crisi isterica. «Ma sei stato tu a portarmi qui. A questo evento pubblico. Mi hai invitato tu.» «Esatto. Sono venuto qui a promuovere il film. Fa parte del mio lavoro. Sono un attore.» «Ma sei anche una persona, quando reciti. Un attore che ha una vita privata…» «No, non… Be’, senti, immagino che a un certo punto, quando fai parte di un’affermata cerchia di… Senti, te la stai prendendo per una sciocchezza. Sei irragionevole. Davvero, è come se volessi che ti venissi incontro.» «Be’, non funziona così, tra due persone?» «In generale, forse, ma non stasera: è una serata speciale, per me. È la mia serata. Non sono sicuro che tu…» «Che io ti possa capire?» «Be’, no: insomma, come potresti?» Non riesco a dare un senso a questa conversazione. James non ha tutti i torti, ma sento che c’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di tremendamente sbagliato, nelle sue parole. Non mi interessa salutare e sorridere e farmi fotografare insieme con lui, non è per quello; è come se sentissi che lo sto mettendo a disagio, come se non fossi all’altezza. E all’improvviso voglio andare via di lì e riflettere, anche solo un secondo. «Scusa, devo andare in bagno.» «Franny, aspetta.» «Torno subito. Posso… sarai qui, o ci vediamo da qualche parte?» «Certo, ti aspetto qui», dice, poi esita. «Anche se, insomma, la proiezione incomincia tra cinque minuti. Forse è meglio che ti dia il biglietto, così ci vediamo dentro.» «D’accordo. Non voglio che tu ne perda nemmeno un secondo.» «L’ho già visto.» «Davvero?» «Sì, un paio di volte. Quando Arturo lo chiede, glielo fanno vedere.» «Oh.» Non so perché, ma questa informazione mi ferisce. Forse è soltanto perché James non mi rende più di tanto partecipe della sua vita. Alza le spalle. «Voglio soltanto vedere la reazione del pubblico.» «Oh.» «Ma sai cosa ti dico? Ti aspetto qui. Basta che ci metti pochi minuti.» «Va bene. Torno subito. Devo solo lavarmi le mani.» «D’accordo», acconsente con un sospiro, e vedo che sta cercando di non sembrare impaziente, mentre asseconda il mio improvviso impulso di avere le mani pulite.

Mentre percorro il corridoio, vengo travolta dalla vergogna. Qual è il problema? In fondo lo capisco, se non mi vuole portare a bere un drink con Arturo DeNucci. Probabilmente mi sarei sentita così intimidita e in soggezione che li avrei fatti sentire entrambi a disagio. Non avrei saputo che comportamento tenere al loro cospetto; come al solito, del resto. Ne sto facendo una questione di Stato, costringendo James ad aspettarmi accanto a una fila di telefoni in modo che mi possa lavare le mani, quando avrebbe già dovuto prender posto in sala. Così decido che ci metterò un minuto e mi darò una calmata, e quando uscirò dal bagno sarò un’altra persona: mi trasformerò in qualcuno che ha accettato la perdita della borsetta e l’idea di indossare lo stesso vestito di qualcun’altra. Come Clark Kent che si trasforma in Superman, anche se lui aveva una cabina telefonica in cui cambiarsi, mentre io ho la toilette dello Ziegfeld. Oh, che importa. Da qualche parte bisogna pur cominciare. Dov’è che l’ho già sentito? Le persone non fanno che ripeterlo: Da qualche parte bisogna pur cominciare, ma ora questa frase mi riporta alla mente un’immagine ben precisa, anche se non riesco a metterla a fuoco. Poi, all’improvviso, ho un’illuminazione: Barney Sparks! Quel giorno nel suo ufficio, quando continuava a citare suo padre: tutte quelle frasi fatte, ma dette con tanto orgoglio e rispetto da sembrare profonde. Perché non ho firmato con lui, quel giorno? Perché non ho aspettato di prendere una decisione, almeno, anche dopo aver ottenuto la parte in Kevin e Kathy? Ero così disperata quando ho conosciuto Joe Melville della Absolute Artists, così insicura e desiderosa di piacergli! Ora non riesco nemmeno a immaginarla, la ragazza che ha preferito l’impenetrabile, roseo Joe Melville, a Barney Sparks. Non sono più la stessa. Oggi, sceglierei la persona capace di trasmettermi la sua passione, non quella che mi lascia indifferente. Apro la porta del bagno delle signore e vengo travolta da un’ondata di profumo. Entro in un antibagno rétro tappezzato di moquette rosa, con le pareti rivestite da grandi specchi, dove tre ragazze dalle gambe lunghissime, fasciate da abiti minuscoli, si stanno ritoccando il trucco. «Sbrighiamoci, dài», dice una. Ma le altre due, ipnotizzate dalla loro immagine riflessa, non si muovono. Nella seconda stanza, dove ci sono i lavandini e le toilette, mi lavo le mani per giustificare il fatto di essere lì, come se James potesse vedermi. Mi guardo allo specchio. Il rossetto è andato via quasi completamente, eccetto una linea rossa che mi disegna in modo grottesco il contorno delle labbra. L’eyeliner è sbavato, lasciandomi due cerchi sotto gli occhi; ho un’aria trasandata che non mi appartiene, sembra che un bambino indisciplinato mi abbia colorato il viso senza riuscire a stare dentro i contorni. Prendo una salvietta umida e la passo sulle labbra, poi tampono gli occhi, nel tentativo di tornare a un aspetto riconoscibile. «Meno male! Finalmente!» Penelope sbuca fuori dall’ultima toilette in fondo, i tacchi che echeggiano sul pavimento; si ferma davanti al lavandino accanto al mio e si dà un’occhiata veloce allo specchio. «Aargh!» esclama, come se fosse di fronte a un disastro completo, poi fruga nella borsetta rosa e tira fuori cipria e rossetto, nonostante il trucco sembri essere appena stato rifatto.

«Speravo di trovarti! Tieni», mi dice porgendomi l’agenda. «Oh, grazie», replico accarezzando la copertina consunta. «L’hai trovato?» mi chiede. «James?» «Sì, l’ho trovato. Mi… mi sta aspettando. Non dovresti essere già in sala?» «Io? Nooo. Non guarderò il film.» «No?» «Non lo faccio quasi mai. La solita trafila, poi passo all’evento successivo.» «Trafila?» «Sì. I giornalisti. Vengo soltanto per le foto e le interviste.» «Oh!» esclamo sconcertata. Non mi verrebbe mai in mente di andare al cinema per non guardare un film. «Inoltre, niente di personale, visto che sono felicissima per te, ti confesso che sono ancora un po’ a disagio, con James. Mi sono sentita insultata, senza offesa.» «A causa della soap, vuoi dire?» «La soap?» «Credo che, be’, che abbia detto che avrebbe inaridito il tuo talento e…» «Oddio, no», dice alzando gli occhi. «Non è buffo? Si prende sempre sul serio. Come se avessi bisogno di sentirlo dire da lui, che è spazzatura. Non avrei mai firmato un contratto capestro: era solo per racimolare un po’ di denaro. Mi devo trasferire a Los Angeles per girare Diamonds are for Heather.» «Oh… E sarebbe…» «Solo un film. Interpreto la sorellina di Cordelia Biscayne. La solita parte dell’amica del cuore spiritosa!» Ride, poi scuote la tesa. «No, mi sono sentita insultata perché mi voleva regalare un paio di tette nuove.» Sto diventando rossa, ma Penny sembra non accorgersi di niente. Continua a incipriare allegramente i suoi difetti inesistenti. «Ma tu… sei perfetta», farfuglio. «Come?» dice voltandosi verso di me e rivolgendomi un sorriso abbagliante. «Non mi pare, ma sei gentile a dirlo. Cioè, so benissimo che è diventata un’epidemia e che le ragazze si rifanno il seno come se fosse un taglio di capelli nuovo, e in linea di principio non sono contraria. Però ho un lavoro e guadagno più di lui: se deciderò di farlo, posso benissimo pagarmelo da sola!» Nemmeno se avessi frequentato tutte le lezioni di recitazione del mondo, avrei mai imparato quel che ho imparato in una sera con Penelope Schlotszky sul mestiere dell’attore. Come per esempio che davanti a un obiettivo bisogna dare il profilo migliore, che le pagine di gossip sono un trampolino di lancio, e che le bionde dalle proporzioni perfette possono benissimo essere ingaggiate per interpretare il ruolo dell’amica spiritosa. Chissà cos’altro potrebbe insegnarmi, oltre al fatto che l’idea di autenticità di James Franklin è legata a un concetto di perfezione completamente finto. Penelope agita la chioma lucente, che ricade su una spalla. «Non fare caso a quello che ho detto!» esclama chiudendo il portacipria con uno schiocco. «Ti capisco perfettamente: è un ragazzo bellissimo e molto sexy. Non voglio fare la guastafeste!»

«Non preoccuparti; e comunque non so se funzionerà, tra noi», affermo sicura di me, anche se è un pensiero che è nato soltanto pochi secondi fa. Dirlo ad alta voce mi fa sentire forte, cancellando un po’ dell’amarezza di stasera. «Volevo che funzionasse, ma da qualche parte, in fondo al cuore, ho sempre saputo che non poteva andare, non so se mi capisci.» «Altroché», risponde guardandomi comprensiva. «Come quando Julia Roberts ha sposato Lyle Lovett.» «Sì. Più o meno.»

29

SUPERO le tre ragazze, che si stanno ancora ritoccando il trucco allo specchio dell’antibagno, e mi accorgo che sono giovanissime. È strano perché, quando sono entrata in bagno, non avevo notato la differenza di età, ma ora mi sento più vecchia, e più saggia. So più cose di quante ne sapevo solo pochi minuti fa, prima di entrare. Sono sicura, per esempio, che non troverò James ad aspettarmi nell’atrio. Se n’è andato quasi subito, non appena sono andata a lavarmi le mani. So che non ha aspettato un solo istante, figuriamoci cinque minuti, prima di andare a sedersi al suo posto, e una rapida occhiata in quella direzione mi dice che non mi sbaglio. So anche che non guarderò il film e non cercherò James per dirgli che sto andando via. Non ho ancora detto al tassista, che lentamente procede nel traffico, che non ho un centesimo nel portafogli, anzi, che non ho nemmeno il portafogli. Avevo pensato di saltare il tornello della metro tra la Quarantasettesima e la Sesta Avenue, ma anche se fossi riuscita a placare i miei sensi di colpa non avrei mai potuto portare a termine il mio piano criminoso con quel vestito addosso. Stranamente, non mi preoccupa la reazione di James quando si accorgerà che non andrò a sedermi accanto a lui, ma come farò a pagare l’abito che mi ha comprato. Per ora, mi rifiuto di pensarci. Non ho voglia di pensare al vestito né di parlargli, o di vederlo a lezione. Voglio solo tornare a casa. Mentre il taxi percorre il ponte, ne fisso le luci, una fila di lampadine bianche unite insieme come perle, e incomincio a contarle: una, due, tre… finché gli occhi non cominciano a lacrimare, a furia di tenerli aperti. Quando abbasso di nuovo la testa, non riesco a mettere a fuoco e i fanali delle auto davanti a noi si mescolano in una serie confusa di scintillanti palloncini rossi. Poi vedo che c’è un palloncino, un unico palloncino rosso che galleggia davanti al cofano, sfiorando appena il parabrezza, prima che il vento lo spazzi via spingendolo in alto, e fuori dal nostro campo visivo. «L’ha visto?» chiede il tassista alla mia immagine riflessa nello specchietto. «Sì.» «Come ha fatto a fare tutta questa strada senza scoppiare?» «Non lo so», dico allungando il collo per vederlo un’ultima volta. Otto giorni, a partire da ora, penso mentre sfioro distratta la copertina in pelle

della mia agenda e noto che le cuciture sui bordi si stanno rompendo. Non l’ho mai detto ad alta voce, ma so che mancano soltanto otto giorni e in mano ho soltanto un quaderno pieno di scarabocchi e liste di cose che ho mangiato, film che ho visto, due giorni con la scritta «riprese», il matrimonio di Katie Finnegan, quando ho posato la testa sulla spalla di Dan e mi sono sentita felice, ma poi lui mi ha preso per mano e sono stata travolta dal panico. La data è vicina e non è certo un compito difficile capire se ho raggiunto i miei obiettivi: non ho un agente, non ho un lavoro, e da stasera nemmeno un ragazzo: ammesso che una persona che ti dice «Ti amo» ma ti ignora in pubblico possa definirsi tale. Come ho fatto ad andare così lontano senza esplodere? Mentre il taxi si ferma accanto al nostro palazzo, fingo di essermi appena accorta di avere pochi soldi. «Torno subito», cerco di rassicurarlo, ma il tassista non sembra convinto. «L’ho sempre detto che non dovrei mai venire a Brooklyn», sospira, colpendo in modo melodrammatico il volante con entrambe le mani. Mi precipito su per le scale, scalza, tenendo le scarpe per i tacchi e l’agenda sotto un braccio. La porta è socchiusa e vedo Dan, al tavolo del soggiorno, gli occhi nascosti dai capelli, chino sul computer. Non credo di aver mai contemplato niente di così rassicurante. «Stai scrivendo!» Mi guarda, sorpreso. «Oh, ciao. Sì. Non appena sei uscita mi è venuta l’ispirazione.» «Sono contenta che la mia assenza abbia stimolato la tua creatività.» «Non intendevo quello», ribatte serio. «Anzi, direi che è il contrario. Penso proprio che…» «Che?» «Non fraintendermi. Non voglio spaventarti. Ma sto scrivendo per te.» «Mi è spuntata una seconda testa da qualche parte?» «Ah. Ah. Sto provando a scrivere qualcosa di diverso. Senza mostri o strane creature, soltanto persone.» «E perché dovrei spaventarmi?» «Be’, ultimamente lo faccio spesso.» «Solo quando sei gentile con me.» «O affettuoso.» «Be’ certo. Chi può mai desiderare gentilezza o affetto?» «Esatto», dice con un cenno del capo. «Quindi spero che lo prenderai (qualunque cosa diventi) come un semplice gesto di rispetto professionale. Nient’altro.» «Questo posso accettarlo. Sono molto più a mio agio con le tue opinioni professionali.» «Bene. Intesi, allora. Ti stimo unicamente come attrice. Come persona, non ho alcuna opinione sul tuo conto.» «Sono sollevata», replico con un sorriso ebete. Alcuni furiosi colpi di clacson mi ricordano il taxi che mi sta aspettando. Prendo la borsetta, la mia vera borsetta, questa volta, e scendo le scale a piedi nudi. Pago

il tassista e gli allungo una mancia generosa, sia perché mi sento in colpa per essermi dimenticata di lui, sia perché sono stranamente euforica all’idea di essere a casa. Si allontana, ma resto a guardarlo un istante sulla soglia, ascoltando gli alberi frusciare lungo l’Ottava Avenue, assaporando l’aria primaverile sul viso e il cemento fresco sotto i piedi. Da quando sono andata via dal cinema, ho il cervello avvolto dalla nebbia: è successo troppo in fretta. Ma la nebbia si sta diradando e i fatti della serata stanno incominciando a depositarsi dentro di me, freddi e pungenti. Ho un groppo in gola, pensando alla poltrona vuota accanto a James, al vestito che non posso permettermi e agli ultimi giorni prima della mia scadenza. Il sollievo momentaneo di essere a casa è svanito, i miei passi sono pesanti e lenti, mentre torno in casa, e anche se la vista di Dan al suo solito posto è rassicurante non riesco a ignorare il dolore che ho alla bocca dello stomaco. Non ho un lavoro. Non ho prospettive. Non ho un ragazzo. Lascio cadere la borsetta con un tonfo sul tavolino dell’ingresso e Dan mi guarda e piega la testa di lato. «Allora?» mi chiede dopo un istante, appoggiandosi allo schienale della sedia e stirando le lunghe braccia. «Allora cosa?» «Com’è andata?» «Bene.» «E come mai sei già a casa?» Sospiro e mi lascio cadere sul divano, cambiando la posizione della testa sul cuscino finché le forcine conficcate tra i capelli non smettono di farmi male. «Be’, mi è successa una cosa buffa mentre andavo in bagno.» Alzo lo sguardo al soffitto, perché non voglio che Dan si accorga che la mia espressione non combacia con il tono spensierato del mio commento. C’è qualcosa che mi calma in quella superficie bianca dove lascio vagare il mio sguardo. Credo che continuerò per sempre. È molto più semplice parlare con le persone, in questo modo. «Non sei svenuta, vero?» «No, non sono svenuta. Perché avrei dovuto?» «Scherzavo. Mi hai fatto venire in mente quello che… è quello che succede nel racconto di J.D. Salinger, Franny e Zooey. Lo conosci? Durante un appuntamento con un ragazzo, lei si sente male e sviene mentre sta andando in bagno.» Devo rimangiarmi il mio proposito di fissare il soffitto per sempre. Devo posare i piedi sul pavimento, sedermi composta e guardarlo negli occhi, perché non posso credere che stia parlando proprio di questo. «Sono io.» «Tu?» «Sono io, quella Franny. Cioè, non proprio, ma mia madre mi ha dato questo nome in omaggio a lei. Non te l’ho mai raccontato?» Scuote la testa. «No.» «Sicuro?» «Me ne ricorderei. Salinger è uno dei miei preferiti. Avrò letto quei racconti

cento volte.» «Io solo una, dopo che mamma è morta. Non l’ho capito. Non ho capito perché mi avesse dato il nome di un personaggio che vuole piacere a un ragazzo frivolo e poi si agita così tanto che fuma troppo e non mangia e sviene mentre sta andando in bagno. Per non parlare del fatto che è un racconto. Non poteva darmi almeno il nome della protagonista di un romanzo?» Mentre parlo, tolgo distrattamente le forcine dai capelli, così le ciocche mi cadono davanti agli occhi come se le avessi liberate da una lunga prigionia. Devo avere un aspetto orribile, ma non mi importa, perché mi fanno male e voglio liberarmene. «Avevi undici anni quando lei è…» Annuisco, ma la serata disastrosa, unita a Dan e alla storia dell’origine del mio nome di battesimo fanno affiorare le lacrime. Non voglio piangere, perciò mi concentro intensamente sulle forcine, e le dispongo sul tavolino come soldati pronti per essere passati in rassegna. «Be’, penso che ci troveresti molto più senso ora. Franny, la protagonista, sta cercando di essere autentica in un mondo di persone che non fanno altro che vantarsi della propria autenticità e invece sono soltanto un mucchio di ipocriti.» Dan ha il mento sollevato, quindi vedo i suoi occhi che brillano come quando parla di un regista che adora. «Un po’ come te, non credi?» Penso a James, al fatto che abbia usato la parola «autentico» per descrivere qualsiasi cosa: da Arturo e i suoi capricci di attore, alla caffetteria cubana che non mi è mai piaciuta. Sento una morsa al petto e fatico a respirare. So esattamente cosa intende Dan. Annuisco, ma continuo a tenere la testa bassa, sistemando le mie truppe di forcine. «Anche lei vuole fare l’attrice: te lo ricordi?» Scuoto la testa, sopraffatta dall’infelicità. Ricordo soltanto quanto ho sofferto, leggendo il racconto quella prima e ultima volta, mentre cercavo un indizio, un messaggio da parte di mia madre, qualcosa che avesse lasciato per me, qualche frammento di lei, tra le sue pagine. Ma non ero riuscita a trovare nulla. Lancio un’occhiata furtiva a Dan e lui mi sorride, un po’ distante. Sembra concentrato e completamente perso nel suo mondo, come se ci tenesse a far combaciare perfettamente ogni tessera della storia. «Recita in una compagnia teatrale, te lo ricordi? Poi però getta la spugna. Abbandona la recitazione perché la ama con tutta se stessa. Per lei è molto importante e non vuole recitare per il motivo sbagliato, per alimentare il suo ego. Si vergogna per il solo fatto di aver voluto distinguersi dagli altri, per ‘non avere il coraggio di essere nessuno’. Ho sempre amato quella frase.» Annuisco di nuovo, ma ora sto tirando su col naso e ho gli occhi così gonfi di lacrime che non riesco più a trattenerle, e incomincio a piangere. Penso alle volte in cui ho voluto mollare perché non pensavo di essere all’altezza, a come mi sono sentita in colpa perché l’idea di una vita semplice e normale con Clark non mi sembrava abbastanza gratificante, e a quanti indizi ha lasciato mia madre per me, in quel racconto, a come sto imparando a capire soltanto adesso il loro significato.

«Poi c’è anche il libro che porta sempre con sé.» Annuisce, con aria molto seria. «Racconti di un pellegrino russo. Hai presente? È la parte più bella.» «Sì, più o meno. È quel libro mistico, vero? Non mi è molto chiaro il suo significato, però.» «Be’, sì, ma quello che dovrebbe essere l’autore del libro che sta leggendo Franny non sostiene un credo particolare. Sostiene che il solo atto di ripetere una semplice frase, la ripetizione in sé, può condurre all’illuminazione. Mi ha sempre colpito l’idea che la quantità possa diventare qualità. Io l’ho sempre interpretata così: se ti impegni a sufficienza e con continuità, alla fine qualcosa succederà, che tu lo voglia o no. Non devi avere fede quando incominci, devi soltanto dedicarti a farla come se ne avessi. Franny porta sempre il libro con sé per ricordare a se stessa cosa vuole.» Dan fa una pausa, e i suoi occhi si posano sulla mia Filofax. «Anche tu hai il tuo libro», dice con un cenno. «Questa?» gli chiedo prendendo l’agenda consumata tra le mani, cercando di immaginarla come una specie di libro mistico. «No. È completamente diversa. Questa dimostra soltanto che non ho combinato niente. Anzi, ne è la prova.» «Magari non sei ancora riuscita a raggiungere i tuoi obiettivi», continua Dan. «Ma la tua agenda ti mostra che hai continuato a riempire le pagine. La quantità diventa qualità, come dice il racconto. Non devi crederci per forza, al tuo successo. Devi soltanto stringere i denti e non mollare mai, come la Franny del racconto; andare avanti giorno dopo giorno, e qualcosa accadrà.» La teoria di Dan e il pensiero di non aver sprecato le mie giornate mi rincuorano, ma non è quella l’origine del calore che mi invade il petto, del minuscolo frammento di memoria che riaffiora dal passato. Mi sembra di sentire la presenza di mia madre, nella stanza. Cerco di trattenerla, di farla durare un po’ di più, ma è come destarsi da un sogno che svanisce al risveglio. Però sono contenta di averlo sentito, anche per così poco. Ora sono un disastro totale; ho il naso che cola e mi gira la testa; farei meglio a darmi una sistemata con una controllatina allo specchio del bagno. Cerco di alzarmi, ma il vestito è così stretto che non ci riesco, barcollo e mi lascio cadere di nuovo sul divano. Ricomincio a piangere. «Hai bisogno di un fazzolettino, Franny?» mi chiede Dan dolcemente, e annuisco tra un singhiozzo e l’altro. Lui si alza da tavola e un istante dopo torna con una quantità di carta igienica sufficiente a prosciugare un oceano e una birra gelata. Mi resta accanto, paziente, mentre mi asciugo gli occhi, mi soffio il naso e bevo un sorso di birra. «Posso farti vedere una cosa?» domanda una volta che ho ripreso a respirare normalmente. «Sì», dico. E lui mi prende per mano e mi aiuta ad alzarmi dal divano. Non mi lascia la mano, mentre mi guida dal soggiorno alla cucina, poi esita un istante prima di continuare verso la porta che conduce alla sua camera da letto. Devo reprimere un moto di fastidio, mentre scaccio il pensiero che Dan stia cercando di sedurmi, e proprio nel momento peggiore, quando niente ha un senso logico e sono sconvolta e vulnerabile. Ritraggo la mano.

«Ascolta, Dan, questo non è il…» «Franny, non preoccuparti. Non ho intenzione di… Guarda e basta.» «Non posso…Voglio tornare in…» «Guarda», insiste dolcemente indicando la finestra sopra il suo letto, quella che si affaccia sull’appartamento di Frank. Frank, il misterioso eremita le cui giornate scandite da azioni sempre uguali a volte usiamo per sapere che ore sono. All’inizio, sembra tutto come sempre. Saranno le nove, a giudicare dalla sagoma della sua schiena illuminata dal bagliore della televisione. «Non capi… oh!» Ho un sussulto, quando la vedo. C’è una donna, nell’appartamento. Entra nella stanza con due bicchieri di vino, che deve aver riempito in una cucina che non vediamo, ma che deve esistere. Porge a Frank un bicchiere e si siede accanto a lui, e adesso sono due le sagome illuminate dalla televisione, qualcosa che non ho mai visto negli ultimi tre anni. Dan e io li guardiamo in silenzio per un po’, anche se si limitano a sorseggiare il loro vino e a guardare la televisione. «Capisci, Franny?» dice Dan emozionato. «Non bisogna mai smettere di sperare.»

30

SONO passati sei mesi, ma il tempo sembra essersi fermato, nell’ufficio di Barney Sparks. Indossa la stessa giacca azzurra della prima volta e quando si colpisce il petto per tossire la polvere esplode in minuscoli fuochi di artificio illuminati dai raggi del sole pomeridiano, proprio come il giorno in cui l’ho conosciuto. Sono seduta da venti minuti nell’enorme poltrona bitorzoluta che mi rende impossibile stare dritta e, mentre beviamo una tazza di caffè leggerissimo («Non dovrei: se lo sa la signora Sparks, mi fa il culo»), sono riuscita ad aggiornarlo su quanto è successo dal giorno in cui sono salita per le scale scricchiolanti del suo ufficio. È uscito tutto di getto: la mia prima audizione, la firma sul contratto della Absolute di Joe Melville, il licenziamento dal locale e il catering, il film di zombie a cui ho rinunciato e l’abbandono da parte dell’agenzia. Gli ho raccontato anche della prima, di come ero emozionata e di come mi aveva deluso: anche se non gli avevo spiegato le infinite ragioni per cui quella sera era stata così dolorosa. «È un modo tremendo di vedere un film. Tutte quelle cerimonie. Le evito come la peste», mi aveva detto portando con mano malferma la tazza sbeccata alla bocca. E così, eravamo arrivati al giorno in cui lo avevo chiamato (la settimana precedente ) quando ero riuscita a fatica a farfugliare persino le informazioni più elementari: il mio nome e perché stavo chiamando. «Franny Banks. La mia imbranata preferita», aveva urlato allegramente al telefono quel giorno, poi mi aveva chiesto se volevo passare da lui venerdì alle 16.00. Ed eccoci qui, venerdì, ore 16.00: mi ritrovo sprofondata nella vecchia poltrona e mi domando, troppo spaventata per dirlo ad alta voce, se Barney Sparks vuole ancora essere il mio agente. «L’episodio di Kevin e Kathy dovrebbe andare in onda la prossima settimana», gli dico, cercando di non sembrare un’ingenua ottimista. «Potrebbe essere un… Pensa che potrebbe significare qualcosa, per me?» Barney si appoggia allo schienale della sedia, le giunture che cigolano in segno di protesta. «Il lato positivo», urla al soffitto, «è che si tratta del primo episodio ad andare in onda dopo tanto tempo, quindi avrà molta visibilità sulla stampa. Il lato negativo è che la serie è al suo nono anno e ha perso mordente, però non si può mai dire.»

«È che, insomma, mi ero data un periodo per raggiungere determinati obiettivi; ormai il tempo è scaduto e ho giurato che non sarei diventata una di quelle persone che si illudono tutta la vita, e mi chiedevo se magari sto prendendo in giro me stessa, credendo di essere…» Mi blocco, perché non riesco nemmeno a dirlo. «Abbastanza brava?» grida Barney in tono pragmatico, come se avessi detto la cosa più ovvia del mondo. «Be’, sì.» «Tesoro», sospira appoggiandosi alla scrivania e unendo le mani. «Mio padre, il grande regista di Broadway Irving Sparks, chiedeva spesso agli attori: ‘Come ci arrivate alla Carnegie Hall?’» Lo fisso, cercando di capire se sta scherzando. «Un attimo. Mi sta dicendo che quella battuta è di suo padre?» «Be’, non gliene hanno mai attribuito il merito, ma pensi davvero che la risposta: ‘Esercizio, esercizio e ancora esercizio’ Jack Benny se la sia inventata da sola? Ah! Un comico di razza, lo ammetto, ma non certo uno scrittore del livello di mio padre!» «Caspita.» «Esatto. Secondo me è proprio quello, che ti manca. Ma viene con il tempo. E con l’età.» Barney sembra prendere con filosofia il fatto che io abbia quasi ventisette anni. Come se invece non fosse il caso di farsi prendere dal panico. Mi parla come se fossi giovane. Non sa che Diane Keaton aveva ventiquattro anni quando ha sostituito la protagonista di Hair a Broadway, mentre Meryl Streep ha vinto il primo Oscar a trenta? Eppure, per qualche ragione, a quanto pare non pensa che io sia indietro. «Il fatto è che nonostante tutte le audizioni e le lezioni di recitazione continuo a pensare che sto sbagliando qualcosa: forse esiste un trucco di cui non sono al corrente, c’è un segreto che conosce chiunque tranne me. Come quegli incubi che ho ogni tanto: sono sul palco e non so cosa sto interpretando, oppure devo recitare un monologo, ma apro la bocca e non esce niente. E non capisco se ho questa sensazione perché non ho abbastanza esperienza, come ha detto, o perché non conosco il linguaggio… il linguaggio segreto del…» Ho perso il filo del discorso e non ho più fiato, come se avessi appena fatto a piedi i quattro piani fino all’ufficio di Barney. Alzo lo sguardo dall’angolo sfilacciato del logoro tappeto persiano e vedo che Barney ha le mani sulla scrivania, gli occhi azzurri limpidi e concentrati, come se fosse molto interessato ad ascoltare ciò che sto dicendo e avesse tutto il tempo del mondo a disposizione, se volessi continuare. Inarca le sopracciglia e mi sorride in modo incoraggiante, ma mi accorgo che, per una volta, ho davvero detto quel che potevo dire, almeno per il momento. «Tesoro», si rivolge a me facendo un sospiro che assomiglia al rumore di due fogli di carta vetrata strofinati insieme. «È triste, ma vero. Anche se hai talento, questo mondo non fa per tutti. Pensa alla povera Marilyn. Era troppo sensibile.»

«Come me?» Barney mi guarda perplesso. Poi le rughe si stendono, gli occhi si illuminano, e le spalle incominciano ad alzarsi e ad abbassarsi. Emette un flebile sibilo e non capisco se il suo sistema respiratorio è completamente andato, o se sta ridendo: per un istante, non so se mettermi a ridere o chiamare un medico. «Al contrario. Magari sei sensibile dentro, ma quello che vedo fuori è un guerriero. Quella sera che sei caduta e ti sei rialzata subito, più agguerrita e concentrata di prima, non ti sei messa a piangere, non ti sei dimenticata le battute, non hai chiesto di poter ricominciare da capo. Situazioni che ho già visto. Pensi che ci sia un trucco, qualcosa che le persone famose sanno e tu no. Ti capisco, ma credimi se ti dico che non c’è.» Si stira, allungando le braccia sopra la testa, e la sua sedia si inclina pericolosamente all’indietro, al punto che temo di vederlo capovolgersi da un momento all’altro. Ma si ferma a un’inclinazione impossibile, quasi parallela al pavimento, e miracolosamente evita di capovolgersi. «Tesoro. Ti ho mai raccontato cosa diceva sempre mio padre, il grande regista di Broadway Irving Sparks?» «Be’, ecco, sì, direi di sì…» «Ai suoi attori, intendo. Prima delle prove? Il miglior consiglio che potrei mai dare a un attore.» Mi sporgo in avanti il più possibile, dalla poltrona in cui sono sprofondata. Ho la gola secca. Il cuore che batte all’impazzata. Non voglio perdermi una sola parola. Barney guarda un punto lontano con espressione sognante dalla sua posizione semisdraiata, poi si gira verso di me e parla così piano che devo allungare il collo per sentire. «Diceva: ‘Ricordate, ragazzi: più svelto, più divertente, più sonoro’.» Faccio il possibile per restare protesa in avanti, ma la poltrona ha la meglio e mi risucchia all’indietro, mentre i cuscini si sgonfiano con un gemito. Sono sprofondata di nuovo, ma mi tengo stretta ai braccioli aspettando che continui; Barney però si è girato e sembra immerso in qualche ricordo felice. «Un attimo. Mi scusi. Tutto qui? Sarebbe questo il consiglio migliore di suo padre?» Riporta la sedia in posizione normale e la accosta alla scrivania, stringendo le mani e piantandomi gli occhi azzurri addosso. «Sì, tesoro. È questo. Perché? Lo ha già sentito?» «Be’, certo, insomma. È una frase famosa. La conoscono tutti.» «Davvero, tesoro?» mi chiede con gli occhi fissi su di me. «Ma è meraviglioso!» «Però, credevo…» balbetto. «Ecco, credevo che si trattasse di una battuta.» Barney mi guarda perplesso. «Cioè, non proprio una battuta, però fa sembrare tutto così semplice. Troppo semplice.» Mi guarda a lungo, fa un respiro talmente profondo che emette un fischio. «Più svelto: non trattate con superiorità il vostro pubblico, mettetelo alla prova, non spiegate tutto; il pubblico è più intelligente di quanto crediate. Più divertente:

aiutateci a vedere il bello e il comico della vita, dateci un motivo per sorridere dei nostri difetti. Più sonoro: raccontateci la storia nei modi giusti, non siate condiscendenti, non tenetela per voi, siate generosi. La vostra missione è raggiungere il nostro cuore.» Barney prende fiato e si dà un colpo sul petto. «Tutto qui, tesoro. Può sembrare semplice, ma se un po’ ti conosco dedicherai la vita a seguire questo consiglio. Tutto qui, mia cara. Tutto qui.»

31

«CI sono nove nuovi messaggi.» Biiip. «Sì, pronto, cerco Frances… Bakes? Backs? Chiamo dall’ufficio della dietologa, la dottoressa Leslie Miles. Avrei un posto libero per domani, giovedì, alle 9.00 di mattina. Se non richiama entro un’ora o per qualsiasi motivo volesse un altro appuntamento, saremo costretti a metterla di nuovo in lista d’attesa. Il tempo d’attesa è attualmente di cinquantadue mesi. Grazie.» Biiip. «Ciao, Franny, sono Gina, della Brill. Mi chiedevo se… Che rapporti hai con l’igiene intima? Per pubblicizzare un prodotto, ovviamente. Inoltre volevo sapere se sai andare a cavallo. Hanno bisogno di qualcuno che cavalchi su una spiaggia. O anche in montagna. A ogni modo, fammi sapere!» Biiip. «Franny! Sono Katie. Ci siamo tutti (ciao, Franny!) Zitti, ragazzi. Sei bellissima in TV! Che ridere! Siamo alla prima interruzione pubblicitaria, ma cavoli. Ottimo lavoro. È fantastico!» Biiip. «Franny, sono Casey. Ti sto guardando! E ti sto lasciando un messaggio! Contemporaneamente! Sei forte. E davvero, quei blue jeans ti fanno sembrare un fuscello, che taglia porti adesso, una ventisette? Continui ancora con la dieta TastiLife?» Biiip. «Amica, sono Deena. Hai rubato la scena. Sono dei completi idioti se ti lasciano andare via. L’ultima volta che ho riso guardando questo telefilm è stato alla fine degli anni Ottanta. Anche se non so bene come possano far credere che Kathy abbia trent’anni. La prossima settimana sono sul set di Law & Order. Riesci a crederci? Brinda alla mia salute.» Biiip. «Ciao, tesoro, sono tuo padre. Stasera Mary e io abbiamo visto il telefilm, a casa sua, così siamo riusciti a guardarti con questa nuova invenzione chiamata TV a colori. Questi schermi stanno diventando enormi. È davvero affascinante. Comunque, mi sei sembrata un personaggio molto interessante, anche se avrei voluto che avessi più battute; te lo meriti, del resto. Mary dice che ti dovrei dire che eri bellissima, anche se mi pare scontato. Comunque sono, anzi siamo, molto orgogliosi di te.»

Biiip. «Ciao, ehm (si schiarisce la voce), sono Dan, dal piano di sotto. Volevo soltanto dirti che, per quanto ieri sera tu sia stata molto divertente, questo non ti dà il diritto di scolarti la mia scorta di birra. Ti chiamo per invitarti a cena, magari potremmo andare al solito ristorante cinese di cui nessuno si ricorda il nome, per parlare della sceneggiatura che sto scrivendo, e per la quale potresti, o forse no, avermi ispirato. È un invito formale di lavoro, senza impegno, a meno che a un certo punto, in futuro, tu non decida che appartengo a qualche astrusa forma geometrica che a volte assumono i tuoi sentimenti. Va bene, a presto. A quando torni. A casa nostra. Nel nostro appartamento. Non suona male, non credi?» Biiip. «Salve signorina Banks (respiro affannoso) sono Barney Sparks, il tuo agente. È andata molto meglio del previsto. E questa mattina mi ha telefonato un vecchio amico che sta producendo una trasmissione pilota di mezz’ora (colpi di tosse). Ha visto il telefilm ieri sera e vorrebbe vederti per un provino. Si tratta di una serie per una TV via cavo e non hanno un soldo, ma se gli piaci, prenderai il primo volo per Los Angeles per un provino. Sei disponibile, tesoro? (Altri colpi di tosse.)» Biiip. «Franny. Sono sempre io, James. Richiamami, ti prego. Mi dispiace.» Biiip. Tremo e non so se è colpa dell’aria condizionata della roulotte, che soffia al massimo sulla mia nuca, o se sono i nervi, o magari tutti e due. Mi trovo a Los Angeles da poche ore, ma ho già notato che esistono soltanto due temperature: troppo caldo e troppo freddo. Sono a digiuno e so che avrei dovuto mangiare di più sull’aereo che ho preso questa mattina, e non limitarmi a un caffè e una mezza ciambella. Ma ogni volta che provavo a mandare giù un boccone, il mio stomaco si chiudeva e il cuore incominciava a fare le capriole in uno strano miscuglio di agitazione e terrore. Non mi sono nemmeno goduta la prima classe, qualcosa che non avevo mai provato prima. I sedili erano così ampi e comodi che la prima ora non ho nemmeno notato i pulsanti sul bracciolo che fanno reclinare lo schienale. Era già perfetto così. C’era un flacone di crema idratante accanto al lavandino del minuscolo bagno e gli auricolari per il film erano gratuiti. Ma continuavo a pensare a quanto mi sarei divertita, viaggiando con Jane o con Dan, fingendo di essere manager importanti, accettando un Mimosa dalle mani della hostess oppure ordinando un dessert dal menu. Ero contemporaneamente troppo nervosa e troppo stanca per godermi il viaggio. Così avevo passato le prime due ore di volo a ripassare le battute e le ultime tre ad appisolarmi, e ora che ho conosciuto le altre due ragazze che sosterranno il provino per la parte sono profondamente pentita: una ragazza smilza dai capelli castani, la pelle diafana e gli occhi color acquamarina, e una stangona bionda con un taglio di capelli da folletto e le fossette che spuntano ogni volta che sorride, cioè praticamente sempre. Vivono entrambe a Los Angeles e hanno già

fatto delle audizioni. Colgo qualche frammento frivolo della loro conversazione, che sto cercando disperatamente di non origliare. «Hai perso un mucchio di peso da quando ci siamo viste per Cubicles, vero?» chiede la ragazza castana. «Lo so, è che sono diventata anoressica», risponde la bionda alzando gli occhi al cielo. «Beata te», ribatte la castana, guardandola con invidia. Abbasso la testa, concentrandomi sul copione che ho già letto cento volte. Questo è il mio lavoro, mi dico, e sorrido tra me. Pensa positivo. I responsabili del casting di New York per Mr. Montague, la puntata pilota sulla storia di un playboy milionario in declino, erano Jeff e Jeff. Mi avevano fatto ripetere la scena di Belinda, la dog-sitter, all’infinito, ridendo di gusto ogni volta. «Tira fuori la vocina da svanita», ripeteva incoraggiante Jeff. «Sei perfetta, per il personaggio.» «Sì, un po’ più ansimante», interveniva l’altro Jeff. Alcuni giorni dopo avevano chiamato da Los Angeles e il regista era venuto a New York per incontrare alcune attrici e avevo dovuto ripetere le scene anche per lui. «È la nostra preferita», aveva bisbigliato Jeff-Maglione attillato al regista, facendomi l’occhiolino. La seconda telefonata era arrivata subito dopo: di tutte le ragazze incontrate a New York, ero l’unica ad andare a Los Angeles. «Successo!» aveva gridato Barney al telefono. Oggi mi vedrò con il regista, qui a Los Angeles, insieme con alcuni produttori e alcuni pezzi grossi degli studi cinematografici, che immagino come un gruppo compatto e omologato in giacca e cravatta che annuisce all’unisono, proprio come il gruppo dei clienti del mio primo spot pubblicitario. Era successo tutto così in fretta che gli ultimi giorni erano soltanto un ricordo sfuocato. I programmi di viaggio e il contratto dovevano essere chiusi in fretta. Non ero andata all’appuntamento con la dottoressa Leslie Miles e non avevo avuto il tempo di andare a cena con Dan né di pensare se avevo voglia di rispondere al messaggio di James. Se ottengo la parte, guadagnerò settemilacinquecento dollari a episodio, e cioè più o meno metà di quello che ho guadagnato l’anno scorso, quindi sto facendo del mio meglio per restare concentrata. Tengo gli occhi fissi sul copione. Il giorno prima della mia partenza, mio padre aveva voluto vedermi in città. «Andiamo all’Oak Bar del Plaza», mi aveva proposto con insolito slancio. «Davvero? Papà, non lo so: ho un sacco di cose da fare, prima della partenza.» «È un traguardo speciale. E voglio vederti prima che tu parta.» «Va bene. Vuoi… Dobbiamo?…» avevo farfugliato. «Soltanto io e te, ti va?» «Mi va», avevo risposto sollevata. Alla biglietteria della metro, avevo tirato fuori con ostentazione un biglietto da

venti nuovo di zecca prelevato in previsione del viaggio. «Cinque biglietti, grazie», avevo detto, spendendo la folle cifra di sei dollari e venticinque anche se non aveva senso, visto che sarei partita il giorno dopo. L’impiegata non aveva battuto ciglio, ma nell’impercettibile dilatarsi delle sue pupille, qualcosa che avevo sicuramente immaginato, anche se mi illudevo di no, avevo letto la sua approvazione, in una scorbutica versione urbana. Mio padre era seduto in un angolo del bar, sotto un enorme affresco raffigurante una carrozza trainata da cavalli in un paesaggio innevato. Col giornale sgualcito e il cardigan di lana marrone, mi dava un’idea di calore e comodità, per contro. «Finalmente!» mi aveva detto con un sorriso quando mi aveva visto, lasciando il cruciverba a metà, e mi ero commossa. Eravamo già stati lì due volte: dopo la mia laurea e per il suo cinquantesimo compleanno, ed ero orgogliosa che il mio viaggio a Los Angeles rientrasse tra le occasioni da festeggiare. Mi aveva assalito, come al solito, con un mucchio di domande sull’audizione e sulla TV via cavo, di cui non aveva mai sentito parlare. «Ma com’è possibile obbligare la gente a pagare per guardare la TV? La televisione è gratuita», mi aveva detto, sorseggiando un gin tonic. «Quella normale è gratuita. Ma quella via cavo, per certi aspetti, è meglio.» «Allora perché non trasmettono i programmi via cavo nella TV normale e creano una televisione gratuita migliore?» «Be’, perché in quelle via cavo fanno trasmissioni che la televisione normale non manda in onda.» «Tipo?» «Be’, trasmissioni che usano un linguaggio volgare, o con scene di nudo.» «Io pagherei di più per sentire un linguaggio più appropriato e vederli tutti vestiti», aveva detto con un sorriso beffardo. «E dicevi che ti pagano meno rispetto alla televisione normale?» «Sì, me lo ha detto Barney.» «Però, se fai pagare il pubblico per guardare, non dovresti essere pagata di più?» «Credo che dipenda dalle pubblicità che trasmettono.» «Quindi mi stai dicendo che se sopporto spot infiniti di profumatori per l’ambiente, mia figlia verrà pagata di più?» «Sì. Più o meno.» Aveva alzato le mani, in segno di resa. «Non ci capisco nulla», aveva detto con un sorriso. «Ma spero che tu ce la faccia. Non sono mai stato a Los Angeles.» Fino a quel momento, non avevo pensato al fatto che ottenere quel lavoro significava trasferirmi lontano da mio padre, e dai miei amici. E da Dan. Avevo chiuso gli occhi forte forte. Non avevo alcuna voglia di pensarci. «Ti voglio bene, papà.» «Anch’io, tesoro.» Più tardi, ci eravamo fermati sulle scale rivestite di moquette dell’albergo ad

aspettare il nostro turno per prendere il taxi, guardando il portiere con le mostrine dorate fare segnali ai tassisti, facendoli accostare con gesti esperti, per poi invitare il primo passeggero in fila a salire. «Sai, Franny, lei sarebbe stata così orgogliosa», aveva detto mio padre, commosso. Il riferimento a mia madre mi aveva colto di sorpresa: ne parlavamo sempre meno, negli ultimi tempi. I miei occhi si erano riempiti subito di lacrime, al suo ricordo e al pensiero di cosa avrebbe pensato di me. Ma avevo continuato a guardare davanti a me, cercando di non piangere. «A volte temo che tu ti aspetti sempre il peggio, a causa di quello che è successo», aveva continuato dolcemente, ed ero riuscita soltanto a rivolgergli un cenno del capo. «Cerca di immaginare il meglio, per te, ogni tanto; va bene, tesoro?» La visuale era sfuocata a causa delle lacrime che avevo trattenuto, ma quando mi ero asciugata gli occhi e avevo alzato lo sguardo, all’improvviso avevo riconosciuto quello che avevo avuto di fronte tutto il tempo: lo sfondo drammatico, quasi teatrale, che si stagliava davanti a me, il palcoscenico che faceva da sfondo al portiere, e mi ero lasciata sfuggire una risata strana, rauca. Papà mi aveva guardato confuso. «Cos’è?» Mentre ammiravo l’acqua che scendeva dai gradoni della fontana di fronte all’albergo, mi era tornata in mente la conversazione con Dan di tanti mesi prima, quando ci conoscevamo appena e tutto quello che volevo sembrava così irraggiungibile. E avevo pensato che era meraviglioso vederla, quella sera, la splendida statua in bronzo che splendeva lassù in cima. Avevo guardato papà e con un sorriso gli avevo detto: «La dea dell’Abbondanza». «Ecco qua», dice Linda, l’hairstylist; alzo lo sguardo dal mio copione e vedo che, mentre stavo sognando a occhi aperti, i miei capelli sono diventati lisci come spaghetti. Ora sono soffici e lucenti, un effetto che avevo cercato senza successo migliaia di volte, in passato. Ma ora sembro più un agente di cambio, che una dogsitter imbranata. Avevo sostenuto gli altri provini per la parte con i soliti capelli crespi, i miei veri capelli, e anche se mi diverte l’idea di essere improvvisamente diventata protettiva nei confronti di un lato del mio aspetto che di solito detesto, ho un improvviso terrore che le persone che mi hanno già vista non mi riconoscano. «Oh, caspita… sono bellissimi. Però, ecco, sono un po’ diversi da…» «I produttori hanno chiesto che le ragazze avessero tutte i capelli lisci, oggi», mi informa con un sorriso che mette fine alla nostra discussione. «Adesso puoi andare al trucco!» «Oh, fantastico. Grazie.» Dovrò rassegnarmi ancora una volta ad accettare che le decisioni che mi riguardano non sempre tengono conto della sottoscritta. Mi dirigo al posto della biondina con le fossette, dove mi aspetta una ragazza minuscola e pallida che porta un basco e ha un’espressione preoccupata. «È solo che non sono una da rossetto rosso», dichiara la biondina alla sua

immagine riflessa, poi si alza per studiare il proprio viso da vicino, accostandolo allo specchio e strizzando gli occhi. Scuote la testa e prende un fazzolettino da una scatola, poi toglie il gloss color ciliegia dalle labbra. Il fazzolettino crea un alone sbavato, lasciando la bocca macchiata e secca. Fa un passo indietro, soddisfatta del risultato. «Così», dice alla truccatrice. «È più discreto.» La truccatrice annuisce e sorride debolmente e la biondina si avvia verso l’hairstylist, accomodandosi sulla sedia dov’ero seduta io fino a pochi minuti prima. «Piacere, Sally», dice la truccatrice con aria nervosa da sotto il basco, così le stringo la mano, che è fredda e un po’ sudata. Sally incomincia a riordinare la sua postazione, chiudendo i contenitori della cipria e mettendo i pennelli usati da una parte. Studia attentamente il mio viso, poi mi sfiora una guancia con un pollice. «Sembri un po’ disidratata», dice, un po’ scortese. «Sono appena arrivata da New York», ribatto in tono di scusa. Lei annuisce, come se sapesse perfettamente cosa fare e incomincia a radunare un nuovo gruppo di pennelli e contenitori di plastica lucida di varie forme e dimensioni, allineandoli sulla sua postazione di lavoro. «Hai delle preferenze o delle allergie particolari?» mi chiede, ed esito un istante, prima di dirle di no. È stupido, ma mi torna in mente la prima volta in cui me lo hanno chiesto, per la pubblicità del detersivo Niagara, e devo scacciare un moto di delusione all’idea che nonostante tutti i provini e le audizioni non so ancora dare una risposta a una domanda tanto semplice. Mentre continua ad allestire la sua postazione vedo che le tremano le mani. O è la mia immaginazione? Forse è colpa dell’aria condizionata. «Ti arriva addosso?» le chiedo indicando la ventola sul soffitto. «Perché io sto gelando.» Lei mi guarda da sotto il basco e dice sottovoce: «Mi dispiace, no. Cioè sì, ma non è quello». Abbassa la testa timidamente. «È il mio primo giorno di lavoro: tremo perché sono nervosa.» «Oh», è tutto ciò che riesco a dire, poi sorrido cercando di rassicurarla. Sally mi passa un batuffolo di ovatta sul viso, poi incomincia ad applicare un sottile strato di fondotinta con un pennello morbido. Non so perché sono così sorpresa, all’idea che oggi sia il primo giorno di lavoro di qualcuno. Probabilmente mi sconvolge il fatto che tutti potrebbero essere più inesperti di me. Negli ultimi tre anni mi sono abituata a essere sempre quella nuova e non mi è mai passato per la testa che un giorno non sarebbe più stato così, che un giorno sarebbe stato il primo giorno di lavoro di qualcun altro. Sally prende un oggetto che ora mi è familiare, qualcosa che fino a pochi mesi fa mi era completamente estraneo, e anche se si tratta di un oggetto piccolo e comune, mi ricorda quante cose ho imparato dal giorno in cui ho deciso di concedermi tre anni di tempo per raggiungere i miei obiettivi. Mi ricorda pensieri profondi e altri più banali. Non solo indizi insignificanti, ma anche più importanti, che mi dicono che sono cambiata: come capire il significato del racconto di J.D. Salinger, o cogliere il calore della voce di Barney Sparks e la sincerità degli occhi

nocciola di Dan: tutto mi dice che forse, un po’ alla volta, sto andando nella direzione giusta. Sally mi sta guardando, in attesa. «Posso?…» Prendo il piegaciglia dalla sua mano. «Grazie», dico con sicurezza. «Faccio da sola.»

32

DRIIN. Driin. Driin. Clic. «Non posso rispondere, in questo momento, lasciate un messaggio.» Biiip. «Ciao, Dan, sono Franny. Ti chiamo dal mio albergo a Los Angeles. È incredibile, vero? Mmm… quindi… sì, credo che sia andata bene, oggi. Piuttosto bene, anzi. Lo scopriremo domani: prima di salire sull’aereo, spero. Ehi, hai visto Law & Order stasera? È stata l’insegnante! Non lo avrei mai immaginato, e tu? Tu sì, probabilmente, se ti conosco. Comunque, è strano, ma in questo momento vorrei che potessi guardare quello che sto guardando io. L’albergo è accanto agli studi dove abbiamo fatto il provino: è un edificio altissimo che si affaccia su questa enorme autostrada. Detto così sembra orrendo, lo so, ma la stanza è talmente in alto e le auto sono lontanissime e le luci laggiù in fondo sono davvero belle, riesci a crederci? È come se fosse tutto in prospettiva, come quando attraverso il Manhattan Bridge con la metro della Linea D: oh, magari te lo racconterò a cena, è troppo difficile da spiegare. Comunque, sono qui da un po’, e… cavoli, sai una cosa? Mi sono appena resa conto che, be’, mi sono dimenticata del fuso orario, sarà tardissimo, lì. Ora metto giù. Volevo soltanto dirti, ecco, che stavo pensando a…» Si sente un clic e un fruscio e per un istante penso sia caduta la linea, ma poi sento la voce di Dan, impastata di sonno. «Franny? Sei tu?» dice. «Sì, sono io», mormoro. «Scusami: ti ho svegliato?» «Sì, ma non… insomma, va tutto bene. Aspetta che spengo la segreteria, sta ancora registrando…» «Dan, starai dormendo in piedi. Che ore sono, lì?» «Non ti preoccupare… sono felice, cioè, sono soltanto… ecco, aspetta un attimo. Ci sono quasi… ah! Fatto. Allora, Franny, raccontami tut…» Biiip.

Ringraziamenti

NON sarei mai riuscita a scrivere questo libro, nemmeno nelle mie fantasie più sfrenate, senza Jennifer Smith, la mia geniale editor. Jen, sono molto fortunata ad averti avuto come guida lungo questo cammino. Grazie per aver creduto in me, per avermi spronato e per aver accettato la mia idea molto approssimativa di «scadenza». Esther Newberg è l’agente letteraria ideale: intelligente, sincera, divertente e caparbia, ha ignorato i miei dubbi iniziali senza pietà, com’è giusto che sia nei confronti di chiunque non sia un fan sfegatato dei Boston Red Sox. Grazie, Esther, per aver spedito il mio manoscritto prima che fossi pronta all’idea di farlo leggere da qualcuno. Grazie a Shade Grant, sorella, sostenitrice instancabile, tifosa e migliore amica, per aver contribuito in modo incommensurabile alla stesura del libro. Shade, con la tua ambizione, la tua intelligenza, la tua gentilezza e il tuo raffinato senso estetico avresti fatto di nostra madre una donna molto orgogliosa. Grazie a Diane Keaton, per aver risposto a uno dei miei aneddoti noiosi e prolissi dicendomi: «Credo che dovresti scriverci un libro», invece di: «Credo che dovresti parlarne con il tuo analista». Sei una fonte di ispirazione costante per me. I miei primi lettori sono stati inestimabili. Grazie a Hannah Elnan e Ratna Kamath per le vostre utili annotazioni e a Allison Castillo, Ellie Hannibal e Mae Whitman, per le osservazioni e l’amicizia. Grazie a Kathy Ebel, per essermi stata amica anche quando indossavo quell’orribile tuta e per il suo generoso sostegno e incoraggiamento di scrittrice. Sono fortunata a essere rappresentata da un gruppo di lavoro che mi segue con senso dell’umorismo, passione, amore e sangue freddo. Grazie a John Carrabino, Adam Kaller, Caryn Leeds, Gary Mantoosh, Leslie Sloane ed Eddy Yablans. Grazie anche a Sam Pancake, Oliver Platt, Gary Riotto, Jen e Pete, e a tutto il cast di Parenthood. Non c’entrate nulla con questo libro, ma non potevo rinunciare all’opportunità di dirvi che siete stati molto importanti per me. Grazie, mamma, per aver vissuto con creatività, originalità e coraggio. Se sono riuscita a immaginare un mondo pieno di possibilità, lo devo a te. Sento ogni giorno la mancanza della tua bellezza, della tua saggezza e della tua risata disarmante. Grazie, papà, per avermi sempre permesso di comprare tutti i libri che le mie braccia potevano sorreggere e per avermeli letti tutte le sere, finché ho incominciato a pensare di essere troppo grande. Questo libro, per non parlare della mia carriera di attrice, sono una conseguenza diretta di tutte le voci buffe che hai

inventato per me. Grazie a Karen, Chris, Maggie, ai Graham (i miei cugini!), a Mama e a tutti i Grant, i Roman, i Krauses e i loro cari. Sono fortunata ad avere una famiglia variopinta, piena di storie interessanti e di narratori eccellenti. Grazie, Peter, per aver trasportato il mio guardaroba lungo un’infinità di scale, tanti anni fa, per avermi tenuto compagnia in ufficio, quando l’ispirazione tardava ad arrivare, e per i mille altri modi in cui mi hai mostrato la tua forza e la tua gentilezza. Ti amo.

Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo così come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche.

Si ringrazia la Hal Leonard Corporation per il permesso di riprodurre brani tratti da «The Miller’s Son», da A Little Night Music, parole e musica di Stephen Sondheim, copyright © 1973 (renewed) by Rilting Music, Inc. Tutti i diritti amministrati da WB Music Corp. Tutti i diritti riservati. Riprodotto per gentile concessione della Hal Leonard Corporation. Questa è un’opera di fantasia. Tutti i fatti, i dialoghi e i personaggi – con l’eccezione di figure pubbliche universalmente note – sono frutto dell’immaginazione dell’autrice e non sono da intendere come reali. Nel caso di persone realmente esistenti o esistite, situazioni, avvenimenti e dialoghi a loro inerenti sono fittizi e non intendono rifarsi a episodi autentici né alterare la natura romanzesca dell’opera. Sotto ogni altro aspetto, qualsiasi rassomiglianza con persone, realmente esistenti o esistite, è puramente casuale.

Indice

Il libro L’autrice Un giorno, forse 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 Ringraziamenti Copy right

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