L'Eroe,Lo Sciamano e Lo Sciocco

April 25, 2017 | Author: Alessandro D'Anza | Category: N/A
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Breve articolo sui paradigmi educativi della Fiaba Siberiana e le nuove sfide della Pedagogia Contemporanea...

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LO SCIAMANO, L’EROE E LO SCIOCCO Paradigmi educativi nella Fiaba Siberiana

(Tesina valevole per l’appello di Pedagogia del 05/07/2012 della Laurea Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche) Docente referente: Prof.ssa Sara Nosari)

SOMMARIO

INTRODUZIONE LA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA LO SCIAMANO, L’EROE E LO SCIOCCO “IO FORTE” ED “IO DEBOLE” INTERDISCIPLINARIETA’ED ESPERIENZA: CONCLUSIONI FINALI

INTRODUZIONE “L’uomo primitivo non conosce il mondo dei valori e l’orizzonte dei grandi ideali. I suoi sforzi si infrangono come le onde di un mare sempre mugghiante contro l’alta sponda della ferrea necessità e dell’autoconservazione. Solo là dove l’uomo è riuscito a far breccia in questo elemento che lo tiene avvinto a prefiggersi scopi superiori all’autoconservazione, le onde del suo lavoro non rifluiscono respinte, ma scorrono avanti nella larga e navigabile corrente della storia che si perde nell’infinito”.1 Con queste parole Sergei Hessen, uno fra i più grandi esponenti delle “Pedagogie dei Valori” riassume la stretta corrispondenza fra educazione e cultura. Il mondo dei Valori (la cultura) trasforma il fanciullo da soggetto naturale a “soggetto educabile”, un processo che solo la Scienza dell’Educazione può veicolare favorendo un continuo ripensamento sui grandi ideali che hanno permeato l’arte, la religione, la morale e la politica della società contemporanea. In questo senso ideali, moralità e tradizione sembrano essere il mezzo per la maturazione del carattere. Se vogliamo ricondurre l’apporto di questo autore ad una prospettiva più ampia non possiamo fare a meno di notare quanto la definizione di “valori comuni” e la loro modalità di trasmissione siano ancora al centro del dibattito pedagogico contemporaneo. Si parla soprattutto di condivisione del principio di “cittadinanza comune” quando si vuole rispondere al declino dei valori a fronte di un incremento esponenziale della tendenza a non partecipare attivamente alla cosa pubblica e alla risoluzione dei problemi che affliggono la collettività, a quella “religione della società” auspicata da Rousseau. Da questo dato di fatto l’ottica delle pedagogie contemporanee si rivolge soprattutto all’identificazione di quelle procedure operative che consentirebbero di promuovere lo sviluppo di un autonomo relativismo etico e a offrire agli alunni gli strumenti adeguati per gestire e organizzare la conoscenza, relazionarsi con l’ambiente, adattarsi al cambiamento per reagire sapientemente alla mutevolezza che contraddistingue la società moderna e, al tempo stesso, promuovere principi etici condivisibili. Tuttavia è indubbio che la “situazione post-moderna” delineata da Lyotard crei tuttora non pochi grattacapi agli educatori contemporanei. Dalla situazione post-moderna, caratterizzata dalla mutevolezza dei significati e dall’ incertezza verso il futuro, viene fuori l’immagine di un “uomo nomade”, alla continua ricerca di un senso da attibuire alla realtà, un uomo che migra al migrare delle risorse, all’insorgere di nuove prospettive sociali ed economiche che possano garantirgli diritti per migliorare il proprio status. Un uomo costretto continuamente a rimettere in gioco i propri valori e la propria visione del mondo. La preoccupazione della pedagogia contemporanea sta perciò, oltre che nel definire i campi cognitivi meritevoli di educazione e di costruire modelli operativi funzionali al loro sviluppo, nell’occuparsi anche di definire con esattezza quali siano i valori che debbano contraddistinguire “l’uomo nomade”, e in che modo essi debbano essere interpretati. Il dibattito, in questo senso, è molto acceso. Da un lato si schiera la corrente “Liberals”, di stampo individualista che vede, nella situazione post-moderna contrassegnata dalla mutevolezza e dall’ambiguità dei significati, la sfera psichica come unica certezza dell’individuo e promuove lo sviluppo del concetto di Giustizia allo scopo di garantire il libero esercizio della volontà e dell’iniziativa personale per sviluppare un Io-individuale forte e indipendente, dall’altro versante quella dei “comunitaristi” che sostiene che la società nel suo insieme e i gruppi sociali non debbano necessariamente agire per finalità di tipo individuale, ma anche di tipo sociale e comunitario. In quest’ottica diviene fondamentale, in ambito educativo, il concetto di “Bene Comune”, capace di veicolare efficacemente i valori formativi sviluppati dalla comunità, oltrechè il concetto di Tradizione, in grado di gettare un ponte fra passato e futuro allo scopo di preservare i valori oggettivi, colonna portante della profondità e dell’esperienza di ogni gruppo sociale definito storicamente. “Tradizione”, dal verbo latino “tradere”, per cui traditio che significa “dare in consegna-affidare” evidenzia un principio dinamico di trasmissione del sapere.

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S.Hessen- I Fondamenti Filosofici della Pedagogia, Armando, Roma 1962 pag.24

L’interesse verso la tradizione non sembra, invece, caratterizzare la cultura “Liberals”. Il concetto di individualismo veicolato da questa corrente di pensiero non ha interesse a rivolgersi a un bagaglio concettuale caratteristico esclusivamente della cultura occidentale (o di altre culture), in quanto, in un mondo ormai sempre più globalizzato, l’individuo è soggetto all’influenza di forze ben più grandi della tradizione, forze radicate in un “eterno presente” e il rifarsi ad essa per interpretare i mutevoli significati della modernità equivarrebbe, per questa linea di pensiero, a osservare il mondo da un cannocchiale dalla lente alterata. L’idea sottostante concepisce l’individuo ormai inscritto all’interno di un processo dinamico eternamente radicato nel presente e che travalica il meccanismo di trasmissione dei valori offerto dalla tradizione, processo che molto spesso “interiorizza” i valori alla stessa velocità con cui li distrugge. Che Marx lo chiami “conflitto di classe” o Nietzsche lo chiami “volontà di potenza” o Freud “Inconscio” il principio è sempre lo stesso: l’individuo è in balia di un processo dinamico preponderante che influisce sulla sua psiche, sui sui rapporti intersoggettivi e sulla sua razionalità rendendolo così un individuo lacerato da impulsi contrastanti, impossibilitato ad attribuire ai fenomeni una causa definita e, perciò, a ben vedere,una “vittima” dello stesso processo. Da queste teorizzazioni vengono fuori, perciò, due modi differenti di educare l’individuo. Da un lato ha preponderanza lo sviluppo individuale e autonomo centrato sull’auto-affermazione, dall’altro, uno sviluppo derivante dall’apporto del gruppo sociale col suo “codex” tradizionale di valori e saperi . Se vogliamo pertanto tentare di conciliare queste due visioni dobbiamo necessariamente affidarci alla tradizione e identificare colà quei paradigmi educativi che possano fungere da modelli per il dialogo. Se perciò la pedagogia contemporanea necessita di modelli o paradigmi educativi che possano in qualche modo offrire spunti interpretativi efficaci deve cercarli in quelle culture “nomadi”, che vivono in contesti di estrema mutevolezza sociale e culturale e analizzare in che modo, in queste culture, viene concepita l’affermazione dell’Individualità e l’influenza del gruppo sociale sull’individuo.

LA TRASMISSIONE DELLA CONOSCENZA

Giorgio Chiosso ne “I Significati dell’Educazione”2 evidenzia con lucidità i problemi che la Pedagogia contemporanea è oggi costretta ad affrontare. La provvisorietà dei significati, la transitorietà delle esperienze divengono spunto per la costruzione della cultura dell’Individualismo, ormai diventata struttura fondamentale del tessuto sociale. Di conseguenza non è più possibile ricondurre l’educazione a un unico significato, come avrebbe voluto Sergei Hessen, dal momento che la “trasmissione dei valori” è stata sostituita da una “ricerca personale e individuale dei valori”, questo anche a causa di due fenomeni: -L’irruzione delle culture degli immigrati, che aggiunge nuove prospettive di interpretazione sul modo di educare e di interpretare i diritti individuali -Lo sviluppo della società dell’informazione che, se da un lato fa emergere nuovi mezzi di partecipazione alla cosa pubblica estendendo e veicolando i principi di una “democrazia condivisa”, dall’altro svuota le immagini dai loro contenuti e offre un prodotto preconfezionato, standardizzato, dove la percezione complessiva della realtà ne risulta in qualche modo compromessa. In quest’ottica Malcolm Knowles, parlando di “Andragogia” e insistendo sull’efficacia del processo di formazione in età adulta in cui un discente non è solo il destinatario dell’azione educativa, ma ne è anche l’artefice può avere pienamente ragione quando afferma che l’educazione infantile e la formazione non possono essere poste sullo stesso piano. Knowles tratta di adulti, di professionisti che vogliono allargare il campo delle proprie conoscenze servendosi dell’esperienza acquisita nell’arco di vita; parla, cioè, di uomini che hanno già una propria visione della realtà e comprendono appieno l’utilità di acquisire conoscenza, sebbene operativa. Adulti perciò che vogliono essere “istruiti” e, accidentalmente, “educati”. Da qui il pensiero seguente che si pone al centro del dibattito: non è possibile concepire l’istruzione senza un corpus educativo sottostante, che possa rendere il soggetto discente consapevole della propria esperienza e condurlo verso la ricerca attiva della conoscenza. Jerome Bruner, che combina sapientemente il cognitivismo in ambito piscologico con la prassi educativa, è molto attento a questo tipo di processo. Bruner, parlando della pedagogia dell’insegnamento di stampo comportamentista inaugurata da Skinner e Ausebel afferma : “ Se si guarda questo impianto dal punto di vista della varietà delle esperienze umane – non tutte riconducibili alla dimensione intellettiva, ma animate anche da sentimenti, affetti, emozioni, dall’incontro con l’altro e dall’apertura a “ciò che non è ancora”- si coglie una certa parzialità, solo in parte attenuata dalla consapevolezza che oltre alla “mano destra” esiste altresì una “mano sinistra” 3. Bruner parla di mano sinistra quando vuole riferirsi all’emisfero destro del cervello, sede delle esperienze creative e artistiche, evidenziando ancora una volta come la prassi educativa teorizzata da Skinner, in cui l’istruzione si trasforma in una semplice “organizzazione delle contingenze rafforzative” rischia di tralasciare il desiderio naturale di fare esperienze autonome e rischia altresì di trasformare l’istruzione in un vuoto tecnicismo, in un meccanismo volto esclusivamente all’ottimizzazione dei risultati e alla diminuzione della spesa scolastica che la società dovrebbe accollarsi a causa dell’allungarsi del tempi di istruzione. Pertanto il problema di identificare valori comuni è destinato a collocarsi anche nella distinzione fra “Scienza dell’Educazione” e “Pedagogia”. Nonostante la trasmissione di valori identitari e comunitari rivesta ancora un importante significato all’interno della società la tendenza del processo educativo contemporaneo è di considerare l’apporto pedagogico come una “influenza residuale” che a fatica trova il proprio spazio nel campo delle scienze dell’educazione, molto più centrate a fornire gli strumenti adatti all’individuo per entrare in contatto con la pluralità delle conoscenze e promuovere la rielaborazione personale dei principi etici con cui esso entra in contatto guardandosi bene dall’ attribuire giudizi di natura morale al riguardo.

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I significati dell'educazione. Teorie pedagogiche e della formazione contemporanee –G.Chiosso-Mondadori 2009 Ibidem

Tuttavia se in una società multiculturale come la nostra è necessario interessarci all’idea di “cittadinanza allargata” nella quale individui di nazionalità e costumi differenti possono essere tutelati dai medesimi diritti e riconoscono principi etici fondamentali come il diritto alla vita, all’istruzione, al trattamento sanitario e a una rappresentanza politica allora dobbiamo anche focalizzarci sul mezzo attraverso cui organizzare la conoscenza che non può più contare solo su determinati paradigmi radicati “storicamente”. In pratica, nasce l’esigenza di un “pensiero che interconnetta”, citando Edgar Morin, che possa cioè concepire l’apprendimento (anche dei valori) non come un susseguirsi di processi logicamente consecutivi che portano a un incremento quantitativo della conoscenza in una determinata disciplina, bensì fondato sul “rimpiazzare la causalità lineare e unidirezionale con una causalità circolare e multireferenziale” 4 in cui l’incertezza diviene il carburante per sviluppare l’attitudine ad indagare sui problemi attraverso la capacità critica verso un futuro in cui l’umanità svilupperà un autonomo senso di “identità e coscienza terrestre”. Afferma Morin ne “La testa ben fatta”: “ L’obiettivo è quello di civilizzare e solidarizzare la Terra, trasformare la specie umana in vera umanità e promuovere un’etica della comprensione planetaria”attraverso processi di costruzione e di rappresentazione di reti concettuali secondo una logica ipertestuale, in grado di promuovere saperi senza chiusure definitive. Questi saperi dovrebbero, poi, prediligere processi di integrazione e di contaminazione con altri campi disciplinari rendendo la distinzione tra gli stessi una sorta di “frontiera aperta , una possibilità di elaborare un livello più alto di conoscenza” In questo sforzo la Pedagogia può ancora avere la forza di intervenire sul processo educativo e cooperare con le scienze dell’educazione per l’organizzazione della conoscenza traendo i propri concetti anche da campi disciplinari diversi come l’antropologia da cui attingere paradigmi educativi allo scopo di costruire le proprie teorie.

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I significati dell'educazione.G.Chiosso-Mondadori par.1.10

L’EROE, LO SCIAMANO E LO SCIOCCO

Come paradigma di questa educazione nomade abbiamo scelto di analizzare un tipo di fiaba che è già stata capace di affascinare ricercatori come Propp e Lonnroth a causa della sua “duttilità”. L’analisi delle fiabe in campo educativo ha già dimostrato la sua innegabile validità in lavori come quelli di Bruno Bettelheim ed è indubbio che solo il carattere della fiaba, con il suo complesso e cangiante simbolismo “denso” mantenga quella componente di “liminarietà” fra la staticità (sempre in movimento) dei valori e la loro continua adattabilità al processo storico in divenire. Sulla scia di alcuni capitali lavori etnologici (fra i quali è d’obbligo citare “Lo Sciamanismo e le tecniche arcaiche dell’estasi” di Mircea Eliade), abbiamo scelto di analizzare alcune componenti della fiaba siberiana. Essendo da sempre la Siberia un territorio abitato da genti nomadi, ci è sembrato che i suoi caratteri rispondessero meglio di altri allo “sradicamento adattativo” subito in tempi moderni dalla cifra di una educazione in continua e magmatica trasformazione dei suoi principi-cardine. Se vogliamo analizzare il complesso immaginario della fiaba siberiana dobbiamo innanzitutto cominciare dal suo personaggio più caratteristico, quello, cioè, che racchiude in sè il paradigma educativo meritevole di attenzione: Ivàn lo Sciocco. La sovrapposizione di significati di cui ha goduto questo personaggio segue fedelmente le trasformazioni sociali e religiose che ha subito la cultura siberiana nel corso dei secoli; a contatto, da un lato, con l’immaginario della cultura russa di matrice cristiana popolato di Zar potentissimi e cavalieri senza paura e dall’altro con l’antichissima tradizione sciamanica caratteristica di questo isolato angolo di mondo e che trova riferimenti cartacei solo nell’attività etnografica antropologica. Ivàn incarna simultaneamente tre figure, tre “archetipi” ugualmente ricchi di significato che forniscono le cause per il quale egli agisce e che rappresentano la “summa”, “la cifra” della sua personalità. Egli è prima di tutto un eroe-civilizzatore: “I totèm di una tribù si incarnano negli eroi-civilizzatori, ovvero, “gli immortali”, “i figli degli dei e delle dee, e infine tutti gli individui che hanno acquistato, con l’astuzia o con i riti di iniziazione, una qualità speciale, magico-religiosa formata di santità o divinità (...) Si tratti della diffusione del fuoco, dell’invenzione delle tecniche agricole o industriali, dell’organizzazione sociale, dell’istruzione delle cerimonie magiche o religiose l’atteggiamento mentale dei gruppi umani è sempre lo stesso. Essi rendono onore a qualche essere di potenza sovrumana e divina e fanno risalire a un passato mitico le sue azioni utili all’umanità. Così il personaggio dell’eroe-civilizzatore, com è già stato indicato, è proprio il punto centrale da cui, attraverso differenziazioni varie, sono scaturite le diverse divinità...” – 5 Egli, perciò, agisce prima di tutto per il “bene comune” dal momento che tutte le sue azioni sono tese all’appropriazione di una “tecnica” o di una conoscenza superiore che porta alla “civilizzazione” della comunità. Tuttavia la sua funzione è anche un’altra. Non solo egli è un “innovatore” ma detiene anche la conoscenza della sua innovazione e si prende carico della sua diffusione, del suo ricordo da imprimere nella “memoria collettiva” delle generazioni future e della sua tutela. Egli è, altresì, anche uno sciamano: “Egli può fare ciò che gli altri uomini non possono, e opera per essi, come medico e come “profeta” ma per lo più senza che tra il suo operare e le attuali credenze religiose della sua comunità si possa avere autentica integrazione. Non diviene mai un sacerdote:...egli è medicine man, mago, solitario; la sua vocazione è individuale, quasi sempre preceduta da fenomeni isterici; la sua iniziazione è opera di “spiriti” sconosciuti; la sua esistenza si svolge in gran parte in solitudine, e in gran parte, al di là di qualsiasi campo esperibile al resto della comunità....lo sciamano è un eroe civilizzatore, un Hermes ladro che si riconosce bene per la sua funzione di “trickster”, ovverosia di quella personificazione particolarissima del disordine, del principio del caos e di tutti gli strati inferiori del carattere individuale che altresì diviene la forza che libera dai tabù e da ogni limite imposto all’esperienza” 6 5 6

Le Origini delle Leggende- Arnold Van Gennep- Xenia Edizioni- 1991 (pag.89) – Igor Sibaldi –“Fiabe Siberiane”-Mondadori 1994.

Tuttavia, ben lungi dall’essere un eroe sfavillante dal coraggio incrollabile, Ivàn soffre di un deficit che lo affligge dalla nascita e che sembra apparentemente non renderlo consapevole del suo ruolo di eroecivilizzatore. Egli è uno “sciocco”, un uomo “tardo di mente” al quale sembra impossibile affidare anche l’incarico più semplice per fare in modo che lo porti a termine. Suona in qualche modo curioso accostare un difetto tanto penalizzante a due figure cariche di significato come quelle dell’eroe e dello sciamano, che devono essere in ogni momento ben consapevoli di ciò che il loro contributo e la loro nascita sono in grado di apportare alla cultura da cui sono nati. Tuttavia l’arcano è presto svelato: Durak in russo vuol dire sciocco, tonto, imbecille. La radice dur-ha a che fare con l’idea di sonno, “torpore”, molto simile al sonno-torpore indotto dalla dùrman, o dalla sonnaja-odur (Belladonna), ambedue droghe oppiacee. Ivàn, insomma, è un letargico, all’inizio. Alla fine sarà un eroe sfolgorante. Nel corso della fiaba si constata che era scemo perchè gli mancava qualcosa, e che diviene eroe perchè ha trovato qualcosa. Quel qualcosa è un dono magico che lo trasfigura, ridestando e potenziando la sua personalità. Quel dono non è la iniziazione, è fuor di ogni dubbio una iniziazione particolarissima:non l’iniziazione del giovane alla comunità che lo fa accedere all’età adulta “dalla famiglia al clan”, ma proprio quella iniziazione al potere, che dalla famiglia fa accedere “all’universo”, ampliando il campo vitale prescelto,liberando in lui varchi e fornendogli qualità che i riti iniziatici comuni agli altri membri della comunità non possono in alcun modo produrre.7 Dunque “lo sciocco”, godendo di un’iniziazione del tutto personale, fruisce di una successiva gestione autonoma della conoscenza e della funzione che solo egli è in grado di svolgere. L’eroe-sciamano Ivàn non viene “istruito” ad essere tale ma ottiene la consapevolezza di essere sciamano attraverso la propria esperienza e la capacità di “isolare” alcuni elementi significativi dal contesto in cui opera; elementi che gli consentono di possedere la piena consapevolezza del proprio ruolo. Egli è, tuttavia, già uno sciamano, anche se ancora non sà di esserlo. Ivàn non è uno sciocco, anche se apparentemente lo sembra. Tutto in lui suscita ribrezzo e repulsione: è sporco, lacero e pigro, molto diverso da eroi sfolgoranti come Achille o Bellerofonte ma dietro queste apparenze nasconde la capacità di comprendere quali siano le esperienze significative da compiere per la sua maturazione personale. Anche “il dono” che riceve è un’apparenza: esso lo modifica esteriormente e moltiplica le sue qualità personali, ma quelle qualità esistono già dentro di lui, anche se si manifestano in sordina. La vicenda fiabesca si svolge in una cornice di indeterminatezza, di “parità delle opportunità” che John Rawls identifica con la definizione di “Posizione Originaria”. E’ il “caso” e l’esperienza che deriva dalla reazione verso di esso a far emergere la vera funzione di sciamano e a trasformarlo, dunque, in eroecivilizzatore. Se l’antropologia riesce a riconoscere queste tre figure nel personaggio di Ivàn bisogna, a questo punto, operare qualche distinzione che ci colleghi con i temi pedagogici a noi cari. L’innovazione che si trova nel personaggio di Ivàn non sta nel fatto che egli incarni queste funzioni, bensì nel fatto che egli non ne sia assolutamente consapevole. Ivàn è una figura mitica, ma suo malgrado. E’ molto lontano dal Titano Prometeo perchè egli, prima di tutto, è uno sciocco e non è consapevole dei suoi poteri. Ciò che lo rende speciale è la sua consapevolezza di “dover fare esperienza”, di scoprire la propria identità sulla base di ciò che decide di essere e, al tempo stesso, di avere la certezza incrollabile che, servendosi del patrimonio immenso della sua cultura (il mitico cavallo magico lasciatogli in dono dal padre) possa portare a compimento qualsiasi impresa senza che questo dono lo costringa a rinunciare alla sua personalità ed individualità. A conti fatti, Ivàn alla fine di ogni storia resta sempre “uno sciocco”, metafora che prima di tutto ricorda l’eterna posizione dell’alunno che, dinanzi alla conoscenza, si presenta come una “tabula rasa”, un vaso vuoto che vuole essere riempito.

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Igor Sibaldi –“Fiabe Siberiane”-Mondadori 1994 pag.16

Buona parte delle Fiabe Siberiane ruota intorno a un perno fisso, con poche variazioni trascurabili. Ivàn è il quarto figlio di un boscaiolo e il suo ingegno non spicca sopra quello dei suoi fratelli. Un giorno il vecchio padre muore e chiede ai figli di vegliare per quattro notti sulla sua tomba, una notte per ogni figlio, così che la sua povera anima possa ricevere la benedizione della preghiera. La prima notte il figlio maggiore si rifiuta di fare la sua veglia e lo Sciocco Ivàn si offre volontario al suo posto, poichè non ha nulla da temere da suo padre, anche se è morto. A mezzanotte la tomba si apre. Ne esce fuori il padre defunto. “Sei tu, Vasen’ka?” chiede il padre, “No, sono Ivan” risponde il ragazzo per nulla impressionato dall’apparizione. Il padre non replica e Ivàn torna a casa. Nelle notti successive si offre ancora volontario al posto dei fratelli per recitare preghiere davanti alla tomba e ogni notte il padre si desta dal sepolcro, chiama il figlio che crede di trovare quella notte trovando invece la voce di Ivàn, fino a quando non arriva la notte destinata ad Ivàn. Quando il padre lo vede raccoglie il fiato nell’ampio torace e lancia un urlo da Bogatyr* rivolto all’oscurità: “Sivko-Burko, morello magico!”chiama e dalle tenebre giunge un magnifico cavallo nero “Burko, come hai servito me, adesso servirai Ivàn” dice il padre, dopodichè ritorna nel sepolcro a godere il suo meritato riposo. Il resto della fiaba ricorda molto le vicissitudini di Cenerentola: c’è uno Zar che darà la sua figlia in sposa a quel cavaliere che, saltando col suo cavallo fino a una terrazza posta in cima a un castello, riuscirà a sfilarle un anello d’oro dall’indice. I fratelli lasciano Ivàn lo Sciocco a casa anche se egli insiste per venire con loro e si avviano alla corte dello Zar. Allora Ivàn chiama il suo cavallo magico e “passa dall’orecchio destro ed esce da quello sinistro” della sua cavalcatura. trasformato in un giovane coraggioso ed elegante. Per tre volte, con la sua magica cavalcatura, Ivàn riesce a sfilare l’anello dal dito dell’incredula Principessa e ogni volta riuscirà anche a prendersi una rivincita sui suoi fratelli, canzonandoli in qualche modo durante l’impresa. La canzonatura prosegue anche quando i fratelli tornano a casa e Ivàn è tornato il ragazzo sporco e dimesso di sempre, rivelando però un’arguzia inconcepibile per uno stupido: “Ma come, non avete visto che quel cavaliere ero io?” li stuzzica. Il seguito della storia è facile da capire. Con un astuto stratagemma la Principessa riesce a scoprire l’identità del bel cavaliere e a divenire sua sposa ma, come è logico aspettarsi, nessuno può amare uno sciocco che da sguattero è diventato figlio acquisito dello Zar ed erede del Regno. Nelle varie versioni della storia la moglie cerca di liberarsi di lui una volta scoperta la sua debolezza di mente, in altre, è il padre della sposa a commissionargli avventure spericolate nella segreta speranza che non ritorni mai più, ma Ivàn riuscirà sempre e comunque a portarle a termine appellandosi all’ausilio del suo cavallo magico e offrendo sacrifici propiziatori all’anima del padre defunto. Ivàn non solo riuscirà a trionfare ma si prenderà anche la dolce soddisfazione di umiliare coloro che gli volevano nuocere con stratagemmi speculari a quelli adottati per eliminarlo. Di questa fiaba non esiste una versione ufficiale, tuttavia certi temi tornano spesso e insistentemente, troppo spesso perchè possano essere considerati ricami narrativi tessuti intorno alla sua figura. Ivàn possiede il potere di intuire quali siano le azioni che deve compiere e, perfino quando avviene la trasformazione a principe bello e valoroso, quell’intuizione non viene mai abbandonata. Ivàn agisce guidato “dal dono” che gli è stato regalato per un preciso scopo e che ha la capacità di accrescere enormemente le sue potenzialità. Egli “passa attraverso l’orecchio destro ed esce dal sinistro” del suo cavallo, una metafora che ricorda molto il processo di acquisizione della conoscenza attraverso la lezione orale e, attraverso quest’atto magico, avviene la “trasformazione” da sciocco ad eroe. Da un punto di vista antropologico il significato è presto spiegato: “Questi eroi (gli eroi civilizzatori) sono zoomorfi o antropomorfi, e un residuo della loro antica origine totemica si nota nel fatto che essi possono inizialmente assumere indifferentemente l’una o l’altra forma. Ma questa è solo una sfumatura dell’idea che, superiori all’umanità di cui sono i benefattori, essi sono superiori anche alle sue condizioni ordinarie di vita”-8

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Le Origini delle Leggende-Arnold Van Gennep- Xenia Edizioni- 1991 pag.90

Tuttavia, dal punto di vista educativo, esiste un significato ben più alto. Il cavallo riveste una grande importanza in tutte le culture nord-asiatiche dal momento che buona parte dell’economia agricola di queste zone poggia sulla vendita del latte di giumenta e sull’allevamento equino. Il cavallo si identifica così profondamente con certe culture che diventa perfino un aspetto della divinità. La Morte, ad esempio, si manifesta spesso nella forma di un cavallo bianco, ma Ivàn, fortunatamente, non ne cavalcherà mai uno di questo colore. Al di là della cosmogonia sottostante che il cristianesimo è riuscita lentamente a soppiantare, il cavallo diviene innanzitutto il simbolo della Cultura della nazione. Quando Ivàn compie la sua trasformazione egli si immerge nella propria cultura tramandata di padre in figlio, col suo particolare codice di saperi, norme e valori e ne esce rinvigorito. Non è solo cultura, ma anche conoscenza che deve ancora essere assorbita, che deve essere interpretata e simbolizzata. Per superare le prove alle quali è sottoposto Ivàn chiede spesso di farsi regalare dalle cognate un cavallo, così che possa sacrificarlo e il sacrificio, se da un lato assolve alla funzione dello sciamano, dall’altro nasconde un fine ultimo: “...non solo il sacrificio è un’offerta agli uccelli e quindi un ringraziamento al Padre-Benefattore ma è un dialogo tra lo sciamano e il suo Dio. Lo sciamano sacrifica la forma esteriore dell’animale-simbolo perchè di là da quella forma compaia la vera essenza dello spirito animale che nel cavallo immolato è simboleggiato” 9 In altre parole, Ivàn mette da parte tutto ciò che ha precedentemente appreso per accogliere la Nuova Conoscenza che si trova già a un livello “embrionale” ma ha bisogno di un sacrificio per essere portata alla luce. Per far sì che essa si sviluppi egli deve onorare la tradizione e, al tempo stesso “sacrificarla” mettendo in gioco prima di tutto sè stesso e la sua funzione di “custode della tradizione”, rinunciando perciò a parte della sua individualità per fare spazio al nuovo. In questo senso, il sacrificio del cavallo viene inteso come “rielaborazione concettuale e simbolica”. Ivàn si libera delle pastoie imposte dalla cultura e accoglie una nuova forma di conoscenza più evoluta che gli consente di superare le prove. Nella cultura occidentale il sacrificio all’interno della fiaba coincide spesso con una scelta. In questo caso è “imposto” e, senza di esso, la storia della cultura della nazione non potrebbe mai andare avanti.

Bisogna innanzitutto mantenere intatta la differenza tra Sciamano e Sacerdote, ed evidenziare come il cammino sapienziale dello sciamano, e quindi di Ivan, sia differente dal semplice esercizio di una “professione” come quella del sacerdozio in cui la manifestazione del Sacro è ripetibile attraverso riti determinati (come il rito dell’Eucarestia nel Cristianesimo) . Lo Sciamano viene a trovarsi sempre ed esattamente” al centro delle proprie esperienze” senza che le imposizioni e le influenze della società riescano a fiaccarlo o a condizionarne la volontà. Molto spesso senza una guida o un compagno che possa indirizzarlo e consigliarlo, molto spesso, in comunicazione con personaggi ed entità lontani dalla sua esperienza e che appaiono senza che nessuno li abbia chiamati. La figura dell’eroe della favola siberiana diviene perciò qualcosa di più di un semplice “eroe didascalico” come può trovarsi in una fiaba dei fratelli Grimm o di Perrault. Lo sciamano è sia un mezzo per educare che “un oggetto dell’educazione”, è un un individuo che sente su di sè il peso del proprio cammino verso la conoscenza e se ne fa carico. Se una descrizione del genere sembra apparentemente soddisfare la corrente “Liberals” alla continua ricerca di paradigmi educativi che promuovano l’individualismo e la sua legittimizzazione, Ivàn offre molto di più. Egli non è un individuo che agisce solo in base alla propria morale, è anzi un capo che agisce per il bene di tutta la comunità. La descrizione dello Sciamano sembra essere assolutamente compatibile con le teorizzazioni di Rawls che si rivolgono alla formazione di “un individuo moralmente autonomo”. Per Rawls la società non è condizione sufficiente per lo sviluppo della razionalità e la capacità di agire moralmente. “Questo soggetto senza famiglia e senza patria (l’uomo moderno) trova la sua realizzazione in ciò che sceglie di essere”. L’identità dell’individuo non sta perciò in quello che fa, ma bensì nella consapevolezza dei propri diritti individuali e il desiderio di tutelare i propri e quelli altrui.

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– Igor Sibaldi –“Fiabe Siberiane”-Mondadori 1994. Pag.24

La condizione ideale che possa garantire la tutela dei diritti individuali è la“Posizione Originaria”, ovverosia la consapevolezza che deriva dal non conoscere il proprio ruolo all’interno della società e della preminenza del caso che ci assegna quel ruolo. Di conseguenza l’esperienza viene a trasformarsi in “carburante” per l’appropriazione dell’individualità e della tutela di essa; diviene, in altre parole, parte integrante del “cammino iniziatico” che porta all’autoindividuazione. In questo, Ivàn diviene un eroe in virtù delle esperienze che compie e delle prove che riesce a superare, non perchè sia un eroe predestinato, bensì perchè decide di esserlo e di farsi carico di quella funzione, possiede, cioè un “Io-Forte” che lo spinge alla ricerca della conoscenza. Altro parallelismo con le teorizzazioni di Rawls sta nell’identificazione di una situazione di “Nomadismo” in cui l’eroe è costretto a muoversi e ad agire. La famigerata “Condizione Postmoderna” analizzata da Jean Francois Lyotard in cui l’uomo attuale si colloca nell’epoca di crisi dell’Illuminismo-razionalizzante e dell’Idealismo ,che pretendeva di racchiudere l’intero campo dei fenomeni sotto un principio interpretativo unitario, espone l’uomo di oggi al senso di incertezza suscitato dal futuro, ormai privo di validi punti di riferimento. Una situazione di indeterminatezza viene parallelamente riproposta nella fiaba siberiana in cui l’eroe è principalmente “solo”, fa parte della società ma al tempo stesso ne è al di fuori e ne comprende le meccaniche ma non le finalità, in cui la sua sola presenza suscita diffidenza e perplessità e solo attraverso le sue azioni egli può riabilitare il proprio ruolo e far comprendere a chi lo circonda la sua vera funzione di “Eroe”. Oltretutto egli incarna altresì le due figure,care alla Dolto, dell’Ulisse e di Robinson; è sia un uomo pronto a sfidare i tabù della tradizione e a non lasciarsi piegare dall’incertezza che segue l’esperienza, sia un uomo che in situazioni estreme sà affermare, non solo la propria voglia di vivere, ma anche il diritto dell’uomo ad esistere e ad imporre la sua volontà sulle circostanze. Egli non segue le norme della società, perchè ne è al di fuori ma, al tempo stesso, egli è la società, poichè egli è a tutti gli effetti un prodotto culturale che incarna i valori sociali e li veicola attraverso la sua funzione di guaritore, psicopompo ed educatore.

“IO FORTE” ED “IO DEBOLE”: CULTURA SOGGETTIVISTICA E SGUARDO SULLA MODERNITA’ “L’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente...Continuamente un foglio di carta si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “mi ricordo”, e invidia l’animale che subito dimentica”.10

L’emergere di una cultura della soggettività è da collocarsi verso la metà del XIX secolo in risposta alle tendenze positivistiche che facevano coincidere lo sviluppo dell’umanità con il progresso della ragione e intendevano il sapere al servizio dell'uomo come mezzo per conseguire la “ felicità", obiettivo questo fallito dagli illuministi. Tramite il metodo scientifico applicato in ogni campo delle conoscenze umane la conoscenza veniva intesa come un “prodotto ad evoluzione lineare”, che parte da una situazione di omogeneità e si sviluppa verso la differenziazione e la complessità a più livelli dei significati. Nietzsche, d’altro canto, oppone una forte critica al positivismo e, in particolar modo, al razionalismo socratico e all’idealismo hegeliano. Nel “Crepuscolo degli Idoli” sviluppa la sua critica del razionalismo socratico, indicando e percorrendo per primo la strada della decostruzione di tutte le verità, compresa l’idea stessa di "verità". Ogni ideale e valore è infatti il risultato di un processo di costruzione storica e sociale, per cui tutto ciò che in un’epoca o in una società si presenta come verità è, in realtà, solo una composizione apparentemente stabile, perché condivisa, del complesso gioco di forze sia sociali che individuali.L’atteggiamento ascetico-contemplativo della morale platonico-cristiana va dunque respinto: bisogna accettare la vita come è, secondo lo spirito entusiastico e agonistico di Dioniso, di cui Zarathustra è profeta. Dioniso, dio della gioia e dell’ebbrezza, del canto e della danza, è simbolo della piena accettazione del tragico della vita, dei suoi valori integralmente terrestri, quali la fierezza, la salute, l’amore sessuale, la lotta e la guerra, la volontà di potenza. Nietzsche rifiuta i limiti umani e ogni concezione dell’arte che intenda solo portare un inutile conforto al dolore dell’esistenza. In questo senso, respinge ogni impoverimento della volontà, ogni sentimento di impotenza, di decomposizione e dissoluzione o di sterile estetismo, riaffermando il valore dionisiaco dell’arte, il suo compito fondamentale di divinizzare la vita, che tematizza usando la teoria dell’eterno ritorno. Richiamandosi solo in apparenza alle dottrine orientali, Nietzsche vuole in realtà celebrare il senso che ogni attimo dell’esistenza possiede in sé. La storia non ha una direzione, né un verso, ma è l’intersecarsi infinito delle prospettive; in questo orizzonte non basta la critica della cultura e la “transvalutazione di tutti i valori”, bensì occorre assumere la vita dal punto di vista della stessa, costruendo un’esistenza nella quale ogni momento contenga in sé tutto il suo senso. In quest’ottica si colloca il problema dell’individuo collocato nella modernità per il quale i valori veicolati dalla tradizione appaiono ormai desueti perchè ricondotti a realtà storiche inattuali e hanno la necessità di essere sostituiti da valori personali che possano supportare l’affermazione dell’Io. Altra critica, forse tra le più efficaci al metodo scientifico-razionale viene portata avanti dalla Psicoanalisi freudiana in cui il pensiero logico non è altro che la punta dell’iceberg della mente, ovverosia, di quel vasto oceano dominato dall’Inconscio nel quale si agitano gli Impulsi primordiali che condizionano l’uomo in ogni istante della sua vita. Da qui l’idea che l’Io non sia solo razionale ma si nutra anche di componenti affettive e relazionali che si dimostrano prevalenti sopratutto nei primi anni di vita. In ambito pedagogico la “soggettivizzazione” dell’individuo operata in ambito filosofico si intreccia con la graduale affermazione della centralità del soggetto nell’ambito degli studi e delle eperienze pedagogiche, a partire dalle esperienze e riflessioni condotte dal movimento per “l’Educazione Nuova”. I metodi di Claparede, Dewey,Montessori e Decroly trovano un comune motivo di riconoscimento nella centralità assegnata al bambino all’interno del processo pedagogico nel quale vengono identificate con metodo psicologico le fasi di emergenza delle abilità primarie e secondarie e vengono applicati metodi ad hoc allo scopo di gestirle e di accrescerle.

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Citato in K.Lowith “Nietzsche e l’Eterno Ritorno”, Laterza, Roma-Bari, 1985 pag.135

Il bambino non viene più inteso come un “contenitore” da riempire, o piuttosto come un blocco di creta da “plasmare” a piacimento, ma piuttosto come un “individuo in miniatura” che deve rendersi consapevole delle proprie potenzialità tramite l’applicazione di metodi concepiti per lo sviluppo delle sue abilità relazionali, logiche e affettive, oltrechè della soddisfazione dei suoi bisogni essenziali. La figura del maestro autoritario “uomo di cultura” in senso gentiliano viene sostituita dalla figura di un “padre rassicurante” in senso freudiano/rousseiano; un docente che orienta le scelte, piuttosto che imporle, e che offre il proprio supporto affettivo allo scopo di aiutare il bambino ad affrontare le prove imposte dall’iter educativo. Eredi dell’Idealismo e della lezione di Sergei Hessen, Foerster e Spranger si concentrano invece sulla formazione del “carattere”. E’ il carattere a dare forza alle decisioni dell’uomo per sottrarlo alla mutevolezza delle esperienze contingenti. Per Foerster il rafforzamento del carattere coincide con la “vivificazione dell’obbiedenza”, un consenso interiore nei confronti di una “volontà razionalizzatrice” che si impone sull’influenza delle tendenze inferiori. Non è perciò necessaria la figura di un docente autoritario, ma è altresì necessaria la presenza di un “docente interiore” che diriga l’alunno verso doveri etici “liberamente scelti”, interiorizzati,che vengono a essere parte integrante della struttura dell’Io. Pertanto diviene fondamentale, all’interno del percorso di maturazione personale, la conquista personale dei valori attraverso la creazione di un “Io-forte”, che si eleva sopra l’Io della semplice intuizione sensibile e concepisce una coscienza legata a un destino superiore. In quest’ottica l’Io non si annulla all’interno della volontà e degli interessi di un gruppo sociale bensì si rafforza attraverso l’esperienza di vita e si arricchisce attraverso un incessante ripensamento dei valori che lo hanno plasmato. Tuttavia questo modo di concepire l’educazione non è esente da critiche. Scrive Chiosso ne “I Significati dell’Educazione” 11 “L’insistenza sull’Io rischia in effetti di orientare tutte le risorse verso l’analisi e la valorizzazione della propria esperienza intesa come il “capolavoro” intorno a cui merita davvero impegnarsi...i teorici della soggettività sanno bene di essere esposti a due rischi: l’egoismo e l’elitismo snobistico”. A ben vedere i due rischi qui descritti rischiano realmente di impoverire la qualità delle esperienze personali allo scopo di nutrire un Io centrato esclusivamente su sè stesso, alla continua ricerca di un’affermazione nel mondo sociale e affettivo, e la famiglia è in particolar modo l’istituzione che per prima viene a soffrirne. Solo trent’anni fa era evidente che il modello educativo familiare era caratterizzato dalla dominanza del genitore mentre oggi appare evidente la dominanza del bambino che impone la soddisfazione dei propri bisogni, in rapporti genitore-figlio ormai caratterizzati dalla persuasione, piuttosto che dalla coercizione da parte del primo e che molto spesso lo impegnano senza che le decisioni prese possano in qualche modo ricucire gli “squarci” che si creano tra padre e figlio e allontanano una figura dall’altra. Gli interventi di sostegno alle competenze genitoriali sono sempre più richiesti nel tentativo di soddisfare appieno i dodici bisogni psicopedagogici identificati per un soggetto in crescita (affettivi, cognitivi, sociali ed etici) e al tempo stesso “riabilitare” la figura del genitore all’interno del processo educativo per ristabilire una posizione di “prossimità” con i propri figli e garantirgli la possibilità di far valere l’apporto della propria esperienza e delle proprie opinioni sulle loro scelte di vita. Molti autori, perciò, oltre a concepire l’idea di un Io-individuale (auto-centrato aggiungeremmo noi) fanno valere l’influenza ulteriore di un Io-sociale vincolato da principi etici e sociali verso cui tutti gli uomini hanno precise responsabilità. In quest’ottica l’Io che l’individualismo tende ad esaltare viene ridimensionato dai desideri imposti della comunità civile e dal desiderio di socializzazione che “sublima” il principio egotico individuale sviluppando nuove forme di interazione con i propri “concittadini” o compagni di gruppo. La costruzione di valori etici personali, tanto desiderata dal soggettivismo non avrebbe senso di esistere in quanto i valori individuali non sono altro che figli dei valori interiorizzati dalla cultura di provenienza e veicolati dalla tradizione (Mac Entyre).

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Pag.73 – “L’Io Cittadino del mondo”

INTERDISCIPLINARIETA’ ED ESPERIENZA: CONCLUSIONI FINALI L’Inter-disciplinarietà è un principio che già le scienze dell’educazione hanno adottato da diverso tempo per accrescere il potenziale applicativo delle proprie teorie. Sempre più spesso risultano fondamentali gli apporti della psicologia, della statistica, dell’informatica e della sociologia per analizzare sotto più punti di vista la qualità e il significato che acquista il percorso educativo dell’alunno. Purtuttavia non dobbiamo dimenticarci che l’inter-disciplinarietà ottiene significato se e solo se non viene a diventare un “vuoto tecnicismo” capace di veicolare una grande quantità di nozioni imponendo un rigoroso processo logico. Il mezzo attraverso il quale l’alunno può accedere alla conoscenza deve necessariamente essere duttile, deve tenere conto dei processi affettivi, relazionali, cognitivi che intervengono nell’attività educativa e, al tempo stesso, deve tenere conto della creazione di un’individualità retta da principi morali che possano interpretare la mutevolezza dell’esperienza senza compromettere gli strati più profondi dell’Io, senza cioè porlo in condizione di dover rinunciare a una parte della propria coscienza per il raggiungimento di obiettivi effimeri, legati agli interessi particolari di un gruppo sociale, oppure legati esclusivamente alla propria affermazione individuale. L’Interdisciplinarietà auspicata và intesa alla maniera di Edgar Morin, ovvero come uno strumento che consentirebbe di operare sulla conoscenza a più livelli di significato senza fermarsi a chiusure definitive, attraverso l’esercizio e l’evoluzione di certe “buone attitudini” come la facoltà critica e “l’attitudine generale della mente a risolvere i problemi”. Grandi passi avanti sono stati compiuti attraverso la costruzione di sistemi educativi policentrici capaci di interpretare l’istituzione scolastica solo come uno dei tanti ambienti formativi in cui avviene il processo educativo individuale, integrando le attività di studio e riflessione con stage e tirocini lavorativi e l’applicazione di tecniche di e-learning. Scrive G.Chiosso in “Luoghi e pratiche dell’Educazione”: “...se per molto tempo parlare di riforma ha significato soprattutto pensare al rinnovamento dei programmi di insegnamento e all’aggiornamento sul piano degli orientamenti degli studi, oggi parlare di riforma significa affrontare non solo la dimensione dei contenuti curriculari e delle didattiche più coerenti per raggiungere i risultati attesi, ma altresì l’aspetto macro-organizzativo e la pluralità delle soluzioni interistituzionali possibili...”. E’implicito che, se la società, attraverso l’educazione, è in grado di veicolare una pluralità di principi etici allo scopo di rafforzare la moralità individuale, deve essere anzitutto l’individuo e non l’ambiente a interpretare e applicare questi valori all’interno della società da cui li ha assorbiti. In questo senso certi principi non possono essere esclusivamente ricondotti a situazioni particolari, caratteristiche esclusivamente di alcuni gruppi sociali (es: la fedeltà all’azienda può essere un principio etico, la fedeltà ad una determinata azienda diviene un principio etico assolutamente personale) ma devono necessariamente confrontarsi con altre situazioni esperienzali nelle quali essi possono agire sul comportamento e acquisire profondità di significato attraverso l’analisi riflessiva delle esperienze così ottenute. Nell’ottica interdisciplinare l’avvento delle nuove tecnologie, lungi dall’impoverire il dato conoscitivo, diviene anzi mezzo per connettere più campi del sapere simultaneamente e sviluppare le capacità di sintesi, ragionamento e capacità di esecuzione. In questo senso la convergenza digitale, ovverosia, l’adozione del linguaggio digitale da parte dei diversi media diventa fondamentale per lo sviluppo di queste abilità che Steven Johnson identifica quali: - Pensiero visivo: Il pensiero, a contatto con immagini dai contenuti immediati, si abitua ad “intuire” più che a “ragionare”e a lavorare per analogie piuttosto che secondo una logica sequenziale. -Pensiero breve:Il pensiero che stimola la facoltà di sintesi attraverso l’utilizzo di messaggi brevi e densi di significato (es: linguaggio SMS) -Capacità Multitasking: Capacità di svolgere più compiti contemporaneamente tramite l’impiego di tecnologie multi-mediali. L’esperienza ottenuta dal contatto con situazioni diversificate e tecniche sempre più efficienti di formazione contribuiscono in maniera fondamentale allo sviluppo di un “Io-Forte” capace di esercitare attivamente i propri principi morali per la società e per sè stesso ma, per farlo, deve altresì concepire l’influenza e la ricchezza di significati della tradizione come strumento per la comprensione e per l’esercizio della propria attività nel mondo dei fenomeni. Scrive Dewey: “Ci tocca di accertare in che modo la conoscenza del passato può essere trasformata in un potente strumento per agire effettivamente sul futuro. Quanto più dobbiamo rifiutare la conoscenza del passato come fine dell’educazione, tanto più dobbiamo insistere sull’importanza di essa come mezzo.

Abbiamo dunque (nel campo dell’educazione nuova) da fare con un problema nuovo nella storia dell’educazione: in che modo il ragazzo deve imparare a conoscere il passato per fare di questa conoscenza un potente ausilio per giudicare la vita presente?”12. Dewey, fondatore del Pragmatismo in filosofia e pedagogia parla di come l’esperienza crei e strutturi la conoscenza in rapporto con l’ambiente. L’influenza di quest’ultimo sulla spinta alla conoscenza individuale è tuttavia subordinata: il bambino deve essere sì posto all’interno di un contesto che gli consenta di fare “esperienze significative”, ma queste esperienze non avranno modo di compiersi se esso non le ritiene tali e non sviluppa autonomamente il desiderio di conoscere; in poche parole, a un’idea Durkheimiana di Naturalismo in cui l’individuo si adatta passivamente alle esigenze sociali, Dewey propone un’educazione adattivo/costruttiva legata ai processi di socializzazione e alla partecipazione attiva dell’individuo alla “coscienza sociale” della specie, nella quale “agire” e “conoscere” sono concepiti come una cosa sola. La teoria deweyana che prevede pertanto un processo continuo e ricorrente di acquisizione di esperienze, e quindi, di conoscenze ha dato modo a molti autori pedagogici di riformulare il concetto di educazione sia nel campo dell’educazione in sè che della formazione adulta. Jack Mezirow parla, ad esempio di “apprendimento trasformativo” per indicare la capacità/necessità dell’adulto di riformulare continuamente i propri quadri di significato. L’esperienza della riflessione avviene quando si manifesta un “dilemma disorientante” che costringe a dubitare della validità di conoscenze già acquisite in precedenza. L’individuo trasforma e modifica gli schemi di significato mediante la riflessione sia sul contenuto della conoscenza e sul processo di acquisizione, che sulle premesse che hanno attivato il processo, in un meccanismo chiamato emancipatory learning. All’interno del processo conoscitivo Mezirow trova due “figure paradigmatiche” che rendono bene l’idea di approccio alla conoscenza e all’esperienza: -L’uomo delle risposte:Ha bisogno di certezze ed è spinto dal desiderio di sicurezza. La sua tendenza sta nel l’accumulare conoscenza allo scopo di agire positivamente nel contesto sociale per migliorare la propria posizione -L’uomo delle domande: Non ha bisogno di certezze, poichè sà che esse sono illusorie. L’unica sicurezza che ha è la consapevolezza che attraverso la forza d’animo e la prova del carattere è capace di affrontare e superare brillantemente qualsiasi prova.E’ consapevole di essere all’interno di una società di cui è il prodotto, ma prende le proprie decisioni autonomamente e in solitudine senza dar troppo peso alle influenze esterne. In queste due figure che coesistono entrambe all’interno dell’uomo, l’autore riassume gli istinti che muovono l’individuo alla ricerca della conoscenza.Che sia l’istinto di rischiare o quello di ottenere sicurezza, egli non può fare a meno di vivere e fare esperienza e, quindi, di apprendere. Nell’ambito della formazione adulta Malcolm Knowles porta avanti la lezione di Dewey concependo l’adulto “in formazione” come un elemento attivo, capace di strutturare autonomamente la conoscenza, questo attraverso l’individuazione di alcune tendenze esclusivamente caratteristiche del discente “maturo” che lo distinguono da qualsiasi altro discente quali il bisogno spontaneo di apprendere, la consapevolezza di essere un discente e di essere anche il co-autore della propria educazione, la disponibilità ad apprendere in funzione di bisogni reali. Ovviamente anche questo metodo di concepire l’educazione attraverso un processo di “divenire quotidiano” non è esente da critiche, prima fra tutte quella mossa da Jacques Maritain nei confronti del pragmatismo e dell’educazione contemporanea che ha, a detta sua, ha la tendenza a misconoscere i veri fini educativi, che consistono altresì nell’esigenza dell’uomo di amare la verità e la giustizia allo scopo di accrescere la propria spiritualità. E’ implicito dire che il fare esperienza per conoscere non preclude la possibilità di accrescersi spiritualmente. Tuttavia, se vogliamo considerare le vicende dell’eroe-sciamano della fiaba siberiana come un paradigma educativo dobbiamo necessariamente rifarci a buona parte delle teorie educative individualiste e pragmatiste. L’eroe-sciamano della fiaba siberiana compie le proprie esperienze significative, iniziatiche, partendo dal presupposto che sia necessario compierle per l’affermazione del suo ruolo. Pur essendo uno sciocco egli non si sottrae al potere acquisito dall’esperienza, anzi, l’esperienza del ruolo e l’esperienza di vita costituiscono una cosa sola. Ivan lo sciocco conosce altresì il potere della cultura, il modo attraverso cui il passato, con i suoi miti e le sue leggende, offre la spiegazione del presente in cui agisce.

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John Dewey -“Esperienza e Educazione”-a cura di Mario Casotti. Roma, Nuova Italia Editrice-1951

Da questa consapevolezza egli diviene un “prodotto culturale vivente” in grado di simbolizzare le difficoltà del presente rievocando i grandi drammi e le grandi imprese dell’umanità attraverso la celebrazione dei riti. Occorre distinguere tra iniziazione “sociale” e iniziazione “sciamanica”, dal momento che la prima ha il solo scopo di inserire l’individuo all’interno di un ruolo prestabilito e farlo accedere ai valori ad essi connesso. L’iniziazione “sciamanica” ha, invece, il suo scopo nel far accedere l’individuo al grande significato dell’universo, al grande mistero della Creazione e della Vita. Lungi dall’offrire consolazione religiosa, lo sciamano utilizza il grande potere dell’esperienza per formare gli individui della comunità, si pone come educatore e maestro di vita oltre che come fine del processo educativo, poichè egli conosce i “grandi misteri” ma non li può spiegare con parole diverse da quelle del mito (non può spiegarle “logicamente” diremmo noi) e, per questo, non ha un accesso privilegiato alla conoscenza. Anche in questo è figura di riferimento poichè stabilisce un limite conoscitivo oltre il quale non è più possibile comprendere. Il “tabù” identificato in senso antropologico non sta nell’incapacità culturale di concepire un concetto, bensì nella consapevolezza che quel concetto non può essere spiegato con parole differenti, perciò, qualora si volesse farlo, esso cambierebbe di significato e l’intera comunità si troverebbe in pericolo. Forse anche la pedagogia contemporanea dovrebbe riscoprire il concetto di “tabù” e rendersi conto che non è possibile descrivere il processo conoscitivo con parole diverse da quelle che già si utilizzano. Nell’ottica interdisciplinare auspicata la rielaborazione dei miti e delle leggende in chiave pedagogica può ancora offrire spunti interessanti per individuare altre figure-chiave che possano riassumere sapientemente la pluralità dei percorsi conoscitivi al quale l’uomo è destinato e, al quale, è altresì condannato.

Alessandro D’Anza Matr: 759685

BIBLIOGRAFIA - I significati dell'educazione. Teorie pedagogiche e della formazione contemporanee –G.Chiosso-Mondadori 2009 - G. Chiosso (a cura di), Luoghi e pratiche dell’educazione, Mondadori Università, Milano, 2009. - C. M. Fedeli, L’educazione come esperienza. Il contributo di John Dewey e Romano Guardini alla pedagogia del Novecento, Aracne, Roma, 2008. - John Dewey -“Esperienza e Educazione”-a cura di Mario Casotti. Roma, Nuova Italia Editrice-1951 – Igor Sibaldi –“Fiabe Siberiane”-Mondadori 1994. - Le Origini delle Leggende-Arnold Van Gennep- Xenia Edizioni- 1991

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