La Lingua Italiana - Marazzini

October 5, 2022 | Author: Anonymous | Category: N/A
Share Embed Donate


Short Description

Download La Lingua Italiana - Marazzini...

Description

!

!

LA LINGUA ITALIANA. STORIA, TESTI, STRUMENTI

!

!

!

!

!

!

Marazzini

L’ITALIANO E GLI STRUMENTI DEL LINGUISTA !

!

!

L’ITALIANO:

L’italiano appartiene alla famiglia linguistica indoeuropea. In Europa sono indoeuropei i tre grandi gruppo linguistici maggioritari: quello romanzo, quello germanico e quello slavo. Le lingue romanze, o neolatine, sono: italiano e dialetti, portoghese, spagnolo, catalano, francese, provenzale, rumeno. L’italiano è parlato in tutto il territorio della Repubblica italiana, di cui è lingua ufficiale come dichiara il primo articolo della legge sulla protezione delle minoranze linguistiche, la n°482 del 15 dicembre 1999. E’ inoltre parlato in alcuni Cantoni della Svizzera, in piccole aree della Slovenia; anche se raramente, nel Nizzardo e nel Principato di Monaco, nei territori delle ex colonie italiane, nell’ex protettorato di Rodi. Vi sono anche comunità di emigranti italiani sparse in tutto il mondo. Entro i confini politici della Repubblica italiana sono presenti gruppi alloglotti (dal greco: altra lingua) di origine romanza e non romanza. Parliamo di penisole di alloglotti quando aree linguistiche più grandi, confinanti con il nostro territorio nazionale, si estendono in parte anche all’interno dei nostri confini, come per esempio il tedesco in Trentino. Parliamo di isole alloglotte quando si tratta di comunità molto piccole e isolate. La legge 482 del 1999 tutela le minoranze linguistiche albanesi (Foggia, Pescara, Taranto, Potenza, Calabria, Sicilia), catalane, germaniche (Trentino), greche (Calabria e Salento), slovene (Udine, Gorizia, Trieste), croate (Molise), francesi, franco-provenzali (Piemonte, Val d’Aosta), friulane, ladine, occitane e sarde. Nella maggior parte del Friuli e della Carnia vi sono parlate ladino-orientale. Esse si estendono anche in Svizzera, ma in questo caso si preferisce il termine romancio: è lingua nazionale, ma non ufficiale, accanto al tedesco, al francese e all’italiano. Il sardo dal punto di vista glottologico può essere considerato una vera e propria lingua. Si distinguono quattro varietà: gallurese, sassarese, logudorese, campidanese. L’Italia è la nazione europea più ricca e differenziata per varietà linguistica. Ancora a inizio 900 la maggior parte della popolazione era dialettofona. La differenza tra dialetto e lingua non è assoluta: la lingua è un dialetto che per cause storiche ha raggiunto uno status superiore. In genere il dialetto è usato in un’area più ristretta, ha prestigio sociale minore ed è simbolo di un’entità locale, non sempre ha una tradizione scritta. La lingua ha maggior diffusione, unifica un territorio più ampio, è simbolo di un’entità nazionale, ha superiore dignità culturale, è strumento della classe dominante e degli organi amministrativi e governativi, è insegnata a scuola e è codificata da norme grammaticali. Si possono distinguere tre aree dialettali, la settentrionale, la centrale e la meridionale, separate da due linee di confine: la linea La Spezia-Rimini e la linea Roma-Ancona. La linea che delimita il confine di un dato fenomeno linguistico si chiama isoglossa. I fenomeni linguistici che caratterizzano le parlate a nord della linea La Spezia-Rimini sono: - la sonorizzazione delle occlusive sorde in posizione intervocalica: le consonanti k e t diventano rispettivamente d e g (fradél, formìga). La consonante occlusiva sorda bilabiale p diventa v (cavei) - lo scempiamento delle consonanti gemianate (spala, gata, bela) - la caduta delle vocali finali, tranne la a che si conserva (an, sal) - la contrazione delle sillabe atone (slar per sellaio) - la presenza delle vocali turbate u, o Queste caratteristiche sono proprie dei dialetti gallo-italici: piemontese, lombardo, ligure, emiliano, romagnolo. I dialetti veneti hanno alcune caratteristiche proprie. Molti fenomeni propri dell’area centrale, e in particolar modo del fiorentino, sono passati all’italiano standard. Propri solo dell’area toscana sono: - la sostituzione della prima persona plurale dell’indicativo presente con il costrutto si+terza persona singolare (noi si mangia) - la gorgia fiorentina: spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche - nd>nn e mb>mm Il romanesco è stato molto vicino al napoletano fino al 1527 quando, con il sacco della città e l’insediamento dei papi fiorentini con le loro corti, si è fortemente toscanizzato. I dialetti dell’area meridionale si caratterizzano per: - sonorizzazione delle consonanti sorde in posizione postanasale (mondone per montone) - la metafonesi delle vocali toniche e o per influsso di i u finali (acitu per aceto, dienti per denti) - l’uso di tenere per avere - l’uso del possessivo in posizione enclitica (figliomo per mio figlio). Questo fenomeno non era sconosciuto al toscano: nel Decameron troviamo la forma mogliata per tua moglie. La prima descrizione sistematica e scientifica dell’Italia dialettale fu fatta da Ascoli nel 1885 e su di essa si sono basate quelle successive, fino alla rappresentazione cartografica di Pellegrini, la più completa realizzata finora. L’italiano non è parlato in modo uniforme sul territorio nazionale: vi sono marcate differenze soprattutto a livello fonetico. Le varietà di italiano dipendono dalle influenze dei dialetti locali: sono il risultato storico dell’incontro tra i dialetti e le lingue nazionali. Prendono il nome tecnico di varietà diatopiche dell’italiano o secondo la denominazione usata da De Mauro di italiani regionali. Le principali varietà di italiano regionale sono la settentrionale, la toscana, la romana, la meridionale, la sarda.

I regionalismi più vistosi si riscontrano a livello lessicale e fonetico, ma nei livelli bassi di italiano regionale, propri soprattutto delle fasce sociali più popolari, investono anche fenomeni sintattici. I linguisti hanno osservato che il popolo postunitario utilizzava una lingua modesta, piena di elementi dialettali e di errori. Antonio Gramsci in uno dei “Quaderni del carcere” nel 1935 aveva dedicato un paragrafo all’analisi dei fattori di livellamento nell’uso dell’italiano tra il popolo, individuando come poli di attrazione linguistica la scuola, i giornali, gli scrittori, il teatro, il cinema, la radio, le messe. De Mauro nel 1970 fissò la categoria di italiano popolare, indicando con questo termine la parlata degli incolti di asprirazione sopradialettale e unitaria o il tipo di italiano imperfettamente acquisito da chi ha per madrelingua il dialetto, secondo Cortelazzo. Bartoli Langeli ha affermato che l’italiano popolare è un modo di scrivere e non di parlare. Berruto ha definito l’italiano standard come una lingua neutra, ovvero non marcata, codificata da regole grammaticali. L’italiano normato è stabilmente diffuso nello scritto. Resta poco diffusa la pronuncia standard. L’italiano ha in comune con il fiorentino classico: - l’anafonesi, ovvero il fenomeno per il quale e tonica si trasforma in i davanti gn gl ng; la o si traforma in u davanti ng - la dittongazione di e o brevi del latino in sillaba libera - il passaggio di e atona protonica a i (nepote>nipote) - il passaggio di ar atono a er nel futuro della prima coniugazione (amarò>amerò) - la presenza della metafonesi, presente invece nei dialetti settentrionali e meridionali Vi sono elementi evidenti che contraddistinguono nettamente il fiorentino dall’italiano: la gorgia, la tendenza alla monottongazione di uo (bòno, nòvo). Lo standard non garantisce assoluta omogeneità: dentro al parlato normato si infilano alcuni elementi di substandard. Sabatini ha elaborato la categoria di italiano dell’uso medio sulla base di una serie di fenomeni grammaticali ricorrenti nell’italiano oggi comunemente parlato nelle situazioni comunicative di media formalità. La differenza rispetto all’italiano standard consiste nell’adozione di alcuni fenomeni tenuti a freno dalla norma grammaticale: lui, lei, loro come soggetto, l’uso di gli generalizzato, l’impiego di costrutti preposizionali con il partitivo, l’uso dell’imperfetto al posto del congiuntivo e del condizionale nel periodo ipotetico dell’irrealtà. - GIUSEPPE GIOACHINO BELLI : LE LINGUE DER MONNO 1832 (pg 33) Belli, insieme a Porta, è il maggior poeta in dialetto della nostra letteratura dell‘800. Nei suoi sonetti è raffigurata con sarcasmo, profondo spirito critico e realismo la vita sociale della Roma papalina ottocentesca. In questo sonetto, scherzando, invoca la pretesa superiorità sinonimica del romanesco, dimostrata mediante la grottesca esemplificazione di una varietà di termini che indicano “cesso”. La conclusione è irreverente e anticlericale, perchè il sonetto si conclude con il sinonimo “monsignore”. Tipici del romanesco sono: - l’affricazione di s dopo n, r , l (monzzignore anzichè monsignore) - la pronuncia della c palatale intervocalica come fricativa palatale (dda sciuchi anzichè da ciuchi) - i troncamenti dell’infinito (esse anzichè essere) - le forme verbali della terza persona plurale del presente indicativo in -eno (impareno anzichè imparano) - dimo per diciamo - il rotacismo, con r al posto di l in posizione preconsonantica (uguarmente anzichè ugualmente) - LA PRINCIPESSA DI CARINI (pg 34) E’ una canzone siciliana molto celebre, nota anche come “La barunissa di Carini”. Quello riportato è un frammento. Tra le caratteristiche riconoscibili del dialetto siciliano: - vocalismo tonico di cinque vocali - possessivo so per suo - pronome dimostrativo chisto per questo - la forma figghia per figlia, voghiu per voglio, pagghia per paglia - l’assimilazione di nd in secunnu per secondo e unni per onde - la consonante d che assume il carattere di una fricativa e giunge fino a r: viri per vide, caddiù per cade - il nesso latino ll che passa a d occlusiva alveolare sonora: tidda per ella - l’abbreviazione della forma non a un - il verbo ammazzari non è seguito dal complemento oggetto te, ma a tìa - IL LIBRO DEI CONTI DI MADDALENA PIZZICAROLA DI TRASTEVERE (pg 36) E’ un codice di 144 carte in cui sono segnate le registrazioni di debiti e crediti relativi all’attività di una bottega di pizzicheria che si trovava a Roma che era gestita da una certa Maddalena. I conti vanno dal 1523 al 1537. Le registrazioni sono autografe degli interessati e rappresentano un esempio di scrittura popolare antica. ANNOTAZIONE DI TOMMASEO: ha una buona grafia italica pura. Si nota: la ripresa ridondante del soggetto io, l’ipercorrettismo sonno per sono, l’articolo el, ve per vi, se per si. Colpisce la formula finale che è ripresa da un modello di scrittura burocratica. ANNOTAZIONE DI VIVIANO CODAZI: la grafia è mercantesca elementare. Lo scrivente è meno colto e lo rivelano le forme zuli per giulii, dissiete per diciassette, moli per moglie, fo per fu, eso per esso, ienaro per gennaio, infeto per infetto (ammalato), rezeputo per ricevuto, il verbo confessare per dichiarare di aver ricevuto. - LETTERA DI UN EMIGRATO POLITICO (pg 38) Molte testimonianze di italiano popolare si ricavano da lettere familiari scritte da emigranti o soldati lontani da casa. Questa è una lettere di un emigrato politico veneto del 1936. Elementi di italiano popolare sono: grafie diverse dalla

norma, eterogeneità, anomalie morfologiche, tracce del parlato, tratti dialettali, la punteggiatura è limitata al punto, ò per ho, difficoltà nella corretta divisione delle parole, q al posto della c, filio per figlio, meso per mezzo, suo per loro, incentro trattamento delle geminate con numerosi scempiamenti e ipercorrettismi, agiutare per aiutare, accordi impropri, forme verbali inesistenti come si statto per sono stato. - LA BARBIERA (pg 39) E’ una canzone popolare. Mescola vistosamente forme dialettali a forme italiane. - MAMMA MIA, DAMMI CENTO LIRE (pg 41) E’ un canto nato alla fine dell‘800 durante il flusso migratorio verso l’America. L’italiano substandard affiora in più punti. !

!

!

!

GLI STRUMENTI DELLA DISCIPLINA

La storia della lingua ha come oggetto di studio l’italiano in tutte le sue forme e in tutti i suoi impieghi. La prima cattedra universitaria fu istituita nel 1937-38 a Firenze e fu affidata a Migliorini. Marazzini ha ricostruito la storia dell’Umanesimo al Romanticismo, Stussi dall’inizio dell’Ottocento alla seconda metà del Novecento. Il primo libro dal titolo “Storia della lingua italiana” è stato pubblicato nel 1960 da Migliorini: contiene una ricca documentazione su tutte le fasi storiche della nostra storia linguistica. Molto importanti sono anche: “Profilo di storia linguistica italiana” Devoto 1953 “Questione della lingua” Vitale 1960 “Storia linguistica dell’Italia unita” De Mauro 1963: rilevante è l’uso di dati statistici e economici. Nel 1992 è stata fondata l’ASLI, Associazione per la storia della lingua italiana. L’opera di Migliorini offre un quadro linguistico chiaro e ben strutturato. La storia della lingua è tracciata dalla latinità di età imperiale all’inizio del 1900. I capitoli sono suddivisi per secoli, eccezion fatta per uno interamente dedicato a Dante, in quanto padre della lingua italiana, e l‘800 che occupa i due capitoli finali. Migliorini dichiara di terminare la trattazione al 1915 perché gli anni successivi avrebbero richiesto un altro discorso. Trattò la storia della lingua novecentesca in due saggi: “Lingua contemporanea” 1938 e “Saggi sulla lingua del Novecento” 1941. Presta una grande attenzione al lessico, alle parole e alla loro origine. Agli scrittori è riconosciuta un’efficacia demiurgica, ma sono solo uno dei tanti fattori che agiscono sulla lingua: la storia della lingua non può esaurirsi in un’analisi stilistica dei testi letterari, anzi comincia quando si commisura il linguaggio individuale di uno scrittore con l’uso dei suoi contemporanei. Dopo la pubblicazione dell’opera di Migliorini sono uscite molte sintesi generali di storia della lingua, ideate per un pubblico colto e universitario. “Storia della lingua italiana” Bruni 1989-2003. Ha un impianto per secoli, con la vistosa eccezione di un volume interamente dedicato a Manzoni e guidato da Nencioni. L’opera presta attenzione anche alle aree non toscane e alle differenze geoculturali. La prima parte è saggistica e la seconda è antologica di testi commentati. “Storia della lingua italiana” Serianni e Trifone 1993-1994. Ha una struttura tematica: si compone di monografie affidate a diversi specialisti. Il primo volume, dal titolo “I luoghi della codificazione”, contiene saggi che trattano la storia della grammatica, la lessicografia, la grafia, le teorie linguistiche e la lingua letteraria. Il secondo volume, “Scritto e parlato”, raggruppa monografie sulle varie forme dell’italiano settentrionale e sulla commistione di italiano parlato e italiano scritto. Il terzo volume, “Le altre lingue”, propone saggi sugli antichi dialetti italiani, sulle varietà regionali e sull’incontro dell’italiano con le lingue straniere. “L’italiano nelle regioni” Bruni 1992 il primo volume e 1994 il secondo. Il primo volume è composto da monografie, ciascuna dedicata alla storia dell’italiano in una regione. Il secondo volume, invece, è composto da testi e documenti commentati. Un’attenzione speciale è prestata ai rapporti che l’italiano ha intessuto nel corso dei secoli con le culture e i dialetti locali. RIVISTE: “Lingua nostra” Firenze 1939, diretta da Migliorini e Devoto “Studi linguistici italiani”1960, Castellani “Lingua e stile” 1966, Heilmann e Raimondi “Lid’o- Lingua italiana d’oggi” 2004 L’Accademia della Crusca pubblica: “Studi di grammatica italiana”, “Studi di filologia italiana”, “Studi di lessicografia italiana”, “Studi di lessicografia italiana”. Tra le prime grammatiche storiche dell’italiano troviamo la “Italienische Grammatik” di Meyer-Lubke del 1890. Una versione italiana di questa grammatica uscì ridotta nel 1901, curata da Bartoli e Braun: è limitata all’italiano letterario e ai dialetti toscani.

“Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti” 1966-1969 Rohlfs: i dati non riguardano solo testi antichi e fonti letterarie, ma sono il frutto di numerose indagini dialettologiche. E’ composta da 3 volumi: “Fonologia”, “Morfologia”, “Sintassi e formazione delle parole”. Castellani, riconosciuto maestro di studi linguistici e specialista di italiano antico, ha avviato una grammatica storica nel 2000, ma si è arrestato al primo volume “Introduzione”. La grammatica è uno strumento che descrive sistematicamente la lingua, ne illustra le regole, suggerisce scelte di carattere normativo e di stile. La “Grande grammatica italiana di consultazione” di Renzi e Salvi è ispirata a criteri linguistici, non normativi. Descrive l’uso reale della lingua nei vari livelli comunicativi, segnalando l’esistenza di varianti regionali e di costrutti giudicati scorretti dalla grammatica normativa, ma possibili nel parlato. “Grammatica dell’italiano antico”, curata da Salvi e Renzi, esce nel 2010 e descrive il fiorentino duecentesco. Conoscenze di metrica e retorica servono allo studioso di storia della lingua per leggere, interpretare e commentare i testi letterari. Il manuale di riferimento della metrica italiana è quello “Gli strumenti della poesia” Beltrami 2002. Il manuale di riferimento per la retorica è il “Manuale di retorica” Mortara Garavelli 2000. “Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica” 2004 Beccaria Gli atlanti linguistici rappresentano in forma cartografica, su base lessicale o grammaticale, la variazione dialettale di una determinata area. Ogni cartina è dedicata alla registrazione di una stessa parola o frase in luoghi diversi. Il primo atlante linguistico fu redatto per il territorio francese da Gilliéron nel 1902-1910. “AIS- Atlante linguistico ed etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale” 1928-1940 Jaberg e Jud: è il primo atlante dialettale italiano. Rohlfs compì le inchieste dialettali. “ALI- Atlante linguistico italiano” 1995-2008 Bartoli “ALS- Atlante linguistico della Sicilia” Ruffino “ALEPO-Atlante linguistico ed entografico del Piemonte Occidentale” Telmon e Canobbio Lo strumento lessicografico più comune è il dizionario dell’uso che documenta in primo luogo la lingua corrente. Tra i più noti dizionari abbiamo: Zingarelli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti, De Mauro. “Grande dizionario dell’uso” (GRADIT) 1999 De Mauro: introduce marche d’uso accanto a ogni parola per indicarne il grado di diffusione rilevato su base statistica. I dizionari storici documentano il passato della lingua sulla base dei testi scritti: attestano gli usi e i significati delle parole nel corso dei secoli. “Grande dizionario della lingua italiana” (GDLI) Battaglia 1961-2002: sono 21 volumi di impostazione fortemente letteraria. E’ utile anche per rilevare spunti critici. “Tesoro della lingua italiana delle Origini” (TLIO): è un vocabolario storico di tutte le varietà dell’italiano antico dalle origini fino al 1375( limite assunto convenzionalmente e che coincide con la data di morte di Boccaccio). I dizionari etimologici indicano l’origine delle parole di una lingua. “Dizionario etimologico della lingua italiana” (DELI) 1979-1988, edizione aggiornata nel 1999, Cortelazzo e Zolli: fornisce la data della prima attestazione delle parole a lemma e derivati, una trattazione etimologica, una trattazione etimologica concepita in funzione della storia della parola, una breve trattazione con rimando alla bibliografia degli etimi controversi o discussi. Il dizionario etimologico più ricco di lemmi è il Battisti-Alessio del 1950-1957. Il Devoto del 1968 è l’unico che nella ricerca dell’origine delle parole risale più indietro del latino. “Etimologico. Vocabolario della lingua italiana” 2010 Nocentini “Lessico etimologico italiano” (LEI) Pfister !

!

!

!

!

STORIA DELLA LINGUA ITALIANA

!

!

!

!

ORIGINI E I PRIMI DOCUMENTI DELL’ITALIANO

La maggior parte delle parole italiane discende da quelle latine e trova corrispondenza con il lessico presente in altre zone della Romània (l’area romanza comprendente i territori iberici, la Francia, l’Italia, una parte della Svizzera, la Romanìa, le Isole Baleari, la Corsica). Il latino volgare non è una lingua omogenea, ma è una sorta di astrazione utile per designare in maniera convenzionale il latino parlato in luoghi differenti. Secondo Castellani lo consideriamo l’equivalente del latino plebeo di epoca repubblicana e del latino spontaneo di epoca imperiale. L’etichetta di “volgare” viene applicata a registri assolutamente diversi tra loro: sermo plebeius, sermo militaris, sermo rusticus, sermo provincialis,... Le distinzioni rinviano a livelli sociolinguistici o a varietà geografiche, ma fanno anche riferimento a uno sviluppo diacronico: il latino, come tutte le lingue vive, non è mai rimasto uguale a sé stesso. Uno dei mezzi per ricostruire gli elementi del latino all’origine degli sviluppi romanzi è la comparazione tra le lingue neolatine. Il latino volgare conteneva molte parole presenti anche nello scritto.

Altri termini furono innovazioni del parlato non attestate nelle scritture. In altri casi si ebbe un cambiamento nel significato della parola letteraria che assunse nel latino volgare un senso diverso: TESTA(M), all’origine indicava un vaso di terracotta, ma poco a poco sostituì CAPUT; fuoco deriva da FOCUS che in latino era il focolare domestico. Il confronto tra le lingue romanze e la ricostruzione etimologica dei derivati dal latino non sono gli unici strumenti per la conoscenza del latino volgare: alcuni testi possono darci informazioni utili. Alcuni autori classici hanno scritto a volte in maniera meno formale e sorvegliata. Si sottraggono alle norme d’uso classico soprattutto testi dedicati a materie pratiche. I testi teatrali, soprattutto quelli di Plauto, lasciano trasparire elementi del parlato. Nel Satyricon di Petronio coesistono forme come pulche, formosus e bellus: il primo termine sparì nelle lingue parlate moderne, ma gli ultimi due sono all’origine di forme romanze. La forma bellus si trova anche in Catullo e Cicerone. Importante è l’APPENDIX PROBI, così chiamata per il grammatico Probo che l’ha tramandata. E’ una lista di parole, forme o grafie non corrispondenti alla buona norma, affiancata dalla forma corretta. Viene datata attorno al V o VI secolo d.C. L’errore è una deviazione rispetto alla norma, ma in esso possono manifestarsi tendenze innovative importanti. Quando l’errore si generalizza, l’infrazione diventa essa stessa norma per tutti i parlanti. Nel latino volgare serpeggiavano tendenze innovative e per spiegare tali mutamenti gli studiosi fanno riferimento al sostrato ( il latino si impose su parlate preesistenti, che a loro volta influenzarono l’apprendimento della lingua di Roma), al superstrato ( influenza esercitata da lingue che si sovrapposero al latino, all’epoca delle invasioni barbariche) e all’adstrato (azione esercitata da una lingua confinante). Gli ostrogoti entrarono in Italia nel 489, guidati da Teodorico che voleva eliminare Odoacre, il quale aveva deposto Romolo Augustolo. Il regno gotico finì con la guerra intrapresa dagli eserciti di Giustiniano, guidati da Belisario e Narsete. La lingua gotica è nota soprattutto grazie alla traduzione della Bibbia di Ulfila. I termini gotici entrati in italiano sono una settantina, tra cui: astio, bega, melma, nastro, stecca, strappare,... L’invasione dei longobardi, avvenuta nel 568, durò molto più a lungo, fino all’arrivo dei Franchi del VIII secolo. Risalgono alla presenza longobarda i toponimi in -ingo e -engo, guancia, stinco, nocca, zazzera, grinfia, panca, scaffale, federa, gruccia, palla, zaffata, arraffare, ghermire, russare, scherzare, spaccare,... L’influenza d’oltralpe si fece sentire fortemente nel XI-XII secolo con la diffusione della letteratura franco-provenzale. Nel periodo carolingio, però, entrarono termini relativi all’organizzazione politica e sociale: conte, marca, cameriere, barone, dama, lignaggio, sire, vassallo,... Per un lungo periodo il volgare venne solo parlato. In questa fase, completamente dedicata all’oralità, non vennero prodotti documenti. Per scrivere si usava il latino, che però non era più lo stesso degli autori classici: questa lingua scritta prende il nome di latino medievale. Il latino medievale è diversa dal latino classico e dal latino volgare. Solo nel XIII secolo alcuni autori scelsero il volgare come lingua letteraria. La caratteristica dei documenti antichi del volgare è la casualità: casualità nella loro realizzazione e nel ritrovamento. Il primo problema da risolvere, per gli antichi documenti dell’italiano, è l’intenzionalità dello scrivente: chi ha redatto il documento voleva utilizzare l’italiano o il latino? PLACITI CAPUANI: Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte S(an)c(t)i Benedicti so che quelle terre, entro quei confini che qui si descrivono, trent’anni le ha tenute in possesso l’amministrazione patrimoniale di San Benedetto Possiamo riconoscere i caratteri di un vero idioma locale: kelle per quelle sopravvive ancora nei dialetti meridionali. Il nesso ct di Sancti Benedicti è un latinismo I Placiti Capuani vengono considerati l’atto di nascita della lingua volgare e risalgono al 960-963.Tre giudici di Capua (Sessa, Aurunca e Teano) emettono 4 placiti, ovvero sentenze scritte e emesse da un giudice, relativi a appezzamenti di terreno di proprietà controversa. In tutti i casi un privato tenta di far valere i propri diritti contro un monastero e in tutti i casi è quest’ultimo a vincere la causa. Il testo giuridico è in latino e le testimonianze in volgare. La sua scoperta risale al 1700, ma non ebbe a suo tempo risonanza. Questo documento ha grande importanza perchè la sua datazione è molto precisa e perchè la scelta del volgare spicca con grande evidenza: chi ha scritto era consapevole di utilizzare due lingue diverse. INDOVINELLO VERONESE: Se pareba boves alba pratalia araba & albo versorio teneba & negro semen seminaba Gratias tibi agimus omnip(oten)s semiterne d(eu)s Bianca=pagina, Nero=inchiostro, Aratro=penna, Buoi=dita Si trova in un codice scritto in Spagna all’inizio dell’VIII secolo e approdato già in epoca antica a Verona. Nel margine superiore di un foglio vi sono due note scritte in corsivo risalenti a VIII/IX secolo. La seconda parte è in latino corretto e potrebbe trattarsi di una subscritio, ovvero una frase finale aggiunta dall’autore: lode a Dio per aver finito il lavoro. Non è provato che al mano è la medesima. Nell’Indovinello veronese non si riesce ad essere certi se lo scrivente adoperasse un latino scorretto o se volutamente abbandonasse il latino corretto, adottando forme popolari. Tratti dell’oralità sono: - mancanza delle consonanti finali del verbo - NEGRO anziché NIGRO

- Accusativi non in -UM CATACOMBA DI COMMODILLA: Non dicere ille secrita abboce non pronunciare le secrete (preghiere dette durante l’Eucarestia) a voce Nella catacomba di Commodilla vi è una basilichetta, o cripta, dedicata ai santi Felice e Adautto che venne scoperta nel 1720. Vi è un affresco raffigurante la Vergine in trono tra i due santi. Nella zona verticale della cornice vi è il graffito. Non vi è alcuna indicazione cronologica, ma Sabatini l’ha datato attorno al IX secolo. Ha una funzione di promemoria per l’officiante: è scritta molto piccola proprio per non essere letta da tutti. L’uso del volgare non è preterintenzionale, ma è un abbassamento di tono che proprio nel ricorso alla sua lingua d’uso ripone le sue maggiori speranze di risultare efficace e di catturare l’attenzione. Il volgare è romanesco: AbBOCE (raddoppiamento fonosintattico e betacismo, ovvero passaggio di V a B). Nel termine abboce la seconda b venne aggiunta in un secondo tempo nello spazio lasciato libero. Forse venne inserita per rendere meglio il parlato. SECRITA va letto secreta perchè la i è semplicemente una é da Ē. ILLE viene utilizzato come articolo. ISCRIZIONE DELLA BASILICA DI SAN CLEMENTE: A- Falite dereto/co lo palo/carvon/celle B- D/u/r/i/tiam cor/dis/v(est)/ris per la durezza del vostro cuore avete meritato di tirare le corde C- S/a/x/a/traere/merui/s/tis D- Arbeltel/trai(te) Albertello E- Gos/mari Gosmari F- Sisin/ium Sisinnio G- Fili/dele/p/u/t/e/tra/i/te figli di puttana tirate Alla fine dell’XI secolo viene fatto realizzare un affresco da un Beno de Rapiza e dalla moglie Maria su un muro costruito nel 1084 nella basilica sotterranea di S.Clemente. Nell’affresco viene rappresentato un episodio della passione del santo, quello in cui Sisinnio ordina ai suoi servi, Albertello, Carboncello e Gosmari, di legare e portare via il santo che ritiene sia un mago. I suoi servi sono convinti di star eseguendo l’ordine, ma il realtà stanno trasportando una pesante colonna. L’affresco ha una datazione che va dal 1084 (realizzazione basilica) al 1128 (consacrazione nuova basilica di S.Clemente). Qualcuno ritiene che tutte le battute in volgare siano pronunciate da Sisinnio, altri invece ritengono che pronunci solo l’ultima battuta. Le didascalie B e C sono in latino. Il volgare ha un forte espressionismo plebeo, come nelle didascalie A e G. DURITIAM: accusativo con valore di ablativo causale VESTRIS: è errato rispetto alla norma grammaticale latina FALITE: dal latino FACILITE DERETO: dietro, dal latino DE RETO CARVONCELLE: passaggio da RB a RV POSTILLA AMIATINA: Ista cartula est de caput coctu (testa calda)/ ille adiuvet de illu rebottu (Diavolo)/ qui mal consiliu li mise in corpu Si tratta di una nota posta in calce al testo di una donazione risalente al 1087: due coniugi fanno una donazione dei loro beni all’abbazia di san Salvatore sul Monte Amiata. Il notaio che stende l’atto in un discreto latino, aggiunge alla fine un paio di righe in volgare. L’abbassamento di tono è intenzionale. Il registro è giocoso. Dal punto di vista linguistico si osserva la presenza delle -u finali anziché delle -o, caratteristica tutt’ora presente nel territorio. Ha un andamento ritmico .Non è facile spiegare il significato di questa postilla, né il rapporto con la donazione. Mal consiliu potrebbe essere la donazione stessa. E’ stata avanzata l’ipotesi che rebottu alluda al Diavolo: Iddio lo aiuti dal Maligno che gli mise in corpo il cattivo consiglio. CARTA OSIMANA: Nella Carta osimana del 1151 il volgare affiora all’interno del testo latino del rogito mediante il quale Grimaldo, vescovo di Osimo, dona a Bernardo abate di Chiaravalle la chiesa di S.Maria in Selva di Macerata. CARTA FABRIANESE: La Carta fabrianese del 1186 è un atto originale con cui il nobile si accorda con il monastero di S.Vittore delle Chiuse circa la ripartizione dei frutti di un loro consorzio: nel documento si alternano latino e volgare. CARTA PICENA: La Carta picena del 1193 è un rogito per una vendita di terre che contiene una parte in volgare. TESTIMONIANZA DI TRAVALE: Pogkino, qui Petrus dicitur...a Ghisolfo audivit quod Malfredus fecit la guaita a Travale. Sero ascendit murum et dixit: guaita, guaita male; non mangiai ma mezo pane. Et ob id remissum fuit sibi servitium et amplius non tornò mai a far guaita ut ab aliis audivit. Poghino, il cui nome è Pietro,...sentì dire da Ghisolfo che Malfredo fece la guardia a

Travale. La sera Malfredo salì sul muro di cinta e disse: sentinella, fa male la guardia, non ho mangiato altro che mezzo pane. E a causa di ciò gli fu condonato il servizio e in seguito non tornò più a fare la guardia, come a sentito dire da altri. Risale al 1158 e riguarda una controversia tra il vescovo di Volterra e il conte Ranieri d’Ugolino Pannocchia circa l’appartenenza di alcuni casolari presso la corte di Travale e di un’altra presso Gerfalco. Come nei placiti vengono prodotti dei testimoni. Le frasi in volgare sembrano essere riprese da canti. Notevole è il gusto narrativo. Altri testi volgari rintracciati in carte notarili sono: Dichiarazione di Paxia, databile attorno al 1178 e il 1182, e diversi documenti della Sardegna del XI e XII secolo. Tra i testi religiosi riconduciamo la Formula di confessione umbra (“fiat confessio peccatorum rusticis verbis”), databile tra il 1037 e il 1080 (il testo è una formula di confessione e proviene dalla zona di Norcia), i Sermoni subalpini del secolo XII e XIII (una raccolta di prediche in piemontese). Un vero sviluppo della letteratura italiana si ebbe nel XIII secolo con la scuola siciliana, ma non mancano alcuni testi poetici precedenti. RITMO BELLUNESE: De Castel d’Ard avi li nostri bona part./ I lo getà tutto intro lo flumo d’Ard,/ e sex cavaler de Tarvis li plui fer/ con se duse li nostre cavaler. Risale al 1193-1196, ma ci è pervenuto solo in testi cinquecenteschi. I versi sono inseriti in un testo latino. Con ritmo si indica genericamente un componimento in versi. !

!

!

!

!

IL DUECENTO

La scelta del volgare per la poesia implicò la promozione della lingua a un nuovo livello elevato e a una formalizzazione più complessa. In passato si è discusso su quale lingua fosse nata prima: la lingua della prosa o quella della poesia? Secondo Giambattista Vico le prime fasi della civiltà furono caratterizzate dallo spirito poetico. In Italia la prima produzione letteraria medievale in lingua volgare fu poetica: la prima scuola di cui abbiamo notizie certe fu quella siciliana, fiorita all’inizio del XIII nella Magna curia di Federico II. Il regno di Federico aveva come centro la corte di Sicilia. Altre due letterature romanze si erano già affermate: le letterature in lingua d’oc e d’oil. La lingua d’oc era la lingua della poesia, una poesia incentrata sulla tematica di un amore intellettualizzato. Questa poesia si era sviluppata nelle corti dei feudatari di Provenza, Aquitania e Delfinato, e poi la sua influenza si era estesa al di qua della Alpi. I poeti siciliani imitarono la poesia provenzale, sostituendo alla lingua d’oc il vernacolo locale, ovvero il siciliano insulare. L’adozione del siciliano non era dettata da un gusto per la popolarità naturale, ma venne scelto per un semplice valore formale. Questo fato è dimostrato dal fatto che Federico conosceva il latino, ma poetò in siciliano, e dal fatto che alcuni dei poeti della sua corte non sono siciliani, come Percivalle Doria, Giacomino Pugliese, Rinaldo d’Aquino, Abate di Tivoli. La letteratura d’oc influì su quella siciliana, come mostrano le forme in -agio e in -anza. Le forme provenzali, o comunque francesi, non sono obbligate e a volte si alterano a quelle italiane. I copisti toscani intervennero sulla forma linguistica della poesia siciliana con una vera operazione di traduzione, eliminando per quanto possibile i tratti siciliani che stridevano alle loro orecchie. Essendosi perduta quasi subito la coscienza di questo intervento, la forma toscanizzata fu presa per quella originale. La sconfitta degli Svevi e l’avvento degli Angioini portò alla distruzione dei manoscritti. Per ricostruire la fisionomia originale della poesia di Federico II è fondamentale ricorrere alla testimonianza di Barbieri. Vissuto nel 1500 questo studioso di poesia provenzale aveva avuto per le mani un codice, il libro siciliano, poi andato perduto, contenente alcuni testi poetici siciliani che si presentavano in forma assai diversa da quelli comunemente noti. Barbieri aveva trascritto alcuni di quei versi e le sue carte rimasero inedite fino al 1700. Tra questi versi vi era la canzone di Stefano Protonotaro “Pir meu cori alligrari” e un frammento del figlio di Federico II, Re Enzo, riportato qui sotto. Alegru cori, plenu Di tutta beninanza, Survegnavi s’eu penu Per votra inamuranza; Ch’il nu vi sia in placiri Di lassarmi muriri talimenti, Ch’iu v’amo di buon cori e lialmenti. Da notare: le vocali finali in -u e -i al posto delle -e e -o toscane ( il vocalismo siciliano prevede in posizione finale solo a, i, u), la i al posto della e toscana in posizione tonica in placiri. La forma in amo, però, non è una forma siciliana (sarebbe amu).

Alcuni versi di Giacomo da Lentini, così come si presentano nel codice Vaticano Latino 3793, nella versione toscanizzata: Madonna, dire vi voglio come l’Amore m’à preso, inver lo grande orgoglio che voi, bella, mostrate, e’ non m’aita. Oi lasso, lo me’ core ch’è ‘n tanta pena miso, che vede che si more per non amare, e tenolosi in vita. Preso/miso è una rima imperfetta. Il copista ha corretto l’originale priso in preso, ma non ha sostituito miso con messo, perché troppo distante dal modello e meso non esisteva in toscano. La rima siciliana rimase a lungo nel linguaggio letterario, fino alla metà del 1900. A parte Barbieri abbiamo pochi altri testimoni della lingua siciliana originale: un distico scritto ai margini di un registro di cancelleria angioina tra il 1200 e il 1300; un frammento zurighese, scritto tra il 1234 e il 1235 da un ignoto amanuense, mostra su un documento giuridico emanato da Enrico VII, primogenito di Federico II, le prime quattro stanze della canzone “Resplendiente” di Giacomino Pugliese. Il frammento zurighese, però, lascia trasparire una patina settentrionale anche se mostra qua e là i tratti siciliani per la presenza di rime come albur/amur, lu articolo e pronome, eu per io, meu per mio. Con la morte di Federico II nel 1250 venne meno la poesia siciliana e a sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i poeti siculo-toscani e gli stilnovisti. Molto importante fu la poesia religiosa: nel “Cantico di frate sole”, databile attorno al 1223-1224, di S.Francesco emergono chiari elementi umbri. La traduzione della laudi religiose ebbe un grande sviluppo nel 1220 e nei secoli a venire, quando i testi laudistici vennero trascritti in appositi quaderni e utilizzati dalle confraternite come preghiere cantate. La poesia laudistica è di origine umbra, ma in questo modo i testi si diffondevano. In gran parte erano testi anonimi. In Italia fiorì nel 1200 una letteratura moraleggiante in volgare. Tra gli autori di questa poetica di carattere educativo e religioso, vanno ricordati: Girardo Patecchio, Uguccione da Lodi, Giacomino da Verona, Bonvesin de la Riva. La lingua di questi scrittori è fortemente settentrionale, non essendo ancora presente l’imitazione dei modelli letterari toscani. L’area toscana in cui si ebbe la notevole espansione dell’uso scritto del volgare è quella occidentale tra Pisa e Lucca. In quest’area si sviluppo la poesia siculo-toscana con Tiberio Galiziani, Pucciandone Martelli, Bonagiunta, Inghilfredi, Guittone. Firenze si affermò solo nella seconda metà del secolo, tra il 1260 e il 1280, con Chiaro Davanzati, Monte Andrea, Neri de’ Visdomini, Rustico Filippi. In tutti i poeti toscani del 1200 troviamo gallicismi e sicilianismi. Tra i sicilianismi notiamo le -i finali anziché le -e in sostantivi singolari, come calori e valori, e nella terza persona singolare del presente, come ardi per arde, i condizionali in -ìa, gli imperfetti in -ia, i futuri in -aio, i participi passati analogici in -uto, I e U toniche dove il fiorentino ha E e O toniche chiuse. Alcuni sicilianismi dei poeti siculo-toscani passarono agli stilnovisti. Permangono in Guinizzelli: i gallicismi come riviera per fiume, rempaira per ritorna, fer esmire per specchiarsi, giano per giallo; i provenzalismi come sclarisce, enveggia per invidia, i sostantivi in -anza; i sicilianismi come saccio per so, aggio per ho, have per ha, miso per messo, feruto per ferito, sorpriso per sorpreso. Nella lingua di Guinizzelli rientrano anche alcune forme bolognesi: saver per saper, donqua per dunque, cò per capo. In Cavalcanti ritroviamo: suffissi in -anza, meridionalismi di origine siciliana, le rime siciliane del tipo noi/altrui, i consueti provenzalismi. Con la Vita Nova, Dante divenne il padre della prosa in volgare. Le idee di Dante sul volgare sono espresse nel Convivio e nel De Vulgari Eloquentia, ma con esiti diversi. Nel Convivio il volgare viene celebrato come sole nuovo destinato a splendere al posto del latino per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici: il giudizio nasce da una profonda fiducia nei confronti del volgare in quanto permette una divulgazione più larga e efficace. Nel Convivio il latino è ritenuto superiore in quanto utilizzato nell’arte. Nel De Vulgari Eloquentia la superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza, ma la letterarietà della lingua latina diventa uno stimolo per la regolarizzazione del volgare. Il De Vulgari Eloquentia è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare, ma nonostante ciò venne riportato alla luce sono nel 500 da Trissino, uno dei protagonisti del dibattito sulla lingua. Dante stabilisce che il linguaggio diversifica l’uomo dagli animali bruti, posti più in basso, e dagli angeli, posti al di sopra. L’origine delle lingue vive viene ripercorsa attraverso il racconto biblico della Torre di Babele. La grammatica delle lingue letterarie è una creazione artificiale dei dotti per frenare il continuo divenire delle lingue vive. Il volgare per farsi letterario deve stabilizzarsi. Tutte le parlate volgari sono indegne per essere una lingua comune letteraria.

Condanna tutte le lingua, toscano e fiorentino compreso, ma migliori risultano il siciliano e il bolognese nella loro forma più alta, ovvero nell’uso della scuola siciliana e di Guinizzelli. Dante sta cercando una lingua ideale, illustre, priva di tratti locali e popolari, selezionata e formalizzata a un livello alto. La nobilitazione del volgare deve avvenire attraverso la letteratura. Confrontata con lo sviluppo della poesia, la prosa duecentesca appare in ritardo. In quest’epoca il latino detiene ancora il primato assoluto nella prosa, anche se a volte si tratta di un latino che assume forme domestiche, in cui affiorano tracce di un espressivo parlato in volgare. Il volgare è necessariamente influenzato dal latino, come lo dimostrano i volgarizzamenti, un genere costituito da traduzioni, rifacimenti e imitazioni di testi classici. Il volgarizzamento non equivale alla traduzione modernamente intesa, ma nel trasporre in volgare un testo latino o francese. Si tratta di una scrittura sperimentale. La prosa italiana nasce nutrita dal latino. Minore risulta l’influenza del francese, anche se non mancano scrittore italiani che scrivono in questa lingua: Rustichello da Pisa “Milione”, Martino da Canal “Les estoires de Venise”, Brunetto Latini “Tresor”. L’influenza del francese sull’italiano si può verificare dal gran numero di prestiti lessicali. Vi sono testi in prosa volgare dall’aspetto fortemente settentrionale: Guido Faba “Gemma purpurea” (trattato di retorica con alcune formule in volgare) e “Parlamenta et epistole” (modelli di prosa epistolare e di oratoria). I Parlamenta contengono modelli di oratoria e di lettere in lingua bolognese illustre, fortemente esposta al latino. Non esiste una prosa-modello. “Composizione del mondo” 1282 di Frate Ristoro: è l’unico libro di scienza dell’epoca che tenti la via del volgare. In questo testo vi sono diversi tecnicismi utilizzati poi nella Divina Commedia, come zodiaco, epiciclio, equatore,... Le scritture mercantili sono importanti per la documentazione del fiorentino antico. RIMBALDO DI VAQUEIRAS: Era un provenzale, ma soggiornò alla corte piemontese. Contrasto: Domna tant vos ai preiada/ si un plaz q’amar me voillaz/ q’eu sui voster’endomenjaz/ car es pros et enseignada/ e toz bos prez autreiaz/ per qe m plai vostr’amistaz/ car es Car es en toz faiz cortesa,/ s’es mos cors en vos fermaz/ plus q’en nulla Genoesa,/ per q’er merces si m’amaz;/ e pois serai meilz pagaz/ qe s’era mia·ill ciutaz,/ ab l’aver q’es ajostaz,/ dels Genoes.// Jujar, voi no sei corteso/ qe me chaidejai de zo,/ qe negota no farò./Ance fossi voi apeso!/ Vostr’amia non serò./ Certo, ja ve scanerò,/ Provenzal malaurao!/ Tal enojo ve dirò:/ sozo, mozo, escalvao!/ Ni ja voi non amerò,/ q’eu chu bello marì ò/ qe voi no sei, ben lo so./ andai via frar’ eu temp’ò/ meiullerà. Signora, tanto vi ho pregata, di grazia, di volermi amare, che sono il vostro servo, perché siete valente e saggia e confermate tutti i buoni pregi; perciò mi piace la vostra amicizia. Giacché siete in tutto cortese, il mio cuore si è fissato in voi più che qualsiasi altra genovese; sarà una grazia se mi amate; allora sarò più rimeritato che non fosse mia la città dei Genovesi, con tutto l’avere che vi è ammassato. / Giullare, non siete cortese a importunarmi così: non farò proprio niente. Piuttosto foste impiccato! Non sarò vostra amica, anzi vi scannerò, sciagurato provenzale! Così vi insulterò: sozzo, pazzo, rapato! Mai vi amerò, perché ho un marito più bello di voi, ben lo so. Andate via, fratello, ho tempo più avventurato. Questo componimento è un contrasto bilingue scritto prima del 1194. L’idioma viene messo in bocca a un personaggio femminile che, nella finzione poetica, resiste spavaldamente ai tentativi di corteggiamento di un giullare provenzale. La donna è connotata come una popolana e respinge il corteggiamento con un linguaggio violento, ricco di toni quotidiani e proverbiali. Lui parla in provenzale e lei in genovese, ma un genovese ricco di provenzalismi e di italianismi. Eras quan vey verdeyar: Io son quel que ben non aio/ ni jamai non l’averò,/ ni per april ni per maio/ si per ma donna non l’ò;/ certo que en so lengaio (suo linguaggio)/ sa gran betuà dir non so,/ çhu (più) fresca qe flor de glaio (giaggiolo),/ per qe no m’en partirò. Si tratta di un discorso plurilingue e dovrebbe essere anteriore al 1202. La prima strofa è in provenzale, la seconda in francese, la terza in guascone e la quarta in galego-portoghese, una quinta riprende tutte queste lingue e la sesta è in genovese. BEUTA’: non ha riscontro con forme italiane, ma somiglia al francese beauté SA: possessivo sua che ricorda il francese e il dialetto piemontese LENGAIO: tipicamente non fiorentino LENGUA: lingua in dialetto settentrionale LE PRIME RACCOLTE POETICHE E IL PROBLEMA DELLA LINGUA DEI SICILIANI: La maggior parte della poesia volgare del XIII secolo ci è tramandata da tre codici: - Canzoniere Vaticano latino 3793: è il più importante e ci tramanda un gran numero di testi. È un codino fiorentino scritto da due copisti non professionisti, di cui non conosciamo il nome. Ordina i testi per forma metrica. - Laurenziano Rediano 9: contiene soprattutto opere di Guittone d’Arezzo. Ordina i testi per forma metrica. - Palatino 418, ora Banco Rari 217: è di provenienza pistoiese. Contiene un gran numero di opere di Guittone e di opere della scuola siciliana.

GUIDO FABA: Scrisse le proprie opere in latino, frutto del suo insegnamento di retorica a Bologna, ma accanto a esse ne produsse altre in volgare a cui applicò le tecniche della retorica. La Gemma purpurea è un trattato di retorica con alcune formule in volgare. Quando eo vego la vostra spendiente persona, per grande alegrança me pare ch’eo scia in paradiso; sì me prende lo vostro amore, donna çençore, sovra onne bella. Quando io vedo la vostra persona, per la grande allegrezza mi pare che io sia in paradiso; o donna gentile, più bella di tutte. Il tema è l’amore e le parole ricordano la poesia cortese. La lingua utilizzata, benché caratterizzata da forti settentrionalismi e elementi dialettali, è volgare illustre nutrito di latinismi. Altra opera di Faba in cui entra il volgare sono i Parlamenta et epistole, modelli di discorsi e di lettere. Si tratta di discorsi realistici e adattati alla vita pratica, ma in alcuni casi anche di giochi retorici, come ad esempio il contrasto tra la Quaresima e il Carnevale. DE FILIO AD PATREM PRO PECUNIA Andato sono al prato de la phylosophya bello1, delectevele e glorioso, e volsi2 cogliere flore3 de diversi colori, açò ch'eo4 fecesse una corona de merevegliosa belleça, la quale resplendesse in lo meo capo, et in la nostra terra a li amisi e parenti reddesse odore gratioso5. Ma lo guardiano del çardino contradisse6, s'eo no li facessi doni placeveli et onesti7. Unde in per quello che no v'è che despendere8, si la vostra liberalità vole che vegna a cotanto onore, vogliatime mandare pecunia in presente9, scì10 che in lo çardino in lo quale sono intrato, possa stare e cogliere fructo pretioso. Il figlio al padre per avere denari Sono andato al prato della filosofia, piacevole e apportatore di fama, e ho voluto cogliere fiori di diversi colori, acciò che io facessi una corona di meravigliosa bellezza con tutto questo sapere, la quale risplendesse sul mio capo e nel nostro paese facesse una bella impressione su parenti e amici. Ma il guardiano del giardino si mise contro, se non gli facessi doni piacevoli e onorevoli. Quindi poichè non ho di che spendere, se la vostra liberalità vuole che io raggiunga tale onore, vogliatemi mandare denaro subito, così che io possa stare nel giardino in cui sono entrato e cogliere il frutto prezioso. Si tratta di una richiesta di denaro rivolta al padre da un figlio andato a studiare filosofia a Bologna. È una lettera fittizia: lo scrittore offre un modello elegante per chiedere soldi. È una lingua illustre non popolare. È la prima prosa italiana. FLORE: fiori, si spiega con la scarsa percezione dei settentrionali per le vocali finali atone VOLE: forma non dittongata di vuole AMISI, VEGNA: settentrionalismi SCI’: sì, non è un settentrionalismo DELECTEVELE, FRUCTO, GRATIOSO, PHYLOSOPHYA, HONESTI, HONORE: latinismi NOVELLINO: È molto importante per la prosa dell’italiano antico in quanto primo esempio di testo narrativo con intento d’arte. Il genere è la novella. Il testo è anonimo e presenta un problema filologico: la vulgata non è legata ai codici più antichi che ci hanno trasmesso la raccolta di novelle, ma alla stampa cinquecentesca. Il titolo risale al 1525: fu usato sa Giovanni della Casa in una lettera al curatore della prima stampa. Nei manoscritti il titolo era “Libro di novelle et di bel parlare gientile” o “Cento novelle”. Proemio: Questo libro tratta d' alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di be' risposi e di belle valentie e doni, secondo che per lo tempo passato hanno fatti molti valenti uomini. Novella I: Quando lo Nostro Signore Gesù Cristo parlava umanamente con noi, infra l' altre sue parole, ne disse che dell' abondanza del cuore parla la lingua.  Voi ch'avete i cuori gentili e nobili infra li altri, acconciate le vostre menti e le vostre parole nel piacere di Dio, parlando, onorando e temendo e laudando quel Signore nostro che n' amò prima che elli ne criasse, e prima che noi medesimi ce amassimo. E se in alcuna parte, non dispiacendo a lui, si può parlare, per rallegrare il corpo e sovenire e sostentare, facciasi con più onestade e con più cortesia che fare si puote. Et acciò che li nobili e ' gentili sono nel parlare e ne l'opere molte volte quasi com' uno specchio appo i minori, acciò che il loro parlare è più gradito, però ch' esce di più dilicato stormento, facciamo qui memoria d'alquanti fiori di parlare, di belle cortesie e di belli risposi e di belle valentie, di belli donari e di belli amori, secondo che per lo tempo passato hanno fatto già molti.  E chi avrà cuore nobile et intelligenzia sottile, sì li potrà simigliare per lo tempo che verrà per innanzi, et argomentare e dire e raccontare in quelle parti dove avranno luogo, a prode et a piacere di coloro che non sanno e disiderano di sapere. E se i fiori che proporremo fossero mischiati intra molte altre parole, non vi dispiaccia: ché 'l nero è ornamento dell' oro, e per un frutto nobile e dilicato piace talora tutto un orto, e per pochi belli fiori tutto un giardino. Non gravi a' leggitori: che sono stati molti, che sono vivuti grande lunghezza di tempo, e in vita loro hanno appena tratto uno bel parlare, od alcuna cosa da mettere in conto fra i buoni.

Ricorrono molti termini toscani: ACCONCIARE, SOVENIRE, SOSTENTARE, APPO, ACCIO’ CHE, PERO’ CHE, DONARI, SIMIGLIARE, A PRODE. STROMENTO: strumento, esito regolare in o di Ū pretonica Novella 35: Maestro Taddeo, leggendo a' suoi scolari in medicina, trovò che, chi continuo mangiasse nove dì di petronciani, che diverrebbe matto. E provavalo secondo fisica.. Un suo scolaro, udendo quel capitolo, propuosesi di volerlo provare: prese a mangiare de' petronciani, et in capo de' nove dì venne dinanzi al maestro e disse: "Maestro, il cotale capitolo che leggeste non è vero, però ch' io l' hoe provato, e non sono matto."  E pure alzasi e mostrolli il culo. "Iscrivete" disse il maestro "che provato è; e facciasene nuova chiosa." PETRONCIANO: toscanismo per melanzana PROPOSUESI: forma dittongata con pronome enclitico HOE: ho ! ! ! ! ! IL TRECENTO La Divina Commedia è scritta in una lingua diversa da quella teorizzata nel De Vulgari Eloquentia e il suo stile utilizza risorse ben più vaste di quelle proprie della poesia stilnovista. La ricchezza tematica e letteraria è maggiore di tutto quanto era stato fino ad allora prodotto. Favorì la promozione del volgare, dimostrando che la lingua aveva potenzialità illimitate. E’ un’opera terminata in esilio e si collega linguisticamente anche a tutta l’Italia settentrionale, che ospitò il poeta per gran parte del lavoro. Con la Commedia il toscano cominciò la sua espansione: fu un processo irreversibile anche grazie a Petrarca e Boccaccio. Possiamo affermare che il fiorentino avesse particolari potenzialità perché lingua più vicina al latino e perché Firenze aveva una società opulenta e vivacissima, ma se non fosse stato per le “Tre Corone” il suo destino sarebbe stato diverso. Migliorini ha definito Dante padre del nostro idioma nazionale. Tullio De Mauro ha osservato che quando Dante cominciò a scrivere la Commedia il vocabolario fondamentale dell’italiano si era formato al 60%, alla fine del 1300 invece al 90%: incrementò il patrimonio linguistico dell’italiano. I latinismi della Commedia hanno provenienza diversa: la letteratura classica, le Sacre Scritture, la filosofia tomistica e la scienza medievale. Il 6° canto del Paradiso è colmo di latinismi: CIRRO NEGLETTO per capigliatura arruffata, LABI è un verbo proveniente da Virgilio, Orazio e Ovidio, TOLLE per lo prende su di sè, CUBA per giacere, BAIULO per portatore dell’aquila imperiale, COLUBRO per serpente, SUBITANA per improvvisa, LITO LUBRO per Mar Rosso; EMISPERIO, DILIBRA, TETRAGONO,... sono latinismi scientifici. La Commedia si caratterizza per la disponibilità ad accogliere elementi di origine disparata. Vi è varietà di tono in quanto le situazioni vanno dal profondo Inferno alla visione di Dio. Dante viene definito plurilinguista, ma nonostante ciò la Commedia è sostanzialemente fiorentina. Si sente abbastanza libero di evitare forme morfologiche del fiorentino del suo tempo, quando ragioni di gusto personale glielo dettino. Alterna termini come serocchia con sorella e suora; forme dittongate e non come core/cuore, foco/fuoco, ma troviamo solo buono e non bono. E’ presente: I o E in protonia virtù/vertù; A in protonia danari/denari, giovanetto/ giovinetto; condizionale in -ia/-ei. Il polimorfismo di Dante si traspose nella lingua italiana. La caratteristica dominante del linguaggio di Petrarca è, invece, la selettività: esclude molte parole inadatte al genere lirico. Le sue opere in volgare sono decisamente meno di quelle in latino. Il Canzoniere rappresenta una sorta di elegante divertimento dello scrittore (possediamo un autografo). Il volgare è per lui la lingua di un raffinato gioco poetico. La lingua naturale dell’uomo colto è il latino. Sono in latino le postille apposte dallo stesso Petrarca al codice che si suole indicare come “gli Abbozzi”, il Vaticano Latino 3196. Sul piano della sintassi fa largo uso di una dispositio che muta l’ordine regolare delle parole, anticipando il determinante rispetto al determinato o anticipando l’infinitiva dipendente rispetto alla principale: la collocazione delle parole si sottrae alla banalità del quotidiano. Ricorrono chiasmi, antitesi, enjambements, anafore, allitterazioni e si trovano binomi di aggettivi spesso di significato analogo. Scrive, come era normale al suo tempo, uniti: sualuce, almio, delbel, laprima, belliocchi. L’apostrofo fu introdotta all’inizio del 1500. Il sistema dei segni di interpunzione si riduce al minimo. Sono presenti molti latinismi grafici: h etimologiche in huomo, humano, honore; x di excellentia, extremi, dextro; il nesso tj- di gratia, letitia, pretioso, abbreviazioni di nasali e per. A differenza della poesia, la prosa del 1300 non era ancora stabilizzata in una tradizione salda. Non mancavano esempi a cui ispirarsi, ma il Convivio e la Vita Nova nacquero in funzione della poesia. Un buon modello per la prosa era il Novellino. Il salto di qualità si ebbe con il Decameron. Nel Decameron ricorrono varie situazioni narrative in contesti sociali diversi. Tutte le classi si muovono sulla scena. Nella sua ricerca di realismo Boccaccio non ha rinunciato a una caratterizzazione anche linguistica che sapesse cogliere queste differenze.

Aderì al modulo del parlato, ma lo stile boccacciano è caratterizzato dalla complessa ipotassi. E’ uno stile magniloquente in cui le subordinate si accumulano in gran numero. La struttura è resa ancora più complessa dalle inversioni latineggianti e dalle posposizioni dei verbi. La sintassi è complessa. Furono imitati i nessi largamente usati per regolare il funzionamento e la successione del periodo (adunque, allora, appresso, come che, avvenne che, ....), l’uso del relativo a inizio periodo (al quale, a cui...dissi,...) in funzione di raccordo immediato, gli artifici ritmico-musicali come gli omoteleuti (una o più parole, poste simmetricamente, terminano nello stesso modo o similmente), parallelismi sintattici, simmetrie del periodo, allitterazioni, figure retoriche. La prosa è fiorentina di livello medio-alto. Nel suo manoscritto possiamo notare: latinismi grafici come le x, il nesso ct, la forma advenuto per avvenuto, h etimologiche, abbreviazioni delle nasali e di per. Il sistema di interpunzioni è più ricco. Boccaccio è anche autore di uno dei più antichi testi in volgare napoletano: un’epistola nota come “Epistola napoletana” databile attorno al 1339. Si tratta di uno dei primi esempi di quella che, con definizione moderna, si potrebbe chiamare letteratura dialettale riflessa, cioè letteratura dialettale cosciente di essere tale, volontariamente distinta dal codice della lingua letteraria. Si tratta di uno scritto in tono scherzoso, in cui l’autore si cimenta in un divertimento occasionale, rivolgendosi all’amico fiorentino Francesco de’ Bardi. Autori famosi furono anche: Domenico Cavalca, Iacopo Passavanti, Giovanni Villani, Dino Compagni. I volgarizzamenti continuarono nel 1300, in forme che si avvicinarono in certi casi a veri rifacimenti del testo originale. Tra i volgarizzamenti possiamo citare “Le vite dei santi padri” di Domenico Cavalca. I “Fioretti” di S.Francesco sono un volgarizzamento. “Vita di Cola di Rienzo”, contenuta nella “Cronica” risalente al 1360 e attribuita a Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, mostra il romanesco nei suoi tratti meridionali, prima della sua toscanizzazione nel 500. La prosa, molto più della poesia, manteneva l’impronta geografica. DIVINA COMMEDIA: Innalzò il volgare a un livello di arte sublime e sancì la piena maturità del volgare. Non esiste l’originale della Commedia. L’apparato della Commedia mostra la varietà di esiti, risultato della trasmissione del testo: troviamo forme che sicuramente non sono toscane, ma si palesano come settentrionalismi presenti in alcuni codici. Per esempio nelle prime tre terzine del primo canto abbiamo diverse versioni: - MEGGIO: mezzo, settentrionalismo - DRICTA, DRITA, DIRITTA - PUOCHO: poco, settentrionalismo DE VULGARI ELOQUENTIA: L’opera è il latino, ma vi sono molte inserzioni in volgare. Sono molte le parole o le locuzioni in latino classico utilizzate con un’accezione diversa. MEDIASTINUS: da MEDIASTINIS CIVIBUS, in mezzo alla città SUE FORME, AVARITIE: grafie medievali ET QUIA REGALE....VOCETUR: sintassi tipica del volgare RACHA: forma di imprecazione ebraica CANZONIERE: La lirica di Petrarca rimase per lunghi anni un modello. Il codice Vaticano Latino 3196 è il codice degli abbozzi di pugno di Petrarca. O d’ardente vertute ornata et calda alma gentil chui tante carte vergo; o sol già d’onestate intero albergo, torre in alto valor fondata et salda; o fiamma, o rose sparse in dolce falda di viva neve, in ch’io mi specchio e tergo; o piacer onde l’ali al bel viso ergo, che luce sovra quanti il sol ne scalda: del vostro nome, se mie rime intese fossin sí lunge, avrei pien Tyle et Battro, la Tana e ’l Nilo, Athlante, Olimpo et Calpe. Poi che portar nol posso in tutte et quattro parti del mondo, udrallo il bel paese ch’Appennin parte, e ’l mar circonda et l’Alpe. O anima nobile ornata e calda di ardente virtù in onore della quale io riempio di scrittura tanti fogli; o al presente unico rifugio intatto di esemplare virtù, salda come una torre e fondata sul suo alto valore; o fiamma degli occhi, o rose sparse in un dolce strato di neve via, nella quale fiamma io mi rispecchio e mi purifico; o gioia, per ottenere la quale innalzo le ali del desiderio al bel viso, che risplende al di sopra di tutti gli altri al mondo scaldati dal sole: se i miei versi fossero capiti così lontano, avrei riempito del vostro nome Tule, Battro, il Tanai e il Nilo, Atlante, Olimpo e Calpe. Poiché non posso

portare il vostro nome in tutte le quattro parti del mondo, lo udirà il bel paese che è diviso a metà dall’Appennino e è circondato dalle Alpi e dal mare. DECAMERON: Vi è una grande varietà di registri: dialoghi, battute tipiche del parlato, conversazioni quotidiane, accanto a uno stile elevato e nobile. Le pagine di registro alto sono state considerate a lungo il modello della prosa italiana. CRONICA ROMANA: Risale al 1357-1358 e racconta gli avvenimenti accaduti tra il 1325 e il 1357. È in antico romanesco. Si tratta di una delle scoperte extratoscane più rilevanti. Documenta la lingua romana prima della toscanizzazione avvenuta con il sacco di Roma nel 1500. Ha un alto valore letterario. Cola de RIenzi fu de vasso lenaio. Lo patre fu tavernaro, abbe nome Rienzi. La matre abbe nome Matalena, la quale visse de lavare panni e acqua portare. Fu nato nello rione della Regola. Sio avitazio fu canto fiume, fra li mulinari, nella strada che vao nella Regola, deretro Santo Tomao, sotto lo tempio deli Iudei. Fu de soa ioventutine nutricato de latte de eloquenzia, buono gramatico, megliore rettorico, autorista buono. Deg, come e quanto era veloce leitore! Moito usava Tito Livio, Seneca e Tulio e Valerio Massimo. Moito li delettava le magnificenzie de Iulio Cesari raccontare. Tutta die se speculava nelli intagli de marmo li quali iaccio intorno a Roma. Non era aitri che esso, che sapesse leiere li antiqui pataffii. Tutte scritture antiche vulgarizzava. Queste figure de marmo iustamente interpretava. Deh, como spesso diceva: “Dove soco questi buoni Romani? Dove ène loro summa iustizia? Poterame trovare in tiempo che questi fussino! RIENZI: dittongamento tipico dei dialetti meridionali (Renzo) SOA: non ha chiusura in iato propria del toscano VASSO: basso, una labiale sonora si spirantizza non solo in posizione intervocalica, come nel toscano FORME IN -ARO: tipiche extratoscane, in Toscana prevalgono le forme in -aio. !

!

!

!

!

IL QUATTROCENTO

Nello scrivere in latino Petrarca si ispirava a Cicerone, Livio, Seneca, Virgilio e Orazio, misurando consapevolmente la differenza tra quei modelli e il latino medievale concorrente ai suoi tempi. Avviò un processo determinante per la lingua: il confronto con il latino degli autori canonici orientò verso l’imitazione dei grandi modelli letterari. La svolta umanistica, che cominciò con Petrarca ebbe come conseguenza la crisi del volgare: non arrestò l’uso del volgare stesso, là dove era divenuto comune, ma semplicemente lo screditò agli occhi della maggior parte dei dotti, mentre nell’uso pratico continuava a farsi strada. Vi furono umanisti della prima generazione che non utilizzarono mai il volgare, come Colluccio Salutati. Dirigendo per diversi anni la cancelleria fiorentina ebbe modo di influire, diffondendo il suo stile latino elaborato sulla base dei modelli ciceroniani. Il latino era preferito in quanto lingua più nobile, l’unica in grado di garantire immortalità letteraria. L’uso del volgare, secondo questi dotti, risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari, ma mai nell’arte. Gli umanisti, nei loro studi, si interessarono soprattutto alla situazione linguistica al tempo della Roma antica e ciò sollevo il problema dell’origine dell’italiano. Due erano le ipotesi: una dio Flavio Biondo e una di Leonardo Bruni. Biondo sosteneva che al tempo di Roma antica si parlasse una sola lingua, il latino, e che questa lingua si era corrotta con la venuta dei barbari. Da questa corruzione era nato l’italiano, che risultava frutto di una mistura tra il latino e il barbaro. Attribuì la corruzione non tanto ai goti che si erano impadroniti di Roma dopo la caduta dell’Impero, quanto ai longobardi, considerati più rozzi e quindi privi di rispetto per il latino. La lingua italiana risultava quindi nata con un marchio negativo. Leonardo Bruni era convinto che nella Roma antica non si parlasse un latino omogeneo, ma che ci fossero due diversi livelli di lingua: uno alto letterario e uno basso popolare. Da quest’ultimo si sarebbe sviluppato l’italiano. La calata dei barbari non era stata decisiva per la formazione per la formazione del volgare: l’italiano è nato da un’evoluzione, per una spinta interna. La scelta più accreditata nel Rinascimento fu quella di Biondo. Fu ripresa nelle “Prose della volgar lingua” di Bembo nel 1525. Lo sviluppo del volgare rallentò, ma si ebbe un cambio di rotta quando Leon Battista Alberti manifestò la prima fiducia nell’italiano, ritenuta lingua matura per affrontare argomenti seri e importanti. Elaborò un programma di promozione dell’italiano, iniziando il movimento definibile con il termine Umanesimo volgare. Era convinto che si dovesse imitare i latini prima di tutto perché avevano scritto in una lingua universalmente compresa e di uso generale. Come il latino classico, anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare a una promozione alta, da affidare ai dotti. Il latino indicava la strada da percorrere. Realizzò la prima grammatica della lingua italiana, scritta attorno al 1440. La “Grammatica della lingua toscana” è tramandata da un unico codice conservata nella Biblioteca Vaticana: viene chiamata anche “grammatichetta vaticana” per la sua mole ridotta. Si rifà alle categorie latine perché vuole dimostrare che anche il volgare ha una struttura grammaticale ordinata. Si basò sul toscano del suo tempo.

Nel 1441 organizzò il Certame coronario, una gara poetica in cui i concorrenti dovevano presentare componimenti poetici in volgare sul tema dell’amicizia. Con Lorenzo il Magnifico si ebbe una forte promozione della lingua toscana. Protagonisti di questa svolta in favore del toscano furono lo stesso Lorenzo, Cristoforo Landino (maestro di Lorenzo) e Angelo Polizano (suo segretario privato). Landino negò la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invitò i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenesse il principato della lingua. Lo sviluppo della lingua si legava ora a una concezione patriottica, intendendo la lingua toscana come patrimonio e potenzialità dello Stato mediceo. Con il suo volgarizzamento di “Naturalis Historia” di Plino dimostrò che il volgare era ormai abbastanza maturo per per trattare ogni argomento. A parer suo la lingua toscana doveva ancora arricchirsi con l’apporto della lingua latina e di quella greca, per questo motivo le traduzioni delle lingue classiche al volgare erano un importante esercizio. Nel 1477 Lorenzo inviò a Federico, futuro erede al trono di Napoli, la “Silloge aragonese” o “Raccolta aragonese”. Contiene tutta la tradizione poetica volgare, dai predanteschi e lo Stilnovo allo stesso Lorenzo. Questa raccolta fu accompagnata da una lettera, attribuita a Poliziano, in cui si elogia la lingua e la letteratura toscana. Alla corte di Lorenzo i letterati si cimentarono anche nello stile comico, realistico e popolare. Lorenzo si cimentò nel genere rusticale: “Nencia da Barberino”. Poliziano ricorse all’elemento comico e alla battuta grassa nei “Detti piacevoli”. Nell’ambiente mediceo il genere popolare del cantare cavalleresco venne trasposto su un piano colto. Si trattava di una forma poetica in ottave che veniva portata nelle piazze dai canterini per dilettare un pubblico medio-basso. Appartiene a questo genere il “Morgante” di Pulci, composto tra il 1461-1481. La lingua si caratterizza per il ricco lessico realistico, la fraseologia idiomatica, i giochi di parole e i neologismi lessicali. I versi delle “Stanze per la giostra” di Poliziano sono costruiti attraverso un intarsio di tessere lessicali, desunte dalle più varie fonti letterarie latine e volgari. La prosa ebbe meno uniformità della poesia, anche il relazione alla maggior varietà di impiego: si estendeva a settori pratici, alle scritture private, cancelleresche, tecniche. Nei testi pratici, privi di intenti artistici, la compresenza tra latino e volgare era frequente. In tutti i tipi di testi del 400 si riscontrano molti latinismi grafici e lessicali e frequenti sono gli inserti lessicali. Nel 1400 gli scritti tendono al conguaglio, cioè all’eliminazione dei tratti più vistosamente locali, a differenza dei secoli precedenti in cui erano molto differenziati geograficamente. Evolvono verso forme di koiné, termine tecnico con cui si indica una lingua comune superdialettale. La koiné del 1400 è una lingua scritta che mira all’eliminazione dei tratti locali, accogliendo latinismi e appoggiandosi al toscano. Nella cultura e negli uffici amministrativi della corte, cioè nelle cancellerie, aumentano le manifestazioni scritte in volgare. L’uso delle cancellerie era influenzato dai gusti linguistici e letterati della corte signorile, di cui segretari e cancellieri facevano parte. La mobilità dei cortigiani, spesso non fissi nella stessa corte, favoriva l’incontro e lo scambio con interlocutori di altre regioni, promuovendo il livellamento della lingua di koiné. Lo scarto tra scrittura pratica e letteraria rimaneva ben marcato. La letteratura religiosa contribuì alla circolazione di modelli linguistici toscani e centrali. Nel 1400 troviamo raccolte di laude in uso presso molte comunità settentrionali. Le sacre rappresentazioni erano messe in scena per un pubblico popolare e quindi erano un’altra occasione in cui, come nel caso della laudi, gli incolti dialettofoni potevano incontrare una lingua più nobile e toscanizzata. Anche la predicazione si rivolgeva al popolo e quindi necessitava del volgare. Espressioni e frasi in latino si trovano a convivere con una robusta dialettalità. Il fatto che i predicatori si muovessero da un luogo all’altro e facessero esperienza di un pubblico sempre diverso, li spingeva a raggiungere il possesso di un volgare che fosse in grado di comunicare al di là dei confini di una singola regione. Con la stampa a caratteri mobili diminuì il prezzo dei libri e aumentarono la tiratura e la divulgazione. L’innovazione della stampa, di Gutenberg, influenzò l’evoluzione della lingua. Produsse una regolarizzazione sempre maggiore della scrittura. L’editoria del Rinascimento favorì la diffusione della teoria bembiana e realizzò una maggiore omogeneità linguistica dei testi, sottraendoli alle oscillazioni tipiche della koiné del 1400. I primi tipografi in Italia furono tedeschi, ma ben prestò l’arte tipografica venne appresa da artigiani nostrani e si concentrò a Venezia. Altre città con una vivace editoria furono Roma, Milano, Bologna, Firenze. La tipografia nacque matura e prese come modello il manoscritto e lo imitò nella forma. In seguito si distaccò dal modello del manoscritto e introdusse elementi che prima non esistevano: il frontespizio contenente il titolo, il nome dell’autore, la marca tipografica dell’editore, l’indicazione della città e l’anno di stampa. I libri stampati in volgare furono per tutto il 400 in minoranza. Il primo libro volgare italiano è un testo popolare devoto: “Fioretti” di S.Francesco, pubblicato a Roma nel 1469. Ora si deve tener presente di un libro di preghiere mutilo, il cosiddetto “Parsons fragment” che potrebbe risalire al 1462. Si chiama incunabolo il libro quattrocentesco appartenente al primo periodo dell’arte tipografica appena nata. La prima edizione stampa di un testo viene detta princeps.

Gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare sono frequenti. Esistono due forme di contaminazione colta tra volgare e latino. Con il termine macaronico si designa un linguaggio, e un genere poetico, comico nato come divertimento nell’ambiente universitario padovano, alla fine del 1400. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodica di parole del volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latine, con forte tensione espressionistica tra le due componenti poste a coesistere, anzi a quasi a cozzare violentemente tra di loro. La componente dialettale è usata soprattutto per il materiale lessicale; quella latina fornisce soprattutto la struttura grammaticale e metrica. Il metro dei poemi macaronici è l’esametro virgiliano. Questa tecnica consiste nell’abbassamento del tono. L’iniziatore del genere macaronico fu Tifi Odasi, ma livelli artistici più alti furono raggiunti da Teofilo Folengo con “Baldus”. A differenza del macaronico il polifilesco, detto anche pedantesco, non ha alcun intento comico. Un’interessante prova di questo linguaggio si ha nell’Hypnerotomachia Poliphili: un romanzo anonimo, ma attribuito ad domenicano veneziano Francesco Colonna. Si tratta di un’opera scritta in un volgare che sopporta un’estrema dose di latinizzazione possibile. Lo svolgersi della trama è rallentato da lunghe e frequenti descrizioni. Il volgare che viene combinato con il latino è il toscano letterario, boccaccesco, con una patina di settentrionale illustre. Il latino usato si ispira a modelli diversi da quelli della latinità aurea, rifacendosi a Apuleio e Plinio. A Milano l’apertura verso la letteratura toscana era stata sensibile. Filippo Maria Visconti era grande lettore e cultore della letteratura e della lingua delle Tre Corone. Nella seconda metà del secolo, anche nella cerchia di Ludovico il Moro era vivo il culto per gli antichi scrittori cristiani, presi a modello dai rimatori di corte. A Ferrara Mattia Maria Boiardo scelse l’imitazione petrarchesca negli “Amorum libri”, dove la toscanizzazione è molto forte. Boiardo assimilò librescamente il toscano, senza percepirlo come lingua viva e nei suoi sviluppi diacronici. Frequenti sono i latinismi che si riflettono anche sul vocalismo tonico: I e U al posto di E e O (simplice, firma, summo). Le forme NUI e VUI sono frutto di una coincidenza tra l’esito settentrionale metafonetico e la tradizione poetica di matrice siciliana. Un tratto toscano è l’anafonesi in lingua, vermiglio, anche se l’esito locale è presente in parole come: gionto per giunto, ponto per punto, longo per lungo. Nel consonantismo il settore delle scempie e delle geminate è l’unico in cui prevale l’esito locale: numerosi sono gli scempiamenti in posizione di rima. Dell’Orlando Innamorato non possediamo l’originale e nemmeno le due edizione princeps del 1400. Le due più antiche edizioni del poema che ci sono giunte sono del 1487 e del 1506 e ci sono arrivate in unica copia. Abbiamo anche un manoscritto posteriore al 1495. Le due stampe presentano un colorito dilettale, mentre il manoscritto è maggiormente toscanizzato. Durante il periodo in cui si instaurò a Napoli la corte della dinastia aragonese tra il 1422 e il 1502 fiorì una poesia cortigiana che, prendendo a modello Petrarca, iniziò gradualmente a avvicinarsi alla lingua letteraria toscana. In questi testi rimangono forti oscillazioni tra forme anafonetiche fiorentine e forme senza anafonesi, tra i possessivi TOA, SOA e i toscani TUA, SUA; persistono forme meridionali come iorno per giorno, iace per giace e gli articoli lo e lu. I maggiori rappresentanti sono Cariteo e Sannazzaro. Di particolare importanza è l’Arcadia di Sannazzaro: è la prima prosa d’arte composta fuori Toscana, in una lingua appresa ex novo e il primo esempio di revisione linguistica toscaneggiante. La prima edizione è del 1484-86 e quella toscanizzata del 1504. GRAMMATICHETTA VATICANA DI LEON BATTISTA ALBERTI: È la prima grammatica della lingua italiana. Si suppone sia stata compost tra il 1434 e il 1438. Appena fu scoperta la paternità era dubbia, ma ora è fatto indiscusso che appartenga a Leon Battista Alberti. Prendendo spunto dalle dispute umanistiche sulla nascita e sulla dignità del volgare, voleva dimostrare che la lingua volgare, come il latino, era governata da regole. Il volgare descritto è il fiorentino dell’uso vivo e questo differenzia la Grammatichetta dalle altre opere fondate invece sul linguaggio delle Tre Corone. Numerose sono le grafie latine: nessi ct, pt, ti, h etimologiche, conservazione di u in parole come populi e masculino. Si registra l’oscillazione grafica tra forma con consonante semplice e forma con consonante doppia in feminino e femminino. Talvolta l’articolo viene omesso per influenza del latino. Tratti propri del fiorentino sono: articolo el, desinenza -orno del perfetto (chiamorno), suo per loro. Tipicamente quattrocenteschi sono la desinenza in -o per la prima persona singolare dell’imperfetto, hobbi per la seconda persona singolare del congiuntivo di avere e habbino per la terza plurale, dileguo di v nel futuro arò, arai,... Sempre rispettata è l’enclisi del pronome personale atono a inizio frase o dopo congiunzione. LETTERA DI FERDINANDO D’ARAGONA RE DI NAPOLI AL FIGLIO: È un documento della lingua epistolare di tipo cortigiano e cancelleresco. Risale al 1432. Il re raccomanda a uno dei suoi figli di proseguire gli studi e di far avere al più presto al celebre letterato Antonio da Bologna detto il Panormita il compenso per il suo lavoro da precettore. Il latino influenza le scritture pubbliche e private, non solo per l’uso di latinismi, ma per veri e propri inserimenti della lingua antica nel testo volgare.

Conservazione h etimologiche, nessi ct e ti, conservazione consonante x. Latinismi lessicali: intermictate (interrompiate), litere (letteratura), omnino (tutto). PER IPSO: il complemento di mezzo rappresentato da persona è espresso da per QUANTUNQUA: aggettivo concordato al femminile con OCCUPATIONE e vale qualunque VE: pronome personale vi VUI: meridionalismo PORITE: forma del futuro potrete -AMO, -IMO di desideramo e volimo: tipiche dell’Italia centro-meridionale PROVIDATE: latinismo di provideo HYPERNOTOMACHIA POLIPHILI: Et quivi, le valve d’oro reserate, inseme introrono. Ma io me affermai sopra il sancto et riverendo limine et cum vigilanti ochii, nel’amantissimo obiecto immobilemente infixi respectante, vidi la monitrice iubente che la mia Polia vero, myropolia, se geniculasse sopra il sumptuoso pavimento et cum sincera devotione coricarse. Il quale pavimento era mirabile, tuto di gemme lapidoso, orbitamente composito cum subtile factione, cum multiplice et elegante innodatione politamente distincto, opera ossiculatamente tasselata, disposita in virente figlie et fiori et avicule et altri animali, secundo che opportuno era il grato colore delle pretiose petre, splendido illucente, cum perfecto coaequamento, dalle quale geminato rimonstrava quelli che erano intrati. Sopra questo dunque la mia audacula Polia, denudati religiosamente gli lactei genui, cum summa elegantia genuflexe, più belli che unque vedesse la Misericordia ad sè dedicati. Per la quale cosa isteti sospesamente attento cum gli silenti labri et, per non volere gli sancti litamenti interrompere et le propitiatione contaminare et irrumpere le solemne prece et il mysterioso ministerio et le arale cerimonie perturbare, gli improbi sospiri da valido amore infiammati debitamente incarcerai. Hora dinanti di una sanctificata ara nella mediana dil sacrulo operosamente situata, di divina fiamma lucente, geniculata humilmente se stava. Qui richiuse le porte dorate entrarono insieme. Ma io mi fermai sulla sacra e venerabile soglia e guardando con occhi attenti fissi senza muoversi sull’amatissimo oggetto vidi la profetessa ordinare che la mia Polia, fonte di ogni profumo si inginocchiasse sul sontuoso pavimento e con sincera devozione si chinasse. Il pavimento era meraviglioso tutto pieno di pietre preziose con decorazioni disposte circolarmente con tecnica raffinata caratterizzato da molteplici eleganti viluppi: un lavoro eseguito con precisione certosina usando piccolissimi pezzi dando forma a foglie verdeggianti fiori uccellini e altri animali, secondo l’opportunità della gradevolezza del colore delle pietre preziose. Splendido e lucente con perfetta levigatura la sua superficie rifletteva l’immagine di quelli che erano dentro. Sopra questo pavimento dunque la mia ardita Polia denudate rispettosamente le candide ginocchia con somma compostezza si inginocchiò. Ginocchia così belle non erano mai state viste da Misericordia piegarsi in segno di devozione. Per questo rimasi fermo immobile attento in silenzio. E per non volere interrompere i santi sacrifici, guastare il rito propiziatorio, interrompere la solenne preghiera e il mistico officio, e disturbare la celebrazione rituale sull’altare, trattenni a dovere gli impudenti sospiri infiammati da forte amore. Ora davanti al sacro altare posto esattamente al centro del sacello rilucente della fiamma divina se ne stava umilmente genuflessa. Latinismi lessicali: valve (porte), limine (soglia), obiecto, respectante (da respicere, osservare), sumptuoso, subtile (sottile), iubere (ordinare), lactei genui (bianche ginocchia), unque (mai), isteti (stessi fermo). MYROPOLIA: coniato giocato con il nome di Polia da myrum, essenza profumata ARCADIA SANNAZARO: È un romanzo pastorale misto di prose e versi. Dopo una prima stesura risalente al 1484-86 sottopose il suo testo a una revisione linguistica, adottando come modello il toscano petrarchesco per la poesia e il toscano boccacciano per la prosa, e lo stampò nel 1504. È importante sottolineare come adotto questi modelli prima della teoria di Bembo. GALICIO (egloga 3 vv 53-81) In questo dì giocondo Nacque l’alma beltade, E le virtuti raquistaro albergo; Per questo il cieco mondo Conobbe castitade, La qual tant’anni avea gittato a tergo; Per questo io scrivo e vergo I faggi in ogni bosco, Tal che ormai non è pianta Che non chiami Amaranta, Quella ch’adolcir basta ogni mio tosco, Quella per cui sospiro, Per cui piango e m’adiro. Mentre per questi monti Andran le fiere errando E gli altri pini aran pungenti goflie, Mentre li vivi fonti Correran murmurando Ne l’alto mar che con amor gli accoglie, Mentre fra speme e doglie

Vivran gli amanti in terra, Sempre fia noto il nome, Le mani, gli occhi e le chiome Di quella che mi fa sì lunga guerra, Per cui quest’aspra amara Vita m’è dolce e cara. Per cortesia, canzon, tu pregherai Quel dì fausto et ameno Che sia sempre sereno. Vi sono molti richiami classici. L’elenco di eventi comuni e naturali, DYNATA, come garanzia dell’eterno ricordo del nome di una persona si trova anche nelle Bucoliche. Una serie simile si ha anche in Petrarca. Galicio, innamorato di Amaranta, va scrivendo il nome di lei su tutti gli alberi come avviene nell’Orlando furioso, dove Orlando impazzisce leggendo i nomi di Angelica e Medoro sui tronchi. Gli echi della poesia di Petrarca li troviamo in: cieco mondo, fa sì lunga guerra, nell’accostamento dei verbi sospirare, piangere e adirarsi, nell’ossimoro aspra amara/ dole e cara, nelle dittologie scrivo e vergo/ fausto et ameno. Aulici e letterari sono: alma, ormai, speme, doglie, avea, fia, beltade, virtuti, castitade. !

!

!

!

!

IL CINQUECENTO

Il volgare raggiunse piena maturità e ottenne il riconoscimento pressoché unanime dei dotti. Trionfa la letteratura volgare con autori come Ariosto, Tasso, Aretino, Machiavelli, Guicciardini. Il volgare scritto raggiunse un pubblico più ampio. Si estese al settore umanistici-letterario e alla storiografia. Il latino resisteva al livello più alto della cultura. In molti settori la sua posizione rimase egemonica: pubblica amministrazione, giustizia, statuti delle città. Quasi esclusivamente al latino si prestavano la filosofia, la medicina, la matematica. Veniva utilizzato nella scienza quando si trattava di stampare opere di divulgazione. Grazie al processo di regolamentazione del volgare nacque una maggior fiducia nella nuova lingua. Nascono le prime grammatiche dell’italiano e vengono realizzati i primi lessici. Esse riflettevano la teoria bembiana. Regole grammaticali della volgar lingua 1516 Fortunio Le tre fontane 1526 Liburnio (raccolta lessicale strutturata secondo le categorie grammaticali) Vocabolario, grammatica, et ortographia de la lingua volgare 1543 Acarisio La fabrica del mondo 1548 Alunno Osservazioni nella volgar lingua 1550 Ludovico Dolce Grammatica 1552 Giambullari (unica grammatica stampata a Firenze) Alla fine del secolo tramonta la scrittura di koinè. Nel 1501 Manuzio stampava “Le cose volgari di Messer Francesco Petrarca”, volume curato da Bembo. Nella premessa lo stampatore difendeva il testo dalle rimostranze di coloro che vi avrebbero eventualmente potuto riconoscere un allontanamento dalle tradizionali grafie latineggianti. Nel 1502 stampava Dante. Importante dei testi di Manuzio sono: il piccolo formato e il carattere tipografico corsivo detto aldino. Nel 1505 Bembo scrisse gli Asolani: nella prosa trattatistica e filosofica imita Boccaccio. PROSE DELLA VOLGAR LINGUA 1525 BEMBO: Sono suddivise in tre libri, l’ultimo dei quali contiene una grammatica dell’italiano. I primi due libri sono una disamina di tutti i temi allora dibattuti pertinenti alla storia linguistica, alla formazione del linguaggio letterario, alla teoria della letteratura, alla teoria estetica, alla teoria retorica. Nel primo libro sostiene che la lingua letteraria deve rimanere ben lontana da quella del popolo. Nel secondo libro esprime un giudizio sulla lingua e sullo stile di Dante Uscirono nel 1525 a Venezia. Fino alle edizione del 1538 e del 1549 il testo rimase lo stesso. È un trattato in forma dialogica: le norme e le regole sono esposte nella finzione del dialogo. Il dialogo è ambientato nel 1502 e vi prendono parte 4 personaggi: - Giuliano de’ Medici: rappresenta la continuità con il pensiero dell’Umanesimo volgare - Federico Fregoso: espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione - Ercole Strozzi: espone le tesi degli avversari del volgare - Carlo Bembo: fratello dell’autore e portavoce delle idee di Pietro. Viene prima svolta un’ampia analisi storico linguistica secondo la quale il volgare sarebbe nato dalla contaminazione del latino ad opera degli invasori barbari. La barbaria originale non era irreversibile: un riscatto del volgare sarebbe stato possibile grazie alla letteratura. Quando Bembo parla di volgare si riferisce al toscano letterario trecentesco di Petrarca, Boccaccio e in parte Dante (non accettava le discese verso lo stile basso e realistico). Il modello per eccellenza era il Decameron, ma non nella parti dei dialoghi, bensì nello stile proprio di Boccaccio: sintassi latineggiante, inversioni, frasi gerundive. La lingua non si acquisisce dal popolo, ma dai modelli scritti. Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era un totale rifiuto della popolarità. Era favorevole a una regolamentazione del latino classico. Era convinto che la storia linguistica italiana avesse raggiunto il picco qualitativo con le Tre Corone, ma non escludeva che il volgare, essendo una lingua giovane, potesse continuare a migliorarsi.

La cultura fiorentina, pur respingendo la posizione bembiana, non trovò il modo di contrapporsi a essa. La situazione mutò solo quando nel 1570 uscì l’Hercolano di Varchi. Fiorentino esule si formò a Padova, presso l’Accademia degli Infiammati dove era viva la lezione di Bembo. Ritornato a Firenze nel 1543 ebbe modo di portare in bembismo in città. La rilettura di Bembo condotta da Varchi non fu affatto fedele, anzi alla fine risultò un completo tradimento delle premesse del classicismo volgare, in quanto si trattò di una vera e propria riscoperta e rivalutazione del parlato, nel quadro di una teoria generale della lingua ispirata non più alla Bibbia, ma alla filosofia naturale. La pluralità dei linguaggi non va spiegata con la maledizione babelica, ma con la naturale tendenza alla varietà propria della natura umana. Il concetto di lingua veniva discusso nell’ambito di una concezione sociale del linguaggio e veniva proposta una classificazione delle lingua basata su una serie precisa di elementi: provenienza dall’estero o originale esistenza in un luogo, patrimonio di letteratura e di cultura, natura di idiomi vivi o morti, comprensibilità. L’Hercolano sanciva il principio secondo il quale esisteva un’autorità popolare da affiancare a quella dei grandi scrittori. Secondo Calmeta il volgare migliore è quello utilizzato nelle corti italiane, specialmente in quella di Roma. Secondo Ludovico Castelvetro, Calmeta faceva riferimento a una fondamentale fiorentinità della lingua, che si doveva apprendere sui testi di Dante e Petrarca e che doveva essere poi affinata attraverso l’uso della corte di Roma, una corte che era luogo al di sopra del particolarismo monumentale. Roma era già una città cosmopolita. Mario Equicola aveva parlato di una lingua capace di accogliere vocaboli provenienti da tutte le regioni d’Italia, mai plebea, con una coloritura latineggiante, il cui modello stava nella corte di Roma. A differenza di Bembo i fautori della lingua cortigiana facevano riferimento all’uso vivo di una lingua di un ambiente sociale determinato. Bembo obiettava che la lingua cortigiana era difficile da definire in maniera precisa. La teoria di Trissino, strettamente legata alla riscoperta del De Vulgari Eloquentia, presenta caratteri affini a quella cortigiana. Nel 1529 diede in stampa il De Vulgari Eloquentia, non nella versione originale, ma tradotto in italiano! Nello stesso anno pubblicò il Castellano, un dialogo in cui sosteneva che la lingua poetica di Petrarca era composta da vocaboli provenienti da tutta Italia e che quindi non era definibile come fiorentina, bensì come italiana. Faceva appello alle pagine in cui Dante condannava la lingua fiorentina, contestandone ogni pretesa di primato letterario. Alla cultura toscana non piacque la proposta di Trissino del De Vulgari Eloquentia. Ben presto si sviluppò una polemica sull’autenticità del De Vulgari Eloquentia, favorita dal fatto che Trissino non rese mai pubblico il testo originale, stampato solo nel 1577 a Parigi da Corbinelli. La traduzione di Trissino continuò a circolare più dell’originale. DISCORSO O DIALOGO INTORNO ALLA NOSTRA LINGUA, MACHIAVELLI: Quest’opera rimase inedita fino al Settecento Dante dialoga con Macchiavelli facendo ammenda agli errori commessi nel De Vulgari Eloquentia. Machiavelli non contestava l’autenticità del trattato dantesco, come fecero altri, ma presenta un Dante condotto a correggere i propri errori, facendogli ammettere di aver scritto in fiorentino e non in una lingua curiale. Le accademie in questo secolo svolsero una funzione di primo piano in quanto in esse si organizzarono gli intellettuali e vennero dibattuti i principali problemi culturali. Accademia padovana degli Infiammati 1540 Accademia fiorentina 1541 Accademia della Crusca 1582 Nell’architettura e nella trattatistica d’arte l’italiano si impose e ciò avvenne non solo per opere nuove, ma anche per le traduzione. Il volgare prevaleva nella scienza applicata o diretta a fini pratici Nel 1532 venne stampata la traduzione De principatibus di Machiavelli. Il Principe è uno splendido esempio di prosa, diverso da quello proposto da Bembo. Macchiavelli scrive in un fiorentino ricco di latinismi e di vere e proprie parole latine le quali non hanno una funzione nobilitante, ma piuttosto ricollegano questa scrittura a quella quattrocentesca di tipo cavalleresco. Fin dalla prima metà del secolo la commedia si rilevò come il genere ideale per la realizzazione di un vivace mistilinguismo o per la ricerca di particolare effetti del parlato. La caratteristica più evidente della lingua della commedia è data dalla compresenza di diversi codici per i diversi personaggi. Particolare fu anche l’uso caricaturale del dialetto. Il petrarchismo è tipico del linguaggio poetico cinquecentesco. Si tratta di una soluzione coerente con il modello di Bembo. A Ariosto fu riconosciuto il diritto di essere collocato tra i modelli linguistici. I rapporti tra Tasso e al Crusca costituiscono un capitolo doloroso nelle discussioni linguistico-letterarie della fine del Cinquecento. Egli non mise mai in discussione la sostanziale toscanità dell’italiano, ma non riconobbe il primato fiorentino. La polemica con la Crusca non toccò la sua poesia lirica, né i versi dell’Aminta, ma il poema. Lo stile di Tasso epico era giudicato oscuro, distorto, forzato e aspro; la lingua era considerata troppo colta, il suo linguaggio era visto come una mistura di voci latine, pedantesche, straniere, lombarde, nuove, composte. I puristi sostenevano che tasso avrebbe usato un numero eccessivo di latinismi e di parole lombarde.

La lingua ufficiale della Chiesa rimase il latino, ma il problema del volgare emerse nella catechesi e nella predicazione. Il rapporto tra la Chiesa e il volgare fu affrontato da Concilio di Trento. Tra i libri proibiti vi erano le Bibbie volgari. Dietro al problema della traduzione si celava quello della libera interpretazione della Scrittura: la diffusione del solo testo latino avrebbe reso il libro distante dall’interpretazione dei meno colti. Il Concilio di Trento sottolineava che la predicazione doveva essere tenuta in lingua volgare. DANTE E PETRARCA ALDINI: Nel 1501 e 1502 Bembo aveva dato in stampa la Commedia e il Canzoniere, curandone personalmente il testo. Nel Petrarca aldino del 1501 il titolo è “Le cose volgari”. Manuzio esordisce spiegando che l’edizione è correttissima e osserva che ci sarà qualcuno pronto a polemizzare sul titolo perché preferirebbe “Cose vulgari” con la u latina. I latinismi erano propri della lingua cortigiana e Bembo se ne distacca. Confrontiamo l’edizione di Vindalino del 1470 e quella di Bembo del Canzoniere: - saxo (Vindelino), sasso (Bembo) - V: chel, chavra; B: che ‘l, ch’havra - B introduce l’apostrofo Confronto tra il princeps della Commedia (Foligno 1472) e quella di Bembo: - B diede il titolo “Terze rime” - F è miniato - F ha abbreviazioni che erano in uso nella scrittura manoscritta e scempiamenti; in B non abbiamo queste forme - B: rinuova con dittongo e i pretonica; F: renova - B elimina el e mette il ARIOSTO: Le stampe dell’Orlando furioso furono 3: 1516, 1521, 1532. Tra le seconda e la terza edizione si colloca la stampa dell’opera di Bembo di cui Ariosto riconobbe l’autorità. Il lavoro di correzione delle diverse stampe porta all’eliminazione dei tratti locali. OTTAVA 78 CANTO I: E questo hanno causato due fontane che di diverso effetto hanno liquore, ambe in Ardenna, e non sono lontane: d'amoroso disio l'una empie il core; chi bee de l'altra, senza amor rimane, e volge tutto in ghiaccio il primo ardore. Rinaldo gustò d'una, e amor lo strugge; Angelica de l'altra, e l'odia e fugge. Il metro è l’ottava di endecasillabi, tipica forma della poesia cavalleresca. Nelle edizioni precedenti: GIACCIO anziché GHIACCIO La correzione del 1521 porta alla metafora del ghiaccio che rovescia l’ardore la quale richiama il modello di Petrarca. TOSCANO CANCELLERESCO DI MACHIAVELLI: Il Principe venne pubblicato molti anni dopo che era stato composto: nel 1532. Le prime notizie che abbiamo dell’opera risalgono al 1513 nella lettera a Francesco Vettori. Uscendo postumo non abbiamo le cure dell’autore. Finì all’Indice con condanna grave pari a quella che colpiva gli eretici e le ristampe divennero rare. L’edizione princeps e la Blado. L’opera è in italiano, ma i titoli in latino. Moltissimi sono i latinismi sia grafici (ritexendo, excessiva,...) sia lessicali (ordini per regole, preterire per dimenticare). Tra i toscsnismi: el, possino, minore (plurale in -e), antinati, sua per suoi. MACHIAVELLI COMMEDIOGRAFO: L’edizione princeps della “Mandragola” uscì anonima e senza dati tipografici. L’unico manoscritto che la tramanda, non di mano machiavelliana risale al 1519 e è il Rediano 129. Nicia, stolto marito di Lucrezia, si reca da Callimaco, finto medico, per chiedergli consiglio su come ingravidare la moglie. La prosa è vivace, ricca di colore locale e elementi del parlato. Tipico del fiorentino cinquecentesco sono: el per il, è suto per è stato, il condizionale e il futuro con dileguo di v (harebbe, harete), congiuntivo imperfetto terza persona singolare in -i e non in -e, mettessi, lasciassi. Il plebeismo dua per due è molto usato da Machiavelli. Toscanismi sono: maravigliare, cotesto Confessoro per confessono è usato solo nella commedie da Machiavelli. All’uso poploare appartengono i participi accorciati, senza suffisso. Molte sono le grafie latine: h etimologiche, nessi ct e ti. #

#

#

#

#

IL SEICENTO

In questo secolo fu importantissima l’Accademia della Crusca. A partire dal 1591 essa indirizzò gli studi verso la lessicografia.

Il Vocabolario dell’ Accademia della Crusca uscì nel 1612, presso la tipografia veneziana di Giovanni Alberti. Gli accademici integrarono al tesoro della lingua del Trecento con l’uso moderno. Avevano cercato di sottolineare la continuità tra la lingua toscana contemporanea e l’antica trecentesca. Presentava termini e forme dialettali fiorentine e toscane. I lemmi dentici si moltiplicavano per la presenza di varanti proprie della lingua antica non ancora normalizzata: BefaniaEpifania, brobbio-obbrobrio, ... Per quanto riguarda la grafia il Vocabolario si collocò sulla linea dell’innovazione, distaccandosi in buona parte dalle convenzioni latine, come ad esempio le h etimologiche e il nesso ct. Il Vocabolario ebbe molta fortuna: - nel 1623 uscì la seconda edizione: l’impianto è uguale a quello della prima, ma ci sono molte aggiunte e correzioni - nel 1691 uscì la terza edizione: 3 tomi anzichè 1. Il primo avversario dell’ Accademia fu Paolo Beni, che nel 1612 pubblicò l’ Anticrusca, nella quale venivano contrapposti al canone dell’ Accademia gli scrittore del Cinquecento e in particolar modo Tasso, il grande escluso del Vocabolario. Polemizza contro la lingua usata da Boccaccio, indicandone le irregolarità e gli elementi plebei. Fondava le proprie argomentazioni su un giudizio negativo nei confronti della prosa del Trecento, pur lodando Petrarca. Tassoni criticò anch’esso l’Accademia. Approntò un elenco di osservazioni e le inviò direttamente agli accademici, i quali forse lo utilizzarono per l’edizione del 1632. Critica la lingua di Boccaccio e dei minori trecenteschi. Proponeva di adottare espedienti grafici per contrassegnare le voci antiche e quelle da evitare perché potrebbero provocare confusione. Fu un uomo di corte al servizio dei Colonna a Roma, del cardinal Maurizio di Savoia a Torino, di Francesco I a Modena. Bartoli fu anch’esso un “anti-Crusca”. Riesaminando i testi del Trecento sui quali si fonda il canone di Salviati dimostra che lì si trovano oscillazioni tali da far dubitare la perfetta coerenza di quel canone grammaticale. La prosa del Seicento deve molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, prima di tutto per merito di Galileo. Nella prefazione a “Le operazioni del compasso geometrico e militare” aveva affermato di aver usato il volgare per raggiungere coloro che avessero più interesse per la milizia che per la lingua latina. Il latino assunse la funzione di termine di confronto negativo. Pur scegliendo il volgare non si collocò mai al livello basso o popolare, ma seppe raggiungere un tono elegante e medio. In alcuni scritti vi sono macchie di lingua toscana viva e parlata. Raggiunse una grandissima chiarezza linguistico-terminologica. Quando nomina o definisce un concetto evita sempre di introdurre terminologia inusitata o troppo colta. Il lessico galileiano non ebbe sempre il sopravvento nel linguaggio scientifico La caratteristica del melodramma è l’unione tra parola, azione scenica e musica. Nato a cavallo tra Cinquecento e Seicento è destinato a un grande successo nel corso di questo secolo. Il melodramma di primo Seicento fu un tentativo di ricreare la tragedia antica che si immaginava fosse stata eseguita dai greci con l’accompagnamento musicale. Il melodramma ebbe origine dalla Camerata dei Bardi (Camerata del conte Bardi). La prima rappresentazione è quella di “Euidice” nel 1600, in occasione delle nozze di Maria de’ Medici. Si caratterizzava come un tipo di spettacolo di élite. Il linguaggio si inserisce nella linea della lirica petrarchesca rivisitata attraverso la memoria di Tasso, in particolare dell’Aminta. Con Marino e il marinismo, a partire da inizio secolo, le innovazioni si fanno ancora più accentuate che in Tasso. Gli schemi metrici e le cadenze ritmiche sono ancora quelle petrarchesche. Nel lessico agiscono spinte innovative che ampliano le possibilità di scelta. La poesia barocca estende il proprio repertorio di temi e il repertorio tematico porta a un’innovazione lessicale. Frequenti sono i riferimenti botanici. Si utilizza un’ampia gamma di animali. Nell’Adone di Marino vi sono alcune famose ottave in cui lo scrittore introduce l’anatomia del corpo umano. La poesia barocca deve molto alla prosa scientifica. La scienza ha una sorta di riconoscimento da parte della letteratura. A partire della fine del secolo nacque una forte critica nei confronti del Barocco e questo avvenne soprattutto in Francia. Bouhours sosteneva che solo ai francesi poteva essere riconosciuta la capacità di parlare. Voleva elevare il francese a lingua universale. Bollava l’italiano come lingua incapace di esprimere in modo ordinato il pensiero umano.

DEDICATORIA A’ LETTORI DEL VOCABOLARIO DELLA CRUSCA 1612: Nel compilare il presente Vocabolario ( col parere dell’ Illustrissimo Cardinal Bembo, de’ Deputati alla correzion del Boccaccio dell’ anno 1573. e ultimamente del Cavalier Lionardo Salviati ) abbiamo stimato necessario di ricorrere all’ autorità di quegli scrittori, che vissero, quando questo idioma principalmente fiorì, che fù da’ tempi di Dante, o ver poco prima, sino ad alcuni anni, dopo la morte del Boccaccio. Il qual tempo, raccolto in una somma di tutto un secolo, potremo dir, che sia dall’ anno del Signore 1300. al 1400. poco più, o poco meno: perchè, secondo che ottimamente discorre il Salviati, gli scrittori, dal 1300 indietro, si possono stimare, in molte parti della lor lingua, soverchio antichi, e quei dal 1400. avanti, corruppero non piccola parte della purità del favellare di quel buon secolo. Laonde potendo noi tener sicuramente la lingua degli autori di quell’ età, per la più regolata e migliore, abbiam raccolto le voci di tutti i lor libri, che abbiam potuto aver nelle mani, assicuratici prima, che, se non tutti, almeno la maggior parte di essi, ò fossero scrittor Fiorentini, o avessero adoprato, nelle scritture loro, vocaboli e maniere di parlare di questa Patria. Con la diligenza usata da noi, c’ è venuto fatto trovarne molti, ancorchè maggiore sia stato il numero degli Autori, che la grandezza de’ loro componimenti. Ci è bisognato servirci di molti volgarizzamenti, e traslatamenti d’ opere altrui, tratti parte dal Latino, e parte dal Provenzale, e recati da’ nostrali autori, di quel secol buono, in questo linguaggio. Alcuni de’ quali, per non esser ( per dir così ) nostre naturali piante, son da noi tenuti di minor pregio. Alcuni altri ( benchè pochissimi ) i quali potrebbe parere altrui, che ritengano, in qualche cosa, un po’ dell’ antico, a molte delle lor voci, abbiamo usato di dire, voce antica. Non s’ è già osservato questo universalmente: perchè abbiam voluto lasciar libero alla discrezione, e considerazion del lettore, usarle a suo luogo, e tempo, e intanto, per la ntelligenza di tali autori, c’ è paruto di dichiararle. Nel raccoglier le voci degli scrittori, da alcuni de’ più famosi, e ricevuti comunemente da tutti, per esser l’ opere loro alle stampe, che si potrebbon dir della prima classe, i quali sono Dante, Boccaccio, Petrarca, Giovan Villani, e simili, abbiamo tolto indifferentemente tutte le voci, e, per lo più, postavi la loro autorità nell’ esemplo. Dagli altri men conosciuti, benchè di non dissimil finezza, quelle solamente, non trovate ne’ sopraddetti, come quelli, che non ebbero opportunità di dire ogni cosa. Degli scrittori, i quali, in molte lor parole, par che sentan del troppo antico, n’ abbiamo lasciate alcune, come straniere, e uniche, per avventura, d’ alcun di loro: alcun’ altre n’ abbiam raccolte, non già, come uguali di bontà a quelle de’ migliori, ma, come riconosciute da noi dal riscontro di più scritture, per usate in que’ tempi. Queste, oltre alla dichiarazion di quegli autori, come dicemmo, potranno servire per dar notizia delle maniere de’ tempi loro, e usate a proposito, e con riguardo, non mancheranno eziandio, per nostro avviso, di gentilezza. La dedica non è rivolta a un personaggio illustre, ma a Concino Concici di cui tutti hanno dimenticato l’esistenza. Era un personaggio con con enorme potere alla corte di Francia. Sposò la più grande confidente di Maria de’ Medici. Quando venne ucciso il marito della regina, Enrico IV, ebbe incarichi prestigiosissimi. TENER: stimare TRASLAMENTI: traduziono ALTRUI: ad altri QUALCHE VOCE DELLA CRUSCA: BANDIERA: Drappo legato ad asta, dipintovi entro le imprese de' capitani, o l'armi de' Principi, e si porta in battaglia, Insegna, Stendardo. Lat. vexillum, signum. G.V.2.2.1. E con le sue bandiere e tende e trabacche vi s’accampò. E lib. 7.22. E volle il detto Papa che per suo amore la parte guelfa di Firenze portasse sempre l’arme sua in bandiera. E lib. 9.208.2. E partita sua masnada a più bandiere. E per metafora bocc. N.6. E quasi al passaggio d’oltremare andar dovesse per far più bella bandiera gialle gliela pose in sul nero diciamo far bandiera che è passare avanti agli altri correndo e dicesi de can levrieri. E stare a bandiera cioè a caso e senza ordine. Onde BANDIERA si dice a donna sregolata sciammanata e sconsiderata. E far la bandiera si dice del sarto quando ruba quel ch’avanza de’ vestimenti ch’e’ taglia. E in proverbio Bandiera vecchia fa onore al capitano. E dicesi di ciascuno che abbia quasi consumati gli stumenti della sua arte per avergli adoprati assai. DISPERAZIONE E DISPERAGIONE: Perdimento di speranza, il disperarsi. Lat. Disperatio. Passav. 32. Quattro sono gli impedimenti che ritraggono sa far penitenza cioè vergogna paura speranza e disperazione. Lab. Num. 91. Ad estrema disperazione m’avean condotto. G. V. 12. 94. 2. Furono in gran dolore e affanno e in disperazione di lor salute. Petr. Huom. III. Predicava che Cesare era venuto in disperagione e non si fidava di combattere. Petr. Cap. 6. E per disperazion fatta sicura. OPPIO: Sonnifero fatto si latte di papaveri. Lat. Opium. Vit. Plut. Ma il suo servidore lo confortava dicendo che quel beveraggio non era mortale, ma era oppio. OPPIO: Albero. Lo stesso che PIOPPO. Cr. 1. 6. 9. Folta moltitudine di picciole piante de’ detti arbori si ponga e massimamente dell’oppio. La struttura delle voci mostra una notevole modernità. La definizione comprende anche sinonimi.

TASSONI, AVVERSARIO DELLA CRUSCA: Le postille che si sono conservate non sono autografe. Le prime postille che apportò riguardano bandiera, disperazione e oppio nel significato di albero. Si indigna di fronte alle varianti lessicali rare e obsolete. Un’ulteriore postilla venne apportata al termine Maiale, ma solo per mostrare la sua antipatia per gli accademici. Propose nuovi lemmi come regalare, scena, stradiotti. BANDIERA: Bandiera si dice ad una puttana per dinotare ch’ella è una pubblica insegna dove tutti concorrono. E stare a bandiera è ma inteso per “vivere a caso”, anzi significa “stare a segno” come i soldati stanno sotto l’insegna. Bandieraccia vuol dire puttanaccia avanzata alle battaglie notturne e mal condotta. Si concentra sui modi di dire privi di autorità degli scrittori. Per stare a bandiera propone un’interpretazione nuova. DISPERAZIONE E DISPERAGIONE: Io saprei volentieri perchè di queste voci, essendo accettata solamente disperazione gli Accademici habbiano voluto infrascarvi questi altri rancidumi e la disperazione medesima mettere a concorso con disperagione, quasi che sieno dell’istessa bontà. Cotesto è puro mancamento di giudizio. Viene contestata la voce trecentesca inserita sulla base di una auctoritas giudicata priva di valore. L’auctoritas è il volgarizzamento di Petrarca latino utilizzato dagli accademici. Ritiene inutile introdurre disperagione a fianco di una parola corrente e accettata quale disperazione. MAIALE: 77.13. Castransi utilmente i verri di tempo d’un anno e non deono essere di men tempo di sei mesi laqual cosa fatta mutano il nome e di verri son detti MAIALI. Se gli accademici non fossero tutti coglioni direi che si fossero mutati il lor proprio nome in questo maiale credendosi che sia più leggiadro. OPPIO: Pochi agricoltori devono esser nell’accademia se non sanno distinguere l’oppio dal pioppo. O che gli accademici hanno errato o che in conseguenza legitimamente il dottor Pioppa potrà chiamarsi il dottor Oppio. REGALARE: Voce dell’uso tolta dalla spagnuola e bella e significante quanto alcun’altra che n’abbia la lingua meritava più d’esser messa che tanti altri rancidumi ricercati de’ ripostiglj. Il termine compare nell’italiano a partire dal XVI secolo. SCENA: E perchè non ci mettera la voce scena? Adunque perchè non la usa mastro Aldobrandino ella non è toscana e delle buone? STRADIOTTI: E perchè non metter la voce stradiotti, necessaria per intender l’istorie moderne de’ toscani medesimi? Erano soldati introdotti in Italia dall’esercito veneziano. #

#

#

#

#

IL SETTECENTO

All’inizio del secolo le lingue europee di cultura che detenevano un solido prestigio internazionale erano poche e in testa a tutte stava il francese. Importantissima fu l’Enciclopedia di Diderot e d’Alambert. Luogo comune voleva che il francese fosse la lingua della chiarezza, l’italiano la lingua della passione emotiva, della poesia e della musicalità. L’ordine naturale degli elementi della frase veniva identificato nella sequenza SVO, caratteristica appunto del francese. L’italiano per contro era caratterizzato, come oggi, da una grande libertà. Dopo la quarta edizione del Vocabolario della Crusca 1729-1738, si manifestarono reazioni polemiche, di stampo illuministico, nei confronti dell’autoritarismo arcaicizzante radicato nella tradizione letteraria italiana. Nel 1700 si manifestarono reazioni polemiche nei confronti dell’autoritarismo linguistico arcaizzante e dell’accademismo retorico propri della tradizione letteraria italiana. La voce più decisa della protesta venne dal “Caffè”, pubblicato dal 1764 al 1768. Si battevano contro le forme di passatismo e di fiorentinismo. Celebre a riguardo è la “Rinuzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca” scritta da Alessandro Verri. Cum sit che gli autori del Caffè siano estremamente portati a preferire le idee alle parole, ed essendo inimicissimi d'ogni laccio ingiusto che imporre si voglia all'onesta libertà de' loro pensieri e della ragion loro, perciò sono venuti in parere di fare nelle forme solenne rinunzia alla pretesa purezza della toscana favella, e ciò per le seguenti ragioni. 1. Perché se Petrarca, se Dante, se Boccaccio, se Casa e gli altri testi di lingua hanno avuta la facoltà d'inventar parole nuove e buone, così pretendiamo che tale libertà convenga ancora a noi; conciossiaché abbiamo due braccia, due gambe, un corpo ed una testa fra due spalle com'eglino l'ebbero [...]. 2. Perché, sino a che non sarà dimostrato che una lingua sia giunta all'ultima sua perfezione, ella è un'ingiusta schiavitù il pretendere che non s'osi arricchirla e migliorarla. 3. Perché nessuna legge ci obbliga a venerare gli oracoli della Crusca ed a scrivere o parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi.

4. Perché se italianizzando le parole francesi, tedesche, inglesi, turche, greche, arabe, sclavone noi potremo rendere meglio le nostre idee, non ci asterremo di farlo per timore o del Casa o del Crescinbeni o del Villani o di tant'altri, che non hanno mai pensato di erigersi in tiranni delle menti del decimo ottavo secolo e che risorgendo sarebbero stupitissimi in ritrovarsi tanto celebri, buon grado la volontaria servitù di que' mediocri ingegni che nelle opere più grandi si scandalizzano di un c o d'un t di più o di meno, di un accento grave in vece di un acuto. Intorno a che abbiamo preso in seria considerazione che, se il mondo fosse sempre stato regolato dai grammatici, sarebbero stati depressi in maniera gl'ingegni e le scienze che non avremmo tuttora né case, né morbide coltri, né carrozze, né quant'altri beni mai ci procacciò l'industria e le meditazioni degli uomini; ed a proposito di carrozza egli è bene il riflettere che, se le cognizioni umane dovessero stare ne' limiti strettissimi che gli assegnano i grammatici, sapremmo bensì che carrozza va scritta con due erre, ma andremmo tuttora a piedi. 5. Consideriamo ch'ella è cosa ragionevole che le parole servano alle idee, ma non le idee alle parole, onde noi vogliamo prendere il buono quand'anche fosse ai confini dell'universo, e se dall'inda o dall'americana lingua ci si fornisse qualche vocabolo ch'esprimesse un'idea nostra meglio che colla lingua italiana, noi lo adopereremo, sempre però con quel giudizio che non muta a capriccio la lingua, ma l'arricchisce e la fa migliore. 6. Porteremo questa nostra indipendente libertà sulle squallide pianure del dispotico Regno Ortografico e conformeremo le sue leggi alla ragione dove ci parrà che sia inutile il replicare le consonanti o l'accentar le vocali, e tutte quelle regole che il capriccioso pedantismo ha introdotte e consagrate noi non le rispetteremo in modo alcuno. In oltre, considerando noi che le cose utili a sapersi son molte e che la vita è breve, abbiamo consagrato il prezioso tempo all'acquisto delle idee, ponendo nel numero delle secondarie cognizioni la pura favella, del che siamo tanto lontani d'arrossirne che ne facciamo amende honorable avanti a tutti gli amatori de' riboboli noiosissimi dell'infinitamente noioso Malmantile, i quali sparsi qua e là come gioielli nelle lombarde cicalate sono proprio il grottesco delle belle lettere. 7. Protestiamo che useremo ne' fogli nostri di quella lingua che s'intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi; tali sono i confini che vi fissiamo, con ampia facoltà di volar talora di là dal mare e dai monti a prendere il buono in ogni dove. Il testo è suddiviso in paragrafi secondo la caratteristica della saggistica del 1700. Fa appello alla libertà espressiva, alla facoltà di introdurre forestierismi nel lessico, alla chiarezza comunicativa e alla centralità dei contenuti. Verri accusa i grammatici dii porre freno al progresso. Il titolo originale presentava il termine nodaro (fortemente settentrionale) non notaio, ma Verri si premurò di farlo correggere e la parola nodaro venne presentata come un errore tipografico. La forma notaio è toscana come suggerisce il suffisso -aio. Cesare Beccaria scrisse una risposta alla RInunzia fingendo di prendere le parti dell’Accademia. Il trsto è comico e parodico e serve per metter ancora più in ridicolo gli Accademici. La posizione che meglio esprime gli ideali dell’Età dei Numi è quella espressa da Cesarotti nel “Saggio sulla filosofia delle lingue”. Il saggio venne pubblicato nel 1785 co diverso titolo, poi riedito nel 1800 con il titolo definitivo. È suddiviso in paragrafi. Il saggio si apre con una serie di enunciazioni teoriche: - tutte le lingue nascono e derivano; all’inizio della loro storia sono barbare, ma il concetto di barbarie non ha senso se lo si vuole utilizzare nel raffronto tra le lingue, perché servono tutte ugualmente bene all’uso della nazione che le parla; - Nessuna lingua è pura: tutte nascono dalla composizione di elementi vari; - Tutte le lingue nascono da una combinazione casuale; - Nessuna lingua nasce da un ordine prestabilito o da un progetto; - Nessuna lingua è perfetta, ma tutte possono migliorare; - Nessuna lingua è tanto ricca da non aver bisogno di nuove ricchezze; - Nessuna lingua è inalterabile; - Nessuna lingua è parlata in maniera uniforme nella nazione. Affronta il problema della distinzione tra lingua parlata e lingua scritta. Quest’ultima ha maggiore dignità in quanto momenti di riflessione e in quanto strumento utilizzato dai dotti. Attua una polemica antipuristica. Indica la via verso la normativa illuminata da contrapporre a quella troppo rigida della Crusca. Chi scrive non deve rimescolare gli archivi delle parole guardando a un passato morto e sepolto. I termini nuovi possono essere introdotti per analogia con termini già esistenti, per derivazione o per composizione. Possibile fonte di parole possono essere i dialetti. Ammette che possano essere utilizzate parole straniere. Forestierismi e neologismi, una volta entrati nell’italiano, possono legittimamente produrre nuovi traslati e derivazioni. Il genio della lingua, inteso come carattere originario tipico di un idioma e di un popolo era utilizzato dagli avversari dei forestierismi per dimostrare l’estraneità del termine il quale, in quanto straniero, doveva ripugnare al genio nazionale. Cesarotti propone un duplice concetto di genio: grammaticale e retorico. La struttura grammaticale delle lingue, e quindi il loro genio grammaticale, non deve essere alterato. Il lessico dipende dal genio retorico: in questo settore tutto è alterabile. Poiché la lingua è della nazione proponeva di istituire un Consiglio nazionale della lingua. Questo consiglio si sarebbe occupato di studi etimologici e filologico-linguistico. Compito del Consiglio era la compilazione di un vocabolario.

Si incominciò a pensare che anche la conoscenza della lingua italiana dovesse entrare nel bagaglio di ogni uomo. Tutti dovevano saper scrivere e parlare l’italiano. Si diffuse la cultura nei ceti medi. Si polemizzò contro il latino: era un freno per questo processo. Alla fine del XVIII secolo furono avviate riforme nella scuola del Lombardo-Veneto, grazie a Maria Teresa d’Austria. Nacque l’idea di una scuola comunale. Lo spazio della comunicazione era ancora affidato ai dialetti oppure quando essi non bastavano si ricorreva a “una lingua impura, difforme, bislacca”, come definì Baretti. Foscolo parla di un linguaggio mercantile e itinerario usato da coloro che erano abituati a muoversi per le varie regioni. Manzoni descrive i caratteri del parlar finito: lingua ritenuta elegante che consisteva nell’usare parole che si sosteneva fossero italiane e nell’aggiungere finali italiane alle parole dialettali terminanti per consonante. L’italiano si prestava poco alla conversazione perchè era solo scritto. Il successo dell’opera italiana nel Settecento fu molto grande anche all’estero. Non esistendo un vero e proprio italiano parlato gli autori teatrali che voleva simulare il parlato ricorrevano al dialetto, o al toscano nel caso in cui l’autore lo conoscesse. Goldoni fu il capostipite del teatro di questo secolo, ma si occupò poco del problema linguistico. Dopo essersi affermato con le commedie in italiano e in veneto, si trasferì a Parigi. In francese scrisse un paio di commedie e il suo diario personale, “Mémories”. Il veneto gli permetteva di esprimere al meglio i dialoghi, l’italiano della conversazione rimaneva incerto. Nella commedia “Campiello” si vede bene il parlato veneto. Nella scena XI dell’atto II Gasparina, una bella giovane veneta, incontra un cavaliere forestiero, che essendo tale parla in italiano. Il cavaliere non capisce bene come parla la giovane. Usa la z al posto della s. Questo testo mostra benissimo le difficoltà di comunicazione linguistica.

Risale al 1690 la fondazione, a Roma, dell’Arcadia, che fu una palestra poetica di dimensioni gigantesche. Questa grande stagione poetica ebbe come strumento una lingua tradizionale, ispirata a Petrarca, intesa a liberarsi dagli eccessi del barocco. La prosa saggistica di questo secolo rappresenta uno dei nuclei più solidi della produzione culturale. Si avvia verso una sostanziale semplificazione sintattica. Verri nello scritto “Difetti della letteratura” dichiara l’ammirazione per l’ordine della scrittura francese e per la brevità di quella inglese. IL FRANCESE E GLI APPUNTI DI LINGUA DI ALFIERI: Nel 1700 il francese divenne la lingua più importante d’Europa. Quando Alfieri cominciò a scrivere il suo diario personale nel 1775 utilizzò il francese. Quando si preoccupò di migliorare il proprio italiano raccolse appunti in cui le forme toscane erano affiancate dagli equivalenti francesi e piemontesi (dialetto della sua terra d’origine). #

#

#

#

#

L’OTTOCENTO

All’inizio del secolo si sviluppò un movimento caratterizzato dall’intolleranza di fronte a ogni innovazione e da una marcata esterofobia: il Purismo. Si ebbe come conseguenza un forte anti-modernismo e il ulto dell’epoca d’oro della lingua italiana. Il canone della perfezione linguistica veniva esteso a tutte le opere e a tutti gli autore del Trecento. Cesari fu il capofila del Purismo. Vincenzo Monti si oppose al movimento. La sua critica arrivò a colpire il Vocabolario della Crusca nella versione fiorentina. Lo scontro con i puristi mosse le acque della riflessione linguistica del nostro paese. Stendhal, in “Des périls de la langue italienne”, aveva parlato dell’italiano come troppo simile a una lingua morta. Manzoni, con le sue idee maturate durante la stesura dei Promessi Sposi, collaborò a mutare la situazione dell’italiano, rendendolo più vivo e meno letterario. Nel 1974 sono state pubblicate le cinque redazioni del trattato “Della lingua italiana”, su cui Manzoni lavorò per trent’anni. La sua assidua ricerca della lingua toscana è mostrata dalle postille apposte alla copia del Vocabolario della Crusca nell’edizione veronese di Cesari. Si stupiva come la Crusca non avesse messo anche il significato moderno di “fare l’amore”, ovvero quello di parlare d’amore, di amoreggiare e non solo di fare buone accoglienze. Ciò creava un equivoco. Affrontò la questione della lingua a partire dalla sua personale esperienza di romanziere. Iniziò con l’occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del suo romanzo. Nel 1868 in una relazione intitolata “Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla” rese pubbliche le ragioni per le quali il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una capillare politica linguistica messa in atto dagli insegnati nelle

scuole. Per la prima volta la questione della lingua assumeva un carattere sociale e era finalizzata all’organizzazione della scuola. Dopo l’edizione del 1827 dei “Promessi Sposi”, Manzoni aspirava al fiorentino dell’uso colto e all’avvicinamento a un linguaggio più naturale e comune, meno letterario. Spuntò le forme lombardo-milanesi, eliminò le forme eleganti e pretenziose, assunse forme tipicamente fiorentine. I termini letterali vennero tradotti con voci più colloquiali. La sintassi si snellisce. L’Ottocento è il secolo dei dizionari. Il dibattito lessicografico prese le mosse dalla Crusca sia in riferimento alle idee linguistiche dell’accademia, sia in riferimento alla rivisitazione extratoscana del Vocabolario operata dalla Crusca veronese, realizzata nel 1806-1811 sotto la guida di Cesari. Molti dizionari, fino a metà secolo, furono concepiti come un tentativo di sommare quanto già stava nella Crusca. La somma delle giunte però senza che si ripensasse in maniera nuova e originale la struttura stessa dell’opera. Vocabolario della lingua italiana 1833-1842 Manuzzi: nato da una revisione della Crusca. Vocabolario universale italiano 1829-1840 casa ed. Tramater: la base è ancora quella della Crusca, ma il taglio è più enciclopedico e dedicava attenzione alle voci tecniche di scienze, arti, lettere e mestieri. L’opera si segnala per il superamento delle definizioni tradizionali. Il Dizionario di Tommaseo, terminato poi da Bellini, è l’opera più originale. Venne pubblicato tra il 1861 e il 1879. Fu il primo dizionario a abbandonare definitivamente l’impianto della Crusca. L’autore si preoccupò di illustrare di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie. Spesso le parole sono accompagnate da una definizione umorale, per nulla oggettiva. Il punto di forza del dizionario non era solo l’abbondanza di lemmi, ma la strutturazione delle voci. Il criterio seguito consisteva nel dichiarare l’ordine delle idee a partire dal significato più comune e universale., ordinando gerarchicamente gli eventuali vari significati. Per la sua capacità di coniugare sincronia e diacronia questo è il primo dizionario storico della nostra lingua. Fu realizzato anche un altro vocabolario coerente con l’impostazione manzoniana, ispirata al fiorentinismo dell’uso vivo, noto anche come Giorgini-Broglio o “Novo dizionario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”. Questo dizionario si distingue per l’orientamento sincronico volto a raccogliere una lingua viva. Vi sono moltissimi sintagmi. Nella Relazione del 1868 Manzoni aveva proposto di compilare un dizionario completamente diverso da quelli realizzati finora, abolendo gli esempi d’autore. Al posto delle citazioni tratte dagli scrittori presentava una serie di frasi tratte dall’uso generale. Venivano eliminate le voci arcaiche. Manzoni aveva suggerito di scindere le due funzioni che di erano confuse nei dizionari precedenti: mostrare l’uso vivente e testimoniare le voci del passato. Manzoni morì prima che il dizionario da lui ispirato fu portato a termine. Il Giorgini-Broglio non raggiunse mai un grande pubblico. L’Ottocento fu anche il secolo d’oro della lessicografia dialettale. All’unità politica del 1861 non corrisponde un’unità culturale e linguistica. Il numero di italofoni ( coloro che erano in grado di parlare italiano) era estremamente basso e moltissimi erano ancora gli analfabeti. Con la formazione dell’Italia unita, per la prima volta la scuola elementare divenne ovunque obbligatoria e gratuita secondo l’ordinamento previsto per lo Statuto sabaudo della legge Casati del 1859 che fu estesa al territorio che via via entrava a far parte dello Stato nazionale. La legge Coppino del 1877 rese effettivo l’obbligo di frequenza. La scuola, tuttavia, non ebbe l’effetto sperato. Le cause che hanno portato all’unificazione linguistica italiana dopo la formazione dello Stato unitario, individuate da De Mauro sono: - scuola - Azione unificante della burocrazia e dell’esercito - Azione della stampa periodica e quotidiana - Emigrazione - Aggregazione attorno ai poli urbani Le idee e le proposte manzoniane furono contestate da Graziadio Isaia Ascoli. Escludeva che si potesse identificare l’italiano nel fiorentino vivente e affermava che era inutile aspirare a un’assoluta unità linguistica. L’unificazione linguistica italiana non poteva essere la conseguenza di un intervento pilotato che proponesse un unico e rigido modello. È molto severo nei confronti della Toscana: è una terra fertile di alfabeti, ma con una cultura stagnante. Espresse le sue idee nel “Proemio” al primo fascicolo dell’Archivio Glottologico del 1873. Ciò non vuoi già dire, che l’idiotismo e l’ingenuità della dizione vadano sbanditi perché una moltitudine di pensatori, associati ma non livellati, abbia cresciuto energia alla parola, ne abbia sprigionato molte facoltà imprima latenti, abbia creato, sublimando il genio nativo, quello strumento caratteristico delle nazioni che è lo stile. Ma vuoi dire, che se il sussiego è una gran brutta cosa quand’è un’affettazione, può all’incontro avvenire, molto naturalmente come ognun vede, che il colloquio segua in tali condizioni, nelle quali il mancare di gravità o di sussiego o di serio colore, costituisca egli, alla sua volta, una vera affettazione o il più grave degli stenti. Nessuno vorrebbe di certo che un ministro dicesse in parlamento: «l’Inghilterra arriccia il naso»; oppure: «noi in

queste cose di Turchia non ci si ficca il naso»; come ognun sente che fra due scienziati è modo più naturale, anche nei discorso casalingo: «vi si determina un piccolo vano», che non: «ci si viene a formare un bucolino». Nel primo caso, è la solennità della conversazione che esige forme più elette; nel secondo, il modo più eletto deriva, quando pur non sia necessariamente richiesto, dall’abito di una mente, il cui lavoro è più complesso, e insieme più facile e sicuro, che non sia di solito il lavoro mentale di chi si esprime nei modo più pedestre; questo è d’aritmetica elementare, quello incomincia ad essere algebrico; e se v’è chi sappia fare il prodigio di riprodurre gran parte delle operazioni dell’algebra con la pura aritmetica, nessuno perciò vorrà sostenere che il prodigio sia una cosa naturale, o che una nazione si abbia a muovere a furia di miracoli. Se però è chiaro che l’Italia non abbia l’unità di lingua perché le son mancate le condizioni fra le quali s’ebbe altrove, e insieme è chiaro che il non averla debba molto dolere agl’Italiani e sia sorgente legittima della disputa eterna, si deve ancora chiedere, perché veramente sieno all’Italia mancate le condizioni che altrove condussero alla unità intellettuale onde si attinse la unità di favella; o in altri termini, semplificata la questione, perché l’Italia non raggiungesse quell’unità di pensiero, a cui la Germania, malgrado gli ostacoli di cui più sopra si toccava, è pure pervenuta. L’intiera risposta è per vero già involta, più o men distintamente, in ciò che precede; ma l’assunto inesorabile vuol che si arrivi in sino al fondo e sempre con esplicite parole. Questa diversa fortuna dell’Italia e della Germania, può dunque giustamente parere il prodotto complesso di un infinito numero di fattori; se ne posson dare ragioni di razza, di tempi, e d’ogni altra specie; ma rimane sempre, che la differenza dipenda da questo doppio inciampo della civiltà italiana: la scarsa densità della cultura e l’eccessiva preoccupazione della forma. Nessun paese, e in nessun tempo, supera o raggiunge la gloria civile dell’Italia, se badiamo al contingente che spetta a ciascun popolo nella sacra falange degli uomini grandi. Ma la proporzione fra il numero di questi e gli stuoli dei minori che li secondino con l’opera assidua e diffusa, è smisuratamente diversa fra l’Italia ed altri paesi civili, e in ispecie fra l’Italia e la Germania, e sempre in danno dell’Italia. Qui vi furono e vi sono, per tutte quante le discipline, dei veri maestri; ma la greggia dei veri discepoli è sempre mancata; e il mancare la scuola doveva naturalmente stremare, per buona parte, anche l’importanza assoluta dei maestri, questi così non formando una serie continua o sistemata, ma sì dei punti luminosi, che brillano isolati e spesso fuori di riga. E dall’abbondanza dei nomi giustamente vantati, potevano derivare, e derivano non di rado, illusioni strane o dannose; l’esservi i duci sembrando di necessità importare che v’abbiano pur le legioni fra la propria loro gente; doveché è avvenuto, con molta frequenza, che i duci italiani (e non già sul campo, come la metafora direbbe, ma come pur sul campo fuor di metafora è stato) hanno cresciuto e guidato, non legioni paesane, ma legioni straniere. L’Italia par che sdegni la mediocrità, e dica alla Storia: A me si conviene o l’opera eccelsa o l’oziare. Ma l’ozio di questa terra privilegiata, non potrebbe mai essere l’ozio sterile delle barbare lande; è l’ozio dell’alma educatrice delle arti, assorta dolcemente nella contemplazione dei bello; non è il sonno di una gente avvilita: è arte ascetica. Ora, nella scarsità dei moto complessivo delle menti, che è a un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e nelle esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto sentimento della forma, s’ha, per limitarci al nostro proposito, la ragione adeguata ed intiera del perché l’Italia ancora non abbia una prosa o una sintassi o una lingua ferma e sicura. In questo secolo il linguaggio giornalistico acquistò un’importanza superiore a quella che aveva avuto in precedenza. Proliferavano periodici nuovi che aspiravano a un pubblico nuovo e per questo era necessario un linguaggio più semplice. Il giornale è linguisticamente composto da parti diverse: la lingua è diversa a seconda degli articoli. Gli sviluppi della prosa dell’Ottocento sono di grande importanza perchè questa è l’epoca in cui si fonda la moderna letteratura narrativa. Manzoni fu importantissimo a riguardo: avvicinò lo scritto al parlato. Diffuse lui e lei come soggetto, imperfetto in -o e non in -a, eliminazione di forme pel col, eliminazione di d eufonica. Il procedimento messo in atto da Verga nei Malavoglia è quello di adattare la lingua italiana a plausibile strumento di comunicazione per i personaggi siciliani appartenenti al ceto popolare. Molto nuova risulta la sua sintassi, in particolare quella utilizzata per il discorso indiretto libero. Il linguaggio poetico dell’Ottocento si caratterizza per la fedeltà ala tradizione aulica e illustre. Con Monti si afferma in Neoclassicismo. In questo secolo si ebbe uno sviluppo eccezionale della poesia in dialetto. LA RELAZIONE DEL 1868: “DELL’UNITA DELLA LINGUA E DEI MEZZI PER DIFFONDERLA” Una seconda obiezione che ci troviamo a fronte, è: che ciò che si vuole per l'Italia è una lingua; e il linguaggio di Firenze non è che un dialetto. Questa antitesi non è altro che un cozzo di parole male intese, e che, in questo caso, non corrispondono ad alcun fatto reale. Ci possono essere bensì, e ci sono, de' dialetti, nel senso di parlari che si trovino in opposizione e in concorrenza con una lingua. E ciò accade presso quelle nazioni dove una lingua positiva riconosciuta unanimemente, e diventata comune a una parte considerabile, e particolarmente alla parte più colta delle diverse province, sia riuscita a restringere in un'altra parte di esse più rozza; e che va scemando ogni giorno, l'uso di quelli che, prima dell'introduzione d'una tal lingua, erano gli unici linguaggi delle diverse province. A questi sta bene il nome di dialetti. Ma tra di noi, invece, i vecchi e vari idiomi sono in pieno vigore, e servono abitualmente a ogni classe di persone, per non esserci in effettiva concorrenza con essi una lingua atta a

combatterli col mezzo unicamente efficace, che è quello di prestare il servizio che essi prestano. E a quella che lo potrebbe si oppone a sproposito il nome di dialetto, per la sola ragione che non è in fatto la lingua della nazione: cosa tanto vera quanto trista, ma che non ha punto che fare con l'essenza d'una lingua. Nel 987, che fu l'anno in cui Ugo Capeto, duca di Francia e conte di Parigi, fu incoronato re de' Franchi, il francese non era certamente la lingua d'una nazione: lo potè divenire, perchè, entro que' primi confini, e con quella copia e qualità di materiali, che dava il secolo decimo, era una lingua viva e vera. Fino a che una lingua d'egual natura non sia riconosciuta anche in Italia, la parola dialetto non ci potrà avere un'applicazione logica, perchè le manca il relativo. Altra obiezione, l'enormità del pretendere che una città abbia a imporre una legge a un'intera nazione. Imporre una legge? come se un vocabolario avesse a essere una specie di codice penale con prescrizioni, divieti e sanzioni. Si tratta di somministrare un mezzo, e non d'imporre una legge. Essendo le lingue e imperfette e aumentabili di loro natura, nulla vieta, anzi tutto consiglia di prendere da dove torni meglio o anche di formare de' novi vocaboli richiesti da novi bisogni, e che l'uso non somministri. Ma per aggiungere utilmente, è necessario conoscer la cosa a cui si vuole aggiungere; e poter quindi discernere ciò che le manchi in effetto. Altrimenti può accadere (e se accade!) che uno, non trovando un termine così detto italiano, di cui creda, e anche con ragione, d'aver bisogno, e non osando, anche qui con ragione, servirsi di quello che gli dà il suo idioma, corra, o a prenderlo da una lingua straniera, o a coniarne uno, mentre l'uso fiorentino glielo potrebbe dare benissimo, se ne avessimo il vocabolario. Così si accresce bensì quel guazzabuglio che s'è detto sopra, ma non s'aggiunge a una lingua più di quello che, col buttare una pietra in un mucchio di pietre, s'aiuti ad alzare una fabbrica. Invece (ciò che può parere strano a chi si fermi alla prima apparenza) la cognizione e l'accettazione di quell'uso dove altri sogna servitù, servirebbe a dare una guida necessaria alla libertà d'aggiungere sensatamente e utilmente.  L'ultima delle obiezioni che abbiamo creduto di dover esaminare, è che un vocabolario compilato sul solo uso vivente d'una lingua, non adempie l'altro ufizio, di somministrare il mezzo d'intendere gli scrittori di tutti i tempi. L'idea d'accoppiar questi ufizi è venuta dal confondere due diversi intenti, e dal prendere ad esempio le lingue morte. Riguardo a queste, il dar modo d'intendere gli scrittori è, non un accessorio più o meno importante, ma la cosa essenziale, per la ragione semplicissima, che è l'unico mezzo di dare una cognizione di tali lingue. L'intento ben diverso del vocabolario d'una lingua viva (che è, o deve esser quello di rappresentarne, per quanto è possibile, l'uso attuale) ha una ragione sua propria, e una materia corrispondente, che basta per un lavoro separato, anzi lo richiede tale, non c'essendo un perchè d'unire e d'intralciare materialmente delle cose che, per ragione, sono distinte. Un vocabolario destinato a propagare in una nazione intera l'uso d'una lingua, deve servire a un numero molto maggiore di persone, che non siano quelle che mirino all'altro intento. A questo, del rimanente, potrà provvedere un vocabolario apposito; il quale avrà inoltre il vantaggio di render più note e più facilmente ritrovabili, delle locuzioni, che abbandonate, forse a torto, dall'uso, possano con l'essere adoprate a proposito da qualcheduno, venir proposte di nuovo all'uso medesimo, e servire ad arricchirlo. Nel gennaio del 1868 il ministro della pubblica istruzione Broglio nominò una commissione con il compito di studiare e proporre metodi per la diffusione dell’italiano. La commissione era sotto la presidenza di Manzoni. Per diffondere il fiorentino Manzoni proponeva una politica linguistica messa in atto nelle scuole e la realizzazione di un dizionario bilingue, da un lato il fiorentino e dall’altro i vari dialetti.

View more...

Comments

Copyright ©2017 KUPDF Inc.
SUPPORT KUPDF