Jules Verne - L'Isola Dello Zio Robinson
December 1, 2016 | Author: fulvix88 | Category: N/A
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Racconto...
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Jules Verne
L'ISOLA DELLO ZIO ROBINSON Titolo dell'opera originale l'Oncle Robinson (1861) introduzione di Antonio Faeti traduzione di Francesca Cavattoni
Nota dell'Editore: Le eventuali discordanze tra le date, che si incontrano durante la lettura, non sono dovute a errori di traduzione, ma sono riconducibili alla stesura originale dell'autore.
©1991 le cherche midi éditeur ©1992 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A. per l'edizione italiana
Indice Introduzione di Antonio Faeti __________________________ 5 Il crudo e il cotto _____________________________________ 5 1. Isole, alberi, grotte ________________________________ 5 2. "Fa colazione a Tours: un'alosa e del vouvray…" _______ 11 3. Porri ambiziosi __________________________________ 17 L'ISOLA DELLO ZIO ROBINSON _______________________ 20 Capitolo primo _____________________________________ 20 Il nord dell'oceano Pacifico - Una scialuppa abbandonata - Una madre e i suoi quattro figli - L'uomo che regge il timone - Sia fatta la volontà del cielo! - Una domanda senza risposta ____ 20 Capitolo secondo ____________________________________ 27 Il Vankouver - L'ingegnere Harry Clifton - Un carico di canachi - Attraverso l'oceano Pacifico - Una rivolta a bordo - Il secondo Bob Gordon - Clifton viene fatto prigioniero - Una famiglia in balia delle onde - Abnegazione di Flip __________________ 27 Capitolo terzo ______________________________________ 34 I primi istanti - La tempesta - Gli incoraggiamenti di Flip - Si prendono dei terzaroli - L'aspetto della costa - La burrasca - Fra gli scogli affioranti - Flip inquieto - L'arenamento_________ 34 Capitolo quarto _____________________________________ 41 Gli sventurati erano finalmente sbarcati sulla terraferma! Erano sfuggiti ai pericoli dell'oceano. Ma che terra era? E che risorse offriva? __________________________________________ 41 Capitolo quinto _____________________________________ 47 Capitolo sesto ______________________________________ 52 Capitolo settimo ____________________________________ 60 Capitolo ottavo _____________________________________ 71 Capitolo nono ______________________________________ 78 Capitolo decimo ____________________________________ 85
Capitolo undicesimo _________________________________ 95 Capitolo dodicesimo ________________________________ 107 Capitolo tredicesimo________________________________ 115 Capitolo quattordicesimo____________________________ 124 Capitolo quindicesimo ______________________________ 135 Capitolo sedicesimo ________________________________ 145 Capitolo diciassettesimo _____________________________ 154 Capitolo diciottesimo _______________________________ 163 Capitolo diciannovesimo ____________________________ 170 Capitolo ventesimo _________________________________ 179 Capitolo ventunesimo _______________________________ 188 Capitolo ventiduesimo ______________________________ 197 Capitolo ventitreesimo ______________________________ 205 Capitolo ventiquattresimo ___________________________ 215
INTRODUZIONE DI ANTONIO FAETI IL CRUDO E IL COTTO 1. ISOLE, ALBERI, GROTTE
C'è un momento, nell'adolescenza dei ragazzi, in cui si avverte, irresistibile, il richiamo dell'isola. Ma anche le grotte e le case sugli alberi sono le speciali dimore, molto amate da questa età che sembra voler affermare, in vari modi, un proprio particolare diritto ad andare via, a concedersi una pausa, ad appartarsi, a chiudersi in un gruppo da cui sono esclusi gli adulti. Queste fughe programmate hanno un santo protettore: è un eremita barbuto, un vecchio ancora in gamba, tutto coperto di pelli, molto simile ad un Sant'Antonio del deserto, oppure a un solitario taumaturgo di cui non è rimasto neppure il nome. Ma, di questo santo laico, il nome lo conosciamo: è quello di Robinson Crusoe, che il suo creatore, Daniel Defoe, gli assegnò definitivamente nel 1719, quando, il 25 aprile, pubblicò le "strane e sorprendenti avventure" di questo naufrago, suggerite da quelle autenticamente vissute da un certo Alexander Selkirk che era rimasto davvero, per quattro anni, in un'isola dell'arcipelago di Juan Fernandez 1 . L'autore del volume in cui si narravano le vicende del "vero Robinson" si chiamava Giuseppe Saverio Bonifacio Saintine, era nato a Parigi nel 1798 e qui era morto nel 1865; era noto per aver scritto un romanzo molto letto, Picciola, (ricordato perfino da Marcel Proust) e si appassionò alla vicenda di Selkirk (che forse si chiamava Selcraig, in verità) quando il libro di Defoe era già stato letto e tradotto in tutto il mondo. Ma l'affetto di un incredibile numero di lettori aveva reso così noto il Robinson di Defoe (l'autore restò, 1
X.B. Saintine, Il vero Robinson, Le autentiche avventure del marinaio Selkirk, Hoepli, Milano 1945.
tuttavia, sempre povero) da indurre molti scrittori, un po' dovunque, a raccontare altre avventure del solitario dell'isola, fino a creare una vera e propria moda, quella delle Robinsonaden, come le definirono i tedeschi, o Robinsonnades secondo l'uso francese 2 . Anche quel lettore divorante e appassionato che fu Jules Verne conobbe molte Robinsonnades: Robinson de douze ans di M.me Mallès de Beaulieu, Robinson des sables du désert di M.me de Mirval, Les Aventures de Robert-Robert di Louis Desnoyers, Robinson des glaces di Fouinet. Che cosa spingesse tanti autori a prolungare, a proseguire, a riscrivere il libro di Defoe, è difficile a dirsi. Del resto, già nel 1866, il Robinson era stato tradotto anche in turco, in finnico, in bengalese, in gaelico, in neozelandese, in estone e, in un apposito elenco compilato da Ullrich, comparivano già 233 Robinsonaden. Ma l'affetto dei giovanissimi spiega forse il successo ovunque tributato all'opera di Defoe, anche se ci si deve ancora domandare da cosa fosse davvero suscitato un simile trionfo. Una specie di risposta può scaturire da un altro gran libro, molto caro ai ragazzi di tutti i paesi, Le avventure di Tom Sawyer, di Mark Twain, pubblicato nel 1876. Tom, Joe Harper e Huckleberry Finn decidono di abbandonare il loro villaggio di St. Petersburg per raggiungere un punto tre miglia più a valle, dove il Mississippi "è largo più di un miglio" e dove si trova "l'isola di Jackson". Questa svolta nella loro vita, i ragazzi la decidono all'inizio del "Capitolo tredicesimo" del romanzo, sospinti da motivazioni esistenziali diverse tra loro ma, in un certo senso, tutte molto adolescenziali. Tom si sente incompreso e ha appena ricevuto i colpi di una delusione amorosa, Joe si sente incompreso e ha litigato con la madre e Huck non sa bene se è incompreso o no, perché nessuno si occupa mai di lui e, comunque, per lui, l'isola di Jackson vale quanto la botte rovesciata in cui, come un antico filosofo, è costretto a dormire per la sua povertà. A dire il vero Joe Harper voleva fare l'eremita e vivere di radici fino a una inevitabile morte per via dei digiuni e delle sofferenze. Ma Tom ha invece in mente i pirati, e l'isola di Jackson può essere un buon territorio per allenarsi alla vita dei bucanieri. Alla fine del 2
C. Magris, Le robinsonaden fra la narrativa barocca e il romanzo borghese, in AA.VV. Studi in onore di Lionello Vincenti, Giappichelli, Torino, 1965.
romanzo Tom ha cambiato idea, vuole fare il bandito dei boschi, come Robin Hood, e allora viene in mente come il pappagallo chiama il solitario dell'isola, nel libro di Defoe: "Robin, Robin…" e si possono fare alcune considerazioni sull'uso e sulla fortuna di certi nomi (secondo una prospettiva scherzosa che piaceva molto a Jules Verne). Dunque vanno via, se ne stanno da soli, godono le delizie dell'isolotto molto confortevole, si allenano per le dure incombenze della pirateria, ma poi sono vinti dalla nostalgia di casa e allora decidono di tornare, anche se non mancano aspre discussioni e lamentose esitazioni. Però, prima del rientro, Tom ha uno dei suoi famosi colpi di genio. Spia i suoi concittadini di St. Petersburg, si accorge che ormai sono tutti convinti della morte certa dei tre ragazzi, e mette in scena un clamoroso arrivo che interrompe proprio il lacrimevole funerale dei tre ipotetici annegati. Ma questa fuga non molto lunga, questo ritorno a sorpresa che spezza lo svolgimento di una davvero commossa cerimonia in cui si esaltano le virtù civili e morali dei tre ragazzi "morti" (in vita erano ritenuti solo irritanti sfaccendati), che ora sono lì, ben vivi, ma certamente un poco cambiati dal loro apprendistato piratesco, non ricorda qualcosa? Sì, ricorda i "riti di passaggio" e i "riti di iniziazione" 3 , quelli in cui si va via per un po' e, in un certo senso, "si muore" poi si ritorna molto diversi e, con un nuovo ruolo, a volte con un nome nuovo ci si reinserisce nella vita della comunità. Forse l'astuto Mark Twain, sempre in bilico tra comicità e saggezza filosofica, ha voluto ricordarci che i ragazzi hanno sempre bisogno dei riti di passaggio, anche quando le "culture" in cui vivono ritengono questi riti "primitivi" e non sono più disposte a tollerarli e metterli in scena. Ma tanti Tom e Huck e Joe vorrebbero andare in un'isola, a fare i Robinson, anche oggi. E le ragazze? Mark Twain non si pone il problema, fa partire solo i maschi… Ma Jean Giraudoux, invece, in un suo delizioso romanzo, Susanna e il Pacifico, scritto nel 1920 4 , racconta di una ragazza che fa il suo bravo naufragio, proprio alla vigilia dell'inizio della Prima 3
A. Van Gennep, I riti di passaggio, Boringhieri, Torino, 1981; J. Ries (a cura di), I riti di iniziazione, Jaca Book, Milano, 1989. 4 J. Giraudoux, Susanna e il Pacifico, Sellerio, Palermo, 1980.
Guerra Mondiale, e se ne sta tutta sola in un'isoletta molto piccola, sperduta nell'oceano Pacifico. Susanna, per altro, è una Robinson molto particolare, che sfugge alla tradizione e, del resto, occorre anche stare in guardia: sotto il titolo Robinsonetta 5 , la scrittrice svizzera Elisabeth Muller non ha raccontato le imprese di una solitaria isolana, ma quelle, un po' alla Heidi, di una ragazzina fra monti, valli e ruscelli. Ma la domanda attende ancora una risposta convincente: perché l'adolescenza così vitalista, così gioiosa, così scanzonata, così desiderosa del branco, del gruppo, del clan, così adatta a una vita "metropolitana", piena di agi, di letizie, di giochi, di piacevoli corruzioni, dovrebbe poi amare l'austero eremita dell'isola, il solitario barbuto e peloso che medita sulla Bibbia e, in fondo, sembra così ben conficcato nella sua solitudine? Perché si tratta di innamoramenti, davvero, e, per di più, nati entro latitudini e culture molto differenti tra loro, come è il caso di personaggi di due romanzi del nostro Federico De Roberto e dell'inglese Wilkie Collins 6 che sono letteralmente invasati dal libro di Defoe, come Don Chisciotte dei poemi cavallereschi che lo hanno fatto impazzire. Una risposta molto saggia viene dal grande Paul Hazard, che tanti anni fa si pose la stessa domanda e trovò molte ottime ragioni: "Non è bizzarro e sorprendente al di là di ogni immaginazione, questo strano attore dalla lunga barba, col capo coperto da un cappello a punta, vestito di pelli di animali, munito nello stesso tempo di un fucile e di una parasole? Senza contare quel pappagallo appollaiato sulla spalla (…) Non contengono solamente le avventure di Robinson, queste pagine logorate da tante dita impazienti e nervose: esse sono colme degli incanti, dei timori, dei sogni di tutta una giovane umanità. Questo libro magico ha scatenato in migliaia e migliaia di cuori la passione dell'avventura, la passione profonda che già agitava il marinaio Simbad o il greco Ulisse. In virtù sua, quanti avventurieri di dodici anni hanno immaginato di lasciare la casa e d'imbarcarsi intrepidi per viaggi di mare, di naufragare e di vivere finalmente nel paese del 5
E. Miller, Robinsonetta, Treves, Milano 1907. F. De Roberto, / viceré, Garzanti, Milano 1959; W. Wilkie Collins, La pietra di luna, Mondadori, Milano, 1971. 6
meraviglioso. Tra di loro hanno recitato il dramma, nel loro giardino, nella loro casa. Il più forte faceva la parte di Robinson, il più fedele quella di Venerdì. Talvolta sono perfino partiti veramente; sono fuggiti una bella mattina senza guardarsi dietro: hanno seguito le strade maestre, per raggiungere i porti dove era stato detto loro che si agitavano i grandi vascelli pronti a salpare. Così cedevano alla tentazione dell'incognito, dell'incerto e di tutte le possibilità; la lettura del vecchio Defoe svegliava in loro quella nostalgia che fa della vita intera un ampio desiderio di emigrare (…). Ai fanciulli piace distruggere: d'accordo, ma piace anche costruire: spesso distruggono solo per procurarsi materiali secondo il loro gusto. La costruzione è uno dei loro giochi favoriti; le case di cartone e i palazzi di legno, e adesso automobili, aeroplani e ogni specie di macchina. Perché meravigliarsi se si sono impadroniti di Robinson, se vi trovano il romanzo dell'ingegnosità costruttiva e dell'energia?" 7 . Sembra dunque che i ragazzi ritrovino, in Robinson, quel loro strano desiderio che nessuno sa comprendere, quella voglia di ricominciare tutto da capo, di essere davvero protagonisti, di rifare il mondo, di radicalizzare le modifiche riportando tutto all'inizio, al livello zero, dove si è davvero sicuri che nulla sia ipotecato, stabilito, preordinato, organizzato, determinato. Defoe, "vecchio stizzoso e malinconico", come lo definisce Hazard, ha capito perfettamente queste esigenze così poco decifrabili, e le ha addirittura analizzate all'inizio del Settecento per poi trasmetterle a noi. Ma, quando si pensa a Robinson, in realtà, si riflette su un mito 8 . E un mito è sempre anche un paradigma, un modello di comportamento, un'enciclopedia, un abbecedario 9 , addirittura, come dimostrano certe edizioni del Robinson che lo trasformano in un libro scolastico con le belle illustrazioni didattiche degli antichi alfabetieri. E allora, per giungere fino all'Oncle Robinson di Verne, occorre anche riflettere sul significato di una delle Robinsonaden più famose, quella scritta, 7
P. Hazard, Uomini ragazzi e libri, Armando, Roma, 1968, p. 52. L. Trisciuzzi, Cultura e mito nel Robinson Crusoe, La Nuova Italia, Firenze, 1970. 9 D. Defoe, Viaggi e avventure di Robinson Crusoe (Riduzione di P. Fornari con illustrazioni in cromotipia di Alfredo Vaccari), Paravia, Torino, 1916 8
solo per la propria famiglia, dal pastore protestante, e parroco della Cattedrale di Berna, Johann David Wyss, e poi riordinata e fatta stampare, nel 1814, da suo figlio Johann Rudolf. In una introduzione a una edizione francese del libro di Wyss, il grande e raffinato poeta della fiaba romantica francese, Charles Nodier, nota che, sì, nel Robinson inglese va tutto bene, però quest'uomo è seul 10 , solo, e quindi il libro è, sì, un capolavoro, un chef-d'oeuvre ma è un "capolavoro freddo", un chef-d'oeuvre froid 11 . Così, per scaldarlo, Wyss ha scritto un altro libro, in cui, salvando le costanti che hanno reso grande il Robinson inglese, ha pensato a un Robinson che si è portato appresso la famiglia. Il Robinson con famiglia è un Robinson, per più versi, potenziato. Assomiglia a Tarzan a causa delle infinite risorse tecniche messe in atto per migliorare l'abitabilità della casa sull'albero, e fa sembrare una scampagnata questa lotta di resistenza nell'isola che segue il fortunato naufragio. Si deve qui notare che, accanto alle isole, anche le case sugli alberi e le grotte sono i luoghi in cui vanno, speditamente, a rifugiarsi gli adolescenti quando ne hanno bisogno. "Avevamo una casa su un albero, un grande olmo che sovrastava un terreno vuoto a Castle Rock. Oggi in quel lotto c'è una società di traslochi, e l'olmo è scomparso. Progresso. Era una specie di circolo sociale, anche se non aveva nome. Eravamo cinque, forse sei, i fissi, più qualche altro di passaggio. Li facevamo salire quando c'era una partita a carte e avevamo bisogno di sangue fresco. Il gioco di solito era il black jack e ci giocavamo solo qualche penny. Ma prendi il doppio e cinque carte sotto… e il triplo con sei carte sotto, anche se solo Teddy era così pazzo da tentarlo. I fianchi della casa sull'albero erano delle assi che avevamo recuperato dal mucchio di rifiuti…" 12 . Così scrive Stephen King, in un suo racconto molto bello, in cui la casa 10
Sulla solitudine di Robinson: "Memoria, rivista di storia delle donne", n. 10, Rosenberg & Sellier, Torino, 1985: F. Izzo, L'isola di Robinson e la città di Moll Flanders. Anche la prima edizione del libro di Saintine era intitolata Seuil 11 Le Robinson suisse, traduit de l'allemande de Wyss par M.me Elise Voiart, précède d'une introduction par Charles Nodier, Garnier, Paris, s.d. 12 . S. King, Stand by me. Ricordo di un'estate, in Stagioni diverse, Sperling & Kupfer, Milano, 1987.
sull'albero è un Altrove-Vicino dotato di grande spessore simbolico: quando si è dentro, e si è richiuso l'accesso con la tavola di legno, si è davvero molto lontani. La casa sull'albero 13 è anche un piacevole libro di Bianca Pitzorno, a cui si deve, naturalmente, anche una nostra "robinsonata": I Robinson su un'isola matta 14 Quanto alle grotte, a parte il caso di Tom, che è un ingordo e vuole tutto: l'isola, la grotta, il tesoro, l'indiano Joe, c'è una grotta recente, ma ormai molto celebre: è quella dove vanno a rifugiarsi i giovanissimi componenti della "società dei poeti estinti", gli allievi del professore Keating nel film di Peter Weir L'attimo fuggente. Così, tra alberi, e isole, e grotte, si definisce una cartografia fantastica, dove i luoghi si allontanano e si avvicinano, dove ci sono i territori di Peter Pan, dove non si cresce, e dove addirittura, c'è l'isola pianetino del Piccolo Principe. E Saint-Exupéry è al secondo posto, dopo Verne, tra gli autori francesi più tradotti all'estero, anche se Verne è nove volte più tradotto di lui. 2. "FA COLAZIONE A TOURS: UN'ALOSA E DEL VOUVRAY…"
Jules Verne nacque nel 1828, a Nantes, ma propriamente sull'isola di Feydeau, un'isola sabbiosa sulla Loira, resa splendida per mezzo di legni preziosi, robuste palafitte per sostenere i ricchi palazzi dove abitava una casta di armatori e negozianti, ventiquattro in tutto, che avevano acquistato l'isola 15 . Insomma: è come se Mark Twain si fosse concesso il lusso di nascere direttamente sull'isola di Jackson… Perché l'isola Feydeau viene ad essere, inevitabilmente, un'anticipazione della futura Isola a elica che uscirà su Le magasin d'éducation, dal 1° gennaio al 15 dicembre del 1895. Ma, nel 1859, "Jules Verne visita Edimburgo, Liverpool - da cui, nel 1870, farà salpare il Chancellor - e, al ritorno, Londra, dove ha modo di vedere 'la grande imbarcazione di ferro', il Great Eastern, appena varata. Questo primo transatlantico è un'importantissima realizzazione. Di 13
B. Pitzorno, La casa sull'albero. Edizioni Le Stelle, Milano, 1984. B. Pilzorno, I Robinson su un'isola matta, Biotti, Milano, 1973. 15 M. Soriano, Il caso Verne, Emme, Milano, 1982, p. 23 14
più: è un universo a se stante, la metafora dell'isola o della caverna, simbolo dell'universo conchiuso delle avventure alla Robinson e il primo modello di quelle macchine di ferro e di legno che solcheranno i fiumi e gli oceani: il Nautilus, la Jangada, l'isola a elica" 16 . Così scrive Soriano, congiungendo due dei grandi temi verniani, l'avventura alla Robinson e l'universo concluso. Una città galleggiante, del 1871, celebra appunto la gloria del Great Eastern, L'isola misteriosa, del 1875, porta a compimento l'epica delle profondità oceaniche e del "mondo a parte", iniziata nel 1869 con la pubblicazione di Ventimila leghe sotto i mari. La casa a vapore, del 1880, non è un treno, è una "casa che viaggia", e la Jangada, del 1881, è una zattera-casa-isola anch'essa galleggiante, ma sul Rio delle Amazzoni, L'Isola a elica, del 1895, è Standard-Island, con capitale Milliard City, isola artificiale riservata ai ricchissimi… Il tema dell'isola, dell'universo concluso, così come quello delle profondità della terra o del mare sono dotati di un grande rilievo archetipico: per riferirsi all'adolescente a cui sembrano particolarmente dedicati questi romanzi, si deve dire che qui c'è il senso di chiudersi in sé, non visto, però, tanto come esclusione dagli altri, quanto piuttosto come una ricerca, un sondaggio, un volersi mettere alla prova senza fruire degli alibi e delle concessioni di cui è prodiga la vita sociale in cui si è immersi. Ma l'isola dei Robinson è sempre anche la grande aula didattica dove si apprende davvero e dove si cresce, fra l'altro sempre scoprendo prima di tutto se stessi. A questo proposito, nell'Isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, c'è un Robinson che dichiara, meglio di altri Robinson, quale sia un suo tormento, fino a proporre una particolare riflessione. Quando Jim incontra "l'uomo dell'isola", il povero Ben Gunn, questi gli dice subito: "— Abbandonato tre anni fa (…) e campato di carne di capra, di bacche e frutti di mare. Dovunque si trovi, sai, l'uomo può bastare a se stesso. Ma vedi, compagno, il mio cuore agogna a un cibo da cristiano. Non avresti per caso un bocconcino di cacio addosso? No? Pazienza; quante notti, interminabili, ho sognato un bocconcino di cacio - specie abbrustolito - e poi mi son destato per 16
M. Soriano, cit. p. 91.
ritrovarmi qui!" 17 . È questo un indizio che ci porta a un grande libro, non a caso appartenente alla stessa cultura da cui scaturisce anche Verne: Il crudo e il cotto 18 di Claude Lévi-Strauss. Il passaggio dal "crudo" al "cotto" è infatti il fondamento mitico dello stare sull'isola, che è aula didattica proprio in quanto propone essenzialmente, nella sua affascinante perentorietà, proprio questo itinerario di apprendimento. Per imparare meglio, per vivere davvero questo mito, non si può essere come Ben Gunn, soli e un po' matti, Caimani di un'isola dove ci si scanna per un tesoro piratesco; si deve essere come la famiglia messa in scena dal pastore Wyss. Anzi, si deve e si può essere anche più radicali, anche oltranzisti, anche più severi e insieme giocosi. Tutto questo è detto in una pagina dello Zio Robinson, con grande consapevolezza: "— Saremo i Robinson del Pacifico! — disse Marc. — Sì, signorino — concordò Flip. — Bene! — intervenne Jack — e io che ho sempre sognato di vivere in un'isola con la famiglia del Robinson svizzero! — Ebbene, signorino Jack, eccovi servito a piacimento!" A piacimento. Flip dimenticava che in quel racconto immaginario l'autore ha messo tutto, industria e natura, al servizio dei suoi naufraghi. Che ha scelto per loro un'isola tutta particolare, con un clima da cui sono banditi i temibili rigori dell'inverno. Un'isola dove i naufraghi trovano ogni giorno, più o meno senza cercare, l'animale o il vegetale di cui hanno bisogno. Posseggono armi, attrezzi, polvere da sparo, vestiti, hanno una mucca, qualche pecora, un asino, un maiale, delle galline, e la loro nave incagliata, fornisce loro in abbondanza legno, ferro e semi di ogni tipo. No, la situazione non era, e non poteva essere, la stessa. I naufraghi svizzeri erano dei miliardari! Loro, invece, dei poveracci ridotti alla più completa miseria, che dovevano ingegnarsi a creare ancora tutto, intorno a sé". Scrive Soriano: "Nel 1879, Jules Verne, provvisoriamente riconciliato col figlio, s'imbarca con lui e un amico non identificato. Destinazione: le coste dell'Inghilterra e della Scozia. Nell'autunno dello stesso anno, incidente. Il Saint-Michel III, alla rada a SaintNazaire, in mezzo a una sessantina di natanti, in una sera di tempesta 17 18
R.L. Stevenson, L'isola del tesoro, Einaudi, Torino, 1943, p. 92. C. Lévi-Strauss, Il crudo e il cotto, Il Saggiatore, Milano, 1966.
è speronato da un grosso tre alberi, che gli asporta la rota di prua e il bompresso (…) Jules Verne ha evitato per un pelo il naufragio familiare che costituisce il sogno di tutti gli scrittori per la gioventù da Wyss in poi. Quella notte erano a bordo lui, il figlio Michel e il fratello Paul coi tre figli" 19 . Dunque il sogno è quello di "fare come Wyss e i suoi", ma non proprio come loro (che sono dei miliardari) bensì come vuole una sotterranea tendenza che vive in molti animi al tempo di Verne: si va via, si va in un'isola, non si ricevono benefici, ci si riduce a zero e, solo così, si può ricominciare dal principio. Nel suo Eden confortevole, il pastore Wyss cerca solo il ripristino della purezza che rende così bella la vita di una famiglia; nell'isola dello zio Robinson serpeggia la fiamma dell'utopia, vegeta sorniona una pianticella che, da Fourier, si è trasmessa fino a Verne. Se si ricomincia proprio da zero ma non da soli, in un gruppo, si può concretamente rimodellare la società. Il passaggio dal "crudo" al "cotto" avviene allora nuovamente, ma le regole possono essere cambiate. Una traccia che non si può eludere mostra come queste idee fossero, come si dice: nell'aria, alla fine dell'Ottocento, sia in Francia che in Italia. Verne iniziò a scrivere lo Zio Robinson probabilmente nel 1861, e lo abbandonò per dedicarsi ad altri romanzi; nel 1865 e nel 1869 ci sono prosecuzioni e rifacimenti dell'opera; il 20 giugno 1870 l'editore Hetzel annuncia l'uscita di uno Zio Robinson nel suo Magasin d'éducation et de récreation; poi c'è la guerra, ci sono difficoltà per tutti; nel 1871 Verne sta ancora lavorando al suo Robinson, ma quando uscirà, nel 1874, si intitolerà L'isola misteriosa, e sarà, naturalmente, tutt'altra cosa. Gli incroci tra i due testi esistono, per altro: "La farina di frumento, comunque, non sarebbe mancata a lungo alla colonia. Rovesciando le tasche del suo vestito Belle ne fece cadere un chicco di grano, uno solo. E corse felice alla grotta dov'era riunita la famiglia, mostrandolo con aria trionfante." Così, nello Zio Robinson viene data la notizia che potrebbe (ma non può perché la narrazione si interrompe…) portare alla coltivazione del frumento. E, nell'Isola misteriosa: "… quando il 19
M. Soriano, cit. p. 203.
giovinetto esclamò all'improvviso: — To', signor Cyrus, un grano di frumento! E mostrò ai compagni un grano, che dalla tasca forata si era introdotto nella fodera dell'abito" 20 . Ma una connessione ancora più stretta si ha tra lo Zio Robinson e un libro di Emilio Salgari, I Robinson italiani, pubblicato a Genova presso Donath nel 1897. Salgari era un appassionato lettore di Verne e ricavava suggestioni numerose dai suoi libri. Non poté, naturalmente, mai accostarsi alle pagine dello Zio Robinson, ma il suo libro, a partire dalla svolta iniziale che, nel tradimento dei due infidi maltesi assomiglia alla ribellione che, in Verne, produce l'allontanamento della madre e dei figli, seguiti a nuoto dal marinaio Flip, contiene vari momenti quasi uguali a quelli verniani: " — Abbiamo una scure e due coltelli. — Che Robinson miserabili!… Crosuè aveva almeno delle armi da fuoco e la dispensa della nave. — Ne faremo a meno" 21 . Le due "robinsonate" inducono a riferirsi alla "traccia" a cui si è alluso: c'era, evidentemente, un sedimento utopico comune a certi uomini della fine dell'Ottocento, nei quali il desiderio di ricominciare quasi da zero, per rifare tutto meglio, trovò in Robinson la metafora che meglio consentiva di esprimere questi complessi sentimenti. Anche in Salgari, come in Verne, la "robinsonata" segna soprattutto un passaggio dal "crudo" al "cotto", ritmato da un'incredibile serie di connotazioni gastronomiche. I Robinson italiani si concedono momenti come questi, quasi in continuazione: "Il pranzo fu molto magro quella sera, ma si accontentarono. La minuta era semplice, ma fortunatamente abbondante: granchiolini di mare arrostiti sui carboni, delle ostriche, della frutta di durion, e una sorsata d'acqua data da un'altra liana che avevano scoperta a breve distanza dalla piantagione di bambù" 22 . Anche il sapiente, l'organizzatore, il custode delle enciclopediche cognizioni che rendono possibile, e perfino lieta, la sopravvivenza, non è scaturito da un ambito istituzionalizzato, non è un professore, non è un chimico, non è un botanico. In Salgari è un "ex uomo di mare", in Verne è il marinaio Flip. Verne conferma ripetutamente la 20
G. Verne, L'isola misteriosa, Carrara, Milano, 1902, p. 238. E. Salgari, I Robinson italiani, Donath, Genova, 1897. 22 E. Salgari, cit. p. 42. 21
sua fiducia nella versatile sapienza del suo Flip, asserendo che i marinai sanno un po' di tutto e sanno fare quasi tutto; Salgari ci spiega che, con l'aver tanto viaggiato per nave, e con l'aver visto tanti luoghi, si diventa possessori di infinite cognizioni. C'è un po' di sapore di Fourier anche in queste scelte parallele. Per ricostruire il mondo da zero è necessario un uomo non compromesso con luoghi di potere, con titoli, con accademie. La speranza utopica è poi quella stessa di tanti lettori verniani e salgariani "tipici": operai, addetti alle manifatture, tecnici, appena alfabetizzati ma ricchi di tanta sapienza ottenuta con il lavoro. Altre coincidenze, per altro, sono meno spiegabili: così l'addomesticamento dello scimmione che segue le stesse fasi in Verne e in Salgari, così il ritrovamento della Cycas revoluta che contiene il sago come l'albero del pane, in Verne, e le piante di sagù, in Salgari, adatte, secondo l'ex uomo di mare Albani, a risolvere perfino i problemi alimentari della Sicilia se si potessero riportare in patria. Tanto I Robinson italiani quanto lo Zio Robinson sono del resto poemi botanici e, soprattutto il romanzo di Verne raggiunge momenti deliziosi nella limpida evocazione delle prerogative di questa o quella pianta. Nella sapiente officina di Hetzel c'erano, del resto, molte presenze in grado di fortificare e meglio indirizzare la vocazione pedagogica complessiva: fra tutti meriterebbe molta attenzione Paschal Grousset, comunardo tornato dall'esilio, che scriveva con lo pseudonimo di André Laurie e produsse un romanzo, L'erede di Robinson 23 fedele al titolo in quanto narrava davvero le peripezie avventurose di un "vero" discendente del solitario dell'isola. Come racconta, sempre molto gustosamente, Soriano, il giovane Verne diretto a Parigi per studiare e diventare avvocato, risale la Loira in piroscafo e "fa colazione a Tours: con un'alosa e del vouvray". Un bulimico, come Soriano sostiene, un divoratore per fami nevrotiche, o un buongustaio disposto sempre a transitare, e a far transitare, dal crudo al cotto in ogni occasione? Quando i ragazzini, la madre, il caro zio Robinson affumicano nell'isola i prosciutti di capibara e li trattano, con finezza, usando varie erbe 23
A. Laurie, L'erede di Robinson, Voghera, Milano, s.d.
aromatiche, avvertiamo che la civiltà non è certo fredda (come, giustamente, avvertiva il grande Nodier), ma si fonda su emblematiche accortezze che valgono come segni. Sì, non sono certo dei Robinson svizzeri, perché possiedono solo un coltello, una pentola scassata e un fiammifero, ma, alle erbe aromatiche, non rinunciano. Quando riappare, l'ingegner Clifton trova che il modesto marinaio, il buon zio Robinson, può insegnare ai suoi figli la filosofia come un professore di Oxford: "Verso le undici, gli esploratori fecero una breve sosta vicino a una sorgente, per uno spuntino con capibara freddo e un eccellente paté di coniglio, condito con erbe aromatiche. Lo zio ebbe anche l'idea di aggiungere all'acqua di sorgente un po' di succo di limone, che ne esaltò il sapore". Hanno trovato il "té del Canada", che può sostituire il té vero, e hanno trovato, subito, anche dei quasi-limoni, utili, naturalmente, solo per chi ama il té al limone. Sono appassionati ai segni, non demordono, sentono che la civiltà si fonda su tanti piccoli indizi che loro hanno ben cari: "Alla fine delle prove, comunque, il padre raccomandò tanto ai ragazzi di non perdere le frecce, e di non sprecarle inutilmente, perché il costruirle richiedeva fatica e molto tempo prezioso". Hanno portato nell'isola anche il tempo 24 , l'ha preso con sé la piccola Belle, usando un espediente ricavato dalle fiabe. Il "crudo", infatti, ha i suoi disagi forsennati, il "cotto" ha un po' di malessere della civiltà. 3. PORRI AMBIZIOSI
Quanti dubbi fa nascere un racconto che non finisce… L'autore sembra fuggito e, fra l'altro, proprio dopo aver piazzato lì un indizio di quelli che spingono a leggere, a leggere. Ma il manoscritto termina, e basta. Poteva essere conclusa, questa "robinsonata", anche dopo l'esaltante creazione dell''Isola misteriosa! Sì, perché i sapori e gli umori dello Zio Robinson sono diversi, questo sembra proprio un libro scritto pensando al timore del freddo che aveva Nodier, è un libro ben caldo, infatti, con la sua 24
Sul tempo, in Verne: B. Placido, L'invenzione di Phileas Fogg: money is time in "Per la critica", n. 4 Milano, ottobre-dicembre 1973.
gradevolissima botanica e l'appassionata dedizione con cui dei poveretti assoluti, dei poveretti biblici, difendono l'emblematica civiltà lévistraussiana delle buone maniere a tavola. La civiltà risiede nel culto dei particolari: proprio quando non hai più nulla devi difendere gli emblemi. Insomma: è vero che la scena del ritrovamento dei limoni sembra dedotta interamente da quel Robinson di dodici anni di Madame de Beaulieu, così caro a Verne: "Tagliai una dozzina di canne, e camminando con maggior coraggio raggiunsi il boschetto composto quasi totalmente di limoni. Evviva! Felice, gridai raggiante di gioia, abbiamo a nostra disposizione della limonata! Il prepararne non mi fu difficile: spremetti del sugo di limone in un guscio di noce di cocco e vi mischiai quello che sgorgò abbondante da una canna da zucchero, e così ottenni una bibita molto sana e gradita" 25 , è vero che non mancano le ovvie rimembranze che la tradizione delle "robinsonate" impone. Però è vera, è autentica, anche la specifica atmosfera di questa narrazione, dove l'impietosa, quasi paradossale notificazione dei bisogni materiali, con la loro inequivocabile perentorietà, si rende pretesto per una lieve poetica delle piccole cose, tanto da ribadire perché Guido Gozzano fosse un così grato e così memore ammiratore di Verne. E c'è il sacrosanto "effetto Ben Gunn", naturalmente, quello da cui occorre partire, sempre, quando si allude ai Robinson, alle isole, al disagio della inciviltà, alla solitudine: "Il Signore non ci abbandonerà — disse lo zio — Quanto ai ragazzi, signor Clifton, son certo felici di essere qui. — Allora, zio Robinson, non rimpiangete nulla? — Nulla, anzi sì, una cosa sola. — Quale? — Devo proprio dirlo? — Sì, zio. — Be'… il tabacco. Non so cosa darei, per fumarmi una pipa!". Al Robinson-Ben Gunn manca il formaggio, allo zio Robinson manca il tabacco. Nei meandri del sogno di infiniti lettori restano le indicazioni che toccano questi emblemi, modesti fin quasi al mistero. Del resto, quando la poetica delle piccole cose si fonda sul gusto straordinario che, come ben spiega Soriano. Verne riversava sui calembours, allora si apre anche una felice prospettiva in cui inserire 25
Il Robinson di dodici anni. Storia interessante di un mozzo di bastimento naufragato su di un'isola deserta. Raccontata ai suoi figli dalla signora M. de Beaulieu, Carrara, Milano, 1873, p. 53.
lo zio Robinson: è quella in cui vive la letteratura per l'infanzia cara ad Hazard, più succosa e più vicina alla variegata lucidità dei giovanissimi: "Ah, che begli alberi! — esclamarono assieme Marc e Robert. Sono delle dracene — rispose il signor Clifton — e credo proprio che vi stupirò, figlioli, dicendovi che giganti di questo tipo non sono altro che dei porri ambiziosi. — Possibile?! — domandò Marc, incredulo. — O almeno — riprese Clifton — che appartengono alla stessa famiglia delle liliacee, in cui rientrano anche la cipolla, lo scalogno, la cipollina e l'asparago. A dire il vero, i membri umili della famiglia ci sarebbero stati senz'altro più utili di questi alberi giganteschi." Ecco: lo sguardo specifico che vede le cipolle mentre contempla un albero immenso, è quello di Alice, di Pinocchio e, naturalmente, anche quello di Gulliver. Se poi una fine, come è giusto, si vuol trovarla, allora si passi pure all'Isola misteriosa (per La scuola dei Robinson si dovrebbe fare tutto un altro discorso…) oppure si corra a leggere Tournier, il grande Tournier. Il suo, di Robinson, a casa non ci torna. Al suo posto manda Venerdì 26 . Il suo formaggio abbrustolito, il suo speciale tabacco e i suoi porri ambiziosi non vuol certo abbandonarli soli nell'isola, ora che finalmente li ha trovati.
26
M. Tournier, Venerdì o il limbo del Pacifico, Einaudi, Torino, 1968; Venerdì o la vita selvaggia, Mondadori, Milano, 1974.
L'ISOLA DELLO ZIO ROBINSON CAPITOLO PRIMO IL NORD DELL'OCEANO PACIFICO - UNA SCIALUPPA ABBANDONATA - UNA MADRE E I SUOI QUATTRO FIGLI - L'UOMO CHE REGGE IL TIMONE - SIA FATTA LA VOLONTÀ DEL CIELO! - UNA DOMANDA SENZA RISPOSTA
La parte più deserta dell'oceano Pacifico è quella vasta distesa d'acqua delimitata a ovest dall'Asia e a est dall'America, dalle isole Aleutine a nord e dalle Sandwich a sud. Un mare su cui le navi mercantili si avventurano raramente, privo com'è, di punti di scalo e attraversato da correnti capricciose. Le navi di lungo corso che trasportano i prodotti dalla Nuova Olanda 27 all'America occidentale si tengono a latitudini più basse; ad animare questa parte del Pacifico potrebbe essere solo il traffico fra il Giappone e la California, ma per il momento ha ancora scarsa rilevanza. La linea transatlantica che fa servizio fra Yokohama e San Francisco segue, un po' più in basso, la via dei cerchi massimi del globo. E dunque fra il 40° e il 50° grado di latitudine nord, c'è quello che potremmo definire il "deserto". A volte, qualche baleniera si avventura su questo mare quasi ignoto, ma subito si affretta a superare la cintura delle isole Aleutine per penetrare nello stretto di Bering, al di là del quale si sono rifugiati i grandi cetacei, sempre perseguitati dall'arpione dei pescatori. Esistono ancora isole sconosciute, in questo mare grande come l'Europa? E la Micronesia si estende fino a questa latitudine? 27
Australia.
Difficile dirlo. Del resto, cos'è un'isola, in mezzo a una così vasta superficie liquida? Un puntino quasi impercettibile che potrebbe essere facilmente sfuggito a quanti ne hanno solcato i flutti. Così come potrebbe essersi, finora, sottratta ai rilevamenti degli esploratori anche qualche terra più importante. Si sa, infatti, che in questa parte del globo vi sono due fenomeni naturali capaci di provocare la comparsa di nuove isole: da una parte la forza plutoniana, che può far emergere improvvisamente una terra dai flutti; dall'altra, l'opera indefessa degli infusori che, creando un po' alla volta dei banchi coralliferi, tra qualche centinaio di migliaia di anni farà nascere un sesto continente in questa parte dell'oceano. Il 25 marzo 1861, comunque, la zona del Pacifico che abbiamo appena descritto non era completamente deserta. Sulla sua superficie, infatti, vagava un'imbarcazione che non aveva nulla a che fare né con i piroscafi delle linee transoceaniche, né con le navi da guerra che sorvegliano i luoghi di pesca del nord. E neppure era un mercantile carico di prodotti delle Molucche o delle Filippine, portato fuori rotta da un colpo di vento, o un peschereccio o una scialuppa. Era soltanto un fragile canotto, con un semplice trinchetto, che tentava di raggiungere una terra nove o dieci miglia sopravvento. E perciò bordeggiava cercando di opporsi alla brezza contraria, ma purtroppo la marea montante, sempre debole nel Pacifico, non aiutava la sua manovra. Il tempo era bello, ma un po' freddo, con nuvole leggere che si disperdevano nel cielo, e il sole che illuminava qua e là le creste spumeggianti delle onde, mentre il mare faceva oscillare dolcemente il canotto. La vela bordata a segno, per meglio serrare il vento, faceva inclinare la leggera imbarcazione, tanto che a volte l'acqua giungeva a sfiorare il parapetto. Ma poi la barca si sollevava di colpo e si lanciava nel vento, avvicinandosi alla costa. Osservandola bene, un marinaio avrebbe subito capito che era di fabbricazione americana, costruita con abete del Canada. Sul quadro di poppa, del resto, spiccavano i nomi Vankouver-Montréal, a indicarne la nazionalità. Sul canotto c'erano sei persone. Al timone, un uomo sui trentacinque, quarant'anni, certo un gran conoscitore del mare, che
dirigeva la barca con mano incredibilmente sicura. Era un tipo robusto, muscoloso, con le spalle larghe; il bel viso aperto e lo sguardo franco denotavano una grande bontà. E tutto in lui, dai poveri vestiti alle mani callose, dal fischio che gli usciva continuamente dalle labbra a un aspetto un po' rozzo, lasciava facilmente intuire che non apparteneva a una classe alta. Marinaio lo era di sicuro, a giudicare da come dirigeva la barca, però era un semplice mozzo, non un ufficiale. Quanto alla sua origine, non sembrava difficile stabilirla. Certo non era un anglosassone, perché gli mancavano sia la durezza dei tratti che la rigidità di movimento tipici degli uomini di quella razza. Possedeva invece una certa grazia naturale, così lontana dalla sfrontatezza un po' volgare dello Yankee della Nuova Inghilterra. Se non era canadese, discendente degli audaci pionieri in cui si ritrova ancora l'impronta gallica, doveva senz'altro essere francese, un po' americanizzato, certo, ma comunque francese, uno di quei giovanotti audaci, buoni, premurosi e pronti a tutto, una di quelle nature fiduciose e incapaci di paura, come se ne incontrano spesso in Francia. Il marinaio era seduto a poppa, lo sguardo fisso, a sorvegliare contemporaneamente il mare e la vela: la vela, quando una piega indicava che prendeva troppo vento, il mare, se doveva modificare leggermente la rotta, per evitare qualche grossa ondata. E quando, ogni tanto, gli sfuggiva dalle labbra una parola, o piuttosto una raccomandazione, allora si sentiva un accento che non avrebbe mai potuto uscire dalla gola di un anglosassone. — Tranquilli, ragazzi — diceva. — La situazione non è certamente un granché, ma potrebbe anche essere peggio. State tranquilli e abbassate la testa, ché viriamo di bordo. E il marinaio lanciava l'imbarcazione nel vento. La vela passava rumorosa sulle teste, e la barca si avvicinava pian piano alla costa, inclinandosi sull'altro fianco. A poppa, accanto al robusto timoniere, c'era una donna sui trentacinque anni, il viso coperto da un lembo dello scialle. Piangeva, ma cercava di nascondere le lacrime che le solcavano il viso, per non gettare nella disperazione i figli che le si stringevano intorno.
Il più grande, sui diciassette anni, con i capelli neri e il viso abbronzato dal vento marino, era un giovane ben fatto, che prometteva di diventare un giorno un uomo vigoroso. Negli occhi arrossati gli tremava ancora qualche lacrima, nata forse più dalla rabbia che dal dolore. Ritto a prua, accanto all'albero, il ragazzo fissava la terra ancora lontana. Ogni tanto, girandosi, posava uno sguardo, insieme triste e irritato, sull'orizzonte che si arrotondava a ovest, e impallidiva, cercando di controllarsi per non far esplodere la collera. Poi abbassava gli occhi sull'uomo che reggeva il timone, e lui gli rispondeva con un bel sorriso dolce e un piccolo cenno del capo, come per rassicurarlo. Il secondogenito, non ancora quindicenne e con una gran criniera di capelli rossicci, era turbolento e inquieto, sempre indeciso fra lo stare seduto e l'alzarsi in piedi: per lui la barca non procedeva mai abbastanza veloce, e la terra non si avvicinava abbastanza in fretta. E se ora fremeva dal desiderio di raggiungere la costa, c'era pur sempre il rischio che se ne volesse andare altrove, appena sbarcato. Ma quando posava lo sguardo sulla madre e udiva i sospiri che le gonfiavano il petto, allora l'abbracciava con grande tenerezza, e la donna se lo stringeva al seno, mormorando: — Povero ragazzo! Poveri figlioli miei! — e si girava a guardare il marinaio seduto al timone, che le rispondeva sempre con un cenno della mano, a significare senz'altro: — Va tutto bene, signora, vedrete che ce la caveremo! Ma poi, gli occhi puntati verso sud-ovest, l'uomo vedeva alzarsi sull'orizzonte dei nuvoloni scuri, che non lasciavano presagire nulla di buono per la sua compagna di strada e i suoi figlioli. Il vento si faceva sempre più freddo, e una brezza troppo forte sarebbe stata fatale per un'imbarcazione così leggera, e senza ponte. Ma era un pensiero che il marinaio teneva per sé, senza lasciar trasparire nulla dei timori che lo turbavano. Gli altri due figli erano un maschietto e una femminuccia. Il maschietto, un ragazzino di otto anni con i capelli biondi e gli occhi azzurri semichiusi, si stringeva alla madre, tenendo le manine intirizzite dal freddo infilate sotto lo scialle, con le labbra pallide di stanchezza e le gote, abitualmente fresche e rosa, appannate dal
pianto. Accanto a lui la sorellina di sette anni, sfinita dagli scossoni delle onde, ciondolava mezza addormentata fra le braccia della mamma, con la testa sballottata dal rollio della barca. Come abbiamo già detto, quel 25 marzo l'aria era fredda, con una brezza gelida proveniente dal nord e forti raffiche glaciali. Ma i passeggeri del canotto, che avevano indosso solo qualche abito leggero, non erano certo vestiti in modo adeguato. Forse erano stati sorpresi da una catastrofe, naufragio o collisione, che li aveva costretti a trovare precipitosamente rifugio nella barca, portando con sé una misera riserva di viveri: qualche galletta da marinaio e due o tre pezzi di carne salata, nel cassone di prua. Quando il ragazzino si passò la mano sugli occhi mormorando: — Mamma, ho tanta fame! — il timoniere corse a prendergli un pezzo di galletta dal cassone, e glielo porse con un sorriso: — Mangia, piccolo, mangia! E vedrai che, anche quando non ce ne sarà più, forse ce ne sarà ancora! Incoraggiato dalle parole del marinaio, il bimbo divorò in un attimo la dura crosta che gli veniva offerta, quindi posò di nuovo la testa sulla spalla della madre. Nel frattempo la povera donna si era tolta lo scialle per avvolgervi i bimbi tremanti di freddo, scoprendo il viso bello e regolare, con due grandi occhi neri, seri e pensosi, una fisionomia profondamente marcata dalla tenerezza materna e dal senso del dovere. Era "una madre" nella più ampia accezione del termine, una madre quale doveva essere stata quella di un Washington, di un Franklin o di un Abraham Lincoln, una donna della Bibbia, forte e coraggiosa, somma di tutte le virtù e tenerezze. Una donna distrutta, vittima, probabilmente, di un'enorme disgrazia, che però lottava contro la disperazione, tentando di ricacciare le lacrime che le salivano dal cuore. Anche lei, come il figlio maggiore, si girò più volte a scrutare l'orizzonte, cercando sul mare un qualche invisibile oggetto. Ma vedendo soltanto l'immensità deserta, si lasciò ricadere sul fondo del canotto, mentre le sue labbra si rifiutavano ancora di pronunciare le parole della sottomissione evangelica: "Signore, sia fatta la tua volontà!"
La donna cercava di riparare i bimbi fra le pieghe dello scialle, benché fosse lei stessa vestita in modo troppo leggero, con quel suo abitino di lana e una casacchina sottile, che non potevano certo proteggerla contro la brezza pungente di marzo. I tre figli maschi indossavano, ognuno, una giacca di panno, un paio di pantaloni e un gilet di lana, e in testa portavano un berretto di tela cerata. Ma ci sarebbe voluto anche un buon cappotto col cappuccio foderato, o un mantello da viaggio imbottito. Comunque i ragazzi non si lamentavano mai del freddo, certo per non aggravare la disperazione della madre. Anche il marinaio non era abbastanza protetto dai morsi del vento, con quei suoi pantaloni di velluto a coste e un giubbotto di lana. Ma lui aveva un cuore caldo che gli consentiva di reagire con forza alle sofferenze fisiche, facendolo patire più per i dolori altrui che per i suoi. Così, quando notò che la povera donna, privatasi dello scialle per coprire i suoi piccoli, tremava e batteva i denti suo malgrado, riprese subito lo scialle, e glielo posò sulle spalle. Poi si tolse il giubbotto, tiepido del calore del suo corpo, e lo stese con cura a coprire i due piccoli. Quando la donna cercò di opporsi, il marinaio rispose semplicemente: — Soffoco! — tergendosi la fronte col fazzoletto, come se il sudore gli stesse colando a grosse gocce. E strinse affettuosamente la mano che lei gli porgeva, senza dire una parola. In quel momento il figlio maggiore salì di corsa sul ponte a prua e, riparandosi gli occhi dai raggi del sole, scrutò attentamente il mare verso ovest. L'oceano era un'immensa distesa scintillante, e la linea dell'orizzonte si perdeva nell'intenso baluginìo: impossibile vedere qualcosa, in simili condizioni. Ma il ragazzo guardò ancora a lungo, mentre il marinaio scuoteva la testa, quasi a dire che, se mai fosse arrivato qualche soccorso, lo si sarebbe dovuto cercare molto più in alto! In quel momento la piccola si svegliò, sollevando il visino smunto dalle braccia di sua madre e, dopo aver passato in rassegna tutte le persone a bordo: — E papà? — domandò.
Nessuno rispose. Ma gli occhi dei ragazzi si riempirono di lacrime e la madre scoppiò in singhiozzi, nascondendosi il viso fra le mani. Dinanzi a quel dolore profondo, il marinaio taceva. Le parole di conforto con cui, sino ad allora, aveva cercato di rassicurare quella povera gente ora gli mancavano, e la sua grossa mano stringeva convulsamente la barra del timone.
CAPITOLO SECONDO IL VANKOUVER - L'INGEGNERE HARRY CLIFTON - UN CARICO DI CANACHI - ATTRAVERSO L'OCEANO PACIFICO - UNA RIVOLTA A BORDO - IL SECONDO BOB GORDON - CLIFTON VIENE FATTO PRIGIONIERO - UNA FAMIGLIA IN BALIA DELLE ONDE - ABNEGAZIONE DI FLIP
Il Vankouver era un tre alberi canadese di cinquecento tonnellate di stazza, noleggiato per trasportare un carico di canachi dalla costa asiatica a San Francisco, in California. Come i coolie cinesi, anche i canachi sono emigranti volontari che vanno a lavorare all'estero. A bordo del Vankouver ce n'erano centocinquanta. Generalmente i viaggiatori evitano di attraversare il Pacifico in compagnia dei canachi, gente rozza e poco raccomandabile, sempre pronta alla rivolta. Del resto, nemmeno l'ingegnere americano Harry Clifton aveva fatto nulla per imbarcarsi sul Vankouver con tutta la famiglia. Dopo avere lavorato vari anni alle opere di sistemazione delle foci dell'Amur e aver messo insieme una discreta fortuna, adesso il signor Clifton, che pure aveva solo quarant'anni, desiderava soltanto ritirarsi e attendeva l'occasione per tornare a Boston, sua città natale. Dato che le comunicazioni fra la Cina settentrionale e l'America erano ancora piuttosto rare, quando il Vankouver attraccò sulla costa asiatica, il signor Clifton, che nel capitano della nave ritrovava un compatriota e un amico, decise d'imbarcarsi senz'altro, con tutta la famiglia. E per non contrariare il marito, ansioso di rivedere l'America, anche la signora Elise Clifton aveva messo definitivamente da parte ogni sua paura e perplessità all'idea di imbarcarsi su una nave carica di canachi. Del resto la traversata sarebbe stata breve, e il capitano del Vankouver era un veterano di viaggi del genere, il che la tranquillizzava un po'. Così i signori Clifton s'imbarcarono sul
Vankouver con i tre figli maschi Marc, Robert, Jack, la piccola Belle e il cane Fido. Il capitano Harrisson, comandante della nave ed ottimo marinaio, era un esperto lupo di mare e conosceva benissimo quella zona dell'oceano Pacifico, che non presentava, del resto, nessun particolare pericolo. Essendo amico dell'ingegnere, poi, fece del suo meglio per assicurare alla famiglia una traversata tranquilla, e sistemò i canachi nell'interponte, evitando così ogni possibilità di contatto. L'equipaggio del Vankouver era composto da una decina di mozzi, non uniti fra loro da alcun legame di nazionalità: un inconveniente difficile da evitare, nella formazione di equipaggi reclutati in paesi lontani, e che diventa, spesso, elemento di discordia nel corso delle traversate. C'erano due irlandesi, tre americani, un francese, un maltese, due cinesi e tre negri, assunti per il servizio di bordo. Partito il 14 marzo, nei primi giorni il Vankouver procedette regolarmente anche se, malgrado l'abilità del capitano Harrisson, deviò molto più a nord rispetto alla rotta stabilita, sotto la spinta dei venti e delle correnti da sud. Ma, in realtà, non correva alcun rischio, e in fondo si trattava solo di prolungare la traversata. Il vero pericolo, invece, cominciava a manifestarsi attraverso i discorsi di alcuni marinai che, incoraggiati da Bob Gordon, spingevano i canachi alla rivolta. Gordon era il secondo di bordo, un furfante matricolato che era riuscito a sorprendere la buona fede del capitano, con cui viaggiava per la prima volta. Così erano già scoppiate, fra loro, alcune discussioni violente, che avevano costretto il capitano a valersi di tutta la sua autorità: una serie di deplorevoli incidenti, che avrebbero avuto conseguenze disastrose. Tra l'equipaggio del Vankouver, infatti, non tardarono a serpeggiare gravi sintomi di insubordinazione, mentre diventava sempre più difficile tenere a freno i canachi. Il capitano Harrisson poteva contare soltanto sui due irlandesi, i tre americani e il francese, un marinaio in gamba che viveva negli Stati Uniti da parecchio tempo. Originario della Piccardia, si chiamava in realtà Jean Fanthome, ma ormai rispondeva soltanto al soprannome di Flip. Flip aveva girato il mondo, affrontando tutto quel che può capitare a un essere umano, senza mai rinunciare al suo buon umore e al suo
spirito, improntato ad una sana filosofia naturale. Fu lui a segnalare al capitano Harrisson le cattive intenzioni che serpeggiavano a bordo, costringendolo ad adottare energici provvedimenti. Ma cosa si poteva fare in simili condizioni? Non era meglio prendere qualche precauzione, aspettando che il vento favorevole spingesse la nave in vista della baia di San Francisco? A conoscenza degli intrighi del secondo, l'ingegner Clifton si faceva ogni giorno più inquieto. Quando, poi, notò l'intesa che si andava stabilendo fra i canachi e qualche marinaio, rimpianse seriamente d'essersi imbarcato a bordo del Vankouver, esponendo la famiglia ai pericoli di una simile traversata. Ma era troppo tardi, ormai. Non appena l'ostilità che serpeggiava nell'aria cominciò a tradursi in episodi di violenza, il capitano Harrisson condannò ai ferri un maltese che l'aveva insultato. La sentenza venne accolta con un generico brontolio, ma nessuno tentò seriamente di opporsi. Il maltese fu messo ai ferri da Flip e da un marinaio americano. Era il 23 marzo. La punizione in sé era ben poca cosa ma, al suo arrivo a San Francisco, l'accusa di insubordinazione avrebbe potuto essere gravida di conseguenze. Eppure il maltese non oppose alcuna resistenza, certo com'era che il Vankouver non sarebbe mai arrivato a destinazione. Il capitano e l'ingegnere si ritrovavano spesso a parlare fra loro della difficile situazione creatasi a bordo: sempre più preoccupato, Harrisson aveva già pensato di far arrestare Bob Gordon, che non aveva mai nascosto le proprie intenzioni d'impadronirsi della nave. Ma l'arresto del secondo avrebbe fatto certamente scoppiare la scintilla, perché l'ufficiale avrebbe avuto dalla sua la stragrande maggioranza dei canachi. — È chiaro — ribatteva Harry Clifton — che un arresto del genere non risolverebbe nulla, perché Bob Gordon verrebbe liberato dai suoi partigiani, e noi ci ritroveremmo in una situazione ancora più difficile. — Avete ragione, Harry — assentiva il capitano. — Però io conosco soltanto un metodo per mettere un simile disgraziato nell'impossibilità di nuocere! Ficcargli una palla in testa! E se quello
continua, giuro che lo farò! Ah, se almeno il vento e le correnti non ci fossero contro! Infatti, il vento che soffiava con particolare violenza spingeva continuamente il Vankouver fuori rotta, facendolo procedere molto a rilento. La signora Clifton, che il marito aveva preferito tenere all'oscuro di quanto stava succedendo a bordo per evitarle inutili preoccupazioni, passava le giornate chiusa nel cassero, assieme ai due figlioli più piccoli. Ma a un certo punto il mare s'ingrossò talmente e il vento divenne così forte che il Vankouver fu costretto a ridurre le vele serrando i terzaroli. Nei giorni 21, 22 e 23 marzo, in cui il sole venne coperto da una fitta coltre di nuvole, non fu possibile effettuare nessun rilevamento, tanto che il capitano Harrisson non sapeva più in che punto del Pacifico settentrionale l'uragano avesse spinto la sua nave. Una nuova preoccupazione, in aggiunta alle tante che già lo assillavano. Il 25 marzo, intorno a mezzogiorno, il cielo si schiarì leggermente e il vento girò d'un quarto verso ovest, favorendo la rotta della nave. Il capitano ne approfittò, allora, per cercare di stabilire la posizione esatta, tanto più che era stata segnalata una terra, a una trentina di miglia a est. L'avvistamento di una terra in quella zona del Pacifico, dove le carte più recenti non ne indicavano nessuna, sorprese non poco il capitano Harrisson. Che la nave fosse stata spinta a nord, tanto da raggiungere la latitudine delle Aleutine? Ne parlò con l'ingegnere, che non fu meno sorpreso di lui, e decisero che bisognava verificarlo al più presto. Così il capitano Harrisson prese il sestante e, in piedi sul cassero, attese che il sole raggiungesse il punto culminante della sua corsa per determinare con esattezza il sud. Alle undici e cinquanta, mentre il capitano stava accostando all'occhio la lente del sestante, dall'interponte giunsero delle grida. Il capitano Harrisson si precipitò verso la parte anteriore del cassero, mentre una trentina di canachi si riversavano urlando fuori dalla cappa, travolgendo i marinai inglesi e americani. In mezzo a loro c'era il maltese, liberato.
Il capitano scese di corsa sul ponte, seguito dall'ingegnere, e fu subito attorniato dai marinai dell'equipaggio rimastigli fedeli. Il gruppo dei canachi in rivolta, che continuava ad aumentare di numero, si arrestò a dieci passi di distanza. La maggior parte di loro brandivano leve, punteruoli, attrezzi presi dalle rastrelliere, e riempivano l'aria di grida spaventose nella loro lingua, cui si mescolavano le urla dei maltesi e dei negri. L'ufficiale in seconda era riuscito nel suo intento. La rivolta dei canachi, che miravano ad impadronirsi della nave, era infatti il risultato degli intrighi di Bob Gordon, che voleva fare del Vankouver un vascello pirata. Il capitano Harrisson decise di finirla con quel miserabile. — Dov'è il secondo? — domandò. Ma non ebbe risposta. — Dov'è Bob Gordon? — ripeté il capitano. Allora un uomo uscì dal gruppo dei rivoltosi: Bob Gordon. — Perché non siete a fianco del vostro capitano? — domandò Harrisson. — L'unico capitano a bordo, adesso, sono io!— ribatté il secondo con insolenza. — Voi?! Miserabile! — urlò Harrisson. — Prendete quest'uomo! — ordinò Bob Gordon, additando il capitano ai marinai in rivolta. Ma Harrisson avanzò di un passo e, estratta di tasca una pistola, la puntò contro il secondo, facendo fuoco. Bob Gordon si gettò di lato, e la pallottola si perse dopo aver attraversato le pareti. Lo sparo fu il segnale di una rivolta generale. Incitati dal secondo, i canachi si scagliarono sul gruppetto di fedelissimi stretti intorno al capitano, e ne seguì una zuffa violenta e dall'esito scontato. Intanto la signora Clifton s'era precipitata fuori dal cassero, insieme ai figli. I marinai inglesi e americani, ormai, erano stati tutti disarmati, e quando il gruppo si aprì, un corpo si accasciò sul ponte. Era il capitano Harrisson, colpito a morte dal maltese. Spinto dalla disperazione all'idea che sua moglie e i figlioli sarebbero finiti nelle mani di gente così feroce, Harry Clifton si scagliò con forza sull'ufficiale in seconda, ma Bob Gordon lo fece legare e rinchiudere nella sua cabina assieme al cane Fido.
Ora Bob Gordon era padrone della nave. Il Vankouver era caduto in suo potere, e lui poteva farne quel che voleva. La presenza della famiglia Clifton a bordo gli era di peso, ma Gordon aveva già preso le sue decisioni al riguardo, e non c'erano scrupoli a frenarlo. All'una, quando la nave distava venti miglia dalla costa, Bob Gordon fece arrestare i motori, dando ordine di lanciare il canotto in mare. I marinai vi misero due remi, un albero, una vela, un sacco di gallette, e qualche pezzo di carne salata. Flip seguiva con lo sguardo i preparativi. Ma cosa avrebbe potuto fare, solo contro tutti? Quando il canotto fu pronto, Bob Gordon ordinò d'imbarcarvi la signora Clifton e i suoi quattro ragazzi, additando loro da una parte l'imbarcazione, dall'altra la terra. La povera donna cercò di muoverlo a pietà, supplicandolo fra le lacrime di non separarla dal marito, ma Gordon non ne volle sapere, e l'allontanò con un gesto. Probabilmente aveva già pensato di disfarsi dell'ingegnere con metodi più sicuri, e alle preghiere della poveretta rispose con un ordine: — Imbarco! Già: il suo disegno era di abbandonare la donna e i suoi quattro figli in pieno oceano, su un'imbarcazione da nulla, sapendo benissimo che, senza la guida di un marinaio, sarebbero stati spacciati. Quanto ai suoi complici, scellerati come lui, anch'essi rimasero sordi alle preghiere della madre e al pianto dei figli! — Harry! Harry! — continuava a ripetere la sventurata, mentre i ragazzi gridavano: — Padre! Padre! Impadronitosi di un attrezzo, Marc, il più vecchio, si scagliò su Bob Gordon che lo respinse con la mano. E la povera famiglia venne caricata sul canotto, fra urla e grida strazianti. Urla che l'ingegner Clifton sentiva di certo, dalla cabina in cui era stato incatenato, e alle quali Fido rispondeva abbaiando furioso. In quel momento Gordon ordinò di mollare gli ormeggi che trattenevano il canotto al Vankouver, e la nave cominciò ad allontanarsi a vele spiegate. In piedi davanti al timone, Marc tentava di reggere la barca con mano ferma, da vero marinaio, ma non c'era stato il tempo di issare la
vela, e il canotto, preso di traverso dalle onde, minacciava di capovolgersi ad ogni momento. E poi, tutt'a un tratto, un corpo cadde in mare dall'alto del cassero del Vankouver. il marinaio Flip s'era gettato in acqua e nuotava a grandi bracciate verso il canotto, per portare aiuto a quei derelitti. Bob Gordon si girò, e pensò per un attimo di inseguire il fuggitivo, ma poi diede un'occhiata al cielo pieno di nuvole minacciose, e sulle sue labbra comparve un sorriso maligno. Allora fece issare il trinchetto e i due pappafico, e il Vankouver fu subito spinto lontano dal canotto, ormai ridotto a un puntino nell'immensità.
CAPITOLO TERZO I PRIMI ISTANTI - LA TEMPESTA - GLI INCORAGGIAMENTI DI FLIP - SI PRENDONO DEI TERZAROLI - L'ASPETTO DELLA COSTA - LA BURRASCA FRA GLI SCOGLI AFFIORANTI - FLIP INQUIETO - L'ARENAMENTO
Flip aveva raggiunto il canotto con qualche vigorosa bracciata, issandosi a bordo agilmente, senza farlo oscillare troppo. Era bagnato fradicio, con gli abiti incollati al corpo, ma non sembrava preoccuparsene più di tanto, e le sue prime parole erano state: — Non abbiate paura, ragazzi, sono io! Poi, rivolgendosi alla signora Clifton: — Ce la caveremo, signora, il più è fatto! Infine, chiamando Marc e Robert: — Venite a darmi una mano, ragazzi! E, dopo aver assegnato a ciascuno il suo ruolo, aveva cominciato a issare la vela, tendendo bene la drizza con l'aiuto dei due giovani; quindi bordò la vela indietro e prese il timone, cercando di avvicinarsi il più possibile alla costa, malgrado il vento contrario, ma sfruttando, invece, la marea crescente. Il seguito lo conosciamo. Sempre parlando con l'imperturbabile fiducia che gli era naturale, Flip non smise un attimo di incoraggiare il gruppetto, di rassicurare la madre e sorridere ai ragazzi, sempre attento ad ogni minimo scarto del canotto. Eppure ogni tanto corrugava la fronte e contraeva le labbra, in preda a un involontario terrore, se appena si fermava a considerare quell'imbarcazione leggera, la costa distante ancora otto o dieci miglia, il vento contrario e i nuvoloni che si addensavano all'orizzonte. Allora si diceva, a ragione, che se non fosse riuscito ad approdare con quella marea, tutto sarebbe stato perduto! Dopo aver chiesto ancora una volta del padre assente, la piccola s'era riaddormentata fra le braccia della madre, ed ora sonnecchiava
anche il fratellino, mentre i due più grandi aiutavano Flip nelle manovre per le frequenti virate di bordo. Intanto, col cuore stretto dall'angoscia, la povera signora Clifton continuava a pensare al marito lontano, in balia di un equipaggio in rivolta. E quando i suoi occhi gonfi di lacrime si posavano di nuovo sui suoi figli, a cos'altro poteva pensare, se non alla miserabile sorte che li attendeva in quella regione sconosciuta, deserta forse, ma forse abitata da gente crudele?! Eppure bisognava assolutamente scendere a terra, per evitare il rischio di una morte sicura. Così proprio lei, che avrebbe voluto essere esempio di coraggio e di rassegnazione, nonostante la sua forza morale, non riusciva a dominare il dolore. E fra i singhiozzi disperati, il nome di Harry le sfuggiva dalle labbra ad ogni istante. Ma c'era Flip, l'onesto marinaio cui la signora aveva stretto più volte, riconoscente, la mano. In fondo, si ripeteva, il cielo non l'aveva abbandonata del tutto, se si ritrovava accanto quel compagno devoto, quell'umile amico. Durante la traversata a bordo del Vankouver, Flip aveva sempre manifestato una grande simpatia per i suoi figli, divertendosi a giocare con loro. Già! La poverina continuava a ripeterselo, ma poi era sopraffatta dalla disperazione. E dopo un ultimo sguardo all'immensa distesa deserta, sentì le lacrime sgorgarle dagli occhi, e rimase a lungo inerte, come annichilita, la testa china sulle mani. Alle tre del pomeriggio, la terra era chiaramente visibile a meno di cinque miglia dal canotto. Le nuvole si ammassavano veloci, mentre la luce del sole declinava verso ovest, e il mare che luccicava qua e là contrastava con l'aspetto cupo del cielo: tutti sintomi inquietanti. — Certo — mormorava Flip. — Certo, non c'è da aspettarsi nulla di buono. Potessimo scegliere, sceglieremmo senz'altro qualcosa di meglio. Fra una bella casa calda, con un bel camino, e questo canotto, non esiteremmo di certo. Ma per ora non abbiamo scelta! In quel momento, un'ondata più grossa delle altre colpì il canotto di fianco scuotendolo violentemente. Investito dall'onda Marc, ritto a prua, scrollò la testa come un cane bagnato. — Bene, benissimo, signorino Marc! È soltanto un po' d'acqua, della buona acqua di mare, ben salata! Non può certo farvi del male!
Allentata la scotta, Flip fece poggiare un po' la barca per evitare le ondate più grosse, e riprese il suo monologo, come faceva sempre nelle situazioni difficili: — Se almeno fossimo a terra, per esempio lì, su quella costa deserta, invece di lottare contro le onde in questo guscio di noce, e magari al riparo in una bella grotta, staremmo senz'altro meglio! Però siamo qui, su questo mare che desidera soltanto mostrarci il suo aspetto peggiore, e allora bisogna pur sopportare quel che non si riesce a impedire! Adesso il vento soffiava più violento e si vedevano arrivare da lontano i refoli che imbiancavano la superficie dell'oceano, mentre un vapore liquido correva sull'ampia distesa di marosi. Allora il canotto si piegava di lato in modo preoccupante, facendo aggrottare la fronte al prode marinaio. — Se almeno, visto che non abbiamo né una casa né una grotta, se almeno fossimo a bordo di una buona scialuppa bella solida, con un bel ponte e in grado di sopportare una tempesta, non avremmo motivo di lamentarci. E invece no, siamo su queste fragili assi! Be', dopotutto, finché stanno attaccate alla loro ossatura non c'è niente da dire. Ma, il vento aumenta, e non è certo il caso di tenere le vele spiegate! In effetti, era sempre più urgente ridurre la velatura, perché l'imbarcazione si piegava, minacciando di far acqua. Allora Flip la mise contro vento e mollò la drizza, poi, con l'aiuto dei due ragazzi, ridusse la vela al terzarolo, e la barca si comportò subito meglio. — Benissimo, miei giovani signori — esclamò Flip.— Gran bella invenzione, questi terzaroli! Guardate come filiamo, adesso! Cosa si può desiderare di più, vi domando? La costa si faceva sempre più vicina, e gli uccelli di terra giocavano tra le raffiche di vento. Rondini e gabbiani turbinavano intorno al canotto, riempiendo l'aria di strida acute, finché una leggera raffica di vento li portava lontano. L'aspetto della costa non era, in realtà, molto invitante. La terra si presentava arida e selvaggia: non un albero, o un po' di verde, a rallegrarne le aspre linee. Sembrava fatta di massicce falesie di granito, ai cui piedi la risacca si rompeva con fragore. Le grandi
rocce frastagliate erano sicuramente inaccessibili, e Flip si domandava come fosse possibile approdare su una riva così compatta, che non svelava la minima breccia nell'enorme cortina di granito. A sud, un grande promontorio si spingeva per circa un miglio nel mare, nascondendo il resto della costa. Così non si poteva capire se si trattasse di un continente o di un'isola. Lontana, sullo sfondo, una montagna con un gran picco appuntito ricoperto di neve. L'aspetto delle rocce brune e tormentate e le colate scure che ne rigavano i fianchi facevano senz'altro pensare a un'origine vulcanica. Ma non erano certo quelli i pensieri di Flip, ritto al timone, lo sguardo teso a scoprire in quell'enorme muraglia un'ansa, un'apertura, un buco qualsiasi dove approdare. La signora Clifton aveva sollevato la testa ed ora scrutava anche lei quella terra ingrata, il cui aspetto selvaggio non lasciava sperare nulla di buono. Poi, spostando lo sguardo su Flip, lo interrogò avidamente con gli occhi. — Una bella costa! Davvero una bella costa! — mormorò Flip. — E che belle rocce. È proprio con rocce del genere che la natura fa le grotte! Come staremo bene quando ci saremo sistemati in qualche caverna, con un bel fuoco di rami secchi e un bel muschio morbido su cui dormire! — Ma ci arriveremo mai, a terra? — domandò la signora Clifton, con uno sguardo disperato al mare infuriato che le ruggiva intorno. — Come?! Certo che ci arriveremo — rispose Flip schivando abilmente una grossa ondata. — Non vedete a che velocità stiamo andando? Un altro po' di vento in poppa, e vedrete che presto approdiamo ai piedi della scogliera. E poi ci scommetto che lì troviamo un porticciolo naturale per mettere al riparo il canotto! Ah che barca! Veramente eccezionale! Vola sulle onde come un gabbiano! Flip non aveva ancora finito di parlare che un'ondata spaventosa ricoprì completamente la barca, riempiendola per tre quarti. La signora Clifton si lasciò sfuggire un grido, e i due figlioli più piccoli, svegliatisi di soprassalto, si strinsero tremanti contro di lei, mentre i due più grandi avevano resistito alla furia del mare tenendosi aggrappati al sedile. Flip riuscì a tirar fuori la barca con un colpo di
timone e, gettando ai ragazzi un cappello di cuoio bollito che sostituiva benissimo la sassola, gridò: — Su, forza, signorino Marc, e anche voi, signorino Robert: buttate fuori l'acqua, presto, buttate l'acqua! Svuotate il canotto! Marc e Robert si misero subito all'opera e, servendosi del cappello come di un pentolino, svuotarono rapidamente l'imbarcazione, mentre Flip li incoraggiava allegro: — Benissimo, miei giovani signori! Benissimo! Che invenzione, eh, 'sti cappelli?! Delle vere e proprie marmitte. Ci si potrebbe anche cuocere la minestra! Sgravato del peso dell'acqua, il canotto riprese a balzare sulla cresta delle onde che correvano assieme a lui, perché ora il vento spirava decisamente verso ovest. Ma era così violento che Flip dovette ammainare quasi completamente la vela e fissarla all'estremità del pennone, riducendola ad un piccolo triangolo di tela, sufficiente, però, a sollevare la barca sopra i flutti. La costa si avvicinava rapidamente, e tutti i dettagli risaltavano in modo sempre più chiaro. — Il vento favorevole! Il vento favorevole! — gridava Flip, stando ben attento a non farsi travolgere da dietro. — Meno male che e cambiato! Forse un po' troppo forte! Ma non bisogna prendersela con lui! Alle quattro e mezza la costa distava, ormai, poco più di un miglio, e sembrava quasi che il canotto le si volesse precipitare contro; pareva continuamente che la sfiorasse, ma era solo un effetto prodotto dalle pareti a strapiombo. Ritto a prua, Marc segnalò degli scogli affioranti, delle teste nerastre che emergevano fra la schiuma ribollente del mare. Un pericolo enorme: se il canotto li avesse anche solo sfiorati, sarebbe volato in mille pezzi. Flip si era alzato in piedi, e governava reggendo la barra del timone fra le gambe, lo sguardo teso a scovare un eventuale passaggio fra le onde spumeggianti. E, se ad ogni istante temeva d'infrangersi contro gli scogli, non lo lasciava certo trasparire. Anzi! — Che belle, quelle rocce! Sembrano le boe che segnalano il canale d'ingresso al porto! E noi passeremo, altroché, se passeremo!
Il canotto filava tra gli scogli a una velocità spaventosa, mentre il vento che spazzava la terra lo spingeva in piena costa. Flip sfiorava le rocce schiumanti senza urtarle, così come passava sopra le macchie brune dei bassifondi senza toccare, guidato dal suo istinto di marinaio, un istinto meraviglioso, che va oltre la scienza nautica. Per ridurre la corsa, Flip fece segno ai ragazzi di ammainare del tutto la vela, che Marc e Robert avvolsero stretta intorno al pennone. Ma, sotto la spinta del vento, il canotto filava ancora a un'incredibile velocità. Il problema più grave restava comunque quello dell'approdo: la costa era tutta un'immensa parete impenetrabile, senza nessuna apertura, chiusa come il muro di una fortezza. Impossibile approdare alla base, con un mare così grosso. Il canotto era ormai a sole duecento bracciate dalla scogliera: bisognava assolutamente prendere una decisione e continuare a bordeggiare, nel caso non si riuscisse ad approdare. Flip fissava inquieto quella parete inaccessibile, borbottando fra i denti parole incomprensibili, e ad un tratto corresse la rotta con un leggero colpo di barra. Ora il canotto procedeva obliquo, anziché puntare dritto sulla costa. Ma, così, le ondate lo prendevano di traverso, e Marc e Robert avevano un gran daffare a svuotare continuamente l'acqua con il berretto di cuoio. In piedi accanto al timone, Flip non cessava un attimo di scrutare davanti a sé, in cerca di un buco qualunque, di una fenditura nella scogliera, o almeno d'un breve tratto di costa bassa, su cui approdare. In quel momento, la marea doveva essere alta e c'era da sperare che, ritirandosi, avrebbe lasciato in secca qualche piccola spiaggia. Ma nulla, ancora. Sempre, e soltanto, quell'interminabile muraglia che s'innalzava altissima. Anche la signora Clifton scrutava la costa, consapevole dei pericoli dell'approdo. Si rendeva conto che quella terra, la loro unica possibilità di salvezza, era inaccessibile. Però non osava chiedere nulla a Flip. A un tratto gli occhi del marinaio si illuminarono, e sul suo volto riapparve la fiducia. — Un porto! — disse semplicemente.
Quasi fossero state separate da un possente sforzo geologico, infatti, tra le scogliere si apriva una frattura dove il mare penetrava a formare una piccola ansa, che si restringeva in fondo ad angolo acuto. Flip riconobbe subito la foce di un fiume, in cui l'ondata dell'alta marea si precipitava con forza. Il marinaio puntò allora verso il fondo dell'ansa e, dopo aver risalito il corso d'acqua per un centinaio di metri, approdò dolcemente su una spiaggia di sabbia.
CAPITOLO QUARTO GLI SVENTURATI ERANO FINALMENTE SBARCATI SULLA TERRAFERMA! ERANO SFUGGITI AI PERICOLI DELL'OCEANO. MA CHE TERRA ERA? E CHE RISORSE OFFRIVA?
Flip saltò a terra, subito seguito dai due ragazzi, e assieme tirarono in secca il canotto. Del resto il mare cominciava già a ritirarsi, e presto la barca sarebbe rimasta all'asciutto. Poi Flip fece scendere i due piccoli, prendendoli in braccio, e diede una mano alla signora Clifton, senza celare la gioia per avere finalmente posato i piedi sulla terraferma! — Tutto bene, signora — ripeteva. — Va tutto bene. Adesso dobbiamo solo pensare a sistemarci! L'approdo che il caso aveva scelto per Flip era sulla riva sinistra di un fiume, che in quel punto superava di poco i trenta metri, mentre la riva sabbiosa, stretta fra il corso d'acqua e un'alta muraglia di granito, raggiungeva appena gli otto. La muraglia era la continuazione dell'enorme scogliera che risaliva la riva sinistra del fiume, digradando a poco a poco. Nel punto in cui erano sbarcati, comunque, superava ancora i novanta metri, ed era alta, diritta, a tratti strapiombante. Impossibile arrampicarsi da quella parte, constatò amareggiato Flip, che avrebbe voluto osservare i dintorni dall'alto. Subito parti alla ricerca di un buco, di una cavità qualunque, che potesse accogliere la famiglia per quella prima notte, al riparo dalla pioggia imminente. E risalì la lunga muraglia di granito, senza trovare nemmeno l'ombra di una grotta che potesse servire da accampamento provvisorio. Il muro era compatto ovunque, e non presentava la benché minima fessura. Solo in un punto, davanti al banco di sabbia su cui si erano appena arenati, la scogliera sembrava come scavata dal basso, a formare una specie di riparo contro i venti da ovest, che si scatenavano proprio in quel momento. Ma era un
rifugio insufficiente, senz'altro inabitabile non appena la brezza avesse girato anche solo di un quarto verso nord. Allora Flip decise di risalire il fiume per qualche centinaio di metri ancora, e ne parlò alla signora Clifton. — Non abbiate paura, signora. Non andrò lontano. Ho le gambe lunghe, e sarò presto di ritorno. E poi ci sono i ragazzi. Vi prenderete voi cura di vostra madre, non è vero, signorino Marc? — Sì, Flip — rispose il ragazzo che rivelava un'energia decisamente superiore alla sua età. — Allora io vado — riprese Flip.— E siccome devo per forza andare e tornare per la riva sinistra, se avete bisogno di venirmi incontro non potrete certo sbagliare strada. Flip condusse la signora Clifton e i due figli più piccoli all'incavo della scogliera, e mentre la madre, Belle e Jack si rannicchiavano nell'anfratto, Marc e Robert facevano la guardia sulla spiaggia. Ormai cominciava a scendere la notte. Si udiva soltanto il fischio del vento, il rumore della risacca e il grido degli uccelli che nidificavano nella parte alta della scogliera. Sistemato il suo piccolo mondo, Flip si allontanò di buon passo lungo la scogliera che si abbassava man mano e che, dopo mezzo miglio circa, arrivava a sfiorare il terreno in pendenza. Lì il fiume non superava i venti metri, e la conformazione della riva destra ricordava molto la sinistra, chiusa anch'essa da una falesia rocciosa. Alla fine della muraglia, gli si spalancò davanti una regione dall'aspetto un po' meno selvaggio, con un ampio terreno erboso che si stendeva fino ai margini d'un bosco, la cui massa scura sfumava in parte nell'ombra. "Benissimo" pensò il marinaio. "Il combustibile non ci mancherà di certo." E si avviò verso il bosco per fare provvista di legna. Di un riparo, invece, neanche l'ombra. Almeno per quella prima sera, bisognava accontentarsi dell'accampamento provvisorio. Quando giunse ai margini della foresta, vide che si stendeva a perdita d'occhio, mettendo in risalto le asperità del terreno in salita. Alto sulla gran massa scura svettava il picco che, a trenta miglia di distanza, aveva segnalato all'equipaggio del Vankouver la presenza di quella terra
sconosciuta. Sempre continuando a legare le fascine, Flip non smetteva un attimo di pensare a come trarre d'impaccio la famiglia cui si era dedicato. Il problema di dove e come accamparsi lo preoccupava parecchio. — In fin dei conti — si ripeteva — abbiamo tutto il tempo che vogliamo, e non dobbiamo sistemarci alla leggera. La prima cosa da fare è un bel fuoco, e per il fuoco ci vuole della buona legna secca. La raccolta non si presentava certo difficile, perché fulmini e uragani avevano provveduto a cospargere il terreno di una gran quantità di tronchi e rami secchi. Che razza di legno fosse, Flip non lo sapeva proprio e si limitò a catalogarla come "legna da ardere", la sola che gli interessasse in quel momento. Se il combustile non mancava, facevano, invece, difetto i mezzi di trasporto: tutto il carico che Flip riusciva a trasportare, e si che era un uomo robusto, non sarebbe bastato al consumo di quella notte. Doveva fare in fretta. Il sole era scomparso a ovest dietro a grossi nuvoloni rossi, mentre i vapori si addensavano, non più dissolti dal vento, e cominciava a cadere la pioggia. Ma Flip non voleva assolutamente tornare senza una scorta sufficiente di legna: — Eppure dev'esserci un mezzo per trasportarla — si diceva. — C'è sempre il modo di fare tutto! Basta trovarlo. Ah! Se almeno avessi un carretto, non ci sarebbero problemi! Ma cosa posso usare al posto di un carretto? Una barca? Non ho neanche quella! Flip continuava a raccogliere legna, assorto nelle sue riflessioni: — Però, se non ho una barca, ho sempre il fiume che si muove da solo, e i convogli di legna galleggiante sono pur stati inventati per qualcosa! Tutto fiero della sua idea, Flip si caricò sulle spalle la provvista di legna, dirigendosi verso l'angolo compreso tra il fiume e il margine della foresta, un centinaio di metri più avanti. E lì, dopo aver ultimato il raccolto con altra legna sparsa sulla riva, cominciò a preparare il suo convoglio. Sistemati i pezzi più grossi in una specie di gorgo creato da una punta di terra che fendeva la corrente, Flip li legò assieme con delle liane, formando una specie di zattera su cui collocò il frutto del suo
raccolto, e cioè più o meno il carico di dieci uomini. Se fosse giunto a destinazione, il combustibile non sarebbe certo mancato. Nel giro di mezz'ora, il lavoro era terminato. E visto che Flip non aveva nessuna intenzione di abbandonare la legna nella corrente, né di montarci sopra per dirigerla, gli sarebbe toccato tenerla sotto controllo come le barchette che i bimbi manovrano dalle rive dei fiumi. E la corda? Ma non aveva forse, in vita, una cintura da marinaio, lunga parecchie braccia? Mentre se la sfilava, Flip si ricordò che le cinture erano state inventate proprio per rimorchiare i convogli di legna. Poi la fissò alla poppa della zattera e, con l'aiuto di una pertica, spinse la sua creazione nella corrente. Tutto andò a gonfie vele. L'enorme carico di legna, che Flip tratteneva camminando lungo la riva, seguiva il filo della corrente. L'argine era molto scosceso, e non c'era pericolo che la zattera si arenasse. Così, alle sei e qualche minuto, Flip stava già ormeggiando il suo convoglio galleggiante nel punto in cui erano sbarcati, mentre la signora e i ragazzi gli correvano incontro. — Ecco, signora — gridò allegro il marinaio — vi ho portato una foresta intera, e ce n'è ancora, credetemi. Così, mi raccomando, niente economie! È tutta legna che non ci costa nulla. — Ma… e questo posto…? — domandò la signora Clifton. — Oh, è bellissimo! — rispose imperturbabile il marinaio.— Lo vedrete anche voi, di giorno. Ci sono degli alberi stupendi. Con un po' di verde, sarà una terra affascinante. — Ma… e la nostra casa? — domandò Belle. — La nostra casa? Piccola cara, ce la faremo da soli, la nostra casa. E voi ci darete una mano. — Ma… per oggi? — chiese la signora Clifton. — Per oggi, signora — rispose Flip, un po' imbarazzato — per oggi bisognerà farne a meno, e restare dove siamo! Non ho trovato niente, neanche la più minuscola grotta! La scogliera è dritta e liscia come una muraglia appena costruita. Ma domani, con la luce, troveremo senz'altro quello che ci occorre. Intanto accendiamo un bel fuoco, che ci schiarisce le idee. Marc e Robert cominciarono a scaricare la legna della zattera alla base della scogliera. E mentre Flip faceva i preparativi per il fuoco,
con metodo, da uomo che sa il fatto suo, la signora Clifton e i due piccoli lo osservavano, rannicchiati nell'incavo della roccia. Terminato il lavoro, Flip si frugò nelle tasche dei pantaloni alla ricerca della scatola di fiammiferi che, da fumatore accanito qual era, aveva sempre con sé. Ma non trovò nulla e si sentì percorrere da un brivido, mentre la signora Clifton lo fissava con i suoi grandi occhi interrogativi. — Che imbecille! — esclamò, con una scrollata di spalle. — Sono nella tasca del giubbotto rimasto sulla barca! — E corse a prenderla. Ma, per quanto si girasse e rigirasse la giacca fra le mani, non trovò nulla e impallidì. Forse era caduta sul fondo della barca, quando aveva dato il giubbotto ai bambini perché si coprissero. Allora frugò in ogni angolo, sotto il ponte superiore, fra le membrature. Niente. Evidentemente era andata persa. Adesso la situazione si faceva davvero seria. La perdita della scatola era irreparabile. Che ne sarebbe stato di loro, senza fuoco? Flip non riuscì a trattenere un gesto di disperazione e la signora Clifton, che aveva capito tutto, gli andò vicino, per confortarlo. Come ci si poteva procurare il fuoco, senza fiammiferi? Poteva sempre provocare delle scintille passando il coltello su una selce. Però mancava la miccia. E non poteva neanche sostituirla con della stoffa bruciata, visto che, appunto, non c'era il fuoco. Quanto al sistema usato dai selvaggi, che accendono il fuoco sfregando fra loro due bastoncini secchi, bisognava rinunciarvi, perché richiedeva un legno speciale, ed anche una grande consuetudine. Preoccupato, Flip non osava alzare gli occhi sulla signora Clifton e i suoi figlioli, su quei poveri bimbi che tremavano dal freddo. — Allora, Flip? — chiese Marc. — Siamo senza fiammiferi, signorino Marc! — rispose il marinaio abbassando la voce. Marc prese il giubbotto e frugò dappertutto, in tutte le tasche interne ed esterne. E di colpo si lasciò sfuggire un grido: — Un fiammifero! — Ah! Ce ne basta uno, e siamo salvi! — esclamò Flip riprendendo la giacca, e sentì anche lui il pezzettino di legno dentro
alla fodera. Lo sentiva, con quelle sue grosse mani tremanti, attraverso la stoffa, ma non riusciva a toglierlo. — Date a me! — si offrì la signora Clifton, ed estrasse il pezzetto di legno dal giubbotto. — Un fiammifero! — gridò Flip.— Proprio un fiammifero, con zolfo e fosforo! Ah, è come se ne avessimo un'intera scorta! Il marinaio saltava di gioia, come impazzito, continuando ad abbracciare i bambini e nascondendo le lacrime che gli sgorgavano copiose dagli occhi. — Già! Il fiammifero ce l'abbiamo, e va bene, però dobbiamo usarlo con precauzione e pensarci su due volte, prima di accenderlo — esclamò Flip asciugandolo con cura, e assicurandosi che fosse ben secco. — E adesso ci vorrebbe un po' di carta! — Eccola! — rispose Robert. Flip si avviò verso la catasta di legna che aveva preparato, adottando qualche altra precauzione. Così ammucchiò qualche manciata d'erba secca e di muschio che aveva raccolto alla base della scogliera, sistemandole in modo che l'aria potesse circolare facilmente e accendere in fretta la legna secca, e preparò il pezzo di carta a forma di cornetto, come fanno i fumatori quando tira vento forte. Poi prese il fiammifero e un ciottolo asciutto, un po' scabro, su cui strofinarlo. E accovacciatosi ai piedi della scogliera, in un angolo ben riparato che Marc, per eccesso di precauzione, proteggeva da vicino col cappello, sfregò piano il fiammifero sul sasso. Il primo tentativo andò a vuoto, perché non aveva premuto abbastanza, per timore di scalfire il fosforo. Flip trattenne il respiro, e nel silenzio carico di tensione si sarebbero potuti contare i battiti del suo cuore. Ma quando ci riprovò, ne scaturì una fiammella bluastra, accompagnata da un fumo acre. Allora Flip tuffò il fiammifero nel cono di carta, infilandolo sotto il mucchio di erba secca. Qualche istante più tardi, il legno già crepitava, e un'allegra fiammata, alimentata dalla brezza, si alzava in mezzo all'oscurità.
CAPITOLO QUINTO Davanti a quel bel fuoco scoppiettante, i ragazzi non riuscirono a trattenere un hurrà di gioia, mentre Belle e Jack si avvicinavano, tendendo al calore le manine intirizzite e rosse di freddo. Per loro, il fuoco era la salvezza: a quell'età il presente è tutto. Passato e futuro non contavano, e non li potevano preoccupare. A dire il vero, il fuoco rappresentava, almeno in parte, la salvezza della povera famiglia abbandonata. Senza il fuoco, infatti, che ne sarebbe stato, di loro? Flip, il fiducioso Flip, l'aveva capito benissimo dall'emozione che aveva provato cercando di accendere quell'ultimo fiammifero. Ed ora bisognava stare attenti a non lasciarlo spegnere; bisognava conservare sempre sotto la cenere qualche tizzone ardente per riaccenderlo. Ormai era solo una questione di cura e di attenzione. In quel momento la provvista di legna era sufficiente, e Flip si ripromise di rinnovarla in tempo utile. — E adesso — esclamò — pensiamo alla cena! — Sì! Sì, la cena! — gridò Jack. — Le gallette e la carne non ci mancheranno di sicuro! Intanto cominciamo col mangiare quello che abbiamo, poi troveremo ciò che ci manca. Quando Flip andò a cercare alla barca la sua piccola riserva di viveri, la signora Clifton lo accompagnò. — E dopo, Flip? — gli chiese, indicando il sacco di gallette e la provvista di carne salata. — Dopo vedremo, signora. Questa regione, che da lontano sembrava arida, è invece una terra fertile, l'ho visto andando a prendere la legna nel bosco, e basterà a nutrire la nostra piccola colonia. — D'accordo, Flip; ma così abbandonati, senza armi, senza attrezzi… — Le armi, ce le costruiremo, signora. Quanto agli utensili… non ho forse il mio coltello? Vedete? Un buon "bowie-knife" a lama
larga. Con uno strumento del genere, un uomo non è mai in difficoltà! Flip aveva detto quelle parole con un accento così convinto, e parlava con tanta sicurezza, animato da una tale fiducia nell'avvenire, che la povera signora Clifton riprese a sperare. — Certo, signora — ripeteva il marinaio, tornando verso il fuoco che brillava ai piedi della scogliera — non sapete che con un coltello, un semplicissimo coltello, si può costruire una casa di legno o anche una nave?! Sì, una nave da cento tonnellate di stazza! Me ne occuperò io, dalla chiglia sino alle punte degli alberi… — Vi credo, Flip — rispose la donna — ma intanto cosa possiamo usare al posto della pentola o del bollitore che ci mancano? E come posso preparare ai ragazzi una bevanda calda che li riconforti? — Stasera sarebbe troppo complicato — rispose il marinaio — ma domani troveremo di sicuro una noce di cocco o una zucca, con cui costruire qualche attrezzo da cucina. — Dei vasi che possono stare sul fuoco? — domandò la signora Clifton. — Se il fuoco non può stare sotto, starà dentro — rispose imperturbabile il marinaio — e il risultato sarà lo stesso. Adotteremo il metodo dei selvaggi: faremo riscaldare delle pietre, e le metteremo nelle zucche piene d'acqua, ottenendo così dell'acqua bollente. Siate fiduciosa, signora, abbiate fiducia! Rimarrete sbalordita di quello che si può fare, quando vi si è costretti! Quando la signora Clifton e Flip tornarono indietro, i ragazzi erano tutti riuniti intorno al fuoco. Il fumo saliva nell'ombra con uno sfavillio di scintille luminose, come un fuoco d'artificio che lasciava incantati i due più piccoli. E mentre Jack si divertiva a ruotare un tizzone infiammato, tracciando cerchi di fuoco nell'aria, Marc e Robert sistemarono la legna per la notte e la signora Clifton preparò la cena. Ben presto ciascuno ebbe la sua porzione di galletta e di carne salata, quanto alla bevanda, c'era l'acqua del fiume, che aveva perso tutto il sapore salmastro con l'abbassarsi della marea. Intanto, preoccupato all'idea che la famiglia fosse priva di un riparo sufficiente per la notte, che minacciava d'essere piovosa, Flip aveva deciso di andare a esplorare la parte ovest della scogliera,
lungo la costa. Sperava tanto di trovarvi un anfratto o una caverna, contando sul fatto che le onde, che li battevano in pieno, e in tutta la loro violenza, avessero scavato qualche cavità. Ormai la marea si era già ritirata di parecchio. Flip scese la riva sino alla foce del fiume, per poi girare a sinistra lungo la spiaggia ai piedi della falesia, e scrutò attentamente lo zoccolo roccioso per varie centinaia di metri: ma la sua superficie, liscia e levigata dalle onde, non presentava nessuna apertura. Allora Flip tornò, pensoso, sui suoi passi, sgranocchiando un pezzo di galletta. "Avrebbero tanto bisogno di un nido!" pensava. Eh già, proprio di un nido. La pioggia cominciava a cadere in goccioline sottili, mentre forti raffiche di vento polverizzavano i vapori condensati, e i nuvoloni rendevano la notte ancora più buia. Si sentiva il mare mugghiare contro gli scogli, e la risacca produceva un rumore simile al brontolio del tuono. Erano sintomi che Flip conosceva bene. E continuava a pensare a quella povera madre e ai suoi ragazzi, assiderati sotto la pioggia gelida. Ora che il vento piegava verso ovest, l'incavo nella scogliera non avrebbe più offerto sufficiente riparo al loro improvvisato accampamento. E la situazione sarebbe diventata insostenibile! Quando il marinaio tornò, la famiglia Clifton stava terminando la cena. La madre aveva già sistemato Jack e Belle in un letto di sabbia alla base della muraglia, ma non poteva impedire al vento e alla pioggia d'arrivare sino a loro. E i suoi occhi si volsero a interrogarlo con uno sguardo così diretto, che Flip si sentì serrare il cuore. Marc aveva intuito l'angoscia della madre ed osservava le grosse nuvole basse, tendendo la mano per sentire se la pioggia fosse in aumento. Poi s'illuminò di colpo e corse verso Flip: — Flip! — gridò. — Signorino Marc?! — Il canotto! Il canotto! — Il canotto! — esclamò il marinaio.— Giusto! Il canotto rovesciato farà da tetto! La casa arriverà più avanti! Venite, ragazzi! Venite!
I due ragazzi più grandi, la signora Clifton e Flip corsero alla barca, mentre il marinaio proclamava solennemente Marc "ragazzo d'ingegno", degno figlio di un ingegnere! Già, la barca rovesciata! A lui non sarebbe mai venuta un'idea del genere, a lui, Flip, con tutta la sua esperienza! Bisognava trasportare il canotto sino alla base della scogliera, e sistemarlo contro la muraglia. Per fortuna era un'imbarcazione leggera, in abete, quattro metri di lunghezza per uno e mezzo di larghezza. Dopo il primo vigoroso slancio di Flip che, puntellandosi sulle gambe, spinse con la schiena come fanno i pescatori, il canotto giunse in breve a destinazione, grazie agli sforzi congiunti di tutti e quattro. Quindi Flip accatastò delle grosse pietre ai lati dell'incavo nella roccia, creando così le basi su cui poggiare le due estremità della barca, a un'altezza di mezzo metro dal suolo. Quando il canotto fu girato con la chiglia all'insù, Jack e Belle avrebbero voluto infilarsi subito lì sotto, ma Flip li trattenne: — Ancora un attimo di pazienza — disse. — Cos'è caduto lì sulla sabbia? In effetti, mentre giravano la barca, un oggetto era rotolato per terra con un rumore metallico; Flip si chinò subito a raccoglierlo. — Benissimo! — esclamò. — Adesso si che siamo ricchi! E mostrò trionfante un vecchio bollitore di ferro, utensile così caro a ogni mozzo inglese o americano. Una pentola tutta ammaccata, come osservò Flip esaminandola vicino al fuoco, ma che poteva contenere da cinque a sei litri di liquido: un oggetto, quindi, dal valore inestimabile, per la famiglia Clifton. — Bene! Benissimo! — ripeteva allegro Flip.— Un coltello, e una pentola! Ora abbiamo tutto quello che ci occorre. E le cucine della Casa Bianca non sono certo più fornite della nostra! Posare la prua sul pilastro di destra non fu un grosso problema; difficile, invece, era sollevare la poppa, così senza paranco e senza cricco. — Bah — esclamò Flip rivolto ai ragazzi che lo aiutavano — se non si è forti, bisogna essere astuti.
E facendo scivolare pian piano, gli uni sotto gli altri, dei ciottoli assottigliati a forma di cuneo, Flip riuscì a portare la parte posteriore dell'imbarcazione all'altezza della prua, così che il parapetto di sinistra poggiava contro la parete rocciosa. Per rendere quel rifugio improvvisato ancora più impenetrabile alla pioggia, Flip stese poi la vela sui fianchi della barca, in modo che ricadesse fino a terra, formando così una specie di tenda dal tetto solidissimo, capace di sfidare le più violente raffiche. Quindi scavò la sabbia sotto il canotto, ributtandola all'esterno, a formare un cordone che arrestasse le infiltrazioni di pioggia. Infine raccolse in fretta, assieme ai ragazzi, un bel po' del muschio che tappezzava la parte inferiore della scogliera, una specie di androceo ramificato e brunastro: un ottimo piumino naturale, che trasformò il duro fondo di sabbia in un letto soffice. Flip era fuori di sé dalla gioia e parlava ininterrottamente, sovreccitato. — È una casa! Una vera casa! Mi viene da pensare che finora non si è ben capita la funzione dei canotti: in realtà sono dei tetti, solo che lì si gira quando ci si vuole navigare dentro! Su, ragazzi, nel nido, nel nido! — Chi sorveglierà il fuoco? — domandò la signora Clifton. — Io, io! — risposero in coro Marc e Robert. — No, miei giovani amici, lasciate che ci pensi io, per questa prima notte. Più avanti organizzeremo dei turni. La signora Clifton si offrì di dividere il compito con lui, ma Flip non volle sentir ragioni, e la signora dovette obbedirgli. Prima di infilarsi sotto il canotto, i ragazzi si inginocchiarono vicino alla madre e pregarono per il padre assente, invocando l'aiuto della Provvidenza. Poi, dopo aver salutato con un abbraccio la madre e il buon Flip, ed essersi abbracciati l'un l'altro, si rannicchiarono, stanchi, nel loro letto di muschio. La signora li seguì di lì a poco, dopo una stretta di mano a Flip, e il marinaio vegliò, tutta notte, su quel prezioso fuoco che la pioggia e il vento minacciavano continuamente di spegnere!
CAPITOLO SESTO La notte trascorse senza incidenti. La pioggia era cessata verso le tre del mattino. Sin dallo spuntare del giorno, la signora Clifton, che non aveva mai chiuso occhio, assorbita com'era nei suoi tristi pensieri, uscì di sotto il canotto lasciando i figli immersi in un sonno tranquillo, decisa a dare il cambio a Flip. Volente o nolente, il marinaio fu infine costretto a cedere, e a riposare sotto il canotto per qualche ora. Venne svegliato alle sette dalle voci dei ragazzi, che correvano già sulla spiaggia, mentre la signora Clifton si occupava della pulizia dei più piccoli, nell'acqua dolce del fiume. Solitamente recalcitrante durante simili operazioni, stavolta Jack non protestò; ma bisogna ammettere che un fiume è ben più divertente di un catino. Quando abbandonò il suo letto di sabbia e muschio, Flip vide con soddisfazione che il cielo s'era rasserenato e che le nuvole, alte e sparpagliate, lasciavano intravedere grandi squarci d'azzurro. Il bel tempo favoriva dunque i progetti del marinaio, che quel giorno contava di esplorare la regione circostante. — Come va, miei giovani signori? — domandò allegro. — E voi, signorina Belle, e voi, signora Clifton? Se penso che sono l'ultimo ad alzarmi, alla mia età! — Non avete forse vegliato tutta la notte, caro Flip? — rispose la signora, tendendogli la mano. — È tanto se avete dormito due ore. — Mi bastano, signora — rispose il marinaio. — Ah, come si vede la brava donna di casa: c'è già il bollitore sul fuoco! Però, se fate tutto da sola, signora Clifton, non avrò da far altro che incrociare le braccia! Così dicendo, Flip si avvicinò al fuoco che scoppiettava allegro, con accanto il vecchio bollitore sospeso fra due pietre già annerite dalla fiamma. — Eh, che ne dite? Che acqua! Che acqua stupenda! — esclamò il marinaio, che non lesinava le esclamazioni ammirate.
— E come bolle bene! È un vero piacere sentirla! Sembra quasi un cinguettio d'uccelli! Forse ci mancano qualche fogliolina di té o qualche chicco di caffè, per preparare una bevanda come si deve, ma vedrete che arriveranno, prima o poi! Allora, giovanotti, chi viene in avanscoperta con me? — Noi, noi! — gridarono assieme i tre maschi. — Anch'io voglio andare con papà Flip — intervenne la bimba. — Benissimo — riprese il marinaio — non ho che l'imbarazzo della scelta! — Andrete lontano, Flip? — chiese la signora Clifton. — No, non ci allontaneremo di molto. Rimarremo a esplorare qui nei paraggi, con i signorini Marc e Robert. Nel giro di qualche centinaio di metri. — Siamo pronti — risposero i due giovani. — Quanto al signorino Jack — riprese Flip — visto che è un ragazzo grande e che si può avere fiducia in lui, lo pregherei di sorvegliare il fuoco durante la nostra assenza. E, soprattutto, di mettere legna a volontà! — Sì, sì! — esclamò Jack, fiero del compito che gli era stato affidato. — Belle mi passerà i pezzi di legno, e io li metterò nel fuoco! Marc e Robert erano già andati avanti e stavano scendendo lungo la riva sinistra del fiume. — Tornerete presto? — domandò la signora Clifton. — Fra un'ora , signora. Il tempo che ci vuole per fare il giro della scogliera ed esaminare l'insenatura in cui la corrente ci ha fatto approdare ieri. E saremo costretti ad ammettere la nostra inettitudine, se non riusciremo a portarvi un pasto che ci permetta di economizzare la carne e le gallette. — Andate, ora, Flip. E se dall'alto della scogliera — aggiunse la signora Clifton, con gli occhi umidi — se vedete in lontananza… sul mare… — Sì, ho capito, signora. Ho una buona vista, e guarderò. Non è detta l'ultima parola, su quella storia, e può darsi che il signor Clifton… Insomma, dovete continuare a sperare, e farvi forza, signora. Tocca a voi darci l'esempio del coraggio e della
rassegnazione. Ah! Il fuoco! Vi raccomando soprattutto il fuoco! Sono sicuro che il signorino Jack non lo lascerà spegnere! Ma insomma, un'occhiata ogni tanto non fa mai male. E ora vado. Flip si congedò dalla signora Clifton, raggiungendo i due compagni d'esplorazione alla foce del fiume. In quel punto la scogliera svoltava bruscamente, terminando con un ungolo acuto, per poi correre a nord e a sud in una costa altissima. Intanto la marea cominciava a ritirarsi, lasciando allo scoperto una spiaggia di sabbia e scogli, su cui era possibile camminare senza bagnarsi. — E se ci facciamo sorprendere dalla marea? — domandò Marc. — No, non c'è pericolo, signorino — rispose Flip. — Comincia a scendere solo ora , e non tornerà alta prima delle sei di sera. Così, potete correre tranquillamente sulla spiaggia. E osservate bene quelle rocce, perché la natura deve avere depositato, qua e là, qualcosa di buono, e fareste bene ad approfittarne. Io, intanto, devo trovare il modo di salire sulla scogliera, ma non vi perderò di vista, state tranquilli! Marc e Robert si allontanarono, ognuno per conto suo. Più osservatore, Marc si muoveva con cautela, esaminando attentamente la spiaggia e la scogliera. Robert, invece, balzava impaziente di roccia in roccia, saltando le pozze d'acqua, a rischio di scivolare sui ciuffi di alghe. Senza mai perderli d'occhio, Flip proseguì lungo la spiaggia per un quarto di miglio verso sud, sempre costeggiando l'immensa muraglia, uniforme e a strapiombo. In alto, sulla scogliera, era tutto uno svolazzare di uccelli acquatici, soprattutto varie specie di palmipedi dal becco allungato, schiacciato e appuntito. Erano volatili molto chiassosi, per nulla intimoriti dalla presenza umana che, probabilmente, turbava per la prima volta la loro solitudine. Flip riconobbe fra i palmipedi varie specie di gabbiani, tra cui gli stercorari, e altri più piccoli, voraci, che nidificano nelle cavità del granito. Un colpo di fucile, in mezzo a un formicaio del genere, ne avrebbe abbattuti parecchi. Ma Flip non aveva un fucile… e poi i gabbiani sono a mala pena commestibili, e le loro uova hanno un gusto schifoso.
Staccandosi dalla scogliera, Flip notò che proseguiva per altre due miglia circa, verso sud, per poi finire bruscamente in un promontorio a picco, coperto dalla schiuma bianca della risacca. Forse avrebbe dovuto girarci intorno, e quindi attendere un'altra ora che il mare si abbassasse. Stava appunto riflettendo sul da farsi, quando si trovò davanti un passaggio, aperto nella parete dallo smottamento di grossi pietroni. — Una scala! Una scala naturale! — disse fra sé. — Devo assolutamente approfittarne: così dall'alto della scogliera potrò osservare bene sia la terra che il mare. Flip cominciò a inerpicarsi su per la frana e, grazie a una forza e a un'agilità fuori dal comune, raggiunse la sommità della muraglia nel giro di qualche minuto. Il suo primo sguardo fu per la terra che gli si apriva davanti. Una quindicina di chilometri più in là, svettava l'enorme picco rivestito di neve; dalle sue prime pendici fino a due miglia dalla costa, si stendevano ampie masse boschive, con le grandi chiazze verdi degli alberi a foglie perenni. Tra la foresta e la scogliera, poi, si allargava una grande prateria verdeggiante, con boschetti sparsi in modo capriccioso. Sulla sinistra, dalla parte del fiume, e sulla riva destra, la prateria costiera era chiusa da bellissime stratificazioni di granito. Come proseguisse oltre, da quel punto era impossibile capirlo. Ma, verso sud, la costa fuggiva abbassandosi. E la scogliera si trasformava in grosse rocce isolate, le rocce in dune, e le dune in grandi spiagge sabbiose, per una distanza di parecchie miglia, fin dove un promontorio si gettava arditamente in mare, arrestando lo sguardo… ma non le elucubrazioni di Flip. Chissà se, dietro a quel capo, la terra si univa a un continente? Oppure se si arrotondava ad est, e non era che un'isola del Pacifico settentrionale, su cui il caso aveva gettato la povera famiglia? Incapace, per il momento, di rispondere alla domanda, Flip ne rinviò la soluzione a più tardi. Quanto alla terra, isola o continente che fosse, gli parve fertile, accogliente, varia, e lui non chiedeva di meglio. Esaminata sommariamente la terra, il marinaio si volse a guardare l'oceano. Sotto i suoi occhi, una gran distesa di sabbia, delimitata
dalla linea dei frangenti. Le rocce che emergevano con la bassa marea ricordavano tanti gruppi di anfibi, pigramente distesi nella risacca. Giù in basso, i due ragazzi erano intenti a frugare fra gli interstizi degli scogli. — Hanno scoperto qualcosa — si disse Flip. — Fossero il signorino Jack o la signorina Belle, penserei che stiano raccogliendo conchiglie, ma il signorino Marc è un giovanotto responsabile e starà certamente provvedendo ad accrescere le nostre provviste! Oltre la striscia di scogli sferzata dalla risacca, il mare scintillava sotto i raggi obliqui del sole, che sfioravano i punti più alti della costa. Ma su quel mare, sulla sua vasta superficie liquida, non una vela, non una sola barca in vista, niente che ricordasse il passaggio del Vankouver! Nulla che potesse lasciar presagire la sorte del povero Harry Clifton! Dando un'ultima occhiata alla spiaggia che si stendeva ai suoi piedi, Flip notò un isolotto lungo circa un miglio: l'estremità nord arrivava più o meno all'altezza del fiume, e quella sud si allungava davanti al promontorio che chiudeva la scogliera. Se proseguisse anche oltre, di lì non si riusciva proprio a capirlo. Era un'isoletta arida e abbastanza alta, che proteggeva la costa contro le ondate del mare aperto, creando fra sé e la terra un canale tranquillo, in cui una flottiglia di imbarcazioni avrebbe potuto ripararsi senza difficoltà. Dopo aver attentamente esaminato la configurazione naturale della regione, Flip si accinse a raggiungere i due giovani amici che gli facevano segno di scendere. Cominciò ad avviarsi lungo il pendio creato dalla frana, rimandando ad altro giorno un'esplorazione più completa dell'interno e, giunto sulla spiaggia, andò incontro a Marc e Robert, saltando di scoglio in scoglio. — Su, venite — gli gridava Robert, sempre impaziente. — Presto. Abbiamo raccolto un sacco di conchiglie che si mangiano. — Che si mangiano e che sono mangiate! — rispose allegro Flip, guardando il ragazzo staccare con i denti alcuni appetitosi molluschi, chiusi nel loro guscio a due valve. — Ce ne sono ancora, Flip, e tanti, più di quanti riusciremo mai a mangiarne. Vedete quelle rocce? Sono tutte ricoperte, così siamo sicuri di non morire di fame.
In effetti, gli scogli lasciati scoperti dalla marea discendente erano tappezzati di grappoli di conchiglie oblunghe, ben aderenti alla roccia, tra ciuffi di alghe. — Sono cozze — disse Marc. — Delle cozze davvero prelibate; però ho notato che si scavano dei buchi nella roccia. — Allora non sono cozze — ribatté il marinaio. — Protesto — esclamò Robert, che alla testimonianza degli occhi univa ancora quella del gusto. — Ve lo ripeto, signorino Robert — replicò Flip. — Si tratta di una conchiglia molto comune nel Mediterraneo, ma un po' meno diffusa nei mari americani. Ne ho mangiate così spesso, che ritengo di non potermi sbagliare. Scommettiamo che, mangiando i molluschi, avete sentito un sapore molto pepato?! — In effetti — rispose Marc. — Noterete, inoltre, che le valve formano una conchiglia allungata, ma ugualmente arrotondata alle due estremità, a differenza della cozza comune. Si chiamano litodomi, ma non per questo sono meno buoni. — Ne abbiamo fatto una bella provvista per nostra madre. E adesso andiamo! — sollecitò Robert, che avrebbe già voluto essere di ritorno al campo. — Ehi! Non così in fretta! — gridò Flip, mentre il ragazzo partiva di corsa fra le rocce. Ma la raccomandazione fu inutile. — Lasciamolo andare — disse il fratello maggiore. — Così nostra madre si tranquillizzerà prima, vedendolo arrivare. Tornati sulla spiaggia, Marc e Flip stavano ora costeggiando la base della falesia. Dovevano essere più o meno le otto del mattino. L'appetito non faceva certo difetto ai due esploratori, ed una buona colazione avrebbe sicuramente riscosso l'approvazione generale. Ma i datteri di mare sono poveri di sostanze azotate, e a Flip rincresceva di non portare alla signora Clifton un piatto più nutriente. Anche se, a dire il vero, catturare il pesce senza canna né rete, o cacciare la selvaggina senza laccio o fucile non è un'impresa facile per nessuno. Fortuna che Marc, seguendo la scogliera, fece alzare improvvisamente in volo una mezza dozzina di uccelli, annidati nei buchi scavati in basso nel granito.
— Bene bene! — fece il marinaio. — Non sono gabbiani! Vedete, signorino Marc, come fuggono sbattendo le ali. Se non mi sbaglio, devono essere eccellenti. — Che uccelli sono? — chiese Marc. — Dalla doppia barba nera delle ali, dal codrione bianco e dal piumaggio blu cenere, direi che sono dei palombi o piccioni selvatici, chiamati anche piccioni di roccia. Più avanti cercheremo di addomesticarli per il nostro futuro pollaio. Comunque, se il piccione selvatico è buono da mangiare, anche le sue uova non devono essere malvagie, e per quanto poche ne abbiano lasciate nel nido… Così dicendo, Flip si era avvicinato al buco da cui erano fuggiti i piccioni, spaventati da Marc, e ne tolse pian piano una dozzina di uova, che ripose con cura nel fazzoletto. Insomma, adesso la colazione diventava completa. Marc raccolse ancora qualche manciata di sale che l'acqua di mare, evaporando, aveva lasciato negli incavi degli scogli, e poi ripresero la via del ritorno. Quando girarono l'angolo della scogliera, un quarto d'ora dopo Robert, la piccola colonia riunita attorno al falò li accolse con calore. Nella pentola che la signora Clifton aveva messo sul fuoco, i molluschi cuocevano già, con qualche pinta d'acqua di mare ad esaltarne il sapore. Il ritorno degli esploratori fu accolto con gioia soprattutto dai due bimbi, interessati alle uova di piccione. La piccola Belle reclamò subito un portauovo. E Flip, non potendogliene offrire uno, la consolò promettendole che, alla prima occasione, lo avrebbe raccolto apposta per lei dall'albero che "fa i portauova". Per il momento, comunque, bisognò accontentarsi di cuocere le uova sotto la cenere calda, mentre dalla pentola dei molluschi si diffondeva nell'aria un buonissimo odore di mare. In breve il pranzo fu pronto. C'erano perfino i piatti, perché la signora Clifton aveva raccolto una dozzina di grandi conchiglie Saint-Jacques, che li sostituivano più che degnamente. Quanto all'acqua, una volta svuotata la pentola, Marc corse a riempirla alla fresca corrente del fiume. E, come sempre, Flip rallegrò il pasto con le sue battute, ideando per il futuro dei piani così avvincenti da far venir voglia a chiunque di naufragare su un'isola deserta. Inutile dire
che non fu necessario ricorrere né alle gallette né alla carne salata, riservate a momenti più critici. Alla fine del pasto, Flip e la signora Clifton parlarono a lungo di come migliorare l'accampamento. Bisognava assolutamente trovare un rifugio più sicuro, ma per questo era necessaria un'accurata esplorazione della scogliera, che Flip rinviò all'indomani. Non voleva, infatti, avventurarsi così lontano sin dal primo giorno, lasciando soli la signora e i suoi figli, e poi gli premeva rinnovare la provvista di combustibile. Così tornò nella foresta, risalendo la riva destra del fiume, alle cui acque affidò in seguito vari carichi di legna. Ebbe persino la precauzione di accendere due fuochi distinti, per non essere preso alla sprovvista, nel caso uno dei due si spegnesse. La seconda giornata trascorse così. I litodomi ed altre uova, scovate da Flip e Robert, assicurarono il pasto della sera. Poi scese la notte, una notte stellata, che la famiglia passò al riparo del canotto. La signora Clifton e Flip vegliarono a turno sui fuochi, e niente turbò la loro quiete, se non qualche ululato lontano di animali selvatici, che fecero più volte battere il cuore della povera madre!
CAPITOLO SETTIMO L'indomani, 27 marzo, erano già tutti in piedi dall'alba. Il tempo era bello, ma un po' freddo, e il vento, soffiando da nord, aveva spazzato via tutti i vapori. Era la giornata ideale per un giro di esplorazione all'interno, e Flip decise di non rimandarlo oltre. Conoscere la costa, le risorse che racchiudeva e ciò che i naufraghi potevano attendersi da lei, sapere se era abitata o meno e decidere se la famiglia Clifton doveva sistemarsi definitivamente su quella spiaggia erano tutte questioni importanti, che bisognava risolvere al più presto. Quanto all'altro problema, non meno interessante, e cioè se la regione appartenesse a un'isola o a un continente, Flip non contava comunque di risolverlo durante quella prima spedizione. A meno che non fosse un'isola, e un'isola relativamente piccola, anche se l'altezza della montagna e la grandiosità dei contrafforti che la sostenevano rendevano l'ipotesi non troppo verosimile. Certo, se fosse stato possibile salire sulla montagna, probabilmente avrebbero saputo cosa aspettarsi, ma quella era un'impresa da tentarsi in seguito; adesso dovevano pensare ai bisogni più urgenti: il cibo e l'alloggio. Il progetto di Flip ebbe il pieno appoggio della signora Clifton, una donna forte e coraggiosa, come si è già detto, e come si poteva facilmente capire dall'energia che l'animava e che le permetteva di contenere il dolore. Una donna che sperava tanto in Dio, in Flip, e in se stessa, consapevole del fatto che la Provvidenza non l'avrebbe abbandonata. Quando il marinaio le parlò dell'opportunità e della necessità dell'esplorazione all'interno, la signora Clifton si rese subito conto che i due più piccoli non avrebbero potuto parteciparvi, e che avrebbe dovuto restare sola con loro, all'accampamento. A quel pensiero si sentì, per un attimo, serrare la gola da una profonda emozione, ma la superò subito, esortando Flip a partire al più presto. — Va bene, signora. Prima, però, pensiamo alla colazione, e poi decideremo quale di questi giovani signori verrà con me! — Io! Io! — gridarono a gara Marc e Robert.
Ma Flip dichiarò che l'avrebbe accompagnato solo uno dei due grandi, mentre l'altro sarebbe rimasto a guardia della famiglia durante la sua assenza. E dallo sguardo che Flip gli lanciò, Marc capì benissimo che sarebbe toccato a lui, il maggiore, il compito di vegliare sulla madre, il fratello e la sorellina. Marc, che ora si ritrovava capo famiglia, capiva senz'altro meglio dell'impetuoso Robert la gravità della situazione e la responsabilità che pesava su di lui. Perciò non fece nessuna obiezione e, rispondendo allo sguardo di Flip: — Madre — esclamò — resterò io assieme a voi. Sono io il maggiore e tocca a me sorvegliare il campo durante l'assenza di Flip. Davanti a quelle parole, e al tono con cui erano state pronunciate, gli occhi della signora Clifton si inumidirono. — Per mille diavoli! — esclamò Flip, commosso. — Siete davvero un bravo ragazzo, signorino Marc, e mi viene voglia di abbracciarvi. Marc si precipitò fra le braccia del marinaio, che se lo strinse forte al petto. — E adesso mangiamo — ordinò Flip. Erano le sette, e fu una colazione veloce. Al momento della partenza, Flip dovette cedere alle insistenze della signora Clifton, che non voleva lasciarli andar via senza provviste sufficienti, e li costrinse a portare con sé un po' di galletta e di carne salata. Il marinaio si arrese, ma la questione del cibo non lo preoccupava più di tanto, poiché contava sul fatto che la natura non l'avrebbe lasciato a bocca asciutta. L'unica cosa che gli seccava, era di non essere armato a sufficienza. In mancanza di armi offensive da usare con successo contro la selvaggina, Flip decise perciò di munirsi, almeno, di un'arma difensiva con cui respingere l'eventuale attacco di uomini e animali feroci. Così tagliò due bastoni e ne appuntì un'estremità, indurendola sul fuoco. Un congegno primitivo, che poteva però trasformarsi in un'arma temibile nella mano robusta di Flip. Quanto a Robert, con quel suo bastone sulla spalla aveva una buffa aria di sfida che fece sorridere suo fratello Marc. La signora Clifton e i suoi figlioli non si dovevano allontanare dalla scogliera, e Marc si sarebbe limitato ad andare sulla spiaggia
per rinnovare la provvista di molluschi e di uova di piccioni selvatici. Ma soprattutto, per espressa raccomandazione di Flip, lui e sua madre erano incaricati di mantenere vivo il fuoco, e di sorvegliarlo in continuazione. Alle otto, dopo aver abbracciato la madre, i fratelli e la sorellina, Robert si dichiarò pronto a partire, e Flip strinse la mano a tutti quanti, rinnovando le raccomandazioni. Risalendo lungo la riva sinistra del fiume, i due esploratori non tardarono a superare il punto in cui Flip aveva costruito il suo convoglio di legna galleggiante. Poi il fiume si restringeva sempre più, incassandosi fra gli argini erbosi. La riva destra era fiancheggiata da una parete granitica, che superava in altezza quella della riva opposta e che proseguiva oltre la foresta, per cui non era possibile capire come fosse la regione verso nord. Ma Flip decise di rimandare a più tardi l'esplorazione delle terre sulla riva destra del fiume, limitandosi per il momento alla zona sud. A un miglio dall'accampamento, il fiume si immergeva sotto la grande arcata scura della foresta, con i suoi alberi perenni, obbligando i due esploratori ad inoltrarsi nel fitto della boscaglia. Robert corse subito avanti, come il suo solito, sordo alle raccomandazioni di Flip: — Non sappiamo cosa possiamo incontrare nella foresta, perciò vi prego, signorino Robert, di non allontanarvi da me. — Ma io non ho paura! — ribatté il ragazzo, brandendo il suo bastone appuntito. — Lo so — replicò il marinaio sorridendo. — Io sì, invece, che ce l'ho, se resto da solo. Ed è per questo che vi chiedo di non allontanarvi. Senza abbandonare il sentiero formato dall'argine, i due penetrarono sotto l'immensa cupola verde. L'acqua mormorava limpida alla loro sinistra e il sole, già alto sull'orizzonte, disegnava, attraverso le fronde, delicate smerlature sulla cupa corrente. Proseguendo nel loro cammino, i due si trovarono davanti vari ostacoli: qui degli alberi caduti, con le radici che si immergevano nel fiume, là delle liane o dei grovigli di spine che bisognava spezzare col bastone o tagliare con il coltello. Robert s'infilava spesso fra i
rami abbattuti con l'agilità di un gatto, scomparendo nella boscaglia. Ma subito lo richiamava la voce di Flip: — Signorino Robert! — Eccomi, eccomi, Flip — rispondeva il ragazzo, sbucando tra la sterpaglia, con il viso rosso come un papavero. Flip, intanto, osservava attentamente la natura e la configurazione del posto. Lì, sulla riva sinistra del fiume, il terreno piatto e a volte umido assumeva un aspetto acquitrinoso. Sotto, si sentiva tutta una rete di rivoli che dovevano riversarsi nel fiume attraverso qualche faglia sotterranea, e ogni tanto si trovavano a superare, senza difficoltà, anche qualche ruscello vero e proprio che scorreva nella boscaglia. La riva opposta era più accidentata e la valle vi si disegnava più netta; l'argine, coperto di alberi disposti a ripiani, saliva bruscamente, formando una cortina che occultava la vista. Camminare su quella sponda sarebbe stato più arduo, perché i declivi erano ripidi e gli alberi, curvi sull'acqua, sembravano reggere solo per un miracolo d'equilibrio. Inutile dire che in mezzo a quella foresta non c'era traccia di presenza umana. Flip scorse soltanto qualche impronta di animali, ma nessun segno di piccone o di ascia e nessun resto di fuoco spento. La cosa rallegrò non poco il marinaio che, su quella terra persa in pieno Pacifico, in quelle zone frequentate dai cannibali, temeva la presenza dell'uomo, più di quanto la desiderasse. Flip e Robert continuavano ad avanzare, ma piuttosto lentamente: dopo un'ora di marcia, infatti, avevano percorso appena un miglio, senza mai abbandonare un attimo il corso d'acqua, vera e propria guida che permetteva loro di ritrovare la strada nel labirinto della foresta. Ogni tanto si fermavano ad esaminare le creature del regno animale. E Flip, che aveva girato il mondo intero, dalle zone torride a quelle glaciali, Flip, che conosceva tutto, sperava tanto che gli si offrisse qualche frutto di sua conoscenza. Ma sino ad allora le ricerche non avevano avuto alcun risultato. Gli alberi della foresta appartenevano in genere alla famiglia delle conifere, di quelle conifere che si propagano spontaneamente in tutte le regioni del globo, dai climi settentrionali, sino alle regioni tropicali. Un naturalista avrebbe riconosciuto in particolare quella specie di
diodara, fino ad allora osservata nelle zone himalayane, che profumava l'aria col suo gradevole aroma. Sparsi qua e là, crescevano numerosi i boschetti di pini marittimi, col loro ampio ombrello, mentre nell'erba i piedi calpestavano lo strato di rami secchi che crepitavano come petardi. C'era anche qualche uccello che cantava o svolazzava tra il fogliame, mostrandosi, però, estremamente timoroso. Nelle zone più umide della foresta, Robert ne notò uno con il becco lungo e aguzzo, che ricordava nella struttura un martin pescatore, ma con un piumaggio più rozzo, dallo scintillio metallico. Robert e Flip, avrebbero desiderato catturarlo entrambi, se pure a scopi diversi: l'uno per portarlo ai fratelli, l'altro per valutarlo dal punto di vista squisitamente commestibile. Ma non riuscirono nemmeno ad avvicinarlo. — Che razza di uccello è? — domandò Robert. — Mi sembra di averlo già visto nelle foreste dell'America Meridionale, e lì lo chiamavano giacamaro. — Come starebbe bene in una voliera! — esclamò il ragazzo. — E anche in una pentola! — aggiunse Flip.— Ma sembra proprio che quell'arrosto non abbia nessuna intenzione di farsi acchiappare! — Che importa! — gridò Robert indicando uno stormo di uccelli che si disperdevano nel fogliame. — Eccone degli altri! Che belle piume! E che coda lunga, dalla tinta cangiante. Ma sono così piccoli che potrebbero fare concorrenza ai colibrì, per dimensione e colore! Mentre fuggivano attraverso i rami, gli uccelli persero in volo parecchie piume, che si posarono a terra come una sottile lanugine. Flip ne raccolse qualcuna e l'esaminò. — Sono uccelli che si possono mangiare? — chiese Robert. — Sì, signorino. E sono molto ricercati, per la loro carne prelibata. Certo che io preferirei una faraona o un gallo cedrone… però, con qualche dozzina di questi graziosi volatili si potrebbe anche ottenere un piatto presentabile. — E cosa sono?
— Dei curucù — rispose Flip . — Ne ho presi a migliaia, nel Messico settentrionale e, se non ricordo male, non è difficile avvicinarli e ucciderli a colpi di bastone. — Benissimo! — fece Robert, lanciandosi. — Non così in fretta, signorino impaziente! Non così in fretta! Non diventerete mai un gran cacciatore, se siete così impulsivo! — Oh, se avessi un fucile… — sospirò il ragazzo. — Fucile o bastone, bisogna comunque agire d'astuzia. Quando siete a tiro, non esitate a colpire, né a sparare. Ma fino a quel momento, ci vuole calma. Su, provate a imitarmi, e vediamo se riusciamo a portare almeno un piatto di uccellini alla signora Clifton. Sgusciando tra l'erba, Flip e Robert giunsero ai piedi di un albero, dove i curucù se ne stavano appollaiati, con quelle loro zampette piumate sin quasi alle dita, aspettando il passaggio degli insetti. I cacciatori erano quasi giunti alla meta. Frenando, con grande difficoltà, la sua impazienza, Robert si riprometteva di fare un colpo da maestro. Immaginatevi, perciò, la sua delusione, quando scoprì che lui e il bastone erano troppo piccoli per raggiungere la preda. Allora Flip lo fece attendere nascosto nell'erba alta e, tirandosi su di colpo, abbatté file e file di uccelli. Storditi da un attacco così repentino, i curucù non tentavano nemmeno di alzarsi in volo, ma si lasciavano abbattere con stupida flemma. E ci vollero almeno un centinaio di loro compagni sparsi sul terreno, perché finalmente gli altri si decidessero a fuggire. Allora Robert ebbe il permesso di muoversi. Se non aveva ancora raggiunto la dignità di cacciatore, almeno lo si riteneva adatto a fare il cane da riporto. Un ruolo, "alla portata dei suoi mezzi", che assolse egregiamente, saltando attraverso le sterpaglie, scavalcando i tronchi abbattuti, e raccogliendo a piene mani gli uccelli feriti che cercavano di nascondersi nell'erba. Così, in brevissimo tempo, ci furono da nove a dieci dozzine di prede ammucchiate per terra. — Hurrà! — gridò Flip. — Ce n'è abbastanza per fare un piatto discreto. Ma non basta. La foresta dev'essere ricca di selvaggina. Andiamo a vedere! Dopo aver infilzato i curucù su una canna, i cacciatori ripresero il cammino nel verde della foresta. Flip notò che il corso del fiume
s'incurvava leggermente, piegando verso sud. A riprova del fatto che la direzione era cambiata, infatti, il sole che fino a quel momento gli era stato di fronte, ora lo raggiungeva di lato. Secondo lui, comunque, il fiume non poteva piegare a lungo verso sud, perché doveva nascere ai piedi della montagna, alimentato dallo scioglimento delle nevi che ammantavano i fianchi del picco centrale. Flip decise allora di risalire l'argine del fiume, sperando di uscire in fretta dal folto della foresta, che non gli consentiva di osservare la regione. Gli alberi erano davvero stupendi, e Flip non si stancava mai di ammirarli, ma non ce n'era nessuno che desse frutti commestibili. Il marinaio cercò invano qualcuna di quelle preziose palme che si prestano a una gran varietà di usi nella vita domestica, meravigliandosi a buon diritto di non trovarne nessuna, perché sono generalmente diffuse sino al quarantesimo grado nell'emisfero boreale, e al trentacinquesimo in quello australe. La famiglia delle conifere era la sola rappresentata nella foresta, con piante simili a quelle che crescono sulla costa nord-occidentale dell'America, e abeti stupendi, con un diametro di sessanta centimetri alla base, e un'altezza di sessanta metri. — Bellissimi alberi — esclamò Flip — che però non ci servono a nulla. — Può darsi di sì — ribatté Robert, che aveva avuto un'idea. — E a che cosa? — A salire fino in cima, per osservare il paese. — E voi ne sareste capace? Flip non aveva ancora finito di parlare, che già Robert si slanciava come un gatto sui primi rami di un colossale abete, arrampicandosi con un'agilità sorprendente, senza ascoltare i reiterati inviti di Flip alla prudenza. Ma Robert si muoveva con una sicurezza tale, e dimostrava una così gran pratica dell'esercizio, che il marinaio si tranquillizzò quasi subito. Arrivato in cima, Robert si assicurò per bene, prima di guardarsi intorno.
— Non c'è niente. Solo alberi. E poi, da un lato, il picco che domina tutta la regione, e dall'altro una linea scintillante che dev'essere il mare. Ah, come si sta bene qui! — Non dico di no — gridò Flip — però bisogna scendere! Robert obbedì, calandosi ai piedi dell'albero senza difficoltà, e riferì quello che aveva visto: la foresta si stendeva come una gran massa verde, dominata qua e là da abeti simili a quello su cui era appena salito. — Be'— rispose Flip. — Continuiamo a risalire il corso del fiume, e se entro un'ora non arriviamo ai margini della foresta, allora torniamo indietro. Verso le undici, Flip fece notare a Robert che i raggi del sole arrivavano da dietro, anziché di lato, e che quindi il fiume ripiegava verso il mare. Ma non ci sarebbe stato alcun inconveniente a seguirlo perché, essendo dentro all'ansa interna, non si sarebbero mai trovati nella necessità di attraversarlo. I due esploratori ripresero quindi il cammino. Fino a quel momento non s'era visto alcun tipo di selvaggina, anche se, correndo fra l'erba, Robert aveva fatto più volte scappare qualche invisibile animale. Il ragazzo, però, non era capace di forzarlo alla corsa, e rimpianse più volte di non avere con sé il cane Fido che gli sarebbe stato molto utile. "Fido è con tuo padre" pensò Flip "e forse è meglio così!" Attraverso il fogliame scorsero altri gruppi di uccelli intenti a beccare le bacche aromatiche di qualche pianta, tra cui Flip riconobbe dei ginepri. E poi di colpo, nella foresta, risuonò un vero e proprio richiamo di trombe. Robert tese le orecchie, quasi si fosse aspettato di veder comparire un intero reggimento di cavalleria. Ma Flip aveva riconosciuto le strane fanfare di quei gallinacei, delle dimensioni di un pollo, che negli Stati Uniti chiamano tetraoni. E dopo un po' li vide anche, in coppia, con il loro bel piumaggio fulvo e bruno, e la coda scura. I maschi erano facilmente riconoscibili per i due alettoni appuntiti, formati dalle penne rialzate sul collo. Sapendo la loro carne simile a quella dei francolini, il marinaio non disdegnava affatto di averne un campione. Ma nonostante tutte le astuzie di Flip e l'agilità di Robert, la caccia risultò infruttuosa. Proprio mentre il marinaio stava per colpirne uno, con il suo bastone appuntito, infatti, un
brusco movimento di Robert mandò tutto all'aria, facendo volare via l'uccello. Flip si limitò a dare un'occhiata al ragazzo, con poche parole che gli andarono dritte al cuore: — Peccato, perché la signora Clifton sarebbe stata ben felice di dividere un'ala di quel pollo tra i suoi due figlioli più piccoli! Robert gli si mise dietro, con gli occhi bassi e le mani in tasca, seguendolo senza dire più nulla. A mezzogiorno, i due cacciatori erano a circa quattro miglia dall'accampamento, stanchi non tanto per la strada fatta, quanto per il lento e difficoltoso procedere nell'intrico della foresta. Flip decise allora di non continuare oltre, ma di tornare lungo la riva sinistra del fiume, per evitare di perdersi. Prima, però, in omaggio alla fame che si faceva sentire imperiosa, si sedettero entrambi sotto un gruppo di alberi, addentando le provviste con grande appetito. Al momento di riprendere il cammino, Flip rimase colpito da uno strano grugnito e, girandosi, vide un animale rannicchiato sotto un cespuglio: era una specie di maiale, lungo un'ottantina di centimetri, di colore bruno nerastro, un po' più chiaro sul ventre, il pelo duro e folto, con le dita che sembravano unite da una membrana. Flip riconobbe subito il capibara, uno dei più grandi esemplari dell'ordine dei roditori. L'animale lo fissava, immobile, con quei suoi occhietti sprofondati in uno strato di grasso. Forse era la prima volta che vedeva degli esseri umani, e non sapeva bene che cosa aspettarsi! La bestia era a una decina di passi da lui. Tenendo il bastone ben saldo in pugno, Flip lanciò un'occhiata a Robert. E Robert rimase immobile come il roditore, con le braccia incrociate sul petto, facendo enormi sforzi per dominarsi. — Benissimo! — esclamò Flip, raccomandandogli con un cenno di non muoversi. E cominciò a girare pian piano attorno alla macchia dove l'animale si teneva immobile, scomparendo ben presto nel folto dell'erba. Robert, intanto, sembrava come radicato al suolo, ma il petto gli si sollevava affannosamente, e gli occhi non lasciavano un attimo quelli del roditore.
Trascorsero così cinque minuti, sino al momento in cui Flip comparve da dietro la macchia. Intuendo il pericolo, il capibara girò di colpo la testa, ma il bastone di Flip gli si abbatté addosso con la celerità di una folgore. Benché gravemente ferito, l'animale si slanciò in avanti, con un possente grugnito, travolgendo Robert e fuggendo nella boscaglia. Alle grida di Flip, il ragazzo si rialzò, ancora stordito dalla caduta, precipitandosi sulle tracce del roditore ferito. Lo ritrovò di lì a poco, e stava già per lanciarsi su di lui, quando l'animale uscì, con un ultimo balzo, da quell'interminabile foresta che ricopriva non una prateria, bensì una vasta distesa d'acqua, per tuffarsi, appunto, nel lago e scomparire. Il ragazzo rimase immobile, attonito, con il bastone alzato per aria e lo sguardo fisso sull'acqua gorgogliante. Flip lo raggiunse dopo un po', incurante del mutato paesaggio, teso soltanto alla sua preda. — Ah, come sono maldestro! — esclamò Robert. — L'ho mancato! — Ma dov'è? — Là, sott'acqua! — Lo aspetteremo. Tra un po' uscirà a respirare in superficie. — Ma non annega? — No: ha i piedi palmati. È un capibara, ne ho già cacciato più d'uno sulle rive dell'Orinoco. Aspettiamolo al varco. Flip camminava avanti e indietro, addirittura più impaziente di Robert. Quella bestia aveva per lui un valore inestimabile: era il piatto forte della futura cena. Non si sbagliava, comunque: dopo qualche minuto, l'animale uscì dall'acqua a meno di un metro dal ragazzo. Robert gli si lanciò addosso, afferrandolo per una zampa, e Flip completò in fretta l'opera, strangolandolo. — Bene! Bene! — esclamò il marinaio. — Diventerete un bravo cacciatore, signorino Robert, vedrete. Ecco finalmente un roditore che ci rosicchieremo noi, fino agli ossi. E che sostituirà degnamente il nostro tetraone che se n'è volato via! Ma dove siamo? Il posto meritava davvero uno sguardo. L'ampia distesa d'acqua era un lago ombreggiato da bellissimi alberi, a est e a nord. E dal lago usciva il fiume che formava così una specie di scolmatore per
l'acqua in eccesso. A sud, i pendii erano più aridi, con qualche raro ciuffo d'alberi. Nel punto più largo, il lago aveva un diametro di quattro chilometri circa, e a qualche decina di metri dal limitare del bosco, un isolotto emergeva in superficie. A ovest, oltre una cortina di alberi, tra cui Flip riconobbe alcune palme da cocco, si stendeva un luccicante orizzonte marino. Flip si caricò la preda sulle spalle e, seguito da Robert, si diresse verso ovest, costeggiando la riva del lago per due miglia circa, sin dove formava un brusco angolo acuto. Lì era separato dalla costa solo da una grande prateria verdeggiante, che il marinaio contava di attraversare, tornando all'accampamento per una nuova via. Non si sbagliava: dopo aver superato la grande distesa verde e la linea dei palmizi, i due esploratori si trovarono, infatti, all'estremità della scogliera meridionale, su cui Flip era salito il giorno prima. Davanti a loro si allungava l'isolotto che avevano già osservato, e che era separato dalla costa soltanto da uno stretto canale. Il marinaio era impaziente di raggiungere la signora Clifton e la sua famiglia. Dopo aver girato intorno al piccolo promontorio, Flip e Robert proseguirono lungo la spiaggia: dovevano affrettarsi, perché la marea stava già cominciando a salire, sommergendo gli scogli più bassi. Allora accelerarono il passo, e raggiunsero l'accampamento verso le due e mezza, accolti dalle grida di gioia di tutta la famiglia.
CAPITOLO OTTAVO Durante l'assenza di Flip non si era verificato nessun incidente degno di nota, e il fuoco era stato mantenuto con cura. Con la riserva di uova e molluschi rinnovata da Marc, poi, e il capibara più le dozzine di curucù portati da Flip, anche il problema dei commestibili era risolto per un bel pezzo. Prima di raccontare il loro viaggio di esplorazione, però, Flip volle occuparsi della cucina, operazione urgente, perché l'appetito dei due cacciatori era particolarmente vivace. Una volta deciso di tenere gli uccelli per l'indomani, il capibara venne elevato al rango di vero e proprio piatto forte. Come prima cosa, bisognava squartarlo. Se ne incaricò Flip, nella sua qualità di marinaio, e cioè di "uomo universale". Dopo averlo scuoiato con grande destrezza, mise le costolette sulla brace; intanto, i molluschi cuocevano in pentola, e le uova sotto la cenere. La cena si presentava, dunque, piuttosto allettante. Quanto ai cosciotti del capibara, vennero destinati a trasformarsi in prosciutto sotto l'azione di un fumo di legna verde, operazione di cui la signora Clifton si sarebbe occupata l'indomani di buon'ora. E mentre l'aria si riempiva del profumo delle costine arrosto, i commensali si disposero intorno al fuoco, all'ombra della scogliera, ciascuno con il suo piatto-conchiglia Saint-Jacques. I molluschi ebbero il loro abituale successo e le costolette di capibara furono dichiarate senza rivali al mondo. Stando alle sue parole, Flip non aveva mai fatto un pasto così buono! E lo provò, anche, divorando tutto con grande avidità. Quando la fame dei commensali si fu placata, la signora Clifton pregò il marinaio di informarli sui risultati dell'esplorazione, ma lui preferì lasciare il compito al suo giovane compagno di strada. Così Robert raccontò nei dettagli cos'era successo durante il giro, un po' impetuosamente, forse, con frasi spezzate, e non del tutto corrette dal punto di vista grammaticale, ma insomma descrisse accuratamente la camminata nella foresta, la caccia agli uccelli, l'abbattimento del
capibara, il ritorno lungo il lago e la scogliera sud. Parlò spontaneamente dei propri interventi maldestri, e non si dilungò troppo sulla vittoria ottenuta nella memorabile lotta contro il roditore. Ma quello che tacque Robert, lo disse Flip per lui. La madre lo abbracciò orgogliosa, tenendo sempre, però, anche la mano di Marc, forse un po' geloso dei successi del fratello; in questo modo intendeva esprimere la sua riconoscenza al figlio maggiore, per esserle rimasto accanto durante l'assenza di Flip. Poi il marinaio aggiunse altri dettagli al racconto di Robert, insistendo sui punti importanti, ed in particolare sulla scoperta del lago di acqua dolce. — Se ci potessimo sistemare lì, fra il lago ed il mare, signora Clifton, saremmo in un vero e proprio paradiso terrestre. Lì avremmo sempre il mare sotto gli occhi, e il lago soddisferebbe tutti i nostri bisogni, perché suppongo sia frequentato da stormi di uccelli acquatici. Vicino alla riva ci sono degli alberi stupendi, e ho visto anche delle palme da cocco, preziose sotto molti aspetti. — E come pensereste di organizzarvi? — domandò la signora Clifton. — Alla peggio ci si potrebbe sempre riparare sotto il canotto, usandolo come tetto d'una capanna. Ma è un'abitazione del tutto insufficiente, indegna di naufraghi che si rispettino! Possibile che non riusciamo a trovare una rientranza, una grotta, un buco qualsiasi…?! — Dopo potremmo anche farlo diventare più grande! — intervenne il piccolo Jack. — Sicuro, con il mio coltello! — rispose Flip con un sorriso. — Oppure si potrebbe farlo saltare! — aggiunse Belle. — Certo, mia bella signorinetta. Senza esplosivo, con un semplice pugno. Così avremmo una bella casetta, asciutta d'inverno e fresca d'estate! — Io vorrei una bella grotta — disse la bimba — con dei diamanti sui muri, come nelle fiabe. — E noi ve la faremo, signorina Belle: una apposta per voi! — rispose Flip. — Le fate sono sempre agli ordini delle brave signorine come voi!
Belle si mise a battere le mani, mentre la signora Clifton guardava, con un sorriso velato sulle labbra pallide, il marinaio felice di diffondere tra i ragazzi un po' di gioia e di speranza. — Allora — riprese Flip — andremo a visitare il posto del nostro futuro accampamento; no, non oggi, è troppo tardi. Domani. — Il lago è molto lontano? — chiese Marc. — No. Meno di due miglia. Così domani mattina, col vostro permesso, signora Clifton, porterò con me il signorino Marc e il signorino Robert, per due ore soltanto, e andremo a esplorare la costa. — Tutto quel che fate è ben fatto, caro Flip. Non siete forse la nostra Provvidenza? — Bella Provvidenza! — esclamò il marinaio. — Una Provvidenza che ha solo un coltello per trarvi d'impaccio! — D'accordo — aggiunse la signora Clifton — un coltello, ma anche una mano robusta per impugnarlo! Presa la decisione, non restava che riposarsi, in vista dell'indomani. Stavolta si riposò anche Flip, sempre a suo modo, naturalmente: rinnovando la provvista di legna. Poi scese la sera, e venne ravvivato il fuoco per la notte che, con quel cielo limpido, si annunciava fredda. Ma la signora Clifton aveva preparato il muschio, facendolo seccare al fuoco, e i ragazzi vi si rannicchiarono come uccellini nel loro nido. Decisa a vegliare lei stessa accanto al fuoco, la signora Clifton ottenne, non senza difficoltà, che il marinaio si concedesse qualche ora di riposo. E Flip obbedì, benché intenzionato a dormire con un occhio solo. Così la madre rimase sola nella notte buia, vicino al fuoco scoppiettante, vigile e pensosa, la mente che errava sull'immensa distesa del mare, dietro alla nave ammutinata. L'indomani mattina, dopo una veloce colazione, il terzetto era pronto per la partenza. Marc e Robert abbracciarono in fretta la madre, e corsero subito avanti, impazienti, oltre l'angolo della scogliera. Flip li raggiunse poco dopo e, passando fra gli scogli, constatò che il banco di datteri di mare doveva essere davvero inesauribile. Dall'altra parte del canale, invece, sul lungo isolotto che copriva la costa, c'era un grosso stormo di uccelli che si muovevano
in modo pesante: erano sfenischi, della famiglia dei tuffatori, facilmente riconoscibili per il grido piuttosto sgradevole, che ricorda il raglio dell'asino. Flip sapeva che la loro carne nerastra è prelibata, e sapeva anche che, essendo stupidi e pesanti, li si può uccidere senza difficoltà a sassate o a colpi di bastone. Così si ripromise, per uno dei giorni seguenti, di esplorare l'isola che doveva offrire una buona riserva di selvaggina. Ma si guardò bene dall'annunciare il progetto ai due ragazzi, perché Robert si sarebbe gettato sicuramente in acqua per dare la caccia agli uccelli. Mezz'ora dopo aver lasciato l'accampamento, i tre giunsero all'estremità sud della scogliera, in quel momento scoperta per via della bassa marea. Di lì raggiunsero il posto che Flip aveva visto il giorno prima, fra il lago e la spiaggia, e Marc trovò la zona stupenda. Grandi palme da cocco si ergevano maestose e, un po' più indietro, una cortina di alberi che seguiva i movimenti del terreno, leggermente accidentato. Numerose le conifere: pini, larici ed anche, fra gli altri, una trentina di quei superbi esemplari della famiglia delle olmacee, noti col nome di bagolari di Virginia. La zona esplorata da Flip e dai due ragazzi era limitata a est dal lago, che si presentava molto pescoso. Non restava che procurarsi reti, ami e canne da pesca. Il marinaio promise ai due ragazzi di costruire per loro tutto il necessario, non appena la piccola colonia si fosse definitivamente installata sul posto. Lungo la riva occidentale del lago, Flip scoprì delle impronte di animali di grosse dimensioni che, probabilmente, venivano ad abbeverarsi alla grande riserva d'acqua dolce. Però non c'era traccia che rivelasse la presenza dell'uomo, su quella sponda: stavano dunque esplorando un territorio mai toccato da piede umano. Tornato verso la scogliera, Flip osservò attentamente la parte sud, che si allungava perpendicolarmente al mare, terminando con una punta sottile a pochi passi dai bagolari di Virginia. Il marinaio esaminò con cura l'enorme massa rocciosa, nella speranza di scoprire una cavità abbastanza grande da ospitare tutta la famiglia. Una ricerca minuziosa e coronata da successo: fu Marc a scoprire la grotta tanto desiderata. Una vera e propria caverna scavata nel granito: alta tre metri, larga sei, e lunga una decina, con il suolo
coperto di sabbia sottile, luccicante di mica. Scabre nella parte superiore, le pareti si presentavano invece lisce e lustre alla base, come se il mare ne avesse levigato le asperità, tanto tempo prima. L'apertura, irregolare e a forma di triangolo, lasciava filtrare all'interno abbastanza luce, ma non sarebbe stato, comunque, un problema, per Flip, modificarla e ingrandirla. Entrando nella grotta, Marc non si permise né di saltellare qua e là, né di rotolarsi sulla sabbia, come, invece, avrebbe sicuramente fatto suo fratello Robert, distruggendo le tracce profondamente impresse nel suolo, che Flip si era chinato ad esaminare. Erano delle impronte grandi, chiaramente prodotte da un animale che camminava sulla pianta dei piedi, e non sulla punta delle dita, come fanno i mammiferi corridori. Gli organi locomotori del plantigrado che aveva lasciato quelle orme dovevano essere possenti, e armati di unghie ricurve, in grado di imprimere segni nettamente visibili sul tappeto di sabbia. Per non spaventare i ragazzi, Flip cancellò in fretta le impronte, dicendo che erano prive di importanza. Ma intanto si chiedeva se la grotta, frequentata da bestie così grosse, avrebbe potuto offrire un asilo sicuro a gente sprovvista di qualsiasi arma difensiva. Alla fine concluse, non senza ragione, che, benché visitata da un animale, la grotta non era comunque una tana, non essendoci traccia di escrementi o di ossi rosicchiati. C'era, quindi, da sperare che quella visita, sicuramente fortuita, per l'avvenire non si sarebbe più ripetuta. Inoltre, avrebbe potuto rendere la caverna sicura e abitabile semplicemente ostruendone l'imbocco con grossi blocchi di pietra. E poi c'erano i fuochi, accesi di giorno e di notte, a tenere lontane le bestie feroci, che del fuoco hanno un timore insormontabile. Flip decise, così, di fare di quella grotta spaziosa il suo accampamento principale, e dopo averne minuziosamente ispezionato l'interno, uscì ad esaminare la parete esterna: una gran massa rocciosa, alta, in quel punto, una ventina di metri, con la parte superiore obliqua, come i tetti che coronano le case di mattoni dell'epoca di Luigi XIII. La grotta, a trecento metri dalla costa e a duecento dal lago, era parzialmente riparata da una specie di sporgenza di granito, che la proteggeva dai venti piovosi dell'ovest.
Dalla grotta, quindi, non si poteva vedere il mare di fronte, visibile solo da uno scorcio laterale, che permetteva allo sguardo di spaziare sino al promontorio della punta sud. Dal punto in cui era la grotta, non si vedeva nemmeno il picco centrale, che si innalzava dietro la scogliera, ma lo sguardo poteva abbracciare, in tutta la sua estensione, la distesa azzurra del lago, con le sue rive boscose sulla destra, le dune che l'inquadravano di fronte, e l'orizzonte lontano, che raccordava tutte le linee fra loro. Un paesaggio stupendo, fatto per incantare lo sguardo! La grotta era in una posizione così felice, tra il lago e il mare, ai margini della verde prateria cui facevano ombra gruppi di alberi imponenti, che Flip decise di condurvi quel giorno stesso la signora Clifton e famiglia. E poiché il progetto sorrise anche a Marc e Robert, si misero tutti e tre in marcia per ritornare all'accampamento. Decisi a non presentarsi a mani vuote, lungo la scogliera i due ragazzi si divisero i compiti: così, mentre Robert cercava le uova di piccione, Marc rinnovava le sue provviste di molluschi, riuscendo persino a catturare un enorme granchio con il guscio dentellato e la fronte stretta, un granchio granciporro che pesava almeno due chili e mezzo, e di cui evitò con cura le formidabili pinze. Davvero un bel bottino. Dal canto suo, Robert aveva raccolto una dozzina di uova, che sarebbero state di certo più numerose, se le avesse afferrate con maggior delicatezza. Ma bisognava, comunque, essergli grati che non le avesse rotte tutte! Alle dieci, Flip e i suoi due compagni di strada erano di ritorno all'accampamento, di dove si alzava un sottile filo di fumo. Incaricati di tenere acceso il fuoco, Jack e Belle assolvevano egregiamente il loro compito. La signora Clifton preparò in fretta il pranzo, di cui fece, naturalmente, le spese il povero granciporro, che venne fatto a pezzi per poter entrare in padella, data la mole, e che, cotto nell'acqua di mare, valeva sicuramente i prelibati gamberi e le aragoste dei mari europei. Flip aveva parlato del suo progetto di trasloco alla signora Clifton, che era pronta a seguirlo. Ma, nel pomeriggio, il cielo, già tanto variabile in quegli ultimi giorni di marzo ancora turbati dai venti
equinoziali, si coprì di grosse nuvole scure, e la pioggia cominciò a cadere violenta. Così, per quel giorno, Flip dovette rinunciare al suo trasloco. Le raffiche, provenienti da nord-ovest, colpivano in pieno la scogliera minacciando di invadere il letto di muschio, sotto il canotto. Il marinaio lavorò assiduamente per fugare il pericolo dell'inondazione, e la famiglia Clifton, mal riparata, soffrì parecchio della violenta burrasca, durata per tutto il giorno, e la notte. Non fu impresa facile nemmeno tenere il fuoco sempre acceso, e mai come in quel momento si fece sentire imperiosa la necessità di un'abitazione ben chiusa e a perfetta tenuta d'acqua.
CAPITOLO NONO L'indomani il cielo era coperto, ma aveva smesso di piovere. Così Flip e la signora Clifton decisero di partire subito dopo colazione: dopo una notte del genere, avevano tutti una gran fretta di occupare una nuova casa. Lavati e preparati i due più piccoli, la signora Clifton si occupò del pasto; intanto Jack e Belle giocavano sulla sabbia, incuranti delle sue raccomandazioni, a rischio di rovinare i vestiti che sarebbe stato sicuramente difficile sostituire. Pari a Robert per vivacità, Jack, soprattutto, dava spiacevoli esempi di turbolenza alla sorella. La questione del vestiario preoccupava parecchio la signora Clifton: se le questioni cibo e riscaldamento erano state brillantemente risolte, il problema vestiti non era, in realtà, molto più difficile, in una regione deserta? Durante il pasto, si discussero le modalità del trasloco. Come sarebbe avvenuto il trasporto? — Avete un'idea, signorino Jack? — domandò il marinaio, per farlo partecipare alla discussione. — Io?! — chiese Jack, sbalordito. — Sì. Secondo voi, come andremo alla nostra nuova casa? — Mah, camminando con le nostre gambe — rispose pronto il ragazzino. — A meno che non prendiamo l'omnibus della quinta strada — scherzò Robert, alludendo ai mezzi di trasporto usati nelle grandi città americane. — L'omnibus!? — ripeté Belle, e guardò Flip con gli occhioni sgranati. — Invece di scherzare, Robert — intervenne la signora Clifton — faresti meglio a dare una risposta seria alla domanda che il nostro amico Flip ti ha fatto seriamente. — Ma è semplice — replicò il ragazzo, arrossendo un po' — non abbiamo mica dei mobili pesanti! Io mi occupo della pentola. Andiamo lungo la scogliera, e arriviamo pacifici alla grotta!
E intanto si era già alzato, pronto a mettersi in cammino. — Un attimo — esclamò Flip, afferrandolo per il braccio. — Non così in fretta! Non così in fretta! E il fuoco? Robert si era completamente scordato del prezioso elemento che bisognava trasportare, vivo ed ardente, alla nuova dimora. — E voi non dite nulla, signorino Marc? — domandò il marinaio. — Secondo me — rispose Marc, dopo aver riflettuto — secondo me potremmo anche prendere un mezzo di trasporto. Visto che, prima o poi, bisognerà portare il canotto al suo nuovo porto, perché non usarlo per trasportarci, tutti noi? — Ben detto, signorino Marc! — esclamò il marinaio. — Davvero un'ottima idea, non avrei mai pensato a una cosa del genere! Prendiamo la barca, ci mettiamo dentro un bel po' di legna e uno strato di cenere per i tizzoni ardenti, e poi facciamo vela verso la nostra abitazione sul lago. — Bene, bene — esclamò Jack, felice per l'insperata occasione di farsi un giro in mare. — Che ne dite della mia proposta, signora Clifton? Anche la signora era pronta a seguirlo. Allora Flip cominciò subito i preparativi della partenza, per profittare al massimo della marea crescente che, secondo le sue osservazioni, correva da nord a sud, fra l'isola e la costa. Prima di tutto bisognava rimettere in terra il canotto, operazione non particolarmente difficile, togliendo un po' alla volta le pietre che lo reggevano. Una volta girato, poi, grandi e piccini lo spinsero tutti insieme verso il fiume, dove venne legato con una gomena a una roccia, per cominciare le operazioni di carico. E poiché il vento di nord-est era favorevole, Flip decise di armare il trinchetto, aiutato con intelligenza da Marc, in tutti i preparativi, finché la vela fu invergata, e disposta per essere issata sull'albero. A quel punto iniziarono le operazioni di carico: venne ammassata a bordo tutta la legna possibile, con metodo, disponendo sul fondo i pezzi più grossi, destinati a servire da zavorra. Poi Flip stese sul banco posteriore uno strato di sabbia, che ricoprì con uno di cenere. E su quel doppio letto Marc posò le braci e i carboni ancora infiammati. Sempre tenendo il timone, poi, Flip doveva sorvegliare il suo fuoco ambulante, alimentandolo anche, all'occorrenza, con il
combustibile di bordo. Per eccesso di precauzione, non venne spento neanche il fuoco dell'accampamento. Anzi, Robert lo ravvivò gettandovi sopra delle enormi fascine, in modo che fosse sempre possibile tornare lì a prendere qualche brace, se il fuoco del canotto si fosse spento. Marc si offrì addirittura di rimanere lì da solo, a sorvegliarlo, mentre la famiglia attraversava il canale, ma Flip non lo ritenne necessario, e poi non voleva lasciarsi indietro nessuno. Alle nove era già tutto imbarcato: il bollitore, il sacco con la carne salata e i biscotti, i prosciutti di capibara, che la signora Clifton non aveva potuto affumicare il giorno prima, le cozze e le uova. Flip diede un'ultima occhiata intorno, per vedere se si fossero dimenticati qualcosa; ma cosa avrebbe potuto dimenticare, quella povera gente, con il niente che aveva? Marc e Robert si sistemarono davanti; la signora Clifton, Jack e Belle sul piccolo ponte posteriore. Flip, invece, si sedette sull'ultimo banco, accanto al timone e ai carboni che fumavano nell'angolo opposto, vegliando su quelle braci ardenti come una vestale sul suo fuoco sacro. A un ordine del marinaio, Marc e Robert issarono la vela sull'albero, mentre Flip mollava la gomena che tratteneva l'imbarcazione a terra; poi bordò la vela, girando la scotta su un coccinello e, con l'aiuto della brezza, cominciò a risalire la corrente che entrava nel fiume. Quando arrivò alla foce, tese la scotta, e la corrente lo portò rapidamente in mezzo al canale. Il mare era calmo, con il vento che spirava da terra. La barca avanzava leggera, a grande velocità, e il panorama delle scogliere sfilava davanti agli occhi stupiti dei giovani viaggiatori. Nel cielo passavano grossi stormi di uccelli che assordavano l'aria con le loro strida; i pesci, disturbati, saltavano fuori dal loro elemento, e dal ribollire dell'acqua, qua e là, Flip riconosceva la presenza di una timida foca o di un capriccioso marsuino. Il canotto si avvicinò alla riva destra del canale, costeggiando l'isola a qualche metro di distanza: da lì si vedevano centinaia di quegli stupidi sfenischi che non si davano nemmeno la pena di fuggire. L'isola si alzava di quattro metri sopra il livello del mare, formando così un'enorme roccia piatta e arida, come una diga gettata fra la costa e l'oceano. Se si fosse potuto chiudere il canale ad un'estremità, pensò Flip, si
sarebbe trasformato quel braccio di mare senza sbocco in un porto naturale per una flottiglia di imbarcazioni. La barca filava veloce, e a bordo nessuno parlava. I ragazzi osservavano le grandi falesie strapiombanti; Flip sorvegliava il fuoco, reggendo il timone, e la signora Clifton, lo sguardo rivolto verso il largo, interrogava sempre il muto orizzonte. Non una vela in vista! L'oceano era deserto. Dopo una traversata di mezz'ora, il canotto giunse all'estremità sud della scogliera, che doppiò tenendosi al largo, per evitare gli scogli sottomarini della punta, mentre lo scontro fra la corrente che saliva nel canale, e quella che portava a terra provocava una violenta risacca. Una volta doppiata la punta, il paesaggio si offrì in tutta la sua bellezza, con il gran lago limpido, la prateria verdeggiante, i gruppi d'alberi capricciosamente sparsi qua e là come le rocce di un parco, le dune morbide, verso sud, lo sfondo delle foreste e il picco maestoso che dominava l'insieme. — Che bello! Che bello! — gridarono i ragazzi. — Sì — rispose Flip — è un delizioso giardino che la Provvidenza ha creato per noi! La signora Clifton osservava tutto con sguardo triste, benché sicuramente affascinata dall'incanto di un simile paesaggio. Mollata la scotta, Flip aveva lasciato il canotto quasi immobile: i meravigliosi spettacoli della natura parlano direttamente all'immaginazione dei bambini, offrendo anche segrete consolazioni alle anime sofferenti, e Flip voleva che il suo piccolo gruppo ne subisse l'influenza. Poi, trovata un'ansa in cui dirigere l'imbarcazione, il marinaio fece ridurre la vela a mezz'albero dai suoi giovani mozzi e, manovrando con destrezza negli angusti passaggi fra le rocce, approdò dolcemente sulla riva. Robert saltò subito a terra, seguito a ruota da Flip e dal fratello, e tutti assieme tirarono il canotto sufficientemente in alto, sulla riva, perché la corrente non potesse raggiungerlo o trascinarlo via. — Alla grotta, alla grotta! — gridava Robert. — Aspettate, mio giovane signore — lo frenò il marinaio. — Prima bisogna scaricare la barca.
Prima di tutto Flip si occupò del fuoco, trasportando i carboni accesi alla base della scogliera, dove le fiamme vennero ravvivate con l'aggiunta di qualche fascina. Poi furono sbarcate anche le provviste di combustibile, ed ogni ragazzo portò la sua parte di viveri e di utensili. Così la piccola comitiva si diresse verso la sua nuova abitazione, seguendo il versante meridionale della scogliera, che risaliva perpendicolare alla costa. Perché Flip camminava pensoso? Senza mai rallentare il passo, ripensava alle impronte sulla sabbia della grotta, che il giorno prima aveva osservato attentamente, prima di cancellarle. Ne avrebbe trovate altre? In tal caso ci sarebbe stato di che preoccuparsi davvero, perché ciò avrebbe significato che la grotta era frequentata dalle belve feroci. E allora, che avrebbe fatto? Avrebbe mai osato occupare la caverna senza armi, spodestando i suoi feroci abitanti? Flip era piuttosto inquieto ma, non avendo parlato a nessuno dei suoi timori, tenne le proprie riflessioni per sé. Quando la piccola comitiva giunse alla grotta, Robert, che camminava davanti a tutti, stava già per entrarvi, ma Flip lo fermò con la voce. Voleva esaminare il tappeto di sabbia prima che fosse calpestato. — Signorino Robert — gridò. — Non entrate! Non entrate, vi dico. Signora Clifton, vi prego, ordinategli di aspettarmi. — Robert — lo pregò la madre. — Avete sentito il nostro caro Flip? Robert si fermò. — C'è qualche pericolo? — chiese la donna. — Nessuno, signora. Ma vale sempre la pena di prendere qualche precauzione, nel caso vi si sia rifugiato qualche animale. Flip accelerò il passo, raggiungendo Robert all'ingresso della caverna, ed entrò. La sabbia era intatta. — Venite pure, signora, venite. La vostra casa è pronta ad accogliervi! La madre e i ragazzi entrarono nella loro nuova dimora. E mentre Jack si rotolava sulla sabbia, Belle reclamava i diamanti incrostati nelle pareti, ma poi si accontentò delle stelle di mica che luccicavano qua e là come punte di fuoco. La signora Clifton ringraziò Iddio: ora
lei e i suoi figlioli sarebbero stati al riparo dalle intemperie, e uno spiraglio di speranza cominciò ad aprirsi nel suo cuore. Lasciata la signora Clifton alla grotta, Flip tornò al canotto, per scaricare il combustibile con l'aiuto dei due ragazzi più grandi. Strada facendo, Marc gli domandò come mai avesse voluto entrare per primo nella grotta e, poiché a lui si poteva dire tutto, Flip gli raccontò delle impronte trovate il giorno prima, pregandolo, anche, di non farne parola con nessuno. La cosa importante, comunque, era che l'animale non fosse più tornato, così si poteva sperare che la visita, evidentemente casuale, non si sarebbe ripetuta mai più. Marc gli promise di stare zitto, ma gli chiese di non tacergli più nulla di ciò che poteva costituire un pericolo per la famiglia. Così anche il marinaio promise, aggiungendo che il signorino Marc era davvero degno di sapere tutto, e che lui, Flip, l'avrebbe trattato da allora in poi come un capofamiglia. Capofamiglia a diciassette anni! Quella parola ricordò al ragazzo tutto ciò che aveva lasciato a bordo del Vankouver, tutto ciò che aveva perduto! — Padre! Povero padre mio! — mormorò, trattenendo le lacrime. Poi si avviò, con passo deciso, verso la costa. Quando giunsero al canotto, Flip si sistemò sulle spalle un pesante carico di legna, e chiese a Marc di portare due o tre tizzoni accesi, da agitare strada facendo, per attivarne la combustione. Arrivati all'accampamento, Flip si mise subito alla ricerca di un posto, esterno alla grotta, dove sistemare il fuoco, e trovò un angolino formato da uno spigolo di roccia, che gli parve riparato dal vento. Lì posò alcune pietre piatte e, sopra, due più allungate, come gli alari di un camino, su cui mise di traverso un grosso ceppo affondato nella cenere, che Robert era andato a prendere al canotto. Ed ecco, il fuoco era pronto per ogni possibile uso domestico. Era stato un lavoro impegnativo e i ragazzi, stuzzicati dalla traversata mattutina, morivano di fame. Così Marc andò al lago a prendere una pentola d'acqua dolce, e la signora Clifton allestì in tutta fretta una specie di lesso con la carne di capibara, che rifocillò tutta la piccola colonia.
Dopo il pasto, Flip decise di dedicare il resto della giornata a completare la provvista di combustibile. La distanza fra l'accampamento e l'inizio della foresta era abbastanza grande, e stavolta non c'era nemmeno più il fiume, per portare a valle la legna. Ma, grandi e piccoli, ciascuno si mise all'opera secondo le sue forze. La legna secca era abbondante, e i boscaioli non dovevano far altro che legarla stretta in fascine. Incoraggiati e guidati da Flip, i ragazzi continuarono a trasportare il prezioso combustibile fino a sera, accatastandolo in un angolo della grotta. E Flip calcolò che la nuova riserva avrebbe potuto durare tre giorni e tre notti, a condizione di non tenere il fuoco troppo vivo. Visto l'impegno dei figlioli in un'attività così laboriosa, la signora Clifton decise di preparare una bella cena ristoratrice. Sacrificò, così, uno dei quattro prosciutti che, arrostito come un cosciotto davanti a una bella fiamma scoppiettante, venne poi divorato in un attimo fino all'osso. Allora Flip decise di dedicare qualche ora del giorno seguente alla caccia e alla pesca, per rifornire nuovamente la dispensa! Alle otto di sera, la colonia era già tutta addormentata, ad eccezione di Flip che, all'esterno, vegliava sul fuoco, sostituito da Marc, a mezzanotte. La notte era bella e fresca. E verso le dieci la luna, già rosicchiata, che si alzava da dietro la montagna, inondò l'oceano della sua dolce luce.
CAPITOLO DECIMO L'indomani, visto il tempo ideale per un'escursione, Flip decise di esplorare le rive del lago che si allargavano a sud, e domandò alla signora Clifton se l'avrebbe accompagnato volentieri, assieme ai ragazzi. — Vi ringrazio, Flip, ma dato che qualcuno deve restare di guardia accanto al fuoco, è meglio che me ne occupi io. Marc e Robert vi saranno certamente più utili di me, come cacciatori o come pescatori. Durante la vostra assenza, poi, cercherò di sistemare nel modo più accogliente possibile la nostra nuova dimora. — E pensate di rimanere da sola, all'accampamento? — Sì, Flip. — Se volete, madre — si offrì Marc — posso restare io qui con voi, finché Robert accompagna Flip. — In qualità di cane da caccia — concluse Robert. — No, figlioli — rispose la signora Clifton. — Andateci tutti e due. Devo pur abituarmi a restare sola qualche volta, no? E poi, c'è il mio grande Jack, a proteggermi! A quelle parole, Jack si piantò eroicamente sulle gambe, anche se, a dire il vero, non era affatto un ragazzino coraggioso e, quando calava la sera e cominciava a imbrunire, non osava mai avventurarsi da solo nel buio. In pieno giorno, però, anche lui era un eroe. Prima di partire, comunque, visto che la signora Clifton aveva intenzione di affumicare i tre prosciutti, Flip le preparò un marchingegno adatto allo scopo. Unendo le estremità superiori di tre paletti, come i montanti di una tenda, e fissandone in terra quelle inferiori, i prosciutti sarebbero rimasti sospesi sopra un fuoco di legna verde, assorbendone tutto il fumo. Usando i rami di qualche arbusto aromatico, poi, la carne si sarebbe impregnata di un aroma delizioso. E dato che nei dintorni arbusti del genere non mancavano, la signora Clifton decise di aggiungere un tocco di perfezione alle sue attività culinarie.
Muniti dei loro bastoni appuntiti, i tre cacciatori lasciarono l'accampamento alle otto, dopo una veloce colazione, e cominciarono a risalire la prateria fino alla riva del lago. Passando davanti ai magnifici boschetti di palme da cocco, Flip promise ai ragazzi che presto avrebbero fatto una ricca provvista di noci. Quando arrivarono al lago, invece di seguire a sinistra la riva circolare che portava alla foresta già esplorata, Flip prese a destra, scendendo verso sud. In alcuni tratti la sponda era acquitrinosa e frequentata da numerosi uccelli acquatici, fra cui alcune coppie di martin pescatori. Appollaiati sui sassi, perfettamente immobili, aspettavano al varco i pesci che passavano; ogni tanto si tuffavano in acqua con uno strido acuto, per poi riemergere con la preda nel becco. Naturalmente, Robert volle mettere alla prova la sua abilità, cercando di prenderli a sassate o a colpi di bastone, ma Flip lo fermò. Sapeva che la carne di quegli uccelli era pessima, e allora a che pro distruggere delle specie inoffensive? — Lasciamo che gli animali vivano in pace attorno a noi — disse ai ragazzi. — Popoleranno la nostra solitudine e allieteranno i nostri sguardi. E poi ricordatevi, signorino Robert, che non bisogna mai versare inutilmente il sangue di un animale. È tipico di un cattivo cacciatore. Dopo mezz'ora di cammino, Flip e i ragazzi giunsero all'estremità del lago. La riva occidentale tendeva ad allontanarsi sensibilmente dalla costa, seguendo una linea obliqua. Di lì, l'oceano non era nemmeno più visibile, nascosto allo sguardo da una successione di dune, ricoperte di canne. Nel punto in cui si trovavano, la riva meridionale correva allargandosi da sud-ovest a nord-est, assumendo la forma di un cuore, con la punta volta a sud. Le acque erano belle, limpide, un po' scure e, come indicavano gli strani cerchi concentrici che si intersecavano in superficie, sicuramente molto ricche di pesce. A sud del lago, il terreno, più accidentato, si rialzava di colpo, formando una serie di colline poco boscose. I tre esploratori si inoltrarono in quella regione sconosciuta, dove crescevano fitti dei grandi bambù, subito segnalati da Marc. — Dei bambù! — esclamò Flip. — Ah! Signorino Marc, questa si che è una scoperta preziosa.
— Ma i bambù non si mangiano — disse Robert. — Be'— replicò il marinaio — non è utile soltanto quello che si mangia! E poi sappiate che in India, io, io che vi parlo, ho mangiato dei bambù come se fossero asparagi! — Degli asparagi alti una decina di metri!? — esclamò Robert. — Ed erano buoni? — Eccellenti — rispose Flip, imperturbabile. — Solo che, a dire il vero, non erano alti dieci metri, ma dei teneri germogli. Dovete anche sapere, signorino Robert, che il midollo dei fusti più giovani, conservato sott'aceto, dà un condimento prelibato. E dai bambù, che si prestano a un'infinità di usi, si estrae anche un ottimo liquore zuccherato, che stilla tra i nodi del fusto, e che piacerebbe moltissimo alla signorina Belle. — Cos'altro si può fare, con questa preziosa pianta? — domandò Marc. — Con la corteccia, tagliata in striscioline flessibili, si fanno cesti e panieri. La corteccia, macerata e ridotta in pasta, serve anche per la fabbricazione della carta di Cina. E dai fusti, a seconda della grossezza, si ricavano canne, cannucce da pipa, condutture per l'acqua. I bambù più grandi forniscono, inoltre, ottimi materiali da costruzione, solidi, leggeri, mai attaccati dagli insetti. E per finire, ed è questo l'uso cui li destineremo noi, se ne ricavano anche dei vasi di diverse capacità. — Vasi?! E come? — domandò Robert. — Segando gli internodi dei bambù secondo la lunghezza desiderata, e tenendo come fondo la porzione di setto trasversale che forma il nodo. Si ottengono così dei vasi comodi e robusti, molto usati in Cina. — Ah, nostra madre sarà felicissima! — disse Marc. — Lei che ha solo quel povero bollitore! — Però, è inutile prenderli adesso — disse Flip. — Li raccoglieremo quando passiamo di qui, al ritorno. Ed ora, gambe in spalla! I tre esploratori ripresero il cammino attraverso le colline e, continuando a salire, scorsero in breve davanti a sé lo scintillio del mare, oltre l'irregolare linea delle dune. Dall'alto si distingueva
nettamente anche l'estremità della scogliera dove c'era la grotta, nuova dimora della famiglia. Gli sguardi dei ragazzi puntarono subito da quella parte. Ma non era possibile capire esattamente dove fosse l'accampamento, attraverso una cortina d'alberi e a una distanza di cinque miglia. — No — disse Marc. — La grotta non si vede. Però guarda, Robert: non vedi un filo sottile di fumo blu che sale sopra agli alberi? È il segno che laggiù tutto va bene! — Sì, lo vedo — esclamò Robert. — In effetti — convenne Flip — quell'esile filo è un buon segno, e finché sale in aria non abbiamo da temere nulla per coloro che abbiamo lasciato laggiù. Comunque, se siete d'accordo, io direi di non proseguire oltre l'esplorazione. Preferirei, piuttosto, andare a vedere se nelle colline a sud-est si può trovare della selvaggina. Non dimentichiamo che siamo cacciatori, oltre che esploratori, e che dobbiamo provvedere alla dispensa. Aveva ragione. Sino a quel momento la cacciagione non era stata certo abbondante. Così Flip e i suoi compagni ridiscesero verso il mare, che persero subito di vista, e si trovarono davanti delle piccole praterie nascoste fra le dune di sabbia; lì il suolo, leggermente umido, era tappezzato di erbe aromatiche che profumavano l'aria. Flip riconobbe senza difficoltà il timo, il serpillo, il basilico, la santoreggia, tutte specie odorose delle labiate. Era una garenna naturale, una conigliera cui mancavano soltanto i conigli! O, almeno, lì non si vedevano i buchi di cui è generalmente crivellato il terreno frequentato da quei roditori. Comunque, siccome non poteva ammettere che gli invitati mancassero, quando la tavola era imbandita, Flip decise di esplorare la garenna il più accuratamente possibile, battendo in lungo e in largo colline e praterie. Intanto Robert correva e saltellava come un bambino, lasciandosi scivolare sui pendii sabbiosi, a rischio di strapparsi i vestiti. L'esplorazione continuò per un'altra mezz'ora. Ma di conigli, o altri rappresentanti dei roditori, neanche l'ombra. In mancanza del regno animale, comunque, un naturalista avrebbe avuto l'occasione di studiare qualche curioso esemplare di quello vegetale. Appassionato di storia naturale e di botanica, Marc notò diverse piante che
avrebbero potuto essere utili in casa. Così raccolse varie piantine di monandro didimo, molto diffuso in America Settentrionale, con il quale si fanno infusi di sapore gradevole. Raccolse anche varie piantine di basilico, rosmarino, melissa, bettonica, e altre, dalle proprietà medicinali: le une pettorali, astringenti, febbrifughe, le altre antispasmodiche o antireumatiche. Distese del genere avrebbero fatto davvero la fortuna di un farmacista. Visto, però, che nessun membro della piccola colonia era malato o aveva intenzione di esserlo, Flip passò oltre, e la sua attenzione fu, invece, attratta da un richiamo di Robert, che lo precedeva di una cinquantina di passi. Il marinaio corse accanto al ragazzo, e capì subito che il suo intuito non l'aveva ingannato. Davanti a lui, ecco una specie di monticello sabbioso, sforacchiato come un colabrodo, con centinaia di buchi. — Delle tane! — gridò Robert. — Sì! — rispose Flip. — Ma sono abitate? — Già, questo è il problema. Problema che non tardò ad avere una soluzione perché, in quel momento, bande di animaletti molto simili ai conigli fuggirono in ogni direzione, a una velocità tale, che era impossibile pensare di seguirli: i roditori erano assolutamente imprendibili. Ma Flip era più che risoluto a non andarsene di lì senza averne catturato almeno una mezza dozzina: per rifornire la dispensa, in primo luogo, e magari anche per addomesticarli. Quando vide Marc e Robert tornare sfiniti e a mani vuote, spiegò loro che, se non si riusciva a catturarli inseguendoli, bisognava tentare di prenderli dentro la tana. Per riuscirci sarebbe bastato probabilmente qualche semplice laccio teso all'ingresso delle tane; ma, non essendoci né lacci, né materiale con cui fabbricarli, la faccenda diventava complicata. Così i tre cacciatori dovettero rassegnarsi a frugare con il bastone ogni galleria. In un'ora, riuscirono a controllarne parecchie, badando a ostruire con terra ed erba quelle che non erano occupate. Fu Marc che trovò per primo un coniglio, rannicchiato nel suo buco: dopo qualche difficoltà iniziale, un colpo di bastone risolse in fretta ogni problema.
Flip riconobbe nella vittima un coniglio molto simile ai suoi cugini europei, volgarmente chiamato "coniglio d'America", perché diffuso soprattutto nella parte settentrionale del continente americano. Il successo di Marc fu di stimolo ai concorrenti, tanto che Robert non voleva assolutamente tornare all'accampamento senza averne presi almeno due o tre; ma poiché anche in quella caccia metteva molta più vivacità che pazienza, si lasciò stupidamente sfuggire uno dopo l'altro una mezza dozzina di conigli, che aveva felicemente sorpreso nelle tane. Così, se nel giro di un'ora Flip e Marc ne avevano già catturati quattro, lui non era riuscito a prenderne neanche uno. Stufo di frugare nelle tane senza alcun risultato, Robert riprese allora la sua "caccia a cavallo", ma i roditori fuggivano senza difficoltà, schivando agilmente bastonate e sassate. E quando Flip diede il segnale della partenza, il ragazzo se ne tornò, deluso, con le pive nel sacco. Flip, invece, era felice del successo ottenuto. Non bisognava essere troppo esigenti: quattro conigli, erano già un ottimo risultato, in condizioni del genere. Ma poiché il sole indicava già mezzogiorno, e lo stomaco dei cacciatori si faceva imperiosamente sentire, il marinaio decise di far ritorno alla grotta. Con i conigli appesi all'estremità di un bastone, Marc e Flip ripresero insieme la strada del lago, scendendo le colline, mentre Robert li precedeva fischiettando, con un'aria imbarazzata. — Mi spiace che non abbia preso nulla — disse Marc. — È un po' troppo impetuoso — commentò Flip. — Ma pian piano si farà. Raggiunta la punta meridionale del lago, a mezzogiorno e mezzo, Flip e i suoi compagni piegarono a sinistra, verso la piantagione di bambù. Curiosando qua e là, Robert fece levare in volo un uccello, che si nascose veloce fra le erbe palustri. Stavolta, però, il ragazzo era deciso a riscattare ad ogni costo il suo amor proprio ferito. Così, prima che Flip avesse il tempo di fermarlo, si lanciò avventatamente all'inseguimento nella melma, colpendo l'uccello con una sassata. Ed ora l'animale si dibatteva nell'erba a qualche metro da lui, con l'ala spezzata.
Allora Robert, fermamente deciso a non lasciarsi scappare la preda, si mise a strisciare verso di lei sul terreno fangoso, malgrado le raccomandazioni di Flip, sino ad afferrarla. Ma la terra era così intrisa d'acqua, che il ragazzo cominciò ad affondare pian piano, e fu solo grazie alla sua presenza di spirito, che gli fece mettere il bastone di traverso, e grazie a qualche ciuffo d'erba, che riuscì lentamente a tirarsi fuori dalla palude. Chi ne fece le spese, furono sicuramente i vestiti, il cui originario colore scomparve sotto uno strato di melma nera. Ma Robert era trionfante e non si curò affatto dei rimproveri di Flip, né si rammaricò per il pericolo corso o per il pietoso stato dei suoi abiti, così difficilmente sostituibili. — L'ho preso! L'ho preso! — gridava, gesticolando. — Non è un buon motivo — ribatteva Flip. — E poi chissà cos'è! Almeno fosse buono da mangiare! — Se è buono?! — replicò Robert. — Voglio ben vedere che qualcuno si permetta di trovarlo cattivo! Flip si chinò ad esaminare la preda che il ragazzo gli tendeva tutto orgoglioso. Era una folaga, appartenente a quel gruppo di macrodattili a metà fra l'ordine dei trampolieri e quello dei palmipedi. Buon nuotatore, di color ardesia, con il becco corto, la placca frontale pronunciata, le dita prolungate da un cordone smerlato, e con il caratteristico bordino bianco sulle ali, la folaga aveva le dimensioni di una pernice. Flip scosse la testa, classificandola subito tra la selvaggina più spregevole, indegna di figurare in un salmi che si rispetti. Ma Robert apparteneva a quella razza di cacciatori, scherzosamente chiamati "gli imbecilli del carniere", che mangiano qualsiasi animale, purché ucciso da loro! Così difese strenuamente la natura commestibile della sua folaga e siccome una discussione in merito rischiava di essere solo una sequela di vane parole, Flip non insistette, ma continuò il suo cammino verso il bosco di bambù. Con l'aiuto del coltello ne tagliò una mezza dozzina di vario spessore; erano della specie dei Bambousa armidinaria, che da lontano somigliano a piccoli palmizi, perché dai nodi del fusto escono numerosi rametti ricchi di foglie. Terminata la raccolta, Flip e
i ragazzi si spartirono il carico di bambù e, verso le due del pomeriggio, tornarono all'accampamento per la strada più corta. La signora Clifton, Jack e Belle, venuti loro incontro per un quarto di miglio, accolsero i cacciatori con gioia, e i conigli con i dovuti onori. Come donna di casa, la signora Clifton fu, naturalmente, ben felice di apprendere l'esistenza della garenna, che avrebbe sempre potuto fornire alla sua famiglia una cacciagione sana e nutriente. Alimentato dalla signora, il fuoco era in perfetto stato, e i prosciutti di capibara si affumicavano pian piano sui vapori che salivano da un mucchio di legna verde. Flip si dedicò subito al primo dei quattro conigli: dopo averlo scuoiato, lo passò da parte a parte con un ramoscello a mo' di spiedino, quindi piantò nel terreno due forcelle, destinate a sostenerne le estremità, e infine accese sotto il futuro arrosto un bel fuoco scoppiettante. Il signorino Jack, incaricato di far girare l'apparecchio, assolse il suo compito in modo eccelso. Quando vide Robert con i vestiti imbrattati di fango, la signora Clifton si limitò a guardarlo, senza dire una parola. Ma il ragazzo capì quel muto rimprovero, e si spazzolò subito gli abiti, togliendo con cura il fango secco, ormai ridotto in polvere. Quanto alla sua folaga, non poteva certo dichiararsi vinto. E allora se la spennò, un po' sommariamente, a dire il vero, togliendo forse più carne che penne e, dopo averle strappato via mezzo gozzo e le interiora, con la scusa di pulirla per bene, la infilzò su uno spiedo, sorvegliandone lui stesso la cottura. Nel frattempo, T'arrosto di coniglio s'era cotto a puntino, e la cena venne servita sulla sabbia, davanti alla grotta. Aromatizzata dalle tante erbe della garenna, di cui la bestia si era nutrita, la carne del coniglio era davvero eccellente, e fu divorato sino all'osso. Poco ci mancò, anzi, che la stessa sorte toccasse a uno dei suoi confratelli, ma poi il pasto venne completato con una dozzina d'uova di piccione. Quanto alla povera folaga di Robert, arrostita fino ad essere mezza bruciacchiata, venne tagliata a pezzi e offerta in giro. Il primo ad accettare fu il piccolo Jack. Ma, dopo il primo assaggio, fece una smorfia davvero poco lusinghiera, affrettandosi a sputare il boccone di cui il fratello l'aveva onorato. La carne di folaga puzzava talmente di melma e acquitrino che era impossibile mandarla giù. Ma Robert
era ostinato, e aveva uno stomaco all'altezza del suo amor proprio: così divorò eroicamente tutta la bestia, che non si mostrò neanche troppo recalcitrante. Il giorno successivo, Flip e la signora Clifton si dedicarono a vari lavoretti di adattamento e di sistemazione. Il marinaio passò la giornata a ricavare vasi dagli internodi dei bambù, servendosi con grande abilità del coltello per tagliare una materia che, per la sua durezza, avrebbe richiesto l'impiego di una sega. Ma il marinaio riuscì comunque nel suo intento, offrendo alla padrona di casa una dozzina di vasi ben rifiniti. I più grandi vennero immediatamente riempiti d'acqua dolce, i più piccoli, invece, sarebbero serviti da bicchieri. La signora Clifton era felice di quella "vetreria" di legno, quanto lo sarebbe stata di un servizio di Boemia o di Venezia: — Anzi, di più — diceva — perché bicchieri così… non c'è pericolo che si rompano! Quel giorno Marc scoprì un frutto commestibile, che contribuì non poco a variare il menù quotidiano della piccola colonia. Erano dei frutti, o piuttosto dei semi, provenienti da un pino che cresceva ai margini della prateria: il pino a ombrello, che produce un seme eccellente, molto apprezzato nelle regioni temperate d'America e d'Europa. Jack e Belle accettarono senza farsi pregare di aiutare il fratello, ottenendo, come compenso, di poter sgranocchiare qualche pinolo durante la raccolta. Così la situazione della piccola colonia migliorava di giorno in giorno. E, un po' alla volta, tornava anche la speranza nel cuore di quella povera donna così duramente provata. Ma quanto tempo era trascorso da quando erano stati gettati lì, su quella terra? Probabilmente nessuno di loro, né la signora, né Flip, né i ragazzi avrebbero saputo cosa rispondere. Così quella sera Jack provocò un brusco ritorno nel passato, domandando che giorno era. — Che giorno? — ripeté Flip. — Confesso che non lo so proprio. — Come — esclamò Robert — non sappiamo da quanti giorni siamo approdati? — Io non lo so di certo! — rispose la signora Clifton. — lo non ne so più di mia madre — aggiunse Marc. — Invece, io sì che lo so! — intervenne Belle.
Tutti si girarono verso la bimba che, dopo essersi frugata nelle tasche, tirò fuori dei ciottoli che posò su una conchiglia. — Belle — domandò sua madre — cosa significano quei sassi? — Da quando siamo arrivati a terra, mi sono messa ogni giorno un sasso in tasca. Perciò basta contarli! Le parole di Belle furono accolte con un hurrà pieno di entusiasmo, e Flip l'abbracciò con foga, ringraziandola calorosamente per quel suo calendario minerale. I ciottoli erano sei. Da sei giorni, dunque, la piccola colonia aveva messo piede su quella terra. E poiché il canotto aveva lasciato il Vankouver lunedì 25 marzo, doveva essere sabato 30 marzo. — Che bello! — esclamò Jack. — Domani è domenica. — Sì — aggiunse la signora Clifton. — 31 marzo. Ed è la domenica di Pasqua, figlioli! L'indomani fu un giorno dedicato al riposo e alla preghiera. Tutti ringraziarono il cielo di averli così generosamente protetti sino a quel momento, e non dimenticarono di pregare per quel padre assente, sempre presente, però, nei loro ricordi.
CAPITOLO UNDICESIMO Nei giorni seguenti, Flip completò la sistemazione della famiglia Clifton. I problemi di sussistenza, ormai, erano più o meno risolti: quella terra poteva soddisfare tutti i bisogni della piccola colonia. Restava la questione di una dimora confortevole, ma Flip non disperava di poter risolvere anche quella. Durante la settimana, il marinaio aumentò considerevolmente le provviste di combustibile. Il fuoco era la sua più grande preoccupazione: quel fuoco che andava sorvegliato in continuazione, per evitare che si spegnesse. Un compito sfibrante: Flip, la signora Clifton e i suoi figli non potevano mai allontanarsi dalla grotta tutti assieme, e non era, quindi, possibile tentare una grande escursione all'interno. Al solo pensiero di trovare, al ritorno, il fuoco spento, Flip si sentiva rabbrividire, lui che non era certo tipo da lasciarsi turbare facilmente. No, non avrebbe mai scordato il terrore di quando si era apprestato ad accendere l'ultimo fiammifero! E così, visto che non aveva ancora trovato una sostanza vegetale in grado di sostituire l'esca, e che non sapeva ricavare il fuoco dallo sfregamento di due legnetti, come i selvaggi, era assolutamente necessario che il fuoco della grotta fosse sorvegliato giorno e notte. Per eccesso di precauzione, Flip pensò anche di accendere dei fuochi supplementari, per la notte: delle torce, fatte con un legno particolarmente resinoso, che, fissate in terra a qualche metro dalla base della scogliera, continuavano ad ardere per varie ore. Durante la seconda settimana, Flip continuò l'esplorazione dei dintorni, sempre, però, in un raggio piuttosto ristretto. Non volendo, infatti, lasciare la signora Clifton sola di notte, col rischio di un attacco da parte di qualche bestia feroce, il marinaio si costrinse a tornare ogni sera all'accampamento. Così non aveva ancora risolto una questione importante: il loro rifugio, era un continente o un'isola? Gli utensili della piccola colonia vennero perfezionati un po' alla volta ad opera dell'ingegnoso marinaio, validamente aiutato dai due
ragazzi più grandi. I vasi di bambù, adesso, non mancavano di certo, e se ne potevano costruire facilmente di tutte le grandezze. Sulla riva settentrionale del lago, poi, Marc scoprì una pianta che forniva addirittura un assortimento di bottiglie bell'e fatte. Era un albero appartenente alla specie dei baobab, molto comuni nella fascia intertropicale dei due continenti, ma piuttosto rari nei climi temperati. — Ciò farebbe pensare — osservò Marc — che questa terra è a una latitudine inferiore rispetto a quella che avevamo supposto. — Già, ipotesi che verrebbe confermata anche dalla presenza degli alberi da cocco. — Ma, Flip — domandò Marc — voi non conoscevate la posizione del Vankouver, quando quegli sciagurati ci abbandonarono sull'oceano? — No, signorino Marc. Sono cose che riguardano il capitano, non i marinai. Noi manovriamo la nave, ma non la dirigiamo. Visti i prodotti di questa terra, comunque, io la penso come voi: che si trovi, cioè, ad una latitudine relativamente bassa, tipo le Baleari nel Mediterraneo, o anche le province dell'Algeria francese. — Eppure — osservò Marc — il mese di marzo è stato freddo per una latitudine così bassa. — Eh, signorino! — continuò Flip. — Non dimenticate che ci sono degli anni in cui i ruscelli gelano anche in Africa. Nel febbraio del 1853, per esempio, ho visto il ghiaccio a Saint-Denis-du-Sig, nella provincia di Orano. Del resto sapete benissimo anche voi che a New York, posta alla stessa latitudine di Madrid o di Costantinopoli, gli inverni sono estremamente rigidi. Il clima dipende molto dalla natura della configurazione del terreno, ed è quindi possibile che qui ci siano inverni freddi, anche se ci troviamo già ad una latitudine piuttosto bassa. — È seccante non poterlo sapere — esclamò Marc. — È seccante, lo so. Però non abbiamo nessuno strumento che ci permetta di rilevare la nostra posizione, e dobbiamo accontentarci solo di ipotesi. In ogni caso, abbiano o no diritto di crescere in questa regione, i baobab ci sono, e sta a noi approfittarne.
Sempre continuando a chiacchierare, Marc e Flip erano tornati alla scogliera, portando con sé una dozzina di zucche, simili a grosse borracce che potevano benissimo sostituire le bottiglie e che Flip mise in un angolo della grotta, non essendoci ancora né armadi, né tavolini, e nemmeno pareti divisorie che la separassero in stanze. C'era, però, un certo qual ordine, che rivelava lo spirito metodico della signora Clifton. Tanto che si sarebbero potute tracciare sulla sabbia le linee immaginarie che delimitavano qui, la sala da pranzo; lì, la stanza da letto; in un angolo l'ufficio, in un altro la cucina. E c'era soprattutto, e ovunque, un'estrema pulizia. La signora Clifton si dedicava febbrilmente all'organizzazione della piccola colonia, sforzandosi di non far trasparire il dolore che non la lasciava un attimo. Tutto quel che faceva non era per sé, ma per i suoi cari figlioli. E per loro riusciva a farsi forte. Non dimenticava, ma riusciva a controllarsi. Guardandola, Flip si rendeva conto di quanto dovesse costarle resistere alla disperazione. Era l'unico ad intuire la sua sofferenza. Ma forse anche Marc capiva, perché ogni tanto afferrava la mano di sua madre e la baciava, sussurrandole piano: — Coraggio, madre, coraggio! E la signora Clifton, stringendosi al petto il figlio amatissimo, ritratto vivente di suo padre, di cui riproduceva già, nei tratti, l'intelligente bontà, la signora Clifton lo copriva di baci appassionati! Quella settimana, Flip riuscì a fabbricare alla meglio, e con enorme gioia dei ragazzi, alcuni attrezzi da pesca! In uno dei suoi giri esplorativi, aveva scoperto una specie di acacia, appartenente alla grande famiglia delle leguminose, le cui spine acuminate potevano fungere benissimo da amo. Dopo averle passate sul fuoco per incurvarle, Flip le fissò ad un filo di noce di cocco, vi infilzò per esca qualche pezzetto di carne, e si diresse al lago, seguito da tutta la famiglia. Il marinaio contava parecchio su quelle lenze rudimentali, e c'è da dire che la sua fiducia non venne affatto tradita. Poiché le acque del lago erano molto pescose, i pesci abboccarono con gran facilità e, anche se la maggior parte riuscì a liberarsi dall'amo, qualcuno si lasciò attirare fino a terra. Come premio alla sua pazienza, Marc
prese così un pesce molto simile alla trota, con i fianchi argentati cosparsi di macchioline giallastre, e una carne scura, poco invitante, che venne però dichiarata squisita, una volta ben cotta sulla brace. Nei giorni seguenti, furono pescati molti altri pesci della medesima specie, perché, essendo estremamente voraci, si gettavano sull'amo senza alcun ritegno. E, per la gioia dei golosi della colonia, abboccarono anche parecchi eperlani. L'alimentazione dei naufraghi era dunque costituita dalla carne (capibara e conigli di garenna), dal pesce (trote ed eperlani), da uova di piccione selvatico, molluschi, granchi e litodomi, e dalla frutta: i pinoli del pino a ombrello. Una dieta sana e nutriente. Mancavano le verdure ma, soprattutto, si sentiva la mancanza del pane. E così, a ogni pasto, la piccola Belle reclamava il suo tozzo quotidiano. — Il fornaio non è ancora passato — rispondeva invariabilmente Flip. — Quel disgraziato è in ritardo, mia bellissima signorina, e vi prometto che lo cambieremo, se continua a servirci così! — Be'— diceva Jack — si può benissimo fare a meno del pane! Tanto non è buono! — Eppure ne dovrete mangiare! — rispondeva Flip. — E quando? — Quando ne avremo! Allora la signora Clifton si girava a guardare il marinaio, sempre fiducioso, e che non disperava di poter fabbricare, un giorno, del pane, o, come diceva lui, "qualcosa di simile"! La settimana trascorse così, e arrivò la domenica 7 aprile, giorno di Pasqua, che fu osservata religiosamente. Prima di cena, tutta la famiglia fece una passeggiata sino al primo accampamento sulla riva del fiume, in alto sulla falesia. Di lì, la vista si perdeva lontano sul Pacifico, immensa distesa deserta, che la signora Clifton divorava con lo sguardo, aggrappandosi ad ogni sia pur esile speranza! E Flip la incoraggiava. Secondo lui, i rivoltosi del Vankouver non avevano alcun interesse a volere la morte del signor Clifton, perciò o l'avrebbero fatto sbarcare su una costa vicina, oppure sarebbe riuscito a fuggire dalla nave. In ogni caso, il suo primo pensiero sarebbe stato quello di cercare la terra su cui erano stati gettati sua moglie e i suoi figlioli. Per quanto vaghi fossero, i dati in suo possesso sarebbero
comunque bastati a metterlo sulla strada giusta. E poi, un uomo intelligente e audace come lui, spinto dal suo grande amore di sposo e di padre, avrebbe sicuramente trovato quella terra, rifugio dei suoi cari, avesse anche dovuto consacrarci tutta la vita, e frugare, isola per isola, tutto l'immenso oceano Pacifico. Ai ragionamenti di Flip, la signora Clifton non rispondeva nulla. Anche ammettendo che il marinaio avesse ragione, quante erano le difficoltà da superare? Quanti i rischi da correre? E, in ogni caso, quanto tempo avrebbero dovuto passare, lei e i ragazzi, lontano dal padre, su quella terra sconosciuta?! Del resto, obiettava la signora, se i rivoltosi del Vankouver non volevano la vita dell'ingegnere, perché, allora, l'avevano separato dalla moglie e dai figli? Perché non l'avevano caricato con loro sul canotto che li doveva portare a terra? Di fronte alle domande della signora Clifton, Flip cercava invano qualcosa da dire. Ma balbettava, senza riuscire a trovare nulla. Durante la settimana iniziata lunedì 8 aprile, le riserve alimentari vennero ulteriormente aumentate, tanto da far sperare che mai la fame avrebbe visitato la piccola colonia. Sempre continuando a lavorare, Flip istruiva i ragazzi in modo pratico, cercando di renderli abili e ingegnosi come lui. In attesa di trovare il legno adatto per costruire archi e frecce, come aveva promesso, insegnò ai ragazzi a cacciare gli uccelli, con piccole trappole rette da quattro bastoncini disposti a forma di 4, oppure costruendo dei lacci con le fibre delle noci di cocco. Lacci di quel tipo, ad esempio, furono impiegati con successo anche con i conigli della garenna, i quali finivano spesso vittime dei nodi scorsoi che li attendevano all'uscita delle tane. Su consiglio della signora Clifton, poi, Flip avrebbe anche dovuto tentare di addomesticare un certo numero di roditori e gallinacei; ma, prima di tutto, bisognava riuscire a predisporre una sorta di pollaio, e sino a quel momento non ce n'era stato il tempo. Mentre preparava le trappole e i lacci, Flip insegnava ai ragazzi, a servirsi di richiami per attirarvi gli uccelli, imitando di volta in volta il grido del maschio o della femmina, soffiando in una foglia accartocciata intorno alla bocca, oppure a fischiare riproducendo il canto degli uccelli, o ad imitare il frullio d'ali delle varie specie. I
ragazzi, e in particolare Robert, divennero presto molto abili in questo esercizio. Jack, poi, con quelle guanciotte gonfie, sembrava un angelo grassoccio. E i volatili, attirati a quel modo finivano spesso in trappola. Fra un lavoro e l'altro, Flip si preoccupava sempre del suo fuoco, ancora privo di un riparo che lo proteggesse dalla pioggia e dal vento. Aveva anche pensato di portarlo nella grotta, ma il fumo l'avrebbe presto resa inabitabile. Quanto a fissare un tubo per far sfiatare il fumo all'esterno, era un problema serio: come poteva scavare un buco nella parete di granito, senza un piccone o una zappa? Avesse almeno trovato qualche crepa da sfruttare, ma la scogliera era un'unica massa compatta, che un coltello non riusciva nemmeno a intaccare. In condizioni del genere, doveva rinunciare all'idea di un caminetto dentro alla grotta, limitandosi al falò esterno. Però non disperava di riuscire, un giorno, a mettere in pratica il suo progetto, insieme ad altri due o tre che gli maturavano nel cervello, e di cui parlava spesso con Marc. Fu all'inizio della terza settimana, lunedì 15 aprile, che Flip, Marc e Robert fecero un'altra importante escursione nella foresta, per esplorare la riva destra del fiume e i boschi che ne ammantavano i pendii. Senza un ponte o un canotto, però, non era facile attraversare il corso d'acqua nel punto del lago in cui nasceva. E allora, per poter raggiungere la riva destra del fiume, decisero di girare intorno al lago a ovest, sud ed est. Era una camminata di una quindicina di chilometri, ma per le giovani gambe di Marc e di Robert non era certo un problema. Solo una questione di tempo. Così, i tre escursionisti partirono al mattino prestissimo, portando con sé le provviste per tutta la giornata: contavano di tornare soltanto al calar delle tenebre. Un'assenza prolungata, cui la signora Clifton aveva acconsentito con una certa apprensione. Alle sei del mattino, Flip e i due ragazzi erano ai margini della foresta, sulla riva orientale del lago. In quel punto il terreno era molto accidentato; gli alberi si intrecciavano tra loro formando una cupola verde, impenetrabile ai raggi del sole, e i rami nascondevano un'ombra sempre umida. Erano ancora ginepri, larici, abeti, e pini marittimi, della famiglia delle conifere.
Quando entrarono nel sottobosco, la marcia fu rallentata dall'inestricabile groviglio di rovi e liane, che dovevano continuamente fermarsi a tagliare. Gli uccelli volavano impauriti nell'ombra, al loro passaggio, e qualche quadrupede, disturbato nella sua tana, fuggiva nel folto dell'erba. Impossibile riconoscerli ed ancor più raggiungerli, con grande disappunto di Robert. Dopo un'altra mezz'ora di cammino Marc, che precedeva gli altri, si arrestò di colpo, con un'esclamazione di sorpresa. — Che c'è, signorino Marc? — domandò Flip, correndogli accanto. — Il fiume! — Già?— esclamò il marinaio, sorpreso. — Guardate! In effetti, c'era un fiume che snodava tranquillo le sue acque scure e profonde, largo al massimo una ventina di metri. Gli enormi alberi che si stendevano da una sponda all'altra gli facevano una culla gigantesca, e le due rive, molto accidentate, scomparivano nel fitto della boscaglia. Così incassato, il fiume risaliva sinuoso in una gola stretta e dirupata. Era un posto selvaggio e molto pittoresco. In alcuni punti, gli alberi abbattuti formavano delle radure, e il sole che entrava a fiotti sotto le fronde sembrava far divampare la foresta. L'aria era pervasa dal buono e sano profumo dei boschi, esaltato dall'aroma balsamico delle conifere. Lì si sviluppava una vegetazione rigogliosa, quasi tropicale, con le liane che s'intrecciavano agli alberi soffocati dall'eccessivo fogliame, e folti ciuffi d'erba, pericolosi nidi di rettili. Flip e i due ragazzi guardavano stupiti l'intrico della foresta intorno a loro. Ma un pensiero tormentava il marinaio: come potevano essere sulla riva del fiume che, secondo i suoi calcoli, avrebbero dovuto raggiungere solo un'ora più tardi? Era un mistero che neanche Marc e Robert riuscivano a spiegarsi. — Probabilmente non è il fiume che avevamo già esplorato — osservò Marc. — È evidente! — esclamò Flip. — Infatti non riconosco né il colore dell'acqua, né la velocità della corrente. Questa è scura e scorre con la violenza di una rapida.
— Avete ragione, Flip — rispose Marc. — Del resto, basta provare a scenderne il corso, e vedremo che non ci porta al mare. — Però deve pur gettarsi da qualche parte — esclamò Robert. — Infatti — rispose Marc. — Ma perché non potrebbe essere un affluente di quello che abbiamo già esplorato? — Su, camminiamo, e lo sapremo — li esortò Flip. I tre si rimisero in marcia e, dopo un centinaio di passi, si ritrovarono, con grande sorpresa, sulla riva occidentale del lago. — Avevate ragione, signorino Marc — esclamò il marinaio. — Il fiume si getta nel lago, anziché uscirne. E, perciò, il lago non è un bacino dì sfogo, come avevamo pensato sinora. In realtà i due fiumi sono un unico corso d'acqua, che attraversa il lago e va gettarsi nel mare un po' sotto il nostro primo accampamento. — Già — disse Marc. — In natura si trovano spesso fiumi che proseguono il loro corso dopo aver attraversato vaste distese d'acqua. — Sì — esclamò Robert — e il posto dove il fiume esce dal lago, e dove il mio capibara è scomparso sott'acqua è laggiù, un po' sulla nostra destra, a meno di due miglia da qui! Lo vedo chiaramente, e se avessimo una zattera per passare sulla riva destra, non ci vorrebbe neanche un'ora di marcia, per tornare all' accampamento. — Forse hai ragione — rispose Marc. — Solo che ti dimentichi di una cosa. — E quale, Marc? — Che dopo aver passato il fiume nella parte alta del corso, bisogna ripassarlo una volta uscito dal lago. — Giusta riflessione — osservò Flip. — Allora — aggiunse Robert — visto che dovremo tornare per un sentiero che conosciamo già, e che c'è un sacco di strada, tanto vale fermarsi a mangiare! La proposta venne accettata con entusiasmo, e i tre esploratori si sedettero sulla riva, all'ombra di un magnifico gruppo di acacie. Flip tirò fuori dal sacco qualche pezzo di carne fredda, delle uova sode e una manciata di pinoli. Da parte sua, il lago forniva in abbondanza acqua fresca e limpida e, grazie a un robusto appetito, il pasto fu divorato in un attimo.
Allora Flip e i ragazzi si alzarono ed abbracciarono in un ultimo sguardo il paesaggio all'intorno, e il lago che si allungava per intero davanti a loro. A quattro chilometri circa, un po' sulla destra, si ergeva la scogliera ai piedi della quale doveva essere la signora Clifton. Ma da quella distanza non si riusciva a distinguere la grotta, né a riconoscere il fumo del falò. Oltre il corso d'acqua, la riva del lago si arrotondava in una cornice verde e dietro si succedevano file di colline boscose, dominate dal picco ammantato di neve. Quella poetica visione, con la grande distesa d'acqua così tranquilla, il soffio della foresta che l'increspava a tratti, il fruscio della brezza tra le fronde, il profilo delle dune di sabbia che si allungavano dalla garenna sino al mare, e l'oceano che scintillava al sole, quella natura che si offriva ai loro sguardi colpì intensamente l'immaginazione dei due ragazzi. — Bisogna proprio che portiamo nostra madre ad ammirare questo magnifico spettacolo — esclamò Marc. — Sì! — aggiunse Robert. — E potremmo venire anche con Jack e Belle, se avessimo una barca sul lago. — E perché non arrivare fin qui in canotto? — continuò Marc. — Magari risalendo il fiume? — Che bella idea! — gridò Robert. — Così possiamo continuare l'esplorazione della parte alta del corso. Oh, Flip, sarebbe un giro bellissimo! — Ogni cosa a suo tempo! — rispose il marinaio, felice di vedere Marc e Robert così entusiasti. — Un po'di pazienza, signorini. Per il momento, visto che abbiamo la strada sbarrata da due corsi d'acqua, vi proporrei di tornare all'accampamento. Era senz'altro la miglior decisione da prendere. Bastone alla mano, i tre esploratori seguirono, lungo la riva del lago, un sentiero più facile dei passaggi appena praticabili nella foresta, sperando di poter riprendere, al ritorno, anche il loro ruolo di cacciatori. Ma probabilmente sarebbero tornati a mani vuote, se non fosse stato per il colpo fortunato di Marc, che catturò un piccolo riccio semiaddormentato nella sua tana. La testa più lunga e la coda più corta dei suoi congeneri europei, da cui si distingueva anche per le
lunghe orecchie, il riccio apparteneva a una specie di carnivori insettivori che s'incontra comunemente in Asia. Era, insomma, una preda piuttosto mediocre, ma pur sempre una preda, e come tale fu appeso al bastone di Marc. Del resto i suoi aculei, molto duri e aguzzi, potevano essere usati in vari modi, soprattutto per armare le punte delle frecce. Il bisogno di armi difensive si era fatto così pressante, che Flip esortò i suoi giovani amici a non disprezzare nemmeno il modesto riccio. Gli esploratori tornarono alla grotta verso le tre del pomeriggio, contenti di aver affrettato il passo, perché il cielo, coperto di nuvole, lasciava già cadere qualche goccia di pioggia, e il vento cominciava ad alzarsi, minacciando un tempaccio. Neanche la signora Clifton fu dispiaciuta del ritorno di Flip e dei ragazzi. Durante la loro assenza non aveva ricevuto nessuna visita sgradita, però aveva sentito delle grida non lontane, dalle parti della falesia. Che significassero la presenza di qualche belva nelle vicinanze della grotta? Dal racconto della signora Clifton, a Flip parve di capire che doveva piuttosto trattarsi delle strida delle scimmie, ma decise comunque di stare all'erta. Già varie volte aveva pensato di proteggere l'ingresso della grotta con una grossa palizzata, ma come avrebbe potuto abbattere gli alberi, e tagliarli in assi e travette servendosi solo del suo coltello? Nella settimana dal 16 al 21 aprile non fu possibile tentare nessuna escursione, perché la pioggia cadde ininterrottamente, con qualche rara schiarita. Per fortuna il vento soffiava da nordovest, investendo la scogliera alle spalle, così che la grotta non si trovò esposta alle raffiche dirette. Quali sofferenze e disagi avrebbe dovuto affrontare la povera famiglia, sotto l'insufficiente riparo del primo accampamento? E a cosa sarebbe servito il canotto rovesciato, contro quella pioggia violenta che l'avrebbe sferzato in pieno? Quella grotta solida e impenetrabile, invece, era inaccessibile al vento e alla pioggia, e i canaletti scavati da Flip impedirono qualsiasi infiltrazione d'acqua nello strato di sabbia. L'unica vera difficoltà fu il mantenimento del fuoco all'esterno. Gli scrosci di pioggia erano così violenti che perfino le torce resinose rischiavano di spegnersi, e i turbini d'aria che vortica-vano sulle
pareti della scogliera minacciavano di disperdere le braci. Flip vegliava sul fuoco senza sosta, adottando tutte le precauzioni suggeritegli dal suo spirito ingegnoso. Ma era molto preoccupato. Non appena c'era una schiarita, ne approfittava per correre alla foresta con i due ragazzi più grandi, a rinnovare la provvista di legna; così la riserva non venne intaccata, malgrado l'alto consumo di combustibile. Chi risenti molto delle intemperie atmosferiche fu la cucina della signora Clifton: la pentola, infatti, finì più volte per terra con tutto il suo contenuto, finché la cuoca dovette arrendersi e preparare i pasti nella grotta. Per evitare il fumo, comunque, dovette limitarsi all'uso delle braci, su cui grigliare il pesce o la carne, mentre la piccola Belle l'aiutava con intelligenza, meritandosi invariabilmente i complimenti di papà Flip. Papà Flip, nel frattempo, non se ne stava mai inoperoso, e aveva costruito qualche metro di corda, usando le fibre della noce di cocco. Un materiale che, se lavorato con gli attrezzi adatti dalle mani di un cordaio, poteva fornire davvero ottimi cordami. Pur conoscendo, come tutti i marinai, qualche trucco del mestiere, Flip non disponeva, però, dell'attrezzatura necessaria, e dovette ingegnarsi con un piccolo argano rudimentale di sua invenzione, per dare alle fibre una torsione sufficiente. Scartata la primitiva idea di usare le corde più fini per gli archi, perché troppo elastiche, Flip pensò di ricorrere a budelli opportunamente trattati, e rimandò la fabbricazione delle armi a quando avrebbe potuto procurarsene. Intanto pensò a sistemare le mensole lungo le pareti della caverna, fissando su paletti piantati nella sabbia le assi del ponte del canotto, non indispensabili per la navigazione. E poi fece troneggiare, in mezzo alla grotta, anche un tavolo. Erano pochi mobili rudimentali, che vennero, però, molto apprezzati dalla padrona di casa; e, per la prima volta, un giovedì, la famiglia poté finalmente "mettersi a tavola"! Intanto il maltempo imperversava: mentre acquazzoni e rovesci si succedevano senza tregua, Flip si chiedeva se, a quella latitudine, la stagione delle piogge iniziasse allora, e se fosse destinata a durare per settimane. Caccia e pesca, in tal caso, ne avrebbero risentito parecchio, e si sarebbe dovuto decidere cosa fare.
La bufera di vento e pioggia raddoppiò di violenza nella notte fra il 21 e il 22 aprile, ma Flip aveva preso tutte le precauzioni possibili a protezione del fuoco, ed era sicuro di non aver nulla da temere, finché il vento fosse spirato da nord-ovest. L'unico pericolo erano i vortici. In genere, Flip faceva i turni di notte, vegliando accanto al fuoco mentre la signora Clifton e i figlioli dormivano nella grotta. Da qualche tempo, però, Marc aveva ottenuto di dividere quel compito con lui: non potendo resistere a un'assoluta mancanza di sonno, il marinaio aveva dovuto cedere, suo malgrado, alle insistenze del ragazzo. E adesso Flip e Marc si alternavano accanto al fuoco ogni quattro ore. In quella terribile notte fra il 21 e il 22 aprile, quando Flip aveva ceduto il turno a Marc, andando a sdraiarsi sul suo giaciglio di muschio, il fuoco ardeva vivace, ben rifornito di combustibile, e accanto all'ingresso della grotta c'era ammucchiata legna in abbondanza. Accovacciato dietro uno spigolo di roccia, Marc si riparava meglio che poteva contro la pioggia che cadeva a torrenti. Mare e vento continuarono a mescolare i loro spaventosi muggiti per più di un'ora, ma la situazione atmosferica non peggiorò. Verso l'una e mezzo del mattino, invece, il vento girò all'improvviso da nord-ovest a sud-ovest: fu come una tromba d'aria e d'acqua che si abbatteva sulla scogliera, sollevando una colonna di sabbia. Accecato, Marc venne sbattuto a terra, ma si rialzò subito e si precipitò verso il fuoco… Non era rimasto nulla. L'uragano aveva portato via le pietre, disperso i tizzoni. E le torce volteggiavano tra le raffiche di vento come tanti fuochi fatui, mentre i carboni incandescenti rotolavano sulla sabbia, gettando i loro ultimi bagliori. Il povero Marc era disperato. — Flip! Flip! Svegliatosi di soprassalto, il marinaio accorse alle sue grida. E capì tutto! Per un po', Flip e il ragazzo cercarono di recuperare qualche tizzone strappato dalla tormenta, ma infine dovettero rinunciarvi, accecati dalla pioggia e storditi dalle raffiche di vento. E tornarono indietro disperati, per rannicchiarsi ai piedi della scogliera, nel buio più profondo.
CAPITOLO DODICESIMO Era bastato un colpo di vento per compromettere il futuro di quella sventurata famiglia, e la situazione era precipitata. Che ne sarebbe stato della piccola colonia, senza il fuoco? Come preparare il cibo necessario alla sussistenza? Come resistere ai rigidi freddi invernali? E anche, come proteggersi di notte contro gli attacchi delle belve feroci? A tutto questo pensava il povero Flip e, malgrado la sua grande forza morale, si sentiva annichilito. Se ne stava lì, immobile, muto, con i vestiti imbrattati di melma e fradici di pioggia, lo sguardo vuoto che si perdeva nel buio. Quanto al povero Marc, la sua disperazione era indescrivibile. — Perdonatemi! Perdonatemi! — supplicava piangendo, mentre Flip gli stringeva le mani tra le sue, senza trovare una parola di conforto. — Oh, madre! La mia povera madre! — ripeteva il ragazzo. — Non svegliamola, signorino Marc — disse il marinaio.— Dorme! E dormono anche i suoi figlioli. Stiamo attenti a non svegliarli! Domani cercheremo di porre rimedio a questa sventura. — È irreparabile! — mormorò Marc, il petto gonfio di sospiri. — No… — cercava di ribattere Flip — … no… forse… vedremo! Ma non riusciva a trovare le parole per esprimere cose alle quali non credeva! E quando cercò di convincere Marc a rientrare nella grotta, al riparo dalla pioggia che cadeva a fiotti, il ragazzo resistette, ripetendo: — È colpa mia! È tutta colpa mia! — No! — rispondeva Flip — no, signorino! Non è affatto colpa vostra. Se io fossi stato al vostro posto, mi sarebbe successa la stessa cosa! Nessuno avrebbe potuto resistere a una tromba d'aria così violenta! Siete stato gettato a terra, come lo sarei stato io. E neanch'io, come voi, sarei riuscito a salvare una sola scintilla di quel fuoco! Non lasciatevi abbattere così, signorino Marc! Su, rientriamo! Rientriamo!
Infine il ragazzo dovette cedere alle insistenze del marinaio, e andò a buttarsi sul suo giaciglio di muschio, seguito da Flip. Ma, annichilito e disperato nel profondo del cuore, quest'ultimo non riuscì a trovare un attimo di quiete, e per tutta la notte sentì il povero ragazzo singhiozzare al suo fianco. Verso le cinque, quando la prima luce del mattino filtrò lieve nella grotta, Flip si alzò ed uscì. La tromba aveva lasciato ovunque i segni del suo passaggio: ammucchiata dal vento, la sabbia formava qua e là delle vere e proprie dune; più oltre, qualche albero era stato abbattuto, qualcuno completamente sradicato, altri spezzati alla base, e il terreno era tutto cosparso di carboni. Di fronte a quella scena apocalittica, Flip non riuscì a trattenere un gesto di rabbia e di disperazione. Lo vide la signora Clifton, che usciva proprio allora dalla grotta, e gli si fece incontro, osservando i suoi tratti sconvolti, che Flip cercava invano di nascondere. — Cosa c'è, Flip? — domandò. — Niente, signora, niente! — Ditemi, Flip. Voglio sapere tutto. — Ma, signora Clifton… — continuò Flip, esitando. — Flip — riprese la signora con voce dolente — quale altra grande sventura potrebbe colpirci, dopo tutte quelle che ci sono già capitate sinora? — Una, signora, una sola! — rispose il marinaio, abbassando la voce. — Quale? — Guardate! Così dicendo, Flip la condusse ai resti del falò distrutto. — Il fuoco! Il fuoco si è spento! — mormorò la povera donna. — Sì! — rispose Flip. — Una tromba d'aria… nella notte! La signora lo guardava, giungendo le mani. — E non avete potuto farci nulla? — chiese. — No… signora — continuò Flip, evasivo. — Un'imperizia da parte mia… mancanza di sorveglianza… un attimo di disattenzione! Udendo la risposta di Flip, Marc, che era uscito in silenzio dalla grotta, si precipitò da sua madre, gridando:
— Non è colpa sua, madre! Sono stato io! Sono stato io! La povera donna lo accolse a braccia spalancate, coprendolo di baci, ma Marc era disperato. — Non piangere, figliolo, non piangere! — lo supplicava la madre. — Mi spezzi il cuore. Ora anche gli altri figli si erano stretti intorno a loro. Robert, commosso, non lesinava al fratello carezze e buone parole, mentre Jack e Belle lo abbracciavano. Era una scena toccante, che faceva venire le lacrime agli occhi. — Su, su! — li esortò Flip. — Un po' di coraggio, ragazzi. In questa storia non c'è nessuno che meriti dei rimproveri! Non c'è più il fuoco?! Be', se non riusciamo a procurarcene dell'altro, cercheremo di farne senza! — Sì, rassegnamoci! — mormorò la signora Clifton. Ma Flip non era certo tipo da rassegnarsi. Quel fuoco che non c'era più, voleva rifarlo a tutti i costi, e tentò di riaccenderlo più volte, in vari modi, per tutta la giornata. Ricavare scintille da una selce non era certo un problema: sulla spiaggia ce n'era in abbondanza, e il coltello di Flip poteva trasformarsi facilmente in un accendino, ma poi ci voleva la sostanza adatta a riceverle. L'ideale è senz'altro la miccia, una specie di polpa spugnosa e vellutata di cui sono composti alcuni funghi del genere poliporo; una sostanza estremamente infiammabile, soprattutto se sia stata precedentemente saturata di polvere pirica o bollita in una soluzione di nitrato o clorato di potassio. Forse funghi del genere crescevano anche lì in zona, oppure ce n'erano altri della stessa famiglia, in grado di fornire un'esca adatta. Bisognava cercare. Si dovette rinunciare, invece, alla possibilità di accendere il muschio secco con le scintille, perché il muschio non si infiammava! Dopo vari, inutili tentativi, il marinaio ricorse, allora, ai sistemi adottati dai selvaggi, dell'accensione per sfregamento di due legnetti, oppure introducendo l'estremità di uno nel foro praticato nell'altro, facendolo poi ruotare rapidamente. Ma erano metodi che richiedevano una notevole abilità, e un legno particolare, che Flip non conosceva. Il marinaio, comunque, li tentò entrambi più volte, imitato anche da Marc, Robert e Jack, che non ottennero alcun
risultato, se non quello di scorticarsi le mani, mentre il legno veniva appena riscaldato dallo sfregamento. Dopo aver rinunciato a quel sistema, Flip non ebbe che una sola speranza, e un'unica idea: trovare il fungo poliporo, o qualche altro vegetale della stessa specie, la cui polpa potesse sostituire la miccia. Erano già trascorsi quattro giorni dalla notte dell'incidente, e la fiducia, che aveva cominciato pian piano a radicarsi nel cuore dei poveri derelitti, era ormai definitivamente scomparsa. Non c'era più una gran comunicazione tra Flip e i ragazzi! Non si facevano più progetti per l'avvenire, né piani che l'ingegnoso marinaio si riproponesse di realizzare. Nella piccola colonia era calato il silenzio, un silenzio greve. Naturalmente, anche la vita materiale risentiva di questo stato di cose. Si viveva delle riserve di carne o di pesce affumicato, che però diminuivano sensibilmente. D'altronde, che senso aveva rinnovarle? Perché cacciare e pescare, se poi i prodotti della caccia e della pesca non potevano essere utilizzati, perché non c'era il fuoco? Così vennero quasi del tutto sospesi anche i giri di esplorazione, e Flip si limitò a rifare, giorno per giorno, le provviste di vegetali che servivano per l'alimentazione quotidiana. Fra tutti, i più preziosi dal punto di vista commestibile erano senz'altro i frutti della palma da cocco, che, raccolti in abbondanza, formavano gran parte dell'alimentazione quotidiana della famiglia. Le noci non del tutto mature contenevano un latte di ottima qualità, che i bambini bevevano avidamente, dopo aver forato una delle tre aperture. Se poi restava chiuso per un po' in una zucca o in un vaso di bambù, il liquido si caricava di acido carbonico, formando un liquore spumeggiante dal gusto piacevolissimo, ma anche molto inebriante. Cosa di cui, un giorno, si accorse Robert, a sue spese. Quando invece la noce di cocco era completamente matura, il latte, indurito e trasformato, forniva una polpa sana e nutriente. Così le palme, che crescevano numerose nei dintorni della grotta, potevano bastare, con i loro frutti, all'alimentazione ordinaria della famiglia, privata di cibo animale. La raccolta delle noci di cocco era facile: Marc e Robert salivano speditamente in cima alle piante, grazie alle corde fabbricate da Flip. E di lì scagliavano a terra i frutti,
che non sempre si rompevano, tanto il guscio era duro; nel qual caso bisognava schiacciarle con una pietra, con grande rammarico di Flip che, se solo avesse avuto una sega, avrebbe ricavato dai gusci vari utensili da cucina. Un altro vegetale, scoperto dal marinaio, venne ben presto introdotto nella dieta della piccola colonia. Era un'alga marina, della famiglia delle fucacee, molto usata sulle coste asiatiche, e che anche Flip ricordava d'avere già mangiato. Una specie di sargasso, che cresceva in abbondanza tra gli scogli all'estremità della falesia. Facendola seccare, se ne ricavava una sostanza gelatinosa ricca di elementi nutritivi, e con un gusto un po' particolare, al quale, però, ci si abituava in fretta. In un primo momento i più piccoli storsero la bocca, ma poi finirono per trovarla eccellente, e ne mangiarono in abbondanza. A variare un po' il cibo di ogni giorno, contribuivano poi le cozze e qualche altro frutto di mare che, mangiati crudi, fornivano l'apporto di azoto indispensabile all'organismo. In quel periodo, inoltre, Marc scoprì, per caso, lungo la costa meridionale, a quattro chilometri circa dalla grotta, un banco di utilissimi molluschi. — Flip — disse un giorno all'amico marinaio, presentandogli una conchiglia della famiglia degli ostracidi. — Un'ostrica! — esclamò Flip. — Sì, e se è vero che ogni ostrica produce dalle cinquanta alle sessantamila uova all'anno, avremo una riserva inesauribile. — Proprio così, signorino Marc; avete fatto una scoperta utilissima. Domani andremo a ispezionare il banco. Le ostriche hanno per noi una qualità fondamentale: che non richiedono cottura; però non so se siano molto nutrienti. — No — rispose Marc — perché contengono solo una piccolissima quantità di materia azotata; se uno si nutrisse esclusivamente di ostriche dovrebbe mangiarne dalle quindici alle sedici dozzine al giorno. — Be', se il banco è inesauribile, possiamo mangiarne sempre a dozzine! Sono molluschi di facile assimilazione, e non credo si possa citare un solo caso d'indigestione provocata da ostriche! — Be', vado a dare la buona notizia a mia madre.
— Aspettate, signorino Marc — lo trattenne Flip. — Prima andiamo a vederlo, questo banco di ostriche, così saremo più sicuri della faccenda. Il giorno seguente, 26 aprile, Marc e Flip seguirono la costa occidentale, scendendo a sud attraverso le file di dune. A tre miglia dall'accampamento, la costa diventava rocciosa, con enormi blocchi accatastati gli uni sugli altri in modo pittoresco. Come si vede spesso sulle coste armoricane, tra le rocce si formavano dei "camini" bui e profondi, in cui l'alta marea si riversava con un rombo di tuono. Le file di scogli che si profilavano al largo, rendendo quel tratto di costa inabbordabile anche alle piccole imbarcazioni, spumeggiavano sotto la risacca, e la linea dei frangenti si prolungava così fino all'estremità del promontorio sud-ovest. Dietro alle rocce ammonticchiate sulla spiaggia, e un po' più in alto, si aprivano vaste pianure, vere e proprie brughiere ricoperte di erica e ginestre, il cui aspetto selvaggio contrastava in modo singolare con la regione delle scogliere, su cui regnava una vegetazione perenne. Là, invece, la cortina di alberi si arrestava sullo sfondo, a varie miglia dalla costa, sulle prime alture tondeggianti che si univano al sistema montuoso centrale, conferendo alla regione un aspetto desolato. Marc e Flip proseguirono sempre verso sud, camminando l'uno accanto all'altro, senza scambiarsi molte parole. Ossessionato da un unico pensiero, il marinaio cercava inutilmente di spremersi un'idea qualunque dalla testa, mentre si sentiva scricchiolare sotto i piedi migliaia di conchigliette vuote. Sotto le rocce piatte ricoperte dall'alta marea, c'erano intere masse di lit-torine: ottimi molluschi, che però richiedevano una adeguata cottura! Inutile, quindi, pensare di raccoglierli. Lo stesso accadde con un rettile che in altre circostanze avrebbe suscitato la gioia dei cacciatori. Era un magnifico esemplare dell'ordine dei cheloni, una tartaruga franca, del genere Mydas, con bellissimi riflessi verdi sul guscio. — Forza, signorino Marc, venite a darmi una mano! — aveva gridato Flip, mentre la tartaruga s'infilava tra gli scogli, tentando di fuggire in mare.
— Ah, che bell'animale! — esclamò il ragazzo. — Ma come si fa a catturarlo? — Niente di più facile — rispose Flip. — Lo giriamo sul dorso. Su, prendete il bastone, e fate come me. Fiutato il pericolo, la tartaruga si era ritirata dentro al guscio, immobile come un pezzo di roccia, testa e zampe scomparse nel nulla. Allora Flip e Marc le infilarono i bastoni sotto lo sterno e, unendo gli sforzi, riuscirono finalmente a girarla sul dorso: era un esemplare di un metro di lunghezza, che doveva pesare almeno duecento chili. Così girata, la tartaruga lasciava intravedere la testa piccola e piatta, ma allargata posteriormente da grandi fosse temporali, nascoste sotto una volta ossea. — E adesso, Flip, cosa ne facciamo? — domandò Marc. — Non lo so proprio, signorino! Ah, se avessimo del fuoco per cucinarla, sarebbe una pietanza sana e appetitosa! È una tartaruga franca, si nutre di un'ottima alga marina, la zostera, e ha una carne gustosa e delicata! È con questa che si prepara il famoso brodo di tartaruga… Se la situazione non fosse stata così seria, il tono da buongustaio deluso usato da Flip avrebbe fatto sorridere! Coraggioso Flip, che quell'accesso di golosità ti sia perdonato! Intuendo il significato delle sue reticenze, Marc ripensava alla scena della tempesta notturna, e si accusava ancora. — Su — disse Flip, battendo il piede per terra — non c'è niente da ture, qui. Andiamo. — Ma… e la tartaruga? — In fondo, non è colpa sua se non possiamo mangiarla. Perciò sarebbe inutile e crudele lasciarla morire così, senza alcun vantaggio per nessuno. Allora, forza coi bastoni! Così i bastoni funzionarono ancora una volta da leva, e il rettile fu riportato nella sua posizione normale, mentre Flip e Marc si allontanavano di qualche passo. Per un po', la tartaruga rimase immobile, poi, non udendo più nessun rumore, allungò la testa guardandosi intorno furtiva, e tirò fuori dal guscio le membra appiattite a forma di remo. Infine, muovendosi con una lentezza
esasperante, che doveva però corrispondere a "un galoppo di tartaruga", si diresse verso il mare, scomparendo ben presto tra i flutti. — Buon viaggio, tartaruga! — gridò Flip, in tono tragicomico. — Puoi ritenerti davvero un rettile fortunato! Ripreso il cammino interrotto da quell'incontro, Marc e il marinaio arrivarono in breve al luogo indicato dal ragazzo: una successione di rocce piatte, ben separate fra loro e così ricoperte di ostriche, che la raccolta non presentava nessuna difficoltà. Ce n'erano a migliaia, di medie dimensioni, ma eccellenti, come constatarono subito Marc e Flip, assaggiandone qualcuna con le valve socchiuse. Così buone, che le si sarebbe potute confondere con le ostriche bretoni di Cancale, una delle qualità più apprezzate. — Quando il mare sarà calmo e spirerà vento di terra — disse Flip — gireremo con il canotto intorno agli scogli lungo la costa, e verremo a gettare l'ancora in un tratto del banco. Una volta riempita la barca di questi eccellenti molluschi, poi, li trasporteremo ai piedi della scogliera, e creeremo un allevamento. Visto che sono qui a nostra completa disposizione, ne approfitteremo al massimo. Quel giorno Marc e Flip ne raccolsero in fretta qualche dozzina da portare all'accampamento, e tre quarti d'ora dopo erano già di ritorno alla grotta. I molluschi furono accolti con entusiasmo, ed elevati al rango di piatto forte del pasto successivo. Il difficile era riuscire ad aprire i gusci senza rovinare l'unico coltello, cui Flip teneva moltissimo. Messe sulle braci, o su qualche tizzone ardente, le ostriche si sarebbero aperte da sole senza difficoltà, ma… privazione le cui conseguenze si facevano sentire ad ogni istante, il fuoco non c'era più. Così il marinaio si assunse il compito di aprirle lui, con il suo coltello, mentre i ragazzi, seduti tutt'intorno, lo osservavano pieni di interesse. All'ottava conchiglia, il coltello, evidentemente non ben infilato tra le valve, si ruppe con un rumore secco. E la lama cadde sul tavolo, spezzata a metà. — Maledizione! — esclamò Flip, senza riuscire a trattenere un moto di collera.
Prima, niente più fuoco, poi il coltello rotto! Ed ora cosa sarebbe successo? Che ne sarebbe stato di quelle care creature cui si era dedicato anima e corpo?
CAPITOLO TREDICESIMO Il cielo si rivoltava forse contro di loro? C'era di che pensarlo, con i due incidenti del fuoco e della lama spezzata. Dopo quell'ultimo colpo, Flip era uscito dalla grotta scagliando lontano il manico ormai inservibile del coltello, mentre i ragazzi, consci della gravità dell'accaduto, rimanevano immobili al loro posto, senza osare pronunciare una sola parola. Dopo l'uscita di Flip, anche la signora Clifton si alzò, gli occhi arrossati dalla stanchezza e dal dispiacere e, premendosi la mano sul petto oppresso dall'angoscia, seguì il marinaio fuori dalla grotta. Flip era immobile, a braccia incrociate, lo sguardo fisso sulla terra. La donna si diresse verso di lui, chiamandolo per nome. Ma lui non l'udì nemmeno. Allora la signora gli si avvicinò, toccandolo piano sul braccio. E il marinaio si girò. Piangeva. Sì, c'erano delle grosse lacrime che gli scorrevano sulle guance. La signora Clifton gli prese la mano. — Flip, amico mio — gli disse con la sua voce dolce e pacata — nei giorni immediatamente successivi al nostro arrivo su questa terra, quando io ero disperata, quando stavo per soccombere al dolore, voi mi siete stato vicino, mi avete confortato con le vostre parole. Mi avete mostrato i miei quattro figlioli, facendomi capire che dovevo vivere per loro. E adesso che sono forte, grazie a voi, devo esservi io di conforto, devo farvi sentire le stesse parole che usavate con me, e dirvi: caro Flip, non bisogna mai disperare!
A quelle parole, Flip si sentì soffocare dai singhiozzi, e tentò inutilmente di dire qualcosa. Visti gli sforzi che faceva per dominarsi, la signora Clifton continuò a parlargli sottovoce, ripetendogli parole d'incoraggiamento. Gli ricordò che lei e i suoi figlioli riponevano in lui ogni speranza, e che se si fosse lasciato andare alla disperazione, per loro sarebbe stata la fine. — Sì, signora Clifton. Avete ragione — disse infine il marinaio, riprendendo il pieno controllo di sé. — E sarebbe indegno ch'io mi perdessi di coraggio, mentre voi, che siete donna, mostrate una tale forza d'animo! Sì! Lotterò, e vincerò la sorte avversa. I vostri figli sono i miei: io lavorerò e combatterò per loro, come avrebbe fatto il loro valoroso padre. Dovete, però, perdonarmi questo momento di debolezza. È stato più forte di me. Ma ora basta, è passato. Dopo aver stretto la mano della signora Clifton, Flip rientrò nella grotta senza aggiungere una parola, raccogliendo da terra il coltello spezzato. Poi continuò freddamente ad aprire le ostriche, col moncone di lama ancora utilizzabile. Stretti dai morsi della fame, gli sventurati calmarono un po' l'appetito con i molluschi, seguiti da alghe e pinoli. Però erano silenziosi, e si sentiva che la disperazione si impadroniva pian piano non solo dei ragazzi, ma anche della madre e del bravo marinaio, già tanto provati. Nei giorni seguenti, 27, 28 e 29 aprile, Flip e i ragazzi lavorarono con foga per rinnovare le provviste di sargassi e di noci di cocco. E il marinaio, spintosi due volte fino al banco di ostriche, costeggiando la riva con il canotto, ne riportò indietro varie migliaia, che mise in una sorta di parco naturale, formato dalle rocce sommerse ai piedi della scogliera. Così, adesso, le ostriche erano a pochi metri dalla grotta, e assieme alle cozze, che si potevano mangiare crude, costituirono da quel momento la base dell'alimentazione quotidiana. Certo, la fame si faceva sentire e i crampi serravano lo stomaco in una morsa, però i ragazzi non se ne lamentarono mai, per non gettare la madre nell'angoscia. La signora Clifton, comunque, non poteva sbagliarsi sulle cause del deperimento, così vistoso negli organismi giovani. E non poteva
sbagliarsi nemmeno Flip. Ma il povero marinaio era arrivato al limite delle risorse, e non sapeva più come ingegnarsi. Aveva fatto, e faceva, tutto quello che era umanamente possibile, però le forze hanno un limite, e ormai la famiglia poteva contare solo su un soccorso provvidenziale. Ma la Provvidenza sarebbe intervenuta? — Eppure — si diceva Flip — ci siamo aiutati abbastanza, fino a questo momento, perché il cielo ci venga un po' in aiuto. A quell'epoca, il marinaio decise di tentare un'escursione verso la parte settentrionale della costa. Bisognava verificare, al più presto, se quella terra fosse abitata. Stavolta, però, Flip decise di partire da solo, perché i ragazzi, indeboliti com'erano dall'insufficienza di cibo, non sarebbero stati in grado di seguirlo, se fosse stato necessario spingersi molto lontano. Poteva anche succedere che non tornasse alla grotta il giorno stesso, e in tal caso era meglio che i ragazzi restassero accanto alla madre durante la notte. Quando Flip espose la sua decisione alla signora Clifton, la trovò subito d'accordo: se il progetto poteva significare una qualche speranza di salvezza, per quanto piccola fosse, non bisognava certo trascurarla. Flip si mise in cammino martedì 29 aprile, verso mezzogiorno. La sola provvista che portava con sé era qualche manciata di pinoli, ma contava di seguire la costa, cibandosi di cozze e di qualche altro mollusco. Il tempo era abbastanza bello, e la brezza che soffiava da terra increspava appena la superficie del mare. Salutando Marc, che l'aveva accompagnato per un quarto di miglio, e ora si apprestava a lasciarlo: — Vegliate sui vostri fratelli — gli raccomandò il marinaio — e non preoccupatevi, se stasera non sarò di ritorno. — Va bene, Flip. Addio. E mentre il ragazzo tornava sui suoi passi, seguendo la scogliera, Flip si diresse lungo la costa, verso la foce del fiume. Lì trovò le tracce del primo accampamento, e le fredde ceneri dei fuochi. Non una brace, o una scintilla. Nulla. Rivedendo il posto dove il canotto aveva toccato terra, Flip non poté reprimere un sospiro. Allora il suo cuore era pieno di speranza, adesso invece…
— Se almeno fossi solo! — si diceva. — Ma con una donna e dei bimbi, su questa terra sperduta…! Flip risalì la riva sinistra del fiume, che contava di attraversare a nuoto. Un buon nuotatore come lui non avrebbe certo trovato difficoltà. Costeggiando l'argine, notò che sulla riva opposta, molto scoscesa, c'era una faglia lungo la quale avrebbe potuto raggiungere facilmente la sommità della scogliera. Aveva pensato di seguire la falesia che si disegnava alta sul mare, per poter vedere da un lato l'oceano, e dall'altro le pianure più vicine alla costa. Deciso ad attraversare in quel punto, Flip cominciò a togliersi gli abiti che si sarebbe tenuto sulla testa, durante la traversata. E stava già piegando il giubbotto, quando sentì nella tasca laterale qualcosa di non molto voluminoso. Era un pacchettino, fatto con una grande foglia di platano legata con fibra di cocco. Non aveva nessuna idea di cosa contenesse. Allora tolse la corda e, dopo aver aperto la foglia, vide all'interno un pezzo di galletta e un pezzetto di carne. In un primo momento, fu tentato di portarseli alla bocca, ma poi si trattenne. Vedendolo partire praticamente senza provviste, la signora Clifton aveva prelevato dalla sua riserva quei due pezzetti di cibo che, chissà, potevano anche essere gli ultimi! — Che persona meravigliosa! — esclamò. — Ma se pensa che io mangi carne e galletta, mentre lei e i suoi figli ne sono privi…! Così si rimise in tasca il pacchetto, fermamente deciso a riportarlo intatto e, dopo essersi sistemato gli abiti sulla testa, entrò nel fiume. Al contatto con l'acqua fresca, Flip si sentì subito rinascere. Arrivato sull'altra riva in poche bracciate, si lasciò asciugare dalla brezza su una sottile striscia di sabbia, poi si rivesti e cominciò ad arrampicarsi lungo la faglia, fino alla sommità della scogliera, che in quel punto raggiungeva i novanta metri. Una volta in cima, il primo sguardo di Flip fu per il mare. Sempre deserto. La costa si prolungava a nord-ovest, con una curva simile a quella che si disegnava sotto il fiume, formando così una specie di baia, con un perimetro di una decina di chilometri. In realtà era una rada foranea, abbastanza profonda. La scogliera proseguiva orizzontale ancora per due o tre miglia, poi non si vedeva più nulla,
come se il terreno s'inabissasse all'improvviso, e quindi non si riusciva a sapere cosa ci fosse al di là. All'estremità orientale dell'altopiano, dalla parte opposta al mare, spiccavano ampie chiazze di verde: erano le foreste che ricoprivano le prime ramificazioni del picco centrale, dominate dai possenti contrafforti che convergevano verso la montagna. Una zona magnifica, ricoperta di foreste e praterie, che contrastava parecchio, per il rigoglio della vegetazione, con la regione a sud, molto più arida, selvaggia e desolata. "Sì" pensava Flip "una piccola colonia come la nostra potrebbe davvero vivere felice, su questa terra! Qualche attrezzo, un po' di fuoco, e mi sentirei perfino in grado di rispondere dell'avvenire!" Il marinaio camminava di buon passo, osservando attentamente il paese all'intorno, senza, però, allontanarsi mai dal bordo della scogliera. Dopo un'ora, si ritrovò nel punto in cui s'interrompeva bruscamente, formando un capo che chiudeva la baia a nord. Di lì, la costa piegava un po' a est, allungandosi in un promontorio molto appuntito. Giù in basso, ai piedi della scogliera, una sessantina di metri sotto di lui, il terreno aveva un aspetto acquitrinoso. Sembrava un'immensa palude, con ampie chiazze d'acqua stagnante, quattro chilometri circa di larghezza per quattro di lunghezza, che seguiva il contorno irregolare della costa, con una lunga fila di dune che correva da sud a nord, a un centinaio di metri dal mare. Flip decise di seguire la lunga linea sabbiosa, piuttosto che girare intorno alla palude, avventurandosi troppo all'interno. E riuscì a raggiungere senza difficoltà il terreno sottostante, scendendo lungo uno smottamento della scogliera. Il suolo, giù in basso, formato da un limo argillo-siliceo mescolato a vari resti vegetali, era ricoperto d'alghe, ginestre, carici, scirpi e, qua e là, da grosse zone d'erba. Sotto i raggi del sole, luccicavano numerose pozze d'acqua che certo non si erano formate né in seguito alle piogge, troppo scarse, né per la piena improvvisa di un fiume. Se ne doveva, quindi, concludere che la palude fosse alimentata dalle infiltrazioni del terreno. E così era, in effetti.
Alta sulle erbe acquatiche che ricoprivano la superficie stagnante, volava una tal quantità di uccelli, che un cacciatore di palude, nascosto nel suo capanno, non avrebbe potuto mancare un solo colpo. Interi stormi di codoni, anatre selvatiche, alzavo-le e beccaccini che si lasciavano avvicinare senza timore, tanto che Flip avrebbe potuti ucciderli facilmente a sassate. Ma a che pro? Quei bellissimi esemplari della fauna acquatica non fecero che aumentare il rammarico del marinaio. Flip distolse gli occhi e accelerò il passo attraverso i sentierini che sboccavano al mare, servendosi del bastone per sondare l'erba che ricopriva le grosse pozze d'acqua, ed evitare così qualche spiacevole immersione nella melma. Ma, se riusciva a trarsi d'impaccio senza difficoltà, non poteva, di certo, camminare veloce. Verso le tre e mezza, Flip raggiunse il limite occidentale della palude, dove gli si apriva davanti una strada più agevole, di sabbia fine cosparsa di conchiglie, un terreno solido sotto i piedi, fra le dune e il mare. E finalmente poté avanzare più veloce, sgranocchiando i pinoli e bevendo ai ruscelli che riversavano sulla spiaggia l'acqua in eccesso della palude. Lì la costa era bassa e, mancando gli scogli, mancavano anche le cozze e altri molluschi commestibili, ai quali il suo appetito si sarebbe sicuramente adattato. Ma Flip possedeva sia lo spirito che lo stomaco del filosofo, e sapeva benissimo fare a meno di ciò che non aveva. Proseguì così l'esplorazione verso nord. Cosa sperava di incontrare, su quelle spiagge deserte? Qualche capanna di indigeni, qualche rottame di nave, qualche relitto che gli potesse essere utile? No. Sarebbe più giusto dire che, scoraggiato suo malgrado, Flip camminava meccanicamente, senza meta, senza un'idea precisa e, si potrebbe anche aggiungere, senza speranza! Fece così parecchie miglia, in un paesaggio sempre uguale. Da un lato il mare, dall'altro la piana acquitrinosa, senza un segno, un indice nella natura del suolo che facesse sperare in un prossimo mutamento. Ma allora, aveva senso proseguire oltre l'esplorazione? Perché stancarsi inutilmente? Avrebbe mai trovato, più avanti, ciò che non aveva trovato sinora?
Flip si sedette sulla sabbia, tra due ciuffi di giunchi appuntiti, che con le loro radici fissavano le dune mobili. Restò così per mezz'ora, la testa appoggiata sulle mani, senza nemmeno un'occhiata al mare che gli ondeggiava davanti. Infine si alzò, per riprendere la via del ritorno. Ma, in quel momento, la sua attenzione fu attratta da un grido strano: non poteva trattarsi di un'anatra selvatica, sembrava piuttosto un guaito. Flip sali in cima a una duna, volgendo lo sguardo intorno, sulla palude. Non vide nulla; notò soltanto che stormi di uccelli si alzavano precipitosamente in volo fra l'erba alta. — Ci dev'essere qualche animale — disse fra sé. — Qualche rettile che getta lo scompiglio fra i volatili. Flip guardò attentamente, ma l'erba era immobile, e il grido non si fece più sentire. Abbandonata dagli uccelli, la palude non sembrava più celare alcun essere vivente. Il marinaio attese qualche minuto, scrutando assieme la piana, la spiaggia e la linea delle dune. Tra quelle sabbie, in effetti, poteva benissimo nascondersi qualche visitatore pericoloso. Il bastone stretto fra le dita, Flip si teneva pronto a qualsiasi attacco, ma i giunchi restavano immobili. — Devo essermi sbagliato — disse, scendendo dalla duna per riprendere il cammino verso sud. Ma camminava da appena cinque minuti, quando lo strano guaito si fece sentire di nuovo, vicinissimo. Flip si fermò. Stavolta non poteva essersi sbagliato: era proprio un latrato, ma un latrato smorzato, come di un cane sfinito dalla stanchezza. — Un cane qui?! — mormorò stupito, mettendosi in ascolto. Ed ecco, ancora, due o tre guaiti lamentosi. — Eh sì, è proprio un cane — concluse Flip, tornando sui suoi passi. — Però non un cane selvatico, perché il cane selvatico non abbaia! Ma allora, cosa significa la sua presenza qui? Il marinaio provava una strana emozione, e il cuore gli batteva forte. Come mai quel cane era lì? C'era forse qualche abitazione, qualche accampamento d'indigeni o di naufraghi? Doveva saperlo a tutti i costi.
Flip risalì sulla piccola catena di dune. I guaiti erano sempre più vicini. Il marinaio cominciò a correre tra i giunchi, in un saliscendi continuo fra le montagnole di sabbia. Era turbato. Il cane non poteva essere lontano, ma non lo vedeva. Poi le erbe si aprirono di colpo su una pozza d'acqua stagnante, e Flip si trovò davanti un animale. Era un cane magrissimo, sporco di melma, sfinito, e si trascinava appena. Flip gli andò incontro. L'animale sembrava come in attesa. Era grande, con la testa larga e arrotondata, le orecchie pendenti e la coda folta, ricoperta da uno strato di fango. Appartenente all'intelligente razza degli "épagneul", era in uno stato spaventoso, con le zampe insanguinate e il muso inzaccherato da una bava melmosa. Ma di fronte ai suoi occhi buoni e dolci, al suo sguardo affettuoso, Flip capì che non aveva nulla da temere. Il cane gli si avvicinò strisciando, e quando il marinaio gli tese la mano, si mise a leccargliela piano. Poi gli afferrò i pantaloni fra i denti, cercando di tirarlo verso la spiaggia. Allora Flip si arrestò di colpo, inginocchiandosi sulla sabbia per guardarlo meglio, sotto lo strato di fango che lo ricopriva. E si lasciò sfuggire un grido: — Lui, lui! No, non è possibile! Tornò a guardarlo, lo guardò ancora, più volte, asciugandogli il muso e… — Fido! — gridò. A quel nome, il cane si agitò moltissimo e si mise a saltare, agitando forsennatamente la coda: si sentiva riconosciuto! — Fido! Fido! Tu?! Tu qui?! Forse è più facile capire, che non descrivere, lo stupore del marinaio, nel ritrovare lì, in quella landa deserta, il fedele compagno dell'ingegner Clifton, l'amico dei suoi figlioli, il cane che aveva così spesso accarezzato a bordo del Vankouver. Fido, invece, lui si che l'aveva riconosciuto subito! — Ma non può essere venuto da solo! — esclamò il marinaio. — Cos'è successo, a bordo del Vankouver! Sembrava quasi che Fido avesse capito la domanda, e che volesse rispondergli; sempre abbaiando, infatti, continuava a tirarlo per i
vestiti, rischiando di strapparglieli. Era evidente che quell'intelligente pantomima aveva un suo preciso significato. — C'è qualcosa — disse Flip. — Andiamo. E si mise a seguire il sagace animale. Flip e Fido si avviarono l'uno dietro l'altro, attraverso le dune, fin giù alla spiaggia, proseguendo così per un'altra mezz'ora. Fido sembrava come rianimato e continuava a slanciarsi in avanti, per poi tornare di corsa da Flip. E il marinaio era in uno stato di sovreccitazione incredibile. Sperava, ma non avrebbe saputo dire esattamente cosa, non osando formulare nemmeno a se stesso i vaghi pensieri che gli attraversavano la mente. Continuava ad andare, fatalmente spinto verso l'ignoto, dimentico della stanchezza, di tutta la strada già fatta, e del cammino al ritorno che avrebbe presto dovuto riprendere. Erano le cinque del pomeriggio, e il sole era già basso sull'orizzonte, quando Fido si fermò ai piedi di una duna abbastanza alta. E dopo aver guardato Flip un'ultima volta, con uno strano guaito, si lanciò in uno stretto passaggio tra le dune. Flip lo seguì, girando intorno a un grosso cespuglio di giunchi, e si lasciò sfuggire un grido, quando vide un uomo steso per terra. Allora si precipitò verso di lui, e riconobbe l'ingegner Clifton.
CAPITOLO QUATTORDICESIMO Che incontro incredibile! Che caso fortuito o, meglio, che intervento provvidenziale! E che cambiamento nella situazione della famiglia Clifton, che si vedeva restituire un padre e un marito! Cosa contava, ormai, la sua miseria attuale? Ora poteva guardare ih faccia l'avvenire. Mentre gli si precipitava accanto, Flip non venne nemmeno sfiorato dall'idea che quel corpo steso sulla sabbia potesse essere soltanto un cadavere. Harry Clifton giaceva perfettamente immobile, le braccia abbandonate lungo i fianchi. Il volto, pallidissimo, era girato verso il cielo, con gli occhi chiusi, e la lingua gonfia tra le labbra appena dischiuse. I vestiti, sporchi di melma, recavano tracce di violenza. Chinandosi su di lui per slacciargli gli abiti, il marinaio vide lì vicino una vecchia pistola, un coltello aperto e un'ascia di bordo. Il corpo era caldo, ma spaventosamente smagrito per le privazioni e le sofferenze subite. Sollevandogli il capo, Flip notò sulla calotta cranica una ferita piuttosto estesa, coperta da uno spesso grumo di sangue. Allora gli posò l'orecchio sul petto, in ascolto. — Respira! Respira ancora! — esclamò. — Lo salverò. Acqua. Qui ci vuole dell'acqua! Qualche passo più in là, un ruscelletto scorreva nella sabbia, dalla palude al mare. Flip corse a tuffarvi il fazzoletto e bagnò piano la testa del ferito, staccando delicatamente i capelli incollati dal sangue. Poi gli inumidì gli occhi, la fronte e le labbra. Harry Clifton fece un leggero movimento, spostando appena la lingua fra le labbra tumefatte, e a Flip parve di sentir mormorare: — Fame! Fame! — Ah! — esclamò il marinaio. — Sta morendo di fame! Chissà da quanti giorni non mangia! Ma cosa poteva fare per rianimarlo? Come poteva riafferrare la vita, pronta a fuggire da lui? — Ah! La galletta, la carne della signora Clifton… È stata un'ispirazione del cielo che l'ha fatta agire così!
Flip corse al ruscello, dove raccolse dell'acqua in una conchiglia; vi diluì un po' di galletta, facendone una sorta di panata, e infine accostò qualche boccone alle labbra del ferito. Dopo svariati, inutili tentativi, perché la gola, ormai ristrettasi, lasciava a mala pena passare gli alimenti, Clifton riuscì finalmente a inghiottire qualche boccone, rianimandosi. Intanto Flip gli parlava come una madre parla a un bambino malato, cercando di fargli coraggio. Dopo mezz'ora, Clifton socchiuse gli occhi, alzando lo sguardo ormai spento su Flip. E lo riconobbe, era chiaro, perché le sue labbra tentarono un sorriso. — Sì, signor Clifton. Sono proprio io, il marinaio del Vankouver… Mi avete riconosciuto, vero?… Sì, sì, so che cosa mi volete chiedere, ma non sforzatevi di parlare! Non occorre. Ascoltate me, piuttosto. Vostra moglie, i vostri figlioli… stanno bene. Stanno tutti bene, benissimo! E che gioia, quando vi vedranno! Come saranno felici! Clifton mosse appena le dita e Flip, che aveva capito, mise la sua mano in quella dell'ingegnere, che gliela strinse debolmente. — Ho capito, signore, ho capito. Ma non ce n'è bisogno! Sono io, piuttosto, che vi ringrazio per esserci venuto a trovare. È stato molto gentile da parte vostra! E rideva, il buon Flip, battendo affettuosamente sulla mano del ferito, mentre Fido aggiungeva le sue carezze, leccando le guance del padrone. Il marinaio si scosse di colpo: — Che stupido, a non averci pensato prima! Tu stai sicuramente morendo di fame, povero Fido! E la tua vita è ancora più preziosa della mia! Così dicendo, Flip gli porse qualche pezzetto di carne e di galletta, che Fido divorò subito, con grande avidità. Il marinaio, allora, gliene offrì un altro po' : era una giornata di grande prodigalità, quella. E poi pensava davvero che, una volta ritrovato il padre, non ci fosse più alcun pericolo per la sopravvivenza della piccola colonia. Mentre Harry Clifton riacquistava un po' di forze, inghiottendo la sua galletta inzuppata nell'acqua, Flip gli esaminava attentamente la ferita: la scatola cranica era stata solo contusa. Il marinaio, che aveva
una certa esperienza, essendosi dovuto curare una ventina di volte da solo, concluse che lo stato del malato era abbastanza soddisfacente. Con un po' di acqua fresca, avrebbe risolto anche il problema della contusione. E dopo avergli applicato sul capo il fazzoletto, a mo' di benda, Flip gli preparò sulla sabbia un morbido giaciglio, fatto di erbe e di alghe marine. Quindi lo ricoprì con il suo giubbotto e la sua camicia di lana, per proteggerlo contro il freddo della notte. Clifton lasciava fare, incapace di ringraziare il suo salvatore, se non con uno sguardo di riconoscenza. — Non parlate, non dite nulla! — gli ripeteva Flip. — Non ho bisogno di sapere che cosa vi è successo. Più avanti, ci racconterete tutto, con calma. Ma, adesso, quel che conta è che voi siate qui e, grazie al cielo, ci siete! Poi, accostandogli si all'orecchio: — Mi sentite, vero, signor Clifton? — domandò. L'ingegnere batté le palpebre in risposta. — Allora ascoltatemi — riprese Flip. — Sta per calare la notte, ma sarà bella, a giudicare dall'aspetto del cielo. Se foste stato abbastanza in forze da poter fare qualche passo, saremmo partiti assieme, anche se avessi dovuto portarvi per un miglio o due. Ma, seguendo le asperità della costa, ci sono una quindicina di chilometri fra noi e il posto in cui sono accampati vostra moglie e i ragazzi… tutti in buonissima salute, ve lo ripeto! Avete una moglie davvero in gamba, signor Clifton, e dei figlioli molto coraggiosi! Il ferito si rianimava, sentendolo parlare così dei suoi cari, e ringraziò il buon marinaio con lo sguardo. — Allora, ecco quel che pensavo di fare — riprese Flip. — La cosa più urgente è trasportarvi nella grotta, dove riceverete tutte le cure necessarie. Adesso io vi lascerò per qualche ora, ma vi ho messo qui accanto, in una conchiglia, un po' di galletta inzuppata e qualche pezzetto di carne, nel caso vi sentiate la forza di mangiare. Fido non toccherà nulla: me l'ha promesso. In un'altra conchiglia, invece, c'è un po' d'acqua dolce, perché vi possiate inumidire le labbra. Mi sentite? Benissimo. Sono le otto. Arriverò alla grotta fra due ore, al massimo, perché ho delle buone gambe. Poi prenderò il canotto, vi
ricordate?, il canotto del Vankouver, che quella brava gente ci ha graziosamente messo a disposizione! Il vento è buono, da sud-ovest, e non ci metterò molto a tornare. Vi chiedo, perciò, di attendermi, signor ingegnere, per tre ore e mezza, diciamo pure quattro ore. E a mezzanotte sarò qui. Poi aspetteremo insieme la bassa marea del mattino, che ci faciliterà il ritorno, e domattina alle otto sarete già in un bel letto di muschio, in una dimora calda e confortevole, circondato dalla vostra famiglia. Vi va? — Sì, Flip! — mormorò l'ingegnere. — Allora d'accordo. Adesso io vado, signor Clifton; aspettatemi fiducioso e vedrete che sarò puntuale all'appuntamento! Terminate le ultime disposizioni, e "rimboccato" con cura il letto d'erba su cui riposava il ferito, Flip gli strinse ancora una volta la mano. Poi, rivolto al cane: — Quanto a te, Fido, fa' bene la guardia, mi raccomando; veglia sul tuo padrone, e non mangiargli la pappa! Fido capì di sicuro, perché il suo latrato somigliava talmente a un "sì", che Flip, rassicurato, si allontanò a grandi passi. Con che foga, e che ardore, affrontava, adesso, la strada del ritorno! L'enorme gioia che lo sosteneva gli aveva fatto già dimenticare le fatiche della giornata. No, stavolta non tornava alla grotta a mani vuote! E non pensava neanche più al suo coltello spezzato, al fuoco spento! Un ingegnere come Harry Clifton avrebbe certamente saputo come trarsi d'impaccio. Non era forse capace di fare di tutto, con niente? Mille progetti si schiudevano adesso nel cervello di Flip, e lui non dubitava assolutamente di poterli un giorno realizzare! Intanto era scesa la notte. La costa e l'oceano si confondevano nel profondo delle tenebre, e la luna, nel suo ultimo quarto, non sarebbe sorta prima di mezzanotte. Flip poteva quindi contare solo sul suo istinto e la sua abilità, per ritrovare la strada e trarsi d'impaccio. Non potendo tagliare in linea retta, col rischio di perdersi in piena palude, il marinaio dovette seguire la linea del fiume, sino all'inizio della scogliera. Ma lì cominciarono le difficoltà: doveva ritrovare i sentierini che si snodavano tra gli stagni. Ormai Flip non contava nemmeno più tutti gli sbagli, ma ci rideva sopra, rammaricandosi
soltanto del ritardo che accumulava. E ad ogni istante, dai grossi ciuffi d'erba, si alzavano in volo gli uccelli acquatici, svegliati di soprassalto. — Bah — si ripeteva Flip — questo terreno sembra uno scolapasta! Ma in fondo, i buchi sono solo buchi, e io ne ho visti ben altri, nella mia vita! M'è già successo di sprofondare in terreni peggiori di questo, e non sarà certo una palude che m'impedirà di passare! Quando si ragiona così, si ottengono un sacco di cose! Completamente fradicio dalla testa ai piedi e tutto inzaccherato, Flip avanzava sempre, finché raggiunse lo smottamento attraverso cui era sceso dalla sommità della scogliera, fino al suolo paludoso della piana. Pochi avrebbero saputo riconoscere nel buio quel passaggio. Ma Flip non poteva sbagliarsi: vedeva di notte, come i nictàlopi. E si arrampicò su per la breccia con l'agilità di un cacciatore di camosci. — Finalmente un po' di terreno solido! — si disse allegro. — Quella maledetta pianura avrebbe finito per stancarmi le gambe. Anzi, sento già un po' di fiacca… Bah! Meglio ripartire al galoppo! È fece proprio così: si mise a correre come un professionista, con i gomiti stretti alle anche e respirando a pieni polmoni; in pochi minuti superò il pianoro di granito, fino a raggiungere la riva destra del fiume. Togliersi i vestiti, farne un mucchietto da mettere sulla testa, buttarsi in acqua, attraversare il fiume e rivestirsi sull'altra riva, fu questione di un attimo. Una volta raggiunto il primo accampamento, Flip proseguì costeggiando la base della scogliera, e si diresse di corsa verso la grotta. Arrivò all'ultima curva alle dieci e qualche minuto, salutato da una voce che riconobbe immediatamente. — Ehi, Flip! — Ehi, signorino Marc! — rispose. Inquieto per l'assenza di Flip, Marc non aveva voluto andare a dormire e, mentre sua madre riposava, era rimasto fuori a vegliare su tutta la famiglia, spiando l'arrivo dell'amico. Quella prima notte passata lontano da Flip gli sembrava davvero interminabile.
Ma il marinaio non aveva previsto che fosse lì ad aspettarlo ed esitò, per un attimo, a rivelargli l'imminente ritorno del padre, temendo che la notizia inattesa e la gran gioia improvvisa potessero sconvolgerlo. — Ma no — si rassicurò. — Ha la forza morale di un uomo, e poi le buone notizie non fanno mai male. — Allora? — domandò Marc, con il cuore che batteva forte. — Com'è andato il giro? — C'è qualcosa di nuovo, signorino Marc — rispose il marinaio. — Ah, Flip! Potrete ridare un po' di speranza a mia madre? Sono prove troppo difficili per una donna. Non ce la farà. — Signorino Marc — rispose Flip — vi porto una notizia così bella, che se non ringraziaste subito il cielo, sareste davvero un ingrato. — Che c'è, Flip? Cosa c'è di nuovo? — domandò il ragazzo, tremando dall'emozione. — Calma, un po' di calma, signorino, e statemi bene a sentire. Ho ritrovato Fido. — Fido?! Il nostro cane?! Il cane di mio padre?! — Sì. Fido, smagrito, spossato, mezzo morto… però mi ha riconosciuto. — E poi… — riprese Marc, la voce alterata — e poi… su, Flip, parlate. Ma Fido… non l'avete mica portato? — No, signorino Marc, l'ho lasciato… laggiù… a fare la guardia a qualcuno… — Mio padre? — Sì. Se il marinaio non l'avesse preso al volo, il ragazzo sarebbe certamente caduto per terra. E mentre Flip gli raccontava commosso l'incontro, Marc piangeva di gioia tra le sue braccia. Suo padre! Suo padre vivo! — Andiamo — esclamò, staccandosi dalle braccia del marinaio. — Bisogna portarlo qui. — Sì — rispose Flip — e non c'è un attimo da perdere. Ecco cosa pensavo di fare, signorino Marc.
Flip gli spiegò la sua intenzione di prendere il canotto per raggiungere via mare il punto in cui aveva lasciato Harry Clifton, sotto la custodia di Fido. Voleva mantenere la promessa d'essere di ritorno per mezzanotte, e pensava di approfittare del flusso favorevole dell'alta marea per raggiungere più in fretta il nord. — E mia madre? — domandò Marc. — Devo avvertirla? — Signorino Marc, è una questione delicata. Seguite quello che vi dirà il cuore. Bisognerà prepararla un po' alla volta… — Ma allora io non vi accompagno? — domandò il ragazzo. — Penso sia meglio che rimaniate qui, nell'interesse di vostra madre, signorino Marc. — Ma mio padre? Mio padre mi aspetta! — No, signorino. Voi siete il maggiore della famiglia, e dovete vegliare su di lei, finché sono assente. E poi, tenete presente che saremo di ritorno per domattina alle otto, al più tardi. Perciò vi chiedo soltanto di pazientare qualche ora. — Ma — insistette ancora il ragazzo — se mio padre dovesse soccombere alle sue sofferenze, se io non fossi lì per… — Signorino Marc — rispose serio il marinaio — vi ho annunciato un padre vivo, ed è un padre vivo che restituirò alla sua famiglia! Marc si arrese. La sua presenza, in effetti, era necessaria alla grotta, non solo perché doveva vegliare sulla famiglia, ma anche perché era il solo che potesse preparare con tatto sua madre all'immensa gioia che l'attendeva. E poi, non avrebbe avuto il coraggio di svegliarla, per avvertirla della sua partenza. Allora il ragazzo aiutò il marinaio a preparare l'imbarcazione. La vela era già pronta, perché Flip s'era recentemente servito del canotto per la pesca alle ostriche, e non restava che spingerlo in mare. In quel momento la corrente che usciva dal canale, tra l'isolotto e la costa, si dirigeva verso nord. Ed era favorevole anche la brezza che spirava da sud-ovest. La notte era scura, è vero, ma per un marinaio come Flip non era difficile orientarsi nel buio. Flip si sedette a poppa. — Abbracciate forte mio padre — gridò il ragazzo. — Certo, signorino Marc. L'abbraccerò per voi e per tutti quanti.
Flip issò la vela, e il canotto venne ben presto inghiottito dall'oscurità. Erano le dieci e mezzo. Rimasto solo sulla spiaggia, in preda a una febbrile agitazione, Marc non sapeva decidersi a rientrare nella grotta. Aveva bisogno di muoversi, di andare e venire, di respirare l'aria fresca della notte. No, non voleva assolutamente svegliare sua madre! Cosa le avrebbe detto? Sarebbe mai riuscito a celare la sua emozione, e a tacere? Ma perché, poi, tacere? Flip non gli aveva forse raccomandato di preparare pian piano la signora Clifton a rivedere colui che credeva perduto per sempre? Suo padre, il marito di sua madre, non sarebbe forse arrivato tra qualche ora? Ma che cosa poteva dire, immaginare, o fare? Marc rifletteva, spostandosi continuamente tra la spiaggia e la grotta. Ben presto le tenebre si attenuarono, e un tenue chiarore disegnò vagamente i rilievi della costa, facendo scintillare una piccola chiazza di mare all'orizzonte: era la luna che sorgeva ad est. Mezzanotte passata. Se Flip non aveva incontrato difficoltà, in quel momento si trovava già accanto ad Harry Clifton. All'idea che suo padre aveva un amico sicuro che vegliava su di lui, Marc si calmò un po'. Ma nel suo spirito sovraeccitato immaginava, e vedeva, tutti i segni di dedizione e d'affetto che Flip prodigava a suo padre, e che avrebbe tanto voluto prodigargli lui stesso. Allora pensò seriamente a cosa avrebbe detto a sua madre. Avrebbe dovuto necessariamente spiegarle che Flip era tornato nella notte, ripartendo poi col canotto, e perché il marinaio avesse agito così. Marc decise di dire alla madre che, nel corso della sua esplorazione, Flip aveva scoperto un'isola abbastanza vicina alla costa, che gli era sembrata abitata, e che voleva assolutamente arrivarci prima dell'alba. Avrebbe aggiunto che, secondo Flip, l'isola era servita da rifugio a dei naufraghi, perché gli era parso di scorgere su un'altura un palo di segnalazione, che doveva attirare l'attenzione dei naviganti. A quel punto Marc avrebbe insinuato che poteva anche trattarsi di gente del Vankouver. In effetti non era poi così assurdo che una nave che errava alla ventura, privata del suo capitano, manovrata da un secondo ignorante, con un equipaggio in rivolta,
fosse finita contro gli scogli disseminati lungo la costa. Una volta ammessa questa ipotesi, avrebbe lasciato la madre ai suoi pensieri. Marc continuò a riflettere per ore ed ore, temendo di dire troppo, o di non dire abbastanza. Intanto la luna passava al meridiano, e qualche chiarore diffuso, verso est, annunciava già l'alba. Il giorno doveva sorgere abbastanza rapidamente, a quella latitudine relativamente bassa. Seduto su una roccia, Marc era tutto assorto nei suoi pensieri, quando, alzando la testa, vide sua madre in piedi davanti a lui. — Non sei andato a dormire, figliolo? — domandò la signora Clifton. — No, madre — rispose Marc, alzandosi. — No. Durante l'assenza di Flip non riuscivo a dormire, e poi mi sentivo in dovere di vegliare su tutti voi. — Marc, figliolo mio caro — esclamò la signora, prendendo fra le sue le mani del ragazzo. — E Flip? — Flip? — ripeté Marc, esitando un po'. — Be', Flip è tornato. — Tornato?! — esclamò la signora Clifton, guardandosi intorno. — Sì — continuò il ragazzo — tornato… e ripartito… Ha preso la barca. Marc balbettava. Sua madre lo guardò fisso negli occhi. — Perché è ripartito? — domandò. — Madre, è ripartito… — Cosa c'è, Marc? Mi nascondi qualcosa? — No, madre, ve l'ho detto… non so, ma c'è qualche speranza… La signora Clifton gli prese la mano, e restò qualche istante senza parlare. Poi: — Marc — disse — c'è qualche novità? — Madre, ascoltate. Il ragazzo raccontò allora a sua madre i supposti incidenti del viaggio di Flip, e lei lo ascoltò senza pronunciare una parola. Ma quando suo figlio parlò dei naufraghi del Vankouver, e della possibilità di ritrovarli lì, la signora Clifton lasciò la mano di Marc e si alzò, andando sino ai margini della spiaggia. In quel momento gli altri suoi figli le corsero incontro, e le si gettarono fra le braccia. E la signora Clifton – perché? non avrebbe
proprio saputo dirlo – li abbracciò tutti con grande tenerezza, per poi passare ad occuparsi della pulizia di Jack e Belle, senza chiedere ulteriori spiegazioni al figlio maggiore, ma con il cuore turbato da un'indicibile emozione. Marc, intanto, continuava i suoi andirivieni sulla spiaggia, deciso a non aggiungere nient'altro, per non lasciarsi sfuggire il segreto dalle labbra. Ma dovette rispondere a Robert quando il fratello, non vedendo più il canotto al suo solito posto, gli chiese dove fosse mai finito. — L'ha preso Flip questa notte, per continuare a esplorare un po' più a nord. — Ma allora Flip è stato qui? — Sì. — E quando tornerà? — Probabilmente stamattina, verso le otto. Erano le sette e mezza, e la signora Clifton suggerì: — Figlioli, se volete, possiamo andare sulla scogliera incontro al nostro amico Flip. La proposta venne accolta con gioia. Marc non osava più guardare sua madre. Era impallidito udendola parlare, e ora sentiva il sangue rifluirgli al cuore. La signora e i suoi figli si diressero verso la spiaggia, e poco dopo Robert segnalò un punto bianco al largo: una vela, impossibile sbagliarsi. Era il canotto di Flip che, aiutato dalla marea calante, doppiava da presso la punta nord della baia. In meno di mezz'ora sarebbe stato all'accampamento. La signora Clifton guardò Marc, che stava quasi per urlare: — Mio padre, lì dentro c'è mio padre! — e si trattenne soltanto con uno sforzo supremo. Intanto la barca si avvicinava rapidamente alla costa. Le onde spumeggiavano sotto la prua, che si piegava al vento proveniente da terra. E fu presto abbastanza nitida, perché Robert potesse gridare, a ragione: — Ehi, c'è un animale a bordo! — Sì, un cane! — si lasciò sfuggire Marc. La signora Clifton si mise al suo fianco.
— Ah, magari fosse il nostro Fido! — sospirò la piccola Belle. Qualche attimo più tardi, Robert gridava, quasi in risposta alla sorellina: — Ma è Fido! Lo riconosco, madre! È Fido! — Fido! — mormorò la signora Clifton. — Sì, madre! — ripeteva felice Robert. — Fido! Il vostro fedele cane! Ma come mai è con Flip? Fido! Fido! — si mise a gridare a squarciagola, ricevendo in risposta un festoso abbaiare. — Mi ha riconosciuto! Mi ha riconosciuto! — ripeteva Robert. — Fido! Fido! In quel momento la barca entrava nello stretto canale fra l'isolotto e la costa, trascinata dal rapido defluire della marea, e non tardò a raggiungere l'estremità della scogliera, doppiandola con un abile colpo di timone. Allora il cane si tuffò in mare, nuotando veloce verso riva, sempre tagliando di traverso la corrente, che minacciava di portarlo via. E quando raggiunse la spiaggia, si slanciò felice incontro ai ragazzi che lo riempirono di carezze! Intanto, Marc era corso verso il canotto, seguito dalla signora Clifton, pallida in viso come una morta. Aggirato un ultimo piccolo scoglio, la barca approdò infine dolcemente sulla spiaggia. Flip era ritto al timone. Disteso accanto a lui, un uomo si sollevò un attimo, e la signora Clifton cadde svenuta fra le braccia dello sposo che aveva pianto tanto a lungo.
CAPITOLO QUINDICESIMO Finalmente erano di nuovo tutti riuniti! E dimenticarono in un attimo le privazioni, la miseria presente, il minaccioso avvenire che li attendeva, le terribili prove cui la sorte li aveva di volta in volta sottoposti! Arrivarono a dimenticare completamente se stessi, in quell'abbraccio comune che li riuniva tutti sul cuore di Harry Clifton, fra innumerevoli lacrime di gioia! Tornata in sé, la signora Clifton s'era inginocchiata vicino al canotto e ringraziava Iddio. Stando al calendario di Belle, era domenica 1° maggio, un giorno che la famiglia avrebbe trascorso al capezzale del malato, ringraziando il Signore. Harry Clifton si sentiva rivivere. Le cure che gli aveva prodigato Flip, quel po' di cibo che era già riuscito a mandar giù, la speranza, la felicità, tutto contribuiva a restituirgli le forze perdute. E se era ancora molto debole, era però vivo, vivo e vegeto, come aveva detto Flip al giovane Marc. Non essendo in grado di camminare dalla barca fino alla grotta, Harry Clifton fu trasportato da Flip e dai due ragazzi su una barella di frasche, mentre Belle e Jack gli camminavano ai lati, tenendolo per mano. Ad accoglierlo, l'ottimo letto d'erbe e di muschio che la signora Clifton aveva preparato nell'angolo migliore della grotta. L'ingegnere si assopì quasi subito, sfinito dall'emozione e dal viaggio: un sonno che Flip giudicò molto positivo. — Sono un po' medico — spiegò alla signora Clifton — o per lo meno ho curato parecchi malati, e me ne intendo. Quel sonno è un buon segno, davvero! Quanto alla ferita sulla testa, non è nulla, e la cureremo non appena si sveglierà. Ma, ve lo ripeto, signora, è veramente una cosa da nulla. Pensi che io, proprio io, ho avuto la testa schiacciata fra due navi, al porto di Liverpool! Lo si direbbe? No. E da quell'incidente, non ho più mal di testa. Perché, signora Clifton, se non si muore nel giro di tre giorni, per una ferita alla testa, tanto vale mettersi il cuore in pace: si è sicuri di guarire! E il buon Flip, che manifestava volentieri la sua gioia con una loquacità eccezionale, continuava a ridere e a scherzare in mezzo a
un profluvio di parole. Mentre Harry Clifton dormiva, raccontò ai ragazzi e alla madre quello che era successo dal giorno prima: la sua esplorazione della costa nord, la traversata della palude, la comparsa di Fido, cui andava tutto il merito della faccenda, perché Fido aveva riconosciuto Flip, mentre Flip "quell'imbecille, quell'idiota" non aveva riconosciuto Fido! Potete ben immaginarvi le feste e le carezze di cui Fido venne fatto oggetto. Il giorno prima, ad esempio, durante un giro d'esplorazione sulle rive del lago, Marc aveva ucciso un'anitra. La quale anitra, appunto, fu incontestabilmente aggiudicata all'intelligente cane, che se la pappò in un solo boccone, provocando l'invidiosa riflessione di Jack: — Beato te! Tu si che sei fortunato: ti piace la carne cruda! Flip non poté raccontare nulla, invece, perché non le conosceva ancora, delle vicissitudini del signor Clifton, della sua fuga dal Vankouver, e del suo arrivo lì, su quella terra. — Ed è ben fortunato — aggiunse — perché così avrà il piacere di raccontarci lui stesso le sue avventure! Ora bisognava pensare al suo risveglio. Ah, se gli si fosse potuta offrire qualche tazza di brodo ben caldo! Ma era inutile fantasticare e, in mancanza della bevanda corroborante, Flip decise di preparare qualche ostrica freschissima, un cibo che lo stomaco debilitato di un malato avrebbe sopportato senza difficoltà. La signora Clifton s'incaricò della scelta dei molluschi migliori nel vivaio domestico. Intanto Flip andò a prendere nel canotto gli oggetti portati dal signor Clifton, oggetti preziosi quant'altri mai: un coltello a più lame e a sega, che veniva giusto giusto a sostituire il coltello di Flip, un'ascia di cui l'abile marinaio avrebbe apprezzato in seguito tutto il valore e che, in mano sua, si sarebbe rivelata un attrezzo di grande utilità. Quanto alla pistola, che purtroppo era scarica, non conteneva più neanche un granellino di polvere, e non poteva quindi servire a procurarsi il fuoco. Dei tre, era senz'altro l'oggetto meno utile, benché Robert si divertisse a brandirlo con aria bellicosa. Quindi attesero tutti, impazienti, il risveglio del signor Clifton. Erano più o meno le undici, quando l'ingegnere, rinvigorito da quel bel sonno tranquillo, chiamò la moglie e i figli intorno a sé,
sottoponendosi di buon grado alle cure di Flip e della signora, che gli medicarono la ferita, ormai in via di cicatrizzazione. Poi mangiò con estremo piacere le ostriche che sua moglie gli offriva. Le riserve di carne e galletta erano terminate, e la povera donna tremava all'idea che il malato gliene chiedesse. Ma per stavolta, almeno, le ostriche bastarono. Harry Clifton si sentiva molto meglio, e cominciava già a riprendere la parola, chiamando ciascuno per nome, mentre sulle sue guance pallide e incavate ricompariva un po' di colorito. Riposandosi tra una frase e l'altra, riuscì perfino a narrare a tutti la sua storia dopo la rivolta del Vankouver. Dopo la morte del capitano Harrisson, la nave aveva fatto rotta verso sud, sotto il comando del secondo. Prigioniero nella sua cabina, Clifton non poteva comunicare con nessuno, e pensava continuamente alla moglie e ai figlioli, abbandonati in mare. Che ne sarebbe stato di loro? Quanto a lui, la sua sorte era certa: quei forsennati l'avrebbero messo a morte. Dopo qualche giorno, accadde quel che accade sempre, quando una nave si trova in condizioni del genere. Dopo essersi rivoltati contro il capitano Harrisson su ispirazione del secondo, i canachi si rivoltarono anche contro di lui, un farabutto della peggiore specie, che li aveva provocati con la sua crudeltà. Tre settimane dopo la prima rivolta, il Vankouver, tornato verso nord, era rimasto bloccato dalla bonaccia in vista di una costa, che altro non era se non la parte settentrionale di quella terra, invisibile dai tratti di costa fino ad allora esplorati da Flip. La mattina del 24 aprile, quando aveva sentito sul ponte un grande tumulto e un intrecciarsi di grida, Harry Clifton aveva capito che la situazione si stava aggravando e che forse gli si offriva l'occasione di riconquistare la libertà. Così, quando gli parve che la sorveglianza si fosse allentata, ne approfittò per forzare la porta della cabina e precipitarsi nella sala da pranzo. E dopo aver preso dall'arsenale una pistola carica e un'ascia, si lanciò sul ponte, seguito da Fido. La rivolta era al culmine, con una lotta cruenta fra l'equipaggio e i canachi. Nel momento in cui Clifton comparve sul ponte, la situazione del secondo e dei suoi appariva disperata, circondati com'erano dalla folla urlante dei canachi, armati di picche e di asce.
Poco dopo il secondo, colpito a morte, cadde per terra in un lago di sangue. Clifton si rese conto che per la nave non c'era più niente da fare e che sarebbe stata la fine anche per lui, se fosse caduto nelle mani dei canachi. Così decise di rischiare la vita, per raggiungere la costa a due miglia sotto vento, e si diresse verso il parapetto, deciso a gettarsi in mare. Ma non era passato inosservato, e due rivoltosi gli si lanciarono subito contro. Clifton ne abbatté uno con un colpo di pistola, ma non riuscì a evitare l'altro, che lo colpì alla testa con una spranga, facendolo precipitare oltre la sponda. Quando risalì in superficie, rianimato al contatto con l'acqua fredda, Clifton vide che il Vankouver era già lontano. Accanto a lui, invece, risuonò il latrato di Fido, che gli nuotava a fianco, fornendogli un valido punto d'appoggio. La corrente portava a terra, ma la distanza da percorrere era molta. Ferito e indebolito, Harry Clifton si dibatté più volte contro la morte, e ogni volta il suo fedele compagno lo riportò in superficie. Infine, dopo una lunga lotta, spinto dalla corrente, Clifton si sentì la sabbia solida sotto i piedi. E, con l'aiuto di Fido, si trascinò fino alla duna, dove sarebbe senz'altro morto di fame se, guidato dal cane, Flip non l'avesse finalmente trovato. Terminato il racconto, Harry Clifton afferrò la mano di Flip, stringendola fra le sue. — Ma, signore — gli domandò il marinaio — che giorno è che avete lasciato il Vankouver e la sua masnada di farabutti? — Il 23 aprile. — Benissimo! — esclamò Flip. — Visto che oggi è il 1° maggio, erano ormai otto giorni che eravate disteso su quella duna, ad aspettare la morte! E io che non ci avevo neanche pensato! Che idiota! In quel momento il signor Clifton manifestò il desiderio di bere qualcosa di caldo. Una richiesta che gettò tutti nel panico: ci fu un intrecciarsi di occhiate disperate, e la signora Clifton impallidì. Bisognava rivelare al malato lo stato di privazione cui era ridotta la
sua famiglia? Flip pensava fosse meglio evitarlo e, facendo segno alla signora di tacere, si affrettò a rispondere allegro: — Benissimo, signore: una bevanda calda! In effetti ci vuole. Un brodo di capibara, per esempio. Ve lo faremo senz'altro, solo che adesso il fuoco è spento; l'ho lasciato stupidamente spegnere io, finché chiacchieravamo. Ma lo riaccendo subito. E Flip uscì dalla grotta, seguito dalla signora Clifton. — No — signora — disse sottovoce — per ora è meglio non dirglielo. Domani. Più tardi. — Ma se domanda il brodo caldo che gli avete promesso? — Sì, lo so! E molto imbarazzante. Ma cerchiamo di guadagnare tempo! Magari se ne dimentica… Già, bisogna distrarlo. Raccontategli la nostra storia! Flip e la signora Clifton rientrarono nella grotta. — Allora, signor ingegnere, come va? — domandò il marinaio. — Meglio, vero?! Se avete la forza di ascoltarci, la signora Clifton vi racconterà le nostre avventure! Che non sono da meno delle vostre, sentirete! A un cenno del marito, la signora cominciò il suo racconto, spiegando nei dettagli cos'era successo dal giorno in cui avevano lasciato il Vankouver. l'arrivo alla foce del fiume, il primo accampamento sotto il canotto, l'escursione nella foresta, l'esplorazione della scogliera e della spiaggia, la scoperta del lago e della grotta, la caccia, la pesca. Non tralasciò nemmeno l'incidente del coltello spezzato, ma non fece parola della bufera e del fuoco spento. Poi parlò dei suoi figli, della loro dedizione e del loro coraggio, concludendo che erano veramente degni del loro padre. Infine, fece un tale elogio di Flip e della sua abnegazione sublime, ringraziandolo con gli occhi gonfi di lacrime di riconoscenza, che il marinaio, paonazzo, non sapeva più dove nascondersi. Harry Clifton si sollevò un po' e, posando le mani sulle spalle di Flip, accovacciato accanto al suo giaciglio: — Flip — gli disse con un accento che tradiva la più viva emozione — avete salvato mia moglie e i miei figli, ed avete salvato anche me! Che Dio vi benedica, Flip!
— Ma no, signor ingegnere — rispose il marinaio — non è niente… È stato tutto un caso… voi siete davvero troppo buono… E, sottovoce, alla signora Clifton: — Continuate, signora, continuate! Così non pensa al brodo! Poi si rivolse nuovamente a Harry Clifton: — Del resto non è stato fatto ancora niente, signor ingegnere. Vi aspettavamo. Non volevo agire senza vostri ordini. Inoltre avevo bisogno di un'ascia e di un coltello da sostituire a quello mio rotto, e voi avete avuto la bontà di portarmi tutto quanto! Non è vero, signorino Marc? — Sì, Flip — rispose il ragazzo, sorridendo. — Avete davvero dei bravi ragazzi, signor Clifton. Una famiglia simpatica, e in gamba! Un po' impaziente, forse, il signorino Robert, ma passerà! Credetemi, signore, con questi ragazzi e con voi, che siete ingegnere, riusciremo sicuramente a combinare qualcosa! — Soprattutto se voi ci date una mano, Flip — rispose il signor Clifton. — Sì, padre! — esclamò Marc. — Il nostro amico Flip sa fare di tutto! Marinaio, pescatore, cacciatore, carpentiere, fabbro… — Oh! Signorino Marc! — ribatté Flip. — Non esageriamo! Faccio un po' di tutto, come tutti i marinai, ma male, molto male. Non ho idee, io! Devo essere guidato! Ma, adesso che c'è il signor Clifton, io… Saremo molto felici, qui! — Felici — disse l'ingegnere, guardando sua moglie. — Sì, caro Harry — rispose la signora Clifton. — Io non ho più nulla da desiderare, da quando mi siete stato restituito! O forse sì. Ma, ad ogni modo, non abbiamo né parenti né amici che ci aspettano laggiù! Rientravamo in patria da stranieri! Sì, penso anch'io, come il nostro amico Flip, che potremo vivere felici in quest'angolo di terra, aspettando che Dio, nella sua infinita giustizia, ci conceda di venirne via! Harry Clifton si strinse al petto la moglie, così forte e fiduciosa. E sentiva la vita rifluire dentro di sé, circondato da quel piccolo mondo, in cui si concentravano tutti i suoi affetti.
— Sì! — disse. — Sì! potremo ancora essere felici! Ma, rispondetemi, caro Flip, questa terra fa parte di un continente o di un'isola? — Chiedo scusa, signore — rispose Flip, felice che la conversazione avesse ormai imboccato quella strada — ma è una questione che non abbiamo ancora risolto. — Eppure è importante. — Molto importante, infatti. Ma adesso le giornate si allungano, e non appena sarete in perfetta salute, signor Clifton, esploreremo assieme il nostro nuovo regno. Così sapremo se abbiamo diritto, o no, alla qualifica di isolani! — Se questa terra è solo un'isola — continuò Harry Clifton — abbiamo ben poche speranze di essere mai rimpatriati, perché non sono molte le navi che solcano questa parte del Pacifico! — Infatti, signore. E in tal caso, dovremo contare solo su noi stessi. Se questa terra è un'isola, e se mai riusciremo ad uscirne, sarà solamente alla condizione di procurarci da soli i mezzi per poterla lasciare. — Costruire una nave! — esclamò Robert. — Eh, eh! — rispose Flip, sfregandosi le mani — per il momento abbiamo un canotto, ed è già qualcosa. — Figlioli — riprese Harry Clifton — prima di cercare di lasciare quest'isola, se mai lo è, cercheremo di sistemarci per bene. In seguito vedremo cosa converrà fare. Ma, ditemi, Flip, voi che avrete certamente esplorato un po' i dintorni, che ne pensate? — Un gran bene, signor ingegnere. È senz'altro un paese stupendo, e soprattutto molto vario. Verso nord, non lontano dal luogo dove eravate, c'è una vasta palude in cui pullulano gli uccelli acquatici. Sarà un'ottima riserva per i nostri giovani cacciatori! Sì, mio giovane signore — continuò rivolto a Robert — una palude fatta apposta per voi, ma non dovete impantanarvici! Verso sud, signore, c'è una regione arida, selvaggia: dune, rocce, un banco di ostriche, di quelle buone ostriche che avete appena mangiato, un banco inesauribile! E, più all'interno, praterie verdeggianti, magnifiche foreste, alberi di tutte le specie, palme da cocco. Sì, signore, non sto cercando di sorprendere la vostra buona fede: abbiamo delle vere
palme da cocco. Se non vi spiace, signorino Robert, andate a raccogliere una noce per vostro padre, una non troppo matura, così il latte è migliore. Robert uscì di corsa. Preso dall'allegro chiacchiericcio del marinaio, Harry Clifton non pensava più a reclamare la sua bevanda calda. E Flip continuava, felice, a ritmo sempre più serrato: — Sì, signor ingegnere, devono essere foreste immense, di cui non conosciamo che una minima parte. Il signorino Robert vi ha già catturato un bel capibara! E poi, dimenticavo! Abbiamo anche una garenna, ben popolata da ottimi conigli! E un bell'isolotto, che non abbiamo ancora avuto il tempo di visitare! E anche un lago, signore, non uno stagno, ma un vero lago, con una bell'acqua limpida, e pesci prelibati che non desiderano altro che di farsi prendere! Di fronte a un racconto così accattivante, il signor Clifton non poté fare a meno di sorridere, mentre sua moglie guardava commossa il buon Flip, che Belle e Jack divoravano con gli occhi. Mai avrebbero pensato che il loro regno potesse suscitare descrizioni così entusiaste! — E la montagna — suggerì Jack. — E la montagna — riprese Flip. — Il signorino ha ragione. Stavo per dimenticare la montagna, con il suo picco innevato! Un picco vero, non un modesto pan di zucchero! No! Un picco alto quasi duemila metri, che un giorno scaleremo! Ah, continente o isola che sia, non potevamo certo scegliere meglio! In quel momento, Robert rientrò con una noce di cocco fresca. Flip ne versò il latte in una tazza di bambù e il malato bevve quella bibita benefica con estremo piacere. Flip continuò a incantare il suo auditorio per più di un'ora; l'immagine che del paese dipingeva, i vantaggi incontestabili che presentava, i progetti così facilmente realizzabili di cui parlò con l'ingegnere, vi avrebbero certamente fatto venir voglia di emigrare in quella terra benedetta. — Saremo i Robinson del Pacifico! — disse Marc. — Sì, signorino — concordò Flip. — Bene! — intervenne Jack — e io che ho sempre sognato di vivere in un'isola con la famiglia del Robinson svizzero!
— Ebbene, signorino Jack, eccovi servito a piacimento! A piacimento. Flip dimenticava che in quel racconto immaginario l'autore ha messo tutto, industria e natura, al servizio dei suoi naufraghi. Che ha scelto per loro un'isola tutta particolare, con un clima da cui sono banditi i temibili rigori dell'inverno. Un'isola dove i naufraghi trovano ogni giorno, più o meno senza cercare, l'animale o il vegetale di cui hanno bisogno. Posseggono armi, attrezzi, polvere da sparo, vestiti; hanno una mucca, qualche pecora, un asino, un maiale, delle galline, e la loro nave, incagliata, fornisce loro in abbondanza legno, ferro e semi di ogni tipo. No, la situazione non era, e non poteva essere, la stessa. I naufraghi svizzeri erano dei miliardari! Loro, invece, dei poveracci ridotti alla più completa miseria, che dovevano ingegnarsi a creare ancora tutto, intorno a sé. Ma Harry Clifton, che non s'illudeva di certo, tenne per sé le considerazioni suggeritegli dal paragone di Flip, limitandosi a chiedergli se non rimpiangesse davvero nulla. — Nulla, signor Clifton, nulla! Non ho famiglia. Anzi, credo di essere rimasto orfano ancor prima di venire al mondo. E così Flip parti di nuovo, spiegando al signore e alla signora Clifton che era francese di nascita, originario della Piccardia di Marquenterre, ma molto americanizzato. Aveva attraversato il mondo intero, per terra e per mare! E, avendo visto tutto, non poteva più meravigliarsi di nulla. In fatto di disgrazie e di avventure, del resto, gli era capitato tutto quello che può capitare a una creatura umana. Perciò, se ogni tanto si voleva "giocare alla disperazione", non bisognava contare su lui! A sentir parlare Flip con quella sua voce franca e chiara, a vedere i suoi gesti rassicuranti e la sua persona che traspirava forza e salute, si sarebbe rianimato persino un moribondo: se Harry Clifton non aveva l'isola incantata del Robinson svizzero, aveva però il fedele, devoto Flip, e non vedeva l'ora di star bene per visitare con lui quella terra sconosciuta, e colonizzarla. Per il momento, però, si sentì sopraffatto dal sonno, e la signora Clifton pregò i ragazzi di lasciarlo riposare. Stavano per uscire tutti dalla grotta, quando Belle osservò, fermandosi:
— Ah, signor Flip, adesso non potremo più chiamarvi "papà Flip", visto che abbiamo ritrovato nostro padre! — Papà Flip! — mormorò sorridendo l'ingegnere. — Sì, signore, vi prego di scusarmi — disse il marinaio. — Quest'affascinante signorina e il signorino Jack avevano già preso l'abitudine di chiamarmi papà. Ma adesso… — Be', adesso — intervenne Jack — papà Flip diventerà nostro zio! — Sì! Lo zio Robinson! — gridò Belle, battendo le mani. E tutti, di comune accordo, lanciarono tre hurrà per "lo zio Robinson"!
CAPITOLO SEDICESIMO Lo zio Robinson! Jack e Belle erano molto orgogliosi del loro appellativo. Un titolo che inizialmente Flip rifiutò, perché voleva essere solo l'umile servitore della famiglia. Ma quando gli spiegarono che lì non c'erano né servi né padroni, dovette rassegnarsi. Del resto, non è che cambiare nome gl'importasse più di tanto! Si chiamava Pierre Fanthome in Piccardia, Flip in America. E perché no zio Robinson in una regione dell'oceano Pacifico? Il sonno di Harry Clifton si protrasse fino all'indomani sera. Ma, mentre l'ingegnere dormiva, lo zio Robinson, o anche, semplicemente, "zio", come lo chiamavano più spesso i suoi nuovi nipoti, pensava con una certa inquietudine al suo risveglio, quando il convalescente avrebbe chiesto da mangiare, e la questione del brodo si sarebbe fatta "scottante"! Lo zio ne parlò con la signora Clifton: — Che volete, signora, gli dovremo pur confessare la nostra situazione, prima o poi. Come abbiamo ritrovato il marito, vedrete che, un giorno, ritroveremo anche il fuoco. Come, non so proprio, ma lo ritroveremo di sicuro. La signora Clifton scuoteva la testa, con un'aria dubbiosa che lo zio Robinson si sforzava, invano, di dissipare. L'indomani, 2 maggio, Harry Clifton, svegliandosi, si sentì molto meglio. Presto sarebbe stato abbastanza forte da lasciare la grotta. Dopo avere abbracciato la moglie e i figlioli, e avere stretto la mano allo zio Robinson, l'ingegnere confessò che aveva fame. — Bene, signore, benissimo — si affrettò a rispondere lo zio, allegramente. — Cosa dobbiamo servirvi? Chiedete! Non fate complimenti. Abbiamo ancora delle ostriche freschissime! — E aggiungete, zio, che sono eccellenti! — esclamò Harry Clifton. — Poi abbiamo della noce di cocco e del latte di cocco, e vi assicuro, signore, che non c'è alimento migliore per uno stomaco debilitato!
— Vi credo, zio, vi credo. Però, pur non essendo medico, io penso che un pezzetto di selvaggina, ben grigliata, non mi farebbe male. — Credete, signore? — ribatté lo zio. — Non dovete avere fretta di tornare a un'alimentazione troppo sostanziosa. Siete nella stessa situazione di quei poveri naufraghi che vengono raccolti sui relitti delle navi, mezzi morti di fame e di sete. Pensate che sia loro concesso di soddisfare immediatamente il loro appetito? — Immediatamente no — rispose Clifton — ma il giorno dopo, non credo proprio che glielo si impedisca… — A volte, signore, a volte — continuò Flip con grande faccia tosta — la cosa può andare avanti anche per otto giorni! Sì, signor Clifton, otto giorni belli completi. Io, ad esempio, proprio io che vi parlo, nel '55 ho fatto naufragio. Mi hanno raccolto, hanno avuto la bontà di raccogliermi su una zattera. Be', ho voluto mangiare troppo in fretta, e c'è mancato poco che morissi. Da allora, ho uno stomaco… — Eccellente? — domandò Clifton. — Eccellente, ne convengo — rispose Flip. — Ma avrebbe anche potuto finir male! Certo che era difficile restare seri ai ragionamenti dello zio Robinson! — Va bene, zio — capitolò l'ingegnere — mi sottoporrò ancora per oggi alla dieta che mi prescrivete. Però non penso che troviate nessun inconveniente nel fatto ch'io prenda qualche bevanda calda?! — Bevanda calda! — esclamò lo zio Robinson, sentendosi con le spalle al muro. — Una bevanda calda! Perfetto, signore! Quanta ne vorrete! Un po' di brodo, per esempio! — Sì. — Benissimo! Allora, adesso io e il signorino Robert andremo a battere tutta la foresta per catturarvi un brodo, voglio dire, di che farvi un brodo di prima qualità, con dei begli occhi di grasso, grandi come quelli della signorina Belle. D'accordo? Così, quel mattino, Harry Clifton dovette accontentarsi di alghe, ostriche e noci di cocco. Di ritorno dalla garenna, Robert e lo zio Robinson portarono due conigli presi con i lacci. E quando lo zio mostrò all'ingegnere il bottino della sua caccia, convennero entrambi
che un brodo di coniglio, bello caldo, avrebbe senz'altro contribuito a rendergli le forze. E mentre i ragazzi erano occupati nella raccolta dei frutti che costituivano il loro cibo principale, e la signora Clifton e Belle lavavano quel po' di biancheria di cui la piccola colonia poteva disporre, lo zio Robinson, seduto accanto al letto di muschio dell'ingegnere, s'intratteneva con lui. Clifton gli domandò se avesse mai avuto motivo di pensare che ci fossero delle bestie feroci, il che avrebbe certo costituito un grave pericolo per gente assolutamente priva di armi. Lo zio non osò pronunciarsi sull'argomento, ma raccontò l'episodio della sua prima visita alla grotta, disegnando sulla sabbia l'impronta che quella stessa sabbia portava impressa tre settimane prima. L'ingegnere, che l'ascoltava con grande attenzione, era del parere che si dovesse costruire al più presto una robusta palizzata, per proteggere l'entrata della grotta. E raccomandò allo zio di tenere accesi dei grandi falò, durante la notte, perché difficilmente le belve si azzardano a superare una barriera di fiamme. Lo zio Robinson promise di farlo senz'altro, aggiungendo, fra l'altro, che la legna non sarebbe mai mancata, e che la colonia possedeva distese di foreste inesauribili. L'ingegnere passò poi alla questione cibo informandosi se ci sarebbe mai stata da temere la fame. No, lo zio pensava di no. C'erano frutta, uova, pesci, molluschi in abbondanza, e poi si sarebbero potute rinnovare le provviste ancora più facilmente, non appena si fossero perfezionati gli attrezzi da caccia e pesca. Clifton passò allora all'abbigliamento. I vestiti dei bambini si sarebbero consumati in fretta: c'era modo di sostituirli? Secondo lo zio Robinson bisognava fare una distinzione: alla biancheria si sarebbe dovuto necessariamente rinunciare entro breve tempo. Per i vestiti, invece, era un'altra cosa, e gli animali si sarebbero assunti il compito di fornirli. — È evidente, signor Clifton, che se non possiamo evitare la visita delle bestie feroci, ne approfitteremo per prendere in prestito la loro pelliccia.
— Però non è che la diano senza farsi pregare, zio! — Le pregheremo, signore, non preoccupatevi. Voi, intanto, pensate a guarire, e vedrete che andrà tutto bene. Quel giorno Jack si distinse per un colpo da maestro: con una fibra di cocco e un pezzetto di stoffa, fece una pesca miracolosa di rane fra le erbe del lago. Appartenenti al genere impropriamente chiamato rospo bruno, quei batraci erano, in realtà, delle vere e proprie rane, ottime da mangiare. Che brodo eccezionale si sarebbe potuto fare per il signor Clifton, con quella carne bianca e leggera, piena di gelatina! E se la pesca di Jack non poté essere utilizzata, lo zio Robinson si complimentò comunque moltissimo con lui per la sua bravura. Il giorno dopo, venerdì, dopo una notte abbastanza buona, l'ingegnere si sentiva molto più in forze, ed anche la ferita sulla testa si andava cicatrizzando rapidamente. Seguendo i consigli dello zio e della moglie, tuttavia, acconsenti a starsene a letto ancora per quel giorno, ben deciso, però, a farsi, l'indomani, la sua prima camminata nei pressi della grotta. Con una testardaggine un po' inspiegabile, lo zio s'ingegnò ancora a schivare la questione del fuoco. Ma perché? Tanto, gliela si sarebbe dovuta spiegare per forza, un giorno o l'altro. E il signor Clifton l'avrebbe saputo in ogni caso. E poi, non era meglio che lo sapesse al più presto? Possibile che non fosse in grado di reggere a un colpo che sua moglie e i suoi figli avevano sopportato benissimo?! O forse lo zio Robinson contava su un caso fortuito, per rendergli ciò che aveva perduto? Probabilmente no, però non riusciva a decidersi a parlare, incoraggiato in questo dalla stessa signora Clifton che, vedendo suo marito ancora debole, esitava a causargli un nuovo dolore. Comunque fosse, lo zio Robinson non sapeva più come sfuggire alle domande di Harry Clifton. Ovvio che, quando gli avesse portato le ostriche e le noci di cocco abituali, l'ingegnere avrebbe reclamato il brodo che gli era stato così formalmente promesso. E a quel punto lo zio non avrebbe più saputo cosa rispondere. Fortuna che ci pensò il tempo, a trarlo d'impaccio! Il cielo s'era coperto durante la notte, e al mattino scoppiò una violenta burrasca,
accompagnata da scrosci di pioggia. Gli alberi si piegavano sotto il vento, e la sabbia della riva volava come grandine. — Ah, che bella pioggia, che bella pioggia! — esclamò lo zio. — Che pioggia orribile! — ribatté Marc, che pensava di scendere la costa fino al banco di ostriche. — No, no, bellissima, vi dico, signorino Marc! Ed è la nostra salvezza! La gioia dello zio era assolutamente inspiegabile al ragazzo, finché, entrando nella grotta, lo sentì dire a suo padre, in tono stizzito: — Ah, signor ingegnere, che tempaccio! C'è un vento! E una pioggia! Impossibile tenere il fuoco acceso! E così, eccolo spento un'altra volta! — Be', caro amico! — rispose il signor Clifton. — Non è poi una gran disgrazia. Lo riaccenderemo quando la bufera si sarà placata. — Certo, signore, certo che lo riaccenderemo. Non è questo che mi preoccupa. È per voi, che il contrattempo mi secca! — Per me? — Sì! Stavo per farvi un ottimo brodo di rana, quando le braci sono tutte volate via. — Che volete farci, zio? Ne farò a meno. — E colpa mia! E tutta colpa mia! — ripeteva lo zio, calcando forse un po' troppo la sua onesta menzogna! — Perché non l'ho fatto ieri, quel malaugurato brodo, finché il fuoco guizzava vivace? Com'era bello scoppiettante! Così ora avreste quell'ottima bevanda, che vi fa tanto bene! — Non prendetevela così, zio Robinson. Aspetterò un altro giorno ancora. Ma come faranno mia moglie e i ragazzi, a prepararsi il pranzo? — Oh, signore, noi abbiamo la nostra riserva di gallette e carne salata. La riserva! Il marinaio sapeva benissimo che la signora gli aveva dato l'ultimo pezzetto di galletta e di carne, quando aveva tentato l'ultima escursione nel nord del paese.
— Sapete, zio — continuò Harry Clifton — bisognerà pensare a qualche altra sistemazione per il fuoco. Non possiamo lasciarlo in un posto, dove ogni colpo di vento minaccia di spegnerlo. — D'accordo, signor Clifton; ma come si può scavare una caminella in questa volta di granito? Ho ispezionato tutte le pareti: non c'è un buco, una fessura. Comunque, un giorno ci costruiremo una casa, una vera casa! — Una casa di pietra? — No, di legno, una casa di travi e di assi. Ora che abbiamo l'ascia, non sarà difficile. Vedrete come il vostro servitore maneggia quell'attrezzo, solo per aver lavorato sei mesi da un carpentiere di Buffalo! — Bene, amico mio — rispose l'ingegnere. — Allora vi vedremo all'opera. Quanto a me, io non chiedo di meglio che di lavorare ai vostri ordini. — Voi? Un ingegnere! — esclamò lo zio Robinson. — E j progetti, signore, chi li farà i progetti, se non ci pensate voi? È che ci occorre un'abitazione confortevole, con finestre, porte, camere, sale, camini… soprattutto camini! Guai a dimenticarli! Come sarà bello, quando si torna la sera da un giro lontano, scorgere un piccolo filo di fumo bluastro che sale verso il cielo, e dirsi: laggiù c'è un bel fuoco che ci attende, e degli amici che ci fanno festa! Il marinaio chiacchierava, inesauribile, infondendo speranza e coraggio a tutta la famiglia. Continuò a piovere fino a notte. Impossibile avventurarsi fuori. Ma tutti avevano qualcosa da fare all'interno. Con la sega del coltello di Harry Clifton, lo zio Robinson completò la sua serie di vasi di bambù! Poi costruì dei piatti piani, che sostituirono benissimo le conchiglie utilizzate sino ad allora. E sistemò il suo coltello, o per lo meno arrotondò quel che restava della lama, passandolo su un ciottolo, per poi usarlo così. Non restarono oziosi neanche i bambini, che si occuparono di pinoli e noci di cocco, e versarono qualche pinta di latte nelle zucche, dove la fermentazione l'avrebbe trasformato in liquore alcoolico. Robert ripulì la pistola di suo padre, tutta arrugginita dall'acqua salata, cui sembrava tenesse molto. E la signora Clifton lavò i vestiti dei bambini.
L'indomani, sabato 3 maggio, il cielo rasserenato prometteva una giornata magnifica. Il vento si era spostato a nord-est, e il sole brillava limpido in cielo. Così lo zio non aveva nemmeno più l'apparenza di un pretesto per non accendere il fuoco. In più, l'ingegnere aveva fretta di uscire per andare a vedere i dintorni dell'accampamento, e desiderava bagnarsi nei tiepidi raggi del sole, cui avrebbe chiesto una completa guarigione. Così domandò allo zio il sostegno del suo braccio. E lo zio, che non aveva nessuna ragione plausibile per rifiutare, si rassegnò a offrirgli il braccio, uscendo dalla grotta come una vittima che si avvii al supplizio. Harry Clifton fece subito un gran sospiro di soddisfazione, fiutando l'aria fresca e tonica quasi fosse un corroborante. Non aveva preso ancora niente "di così caldo"! Guardò il mare tutto luccicante, e scese fino alla spiaggia; osservò l'isolotto, lo stretto canale, le sinuosità della costa, e la rada foranea. Poi, girandosi, vide la scogliera in primo piano, la verde cortina d'alberi, la prateria lussureggiante, il lago con i riflessi blu inquadrato nella spessa cornice delle foreste, e il picco che dominava, alto, l'insieme. Trovò quella natura affascinante e di buon auspicio per i mille progetti che già si formavano nella sua mente di ingegnere, e che voleva mettere in pratica senza indugio. Appoggiandosi ora al braccio della moglie, ora a quello dello zio Robinson, Harry Clifton tornò verso la grotta esaminando la falesia, ed arrivò fatalmente nel punto in cui la roccia annerita indicava la presenza di un fuoco ormai spento. — Era lì, il fuoco? — domandò. — Sì, certo, capisco che con il vento che vortica intorno a questa falesia si spenga facilmente. Gli cercheremo una sistemazione migliore, ma per il momento accontentiamoci. Su, ragazzi, Marc, Robert, due o tre fascine di legna secca. Visto che il combustibile non manca, accendiamo subito un bel fuoco. A quelle parole, tutti si guardarono senza rispondere. E lo zio abbassò gli occhi a terra, con aria colpevole. — Allora, figlioli — insistette l'ingegnere — mi avete sentito? Qualcuno doveva rispondere. E la signora Clifton capì che toccava a lei prendere la parola.
— Caro — disse tenendo fra le sue la mano del marito — ti devo confessare una cosa. — Che cosa, cara Elise? — Harry — riprese la signora con voce grave — siamo senza fuoco. — Senza fuoco? — esclamò Clifton. — E non abbiamo niente per accenderlo! Harry Clifton si sedette su una roccia, senza aggiungere una sola parola. Allora la moglie gli raccontò dello sbarco e dell'incidente del fiammifero, gli spiegò come avevano trasportato il fuoco sino alla grotta e in che condizioni, malgrado la più attenta sorveglianza, si fosse spento sotto l'imperversare di una bufera. La signora non aveva nemmeno accennato a Marc, ma il ragazzo si avvicinò al padre. — È successo mentre ero io di sorveglianza. Clifton gli prese la mano e l'attirò a sé, stringendolo al petto. — E non avete neanche un pezzetto di esca? — domandò. — No, caro — rispose la signora Clifton. A quel punto lo zio decise di intervenire: — Ma non ogni speranza è persa! — esclamò. — Non è possibile che non riusciamo a trovare il modo di accendere un fuoco! Sapete su cosa conto, signor Clifton? — No, caro amico. — Sulla natura, signore, sulla natura stessa, che un giorno ci restituirà quello che ci ha tolto. — E come? — Con un colpo di fulmine! Un albero incendiato, e il nostro fuoco è subito ripristinato. — Sì — rispose l'ingegnere. — Ma nell'attesa che il vostro fuoco sia riacceso da questo colpo di fulmine alquanto problematico, non sarebbe comunque sempre alla mercé della prima burrasca? Avete già provato ad accenderlo sfregando due pezzetti di legno? — Sì — rispose Robert — ma non ci siamo riusciti. — Se almeno avessimo una lente! — aggiunse Marc. — Al posto della lente si possono sempre usare due vetrini di orologio — spiegò l'ingegnere — tra i quali s'introduce un po' d'acqua.
— Giusto, signor Clifton — ribatté lo zio — però non abbiamo nessun orologio! — Si potrebbe anche — continuò l'ingegnere — scaldare un po' d'acqua sino al punto di ebollizione, trasmettendole un movimento rapido in un vaso isolato! — Ottimo metodo per fare un bollito, invece dell'arrosto. Vedete, signor Clifton, non sono metodi praticabili, e la mia sola speranza è di trovare una specie di fungo che sostituisca l'esca. — Ma un panno bruciato può fungere benissimo da esca. — Lo so — ribatté Flip — ma vorrei far osservare al signor Clifton che, per bruciare un panno, bisogna prima di tutto avere il fuoco! E per avere il fuoco… — C'è un metodo molto più semplice di tutti quelli elencati finora! — concluse Clifton. — Quale? — esclamò lo zio Robinson, spalancando gli occhi. — Usare l'esca che ho in tasca! — concluse Clifton, sorridendo. E fu di colpo la gioia generale, tra gli hurrà dei ragazzi, e l'urlo che lo zio si lasciò sfuggire di bocca, come impazzito! Lui, proprio lui, che niente sembrava scalfire! A onor del vero, bisogna anche aggiungere che si mise a ballare una bella giga saltellante, che avrebbe fatto invidia a uno scozzese. Poi, prese Belle e Jack per mano, e li trascinò in un girotondo sfrenato, sempre cantando: Ha in tasca un po' di esca Il valoroso, degno signore C'è di che diventar matti! Ha in tasca un po' di esca!
CAPITOLO DICIASSETTESIMO Ripresosi dall'accesso di gioia, Flip si picchiò sulla fronte, affibbiandosi una sfilza di epiteti non propriamente elogiativi. Quanti sotterfugi inutili, in quei tre giorni, mentre il malato aveva in tasca la soluzione! Forse l'ingegnere l'aveva tirata un po' troppo in lungo, invece di far saltare fuori l'esca sin dalle prime parole di sua moglie. Ma chi mai se la sentiva di rimproverarlo? Sbollita l'euforia generale, lo zio si occupò finalmente dell'accensione del fuoco. Niente di più facile: con la lama spezzata che fungeva da accendino, una selce e un po' d'esca, non c'era bisogno di nient'altro. Il pezzo di esca dell'ingegnere era grande come una carta da gioco, e molto asciutto. Lo zio ne strappò un pezzetto, riponendo con cura il resto. Poi preparò il falò con foglie, legna sottile e muschio secco, in modo che si potesse accendere facilmente. Dopodiché, si preparava a far scaturire delle scintille, quando Robert lo chiamò: — Zio Robinson! Vi potrebbe servire la mia pistola? — E come? — Al posto della polvere, mettete nel bacinetto un pezzettino di esca, e sparate: prenderà fuoco di sicuro. — È un'idea, signorino, e la metteremo subito in pratica! Lo zio prese la pistola, mise nel bacinetto un pezzo di esca, ed armò. — Lasciatemi tirare! — pregò Robert. Flip gli passò l'arma. Il ragazzo tirò, e le scintille della selce accesero l'esca. Allora lo zio introdusse la sostanza nello strato di foglie secche, e se ne levò un sottile filo di fumo. Quando lo zio si mise a soffiare, dapprima come un soffietto da salotto, poi con il vigore di un mantice da fucina, la legna secca cominciò a scoppiettare, e si levò nell'aria una bella fiammata, salutata da grandi urla di gioia. La signora Clifton mise subito in pentola le cosce di rana che il marinaio aveva scorticato con grande perizia.
A mezzogiorno il brodo, già abbastanza ristretto, diffondeva nell'aria un profumino delizioso. A completare il pasto c'erano poi un coniglio arrosto, la cui cottura fu prerogativa dello zio, delle cozze e delle uova di piccione. Niente di crudo. Tutto cotto, persino i pinoli. Potete ben immaginare con che gioia si festeggiò quel banchetto. Benché privo di verdura, il brodo di rane venne dichiarato di qualità superiore, ed Harry Clifton volle assolutamente che ognuno ne prendesse in abbondanza. Così dovette assaggiarlo anche lo zio Robinson, inizialmente recalcitrante, e fu costretto ad ammettere, lui che aveva mangiato nidi di salangane in Cina, cavallette alla griglia nello Zanzibar, "e cioè, forse, quel che c'è di migliore al mondo", che nulla poteva competere con il brodo di rana. Così, da quel giorno, il signorino Jack ricevette lo speciale incarico di dare la caccia ai batraci. Adesso che si sentiva molto più in forze, il signor Clifton avrebbe desiderato prolungare sino al lago la passeggiata con la moglie e i figlioli. Ma, poiché la signora preferiva rimanere a sbrigare qualche faccenda domestica, l'ingegnere parti alla volta della falesia con il marinaio e i suoi tre figli maschi, tra cui Robert e Jack con le loro canne da pesca. Quando arrivarono al lago, dopo aver superato la cortina d'alberi, il padre si sedette su un tronco abbattuto, ad ammirare il bel paesaggio che gli si apriva davanti: le immense foreste, le montagne, i movimenti delle dune, la magnifica distesa d'acqua limpida del lago, pregno di quella malinconica poesia che Cooper 28 ha così ben sentito e descritto per il Champlain e l'Ontario. Lo zio Robinson gli indicò i giri d'esplorazione che lui e i ragazzi avevano già fatto nella regione circostante, con la scoperta della garenna a sud, e del doppio fiume. — Visiteremo assieme tutto il nostro regno, signor Harry — esclamò, pieno d'entusiasmo — e potrete apprezzare anche voi le infinite risorse che racchiude. Visiteremo anche il nostro isolotto che, ci scommetto, serve da rifugio a una colonia di palmipedi. E che enorme riserva di selvaggina acquatica è la palude, la grande palude che ho attraversato venendo da voi! E quanti quadrupedi, nelle 28
James Fenimore Cooper, scrittore americano noto per i suoi romanzi sulle frontiere. Il suo libro più conosciuto è L'ultimo dei Mohicani.
foreste, che non aspettano altro che di far bella figura sulla nostra tavola! A nord gli uccelli della palude, a sud i conigli della garenna, a est la selvaggina da pelo, a ovest i pinguini e gli sfenischi, e che altro? Vedete che non ci manca proprio nulla. — Soltanto i mezzi per ucciderli — ribatté Harry Clifton. — Ma ci faremo degli archi, signor Clifton, visto che il legno non ci manca. Quanto alle corde, saranno gli stessi quadrupedi a fornircele. — Bene — rispose l'ingegnere — ma, prima di tutto, prepariamo un cortile, costruiamo un recinto, e cerchiamo di addomesticare qualche coppia di animali bradi. — Ottima idea, signore — rispose lo zio — e di facile realizzazione. E, dopo aver addomesticato gli animali, magari riusciremo a civilizzare qualche ortaggio, cosa di cui la signora Clifton non si lamenterà di certo! — Già — disse sorridendo l'ingegnere. — Con un uomo come voi, niente è impossibile. Sapete, zio Robinson, mi piace chiamarvi così, sapete che una casa a metà strada fra il lago e il mare, in mezzo a questi grandi alberi, non sarebbe niente male? — Ci avevo già pensato, signore — rispose il marinaio. — Ed è come se fosse già fatta. Vedete laggiù, un po' sulla destra, quel magnifico boschetto di bagolari? Non vi sembra che la natura li abbia messi lì apposta? Potremmo tenere gli alberi che sostengono gli angoli della casa e i muri divisori, ed abbattere gli altri; poi mettere di traverso delle grosse assi, lasciando il posto per le porte e le finestre, costruire un tetto di travi e di paglia, ed avremmo proprio una bella casetta. — Approfittando della pendenza del suolo, potremmo anche portare facilmente fin lì le acque del lago — aggiunse l'ingegnere. — Sì, facciamolo, signore, facciamolo! — gridò lo zio, entusiasta. — Sarebbe magnifico! Ah, quanti progetti da realizzare! E poi bisognerebbe costruire un ponte, dove il fiume esce dal lago, per rendere più agevole l'esplorazione della riva destra. — Sì — rispose Clifton — ma un ponte volante, una specie di ponte levatoio perché, se ho ben capito dalla vostra descrizione, la
parte di territorio compresa fra il mare, la scogliera e il lago è tutta coperta dal fiume. — Sì, signore. — A nord — riprese l'ingegnere — dalla foce sino al punto in cui esce dal lago, il fiume forma una barriera insormontabile agli animali, mentre il lago protegge la parte nord-est della regione, dal punto in cui esce il fiume, sino alla foce del corso superiore. Eventuali bestie feroci, quindi, possono arrivare alla grotta solo da sud, dopo aver aggirato le rive del lago. Perciò, se noi riuscissimo a chiudere con una palizzata, o con un fossato alimentato dall'acqua del lago, tutta la parte meridionale, per un miglio circa, dall'angolo occidentale del lago sino al mare, non vi sembra che saremmo protetti su ogni lato? Così creeremmo un grande parco, da cui i nostri animali domestici non potranno uscire, e in cui le bestie feroci non potranno entrare! — Ah, signore — esclamò lo zio — anche se mi regalassero un possedimento sulle rive della Mohawk, non lo scambierei di certo con un parco del genere! Dobbiamo metterci all'opera! — Ogni cosa a suo tempo, zio Robinson — rispose Clifton, frenando il marinaio, che aveva già afferrato l'ascia. — Prima di recintare il parco, e di costruire la casa, cominciamo col proteggere la grotta dove abitiamo, difendendo l'ingresso con una palizzata. — Signore — si offrì il marinaio — io sono pronto. Se volete restare sulla riva del lago con il signorino Robert e il signorino Jack, che ci pescheranno qualche bella trota, il signorino Marc e io andremo ad abbattere qualche albero nella foresta. La proposta venne accettata. Così lo zio e suo "nipote" Marc si diressero verso il bosco, risalendo la sponda settentrionale del lago, mentre i due fratelli minori si divertivano a pescare. Jack scese un po' più giù, sino alla parte paludosa, dove contava di fare una bella provvista di rane. Robert e il padre, invece, tesero le lenze e furono abbastanza fortunati da prendere una mezza dozzina di trote. Ma più di una volta, il signor Clifton si trovò costretto a frenare l'impazienza di suo figlio Robert. Durante l'assenza del marinaio e di Marc, e mentre Robert era intento a sistemare le lenze, l'ingegnere rifletteva sulla nuova
situazione che la sorte gli aveva creato, riandando con la mente ai gravi avvenimenti che gli avevano completamente sconvolto l'esistenza. Nemmeno in quelle condizioni aveva del tutto perso la speranza di restituire un giorno il benessere alla sua famiglia, ma avrebbe voluto sapere se c'era qualche speranza di poter mai rivedere il suo paese. Per saperlo, doveva prima di tutto rilevare la posizione di quella terra nelle acque del Pacifico. Dopodichè, sarebbe stato importante risolvere un'altra fondamentale questione: faceva parte di un continente, o di un'isola? Rilevare la posizione del paese, senza strumenti astronomici, era più o meno impossibile. Come si poteva misurare la longitudine senza cronometro, e la latitudine senza sestante? Anche il calcolo del tragitto percorso dal Vankouver dopo le ultime osservazioni del capitano Harrisson avrebbe fornito solo dati molto incerti, ma l'ingegnere non poteva rifarsi che a quella valutazione sommaria. La nave era stata certamente spinta a nord, fuori dalla sua rotta, ma sino a che parallelo, era difficile da stabilire. Per la seconda questione, invece, la soluzione doveva essere più facile. Il signor Clifton aveva, in effetti, due modi per sapere se il suolo che calpestava appartenesse a un'isola o a un continente: salire sulla montagna più alta, o fare una ricognizione in canotto. Il picco doveva avere un'altezza di 1500-1800 metri sul livello del mare. Perciò, se faceva parte di un'isola di media grandezza, sui 160200 chilometri di circonferenza, stando sulla cima, si sarebbero visti il cielo e l'oceano confusi in un unico orizzonte. Ma era una montagna accessibile? Ed era mai possibile superare la linea delle foreste e la successione dei contrafforti che si sviluppavano alla base? L'altro mezzo era più pratico: non c'era che da continuare a bordeggiare la costa in canotto, e rilevarne la configurazione. Visto che lo zio era un buon marinaio, e che la barca non pescava molto, bastava seguire le sinuosità della costa, magari nelle lunghe giornate di giugno o luglio, per avere rapidamente la certezza sulla natura di quella terra. Se era un continente, si poteva anche sperare in un rimpatrio, e considerare quella sistemazione come provvisoria.
Se invece si trattava di un'isola, la famiglia Clifton era prigioniera, alla mercè di un caso fortuito che spingesse una nave in quei paraggi. In tal caso, bisognava rassegnarsi e pensare di stabilirsi lì definitivamente. L'idea dell'isolamento, del resto, non spaventava troppo Harry Clifton, uomo energico e coraggioso. Solo che avrebbe voluto sapere come regolarsi. Così decise di partire in ricognizione non appena fosse stato possibile. Lo sguardo fisso sul lago, tutto assorbito nelle sue riflessioni, l'ingegnere fu alquanto sorpreso nel notare che l'acqua ribolliva a un centinaio di metri dalla riva. Cosa poteva provocare un fenomeno del genere? Che fosse un'espansione delle forze sotterranee, il che avrebbe anche spiegato il carattere vulcanico della regione? Oppure era solo un rettile che aveva nel lago la sua dimora abituale? Clifton non sapeva cosa pensare. Poco dopo il ribollio scomparve, ma l'ingegnere decise di osservare ancora, in futuro, quelle acque un po' sospette. La giornata avanzava e il sole si abbassava già sull'orizzonte, quando il signor Clifton ebbe l'impressione di vedere, accanto alla riva nord del lago, una gran massa scura che si muoveva sulla sua superficie. Che ci fosse qualche rapporto fra quell'oggetto e il ribollimento che aveva osservato in precedenza? Ovvio che Clifton se lo domandasse. Quanto all'oggetto, era evidente che si spostava lungo la riva settentrionale. L'ingegnere chiamò Robert e Jack, per sapere cosa ne pensassero. Uno disse che era un mostro marino, l'altro un enorme pezzo di legno alla deriva. Nel frattempo la massa continuava ad avvicinarsi, e fu presto evidente che si trattava di un convoglio di legna controllato da alcuni uomini. E di colpo Robert si mise a gridare: — Ma sono loro! Marc e lo zio Robinson! Il ragazzo non si sbagliava. Con i pezzi di legno abbattuto, suo fratello e il marinaio avevano costruito una zattera che dirigevano verso il punto del lago più vicino alla grotta, e probabilmente sarebbero arrivati a riva nel giro di mezz'ora. — Su, Jack — disse il signor Clifton — corri ad avvertire tua madre del nostro arrivo…
Jack guardò dalla parte della falesia: una distanza che gli sembrava enorme. E poi, attraversare tutta quella cortina d'alberi. Insomma, esitava. — Hai paura? — gli domandò Robert, prendendolo in giro. — Oh, Jack! — esclamò il padre. — Va be', vado io! — si offrì Robert. — No! Marc e lo zio avranno bisogno del tuo aiuto. Jack continuava a guardare, senza rispondere. — Figliolo — lo incoraggiò suo padre dopo esserselo preso fra le ginocchia — non bisogna avere paura. Hai quasi otto anni, ormai, sei già un ometto. Anche tu ci devi aiutare, nei limiti delle tue forze. Non bisogna avere paura. — Va bene, ci vado — rispose il ragazzino, reprimendo un sospiro. Poi parti con passo abbastanza deciso, portando con sé le sue rane. — Non devi prenderlo in giro — raccomandò il signor Clifton a Robert. — Anzi, dovresti incoraggiarlo. Ha appena vinto una battaglia con se stesso. E stato davvero bravo. Harry Clifton e suo figlio si diressero verso il punto della riva dove la zattera stava per accostare, magistralmente diretta dallo zio e da Marc, a mezzo di lunghe pertiche. — Tutto bene! Tutto bene! — gridava lo zio. — Che bella idea avete avuto, di costruire una zattera così — disse l'ingegnere. — E stata un'idea del signorino Marc — precisò lo zio. — Vostro figlio maggiore diventerà presto un ottimo boscaiolo, signor Clifton! E stato lui che ha avuto l'idea di questo mezzo di trasporto, per noi e il nostro materiale! Il convoglio galleggiante era composto da una trentina di tronchi di abete, 50-60 centimetri di diametro alla base, tenuti assieme da robuste liane. Lo zio Robinson e i due ragazzi si misero subito all'opera, e i tronchi vennero portati a terra prima che fosse notte. — Per oggi basta così — esclamò lo zio. — Sì, e domani li trasporteremo tutti alla grotta.
— Con il vostro permesso, signor ingegnere — propose il marinaio — li sgrosseremo qui, così saranno meno pesanti da trasportare. — Giustissimo, zio Robinson. Ed ora rientriamo alla grotta, dove ci aspetta la cena. Che ne dite delle nostre trote? — E voi, signore, della nostra selvaggina? Un colpo fortunato del signorino Marc. Lo zio mostrò a Clifton un animale un po' più grosso di una lepre, appartenente all'ordine dei roditori, con un pelo giallo cosparso di chiazze verdastre, e un minuscolo mozzicone di coda. — Appartiene al genere degli aguti — spiegò Clifton — ma è un po' più grande dell'aguti delle regioni tropicali, il vero coniglio d'America. Dev'essere uno di quei roditori a orecchie lunghe, che si trovano nelle zone temperate del continente americano. Già, non mi sbaglio. Vedete i cinque molari ai lati delle mascelle? E la caratteristica che li contraddistingue dagli aguti. — E si mangia? — domandò lo zio Robinson. — Si mangia e si digerisce perfettamente. Marc appese il roditore a un capo del suo bastone, mentre lo zio offriva il braccio, valido punto d'appoggio, all'ingegnere, e verso le sei il quartetto arrivò alla grotta, dove la signora Clifton aveva preparato un ottimo pranzetto. Dopo cena, tutta la famiglia andò a passeggio sulla spiaggia. Clifton ebbe modo di esaminare la disposizione dell'isolotto, la direzione delle correnti che si infilavano nel canale, e concordò con lo zio che non sarebbe stato difficile costruire un porticciolo, tagliando il canale con una gettata. Ma il progetto fu rinviato a data da destinarsi, perché c'erano lavori molto più urgenti che richiedevano le braccia della piccola colonia: fra gli altri, la costruzione della palizzata. Si decise, anzi, di rimandare anche ogni nuova escursione a quando il recinto fosse terminato. Poi tutti s'incamminarono per tornare alla grotta, passando vicino all'ostricaio, con l'aria di bravi borghesi a passeggio nel parco: il signor Clifton al braccio della moglie, lo zio che discorreva con Marc e Robert, Jack e Belle intenti a raccogliere conchiglie e ciottoli sulla spiaggia.
Durante la notte, Marc e lo zio Robinson vegliarono attentamente sul fuoco, obbligo che rendeva sempre più urgente la scoperta di un fungo infiammabile. Il giorno seguente, Clifton e lo zio tracciarono la linea su cui disporre i pioli della palizzata davanti alla grotta. I primi partivano appoggiandosi alla parete stessa della falesia; si otteneva così una sorta di corte semicircolare che poteva servire a vari bisogni domestici. Una volta stabilito il tracciato, lo zio s'incaricò di scavare i buchi, un'operazione per nulla difficile in quel terreno sabbioso, e che andò avanti sino a mezzogiorno. Dopo pranzo, Clifton, Marc e Flip andarono dove, il giorno prima, avevano scaricato il legname: ora si trattava di tagliarlo secondo le misure più adatte. Il marinaio non esagerava affatto, quando parlava della sua abilità nel maneggiare l'ascia. Bisognava vederlo mentre, col piede girato in fuori, da vero carpentiere, toglieva trucioli enormi, o dirozzava i suoi tronchi a vista d'occhio. Un lavoro che lo impegnò fino alla fine della giornata, e per tutto il giorno successivo. Martedì mattina, invece, iniziò la posa dei pioli che, conficcati in profondità nel terreno, vennero uniti con traversine di legno strette fra loro. Alla base della palizzata, poi, Clifton fece piantare una specie di agave, che cresceva rigogliosa ai piedi della falesia, e che avrebbe presto formato, con le sue foglie dure e spinose, una siepe impenetrabile. I lavori della palizzata furono ultimati il 6 maggio, e l'ingegnere non poté che complimentarsi per la tempestività della sua idea perché, proprio la notte successiva, un branco di sciacalli cominciò ad aggirarsi intorno all'accampamento, con un baccano infernale. Qualcuno osò avventurarsi fino alla palizzata, nonostante il fuoco che ardeva nell'ombra. Ma quando lo zio scagliò nel buio dei tizzoni infuocati, gli animali fuggirono ululando.
CAPITOLO DICIOTTESIMO Terminati i lavori, bisognò occuparsi senza indugio di rinnovare le riserve di ogni genere. Non c'è bisogno di dire che il signor Clifton aveva recuperato le forze e la salute, che la ferita, ormai completamente cicatrizzata, non lo faceva più soffrire e che, d'ora in poi, avrebbe messo a disposizione tutta la sua energia e il suo ingegno per il benessere della piccola colonia. Era martedì 7 maggio. Dopo la colazione del mattino, mentre i ragazzi esploravano la spiaggia e la falesia, pescando o snidando uova di piccione, Harry Clifton e lo zio Robinson si diressero in canotto verso il banco di ostriche. Il mare era calmo e il vento, che spirava da terra, favorevole. Fu una traversata tranquilla, senza incidenti. Clifton osservava attento la costa, e fu colpito dal suo aspetto selvaggio. Quel suolo così sconvolto, irto di enormi massi, doveva evidentemente la sua conformazione all'espandersi di forze plutoniche. Molto versato nelle scienze naturali, l'ingegnere non poteva sbagliarsi. Una volta raggiunto il banco di molluschi, la raccolta procedette veloce, e la barca raggiunse in breve il pieno carico. Era una riserva davvero inesauribile! Ricordandosi la storia della tartaruga, e non avendo più alcun motivo di trattare con rispetto quegli interessanti animali, prima di salpare lo zio propose a Clifton di andare a frugare tra gli scogli. Così scesero sulla spiaggia e si misero subito in caccia. Frugando all'interno di alcune strane tumescenze, che sollevavano la sabbia in piccole montagnole, l'ingegnere trovò una certa quantità di uova perfettamente sferiche, dal guscio bianco e duro. Erano uova di tartaruga, la cui albumina ha la proprietà di non rapprendersi al calore, come il bianco delle uova d'uccello. Evidentemente la spiaggia era un luogo prediletto dalle tartarughe marine, che venivano dal largo per deporvi le uova, lasciando al sole il compito di farle schiudere. Ce n'erano moltissime, il che non è poi così
sorprendente, se si considera che ognuna può arrivare a deporne fino a duecentocinquanta all'anno. — È un vero e proprio campo di uova! — esclamò lo zio. — Sono mature, e non abbiamo da far altro che raccoglierle! — Prendiamo solo quelle che ci servono — disse Clifton. — Perché, una volta dissotterrate, andrebbero rapidamente a male. Meglio lasciare che si schiudano e che generino nuove tartarughe, che ne deporranno ancora. Così lo zio si limitò a raccoglierne una dozzina, e mezz'ora dopo l'imbarcazione accostava già ai piedi della falesia. Mentre le ostriche venivano introdotte nel vivaio, le uova furono affidate alla signora Clifton che le avrebbe preparate per il pasto di mezzogiorno. Dopo pranzo, lo zio decise di affrontare con il signor Clifton la questione delle armi. Non era possibile continuare a cacciare a sassate o a colpi di bastone: metodi troppo primitivi, poco offensivi e certamente poco difensivi. E siccome, in mancanza di armi da fuoco, gli archi, se fatti come si deve, possono diventare armi davvero temibili, lo zio decise di cominciare a costruirli. La prima cosa da fare era trovare un legno adatto. Il signor Clifton ebbe la fortuna di scovare, in mezzo a un boschetto di palme da cocco, una pianta nota col nome di airi o crejimba, di cui gli Indiani dell'America Meridionale si servono per creare i loro archi migliori. Il padre e i ragazzi procurarono così la materia prima, portando alla grotta qualche ramo di crejimba. E, in poche ore di lavoro, lo zio Robinson costruì tre archi con curvatura regolare e di discrete dimensioni, il che garantiva loro una certa elasticità e una buona gittata. La corda, fatta di fibra di noci di cocco, era molto resistente. Quanto alle frecce, lo zio si limitò a tagliare qualche piccolo bambù, i cui nodi vennero accuratamente livellati, e ad armarne l'estremità superiore con un aculeo di riccio. Per rendere il volo più regolare, inoltre, guarnì l'estremità inferiore con penne d'uccello. Se ben maneggiati, quegli archi avrebbero potuto costituire senz'altro delle armi temibili. Naturalmente i ragazzi li vollero provare subito, e rimasero soddisfatti dell'altezza raggiunta dalle frecce. Con un po' di esercizio, gli archi avrebbero potuto essere davvero molto utili, sia come armi
difensive, che offensive. Dopo averne sperimentato la portata, l'ingegner Clifton volle verificare anche il potere di penetrazione, e ne fece le spese il tronco di un povero bagolaro, nel cui legno duro le frecce si conficcarono a fondo, senza difficoltà. Alla fine delle prove, comunque, il padre raccomandò ai ragazzi di non perdere le frecce e di non sprecarle inutilmente, perché costruirle richiedeva fatica, e molto tempo prezioso. Al calar della notte, la famiglia rientrò nel recinto che precedeva la grotta. Erano suppergiù le otto e mezza, secondo l'orologio dell'ingegnere: uno strumento ottimo che, protetto dalla sua duplice cassa d'oro, non aveva minimamente risentito dell'immersione nell'acqua di mare. Ma aveva bisogno di una regolata, perché s'era fermato durante la malattia di Clifton e, per regolarlo, si doveva osservare con cura l'altezza del sole. La notte fu nuovamente turbata dagli ululati degli sciacalli, ai quali si unirono altre grida, simili a quelle che la signora Clifton aveva già sentito. Se c'era un branco di scimmie che si aggirava nei dintorni, la palizzata si sarebbe dimostrata senz'altro insufficiente a contenerne l'agilità, anche se in fondo le scimmie sono meno pericolose delle belve feroci. Harry Clifton decise comunque di appurare a che specie appartenessero, in una delle future escursioni. Il giorno seguente, mercoledì 8 maggio, fu dedicato a vari lavoretti, tipo il rinnovo delle provviste di legna, o una visita alla garenna, dove fu qualche coniglio a fare per primo le spese delle frecce costruite da Flip. Quel giorno, la signora Clifton reclamò una buona provvista di sale per la riserva di carne, che era aumentata di due capibara. Così, Marc e suo padre andarono a raccogliere il sale che il mare aveva depositato, per evaporazione, nelle cavità delle rocce, e tornarono alla grotta con varie libbre del prezioso elemento, l'unico minerale che entrasse nell'alimentazione. Alla successiva richiesta della signora, che desiderava un po' di sapone per il bucato, l'ingegnere le spiegò che certi vegetali possono sostituire benissimo i prodotti dei migliori saponifici, e che non disperava d'incontrarne un giorno in quelle inesauribili foreste. Si decise, comunque, di economizzare al massimo la biancheria della piccola colonia: senza necessariamente imitare i selvaggi in tutto e per tutto, nella bella
stagione ci si sarebbe vestiti il più possibile leggeri, risparmiando gli abiti sino a quando lo zio Robinson avesse trovato modo di sostituirli. Quella sera, a cena, ci fu una novità: un piatto di quei deliziosi gamberi di cui brulicava l'alto corso del fiume. Per esca, lo zio s'era limitato a gettare nella corrente una fascina, in cui aveva infilato un pezzetto di carne. Qualche ora più tardi, quando l'aveva tirata fuori dall'acqua, le frasche erano coperte di crostacei: dei bei gamberi dal guscio blu cobalto, intenso, e che, una volta cotti, furono anche dichiarati deliziosi. Per occupare in modo proficuo la serata, lo zio Robinson arricchì ulteriormente la sua serie di vasi di bambù, di diverse capacità. Ah, se si fosse potuto metterli sul fuoco! E invece il bollitore restava l'unico utensile adatto alle preparazioni culinarie. Cosa non avrebbe dato la signora Clifton per una marmitta! Ma lo zio spiegò che sarebbe stata sufficiente anche una pentola di terracotta, ripromettendosi di farla, non appena avesse trovato della terra da vasaio. In attesa della grande escursione che Clifton voleva tentare all'interno, l'ordine del giorno, per l'indomani, prevedeva un giro d'ispezione all'isolotto, di dove i ragazzi contavano di non tornare a mani vuote, né come pescatori, né come cacciatori. Quella sera, la famiglia visse qualche attimo di angoscia quando, al momento di rientrare nella grotta, la signora Clifton si accorse che il piccolo Jack mancava all'appello. Potete ben immaginarvi l'ansia che pervase la piccola colonia. Nessuno sapeva dire con esattezza quando fosse scomparso, in quella notte resa particolarmente buia dalla luna nuova. Padre, fratelli, zio, tutti si misero a cercare sparpagliandosi qua e là, chi sulla spiaggia, chi verso il lago, tutti chiamando a gran voce. Ma inutilmente. Lo zio Robinson fu il primo a tranquillizzarsi quando, nel punto più buio della cortina d'alberi, sotto un gruppo di bagolari, scorse il piccolo che se ne stava immobile, a braccia incrociate. — Ehi, signorino Jack, siete voi? — gli gridò. — Sì, zio — rispose Jack con voce alterata — e ho tanta paura. — Che fate lì?
— Faccio il coraggioso! Povero piccolo! Lo zio lo prese in braccio, portandolo di corsa da sua madre. E chi ebbe più il coraggio di sgridarlo, quando Flip riferì la risposta del piccolo, spiegando che stava cercando di diventare coraggioso? Così Jack passò dall'uno all'altro, a ricevere la sua dose di baci e di carezze. Poi, una volta stabiliti i turni di sorveglianza al fuoco, la piccola colonia si ritirò per la notte. L'indomani, giovedì 9 maggio, Harry Clifton, i suoi tre figli maschi e lo zio s'imbarcarono sul canotto per un iniziale periplo esplorativo dell'isola. La riva al di là del canale, di fronte alla costa, era fatta di rocce strapiombanti ma, una volta doppiata la punta settentrionale, l'ingegnere vide che la costa occidentale era disseminata di scogli. L'isolotto, un miglio e mezzo circa di lunghezza, per un quarto di miglio nella sua parte più larga, verso sud, a nord terminava, invece, con una punta. I cinque esploratori approdarono all'estremità meridionale dell'isola, facendo alzare in volo uno stormo incredibile di uccelli, quasi tutti gabbiani, che nidificano nella sabbia e nelle fenditure delle rocce. Clifton riconobbe in particolare quelli volgarmente chiamati stercorari, con la coda appuntita. Un intero mondo alato, che fuggì alto in volo, prese il largo e scomparve. — Ah! — osservò Clifton — si direbbe che sappiano quanto devono temere la presenza umana. — Ci credono più armati di quel che siamo — rispose lo zio. — Ma eccone qui degli altri che non fuggiranno di certo. Gli animali di cui parlava lo zio, grevi rappresentanti del ramo dei volatili, erano dei tuffatori delle dimensioni di un'oca, con ali prive di penne, che li rendevano inadatti al volo. — Che uccelli goffi e maldestri! — gridò Robert. — Sono dei pinguini — rispose Clifton — cioè "grassi", pinguis, in latino. Un nome che gli si adatta benissimo! — Bene — disse Marc — e adesso sperimenteranno la potenza delle nostre frecce. — Inutile sprecare gli aculei dei ricci — spiegò lo zio. — Sono animali stupidi, vedrete che ce la caveremo benissimo con i bastoni. — Ma non sono commestibili — intervenne il padre.
— D'accordo — replicò lo zio — però sono degli ottimi depositi di grasso, e il grasso ci può sempre servire. Non dobbiamo disdegnarlo. Allora tutti si scagliarono con i bastoni alzati. Non fu una caccia, ma un vero e proprio massacro, di cui rimasero vittime una ventina di pinguini, che si lasciarono uccidere così, stupidamente, senza nemmeno tentare di fuggire. Qualche centinaio di passi più in là, i cacciatori si imbatterono in un altro branco di tuffatori, non meno stupidi, ma che, se non altro, offrivano una carne commestibile. Erano degli sfenischi, con le ali ridotte a semplici moncherini appiattiti, tipo pinne, coperte da qualche rada penna squamosa. Cadendo sotto i colpi dei bastoni, gli animali lanciavano delle strida laceranti, molto simili ai ragli dell'asino. Ma fu una strage limitata, perché i ragazzi rimasero presto disgustati da quella caccia, o meglio carneficina, che non richiedeva né abilità né coraggio, e si riprese l'esplorazione dell'isola. Il gruppetto continuò ad avanzare verso la punta nord, su un terreno sabbioso crivellato dai nidi degli sfenischi. A un tratto, lo zio Robinson s'arrestò, facendo segno ai compagni di non muoversi. E indicò, verso l'estremità dell'isola, dei grossi oggetti neri simili a punte di scogli in movimento, che nuotavano a fior d'acqua. — Cos'è? — domandò Marc. — Sono dei simpatici mammiferi che ci forniranno cappotti, giacche e palandrane — spiegò lo zio. — È un branco di foche — confermò il signor Clifton. — Bisogna prenderle a ogni costo. Però stavolta dobbiamo giocare d'astuzia, se vogliamo avvicinarle. Prima di tutto, bisognava lasciarle salire a terra. Infatti, se con il bacino stretto, il pelo raso sul petto e la conformazione fusiforme, le foche sono ottime nuotatrici, sulla terra, invece, si muovono in modo goffissimo, con i loro corti piedini palmati, molto simili a remi. Lo zio conosceva le abitudini di quei mammiferi e sapeva che, una volta sdraiatisi a terra, sotto i raggi del sole, si sarebbero addormentati quasi subito. Così aspettarono tutti pazientemente, persino l'impaziente Robert e, un quarto d'ora dopo, una mezza dozzina di foche erano profondamente addormentate sulla sabbia.
Lo zio Robinson decise di nascondersi con Marc dietro a un piccolo promontorio roccioso che si spingeva a nord, tra le foche e il mare. Intanto, il padre e gli altri due ragazzi sarebbero andati verso di loro, uscendo allo scoperto solo quando avessero udito le grida dello zio. A quel punto, lui avrebbe attaccato le foche con l'ascia, e gli altri avrebbero cercato di tagliarne la ritirata con i bastoni. Lo zio e Marc andarono avanti e scomparvero dietro il promontorio, mentre Harry Clifton e gli altri due figli si diressero in silenzio verso la spiaggia, strisciando goffamente sul ventre. E poi di colpo, mentre il marinaio sbucava da dietro le rocce con un urlo lacerante, Clifton e i due ragazzi si lanciarono tra le foche e il mare. Colpiti alla testa dall'ascia di Flip, due animali giacquero morti sulla sabbia, mentre gli altri tentavano di raggiungere il mare. Ma Clifton sbarrò loro la strada, ed altre due foche caddero sotto l'ascia dello zio. Il resto del branco riuscì invece a guadagnare il largo, travolgendo Robert, che si mise a strillare come un matto. Ma, in realtà, se la cavò solo con un po' di paura, e si rialzò subito sano e salvo. — Ottima caccia! — esclamò soddisfatto lo zio — sia per la dispensa, che per il guardaroba! Lunghe più o meno un metro e mezzo, erano foche relativamente piccole, con la testa simile a quella di un cane. Una volta caricato anche quest'ultimo bottino, assieme a pinguini e sfenischi, il canotto attraversò il canale, approdando dolcemente ai piedi della falesia. La preparazione delle pelli di foca si rivelò un'operazione piuttosto difficile ma, nei giorni seguenti, lo zio si mise all'opera, e se la cavò con grande abilità. Le pelli dovevano servire solo a confezionare gli abiti per l'inverno, ma non erano comunque sufficienti. Lo zio, poi, si era messo in testa di offrire al signor Clifton una pelle d'orso per l'inverno, ma l'orso gli mancava sempre, anche se non disperava d'incontrarlo. Del resto, non ne aveva fatto parola con nessuno: era un segreto, e voleva fare una sorpresa all'ingegnere.
CAPITOLO DICIANNOVESIMO Nelle due settimane che seguirono, Clifton non poté intraprendere la tanto agognata esplorazione, perché le diverse occupazioni domestiche richiesero il concorso di ognuno, alla grotta. Prima fra tutte, la preparazione dei vestiti, con le pelli degli animali, divenuti una materia prima insostituibile, al posto dei tessuti che mancavano. Furono, perciò, organizzate nuove cacce alla foca, e lo zio riuscì ad ucciderne ancora una mezza dozzina. Ma dopo non molto gli animali, divenuti parecchio diffidenti, abbandonarono l'isola, facendo perdere le loro tracce. Fortunatamente, le foche vennero sostituite da un branco di altri animali, che lasciò una decina di suoi membri sotto le frecce dei ragazzi, tra il 18 e il 19 maggio. Erano volpi appartenenti alla specie dei megaloti, una sorta di cani con le orecchie lunghe e il pelo giallogrigiastro, un po' più grandi della volpe comune. L'incontro con quegli animali accrebbe notevolmente la riserva di pelli, con grande soddisfazione della signora Clifton. Lo zio era estasiato, e sembrava non desiderasse altro al mondo. Eppure, quando Clifton gli domandava se gli mancasse qualcosa: — Sì — rispondeva, però si rifiutava di dire che cosa. Finalmente i lavori domestici cessarono. La grande preoccupazione del signor Clifton era da tempo quella di esplorare la costa, per poter finalmente scoprire se la sorte li avesse gettati su un'isola o su un continente. Il 31 maggio fu quindi il giorno stabilito per una spedizione all'interno, col duplice scopo di studiare la configurazione del posto, e di esaminare le sue ricchezze naturali. Lo zio Robinson ebbe una brillante idea: — Visto che vogliamo andare all'interno, perché non approfittiamo del corso d'acqua che la natura ha messo a nostra disposizione? Risaliamo il fiume in canotto, finché è navigabile, e quando non sarà più possibile, sbarchiamo. Ma almeno il canotto sarà sempre a nostra disposizione per il ritorno.
Il piano venne approvato all'unanimità. Restava, però, un'altra importante questione da risolvere: chi avrebbe preso parte alla spedizione? Lasciare la signora Clifton da sola alla grotta era un'idea che ripugnava a suo marito, anche se lei, coraggiosa, avrebbe accettato di passarvi una notte o due con l'unica compagnia della piccola. Intuendo che la sua presenza alla grotta avrebbe risolto ogni difficoltà, Marc s'offrì generosamente di rimanere assieme alla madre, benché si capisse che il sacrificio gli costava. — Ma — esclamò lo zio Robinson — perché, invece, non andiamo tutti quanti? Adesso che cominciano le belle giornate di giugno, le notti sono molto corte. E una notte passata nei boschi, cos'è?! Niente! Propongo, dunque, di andare tutti assieme. Se non incontriamo ostacoli, partendo lunedì mattina possiamo essere di ritorno per martedì sera. E poi, visto che una buona parte di strada la si farà in canotto, non ci sarà molto da stancarsi. Inutile dire che la proposta fu accolta dall'entusiasmo generale, e che tutti, grandi e piccoli, s'impegnarono subito nei preparativi per la partenza. Tra le provviste per la grande spedizione finirono vari tipi di carni arrosto, uova sode, pesci alla griglia e frutta. Qualche nuova freccia costruita dallo zio, i bastoni induriti sul fuoco, e l'ascia di Clifton sarebbero invece serviti, eventualmente, come armi d'attacco e di difesa. Quanto al problema del fuoco, si decise di risolverlo così: il pezzo di esca venne diviso in due: una metà, accuratamente protetta, restò nella grotta, dove sarebbe servita a riaccendere il fuoco, al ritorno. L'altra metà, invece, seguì la spedizione, per le necessità del viaggio. Naturalmente, la scoperta di una sostanza che sostituisse l'esca era tra gli interessi primari degli esploratori. La vigilia della partenza, una domenica, fu consacrata al riposo e santificata dalla preghiera. Il signore e la signora Clifton fecero qualche raccomandazione ai loro figlioli, e lo zio Robinson non risparmiò loro i principi che attingeva dalla sua filosofia naturale. E l'indomani, 31 maggio, tutta la famiglia si alzò insieme al sole, in una giornata che si annunciava magnifica. Il canotto attendeva di essere messo in mare; lo zio vi aveva già sistemato la vela, per sfruttare le brezze favorevoli, due remi per le manovre controvento, e una lunga corda in fibra di cocco, per tirarlo sugli argini.
Alle sei, ognuno era al suo posto: Marc e Robert a prua, Jack e Belle in mezzo, vicino alla mamma, lo zio e Clifton a poppa, dove il marinaio teneva la barra del timone, e Clifton la scotta della vela. Il vento spirava dal largo. Una brezza leggera increspava la superficie dell'oceano, e l'aria risuonava delle strida gioiose degli uccelli. Venne issata la vela, e l'imbarcazione scese lentamente il canale fra l'isolotto e la costa. Intanto cominciava a salire l'alta marea, che avrebbe favorito il canotto, spingendolo per qualche ora verso l'alto corso del fiume. Aiutata dal vento e dalla corrente, la barca raggiunse in breve l'estremità nord dell'isola, quasi all'altezza del fiume. E quando Harry Clifton allentò la scotta della vela, cominciò a risalire il corso d'acqua, spinta dal vento in poppa. Non più bloccati dalla falesia, ora i raggi del sole giungevano sino al canotto, salutati dall'abbaiare festoso di Fido, cui faceva eco Jack. Passando, i ragazzi riconobbero il loro primo accampamento, e la signora Clifton indicò al marito il posto dove il canotto rovesciato aveva fatto loro da tenda. Ma la marea crescente li trascinava veloce, e già le rocce della prima dimora erano scomparse. Scivolando fra le rive verdeggianti, la barca raggiunse in breve il punto in cui la foresta faceva angolo con il fiume, e i viaggiatori penetrarono sotto una cupola di fronde, con i rami d'alberi giganteschi che s'intrecciavano sopra di loro. Lo zio pregò Marc e Robert di ammainare la vela, ormai sgonfia ed inutile, e preparò i remi per ogni evenienza, anche se la marea li spingeva abbastanza veloce. Tuttavia, dato che il timone non faceva più resistenza, perché la velocità del canotto e quella della corrente si eguagliavano, lo zio installò a poppa un remo di coda, mantenendo così la barca nella direzione voluta. — Che posti stupendi — esclamò Clifton osservando il corso del fiume, che s'inoltrava sinuoso nel verde. — Sì — disse sua moglie — che bei riflessi ottiene la natura, con un po' d'acqua e di alberi! — E ne vedrete ancora, signora — aggiunse lo zio Robinson. — Vi ripeto che la sorte ci ha portato su una terra incantata. — Ma voi, avete già esplorato il fiume? — domandò la signora.
— Certo — rispose Robert. — Lo zio ed io abbiamo risalito la riva destra in mezzo alle liane e alla sterpaglia. — Che begli alberi! — esclamò Clifton. — Sì — disse lo zio. — E il legno non ci mancherà di certo, qualunque sia l'uso che ne vogliamo fare. Sulla riva sinistra, spiccavano alcuni magnifici esemplari della famiglia delle ulmacee, molto richiesti dai costruttori, perché hanno la proprietà di mantenersi a lungo in acqua. E poi tanti bagolari, dal cui seme si estrae un utilissimo olio. Più in là, l'ingegnere notò un altro gruppetto di piante i cui rami flessibili, macerati nell'acqua, forniscono ottimi cordami, e due o tre tronchi di ebenacee, dal legno molto duro e nero, striato da qualche venatura. Clifton riconobbe fra gli altri quella specie tipica dell'America Settentrionale il Diospiros virginiana, che si trova fino alla latitudine di New York. Tra gli alberi più belli, si distinguevano i giganti della specie delle liliacee, di cui Humboldt osservò alcuni stupendi esemplari alle Canarie. — Ah, che begli alberi! — esclamarono assieme Marc e Robert. — Sono delle dracene — rispose il signor Clifton — e credo proprio che vi stupirò, figlioli, dicendovi che giganti di questo tipo non sono altro che dei porri ambiziosi. — Possibile?! — domandò Marc, incredulo. — O almeno — riprese Clifton — che appartengono alla stessa famiglia delle liliacee, in cui rientrano anche la cipolla, lo scalogno, la cipollina e l'asparago. A dire il vero, i membri umili della famiglia ci sarebbero stati senz'altro più utili di questi alberi giganteschi. Alle liliacee appartengono anche il tulipano, l'aloe, il giacinto, il giglio, la tuberosa e quel Phormium tenax, quel lino della Nuova Zelanda che farebbe così comodo a vostra madre. — Padre — domandò Marc — com'è che i naturalisti hanno classificato nella stessa famiglia le dracene alte 30 metri e le cipolle che non superano i pochi centimetri? — Perché i caratteri tipici sono gli stessi, figliolo. Succede anche per gli animali, per cui ti stupiresti di trovare nella stessa categoria gli squali e le razze. La famiglia delle liliacee è estremamente ricca,
con almeno milleduecento specie diffuse in tutto il globo, anche se soprattutto nelle zone temperate. — Bene! — esclamò lo zio — allora non dispero di trovare, un giorno, qualcuna di quelle modeste liliacee che voi rimpiangete tanto, signora Clifton. E poi, perché parlar male delle dracene? Se non ricordo male, alle Sandwich ci si nutre delle loro radici legnose, note come radici di Ti. Cotte, sono eccellenti; ne ho mangiate anch'io. Tritate e lasciate fermentare, forniscono un liquore molto gradevole. — Proprio così — aggiunse l'ingegnere — ma quelle sono le radici della dracena purpurea, che forse incontreremo più avanti. Da questa, invece, si ricava soltanto il sangue di drago, la resina usata nei casi di emorragia, che Béthencourt raccolse in abbondanza durante la conquista delle Canarie. Punito alle sci del mattino, il canotto raggiunse le acque del lago un'ora dopo, con l'aiuto della marea. Fu una gioia per i ragazzi, quando sboccarono sulla vasta distesa liquida di cui, sino ad allora, avevano percorso solo le sponde. Di lì si vedeva di nuovo la falesia ad ovest, la cortina dei grandi alberi, il tappeto giallo delle dune e il mare scintillante. Ora si trattava di attraversare il lago nella sua parte settentrionale, per arrivare all'imbocco dell'alto corso del fiume. Lo zio fece issare la vela, sfruttando al massimo il vento, non più frenato dalla vegetazione, e il canotto scivolò veloce verso la costa orientale. Ripensando allo strano ribollimento che aveva notato durante la sua prima visita al lago, Harry Clifton osservava con circospezione quelle acque un po' sospette. Invece i ragazzi erano catturati dalla loro bellezza, e il piccolo Jack si divertiva a tracciare un piccolo solco gorgogliante, con la mano che sporgeva oltre il bordo. Su richiesta di Marc, la barca accostò all'isolotto che emergeva a trecento metri dalla riva: era una specie di grosso scoglio, grande più o meno un'ara, invaso dalle erbe acquatiche, ed evidentemente molto apprezzato dagli uccelli lacustri. Sembrava un nido gigantesco, in cui tutto un mondo di pennuti viveva in perfetta armonia. Naturalmente, Fido era prontissimo a interromperla, e si stava già per lanciare abbaiando, quando il signor Clifton lo trattenne. L'isola era una buona riserva di selvaggina acquatica, e non bisognava turbare
inutilmente il riposo degli uccelli, se non si voleva suggerir loro l'idea di andare a nidificare altrove. Terminato il giro intorno all'isoletta, lo zio Robinson diresse la barca verso l'imbocco dell'alto corso d'acqua, dove bisognò non solo ammainare la vela, ma anche togliere l'albero, altrimenti non si sarebbe riusciti a passare sotto l'arco di vegetazione, così basso e fronzuto. Poi, visto che lì, nella parte superiore del fiume, la marea non si faceva più sentire, Marc e lo zio si misero ai remi, lasciando il timone al signor Clifton. — Eccoci nell'ignoto! — esclamò l'ingegnere. — Sì, signore — disse lo zio. — Non ci eravamo ancora avventurati così lontano. Aspettavamo voi! Dove vada a finire il fiume, non saprei proprio dirlo. Ma non mi stupirei di scoprire che si spinge profondamente all'interno, perché, vedete, è ancora molto largo. Il diametro della nuova imboccatura, infatti, superava senz'altro i venti metri, e non sembrava restringersi neanche più in là. Per fortuna la corrente non era forte e il canotto la poté risalire senza difficoltà, sotto la spinta dei remi, accostando ora a una riva, ora all'altra. Si continuò così per almeno due ore. Il sole, già alto, penetrava a stento nello spesso fogliame. Durante le numerose soste sugli argini, gli esploratori fecero alcune utili scoperte sul regno vegetale. La famiglia dei chenopodi era rappresentata soprattutto da una sorta di spinaci selvatici, che la signora Clifton raccolse in abbondanza, ripromettendosi di trapiantarli più avanti. Trovò anche vari esemplari di crocifere allo stato selvatico, che sperava di riuscire a "civilizzare" col trapianto, e che vennero, perciò, sistemati sul fondo della barca: crescione, rafano, rape e dei lunghi fusti ramificati, alti un metro, che producevano quei granini scuri in cui Clifton riconobbe subito la senape. Era una traversata stupenda, sotto quella volta di alberi che servivano da rifugio a un numero incredibile di uccelli. Marc e Robert presero dal loro nido due o tre coppie di gallinacei con il becco lungo e sottile, il collo lungo, le ali corte e apparentemente privi di coda. E si decise di riportare vivi almeno un maschio e una
femmina, per popolare il futuro cortile. I giovani cacciatori uccisero anche, con le frecce, alcuni uccelli delle dimensioni di un piccione, tutti colorati di verde, con una parte delle ali color cremisi, e una cresta dritta orlata di bianco: degli uccelli bellissimi, ottimi soprattutto dal punto di vista commestibile, e la cui carne è estremamente ricercata. Durante una di queste soste, un'altra importante scoperta venne fatta grazie al piccolo Jack, che inizialmente ne dovette pagare il fio. Il ragazzino-era andato a giocare in una specie di radura, da cui tornò con i vestiti imbrattati di una terra giallastra, meritandosi i rimproveri della madre. — Non lo rimproverate così, signora Clifton — intervenne lo zio Robinson — deve pur divertirsi. — Che si diverta senza rotolarsi per terra! — ribatté la madre. — Ma non ci si può divertire senza rotolarsi! — continuò lo zio. — Ah, zio! — ribatté la signora. — Vorrei proprio sapere che ne pensa suo padre. — Per stavolta — rispose il marito — direi proprio che non lo dobbiamo rimproverare, ma, anzi, rallegrarci che si sia sporcato così, di terra gialla. — E perché? — Perché questa terra giallastra è argilla, creta, insomma quel che ci vuole per fabbricare delle stoviglie andanti, ma utili. — Delle stoviglie?! — esclamò la signora Clifton. — Sì, perché sono sicuro che lo zio Robinson è anche vasaio, così come è carpentiere, boscaiolo e conciatore. — Quando dite che è un marinaio, è tutto detto! — esclamò allegro lo zio. Accompagnati dal piccolo Jack, Clifton e lo zio si recarono nella radura, dove l'ingegnere constatò che il suolo era formato da quella creta, più specificamente chiamata argilla figulina, che viene usata nella fabbricazione della ceramica comune. Non poteva sbagliarsi, come verificò mettendosi sulla lingua una puntina di terra giallastra, che gli provocò subito un allappamento strano, tipico dell'argilla avida di liquidi. Così la natura offriva generosamente, alla piccola
colonia, quella preziosa materia diffusa in tutto il mondo, e che lì si trovava mescolata a sabbia silicea. — Ottima scoperta! — esclamò il signor Clifton. — Per un attimo avevo addirittura pensato che fosse caolino, così avremmo potuto fare la porcellana. Comunque, triturando l'argilla e depurandola, con successivi lavaggi, delle parti più grezze, otterremo la maiolica. — Accontentiamoci di una semplice terracotta — rispose lo zio Robinson. — Sono sicuro che la signora Clifton pagherebbe chissà cosa per una scodella di terraglia. Così una buona provvista d'argilla sostituì, nel canotto, la zavorra di ciottoli. Una volta tornati alla grotta, poi, lo zio avrebbe dovuto mettersi subito all'opera, forgiando piatti e bicchieri, per la gioia della padrona di casa. Infine, sotto la spinta dei remi, la scialuppa tornò a risalire pian piano il corso del fiume, che si faceva sempre più sinuoso, mentre il letto si restringeva sensibilmente. Diminuiva di parecchio anche la profondità e i sondaggi dello zio appurarono che ormai l'acqua non superava il metro sotto la chiglia. Secondo i calcoli di Clifton, avevano percorso circa otto chilometri, dal punto in cui il corso superiore del fiume si gettava nel lago, e la sorgente non doveva essere lontana. La stretta valle che stavano attraversando era meno boscosa: invece di una fitta foresta, gli alberi formavano gruppi sparsi, e dalle rive sorgevano grossi contrafforti rocciosi. La natura del suolo, il suo aspetto e la sua configurazione mutavano sensibilmente: erano, quelli, i primi movimenti del sistema orografico, di cui il picco centrale rappresentava il punto culminante. Verso le undici e mezzo non fu più possibile continuare oltre, perché l'acqua s'era fatta troppo bassa e il letto del fiume, privo d'erbe, era disseminato di pietre nerastre. Da qualche istante, poi, si udiva, non lontano, lo scroscio di una cascata. E infatti, dopo aver svoltato a un brusco gomito dell'argine, il canotto si ritrovò ai piedi di una cascata. Era un posto stupendo: lì, il fiume precipitava per una decina di metri in fondo a una gola irta di rocce muschiose, dall'aspetto selvaggio. Benché di portata non considerevole, le acque che andavano ad infrangersi sulle cime degli
scogli, in una nuvola di spruzzi, per poi raccogliersi in una miriade di vasche naturali, formavano una cascata spettacolare. — Oh, che bella! — gridò Jack. — Padre, padre — supplicò Belle a sua volta, andiamo più vicino! Ma il desiderio della bimba non poté essere soddisfatto, perché il canotto s'arenava a ogni colpo di remo. Così bisognò rassegnarsi e sbarcare sulla riva sinistra, a una quindicina di metri dalla cascata, dove i più piccoli cominciarono a sgambettare felici sul bagnasciuga. — E adesso che facciamo? — domandò Marc. — Andiamo dalla parte della montagna — suggerì l'impaziente Robert, indicando il picco che svettava più a nord. — Figlioli — intervenne la signora Clifton — prima d'iniziare la nuova escursione, avrei una proposta da farvi. — Quale, madre? — chiese Marc. — Quella di pranzare. Una proposta che ricevette subito unanime consenso. Alla carne fredda si aggiunse anche qualche volatile, e la piccola selvaggina s'indorò ben presto, infilzata su un ramo, davanti a un bel fuoco scoppiettante. Fu un pasto veloce, perché avevano tutti fretta di proseguire. Clifton e lo zio osservarono attentamente il posto, per non rischiare di perdersi al ritorno. Ma come avrebbero potuto lasciarsi sfuggire il corso d'acqua che li aveva portati sin lì?
CAPITOLO VENTESIMO La famiglia si mise in marcia: davanti, con gli archi, lo zio e i suoi due amici Marc e Robert; un po' più indietro, il signore e la signora Clifton, con Jack e Belle che saltellavano, correvano e si stancavano inutilmente, malgrado le ripetute raccomandazioni. Il terreno, molto accidentato e cosparso di frammenti di basalto e pietra pomice, era stato chiaramente sconvolto dalle forze plutoniche, e la natura vulcanica della regione si faceva sempre più evidente. I viaggiatori non avevano ancora oltrepassato la zona boscosa dominata dal picco ricoperto di neve, con una vegetazione di pini e abeti che si andava a mano a mano diradando. In quell'ultima parte dell'ascensione, lo zio fece notare a Harry Clifton alcune impronte che indicavano la presenza di animali di grosse dimensioni. Che razza di bestie fossero, non era possibile dirlo. Ma conveniva sempre stare in guardia, e ai bambini fu dato ordine di non allontanarsi. L'attenta osservazione delle impronte suggerì all'ingegnere un'idea abbastanza plausibile. — Trattandosi, mi sembra evidente, di animali potenti e numerosi, sarei propenso a credere che la sorte ci abbia gettato su un continente, più che su un'isola, a meno che non si tratti di un'isola molto estesa. Ma non mi risulta che ce ne siano di simili, in questa parte del Pacifico. Sì, siamo su un continente, e probabilmente su una parte di costa americana compresa fra il quarantesimo e cinquantesimo grado di latitudine settentrionale. — Continuiamo l'ascensione — propose lo zio — e, una volta superata la zona boscosa, forse sapremo cosa fare. — Però riusciremo a vedere soltanto una parte del paese — obiettò Clifton — a meno che non saliamo fin su in cima alla montagna. — Un'impresa non da poco — rispose lo zio — e poi forse la cima non è nemmeno raggiungibile. Però potremmo sempre girare intorno alla base, e sapere finalmente se siamo degli insulari o… come dire? dei continentali.
— Allora affrettiamo il passo! — Se il signor ingegnere è d'accordo — disse lo zio — per oggi potremmo accontentarci di raggiungere il limite degli alberi. Ci accamperemo lì per la notte, che si annuncia serena, e domattina all'alba tenteremo l'ascensione della montagna. Erano le tre del pomeriggio, e la piccola colonia continuò a salire sul terreno montuoso. Se gli animali feroci abbondavano nel paese, almeno fino a quel momento se ne erano viste soltanto le tracce, cosa di cui nessuno ebbe a lamentarsi! Non mancava nemmeno la selvaggina, e Fido fece più volte alzare in volo dei grossi uccelli, difficili da riconoscere. Intanto le frecce di Marc e Robert avevano lasciato sul suolo una coppia di gallinacei della famiglia dei fagiani. Ma con quel loro bargiglio carnoso che pendeva sul petto, e due sottili corna cilindriche dietro gli occhi, non erano fagiani comuni. Delle dimensioni di un gallo, la femmina era di colore scuro, ma il maschio risplendeva sotto il suo piumaggio rosso brillante, cosparso di piccole lacrime bianche. Alla signora Clifton dispiacque parecchio che non si fosse potuto prenderli vivi, così da farne l'ornamento del futuro cortile. Ma bisognava accettarli così com'erano, e accontentarsi di arrostirli alla prossima sosta. Un altro animale di grosse dimensioni apparve per un attimo fra le rocce basaltiche, e Clifton fu soddisfatto d'aver potuto accertare la sua presenza nel paese. Era uno di quei grandi montoni, molto comuni sulle montagne della Corsica, di Creta e della Sardegna, che formano una specie a parte, nota con il nome di mufloni. Clifton l'aveva riconosciuto subito dalle robuste corna ricurve all'indietro e appiattite verso la punta, nonché dal vello lanoso e grigiastro, nascosto da lunghi peli morbidi di colore fulvo. L'animale rimase per un po' immobile vicino al tronco di un albero abbattuto, così che Clifton e lo zio riuscirono ad andargli abbastanza vicino. Il muflone li guardava stupito, come se fosse la prima volta che vedeva dei bipedi umani, poi, in preda a un improvviso timore, scomparve di colpo fra le radure e le rocce, senza che la freccia dello zio avesse il tempo di raggiungerlo.
— Arrivederci! — gli gridò lo zio, con un buffo tono di stizza.— Maledetto animale! Più che per i cosciotti, mi spiace per il pelo! Si è portato via un bel cappotto, ma lo riprenderemo! — O almeno ci proveremo — replicò Clifton — e se riusciamo ad addomesticarne qualche coppia, i cosciotti e i cappotti, come dice lo zio, non ci mancheranno più. La piccola comitiva raggiunse il limitare della foresta verso le sei di sera; ora si trattava soltanto di trovare un posto adatto in cui accamparsi per la notte. Così Marc e Robert partirono in una direzione, Clifton e lo zio si allontanarono in un'altra, e la signora Clifton rimase al riparo di un grande pino, assieme a Jack e Belle. Dopo qualche minuto, Marc e Robert tornarono indietro di corsa, spaventati. — Che c'è, ragazzi? — chiese la madre, andando loro incontro. — Un fumo — rispose Robert — abbiamo visto un fumo salire fra le rocce. — Come?! — esclamò la signora Clifton — degli uomini qui? — Poi, stringendo a sé i suoi figli: — Ma che uomini? Dei selvaggi, dei cannibali? I ragazzi la guardarono senza poterle dare una risposta. In quel momento ricomparvero anche lo zio e l'ingegnere. Marc li informò subito di quanto avevano visto, e tutta la famiglia rimase per un attimo in silenzio. — Dobbiamo agire con prudenza — disse infine lo zio Robinson. — Ormai è chiaro che nei paraggi ci sono delle creature umane. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare e, a dire il vero, questi sconosciuti li temo ben più di quanto non li desideri. Rimanete accanto alla signora Clifton, signor ingegnere, mentre il signorino Marc, Fido e io andiamo in ricognizione. I tre si misero subito in marcia. Il cuore di Marc batteva come impazzito. Lo zio, labbra serrate ed occhi spalancati, avanzava con estrema circospezione. Dopo qualche minuto di marcia in direzione nord-est, Marc si fermò di colpo, mostrando al compagno un sottile filo di fumo giallastro che saliva in aria ai margini del bosco.
Lo zio si arrestò un attimo, mentre Marc tratteneva Fido, che già fremeva per lanciarsi. Poi il marinaio fece segno al ragazzo di aspettarlo e scomparve, scivolando come un serpente fra le rocce. Marc attendeva immobile e molto emozionato, quando di colpo un grido risuonò dalla parte delle rocce. Allora si precipitò, pronto a soccorrere il compagno, ma all'urlo fece immediatamente seguito una sonora risata, e lo zio riapparve quasi subito. — Quel fuoco — gridò agitando le sue grandi braccia — o meglio, quel fumo… — Allora? — domandò Marc. — Be', è tutta opera della natura! C'è soltanto una sorgente sulfurea, che ci permetterà di curarci per bene le laringiti! Tornati dove la famigliola li aspettava, lo zio, ridendo, li mise al corrente della situazione. Padre, madre e ragazzi vollero recarsi subito alla sorgente, appena un po' fuori dalla zona degli alberi. Lì il terreno era decisamente vulcanico. Clifton riconobbe da lontano l'odore di acido solforico che si sprigionava dall'acqua, a contatto con l'ossigeno dell'aria. E quando vi immerse la mano, notò che l'acqua, che sgorgava copiosa fra le rocce, dolciastra e untuosa al tatto, raggiungeva una temperatura di trentacinque gradi circa. Come le sorgenti di Luchon o di Cauterets, anche questa avrebbe potuto curare efficacemente i catarri dell'apparato respiratorio, e forse anche, grazie alla temperatura, i temperamenti linfatici. Quando Marc gli chiese come avesse potuto valutare a trentacinque gradi la temperatura dell'acqua, senza un termometro a disposizione, il signor Clifton gli spiegò che, immergendo la mano nell'acqua, non aveva provato nessuna sensazione, né di caldo né di freddo. Ne aveva, perciò, concluso che l'acqua doveva avere, più o meno, la stessa temperatura del corpo umano, sui trentacinque gradi, circa. La piccola comitiva decise di accamparsi lì, fra due grandi rocce basaltiche, al riparo degli ultimi alberi, e i ragazzi andarono subito a raccogliere legna sufficiente per la notte. Se qualche vago ululato lontano rendeva indispensabile la precauzione del fuoco, è anche
vero che non c'è un solo animale, per quanto feroce, che non si arresti davanti a una barriera di fiamme. Terminati i preparativi, la madre, aiutata da Jack e Belle, passò a occuparsi della cena, di cui fecero le spese i due poveri fagiani, che vennero arrostiti a puntino. Subito dopo i ragazzi, spossati dal viaggio, si addormentarono nei loro letti di foglie secche, mentre Clifton e lo zio Robinson andavano a perlustrare i dintorni. Si spinsero fino a un boschetto di bambù, su una delle prime pendici della montagna, e li udirono più distintamente gli ululati delle bestie feroci. Per meglio difendere le immediate vicinanze dell'accampamento, Clifton ebbe allora l'idea di ricorrere a un metodo raccomandato da Marco Polo, e di cui i Tartari si servono di notte, per tenere lontani gli animali pericolosi. Così tornarono all'accampamento con una buona scorta di bambù, che gettarono a mano a mano sulle braci incandescenti. Ne seguirono degli scoppiettii tali da risvegliare dal sonno Marc e Robert (che si divertirono moltissimo alle detonazioni) e da tenere senz'altro lontani i randagi notturni. Infatti la notte trascorse tranquilla, senza che nulla venisse a turbare il riposo della famiglia Clifton. L'indomani, 1° giugno, la piccola comitiva si alzò di buon'ora e parti verso le sei, dopo una sommaria colazione. Superata la zona degli alberi, il gruppo si avventurò sulle prime rampe della montagna. Che fosse un vulcano, non c'erano dubbi, viste le pendici ricoperte di cenere e scorie, fra cui spiccavano grosse colate di lava. Clifton notò anche la presenza dei materiali che generalmente precedono l'eruzione lavica: pozzolane a piccoli grani irregolari e ceneri biancastre, formate da un'infinità di piccoli cristalli feldspatici. Lo strato di sostanza minerale sulle lave così irregolarmente striate rendeva agevole il cammino anche su quelle pendici ripide, e ci si alzava rapidamente, senza grandi difficoltà. Ogni tanto la strada era interrotta da qualche piccola zolfatara che bisognava aggirare, ma ciò che fece veramente piacere a Clifton fu la gran quantità di zolfo, che formava croste e concrezioni cristalline su tutto, all'intorno. — Benissimo! — esclamò Clifton. — Ragazzi, ecco una sostanza che arriva proprio al momento giusto.
— Per fare dei fiammiferi? — domandò Robert. — No — rispose il padre — per fare della polvere pirica, perché, se cerchiamo bene, troveremo certamente del salnitro. — Davvero, padre? — chiese Marc. — E ci farai della polvere da sparo? — Non vi prometto certo della polvere di prima qualità, ma una sostanza che ci potrà senz'altro essere utile. — A quel punto vi mancherà soltanto una cosa — intervenne la signora Clifton. — Cosa, mia cara Elise? — Le armi da fuoco. — Non abbiamo forse la pistola di Robert? — Eh sì! — gridò il ragazzo, lanciando degli hurrà molto simili a spari. — Calma, Robert, calma — raccomandò il signor Clifton — e riprendiamo l'ascensione. Ci fermeremo a far provvista di zolfo al ritorno. La comitiva si rimise in marcia. Oltre la parte orientale della costa, lo sguardo poteva già abbracciare un vasto orizzonte semicircolare; la costa sembrava girare bruscamente a nord e a sud: verso nord, oltre la grande palude non lontano dalla quale era stato trovato Clifton; verso sud, oltre il promontorio che continuava dietro il banco di ostriche. Di lì si vedeva nettamente l'ampia baia in cui si gettava il fiume, il suo corso sinuoso attraverso le radure, l'immenso groviglio delle foreste e il lago che ricordava un grande stagno. A nord la costa, che correva in direzione est-ovest, sembrava profondamente incavata, a formare una baia profonda chiusa a est da un capo arrotondato, oltre il quale lo sguardo non poteva più spingersi, interrotto dalla montagna. A sud, invece, la terra era in linea retta, quasi fosse stata tracciata con il righello. Dal capo al promontorio, la costa si sviluppava su poco più di una ventina di chilometri; ma se nella parte ancora invisibile, dietro la montagna, si unisse a un continente, o se fosse bagnata dall'oceano, non era possibile saperlo. La regione più fertile era probabilmente quella alla base della montagna, bagnata dai due rami del fiume, mentre quella a
sud era tutta solcata da dune selvagge, e quella più a nord aveva l'aspetto di un'immensa palude. La famiglia s'era fermata un attimo a osservare la terra e l'oceano che si stendevano sotto il suo sguardo. — Allora, signor ingegnere, che ne dite? — domandò lo zio. — Siamo su un'isola o su un continente? — Non saprei proprio, caro amico, dato che non riesco a oltrepassare con lo sguardo la montagna che ci nasconde tutta la parte orientale. Non penso che ci siamo alzati più d'un centinaio di metri sopra il livello del mare. Cerchiamo di farne altrettanti, così da raggiungere il pianoro da cui nasce la montagna. Poi forse, di lì, potremo girarle intorno e osservare la costa orientale. — Ho paura che questa seconda parte della salita sia troppo pesante per la signora Clifton e i due più piccoli — intervenne lo zio. — Ma qui non c'è da temere nessun attacco — rispose la madre. — Posso restare ad aspettarvi con Jack e Belle. — In effetti, mia cara — osservò il signor Clifton — penso proprio che qui non ci siano da temere né uomini né animali. — E poi, resta con me il mio Jack, a difendermi — concluse sorridendo la signora. — E vi difenderebbe sicuramente come un eroe! — esclamò lo zio. — E un leoncino che non ha paura di nulla! Però se volete, signora, posso restare io, qui con voi. — No, caro amico, no. Andate pure con mio marito e i ragazzi; preferisco sapervi con loro. Nel frattempo Jack, Belle e io vi aspetteremo riposando. Il signor Clifton, lo zio, Marc e Robert ripresero dunque l'ascensione. E a mano a mano che avanzavano, la signora e i due bimbi rimpicciolivano a vista d'occhio, fino a ridursi velocemente a tre puntini neri, a mala pena riconoscibili. La strada non era più così facile, ora. I pendii si erano fatti più erti e i piedi scivolavano sulle colate di lava, ma ci si avvicinava rapidamente al pianoro superiore. Quanto all'idea di raggiungere la cima del vulcano, avrebbero dovuto rinunciarvi, se i declivi orientali fossero stati ripidi come quelli occidentali.
Dopo un'ora di duro cammino, tra frane e smottamenti che lo rendevano molto pericoloso, i quattro esploratori giunsero infine alla base del picco vero e proprio: un pianoro limitato, ma sufficientemente praticabile che, da novecento o mille metri sul livello del mare, si alzava gradualmente verso nord con una curva obliqua. Il picco lo sormontava ancora di sette o ottocento metri, con la sua grande distesa di neve che luccicava sotto i raggi del sole. Malgrado la fatica, gli escursionisti non si fermarono neanche un attimo a riposare, impazienti com'erano di girare intorno alla montagna. La vista si apriva sempre più verso nord, mentre le terre che chiudevano a est la baia settentrionale sembravano abbassarsi. Dopo un'ora di marcia, avevano già girato intorno alla parte nord della montagna, oltre la quale non si vedeva nessuna terra. Ma i quattro continuarono ad avanzare, scambiandosi solo poche parole, tutti in preda alla stessa emozione. Marc e Robert, instancabili, camminavano davanti. E finalmente, verso le undici, la posizione del sole fece capire a Clifton che avevano raggiunto la costa opposta. Il mare si spalancava immenso sotto i loro occhi, fino ai limiti dell'orizzonte. I quattro si fermarono a osservare in silenzio l'enorme oceano che li teneva prigionieri. Ogni possibilità di comunicazione con i loro simili era preclusa. Non si poteva sperare in nessun aiuto dagli uomini: erano isolati su un lembo di terra perso nel Pacifico. Era un'isola, dunque. Con una circonferenza compresa fra gli ottanta e i novanta chilometri circa, secondo i calcoli dell'ingegnere: un'isola più grande dell'isola d'Elba, con una superficie doppia rispetto a quella di Sant'Elena. Relativamente piccola, dunque, e infatti Clifton non sapeva spiegarsi, su un territorio così ristretto, la presenza dei grandi animali di cui avevano visto le tracce. Ma forse una spiegazione andava cercata nella sua natura vulcanica. Non era possibile che un tempo l'isola fosse più estesa, e che poi, in buona parte, fosse stata inghiottita dal mare? Magari, all'epoca, era addirittura unita a un continente, ora molto lontano. Clifton si ripromise di verificare la validità di simili ipotesi quando avesse fatto il giro dell'isola. Intanto, consci della gravità della situazione, i ragazzi guardavano in silenzio l'oceano sconfinato, senza osare chiedere nulla al padre.
Dopo una rapida discesa, gli esploratori raggiunsero, in meno di mezz'ora, il punto in cui la signora Clifton li attendeva inquieta. — Allora? — chiese la signora, andando loro incontro. — Un'isola — rispose l'ingegnere. — Sia fatta la volontà di Dio — mormorò la madre.
CAPITOLO VENTUNESIMO Verso mezzogiorno e mezzo, subito dopo il pasto che la signora Clifton aveva preparato in loro assenza con quel che restava della selvaggina uccisa il giorno prima, la comitiva riprese a scendere le pendici della montagna. E dopo aver attraversato in linea retta la zona degli alberi, raggiunse in breve la parte alta del corso, sopra la cascata, dove il fiume formava una vera e propria rapida, con la corrente che ribolliva contro gli scogli nerastri. Un posto estremamente selvaggio. Superato un inestricabile groviglio d'alberi, di liane e rovi, ecco finalmente il canotto, su cui vennero caricate le provviste e le tante sostanze raccolte durante l'esplorazione, prima di riprendere la discesa del fiume. Alle tre, la barca giunse infine sul lago che attraversò a vela spiegata, per poi penetrare nel corso inferiore. E quando, verso le sei, arrivò finalmente in vista della grotta, lo zio non riuscì a trattenere un'esclamazione di stupore: la palizzata recava tracce evidenti di danni. Qualcuno aveva cercato di forzarla e di strappare qualche piolo, che per fortuna aveva resistito. — Sono state quelle maledette scimmie che sono venute a trovarci mentre non c'eravamo! — disse lo zio. — Sono dei vicini pericolosi, signor Clifton, e bisognerà fare qualcosa. Per il momento, comunque, dopo una giornata così faticosa e densa di emozioni, l'unica cosa che fossero ancora tutti in grado di affrontare era una bella dormita. Il problema dei turni fu eliminato non accendendo il fuoco, e ognuno crollò nel suo giaciglio di foglie. La notte trascorse tranquilla e l'indomani, mercoledì 2 giugno, lo zio Robinson e l'ingegnere furono i primi a svegliarsi. — Allora, signor Clifton?! — domandò allegro lo zio. — Allora, caro amico — rispose l'ingegnere — bisogna mettersi il cuore in pace. Visto che siamo degli isolani, comportiamoci da isolani e organizziamoci l'esistenza come se non dovessimo più muoverci di qui. — Ben detto, signor Clifton — approvò lo zio con la sua voce fiduciosa. — Vi ripeto che qui staremo benissimo! Trasformeremo
l'isola in un Eden! La nostra isola, perché è nostra: infatti, se non dobbiamo aspettarci nulla dagli uomini, almeno non abbiamo neanche da temerli. Bisogna ricordarsene. E la signora Clifton, si è rassegnata alla sua nuova situazione? — Sì, zio, è una donna coraggiosa, e con un'incrollabile fiducia in Dio. — Il Signore non ci abbandonerà — disse lo zio. — Quanto ai ragazzi, signor Clifton, son certo che sono felici di essere qui. — Allora, zio Robinson, non rimpiangete nulla? — Nulla, anzi sì, una cosa sola. — Quale? — Devo proprio dirlo? — Sì, zio. — Be'… il tabacco. Sì, il tabacco. Non so cosa darei, per farmi una pipata! Clifton non riuscì a trattenere un sorriso. Non essendo mai stato un fumatore, non poteva capire l'imperioso bisogno creato dall'abitudine, ma prese comunque nota del desiderio dello zio, sperando un giorno di poterlo soddisfare. Il signor Clifton decise di iniziare con la creazione di un cortile, che del resto sua moglie aveva più volte reclamato, l'insediamento definitivo della piccola colonia sull'isola. Così, accanto alla palizzata, ne venne costruita un'altra, su un centinaio di metri quadri, comunicante con il primo recinto attraverso una porta interna. E nel giro di due giorni, due piccoli capanni di frasche, divisi in sezioni, attendevano già i loro ospiti. I primi furono proprio quella coppia di volatili che erano stati presi vivi durante l'ultima escursione, e a cui la signora Clifton aveva tagliato le ali. Come compagne di addomesticamento, vennero loro proposte alcune anatre che frequentavano le rive del lago e che, da allora, dovettero accontentarsi dell'acqua contenuta nei vasi di bambù, per quanto ogni giorno rinnovata. Le anatre appartenevano a quella specie cinese le cui ali si aprono a ventaglio e che, per lo splendore e la vivacità del piumaggio, fa concorrenza ai fagiani dorati. Alla fine della settimana, vennero organizzate delle battute di caccia pro popolamento cortile. I ragazzi riuscirono a catturare una
coppia di gallinacei con la coda larga e arrotondata, fatta di lunghe penne, molto simili ai tacchini. Dopo un inizio burrascoso e qualche disputa, il piccolo mondo pennuto finì, però, per capirsi, e aumentò ben presto in proporzione molto rassicurante. Per completare l'opera, Clifton decise di creare anche una piccionaia in una parte friabile della roccia: lì venne alloggiata una dozzina di quei piccioni selvatici che, con le loro uova, avevano fornito alla famiglia il suo primo pasto. E che mostravano senz'altro una maggior propensione all'addomesticamento dei colombacci, loro cugini, che si riproducono solo allo stato selvaggio. Ben presto, nel cortile, fu tutto un continuo tubare, chiocciare, pigolare che deliziava l'orecchio. Durante i primi quindici giorni di giugno, lo zio Robinson fece notevoli progressi nell'arte della ceramica, utilizzando l'argilla riportata col canotto dal lungo giro d'ispezione. Non avendo a disposizione un tornio, lo zio dovette accontentarsi di fabbricare i suoi vasi a mano. Ne risultarono oggetti goffi e deformi, ma pur sempre vasi. Non sapendo bene come regolare il fuoco, all'inizio lo zio ne ruppe parecchi durante la cottura; per fortuna l'argilla non mancava e, dopo qualche tentativo, poté finalmente offrire alla padrona di casa una mezza dozzina di vasi e terrine. Fra gli altri, una pentola enorme, degna del nome di marmitta. Mentre lo zio si occupava della fabbricazione degli articoli casalinghi, Clifton faceva delle escursioni esplorative nel raggio di qualche chilometro intorno alla grotta, accompagnato, di volta in volta, da Marc o da Robert. Visitò, così, la palude ricca di selvaggina, la garenna che gli parve inesauribile, il banco d'ostriche, i cui preziosi prodotti finivano nel vivaio. L'ingegnere stava cercando anche qualche crittogama che potesse validamente sostituire l'esca; ma, sino ad allora, non l'aveva trovata. Fu press'a poco a quell'epoca che il caso gli permise di soddisfare uno dei più grandi desideri della signora Clifton, che continuava a reclamare un sapone qualsiasi per i suoi bucati. Clifton aveva pensato di fabbricarne, trattando le sostanze grasse con la soda prodotta dall'incenerimento delle alghe marine. Ma era un'operazione lunga, da cui venne dispensato grazie all'incontro con un albero della
famiglia delle sapindacee: il sapindo, i cui frutti producono in acqua una schiuma abbondante, che può benissimo sostituire il normale sapone. L'ingegnere conosceva bene la proprietà di quei frutti, che consentono di pulire una quantità di biancheria per cui sarebbe necessaria una dose di sapone sessanta volte superiore al loro peso. E la signora li adottò immediatamente, con successo. Harry Clifton avrebbe anche voluto procurarsi, se non proprio dello zucchero di canna, che si trova solo nei paesi tropicali, almeno qualche sostanza analoga, estratta dall'acero o da un qualsiasi altro albero saccarifero: un nuovo oggetto di assidue ricerche nella parte boscosa dell'isola. Fu durante una di quelle escursioni in compagnia di Marc, che Clifton incontrò un prodotto vegetale che gli procurò un immenso piacere, perché gli avrebbe consentito di soddisfare l'unico desiderio dello zio Robinson. Il 22 giugno, Clifton e Marc stavano esplorando la parte boscosa sulla riva destra del fiume, quando, correndo in mezzo all'erba alta, il ragazzo fu colpito dall'odore di alcune piante con lo stelo dritto, cilindrico e ramificato in alto. Erano molto viscose, con i fiori a grappolo e dei semini piccolissimi. Marc ne prese qualcuna da far vedere a suo padre, chiedendogli che genere di pianta fosse. — Dove l'hai trovata? — domandò il signor Clifton. — Laggiù, in una radura. Ce ne sono tantissime. Mi sembrava di conoscerle, ma… — Sappi che hai fatto una scoperta preziosissima, e che d'ora in poi non mancherà più nulla alla felicità dello zio. — Tabacco! Ecco cos'è! — esclamò Marc. — Sì, figliolo. — Ah, che bello! — gridò il ragazzo. — Che gioia per lo zio! Ma per il momento non gli diremo nulla, vero, padre? Gli faremo una bella pipa, e un giorno gliela presenteremo piena di tabacco. — D'accordo, Marc. — Sarà difficile trasformare le foglie in tabacco da fumare? — No, figliolo. Ed anche se non sarà tabacco di prima qualità, sarà pur sempre tabacco, e lo zio si accontenterà di sicuro! Dopo averne fatto una buona provvista, Clifton e suo figlio la introdussero "di frodo" nella grotta e con precauzioni enormi, come
se lo zio fosse stato il più severo dei doganieri. Il giorno seguente, approfittando di un'assenza del marinaio, l'ingegnere staccò le foglie più sottili e le mise a seccare, per poi sminuzzarle e sottoporle a torrefazione sulle pietre calde. Intanto, la signora Clifton continuava a preoccuparsi per la questione dei vestiti. Le pelli di foca e di volpe blu non le mancavano di certo, ma era difficile metterle insieme, senza un ago da cucito. Allora lo zio raccontò che una volta aveva inghiottito il contenuto di un agoraio, "per sbaglio", ma che purtroppo gli aghi gli erano già usciti un po' alla volta dal corpo, cosa di cui ora si rammaricava. Aiutata dalla piccola Belle e dallo zio che, come tutti i marinai, era anche un po' sarto, la signora Clifton riuscì comunque a confezionare qualche casacca grossolana, con delle lunghe spine e dei fili di cocco. Ormai si era alla fine di giugno. Il cortile prosperava, e il numero dei suoi ospiti aumentava di giorno in giorno, mentre sotto le frecce dei ragazzi cadevano spesso aguti e capibara, che la madre si affrettava a trasformare in prosciutti affumicati, garantendo così le provviste per l'inverno. Adesso, non c'era più il rischio di morire di fame. L'ingegnere pensava anche a un altro recinto per i quadrupedi selvaggi, mufloni o altri, che contava di catturare un giorno, per addomesticarli. Venne anzi decisa la data per la grande spedizione nel nord dell'isola: il 15 luglio. Clifton si riproponeva di verificare, inoltre, se ci fosse qualche esemplare di Artocarpus, o albero del pane, che cresce sino a quelle latitudini, e che sarebbe stato utilissimo. In effetti, l'assenza del pane si faceva sentire nell'alimentazione di ogni giorno, e ogni tanto Jack ne reclamava un pezzetto. La farina di frumento, comunque, non sarebbe mancata a lungo alla colonia. Rovesciando le tasche del suo vestito, infatti, un giorno Belle ne fece cadere un chicco di grano, uno solo. E corse felice alla grotta dov'era riunita la famiglia, mostrandolo con aria trionfante. — Be'?! — esclamò Robert, canzonatorio — cosa vuoi che ce ne facciamo? — Non ridere, Robert — lo riprese Clifton. — Per noi, questo chicco di grano è più prezioso di una pepita d'oro. — Certo, certo — intervenne lo zio.
— Un solo chicco di grano — continuò il padre — produce una spiga; una spiga può dare fino a ottanta chicchi, e così il chicco di grano della nostra piccola Belle ha in sé tutto un raccolto. — Come mai ti ritrovi in tasca quel chicco? — domandò la signora Clifton. — Perché ogni tanto ne davo alle galline, sul Vankouver. — Ebbene — riprese l'ingegnere — noi lo conserveremo con cura, il tuo chicco di grano; lo semineremo nella prossima stagione, e un giorno ti darà dei dolci, bambina mia. Entusiasta della promessa, Belle se ne andò tutta fiera, neanche fosse stata Cerere, dea delle messi, in persona. Finalmente giunse la data fissata per l'escursione nel nord-est dell'isola. Stavolta Marc sarebbe rimasto con la madre e i due fratelli più piccoli, mentre Clifton, lo zio e Robert contavano di fare in fretta e, se possibile, tornare la sera stessa. La comitiva parti alle quattro di mattina del 15 luglio, risalendo in canotto il corso del fiume, fin dove arrivava la falesia settentrionale. Quindi scesero a terra e, invece di girare intorno alla palude, ritornando verso la costa, si diressero subito a nord-est. Lì non era già più foresta, perché gli alberi si raggruppavano in boschetti isolati, ma non era ancora pianura, con gruppi di arbusti che interrompevano qua e là il terreno molto accidentato. Fra gli alberi, Clifton riconobbe qualche nuova specie. Tra gli altri, i limoni selvatici, i cui frutti non valevano certo quelli della Provenza, ma che contenevano acido citrico a sufficienza, e avevano le stesse proprietà sedative. Lo zio Robinson ne raccolse una dozzina, che sarebbero stati senz'altro ben accetti alla signora Clifton. — Perché — aggiunse il marinaio — in tutto quel che facciamo, dobbiamo sempre pensare alla nostra donna di casa. — Be', se non mi sbaglio, ecco qui un'altra pianta che le farà piacere — aggiunse Clifton. — Cosa? Questo alberello nano? — esclamò Robert. — Certo — rispose l'ingegnere. — Appartiene al genere delle ericacee e contiene un olio aromatico dal sapore piccante, molto profumato e antispasmodico. La si trova spesso nell'America Settentrionale. Voi dovreste conoscerla, zio Robinson!
— Dovrei, ma non la conosco. — La conoscerete di certo sotto il nome di té di montagna o té del Canada. — Ah, signor Clifton, adesso tutto è chiaro! — rispose lo zio. — Certo: il té del Canada è davvero eccellente e, preso in infusione, vale quello dell'imperatore di Cina. Peccato che non abbiamo ancora lo zucchero, ma prima o poi lo troveremo. Su, raccogliamo il tè, immaginando di avere le barbabietole nei campi e uno zuccherificio a nostra disposizione! Così, dopo che un'abbondante provvista di té ebbe raggiunto i limoni nelle bisacce da viaggio, Clifton e i suoi due compagni ripresero la marcia verso nord-est. In quella parte dell'isola, c'erano parecchi uccelli, che però fuggivano di albero in albero senza lasciarsi avvicinare. Numerosi soprattutto i crocieri, dell'ordine dei passeracei, riconoscibilissimi dalle due mandibole corte del becco, ma che, dal punto di vista culinario, non meritavano si sprecasse una sola freccia. Robert, invece, riuscì ad abbattere con grande perizia alcuni gallinacei del gruppo dei tridattili, con le ali lunghe e appuntite, e la parte superiore del corpo color giallo cenere, striata da bande nere. Goffi sulla terra, erano invece velocissimi in volo, qualità che non li preservò, comunque, dalla freccia di Robert. Verso le undici, gli esploratori fecero una breve sosta vicino a una sorgente, per uno spuntino con capibara freddo e un eccellente patè di coniglio, condito con erbe aromatiche. Lo zio ebbe anche l'idea di aggiungere all'acqua di sorgente un po' di succo di limone, che ne esaltò il sapore. Riprendendo la marcia, Clifton pensava continuamente alla sua esca, stupito di non avere ancora trovato una sola pianta di quei parassiti, di cui si conoscono più di diecimila specie, che crescono spontanee in ogni clima. In quel momento, si udì un fruscio d'ali da una macchia d'arbusti lì vicino, ma quando Robert si fece avanti, s'accorse d'essere già stato preceduto da Fido, che si sentiva ringhiare nell'ombra. — Buono, Fido, buono! — gridò Robert. Raccomandazione che sarebbe stata certamente disattesa, se Robert non fosse intervenuto con tempestività. La povera vittima di Fido era un magnifico gallo selvatico, che il ragazzo riuscì a sottrargli di bocca ancora vivo, e
sulla cui origine il signor Clifton era sicuro di non sbagliarsi: appartenente senz'altro alla razza domestica di medie dimensioni, e a quella varietà conosciuta con il nome di gallo di Benthane, con le piume del tarso che gli facevano una sorta di polsino. Ma una caratteristica, in particolare, attrasse l'attenzione di Robert: — Guardate, ha un corno sulla testa! — Un corno?! — esclamò Clifton, esaminando l'animale. — In effetti, lo è — disse lo zio — ed è anche ben piantato alla base della cresta. Un gallo temibile, in combattimento. E pensare che credevo di avere visto di tutto: ma non avevo ancora visto un gallo con le corna! Harry Clifton non rispose, ma continuò ad osservare attentamente l'uccello con un'aria strana, limitandosi a concludere: — Sì, è proprio un gallo di Benthane! Dopo che lo zio gli ebbe legato le ali, per riportarlo vivo alla grotta, i viaggiatori si rimisero in marcia, piegando un po' verso est, in modo da raggiungere il corso del fiume. E se non s'imbatterono mai né nel fungo del genere poliporo, né nelle spugnole brune che possono sostituire l'esca, trovarono, invece, una pianta che poteva prestarsi bene allo scopo. Era la comunissima artemisia, dell'innumerevole famiglia delle composite, di cui fanno parte anche l'assenzio, la citronella, il dragoncello, il genepi, ecc. Quella, l'artemisia cinese, o omoxa, era ricoperta da una leggera peluria, molto usata dai medici del Celeste Impero. Clifton si ricordò, appunto, che, quand'erano secchi, le foglie e i gambi di quella pianta rivestita di lunghi peli morbidi prendevano subito fuoco a contatto con una scintilla. — Finalmente, ecco la nostra esca! — gridò l'ingegnere. — Benissimo! — gli fece eco lo zio, tutto allegro. — Così non abbiamo buttato via la giornata. Non saprei cosa potrebbe offrirci di meglio la Provvidenza. Non lo saprei proprio. Ma non bisogna tentarla, andiamocene. Così, dopo aver raccolto un bel po' di artemisia, i tre ripresero il cammino di sud-est; due ore più tardi, avevano già raggiunto la riva destra del fiume, e alle sei tutta la famiglia si trovò riunita all'accampamento. Sistemato in cortile, il gallo di Benthane, con il
suo corno e i suoi colori sgargianti, ne divenne subito il più bell'ornamento. Durante la cena, dove campeggiò un'ottima aragosta catturata da Marc fra gli scogli, Clifton raccontò tutti i dettagli dell'escursione. Ma chi, alla fine del pasto, fu molto sorpreso, e addirittura molto commosso? Lo zio Robinson, quando Belle gli si avvicinò offrendogli una grossa zampa di crostaceo, tutta rossa e luccicante, e piena zeppa di tabacco. Mentre, dall'altraparte, Jack gli offriva un carbone ardente, a mo' di accendino. — Tabacco! E non mi avevate detto niente! — esclamò lo zio, con gli occhi che gli luccicavano, un po' umidi suo malgrado. E non appena la pipa fu accesa, un gradevole odore di tabacco trinciato si diffuse nell'aria. — Vedete, caro amico — disse allora Clifton — che per quanto avesse già fatto molto per noi, la Provvidenza vi riservava ancora una bella sorpresa!
CAPITOLO VENTIDUESIMO Lo zio Robinson aveva dunque tutto ciò che più desiderava: un'isola stupenda, una famiglia adorata, una pipa e del tabacco! Se qualche nave si fosse presentata in quel momento, avrebbe certamente esitato ad abbandonare quell'angolo di terra! Eppure, quante cose mancavano ancora alla piccola colonia! Benché non avesse idea di cosa gli avrebbe riservato l'avvenire, Harry Clifton sapeva per certo che non avrebbe trascurato l'educazione dei ragazzi. Così, pur non avendo un solo libro da dar loro in mano, il padre, vera enciclopedia vivente, li istruiva in continuazione su qualsiasi argomento, traendo le sue più belle lezioni dagli insegnamenti della natura, e facendo immediatamente seguire gli esempi al precetto. Le scienze, e soprattutto la storia naturale, la geografia, e poi lo studio della religione e della morale erano praticati ogni giorno. Quanto alla filosofia, a quella filosofia pratica data dal buon senso e da una lunga esperienza, chi avrebbe potuto insegnarla meglio dello zio Robinson, e a quale professore di Oxford o di Cambridge non avrebbe potuto fare lezione? La natura si assume il compito di insegnare tutto, a chi la sa capire, e lo zio era un perfetto discepolo di questa scuola. Quanto alla signora Clifton, con la sua tenerezza di donna e la sua dignità di madre, con il suo amore che teneva unito tutto quel piccolo mondo, lei era la vera anima della colonia. Vi ricorderete di certo che, tra le varie sostanze che i viaggiatori avevano riportato dalla grande escursione, c'era anche una certa quantità di zolfo preso in una zolfatara: l'ingegnere, infatti, s'era riproposto di fabbricare una polvere da sparo più o meno perfetta, se mai il caso gli avesse fatto scoprire del salnitro. Il 20 luglio, mentre esplorava le cavità della scogliera settentrionale, il signor Clifton trovò una specie di grotta umida, con le pareti ricoperte da efflorescenze saline di nitrato di potassio. Un nitrato naturale, il nitro appunto, o salnitro, che col tempo affiora sulla superficie del granito per capillarità.
Harry Clifton informò lo zio della sua scoperta: adesso avrebbe finalmente potuto mettere in pratica il suo ambito progetto. — Non otterrò certo una polvere perfetta perché, non potendo ricorrere alla raffinazione per liberare il salnitro dalle sostanze estranee che racchiude, sarò costretto a usarlo allo stato naturale. Ma ci sarà, comunque, utilissima, se dovremo scavare la roccia e farla saltare. — Benissimo, signore — rispose lo zio — così potremo allargarci e costruire dei magazzini nei pressi della grotta. — E poi — riprese Clifton — il sale di nitro ci sarà sempre utile anche per il terreno del cortile che, mescolato con il salnitro, e ben battuto, diventerà duro e impermeabile alla pioggia. Fu quello, infatti, il primo impiego del salnitro. Così battuti, il cortile e il suolo stesso della grotta presero la consistenza del granito, e la madre poté tenere il pavimento lucido come un parquet. Quando l'ingegnere passò ad occuparsi della fabbricazione della polvere da sparo, i ragazzi seguirono con grande interesse tutte le fasi e i dettagli. Benché l'arsenale della colonia comprendesse soltanto una pistola, la questione della polvere li appassionava come se ci fosse stato da rifornire un intero parco d'artiglieria. La polvere da sparo è un miscuglio di salnitro, zolfo e carbone che, infiammandosi, sviluppa una notevole quantità di gas, la cui energia viene sfruttata sia nelle armi da fuoco che nei fori di mina. Avendo il salnitro e lo zolfo, adesso si trattava soltanto di procurarsi il carbone di legna. Non fu un'impresa difficile e, in mancanza del legno di castagno o di pioppo, usati nella fabbricazione della polvere da guerra, l'ingegnere ricorse all'olmo, il cui carbone viene utilizzato soprattutto per la polvere di mina. Così scelse qualche ramo, tolse la corteccia che avrebbe prodotto troppa cenere, e li carbonizzò in fosse che aveva appositamente scavato. Inutile dire che l'ingegnere conosceva i dosaggi adatti. Su cento parti, la polvere ne contiene settantacinque di salnitro, dodici e mezzo di zolfo, e dodici e mezzo di carbone. Le tre sostanze furono sottoposte ai vari procedimenti di triturazione, miscelazione, umidificazione, e infine a quello della compressione sotto l'azione di un pestello di legno, in uno spesso mortaio d'argilla che lo zio aveva
costruito. Clifton ottenne così una specie di galletta grezza, che ora bisognava semplicemente ridurre in granuli. Quella era la parte più difficile, ma indispensabile, dell'operazione. Se, infatti, fosse rimasta allo stato "polveroso", la polvere sarebbe bruciata senza scoppiare, e non avrebbe avuto nessun effetto esplosivo. Sarebbe stata una miscela bruciante, anziché detonante. L'ingegnere cercò, allora, di ottenere una granulazione qualsiasi. Ridotta la polvere in polverino, la lasciò asciugare per due giorni; quindi la frantumò in tante particelle che mise in un vaso rotondo di argilla, riuscendo ad imprimergli un movimento rotatorio abbastanza rapido, con una corda e la puleggia del canotto. Dopo un lavoro duro e accanito, ottenne così una polvere in grani grezzi, spigolosi, non lisci, ma pur sempre grani. In quella nuova veste, infine, la sostanza esplosiva venne esposta ai raggi del sole, che s'incaricò di farla asciugare completamente. Il giorno dopo, Robert non smise un attimo di tormentare il padre perché sperimentasse il nuovo prodotto sulla pistola ben ripulita e sistemata. E avrebbe dato chissà cosa per sparare per primo, ma lo zio non volle esporlo al rischio che la polvere troppo detonante facesse esplodere l'arma. Così, dopo aver preso tutte le necessarie precauzioni per non ferirsi a sua volta, tirò lui per primo. Bisogna dire che la polvere del bacinetto non si accese immediatamente, ma poi, in parte solo bruciando, in parte esplodendo, riuscì a buttar fuori dalla canna la palla di pietra che lo zio vi aveva sistemato. La detonazione fu accolta da hurrà più violenti dello scoppio. Erano le grida di gioia dei bambini. Finalmente c'era un'arma da fuoco! Naturalmente bisognò concedere a Marc e Robert di sparare un colpo di pistola ciascuno, ed essi furono entusiasti del risultato ottenuto. Insomma, se la polvere lasciava molto a desiderare come polvere da guerra, forse, almeno, sarebbe potuta servire come polvere da mina. Intanto la signora Clifton continuava a occuparsi del cortile, che si faceva sempre più ricco. Se si era riusciti ad addomesticare i gallinacei, perché non provare con i quadrupedi? Clifton decise di costruire per loro un recinto speciale, su un terreno di parecchie are, a
un miglio circa dall'accampamento, a nord del lago. Era una prateria erbosa, verso cui si potevano deviare senza difficoltà le acque dolci del fiume. Mentre l'ingegnere tracciava il perimetro del nuovo recinto, lo zio si occupava di scegliere, abbattere e squadrare gli alberi destinati a diventare i pioli della palizzata. Era un lavoro duro, ma venne affrontato senza particolare fretta, perché lo zio non contava di popolare il recinto prima della primavera seguente. Per tutta la durata del lavoro, le visite alla foresta furono, naturalmente, frequenti. Lo zio la sistemava un po' alla volta, tracciando sempre nuovi sentieri, che gli consentivano di sfruttarla meglio, e abbattendo a mano a mano gli alberi che gli servivano. Durante una di queste escursioni, l'ingegnere scoprì un albero prezioso della famiglia delle cicadacee, molto comune in Giappone, la cui presenza gli fece ritenere che l'isola fosse molto meno a nord di quanto si pensasse. Quel giorno, dopo un ottimo pranzo in cui non erano stati lesinati né il pesce né la carne, Clifton disse ai suoi ragazzi: — Allora, ragazzi, che ne pensate, della nostra esistenza? Vi manca qualcosa? — No, padre — risposero in coro Marc, Robert e Jack. — Neanche qualcosa da mangiare? — Sarebbero dei ragazzi davvero difficili! — esclamò lo zio. — Selvaggina, pesce, molluschi, frutta, di cos'altro hanno bisogno? — Ah sì! — disse il piccolo Jack — si che ci manca qualcosa. — E cosa? — domandò il padre. — Dei dolci! — Sentilo, il nostro golosone — sorrise Clifton. — Ma in fondo ha ragione, e possiamo almeno rimpiangere il pane, se non proprio i dolci. — È vero — disse Flip — ci eravamo dimenticati del pane. Ma non preoccupatevi, miei giovani signori, lo faremo di sicuro, quando il chicco di grano della signorina Belle sarà diventato abbastanza grande. — Non dovremo aspettare tutto quel tempo — rispose Clifton. — Proprio stamattina ho scoperto un albero che dà una fecola eccellente.
— Il sago! — gridò Marc — come nel Robinson svizzero! — Il sago? — replicò lo zio — ma è buonissimo! Ne ho mangiato alle isole Molucche, dove ci sono intere foreste di alberi del pane; ogni tronco può contenere fino a quattrocento chili di midollo, da cui si ricava una pasta molto nutriente. Avete fatto proprio una bella scoperta! Su, andiamo subito alla foresta degli alberi del pane! Lo zio s'era già alzato, afferrando l'ascia, ma Clifton lo fermò. — Un momento, zio Robinson. Io non ho mai parlato di bosco di alberi del pane: quelle sono piante che crescono nei paesi tropicali, mentre la nostra isola è senz'altro più a nord del tropico. No! Si tratta semplicemente di un vegetale della famiglia delle cicadacee, che produce una sostanza analoga al sago. — Be' signore, sarà accolto come l'albero del pane in persona! Lasciati i ragazzi alla grotta, Clifton e lo zio imboccarono il sentiero della foresta sino al fiume, che avrebbero dovuto attraversare. — Signore — disse lo zio fermandosi sull'argine — bisogna che ci decidiamo a costruire un ponte. Perché, se si dovesse risalire ogni volta in canotto fin qui, sarebbe una notevole perdita di tempo. — D'accordo — rispose l'ingegnere. — Faremo un ponte girevole, in modo da spostarlo anche sulla riva sinistra, che rappresenta la nostra frontiera naturale su questo lato. E non dobbiamo dimenticare che il fiume ci protegge a nord, almeno contro gli animali selvaggi. — Certo — replicò lo zio — ma possono benissimo passare a sud. — E chi ci impedisce di chiudere il passaggio, o con una lunga palizzata, o deviando le acque del lago? — domandò Clifton. — Chi ce lo impedisce? — Io no di sicuro — rispose lo zio Robinson — ma intanto, in attesa del ponte, sarà meglio abbattere un albero che ci consenta di passare sull'altra riva. Qualche minuto più tardi, Clifton e lo zio risalivano la foresta in direzione nord-est, accompagnati da Fido, che faceva spesso fuggire dai cespugli capibara e aguti. Lo zio notò anche vari branchi di scimmie che scappavano nella boscaglia, ma così veloci che non si riusciva nemmeno a distinguere a che specie appartenessero. Dopo mezz'ora di cammino, i due compagni raggiunsero una vasta pianura cosparsa di ciuffi d'alberi, molto simili alle palme. Quelli,
appunto, che aveva visto l'ingegnere. Appartenenti alla specie delle Cycas revoluta, avevano un fusto semplice, ricoperto di scaglie, con le foglie striate da piccole venature parallele. Per le dimensioni piuttosto modeste, si avvicinavano più agli arbusti che agli alberi. — Eccole qua, le nostre preziosissime piante! — esclamò Clifton. — E qui nel tronco c'è quella farina nutriente, che la natura ha avuto cura di fornirci già bell'e macinata. — Signor Clifton — disse lo zio — la natura sa bene cosa fare. Che ne sarebbe del povero diavolo gettato su un'isola deserta, se la natura non gli venisse in aiuto? Vedete, io ho sempre pensato che ci fossero delle isole da naufraghi, create apposta per loro, e la nostra è senz'altro una di quelle. Ed ora, all'opera! In un primo tempo, lo zio e l'ingegnere tagliarono i fusti delle cycas, ma poi decisero di estrarre la farina sul posto, per non caricarsi inutilmente di legna. Il tronco delle cycas era composto da un tessuto ghiandolare, che racchiudeva al suo interno una certa quantità di midollo farinoso, attraversato da fasci legnosi, e separato da anelli della stessa sostanza, disposti concentricamente. Assieme alla fecola c'era un succo mucillaginoso, di sapore sgradevole, facilmente eliminabile con una lieve pressione. Il midollo formava una vera farina di qualità superiore, e ne bastava pochissima, per sfamare un uomo. Clifton informò lo zio che un tempo le leggi giapponesi proibivano l'esportazione del prezioso vegetale. Dopo qualche ora di lavoro, Clifton e Flip ripresero la via del ritorno, con il loro grosso carico di farina sulle spalle e, non appena rientrati nella foresta, si ritrovarono in mezzo a numerosi branchi di scimmie, che stavolta poterono osservare più attentamente. Erano animali di notevoli dimensioni, probabilmente i primi dell'ordine dei quadrumani. L'ingegnere non poteva sbagliarsi. Che fossero scimpanzé, oranghi, gorilla o gibboni, quegli individui appartenevano certamente alla famiglia delle scimmie antropomorfe, così chiamate per la loro somiglianza con la razza umana. E potevano diventare avversari formidabili, avendo dalla loro la forza e l'intelligenza. Chissà se si erano già trovate in presenza dell'uomo? E se sapevano cosa aspettarsi da quel bipede? Comunque fosse, le
scimmie guardavano passare Clifton e lo zio, esibendosi in un'infinità di smorfie e di contorsioni. Ma i due proseguirono per la loro strada di buon passo, per nulla desiderosi di entrare in lotta con simili bestioni. — Signore — disse lo zio — certo che avremmo un bel daffare con simili colossi. — In effetti — rispose Clifton — non è simpatico che ci abbiano visto, e sarebbe piuttosto seccante che ci seguissero fino alla grotta. — No, non c'è da temere — riprese lo zio — perché tra poco si troveranno il passo sbarrato dal fiume. Su, è meglio che ci affrettiamo. I due camminavano veloci, attenti a non provocare quella gran banda sghignazzante né con gli sguardi, né con i gesti. Ogni tanto uno di loro, un grande orango che sembrava essere il capo del gruppo, si avvicinava a Clifton o allo zio e, dopo averli fissati bene in faccia, se ne tornava indietro, dai suoi compagni. L'ingegnere ebbe, perciò, modo di osservare minuziosamente quel bestione alto quasi due metri. Il corpo ben proporzionato, l'ampio torace, la testa di media grandezza, con l'angolo facciale di sessantacinque gradi, il cranio rotondo, il naso sporgente, e la pelle ricoperta di un bel pelo morbido e lucente ne facevano un perfetto esemplare della famiglia degli antropomorfi. Un po' più piccoli di quelli umani, gli occhi brillavano di un'intelligente vivacità, e i denti facevano capolino, candidi, tra i baffi, sopra una piccola barba crespa, color nocciola. — Un bel tipo — mormorò lo zio. — Se almeno conoscessimo la sua lingua, ci si potrebbe fare una bella chiacchierata. Mentre continuavano a camminare veloci, Clifton e Flip si accorsero con soddisfazione che la banda si disperdeva pian piano nel bosco. La scorta si ridusse a tre o quattro elementi e, dopo un po' , rimase a seguirli solo il grande orango, che seguiva i loro passi con un'insistenza davvero incomprensibile. Inutile anche solo pensare di distanziarlo, perché le sue lunghe gambe dovevano fare di lui un corridore formidabile. Giunti al fiume verso le quattro, Clifton e lo zio trovarono facilmente il posto dove avevano ormeggiato la zattera provvisoria.
L'orango li aveva seguiti fin sulla riva, e osservava attento i loro movimenti, mentre caricavano le provviste sulla zattera. Poi camminava a grandi passi, lanciando occhiate all'altra riva, apparentemente poco disposto ad abbandonare i suoi compagni di strada. — Attenzione — avvertì lo zio — ecco arrivato il momento di piantarlo in asso. Mollato l'ormeggio, i due uomini saltarono subito a bordo, allontanandosi rapidamente dalla riva. Ma, in quel momento, l'orango si slanciò con un balzo dall'argine, finendo a un'estremità della zattera, col rischio di farla capovolgere. Allora lo zio si precipitò subito verso di lui, con l'ascia alla mano, ma l'animale rimase a fissarlo, immobile, senza alcun segno di ostilità. Lo zio abbassò l'arma. In condizioni del genere, la lotta era evidentemente inopportuna, e anche pericolosa. Una volta arrivati dall'altra parte, avrebbero deciso cosa fare. Quando Clifton e lo zio scesero sull'altra sponda, la scimmia sbarcò con loro, seguendoli sul sentiero che portava alla grotta. Costeggiata la riva settentrionale del lago, i due uomini oltrepassarono la cortina delle palme da cocco, fiancheggiarono la falesia… e l'orango li seguiva sempre. Quando finalmente arrivarono alla palizzata, si richiusero in fretta la porta alle spalle. Era scesa la notte, una notte resa particolarmente buia da grossi nuvoloni. La scimmia era sempre lì? Sì, evidentemente, perché più volte uno strano grido ruppe il silenzio della notte.
CAPITOLO VENTITREESIMO A cena, dopo che Clifton ebbe raccontato alla moglie e ai figlioli gli incidenti che avevano movimentato il viaggio, si decise di rimandare la soluzione della questione-scimmia all'indomani. Così il giorno dopo, erano già tutti in piedi di buon'ora. A un tratto le grida dei ragazzi, corsi per primi a guardare attraverso gli interstizi della palizzata, attirarono Clifton e lo zio Robinson. L'orango era sempre lì. A volte, appoggiato contro un tronco d'albero, con le braccia, per così dire, conserte, esaminava la palizzata del recinto, a volte si spingeva fino alla porta, la scuoteva vigorosamente e, non riuscendo ad aprirla, tornava al suo posto d'osservazione. Gli occhi di tutta la famiglia erano puntati su di lui, da dietro i pioli. — Che bella scimmia! — esclamò Jack. — Sì — intervenne Belle — ha un bellissimo muso! Non fa molte smorfie, e non avrei per niente paura di lui. — Ma cosa ce ne facciamo? — domandò la signora Clifton. — Non può restare sempre di guardia davanti alla porta. — E se l'adottassimo? — propose lo zio. — Dite davvero? — chiese la signora Clifton. — Mah — riprese lo zio — ci sono delle scimmie molto in gamba. Potrebbe essere un ottimo domestico. Può anche darsi che mi sbagli, ma ho l'impressione che abbia tutta l'intenzione di stabilirsi qui da noi. Solo che è difficile prendere informazioni sul suo conto. Ridendo e scherzando, lo zio non esagerava affatto. L'intelligenza delle scimmie antropomorfe è davvero notevole, e il loro angolo facciale non è di molto inferiore a quello degli Australiani e degli Ottentotti. Inoltre l'orango non possiede né la ferocia del babbuino, né l'impulsività del macaco, né la scarsa pulizia dello uistitì, né l'impazienza della bertuccia, né gli istinti violenti del cinocefalo, né il brutto carattere del cercopiteco. Harry Clifton conosceva bene l'ingegnosità di quegli animali, e citò vari esempi che testimoniavano
della loro intelligenza quasi umana. Gli oranghi sapevano accendere il fuoco e usarlo, e molti di loro venivano impiegati come domestici nelle case per servire in tavola, pulire le camere, tenere in ordine gli abiti, prendere l'acqua dal pozzo o dare la cera alle scarpe. Sapevano servirsi correttamente di coltello, cucchiaio e forchetta, mangiavano qualsiasi tipo di cibo e bevevano vino e liquori. Lo stesso Buffon ne aveva avuto uno, che lo aveva servito a lungo come domestico diligente e fedele. — Benissimo — rispose allora lo zio — visto che le cose stanno così, non vedo perché quest'orango non dovrebbe essere ammesso a titolo di servitore nella colonia. Sembra giovane, non sarà difficile educarlo, e si affezionerà sicuramente a dei padroni che lo trattano bene. Dopo aver riflettuto qualche istante, Harry Clifton si girò verso di lui: — Parlate seriamente, quando dite di volerlo adottare? — Molto seriamente, signore. Vedrete che non ci sarà bisogno di ricorrere alla forza per addomesticarlo, né di strappargli i canini, come si fa in simili circostanze. È giovane, robusto e può diventare un aiuto prezioso per noi. — Be', possiamo provare — concluse Clifton — e se, più avanti, la sua presenza diventa troppo seccante, vedremo di liberarcene. Una volta presa la decisione, Clifton fece rientrare i ragazzi nella grotta, e uscì con lo zio dal recinto. Tornato accanto all'albero, l'orango guardava i suoi futuri padroni che si avvicinavano, dondolando piano la testa. E quando lo zio gli offrì un po' di noce di cocco, se la portò alla bocca e mangiò con evidente soddisfazione. — Allora, giovanotto — gli domandò lo zio in tono giocoso — come va la salute? L'orango gli rispose con un piccolo grugnito allegro. — Vogliamo proprio far parte della colonia? — domandò ancora lo zio. — Vogliamo entrare al servizio del signore e della signora Clifton? Nuovo grugnito d'approvazione della scimmia.
— E ci accontenteremo del cibo, come paga? — aggiunse lo zio, tendendo la mano all'animale. Il quale gli rispose con un gesto simile, stringendogli la mano ed esibendosi nel suo terzo grugnito. — Ha una conversazione un po' monotona — osservò Clifton, ridendo. — Be', signore — replicò lo zio — i domestici che parlano poco sono i migliori. Intanto l'orango s'era alzato, dirigendosi deliberatamente verso la grotta, ed entrò all'interno della cinta. Sulla soglia della caverna, i due più piccoli si stringevano alla madre, fissando il gigantesco bestione ad occhi spalancati. Lui guardò dappertutto, con l'aria di chi ispeziona i luoghi: esaminò il cortile, gettò un'occhiata all'interno della grotta e infine si girò verso Clifton, quasi lo avesse riconosciuto come capofamiglia. — Allora, amico — domandò lo zio. — La casa è di vostro gradimento? Si? D'accordo, allora. Per il momento, niente paga, ma più tardi la raddoppieremo, se saremo contenti di voi. E fu così che, senza tanti complimenti, l'orango si stabilì con la famiglia Clifton, che gli avrebbe costruito una capanna di frasche nell'angolo sinistro del cortile. Quanto al nome, lo zio chiese che, sull'esempio di moltissimi negri d'America, fosse battezzato con il nome di Jupiter. Che, per abbreviazione, divenne Jup. Clifton non ebbe affatto a pentirsi d'avere accettato quella nuova recluta. Straordinariamente intelligente, e di una docilità esemplare, l'orango fu addestrato dallo zio a un'infinità di compiti, in cui se la cavò sempre egregiamente. Quindici giorni dopo la sua ammissione in famiglia, trasportava la legna che andava a prendere nella foresta; portava l'acqua del lago nei vasi di bambù costruiti dallo zio, spazzava la corte all'interno della palizzata. Se poi si trattava di arrampicarsi fino sulla cima di una palma di cocco per prenderne i frutti, nessuno se la cavava meglio: nemmeno l'agile Robert poteva pretendere di competere con lui. Durante la notte, faceva la guardia con una sagacia di cui Fido sarebbe stato geloso. Lui e la scimmia, comunque, andavano d'accordissimo. Quanto ai ragazzi, si abituarono in fretta ai servizi di Jup. Jack, un po' dispettoso, non
mollava più il suo amico Jup, che però si prestava ai suoi giochi e lo lasciava fare. Intanto i giorni passavano. Tra un lavoro e l'altro, si era alla seconda metà di settembre e tutte le riserve erano state accresciute, in previsione dell'inverno. Contro un angolo della falesia, lo zio Robinson aveva costruito un gran capannone coperto, che serviva da legnaia; varie battute di caccia, regolarmente organizzate, procurarono una gran quantità di aguti e di capibara, che vennero salati e affumicati; il cortile, inoltre, era popolato da gallinacei di ogni tipo, che avrebbero assicurato alla colonia cibo fresco durante la stagione delle piogge. E tra gli scogli più a sud, fu fatta una vera e propria razzia di tartarughe marine, la cui carne, ben conservata, prometteva ottime minestre per il futuro. Inutile aggiungere che erano state abbondantemente rinnovate anche le provviste di sago che, sotto forma di pane, di gallette o di dolci, costituiva un ottimo alimento, che la signora Clifton lavorava con grande abilità. La questione alimentazione era, dunque, più o meno risolta per quell'inverno. E, ormai, neanche il vestiario preoccupava più la signora Clifton. Grazie all'abilità dello zio, c'erano pellicce in abbondanza, e vestiti di pelle per tutte le taglie. Risolto anche il problema delle scarpe: lo zio aveva confezionato delle galosce, metà in cuoio, metà in legno, ottime per i giorni di pioggia o di neve. Qualcuna, più alta di gamba, andava benissimo anche per la caccia in palude, quando il freddo avrebbe portato tutta la selvaggina acquatica nel nord dell'isola. Quanto ai cappelli e ai berretti, ne avevano fatto le spese le lontre marine, ottime per qualità e quantità. Probabilmente avevano eletto a proprio rifugio quella zona del Pacifico, perché i ragazzi ne trovarono parecchie, fra gli scogli a sud-ovest dell'isola. Bisogna dire, però, che il desiderio dello zio di offrire a Clifton un bel cappotto di pelle d'orso non aveva ancora potuto realizzarsi. Le tracce c'erano, ma fino a quel momento l'animale non si era mai fatto vedere. Le orme si concentravano soprattutto a sud del lago e sulla strada della garenna, dove, evidentemente, qualche orso passava per andare ad abbeverarsi alle acque del lago. Allora lo zio decise di ricorrere all'unico mezzo che potesse portare alla cattura di un
plantigrado. Aiutato da Marc, cui confidò il suo progetto, scavò una fossa profonda, larga dai tre ai quattro metri, camuffandola, poi, sotto un impiantito di frasche. Un mezzo rudimentale, certo, ma lo zio non era sufficientemente armato per affrontare un orso corpo a corpo, e non poteva agire altrimenti: doveva contare su un caso che, complici le tenebre della notte, facesse precipitare un orso nella fossa. Così, ogni mattina, con un pretesto o con un altro, Marc o lo zio facevano una capatina a controllare la fossa, purtroppo sempre vuota. Fra le tante, innumerevoli occupazioni, lo zio non trascurava certo l'educazione della sua scimmia. Un allievo d'intelligenza notevole, che si dedicava ai lavori più pesanti con grande coraggio e abilità. Lo zio gli era molto legato, e poi ci fu un altro piccolo dettaglio che rafforzò ulteriormente la loro amicizia. Un giorno, lo zio trovò mastro Jup che fumava la pipa, sì, proprio la sua pipa di zampa d'astice, e sembrava che il tabacco gli procurasse un piacere senza pari. Stupito e felicissimo, lo zio riferì la cosa al signor Clifton, il quale non rimase poi così sorpreso, citandogli vari esempi di scimmie cui l'uso del fumo era divenuto familiare. Da quel giorno, mastro Jup ebbe una sua pipa personale, che venne appesa nella sua capanna, accanto alla sua personale provvista di tabacco. Mastro Jup se la riempiva da solo, l'accendeva con un carbone ardente, e se la fumava estasiato, con un piacere sublime. Ogni mattina, poi, lo zio gli offriva un bicchierino di cocco fermentato, e alla signora Clifton, preoccupata che Jup potesse prendere l'abitudine del bere, lo zio rispondeva invariabilmente: — State tranquilla, signora, è una scimmia ben educata. Non diventerà mai un gran frequentatore di osterie! Il mese di settembre era stato bellissimo, senza pioggia, né vento; solo una lieve brezza a rinfrescare l'aria mattina e sera. Le foglie degli alberi, dorate dall'autunno, cominciavano a cadere un po' alla volta. Il freddo non aveva ancora iniziato a farsi sentire, e così la mattina del 29 settembre, la famiglia fu molto sorpresa nel sentire il piccolo Jack gridare, da fuori: — Venite! Marc e Robert, venite! C'è la neve! Dai, andiamo a giocare!
Uscirono tutti di corsa: dalla grotta al mare, il suolo era assolutamente pulito. E Robert cominciò a prenderlo in giro, quando Jack indicò l'isolotto ricoperto di un tappeto bianco. — Che strano! — esclamò Clifton. In effetti, una neve così, in quel periodo dell'anno e nel momento in cui all'orizzonte si alzava un sole magnifico, era assolutamente inspiegabile. — Benissimo! — commentò lo zio. — Ci troviamo in un'isola fenomeno. — Bisogna andare a vedere che cos'è — disse Clifton. — Dai, prendiamo la barca e attraversiamo il canale — propose Marc. Spingere il canotto in mare fu questione di un attimo. E, con qualche colpo di remo, la barca raggiunse l'isolotto. Ma nel momento in cui la prua toccava la riva, lo strato di neve si alzò e, dispiegandosi come una nuvola gigantesca verso l'isola, offuscò per un attimo la luce del sole. La neve era un immenso stormo di uccelli bianchi, che Clifton non seppe riconoscere, e che scomparvero fino all'ultimo nelle profondità del cielo. Ma la stagione delle piogge si avvicinava, e i giorni si erano fatti notevolmente più corti. Ai primi di ottobre c'erano circa dieci ore di luce, contro quattordici di buio. Era troppo tardi, ormai, per il giro di circumnavigazione che Clifton voleva intraprendere. Con i primi grandi venti dell'equinozio, e il mare regolarmente spazzato da violente burrasche, la fragile imbarcazione non poteva correre il rischio d'essere sbattuta contro gli scogli, né di essere trascinata al largo. Il grande progetto di esplorazione dovette, quindi, essere rinviato all'anno successivo. Il sole tramontava alle cinque e mezzo, e le sere erano lunghe, ormai. Sere trascorse in famiglia, nella grotta, a chiacchierare e ad istruirsi. Si facevano grandi progetti per l'avvenire, e bisogna riconoscere che la piccola colonia si era ambientata benissimo nella sua isola. Per le lunghe sere d'inverno, in cui nessuno voleva andare a dormire già al calar del crepuscolo, Clifton aveva dovuto inventarsi un sistema di illuminazione, raccomandando alla moglie di
conservare con cura tutti i grassi animali che compongono il sego. Un sego allo stato grezzo, perché, in mancanza di acido solforico, non lo si poteva né purificare, né liberare delle sue parti acquose. Comunque, così era, e così venne adoperato. Con uno stoppino rudimentale, fatto di fibre di cocco, Clifton fabbricò delle candele che continuavano a scoppiettare, bruciando. Però facevano luce, e rischiaravano se non altro la tavola, intorno alla quale la famiglia era riunita. L'anno dopo, si sarebbe potuto pensare a un altro sistema di illuminazione, più perfetto, in cui al grasso si sarebbe sostituito l'olio, "aspettando il gas", come diceva lo zio, che non disperava mai di nulla. Tuttavia, benché la sua isola gli sembrasse già perfetta e completa, una sera lo zio confessò che le mancava ancora qualcosa. — E cosa? — domandò la signora Clifton. — Non so, ma mi sembra che la nostra isola non esista abbastanza, che non sia seria. — Be'! — disse l'ingegnere. — Io vi capisco, zio: quel che ci vuole, per la nostra isola, è uno stato civile regolare. — Ecco! Proprio così. — E quel che le manca, è un nome. — Un nome, un nome! — gridarono in coro i ragazzi. — Diamo un nome alla nostra isola! — Sì — rispose il padre — e non solo all'isola, ma anche alle diverse parti che la compongono. Così semplificheremo le indicazioni, per il futuro. — Sì — rispose lo zio — e così, quando si va da qualche parte, almeno si sa dove si va. — Be', diamole i nostri nomi! — gridò Robert. — Io propongo di chiamarla isola Robert Clifton. — Un momento, figliolo — lo ammonì l'ingegnere — tu pensi solo a te stesso. Se vogliamo battezzare i capì, i promontori, i corsi d'acqua, le montagne dell'isola con nomi che ci sono cari, scegliamo quelli che ci ricordano un fatto o una situazione. Ma procediamo con ordine. Prima di tutto, il nome dell'isola. E lì cominciarono le discussioni. I nomi proposti furono parecchi e, visto che non si riusciva a raggiungere un accordo:
— Scommetto che adesso riesco a mettervi d'accordo — disse lo zio. — In tutte la nazioni civili, è diritto dello scopritore di dare il suo nome alla scoperta; perciò vi propongo di chiamare quest'isola, isola Clifton. — D'accordo — rispose subito l'ingegnere — ma allora che un simile onore sia riservato al vero scopritore dell'isola, al salvatore di mia moglie e dei miei figli, al nostro amico devoto, e che quest'isola si chiami Flip Island! La proposta fu accolta da un coro di hurrà, mentre i ragazzi si accalcavano intorno allo zio Robinson, e i coniugi Clifton gli stringevano le mani. Emozionatissimo, Flip tentò invano di schermirsi contro un simile onore, ma si scontrava con l'unanimità e, malgrado la sua modestia, dovette arrendersi. Così venne definitivamente assegnato all'isola il nome di Flip Island, ed è con questa denominazione che figurerà nella cartografia moderna. Poi si passò a discutere i nomi secondari, e lo zio ottenne senza difficoltà che il vulcano che dominava l'isola si chiamasse Clifton Mount. I nomi di situazione diedero luogo a interessanti dibattiti fra i ragazzi, con i seguenti risultati: la baia in cui sfociava il fiume si chiamò baia di Prima Vista, perché su di lei si erano posati i primi sguardi dei naufraghi; il fiume, abbastanza sinuoso nel suo corso, prese il giustificato nome di Serpentine River. Alla palude a nord, vicino alla quale lo zio aveva trovato Clifton, fu dato il nome di palude della Salvezza, al capo che chiudeva l'isola a nord, capo Maggiore, e a quello che la chiudeva a sud, capo del Cadetto, in onore di Marc e di Robert; al lago, il nome di lago Ontario, che ricordava alla famiglia abbandonata la propria patria lontana, al canale fra l'isoletta e la costa il nome di canale Harrisson, in memoria dello sventurato capitano del Vankouver; all'isoletta il nome di isolotto Foca. E infine al porto, formato in fondo alla baia di Prima Vista dalla foce del fiume, il nome di porto Deo Gratias, a testimoniare la riconoscenza verso Dio, che aveva così visibilmente protetto la famiglia abbandonata. Belle e Jack erano un po' dispiaciuti che i loro nomi non comparissero nella lunga lista geografica, ma il signor Clifton
promise di inserirli già alle primissime scoperte che fossero state fatte sull'isola. — E non sarà dimenticato nemmeno il nome della vostra carissima madre — aggiunse. — Lo zio ed io pensiamo di costruire una casetta confortevole, che diverrà la nostra residenza principale, e che porterà il nome di colei che ci è così cara: Elise House. Fra una discussione e l'altra era giunta l'ora di dormire. La madre e i ragazzi s'infilarono nei loro letti di pelli e di muschio, mentre mastro Jup si era già ritirato nella sua capanna. Prima di abbandonarsi al sonno, lo zio e Clifton, come ogni sera, fecero un giro d'ispezione intorno alla grotta e, appena furono soli, il marinaio ringraziò ancora una volta l'ingegnere per aver dato il suo nome all'isola. — Finalmente abbiamo una vera isola, la cui esistenza è legalmente riconosciuta, e che può onorevolmente comparire su una carta. E, notate bene, signore, che possiamo rivendicare il diritto d'averla scoperta. — Mio caro amico — rispose Clifton — non sappiamo ancora se Flip Island sia mai stata abitata prima del nostro arrivo qui e, direi di più, se non vi sia addirittura qualche altro abitante, oltre a noi. — Cosa volete dire, signore? — esclamò lo zio. — Avete forse qualche indizio? — Uno — rispose Clifton, abbassando la voce — uno solo, ma ne parlo soltanto con voi, per non allarmare inutilmente la nostra piccola colonia. — Avete ragione, signore. Che cosa c'è? — Ecco. Avete presente quel gallo cornuto che abbiamo preso e che s'è adattato benissimo nel nostro cortile? — Certamente — rispose lo zio. — Ebbene, non crediate che quel corno, quell'appendice che il nostro gallo ha sulla testa sia naturale. No. Gli hanno inserito quello sperone posticcio alla base della cresta, dopo avergliela tagliata quand'era ancora un giovane pollo. L'innesto si radica nel giro di quindici giorni, e diventa parte integrante dell'uccello. Ma è opera di mano umana. — E l'uccello che età ha? — domandò lo zio.
— Due anni, o forse meno. E quindi possiamo affermare che, due anni fa, degli uomini, probabilmente bianchi, si trovavano già sulla nostra isola.
CAPITOLO VENTIQUATTRESIMO Conformandosi alla raccomandazione di Clifton, lo zio mantenne il segreto, ma le deduzioni dell'ingegnere sulla presenza del gallo cornuto a Flip Island erano assolutamente logiche. Fino a due anni prima, dunque, l'isola era ancora abitata, non c'erano dubbi. Che lo fosse ancora, su questo lo zio aveva parecchie perplessità, dato che sino ad allora non avevano mai trovato traccia di creature umane. Ad ogni modo la questione poteva essere risolta solo con una perfetta conoscenza dell'isola, ormai rinviata all'anno seguente. Il mese d'ottobre fu caratterizzato da burrasche di vento e piogge equinoziali. Il canotto, tirato a riva, al riparo dalla risacca, avrebbe passato l'inverno alla base della falesia, con la chiglia girata all'insù. Il capannone che serviva da legnaia era pieno zeppo di legna e di fascine disposte con cura. Le riserve di carne erano aumentate di molto e ogni tanto, comunque, la caccia avrebbe fornito un po' di selvaggina fresca. Il pollaio prosperava, e ormai il recinto era diventato fin troppo piccolo. Aiutata dai ragazzi, la padrona di casa passava parecchio tempo a dar da mangiare alla sempre più ampia schiera di pennuti. Adesso c'era anche una bella coppia di otarde con i loro piccoli: una famiglia di trampolieri, con una specie di mantellina di penne più lunghe intorno al collo, che si nutrivano indistintamente d'erba o di vermi. Le anitre si erano moltiplicate, e i mestoloni, con la mandibola superiore prolungata ai lati da un'appendice membranosa, sguazzavano felici nel loro laghetto artificiale. C'era anche una coppia di galli neri, che avevano già parecchi pulcini. Erano galli del Mozambico, che devono il loro nome al colore nero della cresta, della caruncola e della pelle, benché la carne sia bianca, e ottima al palato. Inutile dire che lo zio aveva arredato la grotta con assi e armadi, riservando un angolo alle ricche provviste vegetali: c'erano moltissimi pinoli, e anche una certa quantità di radici appartenenti alla famiglia delle araliacee, diffuse in ogni regione del globo: le radici del Dimorphantus edulis, aromatiche, un po' amare, ma di
sapore gradevole, di cui i Giapponesi si nutrono durante l'inverno. Lo zio ricordava di averne mangiate a Yedo, ed erano eccellenti. E, finalmente, anche uno dei più grandi desideri della signora Clifton poté essere soddisfatto grazie ai consigli dello zio, e alla sua enorme esperienza in tutti i campi. Fu all'inizio di novembre che Harry Clifton disse a sua moglie: —Tesoro, vero che saresti felice se ti procurassimo un po' di zucchero? — Certo — rispose la signora. — Bene, adesso siamo in grado di fartene. — Avete trovato delle canne da zucchero? — No. — Delle barbabietole? — Nemmeno, ma la natura ci ha gratificato, su quest'isola, di un albero comunissimo, e molto prezioso: l'acero. — Ed è l'acero che vi darà lo zucchero?! — Sì. — Chi ha mai sentito dire una cosa simile? — Lo zio. In effetti, lo zio non si sbagliava. L'acero, uno dei più umili membri della famiglia delle aceracee, è comunemente diffuso nelle regioni temperate d'Europa, in Asia, nel nord delle Indie e nell'America Settentrionale. Delle sessanta specie da cui è formata questa famiglia, la più utile è rappresentata dall'acero del Canada, chiamato anche Acer saccharinum, perché produce in abbondanza una sostanza zuccherina. Clifton e lo zio l'avevano trovato durante un'escursione nella zona a sud, oltre le colline che chiudevano la parte meridionale dell'isola. Essendo, appunto, l'inverno la stagione più adatta all'estrazione dello zucchero dell'Acer saccharinum, si stabilì di dedicare all'operazione i primi giorni di novembre. E così Clifton, lo zio, Marc e Robert andarono nel bosco di aceri, affidando Elise House alla custodia di Fido e di mastro Jup. Passando vicino alla garenna, lo zio fece una piccola deviazione per controllare la sua trappola per orsi: ancora vuota, con suo grande disappunto.
Quando arrivarono alla foresta, Robert fu preso da un attacco di riso, alla vista di quei cosiddetti alberi da zucchero, ma nessuno diede troppo peso alle sue canzonature, e si misero subito all'opera. Non appena lo zio ebbe profondamente inciso, con l'ascia, il tronco di una dozzina di aceri, ne sgorgò abbondante un liquore zuccherino, limpidissimo, che ci si limitò a raccogliere nei vasi. Come si vede, la raccolta vera e propria non richiedeva un enorme lavoro! E quando tutti i vasi furono pieni, lo zio li chiuse accuratamente, riprendendo la strada dell'Elise House. Ma il lavoro non finiva lì. Dal momento della raccolta, il liquore dell'acero tendeva già ad assumere una tinta biancastra e una consistenza sciropposa, ma non era ancora lo zucchero cristallizzato che desiderava la signora Clifton: prima doveva essere sottoposto a una sorta di raffinazione, procedimento, per fortuna, molto semplice. Una volta messo sul fuoco, il liquore subì una certa evaporazione, e una schiuma biancastra cominciò a salire in superficie. Non appena la sostanza cominciò ad addensarsi, lo zio ebbe cura di smuoverla con una spatola di legno, che ne doveva accelerare l'evaporazione ed impedirle, al tempo stesso, di prendere un sapore troppo forte ed acre. Dopo qualche ora di ebollizione, il liquore si era trasformato in uno sciroppo denso che lo zio versò in vari stampi d'argilla, di tante fogge diverse. Il giorno dopo, raffreddandosi, lo sciroppo aveva assunto la forma di pani e tavolette, e s'era trasformato in uno zucchero un po' rossiccio, ma quasi trasparente, e buonissimo. La gioia della signora Clifton era certamente inferiore a quella di Jack e Belle, che vedevano spalancarsi per il futuro meravigliose prospettive di dolci e leccornie. Ancor più grande, poi, fu l'entusiasmo di mastro Jup, che si rivelò quanto mai goloso. Era il suo unico difetto, ma glielo perdonarono tutti volentieri. Ormai lo zucchero non sarebbe più mancato alla piccola colonia. La prima volta fu usato per preparare un gradevolissimo liquore, che si alternò, da allora, al cocco fermentato. Clifton sapeva perfettamente che nella composizione di un liquore antiscorbuto, in uso sulle navi che fanno lunghe traversate, entravano i germogli di alcune conifere. In particolare, quelli dell'Abies canadensis e dell'Abies nigra, che crescevano sulle prime pendici del
picco centrale, e che egli fece raccogliere in abbondanza. I germogli vennero, quindi, fatti bollire nell'acqua a fuoco vivo, e il liquido che ne risultò fu edulcorato con lo zucchero d'acero. Poi si lasciò fermentare il tutto, ottenendo una bevanda gradevole e salutare, che gli Anglo-Americani chiamano spring-beer, e cioè birra di germoglio. Prima dell'arrivo dei primi freddi, venne compiuta un'altra importante operazione, a dire il vero non molto difficile: la semina del chicco di grano della piccola Belle. Un unico piccolo seme, che avrebbe potuto trasformarsi, un giorno, in un'intera messe. Da un solo chicco di grano possono nascere dieci steli con ottanta chicchi ciascuno, per complessivi ottocento chicchi; al quarto raccolto, perciò, e forse a quella latitudine se ne sarebbero potuti ottenere anche due all'anno, si sarebbero dovuti avere in media quattrocento miliardi di chicchi. Bisognava assolutamente proteggere quell'unico chicco di grano da ogni possibile distruzione: perciò fu seminato con ogni cura, in un terreno riparato dai venti del mare, e Belle s'incaricò di preservarlo dai vermi e dagli insetti. Verso la fine di novembre, il tempo si fece improvvisamente freddo e piovoso. Ma la grotta era stata ben sistemata e resa confortevole. E all'unica cosa mancante, il camino, provvide subito lo zio Robinson che, dopo vari tentativi, riuscì a costruire una specie di stufa in argilla, abbastanza larga e profonda da essere scaldata a legna e diventare una buona fonte di calore. Restava il problema più grave, quello del tubo che doveva portare il fumo all'esterno. Impossibile scavare un buco nella volta della grotta, su cui incombeva altissima la spessa scogliera di granito. Così Clifton e lo zio cercarono di praticare un'apertura nella parete laterale e sulla facciata stessa della falesia. Un lavoro che richiese tempo e pazienza, soprattutto in mancanza di strumenti adatti. Alla fine però, con un lungo chiodo ben affilato, tolto al canotto, lo zio riuscì ad aprire un buco in cui infilare dall'esterno un lungo tubo di bambù svuotato per tutta la sua lunghezza; il quale, a sua volta, si collegava con un altro tubo d'argilla, a gomito, che partiva dalla stufa. Un sistema un po' rudimentale, che però riuscì nell'intento di convogliare all'esterno il
fumo della stufa. Si ottenne così un camino più o meno passabile che, a dire il vero, fumava un po' quando spiravano i venti di sudovest. Ma non bisognava fare troppo i difficili, e lo zio fu soddisfatto della sua opera. Con l'arrivo della stagione delle piogge, alla fine di novembre, si dovette pensare a una serie di lavori "da interno". Così lo zio, che aveva raccolto una certa quantità di vimini, insegnò ai ragazzi come fabbricare svariati tipi di ceste e di panieri, per poi costruire, a sua volta, delle grandi gabbie di vimini e d'argilla, in cui gli ospiti del cortile dovevano trovare un rifugio per T'inverno. Con lo stesso procedimento, rese anche più abitabile la capanna di mastro Jup, che lo aiutava sempre, portandogli i materiali necessari. Durante il lavoro tra i due amici era un continuo chiacchierio, con lo zio che, oltre a formulare le domande, provvedeva anche, di volta in volta, alle risposte. Quando la capanna fu terminata, mastro Jup sembrò molto soddisfatto del risultato, e pareva che gli mancasse solo la parola, per complimentarsi col suo architetto. I ragazzi, poi, la trovarono così elegante, da battezzarla pomposamente Jup Palace. Nei primi giorni di dicembre, quando il tempo divenne improvvisamente molto freddo, si dovette ricorrere ai nuovi vestiti. E con quelle pelli, con la pelliccia all'esterno, i membri della piccola colonia assunsero un aspetto tutto particolare e un po' bizzarro! — Sembriamo Jup — diceva lo zio ridendo — con la differenza che noi, se vogliamo, ci possiamo anche togliere i vestiti, e lui no. La famiglia Clifton ricordava tanto una tribù di Eschimesi, ma quel che contava era che la tramontana non riuscisse a infilarsi sotto quelle calde pellicce, e che tutti avessero dei vestiti di ricambio per affrontare le intemperie dell'inverno. Verso la metà di dicembre, ci furono delle piogge torrenziali: il Serpentine River si gonfiò in modo impressionante sotto la gran massa d'acqua che scendeva dalla montagna. Il posto del primo accampamento venne inondato sino alla base della falesia, e il livello del lago si alzò sensibilmente, tanto da far temere che straripasse, con gravi danni alle coltivazioni di Clifton, e che si estendesse anche a Elise House. Allora l'ingegnere si rese conto che avrebbe dovuto
costruire al più presto delle scarpate per contenere le piene, perché l'intera zona posta più in basso del lago rischiava di essere inondata. Per fortuna le piogge si calmarono e la piena venne arginata in tempo, mentre ai temporali si succedevano uragani e burrasche che fecero soffrire parecchio la foresta. Ogni tanto si udiva lo schianto di un albero, abbattuto dal vento o dalla folgore, ma lo zio diceva che bisognava lasciar fare all'uragano il suo mestiere di boscaiolo, e non si preoccupava più di tanto. E poi era tutta fatica risparmiata per la legna, perché mastro Jup e lo zio si sarebbero limitati a raccoglierla, senza dover faticare tanto per abbatterla. Inutile dire che nel camino di Elise House il fuoco ardeva sempre a pieno ritmo. Perché mai risparmiare sul combustibile, visto che c'era una riserva inesauribile? Così lo scoppiettio del legno allietava la grotta, assieme all'allegro cicaleccio dei due bimbi, mentre ognuno era intento alla sua attività: fabbricazione delle frecce e dei panieri, rammendo dei vestiti e vari lavori di cucina, secondo un programma razionalmente deciso da Clifton. Naturalmente non venivano trascurati nemmeno l'educazione morale e il lavoro intellettuale. Clifton, infatti, faceva lezione, ogni giorno, ai suoi figlioli, utilizzando anche i pochi fogli di carta che aveva con sé quando aveva lasciato il Vankouver, e su cui annotava con cura gli avvenimenti più importanti che s'erano verificati sull'isola deserta. Appunti brevi, ma esatti, che avrebbero permesso, un giorno, di ricostruire la storia della famiglia abbandonata, storia di cui questa narrazione non è che il veritiero resoconto. L'anno 1861 volgeva dunque alla fine. Clifton e i suoi erano a Flip Island da sei mesi, e la loro situazione, inizialmente molto disagiata, aveva fatto progressi incredibili. Ora possedevano una grotta confortevole e ben protetta da una robusta palizzata, un ricco pollaio, un vivaio di ostriche e un recinto per il bestiame, giunto ormai agli ultimi ritocchi. Avevano archi, polvere da sparo, pane, miccia e vestiti. E anche carne, pesci e frutta in abbondanza. Potevano guardare con fiducia all'avvenire? Sì, certamente. Eppure, c'era una grave questione che preoccupava il signor Clifton: l'isola era abitata? L'incidente del gallo cornuto ritornava spessissimo nella conversazione tra l'ingegnere e lo zio. Che
qualcuno avesse già messo piede sull'isola era fuori di dubbio, ma chissà se quel qualcuno era ancora lì. No, evidentemente, visto che non s'era trovata traccia di creatura umana. Clifton e lo zio erano giunti a non nutrire più alcun timore in tal senso, e anzi non ci pensavano proprio più, quando un incidente inatteso modificò di colpo la loro opinione. Il 29 dicembre, Marc era riuscito a catturare un giovane leprotto che, probabilmente smarritosi nella garenna, finì arrosto nella cena della piccola colonia. Lo zio cui, tutt'altro che sfavorito, era toccata in sorte una coscia, stava mangiando con grande appetito e gran fracasso di ganasce, quando, di colpo, si lasciò sfuggire un grido. — Che c'è? — domandò la signora Clifton, preoccupata. — Nulla, signora, nulla, se non che mi sono appena rotto un dente! Era vero, infatti. — Ma cosa c'era, di così duro, nella carne del leprotto? — chiese Clifton. — Un sassolino, signore, uno stupidissimo sassolino — rispose lo zio. — Neanche l'avesse fatto apposta! — Povero zio! — esclamò Belle.— Un dente di meno. — Oh, signorina! — rispose Flip — me ne restano ancora trentadue: ne avevo giust'appunto uno di troppo! Tutti scoppiarono a ridere e il pasto continuò. Ma alla fine della cena, lo zio prese Clifton in disparte: — Ecco il sassolino in questione, signore: ditemi come lo chiamereste voi. — Un pallino di piombo! — esclamò Clifton, inquieto. Era un pallino, infatti.
***
Il manoscritto si interrompe qui. Non sapremo mai dalla penna di Jules Verne se quel pallino proveniva da un'arma amica od ostile, né se i nostri Robinson avrebbero fatto ritorno a casa. Chi però ha già letto l'Isola Misteriosa, si sarà già reso conto che molte delle avventure capitate allo Zio Robinson sono state riprese e riambientate nell'isola Lincoln. Se invece non lo avete ancora fatto, vi invito a leggere l'Isola Misteriosa, dove le avventure proseguono, anche se con altri protagonisti, e dove forse scoprirete anche la provenienza del misterioso pallino di piombo… M.Z.
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