Lama Geshe Gedun Tarchin - Nuova Luce Del Dharma - Parte I

September 25, 2017 | Author: lobeito | Category: Dzogchen, Tibetan Buddhism, Nirvana, Vajrayana, Truth
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Nuova luce del Dharma Parte I

Lama Geshe Gedun Tharchin

Introduzione I TRE GIRI DELLA RUOTA DEL DHARMA E’ bene soffermarsi con particolare attenzione sui tre principali aspetti del sentiero in modo da predisporsi allo sviluppo della corretta motivazione, che deve essere sempre presente, sia nelle normali attività della vita, che nel momento particolare di preghiera e pratica del Dharma. Dobbiamo essere coscienti della magnifica opportunità offerta da queste giornate di approfondimento, godendo insieme dell’atmosfera e delle sensazioni pacifiche che ne nascono e che ci permettono di dimenticare tutte le noie e le preoccupazioni quotidiane; in questo preciso momento siamo liberi da ogni inquietudine e stiamo vivendo in perfetta salute mentale e fisica. Utilizzando il linguaggio filosofico potremmo affermare che siamo in uno stato equanime della mente e lo stesso nirvana non è cosa differente da questo tipo di situazione. Se ne avessimo la capacità potremmo realizzare il nirvana qui, in un luogo di perfetto rilassamento, perché la potenzialità è sempre presente in noi e, se non ne approfittiamo, perderemo una grande occasione. La meditazione quotidiana è fondamentale per poter sperimentare il livello profondo del sé. La pratica non è dunque soltanto questione di sforzo e di conoscenza ma è l’incontro di cause e condizioni e, nel momento in cui ciò avviene, la realizzazione sorge spontaneamente. Un esempio sempre chiaro è quello della pianta che deve fiorire, non vi è alcuna possibilità di forzarne il naturale processo, l’unico modo per ottenere una bella fioritura è quello di averne molta cura, fertilizzare il terreno, disporla nella giusta luce, annaffiarla quotidianamente. Lo stesso metodo vale per la mente, si pongono in atto tutte le condizioni necessarie ed essa fiorirà, ma, se volessimo forzarla, ne otterremmo soltanto la sua distruzione. Nella pratica spirituale questo è aspetto è determinante, non si deve mai pressare, forzare la mente, ma solo porla nella posizione corretta accudendola con le giuste attenzioni. In tal senso il continuo chiacchiericcio mentale e persino lo studio eccessivo e la lettura, possono trasformarsi a volte in elementi di disturbo. Non è facile lasciare la mente nella giusta situazione, nella pace della sua stessa natura. L’acqua inquinata messa in un contenitore pulito e adatto si detergerà naturalmente lasciando che le particelle di sporco depositino sul fondo in uno spontaneo processo di autopurificazione. Anche il cielo in una giornata limpida manifesta tutta la propria intensa radiosità ma, quando nuvole passeggere ne oscurano la limpidezza, non vi è modo di ripulirlo

spingendole a forza, l’unica possibilità è attendere che naturalmente le oscurazioni si esauriscano e scompaiano. Similmente, per quanto riguarda la mente, a volte accade in modo assolutamente inaspettato, quasi misterioso, che si generi grande serenità e calma mentale e ciò è dovuto al compimento dell’unione di cause e condizioni. Questo è il metodo essenziale di purificazione della mente. Nella tradizione tibetana si ricordano innumerevoli discussioni e dibattiti su questo aspetto, alcuni ritengono che le realizzazioni possano giungere anche senza meditazione, ma altri affermano l’esatto contrario e cioè che senza meditazione sia impossibile ottenere realizzazione alcuna. Precisamente le due posizioni sono così sintetizzate: 1. “anche se siamo esseri illuminati lo siamo da sempre, sin dall’origine, in realtà, però, non lo riconosciamo” e da ciò nasce ogni problema. 2.

“se ciò fosse vero non avrebbe alcun senso praticare”.

I due differenti punti di vista filosofici sono parte della tradizione tibetana, fondata sulla traduzione dei testi radice originali indiani della parola del Buddha, portati in Tibet in due momenti successivi così da essere indicati come appartenenti alla “vecchia traduzione” o alla “nuova traduzione”. La prima traduzione è stata redatta dalla scuola degli antichi, i Nyingmapa ed è considerata in Tibet di maggiore importanza, la seconda traduzione, Sarma, ha dato origine a nuove scuole di cui le tre più importanti sono: Kagyupa Sakyapa e Gelugpa. Anche all’interno di ognuna di esse esistono ulteriori sottili suddivisioni che, pur non essendo evidenti esternamente, ne definiscono le specifiche caratteristiche. Si ha un fenomeno simile nel cristianesimo e nello stesso cattolicesimo. L’interpretazione della parola del Buddha relativamente al punto fondamentale della visione pura è sintetizzata in due termini diversi: nella vecchia traduzione, dei Nyingmapa, è DZOGCHEN (Grande Perfezione), nella nuova traduzione è MAHAMUDRA, (Grande Sigillo) che è il perno, il cuore, il fulcro della traduzione Sarmata. I Nyingma, oltre ad una propria interpretazione degli insegnamenti del Buddha, hanno raccolto insegnamenti particolari che non sono generalmente considerati nella tradizione tibetana e appartengono a pratiche tantriche, si tratta della raccolta di insegnamenti tantrici della vecchia traduzione a cui, successivamente, i discepoli hanno apportato interpretazioni ancora differenti. L’essenza dello Dzogchen è contenuta nel verso già citato “anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà, però, non lo riconosciamo”. Nell’interpretazione della nuova traduzione dei Sarmapa invece, si pensa che ciò non sia corretto e ci si concentra sulla Mahamudra basata sulla concezione che tutti noi abbiamo la natura di Buddha che pur essendo già presente, deve essere purificata, da

tutte le impurità che la ricoprono ed oscurano e soltanto quando ciò avverrà noi saremo illuminati. Domanda: Quindi non vi è una differenza sostanziale tra le due posizioni? Domanda: Si c’è, perché il Mahamudra sostiene che tutti abbiamo la potenzialità di raggiungere l’illuminazione, ma è necessario purificare ogni impurità, mentre lo Dzogchen dice che siamo già illuminati dall’inizio, dobbiamo solo saperlo riconoscere, vero? Lama:

Affinché non sorgano fraintendimenti è bene precisare che non è esatto pensare ad “un inizio”, a terminologia esatta è “da tempo senza inizio”, e questo è un concetto centrale nell’interpretazione tibetana degli insegnamenti del Buddha. Si è già illuminati o si deve ancora acquisire questa qualità? Troviamo riferimenti essenziali nel trattato “Uttaratantra”, il supremo lignaggio, insegnato dal Bodhisattva Maitreya ad Asanga nel IV secolo, nel quale sono riassunti tutti gli insegnamenti relativi “al terzo giro di ruota” concernente la natura di Buddha, termine condiviso da entrambe le traduzioni, la vecchia e la nuova. L’Uttaratantra costituisce la fonte principale, il testo radice a cui si sono riferite tutte le successive interpretazioni. In esso vengono trascritti nove classici esempi condivisi da tutte le scuole. Uno di questi narra di un tesoro costituito da oro nascosto nell’immondizia. L’oro rappresenta la natura di Buddha e l’immondizia le impurità mentali, il momento in cui si scopre l’oro che emerge dalla sporcizia è il momento in cui si raggiunge l’illuminazione e si realizza la propria autentica natura; ciò corrisponde all’insegnamento Nyingmapa perché, anche se siamo esseri illuminati dal tempo senza inizio, in realtà non siamo capaci di riconoscerlo immediatamente. Per i Sarma, trovare l’oro in mezzo all’immondizia, corrisponde alla purificazione, alla ripulitura delle impurità che lo nascondono, che oscurano la vera natura della mente. Entrambe le posizioni trovano risposta nell’esempio, ecco perché gli studenti di Dharma devono fermarsi almeno un anno sullo studio della natura di Buddha, un soggetto stupendo.

Domanda: Rispetto alla pratica, come si differenziano queste due interpretazioni? Noi generalmente lavoriamo sulla mente per purificarla da tutti gli ostacoli, ma secondo l’interpretazione degli antichi cosa dovremmo fare? Lama:

Creare le condizioni appropriate; invece di porre l’accento sul tipo di percorso da seguire rivolgere maggior attenzione e prendersi cura delle condizioni affinché esso si verifichi naturalmente. Per esempio, nell’educazione dei figli vi è un modo diretto di procedere seguendo giorno per giorno l’evoluzione del proprio lavoro, oppure vi è un sistema educativo in cui ci si preoccupa di creare le condizioni migliori affinché questo processo avvenga naturalmente, ma in nessuno dei due casi vi è garanzia di buon

risultato. Nei collegi inglesi, così come nei nostri monasteri, spesso si cerca di avere tra i propri studenti persone importanti, famose, in modo da poterne trarre un vantaggio e senza troppi scrupoli si rilasciano attestati che non corrispondono affatto al livello di preparazione indicato. Le tradizioni, sia di Oxford che di Cambridge, sono particolari perché, dopo aver ottenuto il primo grado di laurea, si passa automaticamente alla laurea completa; oggi la stessa cosa tende a verificarsi anche nei nostri monasteri, quando si raggiunge un certo livello si può accedere direttamente al livello massimo, senza dover ottenere diplomi intermedi, così si può trascorrere una vita intera nel monastero, e alla fine avere il titolo di Geshe, senza la relativa necessaria preparazione. Quindi, anche se esistono le migliori condizioni, il processo non è mai garantito, in nessun caso, è dunque saggio considerare molto seriamente entrambe le possibilità praticandole insieme; non c’è una via “migliore”, “più giusta”, e nemmeno l’una esclude l’altra, anzi è stupendo saperle integrare armoniosamente creando le condizioni più favorevoli e impegnandosi nel lavoro di purificazione, attuando così una pratica globale. Per quanto riguarda la natura del Buddha vi sono interpretazioni differenti sul suo essere in noi, ma cos’è la natura di Buddha? E’ la natura della mente. Una terminologia che può apparire strana e potremmo essere indotti a identificarla come un dono offerto dal Buddha, in realtà si tratta dell’autentica natura della propria mente. Comunque, entrambe le tradizioni, quella della “grande perfezione” (Dzogchen) e quella del “grande sigillo” (Mahamudra), affermano la fondamentale realtà della natura della mente. La natura della mente ha due livelli: uno definitivo, ultimo, e uno convenzionale, relativo, ed entrambi devono coesistere. La natura della mente è direttamente connessa alla consapevolezza, la cui crescita e realizzazione è il metodo necessario al suo sviluppo. Nell’approfondimento della consapevolezza ci avviciniamo al livello ultimo della natura della mente, la natura vacua della mente. Come una lampadina che dà più luce quanto più è potente, con il crescere della consapevolezza la natura vacua della mente si manifesterà con maggiore chiarezza e luminosità. Osserviamo allo stesso modo la natura di Buddha che, da un lato è innata e dall’altro può essere sviluppata. La natura di Buddha innata è conosciuta come “chiara luce”; la natura di Buddha che può essere sviluppata invece appartiene alla consapevolezza. Se sappiamo guardare con equanimità i due livelli della mente riusciamo ad avere una miglior conoscenza del sé, ed è un grande passo, perché il nostro riferimento non può mai essere il mondo esterno bensì la nostra interiorità, il nostro sé profondo.

E’ interessante affrontare l’argomento di oggi, “Le quattro nobili verità” partendo da questo punto di osservazione. Il primo giro della ruota del Dharma ha avuto come soggetto le quattro nobili verità e si riferisce al quadro più generale. Nel secondo giro della ruota del Dharma il soggetto si sposta sul significato ultimo del precedente insegnamento e ha come punto centrale la Vacuità. Nel terzo giro della ruota del Dharma si approfondisce quanto già affrontato esaminando dettagliatamente ogni aspetto specifico dell’insegnamento. La tradizione narra che il Buddha, dopo aver raggiunto l’illuminazione e pronunciato la seguente frase rimase in silenzio nella foresta per sette settimane: “profondo, pacifico e senza costruzioni mentali, chiaro, non composto, come nettare che dissolve le sofferenze, questo ho scoperto!” L’ultima esclamazione afferma l’immensa gioia per l’aver scoperto l’essenza del fenomeno: “nessuno capirebbe questo, per cui rimarrò nella foresta e non lo comunicherò ad alcuno” e rimase nella foresta fino a quando non passò qualcuno che gli chiese l’insegnamento. La quartina esprime il contenuto del terzo giro della ruota del Dharma, un livello di comprensione a cui si può giungere solo conseguentemente alla realizzazione dei primi due e, per questo motivo, la sua spiegazione può essere data solo nel terzo giro della ruota del Dharma. Con le espressioni “Natura di Buddha”, “Natura della Mente” e “Supremo Lignaggio” si definisce la stessa realtà. Per quanto riguarda invece i due piani della natura della mente, a livello ultimo è fondamentalmente il contenuto del secondo giro della ruota del Dharma, la Vacuità; mentre a livello convenzionale è prioritario il soggetto del primo giro della ruota del Dharma relativo alla panoramica generale. Il primo giro della ruota del Dharma concerne, filosoficamente, l’ Hinayana ed è rivolto essenzialmente agli uditori, i praticanti solitari; il secondo giro è riferito al Mahayana e ha come oggetto le sei perfezioni e le pratiche del Bodhisattva; il terzo giro sottolinea l’ultimo veicolo, il Vajrayana, metodo che permette di affrontare in modo diretto e profondo il sé. Esiste anche una metafora per definire i primi tre giri della ruota del Dharma: “pulire la mente tre volte”, e nasce dall’antica abitudine tibetana di lavare gli abiti una sola volta l’anno, ma in tre passaggi consecutivi; con il primo lavaggio si ripuliva la sporcizia più superficiale, con il secondo quella più profonda e con il terzo venivano eliminate definitivamente le impurità residue. Se si fosse effettuato un unico e più radicale lavaggio, invece di procedere per gradi, sicuramente si sarebbe lacerata la stoffa.

Questo è l’abile mezzo del Buddha che dapprima ripulisce le impurità grossolane applicando la pratica dei tre addestratori: Etica, Concentrazione e Saggezza. Dopo aver ammorbidito la mente, eliminato le rigidità delle impurità grossolane, nel secondo giro della ruota del Dharma si possono affrontare le pratiche dell’Altruismo, della Bodhicitta e delle Sei Perfezioni, e, procedendo gradino dopo gradino, addentrarsi sempre più profondamente nella ripulitura della mente. Il terzo giro della ruota del Dharma mostra semplicemente ciò che si è, permette di riconoscere la propria essenza. I tre veicoli, Hinayana, Mahayana e Vajrayana, non sono affatto contrapposti o separati, ma indicano un cammino da percorrere e il tempo necessario per completarlo secondo le capacità individuali. Nel bellissimo e fondamentale testo radice, tantrico, “I Nomi di Manjusri” si afferma che infine esiste un solo sentiero poiché, nella visione ultima, tutti i veicoli sono un unico veicolo. Al mio arrivo in Europa mi sembrò veramente buffo che molte persone che si accostate al buddhismo, affermassero con serietà e sicurezza la propria appartenenza a un veicolo piuttosto che ad un altro; è davvero una sciocchezza tipicamente occidentale che, sovrapposta alle pratiche buddhiste, ne altera radicalmente il senso fino a vanificarlo. Tali concezioni errate sono nate e cresciute esclusivamente nelle società tecnologicamente più avanzate, prima in Giappone poi negli Stati Uniti e infine in Europa. Di questo passo presto arriveranno anche in Tibet e sarebbe davvero un guaio perché la cultura tibetana, sinceramente ecumenica, finirebbe per scomparire. Non ha senso affermare di appartenere ad un veicolo o ad un altro, tutti sono parti inscindibili dello stesso sentiero. La mente deve essere ripulita prima nell’Hinayana, poi si procede nel Mahayana e infine la purificazione viene completata nel Vajrayana. La natura di Buddha è la stessa in ogni individuo che, di conseguenza, è ugualmente importante e ha pari capacità di purificazione della propria mente. Non possono esistere discriminazioni di nessun genere tanto che nei confronti della divisione in caste, così radicata in India, il Buddha fu un vero rivoluzionario e dichiarò che l’unica casta esistente era l’essere umano che possiede uguale natura di Buddha senza alcuna distinzione. La prima nobile verità “della Sofferenza” non è da intendersi soltanto come dolore in senso stretto, ma piuttosto come senso di insoddisfazione, presente in ognuno di noi in ogni circostanza, qualsiasi cosa stiamo facendo, anche quando è nascosto a livelli molto sottili. Con la prima nobile verità conosciamo l’insoddisfazione che affonda le radici nelle oscurazioni della mente, nell’ignoranza. Il dolore è la manifestazione più evidente e palese dell’insoddisfazione, mentre ciò che noi percepiamo come felicità è la manifestazione di livelli più sottili della stessa insoddisfazione. Poiché la nostra mente è piena di oscurazioni ciò che ci appare come felicità corrisponde soltanto al fatto che qualche grado di insoddisfazione è stato annullato.

Quando nello stato meditativo sperimentiamo l’assenza di felicità, l’assenza di sofferenza e di qualsiasi emozione particolare, siamo nello stato equanime delle sensazioni, che è un livello superiore a quello della felicità, perché con la felicità è sottinteso il riferimento al dolore e viceversa, mentre una condizione in cui le due sensazioni contrapposte sono assenti è decisamente migliore, si sta nell’equilibrio equanime nel quale entrambe rivelano la loro neutralità. La felicità può portare alla sofferenza e viceversa e il loro continuo alternarsi è già in sé sofferenza, mentre la condizione neutrale che si mantiene salda nell’equanimità è decisamente superiore. La sensazione che può avere un Buddha è dunque quella della neutralità, sebbene anch’essa rientri sempre nell’ambito della sofferenza. La verità della sofferenza nasce dall’attitudine discriminante assunta da noi, esseri convenzionali e ordinari. Immediatamente e in ogni circostanza vogliamo catalogare, dividere, differenziare, strutturare secondo le nostre personali priorità e, se la nostra priorità è la felicità, inevitabilmente collocheremo il dolore all’ultimo gradino. Con tale errata concezione noi poniamo in basso la sofferenza, ad un livello intermedio la neutralità e in alto a felicità, ma in questo modo siamo incapaci di comprendere la prima nobile verità della sofferenza e assai lontani dalla sua realizzazione. Ogni discriminazione e il voler essere sempre felici è il segno sicuro della non realizzazione della prima nobile verità. Nemmeno il Buddha è sempre felice, non avrebbe alcun senso, mentre ciò che è importante è la neutralità o, secondo una definizione più sottile, “la naturalità”, uno stato superiore alla felicità. Al nostro livello comunque tutte le tre condizioni appartengono alla sofferenza dell’insoddisfazione. Sia ben chiaro che non stiamo parlando di dover cambiare il Samsara, ma di imparare ad osservarlo per ciò che è. Di fronte ad un evento doloroso non dobbiamo esserne travolti lasciandoci affondare nel pozzo nero del pensiero che noi siamo gli esseri che soffrono, dobbiamo invece considerare tutto il dolore nella sua essenza più completa, senza porci al suo centro identificandoci in esso, ma vederlo per quello che è, una realtà presente, ma diversa da noi. Allo stesso modo ovviamente è necessario applicare questo magnifico metodo alla felicità, osservarla senza esserne dominati. Se impariamo a porci di fronte alla felicità, alla sofferenza e alla neutralità senza identificarci con le sensazioni che ne derivano, ma osservando con lucida consapevolezza una realtà che è altro da noi, scopriamo in questa distinzione la nostra libertà più vera. Lo stesso atteggiamento deve essere assunto nei confronti di tutte le nostre attitudini quali l’attaccamento, la rabbia, l’amore, la compassione e persino la saggezza. In ogni caso dovremmo sempre essere capaci di riconoscere la natura di questi fenomeni senza mai identificarci in essi, altrimenti laddove c’è rabbia diventeremo arrabbiati, il che non farà scomparire la rabbia ma al contrario la potenzierà e ce ne renderà schiavi. Anche l’identificazione con le sensazioni di amore e compassione è errata in quanto non porta beneficio a nessuno e non ci permette di essere consapevolmente liberi. E’ fondamentale maturare l’assoluta libertà da ogni tipo di emozione, sia essa buona o cattiva.

La pratica della presenza mentale appartiene in particolare alla tradizione Theravada, che insiste sulla necessità di essere sempre consapevoli di ciò che accade nella nostra mente, la giusta via per poter permanere nella propria natura di Buddha. La tradizione degli antichi, lo Dzogchen dice che noi siamo naturalmente nello stato illuminato e dunque dobbiamo restare in esso, la tradizione Theravada parla di consapevolezza, e il Mahamudra, la nuova tradizione, raccomanda di permanere nella natura della mente senza lasciarsi distrarre dalle temporanee oscurazioni che possono presentarsi. Anche la compassione e l’amore, se diventano elemento di distrazione dall’essere nella natura della mente, costituiscono un ostacolo. Unire le diverse tradizioni cogliendone il messaggio profondo è fondamentale per il corretto cammino, al contrario, se si tende a discriminarle significa che non se ne è compreso l’importantissimo insegnamento. Un aspetto basilare nel buddhismo tibetano è il concetto di Vacuità; la Vacuità che riguarda “l’io, il sé” e la Vacuità che si riferisce ai “fenomeni” “all’altro da sé”. La scuola Gelugpa approfondisce maggiormente la Vacuità del sé, mentre la scuola Kagyupa enfatizza la Vacuità dell’altro da sé; da ciò nascono spesso sottili discussioni e polemiche e le parti si accusano vicendevolmente di errata visione. Un’altra divergenza concerne “la concentrazione sul singolo punto”, imperniata sull’attenzione alla presenza di pensieri o meno. La controversia, che ha origine in un tempo molto lontano, è stata innescata da due maestri che hanno portato il buddhismo in Tibet, uno indiano e l’altro cinese. Il maestro cinese affermava la visione del “si e no”, cioè che tutti i fenomeni esistono e al tempo stesso non esistono, e che la meditazione consiste nello svuotare completamente la mente da qualsiasi tipo di pensiero, si deve ottenere un totale vuoto e permanere in esso. Il maestro indiano, Karmalashila, invece sosteneva che tale meditazione è errata e che, al contrario, per poter sviluppare le qualità della mente è necessario pensare. Al fine di risolvere definitivamente la questione il re del Tibet promosse un pubblico dibattito dichiarando che solo al vincitore sarebbe stato concesso il permesso di rimanere in Tibet e dare insegnamenti. Vinse l’indiano Karmalashila, cosicché il monaco cinese dovette andarsene, però il suo insegnamento non andò completamente perduto e alcuni seguaci Dzogchen riconoscono in esso il proprio metodo di meditazione, permanendo nella natura della mente. I tre punti di vista, del maestro cinese, di Karmalashila e dello Dzogchen sono tuttora ugualmente validi. Ho avuto il piacere di incontrare a Roma un anziano maestro cinese molto preparato, residente Taiwan, che ebbe un pubblico incontro qualche anno fa a New York con S.S. il Dalai Lama in cui si discusse la questione del “singolo punto” al fine di trovare una costruttiva unificazione tra le due posizioni. Il dibattito, interessante e proficuo, fu registrato e in seguito pubblicato.

Per quanto riguarda le diverse interpretazioni sulle modalità della meditazione è opportuno non assumere mai posizioni nette e contrapposte, ma cercare invece di integrare i vari metodi, approfondendo e studiando le prerogative di ognuno trovando una arricchente ed efficace unificazione. La prima nobile verità “della Sofferenza” giace nell’insoddisfazione; La seconda nobile verità delle “Cause della Sofferenza” insegna che la causa dell’insoddisfazione risiede nelle condizioni samsariche del karma e nelle oscurazioni mentali. La terza nobile verità della “Cessazione della Sofferenza” avviene tramite la realizzazione della quarta nobile verità “il Sentiero che conduce alla Cessazione della Sofferenza”, la meditazione della presenza mentale, del permanere nello stato naturale della mente e la meditazione dello sviluppo delle qualità mentali, ovvero i tre tipi di meditazione proposti dai maestri Indiano, Cinese e Dzogchen. Nella verità della cessazione della sofferenza si ritrova la condizione di illuminazione; nel ripulire la natura della propria mente si scopre la natura di Buddha, un fenomeno che ha la stessa sostanza della Vacuità, così come lo stato dell’illuminazione e del Nirvana. La natura di Buddha è suddivisa in due livelli: 1. la natura di Buddha in senso definitivo, ultimo, corrispondente alla Vacuità; 2. la natura di Buddha correlata allo sviluppo delle qualità spirituali nella continua purificazione della mente. Come una lampada che diviene più luminosa man mano che incrementa la potenzialità energetica, così la mente, nello sviluppo costante e delle qualità spirituali, aumenta la propria chiarezza ed elimina naturalmente ogni oscurità. Questo è il metodo con cui un individuo raggiunge l’illuminazione e realizza la cessazione della sofferenza. Oggi abbiamo analizzato teoricamente le quattro nobili verità, che possono e debbono essere esemplificate e calate nella vita quotidiana, così da farci avanzare lentamente ma costantemente. Una minima serenità della mente, il tentativo di mettere in pratica le quattro nobili verità nella meditazione, sono piccoli passi che, momento dopo momento, conducono verso l’illuminazione. Il Lamrim indica che gli insegnamenti e le tecniche degli antichi maestri devono essere accolti, appresi e praticati come consigli spirituali, senza preconcetti o pregiudizi, ogni insegnamento è un mezzo utile per raggiungere l’illuminazione.

Prima Parte

LE QUATTRO NOBILI VERITA’

Prologo Desidero ringraziarvi per il vostro interesse verso lo studio e la pratica del Dharma e, in particolare, ringraziare gli organizzatori di questo incontro, è la seconda volta che sono, con voi, a Torino e mi rallegro nel constatare che avete dedizione alla pratica e auspico che ciò possa essere di beneficio ad altri. E’ un bene che vi sia una comunità di Dharma che favorisca l’incontro di persone desiderose di conoscere, di discutere, di scambiarsi esperienze ed idee, di confrontare la quotidianità della vita con il Dharma, ed è positivo anche per me che ho così la possibilità di condividere con voi le mie opinioni ed esperienze, perché vivere insieme il significato del Dharma è un grande aiuto reciproco. Si diviene consapevoli di come non esista un'unica realtà in grado di appagare tutti, ma come invece siano necessarie più condizioni per poter soddisfare le diversità che costituiscono la vita degli esseri senzienti. Il Buddhismo tibetano è una delle condizioni che può portare nella vita interiore delle persone una soddisfazione vera e profonda. Spesso incontro persone che, volendo essere felici, inseguono un obiettivo particolare, credendo che il suo possesso appagherà ogni loro desiderio, ma questo è falso, è un’illusione, un errore. Ogni tradizione spirituale possiede tutti gli elementi e le capacità per aiutare l’individuo a realizzare pienamente la propria vita, indicando il corretto cammino verso la felicità, è però necessario che la persona ne comprenda intelligentemente gli insegnamenti e le qualità, integrandole nell’esistenza quotidiana. E’ importante saper cogliere ciò che vi è di buono in ogni tradizione spirituale. Che significa “buono” in questo contesto? Buono è ciò che ognuno di noi riconosce essere consono al suo modo di essere, alle sua personalità, alla sua crescita; buono è tutto ciò che può essere colto e integrato nell’esistenza per il miglioramento della vita propria e altrui. Sarebbe un grave errore giudicare le tradizioni religiose dicendo “questa è buona e quest’altra no”, oppure, “questo aspetto è positivo e questo è negativo”, perché non è possibile formulare un giudizio oggettivo. Noi siamo in grado soltanto di esprimere un’opinione soggettiva, sapendo che cosa è buono per noi, quale tradizione ci è più vicina, quale percorso possiamo seguire per arricchire le qualità interiori. Un determinato cibo, ad esempio, non è di per sé né buono né cattivo, questa informazione può essere rilevata soltanto se messa in relazione con l’individuo che lo

mangia, si vedrà allora che lo stesso cibo risulterà essere ottimo per uno, pessimo per l’altro e indifferente per un terzo.

Attitudine all’ Equanimità Nei confronti di ogni tradizione religiosa è fondamentale mantenere un’attitudine equilibrata ed equanime, priva di errati giudizi, così da poter valutare ciò che è meglio per noi e per il nostro cammino. Attitudine all’equanimità significa comprendere che le cose non sono in sé né buone né cattive, ma diventano buone o cattive in rapporto al proprio modo di pensare, di recepire, alla propria personalità. Bisogna sviluppare l’attitudine a non giudicare come realtà oggettiva ciò che ci appare, ma imparare ad osservare ogni situazione in modo neutrale ed equanime. Questo modo di percepire la realtà fa sì che possiamo restare calmi e indisturbati di fronte ad ogni evento esterno, avvenimento o accadimento, siamo in grado di mantenere quel distacco equilibrato che ci permette di controllare emozioni quali l’attaccamento o l’avversione e ci tiene lontani dal desiderio di afferrare, di essere indifferenti od ostili. Gli impulsi che ci inducono a provare repulsione per ciò che non ci piace o desiderio per ciò che ci piace, sono fortemente disturbanti e ci costringono nel circolo vizioso di disagio e infelicità del Samsara, senza lasciaci intravedere via d’uscita. La realtà è neutra, né negativa né positiva, né bianca né nera, è dunque essenziale imparare a percepire gli avvenimenti in modo neutrale senza lasciarsi condizionare dalla comune tendenza di voler definire, inquadrare tutto ad ogni costo, assorbiti nella totale incapacità di comprendere e utilizzare la neutralità dei fenomeni. Se imparassimo ad osservare le cose nella loro naturale realtà, neutrali, automaticamente non proveremmo più né attaccamento né repulsione, ed è indispensabile che un praticante sviluppi quest’attitudine all’equanimità. Nell’insegnamento del Buddha sono indicati “quattro pensieri o attitudini incommensurabili”: 1. 2. 3. 3.

Compassione senza limite Amorevole Gentilezza senza limite Gioia senza limite Equanimità senza limite

L’equanimità, cioè il vedere la realtà così com’è, neutrale, è l’ultima in quanto risultato dell’esercizio all’attitudine nei primi tre pensieri, compassione, amorevole gentilezza, gioia e, in questo senso, l’equanimità può essere considerata la verità ultima, la verità definitiva. Per mia esperienza la pratica dell’equanimità è il metodo più efficace per allontanarsi dal Samsara, almeno per un poco. A Roma, durante un incontro in cui si affrontava lo stesso argomento, le persone ad un certo punto erano completamente confuse perché non riuscivano a decidere quale direzione prendere, le cose apparivano nebulosamente positive o negative e una

qualsiasi scelta appariva giustamente ingannevole. L’atteggiamento corretto sarebbe stato quello di vederle come neutrali, tutto è uguale. Nel Buddhismo si dice che persino Samsara e Nirvana siano uguali, e allora sorge spontanea l’obiezione: “Come possono essere uguali se, per definizione, sono opposti?” A prima vista sembrerebbe così ma, all’attenta osservazione di chi ha maturato una profonda esperienza spirituale, Samsara e Nirvana appaiono nella loro realtà, sono uguali. Questa visione deve essere applicata sempre nella vita quotidiana, è necessario esercitarsi ed imparare ad osservare ogni fenomeno nella sua essenza uguale. Nel linguaggio filosofico Buddhista questo principio si chiama Madhyamaka, la Via di Mezzo, la Visione della Via di Mezzo. Nel Buddhismo si enfatizza il valore della Meditazione sulla Via di Mezzo, che né rifiuta il Samsara, né afferra il Nirvana, perché percepisce le cose come neutre, né positive né negative. Mi sto soffermando questo concetto perché è assolutamente fondamentale. Siamo qui riuniti per parlare delle “Quattro Nobili Verità” ma per affrontare questo principio dobbiamo prima analizzare altre due verità, e prima ancora l’unica verità: la Madhyamaka, la Verità della Via di Mezzo, perché nulla esiste di assolutamente negativo o di assolutamente positivo ma tutto esiste in modo neutro. Percepire la realtà in modo neutro è la verità ultima. Riuscite a vedere le cose in questo modo? ad abbandonare gli opposti? Domanda: E’ difficile, di fronte alle realtà orribili che ci presenta il mondo, non dividere in negativo o positivo, come possiamo considerare neutre azioni tanto distruttive? Lama: In questo caso è bene procedere all’ analisi profonda delle due verità; la prima è la verità convenzionale, o relativa, e la seconda la verità ultima, definitiva, o verità assoluta. Ogni realtà esistente presenta questi due aspetti. Da un punto di vista relativo la guerra è negativa, ma poniamoci la domanda: “è negativa in assoluto?” anche la guerra ha delle qualità. La rabbia è considerata negativa, ma la collera è assolutamente negativa? A questi assoluti possiamo rispondere: “No”. Dobbiamo comprendere profondamente la realtà delle cose; la guerra è transitoria, non esiste in maniera assoluta, finisce, cambia; questa qualità o caratteristica della guerra, la sua transitorietà, è positiva, quindi non possiamo dire che in assoluto la guerra sia negativa. Tutti abbiamo problemi e spesso siamo tristi, depressi, ma il saper vedere le qualità positive dei problemi e la loro reale natura, cioè che sono transitori e impermanenti, ci ridona fiducia rallegrandoci. Secondo un punto di vista convenzionale, relativo, senz’altro possiamo dire che un evento è negativo, ma dobbiamo anche andare oltre e valutare la sua verità assoluta e allora vediamo che, in assoluto, non è negativo. Persino di

fronte a tragedie come la guerra dobbiamo saper mantenere la nostra capacità di osservare la realtà così com’è, in modo neutrale. Possiamo cambiare quello che succede nel mondo? No Possiamo affermare che questa o quella guerra sono state causate da queste o quelle persone? No, perché quanto succede nel mondo, anche le guerre, è la risultanza della connessione ed evoluzione di diverse condizioni, è una realtà che con i nostri sforzi non possiamo cambiare. Ad esempio nell’attuale questione “Israeliana – Palestinese” un Palestinese uccide in un attentato suicida 1, 5, 10 persone, ciò è tragico e crea molta sofferenza, gli israeliani rispondono con una rappresaglia pesante che produce altra sofferenza. Oppure, un altro caso un aereo precipita e muoiono 150 persone. Un terremoto tremendo devasta un’intera regione ….a chi diamo la colpa? Quando qualcuno muore a causa di un attentato si attribuisce in modo semplicistico la colpa all’attentatore materiale, ma di fronte ad eventi naturali chi si può incolpare? Nessuno. Questi esempi ci mostrano che, in ogni realtà non esiste un vero colpevole, la percezione errata è nell’osservatore confuso e agitato che non vede i colori e le sfumature, sa distinguere solamente il bianco o il nero. Anche le guerre sono un evento naturale in quanto accadono a causa del concatenarsi di più condizioni che producono questo effetto. Quindi vedete quale immensa differenza c’è tra la realtà nella sua essenza e la realtà manipolata dalla percezione dei vari soggetti. Domanda: Allora, se nella Via di Mezzo una persona comprende questi due piani, assoluto e relativo e li applica alla realtà esterna, come si pone di fronte alla guerra, non interviene? Io ho sempre avuto questa difficoltà con il Buddhismo, mi è difficile equilibrare i due aspetti, sapere che esiste un altro modo di percepire la realtà, diversa da come appare; e poi c’è il karma e l’impegno affinché queste cose non avvengano. Cosa devo fare, stare ferma e osservare? La via di mezzo significa non partecipare all’evento e non prendere posizione? Mi riesce veramente difficile da accettare, perché oggi sono migliaia le situazioni che ci sollecitano a prendere posizione. La via di mezzo ci suggerisce di starcene buoni, dolci, e tranquilli perché c’è un altro modo di vedere la realtà? oppure ci invita a partecipare all’evento in qualche modo? Sto pensando a Gino Strada e ad altre persone, a due monache tibetane attualmente in Italia, intervistate da Amnesty International hanno testimoniato le tremende torture subite, non odiano i loro aguzzini, ma si danno molto da fare per cambiare una situazione drammatica, tengono conferenze, danno una testimonianza. Vorrei sapere: da questo punto di vista la Via di mezzo che cos’è? Lama: E’ giusta la tua inquietudine, ma esaminiamo ad esempio un problema reale attuale, il conflitto tra Palestinesi e Israeliani; nel mio gruppo di meditazione ci sono un figlio e un padre, il primo è schierato con i palestinesi e il secondo con gli israeliani entrambi sono così convinti nelle

loro posizioni che litigano continuamente e non si rivolgono più la parola. Una situazione assurda e senza senso che ha prodotto unicamente una seria frattura nella famiglia, fondata su informazioni già filtrate dai mezzi di comunicazione, giornali e televisione, e quindi non di prima mano. E’ davvero sciocco creare emozioni così disturbanti, che oltrettutto non sono certamente di aiuto né ai Palestinesi né agli Israeliani. Questa non e la via di mezzo. La via di mezzo si ha quando, mantenendo una visione neutrale del conflitto tra le parti, si interviene cercando di influenzare positivamente e di aiutare entrambi. Le due monache tibetane che testimoniano gli orrori subiti agiscono correttamente parlandone ad Amnesty International, una organizzazione che ha il compito di far conoscere queste situazioni al mondo intero. Ma, guardando ancora più in profondità, possiamo vedere che anche la drammatica situazione descritta non è in assoluto negativa, e in questo senso dobbiamo mantenere la neutralità, noi non possiamo sapere come nel profondo essa abbia influito, magari positivamente, nella vita delle interessate. Non si può trovare un assoluto negativo, quindi in questo caso il punto di vista della via di mezzo è quello di non lasciarsi travolgere emotivamente dal dramma vissuto dalle due monache così come da tutto un popolo, ma saper andare al di là di ogni forte coinvolgimento emotivo e comprendere che la realtà assoluta è più completa, formata da tanti aspetti non solo negativi e non solo positivi. Questa è la via di mezzo. Un proverbio tibetano dice “se guardate una persona che piange vi mettete a piangere anche voi” indicando l’aspetto emotivo, la natura delle emozioni, ma le emozioni non devono essere assecondate, è pericolosissimo farsene condizionare. Spesso gli altri tentano di influenzarci, di controllarci, attraverso le emozioni, e ciò è l’esatto opposto alla via di mezzo. La via di mezzo sa riconoscere la pericolosità delle emozioni, fondamentalmente basate sull’illusione. Domanda: Però anche l’amore è un’emozione Lama:

Questa è un’ottima domanda. Nel Buddhismo con il termine amore intendiamo la compassione, il pensiero della Bodhicitta, in tibetano “Nying-Je”, rivolto a tutti gli esseri viventi senza discriminazione, con equanimità. Un buon esempio di questo amore è trattare ogni essere vivente come se fosse il proprio figlio, con pura equanimità e autentica, genuina compassione. Una compassione parziale, destinata solo ad alcune persone non è vera compassione, è solo espressione di uno stato emotivo. La vera compassione è la via di mezzo. Questo concetto è fondamentale e deve essere compreso chiaramente perché tutte le difficoltà, i problemi della vita quotidiana derivano proprio dalla mancanza di chiarezza e noi siamo qui apposta per trovare soluzioni alla confusione quotidiana, altrimenti rischiamo di parlare molto, di

trastullarci con tanta filosofia che poi nel concreto non ci potrà servire a nulla se lasciata su un piano puramente teorico e superficiale. Domanda: Credo ci sia un altro fattore che noi occidentali non consideriamo mai e che invece è importantissimo, ed è quello della nostra responsabilità personale. In ogni realtà mondiale, nelle guerre e in tutte le situazioni frutto di un concatenarsi di fattori, noi tutti siamo responsabili, anche nel conflitto tra Israele e Palestina nessuno è innocente. Lama:

Si, oggi si tende a pensare che la nostra responsabilità sia limitata alla necessità di prendere una posizione e che solo così sia possibile giungere ad una soluzione, in realtà proprio con questo atteggiamento si aggravano i problemi e si contribuisce a creare ed aumentare la sofferenza.

Domanda: Questo è dunque un altro elemento determinato dall’interdipendenza delle cause? Lama:

Naturalmente, poiché esiste l’interdipendenza esistono le soluzioni ai problemi, e poiché esistono l’interdipendenza e le soluzioni possibili ad ogni problema, ciascuno può influire sulla concatenazione nella ricerca delle soluzioni stesse. Ma dov’è realmente il problema per noi? Di fronte a un problema ci sentiamo responsabili e dobbiamo trovare una soluzione, e fin qui tutto va bene, ma immediatamente nasce l’errore nella valutazione, nel giudizio, che ci induce a prendere posizione considerando la verità relativa come se fosse assoluta. Tale attitudine errata aggrava la situazione e ci rende ancora più confusi, allontanandoci dall’insegnamento del Buddha Shakyamuni che, invece, ha indicato chiaramente che per trovare soluzioni occorre mantenere il distacco emotivo, la neutralità in cui, mancando il giudizio, non c’è né positivo né negativo assoluti, non c’è prendere posizione, c’è davvero la possibilità di trovare la soluzione.

Domanda: Quindi, se non ho capito male, la “discriminazione” è una qualità che bisogna sviluppare per vedere i fenomeni nella loro interdipendenza, ma poi è necessario non lasciarsi intrappolare nella tentazione di esprimere giudizio scambiando, sotto una forte spinta emotiva, la realtà relativa per quella assoluta, e quindi creando ulteriori problemi? Lama:

Si, sono d’accordo.

Domanda: Una persona che ha sbagliato ad affrontare una situazione problematica perché vi è entrata con forte giudizio provocando solo guai, si accorge dell’errore e tenta con ogni mezzo di cambiare atteggiamento senza però riuscirvi perché ormai ha perso ogni credibilità, come può rimediare? Lama:

Meditazione, solo con la meditazione. Prima si medita per cambiare la situazione e poi nell’equanimità. Non si possono soddisfare tutti, ci sarà sempre qualcuno scontento, ciò che possiamo e dobbiamo fare è mantenere sempre un atteggiamento equanime.

Domanda: Nel caso in cui noi stessi siamo gli attori di una controversia in una divergenza di opinioni e le due volontà sono in contrasto, come dobbiamo comportarci? difendere la nostra opinione per il nostro bene o lasciare prevalere l’opinione dell’altro per il suo bene? Lama:

E’ molto semplice: fare il bene degli altri è il miglior modo per fare il bene a se stessi, e si ottiene un doppio beneficio, quello di beneficare gli altri e se stessi. Quando si vuole imporre la propria opinione si sbaglia comunque, se invece si rispetta l’opinione degli altri si rispetta anche la propria e ciò porta il massimo beneficio. Perché siamo nati nell’esistenza umana? Per portare beneficio agli altri, è la naturale condizione dell’essere umano, e se si vien meno alla naturale capacità di fare il bene degli altri allora si arreca danno anche a se stessi perché si agisce in modo contrario alla natura stessa dell’esistenza umana.

Domanda: Forse questa è la causa della guerra tra Israeliani e Palestinesi? Lama:

Forse, ma le cause sono misteriose, insondabili, stanno al di là della realtà percepita, relativa, sono il risultato di cause e condizioni che noi stessi abbiamo posto e che possono essere molto diverse da come le vediamo. Nella vita di ognuno si presentano spesso situazioni complesse e bisogna imparare ad osservare gli eventi chiedendosi sempre “quella cosa era davvero così? È vera o no?” è necessario sforzarsi di comprendere una realtà più profonda, al di là degli eventi stessi, perché le apparenze esteriori sono le cause principali dell’illusione. Ogni giorno al telegiornale vediamo scene terribili di guerra, ne piangiamo, diventiamo tristi e depressi, e attrarre la nostra attenzione emotiva è il ruolo dell’informazione, ma se osserviamo più attentamente quelle immagini, ad esempio i disordini in Nepal, vediamo che sono sempre riproposte le stesse scene per giorni e giorni, anche a distanza di mesi. Se cerchiamo in internet notizie sul conflitto tra India e Pakistan vediamo che la BBC ne parla esattamente come dieci anni fa riproponendo le stesse fotografie. Dunque qualcosa non va, l’opinione che noi possiamo ricavare da questo tipo di informazione è totalmente sbagliata, manipolata, indotta, non reale, è totalmente illusoria. Quella vecchia immagine, sempre la stessa, crea immediatamente un’errata percezione, perché noi pensiamo che essa sia riferita al presente, ma in realtà non è così e il problema nasce dall’attaccamento all’immagine che crea un’illusione. Per questo è essenziale, fondamentale, analizzare sempre la realtà sulla base delle due verità: senza negare la realtà convenzionale imparare a vedere la realtà ultima. Io ricordo sempre ai miei amici che con grandissimo rispetto verso la fede cristiana è possibile praticare il Buddhismo, ma senza tale rispetto in Italia ciò sarebbe impossibile perché implicherebbe la negazione della verità degli italiani di essere nati in una cultura integrata nella formazione

cattolica. Se si nega la cultura delle proprie radici, si entra in contraddizione con la propria natura. Vi porto un esempio: il matrimonio Buddhista non esiste, non è mai esistito, e allora perché chi è nato in Italia e secondo la sua naturale cultura desidera un matrimonio religioso, anche se pratica il Buddhismo, non si sposa tranquillamente nella chiesa cattolica nel rispetto delle sue regole, invece di crearsi complicazioni e illusioni nella ricerca di un Lama disposto a celebrare un matrimonio con un rito inesistente? Situazioni come questa sono davvero sciocche e nascono dall’incapacità di osservare le due verità, quella relativa e quella assoluta, verità che non solo non sono contraddittorie tra loro ma, al contrario, complementari. Ora meditiamo insieme per qualche minuto, vi ricordo che in generale meditazione significa mantenere l’unione del corpo con la mente tramite la respirazione. Un primo passo meditativo è quello di respirare consapevolmente, mantenere la consapevolezza del respiro, sentirne il fluire naturale, poi ci si siede in modo comodo, confortevole e rilassato, avendo l’avvertenza di mantenere la colonna vertebrale eretta. La schiena dritta è importante mentre gli altri aspetti della postura sono secondari.

Una Verità: “La Via di Mezzo” La Via di Mezzo, “Madhyamaka”, può essere intesa anche come definizione di Dharma; in termini buddhisti significa un modo di vita, non è una realtà da relegare soltanto nella spiritualità, al contrario permea ogni aspetto della vita, giorno dopo giorno. Con unavisione ampia si può percepire tutto come “La Via di Mezzo” e questa percezione è il Dharma. Anche il nirvana o stato di Buddhità è via di mezzo; la compassione, la bodhicitta, la rinuncia, la saggezza, sono tutti aspetti della via di mezzo, sono Dharma. Il concetto di Dharma è più complesso, mentre è più facile comprendere la Via di mezzo, dobbiamo imparare a focalizzarci nel punto centrale rimanendo fermi nel mezzo, ci troveremo così in una posizione infallibile, in ciò che ha insegnato il Buddha. Nella filosofia Buddhista, non c’è coercizione, non esiste il dovere di praticare il Buddhismo, il dovere di mettere in pratica il Dharma, ma solo la possibilità, offerta a tutti, di scegliere e praticare, o meno, questo percorso. Ognuno è assolutamente libero di intraprendere la via a lui più consona, di valutare ciò che ritiene maggiormente rispondente al suo modo di essere. Chi pensa che il Buddhismo gli sia di beneficio lo pratica, in caso contrario no, nessuno può obbligarlo. Questa è una delle vie, uno dei modi per raggiungere la felicità, la pace, ma non è l’unica strada. Persino all’interno del Buddhismo ci sono tre percorsi, Hinayana, Mahayana, Vajrayana, che volendo esemplificare potrebbero essere così rappresentati: Hinayana è il piccolo mezzo, potrebbe essere paragonabile alla bicicletta; Mahayana è un mezzo più potente, come ad esempio il treno; Vajrayana è ancora più potente, diciamo l’aereo. La scelta di quale mezzo utilizzare dipende da più fattori: in primo luogo dalle necessità di ognuno, poi dalle capacità, dalle possibilità economiche, dalla disponibilità a correre rischi. Tutti i tre mezzi sono idonei. Certamente l’aereo è più veloce, ma non è alla portata di tutti, possono esserci impedimenti di vario tipo, malattie, problemi economici, e oltretutto se l’aereo precipita si muore non arrivando a destinazione. Con il treno si viaggia abbastanza velocemente, ma sussistono sempre, anche se in forma minore, i problemi dell’aereo e può verificarsi un deragliamento con gravi conseguenze. Con la bicicletta invece, si impiega più tempo, ma non c’è il costo del biglietto e se si cade, pur ammaccati, ci si rialza e si è in grado di proseguire raggiungendo la meta. Ognuno deve valutare attentamente i rischi e i benefici del viaggio e scegliere il mezzo più consono alle sue possibilità ed esigenze. Nella vita spirituale accade esattamente la stessa cosa, c’è un prezzo da pagare, quale? Il prezzo è la dedizione, è necessario conoscere quanta dedizione si è disposti ad impegnare, quali rischi si è pronti a correre. Questo è l’insegnamento del Buddha.

Buddha non ha mai detto “quello è il sentiero migliore, lo dovete seguire”, ha raccomandato invece: “Ci sono diversi sentieri, ciascuno scelga quello che corrisponde alle sue esigenze. Il sentiero migliore è il più adatto ad ognuno, è quello che ognuno sceglie per sé”. Si commette un grossolano errore pensando: “Vajrayana è la via migliore, è il massimo, Mahayana è una buona via, va bene, Hinayana è una via inferiore”. Il Buddha ha insegnato che tutti i Dharma sono uguali, non c’è un Dharma superiore e uno inferiore, sono tutti ugualmente buoni perché hanno in sé la capacità di condurre allo stesso risultato. Cristianesimo, Buddhismo, Islamismo e tutte le religioni sono ugualmente valide, è assolutamente sorretto pensare. “questa è migliore di quella, una è buona e l’altra no”, tutte indistintamente portano alla realizzazione dello stesso obiettivo. E’ importante mantenere una visione pluralista e aperta, rispettare profondamente ogni percorso spirituale e seguire seriamente quello a noi più consono. Qualsiasi sentiero decidiamo di intraprendere incontreremo difficoltà e dovremo dedicarvi un profondo impegno personale. Scegliere il proprio sentiero non implica affatto la negazione e l’esclusione degli altri, ma significa scegliere quello più adatto a sé nel rispetto di tutti gli altri. Questo è il modo corretto di percorrere la propria via spirituale.

Le Quattro Nobili Verità Nel Buddhismo, qualsiasi sentiero si scelga, Hinayana, Mahayana o Vajrayana, lo si può praticare solo nelle quattro nobili verità, il primo insegnamento del Buddha Shakyamuni dopo la sua illuminazione, e da esse nasce il nome del Dharma. Comprendere le quattro nobili verità significa comprendere l’intero sentiero buddhista, mentre al di fuor di esse è impossibile qualsiasi approccio ai tre sentieri Hinayana, Mahayana, Vajrayana. In nessuno dei tre “Yana” o mezzi spirituali, troviamo insegnamenti che non siano inclusi nelle quattro nobili verità, solo al loro interno possiamo praticare Hinayana, Mahayana e Vajrayana. Dunque, quali sono le quattro nobili verità? 1. 2. 3. 4.

La verità della Sofferenza La verità delle Cause della Sofferenza La verità della Cessazione della Sofferenza La verità del Sentiero che porta alla Cessazione delle Cause della Sofferenza.

Queste quattro caratteristiche del Dharma conducono alla liberazione dal Samsara. Nella tradizione Buddhista si ricorre spesso ad una analogia: Il Buddha Shakyamuni è il medico, il Dharma è la medicina, il praticante spirituale è il paziente. La conoscenza delle quattro nobili verità è la medicina necessaria alla cura di noi stessi e degli altri. La prima tappa consiste nel riconoscere la malattia, la verità della sofferenza; è necessario individuare le cause della malattia, le cause della sofferenza, così da poter affrontare la cura che le eliminerà. La malattia può essere prodotta da più fattori, ad esempio, dalla droga, dal tabacco, dall’alcool… e, per guarire, per ottenere lo stato della liberazione, si deve essere consapevoli della necessità della loro eliminazione che può avvenire solo attraverso la comprensione dei mezzi da utilizzare e di quale sentiero percorrere per raggiungerne lo scopo. Tutti i quattro aspetti devono essere conosciuti e praticati al fine di poter guarire se stessi e gli altri. Il termine “sofferenza” in sanscrito è Dukkha, ma la traduzione che se ne dà nelle lingue occidentali non è proprio esatta. Dukkha ha tre livelli: •

Il primo livello, più superficiale, è facilmente individuabile, ad esempio un mal di testa, di stomaco, un raffreddore, sofferenza che si può curare con medicine, senza dover ricorrere alla meditazione;



Il secondo livello è un po’ più profondo e sottile e riguarda ciò che a prima vista appare appagante, ad esempio fumare, bere alcool, assumere stupefacenti, tutti elementi che ci appaiono gratificanti, apportatori di felicità, ma sono così dolci che poi procurano grandi carie ai denti. Il senso temporaneo e immediato di godimento è infinitamente inferiore alla sofferenza conseguente. Questa “gioia” è la natura di Dukkha, più difficile da riconoscere.

Del terzo livello parleremo più avanti, per oggi terminiamo qui e concludiamo la giornata meditando e recitando insieme la preghiera di dedica dei meriti per il benessere di tutti gli esseri senzienti.

Motivazione: La Compassione La radice della pratica del Dharma è la motivazione. Il Dharma dipende dall’intenzione che guida la nostra azione; la motivazione è determinante nella possibilità di trasformazione di ogni azione della vita in Dharma. Alla domanda relativa a ciò che è motivazione del Dharma e ciò che non lo è la risposta è davvero semplice: ogni azione altruistica è una motivazione dharmica, mentre ogni attitudine egoistica non lo è. La mente altruistica è articolata su tre livelli: 1. il primo è la Compassione e la Gentilezza Amorevole; 2. il secondo è la Compassione Illimitata e la Gentilezza Amorevole Illimitata; 3. il terzo è la Grande Compassione e la Grande Gentilezza Amorevole. Tre livelli di mente altruistica che ci portano ad azioni positive. Il primo livello, , è innato in ogni essere senziente, è parte naturale e fonte di speranza e incoraggiamento. Tutti, anche i più piccoli, possiedono in sé questa qualità naturale, è dunque doveroso avere sempre grande rispetto, senza distinzioni, per ogni essere. E’ importante essere consapevoli dell’esistenza di questa qualità in noi perché solo avendone coscienza siamo in grado di scegliere se utilizzarla o meno, essa esiste in noi comunque ed è essenziale riconoscerla. Se ignoriamo la presenza in noi della naturale capacità di compassione e di gentilezza amorevole e non la sviluppiamo, ci arrechiamo un grave danno perché questa qualità è la fonte della nostra felicità, nel presente e nel futuro. Quando ci sentiamo felici soffermiamoci ad osservare se abbiamo consapevolezza della presenza della compassione e, in caso affermativo, siamo in pace con noi stessi, completamente rilassati, perché è necessario alcuno sforzo per ottenerla essa è insita nella natura di ognuno, è il nostro tesoro più vero, e possiamo rivolgerla a chiunque. Il secondo livello, , richiede invece uno sforzo, un impegno da parte nostra. In essa sono inclusi anche i nostri nemici, accoglie tutti gli esseri che possiamo percepire e questo è anche il suo limite, perché coloro di cui non abbiamo conoscenza ne sono esclusi. E’ realmente una compassione illimitata, con un limite, perché non è ancora assoluta, non è ancora la grande compassione. Il terzo livello, , include tutti gli esseri, senza eccezioni, ed è causa immediata di Bodhicitta, risveglia automaticamente il Bodhicitta. La consapevolezza dei tre livelli di compassione permette che essi siano trasfusi nella quotidianità della vita. La compassione si distingue ancora in tre categorie:

1. la compassione rivolta agli esseri senzienti; 2. la compassione rivolta alla natura impermanente degli esseri senzienti; 3. la compassione rivolta alla natura vuota degli esseri senzienti. I tre livelli di compassione visti prima, “naturale, illimitata e grande”, appartengono alla prima categoria, quella rivolta agli esseri senzienti. La seconda categoria, la compassione rivolta alla natura impermanente degli esseri senzienti, ci mostra chiaramente la natura impermanente degli esseri e scende più in profondità. La terza categoria, la compassione che ci rende consapevoli della natura vuota degli esseri senzienti, raggiunge la profondità massima. Questo potrebbe già di per sé essere un percorso completo che conduce all’illuminazione, i passi del sentiero sono la meditazione, la pratica e la visualizzare prima della compassione innata, poi della compassione illimitata rivolta a una, due, cento, mille o più persone, e, infine, quando tale capacità è completamente sviluppata , si può affrontare l’ultimo passaggio nella contemplazione e pratica della grande compassione. Il cammino nella compassione che ci rende consapevoli della natura impermanente degli esseri senzienti è un punto davvero fondamentale, perché se nutriamo compassione nei loro confronti ma li vediamo come esseri permanenti, la nostra compassione non è pura né completa, solo attraverso la consapevolezza della loro impermanenza essa sarà autentica. Infine, per raggiungere la completezza e la purezza della compassione dobbiamo sviluppare la consapevolezza della natura vuota degli esseri. La tradizione Buddhista distingue tra compassione contaminata e compassione incontaminata, e solo la compassione consapevole della natura vuota degli esseri è incontaminata. La compassione incontaminata può essere il nodo che unisce metodo e saggezza ed è necessario praticarla per raggiungere l’illuminazione. Il concetto di Compassione nel Buddhismo non è affatto semplice, è articolato in molti aspetti e rappresenta di per sé un sentiero che può essere praticato senza bisogno di altro. Compassione non significa solo essere gentili e amorevoli, ma in essa è compresa la saggezza, la consapevolezza dell’impermanenza e della natura vuota degli esseri. Nel Vajrayana tutti i rituali e le pratiche iniziano con la consapevolezza della Vacuità. La compassione emerge all’interno della Vacuità, la compassione emerge all’interno della realtà impermanente. Se siamo persone sensibili, gentili e compassionevoli, ma osserviamo noi stessi e gli altri come esseri permanenti, la nostra compassione non è pura e può ingenerare grande confusione fondata su una visione erronea della realtà, sarebbe come voler

prendere un treno diretto a Roma e salire su un convoglio che va nella direzione opposta, a Milano. E’ molto importante, fondamentale, comprendere bene e con grande chiarezza come la realizzazione della compassione pura e completa passi attraverso la consapevolezza della natura impermanente e vacua della realtà. Parliamo spesso di compassione, ognuno ha la sua idea in proposito, ma è indispensabile abbandonare ogni preconcetto e conoscere in modo approfondito le sue categorie e i suoi livelli in modo da poterla praticare realmente sviluppandola completamente. Per conoscere la motivazione delle nostre azioni è necessario percorrere, uno dopo l’altro, gli stadi della compassione così da acquisire la consapevolezza e il criterio essenziali alla corretta scelta di ogni atto nel Dharma. Diviene così possibile ad esempio verificare che, rispetto ad una specifica situazione, ne abbiamo una visione distorta perché la percepiamo come permanente e dunque sappiamo quali strumenti attivare per correggere l’errore, evitando ulteriori complicazioni e confusione.

Prima Nobile Verità Ieri abbiamo affrontato le quattro nobili verità approfondendo i primi due aspetti della prima nobile verità (Dukkha) suddivisa in tre livelli: 1. 2. 3.

Il primo è la sofferenza della sofferenza; il secondo è la sofferenza del cambiamento; il terzo è la sofferenza del condizionamento.

Il primo livello, la sofferenza della sofferenza, è facilmente riconoscibile (il mal di testa, il raffreddore, ecc). Dukkha si traduce anche con i termini “dolore” o “non soddisfazione”. La non soddisfazione è presente in tutti i tre i livelli. Il secondo livello è più difficilmente riconoscibile perché ad un primo impatto si presenta come temporanea felicità. Lama:

Tu che hai praticato per una settimana il “chülen” (una forma di digiuno) come consideri questa esperienza? in che categoria di Dukkha la collocheresti, sofferenza della sofferenza, sofferenza del cambiamento o sofferenza del condizionamento?

Risposta: Non saprei….in nessuna credo, perché non c’era sofferenza. Lama:

Non c’era Dukkha? Allora era Nirvana, no?

Risposta: Ma no, non certamente Nirvana, forse all’inizio c’era un po’ di sofferenza, ma poi è subentrata una sensazione di benessere, un assoluto distacco dal cibo. Forse si potrebbe dire che il primo giorno era sofferenza di primo livello, il secondo giorno sofferenza di secondo livello, e il terzo giorno sofferenza di terzo livello, ma sinceramente io mi sentivo in uno stato di non sofferenza. Lama:

E’ difficile, molto difficile definire queste situazioni, specificare a quale categoria possa appartenere questo tipo di esperienza, forse potremmo catalogarla come sofferenza del condizionamento, o sofferenza del cambiamento.

Ecco perché affrontando la prima nobile verità, della sofferenza, Dukkha, non dobbiamo pensare in termini limitativi, riferendoci ad esempio solo al dolore del corpo, ma dobbiamo pensare ad ogni risultato maturato attraverso il Karma e attraverso le emozioni conflittuali. Solo in una condizione non causata né dal karma, né dalle emozioni conflittuali possiamo dire di essere in una realtà al di fuori della sofferenza, altrimenti qualsiasi circostanza frutto di karma e di emozioni conflittuali appartiene alla prima nobile verità, anche se a volte è veramente difficile distinguere il livello attinente alle diverse situazioni. Il Dukkha è parte dell’esistenza e per questo il Buddha disse che la prima Nobile Verità si realizza e ha scelto di mostrarci il Dharma, il metodo per eliminare la sofferenza.

Sono moltissime le situazioni della nostra vita che non riconosciamo come sofferenza e che invece lo sono; ci sono momenti in cui ci sentiamo completamente felici, ma in realtà non è così, sono sofferenza, anche se è difficile individuarla immediatamente. Il Dharma ci offre il metodo per eliminare il livello più sottile di sofferenza, il terzo livello: la sofferenza del condizionamento. Ogni elemento che causa altra sofferenza è chiamato sofferenza del condizionamento, per questo il nostro karma e le emozioni conflittuali appartengono a questa categoria. Anche un apparente stato di felicità è sofferenza. Domanda: E’ sofferenza in quanto ogni felicità è impermanente, destinata a finire? E’ difficile comprendere questo concetto, perché nel momento in cui io vivo la felicità sono davvero felice, o c’è altro? Lama:

Si, in parte il motivo è l’impermanenza, ma non solo, anche quando meditiamo e ci troviamo in uno stato mentale molto gioioso, siamo nella sofferenza.

Domanda: Allora non c’è scampo alla sofferenza? Lama:

In questo mondo non c’è; al tempo di Buddha vi erano maggiori possibilità, più porte aperte, oggi è tutto complicato e arduo perché ci troviamo in un periodo di degenerazione. Una volta a Torino era facile trovare lavoro alla FIAT, adesso è difficilissimo, eppure la FIAT c’è ancora quindi, teoricamente, le possibilità sussistono. Questa è impermanenza. L’impero romano, quello britannico, apparentemente invincibili, hanno mostrato chiaramente la loro impermanenza, così come il potere tedesco del terzo reich. Anche il potere più radicato o le fortezze inespugnabili sono impermanenti, pensate al Pentagono, indistruttibile dicevano, eppure i fatti hanno dimostrato il contrario.

Tutto è transitorio, impermanente. Il terzo livello del Dukkha è molto sottile; il nome che gli viene dato “sofferenza del condizionamento” deriva dai cinque aggregati che costituiscono il nostro stato di esseri viventi, il nostro corpo e le sensazioni del nostro corpo. A questo livello di sofferenza non c’è scampo. Come soluzione potremmo sviluppare il “corpo di arcobaleno”. Questa, che potrebbe apparire a prima vista come una descrizione del tutto fantastica, è invece concretamente reale. Attraverso la pratica e una meditazione molto profonda si può trasformare il proprio corpo di sofferenza in un “corpo di arcobaleno” o “corpo di chiara luce”. Un’altra soluzione è data dal non attaccamento al nostro corpo; se non abbiamo alcun attaccamento al corpo, né ad alcun oggetto esterno, nulla ci può causare sofferenza. Queste sono alcune vie che il Buddhismo indica per uscire dalla sofferenza.

Esiste un’ulteriore possibilità che consiste nell’usare il proprio corpo per portare beneficio agli altri; dedicare completamente il proprio corpo per il bene di tutti gli esseri. I tre mezzi che ci permettono di uscire dal Dukkha: 1. Hinayana; 2. Mahayana; 3. Vajrayana. L’attitudine del sentiero Hinayana consiste nel non avere attaccamento al proprio corpo concentrandosi sulla pratica meditativa, privi di ogni preoccupazione per il proprio corpo e attaccamento ad esso. Nel sentiero Mahayana si dedica completamente il proprio corpo agli altri; prendendolo in considerazione, ma non in modo egoistico, bensì con la motivazione profonda di essere di beneficio agli altri esseri. Ad esempio in una preghiera della pratica del Bodhisattva ci si auspica di essere come pesci in modo da poter sfamare gli altri, dedicandosi completamente a ogni essere. Questa è la pratica del Bodhisattva. Domanda: Ieri hai detto che siamo nati per essere di beneficio agli altri, vorrei capire meglio cosa intendevi esattamente. Gli esseri senzienti sono nati tutti con questo scopo, e poi nel cammino ne perdono la consapevolezza? Lama:

Si, siamo nati con questo scopo che è inscindibilmente legato all’obiettivo ultimo di raggiungere l’illuminazione. L’essere nati in una condizione umana ci dà le maggiori possibilità per ottenere l’illuminazione che, a sua volta, è realizzabile solo attraverso una mente altruistica. Per questo l’essere nati nella condizione umana significa dedicarsi agli altri, essere loro di beneficio, praticare il Dharma, per questo ieri ho detto: noi siamo nati per servire gli altri.

Il Bodhisattva ha un cuore grande che offre completamente agli esseri senzienti e questa è una via per uscire dalla sofferenza. Il nostro corpo è sofferenza, ma percorrendo questo sentiero abbiamo la possibilità di uscire dal terzo livello di sofferenza. Un’altra via d’uscita è offerta dal Vajrayana, che ci porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno. Sono tre sentieri distinti, affatto in contraddizione tra loro, sono stadi di un unico percorso: per poter dedicare completamente il proprio corpo agli altri è necessario non avere alcun attaccamento ad esso e dunque, con il distacco e la sua offerta agli altri si realizza il Bodhicitta. Il dedicare completamente il proprio corpo a tutti gli esseri con una pura mente altruistica porta alla trasformazione del corpo di sofferenza in un corpo di arcobaleno. Perché il corpo di arcobaleno è buono? Perché con il corpo fisico si possono servire gli esseri in modo limitato, secondo i limiti della materia, ma per poter essere di

beneficio illimitatamente a tutti gli esseri senzienti, il corpo fisico deve trasformarsi in corpo di arcobaleno, corpo di chiara luce. Nel buddhismo sono presenti i quattro Kaya, i quattro corpi del Buddha: 1. 2. 3. 4.

Sambhogakaya Nirmanakaya Dharmakaya Svabhavikakaya

Con i quattro corpi del Buddha è possibile porsi al servizio di tutti gli esseri senzienti. Attraverso la pratica della consapevolezza e la realizzazione della Vacuità si può trasformare il proprio corpo in un corpo di arcobaleno, raggiungendo l’illuminazione in questa stessa vita. Ma anche se non otteniamo l’illuminazione in questa vita possiamo dedicare, come Bodhisattva, il nostro corpo agli altri. E se non riusciamo a raggiungere questo livello di pura mente altruistica, possiamo comunque sviluppare l’attitudine di non attaccamento al corpo concentrandoci nella pratica spirituale. Queste sono le tre vie per uscire dalla sofferenza, anche dal terzo livello di Dukkha, la sofferenza del condizionamento, che pare così inscindibile dalla nostra realtà fisica. Non si deve mai dimenticare che: • • •

quando meditiamo e stiamo particolarmente bene, non è felicità; quando ci sentiamo in pace, rilassati e sereni, non è felicità; quando abbiamo la sensazione di essere molto forti, sani e potenti, non è felicità.

Si tratta di semplici emozioni e quindi cause di sofferenza, da cui possiamo essere liberati soltanto dal Dharma. Buddha ha avuto bisogno di sei anni per realizzare le quattro nobili verità e ciò dimostra come il cammino verso tale obiettivo non sia assolutamente facile. Meditazione non è avvertire emozioni, essere gratificati, sentirsi bene, meditazione è l’osservazione della realtà al fine di uscire dallo stato di sofferenza. Riferendoci al terzo livello della sofferenza, la sofferenza del condizionamento, potremmo semplicemente dire che: “questo tipo di sofferenza è il nostro corpo”. Ciò non significa che il nostro corpo sia negativo, perché la prima nobile verità, la sofferenza, non è soltanto negativa e ha in sé altre qualità positive. Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero nemmeno esserci la seconda, la terza e la quarta. Se non ci fosse la prima nobile verità non potrebbero esserci nemmeno il sentiero, la realizzazione, l’illuminazione. La prima nobile verità è tanto importante quanto lo è l’illuminazione.

La sofferenza deve essere osservata da diverse prospettive, non da una sola; se ad esempio abbiamo dolore in una parte del corpo e fissiamo questa sofferenza con un’unica ottica, ci sentiamo depressi e impotenti, ma se analizziamo lo stesso dolore da più punti di vista il nostro atteggiamento mentale non potrà essere completamente negativo. La sofferenza ha aspetti positivi, il nostro corpo ha aspetti più positivi che negativi: l’aspetto supremo è che il nostro corpo può essere trasformato in un corpo di arcobaleno; il nostro corpo ha la qualità inestimabile di poter essere di grande beneficio agli altri esseri. Il nostro prezioso corpo è la condizione migliore per praticare il Dharma. Queste sono le grandissime qualità del nostro corpo, ma dobbiamo essere sempre in ogni momento consapevoli di trovarci nella condizione della sofferenza e, quando ne avvertiamo tutto il peso, dobbiamo altrettanto essere consapevoli delle qualità del nostro corpo. Sono due realtà e devono essere tenute in evidenza entrambe e, con questa riflessione, concludiamo l’analisi dei tre tipi di sofferenza. Gli incontri sul buddhismo non devono essere intesi come lezioni, sarebbe sbagliato pensare “bene, oggi ho ascoltato, domani metterò in pratica”; è importante porsi in atteggiamento contemplativo e, già nell’ascolto, dovrebbe avvenire qualche realizzazione; è fondamentale aprire la mente a questa dimensione. Per questo motivo la spiegazione è stata così dettagliata, con concetti ripetuti e accompagnati da esempi concreti. Domanda: Non mi è chiaro il concetto di compassione, perché non riesco a collegare la compassione con la Vacuità, in italiano “compassione” significa “soffrire insieme” e quindi, come si può provare sofferenza e nel contempo Vacuità che, credo, voglia dire assenza di qualsiasi tipo di sentimento. Lama:

In tibetano la parola “compassione” deriva dal termine sanscrito “Karuna” ed ha un significato completamente diverso rispetto le lingue occidentali. Nella filosofia buddhista la Vacuità indica la realtà ultima di tutti i fenomeni ed è il livello ultimo della compassione. La Vacuità indica la realtà ultima di noi stessi e degli altri e se non la si percepisce non può esserci compassione, non c’è Karuna.

Domanda: Posso chiederti di spiegare cos’è Karuna? Lama:

Non è facile tradurre la parola Karuna, ma potremmo definirla con “prendersi cura degli altri”, non inteso come “preoccuparsi” ma come “accogliere la realtà degli altri occupandosi di loro con mente altruistica”. E’ molto importante anche non essere invadenti, non disturbare, non essere di ostacolo agli altri. Bisogna saper stare accanto agli altri con consapevolezza e questo può essere realizzato solo attraverso la Vacuità.

Domanda: io avevo capito ancora in modo diverso, cioè che la domanda iniziale non fosse tanto riferita alla Vacuità in se stessa, quanto all’aver compassione della Vacuità dell’altro, cioè della natura vuota degli esseri.

Lama:

La compassione è legata alla realizzazione della Vacuità, di me, dell’altro e addirittura della Vacuità della compassione stessa.

Domanda: A questo proposito vorrei raccontarvi che cosa è successo durante un seminario sul tema “La morte e l’aiuto ai morenti”. Abbiamo discusso l’argomento della compassione ed è emerso che non significa condividere le esperienze negative assorbendole. Se una persona malata è depressa non ci si deve deprimere con lei, perché in questo modo aumenteremmo la sua sofferenza. L’atteggiamento corretto di fronte ad una persona che soffre non è la fuga ma il saper rimanere nella presenza della sofferenza dell’altro. Per mantenere questa presenza, però, bisogna davvero avere il senso della Vacuità, altrimenti ci si lascia trascinare nel vortice del dolore aggravandolo e si è più di danno che di beneficio. Per questo credo di aver capito che la sofferenza ha sempre un po’ di Vacuità. Lama:

E’ molto importante mantenere la propria stabilità per aiutare gli altri.

Domanda: Quali sono le pratiche per mantenere la stabilità? Lama:

Meditazione! Meditazione è “Ana-Pana” “Shiné” cioè meditazione nella consapevolezza del respiro. Nella scuola Theravada questa è la pratica fondamentale, molto bella, semplice ed estremamente efficace. Respirare con consapevolezza. Verificate quanti respiri fate in consapevolezza, non sono tanti. Tutta la pratica Theravada passa attraverso la pratica del respiro consapevole, riconoscendovi una fondamentale importanza. In Thailandia i monaci non lavorano, sono nutriti dalla gente, il loro unico compito è quello di dedicare tutto il tempo alla meditazione continuata, in piena consapevolezza del loro respiro, nell’immobilità come nel movimento.

Seconda Nobile Verità Questa mattina abbiamo esaminato dettagliatamente i tre tipi di Dukkha, della prima nobile verità, e ora invece affronteremo le seguenti tre nobili verità: ƒ ƒ ƒ

la Causa della sofferenza; la Cessazione della Sofferenza; il Sentiero che conduce alla Cessazione della Sofferenza.

Tutto ciò che produce sofferenza è parte della seconda nobile verità: “la causa della sofferenza”, del Dukkha, dunque tra la prima e la seconda nobile verità non vi è una grande differenza e la si trova solo nella modalità di osservazione della sofferenza: nel primo modo descriviamo la sofferenza così com’è, nel secondo guardiamo alla sofferenza vedendone le cause. Esistono fenomeni che rientrano nella prima nobile verità, ma non nella seconda, che possono essere considerati sofferenza, ma non causa di sofferenza. Un esempio è dato dalle “terre pure” così spesso rappresentate nel buddhismo; presupponiamo di credere nella loro esistenza e vediamo che appartengono alla dimensione della prima nobile verità, la sofferenza, ma non aderiscono alla seconda nobile verità, non sono causa di sofferenza. Le terre pure sono nella dimensione del Samsara, quindi se anche le raggiungiamo, ci troviamo ancora nella prima nobile verità della sofferenza, siamo nel Samsara, non nel Nirvana. La terra pura si trova nella prima nobile verità, ma non è un luogo che produce sofferenza, mancando dunque le condizioni di essere causa di sofferenza, non è nella seconda nobile verità. Si è nella condizione di Dukkha, ma non nella condizione di causa di Dukkha. A volte la spiegazione delle Terre Pure assomiglia a quella del Paradiso cristiano, nel senso che quando si è raggiunto questo luogo non si regredisce. Un altro esempio di fenomeno che rientra nel Dukkha, ma non è causa di Dukkha, è lo stato di “ultima rinascita”, dell’ultimo corpo che si ha prima di raggiungere il Nirvana, prima dell’ottenimento dell’illuminazione. Questo corpo appartiene alla prima nobile verità, ma non alla seconda, perché non produrrà più nessuna causa di Dukkha e non dovrà più rinascere. Sono pochi i fenomeni che appartengono alla prima nobile verità ma non alla seconda, mentre possiamo affermare con sicurezza che tutto ciò che è parte della seconda nobile verità è anche parte della prima. Osservando queste due nobili verità vediamo che vi sono tre possibili combinazioni: 1) Fenomeni che appartengono alla prima nobile verità, Dukkha; 2) Fenomeni che appartengono ad entrambe le due nobili verità, Dukkha e causa di Dukkha;

3) Fenomeni che non appartengono a nessuna delle due nobili verità, non sono né Dukkha né causa di Dukkha. Sintetizzando potremmo affermare che la prima e la seconda nobile verità sono due diversi aspetti di uno stesso fenomeno, il Dukkha, la sofferenza. Credo però opportuno aprire una parentesi e soffermarci sulla questione delle “Terre pure” perché c’è molta confusione in proposito. Nelle scritture Buddhiste si descrivono molte terre pure: la Terra pura di Avalokiteshvara, la Terra pura di Amitabha, la Terra pura di Tara, la Terra pura di Maitreya e così via. Anche noi praticanti, nel futuro, avremo la nostra Terra pura, ma allora che cos’è questa Terra Pura? Un tempo il Tibet era la Terra pura di Avalokiteshavara, infatti il termine “Potala” significa “la Terra pura di Avalokiteshvara” e probabilmente in origine il Potala era localizzato in territorio indiano. C’è poi la Terra pura del Buddha Amitabha, che è Sukhavati, e la Terra pura del Buddha Avalokiteshvara che è Tushita, e la Terra pura di Kalachacra, che è la notissima Shambala. E la Terra pura di Tara come si chiama? Qualcuno conosce il suo nome? E’ la stessa Terra pura di Avalokiteshvara, sono insieme nel Potala. E’ difficile spiegare questi concetti, generalmente le persone pensano che la Terra pura sia “...un qualche cosa in un altro posto....” che, appena raggiunto, rappresenta la salvezza. Alcuni ritengono che morendo in combattimento nella guerra di Shambala, si sarà salvi. La guerra di Shambala sarebbe l’ultima guerra, così come prima ci sono state le guerre sante cristiane, islamiche ora tocca ai Buddhisti, no? Queste descrizioni sembrano davvero fantascienza e non devono assolutamente essere recepite letteralmente, sono leggende che appartengono ad una determinata cultura e letteratura ma possono generare una grande confusione nelle persone. Abbiamo poi la Terra pura di Maitreya “Tushita” che in alcune spiegazioni viene descritta come un edificio, un monastero, circondato da una città che ha lo stesso nome, Tushita, rappresenta quindi due luoghi distinti e solo entrando nel monastero si è salvi. Questi esempi servono a far comprendere come sia possibile creare le descrizioni più fantasiose, ma le Terre pure non sono altro che la purezza della mente. Avalokiteshvara rappresenta la compassione, Maitreya l’amorevole gentilezza, Amitabha la benevolenza, Tara l’azione del Buddha. Queste Divinità protettrici, le immagini illuminate, sono la raffigurazione simbolica delle qualità intrinseche allo stato dell’illuminazione. La Terra pura significa la Mente pura, la Terra è la Mente. Tentare di spiegare la terra pura è davvero difficile, è un argomento a cui è bene accostarsi con prudenza, da approfondire con calma, riflessione attenta e cautela. Troppe persone iniziano a praticare visualizzando la Terra pura, e poi si confondono e si perdono perché non è affatto chiaro in quale direzione si diriga la loro pratica. Riprendendo la spiegazione della seconda nobile verità, la causa di Dukkha, dobbiamo osservare ciò che ha la potenzialità di produrre sofferenza, riconoscere ciò

che ne ha la capacità. La causa della sofferenza è normalmente individuata nel karma e nelle emozioni conflittuali. Con “karma” si intende un’azione derivante da un atto volontario che produce effetti; principalmente si tratta di un’azione mentale che genera un’azione verbale che, a sua volta, determina un’azione fisica. L’azione mentale, l’attività mentale è distinta in tre tipi: • • •

azione positiva (da cui scaturisce felicità); azione negativa (da cui deriva sofferenza); azione neutra (che determina uno stato neutro, né di felicità, né di sofferenza).

Queste tre azioni appartengono contemporaneamente alla prima e alla seconda nobile verità, sono Dukkha e causa di Dukkha e sono provocate dalle emozioni conflittuali, individuabili principalmente in: 1. IGNORANZA 2. ATTACCAMENTO 3. ODIO L’ignoranza è fondamentale, indicata nel Buddhismo come causa prima del Samsara, il suo creatore. Dall’ignoranza derivano attaccamento e odio. L’ignoranza di per sé non è né positiva né negativa, appartiene ad uno stato neutro, ma se a causa dell’ignoranza noi percepiamo una realtà come piacevole nasce l’attaccamento e se, viceversa, la percepiamo come repulsiva nasce l’odio. L’ignoranza è paragonabile ad una mente sonnolenta, assopita, non è in grado di emettere giudizi di per sé, ma ciò che scaturisce da essa crea i condizionamenti del giudizio che distingue ciò che piace e ciò che non piace. Gli oggetti che attraggono provocano attaccamento e quelli che respingono generano l’odio. Così si crea la sofferenza, articolata nelle tre modalità conosciute: • • •

La sofferenza della sofferenza; La sofferenza del cambiamento; La sofferenza del condizionamento

Questa è la seconda nobile verità, la causa della sofferenza. Quando una realtà appare piacevole, buona, positiva, immediatamente in noi sorge l’attaccamento che causa sofferenza, è esso stesso sofferenza, e quando un’altra realtà presenta aspetti spiacevoli brutti, cattivi, negativi in noi nasce avversione, che è causa di sofferenza, è sofferenza. In entrambe le situazioni siamo immersi nella dimensione della sofferenza ed è davvero difficile venirne fuori perché non sappiamo riconoscerle come sofferenza e causa di sofferenza. Solo gli esseri nobili, esseri che hanno raggiunto un’elevata realizzazione spirituale, gli Arya, sono in grado di individuare e comprendere le due verità e per questo esse vengono chiamate “nobili verità”, o nobili realtà.

E’ necessario, al fine di poter comprendere le cause della sofferenza, conoscere e riflettere sulla concatenazione dei “Dodici anelli dell’origine interdipendente”. Al primo posto troviamo il nostro dio, l’ignoranza, il creatore del samsara; dall’ignoranza sorgono le azioni volitive che determinano degli effetti, cioè karma. Come si determina questo processo? All’ignoranza le cose appaiono piacevoli o spiacevoli, se piacevoli sorge l’attaccamento che produce l’azione del volere, se spiacevoli nasce l’avversione, che determina l’azione del respingere. Questa è l’azione volitiva, o karma, che scaturisce dall’ignoranza e che lascia l’impronta nel nostro continuum mentale determinando il terzo anello, quello della coscienza. Le impronte lasciate nella coscienza mentale matureranno solo quando incontreranno le circostanze e le condizioni favorevoli per il loro sviluppo, condizioni favorevoli che si trovano nell’ottavo e nel nono anello e sono rispettivamente l’avere desiderio - bramosia e attaccamento - voler afferrare. Queste due condizioni danno molta energia al terzo anello, quello della coscienza. Dall’incontro dell’impronta depositata nella coscienza con le condizioni favorevoli, al loro maturare cioè il desiderio e l’attaccamento, nasce il decimo anello, quello del divenire. Anche il divenire è un’azione volitiva, ma assai più potente di quella prodotta nel secondo anello, il karma, e ingenera un risultato immediato, è la causa diretta che da origine alla rinascita. Gli altri anelli della catena sono: il quarto - nome e forma; il quinto - sorgente dei sensi; il sesto - contatto sensoriale; il settimo - prodursi di sensazioni. Il quarto, nome e forma, indica semplicemente che si è entrati nella vita successiva; con la rinascita si entra automaticamente nel quinto anello, quello della sorgente dei sensi che, maturando, diventa contatto, (sesto anello) e il contatto causa sensazioni, (settimo anello). Osservando la nostra intera vita vediamo che essa oscilla costantemente tra queste due realtà: contatto sensoriale e sensazione che deriva dal contatto. Perché una cosa ci piace e l’altra no? Produciamo ogni sensazione di attaccamento o repulsione perché possiamo toccare, vedere, gustare, sentire una determinata cosa. Contatto - sensazione rappresentano il nostro muoverci nel Samsara. Possiamo comprendere perché sia così importante saper rimanere in uno stato mentale neutro perché solo in questo modo possiamo evitare di diventare schiavi del meccanismo di contatto - sensazione. Anche di fronte alle cose più insignificanti noi ci lasciamo intrappolare dai giudizi: “questo vestito mi piace, quest’altro non mi piace” oppure “questo tessuto mi da sensazioni gradevoli, quest’altro sgradevoli”. Contatto e Sensazioni sono causa costante di sofferenza, un’altalena che produce ininterrottamente sofferenza fino a quando giungiamo all’undicesimo anello, quello della vecchiaia e della morte. Vecchiaia e morte sono intrinsecamente legate a nome e

forma, il quarto anello, che determina la nascita. Possono realizzarsi vecchiaia e morte solo se vi è nascita. Perché vecchiaia e morte sono collocate in un unico anello? L’undicesimo anello è nascita (ka), il dodicesimo è morte (schi), ma non c’è un anello apposito per la vecchiaia, perché? Le scritture indicano chiaramente la risposta che, se riflettete un attimo, è evidente: chi nasce certamente muore, ma non sempre invecchia, può morire giovane. La stessa cosa vale per il quarto anello indicato con nome e forma, perché esistono esseri che hanno un nome, ma non hanno forma. E’ fondamentale conoscere la concatenazione degli eventi dimostrata dai dodici anelli di origine interdipendente. Riassumendo, rileviamo che ci sono due azioni, tre emozioni conflittuali e i restanti sette anelli che sono Dukkha, sofferenza. Ovviamente tutti i dodici anelli sono Dukkha, ma questi sette sono particolarmente espressione di sofferenza. Soffermandoci a riflettere sulla concatenazione dei dodici anelli si comprende come si crea il Samsara e come si rimane prigionieri in esso. I due anelli che costituiscono le azioni volitive sono il secondo - il karma, e il decimo - il divenire. I tre anelli delle emozioni conflittuali, causa delle azioni volitive, sono: il primo - l’ignoranza; l’ottavo - il desiderio e la bramosia; il nono - l’attaccamento e l’afferrare. Questi cinque anelli si riferiscono alla seconda nobile verità: la causa di Sofferenza, Dukkha. Gli altri sette sono relativi alla prima nobile verità: sono Sofferenza, Dukkha. Domanda: Puoi ripetere per favore, mi sto confondendo. Lama:

Karma e Divenire (secondo e decimo anello) determinano le azioni volitive; Ignoranza, Desiderio e Attaccamento (primo, ottavo e nono anello) determinano le emozioni conflittuali. Tutti e cinque appartengono alla seconda nobile verità e sono causa di sofferenza. L’ anello, nome e forma, si produce nel momento della rinascita che con il crescere determina l’anello della sorgente dei sensi, entrambi sono sofferenza. Dall’incontro delle facoltà sensoriali con l’oggetto scaturisce il contatto che diviene Dukkha. La sensazione che sorge dal contatto è Dukkha. Ad esempio: “ho meditato, mi sento particolarmente bene, rilassato, appagato, sono pervaso da una sensazione piacevole”, che è comunque Dukkha. La nascita è Dukkha esattamente come la morte e la vecchiaia.

Per queste ragioni il Buddha ha insistito sulla necessità di conoscere la sofferenza, aggiungendo che bisogna abbandonare la causa della sofferenza, ma solo conoscendo i sette anelli che sono Dukkha possiamo abbandonare gli altri cinque che

sono causa di Dukkha, cioè le azioni volitive e le emozioni conflittuali. Soltanto così possiamo liberarci dal Samsara, uscire dalla catena dei dodici anelli dell’origine interdipendente. Come dobbiamo meditare sui dodici anelli? Osserviamo che: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

Alla base del Samsara vi è l’ignoranza; a causa dell’ignoranza sorgono le azioni volitive; a causa delle azioni volitive sorge la coscienza; a causa della coscienza sorgono nome e forma; a causa di nome e forma sorgono le sorgenti sensoriali; a causa delle sorgenti sensoriali sorge il contatto; a causa del contatto sorge la sensazione; a causa della sensazione sorge il desiderio, la bramosia; a causa della bramosia sorge l’attaccamento, l’afferrare; a causa dell’afferrare sorge il divenire; a causa del divenire sorge la nascita; a causa della nascita sorgono la vecchiaia e la morte.

E poi ripetiamo il percorso invertendo il punto di osservazione: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.

Alla base del Samsara vi è l’ignoranza, quindi: eliminando l’ignoranza cessano le azioni volitive; eliminandole azioni volitive cessa la coscienza; eliminando la coscienza cessano nome e forma; eliminando nome e forma cessa la facoltà sensoriale; eliminando la facoltà sensoriale cessa il contatto; eliminando il contatto cessa la sensazione; eliminando la sensazione cessa il desiderio, la bramosia; eliminando la bramosia cessa l’attaccamento, l’afferrare; eliminando l’afferrare cessa il divenire; eliminando il divenire cessa la nascita; eliminando la nascita cessano vecchiaia e morte.

Questo è il metodo con cui meditare sulle quattro nobili verità. Analizzando in modo conseguente i frutti dell’ignoranza, medito sulle prime due nobili verità, la Sofferenza e la Causa della Sofferenza e osservando tutto ciò che consegue all’eliminazione dell’ignoranza, medito sulla terza e quarta nobile verità, sulla Cessazione della Sofferenza e sulla Via che conduce alla Cessazione della Sofferenza. Si ha così la visione di come si entra nel Samsara e di come sia invece possibile liberarsi dalla schiavitù di questa ruota senza fine. Una meditazione avulsa dalla conoscenza dei dodici anelli dell’origine interdipendente ci fa permanere statici nel Samsara, senza indicarci come vi siamo giunti e soprattutto, come potremmo uscirne. Oggi ho cercato di darvi spiegazioni molto pratiche sulle quattro nobili verità.

Domanda: Perché l’attaccamento, anche quello più naturale come l’attaccamento e la dipendenza del neonato alla madre, che è motivo stesso di vita, rientra nella sofferenza? Lama:

L’attaccamento con cui viviamo tutta la nostra vita crea il reame del desiderio ed è proprio questo vivere nel desiderio e nell’attaccamento che ci fa essere nel samsara, mentre ciò a cui aneliamo è essere liberati, uscire dal samsara e non rivivere continuamente in esso. Dobbiamo distinguere tra attaccamento e compassione. I Bodhisattva ritornano volontariamente nel samsara con la motivazione della compassione, noi invece vi ritorniamo a causa dell’attaccamento; entrambi viviamo nel samsara, ma con differenti motivazioni che portano ovviamente a risultati diversi, a conseguenze diverse. I Bodhisattva sono nel samsara con lo scopo di beneficare gli altri esseri senzienti, mentre il nostro fine è di beneficare noi stessi o, al massimo, quei pochi che amiamo. Per questa ragione soffriamo di timori, di paure, di ansietà e incontriamo continuamente difficoltà e problemi, mentre i Bodhisattva sono liberi da tutto questo. Quindi il fatto di vivere nel samsara non è di per sé negativo, ma è il modo con cui lo si vive che ne determina la sostanziale differenza.

Terza Nobile Verità La terza nobile verità: “la cessazione della sofferenza” presenta quattro caratteristiche: 1. 2. 3. 4.

Gopa o fine della sofferenza; Shiva che significa pace, stato di pacificazione; stato di piena soddisfazione; stato di completo abbandono della sofferenza, abbandono del Dukkha.

Queste quattro caratteristiche della terza nobile verità permettono la realizzazione del Nirvana, ciò a cui tutti aneliamo. Una temporanea cessazione di sofferenza, un temporaneo stato di pace, un temporaneo stato di soddisfazione e un temporaneo stato di abbandono della sofferenza non possono essere considerati la verità della cessazione della sofferenza, della terza nobile verità. Soltanto quando vi è una completa e totale cessazione, una completa e totale pacificazione, una completa e totale soddisfazione o beatitudine, e un completo e totale abbandono della sofferenza, solo allora si potrà dire che questa è la verità della cessazione della sofferenza, la realizzazione della terza nobile verità che può avvenire solo con la liberazione dal Samsara, con l’esserne usciti, al di fuori dei dodici anelli dell’origine interdipendente, il vero stato a cui tutti aspiriamo.

Quarta Nobile Verità Lo stato di cessazione della sofferenza deve essere realizzato, non può esserci dato da altri, non lo possiamo avere come premio di gare e competizioni, né comperarlo al supermercato, l’unico modo per ottenerlo è realizzarlo in noi stessi, ma come? Seguendo il sentiero indicato nella quarta nobile verità, la via che conduce alla liberazione dal Samsara. La via che porta alla cessazione della sofferenza può essere seguita con modalità differenti: un primo modo è rappresentato dall’ottuplice sentiero, un secondo è l’esercizio dei tre addestramenti superiori, un altro consiste nei tre principi del sentiero, un altro ancora è relativo alle sei Paramita, e, infine, quello dei cinque sentieri. Esaminiamoli uno alla volta. Il Nobile Ottuplice Sentiero, importantissimo e fondamentale, comprende: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8.

Retta Visione Retta Percezione Retta Parola Retta Azione Retto modo di Sussistenza Retto Sforzo Retta Consapevolezza Retta Concentrazione

I primi due punti: “retta visione” e “retta percezione” sono parte della Saggezza; le altre tre: “retta parola”, “retta azione” e “retta sussistenza”, aderiscono all’ Etica o Moralità; le ultime tre, “retto sforzo”, “retta consapevolezza” e “retta concentrazione” appartengono alla Concentrazione. Questi tre aspetti: SAGGEZZA, ETICA - MORALITA’ e CONCENTRAZIONE sono i Tre Addestramenti Superiori. I Tre Principi del Sentiero sono: RINUNCIA, COMPASSIONE BODHICITTA, e SAGGEZZA o REALIZZAZIONE DELLA VACUITA’. Le Sei Paramita sono: 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Generosità Etica - Moralità Pazienza Perseveranza Concentrazione Saggezza

o

I Cinque Sentieri sono: 1. 2. 3. 4. 5.

Il Sentiero dell’Accumulazione Il Sentiero della Preparazione Il Sentiero della Visione o Verità Il Sentiero della Meditazione o Familiarità Il Sentiero del Non più apprendimento.

Dei cinque Sentieri si tratta nel Sutra del Cuore e il mantra così recita:

«Om Gaté Gaté Paragaté Parasamgaté Bodhi Soha» Il primo Gaté si riferisce al primo sentiero, dell’accumulazione; il secondo Gaté al sentiero della preparazione; Paragaté al sentiero della visione; Parasamgaté al sentiero della meditazione; Bodhi Soha al sentiero del non più apprendimento. Penso che questo mantra sia particolarmente importante, il migliore, e ne consiglio sempre la pratica. E’ il mantra del cammino di colui che è andato oltre e ha raggiunto l’illuminazione. Questi sono i possibili percorsi proposti dal Buddhismo e ciascuno può scegliere quello che gli è più consono, da dove partire. Ogni sentiero è valido e conduce all’obiettivo finale. Così, come in Italia si dice che tutte le strade portano a Roma, tutte queste vie portano all’illuminazione, alla Buddhità. Domanda: Che differenza c’è tra un sentiero e l’altro? Molti aspetti si intersecano, ad esempio la moralità è anche una parte delle sei Paramita Lama:

Queste sono le intersezioni principali, se si vuole andare da Milano a Roma, obbligatoriamente bisogna attraversare determinati crocevia, così se si vuole raggiungere l’illuminazione, necessariamente si deve passare dagli incroci strategici essenziali.

Domanda: Ma in sostanza ogni percorso è la stessa cosa? Lama:

Certamente, qualsiasi cibo serve per nutrire, i sapori possono essere diversi, può essere cucinato in molti modi, ma la sua capacità nutrizionale rimane la stessa. Non è necessario dividere, incasellare in modo rigido le varie possibilità di percorso.

E’ invece importante ricordare almeno il nome e il numero dei differenti sentieri che portano all’illuminazione, trasferendoli in ogni momento della vita, è necessario praticarli sempre. L’ottuplice sentiero e le sei paramita sono basilari, non sono una bella teoria da studiare, su cui filosofeggiare, ma devono essere vissuti in ogni atto, parola e pensiero, in ogni istante, a casa, in ufficio, al supermercato, ovunque e in qualsiasi circostanza. Praticando in questo modo si raggiunge la terza nobile verità, la cessazione della sofferenza.

Vacuità, Nirvana e Illuminazione Cessazione della sofferenza, Nirvana, Illuminazione, altro non sono che VACUITA’, quindi l’obiettivo ultimo è la realizzazione di quella Vacuità. Ogni Vacuità ha la stessa natura: la mia Vacuità, la vostra, la Vacuità della bottiglia, della casa, dell’elefante, sono tutte Vacuità, ma qualcuna può essere più importante e qualcuna meno. La Vacuità dell’illuminazione è più importante della Vacuità dell’elefante, ma entrambe hanno la stessa natura. Ai fini dell’Illuminazione non è sufficiente una conoscenza puramente intellettuale, filosofica, una comprensione esclusivamente teorica della Vacuità, ma è indispensabile realizzarla, percepirla direttamente. La distinzione è fondamentale: conoscere la Vacuità a livello intellettuale non porta alla realizzazione dell’illuminazione. Realizzare la Vacuità significa sentirla, percepirla, sperimentarla e applicarne l’esperienza alla vita quotidiana. Soltanto in questo modo si ottiene la cessazione della sofferenza. Oggi gli scienziati sono in grado di avere una conoscenza intellettuale dettagliata della Vacuità, e possono anche essere gratificati dal livello acquisito, ma questo tipo di nozionismo, assolutamente teorico, non porterà nessun beneficio alla loro vita né a quella degli altri, rimarrà una cognizione sterile e soltanto se sapranno trasferirla nell’esperienza della vita, se la realizzeranno in loro stessi, potrà portare all’illuminazione. Analizzare la Vacuità, sviscerare il ragionamento in modo da fornirne una descrizione corretta aiuterà ad una buona comprensione teorica, ma sarà assolutamente inutile alla sua realizzazione se la stessa non si trasforma in esperienza diretta e personale. E’ necessario realizzare direttamente la Vacuità dell’IO e la Vacuità del MIO. Realizzare la Vacuità del libro, non porta alcun cambiamento, ciò si determina soltanto quando si è in grado di realizzare la Vacuità in se stessi. Realizzare la Vacuità del sé significa uscire dall’ignoranza. La causa del Dukkha, del samsara è l’ignoranza che concepisce il sé e lo afferra. Fino a quando si genera il sé e lo si afferra sarà impossibile abbandonare la sofferenza. Realizzare la Vacuità per ottenere la completa cessazione della sofferenza significa realizzare la Vacuità del sé, eliminando completamente l’attitudine ad afferrarlo. Realizzare la “Non-differenza” tra il sé e la Vacuità del sé porta alla completa cessazione della sofferenza. La forma è vacua e la Vacuità non è differente dalla forma. Così è scritto nel Sutra del Cuore. L’io è vacuo e quella Vacuità non è differente dall’io.

L’ignoranza è l’attitudine che afferra un sé, che concepisce un sé, ma ignora, non vede, la Vacuità del sé. La cessazione della sofferenza realizza la non differenza tra la Vacuità e il sé. Il sé è vacuo, la Vacuità non è differente dal sé. La realizzazione della Vacuità del sé è il sentiero che conduce alla cessazione della sofferenza. La purezza ultima del sé è quella definita Vacuità non differente dal sé e che è realizzata dall’assenza del sé, dalla realizzazione dell’assenza del sé. E’ veramente arduo approfondire questo concetto perché è quasi impossibile spiegare la Vacuità, non la si può esprimere a parole ed è al di là della percezione, la si deve sperimentare. La verità della cessazione della sofferenza va al di là delle parole, al di là delle percezioni ordinarie, è per noi distante come la luna. Tentando di spiegare la Vacuità mi sembra di essere un bambino che gioca con i modellini della Ferrari, ma chi guida veramente le Ferrari sono Schumacher e Barrichello, a me è proprio impossibile! Posso tentare di dirvi che questo è il mio sentiero, il mio tentativo, ma ognuno deve percorrere il proprio sentiero, porre in atto il proprio tentativo per giungere alla realizzazione. E’ un errore credere che ricevendo iniziazioni, trasmissioni, benedizioni, tutto si realizzi facilmente e automaticamente, è invece necessario lavorare incessantemente su se stessi. Ognuno è totalmente responsabile di sé e delle realizzazioni che ottiene, nessun altro può sostituirsi a lui. Praticando in questo modo si può facilmente intravedere un baleno, avere un’intuizione, una breve visione superficiale della Vacuità della realtà esterna, ma questa non è ancora realizzazione della Vacuità, la realizzazione della Vacuità avviene solo nella realizzazione della Vacuità dell’io. Domanda: In quali occasioni è consigliato praticare il Sutra del Cuore? Lama:

Sempre, in qualsiasi momento, non esistono occasioni particolari né tanto meno è necessario aver ricevuto iniziazioni, trasmissioni e benedizioni, chiunque può praticarlo. Sarebbe un errore porre limiti, bisogna evitare che iniziazioni, trasmissioni e benedizioni diventino un mezzo di potere da esercitare sugli altri, il Buddha non le ha mai ricevute, si è realizzato da se stesso. Il Dharma è già in noi, ciò che a noi resta da fare è realizzarlo. Il Dharma è di tutti e nessuno ha autorità sul Dharma. Il Dharma è la qualità interiore di ogni essere ed è la sorgente della speranza della liberazione, dell’illuminazione.

Bisogna anche essere vigili per non incorrere in facili fraintendimenti, a volte ci sono persone che dicono: “se non seguo le parole del Buddha finirò negli inferi”, ma questo è scorretto, è un grossolano errore, il Buddha è mosso dalla compassione, non manda

nessuno all’inferno e nemmeno punisce nessuno. Dobbiamo praticare il Dharma per il bene nostro e di tutti gli esseri, non per infondate e assurde paure. Il Dharma è in noi, nella nostra mente e abbiamo ogni possibilità per praticarlo. Vi ringrazio per la vostra attenzione e concludiamo l’incontro dedicando i meriti che si sono creati in questi giorni di ascolto e meditazione, affinché tutti gli Esseri possano realizzare il loro fine che è la liberazione dal Samsara e il raggiungimento dell’Illuminazione.

Seconda Parte

I DODICI ANELLI dell’ORIGINE INTERDIPENDENTE

Importanza della Solitudine Sono veramente lieto di essere con voi per condurre nel weekend un corso di Dharma; è bello ritrovare ancora una volta gli amici con cui lavorare sul Dharma cercando di focalizzarne l’essenza profonda. Milarepa era un grandissimo meditatore, pienamente concentrato sull’essenza della pratica non si perdeva in futilità, e così deve essere la pratica del Dharma, particolarmente oggi in cui pare non esserci mai tempo per nulla. E’ necessario non disperdersi in inutili sovrastrutture ed avere un approccio diretto, centrato. Per realizzare questo obiettivo Milarepa aveva scelto di isolarsi dal contesto sociale, dalle distrazioni, da ogni attività non necessaria, dalla fama e dagli onori, lasciando tutto alle spalle per perseguire la pura essenza; ecco il punto focale della pratica del Dharma: isolarsi da ciò che non è necessario dedicandosi all’essenziale, vivere la solitudine. In occidente il concetto di solitudine è associato ad un senso di abbandono, fisico e morale, di triste indifferenza, ma nel contesto del Dharma la solitudine è una condizione indispensabile per raggiungere una reale crescita e realizzazione umana. Le due interpretazioni del concetto di solitudine sono profondamente differenti; nel contesto sociale ordinario, la solitudine è realmente uno stato di abbandono, di isolamento, mentre nel Dharma significa che mente e corpo hanno la capacità di esistere in solitudine, la necessità di essere soli per raggiungere la realizzazione. L’isolamento fisico diviene sostegno all’isolamento mentale. Spesso nei testi buddhisti troviamo questa raccomandazione: “Quando hai compreso i principi degli insegnamenti devi cercare rifugio e sostegno nella solitudine e nell’isolamento fisico e mentale in modo da poterli realizzare”. L’isolamento è la condizione che intensifica la pratica spirituale, la pratica del Dharma . Secondo la visione buddhista, lo stare in solitudine è essere nella condizione ottimale che dà forza e potere alla pratica. L’individuo che si trova in solitudine scopre i propri limiti, li vede con chiarezza. Ognuno di noi può misurare la propria debolezza, o la propria forza, confrontando il bisogno di essere con gli altri, di condividerne la vita e la necessità di rimanere in solitudine. Stare soli è molto più difficile e raro di quanto si pensi, se anche apparentemente lo siamo perché non c’è nessun altro nella stanza, non riusciamo a spegnere il cellulare, a staccare il computer, a non accendere il televisore, opponiamo a un vero isolamento dal mondo una forte resistenza, ciò dimostra quanto dipendiamo dagli altri. Quando il cellulare non funzione o non riusciamo a collegarci con internet ed aprire l’e-mail siamo sopraffatti da un senso di smarrimento, ci sentiamo completamente perduti; questa è la misura della nostra debolezza. Ai tempi di Milarepa, non esistevano né il cellulare né internet e, abbandonato il villaggio, ci si ritrovava fisicamente nell’assoluta solitudine delle montagne, un ottimo sostegno per la solitudine mentale. Oggi, però non esiste luogo al mondo in cui ritrovare l’isolamento fisico, Anche nel più sperduto angolo del pianeta ci seguiranno

telefono, radio, computer, quindi la nostra solitudine è solo un’illusione. La solitudine è più difficilmente realizzabile per un praticante moderno che deve perseguire lo spirito con cui i mistici del passato la vivevano, ma non deve imitarne pedestremente le modalità. Oggi si deve trovare la solitudine ovunque, anche nella propria stanza, è sufficiente non accendere il televisore, spegnere il cellulare, non connettersi con internet. In un ambiente silenzioso e confortevole è possibile rilassarsi e serenamente addentrarsi nella meditazione in vera solitudine. All’inizio questo tipo di isolamento può apparire difficile e duro, ma poco alla volta si scopre la gradevolezza, il piacere e la gioia della solitudine. Allo stesso modo quando si riprende il contatto con il mondo esterno si gusta con letizia la compagnia degli altri, l’essere insieme in cammino sullo stesso sentiero. L’essenza del Dharma è ovunque, si tratta semplicemente di imparare a coglierla. Con il termine “meditazione”, “mente solitaria” definiamo la “mente che medita”, che si isola dai pensieri, dalle parole, dalle attività inutili. L’ isolamento del corpo, l’abbandono delle attività inutili, la ricerca della mente solitaria, non sono in contraddizione con la vita, con la tecnologia moderna, ma al contrario ne favoriscono l’ottimale utilizzazione, si impara a utilizzare il necessario e nulla più. Il corretto uso di quanto offre il mondo valorizza la complementarietà naturalmente esistente tra le qualità spirituali e materiali, non esiste conflitto tra i due aspetti, è la “via di mezzo”, la linea sottile della non contraddizione. Nirvana e Samsara, due fenomeni, apparentemente contradditori, incontrano il loro punto di coesione, di non contraddizione nella linea sottile della via di mezzo. Anche tra la tecnologia più recente e l’antica saggezza esiste questa connessione, la non contraddizione, si tratta di trovare il punto di equilibrio, di incontro. La via di mezzo permette di vedere con chiarezza in ogni fenomeno la connessione, l’interdipendenza, la realtà interdipendente. Tutto esiste in maniera interdipendente. La realtà dell’interdipendenza indica la via di mezzo. Per comprendere profondamente la realtà dell’interdipendenza di tutti i fenomeni è necessario avere la visione corretta della connessione esistente tra loro. La nostra stessa esistenza è dipendente da un’infinita quantità di fattori che a loro volta dipendono da altri. Tutti questi fattori possono essere buoni, cattivi o neutrali, indifferenti, ma sono tutti ugualmente necessari all’esistenza della vita, e se non sappiamo accoglierli con armonia, trovando il giusto equilibrio tra loro, saremo oppressi da pesante disagio e sofferenza. La chiave per rapportarsi ad essi in armonia è la via di mezzo, la vera sorgente della pace e della felicità. La realizzazione della realtà dell’interdipendenza di tutti i fenomeni è chiamata “Dharma”. Non esistono fenomeni che non dipendano da altri, è impossibile trovare fenomeni indipendenti, e questa realtà è detta “via di mezzo”, o “verità assoluta”, “verità ultima”.

La verità delle due Verità Comprendendo che tutte le cose sono interdipendenti, che non vi è nulla di autonomo e indipendente osserviamo la verità relativa dei fenomeni per giungere visione della non esistenza intrinseca di nessun fenomeno, la verità ultima. Questo è ciò che nel Dharma è definito “la verità delle due verità”. Il Buddha ha detto che coloro che vedono l’interdipendenza di tutte le cose vedono il Dharma, e coloro che vedono il Dharma vedono il Buddha. Coloro che vedono come tutto sia dipendente da altro, osservano la verità relativa giungendo al Dharma ultimo che osserva che nulla esiste in modo indipendente, che tutto manca di esistenza propria, sostanziale intrinseca, osserva la verità ultima, la Vacuità. La comprensione della verità convenzionale, o verità relativa, è la via che conduce alla comprensione della verità ultima o assoluta, la Vacuità, e colui che vede la verità ultima vede il Buddha. Al tempo del Buddha i suoi discepoli potevano vederlo, ascoltarlo, era fisicamente percepibile, eppure egli non intendeva questa visione affermando: “vedrete il Buddha”, si riferiva invece alla possibilità di “vedere le due verità”, perché in esse ognuno può ottenere lo stato di Buddha. Il concetto di interdipendenza è fondamentale e deve essere applicato a tutti gli aspetti ella vita, da quelli più grossolani ai più sottili, fino alla realizzazione della buddhità. La ricerca della verità ultima produce un’importante realizzazione, perché permette di scoprire che, se tutto è interdipendente, anche gli aspetti della vita da noi percepiti come positivi, negativi o neutri, in realtà appartengono alla stessa natura quindi sono uguali, li possiamo accogliere con accettazione serena senza discriminazioni, comprendiamo finalmente che non è possibile rifiutare uno e accettare l’altro, perché sono interdipendenti. Risulta evidente come non si possano eliminare le negatività dalla vita volendo contemporaneamente salvarne gli aspetti positivi, è impossibile perché entrambi i fenomeni sono reciprocamente interdipendenti, dobbiamo invece ricercare nella vita ordinaria e quotidiana il loro punto di coesione, l’equilibrio che diviene la vera sconfitta di tutte le negatività dell’esistenza. Questo è il potere mistico della verità della Vacuità. Attraverso l’analisi della realtà interdipendente si scoprono moltissime possibilità di soluzioni ai problemi quotidiani. Credo che questa sia l’indicazione fondamentale, il vero consiglio che il Buddha ha cercato di trasmettere al mondo, ecco perché è così importante imparare a vivere la solitudine sapendo vivere nella società. Entrambi gli aspetti sono necessari all’esistenza, devono essere vissuti con consapevolezza e ciascuno di essi apporterà serenità e gioia. E’ necessario trovare la connessione, la complementarietà tra questi due aspetti, apparentemente contradditori, analizzarne l’interdipendenza, trovare il punto d’incontro, l’equilibrio. Dobbiamo sempre essere vigili nella consapevolezza che ogni fenomeno dipende da altri fenomeni, dunque tutti i fenomeni sono interdipendenti e

nessun fenomeno ha un’esistenza intrinseca, nulla esiste da sé in modo indipendente da altri fenomeni. Se due automobilisti si scontrano, o due passanti battono la testa uno contro l’altro, chi ha battuto chi? Entrambi si sono fatti male allo stesso modo, chi ha scontrato è stato scontrato e viceversa; una realtà dipende dall’altra. Questo principio deve essere applicato ad ogni fenomeno, ad ogni esperienza, sia di dolore o di gioia, sino all’esperienza stessa dell’io, del sé, della propria persona. Un esempio: dov’è la felicità? in questo luogo? in quest’altro? Dove? In questi giorni a Roma, sentivo molto caldo, e mi sono posto la domanda: dov’è il caldo? Sulla pelle? Allora se tolgo la pelle sentirò meno caldo? Dov’è? Il caldo c’è, ma se vado a cercarlo non lo trovo da nessuna parte, posso sentirlo, ma non lo vedo, non lo tocco, non lo identifico con nulla di concreto, constato semplicemente che è il risultato dell’interdipendenza di infiniti fenomeni. Io sento caldo, ma un'altra persona lo può percepire in modo assolutamente diverso, anche contrario, perché i fattori si intersecano differenziandosi, quindi, il caldo è vacuo. Ecco le due verità “relativa” e “assoluta”, l’interdipendenza e la mancanza di indipendenza. Il caldo c’è in quanto condizionato da altro, ma il caldo non condizionato da altro non esiste. Il caldo non ha una realtà propria, perché se così fosse potrei individuarlo, prenderlo e toglierlo di mezzo. La verità relativa è la dipendenza di tutti i fenomeni e la verità assoluta è la non-esistenza di nessun fenomeno in modo indipendente. Domanda: Quando io soffro, soffro a causa della realtà relativa, non di quella assoluta, quindi, anche se scopro che il caldo è una realtà relativa, non me ne importa nulla, lo soffro ugualmente! Lama:

Certamente, io sono come te e soffro il caldo ugualmente, ma quello che è importante comprendere è la natura del fenomeno, questo è il primo fondamentale passo verso la liberazione dalla sofferenza. Il fenomeno sofferenza non esiste intrinsecamente, è un’illusione. Possiamo quindi scegliere se sperimentare la sofferenza, dukkha, o realizzare la realtà della sofferenza, sono due cose diverse. In entrambi i casi l’esperienza della sofferenza permane, quindi si soffre e in questo non vi è nulla di negativo perché l’esperienza della sofferenza è la condizione della nostra vita, è la condizione dell’esistenza samsarica. Ma osservare consapevolmente la realtà della sofferenza è la realizzazione della sofferenza.

A causa dell’ignoranza, dell’illusione, dell’attaccamento sperimentiamo la sofferenza come sofferenza, ma se la osservassimo senza ignoranza, illusione e attaccamento, l’esperienza della sofferenza non sarebbe sofferenza. Nella sua natura dukka, la sofferenza, è sofferenza, ma realizzandola con consapevolezza non si trova sofferenza. L’errore è dire “io soffro”, ma se il mio

atteggiamento mentale è: “sperimento la sofferenza” o “c’è esperienza della sofferenza”, realizzo la verità della sofferenza. Domanda: Non so se ho capito, ma a me sembra che spesso ci facciamo condizionare da idee preconcette, culturali e per questo soffriamo di più, è così? Lama:

“io soffro” “sto soffrendo” è la creazione della nostra illusione mentale. Il diverso modo di sperimentare la sofferenza dipende dal livello di realizzazione di ciascuno. Questo è facilmente osservabile nelle persone gravemente ammalate, la loro reazione alla malattia può essere davvero molto diversa in coloro che subiscono l’esperienza della sofferenza e coloro che osservano la realtà della sofferenza. Ripeto, non c’è nulla di sbagliato nell’esistenza della sofferenza, è naturale che essa esista, il punto sostanziale è come la si accoglie.

Per comprendere meglio quanto detto sinora leggiamo alcuni versi tratti al XXIV capitolo della Madhyamakamulakarika di Nagarjuna - “Le Quattro Nobili verità”: versetto 8° “L’ insegnamento, o Dharma, di Buddha giace su due verità, la verità convenzionale o relativa e la verità assoluta o realtà ultima” versetto 9° “Coloro che non comprendono la distinzione tra queste due verità allora non comprendono l’essenza profonda del Dharma” versetto 10° “Non comprendendo la realtà relativa non si può comprendere la realtà ultima e non comprendendo la realtà ultima non si può realizzare il Nirvana” In altre parole, la comprensione della realtà o verità ultima dipende dalla comprensione della realtà convenzionale o relativa, quindi non c’è modo di comprendere la verità ultima se non passando attraverso la verità convenzionale o relativa. La comprensione della realtà ultima o Vacuità non è facile e per questo è necessaria una grande attenzione e prudenza perché vi è il rischio di interpretarla in modo errato con conseguenti gravi problemi, in tibetano si dice “è come cacciare il serpente prendendolo per la coda”. La realtà convenzionale e la realtà ultima sono complementari, non contraddittorie, e la comprensione dell’una facilita la comprensione dell’altra. Mantenendo questa visione mutuale si giunge alla comprensione del loro reale significato.

Esistenza della sofferenza o non esistenza della sofferenza: a livello relativo la sofferenza esiste, ma a livello ultimo la sofferenza non esiste, perché quando si va a cercare un oggetto che abbia tutte le caratteristiche della sofferenza non si trova nulla. versetto 11° “Il fraintendimento della Vacuità distrugge le persone di poca intelligenza è come afferrare un serpente per la coda è come pronunciare una formula magica in modo errato” versetto 12° “conoscendo quanto sia difficile per il debole comprendere il Dharma il Buddha nel suo cuore esitò nell’insegnare il Dharma” La Vacuità è l’essenza del Dharma e proprio per questo è rischioso insegnarla, la sua comprensione può essere davvero difficile. La Vacuità non può essere spiegata soltanto con l’insegnamento e l’esemplificazione letterale, ma è necessario averne una percezione diretta, sperimentarla. versetto 13° “Vacuità è la realtà ultima o il modo ultimo di esistenza delle cose. Se un fenomeno non fosse vacuo non potrebbe esistere” L’ esistenza del fenomeno dipende dalla Vacuità, dal modo di essere che è Vacuità, ovvero dalla mancanza di sostanzialità, così quando cacciamo un serpente dobbiamo stare molto attenti a non afferrarlo per la coda. versetto 14° “Per coloro per i quali la Vacuità è possibile tutto è possibile per coloro per i quali la Vacuità non è possibile nulla è possibile” Chi sostiene che le cose esistono, ma non sono vacue, fa un’affermazione errata. versetto 15° “Voi imputate i vostri errori a me mentre siete voi in errore siete come un cavaliere che dimentica il cavallo che sta cavalcando” Quindi se noi attestiamo che le cose esistono ma non sono vacue siamo come quel cavaliere, o come un automobilista che mentre guida afferma che l’auto non c’è perché ha scordato di essere sulla macchina che sta guidando. Poiché tutte le cose dipendono da cause e condizioni questa stessa dipendenza è il significato della Vacuità. Le cose esistono semplicemente a livello di nome. Prendiamo

ad esempio tutti i pezzi che compongono un tavolo, li mettiamo insieme in un certo ordine e avremo ciò che noi definiamo tavolo, ma se li smontiamo non avremo più nulla che possiamo identificare come tavolo. Quindi il tavolo esiste solo a livello di nome, non ha un’esistenza sostanziale propria, dipende dall’assemblamento di tanti pezzi che hanno a loro volta nomi diversi. Tutte le cose esistono solo a livello di denominazione che, con un termine particolare utilizzato nel Madhyamaka, la via di mezzo, si dice “imputazione” Questo concetto è spiegato nel versetto 18° “Qualunque cosa sorga nella dipendenza è detta Vacuità e questa viene chiamata imputazione del sorgere interdipendente. Questa è la via di mezzo, la Madhyamaka” Poiché non esiste nulla che non dipenda da altro, non esiste nulla che non sia vacuo. Le spiegazioni di questi versi sono difficili, esistono varie interpretazioni e scuole, per cui è possibile che si possa creare una certa confusione, ma ciò che è fondamentale comprendere è che qualsiasi tradizione fa capo al testo radice di Nagarjuna, è dunque consigliabile attingere sempre direttamente a questa fonte per poter comprendere tutte le sfumature, gli insegnamenti, le interpretazioni successive. Il testo di Nagarjuna è pura filosofia, privo di ogni condizionamento culturale, religioso, di razza. E’ filosofia universale, filosofia per l’essere umano. Nagarjuna risponde con i versi 14° e 15° a coloro che lo contraddicono e che, non riconoscendo il proprio errore, lo attribuiscono allo stesso Nagarjuna: “Per coloro per i quali la Vacuità è possibile, tutto è possibile, per coloro per i quali la Vacuità non è possibile, nulla è possibile” “Voi imputate i vostri errori a me mentre siete voi in errore, siete come un cavaliere che dimentica il cavallo che sta cavalcando”. Se percepite l’esistenza delle cose come se esse possedessero un’essenza propria, questa percezione è errata perché non tiene conto delle cause e delle condizioni. Secondo questa visione la causa e l’effetto, l’agente e l’azione, le condizioni, il sorgere e il cessare, sono impossibili. Qualunque cosa sorga interdipendentemente è detta essere vacua, è Vacuità. L’essere nell’imputazione interdipendente è essere nella via di mezzo. La via di mezzo, la Vacuità, l’interdipendenza, la mera imputazione sono sinonimi, indicano la stessa realtà.

L’Io e il Mio La comprensione del concetto di interdipendenza è essenziale all’assimilazione profonda del significato dei “Dodici anelli dell’origine interdipendente” e ne abiamo spiegazione chiara ed esauriente nel 26° capitolo della Madhyamaka. Il primo anello dell’origine interdipendente è l’IGNORANZA, che si presenta in duplice aspetto, l’uno è la «non conoscenza» e l’altro è la «conoscenza errata». Durante il sonno si sperimenta l «non conoscenza», non si ha alcuna percezione della realtà quindi non si conosce. Ma ignoranza più pesante è data dalla «conoscenza errata», che, ad esempio, afferma l’esistenza di un sé sostanziale e la sostanzialità dei fenomeni. Questo tipo di ignoranza si articola in tre categorie: 1. l’ignoranza che riguarda il Sé, l’Io 2. l’ignoranza che riguarda il Mio 3. l’ignoranza che riguarda i fenomeni. La terza categoria in genere non ci colpisce, non ci influenza particolarmente, ma le prime due, del sé e del mio, ci condizionano moltissimo incatenandoci strettamente alla sofferenza. L’ignoranza del sé è originata per prima, nel testo di Chandra Kirti “Madhyamakavatara” che letteralmente significa “Impegnarsi nella Via di Mezzo”,ne è descritta l’evoluzione: ƒ ƒ ƒ

da principio si afferra ciò che chiamiamo “io”; poi sorge l’attrazione verso ciò che chiamiamo “mio”; da entrambi scaturiscono “desiderio e attaccamento” che cominciano a far girare la ruota senza fine dei tre tipi di sofferenza. Con il termine “senza fine”, non si intende l’impossibilità di cessazione, ma significa che come in un cerchio, non c’è punto né di inizio né di fine, si tratta di un moto in continua rotazione.

Avendo perduto la libertà a causa dell’ignoranza, forzatamente si ruota ininterrottamente nel movimento creato dall’io e dal mio. Questa è l’ignoranza fondamentale ed è la radice del Samsara. “Oscurati dall’ignoranza si è mossi dall’azione verso il proprio destino”, cioè verso il circolo vizioso, senza fine, del Samsara. Il significato del primo anello è l’ignoranza, la percezione errata, il fraintendimento dell’io e del mio; non si comprende che l’io, il sé, è vacuo, è interdipendente, è mera imputazione in quanto esiste solo in dipendenza da cause e condizioni. La natura dell’io è pura Vacuità e comprendendo che questa è la sua vera natura si ha la visione della via di mezzo, la visione della saggezza che si oppone all’ignoranza fondamentale.

Domanda: A me sembra abbastanza facile dimostrare, logicamente, che un tavolo è un nome, quando però si passa all’io la cosa mi pare assai più difficile da accettare. Non ho capito in quale modo l’io possa essere relativo, perché il mio io è l’origine stessa della mia conoscenza. Ogni percezione che ho è il mio stesso io. Lama:

Quando hai una qualsiasi percezione tu dici “io vado” “io ascolto”, ma in realtà, se osservi con attenzione, l’occhio vede, l’orecchio ascolta e né occhio né orecchio sono te, sono una parte di te, ma senza occhi e senza orecchie tu esisti ugualmente. L’io, la persona è composta da sei elementi, di cui quattro comuni e due complessi: lo spazio o vuoto e la coscienza. Tu quindi sei costituito da questi sei elementi; è facile capire che i quattro elementi comuni non possono essere l’io, anche lo spazio non è l’io, ma quando si arriva al sesto elemento, la coscienza, nascono dubbi, ci si identifica totalmente con la coscienza, si dice io sono la coscienza.

Ma cos’è la coscienza? Non è un fenomeno unico, è una molteplicità di fenomeni: ci sono i sensi della mente, i sensi della fisicità, eppure in mezzo a tanta pluralità non c’è nulla che possa essere indicato come io. La coscienza è un flusso in continuo divenire, sono continui e distinti momenti di coscienza. Non vi è nulla di permanente identificabile come io. Tutto è interdipendente, quindi vacuo. La realizzazione della Vacuità, o realizzazione dell’interdipendenza, ci libera dalla concezione errata dell’io. La prerogativa dell’essere umano è la coscienza, e lo sconfinato significato della vita umana giace nella mente. Mi rendo conto di quanto sia difficile trasmettere questi concetti: la Vacuità, la natura del Buddha, la natura della mente, la rinascita; è più facile avvicinarsi ad essi nella meditazione. Domanda: Credo che fino a quando si ha un corpo sia davvero difficile assimilare simili nozioni, o si realizza la Vacuità o sarà sempre impossibile coglierla profondamente. Domanda: E’ giusto quel che diceva il Lama, se non ci si immerge nella meditazione, ma si pretende di raggiungere una conoscenza solo attraverso la logica è impossibile comprendere la Vacuità. Lama:

Allora concludiamo questa giornata con la meditazione.

Per poter tagliare la radice del Samsara, occorre conoscere prima di tutto come inizia e come ci si entra. Per questo è necessario studiare i dodici anelli dell’origine interdipendente che ne indicano con precisione l’inizio, lo sviluppo e il circolo vizioso in cui si rimane intrappolati. Con questa consapevolezza possiamo essere colti da un senso di tristezza e di sconforto, ma altrettanto dovrebbe nascere e crescere in noi il desiderio di uscire da una simile situazione, la volontà di rinuncia al permanere nel Samsara, il desiderio di liberazione. Riflettere sul processo del Samsara, sulla realtà dell’esservi immersi, ce ne mostra la radice, l’origine. Lo studio dei dodici anelli dell’origine interdipendente indica

chiaramente la genesi del Samsara la sua evoluzione, la continua riproduzione di se stesso e le infinite implicazioni e condizionamenti nella nostra vita, offre una visione chiara del processo di causa-effetto prodotto in noi dalle diverse emozioni, a volte di tristezza, a volte di gioia e altre volte neutre. Studiare con attenzione i dodici anelli dell’origine interdipendente favorisce lo sviluppo della saggezza, unico efficace strumento per sconfiggere il primo e importante anello: l’ignoranza. Riflettendo sulla catena dei dodici anelli, si analizzano tutte le implicazioni che controllano la nostra vita, che ci imprigionano nel circolo vizioso di sofferenza che crea altra sofferenza. Questa presa di coscienza è positiva perché evidenzia la situazione in cui siamo immersi, la natura della nostra sofferenza, indicandoci nel contempo la via della saggezza. La consapevolezza della natura della sofferenza ha inoltre l’effetto positivo di indurre il forte desiderio, la volontà, di liberazione dal pesante giogo. Il riconoscimento della dinamica di nascita e crescita della sofferenza conduce all’approfondimento del funzionamento dei dodici anelli, offrendo così una visione estremamente chiara della natura e delle conseguenze dell’ ignoranza in un processo cognitivo che condurrà alla conoscenza della Vacuità. Per questo si dice che: “la saggezza della Vacuità taglia le radici dell’ignoranza”. Lo studio e la meditazione di questo testo è fondamentale, è la strada che porta alla liberazione.

Natura dell’Origine Interdipendente Nel testo si parla di “coproduzione condizionata”significato del processo di causa effetto, sintetizzato in tre punti: 1. 2. 3.

“se c’è questo, c’è quello”; “dalla nascita di questo, nasce quello”; “condizionati dalla nescienza (ignoranza) si riproducono i coefficienti (karma)”.

Questi tre fattori compongono e completano le condizioni determinanti il risultato e dimostrano esaurientemente la natura dell’interdipendenza. Esaminiamoli uno alla volta: 1. Il primo, “Se c’è questo, c’è quello”, indica che se non c’è una causa nemmeno ci sarà un risultato. Al contrario, con cause e condizioni si avrà un risultato, senza cause e condizioni no, quindi nessun risultato può prodursi in mancanza di cause e condizioni, nulla esiste in assenza di cause e condizioni. 2. Il secondo, “dalla nascita di questo, nasce quello”, significa che ciò che è entrato in esistenza lo ha fatto in virtù di una causa e che questa causa non può essere permanente. Non è possibile che qualche cosa venga in esistenza senza causa e questa causa è impermanente perché una causa permanente non può dare alcun risultato. Nessun risultato può essere prodotto da una causa permanente. 3. Il terzo, “condizionati dalla nescienza (ignoranza) si riproducono i coefficienti (karma)”, indica che ciascun risultato deriva da una causa che gli corrisponde; tra risultato e causa deve esserci corrispondenza che definisce la formazione karmica, è l’impulso karmico. L’ignoranza (causa) e la formazione karmica (risultato) si connettono tra loro, il loro legame rientra nel processo di Dukkha, di formazione della sofferenza. Così, come il seme di riso non può che far gerrmogliare la piantina di riso e il seme di mais la piantina di mais, ogni risultato corrisponde alla causa che lo ha determinato. Soffermandoci sull’esempio della piantina di riso sappiamo che essa non può essere prodotta senza causa, non può essere prodotta da una causa permanente, e non può essere prodotta da una causa diversa, come un seme di mais. Se la piantina di riso potesse svilupparsi senza causa, non sarebbe necessario piantare il seme di riso, il riso sarebbe eternamente presente, senza bisogno di alcun intervento. I tre elementi della relazione di “causa - effetto”, o, “causa - risultato”, sono essenziali alla comprensione di ogni tipo di fenomeno. Le emozioni, felicità, infelicità e atteggiamento neutrale, rientrano nella relazione di causa - effetto, in tutti e tre gli aspetti.

La percezione di una sensazione di felicità è il risultato di una causa che non può che essere impermanente. Quindi la sensazione di felicità è un effetto che corrisponde alla sua causa, ovviamente positiva, perché se fosse negativa l’effetto generato sarebbe da noi percepito come infelicità. Comprendendo questo meccanismo di causa - effetto siamo in grado di capire il processo dell’origine dipendente, o del sorgere interdipendente detto anche “originazione” interdipendente. L’origine dipendente indica ciò che si determina in dipendenza da altro, è il risultato, l’effetto di una causa. Si inizia così un processo a catena, per cui una causa produce un effetto che a sua volta diviene causa per un altro effetto e così via. La sequenza senza fine ha avuto inizio. Con il prodursi dell’effetto, la causa che lo ha determinato cessa, non è più causa, quindi la causa è sempre e solo impermanente. Il processo di causa effetto può essere generato in due modi, il primo è detto “susseguente” e il secondo “di contemporaneità”. Il processo appena descritto è susseguente, ma è possibile che un effetto avvenga solo per l’insieme di cause che debbono sussistere contemporaneamente, si ha così un fenomeno di “contemporaneità”. (Per chiarire il concetto il Lama percuote con il batacchio la campana che immediatamente emette un prolungato e profondo suono) Noi abbiamo udito l’effetto suono, che però è stato determinato da un’insieme di cause concomitanti: la campana, il batacchio, la mano che lo ha preso e l’incontro di questo con il bordo della campana. Senza l’esistenza della contemporaneità di tutte queste cause non si sarebbe potuto generare il suono, nessuna causa singola sarebbe in grado di ottenere il risultato voluto. Se riflettiamo sull’origine interdipendente, riconosciamo che tutto accade per una causa impermanente che ne ha determinato l’effetto il quale, a sua volta, è causa impermanente di altro effetto, e così via. C’è sempre corrispondenza tra causa - effetto, causa - risultato. Comprendere questo meccanismo significa avere una chiara visione, una realizzazione, dell’esperienza che si sta vivendo, momento per momento. In questo modo portiamo l’esperienza nel palmo della mano, ne abbiamo consapevole osservazione che diventa chiave del cambiamento. Volendo cambiare l’esperienza sappiamo di avere gli strumenti per farlo, come farlo, se invece non desideriamo cambiare possiamo permanervi, senza modificare nulla. Se voglio essere felice so cosa devo fare, se desidero rimanere nell’infelicità sono altrettanto libero. E’ un aspetto interessante del Buddhismo, il Buddha non ha mai detto: “devi essere felice, devi stare bene”, ma: “puoi essere felice, puoi stare bene, se tu lo vuoi. Per stare bene la via è questa, per rimanere nell’infelicità è quest’altra”. Ognuno sceglie il proprio sentiero. Quindi se anche le nostre scelte sono sbagliate, possiamo osservare l’errore con pace, cambiare le cause e quindi modificarne gli effetti, ciò evita il prodursi di sterili quanto dannosi sensi di colpa che non farebbero che causare altri effetti negativi. Per godere di questa libertà è però necessario penetrare profondamente nel reale significato dell’origine interdipendente.

Nel testo della Madhiamikamulakarika, “Lode a Manjusrhi l’eternamente giovane” si cita: “La coproduzione condizionata, pacificazione di ogni spiegamento del pensiero discorsivo, benigna, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità, senza unità, senza molteplicità, senza venuta, senza andata. Colui che svegliato, l’ha insegnata, io lo saluto, Lui, il migliore dei parlatori” Le prime righe “La coproduzione condizionata, pacificazione di ogni spiegamento del pensiero discorsivo” illustrano la cultura tibetana in cui la conoscenza dell’origine interdipendente diviene pacificazione di ogni realtà, perdono senso concetti dualistici e fuorvianti quali: “buono - cattivo”, “bello - brutto”, “andare - venire”, “piacevole spiacevole” e nel testo sono descritte le otto qualità della pacificazione: “benigna, senza arresto, senza nascita, senza annientamento, senza eternità, senza unità, senza molteplicità, senza venuta, senza andata. La comprensione dell’interdipendenza porta alla pacificazione di tutte le sovrastrutture mentali che creano divisione e con mente non dualistica si è in grado giungere alla vera libertà. In questo verso è praticamente sintetizzato il senso dell’intero testo ed è basilare. Generalmente nell’editoria moderna il sommario è stampato in coda al libro invece nel passato era d’obbligo presentare prima la sintesi dell’argomento da trattare. I filosofi greci Aristotele e Platone hanno particolarmente affinità con concetto Buddhista di impermanenza. La filosofia greca è interessante, non impone conclusioni ma induce a riflettere sulle questioni, al ragionamento, e la conclusione ognuno la deve trovare da sé. Il verso iniziale della Madhiamaka Mula karita è essenziale perché indica con estrema chiarezza come la comprensione dell’origine interdipendente conduca alla cessazione delle dualistiche costruzioni mentali e quindi alla vera liberazione. Per questo motivo si dice che l’insegnamento dell’origine interdipendente è il fulcro, il re, di tutti gli insegnamenti. I maestri tibetani hanno analizzato e interpretato questo testo, sviscerandone ogni possibile sfumatura, da cui sono nati i numerosi “sottotesti”; ma a coloro che non appartengono a questa cultura io consiglio vivamente di riferirsi sempre direttamente al testo originale di Nagarjuna, perché è l’unica garanzia per evitare grossolani fraintendimenti atti ad aumentare la confusione. E’ importante avere molta cura nella scelta dei testi di Dharma, alcuni originali scritti da illustri maestri sono certamente più difficili, altri invece più facili, quasi fossero libri per bambini, si limitano spesso ad un’infarinatura superficiale ed è pericoloso abituarsi a questo tipo di approccio perché diventa sempre più arduo

addentrarsi con mente recettiva nel cuore dei testi più complessi ma più esaurienti. Il testo radice, originale, privo delle interpretazioni delle differenti scuole formate in momenti successivi, in un solo verso può contenere il significato più profondo e completo. In Tibet lo studio del Buddhismo è cresciuto in un processo di logica sempre più raffinata, ogni parola analizzata sottilmente permette un’elaborazione analitica, dettagliata, specifica e profonda di ogni argomento. Ma questa dialettica risulta di difficilissima comprensione per coloro che non vivono nel contesto culturale delle università monastiche tibetane. In India nell’Università di Nalanda ai tempi di Nagarjuna questa modalità di analisi non esisteva, si preferiva un sistema di logica più diretto e accessibile a tutti. In considerazione di questo molti studiosi buddhisti hanno abbandonato i testi tibetani riferendosi unicamente a testi indiani che, oggi, sono sicuramente più adeguati al contesto culturale e al tipo di logica degli studiosi occidentali. Domanda: Nessuna causa può essere permanente, quindi anche l’effetto è impermanente, però la mente è eterna, quindi permanente, e genera un effetto permanente che sono i fenomeni, allora è impermanente solo il modo di percepire i fenomeni? Lama:

La mente non è affatto permanente, è totalmente impermanente, tu pensi che la mente non cambi?

Domanda: Ma la mente esiste eternamente nella sua capacità di creare ed è ciò che crea che, divenendo ciclicamente causa effetto, è impermanente... Domanda: Vorrei aggiungere qualcosa a questa domanda; noi occidentali siamo forse fuorviati dal concetto di un’anima individuale e immortale, così come il fenomeno delle consapevoli rinascite dei Bodhisattva, e allora è veramente difficile comprendere l’impermanenza della mente Lama:

Nel tantra chiamato “il Nome di Manjushri” si legge: “Il Buddha non ha inizio e non ha fine. Il primo Buddha non ha causa”

Il Buddha non ha inizio e non ha fine significa che la mente non ha inizio e non ha fine. Il Buddha non ha causa significa che la natura del Buddha non è causata, è nella natura della mente essere Buddha. Però ciò non vuol dire che la mente sia permanente. Il flusso continuo della mente viene da tempo senza inizio, ma la mente di adesso non c’era ieri e non ci sarà domani. La mente di adesso finisce qui, è effetto della mente di ieri e causa della mente di domani. E’ sempre la propria mente, ma non è la stessa di prima e non può essere la stessa che verrà dopo. La mente di adesso è venuta in esistenza a causa di fattori impermanenti precedenti con i quali vi è corrispondenza. Un libro non può diventare mente perché non vi è alcuna corrispondenza tra causa - effetto, non c’è relazione corrispondente.

Così i Bodhisattva rinascono continuamente, ma non sono mai la stessa persona. Bodhisattva è ciò che definisce la qualità della mente, non identifica l’individuo. Osserviamo la vita umana: si va a scuola, si lavora e poi si va in pensione. Ma il bambino non è il pensionato, l’impiegato non è il pensionato. A livello convenzionale sono la stessa persona perché hanno lo stesso nome, ma in realtà questo avviene solo a livello convenzionale e di nome. Le persone che entrano in relazione con noi ci identificano in base a quel nome, ma noi mutiamo, non siamo la persona di ieri e nemmeno quella di domani, anche se causa - effetto determinano una continua correlazione tra loro.

I Dodici Anelli dell’Origine Interdipendente Il capitolo 26° del testo Mula karika della Madyamaka di Nagarjuna, analizza i dodici anelli dell’origine interdipendente e inizia affermando che nell’ignoranza si formano i tre tipi di karma responsabili del passaggio degli esseri nelle vite future. Ricorderete che esiste l’ignoranza che determina il karma, legge di causa effetto, e l’ignoranza rivolta alla realtà ultima. L’ignoranza di causa effetto impedisce di vedere che ogni azione - mentale, verbale, o fisica - produce il relativo effetto e, dunque, l’accumulo di più azioni negative potrà determinare la rinascita in esistenze inferiori. L’ignoranza della realtà ultima si presenta in due aspetti: 1. Nel primo la persona ignora la realtà ultima, ma conosce la legge di causa effetto, e quindi attua azioni virtuose che determinano una rinascita nel reame umano; 2. Nel secondo la persona ignora la realtà ultima, conosce la legge di causa effetto, ma attua azioni neutre, dovute alla dimensione della concentrazione mentale e questo determina la rinascita nei reami dei Deva, teoricamente più alti ma che in realtà non sono affatto più elevati rispetto all’esperienza umana. I tre reami: 1. reame basso 2. reame umano 3. reame dei Deva secondo un tipo di rappresentazione sarebbero ubicati in un luogo ideale, però, tra le moltissime interpretazioni, probabilmente la più vera li colloca a livello dell’esperienza che ognuno vive. I tre tipi di karma, positivo, negativo e neutro, sono creati da corpo, parola e mente, quindi il termine “tre” ricorrente nel testo, è riferito sia ai tre tipi di karma che ai tre modi di produzione di karma. L’ignoranza determina karma negativo, positivo o neutro. Ogni azione genera il karma attraverso il corpo, la parola, la mente e diviene impronta mentale. Tra questi il modo più potente nella strutturazione del Karma avviene attraverso la mente, ma cos’è l’azione mentale? il karma prodotto dalla mente? E’ l’attitudine mentale, ogni pensiero che sorge ne è accompagnato e, in dipendenza da essa, può essere positivo, negativo o neutro. Se l’attitudine è positiva lo sarà anche il pensiero e produrrà karma positivo. E’ l’attitudine che dirige il destino del pensiero, non è tanto importante ciò che facciamo, diciamo o pensiamo, quanto l’attitudine che accompagna tutte queste azioni. La pratica del Dharma comporta dunque la consapevolezza dell’inevitabile necessità di cambiare attitudine, di assumere sempre un’attitudine corretta, è ciò a cui ci si riferisce parlando di addestramento mentale. La psicologia buddhista ribadisce che ogni pensiero è accompagnato da cinque fattori onnipresenti: 1. 2.

sensazione; discriminazione, o, mente discriminante;

3. 4. 5.

attitudine; contatto con l’oggetto; riflessione, ragionamento, osservazione.

Tra essi il fattore determinante nella produzione del karma mentale, positivo, negativo o neutro, è l’attitudine, elemento decisivo allo sviluppo delle rinascite future. L’attitudine ha il potere di influenzare le azioni mentali, fisiche e verbali. Le azioni mentali, fisiche e verbali lasciano impronte nella mente, la influenzano, determinando le predisposizioni karmiche. Questo è il secondo anello dell’interdipendenza. Il terzo anello è quello della coscienza, già impregnata dalle impronte karmiche, le predisposizioni. Dall’ignoranza scaturisce il karma; quindi si formano le tre azioni - mentali, fisiche e verbali - che lasciano un’impronta nella coscienza principale (terzo anello). L’impronta impressa nella coscienza dalle azioni è come un seme che ha il potere di far germogliare la rinascita. Secondo verso: “La coscienza, che è determinata dalle azioni karmiche, la coscienza che è condizionata dalle impronte karmiche, è lanciata verso diversi destini” Questi tre anelli: ignoranza, formazioni karmiche e coscienza, sono l’uno susseguente all’altro. Il quarto - Nome e Forma - è costituito dai cinque aggregati e si sviluppa nel momento in cui la coscienza entra nella vita successiva. La forma corrisponde all’aggregato della forma e il nome agli altri quattro: delle sensazioni, della discriminazione, della coscienza e delle azioni che contengono tutto il resto dei fenomeni. E’ necessario studiare i cinque aggregati secondo tutti gli aspetti approfonditi nei trattati dell’ Abhidharma (Dharma superiore), del Pramana (mezzo valido di coscienza) e della Madhyamika (Dottrina della Via di mezzo), per ottenerne una completa comprensione. ƒ Nell’ Abhidharma la spiegazione dei cinque aggregati è scientifica, approfondisce l’aspetto fisico e metafisico. ƒ Nel Pramana si affronta l’aspetto metafisico e psicologico. ƒ Nella Madyamaka prevale la spiegazione della realtà ultima dei cinque aggregati. Il quinto anello - “delle sorgenti sensoriali” - tratta delle sei forme che, percepite dai sensi, diventano sensazioni: 1. colore e forma

oggetto della vista

2. 3. 4. 5. 6.

suono odore sapore tatto coscienza

oggetto dell’ udito oggetto dell’ olfatto oggetto del gusto oggetto del toccare oggetto del dharma

Quando nome e forma, i cinque aggregati, cominciano a costruirsi si presentano come oggetto percepibile dai sensi. Il sesto anello è il contatto. Lo sviluppo di nome e forma crea le sorgenti sensoriali dalla cui dipendenza nascerà il contatto. Il contato si costituisce in dipendenza dal senso, dall’oggetto e dalla coscienza immediatamente precedente. Queste sono le tre condizioni che determinano il contatto. Le tre condizioni che permettono la funzionalità del senso della vista ad esempio sono date dall’organo sensoriale - l’occhio, dall’oggetto della vista - colore e forma e dalla coscienza che è immediatamente precedente al verificarsi del contatto. Le tre condizioni, insieme, costituiscono il contatto. Riassumendo: Nome e Forma sono il primo stadio della nascita, poi si sviluppa lo stadio della percezione dei sensi e, quando i cinque aggregati sono percepibili si è a livello delle sensazioni sensoriali (5° anello). Dall’incontro dell’oggetto dei sensi con i sensi che lo percepiscono, congiuntamente alla coscienza immediatamente precedente, si ha il contatto (6° anello). Dal contatto sorge la sensazione (7° anello), che può produrre un effetto di diverso tipo: piacevole, spiacevole e neutro, le differenti sensazioni danno origine ad attaccamento, avversione e stato neutrale. Una sensazione piacevole sarà causa del sorgere di attaccamento e una sensazione spiacevole del sorgere di avversione. Attaccamento, desiderio, bramosia sono fattori mentali che possono determinarsi nei confronti di qualsiasi oggetto, è la risposta mentale alla piacevolezza. Dall’attaccamento sorge la bramosia della sensazione piacevole, che si presenta in quattro aspetti diversi: 1. 2. 3. 4.

la bramosia dell’ oggetto dei sensi; la bramosia della visione filosofica; la bramosia della moralità, attaccamento allo sforzo, alla sofferenza; la bramosia dell’idea del sé.

Dalla bramosia nasce e si evolve il Samsara, si definisce l’entrare in esistenza sulla base dei cinque aggregati. Domanda: Questo concetto non è chiaro, è un passaggio difficile. Lama:

E’ vero, ritorniamo alla traduzione inglese del testo: “Abbiamo l’ignoranza, le formazioni karmiche la coscienza, da questi tre fattori sorge nome e forma il cui sviluppo determina il contatto.

Il contatto è quindi frutto del concorso della triade - forma, coscienza e occhio -. Conseguentemente al contatto entra in azione la sensazione affettiva (piacevole, spiacevole o neutra). Condizionata dalla sensazione affettiva si crea la sete, infatti si ha sete perché si è avidi di sensazioni affettive. L’assetato si appropria dei quattro aspetti della bramosia ed essendoci appropriazione entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza. Infatti, se non ci fosse appropriazione ci sarebbe liberazione e non si determinerebbe il ciclo samsarico dell’ esistenza”. Quindi: dal contatto sorge la sensazione e dalla sensazione nasce la sete, o desiderio. Da questa sete nasce l’avidità ad afferrare, cioè i quattro tipi di bramosia. E’ tutto interdipendente. Domanda: Non riesco a capire i quattro tipi di bramosia o appropriazione, non ne vedo il senso “bramosia della moralità”,-“attaccamento alla sofferenza”, ma cosa vuol dire? Lama:

La trascrizione dal tibetano a volte è impossibile, si traducono alcuni termini in modo approssimativo che può generare confusione e fraintendimento, tentiamo dunque di schematizzare il processo ripartendo dall’inizio: prima c’è l’ignoranza che determina l’azione karmica e quindi la coscienza. L’ignoranza crea azioni karmiche che lasciano impronte nella coscienza. Questi tre anelli insieme dirigono il destino della persona, la sua futura rinascita.

La coscienza ha due momenti differenti: il primo quando riceve l’impronta karmica e il secondo quando questa matura. La sua maturazione avviene con l’entrare della mente nella vita successiva, cioè con il sorgere di nome e forma, con la formazione dei cinque aggregati, (quarto anello). Ne consegue il nascere delle percezioni sensoriali, quindi da un livello sottile si passa ad uno più grossolano, all’origine dei sensi, (quinto anello). I cinque aggregati si sviluppano ulteriormente nella percezione del mondo esterno e i sensi, oltre a percepire l’oggetto esteriore, entrano in connessione con la coscienza e si verifica il contatto, (sesto anello). Avvenuto il contatto, sorgono le differenti sensazioni - piacevole, spiacevole e neutrale - che intensificano progressivamente la loro potenzialità, sono come un bambino che all’inizio risponde blandamente agli stimoli, crescendo intensifica enormemente le reazioni emotive incrementando progressivamente il proprio coinvolgimento. Ciò determina inevitabilmente la discriminazione tra le sensazioni ed è questo il terreno in cui germoglia l’attaccamento. Quindi il settimo anello è la sensazione e l’ottavo l’attaccamento all’oggetto attraente che dà la sensazione piacevole. L’attaccamento intensificandosi diventa volontà ad afferrare, appropriazione, bramosia, avidità, (nono anello).

Ogni azione è condizionata da questa sete: si impiega la giornata in ufficio per poter possedere ciò che piace, si passeggia per lo stesso motivo, anche le azioni apparentemente positive sono corrotte da questo intento. Perché si è costantemente stanchi? Perché il continuo processo di afferrare, di appropriarsi, è inesauribile, faticoso, richiede sempre maggiore energia. La bramosia è classificata in quattro tipi. Il primo è la bramosia della visione: “afferro il mio modo di pensare di vedere perché questo mi gratifica, è piacevole; afferro questa filosofia perché è buona e mi procura felicità” Ma l’afferrare una visione della vita, per quanto buona possa essere, è negativo. Anche l’attaccamento al Buddha, al Cristo, al Dalai Lama, o allo stesso Dio, è un afferrare e come tale negativo, si trasforma in mente fanatica e il fanatismo è l’opposto della liberazione, non porta al Nirvana, è causa di Samsara. L’attaccamento alla filosofia, all’etica, a un codice morale, allo sforzo, alla sofferenza, all’io o sé, è un errore nella sua stessa essenza. Non è l’oggetto dell’attaccamento in discussione, l’oggetto può essere il più puro e sacro, può essere buono o cattivo, questo è assolutamente ininfluente, l’errore è nell’attaccamento in sé, nella bramosia. In questa sala siamo circondati da Tanka e statue molto belle, sono oggetti sacri ma sarebbe sbagliato esserne attaccati. A meno che non si sia già particolarmente avanzati nel cammino di liberazione dall’attaccamento è meglio non possedere troppi oggetti preziosi. Quando ero in monastero in India preferivo adornare la stanza solo con fotografie, era un modo per evitare questa trappola. Anni fa, sempre in India, durante un viaggio acquistai una statua del Buddha che, come tutte le statue tibetane, necessitava di ricevere una lunga preparazione, doveva essere riempita, consacrata, dipinta, però non me ne preoccupai e misi la statua sull’altare così com’era. Tempo dopo, monaci di passaggio esperti nella preparazione delle statue durante una cerimonia fecero tutto il lavoro. Ciò che doveva avvenire è avvenuto nel momento giusto, naturalmente, senza forzature e affanno. Bisogna lasciare che le cose accadano come e quando devono, senza caricarsi di emozioni negative quali ansia e frustrazione perché le cose non vanno come avremmo voluto. La liberazione dall’attaccamento comporta una grande gioia. Ora quella statua è rimasta in quel monastero, forse nella stessa stanza e forse no, non ha nessuna importanza, d’altronde il Buddha non è mio o tuo, è di tutti. L’attaccamento al Buddha, al Cristo o a Dio è l’afferrare peggiore, il più pericoloso per tutti, anche per i principianti. Non vi sto dando delle regole ma, insieme, stiamo analizzando il testo nel tentativo di comprenderne ogni importante aspetto. Tutta la nostra vita è un contatto da cui scaturiscono le sensazioni che determinano l’attaccamento il quale, a sua volta, diviene bramosia articolata nelle quattro tipologie che sono causa di Samsara in cui si svolge tutta la nostra esistenza e che saranno determinanti nella definizione della prossima rinascita, del prossimo ciclo samsarico.

Il decimo anello è il divenire, l’esistere dovuto all’afferrare che causa i cinque aggregati. Il divenire è il livello del karma che entra in maturazione a causa dell’attaccamento e della bramosia. Il secondo anello è l’azione che pianta il seme karmico, il decimo anello è quel seme che, fertilizzato da attaccamento e bramosia, matura in quel karma. Quindi, l’aspetto che germoglia dal secondo anello è il divenire (decimo anello) che porta alla rinascita, (undicesimo anello). Il karma maturato dal quarto anello, Nome e Forma, determina il tipo di rinascita. Poiché dalla nascita derivano necessariamente morte e vecchiaia si ha il dodicesimo anello. Ho sintetizzato una possibile spiegazione, di base, della dinamica dei dodici anelli, ma se ne possono dare altre osservate da più angolature e approfondite. Proseguiamo con la lettura del testo: “Essendoci l’appropriazione entra in funzione per l’appropriatore l’esistenza, infatti se fosse esente da appropriazione si libererebbe e non ci sarebbe esistenza. L’esistenza è costituita dai cinque aggregati. Dall’esistenza procede la nascita. Vecchiezza, morte, dolore, tristezza, lamentazioni, afflizioni, tormenti, tutto questo proviene dalla nascita. In tal modo nasce quest’unica massa di dolore. L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici di trasformazione. L’ignorante dunque, è l’agente, non il saggio che vede la realtà. La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti. L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata. L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri in azione. Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.” E’ di immenso beneficio studiare questo argomento comparando il testo di Nagarjuna, al 26° capitolo della “Madhiamaka Karika” con il Sutra originale del Buddha, il “Paticcasamuppada Sutra”. Se la radice del samsara è nel secondo anello, delle formazioni karmiche, il saggio non produce azioni karmiche perché ne osserva l’interdipendenza. La distinzione tra saggio e ignorante indica proprio questa capacità di vedere, o meno, il sorgere dipendente dei fenomeni, l’interdipendenza. Il saggio che ha una chiara idea di come si costruisce il samsara attraverso i dodici anelli, ha anche una chiara visione di come esso possa cessare, sempre attraverso i dodici anelli, semplicemente invertendone i fattori:

1. 2. 3. 4.

meditare sull’interdipendenza porta alla cessazione dell’ignoranza; col cessare dell’ignoranza cessano le formazioni karmiche; col cessare delle formazioni karmiche cessa la coscienza determinata da esse; cessando la coscienza determinata dalle formazioni karmiche cessano nome e forma, gli aggregati; 5. cessando gli aggregati cessano le percezioni basate sugli stessi; 6. cessando le percezioni cessa il contatto; 7. cessando il contatto cessa la sensazione; 8. cessando la sensazione cessa l’attaccamento; 9. cessando l’attaccamento cessa l’afferrare, la bramosia; 10. cessando la bramosia cessa il divenire, il maturare delle cause irrigate da bramosia e attaccamento; 11. cessando il divenire, l’entrare in esistenza sulla base del karma, cessa la rinascita; 12. cessando la rinascita cessano vecchiaia e morte e quindi tutte le sofferenze del samsara. Questi sono i due possibili movimenti dei dodici anelli dell’interdipendenza, quello del sorgere del Samsara e quello del suo cessare, ed è opportuno meditare su entrambi perché seguendo questo metodo analitico si ottiene una visione chiara del significato di interdipendenza. Il testo di Nagarjuna continua: “La formazione karmica è l’origine del Samsara. Vedendo questo, il Saggio, non produce karma, poiché il saggio riconosce la realtà dell’origine dipendente e la realtà della Vacuità”. La causa della cessazione dell’ignoranza è la comprensione dell’interdipendenza. Con il cessare dell’ignoranza cessa la formazione karmica”. Meditare sull’origine interdipendente causa la cessazione dell’ignoranza. Perciò arrestato l’uno si arresta l’atro. Gli ultimi due versi: “La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti: L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata.” Di questi versi si hanno trascrizioni diverse tra loro, proviamo a rileggerli dall’inizio comparando il testo tibetano con la traduzione dal sanscrito e la trascrizione in italiano: 1)

A causa dell’oscurità dell’ignoranza, si compiono i tre tipi di azioni che depongono le impronte karmiche nella mente che determinano le future rinascite.

1)

A causa dell’oscurità dell’ignoranza si causano le vite future. Attraverso il coltivare le tre differenti azioni karmiche si procede verso il destino appropriato.

1)

In vista della rinascita, l’essere offuscato di nescienza effettua dei coefficienti di tre specie e per mezzo di questi atti va verso il suo destino.

2)

Le impronte karmiche determinano la trasmigrazione della coscienza che, trovata la sua destinazione, sviluppa nome e forma.

2)

La coscienza condizionata dall’azione karmica entrerà in differenti reami. Entrata la coscienza, si sviluppano nome e forma.

2)

la coscienza condizionata da questi coefficienti penetra in questo destino e, penetrata la coscienza, si infonde nome e forma.

3)

Quando nome e forma si sono sviluppati emergono i sei sensi. Sulla base dei sensi avviene il contatto.

3)

Da nome e forma vengono in esistenza le sei sorgenti dei sensi. Dalle sei sorgenti sorge il contatto.

3)

Infusi nome e forma si producono i sei domini della coscienza. Apparsi i sei domini entra in azione il contatto.

4)

Come la vista sorge in dipendenza dell’occhio, della forma e dell’attenzione, così la coscienza sorge in dipendenza di nome e forma.

5)

Il raggruppamento di occhio, forma e coscienza è il contatto. Dal contatto sorge la sensazione.

4) e 5) Il contatto sorge da nome e forma e consapevolezza, pertanto in dipendenza da nome e forma c’è sorgere di coscienza. Dal raggruppamento dei tre: nome, forma e coscienza, avviene il contatto. Dal contatto viene in esistenza la sensazione. 4) e 5) L’occhio entra in azione condizionato da nome e forma, e, nome e forma sono condizionati dalla coscienza. Il contatto è appunto il frutto del concorso della triade forma - coscienza e occhio. In seguito al contatto entra in azione la sensazione affettiva. 6)

Dalla sensazione nasce il desiderio. Dal desiderio sorge l’afferrare nei suoi quattro aspetti: oggetti dei sensi, visione, moralità, idea del sé.

6)

Condizionata dalla sensazione affettiva, la sete; e infatti uno ha sete perché avido di sensazioni affettive. L’assetato si appropria delle quattro appropriazioni.

7)

Dall’afferrare sorge il divenire dell’afferrante. Senza l’afferrare non c’è il divenire. Con la realizzazione del non afferrare si ottiene la liberazione. Di conseguenza non c’è divenire, entrare nell’esistenza.

7)

Essendoci l’appropriazione, entra in funzione, per l’appropriatore, l’esistenza. Infatti, se fosse esente di appropriazione, si libererebbe e non ci sarebbe esistenza.

8)

Entrare nell’esistenza è la formazione dei cinque aggregati. Entrare nell’esistenza è nascere.

9)

A causa della nascita ci sono vecchiaia, morte, tormenti, lamenti e pene, infelicità ansietà. A causa della nascita si è sempre in uno stato di continua sofferenza.

8) - 9) L’esistenza è costituita dai cinque aggregati. Dall’esistenza procede la nascita. Vecchiezza, morte, dolore tristezza, lamentazioni, afflizioni, tormenti, tutto questo proviene dalla nascita. In tal modo nasce quest’unica massa dolore. 10) L’azione è la radice dell’esistenza ciclica. Per questo il saggio non crea impronte karmiche. Gli sciocchi, invece al contrario del saggio, che vede la realtà, creano impronte karmiche. 10)

L’ignorante perciò, non altri, coeffettua i coefficienti, radici della trasmigrazione. L’ignorante, dunque è l’agente, non il saggio, che vede la realtà.

11)

Con il cessare dell’ignoranza anche a produzione delle impronte karmiche cessa. La cessazione dell’ignoranza avviene per mezzo della meditazione della saggezza.

11)

La nescienza arrestata, più non nascono i coefficienti. L’arresto della nescienza si verifica grazie alla creazione mentale della coproduzione condizionata.

12)

Cessando il precedente, il successivo non accade. Allo steso modo cessa tutta la sofferenza.

12)

L’arresto di ogni fattore precedente impedisce che il fattore conseguente entri in azione. Quest’unica massa di dolore viene così correttamente arrestata.

Sarebbe un buon lavoro per tutto il gruppo confrontare le diverse traduzioni e del testo di Mulakarika, cercandone il significato profondo da esprimere in modo comprensibile nel linguaggio più conforme all’era moderna. Domanda: Le impronte karmiche prodotte prima di diventare saggi, entrano ugualmente in maturazione, oppure no?

Lama:

Il saggio è colui che ha acquisito la conoscenza dell’origine interdipendente, ma non necessariamente è già l’Essere nobile, l’Arya, ha solo compreso la giusta direzione.

Domanda...Quindi le sue impronte karmiche continuano a maturare? Lama:

Poiché il saggio non ha attaccamento e bramosia, il karma precedente non può maturare, il processo si blocca naturalmente.

Non-Dualismo E’ importante ricordare che l’origine dipendente, o originazione interdipendente, significa che le cose sorgono in virtù di cause e condizioni. Niente sorge senza causa, niente sorge con cause permanenti, niente sorge al di fuori della corrispondenza con la propria causa. Qualsiasi accadimento, qualsiasi aspirazione sorge da una causa, una causa impermanente, una causa che gli corrisponde. E’ importante studiare analiticamente e comprendere bene l’origine interdipendente, ma non è assolutamente sufficiente rimanere a questo livello, è necessario che essa venga calata nel quotidiano, in ogni esperienza, in ogni emozione. Come nascono le emozioni? da dove vengono? come dobbiamo affrontarle? La risposta e la soluzione è una: conoscere l’origine interdipendente. La conoscenza dell’interdipendenza è la liberazione, o cessazione delle fabbricazioni mentali, il raggiungere la pace. Realizzando la conoscenza dell’interdipendenza si ha una chiara visione della esistenza non dualistica, si supera ogni concetto discriminante, bello - brutto, buono cattivo, piacevole - spiacevole. L’atteggiamento ignorante che induce a discriminare ogni esperienza è causa del sorgere di attaccamento, bramosia o avversione. Nella chiara visione non dualistica si osservano i fenomeni nella loro natura, senza discriminazione, a livello ultimo. Ma la visione dei fenomeni a livello ultimo è resa possibile solo dalla piena comprensione del loro livello relativo, l’interdipendenza. Attraverso la comprensione dell’interdipendenza si giunge alla visione della realtà ultima: la Vacuità. La visione della realtà ultima conferma, o afferma, la realtà relativa. Quindi, non-dualismo significa avere la visione delle due verità. Questa è la quintessenza dell’insegnamento del Buddha ed è la quintessenza dell’insegnamento del Dharma. Con la visione non-duale è automatico e naturale sviluppare la compassione verso tutti gli esseri viventi. Non esistendo più una reale differenza tra chi si tende ad amare e chi a non amare, c’è equanimità. Dall’interdipendenza e dalla Vacuità scaturisce naturalmente l’equanimità verso tutti gli esseri. L’equanimità è fondamentale allo sviluppo della compassione. Non si può avere compassione verso gli esseri se non c’è equanimità. Per questa ragione la comprensione dell’origine interdipendente è ciò che principalmente i praticanti Buddhisti devono realizzare. Abbiamo visto in questi giorni come i dodici anelli dell’origine interdipendente creino il Samara e come dipendano uno dall’altro. Dall’ignoranza di causa effetto, a catena, si costruisce il Samara e, in modo inverso, dall’estinzione dell’ignoranza se ne ha la cessazione. Abbiamo constatato come dall’ignoranza, a catena, si creino le formazioni karmiche, che a loro volta producono la coscienza, e così via, quindi l’ignoranza è il punto cardine di tutto il processo.

Un’altra forma di ignoranza, descritta nell’ultimo verso, è l’ignoranza che afferma il sé, cioè l’ignoranza riguardo l’io. L’analisi di questi elementi è il bersaglio principale della teoria e della pratica buddhista. Qualsiasi cosa stiamo facendo, meditando, pregando e presentando offerte all’altare, dobbiamo sempre avere ben chiara la visione dell’ignoranza e delle sue conseguenze; se bruciamo incenso poniamoci l’obiettivo di bruciare l’ignoranza, se accendiamo lumini di illuminare la saggezza eliminando l’oscurità dell’ignoranza, se recitiamo un mantra siamo consapevoli, ad ogni sillaba, di voler eliminare l’ignoranza che afferra il sé. Tutte le altre forme di devozione, pregare una particolare divinità per ottenere ricchezze, salute, fortuna, sono secondarie, anzi possono trasformarsi in superstizioni ed essere negative. Quando si volge la pratica per contrastare l’ignoranza che afferra il sé, tutto il resto viene di conseguenza, la compassione, l’equanimità, la Vacuità e ogni evento succede perché così deve essere senza dovercene preoccupare. Anche i Bodhisattva che hanno un forte desiderio di rinascere per il bene di tutti gli esseri, molto difficilmente potranno realizzarlo, perché sono privi di attaccamento, non hanno bramosia, non maturano più le cause della creazione del Samara. Contrastare l’ignoranza non vuol dire sacrificarsi, martirizzarsi nella mortificazione dell’io, sopportare a denti stretti le pene degli altri, quasi dovessimo fare esercizi di altruismo, no, nulla di tanto eclatante, è semplicemente lo sviluppo consapevole della saggezza del non sé. Una persona non è uno dei cinque elementi, non è acqua e nemmeno terra, fuoco, aria o spazio, ma non è nemmeno coscienza, non è nessuno di questi ma l’insieme di tutti. Cos’è l’IO? Non è gli elementi, ma non è nemmeno separato da essi, è l’incontro di tutti gli elementi che formano l’io, così come batacchio, campana e mano, incontrandosi contemporaneamente producono il suono. Ciò significa che l’io è qualcosa di diverso da ciò che noi generalmente afferriamo e concretizziamo. Questi sono i diversi modi di analizzare un fenomeno: da un lato c’è quello che noi usualmente crediamo essere l’io, e dall’altro le diverse componenti che troviamo nell’analisi. C’è differenza. Ciò non significa che l’io non esista, significa piuttosto che l’io è diverso da quello che usualmente crediamo sia, ecco un buon oggetto di meditazione, lasciar andare, non afferrare, lasciar andare…..riconoscere l’io vero è vedere il non-io. Quindi, non abbandonare l’io, ma nemmeno afferrarlo. Senza abbandonare, senza afferrare, ecco la via di mezzo. Il non-io è la verità ultima del vero io. Con queste riflessioni concludiamo l’incontro, grazie.

Terza Parte

“Il CANTO DELLE QUATTRO CONSAPEVOLEZZE” del SETTIMO DALAI LAMA

30 novembre - 1 dicembre 2002

Sviluppare la Motivazione Apriamo l’incontro con le preghiere di “Rifugio e Generazione della Motivazione del Risveglio” e delle “Quattro Aspirazioni Incommensurabili”, o “Quattro Pensieri Illimitati”. Come voi ben sapete ogni pratica inizia sempre con le preghiere del Rifugio nei tre Gioielli e della Generazione della Mente Altruistica che genera i pensieri illimitati, senza confini. Sono preghiere brevi ma ricchissime di significato. Prendere rifugio nei tre Gioielli significa affidarsi al Buddha, al Dharma e al Sangha nella visione profonda. Il Buddha rappresenta la persona illuminata, ma non si riferisce all’aspetto fisico né ad uno specifico individuo, bensì a tutti coloro che hanno realizzato l’illuminazione. In questo senso il Buddha può trovarsi ovunque, tra i cristiani, tra i musulmani, tra gli induisti, tra gli ebrei, può esistere in qualsiasi contesto culturale e in qualsiasi Paese. E’ molto importante avere piena consapevolezza che il Buddha non è una persona, ma è uno stato dell’essere e come tale può essere ovunque, realizzato da tutti, non occorre essere Buddhisti per diventare un Buddha. Anche il Dharma è lo stato di realizzazione presente nella mente illuminata. Se, quando si dice Buddha, convenzionalmente ci si riferisce a una persona, il Dharma invece è la realizzazione, la comprensione illuminata, presente nella mente di quell’individuo. Per Sangha si intende l’insieme dei seguaci dell’insegnamento del Buddha, l’assemblea di coloro che ne praticano la dottrina. Però riferendosi al Buddha, individuo illuminato, il Buddha stesso rappresenta il più alto livello del Sangha, per cui è necessario riprendere il concetto di Buddha, Dharma e Sangha in una visione più profonda: Se il Buddha come persona è la più alta espressione del Sangha, e il Dharma è la realizzazione, la comprensione ultima nella mente di un illuminato, allora, il Buddha chi è? In base a questo metodo di osservazione il Buddha diviene un concetto molto sottile che, tradotto in linguaggio occidentale, potrebbe essere: “lo stato di illuminazione”. Lo stato di illuminazione non è una realizzazione, non è uno stato cosciente e non è nemmeno riferito ad una persona fisica, che cosa intendiamo dunque dicendo Buddha? Potremmo suggerire: “la Purezza della Natura della Mente”. La purezza che deriva dall’aver ripulito tutta la negatività e che presenta due aspetti importanti: 1. la purezza della natura della mente; 2. la purezza risultante dall’aver purificato le negatività.

Prendiamo come esempio l’acqua: se volessimo bere dell’acqua, che però è inquinata, dovremmo prima procedere, fase dopo fase, alla sua purificazione, in questo modo l’acqua così ottenuta presenta due tipi di purezza: 1.

La natura della purezza dell’acqua stessa;

2.

La purezza derivante dal processo di purificazione che ha determinato l’eliminazione di tutte le contaminazioni presenti nell’acqua.

Poiché noi siamo ad un livello ordinario la nostra mente è come l’acqua inquinata, e ottiene lo stato di illuminazione tramite il procedimento della sua purificazione. Raggiungere lo stato individuale di illuminazione significa che, presane coscienza, si attua la negazione della contaminazione, dell’inquinamento della mente, rimanendo nello stato di purezza naturale della mente stessa. In una sola natura esistono due aspetti distinti: 1. uno è relativo alla cessazione delle negatività che non possono più tornare in quanto definitivamente e totalmente eliminate; 2.

il secondo concerne invece la “Vacuità” e si riferisce alla natura ultima della mente. In questo contesto la Vacuità non è da intendersi nel suo aspetto più generale, ma è specificamente la Vacuità della mente illuminata.

L’illuminazione è costituita da questi due aspetti: della Cessazione e della Vacuità. Lo stato dell’illuminazione è “ESSERE BUDDHA”. Quindi, BUDDHA, DHARMA e SANGHA, sono un concetto fondamentale da assimilare nell’essenza più profonda e completa. Nel linguaggio ordinario per Buddha, convenzionalmente si intende una persona realmente esistita, una persona fisica; per Dharma l’insieme delle scritture tramandate; per Sangha l’assemblea di coloro che studiano e praticano la dottrina contenuta questi stessi testi., un modo di osservazione innegabile e oggettivamente corretto, che però rappresenta solo l’aspetto più evidente e superficiale, è dunque indispensabile andare oltre e comprenderne il vero significato, l’essenza profonda e reale. Con la visione completa dell’essenza di Buddha, Dharma e Sangha si prende rifugio consapevole nei tre Gioielli, non in qualcosa di esterno, non in una persona fisica, ma nella stessa completa visione di illuminazione, l’obiettivo finale. Prendere rifugio significa volgersi all’obiettivo ultimo e attraverso la pratica purificare la propria mente, significa avere un’assoluta determinazione e forza perché, in assenza di tali attitudini, non si potrà raggiungere lo scopo. Ma cosa può darci la necessaria forza, determinazione e volontà? Soltanto la Bodhicitta, il pensiero altruistico citato nel secondo verso. Senza Bodhicitta non si ha la giusta motivazione per proseguire verso l’illuminazione.

E’ quindi ovvio che alla preghiera di “Presa di Rifugio” seguano le quattro aspirazioni incommensurabili, o pensieri illimitati, che, avendo realizzato il proprio scopo, esprimono la naturale conseguente realtà di essere beneficio a tutti gli esseri senzienti. Essere nei quattro pensieri illimitati ci permette di immaginare e sperimentare gli effetti dello stato ultimo lo stato dell’illuminazione, ma come può verificarsi questa esperienza? Avendo preso rifugio e generato la motivazione del risveglio immaginiamo di aver già realizzato lo stato del risveglio e ne visualizziamo i risultati, cioè che tutti gli esseri senzienti abbiano la felicità e le cause della felicità. Questa visualizzazione produce una immensa gioia, un’infinita felicità ed evidenzia i possibili risultati della pratica, le conferisce il senso compiuto. Da tale pratica scaturisce un’energia fortemente positiva che è un grande merito. Con simile visualizzazione sperimentiamo un’intensa gioia, come se stessimo sognando una realtà bellissima, ma poi ci svegliamo e ci accorgiamo che la situazione che ci circonda è ben diversa, c’è tanta sofferenza, ed è appunto questo il momento in cui iniziare la pratica vera, lo studio, l’approfondimento, la meditazione, le azioni. Questo è l’atteggiamento corretto per intraprendere ogni pratica meditativa, prima è necessario focalizzare l’obiettivo e poi attivare le condizioni per la sua realizzazione. Se il nostro scopo è ottenere lo stato di illuminazione, prendendo rifugio nei tre Gioielli, Buddha, Dharma e Sangha, creiamo le condizioni affinché possa realizzarsi e l’unica condizione possibile è lo sviluppo della Bodhicitta, della mente altruistica, il livello superiore di un cuore aperto. Il passaggio successivo è sperimentare sul piano immaginativo gli effetti benefici di un cuore aperto. Queste tre fasi contengono tutta la pratica, ecco perché una preghiera tanto breve ha un significato sconfinato. Anche Sua Santità il Dalai Lama, in occasione del Kalachakra a Graz, ha scherzato su questo punto ricordando come un Lama mongolo si rivolgesse ai tibetani dicendo: “Voi Lama tibetani avete nomi lunghissimi ma poco significato, mentre in passato grandi maestri indiani come Nagarjuna avevano nomi molto corti ma erano ricchissimi di significato”. Recitiamo insieme consapevolmente la preghiera di Presa di Rifugio e Generazione della Motivazione del Risveglio: “Nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha Prendo rifugio fino al risveglio. Per i meriti ottenuti con la pratica della generosità e delle altre virtù Possa io realizzare lo stato di Buddha per il bene di tutti gli esseri.” E la preghiera delle Quattro Aspirazioni Incommensurabili, o quattro pensieri illimitati:

“Possano tutti gli esseri possedere la felicità e la causa della felicità! Possano tutti gli esseri essere separati dalla sofferenza e dalle cause della sofferenza! Possano tutti gli esseri mai lasciare la Santa Felicità, priva di ogni sofferenza! Possano tutti gli esseri risiedere nella Grande Equanimità, priva di ogni inclinazione e di ogni avversione parziale!” Sono parole molto belle, e proviamo piacere nel pronunciarle, ma soprattutto è necessario comprenderle profondamente, penetrare nel loro livello ultimo in cui Buddha, Dharma e Sangha sono, tutti e tre, Buddha. La mente del Buddha è ciò che chiamiamo Dharma, ma è anche Buddha; il Sangha è la persona illuminata e quindi anch’esso è Buddha. Ciò che abbiamo definito Buddha, lo stato di illuminazione, ha due aspetti che sono essi stessi Buddha. Il primo riguarda la cessazione delle negatività, degli ostacoli, delle oscurazioni della mente e il secondo è relativo alla purezza della mente illuminata, entrambi appartengono all’unica natura della Vacuità che è l’espressione di Buddha permanente. Le altre manifestazioni di Buddha, che si riferiscono all’individuo illuminato, alla persona illuminata, sono invece impermanenti. Riassumendo, sono due gli aspetti del Buddha, uno permanente e l’altro impermanente, due qualità che si possono ottenere tramite la purificazione della mente, esse danno chiarezza sul modo di essere della propria mente, sulle reali motivazioni che inducono a ricercare lo stato di illuminazione. Ecco perché il Buddha può essere ovunque e, da questa visuale, possiamo comprendere in che modo la nostra mente ordinaria sia collegata alla mente del Buddha, come la mente ordinaria possa essere trasformata nella mente illuminata, come la Vacuità della mente ordinaria possa diventare la Vacuità della mente illuminata, e la Vacuità della mente illuminata possa diventare Buddha. L’individuo che possiede questa mente può diventare Buddha. Il nostro livello ordinario di esistenza ha le potenzialità del livello di Buddha e assomiglia al livello del Buddha e proprio queste somiglianze rendono possibile l’ottenimento dello stato di essere illuminato. Ecco perché si deve sempre avere la chiara visione e la speranza sull’effettiva possibilità di realizzazione dell’illuminazione. La nostra mente ordinaria è contaminata e, così come non respiriamo e ci muoviamo faticosamente in un ambiente inquinato, abbiamo le stesse difficoltà sul piano mentale e il movimento verso gli obiettivi è gravoso, incontriamo continui ostacoli, troppi limiti che rendono quasi impraticabile il percorso verso la meta desiderata. Ma se purifichiamo l’ambiente, cioè la nostra mente, è come se ci trovassimo in un luogo incontaminato dove ogni frutto può crescere rigoglioso e senza difficoltà.

Le nostre azioni sono limitate dalle contaminazioni mentre le azioni di un Buddha sono completamente libere, pure, non hanno ostacoli e producono frutti spontanei che si estendono in ogni direzione, senza limiti. Non è facile comprendere la mente di un Buddha, ma come con una buona educazione ed istruzione apprendiamo sempre cose nuove in grado di migliorare la qualità della vita perché ogni attività fluisce con minor sforzo, allo stesso modo alimentando la conoscenza e la consapevolezza permettiamo una sempre maggiore purificazione della mente. Purificare non è soltanto pulire, pulire e pulire, ma significa anche coltivare, far crescere conoscenza e saggezza; la sola pulizia, seppur indispensabile, non produce nulla. Purificazione è il processo di pulizia che permette lo sviluppo della conoscenza e della saggezza. Dobbiamo purificare l’acqua eliminando le contaminazioni che la intorpidiscono così da ottenere limpida acqua che possiamo finalmente bere.

La Consapevolezza del Maestro Il canto del settimo Dalai Lama, “Canto delle quattro Consapevolezze” mostra la via della consapevolezza, istruisce sul modo di meditare la via di mezzo, la via della Vacuità, e tratta una per una: 1. La consapevolezza del Guru, del vero Maestro spirituale; 2. La consapevolezza della Compassione; 3. La consapevolezza della Divinità; 4. La consapevolezza della Visione della Vacuità. Il testo, scritto in connessione alla pratica della più alta classe di Vajrayana, insegna come mantenerne la pratica del Vajra nella quotidianità. Nella pratica del Vajra la figura del Maestro spirituale, il Guru, è molto, molto importante e lo è in generale in ogni pratica Buddhista, ma in quella dei Sutra e in particolare delle sei Paramita, le qualità trascendenti, la figura del Guru è fondamentale, ne costituisce la base, la sorgente di ogni qualità spirituale. Nei Sutra il Guru è visto come colui che conferisce i voti del Bodhisattva che prima devono essere spiegati e in un secondo tempo dati. Dare i voti del Bodhisattva a parole sembra relativamente semplice, ma in realtà implica una grande preparazione e responsabilità, sia da parte del Maestro che da parte del discepolo. Il Maestro è la guida spirituale che incoraggia e istruisce il discepolo affinché possa ricercare la Bodhicitta, cioè seguire la pratica del Bodhisattva, lo accompagna nella pratica per la realizzazione delle qualità trascendentali, le sei Paramita. Nei Sutra si descrive anche come il Maestro spirituale debba conferire i voti di Pratimoksa, di liberazione individuale, sia a monaci che a laici, ma in questo caso con modalità inversa alla precedente: i voti sono prima dati e poi spiegati. Queste due modalità differenti nel conferimento dei voti comportano modalità differenti di pratica. Nei Sutra si dice espressamente che il maestro che dà i voti di Pratimoksa deve seguire il discepolo sino alla realizzazione delle loro qualità intrinseche e sino a quando il discepolo non raggiunga l’autonomia nella pratica. Questo approccio si differenzia da quello cristiano in cui il conferimento dei voti comporta assoluta e perpetua obbedienza nei confronti dell’istituzione, non esiste alcuna possibilità di autonomia e di indipendenza. Nel Buddhismo invece il maestro istruisce, guida il discepolo che, a seconda delle proprie capacità, intelligenza e volontà diverrà in un tempo definito, non importa se breve o lungo, autonomo. Il raggiungimento dell’autonomia è fondamentale nel Buddhismo e in questo senso le due tradizioni, cristiana e buddhista, sono molto diverse.

Nei voti di Pratimoksa il Maestro conferisce al discepolo il titolo, la posizione, e continua a seguirlo insegnandogli a sviluppare le capacità corrispondenti. Esiste alla base un riconoscimento, un’accettazione totale e reciproca circa via da seguire. Nel voti di Bodhisattva invece l’autonomia del praticante è immediatamente effettiva perché si presume che, avendo maturato la consapevolezza di volersi impegnare in questo sentiero, sia già responsabile e di conseguenza autonomo. Il Maestro, prendendo atto di tale situazione, non ha altro da fare che conferire i voti. Queste sono due modalità differenti di relazione Maestro - Discepolo. La pratica del Vajra, o Vajrayana è avviata dall’iniziazione, cioè il momento in cui si attiva la relazione Maestro - Discepolo. Alcune pratiche Vajrayana prima dell’iniziazione richiedono semplicemente i voti di Bodhisattva, altre invece, a livello superiore, esigono anche i voti Tantrici. I voti Tantrici devono essere dati senza necessità di spiegazioni, ciò presuppone che al momento del loro conferimento entrambe le condizioni, da parte del Maestro e del discepolo, siano soddisfatte, non vi è bisogno di altro, i voti sono stati dati e accolti così come sono, e significa che sia maestro che discepolo sono pienamente qualificati per dare e ricevere questi voti. La qualificazione richiesta a un maestro e a un discepolo Vajra è molto complessa ed esige caratteristiche ben definite. In entrambi i voti, di Bodhisattva e di Pratimoksa, è necessario che il maestro e il discepolo siano qualificati e posseggano le caratteristiche specifiche per ognuna delle pratiche. Non è così semplice dare e ottenere i voti e la spiegazione delle qualificazioni è complessa, difficile e di non facile ascolto, dunque non approfondiremo ulteriormente l’argomento. E’ però importante comprendere come i tre livelli di pratica di cui abbiamo parlato siano strettamente correlati tra di loro, interdipendenti, sono l’uno il fondamento dell’altro: la pratica di Pratimoksa (liberazione individuale) come fondamento, base o condizione per la pratica del sentieri di Bodhisattva e la pratica di Bodhisattva come fondamento, base o condizione per la pratica del Tantra. Abbiamo visto qual’è nella pratica, la funzione del Guru, o Lama, o Maestro spirituale esteriore che, comunque lo si chiami è sempre il Maestro convenzionale, ma dov’è il Maestro ultimo? Risposta: In noi stessi. Esatto, il Lama è il Maestro esteriore, ma il Maestro ultimo è la propria Mente, la propria realizzazione. Il Buddha stesso ha detto: “Voi siete il Maestro di voi stessi”, il Buddha non ha mai detto io sono il Maestro, io sono il vostro Maestro, ma: “Voi siete il vostro vero Maestro”. Quindi riferendosi al Lama non bisogna mai scordare questa riflessione, si deve mantenere sempre la consapevolezza del Maestro interiore, non considerare il Lama

come altro da sé, magari vissuto duemila o duemilacinquecento anni fa e adesso assente. Il vero Maestro è qui e ora, è la nostra Mente. Anche Sua Santità il Dalai Lama, di fronte alle forme di devozione un po’ sciocca che spesso i tibetani assumono nei suoi confronti, ha un atteggiamento molto pratico, staccato e non si stanca di ripetere: “pregate voi stessi, fate offerte a voi stessi, pregate affinché voi stessi godiate di buona salute e otteniate una lunga vita, pregate voi stessi per sviluppare le qualità necessarie alla realizzazione dell’illuminazione, non pregate qualcun altro al di fuori di voi.” I tibetani hanno l’abitudine di chiedere continuamente ai Lama benedizioni, ma il Dalai Lama non incoraggia quest’attitudine e ribadisce continuamente: “Non è il Lama che benedice, siete voi stessi che potete benedirvi, la vera benedizione viene dalla propria interiorità, non dall’esterno”. I primi versi del canto del VII° Dalai Lama insistono appunto sulla necessità di mantenere costantemente la consapevolezza del Maestro spirituale: “Sull’immutabile cuscino Dell’Unione di metodo e saggezza, Siede il Maestro gentile, L’incarnazione di tutti i rifugi, un Buddha che ha completato l’abbandono e la realizzazione. Avendo abbandonato ogni concezione errata. Pregalo con concezione pura. Non lasciando divagare la tua mente , Poni in esso fede e rispetto, con consapevolezza.” Metodo e Saggezza sono un’immutabile e inscindibile unione in cui il Metodo è la Compassione e la Saggezza è la Visione della Vacuità. Coltivando la Compassione cresce la Saggezza e coltivando la Saggezza cresce la compassione. Questi due aspetti inseparabili raggiungono la perfetta unione quando si ottiene la compassione ultima e la visione della saggezza ultima. L’unione di metodo e saggezza è la qualità essenziale del maestro spirituale e, in questo contesto, del Maestro Vajrayana. Il metodo si attua nella ricerca di un Beneficio. Generalmente riferendoci ad un beneficio pensiamo a qualcosa di temporaneo, di immediato, come ad esempio un piacere sensuale, ma il metodo si riferisce invece al Beneficio durevole, definitivo, permanente per se stessi e per gli altri, in grado di realizzare la liberazione dal terzo livello di Dukkha, della sofferenza pervasiva di cui è permeato l’intero Samsara, il livello più difficile da riconoscere, da comprendere e da eliminare. La “sofferenza pervasiva” non proviene dall’esterno, non è determinata da eventi particolari, dall’ambiente, dagli amici, da nulla; tutto apparentemente può essere ottimale, perfetto, eppure essa esiste, è ben radicata, è semplicemente una condizione

della mente samsarica, è una sofferenza presente in ogni istante della nostra via, che ne siamo consci o meno e non sempre si manifesta in modo evidente. I livelli si sofferenza palesi sono rappresentati dalla “sofferenza della sofferenza” e dalla “sofferenza del cambiamento”. La sofferenza della sofferenza è indubbiamente la più eclatante, ne sentiamo concretamente tutto il peso, quando ci troviamo in condizioni sfavorevoli, siamo malati, abbiamo fame e sete, subito lutti e perdite…. La sofferenza del cambiamento è già più sottile, non immediatamente visibile, mascherata da un’apparente ed effimera sensazione di piacere, (alcool , droghe…). In genere la nostra vita oscilla tra la sofferenza della sofferenza e la sofferenza del cambiamento, spesso usiamo la seconda nel tentativo di sfuggire alla prima e impegniamo ogni energia in queste battaglie, ma non riconosciamo mai la sofferenza pervasiva costantemente presente nella nostra vita. Spendendo tutte le nostre forze divincolandoci in queste oscillazioni non siamo nel Dharma, ma totalmente immersi nel Samsara e alimentiamo senza sosta lo stato di sofferenza. Se ad esempio, ricercando il piacere, ci tuffiamo nelle droghe, nel fumo, nell’assunzione smodata di cibo o di alcool, in base al meccanismo di causa effetto non otteniamo altro che ulteriore sofferenza: ad un effimero piacere momentaneo, segue un danno che produce sofferenza ancora più grave. Queste illusioni accrescono la confusione mentale che ci ottenebra. Un oggetto della pratica del Dharma è il terzo livello di sofferenza, quello non evidente, non apparente, nascosto, perché è la fonte, l’origine, degli altri due. Poiché a causa del terzo livello di sofferenza si sprofonda negli altri due, è necessario concentrarsi sulla sua eliminazione. Il modo corretto per praticare il Dharma consiste nell’impegnarsi nell’eliminazione del terzo livello di sofferenza, osservarlo, comprenderlo sradicarlo. Eliminando la sofferenza pervasiva saranno eliminati anche gli altri tipi di sofferenza. Nella nostra società è difficile comprendere pienamente il valore di questa pratica e spesso ci si accosta ad essa in modo improprio, limitato, ad esempio si usa la meditazione per alleviare un mal di testa e, anche se non vi è nulla di male, è sicuramente un utilizzo riduttivo e parziale delle potenzialità del Dharma, non è pratica del Dharma. Praticare il Dharma è andare alla radice della sofferenza ed estirparla. Analizziamo come si presenta nella vita quotidiana, nella nostra mente, nel nostro cuore, il terzo livello di sofferenza, la sofferenza pervasiva. E’ lo stato di insoddisfazione, di vuoto, che tutto pervade. Qualsiasi cosa facciamo, questo sottile e desolante senso di nullità rimane; sia che stiamo qui o andiamo nei paesi più belli del mondo, anche se visitiamo il paradiso o l’inferno, nulla cambia, quel senso di vuoto permane immutato, pervade tutto il nostro essere, è una presenza costante, è l’esperienza della sofferenza pervasiva che penetra ogni esperienza trasformandola

inevitabilmente in sofferenza. E’ necessario trovare un metodo per uscire da questo circolo vizioso e nel buddhismo l’abile mezzo è il Dharma. Con il corretto sviluppo del procedimento del Dharma tutto diviene perfetto, persino un forte mal di testa non potrebbe mutarne la perfezione, è scritto nei testi buddhisti che anche il momento della morte è un momento perfetto. E’ però fondamentale mantenere sempre viva l’attenzione per conservare la purezza della pratica, senza lasciarsi mai travolgere da ingannevoli trappole quali ad esempio la paura. Tutte le religioni, nella brama di poter contare il maggior numero di proseliti, hanno sempre fatto leva su questo sentimento, i cristiani spaventando con inferni terrificanti di dannazione eterna e i buddhisti con spaventose visioni della morte. Il meccanismo è esattamente lo stesso ed è altrettanto sbagliato, la paura non può in nessun caso generare una pratica pura, vera. E’ necessario saper cogliere l’essenza degli insegnamenti superando la limitatezza delle terminologie e dei metodi di controllo utilizzati. E’ importante saper distinguere la realtà e liberarsi da vecchie sovrastrutture oggi assolutamente inadeguate. Alcune visualizzazioni che avevano una precisa ragione d’essere nell’antico Buddhismo tibetano, se trasposte nell’attuale contesto occidentale potrebbero essere fuorvianti e controproducenti. Il Buddhismo è approdato in occidente e in Italia e qui deve trasformarsi in potenzialità fresca e nuova per la realizzazione dell’illuminazione nel rispetto della cultura e delle tradizioni italiane. Voi dovete lasciare che il buddhismo venga praticato in Asia secondo la cultura e le tradizioni di quelle popolazioni, qui la cultura e le tradizioni sono altre ed è fondamentale rispettarle. La società moderna deve tener conto delle scoperte scientifiche, della tecnologia, delle radici culturali, religiose e filosofiche di cui è permeata e soltanto in un profondo rispetto di tutto questo il Buddhismo potrà davvero dare frutti in occidente. Pensate per assurdo cosa succederebbe se tutti rimanessimo fermamente arroccati in vecchie posizioni statiche, motivati essenzialmente dalla paura. In Italia il cattolicesimo è molto forte e se si volesse imporre in questo paese il Buddhismo, giapponese o tibetano, o qualsiasi altra religione e ognuna di queste, ritenendo il propria tradizione unica, perfetta e immutabile, pretendesse di imporla a tutti senza alcun rispetto per il contesto locale, ne nascerebbe un conflitto fomentato da integralismi e intolleranze che nulla spartiscono con la spiritualità e la filosofia di qualsiasi religione. La guerra ovviamente non è lo scopo del Dharma, il Dharma è liberazione dalla sofferenza, quindi attenti alle trappole, purificatevi da ogni condizionamento prima di dedicarvi alla pratica. Il Dharma agisce sul livello fondamentale della sofferenza, non sui contrattempi o sulle disavventure quotidiane, vuole eliminare la sofferenza pervasiva che è la sorgente continua dell’insoddisfazione permanente e profonda che ci accompagna ininterrottamente. Soltanto il Dharma può superare questo dolore costante e far si che anche la morte non sia più un problema in quanto naturale passaggio, ma senza il

Dharma l’insoddisfazione profonda renderà il momento della morte disperante e continuerà ad esistere anche dopo la morte stessa. Il passaggio nella morte è un momento di grande rivelazione. Per questo che prima si è scherzato sui mezzi usati dalle istituzioni religiose per impaurire le persone e convincerle a convertirsi, l’inferno e la morte sono due argomenti sempre vincenti nella manipolazione delle coscienze. Ma, se osservati nell’ottica del Dharma, sono assolutamente inutili perché nel Dharma tutto è perfetto, morire è naturale, visitare gli inferi non è un problema, visitare il Paradiso non è speciale. Se si pratica il Dharma profondo nulla è un problema e nulla è speciale, il Dharma supera e sconfigge il livello pervasivo della sofferenza, la sorgente di tutte le sofferenze. Ogni qualvolta si cerchi di coltivare la compassione, si rivolgano preghiere per il bene del mondo, si alimenti il pensiero amorevole affinché possa non più esistere la sofferenza, ogni qualvolta si pratichi nella comprensione del livello pervasivo della sofferenza, consapevoli che il significato della preghiera ultima è la compassione ultima, allora si pratica il vero Dharma e si ottiene il superamento della sofferenza pervasiva che permette l’eliminazione della sofferenza del cambiamento e della sofferenza della sofferenza. Se ne siamo consapevoli possiamo vedere come tutti gli esseri viventi siano ugualmente impregnati di sofferenza pervasiva, siano legati, imprigionati nella stessa condizione, senza differenze e anche se appaiono alcune diversificazioni sono sempre temporanee e non sono significative, la sostanza è la comune condizione di schiavitù in questa sofferenza. A volte cadiamo in percezioni illusorie veramente buffe, ad esempio in TV si sente spesso appellare il presidente degli USA, “l’uomo più potente del mondo”, ma allora chi è il meno potente? In politica come nella vita ordinaria si costruiscono continue differenziazioni, ma sono solo illusioni; dal punto di vista della sofferenza pervasiva non vi è alcuna distinzione, e così si pratica il Dharma. E’ difficile chiarire la nozione della sofferenza pervasiva ma ognuno ne ha esperienza diretta, voi come la definireste? Risposta: Per me è abbastanza evidente, quando mi rendo conto che ho tutto, non mi manca niente, ho lavoro, casa, affetti, però ugualmente sento in me insoddisfazione e mi chiedo che cos’è questa insoddisfazione, credo si tratti proprio della sofferenza pervasiva. Lama:

e che nome date a questo?

Risposta: Leopardi la chiama “tedio”. Risposta: forse sarebbe meglio dire tedio esistenziale. Risposta: A me sembra che nel momento in cui non abbiamo la pienezza della mente cadiamo automaticamente nell’insoddisfazione profonda. Lama: Cosa intendi per “pienezza della mente”, c’è nel cristianesimo questo concetto? Risposta: Si, ma si dice “pienezza del cuore”.

Risposta: Pienezza della mente come pienezza dello spirito, consapevolezza del risveglio. Lama:

Illuminazione?

Risposta: Si, perché se una persona non è consapevole di essere illuminato è insoddisfatto. Lama:

Altri?

Risposta: Il senso di insoddisfazione lo avverti quando perdi il senso della vita. Se la tua vita ha significato non percepisci insoddisfazione, anche se vedi tutte le difficoltà di vivere. Il senso della vita è dare il giusto valore alle cose e quindi soltanto essere Bodhisattva, la ricerca continua per diventare Bodhisattva, ti da il senso della vita. Risposta: Il livello più profondo della sofferenza è sapere che uno è legato a filo doppio a tutta una serie di dipendenze, dipendenza dall’altro, dagli affetti, dal lavoro, dalla casa. Sono dipendenze che ci separano dal Dharma e per quanto si sia contenti di tutto ciò che si ha c’è anche la consapevolezza di esserne dipendenti proprio dalle stesse cose, ed è sofferenza. Si è legati a un meccanismo che impedisce di essere liberi. Lama:

Stiamo discutendo a lungo su questo punto perché è difficile da esprimere a parole e ognuno ha il suo linguaggio, ma parlandone possiamo chiarie il concetto.

Risposta: Si è difficile, ma credo che sia stata colta l’essenza del pensiero: quando hai smarrito il senso della vita sei immerso nella sofferenza pervasiva, sei perso. Risposta: Quando ti accorgi di non essere libero e vedi che i legami ti imprigionano inesorabilmente, sperimenti questa sofferenza più profonda. Risposta: Secondo me è singolare l’argomento della dipendenza, ti accorgi che la tua felicità dipende da qualcosa, quindi, se manca quel qualcosa non sei felice. Ma il fatto più interessante è che lo stesso vale per la sofferenza, anche la sofferenza dipende da qualcosa, allora ti accorgi che la tua sofferenza e la tua felicità dipendono da qualcosa di esterno e ti poni la domanda: perché devo dipendere da qualcosa al di fuori? Risposta: E’ allora che puoi trovare il senso della vita. Risposta: Quando ti accorgi che comunque dipendi da qualcosa che è fuori di te individui nella dipendenza il vero problema, che non è evidentemente dato da oggetti esterni, ma chi crea questo collegamento? Lama:

In occidente ho ricevuto una gran quantità di informazioni, avete una mente acuta, intelligente, istruita, e il mio desiderio è che il buddhismo si connetta con le caratteristiche della mente occidentale, che trovi collegamenti aperti e dinamici senza chiudersi in una mente ottusa e retrograda. Il mio desiderio è

che il Buddhismo possa diventare in occidente mobile, spazioso e portare reale beneficio, alleviare la sofferenza di tutti gli esseri, senza fermarsi alla pratica formale, statica e inutile in questo contesto sociale. Pensate a quanta sofferenza si potrebbe eliminare con l’uso corretto dell’ alta tecnologia. Se non si individua chiaramente il livello pervasivo della sofferenza, si perde l’obiettivo, si manca completamente il bersaglio, con poche e semplici parole possiamo dire che la sensazione che “qualcosa non va”, “che manca qualcosa”, indipendentemente dagli eventi esterni, è la sofferenza pervasiva. In genere non capiamo perché questo avvenga, ne ricerchiamo le cause nei posti sbagliati, al di fuori di noi, ma imparare a individuare e gestire questa insoddisfazione profonda rende tutto perfetto. Identificare e riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è fondamentale in ogni pratica di Dharma, mentre il contrario rende l’obiettivo irraggiungibile. Dopo aver riconosciuto il livello pervasivo della sofferenza, resta da identificare qual è la sua causa, infatti non è sufficiente averlo individuato chiaramente, ora è necessario risalire alla sua origine. La causa della sofferenza pervasiva è l’attitudine mentale ad aggrapparsi ad un sé. Ma cos’è questo sé a cui siamo così legati? Dove si trova? Perché non riusciamo a rintracciarlo da nessuna parte? Siamo aggrappati a un qualcosa che non è, che nessuno può scovare, e da qui nasce il livello pervasivo della sofferenza, da un punto che non ha base, che fonda se stesso su un io che non esiste, fonda se stesso su un’illusione, questo è il problema. Il riconoscimento di questa realtà è la chiave per vincere la sofferenza. La sofferenza nasce dall’attitudine ad aggrapparsi ad un sé che non esiste. Ciò non significa che noi non esistiamo, è evidente che siamo qui, ma è l’attitudine ad aggrapparsi al sé profondamente illusorio che crea sofferenza. Riconoscere il livello pervasivo della sofferenza è il fondamento dello sviluppo della Compassione e il riconoscere il non-sé, cioè l’assenza di quel sé così come generalmente viene erroneamente definito e afferrato dall’attitudine ad aggrapparsi ad esso, è la Saggezza. L’insieme di Compassione e Saggezza sono lo strumento più importante per superare il livello pervasivo della sofferenza. In occidente siamo ricchi di tecnologia, si può quindi usare la mente tecnologica per analizzare la sofferenza, il livello pervasivo della sofferenza e far sorgere compassione e saggezza. E’ come essere in un laboratorio scientifico della spiritualità, se rinascesse Leonardo da Vinci in questo laboratorio spirituale il progresso potrebbe subire una notevole accelerazione, diventare pratico, immediato, di aiuto all’attuale società. Invece oggi tendiamo a dividere, limitare le possibilità, quando si medita ci si estranea dalla vita attiva e quando si è attivi, si perde lo stato meditativo. E’ necessario trovare un equilibrio tra le due fasi, una via di mezzo, dove il meditatore è nel

contempo una persona attiva e nell’attività non perde lo stato meditativo. Questo è l’atteggiamento che porta beneficio e che rende la pratica proficua perché ottiene la piena integrazione tra l’aspetto spirituale e quello materiale della vita. A volte si tende anche a confondere la pratica spirituale con la psicoterapia, ma sono due situazioni diverse: nella psicoterapia c’è una persona preparata, un medico che, in base alle proprie conoscenze, aiuta gli altri a risolvere determinati problemi e il suo compito si esaurisce in questo. Nella pratica spirituale invece il processo di guarigione è attuato da se stessi su se stessi, ognuno è lo psicoterapeuta di se stesso; non è sufficiente acquisire determinate conoscenze, è necessario ricondurle a sé, assimilarle alla vita quotidiana continuamente, mantenendone la presenza costante, momento per momento, che si rinnova incessantemente senza mai esaurirsi diventando parte integrante di sé. Ciò può avvenire correttamente solo quando il progredire nella spiritualità è in armonia con le attività materiali, soprattutto nella società moderna e tecnologica dove si conta molto su se stessi e poco sugli altri. Proseguendo nell’analisi del testo esaminiamo il “cuscino” dell’immutabile unione di saggezza con il metodo. Il metodo è la compassione e la saggezza è la visione della Vacuità, o realizzazione del non sé. Quindi, quando ci si riferisce al Maestro spirituale, al Lama e lo si visualizza seduto sui cuscini rappresentati dal sole e dalla luna si sottolinea che non è facile e automatico essere maestro spirituale, non basta possedere un ricco bagaglio di conoscenze, ma è necessario aver realizzato la grande compassione e la saggezza della mancanza del sé, o saggezza della Vacuità. Questa è la qualificazione minima, essenziale, del maestro spirituale. Un maestro deve essere sempre gentile, rappresenta tutti i rifugi: Buddha, Dharma e Sangha e dà corpo a tutti gli esseri realizzati come gli Arhat e i Bodhisattva. Il Lama, o Guru, o Maestro spirituale rappresenta l’incarnazione dei Buddha, dei Bodhisattva, degli Arhat, poiché essi sono uniti da un solo desiderio: quello di liberare tutti gli esseri dalla sofferenza. I Buddha i Bodhisattva, gli Arhat non si manifestano materialmente e per aiutare le persone a raggiungere la liberazione, per offrire lo strumento indispensabile della conoscenza e pratica del Dharma, è necessario che esse possano incontrare una persona vivente, concretamente presente, il maestro spirituale, il Lama, il Guru radice. In questo senso si dice che il maestro spirituale è l’incarnazione di tutti i rifugi, è gentile perché guida nella strada che porta all’illuminazione e non c’è gentilezza superiore a questa. Il Lama ha le qualità della compassione e della saggezza, è l’incarnazione di tutti i Buddha e i Bodhisattva, è gentile perché conduce all’illuminazione, quindi il Lama è Buddha. E’ necessario abbandonare ogni preconcetto errato nei confronti del Lama e pregarlo con una concezione pura. La ragione per cui viene espressamente dato questo consiglio è che, sebbene il Lama possa apparire al discepolo come persona rude e burbera, in realtà esprime un atteggiamento gentile e amorevole e il difetto non è nel Lama ma nella percezione errata del discepolo che a causa del suo karma ha una

visione distorta della realtà. La corretta relazione tra Lama e discepolo presuppone ovviamente la presenza di un Lama qualificato e di un discepolo qualificato. Se entrambi sono qualificati si instaura una corretta relazione, ecco perché si deve meditare sul Lama e pregarlo con le modalità indicate nel testo, liberi da concezioni errate, con una pura visione, senza lasciare che la mente divaghi ma rimanga ferma nel rispetto e nella fiducia.

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