Jules Verne - La Stella Del Sud

December 1, 2016 | Author: fulvix88 | Category: N/A
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Racconto...

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JULES VERNE

La Stella del Sud Disegni di Leon Benett incisi da Ch. Barbant, A. Bellenger, F. Delangle, V. Dutertre, Dumouza, Fromenl, Uh. Hildibrand, F. Meaulle Copertina di Graziella Sarno U. MURSIA & C. MILANO

Traduzione integrale dal francese di MARIELLA MUGGINI Titolo originale dell’opera L'ÉTOILE DU SUD (1884)

Proprietà letteraria e artistica riservata Printed in Italy © Copyright 1972 U. MURSIA &C. 1299/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29

PRESENTAZIONE Sullo sfondo de La Stella del Sud,scritto nel 1884, è tratteggiata la pesante situazione in cui vennero a trovarsi i Boeri nell'Africa australe in seguito ai soprusi economici e militari messi in atto dalle forze britanniche, dopo la scoperta dei giacimenti d'oro e di diamanti avvenuta in quei territori. (E a questo proposito andrebbe qui sottolineato il tempismo di Verne: la scoperta dei giacimenti risale proprio al 1884, data di pubblicazione del romanzo.) Sullo sfondo de L'arcipelago in fiamme è tratteggiata la guerra di indipendenza della Grecia contro il governo turco che ebbe il suo momento culminante nella battaglia di Navarino (20 ottobre 1827). Entrambi i libri sono dunque ambientati nel quadro di moti irredentistici che videro le minoranze oppresse sollevarsi contro i dominatori, in nome della libertà e della indipendenza. Ma, come sempre avviene in Verne, la cornice storica resta sullo sfondo, e in primo piano viene avanti l'avventura, con fatti, nomi e volti presi in prestito dalla fantasia. Ne La Stella del Sud, il protagonista è un giovane chimico francese, Cyprien Méré, inviato nell'Africa del Sud per compiervi ricerche geologiche. Se non che, ad un certo momento, egli crede di aver scoperto il metodo per fabbricare artificialmente i diamanti. Il frutto della propria scoperta egli lo vede con i propri occhi: un diamante favoloso, d'incalcolabile purezza e valore: la Stella del Sud. Proprio il dono di nozze che ci vuole per Alice Watkins, la fanciulla cui ha donato il suo cuore. Purtroppo, durante una festa, il favoloso diamante scompare misteriosamente, e ha così inizio la caccia al ladro, che riserverà al protagonista la più imprevedibile delle rivelazioni… A parte le osservazioni già fatte sull'ambientazione del romanzo, che costituisce il pretesto per una trama ricca di avvenimenti, di personaggi e di tensione narrativa, riteniamo utile sottolineare qui due punti che ci sembrano oltremodo interessanti.

Il primo riguarda la fabbricazione artificiale dei diamanti che Verne affida a Cyprien Méré non senza quello spirito d'anticipazione che gli è congeniale. Infatti un compatriota di Cyprien, Henri Moissan, chimico illustre che ottenne il Premio Nobel nel 1906, nove anni dopo la pubblicazione di Verne riuscì effettivamente a produrre piccoli diamanti artificiali. C'è da credere che Verne non solo precorresse la scienza ma addirittura la ispirasse. Il secondo punto riguarda i rapporti di Cyprien con la popolazione indigena, i cafri, delineati nel loro momento più tipico nei rapporti con Matakit, che rivelano l'indignazione dello scrittore nei confronti delle miserabili condizioni di vita in cui sono tenuti i negri e al tempo stesso mostrano le sue perplessità nei confronti di certo colonialismo culturale praticato sia pure con le migliori intenzioni. Spirito liberale e profondamente umano egli anticipa anche in questo senso alcuni motivi dell'anticolonialismo, anche se non riesce a liberarsi completamente dal mito del primato dell'uomo bianco.

JULES VERNE nacque a Nantes l'8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone. La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro - in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel - venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari - I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L'isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica o scientifica. Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.

Indice PRESENTAZIONE________________________________________ 3

LA STELLA DEL SUD __________________________________ 9 Capitolo I ________________________________________________ 9 SONO DAVVERO SBALORDITIVI QUESTI FRANCESI! ___________ 9

Capitolo II ______________________________________________ 20 I CAMPI DI DIAMANTI ______________________________________ 20

Capitolo III______________________________________________ 29 UN'AMICHEVOLE LEZIONE DI SCIENZE ______________________ 29

Capitolo IV______________________________________________ 39 CYPRIEN AL VANDERGAART-KOPJE ________________________ 39

Capitolo V ______________________________________________ 47 PRIMI RISULTATI __________________________________________ 47

Capitolo VI______________________________________________ 58 ALCUNE USANZE DEL CAMPO ______________________________ 58

Capitolo VII _____________________________________________ 70 LA FRANA ________________________________________________ 70

Capitolo VIII ____________________________________________ 79 LA GRANDE PROVA________________________________________ 79

Capitolo IX______________________________________________ 86 CHE SORPRESA! ___________________________________________ 86

Capitolo X ______________________________________________ 95 NEL QUALE JOHN WATKINS MEDITA LUNGAMENTE__________ 95

Capitolo XI_____________________________________________ 109 LA STELLA DEL SUD ______________________________________ 109

Capitolo XII ____________________________________________ 119 PREPARATIVI PER LA PARTENZA __________________________ 119

Capitolo XIII ___________________________________________ 126 IL LUNGO VIAGGIO ATTRAVERSO IL TRANSVAAL___________ 126

Capitolo XIV ___________________________________________ 139 A NORD DEL LIMPOPO ____________________________________ 139

Capitolo XV ____________________________________________ 149 UNA CONGIURA __________________________________________ 149

Capitolo XVI ___________________________________________ 158 IL TRADIMENTO __________________________________________ 158

Capitolo XVII __________________________________________ 169 UNA CORSA A OSTACOLI AFRICANA _______________________ 169

Capitolo XVIII__________________________________________ 176 LO STRUZZO PARLANTE __________________________________ 176

Capitolo XIX ___________________________________________ 188 LA GROTTA MERAVIGLIOSA_______________________________ 188

Capitolo XX ____________________________________________ 198 IL RITORNO ______________________________________________ 198

Capitolo XXI ___________________________________________ 208 GIUSTIZIA ALLA VENEZIANA ______________________________ 208

Capitolo XXII __________________________________________ 218 UN NUOVO TIPO DI MINIERA ______________________________ 218

Capitolo XXIII__________________________________________ 226 LA STATUA DEL COMMENDATORE ________________________ 226

Capitolo XXIV __________________________________________ 232 UNA STELLA CHE SVANISCE ______________________________ 232

LA STELLA DEL SUD CAPITOLO I SONO DAVVERO SBALORDITIVI QUESTI FRANCESI! — PARLATE, signore, vi sto ascoltando. — Con il vostro permesso, signore, ho l'onore di chiedervi la mano di vostra figlia, la signorina Watkins. — La mano di Alice!?… — Sì, signore. La mia domanda sembra sorprendervi. Vogliate scusarmi, ma io davvero non riesco a comprendere perché la troviate tanto strana. Ho ventisei anni. Mi chiamo Cyprien Méré. Sono ingegnere minerario, promosso secondo in graduatoria, al Politecnico. La mia famiglia, anche se non è ricca, è tuttavia molto conosciuta e stimata. Il console di Francia al Capo potrà testimoniarlo, se voi lo desiderate, e il mio amico Pharamond Barthès, il coraggioso cacciatore del Griqualand che anche voi conoscete, potrà confermarvi quanto vi ho detto. Mi trovo qui in missione scientifica per conto dell'Accademia delle Scienze e del Governo francese. L'anno scorso, all'Istituto, ho vinto il premio Houdart per i miei lavori sulla composizione chimica delle rocce vulcaniche dell'Auvergne. La mia monografia sul bacino diamantifero del Vaal, che sto portando a termine, dovrebbe risultare piuttosto interessante per il mondo scientifico. Quando rientrerò dalla mia missione, sarò nominato professore incaricato della Scuola Mineraria a Parigi, e ho già fatto affittare un appartamento in me de l'Université al numero 104, terzo piano. Il mio stipendio con il prossimo gennaio salirà a quattromilaottocento franchi. Non è il Perù, lo so bene; ma con i guadagni dei lavori personali e specifici,

dei premi accademici e delle collaborazioni con le riviste scientifiche, la mia rendita risulterà quasi raddoppiata. Aggiungo che sono di gusti semplici per cui non mi occorre più di così per essere felice. Signore, ho l'onore di chiedervi la mano di vostra figlia, la signorina Watkins. A giudicare dal tono fermo e risoluto di questo discorsetto, ci si rendeva facilmente conto che Cyprien Méré era un tipo che, in ogni situazione, mirava direttamente al suo scopo e che parlava molto francamente. La sua fisionomia del resto non smentiva l'impressione che avevano prodotto le sue parole: quella cioè di un giovane scienziato abituato a dedicarsi a profondi pensieri e a serie ricerche e che concede agli svaghi mondani solo il tempo strettamente necessario. I suoi capelli castani tagliati a spazzola, la sua barba bionda e ben rasata, la semplicità del suo abito da viaggio di pesante stoffa grigia, il cappello di paglia da dieci soldi che egli aveva educatamente deposto, entrando, su di una seggiola - quantunque il suo .interlocutore fosse rimasto imperturbabile con il cappello in testa, secondo l'impassibilità abituale della gente anglosassone - tutto insomma in Cyprien Méré rivelava una persona molto seria, così come la limpidezza del suo sguardo indicava un cuore puro e una coscienza onesta. Bisogna aggiungere che questo giovane francese parlava perfettamente l'inglese, come se fosse vissuto a lungo nelle regioni più britanniche del Regno Unito. Il signor Watkins lo ascoltava, fumando una grossa pipa, sprofondato in una poltrona di legno, con la gamba sinistra distesa su un panchetto di paglia e il gomito appoggiato a un tavolo massiccio: davanti a lui c'erano una bottiglia di gin e un bicchiere per metà pieno di tale bevanda alcolica. Costui indossava un paio di calzoni bianchi, una giacca di tela blu, una camicia di flanella gialliccia senza gilet né cravatta. Sotto il largo cappello di feltro, che pareva destinato a dimorare sulla sua. testa grigia, spuntava un rosso faccione che sembrava iniettato di gelatina di ribes. Questo volto poco attraente, disseminato di ciuffi di barba

ispida color della gramigna, era fornito di due occhietti grigi, i quali certo non lasciavano trasparire né bontà, né pazienza. C'è da dire subito, come attenuante per il signor Watkins, che egli soffriva terribilmente di gotta, cosa che lo costringeva a tenere fasciato e a riposo il piede sinistro; la gotta d'altronde - nell'Africa meridionale come in ogni altro paese del mondo - non ha certo la prerogativa di addolcire il carattere delle persone che ne sono colpite. La scena di cui trattiamo si stava svolgendo al pianterreno della fattoria del signor Watkins a circa 29 gradi di latitudine sud dall'equatore e a circa 22 gradi di longitudine est dal meridiano di Parigi, presso la frontiera occidentale dello Stato libero di Orange, a nord della colonia inglese del Capo, nel centro dell'Africa australe o anglo-olandese. Questo paese, per il quale la riva destra del fiume Orange segna il confine col grande deserto di Kala-kari, che porta sulle vecchie carte il nome di «paese dei Griqua», da una dozzina d'anni è stato chiamato con un nome molto più appropriato: «Diamonds-Field», il Campo di Diamanti. La sala in cui aveva luogo questo colloquio diplomatico, presentava uno strano contrasto tra una parte del mobilio, che era di un lusso eccessivo, e altri particolari dell'arredamento che lasciavano molto a desiderare. Il pavimento, per esempio, era di semplice terra battuta, ma, qui e là, era stato coperto da spessi tappeti e da pelli preziose. Alle pareti, che non erano mai state rivestite di una qualsiasi forma di tappezzeria, erano appese una magnifica pendola di bronzo cesellato, armi di valore di svariate fabbricazioni e miniature inglesi montate su ricche cornici. Un divano di velluto era affiancato da un tavolaccio di legno bianco che avrebbe a malapena potuto essere usato in una cucina. Delle poltrone, venute direttamente dall'Europa, cercavano inutilmente di essere invitanti per il signor Watkins, il quale preferiva invece una vecchia seggiola, un tempo intagliata e costruita da lui stesso. Nel complesso dunque quell'insieme di oggetti di valore e quell'accozzaglia di pelli di pantere, di leopardi, di giraffe e di gattopardi gettati sopra i mobili, davano a quella sala una certa aria di barbara opulenza.

Si capiva, guardando la conformazione del soffitto, che la casa non aveva piani superiori e che era composta del solo pianterreno. Come tutte le altre del paese, essa era costruita parte in legno, parte in argilla, ed era coperta da lastre di zinco poggiate su una sottile travatura. Si capiva inoltre che tale abitazione era stata appena terminata. Bastava avvicinarsi a una delle finestre per scorgere, al di fuori, cinque o sei costruzioni abbandonate, tutte dello stesso stile ma di epoche diverse e in uno stato di abbandono più o meno avanzato. Si trattava delle case che il signor Watkins aveva successivamente costruito, abitato e abbandonato, secondo l'andamento della sua fortuna e che ne segnavano per così dire le tappe. La più lontana era fatta semplicemente di zolle di terra e poteva chiamarsi a malapena capanna. La seconda era fatta d'argilla, la terza di argilla e di legno, la quarta di argilla e di zinco. Si capiva da ciò secondo quale scala ascendente avesse avuto sviluppo l'industria del signor Watkins. Queste abitazioni, più o meno decrepite, sorgevano su un monticello presso la confluenza del Vaal e della Modder, i due principali affluenti del fiume Orange in questa regione dell'Africa australe. All'intorno, fin dove poteva spingersi lo sguardo, verso sudovest e verso nord, non si vedeva che la pianura triste e desolata: il Veld - come è chiamato là - è fatto di un terreno rossiccio, secco, arido, polveroso, cosparso qua e là di un'erbetta rada e di isolati cespugli spinosi. La mancanza totale di alberi è la principale caratteristica di questa triste contrada. Perciò, tenendo conto che non c'è naturalmente carbon fossile e che le comunicazioni col mare sono lente e difficoltose, non ci si meraviglierà del fatto che il combustibile sia là molto scarso e che ci si sia ridotti, per usi domestici, a bruciare lo sterco delle greggi. Su quella monotona distesa, dall'aspetto deprimente, si snodano le anse dei due fiumi, talmente larghi e così poco scavati nel terreno che è difficile capire come l'acqua abbia potuto restare nel suo letto e non inondare tutta la piana circostante. Verso oriente solamente la linea dell'orizzonte è interrotta dalla cresta di due lontane montagne, il Platberg e il Paardeberg, ai cui

piedi un occhio particolarmente acuto avrebbe potuto scorgere delle colonne di fumo, un polverone e dei puntini bianchi, che sono in realtà case o tende, e, intorno a quelle, tutto un formicolio di esseri umani. È là, in questo Veld, che si trovano i giacimenti di diamanti in lavorazione, il Du Toit's Pan, il New-Rush e, forse il più ricco di tutti, il Vander-gaart-Kopje. Queste miniere a cielo scoperto e quasi a fior di terra, che sono chiamate con il nome generale di «drydiggings» o miniere a secco, dall870 in poi, hanno prodotto per un valore di circa quattrocento milioni in diamanti e pietre preziose. Si trovano riunite in un'area circolare, il cui raggio è al massimo di due o tre chilometri. Le si potevano benissimo vedere con il binocolo dalle finestre della fattoria Watkins, che ne distava circa quattro miglia inglesi. 1 Il termine di fattoria, del resto, risulta estremamente improprio per la costruzione del signor Watkins dal momento che era impossibile scorgere all'intorno la minima traccia di coltura. Come tutti i pretesi fattori di questa regione del Sud-Africa, il signor Watkins era piuttosto un ricco pastore, un proprietario di mandrie di buoi, di mucche e di montoni che non il capo di un'azienda agricola. Intanto, il signor Watkins non aveva ancora risposto alla domanda, che gli era stata gentilmente ma risolutamente rivolta da Cyprien Méré. Dopo aver dedicato almeno tre minuti a una profonda riflessione, egli si decise finalmente a staccare la pipa dalle labbra e a sbottare nella seguente osservazione che, a dire la verità, non aveva alcun rapporto con la domanda: — Credo che il tempo stia per cambiare, mio caro signore! La gotta non mi ha mai fatto tanto soffrire come stamattina! Il giovane ingegnere aggrottò le sopracciglia, distolse per un attimo il capo, facendo uno sforzo su se stesso per non lasciar trasparire il suo disappunto. — Fareste bene a rinunciare al gin, signor Watkins! — rispose poi seccamente, additando la bottiglia di liquore che i ripetuti attacchi di quel bevitore accanito andavano velocemente svuotando del suo contenuto. 1

Il miglio inglese equivale a 1.609 metri. (N.d.T.)

— Rinunciare al gin?! Per Giove! Me la raccontate proprio bella! — esclamò il fattore. — E chi ha mai sentito che il gin faccia male a un galantuomo?… Sì, lo so cosa volete dire!… Volete citarmi la ricetta di quel medico per un sindaco di Londra che aveva la gotta!… Come si chiamava quel medico? Abernethy, credo! «Volete star bene?» diceva al suo ammalato. «Vivete con uno scellino al giorno, e guadagnatevelo lavorando!» Tutto questo è molto bello! Ma, nella nostra vecchia Inghilterra, se per star bene bisognasse vivere con uno scellino al giorno, a cosa servirebbe aver fatto fortuna?… Quelle sono sciocchezze indegne di una persona di spirito come voi, signor Méré!… Dunque non parlatene più, ve ne prego. Per quanto mi riguarda, piuttosto preferirei andarmene subito sotto terra!… Ben mangiare, ben bere, fumare una buona pipa tutte le volte che ne ho voglia. Non ho altra gioia al mondo, e voi volete che io vi rinunci? — Oh! Per carità, non ci tengo affatto! — rispose francamente Cyprien. — Ma lasciamo perdere questo discorso, se non vi dispiace, signor Watkins, e torniamo piuttosto al motivo della mia visita. Il signor Watkins, fino a quel momento così loquace, era ripiombato nel suo mutismo ed emetteva silenziose boccate di fumo. In quella la porta si aprì. Una fanciulla entrò, portando un vassoio con un bicchiere. Questa dolce figuretta, così graziosa sotto la grande cuffia, alla moda delle contadine del Veld, era vestita d'un semplice abito di tela a fiorellini. Aveva diciannove o vent'anni, era di carnagione bianchissima, con dei capelli biondi e fini, dei grandi occhi azzurri e un aspetto dolce e gaio: ella era il ritratto della salute, della grazia e del buon umore! — Buon giorno, signor Méré! — disse in francese ma con un leggero accento britannico. — Buon giorno, signorina Alice! — rispose Cyprien Méré, che all'ingresso della fanciulla s'era alzato e si era inchinato davanti a lei. — Vi ho visto entrare, signor Méré, — continuò la signorina Watkins, con un amabile sorriso che scoprì una graziosa e candida dentatura. — E siccome so bene come non vi piace il gin che beve mio padre vi ho portato dell'aranciata sperando che la troviate bella fresca!

— Siete infinitamente amabile, signorina! — Oh! a proposito! Non potete neppure immaginare che cosa ha inghiottito stamattina Dada, il mio struzzo! — riprese lei con aria disinvolta. — La mia biglia d'avorio per rammendare le calze! Sì, proprio, la mia palla d'avorio!… E si che non è piccola, lo sapete anche voi signor Méré; e mi era arrivata dritta dritta dal bigliardo di New-Rush! Ebbene… quella ghiottona di Dada se l'è ingurgitata come se fosse una pillola! Quella bestiaccia, mi farà senz'altro morire di spavento presto o tardi! Nel raccontare la sua storia, la signorina Watkins aveva una birichina luce di allegria negli occhi che stava a dimostrare come ella non avesse alcuna intenzione di realizzare un così lugubre pronostico, neppure lontano nel tempo. Però, di colpo, con la sensibilità propria della donna, ella fu colpita dallo strano silenzio di suo padre e del giovane ingegnere e dall'imbarazzo che entrambi dimostravano di provare in sua presenza. — Si direbbe, signori, che io vi disturbi! — soggiunse. — Non temete: se avete dei segreti, che non devo ascoltare, me ne vado subito!… Del resto non ho tempo da perdere! Devo studiare la mia suonata prima di occuparmi del pranzo… Decisamente questa mattina, non siete in vena di parlare signori!… Vi lascio ai vostri oscuri complotti! Stava già uscendo, quando si arrestò un attimo e ritornò sui suoi passi per dire con tono spiritoso, quantunque si trattasse di una cosa seria: — Signor Méré, quando vorrete interrogarmi sull'ossigeno, sono a vostra disposizione. Ho già letto tre volte il capitolo di chimica che mi avete dato da studiare e «quel corpo gassoso, incolore, inodoro, e senza sapore», non ha più alcun segreto per me! Dopodiché la signorina Watkins fece una riverenza e disparve come una leggera meteora. Un istante più tardi gli accordi di un piano si diffondevano da una delle camere più lontane della casa, annunciando che la fanciulla era tutta dedita ai consueti esercizi musicali. — Ebbene, signor Watkins, — riprese Cyprien al quale quella gentile apparizione avrebbe ricordato il motivo della sua visita, se per

caso se lo fosse dimenticato, — vi dispiacerebbe dare una risposta alla domanda che ho avuto l'onore di farvi? Il signor Watkins si tolse la pipa di bocca, sputò in terra con un gesto grandioso, sollevò bruscamente il capo e, rivolgendo al giovane uno sguardo inquisitore, disse: — Per caso, signor Méré, voi le avete già parlato di tutto questo? — Parlato di che cosa?… E a chi? — Di quello che m'avete detto… a mia figlia. — Per chi diamine mi avete preso, signor Watkins! — replicò il giovane ingegnere con uno sdegno tale da non lasciare dubbi sulla sincerità delle sue parole. — Io sono francese, signore!… Non dimenticatelo!… Non mi sarei mai permesso di parlare di matrimonio a vostra figlia senza il vostro permesso. Lo sguardo del signor Watkins si raddolcì immediatamente, di colpo sembrò che la lingua gli si sciogliesse. — Così va bene!… Bravo ragazzo!… Mi congratulo con voi per la vostra discrezione con Alice! — rispose con tono quasi cordiale. — Ebbene, dal momento che ci si può fidare di voi, vi chiedo di darmi la vostra parola d'onore di non parlare, nemmeno per l'avvenire, a mia figlia, di questo argomento. — E perché, se è lecito, signore? — Perché questo matrimonio è impossibile, ed è meglio che voi lo cancelliate dal vostro programma, — riprese il signor Watkins. — Signor Méré, voi siete un giovane serio, un perfetto gentiluomo, un eccellente chimico, un valente professore dall'avvenire brillante, non ne dubito, tuttavia non avrete mia figlia, per la semplice ragione che io ho fatto dei piani diversi sul suo conto! — Ma, signor Watkins… — Non insistete!… Sarebbe inutile!… — replicò il fattore. — Foste anche duca o pari d'Inghilterra, voi non mi andreste bene! Inoltre voi non siete nemmeno suddito inglese e avete appena ammesso con ammirevole franchezza che non possedete alcuna fortuna! Ora, ragioniamo un attimo: credete sul serio che io abbia cresciuto Alice come ho fatto, procurandole i migliori professori di Victoria e di Bloemfontein, per lasciarla poi andare a finire, a vent'anni, a Parigi, in rue de l'Université, al terzo piano, con un

signore di cui nemmeno capisco la lingua?… Riflettete, signor Méré, e provate a mettervi al mio posto!… Supponete voi di essere il fattore John Watkins, proprietario della miniera di VandergaartKopje, e che io sia il signor Cyprien Méré, giovane scienziato francese, inviato in missione al Capo!… Immaginatevi di essere qui, in questo salotto, seduto su questa poltrona, centellinando il vostro solito bicchiere di gin, fumandovi del tabacco di Amburgo; forse che voi accogliereste per un minuto… un minuto solo… l'idea di darmi la mano di vostra figlia? — Certamente signore, — rispose Cyprien, — se credessi di trovare in voi le qualità che la possano fare felice! — Ebbene, avreste torto, mio caro signore, torto marcio!.., — riprese il signor Watkins. — Voi agireste, in tal caso, come un uomo che non è degno di possedere la miniera di Vandergaart-Kopje, o meglio non la possedereste nemmeno, questa miniera! Credete forse che mi sia caduta dal cielo fra le mani? Credete che non mi sia costata intelligenza o fatica per scoprirla e per assicurarmene la proprietà?… Ebbene! signor Méré, questa intelligenza, di cui ho dato prova in tale situazione memorabile e decisiva, la applico a tutti gli atti della mia vita e specialmente a tutto quello che riguarda mia figlia!… Perciò vi ripeto: cancellate questa idea dal vostro programma!… Alice non è per voi! Giunto trionfalmente a questa conclusione, il signor Watkins prese il bicchiere e lo vuotò d'un soffio. Il giovane ingegnere, confuso, non trovava nulla da rispondere: e l'altro, approfittandone, lo incalzava insistendo: — Siete davvero sbalorditivi voi francesi! Non vi fermate davanti a niente, parola mia! Ma come! Capitate qui, come se cadeste dal mondo della luna, in fondo al Griqualand, davanti a un brav'uomo che non aveva mai sentito parlare di voi, tre mesi fa, e che non vi ha visto neanche dieci volte in questi novanta giorni! Venite a vederlo e gli dite: «John Stapleton Watkins, voi avete una figlia incantevole, beneducata, da tutti considerata la perla del paese e, cosa che non guasta, vostra unica erede, per la proprietà del più ricco Kopje di diamanti dei Due Mondi! Io sono il signor Cyprien Méré, di Parigi, ingegnere, e ho quattromilaottocento franchi di appannaggio!…

Vogliate darmi dunque, se non vi spiace, vostra figlia in sposa, affinché io la conduca nel mio paese e voi non udiate più parlare di lei se non di tanto in tanto per posta o per telegrafo!…». E voi trovate tutto questo naturale?… Io la trovo una cosa semplicemente assurda! Cyprien s'era alzato, pallidissimo. Aveva preso il suo cappello e si preparava a uscire. — Sì!… assurda! — insisteva il fattore. — Ah! io non indoro la pillola, io!… Sono un inglese di vecchio stampo, signore!… Se anche adesso sono quello che sono, io sono stato più povero di voi, molto più povero!… Ho fatto tutti i lavori!… Ho fatto il mozzo a bordo d'una nave mercantile, il cacciatore di bufali nel Dakota, il minatore nell'Arizona, il pastore nel Transvaal!… Ho patito il caldo, il freddo, la fame, la fatica!… Per vent'anni, con il sudore della fronte, mi sono guadagnato la crosta di pane secco che mi faceva da pasto!… Quando sposai la defunta signora Watkins, la madre d'Alice, la figlia di un boero d'origine francese 2 - come voi, sia detto fra parentesi, - non avevamo in due neppure di che nutrire una capra! Ma ho lavorato!… Non ho perso coraggio!… E ora, che sono ricco, intendo raccogliere i frutti della mia fatica!… Soprattutto intendo tenermi mia figlia, perché mi curi la gotta e mi suoni della musica la sera quando m'annoio!… Se mai si sposerà, lo farà qui, con un ragazzo del paese, ricco come lei, fattore o minatore come noi, che non mi parlerà di andar a vivere come un morto di fame al terzo piano di un paese, dove non ho mai desiderato metter piede in vita mia: si sposerà con James Hilton, per esempio, o con un altro pezzo d'uomo della sua tempra!… I pretendenti non mancano, ve l'assicuro!… Insomma con un buon inglese che non abbia paura di un bicchiere di gin e che mi tenga compagnia quando fumo la pipa! Cyprien aveva già la mano sulla maniglia della porta per uscire da quella sala, dove cominciava a soffocare. — Senza rancore! — gli disse il signor Watkins. — Io non ce l'ho con voi, signor Méré, e sarò sempre molto lieto di vedervi, come

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Molti Boeri o contadini olandesi dell'Africa meridionale discendono dai Francesi, passati in Olanda e poi nella Colonia del Capo, in seguito alla revoca dell'editto di Nantes. (N.d.T.)

cliente e come amico!… Anzi, noi abbiamo ospiti a cena questa sera!… Volete essere dei nostri? — No, grazie, signore! — rispose freddamente Cyprien. — Devo terminare la mia corrispondenza per l'ora della posta! E si allontanò. — Sorprendenti, questi francesi… sorprendenti! — andava ripetendo il signor Watkins mentre riaccendeva la sua pipa con un pezzetto di corda incatramata accesa che teneva sempre a portata di mano. E si versò un bicchierone di gin.

CAPITOLO II I CAMPI DI DIAMANTI QUELLO che feriva maggiormente il giovane ingegnere nella risposta appena ricevuta dal signor Watkins era il fatto che egli non poteva impedirsi di riconoscervi, sotto una forma eccessivamente ruvida, un fondo di ragione. Riflettendoci, anzi, era sorpreso di non aver saputo prevedere le logiche obiezioni che il fattore gli avrebbe avanzato, e di essersi di conseguenza esposto all'eventualità di una simile scenata. Il fatto è che egli, fino ad allora, non. aveva mai pensato alla distanza che la ricchezza, la razza, l'educazione e l'ambiente mettevano tra lui e la fanciulla. Abituato com'era, da cinque o sei anni, a considerare i minerali da un punto di vista puramente scientifico, egli si limitava a considerare i diamanti come semplici pezzi di carbone, da mettere in esposizione nelle vetrine della Scuola Mineraria. D'altra parte essendo abituato in Francia a condurre un'esistenza socialmente molto più elevata di quella dei Watkins, egli aveva completamente perduto il senso del valore economico rappresentato dal giacimento che il fattore possedeva. Non lo aveva, perciò, neppure sfiorato l'idea che fra la figlia del proprietario di Vandergaart-Kopje e un ingegnere francese potesse esserci una sproporzione. E, se anche gli fosse passata per la mente una tale eventualità, è probabile che, in qualità di parigino e di vecchio allievo della Scuola Politecnica, avrebbe pensato di essere lui che stava per contrarre un «matrimonio morganatico». Ma il brusco rimprovero lo aveva improvvisamente risvegliato dai suoi sogni. Cyprien era provvisto di troppo buon senso per non capire le serie ragioni che avevano motivato quel rifiuto, ed era troppo onesto per irritarsi di un verdetto che, in fin dei conti, trovava giusto.

Ma il colpo era non di meno penoso, e ora, che doveva rinunciare ad Alice, capiva quanto lei gli fosse divenuta cara in meno di tre mesi. Infatti, erano solo tre mesi che Cyprien Méré la conosceva, da quando cioè era giunto nel Griqualand. Come gli sembrava già lontano quel giorno! Col pensiero gli sembrava di rivedersi quando, in una polverosa giornata terribilmente calda, era giunto finalmente al termine del suo lungo viaggio da un emisfero all'altro! Sbarcato col suo amico Pharamond Barthès — un vecchio compagno di collegio che per la terza volta veniva a caccia nell'Africa australe - Cyprien s'era subito separato da lui al Capo. Pharamond Barthès era partito per il paese dei bassuti, dove contava di reclutare una piccola scorta di guerrieri negri, da cui si sarebbe fatto accompagnare nelle sue spedizioni cinegetiche. Cyprien, invece, aveva preso posto nel carrozzone a quattordici cavalli, che fa servizio sulle strade del Veld e si era diretto verso il Campo di Diamanti. Cinque o sei grandi casse, — un vero laboratorio di chimica e di mineralogia, dal quale non avrebbe voluto separarsi mai — costituivano il bagaglio del giovane scienziato. Ma la diligenza non portava che cinquanta chili di bagagli per viaggiatore, cosicché fu necessario affidare quelle preziose casse a un carretto tirato da buoi, che doveva portarle nel Griqualand con la lentezza dei tempi dei merovingi! Questa diligenza, grande carro con panchine per dodici persone, coperto da un tendone di tela, era montata su quattro enormi ruote costantemente inzaccherate dall'acqua dei torrentelli che attraversava a guado. I cavalli, attaccati a due a due, a volte aiutati dai muli, son condotti con grande abilità da due cocchieri, seduti uno in fianco all'altro a cassetta: uno tiene le redini mentre l'altro maneggia una lunga frusta di bambù, come una gigantesca canna da pesca, di cui si serve non solo per eccitare, ma anche per guidare i cavalli. La strada passa per Beaufort, una graziosa cittadella sorta ai piedi dei monti Nieuweveld, attraversa questa catena, giunge a Victoria e arriva infine a Hopetown, - la Città della Speranza, - sulle rive del

fiume Orange, e di là a Kimberley e ai principali giacimenti diamantiferi, che ne distano solo poche miglia. È un viaggio faticoso e monotono, attraverso il Veld spoglio e brullo. Il paesaggio è quasi sempre desolato - pianure rossicce, pietre sparse come una seminagione di morene, rocce grigie affioranti, un'erba rada e gialliccia, i cespugli riarsi. Né piantagioni né bellezze naturali. Di tanto in tanto, una fattoria miserabile, il cui proprietario, avendo ricevuto dal governo coloniale là concessione delle terre, ha l'obbligo di dare ospitalità ai viaggiatori. Ma tale ospitalità si limita naturalmente al minimo indispensabile. In questa specie di alberghi non si trovano né letti per gli uomini, né strame per i cavalli. A malapena si può trovare qualche scatola di conserve alimentari, che hanno fatto più volte il giro del mondo e che si devono pagare a peso d'oro. Ne consegue che i cavalli perché trovino cibo vengono lasciati all'aperto ove sono costretti a cercarsi i pochi ciuffi d'erba dietro i sassi. Quando poi si tratta di ripartire, è un problema radunarli e una gran perdita di tempo! Quanti e quali sobbalzi facevano queste carrozze primitive lungo delle strade più primitive ancora! I sedili erano costituiti da coperchi di casse di legno, utilizzate per il trasporto dei bagagli, sui quali gli sfortunati viaggiatori, per una interminabile settimana, svolgevano le funzioni di martello pneumatico. Era impossibile leggere, dormire e anche parlare. Per ammazzare la noia la maggior parte dei viaggiatori fumavano in continuazione notte e giorno come i fumaioli di una fabbrica, bevevano a perdifiato e altrettanto sputavano. Cyprien Méré si trovava per l'appunto là in compagnia di un numeroso campionario di questa fluttuante popolazione che accorre da tutti i punti del globo verso i depositi auriferi o diamantiferi, non appena si sparge la voce della loro esistenza. C'era un grande e grosso napoletano sciancato, dai lunghi capelli neri, dal volto incartapecorito, dagli occhi poco rassicuranti, che sosteneva di chiamarsi Annibale Pantalacci; un ebreo portoghese chiamato Nathan, esperto di diamanti, che se ne stava tranquillo nel suo angolo e guardava l'umanità con occhio filosofico; un minatore del

Lancashire, Thomas Steel, un omone dalla barba rossa e dalle spalle vigorose che abbandonava le miniere di carbon fossile per cercar fortuna nel Griqualand; un tedesco, Herr Friedel, che parlava come un oracolo e che conosceva già tutto quel che riguarda lo sfruttamento diamantifero senza aver mai visto un solo diamante nella sua ganga; uno yankee dalle labbra sottili, che non faceva che parlare con la sua borraccia e che aveva senz'altro intenzione di aprire una di quelle osterie dove confluisce la maggior parte del guadagno dei minatori. Un fattore delle rive dell'Hart, un boero dello Stato libero di Orange, un mercante d'avorio, che era diretto nel paese dei Namaqua, due contadini del Transvaal e un cinese chiamato Li - come si conviene a un buon cinese - completavano la compagnia più eterogenea, più sconclusionata, più internazionale e più rumorosa nella quale fosse mai capitato a una persona come si deve di trovarsi. Dopo essersi per un po' divertito ad osservare le loro fisionomie e le loro maniere, Cyprien ne fu ben presto stanco. Ad attirare la sua attenzione non restavano che Thomas Steel, con il suo fare vigoroso e quel suo sorriso simpatico e il cinese Li, con quelle sue maniere dolci e furbe. Quanto al napoletano, le sue volgari spiritosaggini, e la sua faccia da galera, gli procuravano un insopportabile senso di repulsione. Uno degli scherzi più apprezzati di costui fu rappresentato, per due o tre giorni, dall'attaccate alla coda di cavallo che il cinese portava sul dorso, secondo l'uso della sua gente, una quantità di oggetti d'ogni tipo, dei ciuffi d'erba, dei torsi di cavolo, una coda di vacca, una scapola di cavallo trovata lungo la strada. Li, senza scomporsi, staccava l'appendice appesa al suo lungo codino ma non lasciava trapelare né una parola, né un gesto, né uno sguardo che dimostrasse come egli fosse del parere che quegli scherzi oltrepassavano i limiti delle buone maniere. La sua faccia gialla, i suoi occhietti all'insù conservavano una calma inalterabile, come se egli fosse completamente estraneo a quel che accadeva intorno a lui. In realtà si sarebbe potuto credere che egli non capisse una parola di ciò che si diceva in quell'arca di Noè in viaggio per il Griqualand.

Inoltre Annibale Pantalacci non si faceva alcun riguardo d'aggiungere, nel suo cattivo inglese, commenti vari riguardo ai suoi scherzi di bassa lega. — Pensate che la sua tinta gialla sia per caso contagiosa? — domandava ad alta voce al suo vicino. Oppure: — Se solamente avessi un paio di forbici per tagliargli il codino! Peccato! E i viaggiatori ridevano a crepapelle. Quel che aumentava poi la loro ilarità era che i boeri impiegavano sempre un po' di tempo a capire ciò che diceva il napoletano; poi improvvisamente si abbandonavano anche loro a una fragorosa risata in ritardo di due o tre minuti rispetto al resto della compagnia. Alla fine Cyprien si sdegnò di questa ostinazione nel fare del povero cinese lo zimbello della compagnia cosicché fece notare a Pantalacci che la sua condotta non era generosa. L'altro gli avrebbe forse risposto con un'insolenza; ma una frase di Thomas Steel bastò a frenare prudentemente il suo sarcasmo. — No! non è davvero un bel gioco fare così con questo povero diavolo, che non capisce neppure quel che si dice intorno a lui! — esclamò quel bravo ragazzo, già pentito di aver riso con gli altri. La cosa terminò lì. Ma, pochi momenti dopo, Cyprien fu sorpreso nel vedere lo sguardo acuto e leggermente ironico, uno sguardo decisamente di riconoscenza, che il cinese gli rivolse. Gli nacque l'idea che Li sapesse l'inglese molto più di quanto lasciasse supporre. Ma inutilmente, alla tappa successiva, Cyprien tentò di fare conversazione con lui. Il cinese restò impassibile e muto. Da allora quello strano personaggio continuò a incuriosire il giovane ingegnere come un enigma, la cui soluzione era ancora da scoprire. Così Cyprien si lasciò spesso andare a fare un attento esame di quella faccia gialla e glabra, quella bocca che sembrava una sciabolata, che si apriva su dei denti bianchissimi, quel nasino corto e schiacciato, quella fronte larga, quegli occhi obliqui e quasi sempre rivolti a terra, come per nascondere un'espressione maliziosa. Che età poteva avere Li? Quindici anni o sessanta? Era impossibile dirlo. Se i suoi denti, il suo sguardo, i suoi capelli neri

come la fuliggine potevano far pensare alla giovinezza, le rughe della fronte, delle guance, persino della bocca sembravano indicare un'età già avanzata. Era piccolo, magro, apparentemente agile, ma con qualcosa di vecchio e di femmineo. Era ricco o povero? Altro punto incerto. Quei pantaloni di tela grigia, quella giacca di seta gialla, quella berretta di corda intrecciata, quelle scarpe con la suola di feltro, quelle calze immacolate potevano appartenere a un mandarino di prima classe così come a un uomo del popolo. Il suo bagaglio era costituito da una sola cassa di legno rosso, con questo indirizzo scritto con inchiostro nero: H. Li, front Canton to the Cape, che significa: H. Li, di Canton, diretto al Capo. Questo cinese era, d'altronde, di una pulizia estrema, non fumava, beveva solo acqua e approfittava di tutte le soste per radersi la testa con la massima cura. Cyprien non poté saperne di più su di lui cosicché rinunciò ben presto ad occuparsi di quel problema vivente. Intanto le giornate passavano, succedendosi monotonamente le une alle altre. Talvolta i cavalli andavano di buon trotto. Altre volte era impossibile far fare loro un passo. Ma, poco a poco, la strada procedeva, e un bel giorno quella specie di diligènza giunse a Hopetown. Una tappa ancora, e anche Kimberley fu superata. Poco dopo, apparvero all'orizzonte alcune case di legno. Era New-Rush. Questo campo di minatori non differiva punto dagli altri paesi improvvisati, appena aperti alla civilizzazione e che spuntano da terra come per incanto. Delle capanne di legno, quasi tutte molto piccole e simili ai gabbiotti dei cantieri europei, qualche tenda, una dozzina di caffè e di osterie, una sala da bigliardo, un Alhambra o sala da ballo, dei grandi magazzini per i generi di prima necessità, ecco quello che al primo momento colpiva lo sguardo. In quelle botteghe c'era di tutto, - abiti e mobili, scarpe e bicchieri, libri e selle, armi e stoffe, scope e munizioni da caccia, coperte e sigari, frutta e verdura fresca e medicamenti, attrezzi agricoli e

sapone da toilette, spazzolini da unghie e latte condensato, delle padelle per friggere e delle litografie, - insomma di tutto, tranne che i compratori. La popolazione del villaggio era ancora occupata nella miniera, distante tre o quattrocento metri da New-Rush. Cyprien Méré, come tutti i nuovi arrivati, si affrettò ad andarla a visitare mentre veniva preparato il pranzo nella casa pomposamente insignita del nome Hotel Continental. Erano circa le sei del pomeriggio. Il sole all'orizzonte appariva già velato da una sottile nuvola d'oro. Il giovane ingegnere ammirò, una volta di più, il diametro enorme che l'astro del giorno, come quello della notte, ha in queste latitudini australi, senza che il fenomeno abbia potuto, per il momento, trovare una spiegazione esauriente. Questo diametro sembrava essere il doppio di quello che è solito avere il sole in Europa. Ma uno spettacolo ancor più eccezionale attendeva Cyprien Méré al Kopje, cioè al giacimento dei diamanti. Dove cominciavano i lavori, la miniera formava un monticello livellato, che in quel punto interrompeva la pianura, altrimenti piatta e monotona come un mare calmo. Ma qui c'era un immenso cratere dalle pareti svasate, una specie di circo di forma ellittica e di circa quaranta metri quadrati di superficie che apriva un buco in questa area. Questo luogo racchiudeva non meno di tre o quattrocento claim o cessioni, di trentun piedi per lato, che ogni concessionario faceva lavorare a modo suo. Il lavoro consiste, all'inizio, semplicemente nell'estrarre col piccone e con la zappa le zolle di terra che sono generalmente costituite di un materiale sabbioso rossastro mescolato a ghiaia. Una volta portata sulle sponde della miniera, questa terra viene deposta in apposite tavole di lavorazione per essere lavata, polverizzata, pestata, poi finalmente esaminata, con la più grande cura per vedere se contiene delle pietre preziose. Questi claim, essendo stati scavati indipendentemente gli uni dagli altri, formano delle fosse di profondità molto diversa. Alcune arrivano fino a cento metri e più sotto il livello del suolo, altre soltanto fino a quindici, venti o trenta metri.

Per esigenze di lavoro e di circolazione, ogni concessionario è obbligato, dal regolamento ufficiale, a lasciare lungo uno dei lati della sua buca uno spazio di sette piedi assolutamente intatto. Questo spazio, con quello identico che deve essere lasciato intatto dal vicino, dà luogo a una specie di argine o di rialzo, che rimane al livello del suolo primitivo. Su questa banchina sono poste di traverso una serie di tavole, che sporgono da ogni lato di un metro circa e che danno all'argine una larghezza sufficiente perché due carrette possano non urtarsi. Purtroppo, a discapito della solidità di questa via sospesa e della sicurezza dei minatori, i concessionari non si fanno scrupolo di scavare gradualmente la base del muro di terra, a mano a mano che gli scavi procedono, di modo che l'argine, il quale si erge in alcuni punti per un'altezza pari a due volte la torre di Notre-Dame, finisce con l'assumere la forma di una piramide rovesciata, poggiata su una punta sottile. È facile prevedere l'effetto di questa pericolosa sistemazione: è il crollo frequente di queste muraglie di terra, sia nelle stagioni della pioggia sia quando un brusco cambiamento di temperatura apre delle spaccature nel terreno. Ma il ripetersi periodico di questi disastri non impedisce agli imprudenti minatori di continuare a scavare i loro claim fino all'estremo limite della possibilità e della prudenza. Cyprien Méré, avvicinandosi alla, miniera, non vide dapprima che le carrette, piene o vuote, che circolavano su questi percorsi sospesi. Ma quando fu abbastanza vicino al bordo da poter gettare lo sguardo fino in fondo a questa specie di cratere, egli scorse una folla di minatori d'ogni razza, d'ogni colore, dagli abbigliamenti più svariati, che lavoravano alacremente sul fondo dei claim. C'erano dei negri e dei bianchi, degli europei e degli africani, dei mongoli e dei celti - la maggior parte quasi completamente nudi o semplicemente vestiti di braghe di tela, di camicie di flanella, di cenci di cotone, di grandi cappelli di paglia adorni di piume di struzzo. Tutti questi uomini riempivano di terra dei secchi di cuoio, che facevano poi salire fino al bordo della miniera lungo grossi cavi di fil di ferro per la trazione di cinghie di pelle di vacca arrotolate su tamburi di legno a giorno. Là i secchi erano prontamente rovesciati

sulle carrette, quindi ridiscendevano altrettanto velocemente verso il fondo della miniera per rimontare con un nuovo carico. Quei lunghi cavi di ferro, tesi per traverso sulla profondità dei claim, danno ai «dry-diggings» o miniere di diamanti a secco, un aspetto tutto particolare. Si sarebbero detti i fili di una gigantesca tela di ragno la cui costruzione avesse dovuto essere improvvisamente interrotta. Cyprien per un po' si diverti a contemplare questo formicaio umano. Poi tornò a New-Rush, ove la campana della tavola dell'oste non tardò ad annunciare che la cena era servita. Per tutta la serata egli ebbe la soddisfazione di sentire che alcuni parlavano di scoperte prodigiose, di minatori poveri come Giobbe divenuti di colpo ricchi con un solo diamante, e che altri, al contrario, si lamentavano per la sfortuna, per la rapacità degli agenti di vendita, per la disonestà dei cafri impiegati nelle miniere che rubavano le pietre più belle e altri discorsi tecnici. Non si parlava che di diamanti, di carati, di centinaia di sterline. In complesso, tutta quella gente aveva un aspetto abbastanza miserabile, e per un «digger» fortunato, che chiedeva rumorosamente una bottiglia di champagne, per festeggiare la buona giornata, si vedevano venti volti sparuti i cui proprietari non bevevano che birra di pessima qualità. Ogni tanto, una pietra passava di mano in mano intorno alla tavola, per essere soppesata, esaminata, stimata e poi venire nuovamente deposta nella tasca del suo possessore. Quel sasso grigiastro e spento, non più brillante di un pezzo di silice levigato dall'acqua di un torrente, era un diamante nella sua ganga. Di notte i caffè si riempivano, e le stesse conversazioni, le stesse discussioni che avevano rallegrato il pranzo, proseguivano ancor più animate attorno ai bicchieri di gin e di brandy. Cyprien si era coricato di buon'ora nel letto che gli era stato assegnato sotto una tenda vicina all'hotel. Là egli si addormentò ben presto al suono d'un ballo all'aperto che i minatori cafri facevano nei dintorni, e al frastuono assordante di un corno a pistone che, in una pubblica sala, dominava i giochi coreografici dei signori bianchi.

CAPITOLO III UN'AMICHEVOLE LEZIONE DI SCIENZE IL GIOVANE ingegnere, bisogna dirlo subito in suo onore, non era certo venuto nel Griqualand per passare il suo tempo in questa atmosfera di avidità, di ubriachezze e di aria viziata dal fumo del tabacco. Egli era incaricato di eseguire rilievi topografici e geologici in certe zone del paese, di raccogliere degli esemplari di rocce e di terreni diamantiferi, di fare sul posto delle analisi delicate. Sua prima preoccupazione doveva dunque essere quella di procurarsi un'abitazione tranquilla, ove potesse installare il suo laboratorio e che, per così dire, servisse da centro per le sue esplorazioni attraverso tutto il distretto minerario. Il monticello su cui s'innalzava la fattoria Watkins attrasse subito la sua attenzione come il luogo più adatto ai suoi lavori. Sufficientemente lontano dal campo dei minatori per non essere disturbato da quel rumoroso vicinato, Cyprien si trovava là a circa un'ora di cammino dai Kopje più lontani, - dal momento che il distretto diamantifero non ha più di dieci o dodici chilometri di circonferenza. Egli decise dunque di scegliere una delle case abbandonate da John Watkins, di concordarne l'affitto e di stabilirvisi: tutto questo per il giovane ingegnere fu l'affare di una mezza giornata. Del resto, il fattore si mostrò ragionevole. In fondo egli si annoiava parecchio nella sua vita di solitudine, e vide con sincero piacere stabilirsi presso di lui un giovane che gli avrebbe procurato senz'altro una certa, distrazione. Ma, se il signor Watkins aveva sperato di trovare nel suo locatario un compagno di tavola o un amico assiduo nell'affrontare la bottiglia di gin, egli era completamente fuori strada. Appena stabilitosi con il suo seguito di storte, di fornelli e di reagenti nella sua nuova casa, - e anche prima che i principali strumenti del suo laboratorio gli fossero

arrivati, - Cyprien aveva già cominciato le sue passeggiate geologiche nella zona. Cosicché la sera, quando rientrava, stanco morto, carico di campioni di rocce nella scatola di zinco, nel carniere, nelle tasche e perfino nel cappello, egli aveva piuttosto voglia di buttarsi sul letto e di dormire che di ascoltare le vecchie storie del signor Watkins. Inoltre egli fumava poco e beveva ancor meno. Tutto questo non era precisamente quello che il fattore aveva sperato da un allegro compare. Ciononostante Cyprien era così leale e buono, aveva dei modi e dei sentimenti così schietti, era talmente saggio e modesto che era impossibile vederlo spesso e non affezionarglisi. Il signor Watkins forse senza neppure rendersene conto - provava più rispetto per questo giovane ingegnere che non per qualsiasi altra persona. Se soltanto avesse saputo bere come si deve! Ma che si può fare dì un uomo che non si bagna mai la gola con una bottiglia di gin? Ecco come si concludevano regolarmente i commenti del fattore nei confronti del suo locatario. Quanto alla signorina Watkins, ella aveva subito stabilito col giovane scienziato una bella e franca amicizia. Avendo trovato in lui un fare distinto e una superiorità intellettuale che non esistevano fra le persone da lei abitualmente frequentate, aveva accolto con gioia l'occasione inaspettata di completare con delle nozioni di chimica sperimentale la solida e multiforme istruzione che lei stessa si era già fatta attraverso la lettura di opere scientifiche. Il laboratorio del giovane ingegnere, coi suoi bizzarri apparecchi, suscitava la sua curiosità. Era soprattutto desiderosa di conoscere tutto ciò che riguardava la natura del diamante, questa pietra preziosa che giocava un ruolo così importante nelle conversazioni e nel commercio del paese. A dir la verità Alice era piuttosto portata a dare a questa gemma il valore di un sasso qualsiasi. Cyprien - e lei se n'era accorta - aveva, a questo proposito, delle idee molto simili alle sue. Naturalmente questo ugual modo di giudicare aveva contribuito all'amicizia che immediatamente si era stabilita fra i due giovani. Si può con certezza affermare che essi erano i soli nel Griqualand a pensare che l'unico scopo della vita non dovesse essere quello di

cercare, tagliare, e vendere queste piccole pietre così tanto sospirate in tutti i paesi del mondo. — Il diamante, — le disse un giorno il giovane ingegnere, — è semplicemente del carbonio puro. È un frammento di carbone cristallizzato, e niente altro. Lo si può bruciare come un volgare pezzo di brace, ed è appunto la sua caratteristica di combustibile che, la prima volta, ne ha fatto sospettare la sua natura. Newton, con il suo eccezionale spirito di osservazione, aveva notato che il diamante tagliato riflette la luce meglio di qualsiasi altro corpo trasparente. Ora, dal momento che egli sapeva che tali proprietà sono caratteristiche della maggior parte delle sostanze combustibili, da ciò egli dedusse, con intuito straordinario, che il diamante «doveva» essere combustibile. E gli esperimenti successivi gli diedero ragione. — Ma, signor Méré, se il diamante è soltanto carbone, perché costa così caro? — domandò la fanciulla. — Perché è molto raro, signorina Alice, — rispose Cyprien — perché fino ad ora il suolo non ce ne ha regalate che piccole quantità. Per lungo tempo se ne è estratto solamente in India, in Brasile, e nell'isola del Borneo. E, certamente voi vi ricorderete bene, perché allora dovevate aver sette o otto anni, l'epoca ih cui per la prima volta è stata segnalata la presenza di diamanti in questa provincia dell'Africa australe. — Certo, me lo ricordo eccome! — disse la signorina Watkins. — Nel Griqualand tutti parevano impazziti! Non si vedeva che gente armata di pale e picconi, che esplorava il terreno, che deviava i ruscelli per esaminarne il letto, che non sognava, che non parlava che di diamanti! Sebbene fossi così piccina, vi assicuro che a volte ne ero davvero esasperata, signor Méré! Ma voi dite che il diamante è così caro perché è raro… Ma questa è la sua sola qualità? — Non precisamente, signorina Watkins. La sua trasparenza, il suo splendore quando è stato tagliato in modo da riflettere la luce, le stesse difficoltà che comporta il tagliarlo poiché è estremamente duro, non fanno che aumentare il suo pregio, nel campo scientifico, e anche in quello industriale. Voi sapete che lo si può levigare solo con la sua polvere, e che proprio questa sua preziosa durezza ha permesso di utilizzarlo da qualche anno a questa parte per la perforazione delle

rocce. Senza il diamante, non soltanto sarebbe molto difficile lavorare il vetro e molte altre sostanze dure, ma sarebbe soprattutto difficile perforare tunnel, gallerie di miniere e pozzi artesiani. — Adesso ho capito, — disse Alice, che improvvisamente sentì di dovere un certo rispetto a quei poveri diamanti che fino allora aveva tanto disprezzato. — Ma, signor Méré, questo carbone che, voi dite, allo stato cristallino è il diamante — è così che si dice, vero? - questo carbone, dicevo, che cos'è in conclusione? — È un corpo semplice, non metallico, uno dei più diffusi nella natura, — rispose Cyprien. — Tutti i composti organici, senza alcuna eccezione, il legno, la carne, il pane, l'erba, ne contengono una forte percentuale. Proprio grazie alla presenza di carbone o carbonio di cui sono composti, è possibile stabilire tra di loro un'affinità. — Che cosa strana! — disse la signorina Watkins. — Sarebbe come dire che questo cespuglio, che l'erba del pascolo, che l'albero che ci ripara, che la carne del mio struzzo Dada, e che io stessa e anche voi, signor Méré, siamo in parte fatti di carbone… come i diamanti? Dunque, tutto a questo mondo è carbone? — Francamente, signorina Alice, già da molto tempo lo si supponeva, ma la scienza moderna tende, di giorno in giorno, a dimostrarlo sempre più chiaramente! O, per meglio dire, essa tende a ridurre sempre più il numero dei corpi elementari, numero che a lungo venne ritenuto sacro e intoccabile. I procedimenti che si avvalgono dell'osservazione spettroscopica hanno, a questo proposito, di recente aperto un nuovo capitolo per la chimica. Infatti le sessantadue sostanze, fino ad oggi ritenute corpi semplici elementari o fondamentali, potrebbero forse essere una sola e unica sostanza atomica, l'idrogeno, per esempio, dalle differenti caratteristiche elettriche, dinamiche e calorifiche! — Oh! voi mi fate paura, signor Méré, con tutte queste parole difficili! — esclamò la signorina Watkins. — Parlatemi piuttosto del carbone! Voi chimici, non potreste cristallizzarlo come fate con lo zolfo, di cui mi avete mostrato l'altro giorno degli aghi così graziosi?

Sarebbe molto più comodo che non dover scavare la terra per cercarvi dei diamanti! — Si è già più volte tentato di realizzare quello che voi dite, — rispose Cyprien, — e si è cercato di fabbricare dei diamanti artificiali attraverso la cristallizzazione del carbone puro. Devo precisare che, in una certa misura, ci si è anche riusciti. Despretz, nel 1853, e di recente in Inghilterra un altro scienziato, hanno ottenuto della polvere di diamante applicando una forte carica di corrente elettrica, nel vuoto, a dei cilindri di carbone, sbarazzati di qualsiasi sostanza minerale e preparati con dello zucchero candito. Ma fino ad ora il fenomeno non ha avuto delle applicazioni industriali: è probabile che sia solo una questione di tempo! Da un momento all'altro, forse proprio nel momento in cui vi parlo, il processo di fabbricazione del diamante è stato scoperto! Essi così parlavano mentre passeggiavano lungo la distesa sabbiosa che si estendeva intorno alla fattoria o quando di sera, seduti sulla veranda, guardavano le stelle di quello stupendo cielo australe risplendere. A volte, Alice lasciava il giovane ingegnere per ritornare alla fattoria, altre volte invece lo portava a vedere il suo piccolo gregge di struzzi, rinchiusi in un recinto, ai piedi della collinetta sulla quale sorgeva l'abitazione di John Watkins. Quelle piccole teste bianche poggiate su un corpo nero, le lunghe zampe rigide, i ciuffi di piume giallastre che ornano le ali e la coda di quegli animali piacevano alla fanciulla che si divertiva, da un anno o due, ad allevare un gruppo di questi giganteschi trampolieri. Solitamente nessuno cerca di addomesticare questi animali, e i contadini del Capo li lasciano vivere allo stato selvaggio. Si accontentano di collocarli in zone molto vaste delimitate da alti recinti di fil di ferro, simili a quelli che, in certi paesi, si mettono lungo le strade ferrate. Gli struzzi, poco atti al volo, non possono superare queste barriere. Là essi vivono, tutto l'anno, in una cattività di cui non si rendono conto, nutrendosi di quello che. trovano e cercando dei luoghi appartati per deporre le loro uova, che sono difese dalla avidità dei ladruncoli da leggi severe. Solo al tempo della muda, quando si tratta di spogliarli delle loro piume tanto richieste

dalle signore europee, gli uomini spingono a poco a poco gli struzzi in una serie di recinti sempre più stretti, fino a quando alla fine, è facile prenderli e denudarli del loro elegante abito. Da alcuni anni a questa parte tale industria ha avuto, nelle regioni del Capo, un prodigioso sviluppo e vien fatto, a ragione, di meravigliarsi che si sia poco sviluppata ih Algeria, dove potrebbe essere altrettanto vantaggiosa. Ogni struzzo, mantenuto in questo tipo di cattività, procura al suo proprietario senza esser causa di alcuna spesa, un introito annuo dai due ai trecento franchi. Per capire questo fatto bisogna sapere che una bella penna, quando sia di buona qualità, è venduta fino a sessanta e anche a ottanta franchi - prezzo corrente - e che anche penne medie o piccole hanno un notevole valore. Ma la signorina Watkins allevava una dozzina di questi grandi uccelli solamente per il suo divertimento. Si divertiva a vederli covare le loro enormi uova o quando venivano a prendere il cibo coi loro pulcini, come avrebbero fatto delle galline o dei tacchini. Cyprien talvolta l'accompagnava e si divertiva ad accarezzare uno dei più carini fra gli struzzi del, piccolo branco, dalla testa nera e dagli occhi d'oro - precisamente quella Dada vezzosa, che aveva inghiottito la palla d'avorio di cui Alice usava servirsi per i suoi rammendi. A poco a poco, frattanto, Cyprien aveva sentito nascere in lui un sentimento dolce e profondo per quella fanciulla. Si era persuaso che, per dividere con lui una vita di lavoro e di ricerche, egli non avrebbe potuto trovare una compagna più semplice, più intelligente, più dolce, più educata sotto tutti i punti di vista. Effettivamente la signorina Watkins, rimasta molto giovane senza madre, costretta così presto a imparare come si dirige una casa, era una massaia molto brava allo stesso modo di come era una vera dama di società. Era proprio questo strano connubio, presente in lei, di fine distinzione e di dolce semplicità che creava il suo fascino. Priva delle sciocche pretese di tante eleganti signorine europee ella non temeva di sporcare le sue bianche manine con la pasta per preparare una torta, di aiutar in cucina, di provvedere a che la biancheria della casa fosse sempre in ottimo stato. Questo tuttavia non le impediva di eseguire le

suonate di Beethoven altrettanto bene se non meglio di tante altre fanciulle, di parlare correttamente due o tre lingue, di amare la lettura, di saper apprezzare i capolavori di tutte le letterature, e infine di riscuotere sempre molto successo nelle piccole riunioni mondane, che si organizzavano talvolta tra i ricchi proprietari del paese. Non che le fanciulle distinte fossero poi tanto rare in queste riunioni. Nel Transvaal, in America, in Australia e in tutti i paesi giovani dove il lavoro materiale per creare una società nuova assorbe totalmente l'attività degli uomini, il patrimonio intellettuale resta necessariamente, molto più che in Europa, monopolio esclusivo delle donne. Di conseguenza esse sono quasi sempre di gran lunga superiori ai loro mariti e figli in fatto di cultura generale e di sensibilità artistica. A parecchi viaggiatori è capitato di incontrare, non senza una certa sorpresa, un talento musicale di prim'ordine unito a un'ottima cultura letteraria o scientifica, nella moglie di un minatore australiano o di un pioniere del Far-West. La figlia di uno "straccivendolo di Omaha o di un salumiere di Melbourne arrossirebbe al pensiero di essere inferiore per cultura, per educazione, per cognizioni d'ogni specie a una principessa della vecchia Europa. Nello stato libero d'Orange, dove l'educazione delle fanciulle già da tempo è stata portata allo stesso livello di quella dei ragazzi, ma dove questi ultimi abbandonano troppo presto i banchi di scuola, questo contrasto fra i due sessi è sentito più che altrove. L'uomo è, in famiglia, il «breadwinner», cioè colui che porta a casa il pane: su di lui sono impressi i caratteri di una fisionomia non raffinata, per la nativa rudezza e per la vita che conduce di lavoro all'aria aperta, di fatiche e di pericoli. La donna, invece, oltre ai doveri domestici, si è assunta il compito di coltivare le arti e le lettere, che sono disprezzate o trascurate dal marito. Cosicché, a volte, capita di imbattersi, ai bordi.del deserto, in un fiore di bellezza, di intelligenza e di fascino; era appunto il caso della figlia del fattore. John Watkins. Cyprien si era reso conto di tutto questo, e siccome egli era abituato ad andare direttamente al suo scopo, non aveva esitato a fare la sua domanda di matrimonio.

Ahimè! Egli vedeva ora crollare tutto il suo sogno e per la prima volta si rendeva conto dell'abisso pressoché insuperabile che lo divideva da Alice. Con il cuore gonfio di pena, dopo quel colloquio decisivo, egli se ne ritornò a casa. Comunque egli non era il tipo di uomo che si abbandonava a una inutile disperazione: era ben deciso a lottare per questo scopo; nel frattempo, però, avrebbe saputo trovare nel lavoro, un sicuro diversivo per il suo dolore. Dopo essersi seduto al suo tavolino, il giovane ingegnere ricominciò a scrivere la lunga lettera confidenziale che aveva incominciato la mattina indirizzata al suo venerato maestro, Signor G… membro dell'Accademia delle Scienze e professore titolare alla Scuola Mineraria: «… Non ho ritenuto opportuno di riportare, nel mio rapporto ufficiale,» diceva «poiché per il momento non è altro che un'ipotesi, l'opinione che sta divenendo in me sempre più una convinzione a proposito del vero modo di formazione dei diamanti, opinione che mi sono fatta in seguito alle mie osservazioni geologiche. Né l'ipotesi che li suppone di origine vulcanica né quella che vorrebbe giustificare la loro presenza negli attuali giacimenti con l'azione di violenti sconvolgimenti, mi convincono allo stesso modo di come non convincono voi. Non c'è bisogno che io mi metta qui a ricordarvi i motivi che ce le fanno scartare. La formazione del diamante in loco, per l'azione del fuoco, è una spiegazione altrettanto insoddisfacente perché troppo vaga. Quale sarebbe la natura di questo fuoco, e come mai esso non avrebbe modificato i calcari d'ogni tipo, che sono sempre presenti nei giacimenti dia-mantiferi? Questa soluzione mi sembra infantile come la teoria dei vortici e degli atomi uncinati. «La sola spiegazione che mi soddisfi, se non completamente, almeno in una certa misura, è quella del trasporto per via acqua degli elementi che compongono la gemma, e della formazione posteriore del cristallo sul luogo. Sono stato molto colpito dal profilo speciale, quasi uniforme, dei diversi giacimenti che ho esaminato e misurato con la massima precisione. Tutti assumono, più o meno, la forma di una specie di coppa, di capsula o piuttosto, tenendo conto della crosta che li ricopre, di una borraccia da caccia appoggiata sul fianco. È

come un serbatoio di trenta o quarantamila metri cubi nel quale si sia venuto accumulando tutto un mucchio di sabbia, di fango e di terre d'alluvione, ricoprendo le rocce primitive. Questa caratteristica è particolarmente pronunciata nel Vandergaart-Kopje, uno dei giacimenti più recentemente scoperti che appartiene, tra parentesi, al proprietario della casa, dalla quale vi sto scrivendo. «Quando si versa in una tazza un liquido che contenga dei corpi estranei in sospensione, che cosa succede? Che questi corpi estranei si depositano soprattutto sul fondo e intorno ai bordi della tazza. Ebbene! È esattamente ciò che succede nel Kopje, È soprattutto sul fondo e verso il centro del bacino, così come sul margine estremo, che si trovano i diamanti. E il fatto è talmente noto che i claim intermedi scendono immediatamente a un prezzo inferiore, mentre le cessioni centrali o vicine ai bordi acquistano subito un valore enorme non appena la forma del giacimento è stata definita. L'analogia dunque depone a favore del trasporto dei materiali per l'azione delle acque. «D'altra parte molte circostanze, che troverete enumerate nella mia monografia, tendono a provare la formazione sul luogo dei cristalli, a preferenza della tesi che li vorrebbe trasportati già allo stato perfetto. Per citarne solo due o tre, notiamo che i diamanti sono sempre raggruppati in agglomerati di ugual colore, cosa che non accadrebbe se essi fossero stati trasportati, già formati, da un torrente. Se ne trovano spesso due uniti insieme, che si distaccano a un leggero tocco. Come avrebbero potuto resistere all'attrito e alle peripezie d'un trasferimento via acqua? Inoltre, i grossi diamanti si trovano quasi sempre sotto il riparo di una roccia, fatto che tenderebbe a provare che l'influenza della roccia - la sua capacità calorifica o qualche altra causa - ha facilitato il processo di cristallizzazione. Infine, è veramente molto raro che capiti di trovare grossi diamanti insieme ad altri più piccoli. Tutte le volte che si scopre una bella pietra, essa è isolata. È come se tutti gli elementi adamantini del nido si fossero questa volta concentrati in un solo cristallo, sotto l'azione di particolari cause.

«Questi motivi e molti altri ancora mi fanno dunque propendere per l'ipotesi della formazione sul luogo, dopo il trasporto degli elementi di cristallizzazione per mezzo delle acque. «Ma da dove sono venute le acque che trasportavano i detriti organici, destinati a trasformarsi in diamanti? Questo è purtroppo un fatto che non mi è stato possibile determinare, nonostante io abbia fatto un attento esame dei diversi terreni. «La scoperta naturalmente avrebbe una grande importanza. Se si potesse giungere a riconoscere il percorso seguito dalle acque, perché non si potrebbe giungere, risalendolo, al punto di partenza dei diamanti, là dove senza dubbio ce ne deve essere una quantità molto maggiore che non nei piccoli giacimenti finora esplorati? Sarebbe una piena conferma della mia teoria, e io ne sarei naturalmente molto felice. Ma non sarò certo io a farla perché io sono ormai alla fine della mia missione senza essere riuscito a formulare a questo proposito alcuna seria conclusione. «Sono stato invece più fortunato nelle mie ricerche sulle rocce…» E il giovane ingegnere, proseguendo la sua relazione, entrava, a proposito dei suoi lavori, in merito a dettagli di ordine tecnico certamente di grande interesse per lui e per il suo corrispondente, ma che potrebbero essere non proprio tali per il lettore profano: ragion per cui si ritiene più prudente fargliene grazia. A mezzanotte, dopo aver terminato la sua lunga lettera, Cyprien spense la lampada, si sdraiò sull'amaca e dormi il sonno del giusto. Il lavoro aveva soffocato il dispiacere, - almeno per qualche ora ma una graziosa visione si ripropose più volte al giovane scienziato nel sonno dicendogli di non perdere tutte le speranze.

CAPITOLO IV CYPRIEN AL VANDERGAART-KOPJE «BISOGNA proprio che io parta» si disse il giorno dopo Cyprien Méré mentre faceva la sua toilette; «bisogna che abbandoni il Griqualand! Dopo quello che mi sono lasciato dire da quel benedetto uomo, rimanere un giorno di più sarebbe una vera debolezza! Non vuol darmi sua figlia? Può darsi che abbia ragione! In ogni caso, non voglio certo fare la parte di quello che gli si presenta per invocare le circostanze attenuanti! Devo saper accettare con atteggiamento virile questo verdetto, per quanto possa essermi doloroso, e affrontare con fiducia il futuro!» Senza più esitare, Cyprien si dispose a imballare le sue apparecchiature nelle casse, che aveva conservato per servirsene come credenze e come armadi. Era dunque affaccendato in questo lavoro e trafficava con ardore già da una ora o due, quando dalla finestra aperta, trasportata dalla brezza mattutina, una voce fresca e pura, librandosi come il canto di un'allodola, dal fondo della proprietà, arrivò fino a lui portandogli una delle più belle poesie del poeta Moore: It is the last rose of summer, Left blooming alone All her lovely companions Are faded and gone, ecc. «Questa è l'ultima rosa dell'estate, - rimasta in fiore ormai da sola - tutte le sue dolci compagne - sono morte e appassite, ecc.». Cyprien corse alla finestra e vide Alice che si dirigeva verso il recinto dei suoi struzzi, con il grembiule pieno di ghiottonerie per loro. Era lei che cantava al sole appena sorto:

I will not leave thee, thoulone one! To pine on the stem, Since the lovely are sleeping, Go sleep with them… «Io non ti lascerò, non ti lascerò sola - appassire sullo stelo. Poiché le dolci tue compagne sono andate a dormire, - va' a riposare con loro». Il giovane ingegnere non s'era mai ritenuto molto sensibile per la poesia, eppure quella lo commosse fino in fondo al cuore. Si accostò alla finestra, trattenendo il respiro e ascoltando, o meglio, bevendo quelle dolci parole. Il canto cessò. La signorina Watkins distribuiva il pasto agli struzzi, ed era un piacere vederli allungare il lungo collo e il becco maldestro verso le sue manine dispettose. Poi, quando ebbe terminato quella distribuzione, ella ritornò verso la fattoria sempre cantando: It is the last rose of summer, Left blooming alone… Oh! who would inhabit This black world alone?… «Questa è l'ultima rosa dell'estate, - rimasta in fiore ormai da sola. - Oh! Chi vorrebbe abitare - tutto solo questo triste mondo?». Cyprien era sempre allo stesso posto, con gli occhi umidi, come inchiodato di fronte a quel fascino. La voce s'allontanava: Alice stava rientrando nella fattoria; non ne distava che venti metri, quando un rumore di passi precipitosi la fece voltare e arrestare di colpo. Cyprien, con un moto irriflessivo ma irresistibile, era uscito di casa, a capo scoperto, ed era corso verso di lei. — Signorina Alice!… — Signor Méré?… Essi si trovavano ora faccia a faccia, nella piena luce di quel sole mattutino, sulla strada che costeggiava la fattoria. Le loro due ombre

si stagliavano nettamente sulla palizzata di legno bianco in quel paesaggio spoglio. Ma ora che Cyprien aveva raggiunto la fanciulla, egli sembrava sbalordito della sua corsa e taceva indeciso. — Avete qualcosa da dirmi, signor Méré? — chiese lei incuriosita. — Sono venuto a salutarvi, signorina Alice!… Perché oggi stesso io parto! — rispose con una voce non troppo sicura Cyprien. Il roseo incarnato che animava il volto delicato della signorina Watkins scomparve d'un tratto. — Partire?… Volete partire?… Per dove?… — chiese lei turbata. — Per il mio paese… per la Francia, — rispose Cyprien. — I miei lavori, qui, sono finiti!… La mia missione è giunta al termine… Io non ho più niente da fare nel Griqualand, cosicché sono costretto a rientrare a Parigi… Parlando così, con voce rotta, egli aveva l'aria di una persona colpevole che cerca di scusarsi. — Ah!… Sì… È vero!… Doveva essere così!… — balbettò Alice, senza ben sapere che cosa diceva. La fanciulla era attonita per la sorpresa. Questa notizia la coglieva nel mezzo della sua spensierata felicità come una mazzata. Subito grossi lacrimoni le spuntarono negli occhi inondando le lunghe ciglia che li incorniciavano. Poi, come se quello sfogo di dolore l'avesse richiamata alla realtà, ritrovò un po' di forza per sorridergli: — Partire? — riprese. — Ma bene! E la vostra fedele allieva, volete dunque abbandonarla senza che ella abbia terminato il suo corso di chimica?… Volete che mi fermi all'ossigeno e che l'azoto resti per me un mistero insolubile? Ma è una cosa orribile, signore! Ella cercava di far buon viso a cattiva sorte e di scherzare ma il tono della voce smentiva le sue parole. Sotto queste celie si nascondeva un profondo rimprovero che andò dritto al cuore del giovane. Era come se lei gli dicesse: «Ebbene, e io?… Non conto dunque nulla?… Volete farmi ripiombare nel vuoto più completo!… Voi sareste apparso, fra questi boeri e questi avidi minatori, come un essere superiore e privilegiato, sapiente, fiero, disinteressato, fuori del comune!… Voi mi avreste associata ai vostri studi e ai vostri lavori!… Voi mi avreste aperto il

vostro cuore, facendomi partecipe delle vostre nobili ambizioni, delle vostre preferenze letterarie e dei vostri gusti artistici!… Voi mi avreste mostrato la distanza che passa fra un pensatore come voi e i trogloditi che mi circondano!… Voi avreste fatto di tutto per farvi ammirare e amare!… E ci siete pienamente riuscito!… Poi verreste a annunciarmi, così di punto in bianco, che voi partite, che tutto è finito, che dovete ritornare a Parigi e che desiderate dimenticarmi!… E voi credete che io possa accettare questo addio con serenità?». Certo! C'era tutto questo nelle parole d'Alice e i suoi occhi bagnati di pianto lo provavano così chiaramente che Cyprien fu sul punto di rispondere a quel rimprovero inespresso ma eloquente. Poco mancò che non gridasse: «Per forza!… Ho chiesto ieri a vostro padre il permesso di farvi mia moglie!… Ma lui me l'ha rifiutato, senza lasciarmi alcuna speranza!… Capite adesso, perché devo partire?». Ma si ricordò, in tempo, della promessa. S'era impegnato a non parlare mai alla figlia di John Watkins del sogno che aveva fatto, ed egli si sarebbe giudicato disprezzabile qualora non avesse mantenuto la sua parola. Nel contempo si rese conto che questo progetto di partire improvvisamente, così frettolosamente formulato sotto l'impressione del rifiuto, era assurdo e brutale. Gli parve impossibile abbandonare così, senza un preavviso e senza indugi quella dolce fanciulla che egli amava e che lo contraccambiava - era anche troppo chiaro - con un affetto così sincero e così profondo. Questa risoluzione, alla quale si era deciso due ore prima come a una necessità imperiosa, adesso gli faceva orrore. Non osava più neppure pensarla. Di colpo egli decise di rifiutarla! — Quando parlo di partire, signorina Alice, — disse — non mi riferisco a questa mattina… e neppure oggi io credo!… Ho ancora delle notizie da raccogliere… devo completare i preparativi!… In ogni caso avrò l'onore di rivedervi e di parlare con voi… del vostro programma di studi!

Detto ciò, Cyprien, fatto dietro-front, fuggì via come un matto, ritornò a casa, si gettò sulla poltrona di legno, e si immerse in profonde meditazioni. Il corso dei suoi pensieri era mutato. «Rinunciare a tanta felicità, per la mancanza di un po' di denaro!» si disse. «Abbandonare la partita al primo ostacolo! Sarebbe coraggio questo? Non sarebbe meglio sacrificare qualche pregiudizio e rendermi degno di lei?… Tanta gente ha fatto fortuna, in pochi mesi, cercando i diamanti! Perché non dovrei provarci anch'io? Chi lo dice che non potrei trovare anch'io una pietra da cento carati, come è successo agli altri; o meglio scoprire un nuovo giacimento? In fin dei conti io possiedo cognizioni teoriche e pratiche maggiori di tutti questi uomini! Perché la scienza non potrebbe darmi quello che il lavoro, aiutato da un pizzico di fortuna, ha dato a loro? Dopo tutto, tentare non mi costa nulla!… Anche dal punto di vista delle mie ricerche potrebbe risultarmi di grande utilità mettere mano al piccone e provare il mestiere del minatore!… E se riuscissi, se divenissi ricco grazie a questo mestiere primitivo può darsi che John Watkins si lasci piegare e ritorni sulla sua decisione! Vale ben la pena di tentare la sorte di fronte a una simile possibilità !… Cyprien ricominciò a camminare per la stanza; ma, questa volta, le sue braccia erano inerti, e solo la sua mente lavorava. A un tratto si arrestò, si mise il cappello in testa e uscì. Dopo aver preso il sentiero che discende verso la piana, si diresse a passo veloce verso Vandergaart-Kopje. In meno d'un'ora ci arrivò. In quel momento, i minatori stavano ritornando nell'accampamento per la colazione. Cyprien passando in rivista tutti quei volti abbronzati, si chiese a chi avrebbe dovuto rivolgersi per avere le delucidazioni che gli erano necessarie quando riconobbe, in un gruppo, la faccia leale di Thomas Steel, l'ex minatore del Lancashire. Dopo il loro contemporaneo arrivo nel Griqualand, egli aveva già avuto occasione due o tre volte di incontrarlo e di constatare che quel bravo giovane arricchiva a vista d'occhio, a giudicare dal suo aspetto florido, dagli abiti nuovi fiammanti e soprattutto dalla grossa cintura di cuoio che sfoggiava ai fianchi.

Cyprien decise di avvicinarlo e di farlo partecipe dei suoi progetti - cosa che fece in poche parole. — Affittare un claim? Niente di più facile se avete danaro! — gli rispose il minatore. — Ce-n'è giust'affatto uno vicino al mio! Quattrocento lire sterline, 3 ed è fatta! Con quattro o cinque negri, che lo lavoreranno per voi, potete stare sicuro di farvi almeno sette o ottocento franchi di diamanti alla settimana! — Ma io non ho diecimila franchi e non ho neppure il più piccolo negro! — disse Cyprien. — E allora, prendete una parte di claim, - un ottavo o anche un sesto, - e lavoratelo voi stesso. Un migliaio di franchi potrà bastare per questo acquisto. — È proprio quello che fa per me, — rispose ,il giovane ingegnere. — Ma voi, signor Steel, come avete fatto, se non sono troppo curioso? Siete dunque arrivato qui con un capitale? — Io sono arrivato soltanto con le mie braccia e con tre monetine d'oro in tasca — rispose l'altro. — Ma ho avuto fortuna. Ho lavorato dapprima a mezzo interesse, su un ottavo il cui proprietario preferiva restarsene al caffè piuttosto che occuparsi dei suoi affari. Avevamo stabilito che avremmo suddiviso le pietre trovate e devo dire che ne ho trovate di veramente belle specialmente una di cinque carati che abbiamo venduta a duecento lire sterline! Allora ho smesso di lavorare per quel fannullone e ho comperato un sesto, che ho scavato da solo. Siccome non vi raccoglievo che pietruzze, me ne sono liberato, dieci giorni fa! Adesso lavoro di nuovo, a mezzo interesse, con un australiano, nel suo claim, ma non abbiamo ricavato che cinque lire fra tutti e due nella prima settimana. — Se io trovassi un buon pezzo di claim da comprare a un prezzo non troppo caro sareste disposto a diventare mio socio per scavarlo? — domandò il giovane ingegnere. — Altroché, — rispose Thomas Steel, — a una condizione però, che ciascuno di noi si tenga quello che avrà trovato! Non è che non mi fidi, signor Méré! Ma, vedete, il fatto è che, da quando sono qui, mi sono accorto che ci perdo sempre a fare a metà perché il piccone e 3

10.000 franchi. (N.d.T.)

la vanga mi conoscono bene e io faccio due o tre volte più lavoro che gli altri. — Mi sembra giusto — rispose Cyprien. — Ah! — fece di colpo il minatore del Lancashire. — Ho un'idea, e forse buona!… Se prendessimo, in due, uno dei claim di John Watkins? — Come, uno dei suoi claim? Ma non è tutto suo il Kopje? — Sì, signor Méré, ma voi sapete che il governo coloniale se ne è impadronito non appena esso è risultato essere un giacimento di diamanti. È il governo che l'amministra, lo iscrive al catasto, lo divide in claim trattenendo la maggior parte delle quote d'affitto e non pagando al proprietario che un beneficio fisso. A dire la verità, questo beneficio, quando il Kopje è grande come questo, costituisce nonostante tutto una bella rendita, e, d'altra parte, il proprietario ha sempre la precedenza nell'affitto di tutti i claim che può far lavorare. È appunto il caso di John Watkins. Egli ne ha molti in gestione, oltre la pura proprietà di, tutta la miniera. Ma non può farli lavorare come vorrebbe perché la gotta gli impedisce di recarsi sui luoghi di lavoro; credo perciò che vi farà delle buone condizioni se gli proporrete di prenderne uno. — Preferirei che l'affare rimanesse fra voi e lui, — rispose Cyprien. — Come volete — rispose Thomas Steel. — Tra poco sapremo qualcosa di più preciso. Tre ore dopo, il mezzo claim numero 942, debitamente segnato con paletti e marcato sulla mappa, era affidato in perfetta forma ai signori Méré e Thomas Steel previo pagamento di un premio di novanta lire sterline, 4 da versarsi nelle mani dell'ufficio cessioni. Inoltre era stipulato nel contratto che i concessionari avrebbero diviso con John Watkins i frutti degli scavi, e che gli avrebbero dato, a titolo di percentuale, i primi tre diamanti che avessero trovato al di sopra dei dieci carati. Non c'era nulla che facesse pensare che questa eventualità si sarebbe avverata, ma essa era pur sempre possibile, tutto era possibile! 4

2.250 franchi. (N.d.T.)

In complesso, l'affare poteva essere considerato eccezionalmente favorevole per Cyprien, e il signor Watkins glielo disse con la solita sua franchezza, brindando con lui, dopo la firma del contratto: — Avete preso una buona decisione, ragazzo mio! — diceva battendogli sulla spalla. — C'è della stoffa in voi! Non mi meraviglierei di vedervi diventare uno dei migliori minatori del Griqualand! Cyprien non poté fare a meno di vedere in queste parole un felice augurio per l'avvenire. E la signorina Watkins, che era presente all'incontro, aveva negli occhi un luminoso raggio di sole! No, certo nessuno avrebbe potuto indovinare che quella stessa mattina quegli occhi l'avevano passata a piangere! Però, per un tacito accordo, si evitò di accennare alla scena penosa della mattina. Cyprien rimaneva, era evidente; e questa in fin dei conti era la cosa essenziale! Il giovane ingegnere se ne andò, col cuore leggero, per fare i preparativi del suo nuovo lavoro non portando con sé altro che qualche vestito in una valigetta poiché contava di stabilirsi sotto la tenda, al Vandergaart-Kopje, e di non tornare alla fattoria che a passarvi i momenti di riposo.

CAPITOLO V PRIMI RISULTATI L'INDOMANI mattina, i due soci si misero al lavoro. Il loro claim era situato ai margini del Kopje e avrebbe dovuto essere ricco, se la teoria di Cyprien Méré era fondata. Sfortunatamente questo claim era già stato abbondantemente esplorato e si sprofondava nei visceri della terra a una profondità di oltre cinquanta metri. Sotto un certo aspetto, però, questo era un vantaggio perché, trovandosi a un livello più basso che i claim vicini, secondo la legge del paese, beneficiava del terriccio e quindi dei diamanti che potevano cadere dai dintorni. Il lavoro era molto semplice. I due soci cominciarono a scavare col piccone e con la vanga, secondo un andamento regolare, una certa quantità di terra. Fatto ciò, uno dei due risaliva sul bordo dello scavo e issava, lungo il cavo di ferro, i secchi di terra che gli venivano mandati dal basso. Questa terra veniva quindi trasportata con la carriola nella casa di Thomas Steel. Là, dopo essere stata pestata rozzamente con un grosso legno e poi liberata dai sassi senza valore, la si faceva passare attraverso un setaccio a fori di quindici millimetri di diametro per separare le pietre più piccole, che venivano esaminate molto attentamente prima di essere gettate via. Infine, la terra veniva passata attraverso un setaccio ancora più fitto per togliere la polvere così da portarla alle condizioni migliori per essere mondata. Quando era versata su una tavola, davanti alla quale i due minatori erano seduti, essi con una specie di rastrello fatto con un pezzo di latta, la esaminavano con la massima cura a un pugno per volta, poi la gettavano sotto la tavola da dove veniva asportata e buttata via quando l'esame era ormai completamente finito. Tutte queste operazioni avevano lo scopo di scoprire se per caso ci fosse stato qualche diamante, a volte neppure più grosso di una

mezza lenticchia. Eppure i due soci si consideravano alquanto fortunati quando al termine di una giornata ne avevano trovato anche uno solo. Essi facevano questo lavoro con grande entusiasmo e mondavano minuziosamente la terra del claim; ma, tutto sommato, durante i primi giorni i risultati furono praticamente nulli. Cyprien, in particolare, sembrava avere poca fortuna. Se c'era un piccolo diamante nella sua terra, era sempre Thomas Steel a vederlo. Il primo che ebbe la soddisfazione di trovare da sé non pesava, compresa la ganga, neppure un sesto di carato. Il carato è un peso di quattro grani, ossia circa la quinta parte di un grammo. 5 Un diamante di prima acqua, cioè molto puro, limpido e senza colore, vale, una volta che è tagliato, circa duecentocinquanta franchi, se pesa un carato. Ma, se i diamanti più piccoli hanno un valore proporzionalmente molto inferiore, il valore dei più grossi cresce rapidamente. Si calcola che il valore commerciale di una pietra di bell'acqua è uguale al quadrato del suo peso, espresso in carati, moltiplicato per il prezzo corrente del suddetto carato. Di conseguenza se si suppone che il prezzo del carato sia di duecentocinquanta franchi, una pietra di dieci carati, della stessa qualità, varrà cento volte di più, cioè ventimila franchi. Ma le pietre da dieci carati, e anche quelle da un carato, sono molto rare. È appunto per questo che sono così care. E d'altra parte i diamanti del Griqualand sono quasi tutti di colore giallo, - cosa che diminuisce di molto il loro valore nelle gioiellerie. Dunque l'aver trovato una pietra di un sesto di carato, dopo sette o otto giorni di lavoro, era un ben magro compenso per tutte le pene e le fatiche costate. Per tanto così, allora era più conveniente custodire dei greggi o fare gli spaccapietre lungo le strade. Questo è quanto Cyprien andava considerando fra sé e sé. Cionondimeno la speranza di trovare un grosso diamante, che ricompensasse in un colpo solo il lavoro di molte settimane, o addirittura di molti mesi, sosteneva lui così come tutti i minatori, anche quelli meno fiduciosi. Quanto a Thomas Steel, lui lavorava come una macchina senza pensarci, - in conseguenza della velocità acquisita — almeno in apparenza. 5

Esattamente 0,2052 gr. (N.d.T.)

I due soci, di solito, facevano colazione assieme accontentandosi di sandwich e birra, che comperavano a uno spaccio all'aperto, ma pranzavano a una delle numerose tavole calde che si contendevano la clientela delle miniere. La sera dopo che si erano separati andandosene ognuno per i fatti suoi, Thomas Steel si recava in qualche sala da bigliardo, mentre Cyprien andava per un'ora o due alla fattoria. Il giovane ingegnere aveva spesso il dispiacere di incontrarvi il suo rivale, James Hilton, un ragazzone dai capelli rossi, dalla pelle bianca, la faccia disseminata di quelle macchie scure che si usano chiamare efelidi. Che il suo rivale facesse chiaramente dei rapidi progressi nelle grazie di John Watkins, bevendo ancora più gin e fumando ancora più tabacco di Amburgo di quanto facesse lui, era cosa evidente. Alice, a dir la verità sembrava non nutrire che un sommo disprezzo per le volgari galanterie e i discorsi superficiali del giovane Hilton. Naturalmente la sua presenza non era meno insopportabile per Cyprien. Cosicché a volte, essendo incapace di tollerarla e temendo di non sapersi dominare, augurava la buona sera alla compagnia e se ne andava. — Il francese non è contento! — diceva allora John Watkins strizzando l'occhio all'amico. — Pare che i diamanti non vengano a piovergli sulla zappa! E James Hilton rideva - nel modo più stupido di questo mondo. Di solito in questi casi, Cyprien concludeva là serata presso un vecchio brav'uomo boero che si era installato presso la miniera e che si chiamava Jacobus Vandergaart. Era lui che aveva dato il nome al Kopje, poiché una volta, ai primi tempi della cessione tutto quel terreno era stato suo. Anzi, a sentir quello che si diceva, era stato per un vero e proprio insulto alla giustizia che egli ne era stato spodestato a profitto di John Watkins. Ridotto ora alla totale rovina, egli viveva in una casupola di argilla, facendo il mestiere del tagliatore di diamanti che aveva un tempo esercitato a Amsterdam, sua città natale. Capitava spesso che i minatori, curiosi di conoscere il peso che avrebbero avuto i loro diamanti una volta tagliati, li portassero a lui,

sia per farli sfaccettare, sia per sottoporli a operazioni più delicate. Ma questi lavori abbisognano di una mano sicura e di una vista acuta, e il vecchio Jacobus Vandergaart, eccellente operaio ai suoi tempi, faceva, adesso, una grande fatica a eseguire queste ordinazioni. Cyprien, che gli aveva dato da montare come anello il suo primo diamante, si era ben presto affezionato a lui. Gli piaceva venirsi a sedere nel suo laboratorio, per fare quattro chiacchiere con lui, o anche semplicemente per tenergli compagnia mentre era al lavoro al suo banco di lapidario. Jacobus Vandergaart, con la sua barba bianca, la fronte stempiata spaziosa, coperta da una berretta di velluto nero, il suo lungo naso fornito di un paio di occhiali rotondi, aveva tutta l'aria di un alchimista del quindicesimo secolo sepolto fra i suoi arnesi bizzarri e le sue bottigliette di acidi. In una ciotola di legno su un banco sistemato davanti alla finestra, c'erano dei diamanti greggi ch'erano stati affidati a Jacobus Vandergaart, e il cui valore era a volte considerevole. Se egli voleva sfaccettarne uno, la cui cristallizzazione non gli pareva perfetta, cominciava a esaminare con la lente le incrinature che dividevano i cristalli in lamine a facce parallele; poi faceva con un pezzo di diamante già sfaccettato, un'incisione nel senso voluto, introduceva una lametta di acciaio in questa incisione, e dava un colpo secco. Il diamante veniva spaccato lungo un lato, e poi l'operazione veniva ripetuta per gli altri lati. Se Jacobus Vandergaart voleva invece «tagliare» la pietra, o, per parlare più esattamente, darle una forma determinata, egli cominciava col fissare la forma che voleva dargli, disegnando colla matita, sulla ganga, le sfaccettature progettate. Poi metteva successivamente ciascuna di queste sfaccettature in contatto con un secondo diamante, e li sottoponeva a un prolungato sfregamento uno contro l'altro. Le due pietre si levigavano reciprocamente, dando luogo alle sfaccettature desiderate. Jacobus Vandergaart giungeva così a dare alla gemma una delle forme, consacrate ormai dall'uso, e che rientrano nella seguente suddivisione generale: il «brillante doppio», il «brillante semplice» e la «rosa» o «rosetta».

Il brillante doppio si compone di sessantaquattro faccette, di una tavola superiore e di una tavola inferiore. Il brillante semplice non è altro che la metà di un brillante doppio. La rosa ha la parte inferiore piatta e la parte superiore tondeggiante a volta sfaccettata. In via eccezionale, Jacobus Vandergaart aveva occasione di tagliare una «briolette» cioè un diamante privo di tavola superiore e di tavola inferiore, dalla forma di piccola pera. In India, si usa praticare in queste «briolettes» un foro verso la cima per passarvi un cordoncino. Quanto ai «pendeloques» 6 che spesso il vecchio lapidario riceveva l'incarico di tagliare, avevano la forma di una mezza pera con tavola superiore e tavola inferiore, sfaccettata solo anteriormente. Il diamante, una volta tagliato, doveva essere pulito perché il lavoro fosse completo. Questa operazione si effettua con l'aiuto di una mola, una specie di disco d'acciaio, di circa ventotto centimetri di diametro, posto orizzontalmente sul tavolo ruotante su un perno sotto l'azione di una grande ruota e di una manovella, che gira in ragione di due o trecento giri al minuto. Contro questo disco lubrificato e pieno di polvere di diamante, residua dei tagli precedenti, Jacobus Vandergaart premeva, una dopo l'altra, le faccette della pietra fino a quando erano perfettamente levigate. La manovella era manovrata a volte da un ragazzino ottentotto, a volte da amici, come Cyprien, al quale non dispiaceva fargli questo piacere, per semplice cortesia. Lavorando, chiacchieravano piacevolmente. Spesso Jacobus Vandergaart, spingendosi gli occhiali sulla fronte, si arrestava un po' per raccontare qualche storia dei tempi passati. Effettivamente egli conosceva proprio tutto su questa Africa australe in cui viveva da ben quarant’anni. E quello che rendeva così piacevole la sua conversazione è il fatto che riportava con gran precisione la tradizione del paese - una tradizione ancora viva e fresca. Prima di tutto, il vecchio lapidario non cessava di fare numerose lagnanze patriottiche e personali. Secondo lui, gli inglesi erano i più odiosi ladri che la terra abbia mai conosciuto. Tuttavia bisogna 6

Brillanti a goccia per orecchini. (N.d.T.)

lasciargli la responsabilità delle sue opinioni, per quanto esagerate siano - e bisogna forse anche perdonargliele. — Niente di strano — egli ripeteva volentieri, — se gli Stati Uniti d'America si siano dichiarati indipendenti, e l'India e l'Australia non tarderanno a seguirne l'esempio! Qual popolo potrebbe tollerare una simile tirannia!… Ah! signor Méré, se la gente conoscesse tutte le ingiustizie che questi inglesi, così superbi delle loro ghinee e della loro potenza navale, hanno commesso a questo mondo, non ci sarebbero sufficienti parole di sdegno nella lingua umana da gettar loro in faccia! Cyprien non approvava e non disapprovava; ascoltava soltanto senza rispondere nulla. — Volete che io vi racconti quello che hanno fatto a me, che vi parlo? — riprese Jacobus Vandergaart animandosi. — Ascoltatemi, e poi mi direte se si possono avere due opinioni in proposito. E siccome Cyprien gli assicurò che non desiderava di meglio, il buon uomo continuò così: — Io sono nato a Amsterdam nel 1806, durante un viaggio che vi fecero i miei genitori. Più tardi vi sono tornato per impararvi il mio mestiere, ma ho trascorso tutta la mia infanzia al Capo, dove la mia famiglia era emigrata circa cinquant’anni prima. Eravamo olandesi e molto fieri di esserlo, quando la Gran Bretagna s'impadronì della colonia, … a titolo provvisorio, diceva! Ma John Bull non abbandona mai ciò che ha preso una volta e, nel 1815, noi fummo solennemente dichiarati sudditi del Regno Unito dal Congresso delle potenze europee. «Mi sapreste dire con qual diritto l'Europa si impicciava delle faccende delle province africane? «Sudditi inglesi! Ma noi non volevamo esserlo, signor Méré! Allora, pensando che l'Africa era abbastanza vasta per darci una patria, che fosse proprio tutta nostra, - per noi soli! - abbandonammo la colonia del Capo per internarci nelle zone ancora selvagge, che circondano le terre verso nord. Ci chiamavano boeri vale a dire contadini, o anche "voortrekkers", cioè pionieri avanzati. «Noi avevamo appena bonificato questi nuovi territori, eravamo appena riusciti a crearci, a furia di lavoro, una esistenza

indipendente, quando il governo inglese intervenne a reclamarli come suoi, - sempre con la scusa che noi eravamo sudditi inglesi! «Allora ebbe luogo il nostro grande esodo. Era il 1833. Di nuovo, noi emigrammo in massa. Dopo aver caricato su carri tirati da buoi i nostri mobili, gli utensili e le granaglie, ci avviammo all'interno del deserto. «A quell'epoca il territorio di Natal era quasi del tutto spopolato. Un conquistatore sanguinario chiamato Tchaka, un vero Attila negro della razza zulù, vi aveva sterminato più di un milione di esseri umani, dal 1812 al 1828. Il suo successore Dingaan vi dominava ancora col terrore. Fu proprio questo re barbaro che ci autorizzò a stabilirci nel paese, ove oggi sorgono le città di Durban e di PortNatal. «Ma era con il recondito scopo di attaccarci non appena avessimo reso fertile quella regione che quello scaltro di Dingaan ci aveva concesso questa autorizzazione. Allora ognuno s'armò per la propria difesa, e fu solo attraverso sforzi inauditi, e, posso dirlo, attraverso prodigi di coraggio, nel corso di più di cento combattimenti nei quali le nostre donne e persino i nostri figli lottavano al nostro fianco, che ci fu possibile mantenere il possesso di quelle terre bagnate dal nostro sudore e arrossate dal nostro sangue. «Orbene, non appena fummo riusciti a ottenere il pieno trionfo sul despota nero, e a distruggere la sua potenza, il governatore del Capo inviò delle truppe inglesi coll'incarico di occupare il territorio di Natal, in nome : di Sua Maestà la regina d'Inghilterra!… Vedete? Noi eravamo sempre sudditi inglesi! Questo succedeva nel 1842. «Altri emigranti, nostri compatrioti, avevano, intanto, conquistato il Transvaal e annientato sul fiume Orange il potere del tiranno Moselekatze. Anch'essi si videro confiscare, con un semplice ordine del giorno, la nuova patria, che avevano pagato con tante sofferenze! «Sorvolo sui particolari. Questa lotta durò vent'anni. Sempre noi andavamo più lontano e sempre la Gran Bretagna allungava su di noi la sua mano rapace, come su tanti servì della gleba anche dopo che l'avevamo lasciata! «Infine, dopo tante pene e lotte sanguinose, riuscimmo a far riconoscere la nostra indipendenza nello Stato libero d'Orange. Un

proclama reale sottoscritto dalla regina Vittoria, in data 8 aprile 1854, ci garantiva il libero possesso delle terre e il diritto di governarci da soli. Ci costituimmo definitivamente in Repubblica è si può dire che il nostro Stato, fondato sul coscienzioso rispetto della legge, sul libero sviluppo delle energie individuali e sull'istruzione ripartita con abbondanza in tutte le classi, avrebbe potuto servire da modello a molte nazioni, che pretendono di essere più civili di un piccolo stato dell'Africa australe! «Il Griqualand ne faceva parte. Fu allora che io mi stabilii come fattore, proprio nella casa dove ci troviamo in questo momento, con la mia povera moglie e i miei due figli! Fu allora che io tracciai i confini del mio kraal o parco da bestiame, proprio sulla superficie della miniera, dove voi state lavorando! Dieci anni più tardi John Watkins arrivò nel paese e costruì la sua prima casa. Allora non si sapeva ancora che vi fossero dei diamanti in queste terre, e, per quel che mi riguarda, avevo così poche occasioni, dopo più di trent'anni, di esercitare il mio vecchio mestiere, che mi ricordavo a malapena dell'esistenza di queste pietre preziose! «Di colpo, nel 1867, si sparse la voce che le nostre terre erano diamantifere. Un boero dei dintorni dell'Hart aveva trovato dei diamanti perfino negli escrementi dei suoi struzzi, e perfino nei muri d'argilla della sua fattoria. 7 «Immediatamente il governo inglese, fedele al suo solito sistema, in disprezzo di tutti i trattati e di tutti i diritti, dichiarò che il Griqualand gli apparteneva. 7

Questo Boero si chiamava Jacobs. Un certo Niekirk, commerciante olandese, che viaggiava da quelle parti in compagnia di un cacciatore di struzzi chiamato O'Reilly, riconobbe nelle mani dei figli del Boero che giocavano, un diamante che egli comperò per pochi soldi e che vendette per dodicimilacinquecento franchi a Sir Philip Woodehouse, Governatore del Capo. Questa pietra, immediatamente tagliata e spedita a Parigi, figurò all'esposizione universale del Champs de Mars, nel 1867. Da allora vennero estratti annualmente dal suolo del Griqualand dei diamanti per un valore medio di quaranta milioni. Una circostanza davvero curiosa è che l'esistenza di giacimenti diamantiferi, in questo paese, un tempo era già nota ma poi era stata dimenticata. Delle vecchie carte del XV secolo portano a questo punto la seguente indicazione: Here Diamonds, «Qui ci sono dei diamanti». (N.d.T.)

«Invano la nostra Repubblica protestò!… Invano propose di sottoporre la questione al giudizio di un capo di stato europeo!… L'Inghilterra rifiutò l'intervento e occupò il nostro territorio. «Si sperava almeno che i diritti privati sarebbero stati rispettati dai nostri ingiusti padroni. Per quanto mi riguarda, io, rimasto vedovo e senza figli, dopo la terribile epidemia del 1870, non avevo più il coraggio di andare in cerca di una nuova patria, di rifarmi una nuova casa - la sesta o la settima della mia lunga esperienza. Restai dunque nel Griqualand. Quasi solo nel paese, rimasi estraneo a questa febbre dei diamanti che si era ormai impadronita di tutto il mondo, cosicché continuai a coltivare il mio orto, come se il giacimento di Du Toit's Pan non fosse stato scoperto a un tiro di fucile dalla mia casa! «Quale non fu dunque la mia sorpresa quando un giorno constatai che la cinta del mio kraal, costruita con pietre sovrapposte senza cemento era stata demolita durante la notte e trasportata trecento metri più lontano in mezzo alla piana. Al posto del mio, John Watkins, aiutato da un centinaio di cafri, ne aveva costruito un altro, unito al suo e che racchiudeva nei suoi possedimenti una collinetta di terra sabbiosa e rossiccia, che fino a quel momento era mia proprietà incontestata. «Andai a lamentarmi da quel depredatore… Egli non fece altro che ridermi in faccia! Lo minacciai di citarlo in tribunale, e lui mi invitò a farlo! «Tre giorni dopo mi spiegai l'enigma! Quella collinetta di terra che era mia era una miniera di diamanti. John Watkins, avutane la certezza, si era affrettato ad attuare lo spostamento del mio confine; poi era corso a Kimberley a denunciare ufficialmente a suo nome la scoperta della miniera. «Io lo citai in tribunale… Possiate, signor Méré, non dover mai conoscere quanto costa fare causa in un paese inglese!… Uno alla volta, persi i miei buoi, i miei cavalli, i miei montoni!… Vendetti perfino il mobilio, perfino i miei vecchi abiti per pagare quelle sanguisughe che hanno nome di avvocati, procuratori, sceriffi, uscieri!… In breve, dopo un anno di avanti e indietro, di ansie, di proteste, la questione della proprietà fu decisamente conclusa in appello, senza alcuna possibilità di ricorso in cassazione…

«Persi la causa, e, per giunta, ero rovinato! Un giudizio in piena regola definì le mie pretese infondate, respinse la mia domanda, e disse che era impossibile per il tribunale stabilire di preciso i diritti reciproci delle parti, ma che era necessario fissare un limite incontestabile per l'avvenire. Così fu stabilita al venticinquesimo grado di longitudine, a est del meridiano di Greenwich, la linea che avrebbe diviso le due proprietà. La terra situata a occidente di questo meridiano restava attribuita a John Watkins, mentre la terra a oriente venne assegnata a Jacobus Vandergaart. «Quello che sembrava aver invitato i giudici a una così strana decisione era il fatto che, effettivamente questo 25° grado di longitudine passa per la pianta del distretto attraverso il territorio occupato dal mio kraal. «Ma la miniera, ahimè, era a occidente cosicché toccava automaticamente a John Watkins. «Tuttavia come a indicare con una macchia indelebile l'opinione che questo paese ha a proposito di un simile iniquo giudizio, questa miniera continua a chiamarsi Vandergaart-Kopje! «Ebbene, signor Méré, non le pare che io abbia il diritto di dire che gli inglesi sono dei ladri?» chiese il vecchio boero concludendo il suo racconto fin troppo vero.

CAPITOLO VI ALCUNE USANZE DEL CAMPO È FACILE capire, come questo soggetto di conversazione non doveva riuscire troppo gradevole per il giovane ingegnere. Non poteva certo gioire di simili informazioni a proposito dell'onore dell'uomo, che egli si ostinava a considerare suo futuro suocero. Cosicché egli s'era abituato a prendere questa opinione di Jacobus Vandergaart come un'idea fissa dello sconfitto, che andava presa con le dovute riserve. John Watkins, a cui un giorno egli aveva accennato con due parole di questo affare, dopo essere scoppiato a ridere, per tutta risposta s'era toccato la fronte col dito indice scrollando la testa come per dire che il vecchio Vandergaart stava sempre più dando i numeri! Non era possibile effettivamente che il vecchio, sotto l'impressione della scoperta della miniera diamantifera, si fosse messo in testa, senza valide ragioni, che quel terreno era di sua proprietà? Dopo tutto i tribunali gli avevano dato decisamente torto, ed era alquanto improbabile che i giudici non avessero dato ragione alla parte più fornita di prove. Ecco ciò che si diceva il giovane ingegnere per giustificare di fronte a se stesso il fatto del suo continuare a frequentare John Watkins dopo quello che Jacobus Vandergaart gli aveva detto su di lui. Un altro vicino di miniera col quale Cyprien amava intrattenersi, talvolta, perché la sua vita rispecchiava quella del tipico boero in tutti i suoi colori più caratteristici, era un fattore di nome Mathys Pretorius, ben noto a tutti i minatori del Griqualand. Quantunque avesse appena quarant'anni, anche Mathys Pretorius aveva a lungo errato nel vasto bacino del fiume Orange, prima di venirsi a stabilire in questo paese. Ma questa vita nomade non aveva prodotto in lui l'effetto, come era avvenuto per il vecchio Jacobus

Vandergaart, di renderlo emaciato e irritabile. L'aveva piuttosto intontito e ingrassato a tal punto che riusciva appena a camminare: lo si sarebbe detto un elefante! Quasi sempre seduto in un seggiolone di legno, fatto su misura per contenere la sua corporatura gigantesca, Mathys Pretorius non usciva che in carrozza, vale a dire in una specie di calesse di vimini, tirato da uno struzzo colossale. La facilità con cui lo struzzo si tirava dietro quell'enorme peso era certo in grado di dare un'idea della sua forza muscolare. Mathys Pretorius veniva abitualmente al campo per contrattare con gli osti l'acquisto dei suoi legumi. Egli vi era molto popolare quantunque, per la verità, non fosse una popolarità troppo invidiabile perché nasceva dalla sua estrema pusillanimità. Infatti i minatori si divertivano a mettergli addosso una terribile paura raccontandogli mille stupidaggini. Una volta gli si annunciava un'invasione imminente di bassuti o di zulù! Altre volte si fingeva di leggere, in sua presenza, su qualche giornale, un progetto di legge per dare la pena di morte, in tutto il territorio di dominio britannico, a tutti coloro che fossero convinti di pesare più di trecento libbre! Oppure gli si diceva che un cane rabbioso era stato avvistato sulla strada di Driesfontein cosicché il povero Mathys Pretorius, che era costretto a prendere quella via per tornare a casa, trovava mille pretesti per restare al campo. Ma queste paure assurde non erano ancora niente in confronto al sincero terrore che aveva di scoprire una miniera di diamanti nella sua proprietà. Si faceva allora un terribile quadro di quello che gli sarebbe successo se degli uomini avidi invadendo il suo orto e sconvolgendo tutto il suo campo lo avessero, per completare l'opera, espropriato. Infatti, la sorte toccata a Jacobus Vandergaart avrebbe potuto toccare anche a lui! Gli inglesi avrebbero ben saputo trovare delle ragioni per dimostrare che la sua terra era di loro proprietà! Questi oscuri pensieri, quando s'impadronivano della sua mente, gli mettevano la morte in cuore. Se, per caso, vedeva un

«prospettore» 8 aggirarsi intorno alla sua casa, perdeva addirittura la voglia di bere e di mangiare. Eppure continuava a ingrassare! Uno dei suoi più accaniti persecutori era, adesso, Annibale Pantalacci. Quell'odioso napoletano — il quale, tra parentesi, sembrava prosperare a vista d'occhio perché aveva tre cafri impiegati nel suo claim e sfoggiava un enorme diamante sullo sparato della sua camicia - aveva scoperto la debolezza dell'infelice boero.. Così, almeno una volta alla settimana, egli si concedeva lo stupido divertimento di eseguire rilevazioni o di vangare la terra nei dintorni della fattoria di Pretorius. Questo possedimento si estendeva lungo la riva sinistra del Vaal, per circa due miglia al di sotto del campo e comprendeva delle terre d'alluvione, che avrebbero effettivamente potuto essere fortemente diamantifere quantunque fino a ora non se ne avesse avuto alcun indizio. Annibale Pantalacci, per rendere sempre più veritiera questa sciocca commedia, aveva cura di mettersi bene in vista proprio davanti alle finestre di Mathys Pretorius, e, il più delle volte portava con sé dei compagni per divertirsi con loro di questa burla. Si vedeva, allora, il pover'uomo, mezzo nascosto dietro la tenda di cotone, seguire con ansietà tutti i loro movimenti, spiare i loro gesti, pronto a correre nella stalla e attaccare il suo struzzo alla carrozza per fuggire, non appena si fosse sentito minacciato da un'invasione nelle sue terre. Così, perché aveva avuto la malaugurata idea di confidare a uno dei suoi amici che egli teneva, notte e giorno, il suo uccello da tiro, tutto equipaggiato e il fondo del suo calesse pieno di provviste per essere in grado di fuggire al primo sintomo di pericolo? — Me ne andrò presso i boscimani, a nord del Limpopo! — diceva. — Dieci anni fa commerciavo con loro l'avorio, e sarebbe cento volte meglio, ve l'assicuro, trovarsi in mezzo ai selvaggi, ai leoni e agli sciacalli che non restare fra questi inglesi insaziabili! Naturalmente il confidente dello sventurato contadino s'era fatto gran premura - secondo l'usanza invariata di quasi tutti i confidenti 8

Colui che compie prospezioni ossia quell'insieme di operazioni che riguardano i metodi per la ricerca dei giacimenti minerari. (N.d.T.)

di rendere pubblici questi progetti! È inutile chiedersi se Annibale Pantalacci non ne avesse subito approfittato per schernirlo davanti a tutti i minatori del Kopje. Un'altra delle vittime abituali degli scherzi di pessimo gusto di questo napoletano era, come nel passato, il cinese Li. Anche lui s'era stabilito al Vandergaart-Kopje, dove aveva aperto una lavanderia, ed è ben noto come i figli del Celeste Impero siano specialisti in questo mestiere! In effetti, la famosa cassa di legno rosso, che aveva così tanto incuriosito Cyprien, durante i primi giorni del suo viaggio dal Capo al Griqualand, non conteneva che delle spazzole, della soda, dei pezzi di sapone e del turchinetto. Insomma, non occorreva altro a un cinese intelligente per far fortuna in questo paese! Lo stesso Cyprien non poteva trattenersi dal ridere quando incontrava Li, sempre silenzioso e riservato, carico del suo gran cestone di vimini che gli serviva per il suo lavoro. Ma quello che lo disgustava era la vera e propria ferocia di cui faceva uso Annibale Pantalacci con quel povero diavolo. Gli gettava delle boccette d'inchiostro nella tinozza piena di detersivo, tirava delle corde davanti alla sua porta per farlo cadere, lo inchiodava al tavolo piantando un coltello nella stoffa della sua giacca. Inoltre ogni volta che gli si presentava l'occasione, non mancava di allungargli un calcio nelle gambe chiamandolo «cane d'un pagano!» e se si serviva di lui era soltanto per liberarsi di quell'impegno settimanale! Ma non trovava mai abbastanza bianca la sua biancheria quantunque Li la lavasse e rilavasse con particolare cura. Per un minimo difetto di piega egli si arrabbiava in una maniera spaventosa e pestava il povero cinese come se fosse stato il suo schiavo. Di tal genere erano i rozzi divertimenti del campo; ma, a volte, diventavano anche tragici. Se capitava, per esempio, che un negro addetto alle miniere, fosse accusato del furto di un diamante, tutti si facevano premura di scortare il colpevole davanti al magistrato, cominciando innanzitutto col somministrargli una vera tempesta di pugni poderosi. Di modo che, se per caso il giudice assolveva l'accusato, la gragnuola di colpi gli restava almeno come, acconto! C'è da dire, comunque, che in tali casi le assoluzioni erano ben rare!

Il giudice faceva più alla svelta a pronunciare una condanna che non a tracannarsi un quarto di arancia salata - uno dei cibi preferiti del paese. La sentenza di solito era costituita da una condanna a quindici giorni di lavori forzati e a venti colpi di «cat of nine tails» o di gatto a nove code, specie di sferza a nodi, che s'adopera ancora in Gran Bretagna e nelle colonie inglesi per frustare i prigionieri. Ma c'era un delitto che i minatori tolleravano ancor meno del furto, era la ricettazione e occultamento. Ward, lo yankee arrivato nel Griqualand contemporaneamente al giovane ingegnere, ne fece un giorno la crudele esperienza, avendo sprovvedutamente comprato da un cafro dei diamanti. Ma un cafro non poteva possedere legalmente dei diamanti, perché la legge gli proibiva di comperarne a un claim o di lavorarli per proprio conto. Appena il fatto fu reso noto - era sera, nell'ora in cui nel campo c'era un gran baccano, dopo il pranzo - una folla furiosa si portò verso la cantina del colpevole, la saccheggiò da cima a fondo, poi la incendiò, e certamente avrebbe anche impiccato lo yankee alla forca, che dei volonterosi stavano già innalzando, se, fortunatamente per lui, non fosse sopraggiunta una dozzina di gendarmi a cavallo, in tempo per salvarlo conducendolo in prigione. Del resto le scene di violenza erano frequenti in mezzo a quella popolazione multiforme, focosa e mezzo selvaggia. Là, tutta la gente si urtava in una ressa caotica! La sete dell'oro, l'ubriachezza, l'influenza del clima torrido, le delusioni e gli insuccessi contribuivano a riscaldare gli animi e a turbare le coscienze! Può darsi, se tutti questi uomini fossero stati fortunati nelle loro ricerche, può darsi che avrebbero dimostrato di possedere più calma e più pazienza! Ma per uno di loro a cui toccava, di quando in quando, la fortuna di trovare una pietra di grande valore, ce n'erano centinaia che si trascinavano in un'esistenza miserabile, guadagnando appena di che supplire alle proprie necessità, se addirittura non piombavano nella più nera miseria! La miniera era un tappeto da gioco, sul quale si rischiava non solo il proprio denaro ma anche il proprio tempo, il proprio lavoro, la propria salute. E ben scarso era il numero dei giocatori fortunati, ai quali il caso guidasse il piccone nello scavare i claim del Vandergaart-Kopje!

Di tutto ciò Cyprien andava di giorno in giorno rendendosi sempre più conto, e già si stava chiedendo se era il caso di continuare un lavoro così poco remunerativo, quando fu portato a mutare genere di lavoro. Un mattino egli si trovò faccia a faccia con una dozzina di cafri, che venivano al campo in cerca di lavoro. Quella povera gente proveniva dalle lontane montagne che separano la Cafreria propriamente detta dalla terra dei bassuti. Avevano fatto più di centocinquanta leghe a piedi, lungo il fiume Orange, camminando in fila indiana, e vivendo di quel che potevano trovare per strada, vale a dire di radici, di bacche e di cavallette. Erano in uno stato di spaventosa magrezza, più scheletri che esseri viventi. Con le loro gambe stecchite, i lunghi torsi nudi, la pelle incartapecorita che sembrava ricoprire una carcassa vuota, le costole sporgenti, le gote incavate, essi avevano l'aria di gente più disposta a divorarsi delle bistecche di carne umana che non a scavare per giorni e giorni nelle miniere. Cosicché nessuno si mostrava incline ad assumerli e loro restavano accovacciati ai bordi della strada, indecisi, tristi, abbrutiti dalla miseria. Cyprien si sentì profondamente scosso a quella vista. Fece loro cenno di aspettare, ritornò all'albergo dove soleva pranzare, e comandò un enorme paiolo di farina di mais, stemperata nell'acqua bollente, che fece portare a quegli affamati, con qualche scatola di carne conservata e due bottiglie di rhum. Poi si abbandonò al piacere di assistere al loro banchetto, che, per i cafri, era senza precedenti. Francamente li si sarebbe detti dei naufraghi, raccolti su una zattera, dopo quindici giorni di digiuno e di angosce. Mangiarono tanto, che dopo un quarto d'ora sarebbero potuti scoppiare come granate. Fu necessario, per la loro salute, porre un limite a quella furia divoratrice, per timore di vedere tutti i convitati soccombere a causa di un soffocamento generale. Solo uno di quei negri dalla fisionomia intelligente e sveglia forse anche il più giovane per quel che si poteva giudicare - si era un po' trattenuto nel soddisfare il proprio appetito. E, cosa ancor più rara, egli si preoccupò di ringraziare il suo benefattore, cortesia alla

quale nessun altro aveva pensato. Egli si avvicinò a Cyprien, gli prese la mano con un gesto sincero e gentile e poi la appoggiò sulla sua testa lanosa. — Come ti chiami? — gli chiese sorpreso il giovane ingegnere, commosso da questo segno di gratitudine. Il cafro, che, per combinazione, capiva qualche parola d'inglese, rispose subito: — Matakit. Il suo sguardo sincero e leale piacque a Cyprien. Così gli nacque l'idea di ingaggiare quel ragazzone ben piantato per lavorare nel suo claim; e l'idea non era cattiva. «Dopo tutto» si disse «è quello che fanno tutti in questa regione. Per questo povero cafro è certo meglio aver me come padrone che non cadere sotto un Pantalacci qualunque!» Poi riprese: — Ebbene, Matakit, tu stai cercando lavoro, no? — gli domandò. Il cafro fece cenno di sì. — Vuoi lavorare da me? Io ti darò da mangiare, ti fornirò gli attrezzi e ti darò venti scellini al mese! Era la tariffa, e Cyprien sapeva che non avrebbe potuto proporre di più senza sollevarsi contro la collera di tutta la colonia. Ma già pensava di integrare questa magra remunerazione col dono di abiti, di oggetti per la casa e di tutto quello che avrebbe potuto essere prezioso per i gusti di un cafro. Per tutta risposta, Matakit sorridendo mise in mostra due file di denti candidi e piazzò nuovamente la mano del suo protettore sulla sua testa. Il contratto era concluso. Cyprien si portò immediatamente a casa il suo nuovo servitore. Prese dalla valigia un paio dei suoi pantaloni di tela, una camicia di flanella, un vecchio cappello e li diede al selvaggio che non riusciva a credere ai suoi occhi. Vedersi, dopo il suo arrivo, abbigliato con abiti così splendidi superava di gran lunga i sogni più arditi di quel povero diavolo. Egli non sapeva come esprimere la propria riconoscenza. Sgambettava, rideva e piangeva nello stesso tempo.

— Matakit, tu mi sembri un bravo ragazzo! — diceva Cyprien. — Vedo che capisci un po' l'inglese!… Non sapresti dunque dire qualche parola? Il cafro fece un cenno negativo. — Ebbene! Poiché le cose stanno così io mi impegno a insegnarti il francese — riprese Cyprien. E senza por tempo in mezzo, egli cominciò col dare al suo allievo una prima lezione, indicandogli il nome degli oggetti più comuni e facendoglielo poi ripetere. Non solo Matakit risultò essere un buon figliolo, ma era anche intelligente, dotato di una memoria veramente eccezionale. In meno di due ore, aveva imparato più di cento parole e le pronunciava molto correttamente. Il giovane ingegnere, sorpreso da una simile facilità, si ripromise di metterla a profitto. Ci vollero sette o otto giorni di riposo e di nutrimento sostanzioso al giovane cafro perché si rifacesse delle fatiche del viaggio e fosse in grado di lavorare. Questi otto giorni furono così bene utilizzati dal suo maestro e da lui, che alla fine della settimana Matakit era già capace di esprimere le sue idee in francese, - in maniera scorretta, se vogliamo, ma comunque perfettamente intellegibile. Così Cyprien ne approfittò per farsi raccontare tutta la sua storia: essa era molto semplice. Matakit non conosceva neppure il nome del suo paese, che si trovava fra le montagne, dalla parte in cui sorge il sole. Tutto quello che poteva dire è che vi conduceva una vita estremamente miserabile. Cosicché lui aveva deciso di cercare fortuna seguendo l'esempio di qualche guerriero della sua tribù che era espatriato e, come loro, era venuto al Campo di Diamanti. Che cosa sperava di guadagnarci? Tutt'al più una mantella rossa e dieci volte dieci monete d'argento. Di solito i cafri disprezzano le monete d'oro. Questo deriva da un loro pregiudizio ineliminabile che gli hanno inculcato i primi europei che commerciarono con loro. E che farà di queste monete d'argento l'ambizioso Matakit?

Ebbene, egli si sarebbe procurato un mantello rosso, un fucile e della polvere, poi sarebbe tornato al suo kraal. Là, egli avrebbe comperato una donna, che avrebbe lavorato per lui, curato la sua vacca e coltivato il suo campo di mais. In queste condizioni, egli sarebbe stato considerato un uomo di prestigio, un grande capo. Tutti avrebbero invidiato il suo fucile e la sua grande fortuna, ed egli sarebbe morto pieno d'anni e di ammirazione. Egli non chiedeva di più. Cyprien rimase pensoso ascoltando questo programma così semplice. Bisognava modificarlo, ampliare gli orizzonti di questo povero selvaggio, indicandogli come scopo della sua attività delle conquiste più importanti che un mantello rosso e un fucile? Oppure era meglio lasciarlo alla sua primitiva ignoranza, cosicché se ne tornasse in pace al suo villaggio, a condurre la vita che sognava? Domanda inquietante, che il giovane ingegnere non riusciva a risolvere, ma alla quale Matakit pensò di dare quanto prima una risposta. Infatti, appena fu a conoscenza dei primi elementi della lingua francese, il giovane cafro mostrò una straordinaria volontà d'imparare. Faceva domande in continuazione, voleva sapere tutto, il nome di ogni cosa, il suo impiego, e la sua origine. Poi fu la volta della lettura, della scrittura, del calcolo di cui si appassionava moltissimo. Era davvero insaziabile! Cyprien prese ben presto la sua decisione: davanti a una vocazione così evidente non era il caso di esitare. Si decise dunque a impartire ogni sera una lezione d'un'ora a Matakit, che, oltre al lavoro in miniera, dedicava alla propria istruzione tutto il tempo che aveva libero. La signorina Watkins, colpita anche lei da questo entusiasmo non comune, si incaricò di far ripetere le lezioni al giovane cafro. Del resto, egli le andava ripetendo fra sé e sé durante tutto il giorno, vuoi quando lavorava di piccone nel fondo del claim, vuoi quando issava i secchi di terra o esaminava i sassi. Il suo entusiasmo nel lavoro era talmente contagioso, che si era comunicato anche agli altri e il lavoro alla miniera sembrava divenuto più piacevole.

Inoltre per consiglio dello stesso Matakit, Cyprien aveva assunto un altro cafro della sua tribù, di nome Bardik, il cui zelo e la cui intelligenza meritavano allo stesso modo di essere apprezzati. Fu allora che al giovane ingegnere toccò una fortuna insolita: trovò una pietra di quasi sette carati, che vendette immediatamente per cinquemila franchi, ancora grezza, al mediatore Nathan. Fu davvero un bell'affare. Un minatore, che non avesse cercato nel frutto del suo lavoro altro che una normale ricompensa, avrebbe dovuto essere ben soddisfatto. Certamente! Ma Cyprien non era così. «Quand'anche mi capitasse ogni due o tre mesi, una simile fortuna» diceva fra di sé «che cosa ci avrei guadagnato? Non è di un diamante di sette carati che io ho bisogno, ma di mille o millecinquecento simili pietre… altrimenti la signorina Watkins mi sfuggirà per toccare in sorte a quel James Hilton o a qualche rivale del genere!» Cyprien un giorno si abbandonava a questi tristi pensieri di ritorno al Kopje, dopo il suo pranzo in una torrida giornata polverosa - di quella polvere rossa, accecante che aleggia quasi costantemente nell'atmosfera delle miniere di diamanti - quando, a un tratto, egli indietreggiò spaventato non appena ebbe svoltato l'angolo di una casa abbandonata. Un penoso spettacolo si presentò ai suoi occhi. C'era un uomo impiccato alla stanga di un carro da buoi, appoggiato contro il muro della casa, con la parte posteriore a terra e la stanga in aria. Immobile, con i piedi tirati, le mani inerti, quel corpo pendeva come un filo a piombo, facendo un angolo di venti gradi con la stanga, sotto un raggio di luce sfolgorante. La scena aveva un aspetto sinistro. Cyprien, rimasto un attimo stupefatto, si sentì subito invaso da un gran senso di pena quando nel poveretto riconobbe il cinese Li, sospeso al collo per mezzo della sua lunga coda di capelli, tra cielo e terra. Il giovane ingegnere non ebbe un attimo di dubbio su quello che era necessario fare. Arrampicarsi sulla cima della stanga, afferrare il corpo dell'infelice sotto le braccia, e issarlo per arrestare il processo di strangolamento, poi tagliare il codino col coltello che aveva in tasca - tutto questo fu questione di un attimo. Ciò fatto, si lasciò

scivolare a terra con precauzione, e depose il suo fardello all'ombra della casa. Era ancora in tempo. Li non era ancora freddo. Il suo cuore batteva debolmente, ma batteva. Ben presto, riaprì gli occhi, e, cosa strana, sembrò riprendere conoscenza a mano a mano che riacquistava la vista. Sulla fisionomia impassibile di quel povero diavolo, anche uscendo da una così terribile prova, non c'era né terrore né particolare stupore. Si sarebbe detto che egli si stava semplicemente svegliando da un sonno leggero. Cyprien gli fece bere qualche goccia d'acqua macchiata d'aceto che aveva nella sua borraccia. — Potete parlare ora? — gli chiese istintivamente dimenticandosi che Li non avrebbe potuto comprenderlo. L'altro, tuttavia, fece un cenno affermativo. — Chi vi ha impiccato? — Io stesso — rispose il cinese con l'aria di uno che non si sogna neanche lontanamente di dire qualcosa di straordinario o di riprovevole. — Voi?… Ma avete tentato un suicidio, disgraziato!… E perché? — Li aveva troppo caldo… Li s'annoiava — rispose il cinese. E richiuse subito gli occhi, come per sfuggire a delle ulteriori domande. Cyprien s'accorse, in quel momento, del fatto che il discorso s'era svolto in francese. — Parlate anche l'inglese? — riprese allora. — Sì — rispose Li, riaprendo gli occhi. Si sarebbero detti due asole oblique tagliate a lato del suo nasino camuso. A Cyprien sembrò di ritrovare in quello sguardo un po' di quell'ironia, che vi aveva a volte notato durante il viaggio dal Capo a Kimberley. — I vostri motivi sono assurdi! — gli disse con piglio severo. — Non ci si uccide perché fa troppo caldo!… Parlate seriamente!… Qui c'è sotto, ci scommetterei, qualche altro brutto scherzo di quel Pantalacci! Il cinese chinò la testa.

— Voleva tagliarmi il codino — disse, abbassando la voce, — e sono sicuro che ci sarebbe riuscito entro uno o due giorni! In quell'istante, Li vide questa benedetta codina fra le mani di Cyprien e capì che la sventura, che temeva più di ogni altra, si era avverata. — Oh! signore!… Come!… Voi… voi m'avete tagliato!… — gridò con voce straziante. — Era necessario per liberarvi, amico mio! — rispose Cyprien. — Ma, che diamine! voi non varrete neppure un soldo di meno, in questo paese!… State tranquillo!… Il cinese sembrava talmente desolato per questa amputazione, che Cyprien temendo di vederlo andare in cerca di un nuovo mezzo per suicidarsi, decise di tornare a casa sua portandolo con sé. Li lo seguì docilmente, si sedette alla tavola del suo salvatore, si lasciò sgridare, promise di non ripetere quel tentativo, e, ristorato da una tazza di té bollente, giunse persino a dare qualche vaga indicazione a proposito della sua persona. Li, nato a Canton, era stato avviato al commercio in una casa inglese. Poi era passato a Ceylon, di là in Australia e infine in Africa. Da nessuna parte la fortuna lo aveva favorito. Il lavaggio della biancheria non dava frutti migliori di tutti gli altri ventimila mestieri che aveva tentato nel paese delle miniere. Ma la sua vera ossessione era Annibale Pantalacci. Quell'essere lo faceva proprio disperare, mentre, senza di lui, egli avrebbe anche potuto adattarsi a quella sua precaria esistenza nel Griqualand! Insomma era per sfuggire a quelle persecuzioni che aveva voluto farla finita con la sua vita. Cyprien riconfortò quel pover'uomo, gli promise di proteggerlo contro il napoletano, gli diede da lavare tutta la biancheria che gli fu possibile trovare, e lo rispedì a casa non soltanto consolato ma addirittura completamente guarito del suo superstizioso attaccamento al suo codino di cavallo. E sapete in che modo aveva ottenuto tutto ciò il giovane ingegnere? Egli aveva detto a Li con molta semplicità ma anche con molta serietà che la corda dell'impiccato portava fortuna e che la sua scalogna era sicuramente finita, ora che aveva la sua coda in tasca.

«In ogni caso Pantalacci non avrebbe più potuto tagliargliela!» Questo tipo di ragionamento, squisitamente cinese, completò la cura.

CAPITOLO VII LA FRANA ERANO ORMAI cinquanta giorni che Cyprien non trovava un solo diamante nella sua miniera. Cosicché era ogni giorno più disgustato dal mestiere di minatore, che gli sembrava una presa in giro quando non si disponga di una cifra sufficiente per comprare un claim di prima scelta e una dozzina di cafri capaci di lavorarlo. Così una mattina, lasciando che Matakit e Bardik se ne andassero con Thomas Steel, egli rimase solo sotto la sua tenda. Voleva rispondere a una lettera del suo amico Pharamond Barthès, che gli aveva fatto avere sue notizie per mezzo di un mercante d'avorio diretto al Capo. Pharamond Barthès era entusiasta della sua vita di cacce e di avventure. Egli aveva già ucciso tre leoni, sedici elefanti, sette tigri, più un numero incalcolabile di giraffe, d'antilopi, senza contare la semplice selvaggina. «Come i conquistatori della storia» scriveva, egli alimentava la guerra con la guerra. Non solo egli riusciva a mantenere, col bottino di caccia, il piccolo corpo di spedizione di cui si era circondato, ma gli sarebbe stato anche possibile, se solo l'avesse voluto, realizzare dei considerevoli guadagni grazie alla vendita delle pellicce e dell'avorio, o grazie agli scambi con le tribù cafre, in mezzo alle quali si trovava. E terminava dicendo:

«Non faresti una spedizione con me sulle rive del Limpopo? Io sarò là verso la fine del mese prossimo e mi riprometto di discenderlo fino alla baia Delagoà, e poi di ritornare per mare a Durban, dove mi sono impegnato a ricondurre i miei bassuti… Lascia dunque il tuo terribile Griqualand per qualche settimana, e vieni a raggiungermi…». Cyprien stava rileggendo questa lettera, quando una spaventosa detonazione, seguita da un grande rumore in tutto il campo, lo fece scattare in piedi in tutta fretta e precipitarsi fuori della sua tenda. Una folla di minatori, disordinata e piena di agitazione, correva verso la miniera. — Una frana! — si sentiva gridare da ogni parte. La notte era stata, in effetti, molto fredda, quasi glaciale, mentre la giornata precedente avrebbe potuto essere annoverata tra le più calde da molto tempo a quella parte. Solitamente era proprio in seguito a questi bruschi cambiamenti di temperatura e alla conseguente contrazione dei cumuli di terra lasciati allo scoperto che si verificava questo genere di disastri. Cyprien si affrettò a dirigersi verso il Kopje. Appena giunto, gli bastò dare un'occhiata per rendersi conto di cosa era accaduto. Un enorme cumulo di terra, alto almeno sessanta metri e lungo duecento, s'era spaccato verticalmente, formando una fessura, simile alla breccia di un bastione. Molte migliaia di quintali di ghiaia se n'erano staccati, precipitando nei claim e riempiendoli di sabbia, di terriccio e di sassi. Tutto ciò che, al momento del crollo si trovava sulla cresta, uomini, buoi, carrette, era stato precipitato nella voragine e caduto sul fondo. Per fortuna, la maggior parte dei lavoranti non era ancora discesa nella parte inferiore della miniera, altrimenti una buona metà dei minatori sarebbe rimasta sepolta sotto le macerie. Il primo pensiero di Cyprien fu per il suo socio, Thomas Steel: con sua gran gioia lo ravvisò ben presto fra coloro che si trovavano sull'orlo della voragine cercando di rendersi conto dell'accaduto. Subito corse da lui e lo interrogò.

— Sì, l'abbiamo scampata bella! — disse quello stringendogli la mano. — E Matakit?— chiese Cyprien. — Il povero ragazzo è là sotto! — rispose Thomas Steel indicando le macerie che s'erano ammucchiate sulla loro proprietà comune. — L'avevo appena fatto scendere e aspettavo che avesse finito di riempire il primo secchio per tirarlo su, quando avvenne il crollo. — Ma non possiamo restare qui senza far niente per cercare di salvarlo — gridò Cyprien. — Può darsi che sia ancora vivo!… Thomas Steel scosse la testa. — È molto improbabile che sia ancora vivo sotto venti tonnellate di terra! — disse. — E poi ci vorrebbero almeno dieci uomini che lavorassero per almeno due o tre giorni per togliere la frana! — Non importa! — rispose risolutamente il giovane ingegnere. — Non sia mai detto che noi lasciamo una creatura umana sotterrata in questa tomba, senza aver almeno tentato di estrarla. Poi, rivolgendosi a uno dei cafri con Bardik, che si trovava vicino a lui come intermediario, egli disse che offriva una somma di cinque scellini al giorno a tutti coloro che avessero voluto mettersi ai suoi ordini per sgombrare il claim. Una trentina di negri s'offrirono subito e, senza perdere un istante, si misero all'opera. I picconi, le zappe, le pale non mancavano certo; i secchi e le corde erano pronti, e le carrette altrettanto. Un gran numero di minatori bianchi, venuti a sapere che si trattava di dissotterrare un povero diavolo travolto dalla frana, offrirono generosamente il proprio aiuto. Thomas Steel trascinato dall'esempio di Cyprien, non fu meno attivo nel dirigere quest'opera di salvataggio. A mezzogiorno erano già state tolte parecchie tonnellate di sabbia e di pietre, accumulate sul fondo del claim. Alle tre, Bardik gettò un grido strozzato: aveva visto, sotto la sua piccozza, un piede nero spuntare dalla terra. Si raddoppiarono gli sforzi, e, qualche minuto più tardi l'intero corpo di Matakit era riesumato. Il disgraziato cafro era sdraiato sul dorso, immobile e apparentemente morto. Per una curiosa

coincidenza, uno dei secchi di cuoio, che servivano al suo lavoro, s'era capovolto sul suo volto, e lo ricopriva, come una maschera. Questo fatto, che Cyprien notò immediatamente, gli diede la speranza di poter richiamare in vita il poveretto; ma, in realtà, questa speranza era molto debole, perché il cuore non batteva più, la pelle era fredda, le membra rigide, le mani rattratte per l'agonia e il volto del pallore livido proprio dei negri - era spaventosamente contratto per l'asfissia. Cyprien non perse coraggio. Fece trasportare Matakit nella casa di Thomas Steel, che era la più vicina. Lo si distese sulla tavola, che serviva di solito per lo smistamento della ghiaia, e lo si sottopose a delle frizioni sistematiche, a dei massaggi della cassa toracica con lo scopo di procurargli una specie di respirazione artificiale, così come si usa fare per rianimare gli annegati. Cyprien sapeva che questo trattamento era applicabile a tutti i casi di asfissia, e, nel caso presente, non c'era altro da fare, dal momento che non si vedeva alcuna lesione, alcuna frattura e neppure alcuna grave contusione. — Guardate, signor Méré, stringe ancora nella mano un po' di terra! — fece notare Thomas Steel, che faceva anche lui del suo meglio per frizionare quel grande corpo nero. E ce la metteva tutta, quel bravo figlio del Lancashire! Se egli avesse dovuto pulire con «olio di gomito», come si suol dire, l'albero di trasmissione d'una macchina a vapore di milleduecento cavalli, non avrebbe potuto impiegare una energia maggiore. Questi sforzi non tardarono a dare degli apprezzabili risultati. La rigidezza cadaverica del giovane cafro parve allentarsi poco a poco. La temperatura della sua pelle sali sensibilmente. Cyprien che spiava, col capo poggiato sul cuore, il più piccolo segno di vita, credette di sentire sotto la sua mano un debole fremito di buon augurio. Ben presto questi sintomi si fecero più accentuati. Il polso si rimise a battere, una leggera inspirazione sollevò in maniera quasi impercettibile il petto di Matakit; poi, una espirazione più forte indicò un manifesto ritorno alle funzioni vitali. D'un tratto due vigorosi starnutì scossero dalla testa ai piedi quel gran corpo nero, poco fa ancora completamente inerte. Matakit aprì gli. occhi, respirò, riprese conoscenza.

— Urrà! Urrà! Il nostro amico è salvo! — esclamò Thomas Steel che, madido di sudore, sospese le frizioni. — Ma guardate, signor Méré, egli continua a non abbandonare quel pugno di terra che serra fra le dita rugose! Il giovane ingegnere aveva ben altro da fare che stare a occuparsi di simili dettagli! Egli faceva inghiottire al suo ammalato una cucchiaiata di rhum, e lo sollevava per facilitargli la respirazione. Finalmente, quando lo vide proprio tornato alla vita, lo avvolse in molte coperte, e con l'aiuto di tre o quattro uomini di buona volontà lo trasportò nella sua abitazione, nella fattoria Watkins. Là il povero cafro fu deposto sul suo letto. Bardik gli fece prendere una tazza di té fumante. Nel giro d'un quarto d'ora, Matakit s'addormentò d'un sonno calmo e profondo: era salvo. Cyprien si sentì il cuore pervaso da quella gioia indescrivibile che l'uomo prova, quando è riuscito a strappare una vita umana dalle grinfie della morte. Mentre Thomas Steel e i suoi aiutanti, spossati dalla lunga fatica andavano a festeggiare il successo nella più vicina taverna, Cyprien che voleva restare presso Matakit, prese un libro, interrompendo di quando in quando la sua lettura solo per guardarlo dormire, come un padre che veglia il sonno del suo bambino convalescente. Dopo sei settimane che Matakit era entrato al suo servizio, Cyprien non aveva che da essere soddisfatto ed anche sorpreso di lui. La sua intelligenza, la sua docilità, il suo entusiasmo nel lavoro erano incomparabili. Era bravo, buono, servizievole, con un carattere particolarmente dolce e allegro. Nessun lavoro lo stancava, nessuna difficoltà sembrava togliergli il suo coraggio. A volte c'era da dirsi che non c'era vertice sociale a cui un francese, che avesse le qualità di Matakit, non avrebbe potuto aspirare. E il caso aveva voluto che questi doni fossero venuti a insediarsi sotto la pelle nera e la testa lanosa d'un semplice cafro! Tuttavia Matakit aveva un difetto - un difetto molto grave - che risaliva, evidentemente, alla sua prima educazione e alle abitudini troppo spartane che aveva prese nel suo kraal. Bisogna dirlo? Matakit era un po' ladro, ma quasi inconsciamente. Quando vedeva un oggetto, che gli serviva, trovava più che naturale appropriarsene.

Inutilmente il suo padrone, preoccupato da questa tendenza, gli faceva a questo proposito i rimproveri più severi. Invano aveva minacciato di spedirlo via se lo avesse ancora colto in fallo! Matakit prometteva di non farlo più, piangeva, gli chiedeva perdono e l'indomani, se l'occasione gli si presentava, ricominciava come prima. I suoi furtarelli erano solitamente di poca importanza. Quello che maggiormente attirava la sua cupidigia erano oggetti di scarso valore: come un coltello, una cravatta, una portamatite, o simili altre stupidaggini. Ma non per questo Cyprien era meno rattristato di notare un simile difetto in un carattere così simpatico. «Aspettiamo!… speriamo!» si diceva. «Forse un giorno riuscirò a fargli capire quanto è male rubare così!» E Cyprien, mentre lo guardava dormire ripensava a questi strani contrasti di Matakit che gli derivavano dalla vita trascorsa tra i selvaggi della sua tribù. Al cader della notte il giovane cafro si risvegliò così fresco e riposato che nessuno avrebbe potuto dire che il suo corpo aveva cessato per due o tre ore ogni attività respiratoria. Ora egli poteva raccontare quel che gli era capitato. Il secchio che accidentalmente era proprio andato a coprire la sua faccia, e una lunga scala, formando una specie di arco di sostegno sopra di lui, lo avevano dapprima protetto dagli effetti meccanici della frana, e poi salvato per lungo tempo dalla asfissia totale conservandogli, in fondo a quella sua prigione, una piccola provvista d'aria. Egli si era reso conto di questa fortunata circostanza, e aveva fatto il possibile per sfruttarla il più a lungo possibile, cercando di respirare solo a lunghi intervalli. Ma, poco a poco, l'aria s'era viziata. Matakit aveva percepito che le sue facoltà lentamente si andavano oscurando. Infine egli era caduto in una specie di sonno pesante e pieno di sogni angosciosi dal quale non si riaveva, a tratti, che per tentare un supremo sforzo di respirazione. Poi tutto si era oscurato. Aveva perso conoscenza di quel che succedeva intorno a lui, era morto… poiché era proprio dal mondo dei morti che egli arrivava!

Cyprien lo lasciò raccontare, gli diede da bere e da mangiare, e lo costrinse, nonostante le sue proteste, a rimanere, per tutta la notte, nel letto sul quale lo avevano deposto. Finalmente, ben sicuro oramai che ogni pericolo era passato, lo lasciò da solo per andare a fare la solita visita a casa Watkins. Il giovane ingegnere aveva bisogno di raccontare ad Alice le vicende della giornata, il disgusto che ormai gli ispirava la miniera, disgusto che il deplorevole incidente di quel mattino non aveva fatto che accentuare ancor di più. Era disgustato dall'idea di rischiare la vita di Matakit per la probabilità, molto scarsa, di trovare qualche mediocre diamante. «Fare io questo mestiere, passi ancora!» pensava. «Ma farlo fare, per una miserabile paga, a questo povero cafro, che non mi deve niente, è semplicemente odioso!» Egli parlò dunque alla fanciulla dei suoi scrupoli e delle sue delusioni. Le parlò della lettera che aveva ricevuto da Pharamond Barthès. In effetti non avrebbe fatto meglio a seguire il consiglio dell'amico? Che cosa ci avrebbe rimesso a recarsi lungo le rive del Limpopo per provare a dedicarsi alla caccia? Sarebbe stato certo più nobile che non scavare la terra, come un avaro, o farla scavare per conto suo da qualche povero diavolo. — Che ne pensate, signorina Watkins — le chiese — voi che avete tanta intelligenza e senso pratico? Datemi un consiglio! Ne ho molto bisogno! Ho perso il mio senso dell'equilibrio! Ho bisogno di una mano amica per rimettermi in carreggiata! Così egli parlava, con tutta sincerità, provando un piacere di cui non si sapeva dar ragione, lui di solito tanto riservato, nel manifestare davanti a quella gentile e dolce confidente, la miseria della sua indecisione. Il colloquio proseguiva in francese da alcuni minuti e per questo semplice fatto aveva assunto un carattere di grande intimità, sebbene John Watkins, addormentatosi dopo un po' durante la sua terza pipata, non avesse mostrato di interessarsi a quello che dicevano i due giovani in inglese o in qualche altra lingua. Alice ascoltava Cyprien con profonda simpatia.

— Tutto quello che mi state dicendo — rispose lei — io lo pensavo già da molto tempo per voi, signor Méré! Non riesco neppure a capire come un ingegnere, uno scienziato, come voi, abbia potuto risolversi allegramente a condurre la vita del minatore! Non pensate che sia un delitto contro voi stesso e contro la scienza? Sprecare il vostro tempo prezioso, per un lavoro manuale, che un semplice cafro o un ottentotto sanno fare meglio di voi, è un vero peccato ve l'assicuro! Cyprien non aveva che una scusa per giustificare di fronte alla fanciulla il suo gesto che sembrava tanto meravigliarla e indignarla. E, chissà se forse lei non stava un po' esagerando il suo sdegno per strappargli una confessione!… Ma tale confessione egli aveva giurato di tenerla per sé e si sarebbe disprezzato se se la fosse lasciata sfuggire; così la sua bocca rimase chiusa. La signorina Watkins proseguì dicendo: — Se ci tenete tanto a trovare dei diamanti, signor Méré, perché non li cercate proprio là dove avreste veramente probabilità di trovarli, nel vostro crogiolo? Ma come! Siete chimico, sapete meglio di chiunque altro che cosa sono queste miserabili pietre, alle quali si dà tanto valore, e ricorrete a un lavoro ingrato e meccanico per procurarvele? Io ritorno alla mia idea: se fossi al vostro posto, cercherei piuttosto di fabbricare dei diamanti che non cercare di scoprirne di già fatti! Alice parlava con tale animazione, con una tale fiducia nella scienza e nello stesso Cyprien, che il cuore del giovane era come irrorato da un balsamo rinfrescante. Sfortunatamente proprio in quel momento John Watkins uscì dal suo torpore per domandar notizie intorno al Vandergaart-Kopje. Fu dunque necessario ritornare alla lingua inglese e abbandonare quella conversazione così piacevole. L'incanto era rotto. Ma il seme era stato gettato in un buon terreno e doveva germogliare. Il giovane ingegnere, ritornando a casa, ripensava alle parole vibranti eppur così sagge, che gli aveva dedicato la signorina Watkins! Quello che di utopico poteva esserci in esse, scompariva ai suoi occhi per non lasciar vedere di sé che il contenuto generoso, fiducioso e veramente affettuoso!

«E poi, dopo tutto, perché no?» pensava. «La fabbricazione del diamante, che, un secolo fa, poteva sembrare un'utopia, è oggi, in un certo senso, un fatto compiuto! Frémy e Peil a Parigi, hanno fabbricato dei rubini, degli smeraldi e degli zaffiri, e non sono che cristalli d'allumina diversamente colorati! Mac-Tear di Glasgow e J. Ballantine Hannay della stessa città, hanno ottenuto, nel 1880, dei cristalli di carbone, che avevano le stesse proprietà del diamante e il cui solo difetto era di costare troppo cari - molto più cari dei diamanti naturali del Brasile, dell'India o, del Griqualand, - e, di conseguenza di non rispondere alle esigenze del commercio! Ma quando la soluzione scientifica di un problema è stata trovata, l'applicazione industriale non può essere molto lontana! Perché non cercarla?… Gli scienziati, che finora hanno fallito, sono dei teorici, degli uomini da studio e da laboratorio! Essi non hanno studiato il diamante sul posto, nel suo terreno nativo, nella sua culla, per così dire! Io potrei beneficiare dei loro lavori, delle loro esperienze, e anche della mia. Io ho estratto dei diamanti con le mie stesse mani! Ho analizzato, studiato sotto tutti gli aspetti i terreni nei quali si trovano! Se c'è qualcuno che deve riuscire con un po' di fortuna a superare gli ultimi ostacoli, quello sono proprio io!… Tocca proprio a me!» Ecco quello che pensava Cyprien, e che gli ritornò alla mente durante buona parte della notte. La sua decisione fu presto presa. Il giorno dopo egli avvertì Thomas Steel che non intendeva più, - almeno provvisoriamente - né lavorare né far lavorare il suo claim. Si accordò anche con lui che se gli fosse capitata l'occasione di disfarsi del suo terreno, sarebbe stato libero di farlo; poi si chiuse nel suo laboratorio per immergersi nei suoi nuovi progetti.

CAPITOLO VIII LA GRANDE PROVA NEL CORSO delle sue brillanti ricerche intorno alla solubilità dei corpi solidi nei gas - ricerche che lo avevano impegnato per tutto l'anno precedente - Cyprien non aveva mancato di osservare che certe sostanze, la silice e l'allumina, per esempio, insolubili nell'acqua, sono disciolte dal vapore acqueo ad un'alta pressione e a una temperatura molto elevata. Da lì egli prese la risoluzione di esaminare dapprima se non gli fosse stato possibile arrivare ugualmente a trovare un fondente 9 gassoso del carbonio per ottenere in seguito una cristallizzazione. Ma tutti i suoi tentativi in questa direzione rimasero infruttuosi, e, dopo parecchie settimane di sforzi inutili, dovette decidersi a «cambiare le proprie batterie». Cambiare le batterie, era proprio l'espressione adatta poiché, come vedremo, nel suo progetto un cannone avrebbe dovuto sostenere un ruolo importante. Diverse analogie indussero il giovane ingegnere ad ammettere che il diamante potrebbe formarsi nei Kopje altrettanto bene quanto Io zolfo nelle solfatare. Ora, si sa che lo zolfo risulta da una semiossidazione dell'idrogeno solforato: dopo che una parte s'è cambiata in acido solforoso, il resto si deposita sotto forma di cristalli sulle pareti della solfatara. «Chissà» pensava Cyprien, «se i giacimenti di diamanti non sono delle vere e proprie carbonaie? Dal momento che un miscuglio di idrogeno e di carbone vi arriva necessariamente con le acque e coi 9

Sostanz a che si unisce ai minerali da fondere e ne facilita la fusione, combinandosi con la ganga del minerale o impedendo l'accesso dell'aria alla massa in fusione, in modo da abbassare la temperatura (punto) di fusione dell'insieme. (N.d.T.)

depositi alluvionali, sotto forma di metano, perché l'ossidazione dell'idrogeno unita all'ossidazione parziale del carbonio non dovrebbe produrre la cristallizzazione del carbonio in eccesso?» Da quest'idea al tentativo di far sostenere a un corpo qualunque la funzione teorica dell'ossigeno secondo una reazione analoga ma artificiale, il passo era breve per un chimico. E Cyprien si concentrò definitivamente sull'immediata realizzazione di questo programma. Innanzi tutto, si trattava di inventare un dispositivo sperimentale che si avvicinasse il più possibile alle supposte condizioni di produzione del diamante naturale. Inoltre questo dispositivo doveva essere molto semplice. Tutto ciò che di grande si fa nella natura come nell'arte, ha questa caratteristica. Che cosa c'è di meno complicato delle grandi leggi scoperte dall'umanità, - la gravitazione, la bussola, la stampa, la macchina a vapore, il telegrafo elettrico? Cyprien stesso scese nelle più profonde cavità della miniera, per approvvigionarsi di terra di una speciale qualità che egli riteneva particolarmente adatta al suo esperimento. Poi costruì con questa terra uno spesso mortaio di cui rivesti accuratamente l'interno con un tubo d'acciaio lungo mezzo metro, spesso cinque centimetri e di otto centimetri di calibro. Questo tubo non era altro che un segmento di cannone, fuori uso, che egli era riuscito a comperare a Kimberley da una compagnia di volontari, che era stata congedata, dopo una campagna contro le tribù cafre dei dintorni. Il suddetto cannone, debitamente segato nel laboratorio di Jacobus Vandergaart, costituiva proprio il mezzo che ci voleva, cioè un recipiente di una resistenza sufficiente per sopportare un'enorme pressione all'interno. Dopo aver sistemato in questo tubo, precedentemente chiuso a una delle due estremità, dei pezzi di rame e circa due litri d'acqua, Cyprien lo riempi di metano; poi lo stuccò con cura e fece bullonare alle due estremità degli otturatori metallici di una solidità a tutta prova. L'apparecchio così era pronto. Ora non c'era che da sottoporlo a un intenso calore.

Fu dunque collocato in un gran forno a riverbero, entro il quale il fuoco doveva venir alimentato giorno e notte, in modo da ottenere una camera di combustione incandescente che avrebbe dovuto durare per due settimane. Tubo e forno erano, inoltre, avvolti da uno spesso strato di terra refrattaria, destinata a conservare la maggiore quantità di calore possibile e a non raffreddarsi che molto lentamente, quando fosse giunto il momento. L'insieme assomigliava molto a un enorme alveare o a una capanna di esquimesi. Matakit era oramai in grado di rendere alcuni servizi al suo padrone. Aveva seguito con la massima attenzione tutti i preparativi dell'esperimento, e, quando seppe che si trattava di fabbricare del diamante, si mostrò ancora più desideroso di concorrere al successo dell'impresa. Imparò subito ad alimentare il fuoco, di modo che si poté affidare completamente a lui l'incarico di tenerlo sempre vivo. D'altronde non è facile immaginarsi quanto fossero lunghi e difficili da portare a termine questi preparativi, di per sé così semplici. A Parigi, in un grande laboratorio, l'esperimento avrebbe potuto essere realizzato due ore dopo averlo concepito, ma occorsero non meno di tre settimane a Cyprien, nel cuore di quel selvaggio paese, per realizzare imperfettamente il suo progetto. Eppure egli fu eccezionalmente favorito dalle circostanze, soprattutto per il fatto di aver trovato, non appena ne aveva espresso il desiderio, non solo il vecchio cannone, ma anche il carbone che gli era necessario. In effetti questo combustibile era così raro a Kimberley che, per averne una tonnellata, bisognava rivolgersi contemporaneamente a tre negozianti. Finalmente, tutte le difficoltà furono risolte, e, quando il fuoco fu acceso i per una prima volta, Matakit si occupò di non lasciarlo più spegnere. Il giovane cafro, bisogna dirlo, andava molto fiero delle sue funzioni! D'altronde queste non dovevano risultare poi tanto nuove per lui e senza dubbio egli, nella sua tribù, doveva aver già messo mano a qualche cucina più o meno infernale.

Effettivamente Cyprien aveva constatato più d'una volta da quando Matakit era entrato al suo servizio, che, fra tutti gli altri cafri, egli s'era fatto una vera e propria fama di stregone. Qualche segreto di chirurgia elementare, due o tre giochi di prestigio, che aveva imparato da suo padre, costituivano tutto il suo bagaglio di arte magica. Eppure venivano a consultarlo per malattie reali o immaginarie, per spiegare dei sogni, per delle questioni da regolare. Matakit, che non si lasciava mai cogliere alla sprovvista, aveva sempre qualche rimedio da indicare, qualche previsione da formulare e qualche sentenza da sfoggiare. Le sue ricette erano talvolta bizzarre, e le sentenze strambe, ma i suoi compatrioti ne erano soddisfatti. Che cosa voleva di più? Bisogna aggiungere che le storte e i flaconi, dà cui egli era ora circondato nel laboratorio del giovane ingegnere per non parlare delle misteriose operazioni alle quali egli collaborava, contribuivano molto ad aumentare il suo prestigio. Cyprien non poteva fare a meno di sorridere, a volte, dell'aria solenne che quel bravo ragazzo assumeva quando svolgeva le sue modeste mansioni di fuochista e preparatore rinnovando il carbone del forno, rimuovendo la brace, spolverando file e file di provette e di crogioli in questa sua gravità: era l'ingenua espressione del rispetto che la scienza ispirava a una natura rozza ma intelligente ed avida di sapere. Matakit aveva, del resto, i suoi momenti di monelleria e di allegria, specialmente quando era in compagnia di Li. Fra i due s'era stabilita una stretta amicizia sebbene fossero d'origine così diversa, durante le visite assai frequenti che il cinese faceva alla fattoria Watkins. Tutti e due parlavano abbastanza bene il francese, tutti e due erano stati salvati da Cyprien da una morte sicura e sentivano per lui una viva riconoscenza. Era dunque naturale che si sentissero attratti da una sincera simpatia, simpatia che si era mutata in affetto. Fra di loro Li e Matakit davano al giovane ingegnere un nome semplice e affettuoso, che ben esprimeva la natura del sentimento che li animava nei suoi riguardi. Lo chiamavano «piccolo padre» e non parlavano di lui che con parole di ammirazione e della più grande devozione.

Questa devozione si manifestava, da parte di Li, con una scrupolosa attenzione nel lavare e nello stirare la biancheria di Cyprien, da parte di Matakit con una precisione quasi religiosa con cui eseguiva puntualmente gli incarichi del suo padrone. Ma, talvolta i due amici si spingevano un po' troppo oltre nel loro ardore di soddisfare il «piccolo padre». Capitava, per esempio, che Cyprien trovasse sulla sua tavola — adesso mangiava a casa — frutta e dolci che non si era mai sognato di comandare e la cui origine era inspiegabile dal momento che non li vedeva comparire sui conti dei fornitori. Oppure le sue camicie, di ritorno dal bucato, portavano dei bottoni d'oro di provenienza sconosciuta. Poi ancora ogni tanto una elegante e comoda seggiola, un cuscino ricamato, una pelle di pantera, un ninnolo di valore venivano misteriosamente ad aggiungersi all'arredamento della casa. E quando Cyprien interrogava a questo proposito sia Li, sia Matakit, da loro non riusciva a ottenere che risposte evasive: — Non so!… Non sono io!… questo non mi riguarda! Cyprien avrebbe con piacere accettato questi regali; ma quello che li rendeva imbarazzanti era il timore che la loro origine forse non fosse troppo pulita. Quei regali non avrebbero potuto essere costati altro che lo sforzo di prenderli? Tuttavia, niente poteva confermare queste supposizioni, e le indagini, spesso molto minuziose svolte a proposito di questi strani ingressi non avevano dato alcun risultato. E, dietro di lui, Matakit e Li si scambiavano fuggevoli sorrisi, sguardi sornioni e segni cabalistici che volevano evidentemente dire: — Eh! il «piccolo padre»! Non ci capisce niente! D'altra parte, altre preoccupazioni molto più gravi, occupavano la mente di Cyprien. John Watkins sembrava deciso a trovare un marito per Alice, e, in questa intenzione, da qualche tempo, egli portava nella sua casa delle vere sfilate di pretendenti. Non solo James Hilton era ormai l'ospite fisso quasi di ogni sera, ma anche tutti i minatori celibi, ai quali i risultati positivi degli scavi sembravano apportare, agli occhi del fattore, tutte le qualità indispensabili per il genero che egli aveva sognato, venivano invitati da lui, trattenuti a pranzo, e, finalmente proposti alla scelta di sua figlia.

Il tedesco Friedel e il napoletano Pantalacci ne facevano parte. Entrambi ormai erano fra i minatori più fortunati del campo di Vandergaart. L'ammirazione, che sempre accompagna il successo, non faceva a loro difetto né al Kopje né alla fattoria. Friedel era più pedante e più saccente che mai, da quando la sua prosopopea era sostenuta da qualche migliaio di lire sterline. Per quanto riguarda Annibale Pantalacci, trasformatosi ormai in un dandy delle colonie rilucente di catene d'oro, di anelli, di spille di diamanti, egli portava abiti di tela bianca, che facevano apparire la sua carnagione ancora più gialla e più terrea. Ma con le sue battute spiritose, le sue canzonette napoletane e le sue pretese di fare dello spirito, questo ridicolo personaggio cercava invano di piacere ad Alice. Non che lei gli dimostrasse un particolare disprezzo o che paresse essersi accorta del motivo che lo conduceva alla fattoria; si limitava a non ascoltarlo punto volentieri e non rideva mai né dei suoi scherzi, né dei suoi atteggiamenti. Anche troppo ignara delle bassezze morali per sospettare l'ambiguo doppio senso del suo linguaggio, non vedeva in lui che un visitatore volgare e non meno noioso di tanti altri. Tutto ciò era ben chiaro per Cyprien ed egli avrebbe crudelmente sofferto se avesse visto impegnata in una regolare conversazione con questo essere spregevole colei che occupava un posto così elevato nel suo rispetto e nel suo affetto. E ne avrebbe tanto più sofferto, poiché il suo orgoglio gli avrebbe impedito di mostrare il suo dolore trovando troppo umiliante il tentativo di avvilire un così indegno rivale agli occhi della signorina Watkins. D'altronde, che diritto ne aveva? Su cosa avrebbe potuto basare le sue critiche? Non sapeva niente di Annibale Pantalacci, e il giudizio sfavorevole che gli ispirava non era dovuto che a una repulsione istintiva. Volerlo mostrare sotto una cattiva luce sarebbe stato semplicemente porgere il fianco al ridicolo. Ecco quanto Cyprien capiva benissimo ed egli avrebbe raggiunto la massima disperazione se Alice gli fosse parsa prestare una certa attenzione a un simile uomo! D'altronde, egli si era nuovamente immerso con entusiasmo in un lavoro, che lo assorbiva notte e giorno. Non era soltanto un processo

per la fabbricazione del diamante a stargli a cuore, ma dieci, ma venti esperimenti che aveva in preparazione e che aveva in animo di tentare non appena avesse portato a termine la prima prova. Egli non si contentava più dei dati teorici e delle formule di cui riempiva, per ore e ore, i suoi quaderni di appunti. Ogni momento correva fino al Kopje, ne riportava dei nuovi campioni di rocce e di terra, ricominciava delle analisi già eseguite centinaia di volte, ma con un rigore e una precisione che non lasciavano spazio al minimo errore. Più il pericolo di perdere la signorina Watkins gli sembrava incombente più era risoluto a non lasciare nulla di intentato per vincerlo. Tuttavia, era tale la sfiducia che in fondo nutriva verso se stesso, che egli non aveva voluto dire niente alla fanciulla a proposito dell'esperimento che era in corso di esecuzione. La signorina Watkins sapeva soltanto che, seguendo il suo consiglio, egli si era nuovamente dedicato alla chimica e lei ne era felice.

CAPITOLO IX CHE SORPRESA! IL GIORNO in cui sembrò che l'esperimento dovesse finalmente esser giunto a compimento fu un gran giorno. Già da due settimane il fuoco non era più attivato, - cosa che aveva permesso all'apparecchio di raffreddarsi gradatamente. Cyprien pensando che la cristallizzazione del carbone avrebbe dovuto essere ormai avvenuta, se pure aveva potuto operarsi in queste condizioni, decise di togliere lo. strato di terra che faceva da calotta sopra il forno. Bisognò spezzare questa calotta a grandi colpi di piccone perché s'era indurita come un mattone nel forno del loro fabbricante. Ma alla fine cedette agli sforzi di Matakit e liberò alla vista dapprima la parte superiore del forno, - quello che si chiama capitello, - poi il forno tutto intero. Il cuore del giovane ingegnere batteva a centoventi pulsazioni al minuto, nel momento in cui il giovane cafro, aiutato da Li e da Bardik, estrasse questo capitello. Egli non sperava assolutamente che l'esperimento fosse riuscito perché faceva parte di quelle persone che dubitano sempre di se stesse! Ma in fondo era anche possibile dopo tutto! E quale gioia se fosse stato così! Tutte le sue speranze di felicità, di gloria, di fortuna stavano in quel grosso cilindro nero, che ricompariva ai suoi occhi dopo tante settimane d'attesa. Sciagura!… Il cannone era scoppiato! Sì! Sotto la formidabile pressione del vapore acqueo e del gas di metano, portati a una temperatura elevatissima, lo stesso acciaio non aveva potuto resistere. Il tubo, sebbene misurasse cinque centimetri di spessore, s'era spaccato come una semplice provetta. Presentava, su uno dei lati, quasi nel mezzo, una fessura spalancata come una

larga bocca, annerita, contorta per le fiamme e che sembrava malignamente sghignazzare sul naso dello scienziato sconcertato. Era proprio sfortunato! Tante fatiche per arrivare a questo risultato negativo! In verità, Cyprien si sarebbe sentito meno umiliato se, avendo preso migliori precauzioni, il suo apparecchio avesse potuto sopportare la prova del fuoco! Che il cilindro non contenesse del carbone cristallizzato, certamente… egli era dieci volte preparato a questa sconfitta! Ma, aver prima scaldato poi raffreddato, aver, diciamolo pure, coccolato per un intero mese quel vecchio rullo d'acciaio, buono ormai per essere gettato fra i rifiuti, era proprio il colmo della sfortuna! Lo avrebbe volentieri spedito in fondo alla collina, con una pedata se il tubo non fosse stato troppo duro e pesante per lasciarsi trattare con tale disinvoltura. Cyprien stava dunque per ributtarlo nel forno e si preparava a uscire, desolato per andare ad annunciare ad Alice questo pessimo risultato, quando la curiosità scientifica, che in lui sopravviveva ancora, lo spinse ad avvicinare un fiammifero allo sbocco del tubo, per esaminarne l'interno. «Senz'altro» pensava «la terra di cui l'ho rivestito internamente, si è trasformata in mattone come il rivestimento esterno del forno.» La supposizione era fondata. Tuttavia, secondo uno strano fenomeno che Cyprien all'inizio non seppe spiegarsi, una specie di palla d'argilla sembrava essersi staccata da questo rivestimento di terra, dopo essersi indurita separatamente nel tubo. Questa palla, d'un rosso nerastro, grossa press'a poco come un'arancia, poteva facilmente passare per la fessura. Cyprien la estrasse e la prese con noncuranza, per esaminarla. Poi, accorgendosi che si trattava proprio d'un pezzo d'argilla, staccato dalla parete, che era stato cotto isolatamente, stava buttandolo via, quando s'accorse che mandava un suono vuoto, come un oggetto di terracotta. Era come una piccola brocca chiusa nella quale ballava una specie di pesante sonaglio. «Un salvadanaio» si disse Cyprien. Ma se avesse dovuto, sotto pena di morte, spiegare questo mistero, egli ne sarebbe stato incapace.

Tuttavia volle mettersi il cuore in pace. Prese un martello e spaccò il salvadanaio. Era proprio tale, in effetti, e conteneva un tesoro inestimabile. No! Non ci si poteva sbagliare sulla natura del grosso sasso, che apparve agli occhi sbalorditi del giovane ingegnere! Quella pietra era un diamante racchiuso in una ganga del tutto simile a quella dei diamanti soliti, ma si trattava di un diamante di dimensioni colossali, inverosimili, senza precedenti! Figurarsi! Quel diamante era più grosso di un uovo di gallina, dall'aspetto molto simile a una patata, e doveva pesare almeno trecento grammi. — Un diamante!… Un diamante artificiale! — ripeteva a mezza voce Cyprien stupefatto. — Ho dunque trovato la soluzione del problema di questa fabbricazione, a dispetto dell'incidente capitato al tubo!… Sono dunque ricco!… Alice, la mia cara Alice, è mia! Poi, ripensandoci, come se non credesse a quel che vedeva: — Ma è impossibile!… È un'illusione, un miraggio!… — ripeteva, divorato dal dubbio. — Ah! Saprò ben presto di che cosa si tratta. E, senza nemmeno avere il tempo di calzarsi il cappello, sconvolto, pazzo di gioia, come Archimede quando uscì dal bagno nel quale era immerso avendo scoperto il suo famoso principio, 10 ecco Cyprien scendere d'un salto il sentiero della fattoria e piombare come un bolide nella casa di Jacobus Vandergaart. Trovò il vecchio lapidario intento a esaminare delle pietre che Nathan venditore di diamanti gli aveva portato da tagliare. — Ah! signor Nathan, capitate a proposito! — esclamò Cyprien. — Guardate!… e anche voi, signor Vandergaart, guardate che cosa vi porto, e ditemi che cosa è!

10

Il principio, appunto, di Archimede il quale stabilisce che ogni corpo, immerso in un fluido, subisce una spinta verticale dal basso in alto uguale al peso del fluido spostato dal corpo e applicata a quello che sarebbe il centro di gravità della parte fluida spostata. Secondo la tradizione Archimede avrebbe scoperto questo fondamentale principio mentre era nel bagno da cui sarebbe uscito gridando eureka (greco, «ho trovato»).

E depose il suo sasso sul tavolo, dopodiché si arrestò incrociando le braccia. Nathan, per il primo, prese il sasso, sbiancò in volto per la sorpresa, e, con gli occhi sgranati, con la bocca spalancata, lo passò a Jacobus Vandergaart. Costui, dopo aver portato l'oggetto all'altezza degli occhi, sotto la luce della finestra, lo esaminò a sua volta attraverso i suoi occhiali. Poi lo rimise sul tavolo, e guardando Cyprien: — Questo è il più grosso diamante che ci sia al mondo, — disse tranquillamente. — Sì!… il più grosso! — ripete Nathan. — È quattro o cinque volte il Koh-i-noor, la «Montagna di luce», l'orgoglio del Tesoro reale d'Inghilterra, che pesa centosettantanove carati! — È due o tre volte il Gran Mogol, la più grossa pietra conosciuta che pesa duecentottanta carati! — riprese il vecchio lapidario. — È quattro o cinque volte il Diamante dello zar, che pesa centonovantatré carati! — ribatté Nathan, via via sempre più stupefatto. — È sette o otto volte il Reggente che pesa centotrentasei carati! — riprese Jacobus Vandergaart. — Venti o trenta volte il Diamante di Dresda, che non ne pesa che trentuno! — esclamò Nathan. E aggiunse: — Penso che, dopo il taglio, questo diamante peserà ancora almeno quattrocento carati! Ma non sarà neppur possibile lanciarsi nella valutazione di una simile pietra! Sfugge a ogni calcolo! — Perché no? — rispose Jacobus Vandergaart che era rimasto il più calmo dei due. — Il Koh-i-noor è valutato trenta milioni di franchi, il Gran Mogol dodici milioni, il Diamante dello zar otto milioni, il Reggente sei milioni!… Ebbene, questo, a dir poco, deve valere cento milioni! — Eh! tutto dipende dal suo colore e dalla sua qualità! — replicò Nathan, che cominciava a riaversi dallo sbalordimento e che riteneva forse utile fare qualche riserva per l'avvenire in vista di un possibile contratto. — Se è incolore e di prima acqua, il suo valore sarà inestimabile! Ma se è giallo, come la maggior parte dei nostri

diamanti del Griqualand, questo valore sarà molto meno elevato!… Pertanto non so se non preferirei per una pietra di simili dimensioni una bella tinta blu dello zaffiro, come quella del Diamante di Hope, o rosa, come quella del Gran Mogol, o anche verde smeraldo, come quella del Diamante di Dresda. — Ma no!… ma no! — disse il vecchio lapidario con ardore. — Io sono per i diamanti incolori! Parlatemi del Koh-i-noor, o del Reggente! Ecco delle vere gemme!… Di fronte a loro le altre non sono che pietre di fantasia! Cyprien non ascoltava già più! — Signori, scusatemi, — disse precipitosamente — ma sono costretto a lasciarvi subito! E, ripreso il suo sasso prezioso, risalì, sempre correndo, il sentiero della fattoria. Senza nemmeno curarsi di bussare, aprì la porta del salotto, si trovò alla presenza di Alice, e, prima di aver fatto in tempo a rendersi conto dell'impetuosità del suo comportamento, egli l'aveva presa fra le braccia e baciata sulle guance. — Ebbene! Che cos'è questo? — esclamò il signor Watkins, scandalizzato da queste impreviste manifestazioni. Egli era seduto a tavola, di fronte ad Annibale Pantalacci, e stava cominciando con quel cattivo elemento una partita a picchetto. —Signorina Watkins, scusatemi — balbettò Cyprien sorpreso della propria audacia, ma raggiante di gioia! — Sono troppo felice!… Sono pazzo di felicità!… Guardate!… Ecco cosa vi porto! E gettò, più che deporre, il suo diamante sulla tavola fra i due giocatori. Così come Nathan e Jacobus Vandergaart, anche costoro capirono subito di che cosa si trattasse. Il signor Watkins, che non si era ancora abbandonato se non molto moderatamente alla sua quotidiana razione di gin, era in uno stato di sufficiente lucidità. — Voi avete trovato questo… proprio voi… nel vostro claim? — esclamò vivacemente. — Trovato questo? — rispose Cyprien trionfante. — Ho fatto di meglio!… L'ho fabbricato io stesso tutto quanto!… Ah! signor Watkins, la chimica serve a qualcosa, dopo tutto!

E rideva e serrava fra le sue mani le dita sottili di Alice che, tutta sorpresa di quelle appassionate dimostrazioni, ma entusiasta per la felicità del suo amico, sorrideva con dolcezza. — È proprio a voi che devo questa scoperta, signorina Alice! — riprese Cyprien. — Chi mi ha consigliato di dedicarmi nuovamente alla chimica? Chi ha preteso che io ricercassi il modo di fabbricare il diamante artificiale, se non la vostra graziosa, la vostra adorabile figliola, signor Watkins?… Oh! io devo renderle omaggio, come gli antichi prodi cavalieri alla loro dama e proclamare che a lei soltanto va tutto il merito dell'invenzione!… Io non vi avrei mai pensato senza di lei! Il signor Watkins e Annibale Pantalacci guardarono il diamante, poi si guardarono l'un l'altro scuotendo il capo. Erano letteralmente sprofondati nello sbalordimento più completo. . — Voi dite di aver fabbricato questa… voi stesso?… — riprese John Watkins. — È dunque una pietra falsa? — Una pietra falsa?… — disse Cyprien. — Ebbene, sì!… una pietra falsa!… Ma Jacobus Vandergaart e Nathan la stimano, a dir poco, cinquanta milioni e forse cento! Se è vero che non è che un diamante artificiale, ottenuto con un procedimento di cui io sono l'inventore, non per questo è meno autentico!… Vedete anche voi che non vi manca nulla, nemmeno la sua ganga! — E voi vi incaricate di fabbricare altri diamanti simili? — domandò John Watkins con insistenza. — Se me ne incarico, signor Watkins? Ma certo che sì! Ve ne farò una montagna di diamanti!… Ve ne farò dieci volte, cento volte più grossi di questo, se voi lo desiderate!… Ve ne farò talmente tanti da poter ricoprire tutta la vostra terrazza e selciare le strade del Griqualand se il cuore ve lo comanda… È solo il primo che costa fatica e, una volta ottenuta la prima pietra, tutto il resto non è che un dettaglio, una semplice questione di problemi tecnici da sistemare. — Ma se le cose stanno così — riprese il fattore divenuto pallido — sarà la rovina per i proprietari delle miniere, anche per me, per tutto il paese del Griqualand! — Evidentemente! — esclamò Cyprien. — Che interesse volete ancora che ci sia a scavare la terra per cercarvi dei piccoli diamanti

quasi senza valore quando - il fabbricarne industrialmente di tutte le dimensioni sarà altrettanto facile che fabbricare dei pani di quattro libbre! — Ma, è mostruoso!… — replicò John Watkins. — È un'infamia!… È un abominio!… Se quel che dite è fondato, se realmente voi possedete questo segreto… S'arrestò, venendogli a mancare il respiro. — Vedete bene, — disse freddamente Cyprien, — che io non parlo a vanvera dal momento che vi ho portato il mio primo risultato!… E io penso che sia di dimensioni tali da convincervi! — Ebbene! — riprese infine il signor Watkins, che aveva ripreso fiato — se ciò è vero… vi si dovrebbe fucilare sull'istante, nella grande strada del campo, signor Méré!… Ecco la mia opinione! — Ed è anche la mia! — credette di dover aggiungere Annibale Pantalacci con un gesto minaccioso. La signorina Watkins s'era alzata, pallidissima. — Fucilarmi perché ho risolto un problema di chimica, in ballo da ben cinquant'anni? — rispose il giovane ingegnere scrollando le spalle. — Francamente sarebbe un po' eccessivo! — Non c'è niente da ridere, signore — replicò il fattore infuriato.— Voi avete pensato alle conseguenze di quella che voi chiamate la vostra scoperta… al lavoro delle miniere sospeso… al Griqualand privato della sua industria più gloriosa… A me che vi parlo, ridotto in miseria? — In fede mia, vi confesso che non ho punto pensato a tutto questo! — rispose molto francamente Cyprien. — Ma quelle sono le inevitabili conseguenze del progresso industriale, e la scienza pura non può occuparsene!… E poi per voi personalmente, signor Watkins, non preoccupatevi. Quel che è mio è anche vostro e voi sapete benissimo per quale motivo io ho diretto le mie ricerche in questa direzione! John Watkins vide, improvvisamente, il vantaggio che poteva trarre dalla scoperta del giovane ingegnere, e, ad onta di quello che avrebbe potuto pensare il napoletano, non esitò a fare come si suol dire un voltafaccia.

— Dopo tutto, — riprese, — può essere che voi abbiate ragione, e parlate da quel bravo ragazzo che siete, signor Méré! Sì!… pensandoci bene ritengo che troveremo il modo d'intenderci! Perché dovreste fabbricare una quantità eccessiva di diamanti? Sarebbe la via più sicura per togliere valore alla vostra scoperta! Non sarebbe più avveduto custodire il segreto con precauzione, usarlo con moderazione, fabbricare soltanto, ad esempio, una o due pietre simili a questa oppure limitarvi a questo primo successo, dal momento che vi procura tutto d'un colpo una somma ragguardevole che fa di voi l'uomo più ricco del paese?… In questo modo, tutti saranno contenti, le cose seguiteranno così come erano nel passato e voi non sarete venuto a turbare dei rispettabili interessi! Era quello un nuovo aspetto della questione, al quale Cyprien non aveva ancora pensato. Ma il dilemma si presentò subito davanti a lui in tutto il suo inesorabile rigore: o conservare per sé il segreto della sua scoperta, lasciare che il mondo lo ignorasse e abusarne per arricchirsi, oppure, come giustamente aveva detto John Watkins, svilire di colpo tutti i diamanti naturali e artificiali e, di conseguenza, rinunciare alla fortuna, per arrivare… a che cosa?… a rovinare tutti i minatori del Griqualand, del Brasile e dell'India! Di fronte a questa alternativa, Cyprien esitò forse un po' ma non fu che un momento. Eppure, si rendeva conto che scegliere la via della sincerità, dell'onore, della fedeltà alla scienza, significava rinunciare per sempre a quella stessa speranza che era stata la molla principale della sua scoperta! Il dolore che provava era altrettanto amaro e pungente quanto inatteso, poiché era nuovamente costretto a precipitare dall'alto del suo bel sogno! — Signor Watkins, — disse molto gravemente — se io tenessi per me il segreto della mia scoperta, io sarei, né più né meno, un falsario! Venderei a peso falso e ingannerei il pubblico sulla qualità del prodotto. I risultati ottenuti da uno scienziato non appartengono in esclusiva a lui! Fanno parte del patrimonio di tutti. Tenerne per sé anche la più piccola parte secondo un interesse egoistico e personale, sarebbe l'atto più vile che un uomo possa commettere! Io non lo farò mai!… No! Non aspetterò una settimana e nemmeno un giorno per

rendere di pubblico dominio la formula che il caso, aiutato da un po' di riflessione, mi ha posto fra le mani! La mia sola riserva sarà, com'è giusto e doveroso, quella di offrire questa formula, prima alla mia patria, alla Francia, che mi ha messo in condizione di servirla!… Domani in-vierò all'Accademia delle Scienze il segreto del mio procedimento! Addio, signore, devo a voi di aver capito nettamente un dovere al quale non avevo pensato!… Signorina Watkins, avevo fatto un bel sogno!… Ma purtroppo devo rinunciarci! Prima ancora che la fanciulla avesse potuto fare un gesto verso di lui, Cyprien aveva ripreso il suo diamante poi, salutando la signorina Watkins e suo padre, uscì.

CAPITOLO X NEL QUALE JOHN WATKINS MEDITA LUNGAMENTE LASCIANDO la fattoria, Cyprien, col cuore infranto, ma risoluto a fare quello che considerava un suo dovere professionale, si recò nuovamente da Jacobus Vandergaart. Lo trovò solo. Il venditore Nathan aveva avuto fretta di lasciarlo per essere il primo a diffondere nel campo una voce che interessava così direttamente i minatori. Questa notizia fu causa di grande rumore, sebbene si ignorasse ancora che l'enorme diamante del «signore», come veniva chiamato Cyprien, era un diamante artificiale. Ma il «signore» stava proprio a badare alle ciarle del Kopje! Egli aveva fretta di verificare, col vecchio Vandergaart, la qualità e il colore di questa pietra, prima di redigere un rapporto sull'argomento: ecco perché era tornato da lui. — Mio caro Jacobus, — disse mettendosi a sedere accanto a lui, — siate così gentile da tagliarmi una faccetta su questa protuberanza cosicché possiamo vedere un po' che cosa si nasconde sotto la ganga. — Niente di più facile, — disse il vecchio lapidario, prendendo la pietra dalle mani del suo giovine amico. — In fede mia, voi avete scelto molto bene il punto! — aggiunse, constatando la presenza di un leggero rigonfiamento su uno dei lati della gemma la quale, a parte quel difetto, era di un ovale quasi perfetto. — Non rischiamo certo, tagliando da questo lato, di compromettere il futuro! Senza più tardare, Jacobus Vandergaart si mise all'opera e, dopo aver scelto nella sua ciotola di legno una pietra grezza di quattro o cinque carati, che fissò saldamente sulla cima di un apposito manico si mise a strofinare l'una contro l'altra le due superfici esterne. — Si farebbe più presto sfaldandola — disse; — ma, chi oserebbe provarsi a dare un colpo di martello su una pietra di questo valore! Questo lavoro, lungo e monotono, non durò meno di due ore. Quando la faccetta fu abbastanza larga da permettere di giudicare

quale fosse la natura della pietra, la si dovette polire con la mola, ed anche questo occupò molto tempo. Tuttavia era ancora giorno quando tutti questi lavori preliminari furono conclusi. Cyprien e Jacobus Vandergaart cedendo, finalmente, alla loro curiosità, si avvicinarono per verificare il risultato dell'operazione. Una bella faccetta color del giaietto, ma di una limpidezza e di uno splendore incomparabile s'offrì ai loro sguardi. Il diamante era nero! Caso quasi unico, e comunque davvero eccezionale, che aumentava ancora, se pure era possibile, il suo valore. Le mani di Jacobus Vandergaart tremavano per l'emozione facendolo sfavillare ai raggi del sole morente. — È la gemma più straordinaria e più bella che abbia mai riflessi i raggi del giorno! — disse con un rispetto quasi religioso. — Che cosa sarà dunque, quando potrà rifrangerli, dopo essere stata tagliata su tutte le faccette! — Ve la sentireste di incaricarvi voi di questo lavoro? — chiese ansioso Cyprien. — Sì, certamente, mio caro figliolo! Sarebbe l'onore e il coronamento della mia lunga carriera!… Ma non fareste meglio a scegliere una mano più giovane e più ferma della mia? — No! — rispose affettuosamente Cyprien. — Nessuno, ne sono certo, si dedicherebbe, a questo lavoro con più attenzione e con maggiore abilità di voi! Tenete questo diamante, mio caro Jacobus, e tagliatelo come più vi piace. Ne farete un capolavoro. È affare fatto. Il vecchio girava e rigirava la pietra fra le dita, e sembrava esitare ad esprimere il suo pensiero. — C'è una cosa che mi preoccupa — finì col dire. — Il fatto è che non mi piace molto l'idea di tenere presso di me un gioiello di simile valore! Sono cinquanta milioni di franchi, a dir poco, e forse anche di più quelli che sto tenendo nel palmo della mano! Non è prudente prendersi una simile responsabilità! — Nessuno saprà niente se voi non lo dite, signor Vandergaart e, da parte mia, vi garantisco di mantenere il segreto.

— Hum! se ne avrà sospetto! Voi potreste esser stato seguito quando siete venuto qui!… Si faranno delle supposizioni su quello che non si potrà sapere per certo!… Il paese è abitato da tanta gente strana!… No!… Io non dormirei tranquillo! — Forse avete ragione! — rispose Cyprien, comprendendo le esitazioni del vecchio. — Ma che fare, allora? — È quello a cui sto pensando! — rispose Jacobus Vandergaart, che restò silenzioso per qualche minuto. Poi riprendendo: — Ascoltate, mio caro figliolo, — disse. — Quello che sto per proporvi è delicato e ha bisogno, da parte vostra, di una assoluta fiducia nella mia persona! Ma voi mi conoscete abbastanza per non trovare strano che io voglia prendere tante precauzioni!… Bisogna che io parta anche subito coi miei attrezzi e con questa pietra, per andarmi a rifugiare in qualche angolo dove non sarò conosciuto, a Bloemfontein o a Città del Capo, per esempio. Là prenderò una modesta cameretta, mi ci chiuderò per lavorare nel maggior segreto, e non ritornerò che dopo aver finito il mio lavoro. Forse così riuscirei a seminare i malfattori!… Ma, lo ripeto, quasi mi vergogno a suggerire un piano simile… — Ch'io trovo molto saggio — disse Cyprien — e io non esiterò a invitarvi a realizzarlo. — Tenete presente che sarà un lavoro lungo, che mi occorrerà almeno un mese e che potrebbero capitarmi, nel frattempo, molti accidenti! — Non importa, signor Vandergaart, se voi pensate che questa sia la miglior cosa da fare! E, dopotutto, se anche il diamante andasse perduto, non sarebbe poi un gran male! Jacobus Vandergaart guardò il suo giovane amico con spavento. «È possibile che un simile colpo di fortuna gli abbia fatto perdere la ragione?» si domandò. Cyprien intuì quel pensiero e sorrise. Gli spiegò allora donde proveniva il diamante e come avrebbe ormai potuto fabbricarne quanti ne voleva. Ma vuoi che il vecchio lapidario facesse poco affidamento su questo racconto, vuoi che egli avesse un motivo personale per non voler restare solo in quella casa isolata, a stretto

contatto con un diamante da cinquanta milioni, egli insistette -per partire all'istante. Ed ecco perché, dopo aver radunato in un vecchio sacco di cuoio, i suoi attrezzi e i suoi vecchi panni, Jacobus Vandergaart attaccò alla sua porta una tavoletta sulla quale scrisse: «Assente per lavoro», si cacciò la chiave in tasca, mise il diamante nel taschino del gilet e partì. Cyprien lo accompagnò per due o tre miglia sulla strada per Bloemfontein e non lo lasciò che dopo le sue ripetute insistenze. Era notte avanzata quando il giovane ingegnere rientrò in casa pensando forse più alla signorina Watkins che alla sua famosa scoperta. Tuttavia, senza nemmeno perdere un po' di tempo per fare onore al pranzo preparatogli da Matakit, egli sedette al tavolo di lavoro e si mise a stendere la relazione che intendeva inviare col primo corriere al segretario perpetuo dell'Accademia delle Scienze. Era una descrizione minuziosa e completa del suo esperimento, seguita da una ipotesi ingegnosa intorno alla reazione che avrebbe dovuto dare luogo a quel magnifico cristallo di carbonio. «La caratteristica più notevole di questo prodotto» diceva ira l'altro «è la sua assoluta identità col diamante naturale, e soprattutto la presenza di una ganga esterna.» Di fatto Cyprien non esitò ad attribuire questo singolare risultato allo scrupolo che si era fatto di rivestire il suo recipiente con uno strato di terra, scelta con cura nel Vandergaart-Kopje. Il modo con cui una parte di quella terra s'era staccata dalla parete per formare attorno al cristallo un vero e proprio guscio, non era molto facile da spiegare, e si trattava di un punto che gli esperimenti successivi avrebbero senz'altro chiarito. Si sarebbe potuto supporre che là si fosse verificato un fenomeno d'affinità chimica assolutamente nuovo, e l'autore si proponeva di farne oggetto d'uno studio approfondito. Egli non aveva la pretesa di dare, al primo colpo, la teoria completa e definitiva della sua scoperta. Quello che voleva era anzitutto di comunicarla senza ritardo al mondo scientifico, dare la priorità della scoperta alla Francia, mettere infine in discussione e in luce fatti ancora ignoti e oscuri anche per lui.

Iniziato questo resoconto, aggiornata così la sua contabilità scientifica, in attesa di poterla completare con nuove osservazioni, prima di indirizzarla a chi di dovere, il giovane ingegnere mangiò qualcosa e poi se ne andò a dormire. La mattina seguente Cyprien uscì di casa e se ne andò a passeggiare immerso nei suoi pensieri fra i diversi campi della miniera. Strane occhiate tutt'altro che simpatiche accompagnavano il suo passaggio. Se egli non se ne accorgeva era per il fatto che neppure si ricordava di tutte le conseguenze della sua grande scoperta, così brutalmente sottolineate il giorno prima da John Watkins, cioè la completa rovina, in un tempo più o meno lungo, dei minatori e delle miniere del Griqualand. Tutto ciò naturalmente era sufficiente per mettere in agitazione tutto un paese mezzo selvaggio, dove non si esita a farsi giustizia con le proprie mani, dove la sicurezza del lavoro, e quindi del commercio che ne deriva, è la legge suprema. Qualora la fabbricazione dei diamanti divenisse un'industria pratica, tutti i milioni sepolti nelle miniere del Brasile e in quelle dell'Africa australe, per non parlare delle migliaia di vite già sacrificate, andrebbero irrimediabilmente perduti. Senza dubbio il giovane ingegnere avrebbe potuto nascondere il segreto della sua scoperta, ma a questo proposito la sua decisione era stata esplicitamente dichiarata: egli era deciso a non farlo. D'altra parte, durante la notte, - una notte di torpore, durante la quale John Watkins non sognò che diamanti stranissimi, del valore di parecchi miliardi, - il padre di Alice aveva potuto meditare e riflettere di tutto ciò. Che Annibale Pantalacci e altri minatori vedessero con ansia e rabbia la rivoluzione che la scoperta di Cyprien avrebbe portato nell'esplorazione dei terreni diamantiferi, era più che naturale poiché loro li esploravano per proprio conto. Ma per lui, semplicemente proprietario della fattoria Watkins, la situazione non era la stessa. Certamente se i claim fossero stati abbandonati in seguito alla svalutazione delle gemme, se tutta quella popolazione di minatori avesse finito coll'abbandonare i campi del Griqualand il valore della sua fattoria si sarebbe ridotto considerevolmente, i suoi prodotti non avrebbero più avuto uno smercio facile, le sue case e le sue capanne non sarebbero più state affittate, senza più locatari e

forse un giorno anche lui sarebbe stato obbligato ad abbandonare un paese divenuto improduttivo. «Bene!» si diceva John Watkins, «prima di arrivare a questo, passeranno ancora molti anni! La fabbricazione dei diamanti artificiali non è ancora arrivata a uno stadio pratico, anche coi procedimenti del signor Méré! Forse ha avuto buona parte anche il caso in questa storia. Intanto però, caso o non caso, cionondimeno egli ha fabbricata una pietra di enorme valore e se, in qualità di diamante naturale, varrebbe una cinquantina di milioni, essa ne varrà anche di più, sebbene sia stata prodotta artificialmente! Sì! Bisogna trattenere questo giovanotto a tutti i costi! Bisogna, almeno per qualche tempo, impedirgli di gridare ai quattro venti la sua enorme scoperta! Bisogna che questa pietra entri definitivamente nella famiglia Watkins e non ne esca più se non per un considerevole numero di milioni! Quanto a trattenere colui che l'ha fabbricata, è cosa fin troppo facile, anche senza impegnarsi in maniera definitiva! Alice c'è, e con Alice, saprò ben ritardare la sua partenza per l'Europa!… Sì!… Dovessi anche promettergliela in matrimonio!… dovessi anche dargliela!…» Si può esser sicuri che John Watkins, accecato da una divorante cupidigia, sarebbe arrivato fino a quel punto! In tutta questa faccenda, egli non vedeva che se stesso, non pensava che a sé! E dopo, se il vecchio egoista pensò a sua figlia, fu solo per dirsi: «Ma dopo tutto Alice non avrà da dolersi! Questo mezzo pazzo giovane scienziato è un bell'uomo! Egli l'ama e penso che lei non sia rimasta insensibile al suo amore! E allora, che cosa c'è di più bello che unire due cuori fatti l'uno per l'altro… o almeno far loro sperare questa unione, fino al momento in cui questo affare sarà ben chiarito!… Ah! per San Giovanni, mio patrono, al diavolo Annibale Pantalacci e i suoi soci, e che ciascuno pensi per sé, anche nelle terre del Griqualand!». Così ragionava John Watkins, manovrando una bilancia ideale sulla quale aveva appena contrapposto all'avvenire di sua figlia un semplice pezzo di carbone cristallizzato, ed era tutto felice di pensare che i piatti erano alla stessa altezza conservando una linea orizzontale.

E così, l'indomani la sua decisione era presa: egli non avrebbe precipitato le cose, avrebbe lasciato che si sviluppassero da sole dal momento che nutriva seri dubbi sulla strada che avrebbero preso. Innanzitutto, voleva rivedere il suo locatario, — cosa facile dal momento che il giovane ingegnere veniva tutti i giorni alla fattoria, ma così pure voleva rivedere quel famoso diamante, che aveva preso, nei suoi sogni, dimensioni favolose. Il signor Watkins si recò dunque a casa di Cyprien il quale, essendo mattina presto, vi si trovava ancora. — Ebbene, mio giovane amico,- — gli disse con tono allegro, — come avete passato questa notte… questa prima notte successiva alla vostra grande scoperta? — Bene, signor Watkins, molto bene! — rispose freddamente il giovane. — Cosa? avete potuto dormire? — Come al solito! — Tutti questi milioni, usciti da questo forno, — riprese il signor Watkins, — non hanno turbato il vostro sonno? — Assolutamente no, — rispose Cyprien. — Cercate dunque di mettervi bene in testa questo, signor Watkins, che questo diamante non varrebbe milioni se non a condizione che si tratti di un'opera della natura e non di quella di un chimico… — Sì… si!… signor Cyprien! Ma siete certo di poterne fare un altro… o degli altri?… Potreste impegnarvi? Cyprien esitò, ben sapendo quanti imprevisti potevano capitare in esperimenti di questo genere. — Lo vedete, — riprese John Watkins. — Non vi impegnereste!… Dunque, fino a un nuovo esperimento e successo, il vostro diamante conserverà un enorme valore!… Allora, perché dire, almeno adesso, che è una pietra artificiale? — Vi ripeto, — rispose Cyprien, — che non posso nascondere un segreto scientifico di questa importanza! — Sì!… sì!… lo so! — rispose John Watkins, facendo cenno al giovane di tacere, come se temesse che egli potesse essere udito al di fuori. — Sì!… Sì!… Riparleremo di questo!… Ma non preoccupatevi di Pantalacci e degli altri!… Essi non diranno niente

della vostra scoperta, perché è loro interesse non parlarne!… Credetemi… è meglio aspettare!… E soprattutto sappiate che mia figlia e io siamo felici del vostro successo!… Sì!… molto felici!… Ma non potrei rivedere questo famoso diamante?… Ieri ho appena avuto il tempo di vederlo!… Mi permettereste… — Il fatto è che io non l'ho più! — rispose Cyprien. — L'avete spedito in Francia! — esclamò il signor Watkins, annichilito al pensiero. — No… non ancora!… Allo stato grezzo non sarebbe possibile valutarne la bellezza! Rassicuratevi! — A chi dunque l'avete dato? Per tutti i santi dell'Inghilterra, a chi? — L'ho dato da tagliare a Jacobus Vandergaart, ma ignoro dove l'abbia portato. — E voi avete affidato un simile diamante a quel vecchio pazzo? — gridò John Watkins, davvero sconvolto. — Ma è una vera follia, signore! Una vera follia! — Bah! — rispose Cyprien, — che volete che ne faccia Jacobus o un altro d'un diamante il cui valore, per chi non ne conosce l'origine, è almeno di cinquanta milioni? Pensate che sia facile venderlo segretamente? Il signor Watkins parve colpito da questa argomentazione. Effettivamente era chiaro che non doveva essere facile disfarsi di un diamante di un simile prezzo. Tuttavia il fattore non era tranquillo e avrebbe dato qualsiasi cosa, sì… qualsiasi cosa perché l'imprudente Cyprien non l'avesse affidato al vecchio lapidario… od almeno perché il vecchio lapidario fosse già ritornato nel Griqualand con quella preziosa gemma! Ma Jacobus Vandergaart aveva chiesto un mese, e, per quanto impaziente fosse John Watkins, egli doveva aspettare. Non c'è bisogno di dire che, nei giorni seguenti, i suoi abituali commensali, come Annibale Pantalacci, Herr Friedel, e l'ebreo Nathan non mancarono di avanzare dubbi sull'onestà del lapidario. Ne parlavano spesso in assenza di Cyprien, e sempre facendo osservare a John Watkins che il tempo passava senza che Jacobus Vandergaart ricomparisse.

— E perché dovrebbe tornare nel Griqualand — diceva Friedel, — dal momento che può così facilmente tenersi questo diamante, di grande valore, e di cui ancora niente lascia riconoscere l'origine artificiale? — Perché non riuscirebbe a venderlo! — rispose il signor Watkins, riportando la tesi del giovane ingegnere, che tuttavia non riusciva più a tranquillizzarlo. — Bella ragione! — rispose Nathan. — Sì! bella ragione! — aggiunse Annibale Pantalacci. — Credete a me, il vecchio coccodrillo a quest'ora è già molto lontano ormai! Niente di più facile, soprattutto per lui che sa convertire la pietra e renderla irriconoscibile! Non sapete nemmeno quale ne sia il colore! Chi gli impedisce di tagliarla in quattro o sei pezzi e di farne, sfaldandola, parecchi diamanti di proporzioni ancora considerevoli? Queste discussioni riempivano di agitazione l'animo del signor Watkins, che cominciava a pensare che Jacobus Vandergaart non sarebbe più riapparso. Solo Cyprien credeva risolutamente nella onestà del vecchio lapidario, e affermava che sarebbe tornato nel giorno fissato. Aveva ragione. Jacobus Vandergaart tornò quarantott'ore prima del previsto. Tali erano stati la sua diligenza e il suo entusiasmo, che in ventisette giorni egli aveva finito di tagliare il diamante. Egli ritornò, durante la notte, per molarlo e polirlo per bene e, la mattina del ventinovesimo giorno, Cyprien ricevette la visita del vecchio. — Ecco la pietra, — gli disse semplicemente, deponendo sul tavolo una scatoletta di legno. Cyprien aprì la scatola e rimase abbagliato. Su uno strato di cotone bianco, un enorme cristallo nero, tagliato a forma di romboide dodecaedro, gettava dei raggi prismatici d'uno splendore tale che lo studio stesso ne sembrava illuminato. Il colore nero come l'inchiostro, la trasparenza adamantina assolutamente perfetta, con un potere di rifrazione senza pari, tutte queste cose combinate insieme producevano un effetto più che mai meraviglioso e quasi conturbante. Ci si sentiva alla presenza di un fenomeno eccezionale, di un gioco della natura forse senza precedenti. A parte

qualsiasi considerazione sul valore, lo splendore da solo del gioiello era sufficiente per sbalordire. — Non è solamente il più grosso diamante, è anche il più bello che ci sia al mondo! — disse gravemente Jacobus Vandergaart, con una punta di orgoglio quasi paterno. — Pesa quattrocentotrentadue carati! Potete andare orgoglioso poiché avete fabbricato un capolavoro, caro il mio ragazzo, e il vostro esperimento è stato un colpo da maestro! Cyprien non aveva risposto ai complimenti del vecchio lapidario. Egli pensava di non essere altro che l'autore di una strana scoperta e niente di più. Molti altri vi si erano dedicati senza riuscire mentre egli aveva certamente raggiunto la vittoria nel campo della chimica inorganica. Ma, quali utili conseguenze per l'umanità avrebbe portato la fabbricazione del diamante artificiale? Inevitabilmente essa avrebbe portato alla rovina, nel giro di qualche tempo, tutti coloro che vivevano del commercio delle pietre preziose, e in fin dei conti, non avrebbe arricchito nessuno. Così immerso in queste riflessioni il giovane ingegnere si stava riavendo dall'ebbrezza alla quale si era abbandonato nelle prime ore che seguirono la sua scoperta. Sì, adesso questo diamante, per quanto fosse splendido, così com'era uscito dalle mani di Jacobus Vandergaart, non gli appariva più che come una pietra senza valore e alla quale avrebbe dovuto mancare ben presto anche il prestigio della rarità. Cyprien aveva ripreso la scatola, nella quale scintillava la splendida gemma e, dopo aver stretto la mano del vecchio, egli si era diretto verso la fattoria del signor Watkins. Il fattore si trovava nella sala, sempre inquieto, sempre preoccupato, nell'attesa del ritorno, che gli sembrava così improbabile, di Jacobus Vandergaart. Sua figlia era presso di lui facendo del suo meglio per cercare di calmarlo. Cyprien aprì la porta e rimase per un istante sulla soglia. — Ebbene?… — chiese impazientemente John Watkins, alzandosi con un brusco movimento. — Ebbene, l'onesto Jacobus Vandergaart è arrivato proprio questa mattina! — rispose Cyprien.

— Col diamante? — Col diamante, tagliato in modo mirabile, del peso ancora di quattrocentotrentadue carati! — Quattrocentotrentadue carati! — gridò John Watkins. — E l'avete portato? — Eccolo. Il fattore aveva preso la scatoletta, l'aveva aperta, e i suoi due grandi occhi scintillavano quasi come questo diamante che egli guardava con lo sbalordimento ammirato di un uomo in estasi! Poi, quando gli fu dato da tenere fra le sue dita sotto quella forma fragile e facilmente trasportabile, tangibile e scintillante al tempo stesso, il valore colossale rappresentato dalla gemma, l'entusiasmo gli suggerì delle frasi sì enfatiche che facevano ridere. Il signor Watkins aveva la voce incrinata dalle lagrime e parlava al diamante come a un essere animato: — Oh! bella, superba, splendida pietra!… — diceva. — Eccoti dunque ritornata, tesorino!… Come sei brillante!… Come sei pesante!… Quante buone e suonanti ghinee devi valere!… Che cosa si deve fare di te, mia bellissima?… Mandarti al Capo e di lì a Londra per farti vedere e ammirare?… Ma chi sarà abbastanza ricco da comperarti? La regina stessa non potrebbe permettersi un simile lusso!… Non basterebbe il suo appannaggio di due o tre anni!… Ci vorrà un voto del Parlamento, una sottoscrizione nazionale!… La si farà, va' là, stai tranquilla!… E anche tu andrai a dormire nella Torre di Londra, vicino al Koh-i-noor, che al tuo confronto, non sarà più che un bamboccino!… Quanto mai potrai valere, o mia bellissima? E dopo essersi abbandonato a un breve calcolo mentale: — Il Diamante dello zar è stato pagato da Caterina II un milione di rubli contanti e novantaseimila franchi di rendita vitalizia! Non sarà certo esagerato chiedere per questo un milione di sterline e cinquecentomila franchi di rendita perpetua! Poi, colpito da un'idea improvvisa: — Signor Méré, non pensate che si dovrebbe innalzare alla pari il proprietario di una simile pietra? Ogni tipo di merito ha il diritto di essere rappresentato alla Camera Alta, e possedere un diamante di questa sorta non è davvero un merito da poco!… Guarda dunque,

figlia mia, guarda!… Non bastano nemmeno due occhi per ammirare una simile pietra! La signorina Watkins, per la prima volta in vita sua, guardò un diamante con qualche interesse. — È veramente molto bello!… Brilla come un pezzo di carbone, quale esso è, ma come un carbone incandescente! — disse, prendendolo delicatamente dal suo letto di cotone. Poi, con un moto istintivo che qualsiasi fanciulla al suo posto avrebbe avuto, s'avvicinò allo specchio posto sopra il camino, e depose il meraviglioso gioiello sopra la sua fronte fra i biondi capelli. — Una stella circondata d'oro, — disse galantemente Cyprien abbandonandosi, contro ogni sua abitudine, ai complimenti. — È vero… la si direbbe una stella! — esclamò Alice battendo gioiosamente le mani. — Ebbene bisogna lasciarle questo nome. Battezziamola la Stella del Sud!… Volete, signor Cyprien? Non è forse nera come le bellezze indigene di questo paese e brillante come le costellazioni del nostro cielo australe? — E sia per la Stella del Sud! — disse John Watkins, che non attribuiva al nome che un'importanza mediocre. — Ma stai attenta a non lasciarla cadere! — riprese con spavento, in seguito a un brusco movimento della fanciulla. — S'infrangerebbe come vetro! — Davvero?… È così fragile? — rispose Alice, rimettendo molto sdegnosamente la gemma nella sua scatola. — Povera stella, non sei dunque che una stella da ridere, come un pezzo di bottiglia! — Un pezzo di bottiglia!… — esclamò il signor Watkins con un gemito strozzato. — Questi ragazzi non rispettano più niente!… — Signorina Alice, — disse allora il giovane ingegnere, — siete voi che mi avete incoraggiato a dedicarmi alla ricerca della fabbricazione artificiale del diamante! È dunque a voi che questa gemma deve il merito di esistere oggi come oggi!… Ma, ai miei occhi, è un gioiello che non avrà più alcun valore commerciale, quando se ne conoscerà la provenienza!… Vostro padre mi permetterà, certamente di offrirvelo come ricordo della vostra felice influenza a proposito dei miei lavori! — Vero! — fece il signor Watkins, non potendo dissimulare ciò che provava nei confronti di questa proposta… inattesa.

— Signorina Alice, — continuò Cyprien, — questo diamante è vostro! Ve lo offro!… ve ne faccio un regalo! E la signorina Watkins, per tutta risposta, stese al giovane una mano, che lui strinse teneramente fra le sue.

CAPITOLO XI LA STELLA DEL SUD LA NOTIZIA del ritorno di Jacobus Vandergaart s'era subito diffusa. Cosicché, la folla dei visitatori affluì ben presto alla fattoria per vedere la meraviglia del Kopje. Naturalmente non si tardò a sapere che il diamante apparteneva alla signorina Watkins e che suo padre, più ancora di lei, ne era il reale possessore. Da ciò nacque una sovreccitazione della pubblica curiosità a proposito di questo diamante, opera dell'uomo e non della natura. Bisogna a questo punto far notare che non era ancora trapelato nulla intorno all'origine artificiale del diamante in questione. Da un lato, i minatori del Griqualand non sarebbero stati così sconsiderati da diffondere un segreto che avrebbe potuto portarli alla immediata rovina. Dall'altro lato Cyprien, non volendo lasciar nulla al caso, non aveva detto ancora nulla a questo riguardo, e aveva preso la decisione di non inviare la sua relazione sulla Stella del Sud prima di aver verificato il suo successo con un secondo esperimento. Quello che egli aveva fatto una prima volta voleva essere sicuro di poterlo rifare una seconda. La pubblica curiosità era dunque estremamente sovreccitata e John Watkins non avrebbe potuto plausibilmente rifiutarsi di soddisfarla, soprattutto perché la cosa favoriva la sua vanità. Egli collocò dunque la Stella del Sud, su un leggero strato di cotone sulla cima di una colonnina di marmo bianco che si ergeva nel mezzo del camino, in sala, e tutto il giorno rimase costantemente sprofondato nella sua poltrona ad ammirare l'incomparabile gioiello e a mostrarlo al pubblico. James Hilton fu il primo a fargli notare come fosse rischiosa questa condotta. Si rendeva pienamente conto dei pericoli che si attirava sul proprio capo, mettendo così in mostra, agli occhi di tutti,

l'enorme valore che egli accoglieva sotto il proprio tetto? A sentire Hilton, era indispensabile chiedere a Kimberley la protezione di una speciale scorta di polizia, o la notte seguente gli sarebbe potuto capitare qualche incidente. Il signor Watkins, preoccupato da questa prospettiva s'affrettò a seguire il saggio consiglio del suo ospite e non tirò il fiato se non quando vide arrivare verso sera una scorta di polizia armata. I venticinque uomini furono alloggiati negli edifici annessi alla fattoria. L'afflusso dei curiosi non fece che crescere, nei giorni successivi e la celebrità della Stella del Sud oltrepassò ben presto i limiti del distretto per diffondersi fino alle contrade più lontane. I giornali della colonia dedicarono articoli su articoli alle descrizioni delle sue dimensioni, della sua forma, del suo colore e del suo splendore. Il cavo telegrafico di Durban pensò a trasmettere questi dettagli via Zanzibar e Aden, dapprima fino in Europa e in Asia, poi nelle due Americhe e in Oceania. Dei fotografi chiesero l'onore di ritrarre il meraviglioso diamante. Dei pittori speciali vennero per conto di vari giornali illustrati per riprodurne l'immagine. Insomma si trattò di un vero e proprio avvenimento per tutto il mondo. Alla notizia si mescolò la leggenda. Circolavano fra i minatori dei racconti fantastici sulle proprietà misteriose che ad esso venivano attribuite. Si mormorava a voce bassa che una pietra nera non avrebbe mancato di portare sfortuna! Dei saccentoni che godevano di molta fiducia scossero il capo affermando che preferivano vedere quella pietra del diavolo a casa di Watkins piuttosto che a casa loro. In breve, le maldicenze e le calunnie che sono strettamente connesse con la celebrità, non mancarono alla Stella del Sud la quale, peraltro, non se ne curò minimamente e continuò a versare: «… torrenti di luce sopra i suoi oscuri denigratori!». Ma non si poteva dire lo stesso per John Watkins, che questi pettegolezzi avevano il dono di esasperare. Gli sembrava che essi diminuissero un po' il valore della pietra ed egli li considerava come

oltraggi personali. Da quando il governatore della colonia, gli ufficiali delle guarnigioni vicine, i magistrati, i funzionari, tutti i corpi costituiti, erano venuti per rendere omaggio al suo gioiello gli pareva di vedere, nei liberi commenti che ci si permetteva di fare al suo riguardo, quasi un sacrilegio. Cosicché, per reagire a queste sciocchezze, e anche per soddisfare il suo amore per le gozzoviglie, decise di dare un grande banchetto in onore di quel caro diamante, che egli contava di convertire in danari contanti checché ne potesse dire Cyprien e sebbene il desiderio di sua figlia fosse di tenerlo sotto forma di gemma. Tale è, ahimè, l'influenza dello stomaco sulle decisioni di molte persone, che l'annuncio di questo banchetto bastò a modificare, dall'oggi al domani, l'opinione pubblica nel campo di Vandergaart. Si videro coloro che s'erano mostrati tra i più malevoli nei confronti della Stella del Sud, cambiare subito parere, affermare che dopo tutto essa non aveva nessuna responsabilità della cattiva influenza che le veniva attribuita e sollecitare umilmente un invito da John Watkins. Si parlerà a lungo di questo festino nel bacino del Vaal. Quel giorno, c'erano ottanta convitati seduti sotto una tenda, innalzata a uno dei lati della sala il cui muro era- stato abbattuto per l'occasione. Un «barone reale» o arrosto colossale fatto di una intera schiena di bue, occupava il centro della tavola, fiancheggiato da interi pezzi di montone e da vari tipi di selvaggina locale. Montagne di verdura e di frutta, barili di birra e di vino, accatastati a intervalli regolari e pronti per essere spillati, completavano l'insieme di quel banchetto veramente pantagruelico. La Stella del Sud, collocata sul suo piedestallo, circondata da candele accese, dominava, dietro alla schiena di John Watkins, la festa sontuosa, data in suo onore. Il servizio era fatto da una ventina di cafri, ingaggiati per l'occasione, sotto la direzione di Matakit, che s'era offerto di comandarli, col permesso del suo padrone. Erano là presenti, oltre alla scorta di polizia che il signor Watkins s'era premurato così di ringraziare per la loro sorveglianza, tutte le maggiori personalità del campo e dei dintorni, Mathys Pretorius,

Nathan, James Hilton, Annibale Pantalacci, Friedel, Thomas Steel e altri cinquanta. Persino gli animali della fattoria, i buoi, i cani, e soprattutto gli struzzi della signorina Watkins presero parte al festino e venivano a mendicare le briciole del banchetto. Alice, situata in faccia a suo padre, all'opposta estremità della tavola, ne faceva gli onori con la sua solita grazia, ma non senza un segreto dispiacere, sebbene ella ben comprendesse il motivo della loro assenza: né Cyprien, né Jacobus erano presenti alla festa. Il giovane ingegnere aveva sempre evitato, per quanto possibile, la compagnia di Friedel, di Pantalacci e soci. Inoltre, dopo la sua scoperta, egli conosceva le loro intenzioni non precisamente benevole al suo riguardo, e anche le loro minacce nei confronti dello scopritore di questa fabbricazione artificiale che avrebbe potuto rovinarli da cima a fondo. Egli s'era dunque astenuto dal comparire al banchetto. Quanto a Jacobus Vandergaart, verso il quale John Watkins aveva fatto ripetuti passi per tentare una riconciliazione, egli aveva respinto con alterigia tutte queste iniziative. Il banchetto era giunto alla fine. Se tutto si era svolto col massimo ordine, ciò era dovuto alla presenza della signorina Watkins che aveva imposto un certo contegno anche ai più rozzi convitati, sebbene Mathys Pretorius fosse, come al solito, servito da bersaglio agli scherzi volgari di Annibale Pantalacci: costui faceva credere allo sfortunato boero le notizie più stupefacenti! Un fuoco artificiale stava per essere lanciato sotto la tavola!… Non si attendeva che il ritiro della signorina Watkins per condannare l'uomo più grasso del gruppo a bere, l'una dopo l'altra, dodici bottiglie di gin!… Si trattava di concludere la festa con un gran pugilato e con un combattimento generale a colpi di revolver!… Ma egli fu interrotto da John Watkins che, in qualità di presidente del banchetto, aveva picchiato sulla tavola col manico del suo coltello, per annunciare i brindisi tradizionali. Si fece silenzio. L'anfitrione, ergendosi sulla sua alta persona, appoggiò i due pollici al bordo della tovaglia e cominciò il suo discorso con la voce un po' tremula per le troppo numerose libagioni.

Disse che quel giorno sarebbe rimasto il grande ricordo della sua vita di minatore e di colono!… Dopo aver superato i molti ostacoli presentatisi durante la sua giovinezza, vedersi ora in questo ricco paese del Griqualand, circondato da ottanta amici, riuniti per festeggiare il più grosso diamante del mondo, era una di quelle gioie che non si dimenticano più!… È vero che l'indomani uno dei suoi onorevoli compagni che erano intorno a lui avrebbe potuto trovare una pietra ancora più grossa!… Era proprio in quello il rischio e la poesia della vita del minatore!… (viva approvazione) Egli augurava sinceramente una simile fortuna ai suoi ospiti!… (Sorrisi, applausi) Egli credeva anche di poter affermare che sarebbe stato veramente difficile da soddisfare solamente colui che, al suo posto, non si sarebbe dichiarato soddisfatto!… Per concludere egli invitò i suoi ospiti a bere per la prosperità del Griqualand, per la solidità dei prezzi sui mercati dei diamanti, — a dispetto di qualunque tipo di concorrenza, - e finalmente per il felice viaggio, che la Stella del Sud stava per intraprendere per il mondo per portare prima al Capo, in Inghilterra in seguito, i meravigliosi raggi del suo splendore! — Ma, — disse Thomas Steel, — non sarà pericoloso spedire al Capo una pietra di simile valore? — Oh! sarà bene scortata!… — rispose il signor Watkins. — Molti diamanti hanno viaggiato in quelle condizioni e sono arrivati in porto! — Anche quello del signor Durieux de Sancy — disse Alice; — eppure, se non fosse stato per la dedizione del suo domestico… — Eh! che cosa gli è dunque capitato di così straordinario? — chiese James Hilton. — Ecco la storia, — rispose Alice senza farsi pregare: «Il signor de Sancy era un gentiluomo francese, della corte di Enrico III. Egli possedeva un famoso diamante che porta ancor oggi il suo nome. Questo diamante, fra parentesi, aveva già avuto numerose avventure. In particolare esso era appartenuto a Carlo il Temerario che lo portava su di lui quando fu ucciso sotto le mura di Nancy. Un soldato svizzero trovò la pietra sul cadavere del duca di Borgogna e la vendette per un fiorino a un povero prete, che la cedette per cinque o sei a un giudeo. All'epoca in cui essa si trovava

nelle mani del signor de Sancy, il Tesoro reale si trovò in gravi difficoltà, e il signor de Sancy acconsenti a impegnare il suo diamante per anticiparne il valore al re. Il prestatore si trovava a Metz. Fu dunque necessario affidare il gioiello a un servitore perché glielo portasse. «"Non temete che quest'uomo se ne fugga in Germania?" venne chiesto al signor de Sancy. «"Io mi fido di lui!" rispose. «A dispetto di questa sicurezza, né l'uomo né il diamante giunsero a Metz. Così la corte prendeva in giro il signor de Sancy. «"Io mi fido del mio domestico" egli continuava a ripetere. "Deve essere stato assassinato." «E infatti furono fatte delle ricerche e si finì col ritrovare il suo cadavere nel fossato d'una strada. «"Apritelo!" disse il signor de Sancy. "Il diamante dev'essere nel suo stomaco." «Si fece come egli diceva e la sua tesi fu confermata. L'umile eroe, di cui la storia non ha nemmeno tramandato il nome, era stato fedele fino alla morte al suo dovere e al suo onore, "offuscando con lo splendore della sua impresa" disse un vecchio cronista "lo splendore e la bellezza del gioiello che portava". «Sarei molto sorpresa» aggiunse Alice terminando la sua storia «se alla occorrenza la Stella del Sud non ispirasse una simile devozione durante il suo viaggio!». Un'acclamazione unanime accolse queste parole della signorina Watkins; ottanta braccia innalzarono altrettanti bicchieri, e tutti gli occhi istintivamente si volsero verso il camino per rendere un vero e proprio omaggio all'incomparabile gemma. La Stella del Sud non era più sulla colonnina ove, fino a un minuto fa, ella scintillava alle spalle di John Watkins. Lo sbalordimento di quegli ottanta volti era così manifesto, che l'anfitrione si voltò subito per saperne la causa. Appena ne ebbe compreso il motivo, lo si vide accasciarsi sulla poltrona, come se fosse stato colpito dalla folgore.

Tutti si precipitarono intorno a lui, gli sciolsero la cravatta, gli gettarono dell'acqua in testa… Infine egli rinvenne dal suo svenimento. — Il diamante!… — Urlò con voce tuonante. — Il diamante!… Chi ha preso il diamante? — Signori, nessuno esca! — disse il capo del corpo di polizia facendo bloccare le uscite della sala. Tutti i convitati si guardavano con stupore o si scambiavano le proprie impressioni a voce bassa. Non erano passati più di cinque minuti da quando la maggior parte di loro aveva visto o aveva pensato di aver visto il diamante. Ma bisognava pur arrendersi all'evidenza: il diamante era scomparso. — Io chiedo che tutte le persone presenti siano perquisite prima di uscire! — propose Thomas Steel con la sua solita franchezza. — Sì!… sì… — rispose l'assemblea con un coro che sembrava essere unanime. Questa decisione parve ridare un raggio di speranza a John Watkins. L'ufficiale di polizia fece dunque schierare tutti i convitati lungo uno dei lati della sala e cominciò col sottoporre lui stesso per primo alla visita richiesta. Si rovesciò le tasche, si tolse le scarpe, permise a chi lo desiderasse di tastargli gli abiti. Poi procedette a un analogo esame sulla persona di ciascuno dei suoi uomini. Infine i convitati sfilarono a uno a uno davanti a lui e furono poi sottoposti a una minuziosa perquisizione. Queste perquisizioni non diedero il minimo risultato. Tutti gli angoli e gli angoletti della sala del banchetto furono allora passati in rivista con la maggior cura… Non si trovò -alcuna traccia del diamante. — Rimangono i cafri incaricati del servizio! — ordinò l'ufficiale di polizia, che non voleva accettare una sconfitta. — È chiaro!… Sono stati i cafri! — gli fu risposto. — Sono talmente ladri da aver osato un simile colpo! I poveri diavoli erano però usciti un po' prima del brindisi di John Watkins, non appena non c'era più stato bisogno del loro lavoro. Si erano accovacciati al di fuori, in circolo, intorno a un gran fuoco

acceso all'aperto e, dopo aver fatto onore alla carne avanzata dal festino, si preparavano a un concerto fatto a modo loro, secondo la moda dei cafri. Chitarre fatte con lunghe zucche, flauti nei quali si soffia col naso, tam-tam sonori d'ogni tipo, avevano già dato inizio a quella assordante cacofonia che precede tutte le grandi manifestazioni musicali degli indigeni del Sud-Africa. Quei cafri non sapevano nemmeno esattamente che cosa si volesse da loro, allorquando li si fece rientrare per perquisirli sebbene fossero già così poco vestiti. Capirono solamente che si trattava del furto del diamante di grande valore. Né più né meno delle precedenti ricerche anche queste furono inutili e infruttuose. — Se il ladro si trova fra questi cafri — e deve esserci - egli ha avuto dieci volte il tempo di mettere il suo bottino in luogo sicuro! — fece giustamente notare uno dei convitati. — È evidente, — disse l'ufficiale di polizia, — e non c'è forse che un modo per costringerlo a denunciarsi, quello di rivolgersi a un indovino della sua stessa razza. A volte l'espediente dà qualche risultato… — Se voi permettete, — disse Matakit, che si trovava ancora fra i suoi compagni, — io posso tentare l'esperimento! Questa offerta fu subito accettata e i convitati si radunarono intorno ai cafri; poi Matakit, abituato a questo ruolo d'indovino, si preparò a cominciare la sua inchiesta. Prima di tutto, cominciò coll'aspirare due o tre prese di tabacco da una tabacchiera di corno dalla quale non si separava mai. — Do ora inizio alla prova delle bacchette! — disse dopo questa operazione preliminare. Andò a cercare in un cespuglio vicino una ventina di cannette, che misurò esattamente e che tagliò di uguale lunghezza, cioè dodici pollici inglesi. Poi le distribuì ai cafri, messi allineati, dopo averne tenuta una da parte per sé. — Andate pure a ritirarvi dove volete per un quarto d'ora — disse con tono solenne ai suoi compagni — e ritornate solo quando udrete battere il tam-tam! Se il ladro si trova fra di voi, la sua bacchetta si sarà allungata di tre dita.

I cafri si dispersero, visibilmente impressionati da questo discorsetto ben sapendo che, con i sistemi sbrigativi della giustizia del Griqualand, si veniva presto pescati e, senza avere il tempo di difendersi, ancor più presto impiccati. Quanto ai convitati che avevano seguito con interesse i particolari di questa messa in scena, essi si affrettarono naturalmente a commentarla, ciascuno a modo suo. — Il ladro non avrà il coraggio di tornare, se si trova fra costoro — osservò uno. — Ebbene! proprio questo lo incolperà! — rispose un altro. — Bah! Egli sarà più scaltro di Matakit, e si limiterà a tagliare di tre dita la sua bacchetta, per eliminare l'allungamento temuto! — Probabilmente è proprio quello che spera l'indovino, e questo accorciamento inopportuno sarà sufficiente per denunciare il colpevole. Frattanto i quindici minuti erano trascorsi e Matakit, battendo bruscamente sul tam-tam, richiamò i suoi accusati. Essi ritornarono tutti, dal primo all'ultimo, si schierarono davanti a lui e restituirono le bacchette. Matakit le prese, ne fece un mazzo e le trovò tutte perfettamente uguali. Stava dunque per riporle e dichiarare che la prova attestava l'onorabilità dei suoi compatrioti, quando cambiò parere e misurò le bacchette che gli erano state appena rese comparandole con quella che aveva conservato per sé. Tutte erano più corte di tre dita. Quei poveri diavoli avevano giudicato prudente prendere questa precauzione contro un eventuale allungamento che, secondo la loro mentalità superstiziosa, poteva realmente accadere. Questo effettivamente non stava ad indicare in loro una coscienza del tutto pura e, senza dubbio, essi avevano tutti rubato qualche diamante nel corso della giornata. Un generale scroscio di risa accolse la constatazione di' questo inatteso risultato. Matakit, abbassando gli occhi, sembrava più che mai umiliato dal fatto che un mezzo, la cui efficacia era stata molto spesso dimostrata nel suo kraal, fosse divenuto vano nel mondo civile.

— Signori, non ci resta altro che riconoscere la nostra impotenza! — disse allora l'ufficiale di polizia salutando John Watkins, che era rimasto nella sua poltrona, immerso nella disperazione. — Può darsi che siamo più fortunati domani se prometteremo una forte ricompensa a chiunque potrà metterci sulle tracce del ladro! — Il ladro! — esclamò Annibale Pàntalacci. — E perché non potrebbe essere quello stesso che voi avete incaricato di giudicare i suoi compagni? — Di chi volete parlare? — chiese l'ufficiale di polizia. — Ma… di quel Matakit, che, sostenendo la parte dell'indovino, ha sperato di allontanare i sospetti! In quel momento, se si fosse fatta attenzione a lui, si sarebbe potuto vedere Matakit fare una strana smorfia, lasciare velocemente la sala e correre a gambe levate verso casa sua. — Sì! — riprese il napoletano. — Egli faceva parte, insieme con i suoi compagni, di coloro che facevano servizio durante il banchetto!… È un briccone molto furbo a cui il signor Méré si è affezionato non si sa per qual motivo! — Matakit è onesto, ne rispondo io! — esclamò la signorina Watkins, pronta a difendere il servitore di Cyprien. — Eh! che ne sai tu? — replicò John Watkins. — Sì… quello è capace di aver messo le mani sulla Stella del Sud! — Non può essere lontano! — riprese l'ufficiale di polizia. — In men che non si dica l'avremo perquisito! Se il diamante è in suo possesso, riceverà tanti colpi di frusta quanti sono i carati che esso pesa, e, se non muore, sarà impiccato dopo il quattrocentotrentaduesimo! La signorina Watkins tremava di paura. Tutta quella gente, mezzo selvaggia, aveva applaudito alla terribile sentenza dell'ufficiale di polizia. Ma come trattenere quegli animi brutali, senza rimorsi e senza pietà? Un istante dopo, il signor Watkins e i suoi ospiti erano davanti alla casa di Matakit, la cui porta fu sfondata. Matakit non c'era e lo si attese invano per tutto il resto della notte. L'indomani mattina non era ancora tornato, cosicché bisognò pensare che aveva lasciato il Vandergaart-Kopje.

CAPITOLO XII PREPARATIVI PER LA PARTENZA IL MATTINO dopo, quando Cyprien Méré venne a sapere quello che era successo il giorno precedente durante il banchetto, la sua prima reazione fu quella di protestare contro la grave accusa di cui era stato fatto oggetto il suo servitore. Egli non poteva ammettere che Matakit fosse l'autore di un simile furto, ed egli si trovò a condividere con Alice il medesimo dubbio a questo riguardo. In verità egli avrebbe piuttosto sospettato di Annibale Pantalacci, Herr Friedel, Nathan o chiunque altro, tutta gente che gli sembrava poco raccomandabile. Tuttavia era poco probabile che un europeo si fosse reso colpevole di questo furto. Per tutti coloro che ignoravano la sua origine la Stella del Sud era un diamante naturale e, di conseguenza, di un tale valore che diventava molto difficile disfarsene vendendolo. «Eppure» si andava ripetendo Cyprien, «non è possibile che sia stato Matakit!» Ma in quella gli tornavano in mente alcuni dubbi, a proposito di certi furtarelli di cui il cafro s'era talvolta reso colpevole, anche al suo servizio. Nonostante tutti gli ammonimenti del suo padrone, quello, seguendo la sua natura, — molto elastica sulla questione del tuo e del mio, — non. era mai riuscito a liberarsi delle sue pessime abitudini. Non rubava, è pur vero, che oggetti senza grande valore; ma, in fin dei conti questo era sufficiente per sporcare la sua fedina penale che non faceva certo molto onore a Matakit. D'altronde, nel campo delle supposizioni, c'era il fatto della innegabile presenza del cafro nella sala del banchetto, quando il diamante s'era eclissato come per incanto; poi c'era questo strano fatto che, qualche istante dopo, non era stato più trovato a casa sua; e infine la sua fuga, troppo chiara forse, dal momento che non era ormai più possibile dubitare che egli avesse lasciato il paese.

Effettivamente Cyprien attese invano tutta la mattina che Matakit ritornasse non volendo assolutamente credere alla colpevolezza del suo domestico; ma quello non ricomparve. Fu poi anche constatato che il sacco che conteneva i suoi risparmi, alcuni oggetti e utensili, necessari per un uomo che vuole avventurarsi in quelle regioni quasi deserte dell'Africa australe, era scomparso dalla casa. Il dubbio non era dunque proprio più possibile. Verso le dieci il giovane ingegnere, forse più rattristato dal comportamento di Matakit piuttosto che dalla perdita del diamante, si recò alla fattoria di John Watkins. Là trovò, riuniti in gran consiglio, il fattore, Annibale Pantalacci, James Hilton e Friedel. Nel momento in cui si presentò, Alice, che l'aveva visto venire, entrava anche lei nella sala ove suo padre e i suoi tre assidui compari discutevano animatamente sul partito da prendere per rientrare in possesso del diamante rubato. — Che lo si insegua, questo Matakit! — gridava John Watkins, al colmo della rabbia. — Che lo si ripeschi e, se non ha il diamante addosso, che gli si apra il ventre per vedere se lo ha inghiottito!… Ah! figlia mia, hai fatto molto bene a raccontarci ieri quella storia! Glielo cercheremo perfino nelle viscere, a quel furfante! — Eh, addirittura! — rispose Cyprien con un tono divertito che non piacque punto al fattore. — Per inghiottire una pietra di simili proporzioni bisognerebbe che Matakit avesse uno stomaco da struzzo! — Forse che lo stomaco di un cafro non è capace di tutto, signor Méré? — rispose John Watkins. — Vi sembra proprio che sia il caso di ridere in questo momento e a questo proposito? — Io non rido, signor Watkins! — rispose molto seriamente Cyprien. — Ma, se rimpiango quel diamante è unicamente per il fatto che voi mi avete permesso di offrirlo alla signorina Alice… — E io ve ne sono riconoscente, signor Cyprien, — aggiunse la signorina Watkins — come se l'avessi ancora in mio possesso! — Ecco come ragionano questi cervelli femminili! Riconoscente, come se l'avesse ancora, questo diamante che non ha pari al mondo!…

— Effettivamente, non si può dire che sia proprio la stessa cosa! — fece osservare James Hilton. — Oh! no davvero! — aggiunse Friedel. — Al contrario, è invece proprio la stessa cosa! — rispose Cyprien, — dato che, se ho fabbricato quel diamante, ne saprò ben fabbricare un altro! — Oh! signor ingegnere, — disse Annibale Pantalacci con un tono carico di minacce all'indirizzo del giovane — io penso che voi fareste bene a non ricominciare la vostra esperienza… nell'interesse del Griqualand… e anche nel vostro! — Davvero, signore? — rispose Cyprien. — Ritengo di non aver bisogno di venire a chiedere l'autorizzazione a voi a questo riguardo! — È proprio venuto il momento di discutere su questo — esclamò il signor Watkins. — È il signor Méré assolutamente sicuro di aver successo in un nuovo esperimento? Un secondo diamante, che uscirà dal suo impianto, avrà il colore, il peso e, di conseguenza, il valore del primo? Può egli garantirci di produrre un'altra pietra, sia pure di valore inferiore? Nel successo che egli ha avuto, oserebbe affermare che non ha giocato una gran parte il caso? Quel che diceva John Watkins era troppo giusto perché il giovane ingegnere non ne fosse colpito. Questo d'altronde corrispondeva a vari dubbi che egli stesso si era già posto. Il suo esperimento si spiegava certamente con i dati della chimica moderna; ma il caso non aveva molto influito su questo primo successo? E, se egli lo avesse ripetuto, era sicuro di riuscire una seconda volta? In queste condizioni, la cosa più importante era dunque di ritrovare il ladro a tutti i costi, e, cosa più utile ancora, l'oggetto rubato. — Intanto non si è trovata alcuna traccia di Matakit? — chiese John Watkins. — Nessuna, — rispose Cyprien. — Si sono rovistati tutti i dintorni del campo? — Sì, si è indagato a fondo! — rispose Friedel. — Il briccone è sparito, probabilmente durante la notte ed è difficile, per non dire impossibile, sapere da qual parte s'è diretto.

— L'ufficiale di polizia ha fatto una perquisizione nella sua casa? — continuò il fattore. — Sì, — rispose Cyprien, — e non ha trovato nulla che potesse metterlo sulle tracce del fuggitivo. — Ah! — esclamò il signor Watkins, — darei cinquecento e anche mille lire sterline perché lo si potesse ripescare! — Vi capisco, signor Watkins, — disse Annibale Pantalacci. — Ma ho proprio paura che non riavrete mai più né il vostro diamante, né colui che l'ha rubato! — E perché? — Perché una volta fuggito, — continuò Annibale Pantalacci, — Matakit non sarà così sciocco da fermarsi per strada. Egli passerà il Limpopo, s'inoltrerà nel deserto, andrà fino allo Zambesi e fino al lago Tanganika, fin presso i Boscimani, se sarà necessario! Parlando così, l'astuto napoletano esprimeva sinceramente il suo pensiero? Non voleva per caso semplicemente evitare che ci si mettesse sulle tracce di Matakit, per riservare a se stesso questo compito? Ecco ciò che Cyprien si chiedeva, mentre lo osservava attentamente. Ma il signor Watkins non era uomo da abbandonare la partita col pretesto che era difficile da eseguire. Egli avrebbe veramente sacrificato tutta la sua fortuna per rientrare in possesso di quell'incomparabile pietra e, attraverso la finestra aperta, i suoi occhi impazienti, pieni di furore guardavano fino alle rive verdeggianti del Vaal, come se avesse la speranza di scorgere il fuggitivo su quel limitare. — No! — esclamò — la cosa non può finire così!… Io rivoglio il diamante!… Bisogna riacchiappare quel furfante!… Ah! se non avessi la gotta, non ci metterei molto tempo, ve l'assicuro! — Babbo mio! — disse Alice, cercando di calmarlo. — Vediamo, chi se ne incarica? — esclamò John Watkins gettando attorno lo sguardo. — Chi vuol mettersi alle calcagna del cafro?… Il compenso sarà conveniente, ve ne do la mia parola! E, siccome nessuno parlava: — Ecco, signori, — insistette lui — tutti e quattro voi ambite alla mano di mia figlia! Ebbene! Riportatemi quell'uomo insieme col mio

diamante! - egli diceva ora «mio diamante!» - e, parola di Watkins, mia figlia apparterrà a colui che me lo saprà riportare! — Accettato! — gridò James Hilton. — Anch'io! — dichiarò Friedel. — Chi non vorrebbe tentare di guadagnare un premio così prezioso? — mormorò Annibale Pantalacci con un sorriso ambiguo. Alice, rossa in volto, profondamente umiliata di vedersi offerta come posta di una simile gara, soprattutto in.presenza del giovane ingegnere, cercava invano di nascondere il proprio imbarazzo. — Signorina Watkins, — le disse Cyprien a bassa voce inchinandosi rispettosamente davanti a lei, — io mi metterei volentieri in gara, ma posso farlo senza il vostro permesso? — Voi lo avete con i miei migliori auguri, signor Cyprien! —: ella s'affrettò a rispondere. — Allora sono pronto ad andare fino in capo al mondo! — disse Cyprien rivolgendosi a John Watkins. — In fede mia, potreste non esser molto lontano dal vero — disse Annibale Pantalacci; — credo che Matakit ce ne farà fare di strada! Con l'andatura che deve aver assunto, probabilmente domani sarà a Potchefstrom, e avrà raggiunto le alture prima ancora che noi abbiamo lasciato le nostre case. — E chi c'impedisce di partire oggi stesso… sul momento? — chiese Cyprien. — Oh! non certo io, se così vi piace! — replicò il napoletano. — Ma, per conto mio, non intendo partire senza gallette! Un buon carrozzone, con una dozzina di buoi da tiro e due cavalli da sella, è il meno che ci si debba procurare per una spedizione come quella che prevedo io! E tutto questo non si trova che a Potchefstrom! Ancora una volta Annibale Pantalacci parlava seriamente? Aveva solo lo scopo di scoraggiare i suoi rivali? Sarebbe stato difficile dare una risposta! Quello che era certo, comunque, è che egli aveva perfettamente ragione. Senza simili mezzi di trasporto, senza quelle provviste, sarebbe stata una vera follia tentare di inoltrarsi nel nord nel Griqualand!

Tuttavia una scorta di buoi - Cyprien lo sapeva bene — costava da otto a diecimila franchi, come minimo, e lui non ne possedeva che quattromila. — Un'idea! — disse improvvisamente James Hilton, che nella sua qualità di Africander d'origine scozzese, aveva uno spirito naturalmente portato verso l'economia, — perché non unirci tutti e quattro per questa spedizione? Le probabilità di ciascuno resteranno le stesse e le spese saranno almeno, divise! — Mi pare giusto — disse Friedel. — Accettato — rispose senza esitare Cyprien. — In tal. caso — fece osservare Annibale Pantalacci — bisognerà essere tutti d'accordo sul fatto che ciascuno conserva la sua indipendenza ed è libero di lasciare i compagni in qualunque momento giudicherà la cosa utile per cercare di raggiungere il fuggitivo. — Va da sé, questo! — rispose James Hilton. — Noi ci associamo per l'acquisto del carrozzone, dei buoi e delle provviste, ma ognuno di noi potrà distaccarsi quando gli parrà più opportuno! E tanto meglio per colui che per primo raggiungerà l'obiettivo! — D'accordo — risposero Cyprien, Annibale Pantalacci e Friedel. — Quando partirete? — domandò John Watkins, le cui possibilità di rientrare in possesso del diamante, grazie a questa combinazione erano quadruplicate. — Domani, con la diligenza di Potchefstrom — rispose Friedel. — Non si può pensare di arrivare prima di quella. — D'accordo. Frattanto Alice aveva preso in disparte Cyprien e gli domandava se credeva veramente che Matakit potesse essere l'autore di un tale furto. — Signorina Watkins — gli rispose il giovane ingegnere — sono costretto a confessare che tutte le prove sono contro di lui, poiché è fuggito! Ma quello che mi pare certo è che questo Annibale Pantalacci mi ha tutta l'aria di un signore che forse avrebbe molte cose da dire a proposito della scomparsa del diamante! Che faccia da galera!… e qual brillante socio sono andato a prendermi! Bah! vada come vada! In un certo senso è quasi meglio averlo sott'occhio e

poter sorvegliare i suoi movimenti, piuttosto che lasciarlo agire segretamente e di sua testa! I quattro pretendenti poco dopo si congedarono da John Watkins e da sua figlia. Com'era naturale in simili circostanze, i saluti furono brevi e si limitarono a uno scambio di strette di mano. Che cosa avrebbero potuto dirsi questi rivali, che partivano insieme augurandosi reciprocamente di andare al diavolo? Rientrando a casa, Cyprien vi trovò Li e Bardik. Questo giovane cafro, dopo che era entrato al suo servizio, s'era sempre mostrato molto zelante. Lui e il cinese stavano chiacchierando sulla soglia della porta. Il giovane ingegnere annunciò loro che sarebbe partite in compagnia di Friedel, di James Hilton e di Annibale Pantalacci per mettersi sulle tracce di Matakit. I due si scambiarono uno sguardo, uno solo; poi avvicinandosi, senza dire una parola di ciò che pensavano sul fuggitivo: — Piccolo padre, — dissero insieme, — portaci con te, te ne preghiamo insistentemente. — Portarvi con me?… E per far che, di grazia? — Per prepararti il caffè e i pasti, — disse Bardik. — Per lavare la tua biancheria, — soggiunse Li. — E per impedire ai cattivi di nuocerti! — risposero insieme come se si fossero dati la parola. Cyprien rivolse loro uno sguardo riconoscente. — E sia! — rispose, — vi condurrò entrambi visto che lo desiderate! Dopodiché egli andò a prendere congedo dal vecchio Jacobus Vandergaart, che, senza approvare o disapprovare la decisione di Cyprien di unirsi a quella spedizione, gli strinse cordialmente la mano augurandogli buon viaggio. L'indomani mattina, quando si diresse, seguito dai suoi due fedeli, verso il campo di Vandergaart, per prendere la diligenza di Potchefstrom, il giovane ingegnere alzò lo sguardo verso la fattoria Watkins che era ancora sprofondata nel sonno. Era un'illusione? Gli sembrò di riconoscere dietro la tendina bianca di una delle finestre una figuretta graziosa che, nel momento in cui lui s'allontanava, gli mandava un ultimo cenno d'addio.

CAPITOLO XIII IL LUNGO VIAGGIO ATTRAVERSO IL TRANSVAAL ARRIVANDO a Potchefstrom, i quattro viaggiatori appresero che un giovane cafro, - i cui connotati si accordavano con quelli della persona di Matakit, - era passato il giorno precedente per la città. Era una fortunata coincidenza per il successo della loro spedizione. Ma la cosa che avrebbe reso quest'ultima piuttosto lunga, senza dubbio, era il fatto che il fuggitivo s'era procurato colà una leggera carrozzina tirata da uno struzzo, e che di conseguenza sarebbe stato più difficile raggiungerlo. In effetti non c'è camminatore migliore di questi animali, né più resistente, né più veloce. C'è poi da aggiungere che gli struzzi da tiro sono molto rari, anche nel Griqualand, poiché non sono facili da allevare. Questo è il motivo per cui Cyprien, né più né meno dei suoi compagni, non poté procurarsene a Potchefstrom. Ora, in queste condizioni — da quel che si era potuto constatare — Matakit proseguiva il suo viaggio verso il nord, con un equipaggio che avrebbe messo alla prova dieci cavalli di posta. Non restava dunque che prepararsi a seguirlo il più rapidamente possibile. Per la verità, il fuggitivo aveva, oltre a un notevole anticipo, il vantaggio di una velocità molto superiore a quella del mezzo di locomozione che avrebbero adottato i suoi avversari. Ma in fin dei conti anche le forze di uno struzzo hanno dei limiti. Matakit sarebbe pur stato obbligato a fermarsi e, forse, a perdere del tempo. Nel peggiore dei casi, lo avrebbero raggiunto al termine del suo viaggio. Cyprien ebbe ben presto occasione di rallegrarsi d'aver condotto con sé Li e Bardik, quando inizialmente si trattò per lui di attrezzarsi in vista della spedizione. Non è un'impresa da niente in simili casi quella di scegliere con discernimento gli oggetti che potrebbero

essere veramente utili. Nessuna esperienza può valere quanto quella del deserto. Cyprien aveva un bel conoscere perfettamente il calcolo differenziale e integrale, ma egli non ne sapeva nulla dell'ABC della vita del Veld, della vita sul «trek» 11 o «sui solchi delle ruote del carro» come si dice laggiù. Ora, non soltanto i suoi compagni non sembravano disposti ad aiutarlo con buoni consigli ma piuttosto avevano una certa tendenza a indurlo in errore. Per quanto riguardava il carro ricoperto da un tendone impermeabile e l'attacco dei buoi da tiro e le diverse provviste, le cose andarono ancora abbastanza bene. L'interesse comune imponeva di fare una scelta giudiziosa: e James Hilton se la cavò a meraviglia. Ma non fu la stessa cosa per tutto quello che venne lasciato all'iniziativa individuale di ciascuno, per l'acquisto di un cavallo, per esempio. Cyprien aveva già notato, sulla piazza del mercato, un bellissimo puledro di tre anni, pieno di fuoco, che era in vendita a un prezzo moderato: lo aveva già provato e, avendolo giudicato ben domato, si disponeva a pagare al mercante la somma che quello domandava, quando Bardik, prendendolo in disparte, gli disse: — Come, piccolo padre, tu vuoi comprare questo cavallo? — Certamente Bardik! È il più bello che io abbia mai trovato a un simile prezzo. — Non bisognerebbe prenderlo, neanche se te lo regalassero! — rispose il giovane cafro. — Questo cavallo non resisterebbe otto giorni al viaggio nel Transvaal. — Che cosa vuoi dire? — chiese Cyprien. — Ti vuoi forse mettere a fare l'indovino con me? — No, piccolo padre, ma Bardik conosce il deserto e ti avverte che questo cavallo non è «salato». — Non è «salato»? Avresti dunque la pretesa di farmi comprare un cavallo tenuto in salamoia? — No, piccolo padre, ma questo vuol dire che quel cavallo non ha ancora avuto la malattia del Veld. L'avrà inevitabilmente ben presto, e se anche non ne morrà, diventerà inutile per te.

11

Vocabolo inglese che significa lento viaggio di trasferimento su un carro trainato da buoi. (N.d.T.)

— Ah! — fece Cyprien, colpito dall'avvertimento che gli dava il suo domestico. — E in che cosa consiste questa malattia? — È una febbre ardente, accompagnata da tosse, — rispose Bardik. — È indispensabile non acquistare se non cavalli che l'abbiano già avuta - cosa che si capisce facilmente dal loro aspetto, poiché è raro che, avutala una volta, ne siano nuovamente colpiti. Davanti a una tale eventualità, non c'era da esitare. Cyprien sospese immediatamente le trattative e andò a chiedere informazioni. Tutti gli confermarono quello che gli aveva detto Bardik. Era un fatto talmente noto nel paese che non se ne parlava nemmeno più. Messo così in guardia contro la sua inesperienza, il giovane ingegnere divenne più prudente e si affidò ai consigli di un medico veterinario di Potchefstrom. Grazie all'intervento di questo specialista, egli poté procurarsi, nel giro di poche ore, la cavalcatura necessaria per quel genere di viaggio. Era un vecchio cavallo grigio, solo pelle ed ossa, che aveva ormai soltanto più un mozzicone di coda. Ma bastava guardarlo per esser sicuri che, almeno era stato «salato» e, quantunque fosse un po' duro di trotto, valeva evidentemente molto di più di quanto poteva far pensare il suo aspetto. Templar - era il suo nome - godeva nel paese di un'ottima reputazione, come cavallo da fatica, e, quando l'ebbe visto, Bardik, che aveva ben diritto di essere consultato, si dichiarò pienamente soddisfatto. Quanto a lui, Bardik era in particolar modo preposto alla direzione del carrozzone e delle mute di buoi, funzione nella quale il suo amico Li doveva venirgli in aiuto. Non c'era dunque da preoccuparsi per procurar loro una cavalcatura, cosa che tra l'altro Cyprien non avrebbe mai potuto fare, data la cifra che aveva dovuto sborsare per il suo personale cavallo. La questione delle armi non era meno delicata. Cyprien aveva ben scelto i suoi fucili, un eccellente «rifle» sistema Martini-Henry e una carabina Remington, che non brillavano certo per eleganza, ma che colpivano giusto e si ricaricavano rapidamente. Ma quello che non avrebbe mai pensato di fare se il cinese non gliene avesse dato l'idea era di provvedersi di un certo numero di cartucce a proiettili esplosivi. Egli avrebbe creduto di portare munizioni sufficienti

fornendosi di cinquecento o seicento cariche di polvere e di piombo e fu molto sorpreso di apprendere che quattromila colpi per fucile erano il minimo indispensabile per garantire una certa prudenza in questo paese di belve e di indigeni non meno terribili. Cyprien dovette pure provvedersi di due revolver a pallottola esplosiva e completò il suo armamento comprando un superbo coltello da caccia, che era in bella mostra da cinque anni nella vetrina dell'armaiolo di Potchefstrom, senza che nessuno si fosse azzardato a sceglierlo. Fu ancora Li a insistere perché fosse fatto questo acquisto, assicurando che niente avrebbe potuto essere più utile di un simile coltello. D'altronde la cura che egli dedicò a tenere lucida e affilata quella lama corta e larga, molto simile alla sciabola-baionetta della fanteria francese, stava a testimoniare la sua dimestichezza con le armi bianche, dimestichezza che era del resto tipica di tutti gli uomini della sua razza. In ogni caso, la famosa cassa rossa accompagnava sempre il prudente cinese. Egli vi ripose, insieme con una quantità di scatole e di ingredienti misteriosi, circa sessanta metri di quella corda morbida e sottile, ma fortemente intrecciata, che i marinai chiamano sagola. E siccome gli si chiedeva che cosa voleva farne: — Non si deve stendere la biancheria nel deserto come in tutti gli altri luoghi? — rispondeva evasivamente. In dodici ore tutti gli acquisti erano terminati. Dei tendoni impermeabili, delle coperte di lana, degli attrezzi da cucina, delle abbondanti provviste alimentari in scatole ermeticamente chiuse, dei gioghi, delle catene, delle cinghie di ricambio costituivano, nella parte posteriore del carrozzone, la riserva del magazzino generale. La parte anteriore, coperta di paglia, doveva servire da letto e da riparo per Cyprien e per i suoi compagni di viaggio. James Hilton aveva assolto molto bene il suo compito e sembrava aver scelto in modo conveniente tutto ciò che avrebbe potuto essere necessario alla compagnia. Egli vantava la propria esperienza di colono. Così, più che altro per far sfoggio di superiorità che non per spirito di cameratismo, si sarebbe volentieri prestato a dare ai suoi compagni informazioni sulle usanze del Veld.

Ma Annibale Pantalacci non mancava mai di intervenire e di togliergli la parola. — Che bisogno avete di render note le vostre conoscenze al francese? — gli diceva a bassa voce. — Ci tenete davvero tanto a vedere che sarà lui a guadagnare il premio della gara? Al vostro posto, io terrei per me quello che so, e non aprirei bocca! E James Hilton non mancava di rispondere, guardando il napoletano con sincera ammirazione: — È molto giusto quello che mi dite… molto giusto!… Ecco un'idea che non mi sarebbe mai venuta! Cyprien s'era fatto scrupolo di avvertire lealmente Friedel di quello che aveva saputo a proposito dei cavalli del paese, ma incappò in una prosopopea e in una testardaggine senza limiti. Il tedesco non voleva ascoltare nessun consiglio e pretendeva sempre di agire di sua testa. Comperò perciò il cavallo più giovane e più focoso che poté trovare, - quello stesso che Cyprien aveva rifiutato - e si preoccupò soprattutto di munirsi della attrezzatura da pesca, con la scusa che si sarebbe stati ben presto stanchi di selvaggina. Infine, compiuti questi preparativi, ci si poté finalmente mettere in viaggio, e la carovana si dispose nell'ordine che verrà ora indicato. Il carrozzone, trainato da dodici buoi rossi e neri, avanzava per primo sotto l'alta direzione di Bardik, che a volte marciava accanto a quelle robuste bestie con il pungolo in mano, altre volte per riposarsi, saltava sul davanti del carro. Là, troneggiando da quel seggio si lasciava andare ai sobbalzi della strada senza esserne per nulla seccato, anzi pareva addirittura incantato di questo modo di viaggiare. I quattro cavalieri seguivano di conserva alla retroguardia. Tranne i casi in cui giudicavano opportuno distaccarsi per abbattere una pernice o per fare una ricognizione, tale doveva restare per lunghi giorni l'ordine pressoché immutabile della piccola carovana. Dopo una rapida decisione, fu stabilito che ci si sarebbe diretti verso le sorgenti del Limpopo. Tutte le informazioni tendevano a far supporre che Matakit avesse seguito quel percorso. In effetti, non avrebbe proprio potuto prenderne un altro, se era sua intenzione di allontanarsi al più presto dai possedimenti britannici. Il vantaggio che il cafro aveva sui suoi inseguitori, consisteva nella perfetta

conoscenza che egli aveva del paese e nella leggerezza del suo equipaggio. Da un canto, egli sapeva evidentemente dove era diretto e prendeva la via più rapida, dall'altro, egli era sicuro, grazie alle sue conoscenze con la gente del nord, di trovare ovunque aiuto e protezione, del cibo e un riparo, e anche dei difensori, se. gli fosse stato necessario. E si sarebbe potuto garantire che egli non avrebbe potuto approfittare della sua influenza sugli indigeni per rivolgersi contro coloro che lo pedinavano e per farli forse attaccare a mano armata? Cyprien e i suoi compagni capivano dunque sempre più la necessità di procedere tutti uniti e di aiutarsi reciprocamente in questa spedizione, se si voleva che uno di loro ne raccogliesse il frutto. Il Transvaal, che stavano per attraversare da sud a nord, è quella vasta regione dell'Africa meridionale, - almeno trenta migliaia di ettari, - la cui superficie si estende tra il Vaal e il Limpopo, a ovest dei monti Drakenberg, della colonia inglese di Natal, del paese degli zulù e dei possedimenti portoghesi. Interamente colonizzato dai boeri, antichi cittadini olandesi del Capo, che hanno dato origine, in quindici o vent'anni, a una popolazione agricola di oltre centomila bianchi, il Transvaal ha naturalmente risvegliato la cupidigia della Gran Bretagna. Di conseguenza esso è stato annesso nel 1877 ai domini del Capo. Ma le frequenti ribellioni dei boeri, che si ostinano a difendere la propria indipendenza, rendono ancora dubbia la sorte di quella bella contrada. È una delle più ridenti, delle più fertili e anche delle più salubri dell'Africa. Ecco ciò che spiega, anche se non giustifica, l'attrazione che essa esercita, sui suoi temibili vicini. Le miniere d'oro, che vi sono state appena scoperte, hanno influito non poco sull'azione politica dell'Inghilterra riguardo al Transvaal. Dal punto di vista geografico viene solitamente diviso, anche dagli stessi boeri in tre regioni principali: il paese alto o Hooge-Veld, il paese delle colline o Banken-Veld, e il paese delle boscaglie o Bush-Veld. Il paese alto è il più meridionale. È formato dalle catene di montagne che si dipartono dai Drakenberg verso ovest e verso sud. È

il distretto minerario del Transvaal dove il clima è freddo e secco come quello nell'Oberland bernese. Il Banken-Veld è più particolarmente il distretto agricolo. Si estende a nord del precedente e accoglie nelle sue estese vallate verdi la maggior parte della popolazione olandese. Infine il Bush-Veld o paese delle boscaglie, e la regione delle cacce per eccellenza, si apre in vaste pianure fino alle rive del Limpopo, verso nord, mentre si addentra fino nelle terre dei cafri beciuani, verso ovest. Partiti da Potchefstrom, che è situata nel Banken-Veld, i viaggiatori dovevano innanzi tutto percorrere diagonalmente la maggior parte di questa regione, prima di poter raggiungere il BushVeld e di là, più a nord, le rive del Limpopo. Questa prima parte del Transvaal fu naturalmente la più facile da superare. Erano ancora in un paese semicivile. I più gravi incidenti si riducevano a una ruota impantanata o a un bue ammalato. Le anitre selvatiche, le pernici, i caprioli abbondavano lungo la strada e fornivano ogni giorno il sufficiente per il pranzo e per la cena. La notte si passava normalmente in qualche fattoria, i cui abitanti, isolati dal resto del mondo per i tre quarti dell'anno, accoglievano con sincera gioia gli ospiti che capitavano. Dovunque i boeri erano sempre gli stessi, ospitali, simpatici, disinteressati. L'usanza del paese stabilisce, è vero, che si dia loro un compenso per il ricovero che essi offrono agli uomini e alle bestie in viaggio. Ma essi rifiutano quasi sempre questo compenso e, anzi al momento della partenza insistono perché si accetti della farina, delle arance, delle pesche secche. Per quanto poco si dia loro in cambio, un qualsiasi oggetto d'abbigliamento o da caccia, una frusta, un barbazzale, un corno da polvere, eccoli andare in estasi per minimo che ne sia il valore. Quei bravi contadini conducono nel cuore delle loro vaste solitudini un'esistenza molto felice; vivono senza fatica, loro e le loro famiglie, di ciò che producono le loro greggi e coltivano, con l'aiuto degli ottentotti e dei cafri, quel tanto di terra che serve per provvedersi di granaglie e di legumi.

Le loro case sono molto semplicemente fatte di terra, e coperte di uno spesso strato di stoppia. Quando la pioggia ha aperto una breccia nei muri - cosa che capita di frequente - il rimedio è a portata di mano. Tutta la famiglia si mette a impastare dell'argilla, con cui prepara un gran mucchio; poi ragazzi e ragazze, pigliandone delle manate, fanno precipitare un vero e proprio bombardamento di argilla sulla breccia che viene così ben presto ostruita. All'interno di quelle abitazioni si trovano appena qualche mobile, degli sgabelli di legno, delle rozze tavole, dei letti per gli adulti; i fanciulli si contentano di dormire su pelli di montone. Nonostante ciò, l'arte conserva un suo posto anche in quelle esistenze primitive, Quasi tutti i boeri sono musicisti, suonano il violino o il flauto. Vanno matti per la danza e non conoscono né ostacoli né fatiche quando si tratta di riunirsi - venendo talora da paesi assai lontani - per abbandonarsi al loro passatempo preferito. Le loro fanciulle sono modeste e spesso molto belle sotto i loro semplici ornamenti di contadine olandesi. Si sposano molto giovani portando in dote al fidanzato solamente una dozzina di buoi o di capre, un carro o qualche altra ricchezza di tal genere. Il marito s'incarica di erigere la casa, di dissodare alcuni arpenti 12 di terra all'intorno ed ecco fondata una famiglia. I boeri sono molto longevi e da loro come in nessun'altra parte del mondo si conta un gran numero di centenari. Un fatto singolare, ancora inesplicato, è l'obesità che li colpisce quasi tutti, in età matura, e che in loro raggiunge proporzioni straordinarie. Sono, del resto, di statura alta, ma questa caratteristica è propria tanto dei coloni d'origine francese o tedesca che di quelli di pura razza olandese. Frattanto il viaggio proseguiva senza incidenti. Era raro che la spedizione non trovasse, nella fattoria dove ogni sera capitava di fermarsi, notizie di Matakit. Dappertutto lo avevano visto passare, velocemente trainato dal suo struzzo, dapprima con due o tre giorni d'anticipo, poi con cinque o sei, poi ancora con sette o otto. Evidentemente stavano seguendo le sue tracce; ma altrettanto 12

Arpento è un'antica misura agraria che corrisponde a circa 3.000 m2. (N.d.T)

evidentemente egli guadagnava terreno su quelli che si erano lanciati al suo inseguimento. Ma i quattro inseguitori non erano per questo meno certi di raggiungerlo. Il fuggitivo avrebbe pur finito per fermarsi. La sua cattura non era dunque altro che una questione di tempo. Perciò Cyprien e i suoi tre compagni se la prendevano comoda. Cominciavano a poco a poco ad abbandonarsi ai loro svaghi preferiti. Il giovane ingegnere raccoglieva campioni di rocce. Friedel raccoglieva erbe e pretendeva di riconoscere, solo attraverso i loro caratteri esteriori, le proprietà delle piante che collezionava. Annibale Pantalacci perseguitava Bardik o Li e si faceva perdonare le sue cattiverie cucinando, durante le soste, dei piatti deliziosi di maccheroni. James Hilton si incaricava di rifornire la compagnia di selvaggina; non passava mai mezza giornata senza che abbattesse le sue dodici pernici, quaglie in abbondanza, a volte un cinghiale o un'antilope. Una tappa dopo l'altra arrivarono così al Bush-Veld. Ben presto le fattorie divennero sempre più rare e finirono con lo sparire del tutto. Erano giunti al confine estremo della zona civilizzata. A partire da quel punto, fu necessario piantare il campo tutte le sere, accendere dei grandi fuochi, intorno ai quali uomini e bestie si disponevano per dormire, non senza che si predisponesse una buona guardia d'intorno. Il paesaggio aveva assunto un aspetto sempre più selvaggio. Delle lande di sabbia giallastra, delle macchie di cespugli spinosi, di tanto in tanto un ruscello circondato da paludi avevano sostituito le verdi vallate del Banken-Veld. A volte bisognava addirittura fare un lungo giro per evitare una vera foresta di «thorn trees» o alberi spinosi. Si tratta di arbusti alti da tre a cinque metri, con un gran numero di rami press'a poco orizzontali e tutti forniti di spine lunghe da due a quattro pollici, dure e appuntite come dei pugnali. Quella zona esterna del Bush-Veld, che va generalmente sotto il nome di Lion-Veld - o Veld dei leoni - non sembrava per nulla giustificare questo temibile appellativo perché dopo tre giorni di viaggio, non si era ancora né vista né segnalata alcuna di queste belve.

«Si tratterà senz'altro di una tradizione,» si diceva Cyprien, «e i leoni si saranno ritirati più all'interno nel deserto.» Ma siccome egli aveva espresso questa opinione davanti a James Hilton, quello si mise a ridere. — Credete che non ci siano leoni? — disse. — Voi pensate così solo perché non sapete vederli! — Bella questa! Non vedere un leone in mezzo a una pianura deserta! — esclamò Cyprien con tono molto ironico. — Ebbene! scommetto dieci lire, — disse James Hilton, — che entro un'ora io ve ne mostrerò uno che voi non avevate notato! — Non scommetto mai, per principio, — rispose Cyprien, — ma non chiedo di meglio che di farne una prova. Camminarono per venticinque o trenta minuti, e nessuno pensava ormai più ai leoni, quando James Hilton esclamò: — Signori, guardate dunque quel formicaio che s'innalza laggiù a destra! — Che bella novità! — gli rispose Friedel. — Non vediamo altro da due o tre giorni. In effetti non vi è nulla di più frequente, nel Bush-Veld, di quei grossi mucchi di terra gialla, innalzati da innumerevoli formiche e che, loro soli con qualche cespuglio o con delle macchie di stecchite mimose, stanno a interrompere di quando in quando la monotonia di quelle immense piane. James. Hilton fece un risolino silenzioso. — Signor Méré, — disse, — se volete fare una galoppata, in modo da avvicinarvi a quel formicaio - là, nel- punto indicato dal mio dito -vi prometto che vedrete quello che desiderate vedere! Non avvicinatevi troppo, però, o potreste trovarvi nei guai! Cyprien spronò il cavallo e si diresse verso il luogo che James Hilton aveva chiamato formicaio. — Là c'è accampata una famiglia di leoni! — aggiunse James Hilton non appena Cyprien si fu allontanato. — Uno su dieci di quei mucchi giallastri che voi prendete per formicai, non sono che leoni aggruppati. — Perbacco! — esclamò Pantalacci, — avevate proprio bisogno di raccomandargli di non avvicinarsi?

Ma accorgendosi che Bardik e Li lo ascoltavano, si riprese cambiando tono alla sua frase: — Il francese si sarebbe buscato una bella paura e noi ci saremmo fatti una grossa risata! Il napoletano si sbagliava. Cyprien non era uomo da buscarsi una bella paura, come diceva quello. A duecento passi dal luogo indicato, egli capì con qual terribile formicaio avesse a che fare. Si trattava di un enorme leone, di una leonessa e di tre leoncini, accovacciati al suolo in cerchio, come dei gatti, e che dormivano pacificamente al sole. Al rumore degli zoccoli di Templar, il leone aprì gli occhi, sollevò la testa enorme e sbadigliò, mostrando, fra due file di denti formidabili, una caverna nella quale avrebbe potuto sparire tutto intero un fanciullo di dieci anni. Poi guardò il cavaliere che si era fermato a venti passi da lui. Per fortuna il feroce animale non aveva fame, senza di che non sarebbe rimasto così indifferente. Cyprien, la mano sulla carabina, attese due o tre minuti il beneplacito del signor leone. Ma, vedendo che quello non era in vena di iniziare le ostilità, egli non se la sentì di turbare la felicità di quella curiosa famiglia e, facendo dietro front, ritornò all'ambio verso i suoi compagni. Costoro, costretti a riconoscere il suo sangue freddo e la sua bravura, l'accolsero con grandi acclamazioni. — Avrei perso la scommessa, signor Hilton — rispose semplicemente Cyprien. La sera stessa giunsero, per fare la solita fermata, sulla riva destra del Limpopo. Là Friedel s'ostinò a voler pescare del pesce da friggere nonostante gli avvertimenti di James Hilton. — È molto malsano, amico — gli diceva quello. — Sappiate che nel Bush-Veld non bisogna né restare, dopo il tramonto del sole, sulle rive dei fiumi, né… — Bah! bah! Ho visto ben altro, io! — rispose il tedesco con l'ostinazione propria dei suoi connazionali. — Eh! — esclamò Annibale Pantalacci, — che male ci può essere a rimanere presso il fiume per un'ora o due? Non vi ho forse passato

delle mezze giornate, immerso fino alle ascelle, quando andavo alla caccia delle anitre? — Non è proprio la stessa cosa! — rispose James Hilton, insistendo presso Friedel. — Sono tutte storie!… — rispose il napoletano. — Mio caro Hilton, fareste meglio a cercare la scatola di formaggio grattugiato per i miei maccheroni piuttosto che impedire al nostro camerata di andarci a pescare un bel piatto di pesce! Questo almeno costituirà una varietà al nostro solito pasto. Friedel parti, senza voler intendere ragione e si attardò talmente a pescare, che era già notte inoltrata quando fece ritorno all'accampamento. Là l'ostinato pescatore cenò con appetito, fece onore come tutti gli altri ai pesci che aveva pescati, ma si lamentò di forti brividi, quando si sdraiò nel carrozzone accanto agli altri compagni. Il giorno dopo, al mattino presto, quando si alzarono per partire, Friedel era in preda a una febbre ardente e gli era impossibile salire a cavallo. Tuttavia volle che si riprendesse il viaggio, dicendo che sarebbe stato benissimo sulla paglia in fondo al carro. Si fece com'egli voleva. A mezzogiorno delirava. Alle tre era morto. Era stato colpito da una febbre perniciosa di tifo fulminante. Di fronte a questa fine così immediata, Cyprien non poté fare a meno di pensare che Annibale Pantalacci, coi suoi cattivi consigli avesse una grave responsabilità nell'evento. Ma nessuno sembrava aver fatto una simile osservazione, tranne lui. — Vedete se non avevo ragione di dire che non bisogna trattenersi presso il fiume al cadere della notte! — si contentò di ripetere filosoficamente James Hilton. Si fermarono un po' per seppellire il cadavere che non poteva venir abbandonato alle fauci delle fiere. Era quello di un rivale, quasi di un nemico, eppure Cyprien si sentì profondamente commosso mentre gli rendeva l'estremo tributo. Lo spettacolo della morte, pur essendo dovunque così augusto e solenne, sembra assumere nel deserto una maestosità tutta nuova.

Alla presenza soltanto della natura, l'uomo comprende meglio che quella è la sua fine inevitabile. Lontano dalla sua famiglia, lontano da tutti coloro che ama, il suo pensiero vola malinconicamente verso di loro. Egli pensa che forse anche lui domani cadrà su quella sterminata pianura per non rialzarsi più; che anche lui verrà allora sepolto sotto un mucchio di sabbia, sotto una nuda pietra, e che non avrà né le lacrime di una sorella o di una madre né il rimpianto di un amico che lo accompagnino all'ultima dimora. E riversando su di sé una parte della pietà che gli ispirava la sorte del compagno, a Cyprien sembrò che un po' di lui stesso venisse seppellito in quella tomba! L'indomani di quella lugubre cerimonia, il cavallo di Friedel, che seguiva attaccato dietro al carrozzone, fu preso dalla malattia del Veld. Lo si dovette abbandonare. La povera bestia non era sopravvissuta che poche ore al suo padrone!

CAPITOLO XIV A NORD DEL LIMPOPO Ci VOLLERO tre giorni di ricerche e di sondaggi per trovare un guado attraverso il letto del Limpopo. E forse non l'avrebbero trovato se alcuni cafri macalacchi, che vagavano lungo la riva del fiume, non si fossero incaricati di guidare la spedizione. Questi cafri sono dei miseri iloti che la razza più intelligente dei beciuani tiene in schiavitù, obbligandoli al lavoro senza alcuna remunerazione, trattandoli con estremo rigore, e, quello che è peggio, vietando loro, sotto pena di morte, di mangiare la carne. Gli sfortunati macalacchi possono a loro piacimento uccidere la selvaggina che incontrano per strada ma a condizione che la portino subito ai loro signori e padroni. I quali non lasciano loro che le viscere press'a poco come i cacciatori europei fanno con i cani da preda. Un macalacco non possiede niente di suo, neppure un capanno o una zucca. Vanno in giro quasi completamente nudi, magri, scarni, portando a tracolla degli intestini di bufalo che a una certa distanza si potrebbero scambiare per pezzi di sanguinaccio nero ma che in realtà non sono altro che le borracce molto primitive nelle quali conservano la loro provvista d'acqua. Il genio commerciale di Bardik si manifestò ben presto nell'arte consumata con la quale egli seppe cavare da quei disgraziati la confessione che possedevano, nonostante la loro miseria, alcune penne di struzzo, accuratamente nascoste in una macchia vicina. Egli propose subito loro di comprarle e fu fissato a questo scopo un appuntamento quella sera stessa. — Hai dunque del denaro da dar loro in cambio? — gli domandò Cyprien molto sorpreso.

E Bardik, ridendo a tutto spiano, gli mostrò una manciata di bottoni di rame, che egli andava collezionando da un mese o due e che teneva in una borsa di tela. — Questa moneta non è vera — gli disse Cyprien, — ed io non posso permettere che tu paghi questi poveracci con una dozzina di vecchi bottoni! Ma gli fu impossibile far capire a Bardik in che cosa il suo progetto era riprovevole. — Se i macalacchi accettano i miei bottoni in cambio delle loro piume, che cosa c'è da ridire? — egli rispondeva. — Voi sapete che anche a loro non è costato nulla raccogliere queste penne! Anzi essi non hanno neppure il diritto di possederle dal momento che non possono mostrarle che di nascosto! Un bottone, invece, è un oggetto utile, più utile che una piuma di struzzo! Perché dunque mi sarebbe proibito di offrirne una dozzina o due in cambio di un ugual numero di piume? Il ragionamento era specioso, ma non si poteva ottenere di meglio. Quello che il giovane cafro non considerava era che i macalacchi avrebbero accettato i suoi bottoni di rame, non per l'uso che ne avrebbero potuto fare, dal momento che non indossavano alcun abito, ma per il supposto valore che essi attribuivano a quei cerchietti di metallo, così simili a pezzi di moneta. C'era dunque in questo scambio un vero inganno. Ma Cyprien dovette riconoscere che la sfumatura era troppo delicata per essere colta dall'intelligenza del selvaggio, molto elastica in materia di affari, e quindi lo lasciò libero di agire a modo suo. L'operazione commerciale di Bardik ebbe luogo di sera, alla luce delle torce. I macalacchi avevano evidentemente una sacrosanta paura d'essere ingannati dal loro venditore, poiché non si accontentarono dei fuochi accesi dai bianchi, ma arrivarono carichi di fasci di mais che incendiarono dopo averli piantati in terra. Poi gli indigeni esibirono le penne di struzzo e si sentirono in diritto di esaminare i bottoni di Bardik. In quel momento cominciò tra di loro, a furia di gesticolamenti e di grida, una discussione animatissima sulla natura e sul valore di quei cerchietti di metallo.

Nessuno capiva una parola di quello che dicevano nel loro linguaggio velocissimo; ma era sufficiente osservare i loro volti infiammati, le smorfie eloquenti, i violenti scatti di collera per essere certi che il dibattito era per loro di grande importanza. Improvvisamente quella disputa appassionata fu interrotta da una inattesa apparizione. Un negro di alta statura - avvolto con dignità in un orribile mantello di cotone rosso, la fronte cinta da una specie di diadema fatto di budella di caprone che i guerrieri cafri usano portare - era uscito dalla boscaglia, presso la quale si discuteva la transazione; egli si gettò a gran colpi di lancia sui macalacchi, colti in flagrante reato di operazioni vietate. — Lopepe!… Lopepe!… — gridarono i disgraziati selvaggi, sparpagliandosi da tutte le parti, come un branco di topi. Ma una schiera di guerrieri negri, sbucando d'improvviso a circolo dai cespugli che circondavano l'accampamento, si serrò intorno a loro e impedì la fuga. Lopepe si fece immediatamente consegnare i bottoni; li osservò con cura alla luce delle torce di mais e li cacciò, non senza un'evidente soddisfazione, nel fondo della sua borsa di cuoio. Poi s'avvicinò a Bardik e, dopo avergli tolto di mano le penne di struzzo già consegnate, se ne impadronì come aveva fatto con i bottoni. I bianchi erano rimasti spettatori passivi di quella scena e non sapevano bene se era il caso di intervenire, quando Lopepe risolse questo problema avanzandosi verso di loro. Poi, arrestandosi a breve distanza, pronunciò con tono imperioso un lungo discorso del resto assolutamente inintelligibile. James Hilton, che capiva qualche parola di beciuano, riuscì comunque a cogliere il senso generale di quell'arringa e lo comunicò ai suoi compagni. La sostanza del discorso era che il capo cafro si lamentava che si fosse permesso a Bardik di trafficare coi macalacchi, i quali non potevano possedere nulla di proprio. Per finire egli decideva di sequestrare le merci di contrabbando e chiedeva ai bianchi che cosa avessero da obiettare. Tra questi le opinioni sul partito da prendere erano differenti. Annibale Pantalacci voleva che si cedesse all'istante per non mettersi in disaccordo con il

capo beciuano. James Hilton e Cyprien, pur riconoscendo che la risoluzione poteva essere buona, temevano, mostrandosi troppo concilianti sulla cosa, di fomentare l'arroganza di Lopepe e, forse, se egli avesse spinto più in là le sue pretese, di creare una rissa inevitabile. Tennero a mezza voce, un rapido consiglio nel quale stabilirono che avrebbero lasciato i bottoni al capo beciuano, ma che avrebbero preteso le penne. James Hilton si diede da fare per comunicare questa deliberazione un po' a gesti, un po' con l'aiuto di qualche parola in lingua cafra. Lopepe assunse da principio un'aria diplomatica e parve esitare. Ma le canne dei fucili europei che vedeva brillare nell'ombra, lo portarono ben presto a decidersi cosicché rese le penne. Da quel momento il capo, in verità molto intelligente, si mostrò più elastico. Egli offrì ai tre bianchi, a Bardik e a Li, una presa dalla sua grande tabacchiera e sedette al bivacco. Un bicchiere d'acquavite, che gli offerse il napoletano, finì col metterlo definitivamente di buon umore; quando poi si alzò dopo una sosta di un'ora e mezzo che era trascorsa in un silenzio quasi assoluto da entrambe le parti, invitò la carovana a rendergli la visita, l'indomani, al suo kraal. Glielo promisero e, dopo uno scambio di strette di mano, Lopepe si ritirò maestosamente. Poco tempo dopo la sua partenza, tutti si erano coricati, eccezion fatta per Cyprien, che sognava contemplando le stelle, dopo essersi avvolto nella sua coperta. Era una notte senza luna, ma scintillante d'una miriade di luci. Il fuoco s'era spento senza che il giovane ingegnere se ne fosse accorto. Egli pensava ai suoi, i quali certo non s'immaginavano che in quel momento una simile avventura lo avesse condotto nel bel mezzo del deserto dell'Africa australe, pensava a quella dolce Alice che forse anche lei stava rimirando le stelle, pensava insomma a tutti quanti gli stavano a cuore. E, abbandonandosi a quella dolce fantasticheria che rende poetico il grande silenzio della pianura, stava già per assopirsi, quando uno scalpiccio di zoccoli, una strana agitazione che proveniva dalla parte

dove erano asserragliati per la notte i buoi da tiro, fecero si che egli si svegliasse e balzasse in piedi. A Cyprien parve allora di distinguere nell'ombra una figura più bassa, più raccolta di quella dei buoi, che era, senza dubbio, la causa di tutta quell'agitazione. Senza rendersi ben conto di che cosa si potesse trattare Cyprien afferrò una frusta che trovò a portata di mano e si diresse prudentemente verso il recinto del bestiame. Non si era sbagliato. C'era là in mezzo ai buoi un animale inaspettato che era venuto a turbare il loro sonno. Ancora mezzo addormentato, prima di aver potuto riflettere su quel che stava facendo, Cyprien levò la frusta e a occhio e croce assestò un gran colpo sul muso dell'intruso. Un ruggito spaventoso rispose subito a quell'attacco!… Quello che il giovane ingegnere aveva trattato come un semplice barboncino era nientepopodimeno che un leone. Ma egli aveva appena avuto il tempo di mettere la mano su uno dei revolver che portava alla cintura e di fare un brusco salto da un lato, che l'animale, dopo essersi lanciato contro di lui senza raggiungerlo, si precipitò di nuovo sul suo braccio teso. Cyprien sentì le acute zanne lacerargli le carni e rotolò nella polvere con la terribile belva. Tutt'a un tratto scoppiò una detonazione. Il corpo del leone s'agitò in una suprema convulsione, poi s'irrigidì e ricadde immobile. Con la mano che gli rimaneva libera, Cyprien, senza perdere il suo sangue freddo, aveva applicato il revolver all'orecchio del leone e una pallottola esplodendo gli aveva fracassato il cranio. Frattanto i dormienti, avvertiti dal ruggito seguito dalla detonazione, raggiunsero il campo di battaglia. Liberarono Cyprien mezzo schiacciato sotto il peso dell'enorme bestia, esaminarono le sue ferite che per fortuna non erano che superficiali. Li le medicò semplicemente con qualche panno bagnato d'acquavite, poi gli venne riservato il miglior posto in fondo al carrozzone e ben presto tutti si riaddormentarono mentre Bardik, che volle vegliare fino al mattino, faceva buona guardia.

Il giorno spuntava appena, quando la voce di James Hilton, che pregava i compagni di andarlo ad aiutare, annunciò loro qualche nuovo incidente. James Hilton, ancora tutto vestito, era disteso sul davanti del carro, e parlava con voce piena di terrore, senza osare di fare un movimento. — Ho un serpente arrotolato intorno al ginocchio destro, sotto i calzoni — diceva. — Non fate un movimento o sono morto! Vi prego, cercate di fare qualcosa! I suoi occhi erano dilatati per il terrore, il viso era di un pallore livido. All'altezza del ginocchio destro, si scorgeva effettivamente, sotto la tela blu del pantalone, un corpo estraneo, una specie di gomena avvolta intorno alla gamba. La situazione era grave. Come diceva James Hilton, al suo primo movimento il serpente non avrebbe mancato di morderlo! Ma, in mezzo all'ansietà e all'indecisione generale, Bardik decise di agire. Dopo aver afferrato senza rumore il coltello da caccia del suo padrone, si avvicinò a James Hilton, con un movimento quasi insensibile, strisciando come un verme. Poi, mettendo gli occhi quasi al livello del serpente, parve studiare con cura per alcuni secondi la posizione del pericoloso rettile. Senza dubbio, cercava di riconoscere come era collocata la testa dell'animale. A un tratto, con un movimento rapidissimo si raddrizzò, il suo braccio s'abbassò con violenza, e la lama del coltello si affondò con un colpo secco nel ginocchio di James Hilton. — Potete far cadere il serpente!… È morto… — disse Bardik, mettendo in mostra tutti i suoi denti in uh largo sorriso. James Hilton obbedì macchinalmente e scosse la gamba… Il rettile cadde ai suoi piedi. Era una vipera dalla testa nera, del diametro di un pollice appena, ma il cui minimo morso sarebbe stato sufficiente a procurar la morte. Il giovane cafro l'aveva decapitata con precisione fantastica. I calzoni di James Hilton non mostravano che un taglio di sei centimetri appena mentre la pelle non era stata nemmeno scalfita. Cosa singolare che turbò profondamente Cyprien: James Hilton non parve neppure sognarsi di ringraziare il suo salvatore. Ora che

era fuori pericolo, egli trovava quell'intervento più che naturale. Non gli era neppure balenata l'idea di stringere la mano nera del cafro e di dirgli: «Ti devo la vita!». — Il vostro coltello è veramente ben affilato! — fece semplicemente osservare mentre Bardik lo infilava nel fodero, senza dare neppure lui, grande importanza a quello che aveva appena fatto. La colazione cancellò ben presto le impressioni di quella notte così agitata. Quella mattina essa consisteva in un solo uovo di struzzo strapazzato, ma che bastò a soddisfare abbondantemente l'appetito dei cinque uomini. Cyprien aveva un po' di febbre e le ferite lo facevano soffrire non poco. Cionondimeno egli insistette per accompagnare Annibale Pantalacci e James Hilton ai kraal di Lopepe. Il campo fu quindi affidato alla buona guardia di Bardik e di Li, che avevano iniziato a scuoiare il leone della sua pelle — un vero mostro della specie chiamata «a muso di cane». I tre cavalieri si misero in viaggio da soli. Il capo beciuano li attendeva all'ingresso del suo kraal, circondato da tutti i suoi guerrieri. Dietro a loro in secondo piano, donne e fanciulli s'erano raggruppati pieni di curiosità per vedere gli stranieri. Invece alcune di quelle nere donne ostentavano una totale indifferenza. Sedute davanti alle loro capanne emisferiche, continuavano a dedicarsi alle proprie occupazioni. Due o tre facevano delle reti con lunghi fili di erbe tessili, che ritorcevano a mo' di corda. L'aspetto generale era miserabile, sebbene le case fossero abbastanza ben costruite. Quella di Lopepe, più grande delle altre, internamente rivestita di stuoie di paglia, sorgeva quasi nel centro del kraal. Il capo vi fece entrare i suoi ospiti, assegnò loro tre sgabelli e sedette a sua volta davanti a loro mentre la guardia d'onore si disponeva in cerchio dietro a lui. Cominciarono con lo scambiarsi le consuete gentilezze. In conclusione il cerimoniale si riduce solitamente al bere una tazza di qualche bevanda fermentata, fatta dallo stesso anfitrione; ma, per provare che quella cortesia non nasconde perfidi progetti,

quest'ultimo comincia sempre con l'accostare le sue grosse labbra, prima di porgere la tazza allo straniero. Non bere, dopo un invito così corretto, sarebbe una ingiuria mortale. I tre bianchi assaggiarono dunque la bevanda cafra, non senza grandi smorfie da parte di Annibale Pantalacci il quale proclamava a gran voce che avrebbe di gran lunga preferito «un bicchiere di lacrima-christi a quell'insulso intruglio beciuano». Dopodiché si parlò d'affari. Lopepe avrebbe voluto acquistare un fucile. Ma era un desiderio che non poteva venir soddisfatto, sebbene egli offrisse in cambio un cavallo abbastanza buono e centocinquanta libbre d'avorio. In effetti il regolamento coloniale è molto rigoroso su questo punto e vieta agli europei qualsiasi cessione d'armi ai cafri della frontiera, a meno che non ci sia una speciale autorizzazione del governatore. Per compensarlo, i tre ospiti di Lopepe avevano portato per lui una camicia di flanella, una catena d'acciaio e una bottiglia di rhum, cose che costituivano uno splendido regalo e che gli fecero palesemente piacere. Di conseguenza il capo beciuano si mostrò perfettamente disposto a fornire tutte le informazioni che gli furono richieste, il più chiaramente possibile, col sussidio di James Hilton. E dapprima si seppe che un viaggiatore, in tutto rispondente alla descrizione di Matakit, era passato per il kraal cinque giorni prima. Era la prima notizia che la comitiva riceveva intorno al fuggitivo da due settimane a quella parte. Perciò venne accolta con molto piacere. Il giovane cafro aveva probabilmente perso qualche giorno per cercare il guado del Limpopo, e ora si dirigeva verso le montagne del nord. Ci volevano ancora molti giorni di cammino prima di raggiungere quelle montagne? Sette od otto al massimo. Lopepe era amico del sovrano di quel paese, nel quale Cyprien e i suoi compagni stavano per addentrarsi? Lopepe se ne faceva un vanto! D'altronde, chi non avrebbe voluto essere l'amico rispettoso e l'alleato fedele del grande Tonaia, il conquistatore invincibile dei paesi cafri? Tonaia soleva accogliere volentieri i bianchi?

Si, poiché sapeva, come tutti i capi della regione, che i bianchi non mancano mai di vendicare l'ingiuria fatta a uno dei loro. A che scopo lottare contro i bianchi? Non sono loro sempre i più forti grazie ai loro fucili che si caricano da sé? La miglior cosa è dunque quella di restare in pace con loro, di accoglierli bene e di trafficare lealmente coi loro mercanti. Tali furono, in sunto, le notizie fornite da Lopepe. Una sola era veramente importante: quella che Matakit aveva perso parecchi giorni di cammino, prima di poter attraversare il fiume, e che essi erano ancora sulle sue tracce. Ritornando all'accampamento, Cyprien, Annibale Pantalacci e James Hilton trovarono Bardik e Li agitatissimi. Essi raccontarono di aver ricevuto la visita di un gruppo di guerrieri cafri, di una tribù diversa da quella di Lopepe, che li avevano dapprima accerchiati e poi sottoposti a un vero e proprio interrogatorio. Che cosa venivano a fare in quel paese? Non venivano forse per spiare i beciuani, raccogliere informazioni sul loro conto, conoscerne il numero, le forze, e l'armamento? Degli stranieri facevano male a immischiarsi in simili faccende. Ben inteso il grande re Tonaia non aveva niente da ridire, finché non fossero penetrati nel suo territorio; ma avrebbe potuto vedere le cose sotto un'altra luce, se avessero deciso di entrarvi. Questo era stato il significato del loro discorso. Il cinese non ne pareva granché turbato. Ma Bardik, di solito così calmo, così pieno di sangue freddo in ogni occasione, sembrava essere ora in preda a un vero terrore di cui Cyprien non sapeva capacitarsi. — Guerrieri molto cattivi — egli diceva, roteando gli occhi — guerrieri che detestano i bianchi e che gli faranno «cuic!…». È questa l'espressione che usano solitamente tutti i cafri mezzo civilizzati quando vogliono esprimere l'idea di una morte violenta. Che fare? Era il caso di attribuire una grande importanza a questo incidente? No, certamente. Quei guerrieri, sebbene fossero circa una trentina, secondo la relazione di Bardik e del cinese che erano stati sorpresi senza armi, non avevano fatto loro alcun male e non avevano manifestata nessuna velleità di saccheggio. Certo le loro minacce non erano che inutili chiacchiere, di quelle che i selvaggi amano molto

fare agli stranieri. Sarebbero state sufficienti un po' di gentilezze all'indirizzo del gran capo Tonaia, una franca spiegazione dei motivi che conducevano i tre bianchi nel paese per dissipare tutti i suoi sospetti, se pure ne aveva, e per assicurarsi la sua benevolenza. Di comune accordo fu convenuto di rimettersi in cammino. La speranza di raggiungere quanto prima Matakit e di ricuperare il diamante rubato faceva dimenticare ogni altra preoccupazione.

CAPITOLO XV UNA CONGIURA IN UNA settimana di marcia, la comitiva era giunta in una contrada che non aveva nulla di simile con i paesi precedentemente attraversati dopo la frontiera del Griqualand. Si avvicinavano ora alla catena di montagne che tutte le informazioni raccolte intorno a Matakit indicavano come la probabile meta verso la quale si dirigeva. La vicinanza degli altipiani e dei numerosi corsi d'acqua che ne discendevano per andarsi a gettare nel Limpopo, già s'annunciava con una flora e una fauna completamente diversa da quella della pianura. Una delle prime vallate, che si dischiuse davanti agli occhi dei tre viaggiatori, offrì loro un freschissimo e ridente spettacolo, poco prima del tramonto del sole. Un fiume, dalle acque talmente limpide che si scorgeva perfino il fondo del letto, scorreva fra due praterie di un verde smeraldo. Alberi da frutta dallo svariato fogliame ricoprivano i pendii delle colline che circondavano quella conca. In questo sfondo, ancora illuminato dal sole, sotto l'ombra di enormi baobab, pascolavano tranquillamente dei branchi di antilopi rosse, di zebre e di bufali. Più lontano un rinoceronte bianco, attraversando col suo pesante passo una larga radura, si dirigeva lentamente verso la riva del fiume già sbuffando di gioia al pensiero di turbarne la tranquillità delle acque immergendovi il suo grosso corpo. Si udiva una belva invisibile che sbadigliava di noia sotto le fronde di un bosco ceduo. Un asino selvatico ragliava mentre intere legioni di scimmie si rincorrevano attraverso gli alberi. Cyprien e i suoi due compagni s'erano arrestati sulla sommità della collina per meglio contemplare quello spettacolo così nuovo per loro. Erano finalmente arrivati in una di quelle regioni ancora vergini, ove l'animale selvaggio - ancora padrone incontrastato della

zona - vive così felice e così libero che non ha neppure il sospetto del pericolo. Ciò che era davvero sorprendente era non solo la quantità e la tranquillità di quegli animali, ma la straordinaria varietà della fauna presente in quella parte dell'Africa. Lo spettacolo si sarebbe veramente potuto paragonare a uno di quegli strani quadri sui quali l'autore si è divertito a riunire, in uno spazio limitato, tutte le principali specie del regno animale. D'altronde gli abitanti sono pochi. E i cafri, nel cuore di quel paese immenso, non possono essere che molto sparpagliati sulla sua superficie. È il deserto o quasi. Cyprien, preso dal suo istinto di scienziato e di artista, si sarebbe volentieri immaginato di esser ritornato all'era preistorica del megaterio o di altri animali antidiluviani. — Non mancano che gli elefanti perché la festa sia completa! — esclamò. Ma in quella Li, stendendo il braccio, gli additò, in mezzo a una vasta radura, numerose masse grigie. Da lontano si sarebbero dette come delle rocce, vuoi per l'immobilità vuoi per il colore. In realtà si trattava di un branco di elefanti. La prateria ne era punteggiata per parecchie miglia. — Tu te ne intendi dunque di elefanti? — chiese Cyprien al cinese, mentre preparavano il campo per la notte. Li strizzò i suoi occhietti obliqui. — Ho abitato per due anni nell'isola di Ceylon come aiutante di caccia — egli rispose semplicemente conservando la sua solita riservatezza della quale rivestiva tutto ciò che riguardava la sua vita. — Ah! se potessimo ammazzarne uno o due! — esclamò James Hilton. — È un tipo di caccia molto divertente… — Certo, e nella quale la preda vale ben la polvere che costa! — aggiunse Annibale Pantalacci. — Due zanne d'elefante sono un bel bottino e noi potremmo facilmente sistemarne tre o quattro dozzine sul fondo del carrozzone!… Lo sapete, amici, che quelle basterebbero a pagarci le spese del viaggio? — Ma è un'ottima idea! — esclamò James Hilton. — Perché non ci proviamo domani mattina, prima di riprendere il viaggio?

Si discusse la cosa. In breve, fu deciso che si sarebbe levato il campo alle prime luci del giorno, e che si sarebbe andati a tentare la fortuna in quella parte della vallata nella quale si erano visti degli elefanti. Fatto questo piano e consumato rapidamente il pasto, si ritirarono tutti sotto la tenda del carrozzone, tranne James Hilton che, essendo di guardia quella notte, doveva rimanere accanto al fuoco. Era là da solo ormai già da due ore e cominciava a dormicchiare, quando si sentì toccare leggermente al gomito. Riaprì gli occhi. Annibale Pantalacci era seduto accanto a lui. — Non riesco a dormire, così ho pensato che tanto valeva venirvi a tenere compagnia, — disse il napoletano. — È molto gentile da parte vostra, ma per quanto mi riguarda qualche oretta di sonno non mi dispiacerebbe proprio! — rispose James Hilton stirando le braccia. — Se ci state potremmo ben metterci d'accordo! Io andrò a prendere il vostro posto sotto il tendone e voi prenderete il mio qui! — No!… Rimanete!… Devo parlarvi! — riprese Annibale Pantalacci con voce cupa. Si guardò attorno come per assicurarsi che erano ben soli e poi riprese: — Siete già andato a caccia di elefanti? — Sì, — rispose James Hilton, — due volte. — Ebbene, allora sapete quanto questa caccia sia pericolosa! L'elefante è così intelligente, così furbo, e così bene armato! È difficile che l'uomo non abbia la peggio nella lotta contro di lui! — Certo! Ma voi parlate per gli sprovveduti! — rispose James Hilton. — Con una buona carabina carica di pallottole non c'è molto da temere! — È ciò che pensavo, — replicò il napoletano. — Tuttavia possono capitare degli incidenti!… Supponete che ne capiti uno domani al francese; sarebbe una vera disgrazia per la scienza! — Una vera disgrazia! — ripeté James Hilton. E si mise a ghignare con aria cattiva.

— Per noi la disgrazia non sarebbe poi così grande! — riprese Annibale Pantalacci, incoraggiato dall'atteggiamento del compagno. — Non resteremo che in due a inseguire Matakit e il suo diamante!… Ora, in due è sempre più facile intendersi amichevolmente… I due uomini rimasero silenziosi, lo sguardo fisso sui tizzoni, la mente immersa in meditazioni criminali. — Sì… in due ci si può sempre intendere! — ripeté il napoletano. — In tre è più difficile. Seguì ancora un istante di silenzio. D'un tratto, Annibale Pantalacci sollevò bruscamente la testa e fissò lo sguardo nelle tenebre che lo circondavano. — Non avete visto niente? — chiese a voce bassa. — M'è sembrato di scorgere un'ombra dietro quel baobab! James Hilton guardò a sua volta; ma, per quanto acuto fosse il suo sguardo, non vide nulla di sospetto nelle vicinanze del campo. — Non è nulla! — disse. — È solo la biancheria che il cinese ha steso alla rugiada. Ben presto la conversazione fu ripresa fra i due complici ma, questa volta, a mezza voce: — Io potrei togliere le cartucce dal suo fucile, senza che se ne accorga! — diceva Annibale Pantalacci. — Poi, al momento di attaccare un elefante, potrei tirare un colpo dietro a lui, in modo che l'animale si accorgesse di lui in quell'istante… e non ci vorrà molto! — È forse troppo rischioso quel che proponete! — obbiettò debolmente James Hilton. — Bah! lasciate fare a me e vedrete che andrà tutto da sé, — replicò il napoletano. Un'ora dopo, quando tornò a riprendere il suo posto presso i dormienti, sotto la tenda, Annibale Pantalacci ebbe cura di accendere un cerino per accertarsi che nessuno si era mosso. Poté così constatare che Cyprien, Bardik e il cinese erano profondamente addormentati. Almeno ne avevano tutta l'aria. Ma se il napoletano fosse stato più accorto, avrebbe potuto notare nel rumoroso russare di Li qualche cosa di artificioso e sornione.

Allo spuntare del giorno, tutti erano in piedi. Annibale Pantalacci seppe approfittare del momento in cui Cyprien s'era recato al vicino ruscello per dedicarsi alle abluzioni mattutine per togliere le cartucce dal suo fucile. Fu questione di venti secondi. Era completamente solo. In quel momento, Bardik stava facendo il caffè, il cinese stava raccogliendo la bancheria che aveva esposto alla rugiada notturna sulla sua famosa corda tesa fra due baobab. Certamente dunque nessuno aveva visto nulla. Preso il caffè, si parti a cavallo, lasciando il carro e il bestiame sotto la custodia di Bardik. Li aveva chiesto di poter seguire i cavalieri, e si era armato solamente del coltello da caccia del suo padrone. In meno di mezz'ora i cavalieri arrivarono nel luogo in cui, la sera precedente, erano stati visti gli elefanti. Ma quel giorno dovettero spingersi un po' più lontano per trovarli e raggiunsero una larga radura che si apriva tra le falde della montagna e la riva destra del fiume. In un'atmosfera limpida e fresca illuminata dai primi raggi del sole su un immenso tappeto di erbetta fine e minuta, ancora tutta umida di rugiada, una intera tribù d'elefanti, - due o trecento almeno, - stava facendo colazione. I piccoli sgambettavano allegramente intorno alle madri oppure succhiavano loro silenziosamente il latte. I grandi, con la testa al sole, muovendo regolarmente la proboscide pascolavano la fitta erba della prateria. Quasi tutti si sventolavano con le larghe orecchione simili a dei manti di cuoio, che agitavano come dei punkas indiani. C'era, in quella pace e in quella felicità domestica, qualche cosa di talmente sacro, per così dire, che Cyprien ne fu profondamente scosso e propose ai compagni di rinunciare al massacro progettato. — A che scopo uccidere quelle creature inoffensive? — disse. — Non sarebbe meglio lasciarle in pace nella loro solitudine? Ma la proposta, per più di un motivo, non poteva garbare ad Annibale Pantalacci. — A che scopo? — ribatté quello sghignazzando — ma a riempire le nostre saccocce, procurandoci parecchi quintali d'avorio. O forse quelle grosse bestie vi fanno paura, signor Méré?

Cyprien scrollò le spalle, senza degnarsi di raccogliere quell'insolenza. Tuttavia, quando vide il napoletano e il suo compagno continuare ad avanzarsi nella radura, li seguì anche lui. Ora tutti e tre non erano che a duecento metri di distanza dagli elefanti. Se quelle intelligenti bestie, con il loro udito finissimo, sempre in allarme, non avevano ancora notato l'avvicinarsi dei cacciatori, era solo perché questi erano sotto vento, protetti inoltre da una fitta selva di baobab. Frattanto uno degli elefanti cominciava a dare segni di inquietudine e alzava la proboscide quasi a forma di punto interrogativo. — Ecco il momento, — disse Annibale Pantalacci a mezza voce. — Se vogliamo raggiungere un buon risultato, dobbiamo dividerci e scegliere ciascuno una posizione, poi tirare contemporaneamente, a un segnale convenuto, perché al primo colpo di fucile, tutto il branco prenderà la fuga. Messisi d'accordo su questo punto, James Hilton si allontanò verso destra. Contemporaneamente, Annibale Pantalacci si diresse verso sinistra e Cyprien rimase nel centro. Quindi tutti e tre ripresero silenziosamente il cammino verso la radura. In quel momento, Cyprien, con molta sorpresa, sentì due braccia improvvisamente circondarlo con una stretta vigorosa, mentre la voce di Li gli sussurrava all'orecchio: — Sono io!… Sono saltato in groppa dietro di voi!… Non dite nulla!… Fra poco saprete il perché! Cyprien giungeva in quella al margine del bosco e non si trovava che a una trentina di metri dagli elefanti. Stava già armando il fucile per essere pronto, a qualsiasi sorpresa quando il cinese gli disse ancora: — Il vostro fucile è scarico!… Non preoccupatevi!… Va tutto bene! Va tutto bene!… Nello stesso istante squillò il fischietto che doveva essere il segnale convenuto per l'attacco generale, e quasi subito dopo, un colpo di fucile - uno solo - partì dietro a Cyprien.

Questi si voltò prontamente e vide Annibale Pantalacci, che cercava di nascondersi dietro un tronco d'albero. Ma, quasi subito, un fatto più grave richiamò la sua attenzione. Uno degli elefanti, senza dubbio ferito e furioso per la ferita, s'era lanciato contro di lui. Gli altri, come aveva previsto il napoletano, s'erano affrettati a fuggire riempiendo l'aria di un trepestio tremendo che faceva vibrare il suolo nel giro di duemila metri. — Eccoci, — gridò Li, sempre aggrappato a Cyprien. — Nel momento in cui l'elefante sta per piombare sii di voi, fate fare uno scarto a Templari… Poi girate intorno a quel cespuglio e lasciatevi inseguire dall'elefante!… Io m'incarico del resto! Cyprien ebbe appena il tempo d'eseguire macchinalmente queste istruzioni. Con la proboscide levata, gli occhi iniettati di sangue, la bocca spalancata, le zanne puntate in avanti, l'enorme pachiderma arrivava verso di lui con incredibile rapidità. Templar si comportò da vecchio volpone. Obbedendo con mirabile precisione alla pressione delle ginocchia del suo cavaliere, esso compì al momento giusto un brusco scarto verso destra. Così l'elefante, lanciato a tutta velocità andò a prendere il posto che cavallo e cavaliere avevano appena lasciato, pur senza raggiungerli. Frattanto il cinese, dopo aver sguainato il coltello senza dir parola, s'era lasciato scivolare a terra e, con un movimento rapido, si precipitò dietro il cespuglio, che aveva indicato al suo padrone. — Là!… là… Girate attorno a quel cespuglio!… Lasciatevi inseguire!… — gridò egli di nuovo. L'elefante ritornava su di loro, più che mai furioso per aver fallito nel suo primo attacco. Cyprien, pur non comprendendo chiaramente lo scopo di questa manovra indicatagli da Li, la eseguì puntualmente. Egli girò attorno al cespuglio, seguito dal pachiderma, ansante, ed eluse due volte ancora il suo attacco con uno scarto improvviso del cavallo. Ma questa tattica poteva durare a lungo? Li sperava in tal modo di stancare l'animale? Questo era quanto Cyprien si chiedeva senza poter trovare una risposta soddisfacente, quando d'improvviso, con sua grande sorpresa, l'elefante cadde sulle ginocchia.

Li, cogliendo con destrezza incomparabile il momento propizio era strisciato nell'erba fin sotto le zampe dell'animale, e, con una sola coltellata, gli aveva tagliato di netto quel tendine del piede, che nell'uomo è detto tallone d'Achille. È così che usano fare gli Indù, nella caccia agli elefanti e il cinese doveva aver più volte praticato questa tattica a Ceylon dal momento, che la aveva eseguita con una precisione e un sangue freddo fantastici. Atterrato e impotente, l'elefante rimase immobile, agitando la testa nella folta erba. Un rivolo di sangue che colava dalla ferita, lo indeboliva a vista d'occhio. — Urrà!… Bravo!… — gridarono subito Annibale Pantalacci e James Hilton comparendo sul teatro della lotta. — Bisogna finirlo con una scarica nell'occhio! — riprese James Hilton, che sembrava provare un irresistibile bisogno di agitarsi e di prendere parte attiva in quel dramma. Ciò detto imbracciò il fucile e fece fuoco. Immediatamente si udì l'esplosione della pallottola nel corpo del gigantesco quadrupede il quale ebbe un'ultima convulsione, poi restò immobile, simile a una roccia grigia caduta al suolo. — È finita! — gridò James Hilton, spingendo il cavallo vicino all'animale per vederlo meglio. «Aspettate!… Aspettate!…» sembrava dire lo sguardo del cinese rivolgendosi al suo padrone. Non ci volle molto tempo perché si compisse l'orribile ma inevitabile epilogo di quella scena. Infatti appena James Hilton giunse presso l'elefante, si piegò sulla staffa e, per derisione, cercò di sollevargli una delle sue enormi orecchie. Ma l'animale con un movimento repentino raddrizzò la proboscide, la calò sull'imprudente cacciatore, gli ruppe la colonna vertebrale e gli sfracellò la testa, prima che gli stupefatti testimoni di quello spaventoso finale avessero il tempo di prevenirlo. James Hilton non poté che gettare un ultimo grido. In tre secondi era ridotto a un ammasso di carni sanguinose, sul quale l'elefante ricadde per non rialzarsi più.

— Ero sicuro che faceva il morto! — disse sentenziosamente il cinese, scuotendo la testa. — La vendetta dell'elefante non manca mai, quando gliene si presenta l'occasione. Tale fu l'orazione funebre per James Hilton. Il giovane ingegnere, ancora sotto lo choc del tradimento di cui per poco non era rimasto vittima, non poteva fare a meno di vedere nel fatto il giusto castigo per uno di quei miserabili che avevano cercato di abbandonarlo senza difesa al furore di un così terribile animale. Quanto al napoletano, quali fossero i suoi pensieri in proposito, giudicò opportuno tenerli per sé. Frattanto il cinese era già intento a scavare, col coltellaccio da caccia, sotto il tappeto erboso della prateria, una fossa, nella quale, aiutato da Cyprien, depose i miseri resti informi del suo nemico. Questa operazione occupò un certo tempo, e il sole era già alto sull'orizzonte quando i tre cacciatori ripresero il cammino per l'accampamento. Quando vi arrivarono, quale non fu la loro sorpresa?… Bardik non c'era più.

CAPITOLO XVI IL TRADIMENTO CHE COSA era dunque successo al campo durante l'assenza di Cyprien e dei suoi due compagni? Era difficile dirlo, finché il giovane cafro non fosse ricomparso. Si attese dunque Bardik, lo si chiamò, lo si cercò da tutte le parti. Non fu possibile trovare alcuna traccia di lui. La colazione, che egli aveva cominciato a preparare, rimasta accanto al fuoco spento, sembrava indicare che la sua sparizione risaliva solo a due o tre ore prima. Cyprien doveva limitarsi a delle congetture su quel che aveva potuto provocarla ma niente poteva confermarle. Che il giovane cafro fosse stato attaccato da una bestia feroce, era poco probabile: non c'era alcun segno di lotta sanguinosa e neppure di disordine nei dintorni. Che egli avesse disertato per ritornare al suo paese, come sovente fanno i cafri, era ancora meno verosimile da parte di un domestico così devoto; e il giovane ingegnere si rifiutò nel modo più assoluto di accettare una simile ipotesi proposta da Annibale Pantalacci. In breve, dopo una mezza giornata di ricerche, il giovane cafro non era stato ritrovato e la sua scomparsa rimase un fatto decisamente inspiegabile. Annibale Pantalacci e Cyprien tennero dunque consiglio. Dopo una certa discussione, stabilirono di aspettare fino all'indomani mattina prima di levare il campo. Forse nel frattempo, Bardik sarebbe tornato se per caso si fosse smarrito inseguendo qualche animale selvatico che poteva aver risvegliato la sua avidità di cacciatore. Ma ricordando la visita che alcuni cafri avevano fatto a uno degli ultimi campi, tenendo conto delle domande fatte a Bardik e a Li, del

timore da loro manifestato alla vista degli stranieri, forse delle spie avventuratesi nel paese di Tonaia, ci si poteva chiedere, a ragione, se per caso Bardik, caduto nelle mani di quegli indigeni, non fosse stato condotto fino alla loro capitale. La giornata si concluse tristemente e la sera fu più lugubre ancora. Una ventata di sventura sembrava soffiare sulla spedizione. Annibale Pantalacci era muto e rabbioso. I suoi due complici, Friedel e James Hilton erano morti, e ora egli rimaneva solo di fronte al suo giovane nemico, ma più che mai deciso a sbarazzarsi di un rivale di cui non ne voleva sapere né per l'affare del diamante, né per l'affare del matrimonio. E veramente per lui queste due cose non erano altro che affari. Quanto a Cyprien - a cui Li aveva raccontato tutto ciò che aveva udito a proposito della sottrazione delle cartucce - doveva ora guardarsi, giorno e notte, dal suo compagno di viaggio. Il cinese a dire la verità, faceva conto di assumersi una buona parte di tale compito. Cyprien e Annibale Pantalacci passarono la serata fumando accanto al fuoco, silenziosamente, e si ritirarono sotto la tenda del carro, senza nemmeno scambiarsi un buonasera. Toccava a Li fare la guardia presso il fuoco, acceso per tenere lontane le bestie feroci. L'indomani, al sorgere del giorno, il giovane cafro non era ancora tornato all'accampamento. Cyprien avrebbe volentieri atteso ventiquattro ore ancora per. dare al suo domestico un'ultima possibilità di tornare, ma il napoletano insistette perché si partisse all'istante. — Si può fare a meno di Bardik, — disse — e aspettare ancora significa correre il rischio di non poter raggiungere Matakit! Cyprien si arrese e il cinese si diede da fare per radunare i buoi per la partenza. Nuova sventura e ancor più grave. Anche i buoi non si trovavano più. La sera precedente essi stavano ancora accovacciati nella radura intorno all'accampamento!… Ma la mattina era impossibile vederne anche soltanto uno. Fu allora che si poté misurare la gravità della perdita che la spedizione aveva avuto nella persona di Bardik! Se quell'intelligente

servitore fosse stato presente, al suo posto, non avrebbe mancato, lui che conosceva le abitudini della razza bovina nell'Africa australe, di legare a degli alberi o a dei picchetti quelle bestie che s'erano riposate un'intera giornata. Di solito, quando facevano la sosta, dopo una lunga giornata di marcia, la precauzione era inutile; i buoi estenuati dalla fatica, non pensavano che a pascolare nelle vicinanze del carro, quindi si sdraiavano per la notte e, al risveglio, si allontanavano al massimo di un centinaio di metri. Ma non era la stessa cosa dopo una intera giornata di riposo e di rifocillamento. Evidentemente la prima cura di quelle bestie, al loro risvegliarsi doveva esser stata quella di cercare delle erbe più buone di quelle di cui si erano nutrite il giorno precedente. In vena di vagabondare s'erano allontanate a poco a poco, avevano perso di vista il campo e, trascinate da quell'istinto che le riconduce alla stalla, è probabile che, una dietro l'altra, avessero tranquillamente ripreso la via del Transvaal. Si trattava di un vero e proprio disastro che, se non è raro nelle spedizioni dell'Africa australe non per questo è meno grave perché senza il tiro il carro diventa inutile, e il carro per il viaggiatore africano è ad un tempo la casa, il magazzino, la fortezza. Fu dunque grande il disappunto di Cyprien e di Annibale Pantalacci quando, dopo una corsa affannosa di due o tre ore sulle tracce dei buoi, dovettero ammettere che bisognava rinunciare ad ogni speranza di recuperarli. La situazione era particolarmente grave e, ancora una volta, bisognava prendere una decisione. Ora, non c'era che una sola cosa pratica da fare in simile congiuntura: abbandonare il carro, caricarsi di tutte le provviste e di tutte le munizioni che si potevano portare e continuare il viaggio a cavallo. Se le circostanze fossero state favorevoli, avrebbero forse potuto negoziare con un capo cafro per l'acquisto di un nuovo tiro di buoi, in cambio di un fucile o di qualche cartuccia. Quanto a Li, si sarebbe servito del cavallo di James Hilton che, lo sappiamo, non aveva più padrone. Si misero dunque all'opera per tagliare dei rami spinosi, con cui ricoprire il carrozzone di modo che rimanesse nascosto sotto una specie di cespuglio artificiale. Poi ognuno prese biancheria, scatole di

conserve e munizioni nella maggior quantità che il suo sacco e le sue tasche potevano contenere. Con suo gran rammarico, il cinese dovette rinunciare a portare la sua cassa rossa, che era troppo pesante; ma fu impossibile convincerlo a lasciare la sua corda, che si avvolse intorno alle reni, sotto la giacca, come una cintura. Terminati questi preparativi, dopo un ultimo sguardo a quella vallata che era stata teatro di avvenimenti così tragici, i tre cavalieri ripresero il cammino verso le alture. Questa strada, come ogni altra della zona, consisteva in un semplice sentiero battuto dalle bestie feroci che seguono, per recarsi all'abbeveratoio, quasi sempre la via più breve. Era mezzogiorno passato e, sotto un solleone, Cyprien, Annibale Pantalacci e Li marciarono con passo sostenuto fino a sera; poi quando ebbero fissato il campo in una gola profonda, al riparo d'una grande roccia, seduti intorno a un buon fuoco di legna secca, riconobbero che dopo tutto la perdita del carro non era irreparabile. Per due giorni ancora, avanzarono così senza sognarsi di essere sulle tracce proprio di colui che stavano cercando. E difatti, la sera del secondo giorno, un po' prima del tramonto del sole, mentre si dirigevano a piccolo trotto verso una macchia d'alberi sotto la quale contavano di passare la notte, Li diede in una esclamazione soffocata: — Hugh! — fece, indicando col dito un puntino nero che si muoveva all'orizzonte sotto gli ultimi raggi del crepuscolo. Gli sguardi di Cyprien e di Annibale Pantalacci seguirono naturalmente la direzione indicata dal dito del cinese: — Un viaggiatore! — esclamò il napoletano. — È proprio Matakit! — rispose Cyprien, che s'era affrettato ad avvicinare all'occhio il binocolo. — Vedo benissimo la sua carrozzina e lo struzzo!… È lui! E passò il binocolo a Pantalacci, che poté controllare a sua volta l'esattezza del fatto. — A che distanza credete si trovi da noi in questo momento? — chiese Cyprien. — A sette o otto miglia almeno, ma forse anche a dieci — rispose il napoletano.

— Allora dobbiamo rinunciare alla speranza di raggiungerlo oggi, prima di fare la sosta? — Certamente, — rispose Annibale Pantalacci. — Fra una mezz'ora, sarà notte fitta, e non si potrà più pensare di fare un passo in quella direzione! — Va bene! Domani noi siamo sicuri di raggiungerlo, partendo di buon'ora! — È proprio quello che penso anch'io. I cavalieri in quella erano arrivati alla macchia d'alberi e scesero a terra. Secondo la solita abitudine cominciarono dapprima coll'occuparsi dei cavalli che strigliarono e governarono con cura, prima di legarli a dei picchetti per lasciarli pascolare. Nel frattempo, il cinese si occupava di accendere il fuoco. Durante questi preparativi calò la notte. Il pranzo fu quella sera forse un po' più allegro di quel che non era stato da tre giorni a quella parte. Ma non appena fu terminato, i tre viaggiatori, avvolgendosi nelle loro coperte, accanto al fuoco debitamente alimentato per tutta la notte, la testa poggiata sulle selle, si disposero a dormire. Era necessario che fossero in piedi prima di giorno, per bruciare le tappe e raggiungere Matakit. Cyprien e il cinese si addormentarono subito profondamente, cosa che non sarebbe forse stata prudente da parte loro. Non lo era neppure da parte del napoletano. Per due o tre ore si agitò sotto la coperta, come un uomo assalito da un'idea fissa. Una tentazione criminale s'impadronì di lui. Alla fine, non resistendo più, si alzò in massimo silenzio, si avvicinò ai cavalli, sellò il suo; poi staccando Templar e quello del cinese, e tirandoli per le redini, se li portò dietro. La fine erba di cui era ricoperto il terreno soffocava completamente il rumore dei passi dei tre animali che, con completa passività si lasciavano condurre, tutti storditi per quell'improvviso risveglio. Annibale Pantalacci li fece discendere fino al fondo della valle, sul cui declivio si erano accampati, li legò ad un albero e ritornò al campo. Né l'uno né l'altro dei due dormienti si era mosso.

Il napoletano radunò allora la coperta, il fucile, le munizioni e qualche provvista alimentare; poi freddamente, deliberatamente abbandonò i suoi due compagni in mezzo a quel deserto. L'idea che lo aveva preso fin dalla sera precedente era che, trascinando via i due cavalli, egli metteva Cyprien e Li nell'impossibilità di raggiungere Matakit. Ciò significava quindi assicurare a sé la vittoria. L'odiosità di un simile tradimento, la vigliaccheria che mostrava nel depredare a quel modo dei compagni, dai quali non aveva ricevuto che benefici, nulla fu capace di arrestare quel miserabile. Balzò in sella e, tirandosi dietro i due cavalli che sbuffavano rumorosamente nel luogo dove li aveva lasciati, si allontanò al trotto sotto i raggi della luna il cui disco appariva al disopra delle colline. Cyprien e Li dormivano sempre. Alle tre del mattino soltanto, il cinese aprì gli occhi e contemplò le stelle che scomparivano sull'orizzonte verso est. «È ora di fare il caffè!» si disse. E senza più tardare, scostando la coperta nella quale si era avvolto, saltò in piedi e iniziò la sua toletta mattutina, che egli non mancava di fare nel deserto così come in città. «Dov'è dunque Pantalacci?» si chiese improvvisamente. L'alba cominciava a spuntare, e le cose all'intorno diventavano meno indistinte. «I cavalli non ci sono più!» si disse Li, «Vuoi vedere che quel brav'uomo…» E sospettando quel che era successo corse verso i paletti, ai quali aveva visto attaccati i cavalli la sera precedente, fece il giro dell'accampamento e fu in grado, con un colpo d'occhio, di stabilire che tutti gli oggetti appartenenti al napoletano erano spariti insieme a lui. La cosa era chiara. Un uomo di razza bianca non avrebbe probabilmente resistito al naturale impulso di svegliare Cyprien per comunicargli sull'istante questa gravissima notizia. Ma il cinese era di razza gialla e pensava che, quando si tratta di annunciare una sventura, non c'è fretta. Si mise dunque tranquillamente a fare il caffè.

«È stato già molto gentile da parte di quel briccone di averci lasciato le nostre provviste» andava ripetendosi. Dopo aver convenientemente e precisamente filtrato il caffè attraverso una tasca di tela, che aveva fabbricata a tale scopo, Li ne riempi due tazze, ricavate dal guscio di un uovo di struzzo, che egli portava abitualmente appese all'occhiello: poi s'avvicinò a Cyprien che continuava a dormire. — Ecco pronto il vostro caffè, piccolo padre — gli disse cortesemente toccandogli la spalla. Cyprien aprì un occhio, stirò le membra, sorrise al cinese, si levò a sedere e bevette la bevanda fumante. — Dov'è Pantalacci? — chiese. — Partito, piccolo padre! — rispose Li con il tono più naturale, come se si fosse trattato di una cosa scontata. — Come?… partito? — Sì, piccolo padre, coi tre cavalli! Cyprien si sbarazzò della coperta e volse attorno uno sguardo con il quale comprese tutto. Ma il suo cuore era troppo fiero perché lasciasse trapelare la sua agitazione e la sua indignazione. — Molto bene — disse — ma che quel miserabile non creda di aver detto l'ultima parola! Cyprien fece cinque o sei passi in lungo e in largo, assorto nei suoi pensieri, cercando la risoluzione che conveniva prendere. — Bisogna partire immediatamente! — disse al cinese. — Lasceremo qui le selle, le briglie, tutto quello che sarebbe ingombrante o troppo pesante e non porteremo che i fucili e i pochi viveri che ci rimangono! Camminando di buon passo, potremo marciare quasi altrettanto velocemente e forse prendere delle strade ancor più dirette. Li s'affrettò a obbedire. In pochi minuti le coperte furono arrotolate, i sacchi caricati sulle spalle: poi tutto quello che furono costretti ad abbandonare in quel luogo, fu riunito in mucchio sotto uno spesso strato di rami e di frasche, dopodiché si misero in cammino.

Cyprien aveva avuto ragione a dire che, sotto certi aspetti, sarebbe stato forse più comodo andare a piedi. Poté infatti pigliare delle scorciatoie, superando dei dossi scoscesi che nessun cavallo avrebbe potuto scalare; ma tutto questo a prezzo di quanta fatica! Era circa l'una del pomeriggio, quando i due giunsero sul versante settentrionale della catena che percorrevano da ormai tre giorni. Secondo le informazioni fornite da Lopepe, non dovevano essere più molto lontani dalla capitale di Tonaia. Disgraziatamente, le indicazioni sulla strada da prendere erano talmente vaghe e le idee sulla distanza così confuse nella lingua dei beciuani, che era molto difficile sapere in anticipo se ci sarebbero voluti due o cinque giorni di cammino per arrivarvi. Mentre Cyprien e Li discendevano la scarpata della prima vallata, che s'era aperta davanti a loro dopo aver superato lo spartiacque, quest'ultimo uscì in una strana risatina. — Delle giraffe! — esclamò. Cyprien, guardando in basso, vide effettivamente una ventina di quegli animali intenti a pascolare sul fondo della vallata. Non c'è nulla di più aggraziato da vedere, in lontananza di quei loro lunghi colli dritti come dei pali o snodati come dei lunghi serpenti nell'erba, a tre o quattro metri dalla elegante corporatura chiazzata di macchie giallastre. — Si potrebbe prendere una di quelle giraffe e servirsene per sostituire Templar — fece notare Li. — Cavalcare una giraffa! E chi ha mai visto fare una cosa simile? — esclamò Cyprien. — Non so se la si è mai vista, ma non sta che a voi di vederla — replicò il cinese — se voi volete lasciarmi provare! Cyprien, che non aveva l'abitudine di considerare impossibile una cosa solo perché era nuova per lui, si dichiarò pronto ad aiutare Li nella sua impresa. — Ci troviamo sotto vento rispetto alle giraffe, — disse il cinese — e questa è una fortuna perché esse hanno l'odorato molto fino e si sarebbero già accorte di noi! Dunque se voi volete aggirarle sulla destra e poi spaventarle con un colpo di fucile, in modo da spingerle dalla mia parte, non ci sarà bisogno di altro; al resto ci penso io!

Cyprien s'affrettò a deporre a terra tutto quello che avrebbe potuto impacciargli i movimenti e, armato del fucile, si dispose a eseguire la manovra indicatagli dal suo servitore. Quello, dal canto suo, non perse tempo. Discese correndo la ripida scarpata della valle, fino a quando fu arrivato presso un sentiero battuto che ne percorreva il fondo. Doveva evidentemente essere il percorso delle giraffe, a giudicare dalle innumerevoli impronte che vi avevano impresso i loro zoccoli. Là il cinese prese posizione dietro un grosso albero, svolse la lunga corda da cui non si separava mai e, tagliandola in due, ne formò due pezzi della lunghezza ciascuno di trenta metri. Poi dopo aver attaccato un grosso sasso a una delle estremità di ciascuna corda - facendone un eccellente lazo -attaccò saldamente l'altra estremità ai rami più bassi dell'albero. Infine dopo essersi preoccupato di arrotolare sul braccio sinistro le estremità libere di queste due specie di armi si nascose dietro il tronco e rimase in attesa. Cinque minuti dopo un colpo di arma da fuoco echeggiò a breve distanza. Subito seguì uno scalpiccio rapido, il cui rumore, simile a quello di uno squadrone di cavalleria, s'ingrossava di secondo in secondo annunciando che le giraffe scappavano, come Li aveva previsto. Si dirigevano dritte verso di lui, seguendo il loro sentiero, ma senza sospettare la presenza di un nemico, che si trovava sotto vento. Quelle giraffe erano davvero superbe, con le narici al vento, le teste scompigliate, le lingue penzolanti in fuori. Ma Li non si curava minimamente di ammirarle. Aveva giudiziosamente scelto il suo posto presso una strozzatura del sentiero dove le giraffe non potevano passare che a due per volta: non aveva che da aspettare. Ne lasciò dapprima passare tre o quattro; poi, avvistandone una, che era di proporzioni straordinarie, lanciò uno dei due lazi. La corda fischiò, s'avvolse attorno al collo della bestia, che fece ancora qualche passo; ma subito la corda si tese, le serrò la gola ed essa dovette arrestarsi. Il cinese, nel frattempo, non aveva perso tempo. Non appena vide che il primo lazo aveva colto nel segno, afferrato il secondo lazo, lo aveva gettato su di un'altra giraffa.

Il tiro non fu meno felice del primo. Tutto ciò era accaduto in meno di mezzo minuto. Già il branco spaventato s'era disperso in ogni direzione; ma le due giraffe, mezzo strangolate e ansimanti, erano rimaste prigioniere. — Venite dunque, piccolo padre! — gridò il cinese a Cyprien, che corse verso di lui ancora poco fiducioso nell'impresa. Ma dovette pure arrendersi all'evidenza. C'erano là due bestie superbe, grandi, forti, ben in carne, dai garretti sottili, dal dorso lucente. Ma per quanto Cyprien le guardasse e le rimirasse, l'idea di servirsene come di una cavalcatura continuava a sembrargli irrealizzabile. — Com'è possibile tenersi su una simile schiena, che discende verso il posteriore con una inclinazione di sessanta centimetri almeno? — chiedeva ridendo. — Ma mettendosi a cavalcioni sulle loro spalle e non sui fianchi della bestia, — rispose Li. — D'altronde è poi così difficile mettere una coperta arrotolata sotto la parte posteriore della sella? — Ma noi non abbiamo selle. — Andrò subito a cercare la vostra. — E che morso metteremo alle loro bocche? — È quello che vedrete. Il cinese aveva una risposta per tutto e, in lui, gli atti seguivano prontamente alle parole. L'ora del pranzo non era ancor giunta, che lui aveva già fatto, con una parte della corda due cavezze molto forti, che infilò alle giraffe. Le povere bestie erano così stordite a causa di quello che era loro accaduto, e d'altronde la loro indole era tanto mansueta, che non opposero alcuna resistenza. Altri pezzi di corda, dovevano servire da redini. Terminati questi preparativi, fu facilissimo trascinarsi dietro le due prigioniere. Cyprien e Li, ritornando sui loro passi raggiunsero il luogo del campo del giorno precedente per riprendere la sella e gli oggetti che vi avevano dovuto abbandonare. La sera fu spesa nel completare queste sistemazioni. Il cinese era davvero di un'abilità fantastica. Non soltanto egli riuscì in breve tempo a modificare la sella di Cyprien, in modo tale che essa poteva

venir sistemata orizzontalmente sul dorso di una delle giraffe, ma costruì per sé una sella con dei rami; poi per maggiore precauzione, passò metà della notte a stancare le velleità di resistenza delle due giraffe, montandole una dopo l'altra, mostrando loro, con perentori argomenti, che dovevano obbedire.

CAPITOLO XVII UNA CORSA A OSTACOLI AFRICANA L'ASPETTO dei due cavalieri, quando l'indomani mattina si misero in viaggio, era abbastanza stravagante. Non si sa bene se a Cyprien sarebbe molto piaciuto mostrarsi così equipaggiato alla signorina Watkins nella grande strada del campo di Vandergaart. Ma bisogna far di necessità virtù. Del resto erano nel deserto, e colà cavalcare una giraffa non è molto più strano che montare un dromedario. La loro andatura assomigliava molto a quella dei «vascelli del deserto». Era terribilmente rigida e caratterizzata da un certo beccheggio che sul principio causò ai due viaggiatori un leggero mal di mare. Ma in due o tre ore, Cyprien e il cinese si furono abbastanza abituati. Ora, siccome le giraffe camminavano di buona lena e si mostravano molto docili, dopo qualche tentativo di rivolta che fu subito represso, tutto procedeva per il meglio. Si trattava ora di riguadagnare, col massimo sforzo, tutto il tempo perduto nei tre o quattro ultimi giorni di viaggio. Matakit a quest'ora ne doveva aver fatta di strada! Forse Annibale Pantalacci lo aveva già raggiunto? Comunque fossero le cose Cyprien era ben risoluto a non tralasciare nulla per raggiungere lo scopo. Tre giorni di marcia avevano portato i cavalieri, o per meglio dire i giraffieri, nella pianura. Essi seguivano ora la riva destra d'un fiume molto sinuoso, che scorreva precisamente nella direzione del nord, senza dubbio uno degli affluenti secondari dello Zambesi. Le giraffe, completamente domate e, per giunta indebolite dalle lunghe marce e dalla dieta alla quale Li le sottometteva sistematicamente, si lasciavano guidare con estrema facilità. Cyprien poteva adesso allentare le lunghe redini della sua cavalcatura e dirigerla anche solo con la pressione delle ginocchia.

Così, liberatosi di questa preoccupazione, provava un vero piacere nell'uscire dalle regioni selvagge e deserte che si erano appena lasciati alle spalle, a riconoscere da ogni parte le tracce di una civilizzazione già avanzata. Si vedevano, di tanto in tanto, dei campi di manioca o di taro regolarmente coltivati e irrigati con una serie di canne di bambù, inserite una dentro l'altra, che portavano l'acqua dal fiume, delle strade larghe e ben battute, insomma un'aria generale di prosperità; poi sulle colline che si disegnavano all'orizzonte, delle capanne bianche, a forma d'alveari, che accoglievano una popolazione molto fitta. Però ci si accorgeva di essere ancora al limitare del deserto, non foss'altro che per il numero straordinario di animali selvaggi, ruminanti o no, che popolavano quella pianura. Qua e là, degli sciami innumerevoli di volatili, di ogni grandezza e di ogni specie, oscuravano l'aria. Si vedevano delle frotte di gazzelle o d'antilopi, che attraversavano la strada; a volte un ippopotamo mostruoso sollevava la testa dall'acqua del fiume, russava rumorosamente e ripiombava sott'acqua col fracasso di una cateratta. Tutto intento a questo spettacolo, Cyprien non s'aspettava per nulla quello che il caso gli riservava a una delle curve della collina che egli seguiva col suo compagno. Si trattava, niente di meno, che di Annibale Pantalacci, sempre a cavallo, che inseguiva a briglia sciolta Matakit in persona! Un miglio al massimo li separava l'uno dall'altro, ma erano lontani almeno quattro miglia da Cyprien e dal cinese. Non c'era la minima possibilità di dubbio con quel sole splendente i cui raggi cadevano quasi a picco in quella pianura spoglia inondata da una luce abbagliante e attraverso quell'atmosfera limpida ripulita da un forte vento che soffiava da est. Entrambi furono così felici di quella scoperta che il loro primo impulso fu quello di abbandonarsi alla pazza gioia. Cyprien, diede in un urrà di gioia, Li in un «hugh!» che aveva lo stesso significato. Poi lanciarono le giraffe al trotto. Evidentemente Matakit aveva scorto il napoletano, che cominciava a guadagnar terreno su di lui; ma non poteva vedere il

suo antico padrone e il suo compagno del Kopje, ancora troppo lontani al margine della pianura. Perciò il giovane cafro, vedendo quel Pantalacci, che non era uomo da concedergli grazia e che, senza nessuna spiegazione, lo avrebbe ucciso come un cane, affrettava più che poteva la sua carrozzina tirata dallo struzzo. Il veloce animale divorava il terreno, come si suol dire. Anzi correva talmente veloce che andò a sbattere contro una grossa pietra. La scossa fu talmente violenta che l'asse della carrozzina, già logorato dal lungo e difficile viaggio, si ruppe di netto. Essendosi sfilata dall'asse una delle ruote, Matakit e il suo carrozzino uno dopo l'altro si rovesciarono nel bel mezzo della strada. Lo sventurato cafro riportò delle gravi lesioni in seguito alla sua caduta. Ma il terrore che lo dominava fu anche superiore a un simile choc, fu addirittura raddoppiato. Ben convinto che era finita per lui se si lasciava raggiungere da quel crudele napoletano, si rialzò più velocemente possibile, staccò lo struzzo in un batter d'occhio e slanciatosi a cavalcioni su di esso, lo rimise al galoppo. Allora cominciò una vertiginosa corsa a ostacoli, come forse non si era mai più vista dal tempo del circo romano ove sovente facevano parte del programma anche le corse di struzzi e di giraffe. Mentre Annibale Pantalacci inseguiva Matakit, Cyprien e Li si slanciarono sulle tracce dell'uno e dell'altro. Non avevano forse interesse ad impadronirsi entrambi del giovane cafro per definire finalmente la questione del diamante rubato e del miserabile napoletano per punirlo come si meritava? Le giraffe, lanciate a tutta velocità dai loro cavalieri, che avevano assistito all'infortunio capitato, correvano colla velocità di cavalli puro sangue, col lungo collo proteso in avanti, la bocca aperta, le orecchie rovesciate ed erano speronate, frustate e forzate a correre alla massima velocità possibile. Quanto allo struzzo di Matakit, la sua rapidità era prodigiosa; non c'era nessun vincitore del Derby o del Grand Prix di Parigi che avrebbe potuto competere con esso. Le sue corte ali, inutili per volare, gli servivano però per accelerare la sua corsa. Tutto ciò lo rendeva talmente superiore che in meno di pochi minuti il giovane

cafro aveva di molto aumentato la distanza che lo separava dal suo inseguitore. Ah! Matakit aveva scelto molto bene la sua cavalcatura, prendendo uno struzzo! Se soltanto avesse potuto mantenere quella andatura per un quarto d'ora, sarebbe diventato definitivamente fuori portata e si sarebbe liberato dalle grinfie del napoletano. Annibale Pantalacci d'altronde capiva bene che il minimo ritardo gli avrebbe fatto perdere tutto il suo vantaggio. Già si accresceva la distanza fra il fuggitivo e lui. Al di là del campo di mais, attraverso il quale si effettuava questa caccia, una fitta boscaglia di lentischi e di fichi d'India, scossi dal vento, stendeva la sua oscura cornice a perdita d'occhio. Se Matakit l'avesse raggiunta, sarebbe stato impossibile ritrovarlo, poiché non lo si sarebbe più visto. Seguitando a galoppare, Cyprien e il cinese seguivano quella lotta con un interesse che possiamo del resto immaginare. Erano arrivati finalmente ai piedi della collina e correvano attraverso i campi ma ancora tre miglia li separavano dall'inseguito e dall'inseguitore. Frattanto poterono vedere che il napoletano, con uno sforzo inaudito, aveva riguadagnato un po' di terreno. O perché lo struzzo era sfinito, o perché si era ferito contro un ceppo o contro una roccia, la sua velocità era stranamente diminuita. Annibale Pantalacci si trovò ben presto soltanto a trecento piedi dal cafro. Ma Matakit aveva finalmente raggiunto i margini della foresta; poi disparve ad un tratto e, nello stesso momento, Annibale Pantalacci, violentemente disarcionato, rotolava al suolo mentre il cavallo fuggiva attraverso la campagna. — Matakit ci sfugge! — gridò Li. — Sì, ma è in nostro potere quel briccone di Pantalacci, — rispose Cyprien. E tutti e due accelerarono l'andatura delle loro giraffe. Una mezz'ora dopo, attraversato quasi tutto il campo di mais, si trovarono a soli cinquecento passi dal punto dove il napoletano era caduto. La questione era ora di sapere se Annibale Pantalacci aveva potuto rialzarsi e inoltrarsi nella macchia di lentischi, o se giaceva al, suolo, gravemente ferito, per la caduta, o forse morto!

Il miserabile era ancora là. A cento passi da lui Cyprien e Li s'arrestarono. Ecco che cosa era successo. Il napoletano, nell'ardore dell'inseguimento, non aveva visto una gigantesca rete tesa dai cafri per prendere gli uccelli che danneggiano continuamente il loro raccolto. E proprio in questa rete s'era impigliato Annibale Pantalacci. E non si trattava di una rete di piccole dimensioni! Questa era come minimo di cinquanta metri di lato e aveva imprigionato già molte migliaia di uccelli di ogni specie, di ogni taglia, dal più svariato piumaggio e, tra gli altri, una mezza dozzina di gipeti che hanno un'apertura alare di un metro e mezzo, i quali non disdegnano affatto i paesi dell'Africa australe. La caduta del napoletano in mezzo a quello sciame di volatili li aveva messi naturalmente in grande agitazione. Annibale Pantalacci, dapprima un po' stordito per la caduta, aveva cercato quasi subito di rialzarsi. Ma i piedi, le gambe, le mani erano così impigliati nelle maglie della rete, che egli non potè, al primo momento, liberarsene. Tuttavia non c'era tempo da perdere. Cosicché egli dava degli scrolloni terribili, tirando con tutte le sue forze la rete, sollevandola, cercando di strapparla dai paletti che la tenevano legata al suolo, mentre gli uccelli, grandi e piccoli, facevano lo stesso sforzo per. fuggire. Ma più il napoletano si agitava, più s'impigliava nelle solide maglie di quell'enorme nassa. Intanto la sorte gli serbava un'ultima umiliazione. Una delle girarle lo aveva raggiunto e sulla sua groppa vi era il cinese. Li s'era gettato a terra e con la sua fredda calma, pensando che il miglior modo per assicurarsi il prigioniero era quello di chiuderlo definitivamente nella rete, si occupò di staccare il lato della rete che era dalla sua parte con l'intenzione di intrecciare le maglie le une sulle altre. Ma in quel momento si produsse un colpo di scena inaspettato. In quella il vento si mise a soffiare con estrema violenza, piegando tutti gli alberi della zona; quasi che una tromba spaventosa fosse passata rasente il suolo.

Ora, Annibale Pantalacci, coi suoi sforzi disperati, aveva già staccato molti dei paletti che trattenevano al suolo la rete. Vedendosi allora sul punto di venir catturato, diede degli scossoni più forti che mai. Improvvisamente, sotto un violento colpo di vento, la rete si staccò. Gli ultimi legami, che trattenevano al suolo quell'immenso intreccio di corde si spezzarono e lo stormo piumato che vi era imprigionato prese il volo con un baccano assordante. Gli uccelli più piccoli riuscirono a fuggire; ma i grandi volatili, con gli artigli impigliati nelle maglie, nell'istante in cui le loro grandi ali furono libere, manovrarono con un accordo formidabile. Quei remi aerei riuniti, quei muscoli pettorali il cui movimento si compiva simultaneamente formavano, aiutati dalla furia della tempesta, una potenza così gigantesca che era in grado di sollevare un peso di cento chili con la stessa facilità di una piuma. Così la rete, trascinata, arrotolata, imbrigliata su di lui, essendo facile presa ai colpi di vento, venne sollevata improvvisamente con Annibale Pantalacci, preso per i piedi e per le mani, a venticinque o trenta metri dal suolo. Cyprien sopraggiungeva in quel momento, e poté solo assistere all'involamento del suo nemico verso le nuvole. In quella, la schiera pennuta dei gipeti, sfinita da questo primo sforzo, cominciava visibilmente a discendere descrivendo una lunga parabola. In tre secondi giunse al limitare del bosco di lentischi e di fichi d'India, che si estendeva a occidente dei campi di mais. Poi, dopo averne sfiorato la cima, a tre o quattro metri dal suolo, si sollevò un'ultima volta nell'aria. Cyprien e Li guardavano con terrore il disgraziato sospeso alla rete, che questa volta fu sollevata a più di centocinquanta piedi di altezza, grazie ai prodigiosi sforzi di quei giganteschi volatili aiutati dalla tempesta. Di colpo alcune maglie si stracciarono sotto il peso del napoletano. Lo si vide per un istante, sospeso con le mani, cercare di riafferrare le corde della rete… Ma le sue mani si aprirono, abbandonò la presa, cadde come una massa inerte e si sfracellò contro il suolo.

La rete, libera di quel peso, fece un ultimo volo nello spazio, e si staccò qualche miglio più lontano mentre i gipeti riconquistavano le alte sfere del cielo. Quando Cyprien accorse per portargli aiuto, il suo nemico era morto… morto in modo orribile! E ora, dei quattro rivali che s'erano accinti ad attraversare le regioni del Transvaal per lo stesso scopo, rimaneva soltanto lui.

CAPITOLO XVIII LO STRUZZO PARLANTE CYPRIEN e Li, dopo questa spaventosa catastrofe, non ebbero più che un desiderio: quello di fuggire il luogo in cui si era compiuta. Stabilirono dunque di seguire la boscaglia verso il nord, camminarono per più di un'ora e finirono coll'arrivare al letto di un torrente quasi secco che, aprendosi la via nel folto dei lentischi e dei fichi d'India, permetteva di aggirarlo. Là li aspettava una nuova sorpresa. Quel torrente si riversava in un lago molto vasto, sulle rive del quale sorgeva una bordura di lussureggiante vegetazione, la quale appunto ne aveva impedito la vista fino a quel momento. Cyprien avrebbe voluto ritornare sui suoi passi costeggiando le rive del lago; ma il bordo era in certi punti talmente scosceso che dovette ben presto rinunciare al suo progetto. D'altra parte, tornare indietro per il sentiero appena percorso voleva proprio dire abbandonare ogni speranza di ritrovare Matakit. Frattanto, sulla riva opposta del lago s'innalzavano delle colline che si congiungevano con una serie di ondulazioni a montagne molto alte. Cyprien pensò che, guadagnandone la cima, avrebbe avuto miglior agio di formarsi una visione generale del paese e quindi di stabilire un piano. Lui e Li si rimisero dunque in marcia al fine di aggirare il lago. La mancanza di un qualsiasi sentiero battuto rendeva assai penoso questo viaggio, soprattutto per il fatto che per lunghi tratti erano costretti a tirare le giraffe per la briglia. Così impiegarono più di tre ore a percorrere una distanza che in linea d'aria era di sette o otto chilometri. Finalmente quando furono arrivati aggirando il lago, press'a poco alla stessa altezza del luogo da cui erano partiti sulla riva opposta, la notte stava per scendere. Morti per la stanchezza, stabilirono di

accamparsi in quel luogo. Ma, coi pochi mezzi di cui disponevano, la sistemazione non poteva essere molto confortevole. Tuttavia se ne occupò Li con lo zelo abituale; poi, compiuto il lavoro, raggiunse il suo padrone. — Piccolo padre — gli disse, con la sua voce carezzevole e consolante — vi vedo molto stanco! Le nostre provviste sono quasi completamente finite! Lasciate che io vada alla ricerca di qualche villaggio, ove non ci verrà rifiutato un aiuto. — Vuoi abbandonarmi, Li? — esclamò dapprima Cyprien. — Bisogna, piccolo padre! — rispose il cinese. — Prenderò una delle giraffe e andrò verso nord!… La capitale di quel Tonaia, di cui ci ha parlato Lopepe, non può essere molto lontana oramai e io farò in modo che vi si faccia una buona accoglienza. In seguito noi potremo ritornare verso il Griqualand, dove non avrete più nulla da temere da parte di quei miserabili, che sono periti in questa spedizione! Il giovane ingegnere rifletté alla proposta che gli aveva fatto il devoto cinese. Da un lato capiva che se mai era possibile ritrovare il cafro, questo poteva avvenire soprattutto in questo paese ove era stato visto il giorno precedente e che di conseguenza non conveniva allontanarsene. D'altra parte, bisognava pure rinnovare le provviste divenute ormai insufficienti. Cyprien, dunque, si decise, quantunque con gran rammarico, a separarsi da Li, e fu stabilito che egli lo avrebbe atteso in quel luogo, per quarantott'ore. In due giorni, il cinese montato sulla sua veloce giraffa, poteva fare molto cammino in quella regione e poi ritornare al campo. Stabilito ciò, Li non volle più perdere neppure un istante. Quanto al dormire, egli non se ne preoccupava per niente. Avrebbe ben saputo farne a meno. Disse dunque addio a Cyprien, baciandogli la mano, riprese la giraffa, vi saltò sopra e scomparve nella notte. Per la prima volta dopo la sua partenza dal Vandergaart-Kopje, Cyprien si trovò solo in pieno deserto. Egli si sentiva molto triste e non poté impedirsi, quando si fu avvolto nella sua coperta, di abbandonarsi ai più lugubri presagi. Isolato, quasi al termine dei viveri e delle munizioni, che cosa gli sarebbe successo in quel paese sconosciuto, a parecchie centinaia di leghe da ogni regione civile?

Raggiungere Matakit era ormai una speranza molto debole! Poteva trovarsi a mezzo chilometro da lui, senza averne il benché minimo sospetto. Decisamente quella spedizione era stata disgraziata, e non era stata caratterizzata che da avvenimenti tragici! Quasi ogni centinaio di miglia di avanzamento era costato la vita a uno dei viaggiatori! Ora ne rimaneva uno solo… lui!… Era dunque anche lui come gli altri destinato a morire miserabilmente? Queste erano le tristi riflessioni di Cyprien, il quale nonostante tutto riuscì ad addormentarsi. La freschezza del mattino e il riposo che si era concesso diedero un indirizzo più ottimista ai suoi pensieri, quando si risvegliò. Aspettando il ritorno del cinese, decise di risalire l'alta collina, ai piedi della quale si trovava. avrebbe così potuto esplorare con un colpo d'occhio un più vasto tratto di paese e forse anche arrivare a scoprire col suo binocolo, qualche traccia di Matakit. Ma per fare questo, era indispensabile che lui si separasse dalla giraffa, poiché nessun naturalista ha mai classificato questi quadrupedi nella famiglia dei rampicanti. Cyprien le tolse dunque la cavezza così ingegnosamente fabbricata da Li; poi la attaccò per il garretto a un albero, circondato da un praticello di erba folta e forte lasciandole una lunghezza di corda sufficiente perché potesse pascolare a suo agio. Per la verità se si aggiungeva la lunghezza del collo a quella della corda, non era certo poco il campo d'azione lasciato a quel grazioso animale. Compiuti questi preparativi, Cyprien si mise il fucile su una spalla, la coperta sull'altra e, dopo aver detto addio alla sua giraffa con una pacca amichevole, cominciò a risalire la montagna. Questa ascensione fu lunga e penosa. Tutta la giornata fu impiegata a inerpicarsi per pendii scoscesi, a raggirare rupi o picchi insuperabili, ricominciando a est o a sud un tentativo fallito a nord o a ovest. Verso notte, Cyprien non era ancora che a mezza costa e dovette rimandare all'indomani la continuazione dell'ascensione. Rimessosi in marcia allo spuntare del giorno, dopo essersi accertato che Li non era ancora ritornato all'accampamento, che

ancora poteva vedere bene, giunse finalmente verso le ore undici del mattino sulla sommità della montagna. Una crudele delusione lo attendeva lassù. Il cielo s'era coperto di nuvole. Un folto nebbione ondeggiava sui declivi inferiori. Invano Cyprien cercò di oltrepassarne lo spessore per sondare con lo sguardo le vallate vicine. Tutta la zona era coperta da un ammasso di vapori informi, che non lasciavano trasparire nulla sopra di loro. Cyprien non volle darsi per vinto, attese, sperò sempre che una schiarita sopraggiungesse per restituirgli i vasti orizzonti che egli sperava di raggiungere con lo sguardo: fu tutto inutile. Man mano che il giorno avanzava, le nubi sembravano farsi più fitte, e, quando sopraggiunse la notte, il tempo volse definitivamente alla pioggia. Il giovane ingegnere fu sorpreso da questo prosaico fenomeno naturale, proprio sulla sommità d'una pianura arida senza neanche un albero, senza una roccia che potesse servire da ricovero. Nient'altro che il suolo brullo e arido e tutt'intorno la notte sempre più fonda, accompagnata da una fine pioggerella, che, poco a poco, inzuppava tutto, la coperta, gli abiti e penetrava fin nelle ossa. La situazione diventava critica e tuttavia bisognava accettarla. Tentare la discesa in tali condizioni sarebbe stata una pura follia. Cyprien decise dunque di lasciarsi inzuppare fino alle ossa, contando di asciugarsi il giorno dopo, ai caldi raggi del sole. Trascorso il primo momento d'emozione, Cyprien, per consolarsi della disavventura, si disse che in fondo quella pioggerella - doccia rinfrescante che serviva a placare l'arsura dei giorni precedenti - non era poi così spiacevole: ma intanto, una delle conseguenze più sgradevoli fu che egli dovette fare un pasto, se anche non proprio crudo, almeno tutto freddo. Ad accendere il fuoco o anche solo a far brillare un fiammifero con un simile tempaccio, non c'era neanche da pensarci. Si contentò quindi di aprire una scatola di conserve e di mangiarla così com'era. Una o due ore più tardi, intorpidito dal freddo e dalla pioggia, il giovane ingegnere riuscì a prender sonno, la testa poggiata su una grossa pietra, sulla quale aveva messo la coperta grondante. Quando si svegliò a giorno fatto era in preda ad una febbre ardente.

Comprendendo che era perduto se rimaneva più a lungo sotto quella doccia, — dal momento che la pioggia non cessava di cadere a catinelle — Cyprien fece uno sforzo, si mise in piedi e, appoggiandosi al fucile come a un bastone, cominciò a ridiscendere la montagna. Come giunse al basso? Anche lui non avrebbe proprio saputo dirlo. Ora rotolando lungo le scarpate franate, ora lasciandosi scivolare lungo le rocce umide, ammaccato, ansante, accecato, bruciato dalla febbre, riuscì tuttavia a continuare il viaggio, cosicché giunse verso la metà del giorno al campo dove aveva lasciato la giraffa. L'animale se n'era andato annoiato indubbiamente dalla solitudine e forse spinto dalla fame, poiché l'erba era tutta brucata intorno alla pianta per il raggio della corda. Così aveva finito per rivolgersi alla corda che lo teneva legato e, dopo averla rosicchiata, era ritornato libero. Se Cyprien fosse stato in condizioni normali, avrebbe sofferto più vivamente per questo nuovo colpo dell'avversa fortuna; ma la debolezza estrema e l'abbattimento non glielo permisero. Quando fu arrivato poté solo gettarsi sul suo zaino impermeabile che fortunatamente ritrovò, mettersi degli abiti asciutti poi abbandonarsi a terra, sfinito, al riparo di un baobab che faceva ombra al campo. Allora cominciò per lui uno strano stato di dormiveglia, di febbre, di delirio nel quale tutte le nozioni si confondevano, in cui il tempo, lo spazio, le distanze erano diventate irreali. Era notte o giorno, pioveva o c'era il sole? Era là da dodici ore o da sessanta? Viveva ancora oppure era morto? Non sapeva più niente. Sogni piacevoli e orribili incubi si alternavano senza posa nel teatro della sua immaginazione. Parigi, la Scuola di Mineralogia, il focolare paterno, la fattoria del Vandergaart-Kopje, la signorina Watkins, Annibale Pantalacci, Hilton, Friedel e delle schiere di elefanti, Matakit e poi sciami d'uccelli in volo sparsi in un cielo senza limiti, ricordi, impressioni, antipatie e tenerezze si accavallavano nel suo cervello come in una battaglia incoerente. A quelle creazioni della febbre s'aggiungevano talvolta delle impressioni esterne. Quello che fu soprattutto orribile, fu che in mezzo a una tempesta di abbaiar di

sciacalli, di miagolii di gatti tigrini, di ghigni di iene, il malato in stato di incoscienza seguì faticosamente il romanzo del suo delirio e gli parve di udire un colpo di fucile che fu seguito da un grande silenzio. Poi l'infernale concerto riprese più forte che mai per continuare per tutto il giorno. Senza dubbio, durante questo delirio, Cyprien sarebbe passato, senza neppure accorgersene, dalla febbre al riposo eterno se l'evento apparentemente più bizzarro e più strano non fosse intervenuto ad alterare il naturale svolgimento delle cose. A mattino inoltrato aveva cessato di piovere e il sole era già molto alto sull'orizzonte. Cyprien aveva aperto gli occhi. Guardava, ma senza curiosità, uno struzzo di grandi proporzioni che, dopo essersi avvicinato, si arrestò a due o tre passi da lui. «Sarebbe lo struzzo di Matakit?» si chiese, seguendo sempre la sua idea fissa. Fu l'animale in persona a rispondergli e, quel che è più, gli rispose in buon francese. — Non mi sbaglio!… Cyprien Méré!… Mio povero amico, cosa diavolo ci fai tu qui? Uno struzzo che parlava francese, uno struzzo che sapeva il suo nome, c'era davvero di che sorprendere una mente in condizioni normali. Ebbene Cyprien non fu per nulla meravigliato da questo fenomeno inverosimile e lo trovò naturale. Ne aveva visto di ben altre, in sogno, durante la notte precedente! Questo fatto a lui parve solo la normale conseguenza del suo turbamento mentale. — Voi non siete cortese, signor struzzo! — rispose. — Chi vi ha permesso di darmi del tu? Parlava con quella voce secca, a scatti, tipica dei febbricitanti, che non può lasciare alcun dubbio sul loro stato, cosa di cui lo struzzo parve vivamente commosso. — Cyprien!… amico mio!… Sei malato e tutto solo in questo deserto! — esclamò gettandosi in ginocchio vicino a lui. Era questo un fenomeno fisiologico non meno anormale che il dono della parola in un trampoliere, poiché la genuflessione è un movimento che solitamente, è loro proibito dalla natura. Ma Cyprien, in preda alla febbre, continuava a trovarlo naturale. Egli trovò anche

logico che lo struzzo prendesse da sotto l'ala sinistra una borraccia di cuoio piena d'acqua fresca macchiata di cognac, e gliela avvicinasse alle labbra. L'unica cosa che cominciò a sorprenderlo, fu che lo strano animale si rialzò per gettare a terra una specie di guscio coperto di penne di marabù che sembrava formare il suo piumaggio naturale, e poi un lungo collo sormontato da una testa d'uccello. E allora, spogliatosi di quegli ornamenti posticci, lo struzzo si mostrò a lui sotto le specie di un vigoroso giovane forte e possente il quale non era altro che Pharamond Barthès, grande cacciatore davanti a Dio e davanti agli uomini. — Ma sì! sono io! — esclamò Pharamond. — Non hai riconosciuto la mia voce alle prime parole che ti ho rivolto?… Sei meravigliato di vedere la mia acconciatura?… È un'astuzia di guerra che ho imparato dai cafri per potermi avvicinare ai veri struzzi e colpirli più facilmente colla mia zagaglia!… Ma parliamo di te, mio povero amico!… Come mai ti trovi qui ammalato e abbandonato?… È proprio per un caso che ti ho visto gironzolando da questa parte poiché non sapevo assolutamente che tu fossi in questo paese! Cyprien, non essendo ancora in condizioni di parlare poté dare al suo amico solo delle notizie assai sommarie sul suo conto. D'altronde Pharamond Barthès avendo capito da parte sua che la cosa più importante era di procurare al malato i soccorsi che gli erano mancati fino ad allora si preoccupò di trattarlo quanto meglio gli era possibile. L'esperienza del deserto era ormai molto lunga in quell'ardito cacciatore che aveva imparato dai cafri un metodo di grande efficacia per curare la febbre palustre, da cui era stato assalito il suo povero amico. Dunque Pharamond Barthès cominciò con lo scavare nel suolo una specie di fossa che riempi di legna, dopo avere creato un'apertura per permettere all'aria esterna di entrare. Quella legna, una volta accesa e consumata, trasformò la fossa in una vera e propria stufa. Pharamond Barthès vi collocò Cyprien, dopo averlo coperto con cura, lasciandogli fuori solo la testa. Non erano ancora passati dieci minuti che già si iniziava una forte traspirazione, - traspirazione che

il dottore improvvisato ebbe cura di attivare con cinque o sei tazze di un decotto preparato con erbe a lui note. Cyprien non tardò ad addormentarsi in quella stufa d'un benefico sonno. Al tramonto del sole, quando riaprì gli occhi il malato si sentiva talmente sollevato che chiese da mangiare. Il suo ingegnoso amico aveva pensato a tutto: gli servì immediatamente un'eccellente minestra, che aveva fatto lui stesso coi raffinati prodotti della sua caccia e con qualche radice di vario tipo. Un'ala di ottarda arrosto, un bicchiere d'acqua mista a cognac completarono quel pasto che ridonò un po' di forze a Cyprien e finì di liberare il suo cervello dalle nebbie che ancora l'offuscavano. Circa un'ora dopo questo pranzo da convalescente, Pharamond Barthès, dopo aver debitamente mangiato anche lui, se ne stava seduto presso il giovane ingegnere e gli raccontava come mai era passato di là, in quello strano abbigliamento. — Tu sai — gli disse — di che cosa sono capace pur di tentare un nuovo metodo di caccia! Da sei mesi a questa parte, ho abbattuto talmente tanti tra elefanti, zebre, giraffe, leoni e altri esemplari di animali terrestri e di uccelli, - compresa un'aquila cannibale che è l'orgoglio della mia collezione, — che mi è venuta voglia, alcuni giorni fa, di rinnovare la mia passione cinegetica! Fino ad allora io non avevo viaggiato che sotto la scorta dei miei bassuti, una trentina di giovani vigorosi e risoluti, che io pago in ragione di un sacchetto di perline di vetro al mese e che si getterebbero nel fuoco per il loro signore e padrone. Ma ultimamente ho ricevuto ospitalità da Tonaia, il grande capo di questo paese e, per ottenere, da lui il permesso di cacciare sulle sue terre, — cosa di cui è geloso come un lord scozzese, — ho acconsentito a prestargli i miei bassuti, con quattro fucili, per una spedizione che voleva fare contro uno dei suoi vicini. Questo armamento l'ha reso addirittura invincibile cosicché ha riportato sul suo nemico un trionfo grandioso. Di qui una profonda amicizia, suggellata dallo scambio del sangue, vale a dire che ci siamo reciprocamente succhiati una ferita fatta all'avambraccio! Così ormai Tonaia e io siamo amici per la vita e per la morte! Sicuro di non essere più seccato in tutta l'estensione dei suoi dominii, l'altro

ieri sono partito per dare la caccia alla tigre e allo struzzo. Quanto alle tigri, ho avuto il piacere di ammazzarne una la notte scorsa: che anzi mi meraviglierei se tu non avessi udito il baccano che ha preceduto questa impresa. Figurati che avevo piantato la mia tenda presso la carcassa di un bufalo ucciso ieri, con la speranza abbastanza fondata di veder sopraggiungere nel mezzo della notte la tigre dei miei sogni! Infatti, la belva non è mancata all'appuntamento attirata dall'odore della carne fresca; ma sfortuna volle che due o trecento sciacalli, iene e gatti tigrini avessero la sua stessa' idea. Da ciò è nato uno spaventoso concerto che avrebbe dovuto arrivare anche alle tue orecchie. — Penso proprio di averlo sentito! — rispose Cyprien. — Credevo anche che fosse fatto in mio onore! — Ti sei sbagliato, amico mio! — esclamò Pharamond Barthès. — Era in onore di una carcassa di bufalo, in fondo a questa vallata che vedi aprirsi verso destra. Quando si è fatto giorno non rimanevano che le ossa dell'enorme ruminante! Te lo mostrerò! È un interessante soggetto anatomico!… Vedrai anche la mia tigre, la più bella bestia che io abbia mai ucciso da che ho incominciato a cacciare in Africa! L'ho già scuoiata e la sua pelliccia l'ho messa a seccare su un albero! — Ma perché stamattina portavi quello strano travestimento? — chiese Cyprien. — Era un costume da struzzo. Come già ti dissi, i cafri si servono spesso di questo stratagemma per avvicinare quei trampolieri, che sono molto diffidenti e difficilissimi da colpire senza questo sistema!… Tu mi risponderai che dispongo del mio eccellente rifle!… È vero, ma che vuoi? M'è venuto lo sghiribizzo di cacciare alla maniera dei cafri, e così ho avuto il vantaggio di incontrarti giusto a proposito, non ti pare? — A proposito, davvero, Pharamond!… Credo proprio che senza di te non sarei più a questo mondo! — rispose Cyprien, serrando cordialmente la mano al suo amico. Egli si trovava ora al di fuori della stufa e morbidamente disteso sopra un letto di foglie che l'amico gli aveva disposto ai piedi del baobab.

Quel bravo ragazzo non si limitò a questo. Volle andare a cercare nella vallata vicina la tenda che portava con sé in ogni spedizione e, un quarto d'ora dopo, l'aveva montata al di sopra del suo caro malato. — E ora, raccontami la tua storia, amico Cyprien, se però non ti stanca troppo raccontarmela. Cyprien si sentiva abbastanza forte per soddisfare la curiosità ben naturale di Pharamond Barthès. D'altronde molto sommariamente gli raccontò ciò che gli era accaduto nel Griqualand, perché aveva lasciato quel paese sulle tracce di Matakit e del suo diamante, quali erano state le principali peripezie della spedizione, la triplice morte di Annibale Pantalacci, di Friedel e di James Hilton, la scomparsa di Bardik e per l'ultimo che aspettava il suo servitore Li, che doveva tornare a raggiungerlo all'accampamento. Pharamond Barthès ascoltava colla massima attenzione. Interrogato a questo proposito, se cioè avesse incontrato un giovane cafro, di cui Cyprien gli diede i connotati (di Bardik s'intende) egli rispose negativamente. — Però — egli aggiunse — ho trovato un cavallo abbandonato che potrebbe essere il tuo. E, tutto d'un fiato, narrò a Cyprien in quali circostanze questo cavallo era caduto nelle sue mani. — Esattamente due giorni fa, — disse, — ero a caccia con tre dei miei bassuti nelle montagne del sud, quando ho visto sbucare a un tratto da una strada infossata uno splendido cavallo grigio, senza finimenti, tranne una cavezza e una briglia che si tirava dietro. L'animale era palesemente indeciso su quello che doveva fare; ma io l'ho chiamato, gli ho mostrato una manciata di zucchero e lui si è avvicinato! E così l'ho fatto prigioniero — una bestia eccellente, piena di coraggio e di fuoco, «salato» come un prosciutto… — È il mio!… È Templari — esclamò Cyprien. — Ebbene, amico mio, Templar è tuo, — disse Pharamond Barthès — e sarà per me un vero piacere restituirtelo! Adesso però, buona notte, torna a dormire! Domani all'alba lasceremo questo luogo di delizie! Poi, facendo seguire alla parola l'esempio, Pharamond Barthès s'avvolse nella coperta e si addormentò accanto a Cyprien.

L'indomani il cinese puntualmente rientrò all'accampamento con qualche provvista. Così, prima che Cyprien si fosse svegliato, Pharamond Barthès, dopo averlo informato di tutto, lo incaricò di vegliare sul suo padrone mentre lui andava a cercare il cavallo, la cui perdita era stata un grande dolore per il giovane ingegnere.

CAPITOLO XIX LA GROTTA MERAVIGLIOSA FU TEMPLAR in carne ed ossa che Cyprien vide di fronte a sé il mattino successivo quando si svegliò. L'incontro fu dei più affettuosi. Si sarebbe detto che il cavallo provava altrettanto piacere che il suo cavaliere, a ritrovare il fedele compagno di viaggio. Cyprien si sentì abbastanza in forze, dopo la colazione, per rimontare in sella e ripartire immediatamente. Di conseguenza Pharamond Barthès caricò i bagagli sulla groppa di Templar, prese il cavallo per le briglie, dopodiché si misero in viaggio per la capitale di Tonaia. Cammin facendo, Cyprien raccontò all'amico, con maggiori dettagli, i principali incidenti della spedizione, dopo la sua partenza dal Griqualand. Quando il racconto arrivò all'ultima scomparsa di Matakit, di cui segnalò ancora i connotati, Pharamond Barthès si mise a ridere: — Ah! per esempio — disse poi — eccoti una novità con la quale penso proprio di poterti dare delle notizie intorno al tuo ladro se non al tuo diamante. — Che vuoi dire? — chiese Cyprien molto sorpreso. — Il fatto è questo — replicò Pharamond Barthès, — i miei bassuti fecero prigioniero, appena un giorno fa, un giovane cafro errante nella zona che hanno poi consegnato, legato per le mani e per i piedi, al mio amico Tonaia. Penso proprio che lo aspetti una brutta sorte perché Tonaia ha una gran paura degli spioni, e il cafro, appartenendo ad una razza chiaramente nemica della sua, non poteva che essere accusato di spionaggio. Ma fin ad ora è ancora salvo! Per sua fortuna quel povero diavolo sapeva fare dei giochi di prestigio e ha potuto spacciarsi per indovino…

— Eh! in tal caso, non ho più alcun dubbio che si tratti di Matakit in persona! — esclamò Cyprien. — Ebbene, può vantarsi di averla scampata bella — rispose il cacciatore. — Tonaia ha inventato per i suoi nemici una gran varietà di supplizi, che non lasciano niente a desiderare! Ma, te lo ripeto, puoi star tranquillo sulla sorte del tuo antico servitore! È protetto dall'arte di stregone, noi lo ritroveremo, questa sera stessa, in buona salute! È inutile far notare quanta soddisfazione dovette procurare a Cyprien in particolare questa notizia. Quasi certamente lo scopo del suo viaggio era raggiunto, ed egli era sicuro che Matakit, ancora in possesso del diamante di John Watkins, avrebbe acconsentito a restituirglielo. I due amici continuarono a discorrere, durante tutta la giornata, riattraversando la pianura che Cyprien aveva percorso, qualche giorno prima, a dorso di giraffa. Quella sera stessa apparve ai loro occhi la capitale di Tonaia, semidisposta ad anfiteatro sopra un'ondulazione di terreno che limitava l'orizzonte al nord. Era una vera città, di dieci o quindicimila abitanti, con delle strade ben tracciate, case spaziose e quasi eleganti, che davano una generale impressione di prosperità e di agiatezza. Il palazzo del re, circondato da alte palizzate e custodito da dei guerrieri neri, armati di lance, occupava da solo circa un quarto della superficie totale della città. Pharamond Barthès non ebbe che da farsi vedere per ottenere che tutte le barriere si abbassassero davanti a lui e fu immediatamente condotto con Cyprien, attraverso una serie di vasti cortili fino alla sala delle cerimonie, dove se ne stava l'«invincibile conquistatore» circondato da una numerosa corte nella quale non mancavano né gli ufficiali né le guardie. Tonaia aveva circa quarant'anni. Egli era grande e forte. Incoronato accuratamente con una specie di diadema fatto di denti di cinghiale, era abbigliato di una tunica rossa senza maniche, e di un grembiulone dello stesso colore, riccamente bordato di perline di vetro. Portava alle gambe e alle braccia numerosi braccialetti di cuoio. Il suo aspetto era intelligente e fine, ma astuto e anche duro.

Fece una grande accoglienza a Pharamond Barthès, che non vedeva da qualche giorno e, per riguardo, a Cyprien, l'amico del suo fedele alleato. — Gli amici dei miei amici sono miei amici — disse, come avrebbe fatto un semplice borghese della Palude. 13 E, avendo saputo che il nuovo ospite era ammalato, Tonaia si incaricò di fargli assegnare una delle migliori camere del suo palazzo e di fargli servire una eccellente cena. Su consiglio di Pharamond Barthès, non si accennò subito alla questione di Matakit, che fu rimandata all'indomani. Il giorno seguente infatti Cyprien, rimessosi completamente in salute, era in grado di ricomparire davanti al re. Tutta la corte fu dunque riunita nella grande sala del palazzo. Tonaia e i due ospiti stavano nel mezzo del circolo. Subito Pharamond Barthès avviò il negoziato nella lingua del paese che lui parlava correntemente. — I miei bassuti recentemente ti hanno portato un giovane cafro che avevano fatto prigioniero — disse al re. — Ora, si dà il caso che questo giovane cafro sia il domestico del mio compagno, il grande scienziato Cyprien Méré, che viene a chiedere alla tua generosità di restituirglielo. Ecco perché io, che sono amico tuo e suo, oso appoggiare la sua giusta richiesta. Fin dalle prime parole, Tonaia aveva ritenuto opportuno assumere un contegno diplomatico. — Il grande scienziato bianco è il benvenuto! — rispose. — Ma che cosa offre egli per il riscatto del mio prigioniero? — Un eccellente fucile, dieci volte dieci cartucce e un sacchetto di perline di vetro — rispose Pharamond Barthès. Un mormorio di soddisfazione percorse l'uditorio, vivamente colpito dalla grandiosità dell'offerta. Solo Tonaia, molto diplomaticamente, finse di non esserne sorpreso. — Tonaia è un grande principe, — riprese, alzandosi sul suo sgabello reale — e gli dei lo proteggono! Un mese fa, gli inviarono Pharamond Barthès con dei bravi guerrieri e con dei fucili per aiutarlo a vincere i suoi avversari! Ecco perché, se Pharamond 13

Gruppo parlamentare di centro durante la Rivoluzione Francese. (N.d.T.)

Barthès lo desidera, questo servitore sarà restituito sano e salvo al suo padrone. — E dove si trova in questo momento? — domandò il cacciatore. — Nella grotta sacra dove è custodito notte e giorno! — rispose Tonaia con un tono enfatico che riteneva adatto alla circostanza e che ben conveniva a uno dei più potenti sovrani della Cafreria. Pharamond Barthès si affrettò a riassumere queste risposte a Cyprien e chiese al re il favore di recarsi con il suo compagno a cercare il prigioniero nella grotta indicata. A tali parole, si levò un mormorio di disapprovazione in tutta l'assemblea. La pretesa di quegli europei pareva esorbitante. Mai, per nessun motivo uno straniero era stato ammesso nella grotta misteriosa. Una tradizione sempre rispettata diceva che il giorno in cui i bianchi ne avrebbero conosciuto il segreto, l'impero di Tonaia si sarebbe ridotto in polvere. Ma il re non tollerava che la sua corte si permettesse di giudicare una sua decisione. Così quel mormorio disapprovatore lo indusse, per un capriccio da tiranno, ad accettare quello che avrebbe con tutta probabilità rifiutato, se non ci fosse stata quella manifestazione dell'opinione generale. — Tonaia ha fatto lo scambio del sangue col suo alleato Pharamond Barthès, — rispose con tono perentorio — perciò non ha più nulla da nascondergli. Il tuo amico e tu sapete mantenere un giuramento? Pharamond Barthès fece un cenno affermativo. — Ebbene, — riprese il re negro, — giurate di non toccare niente di quel che vedrete nella grotta! Giurate di comportarvi in ogni occasione quando ne sarete usciti, come se non ne aveste mai conosciuto l'esistenza!… Giurate di non cercare di penetrarvi mai più un'altra volta e neppure di tentare di riconoscerne l'ingresso!… Giurate infine di non dire mai a nessuno quello che vi avrete visto! Pharamond Barthès e Cyprien, la mano distesa, ripeterono parola per parola la formula di giuramento che era stata loro imposta. Subito dopo che Tonaia ebbe dato degli ordini a voce bassa, tutta la corte si alzò e i guerrieri si disposero su due file. Alcuni servitori portarono dei pezzi di finissima tela che servirono per bendare gli

occhi dei due stranieri; poi il re in persona si pose fra di loro su un grande palanchino di paglia, che venne sollevato sulle spalle da alcune dozzine di cafri, e il corteo si mise in marcia. Il viaggio fu molto lungo: due ore di strada almeno. Misurando la portata delle scosse a cui era sottoposto il palanchino, Pharamond Barthès e Cyprien poterono ben presto rendersi conto che venivano condotti in una zona montuosa. Poi la temperatura dell'aria di molto abbassatasi e l'eco sonora dei passi della scorta, ripercorsa da pareti molto vicine tra loro, indicarono che erano entrati in un sotterraneo. Infine, delle ondate di fumo resinoso il cui odore giungeva fino a loro fecero capire ai due amici che erano state accese delle torce per illuminare la via. La marcia durò ancora per un quarto d'ora; dopo di che il palanchino fu deposto a terra. Tonaia ne fece discendere i suoi ospiti e ordinò che fossero loro tolte le bende. Per effetto di quello stordimento, che deriva da un ritorno immediato alla luce, dopo una prolungata cecità, Pharamond Barthès e Cyprien si credettero dapprima in preda a una specie di allucinazione estatica tanto lo spettacolo che s'offrì ai loro occhi era ad un tempo splendido e inatteso. Entrambi si trovarono al centro di una grotta immensa. Il suolo era ricoperto di una sabbia finissima cosparsa di pagliuzze d'oro. La volta, alta come quella di una cattedrale gotica, si perdeva in profondità insondabili con lo sguardo. Le pareti di questa sottocostruzione naturale erano tappezzate di stalattiti, di una varietà e di una ricchezza di colori inaudita, sulle quali il riflesso delle torce gettava dei fasci di arcobaleno misti a fiammate di fornaci e a emissione di bagliori come quelli delle aurore boreali. I colori più cangianti, le forme più bizzarre, le incisioni più impreviste caratterizzavano quelle innumerevoli cristallizzazioni. Non erano, come nella maggior parte delle grotte, delle semplici combinazioni di quarzo a gocce che si ripetono con uniformità troppo monotona. Qui la natura, dando libero sfogo alla sua fantasia, sembrava essersi compiaciuta di esaurire tutte le combinazioni di tinte e di effetti possibili alle quali contribuisce con si splendidi risultati la vetrificazione di tutte le ricchezze naturali.

Rocce d'ametista, pareti di sardonica, banchi di rubini, obelischi di smeraldo; colonnati di zaffiro, fitti e slanciati come una foresta di abeti; blocchi di acque-marine, girandole di turchesi, specchi d'opale, affioramenti di gesso rosa e di lapislazzoli venati d'oro - tutto quello che il regno cristallino può offrire di più prezioso, di più raro, di più limpido, di più abbagliante, era stato il materiale di quella fantastica architettura. E più ancora: tutte le forme, anche quelle del regno vegetale, sembravano aver contribuito in quel lavoro veramente al di là di ogni possibile concezione umana. Dei tappeti di muschi minerali, morbidi e vellutati come il più fine prato erboso delle arborizzazioni cristalline cariche di pietre come di fiori e frutta ricordavano, qua e là, quei giardini incantati che i miniaturisti giapponesi riproducono con tanta precisione. Più in, là, un lago artificiale, costituito da un diamante di venti metri di lunghezza, incassato nella sabbia, sembrava un'arena già pronta per le evoluzioni dei pattinatori. Dei palazzi sospesi di calcedonia, dei chioschi e delle guglie di berillo o di topazio si assommavano gli uni sugli altri fin dove l'occhio, stanco di tanto splendore si rifiutava di seguirli. Infine, la rifrazione dei raggi luminosi attraverso quelle migliaia di prismi, gli scintillii come fuochi artificiali che scoppiavano da ogni parte e ricadevano a fasci, formavano la più bella sinfonia di luci e di colori da cui l'occhio dell'uomo possa essere abbagliato. Cyprien Méré non aveva più dubbi oramai. Era stato trasportato in una di quelle riserve luminose di cui aveva da tanto tempo sospettato l'esistenza, in fondo alle quali la natura avara ha potuto tesaurizzare e cristallizzare in blocco quelle gemme preziose che nei giacimenti più fortunati non concede che sotto forma di rimasugli isolati e frammentari. Per un istante, tentato di mettere in dubbio la realtà di ciò che gli stava sotto gli occhi, gli era bastato passando presso un enorme banco di cristallo, averlo soffregato coll'ariello che portava al dito per assicurarsi che resisteva alle scalfitture. Era dunque proprio del diamante, del rubino, dello zaffiro quello racchiuso da quella immensa cripta, e in quantità così prodigiosa che il suo valore, al prezzo che gli uomini assegnano a queste sostanze minerali, era al di fuori di ogni calcolo!

Solo i numeri astronomici avrebbero potuto darne un'idea approssimativa, d'altronde difficilmente comprensibile. Eppure era là, sepolto nella terra, ignorato e improduttivo, per un valore di trilioni e di quadrilioni di miliardi! Tonaia aveva idea della prestigiosa ricchezza che aveva a disposizione? È poco probabile, perché Pharamond Barthès, poco ferrato in questo campo, non sembrava neppure lui sospettare che quei meravigliosi cristalli fossero delle pietre di valore. Senza dubbio il re negro si credeva semplicemente padrone e custode di una grotta particolarmente strana, di cui un oracolo o qualche altra superstizione tradizionale gli impediva di rivelare il segreto. Ciò che poté confermare questa opinione, fu la cosa che Cyprien poté subito dopo notare cioè la gran quantità di ossa umane, ammucchiate in certi angoli della caverna. Era dunque il luogo di sepoltura della tribù, oppure - supposizione orribile e tuttavia verosimile - era il luogo dove erano stati celebrati o venivano celebrati ancora dei riti crudeli nei quali veniva versato sangue umano secondo una forma di cannibalismo? Era per quest'ultima ipotesi che propendeva Pharamond Barthès e lo disse a bassa voce al suo amico. — Tonaia mi ha tuttavia assicurato che dopo il suo avvento, una simile cerimonia non ha mai avuto luogo! — aggiunse. — Però lo confesso, lo spettacolo di queste ossa lascia molto turbata la mia fiducia! E ne additò un enorme mucchio che sembrava formato da poco e sul quale apparivano dei segni evidenti di cottura. Questa impressione doveva venir anche troppo ben confermata più tardi. Il re e i suoi due ospiti erano arrivati al fondo della grotta, davanti all'ingresso di una nicchia, simile a una di quelle cappelline laterali che sono costruite sui lati delle chiese. Dietro, il cancello di legno duro che ne chiudeva l'entrata, un prigioniero era chiuso in una gabbia di legno grande appena quel tanto che era sufficiente per permettergli di stare rannicchiato, destinato - era anche fin troppo evidente - a essere ingrassato e divenir pasto di qualche prossimo banchetto.

Era Matakit. — Voi!… voi!… piccolo padre — esclamò lo sfortunato cafro, appena ebbe scorto e riconosciuto Cyprien. — Ah! conducetemi via!… Liberatemi!… Preferisco mille volte ritornare nel Griqualand, dovessi anche esservi impiccato piuttosto che rimanere in questo pollaio, in attesa dell'orribile supplizio che il crudele Tonaia mi riserva prima di divorarmi! Tutto ciò fu detto con voce così disperata che Cyprien si sentì commosso, udendo quel povero diavolo. — E sia, Matakit, — gli rispose Cyprien. — Io posso ottenere la tua libertà, ma non uscirai da questa gabbia se non quando mi avrai restituito il diamante… — Il diamante, piccolo padre! — esclamò Matakit. — Il diamante!… Ma io non ce l'ho!… Non l'ho mai avuto!… Ve lo giuro… ve lo giuro! In quello che diceva c'era un tale accento di verità che Cyprien capì di non poter più dubitare della sua onestà. D'altra parte sappiamo che egli aveva sempre stentato a credere che Matakit fosse l'autore di un simile furto. — Ma allora — gli chiese — se non sei stato tu a rubare il diamante, perché sei fuggito? — Perché, piccolo padre? — rispose Matakit. — Ma perché, quando i miei compagni sono stati sottoposti alla prova della bacchetta, si disse che il ladro non potevo essere che io e che mi ero servito di quell'astuzia per sviare i sospetti. Ma nel Griqualand, quando si tratta di un cafro, lo sapete bene che si fa più alla svelta a condannarlo e impiccarlo che a interrogarlo!… Allora mi son lasciato prendere dalla paura e sono fuggito come un colpevole attraverso il Transvaal. — Quel che dice questo povero diavolo mi pare essere la verità — fece osservare Pharamond Barthès. — Non ne dubito più, — rispose Cyprien; — e forse non ha avuto torto a sottrarsi alla giustizia del Griqualand! Poi rivolgendosi a Matakit: — Ebbene, — gli disse — io credo che tu sia innocente del furto di cui sei stato accusato! Ma, al Vandergaart-Kopje, forse non ci

vorranno credere quando sosterremo la tua innocenza! Vuoi dunque correre il rischio di ritornare laggiù? — Sì!… rischio tutto… pur di non rimanere più a lungo qui! — gridò Matakit, che era in preda al più vivo terrore. — Contratteremo l'affare'— rispose Cyprien, — ecco qua il mio amico Pharamond Barthès che se ne occuperà! Infatti il cacciatore, che non perdeva tempo, si trovava già a colloquio con Tonaia. — Parla francamente!… Che cosa vuoi in cambio del tuo prigioniero? — chiese al re negro. Costui rifletté un istante e poi finì col dire: — Voglio quattro fucili, dieci volte dieci cartucce per ogni arma e quattro sacchetti di perline di vetro. Non è troppo, ti pare? — È venti volte troppo, ma Pharamond Barthès è tuo amico e farà di tutto per accontentarti! A sua volta s'arrestò un istante e poi riprese: — Ascoltami, Tonaia. Tu avrai i quattro fucili, le quattrocento cartucce e i quattro sacchetti di perline. Ma a tua volta tu ci fornirai un tiro di buoi per condurre questa gente attraverso il Transvaal, coi viveri necessari e con una scorta d'onore. — Affare fatto! — rispose Tonaia con aria di piena soddisfazione. Poi aggiunse con voce confidenziale, accostandosi all'orecchio di Pharamond: — I buoi li ho già trovati!… Sono quelli del tuo amico, che i miei uomini hanno trovato mentre ritornavano alla stalla e che hanno condotto al mio kraal!… Fa parte delle regole di guerra, no? Il prigioniero fu subito liberato; e, dopo un'ultima occhiata agli splendori della grotta, Cyprien, Pharamond Barthès, Matakit si lasciarono docilmente bendare gli occhi e ritornarono al palazzo di Tonaia, dove fu dato un gran festino per celebrare la conclusione del contratto. Infine fu deciso che Matakit non sarebbe ricomparso immediatamente al Vandergaart-Kopje, ma che sarebbe rimasto nei dintorni e sarebbe rientrato al servizio del giovane ingegnere solo quando avrebbe potuto farlo senza pericolo. Vedremo più avanti che questa non fu una precauzione inutile.

L'indomani, Pharamond Barthès, Cyprien, Li e Matakit ripartirono con una buona scorta per il Griqualand. Ma non c'era più da farsi alcuna illusione ormai! La Stella del Sud era irrimediabilmente perduta e il signor Watkins non avrebbe potuto mandarla alla Torre di Londra perché brillasse fra i più splendidi gioielli d'Inghilterra.

CAPITOLO XX IL RITORNO MAI JOHN WATKINS era stato di così cattivo umore come dopo la partenza dei quattro pretendenti, lanciati sulle tracce di Matakit. Ogni giorno, ogni settimana che passava sembrava aumentare la sua tetraggine poiché diminuivano, a parer suo, le probabilità di ricuperare il prezioso diamante. E poi gli mancavano i suoi commensali abituali, James Hilton, Friedel, Annibale Pantalacci, e anche lo stesso Cyprien, che si era ormai abituato a vedere così spesso vicino a sé. Ricorreva allora alla sua bottiglia di gin e, bisogna dirlo, questi supplementi alcoolici che si somministrava non erano precisamente i più adatti a migliorare il suo umore! Inoltre alla fattoria c'era giustamente motivo di essere inquieti sulla sorte di coloro che erano sopravvissuti alla spedizione. Difatti Bardik, che era stato rapito da un gruppo di cafri - così come avevano supposto i suoi compagni - era riuscito a fuggire alcuni giorni dopo. Di ritorno nel Griqualand, egli aveva annunciato al signor Watkins la morte di James Hilton e quella di Friedel. La notizia era di cattivo auspicio per i sopravvissuti della spedizione: Cyprien Méré, Annibale Pantalacci e il cinese. Anche Alice era molto triste. Non cantava più, e il suo pianoforte rimaneva inesorabilmente muto. Anche gli struzzi le ispiravano un minimo interesse. Dada stessa non riusciva più a farla sorridere della sua voracità, e inghiottiva impunemente, senza che si cercasse di impedirglielo, gli oggetti più svariati. La signorina Watkins era ora assalita da due timori, che si ingigantivano poco a poco nella sua immaginazione: il primo, che Cyprien non ritornasse mai più da questa spedizione maledetta; il secondo che Annibale Pantalacci, il più odioso dei suoi tre pretendenti, riportasse la Stella del Sud, reclamando il compenso del

suo successo. L'idea di essere condannata a diventare la moglie di quel napoletano, malvagio e furbo, le ispirava un disgusto invincibile soprattutto dopo che aveva potuto accostare e apprezzare un uomo veramente superiore come Cyprien Méré. Ella vi pensava di giorno, lo sognava di notte e le sue fresche gote impallidivano, i suoi occhi si velavano di una tristezza sempre più scura. Ormai erano già tre mesi che attendeva, così immersa nel silenzio e nel dolore. Quella sera era seduta sotto la luce della lampada, accanto a suo padre che si era pesantemente addormentato vicino alla solita bottiglia di gin. La testa china sopra un lavoro di ricamo che aveva intrapreso in sostituzione della musica abbandonata, Alice fantasticava tristemente. Un colpo discreto, battuto alla porta, interruppe ad un tratto il suo lungo sogno. — Entrate, — ella disse, molto sorpresa e chiedendosi chi potesse essere a quell'ora. — Sono io, signorina Watkins! — rispose una voce che la fece trasalire - la voce di Cyprien. Era proprio lui che ritornava, pallido, smagrito, bruciato dal sole, con ma barba talmente lunga che quasi non lo si riconosceva più, i vestiti logori per le lunghe marce, ma sempre vivace, sempre cortese, sempre con gli occhi sereni e la bocca sorridente. Alice s'era alzata gettando un grido di sorpresa e di gioia. Con una mano cercava di frenare i battiti del cuore, e tendeva l'altra al giovane ingegnere che la stringeva fra le sue, mentre il signor Watkins emergendo dal suo torpore, apriva gli occhi e chiedeva che cosa ci fosse di nuovo. Ci vollero due o tre buoni minuti al fattore perché si rendesse conto di come stavano le cose. Ma non appena gli si schiarì il cervello, un grido - il grido del cuore — gli sfuggì dalle labbra. — E il diamante? Il diamante, ahimè, non era di ritorno. Cyprien narrò rapidamente le molteplici peripezie della spedizione. Raccontò la morte di Friedel, quella di Annibale Pantalacci e di James Hilton, l'inseguimento di Matakit e la sua prigionia presso Tonaia, - senza dire che era tornato nel Griqualand, -

ma espose i motivi per cui era certo della piena innocenza del giovane cafro. Non mancò di lodare la devozione di Bartik e di Li, l'amicizia di Pharamond Barthès, di ricordare quanta riconoscenza doveva al bravo cacciatore e come, grazie a lui, aveva potuto ritornare con suoi due domestici, da un viaggio così micidiale per i suoi compagni. Preso dall'emozione che gli procurava il tragico resoconto, egli gettò volontariamente un velo sui torti e sui progetti delittuosi dei suoi rivali, non volendo vedere in loro che le vittime di una impresa tentata in comune. Di tutto quello che era accaduto, non tacque che quello che aveva giurato di tener segreto, cioè l'esistenza della grotta meravigliosa e delle sue ricchezze minerarie, rispetto alle quali tutti i diamanti del Griqualand non sarebbero stati che pietruzze senza valore. — Tonaia, — diss'egli alla fine, — ha puntualmente tenuto fede agli impegni. Due giorni dopo il mio arrivo nella capitale, tutto era pronto per il nostro ritorno, le provviste, i tiri di buoi e la scorta. Sotto il comando del re in persona, circa trecento negri carichi di farina e di carne affumicata ci hanno accompagnato fino al punto dove era stato abbandonato il carro che abbiamo ritrovato in buono stato, sotto l'ammasso di rami e frasche con cui era stato ricoperto. Allora abbiamo preso congedo dal nostro ospite, dopo avergli dato cinque fucili invece dei quattro che egli si aspettava, ciò che ha fatto di lui il più forte sovrano di tutta la regione compresa tra il corso del Limpopo e quello dello Zambesi! — Ma il vostro viaggio di ritorno, dall'accampamento in poi?… — chiese la signorina Watkins. — Il nostro viaggio di ritorno fu lento sebbene facile e privo d'incidenti, — rispose Cyprien. — La scorta non ci ha abbandonato che alla frontiera del Transvaal, dove Pharamond Barthès e i suoi bassuti si sono separati da noi per andare a Durban. Finalmente, dopo quaranta giorni di marcia attraverso il Veld, eccoci qui, né più né meno che nel luogo da cui eravamo partiti! — Ma in fin dei conti perché Matakit è fuggito? — chiese il signor Watkins, che aveva ascoltato il racconto con vivo interesse, senza d'altronde troppo commuoversi nei riguardi dei tre che non sarebbero mai più tornati.

— Matakit è fuggito perché aveva la malattia della paura! — rispose il giovane ingegnere. — Non c'è forse una giustizia nel Griqualand? — disse il fattore alzando le spalle. — Oh! Una giustizia troppo spesso sommaria, signor Watkins e, francamente io non me la sento di biasimare quel povero diavolo, accusato a torto, per aver voluto sottrarsi alle conseguenze della prima impressione causata dalla inesplicabile scomparsa del diamante. — Neppure io — aggiunse Alice. — In tutti i casi, ve lo ripeto, egli non era colpevole e spero proprio che d'ora innanzi lo si lascerà in pace. — Hum! — fece John Watkins, senza sembrare granché convinto della validità di questa affermazione. — Non credete piuttosto che quel furbacchione di Matakit abbia finto di aver paura solo per sfuggire alle guardie di polizia? — No!… egli è innocente!… La mia convinzione a questo proposito è assoluta, — disse Cyprien seccamente, — e l'ho pagata, mi sembra, a un ben caro prezzo! — Oh! voi potete conservare la vostra opinione! — esclamò John Watkins. — Io mi tengo la mia! Alice rendendosi conto che la discussione minacciava di degenerare in lite cercò di deviare il discorso. — A proposito, signor Cyprien Méré, — ella disse, — sapete che, durante la vostra assenza, il vostro claim è stato molto valorizzato e che il vostro socio Thomas Steel sta diventando uno dei più ricchi fra i ricchi minatori del Kopje? — In fede mia! — rispose francamente Cyprien. — La mia prima visita è stata per voi signorina Watkins e io non so assolutamente niente di quello che è accaduto durante la mia assenza! — Forse non avete neppure pranzato? — esclamò Alice con quell'istinto da piccola previdente massaia. — Lo confesso! — rispose Cyprien arrossendo, quantunque non ce ne fosse davvero un motivo.

— Oh! ma non potete andarvene senza aver mangiato, signor Méré… Un convalescente… dopo un viaggio così penoso!… Pensate che sono le undici di sera! E senza ascoltare le sue proteste, corse alla dispensa, ne ritornò con un vassoio coperto da una tovaglietta bianca, con dei piatti di carne fredda e con una squisita torta di pesche, che aveva fatto lei stessa. Il coperto fu subito messo davanti a Cyprien, tutto confuso. E siccome sembrava esitare a piantare il coltello in un superbo «biltong» (carne di struzzo conservata): — Volete che ve lo tagli io? — chiese la signorina Watkins guardandolo col più dolce dei suoi sorrisi. Ben presto il fattore a cui si era risvegliato l'appetito di fronte a questo spiegamento di vivande, chiese a sua volta un piatto e un pezzo di «biltong». Alice si affrettò a non farlo attendere e, solo per tenere compagnia a quei signori, come diceva lei, si mise a rosicchiare delle mandorle. Quella cena improvvisata fu piacevolissima. Mai il giovane ingegnere aveva avuto un così potente appetito. Prese tre volte la torta di pesche, bevve due bicchieri di vino di Costanza e coronò le sue imprese acconsentendo a gustare il gin del signor Watkins, - il quale, naturalmente, non tardò, a riaddormentarsi completamente. — E voi che cosa avete fatto in questi mesi? — chiese Cyprien ad Alice. — Ho una gran paura che vi siate scordata la vostra chimica! — No, signore, vi sbagliate, — rispose la signorina Watkins con un leggero tono di rimprovero. — L'ho invece molto studiata, e mi sono persino permessa di andare a fare qualche esperimento nel vostro laboratorio. Oh! non ho rotto nulla, state tranquillo, e ho rimesso tutto a posto! Mi piace molto la chimica, decisamente, e, a esser franca, non riesco proprio a capire come voi possiate rinunciare a una così bella scienza per ridurvi a fare il minatore o le scorribande per il Veld! — Ma, crudele signorina Alice, voi sapete bene il motivo per cui ho rinunciato alla chimica.

— Io non ne so nulla, — rispose Alice arrossendo, — e mi pare che sia un vero peccato! Al vostro posto io tenterei ancora di fare dei diamanti! È molto più elegante che non cercarli sotto terra! — È un ordine che mi date? — chiese Cyprien con un tremito leggero nella voce. — Oh! no, — rispose la signorina Watkins sorridendo, — tutt'al più una preghiera!… Ah! signor Méré, — riprese, come per correggere l'intonazione frivola delle sue parole, — se sapeste come ero triste di sapervi esposto a tutte le fatiche, a tutti i pericoli che avete affrontato! Io non ne conoscevo i particolari, ma ne indovinavo l'insieme! Un uomo come voi, mi dicevo, che ha tanto studiato, così ben, preparato a compiere grandi lavori, a fare grandi scoperte, è mai possibile che debba correre il rischio di perire miseramente nel deserto per il morso di un serpente o per la zampata di una tigre, senza alcun vantaggio per la scienza e per l'umanità?… Ma è stato un delitto lasciarlo partire!… È come avevo ragione!… Perché, in fondo, non è forse un miracolo che voi siate tornato? e senza il vostro amico Pharamond Barthès, che il cielo lo benedica… Ella non continuò, ma due grossi lagrimoni che le spuntarono agli occhi completarono il suo pensiero. Anche Cyprien era profondamente turbato. — Ecco due lagrime che sono più preziose per me di tutti i diamanti del mondo e che mi farebbero dimenticare fatiche ben più gravi! — egli disse semplicemente. Seguì un attimo di silenzio che la fanciulla interruppe, col suo solito tatto, riportando il discorso sui suoi esperimenti chimici. Era mezzanotte passata quando Cyprien si decise a ritornare a casa dove lo attendeva un pacco di lettere dalla Francia, diligentemente riunite dalla signorina Watkins sul suo tavolo da lavoro. Quelle lettere, così come succede sempre dopo una lunga assenza, quasi non osava aprirle. Se gli avessero portato la notizia di qualche sventura!… Suo padre, sua madre, la sua sorellina Jeanne!… Tante cose potevano essere successe in quei tre mesi!… Il giovane ingegnere, dopo aver constatato, da una rapida lettura, che quelle lettere non gli portavano che motivi di soddisfazione e di

gioia, tirò un profondo sospiro di sollievo. Tutti i suoi godevano buona salute. Dal ministero gli venivano rivolte le lodi più calorose a proposito della sua ottima relazione sulle formazioni adamantine. Poteva prolungare per altri sei mesi il suo soggiorno nel Griqualand, se lo riteneva opportuno per i suoi studi scientifici. Tutto, dunque, procedeva per il meglio, e Cyprien s'addormentò, quella sera con il cuore più leggero, come non gli succedeva ormai da lungo tempo. La mattina seguente fu impiegata a visitare i suoi amici, specialmente Thomas Steel, che aveva effettivamente fatto ottimi ritrovamenti nel loro claim. Il bravo inglese accolse, ad ogni modo, il suo socio con la maggior cordialità. Cyprien stabilì con lui che Bardik e Li avrebbero ripreso i loro lavori come prima. Si riservava, se fossero stati fortunati nelle loro ricerche, di assicurar loro una parte del guadagno, affinché potessero mettere da parte un piccolo capitale. Quanto a lui, era ben deciso a non tentare più la fortuna della miniera, che gli era sempre stata sfavorevole e, seguendo il desiderio d'Alice, decise di riprendere ancora una volta le sue ricerche chimiche. La conversazione con la fanciulla non aveva fatto che Confermare le sue riflessioni. Egli si era detto già da lungo tempo che la strada per lui non era certo in un lavoro rischioso o nelle spedizioni avventurose. Troppo leale e troppo fedele alla parola data, per pensare un solo istante di abusare della confidenza di Tonaia, per approfittare della conoscenza che egli ora aveva dell'esistenza di un'immensa caverna piena di formazioni cristalline, egli aveva trovato in quella certezza sperimentale una conferma troppo preziosa della sua teoria sulle gemme per non sentirsi invaso da un rinnovato ardore di ricerca. Cyprien riprese quindi naturalmente la sua vita di laboratorio, ma non volle abbandonare la via nella quale aveva già avuto successo e si decise a ricominciare le sue interrotte ricerche. Per far questo egli aveva un motivo, e anche molto serio, così come si potrà vedere. Da quando il diamante artificiale doveva venir considerato come irrimediabilmente perduto, il signor Watkins, che aveva accennato di

acconsentire al matrimonio di Cyprien e di Alice, ora non ne parlava più. Ma era probabile che, se il giovane ingegnere fosse riuscito a rifare un'altra gemma di valore straordinario misurabile in parecchi milioni, il fattore sarebbe ritornato alle idee di prima. Da qui questa risoluzione di rimettersi all'opera senza più tardare, e Cyprien non ne fece abbastanza mistero coi minatori del Vandergaart-Kopje, - non a sufficienza, forse. Dopo essersi procurato un nuovo tubo di grande resistenza, riprese i suoi lavori nelle stesse condizioni. — Ciò che mi manca per ottenere il carbonio cristallizzato, cioè il diamante, — diceva ad Alice, — è un dissolvente adatto, che mediante l'evaporazione o il raffreddamento, lasci cristallizzare il carbonio. Si è trovato questo dissolvente per l'allumina nel solfuro di carbonio. Dunque, si tratta di cercarlo, per analogia, per il carbonio o anche per corpi simili, come il boro e la silice. Frattanto, sebbene non fosse in possesso di questo dissolvente, Cyprien continuava attivamente il suo lavoro. In mancanza di Matakit che, per prudenza, non s'era ancora mostrato al campo, Bardik si era incaricato di mantener vivo il fuoco notte e giorno. Egli si dedicava a questo incarico con lo stesso zelo del suo predecessore. Frattanto, prevedendo che dopo questo prolungamento del suo soggiorno nel Griqualand, avrebbe forse dovuto ripartire per l'Europa, Cyprien volle compiere un lavoro menzionato nel suo programma e che non aveva ancora potuto condurre a termine: si trattava di determinare l'orientamento esatto di una certa depressione di terreno, situata verso il nord-est della pianura, depressione che egli sospettava fosse servita da canale di scolo per le acque, nell'epoca remota in cui s'erano andate creando le formazioni adamantine del distretto. Cinque o sei giorni dopo il suo ritorno dal Transvaal, egli s'occupava di questa determinazione con la precisione che lui applicava in tutte le cose. Dunque, da circa un'ora egli fissava paletti indicatori e rilevava dei punti di riscontro su una mappa molto particolareggiata che si era procurata a Kimberley e, cosa strana, trovava sempre in quelle cifre grossi errori o comunque notevoli

discordanze con la mappa. Alla fine, dovette arrendersi all'evidenza: la mappa era male orientata; le longitudini e le latitudini erano errate. Cyprien si era servito, a mezzogiorno in punto, di un eccellente cronometro, regolato sull'osservatorio di Parigi, per determinare la longitudine del luogo. Ora, essendo egli perfettamente certo dell'infallibilità della sua bussola e del suo compasso di declinazione, non poteva fare a meno di riconoscere che la carta, sulla quale egli controllava i suoi rilievi, era completamente errata in seguito a un grave errore d'orientamento. In realtà, il nord di quella carta, indicato, secondo l'uso britannico, con una freccia in croce, si trovava in realtà al nord-nord-ovest, o giù di lì. Di conseguenza tutte le indicazioni della carta erano necessariamente contrassegnate da un corrispondente errore. — Ma guarda cosa mi capita! — esclamò ad un tratto il giovane ingegnere. — Quegli asini calzati che hanno eseguito questo capolavoro hanno semplicemente trascurato di tener conto della variazione magnetica dell'ago calamitato! 14 E qui non è minore di ventinove gradi ovest!… Ne consegue che tutte le loro indicazioni di latitudine e di longitudine, per essere esatte, dovrebbero descrivere un arco di ventinove gradi, nella direzione da ovest ad est, intorno al centro della carta!… Bisogna dire che l'Inghilterra non aveva mandato, per fare questi rilievi, i suoi geometri migliori! E rideva fra di sé di questo abbaglio! — Beh! Errare humanum est! — continuò. — Chi non si è mai sbagliato in vita sua anche solo una volta getti la prima pietra! Comunque Cyprien non aveva alcun motivo di tenere segreta questa rettificazione che aveva avuto l'opportunità di fare per l'orientamento dei terreni adamantini del distretto. Così in quello stesso giorno, ritornando alla fattoria, avendo incontrato Jacobus Vandergaart, gliene parlò. — È molto strano — disse — che un così grave errore geodetico, che caratterizza tutte le mappe del distretto, non sia stato ancora segnalato! È una correzione importantissima da fare in tutte le carte del paese. Il vecchio lapidario guardava Cyprien con una strana espressione. 14

Storico.

— Dite davvero? — esclamò con agitazione. — Certamente! — E sareste disposto ad attestare la cosa davanti al tribunale? — Davanti a dieci tribunali, se fosse necessario! — E non sarà possibile contestare ciò che dite? — Evidentemente no, dal momento che mi basterà enunciare la causa dell'errore. E, accidenti, è davvero evidente! L'omissione della declinazione magnetica nei calcoli di rilevazione! Jacobus Vandergaart si ritirò senza dir niente, e Cyprien dimenticò ben presto la strana attenzione con cui il vecchio aveva accolto la notizia che un errore geodetico infirmava tutte le mappe del distretto. Ma, due o tre giorni dopo, quando Cyprien tornò a far visita al vecchio lapidario, trovò la porta chiusa. Sull'ardesia, appesa al saliscendi, si leggevano queste parole, da poco scritte col gesso: «Assente per affari».

CAPITOLO XXI GIUSTIZIA ALLA VENEZIANA NEI GIORNI seguenti, Cyprien s'occupò di seguire attivamente le diverse fasi del suo nuovo esperimento. In seguito ad alcune modifiche apportate alla costruzione del forno a riverbero, per mezzo di un tiraggio meglio regolato, la fabbricazione del diamante — almeno lo sperava — doveva compiersi in un tempo notevolmente più breve di quello occorso per il primo esperimento. È inutile dire che la signorina Watkins s'interessava vivamente a questo secondo tentativo di cui, bisogna ammetterlo, era un po' lei l'ispiratrice. Cosicché spesso accompagnava il giovane ingegnere fino al forno che egli visitava, più volte durante il giorno e là, dando occhiate attraverso le finestrelle nella costruzione di mattoni, si divertiva a osservare l'intensità del fuoco che muggiva all'interno. John Watkins s'interessava non meno di sua figlia, ma per altri motivi, a questa fabbricazione. Aveva fretta d'essere nuovamente possessore di una pietra il cui valore si sarebbe valutato a milioni. Il suo più vivo timore era che l'esperimento non riuscisse per una seconda volta, e che il caso avesse avuto una parte preponderante nel successo della prima. Ma se il fattore e la signorina Watkins incoraggiavano lo sperimentatore a persistere e a perfezionare la fabbricazione del diamante, la cosa non era intesa allo stesso modo dai minatori del Griqualand. Quantunque Annibale Pantalacci, James Hilton e Friedel non ci fossero più, essi avevano lasciato dei compagni che a questo proposito la pensavano del tutto come loro. Così, con sordide manovre, l'ebreo Nathan non cessava di incitare i proprietari dei claim contro il giovane ingegnere. Se questa fabbricazione artificiale entrava subito nella pratica, era finita per il commercio dei diamanti naturali e di altre pietre preziose. Si erano già fabbricati degli zaffiri

bianchi o corindoni, delle ametiste, dei topazi ed anche degli smeraldi, poiché queste gemme non sono altro che cristalli d'allumina diversamente colorati dagli acidi metallici. Era già molto preoccupante il fatto che il valore mercantile di queste pietre fosse notevolmente diminuito. Dunque se il diamante fosse divenuto oggetto di fabbricazione normale, le miniere diamantifere del Capo e di tutti gli altri paesi sarebbero state rovinate. Questo era già stato ripetuto, dopo la prima esperienza del giovane ingegnere; ma tali discorsi furono ripresi, questa volta con maggior acrimonia, con maggior violenza ancora. Si tenevano fra i minatori dei conciliaboli, che non presagivano niente di buono per i lavori di Cyprien. Egli non se ne curava nemmeno, essendo ben deciso a proseguire il suo esperimento fino ih fondo qualunque cosa si fosse detta o fatta. No! Egli non sarebbe indietreggiato davanti all'opinione pubblica e della sua scoperta non avrebbe tenuto niente di segreto poiché doveva giovare a tutti. Ma se egli continuava il suo lavoro, senza alcuna esitazione, senza paura, la signorina Watkins, al corrente di tutto quanto accadeva, cominciava a tremare per lui. Si rimproverò di averlo incoraggiato a riprendere il tentativo. Fare affidamento sulla polizia del Griqualand, per proteggerlo significava contare su una protezione poco efficace. Un cattivo colpo è presto fatto, e, prima che qualcuno fosse intervenuto, Cyprien potrebbe aver già pagato colla vita il danno che i suoi lavori minacciavano di arrecare ai minatori dell'Africa australe. Alice era dunque molto inquieta e non poté dissimulare la sua preoccupazione col giovane ingegnere. Costui la rassicurava del suo meglio pur ringraziandola della premura che ella dimostrava. In questo interessamento che la fanciulla mostrava per lui, egli vedeva la prova di un sentimento più tenero che, del resto, non era più un segreto fra loro. Non foss'altro che per questo, Cyprien si rallegrava di ciò che l'esperimento provocava da parte della signorina Watkins, delle dimostrazioni più intime… e continuava allegramente il suo lavoro. «Ciò che faccio, Alice, è per noi due» si andava ripetendo. Ma Alice, raccogliendo le voci che circolavano nei claim, viveva in un'ansietà continua.

E non senza motivo! Contro Cyprien si stava sollevando un'indignazione tale che non doveva sempre solo limitarsi a recriminazioni o a minacce, ma giungere perfino alle azioni. Infatti, una sera, tornando a far visita al forno, Cyprien lo trovò del tutto saccheggiato. Durante un'assenza di Bardik, una schiera di uomini, approfittando dell'oscurità, aveva distrutto in pochi minuti l'opera di molti giorni. La muratura era stata demolita, i fornelli sfasciati, il fuoco spento, e gli utensili fracassati e dispersi. Non rimaneva più niente del materiale che era costato tante preoccupazioni e tante pene al giovane ingegnere. Bisognava ricominciare da capo — se egli era uomo da non cedere di fronte alla violenza - o bisognava abbandonare la partita. — No! — esclamò. — No! non cederò mai, e domani denunzierò i miserabili che hanno distrutto le mie cose! Vedremo se c'è una giustizia nel Griqualand! Ce n'era una, ma non quella sulla quale contava il giovane ingegnere. Senza dire niente a nessuno, senza nemmeno informare la signorina Watkins di ciò che era accaduto, nel timore di procurarle un nuovo dispiacere, Cyprien ritornò a casa e si coricò, ben deciso, il giorno dopo, a sporgere denuncia, avesse dovuto anche rivolgersi al governatore del Capo. Aveva forse dormito due o tre ore, quando il rumore della porta che si apriva lo svegliò di soprassalto. Cinque uomini, mascherati di nero, armati di revolver e di fucili, entrarono nella camera. Erano muniti di quelle lanterne a vetri convessi che, nei paesi inglesi, si chiamano «Bull's eyes», occhi di bue, e vennero a disporsi in silenzio intorno al suo letto. Cyprien non pensò minimamente a prendere sul serio questa messinscena più o meno tragica. Egli pensò dapprincipio a uno scherzo, e si mise a ridere quantunque, a dir la verità, non ne avesse alcuna voglia e trovasse la cosa di pessimo gusto. Ma una mano brutale calò sulla sua spalla e uno degli uomini mascherati, svolgendo un rotolo di carta che teneva in mano, con una voce che non aveva niente di gradevole, lesse quanto segue: — «Cyprien Méré,

«Ciò serve a farvi sapere che il tribunale segreto del campo di Vandergaart, formato da ventidue membri agendo in nome della salvezza comune, vi ha, in questo giorno, a mezzanotte e venticinque minuti, condannato all'unanimità alla pena di morte! «Voi siete giudicato reo d'avere, con una scoperta intempestiva e sleale, minacciato nei loro interessi e nella loro vita, in quella delle loro famiglie, tutti gli uomini che, nel Griqualand e altrove, lavorano per la ricerca, il taglio e la vendita dei diamanti. «Il tribunale, nella sua saggezza, ha giudicato che una tale scoperta doveva essere annientata e che la morte di uno solo era preferibile a quella di parecchie migliaia di creature umane. «Ha decretato di concedervi dieci minuti per prepararvi a morire, di lasciarvi la scelta del modo con cui morire, di bruciare tutte le vostre carte, tranne la lettera aperta che vorrete scrivere ai vostri parenti, e di far si che la vostra casa sia rasa al suolo. «E così siano puniti tutti i traditori!». Nell'udire questa condanna, Cyprien cominciò a essere notevolmente scosso nel suo iniziale ottimismo, si chiese se quella atroce farsa, conoscendo i costumi selvaggi del paese, non fosse molto più seria di quel che aveva creduto. L'uomo che lo teneva per la spalla, si curò di levargli gli ultimi dubbi in proposito. — Alzatevi immediatamente, — gli disse rudemente. — Noi non abbiamo tempo da perdere! — È un assassinio! — rispose Cyprien, che saltò risolutamente ai piedi del letto per mettersi qualcosa addosso. Era più indignato che spaventato e concentrava tutta la forza del suo pensiero su quel che stava succedendo col sangue freddo che avrebbe potuto avere nello studiare un problema di matematica. Chi erano quegli uomini? Egli non poteva indovinarlo neppure dal timbro della voce. Senza dubbio, quelli che lo conoscevano personalmente, se ce n'era qualcuno fra loro, serbavano prudentemente il silenzio. — Avete scelto il modo con cui volete morire? — riprese l'uomo mascherato.

— Non ho alcuna scelta da fare e non posso che protestare contro l'orribile delitto di cui state per rendervi colpevoli — rispose Cyprien con voce ferma. — Protestate pure, ma la forca vi aspetta lo stesso! Avete delle disposizioni da scrivere? — Nulla che io voglia confidare a degli assassini! — In marcia, dunque! — ordinò il capo. Due uomini si collocarono ai lati del giovane ingegnere e si formò il corteo per dirigersi verso la porta. Ma, in quell'istante, un caso inaspettato si produsse. Un uomo si era slanciato improvvisamente in mezzo a quei giustizieri del Vandergaart-Kopje. Era Matakit. Il giovane cafro, che spesso, durante la notte, gironzolava nei dintorni del campo, era stato, quasi istintivamente, spinto a seguire quegli individui mascherati, nel momento in cui si dirigevano verso la casa del giovane ingegnere per forzarne la porta. Là aveva inteso tutto quello che era stato detto e aveva capito il pericolo che minacciava il suo padrone. Subito, senza esitare, e qualunque cosa potesse capitargli, aveva scavalcato i minatori e s'era gettato ai piedi di Cyprien. — Piccolo padre, perché questi uomini vogliono ucciderti? — gridava aggrappandosi al suo padrone, a onta degli sforzi che gli uomini mascherati facevano per allontanarlo. — Perché ho fatto un diamante artificiale! — rispose Cyprien, stringendo con emozione le mani di Matakit, che non voleva staccarsi da lui. — Oh, piccolo padre, quanto sono infelice e vergognoso per ciò che ho fatto, — diceva piangendo il giovane cafro. — Che vuoi dire? — chiese Cyprien. — Sì! confesserò tutto, poiché ti vogliono mettere a morte! — gridò Matakit. — Sì… sono io che devo essere ucciso… poiché, sono io che ho messo il grosso diamante nel forno! — Allontanate questo scocciatore! — ordinò il capo della banda. — Vi ripeto che sono stato io a mettere il diamante nell'apparecchio! — ripeteva Matakit svincolandosi. — Sì… sono io

che ho ingannato il piccolo padre!… Sono io che ho voluto fargli credere che il suo esperimento era riuscito! Aveva un'energia così disperata nelle sue proteste che si finì coll'ascoltarlo. — Dici davvero? —, chiese Cyprien, insieme sorpreso e spiacente per ciò che udiva. — Ma sì!… Cento volte sì!… Dico la verità! Egli era ora seduto per terra e tutti lo ascoltavano, poiché quello che stava dicendo cambiava completamente le cose! — Il giorno della grande frana, — riprese, — quando sono rimasto sepolto sotto le macerie, avevo trovato il grosso diamante!… Lo tenevo nella mano e pensavo al modo di nasconderlo, quando quell'ammasso di terra è caduto su di me per punirmi di quel cattivo pensiero!… Quando sono ritornato in vita, ho ritrovato il diamante nel letto in cui il piccolo padre mi aveva fatto trasportare!… Volevo consegnarglielo ma ho avuto vergogna di confessargli che ero un ladro, e ho aspettato un'occasione favorevole!… Appunto qualche tempo dopo, il piccolo padre ha voluto tentare di fabbricare un diamante e mi ha incaricato di alimentare il fuoco!… Ma ecco che il secondo giorno, mentre mi trovavo solo nel laboratorio, l'apparecchio è scoppiato con un fracasso orribile e poco mancò che non fossi ucciso dai frantumi!… Allora pensai che il piccolo padre avrebbe sofferto per l'insuccesso della sua esperienza!… Allora ho messo nel cannone, che s'era crepato, il grosso diamante, ben avvolto da una manciata di terra e mi sono affrettato a riparare il forno il meglio possibile perché il piccolo padre non si accorgesse di niente!… Poi rimasi in attesa senza dir nulla e quando il piccolo padre ha trovato il diamante, sono stato ben contento! Uno scoppio formidabile di risa che i cinque uomini mascherati non poterono trattenere, accolse le ultime parole di Matakit. Cyprien non rideva e si mordeva le labbra per il dispetto. Impossibile non credere al tono del giovane cafro! Il suo racconto aveva tutta l'aria di essere vero! Invano Cyprien cercava, nei ricordi o nella immaginazione, dei motivi per metterlo in dubbio o contraddirlo mentalmente. Invano si diceva:

«Un diamante naturale, esposto ad una temperatura come quella del forno, si sarebbe volatilizzato…». Il semplice buon senso gli rispondeva che protetta da una coltre d'argilla, la gemma avrebbe benissimo potuto sfuggire all'azione del calore o sopportarla solo in un modo parziale! Forse era proprio a quella specie di torrefazione che essa doveva il suo colore nero. Forse s'era volatilizzata e poi ricristallizzata nella sua ganga! Tutti questi pensieri si accumulavano nel cervello del giovane ingegnere, e vi si associavano con rapidità straordinaria. Era stupefatto! — Mi ricordo bene di aver visto la manata di terra nella mano del cafro, il giorno della frana, — fece osservare uno degli astanti, quando l'ilarità si fu un po' calmata. — E anzi la stringeva con tanta forza nella mano rattrappita, che si dovette rinunziare a levargliela. — Non c'è più alcun dubbio! — rispose un altro. — È possibile fabbricare un diamante? In verità siamo stati ben sciocchi a crederlo!… Sarebbe stato come voler fabbricare una stella! E tutti ricominciarono a ridere. Cyprien sicuramente soffriva più per la loro allegria, che non per la violenza di poco prima. Alla fine, dopo che i cinque uomini si furono consultati a voce bassa il loro capo riprese la parola: — Siamo dell'avviso — disse — che è il caso di soprassedere all'esecuzione della sentenza pronunciata contro di voi, Cyprien Méré. Vi rimettiamo in libertà! Ma ricordatevi che questa sentenza pesa sempre su di voi! Una parola, un segno per informare la polizia e voi sarete spietatamente ucciso!… A buon intenditor poche parole! Ciò detto, seguito dai suoi compagni, egli si diresse verso la porta. La camera rimase immersa nell'oscurità. Cyprien avrebbe potuto chiedersi se non era stato semplicemente vittima di un brutto incubo. Ma i singhiozzi di Matakit, che si era disteso sul pavimento e piangeva dirottamente, con la testa fra le mani, non gli permisero di dubitare della realtà di quel che era accaduto. Allora era proprio vero! Egli era sfuggito alla morte ma a prezzo di una crudele umiliazione! Lui, ingegnere minerario, lui, allievo della Scuola Politecnica, chimico famoso, geologo già celebre, s'era

lasciato trarre in inganno dall'astuzia di un miserabile cafro! O piuttosto era da imputare alla sua vanità, alla sua ridicola presunzione, questo sbaglio madornale! Egli aveva spinto la sua cecità fino a trovare una teoria sulla formazione cristallina!… Non si poteva essere più ridicoli!… Non è forse alla natura soltanto che appartiene il diritto, col concorso dei secoli, di compiere opere simili?… Eppure, chi non si sarebbe ingannato di fronte alle apparenze? Egli sperava in un successo, aveva tutto disposto per raggiungerlo e doveva logicamente credere di averlo ottenuto!… Le dimensioni fuori della media del diamante stesso avevano anch'esse contribuito a mantenere quella illusione!… Anche un Despretz le avrebbe coltivate!… Degli errori simili non capitano tutti i giorni?… Non si vedono forse dei numismatici celebri accettare come vere delle medaglie false? Cyprien tentò di confortarsi. Ma ad un tratto, un pensiero lo fece gelare: «E la mia relazione all'Accademia!… Purché quei disgraziati non se ne siano impadroniti!». Accese una candela. No! Grazie al cielo, la sua relazione era ancora là! Nessuno l'aveva vista!… Non fu tranquillo se non dopo che l'ebbe bruciata. Intanto il dolore di Matakit continuava ad essere talmente disperato che bisognava pure decidersi a calmarlo. Non fu difficile. Alle prime parole benevole del suo piccolo padre, il povero ragazzo sembrò rinascere alla vita. Ma se Cyprien dovette promettergli di non serbargli rancore e di perdonargli di buon cuore fu solo a condizione che egli promettesse di non rifarlo più. Matakit lo promise su ciò che aveva di più sacro e, essendo il suo padrone tornato a letto, egli fece altrettanto. Così finì quella scena che aveva corso il rischio di diventare tragica. Ma se terminò meno male per il giovane ingegnere, non doveva essere lo stesso per Matakit. Infatti, il giorno dopo, quando si seppe che la Stella del Sud non era che un diamante naturale, che questo diamante era stato trovato dal giovane cafro, il quale ne conosceva perfettamente il valore, tutti

i sospetti a suo riguardo rinacquero ancor più rinnovati. John Watkins gridò più di tutti. Questo Matakit non poteva che essere il ladro dell'inestimabile pietra. Dopo aver pensato di appropriarsene una prima volta - non lo aveva lui stesso confessato? - era ovviamente lui ad averla rubata nella sala del banchetto. Cyprien ebbe un bel protestare, rendersi garante dell'onestà del cafro: non lo si ascoltò, - cosa che prova abbondantemente come Matakit, che giurava di essere innocente, aveva avuto cento volte ragione di fuggire e cento volte torto di essere tornato nel Griqualand. Ma allora il giovane ingegnere, che non voleva darsi per vinto, fece valere un argomento che nessuno s'aspettava da lui e che, secondo lui, doveva salvare Matakit. — Io credo alla sua innocenza, — egli disse a John Watkins — e, d'altra parte, fosse anche colpevole questo non riguarda che me! Naturale o artificiale, il diamante era mio, prima che fosse donato alla signorina Alice… — Ah! era vostro?… — rispose il signor Watkins con tono stranamente derisorio. — Senza dubbio, — rispose Cyprien. — Non è stato trovato nel mio claim da Matakit, che era al mio servizio? — Niente di più vero — rispose il fattore, — e, di conseguenza, è mio, secondo i termini del nostro contratto, poiché i primi tre diamanti trovati nella vostra proprietà devono venir assegnati a me! Cyprien sbalordito non poté rispondere nulla a questo. — La mia osservazione è giusta? — chiese il signor Watkins. — È giusta! — rispose Cyprien. — Vi sarei allora molto grato se voleste riconoscere il mio diritto per iscritto, nel caso che riuscissimo a farci restituire da questo briccone il diamante che egli ha rubato così impudentemente! Cyprien prese un foglio di carta e scrisse: «Riconosco che il diamante trovato nel mio claim da un cafro al mio servizio è, secondo i termini del mio contratto di concessione, di proprietà del signor Stapleton Watkins. CYPRIEN MÉRÉ».

Era, bisogna convenirlo, una circostanza che faceva svanire tutti i sogni del giovane ingegnere. In effetti, quand'anche il diamante fosse mai ricomparso, esso apparteneva, non a titolo di dono, ma per diritto a John Watkins, cosicché un nuovo abisso si apriva tra Alice e Cyprien, colmabile solo con infiniti milioni. Frattanto, se questa circostanza era dannosa per i due giovani, essa era ancora più dannosa per Matakit! Egli veniva ora accusato di aver derubato John Watkins! Era a John Watkins che doveva rispondere del furto!… E questi non era uomo da rinunciare a procedere quando era sicuro di conoscere il reo. Così il poveretto fu arrestato, imprigionato, e in meno di dodici ore giudicato; poi, nonostante tutte le dichiarazioni di Cyprien in suo favore, fu condannato a venir impiccato… se non restituiva nel più breve tempo la Stella del Sud. Ora, siccome in realtà egli non poteva restituirla poiché non l'aveva rubata, il suo caso era disperato e Cyprien non sapeva più che cosa fare per liberare quell'infelice che si ostinava a considerare innocente.

CAPITOLO XXII UN NUOVO TIPO DI MINIERA INTANTO la signorina Watkins era stata informata di quanto era accaduto, della scena degli uomini mascherati così come della crudele delusione toccata al giovane ingegnere. — Ah! signor Cyprien, — gli disse quando lui l'ebbe messa al corrente di tutto, — la vostra vita non vale forse tutti i diamanti del mondo? — Cara Alice… — Non pensiamo più a tutto questo e rinunciate a queste esperienze. — Me l'ordinate?… — chiese Cyprien. — Sì! Sì! — rispose la fanciulla. — Vi ordino di cessare, come vi avevo pregato di dedicarvi a ciò… dal momento che voi volete ricevere degli ordini da me! — Così come voglio eseguirli tutti! — rispose Cyprien prendendo la mano che gli tendeva la signorina Watkins. Ma quando Cyprien le parlò della condanna che aveva colpito Matakit, ella rimase atterrita, specialmente quando seppe che suo padre aveva avuto una parte importante in quella condanna. Neppure lei credeva alla colpevolezza del povero cafro! Anche lei, d'accordo con Cyprien, avrebbe voluto fare di tutto pur di salvarlo! Ma cosa fare, e soprattutto come convincere John Watkins, divenuto il querelante di questa causa, dell'innocenza di quel disgraziato sul quale lui stesso aveva sporto le più ingiuste accuse. Bisogna aggiungere che il fattore non aveva potuto ottenere alcuna confessione da Matakit, né additandogli la forca rizzata per lui, né facendogli sperare la grazia, se avesse parlato. Cosicché, costretto a rinunciare ad ogni speranza di ritrovare la Stella del Sud,

era divenuto di un umore terribile. Non si poteva più avvicinarlo. Tuttavia, sua figlia volle tentare un ultimo sforzo presso di lui. L'indomani della condanna, il signor Watkins, soffrendo per la gotta un po' meno del solito, aveva profittato di questa tregua per mettere ordine nelle sue carte. Seduto davanti a una grande scrivania in legno d'ebano, intarsiato in giallo, - splendido residuo della dominazione olandese, andato a finire, dopo molte vicissitudini, in quell'angolo sperduto del Griqualand, - passava in rassegna i suoi titoli di proprietà, i contratti, la corrispondenza. Dietro a lui, Alice, china sul suo telaio, ricamava senza troppo curarsi del suo struzzo Dada, che andava e veniva per la stanza colla consueta gravità, ora gettando un'occhiata fuori della finestra, ora osservando con occhio quasi umano i movimenti del signor Watkins e di sua figlia. Ad un tratto, un'esclamazione del fattore fece sollevare bruscamente il capo alla signorina Watkins. — Questa bestia è insopportabile! — diceva. — Mi ha preso un documento! Dada!… Qui!… Ridammelo subito! E fece subito seguire a queste parole un torrente di ingiurie. — Ah! la bestia maledetta l'ha inghiottito!… Un documento di fondamentale importanza! La copia del decreto che permette i lavori di scavo del mio Kopje!… Ma è intollerabile! Ma glielo farò sputare, dovessi strangolarla… John Watkins, rosso per la collera, fuori di sé, si era bruscamente alzato. Correva dietro allo struzzo, che fece dapprima due o tre giri nella sala e poi si slanciò attraverso la finestra, che era a pianterreno. — Padre mio, — disse Alice, desolata per questo nuovo misfatto della sua favorita, — calmatevi, ve ne prego!… Ascoltatemi!… Finirete coll'ammalarvi! Ma il furore del signor Watkins era al colmo. La fuga dello struzzo aveva aumentato la sua esasperazione. — No, — diceva con voce strozzata, — è veramente troppo. Bisogna farla finita!… Non posso rinunciare così al più importante dei miei attestati di proprietà! Le sta bene una palla nella testa!… Riavrò il mio documento, o non sono più io! Alice lo seguì in lagrime.

— Ve ne supplico, padre mio, perdonate la povera bestia! — diceva. — Questo documento è poi tanto importante?… Non se ne può ottenere una copia? Vorreste darmi il dispiacere di uccidere sotto i miei occhi la povera Dada, per una colpa così lieve? Ma John Watkins non ascoltava più ragione, e guardava dappertutto, cercando la sua vittima. La vide infine, nell'attimo in cui essa si rifugiava dietro un lato della casa di Cyprien Méré. Subito il fattore imbracciando il fucile la prese di mira; ma Dada, come se avesse indovinato le cattive intenzioni che erano tramate contro di lei, si affrettò a nascondersi dietro alla casa. — Aspetta!… Aspetta!… Saprò ben raggiungerti, maledetta bestia! — esclamò John Watkins dirigendosi verso di lei. E Alice, sempre più spaventata, continuò a seguirlo per tentare presso di lui un ultimo sforzo. Giunsero così tutti e due davanti alla casa del giovane ingegnere e la aggirarono. Lo struzzo non c'era più! Dada era invisibile! Eppure era impossibile che fosse già discesa dal monticello, perché la si sarebbe vista intorno alla fattoria. Evidentemente doveva aver cercato rifugio nella casa, attraverso una delle porte o delle finestre che si aprivano sul lato posteriore. Ecco quello che pensò John Watkins. Quindi s'affrettò a tornare sui suoi passi e a picchiare alla porta principale. Gli venne ad aprire lo stesso Cyprien. — Signor Watkins?… Signorina Watkins?… Felice di vedervi!… — disse, molto sorpreso di quella visita inattesa. Il fattore, tutto ansante, gli spiegò la cosa in poche parole, ma con grande furore! — Ebbene, andiamo a cercare il colpevole! — rispose Cyprien facendo entrare John Watkins e Alice in casa. — E vi garantisco che i conti saranno subito regolati! — ripeté il fattore, che brandiva il suo fucile come un tomahawak. Nello stesso tempo, uno sguardo supplichevole della fanciulla disse a Cyprien tutto l'orrore che ella provava per l'esecuzione progettata. Cosicché egli prese subito una risoluzione: decise di non far trovare lo struzzo.

— Li, — gridò in francese al cinese che stava entrando in quel momento, — penso che lo struzzo sia in camera tua. Spaventalo e cerca di farlo fuggire nascostamente, mentre io conduco il signor Watkins dalla parte opposta! Disgraziatamente questo bel piano era sbagliato in partenza. Lo struzzo si era rifugiato proprio in quella stanza nella quale cominciarono le ricerche. Se ne stava là, facendosi piccino, la testa nascosta sotto una sedia, ma con il corpo visibile come il sole in pieno giorno. Il signor Watkins si lanciò su di esso. — Adesso farai i conti con me, — gli disse. Tuttavia, sebbene fosse furioso, si arrestò un istante di fronte all'enormità di quello che stava facendo: tirare un colpo di fucile, a bruciapelo, in una casa che, provvisoriamente almeno, non era più sua. Alice volse il capo piangendo per non vedere nulla di quella scena. Fu allora che la vista del suo profondo dolore suggerì al giovane ingegnere un'idea luminosa. — Signor Watkins, — disse, — a voi preme solo di riavere il vostro documento, non è vero?… Ebbene, allora è perfettamente inutile uccidere Dada per recuperarlo! Basta aprirle lo stomaco, dove il documento deve essere ancora intatto! Mi permettete di fare questa operazione? Ho seguito un corso di zoologia al Museo, e credo che me la caverò bene in questo tipo di intervento chirurgico! Sia che questa prospettiva di vivisezione placasse gli istinti di vendetta del fattore, sia che la sua collera cominciasse a diminuire o che fosse turbato suo malgrado anche lui dal sincero dispiacere di sua figlia, fatto sta che si lasciò piegare e acconsenti ad accettare questa mezza misura. — Ma non intendo rinunciare al mio documento! — dichiarò. — Se non lo troveremo nello stomaco, lo cercheremo altrove! Lo voglio a tutti i costi! L'operazione non era così facile a farsi come si sarebbe potuto credere a prima vista, vedendo l'aria rassegnata della povera Dada. Uno struzzo, anche di piccola taglia, è dotato di una forza davvero

paurosa. Appena sfiorato dalla lama di quel chirurgo improvvisato, si poteva essere sicuri che il paziente si sarebbe rivoltato, infuriato, dibattendosi con rabbia. Quindi Li e Bardik furono chiamati per assistere Cyprien in qualità di aiutanti. Si stabilì dapprima di attaccare saldamente lo struzzo. Per far ciò fu fatta incetta di tutte le corde di cui Li era grandemente provvisto in camera sua. Poi, con un sistema di lacci e di nodi, alla povera Dada furono legati le zampe e il becco mettendola nell'impossibilità di opporre la minima resistenza. Cyprien non si fermò qui. Per non ferire la sensibilità di Alice, egli volle risparmiare qualsiasi sofferenza allo struzzo, di cui avviluppò la testa in uno straccio bagnato di cloroformio. Fatto questo, egli si dedicò all'operazione, non senza una certa inquietudine sulle conseguenze. Alice, turbata da questi preparativi, pallida come una morta s'era rifugiata nella camera vicina. Cyprien cominciò coll'esaminare il collo dell'animale per ben riconoscere la posizione del ventricolo. Non era questa una cosa difficile giacché tale ventricolo formava, nella parte superiore della zona toracica, una massa considerevole, dura, resistente, che le dita riconoscevano molto bene nel mezzo delle parti molli vicine. Con l'aiuto di un temperino, la pelle del collo fu incisa con precauzione. Era larga e floscia come quella di un tacchino, e coperta di una lanuggine grigia, che si lasciava facilmente scostare. Questa incisione non procurò quasi nessuna perdita di sangue, e fu diligentemente pulita con una pezzuola bagnata. Cyprien riconobbe dapprima la posizione di due o tre arterie importanti, ed ebbe cura di scostarle con dei piccoli uncinetti di fil di ferro, che diede da tenere a Bardik. In seguito, egli incise un tessuto bianco, madreperlaceo, che formava una vasta cavità al disopra delle clavicole e finì ben presto col mettere a nudo il ventricolo dello struzzo. Possiamo immaginare un ventricolo di pollastro, quasi centuplicato di volume, spessore e peso, e avremo un'idea abbastanza esatta di quel serbatoio.

Il ventricolo di Dada si presentava sotto l'aspetto di una tasca bruna, molto dilatata a causa degli alimenti e dei corpi estranei che il vorace animale aveva inghiottito nella giornata e forse anche in epoche anteriori. E bastava vedere quell'organo carnoso, poderoso, sano, per capire che non c'era alcun pericolo ad affrontare la conclusione dell'operazione. Armato del coltello da caccia che Li gli aveva messo sotto le mani, dopo averlo debitamente affilato, Cyprien operò in quella massa un profondo taglio. Eseguita questa incisione, era facile introdurre la mano fino nel fondo del ventricolo. Prima di tutto fu ritrovato e ripreso il documento che stava tanto a cuore al signor Watkins. Era arrotolato a pallottola, un po' sciupato, certamente, ma perfettamente intatto. — C'è dell'altro, — disse Cyprien che aveva ricacciata la mano nella cavità, dalla quale levò, questa volta, una biglia d'avorio. — La biglia da rammendo della signorina Watkins! Quando si pensi che sono cinque mesi che Dada l'ha inghiottita!… Si vede che non ha potuto passare dall'orificio inferiore! Dopo aver dato la biglia a Bardik, riprese le ricerche, come un archeologo avrebbe fatto fra i resti di un accampamento romano. — Un candeliere di rame! — esclamò stupefatto, togliendo quasi subito dal ventricolo quell'oggetto, schiacciato, appiattito, ossidato, ma ancora riconoscibile. A questo punto le risa di Bardik e di Li divennero talmente rumorose che Alice, rientrata nella stanza, non poté trattenersi dal fare altrettanto. — Delle monete!… Una chiave!… Un pettine di corno!… — riprese Cyprien, proseguendo il suo inventario. Improvvisamente impallidì. Le sue dita avevano toccato un oggetto dalla forma eccezionale!… No!… Non poteva del resto avere dubbi su di esso!… Eppure non osava credere a una simile combinazione! Ritirò la mano dalla cavità e fece vedere il nuovo Oggetto trovato… Che grido proruppe dalla bocca di John Watkins!

— La Stella del Sud! Sì!… Il famoso diamante era stato ritrovato intatto, senza aver perduto nulla del suo splendore, e scintillante, nella piena luce della finestra, come una costellazione. Solo, cosa strana che colpì subito tutti gli astanti, aveva cambiato colore. Da nero come era prima, la Stella del Sud era divenuta rosa; di un rosa bellissimo che quasi aumentava se pure era possibile la sua limpidezza e il suo splendore. — Non credete che ciò possa diminuire il suo prezzo? — chiese con impazienza il signor Watkins appena poté parlare poiché la sorpresa e la gioia gli avevano in un primo tempo mozzato il fiato. — Nemmeno per sogno! — rispose Cyprien. — È, invece, una rarità di più, che mette questa pietra nella famiglia tanto pregiata dei «diamanti camaleonti». Decisamente non faceva freddo nel ventricolo di Dada, poiché di solito questi cambiamenti di tinta dei diamanti colorati sono dovuti a una improvvisa variazione di temperatura, da quel che risulta solitamente ai gruppi scientifici! — Ah! grazie al cielo, eccoti ritrovata, mia bellissima! — ripeteva il signor Watkins, stringendo il diamante nella mano, come per accertarsi che non sognava. — Tu mi hai procurato troppe pene, ingrata stella, perché io ti lasci mai più fuggire! E la faceva brillare davanti agli occhi, e l'accarezzava con lo sguardo e pareva che volesse inghiottirla, come aveva fatto Dada! Frattanto Cyprien si era fatto dare da Bardik un ago e un filo e aveva diligentemente ricucito il ventricolo dello struzzo; poi, dopo aver richiuso nello stesso modo l'incisione del collo, liberò l'animale dai legami che lo avevano ridotto all'impotenza. Dada, assai abbattuta, teneva la testa bassa e non pareva per nulla disposta a fuggire. — Credete che ricupererà le forze, signor Cyprien? — chiese Alice, occupandosi, più delle sofferenze della sua prediletta che della riapparizione del diamante. — E come! — rispose Cyprien. — Pensate dunque che avrei tentato l'operazione se non fossi stato sicuro dell'esito?… No!… Fra tre giorni non ci sarà più traccia, e vi garantisco che fra non più di

due ore Dada avrà ripreso a riempire la curiosa tasca, che abbiamo appena vuotato. Rassicurata da questa promessa, Alice rivolse al giovane ingegnere uno sguardo riconoscente, che lo ripagò di tutte le sue pene. In quel momento il signor Watkins, essendosi finalmente convinto di non essere vittima di un'allucinazione, e di aver ritrovato la sua meravigliosa pietra, si allontanò dalla finestra. — Signor Méré — egli disse con tono maestoso e solenne, — voi mi avete reso un gran servigio e non so come potrò ricompensarvene! Il cuore di Cyprien si mise violentemente a battere. Ricompensarlo!… Ma il signor Watkins disponeva di un mezzo facilissimo! Bastava che egli mantenesse la promessa di dare sua figlia a chi gli riportava la Stella del Sud! In realtà non era come se lui l'avesse riportata dal remoto Transvaal? Ecco quel che Cyprien pensava, ma era troppo fiero per esprimere questo pensiero ad alta voce e, d'altra parte, non dubitava nemmeno che il fattore se ne dimenticasse. Tuttavia, John Watkins non disse nulla a questo proposito e, fatto segno alla figlia di seguirlo, lasciò la casa e rientrò nella sua abitazione. È inutile dire che pochi istanti dopo, Matakit ricuperò la sua libertà. Ma era mancato poco che il povero diavolo non pagasse con la vita la golosità di Dada e l'aveva proprio sfuggita bella!

CAPITOLO XXIII LA STATUA DEL COMMENDATORE 15 IL FELICE John Watkins, ora il più ricco fattore del Griqualand, dopo aver dato un primo banchetto per festeggiare la nascita della Stella del Sud, non poté naturalmente fare a meno di darne un secondo per festeggiare la sua risurrezione. Però questa volta si poteva star sicuri che sarebbero state prese maggiori precauzioni perché il diamante non scomparisse… e Dada non fu invitata alla festa! Nelle ore pomeridiane del giorno dopo il banchetto era giunto al suo culmine! Fin dal mattino, John Watkins aveva riunito la maggiore e la minore schiera dei suoi soliti convitati; aveva ordinato dai macellai dei dintorni dei pezzi di carne, che sarebbero bastati a nutrire una compagnia di fanti; aveva ammucchiato nelle dispense tutte le vettovaglie, tutte le scatole di conserva e tutti i migliori vini e i liquori più squisiti che le cantine vicine avevano potuto fornirgli. Fin dalle quattro, la tavola era imbandita nella gran sala, le bottiglie erano schierate in bell'ordine sulla credenza, e tranci di bue e di montone stavano arrostendo. Alle sei giunsero gli invitati nei loro vestiti più belli. Alle sette la conversazione aveva raggiunto un tono così alto, che nemmeno una tromba avrebbe potuto dominare quel fracasso. C'era là Mathys Pretorius, tornato tranquillo da quando non aveva più da temere i cattivi scherzi di Annibale Pantalacci; c'erano Thomas Steel, 15

Qui Verne allude al colpo di scena che chiude la commedia Il convitato di pietra di Tirso de Molina ripresa da Molière con il titolo Don Giovanni o Il convitato di pietra. La statua del Commendatore ucciso da Don Giovanni, invitata a cena per scherno da lui, compare realmente al banchetto e, incarnazione della vendetta, afferra il suo nemico trascinandolo all'inferno. (N.d.T.)

raggiante di forza e di salute, il sensale Nathan, dei fattori, dei minatori, dei mercanti, dei commissari di polizia. Cyprien, su preghiera di Alice, non aveva potuto rifiutare di partecipare al banchetto, al quale la fanciulla doveva necessariamente presenziare. Ma tutt'e due erano ben tristi, poiché - era anche troppo evidente - il cinquanta volte milionario signor Watkins non si sognava minimamente di voler dare sua figlia ad un modesto ingegnere «che non sapeva neppure fabbricare i diamanti». Quel grosso egoista trattava così Cyprien, quantunque dovesse a lui la sua enorme fortuna! Il banchetto dunque proseguiva in mezzo all'entusiasmo non contenuto dei convitati. Davanti al felice fattore, - non più dietro di lui, questa volta, - la Stella del Sud, deposta sopra un cuscinetto di velluto blu, sotto la doppia custodia di una gabbia di ferro e di una campana di cristallo, scintillava al lume delle candele. Già si erano fatti dieci brindisi alla sua bellezza, alla sua incomparabile limpidezza, al suo scintillio senza pari. Faceva un caldo insopportabile. Isolata e come chiusa in se stessa, nel mezzo del tumulto, la signorina Watkins sembrava non accorgersi del frastuono intorno a lei. Guardava Cyprien, non meno addolorato di lei, e tratteneva a fatica le lagrime. Tre colpi battuti con violenza alla porta della sala, interruppero bruscamente il rumore delle discussioni e il tintinnio dei bicchieri. — Entrate! — gridò il signor Watkins con voce rauca. — Chiunque siate, arrivate al momento giusto, se avete sete! La porta si aprì. La figura lunga e scarna di Jacobus Vandergaart si drizzò sulla soglia. Tutti i convitati si guardarono, sorpresi per questa apparizione inaspettata. Si conoscevano bene in tutto il paese, i motivi d'inimicizia che separavano i due vicini, John Watkins e Jacobus Vandergaart per cui un sordo mormorio corse da un capo all'altro della tavola. Tutti aspettavano qualche cosa di grave.

S'era fatto un profondo silenzio. Tutti gli sguardi erano rivolti verso il vecchio lapidario dai capelli bianchi. Questi, in piedi, le braccia incrociate, il cappello in testa, avvolto nel suo lungo abito nero delle grandi occasioni, sembrava il simbolo della rivincita. Il signor Watkins si sentì colto da un vago terrore e da un fremito segreto. Impallidiva sotto la tinta rossiccia che aveva impresso sulle sue guance l'antico vizio del bere. Tuttavia il fattore tentò di reagire contro quel sentimento inesplicabile, di cui non riusciva a rendersi conto. — Eh! Era davvero molto tempo, vicino Vandergaart, — disse rivolgendosi per primo a Jacobus — che non mi davate il piacere di vedervi presso di me! Qual buon vento vi porta questa sera? — Il vento della giustizia, vicino Watkins, — rispose freddamente il vecchio. — Vengo a dirvi che il diritto ha finalmente trionfato ed è riapparso dopo una eclissi di sette anni! Vengo ad annunciarvi che l'ora della rivincita è suonata, che rientro nel possesso dei miei beni e che il Kopje, che ha sempre portato il mio nome, è ora dalla legge riconosciuto come mio, come non cessò mai di essere mio di fronte all'equità!… John Watkins, voi mi avete spogliato di quanto m'apparteneva!… Oggi la legge spoglia voi e vi comanda di restituirmi ciò che m'avete preso! Se John Watkins era stato colto da sgomento al primo momento per l'improvvisa comparsa di Jacobus Vandergaart e per il vago pericolo che pareva annunciare, la sua natura sanguinosa e violenta riprese il predominio di fronte ad un pericolo diretto e definito. Quindi, dopo essersi rovesciato sullo schienale della seggiola, si abbandonò al riso nel modo più sprezzante. — Il brav'uomo è pazzo, — disse, rivolgendosi ai convitati. — L'ho sempre detto che ha il cervello offeso!… Ma a quanto pare, da un po' di tempo a questa parte, la cosa è diventata più grave! Tutti i convitati applaudirono a questa bravata. Jacobus Vandergaart non mutò contegno. — Riderà bene chi riderà ultimo! — riprese gravemente levando di tasca una carta. — John Watkins, voi sapete che un giudizio regolare, e definitivo, confermato in appello, che la regina medesima non potrebbe mutare, vi ha assegnato in questo distretto i terreni

posti a occidente del venticinquesimo grado di longitudine est da Greenwich, e ha assegnato a me quelli che si trovano a oriente di questo meridiano? — Precisamente, mio caro sognatore! — esclamò John Watkins. — Ed è per questo che fareste molto meglio a andarvene a letto, se siete ammalato, e non a venire a disturbare dei galantuomini che stanno pranzando e che non devono nulla a nessuno. Jacobus Vandergaart aveva spiegato il foglio. — Ecco una dichiarazione — egli riprese con voce più dolce, — una dichiarazione del Comitato catastale, sottoscritta dal governatore e registrata a Victoria l'altro giorno, che constata un errore pratico introdotto sino ad ora in tutte le mappe del Griqualand. Questo errore, commesso dai geometri incaricati dieci anni fa di eseguire la misurazione del distretto i quali non tennero conto della declinazione magnetica nella determinazione del vero nord, questo errore, dico, rende difettose tutte le carte e tutte le mappe basate sui loro rilievi. In seguito alla rettificazione che è stata eseguita, il venticinquesimo grado di longitudine si trova trasportato, sul nostro parallelo, a più di tre miglia verso occidente. Questa rettifica, oramai ufficiale, mi rimette dunque in possesso del Kopje, di cui voi vi eravate impadronito, giacché tutti i giureconsulti e il presidente del tribunale in persona sono dell'avviso che il decreto pronunciato in vostro favore non ha perso per nulla il suo valore! Ecco, John Watkins, quel che mi premeva di dirvi! Sia che il fattore avesse compreso male, sia che preferisse rifiutarsi sistematicamente di capire, egli tentò ancora di rispondere al vecchio lapidario con uno scoppio di risa sprezzanti. Ma questa volta, il suo riso suonava falso e non sentì l'eco dei suoi commensali. Tutti i testimoni di questa scena, stupefatti, tenevano gli occhi fissi su Jacobus Vandergaart e sembravano vivamente colpiti dalla sua serietà, dalla sicurezza delle sue parole, dalla certezza incrollabile che ispirava tutta la sua persona. Il sensale Nathan, per primo, si fece interprete del sentimento generale.

— Ciò che dice il signor Vandergaart non ha, a prima vista, nulla di assurdo, — egli osservò rivolgendosi a John Watkins. — Un simile errore di longitudine può benissimo esser stato commesso, dopo tutto, e sarebbe meglio prima di pronunciarsi attendere delle notizie più complete. — Attendere delle notizie! — esclamò il signor Watkins, battendo un gran pugno sul tavolo. — Non so che farmene delle informazioni!… Sono io in casa mia, si o no? Ho ottenuto il possesso del Kopje attraverso un giudizio definitivo di cui anche questo vecchio coccodrillo riconosce la validità, si o no? Ebbene, che m'importa del resto?… se mi si vuol turbare nel pacifico possesso dei miei beni, farò quello che ho già fatto, mi rivolgerò cioè ai tribunali e vedremo chi vincerà la causa. — I tribunali hanno esaurito la loro azione, — replicò Jacobus Vandergaart con inesorabile calma. — Tutto si riduce oramai ad una questione di fatto: il venticinquesimo grado di longitudine passa o non passa sulla linea che gli è assegnata nei piani catastali? Ora è ufficialmente riconosciuto che c'era un errore su questo punto e la conclusione inevitabile è che il Kopje ritorna a me. Così dicendo Jacobus Vandergaart mostrava il documento ufficiale che teneva fra le mani, munito di tutti i bolli e timbri necessari. Il malessere di John Watkins aumentava visibilmente. Si agitava sulla propria sedia, tentava di sogghignare, ma vi riusciva a stento. I suoi occhi caddero per caso, in quell'istante, sulla Stella del Sud. Quella vista sembrò restituirgli l'ottimismo che cominciava ad abbandonarlo. — Quand'anche così fosse, — gridò — quand'anche dovessi rinunciare contro ogni giustizia a questa proprietà, che mi è stata legalmente assegnata e di cui godo in pace da ben sette anni, poco importa dopo tutto! Non mi rimane forse di che consolarmi, anche soltanto con questo unico gioiello, che posso portare con me nel taschino del panciotto e mettere al riparo da ogni sorpresa? — È un altro errore, John Watkins, — rispose Jacobus Vandergaart con tono reciso. — La Stella del Sud è oramai di mia proprietà, come tutti i prodotti del Kopje che si trovano nelle vostre

mani, come il mobilio di questa casa, come il vino di queste bottiglie, come i cibi rimasti sui piatti!… Tutto è mio, qui, poiché tutto proviene dal furto che mi fu fatto!… E non abbiate timore — aggiunse — le mie precauzioni sono state prese! Jacobus Vandergaart batté un colpo con le lunghe e scarne mani. Subito dei commissari di polizia, in uniforme nera comparvero sulla soglia, immediatamente seguiti da un ufficiale giudiziario che entrò rapidamente e pose la mano sopra una sedia. — In nome della legge, — egli disse — sequestro provvisoriamente tutti gli oggetti, in mobili e in valori, che si trovano in questa casa! Tutti s'erano alzati tranne John Watkins. Il fattore, annientato, riverso sul seggiolone di legno, pareva colpito dalla folgore. Alice gli si era gettata al collo e cercava di riconfortarlo con dolci parole. Intanto Jacobus Vandergaart non lo perdeva di vista. Lo guardava più con pietà che con odio mentre sorvegliava la Stella del Sud, che brillava più radiosa che mai in mezzo a questa catastrofe. — Rovinato!… Rovinato!… Queste sole parole poterono uscire dalle labbra tremanti del signor Watkins. In quel punto, Cyprien si alzò e con voce grave: — Signor Watkins, — disse, — poiché la vostra fortuna è minacciata da un disastro irreparabile, permettetemi di vedere in questo fatto una possibilità di avvicinarmi alla signorina vostra figlia!… Ho l'onore di chiedervi la mano della signorina Alice Watkins!

CAPITOLO XXIV UNA STELLA CHE SVANISCE LA DOMANDA del giovane ingegnere produsse l'effetto di un colpo di scena. Per quanto scarsa fosse la sensibilità della loro natura mezzo selvaggia, tutti i convitati di John Watkins non poterono trattenersi dall'applaudire rumorosamente. Tanto spirito di generosità li aveva commossi. Alice, gli occhi bassi, il cuore palpitante, l'unica forse che non si fosse mostrata sorpresa della domanda del giovane, era rimasta silenziosa accanto a suo padre. Lo sventurato fattore, ancora accasciato per il terribile colpo che gli era stato inflitto, aveva rialzato il capo. Invero egli conosceva abbastanza Cyprien per essere sicuro che dandogli sua figlia, le avrebbe assicurato contemporaneamente l'avvenire e insieme la felicità; ma non voleva ancora, con un segno, render noto che non aveva più obiezioni al matrimonio. Cyprien, un po' confuso per quel pubblico passo, a cui l'aveva spinto l'ardore del suo amore, ne capiva lui stesso la stranezza, e cominciava a rimproverarsi di non essere stato un po' più padrone di se stesso. Durante questo imbarazzo generale, facile a capirsi, Jacobus Vandergaart fece un passo verso il fattore e gli disse: — John Watkins, non voglio abusare della mia vittoria, dal momento che io non sono di quelli che schiacciano sotto i piedi i propri nemici vinti! Ho rivendicato il mio diritto, cosa che un uomo d'onore deve sempre fare! Ma so, per esperienza, che è vero quel che diceva il mio avvocato cioè che la giustizia rigorosa può a volte confinare con l'ingiustizia e non voglio far cadere su degli innocenti il peso di colpe che non hanno commesso!… E poi, io sono solo al mondo e vicino alla tomba! A che mi servirebbero tante ricchezze, se

non mi fosse concesso dividerle?… John Watkins, se acconsentite ad unire questi due figlioli, io li pregherò di accettare, come dono nuziale, questa Stella del Sud, che a me non servirebbe a nulla!… M'impegno, inoltre, di farli miei eredi, cercando così di riparare il torto involontario che io reco alla vostra dolce figliola! Queste parole produssero fra gli astanti, quello che i rendiconti parlamentari, chiamano «un vivo movimento d'interesse e di simpatia». Tutti gli sguardi si volsero verso John Watkins. I suoi occhi erano pieni di lagrime, che egli tentava di coprire con mano tremante. — Jacobus Vandergaart!… — esclamò finalmente, incapace ormai di contenere i sentimenti tumultuosi che l'agitavano. — Voi siete un brav'uomo, e vi vendicate nobilmente del male che vi ho fatto, procurando la felicità di questi due ragazzi! Né Alice né Cyprien potevano rispondere, almeno a voce alta, ma i loro sguardi parlavano per loro. Il vecchio stese la mano al suo avversario, e il signor Watkins la strinse con ardore. Tutti i presenti avevano gli occhi umidi, persino un vecchio commissario di polizia, dai capelli grigi, che pareva essere duro come un biscotto di cento anni! Quanto a John Watkins, era realmente trasfigurato. Il suo aspetto era ora benevolo e dolce così come poco prima era cattivo. Jacobus Vandegaart aveva ripreso l'espressione a lui abituale, quella della bontà più serena. — Dimentichiamo tutto, — esclamò — e beviamo alla felicità di questi figlioli, - seppure l'ufficiale giudiziario vuole permettercelo beviamo col vino che lui ha sequestrato! — Un ufficiale di polizia ha a volte il dovere di opporsi alla vendita delle bevande sequestrate, — rispose l'ufficiale sorridendo — ma non si è mai opposto alla loro consumazione! Dopo queste parole pronunciate allegramente, le bottiglie circolarono e la più sincera cordialità ricomparve nella sala. Jacobus Vandergaart, seduto alla destra di John Watkins, faceva con lui dei progetti per l'avvenire.

— Venderemo tutto e seguiremo i ragazzi in Europa, — diceva. — Vivremo vicino a loro in campagna, e passeremo ancora dei giorni felici! Alice e Cyprien, uno accanto all'altro, avevano avviato un discorso a voce bassa, in francese, che doveva essere molto interessante, a giudicare dal calore che ci mettevano. Quel giorno faceva caldo come non mai. Un calore grave e soffocante inaridiva le labbra sui bordi dei bicchieri e rendeva i convitati quasi delle macchine elettriche, pronte a lanciar scintille. Invano le finestre e le porte erano state lasciate aperte. Neppure un piccolo soffio d'aria, faceva vacillare le fiamme delle candele. Tutti capivano che non c'era che una conclusione possibile a una simile pressione atmosferica: un uragano con accompagnamento di tuoni e di piogge torrenziali che, nell'Africa australe, paiono la fusione di tutte le forze della natura. Questo uragano era vivamente atteso, era desiderato come un sollievo. Poco dopo un lampo gettò una luce verdastra sui volti e quasi subito gli scoppi del tuono susseguendosi sulla pianura annunciarono che il concerto stava per cominciare. In quel punto, una raffica impetuosa facendo irruzione nella sala, spense tutte le luci. Poi si aprirono le cateratte del cielo e il diluvio ebbe inizio. — Avete inteso, subito dopo il primo tuono, un piccolo rumore secco? — chiese Thomas Steel, mentre ci si precipitava a chiudere le finestre e a riaccendere le candele. — Pareva un rumore che fa una palla di vetro nello spezzarsi. Tutti gli sguardi si volsero istintivamente verso la Stella del Sud… Il diamante era scomparso. Tuttavia, né la gabbia di ferro, né la campana di vetro che lo ricopriva avevano cambiato posto ed era chiaramente impossibile che qualcuno l'avesse toccato. Il fenomeno sembrava un miracolo. Cyprien, che s'era prontamente fatto avanti aveva visto, sul cuscinetto di velluto blu, al posto del diamante, un po' di polvere grigia. Non poté trattenere un grido di sorpresa e in una parola spiegò cos'era successo.

— La Stella del Sud è scoppiata! — disse. Nel Griqualand tutti sanno che quella è una malattia particolare dei diamanti del paese. Non se ne parla volentieri poiché questo difetto diminuisce considerevolmente il loro valore; ma il fatto è che, in seguito a un'azione molecolare sconosciuta, le pietre più preziose scoppiano a volte come petardi. Non ne rimane in tal caso che un po' di polvere, buona tutt'al più per usi industriali. Il giovane ingegnere era evidentemente molto più interessato dall'aspetto scientifico della cosa, che non dalla perdita enorme che ne derivava per lui. — Quel che è strano — osservò in mezzo allo stupore generale, — non è tanto che la gemma sia scoppiata in queste condizioni, ma che abbia aspettato fino ad ora per accadere! Di solito, ciò accade molto prima, nei dieci giorni dopo il taglio, non è vero, signor Vandergaart? — È verissimo ed è la prima volta in vita mia che vedo un diamante scoppiare tre mesi dopo il taglio! — dichiarò il vecchio con un sospiro. — Via! Era scritto che la Stella del Sud non dovesse appartenere a nessuno! Quando penso che sarebbe bastato, per impedire questo disastro, di coprire la pietra con un leggero strato di grasso… — Pensate? — chiese Cyprien colla soddisfazione di un uomo che ha sciolto una difficoltà. — In questo caso, tutto si spiega! La fragile stella aveva trovato nel ventricolo di Dada questo strato protettivo ed è il motivo per cui si è conservata fino ad ora. In verità, avrebbe fatto molto meglio a scoppiare quattro mesi fa, e a risparmiarci tutta la strada che abbiamo percorso attraverso il Transvaal! In quella si vide John Watkins agitarsi violentemente sulla seggiola. — Come potete trattare così leggermente un simile disastro? — sbottò infine rosso di indignazione. — State parlando tutti di questi cinquanta milioni andati in fumo, come se si trattasse di una sigaretta! — Ciò che prova che noi siamo filosofi! — rispose Cyprien. — Bisogna essere saggi quando la saggezza diventa necessaria.

— Filosofi fin che volete! — replicò il fattore, — ma cinquanta milioni sono cinquanta milioni e non si trovano dietro l'angolo!… Ah! Vedete, Jacobus, oggi voi mi avete reso un bel servigio, senza pensarci. Io penso proprio che sarei rimasto di stucco se la Stella del Sud fosse stata ancora mia! — Che volete? — riprese Cyprien, guardando teneramente il volto fresco di Alice seduta accanto a lui. — Ho conquistato questa sera un diamante così prezioso, che non posso affliggermi per nessun genere di perdita. Così finì, con un colpo di scena, degno della sua storia, così breve e così agitata, la carriera del più grosso diamante che il mondo abbia visto. Una simile fine avvalorò non poco, come possiamo immaginare, le opinioni superstiziose che correvano sul suo conto nel Griqualand. Più che mai i cafri e i minatori si confermarono nell'idea che i grossi diamanti portassero sventura. Jacobus Vandergaart, che era fiero di averlo tagliato, e Cyprien, che pensava di offrirlo al museo della Scuola Mineraria, provavano, per questo inatteso dissolvimento, un dispetto maggiore di quanto volessero confessare. Ma, in complesso, il mondo andava avanti lo stesso, e non si poteva dire che per esso quella perdita fosse poi così grave. Tuttavia il susseguirsi di tutti questi avvenimenti, le emozioni dolorose, la perdita della sua fortuna seguita dalla perdita della Stella del Sud, avevano molto provato John Watkins. Si mise a letto, languì per qualche giorno e poi spirò. Né le cure devote della figlia, né quelle di Cyprien, né le forti esortazioni di Jacobus Vandergaart, che si era stabilito accanto al suo capezzale e passava il suo tempo a cercare di infondergli coraggio valsero ad attenuare quel colpo terribile. Invano, quel bravo vecchio lo intratteneva parlandogli dei suoi progetti per l'avvenire, parlandogli del Kopje come di una proprietà comune, domandandogli la sua opinione sulle decisioni da prendere e associandolo sempre ai suoi progetti. Il vecchio fattore era ferito nel suo orgoglio, nella sua mania di essere il solo proprietario, nel suo egoismo, in tutte le sue abitudini; egli si sentiva perduto.

Una sera, chiamò vicino a sé Alice e Cyprien, uni le loro mani e, senza pronunciare una parola, tirò l'ultimo respiro. Non era sopravvissuto quindici giorni alla sua cara stella. A dir la verità, pareva vi fosse una stretta relazione fra il destino di quell'uomo e la sorte di quella strana pietra. O almeno, le coincidenze erano tali e tante che confermarono, in certo qual modo, pur senza giustificarle razionalmente, le superstizioni che circolavano al riguardo nel Griqualand. La Stella del Sud aveva «portato sventura» al suo proprietario, nel senso che la comparsa dell'incomparabile gemma sulla scena del mondo aveva segnato il declino del vecchio fattore. Però, quello che le chiacchiere del campo non vedevano era che la vera origine delle disgrazie di John Watkins era. da far risalire ai vizi stessi del fattore, vizi che portano, come una fatalità, alle delusioni e alla rovina. Molte sventure in questo mondo vengono spesso attribuite a una misteriosa fatalità, mentre, se ben si guarda, non hanno che una causa: le azioni stesse di coloro che ne sopportano le conseguenze! Certo ci sono parecchie sventure immeritate; ma c'è un numero ben maggiore di sventure rigorosamente logiche, e che derivano, come la conclusione di un sillogismo, dalle premesse poste dal soggetto. Se John Watkins fosse stato meno attaccato al denaro, se non avesse dato un'importanza esagerata quasi delittuosa a quei piccoli cristalli di carbonio che si chiamano diamanti, la scoperta e la scomparsa della Stella del Sud non l'avrebbero così ferito - così come non avevano ferito Cyprien - e la sua salute fisica e morale non sarebbe stata nelle mani di un simile incidente. Ma egli aveva messo tutta la sua anima nei diamanti: per i diamanti doveva morire. Qualche settimana dopo, il matrimonio di Cyprien Méré e d'Alice Watkins venne celebrato modestamente, con grande gioia di tutti. Alice era ora la moglie di Cyprien… Che poteva chiedere di più dalla vita? Il giovane d'altronde si trovò più ricco di quanto supponeva e di quanto credeva lui stesso. Dopo la scoperta della Stella del Sud, il suo claim senza che lui lo sapesse aveva acquistato un valore straordinario. Durante il suo viaggio nel Transvaal, Thomas Steel aveva proseguito i lavori, con

magnifici risultati cosicché piovvero le offerte per comperare la sua parte del claim. Egli la vendette per più di centomila franchi prima di partire per l'Europa. Alice e Cyprien non tardarono a lasciare il Griqualand per ritornare in Francia; ma prima di partire vollero assicurare la sorte di Li, di Bardik e di Matakit, opera buona, alla quale volle associarsi Jacobus Vandergaart. Il vecchio lapidario vendette il Kopje a una compagnia diretta dall'ex sensale Nathan. Concluso felicemente l'affare, egli raggiunse in Francia i suoi figli adottivi i quali, grazie al lavoro di Cyprien, ai suoi meriti riconosciuti, furono ricevuti con festosa accoglienza al loro ritorno, dopo che si erano procurati già tanta felicità. Quanto a Thomas Steel, rientrato nel Lancashire con circa ventimila sterline, si è sposato, caccia la volpe come un gentiluomo e beve tutte le sere la sua bottiglia di Porto; non potrebbe essere più felice. Il Vandergaart-Kopje non è ancora esaurito e continua a fornire tutti gli anni, in media, la quinta parte dei diamanti esportati dal Capo; ma nessun minatore ha più avuto la buona o cattiva sorte di trovare un'altra Stella del Sud!

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