Lama Geshe Gedun Tarchin - Nuova Luce Del Dharma - Parte II
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Nuova luce del Dharma Parte II
Lama Geshe Gedun Tharchin
La Consapevolezza della Compassione Nel testo sono descritte le quattro consapevolezze: 1) la prima è la consapevolezza del Lama; 2) la seconda è la consapevolezza della compassione. “Nella prigione della sofferenza dell’infinita esistenza ciclica vagano gli esseri di sei tipi, privi di felicità. Lì vi sono i genitori che ci hanno nutrito con grande gentilezza. Abbandonando l’attaccamento e l’avversione, medita con amore e compassione, senza lasciare che la tua mente divaghi ponila nella compassione, senza dimenticarti mantienila nella compassione.” “La prigione della sofferenza dell’esistenza ciclica” è il Samsara senza fine, una ruota di ripetute esperienze di sofferenza, una prigione in cui non siamo soli, ma che intrappola tutti gli esseri indistintamente ed è questa la ragione per cui nella meditazione occorre accogliere tutti gli esseri. Non può nascere la compassione se ci si limita a rimuginare soltanto sulla propria sofferenza, e ordinariamente è proprio ciò che avviene, si prende in considerazione unicamente la sofferenza radicata nell’io, una riflessione che non è causa di Dharma, ma di stress. Il Samsara comprende tutti, è la condizione di ogni essere, ecco perché il pensare alla condizione samsarica è meditare sulla sofferenza, sul disagio di tutti e in particolar modo sul terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva. La sofferenza Samsarica è rappresentata con la visione di tutti gli esseri travolti da quattro fiumi in piena: a. b. c. d.
dal fiume della nascita; dal fiume dell’ invecchiamento; dal fiume della malattia; dal fiume della morte.
Le quattro condizioni dell’esistenza nel Samsara non sono una punizione, un evento inatteso, ma la naturale condizione dell’esistenza samsarica, una serie susseguente di eventi che costituiscono l’esistenza. Deve essere chiaro che la materia che stiamo analizzando non può essere oggetto di conversazioni al bar con gli amici, gli argomenti di cui si discute ordinariamente sono cosa ben diversa dalla sofferenza trattata nelle scritture buddhiste. L’esistenza degli esseri samsarici fluisce nella forza trascinante e inevitabile delle quattro correnti ed è totalmente dipendente dal karma.
Oggi siamo insieme a Torino, ma io vivo a Roma e sono nato in Nepal da genitori tibetani, perché mi trovo qui? cosa ha determinato questo incontro? Il karma. Io non ho deciso di nascere in Nepal, di vivere molti anni della mia vita in India e di essere ora in Italia, io sono tibetano, geneticamente, culturalmente, linguisticamente, mentalmente, tibetano puro, ma tibetano, come? se il Tibet non c’è più, tutto è determinato dal karma. Ho mostrato la mia esperienza ma sono sicuro che ognuno di voi potrebbe portare esempi altrettanto curiosi, ecco cosa si intende affermando che tutti siamo condizionati dal karma. Gli esseri Samsarici sono prigionieri nella gabbia di ferro dell’attitudine ad aggrapparsi al sé. Tutto quello che un essere samsarico pensa, dice e fa è governato dall’attaccamento ad un sé illusorio che sommerge completamente nel buio dell’ignoranza. L’ignoranza ci avvolge interamente, nelle grandi cose come nelle percezioni più insignificanti. Quando ho acquistato il biglietto per Torino mi hanno informato che essendo sabato avrei potuto viaggiare in prima classe pagando il biglietto di seconda, è mentre me ne stavo seduto nello scompartimento di prima classe osservavo gli altri passeggeri chiedendomi: sono tutti come me? qualcuno ha pagato il biglietto di prima e qualcun altro quello di seconda? Ignoranza illusoria di cose futili, ma lo stesso succede per situazioni ben più importanti. L’ignoranza permea la sofferenza pervasiva che avvolge gli esseri samsarici totalmente ed è il significato della descrizione della prigione di sofferenza dell’infinita esistenza ciclica. Sulla base dei primi due livelli di sofferenza sono poi indicati sei differenti reami di esistenza. Tutti gli esseri sono uguali rispetto al terzo livello, quello della sofferenza pervasiva, essa permea lo stato di ognuno senza distinzioni. Il primo livello “la sofferenza della sofferenza” e il secondo “la sofferenza del cambiamento” possono invece assumere aspetti leggermente differenti. A esempio per quanto riguarda la sofferenza della sofferenza vi sono persone che godono di buona salute ed altre che ne hanno poca; rispetto alla sofferenza del cambiamento, ci può essere chi vive in agiatezza e chi in povertà, chi possiede case belle, ricchezze, cibo raffinato e chi è costretto a vivere in case brutte e miseramente, ma al di là delle momentanee diversità, tutti, prima o poi, sono preda della sofferenza della sofferenza e della sofferenza del cambiamento. Pensate alla famiglia reale nepalese che godeva degli agi più raffinati, una lussuosa vita da re, e in un momento è stata sterminata, tutta la ricchezza è finita e ha sperimentato una tragica sofferenza del cambiamento. I sei reami non indicano semplicisticamente gli esseri che stanno al di sopra, al di sotto o nel mezzo, in cielo, sotto terra e sulla terra, ma devono essere intendesi come sei diverse manifestazioni dei primi due livelli di sofferenza, la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento. Questo passaggio è facilmente verificabile nei vari momenti della vita di ognuno: se siamo colpiti da un grave dolore è come se fossimo
negli inferi, se invece sperimentiamo una grande gioia, se siamo con le persone che amiamo in un momento di festa, ci pare di essere in paradiso. A volte i gatti sono più felici degli esseri umani, allora è come se avvenisse uno scambio e noi ci trovassimo nel reame degli animali e loro in quello degli esseri umani. Se siamo tormentati dalla fame e non c’è cibo a disposizione è come se ci trovassimo nel reame degli spiriti affamati. Non si tratta dunque di una diversificazione logistica ma di esperienze. Nell’esperienza samsarica gli esseri sono orfani della felicità, non esiste un solo momento in cui non sia presente la sofferenza pervasiva e, poiché tutti gli esseri samsarici sono stati una volta nostri genitori e ci hanno nutrito con amore e gentilezza, osservando la loro sofferenza sentiamo compassione e possiamo generare equanimità, abbandonare le attitudini contrapposte di attaccamento e avversione. Lo stato equanime della mente è dunque lo stato di amore e compassione. L’attitudine equanime, priva di attaccamento o avversione, si traduce nel desiderio amorevole affinché tutti gli esseri possano ottenere la felicità. L’attitudine della compassione consiste nel volere che tutti gli esseri siano liberati dalla sofferenza. Di fatto compassione, equanimità e amore sono un’unica realtà che si manifesta in molteplici aspetti, ciò che conta è mantenere la mente concentrata su questa realtà ricordando la raccomandazione del canto: “non permettete alla mente di divagare, ponetela nella compassione e, senza dimenticare, mantenetela nella compassione”.
La Consapevolezza della Divinità Le due restanti consapevolezze sono: 3) 4)
La consapevolezza della Divinità; la consapevolezza della Vacuità.
La consapevolezza della Divinità nel canto è così descritta: “Nel Divino Palazzo della grande beatitudine piacevole a sentirsi, abita il corpo della divinità: il corpo di se stessi con puri aggregati ed elementi. Una divinità meditativa inseparabile dai tre corpi vi si trova. Senza concepirlo come ordinario, coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza. Senza lasciare che la tua mente divaghi, ponila nel profondo e luminoso. Senza scordarti, mantienila nel profondo e luminoso.” Questo tipo di pratica è direttamente connesso alla pratica Buddhista del Vajra e costituisce il sentiero conosciuto come Vajrayana; in esso sono contenute tradizionalmente quattro classi di Tantra: 1) il primo. Kriyatantra, è relativo alle attività esteriori; 2) il secondo, Chariatantra è connesso al comportamento; 3) il terzo, Yogatantra, mantiene l’equilibrio tra le attività interiori e quelle esteriori; 4) il quarto, Anuttarayogatantra, rivolto esclusivamente alle attività interiori, è la più alta classe del Tantra. Questi quattro livelli di meditazione fanno riferimento ad una divinità personale, indicata in tibetano come Yidam. Nel Vajrayana la meditazione sulla divinità personale è il metodo per sviluppare l’unione delle qualità interiori di compassione e saggezza, è può essere applicato utilizzando due diversi mezzi: 1) Uno è il sistema dei Sutra, che approfondisce, affrontandoli separatamente, i due aspetti di metodo (compassione) e saggezza e soltanto alla fine li ricongiunge.
2) Nel sistema Tantrico, invece, si parte immediatamente dall’unione di metodo (compassione) e saggezza in quanto si medita sull’ essenza della divinità che è appunto l’unificazione dei due aspetti. La frase del canto “Nel divino palazzo della grande beatitudine” indica l’esperienza meditativa dell’unione di metodo e saggezza che è appunto la grande beatitudine. La metodologia tantrica evidenzia due livelli, nel primo è riconosciuto il legame inscindibile tra corpo, mente ed universo; nel secondo la divinità che abita in un palazzo divino ed è l’essenza di unione tra metodo e saggezza. La divinità è una forma, e abita in un palazzo divino, cioè in una dimensione pura. Meditando su entrambi gli aspetti si attua la purificazione: “Il corpo di se stessi, con puri aggregati ed elementi, una divinità di meditazione, inseparabile è li, con i tre corpi”. Con l’applicazione del metodo la mente ordinaria, il corpo ordinario, l’universo ordinario, sono trasformati nella dimensione pura della forma della divinità e nella mente pura della divinità, la struttura tantrica propone una “scorciatoia”, un sentiero rapido per giungere all’illuminazione. Si legge ancora: “Senza concepirlo come ordinario coltiva l’orgoglio divino e la vivida apparenza” L’orgoglio divino è sempre presente nella meditazione sulla divinità. La chiave di trasformazione di mente, corpo e universo ordinari, in mente, forma e universo divini è la Vacuità ed è il motivo per cui ogni pratica tantrica inizia con alcune parole che in italiano potremmo tradurre approssimativamente così: “tutti i fenomeni non hanno un’esistenza propria o inerente, e questa loro natura vuota è l’io”, oppure: “tutti i fenomeni sono vuoti di esistenza inerente e questa natura vuota di esistenza inerente è la mia stessa natura.” Infatti, qualsiasi cosa analizziamo attentamente non riusciamo a scovare nulla di inerentemente esistente, ciò che troviamo è unicamente «Vacuità», la realtà ultima, la natura ultima, di tutti i fenomeni. Scrutando l’intero universo non rintracciamo nulla di inerente che si possa afferrare e questo è il punto di partenza di tutti gli yoga tantrici. Quella natura sono io, quindi quello che identifico come io è per sua natura vuoto, è la realtà ultima dell’io. Finalmente, dalla natura vuota dell’io può avere inizio la creazione della forma divina, perché soltanto partendo dalla Vacuità è possibile trasformare se stessi nella Divinità, l’universo nel Mandala, il corpo ordinario nel Corpo divino, la mente ordinaria nella Mente divina. Così si medita purificando gli aspetti negativi della mente, ci si accosta ai tre corpi alle tre forme inseparabili della divinità:
1. Dharmakaya (Kaya significa corpo, dimensione, forma) cioè la forma della Vacuità che si articola in due aspetti: quello della Vacuità e quello della mente consapevole che realizza la Vacuità; 2. Sambhogakaya che è la trasformazione della forma in natura vuota, in Buddha; 3. Dal Sambhogakaya sorgono innumerevoli forme o manifestazioni che portano benefici agli esseri viventi e sono il Nirmanakaya, conosciuto come corpo di incarnazione o di emanazione. I tre corpi sono naturalmente spontanei, ma nella pratica è importante concentrarsi ed esercitarsi costruendone artificialmente la visualizzazione. La divinità dunque non è un individuo esterno a cui rivolgersi come ad “altro da sé”, ma è l’emanazione dello stato di realizzazione della mente, in particolar modo dell’unione di metodo e saggezza e rappresenta la forma purificata, la forma pura, di corpo e mente. Assimilando questo concetto siamo in grado di generare l’orgoglio divino ottenendone enorme beneficio, ma per mantenere nella pratica la visione di sé come inseparabile dalla divinità di meditazione è necessario osservare i fondamentali precetti: • mantenere il riconoscimento della mente come mente della divinità; • mantenere il riconoscimento della parola come parola della divinità; • mantenere il riconoscimento del corpo come forma della divinità; Avere la consapevolezza della mente divina, della parola divina e della forma divina, in ogni circostanza, mantiene l’unione del sé con la divinità che, ricondotta sistematicamente alla vita quotidiana, è di grande beneficio. Non è una pratica semplice e in genere è attuata da praticanti molto avanzati ed è anche la ragione per cui è molto complicato spiegarla. Il punto fondamentale da comprendere è che non si tratta di un essere divino al di fuori di sé identificabile come individuo, bensì la divinità è la rappresentazione delle qualità interiori già presenti in noi. Meditare sulla divinità significa purificare se stessi e trasformare se stessi nella divinità, cioè in quelle qualità.
La Consapevolezza della Vacuità La quarta consapevolezza, della Vacuità, è trattata in due strofe, nella prima si descrive la Vacuità durante la seduta di meditazione, nella seconda invece, della meditazione sulla Vacuità durante l’intervallo tra le varie sessioni di meditazione, cioè nel periodo dedicato alle attività quotidiane. I versi della prima strofa che spiegano la Vacuità durante la meditazione: “Ovunque nella sfera dei fenomeni apparenti e dei fenomeni esistenti, Pervade lo spazio della chiara luce di ciò che è e dell’ultimo, Un inesprimibile, reale modo di esistenza è lì presente. Abbandona le elaborazioni concettuali, Osserva la natura della Vacuità. Senza lasciare la tua mente divagare, Ponila in ciò che è, Senza scordarti, Mantienila in ciò che è.” In tibetano si usano spesso le parole “Nhyang-shing Sid-pa” indicando ciò che possiamo vedere e le cose che esistono, è un modo per definire tutto l’esistente, ogni fenomeno ed è abitualmente utilizzato dagli Yogi, dai meditatori. Tutto l’esistente è pervaso dallo spazio della chiara luce e qualunque apparenza si sperimenti, qualunque apparenza sorga spontaneamente e simultaneamente deve essere riconosciuta nella sua chiara luce o, in altre parole, riconosciuta nella sua natura vuota. Quindi qualsiasi realtà appaia la si deve cogliere nel suo ultimo grado di esistenza, nella sua natura vuota, nella chiara luce. Chiara luce significa Vacuità. Nel Buddhismo tibetano si usano più termini per definire la stessa verità, la Vacuità: «Mahamudra», «Chiara Luce», «Dzog-Chen», «Grande Perfezione», ecc.., sono tanti modi diversi di definire la stessa realtà: la Vacuità. La Vacuità è detta simile allo spazio; lo spazio non si può afferrare, lo spazio non ostruisce, non blocca il passaggio, così la Vacuità non si può afferrare e non ostruisce. Questa visione dei fenomeni contraddice completamente la nostra visione ordinaria. Noi osserviamo i fenomeni ordinariamente in modo completamente diverso e contrario all’ottica della Vacuità; prima di tutto dobbiamo correggere la percezione, l’errato punto di vista con cui affrontiamo la realtà. Non vi è nulla di afferrabile in nessun fenomeno, il modo ultimo di essere dei fenomeni non è traducibile in parole. Questa visione è la Prajnaparamita, che letteralmente significa “la saggezza che è
giunta oltre”, cioè la saggezza che tutto trascende e ciò che trascende la percezione ordinaria non può essere espresso. Meditando sulla Vacuità si medita sul tutto simile allo spazio o meglio sulla natura simile allo spazio di ogni fenomeno, si medita sulla mancanza di natura inerente dei fenomeni, e si va molto oltre la percezione di tipo ordinario. Ad esempio questo rosario, è molto bello, di buona qualità, ma se noi lo smontiamo separando le varie componenti abbiamo i semi, la corda, i conta mala, ma il rosario dov’è? Non esiste più. Gli elementi ci sono tutti, esattamente gli stessi, ma il rosario non c’è. L’ultimo modo di esistenza dei fenomeni è simile al rosario, che esiste semplicemente come nome, non vi è una parte sostanziale, intrinseca, che lo definisca. Osserviamo la realtà ultima non a livello superficiale, andiamo oltre e applichiamo la stessa modalità nella visione del sé, nella visione dell’io. Possiamo vedere il rosario come simile allo spazio, la sua natura è simile allo spazio, perché il rosario è semplicemente un nome, non esiste a livello sostanziale, non vi è nulla di inerentemente esistente. Tutti i fenomeni sono simili allo spazio. Il livello ultimo di Torino non ha palazzi, è uno spazio aperto, non ostruito da palazzi; il modo ultimo di esistenza di Torino, o se preferite la Torino originale, è così, vuota. E’ possibile immaginare Torino senza costruzioni? Si può osservare Torino, con tutti i suoi palazzi e nel contempo vederla completamente senza? E’ possibile avere simultaneamente la visione ordinaria, convenzionale, del fenomeno e percepire il suo modo di esistenza ultimo? Nella seduta di meditazione concentrativa, o focalizzata, si osserva solamente il livello ultimo di esistenza dei fenomeni, la mente si concentra sulla natura simile allo spazio della Vacuità. E’ chiaro questo concetto? Voi come esprimereste questa visione? Risposta: La scienza moderna ha confermato questa visione, per esempio questo panchetto che sembra solido in effetti non lo è, la materia è un’illusione, è solo energia che si aggrega in un certo modo, perché andando a cercare le particelle infinitesimali si trova il vuoto. Tutto ruota a livello energetico, vorticosamente, dando l’illusione di una solidità che in effetti non esiste come fenomeno a sé stante. In qualche modo la scienza continua a confermare quello che gli antichi pensatori indiani già sapevano. Lama:
Apparentemente si, ma vi è una differenza sostanziale. La scienza studia e riconosce il fenomeno, ma non va oltre; se vi meditasse lo realizzerebbe e ne sarebbe trasformata. Anch’io in un primo tempo pensavo che gli scienziati avessero realizzato la Vacuità, ma poi, riflettendo, ho capito che si erano fermati alla sola indicazione della Vacuità e, non meditando su di essa, non l’hanno realizzata.
Risposta: Io invece sono scettico sulla possibilità di dimostrare logicamente la Vacuità. Relativamente all’esempio del rosario che, scomposto, sparisce, io ti risponderei che non mi interessa affatto perché non mi pongo il problema
della realtà ultima, l’unica realtà che mi interessa è quella che sperimento. La realtà è la mia esperienza, se prendo un mattone in testa non mi interessa sapere che la solidità è illusione, a me ha fatto male. Credo che da molti secoli ormai la filosofia occidentale abbia escluso ogni domanda sulla realtà ultima; per noi occidentali la realtà è l’esperienza e quindi mi è difficilissimo concepire la Vacuità, perché io soffro e gioisco per esperienza, non per la realtà ultima. Io posso anche essere vuoto, ma non m’importa, ciò che mi interessa veramente è quanto sperimento concretamente. Lama:
Osservare, comprendere la Vacuità è l’unica possibilità di tagliare le radici della sofferenza. La causa di ogni problema è la costruzione mentale che si basa sull’incapacità di vedere la realtà ultima delle cose perché si limita ad un’occhiata superficiale e disattenta, invece la capacità di vedere contemporaneamente entrambe le verità, relativa e assoluta, è di enorme beneficio, induce allo stato di calma, di serenità, di assenza di sofferenza.
La seconda strofa affronta il modo di meditare la Vacuità nell’attività quotidiana: “Nel congiungimento delle molteplici apparenze delle sei coscienze, si vede la confusione dell’apparenza dualistica di fenomeni insostanziali, senza base, Là è inganno e magia. Senza concepirla come vera, Osserva la natura della Vacuità. Senza che la tua mente divaghi, Ponila nell’apparenza e Vacuità. Senza scordarti, Mantienila nell’apparenza e Vacuità.” Possiamo avere un’idea di cosa si intende per magia prendendo spunto da un famoso esempio della cultura classica indiana: «Un mercante vede uno splendido cavallo, lo compera e, soddisfatto se ne va ma durante la sua strada vede che al posto del cavallo sta trascinando un pezzo di legno. Come è potuto accadere? Solitamente questa magia è praticata di fronte ad un pubblico numeroso: il mago prende un pezzo di legno e recitando un mantra lo trasforma in cavallo. Evidentemente la benedizione del mantra non trasforma il legno in cavallo, bensì trasforma la capacità di vedere degli osservatori. Il legno resta legno, ma gli occhi degli astanti vedono uno splendido cavallo. In questa storia agiscono tre diversi attori: a) Il mago, o illusionista; b) il pubblico presente dall’inizio che ha ricevuto la benedizione della vista; c) qualcuno che, arrivato soltanto alla fine, non ha usufruito di nessuna magia. Tutti osservano il pezzo di legno, ma come lo vedranno?
a) il mago, osservando il pezzo di legno vedrà il cavallo, perché anche i suoi occhi sono stati benedetti, ma lui è consapevole che non esiste nessun cavallo e che si tratta di un pezzo di legno; b) gli spettatori della prima ora guardando il pezzo di legno vedranno un cavallo e crederanno che quella sia l’unica verità; c) I ritardatari vedranno invece soltanto un pezzo di legno. Durante l’attività quotidiana, nel periodo che intercorre tra le sessioni di meditazione non si ha una concentrazione focalizzata, non si è in grado di vedere la natura dei fenomeni come spazio e di riconoscerli come vacui della natura dello spazio. Si è in uno stato mentale diverso rispetto a quello della seduta di meditazione focalizzata. Quando non si è in seduta di meditazione, durante le attività quotidiane, la visione della Vacuità è come quella del mago, dell’illusionista che pur vedendo un cavallo è pienamente consapevole della sua non esistenza reale. Invece durante la seduta di meditazione focalizzata il meditante è come il ritardatario, non vede quello che non c’è, vede solo il pezzo di legno, non c’è illusione alcuna. E infine, chi non medita né in seduta focalizzata, né durante l’attività quotidiana, è come lo spettatore ignorante che compera il cavallo, acquisisce come vera una costruzione mentale del tutto illusoria inesistente. La strofa appena letta ci dice sostanzialmente che percepiamo contemporaneamente la realtà secondo due visioni: l’una è relativa al livello convenzionale, quello dell’apparenza, l’altra vede la realtà ultima, la vera essenza di ciò che appare. Abbiamo esaminato le quattro consapevolezze che costituiscono una parte essenziale del sentiero Buddhista, in particolare della pratica Vajrayana. 1) 2) 3) 4)
La consapevolezza del Lama; La consapevolezza della Compassione; La consapevolezza della Divinità; La consapevolezza della Vacuità.
Il Lama definitivo, il Lama ultimo, è la realizzazione interiore di compassione e Vacuità. Per quanto riguarda invece il Lama esteriore, il maestro spirituale, le sue qualità essenziali sono l’ effettiva grande compassione e visione della Vacuità. La compassione, la consapevolezza della compassione, è la radice di tutte le qualità di un Buddha, è la radice della Buddhità. Ogni Dharma sorge necessariamente dallo sviluppo della compassione. Dalla compassione scaturiscono tutte le altre buone qualità, realtà fondamentale e imprescindibile di ogni pratica. Cos’è la consapevolezza della divinità? se osserviamo alcune divinità, ad esempio Manjusri - emanazione di saggezza, Avalokiteshvara - emanazione della compassione,
Maitreya - emanazione della gentilezza amorevole, Tara - emanazione delle azioni illimitate del Buddha, vediamo che tutte le divinità sono l’immagine delle realizzazioni interiori. La mente del Buddha, la forma del Buddha, lo spazio del Buddha non sono separabili, sono identici. La consapevolezza della Vacuità è come l’occhio del Dharma che vede il corretto cammino verso l’illuminazione, che indica con saggezza il retto sentiero. La visione della Vacuità è una visione aperta. Questa consapevolezza si pratica sempre, sia in seduta di meditazione focalizzata che durante le attività quotidiane. Nella visione della Vacuità, la visione ultima dei fenomeni, si applica rispettivamente un diverso approccio nei Sutra e nei Tantra. Nei Sutra, i discorsi del Buddha, la mente che medita sulla Vacuità è quella che generalmente è considerata mente di un individuo, invece nei Tantra, la mente, il corpo e l’universo sono inscindibili, quindi la mente che medita sulla Vacuità non è di livello ordinario, grossolano, com’è comunemente concepita, ma è la mente di livello più profondo e sottile. Nel Tantra si utilizzano metodologie particolari lavorando con i canali energetici, con i venti o energie in una pratica che corrisponde all’orgoglio divino, ed è fondamentale mantenere vigile la consapevolezza dei canali, delle energie o venti, la consapevolezza dell’esistenza del corpo sottile. La tecnica di visualizzare il corpo sottile, i canali energetici e i venti, chiarisce la posizione della mente e risponde alla domanda: “dov’è la mente?”, una domanda importante e, nel momento stesso in cui la formuliamo, il corpo sottile, i canali, i venti energetici offrono interessanti indizi per la sua localizzazione perché, se è vero che la mente pervade ogni parte del corpo, vi sono punti in cui è più forte e altri in cui è più debole, le differenziazioni sono innumerevoli. La conoscenza di questo aspetto favorisce una meditazione efficace e conduce a saper dominare la mente. La mente in tibetano è “Rigpa” “Sel-shing Rigpa” termine traducibile in: “ciò che è luminoso e conoscente”. La luminosità della mente è la grande capacità di riconoscere l’esistente. Una mente chiusa è tale perché non usa le sue stesse potenzialità. Una mente illuminata, invece, ha una capacità di conoscenza pienamente matura. Le attitudini della mente maturano attraverso la conoscenza perché la mente stessa ha in sé quelle capacità e qualità. Nel Tantra la natura ultima della mente è detta “Chiara Luce” perché è la capacità di vedere la natura della mente dalla mente stessa. Quindi, la Vacuità, la natura di Vacuità della mente, la consapevolezza della natura di Vacuità della mente divengono un’unica realtà e sono chiara luce. Di fatto Sutra e Tantra sono complementari l’uno all’altro; la pratica dei Sutra è l’essenza della pratica dei Tantra. L’esistenza umana è particolare perché in essa la coscienza può penetrare i punti fondamentali, può unire la consapevolezza dei punti vitali e di quelli sottili. L’essere umano può meditare su di essi e sviluppare tutte le capacità, la rinuncia, la compassione, la saggezza. L’unione dei due aspetti: lo sviluppo delle qualità di compassione, rinuncia e vacuità con la capacità di penetrare consapevolmente i punti
vitali costituisce la complementarietà dei Sutra e dei Tantra e si esprime nella loro pratica univoca.
“Il Canto del Leone” di Milarepa L’insegnamento delle quattro consapevolezze, di grande pregnanza, è ripreso da molti maestri e Milarepa nella sua composizione “Il Canto del Leone” dice: “Questo è lo Yogi Repa libero dai pensieri”. «Libero dai pensieri» significa avere una visione intuitiva, essere libero dal pensiero concettuale e dotato dalla serena fiducia senza paura che scaturisce dalla visione della Vacuità. Con la realizzazione della visione della Vacuità ci si libera dalla paura, la si supera, si va oltre. “Procedo con il passo del leone, il passo degli eroi. Per corpo prenderò il corpo dell’Ydam, che è come castello fortificato. Per parola userò la parola del mantra che è come castello fortificato. Per mente prenderò il castello fortificato della Chiara Luce. E quando si manifestano i sei tipi di coscienza scompaiono nella loro natura di Vacuità.” In queste strofe si affronta la connessione con la consapevolezza. Il passo del Leone, l’incedere dell’eroe, intende che, essendo nella serena visione della Vacuità, non c’è più nulla da temere, si procede senza timore con il regale passo del Leone. Prendere per corpo il corpo dell’Yidam, per parola la parola del Mantra, per mente la mente di Chiara Luce suggerisce la consapevole acquisizione dell’orgoglio divino. La consapevolezza del Corpo, della Parola e della Mente di Chiara Luce, fa si che di fronte agli aspetti e alle attitudini determinati dalla quotidianità, se ne riconosca la natura ultima lasciandoli cadere nella Vacuità. Milarepa enfatizza la connessione con le quattro consapevolezze “Canto di Mahamudra”: “Quando medito su Mahamudra Riposo senza conflitti nel mio vero essere. Riposo nello spazio, senza distrazioni. Dimoro nella chiarezza dello spazio di Vacuità. Dimoro nella consapevolezza dello spazio di beatitudine. Riposo tranquillo nello spazio non concettuale. Nello spazio diversificato riposo in concentrazione. Dimorando così, questa è la mente originale. La ricchezza di certezza si manifesta senza fine. Senza nulla fare la luminosità della mente è attiva.
anche nel
Non fermato dall’attendere risultati, sto bene. Senza dualità, senza speranza, senza paura! Le afflizioni trasformate in saggezza sono essere gioioso e luminoso” Milarepa, come Marpa, è un perfetto esempio della devozione al maestro spirituale e i due canti sono colmi di significato; potremmo concludere l’insegnamento meditando su ogni strofa. Domanda: Nella meditazione del mattino sull’essenza degli esseri viventi più preziosi delle gemme che esaudiscono i desideri, mi sono chiesto se questo è solo un espediente per favorire il superamento dell’ego o, realmente tutti gli esseri, anche quelli che agiscono malissimo, devono essere considerati preziosi? Lama:
L’essere umano ha un valore incalcolabile. Tutti gli esseri viventi, indistintamente, sono causa di illuminazione. Senza esseri senzienti non c’è possibilità di sviluppare la compassione e, senza compassione, non si può realizzare l’illuminazione. La causa di accumulazione dei meriti sono gli esseri senzienti. Per questo motivo Santideva si domandava perché non si nutre verso tutti gli esseri senzienti lo stesso rispetto che si ha per i Buddha, come invece dovrebbe essere, entrambi sono uguali, entrambi sono causa di illuminazione. Il Buddha è prezioso perché ha indicato il sentiero di illuminazione; gli esseri senzienti sono preziosi perché rendono possibile il tuo cammino su questo sentiero. Come potremmo praticare la compassione, la generosità, la moralità, la pazienza, la perseveranza, la concentrazione, la saggezza, senza gli esseri senzienti? Impossibile! Sono realmente più preziosi della gemma che esaudisce i desideri.
Domanda: La pratica dei Tantra richiede necessariamente molti ritiri per poterla approfondire? Lama:
I ritiri sono importanti per acquisire l’esperienza il cui calore deve essere mantenuto inalterato nella pratica quotidiana durante il periodo che segue un ritiro ed è buona cosa, non appena possibile, rinnovare l’esperienza in ulteriori ritiri. Tra i tibetani è piuttosto comune trovare praticanti che vivono con grande naturalezza nella quotidianità l’esperienza spirituale dedicando spazio e tempo alla pratica. In occidente la diversa struttura sociale e familiare rende questo aspetto più difficilmente attuabile, e sarà necessario trovare un modo per superare il problema. La continuità della pratica del Dharma non dipende solo da se stessi, è soggetta ai condizionamenti dell’organizzazione sociale, della famiglia, delle relazioni umane, delle convenzioni.
Preghiera e Dedica Concludiamo con la lettura comune della “Preghiera in Otto Versi” composta da Geshe Langui Tanga Dorje Seghe (secolo XI°) e su cui si fonda la pratica del “Lojong”, ovvero del Trasformare la Mente, ripetendo tre volte la dedica dei benefici a tutti gli esseri: Considerando tutti gli esseri senzienti superiori persino alla gemma che esaudisce i desideri per realizzare il fine supremo, possa io costantemente prenderli a cuore. Quando sarò con gli altri, riterrò me stesso menu importante a tutti, e fin dal profondo del cuore li considererò cari preziosi. Vigile, ogni volta che sorge un’ emozione negativa, che possa nuocere a me o agli altri, l’ affronterò e l’ eliminerò senza indugio. Vedendo esseri di imprenda alla malvagità intenti a violente azioni negative e sopraffatti da sofferenze avrò sempre cura di tali creature così rare, come se avessi trovato un tesoro prezioso. Quando altri, per invidia, mi maltratteranno, mi insulteranno o faranno cose simili, accetterò la sconfitta ed offrirò la vittoria ad loro. Quando qualcuno a cui ho fatto del bene e in cui ho riposto grandi speranze mi infligge un terribile danno, lo considererò il mio santo amico spirituale. ( x 3)
In breve, direttamente e indirettamente, io offro ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri; possa io segretamente prendere su di me tutte le loro azioni negative e sofferenze.
Possano essi non essere mai contaminati dalle idee causate dalle otto preoccupazioni mondane, e consapevoli che tutte le cose sono illusorie, possano essi, privi di attaccamento, essere liberati dalla samsara.
Quarta Parte
VINCERE LA RABBIA E L’ODIO
Una Vita Significativa in Pace e Armonia Siamo riuniti oggi per parlare dell’approccio Buddhista ad una vita significativa in pace e armonia che, generalmente, sottintende la necessità di trasformare radicalmente il proprio modo di pensare. Non è necessario diventare Buddhisti per seguire questo percorso benefico per chiunque, pertanto questi due giorni non saranno di pratica devozionale Buddhista ma di studio, di insegnamento, di pausa e di riflessione meditativa. Non è nemmeno necessario esercitare uno sforzo eccessivo per comprendere le spiegazioni, non sarebbe un metodo corretto, ma semplicemente aprirci ad un atteggiamento mentale disteso, rilassato, sereno. Un tempo che dovrebbe essere dedicato alla “ricarica” delle energie fisiche e mentali perdute durante una faticosa settimana di lavoro e di tensioni. La vita moderna è strutturata in modo tale che, senza esserne consapevoli, per farvi fronte spendiamo una quantità enorme di energia che necessariamente deve essere recuperata in un rinnovamento fisico e spirituale atto a ristabilire il giusto equilibrio. Il riposo indubbiamente favorisce un’immediata ripresa fisica, ma non è sufficiente, infatti l’ energia vitale deve essere riacquisita soprattutto sul piano mentale e spirituale; la vera forza è l’energia interiore. Per questo è necessario imparare ad abbandonarsi ad uno stato di rilassata consapevolezza sul piano fisico e psichico, in modo da poter mantenere la chiarezza mentale e la capacità di vedere e comprendere il cammino spirituale da percorrere. Questo è lo scopo primario del nostro incontro. Un secondo scopo è imparare ad economizzare e ottimizzare nel quotidiano le proprie energie, di cui si deve avere particolare cura. E’ evidente a tutti come, soprattutto nelle società industrializzate, si viva convulsamente, bombardati da doveri e stimoli di ogni genere, con un conseguente abnorme spreco di energie, anche soltanto per garantire minimi parametri di vita, dunque sarebbe opportuno fermarsi domandandosi se sia davvero necessario lo sperpero di tutto il patrimonio energetico per ottenere un risultato in fondo scarso. Non sarebbe più oculato risparmiarne un po’? E’ possibile imparare a rilassarsi profondamente, interiormente, dando il giusto valore alle cose e spendendo per le stesse il minimo di energia necessario, altrimenti è un bel guaio rischieremmo di lavorare molto, spendere tutta l’energia e, oltrettutto, guadagnando poco! (risata, è evidente lo scherzo.) Un terzo obiettivo è l’aspetto religioso, la propria realizzazione spirituale, lo sviluppo delle qualità interiori di conoscenza, comprensione, compassione e saggezza. Parallelamente all’approfondimento di queste capacità matura in noi la “felicità”. Il termine “felicità” si presta a svariate interpretazioni, esiste una felicità di breve durata - temporanea, una felicità più durevole nel tempo - di lunga durata e, infine, una felicità definitiva - che non cessa mai ed è relativa alla spiritualità. Per un Buddhista la felicità definitiva è il Nirvana, per un Cristiano è il Paradiso, ma comunque la si voglia chiamare, è un aspetto della natura della mente.
La felicità definitiva è una qualità essenziale della mente umana e il giusto cammino è quello che, passo dopo passo, conduce alla sua realizzazione. Il Paradiso, come il Nirvana, non rappresenta un luogo fisico ma una realtà che deve essere sperimentata; se fosse solo un aspetto di Dio e noi non potessimo sperimentarlo, di fatto per noi non esisterebbe; è una qualità della nostra mente perché la nostra mente può sperimentarlo. La felicità definitiva è sperimentata, vissuta dalla mente umana, è insita nella mente umana, è una qualità della mente. I Buddhisti parlano di “mente”, di “coscienza”, i Cristiani di “anima” ma, comunque la si voglia definire, è questa essenza o capacità della natura umana che sperimenta la felicità definitiva. Non soltanto Dio, ma anche l’uomo ne è pienamente partecipe. La nostra coscienza non solo ha la capacità, ma addirittura il talento, di ottenere la felicità, può demolire completamente le barriere della confusione, delle difficoltà e dei problemi. In sintesi gli obiettivi di questo incontro sono: 1. Imparare a rilassarsi, sia fisicamente che mentalmente; 2. Acquisire una conoscenza che porti ad una maggior saggezza nell’utilizzo oculato della propria energia; 3. Ottenere tutti gli elementi per raggiungere e sperimentare, passo dopo passo, la felicità definitiva, completa, piena. Tre passaggi strettamente correlati tra loro e dipendenti uno dall’altro, infatti con l’apprendimento della pacificazione, del rimanere tranquilli, sereni, rilassati, si acquisisce una conoscenza profonda della vita, una maggior comprensione delle diverse situazioni, si matura la necessaria saggezza per affrontare i vari aspetti dell’esistenza e si utilizza in modo equilibrato la propria energia senza sprechi nocivi. Questa saggezza consente lo sviluppo delle proprie capacità, necessarie all’ottenimento della pace duratura. E’ importante riconoscere con chiarezza il collegamento sequenziale dei tre momenti che conducono alla realizzazione della felicità completa; osservare come essi non siano tra loro contradditori ma strettamente connessi. Ogni realtà è correlata! A volte si pensa di dover compiere determinate azioni che avranno un beneficio nel futuro e ci si concentra esclusivamente su questa proiezione perdendo di vista il momento presente oppure, al contrario, si è totalmente immedesimati in una particolare azione del presente dimenticando completamente la visione della realtà complessiva, dei risultati che questa azione avrà nel futuro. In entrambe le situazioni tutto diventa pesante e complesso; la stessa pratica del Dharma, se si è perduta la visione serena dell’insieme, è gravosa e sterile mentre nella sequenzialità del cammino e nella visione d’insieme, la pratica spirituale è leggera, è vera gioia.
Si deve procedere passo dopo passo, non si possono saltare le tappe obbligate dell’esistenza. Non si può vivere completamente nel futuro ignorando il presente come se non esistesse, e non si può vivere esclusivamente il momento presente ignorandone le inevitabili ricadute nel futuro. Se non abbiamo la capacità di realizzare pace, serenità, rilassamento e distensione nel presente che stiamo vivendo come potremmo presumere che tutto questo possa avvenire, quasi per magia, in un momento successivo, nel futuro? E’ impossibile, questo non si verificherà. Il raggiungimento del Nirvana inizia ora, parte dal momento presente e, passo dopo passo, gradino per gradino, si realizza. Qual’è il modo migliore per seguire il percorso graduale? Nella letteratura Buddhista vi è una considerevole abbondanza e varietà di metodi e ognuno può essere di immenso beneficio e aiuto, indipendentemente dalla scelta individuale di aderire o meno ad un determinato percorso religioso e spirituale. Sono strumenti validi per tutti e non è assolutamente necessario professare una religione, qualsiasi essa sia. Ciò ovviamente non significa che i percorsi religiosi, le varie confessioni spirituali siano inutili, ci sono persone che attraverso l’adesione formale a una religione si sentono maggiormente a proprio agio, facilitati nel percorso e quindi positivamente vi aderiscono, ma deve essere chiaro che questi metodi sono altrettanto validi anche per persone non religiose.
Suprema Sostanza degli Alchimisti Negli incontri Buddhisti, prima di iniziare una qualsiasi attività, sia studio, meditazione o preghiera, si pone una giusta enfasi sulla “motivazione appropriata”, ci si sofferma a riflettere sullo scopo che si vuole ottenere e si formula verbalmente l’intenzione; penso che questo atto sia davvero importante, un’esperienza profonda e commovente. Generare la giusta motivazione è come entrare nel proprio cuore, scavare nelle profondità, smuovere le emozioni, i sentimenti più intimi, in particolare i sentimenti più veri verso gli altri. Generare la motivazione è sperimentare, verificare la reazione emotiva, personale, intima verso ciò che concerne il rapporto con gli altri, i loro sentimenti, i loro problemi, le loro sofferenze, le loro difficoltà. Il far emergere le proprie reazioni con umiltà sviluppa automaticamente l’impulso altruistico, il desiderio di eliminare la sofferenza dall’esistenza altrui; si genera l’attitudine naturale al buon cuore, che è la parte migliore di noi. La gioia che accompagna sempre il buon cuore è veramente preziosa. Con una pratica così semplice e così breve si sperimenta una gioia profonda da cui scaturiscono relazioni significative e armoniose con gli altri. Una pratica così semplice ha il potere di sconfiggere in se stessi ogni tristezza, sofferenza e preoccupazione. Leggeremo alcuni versi dal testo di Santideva “BODHICARYAVATARA” iniziando dal primo capitolo. Data la diversità nelle traduzioni dal sanscrito, al fine di permettere una maggior comprensione, per ogni verso confronteremo sempre due traduzioni, a) e b). Nel primo capitolo si tratta dei benefici della mente altruistica, del buon cuore. Capitolo I°, verso 10°: a) “Essere simile alla suprema sostanza degli alchimisti, poiché trasforma questo nostro corpo impuro nel gioiello inestimabile del corpo di Buddha. Per tale motivo dobbiamo cogliere e sviluppare fermamente la mente dell’illuminazione.” b) “Prendendo questa vile immagine, la tramuta nell’immagine inestimabile della gemma che è Buddha. Tieni stretto l’elisir di argento vivo, che deve essere completamente raffinato, detto la mente del risveglio.”
Non vi è dubbio che la qualità più preziosa dell’esistenza umana, del corpo umano, in grado di trasformare e condurre all’illuminazione, sia l’attitudine mentale altruistica. La nostra mente può essere positiva solo se le attitudini mentali sono positive e le stesse hanno il potere di influenzare lo stato fisico. Esistono fortissime connessioni, ormai confermate dalla scienza, tra lo stato mentale e quello biologico. L’attitudine mentale al buon cuore si trasforma, sul piano fisico, in benessere, armonia, equilibrio e
dunque in buona salute. E’ ormai dimostrato scientificamente che lo stato mentale influenza e provoca mutazioni nello stato biochimico del corpo. Nel testo di Santideva si parla di “Bodhicitta” usando più definizioni: mente dell’illuminazione, o mente altruistica, o semplicemente buon cuore, ed è descritta come elisir capace di trasformare il corpo umano, la natura impura, nella natura di un Buddha, di un essere illuminato. Malgrado sia un testo antichissimo e affronti l’argomento essenzialmente da un punto di vista spirituale, indica una verità naturale, biologica che oggi la scienza, attraverso numerose ricerche e verifiche, conferma. Lo sviluppo spirituale che determina un nuovo stato di coscienza influenza lo stato biochimico del corpo producendone mutamenti conseguenti; per questo per i Buddhisti è normale la manifestazione del “corpo di arcobaleno”; è una trasformazione biochimica risultante da una completa realizzazione spirituale. Il coltivare il buon cuore, essere in un’attitudine altruistica, positiva, influenza lo stato del corpo, eliminando ogni stress, ogni affaticamento, permettendo di riposare rilassati, sereni, gioiosi, equilibrati. Se invece ci troviamo in uno stato mentale opposto al buon cuore, all’altruismo, siamo totalmente in balia delle emozioni perturbatrici che nel Buddhismo sono riconosciute come i veleni che contaminano la mente, obnubilano la coscienza, e che genericamente vengono definiti “egoismo”, ma il termine filosofico appropriato è “attitudine autogratificante” che sorge dalla visione errata del sé, come se esistesse un sé indipendente, proprio, a sé stante, egocentrico. Da questa visione, frutto dell’ignoranza, derivano due disposizioni mentali: 1) l’attaccamento, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare l’aspetto piacevole delle cose, ad esagerarne l’essenza, consolidando il forte attaccamento ad esse; 2) l’avversione, che sorge dalla tendenza ad enfatizzare gli aspetti spiacevoli delle cose, esagerandone le dimensioni, consolidando così la forte repulsione ad esse. Una mente dominata dalle emozioni perturbatrici mostra prepotentemente, in primissimo piano, “l’IO”, e immediatamente dopo un altrettanto pesantissimo “MIO”. Quando “l’io” incontra cose piacevoli nasce l’attaccamento che determina il “mio” ma, se il “mio” è intaccato o “l’io” contraddetto, nasce all'istante l’avversione. In questa altalena di «attaccamento - avversione» si consuma una quantità enorme di energia pur restando immobili, bloccati nell’ignoranza, in un processo distruttivo che si autoalimenta costantemente. Invece preservare l’energia in modo da usufruirne sempre e senza fatica, significa predisporsi ad attitudini mentali non offuscate dall’ignoranza. Se limitiamo l’analisi di questo aspetto ad una speculazione puramente filosofica potremmo avere difficoltà a comprenderne le reali implicazioni, ma se lo affrontiamo dal punto di osservazione del quotidiano ripetersi di azioni, parole, pensieri, di reazioni alle esperienze, la prospettiva diventa chiara e possiamo verificare, momento
per momento, come l’attitudine mentale altruistica o egoistica trasformi la vita, il nostro modo di essere e sia causa diretta di gioia o di sofferenza. Il libro del Dharma è in noi stessi e ciò che sperimentiamo nell’esistenza di ogni giorno diventa la vera pratica, un cammino interiore che porta all’apertura del buon cuore, alla compassione. Ognuno di noi ha sperimentato direttamente gli effetti della rabbia e dell’egoismo, percepiti in un devastante malessere mentale e fisico. Quando l’io e il mio si fanno dominanti si sprofonda in un pesante obnubilamento mentale, nella depressione psichica e fisica. Senza la pratica spirituale e lo sviluppo della mente altruistica, le emozioni perturbatrici prendono il sopravvento sulla coscienza, ne sono i padroni e i dominatori indiscussi. Questo fa la differenza tra il praticante spirituale e la persona che non pratica. Un praticante riconosce le proprie emozioni, la presenza ugualmente ingombrante dell’io e del mio, ma non se ne lascia sopraffare, non permette che abbiano nessun tipo di controllo e di forza sulla sua vita. Gli stati mentali si manifestano per le più svariate e mutevoli ragioni, non si tratta di decisioni volontariamente assunte, ma sono conseguenza di esperienze passate, di abitudini, di eventi, di reazioni biochimiche dell’organismo, e di molti altri fattori ancora. Quando a causa di uno qualsiasi di questi fattori ci ritroviamo in uno stato mentale negativo, e ce ne lasciamo dominare, alimentiamo un ciclo negativo estremamente doloroso che distrugge la pace e il benessere nostro e altrui. L’unico portentoso antidoto in grado di fronteggiare le emozioni distruttive è la pratica della pazienza che allarga il buon cuore. Capitolo I°, verso 27°: a) “Se il semplice pensiero di voler aiutare gli altri ha più valore del venerare il Buddha, che dire allora dell’impegnarsi effettivamente nelle azioni che recano beneficio a tutti gli esseri?” b) “La venerazione del Buddha è unicamente superata dal desiderio per il benessere degli altri; quanto più lo sarà dall’impegno continuo per la completa felicità di ogni essere?
Santideva non lascia adito a dubbi, un solo istante di buon cuore è superiore a innumerevoli momenti di venerazione del Buddha e non intende un buon cuore generico verso un tutto astratto, ma si riferisce al buon cuore rivolto a uno specifico essere, attitudine che si trasforma in buon cuore verso tutti gli esseri nel momento stesso in cui si manifesta. Il buon cuore dona pacificazione, serenità, gioia a se stessi, equilibrio biochimico e benessere fisico, gioiose relazioni con gli altri, amicizia, aiuto e armonia. La vita pare molto più facile e il successo naturale. Domanda: Non mi è chiaro come si possano controllare le proprie emozioni, perché è così difficile acchiapparle, quando le avvertiamo hanno già preso il
sopravvento su di noi, le subiamo totalmente e poi, e questa è una seconda domanda, vorrei capire come posso io, che sono a mia volta succube delle emozioni, aiutare mia figlia quattordicenne che è completamente soggetta a sbalzi d’umore, tristezza e rabbia. Lama:
Questo è un problema tipico della società odierna, grazie alla tecnologia sofisticata tutto è talmente veloce da dover imporre alle nostre reazioni altrettanta rapidità. Dovremmo avere una mente totalmente aperta, in grado di comprendere quasi tutto e tanto vasta da saper dare un’infinità di informazioni subito. Una volta si scriveva una lettera, la si ponderava e chi la riceveva, prima di rispondere, aveva tempo di riflettere cercando i concetti più adeguati; oggi con la posta elettronica la comunicazione è immediata e tale deve essere la risposta. Il testo di Santideva contiene consigli diretti e pratici che ci aiutano a sopravvivere in questo sistema convulso. Oggi chi pratica il Buddhismo deve applicarsi moltissimo attivando tutta l’intelligenza senza perdere mai di vista il Dharma. E’ necessario comprendere, interiorizzare ogni lettura, insegnamento, in modo da essere sempre pronti a metterlo in pratica nel momento opportuno, senza dover aspettare. Per quanto riguarda tua figlia non puoi fare altro che consigliarla, starle accanto in uno stato mentale rilassato, calmo, sereno e con molto amore. E’ difficile influenzare la mente di un’altra persona, ma si può influenzare il suo cuore, perché l’energia spirituale si trasmette da cuore a cuore e non da cervello a cervello.
Osservare e riconoscere il valore del buon cuore, della mente altruistica, i benefici che ne derivano, favorisce lo sviluppo del buon cuore stesso e permette di vedere con chiarezza tutti i difetti dell’avversione, della rabbia e della mancanza di compassione. Avversione e attaccamento sono entrambi difetti mentali anche se si manifestano in modo diverso. L’attaccamento è rivolto all’oggetto che si ama e a prima vista potrebbe sembrare un’attitudine protettiva, favorevole e vantaggiosa per se stessi, ma in realtà si tratta di una visione distorta ed eccessiva che non può che condurre sempre e inevitabilmente alla sofferenza. L’attitudine all’attaccamento è fondata sull’ignoranza, è estremistica, non coerente alla realtà, frammentaria e parziale e crea instabilità e debolezza mentale, cioè sofferenza. L’avversione è l’attitudine che scaturisce dalla visione degli aspetti spiacevoli delle cose che di conseguenza si vogliono evitare ed eliminare ad ogni costo. Dall’avversione può nascere la collera, come risposta estrema ad un oggetto tanto spiacevole da dover essere cancellato. La rabbia è aggressiva e produce odio.
Quando la rabbia insorge, per quanto potente sia, in genere ha una durata limitata, spesso breve, l’odio invece si radica profondamente nel cuore e vi permane dando origine al desiderio di vendetta. Se la rabbia può condurre ad azioni sconsiderate dalle tristi conseguenze, l’odio ha effetti ben più drammatici e provoca la più devastante autodistruzione. L’antidoto alla rabbia è la pazienza. Se qualcosa è sgradito non è necessario distruggerlo, è invece assai produttivo imparare ad accoglierlo con pazienza, un’impresa forse difficile ma non impossibile. Con la pazienza si apprende il perdono, fondamentale pilastro nella crescita spirituale, anche nel cristianesimo si ribadisce con forza lo stesso principio. Ho provato una sincera commozione e rispetto verso il Papa che, ferito, ha perdonato con cuore aperto l’attentatore, è andato a trovarlo in carcere, ha intercesso per lui presso l’autorità giudiziaria chiedendo clemenza, ha compiuto un gesto di grande valore spirituale. Perdonare allevia le proprie tensioni e quelle degli altri, porta pace, serenità e autentica gioia perché libera il cuore dai macigni che l’opprimono e, con gioiosa leggerezza, induce ad accorrere in aiuto degli altri desiderando per loro lo stesso bene. Questa è la pratica spirituale.
Il Corpo influenza la Mente e la Mente influenza il Corpo L’avversione e l’attaccamento nelle relazioni con gli altri possono sorgere, non solo per cause mentali, ma anche per cause fisiche dipendenti da fattori biochimici, tempeste elettromagnetiche, ecc. quindi, avvalendosi delle conoscenze filosofiche, spirituali e scientifiche, è più facile affrontare con pazienza ogni situazione. Il corpo influenza la mente e la mente influenza il corpo, la visione equilibrata dei due aspetti può già di per sé ridurre notevolmente ogni tensione e negatività e non si deve mai commettere l’errore di sottovalutare questo duplice aspetto perché se, di fronte al sorgere di avversione o attaccamento con sentimenti forti quali rabbia o amore, si osserva il fenomeno solo dal punto vista filosofico, questo può sembrare astratto, non rispondente all’effettiva esperienza, quindi lontano, ma se si unisce a questa conoscenza l’informazione che la scienza offre, osservando il processo fisiologico e biochimico, si comprende il fenomeno nella sua globalità ed più facile attivare gli antidoti necessari. Già nell’antico Tibet, la visione unilaterale della realtà è stata causa di un fraintendimento, si pensava: “La pratica spirituale porta all’illuminazione, quindi, poiché l’illuminazione è il compimento di tutto, si è liberi da ogni altro condizionamento.”, verissimo, affermazione perfetta in sé, però fino a quando non si raggiunge l’illuminazione i condizionamenti esistono, eccome! e non si possono ignorare. Noi siamo condizionati dal nostro corpo, quindi per contrastare le attitudini mentali derivanti dall’ignoranza di avversione e attaccamento, dobbiamo applicare i rimedi che la pratica spirituale indica, sapendo che siamo in questo corpo e che lo stesso interagisce attivamente con i processi mentali. Dal secondo capitolo del Bodhicaryavatara si possono trarre alcuni importanti consigli diretti e immediati. La tendenza onnipresente è sempre quella di procrastinare, invece è più che mai necessario oggi poter applicare con forza e subito il rimedio opportuno. Capitolo II°, dal verso 33°: a) “L’inaffidabile sovrano della morte non attende che le cose siano compiute o incompiute, che io sia ammalato o in salute, inoltre non posso confidare nell’incerta durata della mia vita. Abbandonando tutto dovrò andarmene da solo, tuttavia, privo di comprensione ho compiuto innumerevoli azioni negative a causa di amici e nemici.” b) “Come posso sfuggirgli? Salvatemi in fretta perché la morte verrà presto, prima che il mio male sarà stato distrutto! Questa morte non bada a ciò che è fatto o non fatto; uccide la sicurezza; è inaffidabile per i malati e i sani; è un fulmine inaspettato.
Il male ho compiuto in molti modi spinto da amici e nemici. Non capivo questo: Dovrò abbandonare tutto e andarmene.”
Siamo di fronte alla morte, all’impermanenza di tutte le cose, la vita è un momento e non sappiamo quanto durerà, non possiamo sprecarne neppure un attimo, dobbiamo essere in grado di afferrare immediatamente i rimedi alle emozioni distruttive. Con la morte si abbandona tutto, i forti attaccamenti e le implacabili avversioni che ci hanno interamente dominato, inducendoci a commettere innumerevoli errori, a sprecare nell’inutilità la vita stessa, e tutto finisce nel nulla, tutto scampare, amici e nemici. a) “I miei nemici alla fine cesseranno di esistere, i miei amici e io stesso cesseremo di esistere, allo stesso modo tutto il resto svanirà nel nulla. Tutto ciò che possiedo e utilizzo è come la fugace visione di un sogno; qualsiasi cosa di cui ora godo diventerà un ricordo.” b) “Quelli che detesto moriranno, quelli che amo moriranno; anch’io morirò e tutti moriranno. Ogni cosa percepita trascolora in ricordo. Ogni cosa è come immagine in sogno. Se ne è andata e non si vedrà più.”
Sono versi potenti. Qual’è il motivo di una così forte avversione o di tanto avido attaccamento se tutto finisce? Attaccamento e avversione sono inutili e causano soltanto tensioni, fatica, problemi e uno spropositato spreco di energia. Capitolo III°, dal verso 1°: a) “Con gioia mi rallegro della virtù che allevia la miseria di tutti gli esseri, rinati in stati sfortunati, e conduce alla beatitudine coloro che soffrono. Gioisco di quella virtù che diventa la causa dell’ottenimento dell’illuminazione e gioisco della liberazione definitiva degli esseri viventi dalla sofferenza dell’esistenza condizionata. Gioisco dell’illuminazione dei Buddha protettori e dell’ottenimento dei vari livelli spirituali dei loro figli, i Bodhisattva. Con grande felicità gioisco dell’oceano di bene che proviene dalla mente dell’illuminazione che si propone di condurre tutti gli esseri alla beatitudine, come pure gioisco di ogni azione compiuta per il bene di tutti.” b) “Mi rallegro con gioia del bene fatto da tutti gli esseri, che indebolisce la sofferenza dell’inferno. Possano, coloro che soffrono, dimorare nella felicità. Mi rallegro della liberazione degli esseri incarnati dalla sofferenza dell’esistenza ciclica. Mi rallegro della natura di Bodhisattva e di Buddha propria dei Salvatori.
Mi rallegro anche delle risoluzioni dei Maestri, che sono oceani recanti felicità a ogni essere, che conferiscono benessere a tutte le creature.”
Ecco una consolazione: tutto è impermanente, c’è molta sofferenza, ma c’è anche gioia e allegria, si tratta soltanto di coltivare l’attitudine a rallegrarsi delle positività e delle qualità degli altri, di tutti, indiscriminatamente, perché anche le persone all’apparenza antipatiche possiedono virtù e ricchezze interiori. Rallegrarsi dei meriti altrui è un buon metodo per espandere i propri; è il rimedio alla sofferenza causata da invidia e gelosia, attitudini di una mente limitata e gretta che, invece di gioire con gli altri per le loro virtù, preferisce macerarsi nella sofferenza, chiudersi ad ogni relazione umana e costruire pesanti e brutti muri difensivi. Questo è veramente insensato e ridicolo. Di questo passo la piccola mente sarà gelosa e invidiosa anche del Buddha e persino di Dio!… Domanda: Come posso riconoscere delle buone qualità in una persona estrema come Hitler? Lama:
Non è la persona ad esser “estrema” ma lo è la sua attitudine di avversione e odio. La persona è come tutti gli altri, desidererebbe essere felice, vorrebbe evitare la sofferenza ma, dominata dall’attitudine estrema di rabbia e odio, perde completamente questa opportunità e i danni nei confronti di se stesso e degli altri sono tremendi. Hitler se avesse voluto avrebbe potuto trasformare la sua attitudine negativa ed essere una persona buona e anche felice.
Domanda: Non è sempre facile gioire delle positività altrui, vorrei quindi capire se lo si deve applicare come antidoto alla gelosia e all’invidia, oppure se c’è una motivazione più profonda, cioè se si deve gioire perché questa virtù, che io non posseggo ma è posseduta da altri, è comunque una qualità della mente? Lama:
I motivi sono tanti. Gioire delle qualità degli altri, e quindi abbattere la propria invidia e gelosia, fa si che nel contempo si costruisca la propria gioia ed è già un’ottima ragione di per sé. Se ci si può arrabbiare per i difetti degli altri, perché allo stesso modo non rallegrarsi delle loro virtù? E’ semplice rispetto degli altri, riconoscimento del loro valore, delle qualità della mente. I benefici che ne derivano sono evidenti: volete paragonare il beneficio immediato che si ottiene nell’apprezzare con gioia le virtù altrui rispetto allo svantaggio dell’arrabbiarsi per i loro difetti? Non c’è paragone! La risposta corretta ai difetti degli altri non è avversione e rabbia, bensì compassione, e la risposta corretta alle loro virtù è allegria e sincera gioia. Avversione e rabbia causano in noi stessi e negli altri solo conflittualità e sofferenza, mentre compassione per i difetti e gioia per le virtù altrui
portano pacificazione, annullamento di ogni possibile tensione, relazioni armoniose, preziose amicizie, arricchimento interiore. Capitolo III°, Verso 14°: a) “Per cui lascerò che essi facciano di me ciò che desiderano purché ciò non diventi causa anche di un loro più piccolo danno. Ogni qualvolta qualcuno mi incontrerà possa ciò essere unicamente di beneficio per tutti.” b) “Che facciano di me qualsiasi cosa dia loro piacere. Che non si nuoccia mai ad alcuno per causa mia.”
Domanda: Sono perplessa sul “..che essi facciano di me tutto ciò che desiderano…”, ci sono limiti oggettivi, credo, che non possono essere superati, anche per impedire agli altri di fare del male a me e a loro stessi. Non è meglio mettere dei freni, delle barriere? Lama:
Dipende, nel versetto appena letto chi osserva la realtà ha la visione elevata del Bodhisattva, tutto si radica nell’attitudine altruistica e le barriere che si pongono dipendono dal grado di realizzazione del praticante spirituale. Coloro che hanno un’alta realizzazione non possono essere veramente danneggiati. Nella seconda parte del versetto si aggiunge: “Ogni qualvolta qualcuno mi incontrerà possa ciò essere unicamente di beneficio per tutti”, con quest’attitudine il praticante diventa come pianta medicinale, in grado di portare beneficio anche se l’atteggiamento mentale dell’altro è negativo. Capitolo III°, Verso 15°:
a) “Se in coloro che mi incontrano sorgerà un pensiero di devozione o di collera possa esso diventare costantemente un mezzo per realizzare ogni loro desiderio. Coloro che mi rivolgono insulti o che mi causano qualsiasi altro danno, anche se mi incolpano o mi calunniano, possano tutti avere la fortuna di ottenere l’illuminazione. Possa io essere un protettore, per coloro che ne sono privi, una guida, per coloro che sono in cammino sulla via possa essere un ponte, un’imbarcazione e una nave per tutti coloro che desiderano attraversare le acque, possa essere un’isola per coloro che sono alla ricerca di terra e una luce per quelli che desiderano la luce, possa essere un giaciglio per coloro che desiderano riposo, e un riposo e un servitore per tutti coloro che ne desiderano uno. Possa essere un gioiello dei desideri, un vaso della fortuna, mantra potenti e medicine prodigiose, possa diventare un albero che esaudisce i desideri e una mucca dell’abbondanza per il mondo. Proprio come la terra e gli altri elementi, possa io essere un sostegno per la vita delle innumerevoli creature rimanendo sino a quando esisterà lo spazio, e sino a quando non trascenderanno il dolore possa io essere fonte di vita e di sostentamento per tutti gli esseri viventi che si estendono fino ai confini dello spazio.”
b) “Dovesse la loro mente divenire irata o scontenta per causa mia, che anche questo sia causa per loro del conseguire sempre ogni meta. Coloro che mi accuseranno falsamente, e gli altri che mi faranno del male, e gli altri ancora che mi degraderanno, tutti coloro possano condividere il risveglio. Sono il protettore dei non protetti e il capocarovana dei viaggiatori. Sono diventato la barca, la strada e il ponte di coloro che desiderano raggiungere l’atra riva. Possa io essere una luce per coloro che hanno bisogno di luce. Possa io essere un letto per coloro che hanno bisogno di riposo. Possa io essere un servo per coloro che hanno bisogno di servigi, per tutti gli esseri incarnati. Possa io essere il gioiello che soddisfa i desideri, il vaso dell’abbondanza, la formula magica che sempre funziona, la potente erba medicinale, l’albero magico che conferisce ogni desiderio e la vacca da latte che soddisfa ogni bisogno, per tutti gli esseri incarnati. Proprio come la terra e gli altri elementi sono utili in molti modi agli esseri innumerevoli che dimorano in ogni parte dello spazio, così possa io essere di sostentamento in molti modi per il regno degli esseri in ogni parte dello spazio, finché tutti non abbiano ottenuto la liberazione.”
Questi versi contengono l’ideale e la pratica del Bodhisattva. In Tibet visse Milarepa, in India Santideva, due grandi praticanti e asceti che esprimono pienamente l’ideale del Bodhisattva. Santideva in un altro testo espone l’insieme delle regole morali, il compendio delle pratiche del Bodhisattva, detto anche “Vinaya di Bodhisattva”, offre una descrizione particolarmente dettagliata della pratica del Bodhisattva, dello sviluppo della mente altruistica, insegna il metodo per vincere l’attitudine all’attaccamento, alla rabbia, all’odio e a tutte le possibili disposizioni disturbanti. La “preghiera semplice” di S .Francesco ha molte analogie. Assisi è un luogo particolarmente mistico e io vissi un’esperienza intensa durante un incontro interreligioso tra cristiani, induisti e Buddhisti. In quella circostanza condividemmo canti e preghiere constatando ancora una volta che le forme e le espressioni possono essere diverse, perché diverse sono le rispettive culture, ma il contenuto profondo, l’obiettivo ultimo, è lo stesso. La commozione pervase tutti fortemente nella condivisa armonia. E’ proprio una follia non rispettare allo stesso modo tutte le tradizioni religiose.
Come sviluppare la Determinazione, la Capacità e la Forza Nel testo di Santideva è evidente come gli altri, il loro benessere, siano il vero obiettivo, il centro della pratica, quindi in nessun caso potrebbero diventare motivo di avversione e di rabbia. Capitolo IV°, dal verso 44°: a) “Sarebbe meglio per me essere arso vivo, oppure essere decapitato, piuttosto che in alcun caso sottomettermi a questi mortali nemici, le emozioni negative! I nemici ordinari quando vengono cacciati dallo stato si ritirano e si stabiliscono in un altro paese, qui radunano le loro forze per ritornare più combattivi. Ma i nostri difetti mentali non utilizzano simili stratagemmi. Nocivi difetti mentali, una volta dispersi dall’occhio della saggezza e scacciati dalla mia mente, dove andate? Da dove potete tornare per danneggiarmi? Ma, ahimé, la mia mente è debole e sono preda dell’indolenza. Tuttavia i difetti mentali non esistono negli oggetti, né nelle facoltà sensoriali, né tra questi due, né in qualsiasi altro luogo, in tal caso, dov’è la loro dimora? E da dove recano danno a tutti gli esseri migratori? Essi sono vuoti come un’illusione, un miraggio, per cui fatevi coraggio, eliminate ogni paura nel Vostro cuore e sforzatevi di percepire la loro vera natura con l’occhio della saggezza. Perché? Soffrire così a lungo negli inferni?” b “Non importa se mi tireranno fuori le budella! Che la mia testa cada pure! Ma mai mi inchinerò di fronte al nemico, le contaminazioni!
Anche se esiliato, un nemico può trovare seguito e appoggio in un altro paese, e di lì ritornare dopo aver ripreso forza. Ma non ha una risorsa simile questo nemico, le contaminazioni. Stabilito nella mia mente, dove potrebbe andare una volta scacciato? Dove potrebbe stare per lavorare alla mia distruzione? Non mi sforzo solo perché la mia mente è ottusa. Le contaminazioni sono deboli creature da sottomettere con la luce abbagliante della sapienza. Le contaminazioni non dimorano negli oggetti, né nell’insieme dei sensi, né nello spazio intermedio. Non possono dimorare in nessun altro luogo, e tuttavia sconvolgono l’intero universo. Questa non è altro che illusione! Dunque , o cuore, liberati dalla paura, dedicati alla ricerca della sapienza. Perché, senza bisogno alcuno, ti tormenti negli inferni?”
Santideva insegna come sviluppare la determinazione, la capacità e la forza di opporsi alle emozioni negative e sottolinea la differenza esistente tra il nemico esterno e il nemico interno; il nemico esterno può essere cacciato, mandato lontano, ma quello interno no, è sempre inesorabilmente al suo posto. L’unica possibilità di combatterlo e sconfiggerlo è lo sviluppo della mente di saggezza, sempre allerta, vigile. Sono particolarmente interessanti le domande poste dal 47° verso: Dove sono i difetti mentali, le emozioni negative e disturbanti, le contaminazioni? Sono forse negli
oggetti? no, sono nei sensi? no, sono in qualche luogo fisico? no, sono dunque intermedi a tutte queste situazioni? no. Non è possibile trovarli da nessuna parte, nondimeno sono devastanti. Forse le emozioni risiedono nel nostro corpo? oppure provengono dal corpo degli altri? sorgono dalla vista? dall’udito? dove sono infine? DOVE?…. eppure i danni che producono sono gravissimi! Quando si è preda di un’emozione negativa la si vorrebbe afferrare, gettare via, ma non vi è nulla da afferrare, nulla da buttare. Volendo individuare le emozioni negative si prende finalmente coscienza della grande differenza tra la loro essenza e la percezione che se ne ha e questa osservazione è il metodo per combatterle e liberarsene. In tutti i Paesi Buddhisti asiatici questo aspetto fondamentale è oggetto di lunghi e profondi studi. In Italia, relativamente allo studio del Buddhismo, potremmo essere alla scuola materna, anche se qualcuno è convinto di sapere già tutto e di avere studiato moltissimo!…Invece è importante comprendere che lo studio e la comprensione profonda sono essenziali e ancor di più lo è la pratica che ci permette di trasformarci e di costruire una buona personalità. Una persona semplice, buona, intelligente, anche se non ha ricevuto grande istruzione, non trasmetterà mai nulla di sbagliato. Se l’ignoranza è pericolosa, lo è ancor di più una cattiva personalità. Una buona personalità è la qualità essenziale di un insegnante di Dharma e di un praticante e, poiché non è possibile conoscere il cuore degli altri e quindi giudicarli, la virtù che deve essere sempre presente è la pazienza! La base della pratica è la meditazione, ma non vi è un solo modo di meditare; in genere la nostra meditazione è comoda e dunque i risultati saranno altrettanto modesti, osserviamo invece alcuni tipi di meditazione praticati nell’antico Tibet, diversi in apparenza, ma identici nella sostanza e riassunti nel verso del tantra: “Le pratiche estremamente elaborate, le pratiche poco elaborate e le pratiche senza alcuna elaborazione sono identiche”. Eccone tre esempi: 1.
Pratiche molto elaborate: la meditazione di Lama con alta realizzazione durante rituali e danze complessi, con simbolismi ed esteriorità marcate nell’espressione gestuale, nei suoni e nei colori. Il meditante deve saper coniugare la mente interiore con i molteplici aspetti esteriori e non è facile.
2.
Pratiche poco elaborate: la meditazione di Milarepa, molto semplice. Milarepa meditava lungamente, immobile, con una candela sulla testa, nel silenzio di una grotta che poteva essere aperta solo dall’esterno;
3.
Pratiche senza elaborazione alcuna: la meditazione di Santideva, grandissimo meditante, ma non riconosciuto come tale dai suoi compagni che, anzi, lo accusavano di essere il monaco più pigro del monastero.
Domanda: Non capisco, come meditava Santideva?
Lama:
Dormendo!… In monastero era famoso per saper fare solo tre cose: mangiare, dormire e adempiere alle necessità corporali. Ma lui, dormendo, meditava in modo vigile e profondo, continuamente. Esisteva allora una regola del monastero per cui, a turno, ogni monaco doveva dare un insegnamento pubblico. Quando toccò a Santideva i suoi compagni si predisposero a un grande divertimento e prepararono, tanto per cominciare, un trono altissimo su cui era impossibile arrampicarsi; Santideva non si scompose e giunto davanti al trono, tranquillamente con un semplice gesto della mano lo abbassò, poi si sedette e con umiltà iniziò il suo discorso, (il Bodhicaryavatara): “Non c’è nulla di nuovo da dire che già non sia stato detto nel passato. Io non ho alcuna abilità oratoria e nemmeno ho la presunzione che il mio discorso possa aiutare gli altri, ma semplicemente parlerò per rendere familiari questi concetti alla mia stessa mente. Tengo questo discorso come promemoria per ricordare sempre ciò che porta virtù e buone azioni alla pratica. Questo discorso può essere di beneficio a coloro che hanno le stesse capacità o abilità mentali o predisposizioni; e questo discorso possa essere loro di beneficio”.
Parliamo spesso di Pratica, ma che cos’è? Se lo studio di questo testo produce un cambiamento in noi significa che abbiamo la predisposizione di cui parlava Santideva a comprendere il significato profondo delle sue parole e dunque anche noi potremmo essere “praticanti dormienti”. Ma, sia che ci si trovi in profonda meditazione, sia che si stia consapevolmente riposando perfettamente rilassati, sia che si partecipi a un complesso cerimoniale tantrico, ciò che resta perfettamente identico e inalterato è la qualità meditativa della mente in ogni situazione. Le diverse forme di pratica non sono contraddittorie tra loro e una persona può usarle tutte con uguale capacità. IV° capitolo, verso 48° a) “Questo è il modo in cui dovrei riflettere ed operare mettendo in pratica i precetti qui illustrati. Quale malato bisognoso di cure ha riacquistato la salute ignorando le prescrizioni del dottore?.” b) “Prendendo una ferma risoluzione, dunque, mi sforzerò di seguire l’addestramento come è stato insegnato. Come può ristabilirsi qualcuno che potrebbe essere curato con un farmaco, se non segue il consiglio del medico?.”
Non è sufficiente avere la prescrizione medica (leggere, studiare, imparare, riflettere), bisogna anche assumere la medicina, cioè mettere in pratica quanto si è appreso. Noi parliamo spesso di pratica, ma che cos’è? E’ l’attitudine all’osservazione vigilante e attenta della mente come viene descritta nel testo a partire da: capitolo V°, verso 1° a) “Coloro che desiderano proteggere la loro pratica dovrebbero, con grande zelo, salvaguardare le loro menti, poiché senza vigilare sulla mente non sarà mai possibile mantenere una disciplina.” b) “Chi desideri sorvegliare la sua pratica, deve sorvegliare con scrupolo la sua mente. E’ impossibile sorvegliare la pratica senza sorvegliare la mente distratta.”
Se non si protegge la mente, se ci si distrae, essa lasciata libera, abbandonata nell’incuria, può causare enormi problemi. Vigilare sulla mente non è limitarsi ad osservarla, ma significa seguirla costantemente, come si fa con i bambini per impedire che si facciano male, pur non limitando la loro crescita, li si sorveglia discretamente, sempre. C’era in monastero un monachello che non aveva nessuna voglia di studiare, ma il maestro, ancora speranzoso di cavarne qualcosa di buono, gli ripeteva continuamente: “guarda il testo, non distrarti, guarda il testo…”. Lo studente, svogliato ma obbediente, fissava lungamente il testo senza peraltro migliorare la sua conoscenza e rimanendo nell’assoluta ignoranza, perché non aveva capito che il maestro, dicendo “guarda il testo”, lo incitava ad osservare con attenzione il contenuto, conoscendolo e imparandolo. Se non si ha la stessa vigile attenzione nei confronti della mente essa, abbandonata a se stessa, è in grado di produrre un vero inferno e Santideva osserva appunto che l’inferno altro non è che nella nostra mente. capitolo V°, versi 7° e 8° a) “Chi ha creato intenzionalmente tutte le armi che tormentano coloro che si trovano negli inferi? Chi ha creato il terreno di ferro rovente? Da dove provengono queste demoniache figure di fuoco? Il grande Saggio ha affermato che tutte queste manifestazioni sono unicamente prodotto di una mente negativa, per cui all’interno dei tre reami dell’esistenza l’unica cosa che dobbiamo temere è la mente.” b) “Chi forgiò con tanta cura le armi dell’inferno? Chi creò il pavimento di ferro rovente? E chi generò quelle sirene? Tutte quante le cose sorgono dalla mente malvagia , cantò il Saggio. Così nei tre mondi non c’è nulla di pericoloso se non la mente.”
L’inferno non è un luogo geografico individuabile fisicamente, è una proiezione mentale disturbata. Santideva affronta in modo diretto e chiaro il problema; alla nostra paura e ossessione dell’inferno risponde con una domanda/risposta: “Chi lo ha creato con tutte le sue armi?” “La nostra mente, l’inferno è all’interno di essa”.
La sola protezione che abbiamo per cambiare noi stessi è la PAZIENZA L’inferno è simile ai peggiori incubi che noi viviamo e soffriamo come se fossero reali, eppure sono illusioni, creazioni della nostra mente. Che fare dunque per vigilare con cura sulla nostra mente? Sviluppare la pratica della pazienza! Santideva affronta l’argomento al: capitolo V° dal verso 12° a) “Gli esseri ostili privi di autocontrollo sono illimitati come lo spazio, per cui non è assolutamente possibile sottometterli tutti, ma se solo elimino la rabbia che colma la mia mente ciò equivarrà a sconfiggere tutti i nemici. Dove potrei trovare abbastanza cuoio per ricoprire tutta la superficie della terrà? Tuttavia, solo indossando del cuoio sotto le suole delle mie scarpe equivarrà a ricoprire tutta la terra con esso. Similmente, non sarà mai possibile influenzare totalmente gli eventi esteriori, tuttavia, solo padroneggiando questa mia mente in modo positivo, che altro rimarrà da controllare?.” b) “Quante persone malvagie, senza fine come il cielo, posso io uccidere? Ma quando l’atteggiamento mentale dell’ira è ucciso, ucciso è ogni nemico. Dov’è tanto cuoio da coprire il mondo intero? Il vasto mondo può essere coperto con il cuoio che basta per un paio di scarpe soltanto. Allo stesso modo, poiché non posso controllare gli eventi esterni, controllerò la mia mente. E’ forse affar mio se le altre cose sono controllate? .”
La pratica della pazienza è distruggere, dominare, superare la rabbia che c’è in noi. Con il dominio della collera nessun oggetto potrà più esserci nocivo. Coloro che chiamiamo nemici, oggetti di avversione, antipatia, altro non sono che il riflesso della rabbia che cova libera in noi. Se noi, in preda alla rabbia incontrollata, decidessimo, con atto volontaristico, pur rimanendo in questo stato, di praticare la pazienza iniziando dal “dover perdonare tutti”, pretenderemmo di affrontare un’impresa assolutamente impossibile. Solo abbandonando la rabbia, eliminando ogni avversione, avviene la trasformazione interiore profonda e vera che permette l’autentica e naturale pratica della pazienza.
Come dice Santideva, se voglio percorrere tutta la terra senza ferirmi i piedi non è necessario che la ricopra interamente di cuoio, è sufficiente che ponga due piccole strisce di cuoio sotto la pianta dei piedi e potrò andare ovunque desideri. Così, dominando la collera, sono completamente protetto da ogni disturbo e il perdono avviene naturalmente, senza sforzi artificiosi e inutili. Spesso si pensa di poter superare le difficoltà cambiando gli altri, ma questa è un illusione, un’impresa impossibile, possiamo solo cambiare noi stessi proteggendo la nostra mente con la pazienza. Domanda: In linea teorica concordo su quanto hai detto, però a volte si verificano situazioni esterne pesantissime in cui si subiscono continuamente vessazioni, un esempio potrebbe essere il mobbing nei luoghi di lavoro, come si può contrastare tutto questo? Lama:
Con azioni non violente ma ugualmente incisive, come faceva Gandhi che partiva da un retroterra di profonda meditazione e quindi applicava la non violenza sulla base dell’attitudine mentale di assenza di collera; sempre quieto, sereno, rivolgeva la mente esclusivamente al bene degli altri, mai agiva per sé. Considerava con assoluta equanimità Indù, Cristiani, Buddhisti, Islamici. E’ un modello di pratica non facile da emulare, ma il più efficace. Nel caso del mobbing la pratica della pazienza diventa fonte di calma e pace.
La pazienza è sorgente di forza interiore, di intelligenza e di presenza mentale. Quando si perde il controllo non si è più credibili, ma se ci si mantiene stabili, forti, dignitosi e calmi, gli altri presteranno attenzione alle nostre ragioni. Solo con la tranquillità interiore si possono trovare i giusti mezzi per ottenere un buon risultato, soprattutto in una società dai cambiamenti repentini e dalle infinite sollecitazioni. Ricordo un episodio significativo accaduto ad una persona del gruppo di Roma che si era trasferita a Milano; poco dopo la società americana per cui lavorava decideva di ridurre il personale e probabilmente il primo ad essere licenziato sarebbe stato un padre di famiglia con due figli ancora piccoli, era necessario dunque trovare velocemente la soluzione meno dolorosa e questa persona, praticante Buddhista, si è offerta spontaneamente in cambio del collega. Oggi ci si trova continuamente a dover fronteggiare situazioni inaspettate, problemi a cui è necessario offrire risposte immediate, ma per farlo occorre avere equilibrio e pace interiore e i mezzi che suggerisce Santideva sono preziosi. Abbiamo gli strumenti occorrenti, dunque la responsabilità di praticare correttamente il Dharma oggi, secondo le esigenze del nostro tempo, è tutta ed esclusivamente nostra. Buddha, Gesù Cristo, Santideva ci hanno indicato la strada, ma adesso tocca a noi percorrerla. Nel VI° capitolo si descrive dettagliatamente la pratica della pazienza, lo stato mentale che sconfigge la rabbia.
Lo scopo della rabbia è distruttivo e da essa nasce l’odio, che non è solo l’attitudine temporanea a voler danneggiare, ma è permanente, radicata nel profondo e produce volontà di vendetta. Se dunque la rabbia in un preciso momento può provocare un disastro, l’odio è una malattia mortale. Rabbia e odio cancellano in noi ogni possibile spazio positivo, non a caso si dice che esse sono le più potenti azioni negative. Distruggono tutto, affetti, amicizie preziose, beni e la vita stessa. Quanto di più terribile avviene nel mondo è provocato da rabbia e odio e porta con sé un pesantissimo fardello di inutile ed evitabile dolore. Il capitolo VI° inizia così: a) “Ogni azione positiva portata a compimento nel corso di mille ere cosmiche, ad esempio fare offerte ai Tathagata e praticare la generosità, verrà distrutta da un singolo istante di collera. Non c’è virtù uguale alla pazienza, né negatività uguale alla collera, ragion per cui devo praticare in ogni modo la pazienza.” b) “Questa adorazione dei Sugata, la generosità, la buona condotta osservata nel corso di migliaia di eoni: l’odio distrugge tutto ciò. Non c’è male eguale all’odio, non c’è pratica spirituale uguale alla pazienza. Perciò con vari mezzi, con grande sforzo, si sviluppi la pazienza.”
E’ evidente perché la pazienza sia considerata la pratica fondamentale, la più importante e, viceversa, nel 3° versetto si spiega perché l’odio sia la più nociva delle attitudini mentali. Non esiste pensiero più doloroso dell’odio; la mente pervasa da rabbia e odio non può trovare pace in alcun luogo e in nessun modo, non prova più gioia, non riesce più a dormire, è definitivamente instabile, impazzita. E la follia è che tanto dolore distruttivo non proviene dall’esterno, ma è costruito, mattone dopo mattone, da noi stessi! Domanda. Non è possibile che quest’attitudine alla rabbia e all’odio sia causata anche dal condizionamento pesante del karma? Lama: E’ piuttosto un’abitudine. Le impronte karmiche non possono mai interrompere la pratica, che è l’unica soluzione per cambiare lo stato del karma. La pratica è più forte della più negativa forza karmica. Con la pratica si riducono naturalmente rabbia e odio sino alla loro totale dissoluzione, è garantito!.. Domanda: Sono un po’ confusa da questa equazione in cui pare che: odio, rabbia, impazienza, necessità di correggere azioni negative, anche in funzione di un senso del dovere, siano accomunate in un’unica emozione, mentre a me sembrano molto diverse, ad esempio se io vedo una persone che infrange le regole stradali e causa un grave incidente provo un moto di avversione per questo atto, mi indigno profondamente, ma questa forte reazione è rabbia? Per me no.
Lama:
Certamente, sono cose molto diverse. L’indignazione per un’azione nociva non ha nulla a che vedere con la rabbia, è espressione del dispiacere nel constatare il danno prodotto da un’azione negativa, diventerebbe rabbia se sorgesse l’impulso a voler colpire la persona responsabile del danno.
Domanda: Pazienza e sopportazione sono la stessa cosa? Perché la pazienza mi pare una virtù attiva e la sopportazione passiva. Lama:
In tibetano spesso questi termini si equivalgono anche perché, pur definendo due situazioni distinte, non vi è mai una netta separazione tra loro. Quando ci si trova in una situazione veramente pesante da sopportare, con la pratica costante della pazienza si ottiene di pari passo una diminuzione di questa insofferenza. La pazienza trasforma la percezione delle circostanze, ne diminuisce la sofferenza. Capitolo VI°, dal verso 4°:
a) “Nobili condottieri se, colmi di odio, verranno attaccati e uccisi persino dai servitori che da tali padroni hanno ottenuto onori e beni. Isolati da amici e parenti ed evitati anche da coloro che sono attratti dalla loro ricchezza, gli individui colmi di rabbia sono privi di ogni gioia, felicità e pace mentale. Per cui il nemico, la collera, è la causa di tutti questi mali, tuttavia chiunque si impegna ad eliminare la propria rabbia troverà la felicità, in questa vita e nelle future.” b) “Persino coloro che si onora con doni e rispetto, e anche i propri dipendenti, bramano di distruggere il padrone che è sfigurato dall’odio. Anche gli amici rifuggono da lui. Egli dà, ma non è onorato. In breve, non c’è verso per cui chi è incline alla rabbia sia ricco. Chi comprende che l’odio è un nemico poiché crea simili sofferenze, e con ostinazione lo colpisce, è felice in questo mondo e nel successivo.”
E’ evidente che non vi può essere pace per coloro in cui albergano rabbia e odio, ma come nasce la rabbia? Sorge verso chi si è comportato in modo disonesto o dannoso? oppure emerge quando qualcuno agisce in modo da ostacolare la realizzazione dei nostri desideri? Tali circostanze provocano in noi avversione da cui nascono collera e odio che, a loro volta, causano infelicità, nel presente e nel futuro. Collera e odio, prodotte da una forte volontà egocentrica di affermazione dell’IO e del MIO, per ironia della sorte, determinano una totale e devastante distruzione del sé. La collera e l’odio che si sviluppano prontamente di fronte a una qualsiasi minaccia all’affermazione dell’io e del mio determinano uno stato di infelicità e questa stessa infelicità si trasforma nel cibo che alimenta rabbia e odio. Si crea un circolo vizioso: io odio, quindi soffro, ma questo dolore alimenta e aumenta il mio odio che
produrrà maggior sofferenza!….Come uscirne? Santideva propone una soluzione semplicissima ma efficace: “Se non riesci a uccidere il nemico, toglili il cibo”. Capitolo VI°, versi 7° e 8° a) “Ottenendo ciò che non voglio e ciò che ostacola i miei desideri, l’insoddisfazione della mente si accresce sempre più; da essa sorge la rabbia che mi opprime e mi sconvolge. Per cui distruggerò completamente ogni causa che fa sorgere questo mio nemico, la rabbia, in quanto esso ha un’unica funzione: quella di nuocermi.” b) “Consumando il cibo della frustrazione preparato facendo l’indesiderabile e ostacolando il desiderabile, un odio tagliente mi abbatte.
Perciò distruggerò il cibo di questo ingannatore, perché questo odio non ha altro fine che il mio assassinio.”
Privata di cibo, la rabbia, non più alimentata, non potrà crescere e invece di svilupparsi deperirà naturalmente sino all’estinzione, senza che nessuna battaglia debba essere combattuta. La domanda è: come togliere cibo alla rabbia? Con la calma mentale e la pratica della pazienza. Se di fronte ad un problema si perde la pace interiore non sarà certamente favorita la sua soluzione, anzi lo si aggraverà. E’ famoso il proverbio tibetano: “Se una situazione può essere cambiata, perché dispiacersi? Ma se non può essere cambiata, perché dispiacersi?”. Il sorgere della rabbia può essere così riassunto: L’“io” e il “mio” sono causa fondamentale di rabbia e odio che sono determinati dall’incontro con le condizioni, in questo caso rappresentate dalle azioni degli altri che ostacolano l’affermazione del nostro ego e la realizzazione dei nostri desideri. Quando causa, (l’io e il mio che vogliono affermarsi o possedere), e condizioni (azioni altrui contrarie ai nostri desideri di affermazione e possesso) si incontrano sorge l’infelicità, alimento che nutre l’attitudine mentale aggressiva alla rabbia e all’odio con conseguente devastante distruzione. Anche Santideva, come la moderna psicologia, non dice di combattere, reprimere la rabbia, la soluzione è più naturale: basta toglierle il cibo. Se di fronte alle azioni degli altri proviamo disagio, perché preoccuparsene? possiamo forse cambiarne il corso? no, e se invece possiamo, perché alterarci? distruggendo con la rabbia tutte le azioni virtuose, che altro risultato otteniamo se non il nostro annientamento? e allora perché alimentare un’attitudine così nociva e inutile? Domanda: Se un’azione mi colpisce una volta sola, posso conservare la pace mentale, praticare la pazienza ed evitare la rabbia, ma se subisco vessazioni continue come nel caso del mobbing citato questa mattina, come posso non soccombere a questa infelicità?
Lama:
E’ soltanto questione di applicazione, la prima volta sarà veramente arduo, ma continuando a praticare sarà sempre meno difficile e avverrà una vera trasformazione interiore che permetterà di superare anche la vessazione quotidiana più pesante. La situazione esterna potrà rimanere inalterata ma tu sarai sempre più abile nell’affrontarla. Questo metodo è valido in ogni situazione perché permette di mantenere la calma mentale indipendentemente dalle circostanze esterne. Santideva sottolinea che ci solo molteplici e differenti cause alla rabbia: 11° verso del VI° capitolo:
a) “Per me stesso e per tutti i miei cari non desidero dolori né umiliazioni, insulti o rimproveri, ma, per i miei nemici, vale proprio l’opposto.” b) “Sofferenza, umiliazione, dure parole e disonore: non desideriamo queste cose né per noi stessi né per i nostri cari; ma è l’inverso per i nostri nemici.”
Purtroppo questa attitudine è comune, ci appare quasi naturale e quando è contraddetta da eventi esterni proviamo dispiacere e frustrazione che alimentano in noi la rabbia. Domanda: In questo testo si parla sempre di odio verso gli altri, ma non si accenna mai ad una condizione molto diffusa in occidente: “l’odio per se stessi” o se preferisci, la poca stima di sé, la percezione, in una società fortemente competitiva, di non essere all’altezza delle situazioni con conseguente maturazione di atteggiamenti autodistruttivi come l’anoressia ad esempio. Ho letto che tra i tibetani questo odio di sé è completamente sconosciuto, tanto che lo stesso Dalai Lama, in un incontro con scienziati occidentali in cui tra gli altri si affrontava questo argomento, aveva qualche difficoltà a inquadrarlo correttamente. Lama:
“Odiare se stessi”mi sembra un po’ forte, non saprei cosa dire in questo momento, forse procedendo nella lettura del testo potremo trovare la risposta.
La Meditazione nella Solitudine è molto potente Riprendiamo la questione della rabbia che si manifesta nei confronti di chi agisce in modo a noi sgradito, ci manca di rispetto, colpisce il nostro “io”, oppure attenta al nostro “mio”, come affrontarla? Esistono tre tipi di approccio: 1. 2. 3.
Accettare la sofferenza derivante dall’azione sgradita; Osservare consapevolmente il Dharma; Sviluppare la sopportazione.
In ogni caso è sempre necessario praticare la virtù della Pazienza. La pratica della pazienza si basa sull’accettazione della sofferenza che è meditazione sulla sofferenza generale del Samsara di cui è l’essenza stessa; l’esistenza condizionata è per sua natura sofferenza e riflettervi è salutare perché mostra come la sofferenza non accettata passivamente, ma vissuta come realtà intrinseca all’esistenza stessa, sia trasformata in gioia profonda. Ogni qualvolta si presenta una situazione contraria, la meditazione nella pazienza ci permette di familiarizzare con la sofferenza sino a farla scomparire naturalmente e a permetterci di acquisire la consapevolezza che, sapendo superare le piccole avversità con pace, siamo in grado di annullare anche le grandi sofferenze. La condizione del samsara è sofferenza, senza sofferenza non esiterebbero gli esseri samsarici, noi esistiamo grazie al Samsara! La meditazione sulla sofferenza porta preziosi benefici, o se preferite, i benefici prodotti dall’esperienza del dolore. Capitolo VI°, dal verso dal 12°: a) “Le cause della felicità si ottengono molto raramente, mentre le cause della sofferenza sono molteplici, tuttavia senza sperimentare il dolore non vi sarà desiderio di liberazione, per cui, mente, sii forte e determinata. Se alcuni asceti e le genti di Karnata sopportano senza alcun scopo il dolore di ferite e bruciature, perché mai sono privo del coraggio di ottenere la liberazione? Non vi è nulla che non diventi accessibile tramite una costante familiarità, per cui abituandomi a tollerare lievi preoccupazioni mi eserciterò per le grandi avversità” b) “La felicità è rara. La sofferenza persiste senza sforzo, ma solo attraverso la sofferenza si può trovare questo scampo. Perciò, o mente, sii forte!
Nel Karnata i devoti di Durga sopportano volentieri e inutilmente il dolore di ustioni, ferite e altro ancora. Dal momento che la mia meta è la liberazione, perché sono un codardo? Con la pratica nulla rimane difficile. Così, facendo pratica con i disagi minori, diventano sopportabili anche i disagi maggiori.”
Il riferimento alla sofferenza inutile di ferite e bruciature riguarda gli interventi dolorosi a cui ci si sottopone volontariamente per raggiungere uno scopo mondano: (ad esempio il pugile che combatte per denaro, gli interventi di chirurgia plastica per una maggior prestanza…). L’ultimo verso vuole infondere coraggio e indurre un atteggiamento positivo nei praticanti in modo che, nell’abitudine ad affrontare le piccole pene con serenità, imparino superare con gioia le grandi sofferenza, perché non esiste nulla che non possa essere realizzato. Nella traduzione inglese si usa unicamente il termine “sofferenza”, in tibetano invece si utilizzano più parole per esprimere quello stato di insoddisfazione, dispiacere, malessere, disagio, sofferenza fondamentale del Samsara, che si avverte particolarmente nella solitudine. La sensazione di “mancanza” che ci pervade nella solitudine non è definibile né colmabile, possiamo pensare: “mi manca una persona” e allora cerco quella persona, ma il malessere permane inalterato, “mi mancano oggetti preziosi”e allora li procuro, ma il malessere non passa. Si avverte una privazione sostanziale, ma nulla e nessuno può colmare questa carenza, è la sofferenza pervasiva del Samsara, quello che manca è il Nirvana, ma noi siamo nel samsara. La meditazione nella solitudine è molto potente perché si inoltra sino alla radice della natura della sofferenza e familiarizzando con essa comprendiamo e tocchiamo la libertà. Il senso della libertà e il senso della solitudine esistenziale coincidono, dove c’è solitudine c’è libertà e dove c’è libertà c’è solitudine, dunque, la solitudine vissuta come sofferenza può essere trasformata in solitudine vissuta nella gioia della liberazione. Questo è il grande beneficio che possono ottenere i praticanti meditatori, vivere nella gioia, dormire e morire in pace. La paura della morte sorge a causa della solitudine vissuta con dolore: si muore soli, si deve lasciare tutto ciò verso cui si ha attaccamento, da cui non si è liberi. Ieri abbiamo concluso la giornata con la preghiera di dedica dei meriti, quattro brevissimi versi che racchiudono tutto l’insegnamento del Bodhicaryavatara: “CYANg CIUB SEM CIO RINPOCÉ MA KYE PA NAM KYE GYUR CI KYE PA GNAM PA ME PA TANg KONg NE KONg TU PEL UAR SCIO” Versi che, pur tradotti con parole diverse, mantengono inalterato il profondo significato: “ Possano gli aspetti della preziosa e sublime Motivazione del Risveglio che non sono nati nascere in noi; Possano quelli che sono nati, senza deteriorarsi,
svilupparsi sempre più.” E’ la preghiera della preziosa Bodhicitta, il livello più elevato di apertura del cuore, la grande compassione che abbraccia tutto. La Bodhicitta nasce dalla pura intenzione di responsabilità universale che scaturisce dalla compassione. La grande compassione sorge dall’amorevole gentilezza, risultato del riconoscimento consapevole della grande gentilezza di tutti gli esseri senzienti, nostre madri. Dalla consapevolezza nasce il forte desiderio di ricambiare l’amorevole gentilezza. Come insegna Santideva è dunque fondamentale e necessario accogliere con cuore aperto gli esseri senzienti riconoscendo in loro la causa di tutte le buone qualità interiori. I quattro versi della preghiera di dedica sono spiegati nei dieci capitoli del Bodhicaryavatara: cap. 1. Elogio alla mente del Risveglio cap. 2. Purificazione delle azioni (o Confessione delle colpe) cap. 3. Adozione della mente del Risveglio (o della Bodhicitta) Nei primi tre capitoli si spiegano i benefici dello sviluppo della Bodhicitta auspicando che tale realizzazione possa essere ottenuta da coloro che ne sono ancora privi, e corrisponde al contenuto dei primi due versi della preghiera di dedica; il terzo e quarto verso sono rivolti invece a coloro che hanno già sviluppato la Bodhicitta, e che la devono mantenere e potenziare; dal quarto all’ottavo capitolo del testo si indica come raggiungere l’obiettivo applicando le sei Paramita. cap. 4. Vigilanza in merito alla mente del risveglio (o Come preservare il Valore delle Qualità Spirituali) cap. 5. La Sorveglianza della Consapevolezza (o Attenta Vigilanza) cap. 6. La Perfezione della Pazienza cap. 7. La Perfezione del Vigore (o La Perseveranza gioiosa) cap. 8. La Perfezione dell’Assorbimento Meditativo (o Concentrazione) La terza e ultima parte del testo riguarda il sempre maggior sviluppo della Bodhicitta per il bene di tutti gli esseri senzienti e la dedica vera e propria. cap. 9. La Perfezione della Conoscenza (o Saggezza) Cap. 10. Dedica. La Bodhicitta, meravigliosa mente di illuminazione, dona uno stato autentico di pace, rilassamento, apertura, felicità e gioia. Santideva dimostra come, grazie all’esistenza degli esseri senzienti, si generi la compassione, che deve essere dunque motivo di rispetto e devozione nei loro confronti poiché ci permettono di sviluppare la Bodhicitta e realizzare e l’illuminazione, così
come abbiamo rispetto e devozione per il Buddha che ci indica la via dell’illuminazione nel Dharma. Il rispetto verso il Buddha e gli esseri senzienti non è discriminante, non si basa sulla valutazione delle realizzazioni di ognuno, ma è determinato dall’essenza dello stesso risultato a cui entrambi conducono: l’illuminazione. La pratica della generosità, della pazienza e di ogni altra virtù è possibile grazie all’esistenza degli esseri senzienti, l’unica vera fonte di ogni cosa buona. Invece, confusione, scontento, disagio, malessere, problemi, sono, al cento per cento, esclusiva responsabilità personale. Le persone con cui viviamo, l’ambiente che ci circonda sono preziosi, sono loro che ci permettono di sviluppare ogni nostra buona potenzialità. Quest’anno ho avuto la possibilità di verificare questo aspetto visitando il piccolo villaggio di tibetani in Nepal dove vivono i miei genitori. Ci sono relazioni di buon vicinato, altre problematiche, ma ogni giorno insieme questo gruppo di persone costruisce la vita, condivide gioie, passioni, dolori, e non potrebbe esistere per loro situazione più autentica per poter praticare la Bodhicitta. Immaginate se portassi i miei genitori a Roma!… Ne sarebbero sconvolti, Mi chiederebbero dov’è lo stupa intorno al quale poter praticare la cora recitando il mantra, dove andrebbero, al Colosseo? Sarebbero considerati matti, eppure questa pratica per loro è essenziale. Potrebbero solo starsene rinchiusi in uno strano appartamento che rappresenterebbe una prigione, senza i loro compagni di vita che potrebbero fare? Nulla. La compagnia dei propri compagni di viaggio è essenziale! Riflettere profondamente su ciò apre la mente e il cuore, fa stare bene, a proprio agio, favorendo l’approccio amichevole ricco di calore e di condivisione. Poco per volta si crea il buon cuore e si gode pienamente della pace e della felicità rappresentate dall’esistenza stessa degli altri. Perché non accogliere con gioia questo dono? Perché non ricambiarlo con amorevole gentilezza? E’ tanto ovvio e semplice, eppure in genere preferiamo ignorarlo complicandoci la vita, creiamo continuamente situazioni che ci fanno arrabbiare, allontanare con stizza da tutto e da tutti fino a quando, non avendo più oggetti esterni da colpire, rivolgiamo questo astio contro noi stessi. Ecco la risposta alla precedente domanda sull’odio di sé. Siamo gli architetti e i costruttori della nostra infelicità, gli unici responsabili! Non è una vera follia e sconsiderata ottusità mentale?
La rabbia non è mai intenzionale, è una perdita di controllo Un’assurdità è anche la difficoltà che abbiamo nel gioire sinceramente, con pace, delle buone qualità degli altri, eppure se solo sapessimo godere di questo prezioso dono, oltre ad essere immediatamente felici nelle condivisione, potremmo usare quelle stesse qualità a nostro vantaggio. Al contrario, a causa dei difetti mentali, delle afflizioni distruttive, soffriamo inutilmente, è necessario sviluppare attentamente la virtù della pazienza. Capitolo VI°, dal verso 18°: a) “Questo è il risultato della mente, che può essere forte o colmo di paura, per cui devo vincere ogni dolore senza essere influenzato dalla difficoltà. La mente dei saggi, anche quando sperimentano dolore, rimane serena e chiara in quanto nella lotta contro i difetti mentali molteplici sono le difficoltà, come in battaglia. I guerrieri coraggiosi sono coloro che, non curandosi di qualsiasi dolore, distruggono i veri nemici come l’odio e così via; i guerrieri ordinari uccidono semplicemente cadaveri. Inoltre la sofferenza ha un suo valore, a causa del dolore di eliminano l’orgoglio e l’arroganza, si prova compassione per coloro che vagano nell’esistenza ciclica, si evita il male e si gioisce nella pratica della virtù.” b) “Questo deriva dall’audacia o dalla codardia della mente. Perciò bisogna divenire invincibili di fronte alla sofferenza e superare il disagio.
Neppure nella sofferenza il saggio dovrebbe permettere che la sua serena fiducia mentale sia turbata, poiché la battaglia è con le contaminazioni, e in guerra il dolore si vince facilmente. Coloro che vincono il nemico prendendo sul petto i colpi dell’avversario sono gli eroi trionfanti, mentre gli altri uccidono chi è già morto. La virtù della sofferenza non ha rivali, poiché, per il trauma che provoca, l’ebbrezza svanisce e sorgono compassione per gli esseri nell’esistenza ciclica, timore del male e desiderio del Vittorioso.”
La sofferenza ha la preziosa qualità di produrre l’umiltà, di generare la compassione verso coloro che soffrono e di far riflettere sull’essenza della sofferenza stessa, una meditazione che induce a sviluppare le azioni virtuose e ad abbandonare quelle nocive. La reazione della rabbia perde consistenza, che cos’è la rabbia? con chi ci arrabbiamo? perché? non è così automatica la risposta. Ad esempio, un automobilista ci viene addosso perché i freni dell’auto si sono improvvisamente rotti, ci arrabbiamo con lui? ma non aveva intenzione di farci del male e allora perché arrabbiarsi con lui? ci
arrabbiamo con l’auto che si è rotta? La nostra rabbia non ha un vero oggetto e non è mai intenzionale, sarebbe più corretto dire che è una perdita di controllo. Domanda: Non sempre, qualche volta mi arrabbio intenzionalmente: ho davanti a me una persona che ha un comportamento che reputo scorretto e quindi mi pongo lucidamente il quesito se arrabbiarmi o no e poi decido che voglio arrabbiarmi e dico cose anche molto dure. Lucidamente si possono decidere le nefandezze peggiori, posso anche decidere di uccidere qualcuno e programmo nei dettagli come commettere l’omicidio. Lama:
Ma la rabbia è altra cosa, avviene a causa di fattori circostanziali e incontrollabili. Se tu decidi a mente fredda di fare del male a qualcuno è già subentrato l’odio, non è più rabbia, oppure il tuo può essere un atteggiamento di benevolenza nei confronti dell’altro per correggere un comportamento dannoso; un genitore può decidere, per amore, di essere particolarmente duro e di punire severamente il figlio che sbaglia, ma non è rabbia.
Domanda: Prima hai tessuto l’elogio della solitudine, poi quello della compagnia, poi hai detto che tutto quel che c’è di male è colpa nostra, e tutto quel che c’è di bene è merito degli altri. A questo punto sono davvero confuso. Lama:
Il male non è “colpa nostra” ma “responsabilità nostra”, è una cosa ben diversa. Ognuno ha piena capacità di risolvere i problemi e di non crearsi sofferenza, il risultato è esclusiva responsabilità propria. Il fatto poi che tutta la felicità derivi dagli altri, dalla loro semplice esistenza non significa che non possa venire anche da noi stessi, l’una cosa non esclude l’altra, rientra sempre nella responsabilità, io ho tutti gli strumenti per essere felice, ma posso decidere di non esserlo. Ma senza la collaborazione e l’aiuto degli altri, senza la condivisione compassionevole e la compagnia degli altri non vi è il più piccolo spazio per la felicità. E abbiamo bisogno della solitudine, che non è rifuggire gli altri, ma è meditare ed evitare i pensieri disturbanti, le afflizioni mentali. “pensare, pensare e ancora pensare, riflettere, guardare, ancora e ancora, sentire, ancora e ancora, questa è la meditazione”
Quinta Parte
SUPREMA CONOSCENZA E REALTA’
Primo giorno
La pratica del Dharma E’ sempre piacevole trascorrere tempo felice con gli amici spirituali. Il tempo passa, la vita passa e nessuno può arrestarne il movimento, si guarda indietro e ci si interroga: “un anno, due anni, tanti anni sono andati e in tutto questo tempo io che cosa ho costruito di significativo, di bello, di giusto che possa ricordare con gioia?....” Qualche fuggevole atto significativo lo si può anche ricordare, ma la maggior parte del tempo è scomparso, ci si accorge di averlo perduto insieme alla preziosa vita. Nella società moderna il motto è: “il tempo è denaro” e dunque i minuti trascorsi senza produrre sono considerati inutili, persi, invece nella visione spirituale il tempo realmente perduto è ogni attimo vissuto al di fuori del significato dell’esistenza stessa. I mio motto è: “Il tempo è Dharma”, ogni occasione è buona per costruire il Dharma e dare significato alla propria vita. Ma cos’è il Dharma? Il Dharma non è in contraddizione con la quotidianità, non è opposto al samsara, al contrario, vi trova integrazione ed espressione. Spesso i praticanti che si fermano ad un livello superficiale della dottrina ne fraintendono il significato profondono e guardano al Samsara e al Nirvana come a due opposti assolutamente contradditori, incapaci di coesistere, poiché il primo deve essere abbandonato e il secondo realizzato. Una visione parziale e fuorviante perché è vero che pratichiamo per raggiungere il Nirvana, ma non lo abbiamo ancora realizzato, siamo totalmente immersi nel samsara, nell’esistenza quotidiana ed esattamente in questa quotidianità dobbiamo cercare il significato profondo che consenta la realizzazione del Dharma. Sarebbe assurdo e sbagliato vivere nel samsara provandone soltanto disgusto e repulsione, è invece necessario ricercarne l’armonia e il senso, pur nella consapevolezza che è davvero fonte di sofferenza, dolore e problemi, ma è anche una grande opportunità per mutare le condizioni e aprire il varco verso la liberazione. L’aspirazione ad uscire dal samsara, a rinunciarvi e opporsi è legittima ma è necessario mantenere sempre viva la consapevolezza che noi viviamo nel samsara ogni attimo di vita, che qui e ora è la nostra casa. L’aspirazione al Nirvana è giusta, ma ne siamo ancora lontani, non ne abbiamo esperienza, l’unica esperienza che conosciamo è il samsara e solo in esso possiamo ricercare il significato dell’esistenza trasformarne l’aspetto negativo in positivo, realizzando l’integrazione armonica nella pratica del Dharma. La pratica del Dharma non è una procedura formale, ma piuttosto un fenomeno naturale, nulla può disturbarne l’esistenza, esso è presente, semplicemente deve essere
trovato. Il Buddha Sakyamuni, nell’istante in cui ebbe l’illuminazione incontrò il Dharma e disse “Ecco, ho trovato il Dharma, il nettare in grado di trasformare il Samsara”. Immaginiamo di essere in un estate torrida, siamo assonnati, intorpiditi, stanchi quando scorgiamo una fonte di limpida acqua fresca, vi ci immergiamo con gioia e immediatamente ne siamo rinvigoriti, pieni di energia vitale, allo stesso modo l’ambrosia del Dharma trasforma completamente la situazione. A volte il samsara è pesante, confuso, oscuro ed è proprio in quel momento che il Dharma ha la capacità di trasformare repentinamente la situazione la quale, pur rimanendo a tutti gli effetti nel samsara, è vissuta in modo completamente diverso, è avvenuta la trasformazione in “buon samsara” che permetterà di raggiungere il Nirvana, è il Dharma, base necessaria alla realizzazione del Nirvana. Il Nirvana è una realtà troppo complessa per noi che non ne abbiamo esperienza, mentre conosciamo bene l’esperienza del samsara, la nostra casa, la nostra quotidianità, è il tutto che può essere trasformato positivamente dal nettare del Dharma. Per questo Buddha, nell’istante dell’illuminazione disse: “Ho trovato il Dharma che è come nettare che tutto purifica”, non ha detto: “qualcuno mi ha dato il Dharma” ha cioè voluto sottolineare che ha incontrato una realtà già esistente, un fenomeno naturale sempre presente, in ogni momento e in ogni luogo. Il Dharma ha particolari e specifiche qualità: ¾ di essere profondo, di conseguenza di difficile comprensione; ¾ di essere pace, assolutamente positivo, esente da qualsiasi fattore che provochi danno; ¾ di essere luminosa chiarezza, non composto da forma, la sua natura è simile allo spazio; ¾ di esistere naturalmente, non creato, non costruito, non prodotto da alcuno o da qualcosa, assolutamente privo di fabbricazioni, di elaborazioni mentali, di concettualità. Nessun pensiero concettuale potrà mai comprenderlo pienamente. Per queste sue qualità il Dharma è come nettare che rinfresca gli esseri samsarici e purifica il samsara. Nella vita del Buddha è scritto che ogni giorno esseri individuali scoprono il Dharma. Per trovare il Dharma è necessario percorrere il sentiero che conduce ad esso e che, secondo la classificazione canonica, si articola su tre passaggi :
Addestramento nella moralità o etica superiore;
Addestramento nella concentrazione o contemplazione superiore;
Addestramento nella saggezza superiore.
Il primo gradino è l’addestramento nell’etica superiore, il mezzo che permette di purificare le contaminazioni grossolane della mente rendendoci capaci di non
provocare danno fisicamente, verbalmente o mentalmente, cioè tramite corpo, parola e mente. La pratica della moralità è in se stessa Dharma. Nel trattato filosofico dell’Abhidharmakosa il Dharma è osservato in due particolari aspetti:
Il primo riguarda la realizzazione del modo ultimo di esistenza dei fenomeni ed è il Dharma in senso proprio, primario.
Il secondo si riferisce invece al metodo della conoscenza ed è il supporto necessario per giungerne alla realizzazione, è secondario ma fondamentale, consiste nella realizzazione della conoscenza contenuta nei testi e trasmessa dagli amici spirituali che la posseggono.
La pratica dell’addestramento nella moralità superiore è essa stessa Dharma. Ugualmente l’addestramento nella pratica della concentrazione, o contemplazione superiore è Dharma, anche se non ancora il Dharma ultimo della Saggezza. Nelle tre categorie di Dharma, moralità, concentrazione e saggezza, la Saggezza è il Dharma primario, la moralità e la concentrazione sono il Dharma di supporto che conduce alla saggezza primaria. Nelle trascrizioni in pali il Dharma è suddiviso in tre addestramenti superiori: Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore; Sutrapitaka, addestramento nella concentrazione superiore; Abhidharmapitaka, addestramento e realizzazione della saggezza. In tutte le tradizioni buddhiste, nel Mahayana come nel Vajrayana, compaiono descrizioni molto simili relativamente a questa suddivisione e non potrebbe essere altrimenti perché concentrazione e saggezza sono espressione stessa del Dharma. Il Vinayapitaka, addestramento nella moralità superiore, significa addestramento a non produrre danno e sofferenza né con il corpo, né con la parola, né con la mente e le pratiche necessarie alla sua realizzazione sono la rinuncia, la compassione e l’amorevole gentilezza. Tutte le difficoltà e i problemi che si presentano sono il risultato naturale di danno e sofferenza procurato ad altri. E’ un gioco infinito: provochiamo danno all’altro il quale reagisce prontamente con pari moneta e dunque sorge la nostra immediata risposta e così di continuo, sofferenza su sofferenza, nella ruota senza fine del samsara. E’ un po’ come il gioco del calcio, si fatica tanto per combattersi, per segnare goal nella porta avversaria, che poi dovrà ricambiare, mentre sarebbe meno faticoso, collaborare e quindi fare i goal prima in una porta e poi nell’altra, così tutti sarebbero contenti! Naturalmente stiamo scherzando, però ugualmente l’esempio mostra come il Dharma possa essere applicato in ogni situazione in modo creativo e benefico. L’addestramento alla moralità superiore è il primo passo nella pratica del Dharma e consiste nel contrastare l’abitudine a reiterare il reciproco scambio di negatività e di
danno nell’infinita produzione di sofferenza. Il solo modo per contrastare gli atteggiamenti distruttivi è accogliere l'unica condizione essenziale: la generosità. La generosità è la condizione fondamentale che permette l’accesso alla pratica della moralità, si attua prima di tutto sviluppando l’aspetto del non-afferrare che, anche se non è totale, sottintende già una forte diminuzione dell’attaccamento a oggetti, situazioni e persone. L’attitudine a danneggiare gli altri si sviluppa a causa dell’attaccamento, che non è solo quello rivolto al denaro o agli oggetti materiali, grossolani, ma quello più profondo, sottile e pericoloso che è l’attaccamento alle proprie idee, alla propria visione della realtà, a concetti astratti. Sono infiniti gli esempi che documentano le reazioni più curiose. Ricordo un amico che aveva l’abitudine di fare colazione ogni mattina nello stesso bar, ma ne era scontento perchè i gestori erano, a suo dire, così scostanti da indurlo a pensare che gli mancassero di rispetto. L’offesa era tale da giustificare la vendetta, espressa infine nella decisione di abbandonare il locale privando in questo modo i colpevoli di un guadagno. Ma cos’è la mancanza di rispetto? Rispetto a chi? a cosa? e perché? Si è così fortemente attaccati all’io che tutto è vissuto secondo modalità di un “presunto rispetto” dovuto a questo sé, ci si offende e si soffre, si applica un’immediata ritorsione creando ulteriore sofferenza!… Questa è mancanza di generosità e costruzione della propria infelicità. La generosità non conosce attaccamento al proprio io, al rispetto che si pensa gli sia dovuto e senza generosità non c’è modo di praticare l’addestramento superiore nella moralità. L’attaccamento al rispetto al sé è fortissimo e devastante, se non lo si ottiene ci si arrabbia sino a perdere ogni controllo, si può picchiare, insultare, offendere, tutte azioni che creano grande sofferenza a chi le attua e a chi le subisce, sono la sofferenza samsarica, una sofferenza che non ha un retroterra di verità ma che si fonda su falsità e irrealtà. L’alto addestramento all’etica è amore e compassione. Nella rinuncia si attua la compassione amorevole. L’amore e la compassione liberano dalla sofferenza dell’irrealtà e sono strettamente connessi con l’attitudine alla generosità. L’addestramento superiore all’etica è Dharma, ma come procedere? La pratica nella moralità non è recitare un testo, non è abbigliarsi secondo canoni stabiliti, né di indossare un particolare cappello, non è nemmeno star seduti sul trono, è piuttosto l’attitudine di amore e compassione, di generosità in grado di spezzare nettamente il gioco vizioso della reciproca creazione di danno, attuato con le cattive parole e le azioni malevoli. Con l’interruzione del gioco se ne annulla la potenziale conseguenza, la sofferenza che ne deriva. Nella cultura occidentale si dà un forte valore al perdono, certamente grazie al cristianesimo, il perdono è un’attitudine fondamentale, una pratica meravigliosa, è
generosità. Gesù Cristo insegna che perdonando gli errori altrui si trova la pace, ogni perdono implica una vera profondissima, gioiosa pace! Per me è particolarmente toccante nella liturgia cristiana, durante la Messa, quando le persone si scambiano un gesto di pace. Il perdono è fondamentale, è la pratica dell’alto addestramento nella moralità, è il modo per essere pace, per creare pace. In sanscrito l’addestramento all’alta moralità è detto “scila”, in tibetano “sil-tob” e significa “realizzare la freschezza”. Il perdono è il modo per realizzare la pacifica freschezza e la condizione esenziale per poter perdonare è la generosità. Nella filosofia buddhista il concetto di pazienza coincide con il perdono. Viceversa in occidente si pensa che essendo troppo pazienti si finirà prima o poi per esplodere disastrosamente ma, se così fosse, sarebbe un’ottima ragione per perdonare immediatamente, senza applicare a lungo la pazienza. Nella psicologia occidentale si ha uno strano concetto del “portare pazienza” che equivale a caricarsi negativamente di rabbia repressa. Il profondo e vero significato della pazienza è il perdono, reprimere la rabbia accresce il rancore e il peso della “pazienza” sulle spalle è insopportabile, incrementa la negatività allontanando sempre di più dalla pace. La pazienza non è la soppressione forzata della collera ma è perdono spontaneo che nasce dalla generosità. Comprendere davvero il significato dell’addestramento superiore nella moralità ha un riscontro immediato in ogni attività, nella vita di tutti i giorni, dal mattino alla sera e dalla sera al mattino, è la pratica del Dharma che produce la conseguenza dell’essere in pace, felici, gioiosi, in salute, di godere di un’attività proficua, dell’assaporare la bontà del cibo, dell’accorgersi che la propria camera è più bella, accogliente, che ogni aspetto della vita è migliore. Può aiutare la lettura degli “Otto Versi della Trasformazione della Mente” di Kadampa Geshe Langri Tangpa: “Considerando tutti gli esseri senzienti superiori alla gemma che esaudisce i desideri per realizzare il fine supremo1 possa io costantemente prenderli a cuore. Quando sarò con gli altri, riterrò me stesso come il meno importante, e mi prenderò cura di loro fin nel profondo del cuore come se ognuno fosse il più elevato degli esseri. Vigile, ogni volta che sorge un’emozione negativa2 che possa nuocere a me o agli altri, l’affronterò e l’ eliminerò senza indugio. Vedendo gli esseri in preda alla malvagità 1 Fine supremo: Lo stato di completa illuminazione, lo stato di Buddha. 2 Emozione negativa: (in tibetano nyon mong) contaminazioni mentali quali rabbia, attaccamento, ignoranza, ecc.
intenti a violente azioni negative3, sopraffatti da sofferenze4, avrò sempre cura di tali creature così rare, come se avessi trovato un tesoro prezioso. Quando altri, per invidia, mi maltratteranno, mi insulteranno o faranno cose simili, accetterò la sconfitta e offrirò loro la vittoria Quando qualcuno a cui ho fatto del bene e in cui ho riposto grandi speranze mi infligge un danno terribile, lo considererò il mio santo amico spirituale5 (x 3 volte):
In breve, direttamente e indirettamente, offro ogni beneficio e felicità a tutti gli esseri senzienti, mie madri6 possa io segretamente prendere su di me tutte le loro azioni negative e sofferenze. Possa la pratica non essere mai contaminata dalle idee causate dalle otto preoccupazioni mondane7 e, consapevole che tutte le cose sono illusorie, possa io, privo di attaccamento, essere libero dal samsara8.
Il testo “Gli otto versi della Trasformazione della Mente” è un importantissimo scritto di Kadampa Geshe Langri Tangpa. Fa parte degli insegnamenti di Lo Jong9 e fu composto nel periodo in cui in Tibet prosperava la scuola Ka dam. 3 Azioni negative: (in tibetano dig pa) disposizione mentale causata da un’azione negativa commessa. 4 Sofferenze: (in pali dukkha) la Verità della Sofferenza, che ha tre livelli: sofferenza del dolore, sofferenza del cambiamento, sofferenza del samsara. 5 Amico spirituale: (in tibetano ge wei she nyen, Geshe) colui che aiuta a compiere azioni virtuose. 6 Madri: > tutti gli esseri senzienti sono state nostre madri; > la persona più cara o quella più giovevole. 7 Otto preoccupazioni mondane: Le idee generate dal guardare attraverso gli occhi dell’attaccamento e dell’avversione, sono: piacere e dispiacere, vittoria e perdita, lode e biasimo, gloria e disgrazia. 8 Samsara: (termine sanscrito, in tibetano khor wa) attaccamento bramoso alle cose mondane, che fa restare nel circolo vizioso della sofferenza e dell’insoddisfazione. 9 Lo jong: (termine tibetano) “Lo” significa “mente”, “pensiero”, “coscienza”, ma in questo contesto si riferisce piuttosto all’intenzione “Jong” significa “trasformare”, esercitare, “praticare”. Insieme vengono tradotti come “trasformazione della mente”, come nel titolo del testo; “Lo jong” forma breve di “jang chub kyi sem la lo jong wa”, significa trasformare la mente ordinaria in Bodhicitta, ossia tecnica per la pratica del Bodhicitta. (Il termine sanscrito “Bodhicitta” designa qui una pura aspirazione a raggiungere lo stato di Buddha con l,o scopo di condurre tutti gli esseri senzienti all’illuminazione completa).
Il Sutra del Cuore della Perfezione di Saggezza La traduzione italiana con le relative note, è stata redatta dall’Istituto Lamrim di Roma su testo originale tibetano e con l’ausilio delle traduzioni inglesi.
“Il Cuore della Perfezione di Saggezza” Il titolo sanscrito è : Bhagavati10 Prajna Paramita Hridaya11 “Così una volta udii: Il Bhagavan12 dimorava a Rajagrha13, presso il Picco dell’Avvoltoio14, con un gran numero di Arhat15 e un gran numero di Bodhisattva16 e a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo17 sulla varietà dei fenomeni18 chiamato “percezione profonda”19. In quello stesso tempo, l’arya20 Avalokitesvara21, il Bodhisattva mahasattva22, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza23 e vide che anche i cinque aggregati24 sono vuoti di natura intrinseca25. 10 Bhagavati: (termine sanscrito, in tibetano: gyal wai yum) Madre Buddha, si riferisce alla “Saggezza della Perfezione”, che è la madre in quanto causa fondamentale dell’illuminazione. 11 Bhagavati Prajna Paramita Hridaya: (sanscrito) il cuore della Bhagavathi, la perfezione della saggezza. 12 Bhagavan: (termine sanscrito, in tibetano: chom dhen de) titolo generalmente attribuito a un essere illuminato; letteralmente significa “colui che ha completamente illuminato gli ostacoli e possiede tutte le qualità”; sinonimo di “Tathagata” (sanscrito) e di “de war sheg pa” (tibetano) nel senso di “colui che ha raggiunto lo stato di piena calma e piena illuminazione”. In questo brano ci si riferisce al Buddha Shakyamuni. 13 Rajagrha: (termine sanscrito, in tibetano: gyal poe khab) luogo nel quale si erge un palazzo reale. 14 Picco dell’Avvoltoio: montagna con la cima a forma di avvoltoio; luogo in cui venne impartito il sutra secondo la tradizione. Viene identificato popolarmente in una collina vicino a Rajagrha, nello stato indiano del Bihar. 15 Arhat: (termine sanscrito, in tibetano: dra chom pa) colui che ha raggiunto il Nirvana. Detto anche Sravaka o Pratyekabuddha. Nel testo originale tibetano il termine è Bikshu, ma si intende Arhat. 16 Bodhisattva: (termine sanscrito, in tibetano: Jang chub sem pa). Essere che possiede il Bodhicitta. 17 Assorbimento meditativo: (in sanscrito: samadhi, in tibetano: ting nge zin) una forma di meditazione. 18 Varietà dei fenomeni: (in tibetano: choe kyi nam drang) i 5 aggregati (forme, percezioni, formazioni mentali e della coscienza); le 12 fonti dei sensi (le sei sorgenti dei sensi e le sei facoltà); i 18 elementi ( le sei sorgenti dei sensi, le sei facoltà e le sei coscienze); i 12 anelli della catena dell’origine interdipendente (Ignoranza, Azione volontaria, Coscienza, Nome e Forma, Sorgenti dei sensi, Contatto, Sensazioni, Attaccamento, Brama, Concepimento, Nascita, Invecchiamento e Morte); le 4 Nobili Verità (la Verità della sofferenza, la Verità delle cause della sofferenza, la Verità della cessazione e la Verità del sentiero); i 5 sentieri (Accumulazione, Preparazione, Visione, Meditazione e Non-più-apprendere); le 4 fiducie; i 10 poteri di Buddha; ecc… 19 Percezione Profonda: (in tibetano: zab mo nhang wa) vedere la vera e profonda realtà ultima dei fenomeni. 20 Arya: (termine sanscrito, in tibetano: Phag pei Gang zag) un Essere superiore che ha raggiunto la saggezza della diretta realizzazione della vacuità o che ha seguito il sentiero in uno dei veicoli. 21 Avalokitesvara: (termine sanscrito, in tibetano: Chen re zig) conosciuto come il “Buddha della compassione”. 22 Bodhisattva mahasattva: (termine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po) Bodhisattva di ordine superiore o che ha conseguito il sentiero dei Bodhisattva o il sentiero mahayana della visione. 23 La pratica della profonda perfezione della saggezza: (in tibetano: she rab kyi pha rol du chin pai zab moi chod pa). 24 I cinque aggregati: (in sanscrito: skandha, in tibetano: phung po ngha) Forme, Sensazioni, Percezioni, Formazioni mentali, e della Coscienza. 25 Vuoti di esistenza intrinseca: (in tibetano: ran shin gyi tong pa).
Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu26 Shariputra27 si rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva28 e gli disse: “come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza?” Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva29, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo: dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”. “La forma è vuota, la Vacuità è forma; la Vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che Vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza. Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono Vacuità; essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.” “Quindi, Shariputra, nella Vacuità non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza. Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma, né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a includere nessun elemento della coscienza mentale. Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte. Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.” “Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana30. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione della saggezza”. “Quindi, si dovrebbe sapere che il mantra31 della perfezione della saggezza – il mantra della grande conoscenza, il mantra supremo, il mantra uguale a ciò che non ha uguale, il mantra che fa tacere tutte le sofferenze – è vero perché non è ingannevole. Si proclama il mantra della perfezione della saggezza: 26 Venerabile Bikshu: (in tibetano: thse dan dhen pa) titolo attribuito a un bikshu con mente sveglia e intelligente 27 Shariputra: figlio di Sharit, conosciuto come bikshu dalla mente acuta fra i discepoli di Buddha Shakyamuni. 28 Arya Avalokitesvara Bodhisattva mahasattva: (temine sanscrito, in tibetano: jang chub sem pa sem pa chen po phags pa chen re zig) si riferisce a un singolo individuo conosciuto come Bodhisattva mahasattva Avalokitesvara, diverso dal “Buddha della compassione” Avalokitesvara. Qui infatti viene identificato come un Bodhisattva sotto le sembianze di un bikshu, Bodhisattva, mahasattva e arya. 29 Figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva: (in tibetano: rigs kyi bu vam rigs kyi bumo). 30 Nirvana: (termine sanscrito, in tibetano: Nyang De) essere andato oltre la sofferenza. 31 Mantra: (termine sanscrito, in tibetano: yid kyob) che protegge la mente.
TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda perfezione della saggezza”. Quindi, il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente. “Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata32 se ne rallegreranno”. “Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura33 e dei gandharva34, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva detto.”
In sintesi, durante la prima sessione dell’insegnamento abbiamo affrontato il Dharma, la sua applicazione nell’addestramento alla moralità superiore, ricordato che la pratica del Dharma non è una lotta contro il samsara ma un metodo di integrazione capace di trasformazione gli aspetti negativi in positivi, pienamente parte del quotidiano, in grado di diminuire la sofferenza nell’armonia di una vita generosa e ricca di pace gioiosa. La pratica nell’addestramento alla moralità superiore attraverso la generosità e la pazienza consiste nell’affrontare con il perdono i problemi derivanti dai comportamenti altrui, insegna ad essere tolleranti e comprensivi in modo che qualsiasi azione negativa non sia mai motivo di collera ma piuttosto di amore e di compassione, ci fa vivere pacificamente e armoniosamente con tutto e tutti. Inoltre, Generosità, Pazienza, Etica sono mezzi che permettono di accumulare meriti, fattore importante per giungere alla maturazione e realizzazione dei propri bisogni e desideri. L’addestramento all’etica superiore comprende più aspetti: rinuncia, pazienza, amore e compassione. Il secondo gradino, Sutrapitaka, l’addestramento superiore alla concentrazione, è essenziale per entrare nel terzo livello, Abhidharmapitaka, l’addestramento alla realizzazione della saggezza. Al fine di ottenere un buon livello di concentrazione è necessario prima aver raggiunto un buon livello nella pratica dell’etica. Il percorso deve essere compiuto senza saltare nessun gradino, con calma e determinazione, passo dopo passo. 32 Thatagata: (termine sanscrito) sinonimo di Bhagavan. 33 Asura: (termine sanscrito, in tibetano: lha ma yin) semi-dei che appartengono posto tra quello degli umani e degli dei. 34 Gandharva: (termine sanscrito, in tibetano: di zha) esseri senza forma, che vivono nutrendosi di odori.
L’addestramento all’etica è il fondamento dell’addestramento alla concentrazione. Nell’etica si eliminano tutti gli ostacoli allo sviluppo della concentrazione, la quale scaturirà naturalmente, ecco perché il percorso è anche detto di “entusiastica perseveranza” o “sforzo gioioso”. Avendo realizzato un buon grado di concentrazione grazie alla pratica della moralità ci si avvicina naturalmente alla pratica dell’addestramento alla saggezza superiore. Gli “Otto versi della Trasformazione della Mente” richiamano la pratica dell’addestramento all’etica superiore con particolare riguardo all’amore e alla compassione. La seconda lettura “Il Cuore della Perfezione della Saggezza” comunemente detto “Sutra del Cuore” o “Sutra dell’essenza della Saggezza”, riguarda direttamente il terzo addestramento, alla saggezza superiore, l’Abhidharmapitaka, la cui pratica implica l’aver già realizzato i primi due, dell’Etica e della Concentrazione. Le tre raccolte, Vinayapitaka, Sutrapitaka e Abhidharmapitaka sono suddivise a seconda dell’argomento trattato. Il “Sutra del Cuore”, che analizza quasi esclusivamente la Vacuità o il modo ultimo di esistenza dei fenomeni, appartiene alla raccolta degli insegnamenti dell’Abhidharmapitaka, è attribuito alla tradizione Mahayana perché focalizzato sulla pratica dei Bodhisattva e non incluso nel canone pali della tradizione Theravada. Comunque è bene non perdersi in distinzioni troppo nette perché, non avendo una conoscenza approfondita della materia, si corre il rischio di cadere in fraintendimenti. Nel Buddhismo vi è una raccolta di insegnamenti che proviene dal canone pali, cioè trascritti nel linguaggio originale del Buddha e che costituisce la base dell’insegnamento della scuola Theravada che si è estesa in Sri Lanka, Thailandia Birmania, Laos, e, una seconda raccolta di insegnamenti scritta in canone sanscrito che si è esteso in Tibet, Cina e Giappone. Entrambe le tradizioni, Theravada e Mahayana, trattano gli stessi soggetti dell’insegnamento del Buddha. Per quanto riguarda la tradizione Vajrayana, tibetana è contenuta nel canone sanscrito, non ricordo se sia presente anche del canone pali. Un’ulteriore complicazione è data dalla trasposizione del testo sanscrito nelle differenti lingue e culture di Tibet e Cina. Le numerose traduzioni hanno fatto perdere quasi completamente la conoscenza del testo originale sanscrito. Si può affermare che i riferimenti al Vajrayana sono completi nella traduzione tibetana, ma solo in parte compresi in quella cinese, la quale a sua volta è servita come base per quella giapponese. IL “Sutra del Cuore” è presente in entrambe le versioni, tibetana e cinese, ma non lo si ritrova nel canone pali, il che non ha un particolare significato, perché il canone pali contiene completamente l’insegnamento del Buddha e, oggi più che mai, assume grande importanza poiché è l’unico scritto nella lingua originale ancora viva, letta e parlata da studiosi indiani e dei paesi del sudest asiatico, mentre così non è più per il
sanscrito. Auspicherei che nei monasteri tibetani si studiasse sia il sanscrito che il pali; noi tibetani siamo orgogliosi di poter approfondire tutti i testi della filosofia buddhista nella nostra lingua, ma è un orgoglio ingiustificato perché il tibetano non è la lingua originale, ha i limiti delle traduzioni con il conseguente incremento delle probabilità di errore. Solo attraverso la conoscenza diretta delle scritture originali si può diventare ed essere considerati a livello internazionale veri studiosi, eruditi nella filosofia buddhista. Noi tibetani, troppo sicuri di noi stessi e delle nostre conoscenze, ci siamo arroccati in un ingiustificato orgoglio e abbiamo perso la nostra terra! Il soffermarsi così a lungo sul valore del linguaggio e sulla necessità di riferirsi sempre alle fonti originali è dovuto alla serietà del problema. A volte, esaminando i testi originali del canone pali, si constata che la traduzione letterale non coincide affatto, anche se il senso è lo stesso, ciò significa che se non si procedesse ad un ulteriore lavoro interpretativo e fedele si potrebbero prendere cantonate gigantesche e incorrere in gravi errori dottrinali. La salvezza dei tibetani è la loro buona pratica del Dharma, forse non sono eruditi nella dottrina, ma ottimi nella pratica. Ho sempre nella mia mente l’esempio di mia madre che forse non saprà esprimere a parole il Dharma ma lo pratica con assoluta sincerità e naturalezza, sin dall’infanzia, ogni giorno della sua vita. La pratica del Dharma dipende più dalla continuità e maturazione, di vita in vita, che non dalla conoscenza intellettuale o dalla capacità oratoria. Probabilmente per questo motivo si trovano ottimi praticanti tra le persone nate e vissute in Tibet, perché hanno potuto rinascere più volte in un luogo adatto alla spiritualità e all’approfondimento della pratica, con questo non intendo dire che i tibetani siano un gruppo ristretto di individui in grado di rinascere sempre nello stesso posto, ma che chiunque nato in Tibet è favorito e può aver vissuto molte altre volte in luoghi altrettanto idonei allo sviluppo della pratica con conseguente maturazione delle buone qualità spirituali. Il testo del “Il Sutra della Perfezione della Saggezza” che stiamo affrontando appartiene alla versione della tradizione mahayana, il Buddha ne ha dato l’insegnamento in India su un monte chiamato, per la sua particolare forma, “Picco dell’Avvoltoio”, nei dintorni di Rajagrha, non lontano da Bodhgaya. Oggi esistono due luoghi denominati “Picco dell’Avvoltoio”, uno riconosciuto dai giapponesi che vi hanno anche costruito il tempio della Pace, e un altro dai tibetani che hanno solo posto le bandiere di preghiera, entrambi sono validi perché tutti i luoghi di pellegrinaggio hanno un effetto potente sulla mente di coloro che vi si recano con vera devozione. Io ho molta devozione nel Buddha e nei suoi insegnamenti e nel 1985 andai in pellegrinaggio nei luoghi sacri in cui il Buddha visse e insegnò e ne ebbi un impatto fortissimo, una vera purificazione. In quel periodo ero studente e ho constatato come la capacità di comprensione e approfondimento di ogni materia fosse notevolmente potenziata e migliorata. Ho anche potuto verificare come la purificazione scaturita dal
compimento del pellegrinaggio abbia evitato ostacoli nei quali altrimenti mi sarei imbattuto, in particolare per quanto riguarda la salute fisica. Perché il pellegrinaggio è purificazione? Le interpretazioni che se ne danno sono molteplici, un approccio scientifico offre una determinata spiegazione, mentre quello di un credente tibetano, che ha fede nel Buddha e nella sua dottrina, presenta una visione completamente differente. Personalmente ho potuto più volte accertare che le consapevoli difficoltà purificano profondamente. Nessuno mi ha obbligato a scegliere la vita monastica, è stata una mia decisione, quando sono andato in monastero ho dovuto affrontare un’esistenza dura con molto lavoro e studio, ma queste stesse difficoltà sono state un aiuto alla mia crescita, quasi si dovesse passare attraverso l’oscurità per raggiungere la luce. Questa oscurità, sempre pervasa dallo spirito del Dharma, è il momento della difficoltà da superare per raggiungere l’obiettivo, come in un allenamento sportivo in cui si pone il massimo sforzo per raggiungere la meta. A casa dei miei genitori non mi mancava nulla, la vita era spensierata e facile, altri risolvevano ogni problema anche per me e a lungo andare questo benessere avrebbe potuto impoverirmi. In monastero mi sono trovato improvvisamente a dover fare tutto in una situazione di povertà reale, è stato un cambiamento inaspettato e radicale scaturito, non da imposizione esterna, ma da mia libera scelta. Una purificazione veramente necessaria. Così è il pellegrinaggio, che comporta fatica e disagi ma che, vissuto con amore e devozione nella luce Dharma, è purificazione. In mattinata, prima dell’incontro, abbiamo visitato la “Sacra di San Michele”35 e ne ho ricevuto un forte impatto spirituale, mi pareva di essere in pellegrinaggio negli angoli inaccessibili del Tibet, una sensazione non determinata dal luogo, ma dallo stato mentale, da quanto il Dharma è radicato nel cuore. Il luogo, indubbiamente molto bello, particolare, mistico, favorisce simile predisposizione della mente e allora, mi sono chiesto: perché perdersi nello scetticismo, perché non assaporare ogni istante con devozione, accendere una candela, godere con gioia dello splendore che esso offre? Mi pare anche che San Michele arcangelo assomigli particolarmente ai protettori tibetani e mi è tornato alla mente un fatto curioso: appena arrivato in Italia fui ospitato da un amico sacerdote e nella mia stanza c’era una statua di San Michele, allora non sapevo assolutamente che fosse e averlo “incontrato” oggi, in una cornice così spirituale è stato davvero bello, lo sento quasi un mio protettore!…. E’ meraviglioso che in Italia perdurino con profondo rispetto queste forme di devozione verso raffigurazioni spirituali poste su piani diversi, in Tibet succede più o meno lo stesso con le rappresentazioni che chiamiamo “divinità”. La conclusione, il punto fondamentale, è il riconoscimento della necessità di mettere lo spirito del Dharma in ogni situazione della vita. 35 Antica abbazia costruita sulla cima del un monte Pirchiriano all’imbocco della Val di Susa a circa 20 Km da Torino, secondo la leggenda per volontà dall’arcangelo San Michele.
Analizziamo, passo dopo passo, il testo del Sutra del Cuore: “Il Bhagavan dimorava a Rajagrha presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat…” il termine Arhat è stato sostituito in alcune traduzioni con la parola “Bikshu” che letteralmente significa monaco, cioè persona che ha ricevuto la completa ordinazione nell’ordine monastico. I livelli di ordinazione sono tre: 1) laico - 2) novizio 3) monaco completamente ordinato. Il termine bikshu però potrebbe essere fuorviante in questo contesto perché non è riferito al monaco che ha ricevuto la completa ordinazione, bensì ad un essere più elevato, all’Arhat. “…e un gran numero di Bodhisattva….” C’è dunque un gran numero di Arhat e un gran numero di Bodhisattva, se fosse stato detto un gran numero di Bikshu si sarebbe creato un ulteriore fraintendimento perché avremmo interpretato che Bikshu e Bodhisattva appartenessero a due gruppi separati e distinti, mentre in realtà un Bikshu può essere un Bodhisattva e viceversa, senza alcuna contraddizione. Per evitare possibili equivoci non è stato scritto Bikshu ma Arhat, colui che ha realizzato il Nirvana, lo stato di Buddha anche se non completo ma piuttosto di Pratyeka e di Sravaka, praticanti che aspirano alla realizzazione individuale. Il Bodhisattva invece persegue il veicolo dell’illuminazione universale. I discepoli del Buddha si suddividono in tre tipi di praticanti:
Sravaka, comunemente conosciuti come gli Uditori;
Pratyeka, comunemente conosciuti come i Solitari;
Samyaksambuddha comunemente conosciuti come i Buddha completi.
I primi due percorrono la via della ricerca dell’illuminazione individuale e fondano la loro pratica sulla rinuncia. Gli Sravaka, solitamente definiti “gli uditori”, preferiscono praticare in gruppo, non si sentono in grado di affrontare la pratica dei Bodhisattva, però desiderano ardentemente trasmettere la dottrina del Buddha affinché essa possa avere una continuità completa e ininterrotta, si impegnano ad udire con attenzione e tramandare fedelmente ogni insegnamento. Personalmente perseguono l’illuminazione individuale. I Pratyeka, termine che significa “solitario”, invece prediligono praticare in solitudine, in luoghi remoti, purificando se stessi e perseguendo l’illuminazione individuale. Entrambi condividono il comune obiettivo di raggiungere la liberazione individuale o “mokya” e attuano una pratica simile, i primi con un’intelligenza meno brillante, per praticare e comprendere hanno bisogno del supporto del Sangha, mentre i secondi, più autonomi e sicuri di sé, preferiscono purificarsi nella solitudine. Le tre categorie di praticanti hanno diversità sia nella pratica che negli obiettivi, ma tutti devono seguire cinque livelli, o sentieri che, sommati, diventano quindici. Il nome di ogni livello è lo stesso per ognuna delle tre tipologie di praticanti:
1. Accumulazione; 2. Preparazione; 3. Visione; 4. Meditazione o familiarità; 5. Non più apprendimento o Non più ritorno. Il quinto è il risultato, l’obiettivo raggiunto, mentre i primi quattro sono le cause che lo determineranno. Il Sutra del Cuore descrive come realizzare la comprensione del modo ultimo di esistenza dei fenomeni, detto anche Vacuità, secondo la visone superiore dei cinque sentieri. L’Arhat può essere uno Sravaka o un Pratyeka che ha raggiunto lo scopo, realizzato il quinto sentiero e, a questo punto, se lo desidera può scegliere di entrare nel sentiero dei Bodhisattva e, nel momento in cui diverrà Bodhisattva, non sarà più Arhat. L’Arhat appartiene al “piccolo veicolo” o della liberazione individuale. Il Bodhisattva che ha realizzato il suo scopo, il quinto sentiero, diviene un Buddha, un Bhagavan, in tibetano: “Chom dhen de”, colui che ha eliminato ogni ostacolo e ha acquisito tutte le qualità. E’ necessario conoscere esattamente il significato di Bhagavan, di Bodhisattva e di Arhat per avere una corretta visione del contesto in cui è stato dato il “Sutra del Cuore”. “…..e a quel tempo il Bhagavan era entrato nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato «percezione profonda».” Immedesimiamoci nella situazione: il luogo è il picco dell’Avvoltoio in India, vi è un gran numero di Arhat e di Bodhisattva e al centro il Bhagavan, il Buddha, assorto in profonda meditazione, nella percezione profonda della Vacuità, la visione ultima di tutti i fenomeni esistenti, una meditazione sistematica su ogni varietà di fenomeni, con una modalità in seguito spiegata nel testo. “….In quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza…” Chi è l’arya Avalokitesvara? Risposta: Avalokitesvara è il Buddha della Compassione, Chenrezig. Lama:
Però dice “l’Arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva”, quindi non può essere Chenrezig il Buddha della compassione, non è più un Arhat ma non è ancora un Buddha, è un Bodhisattva che ha realizzato i quattro sentieri ma non ha ancora raggiunto il quinto, e soltanto in tal caso potrebbe già essere un Buddha. Con la realizzazione del terzo e quarto sentiero diventa un Arya, ha la visione dei fenomeni, è un Bodhisattva superiore detto anche Mahasattva, termine che ha lo stesso significato di Mahatma, “grande anima” o “grande cuore”. In questo contesto Avalokitesvara è altro da Chenrezig, è un monaco, un essere umano con grandi qualità ed è discepolo del Buddha.
“……e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca.” L’Arya Avalokitesvara sta meditando in totale concentrazione univoca sulla natura ultima dei fenomeni, comprende, utilizzando il modo più semplice per meditare sulla Vacuità, che anche i cinque aggregati mancano di realtà intrinseca. Tutti i fenomeni esistenti sono raccolti in cinque categorie e concentrati su cinque oggetti detti aggregati: 1. aggregato delle forme (gzugs phung-po); 2. aggregato delle sensazioni (tshorba phung-po); 3. aggregato delle percezioni (du-shes phung-po); 4. aggregato delle mente discriminante o della facoltà mentale; 5. aggregato del gruppo di tutti i fenomeni e i fattori mentali non specificati nei primi quattro, inclusa la coscienza. Questa meditazione non si rivolge ad oggetti esterni, ma all’interno, in particolare all’io, un oggetto che dovrebbe appartenere a uno dei cinque aggregati, a quale ? Risposta: al quinto Lama: perché? Risposta: forse perché l’io può stare solo nella categoria dei non classificati….. Lama: C’è logica in questa affermazione, l’io non è identificabile nei primi quattro, allora si presume debba per forza essere nel quinto, però è necessaria un’ulteriore analisi perché l’io ha comunque a che fare con i primi quattro, infatti si osservano i cinque aggregati nella loro relazione con il sé, con l’io. Non si medita genericamente sulla forma, sulla sensazione o sulla percezione, ma specificamente, sulla propria forma, sulla propria sensazione, sulla propria percezione, ed è esattamente questa la correlazione tra i cinque aggregati e l’io. Così, dall’analisi di ognuno dei cinque aggregati si vede che hanno una realtà intrinseca e se ne deduce che, allo stesso modo, il sé o io è intrinsecamente inesistente, manca di realtà intrinseca. Questa spiegazione, pur estremamente sintetica, permette di avere un’idea abbastanza chiara sull’argomento, ma non illudiamoci di stare osservando la realtà ultima, la Vacuità, ne siamo LONTANISSIMI!….Al momento abbiamo la visione di quale addestramento intraprendere per avvicinarci piano piano all’obiettivo finale. Il “Sutra del Cuore della perfezione della Saggezza” insegna come osservare la Vacuità nell’ottica dei cinque sentieri. Finora ci siamo limitati a considerare genericamente il primo sentiero, dell’accumulazione, che si percorre avendo realizzato la rinuncia ma, se ci addentriamo negli aspetti particolari della via dell’accumulazione del Bodhisattva, vediamo che è possibile entrare in esso soltanto all’atto della realizzazione della Bodhicitta.
Domanda: (fa riferimento alla conferenza della sera precedente in cui si è parlato del martirio vissuto con assoluta serenità da un monaco Buddhista) Ieri sera ho avuto l’intuizione di come può essere un Bodhisattva, noi viviamo sempre nel terrore di poter subire una qualsiasi perdita e, parlando del massacro vissuto da quel monaco per amore degli altri, tu hai detto “è samsara” rimarcando l’accettazione naturale di questo fatto. Praticamente la rinuncia implica davvero una perdita totale di sé per gli altri, come ad esempio il martirio di Cristo. Ma noi possiamo, nella migliore delle ipotesi, averne soltanto un’intuizione, perché per la sola idea ci è totalmente inaccettabile. Lama:
E’ vero, parlando della successione delle vite che producono la maturazione di un individuo ci riferivamo proprio a questo aspetto. Nel momento in cui un insegnamento è dato, tra i molti che ascoltano c’è chi, avendo maturato in tante vite un karma favorevole, può ricevere impressioni così forti che ne permettono l’immediata comprensione; altri invece stanno accumulando impressioni che saranno di beneficio in futuro; altri ancora possono trovarsi in una via di mezzo, essere quasi pronti e molto vicini ad una prossima realizzazione. Ognuno è nel suo percorso ed è impossibile giudicare, conoscere lo stadio di maturazione di un altro essere senziente. Così, ritornando all’esempio del monaco trucidato, egli poteva essere in un punto del percorso in cui gli era naturale l’accettazione completa di quanto gli stava succedendo. Non possiamo conoscere quale fosse la sua situazione spirituale. Come insegna il Buddha, nessuno può sapere se chi gli sta di fronte è un Bodhisattva oppure no, solo un altro Bodhisattva è in grado di riconoscerlo. Anche Gesù Cristo ha espresso esattamente lo stesso pensiero nella raccomandazione più volte ribadita di non giudicare i propri simili. Il Buddha ha detto che non c’è modo di sapere sotto quale aspetto un illuminato appaia, può assumere qualsiasi sembianza e ciò che noi siamo in grado di percepire è la pura apparenza mentre la sostanza ci sfugge completamente.
Ci sono altre domande? Quanti Arhat, Bodhisattva e Buddha ci sono in quest’assemblea?…(risata generale.) Bellissimo il tempo trascorso insieme, molte grazie, cerchiamo di mantenere viva nella nostra mente la sensazione così ricca di questi momenti stupendi, è samsara, null’altro che samsara, ma è positivo, è una ricchezza, e non deve essere dimenticata, è samsara permeato dallo spirito del Dharma.
Secondo Giorno
La Perfezione della Saggezza (Si inizia le preghiere al Lama radice e di rifugio) Rileggiamo insieme il “Sutra del Cuore”, diverse lingue:
titolo che cambia abbastanza nelle
in sanscrito: “Arya Bhagavati Prajna Paramita Hridaya”; in tibetano: “Phag pa ciom den dema sherab gyi pharol tu chin pay nying po”; in inglese: “The perfection of widsom of Sutra” in italiano: “il cuore della perfezione della saggezza” oppure “Il cuore della Bhagavati, la perfezione della saggezza”. In sanscrito Arya Bhagavati è di genere femminile, è detta anche “la Nobile Signora”, “la Madre”, “la Perfezione della Saggezza”, “la Saggezza ultima”. E’ madre di tutti i Buddha perché gli illuminati nascono dalla perfezione della saggezza. E’ la perfezione della saggezza, la saggezza perfetta che realizza la Vacuità che da origine ai Buddha, il suo nome è Bhagavati. Esistono tanti tipi di saggezza, ma solo la saggezza perfetta, l’essenza stessa della saggezza che comprende la Vacuità, genera i Buddha. Il testo non a caso dice “l’essenza della perfezione della saggezza”, perché non si riferisce alla comprensione della Vacuità in generale, ma alla comprensione della Vacuità della mente. Il soggetto che realizza l’illuminazione è la mente e la Vacuità della mente stessa, l’essenza della perfezione della saggezza. Al discepolo Cheumpa che chiedeva chiarimenti, risposero con una metafora: “La madre è la saggezza, il padre la compassione - il metodo, le altre virtù della mente sono i servitori, e i trentasette fattori dell’illuminazione sono i parenti. Tutti insieme questi soggetti sono indispensabili alla generazione e buona crescita di un bambino, il bimbo della natura di Buddha, dell’illuminazione. Il piccolo Buddha che è in ognuno di noi.” E’ interessante ricordare che Bernardo Bertolucci, girando in Nepal il film il “Il piccolo Buddha”, ebbe problemi con la popolazione, scandalizzata dall’attributo di “piccolo” al Buddha. Al contrario il Dalai Lama ne fu entusiasta, valutando questa definizione perfettamente consona. Un altro problema sorse nella necessaria scelta di un unico reincarnato, Bertolucci era spiaciuto nel doverne eliminare due, così trovò una soluzione geniale, forse un po’ profetica perché pare si siano verificati casi analoghi in Tibet, con la reincarnazione del Lama in tutti i tre bambini. In ognuno di noi vi è un piccolo Buddha, lo si può riconoscere come natura di Buddha, seme dell’illuminazione, natura della mente, ogni definizione è equivalente, un sinonimo.
La natura di Buddha, la natura della mente portate a maturazione saranno lo stato dell’illuminazione, ma per ottenere questo obiettivo occorre essere prima generati da genitori amorevoli, ricevere l’educazione e le cure sollecite di parenti e amici. E’ indispensabile essere accuditi dalla madre, la saggezza, la perfezione della saggezza che comprende la Vacuità; è altrettanto necessario un padre, il metodo, la bodhicitta; non possono nemmeno mancare buoni servitori, le virtù minori, ad esempio le dieci azioni virtuose; si ha poi bisogno del sostegno dei parenti, i trentasette fattori di illuminazione che sono le trentasette pratiche. Tutti insieme questi soggetti concorrono a far nascere, crescere, maturare il bambino accompagnandolo verso l’illuminazione. La natura di Buddha ha essenzialmente due aspetti, uno è la Vacuità della mente e il secondo sono le qualità della mente che possono essere sviluppate e portate a maturazione dalla mente stessa. L’aspetto della Vacuità della mente non richiede sforzo per esistere, è innato, è spontaneamente presente. La natura della mente è luminosa grazie alla sua essenza di Vacuità. Le oscurazioni della mente sono temporanee come le nuvole che solo apparentemente e momentaneamente oscurano il cielo mentre, al di là di esse, la natura della mente è luminosità innata. Il secondo aspetto, le qualità della mente, sono il mezzo attraverso il quale purificare la mente ed è interessante notare come questo fenomeno presenti un paradosso apparente, da un lato c’è la luminosità innata della mente e dall’altro ci sono le qualità che devono essere sviluppate, che devono ancora crescere per essere portate a compimento. I due elementi coesistono contemporaneamente e procedono parallelamente, con il potenziamento delle qualità della mente la luminosità aumenta, con il loro decrescere la luminosità diminuisce. L’elemento della luminosità della mente è come un cristallo pulito, brillante nei suoi splendidi riflessi che però, se ricoperto di polvere, appare opaco, pesante, privato della luce, eppure il cristallo è sempre lo stesso, la sua natura non cambia. L’esempio ci aiuta a comprendere come sia importante riconoscere la natura della mente per riconoscere chi siamo, comprendere i nostri atteggiamenti mentali, osservare lo strato spesso di polvere che oscura pesantemente la luminosità comunque in noi presente perché innata. La natura di Buddha è classificata in cinque differenti tipologie: 1. 2. 3. 4. 5.
del “lignaggio interrotto” o letteralmente “natura di Buddha rotta”; del “lignaggio incerto”; del “lignaggio degli uditori, gli Sravaka”; del “lignaggio dei Buddha solitari, i Pratyekabuddha”; del “lignaggio dei Bodhisattva”.
Ognuno di essi è uguale agli altri essendo natura, lignaggio di Buddha, tuttavia esistono alcune particolarità.
Il primo, il “lignaggio interrotto”, è a tutti gli effetti natura di Buddha ma al momento rimane bloccato, è impossibile progredire, svilupparlo, attivare alcuna pratica per migliorare la condizione presente. Il “lignaggio incerto” è natura di Buddha, ma sono tuttora aperte due vie possibili: l’interruzione oppure la progressione nei successivi livelli. I lignaggi degli Uditori, dei Praticanti solitari e dei Bodhisattva, sono lignaggio attivo, natura di Buddha che si sta sviluppando ma che ancora deve completare il suo cammino per poter realizzare lo stato finale, l’illuminazione. I diversi modi di essere “Sravaka” il praticante uditore e “Pratyekabuddha” il praticante solitario, rispecchiano differenti attitudini della mente quindi, in base alla propria inclinazione o somiglianza con l’uno o l’altro tipo, possiamo capire quale lignaggio è a noi più affine. Il lignaggio dei Bodhisattva appartiene al praticante che detiene ed esprime una immensa compassione. Ogni essere vivente ha la natura di Buddha e prima o poi realizzerà lo stato dell’illuminazione quindi, indipendentemente dal lignaggio attuale, per tutti verrà il tempo del risveglio. Se un individuo ha la natura del Bodhisattva, ma non ancora risvegliata, essa rimane inattiva. Purificare la mente, risvegliare la mente e maturare il seme dell’illuminazione, sono espressioni che hanno l’identico significato del risvegliare quella stessa natura. Insisto su questo aspetto perché è fondamentale assimilare il concetto del seme dell’illuminazione presente nel cuore di ogni essere vivente, esso è come il cristallo, chiaro, limpido, puro, esiste immutato nella sua essenza anche se nascosto dalle oscurazioni che, come la polvere, lo opacizzano cancellandone la naturale brillantezza. Basta pulirlo per ritrovare immutato il suo splendore. Il piccolo Buddha è la mente cristallina che cresce bene grazie alla madre, la saggezza, al padre, la compassione, ai parenti, i trentasette fattori dell’illuminazione e agli amici o servitori, tutte le altre virtù minori. E’ una similitudine è stupenda, prendersi cura della natura di Buddha è come prendersi cura con infinito amore di un bambino per farlo crescere nel modo migliore, è il modo ultimo di provvedere ad un bambino. Questo bambino è, in ogni essere, la natura di Buddha. Conosciamo l’origine del Sutra del Cuore e in quale occasione il Buddha ne ha offerto il prezioso insegnamento. “Così una volta udii: Il Bhagavan dimorava a Rajagrha, presso il Picco dell’Avvoltoio, con un gran numero di Arhat e un gran numero di Bodhisattva e a quel tempo il Bhagavan era entrato
nell’assorbimento meditativo sulla varietà dei fenomeni chiamato percezione profonda. In quello stesso tempo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, era assorto nella stessa pratica della profonda perfezione della saggezza e vide che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca. Quindi, tramite l’ispirazione del Buddha, il venerabile bikshu Shariputra si rivolse all’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva e gli disse: - come deve addestrarsi un figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza? - ”
Prima di tutto bisogna comprendere chiaramente cosa si intende in questo contesto indicando l’assemblea dei presenti, perché ancora una volta le traduzioni possono essere fuorvianti, con un gran numero di Arhat e un gran numero di Bodhisattva, nel testo originale “gedun chengpo”, “il grande sangha”, non ci si riferisce alla quantità, ma all’elevata qualità dei presenti. Altro passaggio importante è la comprensione dei cinque lignaggi della natura di Buddha perché, con la frase “figlio o figlia del lignaggio”, ci si rivolge specificatamente al lignaggio dei Bodhisattva, di donne e uomini che in quel momento abbiano risvegliato il lignaggio dei Bodhisattva, e non in generale il lignaggio di Buddha. Comunemente si definisce il Sutra del Cuore come discorso del Buddha, ma egli non ha pronunciato alcuna parola, un altro, il Bodhisattva Avalokitesvara, in conversazione con il suo interlocutore, il bikshu Shariputra, ha ricevuto dal Buddha l’ispirazione ad esprimere l’insegnamento profondo. Il dialogo tra Avalokitesvara e Shariputra è anche conosciuto come “il Sutra benedetto dal Buddha”. Alla domanda spesso posta a questo punto: “colui che è nel lignaggio dei Bodhisattva e desideri applicarsi alla comprensione della perfezione della saggezza cosa deve fare?” si è già risposto prima: la saggezza simile alla madre - la saggezza della Vacuità, il metodo simile al padre - la compassione, la Bodhicitta, il supporto dei parenti - i trentasette fattori dell’illuminazione, e degli amici - le virtù minori, tutto concorre, ma la causa principale, determinante, è la saggezza della Vacuità. “Quando fu detto questo, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, rispose al venerabile bikshu Shariputra e disse: “Shariputra, ogni figlio o figlia del lignaggio dei Bodhisattva, che desideri impegnarsi nella pratica della profonda perfezione della saggezza, dovrebbe vedere chiaramente nel seguente modo”
La frase “vedere chiaramente nel seguente modo” riconduce ai cinque sentieri, perché coloro che desiderano comprendere e raggiungere la perfezione della saggezza, devono percorrerli interamente: 1. 2. 3. 4.
sentiero dell’accumulazione; sentiero della preparazione; sentiero della visione; sentiero della familiarizzazione o meditazione;
5. sentiero del non più apprendimento, cioè il raggiungimento del risultato, l’illuminazione. Il testo prosegue: “dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca”.
Mostra così l’ingresso nel primo sentiero, dell’accumulazione, nel quale si apprende a praticare la Vacuità dei cinque aggregati, la Vacuità della mente. Domanda: Perché dice “anche”? Lama: “anche” perché specificando che tutti i fenomeni sono vacui se ne dà una formulazione generica ma, entrando in dettaglio, si osserva la loro classificazione in cinque gruppi, ricordiamo che i sentieri sono quindici: • cinque degli Sravaka, gli uditori, • cinque dei Pratyekabuddha, i Buddha solitari, • cinque dei Bodhisattva. La frase si riferisce precisamente al primo sentiero della pratica dei Bodhisattva, la pratica mahayana, al sentiero dell’accumulazione, incluso nei tre addestramenti superiori: moralità, concentrazione e saggezza. L’ingresso nel sentiero mahayana è la bodhicitta, la grande compassione. Il praticante mahayana che intraprende il sentiero dell’accumulazione ha attivato la bodhicitta, la grande compassione che ha fondamento nella rinuncia e, su questa base, è interessato allo sviluppo della perfezione della saggezza. Il Sutra del Cuore è un dialogo di altissimo livello tra due esseri elevati, Shariputra e Avalokitesvara, ma è ben difficile pensare che realmente sia stato pronunciato mentre il Buddha era assorto in meditazione; è probabile invece che, trattandosi di un assemblea così qualificata di Arhat e di Arya in grado di comprendere in profondità, tutti fossero immersi nella meditazione e il dialogo sia avvenuto esclusivamente sul piano spirituale, ispirato dalla situazione. E’ l’aspetto misterioso e segreto con cui venivano dati gli insegnamenti più elevati secondo la modalità mahayana e per questa ragione i resoconti storici di tali incontri sono così rari. La leggenda narra che, nello stesso momento in cui avveniva questo dialogo interiore sul picco dell’Avvoltoio nel nord dell’India, alla presenza del Buddha nella sua forma umana, contemporaneamente egli stava dando gli insegnamenti di Kalachakra nel sud dell’India, nel luogo natale di Nagarjuna. Il praticante che realizza il primo livello dell’accumulazione realizza la concentrazione, conosciuta come “la corrente continua dell’insegnamento del Dharma”, ed è in grado di ricevere, senza bisogno di intermediari, gli insegnamenti dagli Esseri spirituali più elevati. Si narra di praticanti che hanno ricevuto insegnamenti direttamente da Manjusri, il Buddha della Saggezza. Nel sentiero dell’accumulazione si è molto affaccendati, non si ha tempo per rilassarsi, quando la meta era ancora lontana
ci si poteva crogiolare nella beata ignoranza, ma cominciando seriamente a crescere nella saggezza, il tempo libero scompare del tutto.
Il Sentiero dell’Accumulazione Il sentiero dell’accumulazione è suddiviso in tre livelli, uno iniziale, uno intermedio e uno finale. Nel livello iniziale il praticante che conosce molto bene la pratica delle quattro consapevolezze perché vi si è esercitato lungamente, ne è un vero esperto e, unendo la saggezza e la bodhicitta alle quattro consapevolezze, acquisisce una grande perizia, assolutamente determinante per poter accedere al livello intermedio. Così, il praticante che è entrato nel sentiero del Dharma poiché ha maturato la rinuncia, è entrato nel sentiero mahayana in quanto ha sviluppato la bodhicitta e ora perfeziona le quattro consapevolezze unendole alla saggezza della Vacuità, è dunque molto affaccendato! Il “Satipatthana sutra”. mostra dettagliatamente come addestrarsi nelle quattro consapevolezze, descrive la consapevolezza del corpo, la consapevolezza delle sensazioni, la consapevolezza della mente, la consapevolezza del Dharma inteso come tutto il resto dei fenomeni, insegna ad essere sempre presenti, pienamente consapevoli in ogni istante di ciò che accade nel corpo, nelle sensazioni, nella mente e nei cinque aggregati. La consapevolezza è caratterizzata da due aspetti, quello generale del fenomeno e quello peculiare del fenomeno osservato. L’aspetto generale è l’impermanenza, l’impermanenza del corpo, delle sensazioni, della mente, del dharma come raccolta di tutti gli altri fenomeni, è l’impermanenza sottile, momentanea, del cambiamento istantaneo, momento per momento, caratteristica generale che riguarda tutti i fenomeni. L’aspetto individuale di ogni fenomeno è ciò che caratterizza il corpo, le sensazioni, la mente e i fenomeni. Il praticante addestrato ne ha perfetta chiarezza, momento per momento. Il livello intermedio consiste nell’ottenere perizia nei quattro abbandoni, o quattro cessazioni, è lo stadio in cui si acquisisce la capacità di sviluppare le virtù che ancora non sono state svolte e di incrementare all’infinito le qualità già maturate. Le non-virtù ancora non sorte e le non-virtù già presenti possono ugualmente essere eliminate. Si ha la cessazione completa delle non-virtù e la cessazione completa degli ostacoli alla realizzazione delle virtù. Si realizza il sogno a lungo coltivato di poter ottenere l’obiettivo desiderato, sulla base della pratica della bodhicitta e dell’incremento della perfezione della saggezza. Così procedendo si giunge al livello finale dell’accumulazione diventando esperti nelle “quattro gambe miracolose”, cioè nella concentrazione o meditazione di samatha
in cui si realizza il massimo livello della concentrazione, perizia che si ottiene con l’aiuto della Bodhicitta e della comprensione della Vacuità. Questi tre stadi, suddivisi a loro volta in quattro pratiche ciascuno, costituiscono complessivamente dodici dei trentasette fattori dell’illuminazione. Sono i metodi o le condizioni attraverso cui si crea o si favorisce la maturazione della mente dell’illuminazione e rappresentano gli elementi da cui siamo partiti, la saggezza, la bodhicitta, le trentasette facoltà dell’illuminazione e tutte le altre virtù. La riga del testo su cui ci siamo soffermati a lungo: “dovrebbe vedere distintamente che anche i cinque aggregati sono vuoti di natura intrinseca” indica chiaramente come praticare la saggezza nel sentiero dell’accumulazione. Corpo, sensazioni, percezioni, fattori composti, coscienza, in breve tutti i cinque aggregati, esistono per cause e condizioni, non vi è alcuna possibilità di esistenza intrinseca, propria, perciò i cinque aggregati sono vuoti di esistenza propria. E’ importante studiare e meditare profondamente questo aspetto unendo la meditazione analitica con quella concentrativa, fino a realizzare la Vacuità. Durante il percorso del sentiero dell’accumulazione esiste effettivamente una reale possibilità di apprendere e riflettere sulla Vacuità dei cinque aggregati. E’ possibile entrare nel sentiero mahayana possedendo la comprensione della bodhicitta che è la base fondamentale per un’ulteriore progressione, anche se non si è ancora compresa pienamente la Vacuità dei cinque aggregati. Lo studio sul significato della Vacuità dei cinque aggregati e la riflessione sul proprio livello di comprensione della Vacuità costituiscono una meditazione in cui, alternando la concentrazione univoca con la meditazione analitica, si comprendono e integrano i cinque livelli di meditazione sulla Vacuità. Si inizia con la riflessione sul corpo, sulle sensazioni, sui fattori compositi, sulla mente, sulla coscienza, sulla loro realtà, su come si manifestano e vengono in esistenza, comprendendo semplicemente che esistono sulla base di cause e di condizioni e che, mancando cause e condizioni, non possono esistere. Con lo stesso schema si procede ad esaminare il sé, l’io, osservando come esso sia solo sulla base dei cinque aggregati e, se i cinque aggregati non esistono in modo intrinseco, anche il sé basato su di essi, non può esistere in modo intrinseco. Perché dobbiamo sforzarci di osservare la non-esistenza intrinseca dei cinque aggregati? Perché solo grazie alla comprensione di questa realtà riusciamo a vedere distintamente come il sé sia assolutamente privo di esistenza intrinseca. Non c’è alcun io indipendente. Affermando che le cose non hanno esistenza indipendente si sottintende che hanno esistenza dipendente. Ogni cosa esiste in dipendenza da altro e quindi non può esistere indipendentemente. La natura della realtà è l’interdipendenza.
Poiché tutto esiste interdipendentemente tutto è vuoto di esistenza propria, è vacuo; tutti i fenomeni sono vacui e possono essere solo in modo interdipendente. Il vero fenomeno è la Vacuità, il vero Dharma è la Vacuità, grazie ad essa tutto può esistere e trasformarsi. Se non vi fosse Vacuità non vi sarebbe spazio per nessuna esistenza, per nessuna trasformazione. La Vacuità è il Dharma ultimo, il Dharma fondamentale da realizzare. Realizzando la Vacuità si realizza l’illuminazione. Esistenza e Vacuità sono due facce della stessa medaglia, il significato della Vacuità è l’esistenza interdipendente, il significato dell’esistenza è mera imputazione. I cinque aggregati sono vuoti, esistenti interdipendentemente, sono mera imputazione, per cui il sé è vuoto, esiste interdipendentemente ed è mera imputazione, cosa significa? Risposta: Che esiste in modo convenzionale, è una convenzione. (Si conclude la sessione con la preghiera di dedica dei meriti)
Il Sentiero della Preparazione La sessione pomeridiana inizia con la lettura degli otto versi di trasformazione della mente. Nella mattinata si è accennato agli argomenti base della pratica mahayana, il sentiero di accumulazione, il primo sentiero della pratica mahayana e dei primi dodici fattori d’illuminazione che sono le quattro consapevolezze, i quattro abbandoni e le quattro concentrazioni; la saggezza, la bodhicitta e di come i cinque aggregati siano vuoti di esistenza indipendente. Nel sentiero dei Bodhisattva la perfezione della saggezza si costruisce nell’analisi della non esistenza inerente dei cinque aggregati che, in progressione sistematica, porta alla comprensione della non esistenza inerente dell’io, del sé. Nel sentiero mahayana dell’accumulazione la meditazione sulla Vacuità o meditazione sul non-io è sviluppata tramite lo strumento della non-esistenza inerente dei cinque aggregati. Questo è in sintesi il metodo di osservazione del non-io o mancanza dell’io, una meditazione che deve essere sempre supportata dallo studio e dalla riflessione intellettuale. Sono stati elencati brevemente, tra i trentasette fattori dell’illuminazione, i primi dodici suddivisi in gruppi di quattro; sono importanti e poiché meritano un ulteriore approfondimento vi consiglio di studiare i vari commentari al Sutra del Cuore. Si è focalizzata l’attenzione sulla saggezza in quanto obiettivo ultimo, ma è importante non trascurare il significato della rinuncia e della Bodhicitta che rappresentano il metodo e sono assolutamente fondamentali in ogni pratica. Oggi affronteremo il secondo sentiero mahayana, della preparazione. “La forma è vuota, la Vacuità è forma; la Vacuità non è altro che forma, la forma non è altro che Vacuità. Allo stesso modo sono vuote le sensazioni, le percezioni, le formazioni mentali e la coscienza”
Nel sutra del cuore si insegna come meditare la Vacuità nel sentiero della preparazione sulla base delle quattro caratteristiche. Nel sentiero dell’accumulazione i cinque aggregati erano compresi come vuoti di natura intrinseca e nel sentiero della preparazione si analizza dettagliatamente la Vacuità, la mancanza di esistenza intrinseca di ognuno di questi. Ad esempio dice: “la forma, quindi l’aggregato della forma, è vuota”, poi rovescia “la Vacuità è forma” e poi ancora “la Vacuità non è altro che forma” e “la forma non è altro che Vacuità”. L’aggregato della forma altro non è che imputazione, un nome per definire una base, un concetto imputato su una base di imputazione, perché non vi è nessuna forma che possa esistere in modo indipendente. Pertanto la forma è intrinsecamente vuota, ma poiché è imputata da un concetto, cioè ha un nome imputato su una base
imputabile, ha una funzione. L’imputare un concetto definisce la sua funzione, è intrinsecamente vuota, ma è forma. Tutti i fenomeni hanno due realtà, la realtà convenzionale che gli è imputata e la realtà ultima. Sebbene entrambe non siano la stessa cosa posseggono la stessa natura, per cui la Vacuità della forma altro non è che forma, non ha una diversa natura. La Vacuità non è differente dalla forma e la forma non è differente dalla Vacuità. Se i fenomeni esistessero intrinsecamente non dipenderebbero da cause e condizioni ma, se così fosse, dovrebbero anche esistere frutti e risultati non dipendenti da cause e condizioni. Affermare che un fenomeno è di natura intrinsecamente vuota e dire che non esiste realmente ha lo stesso significato. Questo è il modo di meditare la Vacuità nel sentiero della preparazione, osservando i cinque aggregati, uno per uno, analizzandoli in ogni particolare secondo le quattro caratteristiche. La forma è vacua poiché non esiste intrinsecamente, ma dipende da nome e imputazione. La forma stessa non è differente dalla Vacuità della forma in quanto entrambe sono due aspetti della stessa medaglia, sono due cose diverse ma, pur essendo differenti, hanno la stessa natura. Anche il sentiero della preparazione è suddiviso in quattro stadi o gradini: • • • •
il primo è “il sentiero del calore, o, simile al calore”; il secondo è “il picco, o la vetta”; il terzo è “la pazienza”; il quarto è “il Dharma supremo”.
Durante il sentiero della preparazione si acquisisce perizia in due gruppi di fattori dell’illuminazione. Nei primi due stati del sentiero della preparazione, “il sentiero del calore” e “il picco”, ci si allena acquisendo grande competenza e divenendo veri esperti nelle cinque facoltà: • • • • •
la facoltà della fede; la facoltà della perseveranza entusiastica; la facoltà della consapevolezza; la facoltà dell’assorbimento meditativo; la facoltà della saggezza o della visione profonda.
Nei successivi due stadi “la pazienza” e “ il Dharma supremo”, si approfondisce la conoscenza delle cinque facoltà trasformandole nei cinque poteri, che mantengono lo stesso nome: • • • • •
il potere della fede; il potere della perseveranza entusiastica; il potere della consapevolezza; il potere dell’assorbimento meditativo; il potere della saggezza o della visione profonda.
La differenza tra “facoltà” e “potere” è definita dal grado di approfondimento raggiunto, allenandosi nella facoltà si raggiunge la piena capacità, abilità, potenzialità della stessa che, ulteriormente sviluppata, si trasforma in potere, il che significa che in quel campo non si può più essere sconfitti. L’approfondimento delle facoltà che si trasformano in poteri è dovuto alla forza dell’incremento della bodhicitta che crescere e si sviluppa tramite la forza della saggezza. Grazie alla saggezza della compassione si entra direttamente nell’essenza della saggezza che è forza trainante. Riferendoci nuovamente all’analogia del bambino che nasce e cresce grazie all’azione congiunta di padre, madre, parenti e amici, osserviamo che si otterrà il risultato procedendo analogamente nell’interazione tra saggezza, metodo, trentasette fattori, virtù minori. La bodhicitta che è sostegno del sentiero mahayana e che vi ha introdotto il praticante è sempre la stessa bodhicitta, non è cambiata, ma nel contempo la bodhicitta che ha avviato il praticante nel sentiero mahayana e, sostenendo la sua pratica, lo ha trasformato in Bodhisattva, è illuminata e incrementata dalla saggezza. Si determina un’inscindibile interazione e aiuto reciproco nel potenziamento della bodhicitta quale supporto della saggezza e della saggezza in quanto stessa bodhicitta che si illumina sempre più divenendo luce limpida. L’incremento simultaneo di metodo e saggezza porta al compimento dei trentasette fattori dell’illuminazione che, seppur praticati anche prima, ora possono essere portati a compimento. E’ interessante osservare come l’interazione costante e inscindibile conduca inevitabilmente alla realizzazione. Vediamo come avviene il passaggio dal sentiero dell’accumulazione a quello della preparazione. Il primo stadio del sentiero della preparazione è chiamato “del calore”, ma quale calore? - Il calore dell’illuminazione. Il meditatore medita in modo continuativo, studia e riflette sull’assenza di esistenza intrinseca dei cinque aggregati giungendo, per deduzione logica, alla consapevolezza dell’assenza di esistenza intrinseca del sé, della Vacuità dell’io. Meditando costantemente in questo modo ottiene la visione veritiera della Vacuità, ne assapora il gusto, sperimenta direttamente il calore dell’illuminazione e, nel momento in cui ciò avviene, passa dal sentiero dell’accumulazione al sentiero della preparazione. Questo assaggio della Vacuità del sé non significa ancora l’aver avuto la visione diretta della Vacuità, ma è simile all’osservazione dell’immagine riflessa in uno specchio, è un’intuizione detta “immagine mentale della Vacuità”. Il meditatore adesso ha una visione chiara e veritiera dell’immagine della Vacuità del sé, ne sente il sapore, la riconosce e, se anche non la vede direttamente, sa cos’è con chiarezza, senza errore ed è dunque in grado di entrare nel sentiero della preparazione.
Il meditatore è così sempre più affaccendato, prima osservava la Vacuità dal punto di vista indiretto dell’assenza di esistenza intrinseca dei cinque aggregati, ora deve analizzarli uno per uno secondo le quattro caratteristiche ed è un impegno notevole che occupa tutto il suo tempo, ma illumina, irradia, distilla e purifica la bodhicitta la quale diviene sempre più radiosa e chiara. Così, la bodhicitta che cresce grazie alla meditazione sulla Vacuità e che contemporaneamente la supporta, fa si che il meditatore potenzi e consolidi le proprie facoltà sino ad averne piena padronanza tanto da svilupparle ulteriormente trasformandole in poteri. Domanda: Mi sembra di capire che nei vari passaggi sia indispensabile comprendere logicamente il percorso, ma non è così semplice, anche perché nel caso della Vacuità si passa dal concetto generale a quello particolare, mentre in genere avviene il contrario. Lama:
E’ necessario accostarsi alla Vacuità con un primo approccio breve, sintetico e soltanto in un secondo tempo sarà possibile procedere all’esame analitico dei dettagli. E’ indispensabile avere prima di tutto un’idea chiara, generale, del concetto che si vuole comprendere e, partendo da questo punto, scendere nel particolare e approfondirlo.
Il Sentiero della Corretta Visione Ora la vita si complica, ci avviciniamo al sentiero della visione corretta e la spiegazione su come meditarla è contenuta nella frase: “Quindi, Shariputra, tutti i fenomeni sono Vacuità; essi sono privi di caratteristiche peculiari; non sono nati, non cessano; non sono contaminati, non sono incontaminati; non sono incompleti e non sono completi.”
I fattori da esaminare sono otto, non più quattro. Tutti i fenomeni sono intrinsecamente vuoti, non esistono cause intrinsecamente esistenti e, di conseguenza, non si possono avere risultati intrinsecamente esistenti. Anche le contaminazioni, le oscurazioni mentali sono intrinsecamente vuote. I tipi di mente non contaminati sono intrinsecamente vuoti. La diminuzione delle afflizioni mentali è essa stessa non intrinsecamente esistente. Le qualità mentali che incrementano lo sviluppo non sono intrinsecamente esistenti. L’avvicinamento alla Vacuità è sempre più complesso. Durante il sentiero dell’accumulazione non si ha alcuna conoscenza della Vacuità, si è in una fase di studio, di realizzazione e di tentativi di avvicinamento in un approccio generale. Entrando nel secondo sentiero, della preparazione, si ha un’idea chiara della Vacuità e si è in grado di avviare l’analisi di qualche dettaglio, perché ancora non si è di fronte alla Vacuità, ma se ne intravede il vero riflesso nell’immagine mentale. Ora invece, potendo incontrare viso a viso, direttamente la Vacuità, non la sua l’immagine mentale, in un’osservazione non filtrata dallo sguardo fisico, ma quale risultato della vera comprensione, è il momento in cui si debbono affrontare i particolari. Il meditatore passa dalla chiara immagine alla chiara visione della Vacuità e, avendo eliminato l’intermediario che è l’immagine mentale, in quel preciso istante diventa un Arya Bodhisattva, una Mahasattva. Colui che era un meditatore Bodhisattva ora acquisisce lo stato di Arya Bodhisattva. Ecco il significato delle parole del testo: “Arya Avalokitesvara Bodhisattva Mahasattva” cioè un Bodhisattva che, approdando dal sentiero della preparazione a quello della visione, ha la limpida visione diretta propria di un Bodhisattva Mahasattva, un Arya. Questa è la caratteristica del Bodhisattva che entra nel terzo sentiero, della visione e nel quarto, della meditazione o familiarizzazione. A questo punto la Vacuità è una vera sfida e il meditatore, il Bodhisattva Mahasattva, vede ogni fenomeno come vuoto e come vuota ogni causa del passato e ogni risultato del futuro, una peculiarità espressa nella visione del Bodhisattva in grado di osservare che “tutti i fenomeni sono Vacuità” “essi sono privi di caratteristiche peculiari” con preciso riferimento al fatto che tutte le cause sono vuote, il passato è vuoto, non c’è nulla che possa essere identificato come intrinsecamente esistente. “non sono nati” e quindi i loro
risultati, il futuro, sono vuoti poiché da essi non nascerà nulla di intrinsecamente esistente. Anche tutto ciò che solitamente è considerato afflizione mentale, difetto mentale, oscurazione mentale o sofferenza non è intrinsecamente esistente dunque “non sono contaminati”. Altrettanto, le virtù, le menti positive, le qualità mentali, non sono intrinsecamente esistenti. Alla domanda: «Si può purificare la mente intrinsecamente da tutti i difetti?» la risposta è No! Inoltre, se “non sono incompleti” e “non sono completi” alla domanda: «possono rendere intrinsecamente perfette le qualità della mente?» la risposta è sempre No. L’analisi diventa ancora più sottile nella visione profonda del Sutra del Cuore che osserva “la varietà dei fenomeni chiamata percezione profonda”. Ad esempio, praticando il Dharma ci si pone l’obiettivo di realizzare lo stato di illuminazione, eppure spesso si parte dall’idea, completamente errata, che un io indipendente realizzi un indipendente stato di illuminazione, che un io intrinsecamente esistente possa accumulare cause indipendenti, intrinsecamente esistenti e ottenga futuri risultati intrinsecamente esistenti. Per eliminare i difetti mentali si agisce nell’illusione di poter annullare difetti intrinsecamente esistenti con un metodo intrinsecamente esistente. Anche le qualità che si vorranno realizzare saranno quindi intrinsecamente esistenti e la loro maturazione completa produrrà uno stato ovviamente intrinsecamente esistente. Così, alla fine, ci si ritrova ad essere praticanti intrinsecamente esistenti di un dharma intrinsecamente esistente e l’unico risultato ottenuto sarà la definitiva fuga dell’illuminazione. Ecco una pratica intensa e sbagliata in cui sono state investite ingenti energie con il solo risultato della perdita di ogni possibilità di illuminazione. Nel terzo sentiero, della visione, gli stadi di pratica che corrispondono ai trentasette fattori di illuminazione sono contenuti nel “Nobile Ottuplice Sentiero”. Il primo stadio è “La visione corretta”, fondamentale perché soltanto in esso si è in grado di superare realmente la visione errata, prima di questo passaggio non è possibile avere una visione completa e corretta della realtà. La visione errata è quella, appena descritta, del meditatore che parte dal concetto di essere intrinsecamente esistente e che di conseguenza osserva tutti i fenomeni come intrinsecamente esistenti cadendo in un errore molto grave che distrugge e corrompe tutto. La visione errata più devastante è data dall’idea del Guru, o del Buddha, o di Dio, o di una religione, intrinsecamente esistenti, basta osservare la storia dell’umanità per comprendere quante tragedie siano scaturite da essa. Tutti gli errori nascono dall’ignoranza e, in questo caso, si tratta di ignoranza che produce la visione sbagliata, che ignora la Vacuità.
Nel sentiero della visione la pratica della meditazione sulla saggezza consiste nell’eliminare le informazioni sbagliate che determinano l’afferrarsi a un sé costruito artificialmente, temporaneo, fondato su condizione temporanee, cioè l’aggrapparsi ad un sé non innato, ad un sé falso. Il primo passo del nobile ottuplice sentiero è il sentiero della corretta visione, da cui scaturiscono naturalmente, uno conseguente all’altro, un corretto modo di pensare, un corretto modo di parlare, un corretto modo di agire, un corretto modo di vivere, un corretto sforzo, una corretta consapevolezza, una corretta concentrazione. Gli otto rami dell’ottuplice sentiero diventeranno perfetti nel sentiero della visione che elimina il concetto errato, artificiale, temporaneo dell’aggrapparsi al sé.
Il Sentiero della Familiarizzazione Soltanto nel momento n cui il meditatore annulla la visione sbagliata eliminando il concetto dell’aggrapparsi al sé non innato entra nel sentiero della familiarizzazione o della meditazione e il suo compito diviene più arduo. Nel corso del quarto sentiero, della familiarizzazione o meditazione si combatte il concetto dell’ignoranza innata, dell’aggrapparsi ad un sé innato ed entrano in gioco i dieci “bhumi” 36, conosciuti anche come i dieci livelli dei Bodhisattva. Il commentario dice che durante il sentiero della familiarizzazione non vi è presenza alcuna di fenomeni convenzionali quindi, se osserviamo Michele seduto in questa sala, non vediamo Michele ma la Vacuità di Michele. Il testo del Sutra del Cuore prosegue riferendosi al sentiero della familiarizzazione: “Quindi, Shariputra, nella Vacuità non c’è forma”, dunque qui non c’è Michele, ma la Vacuità di Michele. ”non c’è forma, né sensazioni, né percezioni, né formazioni mentali, né coscienza.”
Cioè non c’è nessuno dei cinque aggregati. “Non c’è occhio, né orecchio, né naso, né lingua, né corpo, né mente. Non c’è forma” In questo caso “forma” indica il colore, la forma geometrica. “né suono, né odore, né gusto, né oggetti concreti, né oggetti mentali. Non c’è nessun elemento visivo, così fino a nessun elemento mentale fino a includere nessun elemento della coscienza mentale.”
Gli oggetti concreti si possono toccare e riguardano i diciotto elementi di tutti i fenomeni: sei organi dei sensi, sei oggetti dei sensi, sei facoltà dei sensi. “Non c’è ignoranza, non c’è estinzione dell’ignoranza, e così fino a nessun invecchiamento e morte, e nessuna estinzione dell’invecchiamento e della morte.”
Ecco un ulteriore approfondimento e, se ricordate l’insegnamento del testo di Nagarjuna sui dodici anelli dell’origine interdipendente, potete riconoscere il primo e l’ultimo anello: “ignoranza” e “invecchiamento e morte”, che, osservati nel movimento della creazione e in quello della cessazione, dimostrano di non poter esistere intrinsecamente in nessuna delle due direzioni. Nessun anello della catena può avere un’esistenza intrinseca, questa è l’essenza del “Paticcasamuppada”, l’importante sutra dell’origine interdipendente. “Allo stesso modo, non c’è sofferenza, origine, cessazione o sentiero; non c’è saggezza, né ottenimento e neppure mancanza di ottenimento.” 36Bhumi: Terre dei Bodhisattva, tappe o livelli raggiunti in successione
Anche le quattro nobili verità, contenute nel “Dharmachakra Pravartanasutra” il sutra dell’avvio della prima ruota del Dharma, non esistono intrinsecamente. Questi sutra sono fondamentali e sarebbe bene studiarli direttamente non limitandosi ai commentari soggetti alle diverse interpretazioni. Non c’è una saggezza intrinseca. Diciamo: “voglio ottenere l’illuminazione!…” ma non c’è nessun ottenimento e, ancora meglio, non c’è nemmeno il non-ottenimento. La comprensione scaturisce dalla realtà dell’origine interdipendente, dalla realtà della Vacuità dei fenomeni.
Il Sentiero della Meditazione simile al Diamante La concentrazione simile al vajra, il diamante indistruttibile è un altro concetto essenziale. Dopo aver meditato lungamente nel sentiero della familiarizzazione si giunge all’ultimo momento del samsara, all’ultimo istante dello stato non illuminato della mente detto “il sentiero della meditazione simile al Vajra”. “Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza. Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione della saggezza”.
Il sentiero della meditazione simile al diamante è l’ultimo momento di una mente non illuminata, in questa fase un Bodhisattva è in completo assorbimento meditativo sulla Vacuità, sulla mancanza di esistenza intrinseca, la sua mente è libera da ogni tipo di oscurazioni e di paure, ogni timore è scomparso ed è totalmente al di là dell’errore, si trova in una situazione simile allo stato dell’illuminazione. Nel sentiero della familiarizzazione si elimina l’ignoranza innata, sottile, attraverso il duro percorso dei dieci bhumi, i dieci livelli di eliminazione. E’ il momento in cui il Bodhisattva attua la pratica più lunga, la prova più intensa. Il primo bhumi è “il terreno della gioia”, perché si ha la gioia della visione del volto dell’illuminazione, la Vacuità che, anche se non ancora totalmente chiara, è comunque presente. In questo momento la meditazione si articola in due fasi: la fase meditativa o dell’assorbimento meditativo e la fase post-meditativa relativa all’intervallo tra un assorbimento meditativo e l’altro. La fase dell’assorbimento meditativo si suddivide a sua volta in due momenti: Il primo è il momento in cui il meditatore, profondamente assorto nell’osservazione dei dettagli della Vacuità, avverte la presenza vigile del suo opponente, dell’ostacolo non ancora eliminato. Il secondo momento si presenta quando il meditatore, entrando nella seconda fase dell’assorbimento meditativo, riesce a sconfiggere l’ostacolo eliminandolo e solo allora avviene il passaggio da un bhumi a quello successivo. Nell’alternanza di questi momenti si ha la fase post-meditativa in cui si applica la pratica della generosità, dell’etica, dell’accumulazione dei meriti. L’attraversare i dieci terreni di pratica costituisce il mezzo necessario per purificare l’ignoranza sottile dell’innato aggrapparsi al sé. Il sentiero della purificazione nelle due fasi dell’assorbimento meditativo, quella del confrontarsi con l’ostacolo, l’opponente, e quella della sua eliminazione, realizza i sette rami o fattori dell’illuminazione:
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il fattore della corretta consapevolezza; il fattore della corretta aspirazione; il fattore del corretto sforzo gioioso; il fattore della corretta gioia; il fattore della corretta tranquillità; il fattore della corretta concentrazione; il fattore della corretta equanimità, che è l’ultimo e per questo particolarmente importante.
A volte si pensa, sbagliando, che l’equanimità sia semplice e poco rilevante, invece è fondamentale, in essa si elimina ogni visione settaria, non bianco o nero, non giusto o sbagliato, ma solo equanimità che è Vacuità. La natura della Vacuità rende ogni cosa uguale. Tale visione non dipende dall’oggetto ma dal livello personale di comprensione. La fase post-meditativa è un periodo di riposo e di rigenerazione che permetterà di affrontare nuovi ostacoli con rinnovata energia, arricchiti dall’accumulazione dei meriti dovuti all’applicazione del metodo, della rinuncia e della bodhicitta. Così rafforzati, si rientra nella meditazione che, a questo punto, è un vero campo di battaglia in cui ci si confronta con l’opponente sino a che non lo si vince con la completa eliminazione dell’ostacolo. Il ciclo riprende, sconfitto l’ostacolo di quel bhumi si passa al bhumi successivo, alternando le fasi meditative e post- meditative, di bhumi in bhumi, dal primo al secondo, al terzo, al quarto, al sesto, al settimo, sino all’ottavo nel quale si eliminano le impronte più sottili lasciate dai difetti mentali, le predisposizioni delle afflizioni mentali, e si è così nel livello dell’Arhat, che non ha ancora raggiunto la bodhicitta ma ha eliminato con uguale metodo l’ignoranza e possiede la stessa chiara saggezza. I dieci bhumi corrispondono alla pratica delle dieci perfezioni. I primi sei bhumi si riferiscono alle sei perfezioni: il primo alla generosità, il secondo all’etica, il terzo alla pazienza, il quarto alla perseveranza entusiastica, il quinto alla concentrazione, il sesto alla saggezza. I restanti quattro bhumi sono perfezionamenti del sesto e, precisamente: il settimo corrisponde al potere, l’ottavo al potere della preghiera o dell’aspirazione, il nono alla perfezione del metodo o dei mezzi abili, il decimo alla perfezione della chiara visione. Con il decimo bhumi si giunge alla meditazione simile al vajra, il diamante. “Quindi, Shariputra, poiché i Bodhisattva non hanno ottenimenti, si basano e dimorano nella perfezione della saggezza”.
Il Quinto Sentiero, dell’Illuminazione La meditazione simile al diamante prosegue fino alla realizzazione dell’illuminazione, ecco dunque il quinto sentiero, quello dell’illuminazione, descritto nelle frasi: “Non avendo oscuramenti nelle loro menti, essi non hanno paura, ed essendo andati totalmente oltre l’errore, essi raggiungono la meta finale: il nirvana. Tutti i Buddha che dimorano nei tre tempi hanno ottenuto il pieno risveglio dell’insuperabile, perfetta illuminazione, basandosi su questa profonda perfezione della saggezza.” Il praticante che ha realizzato i sentieri dell’accumulazione, della preparazione, della visione e della meditazione attraverso i dieci bhumi ha eliminato gli ostacoli della mente e raggiunto uno stato in cui non vi è più paura né sofferenza, lo stato dell’illuminazione. Il cammino, descritto nel Sutra del Cuore è quello percorso da tutti i Buddha dei tre tempi, del passato, del presente e del futuro. Non ci si sofferma particolarmente sulla descrizione delle qualità dell’illuminazione perché è evidente che esse sono tutte quelle realizzate attraverso l’acquisizione dei diversi sentieri e che, portate alla perfezione, sono le qualità di un Buddha, già trattate in altri testi quali “I dieci tipi di potere” e “Le quattro assenze di paura”. E’ ancora necessario ricordare che esistono principalmente due ostacoli da superare: uno è l’ostacolo alla liberazione dai difetti mentali, dalle afflizioni mentali e l’altro è l’ostacolo che si oppone alla mente onnisciente. Il Bodhisattva che raggiunge l’ottavo bhumi elimina completamente l’ostacolo alla liberazione dalle afflizioni mentali e quando raggiunge lo stato dell’illuminazione elimina completamente l’ostacolo alla mente onnisciente. Questi sono gli stadi del percorso mahayana del Bodhisattva, i cinque sentieri che un praticante mahayana del lignaggio dei Bodhisattva intraprende per realizzare lo stato dell’illuminazione. In questo contesto si descrive la via del meditatore che entra, sin dall’inizio, nel sentiero mahayana dei Bodhisattva e, attraversando tutti i suoi livelli, realizza l’illuminazione completa, ma non si parla affatto del meditatore che, seguendo un altro percorso, procede dalla meditazione degli uditori, Sravaka, alla meditazione dei Pratyeka, e dunque diventa un Bodhisattva. E’ necessario conoscere chiaramente questa distinzione, altrimenti ci si confonde e sorgono i problemi. Nella lingua tibetana, quando, alla lettera tibetana “ka” si aggiunge, sopra, il segno “ra” e, sotto, il segno “u” si pronuncia “ku” che significa rubare; se invece, alla lettera “sa” si affiancano i segni “ka” e “u”, si pronuncia ugualmente “ku” ma ha un significato onorifico per indicare la sacralità di un elemento. E, ancora, la lettera “la” e “ka”con la “u” sotto, si pronuncia ugualmente “ku” ed è la prima delle due sillabe “Ku pha” che significa persona stolta, fuori di senno. Ciò dimostra che cose apparentemente uguali possono avere significati completamente diversi, per questo i tibetani raccomandano, con un proverbio: “Non confondere “ra” “la” e “sa” perché farai confusione,
finirai col dire che Buddha è un ladro, che Buddha è privo di senno, o, viceversa, che il ladro è Buddha.” Dobbiamo essere attenti e distinguere chiaramente le situazioni dei differenti tipi di Bodhisattva, comprendere che derivano dalle molte possibilità offerte per il raggiungimento dell’obiettivo. Ognuno deve seguire la propria propensione, sapere qual’è il cammino a lui più consono. C’è chi entra immediatamente nel sentiero mahayana, chi invece sceglie il percorso dei Pratyekabuddha, e altri ancora possono, giunti a metà del cammino del sentiero dei Pratyekabuddha o degli Sravaka, decidere di cambiare entrando nel sentiero mahayana. Esistono diversi modi per diventare Bodhisattva che possono essere applicati a tutti i sentieri, hanno lo stesso nome ma si rivolgono a realtà differenti e a individui differenti e non devono essere confusi gli uni con gli altri.
Mantra della Perfezione della Saggezza Il testo ora presenta il Mantra: “Quindi, si dovrebbe sapere che è il mantra della perfezione della saggezza”
Il termine “Mantra”significa protezione della mente, quindi nel momento in cui si riceve, si ascolta, si recita o si riflette su un mantra si sta utilizzando un metodo per proteggere la mente. Questo mantra è stato ispirato dal Buddha, rivolto da Avalokitesvara a Shariputra. Attenzione però a non confondersi riferendosi ad Avalokitesvara che può essere il Bikshu Avalokitesvara, oppure il Bodhisattva Avalokitesvara, o il Buddha Avalokitesvara. Stessa accortezza la si deve avere con Maitreya, non necessariamente ci si rivolge al Buddha Maitreya, ci si può riferire anche al re Maitreya, al Bodhisattva Maitreya, al bikshu Maitreya, sono realtà diverse. Domanda: Sono individui diversi o sono fasi diverse nel cammino dell’illuminazione? Lama:
Sono manifestazioni differenti, una è un Buddha e ha lo stato di Buddha, una è un Bodhisattva e ha lo stato di Bodhisattva e un’altra è un Bikshu e ha lo stato di un monaco completamente ordinato.
Il mantra della perfezione della saggezza è una protezione della mente, è: • “il Mantra della Grande Conoscenza”, che può superare l’ignoranza; • “il Mantra Supremo”, che può eliminare ogni sofferenza; • “il Mantra Uguale a ciò che non ha Uguale”, grazie al quale si realizza lo stato dell’illuminazione, quindi non paragonabile a nulla; • “il Mantra che fa Tacere tutte le Sofferenze – è Vero perché non è ingannevole”, attraverso la sua pratica si possono pacificare tutte le sofferenze. Recita il mantra della perfezione della saggezza: TADYATHA GATE’ GATE’ PARAGATE’ PARASAMGATE’ BODHI SVAHA In italiano:
TADYATHA potrebbe essere tradotto con “Eccolo!”;
GATE’ significa “andare”, è un’esortazione a se stessi, “vai!”. Il primo GATE’ indica il sentiero dell’accumulazione, il secondo GATE’ il sentiero della preparazione;
PARAGATE’ indica il sentiero della visione;
PARASAMGATE’ indica il sentiero della meditazione;
BODHI indica il sentiero del non più apprendimento che è lo stato dell’illuminazione;
SVAHA significa dimorare nella mente, è un’esortazione a stabilizzare nella mente tutte le realizzazioni raggiunte.
Segue il consiglio di Avalokitesvara a Shariputra: “Shariputra, così i Bodhisattva mahasattva dovrebbero addestrarsi alla profonda perfezione della saggezza”.
Il Buddha, che era in profondo stato meditativo, ne esce e approva quanto era successo: il Bhagavan si svegliò dal suo assorbimento meditativo e lodò l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, dicendo che era eccellente. “Eccellente! Eccellente! Figlio del lignaggio dei Bodhisattva, è proprio così; dovrebbe essere così. Bisogna praticare la profonda perfezione della saggezza proprio così come hai rivelato. Perciò anche i Tathagata se ne rallegreranno”.
Il Buddha ha voluto precisare che, non solo lui si rallegrava per questo dialogo, ma che tutti i Buddha dei tre tempi ne erano felici. Nel commentario infatti si sottolinea che l’aggettivo “eccellente” ripetuto due volte è rivolto, il primo alla domanda di Shariputra e il secondo alla risposta di Avalokitesvara. Conclude: “Come il Bhagavan pronunciò queste parole, il venerabile bikshu Shariputra, l’arya Avalokitesvara, il Bodhisattva mahasattva, insieme all’intera assemblea, inclusi i mondi degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharva, tutti gioirono e lodarono ciò che il Bhagavan aveva detto”.
In uno dei commentari si specifica che l’intera assemblea, inclusi il mondo degli dei, degli umani, degli asura e dei gandharva gioirono con ammirazione per quello che il Bhagavan aveva detto e in quella occasione promisero di praticare. Così si conclude il Sutra Mahayana conosciuto come “la Signora delle Conquiste, il Cuore della Perfezione della Saggezza”; fu tradotto per la prima volta dal sanscrito dall’abate indiano Vimalamitra con il maestro traduttore tibetano, venerabile Rinchende. In un secondo momento la traduzione venne esaminata e resa ufficiale dai maestri traduttori, dagli editori Gelo e Namka e da altri ancora. In tutto il Tibet se ne utilizzava un’unica versione e, sebbene i traduttori tibetani fossero esperti nella lingua sanscrita, avevano l’obbligo deontologico di confrontare sempre il loro lavoro con i maestri indiani, in questo modo si voleva garantire la maggior fedeltà possibile al testo originale. Ho cercato di fare del mio meglio per commentare il Sutra del Cuore, pur dovendo semplificare e sintetizzare il più possibile, è stata un’esposizione brevissima, utile però per poter comprendere la propria attitudine mentale e valutare qual’è il sentiero più consono. Esistono vari commentari a questo testo e sarebbe opportuno leggerli. Nel Sutra del Cuore è contenuto l’intero insegnamento del Buddhadharma. E’ breve, conciso, ma estremamente chiaro e profondo.
Domanda: il Buddha ci ha offerto una possibilità per giungere alla cessazione della sofferenza, però pare che non ci sia una spiegazione su come sia sorta la sofferenza, quali cause e condizioni sono intervenute, visto che nel Sutra del Cuore si dice che i fenomeni non sono nati, vorrei avere maggior chiarezza su questo punto. Perché mi trovo in questa situazione di sofferenza se cause e condizioni non sono nate? Lama:
“Intrinsecamente non-nato” significa che è nato in dipendenza da cause e condizioni che determineranno inevitabilmente degli effetti, dei risultati, dando così inizio ad un ciclo che si ripete all’infinito. Queste stesse cause e condizioni, che pur esistono e funzionano, non sono intrinseche, non sono indipendenti. Il loro contesto è la Vacuità e quindi tutto ciò che chiamiamo sofferenza, difficoltà, problema è avvertito e vissuto come tale ma intrinsecamente non lo è. Sebbene sofferenza, difficoltà e problemi appaiano reali, nello spirito della Vacuità non lo sono.
Si presentano come veri problemi perché li osserviamo con la falsa visione di un sé intrinsecamente esistente, di una sofferenza intrinsecamente esistente, di una liberazione intrinsecamente esistente, e, poiché abbiamo radicata l’idea dell’intrinsecamente esistente, basata sul sé, il fenomeno appare come problema. Se lo stesso fosse osservato nella Vacuità sarebbe vissuto così com’è nella realtà, vacuo, vuoto di natura intrinseca. Domanda: Questo sutra sintetizza il percorso del lignaggio dei Bodhisattva, esiste qualcosa di analogo per gli altri lignaggi? Lama:
Il sentiero è esattamente lo stesso, fino all’ottavo bhumi corrispondente alla liberazione di un Arhat; la differenza consiste nell’obiettivo primario da sviluppare, nel sentiero del Bodhisattva troveremo la compassione, la Bodhicitta, in quello degli Sravaka e dei Pratyekabuddha la rinuncia. Il sentiero è unico, infatti le trentasette pratiche sono uguali. Il Bodhisattva studia, attua e tramanda tutti i sentieri. Il Bodhisattva pratica tutti i sentieri dello Sravaka e del Pratyekabuddha. Tutti i sentieri sono inclusi nel Sutra del Cuore che enfatizza l’aspetto della saggezza. La saggezza è la stessa, la natura di Buddha è la stessa, ciò che cambia è il metodo.
Domanda: I siddhi, cioè i poteri della mente, si manifestano in connessione con la realizzazione dei bhumi o ne sono indipendenti, e quando si manifestano? Lama:
Ci sono siddhi intesi come realizzazioni spirituali, quindi materializzazione delle stesse, sono di due tipi: uno si riferisce ai siddhi comuni ed è relativo alla realizzazione, tramite la pratica spirituale, delle necessità materiali, il secondo invece riguarda i siddhi non comuni, straordinari, considerati in genere i veri siddhi, essi perseguono unicamente la realizzazione del sentiero spirituale.
Domanda: I fenomeni come la trasmissione del pensiero a distanza, l’ubiquità, rientrano nei siddhi straordinari o no? Lama:
Sono illusioni in ogni caso, qualsiasi tipo di fenomeno non varca il limite della legge naturale dell’interdipendenza. Nemmeno Buddha può superare questo limite. Il maestro Chandrakirti, che ha scritto il testo del “Madhyamakavatara”, “La via di mezzo”, descrive con grande precisione e dettagliatamente i dieci bhumi e le dieci perfezioni e afferma che un individuo accumula il proprio karma e questo può essere ovviamente vissuto solo da lui, come potrebbe essere goduto da altri? Bisogna essere molto cauti e non cadere in facili illusioni fuorvianti. Se fosse così facile trasmettere il pensiero allora il Buddha avrebbe trasmesso l’illuminazione a tutti e subito, invece ognuno può procedere secondo il proprio bagaglio personale, non ci sono scorciatoie, lo deve affrontare e risolvere, nessun altro può farlo al posto suo.
Domanda: Però il Sutra del Cuore è stato trasmesso all’assemblea mentalmente, non verbalmente. Lama:
Più che trasmesso è stato ispirato ad un’assemblea di grandi meditatori, vi era una forte intenzionalità, fattore che ha il potere di muovere, sollecitare, spingere ad agire.
Domanda: Non ricordo dove, ma mi pare di aver sentito spiegare la Vacuità con la metafora del sogno, paragonando la vita ad un sogno in cui non vi è nulla di concreto. Noi possiamo riconoscere il sogno e definirlo quando ritorniamo ad uno stato di veglia. Quindi, usando questa metafora, è tutto veramente Vacuità, o c’è un punto in cui la Vacuità non è più tale, come il sogno non lo è nella veglia? La natura di Buddha è Vacuità? Lama:
La natura di Buddha è la Vacuità più importante. La Vacuità è Vacuità.
Domanda: Ma allora che senso ha tutto? Se io sono completamente all’interno di fenomeni vuoti, della Vacuità, quando mi cade un mattone in testa, il mattone, la mia testa, la mia sofferenza saranno vacui, tuttavia io soffro e che sia tutto vacuo o no non me ne importa nulla. Sarebbe diverso e cambierebbe qualcosa nel momento in cui vi fosse altro al di fuori della Vacuità a cui poter far riferimento, ma se sono sempre in essa cosa cambia per me? Lama:
Chandrakirti, nel “Madhyamakavatara” dice che vi sono due realtà, la convenzionale e l’ultima. La realtà convenzionale, che è il senso comune, è il mezzo attraverso il quale è possibile realizzare la realtà ultima, la Vacuità. Chandrakirti conferma la visione di Nagarjuna che, portando rispetto e lodando il senso comune, raccomanda al meditatore di non perderlo mai di vista. Nagarjuna sottolinea inoltre che il praticante che perde il senso comune perde anche la possibilità di raggiungere il Nirvana. Le due realtà, le due verità, hanno un unico significato. Più convincimento c’è nella
Vacuità, più rispetto ci sarà per il senso comune. Il senso comune, la realtà convenzionale, rispecchia la realtà dell’interdipendenza. In Italia si guida a destra, in Inghilterra a sinistra, questo risponde al senso comune, non vi è bene o male, giusto o sbagliato nell’una o nell’altra modalità di circolazione, entrambe sono corrette nell’ambito della cultura e delle convenzioni locali, entrambe sono intrinsecamente vuote, perciò nessuna è intrinsecamente giusta o sbagliata. In Italia è sbagliato guidare a sinistra, ma non è intrinsecamente sbagliato in sé, perché lo stesso atto è giusto in Inghilterra. Il senso comune, la realtà convenzionale, ha un’esistenza relativa, basata sulle convenzioni di cause e condizioni, dimostra che non ha esistenza inerente confermando la sua natura di Vacuità. La realtà convenzionale è il metodo per raggiungere la realtà ultima. Domanda: Vedere il senso comune come relativo può essere di grande aiuto perché a volte basta spostare il punto di vista, non solidificando situazioni di sofferenza, per intuire che vi sono altre possibilità per risolvere al meglio i problemi. Lama:
E’ vero, avendo presente la visione della Vacuità si è più flessibili nell’osservazione della realtà convenzionale. L’accoglienza ampia delle convenzioni porta alla comprensione maggiore della realtà ultima, entrambe interagiscono aiutandosi vicendevolmente. Il percorso consiste nel realizzare la realtà ultima senza contraddire la realtà convenzionale.
Grazie, abbiamo trascorso un tempo eccellente insieme. L’ insegnamento si conclude con la recita della preghiera di dedica dei meriti.
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