Jules Verne I Primi Esploratori - Scoperta Della Terra

December 1, 2016 | Author: fulvix88 | Category: N/A
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Racconto...

Description

GIULIO VERNE

SCOPERTA DELLA TERRA

Titolo originale Decouverte de la Terre-Les Premiers Explorateurs (1878)

PARTE PRIMA Illustrato con 49 imm. e 6 Carte geografiche.

MILANO TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA di F.MENOZZI e Comp. STABILIMENTO Via Andrea Appiani Num. 10.

SUCCURSALE Via Cario Alberto. Bottega 27 (dirimpetto a Piazza Mercanti).

1879.

INDICE SCOPERTA DELLA TERRA_________________________ 5 PARTE PRIMA____________________________________ 5 CAPITOLO PRIMO _________________________________ 5 Viaggiatori celebri prima dell'era cristiana. ____________________ 5

CAPITOLO II. _____________________________________ 22 Viaggiatori celebri dal primo al nono secolo. __________________ 22

CAPITOLO III. ____________________________________ 39 Viaggiatori celebri dal decimo al tredicesimo secolo. ___________ 39

CAPITOLO IV._____________________________________ 65 Marco Polo (1253-1324). _________________________________ 65

CAPITOLO V. ____________________________________ 116 Ibn Batuta (1328-1353). _________________________________ 116

CAPITOLO VI.____________________________________ 126 Giovanni di Béthencourt (1339-1425). ______________________ 126

CAPITOLO VII. ___________________________________ 153 Cristoforo Colombo (1436-1506). _________________________ 153

CAPITOLO VI.____________________________________ 240 La Conquista dell'India e del Paese delle Spezie. ______________ 240

PARTE SECONDA_______________________________ 299 CAPITOLO PRIMO _______________________________ 299 I Conquistadores dell'America Centrale. ____________________ 299

CAPITOLO II. ____________________________________ 398 Primo viaggio intorno al mondo. __________________________ 398

CAPITOLO III. ___________________________________ 437 Le spedizioni polari e la ricerca del passaggio del Nord-Ovest. ___ 437

CAPITOLO IV.____________________________________ 508 I viaggi d'avventura e la guerra di corsa. ____________________ 508

CAPITOLO V. ____________________________________ 533 Missionarii e coloni. Commercianti e viaggiatori. _____________ 533

CAPITOLO VI.____________________________________ 570 La gran pirateria._______________________________________ 570

TAVOLA DELLE CARTE ED INCISIONI ____________ 601 AVVERTENZA ___________________________________ 604

GIULIO VERNE _________

SCOPERTA DELLA TERRA ____________

PARTE PRIMA ____________

CAPITOLO PRIMO VIAGGIATORI CELEBRI PRIMA DELL'ERA CRISTIANA. Annone (505) — Erodoto (484) Pythéas (340) — Nearca (326) — Eudosio (146) Cesare (100) — Strabone (50). Annone il Cartaginese — Le isole Fortunate, Il Corno della Sera, Il Corno del Mezzodì, il golfo dal Rio do Ouro — Erodoto — Egli visita l'Egitto, la Libia, l'Etiopia, la Fenicia, l'Arabia, la Babilonia, la Persia, l'India, la Media, la Colchide, il mar Caspio, la Scizia, la Tracia, ia Grecia — Pythéas esplora le spiaggie dell'Iberia e della Celtica, la Manica, l'isola d'Albione, le Orcadi, la terra di Thule — Nearca visita la costa asiatica dall'Indo tino ai golfo Persico — Eudosio riconosce la costa occidentale dell'Africa — Cesare conquista la Gallia e la Gran Bretagna — Strabone percorre I'Asia Interiore, l'Egitto, la Grecia e l'Italia.

Il primo viaggiatore che la storia ci presenta, nell'ordine cronologico, è Annone che il senato di Cartagine mandò a colonnizzare alcune parti delle coste occidentali dell'Africa. La relazione di questa spedizione fu scritta in lingua punica, e

tradotta in greco; essa è conosciuta sotto il nome di Periplo d'Annone. In qual tempo viveva questo esploratore? Gli storici non sono d'accordo, ma la versione più probabile assegna la data del 505, innanzi Gesù Cristo, alla sua esplorazione delle coste africane. Annone lasciò Cartagine con una flotta di sessanta navi di cinquanta remi ciascuna, portanti trentamila persone, coi viveri necessari ad un lungo viaggio. Questi emigranti, — si può dar loro tal nome, — erano destinati a popolare le nuove città che i Cartaginesi volevano fondare sulle coste occidentali della Libia, vale a dire dell'Africa. La flotta passò felicemente le Colonne d'Ercole, quelle montagne di Gibilterra e di Ceuta, che comandano lo stretto, e si avventurò sull'Atlantico scendendo verso il sud. Due giorni dopo aver valicato lo stretto, Annone gettò l'àncora in vista delle coste e fondò la città di Thymaterion. Poi, egli riprese il mare, doppiò il capo Soloïs, creò nuovi stabilimenti e si avanzò fino alla foce d'un gran fiume africano, sulle rive del quale si attendava una tribù di pastori nomadi. Stretto un trattato d'alleanza con quei pastori, il navigatore cartaginese continuò la sua esplorazione verso il sud. Egli giunse presso l'isola di Cerne, situata in fondo ad un seno, la cui circonferenza era di 5 stadii, ossia 925 metri. Secondo il giornale d'Annone, l'isola di Cerne sarebbe posta, rispetto alle Colonne d'Ercole, ad una distanza pari a quella che separa queste Colonne da Cartagine. Qual è quest'isola? Senza dubbio un isolotto appartenente al gruppo delle Fortunate. La navigazione fu ripresa, ed Annone giunse alla foce del fiume Chretes, che formava una specie di seno interno. I Cartaginesi risalirono quel fiume e furono accolti a sassate dai naturali di razza negra. I coccodrilli e gli ippopotami erano numerosi in quelle regioni. La flotta dopo quest'esplorazione, ritornò a Cerne, e,

dodici giorni di poi, giungeva in vista d'una regione montagnosa, dove abbondavano gli alberi odoriferi e le piante balsamiche. Essa penetrò allora in un ampio golfo terminato da una pianura. Quella regione, calma durante il giorno, era illuminata durante la notte da torrenti di fiamme, che provenivano sia dai fuochi accesi dai selvaggi, sia dall'accensione fortuita delle erbe secche, dopo la stagione delle pioggie. Cinque giorni dopo, Annone passava il capo chiamato il Corno della Sera. Anche là, secondo le sue proprie espressioni, «egli udì il suono dei pifferi, il rumore dei timpani, dei tamburelli, ed i clamori d'un popolo innumerevole.» Gli indovini che accompagnavano la spedizione cartaginese consigliarono di fuggire quella terra spaventosa. Essi furono obbediti, e la flotta riprese la sua corsa verso latitudini più basse. Essa giunse ad un capo che formava un golfo chiamato Corno del Mezzodì. Stando al signor d'Avezac, questo golfo sarebbe la foce medesima del Rio do Ouro, che si getta nell'Atlantico, press'a poco sul tropico del Cancro. In fondo a questo golfo vi era un'isola abitata da un gran numero di gorilli che i Cartaginesi presero per selvaggi vellosi. Essi riuscirono ad impadronirsi di tre femmine, che furono obbligati ad ammazzare, tanto era indomabile la rabbia di quelle scimmie. Questo Corno del Mezzodì è certamente il termine estremo a cui giunse la spedizione punica. Alcuni commentatori vogliono anzi ch'essa non abbia sorpassato il capo Bojador, a due gradi sopra il Tropico, ma l'opinione contraria sembra aver prevalso. Giunto a questo punto, Annone, che incominciava a provare la scarsezza dei viveri, riprese la via del nord e rientrò a Cartagine, dove fece incidere la relazione di questo viaggio nel tempio di Baal Moloch. Dopo l'esploratore cartaginese, il più illustre dei

viaggiatori dell'antichità durante i tempi storici fu il nipote del poeta Panyasis, le cui poesie gareggiavano allora con quelle d'Omero e d'Esiodo, il dotto Erodoto, sovra nominato il padre della storia. Per conto nostro, separeremo il viaggiatore dallo storico, e lo seguiremo in mezzo alle regioni ch'egli ha percorse. Erodoto nacque ad Alicarnasso, città dell'Asia Minore, l'anno 484 avanti Gesù Cristo. La sua famiglia era ricca, e, mediante i suoi larghi rapporti commerciali, poteva favorire gli istinti d'esploratore che si rivelavano in lui. In quel tempo, le opinioni erano varie circa la forma della terra. La scuola pitagorica incominciava tuttavia ad insegnare che doveva essere rotonda. Ma Erodoto non prese parte alcuna a questa discussione che appassionava gli scienziati del tempo, e, giovane ancora, egli s'allontanò dalla sua patria, allo scopo d'esplorare colla massima cura le regioni conosciute al suo tempo, e sulle quali non esistevano che dati incerti. Egli lasciò dunque Alicarnasso, nel 464, all'età di venti anni. Assai probabilmente, egli si diresse dapprima verso l'Egitto, e visitò Memfi, Eliopoli e Tebe. Egli fece in questo viaggio delle utili osservazioni sulle inondazioni del Nilo, e riferisce le diverse opinioni d'allora circa le sorgenti di questo fiume che gli Egiziani adoravano come un Dio. «Quando il Nilo è straripato, dice egli, non si vedono più che le città; esse appariscono sopra l'acqua, e somigliano press'a poco alle isole del mar Egeo.» Egli narra le cerimonie religiose degli Egiziani, i loro pii sacrifici, il loro affollarsi alle feste della dea Iside, principalmente a Busiride, le cui rovine si vedono ancora presso Busyr, la loro venerazione per gli animali selvatici o domestici, che considerano come sacri ed ai quali rendono gli onori funebri. Egli dipinge da naturalista fedele il coccodrillo del Nilo, la sua struttura, i suoi costumi, la maniera con cui si riesce ad impadronirsene, poi l'ippopotamo, il tupinambis, la

fenice, l'ibis, i serpenti consacrati a Giove. Sui costumi egiziani nessuno è più preciso di lui. Egli nota le abitudini domestiche, i giuochi, le imbalsamazioni nelle quali primeggiavano i chimici del tempo, poi fa la storia del paese, da Menes, suo primo re; descrive, sotto Cheope, la costruzione delle piramidi e la maniera con cui furono rizzate, il labirinto costrutto un po' al disopra del lago Mœris, ed i cui avanzi furono scoperti nel 1799, il lago Mœris di cui attribuisce lo scavo alla mano dell'uomo, e le due piramidi che sorgevano sulle sue acque; egli ammira molto il tempio di Minerva a Saide, i templi di Vulcano e d'Iside, eretti a Memfi, e quel colosso monolite che duemila uomini, tutti battellieri, trasportarono in tre anni da Elefantina a Saide. Dopo d'aver scrupolosamente visitato l'Egitto, Erodoto passò in Libia, vale a dire nell'Africa propriamente detta; ma assai probabilmente, il giovane viaggiatore non immaginava che si stendesse di là dal Tropico del Cancro, giacché egli suppone che i Fenici abbiano potuto fare il giro di questo continente e tornare in Egitto per lo stretto di Gibilterra. Erodoto fa allora l'enumerazione dei popoli della Libia, che non erano se non semplici tribù nomadi abitanti le coste marittime; poi, al disopra, nell'interno delle terre infestate da animali feroci, egli cita gli Ammoniani, che possedevano quel tempio celebre di Giove Ammonio, le cui rovine sono state scoperte nel nord-est del deserto di Libia, a cinquecento chilometri dal Cairo. Egli dà pure dei particolari preziosi sui costumi dei Libiani; descrive le loro usanze, parla degli animali che corrono il paese, serpenti di prodigiosa grossezza, leoni, elefanti, orsi, aspidi, asini cornuti, — probabilmente rinoceronti, — scimmie cinocefali, «animali senza testa che hanno degli occhi sul petto,» volpi, iene, porci-spini, arieti selvatici, pantere, ecc. Poi termina riconoscendo che tutta quella regione non è abitata che da due popolazioni indigene, i

Libiani e gli Etiopi. Secondo Erodoto, si trovano già gli Etiopi al disopra d'Elefantina. Il dotto esploratore viaggiò veramente in quella regione? I commentatori ne dubitano. È più probabile ch'egli apprendesse dagli Egiziani i particolari ch'egli dà sopra Meroe, la capitale, sul culto reso a Giove ed a Bacco, sulla longevità degli abitanti. Ma ciò che non è contestabile, giacché egli lo dice espressamente, si è ch'egli fece vela verso Tiro, in Fenicia. Colà, ammirò i due magnifici templi d'Ercole. Poi, visitò Thasos, e profittò delle notizie attinte sui luoghi medesimi per fare la storia in compendio della Fenicia, della Siria e della Palestina. Da queste regioni, Erodoto ridiscende al sud verso l'Arabia, in quel paese ch'egli chiama l'Etiopia asiatica, vale a dire la parte meridionale dell'Arabia ch'egli crede esser l'ultimo paese abitato. Egli considera gli Arabi come il popolo più religioso osservatore del giuramento; i loro soli dèi sono Urano e Bacco; la loro regione produce in abbondanza l'incenso, la mirra, la cannella, il cinnamomo, ed il viaggiatore dà interessanti particolari sulla raccolta di queste sostanze odorifere. Noi troviamo poi Erodoto nelle regioni celebri ch'egli chiama indistintamente Assiria o Babilonia. Da principio, egli descrive minuziosamente quella gran città di Babilonia che i re del paese abitavano dopo la distruzione di Ninive, e le cui rovine non sono più oggi che monticoli sparsi sulle due rive dell'Eufrate, a settantotto chilometri sud sud-ovest da Bagdad. L'Eufrate, grande, profondo e rapido, spartiva allora la città in due quartieri. Nell'uno si elevava il palazzo fortificato del re, nell'altro il tempio di Giove Belus, che forse fu costrutto sull'area medesima della torre di Babele. Erodoto parla poi delle due regine Semiramide e Nitocride, e racconta tutto quello che fece quest'ultima per assicurare il benessere e la

sicurezza della sua capitale. Passa poi ai prodotti della regione, alla coltura del frumento, dell'orzo, del miglio, del sesamo, della vite, del fico, della palma; descrive infine il vestiario dei Babilonesi, e termina citando i loro costumi, segnatamente quelli che si riferiscono ai matrimoni, che si facevano ad incanto pubblico. Esplorata la Babilonia, Erodoto si recò in Persia, e siccome scopo del suo viaggio era di raccogliere sui luoghi medesimi i documenti relativi alle lunghe guerre della Persia e della Grecia, egli intendeva visitare il teatro dei combattimenti di cui voleva scrivere la storia. Incomincia col citare quell'uso dei Persiani, che, non riconoscendo agli dèi una forma umana, non rizzavano loro né templi né altari, e si accontentavano di adorarli sulle vette delle montagne. Egli nota poi le loro costumanze domestiche, il loro sprezzo per la carne, il loro amore per le ghiottonerie, la loro passione pel vino, l'abitudine ch'essi hanno di trattare i negozi gravi dopo d'aver bevuto all'eccesso, la loro curiosità delle costumanze straniere, il loro ardore per i piaceri, le loro virtù bellicose, la loro severità bene intesa per l'educazione dei fanciulli, il loro rispetto per la vita dell'uomo e perfino dello schiavo, il loro orrore della menzogna e dei debiti, la loro ripugnanza dei lebbrosi, la cui malattia prova che «il disgraziato ha peccato contro il sole.» L'India d'Erodoto, stando al signor Vivien de Saint-Martin, non comprende guari che la regione inaffiata dai cinque affluenti del Pendgiab d'oggi, aggiungendovi l'Afghanistan. È là che il giovane viaggiatore portò i suoi passi lasciando il regno di Persia. Per lui, gli Indiani sono il più numeroso dei popoli conosciuti. Gli uni hanno dimora fissa, gli altri sono nomadi. Quelli dell'est, chiamati Padeani, uccidono gl'infermi ed i vecchi e li mangiano. Quelli del nord, i più coraggiosi ed industri, raccolgono le sabbie aurifere. L'India, per Erodoto, è l'ultima regione abitata all'est, ed egli osserva, che le estremità

della terra hanno avuto in certa guisa ciò che essa aveva di più bello, come la Grecia ha la più gradevole temperatura delle stagioni. Erodoto, infaticabile, passa poi in Media. Fa la storia di quei popoli, che primi scrollarono il giogo degli Assiri. Questi Medi fondarono l'immensa città di Ecbatane, circondata da sette muraglie concentriche, e furono riuniti in un sol corpo di popolazione sotto il regno di Dejoce. Dopo d'aver traversate le montagne che separano la Media dalla Colchide, il viaggiatore greco penetrò nel paese illustrato dalle prodezze di Giasone, e ne studiò, colla precisione che gli è propria, i costumi e le usanze. Erodoto sembra aver perfettamente conosciuta la disposizione topografica del mar Caspio. Egli dice che è «un mare per sé stesso,» e che non ha comunicazione alcuna coll'altro. Questo Caspio è, stando a lui, limitato all'ovest dal Caucaso, all'est da un'ampia pianura abitata dai Massageti, che potrebbero benissimo essere Sciti di nazione, opinione ammessa da Ariano e Diodoro di Sicilia. Questi Massageti non adorano che il sole, ed immolano dei cavalli in suo onore. Erodoto parla in questo punto di due gran fiumi, di cui l'uno, l'Araxe, sarebbe il Volga, e l'altro, l'Ister, sarebbe il Danubio. Il viaggiatore passa poi in Scizia. Per lui, gli Sciti sono quelle tribù diverse che abitano il paese specialmente compreso fra il Danubio ed il Don, vale a dire una gran parte della Russia d'Europa. Questi Sciti hanno l'abitudine di cavare gli occhi ai loro prigionieri; essi non sono coltivatori, ma nomadi. Erodoto narra diverse favole che oscurano l'origine della nazione scizia, e nelle quali Ercole ha una gran parte. Poi, cita diversi popoli o tribù che compongono quella nazione, ma non sembra ch'egli abbia visitato in persona le regioni situate al nord del Ponto Eusino. Entra allora in una descrizione esatta delle costumanze di quelle popolazioni, e si lascia andare ad una sincera

ammirazione per il Ponto Eusino, il mare inospitale. Le misure ch'egli dà di questo mar Nero, del Bosforo, della Propontide, della palude Meotide, del mar Egeo, sono press'a poco esatte. Poi, egli nomina i gran fiumi che vi versano le loro acque, l'Ister o Danubio, il Boristene o Dnieper, il Tanais o Don, e termina narrando come si fece l'alleanza ed in seguito l'unione degli Sciti e delle Amazzoni, il che spiega perchè le giovinette del paese non possano maritarsi prima d'aver ucciso un nemico. Dopo un rapido soggiorno in Tracia, durante il quale egli riconobbe essere i Geti i più coraggiosi di quella razza, Erodoto giunse in Grecia, scopo finale de' suoi viaggi, il paese in cui egli voleva raccogliere gli ultimi documenti necessari alla sua storia. Visitò i luoghi illustrati dai principali combattimenti dei Greci contro i Persiani. Del passaggio delle Termopili egli fa una descrizione scrupolosa; poi visita la pianura di Maratona, il campo di battaglia di Platea, e ritorna in Asia Minore, di cui percorre il litorale, sul quale i Greci avevano fondato numerose colonie. Tornando in Caria, ad Alicarnasso, il celebre viaggiatore non aveva ventott'anni, giacché a quest'età soltanto, l'anno della prima olimpiade, o 456 avanti Gesù Cristo, egli lesse la sua storia ai Giuochi Olimpici. La sua patria era allora oppressa da Lygdami, ed egli dovette ritirarsi a Samo. Poco dopo, riuscì a rovesciare il tiranno; ma l'ingratitudine de' suoi concittadini lo obbligò a ripigliare la via dell'esilio. Nel 444, egli assistè alle feste dei Panateni, lesse l'opera sua interamente compiuta, provocò l'entusiasmo universale, e, verso la fine della sua vita, si ritirò in Italia, a Thurium, dove morì, 406 anni innanzi l'era cristiana, lasciando riputazione del più gran viaggiatore e del più celebre storico dell'antichità. Dopo Erodoto valicheremo un secolo e mezzo, citando il medico Ctesia, contemporaneo di Senofonte, che pubblicò la relazione d'un viaggio in India, che assai probabilmente egli

non ha fatto, e giungeremo, cronologicamente, al marsigliese Pythéas, che fu insieme viaggiatore, geografo ed astronomo, una delle illustrazioni del suo tempo. Fa verso l'anno 340 che Pythéas si avventurò con una sola nave oltre le Colonne d'Ercole; ma, invece di seguire al sud la costa africana, come

avevano fatto i Cartaginesi venuti prima di lui, egli risali al nord, costeggiando le spiaggie dell'Iberia e quelle della Celzia fino alle punte avanzate, che formano ora il Finistere; poi imboccò la Manica e si avvicinò alla costa d'Inghilterra, quell'isola d'Albione di cui doveva essere il primo esploratore.

In fatti, egli sbarcò su diversi punti della costa, ed entrò in rapporto co'suoi abitanti, semplici, onesti, sobri, docili, industriosi, che facevano un gran commercio di stagno. Il navigatore gallico, avventurandosi più al nord, sorpassò le isole Orcadi, poste alla punta estrema della Scozia, e risalì

fino ad una latitudine tanto alta che, durante l'estate, la notte non passava due ore. Dopo sei giorni di navigazione, egli giunse ad una terra chiamata Thule, probabilmente il Jutland o la Norvegia, che non potè superare. «Al di là, dice egli, non vi ha più né mare, né terra, né aria.» Egli tornò dunque indietro, e

mutando direzione, giunse alla foce del Reno, dove abitavano gli Ostioni, e, più lungi, i Germani. Da quel punto, si recò alle bocche del Tanais, che si suppone essere l'Elba o l'Oder, e ritornò a Marsiglia, un anno dopo d'aver lasciata la sua città natale. Pythéas era al medesimo tempo un ardito navigatore ed uno scienziato notevole; egli fu il primo a riconoscere l'influenza della luna sulle maree, e ad osservare che la stella polare non occupa esattamente il punto pel quale si suppone che passi l'asse del globo. Alcuni anni dopo Pythéas, verso il 320 avanti G. C., un viaggiatore greco macedoniano s'illustrò nella carriera degli esploratori. Fu costui Nearca, nato in Creta, ammiraglio d'Alessandro, che ebbe per missione di visitare tutta la costa d'Asia, dalla foce dell'Indo fino all'Eufrate. Il conquistatore, quando ebbe questo pensiero d'operare una ricognizione che doveva assicurare le comunicazioni dell'India coll'Egitto, si trovava colla sua armata ad ottocento miglia nell'interno, sull'alto corso dell'Indo. Egli diede a Nearca una flotta composta probabilmente di trentatrè galee, di navi a due ponti, ed un gran numero di navi da trasporto. Duemila uomini montavano quella flotta, che poteva contare circa ottocento vele. Nearca scese l'Indo in quattro mesi, scortato su ogni riva dalle armate d'Alessandro. Il conquistatore, giunto alle foci del gran fiume, impiegò sette mesi ad esplorarne il Delta; poi, Nearca spiegò le vele, e segui la costa che forma oggi il lembo del regno di Belucistan. Nearca aveva preso il mare il 2 ottobre, vale a dire un mese troppo presto, perchè il monsone d'inverno avesse serbata una direzione favorevole a' suoi disegni. Gli incominciamenti del suo viaggio furono dunque contrastati, e, nei primi quaranta giorni, egli fece appena ottanta miglia nell'ovest. Le sue prime fermate lo condussero a Stura ed a Coreestis, nomi che non convengono a nessuno dei villaggi che ora sorgono sulla costa;

poi, egli giunse all'isola di Crocala, che forma la baia moderna di Caranthey. Battuta dai venti, la flotta, passato il capo Monze, si rifugiò in un porto naturale che l'ammiraglio dovette fortificare per difendersi dagli attacchi dei barbari, i Sangariani d'oggi, che formano ancora una tribù di pirati. Ventiquattro giorni dopo, il 3 novembre, Nearca spiegò le vele. Dei colpi di vento obbligarono spesso il navigatore ad arrestarsi su diversi punti della costa, ed in quelle circostanze egli dovette sempre difendersi contro gli assalti degli Arabiti, quei feroci Beluci moderni, che gli storici orientali rappresentano come «una nazione barbara, portante i capelli lunghi e disordinati, che si lascia crescere la barba e rassomiglia a fauni o ad orsi.» Fino allora, per altro, nessun accidente grave era sopravvenuto alla flotta macedoniana, quando, il 10 novembre, il vento dall'alto mare soffiò con tanta violenza, che fece perire due galee ed una nave. Nearca venne allora ad ancorarsi a Crocala, e si approvigionò con un carico di grano che gli aveva mandato Alessandro. Ogni nave ricevette per dieci giorni di viveri. Dopo diversi incidenti di navigazione, dopo una breve lotta coi barbari della costa, Nearca giunse all'estremità del territorio degli Oriti, segnata dal capo Moran della geografia moderna. In questo punto del suo racconto, Nearca pretende che il sole, battendo verticalmente gli oggetti, quando era nel mezzo del suo corso, non producesse più ombra alcuna, Ma egli s'inganna evidentemente, giacché a quel tempo l'astro del giorno si trovava nell'emisfero sud, sul Tropico del Capricorno, e, d'altra parte, le navi di Nearca furono sempre lontane di qualche grado dal Tropico del Cancro. Dunque anche di pieno estate, questo fenomeno non avrebbe potuto avvenire. La navigazione proseguì in condizioni migliori, allorché il monsone dell'est fu più regolare. Nearca rasentò la costa degli Ittiofagi, mangiatori di pesci, tribù miserabili alle quali le

pasture mancano assolutamente, e che sono costrette a nutrire i loro greggi coi prodotti del mare. La flotta incominciò ad essere travagliata di nuovo dalla mancanza dei viveri. Essa sorpassò il capo Posmi; colà, Nearca prese un pilota indigeno, e le navi, favorite da alcune brezze di terra, poterono avanzare rapidamente. La costa era meno arida, alcuni alberi la ornavano qua e là. Nearca giunse ad una piccola città degli Ittiofagi ch'egli non nomina, e mancando di viveri, se ne impadronì per sorpresa, a danno degli abitanti, che dovettero cedere alla forza. Le navi giunsero a Canasida, la quale non è altro che la città di Churbar, di cui si vedono ancora le rovine nella baia di questo nome. Ma già il grano veniva meno. Nearca si arrestò successivamente a Canate, a Trois, a Dagasira, senza trovar viveri presso quelle popolazioni miserabili. I naviganti non avevano più né carne né grano, e non potevano indursi a mangiare le tartarughe, che abbondano in quei paraggi. La flotta, giunta quasi all'ingresso del golfo Persico, si trovò in presenza d'un gregge di balene. I marinai spaventati volevano darsi alla fuga, ma Nearca, incoraggiandoli colle parole, li spinse contro quei mostri poco temibili, che non tardò a disperdere. Le navi, giunte all'altezza della Carmania, modificarono un po' la loro direzione verso l'ovest, e si tennero tra l'occidente ed il nord. Le spiaggie erano fertili, da per tutto campi di biade e pascoli, ed ogni sorta d'alberi fruttiferi, tranne gli ulivi. Nearca si fermò a Badis, il Jask d'oggi, poi, dopo d'aver passato il promontorio di Maceta o Mussendon, i navigatori videro l'ingresso del golfo Persico, al quale Nearca, d'accordo coi geografi arabi, dà impropriamente il nome di mar Rosso. Nearca penetrò nel golfo, e dopo una sola fermata, giunse al luogo chiamato Harmozia, che, più tardi, ha dato il suo nome alla piccola città di Ormuz. Colà, egli apprese che l'armata d'Alessandro non era lontana più di cinque giorni di marcia.

Egli si affrettò dunque a sbarcare per raggiungere il conquistatore. Costui, senza notizie della sua flotta da ventuna settimana, non isperava più di rivederla. Si comprende qual fosse la sua gioia, quando l'ammiraglio, dimagrato dalle fatiche ed irriconoscibile, gli si presentò innanzi. Per festeggiarne il ritorno, Alessandro fece celebrare i giuochi ginnici, e ringraziò gli dèi con grandi sacrificî. Poi Nearca, volendo ripigliare il comando della sua flotta per condurla fino a Susa, tornò ad Harmozia e spiegò di nuovo le vele, dopo d'aver invocato Giove Salvatore. La flotta visitò diverse isole, probabilmente le isole d'Areck e di Kismis; poco tempo dopo le navi si arenarono, ma l'alta marea le rimise a galla, e, dopo aver passato il promontorio di Bestion, toccarono Keish, isola consacrata a Mercurio ed a Venere. Era quella la frontiera estrema della Carmania. Al di là incominciava la Persia. Le navi seguirono la costa persica, visitando diversi punti, Gillam, Inderabia, Shevou, Konkùn, Sita-Reghiau, dove Nearca ricevette delle provviste di grano mandate da Alessandro. Dopo molti giorni di navigazione, la flotta giunse alla foce del fiume Endian, che separa la Persia dalla Susiana. Di là, essa giunse alla foce d'un gran lago ricco di pesci, chiamato Cataderbis, e che è posto nella regione ora chiamata Dorghestan. Finalmente essa si ancorò innanzi al villaggio babiloniano di Degela, alle sorgenti medesime dell'Eufrate, dopo d'aver riconosciuta tutta la costa compresa tra questo punto e l'Indo. Nearca raggiunse una seconda volta Alessandro, che lo ricompensò magnificamente, e lo mantenne al comando della sua flotta. Alessandro voleva intraprendere ancora la ricognizione di tutta la costa araba fino al mar Rosso, ma la morte lo colpì e non potè dar seguito a' suoi disegni. Si crede che dipoi Nearca diventasse governatore della

Licia e di Pamfilia. Ne' suoi momenti d'ozio, scrisse egli stesso il racconto dei propri viaggi, racconto che andò perduto, ma di cui fortunatissimamente Ariano aveva fatto un'analisi compiuta nella sua Historia Indica. È probabile che Nearca venisse ucciso alla battaglia di Ipso, lasciando riputazione d'un abile navigatore, il cui viaggio è un grande avvenimento nella storia della navigazione. Dobbiamo citare ora un tentativo audace che fu fatto a quel tempo da Eudosio di Cizia, geografo che viveva nell'anno 146 innanzi G.C. alla corte di Evergete II. Dopo d'aver visitato l'Egitto e le spiaggie dell'India, questo ardito avventuriero ebbe l'idea di fare il giro dell'Africa, che non doveva venir veramente compiuto, se non mille e seicento anni più tardi da Vasco da Gama. Eudosio noleggiò una gran nave e due barconi, e si avventurò sulle onde ignote dell'Atlantico. Fin dove condusse egli quelle navi? Questo è difficile determinare. Checché ne sia, dopo d'aver preso lingua coi naturali ch'egli considerò come Etiopi, tornò in Mauritania. Di là, passò in Iberia, e fece i preparativi d'un nuovo viaggio di circumnavigazione intorno all'Africa. Questo viaggio fu compiuto? Non si può rispondere, e bisogna anzi aggiungere che questo Eudosio, in sostanza più coraggioso che probo, fu tenuto per un impostore da un certo numero di eruditi. Due nomi ci rimangono ancora da menzionare fra i viaggiatori che s'illustrarono innanzi l'era cristiana. Questi nomi sono quelli di Cesare e di Strabone. Cesare, nato cento anni innanzi G. C., fu sopra tutto un conquistatore, il cui scopo non era l'esplorazione di nuovi paesi. Ricordiamo solamente che nell'anno 58 egli intraprese la conquista della Gallia, e che, durante i dieci anni impiegati nella sua vasta intrapresa, egli trasse le sue legioni vincitrici fino alle spiaggie della Gran Bretagna, le cui Provincie erano abitate da popolazioni d'origine germanica.

Quanto a Strabone, nato in Cappadocia, 50 anni avanti G. C., si segnalò meglio come geografo che come viaggiatore. Pure, egli percorse l'Asia interiore, l'Egitto, la Grecia, l'Italia, e visse lungamente a Roma, dove morì negli ultimi anni del Regno di Tiberio. Strabone ha lasciato una geografia divisa in diciassette libri, che ci è giunta in gran parte. Quest'opera forma, con quella di Tolomeo, il monumento più importante che l'antichità abbia legato ai geografi moderni.

CAPITOLO II. VIAGGIATORI CELEBRI DAL PRIMO AL NONO SECOLO. Pansania (174) — Fa-Hian (399) — Cosmas Indieopleustes (5..) — Arenilo (700) Willibaldo (725) — Soleyman (851). Plinio, Hippalus, Ariano e Tolomeo — Pausante visita L'Attica, la Corinzia, la Laconia, la Messonia, l'Elide, l'Acaia, l'Arcadia, la Boezia e la Focide — Fa-Hian esplora il Kantcheu, la Tartaria, L'India del nord, il Pendgiah, Ceylan e Giava — Cosmas Indicopleustes e la Topografia cristiana dell'universo — Arcuifo descrive Gerusalemme, la valle di Giosafat, il monte degli Ulivi, Betlemme, Gerico, il Giordano, il Libano, il mar Morto, Cafarnaum, Nazareth, il monte Tabor, Damasco, Tiro, Alessandria, Costantinopoli — Willibaldo e i Luoghi Santi — Soleyman percorre il mar d'Oman, Ceylan, Sumatra, il golfo di Siam e il mar della China.

Durante i due primi secoli dell'era cristiana, il movimento geografico fu grande sotto il rispetto puramente scientifico, ma i viaggiatori propriamente detti, vogliamo dire gli esploratori, gli scopritori di paesi nuovi, furono certamente scarsissimi. Plinio, nell'anno 23 di G. C., consacrava il 3°, 4°, 5° e 6° libro della sua Storia naturale alla geografia. Nell'anno 50, Hippalus, abile navigatore, trovò la legge dei monsoni dell'oceano Indiano, ed insegnò ai navigatori a tenersi al largo per compiere, in grazia di questi venti costanti, il loro viaggio d'andata e ritorno alle Indie nell'intervallo d'un solo anno. Ariano, storico greco, nato nel 105, componeva il suo Periplo del Ponto Eusino, e cercava di determinare con gran precisione le regioni scoperte nelle esplorazioni precedenti. Finalmente l'Egiziano Tolomeo, verso il 175, coordinando i lavori de' suoi predecessori, pubblicava una geografia celebre, non ostante i gravi errori, e nella quale la situazione delle città, rilevata in

longitudine ed in latitudine, posava, per la prima volta, su basi matematiche. Il primo viaggiatore dell'era cristiana il cui nome abbia sopravvissuto, è Pausania, scrittore greco, che abitò Roma nel secondo secolo, e di cui ci rimane una relazione composta verso l'anno 175. Questo Pausania aveva preceduto il nostro contemporaneo Joanne nella redazione delle Guide del viaggiatore. Egli fece per la Grecia antica ciò che l'ingegnoso e laborioso Francese ha fatto per le diverse regioni dell'Europa. Il suo racconto è un manuale esatto e sicuro, scritto sobriamente, preciso ne'particolari, e col quale i viaggiatori del secondo secolo potevano percorrere con frutto le diverse Provincie della Grecia. Pausania descrive minuziosamente l'Attica e più specialmente Atene ed i suoi monumenti, le sue tombe, i suoi archi, i suoi templi, la sua cittadella, il suo areopago, la sua accademia, le sue colonne. Dall'Attica egli passa nella Corinzia, ed esplora le isole d'Egine e d'Eaque. Dopo la Corinzia, la Laconia e Sparta, l'isola di Citera, la Messenia, l'Elide, l'Acaia, l'Arcadia, la Beozia e la Focide sono studiate con cura: le strade delle Provincie, le vie delle città sono segnate in questo racconto, e l'aspetto generale delle diverse regioni della Grecia non vi è dimenticato. Ma, in sostanza, Pausania non aggiunse alcuna nuova scoperta a quelle che i suoi predecessori avevano menzionate. Fu un viaggiatore esatto, che limitò l'opera sua all'esplorazione precisa della Grecia, non fu uno scopritore. Non di meno, la sua relazione è stata messa a profitto da tutti i geografi e commentatori che trattarono dell'Eliade e del Peloponneso, e con ragione uno scienziato del secolo XVI ha potuto chiamarlo «un tesoro della più antica e della più rara erudizione.» Centotrent'anni circa dopo lo storico greco, un viaggiatore chinese, un monaco, intraprendeva, verso la fine del quarto

secolo, un'esplorazione dei paesi posti all'occidente della China. La relazione del suo viaggio ci è stata conservata, e bisogna associarsi ai sentimenti del signor Charton, che considera questo racconto «come un monumento tanto più prezioso, in quanto che ci trasporta al difuori del nostro punto di vista esclusivo della civiltà occidentale.» Fa-Hian, accompagnato da alcuni monaci, volendo uscire dalla China dalla parte occidentale, valicò molte catene di montagne, e giunse in quel paese che forma oggi il Kan-tcheu, posto non lungi dalla gran muraglia. Colà, dei Samaniani si unirono a lui; essi traversarono il fiume Cha-ho ed un deserto che Marco Polo doveva esplorare ottocento anni più tardi. Essi poterono giungere, dopo diciassette giorni di marcia, al lago di Lobe, che si trova nel Turkestan chinese d'oggi. Da questo punto, tutti i regni che questi religiosi visitarono si rassomigliavano per le costumanze e gli usi; la lingua sola differiva. Poco soddisfatti dell'accoglienza ricevuta nella regione degli Uigur, i cui abitanti non sono ospitali, si avventurarono verso il sud-est, in un paese deserto, passando i fiumi a gran stento. Dopo trentacinque giorni di cammino, la piccola carovana giunse in Tartari a, nel regno di Khotan, che contava «molte volte diecimila religiosi.» Fa-Hian ed i suoi compagni furono ricevuti in monasteri speciali, e, dopo un'aspettazione di tre mesi, poterono assistere alla «processione delle immagini,» gran festa comune ai buddisti ed ai bramani, durante la quale si conducono in giro le immagini degli dèi sopra un carro magnificamente ornato, per vie sparse di fiori, ed in mezzo a nugoli di profumi. Dopo la festa, i religiosi lasciarono Khotan, e si recarono nel regno che forma oggi il cantone di Kukeyar. Dopo un riposo di quindici giorni, li troviamo più al sud, in un paese che forma l'odierno Balistan, paese freddo e montagnoso dove non

matura altro grano che la biada. Colà, i religiosi si servirono di cilindri sui quali sono incollate le preghiere, e che il fedele fa girare con una rapidità estrema. Da questo regno, Fa-Hian passò nella parte orientale dell'Afghanistan, e non gli abbisognò meno d'un mese per traversare delle montagne, in

mezzo alle quali, nelle nevi perpetue, egli segnala la presenza di draghi velenosi. Di là da questa catena, i viaggiatori si trovavano nell'India del nord, in quel paese bagnato dai primi corsi d'acqua che formano il Sind o l'Indo. Poi, traversati i regni di U-tchang, di

Sû-ho-to e di Kian-tho-wei, giunsero a Fo-lu-cha, che deve essere la città di Peichaver, posta tra Kabul e l'Indo, e, ventiquattro leghe più all'ovest, alla città di Hilo, costrutta sulla sponda d'un affluente del fiume di Kabul. In tutte queste città, Fa-Hian segnala soprattutto le feste e le costumanze relative al

culto di Foe, che non è altro se non Budda. I religiosi, lasciando Hilo, dovettero valicare i monti Hindu-Kusch, che sorgono tra il Tokharestan ed il Gandhara. Là, il freddo fu tanto intenso, che uno dei compagni di Fa-Hian cadde per non più rialzarsi. Dopo mille stenti, la carovana

riuscì a giungere alla città di Banu, che esiste ancora; poi, passato di nuovo l'Indo nella parte media del suo corso, essa entrò nel Pendgiab. Di là, scendendo verso il sud-est, coll'intenzione di traversare la parte settentrionale della penisola indiana, essa giunse a Mattea, città della moderna provincia d'Agra, e, traversando il gran deserto salato che è all'est dell'Indo, percorse un paese che Fa-Hian chiama «il regno centrale, i cui abitanti, onesti e pii, senza magistrati, né leggi, né supplizi, senza chiedere il loro nutrimento a nessun essere vivente, senza macelli e senza mercanti dì vino, vivono felici, nell'abbondanza e nella gioia, sotto un clima, in cui il freddo ed il caldo sono temperati a vicenda.» Questo regno, è l'India. Scendendo al sud-est, Fa-Hian visitò il distretto odierno di Ferukh-abâd, sul quale, secondo la leggenda, Budda pose il piede ridiscendendo dal cielo con una triplice scalinata di gradini preziosi. Il religioso viaggiatore si dilunga su queste credenze del buddismo. Da quel punto, egli partì per visitare la città di Kanudgie, posta sulla riva destra del Gange, ch'egli chiama Heng. È il paese di Budda per eccellenza. Da per tutto dove il dio si è seduto, i suoi fedeli hanno rizzate alte torri. I pii pellegrini non mancarono di recarsi al tempio di Tchihuan, dove Foe, per venticinque anni, si era dato a macerazioni volontarie, e considerando il luogo sacro, presso il punto in cui Foe aveva ridonato la vista a cinquecento ciechi, «il cuore dei religiosi fu penetrato da un vivo dolore.» Essi ripresero la loro via, passarono a Rapila, a Gorakhpur, sulla frontiera del Nepaul, a Kin-i-na-kie, luoghi celebri per i miracoli di Foe, e giunsero al delta del Gange, alla celebre città di Palian-fu, nel regno di Magadha. Era un paese ricco, abitato da una popolazione giusta e pietosa, che amava le discussioni filosofiche. Valicato il picco dell'Avoltoio, che sorge alle sorgenti dei fiumi Dahder e Banurah, Fa-Hian scese il Gange,

visitò il tempio d'Issi-Pattene, frequentato un tempo dai maghi «volanti,» giunse a Benares, nel «regno splendente,» e più giù ancora, alla città di To-mo-li-ti, posta alla foce del fiume, a poca distanza dall'area oggi occupata da Calcutta. In quel tempo, una carovana di mercanti si preparava a pigliar il mare coll'intenzione di recarsi all'isola di Ceylan. FaHian s'imbarcò sulla loro nave, e dopo quattordici giorni di traversata, sbarcò sulle rive dell'antica Taprobane, sulla quale il mercante greco Jambulos aveva dato, alcuni secoli prima, dei particolari abbastanza curiosi. Il religioso chinese ritrovò in questo regno tutte le tradizioni leggendarie che si collegano al dio Foe, ed egli vi rimase due anni, intento a ricerche bibliografiche. Lasciò Ceylan per recarsi a Giava, dove giunse dopo una traversata pessima, durante la quale, quando il cielo era buio, «non si vedevano che grandi onde urtantisi, lampi color di fuoco, tartarughe, coccodrilli, mostri marini ed altri prodigi.» Dopo cinque mesi di soggiorno a Giava, Fa-Hian s'imbarcò per Canton; ma i venti gli furono ancora contrari, e dopo d'aver patito mille stenti, egli sbarcò nell'odierno Chantung; poi, avendo soggiornato qualche tempo a Nan-king, rientrò a Si'an-fu, sua città natale, dopo diciotto anni d'assenza. Tale è la relazione di questo viaggio, di cui il signor Abele di Remusat ha fatto un'eccellente traduzione, e che dà interessantissimi particolari sui costumi Tartari e degl'Indiani, segnatamente in quanto concerne le loro cerimonie religiose. Al monaco chinese succede nell'ordine cronologico, durante il sesto secolo, un viaggiatore egiziano chiamato Cosmas Indicopleustes, nome che il signor Charton traduce così: «Viaggiatore cosmografo nell'India.» Era un mercante d'Alessandria che, dopo aver visitato l'Etiopia ed una parte dell'Asia, si fece monaco al ritorno. Il suo racconto porta il titolo di Topografia cristiana

dell'universo. Esso non dà particolare alcuno sui viaggi del suo autore. Alcune discussioni cosmografiche per provare che la terra è quadrata e chiusa cogli altri astri in un gran forziere oblungo, formano il principio dell'opera; seguono delle dissertazioni sulle funzioni degli angeli, ed una descrizione dei costumi dei sacerdoti ebrei. Cosmas fa poi la storia naturale degli animali dell'India e di Cejlan, e cita il rinoceronte, il torocervo, che può prestarsi agli usi domestici, la giraffa, il bue selvatico, il musco, a cui si dà la caccia per raccogliere «il suo sangue profumato,» il liocorno, ch'egli non considera come un animale chimerico, il cinghiale che chiama porco-cervo, l'ippopotamo, la foca, il delfino e la tartaruga. Dopo gli animali, Cosmas descrive l'albero del pepe, arbusto fragile e delicato, come i più piccoli sarmenti di vite, e l'albero del cocco, i cui frutti hanno un sapore dolce come quello delle noci verdi. Fin dai primi tempi dell'era cristiana, i fedeli si recavano a visitare i luoghi santi, culla della nuova religione. Questi pellegrinaggi divennero sempre più frequenti, e la storia ha conservato il nome dei principali personaggi che si recavano in Palestina durante i primi anni del cristianesimo. Uno di questi pellegrini, il vescovo francese Arculfo, che viveva verso la fine del settimo secolo, ha lasciato il racconto particolareggiato del suo viaggio. Egli esordisce col dare la situazione topografica di Gerusalemme, e descrive la muraglia che circonda la città santa. Visita poi la chiesa in forma di rotonda costrutta sul Santo Sepolcro, la tomba di Gesù Cristo e la pietra che la chiudeva, la chiesa di Santa Maria, la chiesa costrutta sul Calvario, e la basilica di Costantino, eretta sul luogo in cui fu trovata la vera croce. Queste diverse chiese sono comprese in un edilizio unico, che racchiude pure la tomba di Cristo ed il Calvario, in cima al quale il Salvatore fu crocifisso.

Arculfo scende poi nella valle di Giosafat, posta all'est della città, dove sorge la chiesa che copre la tomba della Vergine e la tomba d'Assalonne ch'egli chiama torre di Giosafat. Poi, si arrampica sul monte degli Ulivi, dirimpetto alla città di là dalla vallata, e colà prega nella grotta in cui pregò Gesù. Si reca allora al monte Sionne, posto fuori della città, alla sua punta sud; nota passando il fico gigantesco al quale, secondo la tradizione, si appiccò Giuda Iscariota, e visita la chiesa del Cenacolo, ora distrutta. Facendo il giro della città nella valle di Siloe e risalendo il torrente di Cedrone, il vescovo ritorna al monte degli Ulivi, coperto di ricche messi di frumento e d'orzo, d'erbe e di fiori, e descrive, in cima alla montagna santa, il luogo in cui Cristo s'innalzò al cielo. Colà, i fedeli hanno eretto una gran chiesa rotonda, con tre portici centinati, che, senza tetto né volta, rimane aperta sotto il cielo. «Non fu coperto l'interno della chiesa, dice la relazione del vescovo, affinchè da questo luogo in cui si posarono per l'ultima volta i piedi divini, quando il Signore s'innalzò al cielo sopra una nuvola, una via sempre aperta fino al cielo vi conduca le preghiere dei fedeli. Giacché, quando si costrusse la chiesa di cui parliamo, non si potè pavimentare, come il resto dell'edifizio, il luogo in cui si erano posati i piedi del Signore. Man mano che si deponevano i marmi, la terra, impaziente di sopportare alcun che d'umano, li buttava, direi quasi, in faccia agli operai. Del resto, a guisa d'insegnamento immortale, la polvere conserva ancora l'impronta dei passi divini, e benché ogni giorno la fede dei visitatori cancelli quest'impronta, essa riappare di continuo, e sempre la terra la conserva.» Esplorato il campo di Betania, in mezzo alla gran foresta degli ulivi, dove si vede il sepolcro di Lazzaro, e la chiesa situata a dritta sul luogo medesimo in cui Cristo aveva l'abitudine d'intrattenersi co' suoi discepoli, Arculfo si recò a

Betlemme, che sorge a due ore dalla città santa, al sud della vallata di Zefraim. Egli descrive il luogo in cui nacque il Signore, una mezza grotta naturale, scavata all'estremità dell'angolo orientale della città, e al di sopra, la chiesa costrutta da Sant'Elena, poi le tombe dei tre pastori che, alla nascita del Signore, furono avvolti da una luce celeste, il sepolcro di Rachele, le tombe dei quattro patriarchi, Abramo, Isacco, Giacobbe ed Adamo, il primo uomo. Poi, egli visita la montagna e la quercia di Mambré, sotto l'ombra della quale Abramo diede ospitalità agli angeli. Da questo punto, Arculfo si reca a Gerico, o meglio al luogo che occupava quella città, le cui muraglie crollarono al suono delle trombe di Giosnè. Egli esplora il luogo in cui i figli d'Israello, dopo d'aver passato il Giordano, fecero la prima fermata nella terra di Canaan. Contempla nella chiesa di Galgala le dodici pietre che gli Israeliti, per ordine del Signore, estrassero dal torrente asciutto. Segue le sponde del Giordano e riconosce sulla sua riva destra, presso un gomito del fiume, ad un'ora di cammino dal mar Morto, in un paesaggio pittoresco, piantato d'alberi magnifici, il luogo in cui il Signore fu battezzato da Giovanni, laddove fu piantata una croce che le acque biancastre, quando ingrossano, coprono tutta quanta. Dopo d'aver percorso le sponde del mar Morto, di cui assaggiò il sale, dopo d'aver ricercato in Fenicia quel piede del Libano da cui sfuggono le sorgenti del Giordano, esplorata la massima parte del lago di Tiberiade, visitato il pozzo di Samaria dove Cristo fu dissetato dalla Samaritana, la fontana del deserto in cui beveva San Giovanni Battista, l'ampia pianura di Gazan, «non mai coltivata di poi,» nella quale Gesù benedisse cinque pani e due pesci, Arculfo scese verso Cafarnaum, di cui non esistono più neppure le reliquie; poi si portò a Nazareth, dove trascorse l'infanzia di Cristo, e terminò al monte Tabor, situato in Galilea, il suo viaggio propriamente

detto ai luoghi santi. La relazione del vescovo contiene in seguito dei particolari geografici e storici su altre città ch'egli visitò, la città reale di Damasco, percorsa da quattro gran fiumi «per rallegrarla,» Tiro, metropoli della provincia di Fenicia, che, già separata dal continente, vi fu ricongiunta dalle dighe di Nabucodonosor, Alessandria, un tempo capitale dell'Egitto, a cui il viaggiatore giunse quaranta giorni dopo d'aver visitato Giaffa, e finalmente Costantinopoli, di cui visitò più volte l'ampia chiesa dove si conserva «il legno sacro della croce sulla quale il Salvatore morì crocifisso per la salvezza del genere umano.» Finalmente, la relazione del viaggio, che fu scritta sotto dettatura del vescovo dall'abate di San Colombano, finisce raccomandando ai lettori d'implorare la clemenza divina per il santo prelato Arculfo, e di pregare anche per lo scrivano, miserabile peccatore, il Cristo, giudice di tutti i secoli! Alcuni anni dopo il vescovo francese, un pellegrino inglese fece lo stesso viaggio con un intento pio, e lo compì press'a poco nelle medesime condizioni. Questo pellegrino si chiamava Willibaldo; egli apparteneva ad una famiglia ricca che abitava verosimilmente la contea di Southampton. In seguito ad una malattia di languore, i genitori lo consacrarono a Dio, e la sua giovinezza passò in mezzo ad esercizi di pietà nel monastero di Waltheim. Giunto al termine dell'adolescenza, Willibaldo risolvette di recarsi a pregare a Roma nella chiesa consacrata all'apostolo Pietro, e le sue vive istanze determinarono il padre suo Riccardo, il fratello Wimebaldo e la giovane sorella Walpurga ad accompagnarlo. La pia famiglia s'imbarcò ad HambleHaven, nella primavera dell'anno 721, e, risalendo la Senna, venne a sbarcare presso la città di Rouen. Willibaldo dà poeti particolari sul viaggio fino a Roma. Traversata Cortona, città della Liguria, Lucca in Toscana, dove Riccardo soggiacque alle

fatiche del viaggio, il 7 febbraio 722, dopo d'aver valicato gli Apennini durante l'inverno, i due fratelli e la sorella entrarono in Roma, e vi passarono il rimanente dell'inverno, tormentati gli uni e gli altri da violente febbri. Willibaldo, risanato, formò il disegno di proseguire il suo pellegrinaggio fino ai luoghi santi. Rimandò il fratello e la sorella in Inghilterra, e parti in compagnia di alcuni religiosi. Per Terracina e Gaeta, essi giunsero a Napoli, fecero vela per Reggio in Calabria, per Catania e Siracusa in Sicilia; poi, pigliando definitivamente il mare, toccato Cos e Samo, sbarcarono ad Efeso in Asia Minore, dove sorgevano le tombe di San Giovanni Evangelista, di Maria Maddalena e dei Sette Dormienti, che sono sette cristiani martirizzati sotto il regno dell'imperatore Decio. Soggiornato qualche tempo a Stroboli, a Patara, ed ultimamente a Mitilene, capitale dell'isola di Lesbo, i pellegrini si trasportarono a Cipro, e visitarono pure Pafo e Costanza; finalmente li ritroviamo in numero di sette nella città fenicia d'Edissa, dove si vede la tomba di San Tommaso l'apostolo. In quel luogo, Willibaldo ed i suoi compagni, presi per spie, furono imprigionati dai Saraceni; ma il re, per la raccomandazione d'uno Spagnuolo, li fece mettere in libertà. I pellegrini lasciarono la città in gran fretta, ed a partire da questo momento, il loro itinerario è press'a poco quello del vescovo Arculfo. Essi visitano Damasco in Siria, Nazareth in Galilea, Cana, dove si vede una delle anfore miracolose, il monte Tabor, dove si compì il gran fatto della Trasfigurazione, Tiberiade, posta nel punto in cui il Signore e Pietro camminarono sulle onde, Magdala, dove abitavano Lazzaro e le sue sorelle, Cafarnaum, dove Gesù risuscitò la figlia del principe, Betsaide di Galilea, patria di Pietro e d'Andrea, Corozain, dove il Signore guarì gli invasati, Cesarea, dove la chiave del cielo fu data a San Paolo, il luogo in cui Cristo fu

battezzato, Galgala, Gerico e Gerusalemme.

La città santa, la valle di Giosafat, il monte degli Ulivi, Betlemme, Thema, dove Erode fece mettere a morte i fanciulli,

la valle di Laura, Gaza, ricevettero pure la visita dei pii pellegrini. In questa città, mentre si celebrava l'ufficio nella chiesa di San Mattia, Willibaldo narra d'aver perduto la vista, e che non la ricuperò se non a Gerusalemme, due mesi dopo, entrando nella chiesa della Santa Croce. Egli percorse poi la vallata di Diospoli, a dieci miglia da Gerusalemme, poi, sulle sponde del mar Siriaco, Tiro, Sidonia e Tripoli di Siria. Di là, per il Libano, Damasco e Cesarea, Willibaldo giunse ad Emaus, borgo della Palestina dove scorre la fontana nella quale Cristo si lavò i piedi, e finalmente Gerusalemme, dove i viaggiatori rimasero tutta la stagione invernale. Gli infaticabili pellegrini non dovevano limitare a questo la loro esplorazione. Li troviamo successivamente a Ptolemai, ora San Giovanni d'Acri, ad Emessa, a Gerusalemme, a Damasco, a Samaria, dove sono le tombe di San Giovanni Battista, d'Abdia e d'Eliseo, a Tiro, dove, bisogna confessarlo, il pio Willibaldo defraudò la dogana del tempo nascondendo una certa quantità di balsamo di Palestina, molto rinomato allora e sottoposto ad una tassa. A Tiro, dopo un lungo soggiorno, egli potè imbarcarsi per Costantinopoli, dove i suoi compagni e lui abitarono due anni, e finalmente essi ritornarono per la Sicilia e la Calabria, Napoli e Capua. Il pellegrino inglese giunse al monastero del monte Cassino, dopo d'aver lasciato il suo paese da dieci anni. L'ora del riposo tuttavia non era ancora venuta per lui. Egli fu nominato dal papa Gregorio III ad un episcopato recentemente creato in Franconia; aveva quarantun'anno quando fu consacrato vescovo. Per quarantacinque anni ancora egli occupò il suo seggio episcopale, e morì nell'anno 745. Nel 938, Willibaldo fu canonizzato dal papa Leone VII. Termineremo la lista dei viaggiatori dal primo al nono secolo, citando un certo Soleyman, mercante di Bassorah, che, partito dal golfo Persico, giunse ai confini dell'Asia e sbarcò

sulle spiaggie chinesi. Questo racconto contiene due parti distinte: una scritta nel 851 da Soleyman medesimo, che fece veramente quel viaggio; l'altra scritta nel 878 da un geografo Abu-Zeyd-Hassan, allo scopo di completare la prima. Stando all'opinione dell'orientalista Reinaud, questo racconto «ha

gettato una luce affatto nuova sui rapporti commerciali che esistettero nel nono secolo fra le coste dell'Egitto, dell'Arabia e dei paesi rivieraschi del golfo Persico, da una parte, e, dall'altra, le ampie provincie dell'India e della China.» Soleyman, uscito dal golfo Persico, dopo d'essersi provvisto d'acqua dolce a Mascate, visitò dapprima il secondo

mare, cioè il mare Larevy degli Arabi, o mar d'Oman della geografia moderna. Egli osservò dapprincipio un pesce enorme, — probabilmente un capidoglio, — che i navigatori prudenti cercarono di spaventare suonando la campana, poi un pesce-cane, nel ventre del quale ne fu trovato uno più piccino, che ne conteneva pure un altro più piccino ancora, «tutti e due viventi,» dice il viaggiatore con un'esagerazione manifesta; finalmente, descritto il pesce remora, il dactiloptero e la focena, egli dice cos'è il mare di Herkend, compreso tra le Maldive e le isole della Sonda, nel quale conta almeno mille e novecento isole, le cui spiaggie sono sparse di grossi macigni d'ambra grigia. Fra queste isole, governate da una donna, egli nomina principalmente col loro nome arabo Ceylan e la sua pesca di perle, Sumatra, ricca di miniere d'oro, abitata dagli antropofagi, le Nicobar e le Andaman, le cui tribù sono ancor oggi cannibale. «Questo mare di Herkend, dice egli, si solleva talvolta in trombe furiose che spezzano le navi e gettano sulla costa un'immensa quantità di pesci morti, ed anche dei macigni enormi. Quando le onde di questo mare si sollevano, l'acqua presenta l'aspetto del fuoco che arde.» Soleyman lo crede frequentato da una specie di mostro che divora gli uomini, e nel quale i commentatori hanno creduto di riconoscere una specie di squalo. Giunto alle Nicobar, Soleyman, dopo d'aver barattato cogli abitanti del ferro contro noci di cocco, canne da zuccaro, banani e vino di cocco, traversò il mare di Kalah-Bar, che bagna la costa di Malacca; poi, dopo dieci giornate di navigazione sul mare di Schelaheth, egli si diresse per provvedersi d'acqua verso un luogo che potrebbe essere Singapore; finalmente, risali al nord per il mare di Kedrendj, che deve essere il golfo di Siam in modo da giungere in vista di Pulo-Oby, situato al sud della punta di Cambodg. Innanzi alle navi del mercante di Bassorah si apriva allora

il mare di Senf, distesa d'acque compresa tra le Molucche e l'Indo-China. Soleyman andò ad approvigionarsi all'isola Sander-Fulat, situata verso il capo Varela, e, di là, si spinse sul mare di Sandjy, o mar di China, e, un mese dopo, entrava a Khan-fu, il porto chinese della città odierna di Tche-kiang, dove le navi, a quel tempo, avevano usanza d'approdare. Il rimanente della relazione di Soleyman, completata da Abu-Zeyd-Hassan, non contiene che notizie molto minuziose sui costumi degli Indiani, dei Chinesi e degli abitanti del Zendj, regione posta sulla costa orientale dell'Africa. Ma non è più il viaggiatore che parla, ed i particolari ch'egli dà, noi li ritroveremo, più interessanti e più precisi, nelle relazioni de' suoi successori. Ciò che convien dire, per compendiare i lavori degli esploratori che percorsero la terra, sedici secoli innanzi l'èra cristiana e nove secoli dopo, si è che dalla Norvegia fino all'estremità dell'impero chinese, passando per l'Atlantico, il Mediterraneo, il mar Rosso, l'oceano Indiano ed il mar della China, quest'immensa estensione di coste era in gran parte determinata e visitata. Delle esplorazioni erano state arditamente tentate all'interno delle terre, in Egitto fino all'Etiopia, in Asia Minore fino al Caucaso, nell'India e nella China fino alla Tartaria, e se l'esattezza matematica mancava ancora ai diversi punti rilevati dai viaggiatori, almeno gli usi e le costumanze degli abitanti, i prodotti dei diversi paesi, i modi di baratto, le usanze religiose, erano sufficientemente noti; le navi, profittando dei venti regolari, potevano arrischiarsi con più fiducia sui mari, le carovane sapevano dirigersi più sicuramente all'interno del continente, ed è in grazia di questo insieme di cognizioni, sparse dagli scritti dei dotti, che il commercio prese una gran spinta nell'ultimo periodo dei Medio Evo.

CAPITOLO III. VIAGGIATORI CELEBRI DAL DECIMO AL TREDICESIMO SECOLO. Beniamino di Tudele (1159-1173). — Plan de Carpin (1245-1247). Rubruquis (1253-1254). Gli Scandinavi nel Nord, l'Islanda ed il Groenland — Beniamino di Tudele visita Marsiglia, Roma, la Valacchia, Costantinopoli, l'Arcipelago, la Palestina, Gerusalemme, Betlemme, Damasco, Balbek, Ninive, Bagdad, Babilonia, Bassorah, Ispahnn, Schiraz, Samarkaud, il Tibet, il Malabar, Ceylan, il mar Rosso, l'Egitto, la Sicilia, l'Italia, l'Alemagna e la Francia — Plan de Carpin esplora il paese del Coman e del Khangita, il Turchestan moderno — Usi e costumanze dei Tartari — Rubruquis ed il mar d'Azof, il Volga, il paese dei Baskhirs, Caracorum, Astrakan, Derbend.

Durante il decimo secolo ed il principio dell'undecimo, un movimento geografico abbastanza grande si era prodotto nel nord dell'Europa. Norvegiani e Galli audaci si erano avventurati sui mari settentrionali, e, se si crede a certi racconti più o meno autentici, essi erano giunti al mar Bianco ed avevano visitate le regioni oggi possedute dai Samojedi. Alcuni documenti pretendono anzi che il principe Madoc abbia esplorato il continente americano. Si può affermare tuttavia che l'Irlanda fu scoperta verso l'861 da avventurieri scandinavi e che i Normanni non tardarono a colonizzarla. Verso quest'epoca, un Norvegiano si era rifugiato sopra una nuova terra, posta all'estremo ovest dell'Europa, e, meravigliato del suo aspetto verdeggiante, le avea dato il nome di Terra-Verde o Groenland. Ma le comunicazioni con questa parte del continente americano erano difficili, ed a quanto pare, una nave, ce lo assicura il geografo Cooley, «impiegava cinque anni per andare dalla Norvegia al

Groenland e tornare dal Groenland in Norvegia.» Talvolta, tuttavia, durante gli inverni rigidi, l'Oceano settentrionale si congelava in tutta la sua estensione, ed un certo Hollur-Geit, condotto da una capra, potè andare a piedi dalla Norvegia al Groenland. Ma non dimentichiamo che siamo ancora nei tempi leggendari, e che quelle regioni iperboree sono ricche di tradizioni meravigliose. Torniamo ai fatti reali, provati, incontrastabili, e narriamo il viaggio d'un ebreo spagnuolo, la cui veracità è affermata dai più dotti commentatori. Questo ebreo era figlio d'un rabbino di Tudele, città del regno di Navarra, e si chiamava Beniamino di Tudele. È probabile che il suo scopo, viaggiando, fosse di enumerare i suoi correligionari dispersi sulla superficie del globo. Ma qualunque fosse il suo intento, per quattordici anni, dal 1160 al 1173, egli esplorò quasi tutto il mondo conosciuto, e la sua relazione forma un documento particolareggiato, anzi minuzioso, la cui autorità fu grande fino al secolo decimosesto. Beniamino di Tudele lasciò Barcellona, e per Tarragona, Girone, Narbona, Beziers, Montpellier, Lunel, Pousquier, Saint-Gilles e Arles, giunse a Marsiglia. Visitate le due sinagoghe ed i principali ebrei di quella città, s'imbarcò per Genova, dove la sua nave giunse quattro giorni dopo. I Genovesi erano allora i padroni del mare e facevano la guerra ai Pisani, gente valorosa, che al pari dei Genovesi, dice il viaggiatore, non hanno né re né principi, ma soltanto dei giudici che creano a piacimento. Visitato Lucca, Beniamino di Tudele, in sei giorni, giunse a Roma la grande. Alessandro III era allora papa, e, secondo la relazione, egli avea degli ebrei fra i suoi ministri. Fra i monumenti della città eterna, Beniamino di Tudele cita più specialmente San Pietro e San Giovanni Luterano; ma le sue descrizioni sono singolarmente aride. Da Roma, per Capua e

Pozzuoli, allora mezzo inondata, egli si recò a Napoli, dove non vide nulla, tranne i cinquecento ebrei che abitavano quella città. Poi, traversando Salerno, Amalfi, Benevento, Ascoli, Trani, San Nicola di Bari, Taranto e Brindisi, giunse ad Otranto, sul golfo di questo nome, avendo attraversato l'Italia senza nulla riferire d'interessante su questa regione tanto curiosa. Per quanto sia ingrata la nomenclatura delle città, non diremo visitate, ma citate da Beniamino di Tudele, non dobbiamo ometterne una sola, poiché l'itinerario del viaggiatore ebreo è preciso, ed è utile seguirlo sulla carta che Lelewel ha fatta specialmente per lui. Da Otranto a Zeitun, in Valacchia, le sue tappe sono Corfù, il golfo d'Arta, Achelous, antica città dell'Etolia, Anatolica in Grecia, sul golfo di Patrasso, Patrasso, Lepanto, Crissa, costrutta ai piedi del Parnaso, Corinto, Tebe, i cui duemila ebrei, sono i migliori operai della Grecia nell'arte di fabbricar la seta e la porpora, poi Negroponte e Zeitun. Colà incomincia la Valacchia, secondo il viaggiatore spagnuolo. I Valacchi corrono come capriuoli, e scendono dalle montagne per saccheggiare e rubare nelle terre dei Greci. Da questo punto, per Gardicki, piccolo borgo del golfo Volo, Armyros, porto frequentato dai Veneziani, dai Genovesi e dai Pisani, Bissina, città ora distrutta, Salonicki, l'antica Tessalonica, Dimitritzi, Darma, Christopoli, Abydos, Beniamino di Tudele giunse a Costantinopoli. Il viaggiatore dà qui alcuni particolari su questa gran capitale di tutta la terra dei Greci. L'imperatore Emmanuele Comneno regnava allora ed abitava un palazzo ch'egli aveva costrutto sulla sponda del mare. Là sorgevano colonne d'oro e d'argento puro, e «quel trono d'oro e di pietre preziose al disopra del quale è sospesa una corona d'oro mediante una catena pure d'oro, che vien proprio a posare sul capo del re

quand'egli è seduto. Vi sono in questa corona pietre di tanto valore che nessuno le può valutare, e la notte, non si ha bisogno alcuno di luce, giacché ci si vede abbastanza in grazia dei bagliori che gettano quelle pietre preziose.» Il viaggiatore aggiunge che la città è molto popolata, che i mercanti vi accorrono da ogni parte, e che per questo rispetto essa non può essere paragonata se non a Bagdad. I suoi abitanti sono vestiti d'abiti di seta, coperti di ricami e di frangie d'oro; nel vederli così, montati sui loro cavalli, li direste tanti figliuoli di re; ma essi non hanno cuore né coraggio per fare la guerra, e pagano dei mercenari d'ogni nazione, che si battono per loro. Un rammarico di Beniamino di Tudele è che gli ebrei mancano alla città e che furono trasportati di là dalla torre di Galata, presso l'ingresso del porto. Colà, ve ne sono press'a poco duemilacinquecento di due sette, i rabbiniti ed i caraiti, e fra di essi, molti lavoratori in seta e ricchi mercanti, tutti odiatissimi dai Greci, che li trattano duramente. Nessuno di quei ricchi ebrei ha il diritto di montare a cavallo, salvo uno solo, l'Egiziano Salomone, che è il medico del re. Quanto ai monumenti di Costantinopoli, Beniamino cita il tempio di Santa Sofia, che possiede tanti altari quanti giorni vi sono nell'anno, e delle colonne, dei candelieri d'oro e d'argento in sì gran numero che non si può contarli; poi l'ippodromo, divenuto oggi il mercato dei cavalli, nel quale, pel piacere del popolo, si facevano combattere insieme «dei leoni, degli orsi, delle tigri, delle oche selvatiche, come pure altri uccelli.» Lasciando Costantinopoli, Beniamino di Tudele visitò l'antica Bisanzio, Gallipoli e Kilia, porto della costa orientale; poi, imbarcandosi, percorse le isole dell'arcipelago, Mitilene, Chio, che fa il commercio del sugo di pistacchi, Samo, Rodi e Cipro. Facendo vela per la terra d'Aram, egli passò per Messis, per Antiochia, di cui ammirò il servizio delle acque, e per Latachia, per giungere a Tripoli recentemente tribolata da un

terremoto che si era fatto sentire in tutti i paesi d'Israele. Da Tripoli, lo si vede toccare Beyrouth, Sidone, Tiro, celebre per la porpora e la fabbricazione del vetro, Acri, Khaifa, presso il monte Carmelo, nel quale è scavata la grotta d'Elia, Cafarnaum, Cesarea, bella e buona città, a Kakon, Samaria, costrutta in mezzo ad una campagna intersecata da ruscelli e ricca di giardini, d'orti e d'uliveti, Naplusa, Gabaon, e giungere a Gerusalemme. Nella città santa, l'ebreo spagnuolo non poteva veder nulla di ciò che un cristiano vi avrebbe senza dubbio veduto. Per lui, Gerusalemme è una piccola città difesa da tre muraglie e popolatissima di Giacobiti, di Siriani, di Greci, di Georgiani e di Franchi d'ogni lingua e nazione. Essa possiede due ospitali, uno dei quali è abitato da quattrocento cavalieri sempre pronti per la guerra, un gran tempio che è la tomba di quell'uomo, qualificazione data a Gesù Cristo dal Talmud, ed una casa nella quale gli ebrei, pagando una tassa, hanno il privilegio di darsi all'arte del tintore. Del resto, i correligionari di Beniamino di Tudele non sono numerosi a Gerusalemme, dugento appena, ed abitano sotto la torre di Davide, in un cantuccio della città. Fuori di Gerusalemme, il viaggiatore cita la tomba d'Assalonne, il sepolcro d'Osias, la fontana di Siloe, presso al torrente di Cedrone, la vallata di Giosafat, la montagna degli Ulivi, dalla cima della quale si scorge il mare di Sodoma. A due parasanghe o due leghe, sorge l'indistruttibile statua della moglie di Loth, ed il viaggiatore afferma che «sebbene i greggi che passano lambiscano di continuo quella statua di sale, tuttavia essa ricresce sempre e diventa com'era prima.» Da Gerusalemme, Beniamino di Tudele, dopo aver scritto il suo nome sulla tomba di Rachele, secondo l'usanza degli ebrei che passano in quel luogo, si recò a Betlemme, dove contò dodici tintori israeliti, poi ad Hebron, città ora deserta e ruinata.

Dopo aver visitato, nella pianura di Makhphela, le tombe d'Abramo e di Sara, di Isacco e di Rebecca, di Giacobbe e di Lia, passando per Beith-Jaberim, Scilo, il monte Morija, BeithNubi, Rama, Giaffa, Jabneh, Azotos, Ascalonne, costrutta da Esdras il sacrificatore, Lud, Serain, Sufurieh, Tiberias, dove si trovano dei bagni caldi «che escono dal fondo della terra» per Gish, per Meirun, che è ancora un luogo di pellegrinaggio per gli ebrei, per Alma, Kadis, Belinas, presso alla caverna dalla quale esce il Giordano, il viaggiatore ebreo, lasciando finalmente la terra d'Israele, giunge a Damasco. Ecco la descrizione che fa Beniamino di questa città, dove comincia il paese di Nureddin, re dei Turchi. «La città è grandissima e bellissima, cinta di muraglie; il territorio abbonda di giardini e di vigneti a quindici miglia tutto intorno; non si vede in tutta la terra un paese fertile al pari di questo. La città è situata al piede del monte Hermon, da cui escono i due fiumi d'Amana e di Pharphar, il primo dei quali passa in mezzo alla città, e le sue acque sono condotte da acquedotti nelle case dei grandi, come pure nelle piazze e nei mercati. Questo paese commercia con tutto il rimanente del mondo. Il Pharphar inaffia colle sue acque i giardini ed i vigneti, che sono fuori della città. Gli Ismaeliti hanno a Damasco una moschea chiamata Goman-Dammesec, vale a dire sinagoga di Damasco. Non vi sono edilizi simili su tutta la terra. Si dice che esso fu un tempo il palazzo di Benhadad. Vi si vede una muraglia di vetro costrutta per arte magica. Vi hanno in questa muraglia tanti buchi quanti giorni vi sono nell'anno solare; il sole, scendendo per dodici gradi, secondo il numero delle ore del giorno, entra ogni giorno in uno dei buchi, e, da ciò, ciascuno può conoscere qual'ora sia. Al di dentro del palazzo, vi sono delle case costrutte d'oro e d'argento, grandi come un bacino, che possono contenere tre persone, se vogliono lavarvisi o bagnarvisi.»

Dopo Galad e Salkah, posta a due giorni da Damasco, Beniamino di Tudele giunse a Balbek, l'Heliopolis dei Greci e dei Romani, costrutta da Salomone, nella valle del Libano, poi a Tadmor, che è Palmira, similmente costrutta tutta di grandi pietre. Poi, passando da Cariatin, egli si arresta a Hama,

distrutta in parte dal terremoto che, nel 1157, rovesciò nel medesimo tempo un gran numero di città della Siria. Segue, nella relazione, un'arida nomenclatura di città, di cui si limita al più a dare i nomi, Halab, Beles, Kalatdajbar, Racca, Harran, la città principale dei Sabeani, Nisibe, Djeziret,

il cui nome turco è Kora, Mossul, sul Tigri, dove incomincia la Persia, Ninive, punto ad incominciar dal quale il viaggiatore torna verso l'Eufrate, Rahaba, Karkesia, Juba, Abkera, e finalmente Bagdad, residenza del califfo. Bagdad piace molto al viaggiatore israelita. È una gran

città la cui circonferenza è di tre miglia, dove sorgono ospitali per gl'infermi ordinari e per gli ebrei. Scienziati filosofi abili in ogni specie di scienze e maghi esperti in ogni fatta d'incantesimi, vi accorrono da tutte le parti. È la residenza e la capitale d'un califfo, che, secondo certi annotatori, deve essere

Mostaidjed, che regnava sulla Persia occidentale e sulle sponde del Tigri. Questo califfo possedeva un ampio palazzo in mezzo ad un parco, inaffiato da un affluente del Tigri e popolato da molti animali selvaggi. Questo sovrano, per certi rispetti, può essere proposto come esempio a tutti i potentati della terra. È un uomo dabbene, amatore del vero, affabile e garbato con quanti incontra. Egli non vive che del lavoro delle proprie mani, e fabbrica delle coperte coll'impronta del suo suggello, che fa vendere al mercato dai principi della sua corte per sovvenire alle spese del proprio nutrimento. Non esce che una volta l'anno dal suo palazzo, alla festa del Ramadan, per recarsi alla moschea che è alla porta di Bassorah, e, facendo le funzioni d'iman, egli spiega la legge al suo popolo. Poi, egli torna al palazzo per una via diversa, e la strada ch'egli ha seguita è custodita tutto l'anno, affinchè nessun passante profani l'impronta de' suoi passi. Tutti i fratelli del califfo abitano il medesimo palazzo con lui; ciascuno d'essi è trattato con molto onore, ed essi hanno sotto il loro comando delle città e dei borghi, le cui rendite permettono loro di passare una bella vita. Soltanto, siccome si sono ribellati una volta al sovrano, sono tutti incatenati con catene di ferro ed hanno delle guardie innanzi alla loro casa. Notati questi particolari, Beniamino di Tudele scese quell'angolo della Turchia d'Asia che è inaffiato dal Tigri e dall'Eufrate, passò da Gihiagin, Babilonia, città rovinata, le cui strade si stendono a trenta miglia di circuito. Vide, per via, la fornace ardente in cui furono gettati Ananias, Misael ed Azarias, Hillah e la torre di Babele ch'egli descrive in questi termini: «La è la torre costrutta dai dispersi. Essa è fatta di mattoni; la larghezza delle sue fondamenta è di circa due miglia; la sua larghezza è di dugentoquaranta cubiti, e la sua altezza di cento canne; di dieci in dieci cubiti vi sono delle vie che conducono a delle scale a chiocciola che conducono alla cima. Da questa torre, si scopre lo spazio di venti miglia,

poiché il paese è largo e piano; ma il fuoco del cielo essendo caduto sulla torre, l'ha abbattuta fino al fondo.» Da Babele, il viaggiatore si recò alla sinagoga d'Ezechiele, che è sull'Eufrate, vero santuario verso il quale accorrono i credenti per leggere il gran libro scritto dalla mano del profeta. Poi, non facendo che passare ad Alkotzonath, ad Ain-Japhata, a Lephras, a Kephar, a Ruffa, a Sura, un tempo sede d'una celebre università ebrea, a Shafjathib, la cui sinagoga è costrutta colle pietre di Gerusalemme, e traversando il deserto del Yemen, egli toccò Thema, Tilimas, Chaibar, che contava cinquantamila israeliti, Waseth, ed entrò finalmente in Bassorah, che è sul Tigri, quasi all'estremità del golfo Persico. Su questa città importante e commerciale, il viaggiatore non dà alcun particolare, ma, di là, egli si recò probabilmente a Karna, e visitò la tomba del profeta Esdras; poi, entrò in Persia, e soggiornò a Chuzestan, gran città, rovinata in parte, che il Tigri divide in due quartieri, l'uno ricco, povero l'altro, riuniti da un ponte, sul quale, per ragione di equità, è sospesa la bara di Daniele. Beniamino di Tudele continuò il suo viaggio in Persia per Rudbar, Ilohvan, Mulenet, Amaria, dove comincia la Media. In questo luogo, racconta egli, apparve quell'impostore David-ElRoi, facitore di falsi miracoli, che non è altro che il Gesù degli ebrei. Poi, per Hamadan, dove sorgono le tombe di Mardocheo e d'Ester, e per Dabrestan, egli giunse ad Ispahan, capitale del regno, che ha dodici miglia di circuito. Qui la relazione del viaggiatore diventa un po' oscura. Seguendo le sue note, lo troviamo a Shiras, probabilmente nel cantone d'Herat in Afghanistan, poi a Samarkanda, poi finalmente ai piedi del Thibet. Da questo punto estremo a cui egli giunse nel nord-est, sarebbe tornato a Nisapur ed a Chuzestan sulle sponde del Tigri. Di là, in due giornate di mare, sarebbe sceso ad El-Cachif, città araba situata sul golfo

Persico, dove si fa la pesca delle perle. Poi, in sette giorni di navigazione, traversato il mare d'Oman, egli sarebbe giunto a Chulan, oggi Quilon, sulla costa del Malabar. Beniamino di Tudele era finalmente nelle Indie, nel regno di coloro che adorano il sole, di quei figliuoli di Cush, contemplatori degli astri. È il paese che produce il pepe, la cannella ed il ginepro. Venti giorni dopo aver lasciato Chulan, l'ebreo viaggiatore giunse alle isole Cinrag, vale a dire a Ceylan, dove gli abitanti sono fanatici adoratori del fuoco. Da Ceylan, Beniamino di Tudele è egli andato fino alla China di cui parla? non si potrebbe affermarlo. Egli considera il tragitto per mare come pericolosissimo. Un gran numero di navi periscono, ed ecco il mezzo singolare che preconizza il nostro viaggiatore per cavarsi dal pericolo: «Convien prendere seco, dice egli, molte pelli di bue; se il vento viene a minacciare la nave, colui che vuole scampare si mette in una di quelle pelli, la cucisce al di dentro per paura che l'acqua vi penetri, poi si getta in mare; allora, qualcuna di quelle grandi aquile chiamate grifoni, vedendolo e credendolo un animale, scende, lo piglia e lo porta sulla terra, su qualche montagna o vallata, per divorarsi la preda; allora l'uomo rinchiuso ammazza prontamente l'aquila col coltello, poi, uscendo dalla sua pelle, cammina fin che giunga a qualche luogo abitato. Molte persone si sono salvate a questo modo.» Si trova di nuovo Beniamino di Tudele a Ceylan, poi probabilmente all'isola Socotora, all'ingresso del golfo Persico, poi a Sebid; traversando allora il mar Rosso, egli giunge alle regioni dell'Abissinia, che chiama: «l'India, che è in terra ferma.» Di là, ridiscendendo il corso del Nilo, attraverso alla regione d'Assuan, egli giunge al borgo d'Holvan, e, per il Sahara, dove il vento seppellisce le carovane sotto uno strato di sabbia, giunge a Zavila, Kus, Faium e Misraim, cioè il Cairo. Misraim, al dire del viaggiatore, è una gran città adorna di

piazze e di botteghe. Non vi piove mai, ma il Nilo, straripando una volta ogni anno, inaffia il paese per un'estensione di quindici giorni di cammino e gli dà un'estrema fertilità. Beniamino di Tudele, lasciando Misraim, si recò a Gizeh, senza notare le sue piramidi, ad Ain-Schams, a Butig, a Zifita, a Damira, e sì arrestò ad Alessandria, costrutta da Alessandro il Grande. La città, dice egli, è molto mercantile, e vi si accorre da tutte le parti del mondo. Le sue piazze e le sue vie sono frequentatissime, e tanto lunghe che non se ne vede la fine. Una diga si avanza per un buon miglio in mare e sopporta una alta torre, innalzata dal conquistatore, in cima alla quale era disposto uno specchio di vetro «da cui si poteva vedere a cinquanta giornate di distanza tutte le navi che venivano dalla Grecia o dall'Occidente per far guerra o per nuocere altrimenti alla città. Questa torre di luce, stando al viaggiatore, serve ancora oggi di segnale a tutti quelli che navigano verso Alessandria, giacché la si scopre a cento miglia, giorno e notte, per mezzo d'una gran fiaccola accesa, ecc.» Che sarebbero, a paragone di quella torre di luce, i nostri fari che non portano a più di trenta miglia, anche quando l'elettricità fornisce loro la luce? Damiette, Suubat, Ailah, Refidim, il borgo di Thor, al piede del Sinai, furono visitati dal viaggiatore ebreo. Tornato a Damiette, egli prese il mare, e venti giorni dopo sbarcò a Messina. Volendo continuare ancora il censimento de' suoi correligionari, risalì per Roma e Lucca alla Mauriana, al San Bernardo, e cita un gran numero di città della Germania e della Francia, in cui gli ebrei si sono rifugiati; il che, stando al conto fatto da Chateaubriand sull'itinerario di Beniamino di Tudele, porterebbe il loro numero a settecentosessantottomila centosessantacinque. Infine, per terminare, il viaggiatore parla di Parigi ch'egli ha visitato, senza dubbio, quella gran città che appartiene al re

Luigi, e che è situata sulle sponde della Senna. «Essa contiene, dice egli, dei discepoli di saggi che non hanno oggi i loro simili su tutta la terra; costoro si applicano giorno e notte allo studio della legge, sono molto ospitali con tutti gli stranieri, e mostrano amicizia e fraternità verso tutti i loro fratelli ebrei.» Tale è questo viaggio di Beniamino di Tudele. Esso forma un monumento importante della scienza geografica nel mezzo del secolo XII, e, coll'uso del nome presente d'ogni città citata nella relazione, noi lo abbiamo reso facile a seguire sulle carte moderne. Al nome di Beniamino di Tudele, l'ordine cronologico fa seguire quello di Giovanni del Plan de Carpin, che alcuni autori chiamano semplicemente Carpini. Era un francescano, e nacque verso il 1182 in un borgo del distretto di Perugia, in Italia. Si sa quali progressi fecero le orde mongole sotto il comando dell'ambizioso Gengis-Khan. Nel 1206, questo capo abile aveva fatto di Caracorum, antica città turca situata nella Tartaria, al nord della China, la capitale del suo impero. Sotto il suo successore Ogadai, la dominazione mongola si estese fino alla China centrale, e quel sovrano barbaro, levando un'armata di seicentomila uomini, invase l'Europa. La Russia, la Georgia, la Polonia, la Moravia, la Silesia, l'Ungheria divennero il teatro di lotte sanguinose a profitto d'Ogadai. Si consideravano quei Mongoli come demoni sguinzagliati da qualche potenza infernale, e l'Occidente fu gravemente minacciato dalla loro invasione. Il papa Innocenzo IV mandò al Khan dei Tartari una prima ambasciata, che ottenne solo una risposta arrogante. Nel medesimo tempo, egli spediva nuovi ambasciatori verso i Tartari del nord-est per arrestare l'irruzione mongola, e scelse a capo di questa ambasciata il francescano Carpini, che era considerato come un diplomatico intelligente ed abile. Carpini, accompagnato da Étienne di Boemia, si pose in

cammino il 6 aprile 1245. Egli si recò dapprima in Boemia. Il re di questo paese gli diede delle lettere di raccomandazione per alcuni parenti ch'egli aveva in Polonia e la cui influenza doveva facilitare agli ambasciatori il loro ingresso in Russia. Carpini ed il suo compagno giunsero senza difficoltà agli Stati del duca di Russia, dove, per consiglio di questo duca, si procurarono delle pelliccie di castoro e d'altri animali per farne dono ai capi tartari. Così approvigionato, Carpini si diresse verso il nord-est e giunse a Kiev, allora capitale della Russia ed ora capoluogo del governo di questo nome, ma non senza aver avuto molto a temere dai Lituani, quei nemici della croce, che scorrazzavano allora per la regione. Il governatore di Kiew indusse gl'inviati del papa a mutare i loro cavalli con cavalli tartari, avvezzi a scoprir l'erba sotto la neve; così convenientemente montati, gl'inviati giunsero alla città di Danilon. Colà, caddero pericolosamente infermi; ma, appena guariti, comperarono un carro, e non ostante il freddo, ripigliarono la loro via. Giunti a Kaniew, sul Dnieper, si trovavano allora nel primo villaggio dell'impero mongolo. Da questo punto, un capo abbastanza brutale che bisognò raddolcire con molti regali, li fece condurre all'attendamento dei Tartari. Questi barbari, dopo d'averli dapprincipio ricevuti male, li diressero dal duca Corrensa, che comandava un esercito d'avanguardia di sessantamila uomini. Questo generale, innanzi al quale dovettero inginocchiarsi, li rimandò guidati da tre Tartari al principe Bathy, che era il capo più potente dopo l'imperatore. Erano stati preparati degli scambi sulla via. Il viaggio si fece a gran giornate, notte e giorno, e sempre di trotto serrato. Il francescano traversò così il paese dei Comani, compreso fra il Dnieper, il Tanais, il Volga ed il Jaek, risalendo spesso i fiumi agghiacciati, e giunse finalmente alla corte del principe

Bathy, sulle frontiere del paese dei Comani. «Mentre venivamo condotti da quel principe, dice Carpini, ci si avvertì che ci bisognava passare fra due fuochi, affinchè, se, per caso, avessimo qualche cattivo disegno contro il loro padrone e signore, o portassimo qualche veleno, il fuoco potesse distruggere tutto ciò; al che noi acconsentimmo per togliere ogni sospetto.» Il principe pompeggiava in mezzo alla sua corte ed a' suoi ufficiali, in una magnifica tenda di fina tela di lino. Egli aveva riputazione d'un principe affabile co' suoi, ma crudelissimo nelle guerre. Carpini ed Étienne si collocarono alla sua mancina. Era il giorno del Venerdì santo. Le lettere papali, tradotte in lingua schiavona, arabica e tartara, furono presentate al principe. Costui le lesse attentamente e rimandò gli inviati del papa alla loro tenda, dove fu loro servito per unico pasto una piccola scodella di miglio. Il domani, Bathy fece chiamare i due ambasciatori ed ordinò loro di recarsi dall'imperatore. Essi partirono il giorno di Pasqua con due guide. Ma, nutrendosi soltanto di miglio, d'acqua e di sale, i disgraziati viaggiatori non erano molto robusti. Tuttavia, erano costretti ad andar prestissimo, e cambiavano cavalli cinque o sei volte al giorno. Quel paese di Comania che attraversavano era quasi deserto, i suoi abitanti essendo stati per la massima parte sterminati dai Tartari. I viaggiatori entrarono nel paese dei Kangiti, all'est della Comania, dove l'acqua manca in molti luoghi. In quelle provincie, le rare tribù si occupavano solo dell'allevamento dei bestiami, e subivano la dura servitù dei Mongoli. Abbisognò a Carpini tutto il tempo compreso tra l'ottava di Pasqua e l'Ascensione per valicare quel paese dei Kangiti, ed egli penetrò allora nella regione dei Bisermini, vale a dire dei Musulmani, che corrisponde al Turkestan moderno. Da ogni

lato non erano che città, villaggi e castelli in rovina. Dopo d'aver camminato attraverso quella regione montagnosa dall'Ascensione fino all'ottava di San Giovanni, vale a dire fino al 1° luglio, gl'inviati del papa entrarono nel Kara-Kitay. Il governatore di questa provincia li accolse bene, e per far loro onore, fece danzare innanzi ad essi i suoi due figli coi principali personaggi della sua corte. Lasciando il Kara-Kitay, i viaggiatori cavalcarono per molti giorni sulle sponde d'un lago, situato al nord della città di Yeman, che deve essere, stando al signor di Itémusat, il lago Kesil-Basch. Colà abitava Ordù, il più anziano capo dei Tartari. Carpini ed Étienne si riposarono un giorno intero in quel luogo, dove non mancò loro l'ospitalità, poi ripartirono attraverso il paese montagnoso e freddo dei Naimani, popoli nomadi che vivevano sotto la tenda, e, dopo alcuni giorni di cammino, valicarono il paese dei Mongoli, spendendovi tre settimane di tempo, non ostante la rapidità del viaggio. Finalmente, il giorno della Maddalena, vale a dire il 22 luglio, giungevano al luogo in cui si trovava l'imperatore, o meglio colui che l'elezione stava per far imperatore, giacché egli non era ancora eletto. Quel futuro sovrano si chiamava Cuyné. Egli fece trattare generosamente gl'inviati del papa, ma non potè riceverli, non essendo imperatore e non immischiandosi punto negli affari. Tuttavia, una lettera del principe Bathy gli aveva fatto conoscere le ragioni che avevano determinato il papa Innocenzo IV a mandargli degli ambasciatori. Dopo la morte d'Ogadai, la reggenza dell'impero mongolo era stata affidata all'imperatrice sua vedova, madre del principe Cuyné. Fu questa principessa che ricevette il francescano ed il suo compagno in udienza solenne, in una tenda di porpora bianca, che poteva contenere duemila persone. «Essendo dunque là, dice Carpini, noi vedemmo una

grande assemblea di duchi e di principi, che erano venuti da tutte le parti colle loro genti, e ciascuno era a cavallo nei dintorni, per le campagne e le colline. Il primo giorno essi si vestirono tutti di porpora bianca, il secondo di porpora rossa, e fu allora che Cuyné venne in quella tenda; il terzo giorno, si

vestirono di porpora violetta, ed il quarto di finissimo scarlatto o cremisino. In questa palizzata, vicino alla tenda, vi erano due

gran porte, per una delle quali non doveva entrare che l'imperatore; non vi erano guardie, sebbene fosse aperta, tanto più che nessuno, entrando od uscendo, osava passar di là; ma si entrava dall'altra, dove vi erano guardie munite di spada, arco e freccie. Dimodoché, se qualcheduno si avvicinava alla tenda

oltre i confini che erano stati posti, se si poteva pigliarlo, veniva picchiato, altrimenti gli venivano tirate delle frecciate. «Vi erano là molti signori, che sulle bardature dei cavalli portavano, a nostro giudizio, più di venti marchi d'argento.» Tuttavia, un mese intero passò prima che Cuyné fosse

proclamato imperatore, e gli inviati del papa dovettero aspettare la sua elezione per poter essere ricevuti da lui. Carpini, mettendo a profitto le ore d'ozio, studiò i costumi di quelle orde così singolari. Si trovano nella sua relazione dei particolari interessantissimi in proposito. Il paese gli parve generalmente montagnoso, ma quasi da per tutto sabbioso, con un po' di terra grassa. Il legno manca quasi assolutamente; perciò, imperatori e principi non si riscaldano che bruciando il fimo degli animali. Sebbene il paese sia sterile, i greggi vi si allevano facilmente. Il clima è variabile; d'estate gli uragani sono frequenti ed il fulmine fa molte vittime. Il vento è così impetuoso, che rovescia spesso i cavalieri. D'inverno non piove, ma soltanto in estate, ed anche allora appena il tanto da umettare la polvere. Le grandinate sono terribili, e durante il soggiorno di Carpini, questo fenomeno si produsse con una tale intensità, che centoquaranta persone furono sommerse, quando la grandine si sciolse in acqua. In somma, paese esteso, ma povero e miserabilissimo. Carpini fa pure dei Tartari un ritratto esattissimo, che dinota in lui delle singolari qualità d'osservatore. «Essi hanno, dice egli, una gran larghezza tra gli occhi e le guancie, le quali si spingono molto all'infuori; il loro naso è schiacciato e piccino; i loro occhi sono pure piccini, e le palpebre si elevano fino alle sopracciglia: sono gracilissimi e sottili di cintura, per lo più di statura mediocre, con poca barba; alcuni tuttavia hanno pochi peli al labbro superiore ed al mento, peli che lasciano crescere senza tagliarli mai. Sul sommo del capo, hanno delle corone come i nostri sacerdoti, e da un'orecchia all'altra si radono tutti per una larghezza di tre dita; quanto ai capelli che sono fra la corona e la parte rasa, li lasciano crescere fino sulle sopracciglia, e, da una parte e dall'altra del fronte, hanno i capelli semi-mozzati. Del resto, se li lasciano crescere lunghi come le donne, e ne fanno due cordoni che

legano ed annodano dietro l'orecchia. Essi hanno i piedi abbastanza piccini.» Gli uomini e le donne, difficilissimi a distinguere gli uni dalle altre, giacché il loro abbigliamento non differisce, sono vestiti di tuniche foderate di pelliccie, fesse dall'alto al basso, e portano lunghi berretti di bulgaro o di porpora, che vanno allargandosi alla cima. Essi abitano delle case in forma di tende, fatte di verghe e di bastoni, che possono smontarsi ed essere facilmente caricate sopra animali da soma. Altre, più grandi, si trasportano tutte intere su carri, e seguono i loro proprietari attraverso il paese. I Tartari credono ad un Dio creatore di tutte le cose, visibili ed invisibili, che ricompensa o punisce secondo i meriti. Ma adorano pure il sole, la luna, il fuoco, la terra, l'acqua, e si prosternano innanzi agli idoli fatti a somiglianza dell'uomo. Sono poco tolleranti, ed hanno martirizzato Michele di Turnigow e Feodor, che la Chiesa greca ha messi nella schiera dei santi, e che rifiutarono al principe Bathy d'inchinarsi verso il mezzodì, come fanno tutti i Tartari. Quelle popolazioni sono superstiziose; esse credono agli incantesimi ed alle stregonerie, ed ammettono che il fuoco purifica tutto. Quando uno dei loro signori è morto, lo seppelliscono con una tavola, un bacino pieno di carne, una tazza di latte di giumenta, una giumenta ed il suo puledro, un cavallo sellato ed imbrigliato. I Tartari sono obbedientissimi ai loro capi; evitano la menzogna, fuggono le discussioni, commettono pochi omicidi e pochi furti, e perciò gli oggetti preziosi non vengono mai rinchiusi. Quella gente sopporta senza lamentarsi il digiuno e la fatica, il caldo ed il freddo, giocando, cantando e danzando ad ogni occasione; ma vanno soggetti all'ubbriachezza; il loro principale difetto è d'essere orgogliosi e sprezzanti cogli stranieri, e di non avere alcun rispetto per la vita umana.

Per finire di dipingerli, Carpini aggiunge che quei barbari mangiano ogni specie di carne, cani, lupi, volpi, cavalli ed all'occasione anche carne umana. La loro bevanda consiste in latte di giumenta, di pecora, di capra, di vacca e di cammello. Essi non conoscono né il vino, né la cervogia, né l'idromele, ma solamente dei liquori spiritosi. D'altra parte, sono molto sudici, non sprezzando né i topi né i sorci in mancanza d'altri commestibili, non lavando mai le loro ciotole, o lavandole col brodo medesimo, non nettando mai le loro vestimenta e non permettendo mai che altri lo faccia, «segnatamente quando tuona.» Gli uomini non si assoggettano ad alcun lavoro; andare a caccia, tirar d'arco, custodire i greggi, montare a cavallo, ecco tutte le loro occupazioni. Le ragazze e le donne non disdegnano questi esercizi; esse sono abilissime e molto audaci. In oltre esse fabbricano le pelliccie e le vesti, conducono i carri ed i cammelli, ed attendono tanto più a questi diversi lavori in quanto che sono numerose nelle famiglie, e quei barbari poligami comperano, e le pagano carissimo, tante donne quante ne possono nutrire. Tale è il compendio delle osservazioni fatte da Carpini durante il mese ch'egli passò a Syra-Orda, aspettando l'elezione dell'imperatore. Poco stante certi sintomi indicarono che quell'elezione era prossima. In fatti, si cantava innanzi a Cuyné quando egli usciva dalla sua tenda, gli si faceva la riverenza con belle bacchette che avevano all'estremità un ciuffo di lana scarlatta. A quattro leghe da Syra-Orda, in una pianura, sulla sponda d'un rigagnolo, era stata preparata una tenda destinata all'incoronazione, tutta tappezzata di scarlatto al di dentro, ed appoggiata sopra colonne intarsiate di lame d'oro. Finalmente, alla festa di San Bartolomeo, si riunì una grande assemblea, e ciascuno, pregando di continuo, rimase colla faccia rivolta verso mezzodì, prosternazione idolatra alla quale il francescano ed il suo compagno rifiutarono di pigliar parte. Poi, Cuyné fu

posto sopra il seggio imperiale, ed i duchi ed il popolo piegarono le ginocchia innanzi a lui. Egli era consacrato. Subito Carpini ed Étienne furono mandati innanzi al nuovo imperatore. Prima furono frugati, poi entrarono nella tenda imperiale insieme con altri ambasciatori, portatori di ricchi doni. Quanto ad essi, poveri inviati del papa, non avevano più nulla ad offrire. Il loro ricevimento se ne risenti? non lo sappiamo, ma passò un pezzo prima che Carpini ed Étienne potessero intrattenere Sua Maestà tartara dei negozi che li avevano condotti da lui. Passavano i giorni, gli inviati erano molto maltrattati e morivano propriamente di fame e di sete, quando, verso San Martino, l'intendente ed i segretari dell'imperatore li chiamarono innanzi ad essi, e consegnarono loro pel papa delle lettere che finivano con queste superbe parole che sono come a dire la formola finale dei sovrani asiatici: «Noi adoriamo Dio, e, col suo aiuto, distruggeremo la terra intera, dall'Oriente fino all'Occidente.» Verso Santa Brigida, gli ambasciatori partirono e per tutto l'inverno camminarono attraverso i deserti agghiacciati. All'Ascensione, essi giungevano alla corte del principe Bathy, che diede loro dei passaporti, e non tornarono a Kiew se non quindici giorni prima di San Giovanni dell'anno 1247. Il 9 ottobre, il papa nominò Carpini arcivescovo d'Antivari in Dalmazia, e quel viaggiatore celebre morì a Roma verso il 1254. La missione di Carpini non produsse in sostanza alcun risultato, ed i Tartari rimasero quello che erano, orde feroci e selvaggie. Tuttavia, sei anni dopo il ritorno del francescano, un altro monaco minore, chiamato Guglielmo di Rubruquis, Belga d'origine, fa mandato a quei barbari, che abitavano il territorio posto fra il Don ed il Volga. Ecco qual era l'oggetto della sua missione. A quel tempo, San Luigi faceva la guerra ai Saraceni di

Siria, e mentre egli tormentava gl'infedeli, un principe mongolo, Erkaltay, li attaccava dalla parte della Persia, facendo un'utile diversione in favore del re di Francia. Si diceva che quel principe si fosse convertito al cristianesimo; San Luigi, desiderando d'accertare il fatto, incaricò il monaco Rubruquis d'osservare Erkaltay nel suo paese medesimo. Nel mese di giugno 1253, Rubruquis ed i suoi compagni s'imbarcarono per Costantinopoli, e di là giunsero alla foce del Don, sul mar d'Azof, dove si trovava un gran numero di Goti, discendenti delle tribù germaniche. Giunti presso i Tartari, gl'inviati del re di Francia furono dapprima maltrattati, ma quando ebbero presentato le lettere, il governatore Zagathal, parente del khan, fornì loro dei carri, dei cavalli e dei buoi pel viaggio. Essi partirono dunque, ed il domani incontrarono dapprima un villaggio ambulante; erano carri carichi di case appartenenti al governatore. Per dieci giorni, i viaggiatori rimasero in quella tribù, che non si segnalò per la generosità, e se non fossero state le provviste di biscotto, Rubruquis ed i suoi compagni sarebbero senza dubbio morti di fame. Giunti all'estremità del mar d'Azof, si diressero verso l'est costeggiando un deserto arido, senza un albero, senza un sasso. Era il paese dei Comani, già traversato più al nord da Carpini. Rubruquis, lasciando al sud le montagne abitate dalle popolazioni circasse, giunse, dopo un viaggio faticoso che durò due mesi, al campo del principe Sartach, posto sulle sponde del Volga. Colà era la corte del principe, figlio di Baatu-Khan. Egli aveva sei mogli; ciascuna d'esse possedeva un palazzo, delle case e dugento carri, alcuni dei quali, larghi venti piedi, erano trascinati da una muta di ventidue buoi disposti su due file di undici ciascuna. Sartach ricevette gli inviati del re di Francia con molta affabilità, e vedendoli poveri, fornì loro tutto ciò di cui avevano

bisogno; ma Rubruquis ed i suoi compagni dovettero presentarsi al principe vestiti dei loro abiti sacerdotali, poi, posando sopra un cuscino una magnifica Bibbia data dal re di Francia, un salterio, dono della regina, un messale, un crocifisso ed un turibolo, entrarono nelle stanze del principe, guardandosi bene dal toccare la soglia della porta, il che sarebbe stato un imperdonabile atto di profanazione. Giunti in presenza di Sartach, quei pii ambasciatori intonarono la Salve Regina. Il principe ed una delle principesse che lo assisteva in quella cerimonia esaminarono attentamente gli ornamenti dei religiosi e permisero loro di ritirarsi. Quanto a sapere se Sartach era cristiano, Rubruquis non potè accertar nulla. Ma, la missione degli inviati del re San Luigi non era terminata; perciò, il principe li indusse a recarsi alla corte di suo padre. Rubruquis obbedì, e attraversando le tribù maomettane che si spartivano la regione tra il Don ed il Volga, giunse al campo del re, situato sulla sponda del fiume. Colà furono ripetute le stesse cerimonie fatte alla corte del principe Sartach. I religiosi dovettero vestire gli ornamenti ecclesiastici, e si presentarono così innanzi al Khan, che occupava un seggio dorato, largo quanto un letto. Ma Baatù non credette di dover trattare egli medesimo cogli ambasciatori del re di Francia, e li mandò a Caracorum, alla corte di ManguKhan. Rubruquis valicò il paese dei Baskhir, visitò Kenchat, Talach, passò l'Axiarte, e giunse ad Equius, città di cui i commentatori non hanno saputo riconoscere la posizione; poi, per la terra d'Organum, dove si vede il lago di Balkash, e per il territorio degli Uigurs, giunse a Caracorum, la capitale innanzi alla quale Carpini si era arrestato senza entrarvi. Questa città, stando a Rubruquis, era cinta da muraglie di terra forate da quattro porte. Due moschee ed una chiesa cristiana ne formavano i principali monumenti. Il monaco

raccolse in questa città alcune notizie sulle popolazioni circostanti, segnatamente sui Tangurs, i cui buoi, di razza notevole, non sono altro che quegli yack rinomati nel Thibet, e parla di quei Thibetani, la cui più strana costumanza è di mangiare i cadaveri dei genitori per dar loro una sepoltura onorata. Tuttavia, il gran khan non era allora nella sua capitale di Caracorum. Rubruquis ed i suoi compagni dovettero andare alla sua residenza, posta al di là delle montagne che sorgono nella parte settentrionale della regione. Il domani del loro arrivo, essi si recarono alla corte, scalzi, secondo la regola francescana, il che fece loro gelare i piedi. Introdotti innanzi a Mangu-Khan, essi videro «un uomo dal naso camuso e di mezzana statura, coricato sopra un letto di riposo e vestito d'una splendida pelliccia, chiazzata come la pelle d'un vitello marino.» Questo re era circondato di falchi ed altri uccelli. Molte specie di liquori, un punch d'arrack, del latte di giumenta fermentato, del ball, specie d'idromele, furono offerti agli inviati del re di Francia. Costoro si astennero dal berne, ma il khan, meno sobrio, non tardò a perdere la ragione sotto l'influenza di quelle bevande spiritose, e l'udienza fu tolta senza che la missione degli ambasciatori fosse stata compiuta. Rubruquis passò molti giorni alla corte di Mangu-Khan. Egli vi trovò un gran numero di prigionieri tedeschi e francesi, segnatamente impiegati alla fabbricazione delle armi ed al traffico delle miniere di Bocol. Quei prigionieri, trattati bene dai Tartari, non si lamentavano punto della loro condizione. Dopo aver avuto molte udienze dal gran khan, Rubruquis ottenne il permesso di partire, e tornò a Caracorum. Presso questa città sorgeva un magnifico palazzo appartenente al khan; esso assomigliava ad un'ampia chiesa con navata. È là che il sovrano siede sopra un'impalcatura elevata

all'estremità settentrionale; gli uomini seggono alla sua dritta, le donne alla sua mancina. É pure in quel palazzo che, due volte all'anno, si celebrano splendide feste, quando tutti i signori del paese sono riuniti intorno al loro sovrano. Mentre soggiornava a Caracorum, Rubruquis raccolse dei documenti interessanti sui Chinesi, i loro costumi, la loro scrittura, ecc. Poi, lasciando la capitale dei Mongoli, egli ripigliò la via che aveva già percorso; ma, giunto ad Astrakan, alla foce del gran fiume, scese al sud, entrò in Siria, e, sotto la custodia d'una scorta di Tartari, resa necessaria dalla presenza di tribù ladre, giunse a Derbend, alle Porte di Ferro. Da questo punto, per Nakshivan, Erzerum, Siwas, Cesarea, Iconium, giunse al porto di Curch, e vi si imbarcò per tornare in patria. Il suo viaggio, come si vede, si avvicina molto a quello di Carpini, ma la relazione ne è meno interessante, ed il monaco Belga non pare essere stato dotato dello spirito d'osservazione che segnala il francescano italiano. Con Carpini e Rubruquis finisce l'elenco degli esploratori, che si resero celebri nel secolo XIII; ma la loro rinomanza doveva essere sorpassata, e di molto, da quella del Veneziano Marco Polo, il più illustre viaggiatore di tutta quest'epoca.

CAPITOLO IV. MARCO POLO (1253-1324). I. Interesse dei mercanti genovesi e veneziani a provocare delle esplorazioni nel centro dell'Asia — La famiglia Polo e la sua condizione a Venezia — Nicolò e Matteo Polo, i due fratelli — Essi vanno da Costantinopoli alla corte dell'imperator della China — Loro ricevimento alla corte di KublaiKhan — L'imperatore li nomina suoi ambasciatori presso il papa — Loro ritorno a Venezia — Marco Polo — Egli parte con suo padre Nicolò e suo zio Matteo per la residenza del re tartaro — Il nuovo papa Gregorio X — La relazione di Marco Polo scritta in francese sotto la sua dettatura da Rusticano di Pisa.

I mercanti genovesi e veneziani non potevano rimanere indifferenti alle esplorazioni che gli arditi viaggiatori tentavano nell'Asia centrale, l'India e la China. Essi comprendevano che quelle regioni dovevano presto offrire nuovi sbocchi a' loro prodotti, e che, d'altra parte, i benefici sarebbero immensi, portando in Occidente le mercanzie di fabbrica orientale. Gli interessi del commercio dovevano dunque spingere alcuni nuovi cercatori nella via delle scoperte. Tali furono le ragioni che indussero due nobili Veneziani a lasciare la patria, a sfidare tutte le fatiche ed i rischi di quei viaggi pericolosi allo scopo di allargare le loro relazioni commerciali. Questi due Veneziani appartenevano alla famiglia Polo, originaria della Dalmazia, che le sue ricchezze, dovute ai negozi, avevano messa nella schiera delle famiglie patrizie di Venezia. Nel 1260, i fratelli Nicolò e Matteo, che si trovavano da molti anni a Costantinopoli, dove avevano fondato una succursale, si recarono con una gran provvista di gioielli al fondaco di Crimea diretto dal loro fratello maggiore, Andrea

Polo. Da questo punto, risalendo verso il nord-est, e traversando il paese di Comania, essi giunsero, sul Volga, al campo di Barkai-Khan. Questo principe mongolo ricevette benissimo i due mercanti di Venezia, dai quali comperò tutti i gioielli che gli offrivano al doppio del loro valore.

Nicolò e Matteo rimasero un anno nel campo mongolo; ma verso quel tempo, nel 1262, una guerra scoppiò tra i Barbari ed il principe Hulagu, conquistatore della Persia. I due fratelli, non volendo avventurarsi in mezzo a regioni battute dai Tartari, preferirono recarsi a Bukhara, che era la principale residenza di

Barkai, e vi soggiornarono tre anni. Ma vinto Barkai e presa la sua capitale, i partigiani d'Hulagu sollecitarono i due Veneziani a seguirli alla residenza del gran khan di Tartaria, che del resto doveva far loro ottima accoglienza. Questo Kublai-Khan, quarto figlio di Gengis-Khan, era imperatore della China, ed

occupava allora la sua residenza d'estate in Mongolia, sulla frontiera dell'impero chinese. I mercanti veneziani partirono e spesero tutto un anno a traversare quell'immensa estensione di paese che separa Bukhara dai confini settentrionali della China. Kublai-Khan fu

felicissimo di ricevere quegli stranieri venuti dai paesi occidentali. Egli fece loro gran festa e l'interrogò con premura sugli avvenimenti che accadevano allora in Europa, domandando gran numero di particolari circa gl'imperatori ed i re, le loro amministrazioni, i loro metodi di guerra; poi li trattenne un pezzo del papa e delle faccende della Chiesa latina. Matteo e Nicolò, che parlavano correntemente il tartaro, risposero schiettamente a tutte le domande dell'imperatore. Costui allora ebbe il pensiero di mandar dei messaggieri al papa, e pregò i due fratelli d'essere i suoi ambasciatori presso Sua Santità. I mercanti accettarono con riconoscenza, poiché in grazia di questo nuovo carattere, il loro ritorno doveva compiersi in condizioni vantaggiose. L'imperatore fece preparare delle carte in lingua turca, chiedendo al papa di mandargli cento uomini saggi per convertire gli idolatri al cristianesimo; poi, egli aggiunse ai due Veneziani uno de' suoi baroni chiamato Cogatal, e li incaricò di riportargli dell'olio della lampada sacra che arde di continuo sulla tomba di Cristo a Gerusalemme. I due fratelli, muniti di passaporti che mettevano a loro disposizione uomini e cavalli in tutta l'estensione dell'impero, si accommiatarono dal khan, e si misero in viaggio nel 1266. Ma a breve andare il barone Cogatal si ammalò. I Veneziani, costretti a separarsi da lui, proseguirono la loro via, e, malgrado gli aiuti che ricevettero, non impiegarono meno di tre anni per giungere a Laias, porto dell'Armenia, conosciuto ora sotto il nome d'Issus, e che è situato in fondo al golfo Issico. Lasciando allora Laias, si recarono ad Acri nel 1269. Colà appresero la morte del papa Clemente IV dal quale erano mandati. Ma il legato Tebaldo risiedeva in quella città; egli ricevè i Veneziani, ed apprendendo qual fosse la missione di cui il gran khan li aveva incaricati, gli indusse ad aspettar

l'elezione del nuovo papa. Matteo e Nicolò, assenti dalla loro patria da quindici anni, risolvettero di tornare a Venezia. Essi si recarono a Negroponte e s'imbarcarono sopra una nave, che li condusse direttamente alla loro città natale. Sbarcando, Nicolò Polo apprese la morte della moglie e la nascita d'un figlio che gli era nato alcuni mesi dopo la sua partenza, nel 1254. Questo figlio si chiamava Marco Polo. Per due anni, i due fratelli, a cui stava a cuore di compiere la loro missione, aspettarono a Venezia l'elezione del nuovo papa, ma siccome questa elezione non si faceva, credettero di non dover differir oltre il ritorno presso l'imperatore mongolo. Partirono dunque per Acri, conducendo seco stavolta il giovane Marco, che non doveva avere più di diciassette anni. Ad Acri, ritrovarono il delegato Tebaldo, che li autorizzò ad andare a prendere a Gerusalemme l'olio della lampada del Santo Sepolcro. Compita questa missione, i Veneziani tornarono ad Acri, ed in mancanza d'un papa, chiesero al legato delle lettere per Kublai-Khan, nelle quali doveva esser fatto menzione della morte di Clemente IV. Tebaldo diede loro queste lettere, ed i due fratelli tornarono a Laias. Colà, con loro gran gioia, appresero che il delegato Tebaldo era stato consacrato papa sotto il nome di Gregorio X, il 1° settembre 1271. Il nuovo eletto li chiamò immediatamente, ed il re d'Armenia pose a loro disposizione una galera, che li conducesse più rapidamente ad Acri. Il papa li ricevette con premura, consegnò loro delle lettere per l'imperatore della China, aggiunse loro due fratelli predicatori, Nicola da Vicenza e Guglielmo da Tripoli, e gli accommiatò benedicendoli. Gli ambasciatori tornarono a Laias. Ma appena giunti in questa città, arrischiarono d'esser fatti prigionieri dalle bande del sultano mammalucco Bibars, che saccheggiava allora l'Armenia. I due fratelli predicatori, poco soddisfatti di questo

esordio, rinunziarono a recarsi in China, e lasciarono ai due Veneziani ed a Marco Polo la cura di consegnare all'imperatore mongolo le lettere del papa. Qui incomincia il viaggio propriamente detto di Marco Polo. Ha egli visitato veramente tutti i paesi, tutte le città che descrive? No, senza dubbio, e nella narrazione scritta in francese sotto sua dettatura da Rusticano da Pisa, è detto espressamente che «Marco Polo, savio e nobile cittadino di Venezia, vide tutto ciò co' suoi propri occhi, e che quello che non vide, lo intese dalla bocca d'uomini degni di fede.» Ma aggiungiamo che la massima parte delle città e dei regni visitati da Marco Polo sono stati da lui veramente percorsi. Noi seguiremo dunque l'itinerario quale esiste nel suo racconto, indicando solamente ciò che il celebre viaggiatore apprese per udita, durante le missioni importanti di cui lo incaricò l'imperatore Kublai-Khan. In questo secondo viaggio, i due Veneziani non seguirono esattamente la via che avevano preso quando si recarono per la prima volta dall'imperatore della China. Essi erano passati dal nord dei monti Celesti, che sono i monti Thian-chan-pe-lu, il che allungò la loro strada. Stavolta, girarono al sud dei medesimi monti, e pure, benché questa via fosse più breve dell'altra, non impiegarono meno di tre anni e mezzo a percorrerla, a causa delle pioggie e degli straripamenti dei gran fiumi. Questo itinerario sarà facile seguirlo sopra una carta d'Asia, giacché ai vecchi nomi di Marco Polo, noi abbiamo da per tutto sostituito i nomi esatti della cartografia moderna.

II. La Piccola Armenia — La Grande Armenia — Il Monte Ararat — La Georgia — Mossul, Bagdad, Bassorah, Tauris — La Persia — La provincia di Kirman — Comadi — Ormuz — Il Vecchio della montagna — Cheburgan — Balac — Il Balacian — Cachemire — Kaschgar — Samarkanda — Cotan — Il deserto — Tangut — Caracorum — Signan-fu — Tenduc — La gran muraglia — Ciandu, l'odierna città di Chang-tu — La residenza di Kublai-Khan — Cambaluc, ora Pechino — Le feste dell'imperatore — Le sue caccie — Descrizione di Pechino — La zecca ed i biglietti di banca chinesi — Le poste dell'impero.

Lasciando la città d'Issus, Marco Polo parla della Piccola Armenia, come d'una terra insalubre, i cui abitanti, un tempo valorosi, ora vili e meschini, non hanno altra abilità fuor quella di ber bene. Quanto, al porto d'Issus, è il deposito delle preziose mercanzie dell'Asia ed il convegno dei mercanti di tutto il paese. Dalla Piccola Armenia, Marco Polo passa nella Turcomania, le cui tribù, semplici ed un po' selvaggie, sfruttano pascoli eccellenti, ed allevano cavalli e muli rinomati; quanto agli operai delle città, essi sono i primi nella fabbricazione dei tappeti e dei drappi di seta. La Grande Armenia che Marco Polo visitò di poi, offre durante l'estate un attendamento favorevole alle armate tartare. Colà, il viaggiatore vede il monte Ararat, dove si arrestò l'arca di Noè dopo il diluvio, e segnala sulle terre confinanti col mar Caspio delle copiose sorgenti di nafta, che sono oggetto d'un traffico importante. Marco Polo, lasciando allora la Grande Armenia, si diresse pel nord-est verso la Georgia, regno che si estende sul pendio meridionale del Caucaso, ed i cui antichi re avevano nascendo, dice la tradizione, «un'aquila disegnata sulla spalla dritta.» I Georgiani, stando a lui, sono buoni arcieri ed uomini di guerra. Gli operai del paese fabbricano ammirabili stoffe di seta e d'oro. Colà si vede quella celebre gola lunga quattro leghe, posta tra il piede del Caucaso e del mar Caspio, che i Turchi

chiamano la Porta di Ferro, e gli Europei il Passo di Derbent, e quel lago miracoloso nel quale, a quanto si dice, non si trovano pesci che durante la quaresima. Da questo punto, i viaggiatori scesero verso il regno di Mossoul e giunsero alla città di questo nome situata sulla riva dritta del Tigri, poi a Bagdad, dove abita il califfo di tutti i Saraceni del mondo. Marco Polo narra qui la presa di Bagdad fatta dai Tartari nel 1255, e cita una storia meravigliosa in appoggio alla massima cristiana della fede che solleva le montagne; poi indica ai mercanti la via che va da questa città al golfo Persico, e che si compie in diciotto giorni per il fiume, traversando Bassorah per il paese dei datteri. Da questo punto a Tauris, città persiana della provincia di Adzerbaidjan, l'itinerario di Marco Polo sembra rotto. Checché ne sia, lo si ritrova a Tauris, gran città commerciale costrutta in mezzo a bei giardini, e che fa il traffico delle pietre preziose e d'altre mercanzie di gran valore, ma i cui abitanti saraceni sono malvagi e sleali. Colà, egli stabilisce la divisione geografica della Persia in otto Provincie. Gli indigeni della Persia, secondo lui, sono fatali ai mercanti, che non possono viaggiare senza essere armati d'archi e di freccie. Il principale commercio del paese è quello dei cavalli e degli asini, che si mandano a Kis o ad Ormuz, e di là alle Indie. Quanto ai prodotti della terra, consistono in frumento, orzo, miglio ed uva, che vi crescono in abbondanza. Marco Polo scese al sud fino a Yezd, la città più orientale della Persia propriamente detta, buona città, nobile ed industriosa. Lasciandola, i viaggiatori dovettero cavalcare per sette giorni attraverso magnifiche foreste ricche di selvaggiume per giungere alla provincia di Kirman. Qui, i minatori sfruttano con profitto nelle montagne le miniere di turchese, di ferro e d'antimonio; i ricami ad ago, la fabbrica delle bardature e delle armi, l'allevamento dei falchi da caccia occupano gran numero

d'abitanti. Lasciando la città di Kirman, Marco Polo ed i suoi due compagni impiegarono nove giorni a traversare un paese ricco e popoloso, e giunsero alla città di Comadi, che si suppone essere la moderna Memaun, che a quel tempo era già molto decaduta. La campagna era magnifica; da tutte le parti, bei montoni, grossi e grassi, buoi bianchi come la neve, a corna corte e forti, ed a migliaia le galline regine ed altro selvaggiume; poi, alberi magnifici, segnatamente datteri, aranci e pistacchi. Dopo cinque giorni di viaggio verso il mezzodì, i tre viaggiatori entrarono nella bella pianura di Cormos, il cui nome moderno è Ormuz; molti bei fiumi la inaffiano. Dopo due altri giorni di cammino, Marco Polo si trovò sulle sponde del golfo Persico, ed alla città d'Ormuz che forma il porto marittimo del regno di Kirman. Questo paese gli parve caldissimo e molto malsano, ma ricco di datteri e d'alberi da spezie; prodotti del suolo, pietre preziose, stoffe di seta e d'oro, denti d'elefanti, vino di datteri ed altre mercanzie erano depositate in quella città, e là venivano molte navi ad un albero, cucite di filo di corteccia, molte delle quali perivano traversando il mare delle Indie. Da Ormuz, Marco Polo, risalendo verso il nord-est, tornò a Kirman; poi si avventurò per vie pericolose, attraverso un arido deserto, dove non si trova che dell'acqua salmastra, — deserto che, mille e cinquecento anni prima, Alessandro valicò colla sua armata, tornando dalle bocche dell'Indo a raggiungere l'ammiraglio Nearca, — e, sette giorni dopo, entrò nella città di Khabis, nella frazione del regno di Kirman. Lasciando questa città, risali in otto giorni attraverso ampie solitudini fino a Tonocain, che deve essere la capitale odierna della provincia di Kumis, ossia Damaghan. Qui, Marco Polo, dà alcuni particolari sul Vecchio della montagna, il capo degli Assassini, setta maomettana che si segnala pel fanatismo religioso e le crudeltà

spaventevoli. Egli entrò allora, dopo sei giorni di cammino, nella città corassana di Cheburgan, la città per eccellenza, dove i cocomeri sono più dolci del miele, e nella nobile città di Balac, posta verso le sorgenti dell'Oxus. Poi, attraverso un paese in cui i leoni non sono rari, egli giunse a Taikan, ampio mercato di sale che attira gran numero di trafficanti, ed a Scasem; è il Kashem di Marsden, il Kisihn o Krisin di Hiouen Tsang, che sir H. Rawlinson ha identificato colla collina di Kharesm del Zend Avesta, che alcuni commentatori credono sia la moderna Cunduz. In questa regione, s'incontravano molti porci-spini, e quando si dava loro la caccia, dice Marco Polo, quegli animali, riunendosi tutti insieme, lanciavano contro i cani le spine che hanno sul dorso e sui fianchi. Si sa ora quanto vi sia di vero in questa pretesa facoltà difensiva del porcospino. I viaggiatori entrarono allora nel territorio montagnoso di Balacian, i cui re pretendono discendere da Alessandro il Grande, regione fredda, che produce buoni cavalli, gran corridori, falchi dal gran volo ed ogni specie di selvaggiume. Colà sono miniere di rubini che il re sfrutta a suo profitto, in una montagna chiamata Sighinan, e sulla quale nessuno può mettere il piede sotto pena di morte. Si raccoglie pure in altri luoghi del minerale d'argento, e molte pietre colle quali si fa «l'azzurro più fino del mondo» vale a dire il lapislazzuli. Marco Polo dovette risiedere un pezzo in quella regione per aver un'idea così precisa dei luoghi. A dieci giornate da Balacian, s'incontra una provincia che deve essere la Paishore moderna, i cui abitanti idolatri hanno la tinta molto scura, poi, a sette giorni di cammino verso il mezzodì, il regno di Cachemir, paese temperato, le cui città ed i cui villaggi sono numerosi, e che il suo terreno, tagliato da gran gole, rende facile a difendere. Giunto a questo punto, se Marco Polo si fosse spinto più oltre in quella direzione, sarebbe entrato nel territorio

dell'India; ma egli risali verso il nord, e, dopo dodici giorni, si trovò sul territorio di Vaccan, inaffiato dall'alto corso dell'Oxus, ed in mezzo ai pascoli magnifici dove pascolano quegli immensi greggi di montoni selvatici che si chiamano mufloni. Di là, per ioni del Pamer e del Belor, territori montagnosi gettati fra i sistemi orografici dell'Altai e dell'Imalaja, che costarono ai viaggiatori quaranta giorni d'una marcia faticosa, giunsero alla provincia di Kaschgar. È là che Marco Polo raggiunse l'itinerario di Matteo e Nicolò Polo durante il loro primo viaggio, quando da Bukhara furono trascinati verso la residenza del gran khan. Da Kaschgar, Marco Polo fece una punta nell'ovest sino a Samarkanda, gran città abitata da cristiani e da Saraceni; poi ripassando per Kaschgar, si diresse verso Yarkund, città frequentata dalle carovane, che fanno il commercio tra l'India e l'Asia settentrionale. Traversando allora Cotan, capitale della provincia di questo nome, e Pein, città incerta, posta in una regione in cui si raccoglie abbondantemente lo jaspo e la calcedonia, egli giunse ad un certo regno di Ciarcian, forse Kharachar, che doveva stendersi sulle frontiere del deserto di Gobi; finalmente, dopo cinque giornate di cammino attraverso pianure sabbiose e prive d'acqua potabile, egli venne a riposarsi otto giorni nella città di Lob, città oggi distrutta, nella quale fece tutti i suoi preparativi per traversare il deserto che si estende nell'est, «deserto così lungo, dice egli, che ci vorrebbe un anno per attraversarlo in tutta la sua lunghezza, deserto frequentato dagli spiriti ed in mezzo al quale echeggiano dei tamburi invisibili ed altri strumenti.» Dopo un mese speso nel valicare questo deserto nella sua larghezza, i tre viaggiatori giunsero, nella provincia di Tangut, alla città di Cha-tcheu, fabbricata sul confine ovest dell'impero chinese. Questa provincia conta pochi commercianti, ma gran numero d'agricoltori che vivono del profitto del suo grano. Fra

le usanze di Tangut che sembrano aver impressionato più

vivamente Marco Polo, convien citare quella di non bruciare i

morti se non nel giorno fissato dagli astrologhi; «e tutto il tempo che il morto rimane in casa, i suoi parenti, che abitano con lui, gli fanno posto alla mensa, e gli servono da mangiare e da bere come se fosse vivo.» Verso il nord-ovest, uscendo dal deserto, Marco Polo ed i

suoi compagni fecero un'escursione verso la città d'Amil, e si spinsero fino a Ginchintalas, città sulla posizione della quale i geografi non sono ancora d'accordo, e che è abitata da idolatri, da maomettani e da cristiani nestoriani. Da Ginchintalas, Marco Polo torna a Cha-tcheu, e ripigliar

la sua via verso l'est attraverso il Tangut, per la città di So-ceu, sopra un territorio propizio alla coltura del rabarbaro, e per Campicion, il Kantcheu dei Chinesi, allora capitale di tutto il Tangut. Era una città importante, popolata da ricchi capi idolatri che sono poligami, e sposano di preferenza le loro cugine, o «la moglie del loro padre.» I tre Veneziani abitarono un anno in questa gran città. È dunque facile comprendere, vedendoli fare simili fermate e sviarsi di continuo dalla meta, come il loro viaggio attraverso l'Asia centrale avesse potuto durare più di tre anni. Lasciando Kan-tcheu, dopo d'aver cavalcato per dodici giorni, Marco Polo giunse sul confine d'un deserto di sabbia, alla città d'Etzina. Era ancora una giravolta, poiché egli risaliva direttamente al nord; ma il viaggiatore voleva visitare la celebre città di Caracorum, quella capitale tartara che Rubruquis aveva abitato nel 1254. Marco Polo aveva certamente in sé gli istinti d'un esploratore, e non badava alle fatiche quando si trattava di compiere i propri studi geografici. In quest'occasione, per giungere alla città tartara, egli dovette camminare quaranta giorni in mezzo ad un deserto senza abitazioni, senz'erbe. Giunse finalmente a Caracorum, una città che misurava tre miglia di circuito. Dopo d'esser stata un pezzo la capitale dell'impero mongolo, essa fu conquistata da Gengis-Khan, l'avo dell'imperatore odierno, e Marco Polo fa in questo punto una digressione storica, nella quale narra le guerre dell'eroe tartaro contro il famoso sacerdote Giovanni, quel sovrano che teneva tutto il paese sotto la sua dominazione. Marco Polo, tornato a Kan-tcheu, camminò per cinque giorni verso l'est, e giunse alla città d'Erginul, probabilmente la città di Liang-sheu. Di là, egli fece una piccola punta al sud per visitare Si-gnan-fu attraverso un territorio su cui pascolavano dei buoi selvaggi, grandi come elefanti, e quel prezioso

capriolo che ha ricevuto il nome di porta-muschio. Risaliti a Liang-sheu, i viaggiatori, in otto giorni, giunsero all'est a Cialis, dove si fabbricano dei cammellini di pelo di cammello i più belli del mondo, poi, nella provincia di Tenduc, alla città di questo nome, dove regnava un discendente del prete Giovanni sottoposto al gran khan. Era una città industriale e commerciante. Da quel punto, piegando verso il nord, i Veneziani si elevarono per Sinda-cheu, di là dalla gran muraglia della China, fino a Ciagannor, che deve essere TsaanBalgassa, bella città, dove l'imperatore risiede volontieri quando vuol darsi al piacere della caccia col girifalco, giacché gru, cicogne, fagiani e pernici abbondano in quel territorio. Finalmente, Marco Polo, suo padre e suo zio, tre giorni dopo aver lasciato Ciagannor, giunsero alla città di Ciandu, il Chang-tu odierno, che la relazione chiama altrove Clemen-fu. È là che gli inviati del papa furono accolti da Kublai-Khan, che abitava allora questa residenza d'estate, posta di là dalla gran muraglia, al nord di Cambaluc, ora Pechino, e che era la capitale dell'impero. Il viaggiatore parla poco delle accoglienze che furono loro fatte, ma descrive con una cura particolare il palazzo del Khan, grande edifizio di pietra e di marmo, le cui camere sono tutte dorate. Questo palazzo è costrutto in mezzo ad un parco circondato di muri, dove si vedono dei serragli o delle fontane, ed anche un edilizio fatto di canne così bene intrecciate che sono impenetrabili all'acqua; era una specie di chiosco che si poteva smontare, e che il gran khan abitava nei mesi di giugno, di luglio e di agosto, vale a dire durante la bella stagione. Questa stagione doveva esser bella davvero, giacché, al dire di Marco Polo, degli astrologhi, addetti alla persona del khan, erano incaricati di dissipare, coi loro sortilegi, la pioggia, la nebbia e qualunque brutto tempo. Il viaggiatore veneziano non ha l'aria di dubitare del potere di quegli stregoni. «Questi savi uomini, dice egli, sono di due razze, tutti idolatri; essi

sanno delle arti diaboliche e degli incantesimi più d'ogni altro uomo al mondo; e quello ch'essi fanno lo fanno coll'aiuto del diavolo, ma fanno credere agli altri uomini di farlo per santità e per opera di Dio. Queste persone hanno una strana usanza: quando un uomo è condannato a morte e giustiziato, lo pigliano, lo fanno cuocere e lo mangiano; ma non lo mangerebbero se fosse morto di morte naturale. E sappiate che questa gente, di cui vi ho parlato, che sa tanti incantesimi, fanno il prodigio che vi narrerò. Quando il gran khan è seduto nella sua sala principale, alla sua mensa, che ha otto buoni cubiti, e quando le coppe sono sul pavimento della sala, lungi dalla tavola dieci buoni passi, e tutte piene di vino, di latte o d'altre buone bevande, quei savi incantatori fanno tanto coll'arte loro ed i loro sortilegi, che quelle coppe piene si alzano da sé stesse e vengono innanzi al gran khan senza che nessuno le tocchi; ed essi fanno questo innanzi a diecimila persone, ed è proprio l'esatta verità senza menzogna; e del resto, gli esperti di negromanzia vi diranno che la cosa si può fare.» Poi, Marco Polo fa la storia dell'imperatore Kublai, che è il più potente degli uomini, e che possiede più terre e tesori di chiunque ne abbia mai posseduto dopo Adamo, nostro primo padre. Egli narra come il gran khan, che aveva allora ottantacinque anni, uomo di statura mezzana, abbastanza grasso ma ben proporzionato in tutte le membra, dalla faccia bianca e vermiglia, dai begli occhi neri, salisse sul trono nell'anno 1256, dalla nascita di Cristo. Era un buon capitano in guerra, e lo provò quando suo zio Naian, essendosi ribellato contro di lui, volle contendergli il potere a capo di quattrocentomila cavalieri. — Kublai-Khan, raccogliendo «segretamente» trecentosessantamila uomini a cavallo e centomila a piedi, mosse incontro allo zio. La battaglia fu terribile. «Vi morirono tanti uomini, così da una parte come

dall'altra, che era una meraviglia.» Ma Kublai-Khan fu vincitore, e Naian, nella sua qualità di principe del sangue regale, strettamente cucito vivo in un tappeto, morì fra atroci sofferenze. Dopo la vittoria, l'imperatore rientrò trionfante nella sua capitale di Cathay, chiamata Cambaluc, che è diventata a poco a poco la città odierna di Pechino. Marco Polo, giunto in questa città, vi dovette fare un lungo soggiorno, fino al momento in cui fu incaricato di diverse missioni nell'interno dell'impero. È a Cambaluc che sorgeva il magnifico palazzo dell'imperatore, di cui il viaggiatore veneziano fa la descrizione seguente, che noi togliamo al testo, riferito dal signor Charton, e che darà un'idea esatta dell'opulenza di quei sovrani mongoli. «Innanzi al palazzo c'è un gran muro quadrato, ogni lato del quale ha un miglio, il che fa quattro miglia di circuito; esso è molto grosso, alto ben dieci passi, tutto bianco e merlato. Ad ogni canto di questo muro vi ha un palazzo molto bello e molto ricco, nel quale sono conservati gli arnesi del gran khan: i suoi archi, le sue freccie, le sue faretre, le sue selle, le redini de' suoi cavalli, le corde de' suoi archi ed ogni cosa di cui si ha bisogno alla guerra; in mezzo ad ogni quadrato è ancora un palazzo simile a quelli dei canti, cosicché ce ne sono otto in tutto, e questi otto sono pieni degli arnesi del gran sire, di guisa che, in ciascuno d'essi vi ha una specie differente: nell'uno gli archi, nell'altro le selle, e così di seguito. In questo muro, dal lato di mezzodì, vi sono cinque porte. Quella di mezzo è un gran portone che non si apre se non per lasciar entrare od uscire il gran khan; presso a questo gran portone, ad ogni lato, vi ha una porta più piccola da cui entrano le altre persone; poi altre due dalle quali si entra pure. All'interno di questo muro ve n'ha un altro più lungo che largo. Esso ha pure otto palazzi disposti come gli altri, dove si conservano del pari gli arnesi del gran sire.»

Fin qui, come si vede, tutti questi palazzi costituiscono la selleria e le sale d'armi dell'imperatore. Ma non vi sarà da meravigliare di sì gran numero di arnesi, quando sì sappia che il gran khan possedeva una razza di cavalli bianchi come la neve, e fra gli altri diecimila giumente, il cui latte era esclusivamente riservato ai principi del sangue regale. Marco Polo prosegue in questi termini: «Questo muro ha pure cinque porte dal lato di mezzodì, simili a quelle del muro dinanzi. In ciascuno degli altri lati i due muri non hanno che una porta. In mezzo ai muri sorge il palazzo del gran sire, fatto come dirò. È il più grande che si abbia mai veduto. Non ha secondo piano, ma il pianterreno s'innalza dieci palmi sul suolo circostante. Il tetto è molto alto; le mura delle sale e delle camere sono tutte coperte d'oro e d'argento, e vi sono rappresentati dei draghi, degli animali, degli uccelli, dei cavalli e vari altri animali, di guisa che non si vede che oro e pittura. La sala è così ampia, che più di seimila uomini possono starvi seduti a mensa. Vi sono tante camere che è una meraviglia. È così grande e così ben fatto che nessun uomo al mondo, quand'anche ne avesse la potenza, potrebbe ordinarlo meglio. Al disopra, il tetto è tutto vermiglio, e verde, ed azzurro, e giallo, e di tutti i colori, e così ben inverniciato che splende come cristallo e riluce da lontano tutto intorno. Questo tetto è del resto così forte e tanto solidamente costrutto che durerà molti anni. Fra i due muri vi sono delle praterie con begli alberi e diverse specie d'animali. Sono cervi bianchi, gli animali che danno il muschio, capriuoli, daini e molte sorta di belle bestie che empiono tutte le terre dentro le mura, tranne le vie fatte per gli uomini. Da un lato, verso il nord-ovest, vi ha un lago molto grande, nel quale vi sono diversi pesci, giacché il gran sire ne ha l'atto mettere di molte specie, ed ogni volta che ne ha piacimento, ne ha finché ne vuole. Un gran fiume vi nasce ed esce dal palazzo, ma si è fatto in modo che nessun pesce possa

fuggire, mediante reti di ferro e di bronzo. Verso il nord, ad un tiro d'arco dal palazzo, il gran khan ha fatto fare un poggio. È un monte alto cento passi e che ha più d'un miglio di circuito. È coperto d'alberi che non perdono mai le foglie, ma che sono sempre verdi. Ora, sappiate che il gran sire, appena qualcuno gli citava qualche bell'albero, lo faceva pigliare con tutte le sue radici e la terra che lo circondava e portare a questa montagna da' suoi elefanti, poco importandogli che l'albero fosse grande. Così egli aveva i più begli alberi del mondo. Il gran sire ha fatto coprire tutta questa montagna di ossido di lapislazzuli, che è molto verde, in guisa che gli alberi sono tutti verdi, e il monte tutto verde, e non si vede che verde, tanto che il monte è chiamato montagna Verde. Sulla montagna, proprio alla cima, è un palazzo bello e grande e tutto verde. Questa montagna, gli alberi ed il palazzo sono così belli che quanti li vedono ne sono rallegrati; ed il gran sire ha fatto questo poggio, per godere di questa bella veduta e gustare questo piacere.» Dopo il palazzo del khan, Marco Polo cita quello del suo figliuolo ed erede; poi descrive la città di Cambaluc, città antica, separata dalla città moderna di Taidu da un canale che spartisce la moderna Pechino in città chinese ed in città tartara. Il viaggiatore, osservatore minuzioso, ci apprende allora le gesta dell'imperatore. Secondo la sua relazione, Kublai-Khan ha una guardia d'onore di duemila cavalieri, ma «non è, già per paura ch'egli la tiene.» I suoi pasti sono vere cerimonie, sottoposte ad un'etichetta severa. Alla sua mensa, più alta delle altre, egli siede al nord, avendo alla mancina la sua prima moglie, a dritta e più basso i figli, i nipoti ed i parenti; egli è servito da alti baroni che hanno cura di tapparsi la bocca ed il naso con belle tele di drappo d'oro, «affinchè il loro alito ed il loro odore non giungano ai cibi ed alle bevande del gran sire. Quando l'imperatore sta per bere, si fa udire un concerto d'istrumenti, e quand'egli tiene la coppa in mano, tutti i baroni e

gli spettatori s'inginocchiano umilmente. Le principali feste del gran khan vengono date da lui, una nel suo giorno anniversario, l'altra ad ogni principio dell'anno. Alla prima, mille e dugento baroni, ai quali l'imperatore offre annualmente centocinquantamila vesti di drappo di seta d'oro ornate di perle, figurano intorno al trono, mentre i sudditi, idolatri o cristiani, fanno pubbliche preghiere. Alla seconda festa, al principio del nuovo anno, il popolo intero, uomini e donne, si veste d'abiti bianchi poiché, secondo la tradizione, il bianco porta fortuna, e ciascuno porta al sovrano doni del più gran valore. Centomila cavalli, riccamente bardati, cinquemila elefanti coperti di bei drappi e portanti il vasellame imperiale, ed un gran numero di cammelli sfilano innanzi all'imperatore. Durante i tre mesi di dicembre, gennaio e febbraio, che il gran khan passa nella sua città d'inverno, tutti i signori, in un circuito di sessanta giornate di cammino, devono approvigionarlo di cinghiali, cervi, daini, capriuoli ed orsi. Del resto, Kublai è egli medesimo un gran cacciatore, e la sua muta è superbamente montata e tenuta. Egli ha dei leopardi, dei lupi cervieri e dei gran leoni avvezzi ad afferrare la selvaggina selvatica, delle aquile tanto forti da dar la caccia ai lupi, alle volpi, ai daini, ed ai capriuoli, e «che ne pigliano spesso,» finalmente dei cani a migliaia. È verso il mese di marzo che l'imperatore incomincia le sue gran caccie dirigendosi verso il mare, e non è accompagnato da meno di diecimila falconieri, di cinquecento girifalchi e da un'innumerevole quantità di avoltoi, di falchi-pellegrini e di falchi sacri. Durante questa escursione, un palazzo portatile, rizzato sopra quattro elefanti accoppiati, e rivestito al di fuori di pelli di leoni e al didentro di drappi d'oro, segue questo re tartaro, che si compiace di tutta quella pompa orientale. Egli si avanza così fino al campo di Chachiri-Mondu, stabilito sopra un corso d'acqua tributario dell'Amur, e rizza la sua tenda, che è tanto ampia da contenere diecimila cavalieri o

baroni. È questa la sua sala di ricevimento; è là ch'egli dà udienza. Quando vuole ritirarsi od abbandonarsi al sonno, trova in un'altra tenda una meravigliosa sala tappezzata di pelliccie d'ermellino e di zibellino, ciascuna delle quali vale duemila besanti d'oro, ossia circa ventimila franchi della nostra moneta. L'imperatore passa così il tempo fino a Pasqua, dando la caccia alle gru, ai cigni, alle lepri, ai daini, ai capriuoli, ed egli torna allora alla sua capitale di Cambaluc. Marco Polo compie in questo punto la descrizione di quella città magnifica. Egli enumera i dodici borghi che la compongono, nei quali i ricchi mercanti hanno fatto erigere dei palazzi stupendi, giacché quella città è estremamente commerciale. Vi vengono più preziose mercanzie che non in qualsiasi altro luogo del mondo. Mille carri carichi di seta vi entrano ogni giorno. È quello il deposito ed il mercato dei più ricchi prodotti dell'India, vale a dire perle e pietre preziose, e vi si viene a comperare da più di dugento leghe tutt'intorno. Così, per i bisogni di questo commercio, il gran khan ha fatto costrurre una zecca, che è per lui una sorgente inesauribile di ricchezze. Convien dire però che questa moneta, vero biglietto di banca portante l'impronta del sovrano, è fatta d'una specie di cartone fabbricato colla scorza del gelso. Il cartone così preparato viene tagliato in diversi modi secondo il valore fiduciario che il sovrano gli dà. Naturalmente, il corso di questa moneta è obbligatorio. L'imperatore se ne serve pei suoi pagamenti, la fa spargere in tutti i paesi sottoposti alla sua dominazione, «e nessuno può rifiutarla sotto pena di perdere la vita.» Del resto, molte volte ogni anno, i possessori di pietre preziose, di perle, d'oro o d'argento, sono tenuti a portare i loro tesori alla zecca, e ne ricevono in cambio questi pezzi di cartone, di guisa che l'imperatore possiede così tutte le ricchezze del suo impero. Secondo Marco Polo, il sistema del governo imperiale

riposa sopra una centralizzazione eccessiva. Il regno, diviso in trentaquattro Provincie, è amministrato da dodici grandissimi baroni che abitano la città medesima di Cambaluc; colà pure, nei palazzi di questi baroni, abitano gli intendenti e gli scrivani che fanno gli affari di ogni provincia. Intorno alla città si

diramano molte strade ben tenute che mettono ai diversi punti del regno; su queste vie sono disposti dei cambi di posta, montati con gran lusso, di ventidue in ventidue miglia, e nei quali dugentomila cavalli sono sempre pronti a trasportare i messaggeri dell'imperatore. In oltre, fra i cambi, ogni tre

miglia, esiste un casale composto d'una quarantina di case dove abitano i corrieri che portano a piedi i messaggi del gran khan; questi uomini, legati con una cinghia al ventre, colla testa compressa sotto una benda, hanno una cintura guernita di sonagli che si fanno udire da lontano; essi partono di galoppo,

percorrono rapidamente le loro tre miglia, consegnano il messaggio al corriere che li aspetta, e, in questo modo, l'imperatore ha notizie dei luoghi posti a dieci giornate di distanza in un giorno ed una notte. Del resto, questo modo di comunicazione costa poco a Kublai-Khan, giacché egli si

contenta, per unica retribuzione, di esentare i suoi corrieri dalle imposte, e quanto ai cavalli dei cambi, sono forniti gratuitamente dagli abitanti delle Provincie. Ma se il re tartaro usa così della sua onnipotenza, se fa pesare così gravi carichi su' suoi sudditi, si dà però molto pensiero dei loro bisogni e spesso vien loro in aiuto. E però, quando la grandine ha distrutto i loro raccolti, non solo non esige il tributo consueto, ma invia loro del grano della propria provvista. Nello stesso modo, se una mortalità accidentale ha colpito il bestiame d'una provincia, egli lo sostituisce a sue spese. Ed ha cura, nelle buone annate, di raccogliere gran quantità di frumento, d'orzo, di miglio, di riso e d'altri prodotti, in guisa da mantenere i grani ad un corso medio in tutto il suo impero. In oltre, egli ha per i poveri della sua buona città di Cambaluc un affetto particolare. «Egli fa fare un censimento di tutte le famiglie della città che sono povere e che non hanno di che mangiare; tale è di sei persone, tale di otto, tal'altra di dieci, più o meno. Egli fa dar loro del frumento ed altri grani, tanto quanto ne hanno bisogno, in gran quantità; e tutti coloro che vogliono andar a chiedere del pane del signore alla corte, non ricevono mai un rifiuto. Ora, ogni giorno, ci vanno più di trentamila persone a chiederne, e questa distribuzione si fa tutto l'anno, ed è una gran bontà del signore d'aver così pietà de' suoi sudditi poveri. Perciò essi lo adorano come un Dio.» In oltre, tutto l'impero è amministrato con cura; le sue vie sono ben tenute e piantate d'alberi magnifici che servono sopra tutto a farle riconoscere nelle regioni deserte. In tal guisa, senza parlare delle foreste, il legno non manca agli abitanti del regno, e d'altra parte, nel bathay segnatamente, si sfruttano numerose miniere di carbon fossile che forniscono carbone in abbondanza. Marco Polo stette un tempo abbastanza lungo nella città di Cambaluc. Certo è che, colla sua viva intelligenza, col suo

spirito, la sua facilità ad assimilarsi i diversi idiomi dell'impero, egli piacque particolarmente all'imperatore. Incaricato di diverse missioni, non solo in China, ma anche nei mari dell'India, a Ceylan, alle coste del Coromandel e del Malabar e nella parte della Cocincina vicina al Cambodg, egli fu nominato, probabilmente nel 1277 al 1280, governatore della città di Yang-tcheu e delle altre ventisette città comprese sotto la sua giurisdizione. In grazia di queste missioni, egli percorse una grande estensione del paese e ne portò utili documenti tanto alla geografia quanto all'etnologia. Noi lo seguiremo facilmente, colla carta alla mano, in questi viaggi da cui la scienza doveva trarre un così gran profitto.

III. Tso-cheu — Tai-yen-fu — Pin-yang-fu — Il fiume Giallo — Si-gnan-fu — Lo Szu-tchuan — Ching-tu-fu — Il Thibet — Li-kiang-fu — Il Carajan — Yung-chang — Mien — Il Bengala — L'Annam — Il Taï-ping — Cintingui — Sind-fu — Té-cheu — Tsi-nan-fu — Lin-tsin-cheu — Lin-cing — Il Mangi — Yang-cheu-fu — Città del litorale — Quin-say o Hang-tcheu-fu — Il Fo-kien.

Marco Polo, dopo d'aver soggiornato a Cambaluc, fu incaricato d'una missione che lo doveva tener lontano dalla capitale quattro mesi. A dieci miglia di là da Cambaluc, scendendo verso il sud, attraversò il magnifico fiume del Peho-nor, ch'egli chiama Pulisanghi, sopra un bel ponte di marmo di ventiquattro arcate e lungo trecento passi, che non ha il simile nel mondo intero. A trenta miglia più giù, incontrò la città di Tso-cheu, città industriale nella quale si lavorava segnatamente il legno di sandalo. A dieci giornate da Tso-cheu, giunse nella città moderna di Tai-yen-fu, capitale del Shan-si, che fu un tempo sede d'un governo indipendente. Tutta questa provincia gli parve ricca di vigneti e di gelsi; la principale industria era allora la fabbricazione delle bardature per conto dell'imperatore. A sette giornate di là si trovava la bella città di Pianfu, oggi Pin-yang-fu, molto dedita al commercio ed al lavoro della seta. Marco Polo, dopo d'aver visitato questa città, giunse sulle sponde del celebre fiume Giallo, ch'egli chiama Caramoran o fiume Nero, probabilmente a causa del colore delle sue acque, oscurate dalle piante acquatiche; poi, a due giornate di là, egli incontrò la città di Cacianfu, la cui posizione moderna non potè essere rigorosamente determinata dai commentatori. Marco Polo, lasciando questa città, dove non vide nulla degno d'essere notato, cavalcò attraverso una bella regione coperta di castelli, di città, dì giardini, e molto ricca di selvaggiume. Dopo otto giorni di viaggio, giunse alla nobile

città di Quengianfu, l'antica capitale della dinastia dei Thang, la moderna città di Si-gnan-fu, ora capitale del Shen-si. Colà regnava il figlio dell'imperatore, Mangalai, principe giusto ed amato dal suo popolo, che occupava fuori della città un magnifico palazzo, costrutto in mezzo ad un parco, il cui muro merlato non misurava meno di cinque miglia di circonferenza. Da Si-gnan-fu, il viaggiatore si diresse verso il Thibet, attraverso la provincia moderna di Szu-tchuan, regione montagnosa, rotta da gran vallate, dove pullulano leoni, orsi, lupi-cervieri, daini, caprioli e cervi, e, dopo ventitré giorni di viaggio, si trovò sui confini della gran pianura di AcmelecMangi. Questo paese è fertile; esso dà in abbondanza ogni fatta di prodotti, e segnatamente il ginepro, di cui approvigiona tutta la provincia del Cathay. Ed è tale la fertilità del suolo che, secondo un viaggiatore francese, il signor M. E. Simon, l'ettaro vi si vende ora 30,000 franchi, ossia tre franchi il metro. Al XIII secolo, quella pianura era coperta di città e di castelli, e gli abitanti vi campavano dei frutti della terra, del prodotto dei bestiami e del selvaggiume, che forniva ai cacciatori una preda abbondante e facile. Marco Polo giunse allora alla capitale della provincia di Szu-tchuan, Sindafu, la moderna Ching-tu-fu, la cui popolazione passa ora un milione e cinquecentomila abitanti. Sindafu misurava allora venti miglia di circuito, ed era divisa in tre parti, circondate da un muro particolare, e ciascuna delle quali aveva un re innanzi che Kublai-Khan se ne fosse impadronito. Questa città era traversata dal gran fiume ricco di pesci del Kiang, largo come un mare, le cui acque erano solcate da un'incredibile quantità di navi. Fu dopo aver lasciato questa città commerciale ed industriosa che Marco Polo, facendo cinque giornate di cammino attraverso ampie foreste, giunse a quella provincia del Thibet ch'egli dice «essere molto desolata, giacché fu distrutta dalla guerra.»

Questo Thibet è popolato di leoni, d'orsi e d'animali feroci, da cui i viaggiatori si difenderebbero difficilmente, se non vi crescesse una gran quantità di canne meravigliosamente grosse e grandi, che non sono altro che bambù. In fatti «i mercanti ed i viaggiatori che percorrono quelle regioni, durante la notte pigliano di quelle canne e ne fanno un gran fuoco, perchè, quando ardono, fanno un tal chiasso e tali scricchiolii che i leoni, gli orsi e le altre belve, spaventate, fuggono lontano, e non si accosterebbero al fuoco per nulla al mondo; i viaggiatori dunque fanno questo fuoco per preservare i loro animali dalle belve, che sono comunissime in quel paese. Ora, ecco come si produce quel gran rumore: si pigliano di quelle canne verdissime, e se ne mettono molte sopra un fuoco di legna; dopo un certo tempo che sono sul fuoco, esse si attorcigliano e si fendono per mezzo, con un tal rumore che, di notte, lo si ode a dieci miglia lontano. E quando non si è avvezzi a questo chiasso, si resta sbalorditi, tanto è orribile; i cavalli che non lo hanno mai udito ne sono così spaventati che rompono corde e lacci e pigliano la fuga, il che accade spesso; ma quando si sa che non sono agguerriti a questo rumore, si bendano loro gli occhi e si legano loro i quattro piedi, di guisa che, all'udire quel frastuono, non possono fuggirsene. È in tal guisa che gli uomini sfuggono coi loro animali, ai leoni, agli orsi ed alle altre male bestie, che sono numerosissime in quel paese.» Il metodo riferito da Marco Polo è usato ancora nelle regioni che producono il bambù, e, veramente, il crepitío di queste canne divorato dalle fiamme può essere paragonato ai più rumorosi petardi d'un fuoco d'artifizio. Stando alla relazione del viaggiatore veneziano, il Thibet è una grandissima provincia, che ha il suo linguaggio particolare, ed i cui abitanti idolatri formano una razza di ladroni formidabili. Essa è traversata da un fiume importante, il Khincha-kiang, dalle sabbie aurifere. Vi si raccoglie in gran quantità

il corallo, di cui gli idoli e le donne del paese fanno gran consumo. Il Thibet era allora sotto la dominazione del gran khan. Marco Polo, lasciando Sindafu, si diresse all'ovest. Egli traversò così il regno di Gaindu e giunse probabilmente a Likiang-fu, capitale di quella regione che forma oggi il paese di Si-mong. In questa provincia, visitò un bel lago che produceva delle ostriche perlifere, la cui pesca era riservata all'imperatore. È un paese in cui il garofano, il ginepro, la cannella ed altre spezie danno abbondanti raccolti. Lasciando il regno di Gaindu, e dopo d'aver traversato un gran fiume, forse l'Irrauady, Marco Polo, tornando al sud-est, penetrò nella provincia del Carajan, regione che forma probabilmente la parte nord-ovest dell'Yun-nan. Stando a lui, gli abitanti di questa provincia, quasi tutti cavalieri, vivrebbero della carne cruda dei polli, dei montoni, dei bufali o dei buoi; questo modo d'alimentazione sarebbe generale, ed i ricchi condirebbero soltanto la carne cruda con una salsa d'aglio e buone spezie. Questo regno era pure frequentato da gran bisce e da serpenti orribili a vedersi. Questi rettili, — probabilmente alligatori, — erano lunghi dieci passi; essi avevano due gambe armate d'un'unghia, poste davanti, presso la testa, che era smisuratamente grande, e la cui gola poteva inghiottire un uomo in un boccone. A cinque giornate all'ovest di Carajan, Marco Polo, dirigendosi di nuovo al sud, entrò nella provincia di Zardandan, la cui capitale, Nocian, forma la moderna città di Yung-chang. Tutti gli abitanti di questa città avevano denti d'oro, vale a dire che usava allora di ricoprire i denti di piccole lamelle d'oro, che si toglievano quando si voleva mangiare. Gli uomini di quella provincia, tutti cavalieri, non fanno che «uccellare, cacciare ed andare alla guerra;» i lavori faticosi appartengono alle donne ed agli schiavi. Questi Zardandaniani non hanno né idoli né

chiese, ma adorano il più vecchio della famiglia, vale a dire il patriarca. Il regolamento dei loro fornitori si fa per mezzo di cocchi simili a quelli di cui si servono i fornai francesi. Essi non hanno medici, ma soltanto degli incantatori che saltano, danzano e suonano degli strumenti presso gli infermi finché muoiano o siano guariti. Lasciando la provincia degli uomini dai denti d'oro, Marco Polo, seguendo per due giorni la gran via che serve al traffico tra l'India e l'Indo-China, passò per Bamo, dove si faceva, tre volte la settimana, un gran mercato che attirava tutti i mercanti dei paesi più lontani. Dopo d'aver cavalcato quindici giorni in mezzo a foreste piene di elefanti, di liocorni e d'altri animali selvatici, egli giunse alla città di Mien, vale a dire a quella parte dell'alto Birman, la cui capitale odierna, di costruzione recente, è chiamata Amrapura. Questa città di Mien, che è forse l'antica città d'Ava, ora ruinata, o la vecchia Paghan, posta sull'Irrauady, possedeva una vera meraviglia d'architettura; erano due torri costrutte l'una di belle pietre e tutta coperta d'una lama d'oro grossa un dito, rivestita l'altra d'una lama d'argento, entrambe destinate a servire di tomba al re di Mien, prima che il suo regno fosse caduto in potere del khan. Dopo d'aver visitato questa provincia, Marco Polo scese fino al Bangala, il Bengala odierno, che a quel tempo, nel 1290, non apparteneva ancora a Kublai-Khan. Gli eserciti dell'imperatore erano allora occupati a conquistare quel paese fertile, ricco di cotone, di ginepro, di canne da zuccaro, ed i cui magnifici buoi eguagliavano gli elefanti per la grossezza. Poi, di là, il viaggiatore si avventurò fino alla città di Gancigu, nella provincia di questo nome, probabilmente l'odierna città di Kassay. Gli abitanti di questo regno si tatuavano il corpo, e, per mezzo d'aghi, si disegnavano sulla faccia, sul collo, sul ventre, sulle mani e sulle gambe, delle immagini di leoni, di draghi e d'uccelli, considerando come il più bello degli esseri umani

colui che portava in tal guisa il maggior numero di pitture. Cancigu è il punto estremo a cui sia giunto nel sud Marco Polo in questo viaggio. Da questa città, egli risali verso il nordest, e per il paese di Amu, l'Annâm ed il Ton-kin odierno, a cui giunse dopo quindici giorni di cammino, egli arrivò nella provincia di Toloman, oggi il dipartimento di Taï-ping. Colà, trovò quei begli uomini, bruni di pelle, quei valorosi guerrieri che hanno coronate le loro montagne di castelli forti, ed il cui nutrimento consueto è la carne degli animali, il latte, il riso e le spezie. Lasciando Toloman, Marco Polo seguì per dodici giorni un fiume costeggiato da numerose città. Qui, il signor Charton fa giustamente osservare che il viaggiatore si allontana dal paese conosciuto sotto il nome d'India di là dal Gange, e che torna verso la China. Infatti, dopo aver lasciato Toloman, Marco Polo visitò la provincia di Guigui o Cintingui e la sua capitale che porta il medesimo nome. Ciò che più lo impressiona in questa regione, — e si ha ragione di credere che l'ardito esploratore fosse anche cacciatore animoso, — è il gran numero di leoni che percorrevano le pianure e le montagne. Soltanto, i commentatori sono concordi su questo punto che i leoni di Marco Polo dovevano essere tigri, giacché in China non vi sono leoni. Ecco, per altro, ciò che ne dice la relazione: «Vi sono tanti leoni in questo paese che non si può dormire fuori di casa senza pericolo d'essere divorati. Ed anche quando si va sul fiume, o di notte uno si arresta in qualche parte, bisogna aver cura di dormire lungi dalla terra, giacché senza di ciò i leoni vengono fino alla barca, s'impadroniscono d'un uomo e lo mangiano. E gli abitanti, che lo sanno bene, hanno cura di guardarsene. Questi leoni sono grossi e pericolosi; ma ciò che è meraviglioso, si è che in questa regione vi sono dei cani abbastanza arditi da assalire dei leoni, ma bisogna che siano due, giacché un uomo e due cani riescono a vincere un

grosso leone.» Da questa provincia, Marco Polo risalì direttamente a Sindifu, la capitale della provincia di Szu-tchuan, donde si era slanciato per compiere la sua escursione nel Thibet, e, ripigliando la via già percorsa, tornò presso Kublai-Khan, dopo d'aver felicemente compiuta la sua missione nell'Indo-China. È verosimile che allora Marco Polo fosse incaricato dall'imperatore d'un'altra missione nella parte sud-est della China, «la parte più ricca e più commerciante di quell'ampio impero, dice il signor M. Pauthier nella sua bell'opera sul viaggiatore veneziano, e quella pure sulla quale, dal XVI secolo, si ottennero in Europa maggiori notizie.» Riferendoci all'itinerario tracciato sulla carta dal signor M. Pauthier, Marco Polo, lasciando Cambaluc, si diresse al mezzodì verso l'industriosa città di Ciangli, probabilmente la città di Té-cheu, a sei giornate di là, verso Condinfu, la città odierna di Tsi-nan-fu, capitale della provincia di Chan-tung, dove nacque Confucio. Era allora una gran città, la più nobile di tutte quelle regioni, visitatissima dai mercanti di seta, ed i cui meravigliosi giardini producevano gran quantità di frutti eccellenti. A tre giornate di cammino da Condinfu, Marco Polo trovò la città di Lin-tsin-cheu, posta al principio del gran canale Yun-no, e luogo di ritrovo delle innumerevoli navi che portano tante mercanzie nelle provincie del Mangi e del Cathay. Otto giorni dopo, egli traversava Ligui, che sembra corrispondere all'odierna Lin-cing, Pi-ceu, città commerciale della provincia di Tchiang-su, poi Cingui, e giungeva a quel Caramoran, quel fiume Giallo ch'egli aveva già traversato nel suo corso superiore quando si dirigeva verso l'Indo-China. In questo punto, Marco Polo non era a più d'una lega dalla foce di questa grande arteria chinese. Dopo d'averla valicata, il viaggiatore si trovò nella provincia di Mangi, territorio designato sotto il nome d'impero dei Song.

Questo regno di Mangi, prima d'appartenere a KublaiKhan, era governato da un re pacifico, che non amava le crudeltà della guerra, e si mostrava pietoso verso gl'infelici. Ecco in quali termini Marco Polo ne parla, ed egli lo fa in così

buon modo che vogliamo dare il testo medesimo del suo racconto. «Quest'ultimo imperatore della dinastia dei Song poteva spender tanto che era una cosa prodigiosa; ed io vi narrerò di lui due tratti nobilissimi. Ogni anno, egli faceva nutrire ventimila fanciulli, giacché è usanza, in quelle

provincie, che le povere donne gettino via i loro fanciulli appena sono nati, quando non li possono nutrire. Il re li faceva raccoglier tutti, iscriveva sotto qual segno o sotto qual pianeta erano nati, poi li dava a nutrire in diversi luoghi, giacché vi sono nutrici in gran numero. Quando un uomo ricco non aveva

figli, veniva dal re e se ne faceva dare quanti voleva e quelli che preferiva. Poi il re, quando i fanciulli e le fanciulle erano in età d'andare a nozze, li accoppiava insieme e dava loro il tanto da vivere; ed in questo modo, ogni anno ne allevava ben ventimila, tanto maschi quanto femmine. Quando egli andava

per qualche via e vedeva una piccola casa in mezzo a due grandi, chiedeva perchè quella piccola casa non fosse grande come le altre, e se gli si diceva che era perchè apparteneva ad un pover'uomo che non poteva farla costrurre, subito la faceva fare bella ed alta quanto le altre. Questo re si faceva sempre servire da mille giovanetti e da mille giovanette. Egli manteneva una giustizia così severa nel suo regno, che mai vi si commetteva delitto; di notte, le case dei mercanti rimanevano aperte, e nessuno vi rubava; si poteva pure viaggiare di notte al pari che di giorno.» All'ingresso della provincia del Mangi, Marco Polo incontrò la città di Coigangui, ora Hoaï-gnan-fu, che è situata sulle sponde del fiume Giallo, e la cui principale industria è la fabbricazione del sale, che ricava da'suoi acquitrini salati. Ad una giornata da questa città, seguendo una carreggiata costrutta di belle pietre, il viaggiatore giunse alla città di Pau-in-chen, rinomata per i suoi drappi d'oro, alla città di Caiu, ora Kao-yu, i cui abitanti sono abili pescatori e cacciatori, poi alla città di Tai-cheu, dove vengono navi in gran numero, e giunse finalmente nella città di Yangui. Questa città di Yangui è la moderna Yang-cheu-fu, di cui Marco Polo fu governatore per tre anni. È una città popolosissima e molto commerciante, che non misura meno di due leghe di circuito. Fu da Yangui che Marco Polo partì per diverse esplorazioni che gli permisero di studiare tanto minuziosamente le città del litorale e dell'interno. Dapprincipio, il viaggiatore si diresse all'ovest e giunse alla città di Nan-ghin, che non bisogna confondere col Nanking d'oggidì. Il suo nome moderno è Ngan-khing; essa è situata in una provincia fertilissima. Marco Polo, addentrandosi più ancora nella medesima direzione, giunse a Saianfu, la moderna città di Siang-yang, costrutta nella parte settentrionale della provincia di Hu-kuang. Fu questa l'ultima città del Mangi

che resistette alla dominazione di Kublai-Khan. L'imperatore l'assediò per tre anni, e non s'impadronì della città così ben difesa se non in grazia del concorso dei tre Polo, che costrussero delle baliste poderose e schiacciarono gli assediati sotto una grandinata di sassi, alcuni dei quali pesavano fino trecento libbre. Da Saianfu, Marco Polo tornò indietro per esplorare le città del litorale, e rientrò senza dubbio a Yang-tcheu. Egli visitò Singui (Kiu-kiang), posta sul Kiang, largo una lega in quel punto, e che riceve perfino cinquemila navi alla volta, Kain-gui, che approvigiona di grano la maggior parte della corte dell'imperatore, Cinghianfu (Chingiam), dove si vedevano due chiese di cristiani nestoriani, Ginguigui, ora Tchang-tcheu-fu, città commerciante ed industriale, e Singui, ora Su-tcheu o Su-cheu, gran città, la cui circonferenza è di sei leghe, e che, secondo la relazione molto esagerata del viaggiatore veneziano, non possedeva allora meno di seimila ponti. Dopo d'aver soggiornato qualche tempo a Vugui, probabilmente Hu-tcheu-fu, ed a Ciangan, oggi Kia-hing, Marco Polo, dopo tre giornate di viaggio, entrò nella nobile città di Quin-say. Questo nome significa la «Città del cielo,» e quest'importante capitale si chiama ora Hang-tcheu-fu. Essa ha sei leghe di circuito ed è traversata dal fiume Tsien-tang-kiang, che, ramificandosi all'infinito, fa di Quinsay un'altra Venezia. Quest'antica capitale dei Song è quasi popolata quanto Pe-king; le sue vie sono lastricate di pietre e di mattoni; vi si contano, secondo Marco Polo, «seicentomila case, quattromila stabilimenti di bagni e dodicimila ponti di pietra.» In questa città vivono i più ricchi mercanti del mondo colle loro mogli, che sono «belle ed angeliche creature.» È la residenza d'un vice-re, che governa per conto dell'imperatore più di centoquaranta città. Vi si vedeva ancora il palazzo del sovrano

del Mangi, circondato di bei giardini, di laghi e di fontane, e contenente più di mille camere. Il gran khan ricava da questa città e dalla provincia immense rendite, ed è a milioni di franchi che bisogna valutare la sola rendita del sale, dello zuccaro, delle spezie e della seta, che sono i principali prodotti del paese. Ad una giornata al sud di Quinsay, dopo d'aver percorso un paese delizioso, Marco Polo visitò Tanpigui (Chao-hing-fu), Vugui (Hu-tcheu), Ghengui (Kui-tcheu), Cianseian (Yentcheu-fu secondo il signor Charton, Souï-tchang-fu secondo il signor Pauthier), e Cugui (Kiou-tcheu), l'ultima città del regno di Quinsay, poi entrò nel regno di Fugui, la cui città principale, del medesimo nome, è oggi Fu-cheu-fu, la capitale della provincia di Fo-kien. Secondo lui, gli abitanti di questo regno sarebbero uomini d'armi crudeli, che non risparmiano mai i loro nemici, che bevono il loro sangue e mangiano la loro carne. Dopo d'aver traversato Quenlifu (Kien-ning-fu) e Unguen, Marco Polo fece il suo ingresso nella capitale Fugui, verosimilmente la moderna città di Kuang-tcheu, il nostro Canton, che fa un grandissimo commercio di perle e di pietre preziose, e, dopo cinque giornate di cammino, giunse al porto di Zaitem, molto probabilmente la città chinese di Tsuen-tcheu, punto estremo visitato da lui in questa esplorazione della China sud-orientale.

IV. Il Giappone — Partenza dei tre Polo colla figlia dell'imperatore e gli ambasciatori persiani — Saigon — Giara — Condor — Bintang — Sumatra — Le Nicobar — Ceylan — La costa di Coromandel— La costa di Malabar — Il mar d'Oman — L'isola di Socotora — Madagascar — Zanzibar e la costa africana — L'Abissinia — L'Yemen, l'Hadramau e l'Oman — Ormuz — Ritorno a Venezia — Una festa nella casa dei Polo — Marco Polo prigioniero dei Genovesi — Morte di Marco Polo, verso il 1323.

Marco Polo, dopo d'aver felicemente terminato questa esplorazione, tornò senza dubbio alla corte di Kublai-Khan. Egli fu ancora incaricato di diverse missioni che la sua cognizione delle lingue mongola, turca, mansciura e chinese rendeva facili. Egli fece parte probabilmente d'una spedizione intrapresa nelle isole dell'India, e consegnò al suo ritorno un rapporto minuzioso sulla navigazione di quei mari ancora poco conosciuti. I diversi incidenti della sua vita non sono chiaramente determinati a partire da questo tempo. La sua relazione dà particolari minuziosi sull'isola di Cipangu, nome applicato al gruppo d'isole che compongono il Giappone; ma non pare ch'egli sia andato in quel regno. Il Giappone era allora un paese rinomato per le sue ricchezze, e verso il 1264, alcuni anni innanzi l'arrivo di Marco Polo alla corte tartara, Kublai-Khan aveva tentato di conquistarlo. La sua flotta giunse felicemente e s'impadronì d'una cittadella, i cui difensori furono passati a fil di spada; ma una tempesta disperse le navi tartare, e la spedizione non produsse alcun risultato. Marco Polo narra questo tentativo diffusamente, e cita diversi particolari relativi ai costumi dei Giapponesi. Frattanto, da diciassette anni, senza contare gli anni impiegati nel viaggio dall'Europa alla China, Marco Polo, suo zio Matteo e suo padre Nicolò erano al servizio dell'imperatore. Essi avevano un gran desiderio di rivedere la patria, ma

Kublai-Khan, che apprezzava molto i loro meriti, non poteva indursi a lasciarli partire. Egli fece di tutto per vincere la loro risoluzione, ed offrì loro immense ricchezze se acconsentissero a non lasciarlo mai. I tre Veneziani persistettero nel disegno di tornare in Europa, ma l'imperatore rifiutò assolutamente d'aderire alla loro partenza. Marco Polo non sapeva come ingannare la sorveglianza di cui era oggetto, quando un incidente fece mutar d'avviso Kublai-Khan, Un principe mongolo, Arghun, che regnava in Persia, aveva mandato un'ambasciata all'imperatore per chiedergli in moglie una principessa del sangue reale. Kublai-Khan accordò al principe Arghun la mano di sua figlia Cogatra, e la fece partire con un seguito numeroso. Ma le regioni che la scorta cercò di traversare per recarsi in Persia non erano sicure; dei turbamenti, delle ribellioni, arrestarono a breve andare la carovana, che dovette tornare, alcuni mesi dopo, alla residenza di Kublai-Khan. Fu allora che gli ambasciatori persiani udirono parlare di Marco Polo come d'un navigatore istruito, che aveva una certa abitudine dell'oceano Indiano, e supplicarono l'imperatore di confidargli la principessa Cogatra, affinchè la conducesse al suo fidanzato attraversando quei mari, meno pericolosi del continente. Kublai-Khan si arrese finalmente a questa domanda, non senza difficoltà. Egli fece equipaggiare una flotta di quattordici navi a quattro alberi, e l'approvigionò per un viaggio di due anni. Alcune di queste navi contavano dugentocinquanta uomini d'equipaggio; era, come si vede, una spedizione importante, degna dell'opulento sovrano dell'impero chinese. Matteo, Nicolò, Marco Polo partirono colla principessa Cogatra e gli ambasciatori persiani. Fu in questa traversata, che non durò meno di diciotto mesi, che Marco Polo visitò le isole della Sonda e dell'India, di cui egli fa una descrizione compiuta? lo si può ammettere fino ad un certo punto,

segnatamente per quanto concerne Ceylan ed il litorale della penisola indiana. Noi lo seguiremo dunque in tutto il corso della sua navigazione, e riferiremo le descrizioni ch'egli dà di quei paesi, imperfettamente conosciuti fino allora. Fu verso il 1201 od il 1202 che la flotta, comandata da Marco Polo, lasciò il porto di Zaitem, a cui il viaggiatore era giunto nei suoi viaggi attraverso le provincie meridionali della China. Da questo punto, egli si diresse diffilato verso la vasta regione di Cianba, situata al sud della Cocincina, che comprende l'odierna provincia di Saigon, appartenente alla Francia. Il viaggiatore veneziano aveva già visitato questa provincia, probabilmente verso l'anno 1280, compiendo una missione di cui l'imperatore lo aveva incaricato. A quel tempo, Cianba era tributario del gran khan, e gli pagava un tributo annuale consistente in un certo numero d'elefanti. Quando Marco Polo percorse quel paese innanzi la conquista, il re che lo governava non aveva meno di trecentoventìsei figli, di cui centocinquanta erano in grado di portar le armi. Lasciando la penisola cambodgiana, la flotta si diresse verso la piccola isola di Giava, di cui Kublai-Khan non aveva mai potuto impadronirsi, isola che possedeva gran ricchezze, e che produceva in abbondanza il pepe, le noci moscate, il cubebe, il garofano ed altre spezie preziose. Dopo d'essersi arrestato a Condor ed a Sandur, all'estremità della penisola cocincinese, Marco Polo giunse all'isola di Pentam (Bintang) situata presso l'ingresso orientale del distretto di Malacca, e all'isola di Sumatra, ch'egli chiama Giava-la-Piccola. «Quest'isola è tanto a mezzodì, dice egli, che non vi si vede mai la stella polare» — il che è vero per gli abitanti della sua parte meridionale. È una regione fertile, dove l'aloe cresce meravigliosamente, dove s'incontrano elefanti selvatici, rinoceronti, che Marco Polo chiama liocorni, e scimmie che vanno a greggi numerosi. La flotta fu trattenuta cinque mesi su

queste spiaggie a causa del brutto tempo, ed il viaggiatore approfittò di questo tempo per visitare le principali provincie dell'isola, come Samara, Dagraian, Labrin, che conta gran numero d'uomini coduti, — evidentemente scimmie, — e Fandur, vale a dire l'isola Panchor, dove cresce il sagù, dal quale si ricava una farina che serve a fabbricare un pane eccellente. Finalmente, i venti permisero alle navi di lasciare Giavala-Piccola. Dopo d'aver toccato l'isola Necaran, che deve essere una delle Nicobar, ed il gruppo delle Andaman, i cui naturali sono ancora antropofagi come al tempo di Marco Polo, la flotta, pigliando la direzione del sud-ovest, venne ad approdare alla costa di Ceylan. «Quest'isola, dice la relazione, era molto più grande una volta, giacché aveva tremila e seicento miglia, stando a quanto si vede sul mappamondo dei piloti di questo mare; ma il vento del nord soffia così forte in quei paraggi, che ha fatto affondare una parte dell'isola sotto l'acqua,» tradizione che si trova ancora fra gli abitanti di Ceylan. È là che si raccolgono abbondantemente i «nobili e buoni» rubini, i zaffiri, i topazi, le amatiste ed altre pietre preziose, come granate, opale, agate e sardoniche. Il re del paese possedeva a quel tempo un rubino lungo un palmo, grosso come il braccio d'un uomo, vermiglio come il fuoco, e che il gran khan volle invano comperare a quel sovrano al prezzo d'una città. A sessanta miglia all'ovest di Ceylan, i navigatori incontrarono la gran provincia di Maabar, che non bisogna confondere col Malabar, posto sulla costa occidentale della penisola indiana. Questo Maabar forma il sud della costa di Coromandel, molto stimata per le sue pesche di perle. Colà funzionano degli incantatori, che rendono i mostri marini innocqui ai pescatori, specie d'astrologhi la cui razza si è perpetuata fino ai tempi moderni. Marco Polo dà qui interessanti particolari sui costumi degli indigeni, sulla morte

dei re del paese, in onore del quale i signori si gettano nel fuoco, sui suicidi religiosi, che sono frequenti, sul sacrificio delle vedove che il rogo aspetta alla morte del marito, sulle abluzioni bi-cotidiane di cui la religione fa un dovere, sull'attitudine di quegli indigeni a diventare buoni fisionomisti, sulla loro confidenza nelle pratiche degli astrologhi e degli indovini. Dopo d'aver soggiornato sulla costa del Coromandel, Marco Polo risali al nord fino al regno di Muftili, la cui capitale è ora la città di Masuli-patam, città principale del regno di Golconda. Questo regno era saviamente governato da una regina, vedova, da quarant'anni, che volle rimaner fedele alla memoria del suo sposo. In quel paese, erano aperte al traffico ricche miniere di diamanti, che sono poste nelle montagne, disgraziatamente infestate da gran numero di serpenti. Ma i minatori, per raccogliere quelle pietre preziose, senza aver nulla a temere dei rettili, hanno immaginato un modo bizzarro, di cui si può a buon diritto porre in dubbio l'eccellenza. «Essi pigliano molti pezzi di carne, dice il viaggiatore, e li gettano in quei precipizi diruti dove nessuno può giungere. Questa carne cade sui diamanti, che vi si attaccano. Ora, nelle montagne vivono delle aquile bianche che danno la caccia ai serpenti; quando queste aquile vedono la carne in fondo ai precipizi, le si fanno addosso e la portano su; ma gli uomini, che hanno seguito i movimenti dell'aquila, appena la vedono posata ed intenta a mangiare la carne, mandano gran grida; l'aquila spaventata vola via senza portar seco la preda, per paura d'essere sorpresa dagli uomini; allora questi accorrono, pigliano la carne e raccolgono i diamanti che vi sono attaccati. Spesso anche, quando l'aquila ha mangiato i pezzi di carne, rigetta i diamanti coi suoi escrementi, di guisa che se ne trovano nel loro fimo.» Dopo d'aver visitato la piccola città di San-Thomé, situata

ad alcune miglia al sud di Madras, nella quale riposa il corpo di San Tommaso l'apostolo, Marco Polo esplorò il regno del Maabar, e più particolarmente la provincia di Lar, donde sono originari tutti gli «abrajamani» del mondo, probabilmente i Brahmani. Questi uomini, secondo la relazione, vivono fino ad età assai tarda, in grazia della loro sobrietà e della loro astinenza; alcuni dei loro monaci giungono fino a centocinquanta o dugento anni, non mangiando che riso e latte, e bevendo un miscuglio di zolfo ed argento vivo. Questi brahmani sono mercanti abili, superstiziosi per altro, ma d'una notevole schiettezza; essi non rubano niente a nessuno, non ammazzano alcuna creatura vivente, qualunque sia, e adorano il bue, che è per essi un animale sacro. Da questo punto della costa, la flotta tornò a Ceylan dove, nel 1284, Kublai-Khan aveva mandato un'ambasciata, che gli portò alcune pretese reliquie di Adamo, e fra le altre, i suoi due denti molari; giacché, stando alle tradizioni dei Saraceni, la tomba del nostro primo padre è posta sulla vetta della montagna scoscesa, che forma il principale rilievo dell'isola. Perduta di vista Ceylan, Marco Polo si recò a Cail, porto che sembra sia scomparso dalle carte moderne, ed al quale approdavano allora tutte le navi che venivano da Ormuz, da Kis, d'Aden e dalle coste dell'Arabia. Di là, doppiando il capo Comorin, punta della penisola, i navigatori giunsero in vista di Coilum, la Culam moderna, che era, nel secolo XIII, una città molto commerciale. È là che si raccoglie segnatamente il legno di sandalo, l'indaco, ed i mercanti del Levante e del Ponente vi vengono a trafficare in gran numero. Il paese del Malabar è fertilissimo di riso; gli animali selvaggi non vi mancano, come i leopardi, che Marco Polo chiama «leoni neri,» poi dei pappagalli di diverse specie, e dei pavoni che sono incomparabilmente più belli dei loro congeneri d'Europa. La flotta, lasciando Coilum e seguendo verso il nord la

costa del Malabar, giunse sulle spiaggie del regno d'Eli, che trae il suo nome da una montagna posta sul limite del Kanara e del Malabar; colà si raccolgono il ginepro, lo zafferano ed altre spezie. Al nord di questo regno si stendeva quella regione che

il viaggiatore veneziano chiama Melibar, e che è situata al nord del Malabar propriamente detto. Le navi dei mercanti del Mangi venivano di frequente a trafficare cogli indigeni di quella parte dell'India, che fornivano loro dei carichi di spezie eccellenti, dei bugraui preziosi ed altre mercanzie di valore; ma

le loro navi erano troppo spesso saccheggiate dai pirati della costa, che passavano giustamente per gente di mare formidabile. Questi pirati abitavano in ispecie la penisola di Gohurat, oggi Gusgiarat, verso la quale la flotta si diresse dopo d'aver avuto cognizione del Tanat, regione in cui si raccoglie

l'incenso bruno, e di Canbaot, ora Kambayet, città che fa un importante traffico di cuoi. Dopo d'aver visitato Smnenat, città della penisola, i cui abitanti sono idolatri, crudeli e feroci, poi Kesmacoran. probabilmente la città odierna di Kedge, capitale della regione del Makran posta all'est dell'Indo, presso al mare,

e l'ultima città dell'India tra l'occidente ed il nord, Marco Polo, invece di risalire verso la Persia, dove lo aspettava il fidanzato della principessa tartara, si slanciò verso l'ovest attraverso il vasto mar d'Oman. La sua insaziabile passione di esploratore lo trasse così per cinquecento miglia fino alle coste dell'Arabia, dove si fermò alle isole Maschio e Femmina, così chiamate perchè una è unicamente abitata dagli uomini, l'altra dalle loro donne che non visitano se non durante i mesi di marzo, aprile e maggio. Lasciando queste isole, la flotta fece vela al sud verso l'isola di Socotora, situata all'ingresso del golfo d'Aden, e di cui Marco Polo riconobbe diverse parti. Egli parla degli abitanti di Socotora come d'abili incantatori, che coi loro incantesimi ottengono tutto ciò che vogliono e comandano agli uragani ed alle tempeste. Poi, scendendo ancora mille miglia Terso il sud, spinse la lotta fino alle spiaggia di Madagascar. Agli occhi del viaggiatore, Madagascar è una delle più grandi e nobili isole che siano al mondo. I suoi abitanti sono molto dediti al commercio, e segnatamente al traffico dei denti d'elefante. Essi si nutrono a preferenza di carne di cammello, che è carne migliore e più sana di qualsiasi altra. I mercanti che vengono dalle coste dell'India non impiegano che venti giorni a traversare il mar d'Oman; ma quando ritornano, abbisognano loro almeno tre mesi a causa delle correnti contrarie che tendono incessantemente a ricacciarli nel sud. Non di meno frequentano quest'isola, giacché essa fornisce loro il legno di sandalo, di cui esistono intere foreste, e l'ambra, ch'essi barattano con drappi d'oro e di seta, ricavandone gran profitto. Gli animali selvatici e la selva non mancano a quel regno, stando a quanto ne dice Marco Polo; leopardi, orsi, leoni, cervi, cinghiali, giraffe, asini selvatici, caprioli, daini, bestiami, vi si incontrano a frotte numerose; ma ciò che gli parve meraviglioso, fu quel preteso grifone, quel «roc» di cui tanto si

parla nelle Mille ed una Notte, che, dice egli, non è, come si crede generalmente, un animale metà leone e metà uccello, capace di sollevare un elefante fra i suoi artigli. Questo uccello così meraviglioso era probabilmente quell'épyornis maximus, di cui si trovano ancora delle uova a Madagascar. Da quest'isola, Marco Polo, risalendo verso il nord-ovest, venne a prender cognizione della costa africana. Gli abitanti gli parvero smisuratamente grossi, ma forti e capaci di portare il carico di quattro uomini, «il che non è meraviglioso, giacché mangiano per cinque.» Questi indigeni erano negri, e camminavano tutti nudi; avevano la bocca grande, il naso rincagnato, le labbra e gli occhi grossi, descrizione esatta che conviene ancora ai naturali di quella parte dell'Africa. Questi Africani vivono di riso, di carne, di latte, di datteri, e fabbricano il loro vino col riso, lo zuccaro e le spezie. Sono guerrieri valorosi che non temono la morte; essi combattono sopra cammelli ed elefanti, armati d'uno scudo di cuoio, d'una spada e d'una lancia, ed eccitano le loro cavalcature ubbriacandole con una bevanda alcoolica. Al tempo di Marco Polo, stando all'osservazione del signor Charton, i paesi compresi sotto la denominazione d'India, si suddividevano in tre parti: l'India maggiore, vale a dire l'Indostan e tutto il paese situato fra il Gange e l'Indo; l'India minore, vale a dire quella regione situata di là dal Gange, e compresa dalla costa ovest della penisola fino alla costa della Cocincina; finalmente l'India media, vale a dire l'Abissinia e le coste arabiche fino al golfo Persico. Lasciando Zanzibar fu dunque quest'India media di cui Marco Polo, risalendo al nord, esplorò il litorale, e dapprima l'Abasia o Abissinia, dove si fabbricano bei drappi di cotone e di bugrane, e che è un paese ricchissimo. Poi, la flotta andò fino al porto di Zeila, quasi all'entrata dello stretto di Bab-elMandeb, e finalmente, seguendo le spiaggia dell'Yemen e

dell'Hadramaut, essa riconobbe Aden, porto frequentato da tutte le navi che commerciano coll'India e colla China, Escier, gran città che esporta gran numero di cavalli eccellenti, Dafàr, che produce un incenso di prima qualità, Calatu, ora Kalájàt, situata sulla costa d'Oman, e finalmente Cormos, vale a dire Ormuz, che Marco Polo aveva già visitata, quando si recò da Venezia alla corte del re tartaro. È in questo porto del golfo Persico che terminò la traversata della flotta equipaggiata per cura dell'imperatore mongolo. La principessa era finalmente sui confini della Persia, dopo una navigazione che non aveva durato meno di diciotto mesi. Ma in quel momento, il suo fidanzato, il principe Arghun, era morto, ed il regno era insanguinato dalla guerra civile. La principessa fu dunque consegnata al figlio d'Arghun, il principe Ghazan, che non salì al trono se non nel 1295, quando l'usurpatore, fratello d'Arghun, fu strangolato. Che cosa avvenisse della principessa, si ignora; ma, prima di separarsi da Marco, da Nicolò e da Matteo Polo, essa lasciò loro dei segni del suo alto favore. Fu probabilmente mentre era in Persia che Marco Polo raccolse i suoi documenti curiosi sulla gran Turchia. Sono frammenti senza seguito ch'egli dà alla fine della sua relazione, vera storia dei khan mongoli della Persia. Ma i suoi viaggi di esplorazione erano terminati. Preso commiato dalla principessa tartara, i tre Veneziani, ben scortati e pagati d'ogni spesa, presero la via di terra per tornare in patria. Si recarono a Trebisonda, da Trebisonda a Costantinopoli, da Costantinopoli a Negroponte, e s'imbarcarono per Venezia. Fu nel 1295, ventiquattro anni dopo d'averla lasciata, che Marco Polo rientrò nella sua città natale. I tre viaggiatori, arsi dal sole, grossolanamente vestiti di stoffe tartare, avendo conservato modi ed usanze mongole, disavvezzi dal parlare la lingua veneziana, non furono riconosciuti, neppure dai loro più

prossimi parenti. Del resto, da un pezzo era corsa la voce della loro morte, e si credeva di non doverli rivedere mai più. Essi si recarono a casa loro, nel quartiere di San Giovanni Crisostomo, e la trovarono occupata da diversi membri della famiglia Polo. Costoro accolsero i tre viaggiatori con molta diffidenza, giustificata certamente dal loro aspetto miserando, e non diedero fede ai racconti un po' straordinari che fece Marco Polo. Tuttavia, in seguito alle loro istanze, li ammisero in quella casa, di cui erano i legittimi possessori. Alcuni giorni dopo, Nicolò, Matteo e Marea, volendo distruggere ogni minimo sospetto sulla loro identità, diedero un magnifico desinare seguito da una splendida festa. Essi convitarono i diversi membri della famiglia ed i più gran signori di Venezia. Quando tutti questi invitati furono riuniti nella sala di ricevimento, i tre Polo apparvero vestiti di vesti di raso cremisino. I commensali passarono nella sala del pasto, ed incominciò il banchetto. Dopo la prima portata, Marco Polo, suo padre e suo zio si ritirarono un istante e ritornarono splendidamente vestiti di sontuose stoffe di damasco che lacerarono e distribuirono a pezzi ai loro invitati. Dopo la seconda portata, si vestirono di panni ancor più ricchi, fatti di velluto cremisino, che serbarono fino alla fine della festa. Riapparvero allora semplicemente vestiti alla moda veneziana. I commensali stupiti da questo lusso di vestimenta, non sapevano che cosa i loro anfitrioni volessero fare, quando costoro fecero portare gli abiti grossolani che avevano loro servito durante il viaggio; poi, scucendoli e strappando le fodere, ne fecero cadere a terra dei rubini, dei zaffiri, degli smeraldi, dei carbonchi, dei diamanti, tutte pietre preziose del massimo valore. Quei cenci nascondevano immense ricchezze. L'inaspettato spettacolo dissipò ogni dubbio; i tre viaggiatori furono immediatamente riconosciuti per quelli che erano veramente, Marco, Nicolò, Matteo Polo, ed i più sinceri

complimenti furono loro prodigati da ogni parte. Un uomo celebre quanto Marco Polo non poteva sfuggire agli onori civici. Egli fu chiamato alla prima magistratura di Venezia, e siccome egli parlava senza tregua dei «milioni» del gran khan, che comandava a «milioni» di sudditi, fu chiamato egli medesimo Messer Milione. Fu verso quel tempo, nel 1296, che scoppiò una guerra tra Venezia e Genova. Una flotta genovese, comandata da Lamba Doria, solcava i flotti dell'Adriatico e minacciava il litorale. L'ammiraglio veneziano, Andrea Dandolo, armò subito una flotta più numerosa della flotta genovese, ed affidò il comando d'una galera a Marco Polo, che passava giustamente per un navigatore rinomato. Tuttavia, nella battaglia navale dell'8 settembre 1296, i Veneziani furono vinti, e Marco Polo, gravemente ferito, cadde in potere dei Genovesi. I vincitori, conoscendo ed apprezzando il valore del prigioniero, lo trattarono con molti riguardi. Egli fu condotto a Genova, dove le più grandi famiglie, avide di udire i suoi racconti fecero una graziosissima accoglienza. Ma, se nessuno si stancava d'udirlo, Marco Polo si stancò finalmente di narrare, ed avendo fatto nel 1298 durante la sua prigionìa, la conoscenza del Pisano Rusticano, gli dettò il racconto dei suoi viaggi. Verso il 1299, Marco Polo fu restituito alla libertà. Egli tornò a Venezia, dove si ammogliò. Da quel tempo, la storia è muta sui diversi incidenti della sua vita. Solo si sa dal suo testamento in data del 9 gennaio 1323, ch'egli lasciò tre figlie, e si crede morisse verso quel tempo, nell'età di settant'anni. Tale fu l'esistenza di questo celebre viaggiatore, i cui racconti ebbero una grande influenza sul progresso delle scienze geografiche. Egli possedeva in grado eminente il genio dell'osservazione; sapeva vedere come sapeva dire, e le esplorazioni posteriori non hanno fatto che confermare la veracità della sua relazione. Fino alla metà del secolo XVIII, i

documenti ricavati dal racconto di Marco Polo servirono di base tanto agli studi geografici quanto alle spedizioni commerciali fatte nella China, nell'India e nel centro dell'Asia. Perciò la posterità non può che approvare il titolo che i primi copisti avevano dato all'opera di Marco Polo: «Il Libro delle meraviglie del mondo.»

CAPITOLO V. IBN BATUTA (1328-1353). Ibn Batuta — Il Nilo — Gaza, Tiro, Tiberia, il Libano, Balbek, Damasco, Meshed, Bassorah, Bagdad, Tebrix, Medina. la Mecca — L'Yemen — L'Abissinia —Il paese dei Berberi — Il Zanguebar — Ormuz — La Siria — L'Anatolia —L'Asia Minore — Astrakan — Costantinopoli — Il Turkestan — Herat — L'Indo — Delhi — Il Malabar — Le Maldive — Ceylan — Il Coromandel — Il Bengala — Le Nicobar — Sumatra — La China — L'Africa — Il Niger — Tembuctu.

Marco Polo aveva riveduto la sua patria da venticinque anni circa, quando un fratello minore dell'ordine di San Francesco traversò tutta l'Asia, dal 1313 al 1330, dal mar Nero fino agli estremi confini della China, passando da Trebisonda, dal monte Ararat, da Babel e dall'isola di Giava. Ma la sua relazione è così confusa, e la sua credulità così manifesta, che non si può dare importanza alcuna a' suoi racconti. Lo stesso è dei viaggi favolosi di Jean di Mandeville, di cui Cooley dice che pubblicò «un'opera così piena di menzogne, che forse non esiste la simile in alcuna delle lingue conosciute.» Per trovare al viaggiatore veneziano un successore degno di lui, bisogna citare un viaggiatore arabo, che fece per l'Egitto, l'Arabia, l'Anatolia, la Tartaria, l'India, la China, il Bengala, il Sudan, ciò che Marco Polo aveva fatto per una porzione relativamente grande dell'Asia centrale. Quest'uomo, ingegnoso ed audace nello stesso tempo, deve esser posto nella schiera dei più arditi esploratori. Era un teologo, e si chiamava Abd Allah El Lawati, ma si rese celebre col nomignolo di Ibn Batuta. Nell'anno 1324, il 725° dell'Egira, egli risolvette di fare il pellegrinaggio della Mecca, e lasciando Tangeri, sua città natale, si recò ad Alessandria, poi al Cairo. Durante il suo soggiorno in Egitto,

studiò particolarmente il Nilo, soprattutto alla foce; poi cercò di risalirne il corso, ma arrestato da torbidi sulle frontiere della Nubia, dovette ridiscendere il gran fiume e fece vela per l'Asia Minore. Dopo d'aver visitato Gaza, le tombe d'Abramo, d'Isacco e di Giacobbe, Tiro, allora molto fortificata ed inattaccabile da tre lati, Tiberia, che non era se non una rovina ed i cui celebri bagni erano interamente distrutti, Ibn Batuta fu attirato dalle meraviglie del monte Libano, ritrovo di tutti gli eremiti del tempo, che avevano giudiziosamente scelto una delle più belle regioni della terra per finirvi i loro giorni. Allora, traversando Balbek e toccando Damasco, nell'anno 1345, egli trovò questa città decimata dalla peste. L'orribile flagello divorava sino «ventiquattromila» persone ogni giorno, stando al viaggiatore, e senza dubbio Damasco sarebbe stata presto spopolata senza l'intervento del cielo, il quale secondo lui, cedette alle preghiere del popolo riunito in quella moschea venerata in cui si vede la preziosa pietra che conserva l'impronta del piede di Mosè. Il teologo arabo, lasciando Damasco, si recò alla città di Meshed, dove visitò la tomba d'Ali. Questa tomba attira gran numero di pellegrini paralitici, ai quali basta passare una notte in preghiere per guarire delle loro infermità. Batuta non sembra mettere in dubbio l'autenticità di questo miracolo, che è conosciuto in tutto l'Oriente sotto la denominazione di «notte della guarigione.» Dopo Meshed, Ibn Batuta, sempre infaticabile e trascinato dal suo imperioso desiderio di vedere, si recò a Bassorah e si cacciò nel regno di Ispahan, poi nella provincia di Shiraz, dove voleva trattenersi col celebre facitore di miracoli, Magd Oddin. Da Shiraz andò a Bagdad, a Tebrix, poi a Medina, dove pregò sulla tomba del profeta, e finalmente alla Mecca, dove si riposò tre anni.

Si sa che da questa città santa partono incessantemente delle carovane che solcano tutto il paese circostante. Fu in compagnia di alcuni di questi audaci mercanti che Ibn Batuta potè visitare tutte le città dell'Yemen. Egli spinse la sua ricognizione fino ad Aden, all'estremità del mar Rosso, e s'imbarcò per Zeila, uno dei porti dell'Abissinia. Egli dunque rimetteva piede sulla terra africana. Inoltrandosi nel paese dei Berberi, studiò i costumi, le abitudini di queste tribù sudicie e ributtanti, che vivono solo di pesci e di carne di cammello. Ibn Batuta, tuttavia, trovò nella città di Makdasbu un certo lusso, diremmo quasi un'agiatezza, di cui conservò buona ricordanza. Gli abitanti di questa città erano grassissimi; ciascuno d'essi «mangiava quanto tutto un convento» e gustava molto certe delicate ghiottonerie, come a dire piantaggine bollita nel latte, cedri canditi, baccelli di pepe freschi e ginepro verde. Dopo d'aver preso una certa cognizione di questo paese dei Berberi, segnatamente sul litorale, Ibn Batuta risolvette di recarsi allo Zanguebar e traversando il mar Rosso, andò, lungo la costa arabica, a Zafar, città situata sul mar delle Indie. La vegetazione di questa regione era magnifica; il betel, il cocco, l'albero da incenso vi formavano splendide foreste; ma sempre spinto dal suo spirito avventuroso, il viaggiatore arabo andò più oltre e giunse ad Ormuz, sul golfo Persico. Egli percorse alcune provincie persiane, e lo troviamo la seconda volta alla Mecca nell'anno 1332. Egli rientrava dunque nella città santa tre anni dopo d'averla lasciata. Ma non era che una sosta nell'esistenza vagabonda d'Ibn Batuta, un istante di riposo, giacché, abbandonando l'Asia per l'Africa, questo intrepido scienziato si arrischiò di nuovo nelle regioni poco note dell'alto Egitto e ridiscese fino al Cairo. Da questo punto, egli si slancia in Siria, corre a Gerusalemme, a Tripoli, e penetra fin presso i Turcomanni dell'Anatolia, dove la «confraternita dei giovani» gli là un'accoglienza molto

ospitale. Dopo l'Anatolia, è l'Asia Minore di cui parla la relazione araba. Ibn Batuta si avanzò fino ad Erzerum, dove gli fu mostrato un aerolita che pesava seicentoventi libbre. Poi, traversando il mar Nero, visitò Crim, Kafa e Bulgar, città già

abbastanza alta di latitudine perchè la disuguaglianza dei giorni e delle notti vi fosse notevole, ed infine giunse ad Astrakan, alla foce del Volga, dove il khan tartaro passava la stagione d'inverno. La principessa Bailun, moglie di questo capo e figlia

dell'imperatore di Costantinopoli, si disponeva a visitar suo padre. Era un'occasione naturalissima per Ibn Batuta d'esplorare la Turchia europea. Egli ottenne il permesso di accompagnare la principessa, che partì accompagnata da cinquemila uomini e seguita da una moschea portatile che

veniva rizzata ad ogni stazione. Il ricevimento della principessa a Costantinopoli fu magnifico, e le campane vennero suonate con tanta foga «che l'orizzonte medesimo veniva scosso dal frastuono.» L'accoglienza fatta al teologo dai principi del paese fu

degna della sua rinomanza. Egli potè visitare la città minuziosamente, e vi rimase trentasei giorni. Come si vede, in un tempo in cui le comunicazioni erano difficili e pericolose tra i diversi paesi, Ibn Batuta si era dato a fare l'esploratore audace. L'Egitto, l'Arabia, la Turchia asiatica, le provincie del Caucaso erano state percorse da lui. Dopo tante fatiche, egli aveva diritto al riposo. La sua rinomanza era grande ed avrebbe soddisfatto uno spirito meno ambizioso del suo, giacché egli era, senza contrasto, il più celebre viaggiatore del secolo XIV; ma la sua insaziabile passione lo trascinò ancora, ed il cerchio delle sue esplorazioni doveva ingrandirsi considerevolmente. Lasciando Costantinopoli, Ibn Batuta si recò di nuovo ad Astrakan. Di là, traversando gli aridi deserti del Turkestan odierno, giunse alla città di Chorasm, che gli parve grande e popolosa, poi a Bukhara, mezzo distrutta ancora dalle armate di Gengis-Khan. Alcun tempo dopo, lo troviamo a Samarkanda, città religiosa che piacque molto al dotto viaggiatore, poi a Balk, a cui non potè giungere se non dopo aver valicato il deserto di Khoracan. Questa città non era che rovina e desolazione; le armate barbare erano passate di là. Ibn Batuta non vi potè soggiornare, e volle tornare nell'ovest, sulla frontiera dell'Afghanistan. Il paese montagnoso di Kusistan si presentava innanzi a lui. Egli non esitò a cacciarvisi, e dopo gran fatiche sopportate con altrettanta fortuna quanta pazienza, giunse all'importante città d'Herat. Fu il punto estremo a cui lbn Batuta si arrestasse nell'ovest. Egli risolvette allora di ripigliare la sua via verso l'Oriente, e di toccare gli estremi limiti dell'Asia fino alle sponde dell'oceano Pacifico. Se riuscisse, passerebbe il cerchio delle esplorazioni dell'illustre Marco Polo. Si pose dunque in via seguendo il Gabul e la frontiera dell'Afghanistan, e giunse fino alle sponde del Sindhi, l'Indo

moderno, che scese fino alla sua foce. Dalla città di Lahari, egli si diresse verso Delhi, la grande e bella città che i suoi abitanti avevano allora disertata, per sottrarsi ai furori dell'imperatore Mohammed. Questo tiranno, che avea dei momenti di generosità e di magnificenza, accolse assai bene il viaggiatore arabo; non gli risparmiò i suoi favori, e lo nominò giudice a Delhi, con concessioni di terre e di vantaggi pecuniari annessi a quella carica. Questi onori non dovevano durare un pezzo. Ibn Batuta, compromesso in una pretesa cospirazione, credette di dover abbandonare il suo posto, e si fece fachiro per isfuggire alla collera dell'imperatore. Ma Mohammed ebbe il buon gusto di perdonargli e di nominarlo suo ambasciatore in China. La fortuna sorrideva dunque sempre al coraggioso teologo; egli stava per giungere a quei paesi lontani, in condizioni eccezionali di benessere e di sicurezza; era carico dì doni per l'imperatore della China, e duemila cavalieri dovevano accompagnarlo. Ma Ibn Batuta faceva i conti senza gl'insorti, che occupavano le regioni circostanti. Ci fu un combattimento tra le genti della sua scorta e gli Hindu; Ibn Batuta, separato da' compagni, fu preso, spogliato, ammanettato e trascinato via. Dove? non lo sapeva. Pure, non perdendo né speranza né coraggio, riuscì a sfuggire dalle mani di quei predoni. Vagò per sette giorni, fu raccolto da un negro, e finalmente ricondotto a Delhi, al palazzo dell'imperatore. Mohammed fece subito le spese d'una nuova spedizione e confermò il viaggiatore arabo nella sua qualità d'ambasciatore. Questa volta, la scorta attraversò senza ingombro il paese insorto, e per Kanoge, Merwa, Gwalior e Barun, giunse al Malabar. Qualche tempo dopo, Ibn Batuta entrava in Calcutta, che diventò più tardi il capoluogo della provincia di Malabar, porto importante nel quale aspettò tre mesi dei venti favorevoli

per ripigliar il mare. Approfittò di questa fermata involontaria per istudiare la marina mercantile dei Chinesi, che frequentavano quella città. Egli parla con ammirazione di quelle giunche, veri giardini galleggianti, sui quali si coltivava il ginepro e le erbe mangereccie, specie di villaggi indipendenti, di cui alcuni ricchi privati possedevano un gran numero. Giunse la stagione favorevole. Ibn Batuta scelse, per trasportarlo, una piccola giunca comodamente disposta, sulla quale fece mettere le sue ricchezze ed i suoi bagagli. Altre tredici giunche dovevano ricevere i doni mandati dal sovrano di Delhi all'imperatore della China. Ma, durante la notte, un violento uragano fece perire tutte le navi. Fortunatamente, Ibn Batuta era rimasto a terra per assistere alle preghiere della moschea; la sua divozione lo salvò. Ma egli aveva perduto ogni cosa; non gli rimaneva che «il tappeto sul quale faceva le sue divozioni» e, dopo questa seconda catastrofe, non osò più presentarsi innanzi al sovrano di Delhi. Vi era di che metter di mal umore un imperatore meno impaziente. Ibn Batuta prese il suo partito; abbandonò il servizio dell'imperatore ed i vantaggi annessi alla sua qualità d'ambasciatore, poi s'imbarcò per le isole Maldive, allora governate da una donna, e che facevano un gran commercio di fili di cocco. Anche là il teologo arabo fu investito della dignità di giudice; egli sposò tre donne, incorse nella collera del visir, geloso della sua riputazione, e dovette poco stante fuggirsene. La sua speranza era di giungere alle coste di Coromandel, ma i venti spinsero la nave verso l'isola di Ceylan. Ibn Batuta fu ricevuto con gran riguardi, ed ottenne di arrampicarsi sulla montagna sacra di Serendid o picco d'Adamo. La sua intenzione era di vedere l'impronta miracolosa posta alla cima di quel monte, che gli Indiani chiamano «Piede di Budda» ed i Maomettani «Piede d'Adamo.» Egli pretende, nella sua

relazione, che quest'impronta misuri undici palmi di lunghezza, stima molto inferiore a quella d'uno storico del secolo IX, che non le dà meno di settantanove cubiti. Questo storico aggiunge anzi che, mentre uno dei piedi del nostro primo padre riposava sulla montagna, l'altro era tuffato nell'oceano Indiano. Ibn Batuta parla pure di grandi scimmie barbute, formanti una parte importante della popolazione dell'isola, che sarebbe sottoposta ad un governo monarchico rappresentato da un re cinocefalo coronato di foglie d'albero. Si sa ora quanta fede convenga dare a tutte queste fiabe propagate dalla credulità degli Indiani. Da Ceylan, il viaggiatore passò sulla costa del Coromandel, non senza aver provati violenti uragani. Da questa costa, egli giunse alla spiaggia opposta, attraversando l'estremità inferiore della penisola indiana, dove s'imbarcò di nuovo. Ma la sua nave fu presa dai pirati, e spogliato, quasi nudo, sfinito dalle fatiche, Ibn Batuta giunse a Calcutta. Per altro, nessuna disgrazia poteva scoraggiarlo. Egli era di quella forte razza dei gran viaggiatori, che si ritemprano nella sciagura. Appena l'ospitalità generosa di alcuni mercanti di Delhi gli ebbe concesso di ripigliare il bastone di viaggiatore, egli s'imbarcò di nuovo per le Maldive, corse al Bengala, di cui ammirò le ricchezze naturali, fece vela per Sumatra, si fermò, dopo cinquanta giorni di detestabile traversata, ad una delle isole Nicobar, situate nel golfo del Bengala, e quindici giorni dopo, giunse finalmente a Sumatra, il cui re lo accolse con gran favore, come faceva, del resto, con tutti i Maomettani. Ma Ibn Batuta non era un uomo ordinario; egli piacque al sovrano dell'isola, che gli fornì generosamente i mezzi di recarsi in China. Una giunca trasportò il viaggiatore arabo sul «mare tranquillo,» e, settanta giorni dopo d'aver lasciato Sumatra, egli giunse al porto di Kailuka, capitale d'un paese abbastanza problematico, i cui abitanti, belli e coraggiosi, primeggiavano

nel mestiere delle armi. Da Kailuka, Ibn Batuta andò nelle provincie chinesi, e visitò dapprima la magnifica città di Zaitem, probabilmente il Tsuen-tcheu dei Chinesi, che è situato un po' al nord di Nan-king. Egli percorse così diverse città di questo grande impero, studiando i costumi di quei popoli, di cui ammirò da per tutto le ricchezze, l'industria e la civiltà, ma non si avanzò fino alla gran muraglia, ch'egli chiama «l'ostacolo di Goga e di Magoga.» Gli è esplorando in tal guisa quell'immenso paese, ch'egli soggiornò nella gran città di Chensi, che comprendeva sei città fortificate. Le vicende delle sue esplorazioni gli permisero di assistere ai funerali d'un khan, che fu sepolto in compagnia di quattro schiavi, di sei favoriti e di quattro cavalli. In questo mentre, scoppiarono a Zaitem dei torbidi, che obbligarono Ibn Batuta a lasciare questa città. Il viaggiatore arabo s'imbarcò per Sumatra, e di là toccando Calcutta ed Ormuz, rientrò alla Mecca nell'anno 1348, dopo d'aver fatto il giro della Persia e della Siria. L'ora del riposo non era ancora suonata per questo infaticabile esploratore. L'anno seguente egli rivedeva Tangeri, sua città natale; poi, dopo aver visitato le regioni meridionali della Spagna, tornava al Marocco, si cacciava nel Sudan, percorreva i paesi inaffiati dal Niger, traversava il gran deserto, entrava in Tembuctu, facendo così un tragitto, che avrebbe bastato ad illustrare un viaggiatore meno ambizioso. Questa doveva essere la sua ultima spedizione. Nel 1353, ventinove anni dopo aver lasciato Tangeri per la prima volta, egli rientrava nel Marocco e si stabiliva a Fez. Ibn Batuta merita la riputazione del più intrepido esploratore del secolo XIV, e la posterità è giusta iscrivendo immediatamente il suo nome dopo quello di Marco Polo, l'illustre Veneziano.

CAPITOLO VI. GIOVANNI DI BÉTHENCOURT (1339-1425). I. Il cavaliere normanno — Sue idee di conquista — Ciò che si sapeva delle Canarie — Cadice — L'arcipelago delle Canarie — La Graziosa — Lancerote — Fortaventura — Lobos — Giovanni dì Béthencourt torna in Ispagna — Rivolta di Berneval — Abboccamento di Giovanni di Béthencourt e del re Enrico III — Gadifer visita l'arcipelago delle Canarie — La Gran Canaria — L'isola del Ferro — L'isola di Palma.

Fu verso l'anno 1339 che nacque nella contea d'Eu, in Normandia, Giovanni di Béthencourt, barone di Sait-Martin-leGaillard. Questo Giovanni di Béthencourt era di buona casa, ed essendosi segnalato nella guerra e nella navigazione, divenne ciambellano di Carlo VI. Ma egli aveva la passione delle scoperte, e stanco del servizio della corte durante la demenza del re, poco felice del resto in casa sua, risolvette di lasciare il proprio paese e d'illustrarsi con qualche avventurosa conquista. L'occasione gli si offrì, ed ecco come. Esiste sulla costa africana un gruppo d'isole chiamate isole Canarie, che ebbero un tempo il nome di isole Fortunate. Juba, figlio d'un re di Numidia, le avrebbe esplorate, si dice, verso l'anno 776 di Roma. Nel Medio Evo, stando a certe relazioni, degli Arabi, dei Genovesi, dei Portoghesi, degli Spagnuoli, dei Biscaglini, visitarono in parte quel gruppo interessante. Finalmente, nel 1393, un signore spagnuolo, Almonaster, comandante d'una spedizione, fece uno sbarco a Lancerote, una delle Canarie, e ne portò, con un certo numero di prigionieri, dei prodotti che attestavano la gran fertilità di quell'arcipelago. Questo fatto attirò l'attenzione del cavaliere normanno. La conquista delle Canarie lo allettò, e, da uomo pio, risolvette di

convertire le Canarie alla fede cattolica. Era un signore valoroso, intelligente, abile, ricco d'espedienti. Egli lasciò la sua casa di Grainville-la-Teinturière, in Caux, e si recò a La Rochelle. Colà, incontrò il buon cavaliere Gadifer della Salle, che se ne andava alla ventura. Giovanni di Béthencourt narrò i propri disegni di spedizione a Gadifer. Gadifer gli chiese di tentar la fortuna in sua compagnia; corsero fra di essi «molte belle parole» troppo lunghe a ripetere, ed il negozio fu conchiuso. Frattanto, Giovanni di Béthencourt aveva riunito il suo esercito. Egli possedeva delle buone navi abbastanza guernite di gente e di provviste. Gadifer e lui spiegarono le vele, e, dopo d'essere stati contrariati dai venti al passaggio dell'isola Re, e più ancora dai dissensi che scoppiavano di frequente fra ì capi dell'equipaggio, giunsero al porto di Vivero, sulla costa della Gallizia, poi alla Corogna. Colà, Giovanni di Béthencourt ed i suoi gentiluomini soggiornarono otto giorni. I Francesi ebbero alcune difficoltà con un certo conte di Scozia, che si mostrò scortesissimo rispetto a loro, ma tutto si limitò ad uno scambio di parole. Il barone ripigliò il mare, doppiò il capo di Finistere, segui la costa portoghese fino al capo San Vincenzo, e giunse al porto di Cadice, dove soggiornò piuttosto a lungo. Colà egli ebbe ancora alcuni litigi con mercanti genovesi, che lo accusavano di aver preso la loro nave, e dovette anzi recarsi a Siviglia, dove il re Enrico III gli rese giustizia assolvendolo da ogni accusa. Giovanni di Béthencourt tornò dunque a Cadice, e trovò una parte dell'equipaggio ammutinata. I suoi marinai, spaventati dai pericoli della spedizione, non volevano continuare il viaggio; ma il cavaliere francese, serbando i coraggiosi e mandando via i vigliacchi, fece spiegar le vele, e, lasciando il porto, si spinse in alto mare. La nave del barone fu trattenuta per tre giorni da calme ch'egli chiama «la bonaccia;» poi, rialzandosi il tempo, egli

giunse in cinque giorni ad una delle piccole isole del gruppo delle Canarie, la Graziosa, e finalmente ad un'isola più importante, Lancerote, la cui lunghezza è di 44 chilometri e la larghezza di 16, avente press'a poco la grandezza e la forma dell'isola di Rodi. Lancerote è ricca di pascoli e di buone terre di coltura, molto propizie alla produzione dell'orzo. Le fontane e le cisterne, numerosissime, vi forniscono un'acqua eccellente. La pianta tintoriale chiamata oricello vi cresce abbondantemente. Quanto agli abitanti di quest'isola, il cui costume è d'andar press'a poco nudi, sono grandi, ben fatti, e le loro donne, vestite di saji di cuoio che scendono fino a terra, sono belle ed oneste. Giovanni di Béthencourt, innanzi che i suoi disegni di conquista fossero svelati, avrebbe voluto impadronirsi d'un certo numero di Canariani. Ma egli non conosceva il paese, e l'operazione era difficile. Andò dunque ad ancorarsi al riparo d'un isolotto dell'arcipelago, situato al nord, e radunò a consiglio i suoi gentiluomini. Egli chiese loro che cosa pensassero di quanto si dovesse fare. Il consiglio fu d'opinione che, ad ogni costo, coll'astuzia o colla seduzione, bisognasse pigliare delle genti del paese. La fortuna favorì il bravo cavaliere. Il re dell'isola, Guadarfia, si mise in relazione con lui, e gli giurò obbedienza, come amico, non come suddito. Giovanni di Béthencourt fece costrurre un castello, o meglio un forte, nella prateria a sud-ovest dell'isola, vi lasciò alcuni uomini sotto il comando di Berthin di Berneval, uomo diligente, e partì col rimanente del drappello per conquistare l'isola di Erbania, che non è se non Fortaventura. Gadifer consigliò di fare uno sbarco notturno, il che fu fatto; poi, egli prese il comando d'un piccolo drappello, e, per otto giorni, corse l'isola senza poter incontrare un solo degli abitanti, che si erano rifugiati nelle montagne. Gadifer, mancando di viveri, dovette tornare, e si recò all'isolotto di

Lobos, posto fra Lancerote e Fortaventura. Ma colà il capomarinaio gli si ribellò, e non fu senza difficoltà che Gadifer tornò al forte dell'isola Lancerote. Giovanni di Béthencourt risolvette allora di tornare in Ispagna, per pigliare delle provviste ed un nuovo contingente

d'uomini d'armi, giacché egli non poteva più fare assegnamento sull'equipaggio. Lasciò dunque il comando generale delle isole a Gadifer; poi, accomiattandosi da tutta la compagnia, fece vela verso la Spagna sopra una nave appartenente a Gadifer. Non si sarà dimenticato che Giovanni di Béthencourt

aveva nominato Berthin di Berneval comandante del forte dell'isola Lancerote. Questo Berneval era nemico personale di Gadifer. Il cavaliere normanno era appena partito, e subito Berneval cercò di corrompere i suoi compagni, riuscendo ad indurre un certo numero d'essi, segnatamente dei Guasconi, a

rivoltarsi contro il governatore. Costui, non sospettando menomamente della condotta di Berneval, s'occupava nel dar la caccia ai lupi marini sull'isolotto di Lobos in compagnia del suo amico Remonnet di Levéden e di molti altri. Questo Remonnet, essendo stato mandato a Lancerote per pigliar dei

viveri, non vi trovò più Berneval, che aveva lasciato l'isola co' complici, per recarsi ad un porto dell'isola Graziosa, dove un patrono di nave, ingannato da molte promesse, aveva messo la propria nave a sua disposizione. Dall'isola Graziosa, il traditore Berneval tornò a Lancerote, e mise il colmo alla scelleratezza simulando un'alleanza col re dell'isola ed i Canariani. Il re, non sapendo che un ufficiale del signor di Béthencourt, nel quale aveva la massima fiducia, potesse ingannarlo, venne con ventiquattro de' suoi sudditi a mettersi nelle mani di Berneval. Costui, quando furono addormentati, li fece legare e condurre al porto dell'isola Graziosa. Il re, vedendosi indegnamente tradito, ruppe i lacci, liberò tre de' suoi uomini e riuscì a fuggire; ma i suoi disgraziati compatrioti rimasero prigionieri, e furono ceduti da Berneval a predoni spagnuoli che li condussero via per venderli. A quest'infamia, Berneval ne aggiunse altre ancora. Così, per suo ordine, i suoi compagni s'impadronirono della nave che Gadifer aveva mandata al forte di Lancerote per portargli dei viveri. Remonnet volle battersi contro quei traditori; ma lui ed i suoi erano in troppo picciol numero. Le loro preghiere non poterono nemmeno impedire al drappello di Berneval, ed a Berneval in persona, di saccheggiare e distruggere le provviste, gli utensili e le armi che Giovanni di Béthencourt avea raccolti nel forte di Lancerote. Poi, gl'insulti non furono risparmiati al governatore, e Berneval esclamò: «Io voglio che Gadifer della Salle sappia che, se fosse giovane al pari di me, andrei ad ucciderlo; ma poiché non è, tale io me ne dispenserò. S'egli mi fa montar la mosca al naso, andrò a farlo annegare nell'isola di Lobos, ed allora egli predicherà ai lupi marini.» Frattanto, Gadifer e dieci de' suoi compagni, senza viveri e senz'acqua, erano in pericolo di morte nell'isola di Lobos. Fortunatamente, i due cappellani del forte di Lancerote,

essendosi recati al porto dell'isola Graziosa, riuscirono ad impietosire un patrono di nave, già offeso del tradimento di Berneval. Questo patrono diede loro uno de' suoi compagni, chiamato Ximenes, che tornò al forte di Lancerote. Colà si trovava una fragile navicella che Ximenes caricò di viveri; poi, imbarcandosi coi quattro fedeli di Gadifer, si arrischiò a spingersi fino all'isolotto di Lobos, distante quattro leghe, e valicando «il più orribile passaggio fra quanti ve n'ha in questo punto del mare.» Frattanto, Gadifer ed i suoi erano in preda alle più terribili torture della fame e della sete. Ximenes giunse in tempo per sottrarli alla morte. Gadifer, appreso il tradimento di Berneval, s'imbarcò nella navicella per tornare al forte Lancerote. Egli era indignato della condotta di Berneval verso i poveri Canariani, ai quali il signor di Béthencourt e lui avevano giurato protezione. No! giammai avrebbe creduto capace quel traditore di tutto quanto aveva osato fare e macchinare, lui che veniva considerato come uno dei più abili della compagnia. Frattanto, che faceva Berneval? Dopo d'aver tradito il suo signore, egli tradiva i compagni che lo avevano aiutato a compiere i misfatti; faceva mettere a terra dodici di essi, e partiva coll'intenzione di raggiungere in Ispagna Giovanni di Béthencourt e di fargli approvare la sua condotta narrandogli le cose a modo suo. Egli aveva dunque interesse a disfarsi di testimoni che gli potevano essere d'impaccio e li abbandonò. Quei disgraziati ebbero dapprima il pensiero d'implorare la generosità del governatore, e si confessarono al cappellano, che li incoraggiò in questo pensiero. Ma quella povera gente, temendo la vendetta di Gadifer, s'impadronirono d'un battello, e, in un momento di disperazione, fuggirono verso la terra dei Mori. Il battello toccò la costa della Barbaria; dieci di quelli ch'esso portava si annegarono, gli altri due caddero fra le mani dei pagani, che li trattennero in ischiavitù.

Mentre questi avvenimenti accadevano all'isola Lancerote, Giovanni di Bétheneourt, montando la nave di Gadifer, giungeva a Cadice. Colà, egli prese anzitutto delle misure di rigore contro gli uomini del suo equipaggio inclini alla rivolta, e fece imprigionare i principali di essi. Poi, mandò la sua nave a Siviglia, dove si trovava allora il re Enrico III; ma la nave peri nel Guadalquivir, con gran danno di Gadifer. Giovanni di Bétheneourt, giunto a Siviglia, vi ricevette un certo Francisco Calve, che era venuto rapidamente dalle Canarie, e che offriva di ritornarvi con provviste pel governatore. Ma il barone di Bétheneourt non volle prendere alcuna deliberazione in proposito prima d'aver visto il re. In questo mentre, Berneval giunse coi suoi principali complici ed alcuni Canariani che aveva serbati coll'intenzione di venderli come schiavi. Il traditore sperava di far volgere il suo tradimento a proprio profitto e d'ingannare così la buona fede di Giovanni di Bétheneourt. Ma aveva contato senza un certo Courtille, trombetta di Gadifer, che si trovava con lui. Questo bravo soldato denunziò le furfanterie di Berneval, ed in seguito alla sua denunzia, quei mariuoli furono chiusi nelle prigioni di Cadice. Courtille fece conoscere anche la condizione dei Canariani trattenuti a bordo. Il cavaliere normanno, non potendo lasciar Siviglia nel momento in cui stava per ottenere udienza dal re, diede ordine che quegli isolani fossero trattati con riguardo. Ma intanto, la nave che li portava fu condotta in Aragona, e colà quella povera gente fu venduta in qualità di schiavi. Frattanto, Giovanni di Bétheneourt era stato introdotto in presenza del re di Castiglia, e dopo d'avergli narrato i risultati della spedizione: «Sire, diss'egli, io vengo a domandarvi soccorso, a chiedervi che mi diate il permesso di conquistare alla fede cristiana delle isole che si chiamano le isole Canarie, e perchè voi siete re e signore di tutto il paese circostante, ed il

più prossimo re cristiano, io sono venuto a chiedere alla vostra grazia che vi piaccia di riceverne l'omaggio.» Il re, molto contento, ricevette l'omaggio del cavaliere normanno, gli diede la signoria delle isole Canarie, ed in oltre il quinto delle mercanzie che dalle dette isole verrebbero in Ispagna. Oltre a ciò gli fece dono di ventimila maravedis, circa quindicimila franchi, per comperare dei viveri destinati ad approvigionare il governatore Gadifer, e gli diede il diritto di batter moneta nel paese delle Canarie. Disgraziatamente, quei ventimila maravedis furono confidati ad un uomo di poca fede, che se ne fuggì in Francia portando seco il dono del re di Castiglia. Frattanto, Giovanni di Béthencourt ottenne anche da Enrico III una nave ben attrezzata, montata da ottanta uomini d'equipaggio, ed approvigionata di viveri, d'armi e d'utensili. Giovanni di Béthencourt, riconoscentissimo della generosità del re, scrisse a Gadifer la narrazione di tutto ciò che aveva fatto, la sua gran collera ed il suo stupore nell'apprendere la condotta di quel Berneval nel quale aveva tanta confidenza, e gli annunziò la prossima partenza della nave regalata dal re di Castiglia. Intanto avvenimenti abbastanza gravi accadevano all'isola Lancerote. Il re Guadarfia, offeso dal modo di procedere del traditore Berneval, si era ribellato, ed alcuni compagni di Gadifer erano stati uccisi dai Canariani. Gadifer era deciso ad esigere la punizione dei colpevoli, quando un parente del re, l'indigeno Ache, venne a proporgli d'impadronirsi di Guadarfia e di togliergli il trono a suo profitto. Questo Ache era un furfante che, dopo d'aver tradito il suo re, si proponeva di tradire i Normanni e di cacciarli dal paese. Gadifer, non sospettando le sue brutte intenzioni e volendo vendicare la morte de' suoi, accettò le proposte d'Ache, ed alcun tempo dopo, la vigilia della festa di Santa Caterina, il re, sorpreso,

veniva condotto al forte, e quivi incatenato. Alcuni giorni dopo, Ache, recentemente proclamato sovrano dell'isola, assalì i compagni di Gadifer, e ne ferì molti mortalmente. Ma nella notte seguente, Guadarfia, essendo riuscito a fuggire, s'impadronì d'Ache alla sua volta e lo fece subito lapidare e bruciare. Il governatore, irritatissimo delle scene violente che si rinnovavano ogni giorno, prese la risoluzione di uccidere tutti gli uomini del paese, e di conservare solo le donne ed i fanciulli per farli battezzare. Ma fa verso questo tempo che giunse la nave mandata da Giovanni di Béthencourt, ed altre cure occuparono Gadifer. Quella nave, oltre ai suoi ottanta uomini ed alle provviste di cui era carica, recava una lettera nella quale, fra le altre cose, Giovanni di Béthencourt mandava a dire a Gadifer ch'egli aveva fatto omaggio al re di Castiglia delle isole Canarie, la qual cosa non rallegrò punto il governatore, il quale credeva di dover avere la sua parte di dette isole. Ma egli dissimulò il malcontento e fece buona accoglienza ai nuovi arrivati. Lo sbarco dei viveri e delle armi si compì subito, e Gadifer s'imbarcò sulla nave per andare ad esplorare le isole vicine. Egli era accompagnato da Remonnet e da molti altri, e conduceva seco due Canariani, che dovevano servirgli di guide. Gadifer giunse senza danno all'isola di Fortaventura. Alcuni giorni dopo il suo sbarco, egli partì con trentacinque uomini per esplorare il paese; ma a breve andare la massima parte del suo drappello lo abbandonò, e tredici soli compagni, fra i quali due arcieri, rimasero con lui. Gadifer continuò nondimeno l'esplorazione, tassato a guado un grosso corso d'acqua, entrò in una magnifica valle ombreggiata da ottocento palme; poi, essendosi riposato e riconfortato, riprese la sua via arrampicandosi sopra una lunga costa. Colà apparvero una cinquantina d'indigeni che,

circondando il piccolo drappello, minacciarono di sterminarlo. Gadifer ed i suoi compagni si mostrarono risoluti, e riuscirono a mettere in fuga i loro nemici ed a giungere verso sera alla nave conducendo seco quattro donne prigioniere. Il domani, Gadifer lasciò Fortaventura ed andò ad approdare alla Gran Canaria, in un gran porto tra Teldes ed Argonnez. Cinquecento indigeni gli vennero incontro, ma senza fare alcuna dimostrazione ostile; essi barattarono con armi e ferramenti dei prodotti del paese, come fichi e sangue di drago, sostanza resinosa tratta dal drago, il cui odore balsamico è molto piacevole. Solamente, quei Canariani stavano in guardia contro gli stranieri, giacché avevano avuto a lamentarsi delle genti del capitano Lopez, che, vent'anni prima, avevano fatto irruzione nell'isola, e non permisero a Gadifer di scendere a terra. Il governatore dovette dunque spiegar le vele senza aver esplorato la Gran Canaria, e si diresse verso l'isola del Ferro; dopo d'averla solamente costeggiata, la sua nave giunse di notte all'isola di Gomere, sulla quale ardevano i fuochi degli indigeni. Allorché il giorno fu venuto, alcuni dei compagni di Gadifer vollero sbarcare; ma i Gomeriti, molto terribili per la loro abilità ed intrepidezza, accorsero contro ai Castigliani, che furono obbligati a tornarsi ad imbarcare in gran fretta. Gadifer, scontentissimo dell'accoglienza che gli facevano quei selvaggi Canariani, risolvette di tentare ancor una volta la fortuna all'isola del Ferro. Egli parli dunque e giunse durante il giorno a quest'isola. Colà, potè sbarcare senza ostacolo, e vi rimase ventidue giorni per riposarsi. L'isola era magnifica nella sua parte centrale. Vi crescevano più di centomila pini; rigagnoli limpidi ed abbondanti la inaffiavano in molti luoghi. Le quaglie pullulavano, e si trovavano in abbondanza porci, capre e pecore.

Da quest'isola ospitale, i conquistatori passarono all'isola di Palma, e si ancorarono in un porto situato a dritta d'un fiume importante. Quest'isola era la più avanzata dalla parte dell'Oceano. Coperta di pini e di draghi, inaffiata da buoni fiumi, rivestita d'eccellenti erbaggi, essa poteva prestarsi ad ogni genere di coltura. I suoi abitanti, grandi e robusti, ben fatti, avevano i lineamenti graziosi e la pelle bianchissima. Gadifer rimase poco tempo in quest'isola: i suoi marinai raccolsero dell'acqua pel ritorno, e in due notti e due giorni, dopo aver costeggiato le altre isole dell'arcipelago senza sbarcarvi, giunsero al porto di Lancerote. Essi erano stati assenti tre mesi. Durante questo tempo, i loro compagni, sempre in guerra cogli indigeni, avevano fatto gran numero di prigionieri, ed i Canariani, oramai affranti, venivano ogni giorno ad arrendersi e ad implorare la consacrazione del battesimo. Gadifer, soddisfattissimo di tali risultati, fece partire uno de' suoi gentiluomini per la Spagna, per render conto a Giovanni di Béthencourt dello stato presente della colonia canariana.

II. Ritorno di Giovanni di Béthencourt — Gelosia di Gadifer — Giovanni di Béthencourt visita il suo arcipelago — Gadifer fu a conquistare la Gran Canaria — Discordia fra i due signori — Essi ritornano in Ispagna — Gadifer è biasimato dal re — Ritorno del cavaliere normanno — Gli indigeni di Fortaventura si fanno battezzare — Giovanni di Béthencourt ritorna al paese di Caux — Ritorno a Lancerote — Sbarco sulla costa africana — Conquista della Gran Canaria, dell'isola del Ferro e dell'isola di Palma — Maeiot nominato governatore dell'arcipelago — Giovanni di Béthencourt, a Roma, ottiene dal papa la creazione d'un vescovato canariano — Suo ritorno in patria e sua morte.

L'inviato del governatore non era ancora giunto a Cadice, e già il barone di Béthencourt sbarcava in persona al forte di Lancerote con una «bella compagnia.» Gadifer ed i suoi compagni gli fecero lieta accoglienza, come pure i Canariani battezzati. Pochi giorni dopo, il re Guadarfia veniva egli stesso a consegnarsi, e, nell'anno 1404, il ventesimo giorno di febbraio, egli si fece cristiano con tutti i suoi compagni. I cappellani di Giovanni di Béthencourt compilarono anzi per lui un'istruzione semplicissima contenente i principali elementi del cristianesimo, la creazione del mondo, la caduta d'Adamo e d'Eva, la storia di Noè e della torre di Babele, la vita dei patriarchi, la storia di Gesù Cristo e della sua crocifissione operata dai Giudei; l'istruzione finiva dicendo come si deve credere ai dieci comandamenti della legge, al santo sacramento dell'altare, alla confessione e ad altri punti. Giovanni di Béthencourt era uomo ambizioso. Non contento di aver esplorato e, per così dire, preso possesso dell'arcipelago delle Canarie, egli pensava giù a conquistare le regioni dell'Africa bagnate dall'Oceano. Tornando a Lancerote, era questo il suo segreto pensiero, e tuttavia gli rimaneva ancor molto da fare per stabilire un dominio vero su quel gruppo d'isole, di cui non era in realtà che il signore nominale; egli

risolvette dunque di mettersi all'opera e di visitare in persona tutte quelle isole che Gadifer aveva già esplorate. Ma, prima di partire, ci fa tra Gadifer e lui una conversazione che è bene riferire. Gadifer, vantando i suoi servigi, chiese al barone di ricompensamelo, facendogli dono di Fortaventura, di Teneriffa e di Gomere. — Signore, amico mio, rispose il barone, le isole ed il paese che voi mi domandate non sono ancora conquistati. Ma non è mia intenzione che voi perdiate la vostra fatica, e che non siate ricompensato, giacché avete il diritto d'esserlo. Ve ne prego, finiamo prima la nostra impresa e restiamo fratelli ed amici. — Benissimo, rispose Gadifer; ma vi ha una cosa di cui non sono contento, ed è che abbiate già fatto omaggio al re di Castiglia delle isole Canarie, e che voi ve ne diciate signore sotto tutti i rispetti. — Quanto a ciò che dite, rispose Giovanni di Béthencourt, è ben vero che io ne ho fatto omaggio e che me ne considero pure come il signore, poiché così piace al re di Castiglia. Ma, se vorrete aspettar la fine del nostro negozio, per accontentarvi, vi darò e lascerò tal cosa di cui sarete pago. — Non rimarrò un pezzo in questo paese, rispose Gadifer, poiché bisogna ch'io ritorni in Francia; non voglio più rimaner qui. Ed i due cavalieri si separarono; ma Gadifer si tranquillò a poco a poco e non rifiutò d'accompagnare Giovanni di Béthencourt nella sua esplorazione dell'arcipelago canariano. Il barone di Béthencourt, ben approvigionato e ben armato, fece vela per Fortaventura. Egli rimase tre mesi in quest'isola, e, per incominciare, s'impadronì di gran numero d'indigeni che fece trasportare all'isola Lancerote. Non faccia meraviglia questo modo di procedere, ch'era naturalissimo in un tempo in cui tutti gli esploratori agivano in tal guisa. Durante il suo

soggiorno, il barone percorse tutta l'isola, dopo d'essersi fortificato contro gli attacchi degli indigeni, ch'erano uomini d'alta statura, forti e saldi nella loro legge. Una cittadella, chiamata Richeroque, di cui ancora si vedono le traccie in mezzo ad un casale, fu costrutta sul pendio d'un'alta montagna.

A quel tempo, benché non avesse dimenticato i suoi malumori, che si traducevano spesso in parole grossolane, Gadifer accettò il comando d'una compagnia che il barone mise a sua disposizione per conquistare la Gran Canaria. Egli partì il 25 luglio 1404, ma questa spedizione non

diede risultati utili. Anzitutto i navigatori furono molto tormentati dall'uragano e dai venti contrari. Essi giunsero finalmente presso il porto di Teldes, ma siccome la notte era imminente ed il vento soffiava con forza, non osarono sbarcare in quel luogo, e si spinsero più oltre, fino alla piccola città di

Argyneguy, innanzi alla quale rimasero ancorati per undici giorni. Colà i naturali, eccitati dal loro re Artamy, prepararono delle imboscate, che per poco non furono fatali alle genti di Gadifer. Vi fu una scaramuccia, del sangue versato, ed i

Castigliani, non sentendosi forti di numero, vennero a passare due giorni a Teldes, donde tornarono a Lancerote. Gadifer, molto dispettoso della sua mala riuscita, cominciò a trovar brutto tutto quanto avveniva intorno a lui. La gelosia contro il suo capo cresceva ogni giorno, ed egli si lasciava andare a violente recriminazioni, ripetendo che il barone di Béthencourt non aveva fatto tutto da sé, e che le cose non sarebbero così avanzate se altri non vi avesse messo mano. Queste parole giunsero all'orecchio del barone, che ne fu molto corrucciato. Egli le rimproverò all'invidioso Gadifer, il che produsse fra di loro uno scambio d'impertinenze. Gadifer insisteva nell'idea di lasciare quel paese, in cui più a lungo rimarrebbe e meno guadagnerebbe. Ora, appunto in questo mentre, Giovanni di Béthencourt aveva disposto i propri negozi per tornare in Ispagna; egli propose a Gadifer di accompagnarlo per «risolvere la loro contesa.» Gadifer accettò; ma i due rivali non fecero il viaggio insieme, e mentre il barone partiva sulla sua nave, Gadifer faceva vela sopra la propria. Essi giunsero entrambi a Siviglia, e Gadifer fece i suoi reclami; ma avendo il re di Castiglia dato torto pienamente a lui ed approvato la condotta del barone di Béthencourt, Gadifer lasciò la Spagna, andò in Francia, e non tornò mai più a quelle Canarie che aveva sperato di conquistare per proprio conto. Il barone di Béthencourt si accomiatò dal re quasi subito; l'amministrazione della colonia nascente richiedeva imperiosamente la sua presenza. Prima della sua partenza gli abitanti di Siviglia, che lo amavano molto, gli fecero mille garbatezze, e, ciò che era più utile, lo fornirono d'armi, di viveri, d'oro e d'argento. Giovanni di Béthencourt giunse all'isola di Fortaventura dove fu accolto allegramente dai compagni. Nel partire, Gadifer aveva lasciato in sua vece il proprio bastardo Annibale, al quale il barone fece tuttavia buona accoglienza.

I primi giorni dell'arrivo del barone di Béthencourt nell'isola furono segnalati da combattimenti numerosi coi Canariani, che distrussero anzi la fortezza di Richeroque, dopo d'aver arso una cappella e saccheggiato le provviste. Il barone li inseguì con vigorìa, e finì col riuscir vittorioso. Egli mandò una gran quantità delle sue genti, che erano rimaste a Lancerote, e diede ordine che la cittadella fosse immediatamente ricostruita. Frattanto i combattimenti ricominciarono, e molti Canariani perirono, fra cui un certo gigante di nove piedi d'altezza che Giovanni di Béthencourt avrebbe voluto pigliar vivo. Il barone non poteva fidarsi del bastardo di Gadifer, né delle genti che lo accompagnavano. Quel bastardo aveva ereditato la gelosia di suo padre contro il barone; ma costui, avendo bisogno d'aiuto, dissimulava la diffidenza. Fortunatamente le sue genti erano più numerose di quelle rimaste fedeli a Gadifer. Per altro le recriminazioni d'Annibale divennero tali, che il barone gli mandò uno dei luogotenenti, Giovanni il Cortese, per ricordargli il suo giuramento, con ingiunzione di attenervisi. Giovanni il Cortese fu ricevuto male; vi furono litigi fra lui, il bastardo ed i suoi, segnatamente in proposito di certi prigionieri canariani che quei partigiani di Gadifer trattenevano indebitamente e non volevano rendere. Annibale dovette per altro ubbidire; ma Giovanni il Cortese, tornando dal barone, gli narrò le insolenze del bastardo, e cercò di eccitare il suo padrone contro di lui. «No, signore, gli rispose il giusto Béthencourt, io non voglio che si faccia torto né a lui, né ai suoi. Non bisogna fare tutto ciò che si sarebbe in diritto di fare; si deve sempre trattenersi e badare più all'onore che al profitto.» Belle parole che bisognerebbe meditar molto. Frattanto, non ostante queste discordie intestine, la guerra continuava tra gli indigeni ed i conquistatori; ma costoro, bene

armati, vincevano in tutti gli scontri. Perciò i re di Fortaventura mandarono un Canariano dal barone per domandargli una tregua. Essi aggiungevano essere loro desiderio di convertirsi al cristianesimo. Il barone, contentissimo di queste disposizioni, rispose che i re sarebbero accolti bene se si presentassero a lui. Subito il re di Maxorata, che regnava sul nord-ovest dell'isola, giunse con un seguito di ventidue persone, che furono tutte battezzate il 18 gennaio 1405. Tre giorni dopo, altri ventidue indigeni ricevevano il sacramento del battesimo. Il 25 gennaio il re che governava la penisola di Handia, al sud-est di Fortaventura, si presentò seguito da ventisei de' suoi sudditi, che furono pure battezzati. In poco tempo tutti gli abitanti di Fortaventura abbracciarono la religione cattolica. Il barone di Béthencourt, felice della buona riuscita, pensò allora a rivedere la patria. Egli lasciò il comando ed il governo delle isole al suo nuovo luogotenente, Giovanni il Cortese, e parti l'ultimo giorno di gennaio, in mezzo alle lagrime ed alle benedizioni de' compagni, conducendo seco tre Canariani ed una Canariana, ai quali voleva mostrare il regno di Francia. Egli partì. «Dio voglia condurlo e ricondurlo!» dice la relazione. In ventun giorno il barone di Béthencourt giunse al porto di Harfleur, e due giorni dopo entrava nella sua casa di Grainvillle. Tutti i gentiluomini del paese vennero a festeggiarlo, e la baronessa e lui ebbero festose accoglienze. Era intenzione di Giovanni di Béthencourt di tornare al più presto alle isole Canarie. Egli contava di condur seco tutti quelli dei suoi compatrioti ai quali convenisse il seguirlo, inducendovi gente di tutti i mestieri e promettendo loro delle terre, fossero ammogliati o scapoli. Egli riuscì così a radunare un certo numero d'emigranti, fra i quali si contavano ventotto uomini d'arme, ventitré dei quali conducevano anche le loro

donne. Due navi erano state disposte per il trasporto di quel drappello, e fu dato ritrovo per il sesto giorno di maggio. Il 9 del medesimo mese il barone di Béthencourt spiegò le vele, e sbarcava a Lancerote quattro mesi e mezzo dopo d'aver lasciato l'arcipelago. Il signore normanno fu ricevuto a suono di trombe, claroni, tamburelli, arpe, buccine ed altri strumenti. «Non si sarebbe udito Dio tuonare in mezzo alla musica ch'essi facevano.» I Canariani salutarono colle danze e coi canti il ritorno del governatore gridando: «Ecco il nostro re che viene!» Giovanni il Cortese giunse in gran fretta incontro al suo capitano, che gli chiese come andassero le cose. «Signore, tutto va di bene in meglio,» rispose il luogotenente. I compagni del barone di Béthencourt furono alloggiati con lui al forte di Lancerote. Il paese sembrava piacer loro assai; essi mangiavano datteri e frutti del paese che trovavano saporiti, «e nulla faceva loro male.» Dopo d'aver soggiornato qualche tempo a Lancerote, Giovanni di Béthencourt partì co' suoi nuovi compagni per visitare Fortaventura. Qui l'accoglienza ch'egli ricevette non fu meno allegra, in ispecie da parte dei Canariani e dei loro due re. Costoro cenarono col barone nella fortezza di Richeroque che Giovanni il Cortese aveva fatto riparare. Il barone di Béthencourt annunciò allora la sua intenzione di conquistare la Gran Canaria, come aveva fatto di Lancerote e di Fortaventura. Era suo pensiero che suo nipote Maciot, ch'egli aveva condotto di Francia, dovesse succedergli nel governo delle isole, affinchè quel paese non fosse mai senza il nome di Béthencourt. Fece parte di questo disegno al luogotenente Giovanni il Cortese, che l'approvò molto, ed aggiunse: «Signore, se piace a Dio, quando tornerete in Francia, io ritornerò con voi. Io sono un cattivo marito; da cinque anni non vedo mia moglie, e, in verità, essa non ne

soffrirà troppo.» La partenza per la Gran Canaria fu fissata al 6 ottobre 1405. Tre navi trasportarono il piccolo drappello del barone; ma il vento le portò dapprima verso la costa africana, e passarono il capo Bojador, dove Giovanni di Béthencourt sbarcò. Egli fece una ricognizione di otto leghe nel paese, e s'impadronì di alcuni indigeni e di tremila cammelli che ricondusse alla sua nave. S'imbarcò il maggior numero possibile di questi animali che era opportuno allevare nelle Canarie, ed il barone spiegò le vele, abbandonando quel capo Bojador ch'egli ha avuto l'onore di passare trent'anni prima dei navigatori portoghesi. Durante la navigazione dalla costa africana alla Gran Canaria, le tre navi furono separate dai venti. Una giunse a Fortaventura, l'altra all'isola di Palma; ma finalmente tutti furono riuniti al luogo del convegno. La Gran Canaria misurava venti leghe di lunghezza e dodici di larghezza. Essa aveva la forma d'un erpice; al nord era un paese imito, e montagnoso al sud. Abeti, draghi, ulivi, fichi, datteri, vi formavano vere foreste. Le pecore, le capre, i cani selvatici si trovavano in gran quantità in quest'isola. La terra, di facile coltura, produceva ogni anno due raccolte di grano, e ciò senza alcun concime. I suoi abitanti formavano un gran popolo e si dicevano tutti gentiluomini. Quando Giovanni di Béthencourt fu sbarcato, pensò a conquistare il paese. Disgraziatamente, i suoi guerrieri normanni erano fierissimi della punta che avevano fatta sulla terra d'Africa, e, a sentir loro, avrebbero conquistato con venti uomini soltanto tutta la Gran Canaria ed i suoi diecimila indigeni. Il barone di Béthencourt, vedendoli così baldanzosi, fece loro mille raccomandazioni di prudenza, di cui essi non tennero conto, il che costò loro assai caro. Infatti, in una scaramuccia nella quale ebbero dapprima il vantaggio contro i

Canariani, essi si dispersero; sorpresi allora dagli indigeni, furono trucidati in numero di ventidue, fra i quali il luogotenente Giovanni il Cortese ed Annibale, il bastardo di Gadifer. Dopo questa sciagura, il barone di Béthencourt lasciò la Gran Canaria per andare a sottoporre dominio l'isola di Palma. I Palmeros erano uomini abilissimi nel lanciar sassi, ed era raro che sbagliassero il tiro. Perciò, nei numerosi combattimenti cogli indigeni, vi fu gran numero di morti dalle due parti, ma per altro più Canariani che Normanni, dei quali per un centinaio. Dopo sei settimane di scaramuccie, il barone lasciò l'isola di Palma e si recò a passar tre mesi all'isola del Ferro, grand'isola di sette leghe di lunghezza per cinque di larghezza, ed avente la forma d'una mezzaluna. Il suo suolo è elevato ed unito; gran boschi di pini e di lauri l'ombreggiano in molti luoghi. I vapori, trattenuti da alte montagne, bagnano il suolo e lo rendono proprio alla coltura del grano e della vite. La selvaggina vi è abbondantissima; i porci, le capre, le pecore corrono per la campagna in compagnia di grosse lucertole, che hanno le dimensioni delle iguane d'America. Quanto agli abitanti del paese, uomini e donne, erano bellissimi, vivaci, allegri, sani, agili di corpo, ben proporzionati e molto inclini al matrimonio. In sostanza, quest'isola del Ferro era una delle più «piacevoli» che vi fossero nell'arcipelago. Il barone di Béthencourt, com'ebbe conquistata l'isola di Ferro e l'isola di Palma, tornò a Fortaventura colle navi. Quest'isola, lunga diciassette leghe e larga otto, è formata di pianure e di montagne. Pure il suo suolo è meno accidentato di quello delle altre isole dell'arcipelago. Gran correnti d'acqua dolce scorrono sotto magnifici boschetti; le euforbie, dal sugo lattiginoso ed acre, vi forniscono un veleno potente. In oltre datteri e ulivi vi abbondano, come pure una certa pianta

tintoriale, la cui coltura doveva essere lucrosissima. La costa di Fortaventura non offre buoni rifugi per le grosse navi, ma le piccole possono starvi al sicuro. Fu in quest'isola che il barone di Béthencourt incominciò a spartire le terre fra i suoi coloni, ed egli fece la divisione con tanta giustizia, che ciascuno fu contento della sua parte. Quelli ch'egli aveva condotto seco, i suoi propri compagni, dovevano essere esenti da canone per nove anni. La questione di religione e d'amministrazione religiosa non poteva essere indifferente ad un uomo pio quanto il barone di Béthencourt. Egli risolvette dunque di recarsi a Roma per ottenere per questo paese un prelato vescovo, che «ordinasse e magnificasse la fede cattolica.» Ma, innanzi di partire, egli nominò suo nipote, Maciot di Béthencourt, luogotenente e governatore di tutte le isole dell'arcipelago. Sotto i suoi ordini dovevano funzionare due sergenti, che avrebbero il governo della giustizia. Egli ordinò pure che, due volte l'anno, gli fossero mandate delle notizie in Normandia, e che la rendita di Lancerote e di Fortaventura fosse impiegata alla costruzione di due chiese. Ed egli disse a suo nipote Maciot: «In oltre, io vi do pieno potere ed autorità perchè in ogni cosa che voi giudicherete profittevole ed onesta, ordiniate e facciate fare, salvando il mio onore dapprima ed il mio profitto. Il più presto che voi potrete, seguite i costumi di Francia e di Normandia, tanto in giustizia quanto in altra cosa che crederete bene di fare. Vi prego pure ed incarico che quanto più possiate, abbiate pace ed unione insieme, che vi amiate tutti come fratelli, e segnatamente che fra di voi, gentiluomini, non abbiate invidia gli uni degli altri. Io ho dato a ciascuno di voi il fatto vostro; il paese è abbastanza ampio; siate amici gli uni degli altri, siate gli uni degli altri. Io non saprei più che dirvi, tranne per insistere che abbiate pace fra di voi, e così tutto andrà bene.»

Il barone di Béthencourt rimase tre mesi nell'isola di Fortaventura e nelle altre isole. Egli cavalcava sulla sua mula, intrattenendosi colle genti del paese, che incominciavano a parlare la lingua normanna. Maciot ed altri gentiluomini lo accompagnavano. Egli indicava loro le buone cose da fare, le

misure oneste da prendere. Poi, quando ebbe ben esplorato quell'arcipelago che aveva conquistato, fece annunciare ch'egli partirebbe per Roma il 15 dicembre di quell'anno. Ritornato a Lancerote, il barone di Béthencourt vi stette fino alla sua partenza. Egli ordinò allora a tutti i gentiluomini

che aveva condotto seco, ai suoi operai ed ai tre re canariani di riunirsi in sua presenza due giorni prima della sua partenza, perchè udissero il suo volere e perchè desiderava di raccomandarli a Dio. Nessuno mancò al convegno. Il barone di Béthencourt li ricevette tutti alla fortezza di Lancerote, dove li trattò

sontuosamente. Terminato il pasto, montò in una cattedra un po' alta e rinnovò le raccomandazioni circa l'obbedienza che ciascuno doveva a suo nipote Maciot, il prelevamento del

quinto denaro su ogni cosa a suo profitto, l'esercizio dei doveri di cristiano e l'amor di Dio. Poi scelse coloro che dovevano accompagnarlo a Roma, e si accinse a partire. Appena la sua nave ebbe spiegato le vele, i gemiti scoppiarono da ogni parte. Europei e Canariani piangevano «quel retto signore» che credevano di non dover rivedere mai più. Un gran numero d'essi entravano nell'acqua fino alle ascelle, e cercavano di trattenere la nave che lo portava via. Ma la vela è issata, il sire di Béthencourt parte. «Dio colla sua grazia voglia risparmiargli ogni male ed ogni impiccio!» In sette giorni il barone normanno giunse a Siviglia. Di là egli andò a raggiungere il re a Valladolid, dove fu accolto con gran favore. Egli narrò la storia della sua conquista al re di Spagna e sollecitò da lui delle lettere di raccomandazione per il papa, per ottenere la creazione di un episcopato nelle isole Canarie. Il re, dopo d'averlo trattato assai bene e colmato di presenti, gli consegnò le lettere da lui chieste, ed il barone di Béthencourt partì per Roma con un seguito brillante. Giunto nella città eterna, il barone vi soggiornò tre settimane. Egli fu ammesso a baciare i piedi del papa Innocenzo VII, che, rallegrandosi della conquista da lui fatta di tutti quei Canariani alla fede cattolica, lo complimentò del coraggio di cui aveva dato prova andando così lontano dalla Francia. Poi le bolle furono fatte quali le chiedeva il barone di Béthencourt, ed Alberto des Maisons fu nominato vescovo di tutte le isole canariane. Finalmente il barone si accomiatò dal papa, che gli diede la benedizione. Il nuovo prelato fece i suoi addii al barone e partì immediatamente per la sua diocesi. Egli passò per la Spagna, e quivi consegnò al re delle lettere di Giovanni di Béthencourt, poi fece vela per Fortaventura, dove giunse senza difficoltà. Ser Maciot, che era stato creato cavaliere, lo ricevette con grandi riguardi. Alberto des Maisons ordinò subito la diocesi,

governando graziosamente e bonariamente, predicando spesso, ora in un'isola, ora in un'altra, ed istituendo in chiesa delle preghiere speciali per Giovanni di Béthencourt. Maciot era amato da tutti del pari, e segnatamente dalla gente del paese. Vero è che questo bel tempo non durò che cinque anni, giacché più tardi Maciot, inebbriato dall'esercizio del potere sovrano, entrò nella via delle esazioni e fu cacciato dal paese. Frattanto il barone di Béthencourt aveva lasciato Roma dal canto suo. Egli passò per Firenze e giunse a Parigi, poi a Béthencourt, dove un gran numero di gentiluomini vennero a visitare nella sua persona il re delle Canarie. Non bisogna chiedere se gli si facesse bella accoglienza; se era venuta molta gente dabbene al primo ritorno del barone, stavolta ne venne più ancora. Il barone di Béthencourt, già avanzato negli anni, venne a stare a Grainville con sua moglie, ancora bella e giovane donna. Egli aveva frequenti notizie delle sue care isole, di suo nipote Maciot, e sperava di ritornare nel suo regno di Canaria; ma Dio non gli diede questa gioia. Un giorno, nell'anno 1425, il barone infermò nel suo castello, e si vide bene ch'egli moriva. Egli fece dunque il suo testamento, ricevette i sacramenti della Chiesa, «e, dice la relazione nel finire, andò da questo secolo nell'altro. Dio voglia perdonargli i suoi misfatti. Egli è sepolto a Grainville-laTeinturière, nella chiesa della detta città, proprio in faccia all'altar maggiore della detta chiesa, e morì nell'anno millequattrocentoventicinque.»

CAPITOLO VII. CRISTOFORO COLOMBO (1436-1506). Scoperta di Madera, delle isole del Capo Verde, delle Azorre, della Guinea e del Congo — Bartolomeo Dias — Caboto ed il Labrador — Le tendenze geografiche e commerciali nel medio evo — Errore generalmente ammesso sulla distanza che separava l'Europa dall'Asia — Nascita di Cristoforo Colombo — Suoi primi viaggi — Suoi disegni respinti — Suo soggiorno nel convento dei Francescani — Egli è finalmente ricevuto da Ferdinando ed Isabella — Suo trattato del 17 aprile 1492 — I fratelli Pinzon — Tre caravelle equipaggiate al porto di Palos — Partenza del 3 agosto 1492.

Il 1492 è un anno celebre negli annali geografici. È la data memorabile della scoperta dell'America. Il genio d'un uomo stava, per così dire, per compiere il globo terrestre, giustificando quel verso di Gagliuffi: Unus erat mundus; duo sint, alt iste: fuere. L'antico mondo doveva dunque essere incaricato dell'educazione morale e politica del nuovo. Era esso all'altezza di quest'impresa, colle sue idee ancor limitate, le sue tendenze semibarbare, i suoi odi religiosi? I fatti risponderanno di per sé. Tra quest'anno 1405, alla fine del quale Giovanni di Béthencourt aveva terminata la sua colonizzazione delle Canarie, e l'anno 1492, che cosa era accaduto? Noi lo racconteremo in poche linee. Un movimento scientifico grande, dovuto agli Arabi, che poco stante dovevano essere cacciati dalla Spagna, si era prodotto in tutta la penisola. In tutti i porti, ma segnatamente in quelli del Portogallo, si parlava di quella terra d'Africa e dei paesi d'oltremare, così ricchi e così meravigliosi. «Mille racconti, dice Michelet, accendevano la curiosità, il valore e

l'avidità; si volevano vedere quelle misteriose regioni dove la natura aveva prodigato i mostri, dove essa aveva seminato l'oro alla superficie della terra.» Un giovane principe, l'infante dom Enrico, duca di Viseu, terzo figlio di Giovanni I, che si era dato allo studio dell'astronomia e della geografia, esercitò sopra i suoi contemporanei una grande influenza; è a lui che il Portogallo deve lo sviluppo della sua potenza coloniale, e quelle spedizioni ripetute, i cui racconti entusiastici ed i cui risultati grandiosi dovevano accendere l'immaginazione di Cristoforo Colombo. Stabilito alla punta meridionale della provincia di Algarves, a Sagri, donde i suoi sguardi abbracciavano l'immensità dell'Oceano e sembravano cercarvi qualche nuova terra, don Enrico fece costrurre un osservatorio, fondò un collegio marittimo dove gli scienziati disegnavano delle carte più corrette ed insegnavano l'uso della bussola, si circondò di dotti, e raccolse informazioni preziose sulla possibilità di fare il giro dell'Africa e di giungere alle Indie. Senza ch'egli abbia mai preso parte ad alcuna spedizione marittima, i suoi incoraggiamenti, la sua protezione per i marinai valsero a dom Enrico il soprannome di Navigatore, sotto il quale è conosciuto nella storia. Il capo Non, questo limite fatale dei navigatori antichi, era stato passato quando nel 1418 due gentiluomini della corte del re Enrico, Juan Gonzales Zarco e Tristano Vaz Teiseira, furono trascinati in alto mare e gettati verso un isolotto a cui diedero il nome di Puerto Santo. Qualche tempo dopo, navigando verso un punto nero che rimaneva fisso all'orizzonte, essi giunsero ad un'isola vasta e coperta di foreste magnifiche. Era Madera. Nel 1433, il capo Bojador, che aveva così lungamente arrestato gli esploratori, fu doppiato dai Portoghesi Gillianes e Gonzales Baldaya, che navigarono per più di quaranta leghe al di là.

Fatti arditi da questo esempio, Antonio Gonzales e Nuño Tristano si avanzarono, nel 1441, fino al capo Bianco, sul ventunesimo grado; «impresa, dice Faria y Souza, che, nell'opinione comune, non è nient'affatto al disotto delle più gloriose fatiche d'Ercole;» ed essi portarono a Lisbona una certa quantità di polvere d'oro, prodotto del Rio del Ouro. In un secondo viaggio, Tristano riconobbe alcune delle isole del capo Verde e si avanzò fino a Sierra Leone. Durante il corso di questa spedizione egli aveva comperato da trafficanti mori, sulla costa di Guinea, una decina di negri che portò a Lisbona e che rivendette a carissimo prezzo, giacché essi eccitavano vivamente la pubblica curiosità. Tale fu l'origine della tratta dei negri, che, per quattro secoli, doveva togliere all'Africa tanti milioni de' suoi abitanti, e diventare la vergogna dell'umanità. Nel 1441, Cada Mosto doppiò il capo Verde ed esplorò una parte della costa inferiore. Verso il 1446, i Portoghesi, avanzandosi più oltre in pieno mare dei loro antecessori, rilevarono l'arcipelago delle Azzorre. Quind'innanzi ogni timore è bandito. Valicata quella linea formidabile dove si credeva che l'aria ardesse come il fuoco, le spedizioni si succedono senza tregua, e ciascuno ritorna dopo d'aver aumentato il numero delle regioni scoperte. Pareva che quella costa d'Africa non dovesse finir mai. Più si avanzava nel sud, più quel capo tanto cercato, quell'estremità del continente che bisognava doppiare per recarsi nel mar delle Indie, sembrava rinculare! Da qualche tempo il re Giovanni II aveva aggiunto a' suoi titoli quello di signore di Guinea. Già, col Congo, si era scoperto un nuovo cielo e stelle ignote, quando Diogo Cam, in tre viaggi successivi, portò la conoscenza dell'Africa più lungi di quanto avessero fatto i suoi predecessori, e per poco non tolse a Dias l'onore d'aver riconosciuto la punta australe del continente. Il punto estremo a cui egli giunse è posto a 21° 50'

sud. È il capo Cross, dov'egli eresse, secondo il costume, un padrao o padron, vale a dire una colonna commemorativa, che fu poi ritrovata. Al suo ritorno egli visitò il re del Congo nella sua capitale e ricondusse a Lisbona un ambasciatore chiamato Cacuta, con un seguito numeroso di Africani, i quali venivano tutti a farvisi battezzare ed istruire nei dogmi della fede che dovevano propagare al loro ritorno al Congo. Poco tempo dopo il ritorno di Diogo Cam, nel mese d'agosto 1487, tre caravelle uscirono dal Tago sotto il comando supremo d'un cavaliere della casa del re, chiamato Bartolomeo Dias, veterano dei mari di Guinea. Egli aveva sotto i suoi ordini un marinaio esperimentato, Joam Infante, ed il suo proprio fratello, Pedro Dias, capitano della più piccola delle tre navi, che era carica di viveri. Non abbiamo alcun particolare circa la prima fase di questa memoranda spedizione. Sappiamo solo, per ciò che ne dice Joao de Barros, al quale bisogna sempre ricorrere per tutto quanto si riferisce alle navigazioni dei Portoghesi, che di là dal Congo egli segui la costa fino al 29° parallelo, ed approdò ad un punto ch'egli chiamò das Voltas, a causa delle bordate che gli bisognò correre per giungervi, e dove lasciò la più piccola delle sue navi sotto la custodia di nove marinai. Dopo d'essere stato trattenuto cinque giorni in questo seno dal brutto tempo, Dias prese il largo e si spinse al sud; ma si vide battuto per tredici giorni dalla tempesta. Più egli si addentrava nel sud, più la temperatura si abbassava e diventava relativamente rigida. In fine, la furia degli elementi essendosi quetata, Dias volse la prua all'est, dove contava d'incontrar la terra. Ma in capo ad alcuni giorni, trovandosi a 42° 54' sud, egli fece rotta al nord e venne ad ancorarsi nella baia dos Vaqueiros, così chiamata dai greggi di bestie cornute e dai pastori che, dalla spiaggia, fuggirono nell'interno alla vista delle due navi. In quel momento Dias era

a quaranta leghe all'est del capo di Buona Speranza ch'egli aveva doppiato senza vederlo. La spedizione fece provvista d'acqua, giunse alla baia San Braz (oggi Mossel-Bay), e risalì la costa fino alla baia de l'Algua ad un'isola da Cruz, dove fu eretto un padrao. Ma colà, gli equipaggi, abbattuti dai pericoli che avevano sfidati, sfiniti dalla cattiva qualità e dalla scarsezza dei viveri, dichiararono di non voler più andar oltre. «Del resto, dicevano essi, poiché la costa si stende ora verso l'est, è bene andare a riconoscere quel capo che si è doppiato senza saperlo.» Dias radunò il consiglio ed ottenne che si risalisse ancora nel nord-est per due o tre giorni. È in grazia della sua fermezza ch'egli potè giungere, a venticinque leghe da Cruz, ad un fiume che chiamò, dal nome del suo secondo, Rio Infante. Ma, innanzi al rifiuto degli equipaggi d'andar più oltre, Dias fu costretto a ripigliar la via dell'Europa. «Quand'egli si separò, dice Barros, dal pilastro che aveva eretto in quel luogo, lo fece con un tale sentimento d'amarezza, un tal dolore, che si sarebbe detto ch'egli abbandonasse un figlio esiliato per sempre, soprattutto quando si ricordava quanti pericoli avevano corsi lui ed i suoi, da quale regione lontana era loro toccato venire, unicamente per piantare quel segnale, poiché Dio non aveva loro accordato il principale.» In fine essi scoprirono quel gran capo «nascosto per tanti secoli e che il navigatore, coi suoi compagni, chiamò il Capo delle Tempeste (o Cabo Tormentoso), in memoria dei perigli e delle tempeste che avevano dovuto sfidare prima di passarlo.» Coll'intuizione propria degli uomini di genio, Giovanni II sostituì a questo nome di capo delle Tempeste quello di capo di Buona Speranza. Per lui, la via delle Indie era quind'innanzi aperta, ed i suoi ampi disegni per l'estensione del commercio e l'influenza della sua patria stavano per potersi compiere. Il 24 agosto 1488, Dias rientrava ad Angra das Voltas. Dei

nove uomini ch'egli vi aveva lasciato, sei erano morti; un settimo morì di gioia rivedendo i compatrioti. Il ritorno si compì senza incidenti degni di nota. Dopo una fermata alla costa di Benin, dove si fece la tratta, ed a La Mina, dove si ricevette dal governatore il denaro proveniente dal commercio della colonia, la spedizione giungeva in Portogallo nel dicembre 1488. Cosa meravigliosa! Dias non solo non ottenne alcuna ricompensa per quell'ardito viaggio coronato dalla riuscita, ma sembra essere stato disgraziato, giacché non lo si vede più adoperato per una decina d'anni. Anzi, il comando della spedizione incaricate di doppiare il capo da lui scoperto fu dato a Vasco da Gama, e Dias non fece che accompagnarlo fino a La Mina. Egli potè udire il racconto della meravigliosa campagna del suo fortunato emulo nell'India, e giudicare dell'immensa influenza che tale avvenimento eserciterebbe sui destini della sua patria. Egli faceva parte di quella spedizione di Cabral che scoprì il Brasile; ma non ebbe neppur la gioia di contemplare le spiaggie, di cui aveva mostrato il cammino. La flotta aveva appena lasciato la terra americana, e sorse un orribile uragano. Quattro navi colarono a fondo, e, fra esse, quella che Dias comandava. È per far allusione a questa fine tragica che Camoens mette in bocca ad Adamastorre, il genio del capo delle Tempeste, la tenebrosa predizione: «Io farò un esempio terribile della prima flotta che passerà presso queste rupi, e segnalerò la mia vendetta su colui che, primo, è venuto a sfidarmi nella mia dimora.» In sostanza, non fu che nel 1497, ossia cinque anni dopo la scoperta dell'America, che la punta australe dell'Africa venne doppiata da Vasco da Gama. Si può dunque asserire che se quest'ultimo avesse preceduto Colombo, la scoperta del nuovo continente sarebbe stata verosimilmente ritardata di molti

secoli. In fatti, i navigatori di quel tempo si mostravano molto paurosi; essi non osavano arrischiarsi in pieno Oceano; poco desiderosi di sfidare mari ignoti, seguivano prudentemente la costa africana senza mai allontanarsene. Se dunque il capo delle Tempeste fosse stato doppiato, i marinai avrebbero preso l'abitudine di recarsi alle Indie per questa via, e nessuno d'essi avrebbe pensato a giungere al «Paese delle Spezie,» vale a dire in Asia, arrischiandosi attraverso l'Atlantico. A chi, in fatti, sarebbe venuto il pensiero di cercar l'Oriente per le vie dell'Occidente? Ora, per siffatti motivi appunto, quest'idea era all'ordine del giorno. «Il principale oggetto delle imprese marittime dei Portoghesi nel secolo XV, dice Cooley, era la ricerca d'un passaggio alle Indie per l'Oceano.» I più dotti non si spingevano fino a supporre l'esistenza d'un nuovo continente per ragioni d'equilibrio e di ponderazione del globo terrestre. Noi diremo di più. Alcune parti di quel continente americano erano già state veramente scoperte. Un navigatore italiano, Sebastiano Caboto, nel 1487, avrebbe approdato sopra un punto del Labrador. I Normanni scandinavi erano già sbarcati certamente su quelle coste ignote. I coloni del Groenland avevano esplorato la terra di Vinland. Ma era tale la disposizione degli spiriti a quel tempo, e tanta l'improbabilità dell'esistenza d'un mondo nuovo, che quel Groenland, quel Vinland, quel Labrador non erano considerati se non come un prolungamento delle terre europee. I navigatori del secolo XV non cercavano dunque di stabilire comunicazioni più facili colle spiaggie dell'Asia. In fatti, la via delle Indie, della China e del Giappone, regioni già note per i meravigliosi racconti di Marco Polo, questa via che attraversava l'Asia Minore, la Persia, la Tartaria, era lunga e pericolosa. Del resto, queste «vie terrestri» non potevano mai

diventare mercantili; i trasporti vi sono troppo difficili e costosi. Bisognava trovare una comunicazione più pratica, e però tutti i popoli del litorale europeo, dall'Inghilterra fino alla Spagna, tutte le popolazioni rivierasche del Mediterraneo, vedendo le gran vie dell'Atlantico aperte innanzi alle loro navi,

dovevano chiedersi infatti se esse non conducessero alle spiaggie dell'Asia. La sfericità della terra essendo dimostrata, questo ragionamento era giusto. Dirigendosi sempre all'ovest, si doveva necessariamente giungere all'est. Quanto alla via

attraverso l'Oceano, essa non poteva mancare di essere libera. In fatti, chi avrebbe supposto l'esistenza di quell'ostacolo lungo tremiladugentocinquanta leghe gettato fra l'Europa e l'Asia, che fu chiamato l'America? Conviene osservare in oltre che gli scienziati del Medio Evo non credevano che le spiaggie dell'Asia fossero situate a

più di duemila miglia dalle spiaggie dell'Europa. Aristotile supponeva il globo terrestre più piccolo che non sia veramente. «Quanto vi ha dalle ultime spiaggie della Spagna fino all'India? diceva Seneca. Lo spazio di pochissimi giorni, se il vento è favorevole alle navi.» Tale era pure l'opinione di Strabone.

Questa via tra l'Europa e l'Asia doveva esser breve. In oltre, dei punti di fermata quali le Azzorre e quelle isole Antilia di cui si ammetteva l'esistenza nel secolo XV, fra l'Europa e l'Asia, dovevano assicurare la facilità delle comunicazioni transoceaniche. Si può dunque asserire che questo errore di distanza, così generalmente accreditato, una cosa questo di buono che invitò ì naviganti di quel tempo a tentare la traversata dell'Atlantico. Se essi avessero conosciuto la vera distanza che separa l'Asia dall'Europa, vale a dire cinquemila miglia, non si sarebbero mai arrischiati sui mari dell'ovest. Convien dire che alcuni fatti davano, od almeno sembravano dar ragione ai partigiani d'Aristotile e di Strabone, che credevano alla prossimità delle spiaggie orientali. Così, un pilota del re di Portogallo, navigando a quattrocentocinquanta leghe al largo del capo San Vincenzo, situato alla punta delle Algarvi, trovò un pezzo di legno ornato di sculture antiche, che non poteva provenire se non da un continente poco lontano. Vicino a Madera, dei pescatori avevano incontrato un trave scolpito e lunghi bambù che per la loro forma ricordavano quelli della penisola indiana. In oltre, gli abitanti delle Azzorre raccoglievano spesso sulle loro spiaggie dei pini giganteschi d'un'essenza ignota, e raccolsero un giorno due corpi umani «cadaveri dalla larga faccia, dice il cronista Herrera, non rassomiglianti a cristiani.» Questi diversi fatti accendevano le immaginazioni. Siccome s'ignorava nel secolo XV l'esistenza di quel GulfStream che, avvicinandosi alle coste europee, porta loro i rottami americani, si aveva ragione di attribuire a quegli avanzi un'origine puramente asiatica. Dunque, l'Asia non era lontana dall'Europa, e le comunicazioni fra questi due estremi del vecchio continente dovevano esser facili. Così, nessun geografo del tempo pensava all'esistenza d'un

nuovo mondo — è quanto importa porre bene in sodo. Non si parlava neppure, cercando quella via dell'ovest, di estendere le cognizioni geografiche. No: furono commercianti che si misero a capo di questo movimento e che preconizzarono la traversata dell'Atlantico. Essi pensavano solo a trafficare, ed a farlo pel cammino più breve. Bisogna aggiungere che la bussola, inventata, secondo l'opinione più generale, verso il 1302, da un certo Flavio Gioja d'Amalfi, permetteva allora alle navi d'allontanarsi dalle coste e di dirigersi fuori di vista da qualunque terra. In oltre, Martino Behaim e due medici di Enrico di Portogallo avevano trovato il modo di guidarsi badando all'altezza del sole e d'applicare l'astrolabio ai bisogni della navigazione. Ammesse queste facilità, la questione commerciale della via dell'ovest si trattava dunque giornalmente in Spagna, in Portogallo, in Italia, paesi in cui la scienza è fatta d'immaginazione per tre quarti. Si discuteva e si scriveva. I commercianti, sovreccitati, mettevano gli scienziati alle prese. Un gruppo di fatti, di sistemi, di dottrine, si formava; era tempo che una sola intelligenza venisse a compendiarli e ad assimilarseli. È ciò che accadde. Tutte queste idee sparse finirono coll'accumularsi nella testa d'un uomo, che ebbe, in raro grado, il genio della perseveranza e dell'audacia. Quest'uomo fu Cristoforo Colombo, nato verosimilmente presso Genova, verso il 1436. Diciamo «verosimilmente,» perchè i villaggi di Cogoleto e di Nervi reclamano con Savona e Genova l'onore d'averlo visto nascere. Quanto all'anno esatto della nascita di questo illustre navigante esso varia, secondo i commentatori, dal 1430 al 1445; ma l'anno 1436 sembra accordarsi più esattamente coi documenti meno discutibili. La famiglia di Cristoforo Colombo era d'umile condizione. Suo padre, Domenico Colombo, fabbricante di pannilani godeva tuttavia d'una certa agiatezza, che gli permise di dare a'

suoi figli un'educazione più che ordinaria. Il giovane Colombo, il maggiore della famiglia, fu mandato all'università di Pavia per apprendervi la grammatica, la lingua latina, la geografia, l'astronomia e la navigazione. A quattordici anni, Cristoforo Colombo lasciò le panche della scuola per il ponte d'una nave, e bisogna confessare che, da questo tempo fino al 1487, corre un periodo della sua vita molto oscuro. Citiamo anzi in proposito l'opinione di Humboldt, riferita dal signor Charton, il cui rammarico cresce «di quest'incertezza relativa a Colombo, quando si rammenta di tutto ciò che i cronisti hanno conservato minuziosamente sulla vita del cane Becerillo o sull'elefante Abulababat, che Aarunal-Raschyd mandò a Carlomagno.» Ciò che sembra più probabile, se si sta ai documenti del tempo ed agli scritti di Colombo medesimo, è che il giovane viaggiatore visitasse il Levante, l'Occidente, il Nord, molte volte l'Inghilterra, il Portogallo, la costa di Guinea, le isole africane, fors'anche il Groenland, avendo all'età di quarant'anni «navigato tutto ciò che era stato navigato prima di lui.» Cristoforo Colombo era diventato un buon marinaio. La sua riputazione lo fece scegliere a comandare le galere genovesi al tempo della guerra della repubblica con Venezia. Il nuovo capitano fece poi una spedizione sulle coste barbaresche per conto del re Renato d'Anjou, e finalmente, nel 1477, andò a riconoscere le terre poste oltre i ghiacci dell'Islanda. Terminato felicemente questo viaggio, Cristoforo Colombo tornò a Lisbona, dove aveva posto dimora. Colà, sposò la figlia d'un gentiluomo italiano, Bartolomeo Muniz Perestrello, marinaio al pari di lui e molto al fatto delle idee geografiche. Sua moglie, donna Filippa, era senza ricchezze; lui non aveva nulla; bisognò dunque lavorare per vivere. Il futuro scopritore del nuovo mondo si diede a fabbricare libri d'immagini, globi terrestri, carte geografiche, piani nautici, e

ciò fino al 1484, ma senza abbandonare i suoi lavori scientifici e letterari. È anzi probabile che in questo periodo egli rifacesse tutti i suoi studi, e riuscisse ad acquistare un'istruzione di molto superiore a quella dei marinai del suo tempo. Fu in questo tempo che «la grande idea» germinò per la prima volta nel suo spirito? Si può credere. Cristoforo Colombo seguiva assiduamente le discussioni relative alle vie dell'ovest ed alla facilità delle comunicazioni per l'Occidente tra l'Europa e l'Asia. La sua corrispondenza prova ch'egli divideva l'opinione d'Aristotile sulla distanza relativamente breve che separava le spiaggie estreme dell'antico continente. Egli scrisse frequentemente agli scienziati più valenti del suo tempo, a quel Martino Behaim di cui abbiamo già parlato, al celebre astronomo fiorentino Toscanelli, le cui opinioni ebbero grande influenza su quelle di Cristoforo Colombo. A quel tempo, secondo il ritratto che ne dà il suo storico Washington Irving, Cristoforo Colombo era uomo d'alta statura, robusto e nobile di aspetto. Egli aveva la faccia lunga, il naso aquilino, le ossa delle guancie sporgenti, gli occhi limpidi e pieni di fuoco, la tinta vivace e chiazzata da qualche rossore. Era un cristiano profondamente convinto, che adempiva con fede sincera i doveri della religione cattolica. Nel tempo in cui Cristoforo Colombo era in relazione coll'astronomo Toscanelli, egli apprese che costui, a richiesta d'Alfonso V, re di Portogallo, aveva consegnato al re una memoria approfondita sulla possibilità di giungere alle Indie per la via dell'ovest. Colombo, consultato, avvalorò con tutta la sua autorità le idee di Toscanelli, favorevoli al tentativo. Ma queste pratiche non ebbero alcun risultato, perchè il re di Portogallo, distolto da tale disegno dalle sue guerre colla Spagna, morì senza aver potuto rivolgere l'attenzione alle scoperte marittime. Il suo successore, Giovanni II, adottò con entusiasmo i

disegni combinati da Colombo e da Toscanelli. Tuttavia, con un'astuzia che bisogna svelare, egli cercò di spogliare quei due scienziati del benefizio della loro proposta, e, senza prevenirli, fece partire una nave per tentare questa grande intrapresa e giungere in China attraversando l'Atlantico. Ma egli contava senza l'inesperienza de' suoi piloti, senza la tempesta che si scatenò contro di essi, e, alcuni giorni dopo la partenza, un uragano riconduceva a Lisbona i marinai del re di Portogallo. Cristoforo Colombo, ferito giustamente da quest'atto d'indelicatezza, comprese che non poteva più fare assegnamento su quel re che lo aveva, indegnamente tradito. Diventato vedovo, lasciò la Spagna con suo figlio Diego verso la fine dell'anno 1484. Si crede ch'egli si recasse a Genova, poi a Venezia, dove i suoi disegni di navigazione transoceanica furono assai male accolti. Checché ne sia, lo si ritrova in Ispagna nel corso dell'anno 1485. Il povero grand'uomo era alle strette. Egli viaggiava a piedi, portando fra le braccia il suo piccolo Diego, che aveva dieci anni. Ma da questo periodo della sua vita, la storia lo segue passo passo, non lo perde più di vista, e conserva alla posterità i minimi incidenti di quella grande esistenza. Cristoforo Colombo era allora in Andalusia, a mezza lega dal porto di Palos. Privo di tutto, morente di fame, egli andò a picchiare alla porta d'un convento di Francescani dedicato a Santa Maria di Rabida, e domandò l'elemosina d'un tozzo di pane e d'un po' d'acqua pel suo piccino e per sé. Il guardiano del convento, Juan Perez de Marchena, accordò ospitalità al disgraziato viaggiatore. Lo interrogò, e stupito della nobiltà del suo linguaggio, quel buon padre fu ancora più meravigliato dell'arditezza delle sue idee, giacché Cristoforo Colombo gli fece conoscere le sue aspirazioni. Per molti mesi, il marinaio errante abitò quel convento ospitale. Dei dotti monaci s'interessarono a lui ed ai suoi disegni. Essi

studiarono i suoi piani, s'informarono presso navigatori rinomati, e, bisogna notarlo, furono i primi a credere al genio di Cristoforo Colombo. Juan Perez fece di più; egli offrì al padre d'incaricarsi dell'educazione di suo figlio, e gli diede una lettera di raccomandazione per il confessore della regina di Castiglia. Questo confessore, priore del monastero di Prado, godeva di tutta la fiducia di Ferdinando e d'Isabella; ma egli non seppe ammettere i disegni del navigatore genovese, e non lo servì in alcuna maniera presso la sua reale penitente. Cristoforo Colombo dovette ancora rassegnarsi ed aspettare. Egli andò dunque a stare a Cordova, dove la corte doveva recarsi, e, per vivere, ripigliò il suo mestiere di fabbricante d'immagini. Si può forse citare nella storia degli uomini illustri un'esistenza più malmenata di quella del gran navigante? La fortuna poteva forse colpirlo più formidabilmente? Ma quest'uomo di genio indomabile, infaticabile, rialzandosi sotto i colpi della sventura, non disperava mai. Aveva il fuoco sacro, lavorava sempre, visitando i personaggi influenti, spandendo e difendendo le proprie idee, combattendo di continuo coll'energia più eroica. Finalmente, riuscì ad ottenere la protezione del gran cardinale, arcivescovo di Toledo, Pedro Gonzales de Mendoza, ed in grazia sua fu ammesso in presenza del re e della regina di Spagna. Cristoforo Colombo dovette credere allora d'essere giunto al termine delle sue tribolazioni, poiché Ferdinando ed Isabella accolsero favorevolmente il suo disegno, che fu sottoposto all'esame d'un concilio di scienziati, di prelati e di religiosi riuniti in un convento domenicano di Salamanca. Ma il disgraziato sollecitatore non era al termine delle sue vicissitudini. In quest'assemblea, trovò tutti i giudici contro di lui. Infatti, le sue idee toccavano le questioni religiose, così appassionate nel secolo XV. I Padri della Chiesa avevano

negato la sfericità della terra, e, per conseguenza, poiché la terra non era rotonda, un viaggio di circumnavigazione diventava assolutamente contradditorio coi testi della Bibbia, e non poteva venir logicamente intrapreso. «Del resto, dicevano quei teologhi, se mai si riuscisse a discendere nell'altro emisfero, come si potrebbe risalire in questo?» Era un argomento molto grave per quel tempo. Perciò, Cristoforo Colombo fu quasi accusato del più imperdonabile dei delitti in quei paesi intolleranti, vale a dire d'eresia. Egli potè sfuggire alle male disposizioni del concilio, ma lo studio del suo disegno fu ancora differito. Passarono lunghi anni. Il pover'uomo di genio, disperando di riuscire in Ispagna, mandò suo fratello al re d'Inghilterra, Enrico VIII, per offrirgli i propri servigi. Probabilmente il re non rispose. Cristoforo Colombo si rivolse allora con nuova insistenza al re Ferdinando. Ma costui era allora impegnato nella guerra di sterminio contro i Mori, e non fu che nel 1492, dopo d'averli cacciati di Spagna, che prestò di nuovo orecchio alle parole del Genovese. Il negozio stavolta fa esaminato maturamente. Il re acconsentì a tentar l'impresa; ma, come conviene alle anime fiere, Cristoforo Colombo volle imporre le sue condizioni. Si mercanteggiò con colui che doveva arricchire la Spagna! Colombo, indignato, stava senza dubbio per lasciare per sempre l'ingrato paese; ma Isabella, commossa al pensiero di quegli infedeli dell'Asia ch'essa sperava di convertire alla fede cattolica, fece richiamare il celebre navigatore ed acconsentì a tutte le sue domande. Fu dunque diciotto anni soltanto dopo d'aver concepito il proprio disegno, e sette anni dopo aver lasciato il monastero di Patos, che Colombo, allora nel suo cinquantaseiesimo anno, sottoscrisse a Santa-Feta, il 17 aprile 1492, un contratto col re

di Spagna. Per convenzione solenne, l'ufficio di grande ammiraglio fu dato a Cristoforo Colombo in tutte le terre ch'egli potrebbe scoprire. Questa dignità doveva passare a' suoi eredi e successori a perpetuità. Cristoforo Colombo era nominato viceré e governatore delle nuove possessioni ch'egli sperava di conquistare in quella ricca regione dell'Asia. Un decimo delle perle, pietre preziose, oro, argento, spezie, e di tutte le derrate e mercanzie di qualunque genere, ottenute in qualsiasi maniera nei limiti della sua giurisdizione, doveva appartenergli in assoluta proprietà. Tutto era conchiuso, e Cristoforo Colombo stava per mettere finalmente il suo disegno in esecuzione. Ma, ripetiamolo, egli non pensava ad incontrare quel nuovo mondo di cui non sospettava neppur l'esistenza. Egli voleva solo «cercar l'Oriente per l'Occidente, e passare per la via dell'Ovest nella terra in cui crescono le spezie.» Si può anzi asserire che Colombo è morto colla opinione d'aver toccato le spiaggie dell'Asia e senza aver saputo mai ch'egli avesse scoperto l'America. Ma questo non scema nient'affatto la sua gloria. L'incontro del nuovo continente non fu che un caso; ciò che assicura a Colombo un'immortale rinomanza, è il genio audace che lo indusse ad affrontare i pericoli d'un oceano nuovo, ad allontanarsi da quelle spiaggie da cui i naviganti non avevano osato scostarsi fino allora, ad avventurarsi su quei fiotti colle fragili navi di quel tempo che la prima burrasca poteva inghiottire, a lanciarsi, in somma, nell'ignoto tenebroso dei mari. Cristoforo Colombo incominciò i suoi preparativi. Egli s'intese con ricchi negozianti di Patos, i tre fratelli Pinzon, che fecero le spese necessarie per completare l'armamento. Tre navi furono equipaggiate nel porto di Palos. Esse si chiamavano la Gallega, la Nina e la Pinta. La Gallega doveva

essere montata da Colombo, ed egli la battezzò col nome di Santa Maria. La Pinta era comandata da Martin-Alonzo Pinzon, e la Nina da Francesco-Martino e da Vincenzo-Yanez Pinzon, suoi due fratelli. Fu difficile formare gli equipaggi, giacché i marinai si spaventavano dell'impresa; tuttavia si riuscì a raccogliere centoventi uomini. Il venerdì 3 agosto 1492, l'Ammiraglio, valicando alle otto del mattino la barra di Saltes, posta al largo della città d'Huelva, in Andalusia, si avventurò colle sue tre navi sui fiotti dell'Atlantico.

II. Primo viaggio: La Gran Canaria — Gomere — Variazione magnetica — Sintomi di rivolta — Terra, terra! — San Salvador — Presa di possesso — Concezione — Fernandina o Grande Exuma — Isabella od isola Lunga — Le Mucaras — Cuba — Descrizione dell'isola — Arcipelago di Nostra Donna — Isola Spagnuola o San Domingo — Isolotto della Tartaruga — Il cacicco a bordo della Santa Maria — La nave di Colombo si arena e non può essere rimessa a galla — Isolotto Monte Cristi — Ritorno — Uragano — Arrivo in Ispagna — Omaggi resi a Cristoforo Colombo.

Durante la prima giornata del suo viaggio, l'Ammiraglio — è il titolo sotto il quale le relazioni lo designano, — l'Ammiraglio, volgendosi dritto verso il sud, fece quindici leghe prima del tramonto. Piegando allora al sud-est, egli volse la prua verso le isole Canarie, per riparare la Pinta, il cui timone si era smontato, forse per il mal animo del timoniere, spaventato dal viaggio. Dieci giorni più tardi, Cristoforo Colombo si ancorava innanzi alla Gran Canaria, dove riparava l'avaria della nave. Diciannove giorni dopo, egli si ancorava innanzi a Gomere, i cui abitanti gli confermarono l'esistenza d'una terra ignota all'ovest dell'arcipelago. Cristoforo Colombo non lasciò quest'isola prima del 6 settembre. Egli aveva ricevuto avviso che tre navi portoghesi lo aspettavano al largo coll'intenzione di tagliargli la via. Ma, senza tener conto di questo avvertimento, egli spiegò le vele, evitò abilmente l'incontro de' nemici, si diresse esattamente all'ovest, e perdette finalmente ogni terra di vista. Durante il corso del viaggio, l'Ammiraglio ebbe cura di nascondere a' compagni la lunghezza vera della via che percorrevano ogni giorno; egli la scemava sui rilievi quotidiani, per non ispaventar di più i marinai, facendo loro conoscere la vera distanza delle terre dall'Europa. Ogni giorno puro, egli osservava attentamente le sue bussole, ed è a lui certamente che si deve la scoperta della variazione magnetica, di cui egli

tenne conto ne' suoi calcoli. Ma i suoi piloti s'inquietavano molto vedendo quelle bussole volgere all'ovest. Il 14 settembre, i marinai della Nina, videro una rondinella ed un'aninga. La presenza di questi uccelli poteva indicare l'esistenza di terre vicine, giacché essi non si allontanano di

solito, più di venticinque leghe in mare. La temperatura era mitissima, il tempo magnifico; il vento soffiava dall'est e spingeva le navi in direzione favorevole. Ma per l'appunto questa persistenza dei venti d'est spaventava la maggior parte dei marinai, che vedevano in tale persistenza stessa, così

propizia all'andata, un ostacolo al ritorno. Il 16 settembre, s'incontrarono alcuni ciuffi d'erbe ancor fresche cullati dalle onde. Ma la terra non si mostrava. Quelle erbe provenivano verosimilmente dalle roccie sottomarine e non dalle spiaggie d'un continente. Il 17, trentacinque giorni

dopo la partenza della spedizione, si videro molte erbe galleggiare alla superficie del mare; sopra uno di quei massi erbosi, si vedeva anzi un gambero vivo, il che era indizio della vicinanza delle coste. Durante i giorni successivi, un gran numero d'uccelli, dei

matti, delle aninghe, delle rondinelle marine volarono intorno alle navi. Colombo si fondava sulla presenza di questi uccelli per rassicurare i compagni, che incominciavano a spaventarsi molto di non incontrare terra alcuna dopo sei settimane di viaggio. Egli invece, mostrava una gran sicurezza, mettendo tutta la sua fiducia in Dio; rivolgeva spesso ai suoi delle energiche parole, ed ogni sera, li invitava a cantare il Salve Regina o qualche altro inno alla Vergine. Alla parola di quest'uomo eroico, così grande, così sicuro di sé medesimo, così superiore a tutte le debolezze umane, gli equipaggi ripigliavano coraggio ed andavano innanzi. Si può credere che i marinai e gli ufficiali delle navi divorassero collo sguardo quell'orizzonte dell'ovest verso il quale si dirigevano. Tutti avevano un interesse pecuniario a segnalare il nuovo continente, giacché, al primo che lo scoprisse, il re Ferdinando aveva promesso una somma di diecimila maravedis, circa ottomila franchi di nostra moneta. Gli ultimi giorni del mese di settembre furono animati dalla presenza d'un certo numero di fregate e di procellarie, grandi uccelli che volano spesso a coppie, il che dimostrava che non erano smarriti. Perciò Cristoforo Colombo sosteneva con inalterabile convinzione che la terra non poteva essere lontana. Il 1° ottobre, l'Ammiraglio annunciò a' compagni che avevano fatto cinquecentottantaquattro leghe nell'ovest dall'isola di Ferro. In verità, la distanza percorsa dalle navi era superiore a settecento leghe, e Cristoforo Colombo lo sapeva bene, ma egli persisteva a nascondere la verità in proposito. Il 7 ottobre, gli equipaggi della flottiglia furono commossi da scariche di moschetteria che partivano dalla Nina. I comandanti, i due fratelli Pinzon, credevano d'aver visto la terra. Ma si riconobbe a breve andare che si erano ingannati. Tuttavia, siccome affermavano d'aver visto dei pappagalli

volare nella direzione di sud-ovest, l'Ammiraglio acconsentì a mutare la sua rotta di qualche punto verso il sud. Ora, questa modificazione ebbe conseguenze liete per l'avvenire, giacché continuando a dirigersi all'ovest, le navi sarebbero andate a battere nel gran banco di Bahama e vi si sarebbero probabilmente perdute. Frattanto la terra così ardentemente desiderata non appariva. Ogni sera il sole, scendendo sotto l'orizzonte, si tuffava dietro un'interminabile linea d'acqua. I tre equipaggi, molte volte vittime d'un'illusione d'ottica, incominciavano a mormorare contro Colombo, «un Genovese, uno straniero,» che li aveva trascinati lontano dalla patria. Si manifestarono alcuni sintomi di ribellione a bordo, ed il 10 ottobre, i marinai dichiararono che non andrebbero più oltre. Qui, alcuni storici un po' fantastici, che hanno narrato il viaggio di Cristoforo Colombo, parlano di scene gravi, di cui la sua nave sarebbe stata il teatro. Secondo essi, la sua vita sarebbe stata minacciata dai ribelli della Santa Maria. Essi dicono pure, che in seguito a queste recriminazioni e per una specie di transazione, tre giorni di tregua sarebbero stati accordati all'Ammiraglio, dopo i quali, se la terra non si fosse mostrata, la flotta doveva ripigliar la via dell'Europa. Si può asserire che questi racconti sono fiabe dovute all'immaginazione dei romanzieri del tempo. Non vi ha nelle relazioni medesime di Cristoforo Colombo alcuna cosa che permetta di prestarvi fede; ma conviene riferirli, giacché non bisogna ommetter nulla di quanto riguarda il navigante genovese, ed un po' di leggenda non sta male a questa gran figura di Cristoforo Colombo. Checché ne sia, si mormorava a bordo delle navi, il fatto non è dubbio, ma gli equipaggi, rincorati dalle parole dell'Ammiraglio, dalla sua energica attitudine in faccia all'ignoto, non si rifiutavano alla manovra.

L'11 ottobre, l'Ammiraglio notò lungo la sua nave una canna ancor verde, che galleggiava sopra un mare abbastanza grosso. Nel medesimo tempo, l'equipaggio della Pinta issava a bordo un'altra canna, una tavoletta ed un bastoncino che sembravano essere stati tagliati da uno strumento di ferro. La mano dell'uomo aveva evidentemente lasciato le sue traccie su quei rottami. Quasi nel medesimo tempo, gli uomini della Nina vedevano un ramo di bianco-spino in fiore, cosa di cui furono allegri tutti quanti. Non si poteva mettere in dubbio la prossimità della costa. La notte avvolse allora il mare. La Pinta, la miglior veliera della flottiglia, andava innanzi. Già lo stesso Cristoforo Colombo ed un certo Rodrigo Sanchez, controllore della spedizione, credevano d'aver osservato una luce che si muoveva nelle ombre dell'orizzonte, quando il marinaio Rodrigo, della Pinta, fece udire questo grido: «Terra! terra!» Che cosa dovette accadere in quel momento nell'animo di Colombo? Nessun uomo mai, dacché apparve la razza umana sulla terra, provò una commozione simile a quella che sentì allora il gran navigante? Fors'anco è permesso d'assicurare che l'occhio che scoprì primo quel nuovo continente fu quello dell'Ammiraglio? Ma poco importa; la gloria di Colombo non è d'essere arrivato, ma d'essere partito. Alle due di notte la terra fu veramente riconosciuta; le navi non ne erano lontane due ore. Tutti gli equipaggi intonarono con voce commossa il Salve Regina. Ai primi raggi del sole, fu vista una piccola isola a due leghe sottovento. Essa faceva parte del gruppo delle Bahama. Colombo la chiamò San Salvador, e subito, inginocchiandosi, incominciò a dire, con Sant'Ambrogio e con Sant'Agostino: «Tedeurn laudamus, te dominum confitemur.» In quel momento, dei naturali, interamente nudi, apparvero sulla nuova costa. Cristoforo Colombo scese nella sua

scialuppa con Alonzo e Yanez Pinzon, col controllore Rodrigo, col segretario Descovedo ed alcuni altri. Egli toccò la terra tenendo in mano la bandiera regale, mentre i due capitani portavano la bandiera dalla croce verde sulla quale s'intrecciavano le cifre di Ferdinando e d'Isabella. Poi, l'Ammiraglio prese solennemente possesso dell'isola in nome del re e della regina di Spagna, e fece fare processo verbale di questi atti. Durante questa cerimonia, gli indigeni circondavano Colombo ed i suoi compagni. Ecco in quali termini, riferiti dal signor Charton, secondo la narrazione medesima di Colombo, è narrata questa scena. «Desiderando d'ispirar loro (agli indigeni) dell'amicizia per noi, e persuaso, vedendoli, che si confiderebbero meglio a noi, e che sarebbero più disposti ad abbracciare la nostra santa fede se usassimo la dolcezza per persuaderli, meglio che se avessimo a ricorrere alla forza, io feci dare a molti di essi delle berrette di colore e delle perle di vetro che essi si misero al collo. Io vi aggiunsi alcune altre cose di poco valore; essi mostrarono una vera gioia, e si fecero vedere così riconoscenti, che ne fummo stupiti. Quando fummo sulle barche, essi vennero a nuoto verso di noi per offrirci dei pappagalli, dei gomitoli di filo di cotone, delle zagaglie e molte altre cose; in cambio, noi demmo loro delle piccole perle di vetro ed altri oggetti. Essi ci davano tutto ciò che avevano, ma mi sembrarono molto poveri ad ogni modo. Gli uomini e le donne erano nudi come quando erano usciti dal seno della madre. Fra quelli che vedemmo, una donna sola era abbastanza giovane, e nessuno degli uomini aveva più di trent'anni. Del resto, erano ben fatti, belli di corpo ed aggradevoli d'aspetto. I loro capelli, grossi come, i crini della coda d'un cavallo, cadevano innanzi sulle sopracciglia; di dietro pendevano in una lunga ciocca che non recidono mai. Ve ne sono alcuni che si tingono d'un color

nerastro; ma naturalmente sono dello stesso colore degli abitanti delle isole Canarie. Non sono né neri né bianchi; ve ne ha pure che si tingono di bianco, di rosso o di qualsiasi altro colore, il corpo intero, o soltanto la faccia, o gli occhi, o solo il naso. Essi non hanno armi come le nostre, e non sanno nemmeno che cosa siano. Quando mostravo loro delle sciabole, le pigliavano per il taglio e si tagliavano le dita. Non hanno ferro; le loro zagaglie sono bastoni. La loro punta non è di ferro, ma talvolta è formata con un dente di pesce o con qualche altro corpo duro. Hanno della grazia nelle movenze. Siccome notai che molti avevano delle cicatrici sul corpo, chiesi loro, a cenni, come fossero stati feriti, ed essi mi risposero nella medesima maniera che gli abitanti delle isole vicine venivano ad assalirli per pigliarli e che essi si difendevano. Io credevo, e credo ancora, che si venga dalla terra ferma per farli prigionieri e schiavi; essi devono essere servitori fedeli e d'una gran mitezza. Hanno una gran facilità a ripeter presto quello che intendono; sono persuaso che si convertirebbero al cristianesimo senza difficoltà, giacché credo che non appartengano ad alcuna fede.» Quando Cristoforo Colombo tornò a bordo, un certo numero di quei naturali seguì la sua barca a nuoto. Il domani, che era il 13 ottobre, i naturali tornarono in folla intorno alle navi. Essi montavano larghe piroghe tagliate in un tronco d'albero, ed alcune delle quali potevano contenere quaranta uomini; le dirigevano con una specie di pala da fornaio. Molti di quei selvaggi portavano piccole lamine d'oro appese al naso. Sembravano molto stupiti dell'arrivo di quegli stranieri, e credevano verosimilmente che quegli uomini bianchi fossero caduti dal cielo. E con rispetto e curiosità essi toccavano le vestimenta degli Spagnuoli, credendoli senza dubbio una pelle naturale. L'abito scarlatto dell'Ammiraglio segnatamente eccitò la loro ammirazione. Era evidente che consideravano Colombo

come un pappagallo d'una specie superiore; del resto, lo riconobbero immediatamente per il capo degli stranieri. Cristoforo Colombo ed i suoi visitarono allora quella nuova isola di San Salvador. Essi non si stancavano d'ammirarne la felice posizione, le magnifiche ombre, le acque correnti, le praterie verdeggianti. La fauna vi era poco variata. I pappagalli dalle penne cangianti, abbondavano sotto gli alberi e rappresentavano soli l'ordine degli uccelli. San Salvador formava un piano uniforme; un laghetto ne occupava la parte centrale, e nessuna montagna ne accidentava il suolo. Tuttavia, San Salvador doveva contenere gran ricchezze minerali, poiché i suoi abitanti portavano degli ornamenti d'oro. Ma questo prezioso metallo veniva poi ricavato dalle viscere dell'isola? L'Ammiraglio interrogò uno di quegli indigeni, e, coi cenni, riuscì a comprendere che, facendo il giro dell'isola e navigando verso il sud, egli scoprirebbe una regione, il cui re possedeva gran vasi d'oro ed immense ricchezze. Il domani, all'alba, Cristoforo Colombo diede ordine di spiegar le vele, e si diresse verso il continente indicato, che, secondo lui, non poteva essere che Cipango. Convien fare qui un'osservazione molto importante, giacché essa risulta dallo stato delle cognizioni geografiche a quel tempo: cioè che Colombo si credeva giunto alle terre d'Asia. Cipango è il nome che Marco Polo dà al Giappone. Questo errore dell'Ammiraglio è diviso da tutti i suoi compagni, ci vorranno molti anni per riconoscerlo, e, come abbiamo già detto, il gran navigatore, dopo quattro viaggi successivi alle isole, morrà senza sapere d'aver scoperto un nuovo mondo. È fuor di dubbio che i marinai di Colombo, e Colombo medesimo, immaginavano d'aver incontrato nella notte del 12 ottobre 1492, sia il Giappone, sia la China, sia le Indie. Ciò spiega come l'America portasse così lungamente il nome di «Indie occidentali» e perchè i naturali di quel

continente sono ancora designati sotto la denominazione generale di «Indiani» al Brasile ed al Messico, come pure agli Stati Uniti. Cristoforo Colombo pensava dunque unicamente a giungere alle spiaggie del Giappone. Egli costeggiò San Salvador in modo da esplorare la sua parte occidentale. Gli indigeni, accorrendo sulla spiaggia, gli offrivano dell'acqua e della cassava, specie di pane che si fabbrica con una radice chiamata «yucca.» Molte volte, l'Ammiraglio sbarcò su diversi punti della costa, e, bisogna confessarlo, mancando al dovere dell'umanità, fece rapire alcuni Indiani coll'intenzione di condurli in Ispagna. S'incominciava già a strappare quei disgraziati dal loro paese, non si doveva tardare a venderli! Finalmente, le navi, perdendo di vista San Salvador, si avventurarono in pieno Oceano. Il destino aveva favorito Cristoforo Colombo conducendolo così in mezzo ad uno dei più belli arcipelaghi del mondo. Tutte le nuove terre ch'egli stava per iscoprire, erano come uno scrigno d'isole preziose, nelle quali non aveva che ad attingere a piene mani. Il 15 ottobre, al tramonto, la flottiglia gettò l'àncora presso la punta ovest d'una seconda isola, che fu chiamata Concezione e che una distanza di cinque leghe soltanto separava da San Salvador. Il domani, l'Ammiraglio toccò quella spiaggia con barche armate e preparate contro ogni sorpresa. I naturali, appartenenti alla medesima razza di quelli di San Salvador, fecero ottima accoglienza agli Spagnuoli. Ma un vento di sudest essendosi levato, Colombo radunò la flottiglia, ed avanzandosi ancora nove leghe nell'ovest, scoprì una terza isola, alla quale diede il nome di Fernandina. È ora la Grande Exuma. Si restò in panna tutta notte, ed il domani, 17 ottobre, delle gran piroghe vennero a circondar le navi. I rapporti coi naturali erano eccellenti. I selvaggi barattavano tranquillamente

dei frutti con piccoli gomitoli di cotone, perle di vetro, tamburelli, spille che li seducevano molto, e melassa di cui si mostravano ghiottissimi. Quegli indigeni di Fernandina, più vestiti dei loro vicini di San Salvador, erano anche più inciviliti; essi abitavano delle case fatte in forma di padiglioni e fornite di alti camini; quelle case erano molto pulite all'interno e ben tenute. La costa occidentale dell'isola, profondamente frastagliata, avrebbe aperto a cento navi un porto largo e magnifico. Ma Fernandina non offriva agli Spagnuoli quelle ricchezze che essi bramavano e desideravano tanto di portare in Europa; le miniere d'oro mancavano a quel suolo. Tuttavia, i naturali, imbarcati a bordo della flottiglia, parlavano sempre d'un'isola più grande, situata nel nord e chiamata Samoeto, sulla quale si raccoglieva il prezioso metallo. Colombo volse dunque la prua nella direzione indicata. Il venerdì, 19 ottobre, egli si ancorò durante la notte presso quella Samoeto che chiamò Isabella, e che è l'isola Lunga delle carte moderne. Stando a quanto dicevano gli indigeni di San Salvador, si doveva trovare in quell'isola un re, la cui potenza era grande; ma l'Ammiraglio lo attese invano alcuni giorni; quel gran personaggio non apparve. L'isola Isabella offriva un aspetto delizioso coi suoi laghi limpidi e le sue fitte foreste. Gli Spagnuoli non si stancavano d'ammirare quelle essenze nuove, la cui verdura stupiva giustamente gli occhi europei. I pappagalli volavano a frotte innumerevoli sotto gli alberi fronzuti, e grosse lucertole vivacissime, iguane senza dubbio, scivolavano prestamente attraverso le alte erbe. Gli abitanti dell'isola, che erano fuggiti dapprima alla vista degli Spagnuoli, si familiarizzarono a breve andare e barattarono i prodotti del loro suolo. Frattanto, Cristoforo Colombo non abbandonava la sua idea di arrivare alle terre del Giappone. Gli indigeni gli

avevano indicato nell'ovest una grand'isola poco lontana, che essi chiamavano Cuba, l'Ammiraglio suppose che dovesse far parte del regno di Cipango, e non dubitò di giungere a breve andare alla città di Quinsay, altrimenti detta Hang-tcheu-fu, che fu un tempo la capitale della China.

Gli è per ciò che, appena il vento glielo permise, la flottiglia levò l'àncora. Il giovedì, 25 ottobre, si ebbe cognizione di sette ad otto isole scaglionate sopra una sola linea, probabilmente le Mucaras. Cristoforo Colombo non vi si arrestò, e la domenica giunse in vista di Cuba. Le navi si ancorarono in un fiume, al quale gli Spagnuoli diedero il nome

di San Salvatore; poi, dopo una breve fermata, ripigliarono la navigazione verso il tramonto, ed entrarono in un porto situato alla foce d'un gran fiume, porto che diventò più tardi quello delle Nuevitas del Principe. Molte palme crescevano sulle spiaggie dell'isola, e le loro

foglie erano così larghe, che una sola bastava a coprire le capanne dei naturali. Questi avevano preso la fuga all'avvicinarsi degli Spagnuoli, che trovarono sulla spiaggia delle specie d'idoli a forma di donna, degli uccelli addomesticati, degli ossami d'animali, dei cani muti e degli

strumenti di pesca. I selvaggi di Cuba furono attirati coi mezzi consueti, ed essi fecero dei baratti cogli Spagnuoli. Cristoforo Colombo si credette in terra ferma, ed a poche leghe appena da Hang-tcheu-fu. E quest'idea era tanto radicata nel suo spirito ed in quello de' suoi ufficiali, ch'egli pensò a mandar dei regali al gran khan della China. Il 2 novembre, incaricò uno de' suoi gentiluomini ed un ebreo che parlava l'ebraico, il caldaico e l'arabo, di recarsi da quel monarca indigeno. Gli ambasciatori, muniti di collari di perle, ed ai quali furono accordati sei giorni per adempiere la loro missione, si diressero verso le regioni dell'interno del preteso continente. Frattanto, Cristoforo Colombo risalì per due leghe circa un bel fiume che scorreva sotto l'ombra di grandi alberi odoriferi. Gli abitanti facevano dei baratti cogli Spagnuoli, ed indicavano frequentemente un luogo chiamato Bohio, nel quale l'oro e le perle si trovavano in abbondanza. Essi aggiungevano in oltre che là vivevano degli uomini dalla testa di cane, che si nutrivano di carne umana. Gli inviati dell'Ammiraglio tornarono al porto il 6 novembre, dopo quattro giorni d'assenza. Due giornate di cammino avevano bastato per condurli ad un villaggio composto d'una cinquantina di capanne, nel quale furono accolti con gran dimostrazioni di rispetto. Venivano loro baciati i piedi e le mani, giacché si credeva fossero scesi dal cielo. Tra gli altri particolari di costumi, essi narrarono che gli uomini e le donne fumavano del tabacco entro tubi biforcati, aspirando il fumo dalle narici. Quegli indigeni sapevano procurarsi del fuoco strofinando due pezzi di legno l'uno contro l'altro. Vi era del cotone in abbondanza in alcune case, disposte in forma di tende, ed una d'esse ne conteneva quasi undicimila libbre. Quanto al gran khan, non ne videro nemmeno l'ombra. Segnaliamo qui un secondo errore commesso da Cristoforo

Colombo, errore le cui conseguenze, secondo Irving, mutarono tutta la serie delle sue scoperte. Colombo, credendosi sulle coste dell'Asia, considerava logicamente Cuba come facente parte del continente; perciò, non pensò a farne il giro, e prese la deliberazione di tornare verso l'est. Ora, s'egli non si fosse ingannato in quest'occasione, se avesse continuato a seguire la sua prima direzione, i risultati della sua intrapresa sarebbero stati singolarmente mutati. Infatti, o sarebbe stato gettato verso la Florida, alla punta dell'America del Nord, o sarebbe corso dritto al Messico. In quest'ultimo caso, invece di naturali ignoranti e selvaggi, che cosa avrebbe incontrato? Quegli abitanti del grande impero degli Aztechi, del regno mezzo incivilito di Montezuma. Colà, avrebbe trovato città, eserciti, immense ricchezze, e la sua impresa sarebbe senza dubbio diventata quella di Fernando Cortez. Ma non doveva essere così, e l'Ammiraglio, perseverando nel suo errore, tornò verso l'est colla sua flottiglia, che levò l'àncora il 12 novembre 1492. Cristoforo Colombo costeggiò l'isola di Cuba, riconobbe le due montagne del Cristallo e del Moa, esplorò un porto che chiamò Puerto del Principe, ed un arcipelago al quale pose il nome di mare di Nostra Donna. Ogni notte, dei fuochi di pescatori apparivano su quelle numerose isole, i cui abitanti si nutrivano di ragni e di grossi vermi. Molte volte gli Spagnuoli sbarcarono su diversi punti della costa, e vi piantarono delle croci in segno di presa di possesso. Gli indigeni parlavano soventi all'Ammiraglio d'una cert'isola Babeque dove abbondava l'oro. L'Ammiraglio risolvette di recarvisi. Ma Martin-Alonzo Pinzon, capitano della Pinta, la miglior veliera della flottiglia, andò innanzi, ed il 21 novembre, all'alba, egli era scomparso interamente. L'Ammiraglio fu molto contrariato di questa separazione, e se ne trova la prova nel suo racconto, quand'egli dice: «Pinzon mi ha detto e fatto molte altre cose.» Egli continuò la sua via

esplorando la costa di Cuba, e scoprì la baia di Moa, la punta di Mangle, la punta di Vaez, il porto Baracoa; ma in nessun luogo incontrò dei cannibali, benché le capanne dei naturali fossero spesso adorne di teschi umani, cosa di cui si mostrarono molto soddisfatti gli altri indigeni imbarcati a bordo. Nei giorni seguenti, si vide il fiume Boma, e le navi, doppiando la punta degli Azules, si trovarono sulla parte orientale dell'isola, di cui avevano riconosciuto la costa per centoventicinque leghe. Ma Colombo, invece di ripigliar la via verso il sud, piegò all'est, ed il 5 dicembre, ebbe cognizione d'una grand'isola che gli Indiani chiamavano Bohio. Era Haiti o San Domingo. La sera, la Nina, per ordine dell'Ammiraglio, entrò in un porto che fu chiamato Porto Maria. È ora il porto San Nicola, posto presso il capo di questo nome, all'estremità dell'isola. Il domani, gli Spagnuoli riconobbero un grandissimo numero di capi ed un'isoletta chiamata isola della Tartaruga. Appena le navi apparivano, mettevano in fuga le piroghe indiane. Quell'isola che costeggiavano sembrava vastissima ed altissima, e da ciò le venne più tardi il nome d'Haiti, che significa Terra alta. La ricognizione di quelle spiaggie fu spinta fino alla baia Mosquito. Gli uccelli che volteggiavano sotto i begli alberi dell'isola, le sue piante, le sue pianure, le sue colline, ricordavano i paesaggi della Castiglia, e però Cristoforo Colombo battezzò quella terra nuova col nome d'isola Spagnuola. Gli abitanti erano molto paurosi e diffidenti, e non si poteva stabilire con essi alcuna relazione, giacché fuggivano all'interno. Tuttavia, alcuni marinai riuscirono ad impadronirsi d'una donna che condussero a bordo. Era essa giovane e piuttosto belloccia. L'Ammiraglio le diede degli anelli, delle perle ed una veste di cui aveva assolutamente bisogno; in fine, la trattò generosamente e la rimandò a terra. Queste buone maniere ebbero per risultato d'addomesticare

i naturali, e, il domani, nove marinai bene armati, essendosi avventurati a quattro leghe nell'interno, furono ricevuti con rispetto. Gli indigeni accorrevano in folla incontro ad essi ed offrivano loro tutti i prodotti del suolo. Quei marinai tornarono lietissimi della fatta escursione. L'interno dell'isola era loro parso ricco di alberi da cotone, di aloe e lentischi, ed un bel fiume, che fu chiamato più tardi il fiume dei Tre Fiumi, vi svolgeva le sue limpide acque. Il 15 dicembre, Colombo spiegò di nuovo le vele, ed il vento lo portò verso l'isolotto della Tartaruga, dove egli notò un corso d'acqua navigabile, ed una vallata così bella che le diede il nome di Valle del Paradiso. Il domani, bordeggiando in un golfo profondo, egli vide un Indiano che manovrava abilmente una barchetta, malgrado la violenza del vento. Quell'Indiano fu invitato a venire a bordo; Colombo lo colmò di doni, poi lo sbarcò in un porto dell'isola Spagnuola, che è diventato il porto della Pace. Questi buoni trattamenti guidarono dall'Ammiraglio tutti gli indigeni, e da quel giorno, essi vennero in gran numero incontro alle navi. Il loro re li accompagnava. Era un giovinotto di vent'anni, ben formato, robusto, piuttosto grasso; andava nudo come i suoi sudditi e le sue suddite, che gli dimostravano molto rispetto, ma senza alcuna tinta d'umiltà. Colombo gli fece rendere gli onori dovuti ad un sovrano, ed in riconoscenza delle sue belle maniere, quel re, o piuttosto quel cacicco, apprese all'Ammiraglio che le Provincie dell'est rigurgitavano d'oro. Il domani, un altro cacicco venne a mettere a disposizione degli Spagnuoli tutti i tesori del suo paese. Egli assistette alla festa di Santa Maria, che Colombo fece celebrare con pompa sulla sua nave, pavesata per l'occasione. Il cacicco fu ammesso alla mensa dell'Ammiraglio e fece onore al pasto; dopo d'aver assaggiato diversi cibi e diverse bevande, egli mandava le

ciotole ed i piatti alle persone del suo seguito. Quel cacicco aveva l'aria buona; parlava poco e si mostrava molto cortese. Finito il pasto, egli offrì alcune sottili foglie d'oro all'Ammiraglio. Costui gli mostrò delle monete su cui erano incisi i ritratti di Ferdinando e d'Isabella, e dopo d'avergli espresso coi cenni che si trattava dei più potenti principi della terra, fece spiegare in presenza del re indigeno le bandiere reali della Castiglia. Venuta la notte, il cacicco si ritirò molto soddisfatto, e salve d'artiglieria salutarono la sua partenza. Il di seguente, gli uomini dell'equipaggio piantarono una gran croce in mezzo alla borgata, e lasciarono quella costa ospitale. Uscendo dal golfo formato dall'isola della Tartaruga e dall'isola Spagnuola, furono scoperti molti porti, capi, baie e fiumi, alla punta Limbé, un'isoletta che fu chiamata San Tommaso, e finalmente un ampio porto, sicuro e ben riparato, nascosto tra l'isola e la baia d'Acuì, ed al quale dava accesso un canale circondato da alte montagne coperte d'alberi. L'Ammiraglio sbarcava spesso sulla costa. I naturali lo accoglievano come un inviato del cielo e lo invitavano a rimaner con loro. Colombo prodigava gli anelli d'ottone, i grani di vetro ed altri ninnoli che essi stimavano molto. Un cacicco chiamato Guacanagari, sovrano della provincia del Marien, mandò a Colombo una cintura ornata da una figura d'animale a grandi orecchie, la cui lingua ed il naso erano fatti d'oro battuto. L'oro sembrava abbondare nell'isola, ed i naturali ne portarono a breve andare una certa quantità. Gli abitanti di questa parte dell'isola Spagnuola sembravano superiori per l'intelligenza e la bellezza. Secondo l'opinione di Colombo, la pittura rossa, nera o bianca di cui s'intonacavano il corpo, serviva a preservarli soprattutto dai morsi del sole. Le case di questi indigeni erano belle e ben costrutte. Quando Colombo li interrogava sul paese che produceva dell'oro, quegli indigeni indicavano verso l'est una regione che chiamavano Cibao, nella

quale l'Ammiraglio si ostinava a vedere il Cipango del Giappone. Il giorno di Natale, un grave accidente sopravvenne alla nave dell'Ammiraglio; era la prima avaria di quella navigazione fino allora tanto felice. Un timoniere poco pratico teneva il timone della Santa Maria durante un'escursione fuori del golfo di San Tommaso; venuta la notte, egli si lasciò prendere dalle correnti che lo gettarono sugli scogli. La nave toccò ed il suo timone fu arenato. L'Ammiraglio, desto dall'urto, accorse sul ponte ed ordinò di gettare un'ancora a prua per rialzare la nave. Il mastro ed alcuni marinai incaricati dell'esecuzione di quest'ordine, balzarono nella scialuppa; ma, presi dal terrore, fuggirono a forza di remi verso la Nina. Nel frattempo, la marea calava, e la Santa Maria s'impantanava sempre più. Bisognò tagliare i suoi alberi per alleggerirla, e poco stante divenne urgente trasportare il suo equipaggio a bordo della sua compagna. Il cacicco Guacanagari, comprendendo la spiacevole condizione della nave, accorse coi suoi fratelli ed i suoi parenti accompagnati da un gran numero d'Indiani, ed aiutò a scaricar la nave. In grazia delle sue cure, nemmeno un oggetto del carico fu rubato, e tutta la notte, indigeni armati fecero sentinella intorno ai depositi di provviste. Il domani, Guacanagari si recò a bordo della Nina, per consolar l'Ammiraglio, e pose tutte le proprie ricchezze a sua disposizione. Nel medesimo tempo, gli offrì una colazione composta di pane, di gamberi, di pesci, di radici e di frutti. Colombo, commosso da queste dimostrazioni d'amicizia, formò il disegno di fondare uno stabilimento su quell'isola. Egli si diede dunque a guadagnarsi gli Indiani coi doni e le carezze; poi, volendo pure dar loro un'idea della propria potenza, fece scaricare un archibugio ed una spingarda, il cui sparo spaventò molto quella povera gente.

Il 26 dicembre, gli Spagnuoli incominciarono la costruzione d'una fortezza su quella parte della costa. L'intenzione dell'Ammiraglio era di lasciarvi un certo numero d'uomini, forniti di pane, di vino e di grani per un anno, e di lasciar loro la scialuppa della Santa Maria. I lavori furono spinti alacremente. Quel giorno si ebbero notizie della Pinta, che si era separata dalla flottiglia fino dal 21 novembre; essa era ancorata in un fiume all'estremità dell'isola, dicevano i naturali; ma una barca mandata da Guacanagari tornò senza averla potuta scoprire. Fu allora che Colombo, non volendo continuare le sue esplorazioni nelle condizioni in cui si trovava, e ridotto ad una sola nave dopo la perdita della Santa Maria, che non si poteva più tirare a galla, risolvette di tornare in Ispagna, ed incominciò i preparativi della partenza. Il 2 gennaio, Colombo diede al cacicco lo spettacolo d'una piccola guerra, di cui quel re ed i suoi sudditi si mostrarono molto meravigliati. Poi, egli fece scelta di trentanove uomini destinati alla custodia della fortezza durante la sua assenza, e nominò per comandarli Rodrigo de Escovedo. La maggior parte del carico della Santa Maria era loro stato abbandonato, e doveva bastare per più d'un anno. Fra quei primi coloni del nuovo continente, si contavano uno scrivano, un alguazil, un bottaio, un medico ed un sarto. Questi Spagnuoli avevano la missione di ricercare le miniere d'oro e d'indicare un luogo favorevole alla fondazione d'una città. Il 3 gennaio, dopo solenni addii al cacicco ed ai nuovi coloni, la Nina levò l'àncora ed uscì dal porto. Poco stante fu scoperto un isolotto dominato da un monte altissimo, al quale fu dato il nome di Monte Cristi. Cristoforo Colombo seguiva la costa già da due giorni, quando fu segnalato l'avvicinarsi della Pinta. Poco stante il suo capitano, Martin-Alonzo Pinzon, venne a bordo della Nina, e tentò di scusare la propria

condotta. La verità era che Pinzon era andato innanzi

unicamente per giungere a quella pretesa isola di Babeque che i racconti degli indigeni dicevano tanto ricca. L'Ammiraglio si

accontentò delle cattive scuse che gli diede il capitano Pinzon, ed apprese che la Pinta non aveva fatto che costeggiare l'isola Spagnuola senza aver riconosciuto alcuna nuova isola. Il 7 gennaio, si arrestarono per acciecare una falla che si era dichiarata nei fondi della Nina. Colombo approfittò di

questa fermata per esplorare un largo fiume situato ad una lega da Monte Cristi. Le pagliuzze che quel fiume portava gli fecero dare il nome di Fiume d'Oro. L'Ammiraglio avrebbe voluto visitare con maggior cura quella parte dell'isola Spagnuola, ma i suoi equipaggi avevano fretta di tornare, e, sotto l'influenza

dei fratelli Pinzon, incominciavano a mormorare contro la sua autorità. Il 9 gennaio, le due navi spiegarono le vele e si diressero verso l'est-sud-est. Esse rasentavano quelle coste di cui veniva battezzata ogni minima sinuosità, la punta Isabella, il capo della Roca, il capo Francese, il capo Cabron, e finalmente la baia di Samana, situata all'estremità orientale dell'isola. Colà si apriva un porto nel quale la flottiglia, trattenuta dalle calme, gettò l'àncora. Le prime relazioni coi naturali furono ottime, ma si mutarono ad un tratto. I baratti cessarono, e certe dimostrazioni ostili non permisero più di dubitare delle cattive intenzioni degli Indiani. Infatti, il 13 gennaio, i selvaggi si slanciarono all'improvviso sugli Spagnuoli. Questi, non ostante il loro picciol numero, tennero fermo, e coll'aiuto delle armi, misero in fuga i nemici, dopo pochi minuti di combattimento. Per la prima volta, il sangue indiano era sgorgato per mano di Europei. Il domani, Cristoforo Colombo trattenne a bordo quattro giovani indigeni, e malgrado i loro reclami, spiegò le vele. I suoi equipaggi, stanchi ed irritati, gli davano gravi noie, e, nel racconto del suo viaggio, quest'uomo, superiore a tutte le debolezze umane e che la sorte non poteva abbattere, se ne lamenta amaramente. Il 16 gennaio, il viaggio del ritorno incominciò veramente, ed il capo Samana, punto estremo dell'isola Spagnuola, scomparve all'orizzonte. La traversata fu rapida, e nessun incidente avvenne fino al 12 febbraio. A quel tempo, le due navi furono assalite da una tempesta terribile, che durò tre giorni, con venti furiosi, grosse onde e lampi dal nord-nord-est. Tre volte i marinai spaventati fecero voto di pellegrinaggio a Santa Maria di Guadalupa, a Nostra Donna di Loreto ed a Santa Clara di Moguer. Finalmente, tutto l'equipaggio giurò d'andare a pregare, a piedi nudi ed in camicia, in una chiesa dedicata a Nostra Donna.

Frattanto la tempesta infuriava. L'Ammiraglio, temendo una catastrofe, scrisse rapidamente sopra una pergamena il compendio delle scoperte fatte, con preghiera a chi lo trovasse di farlo prevenire al re di Spagna, poi, chiudendo quel documento avvolto di tela incerata in un barile di legno, lo fece gettar in mare. All'alba, il 15 febbraio, l'uragano si quetò, le due navi, separate dalla tempesta, si raggiunsero, e, tre giorni dopo, si ancoravano all'isola Santa Maria, una delle Azzorre. Subito l'Ammiraglio attese a compiere i voti formati durante l'uragano; egli mandò dunque mezza la sua gente a terra, ma questi furono trattenuti prigionieri dai Portoghesi, che li restituirono solo cinque giorni dopo, in seguito ai reclami energici di Colombo. L'Ammiraglio riprese il mare il 23 febbraio. Contrariato dai venti e battuto ancor una volta dalla tempesta, egli fece nuovi voti con tutto il suo equipaggio, e s'impegnò a digiunare il primo sabato che seguisse il suo arrivo in Ispagna. Finalmente, il 4 marzo, i suoi piloti riconobbero la foce del Tago, nel quale la Nina, potè rifugiarsi, mentre la Pinta era cacciata dal vento fin nella baia di Biscaglia. I Portoghesi fecero buona accoglienza all'Ammiraglio. Il re gli accordò anzi un'udienza; ma Colombo aveva fretta di recarsi in Spagna. Appena il tempo lo permise, la Nina ripigliò il mare, ed il 15 marzo, a mezzodì, essa si ancorava innanzi al porto di Palos, dopo sette mesi e mezzo di navigazione, durante i quali Colombo aveva scoperto le isole di San Salvador, Concezione, Grande Esuma, isola Lunga, isole Mucaras, Cuba e San Domingo. La corte di Ferdinando e d'Isabella si trovava allora a Barcellona; l'Ammiraglio vi fu chiamato. Egli partì subito cogli Indiani che conduceva dal nuovo mondo. L'entusiasmo ch'egli destò fu estremo. Da ogni parte le popolazioni accorrevano sul

passaggio del gran navigatore, e gli rendevano onori regali. L'entrata di Cristoforo Colombo a Barcellona fu magnifica. Il re, la regina, i grandi di Spagna lo accolsero pomposamente al palazzo della Deputazione. Là, egli fece il racconto del suo viaggio meraviglioso, poi presentò i campioni d'oro che aveva portati, e tutta l'assemblea, cadendo in ginocchio, in tuonò il Te Deum. Cristoforo Colombo fu allora fatto nobile con lettere patenti, ed il re gli diede uno stemma con questa divisa: «A Castiglia ed a Leon, Colombo dà un nuovo mondo.» Il nome del navigatore genovese fu acclamato in tutta l'Europa; gli Indiani condotti da lui ricevettero il battesimo in presenza di tutta la corte, e l'uomo di genio, si lungamente povero ed incompreso, si elevò allora al più alto grado della celebrità.

III. Secondo viaggio: Flottiglia di diciassette navi — Isola di Ferro — La Dominica — Maria Galante — La Guadalupa — I Cannibali — Montserrat — Santa Maria Rotonda — San Martino e Santa Croce — Arcipelago delle Undicimila Vergini — Isola San Giovanni Battista o Porto Rico — L'isola Spagnuola — I primi coloni massacrati — Fondazione della città d'Isabella — Invio in Ispagna di due navi cariche di ricchezze — Forte San Tommaso elevato nella provincia di Cibao — Don Diego, fratello di Colombo, nominato governatore dell'isola — La Giamaica — La costa di Cuba — Il remora — Ritorno ad Isabella — Il cacicco fatto prigioniero — Rivolta degli indigeni — Carestia — Colombo calunniato in Ispagna — Invio di Giovanni Aguado, commissario d'Isabella — Le mine d'oro — Partenza di Colombo — Suo arrivo a Cadice.

Il racconto delle avventure del gran navigatore genovese aveva scaldato le menti. Le immaginazioni intravvedevano già continenti d'oro posti di là dai mari; tutte le passioni che genera la cupidigia bollivano nei cuori. L'Ammiraglio, sotto la pressione dell'opinione pubblica, non poteva esimersi dal ripigliar il mare il più presto possibile. Egli medesimo del resto aveva fretta di tornare al teatro delle sue conquiste e d'arricchire le carte del tempo di nuove terre. Egli dunque si dichiarò pronto a partire. Il re e la regina misero a sua disposizione una flottiglia composta di tre navi e di quattordici caravelle; mille e dugento uomini dovevano imbarcavisi. Un certo numero di nobili castigliani non esitarono ad affidarsi alla stella di Colombo, e vollero tentar la fortuna di là dai mari. Dei cavalli, del bestiame, degli strumenti d'ogni fatta, destinati a raccogliere ed a purificar l'oro, delle sementi variate, in una parola tutti gli oggetti necessari allo stabilimento d'una colonia, empivano la stiva delle navi. Dei dieci indigeni condotti in Europa, cinque tornavano al loro paese, tre rimanevano infermi in Europa, due erano morti. Cristoforo Colombo fu nominato capitano-generale della

squadra, con poteri illimitati. Il 25 settembre 1495, le diciassette navi uscivano da Cadice, con tutte le vele spiegate, in mezzo agli applausi d'una folla immensa. Il 1° ottobre, si arrestarono all'isola di Ferro, la più occidentale delle Canarie, e dopo ventitré giorni d'una navigazione favorita incessantemente dal vento e dal mare, Cristoforo Colombo ebbe cognizione delle terre nuove. In fatti, il 3 novembre, la domenica dell'ottava d'Ognissanti, al levar del sole, il pilota della nave ammiraglia Maria Galante esclamò: «Buona nuova! ecco la terra!» Questa terra, era un'isola coperta d'alberi. L'Ammiraglio, credendola disabitata, passò oltre, riconobbe alcune isolette sparse sulla sua via, e giunse innanzi ad una seconda isola. La prima fu chiamata Dominica, la seconda Maria Galante, nomi che portano ancor oggi. Il domani, una terza isola più grande apparve agli Spagnuoli. E, dice il racconto di questo viaggio fatto da Pietro Martire, contemporaneo di Colombo, «quando vi furono giunti vicino, riconobbero che era l'isola degli infami Cannibali o Caraibi, di cui avevano solamente inteso parlare nel primo viaggio.» Gli Spagnuoli, ben armati, discero su quella spiaggia, dove sorgevano una trentina di case di legno di forma tonda e coperte di foglie di palma. All'interno di quelle capanne erano appese delle amache di cotone; sulla piazza sorgevano due specie d'alberi o di pali, intorno a cui erano allacciati due gran serpenti morti. All'avvicinarsi degli stranieri, i naturali se la diedero a gambe, abbandonando un certo numero di prigionieri che stavano per divorare. I marinai frugarono nelle loro case, e vi trovarono delle ossa di gambe e di braccia, delle teste recise di fresco, ancor bagnate di sangue, ed altri avanzi umani che non lasciavano alcun dubbio sul modo d'alimentazione di quei Caraibi. Quell'isola, che l'Ammiraglio fece esplorare in parte e di

cui si riconobbero i principali fiumi, fu battezzata col nome di Guadalupa, a causa della sua somiglianza con una provincia dell'Estremadura. Alcune donne, di cui i marinai si erano impadroniti, furono rimandate a terra, dopo d'essere state trattate bene sulla nave ammiraglia. Cristoforo Colombo sperava che la sua condotta verso quelle Indiane indurrebbe gli Indiani a venire a bordo, ma la sua speranza fallì. L'8 novembre, l'Ammiraglio diede il segnale della partenza, e fece vela con tutta la squadra verso l'isola Spagnuola, ora San Domingo, sulla quale aveva lasciato trentanove compagni del suo primo viaggio. Risalendo al nord, egli scoprì una grand'isola a cui gli Indiani, che aveva serbati a bordo dopo d'averli salvati dal dente dei Caraibi, davano il nome di Madanino. Essi pretendevano che fosse abitata solo da donne, e siccome Marco Polo nella sua relazione citava una regione asiatica unicamente occupata da una popolazione femminina, Cristoforo Colombo ebbe tutte le ragioni di credere che egli navigasse lungo le coste dell'Asia. L'Ammiraglio desiderava vivamente d'esplorare quell'isola, ma il vento contrario gl'impedì di approdarvi. A dieci leghe più oltre, si riconobbe un'altr'isola, circondata da alte montagne, che fu chiamata Montserrat, il domani una seconda isola, a cui fu dato il nome di Santa Maria Rotonda, ed il giorno seguente, altre, due isole, San Martino e Santa Croce. La squadra si ancorò innanzi a Santa Croce per far provvista d'acqua. Colà accadde una scena grave che Pietro Martire narra in termini che convien riferire, giacché sono molto espressivi: «L'Ammiraglio, dice egli, comandò che trenta uomini della sua nave scendessero a terra per esplorar l'isola; e questi uomini essendo discesi a terra, trovarono quattro cani ed altrettanti uomini giovani e donne sulla spiaggia, che venivano incontro ad essi e tendevano loro le braccia come supplichevoli

e chiedenti aiuto e liberazione dalla gente crudele. I Cannibali, vedendo ciò, proprio come nell'isola, di Guadalupa, si ritirarono, fuggendo nelle foreste. E le nostre genti rimasero due giorni nell'isola per visitarla. «In questo mentre, quelli che erano rimasti sulla nave videro venir da lontano una barca, che portava otto uomini ed altrettante donne; le nostre genti fecero loro cenno, ma essi avvicinandosi, uomini e donne, incominciarono a trapassare leggiermente e crudelmente colle loro freccie i nostri, prima che avessero avuto agio di coprirsi cogli scudi, in guisa che uno Spagnuolo fu ucciso dalla freccia d'una donna, e questa medesima, con un'altra freccia, ne trapassò un altro. «Quei selvaggi avevano delle freccie avvelenate, contenenti il veleno nel ferro; fra di essi vi era una donna a cui obbedivano tutti gli altri, che s'inchinavano innanzi a lei. Essa era, a quanto si poteva congetturare, una regina, avente un figlio dallo sguardo crudele, robusto, dalla faccia leonina, che la seguiva. «I nostri dunque, stimando che valesse meglio combattere apertamente piuttosto che aspettare mali maggiori battagliando così da lontano, spinsero tanto innanzi la loro nave a forza di remi, e la fecero correre con tanta violenza, che la coda di questa sfondò il canotto degli altri. «Ma quegli Indiani, buoni nuotatori, senza muoversi né più lentamente né più ratti, non cessarono dal lanciar saette contro i nostri, tanto uomini quanto donne. E fecero tanto che giunsero, nuotando, ad una rupe coperta d'acqua, sulla quale salirono ed ancora battagliarono. Non di meno, furono presi finalmente, ed uno d'essi fa ucciso, ed il figlio della regina trapassato in due luoghi; e furono condotti sulla nave dell'Ammiraglio, dove non mostrarono meno ferocia ed atrocità di faccia che se fossero stati leoni di Libia quando si sentono presi nei lacci. Ed essi erano tali che nessuno avrebbe potuto guardarli senza che per

l'orrore si sentisse muovere il cuore e le viscere, tanto il loro sguardo era orrendo, terribile ed infernale.» Come si vede, la lotta incominciava a diventar seria tra gli Indiani e gli Europei. Cristoforo Colombo riprese la sua navigazione verso il nord, in mezzo ad isole «piacevoli ed innumerevoli,» coperte di foreste, che erano dominate da montagne d'ogni colore. Questa agglomerazione d'isole fu chiamata l'arcipelago delle undicimila Vergini. Poco stante apparve l'isola San Giovanni Battista, che non è se non Porto Rico, terra allora infestata da Caraibi, ma benissimo coltivata e veramente superba coi suoi immensi boschi. Alcuni marinai scesero sulla spiaggia, e non vi trovarono che una dozzina di case disabitate. L'Ammiraglio riprese allora il mare, e rasentò la costa meridionale di Porto Rico per una cinquantina di leghe. Il venerdì 12 novembre, Colombo approdò finalmente sull'isola Spagnuola. Si pensi da qual commozione fosse agitato rivedendo il teatro dei suoi primi trionfi, ricercando cogli occhi quella fortezza nella quale aveva riparato i suoi compagni. Che cosa era accaduto da un anno agli Europei abbandonati su quelle terre selvaggie? In quel momento una gran barca, montata dal fratello del cacicco Guacanagari, venne incontro alla Maria Galante, e quell'indigeno, slanciandosi a bordo, offrì due immagini d'oro all'Ammiraglio. Frattanto, Cristoforo Colombo cercava di vedere la sua fortezza, e sebbene fosse ancorato in faccia al luogo in cui l'aveva fatta costrurre non ne vedeva la menoma traccia. Inquietissimo sulla sorte de' suoi compagni, scese a terra. Pensate quale fosse il suo stupore quando di quella fortezza non trovò più che un mucchio di ceneri! Che era avvenuto de' suoi compatrioti? Avevano forse pagato colla vita quel primo tentativo di colonizzazione? L'Ammiraglio fece scaricare ad un tempo tutta l'artiglieria delle navi per annunciare molto lontano il suo arrivo innanzi all'isola Spagnuola, ma nessuno de' suoi

compagni riapparve. Colombo, disperato, mandò subito dei messaggieri al cacicco Guacanagari. Questi, al loro ritorno, portarono funeste novelle. Se bisognava credere a Guacanagari, altri cacicchi, irritati della presenza degli stranieri nell'isola, avevano assalito quei disgraziati coloni e li avevano trucidati fino all'ultimo. Guacanagari medesimo si sarebbe fatto ferire difendendoli, e per prova egli mostrava la gamba fasciata. Cristoforo Colombo non prestò fede a questo intervento del cacicco, ma risolvette di dissimulare, ed il domani, quando Guacanagari venne a bordo, lo accolse bene. Il cacicco accettò un'immagine della Vergine che si appese sul petto. Egli parve molto meravigliato alla vista dei cavalli che gli furono mostrati; quegli animali erano ignoti a' suoi compagni ed a lui. Poi, terminata la sua visita, il cacicco tornò sulla spiaggia, si cacciò nella regione delle montagne, e non fu più visto. L'Ammiraglio mandò allora uno de' suoi capitani, con trecento uomini sotto i suoi ordini, con missione di frugare il paese e d'impadronirsi del cacicco. Questo capitano si cacciò nelle regioni dell'interno, ma non trovò traccia alcuna né del cacicco né dei disgraziati coloni. Durante la sua escursione, egli aveva scoperto un gran fiume ed un bel porto molto ben riparato, che chiamò Porto Reale. Frattanto, non ostante la mala riuscita del suo primo tentativo, Colombo aveva risoluto di fondare una nuova colonia su quell'isola, che pareva ricca di metalli d'oro e d'argento. I naturali parlavano di continuo di miniere situate nella provincia di Cibao. Due gentiluomini, Alonzo de Ho-jeda e Corvalan, incaricati d'accertare queste asserzioni, partirono nel mese di gennaio con una scorta numerosa; essi scoprirono quattro fiumi, le cui sabbie erano aurifere, e portarono una pepita che pesava nove oncie. L'Ammiraglio, alla vista di tali ricchezze, si confermò nel

pensiero che l'isola Spagnuola fosse quella celebre Ophir di cui si parla nel libro dei Re. Egli cercò un luogo dove poter costrurre una città, ed a dieci leghe all'est di Monte Cristi, alla foce d'un fiume che formava un porto, gettò le fondamenta d'Isabella. Il giorno dell'Epifania, tredici sacerdoti ufficiarono nella chiesa in presenza d'un immenso concorso di naturali. Colombo pensò allora a mandar notizie della colonia al re ed alla regina di Spagna. Dodici navi, cariche dell'oro raccolto nell'isola e dei diversi prodotti del suolo, si prepararono a tornare in Europa sotto il comando del capitano Torres. Questa flottiglia spiegò le vele il 2 febbraio 1494, e poco tempo dopo, Colombo rimandò anche una delle cinque navi che gli rimanevano, col luogotenente Bernardo di Pisa, di cui aveva a lamentarsi. Appena l'ordine fu stabilito nella colonia d'Isabella, l'Ammiraglio vi lasciò suo fratello, don Diego, in qualità di governatore, e partì con cinquecento uomini volendo visitare egli medesimo le miniere di Cibao. Il paese che questo piccolo drappello attraversò presentava un'ammirabile fertilità; i legumi vi maturavano in tredici giorni, il grano, seminato in febbraio, dava magnifiche spiche in aprile, ed ogni anno dava due volte una messe superba. Delle montagne e delle valli furono valicate successivamente; spesso il piccone dovette essere impiegato per aprire una via attraverso a quelle terre vergini ancora, e gli Spagnuoli giunsero finalmente alla provincia di Cibao. Là, sopra un colle, presso la riva d'un gran fiume, l'Ammiraglio fece costrurre un forte di pietra e di legno; lo circondò d'un buon fossato, e gli diede il nome di San Tommaso, per beffare alcuni de' suoi ufficiali che non credevano alle miniere d'oro. Ed era mala grazia il dubitarne, giacché, da ogni parte, gli indigeni portavano delle pepite e dei grani d'oro che barattavano con premura con perle, e soprattutto sonagli, il cui suono argentino li invitava a danzare.

E poi, quel paese non era solamente il paese dell'oro, era pure il paese delle spezie e degli aromi, e gli alberi che li producevano formavano vere foreste. Gli Spagnuoli non potevano dunque che rallegrarsi d'aver conquistato quell'isola opulenta. Dopo d'aver lasciato il forte San Tommaso alla guardia di

cinquantasei uomini comandati da don Pedro de Margarita, Cristoforo Colombo riprese la via d'Isabella verso il principio d'aprile. Al suo arrivo, egli trovò la colonia nascente in un estremo disordine; la carestia minacciava per mancanza di farina, e la farina mancava per mancanza di mulini; soldati ed

operai erano sfiniti dalle fatiche. Colombo volle obbligare i gentiluomini a venir loro in aiuto; ma quei fieri hidalgos, così desiderosi di conquistar la fortuna, non volevano nemmeno abbassarsi per raccoglierla, e rifiutarono di far il mestiere di manovali. I sacerdoti li sostennero, e Colombo, obbligato a

mostrarsi severo, dovette mettere le chiese in interdetto. Tuttavia, egli non poteva prolungare il suo soggiorno ad Isabella; aveva fretta di scoprire altre terre. Avendo formato un consiglio destinato a governar la colonia, consiglio composto di tre gentiluomini e del capo dei missionari sotto la presidenza

di don Diego, il 24 aprile, egli riprese il mare con tre navi per compiere il ciclo delle sue scoperte. La flottiglia scese verso il sud, e poco stante fu scoperta una nuova isola che i naturali chiamavano Giamaica. Il rilievo di quest'isola era formato da una montagna a dolci pendii. I suoi abitanti sembravano ingegnosi e dediti alle arti meccaniche, ma di carattere poco pacifico. Molte volte essi si opposero allo sbarco degli Spagnuoli, ma furono respinti e finirono collo stringere un patto d'alleanza coll'Ammiraglio. Dalla Giamaica, Cristoforo Colombo spinse le sue ricerche più all'occidente. Egli si credeva giunto al punto in cui i geografi antichi mettevano la Chersonese, regione d'oro dell'occidente. Correnti fortissime lo spinsero verso Cuba, di cui segui la costa per un'estensione di dugentoventidue leghe. Durante questa navigazione pericolosissima, in mezzo a guadi ed a passaggi stretti, egli battezzò più di settecento isole, riconobbe un gran numero di porti, ed entrò spesso in relazione cogli indigeni. Nel mese di maggio, le sentinelle delle navi segnalarono molte isole erbose, fertili ed abitate. Colombo, avvicinandosi a terra, penetrò in un fiume, le cui acque erano così calde, che nessuno vi poteva tener immersa la mano; fatto evidentemente esagerato e che le scoperte posteriori non giustificarono mai. I pescatori di quella costa impiegavano per pescare un certo pesce chiamato remora, «il quale faceva presso di essi l'ufficio che fa il cane presso il cacciatore.» «Questo pesce era di forma ignota, avendo il corpo simile ad una grande anguilla, e dietro la testa una pelle molto prensile, a foggia d'una borsa per prendere i pesci. Ed essi tengono questo pesce, legato con una corda alla sponda della nave, sempre nell'acqua, giacché non può sostenere la vista dell'aria. E quando essi vedono un pesce od una tartaruga, che sono colà più grandi di grandissimi scudi, allora sciolgono il

pesce allentando la corda. E quando si sente libero, d'un tratto, più rapido d'una freccia, esso (il remora) assale il detto pesce o tartaruga, gli getta sopra la sua pelle a guisa di borsa, e tiene così saldo la preda, sia pesce o tartaruga, per la parte apparente fuori dal guscio, che nessuno può strappargliela, se non lo si trae al margine dell'acqua, colla corda tirata a poco a poco: giacché, appena vede lo splendore dell'aria, subito lascia la preda. Ed i pescatori scendono quanto è necessario per pigliar la preda, e la mettono dentro la loro nave, e legano il pesce cacciatore, con tanta corda quanto è necessario per rimetterlo al suo posto, e, con altra corda, gli danno per ricompensa un po' di carne della preda. L'esplorazione delle coste continuò verso l'occidente. L'Ammiraglio visitò diverse regioni, nelle quali abbondavano le anitre, gli aironi, e quei cani muti che i naturali mangiavano come capretti, e che dovevano essere specie di grossi topi. Frattanto, i passi sabbiosi si restringevano sempre più; le navi se la cavavano a stento. All'Ammiraglio stava a cuore per altro di non allontanarsi da quelle spiaggie ch'egli voleva riconoscere. Un giorno, credette di scorgere sopra una punta degli uomini vestiti di bianco, ch'egli prese per fratelli dell'ordine di Santa Maria della Merced, e mandò alcuni marinai per parlare con loro. Semplice illusione d'ottica: quei pretesi monaci non erano che grandi aironi dei Tropici, ai quali la lontananza dava aspetto d'esseri umani. Nei primi giorni di giugno, Colombo dovette arrestarsi per raddobbare le sue navi, la cui carena era stata molto danneggiata dai bassi fondi della costa. Il 7 dello stesso mese, egli fece celebrare una messa solenne sulla spiaggia. Durante l'ufficio, sopravvenne un vecchio cacicco che, terminata la cerimonia, offerse alcuni frutti all'Ammiraglio. Poi, quel sovrano indigeno pronunciò queste parole che gli interpreti tradussero così:

«Ci è stato riferito in qual maniera tu hai investito ed avvolto della tua potenza queste terre che vi erano ignote, e come la tua presenza ha cagionato ai popoli ed agli abitanti un gran terrore. Ma io credo doverti esortare ed avvertire che due vie si aprono innanzi alle anime quando si separano dai corpi: l'una, piena di tenebre e di tristezza, destinata a quelli che sono molesti e nocivi al genere umano; l'altra, piacevole e dilettosa, riserbata a coloro che quand'erano vivi hanno amato la pace ed il riposo delle genti. Dunque, se ti ricordi d'essere mortale e che le retribuzioni avvenire sono misurate sulle opere della vita presente, tu non molesterai nessuno.» Qual filosofo dei tempi antichi o moderni avrebbe mai parlato meglio e con più savio linguaggio? Tutto il lato umano del cristianesimo è racchiuso in queste magnifiche parole, ed esse uscivano dalla bocca d'un selvaggio! Colombo ed il cacicco si separarono contentissimi l'uno dall'altro, ed il più meravigliato dei due non fu forse il vecchio indigeno. Tutta quella tribù, del resto, sembrava vivere nella pratica degli eccellenti precetti indicati dal suo capo. La terra era comune tra i naturali come il sole, l'aria e l'acqua. Il mio ed il tuo, causa d'ogni discordia, non esistevano nelle loro costumanze, e vivevano essi contenti di poco. «Hanno l'età dell'oro, dice il racconto, non scavano fossati, né circondano di siepi le loro possessioni, lasciano aperti i loro giardini; senza leggi, senza libri, senza giudici, ma per natura seguono ciò che è giusto e reputano cattivo ed ingiusto chi si diletta a fare ingiuria altrui.» Lasciando la terra di Cuba, Cristoforo Colombo tornò verso la Giamaica. Egli ne rilevò tutta la costa sud fino alla sua estremità orientale. Era sua intenzione di assalire le isole dei Caraibi e di distruggere quella razza malefica. Ma, in seguito alle veglie ed alle fatiche, l'Ammiraglio fu colpito da una malattia che lo obbligò ad interrompere i suoi disegni. Egli

dovette tornare ad Isabella, dove, sotto l'influenza della buon'aria e del riposo, ricuperò la salute, in grazia delle cure di suo fratello e de' suoi famigliari. Del resto, la colonia reclamava imperiosamente la sua presenza. Il governatore del forte San Tommaso aveva sollevato gli indigeni colle crudeli esazioni. Don Diego, fratello di Cristoforo Colombo, gli aveva fatto delle rimostranze che non erano state ascoltate. Questo governatore, durante l'assenza di Colombo, era tornato ad Isabella, e si era imbarcato per la Spagna sopra una delle navi che erano state condotte all'isola Spagnuola da don Bartolomeo, il secondo fratello dell'Ammiraglio. Tuttavia, Colombo, risanato, non poteva lasciar contestare l'autorità ch'egli aveva dato a' suoi rappresentanti, e risolvette di punire il cacicco, che si era ribellato contro il governatore di San Tommaso. Anzi tutto, egli mandò nove uomini bene armati per impadronirsi d'un cacicco formidabile chiamato Caonabo. Il loro capo, Hojeda, con un'intrepidezza di cui darà più tardi nuove prove, rapì il cacicco in mezzo ai suoi, e lo condusse prigioniero ad Isabella. Colombo fece imbarcare quell'indigeno per l'Europa; ma la nave che lo portava fece naufragio, e non se ne senti più parlare. In questo mentre, Antonio di Torres, inviato dal re e dalla regina per complimentare Colombo, giunse a San Domingo con quattro navi. Ferdinando si dichiarava soddisfattissimo dei successi dell'Ammiraglio, ed aveva stabilito un servizio mensile di trasporto tra la Spagna e l'isola Spagnuola. Frattanto, il ratto di Caonabo aveva eccitato una rivolta generale degli indigeni. Essi pretendevano di vendicare il loro capo oltraggiato ed ingiustamente deportato. Solo il cacicco Guacanagari, malgrado la parte ch'egli aveva presa nell'uccisione dei primi coloni, rimase fedele agli Spagnuoli. Cristoforo Colombo, accompagnato da don Bartolomeo e dal

cacicco, mosse incontro ai ribelli. Egli incontrò poco stante un'armata di naturali, il cui numero, evidentemente esagerato, è portato da lui a centomila uomini. Checché ne sia, quest'armata fu messa in fuga da un semplice drappello composto di dugento fanti, venticinque cani e venticinque cavalieri. Questa vittoria ristabilì, in apparenza, l'autorità dell'Ammiraglio. Fu imposto un tributo ai vinti; gli Indiani vicini alle miniere dovettero pagare ogni tre mesi una piccola misura d'oro, e gli altri, più lontani, venticinque libbre di cotone. Ma la rivolta era solo repressa e non spenta. Alla voce d'una donna, Anacaona, vedova di Caonabo, gli indigeni si sollevarono una seconda volta, e riuscirono anzi a trascinare nella ribellione Guacanagari, fino allora fedele a Colombo; poi, distruggendo i campi di grano turco e tutte le piantagioni, si cacciarono nelle montagne. Gli Spagnuoli si videro ridotti agli orrori della carestia, e si abbandonarono a rappresaglie terribili contro i naturali. Si afferma che il terzo della popolazione indigena perisse di fame, di malattia o per mano dei compagni di Colombo. Quei disgraziati Indiani pagavano caro i loro rapporti coi conquistatori europei. Cristoforo Colombo era entrato nella via dei rovesci. Mentre la sua autorità si vedeva sempre più compromessa, all'isola Spagnuola, la sua riputazione ed il suo carattere subivano violenti attacchi in Ispagna. Egli non era là per difendersi, e gli ufficiali che aveva rimandati nella madre patria, lo accusavano altamente d'ingiustizia e di crudeltà; essi avevano perfino insinuato che l'Ammiraglio cercasse di rendersi indipendente dal re. Ferdinando, influenzato da queste indegne dicerie, nominò un commissario incaricandolo di accertare i fatti incriminati e di recarsi alle Indie occidentali. Questo gentiluomo si chiamava Giovanni d'Aguado. La scelta di quel signore, destinato a compiere una missione di fiducia, non fu felice. Giovanni d'Aguado era uno spirito parziale e

prevenuto. Egli giunse nel mese d'ottobre al porto Isabella, in un momento in cui l'Ammiraglio, occupato in esplorazioni, era assente, ed incominciò trattando con estrema alterigia il fratello di Cristoforo Colombo. Don Diego, forte del suo titolo di governatore generale, rifiutò di sottoporsi alle ingiunzioni del commissario del re. Giovanni d'Aguado si disponeva dunque a tornare in Ispagna, non portando che informazioni molto incompiute, quando un uragano terribile inabissò nel porto le navi che lo avevano condotto. Non restavano più che due caravelle all'isola Spagnuola. Cristoforo Colombo, tornato in mezzo alla colonia, comportandosi con una grandezza d'animo che non si saprebbe ammirare abbastanza, pose una di queste navi a disposizione del commissario regio, a patto ch'egli s'imbarcasse sull'altra per andare a giustificarsi presso il re. Le cose erano a questo punto, quando nuove miniere d'oro furono scoperte nell'isola Spagnuola. L'Ammiraglio differì la partenza; la bramosia ebbe il potere di troncare ogni discussione. Non si trattò più né di re di Spagna né dell'inchiesta ch'egli aveva ordinata. Degli ufficiali si recarono ai nuovi terreni auriferi, e vi trovarono delle pepite di cui alcune pesavano fino a venti oncie, ed un masso d'ambra d'un peso di trecento libbre. Colombo fece erigere due fortezze per proteggere i minatori, una sul confine della provincia di Cibao, l'altra sulle sponde del fiume Hayna. Presa questa precauzione, avendo fretta di giustificarsi, egli partì per la Spagna. Le due caravelle lasciarono il porto di Santa Isabella il 10 marzo 1496. Cristoforo Colombo aveva a bordo dugentoventicinque passeggieri e trenta Indiani. Il 9 aprile egli toccò Maria Galante, ed il 10, andò a far provvista d'acqua alla Guadalupa, dove vi fu un vivo combattimento coi naturali. Il 20 lasciò quest'isola poco ospitale e per un mese, egli lottò contro i venti alisei. Il giorno 11 giugno la terra d'Europa fu

segnalata, ed il domani le due navi entravano nel porto di Cadice. Questo secondo ritorno del gran navigatore non fu salutato come il primo dalle premure della popolazione. All'entusiasmo erano succedute la freddezza e l'invidia; gli stessi compagni dell'Ammiraglio pigliavano parte contro di lui. In fatti, scoraggiati, disillusi, non riportando quelle ricchezze per le quali avevano corso tanti pericoli e subito tante fatiche, essi si mostravano ingiusti. E pure, non era colpa di Colombo se le miniere aperte fino ad allora costavano più che non rendessero. Malgrado tutto, l'Ammiraglio fu ricevuto a corte con un certo favore. Il racconto del suo secondo viaggio gli riguadagnò gli spiriti sviati. In sostanza, durante quella spedizione non aveva forse scoperto le isole Dominica, Maria Galante, Guadalupa, Montserrat, Santa Maria, Santa Croce, Porto Rico, Giamaica? Non aveva forse fatto una nuova ricognizione di Cuba e di San Domingo? Colombo combattè dunque vivamente i suoi avversari, ed impiegò perfino contro di essi l'arme della beffa. A quelli che negavano il merito delle sue scoperte, egli propose di far tenere un uovo in equilibrio sopra una delle sue estremità, e siccome non vi potevano riuscire, l'Ammiraglio, rompendo l'estremità del guscio, piantò l'uovo sulla parte rotta. — Voi non ci avevate pensato, diss'egli. Ebbene, bisognava pensarci!

IV. Terzo viaggio: Madera — Santiago dell'arcipelago del capo Verde — La Trinità — Prima vista della costa americana della Venezuela di là dall'Orenoco, oggi la provincia di Cumana — Golfo di Paria — I Giardini — Tabago — Granada — Margarita — Cubaga — L'isola Spagnuola durante l'assenza di Colombo — Fondazione della città di San Domingo — Arrivo di Colombo — Insubordinazione della colonia — Lagnanze in Ispagna — Bovadilla inviato dal re per conoscere la condotta di Colombo — Colombo incatenato e rimandato in Ispagna co'suoi due fratelli — Suo arrivo dinanzi a Ferdinando ed Isabella — Riacquista il favore reale.

Cristoforo Colombo non aveva ancora rinunciato a proseguire le sue conquiste di là dall'oceano Atlantico. Né le fatiche, né le ingiustizie degli uomini potevano arrestarlo. Dopo avere, non senza pena, trionfato del malanimo de' nemici, egli riuscì ad allestire una terza spedizione sotto gli auspici del governo spagnuolo. Il re gli accordò otto navi, quaranta cavalieri, cento fanti, sessanta marinai, venti minatori, cinquanta contadini, venti operai di mestieri diversi, trenta donne, dei medici ed anche dei suonatori. L'Ammiraglio ottenne, in oltre, che tutte le pene in uso Del regno venissero mutate in una deportazione alle isole. Egli precedeva così gl'Inglesi in quest'idea così intelligente di popolare le nuove colonie con deportati che il lavoro doveva riabilitare. Cristoforo Colombo spiegò le vele il 30 maggio dell'anno 1498, benché soffrisse della gotta e fosse ancora malato a causa delle noie che aveva provate dopo il ritorno. Prima di partire, egli apprese che una flotta francese lo teneva d'occhio al largo del capo San Vincenzo per intralciare la sua spedizione. Per evitarla, egli si diresse verso Madera, dove si arrestò; poi, da quest'isola, mandò verso l'isola Spagnuola tutte le sue navi, meno tre, sotto il comando dei capitani Pedro de Arana, Alonzo Sanehez de Carabajal e Giovanni Antonio Colombo, suo parente. Egli medesimo con una nave e due caravelle volse la

prua verso mezzodì, coll'intenzione di tagliar l'equatore e di cercare delle terre più meridionali, che, secondo l'opinione generalmente ammessa, dovevano essere più ricche di prodotti d'ogni fatta. Il 27 giugno, la piccola flottiglia toccò le isole del Sale e di Santiago, che fanno parte dell'arcipelago del capo Verde; ne riparti il 4 luglio, fece centoventi leghe nel sud-ovest, provò lunghe calme e calori torridi, e, giunta in faccia a Sierra Leone, si diresse diffilata verso l'ovest. Il 31 luglio, a mezzogiorno, uno dei marinai segnalò la terra. Era un'isola situata all'estremità nord-est dell'America meridionale e molto vicina alla costa. L'Ammiraglio le diede il nome di Trinità, e tutto l'equipaggio intuonò il Salve Regina con voce riconoscente. Il domani, 1° agosto, a cinque leghe dal punto segnalato dapprima, la nave e le due caravelle si ancorarono presso la punta d'Alcatraz. L'Ammiraglio fece scendere a terra alcuni de' suoi marinai per rinnovare le provviste d'acqua e di legna. La costa pareva disabitata, ma vi si notavano numerose impronte d'animali che dovevano essere capre. Il 2 agosto, una lunga barca, montata da ventiquattro naturali, si avanzò verso le navi. Questi Indiani, di bella statura, più bianchi di pelle che non fossero gli indigeni dell'isola Spagnuola, portavano sul capo un turbante formato da una sciarpa di cotone di colori vivaci, ed attorno al corpo un gonnellino della stessa stoffa. Si tentò d'attirarli a bordo presentando loro degli specchi e dei vetri; i marinai, per ispirar loro maggior fiducia, incominciarono anzi a danzare allegramente; ma i naturali, spaventati dal rumore del tamburello che parve loro una dimostrazione ostile, risposero con un nugolo di freccie e si diressero verso una delle navi; là un pilota tentò ancora di allettarli recandosi in mezzo ad essi; ma poco stante la barca si allontanò e non riapparve più.

Cristoforo Colombo riprese allora il mare, e scoprì una nuova isola ch'egli chiamò Grazia. Ma ciò ch'egli prendeva per un'isola, era realmente la costa americana, erano quelle spiaggie della Venezuela che formano il delta dell'Orenoco, intersecate dai rami numerosi di questo fiume. Quel giorno il

continente americano fu veramente scoperto da Colombo, benché senza sua saputa, in quella parte della Venezuela che chiamasi provincia di Cumana. Fra quella costa e l'isola della Trinità, il mare forma un golfo pericoloso, il golfo di Paria, nel quale una nave

difficilmente resiste alle correnti, che si dirigono all'ovest con gran rapidità. L'Ammiraglio si credeva in pieno mare, e corse grandi pericoli in quel golfo, perchè i fiumi del continente, gonfiati da una piena accidentale, precipitavano sulle sue navi enormi masse d'acqua. Ecco in quali termini Cristoforo

Colombo narra questo incidente nella lettera ch'egli scrisse al re ed alla regina: «Ad un'ora avanzata della notte, trovandomi sul ponte, intesi una specie di terribile ruggito: cercai di penetrare l'oscurità, e ad un tratto vidi il mare, sotto la forma d'una

collina alta quanto la nave, avanzarsi lentamente dal sud verso le mie navi. Al disopra di questa altura, una corrente giungeva con spaventevole frastuono; non dubitavo che fossimo lì lì per essere inghiottiti, ed oggi ancora io provo a questa memoria un doloroso stringimento di cuore. Fortunatamente la corrente e l'onda passarono, si diressero verso la foce del canale, vi si dibatterono un pezzo, poi sparirono.» Pure, non ostante le difficoltà della navigazione, l'Ammiraglio, percorrendo, quel mare la cui acqua si faceva sempre più dolce man mano che si risaliva al nord, riconobbe diversi capi, uno all'est sull'isola della Trinità, il capo di Pena Bianca, l'altro all'ovest sul promontorio di Paria, che è il capo di Lapa; egli notò pure molti porti, fra cui il porto delle Scimmie, situato alla foce dell'Orenoco. Colombo prese terra verso l'ovest della punta Cumana, e ricevette buona accoglienza da parte degli abitanti, che erano in gran numero. Verso l'occidente, di là dalla punta d'Alcatraz, il paese era magnifico, e gli indigeni affermavano che vi si raccoglieva molto oro e molte perle. Colombo avrebbe voluto arrestarsi per qualche tempo su quella parte della costa; ma non vi vedeva alcun riparo sicuro per le sue navi. Del resto la sua salute molto alterata, la sua vista indebolita, gli prescrivevano il riposo, ed egli aveva fretta, tanto per sé, quanto pel suo equipaggio stanco, di giungere al porto Isabella. Si avanzò dunque seguendo la costa venezuelana, e, per quanto potè, mantenne delle relazioni cogli indigeni. Quegli Indiani erano di magnifica complessione e di bell'aspetto. Il loro adattamento domestico provava un certo gusto; essi possedevano delle case a facciate nelle quali si trovavano alcuni mobili fatti con un certo garbo. Delle lastre d'oro ornavano loro il collo. Quanto al paese, era magnifico; i suoi fiumi, le sue montagne, le sue foreste immense ne facevano una terra prediletta. Perciò l'Ammiraglio battezzò

quell'armoniosa regione col nome di Grazia, e con una lunga discussione egli cercò di provare che quella fa un tempo la culla del genere umano, quel paradiso terrestre che Adamo ed Eva abitarono si lungamente. Per spiegare fino ad un certo punto l'opinione del gran navigatore, non bisogna dimenticare ch'egli credeva d'essere sulle spiaggie dell'Asia. Quel luogo incantevole fu chiamato da lui i Giardini. Il 23 agosto, dopo d'aver sormontato, non senza pericolo e non senza fatica, le correnti di quel luogo, Cristoforo Colombo uscì dal golfo di Paria per quello stretto passaggio ch'egli chiamò la Bocca del Drago, denominazione rimasta fino a noi. Gli Spagnuoli, giunti in alto mare, scoprirono l'isola di Tabago, situata al nord-est della Trinità, poi, più a nord, la Concezione, oggi Granata. Allora l'Ammiraglio volse la prua al sud-ovest e tornò verso la costa americana; egli la segui per un'estensione di quaranta leghe, riconobbe, il 25 agosto, l'isola popolatissima di Margarita, e finalmente l'isola di Cubaga, posta vicino alla terra ferma. In quel punto gli indigeni avevano fondato una pesca di perle ed attendevano a raccogliere questo prezioso prodotto. Colombo mandò a terra una barca e fece dei baratti molto vantaggiosi, giacché per pochi rottami di porcellana e dei vetri, ottenne molte libbre di perle, alcune delle quali grossissime e magnifiche. Giunto a questo punto delle sue scoperte, l'Ammiraglio si arrestò. La tentazione d'esplorare quel paese era grande, ma gli equipaggi ed i loro capi erano sfiniti. Le navi si diressero allora verso San Domingo, dove interessi più gravi chiamavano Cristoforo Colombo. L'Ammiraglio, prima della sua partenza, aveva dato facoltà a suo fratello di gettare le fondamenta di una nuova città. A tal fine, don Bartolomeo aveva percorso le diverse regioni dell'isola, ed avendo trovato a cinquanta leghe da Isabella un porto magnifico, alla foce d'un bel fiume, egli vi tracciò le

prime vie d'una città, che divenne più tardi la città di San Domingo. Fu in quel luogo che don Bartolomeo fissò la propria dimora, mentre don Diego rimaneva governatore d'Isabella. Così dunque, per la loro condizione, i due fratelli di Colombo avevano nelle mani l'amministrazione di tutta la colonia. Ma già molti malcontenti si agitavano ed erano pronti a ribellarsi alla loro autorità. Fu in queste circostanze che l'Ammiraglio giunse a San Domingo. Egli diede ragione a' suoi fratelli, che, del resto, avevano saviamente amministrato, e fece una proclamazione per richiamare all'obbedienza gli Spagnuoli ribelli. Poi, il 18 ottobre, fece partire cinque navi per la Spagna, con un ufficiale incaricato di far conoscere al re le nuove scoperte e lo stato della colonia, messa in pericolo dai fautori del disordine. In questo momento, i negozi di Cristoforo Colombo volgevano a male in Europa. Dopo la sua partenza, le calunnie non avevano cessato di accumularsi contro i suoi fratelli e lui. Alcuni ribelli, cacciati dalla colonia, denunziavano quell'invadente dinastia dei Colombo, ed eccitavano la gelosia d'un monarca vanitoso ed ingrato. La regina medesima, fino allora fedele protettrice del marinaio genovese, fu offesa nel veder giungere sulle navi un convoglio di trecento Indiani strappati al loro paese e trattati da schiavi. Ma Isabella ignorava che un simile abuso della forza si era compiuto senza saputa di Colombo e durante la sua assenza. L'Ammiraglio non fu per ciò ritenuto meno responsabile, e per giudicar della sua condotta, la corte mandò all'isola Spagnuola un commendatore di Calatrava, chiamato Francesco di Bovadilla, al quale furono dati i titoli d'intendente di giustizia e di governatore generale. In realtà, era tutt'uno come destituire Colombo. Bovadilla, investito di questo potere discrezionale, partì con due navi verso la fine di giugno 1500. Il 23 agosto i coloni videro le due navi che cercavano di entrare

nel porto di San Domingo. Cristoforo Colombo e suo fratello don Bartolomeo erano allora assenti; stavano facendo erigere un forte nel cantone di Xaragua. Don Diego comandava per essi. Bovadilla prese terra e venne a sentir la messa, mostrando durante questa cerimonia un'ostentazione significantissima; poi, avendo mandato a chiamare don Diego, gli ordinò di rassegnare i poteri nelle sue mani. Cristoforo Colombo, prevenuto da un messaggiero, giunse in gran fretta. Egli prese cognizione delle lettere patenti di Bovadilla, e, fattane lettura, volle riconoscerlo come intendente di giustizia, ma non come governatore generale della colonia. Allora Bovadilla gli consegnò una lettera del re e della regina concepita in questi termini: «Don Cristoforo Colombo, nostro Ammiraglio nell'Oceano, Noi abbiamo ordinato al commendatore don Francesco Bovadilla di spiegarvi le nostre intenzioni. Vi ordiniamo di dargli fede e di eseguire ciò ch'egli vi dirà da parte nostra. Io, IL RE, Io, LA REGINA.» Il titolo di viceré, che apparteneva a Colombo, secondo le convenzioni solennemente sottoscritte da Ferdinando e da Isabella, non era neppur menzionato in quella lettera. Colombo fece tacere la sua giusta collera e si assoggettò. Ma contro l'Ammiraglio disgraziato sorse tutto il campo dei falsi amici. Tutti quelli che dovevano la loro fortuna a Colombo si rivolsero contro di lui, e lo accusarono d'essersi voluto rendere indipendente. Inette accuse! Come mai questo pensiero sarebbe venuto ad uno straniero, ad un Genovese, solo, in mezzo ad una colonia spagnuola! Bovadilla trovò buona l'occasione per incrudelire. Don

Diego era già imprigionato; il governatore fece poco stante mettere ai ferri don Bartolomeo e lo stesso Cristoforo Colombo. L'Ammiraglio, accusato d'alto tradimento, fu imbarcato co'suoi due fratelli, ed una nave li condusse in Ispagna sotto la condotta d'Alfonso di Villejo. Questo ufficiale, uomo di cuore, vergognoso del modo con cui veniva trattato Colombo, volle togliergli i lacci che lo legavano. Ma Colombo rifiutò. Egli voleva, lui, il conquistatore del nuovo mondo, arrivare carico di catene in quel regno di Spagna che aveva arricchito! L'Ammiraglio aveva avuto ragione d'agire in tal modo, giacché vedendolo in quello stato d'umiliazione, legato come uno scellerato, trattato come un colpevole, il sentimento pubblico si ribellò. La riconoscenza per l'uomo di genio si fece strada attraverso le male passioni così ingiustamente eccitate; fu un sollevamento di collera contro Bovadilla. Il re e la regina, trascinati dall'opinione, biasimarono altamente la condotta del commendatore, e diressero a Cristoforo Colombo una lettera affettuosa, invitandolo a recarsi a corte. Fu quello un bel giorno per Cristoforo Colombo. Egli apparve innanzi a Ferdinando e ad Isabella non già come accusato, ma quale accusatore; poi, la memoria degli indegni trattamenti spezzandogli il petto, il povero grand'uomo pianse e fece piangere intorno a lui. Egli narrò fieramente la sua vita. Lui, che veniva accusato d'ambizione, che dicevano essersi arricchito nell'amministrazione della colonia, si mostrò qual era, quasi miserabile! Sì! colui che aveva scoperto un mondo non possedeva nemmeno una tegola per riparare il suo capo! Isabella, buona e pietosa, pianse col vecchio marinaio, e stette un pezzo senza potergli rispondere, tanto le lagrime la soffocavano. Finalmente, parole affettuose uscirono dalle sue labbra; essa assicurò Colombo della sua protezione, gli promise di vendicarlo de' suoi nemici, si scusò della cattiva scelta fatta

di quel Bovadilla per mandarlo alle isole, e giurò di castigarlo in modo esemplare. Tuttavia essa domandava al suo Ammiraglio di lasciar passare qualche tempo prima di ristabilirlo nel suo governo, a fine di permettere agli spiriti prevenuti di tornare al sentimento dell'onore e della giustizia. Cristoforo Colombo fu calmato dalle graziose parole della regina; egli si mostrò soddisfatto della sua accoglienza, ed ammise la necessità dell'indugio che gli chiedeva. Ciò ch'egli voleva anzitutto era di servir ancora il suo paese, il suo sovrano adottivo, e faceva intravvedere grandi cose da tentare nella via delle scoperte. In fatti, il suo terzo viaggio, malgrado la sua breve durata, non era stato inutile, e la carta si era arricchita di questi nomi nuovi: la Trinità, il golfo di Paria, la costa di Cumana, le isole Tabago, Granata, Margarita e Cubaga.

V. Quarto viaggio: una flottiglia di quattro navi — La gran Canaria — La Martinica — La Dominion — Santa Croce — Porto Rico — L'isola Spagnuola — La Giamaica — L'isola dei Caimani — L'isola dei Pini — L'isola di Guauaja — Capo Honduras — La costa americana di Truxillo al golfo di Darien — Isole Limonares — Isola Huerta — Costa di Veragua — Terreni auriferi — Rivolta degli indigeni — Il sogno di Colombo — Porto Bello — Le Mulatas — Fermata alla Giamaica — Miseria — Rivolta degli Spagnuoli contro Colombo — L'eclisse di Luna — Arrivo di Colombo all'isola Spagnuola — Ritorno di Colombo in Ispagna — Sua morte, il 20 marzo 1506.

Cristoforo Colombo aveva riconquistato alla corte di Ferdinando e di Isabella tutto il favore che gli era dovuto. Forse il re gli manifestò ancora una certa freddezza; sebbene la regina lo proteggesse caldamente ed apertamente, tutti i suoi titoli ufficiali non gli furono ancora restituiti, ma da uomo superiore l'Ammiraglio non li reclamò. Egli ebbe del resto la soddisfazione di veder Bovadilla destituito, tanto per i suoi abusi di potere, quanto perchè la sua condotta cogli Indiani era diventata atroce. L'inumanità di quello Spagnuolo fu anzi spinta a tal punto che, sotto la sua amministrazione, la popolazione indigena dell'isola scemò sensibilmente. Frattanto l'isola Spagnuola incominciava a mantenere tutte le promesse di Colombo, il quale non chiedeva tre anni per accrescere di sessanta milioni la rendita della corona. L'oro si raccoglieva in abbondanza nelle miniere meglio trafficate. Uno schiavo aveva disseppellito sulle sponde del fiume Hayna un masso che pesava tremilaseicento scudi d'oro. Si poteva già prevedere che le nuove colonie produrrebbero ricchezze incalcolabili. L'Ammiraglio, non potendo stare inoperoso, chiedeva di continuo d'intraprendere un quarto viaggio, benché avesse allora settant'anni. Le ragioni ch'egli faceva valere in favore di

questa spedizione erano plausibilissime. In fatti, un anno prima del ritorno di Colombo, il Portoghese Vasco da Gama era tornato dalle Indie, dopo d'aver doppiato il capo di Buona Speranza. Ora Colombo voleva, recandovisi per le vie dell'ovest, molto più sicure e brevi, fare una seria concorrenza al commercio portoghese. Egli sosteneva sempre, credendo d'aver toccato la terra d'Asia, che le isole ed i continenti scoperti da lui non fossero separati dalle Molucche se non da uno stretto. Voleva dunque, senza nemmeno tornare all'isola Spagnuola ed alle colonie già stabilite, camminar dritto verso quel paese delle Indie. Come si vede, l'antico viceré tornava l'ardito navigatore de' suoi primi anni. Il re aderì alla domanda dell'Ammiraglio, e gli affidò il comando d'una flottiglia composta di quattro navi, il Santiago, il Gallego, il Vizcaino ed una nave capitana. La più grande di quelle navi stazzava settanta tonnellate, la più piccola cinquanta; in realtà, non erano che navi da cabotaggio. Cristoforo Colombo lasciò Cadice, il 9 maggio 1502, con centocinquanta uomini d'equipaggio. Egli conduceva seco il fratello Bartolomeo ed il suo secondo figlio, Ferdinando, di tredici anni appena, che aveva avuto dal secondo matrimonio. Il 20 maggio, le navi si fermavano alla Gran Canaria, ed il 15 giugno giunsero ad una delle isole del Vento, la Martinica; poi toccavano Dominica, Santa Croce, Porto Rico, e finalmente, dopo una fortunata traversata, giunsero il 20 giugno innanzi all'isola Spagnuola. L'intenzione di Colombo, a ciò consigliato dalla regina, era di non metter piede su quell'isola da cui era stato così indegnamente cacciato. Ma la sua nave, di cattiva costruzione, teneva male il mare; diventavano necessarie alcune riparazioni alla carena. L'ammiraglio domandò dunque al governatore il permesso d'entrare nel porto. Il nuovo governatore successo a Bovadilla era un cavaliere

dell'ordine d'Alcantara, chiamato Nicola Ovando, uomo giusto e moderato. Tuttavia, per un eccesso di prudenza, obbiettando che la presenza di Colombo nella colonia potrebbe produrre dei disordini, gli rifiutò l'ingresso nel porto. Colombo trattenne nel cuore l'indignazione che doveva cagionargli una simile

condotta, e rispose anzi al maltrattamento con un buon consiglio. In fatti la flotta che doveva ricondurre Bovadilla in Ispagna e portare l'enorme masso d'oro ed immense ricchezze, era pronta a spiegar le vele. Ma il tempo era diventato

minaccioso, e Colombo, colla sua perspicacia di marinaio, avendo osservato gli indizi d'una prossima tempesta, fece eccitare il governatore a non esporre le navi e quelli che le montavano. Ovando non volle tener conto dei consigli dell'Ammiraglio. Le navi presero il mare; non erano giunte alla

punta orientale dell'isola, che un uragano terribile ne fece perire ventuna. Bovadilla e la maggior parte dei nemici di Cristoforo Colombo annegarono, mentre, per un'eccezione, per così dire, provvidenziale, la nave che portava gli avanzi della ricchezza di Colombo sfuggì al disastro. L'Oceano aveva inghiottito dieci

milioni d'oro e di pietre preziose. Frattanto le quattro navi dell'Ammiraglio, respinte dal porto, erano fuggite innanzi all'uragano. Esse furono disalberate e separate le une dalle altre, ma riuscirono a raggiungersi. La burrasca le aveva portate il 14 giugno in vista della Giamaica. Colà, grandi correnti le condussero innanzi al Giardino della Regina, poi nella direzione dell'est quarto sudovest. La piccola flottiglia lottò allora per sessanta giorni senza fare più di settanta leghe, e fu finalmente spinta verso la costa di Cuba, il che produsse la scoperta dell'isola dei Pini. Cristoforo Colombo rifece allora rotta al sud-ovest, in mezzo a quei mari che nessuna nave europea aveva ancora solcati. Egli si slanciava di nuovo nella via delle scoperte con tutte le commozioni appassionate del navigante. La fortuna lo condusse verso la costa settentrionale dell'America; egli riconobbe l'isola Guanaja il 30 luglio, ed il 14 agosto toccò il capo Honduras quella lingua di terra che, prolungata dall'istmo di Panama, riunisce i due continenti. Così dunque, per la seconda volta, Colombo toccava senza saperlo la vera terra americana. Egli seguì i contorni di quelle spiaggie per più di nove mesi, in mezzo a pericoli ed a lotte d'ogni fatta, e fece la pianta di quelle coste dal luogo dove di poi sorse Truxillo fino al golfo di Darien. Ogni notte gettava l'àncora per timore d'allontanarsi dalla terra, e risalì fino a quel limite orientale che termina bruscamente col capo di Gracias a Dios. Questo capo fu doppiato il 14 settembre, ma l'Ammiraglio si vide assalito da tali venti che lui, vecchio marinaio, non ne aveva mai subito di simili. Ecco in quali termini la sua lettera al re di Spagna narra questo terribile episodio: «Per ottanta giorni i fiotti continuarono i loro assalti, ed i miei occhi non videro né il sole, né le stelle, né alcun pianeta; le mie navi erano spezzate, rotte le vele; i cordami, le scialuppe, gli

attrezzi, tutto era perduto; i miei marinai, malati e costernati, si davano ai pii doveri della religione; tutti promettevano dei pellegrinaggi, e tutti si erano confessati a vicenda, temendo da un istante all'altro di veder finita la loro esistenza. Io ho visto molte altre tempeste, ma giammai ne ho visto una così lunga ed impetuosa. Molti dei miei che passavano per marinai intrepidi, perdevano il coraggio; ma ciò che profondamente mi affliggeva era il dolore di mio figlio, la cui giovinezza accresceva la mia disperazione, e che io vedevo in preda a maggiori pene, a maggiori tormenti che non alcuno di noi. Era Dio, senza dubbio, e non altri che gli dava una tal forza; mio figlio solo rianimava il coraggio, rendeva la pazienza ai marinai nelle loro dure fatiche; in fine, si sarebbe creduto di vedere in lui un navigante invecchiato in mezzo alle tempeste; cosa meravigliosa, difficile a credersi e che veniva a mescere un po' di gioia alle pene che mi abbeveravano. Io era ammalato, e molte volte vidi avvicinarsi il mio ultimo istante… Finalmente, per mettere il colmo alla mia sciagura, vent'anni di servizi, di fatiche e di pericoli non mi hanno portato alcun profitto, giacché oggi mi trovo senza possedere una tegola in Ispagna, e l'albergo solo mi offre un asilo quando voglio riposarmi o fare il pasto più semplice; ancora mi accade spesso di trovarmi nell'impotenza di pagare lo scotto…» Queste poche linee non indicano forse di quali supremi dolori fosse abbeverato l'animo di Colombo? In mezzo a tanti pericoli ed a tante inquietudini, come mai poteva egli conservar l'energia necessaria ad un capo di spedizione? Per tutta la durata dell'uragano le navi seguirono quella costa, che porta successivamente i nomi di Honduras, di Mosquitos, di Nicaragua, di Costa Rica, di Yeragua e di Panama. Le dodici isole Limonares furono scoperte durante questo periodo. Finalmente, il 25 settembre, Colombo si arresta tra l'isoletta della Huerta ed il continente, poi, il 5 ottobre, parte

di nuovo e, dopo d'aver rilevato la baia dell'Almirante, getta l'àncora in faccia al villaggio di Cariay. Colà, le navi furono riparate, e restarono in riposo fino al 15 ottobre. Cristoforo Colombo si credeva allora poco lungi dalla foce del Gange, ed i naturali, parlandogli d'una certa provincia di Cigliare, circondata dal mare, sembravano confermare quest'opinione. Essi pretendevano pure che la regione contenesse abbondanti miniere d'oro, la più importante delle quali era situata a venticinque leghe verso il sud. L'Ammiraglio riprese dunque il mare ed incominciò a seguire la costa boschiva di Veragua. Gli Indiani, in quella parte del continente, sembravano molto selvaggi. Il 26 novembre la flottiglia entrò nel porto d'El Retrete, che ha formato il porto odierno degli Escribanos. Le navi, ròse dai vermi, erano nel più triste stato; bisognò ancora riparare le avarie e prolungare la fermata ad El Retrete. Colombo non lasciò questo porto se non per subire una tempesta più spaventosa delle prime: «Per nove giorni, dice egli, rimasi senza alcuna speranza di salvezza. Nessun uomo vide mai un mare più impetuoso e più terribile; esso si era coperto di schiuma, il vento non permetteva né di avanzare, né di dirigersi da qualsiasi parte; esso mi tratteneva in quel mare, le cui onde sembravano sangue e bollivano come riscaldate dal fuoco. Giammai io ho visto un cielo dall'aspetto così spaventoso; ardente per tutto un giorno ed una notte come una fornace, lanciava di continuo il fulmine e le fiamme, e temevo che da un momento all'altro le vele e gli alberi fossero portati via. Il tuono brontolava con un rumore così orribile, che sembrava dover distruggere le nostre navi; durante tutto questo tempo la pioggia cadeva con tanto impeto, che non si poteva dire che fosse pioggia, ma bensì un nuovo diluvio. I miei marinai, accasciati da tante pene e da tanti tormenti, invocavano la morte come termine a tanti mali; le mie navi erano fesse da tutte le parti, e le barche, le ancore, i cordami,

tutto era perduto.» In questa lunga e penosa navigazione, l'Ammiraglio aveva percorso circa trecentocinquanta leghe. I suoi equipaggi erano all'estremo delle forze. Egli fu dunque obbligato a tornare indietro ed a recarsi al fiume di Yeragua; ma, non avendo trovato un riparo sicuro per le navi, si recò non lungi, alla foce del fiume di Betlemme, che è oggi il fiume Yebra, nel quale si ancorò il giorno dell'Epifania dell'anno 1503. Il domani l'uragano incominciava ancora, ed anzi, il 24 gennaio, sotto un improvviso gonfiamento del fiume, le gomene delle navi si ruppero, ed esse non poterono essere salvate che a gran fatica. Tuttavia l'Ammiraglio, non dimenticando lo scopo principale della sua missione su quelle terre, era riuscito a stabilire delle relazioni continue cogli indigeni. Il cacicco di Betlemme si mostrava arrendevole, ed egli designò, a cinque leghe nell'interno, una regione in cui le miniere d'oro erano ricchissime. Il 6 febbraio, Cristoforo Colombo mandò verso il luogo indicato un drappello di settanta uomini guidato da suo fratello Bartolomeo. Dopo d'aver valicato un suolo molto accidentato e rotto da fiumi tanto sinuosi, che uno d'essi dovette essere traversato trentanove volte durante il tragitto, gli Spagnuoli giunsero ai terreni auriferi, che erano immensi e si estendevano a perdita d'occhio. L'oro vi era talmente abbondante, che un uomo solo poteva raccoglierne una misura in dieci giorni. In quattro ore, Bartolomeo ed i suoi compagni ne raccolsero per una somma enorme. Essi tornarono dall'Ammiraglio; costui, quando conobbe questo risultato, risolvette di stabilirsi sulla costa e fece costrurre delle baracche di legno. Le miniere di quella regione erano veramente d'un'incomparabile ricchezza; parevano inesauribili, e per esse Colombo dimenticò Cuba e San Domingo. La sua lettera al re Ferdinando dimostra il suo entusiasmo in proposito, e si può

essere meravigliati di trovare sotto la penna di questo grand'uomo una frase curiosa, che non è né d'un filosofo, né d'un cristiano: «L'oro! l'oro! cosa eccellente! È dall'oro che nascono le ricchezze! è per esso che tutto si fa nel mondo, ed il suo potere basta spesso per mandar le anime in paradiso!» Gli Spagnuoli lavoravano dunque con ardore ad accumular l'oro nelle navi. Fino allora le relazioni cogli indigeni erano state tranquille, benché quelle persone fossero d'umore selvatico; ma a breve andare il cacicco, irritato dell'usurpazione compiuta dagli stranieri, risolvette di trucidarli e di bruciare le loro case. Un giorno dunque egli si gettò sugli Spagnuoli con grandi forze. Vi fu una battaglia accanita; gli Indiani furono respinti. Il cacicco si era lasciato pigliare con tutta la sua famiglia; ma i suoi figli e lui riuscirono a fuggire e si cacciarono nella regione delle montagne con gran numero di compagni. Più tardi, nel mese d'aprile, gli indigeni, formando un gran drappello, assalirono una seconda volta gli Spagnuoli, che li sterminarono in gran parte. Frattanto la salute di Colombo si alterava sempre più. Il vento gli mancava per lasciare quella regione; egli disperava. Un giorno, sfinito di fatiche, cadde e si addormentò. Nel suo sonno egli udì una voce pietosa che gli disse queste parole che ripeteremo testualmente, giacché esse sono improntate d'una certa religione estatica che compie il ritratto morale del vecchio navigante. Ecco ciò che gli diceva quella voce: «O insensato! perchè tanta lentezza a credere ed a servire il tuo Dio, il Dio dell'universo? Che fece egli di più per Mosè e per Davide suo servitore? Fin dalla tua nascita non ha egli forse avuto per te la più tenera sollecitudine; e quando ti vide in un'età in cui ti aspettavano i suoi disegni, non ha egli forse fatto echeggiare gloriosamente il tuo nome su tutta la terra? Le Indie, questa parte così ricca del mondo, non te le ha forse date? Non ti ha egli fatto libero di farne omaggio secondo il tuo

volere? Chi mai se non lui ti prestò i mezzi d'eseguire i suoi disegni? Dei lacci difendevano l'entrata dell'Oceano; essi erano formati di catene che non si potevano spezzare. Egli te ne diede le chiavi. Il tuo potere fu riconosciuto nelle terre lontane, e la tua gloria fu proclamata da tutti i cristiani. Si mostrò forse Iddio più favorevole al popolo d'Israello quando lo trasse dall'Egitto? Protesse egli più efficacemente Davide, quando, da pastore, lo fece re di Giudea? Rivolgiti verso di lui e riconosci il tuo errore, giacché la sua misericordia è infinita. La tua vecchiaia non sarà un ostacolo per le grandi cose che ti aspettano: egli tiene nelle sue mani i più splendidi retaggi. Abramo non aveva forse cento anni, e Sara non aveva già passata la giovinezza quando nacque Isacco? Tu invochi un soccorso incerto. Rispondimi: chi ti ha esposto tante volte a tanti pericoli? È forse Dio od il mondo? I vantaggi, le promesse che Dio accorda, non le infrange mai verso i suoi servitori. Non è lui che, dopo d'aver ricevuto un servizio, pretende che non siano state seguite le sue intenzioni e che dà a' suoi ordini una nuova interpretazione; non è già lui che cerca di dare un colore vantaggioso ad atti arbitrari. I suoi discorsi non sono subdoli; tutto ciò ch'egli promette, lo accorda con usura. Egli fa sempre quello che dice. Ti ho detto tutto ciò che il Creatore ha fatto per te; in questo momento egli ti mostra il pregio e la ricompensa dei pericoli e delle pene di cui tu fosti zimbello per servizio degli altri.» Ed io, sebbene sfinito di sofferenze, udii tutto questo discorso, ma non potei trovare forza da rispondere a promesse così certe; mi accontentai di piangere i miei errori. Quella voce finì in questi termini: «Spera, abbi fiducia; i tuoi lavori saranno incisi sul marmo, e sarà giustizia.» Cristoforo Colombo, appena fa risanato, pensò a lasciare quella costa. Avrebbe voluto fondarvi uno stabilimento, ma i suoi equipaggi non erano abbastanza numerosi perchè egli si arrischiasse a lasciarne una parte a terra. Le quattro navi erano

ròse dai vermi; dovette abbandonarne una a Betlemme, e spiegò le vele il giorno di Pasqua. Ma era appena giunto a trenta leghe in alto mare, quando una falla si dichiarò in una delle navi. L'Ammiraglio dovette tornare alla costa in gran fretta, e giunse felicemente a Porto Bello, dove lasciò una nave, le cui avarie erano irreparabili. La flottiglia non si componeva più allora che di due navi, senza scialuppe, quasi senza viveri, e doveva percorrere settemila miglia. Essa risalì la costa, passò innanzi al porto d'El Retrete, riconobbe il gruppo delle Mulatas, e penetrò nel golfo di Darien. Fu questo il punto estremo toccato da Colombo nell'est. Il 1° maggio, l'Ammiraglio si diresse verso l'isola Spagnuola; il 10 maggio era giunto in vista delle isole Caiman; ma non potè dominare i venti che lo spinsero nel nord-ovest fin presso a Cuba. Là, in una tempesta in mezzo ai bassi fondi, egli perdette le vele e le ancore, e le sue due navi si urtarono durante la notte. Poi, respinto dall'uragano verso il sud, tornò colle navi spezzate alla Giamaica, e si ancorò il 23 giugno nel porto San Gloria, diventato baia di Don Cristoforo. L'Ammiraglio avrebbe voluto andare all'isola Spagnuola, giacché là si trovavano i mezzi necessari per approvigionare le navi, mezzi che mancavano assolutamente alla Giamaica; ma le due navi, ròse dai vermi, «simili ad alveari d'api,» non potevano tentare impunemente questa navigazione di trenta leghe. Ora, come mandare un messaggio ad Ovando, governatore dell'isola Spagnuola? Frattanto, le navi facevano acqua da ogni parte, e l'Ammiraglio dovette farle arenare; poi egli cercò di ordinare la vita comune su quelle spiaggie. Gli Indiani gli vennero dapprima in aiuto, e fornirono agli equipaggi i viveri di cui avevano bisogno. Ma quei disgraziati marinai, tanto tribolati, manifestavano il loro malcontento contro l'Ammiraglio; essi minacciavano di ribellarsi, ed il disgraziato Colombo, sfinito

dalla malattia, non lasciava più il suo letto di dolori. Fu in queste circostanze che due bravi ufficiali, Mendez e Fieschi, proposero all'Ammiraglio di tentare su piroghe indiane la traversata dalla Giamaica all'isola Spagnuola. In verità, era un viaggio di dugento leghe, giacché bisognava risalire la costa fino al porto della colonia. Ma i coraggiosi ufficiali erano pronti a sfidare tutti i pericoli, trattandosi della salvezza dei compagni. Cristoforo Colombo, comprendendo quell'audace proposta, che in qualsiasi altra circostanza avrebbe fatta egli medesimo, diede facoltà a Mendez ed a Fieschi di partire. Poi l'Ammiraglio, non avendo più navi, quasi senza viveri, rimase col suo equipaggio in quell'isola selvaggia. A breve andare la miseria dei naufraghi — si può dar loro questo nome — fu tale, che ne seguì una rivolta. I compagni dell'Ammiraglio, acciecati dalle sofferenze, immaginarono che il loro capo non osasse tornare a quel porto dell'isola Spagnuola, di cui il governatore Ovando gli aveva già rifiutato l'ingresso. Essi credettero che questa proscrizione li colpisse al pari dell'Ammiraglio, e pensarono che il governatore, escludendo la flottiglia dai porti della colonia, non dovesse aver agito che per ordine del re. Questi ragionamenti sciocchi accesero gli spiriti già mal disposti, e finalmente, il 2 gennaio 1504, il capitano d'una delle navi, il tesoriere militare, due fratelli chiamati Porras, si misero alla testa dei malcontenti. Essi pretendevano di tornare in Europa, e si precipitarono verso la tenda dell'Ammiraglio gridando: Castiglia! Castiglia! Colombo era malato ed a letto. Suo fratello e suo figlio vennero a fargli un baluardo coi loro corpi. I ribelli, alla vista del vecchio Ammiraglio, si arrestarono, ed il loro furore cadde innanzi a lui. Ma non vollero ascoltare le sue rimostranze ed i suoi consigli; non compresero che non potevano salvarsi se non a patto che ciascuno, dimenticando sé stesso, lavorasse per la comune salvezza. No! Essi avevano preso il partito di lasciar

l'isola ad ogni costo e con qualsiasi mezzo. Porras ed i ribelli corsero dunque verso la spiaggia; s'impadronirono dei canotti degli indigeni e si diressero verso l'estremità orientale dell'isola. Colà, non rispettando più nulla, ubbriachi di furore, saccheggiarono le abitazioni indiane, rendendo così l'Ammiraglio responsabile delle loro violenze, e trascinarono alcuni disgraziati naturali a bordo dei canotti che avevano loro rubati. Porras ed i suoi continuarono la loro navigazione; ma a poche leghe al largo furono sorpresi da un colpo di vento che li mise in gran pericolo, e per alleggerire le barche, gettarono i prigionieri in mare. Dopo questa barbara esecuzione, i canotti cercarono di giungere all'isola Spagnuola, come avevano fatto Mendez e Fieschi, ma furono respinti ostinatamente sulle coste della Giamaica. Frattanto l'Ammiraglio, rimasto solo co' suoi amici e cogli infermi, riuscì a stabilir l'ordine fra ì suoi. Ma la miseria cresceva, la carestia minacciava. Gli indigeni erano stanchi di nutrire quegli stranieri, il cui soggiorno si prolungava sulla loro isola. D'altra parte, avevano visto gli Spagnuoli darsi battaglia, e ciò aveva distrutto il loro prestigio. Quei naturali comprendevano finalmente che quegli Europei non erano che semplici uomini, ed appresero così a non rispettarli né a temerli. L'autorità di Colombo sulle popolazioni indiane scemava dunque di giorno in giorno, e ci volle una circostanza fortuita, di cui l'Ammiraglio approfittò abilmente, per ridonargli un prestigio tanto necessario alla salvezza de' compagni. Un eclisse di luna, previsto e calcolato da Colombo, doveva avvenire un certo giorno. Il mattino medesimo di quel giorno, l'Ammiraglio fece radunare i cacicchi dell'isola. Costoro si arresero all'invito, e quando furono riuniti nella tenda di Colombo, costui annunciò loro che Dio, volendo punirli della loro poca ospitalità e delle loro male disposizioni a

riguardo degli Spagnuoli, rifiuterebbe loro la sera la luce della luna. Infatti, tutto seguì come l'Ammiraglio aveva annunciato. L'ombra della terra venne a nascondere la luna, il cui disco sembrava róso da un mostro formidabile. I selvaggi spaventati si buttarono ai piedi di Colombo, supplicandolo d'intercedere il cielo in loro favore, e promettendogli di mettere tutte le loro ricchezze a sua disposizione. Colombo, dopo alcune esitazioni abilmente eseguite, finse di arrendersi alle preghiere degli indigeni. Col pretesto d'implorare la divinità, egli corse a chiudersi sotto la tenda per tutta la durata dell'eclisse, e non riapparve se non nel momento in cui il fenomeno toccava alla fine. Allora egli annunciò ai cacicchi che il cielo si era lasciato vincere, e col braccio teso, comandò alla luna di riapparire. Poco stante, il disco uscì dal cono d'ombra, e l'astro delle notti brillò in tutto il suo splendore. Da quel giorno, gli Indiani, riconoscenti e sottomessi, accettarono l'autorità dell'Ammiraglio che le potenze celesti imponevano loro in modo così manifesto. Mentre questi avvenimenti accadevano alla Giamaica, Mendez e Fieschi avevano da un pezzo raggiunto i loro intenti. Quei coraggiosi ufficiali, dopo una miracolosa traversata di quattro giorni fatta in un fragile canotto, erano giunti all'isola Spagnuola. Subito essi fecero conoscere al governatore la condizione disperata di Cristoforo Colombo e de' suoi compagni. Ovando, invidioso ed ingiusto, trattenne dapprima i due ufficiali, e col pretesto di rendersi conto del vero stato delle cose, mandò verso la Giamaica, dopo otto mesi di ritardo, un uomo suo, un certo Diego Escobar, che era nemico particolare dell'Ammiraglio. Escobar, giunto alla Giamaica, non volle comunicare con Cristoforo Colombo; egli non sbarcò nemmeno, ma si accontentò di mettere a terra, a disposizione degli equipaggi stremati, «un porco ed un barile di vino;» poi, ripartì senza aver ammesso nessuno a bordo. La coscienza

stenta a credere a simili infamie, ma disgraziatamente esse non sono che troppo vere! L'Ammiraglio fu indignato da questa beffa crudele; ma non si lasciò vincere dalla collera, non fece recriminazioni. L'arrivo d'Escobar doveva rassicurare i naufraghi, giacché esso

provava che la loro condizione era conosciuta; la liberazione non era dunque più che questione di tempo, ed il morale degli Spagnuoli si rialzò a poco a poco. L'Ammiraglio volle tentare allora di ricondurre a sé Porras ed i ribelli, che, dopo la loro separazione, non cessavano di

saccheggiar l'isola e di esercitare contro i disgraziati indigeni delle crudeltà odiose. Egli fece loro la proposta di rientrare in grazia presso di lui; ma quei pazzi non risposero alle generose offerte se non venendo ad assalire Colombo fino nel suo recinto. Gli Spagnuoli rimasti fedeli alla causa dell'ordine dovettero brandir le armi. Gli amici dell'Ammiraglio difesero valorosamente il loro capo; essi non perdettero che un solo uomo in questo triste scontro, e rimasero padroni del campo di battaglia, dopo d'aver fatto prigionieri i due fratelli Porras. I ribelli allora si gettarono alle ginocchia di Colombo, che, tenendo conto di quanto avevano patito, perdonò. Finalmente, un anno solamente dopo la partenza di Mendez e di Fieschi, apparve la nave, equipaggiata da essi a spese di Colombo, che doveva rimpatriare i naufraghi. Il 24 giugno 1504, tutti s'imbarcarono, e lasciando la Giamaica, teatro di tante miserie morali e fisiche, fecero vela verso l'isola Spagnuola. Giunto al porto, dopo una buona traversata, Cristoforo Colombo, con suo gran stupore, fu dapprima ricevuto con molti riguardi. Il governatore Ovando, da uomo abile che non vuol resistere all'opinione pubblica, fece onore all'Ammiraglio; ma queste buone disposizioni non dovevano durare, e presto ricominciarono i tormenti. Allora, Colombo, non potendo più resistere, non volendo più sopportarli, umiliato, maltrattato perfino, noleggiò due navi, di cui divise il comando con suo fratello Bartolomeo, e, il 12 settembre 1504, prese per l'ultima volta la via dell'Europa. Questo quarto viaggio aveva guadagnato alla scienza geografica le isole Caiman, Martinica, Limonares, Guanaja, le coste dell'Honduras, di Mosquitos, Nicaragua, di Veragua, di Costa Rica, di Porto Bello, di Panama, le isole Mulatas ed il golfo di Darien. L'uragano doveva tormentare ancora Colombo durante la

sua ultima traversata dell'Oceano. La sua nave fu disalberata ed il suo equipaggio dovette trasbordare con lui sulla nave di suo fratello. Il 19 ottobre, un uragano formidabile venne ancora a rompere l'albero maestro di questa nave, che dovette fare settanta leghe colla velatura incompleta. Finalmente, il 7 novembre, l'Ammiraglio entrò nel porto di San Lucar. Una triste notizia aspettava Colombo al suo ritorno. La sua protettrice, la regina Isabella, era morta. Chi dunque s'interesserà oramai al vecchio Genovese? Il re Ferdinando, ingrato ed invidioso, ricevette freddamente l'Ammiraglio. Egli non gli risparmiò né le lentezze né i pretesti, sperando di sbarazzarsi così dei trattati solennemente sottoscritti, di sua mano, e finì col proporre a Colombo una piccola città della Castiglia, Camon de los Condes, in cambio dei suoi titoli e delle sue dignità. Tanta ingratitudine e slealtà accasciarono il vecchio. La sua salute, così profondamente alterata, non si rialzò più, ed il dispiacere lo condusse alla tomba. Il 20 maggio 1506, a Valladolid, vecchio di settanta anni, egli rese l'anima a Dio pronunciando queste parole: «Signore, rimetto il mio spirito ed il mio corpo tra le vostre mani.» Gli avanzi di Cristoforo Colombo erano stati dapprima deposti nel convento di San Francesco; poi, nel 1513, furono portati nel convento dei Certosini di Siviglia. Ma sembrava che il riposo non dovesse spettare al gran navigante, neppure dopo la morte. Nell'anno 1536, il suo corpo fu trasportato nella cattedrale di San Domingo. La tradizione locale vuole che dopo il trattato di Basilea, nel 1795, quando il governo spagnuolo, prima di cedere alla Francia la parte orientale dell'isola di San Domingo, ordinò il trasporto delle ceneri del gran viaggiatore all'Avana, un canonico abbia sostituito altri avanzi a quelli di Cristoforo Colombo, e che questi siano stati deposti nel coro della cattedrale, a mancina dell'altare.

In grazia della manovra di questo canonico, ispirato da un sentimento di patriottismo locale, o dal rispetto delle ultime volontà di Colombo, che fissava San Domingo come luogo scelto per la sua sepoltura, non sarebbero le ceneri dell'illustre navigante quelle che la Spagna possiede all'Avana, ma probabilmente quelle di suo fratello Diego. La scoperta che è stata fatta, il 15 settembre 1877, nella cattedrale di San Domingo, d'una cassa di piombo contenente delle ossa umane e la cui iscrizione proverebbe dover essa contenere gli avanzi dello scopritore dell'America, sembra confermare pienamente la tradizione che abbiamo riferita. Del resto, che il corpo di Cristoforo Colombo sia a San Domingo oppure all'Avana, poco importa: il suo nome e la sua gloria sono da per tutto.

CAPITOLO VIII. LA CONQUISTA DELL'INDIA E DEL PAESE DELLE SPEZIE. I. Covilham e Paiva — Vasco da Gama — Il capo di Buona Speranza doppiato — Scali a Sam Braz, Mozambico, Mombaz e Melinda — Arrivo a Calicut — Tradimenti del zamorin — Battaglie — Ritorno in Europa — Lo scorbuto — Morte di Paolo da Gama — Arrivo a Lisbona.

Nel medesimo tempo che mandava Diaz a cercare nel sud dell'Africa la via delle Indie, il re di Portogallo, Giovanni II, incaricava due gentiluomini della sua corte d'informarsi se non fosse possibile penetrarvi per una via più facile, più rapida e più sicura: l'istmo di Suez, il mar Rosso e l'oceano Indiano. Una tal missione richiedeva un uomo abile, intraprendente, bene al fatto delle difficoltà d'un viaggio in quelle regioni, che conoscesse le lingue orientali, od almeno l'arabo. Ci voleva un agente d'indole pieghevole e dissimulata, capace, in una parola, di non lasciar indovinare dei disegni che tendevano niente meno che a togliere dalle mani dei Musulmani, degli Arabi, e con essi dei Veneziani, tutto il commercio dell'Asia per darlo al Portogallo. Un navigante pratico, Fedro de Covilham, che si era segnalato al servizio di Alfonso V nella guerra di Castiglia, aveva fatto un lungo soggiorno in Africa. Fu sopra di lui che Giovanni II rivolse gli occhi. Gli fu aggiunto Alonzo de Paiva, ed entrambi, muniti d'istruzioni minuziose, come pure d'una carta tracciata secondo il mappamondo del vescovo Calsadilla, seguendo la quale si poteva fare il giro dell'Africa, partirono da Lisbona nel mese di maggio 1487. I due viaggiatori giunsero ad Alessandria ed al Cairo, dove

furono abbastanza fortunati da incontrare dei mercanti mori di Fez e di Tlemcen, che li condussero a Thor, l'antica Asiongaber, al piede del Sinai, dove poterono procurarsi delle preziose notizie circa il commercio di Calicut. Covilham risolvette di profittare di questa lieta occasione per visitare un paese sul quale, da un secolo, il Portogallo volgeva l'occhio bramoso, mentre Paiva si addentrerebbe nelle regioni, allora così vagamente designate sotto il nome d'Etiopia, alla ricerca di quel famoso prete Giovanni, che regnava, secondo quanto narravano gli antichi viaggiatori, sopra una regione dell'Africa meravigliosamente ricca e fertile. Paiva perì senza dubbio nel suo tentativo avventuroso, giacché non si ritrovano più le sue traccie. Quanto a Covilham, egli giunse ad Aden dove s'imbarcò per la costa di Malabar. Visitò successivamente Cananor, Calicut, Goa, e raccolse delle informazioni precise sul commercio ed i prodotti dei paesi vicini al mare delle Indie, senza destare i sospetti degli Indiani, molto lontani dal pensare che l'accoglienza amichevole che essi facevano al viaggiatore assicurava la rovina e la schiavitù della loro patria. Covilham, credendo di non aver ancora fatto abbastanza pel suo paese, lasciò l'India, toccò la costa orientale dell'Africa, dove visitò Mozambico, Sofala, da lungo tempo famosa per le sue miniere d'oro, la cui riputazione era venuta cogli Arabi fino in Europa, e Zeila, l'Avalites portus degli antichi, la città principale della costa d'Adel, all'ingresso del golfo arabico, sul mar d'Oman. Dopo un soggiorno piuttosto lungo in quella regione, egli tornò per Aden, allora il principale deposito del commercio dell'Oriente, si spinse fino all'ingresso del golfo Persico, ad Ormuz, poi, risalendo il mar Rosso, tornò al Cairo. Giovanni II vi aveva mandato due ebrei istruiti che dovevano aspettarvi Covilham. Costui consegnò ad uno d'essi, il rabbino Abramo Beja, le sue note, l'itinerario de' suoi viaggi

ed una carta d'Africa che un musulmano gli aveva data, incaricandolo di portare il tutto a Lisbona, al più presto possibile. Quanto a lui, non contento di ciò che aveva fatto fino allora, e volendo eseguire la missione che la morte aveva impedito a Paiva di compiere, penetrò in Abissinia, il cui negus, conosciuto sotto il nome di prete Giovanni, lusingato di vedere la sua alleanza ricercata da uno dei sovrani più potenti dell'Europa, lo accolse con estrema benevolenza, e gli affidò anzi un'alta carica alla sua corte, ma per assicurarsi la continuità de' suoi servigi, rifiutò costantemente di lasciargli abbandonare il paese. Benché si fosse ammogliato ed avesse dei figli, Covilham pensava sempre alla patria, e quando nel 1525 un'ambasciata portoghese, di cui faceva parte Alvares, venne in Abissinia, egli vide partire col più profondo rammarico i suoi compatrioti, ed il cappellano della spedizione si è fatto ingenuamente l'eco de' suoi lamenti e del suo dolore. «Fornendo, dice il signor Ferdinando Denis, sulla possibilità della circumnavigazione dell'Africa, delle notizie precise, indicando la via delle Indie, dando sul commercio di quelle regioni le nozioni più positive e più estese, facendo soprattutto la descrizione delle miniere d'oro di Sofala, che dovette eccitare la cupidigia portoghese, Covilham contribuì potentemente ad accelerare la spedizione di Gama.» Se si deve prestar fede ad antiche tradizioni che nessun documento autentico e venuto a confermare, Gama discenderebbe per un ramo illegittimo da Alfonso III, re di Portogallo. Suo padre, Estevam Eanez da Gama, grande alcade di Sines e di Sy nel regno degli Algarves, e commendatore di Seixal, occupava un'alta posizione alla corte di Giovanni II. La sua riputazione di marinaio era tale, che questo re, nel momento in cui la morte venne a sorprenderlo, pensava a dargli il comando della flotta ch'egli voleva mandare alle Indie.

Dal suo matrimonio con donna Isabella Sodre, figlia di Giovanni di Resende, provveditore delle fortificazioni di Santarem, nacquero molti figliuoli, e segnatamente Vasco, che, primo, giunse in India doppiando il capo di Buona Speranza, e Paolo, che lo accompagnò in questa memorabile spedizione. Si sa che Vasco da Gama vide la luce a Sines, ma non si è ancora certi sulla data della sua nascita. Il 1469 è l'anno ordinariamente ammesso, ma oltre che Gama sarebbe stato molto giovane (non avrebbe avuto che ventotto anni) quando gli fu confidato l'importante comando della spedizione delle Indie, si è scoperto una ventina d'anni fa, negli archivi spagnuoli, un salvacondotto accordato nel 1478 a due persone chiamate Vasco da Gama e Lemos per passare a Tangeri. È poco verosimile che quel passaporto sia stato ad un fanciullo di nove anni, il che spingerebbe più indietro la data della nascita del celebre viaggiatore. Pare che, di buon'ora, Vasco da Gama sia stato destinato a seguire la carriera della marina, nella quale si era illustrato il padre suo. Il primo storico delle Indie, Lopez de Castañeda, si piace nel ricordare ch'egli si rese illustre sui mari d'Africa. Si sa anche ch'egli fu incaricato di pigliare nei porti del Portogallo tutte le navi francesi che vi fossero ancorate, in rappresaglia della cattura d'un ricco galeone portoghese che tornava da Mina, fatta durante la pace da corsari francesi. Questa missione non aveva dovuto essere affidata se non ad un capitano energico e conosciuto per le sue imprese. È questa per noi la prova che il valore e l'abilità di Gama erano altamente apprezzati dal re. Verso quel tempo, egli sposò donna Catarina de Ataide, una delle più alte dame della corte, da cui ebbe molti figliuoli, fra gli altri Estevam da Gama, che fu governatore delle Indie, e dom Christovam, che, per la sua lotta in Abissinia contro Ahmed Guerad, dice Gaucher, e per la sua morte romanzesca, merita d'essere annoverato fra gli

avventurieri famosi del secolo XVI. In grazia d'un documento estratto dalla biblioteca pubblica di Porto, documento che Castañeda dovette conoscere e di cui il signor Ferdinando Denis ha pubblicato la traduzione nei Viaggiatori antichi e moderni, del signor E. Charton, il dubbio non è più possibile sulla data del primo viaggio di Gama. Si può fissarla con certezza al sabato 8 luglio 1497. Tutti i particolari di questa spedizione, già risoluta da lungo tempo, furono minuziosamente regolati. Essa doveva essere composta di quattro navi di mezzana grandezza «affinchè, dice Pacheco, potessero entrare ed uscire prestamente da per tutto.» Saldamente costrutte, esse erano fornite d'un triplice ricambio di vele e d'ormeggi; tutti i barili destinati a contenere le provviste d'acqua, d'olio o di vino, erano stati rinforzati con cerchi di ferro; provviste d'ogni fatta, farina, vino, legumi, oggetti di farmacia, artiglieria, tutto era stato radunato in abbondanza; infine i migliori marinai, i più abili piloti, i capitani più esperimentati ne formavano il personale. Gama, che aveva ricevuto il titolo di capitan mor, inalberò la sua bandiera sul Sam Gabriel, di centoventi tonnellate. Suo fratello, Paulo da Gama, montò il Sam Raphael, di cento tonnellate. Una nave di cinquanta tonnellate, il Berrio, così chiamato in memoria del pilota Berrio che l'aveva venduta ad Emanuele I, ebbe per capitano Nicola Coelho, marinaio esperimentato. Infine una gran barca, carica di provviste e di mercanzie destinate al baratto coi naturali dei paesi che si dovevano visitare, aveva per comandante Pedro Nuñes. Pero de Alemquer, che era stato il pilota di Bartolomeo Dias, doveva regolare le mosse della spedizione. Il personale della flotta, compresi dieci malfattori che erano stati imbarcati per fare le missioni pericolose, si elevava a centosessanta persone.

Paragonati alla grandezza della missione che quegli uomini dovevano compiere, che deboli mezzi, quali risorse derisorie! L'8 luglio, ai primi raggi del sole, Gama, seguito da' suoi ufficiali, si avanza verso le navi in mezzo ad un immenso

concorso di popolo. Intorno a lui si spiega un corteo di monaci e di religiosi, che cantano gli inni sacri e chiedono al cielo d'estendere la sua protezione sui viaggiatori. Dovette essere una scena singolarmente commovente quella partenza da Rastello, allorché tutti, attori e spettatori,

mescevano i loro canti, le loro grida, i loro addii ed i loro pianti, mentre le vele, gonfiate da un vento propizio, trascinavano verso l'alto mare Gama e la fortuna del Portogallo. Una gran caravella ed una barca più piccola che si recavano a Mina, sotto il comando di Bartolomeo Dias, dovevano viaggiar di conserva colla flotta di Gama. Il sabato successivo, le navi erano in vista delle Canarie e passarono la notte al vento di Lancerote. Quando giunsero all'altezza del Rio de Ouro, una fitta nebbia separò Paolo da Gama, Coelho e Dias dal rimanente della flotta, ma le navi si radunarono presso le isole del capo Verde, a cui si giunse poco stante. A Santiago, le provviste di carne, d'acqua e di legna furono rinnovate, e le navi furono rimesse in buon stato di navigabilità. Si lasciò la spiaggia di Santa Maria il 3 agosto. Il viaggio si compì senza accidenti notevoli, ed il 4 novembre fu gettata l'àncora alla costa d'Africa, in una baia che ricevette il nome di Santa Ellena. Vi si passarono otto giorni a far legna ed a rimettere tutto in ordine a bordo delle navi. Fu colà che si videro per la prima volta dei Boschis, razza miserabile e degradata che si nutriva della carne dei lupi marini e delle balene nel medesimo tempo che di radici. I Portoghesi s'impadronirono di alcuni di quei naturali e li trattarono bene. I selvaggi non conoscevano il valore di alcuna delle mercanzie che vennero loro offerte, le vedevano per la prima volta e ne ignoravano l'uso. La sola cosa che sembrassero apprezzare era il rame, e portavano alle orecchie delle piccole catene di quel metallo. Sapevano servirsi benissimo delle zagaglie, specie di giavellotti dalla punta indurita al fuoco, come lo provarono tre o quattro marinai e Gama medesimo cercando di toglier loro un certo Velloso, che si era imprudentemente cacciato nell'interno del paese, — avvenimento che ha fornito a Camoens uno dei più leggiadri episodi delle Lusiadi.

Lasciando Santa Ellena, Pero de Alemquer, l'antico pilota

di Dias, dichiarò che si credeva a trenta leghe dal Capo; ma, nel

dubbio, si prese il largo, e, il 18 novembre, la flotta si trovò in vista del capo di Buona Speranza, ch'essa doppiò il domani col vento in poppa. Il 25, le navi si ancorano nella baia Sam Braz, dove rimasero tredici giorni, durante i quali fu demolita la nave portatrice delle provviste, che furono ripartite fra le tre navi. Durante il loro soggiorno, i Portoghesi diedero ai Boschis dei vetri ed altri oggetti che li videro accettare con stupore, giacché, al tempo del viaggio di Dias, i negri si erano mostrati paurosi ed ostili, ed avevano difeso l'ingresso a sassate. Essi condussero anzi dei buoi e dei montoni, e per testimoniare la loro soddisfazione del soggiorno dei Portoghesi, «incominciarono, dice Nicola Velho, a far suonare quattro o cinque flauti, gli uni suonando gli acuti, gli altri i bassi, concertando a meraviglia per negri da cui non era certo ad aspettarsi della buona musica. Essi danzavano anche, come danzano i negri, ed il capitam mor ordinò di suonare le trombe, e noi, nelle nostre scialuppe, danzavamo, il capitam mor danzando pure dopo d'essere tornato fra di noi.» Che dite di questa festicciuola e della serenata reciproca che si davano i Portoghesi ed i negri? Si sarebbe mai aspettato di vedere Gama, il grave Gama, quale ce lo rappresentano i suoi ritratti, iniziante i negri alle delizie della pavana? Disgraziatamente, queste buone disposizioni non durarono, e bisognò fare qualche dimostrazione ostile colle scariche dell'artiglieria. In questa baia di Sam Braz, Gama piantò un padrao, che fu subito rovesciato appena egli fu partito. Poco stante si ebbe sorpassato il Rio Infante, punto estremo raggiunto da Dias. In quel momento, la flotta risentì l'effetto d'una corrente impetuosa, che potè essere neutralizzata, in grazia del vento favorevole. Il 25 dicembre, giorno di Natale, veniva scoperta la terra di Natal.

Le navi avevano delle avarie, l'acqua potabile mancava; era urgente di giungere ad un porto, il che fece la spedizione, il 10 gennaio 1495. I negri che i Portoghesi videro sbarcando erano molto più grandi di quelli che avevano incontrato fino allora. Essi erano armati d'un grand'arco, di lunghe freccie e d'una zagaglia guernita di ferro. Erano Cafri, razza superiore di molto ai Boschis. Si stabilirono con essi dei rapporti così buoni, che Gama diede al paese il nome di Terra della buona Nazione (Terra de boa Gente). Un po' più lungi, risalendo sempre la costa, due mercanti musulmani, l'uno portante il turbante, l'altro un cappuccio di raso verde, vennero a visitare i Portoghesi con un giovanotto che, «secondo quanto si poteva comprendere dai loro cenni, apparteneva ad un paese molto lontano di là, e diceva d'aver già visto delle navi grandi come le nostre.» Fu questa per Vasco da Gama la prova ch'egli si avvicinava a quella terra dell'India, da tanto tempo e così ardentemente cercata; per ciò battezzò il fiume che sboccava in quel luogo nel mare, Rio dos Boms Signaes (Fiume dei Buoni Indizi). Disgraziatamente si manifestarono nello stesso tempo fra gli equipaggi i primi sintomi dello scorbuto, che non tardò a gettare un buon numero di marinai sui loro lettucci. Il 10 marzo, la spedizione si ancorò innanzi all'isola di Mozambico. Colà Gama, per mezzo dei suoi interpreti arabi, apprese che fra gli abitanti d'origine maomettana, si trovava un certo numero di mercanti che trafficavano coll'India. L'oro e l'argento, i drappi e le spezie, le perle ed i rubini formavano il fondo del loro commercio. Gama ricevette nel medesimo tempo l'assicurazione che, risalendo lungo il litorale, egli troverebbe numerose città; «cosa di cui eravamo così contenti, dice Velho nella sua ingenua e preziosa relazione, che ne piangevamo di gioia, pregando Dio che ci volesse dar salute affinchè vedessimo quanto avevamo desiderato.»

Il viceré Colyytam, che credeva d'aver da fare con musulmani, venne molte volte a bordo delle navi, dove fu trattato magnificamente; egli rispose a queste garbatezze coll'invio di doni, e diede anzi a Gama due abili piloti. Ma quando dei mercanti mori, che avevano trafficato in Europa, gli ebbero appreso che quegli stranieri, anziché essere Turchi, erano i peggiori nemici dei maomettani, il viceré, vergognoso d'essersi lasciato ingannare, fece di tutto per impadronirsi di loro ed ucciderli a tradimento. Bisognò appuntar l'artiglieria sulla città e minacciare di ridurla in polvere per ottenere l'acqua necessaria al proseguimento del viaggio. Scorse il sangue, e Paolo da Gama s'impadronì di due barche, il cui ricco carico fu distribuito fra i marinai. Gama lasciò il 29 marzo quella città inospitale, e proseguì il suo viaggio, sorvegliando però da vicino i piloti arabi, che si vide obbligato a far fustigare. Il 4 aprile, fu vista la costa, e, l'8, si giunse a Mombaca o Mombaz, città che i piloti affermarono essere abitata da cristiani e da musulmani. La flotta gettò l'àncora innanzi al porto, senza entrarvi però, non ostante l'accoglienza entusiastica che le fu fatta. Già i Portoghesi contavano d'incontrarsi il domani alla messa coi cristiani dell'isola, quando, durante la notte, si accostò alla nave ammiraglia una zavra montata da un centinaio d'uomini armati, che pretendevano d'entrarvi tutti insieme, il che fu loro negato. Avvertito di quanto era accaduto a Mozambico, il re di Mombaca, fingendo d'ignorarlo, mandò dei doni a Gama, gli propose di stabilire un deposito nella sua capitale e lo assicurò che potrebbe, appena entrato nel porto, caricare delle spezie e degli aromi. Il capitam mor, non sospettando di nulla, mandò subito due uomini ad annunciare il suo ingresso pel domani. Già si levava l'àncora, quando la nave ammiraglia essendosi rifiutata di virare, fa lasciata ricadere a picco. In una graziosa e

poetica finzione, Camoens afferma che sono le Nereidi, condotte da Venere, protettrice dei Portoghesi, che arrestarono le loro navi sul punto d'entrare nel porto. In quel momento, tutti i Mori che si trovavano sulle navi Portoghesi le lasciarono ad un tempo, mentre i piloti venuti da Mozambico si gettavano in mare. Due Mori, sottoposti alla tortura della goccia d'olio ardente, confessarono che si proponevano di far prigionieri i Portoghesi appena fossero entrati nel porto. Durante la notte, i Mori cercarono più volte di arrampicarsi a bordo e di rompere le gomone per far arenare le navi, ma ogni volta furono scoperti. Una fermata in queste condizioni non poteva durar molto a Mombaz; ma durò tanto che tutti gli scorbutici potessero ricuperar la salute. Ad otto leghe dalla terra, la flotta s'impadronì d'una barca riccamente carica d'oro, d'argento e di provviste. Il domani, essa giunse a Melinda, città ricca e fiorente, i cui minareti dorati, scintillanti ai raggi del sole, e le cui moschee, d'una bianchezza abbagliante, sì disegnavano sopra un cielo d'un bellissimo azzurro. L'accoglienza, dapprima abbastanza fredda, perchè si sapeva a Melinda la cattura della barca fatta la vigilia, divenne cordiale appena furono date delle spiegazioni. Il figlio del re venne a visitare l'ammiraglio con un corteo di cortigiani magnificamente vestiti, e cori di suonatori che suonavano diversi istrumenti. Ciò che più lo meravigliò, fu l'esercizio del cannone, giacché l'invenzione della polvere non era ancora conosciuta sulla costa orientale d'Africa. Un trattato solenne fu giurato sul Vangelo e sul Corano e cementato dallo scambio di magnifici doni. Il malvolere, i tranelli, le difficoltà d'ogni genere che avevano assalito fino allora la spedizione cessarono quind'innanzi come per incantesimo, il che si deve attribuire

alla schiettezza ed alla generosità del re di Melinda, non che all'aiuto ch'egli forniva ai Portoghesi. Fedele alla promessa fatta a Vasco da Gama, il re gli mandò un pilota guzarate, chiamato Malemo Cana, uomo esperto nella navigazione, che sapeva servirsi delle carte e della bussola, e che rese i più grandi servigi alla spedizione. Dopo una fermata di nove giorni, la flotta levò l'àncora per Calicut. Bisognava oramai rinunziare a quella navigazione di cabotaggio, sempre in vista delle coste, che era stata fatta fino allora. Era venuto il giorno d'abbandonarsi alla grazia di Dio sull'immenso Oceano, senz'altra guida che un pilota ignoto, fornito da un re, la cui buona accoglienza non aveva potuto sopire la diffidenza dei Portoghesi. E pure, in grazia dell'abilità e della lealtà di questo pilota, in grazia della clemenza del mare e del vento, che si mostrò sempre favorevole, dopo una navigazione di ventitré giorni, la flotta toccava terra il 17 maggio, ed il domani essa si ancorava a due leghe al disotto di Calicut. Fu grande l'entusiasmo a bordo. Si era dunque finalmente giunti in quei paesi così ricchi e tanto meravigliosi. Le fatiche, i pericoli, la malattia, tutto fu dimenticato; lo scopo di tanti e così lunghi sforzi era oramai raggiunto! O meglio così sembrava, giacché mancava ancor molto per essere padroni dei tesori e dei ricchi prodotti dell'India. L'àncora aveva appena toccato il fondo, che quattro barche si staccarono dalla spiaggia, girarono intorno alla flotta sembrando invitare i marinai a sbarcare. Ma Gama, reso prudente dagli avvenimenti di Mozambico e di Mombaca, mandò a terra uno dei malfattori che aveva imbarcati. Costui doveva percorrere la città e cercar di scoprire le disposizioni degli abitanti. Circondato da una folla di curiosi, assalito di domande alle

quali non poteva rispondere, egli fu condotto da un Moro chiamato Moucaida, che parlava lo spagnuolo ed a cui narrò sommariamente le peripezie della spedizione. Moucaida lo accompagnò sulla flotta, e le sue prime parole mettendo piede sulle navi furono: «Buona fortuna! buona fortuna! Molti rubini, molti smeraldi!» Da quel momento, Moucaida fu addetto alla spedizione in qualità d'interprete. Siccome il re di Calicut era allora lontano dalla sua capitale d'una quindicina di leghe, il capitam mor mandò due uomini per avvertirlo che l'ambasciatore del re di Portogallo era giunto, e gli portava lettere del suo sovrano. Il re mandò subito un pilota incaricato di condurre le navi portoghesi nella rada più sicura di Pandarany e rispose che sarebbe il domani di ritorno a Calicut. In fatti, egli incaricò il suo intendente o catual d'invitare Gama a discendere a terra per trattare della sua ambasciata. Non ostante le preghiere di suo fratello Paolo da Gama, che gli rappresentava i pericoli ai quali si esponeva e quelli che la sua morte farebbe correre alla spedizione, il capitam mor andò sulla riva, dove lo aspettava una folla immensa. L'idea di trovarsi in mezzo a popoli cristiani era tanto radicata in tutti i membri della spedizione, che, incontrando una pagoda, Gama vi entrò a fare le sue devozioni. Tuttavia, uno de' suoi compagni, Juan de Saa, che la bruttezza delle immagini dipinte sulle muraglie rendeva meno credulo, disse ad alta voce inginocchiandosi: «Se quello è un diavolo, io non intendo adorare ad ogni modo che il vero Dio!» restrizione che eccitò il buon umore dell'ammiraglio. Presso le porte della città, la folla era ancor più compatta. Gama ed i Portoghesi, condotti dal catual, stentarono a giungere al palazzo, dove il re, designato nelle relazioni col titolo di «zamorin,» li aspettava con estrema impazienza. Introdotti in sale pomposamente decorate di stoffe di seta e

di tappeti, dove ardevano squisiti profumi, i Portoghesi si trovarono in presenza del zamorin, che era vestito d'abiti magnifici e di gioielli preziosi, di perle e di diamanti di straordinaria grossezza. Il re fece servire dei rinfreschi e permise loro di sedersi, — favore prezioso in un paese in cui non si parla al sovrano che prosternati al suolo, — ed egli passò in un'altra camera per udire in persona, come reclamava fieramente Gama, i motivi della sua ambasciata ed il desiderio che aveva il re di Portogallo di conchiudere con quello di Calicut un trattato di commercio e d'alleanza. A questo discorso di Gama, il zamorin rispose che egli sarebbe felice di considerarsi come fratello ed amico del re Emanuele, e ch'egli manderebbe degli ambasciatori in Portogallo per mezzo suo. Vi sono certi proverbi che, per quanto si cambi di latitudine, rimangono sempre veri ad un modo, e questo: «I giorni si seguono e non si rassomigliano,» trovò il domani il suo avveramento a Calicut. L'entusiasmo eccitato nello spirito del zamorin dagli abili discorsi di Gama e la speranza che questi gli aveva fatto concepire di stabilire un commerciovantaggioso col Portogallo, svanirono alla vista dei doni che gli erano destinati. «Dodici pezze di panno rigato, dodici mantelli a cappuccio di scartato, sei cappelli e quattro rami di corallo, accompagnati da una cassa di zuccaro e quattro barili, due pieni d'olio e due di miele,» non costituivano infatti un regalo molto splendido. A questa vista, il primo ministro dichiarò beffando che il più povero mercante della Mecca portava doni più ricchi, e che giammai il re accetterebbe delle bagattelle così ridicole. In seguito a questo affronto, Gama andò a visitare il zamorin. Solo dopo aver aspettato un pezzo in mezzo alla folla che si beffava di lui, egli fu introdotto innanzi al principe. Costui gli rimproverò in tono sprezzante di non aver nulla ad offrirgli, mentre si pretendeva suddito d'un re ricco e potente.

Gama rispose con fermezza e presentò le lettere d'Emanuele, che, concepite in termini lusinghieri, contenevano la promessa formale di mandar delle mercanzie a Calicut. Il re a cui sorrideva questa prospettiva, s'informò allora con interesse dell'importanza dei prodotti del Portogallo, e permise a Gama di sbarcare e di vendere le sue mercanzie. Ma questo brusco mutamento nelle disposizioni del zamorin non poteva convenire ai commercianti mori ed arabi, che facevano la prosperità di Calicut. Essi non potevano veder freddamente degli stranieri cercar di stornare a loro vantaggio il corso del commercio rimasto per lo innanzi interamente nelle loro mani, e risolvettero di tentar tutto per allontanare per sempre dalle spiaggie dell'India quei concorrenti formidabili. Loro prima cura fu di guadagnare il catual; poi, essi dipinsero sotto i più bui colori quegli avventurieri insaziabili, quei ladroni sfrontati, che non cercavano se non di rendersi conto delle forze e delle ricchezze della città per tornar poi in gran numero a saccheggiarla ed a trucidare chi si opponesse ai loro disegni. Giungendo alla rada di Pandarany, Gama non trovò una barca per condurlo alle sue navi e fu obbligato a dormire a terra. Il catual non lo lasciava, ingegnandosi di provargli la necessità di far avvicinare la flotta a terra, ed in seguito al rifiuto formale dell'ammiraglio, gli dichiarò ch'egli era prigioniero. Era conoscer male la fermezza di Gama. Delle scialuppe armate furono mandate per tentar di sorprendere le navi, ma i Portoghesi, avvertiti segretamente dal loro ammiraglio di quanto era avvenuto, facevano buona guardia, e non si osò spiegare apertamente la forza. Frattanto Gama, sempre prigioniero, minacciava il catual della collera del zamorin, che, egli credeva, non poter tradire così i doveri dell'ospitalità; ma vedendo che le minaccie erano inutili, fece dono al ministro di alcune pezze di stoffa che

subito mutarono le sue disposizioni. «Se i Portoghesi, diss'egli,

avessero tenuto la promessa fatta al re di sbarcare le loro

mercanzie, già da un pezzo l'ammiraglio sarebbe di ritorno alle sue navi.» Gama mandò subito l'ordine di sbarcarle, stabilì un deposito, la cui direzione fu affidata a Diego Dias, fratello dello scopritore del capo di Buona Speranza, e potè allora tornare a bordo. Ma siccome i musulmani mettevano ostacolo alla vendita delle mercanzie deprezzandole, Gama mandò dallo zamorin il suo fattore Dias a lagnarsi della perfidia dei Mori e dei cattivi trattamenti subiti. Nel medesimo tempo, reclamava il trasporto del suo deposito a Calicut, dove egli sperava che le mercanzie si venderebbero più facilmente. La richiesta fu accolta favorevolmente e le buone relazioni furono mantenute, non ostante le mene dei Mori, fino al 10 agosto 1498. Quel giorno, Dias andò ad avvertire il zamorin della prossima partenza di Gama, a ricordargli la sua promessa di mandare un'ambasciata in Portogallo, ed a chiedergli un campione di ciascuno dei prodotti del paese, che gli sarebbe pagato colle prime mercanzie vendute dopo la partenza della flotta, giacché gli impiegati della fattoria contavano di rimanere a Calicut durante l'assenza di Gama. Non solo il zamorin, spinto ancora dai trafficanti arabi, rifiutò di mantenere la promessa, ma reclamò il pagamento di 600 serafini per diritto di dogana. Nel medesimo tempo, egli faceva pigliare le mercanzie e tratteneva prigionieri gli impiegati della fattoria. Un simile oltraggio, un tal disprezzo del diritto delle genti chiedevano pronta vendetta. Tuttavia Gama seppe dissimulare; ma quando egli ricevette a bordo la visita di alcuni ricchi mercanti, li trattenne e mandò a chiedere al zamorin lo scambio dei prigionieri. La risposta del re essendosi fatta aspettare oltre il termine fissato dall'Ammiraglio, egli spiegò le vele ed andò ad ancorarsi a quattro leghe da Calicut. Dopo un nuovo assalto

infruttuoso degli Indiani, i due fattori tornarono a bordo, ed una

parte degli ostaggi, di cui Gama si era assicurato, furono resi.

Dias portava una lettera singolare scritta dal zamorin al re di Portogallo sopra una foglia di palma. Noi la riproduciamo nel suo strano laconismo, così differente dalla pompa consueta dello stile orientale: «Vasco da Gama, naire del tuo palazzo, è venuto nel mio paese, ciò che mi ha fatto molto piacere. Nel mio regno vi ha molta cannella, garofani e pepe, con gran numero di pietre preziose, e quello che io desidero del tuo paese, è oro, argento, corallo e scarlatto. Addio.» Il domani, Moucaida, il Moro di Tunisi che aveva servito d'interprete ai Portoghesi e che aveva reso loro molti servigi nelle negoziazioni collo zamorin, venne a cercar asilo a bordo delle navi portoghesi. Le mercanzie non essendo state portate il giorno fissato, il capitam mor risolvette di condur seco gli uomini che aveva trattenuto in ostaggio. Frattanto, la flotta si trovò arrestata dalla calma a poche leghe da Calicut; essa fu allora assalita da una flottiglia di venti barche armate, che l'artiglieria stentava a tener distanti, quando un impetuoso uragano le costrinse a ripararsi alla costa. L'Ammiraglio seguiva la riva del Dekkan ed aveva permesso ad alcuni marinai di scendere a terra per cogliere dei frutti e raccogliere della cannella, quand'egli scorse otto navi che parevano dirigersi verso di lui. Gama richiamò la sua gente a bordo, corse incontro agli Indiani, che si affrettarono a darsi alla fuga, non senza lasciare per altro fra le mani dei Portoghesi una barca carica di cocco e di viveri. Giunto all'arcipelago delle Laquedive, Gama fece spalmare il Berrio e tirare a terra la sua propria nave per raddobbarla. I marinai erano intenti a questo lavoro quando furono assaliti ancora una volta, ma senza maggior successo. Essi videro giungere il domani una persona d'una quarantina d'anni, vestita alla moda indiana e che raccontò loro in ottimo italiano che, originario di Venezia, egli era stato condotto giovanissimo nel

paese, che era cristiano, ma nell'impossibilità di praticare la sua religione. Godendo d'un'alta posizione presso il re della regione, egli era stato mandato da lui per mettere a loro disposizione tutto quanto potessero trovare di loro convenienza nel paese. Delle offerte di servigi, così contrarie all'accoglienza che era stata fatta loro per lo innanzi, eccitarono i sospetti dei Portoghesi. Essi non tardarono del resto ad apprendere che quell'avventuriero era il capo delle barche che li avevano assaliti la vigilia. Gli furono date allora delle staffilate finché confessasse d'essere venuto per esaminare se fosse possibile d'assalire la flotta con vantaggio, ed egli finì col dichiarare che tutte le popolazioni del litorale si erano collegate per disfarsi dei Portoghesi. Fu dunque trattenuto a bordo; i lavori vennero affrettati, ed appena le provviste d'acqua e di viveri furono compiute, si spiegarono le vele per tornare in Europa. Per giungere alla costa d'Africa, la spedizione impiegò tre mesi meno tre giorni, a causa delle calme e dei venti contrari. Durante questa lunga traversata, gli equipaggi furono violentemente colpiti dallo scorbuto, e trenta marinai perirono. Su ogni nave non rimanevano più che sette od otto uomini in istato di manovrare, e ben spesso gli ufficiali medesimi furono obbligati a dar loro una mano. «Donde io posso affermare, dice Velilo, che se il tempo in cui vogavano attraverso quei mari si fosse prolungato di quindici giorni, nessuno di qui vi avrebbe navigato dopo di noi… Ed i capitani avendo tenuto consiglio in proposito, era stato risoluto, nel caso che venti simili ci avessero a ripigliare, di tornare verso le terre dell'India e di rifugiarvici.» Fu il 2 febbraio 1499 che i Portoghesi si trovarono finalmente in faccia d'una gran città della costa d'Ajan, chiamata Magadoxo, e distante cento leghe da Melinda. Ma Gama, temendo di veder rinnovata l'accoglienza già ricevuta a Mozambico, non volle arrestarvisi e fece fare,

passando in vista della città, una scarica generale di tutta la sua artiglieria. Pochi giorni dopo, furono scoperte le ricche e salubri campagne di Melinda, dove si fece una fermata. Il re si affrettò subito a mandare viveri freschi ed aranci per gli infermi. L'accoglienza fu, in una parola, delle più simpatiche, ed i legami d'amicizia contratti durante il primo soggiorno di Gama furono stretti vie più. Lo sceicco di Melinda mandò per il re di Portogallo una tromba d'avorio ed una quantità d'altri doni; nel medesimo tempo egli pregò Gama di ricevere a bordo un giovane Moro affinchè il re sapesse, da lui, quanto egli desiderasse la sua amicizia. I cinque giorni di riposo che i Portoghesi passarono a Melinda diedero loro un gran sollievo; poi essi spiegarono le vele. Poco dopo aver passato Mombaca, furono costretti ad abbruciare il Sam Raphael, giacché gli equipaggi erano troppo ridotti per poter manovrare tre navi. Scoprirono l'isola Zanzibar, si ancorarono nella baia Sam Braz, ed il 20 febbraio, in grazia d'un vento favorevole, doppiarono il capo di Buona Speranza e si trovarono di nuovo nell'oceano Atlantico. Colla sua continuità, la brezza sembrava voler affrettare il ritorno dei viaggiatori. In ventisette giorni, essi erano giunti nei paraggi dell'isola Santiago. Il 25 aprile, Nicola Coelho, che montava il Berrio, geloso d'essere il primo a portare ad Emanuele la notizia della scoperta delle Indie, si separò dal suo capo senza toccare le isole del capo Verde, come era stato convenuto, e fece vela direttamente per il Portogallo, dove giunse il 10 luglio. Frattanto, il disgraziato Gama era immerso nel più profondo dolore. Suo fratello Paolo da Gama, che aveva diviso le sue fatiche e le sue angoscie e che stava per essere associato alla sua gloria, moriva lentamente. A Santiago, Vasco da Gama, tornato sopra mari noti e frequentati, affidò a Joao de Saa il comando della sua nave e noleggiò una rapida caravella

per affrettare il momento in cui il suo caro infermo rivedrebbe le spiaggie della patria. Questa speranza andò fallita, e la nave non giunse a Terceira se non per seppellirvi il bravo e simpatico Paolo da Gama. Al suo ritorno, che dovette seguire nei primi giorni di settembre, l'Ammiraglio fu accolto con feste pompose. Dei centosessanta Portoghesi ch'egli aveva condotto seco, cinquantacinque soltanto tornavano con lui. La perdita era grande, sicuramente; ma che cosa era mai al paragone dei vantaggi considerevoli che ciascuno ne aspettava? Il pubblico non fu ingannato, e fece a Gama l'accoglienza più entusiastica. Quanto al re Emanuele I, egli aggiunse a' suoi propri titoli quello di signore della conquista e della navigazione dell'Etiopia, dell'Arabia, della Persia e delle Indie; ma aspettò più di due anni prima di ricompensare Gama e di conferirgli il titolo d'ammiraglio delle Indie, qualità ch'egli aveva diritto di far precedere dalla particella dom che allora si accordava così difficilmente. Poi, senza dubbio per far dimenticare a Vasco da Gama il ritardo messo nel ricompensarne i servigi, gli fece dono di mille scudi, somma grande per quel tempo, e gli concesse sul commercio delle Indie certi privilegi che non dovevano tardare ad arricchirlo.

II. Alvares Cabral — Scoperta del Brasile — La costa d'Africa — Arrivo a Calicut, Cochin, Cananor — Joao da Nova— Seconda spedizione di Gama — Il re di Cochin — I cominciamenti d'Albuquerque — Da Cunha — Primo assedio d'Ormuz — Almeida, sue vittorie, suoi litigi con Albuquerque — Presa di Goa — Assedio e presa di Malacca — Seconda spedizione contro Ormuz — Ceylan — Morte d'Albuquerque — Destini dell'impero portoghese alle Indie.

Il 9 marzo 1500, una flotta di tredici navi lasciava il Rastello sotto gli ordini di Pedro Alvares Cabral; essa contava come volontario Luiz de Camoens, che doveva illustrare nel poema i Lusiadi il valore e lo spirito avventuroso de' suoi compatrioti. Si sa poco di Cabral, e s'ignora del tutto che cosa gli valesse il comando di quell'importante spedizione. Cabral apparteneva ad una delle più illustri famiglie del Portogallo, e suo padre, Fernando Cabral, signore di Zurara da Beira, era alcaide mor di Belmonte. Quanto a Pedr'Alvares, egli aveva sposato Isabella de Castro, prima dama dell'infante dona Maria, figlia di Giovanni III. Cabral si era fatto un nome mediante qualche importante scoperta marittima? non vi ha luogo a crederlo, giacché gli storici ce ne avrebbero conservato la memoria. È tuttavia difficile l'ammettere che il solo favore gli abbia valuto il comando supremo d'una spedizione nella quale uomini come Bartolomeo Dias, Nicola Coelho, il compagno di Gama, Sancho de Thovar stavano sotto i suoi ordini. Perchè questa missione non era stata affidata a Gama, tornato già da sei mesi, ed il quale, per la cognizione dei paesi percorsi, come pure dei costumi degli abitanti sembrava proprio l'uomo che ci voleva? Non era egli ancora riposato delle fatiche? Il dolore della perdita di suo fratello, morto quasi in vista delle coste del Portogallo, lo aveva forse profondamente colpito tanto ch'egli volesse stare in disparte? O non sarebbe piuttosto che il re Emanuele, geloso della gloria di

Gama, non volesse fornirgli l'occasione d'accrescere la sua rinomanza? Tutti problemi che la storia sarà forse sempre impotente a risolvere. Si crede facilmente al compimento di ciò che si desidera vivamente. Emanuele si era immaginato che il zamorin di Calicut non si opporrebbe allo stabilimento ne' suoi Stati di depositi e di fattorie portoghesi, e Cabral, che recava presenti d'una magnificenza da far dimenticare la meschinità di quelli che Gama gli aveva presentati, aveva ordine di ottenere ch'egli interdicesse ai Mori ogni commercio nella sua capitale. In oltre, il nuovo capitam mor doveva offrire al re di Melinda dei doni sontuosi e ricondurre a lui il Moro che si era imbarcato sulla flotta di Gama. Finalmente sedici religiosi, imbarcati sulla flotta, dovevano andare a spargere nelle lontane regioni dell'Asia la cognizione del Vangelo. Dopo tredici giorni di navigazione, la flotta aveva passate le isole del capo Verde, quando si vide che la nave comandata da Vasco d'Attaide non camminava più di conserva. Si stette qualche tempo in panna per aspettarla, ma fu invano, e le dodici altre navi proseguirono la navigazione in pieno mare e non più di capo in capo sulle spiaggie dell'Africa, come fino allora era stato fatto. Cabral sperava di evitare così le calme che avevano ritardato le spedizioni precedenti nel golfo di Guinea. Fors'anche il capitam mor, che doveva essere al fatto, come tutti i suoi compatrioti, delle scoperte di Cristoforo Colombo, aveva la segreta speranza di giungere cacciandosi nell'ovest a qualche regione sfuggita al gran navigante? Sia che bisogni attribuire questo fatto all'uragano od a qualche disegno occulto, certo è che la flotta era fuori della strada da seguire per doppiare il capo di Buona Speranza, quando, il 22 aprile, fu scoperta un'alta montagna, e poco stante una lunga serie di coste che ricevette il nome di Vera Cruz, nome barattato più tardi con quello di Santa Cruz. Era il

Brasile, ed il luogo medesimo dove sorge oggi il Porto Seguro. Fin dal 28, dopo un'abile ricognizione del litorale fatta da Coelho, i marinai portoghesi si accostavano alla terra americana e notavano una dolcezza di temperatura ed un'esuberanza di vegetazione che si lasciava addietro di molto tutto quanto avevano visto sulle coste d'Africa o di Alalabar. Gli indigeni, quasi interamente nudi, portando sul pugno un pappagallo addomesticato, alla maniera in cui i signori d'Europa tenevano i falchi od i girifalchi, si aggruppavano curiosamente intorno ai nuovi sbarcati, senza dare il minimo segno di terrore. La domenica di Pasqua, 26 aprile, fu celebrata la messa a terra innanzi agli Indiani, il cui silenzio e l'attitudine rispettosa fecero l'ammirazione dei Portoghesi. Il 1° maggio, una gran croce ed un padrao furono piantati sulla spiaggia, e Cabral prese solennemente possesso del paese in nome del re di Portogallo. Sua prima cura, appena compiuta questa formalità, fu di mandare a Lisbona Gaspare di Lemos per annunciare la scoperta di quella ricca e fertile regione. Lemos portava nello stesso tempo il racconto della spedizione, scritto da Pedro Vaz de Caminha, ed un importante documento astronomico dovuto a mastro Joao, che riferiva senza dubbio la posizione della nuova conquista. Prima di partire per l'Asia, Cabral sbarcò due malfattori che incaricò d'informarsi delle ricchezze del paese, come pure dei costumi e delle usanze degli abitanti. Queste precauzioni così savie, così piene di previdenza, dimostravano altamente la prudenza e la sagacia di Cabral. Fu il 2 maggio che la flotta perdette di vista le terre del Brasile. Tutti, allegri del lieto incominciamento del viaggio, credevano ad un facile e rapido successo, quando l'apparizione per otto giorni consecutivi d'una splendida cometa venne a colpir di terrore quegli spiriti ignoranti ed ingenui, che videro in ciò qualche funesto presagio. Gli avvenimenti dovevano questa volta dar ragione alla superstizione.

Sorse un'orribile tempesta, onde alte al pari di montagne si rovesciarono addosso alle navi, mentre il vento soffiava rabbioso e la pioggia cadeva di continuo. Quando il sole riusciva a trapassare la fitta cortina di nuvole che intercettava

quasi del tutto la sua luce, era per rischiarare un orribile quadro. Il mare sembrava nero e pantanoso, gran macchie d'un bianco livido ne tingevano le onde dalle creste schiumose, e, durante la notte, bagliori fosforici, solcando l'immensa pianura umida, segnavano con una traccia di fuoco la scia delle navi.

Per ventidue giorni, senza tregua ne mercè, gli elementi in furore continuarono a sbattere le navi portoghesi. I marinai spaventati, giunti al colmo della prostrazione, dopo d'aver esaurito invano le preghiere ed i voti, non obbedivano più che

per abitudine ai comandi degli ufficiali. Essi avevano fatto fin dal primo giorno il sacrificio della vita e si aspettavano da un momento all'altro d'essere sommersi. Quando la luce tornò finalmente, quando i fiotti si quetarono, ogni equipaggio, credendo d'essere il solo a

sopravvivere, gettò gli occhi sul mare e cercò i compagni. Tre navi si ritrovarono con una gioia che fu presto abbattuta dalla triste realtà. Otto navi mancavano; quattro erano state inghiottite da una tromba gigantesca durante gli ultimi giorni dell'uragano. Una di esse era comandata da Bartolomeo Dias, che primo aveva scoperto il capo di Buona Speranza. Egli era stato sommerso da quei flotti omicidi, difensori, come dice Camoens, dell'impero d'Oriente, contro i popoli dell'Ovest, che da tanti secoli ne bramavano le meravigliose ricchezze. Durante questa serie d'uragani, il Capo era stato doppiato, e si era vicinialle coste d'Africa. Il 20 luglio, fu segnalato Mozambico. I Mori fecero prova questa volta di disposizioni più favorevoli che non al tempo del viaggio di Gama, e fornirono ai Portoghesi dei piloti che li condussero a Quiloa, isola famosa per il commercio della polvere d'oro che faceva con Solala. Colà, Cabral ritrovò due delle sue navi che un colpo di vento vi aveva gettato, e dopo d'aver fatto fallire con una pronta partenza un complotto che aveva per iscopo di trucidare tutti gli Europei, giunse senza disgustosi incidenti a Melinda. Il soggiorno della flotta in questo porto fu occasione di feste e di allegrie innumerevoli, e poco stante, approvigionate, raddobbate, munite d'eccellenti piloti, le navi portoghesi partirono per Calicut, dove giunsero il 13 dicembre 1509. Questa volta, in grazia della potenza del loro armamento e della ricchezza dei doni offerti allo zamorin, l'accoglienza fu diversa, e quel principe versatile acconsentì a tutto quanto Cabral reclamava: privilegio esclusivo del commercio degli aromi e delle spezie e diritto di presa sulle navi che infrangessero questa prescrizione. Per qualche tempo, i Mori dissimularono il malcontento; ma quando ebbero ben esasperata la popolazione contro gli stranieri, si precipitarono, ad un dato segnale, nella fattoria diretta da Ayrès Correa e

trucidarono una cinquantina di Portoghesi. La vendetta non si fece aspettare. Dieci navi, ancorate nel porto, furono prese, saccheggiate, arse sotto gli occhi degli Indiani, impotenti ad opporvisi, e la città, bombardata, fu mezzo seppellita sotto le rovine. Poi Cabral, continuando l'esplorazione della costa di Malabar, giunse a Cochin, il cui radjah, vassallo del zamorin, si affrettò a far alleanza coi Portoghesi e colse con premura quell'occasione di dichiararsi indipendente. Benché la sua flotta fosse già riccamente caricata, Cabral visitò ancora Cananor, dove conchiuse un trattato d'alleanza col radjah del paese; poi, impaziente di tornare in Europa, spiegò le vele. Costeggiando la spiaggia dell'Africa, bagnata dal mar delle Indie, egli scopri Sofala, che era sfuggita alle ricerche di Gama, e rientrò, il 13 luglio 1501, a Lisbona, dove ebbe il piacere di trovare le ultime due navi che credeva perdute. Si ama credere ch'egli abbia ricevuto l'accoglienza che meritavano gli importanti risultati ottenuti in questa memorabile spedizione. Se gli storici contemporanei tacciono i particolari della sua esistenza dopo il ritorno, ricerche affatto moderne hanno fatto trovare la sua tomba a Santarem, e fortunate scoperte del signor Ferdinando Denis hanno provato ch'egli ricevette, al pari di Vasco da Gama, il titolo di dom, in ricompensa de' suoi gloriosi servigi. Mentre egli tornava in Europa, Alvares Cabral avrebbe potuto incontrare una flotta di quattro navi, sotto il comando di Joao da Nova che il re Emanuele mandava per dare una nuova spinta alle relazioni commerciali che Cabral aveva dovuto stabilire alle Indie. Questa spedizione doppiò senza danno il capo di Buona Speranza, scoprì, tra Mozambico e Quiloa, un'isola ignota, che ricevette il nome del comandante, e giunse a Melinda, dove apprese gli avvenimenti accaduti a Calicut.

Da Nova non disponeva di forze tali da poter andare a castigare il zamorin. Non volendo arrischiare di compromettere con uno scacco il prestigio delle armi portoghesi, si diresse verso Cochin e Cananor, i cui re, tributari dello zamorin, avevano fatto alleanza con Alvares Cabral. Egli aveva già caricato sulle sue navi mille quintali di pepe, cinquanta di ginepro e quattrocentocinquanta di cannella, quando fu avvertito che una gran flotta, che pareva venire da Calicut, si avanzava con disposizioni ostili. Se da Nova si era finora curato più del commercio che della guerra, non si mostrò, in quest'occasione difficile, meno ardito e meno coraggioso dei suoi predecessori. Egli accettò il combattimento, non ostante la superiorità apparente degli Indiani, e, in grazia delle abili disposizioni che seppe prendere, in grazia della potenza della sua artiglieria, disperse, prese o colò a fondo le navi nemiche. Forse avrebbe dovuto approfittare del terrore che la sua vittoria aveva gettato su tutta la costa e dello sfinimento momentaneo delle forze dei Mori per fare un gran colpo impadronendosi di Calicut? Ma noi siamo troppo lontani dagli avvenimenti, ne conosciamo troppo poco i particolari per apprezzare con imparzialità le ragioni che indussero da Nova a tornare immediatamente in Europa. Fu in quest'ultima parte del viaggio ch'egli scoprì, in mezzo all'Atlantico, l'isoletta di Sant'Elena. Una curiosa leggenda è annessa a questa scoperta. Un certo Fernando Lopez, che aveva seguito Grama alle Indie, aveva dovuto, per sposare un'Indiana, rinunciare al cristianesimo e farsi maomettano. Al passaggio di da Nova, sia ch'egli ne avesse abbastanza della moglie o della religione, domandò di essere rimpatriato e riprese l'antico culto. Quando fu visitata Sant'Elena, Lopez, per obbedire ad un'idea improvvisa ch'egli prese per un'ispirazione del cielo, chiese d'esservi sbarcato per

espiare, diceva egli, la sua detestabile apostasia e correggerla dedicandosi all'umanità. Il suo volere parve così saldo, che da Nova dovette consentirvi, e gli lasciò, com'egli chiedeva, delle sementi di frutta e di legumi. Dobbiamo aggiungere che quello strano eremita, per quattro anni, lavorò a dissodare ed a piantar l'isola con tanta fortuna, che le navi vi trovarono presto di che approvigionarsi durante la lunga traversata dall'Europa al capo di Buona Speranza. Le spedizioni successive di Gama, di Cabral e di da Nova avevano provato all'evidenza che non bisognava far assegnamento sopra un commercio non interrotto, né sopra un baratto continuo di mercanzie colle popolazioni della costa di Malabar, che si erano ogni volta alleate contro i Portoghesi, fin tanto che non si rispettasse la loro indipendenza e la loro libertà. Quel commercio che esse rifiutavano così energicamente di fare cogli Europei, bisognava imporlo, e perciò, fondare stabilimenti militari permanenti, capaci di tenere in rispetto i malcontenti, ed anche, al bisogno, d'impadronirsi del paese. Ma a chi affidare una missione così importante? La scelta non poteva essere dubbia, e Vasco da Gama fu, all'unanimità, designato per assumere il comando del formidabile armamento che si preparava. Sotto il suo comando immediato, Vasco aveva dieci navi; il suo secondo fratello o cugino, Stefano da Gama, e Vincenzo Sadres ne avevano ciascuno cinque sotto i loro ordini, ma essi dovevano riconoscere Vasco da Gama per capo supremo. Le cerimonie che precedettero la partenza da Lisbona ebbero un carattere singolarmente grave e solenne. Il re Emanuele, seguito da tutta la sua corte, si recò alla cattedrale in mezzo ad una folla immensa, invocò le benedizioni del cielo su quella spedizione allo stesso tempo religiosa e militare, e l'arcivescovo medesimo benedisse lo stendardo che fu

consegnato a Gama. Prima cura dell'ammiraglio fu di recarsi a Sofala ed a Mozambico, città di cui aveva avuto a lamentarsi durante il suo primo viaggio. Desideroso di crearsi dei porti di fermata e d'approvigionamento, egli vi pose dei depositi e vi gettò le prime fondamenta di alcune fortezze. Egli impose pure allo sceicco di Quiloa un importante tributo, poi spiegò le vele per la costa dell'Indostan. Era all'altezza di Cananor, quando vide, il 3 ottobre 1502, una nave di grosso tonnellaggio che gli parve carica riccamente. Era il Merii, che riconduceva dalla Mecca un gran numero di pellegrini venuti da tutte le regioni dell'Asia. Gama l'assalì senza provocazione, se ne impadronì e pose a morte più di trecento uomini che la montavano. Venti fanciulli soltanto furono salvati e condotti a Lisbona, dove, battezzati, presero servizio negli eserciti del Portogallo. Questa spaventevole carneficina, del resto consentanea alle idee del tempo, doveva, secondo Gama, gettar il terrore nello spirito degli Indiani; ma non fu così. L'odiosa crudeltà, assolutamente inutile, ha impresso una macchia sanguinosa sulla fama fino allora illibata del grande ammiraglio. Appena arrivato a Cananor, Gama ottenne dal radjah un colloquio, nel quale ricevette la facoltà di stabilire un deposito e di costrurre un forte; nello stesso tempo fu conchiuso un trattato d'alleanza offensiva e difensiva. Dopo d'aver messo all'opera gli operai ed installato il suo fattore, l'ammiraglio spiegò le vele per Calicut, dov'egli intendeva di chieder conto allo zamorin della sua slealtà come pure della strage dei Portoghesi sorpresi nella fattoria. Benché avesse appreso l'arrivo alle Indie de' suoi formidabili nemici, il radjah di Calicut non aveva preso alcuna precauzione militare. Perciò quando Gama si presentò innanzi alla città, potè impadronirsi, senza trovar resistenza, delle navi ancorate nel porto e fare un centinaio di prigionieri; poi

concesse allo zamorin un termine di quattro giorni per dar soddisfazione ai Portoghesi della strage di Correa, e per pagare il valore delle mercanzie che erano state saccheggiate in quell'occasione. Il termine accordato era spirato appena e già i corpi di cinquanta prigionieri si dondolavano ai pennoni delle navi, dove rimasero esposti alla vista della città tutta la giornata. Venuta la sera, i piedi e le mani di quelle vittime espiatorie furono mozzati e portati a terra con una lettera dell'Ammiraglio annunziante che la sua vendetta non si limiterebbe a questo supplizio. In fatti, col favor della notte, le navi misero in panna a breve distanza dalla città e la cannoneggiarono per tre giorni. Non si saprà mai qual fosse il numero delle vittime, ma dovette esser grande. Senza contare quelli che caddero sotto le scariche dell'artiglieria e della moschetteria, gran numero d'Indiani furono sepolti sotto le rovine degli edifizî o arsi nell'incendio che distrusse una parte di Calicut. Il radjah era stato uno dei primi a fuggire la sua capitale, e buon per lui, giacché il suo palazzo fu nel numero degli edifizî demoliti. In fine, soddisfatto d'aver trasformato in un mucchio di rottami quella città poco prima tanto ricca e popolosa, giudicando sazia la propria vendetta e pensando che la lezione dovesse profittare, lasciato innanzi al porto per continuarne il blocco Vincenzo Sodres con alcune navi, Gama ripigliò la via di Cochin. Triumpara, sovrano di quella città, gli apprese ch'egli era stato vivamente sollecitato dallo zamorin d'approfittare della fiducia che i Portoghesi avevano in lui per impadronirsi d'essi per sorpresa, e l'Ammiraglio, per ricompensare quella lealtà che esponeva il suo alleato all'inimicizia del radjah di Calicut, gli diede, partendo per Lisbona con un ricco carico, alcune navi che dovevano permettergli d'aspettare al sicuro l'arrivo di una

nuova squadra. L'unico incidente che segnalò il ritorno di Gama in Europa, dove giunse il 20 dicembre 1503, era stata la disfatta d'una nuova flotta malabara. Stavolta ancora i servigi eminenti che quel grand'uomo aveva resi alla sua patria furono disconosciuti, o meglio non furono apprezzati come meritavano. Egli, che aveva gettato le basi dell'impero coloniale portoghese nelle Indie, ebbe bisogno delle sollecitazioni del duca di Braganza per ottenere il titolo di conte di Vidigueyra, e rimase ventun anno senza essere impiegato. Esempio d'ingratitudine troppo frequente, ma che è bene stigmatizzare. Appena Vasco da Gama ebbe ripreso la via d'Europa, lo zamorin sempre spinto dai musulmani, che vedevano la loro potenza commerciale ogni giorno più compromessa, radunò i suoi alleati a Pani, collo scopo d'assalire il re di Cochin e di punirlo dei soccorsi e dei consigli ch'egli aveva dato ai Portoghesi. In questa circostanza la fedeltà del disgraziato radjah fu posta a dura prova. Assediato nella sua capitale da forze grandi, egli si vide ad un tratto privo del soccorso di coloro per i quali tuttavia si era cacciato in quell'avventura. Sodres ed alcuni de' suoi capitani, disertando il posto in cui l'onore e la riconoscenza comandavano loro di morire, se fosse stato necessario, abbandonarono Triumpara per andare ad incrociare nei paraggi d'Ormuz ed all'ingresso del mar Rosso, dove contavano che i pellegrini annuali della Mecca farebbero cadere nelle loro mani qualche ricco bottino. Invano il fattore portoghese rimproverò loro l'indegnità di tale condotta; essi partirono in fretta per evitare tali censure che davano loro noia. A breve andare il re di Cochin, tradito da certi suoi nairi che lo zamorin si era guadagnati, vide la sua capitale presa d'assalto e dovette rifugiarsi, coi Portoghesi che gli erano rimasti fedeli, sopra una rupe inaccessibile dell'isoletta di

Viopia. Quand'egli fu ridotto alle ultime estremità, lo zamorin gli mandò un messo che gli promise, in nome del suo padrone, la dimenticanza ed il perdono s'egli voleva consegnare i Portoghesi. Ma Triumpara, di cui non si potrebbe esaltare abbastanza la fedeltà, rispose «che lo zamorin poteva usare dei diritti della sua vittoria; ch'egli non ignorava di quali pericoli fosse minacciato, ma che non era in potere di nessun uomo il renderlo traditore e spergiuro.» Non si poteva rispondere più nobilmente all'abbandono ed alla vigliaccheria di Sodres. Costui giungeva allo stretto di Bab-el-Mandeb, quando, in uno spaventevole uragano, perì con suo fratello, la cui nave fu rotta contro gli scogli, ed i superstiti, vedendo in questo avvenimento una punizione provvidenziale della loro condotta, ripresero, facendo forza di vele, la via di Cochin. Trattenuti dai venti alle isole Laquedive, si videro raggiunti da una nuova squadra portoghese, sotto il comando di Francisco d'AIbuquerque. Costui aveva lasciato Lisbona quasi nel medesimo tempo di suo cugino Alfonso, il più gran capitano del tempo, che, sotto il titolo di capitam mor, era partito da Belem al principio d'aprile 1503. L'arrivo di Francisco d'Albuquerque ristabilì i negozi dei Portoghesi, così gravemente compromessi dalla colpa di Sodres, e salvò nel medesimo tempo il loro unico e fedele alleato Triumpara. Gli assedianti fuggirono, senza cercar di resistere, alla vista della squadra dei Portoghesi, e costoro, avvalorati dalle truppe del re di Cochin, saccheggiarono la costa di Malabar. In seguito a questi avvenimenti, Triumpara permise a' suoi alleati di costrurre una seconda fortezza ne'suoi Stati e diede loro facoltà di aumentare il numero e l'importanza dei depositi. È in questo momento che giunse Alfonso d'Albuquerque, colui che doveva essere il vero creatore della potenza portoghese alle Indie. Dias, Cabral, Gama avevano preparato le vie, ma Albuquerque fu il gran capitano dalle

grandi concezioni, che seppe determinare quali fossero le città principali di cui bisognava impadronirsi per stabilire saldamente la dominazione portoghese; e però, tutto quanto si riferisce alla storia di questo gran genio colonizzatore è di grandissimo interesse, e noi diremo qualche parola della sua famiglia, della sua educazione, delle sue prime imprese.

Alfonso d'Alboquerque o d'Albuquerque nacque nel 1453 a sei leghe da Lisbona, in Alhandra. Per parte del padre, Gonfialo de Albuquerque, signore di Villaverde, egli discendeva, in modo illegittimo, è vero, dal re Diniz; per parte dì madre, dai Menezes, i grandi esploratori. Allevato alla corte

di Alfonso V, vi ricevette un'educazione tanto estesa quanto permetteva il tempo. Egli studiò segnatamente ì grandi scrittori dell'antichità, il che si riconosce dalla grandiosità e dalla precisione del suo stile, e le matematiche, di cui seppe tutto

quanto si sapeva a' suoi giorni. Dopo un soggiorno di molti anni in Africa, nella città d'Arzila, caduta in potere d'Alfonso V, egli tornò in. Portogallo e fu nominato gran scudiero di

Giovanni II, il cui unico pensiero era di estendere di là dai mari il nome e la potenza del Portogallo. È evidentemente alla compagnia assidua del re, imposta dai doveri della sua carica, che Albuquerque dovette di vedere il suo spirito rivolto agli studi geografici e ch'egli pensò ai mezzi di dare alla sua patria l'impero delle Indie. Egli aveva preso parte alla spedizione mandata per soccorrere il re di Napoli contro una scorreria dei Turchi, e, nel 1489, era stato incaricato di difendere ed approvigionare la fortezza di Graciosa, sulle coste di Larache. Non abbisognarono che pochi giorni ad Alfonso d'Albuquerque per rendersi conto della situazione; egli comprese che, per potersi sviluppare, il commercio portoghese doveva appoggiarsi alle conquiste. Ma la sua prima intrapresa fu proporzionata alla debolezza dei mezzi di cui poteva disporre; egli assediò Raphelim, di cui voleva fare una piazza d'armi per i suoi compatrioti, poi fece egli medesimo, con due navi, una ricognizione delle coste dell'Indostan. Assalito all'improvviso per terra e per mare, egli stava per soccombere, quando l'arrivo di suo cugino Francisco rialzò le sorti del combattimento, e cagionò la fuga dell'esercito dello zamorin. L'importanza di questa vittoria fu grande; essa procurò ai vincitori un immenso bottino ed un gran numero di pietre preziose, il che non era certamente fatto per eccitare la bramosia portoghese; nel medesimo tempo essa confermò Albuquerque nei suoi disegni, per l'esecuzione dei quali aveva bisogno del consenso del re e di maggiori mezzi. Egli partì dunque per Lisbona, dove giunse nel luglio 1504. In questo medesimo anno, il re Emanuele, volendo fondare alle Indie un governo regolare, aveva nominato viceré Tristan da Cunha, ma costui, diventato momentaneamente cieco, aveva dovuto rassegnare le sue funzioni prima d'averle esercitate. La scelta del re era allora caduta su Francisco d'Almeida, che partì nel 1505 con suo figlio. Vedremo fra poco quali fossero i

mezzi ch'egli credette di dover impiegare per ottenere il trionfo dei suoi compatrioti. Il 6 marzo 1506, sedici navi lasciavano Lisbona sotto il comando di Tristan da Cunha, allora guarito. Con lui partiva Alfonso d'Albuquerque, portando senza saperlo la sua patente di viceré dell'India. Egli non doveva aprire la busta suggellata che gli era stata consegnata se non in capo a tre anni, quando Almeida fosse al termine della sua missione. Questa numerosa flotta, dopo d'essersi fermata alle isole del capo Verde e d'aver riconosciuto il capo Sant'Agostino, al Brasile, si cacciò risolutamente nelle regioni inesplorate del sud dell'Atlantico, così profondamente, dicono gli antichi cronisti, che molti marinai, vestiti troppo leggermente, morirono di freddo, mentre gli altri stentavano a fare le manovre. A 37° 8' di latitudine sud ed a 14° 21' di longitudine ovest da Cunha scoprì tre isolette disabitate, la più grande delle quali porta ancora il suo nome. Una tempesta gl'impedì di sbarcarvi e disperdette così interamente la sua flotta, che egli non potè riunire le sue navi se non a Mozambico. Risalendo quella costa d'Africa, riconobbe l'isola di Madagascar o di San Lorenço, che era stata scoperta da Soares alla testa d'una flotta di otto navi che d'Almeida rimandava in Europa, ma egli non credette di dovervi fondare stabilimenti. Dopo d'aver svernato a Mozambico, sbarcò a Melinda tre ambasciatori che, per l'interno del continente, dovevano recarsi in Abissinia; poi si ancorò a Brava, di cui Coutinho, uno de' suoi luogotenenti, non potè ottenere la sottomissione. I Portoghesi assediarono allora quella città, che resistette eroicamente, ma che dovette soggiacere in grazia del coraggio e dell'armamento perfezionato de' suoi avversari. A Magadoxo, sempre sulla costa d'Africa, da Cunha cercò, ma invano, d'imporre la sua autorità. La forza della città, la cui popolazione numerosa si mostrò molto risoluta, come pure

l'avvicinarsi dell'inverno, lo costrinsero a levar l'assedio. Egli rivolse allora le armi contro l'isola di Socotora, all'ingresso del golfo d'Aden, di cui prese la fortezza. Tutta la guarnigione fu passata a fil di spada; non fu risparmiato che un vecchio soldato cieco che era stato scoperto nascosto in un pozzo. A chi gli domandava come mai vi era potuto scendere, egli aveva risposto: «I ciechi non vedono se non la via che conduce alla libertà.» A Socotora i due capi portoghesi costrussero il forte di Coeo, destinato, nella mente d'Albuquerque, a comandare il golfo d'Aden ed il mar Rosso per il passo di Bab-el-Mandeb; a tagliare, per conseguenza, una delle linee di navigazione più seguite da Venezia alle Indie. È colà che da Cunha e d'Albuquerque si separarono; il primo si recava alle Indie per pigliarvi un carico di spezie; il secondo, ufficialmente rivestito del titolo di capitam mor e tutto dedito al compimento de' suoi gran disegni, partì il 10 agosto 1507 per Ormuz, lasciando nella nuova fortezza suo nipote, Alfonso di Noronha. Successivamente, e come per farsi la mano, egli prese Calavate, dove si trovavano immense provviste, Cariate e Mascate, che abbandonò al saccheggio, all'incendio ed alla distruzione, per vendicarsi d'una serie di tradimenti ben spiegabili per chi conosce la doppiezza di quelle popolazioni. Il trionfo riportato a Mascate, per quanto fosse importante, non bastava ad Albuquerque. Egli aveva altri disegni più grandiosi, la cui esecuzione fu gravemente compromessa dalla gelosia dei capitani sotto ì suoi ordini, e segnatamente di Joao da Nova, che voleva abbandonare il suo capo e che Albuquerque dovè andare ad arrestare sulla sua propria nave. Dopo d'aver messo ordine a questi tentativi di disobbedienza e di ribellione, il capitam mor si recò ad Orfacate, che fu presa dopo una resistenza abbastanza vigorosa.

Cosa bizzarra, da un pezzo Albuquerque sentiva parlare d'Ormuz, ma ne ignorava ancora la posizione. Egli sapeva che questa città serviva di deposito a tutte le mercanzie che passavano dall'Asia in Europa. La sua ricchezza e la sua potenza, il numero de' suoi abitanti, la bellezza de' suoi monumenti erano allora celebrati in tutto l'Oriente, tanto che si diceva comunemente: «Se il mondo è un anello, Ormuz ne è la gemma.» Ora, Albuquerque aveva risoluto d'impadronirsene, non solo perchè essa era una preda desiderabile, ma anche perchè comandava tutto il golfo Persico, la seconda delle gran vie del commercio tra l'Oriente e l'Occidente. Senza rivelar nulla ai capitani della sua flotta, che si sarebbero senza dubbio ribellati al pensiero d'assalire una città tanto forte, capitale d'un potente impero, Albuquerque fece loro doppiare il capo Mocendon, e la flotta entrò poco stante nello stretto d'Ormuz, porta del golfo Persico, dove si vide schierarsi in tutta la sua magnificenza una città animata, costrutta sopra un'isola rocciosa, il cui porto conteneva una flotta più numerosa di quanto si poteva sospettare da principio, protetta da un'artiglieria formidabile e da un esercito che non contava meno di quindici a ventimila uomini. A questa vista, i capitani rivolsero al capitam mor vive istanze sul pericolo che vi era nell'assalire una città così ben armata, e fecero valere l'influenza disastrosa che poteva avere uno scacco. A quei discorsi, Albuquerque rispose che in fatti «era un gran negozio, ma che era troppo tardi per dare indietro e che aveva più bisogno di coraggio, non di consigli.» Appena l'àncora ebbe toccato il fondo, Albuquerque faceva il suo ultimatum. Sebbene egli non avesse sotto i propri ordini che delle forze sproporzionate, il capitani mor esigeva imperiosamente che Ormuz riconoscesse la sovranità del re di Portogallo e si sottomettesse al suo inviato, se non voleva

essere trattata al pari di Mascate. Il re Seif-Ed-din, che regnava allora sopra Ormuz, era ancora fanciullo. Il suo primo ministro Kodja-Atar, diplomatico abile ed astuto, governava in suo nome. Senza respingere in massima le pretese di Albuquerque, il primo ministro volle guadagnar tempo tanto da permettere a' suoi contingenti di giungere in soccorso della capitale; ma l'Ammiraglio, indovinandone il disegno, non temè, in capo a tre giorni d'aspettazione, d'assalire con cinque navi e la Flor de la Mar, la più bella e più gran nave del tempo, la flotta formidabile riunita sotto il cannone d'Ormuz. Il combattimento fu sanguinoso e lungamente incerto; ma quando videro la fortuna volgere contro di loro, i Mori abbandonarono le navi e cercarono di giungere alla costa a nuoto. I Portoghesi, balzando allora nelle scialuppe, li inseguirono vigorosamente e ne fecero una spaventevole carneficina. Albuquerque volse poi i suoi sforzi contro una gran diga di legno, difesa da una numerosa artiglieria e da arcieri, le cui freccie, abilmente dirette, ferirono molti Portoghesi ed il generale medesimo, il che non gli impedì di sbarcare e d'andare ad ardere i sobborghi della città. Convinti che la resistenza era impossibile, e che la loro capitale correva rischio d'essere distrutta, i Mori inalberarono la bandiera bianca e sottoscrissero un trattato pel quale Seif-Ed-din si riconosceva vassallo del re Emanuele, impegnandosi a pagargli un tributo annuo di 15,000 serafini o xarafin, e concedeva ai vincitori l'area d'una fortezza che, non ostante la ripugnanza e le recriminazioni dei capitani portoghesi, fu presto in grado di resistere. Disgraziatamente, dei disertori portarono a breve andare questi dissentimenti colpevoli a cognizione di Kodja-Atar, che ne profittò per sottrarsi con diversi pretesti all'esecuzione degli

articoli del nuovo trattato. Alcuni giorni dopo, Joao da Nova e due altri capitani, gelosi dei successi d'Albuquerque, calpestando l'onore, la disciplina ed il patriotismo, lo abbandonarono per recarsi alle Indie; egli medesimo si vide costretto da questo vigliacco abbandono a ritirarsi senza poter nemmeno serbare la fortezza che aveva costrutta con tanta cura. Egli si recò allora a Socotora, la cui guarnigione aveva bisogno di soccorsi, tornò ad incrociare innanzi ad Ormuz, ma giudicandosi tuttavia impotente ad intraprendere checchessia, si ritirò temporaneamente a Goa, dove giunse alla fine del 1508. Che era accaduto alla costa di Malabar durante questa lunga ed avventurosa campagna? Noi lo compendieremo in poche linee. Convien ricordare che Almeida era partito da Belem, nel 1505, con una flotta di ventidue navi a vela portanti millecinquecento uomini armati. Dapprima s'impadronì di Quiloa, poi di Mombaca, «i cui cavalieri, come gli abitanti si piacevano a ripetere, non si arresero facilmente quanto le galline di Quiloa.» Dell'immenso bottino che venne tra le mani dei Portoghesi, Almeida non pigliò che una freccia per sua parte, dando così un raro esempio di disinteresse. Dopo d'essersi fermato a Melinda, egli giunse a Cochin, dove consegnò al radjah la corona d'oro che Emanuele gli mandava, pigliando per sé, con quella presuntuosa vanità di cui diede tante prove, il titolo di viceré. Poi, essendo andato a fondare a Sofala una fortezza destinata a tener in rispetto i musulmani di quella costa, Almeida e suo tìglio corsero i mari dell'India, distruggendo le flotte malabare, impadronendosi delle navi mercantili, e facendo un danno incalcolabile al nemico, di cui intercettavano così le antiche vie.

Ma, per fare questa guerra di crociera, era necessaria una flotta numerosa insieme e leggiera, giacché essa non aveva, sul litorale asiatico, altro porto di rifugio che Cochin. Quanto era preferibile il sistema di Albuquerque, che, collo stabilirsi nel paese in modo permanente, creando da per tutto fortezze, impadronendosi delle città più potenti da cui era facile diramarsi nell'interno del paese, rendendosi padrone delle chiavi degli stretti, si assicurava con pericoli molto minori e con maggior saldezza il monopolio del commercio dell'India! Frattanto, le vittorie d'Almeida, le conquiste d'Albuquerque avevano profondamente inquietato il sudan d'Egitto. La via d'Alessandria abbandonata, era una gran diminuzione nella rendita delle imposte e dei diritti di dogana, d'ancoraggio e di transito che colpivano le mercanzie asiatiche attraversanti i suoi Stati. Perciò, col concorso dei Veneziani, che gli fornirono il legname da costruzione necessario ed abili marinai, egli armò una squadra di dodici navi d'alto bordo, che venne a cercare fin presso a Cochin la flotta di Lorenco d'Almeida e la disfece in un sanguinoso combattimento nel quale costui fu ucciso. Se il dolore del viceré fu grande alla triste notizia, almeno egli non ne lasciò apparir nulla e pose tutto in opera per vendicarsi prontamente dei Roumis, battesimo sotto il quale traspare il lungo terrore cagionato dal nome dei Romani e comune allora sulla costa di Malabar a tutti i soldati musulmani venuti da Bisanzio. Con diciannove vele Almeida si recò dapprima innanzi al porto in cui suo figlio era stato ucciso e riportò una gran vittoria, imbrattata, bisogna confessarlo, da così spaventevoli crudeltà, che fu presto la moda di dire: «Possa la collera dei Frangui cader su di te come è caduta su Dabul.» Non contento di questa prima riuscita, Almeida distrusse poche settimane dopo innanzi a Diu le forze riunite del sudan d'Egitto e del radjah di Calicut.

Questa vittoria ebbe un eco prodigioso in India, e mise fine alla potenza dei Mahumetistes d'Egitto. Joao da Nova ed i capitani che avevano abbandonato Albuquerque innanzi ad Ormuz, si erano allora decisi a raggiungere Almeida; essi avevano spiegato la disobbedienza con calunnie, in seguito alle quali erano state incominciate contro Albuquerque delle informazioni giudiziarie, quando il viceré ricevette la notizia d'essere sostituito da quest'ultimo. Dapprincipio Almeida aveva dichiarato che bisognava obbedire alla decisione sovrana; ma, influenzato dai traditori che temevano di vedersi severamente puniti quando l'autorità fosse passata nelle mani d'Albuquerque, egli si recò a Cochin, nel mese di marzo 1509, colla ferma determinazione di non rimettere il comando al successore. Ti furono fra questi due grand'uomini disgustosi contrasti, in cui tutto il torto spettava ad Almeida, ed Albuquerque era sul punto d'essere rimandato a Lisbona, coi ferri ai piedi, quando entrò nel porto una flotta di quindici vele sotto il comando del gran maresciallo di Portogallo, Fernan Cutinho. Costui si pose a disposizione del prigioniero, che liberò subito, dichiarò ancora una volta ad Almeida i poteri che Albuquerque aveva ricevuti dal re, e minacciò di tutta la collera d'Emanuele s'egli non obbedisse. Almeida non poteva fare altro che cedere, e lo fece nobilmente. Quanto a Joao da Nova, causa di questi tristi contrasti, morì qualche tempo dopo abbandonato da tutti, e non ebbe, per condurlo alla sua ultima dimora, se non il nuovo viceré, il quale dimenticava generosamente le ingiurie fatte ad Alfonso d'Albuquerque. Subito dopo la partenza d'Almeida, il gran maresciallo Cutinho dichiarò che, venuto nell'India colla missione di distruggere Calicut, egli intendeva d'approfittare dell'assenza dello zamorin dalla capitale. Invano il nuovo viceré volle ammorzare il suo ardore e fargli prendere alcune savie misure

dall'esperienza: Cutinho non volle intender nulla, ed Albuquerque dovette seguirlo. Dapprincipio Calicut, sorpresa, fu facilmente incendiata; ma i Portoghesi, avendo perso tempo nel saccheggio del palazzo dello zamorin, furono vivamente ricondotti indietro dai

nairi, che avevano radunato le loro truppe. Cutinho, spinto dal suo valore, fu ucciso, e ci volle tutta l'abilità, tutta la freddezza d'animo del viceré per permettere alle truppe d'imbarcarsi di nuovo sotto il fuoco del nemico ed impedire la distruzione delle forze mandate da Emanuele.

Tornato a Cintagara, porto di mare dipendente dal re di Narsingue, di cui i Portoghesi avevano saputo farsi un alleato, Albuquerque apprese che Goa, capitale d'un potente regno, era

in preda all'anarchia politica e religiosa. Molti capi vi si disputavano il potere; uno d'essi, Melek Cufergugi, era sul punto d'impadronirsi del trono, e bisognava approfittare delle circostanze ed assalire la città prima ch'egli potesse radunare

delle forze capaci di resistere ai Portoghesi. Il viceré comprese tutta l'importanza di questo consiglio. La situazione di Goa, che conduceva al regno di Narsingue e nel Dekkan, lo aveva già vivamente colpito. Egli non esitò, ed in breve i Portoghesi contarono una conquista di più. Goa-la-Dorata, città cosmopolita dove si trovavano, con tutte le sette dell'islamismo, dei Parsi, adoratori del fuoco, ed anche dei cristiani, subì il giogo d'Albuquerque, e divenne sotto la sua savia e severa amministrazione, che seppe conciliarsi le simpatie delle sette nemiche, la capitale, la fortezza per eccellenza, la sede del commercio principale dell'impero portoghese nelle Indie. Insensibilmente e cogli anni si era fatta la luce su quelle ricche regioni. Informazioni numerose erano state radunate da tutti coloro che, colle ardite navi, avevano solcato quei mari battuti dal sole, e si sapeva oramai qual fosse il centro di produzione di quelle spezie, che si era venuti a cercare così da lontano attraverso tanti pericoli. Già da molti anni Almeida aveva fondato i primi depositi portoghesi a Ceylan, l'antico Taprobane. Le isole della Sonda e la penisola di Malacca eccitavano ora la bramosia di quel re Emanuele, già soprannominato il Fortunato. Egli risolvette di mandare una flotta per esplorarle, giacché Albuquerque aveva già abbastanza da fare in India per contenere i radjah frementi ed i musulmani, — i Mori, come si diceva allora, — sempre pronti a scuotere il giogo. Questa spedizione, sotto il comando di Diego Lopes Sequeira, fu, secondo la politica tradizionale dei Mori, accolta amichevolmente dapprincipio a Malacca. Poi, quando la diffidenza di Lopes Sequeira fu sopita da ripetute proteste d'alleanza, egli vide sollevarsi contro di lui tutta la popolazione, e fu costretto a tornarsi ad imbarcare, non senza lasciare, tuttavia, tra le mani dei Malesi, una trentina de' suoi compagni.

Questi ultimi avvenimenti erano già accaduti da qualche tempo quando la notizia della presa di Goa giunse a Malacca. Il bendarla o ministro della giustizia, che esercitava per il nipote ancora fanciullo il potere reale, temendo la vendetta dei Portoghesi contro il suo tradimento, risolvette di quetarli. Egli andò dunque a trovare i prigionieri, si scusò con essi giurando che tutto si era fatto senza sua saputa e contro la sua volontà, giacché egli non desiderava di meglio che vedere i Portoghesi venir a commerciare a Malacca; del resto egli stava per dar ordine di ricercare e castigare gli autori del tradimento. I prigionieri non diedero fede naturalmente a queste dichiarazioni bugiarde, ma, approfittando della libertà relativa che fu loro concessa da quel momento, riuscirono abilmente a far pervenire ad Albuquerque delle notizie preziose sulla posizione e sulla forza della città. Albuquerque riunì a gran stento una flotta di diciannove navi da guerra, che portava millequattrocento nomini, fra i quali non vi erano che ottocento Portoghesi. Doveva egli allora, come gli chiedeva il re Emanuele, dirigersi sopra Aden, la chiave del mar Rosso, di cui importava impadronirsi, se si voleva opporsi alla venuta d'una nuova squadra che il sudan d'Egitto si proponeva di mandare nell'India? Egli esitava, quando un mutamento del monsone venne a stabilire la sua risoluzione. In fatti, era impossibile giungere ad Aden coi venti che soffiavano, mentre invece erano favorevoli per scendere fino a Malacca. Questa città, allora in tutto il suo splendore, non conteneva meno di centomila abitanti. Se molte case erano costrutte di legno e coperte di foglie di palma, non mancavano tuttavia gli edifizî importanti, moschee e torri di pietra, da cui il panorama si sviluppava sopra una lega di lunghezza. L'India, la China, i regni malesi delle isole della Sonda si davano ritrovo nel suo porto, dove molte navi, venute dalla

costa di Malabar, dal golfo Persico, dal mar Rosso e dalla costa d'Africa, barattavano delle mercanzie d'ogni provenienza e d'ogni specie. Quando vide arrivare la flotta portoghese nelle sue acque, il radjah di Malacca comprese che bisognava dare un'apparente soddisfazione agli stranieri, sacrificando il ministro che aveva eccitato la loro collera e determinato la loro venuta. Un suo inviato venne dunque ad apprendere al viceré la morte del bendarra e ad informarsi delle intenzioni dei Portoghesi. Albuquerque rispose reclamando i prigionieri rimasti fra le mani del radjah; ma costui, desideroso di guadagnar tempo perchè avvenisse il mutamento del monsone, — mutamento che costringerebbe i Portoghesi a tornare alla costa di Malabar senza aver nulla ottenuto, o che li obbligherebbe a rimanere a Malacca, dov'egli si proponeva di sterminarli, — inventò mille pretesti dilatori, e, frattanto, mise in batteria ottomila cannoni, dicono le antiche relazioni, e radunò ventimila uomini armati. Albuquerque, perdendo la pazienza, fece incendiare alcune case e molte navi guzarate, principio d'escursione che fruttò la restituzione dei prigionieri. Poi, reclamò trentamila cruzade d'indennità per i danni cagionati alla flotta di Lopes Sequeira; finalmente, pretese che gli si lasciasse costrurre, nella città medesima, una fortezza che doveva servire nel medesimo tempo anche di deposito. Quest'esigenza non poteva essere accettata, Albuquerque lo sapeva bene. Egli risolvette dunque d'impadronirsi della città. Fu fissato il giorno di San Giacomo per l'assalto, e malgrado un'energica difesa che durò nove giorni interi, malgrado l'impiego di mezzi straordinari, come a dire elefanti da guerra, piuoli e freccie avvelenate, trappole abilmente dissimulate e barricate, la città fu presa quartiere per quartiere, casa per casa, dopo una lotta veramente eroica. Un immenso bottino fu distribuito ai soldati. Albuquerque non si riservò che sei leoni di bronzo dicono gli uni, di ferro dicono

gli altri, ch'egli destinava ad ornare la propria tomba e ad eternare il ricordo della sua vittoria. La porta che metteva nell'Oceania e nell'alta Asia era oramai aperta. Molti popoli, ignoti fino a quel giorno, stavano per entrare in rapporto cogli Europei; le usanze strane, la storia favolosa di tante nazioni stavano per essere svelate all'Occidente meravigliato. Si apriva un'èra nuova, e tutti questi immensi risultati erano dovuti all'audacia sfrenata, al coraggio indomabile d'una nazione, la cui patria era appena visibile sulla carta del mondo! In grazia della tolleranza religiosa di cui Albuquerque diede prova, tolleranza che contrasta bizzarramente col fanatismo crudele degli Spagnuoli, in grazia delle abili precauzioni ch'egli seppe prendere, la prosperità di Malacca potè resistere a questa rude scossa. Alcuni mesi dopo non vi era più altra traccia delle prove da essa subite se non la bandiera portoghese, che sventolava fieramente su quell'immensa città diveatata la testa e l'avanguardia dell'impero coloniale di un piccolo popolo, tanto grande per il coraggio e lo spirito d'intrapresa. Questa nuova conquista, per quanto fosse meravigliosa, non aveva fatto dimenticare ad Albuquerque gli antichi disegni. S'egli pareva avervi rinunciato, gli è che le circostanze non gli erano fino allora sembrate favorevoli. Con quella decisione e quella tenacia che formavano il fondo del suo carattere, dall'estremità meridionale dell'impero ch'egli fondava, i suoi sguardi si fissavano al nord. Ormuz, che al principio della sua carriera la gelosia ed il tradimento de' suoi subordinati lo avevano costretto ad abbandonare, nel momento medesimo in cui il trionfo stava per coronare i suoi sforzi e la sua costanza, Ormuz lo tentava sempre. La fama delle sue imprese ed il terrore che ispirava il suo nome avevano indotto Kodja Atar a fargli delle proposte, a

chiedergli un trattato ed a mandargli gli arretrati del tributo anticamente imposto. Pur non dando fede alcuna a queste ripetute dichiarazioni d'amicizia, a questa fede mora che meritava di diventar celebre al pari della fede punica, il viceré le aveva tuttavia accolte, aspettando di poter stabilire in modo

permanente il suo dominio in quelle regioni. Nel 1513 o nel 1514, — non è ben certa la data, — allorché la conquista di Malacca e la tranquillità di cui godevano gli altri suoi possedimenti rendevano liberi la sua flotta ed i suoi soldati, Albuquerque si avviò verso il golfo Persico.

Appena giunto, benché una serie di rivoluzioni avesse mutato il governo d'Ormuz, ed il potere fosse allora nelle mani d'un usurpatore chiamato Rais-Nordim o Noureddin, Albuquerque pretese la consegna immediata della fortezza un tempo incominciata. Dopo d'averla fatta riparare e terminare, egli prese parte contro il pretendente Rais-Named nella querela che divideva la città d'Ormuz e stava per farla cadere in potere della Persia, se ne impadronì e la consegnò a colui che aveva dapprima accettato le sue condizioni e che gli sembrava presentare le più serie garanzie di sottomissione e di fedeltà. Del resto, non doveva essere difficile per l'avvenire l'assicurarsene, giacché Albuquerque lasciava nella nuova fortezza una guarnigione perfettamente in grado di far pentire Kais-Nordim del minimo tentativo di ribellione o d'indipendenza. A quella spedizione d'Ormuz si collega un aneddoto ben noto, ma che perciò appunto non possiamo tralasciare. Siccome il re di Persia faceva reclamare a Nureddin il tributo che i sovrani d'Ormuz avevano usanza di pagargli, Albuquerque fece portare dalle navi una gran quantità di palle e di bombe, e mostrandole agli inviati, disse loro che tale era la moneta colla quale il re di Portogallo usava pagar tributo. Non pare che gli ambasciatori di Persia ripetessero la loro domanda. Colla sua sagacia consueta, Albuquerque seppe non offendere gli abitanti, che tornarono presto nella città. Lungi dal calpestarli e dall'opprimerli come dovevano fare più tardi i suoi successori, egli stabilì un'amministrazione integra, giusta, che seppe far amare e rispettare il nome portoghese. Nel medesimo tempo ch'egli compiva in persona questi meravigliosi lavori, Albuquerque aveva affidato ad alcuni luogotenenti la missione d'esplorare le regioni misteriose, di cui aveva aperto l'accesso impadronendosi di Malacca. Gli è così ch'egli rimise ad Antonio e Francisco D'Abreu il comando

d'una piccola squadra portante dugentoventi uomini, colla quale essi esplorarono tutto l'arcipelago della Sonda, Sumatra, Giava, Anjoam, Simbala, Jolor, Galani, ecc.; poi, giunti poco lungi dalla costa d'Australia, risalirono al nord, dopo d'aver fatto un viaggio di oltre cinquecento leghe attraverso arcipelaghi pericolosi, seminati di scogli e di scogliere di corallo, in mezzo a popolazioni sovente ostili, fino alle isole Buro e Amboine, che fanno parte delle Molucche. Dopo d'avervi caricato le navi di garofano, di noci moscate, di legno di sandalo, di macis e di perle, essi spiegarono le vele nel 1512 per ritornare a Malacca. Questa volta, si era giunti al vero paese delle spezie, non rimaneva più che fondarvi degli stabilimenti, prenderne possesso definitivamente, il che non doveva farsi aspettar molto. La rupe Tarpea è vicina al Campidoglio, si è spesso ripetuto; Alfonso d'Albuquerque doveva farne l'esperimento, ed i suoi ultimi giorni dovevano essere rattristati da una disgrazia immeritata, risultato di calunnie e di menzogne, trama artisticamente ordita che, se offese momentaneamente la sua riputazione presso il re Emanuele, non riuscì ad oscurare agli occhi della posterità la gloria di questo gran personaggio. Già un tempo si aveva voluto far credere al re di Portogallo che la presa di possesso di Goa fosse uno sbaglio grossolano; il suo clima malsano doveva, si diceva, decimare in poco tempo la popolazione europea. Fidente nell'esperienza e nella prudenza del suo luogotenente, il re non aveva voluto ascoltare i suoi nemici, cosa di cui Albuquerque lo aveva pubblicamente ringraziato dicendo: «Io devo essere molto più grato al re Emanuele d'aver difeso Goa contro i Portoghesi che a me stesso d'averla presa due volte.» Ma, nel 1311, Albuquerque aveva chiesto al re che gli concedesse in ricompensa de' suoi servigi il titolo di duca di Goa, ed era quest'atto imprudente che doveva tanto servire alle mene de' suoi avversari.

Soarez d'Albergayia e Diego Mendes, che Albuquerque aveva rimandati prigionieri in Portogallo, dopo che si furono pubblicamente dichiarati suoi nemici, riuscirono non solo a lavarsi dell'accusa ch'egli aveva fatta contro di essi, ma a persuadere anche il re Emanuele che il viceré voleva costituirsi un ducato indipendente, la cui capitale fosse Goa, e finirono coll'ottenere la sua disgrazia. La notizia della nomina d'Albergavia alla carica di capitano generale di Cochin, giunse ad Albuquerque mentre egli usciva dallo stretto d'Ormuz per recarsi alla costa di Malabar. Già profondamente abbattuto dall'infermità, «egli alzò le mani al cielo,» dice il signor F. Denis, nella sua eccellente storia del Portogallo, e pronunziò queste poche parole: «Ecco, «io mi sono guastato col re per amore degli uomini, mi sono guastato cogli «uomini per amore del re. Vecchio, rivolgiti alla Chiesa, finisci di morire, «giacché importa al tuo onore che tu muoia, e non mai tu hai negletto «di fare ciò che importava all'onor tuo.» Poi, giunto nella rada di Goa, Alfonso d'Albuquerque regolò gli affari della sua coscienza colla Chiesa, si fece rivestire dell'abito di San Giacomo, di cui era commendatore, e, «la domenica 16 dicembre 1515, un'ora prima dell'aurora, rese l'anima a Dio. Così finirono tutti i suoi lavori, senza che gli avessero mai dato nessuna soddisfazione.» Egli fu seppellito con gran pompa, ed i soldati che erano stati i fedeli compagni delle sue meravigliose avventure e testimoni delle sue dolorose tribolazioni, si disputarono, piangendo, l'onore di portarne le spoglie fino all'ultima dimora ch'egli si era scelta. Nel loro dolore, gli stessi Indiani non volevano credere ch'egli fosse morto, e pretendevano che fosse andato a comandare le armate del cielo. La scoperta relativamente recente d'una lettera d'Emanuele prova che, se questo re fu momentaneamente ingannato dai

falsi rapporti dei nemici d'Albuquerque, non tardò tuttavia a rendergli piena ed intera giustizia. Disgraziatamente, questa lettera riparatrice non è mai pervenuta al secondo viceré dell'India; essa ne avrebbe raddolcito l'amarezza degli ultimi momenti, mentre invece egli morì col dolore di trovar ingrato un sovrano alla gloria ed alla potenza del quale egli aveva consacrata l'esistenza. Con lui, dice Michelet, sparve presso i vincitori ogni giustizia, ogni umanità. Lungo tempo dopo, gli Indiani andavano sulla tomba del grande Albuquerque a chiedergli giustizia contro le vessazioni de' suoi successori. Fra le molte cause che produssero così rapidamente la decadenza e lo sbocconcellamento di quell'immenso impero coloniale, di cui Albuquerque aveva dotato la sua patria, e che, anche dopo la sua rovina, ha lasciato nell'India ricordanze incancellabili, convien citare, con Michelet, l'allontanamento e lo sparpagliamento dei depositi, la debolezza della popolazione del Portogallo, poco proporzionata all'estensione di quegli stabilimenti, l'amore del brigantaggio e le esazioni d'un'amministrazione disordinata, ma soprattutto l'indomabile orgoglio nazionale, che impedì il contatto dei vincitori coi vinti. Questa decadenza fu tuttavia arrestata da due eroi, Juan de Castro, così povero, dopo d'aver maneggiate tante ricchezze, che non aveva nemmeno di che comperarsi un pollo durante la sua ultima malattia, ed Ataide; costoro diedero ancor una volta a quelle popolazioni corrotte l'esempio delle più maschie virtù e dell'amministrazione più integra. Ma, dopo di essi, fu il crollo assoluto; quell'immenso impero si sminuzzò e cadde nelle mani degli Spagnuoli e degli Olandesi, che non seppero nemmeno essi serbarlo intatto. Tutto passa, tutto si trasforma. Non è forse il caso di ripetere col proverbio spagnuolo, ma applicandolo agli imperi: la vita non è che un sogno?

FINE DELLA PRIMA PARTE

GIULIO VERNE _________

SCOPERTA DELLA TERRA _________

PARTE SECONDA _________

CAPITOLO PRIMO I CONQUISTADORES DELL'AMERICA CENTRALE. I. Hojeda — Amerigo Vespucci — Il suo nome è dato al Nuovo Mondo — Juan de La Cosa — V. Yanez Pinzon — Bastidas — Diego do Lepe — Diaz de Solis — Ponce de Leon e la Florida — Balboa scopre l'oceano Pacifico — Grijalva esplora le coste del Messico.

Le lettere ed i racconti di Colombo e de' suoi compagni, che si dilungavano con compiacenza sull'abbondanza d'oro e di perle trovata nei paesi scoperti di recente, avevano acceso l'immaginazione di un certo numero di commercianti avidi e di molti gentiluomini, amanti delle avventure. Il 10 aprile 1495, il governo spagnuolo aveva pubblicato un permesso generale d'andare a scoprire nuove terre; ma gli abusi che seguirono subito ed i lamenti di Colombo, di cui venivano in tal guisa violati i privilegi, produssero la ritrattazione di questa cedola il 2 giugno 1497. Quattro anni più tardi bisognò ancora rinnovare la proibizione e darle la sanzione pene severe. Avvenne allora una specie di foga generale, favorita, del

resto, dal vescovo di Badajoz, Fonseca, di cui Colombo ebbe tanto a lamentarsi, e nelle mani del quale passavano tutti i negozi delle Indie. L'Ammiraglio aveva appena lasciato San Lucar per il suo terzo viaggio, e già quattro spedizioni di scoperta si allestirono quasi simultaneamente a spese di ricchi armatori, fra i primi dei quali sono i Pinzon ed Amerigo Vespucci. Di queste spedizioni, la prima, composta di quattro navi, lasciò il porto di Santa Maria, il 20 maggio 1499, sotto il comando d'Alonzo de Hojeda, che conduceva seco Juan de La Cosa, come pilota, e Amerigo Vespucci, le cui funzioni non sono determinate, ma che sembra essere stato l'astronomo della flotta. Prima di compendiare brevissimamente la storia di questo viaggio, daremo alcuni particolari su questi tre uomini, l'ultimo dei quali segnatamente ha nella storia della scoperta del Nuovo Mondo una parte tanto più importante in quanto che questo ha ricevuto il suo nome. Hojeda, nato a Cuenca verso il 146 5, allevato nella casa dei duchi di Medina-Celi, aveva fatto le sue prime armi nelle guerre contro i Mori. Arruolato fra gli avventurieri che Colombo aveva reclutati per il suo secondo viaggio, egli si era fatto notare più volte per la sua fredda risoluzione e nello stesso tempo per gli espedienti del suo spirito ingegnoso. Quali cause produssero fra Colombo ed Hojeda una rottura completa dopo i servigi eminenti che quest'ultimo aveva resi, segnatamente nel 1495, nel qual tempo egli aveva deciso le sorti della battaglia di La Vega in cui la confederazione caraiba fu distrutta? Non si sa. Fatto è che al suo arrivo in Spagna, Hojeda trovò in Fonseca appoggio e protezione. Il ministro delle Indie gli avrebbe anzi comunicato, si dice, il giornale dell'ultimo viaggio dell'ammiraglio e la carta dei paesi ch'egli aveva scoperti.

Il primo pilota di Hojeda era Juan de La Cosa, nato probabilmente a Santona, nel paese biscagline Egli aveva navigato spesso sulla costa d'Africa prima d'accompagnare Colombo nel suo primo viaggio e nella seconda spedizione, in cui faceva le funzioni di idrografo (maestro de hacer cartas). Come testimonianza dell'abilità cartografica di La Cosa, noi possediamo due carte curiosissime: l'una registra tutti i dati noti sull'Africa nel 1500; l'altra, su carta velina ed arricchita di colori come la precedente, traccia le scoperte di Colombo e de' suoi successori. Il secondo pilota era Bartolomeo Roldan, che aveva fatto del pari con Colombo il viaggio di Paria. Quanto ad Amerigo Vespucci, le sue funzioni, come si è detto, erano piuttosto mal definite; egli era là per aiutare a scoprire (per aiutare a discoprire, dice il testo italiano della sua lettera a Soderini). Nato a Firenze il 9 marzo 1451, Amerigo Vespucci apparteneva ad una famiglia importante ed agiatissima. Egli aveva studiato con frutto le matematiche, la fisica e l'astrologia, come si diceva allora. Le sue cognizioni in fatto di storia e di letteratura, giudicandone dalle sue lettere, erano piuttosto incerte e mal digerite. Egli aveva lasciato Firenze verso il 1492, senza uno scopo ben determinato, e si era recato in Spagna dove si occupò dapprima di transazioni commerciali. È così che lo vediamo a Siviglia fattore nella potente casa di commercio del suo compatriota Juanoto Berardi. Siccome questa casa aveva fatto a Colombo le anticipazioni per il secondo viaggio, si può credere che Vespucci avesse conosciuto l'ammiraglio in quel tempo. Alla morte di Juanoto, nel 1495, Vespucci fu messo dagli eredi a capo della contabilità della casa. Sia ch'egli fosse stanco d'una condizione che non credeva pari all'altezza del proprio valore, sia che fosse alla sua volta

preso dalla febbre delle scoperte, o pensasse d'arricchirsi rapidamente in quei paesi nuovi che si dicevano tanto ricchi, Vespucci si unì, nel 1499, alla spedizione di Hojeda, come ne fa fede la deposizione di quest'ultimo nel processo intentato dal fisco agli eredi di Colombo. La flottiglia, composta di quattro navi, spiegò le vele da Santa Maria il 20 maggio, e dirigendosi al nord-ovest, non impiegò che ventisette giorni per iscoprire il continente americano in un luogo che fu chiamato Venezuela, perchè le abitazioni, costrutte su palafitte, ricordavano quelle di Venezia. Hojeda, dopo alcuni tentativi inutili per abboccarsi cogli indigeni ch'egli dovette «combattere molte volte, vide l'isola Margherita; dopo un viaggio di ottanta leghe all'est dell'Orenoco, giunse al golfo di Paria, in una baia che fu chiamata di las Perlas, perchè gl'indigeni vi facevano la pesca delle ostriche perlifere. Guidato dalle carte di Colombo, Hojeda passò dalla Bocca del Drago, che separa la Trinità dal continente, e tornò nell'ovest fino al capo della Vela. Poi, dopo aver toccato le isole Caraibe, in cui fece gran numero di prigionieri ch'egli contava di vendere in Ispagna, dovette riposarsi a Yaquimo, nell'isola Spagnuola, il 5 settembre 1499. L'Ammiraglio, conoscendo l'ardimento e lo spirito irrequieto di Hojeda, temette di vederlo portare un nuovo elemento di torbidi nella colonia. Egli mandò dunque Francisco Roldan con due navi per conoscere i motivi della sua venuta ed opporsi, se fosse necessario, al suo sbarco. L'Ammiraglio era stato ben ispirato. Appena sbarcato, Hojeda si abboccò con un certo numero di malcontenti, eccitò un sollevamento a Xaragua e risolvette di cacciare Colombo. Dopo alcune scaramuccie in cui aveva avuto la peggio, bisognò che, in un colloquio, Roldan, Diego de Escobar e Juan de La Cosa s'interponessero per indurre Hojeda a lasciare Española. Egli conduceva seco,

dice Las Casas, un prodigioso carico di schiavi che vendette sul mercato di Cadice per somme enormi. Nel mese di febbraio 1500, egli tornò in Spagna, dove era stato preceduto da A. Vespucci e B. Roldan, che erano tornati il 18 ottobre 1499. La latitudine più meridionale che Hojeda abbia toccato in questo viaggio è il 4° grado IN., e la spedizione di scoperta propriamente detta durò solo tre mesi e mezzo. Se ci siamo dilungati un po' su questo viaggio, gli è perchè è il primo che Vespucci abbia compiuto. Certi autori, segnatamente Varnhagen, e recentemente H. Major nella sua storia del principe Enrico il Navigatore, ammettono che il primo viaggio di Vespucci sia avvenuto nel 1497, e che egli abbia, per conseguenza, visto il continente americano prima di Cristoforo Colombo. Ci è stato a cuore lo stabilir bene la data del 1499, fidandoci all'autorità di Humboldt, che ha consacrato tanti anni all'esame della storia della scoperta dell'America, del signor E. Charton e del signor Giulio Codine, che ha trattato questa questione nel Bollettino della Società geografica del 1873 in proposito dell'opera del signor Major. «Quand'anche fosse vero, dice Voltaire, che Vespucci avesse fatto la scoperta della parte continentale, la gloria non toccherebbe a lui; essa appartiene incontrastabilmente a colui che ebbe il genio ed il coraggio di intraprendere il primo viaggio, a Cristoforo Colombo. La gloria, come dice Newton nella sua disputa con Leibnitz, non è dovuta che all'inventore.» Ma come ammettere nel 1497, diremo noi col signor Codine, «una spedizione che avrebbe scoperto ottocentocinquanta leghe di coste della terraferma, senza che ne sia rimasta la minima traccia, né nei grandi storici contemporanei, nè nelle deposizioni giuridiche dove, in proposito dei reclami degli eredi di Colombo contro il governo spagnuolo, è esposta contradditoriamente la priorità delle scoperte d'ogni capo di spedizione su ogni parte della costa percorsa?»

Infine i documenti autentici estratti dagli archivi della Casa de contratacion stabiliscono che Vespucci fu incaricato dell'armamento delle navi destinate alla terza spedizione di Colombo a Siviglia ed a San Lucar, dalla metà d'agosto 1497, fino alla partenza di Colombo, il 30 maggio 1498. Le relazioni che si hanno dei viaggi di Vespucci sono diffusissime, mancano di precisione e di continuità; esse non danno sui luoghi da lui percorsi che informazioni molto incerte, le quali possono applicarsi a tal punto della costa quanto a tal altro, e non racchiudono finalmente sui luoghi di cui sono state oggetto, nè sui compagni di Vespucci alcuna indicazione di tal natura da rischiarare lo storico. Non un nome di personaggio noto, molte date che si contraddicono, ecco ciò che si trova in quelle lettere famose per il numero di commentari a cui hanno dato luogo. «Vi ha, dice A. di Humboldt, come una specie di destino per imbrogliare, nei documenti più autentici, tutto ciò che tocca il navigatore fiorentino.» Abbiamo narrato il primo viaggio di Hojeda, col quale coincide il primo viaggio di Vespucci, secondo Humboldt, che ha paragonato e messo in riscontro i principali incidenti dei due racconti. Ora Varnhagen stabilisce che, partito il 10 maggio 1497, Vespucci penetrò il 10 giugno seguente nel golfo di Honduras, seguì le coste dello Yucatan e del Messico, risalì il Mississipi e doppiò, alla fine di febbraio 149S, la punta della Florida. Dopo una fermata di trentasette giorni alla foce del San Lorenzo, egli sarebbe rientrato, nell'ottobre 1498, a Cadice. Se Vespucci avesse veramente compiuta questa navigazione meravigliosa, si lascierebbe molto indietro tutti i naviganti suoi contemporanei, e sarebbe giustissimo dare il suo nome al continente di cui egli avrebbe esplorato una così lunga linea di litorale; ma in ciò nulla vi ha di certo, e l'opinione di Humboldt è sembrata fin qui, agli scrittori più autorevoli, raccogliere la maggior somma di probabilità.

Amerigo Vespucci fece altri tre viaggi. A. di Humboldt identifica il primo con quello di V. Yanez Pinzon, ed il signor d'Avezac con quello di Diego de Lepe (1499-1500). Alla fine di quest'ultimo anno, Giuliano Bartolomeo di Giocondo si fece presso Vespucci l'interprete del re Emanuele e lo indusse a passare al servizio del Portogallo. Vespucci compì a spese di questa potenza due nuovi viaggi. Nel primo, egli non è capo della spedizione come non lo era in quelli che lo hanno preceduto, e non fa a bordo della flotta se non la parte d'un uomo, le cui cognizioni nautiche possono divenir utili in certe date circostanze. L'estensione delle coste americane seguite in questo terzo viaggio è compresa tra il capo Sant'Agostino ed il 52° di latitudine australe. La quarta spedizione di Vespucci fu segnalata dal naufragio della nave ammiraglia presso l'isola di Fernando di Noronha; circostanza che impedì alle altre navi di continuare la loro via, di far vela oltre il capo di Buona Speranza verso Malacca, e che le costrinse a toccare la baia d'Ognissanti. al Brasile. Questo quarto viaggio fu fatto senza dubbio con Gonzalo Coelho. Quanto al terzo, s'ignora assolutamente chi ne fosse il capo. Queste diverse spedizioni non avevano arricchito Vespucci; la sua condizione alla corte di Portogallo era così poco splendida, che lo indusse a ripigliar servizio in Ispagna. Egli vi fu nominato piloto mayor il 22 marzo 1608. Siccome degli emolumenti piuttosto lauti furono annessi per lui a questa carica, egli finì i suoi giorni, se non ricco, almeno al sicuro dal bisogno, e morì a Siviglia, il 22 febbraio 1512, nella convinzione che, al pari di Colombo, egli avesse toccato le spiaggie dell'Asia. Amerigo Vespucci è segnatamente celebre perchè il Nuovo Mondo, invece di chiamarsi Colombia, come sarebbe stato giusto, ha ricevuto il suo nome. Non è per altro a lui che

bisogna darne colpa. Lungamente e molto a torto, egli fu accusato d'impudenza, di soperchieria e di menzogna, pretendendo ch'egli avesse voluto oscurare la gloria di Colombo ed attribuirsi I'onore d'una scoperta che non gli apparteneva. La cosa non è vera. Vespucci era amato, stimato da Colombo e da'suoi contemporanei, e non è ne' suoi scritti nulla che avvalori questa imputazione calunniosa. Esistono sette documenti stampati attribuiti a Vespucci: essi sono le relazioni compendiate dei suoi quattro viaggi, due altri racconti del terzo e del quarto viaggio sotto forma di lettere rivolte a Lorenzo de Pier Francesco de Medici, infine una lettera diretta al medesimo personaggio e relativa alle scoperte dei Portoghesi nelle Indie. Questi documenti, stampati sotto forma di piccole tavolette o di libretti, furono a breve andare tradotti in molte lingue e si sparsero in tutta Europa. Fu nel 1507 che un certo Hylacolymus, il cui vero nome sarebbe Martino Waldtzemuller, in un libro stampato a SaintDié e intitolato Cosmographiœ introductio, propose pel primo di dare alla nuova parte del mondo il nome d'America. Nel 1509 si pubblica a Strasburgo un trattatello di geografia che segue la raccomandazione d'Hylacolymus; nel 1520 viene stampata a Basilea un'edizione di Pomponius Mela, che contiene una carta del Nuovo Mondo col nome d'America. Il numero delle opere che, da quel tempo, usarono la denominazione proposta da Waldtzemuller, divenne sempre più grande. Alcuni anni più tardi, meglio informato sul vero scopritore e sul valore dei viaggi di Vespucci, Waldtzemuller faceva sparire dalla sua opera tutto ciò che si riferiva a quest'ultimo, e sostituiva da per tutto al nome di Vespucci quello di Colombo. Troppo tardi! L'errore era consacrato. «Quanto a Vespucci, è assai poco probabile ch'egli abbia avuto notizia delle dicerie che si spandevano in Europa e di ciò che avveniva a Saint-Dié.

Le testimonianze unanimi per lodare la sua onorabilità, devono lavarlo da un'accusa immeritata, che ha pesato troppo lungamente sulla sua memoria. Quasi nel medesimo tempo di Hojeda, tre altre spedizioni partivano dalla Spagna. La prima, composta d'una sola nave, uscì dalla Barra Saltes nel mese di giugno 1499. Il suo comandante era Pier Alonzo Niño, che aveva servito sotto l'ammiraglio ne'suoi due ultimi viaggi. Egli aveva preso con sé un mercante di Siviglia, Christoval Guerra, che aveva senza dubbio fatto le spese dell'impresa. Questo viaggio alla costa di Paria sembra aver avuto per iscopo un commercio lucroso assai più che l'interesse scientifico. Non fu fatta alcuna nuova scoperta, ma i due viaggiatori portarono in Ispagna, nel mese d'aprile 1500, una quantità di perle abbastanza grande da eccitare la cupidigia dei loro compatrioti ed il desiderio di tentare simiglianti avventure. La seconda spedizione era comandata da Vincenzo Yañez Pinzon, fratello cadetto d'Alonzo, il comandante della Pinta, che si mostrò così geloso di Colombo e che aveva adottato questa bugiarda impresa: A Castilla y a Leon Nuevo Mundo dia Pinzon. Yañez Pinzon, la cui devozione per l'ammiraglio fu grande quanto la gelosia di suo fratello, gli aveva anticipato l'ottavo delle spese dell'impresa, ed aveva comandato la Nina nella spedizione del 1492. Egli partì nel dicembre 1499 con quattro navi, due soltanto delle quali rientrarono a Palos alla fine di settembre 1500. Egli toccò il continente un po' al disotto dei paraggi visitati alcuni mesi prima da Hojeda, esplorò la costa per una lunghezza di 700 ad 800 leghe, scoprì il capo Sant'Agostino ad 8° 20' di latitudine australe, seguì la costa al nord-ovest fino al Rio Grande che chiamò Santa Maria de la Mar dulce, e nella

medesima direzione giunse fino al capo San Vincenzo. Infine, dal gennaio al giugno 1500, Diego de Lepe, con due navi, esplorò i medesimi paraggi. Noi non abbiamo a registrare per questo viaggio se non l'osservazione importantissima fatta sulla direzione delle coste del continente

a partire dal capo Sant'Agostino. Lepe era appena tornato in Ispagna, e già due navi lasciavano Cadice. Esse erano state armate da Rodrigo de Bastidas, uomo onorevole e ricco, per andare alla scoperta di nuove terre, ma soprattutto allo scopo di raccogliere dell'oro e

delle perle, che venivano barattate allora con vetri ed altri oggetti senza valore. Juan de La Cosa, la cui abilità era proverbiale e che, per averli esplorati, conosceva tutti quei paraggi, era veramente il capo della spedizione. I naviganti toccarono la terraferma, videro il rio Sinu, il golfo d'Uraba, e giunsero al Puerto del

Retrete o de los escribanos, nell'istmo di Panama. Questo porto, che non fu riconosciuto da Colombo se non il 20 novembre 1502, è situato a diciassette miglia dalla città che fu già celebre, ma che oggi è distrutta, di Nombre de Dios.

Insomma, questa spedizione, allestita da un negoziante, divenne, in grazia di Juan de La Cosa, uno dei viaggi più fertili di scoperte. Disgraziatamente, doveva finir male. Le navi si perdettero nel golfo di Xaragua, il che obbligò Bastidas e La Cosa a tornare per terra a San Domingo. Colà, Bovadilla, quell'uomo integro, quel governatore modello di cui abbiamo narrato l'infame condotta verso Colombo, fece arrestare i due esploratori sotto pretesto ch'essi avevano comperato dell'oro dagli Indiani di Xaragua, e li mandò in Ispagna, dove non giunsero se non dopo una orribile tempesta, nella quale perì una parte della flotta. Dopo questa spedizione feconda di risultati, i viaggi di scoperta diventano un po' meno frequenti per molti anni, che furono consacrati dagli Spagnuoli ad assicurare la loro dominazione nelle regioni in cui avevano fondato degli stabilimenti. Nel 1493, la colonizzazione dell'Española era incominciata, e si costruiva la città d'Isabella. Cristoforo Colombo aveva egli stesso, due anni più tardi, percorso il paese, assoggettato i poveri selvaggi coll'aiuto di quei cani terribili avvezzati alla caccia degli Indiani, e li aveva costretti, essi avvezzi a non far nulla, al lavoro eccessivo delle miniere. Bovadilla e di poi Ovando, trattando gli Indiani come un gregge, li avevano spartiti fra i coloni. Le crudeltà verso quella razza disgraziata diventavano tutti i giorni più spaventose. In un ignobile tranello, Ovando s'impadronì della regina di Xaragua e di trecento de' principali personaggi del paese. Ad un dato segnale, questi furono passati a fil di spada senza che si avesse nulla a rimproverar loro. «Per molti anni, dice Robertson, l'oro che si portava alle zecche reali di Spagna ammontava a 460,000 pesos circa (2,400,000 lire tornesi), che deve parere una somma enorme, se si bada al grande aumento di valore acquistato dal denaro dal principio del secolo XVI.»

Nel 1511, Diego Velasquez fece con trecento uomini la conquista di Cuba, e colà si rinnovarono le scene di strage e di saccheggio che hanno reso così tristamente famoso il nome spagnuolo. Si mozzavano i pugni agli Indiani, si strappavano loro gli occhi, si versava dell'olio bollente o del piombo liquefatto nelle loro ferite, quando non venivano abbruciati a fuoco lento per istrappar loro il segreto dei tesori di cui erano creduti possessori. Così la popolazione scemava rapidamente, e non era lontano il giorno in cui doveva essere spenta del tutto. Bisogna leggere in Las Casas, infaticabile difensore di quella razza così odiosamente perseguitata, il commovente ed orribile racconto delle torture che essa ebbe a soffrire in ogni dove. A Cuba, il cacicco Hattuey, fatto prigioniero, fu condannato a perire per mezzo del fuoco. Egli era legato al palo, un francescano s'ingegnava di convertirlo promettendogli ch'egli godrebbe subito tutte le delizie del paradiso se volesse abbracciare la fede cristiana. «Vi sono degli Spagnuoli, disse Hattuey, in quel luogo di delizie di cui mi parlate? — Sì, rispose il monaco, ma quelli soltanto che furono giusti e buoni. — Il migliore di essi, rispose il cacicco indignato, non può avere né giustizia, né bontà! Non voglio andare in un luogo in cui io possa incontrare un solo uomo di questa razza maledetta.» Questo solo fatto non basta forse a dipingere il grado d'esasperazione a cui erano giunte quelle disgraziate popolazioni? E questi orrori si riproducevano da per tutto dove gli Spagnuoli mettevano il piede! Ma gettiamo un velo su quelle atrocità commesse da uomini che si credevano inciviliti e pretendevano di convertire al cristianesimo, che è religione di perdono e di carità, popoli meno selvaggi di quanto lo fossero essi medesimi. Durante gli anni 1504 e 1505, quattro navi esplorarono il golfo d'Uraba. È il primo viaggio nel quale Juan de La Cosa

ebbe il comando sapremo. Convien mettere in questo medesimo tempo il terzo viaggio di Hojeda alla terra di Coquibacoa; viaggio certo, secondo l'espressione di Humboldt, ma molto oscuro. Nel 1507, Juan Diaz de Solis, d'accordo con V. Yañez Pinzon, scoprì un'ampia provincia, conosciuta di poi sotto il nome di Yucatan. Sebbene questa spedizione non sia stata segnalata da alcun avvenimento memorando, dice Robertson, essa merita che se ne faccia menzione, giacché condusse a scoperte importantissime. E per la medesima ragione ricorderemo il viaggio di Diego di Ocampo, il quale incaricato di fare il giro di Cuba, riconobbe pel primo con certezza che quel paese, considerato un tempo da Colombo come una parte del continente, non era se non una grande isola. Due anni più tardi, Juan Diaz de Solis e V. Pinzon, piegando al sud verso la linea equinoziale, si avanzarono fino al 40° di latitudine meridionale, ed accertarono con meraviglia che il continente si stendeva alla loro dritta sopra un'immensa lunghezza. Essi sbarcarono molte volte, presero solennemente possesso del paese, ma non vi fondarono alcuno stabilimento, a causa della pochezza dei loro mezzi. Il risultato più chiaro del viaggio fu un apprezzamento più esatto dell'estensione di quella parte del globo. Il primo ch'ebbe l'idea di fondar una colonia sul continente è quell'Alonzo de Hojeda, di cui abbiamo narrato più su le corse avventurose. Senza ricchezze, ma noto pel coraggio e per lo spirito intraprendente, egli trovò facilmente dei soci, che gli fornirono i fondi necessari all'impresa. Nello stesso tempo Diego de Nicuessa, ricco colono dell'Española, allestiva una spedizione col medesimo scopo (1509). Il re Ferdinando, sempre prodigo d'incoraggiamenti che gli costassero poco, accordò ad entrambi molte patenti e titoli onorifici, ma non diede loro nemmeno un quattrino. Egli eresse

sul continente due governi, uno dei quali si stendeva dal capo di la Vela fino al golfo di Darien, e l'altro da questo golfo fino al capo Graciaa a Dios. Il primo fu dato ad Hojeda, il secondo a Nicuessa. I due «conquistadores» ebbero questa volta a lottare contro popolazioni meno bonarie di quelle delle Antille. Determinate ad opporsi all'invasione del loro paese, esse disponevano di mezzi di resistenza nuovi per gli Spagnuoli. Perciò la lotta fu accanita. In un solo combattimento settanta dei compagni di Hojeda perirono sotto le freccie dei selvaggi, armi terribili, intrise nel «curare,» veleno così violento, che la minima ferita era seguita dalla morte. Nicuessa, dal canto suo, aveva molto da fare per difendersi, tanto che, non ostante due grandi rinforzi ricevuti da Cuba, la maggior parte di quelli che si erano impegnati in queste spedizioni perirono entro l'annata a causa delle ferite, delle fatiche, delle malattie o delle privazioni. I superstiti fondarono la piccola colonia di Santa Maria el Antigua, nel Darien, sotto il comando di Balboa. Ma prima di narrare la meravigliosa spedizione di quest'ultimo, dobbiamo registrare la scoperta d'una regione, che forma l'estremità settentrionale di quell'arco profondamente incavato nel continente che porta il nome di golfo del Messico. Nel 1502, Juan Ponce de Leon, che apparteneva ad una delle più vecchie famiglie di Spagna, era giunto con Ovando nell'Española. Egli aveva contribuito alla sottomissione di quest'isola e conquistato nel 1508 l'isola San Juan de Porto Rico. Avendo inteso dire da alcuni Indiani che esisteva, nell'isola di Bimini, una fontana miracolosa, le cui acque ringiovanivano coloro che le bevevano, Ponce de Leon risolvette di cercarla. Bisogna credere ch'egli sentisse il bisogno d'esperimentare quell'acqua, sebbene non avesse allora che una cinquantina d'anni. Ponce de Leon equipaggiò dunque a sue spese tre navi, e parti dal porto San Germano di Porto Rico il 1° marzo 1512.

Egli si diresse verso le Lucaje che visitò coscienziosamente al pari dell'arcipelago delle Bahama. Se non incontrò la fontana di Gioventù ch'egli cercava così ingenuamente, trovò almeno una terra che gli sembrò fertile ed alla quale diede il nome di Florida, sia perchè vi sbarcò il giorno della Pasqua dei Fiori, sia a causa del suo aspetto incantevole. Tale scoperta avrebbe soddisfatto un cercatore meno convinto; ma Ponce de Leon andò di isola in isola, assaggiando l'acqua di tutte le sorgenti che incontrava, senza avvedersi per altro che i suoi capelli bianchi ridiventassero neri né che le sue rughe scomparissero. Stanco finalmente di questa parte di sciocco, dopo sei mesi di corse vane, abbandonò la partita, lasciando Perez de Ortubia ed il pilota Antonio de Alaminos a continuare le ricerche, e tornò a Porto Rico il 5 ottobre. «Egli vi trovò molte beffe, dice il Padre Charlevoix, perchè lo si vedeva tornare molto sofferente e più vecchio di quando era partito.» Si potrebbe mettere questa spedizione, ridicola ne'motivi, ma fertile ne'risultati, nel numero dei viaggi immaginari se non fosse garantita da storici seri come Pietro Martire, Oviedo, Herrera, e Garcilasso della Vega. Vasco Nuez de Balboa, più giovane di Ponce de Leon di quindici anni, era venuto in America con Bastidas e si era stabilito nell'Española. Ma là, come molti suoi compatrioti, non ostante il repartimiento d'Indiani che gli era toccato, si era indebitato tanto, che non desiderava nulla di meglio che sottrarsi alle importunità de' numerosi creditori. Disgraziatamente, un regolamento proibiva a qualsiasi nave in partenza per la Terra Ferma di ricevere a bordo i debitori insolvibili. In grazia del suo spirito ingegnoso, Balboa seppe vincere la difficoltà e si fece rotolare in una botte vuota fino alla nave che portava Encisco al Darien. Checché ne fosse, il capo della spedizione dovette accettare il concorso così singolarmente imposto di quel bravo avventuriero, il quale non

fuggiva se non dinanzi ai creditori, come provò appena sbarcato. Gli Spagnuoli, avvezzi a trovar così poca resistenza nelle Antille, non riuscirono ad assoggettare le popolazioni feroci della Terra Ferma. A causa delle loro discordie intestine, essi dovettero rifugiarsi a Santa Maria el Antigua che Balboa, eletto comandante al posto di Encisco, fondò nel Darien. S'egli aveva potuto farsi temere dagli Indiani col coraggio personale e colla ferocia del suo levriero Leoncino, più temuto di venti uomini armati e che riceveva regolarmente la paga d'un soldato, Balboa aveva del pari saputo imporre una certa simpatia colla sua giustizia e colla sua moderazione relativa, giacché egli non ammetteva le crudeltà inutili. Per molti anni, Balboa raccolse preziose notizie su quell'El Dorado, quel paese dell'oro a cui non doveva giungere egli medesimo, ma di cui doveva render facile l'accesso ai successori. È così ch'egli apprese l'esistenza a sei soli (sei giornate di viaggio) d'un altro mare, l'oceano Pacifico, che bagnava il Perù, paese in cui si trovava dell'oro in gran quantità. Balboa, il cui carattere era di tempra forte al pari di quelli di Cortes e di Pizarro, ma che non ebbe il tempo, come essi, di far prova delle qualità straordinarie che la natura gli aveva date, non s'ingannò sul valore di quest'informazione, e comprese tutta la gloria che una simile scoperta darebbe al suo nome. Egli riunì centonovanta volontari, tutti soldati intrepidi, avvezzi al pari di lui ai rischi della guerra ed agli effluvi malsani d'una regione acquitrinosa, in cui le febbri, la dissenteria e le malattie di fegato sono allo stato endemico. Se l'istmo di Darien non ha più di sessanta miglia di larghezza, esso è tagliato da una catena di alte montagne ai piedi delle quali terreni d'alluvione, estremamente fertili, alimentano una vegetazione lussureggiante, di cui gli Europei non possono farsi un'idea. È un viluppo inestricabile di liane, di felci, d'alberi giganteschi, che nascondono del tutto il sole, vera

foresta vergine tagliata qua e là da pozze d'acqua acquitrinosa ed abitata da una moltitudine d'uccelli, d'insetti e d'animali, di cui nessuno turba la pace. Un calore umido distrugge le forze ed abbatte in poco tempo l'energia dell'uomo più robusto. A questi ostacoli che la natura sembrava aver seminato sulla via che Balboa doveva percorrere, stavano per aggiungersi quelli, non meno formidabili, che i feroci abitanti di quel paese inospitale dovevano opporgli. Senza badare ai rischi che poteva far correre alla sua spedizione la fedeltà problematica delle guide e degli ausiliari indigeni, Balboa parti scortato da un migliaio d'Indiani portatori e da una frotta di quei terribili levrieri che avevano preso gusto alla carne umana nell'Española. Delle tribù ch'egli incontrò sulla sua via, le une fuggirono nelle montagne colle loro provviste, le altre, mettendo a profitto gli accidenti del terreno, cercarono di lottare. Camminando in mezzo ai suoi, soffrendo delle loro privazioni, non risparmiandosi mai, Balboa seppe rialzare il loro coraggio che più d'una volta stava per venir meno, ed ispirar loro un tale entusiasmo, che dopo venticinque giorni di marcia e di combattimenti, egli potè finalmente scoprire dall'alto d'una montagna quell'immenso Oceano di cui, quattro giorni dopo, colla spada in una mano, la bandiera di Castiglia nell'altra, prese possesso in nome del re di Spagna. La parte del Pacifico a cui egli era giunto è situata all'est di Panama e porta ancor oggi il nome di San Miguel che Balboa le aveva dato. Le notizie ottenute dai cacicchi delle vicinanze ch'egli sottopose colle armi, e presso i quali fece gran bottino, concordavano in tutto con quelle che aveva raccolte alla sua partenza. Esisteva proprio, nel sud, un ampio impero, «così ricco di oro che i più vili strumenti erano fatti di questo metallo,» dove degli animali domestici, i lama, la cui testa, disegnata dagli indigeni, ricordava quella del cammello, erano stati

addomesticati e portavano pesanti fardelli. Questi particolari interessanti e la gran quantità di perle che gli furono offerte confermarono Balboa nell'idea d'aver toccato le regioni asiatiche descritte da Marco Polo, e di non essere lontano da quell'impero di Cipango, di cui il viaggiatore veneziano aveva descritto le meravigliose ricchezze, che scintillavano di continuo innanzi agli occhi degli avidi avventurieri. Balboa traversò più volte l'istmo di Darien, e sempre in nuove direzioni. Perciò A. de Humboldt ha potuto dire con ragione che quel paese era meglio noto al principio del secolo XVI, che al suo tempo. Anzi, Balboa aveva lanciato sull'Oceano da lui scoperto delle navi costrutte per suo ordine, e preparava un formidabile armamento, col quale contava di conquistare il Perù, quando fa odiosamente e giuridicamente messo a morte per ordine del governatore del Darien, Pedrarias Davila, geloso della riputazione ch'egli aveva già conquistata e della gloria che doveva senza dubbio ricompensare la sua audacia nella spedizione da lui disegnata. La conquista del Perù fa dunque ritardata di venticinque anni, in grazia dell'invidia colpevole d'un uomo, il cui nome è diventato, a causa dell'assassinio di Balboa, quasi tristamente celebre quanto quello d'Erostrato. Se, grazie a Balboa, si erano raccolti i primi documenti un po' precisi sul Perù, un altro esploratore doveva fornirne di non meno importanti circa quell'ampio impero del Messico, che aveva imposto il suo dominio a quasi tutta l'America centrale. Juan de Grijalva aveva ricevuto, nel 1518, il comando d'una flottiglia di quattro navi armate da Diego Velasquez, il conquistatore di Cuba, per raccogliere notizie sullo Yucatan, visto l'anno precedente da Hernandez de Cordova. Grijalva, accompagnato dal pilota Alaminos, che aveva fatto con Ponce de Leon il viaggio della Florida, aveva sotto i suoi ordini dugentoquaranta volontari, di cui faceva parte Bernal Dias del

Castillo, l'ingenuo autore d'una storia così interessante della conquista del Messico, alla quale noi ci riferiremo più d'una volta. Dopo tredici giorni di navigazione, Grijalva rilevava sulla costa d'Yucatan l'isola di Cozumel, doppiava il capo Cotoche, e

si addentrava nella baia di Campeccio. Egli sbarcava il 10 maggio a Potonchan i cui abitanti, non ostante lo stupore che cagionavano loro le navi, che essi pigliavano per mostri marini, e quegli uomini dalla faccia pallida che lanciavano la folgore, difesero così vigorosamente la città, che cinquantasette

Spagnuoli furono uccisi ed un gran numero feriti. Una così brutta accoglienza non incoraggiava Grijalva a fare un lungo soggiorno presso quella nazione bellicosa. Egli riprese dunque il mare, dopo quattro giorni di fermata, continuò a seguire nell'ovest la costa del Messico, entrò il 17 maggio in un Qume

chiamato Tabasco dagli indigeni, e vi si vide poco stante circondato da una flottiglia d'una cinquantina di piroghe, cariche di guerrieri pronti tutti a dar battaglia. In grazia della prudenza di Grijalva e delle dimostrazioni amichevoli ch'egli non risparmiò, la pace non fu turbata.

«Noi facemmo dir loro, scrive Bernal Dias, che eravamo sudditi d'un grande imperatore chiamato don Carlos, che essi pure dovevano pigliarlo per padrone e che se ne troverebbero bene. Ci risposero che avevano già un sovrano e che non comprendevano come, appena arrivati, ne offrissimo loro un altro prima di conoscerli.» Bisogna confessare che questa risposta non sapeva troppo di selvaggio. In cambio di alcuni balocchi europei senza valore, gli Spagnuoli ricevettero del pane di yucca, della gomma copale, dei pezzi d'oro tagliati in forma di pesci o d'uccelli, come pure delle vestimenta di cotone fabbricate nel paese. Siccome gli indigeni imbarcati al capo Cotoche, non intendevano bene la lingua degli abitanti di Tabasco, la fermata in quel luogo fu abbreviata e si riprese il mare. Si passò innanzi al rio Guatzacoalco, furono viste le sierre nevose di San Martin e si gettò l'àncora alla foce d'un fiume, che fu chiamato Rio de las Banderas, a causa delle numerose bandiere bianche che, in segno di pace, gli indigeni spiegarono alla vista degli stranieri. Quando sbarcò, Grijalva fu ricevuto cogli onori che si rendevano agli dèi. Fu incensato col copale, e furono deposte a' suoi piedi più di mille e cinquecento piastre di piccoli gioielli d'oro, perle verdi ed accette di rame. Dopo d'aver preso possesso del paese, gli Spagnuoli andarono ad un'isola che fu chiamata isola de los Sacrificios, perchè vi si trovò, sopra una specie d'altare posto in cima d'una lunga scalinata, cinque Indiani sacrificati dalla vigilia, col petto aperto, il cuore strappato, le braccia e le coscie recise. Poi, si arrestarono innanzi ad un'altra piccola isola, che ricevette il nome di San Juan, dal nome del santo che si festeggiava in quel giorno, al quale si aggiunse la parola Culua, che si udiva ripetere dagli Indiani di quei paraggi. Ora, Culua era l'antico nome del Messico, e quell'isola di San Juan de Culua è oggi San Giovanni d'Ulloa.

Dopo aver caricato sopra una nave, che mandò a Cuba, tutto l'oro raccolto, Grijalva continuò a seguire la costa, scopri le Sierra di Tusta e di Tuspa, raccolse molte ed utili notizie su quella regione popolosa, e giunse al Rio Panuco, dove fu assalito da una flottiglia di barche contro le quali stentò molto a difendersi. La spedizione volgeva al termine, le navi erano in pessimo stato ed i viveri consumati; i volontari, feriti od infermi, erano ad ogni modo troppo poco numerosi per essere lasciati, anche a riparo nelle fortificazioni, in mezzo a quelle popolazioni bellicose. I capi medesimi non erano più d'accordo. In sostanza, raddobbata la più grande delle navi nel rio Tonala, dove Bernal Dias si vanta d'aver seminato i primi aranci che crebbero al Messico, gli Spagnuoli ripigliarono la via di Santiago di Cuba, dove giunsero il 15 novembre, dopo una crociera di sette mesi, e non di quarantacinque giorni, come dice il signor Ferdinando Denis nella Biografia Didot, e come è ripetuto nei Viaggiatori antichi e moderni del signor Ed. Charton. Grandi erano i risultati ottenuti in questo viaggio. Per la prima volta, l'immensa linea di coste che forma la penisola di Tucatan, la baia di Campeccio ed il fondo del golfo del Messico, era stata esplorata senza interruzione, di capo in capo. Non solamente si sapeva oramai che il Yucatan non era un'isola, come si era creduto, ma erano state raccolte numerose e precise informazioni sull'esistenza del ricco e potente impero del Messico. Si era stati soprattutto colpiti dai segni d'una civiltà più inoltrata di quella delle Antille, dalla superiorità dell'architettura, dall'abile coltura del suolo, dalla delicatezza del tessuto delle vestimenta di cotone e dalla finitezza degli ornamenti d'oro che portavano gli indigeni, tutte cose che dovevano esaltare negli Spagnuoli di Cuba la sete delle ricchezze, ed indurli a slanciarsi, moderni Argonauti, alla conquista di quel nuovo Vello d'oro.

Ma di questa pericolosa ed intelligente navigazione, che gettava una luce così nuova sulla civiltà indiana, Grijalva non doveva raccogliere i frutti. Il sic vos, non vobis del poeta doveva ancor una volta, trovare la sua applicazione.

II. Fernando Cortes — Suo carattere — Sua nomina — Preparativi della spedizione e tentativi di Velasquez per arrestarla — Sbarco a Vera Cruz — Del Messico e dell'imperatore Montezuma — La repubblica di Tiascala — Marcia su Messico — L'imperatore prigioniero — Disfatta di Narvaez — La Noche triste — Battaglia d'Otumba — Secondo assedio e presa di Messico — Spedizione di Honduras— Viaggio in Ispagna — Spedizione nell'oceano Pacifico— Secondo viaggio di Cortes in Ispagna — Sua morte.

Velasquez non aveva aspettato il ritorno di Grijalva per mandare in Ispagna i ricchi prodotti delle regioni da lui scoperte, e sollecitare dal consiglio delle Indie, come pure dal vescovo di Burgos, una maggiore autorità, che gli permettesse di tentarne la conquista. Nel medesimo tempo, egli preparava un nuovo armamento proporzionato ai pericoli ed all'importanza dell'impresa meditata. Ma, se gli era relativamente facile radunare il materiale ed il personale necessari, Velasquez che un vecchio scrittore ci rappresenta come poco generoso, credulo ed incline al sospetto, stentò assai più a trovare un capo. Quest'ultimo, infatti, doveva avere delle qualità quasi sempre incompatibili: un gran talento ed un coraggio intrepido, senza i quali non era a sperar fortuna, e nel medesimo tempo tanta docilità e sottomissione da non far nulla senz'ordine e da lasciare a lui, che non correva alcun pericolo, la gloria dell'impresa e della riuscita. Gli uni, coraggiosi ed intraprendenti, non volevano essere ridotti a far la parte di strumenti; gli altri, più docili o più dissimulati, mancavano delle doti richieste per la riuscita d'un'impresa così vasta; costoro, ed erano quelli che avevano fatto campagna con Grijalva, volevano che si desse al loro capo il comando supremo; quelli preferivano Agustin Bermudez o Bernardino Velasquez. Durante tutte queste trattative, due favoriti del governatore, Andres de Duero, suo segretario, e Amador de Lares, controllore a Cuba, fecero alleanza con un hidalgo

chiamato Hernando Cortes, a patto di spartire ciò che gli toccherebbe. «Essi si espressero, dice Bernal Dias, in termini così buoni e melati, facendo grandi elogi di Cortes, assicurando che era proprio l'uomo a cui conveniva quell'impiego, che sarebbe un capo intrepido e certamente fedelissimo a Velasquez, di cui era figlioccio, che io lasciarono convinto, e Cortes fu nominato capitano generale. E siccome Andres de Duero era il segretario del governatore, egli si affrettò a mettere in carta con buon inchiostro, i poteri, secondo il genio di Cortes, e glieli portò debitamente sottoscritti.» Non era certamente l'uomo che Velasquez avrebbe scelto, se avesse potuto leggere nell'avvenire. Cortes era nato nel 1485, a Medellin nell'Estremadura, di famiglia antica ma poco fortunata. Dopo d'aver studiato qualche tempo a Salamanca, egli tornò nella sua città natale, il cui soggiorno tranquillo non poteva convenire lungamente al suo fervido carattere ed al suo umore capriccioso. Egli partì presto per l'America, facendo assegnamento sulla protezione del suo parente Ovando, governatore dell'Española. Al suo arrivo, Cortes occupò infatti molti uffici onorevoli e lucrosi, senza contare che frattanto egli pigliava parte alle spedizioni dirette contro gli indigeni. Disgraziatamente, si iniziava così alla tattica indiana, e si famigliarizzava con quegli atti di crudeltà, che hanno troppo sovente imbrattato il nome castigliano. Nel 1511, accompagnò Diego de Velasquez nella sua spedizione di Cuba e vi si segnalò tanto che, non ostante certi dissensi col suo capo, dissensi assolutamente accertati dagli autori moderni, egli ricevette in ricompensa de' suoi servigi una larga concessione di terre e d'Indiani. In pochi anni, grazie alla sua esistenza industriosa, Cortes aveva messo insieme tremila castellanos, somma grande per il suo stato. Benché non avesse mai, per lo innanzi, avuto il

comando supremo, la sua operosità infaticabile, che era succeduta alla foga disordinata della giovinezza, la sua prudenza ben nota, una grande rapidità di deliberazione, infine il talento, che gli si riconosceva in alto grado, di saper guadagnarsi i cuori colla cordialità dell'indole erano doti rare, e furono fatte valere presso Velasquez dai suoi due protettori. Aggiungete a ciò ch'egli aveva un bell'aspetto, un'abilità prodigiosa in tutti gli esercizi del corpo ed una forza di resistenza rara, anche fra quegli avventurieri avvezzi a soffrir tutto. Ricevuta la sua commissione coi segni della riconoscenza più rispettosa, Cortes inalberò alla porta di casa sua uno stendardo di velluto nero ricamato d'oro, portante una croce rossa in mezzo a fiamme bianche ed azzurre, ed al disotto questa leggenda in latino: «Amici, seguiamo la croce, e se abbiamo la fede, vinceremo con questo segno.» Egli concentrò in avvenire tutti gli espedienti del suo spirito ingegnoso sui mezzi propri a far riuscire l'impresa. Spinto da un entusiasmo che non avrebbero mai immaginato in lui quelli medesimi che lo conoscevano meglio, non solo consacrò tutto il denaro che possedeva all'armamento della flotta, ma impegnò anche i suoi poderi e prese a prestito dagli amici grosse somme, che gli servirono all'acquisto di navi, di viveri, di munizioni da guerra e di cavalli. In pochi giorni, trecento volontari si arruolarono, attirati dalla rinomanza del generale, allettati dai rischi e dai profitti probabili dell'impresa. Ma Velasquez, sempre sospettoso ed indotto senza dubbio da qualche maligno, per poco non arrestò la spedizione al suo principio. Avvertito dai suoi protettori che il governatore voleva togliergli il comando supremo, Cortes prese subito la sua risoluzione. Benché gli equipaggi fossero incompiuti e l'armamento insufficiente, radunò i suoi uomini e levò l'àncora durante la notte. Velasquez, così ingannato, dissimulò la

propria collera, ma fece di tutto per arrestare colui che aveva scrollato ogni dipendenza con tanta disinvoltura. A Macaca, Cortes compì il suo approvigionamento e vide schierarsi sotto la sua bandiera un gran numero dei compagni di Grijalva: Fedro de Alvarado ed i suoi fratelli, Cristoval de Olid, Alonzo de Avila, Hernandez de Puerto Carrero, Gonzalo de Sandoval e Bernal Dias del Castillo, che doveva scrivere, di questi avvenimenti quorum pars magna fuit, una cronaca preziosa. Poi egli si diresse verso la Trinità, porto situato sulla costa meridionale di Cuba, dove fece nuove provviste. Frattanto, il governatore Verdugo riceveva lettere di Velasquez, che gli ingiungevano d'arrestare Cortes, a cui era stato tolto il comando della flotta. Ma sarebbe stato un atto pericoloso per la sicurezza della città, e Verdugo se ne astenne. Allo scopo di raccogliere nuovi aderenti, Cortes si recò all'Avana, mentre il suo luogotenente Alvarado si recava per terra al porto, dove furono fatti gli ultimi preparativi. Non ostante la mala riuscita del primo tentativo, Velasquez spedì ancora l'ordine di arrestare Cortes; ma il governatore Pedro Barba comprese facilmente l'impossibilità d'eseguirlo in mezzo a soldati che, secondo l'espressione di Bernal Dias, avrebbero dato volontieri la vita per Cortes. Finalmente, dopo d'aver chiamato i volontari ed imbarcato tutto ciò che gli parve necessario, Cortes spiegò le vele, il 18 febbraio 1519, con undici navi, la più forte delle quali stazzava 100 tonnellate, 110 marinai, 553 soldati, fra i quali 13 archibugeri, 200 Indiani dell'isola ed alcune donne per i lavori domestici. Ciò che formava la forza della spedizione, erano i suoi dieci cannoni, i suoi quattro falconetti forniti d'abbondanti munizioni, e sedici cavalli raccolti con grandi spese. Con questi mezzi quasi miserabili, che pure aveva stentato tanto a raccogliere, Cortes stava per incominciare la lotta con un sovrano, i cui domini erano più estesi di tutti quelli della

corona di Spagna, — impresa le cui difficoltà lo avrebbero senza dubbio fatto indietreggiare, se ne avesse potuto intravvedere soltanto la metà. Ma è un pezzo che un poeta l'ha detto: la fortuna sorride a quelli che osano. Dopo una violenta tempesta, la spedizione toccò l'isola di Cozumel, i cui abitanti, sia per paura degli Spagnuoli, sia per convinzione dell'impotenza dei loro dèi, abbracciarono il cristianesimo. Nel momento in cui la flotta lasciava l'isola, si ebbe la fortuna di raccogliere uno Spagnuolo chiamato Jeronimo de Aguilar, da otto anni prigioniero degli Indiani. Quest'uomo, che aveva imparato perfettamente la lingua maya, e che era prudente quanto abile, rese presto grandi servigi come interprete. Cortes, doppiato il capo Cotoche, scese nella baia di Campeccio, passò Potonchan e risalì il rio Tabasco, colla speranza di esservi ricevuto bene, come lo era già stato Grijalva, e di raccogliervi gran quantità d'oro. Ma le disposizioni degli indigeni erano assolutamente mutate, e si dovette usare la violenza. Non ostante il numero ed il coraggio, gli Indiani furono battuti in molti scontri, in virtù del terrore che ispiravano loro le detonazioni delle armi da fuoco e l'aspetto degli uomini a cavallo che pigliavano per esseri soprannaturali. Gli Indiani perdettero molti uomini in questi combattimenti, e gli Spagnuoli ebbero due uccisi, quattordici uomini e parecchi cavalli feriti; furono medicati questi ultimi col grasso d'Indiano preso sui morti. Infine la pace fu conchiusa, e Cortes ricevette dei viveri, degli abiti di cotone, un po' d'oro e venti donne schiave, fra le quali vi era quella Marina, celebrata da tutti gli storici della conquista, che doveva rendere agli Spagnuoli tanti servigi in qualità d'interprete. Cortes continuò la sua corsa all'ovest, cercando un luogo acconcio allo sbarco, ma non lo trovò che a San Giovanni d'Ulloa. Appena la flotta aveva gettato l'àncora, un canotto si

avvicinò senza timore alla nave ammiraglia. In grazia di Marina, che era di origine azteca, Cortes apprese che i popoli di quel paese erano sudditi d'un grande impero, di cui la loro provincia era una conquista recente. Il loro monarca, chiamato Moctheuzoma, meglio conosciuto sotto il nome di Montezuma, abitava Tenochtitlan o Messico a settanta leghe circa nell'interno. Cortes comunicò agli Indiani le sue intenzioni pacifiche, offri loro alcuni doni, e sbarcò sulla spiaggia torrida e malsana di Vera Cruz. Subito affluirono le provviste, ma il domani dello sbarco, Te utile, governatore della provincia, mandato da Montezuma, si trovò abbastanza in impiccio per rispondere a Cortes, che gli chiedeva di condurlo senza ritardo innanzi al suo padrone. Egli conosceva tutte le inquietudini ed i timori che assediavano lo spirito dell'imperatore dopo l'arrivo degli Spagnuoli. Tuttavia, fece deporre ai piedi del generale delle stoffe di cotone, dei mantelli di penne e degli oggetti d'oro, la cui ricchezza non fece che eccitare la cupidigia degli Europei. Allora, per dare a quei poveri Indiani un'idea della sua potenza, Cortes fece manovrare i suoi soldati e sparare alcuni cannoni, le cui scariche li agghiacciarono di terrore. Per tutto il tempo che era durato il colloquio, dei pittori avevano riprodotto sopra stoffe di cotone bianco le navi, i soldati e tutto ciò che aveva colpito la loro vista. Questi disegni, eseguiti con molta abilità, dovevano essere mandati a Montezuma. Prima di cominciare il racconto delle lotte eroiche che stavano per seguire, ci sembra opportuno il dare alcuni particolari su quell'impero del Messico, che, per quanto potente apparisse, conteneva tuttavia in sé stesso numerosi fermenti di decadenza e di dissoluzione. Fu ciò che permise a quel drappello d'avventurieri di farne la conquista. La parte dell'America sottoposta a Montezuma portava il nome d'Anahuac, e si stendeva fra il 14° ed il 20° di latitudine nord. Verso il mezzo di questa regione, che presentava dei

climi variatissimi a causa delle differenze d'altezza, un po' più vicino al Pacifico che all'Atlantico, si svolge, sopra una circonferenza di sessantasette leghe ed a 7500 piedi al disopra del mare, un ampio bacino, il cui fondo conteneva allora molti laghi, e che è conosciuto sotto il nome di valle di Messico, dal

nome della capitale dell'Impero. Come si può credere, noi possediamo pochissimi particolari autentici sopra un popolo, i cui annali scritti sono stati bruciati da «conquistadores» ignoranti e da monaci fanatici, che soppressero con accanimento tutto ciò che poteva

ricordare le tradizioni religiose e politiche d'una razza conquistata. Venuti dal nord al settimo secolo, i Toltechi erano sbucati sull'altipiano dell'Auahuac. Erano una razza intelligente, dedita all'agricoltura ed alle arti meccaniche, che sapeva lavorare i metalli, e che costrusse la maggior parte degli edifici sontuosi e

giganteschi, di cui si trovano da per tutto le rovine nella Nuova Spagna. Dopo quattro secoli di dominio, i Toltechi scomparvero dal paese collo stesso mistero con qui vi erano penetrati. Essi

furono sostituiti un secolo più tardi da una tribù selvaggia venuta dal nord-ovest e poco stante seguita da altre popolazioni più inoltrate che sembrano aver parlato la lingua tolteca. Le più celebri di queste tribù sono gli Aztechi e gli Alcolhue o Tezcucan, che si assimilarono con facilità la tinta d'incivilimento rimasta nel paese cogli ultimi Toltechi. Quanto agli Aztechi, dopo una serie di migrazioni e di guerre, si stabilirono nel 1320 nella valle di Messico, dove fabbricarono la loro capitale Tenochtitlan. Per un secolo, in grazia d'un trattato d'alleanza offensiva e difensiva fra gli Stati di Messico, di Tezcuco e di Tlacopan rigorosamente osservato, la civiltà azteca, dapprima contenuta nei limiti della vallata, straripò ed in breve non ebbe altri confini che il Pacifico e l'Atlantico. In poco tempo, quei popoli erano arrivati ad un grado di civiltà superiore a quello di tutte le tribù del Nuovo Mondo. Il diritto di proprietà era riconosciuto al Messico, il commercio vi era fiorente, e tre specie di monete assicuravano il meccanismo dello scambio. La polizia era fatta bene, ed un sistema di posti, funzionante a perfezione, permetteva di trasmettere rapidamente gli ordini del sovrano da un capo all'altro dell'impero. Il numero e la bellezza delle città, la grandezza dei palazzi, dei templi e delle fortezze, dinotavano un incivilimento avanzato, che fa un bizzarro contrasto coi costumi feroci degli Aztechi. Nulla di più barbaro e di più sanguinario della loro religione politeista. I sacerdoti formavano una corporazione numerosissima ed avevano grande influenza, anche nei negozi assolutamente politici. Accanto a riti simili a quelli dei cristiani, come a dire il battesimo e la confessione, la loro religione era un tessuto delle più assurde e delle più sanguinarie superstizioni. È così che i sacrifici umani, adottati al principio del secolo XIV e dapprima piuttosto rari, erano in breve diventati tanto frequenti, che si valuta a ventimila, annata media, il numero delle vittime immolate, e per lo più fornite

dalle nazioni vinte. In certe occasioni, questo numero fu ancora molto più elevato. Gli è così che nel 1486, all'inaugurazione del tempio d'Huitzilopchit, settantamila prigionieri perirono in un sol giorno. Il governo del Messico era monarchico; ma la potenza degli imperatori, dapprima ristretta, era cresciuta colle conquiste ed era diventata dispotica. Il sovrano veniva sempre scelto nella medesima famiglia, ed il suo avvenimento al trono era segnalato da numerosi sacrifici umani. L'imperatore Montezuma apparteneva alla casta sacerdotale, ed il suo potere ne aveva ricevuto singolari accrescimenti. In seguito a numerose guerre, egli aveva allargate le frontiere e soggiogato delle nazioni che accolsero con premura gli Spagnuoli, il cui dominio sembrava loro dover essere meno greve e meno crudele di quello degli Aztechi. È assolutamente certo che, se Montezuma fosse piombato colle forze grandi di cui disponeva sugli Spagnuoli, allorché questi occupavano la spiaggia calda e malsana di Vera Cruz, essi non avrebbero potuto, non ostante la superiorità delle armi e della disciplina, resistere a tale urto. Sarebbero tutti periti, o sarebbero stati costretti ad imbarcarsi di nuovo. I destini del Nuovo Mondo sarebbero stati assolutamente mutati. Ma l'energia, che era la dote principale del carattere di Cortes, mancava assolutamente a Montezuma, che non seppe mai pigliare risolutamente un partito. Frattanto, nuovi inviati dell'imperatore si erano recati al campo spagnuolo, portando a Cortes l'ordine di lasciare il paese, ed in seguito al suo rifiuto, ogni rapporto degli indigeni cogli invasori era cessato immediatamente. La situazione si faceva difficile, Cortes lo comprese. Dopo aver vinte alcune esitazioni che si erano manifestate fra i suoi soldati, egli fece gettare le fondamenta della Vera Cruz, fortezza che doveva servirgli di base d'operazione e di sostegno caso mai dovesse

imbarcarsi di nuovo. Egli ordinò poi una specie di governo civile, di giunta, come si direbbe oggidì, alla quale affidò la sua commissione rivocata da Velasquez, e si fece dare, in nome del re, nuove provviste coi poteri più estesi. Poi, ricevette gli inviati della città di Zempoalla, che venivano a sollecitare la sua alleanza e la sua protezione contro Montezuma, di cui sopportavano il giogo impazientemente. Era davvero una gran fortuna il trovare simili alleati fin dai primi giorni dallo sbarco. Per ciò, Cortes, non volendo lasciar sfuggire quest'occasione, accolse favorevolmente i Totonachi, si recò nella loro capitale, e dopo d'aver fatto costrurre una fortezza a Quiabislan sulle rive del mare, li indusse a rifiutare il pagamento delle imposte. Egli approfittò del suo soggiorno a Zempoalla per esortare quei popoli a convertirsi al cristianesimo, e rovesciò i loro idoli, come aveva fatto a Cozumel, per provar loro tutta l'impotenza dei loro dèi. Frattanto, si ordiva un complotto nel suo campo, e persuaso che fin tanto che rimanesse un mezzo di tornare a Cuba, egli avrebbe a lottare contro la stanchezza ed il malcontento de' soldati, Cortes fece gettare alla costa tutte le navi sotto il pretesto che erano in troppo cattivo stato per servire più a lungo. Era un atto d'audacia veramente inaudita, che costringeva i suoi compagni a vincere od a morire. Non avendo allora più nulla a temere dall'indisciplina de' soldati, Cortes parti il 16 agosto da Zempoalla con cinquecento soldati, quindici cavalli e sei cannoni da campagna, senza contare dugento Indiani portatori, destinati a tutti i lavori servili. Egli giunse in breve alle frontiere della piccola repubblica di Tlascala, i cui popoli feroci, nemici d'ogni servitù, erano da un pezzo in lotta con Montezuma. Cortes si lusingava che la sua intenzione, tante volte proclamata, di liberare gli Indiani dal giogo messicano, getterebbe i Tlascalani nelle sue braccia e

li farebbe i suoi alleati. Egli chiese dunque loro il permesso di passare sul loro territorio per giungere a Messico. Ma i suoi ambasciatori furono trattenuti, e quando egli si avanzò nell'interno del paese, dovette, per quattordici giorni consecutivi, sostenere gli assalti continui di giorno e di notte di parecchi eserciti di trentamila Tlascalani, che dimostrarono un coraggio ed un'ostinazione di cui gli Spagnuoli non avevano ancora avuto esempio nel Nuovo Mondo. Ma le armi di quei coraggiosi erano troppo primitive. Che mai potevano essi con freccie e lancie armate di pietre o d'ossa di pesci, con piuoli induriti al fuoco, spade di legno, e soprattutto una tattica insufficiente? Allorché essi si avvidero che in tutti quei combattimenti, che avevano costato la vita ad un sì gran numero dei loro più bravi guerrieri, non un solo Spagnuolo era rimasto ucciso, diedero a quegli stranieri una natura superiore, pur non sapendo qual opinione farsi di uomini, che rimandavano colle mani recise le spie sorprese nel loro campo, e che, dopo ogni vittoria, non solo non divoravano i prigionieri come avrebbero fatto gli Aztechi, ma li lasciavano andare carichi di doni e domandavano la pace. I Tlascalani si riconobbero dunque vassalli della Spagna, e giurarono di assecondare Cortes in tutte le sue spedizioni; dal canto suo, egli doveva proteggerli contro i loro nemici. Era tempo del resto che si facesse la pace; molti Spagnuoli erano feriti ed infermi, tutti erano estenuati dalle fatiche. Il loro ingresso trionfale a Tlascala, dove furono accolti come esseri soprannaturali, non tardò a far dimenticar loro ogni sofferenza. Dopo venti giorni di riposo in questa città, Cortes ripigliò le mosse verso Messico con un esercito ausiliario di seimila Tlascalani. Egli si diresse dapprima verso Cholula, considerata dagli Indiani come una città santa, santuario e residenza preferita dei loro dèi. Montezuma era contentissimo di attirarvi gli Spagnuoli, sia ch'egli facesse assegnamento sulla vendetta

degli dèi medesimi contro la violazione dei loro templi, sia ch'egli credesse un'insurrezione ed una strage più facili in quella città popolosa e fanatica. Ma Cortes era stato avvertito dai Tlascalani di diffidare delle proteste d'amicizia e di devozione dei Cholulani. Checché ne fosse, egli si accomodò nell'interno della città, giacché voleva il suo prestigio che sembrasse non temer di nulla. Avvertito dai Tlascalani che le donne ed i fanciulli erano stati allontanati, e da Marina che un grande esercito era concentrato alle porte della città, che fosse e trabocchetti erano stati scavati nelle vie, mentre le terrazze si coprivano di sassi e di dardi, Cortes prevenne i nemici, fece prendere i principali personaggi della città ed ordinò la strage d'una popolazione sorpresa e priva de' suoi capi. Pei due giorni interi, i disgraziati Cholulani furono in preda a tutti i Tlascalani, loro mali che poterono inventare la rabbia degli Spagnuoli e la vendetta dei alleati. Seimila abitanti sgozzati, i templi bruciati, la città semidistrutta, era questo un esempio che doveva atterrire Montezuma ed i suoi sudditi. Perciò per ogni dove, sulle venti leghe che lo separavano dalla capitale, Cortes fu ricevuto come un liberatore. Non vi era un cacicco che non avesse a lamentarsi del dispotismo imperiale, il che confermava Cortes nella speranza di poter facilmente trionfare d'un impero così diviso. Man mano che essi scendevano dalle montagne di Chalco, la vallata di Messico, il suo lago immenso circondato di gran città, quella capitale costrutta su palafitte, quei campi così ben coltivati, tutto si svolgeva innanzi agli occhi meravigliati degli Spagnuoli. Senza darsi pensiero delle perpetue tergiversazioni di Montezuma, il quale non seppe fino all'ultimo momento se dovesse accogliere gli Spagnuoli quali amici o quali nemici, Cortes si cacciò nella via che conduce a Messico attraversando

il lago. Già egli non era più che ad un miglio dalla città, quando degli Indiani, che ai loro costumi magnifici apparivano alti personaggi, vennero a salutarlo e ad annunciargli la venuta dell'imperatore. Montezuma apparve poco dopo, portato sulle spalle de' suoi favoriti in una specie di palanchino ornato d'oro e di penne, mentre un magnifico padiglione lo proteggeva contro gli ardori del sole. Man mano ch'egli si avanzava, gli Indiani si prosternavano innanzi a lui e si nascondevano la testa, come se fossero stati indegni di contemplarlo. Questo primo colloquio fu cordiale, e Montezuma condusse egli medesimo i suoi ospiti nel quartiere che aveva loro preparato. Era un ampio palazzo, circondato da una muraglia di pietra e difeso da alte torri. Cortes prese subito le sue disposizioni di difesa e fece appuntare i cannoni sulle vie che vi conducevano. Al secondo colloquio, doni magnifici furono offerti al generale ed ai suoi soldati. Montezuma narrò che, secondo un'antica tradizione, gli antenati degli Aztechi sarebbero venuti nel paese guidati da un uomo bianco e barbuto come gli Spagnuoli. Dopo d'aver fondata la loro potenza, egli si era imbarcato sull'Oceano, promettendo che i suoi discendenti verrebbero un giorno a visitarli ed a riformare le loro leggi. S'egli li riceveva, non come stranieri, ma come padri, gli è perchè era persuaso di vedere in essi i discendenti del loro antico capo, e li pregava di considerarsi come padroni dei suoi Stati. I giorni seguenti furono impiegati nel visitare la città, che parve agli Spagnuoli più grande, più popolosa, più bella d'ogni altra fra quante ne avevano visto fino allora in America. Ciò che formava la sua singolarità, erano le dighe che la mettevano in comunicazione colla terra ferma, dighe tagliate qua e là così da permettere libero passaggio alle barche che solcavano il

lago. Su queste aperture erano gettati dei ponti che potevano venir distrutti con facilità. Dalla parte dell'ovest non vi erano dighe, e non si poteva comunicare colla terra ferma se non per mezzo di barche. Questa disposizione di Messico inquietava Cortes, che poteva vedersi ad un tratto bloccato nella città senza che gli fosse possibile uscirne. Egli risolvette dunque, per prevenire qualunque tentativo sedizioso, di assicurarsi dell'imperatore come ostaggio. Le notizie ricevute gli fornivano del resto un eccellente pretesto: Qualpopoca, generale messicano, aveva assalito le Provincie sottoposte agli Spagnuoli, ferito a morte Escalante e sette de' suoi soldati; finalmente, la testa d'un prigioniero decapitato, che veniva portata di città in città, provava che gli invasori potevano essere vinti e non erano nulla più che semplici mortali. Cortes approfittò di questi avvenimenti per accusare l'imperatore di perfidia. Egli pretese che, se lo accoglieva bene, al pari de' suoi soldati, era per cogliere l'occasione favorevole di far loro subire lo stesso trattamento che ad Escalante, procedere indegno d'un sovrano e differentissimo dalla fiducia colla quale Cortes era venuto a trovarlo. Se, del resto, i sospetti che tutti gli Spagnuoli avevano concepiti non erano fondati, l'imperatore aveva un mezzo semplicissimo di giustificarsi facendo punire Qualpopoca. In fine, per impedire il rinnovarsi di aggressioni che non potevano a meno di nuocere alla buona armonia, e per provare ai Messicani ch'egli non nutriva contro gli Spagnuoli alcun cattivo disegno, Montezuma non aveva altro partito a pigliare, fuor quello di venir a stare in mezzo ad essi. L'imperatore non vi si indusse facilmente, e si comprende, ma gli bisognò cedere alla violenza ed alle minaccie. Annunziando ai suoi sudditi la nuova risoluzione, egli dovette assicurar loro più volte che si metteva liberamente e di sua piena volontà nelle mani degli Spagnuoli e calmarli con queste

parole, giacché essi minacciavano di farsi addosso agli stranieri. Questo colpo audace riuscì a Cortes oltre le sue speranze. Qualpopoca, il figlio suo e cinque dei principali artefici della rivolta furono presi dai Messicani, affidati ad un tribunale spagnuolo, ad un tempo giudice e parte, che li condannò e li fece abbruciar vivi. Non contento d'aver punito degli uomini che non avevano fatto se non eseguire gli ordini del loro imperatore e si erano opposti colle armi all'invasione del loro paese, Cortes impose una nuova umiliazione a Montezuma, mettendogli i ferri ai piedi, sotto pretesto che i colpevoli lo avevano accusato all'ultimo momento. Per sei mesi il «conquistador» esercitò in nome dell'imperatore, ridotto alla parte di re fannullone, l'autorità suprema, mutando i governatori che gli spiacevano, facendo esigere le imposte, presiedendo a tutti i particolari dell'amministrazione, mandando, in diverse provincie dell'impero, degli Spagnuoli incaricati di riconoscere i loro prodotti e di esaminare con una cura affatto speciale i distretti delle miniere ed i procedimenti usati per raccoglier l'oro. In fine, Cortes sfruttava la curiosità che Montezuma mostrava di veder delle navi europee per far venire da Vera Cruz degli attrezzi, e per costrurre dei brigantini destinati ad assicurare le sue comunicazioni per il lago colla terra ferma. Fatto ardito da tante prove di sottomissione e d'umiltà, Cortes andò più oltre e pretese da Montezuma che si riconoscesse vassallo e tributario della Spagna. Quest'atto di fede e di omaggio fu accompagnato, s'indovina facilmente, da ricchi e numerosi regali, come pure da una forte contribuzione che fu esatta senza molte difficoltà. Se ne approfittò per raccogliere tutto ciò che era stato estorto in oro ed argento agli Indiani, e fonderlo, tranne alcuni pezzi che furono conservati a causa della bellezza del lavoro. Il tutto non ammontò a più di

600,000 pesos, ossia 2,500,000 lire. Così dunque, sebbene gli Spagnuoli avessero messo in opera tutta la loro potenza, benché Montezuma avesse esaurito i suoi tesori per saziarli, il prodotto netto non ammontava che ad una somma derisoria,

assai poco corrispondente alle idee che i conquistatori si erano fatte delle ricchezze del paese. Quando fu messo da parte il quinto del re, il quinto per Cortes, e il tanto da rimborsare le somme anticipate per le spese dell'armamento, la parte d'ogni soldato non fu di cento

pesos. Aver provato tante fatiche, corso tanti pericoli e sofferto tante privazioni per cento pesos, tanto avrebbe valuto rimanere all'Española! Se a questo meschino risultato mettevano capo le magnifiche promesse di Cortes, se la divisione era stata fatta con giustizia, cosa di cui non si aveva certezza, era derisorio il

rimanere più a lungo in un paese così miserabile, mentre, sotto un capo meno prodigo di promesse, ma più generoso, si potevano pigliare delle regioni ricche d'oro e di pietre preziose, dove dei bravi guerrieri avrebbero trovato giusta ricompensa alle loro fatiche. Così mormoravano quegli avidi avventurieri;

gli uni accettarono brontolando ciò che toccava loro, gli altri lo rifiutarono sdegnosamente. Se Cortes era riuscito a convincere Montezuma in tutto ciò che riguardava la politica, non fu la stessa cosa per ciò che riguardava la religione. Non mai egli potè indurlo a convertirsi, e quando volle rovesciare gli idoli come aveva fatto a Zempoalla, sollevò una sedizione, che non avrebbe mancato di diventare molto grave, se il conquistatore non avesse subito abbandonato i suoi disegni. Quindi innanzi, i Messicani, che avevano sofferto quasi senza resistenza la prigionia e la sottomissione del loro monarca, risolvettero di vendicare i loro dèi insultati e prepararono una rivolta generale contro gli invasori. È nel momento in cui le cose sembravano prendere una piega meno favorevole all'interno, che Cortes ricevette, da Vera Cruz, la notizia che molte navi incrociavano innanzi al porto. Da principio, egli credette che quella flotta di soccorso fosse mandata da Carlo V in risposta alla lettera che gli aveva diretta il 16 luglio 1619 per Puerto Carrerro e Montejo. Egli fu subito disingannato, ed apprese che quell'armamento, allestito da Diego Velasquez, il quale aveva saputo con quanta facilità il suo luogotenente si era sciolto da tutti i lacci di dipendenza verso di lui, aveva per intento di spossessarlo, di farlo prigioniero e di mandarlo a Cuba, dove il suo processo sarebbe fatto alla lesta. Questa flotta, il cui comando era stato affidato a Pamfilo de Narvaez, non contava meno di diciotto navi, portanti ottanta cavalieri, cento fanti, di cui ottanta moschettieri, centoventi balestrieri e dodici cannoni. Narvaez sbarcò senza opposizione presso il forte San Juan d'Ulloa. Ma avendo intimato a Sandoval, governatore di Vera Cruz, di consegnargli la città, costui s'impadronì di quelli che si erano incaricati di questa insolente commissione, e li mandò a

Messico. Cortes li rimise subito in libertà ed ebbe da loro informazioni minuziose sui disegni e le forze di Narvaez. Il pericolo ch'egli correva era grande; le truppe armate da Velasquez erano più numerose, e fornite d'armi e di munizioni meglio delle sue; in oltre, ciò che lo inquietava, non era la prospettiva d'essere condannato, messo a morte, era il timore di perdere il frutto di tutti i suoi sforzi e del danno che quei dissensi dovevano portare alla sua patria. La situazione era critica: dopo d'aver riflettuto a lungo e pesato il pro ed il contro del partito che stava per prendere, Cortes si determinò a combattere, malgrado ogni svantaggio, meglio che sacrificare le proprie conquiste e gli interessi della Spagna. Prima di venire a questo estremo, Cortes mandò a Narvaez il suo cappellano Olmedo, che fu accolto assai male, e che vide respingere sdegnosamente ogni proposta d'accomodamento. Olmedo ebbe maggior fortuna coi soldati, che per lo più lo conoscevano ed ai quali distribuì molte catene, anelli d'oro e gioielli, atti a dar loro un'alta opinione delle ricchezze del conquistatore. Ma Narvaez, che ne fu informato, non volle lasciare più a lungo le sue truppe esposte alla seduzione; pose a taglia la testa di Cortes e de' suoi principali uffiziali e mosse incontro a lui. Quest'ultimo era troppo abile per dar battaglia in condizioni sfavorevoli. Egli temporeggiò, stancò Narvaez e le sue truppe, che rientrarono a Zempoalla, e prese così bene le sue misure che, compensando colla sorpresa ed il terrore d'un assalto notturno l'inferiorità delle forze, fece prigioniero il suo avversario e tutte le sue truppe, e non perdette dal canto suo che due soldati. Il vincitore trattò bene i vinti, lasciando loro la scelta di ritirarsi a Cuba o di spartire la sua fortuna. Quest'ultima prospettiva, avvalorata da doni e da promesse, parve tanto seducente ai nuovi sbarcati, che Cortes si vide a capo di mille soldati il domani medesimo del giorno in cui era sul punto di

cadere nelle mani di Narvaez. Questo brusco cambiamento di fortuna fu aiutato di molto dall'abilità diplomatica di Cortes, che si affrettò a ripigliare la via di Messico. Le truppe ch'egli vi aveva lasciato sotto il comando d'Alvarado, alla custodia de' suoi tesori e dell'imperatore prigioniero, erano ridotte agli ultimi estremi dagli indigeni, che avevano ucciso o ferito gran numero di soldati e che tenevano il rimanente strettamente bloccato, sotto la minaccia continua d'un assalto generale. Bisogna confessare, del resto, che la condotta imprudente e colpevole degli Spagnuoli, e segnatamente la strage, fatta durante una festa, dei cittadini più segnalati dell'impero, avevano prodotto il temuto sollevamento che avevano voluto prevenire. Dopo d'essere stato raggiunto da duemila Tlascalani, Cortes accorse a marcie forzate verso la capitale, dove giunse fortunatamente, senza che gl'Indiani avessero rotto i ponti delle dighe che congiungevano Messico alla terra ferma. Non ostante l'arrivo di questo rinforzo, la situazione non migliorò gran fatto. Ogni giorno bisognava dare nuovi combattimenti e far delle sortite per isgombrare i viali dei palazzi occupati dagli Spagnuoli. Cortes comprese allora l'errore commesso venendo a chiudersi in una città in cui poteva essere forzato ad ogni istante, e donde gli era tuttavia così difficile l'uscire. Ricorse allora a Montezuma, che poteva, colla sua autorità e col prestigio di cui era ancora circondato, quetare la ribellione, dare, in ogni caso, un po' di tregua agli Spagnuoli, e preparare la loro ritirata. Ma quando il disgraziato imperatore, divenuto il balocco di Cortes, comparve sulle muraglie, rivestito de' suoi ornamenti regali, ed eccitò i suoi sudditi a cessare le ostilità, sorsero dei mormorii di malcontento, furono proferite delle minaccie; le ostilità ricominciarono, e prima che i soldati avessero avuto il tempo di proteggerlo coi loro scudi,

l'imperatore fu trapassato di freccie e colpito alla testa da un sasso che lo rovesciò. A questa vista, gli Indiani, spaventati del crimine che avevano commesso, cessarono subito il combattimento e fuggirono in tutte le direzioni. Quanto all'imperatore, comprendendo, ma troppo tardi, tutta l'abbiezione della parte che Cortes gli aveva fatto fare, strappò le fasciature che erano state fatte alle sue ferite, rifiutò il cibo e spirò maledicendo gli Spagnuoli. Dopo un avvenimento così funesto, non si doveva più pensare a venire a patti coi Messicani, e bisognava ad ogni costo ed al più presto ritirarsi da una città in cui si sarebbe stati bloccati ed affamati. Cortes lo comprese e vi si preparò in segreto. Le sue truppe erano strette ogni giorno più davvicino; egli medesimo dovette molte volte metter mano alla spada e combattere come un semplice soldato. Solis narra anzi, non si sa con quanta autorità, che, in un assalto dato ad uno degli edifizi che dominavano il quartiere degli Spagnuoli, due giovani Messicani, riconoscendo Cortes che animava i soldati colla voce, risolvettero di sacrificarsi per far perire l'autore delle calamità della loro patria. Essi gli si avvicinarono in atto supplichevole, come se volessero domandargli quartiere, ed afferrandolo a mezzo il corpo, lo trascinarono verso i merli, dai quali si precipitarono, sperando di trascinarlo seco. Ma in grazia della sua forza e della sua agilità eccezionali, Cortes potè sottrarsi alla loro stretta, e quei bravi Messicani perirono nel tentativo generoso ed inutile per la salvezza del loro paese. Una volta decisa la ritirata, si trattava di sapere se si dovesse farla dì giorno o di notte. Di giorno, si potrebbe meglio resistere al nemico, si vedrebbero meglio le imboscate preparate, si potrebbero prendere più facilmente delle precauzioni per riattare i ponti rotti dai Messicani. D'altra parte, si sapeva che gl'Indiani assalivano raramente dopo il tramonto

del sole; ma ciò che indusse Cortes a scegliere una ritirata notturna, fu un soldato, che s'intendeva d'astronomia, e che aveva promesso a' compagni un successo sicuro se la ritirata si faceva di notte. Si presero dunque le mosse a mezzanotte. Oltre alle truppe spagnuole, Cortes aveva sotto i suoi ordini i drappelli di Tlascala, di Zempoalla e di Cholula, che ammontavano ancora, malgrado le gravi perdite, a settemila uomini. Sandoval comandava l'avanguardia; Cortes era al centro coi bagagli, i cannoni, i prigionieri, fra i quali vi erano un figlio e due figlie di Montezuma; Alvarado e Velasquez de Leon conducevano la retroguardia. Si aveva avuto cura di costrurre un ponte volante che doveva essere gettato sulle parti rotte della diga. Gli Spagnuoli erano sbucati appena sulla diga che conduceva a Tacuba e ch'era la più breve, quando furono assaliti di fronte, di fianco ed alle spalle da fitte schiere di nemici, mentre un'innumerevole flottiglia di barche faceva piovere sopra di essi una grandine di sassi e di freccie. Sbalorditi, acciecati, gli alleati non sanno a chi rispondere. Il ponte di legno si sfonda sotto il peso dell'artiglieria e dei combattenti. Ammucchiati sopra una stretta diga, non potendo servirsi delle armi da fuoco, privi della loro cavalleria che manca di spazio, misti agli Indiani che li afferrano corpo a corpo, non avendo più la forza di uccidere, circondati da ogni parte, gli Spagnuoli ed i loro alleati cedono sotto il numero sempre rinnovantesi degli assalitori. Capi e soldati, fanti e cavalieri, Spagnuoli e Tlascalani sono confusi; ciascuno si difende personalmente, senza badare alla disciplina ed alla salvezza comune. Tutto sembra perduto, quando Cortes, con un centinaio d'uomini, riesce a valicare il taglio della diga sul mucchio di cadaveri che l'hanno colmato. Egli schiera i suoi soldati man mano che arrivano e, alla testa dei meno gravemente feriti, si caccia nella mischia e riesce a liberare una parte de' suoi. Prima

del giorno, tutto ciò che aveva potuto sfuggire alla strage della noche triste, come fu designata quella spaventevole notte, si trovava raccolto a Tacuba. Fu cogli occhi pieni di lagrime che Cortes passò in rivista i suoi ultimi soldati, coperti di ferite, e si rese conto delle grandi perdite provate; quattromila Indiani, Tlascalani e Cholulani e quasi tutti i cavalli, erano uccisi; tutta l'artiglieria, come pure le munizioni e la maggior parte dei bagagli, erano perduti; molti ufficiali segnalati, Velasquez de Leon, Salcedo, Moria, Lares e molti altri erano fra i morti; uno dei più pericolosamente feriti era Alvarado, e non vi era uomo, ufficiale o soldato, che non fosse ferito. Non si rimase un pezzo a Tacuba, e si camminò a casaccio nella direzione di Tlascala, dove non si sapeva del resto quale accoglienza si riceverebbe. Sempre tormentati dai Messicani, gli Spagnuoli dovettero dare ancora una gran battaglia nei campi d'Otumba ad una moltitudine di guerrieri che certi storici fanno ascendere a dugentomila. In grazia di alcuni cavalieri che gli rimanevano, Cortes potè rovesciare tutto quanto si metteva innanzi a lui, e giungere fino ad un drappello d'alti personaggi facilmente riconoscibili dai loro pennacchi dorati e dalle loro vestimenta di lusso, fra cui stava il generale portante lo stendardo. Con pochi cavalieri Cortes si fece addosso al drappello, e fu tanto fortunato o tanto abile da rovesciare con un colpo di lancia il generale messicano che un soldato chiamato Juan de Salamanca finì con un colpo di spada. Dal momento in cui lo stendardo fu abbattuto, la battaglia fu vinta, ed i Messicani, presi dal terror panico, abbandonarono in fretta il campo di battaglia. «Non mai gli Spagnuoli avevano corso un maggior pericolo, e senza la stella di Cortes, dice Prescott, non uno avrebbe sopravvissuto per trasmettere alla posterità il racconto della sanguinosa battaglia d'Otumba.» Il bottino fu grande, e potè compensare in parte gli Spagnuoli delle perdite che avevano subito alla loro uscita da Messico, giacché

quell'esercito era composto dei principali guerrieri della nazione, che, persuasi della infallibile riuscita, si erano abbigliati coi più ricchi ornamenti. Il domani gli Spagnuoli entravano nel territorio di Tlascala. «Chiamerò ora l'attenzione dei curiosi lettori, dice Bernal Dias, su questo fatto che, quando noi tornammo a Messico in aiuto d'Alvarado, formavamo un totale di milletrecento uomini, compresi i cavalieri in numero di novantasette, ottanta balestrieri, altrettanti archibugieri e più di duemila Tlascalani con molta artiglieria. La nostra seconda entrata in Messico era seguita il giorno di San Giovanni del 1520, e la nostra fuga il 10 del mese di luglio seguente. Noi demmo la memorabile battaglia d'Otumba il 14 di quel medesimo mese di luglio. Ed ora voglio portar l'attenzione sul numero d'uomini che furono uccisi, tanto a Messico, al passaggio delle dighe e dei ponti, quanto negli altri scontri d'Otumba e sulle vie. Io affermo che, nello spazio di cinque giorni, ci furon uccisi ottocentosessanta uomini, comprendendovi settanta soldati morti nel villaggio di Rustepeque, con cinque donne di Castiglia; noi perdemmo nel medesimo tempo milledugento Tlascalani. Si deve ancora notare che, se morì un maggior numero d'uomini dell'esercito di Narvaez che di quello di Cortes, al passaggio dei ponti, fu perchè si misero in cammino carichi d'una quantità d'oro, il cui peso impedì loro di nuotare e di cavarsi dalle dighe.» Le truppe di Cortes erano ridotte a quattrocentoquaranta uomini con venti cavalli, dodici balestrieri e sette archibugieri, senza una carica di polvere, tutti feriti, zoppicanti o storpi nelle braccia, vale a dire nel medesimo numero di quando facevano il loro primo ingresso a Messico, ma con questa differenza grande, che oggi uscivano dalla capitale vinti. Entrando nel territorio di Tlascala, Cortes raccomandò a' suoi uomini, e segnatamente a quelli di Narvaez, di non

commettere alcuna vessazione a danno degli indigeni, giacché ne andava della comune salvezza, e di non irritare i soli alleati che rimanessero loro. Fortunatamente i timori concepiti circa la fedeltà dei Tlascalani furono vani. L'accoglienza che essi fecero agli Spagnuoli fu simpaticissima; essi non pensavano che a vendicare la morte dei fratelli trucidati dai Messicani. Nella loro capitale, Cortes apprese ancora la perdita di due drappelli; ma questi scacchi, per quanto gravi, non lo scoraggiarono. Egli aveva sotto i suoi ordini delle truppe agguerrite, degli alleati fedeli; Vera Cruz era intatta, egli poteva ancor una volta fare assegnamento sulla propria fortuna. Ma prima d'intraprendere una nuova campagna e d'incominciare un nuovo assedio, bisognava chiedere soccorsi e fare dei preparativi. Cortes mandò quattro navi all'Española per arruolare dei volontari e comperare dei cavalli, della polvere e delle munizioni; nel medesimo tempo fece recidere nelle montagne di Tlascala il legname necessario alla costruzione di dodici brigantini, che dovevano venir trasportati a pezzi fino al lago di Messico, dove verrebbero varati al momento opportuno. Dopo d'aver represso certi tentativi di ammutinamento, che si manifestarono segnatamente fra i soldati venuti con Narvaez, Cortes mosse di nuovo innanzi ed assalì dapprima, coll'aiuto dei Tlascalani, gli abitanti di Tepeaca e d'altre provincie vicine, il che ebbe il vantaggio di familiarizzare di nuovo i suoi soldati colla vittoria e di agguerrire gli alleati. In questo mentre due brigantini carichi di munizioni e di rinforzi, mandati da Velasquez a Narvaez, di cui ignorava le disgrazie, caddero nelle mani di Cortes; nel medesimo tempo, un certo numero di Spagnuoli, mandati da Francesco di Garay, governatore della Giamaica, si unirono a lui. In grazia di queste reclute, l'esercito di Cortes si trovò composto, quando si fu sbarazzato di molti partigiani di Narvaez di cui era malcontento, di cinquecentocinquanta fanti, fra i quali ottanta

archibugieri e quaranta cavalieri. Con queste deboli forze, sorretto da mille Tlascalani, egli riprese la via di Messico, il 28 dicembre 1520, sei mesi dopo d'essere stato costretto ad abbandonarla. Noi passeremo di volo su tutta questa campagna, non ostante l'interesse che può offrire; ma essa ebbe per teatro regioni già descritte, e non è a parlar propriamente la storia della conquista del Messico che noi vogliamo fare. Ci basterà dire che dopo la morte di Montezuma il fratel suo Quetlavaca, innalzato al trono, aveva preso, per resistere, tutte le precauzioni compatibili colla scienza strategica degli Aztechi. Ma egli morì di vaiuolo, triste regalo che gli Spagnuoli avevano fatto al Nuovo Mondo, nel momento in cui le sue belle qualità di previdenza e di coraggio stavano per essere più necessarie. Egli ebbe per successore Guatimozin, nipote di Montezuma, conosciuto per l'ingegno ed il valore. Appena entrò nel territorio messicano, Cortes ebbe a combattere. Egli s'impadronì tuttavia in breve di Tezcuco, città situata a venti miglia da Messico e bagnata dal lago centrale, sul quale gli Spagnuoli vedevano galleggiare tre mesi più tardi una flottiglia potente. Frattanto, una nuova cospirazione, che aveva per iscopo l'assassinio di Cortes e de' suoi principali ufficiali, era stata scoperta, ed il principale colpevole fu messo a morte. Del resto, in quel momento, tutto sembrava sorridere a Cortes; egli aveva appreso l'arrivo di nuovi soccorsi a Vera Cruz, e la maggior parte delle città che erano sotto il dominio di Guatimozin si sottomettevano alle sue armi. Il vero assedio cominciò nel mese di maggio 1521 e continuò con alternative di trionfi e di rovesci fino al giorno in cui i brigantini furono varati. I Messicani non ebbero timore di dar battaglia; quattro o cinquemila barche, cariche ciascuna di due uomini, coprirono il lago e vennero ad assalire le navi spagnuole, sulle quali erano imbarcati circa trecento uomini. Quei nove brigantini, armati di

cannoni, ebbero in breve dispersa o colata a fondo la flotta nemica, che lasciò il campo libero. Ma questo trionfo ed alcuni altri vantaggi riportati da Cortes, non gli davano un gran profitto, e l'assedio tirava in lungo. Perciò il generale risolvette di pigliar la città di viva forza. Disgraziatamente, l'ufficiale

incaricato di proteggere la linea di ritirata per le dighe mentre gli Spagnuoli si cacciavano nella città, trovando quel posto indegno del suo valore, lo abbandonò per correre al combattimento. Guatimozin, avvertito dell'errore ch'era stato commesso, ne trasse subito partito. Egli assalì da ogni lato gli

Spagnuoli con tale accanimento, che uccise loro molti uomini, e sessantadue soldati caddero vivi nelle sue mani. Lo stesso Cortes per poco non fu preso vivo, e venne gravemente ferito alla coscia. Durante la notte, il gran tempio del dio della guerra fu illuminato in segno di trionfo, e gli Spagnuoli udirono con

profonda tristezza suonare il gran tamburo. Dalle posizioni ch'essi occupavano, poterono assistere agli ultimi momenti dei loro disgraziati compatrioti prigionieri, ai quali fu aperto il petto per strapparne il cuore, ed i cui corpi, precipitati dalle scalinate, furono lacerati dagli Aztechi, che se ne disputavano i

bocconi per farne un orribile banchetto. Questa spaventevole disfatta fece andar per le lunghe l'assedio fino al giorno in cui, i tre quarti della città essendo presi o distrutti, Guatimozin fu obbligato da'suoi consiglieri a lasciar Messico ed a recarsi sulla terra ferma, dove si proponeva di allestire la resistenza. Ma la barca che lo portava essendo stata presa, egli fu fatto prigioniero; ma egli doveva mostrare nella prigionia una forza d'animo ed una dignità assai superiori a quelle di suo zio Montezuma. Da quel momento cessò ogni resistenza, e Cortes potè pigliar possesso della capitale mezzo distrutta. Dopo un'eroica resistenza, durante la quale centoventimila, dicono gli uni, dugentoquarantamila Messicani, secondo gli altri, erano periti, dopo un assedio che non era durato meno di settantacinque giorni, Messico, e con questa città tutto l'impero, soccombeva meno sotto i colpi che gli avevano dato gli Spagnuoli, che a causa del vecchio rancore, della rivolta dei popoli conquistati e della gelosia degli Stati vicini, i quali dovevano presto rimpiangere il giogo da cui si erano tolti di proposito. All'ebbrezza del trionfo succedettero quasi subito negli Spagnuoli il dispetto e la rabbia. Le immense ricchezze, sulle quali avevano fatto assegnamento, non esistevano od erano state buttate nel lago. Cortes, non potendo calmare i malcontenti, fu costretto a lasciar mettere alla tortura l'imperatore ed il suo primo ministro. Alcuni storici, e segnatamente Gomara, riferiscono che, mentre gli Spagnuoli attizzavano il fuoco sotto la graticola sulla quale le due vittime erano distese, quest'ultimo volse la testa verso il suo padrone e sembrò chiedergli di parlare per metter fine alle proprie torture; ma Guatimozin avrebbe represso quell'istante di debolezza con questa sola frase: «Ed io, mi trovo forse ad una festa od al bagno?» Risposta che gli storici hanno trasformata poeticamente in: «Ed io, sono forse

sulle rose?» Gli storici della conquista si sono arrestati generalmente alla presa di Messico; ma ci rimane a parlare di alcune altre spedizioni intraprese da Cortes per intenti differenti e che hanno gettato una luce affatto nuova sopra certe parti dell'America centrale; infine, non vogliamo abbandonare questo eroe, che ha avuto una parte così grande nello svolgimento della civiltà e nella storia del Nuovo Mondo, senza dare alcuni particolari sulla fine della sua vita. Colla capitale era, a parlar propriamente, caduto l'impero messicano; se vi fu ancora un po' di resistenza, segnatamente nella provincia d'Oaxaca, essa fu isolata, e bastarono pochi drappelli per assoggettare gli ultimi ribelli, spaventati dai supplizi fatti subire a quelli di Panuco, che si erano ribellati. Nel medesimo tempo, i popoli delle regioni lontane dall'impero mandavano ambasciatori per convincersi della verità di questo meraviglioso avvenimento, la presa di Messico, per contemplare le rovine della città abborrita e fare atto di sottomissione. Cortes, confermato finalmente nella sua situazione, dopo molti incidenti che sarebbe troppo lungo narrare e che gli hanno fatto dire: «Mi è stato più difficile il lottare contro i miei compatrioti che contro gli Aztechi,» non aveva altro a fare che dar ordine alla sua conquista. Egli incominciò dallo stabilire la sede della sua potenza a Messico ch'egli ricostrusse. Vi attirò gli Spagnuoli dando loro delle concessioni di terre, e gli Indiani lasciandoli dapprima sotto l'autorità dei loro capi naturali, sebbene li avesse in breve ridotti tutti, salvo i Tlascalani, allo stato di schiavi col vizioso sistema dei repartimienios in uso nelle colonie spagnuole. Ma se si ha diritto di rimproverare a Cortes d'aver fatto man bassa sui diritti politici degli Indiani, bisogna riconoscere ch'egli manifestò la più lodevole sollecitudine per il loro benessere spirituale. Perciò egli fece

venire dei francescani che, col loro zelo e la loro carità, si guadagnarono in poco tempo la venerazione degli indigeni ed ottennero in una ventina d'anni la conversione completa della popolazione. Nel medesimo tempo Cortes mandò nello Stato di Mechoacan dei drappelli, che si spingevano fino all'oceano Pacifico e visitavano al ritorno alcune delle ricche provincie situate al nord. Egli fondava stabilimenti in tutte le parti del paese che gli sembravano vantaggiose: a Zaeatula, sulle spiaggie del Pacifico; a Coliman, nel Mechoacan; a Santesteban, presso Tampìco; a Medellin, presso Vera Cruz, ecc. Subito dopo la pacificazione del paese, Cortes confidava a Christoval de Olid un grande armamento per stabilire una colonia nell'Honduras. Nel medesimo tempo Olid doveva esplorare la costa meridionale di quella provincia e cercare uno stretto, che mettesse in comunicazione l'Atlantico ed il Pacifico. Ma, preso dall'orgoglio del comando, Olid appena giunto alla sua meta, si dichiarò indipendente. Cortes mandò subito uno dei suoi parenti per arrestare il colpevole, e parti egli medesimo, accompagnato da Guatimoziu, alla testa di cento cavalieri e di cinquanta fanti, il 12 ottobre 1521. Dopo aver traversato la provincia di Goatzacoalco, Tabasco e lo Yucatan, soffrendo privazioni d'ogni genere, facendo una marcia faticosissima su terreni acquitrinosi o mobili, attraverso un oceano di foreste ondulanti, il drappello si avvicinava alla provincia di Aculan, quando fu rivelata a Cortes una cospirazione ordita, a quanto si pretendeva, da Guatimozin e dai principali capi Indiani. Essa aveva per iscopo di trucidare capi e soldati, dopo di che si continuerebbe ad avanzarsi verso l'Honduras, se ne distruggerebbero gli stabilimenti e si tornerebbe al Messico, dove, in un sollevamento generale, non si stenterebbe senza dubbio a disfarsi degli invasori.

Guatimozin ebbe un bel protestare che era innocente, e si hanno tutte le ragioni di dargli fede, fu ad ogni modo appiccato, come pure molti nobili Aztechi, ai rami d'un ceyba che ombreggiava la via. «Il supplizio di Guatimozin, dice Bernal Dias del Castillo, fu ingiustissima, e noi fummo tutti d'accordo nel biasimarla.» Ma, «se Cortes avesse solo consultato, al dire di Prescott, il suo onore e l'interesse della sua fama, avrebbe dovuto conservarlo, giacché egli era il trofeo vivente della vittoria, come si conserva l'oro nella fodera del proprio abito.» Finalmente gli Spagnuoli giunsero ad Aculan, città fiorente, dove si ristorarono in eccellenti quartieri, e fu ripresa la direzione del lago di Peten, le cui popolazioni si convertirono facilmente al cristianesimo. Non ci dilungheremo sulle sofferenze e le miserie che assalirono la spedizione in quelle regioni poco popolate fino a San Gil de Buena Vista sul golfo Dolce, dove Cortes, appreso il supplizio di Olid ed il ristabilimento dell'autorità centrale, s'imbarcò per tornare al Messico. Nel medesimo tempo egli affidava ad Alvarado il comando di trecento fanti, centosessanta cavalieri e quattro cannoni, con un corpo ausiliario d'Indiani. Alvarado si avanzò al sud di Messico alla conquista del Guatemala. Egli assoggettò le Provincie di Zacatulan, Tehuantepec, Soconusco, Utlatlan, fondò la città di Guatemala la Vieja, e fu nominato da Carlo V, in un viaggio fatto in Spagna, governatore dei paesi ch'egli aveva conquistati. Meno di tre anni dopo la conquista, un territorio di oltre quattrocento leghe di lunghezza sull'Atlantico e di cinquecento sul Pacifico, era dunque sottomesso alla corona di Castiglia e godeva, tranne qualche eccezione, una perfetta tranquillità. Tornato a Messico, dopo l'inutile spedizione di Honduras, che aveva consumato quasi tanto tempo e cagionato agli

Spagnuoli quasi tante sofferenze quanto la conquista del Messico, Cortes ricevette, pochi giorni dopo, l'avviso della sua sostituzione provvisoria e l'invito di recarsi in Ispagna per discolparsi. Egli non si affrettò ad arrendersi a questo ordine, sperando che sarebbe revocato, ma i suoi calunniatori infaticabili, i suoi nemici accaniti, tanto in Spagna quanto al Messico, lo aggravarono in tal guisa, che fu obbligato ad andare a difendersi, esporre i propri reclami e chiedere altamente l'approvazione della propria condotta. Cortes partì dunque, accompagnato dall'amico suo Sandoval, da Tapia e da molti altri capi Aztechi, fra i quali era un figlio di Montezuma. Egli sbarcò a Palos nel maggio 1528, nello stesso luogo in cui Cristoforo Colombo aveva toccato terra trentacinque anni prima, e fu accolto col medesimo entusiasmo e colle stesse allegrie dello scopritore dell'America. Egli vi incontrò Pizarro, allora al principio della sua carriera e che veniva a sollecitare l'appoggio del governo spagnuolo. Poi parti per Toledo, dove si trovava la corte. Il solo annunzio del suo ritorno aveva prodotto nell'opinione un cambiamento assoluto. I suoi pretesi disegni di ribellione e d'indipendenza erano smentiti da quell'arrivo inaspettato. Carlo V comprese senza stento che il sentimento pubblico si rivolterebbe al pensiero di punire un uomo, che aveva aggiunto alla corona di Castiglia il suo più bel fiore. Il viaggio di Cortes non fu che un trionfo continuo in mezzo ad un concorso inaudito di popolazione. «Le case e le vie delle gran città e dei villaggi, narra Prescott, erano piene di spettatori impazienti di contemplare l'eroe,il cui braccio aveva in certo qual modo conquistato da solo un impero alla Spagna, e che, per usare il linguaggio d'un vecchio storico, camminava nella pompa e nella gloria, non d'un gran vassallo, ma d'un monarca indipendente.» Dopo d'avergli accordato molte udienze e dato molti di

quei segni particolari di favore che sono, dai cortigiani, detti grandi, Carlo V si degnò d'accettare l'impero che Cortes gli aveva conquistato ed i doni magnifici che gli portava. Ma egli credette d'aver fatto tutto per ricompensarlo dandogli il titolo di marchese della Valle de Oajaca e la carica di capitano generale della Nuova Spagna, senza rendergli tuttavia il governo civile, potere che gli era stato attribuito un tempo dalla giunta di Vera Cruz. Poi Cortes, avendo sposato la nipote del duca di Bejar, una delle prime famiglie di Castiglia, accompagnò fino al porto l'imperatore che si recava in Italia; ma stanco in breve di quella vita frivola, così poco corrispondente alle abitudini operose della sua esistenza passata, riprese, nel 1530, la via del Messico, dove sbarcò a Villa Rica. Cortes ebbe dapprima a sopportare molte seccature da parte dell'Udienza, che aveva esercitato il potere durante la sua assenza e che aveva inaugurato le persecuzioni contro di lui, e si trovò in conflitto colla nuova giunta civile circa gli affari militari. Disgustato in poco tempo, il marchese della Valle si ritirò a Cuernavaca nei suoi immensi poderi, dove si occupò d'agricoltura. A lui si deve l'introduzione della canna da zuccaro, del gelso, l'incoraggiamento della coltura della canapa e del lino, e l'allevamento in grande dei montoni merinos. Ma questa vita tranquilla, esente d'avventure, non era tale da piacere un pezzo allo spirito intraprendente di Cortes. Nel 1532 e nel 1533, egli equipaggiò due squadre, che andarono a fare nel nord-ovest del Pacifico un viaggio di scoperta. L'ultima giunse all'estremità meridionale della penisola californiana senza aver ottenuto il risultato ch'egli si lusingava d'ottenere: la scoperta d'uno stretto congiungente il Pacifico all'Atlantico. Egli medesimo non ebbe maggior fortuna nel 1536 nel mare Vermiglio. Infine, tre anni più tardi, un'ultima spedizione, di cui aveva confidato il comando ad Ulloa, penetrò fino in fondo al golfo, poi, rasentando la costa esterna della penisola, risalì

fino al 29° di latitudine. Colà, il capo della spedizione rimandò a Cortes una delle sue navi, mentre egli medesimo si cacciava nel nord; ma non se ne intese più parlare. Tale fu l'esito disgraziato delle spedizioni dì Cortes, che, senza dargli un ducato, non gli costarono meno di trecentomila castellanos d'oro. Esse però ebbero il risultato di far conoscere la costa dell'oceano Pacifico dalla baia di Panama fino al Colorado. Fu fatto il giro della penisola di California, e si potè così riconoscere che questa pretesa isola formava parte del continente. Tutti i contorni del mar Vermiglio o di Cortes, come gli Spagnuoli lo chiamarono giustamente, furono accuratamente esplorati, e si riconobbe che invece d'avere l'uscita che si supponeva al nord, questo mare era solo un golfo profondamente scavato nel continente. Queste spedizioni di scoperta, Cortes non aveva potuto armarle senza entrare in conflitto col viceré don Antonio de Mendoza che l'imperatore aveva mandato al Messico, nomina offensiva pel marchese della Valle. Stanco di questi tormenti continui, indignato di vedere le sue prerogative di capitano generale, se non assolutamente dimenticate, almeno sempre discusse, Cortes partì ancora una volta per la Spagna. Ma questo viaggio non doveva rassomigliare al primo. Invecchiato, disgustato, tradito dalla fortuna, il «conquistador» non aveva più nulla ad aspettarsi dal governo. Egli non doveva tardare a comprenderlo, un giorno fendette la folla che circondava il cocchio dell'imperatore e salì sul predellino. Carlo V, fingendo di non riconoscerlo, chiese chi fosse quell'uomo. «È, rispose fieramente Cortes, colui che vi ha dato più Stati di quante città abbiano lasciate i vostri padri.» Poi il favore pubblico gli era venuto mancando, giacché il Messico non aveva dato ciò che se ne era sperato, e tutti gli spiriti erano allora rivolti verso le ricchezze meravigliose del Perù. Accolto tuttavia con onore dal Consiglio supremo delle Indie, Cortes espose i suoi lamenti;

ma i dibattimenti andarono per le lunghe, ed egli non potè ottenere alcuna soddisfazione. Nel 1541, al tempo della disastrosa spedizione di Carlo V contro Algeri, Cortes, i cui consigli non erano stati ascoltati e che serviva come volontario, perdette tre smeraldi scolpiti d'una grossezza meravigliosa; gioielli che avrebbero pagato il riscatto d'un impero. Al suo ritorno, egli riprese le sue sollecitazioni, ma ancora con poca fortuna. Egli provò un tal dolore per questa ingiustizia e per i disinganni ripetuti, che la sua salute ne fu gravemente offesa. Mori lungi dal teatro delle sue imprese, il 10 novembre 1547, a Castilleja de la Cuesta, nel momento in cui si disponeva a tornare in America. «Era un cavaliere errante, dice Prescott. Di tutto quel glorioso drappello d'avventurieri che la Spagna del secolo XVI lanciò nella via delle scoperte, non ve ne fu uno più profondamente imbevuto dello spirito delle intraprese romanzesche. La lotta gli piaceva, ed egli amava incominciare un'impresa dal lato più difficile…» Questa passione per il romanzesco avrebbe potuto ridurre il conquistatore del Messico alla parte d'un volgare avventuriero; ma Cortes fu certamente un profondo politico ed un gran capitano, se si deve dare questo nome all'uomo che ha compiuto grandi azioni per opera del suo solo genio. Non vi ha esempio nella storia d'un'intrapresa così grande condotta a termine con mezzi così ristretti. Si può dire davvero che Cortes ha conquistato il Messico colle sue sole forze. La sua influenza sullo spirito de' soldati era il risultato naturale della loro fiducia nella sua abilità, ma bisogna attribuirla pure alle sue maniere popolari, che lo rendevano eminentemente adatto a guidare una truppa d'avventurieri. Quando fu giunto ad uno stato più alto, Cortes mostrò, è vero, maggior pompa, ma i suoi veterani almeno continuarono a godere della medesima intimità presso di lui. Terminando

questo ritratto del «conquistador,» noi ci associeremo pienamente a ciò che dice l'onesto e veridico Bernal Dias: «Egli preferiva il proprio nome di Cortes a tutti i titoli che gli si potevano rivolgere, ed aveva le sue buone ragioni per questo, giacché il nome di Cortes è famoso ai nostri giorni al pari di quello di Cesare fra i Romani o d'Annibale fra i Cartaginesi.» Il vecchio cronista termina con queste parole, che dipingono lo spirito religioso del secolo XVI: «Forse egli non doveva ricevere la ricompensa se non in un mondo migliore, ed io lo credo pienamente; giacché era un onesto cavaliero, sincerissimo nelle devozioni alla Vergine, all'apostolo San Pietro ed a tutti i santi.»

III. La triplice alleanza — Francesco Pizarro ed i suoi fratelli — Don Diego d'Almagro — Primi tentativi — Il Perù, sua estensione, suoi popoli, suoi re — Presa d'Atahualpa, suo riscatto e sua morte — Pietro d'Alvarado — Almagro al Chili — Lotta tra i conquistatori — Processo ed esecuzione d'Almagro — Spedizioni di Gonzalo Pizarro e d'Orellana — Assassinio di Francesco Pizarro — Rivolta e supplizio di suo fratello Gonzalo.

Appena le notizie raccolte da Balboa sulla ricchezza dei paesi posti al sud di Panama erano state conosciute dagli Spagnuoli, molte spedizioni erano state allestite per tentarne la conquista. Ma tutte erano fallite, ossia che i capi non fossero all'altezza della loro missione, ossia che i mezzi fossero insufficienti. Bisogna riconoscere del resto che i luoghi esplorati da questi primi avventurieri, non rispondevano in nessun modo a ciò che ne aspettava l'avidità spagnuola. Infatti, tutti si erano avventurati in quella che si chiamava allora la Terra Ferma, paese eminentemente insalubre, montagnoso, acquitrinoso, coperto di foreste, i cui scarsi abitanti, molto bellicosi, avevano aggiunto per gli invasori un ostacolo a tutti quelli di cui la natura era stata tanto prodiga in quella regione, cosicché, a poco a poco, l'entusiasmo si era raffreddato, e non si parlava più se non per metterle in beffa, delle meravigliose narrazioni fatte da Balboa. Tuttavia, esisteva a Panama un uomo in grado d'essere ben informato sulla verità delle dicerie corse circa la ricchezza dei paesi bagnati dal Pacifico; era Francesco Pizarro, che aveva accompagnato Nuñez de Balboa nel mare del sud, e che si associò a due altri avventurieri, Diego de Almagro e Fernando de Luque. Diciamo dapprima alcune parole dei capi dell'impresa. Francesco Pizarro, nato presso Truxillo tra il 1471 ed il 1478, era figlio naturale d'un certo capitano Gonzalo Pizarro, il quale non gli aveva insegnato che a custodire i porci. Stanco in breve

di questa esistenza ed approfittando d'aver smarrito uno degli animali affidati alla sua custodia per non tornar più alla casa

paterna, dove era castigato con molte legnate al minimo peccatuzzo, Pizarro si fece soldato, passò alcuni anni

guerreggiando in Italia e seguì Cristoforo Colombo nel 1510 all'Española. Egli vi servì segnalandosi, come pure a Cuba, accompagnò Hojeda nel Darien, scoprì, come abbiamo detto più su, l'oceano Pacifico con Balboa, ed aiutò, dopo il supplizio

di quest'ultimo, Pedrarias Davila, di cui era diventato il favorito, a conquistare il paese conosciuto sotto il nome di Castilla d'Oro. Se Pizarro era un figlio naturale, Diego de Almagro era un

trovatello, raccolto nel 1475 ad Aidea del Rey, dicono gli uni, ad Almagro, di cui avrebbe preso il nome, secondo gli altri. Allevato in mezzo ai soldati, egli passò di buon'ora in America, dove era riuscito a mettere insieme un piccolo patrimonio. Quanto a Fernando de Luque, era un ricco ecclesiastico di Tabago, che esercitava le funzioni di maestro di scuola a Panama. Il più giovine di questi tre avventurieri aveva allora cinquant'anni, e Garcilasso de la Vega narra che quando si conobbe il loro disegno, divennero oggetto della derisione generale; ma era soprattutto di Fernando de Luque che si facevano le beffe, tanto che non lo si chiamava più che Hernando el Loco, Ferdinando il pazzo. L'associazione fu presto conchiusa tra questi tre uomini, due dei quali almeno erano senza paura, se non erano tutti e tre senza macchia. Luque fornì il denaro necessario all'armamento delle navi ed alla paga dei soldati; Almagro vi partecipò del pari, ma Pizarro, il quale non possedeva che la propria spada, dovette pagare altrimenti il suo tributo. Fu lui che prese il comando del primo tentativo che noi narreremo con alcuni particolari, perchè colà si vedono in piena luce la perseveranza e l'inflessibile ostinazione del «conquistador.» «Avendo dunque chiesto ed ottenuto permesso da Pedro Arias d'Avila, narra Agostino de Zarate, uno degli storici della conquista del Perù, Francesco Pizarro equipaggiò con gran stento una nave sulla quale s'imbarcó con centoquattordici uomini. Egli scoprì a cinquanta leghe da Panama una piccola e povera provincia chiamata Perù, il che ha fatto dare poi impropriamente il medesimo nome a tutto il paese, che fu scoperto lungo quella costa per più di mille e dugento miglia di lunghezza. Passando oltre, egli scoprì un altro paese che gli Spagnuoli chiamarono il Popolo bruciato. Gli Indiani gli uccisero tanti uomini, ch'egli fu costretto a ritirarsi

disordinatamente nel paese di Chinchama, che non è lontano dal luogo da cui egli era partito. Frattanto Almagro, rimasto a Panama, vi equipaggiava una nave, sulla quale s'imbarcò con settanta Spagnuoli e scese la costa fino al fiume San Juan, a cento leghe da Panama. Non avendo incontrato Pizarro, risalì fino al Popolo bruciato, dove, avendo riconosciuto a certi indizi ch'egli vi era stato, sbarcò i suoi uomini. Magli Indiani, gonfi della vittoria riportata su Pizarro, resistettero coraggiosamente, forzarono le trincee di cui Almagro si era coperto e lo costrinsero ad imbarcarsi di nuovo. Egli ritornò dunque indietro, seguendo sempre la costa fin tanto che giunse a Chinchama, dove trovò Francesco Pizarro. Furono fortunatissimi di rivedersi, ed avendo riunito le loro genti ad alcuni nuovi soldati che arruolarono, furono seguiti da dugento Spagnuoli, e ridiscero ancora una volta la costa. Ma soffrirono tanto per la carestia di cibo e gli assalti degli Indiani, che don Diego tornò a Panama per farvi alcune reclute e raccogliere delle provviste. Egli ricondusse ottanta uomini, coi quali e con quelli che rimanevano loro, andarono fino al paese chiamato Catamez, paese poco popolato ma dove trovarono viveri in abbondanza. Notarono che gli Indiani di quei luoghi, che li assalivano e facevano loro la guerra, avevano la faccia tutta sparsa di chiodi d'oro incassati in certi buchi che si facevano apposta per portare quegli ornamenti. Diego de Almagro tornò ancora una volta a Panama, mentre il compagno lo aspettava coi rinforzi che doveva condur seco, nella piccola isola del Gallo, dove soffrì molto a causa della carestia di tutte le cose necessarie alla vita.» Al suo arrivo a Panama, Almagro non potè ottenere da Los Rios, successore d'Avila, di fare nuove reclute, giacché egli non doveva permettere, diceva, che un maggior numero d'uomini avessero a perire inutilmente in un'intrapresa temeraria; egli mandò anzi una nave all'isola del Gallo per

ricondurre Pizarro ed i suoi compagni. Ma una tale decisione non poteva piacere ad Almagro ed a Luque. Erano spese perdute, era la distruzione delle speranze che la vista degli ornamenti d'oro e d'argento degli abitanti di Catamez aveva potuto far loro concepire. Mandarono dunque un loro fido a Pizarro raccomandandogli di perseverare nella sua risoluzione e di rifiutare d'obbedire agli ordini del governatore di Panama. Ma per quanto Pizarro facesse promesse seducenti, il ricordo delle fatiche sopportate era troppo recente, e tutti i suoi compagni, tranne dodici, lo abbandonarono. Con questi uomini intrepidi, i cui nomi sono giunti fino a noi e fra i quali vi era Garcia de Xeres, uno degli storici della spedizione, Pizarro si ritirò in un'isola meno vicina alla costa e disabitata, alla quale diede il nome di Gorgona. Colà, gli Spagnuoli vissero miseramente di mangli, di pesci e di conchiglie ed aspettarono cinque mesi i soccorsi che Almagro e de Luque dovevano mandare. Infine, vinto dalle proteste unanimi di tutta la colonia, che si sdegnava vedendo perire così miseramente e come malfattori degli uomini, il cui solo crimine era di non aver disperato della riuscita, Los Rios mandò a Pizarro una piccola nave incaricata di ricondurlo. Affinchè quest'ultimo non avesse la tentazione di servirsene per ripigliare la spedizione, si aveva avuto cura di non imbarcarvi alcun soldato. Alla vista del soccorso che giungeva loro, dimentichi di tutte le privazioni, i tredici avventurieri non pensarono ad altro che a convertire alle loro speranze i marinai che venivano a prenderli. Allora, tutti insieme, invece di ripigliare la via di Panama, fecero vela malgrado i venti e le correnti nel sud-est, Anche furono giunti, dopo d'aver scoperto l'isola di Santa Clara, al porto di Tumbez, posto di là dal 3° di latitudine sud, dove videro un tempio magnifico ed un palazzo appartenenti ai sovrani del paese, gli Incas.

La regione era popolata ed abbastanza ben coltivata; ma ciò che sedusse soprattutto gli Spagnuoli, facendo creder loro d'essere giunti al paese meraviglioso di cui si era tanto parlato, era una tale abbondanza d'oro e d'argento, che questi metalli venivano usati, non solo pell'abbigliamento degli abitanti, ma anche a far dei vasi e degli utensili comuni. Pizarro fece riconoscere l'interno del paese da Pietro de Candia e da Alonzo de Molina, che gliene fecero una descrizione entusiastica, e si fece dare alcuni vasi d'oro, come pure dei lama, quadrupedi addomesticati dai Peruviani. Infine egli prese a bordo due naturali che si proponeva di far istruire nella lingua spagnuola e di adoperare come interpreti, quando tornerebbe nel paese. Gettò l'àncora successivamente a Payta, a Saugarata e nella baia di Santa Cruz, la cui sovrana, Capillana, accolse gli stranieri con tante dimostrazioni amichevoli, che molti di loro non vollero più imbarcarsi. Dopo aver disceso la costa fino a Porto Santo, Pizarro riprese la via di Panama, dove giunse dopo tre anni interi passati in esplorazioni pericolose, che avevano rovinato del tutto Luque ed Almagro. Prima d'intraprendere la conquista del paese da lui scoperto, non potendo ottenere da Los Rios il permesso d'arruolare nuovi avventurieri, Pizarro risolvette di rivolgersi a Carlo V. Egli chiese dunque a prestito la somma necessaria al viaggio e si recò in Ispagna, nel 1528, per rendervi conto all'imperatore di quanto aveva intrapreso. Egli fece il quadro più seducente dei paesi da conquistare ed ottenne in ricompensa de' suoi lavori i titoli di governatore, capitano generale ed alguazil major del Perù, a perpetuità per lui e per i suoi eredi. Nel medesimo tempo, gli veniva conferita la nobiltà con mille scudi di pensione. La sua giurisdizione, indipendente dal governatore di Panama, doveva estendersi sopra uno spazio di dugento leghe, al sud del fiume di Santiago, lungo la costa, che piglierebbe il nome di Nuova Castiglia ed il cui governo gli

apparterebbe, concessioni che non costavano nulla alla Spagna, giacché toccava a lui il conquistar le terre. Dal canto suo, egli s'impegnava ad arruolare dugentocinquanta uomini, a provvedersi di navi, d'armi e di munizioni. Pizarro si recò poi a Truxillo, dove indusse i fratelli Fernando, Giovanni e Gonzalo a seguirlo, come pure uno de' suoi fratelli d'un altro letto chiamato Martino d'Alcantara. Approfittò del suo soggiorno nella città natale, a Caceres ed in tutta l'Estremadura, per cercare di far delle reclute, che per altro non si presentarono in folla, non ostante il titolo di Caballeros de la Espada dorada ch'egli prometteva a quanti volessero servire sotto i suoi, ordini. Poi, tornò a Panama, dove le cose non seguirono così facilmente com'egli sperava. Era ben riuscito a far nominar Luque vescovo protector do los Indios; ma, per Almagro, di cui temeva l'ambizione e di cui conosceva i talenti, aveva chiesto solo la nobiltà ed una gratificazione di cinquecento ducati col governo d'una fortezza da erigersi a Tumbez. Almagro, che aveva speso tutto quanto possedeva nei viaggi preliminari, poco soddisfatto della magra parte toccatagli, rifiutò di partecipare alla nuova spedizione, e volle allestirne una per suo conto. Ci volle tutta l'abilità di Pizarro, aiutata dalla promessa che quest'ultimo gli fece di cedergli la carica d'adelantado, per quetarlo e farlo acconsentire a rinnovare l'antica associazione. I mezzi dei tre associati erano così limitati in quel momento, che essi non poterono radunare se non tre piccole navi con cent'ottanta soldati, fra cui trentasei cavalieri, che partirono nel mese di febbraio 1531 sotto il comando di Pizarro e de' suoi quattro fratelli, mentre Almagro rimaneva a Panama per allestire una spedizione di soccorso. In capo a tredici giorni di navigazione, dopo d'essere stati spinti da un uragano cento leghe più in giù di quanto si proponevano, Pizarro fu costretto a sbarcare i suoi uomini ed i suoi cavalli nella baia di San Mateo

ed a seguire la costa. Questo viaggio fu difficile, in un paese irto di montagne, poco popolato e tagliato da fiumi che bisognò attraversare alla loro foce. Finalmente, si giunse ad un luogo chiamato Coaqui, dove si fece un gran bottino, il che indusse Pizarro a rimandare due delle navi. Esse portavano a Panama ed a Nicaragua un valore di oltre 30,000 castellanos, come pure un gran numero di smeraldi, ricco bottino, che doveva, secondo Pizarro, indurre molti avventurieri a raggiungerlo. Poi, il conquistatore proseguì il suo viaggio nel sud fino a Porto Viejo, dove fu raggiunto da Sebastiano Benalcazar e da Juan Fernandez, che gli condussero dodici cavalieri e trenta fanti. L'effetto che la vista dei cavalli e gli spari delle armi da fuoco avevano prodotto al Messico si rinnovò al Perù, e Pizarro potè giungere senza incontrar resistenza fino all'isola di Puna, nel golfo di Guayaquil. Ma gli isolani, più numerosi e più bellicosi dei loro congeneri della terra ferma, resistettero valorosamente per sei mesi a tutti gli assalti degli Spagnuoli. Benché Pizarro avesse ricevuto da Nicaragua un soccorso portato da Fernando de Soto, benché avesse fatto decapitare il cacicco Tonalla e sedici dei principali capi, non potè vincere la loro resistenza. Egli fu dunque costretto a tornare sul continente, dove le malattie del paese colpirono così crudelmente i suoi compagni, ch'egli dovette soggiornare tre mesi a Tumbez, in preda agli assalti continui degli indigeni. Da Tumbez, si recò poi sul rio Puira, scoprì il porto di Payta, il migliore di tutta quella costa, e fondò la colonia di San Miguel, alla foce del Chilo, affinchè le navi provenienti da Panama trovassero un porto sicuro. È in questo luogo ch'egli ricevette alcuni inviati di Huascar, il quale gli faceva conoscere la rivolta di suo fratello Atahualpa e gli domandava soccorsi. Nel momento in cui gli Spagnuoli sbarcarono per farne la conquista, il Perù si stendeva lungo l'oceano Pacifico per una lunghezza di mille e cinquecento miglia e si addentrava

nell'interno molto più in là della catena grandiosa delle Ande. In origine, la popolazione si trovava divisa in tribù selvaggie e barbare, non aventi nessuna idea della civiltà, viventi continuamente in guerra le une contro le altre. Per una lunga serie di secoli, le cose erano rimaste nel medesimo stato, e nulla faceva presagire le venuta d'un'èra migliore, quando, sulle sponde del lago Titicaca, un uomo ed una donna, che si spacciavano per figli del sole, apparvero agli Indiani. Questi due personaggi, d'aspetto maestoso, chiamati Manco Capac e Mama Oello, radunarono, verso la metà del secolo XII, secondo Garcilasso de la Vega, gran numero di tribù vaganti e gettarono le fondamenta della città Cusco. Manco Capac aveva insegnato agli uomini l'agricoltura e le arti meccaniche, mentre Mama Oello insegnava alle donne l'arte di filare e di tessere. Quando ebbe soddisfatto queste prime necessità di tutte le società, Manco Capac diede delle leggi a' suoi sudditi, e costituì uno stato politico regolare. È così che fu stabilita la dominazione di quegli Incas o signori del Perù. Il loro impero, dapprima limitato nei dintorni di Cusco, non aveva tardato ad ingrandirsi sotto i loro successori e ad estendersi dal tropico del Capricorno fino all'isola delle Perle, per una lunghezza di trenta gradi. Il loro potere era diventato assoluto quanto quello degli antichi sovrani asiatici. «Laonde, dice Zarate, non vi ebbe forse mai paese al mondo in cui l'obbedienza e la sottomissione dei sudditi andassero più lontano. Gli Incas erano per essi come semidei; non avevano che a mettere un filo estratto dalla loro benda reale fra le mani di qualcuno perchè costui fosse rispettato ed obbedito da per tutto; anzi si aveva una deferenza così assoluta per gli ordini del re ch'egli portava, che poteva da solo e senza alcun soccorso di soldati sterminare tutta una provincia e farvi perire uomini e donne, perchè alla sola vista di quel filo della corona reale, si offrivano tutti alla morte volontariamente e senza alcuna resistenza.»

D'altra parte, i vecchi cronisti vanno d'accordo nel dire che questo potere senza confini fu sempre usato dagli Incas per la felicità dei loro sudditi. D'una serie di dodici re che si succedettero sul trono del Perù, non ve n'è uno che non abbia lascialo la ricordanza d'un principe giusto ed adorato da'suoi

popoli. Non si cercherebbe forse invano in tutto il rimanente del mondo una regione i cui annali ricordino un fatto simile? Non bisognerebbe forse rimpiangere che gli Spagnuoli abbiano portato la guerra ed i suoi orrori, le malattie ed i vizi d'un altro clima e ciò che, nel loro orgoglio, essi chiamavano la civiltà, presso popoli felici e ricchi, i cui discendenti impoveriti,

imbastarditi, non hanno neppure, per consolarsi della loro irrimediabile decadenza, la memoria della antica prosperità? «I Peruviani, dice Michelet nel suo ammirabile Compendio di storia moderna, trasmettevano i principali fatti alla posterità mediante nodi che essi facevano a delle corde. Essi avevano

degli obelischi, dei gnomoni regolari per segnare i punti degli equinozi e dei solstizi, il loro anno era di trecentosessantacinque giorni; avevano elevato dei prodigi d'architettura e scalpito delle statue con un'arte meravigliosa. Era la nazione più incivilita e più industriosa del Nuovo

Mondo.» L'Inca Huayna Capac, padre d'Atahualpa sotto il quale quel vasto impero fu distrutto, lo aveva aumentato di molto ed abbellito. Questo Inca, che conquistò tutto il paese di Quito, aveva fatto, per mano de' suoi soldati e dei popoli vinti, una gran via di cinquecento leghe, da Cusco fino a Quito, attraverso a precipizi colmati ed a montagne abbattute. Dei posti d'uomini, stabiliti ogni mezza lega, portavano gli ordini del monarca in tutto l'impero. Tale era il loro ordinamento, e se si vuol giudicare della loro magnificenza, basti sapere che il re era portato ne' suoi viaggi sopra un trono d'oro che pesava 25,003 ducati. La lettiera d'oro, sulla quale posava il trono, era sorretta dai primi personaggi dello Stato. Al tempo in cui gli Spagnuoli apparvero per la prima volta sulla costa, nel 1520, il duodecimo Inca aveva sposato, disprezzando le antiche leggi del regno, la figlia del re di Quito ch'egli aveva vinto, e ne aveva avuto un figlio chiamato Atahualpa, al quale lasciò il regno alla propria morte, che accadde verso il 3520. Suo figlio maggiore Huascar, la cui madre era del sangue degli Incas, ebbe il rimanente dei suoi Stati. Ma questa divisione, così contraria alle costumanze stabilite da tempo immemorabile, eccitò a Cusco un tal malcontento, che Huascar, incoraggiato dai suoi sudditi, si determinò a muovere contro il fratello, che non voleva riconoscerlo per padrone e signore. Ma Atahualpa aveva assaggiato il potere, e non volle più abbandonarlo. Egli si guadagnò, con larghezze, la maggior parte dei guerrieri che avevano accompagnato il padre nella conquista di Quito, e quando i due eserciti s'incontrarono, la sorte favorì l'usurpatore. Non è forse una curiosa osservazione questa che, al Perù come al Messico, gli Spagnuoli furono favoriti da circostanze affatto eccezionali? Al Messico, popoli recentemente

assoggettati alla razza azteca, calpestati senza mercè dai loro vincitori, li accolsero come liberatori; al Perù, la lotta di due fratelli nemici, accaniti l'uno contro l'altro, impedisce che gli Indiani rivolgano tutte le loro forze contro gli invasori che avrebbero potuto facilmente schiacciare! Pizarro, ricevendo gli inviati d'Huascar che venivano a chiedergli soccorso contro Atahualpa, che essi rappresentavano come un ribelle, un usurpatore, aveva subito compreso tutto il partito che poteva trarre dalle circostanze. Egli comprese che pigliando la difesa d'uno dei due competitori potrebbe più facilmente opprimerli entrambi, e si avanzò subito nell'interno del paese, alla testa di forze poco grandi, sessantadue cavalieri e centoventi fanti, di cui una ventina soltanto erano armati d'archibugi o di moschetti, giacché era stato necessario lasciare una parte delle sue truppe a custodia di San Miguel, dove Pizarro contava di trovare un rifugio caso mai non fosse riuscito, e dove dovevano, in ogni caso, sbarcare i soccorsi che potrebbero giungergli. Pizarro si diresse verso Caxamalca, piccola città posta ad una ventina di giornate di cammino dalla costa. Egli dovette, perciò, traversare un deserto di sabbie ardenti, senz'acqua e senz'alberi, che si estendeva per una lunghezza di venti leghe fino alla provincia di Motupé, e dove il minimo assalto d'un nemico, congiunto alle sofferenze sopportate dal piccolo esercito, avrebbe potuto d'un tratto distruggere la spedizione. Poi, si cacciò nelle montagne, ed entrò in certe gole strette dove forze poco grandi avrebbero potuto schiacciarlo. Ricevette durante questo viaggio un messo d'Atahualpa, che gli portava scarpe dipinte e manichini d'oro ch'egli era invitato a portare nel suo primo colloquio coll'Inca. Naturalmente, Pizarro fu prodigo di promesse d'amicizia e di devozione; egli dichiarò all'ambasciatore indiano che non farebbe se non seguire gli ordini del re suo padrone rispettando la vita ed i

beni degli abitanti. Appena fu giunto a Caxamalca, Pizarro collocò prudentemente le sue truppe in un tempio ed in un palazzo dell'Inca, al riparo da ogni sorpresa. Poi, mandò uno de' suoi fratelli con de Soto ed una ventina di cavalieri al campo d'Atahualpa, che non era più lontano d'una lega, per fargli conoscere il suo arrivo. Gli inviati del governatore, accolti con magnificenza, furono stupiti nel vedere la quantità d'ornamenti, di vasi d'oro e d'argento, che si trovavano da per tutto nel campo indiano. Essi tornarono colla promessa che Atahualpa verrebbe il domani a far visita a Pizarro ed a dargli il benvenuto nel suo regno. Nel medesimo tempo, resero conto delle ricchezze meravigliose che avevano vedute, il che confermò Pizarro nel disegno già formato d'impadronirsi a tradimento del disgraziato Atahualpa e dei suoi tesori. Molti autori spagnuoli, e segnatamente Zarate, travisano i fatti, che parvero loro senza dubbio troppo odiosi, e mettono il tradimento a carico di Atahualpa. Ma si hanno oggidì troppi documenti per non essere costretti a riconoscere con Robertson e Prescott tutta la perfidia di Pizarro. Era troppo importante per lui l'aver l'inca nelle proprie mani per servirsene come d'uno strumento, come aveva fatto Cortes con Montezuma. Egli approfittò dunque della semplicità e dell'onestà d'Atahualpa, che aveva dato piena fede alle sue proteste d'amicizia e non stava sull'avvisato, per preparare un tranello nel quale quest'ultimo doveva assolutamente cadere. Del resto, non uno scrupolo nell'animo sleale del conquistatore, il quale si comportava con tanta freddezza d'animo quanta ne avrebbe avuta nel dar battaglia a nemici avvertiti; e pure, questo infame tradimento sarà un eterno disonore per la sua memoria. Pizarro divise dunque la sua cavalleria in tre piccoli drappelli, lasciò in un corpo solo tutta la fanteria, nascose gli archibugieri sulla via che doveva percorrere l'Inca, e tenne presso di sé una ventina dei compagni più determinati.

Atahualpa, volendo dare agli stranieri un'alta idea della sua potenza, sì avanzava con tutto il suo esercito. Egli medesimo era portato sopra una specie di letto decorato di piume, coperto di lastre d'oro e d'argento, ornato di pietre preziose. Circondato di danzatori, egli era accompagnato dai suoi principali signori, portati al pari di lui sulle spalle dei loro servi. Una simile marcia rassomigliava piuttosto ad una processione che non alla marcia d'un esercito. Appena l'inca fu giunto presso il quartiere degli Spagnuoli, stando a ciò che dice Robertson, il padre Vicenzo Valverde, elemosiniere della spedizione, che ricevette più tardi il titolo di vescovo in ricompensa della ridotta, si avanzò col crocifisso in una mano ed il breviario nell'altra. In un discorso interminabile, egli espose al monarca la dottrina della creazione, la caduta del primo uomo, l'incarnazione, la passione e la risurrezione di Gesù Cristo, la scelta che Dio aveva fatta di San Pietro per farne il suo vicario sulla terra, il potere di quest'ultimo trasmesso ai papi e la donazione fatta al re di Castiglia dal papa Alessandro di tutte le regioni del Nuovo Mondo. Dopo aver svolte tutte queste dottrine, egli invitò Atahualpa ad abbracciare la religione cristiana, a riconoscere l'autorità suprema del papa ed a sottomettersi al re di Castiglia come al suo sovrano legittimo. S'egli si assoggettava subito, Valverde gli prometteva che il re, suo padrone, piglierebbe a proteggere il Perù e gli permetterebbe di continuare a regnarvi; ma gli dichiarava la guerra e lo minacciava d'una terribile vendetta se rifiutasse d'obbedire e perseverasse nella sua empietà. Era, per lo meno, una bizzarra messa in scena ed una strana arringa, questa che faceva allusione a fatti ignoti ai Peruviani, e della verità dei quali un oratore più abile di Valverde non sarebbe riuscito a persuaderli. Se si aggiunge a questo che l'interprete conosceva così male lo spagnuolo da essere nell'impossibilità quasi assoluta di tradurre ciò che

comprendeva appena, e che la lingua peruviana doveva mancare di parole per esprimere idee così estranee al suo genio, si sarà poco meravigliati di sapere che del discorso del monaco spagnuolo Atahualpa non comprese quasi verbo. Certe frasi per altro che si riferivano al suo potere, lo colpirono di meraviglia e di sdegno. Egli fu tuttavia moderato nella risposta. Disse che, padrone del suo regno per diritto di successione, non comprendeva che si potesse disporne senza il suo consenso; aggiunse che non era menomamente disposto a rinnegare la religione dei suoi padri per adottarne una di cui intendeva parlare per la prima volta; rispetto agli altri punti del discorso, non ne comprendeva quasi nulla, era cosa, per lui, affatto nuova, e sarebbe ben lieto di sapere dove Valverde avesse imparato tante cose meravigliose. — «In questo libro,» rispose Valverde presentandogli il suo breviario. Atahualpa lo prese con premura, ne voltò curiosamente alcuni fogli, ed accostandolo all'orecchio: «Questo che mi mostrate, diss'egli, non mi parla e non mi dice nulla!» Poi gettò il libro a terra. Fu questo il segnale del combattimento, o meglio della strage. I cannoni ed i moschetti entrarono in giuoco, i cavalieri si slanciarono, e la fanteria piombò colla spada in pugno addosso ai Peruviani stupefatti. In pochi istanti, il disordine fu al colmo; gli Indiani fuggirono da tutte le parti senza cercare di difendersi. Quanto ad Atahualpa, sebbene i suoi principali ufficiali si sforzassero, trascinandolo, di fargli una barriera coi propri corpi, Pizarro gli si fece addosso, disperse o rovesciò le guardie, ed afferrandolo per la lunga capigliatura, lo fece precipitare dalla lettiera che lo portava. La notte sola potè arrestare la carneficina. Quattromila Indiani erano stati uccisi, un numero ancora maggiore feriti e tremila fatti prigionieri. Ciò che prova fino all'evidenza che non vi fu combattimento, è che, di tutti gli Spagnuoli, Pizarro solo fu colpito, e per di più, lo fu da uno de' suoi soldati, il quale volle impadronirsi troppo

precipitosamente dell'Inca. Il bottino, raccolto sui morti e nel campo, sorpassò tutto quanto gli Spagnuoli avevano potuto immaginare, laonde il loro entusiasmo fu proporzionato alla conquista di tante ricchezze. Dapprincipio, Atahualpa sopportò con abbastanza rassegnazione la sua prigionia, tanto più che Pizarro faceva di tutto per raddolcirla, almeno a parole. Ma avendo presto compreso quale fosse la bramosia sfrenata dei suoi carcerieri, egli propose a Pizarro di pagargli un riscatto, e di fargli empire, fino all'altezza a cui egli poteva giungere colla mano, una camera lunga ventidue piedi, larga sedici, di vasi, d'utensili e d'ornamenti d'oro. Pizarro vi acconsentì con premura, e l'inca prigioniero mandò subito in tutte le provincie gli ordini necessari, che furono prontamente eseguiti senza mormorio. Anzi, le truppe indiane furono licenziate, e Pizarro potè mandar Soto e cinque Spagnuoli a Cusco, città posta a più di dugento leghe da Caxamalca, mentre egli medesimo assoggettava il paese su cento leghe di circuito. Frattanto, Almagro sbarcò con dugento soldati. Furono messi da parte per lui e per i suoi uomini, — con quanto rammarico, è facile immaginarlo, — centomila pesos; si riservò il quinto del re, e rimasero ancora 1,528,500 pesos da spartire tra Pizarro ed i suoi compagni. Questo prodotto del saccheggio e della strage fu solennemente spartito tra gli aventi diritto, dopo una fervida invocazione alla divinità. Deplorabile miscela di religione e di profanazione, disgraziatamente troppo frequente in quei tempi di superstizione e d'avarizia! Ogni cavaliere ricevette di sua parte 8000 pesos, ed ogni fante 4000, ovverosia circa 40,000 e 20,000 franchi. Vi era di che soddisfare i più schizzinosi, dopo una campagna che non era stata né lunga né penosa. Laonde, molti di quegli avventurieri, desiderosi di godere in pace e nella loro patria una

fortuna insperata, si affrettarono a chiedere il congedo. Pizarro lo accordò senza stento, giacché egli comprendeva che la fama della loro rapida fortuna non tarderebbe a condurgli nuove reclute. Con suo fratello Fernando, che andava in Ispagna a portare all'imperatore la notizia del suo trionfo e magnifici doni, partirono sessanta Spagnuoli, carichi di denaro, ma leggieri di rimorsi. Appena fu pagato il suo riscatto, Atahualpa reclamò la libertà. Pizarro, che non lo aveva serbato in vita se non allo scopo di coprirsi dell'autorità e del prestigio che l'imperatore aveva serbato sopra i suoi sudditi e di raccogliere tutti i tesori del Perù, fu presto assediato dai reclami del prigioniero. Egli lo sospettava pure da qualche tempo d'aver ordinato segretamente delle leve di truppe nelle provincie lontane dell'impero. In oltre, Atahualpa, essendosi avveduto che Pizarro non era più istruito dell'ultimo de' suoi soldati, aveva concepito per il governatore un disprezzo che disgraziatamente non seppe dissimulare. Tali sono i motivi, molto futili per non dir peggio, che determinarono Pizarro a far istruire il processo dell'Inca. Nulla di più odioso di questo processo nel quale Pizarro ed Almagro furono ad un tempo giudici e parti. Dei capi d'accusa, gli uni sono così ridicoli, gli altri così sciocchi che non si sa veramente se bisogni meravigliarsi più della sfrontatezza o dell'iniquità di Pizarro, che sottometteva a tali informazioni il capo d'un potente impero sul quale non aveva giurisdizione di sorta. Atahualpa, dichiarato colpevole, fu condannato ad essere bruciato vivo; ma siccome egli aveva finito, tanto di sbarazzarsi delle insistenze di Valverde, col chiedere il battesimo, si stette paghi di strangolarlo. Degno riscontro del supplizio di Guatimozin! Misfatto dei più atroci e dei più odiosi che abbiano mai commesso gli Spagnuoli in America, dove pure si sono imbrattati di tutti i crimini immaginabili! Vi erano ancora per altro in quella turba d'avventurieri

alcuni uomini che avevano serbato il sentimento dell'onore e della propria dignità. Essi protestarono ad alta voce in nome della giustizia indegnamente calpestata e venduta; ma le loro voci generose furono soffocate dalle declamazioni interessate di Pizarro e de' suoi degni accoliti. Il governatore diede allora il reame, sotto il nome di Paolo Inca, ad uno dei figli d'Atahualpa. Ma la guerra tra i due fratelli e gli avvenimenti accaduti dopo l'arrivo degli Spagnuoli avevano rilassato di molto i legami che congiungevano i Peruviani ai loro re, e quel giovinotto, che doveva presto perire vergognosamente, non ebbe maggiore autorità di Manco Capac, figlio d'Huascar, che fu riconosciuto dai popoli di Cusco. Presto anzi, alcuni dei principali capi del paese cercarono di farsi dei reami nell'impero del Perù; tale fu Ruminagui, comandante a Quito, che fece trucidare il fratello ed i figli d'Atahualpa, e si dichiarò indipendente. La discordia regnava nel campo peruviano; gli Spagnuoli risolvettero d'approfittarne. Pizarro si avanzò rapidamente sopra Cusco, giacché se aveva tardato tanto a farlo, gli è perchè disponeva dì poche forze. Ora che una folla d'avventurieri, allettati dai tesori portati a Panama, si precipitavano a gara verso il Perù, ora ch'egli poteva riunire cinquecento uomini, dopo d'aver lasciata un'importante guarnigione a San Miguel sotto il comando di Benalcazar, Pizarro non aveva più ragione d'aspettare. Per via, furono dati alcuni combattimenti a qualche grosso esercito di truppe; ma terminarono come sempre con perdite gravi da parte degli indigeni ed insignificanti da parte degli Spagnuoli. Quando entrarono in Cusco e presero possesso della città, questi si mostrarono meravigliati della pochezza dell'oro e delle pietre preziose che vi trovarono, sebbene la somma passasse di molto il riscatto d'Atahualpa. È forse perchè si erano già familiarizzati colle ricchezze del paese o perchè erano in più gran numero a spartirle?

Frattanto, Benalcazar, stanco della sua inerzia, approfittava dell'arrivo d'un rinforzo, venuto da Nicaragua e da Panama, per dirigersi verso Quito, dove, a quanto ne dicevano i Peruviani, Atahualpa aveva lasciato la maggior parte de' suoi tesori. Egli

si mise a capo di ottanta cavalieri e di centoventi fanti, battè in molte occasioni Ruminagui, che gli sbarrava il passo, ed in grazia della sua prudenza e della sua abilità, potè entrare vittorioso a Quito; ma non vi trovò quanto cercava, vale a dire i tesori d'Atahualpa. Nel medesimo tempo, Pietro d'Alvarado, che si era tanto

segnalato sotto Cortes e che era stato nominato governatore del Guatemala in ricompensa de' suoi servigi, finse di credere che la provincia di Quito non fosse sotto il comando di Pizarro, ed allestì una spedizione forte di cinquecento uomini, dugento dei quali servivano a cavallo. Sbarcato a Porto Viejo, egli volle

andare a Quito, senza guida, risalendo il Guyaquil ed attraversando le Ande. Questa via è stata, in ogni tempo, una delle più cattive e delle più penose che fosse possibile scegliere. Prima d'essere giunti nella pianura di Quito, dopo d'aver orribilmente sofferto la sete e la fame, senza parlare

delle ceneri, ardenti del Chimborazo, vulcano vicino a Quito, e delle nevi che li assalirono, la quinta parte degli avventurieri e la metà dei cavalli erano periti; gli altri erano assolutamente scoraggiati e nell'impotenza assoluta di combattere. Fu dunque colla massima meraviglia e con un sentimento d'inquietudine nel medesimo tempo, che i compagni d'Alvarado si videro ad un tratto in presenza, non già d'un corpo d'Indiani come si aspettavano, ma d'un corpo di Spagnuoli sotto gli ordini d'Almagro. Questi ultimi si disponevano a caricarli, quando certi ufficiali più moderati fecero accettare un accomodamento, in virtù del quale Alvarado doveva ritirarsi nel suo governo, dopo aver riscosso centomila pesos per le spese d'armamento. Mentre accadevano questi avvenimenti al Perù, Fernando Pizarro faceva vela per la Spagna, dove la prodigiosa quantità d'oro, d'argento e di pietre preziose ch'egli portava, non poteva mancare di procurargli un'eccellente accoglienza. Egli ottenne per suo fratello Francesco la conferma delle funzioni di governatore coi poteri più estesi; egli medesimo fu nominato cavaliere di San Giacomo; quanto ad Almagro, gli fu confermato il titolo d'adelantado, e la sua giurisdizione fu estesa di dugento leghe, senz'essere per altro esattamente limitata, il che lasciava una porta aperta alle contestazioni ed alle interpretazioni arbitrarie. Fernando Pizarro non era ancora tornato al Perù, e già Almagro, avendo ricevuto la notizia che un governo speciale gli era stato affidato, pretendeva che Cusco ne dipendesse, e prese le sue disposizioni per farne la conquista. Ma Giovanni e Gonzalo Pizarro non intendevano di lasciarsi spogliare. Si stava per venire alle mani, quando Francesco Pizarro, che viene spesso chiamato il Marchese o il gran Marchese, giunse nella capitale. Non mai Almagro aveva potuto perdonare a quest'ultimo la duplicità di cui aveva dato prova ne' suoi negoziati con Carlo

V, né la disinvoltura colla quale si era fatto attribuire a spese de' suoi due associati la più grossa parte d'autorità ed il governo più esteso. Ma siccome egli incontrò grande opposizione a' suoi disegni, siccome non era il più forte, dissimulò il malcontento, e parve lieto d'un accomodamento. «Essi rannodarono dunque la loro società, dice Zarate, a patto che Diego d'Almagro andrebbe alla scoperta del paese della parte del sud, e che, se ne trovasse qualcuno buono, ne chiederebbe per lui il governo a Sua Maestà; che se nulla trovasse, spartirebbero fra di essi il governo di don Francesco. Questo accordo fu fatto in maniera solenne, e giurarono tutti sull'ostia consacrata di non intraprender nulla per l'avvenire l'uno contro l'altro. Alcuni narrano che Almagro giurò di non intraprendere mai nulla né sopra Cusco, né sul paese che è al di là fino a centotrenta leghe di distanza, quand'anche Sua Maestà gliene desse il governo. Si aggiunge che, rivolgendosi al Santo Sacramento, pronunciò queste parole: «Signore, se manco al giuramento che faccio, voglio che tu mi confonda e mi punisca nel mio corpo e nell'anima mia.» Dopo questo accordo solenne, che doveva essere osservato colla stessa infedeltà del primo, Almagro preparò ogni cosa per la partenza. In grazia della sua liberalità ben nota e della sua riputazione di coraggio, egli riunì cinquecentosettanta uomini, cavalleria e fanteria, coi quali si avanzò per terra verso il Chili. Il tragitto fu sommamente penoso, e gli avventurieri ebbero a soffrire segnatamente dei rigori del freddo nel passaggio delle Ande; in oltre, ebbero da fare con popoli molto bellicosi che nessuna civiltà aveva rammolliti, e che li assalirono con una furia di cui nulla al Perù aveva potuto dar loro un'idea. Almagro non potè fondare nessun stabilimento, giacché appena da due mesi egli si trovava nel paese, quando apprese che gli Indiani del Perù si erano rivoltati ed avevano trucidato la maggior parte degli Spagnuoli. Egli allora tornò subito indietro.

Dopo la sottoscrizione del nuovo patto fra i conquistatori (1534), Pizarro era tornato nelle Provincie vicine al mare, nelle quali potè stabilire, poiché non aveva più a temere resistenza alcuna, un governo regolare. Per un uomo che non aveva mai studiato la legislazione, egli aveva fatto dei savi regolamenti sull'amministrazione della giustizia, sulla percezione delle imposte, la ripartizione degli Indiani ed il lavoro delle miniere. Se il «conquistador» aveva nel suo carattere qualche lato che si prestava facilmente alla critica, è giusto riconoscere che non mancava d'una certa elevatezza d'idee e che aveva la coscienza della parte che faceva di fondatore d'un grande impero. E ciò anzi lo fece lungamente esitare sulla scelta della futura capitale dei possedimenti spagnuoli. Cusco aveva in suo favore la circostanza d'essere stata la residenza degli Incas; ma quella città, posta a più di quattrocento miglia dal mare, era troppo lontana da Quito, la cui importanza sembrava grande a Pizarro. Egli fu in breve colpito dalla bellezza e dalla fertilità d'una gran vallata bagnata da un corso d'acqua, il Rimac, e vi stabilì, nel 1536, la sede della propria potenza. In breve tempo, in grazia del magnifico palazzo ch'egli vi si fece costrurre, delle sontuose dimore de' suoi principali ufficiali, la città dei re (de Los Reyes) o Lima, come è chiamata, per corruzione del nome del fiume che la bagna, non tardò ad assumere l'aspetto di una gran città. Mentre queste cure trattenevano Pizarro lungi dalla capitale, piccoli drappelli, mandati in diverse direzioni, si addentravano nelle provincie più remote dell'impero per distruggere gli ultimi focolari di resistenza, di modo che non rimaneva a Cusco se non un piccolissimo numero d'armati. L'Inca, che era rimasto fra le mani degli Spagnuoli, credette giunto il momento opportuno di fomentare un sollevamento generale, nel quale egli sperava avesse a distruggersi la dominazione straniera. Quantunque fosse ben custodito, seppe prendere le sue disposizioni con tanta abilità, che non svegliò i

sospetti degli oppressori. Gli fu anzi permesso d'assistere ad una gran festa, che si doveva celebrare a poche leghe da Cusco, e per la quale si erano radunati i personaggi più importanti dell'impero. Appena apparve l'Inca, fu innalzato lo stendardo della rivolta. Dai confini della provincia di Quito fino al Chili il paese fu presto in armi, e molti piccoli drappelli spagnuoli furono sorpresi e sterminati. Cusco, difesa dai tre fratelli Pizarro con centosettanta Spagnuoli soltanto, fu per otto mesi consecutivi in preda agli assalti incessanti dei Peruviani, che si erano esercitati nel maneggio delle armi tolte ai loro avversari. I conquistatori resistettero valorosamente, ma subirono gravi perdite e segnatamente quella di Giovanni Pizarro. Quando apprese queste notizie, Almagro lasciò precipitosamente il Chili, attraversò il deserto montuoso, sassoso e sabbioso d'Atamaca, dove soffrì tanto pel calore e per la siccità, quanto aveva sofferto nelle Ande per la neve ed il freddo, penetrò nel territorio peruviano, sconfisse Manco Capac in una gran battaglia e giunse fin presso la città di Cusco, dopo d'aver cacciato gli Indiani. Egli cercò allora di farsi consegnare la città sotto pretesto che essa non era compresa nel governo di Pizarro, e violando una tregua, durante la quale i partigiani del marchese si riposavano un po' , penetrò in Cusco, s'impadronì di Fernando e di Gonzalo Pizarro, e si fece riconoscere governatore. Frattanto, un gran corpo d'Indiani investiva Lima, intercettava ogni comunicazione e distruggeva i diversi drappelli di truppe che Pizarro mandò più volte in aiuto di Cusco. A quel tempo, Pizarro mandava tutte le sue navi a Panama per obbligare i suoi compagni a fare una resistenza disperata; egli richiamava da Trusillo le forze sotto gli ordini d'Alonzo d'Alvarado, ed affidava a quest'ultimo una colonna di cinquecento uomini, che si avanzò fino a poche leghe dalla capitale, senza sospettar nemmeno che questa fosse nelle mani

di compatrioti perfettamente deliberati a sbarrargliene la via. Ma Almagro desiderava assai più attirare a sé questi nuovi avversari che distruggerli; egli dispose dunque in modo da sorprenderli e li fece prigionieri. Aveva allora fra le mani una bell'occasione di terminare la guerra e di rendersi, in un sol colpo, padrone dei due governi. È quanto gli fecero osservare molti de' suoi ufficiali, e segnatamente Orgonos, i quali avrebbero voluto ch'egli facesse perire i due fratelli del «conquistador,» e che si avanzasse a marcie forzate colle sue truppe vittoriose contro Lima, dove Pizarro sorpreso non potrebbe resistergli. Ma quelli che Giove vuol perdere, ha detto un poeta latino, li fa impazzire. Almagro che, in ogni altr'occasione, non si era fatto scrupolo alcuno, non volle farsi il torto di invadere il governo di Pizarro a modo d'un ribelle, e ripigliò tranquillamente la via di Cusco. Rispetto ai suoi interessi particolari, Almagro commetteva un grave errore, di cui doveva pentirsi più tardi. Ma se noi consideriamo ciò che non si dovrebbe mai perdere di vista, vale a dire l'interesse della patria, gli atti d'aggressione ch'egli aveva già commessi e la guerra civile ch'egli sollevava in presenza d'un nemico pronto ad approfittarne, costituivano un crimine capitale. I suoi avversari non dovevano tardare a farglielo ricordare. Se abbisognava ad Almagro una pronta decisione per rendersi padrone della situazione, Pizarro aveva tutto a sperare dal tempo e dall'occasione. Aspettando i rinforzi che gli venivano promessi dal Darien, egli avviò col suo avversario dei negoziati che durarono molti mesi, e durante i quali uno de' suoi fratelli ed Alvarado trovarono modo di fuggire con più di settanta uomini. Benché fosse stato ingannato tante volte, Almagro acconsenti ancora a ricevere il licenziato Espinosa, incaricato di rammentargli che, se l'imperatore avesse saputo ciò che accadeva fra i due competitori, e se apprendesse lo

stato in cui le loro contese riducevano le cose, senza dubbio li richiamerebbe entrambi e li sostituirebbe. Infine, dopo la morte d'Espinosa, fu deliberato dal fratello Francesco di Bovadilla, a cui Pizarro ed Almagro avevano rimessa la decisione del loro litigio, che Fernando Pizarro fosse subito posto in libertà, che Cusco fosse consegnata al marchese e che si mandassero in Ispagna molti ufficiali dei due partiti, incaricati di far valere i diritti vicendevoli dei competitori e di affidarne la deliberazione all'imperatore. Appena l'ultimo de' suoi fratelli fu messo in libertà, Pizarro, respingendo ogni idea di pace e di accomodamento amichevole, dichiarò che le armi sole deciderebbero chi, fra lui ed Almagro, sarebbe il padrone del Perù. Egli riunì in poco tempo settecento uomini, di cui affidò il comando ai suoi due fratelli. Nell'impossibilità in cui si trovarono di traversare le montagne per recarsi a Cusco per una via diretta, seguirono la sponda del mare fino a Nasca e penetrarono in un ramo delle Ande, che doveva condurli in breve alla capitale. Forse Almagro avrebbe dovuto difendere le gole delle montagne, ma non aveva che cinquecento uomini, e contava molto sulla sua brillante cavalleria, che non avrebbe potuto spiegare in un terreno ristretto. Aspettò dunque il nemico nella pianura di Cusco. I due eserciti si assalirono, il 26 aprile 1538, con pari accanimento; ma la vittoria fu decisa da due compagnie di moschettieri che l'imperatore aveva mandate a Pizarro quando aveva appresa la ribellione degli Indiani. Centoquaranta soldati perirono in questo combattimento, che ricevette il nome di las Salinas. Orgoños e molti ufficiali segnalati furono uccisi freddamente dopo la battaglia; Almagro, vecchio ed infermo, non potè sfuggire ai Pizarro. Gli Indiani che, riuniti in armi sulle montagne circostanti, si erano ripromessi di piombare sul vincitore, ebbero invece premura di svignarsela. «Nulla, dice Robertson, prova forse

meglio l'ascendente che gli Spagnuoli avevano preso sugli Americani, che il veder questi, testimoni della disfatta e della fuga d'uno degli eserciti, non avere il coraggio di assalir l'altro, indebolito e stanco a causa della sua vittoria medesima, e non osar piombare sui loro oppressori quando la fortuna offriva un'occasione così favorevole di combatterli con vantaggio.» A quel tempo, una vittoria non seguita dal saccheggio era incompiuta, e perciò la città di Cusco fu messa a sacco. Tutte le ricchezze che i compagni di Pizarro vi trovarono non bastarono ad accontentarli. Avevano tutti una così alta idea dei loro meriti e dei servigi che avevano resi, che a ciascuno sarebbe abbisognata una carica di governatore. Fernando Pizarro li disperse dunque e li mandò a conquistare nuovi territori con alcuni partigiani d'Almagro, che si erano radunati e che importava allontanare. Quanto a quest'ultimo, Fernando Pizarro, convinto che un focolare di agitazione permanente covava al riparo del suo nome, risolvette di disfarsene. Gli fece dunque fare un processo, che terminò, come era facile prevedere, con una condanna a morte. A questa notizia e dopo alcuni momenti d'un turbamento naturalissimo, durante i quali Almagro fece valere la sua età matura ed il modo differentissimo con cui egli si era comportato rispetto a Fernando e Gonzalo Pizarro quando erano suoi prigionieri, egli ricuperò la sua freddezza d'animo ed aspettò la morte col coraggio di un soldato. Fu strangolato nel suo carcere e decapitato pubblicamente (1538). Dopo molte spedizioni fortunate, Fernando Pizarro parti per la Spagna per render conto all'imperatore di quanto era accaduto. Egli trovò gli spiriti singolarmente prevenuti contro di lui ed i suoi fratelli. La loro crudeltà, le loro violenze, il loro disprezzo degli impegni più sacri, erano stati esposti in tutta la loro nudità da alcuni partigiani d'Almagro. Perciò abbisognò a Fernando Pizarro un'abilità meravigliosa per correggere il

mal'animo dell'imperatore. Non essendo in grado di giudicare da qual parte fosse la giustizia, giacché era illuminato solo dagli interessati, Carlo V non vedeva che le conseguenze, deplorabili pel suo governo, della guerra civile. Egli s'indusse dunque a mandar sul luogo un commissario, al quale affidò i poteri più estesi, e che, dopo d'essersi fatto render conto degli avvenimenti, doveva stabilire la forma di governo che giudicherebbe più utile. Questa missione delicata fu affidata ad un giudice dell'udienza di Valladolid, Christoval de Vaca, che non si mostrò al disotto del suo compito. Cosa degna di nota! Gli fu raccomandato d'usare il massimo riguardo verso Francesco Pizarro, mentre suo fratello Fernando veniva arrestato e messo in un carcere, in cui doveva rimanere dimenticato per venti anni. Mentre questi avvenimenti accadevano in Ispagna, il Marchese spartiva il paese conquistato, serbava per sé e per i suoi figli i distretti più fertili o meglio situati, e non accordava ai compagni d'Almagro, a quelli del Chili, come venivano chiamati, se non territori sterili e lontani. Poi egli affidava ad uno de' suoi maestri di campo, Pedro de Valdivia, l'esecuzione del disegno che Almagro non aveva potuto se non abbozzare, cioè a dire la conquista del Chili. Partito il 28 gennaio 1540 con centocinquanta Spagnuoli, fra i quali dovevano illustrarsi Pedro Gomez, Pedro de Miranda e Alonso de Monroy, Valdivia traversò dapprima il deserto d'Atacama, impresa considerata ancor oggi come penosissima, e giunse a Copiapo in mezzo ad una bella vallata. Ricevuto cordialissimamente dapprima, egli ebbe a sostenere, appena fu fatta la raccolta, frequenti combattimenti contro una razza differente dagli Indiani del Perù, gli Araucani, coraggiosi ed infaticabili guerrieri. Tuttavia egli potè fondare la città di Santiago, il 12 febbraio 1541. Valdivia passò otto anni al Chili, presiedendo alla conquista ed all'ordinamento del paese. Meno avido degli

altri «conquistadores» suoi contemporanei, egli non ricercava le ricchezze minerali se non per assicurare lo sviluppo della prosperità della sua colonia, nella quale seppe fin dal principio incoraggiare l'agricoltura. «La più bella miniera ch'io conosca, è quella che dà grano e vino, e il nutrimento del bestiame. Chi ha di questo, ha del denaro. E di miniere, noi non viviamo, quanto alla loro sostanza.» Queste savie parole di Lescarbot, nella sua Storia della Nuova Francia, Valdivia avrebbe potuto pronunciarle, giacché esse esprimono benissimo i suoi sentimenti. Il suo valore, la sua prudenza, la sua umanità, e segnatamente quest'ultima che brilla singolarmente accanto alla crudeltà di Pizarro, gli assicurano un posto segnalato ed uno dei più elevati fra i «conquistadores» del secolo XVI. Al tempo in cui Valdivia partiva per il Chili, Gonzalo Pizarro, a capo di trecentoquaranta Spagnuoli, la metà dei quali erano a cavallo, e di quattromila Indiani, traversava le Ande con tali fatiche, che la maggior parte di questi ultimi perirono a causa del freddo; poi egli si cacciò nell'est, nell'interno del continente, cercando un paese in cui abbondassero, secondo quanto si diceva, la cannella e le spezie. Accolti in quelle ampie savane, rotte da acquitrini e da foreste vergini, da pioggie diluviane che non durarono meno di due mesi, non incontrando che una popolazione rara, poco industriosa ed ostile, gli Spagnuoli ebbero spesso a patir la fame in un paese in cui non esistevano allora né buoi, né cavalli, in cui i più grossi quadrupedi erano i tapiri ed i lama, ed ancora non s'incontravano che raramente questi ultimi su quel versante delle Ande. Non ostante queste difficoltà, che avrebbero scoraggiato degli esploratori meno energici dei descubridores del secolo XVI, essi persistettero nel loro tentativo e discesero il Rio Napo o Coca, affluente di mancina del Marañon fino al suo confluente. Colà, costrussero, con gran fatica, un brigantino, che fu montato da cinquanta soldati, sotto il comando di Francisco Orellana. Ma, sia che la

violenza della corrente lo abbia trascinato, sia che, non essendo più sotto gli occhi del suo capo, egli abbia voluto diventare alla sua volta comandante d'una spedizione di scoperta, non aspettò Gonzalo Pizarro al ritrovo stabilito, e continuò a discendere il fiume finché giunse all'Oceano. Una simile navigazione,

attraverso duemila miglia di regioni ignote, senza guida, senza bussola, senza provviste, con un equipaggio che mormorò più d'una volta contro il pazzo tentativo del suo capo, in mezzo a popolazioni quasi di continuo ostili, è veramente meravigliosa. Dalla foce del fiume ch'egli aveva disceso colla sua barca mal

costrutta, Orellana riuscì a recarsi all'isola di Cubagua, donde fece vela per la Spagna. Se il proverbio: «può mentire facilmente chi viene da lontano,» non fosse stato conosciuto da un pezzo, Orellana lo avrebbe fatto inventare. Egli spacciò in fatti le favole più incredibili sull'opulenza dei paesi da lui

traversati. A sentirlo, gli abitanti erano così ricchi, che i tetti dei loro tempi erano formati di lastre d'oro; asserzione che diede origine alla leggenda dell'El Dorado. Orellana aveva appresa l'esistenza d'una repubblica di donne guerriere, che avevano fondato un ampio impero, il che ha fatto dare al

Marañon il nome di fiume delle Amazzoni. Se si spoglia, per altro, questa relazione di tutta la parte ridicola e grottesca, che doveva piacere alle immaginazioni dei suoi contemporanei, rimane ad ogni modo fermo che la spedizione d'Orellana è una delle più notevoli di quel tempo tanto fecondo d'imprese gigantesche, e che essa fornisce le prime notizie sull'immensa zona di paese, che si stende tra le Ande e l'Atlantico. Ma torniamo a Gonzalo Pizarro. Il suo impaccio e la sua costernazione erano stati grandi, quando arrivando al confluente del Napo e del Marañon, egli non aveva trovato Orellana, che doveva aspettarvelo. Temendo che fosse accaduto un accidente al suo luogotenente, egli aveva sceso il corso del fiume per cinquanta leghe, finché incontrò un disgraziato ufficiale, abbandonato per aver fatto al suo capo alcune osservazioni circa la sua perfidia. Alla notizia del vigliacco abbandono e della miseria in cui venivano lasciati, i più coraggiosi si sentirono venir meno. Bisognò cedere alle loro istanze e tornare verso Quito, da cui si era lontani più di milledugento miglia. Per esprimere le loro sofferenze in questo viaggio di ritorno, basterà il dire che, dopo aver mangiato cavalli, cani e rettili, radici ed animali selvatici, dopo aver masticato anche tutto ciò che era cuoio nel loro equipaggio, i disgraziati superstiti, lacerati dai cespugli, sparuti e scarni, giunsero a Quito in numero di ottanta; quattromila Indiani e dugentodieci Spagnuoli avevano perduto la vita in quella spedizione, che non era durata meno di due anni. Mentre Gonzalo Pizarro guidava la disgraziata spedizione che abbiamo narrata, gli antichi partigiani d'Almagro, che non avevano mai potuto congiungersi schiettamente a Pizarro, si adunarono intorno al figlio del loro antico capo, e complottavano la morte del Marchese. Invano Francesco Pizarro fu molte volte avvertito di ciò che si tramava contro di lui, giammai egli volle prestar fede a questi avvertimenti. Egli

diceva: «State tranquilli, io sarò al sicuro fin tanto che non vi sarà nessuno al Perù che non sappia ch'io posso in un momento togliere la vita a chi osasse concepire il disegno d'attentare alla mia.» La domenica 26 giugno 1541, nel momento della siesta, Giovanni de Herrada e diciotto congiurati escono dalla casa d'Almagro, colla spada nuda in mano, armati da capo a piedi. Essi corrono verso la casa di Pizarro gridando: «Morte al tiranno! morte all'infame!» invadono il palazzo, uccidono Francesco de Chaves, che accorreva al frastuono, e penetrano nella sala in cui stavano, con Francesco Pizarro, suo fratello Francesco-Martino, il dottore Juan Velasquez ed una dozzina di servi. Questi saltano dalle finestre, tranne Martino Pizarro, due altri gentiluomini e due paggi, che si fanno uccidere difendendo la porta delle stanze del governatore. Egli medesimo, che non ha avuto il tempo d'indossare la corazza, afferra la sua spada ed uno scudo, si difende valorosamente, uccide quattro dei suoi avversari, ne ferisce molti. Uno degli assalitori si sacrifica, attira sopra di sé i colpi di Pizarro; frattanto gli altri trovano il mezzo d'entrare e lo caricano con tanta furia, ch'egli non può parare tutti i colpi, essendo d'altra parte così stanco da poter appena muovere la sua spada. Così, «essi ne trionfarono, dice Zarate, e finirono di ucciderlo con una stoccata nella gola. Cadendo, egli chiese ad alta voce la confessione, e, non potendo più parlare, fece in terra un segno di croce che baciò, e così rese l'anima a Dio.» Alcuni negri trascinarono il suo corpo nella chiesa, dove Juan Barbazan, suo antico servo, osò solo venirlo a reclamare. Questo fedele servitore fece in segreto gli onori de' suoi funerali, giacché i congiurati avevano saccheggiato la sua casa e non avevano lasciato di che pagare i cerei. Così finì Francesco Pizarro, assassinato nella capitale medesima dell'ampio impero che la Spagna doveva al suo

valore ed alla sua perseveranza infaticabile, ma ch'egli le dava, bisogna confessarlo, decimato, saccheggiato, intriso di sangue. Paragonato tante volte a Cortes, egli ebbe altrettanta ambizione, coraggio, capacità militare; ma spinse all'estremo i difetti del marchese della Valle, la crudeltà e l'avarizia, a cui aggiunse la perfidia e la duplicità. Se si è indotti a spiegare col tempo in cui visse certi lati del carattere di Cortes che sono poco stimabili, si è almeno sedotti da quella grazia e da quella nobiltà di modi, da quelle maniere da gentiluomo superiore ai pregiudizi che lo fecero amar tanto dal soldato. In Pizarro, si riconosce al contrario una rudezza, un'asprezza di sentimenti poco simpatica, e le sue qualità cavalleresche spariscono del tutto dietro quella rapacità e quella perfidia che lo caratterizzano. Se Cortes incontrò nei Messicani degli avversari coraggiosi e risoluti che gli opposero difficoltà quasi insormontabili, Pizarro non ebbe a durare alcuna fatica per vincere i Peruviani, rammolliti e paurosi, che non resistettero mai seriamente alle sue armi. Delle conquiste del Perù e del Messico, la meno difficile procurò maggiori vantaggi metallici alla Spagna, e perciò fu la più apprezzata. La guerra civile stava per iscoppiare ancora una volta dopo la morte di Pizarro, quando giunse il governatore delegato dal governo metropolitano. Appena egli ebbe riunite le truppe necessarie mosse verso Cusco. S'impadronì senza stento d'Almagro, lo fece decapitare con quaranta de' suoi fidi e governò il paese con fermezza fino all'arrivo del viceré Blasco Nuñez Vela. Non è nostra intenzione l'entrare nelle particolarità delle contese che costui ebbe con Gonzalo Pizarro, il quale, approfittando del malcontento generale cagionato da nuovi regolamenti sui repartimientos, si ribellò contro il rappresentante dell'imperatore. Dopo molte peripezie che non possono qui trovar posto, la lotta finì colla disfatta e col

supplizio di Gonzalo Pizarro, che ebbe luogo nel 1548. Il suo corpo fu portato a Cusco e sepolto vestito poiché «nessuno, dice Garcilasso de la Vega, volle dare un povero lenzuolo.» Così finì l'assassino giuridico d'Almagro. Non è forse il caso di ripetere queste parole della Scrittura: «Chi ferisce di spada, perisce di spada?»

CAPITOLO II. PRIMO VIAGGIO INTORNO AL MONDO. Magellano, suoi cominciamento, suo cambiamento di nazionalità — Preparativi della spedizione — Rio de Janeiro— La baia di San Giuliano — Rivolta d'una parte della squadra — Terribile punizione dei colpevoli. — Lo Stretto di Magellano — I Patagoni — Il Pacifico — Le isole dei Ladroni — Zebu e le Filippine — Morte di Magellano — Borneo— Le Molucche ed i loro prodotti — Separazione della Trinidad e della Vittoria — Ritorno in Europa per il capo di Buona Speranza — Ultime disgrazie.

S'ignorava ancora l'immensità del continente scoperto da Cristoforo Colombo, e però, si cercava ostinatamente sulla costa d'America, che si supponeva sempre formare molte isole, il famoso stretto che doveva condurre rapidamente nell'oceano Pacifico e fino a quelle isole delle spezie, il cui possesso avrebbe formato la ricchezza della Spagna. Mentre Cortereal e Caboto lo cercavano sull'oceano Atlantico, e Cortes fino in fondo al golfo di California, mentre Pizarro scendeva la costa del Perù e Valdivia conquistava il Chili, la soluzione del problema era trovata da un Portoghese al servizio della Spagna, da Fernando di Magellano. Figlio d'un gentiluomo di Cota e Armas, Fernando di Magellano nacque a Porto, a Lisbona, a Villa de Sabrossa od a Villa de Figueiro, non si sa bene, in una data ignota, ma verso la fine del secolo XV. Egli era stato allevato in casa del re Giovanni II, dove ricevette educazione migliore che si poteva dare a quel tempo. Dopo aver studiato in modo speciale le matematiche e la navigazione, — giacché vi era a quel tempo in Portogallo una corrente irresistibile che portava tutto quanto il paese verso le spedizioni e le scoperte marittime, — Magellano abbracciò di buon'ora la carriera della marina, e s'imbarcò, nel 1505, con Almeida, il quale si recava alle Indie.

Egli prese parte al saccheggio di Quiloa ed a tutti gli avvenimenti di quella campagna. L'anno seguente, accompagnò Vaz Pereira a Sofala; poi, di ritorno alla costa di Malabar, lo vediamo assistere alla presa di Malacca con Albuquerque e comportarvisi con altrettanta prudenza quanto coraggio. Egli fece parte di quelle spedizioni che Albuquerque mandò, verso il 1510, alla ricerca delle famose isole delle spezie, sotto il comando d'Antonio de Abreu e di Francisco Serrao. che scoprirono Banda, Amboine, Ternate e Tidor. Frattanto, Magellano aveva toccato certe isole della Malesia lontane seicento leghe da Malacca, ed egli ottenne sull'Arcipelago delle Molucche notizie minuziose che fecero nascere nel suo spirito l'idea del viaggio che doveva compiere più tardi. Di ritorno in Portogallo, Magellano ottenne, non senza difficoltà, la facoltà di frugare negli archivi della corona, ed acquistò in breve la certezza che le Molucche erano situate nell'emisfero attribuito alla Spagna dalla bolla di limitazione, adottata a Tordesillas dai re di Spagna e di Portogallo, e confermata, nel 1494, da papa Alessandro VI. In virtù di questa limitazione, che doveva dar luogo a tante contese appassionate, tutti i paesi situati a trecentosessanta miglia all'ovest del meridiano delle isole del capo Verde, dovevano appartenere alla Spagna, e tutti quelli all'est dello stesso meridiano al Portogallo. Magellano aveva troppa operosità per rimanere un pezzo senza ripigliar servizio. Egli andò dunque a guerreggiare in Africa, ad Azamor, città del Marocco, dove ricevette una leggiera ferita al ginocchio, la quale però, recidendo un nervo, lo rese zoppicante per tutto il resto della vita, e lo costrinse a tornare in Portogallo. Conscio della superiorità che le sue cognizioni teoriche e pratiche ed i suoi servigi gli assicuravano sulla turba dei cortigiani, Magellano doveva risentire più vivamente d'un altro l'ingiusto trattamento che ricevette da

Emmanuele, in proposito di certe querele fatte dagli abitanti d'Azamor contro gli ufficiali portoghesi. Le prevenzioni d'Emmanuele si mutarono in breve in un'avversione vera, la quale si manifestò con quell'imputazione oltraggiosa che, per sfuggire ad accuse incontestabili, Magellano fingesse di soffrire d'una ferita da nulla di cui era assolutamente guarito. Una tale asserzione era grave per l'onore tanto suscettibile ed ombroso di Magellano; perciò, egli prese fin d'allora una risoluzione estrema che rispondeva, del resto, alla grandezza dell'offesa ricevuta. Affinchè nessuno potesse ignorarlo, fece accertare con atto autentico ch'egli rinunciava ai suoi diritti di cittadino portoghese, cambiava nazionalità e pigliava in Ispagna lettere di naturalizzazione. Era un proclamare il più solennemente possibile, ch'egli intendeva d'essere trattato quale suddito della corona di Castiglia, alla quale voleva consacrare per l'avvenire i propri servigi e la vita tutta quanta. Grave determinazione, si vede, che non trovò nessuno che la biasimasse, e che gli storici più rigidi hanno scusata, testimoni Barros e Faria y Sousa. Nel medesimo tempo di lui, un uomo profondamente versato nelle cognizioni cosmografiche, il licenziato Ruy Faleiro, del pari caduto in disgrazia d'Emmanuele, lasciava Lisbona con suo fratello Francisco ed un mercante chiamato Christovam de Haro. Egli aveva concluso con Magellano un contratto d'associazione per recarsi alle Molucche per una nuova via non altrimenti determinata e che rimaneva il segreto di Magellano. Appena furono giunti in Ispagna (1517), i due associati presentarono il loro disegno a Carlo V, che lo accettò in massima; ma si trattava, cosa sempre delicata, di trovare i mezzi d'esecuzione. Fortunatamente, Magellano trovò in Juan de Aranda, fattore della camera di commercio, un partigiano entusiastico delle sue teoriche, e costui gli promise di mettere in opera tutta la sua influenza per far riuscire l'impresa. Egli

vide, in fatti, il gran cancelliere, il vescovo di Burgos, Fonseca, e seppe esporre con tanta abilità il gran beneficio, per la Spagna, della scoperta d'una via che conducesse al centro medesimo di produzione delle spezie, ed il danno immenso che ne risulterebbe al commercio del Portogallo, che fu firmata una convenzione il 22 marzo 1518. L'imperatore s'impegnava a fare tutte le spese dell'armamento, a patto che la massima parte dei benefizi spetterebbe a lui. Ma Magellano aveva ancora molti ostacoli da superare prima di spiegare le vele. Furono, dapprima, le rimostranze dell'ambasciatore portoghese, Alvaro da Costa, il quale cercò anzi, vista l'inutilità dei suoi tentativi, di far assassinare Magellano, al dire di Faria y Sousa. Poi, egli venne ad urtare contro il malanimo degli impiegati della Casa de contratacion di Siviglia, gelosi di veder dare ad uno straniero il comando d'una spedizione così importante, ed invidiosi dell'ultimo favore che era stato accordato a Magellano ed a Ruy Faleiro, nominati commendatori dell'ordine di San Giacomo. Ma Carlo V aveva dato il suo consenso con un atto pubblico, che sembrava dover essere irrevocabile. Si cercò tuttavia di farlo pentire della sua decisione, preparando, il 22 ottobre 1518, una sommossa pagata coll'oro del Portogallo. Essa scoppiò sotto il pretesto che Magellano, il quale aveva fatto tirare a terra una delle sue navi per raddobbarla e dipingerla, l'avesse decorata colle armi portoghesi. Quest'ultimo tentativo fallì miseramente, e tre ordinanze del 30 marzo, 6 e 30 aprile stabilirono la composizione degli equipaggi e nominarono lo stato maggiore; infine un'ultima cedola, datata da Barcellona, il 26 luglio 1519, affidava il comando unico della spedizione a Magellano. Che era mai accaduto con Ruy Faleiro? non sapremmo dirlo propriamente, ma quest'ultimo, che per lo innanzi era stato trattato come Magellano, ed aveva forse concepito il disegno, fu ad un tratto escluso dal comando della spedizione a

causa di dissensi, di cui non si conosce la ragione. La sua salute, già malferma, ricevette un ultimo colpo da questo affronto, ed il povero Ruy Faleiro, diventato quasi pazzo, essendo tornato in Portogallo per vedere la propria famiglia, vi fu arrestato e non potè ricuperare la libertà se non in grazia

Magellano sulla sua nave. (Facsimile. Incisione antica).

dell'intercessione di Carlo V. Finalmente, dopo d'aver prestato egli medesimo fede ed omaggio alla corona di Castiglia, Magellano ricevette alla sua volta il giuramento de' suoi ufficiali e marinai e lasciò il porto

di San Lucar de Barrameda, il mattino del 10 agosto 1519. Ma prima d'incominciare il racconto di questa memoranda campagna, convien dare alcuni particolari su colui che ne ha conservata la relazione più compiuta, su Francesco Antonio Pigafetta. Nato a Vicenza verso il 1491 di famiglia nobile,

Pigafetta faceva parte del seguito dell'ambasciatore Francesco Chiericalco che Leone X mandò a Carlo V allora a Barcellona. La sua attenzione fu svegliata senza dubbio dal rumore che facevano allora in Ispagna i preparativi della spedizione, ed egli ottenne di pigliar parte al viaggio. Questo volontario fu del

resto una recluta eccellente, giacché si mostrò in ogni occasione fedele ed intelligente osservatore del pari che bravo e coraggioso compagno. Fu ferito nel combattimento di Zebu accanto a Magellano, il che gli impedì anzi d'assistere al banchetto durante il quale un sì gran numero de' suoi compagni dovevano trovar la morte. Quanto al suo racconto, tranne alcune esagerazioni di particolari che erano di moda a quel tempo, è esatto, e la maggior parte delle descrizioni che noi gli dobbiamo sono state accertate dai viaggiatori e dagli scienziati moderni, segnatamente dal signor Alcide d'Orbigny. Appena fu ritornato a San Lucar, il 6 settembre 1522, il Lombardo, come veniva chiamato a bordo della Victoria, dopo d'aver compiuto il voto fatto di recarsi a ringraziare a piedi nudi «Nuesta Senora de la Victoria,» presentò a Carlo V, allora a Valladolid, il giornale completo del viaggio. Al suo ritorno in Italia, per mezzo dell'originale come pure di note complementari ed a richiesta del papa Clemente VII e del gran maestro dell'ordine di Malta, Villiers de l'Isle Adam, egli scrisse un racconto più esteso della spedizione, di cui mandò molte copie ad alcuni grandi personaggi e segnatamente a Luigia di Savoia, madre di Francesco I. Ma quest'ultima, non potendo comprendere, così crede il signor Harrisse, eruditissimo autore della Bibliotheca americana vetustissima, la specie di gergo adoperato da Pigafetta e che rassomigliava ad un misto d'italiano, di veneziano e di spagnuolo, richiese un certo Giacomo Antonio Fabre di tradurglielo in francese. Invece di darne una traduzione fedele, Fabre ne avrebbe fatto una specie di compendio. Alcuni critici suppongono per altro che questo racconto sia stato scritto originariamente in francese; essi fondano la loro opinione sull'esistenza di tre manoscritti francesi del secolo XVI, che presentano molte varianti, e due dei quali sono alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Pigafetta morì a Vicenza verso il 1534, in una casa che si

poteva vedere ancora nel 1800 in via della Luna, e che portava l'impresa ben nota: «Non vi è rosa senza spine.» Tuttavia, non abbiamo voluto accontentarci della relazione di Pigafetta, e l'abbiamo sindacata e compiuta per mezzo del racconto di Massimiliano Transylvain, segretario di Carlo V, di cui si trova la traduzione italiana nella preziosa raccolta di Ramusio. La flotta di Magellano si componeva della Trinidad, di 120 tonnellate, sulla quale sventolava la bandiera del comandante della spedizione: del Sant'Antonio, similmente di 120 tonnellate, comandante Juan de Carthagena, il secondo, la persona congiunta di Magellano, dice la cedola; della Concepcion, di 90, comandante Gaspare de Quesada; della famosa Victoria, di 85, comandante Luigi de Mendoza; e finalmente del Santiago, di 75, comandante Joao Serrao, di cui gli Spagnuoli hanno fatto Serrano. Quattro di questi capitani e quasi tutti i piloti erano Portoghesi. Barbosa e Gomez sulla Trinidad, Luigi Alfonso de Goes e Vasco Gallego sulla Victoria, Serrao, Joao Lopes de Carvalho sulla Concepcion, Joao Rodiguez de Mcefrapil sul Sant'Antonio, e Joao Serrao sul Santiago, come pure Trenticinque marinai, formavano un totale di trentatrè Portoghesi sopra un insieme di dugentotrentasette individui, i cui nomi ci sono stati conservati e fra i quali vi ha un gran numero di Francesi. Degli ufficiali di cui abbiamo citato i nomi, ricorderemo che Duarte Barbosa era il cognato di Magellano, e che Estavam Gomes, che fu più tardi mandato da Carlo V alla ricerca del passaggio nord-ovest, e che, nel 1524, segui le coste d'America dalla Florida fino a Rhode Island e fors'anco fino al capo Cod, tornò a Siviglia, il 6 maggio 1521, senza aver partecipato fino alla fine a questo memorabile viaggio. Nulla era meglio ordinato di questa spedizione, per la

quale erano state radunate tutte le risorse che poteva fornire l'arte nautica di quel tempo. Al momento della partenza, Magellano consegnò a' suoi piloti ed a' suoi capitani le ultime istruzioni, come pure i segnali destinati ad assicurare la simultaneità delle manovre e ad impedire una possibile separazione. Il lunedì mattina, 10 agosto 1519, la flotta levò l'àncora e scese il Guadalquivir fino a San Lucar de Barrameda, che forma il porto di Siviglia, e dove finì di fare le provviste. Fu solo il 20 settembre che essa prese definitivamente il mare. Sei giorni dopo, nell'arcipelago delle Canarie, essa si fermò a Teneriffa, dove fece provviste d'acqua e di legna. Lasciando queste isole i primi sintomi del disaccordo che doveva riuscire tanto funesto alla spedizione si manifestarono tra Magellano e Juan de Carthagena. Quest'ultimo pretendeva d'esser messo al fatto dal comandante supremo, della via che aveva intenzione di percorrere, pretesa subito respinta da Magellano, il quale dichiarò di non aver conti da rendere al suo subordinato. Dopo d'essere passati tra le isole del capo Verde e l'Africa, si giunse nei paraggi di Sierra Leone, dove venti contrari e calme trattennero la flotta una ventina di giorni. Avvenne allora un doloroso incidente. In un consiglio tenuto a bordo della nave ammiraglia, essendo sorta una viva discussione, e Juan de Carthagena, che mostrava di trattar con disprezzo il capitano generale, avendogli risposto con alterigia ed insolenza, Magellano fu costretto ad arrestarlo di propria mano ed a farlo mettere ai ceppi, strumento composto di due pezzi di legno sovrapposti e trapassati da buchi in cui dovevano entrare le gambe del marinaio che si voleva punire. Contro questa punizione troppo umiliante per un ufficiale superiore, gli altri capitani reclamarono vivamente presso Magellano, ed ottennero che Carthagena fosse semplicemente messo agli arresti sotto la custodia d'uno d'essi.

Alle calme succedettero pioggie, burrasche e raffiche impetuose, che costrinsero le navi a cappeggiare. Durante questi uragani, i navigatori furono più volte testimoni d'un fenomeno elettrico di cui non si conosceva allora la causa, che si credeva essere un segno manifesto della protezione del cielo, e che ancor oggi è designato sotto il nome di fuoco di Sant'Elmo. Appena passata la linea equinoziale, — passaggio che non sembra fosse celebrato a quel tempo dalla grottesca cerimonia del battesimo in uso fino ai nostri giorni, — si fece rotta verso il Brasile, dove, il 13 dicembre 1519, la flotta si ancorò nel magnifico porto di Santa Lucia, conosciuto oggi sotto il nome di Rio Janeiro. Non era del resto la prima volta che quella baia veniva visitata dagli Europei, come si è creduto per un pezzo. Fin dal 1511, essa era designata sotto il nome di Bahia do Cabo Frio. Essa era pure stata visitata, quattro anni prima dell'arrivo di Magellano, da Pero Lopez, e sembra essere stata fin dal principio del secolo XVI frequentata dai marinai di Dieppe, che, eredi della passione dei loro antenati, i Northmen, per la navigazione avventurosa, percorsero il mondo, e fondarono per ogni dove stabilimenti o negozi. In quel luogo, la spedizione spagnuola si procurò a buoni patti, in cambio di specchi, pezzi di nastro, cesoie, campanelluzzi od ami, una gran quantità di provviste, tra le quali Pigafetta cita gli ananassi, la canna da zucchero, patate, polli e carne d'anta, che si crede fosse il tapiro. Le notizie che si trovano nella medesima relazione sui costumi degli abitanti sono tanto curiose da meritare d'essere riferite. «I Brasiliani non sono cristiani, vi si dice, ma neppure idolatri, giacché non adorano nulla; l'istinto naturale è l'unica loro legge.» Ecco un'interessante nota, una confessione singolare da parte d'un italiano del secolo XVI, molto incline alla superstizione, e che prova ancora una volta che l'idea della divinità non è innata, come hanno preteso certi teologi.

«Quegli indigeni vivono fino ad età molto tarda, vanno interamente nudi, si coricano sopra reti di cotone, chiamate hamac, sospese a travi per le due estremità. Quanto alle loro barche, chiamate canoas, sono scavate in un sol tronco d'albero e possono contenere fino quaranta uomini. Essi sono antropofagi, ma soltanto per occasione, e non mangiano che i loro nemici presi nei combattimenti. Il loro vestito di cerimonia consiste in una specie di veste di penne di pappagallo tessute insieme ed accomodate in guisa che le grandi penne delle ali e della coda formano una specie di cintura sulle reni, il che dà loro un aspetto bizzarro e ridicolo.» Abbiamo già detto che il mantello di penne era in uso sulle sponde del Pacifico, presso i Peruviani; è curioso il notare che era portato anche dai Brasiliani. Si è potuto vedere qualche campione di questa singolare acconciatura all'esposizione del museo etnografico. Non era questo del resto l'unico ornamento di quei selvaggi, che si passavano in tre buchi fatti al labbro inferiore dei cilindretti di pietra, usanza che si ritrova in molti popoli oceaniani e che conviene assimilare alla nostra moda degli orecchini. Quei popoli erano estremamente creduli e buoni. Perciò, Pigafetta dice che facilmente si avrebbe potuto convertirli al cristianesimo, giacché essi assisterono in silenzio e con raccoglimento alla messa che fu detta a terra, osservazione già fatta da Alvares Cabral. Dopo d'essere rimasti tredici giorni in quel luogo, la squadra continuò la sua via verso il sud, rasentando la terra, e giunse, a 34° 40' di latitudine australe, in un paese in cui scorreva un gran fiume d'acqua dolce. Era la Plata. Gli indigeni, chiamati Charruas, provarono un tal terrore alla vista delle navi, che si rifugiarono precipitosamente nell'interno del paese con quanto avevano di più prezioso, e fu impossibile raggiungere nessuno d'essi. È in questa regione che, quattro anni prima, Juan Diaz de Solis era stato trucidato da una tribù

di Charruas, armati di quel congegno terribile di cui si servono ancor oggi i gaucho della Repubblica Argentina, quelle Vola, che sono palle di metallo legate alle due estremità d'una lunga correggia di cuoio chiamata lasso. Un po' al disotto dell'estuario della Plata, un tempo considerato come un braccio di mare che sboccasse nel Pacifico, la flotta si fermò al porto Desiderato. Vi si fece, per gli equipaggi delle cinque navi, un'ampia provvista di pinguini, volatili che non formavano un cibo dei più succulenti. Poi si arrestarono, a 49° 30', in un bel porto in cui Magellano risolvette di svernare e che prese il nome di baia di San Giuliano. Da due mesi gli Spagnuoli erano in quel luogo, quando videro, un giorno, un uomo che parve loro d'una statura gigantesca. Vedendoli, egli si mise a danzare ed a cantare gettandosi della polvere sulla testa. Era un Patagono, il quale si lasciò condurre senza resistenza sulle navi. Egli manifestò il più vivo stupore alla vista di tutto ciò che lo circondava, ma nulla lo meravigliò tanto quanto un gran specchio d'acciaio che gli fu presentato. «Il gigante, che non aveva la minima idea di quel mobile e che per la prima volta senza dubbio vedeva la sua faccia, rinculò così spaventato, che gettò a terra quattro dei nostri uomini, i quali stavano dietro di lui.» Lo si ricondusse a terra, carico di doni, e l'accoglienza benevola ch'egli aveva ricevuta indusse i suoi compagni, in numero di diciotto, — tredici donne e cinque uomini, — a montare a bordo. Grandi, colla faccia larga e tinta di rosso, tranne gli occhi cerchiati di giallo, i capelli sbiancati colla calce, essi erano avviluppati in enormi mantelli di pelliccia, e portavano quelle larghe calzature di pelle che fecero dar loro il nome di Grandi Piedi o Patagoni. La loro statura non era per altro tanto gigantesca quanto parve al nostro ingenuo narratore, giacché essa varia tra lm,92 ed lm,72, il che è per altro al disopra della statura media

degli Europei. Per armi, essi avevano un arco corto e massiccio e freccie di canna, la cui punta era formata da un ciottolo tagliente. Il capitano, per trattenere due di quei selvaggi che voleva condurre in Europa, usò una soperchieria che noi diremmo oggidì odiosa, ma che nulla aveva di rivoltante nel secolo XVI, allorché si considerava da per tutto i negri e gli Indiani come specie d'animali. Egli li caricò di doni, e quando li vide molto imbarazzati, offrì a ciascuno d'essi uno di quegli anelli di ferro che servono ad incatenare. Essi avrebbero ben voluto portarlo via, giacché stimavano il ferro più d'ogni altra cosa, ma le loro mani erano piene. Fu loro proposto allora di attaccarselo alla gamba, cosa che essi accettarono senza diffidenza. I marinai ribadirono allora gli anelli in guisa che i selvaggi si trovassero incatenati. Nulla può dare un'idea del loro furore, quando si avvidero di questo stratagemma, più degno di selvaggi che d'uomini inciviliti. Si cercò ancora, ma invano, di catturarne qualche altro, ed in quella caccia, uno degli Spagnuoli fu ferito con una freccia avvelenata, che cagionò subito la sua morte. Cacciatori intrepidi, quei popoli vagano di continuo inseguendo dei guanachi ed altra selvaggina, giacché sono dotati di tale voracità che «quanto basterebbe al nutrimento di venti marinai può appena saziarne sette od otto.» Magellano, prevedendo che la fermata si prolungherebbe, e vedendo che il paese non forniva se non meschini mezzi di sussistenza, ordinò d'economizzare i viveri e di mettere gli uomini alla razione, affinchè si potesse aspettare la primavera senza troppe privazioni e giungere ad una regione più ricca di selvaggiume. Ma gli Spagnuoli, malcontenti della sterilità del luogo, della lunghezza e del rigore dell'inverno, cominciarono a mormorare. Quella terra sembrava addentrarsi nel sud fino al polo antartico, dicevano essi; non pareva che vi fosse alcuno

stretto, molti erano già morti a causa delle privazioni sopportate, infine era tempo di ripigliare la via della Spagna, se il comandante non voleva vedere tutti i suoi uomini perire in quel luogo. Magellano, assolutamente risoluto a morire od a condurre a fine l'impresa di cui aveva il comando, rispose che l'imperatore gli aveva segnato il corso del suo viaggio, e ch'egli non poteva né voleva, sotto alcun pretesto, dipartirsene, e per conseguenza andrebbe dritto innanzi a sé fino alla fine di quella terra o fin tanto che incontrasse qualche stretto. Quanto ai viveri, se li trovavano scarsi, i suoi uomini potevano aggiungere alla loro razione il prodotto della pesca o della caccia. Magellano credette che una dichiarazione così salda dovesse impor silenzio ai malcontenti e ch'egli non udrebbe più parlare di privazioni di cui egli soffriva al pari degli uomini dei suoi equipaggi. S'ingannava di molto. Certi capitani, e segnatamente Juan de Carthagena, avevano interesse a far scoppiare una rivolta. Quei ribelli incominciarono dunque a ricordare agli Spagnuoli il loro vecchio rancore contro i Portoghesi. Il capitano generale, essendo di questi ultimi, non si era mai alleato francamente, dicevano, alla bandiera spagnuola. Allo scopo di poter tornare in patria e di farsi perdonare í suoi torti, egli voleva commettere qualche splendido misfatto, e nulla sarebbe più vantaggioso al Portogallo della distruzione di quella bella flotta. Invece di condurli in quell'arcipelago delle Molucche di cui egli aveva vantato loro l'opulenza, voleva certamente trascinarli in regioni agghiacciate, soggiorno di nevi eterne, dove sarebbero presto periti; poi, coll'aiuto dei Portoghesi imbarcati sulla squadra, egli ricondurrebbe nella sua patria le navi di cui si sarebbe impadronito. Tali erano le dicerie, le accuse che seminavano fra i marinai i fidi di Juan de Carthagena, di Luigi de Mendoza e di

Gaspare de Quesada, quando, la domenica delle Palme, 1° aprile 1520, Magellano convocò i capitani, ufficiali e piloti, per udir la messa a bordo della sua nave e desinare poi con lui. Alvaro de La Mesquita, cugino del capitano generale, si arrese a questo invito con Antonio de Coca ed i suoi ufficiali, ma né Mendoza, né Quesada e tanto meno Juan de Carthagena, prigioniero di quest'ultimo, vi apparvero. La notte successiva, essi montarono con trenta uomini della Concepcion sul Sant'Antonio e vollero farsi consegnare La Mesquita. Il pilota Juan de Elioraga, difendendo il suo capitano, ricevette quattro colpi di pugnale nel braccio. Quesada esclamò nel medesimo tempo: «Vedrete che questo pazzo farà fallire la nostra impresa.» Le tre navi Concepcion, Sant'Antonio e Santiago caddero senza difficoltà fra le mani dei ribelli, che avevano più d'un complice negli equipaggi. Non ostante questa riuscita, i tre capitani non osarono attaccare apertamente il comandante supremo, e gli fecero proposte d'accomodamento. Magellano rispose loro di venire a bordo della Trinidad per intendersi con lui; ma essi si rifiutarono energicamente. Non avendo più allora alcun riguardo ad usare, Magellano fece pigliare la barca che gli aveva portato questa risposta, e scegliendo nel suo equipaggio sei uomini robusti e determinati, li mandò a bordo della Victoria sotto il comando dell'alguazil Espinosa. Costui consegnò a Mendoza una lettera di Magellano che gli ingiungeva di recarsi a bordo della Trinidad, e siccome egli sorrideva in aria beffarda, Espinosa gli cacciò un pugnale nella gola, mentre un marinaio gli dava un colpo di coltellaccio alla testa. Mentre accadevano questi avvenimenti, un'altra barca carica di quindici uomini armati, si accostava alla Victoria e se ne impadroniva, senza che i marmai, sorpresi dalla rapidità dell'esecuzione, opponessero la minima resistenza. Il domani, 3 aprile, le due altre navi ribelli furono riprese, però non senza spargimento di sangue. Il corpo di Mendoza fu spartito in

quarti, mentre un segretario leggeva ad alta voce la sentenza che lo colpiva. Tre giorni dopo, Quesada veniva decapitato e

fatto a brani dal suo proprio servo, che si rassegnava a far

questo triste ufficio per aver salva la vita. Quanto a Carthagena, l'alto grado che la cedola reale gli aveva conferito nella spedizione lo salvò dalla morte, ma fu abbandonato, al pari del capellano Gomez de la Reina, sulla spiaggia, dove fu raccolto alcuni mesi dopo da Estevam Gomez. Quaranta marinai

colpevoli di ribellione ricevettero il perdono, perchè i loro servigi erano riconosciuti indispensabili. Dopo questa severa punizione, Magellano potè sperare che lo spirito di ammutinamento fosse assolutamente domato. Quando la temperatura si fece più clemente, furono levate

le ancore; la squadra riprese il mare il 24 agosto, seguendo la costa ed esplorando con cura tutti i golfi per trovare quello stretto così ostinatamente cercato. All'altezza del capo Santa Croce, una delle navi, il Santiago, si perdette sopra gli scogli durante una violenta raffica che soffiava dall'est. Fortunatamente, si poterono salvare gli uomini e le mercanzie, senza contare che si riuscì a togliere dalla nave naufragata gli attrezzi e gli apparecchi, che furono spartiti sulle altre quattro navi. Finalmente, il 21 ottobre secondo Pigafetta, il 27 novembre stando a Massimiliano Transylvain, la flotta penetrò per una stretta gola in un golfo in fondo al quale si apriva uno stretto, che, come si vide subito, sboccava nel mare del sud. Fa chiamato dapprima lo stretto delle Undicimila Vergini, perchè quel giorno era loro consacrato. Da ogni lato di quello stretto sorgevano terre alte e coperte di neve sulle quali furono visti molti fuochi, segnatamente a mancina, ma senza che si potesse entrare in comunicazione cogli indigeni. I particolari che ci sono dati da Pigafetta e da Martino Transylvain sulla disposizione topografica e l'idrografia dello stretto, sono piuttosto incerti, e dovremo del resto tornarci su quando parleremo della spedizione di Bougainville, per cui non ci arresteremo. Dopo una navigazione di ventidue giorni attraverso quella successione di gole e di bracci di mare, larghi ora una lega, ora quattro, che si estende per una lunghezza di quattrocentoquaranta miglia e che ha ricevuto il nome di stretto di Magellano, la flotta giunse in un mare immenso e profondo. La gioia fu generale quando finalmente si vide ottenuto l'intento di tanti e così lunghi sforzi. Oramai la via era aperta, le previsioni così abili di Magellano si erano avverate. Nulla è più straordinario della navigazione di Magellano in quell'oceano ch'egli chiamò Pacifico, perchè, durante circa quattro mesi, non vi fu assalito da nessuna tempesta. Le

privazioni che dovettero sopportare gli equipaggi in questo lungo spazio di tempo furono grandi. Il biscotto non era più che una polvere mista di vermi, e l'acqua corrotta esalava un odore insopportabile. Bisognò, per non morir di fame, mangiare i sorci, nutrirsi di segatura di legno e rosicchiare tutto il cuoio che fa possibile trovare. Come è facile immaginare, in queste condizioni, gli equipaggi furono decimati dallo scorbuto. Diciannove uomini morirono ed una trentina furono presi alle braccia ed alle gambe da violenti dolori, che li fecero soffrire a lungo. In fine, dopo d'aver percorso più di quattromila leghe senza incontrare una sola isola, in un mare in cui si dovevano scoprire tanti arcipelaghi così popolati, si trovarono due isole deserte e sterili, chiamate appunto perciò isole Disgraziate, ma la cui posizione è indicata in modo troppo contradditorio perchè sia possibile riconoscerle. A 12° di latitudine settentrionale 146° di longitudine, il mercoledì 6 marzo, i navigatori scoprirono successivamente tre isole, alle quali si avrebbe voluto arrestarsi per ristorarsi e fare delle provviste; ma gli isolani, che montarono a bordo, rubarono tante cose senza che fosse impossibile impedirneli, che si dovette rinunciarvi. Quei predoni trovarono modo perfino d'impadronirsi d'una scialuppa. Magellano, offeso da una tale impudenza, scese a terra con una quarantina d'uomini armati, arse un certo numero di case e di barche ed uccise sette uomini. Quegli isolani non avevano né capo, né re, né religione; colla testa coperta di cappelli di palma, portavano barba e capelli che scendevano loro fino alla cintola. Generalmente di color olivastro, essi credevano d'abbellirsi colorandosi i denti di nero e di rosso, ed i loro corpi erano unti d'olio di cocco, senza dubbio per proteggersi contro l'ardore del sole. I loro canotti, costrutti in modo singolare, avevano una vela grandissima fatta di stuoie che poteva facilmente far capovolgere la barca, se non avessero avuto la precauzione di

renderle più stabili per mezzo di lunghi pezzi di legno tenuti ad una certa, distanza da due pertiche: è ciò che si chiama il «bilanciere.» Industriosissimi, quegli isolani avevano per il furto un'attitudine singolare, che ha fatto dare al loro paese il nome di isole dei Ladroni. Il 16 marzo fu vista, a trecento leghe dalle isole dei Ladroni, una terra elevata che fu riconosciuta in breve per un'isola, nota oggi sotto il nome di Samar. Magellano risolvette di darvi un po' di riposo ai suoi equipaggi estenuati, e fece rizzare a terra due tende per gli infermi. Gli indigeni portarono poco stante dei banani, del vino di palma, delle noci di cocco e dei pesci; furono offerti loro in cambio degli specchi, dei pettini, dei vetri ed altre bagattelle analoghe. Albero prezioso fra tutti gli altri, il cocco fornisce a quegli indigeni il pane, il vino, l'olio, l'aceto, senza contare che ne ricavano, nel medesimo tempo le vestimenta, ed il legno necessario alla costruzione ed alla copertura delle loro capanne. Familiarizzati in breve cogli Spagnuoli, gli indigeni appresero loro che quell'arcipelago produceva i chiodi di garofano, la cannella, il pepe, la noce moscata, il ginepro, il grano turco, e che vi si raccoglieva perfino dell'oro. Magellano diede a quell'arcipelago il nome d'isole San Lazzaro, mutato più tardi in quello di Filippine, dal nome di Filippo d'Austria, figlio di Carlo V. Questo arcipelago è formato da gran numero d'isole, che si stendono nella Malesia fra 5° 32' e 19° 38' di latitudine nord, e 114° 56' e 123° 43' di longitudine est del meridiano di Parigi. Le più importanti sono: Lucon, Mindoro, Leyte, la Ceylon di Pigafetta, Samar, Panay, Negros, Zebu, Bohol, Palauan e Mindanao. Dopo d'essersi un po' ristorati, gli Spagnuoli ripresero il mare allo scopo di esplorare l'arcipelago. Essi videro successivamente le isole di Cenalo, Huinaugan, Ibusson ed

Abarien, come pure un'altra isola chiamata Massava, il cui re, Colambu, potè farsi comprendere da uno schiavo nativo di Sumatra che Magellano aveva condotto seco dall'India in Europa, e che, colla sua cognizione del malese, rese in molte circostanze segnalati servigi. Il re salì a bordo con sei od otto dei suoi principali sudditi. Egli portava al capitano generale alcuni doni, in cambio dei quali ricevette una veste di panno rosso e giallo fatta alla turca ed un berretto di panno scarlatto, mentre specchi e coltelli venivano dati agli uomini del suo seguito. Gli furono fatte vedere tutte le armi da fuoco, e si spararono innanzi a lui alcuni colpi di cannone che lo spaventarono molto. «Poi Magellano, dice Pigafetta, fece armare di tutto punto uno di noi ed incaricò tre uomini di dargli dei colpi di spada e di stile, per mostrare al re che nulla poteva ferire un uomo armato a quel modo, il che lo sorprese molto; e rivolgendosi all'interprete, disse per suo mezzo al capitano che un uomo armato in tal guisa poteva combattere contro cento. — Sì, rispose l'interprete in nome del comandante, e ciascuna delle tre navi ha dugento uomini armati in questo modo.» Il re, stupefatto di tutto ciò che aveva visto, si accomiatò dal capitano pregandolo di mandar con lui due dei suoi per far veder loro alcune particolarità dell'isola. Pigafetta fu designato, e non ebbe che a lodarsi dell'accoglienza che gli fu fatta. Il re gli disse: «che si trovavano nella sua isola dei pezzi d'oro grossi come noci ed anche come uova, misti colla terra che veniva passata allo staccio per trovarli, e che tutti i suoi vasi, ed anche alcuni ornamenti della sua casa erano di questo metallo. Egli era vestito assai bene, secondo l'uso del paese, ed era il più bell'uomo che io abbia visto fra quei popoli. I suoi capelli neri gli ricadevano sulle spalle; un velo di seta gli copriva la testa, ed egli portava alle orecchie due anelli. Dalla cintola fino alle ginocchia, era coperto di un panno di cotone ricamato in seta. Su ciascuno dei suoi denti si vedevano tre macchie d'oro, di

modo che si avrebbe potuto dire che aveva i denti legati con questo metallo. Era profumato di storace e di benzuino. La sua pelle era dipinta, ma il fondo ne era olivastro. Il giorno della Risurrezione, si scese a terra per celebrare la messa, dopo d'aver costrutta sulla spiaggia una specie di chiesetta con vele e rami d'alberi. Era stato eretto un altare, e per tutto il tempo che durò la cerimonia religiosa, il re, con grande affluenza di popolo, ascoltò in silenzio ed imitò tutti i movimenti degli Spagnuoli. Poi, fu piantata una croce sopra una collina con grande apparato, e si levò l'àncora per recarsi al porto di Zebu, che era il più adatto per approvigionare le navi e per trafficare. Vi si giunse la domenica 7 aprile. Magellano fece subito scendere a terra uno dei suoi ufficiali coll'interprete, come ambasciatore al re di Zebu. L'inviato spiegò che il capo della squadra era agli ordini del più gran re della terra. Lo scopo del viaggio, aggiunse egli, erano le isole Molucche, ed il desiderio di fargli visita, nel medesimo tempo che dì ristorarsi un poco in cambio di mercanzie: tali erano i motivi che li facevano arrestare in un paese in cui venivano come amici. «Siano i benvenuti, rispose il re; ma se hanno intenzione di trafficare, devono pagare una tassa, a cui sono sottoposte tutte le navi che entrano nel mio porto, come ha fatto, non sono ancora quattro giorni, una giunca di Siam che è venuta a prendere dell'oro e degli schiavi, e come può farne testimonianza un mercante moro rimasto nel paese.» Lo Spagnuolo rispose che il suo padrone era un re troppo possente per sottoporsi a simile esigenza. Essi erano venuti con idee pacifiche, ma se si voleva far la guerra, si troverebbe a chi parlare. Il re di Zebu, avvertito dal mercante moro della potenza di coloro che si presentavano e ch'egli pigliava per Portoghesi, acconsentì infine a rinunciare alle sue pretese. Anzi, il re di Massava, che aveva voluto servir da pilota agli Spagnuoli,

mutò tanto le disposizioni del suo confratello, che costoro ottennero il privilegio esclusivo del commercio dell'isola, e che un'amicizia leale fu stretta tra il re di Zebu e Magellano mediante lo scambio del sangue che ciascuno fece spicciare dal suo braccio destro. Da quel momento furono recati dei viveri e le relazioni divennero cordiali. Il nipote del re, con un numeroso seguito, si recò a visitare Magellano a bordo della sua nave. Costui ne approfittò per narrargli la storia meravigliosa della creazione del mondo, della redenzione dell'uomo e per invitarlo a convertirsi al cristianesimo insieme col suo popolo. Essi non dimostrarono veruna ripugnanza a farsi battezzare, ed il 14 aprile, il re di Zebu, quello di Massava, il mercante moro con cinquecento uomini ed altrettante donne, ricevettero il battesimo. Ma ciò che non era se non una moda, giacché non si può dire che gli indigeni conoscessero la religione che abbracciavano e fossero persuasi della sua verità, diventò una vera frenesia dopo una guarigione miracolosa fatta da Magellano. Avendo appreso che il padre del re era ammalato da due anni ed in punto di morte, il capitano generale promise, s'egli acconsentisse a farsi battezzare e se gli indigeni bruciassero i loro idoli, che si troverebbe guarito. «Egli aggiunse che era così convinto di quanto diceva, narra Pigafetta, — giacché è bene citare testualmente i propri autori in simile materia, — che acconsentiva a lasciarsi mozzare il capo se ciò ch'egli prometteva non accadesse a dirittura. Noi facemmo allora, con tutta la pompa possibile, una processione dal luogo in cui eravamo alla casa dell'infermo, che trovammo veramente in pessimo stato, di guisa che egli non poteva né parlare, né muoversi. Noi lo battezzammo con due delle sue mogli e dieci figlie. Il capitano gli chiese, subito dopo il battesimo, come si sentisse, ed egli rispose improvvisamente che, grazie a Nostro Signore, stava bene. Noi fummo tutti

testimoni di questo miracolo, ed il capitano soprattutto ne rese grazie a Dio. Egli diede al principe una bevanda rinfrescante e continuò a mandargliene tutti i giorni finché fu interamente risanato. Al quinto giorno il malato era perfettamente guarito e si levò; sua prima cura fu di ardere in presenza del re e di tutto il popolo un idolo per il quale egli aveva gran venerazione, e che alcune vecchie custodivano con gran cura nella sua casa. Egli fece pure atterrare molti templi posti in riva al mare, dove il popolo si radunava per mangiare la carne consacrata alle antiche divinità. Tutti gli abitanti applaudirono a queste esecuzioni e si proposero di distruggere tutti gli idoli, perfino quelli che servivano nella casa del re, gridando nel medesimo tempo Viva la Castiglia! in onore del re di Spagna. Presso l'isola di Zebu vi ha un'altr'isola, chiamata Matan, che aveva due capi; l'uno aveva riconosciuta l'autorità degli Spagnuoli, l'altro vi si era energicamente rifiutato, e Magellano risolvette di imporgliela. Il 26 aprile, un venerdì, tre scialuppe portanti sessanta uomini armati di corazze, di caschi e di moschetti, ed una trentina di talangais, sulle quali erano il re di Zebu, suo genero e molti guerrieri, partirono per l'isola di Matan. Gli Spagnuoli aspettarono il giorno e balzarono in acqua in numero di quarantanove, giacché le scialuppe non potevano avvicinare la terra a cagione degli scogli e dei bassi fondi. Più di millecinquecento indigeni li aspettavano; si gettarono subito sopra di essi in tre battaglioni e li assalirono di fronte e di fianco. I moschettieri ed i balestrieri tirarono da lontano sulla moltitudine dei guerrieri, senza far loro gran male, giacché erano protetti da scudi. Assaliti a sassate, a colpi di freccie, di giavellotti e di lancie, oppressi dal numero, gli Spagnuoli diedero fuoco ad alcune case per scostare ed intimidire i naturali. Ma questi, resi più accaniti dalla vista dell'incendio, raddoppiarono gli sforzi e strinsero da tutte le parti gli Spagnuoli che stentavano a resister loro, quando un

disgustoso accidente venne a compromettere l'esito del combattimento. Gli indigeni non avevano tardato a notare che tutti i colpi che essi dirigevano alle parti del corpo dei nemici protette dall'armatura non li ferivano; essi dunque lanciarono le loro freccie ed i loro giavellotti contro la parte inferiore del corpo che era indifesa. Magellano, colpito alla gamba da una freccia avvelenata, ordinò la ritirata, che, incominciata in buon ordine, si mutò poco stante in una fuga tale, che sette od otto Spagnuoli rimasero soli al suo fianco. Essi rincularono a gran stento, sempre combattendo, per raggiungere le scialuppe. Avevano già l'acqua fino alle ginocchia, quando molti isolani si fecero addosso nel medesimo tempo a Magellano, ferito al braccio e nell'impossibilità di sguainare la spada, e gli diedero alla gamba un tal colpo di sciabola, ch'egli cadde subito nell'acqua, dove non stentarono a finirlo. I suoi ultimi compagni, tutti feriti, e fra essi Pigafetta, tornarono in fretta alle barche. Così perì, il 27 aprile 1521, l'illustre Magellano. «Egli era adorno di tutte le virtù, dice Pigafetta; egli mostrò sempre una costanza inalterabile in mezzo alle maggiori avversità. In mare, egli si condannava a maggiori privazioni che non il rimanente del suo equipaggio. Versato più d'ogni altro nella cognizione delle carte nautiche, egli possedeva perfettamente l'arte della navigazione, come ha provato facendo il giro del mondo; cosa che nessuno prima di lui aveva mai osato fare.» L'elogio funebre di Pigafetta, sebbene alquanto iperbolico, non è meno vero nella sostanza. Bisognarono a Magellano una costanza, una perseveranza singolari per cacciarsi, malgrado i terrori de' suoi compagni, in regioni in cui lo spirito superstizioso del suo tempo immaginava fantastici pericoli, gli abbisognò, per riuscire a scoprire, all'estremità di quella lunga costa, lo stretto che porta tanto giustamente il suo nome, una scienza nautica singolare. Egli dovette avere un'attenzione

continua per evitare in quei paraggi ignoti, e senza strumenti di precisione, ogni incidente disgustoso. Se una delle sue navi si perdette, lo si deve imputare all'orgoglio, allo spirito di rivolta del capitano, meglio che ad imperizia od a mancanza di precauzioni del generale. Aggiungiamo, col nostro entusiastico narratore: «La gloria di Magellano sopravviverà alla sua morte.» Duarte Barbosa, cognato di Magellano, e Juan Serrano furono eletti comandanti dagli Spagnuoli che altre catastrofi dovevano colpire. Lo schiavo che fino allora aveva servito d'interprete era stato lievemente ferito durante il combattimento. Dopo la morte del suo padrone, egli se ne stava in disparte, non rendendo più alcun servigio agli Spagnuoli, e di continuo sdraiato sulla sua stuoia. In seguito ad alcuni rimbrotti un po' vivi di Barbosa, il quale gli fece osservare che non era diventato libero in seguito alla morte di Magellano, egli sparve di repente. Andò a trovare il re recentemente battezzato, al quale espose che se potesse attirare gli Spagnuoli in qualche tranello e farveli perire, si renderebbe subito padrone delle loro provviste e mercanzie. Convocati ad un'assemblea solenne per ricevere i doni che il re di Zebu destinava all'imperatore, Serrano, Barbosa e ventisette Spagnuoli, assaliti all'improvviso durante un banchetto, furono tutti trucidati. Soltanto Serrano fu condotto legato sulla spiaggia del mare, e colà egli supplicò i suoi compagni di volerlo riscattare, senza di che sarebbe trucidato. Ma Giovanni Carvalho e gli altri, temendo che la sommossa diventasse generale, timorosi d'essere assaliti durante i negoziati da una flotta numerosa, a cui non sarebbero stati in grado di resistere, non ascoltarono le preghiere del disgraziato Serrano. Spiegarono le vele e si recarono all'isola poco lontana di Bohol. Colà, considerando che il loro numero era allora troppo rimpicciolito per governare tre navi, gli

Spagnuoli arsero la Concepcion, dopo d'aver trasportato sulle altre navi tutto quanto il suo carico conteneva di prezioso. Poi, costeggiata l'isola di Panilongon, si arrestarono a Butuan, che fa parte di Mindanao, isola magnifica, ricca di numerosi porti e di rive atte alla pesca, al nord-ovest della quale giace l'isola di

Lucon, la più grande dell'arcipelago. Toccarono anche Paloan, dove trovarono, per approvigionarsi, dei porci, delle capre, delle galline, dei banani di varie specie, delle noci di cocco, delle canne da zuccaro e del riso. Fu per essi, a quanto ne dice

Pigafetta, una terra promessa. Fra le cose che gli parvero degne di nota, il viaggiatore italiano cita i galli che gli indigeni allevano per il combattimento; passione che, dopo tanti anni, è viva ancora in tutto l'arcipelago delle Filippine. Da Paloan, gli Spagnuoli andarono all'isola di Borneo, centro della civiltà

malese. Quind'innanzi non hanno più a che fare con popolazioni miserabili, ma con popoli ricchi, che li ricevono magnificamente. L'accoglienza che fu loro fatta dal rajah è abbastanza curiosa da meritare d'essere narrata. Allo sbarco, essi trovarono due elefanti coperti di seta, che li condussero

alla casa del governatore della città, mentre dodici uomini portavano i doni che essi dovevano offrire al rajah. Dalla casa del governatore, in cui dormirono, fino al palazzo del re, le vie erano custodite da uomini armati. Scesi dai loro elefanti, furono ammessi in una sala piena di cortigiani. All'estremità di questa sala ve n'era un'altra meno ampia, tappezzata di drappi d'oro, nella quale stavano trecento uomini della guardia del re, armati di pugnali. Attraverso una porta riuscirono allora a vedere il rajah seduto innanzi ad una mensa con un piccolo fanciullo che masticava del betel; dietro di lui non vi erano che donne. Il cerimoniale esigeva che la loro richiesta passasse successivamente per la bocca di tre signori più elevati di grado l'uno dell'altro, prima d'essere trasmessa, per mezzo d'una cerbottana posta in un foro della muraglia, ad uno dei principali ufficiali, che la presenterebbe al re. Vi fu allora uno scambio di doni, in seguito al quale gli ambasciatori spagnuoli furono ricondotti alle navi collo stesso cerimoniale usato al loro arrivo. La capitale è costrutta sopra palafitte, nel mare medesimo, e però, quando la marea sale, le donne che vendono le derrate attraversano la città in barca. Il 29 luglio, più di cento piroghe circondavano le due navi, mentre delle giunche levavano l'àncora per avvicinarsi ad esse. Temendo d'essere assaliti a tradimento, gli Spagnuoli fecero una scarica d'artiglieria, che uccise molti uomini sulle piroghe. Dopo di ciò, il re fece loro le sue scuse dicendo che la sua flotta non era diretta contro d'essi, ma contro i gentili, coi quali i musulmani avevano dei combattimenti quotidiani. Quell'isola produceva l'arali., alcool di riso, la canfora, la cannella, il ginepro, degli aranci, dei limoni, canne da zuccaro, meloni, radici, cipolle, ecc. I suoi oggetti di baratto sono il rame, il mercurio, il cinabro, il vetro, i drappi di lana e le tele, soprattutto il ferro e gli occhiali, senza parlare della porcellana e dei diamanti, alcuni dei quali sono

d'una grossezza e d'un valore straordinari. I suoi animali sono gli elefantini cavalli, i bufali, i porci, le capre ed il pollame. La moneta in uso è di bronzo e porta il nome di sapeco; piccole monete che vengono traforate per infilarle. Lasciando Borneo, i viaggiatori cercarono un luogo propizio per raddobbare le loro navi, che ne avevano il massimo bisogno, giacché non passarono meno di quarantadue giorni in quel luogo. «Ciò che ho trovato di più strano in quest'isola, narra Pigafetta, sono certi alberi, le cui foglie quando sono cadute sono animate. Queste foglie rassomigliano a quelle del gelso, tranne che sono meno lunghe; il loro peziolo è corto ed aguzzo, e presso al peziolo, da una parte e dall'altra, hanno due piedi. Allorché si toccano, fuggono; ma non danno sangue quando vengono schiacciate. Io ne ho serbata una in una scatola per nove giorni; quando aprii la scatola la foglia passeggiava tutto intorno. Io credo che esse vivano d'aria.» Questi curiosissimi animali sono oggi ben noti, e portano il nome volgare di mosche-foglia. Esse sono d'un color grigiobruno che contribuisce tanto più a farle credere foglie secche, in quanto che ne hanno precisamente la forma. In quei paraggi la spedizione spagnuola, che aveva conservato finché visse Magellano un carattere scientifico, volse sensibilmente alla pirateria. È così che più volte si pigliarono delle giunche, il cui equipaggio veniva costretto a pagare un grosso riscatto. Si passò poi per l'arcipelago delle Sulu, riparo di furfanti malesi, che solo in questi ultimi tempi sono stati sottoposti alle armi spagnuole, poi per Mindanao, che era già stata visitata, giacché si sapeva che le Molucche, così ardentemente ricercate, dovevano trovarvisi vicino. Finalmente, dopo d'aver visto molte isole, la cui nomenclatura non ci apprenderebbe gran cosa, il mercoledì 6 novembre gli Spagnuoli scoprirono quell'arcipelago sul quale i Portoghesi avevano spacciato tante

fole spaventevoli, e sbarcarono due giorni più tardi a Tidor. Lo scopo del viaggio era raggiunto. Il re venne incontro agli Spagnuoli e li fece entrare nella sua piroga. «Egli era seduto sotto un ombrello di seta che lo copriva interamente. Innanzi a lui stavano uno dei suoi figli che portava lo scettro regale, due uomini, ciascuno dei quali aveva un vaso d'oro pieno d'acqua per lavare le sue mani, e due che reggevano due piccoli cofanetti dorati pieni di betel.» Poi lo si fece salire sulle navi, dove gli furono usati molti riguardi; nel medesimo tempo lo si caricava, al pari dei personaggi che lo accompagnavano, di doni che parvero loro preziosissimi. «Questo re è moro, vale a dire arabo, assicura Pigafetta; egli ha circa quarantacinque anni, è abbastanza ben fatto e di bell'aspetto. Le sue vesti consistevano in una camicia finissima colle maniche ricamate d'oro; un panneggiamento gli scendeva dalla cintura fino ai piedi; un velo di seta, — senza dubbio un turbante, — copriva il suo capo, e su questo velo era una ghirlanda di fiori. Il suo nome è rajah-sultan Manzor.» Il domani, in un lungo colloquio ch'egli ebbe cogli Spagnuoli, Manzor dichiarò la sua intenzione di mettersi egli medesimo, colle sue isole di Tidor e di Ternate, sotto la protezione del re di Spagna. È qui il luogo di dare con Pigafetta, di cui seguiamo passo passo la relazione nella traduzione fattane dal signor E. Charton, alcuni particolari sull'arcipelago delle Molucche. Questo arcipelago si compone, a parlare propriamente, delle isole Gilolo, Ternate, Tidor, Mornay, Batchian e Misal; ma tante volte si è compreso sotto il nome generale di Molucche i gruppi di Banda e d'Amboine. Scompigliato un tempo da commozioni vulcaniche ripetute, questo arcipelago racchiude un gran numero di vulcani quasi tutti spenti od addormentati da una lunga serie d'anni. L'aria vi è ardente, e sarebbe quasi impossibile il respirarla se pioggie frequenti non

venissero di continuo a rinfrescare l'atmosfera. I suoi prodotti naturali sono estremamente preziosi. Convien mettere in prima linea la palma sagù, il cui midollo, chiamato sagù, sostituisce coll'igname i cereali in tutta la Malesia. Quando l'albero è abbattuto, se ne estrae la midolla che viene allora gratuggiata, passata allo staccio, poi tagliata in forma di panetti che si fanno disseccare all'ombra. Vi sono pure il gelso da stoffa, il garofano, la noce moscata, la canfora, il pepe, ed in generale tutti gli alberi da spezie ed i frutti dei tropici. Le sue foreste contengono legni preziosi, l'ebano, il legno di ferro, il bek, celebre per la sua solidità, ed adoperato anticamente per le costruzioni di lusso; il lauro calilaban, che dà un olio esenziale aromatico ricercatissimo. A quel tempo gli animali domestici non si contavano che in picciol numero alle Molucche, ma fra gli animali selvatici più curiosi vi era il babirussa, enorme cinghiale dalle lunghe zanne ricurve, l'opossum, specie di sariga un po' più grossa del nostro scoiattolo, il falangero, marsupiale che vive nelle foreste fitte e tenebrose, dove si nutrisce di foglie e di frutti, il tarsio, specie di gerbo, animaletto graziosissimo, innocuo, dal pelame rossiccio, la cui statura non è guari più grande di quella d'un topo, ma il cui corpo ha certi rapporti con quello della scimmia. Fra gli uccelli, vi erano i pappagalli ed i cacatua, quegli uccelli del paradiso sui quali si spacciavano tante favole e che si credevano fino allora privi di gambe, i martin-pescatori ed i casoari, grandi trampolieri quasi grossi quanto gli struzzi. Un Portoghese chiamato de Lorosa era da un pezzo stabilito alle Molucche. Gli Spagnuoli gli fecero pervenire una lettera, sperando ch'egli tradirebbe la patria per allearsi alla Spagna. Essi ottennero da lui delle notizie curiose sulle spedizioni che il re di Portogallo aveva mandate al capo di Buona Speranza, al Rio della Plata e fino alle Molucche; ma, a causa di diverse circostanze, queste ultime spedizioni non

avevano potuto effettuarsi. Egli medesimo era in quell'arcipelago da sedici anni, ed i Portoghesi, che vi erano da dieci, serbavano su questo fatto il più profondo silenzio. Quando vide gli Spagnuoli fare i preparativi della partenza, Lorosa si recò a bordo con sua moglie ed i suoi bagagli per tornare in Europa. Il 12 novembre furono sbarcate tutte le mercanzie destinate al baratto, e che provenivano per la maggior parte dalle quattro giunche pigliate a Borneo. Certamente gli Spagnuoli fecero un commercio vantaggioso, tuttavia non tanto quanto era possibile, perchè avevano fretta di tornare in Spagna. Delle barche di Gilolo e di Bachian vennero pure a trafficare con essi, e pochi giorni dopo essi ricevettero dal re di Tidor una gran provvista di chiodi di garofano. Questo re li invitò ad un gran banchetto che aveva usanza, egli diceva, di dare quando si caricavano i primi chiodi di garofano sopra una nave od una giunca. Ma gli Spagnuoli, ricordandosi ciò che era accaduto loro alle Filippine, rifiutarono, facendo presentare molte scuse e complimenti al re. Compiuto il carico spiegarono le vele. La Trinidad aveva appena preso il mare quando si avvidero che essa aveva una gran falla, e bisognò tornar subito a Tidor. Gli abili palombari che il re mise a disposizione degli Spagnuoli non avendo potuto riuscire a scoprire la falla, bisognò scaricare in parte la nave per fare le riparazioni necessarie. Non volendo i marinai che montavano la Victoria aspettare i compagni, e comprendendo benissimo che la Trinidad non sarebbe in istato di tornare in Spagna, lo stato maggiore decise ch'essa andrebbe al Darien; colà il suo prezioso carico sarebbe scaricato e trasportato, attraverso l'istmo, fino all'Atlantico, dove una nave verrebbe a prenderlo. Ma né quella disgraziata nave, che quelli che la montavano dovevano rientrare in Spagna. Comandata dall'alguazil Gonzalo Gomez de Espinosa, che aveva per pilota Juan de Carvalho, la Trinidad era in così cattivo stato, che dopo aver

lasciato Tidor, fu costretta a fermarsi a Ternate, nel porto di Talangomi, e l'equipaggio, composto di diciassette uomini, fu immediatamente imprigionato dai Portoghesi. Ai reclami di Espinosa fu risposto colla minaccia di appiccarlo ad un pennone, ed il disgraziato alguazil, dopo d'essere stato trasferito a Cochin, fu mandato a Lisbona, dove, per sette mesi, stette chiuso in un carcere con due Spagnuoli, ultimo avanzo dell'equipaggio della Trinidad. Quanto alla Victoria, riccamente carica, lasciò Tidor sotto il comando di Juan Sebastiano del Cano, che, dopo d'essere stato semplice pilota a bordo d'una delle navi di Magellano, aveva preso il comando della Concepcion, il 27 aprile 1521, e che succedette a Juan Lopez de Carvalho, quando a costui fu tolto il comando a causa d'incapacità. Il suo equipaggio non era composto che di cinquantatrè Europei e di tredici Indiani; cinquantaquattro Europei rimanevano a Tidor sulla Trinidad. Dopo d'essere passata in mezzo alle isole di Caioan, Laigoma, Sico, Giofi, Cafi, Laboan, Toliman, Bachian, Mata e Batutiga, la Victoria lasciò all'ovest quest'ultima isola, e governando nell'ovest-sud-ovest, si arrestò durante la notte all'isola Siila o Xula. A dieci leghe di là, gli Spagnuoli si fermarono a Buru, la Boëro di Bougainville, dove si approvigionarono. Essi si arrestarono trentacinque leghe più lontano, a Banda, dove si trova il macis e la noce moscata; poi a Solor, dove si faceva un gran commercio di sandalo bianco. Vi passarono quindici giorni per raddobbare la loro nave che aveva sofferto molto, e vi fecero ampia provvista di cera e di pepe; poi si ancorarono a Timor, dove non poterono approvigionarsi se non trattenendo per tradimento il capo d'un villaggio, venuto a bordo con suo figlio. Quell'isola era frequentata dalle giunche di Lucon e dai «praos» di Malacca e di Giava, che vi facevano un gran commercio di sandalo e di pepe. Un po' più lungi gli Spagnuoli toccarono Giava, dove si

facevano, a quanto pare, in quel tempo, le sullies, in uso nell'India fino a questi ultimi tempi. Fra le dicerie che Pigafetta riferisce senza credervi interamente, ve n'ha una delle più curiose. Essa riguarda un uccello gigantesco, l'epyornis, di cui si sono trovati, verso il 1S50, degli ossami e delle uova gigantesche al Madagascar. Ciò prova quanto bisogna andar cauti prima di relegare nel dominio del meraviglioso molte leggende che sembrano favolose, ma il cui punto di partenza è esatto. «Al nord di Giava Maggiore, dice Pigafetta, nel golfo della China, v'è un albero grandissimo chiamato campanganghi, su cui si posano certi uccelli detti gamia, così grandi e così forti che sollevano un bufalo e perfino un elefante e lo portano volando al luogo dell'albero chiamato puzathaer.» Questa leggenda correva fin dal IX secolo fra i Persiani e gli Arabi, e quest'uccello ha nelle fole di questi ultimi una parte meravigliosa sotto il nome di rock. Non è dunque a meravigliare che Pigafetta abbia potuto raccogliere presso i Malesi una tradizione analoga. Dopo aver lasciato Giava Maggiore, la Victoria doppiò la penisola di Malacca, già sottoposta da una decina d'anni al Portogallo dal grande Albuquerque. Presso di là si trovano Siam ed il Cambodge, poi Chiempa, dove cresce il rabarbaro. Si trova questa sostanza nel modo seguente: «Una compagnia di venti o venticinque uomini vanno nel bosco, dove passano la notte sugli alberi per mettersi al sicuro dai leoni, — notisi che non vi sono leoni in quei paesi, — e dalle altre belve feroci, e nel medesimo tempo per sentir meglio l'odore del rabarbaro che il vento porta verso di essi. La mattina vanno verso il luogo da cui veniva l'odore e vi cercano il rabarbaro finche lo trovano. Il rabarbaro è il legno putrefatto d'un grosso albero, che acquista il suo odore dalla putrefazione medesima; la miglior parte dell'albero è la radice: tuttavia il tronco, che vien chiamato caluma, ha la medesima virtù medicinale.»

Assolutamente, non è in Pigafetta che bisognerà cercare le nostre cognizioni botaniche. Arrischieremmo molto d'ingannarci pigliando sul serio le fole che gli spacciava il Moro, al quale egli chiedeva le sue informazioni. E pure il viaggiatore lombardo ci dà colla maggior serietà del mondo dei particolari fantastici sulla China e cade in errori grossolani, che erano stati evitati da Duarte Barbosa, suo contemporaneo. In grazia di quest'ultimo, noi sappiamo che il commercio dell'anfian o dell'oppio esisteva fin da quel tempo. Appena la Victoria fu uscita dai paraggi di Malacca, Sebastiano del Cano ebbe cura d'evitare la costa di Zanguebar, dove i Portoghesi erano stabiliti fin dal principio del secolo. Egli fece rotta in pieno mare fino a 42° di latitudine sud, e dovette tener le vele serrate per nove settimane in vista di quel capo, a causa dei venti d'ovest e di nord-ovest, che finirono con un orribile uragano. Per seguire quella via, abbisognò al capitano una gran perseveranza ed una voglia non minore di condurre a buon fine la sua intrapresa. La nave aveva molte falle, ed un gran numero di marinai reclamavano una fermata a Mozambico, giacché le carni non salate essendosi corrotte, l'equipaggio non aveva più per cibo e per bevanda che del riso e dell'acqua. Finalmente, il 6 maggio, fu doppiato il capo delle Tempeste e si potè sperare la favorevole riuscita del viaggio. Pure, molte traversie aspettavano ancora i naviganti. In due mesi ventun uomo, tra Europei ed Indiani, morirono di stenti, e se, il 9 luglio, non avessero preso terra a Santiago del capo Verde, sarebbero morti tutti di fame. Siccome quell'arcipelago apparteneva al Portogallo, si ebbe cura di raccontare che si veniva dall'America, e si nascose con gran cura la via che era stata scoperta. Ma uno dei marinai avendo avuto l'imprudenza di dire che la Victoria era l'unica delle navi della squadra di Magellano che tornasse in Europa, i Portoghesi s'impadronirono subito dell'equipaggio d'una scialuppa e si

disposero ad assalire la nave spagnuola. Ma del Cano sorvegliava dal bordo tutti i movimenti dei Portoghesi. Sospettando, dai preparativi di cui era testimonio, che si volesse pigliare la Victoria, egli fece spiegar le vele, lasciando nelle mani dei Portoghesi tredici uomini del suo equipaggio.

Massimiliano Transylvain attribuisce alla fermata alle isole del capo Verde un motivo diverso da quello di Pigafetta. Egli pretende che la stanchezza degli equipaggi, ridotti dagli stenti, e che malgrado tutto non avevano cessato di stare alle trombe,

aveva determinato il capitano ad arrestarsi per comperare degli schiavi che li aiutassero nella manovra. Non avendo denaro, gli Spagnuoli avrebbero pagato con spezie, cosa che avrebbe fatto scoprire il giuoco ai Portoghesi. «Per vedere se i nostri giornali erano tenuti bene, narra

Pigafetta, facemmo domandare a terra qual giorno della settimana fosse. Ci fu risposto che era giovedì, il che ci meravigliò molto, giacché, stando ai giornali, ci pareva d'essere al mercoledì. Non potevamo persuaderci d'esserci ingannati d'un giorno; io stesso ne fui più stupito degli altri, giacché,

essendo sempre stato abbastanza sano da poter tenere il mio giornale, avevo, senza interruzione, segnato i giorni della settimana e del mese. Apprendemmo poi che non vi era errore nel nostro calcolo, giacché, avendo sempre viaggiato verso l'ovest, seguendo il corso del sole, ed essendo tornati al medesimo luogo, dovevamo aver guadagnato ventiquattro ore su quelli ch'erano rimasti fermi; e basta riflettervi per esserne convinti.» Sebastiano del Cano si recò poi rapidamente alla costa d'Africa ed entrò il 6 settembre, nella baia di San Lucar de Barrameda, con un equipaggio di diciassette persone, quasi tutte inferme. Due giorni dopo gettava l'àncora innanzi al molo di Siviglia, dopo d'aver compiuto interamente il giro del mondo. Appena fu arrivato, Sebastiano del Cano si recò a Valladolid, dove era la corte, e ricevette da Carlo V l'accoglienza che meritavano tante traversie coraggiosamente superate. L'ardito marinaio, con una pensione di cinquecento ducati, ebbe il permesso di prendere stemmi rappresentanti un globo con questa impresa: Primus circumdedisti me. Il ricco carico della Victoria indusse l'imperatore a mandare una seconda flotta alle Molucche. Pure il comando supremo non ne fu dato a Sebastiano del Cano, ma fu riservato al commendatore Garcia de Loaisa, che non aveva altro titolo se non quello del suo gran nome. Tuttavia, dopo la morte del capo della spedizione, che avvenne appena la flotta ebbe valicato lo stretto di Magellano, del Cano si trovò investito del comando, ma non lo conservò un pezzo, giacché morì sei giorni dopo. Quanto alla nave la Victoria, fu conservata per gran tempo nel porto di Siviglia, e, malgrado tutte le cure di cui fu circondata, finì col perire di vetustà.

CAPITOLO III. LE SPEDIZIONI POLARI E LA RICERCA DEL PASSAGGIO DEL NORD-OVEST. I. I Northmen — Erik il Rosso — Gli Zeni — Giovanni Cabot — Cortereal — Sebastiano Cabot — Willoughby — Chancellor.

Scoprendo l'Islanda, la famosa Thule, e quell'oceano cromano, i cui pantani, i bassi fondi ed i ghiacci rendevano pericolosa la navigazione, in cui le notti sono chiare quanto un crepuscolo, Pithéas aveva aperto agli Scandinavi la via del Nord. La tradizione delle navigazioni compiute dagli antichi alle Orcadi, alle Feroe e fino in Islanda, si conserva presso i monaci irlandesi, uomini istruiti, arditi marinai essi medesimi, come lo provano i loro stabilimenti successivi in quegli arcipelaghi. Perciò essi furono i piloti dei Northmen, nome che si dà generalmente a quei pirati scandinavi, norvegiani e danesi, che si resero durante il medio evo così formidabili in tutta quanta l'Europa. Ma se tutte le informazioni che noi dobbiamo agli antichi, Greci e Romani, su quelle regioni iperboree sono estremamente incerte e per così dire favolose, non è lo stesso per ciò che tocca le intraprese avventurose degli «uomini del nord.» Le Sagas, — è così che si designano i canti islandesi e danesi, — sono precisissime, ed i dati numerosi che noi dobbiamo loro vengono confermati tutti i giorni dalle scoperte archeologiche fatte in America, al Groenland, in Islanda, in Norvegia ed in Danimarca. Vi ha là una sorgente preziosa di notizie lungamente ignota ed inesplorata, di cui si deve la rivelazione all'erudito danese C.-C. Rafn, e che ci fornisce, sulla scoperta precolombiana del continente

americano, fatti autentici del massimo interesse. La Norvegia era povera e carica di popolazione, donde necessità d'una emigrazione permanente che permettesse a gran parte de' suoi abitanti di cercare, in regioni più favorite, il nutrimento che un gelido suolo contendeva loro. Quando essi avevano trovato qualche regione abbastanza ricca da poter fornir un abbondante bottino, tornavano nel loro paese e ripartivano, la primavera successiva, accompagnati da tutti coloro che si lasciavano trascinare dall'amore del lucro, della vita facile e dalla sete dei combattimenti. Cacciatori e pescatori intrepidi, avvezzi ai pericoli della navigazione tra il continente e quella massa d'isole che lo costeggiano e sembrano difenderlo dagli assalti dell'Oceano, attraverso quei fiordi stretti e profondi che sembrano tagliati nel suolo medesimo da qualche spada gigantesca, essi partivano su quelle navi di quercia, la cui apparizione faceva tremare i rivieraschi del mar del Nord e della Manica. Talvolta pontate, queste navi, grandi o piccine, lunghe o corte, erano per lo più terminate a prua da uno sperone grossissimo, al disopra del quale la prua si elevava talvolta a grande altezza pigliando la forma d'un S. Gli hällristningar, così si chiamano le rappresentazioni grafiche spesso ritrovate sulle rupi della Svezia e della Norvegia, ci permettono di figurarci quelle rapide barche che potevano portare un grande equipaggio. Tali sono il Lungo Serpente d'Olaf Tryggvason, che aveva trentadue banchi di rematori e conteneva novanta uomini, la nave di Kanut che ne portava sessanta, e le due navi d'Olaf il Santo montate talvolta da dugento uomini. I re del mare, come vennero chiamati quegli avventurieri, vivevano sull'Oceano, non si stabilivano mai sulla terra, passando dal saccheggio d'un castello all'incendio d'un'abbazia, devastando le coste della Francia, risalendo i fiumi, segnatamente la Senna fino a Parigi, correndo il Mediterraneo fino a Costantinopoli, stabilendosi più

tardi in Sicilia e lasciando in tutto le regioni del mondo conosciuto delle traccie delle loro scorrerìe o del loro soggiorno. Gli è che la pirateria, anziché essere come oggi un atto che cade sotto il colpo delle leggi, era, in quella società barbara o semi incivilita, non solo incoraggiata, ma cantata dagli scaldi, che riservavano le lodi più entusiastiche per celebrare le lotte cavalleresche, le corse avventurose e tutte le manifestazioni della forza. Dal secolo VIII questi formidabili scorridori dei mari frequentarono i gruppi delle Orcadi, delle Ebridi, delle Shetland e delle Feroe, dove incontrarono dei monaci irlandesi che vi si erano stabiliti, da un secolo circa, per catechizzare le popolazioni idolatre. Nell'861, un pirata norvegiano, chiamato Naddod, fu trasportato dall'uragano verso un'isola coperta di neve ch'egli battezzò Snoland (terra di neve), nome cambiato più tardi in quello d'Iceland (terra di ghiaccio). Colà pure i Northmen trovarono, sotto il nome di Papis, i monaci irlandesi nei cantoni di Papeya e di Papili. Ingolf si stabilì alcuni anni dopo nel paese e fondò Reijkiavik. Nell'885, il trionfo d'Aroldo Haarfager, che aveva sottoposto alle sue armi tutta la Norvegia, portò in Islanda un numero grande di malcontenti. Essi vi stabilirono la forma di governo repubblicana, che era stata rovesciata nella loro patria e che durò fino al 1261, tempo nel quale l'Islanda passò sotto il dominio dei re di Norvegia. Questi arditi compagnoni, innamorati delle avventure e delle lunghe corse dietro le foche ed i walrus, stabilitisi in Islanda, conservarono le loro abitudini vaganti e fecero delle escursioni ardite nell'ovest, dove, tre anni soltanto dopo l'arrivo d'Ingolf, Guunbjorn scoprì le vette delle montagne del Groenland. Cinque anni più tardi, un bandito, Erik il Rosso, cacciato d'Islanda per un omicidio, ritrovò la terra intravveduta

da Guunbjorn a 64° di latitudine settentrionale. La sterilità di quella costa ed i suoi ghiacci lo indussero a cercare nel sud una temperatura più clemente, terre più aperte e più ricche di selvaggiume. Egli passò poi il capo Farewell all'estremità del Groenland, si stabilì sulla costa occidentale e costrusse per sé e per i suoi compagni ampie dimore, di cui il signor Jorgensen ha ritrovato le rovine. Questa regione poteva allora meritare il nome di Terra Verde (Groenland) che le diedero i Northmen; ma l'accrescimento annuale e grande dei ghiacciai ne ha fatto, da quel tempo, una terra di desolazione. Erik tornò in Islanda a cercare i suoi amici, e l'anno medesimo del suo ritorno a Brattahalida (così si chiamava il suo stabilimento), quattordici navi cariche d'emigranti venivano a raggiungerlo. Questi fatti accadevano nell'anno 1000. Per quanto permisero le risorse del paese, la popolazione groenlandese crebbe, e nel 1121, Gardar, la capitale del paese, divenne sede d'un vescovado, che sussistè fin dopo la scoperta delle Antille fatta da Cristoforo Colombo. Nel 986, Bjarn Heriulfson, venuto dalla Norvegia in Islanda per passare l'inverno con suo padre, apprese che questi aveva raggiunto Erik il Rosso al Groenland. Senza esitare, il giovanotto riprende il mare. Cerca a casaccio un paese di cui non conosce nemmeno esattamente la posizione, e le correnti lo gettano sopra coste che si crede siano quelle della Nuova Scozia, di Terra Nuova o del Maine. Egli finisce tuttavia col giungere al Groenland, dove Erik, il potente jarl norvegiano, gli rimprovera di non aver esaminato con maggior cura i paesi di cui doveva la cognizione ad una fortuna di mare. Erik aveva mandato suo figlio Leif alla corte di Norvegia, tanto erano frequenti a quel tempo le relazioni fra la metropoli e le sue colonie. Il re, che si era convertito al cristianesimo, aveva mandato in Islanda una missione incaricata di rovesciare il culto d'Odino. Egli affidò a Leif alcuni sacerdoti, che

dovevano catechizzare i Groenlandesi; ma appena fu tornato in patria, il giovane avventuriero lasciò che i santi uomini lavorassero al compimento della loro difficile impresa, ed apprendendo la scoperta di Bjarn, equipaggiò le sue navi e si mise in cerca delle terre intravvedute. Successivamente, egli sbarcò in una pianura sassosa e desolata, alla quale diede il nome d'Helluland e che venne riconosciuta senza esitazione per Terra Nuova, poi sopra una costa bassa, sabbiosa, dietro la quale si svolgeva un'immensa cortina di cupe foreste, allegrate dal canto d'innumerevoli uccelli. Riprende il mare una terza volta, e cacciandosi nel sud, giunge nella baia di Rhode Island, dal dolce clima, il cui fiume è così popolato di salmoni ch'egli vi si stabilisce e costruisce ampi edifizî di tavole, che chiama Leifsbudir (casa di Leif). Poi, manda alcuni de' suoi compagni per esplorare la regione, ed essi tornano colla buona notizia che la vite selvatica cresce nel paese, il che gli vale il nome di Vinland. Nella primavera dell'anno 1001, Leif, dopo d'aver caricato la sua nave di pelli, d'uva, di legni e d'altri prodotti del paese, riprende la via del Groenland, avendo fatta quest'osservazione preziosa che il giorno più breve al Vinland durava ancora nove ore, il che ha permesso di mettere a 41° 24'10" la situazione di Leifsbudir. Questa fortunata campagna ed il salvamento d'una barca norvegiana, portante quindici uomini, valsero al figlio d'Erik il soprannome di Fortunato. Questa spedizione fece gran rumore, ed il racconto delle meraviglie del paese in cui Leif si era stabilito, indusse suo fratello Thorvald a partire con trenta uomini. Dopo aver passato l'inverno a Leifsbudir, Thorvald esplorò le coste al sud, ritornò in autunno nel Vinland, e l'anno successivo, nel 1004, seguì la costa al nord di Leifsbudir. Durante questo viaggio di ritorno, i Northmen incontrarono per la prima volta degli Eschimesi, e li sgozzarono spietatamente, senza alcun motivo. La notte seguente, si trovarono ad un tratto circondati da una

numerosa flottiglia di Kayacs, da cui partì un nugolo di freccie. Soltanto Thorvald, il capo della spedizione, fu ferito mortalmente, ed i suoi compagni lo seppellirono sopra un promontorio al quale diedero il nome di promontorio della Croce. Ora, nel golfo di Boston, fu scoperta, nel secolo XVIII, una tomba in muratura dove fu trovata, insieme ad ossami, un'elsa di spada di ferro. Gli Indiani non conoscevano questo metallo, per ciò non poteva essere uno dei loro scheletri; non erano nemmeno le reliquie d'uno degli Europei sbarcati dopo il secolo XV, giacché le loro spade non avevano quella forma così caratteristica. Si credette di riconoscere la tomba d'uno Scandinavo, noi osiamo dire quella di Thorvald, il figlio d'Erik il Rosso. Nella primavera del 1007, tre navi con centosessanta uomini e del bestiame, lasciarono Eriksfjord. Si trattava stavolta di fondare uno stabilimento permanente. Gli emigranti riconobbero l'Helluland, il Markland ed il Vinland, sbarcarono in un'isola, dove costrussero delle baracche e cominciarono dei lavori di coltura. Convien credere che avessero preso male le loro misure, o che avessero mancato di previdenza, giacché l'inverno li sorprese senza provviste, ed essi patirono crudelmente la fame. Tuttavia, ebbero la forza, d'animo di tornare sul continente, dove poterono aspettare la fine dell'inverno in un'abbondanza relativa. Al principio del 1008, si posero a cercare Leifsbudir, e si stabilirono a Mount-Hope-Bay, sulla riva opposta all'antico stabilimento di Leif. Colà furono annodate, per la prima volta, delle relazioni con degli indigeni chiamati Skrelling nelle sagas, e che, al loro ritratto, è facile riconoscere per Eschimesi. Il primo incontro fu pacifico; un commercio di scambio continuò fino al giorno in cui il desiderio che avevano gli Eschimesi di procurarsi delle accette di ferro, sempre

prudentemente rifiutate dai Normanni, li indusse ad aggressioni, che determinarono, dopo tre anni di soggiorno, i nuovi venuti a tornare nella loro patria, senza aver lasciato traccia durevole del loro passaggio nel paese. Si comprende facilmente che non possiamo narrare particolareggiatamente tutte le spedizioni che, partite dal Groenland, si succedettero sulle spiaggie del Labrador e degli Stati Uniti. Quelli dei nostri lettori che volessero notizie minuziose, si rivolgano all'interessante pubblicazione del signor Gabriele Gravier, l'opera più compiuta sulla materia, e nella quale noi attingiamo tutto ciò che si riferisce alle spedizioni normanne. L'anno medesimo in cui Erik il Rosso pigliava terra al Groenland, nel 983, un certo Hari Marson fu gettato dall'uragano fuor delle vie consuete, sulle coste d'un paese designato sotto il nome di Terra degli uomini bianchi, e che si stendeva, dice Rato, dalla baia Cheasapeak fino alla Florida. Perchè questo nome di Terra degli uomini bianchi? Forse alcuni compatrioti di Marson vi erano già stabiliti? Vi ha luogo a supporlo stando ai termini medesimi della cronaca. Si capisce quale interesse vi sarebbe nel poter determinare la nazionalità di questi primi coloni. Del resto, le sagas non hanno rivelato tutti i loro segreti. Ve ne sono ancora probabilmente delle ignote, e siccome quelle che furono trovate successivamente hanno confermato i fatti già ammessi, si ha luogo a sperare che le nostre cognizioni sulle navigazioni islandesi diverranno un giorno più precise. Un'altra leggenda, molte parti della quale sono romanzesche, ma che ha tuttavia un fondo di verità, narra che un certo Bjorn, costretto a lasciar l'Islanda in seguito ad una passione disgraziata, si sarebbe rifugiato nei paesi di là dal Vinland, dove lo avrebbero ritrovato, nel 1027, alcuni de' suoi compatrioti.

Nel 1051, durante una nuova spedizione, una donna islandese fu uccisa da alcuni Skrelling, e fu scoperta nel 1867, una tomba che portava un'iscrizione, degli ossami e degli oggetti di vestiario che sono oggi conservati al museo di Washington. Questa scoperta è stata fatta nel luogo preciso

indicato dalla saga che narrava questi avvenimenti, e che non fu trovata essa medesima se non nel 1863. Ma i Northmen, stabiliti in Islanda ed al Groenland, non furono i soli a frequentare le coste d'America verso l'anno 1000, come lo prova il nome di Grande Irlanda, dato pure alla

Terra degli uomini bianchi. Come nota la storia di Madoc-opOwen, Irlandesi e Gallesi vi fondarono delle colonie, sulle quali non possediamo che poche notizie. Non ostante la loro incertezza, i signori d'Avezac e Gaffarel convengono tuttavia nel riconoscerne la verosimiglianza.

Dopo aver detto alcune parole sulle corse e gli stabilimenti dei Northmen al Labrador, al Vinland e nelle regioni più meridionali, ci tocca tornare al nord. Le colonie fondate primitivamente nei dintorni del capo Farewell non avevano tardato ad estendersi lungo la costa occidentale, che era a quel

tempo infinitamente meno desolata d'oggidì, fino a latitudini boreali non più toccate nei nostri giorni. Così in quel tempo, si pescava la foca, il tricheco e la balena nella baia di Disco, e si contavano centonovanta città nel Westerbygd ed ottantasei nell'Esterbygd. Si è ben lungi oggidì da un simile numero di stabilimenti danesi su quelle coste agghiacciate. Quelle città non erano verosimilmente che gruppi poco grandi di quelle case di legno e di sasso di cui venne ritrovato un gran numero di rovine dal capo Farewell fino ad Upernavik, a 72° 50'. Nel medesimo tempo, numerose iscrizioni runiche, oggi decifrate, sono venute a portare un grado di certezza assoluta circa fatti lungamente ignorati. Ma quanti di questi vestigi del passato rimangono ancora a scoprire! quanti sono sepolti per sempre sotto i ghiacciai di quelle preziose testimonianze dell'ardimento e dello spirito d'intrapresa della razza scandinava! Si ha pure acquistata la prova che il cristianesimo era stato portato in America e segnatamente al Groenland. In quel paese ebbero luogo, secondo le istruzioni del papa Gregorio IV, delle visite pastorali per fortificare nella fede i Northmen recentemente convertiti e per evangelizzare le tribù indiane e gli Eschimesi. Anzi, nel 1805, il signor Riant stabilì in modo irrecusabile che le crociate erano state predicate tanto al Groenland, nel vescovado di Gardar, quanto nelle isole e terre vicine, e che fino al 1418, il Groenland pagò alla Santa Sede la decima e l'obolo di San Pietro, che si componevano, per quell'anno, di duemila e seicento libbre di denti di tricheco. Le colonie norvegiane dovettero la loro decadenza e la loro rovina a cause differenti: all'estensione rapidissima dei ghiacciai, — Hayes ha notato che il ghiaccio del Fratello Giovanni cammina con una velocità di trenta metri ogni anno; — alla cattiva politica della madre patria, che impedì il reclutamento dei coloni; alla peste nera, che decimò la

popolazione del Groenland dal 1347 fino al 1351; infine alle depredazioni dei pirati che, nel 1418, saccheggiarono quelle regioni già indebolite, e nei quali si credette di riconoscere certi abitanti delle Orcadi e delle Feroe, di cui parleremo. Uno dei compagni di Guglielmo il Conquistatore, chiamato Saint-Clair o Sinclair, non avendo trovata proporzionata a' suoi meriti la parte di paese conquistato ch'egli ricevette, andò in cerca d'avventure nella Scozia, dove non tardò ad elevarsi alla fortuna ed agli onori. Nella seconda metà del secolo XIV le isole Orcadi passarono sotto la dominazione de' suoi discendenti. Verso il 1390, un certo Nicolò Zeno, appartenente ad una delle famiglie più nobili e più antiche di Venezia, che aveva armato una nave a sue spese per visitare a scopo di curiosità l'Inghilterra e la Fiandra, naufragò nell'arcipelago delle Orcadi, dove era stato gettato dall'uragano. Stava per essere trucidato dagli abitanti, quando il conte Enrico Sinclair lo prese sotto la sua protezione. La storia di questo naufragio, delle avventure e delle scoperte che seguirono, pubblicata nella raccolta di Ramusio, era stata scritta, dice l'erudito geografo Clemente Markham nei suoi Abords de la ragion inconnue, da Antonio Zeno. Disgraziatamente, uno de' suoi discendenti, chiamato Nicola Zeno, nato nel 1515, lacerò, ancor fanciullo, quelle carte di cui non comprendeva il valore. «Essendo sopravvissute alcune lettere, egli potè più tardi compilare il racconto quale lo abbiamo oggidì e quale fu stampato a Venezia. Si era pure trovata nel palazzo una vecchia carta imputridita per la vetustà e che spiegava quei viaggi. Egli ne fece una copia, ma disgraziatamente completò, stando alla redazione del suo racconto, ciò ch'egli credeva necessario per la sua intelligenza. Facendolo storditamente, senz'essere guidato da cognizioni geografiche che ci permettano di riconoscere dove egli s'inganna, egli mise la più deplorevole confusione in tutta la

geografia tratta dal racconto, mentre le parti della carta che non sono alterate a questo modo e che sono originali, presentano un'esattezza che precede di molte generazioni la geografia medesima di Nicola Zeno il giovane, confermando in modo notevole la posizione della vecchia colonia del Groenland. In questi fatti noi non abbiamo soltanto la soluzione di tutte le discussioni avvenute in proposito, ma la prova più. indiscutibile dell'autenticità del racconto, giacché, evidentemente, Nicola Zeno il giovane non poteva inventare ingegnosamente una storia, di cui avrebbe, per così dire, sfigurato per ignoranza la verità rispetto alla carta.» Il nome di Zichmni, nel quale gli scrittori contemporanei, e prima di tutti il signor H. Major, che ha ricavato questi fatti dal dominio della favola, vedono il nome di Sinclair, non pare infatti essere applicabile se non a questo conte delle Orcadi. A quel tempo, i mari del nord dell'Europa erano infestati da pirati scandinavi. Sinclair, che aveva riconosciuto in Zeno un abile marinaio, se lo fece amico e fece con lui la conquista del paese di Frisland, nido di furfanti che saccheggiarono tutto il nord della Scozia. Nei portulani della fine del secolo XV e nelle carte del principio del XVI, questo nome designa l'arcipelago delle Feroe, indicazione verosimile, giacché Buache ha ritrovato, nelle odierne denominazioni dei seni e delle isole di questo arcipelago, buon numero di quelle date da Zeno; infine i particolari che si devono al navigatore veneziano sulle acque ricche di pesci e pericolose a cagione dei bassi fondi che dividono questo arcipelago, sono vere ancora oggi. Soddisfatto della sua posizione, Zeno scrisse al fratello Antonio di venirlo a raggiungere. Mentre Sinclair faceva la conquista delle Feroe, i pirati norvegiani desolavano le Shetland, allora chiamate Eastland. Nicolò spiegò le vele per recarsi a dar loro battaglia, ma egli medesimo dovette fuggire innanzi alla loro flotta, molto più numerosa della sua, e

rifugiarsi sopra un'isoletta della costa d'Islanda. Dopo aver svernato in quel luogo, Zeno sarebbe sbarcato l'anno successivo sulla costa orientale del Groenland, a 69° di latitudine settentrionale, in un luogo «dove si trovava un monastero dell'ordine dei Predicatori ed una chiesa dedicata a San Tommaso. Le celle erano riscaldate da una sorgente naturale d'acqua calda, di cui i monaci si servivano per far cuocere gli alimenti ed il pane. I monaci avevano pure dei giardini coperti durante la stagione invernale e riscaldati nello stesso modo, di guisa che erano in grado di produrre fiori, frutti ed erbe, come se fossero stati in un clima temperato.» Ciò che sembrerebbe confermare questi racconti, si è che, dal 1828 al 1830, un capitano della marina danese incontro al 60° grado una popolazione di seicento individui di tipo assolutamente europeo. Ma questa corsa avventurosa in regioni, il cui clima assomigliava così poco a quello di Venezia, riuscì fatale a Zeno, che morì poco tempo dopo il suo ritorno in Frisland. Un vecchio marinaio, tornato col Veneziano, che era stato, egli diceva, prigioniero lunghi anni nei paesi dell'estremo ovest, avrebbe dato a Sinclair dei particolari così precisi e così allettanti sulla fertilità e sulla estensione di quelle regioni, che quest'ultimo risolvette di farne la conquista con Antonio Zeno, che aveva raggiunto suo fratello. Ma le popolazioni si mostrarono da per tutto così ostili, opposero una tale resistenza allo sbarco degli stranieri, che Sinclair dovette, dopo una lunga e pericolosa navigazione, tornare al Frisland. Questi sono tutti i particolari che ci sono stati conservati, e ci fanno rimpiangere vivamente la perdita di quelli che Antonio doveva dare, nelle lettere a suo padre Carlo, circa le regioni che Forster e MalteBrun hanno creduto di poter identificare colla Terra Nuova. Chi sa se, nel suo viaggio in Inghilterra, durante le sue peregrinazioni fino a Thule, Cristoforo Colombo non udì

parlare delle antiche spedizioni dei Northmen e degli Zeni, e se queste notizie non venivano a dare una singolare conferma alle teoriche ch'egli professava, alle idee per il compimento delle quali egli era venuto a chiedere l'appoggio del re d'Inghilterra? Dall'insieme dei fatti che abbiamo esposti brevemente, risulta che l'America era nota agli Europei e colonizzata prima di Colombo. Ma, in seguito a diverse circostanze, fra le quali convien porre in prima linea la scarsezza delle comunicazioni dei popoli del nord dell'Europa con quelli del mezzodì, le scoperte dei Northmen non eran note che molto vagamente in Spagna e nel Portogallo. Secondo ogni verosimiglianza, noi ne sappiamo oggi molto di più su questo soggetto che non i compatrioti ed i contemporanei di Colombo. Se il marinaio genovese ebbe cognizione di qualche diceria, egli la ravvicinò agli indizi che aveva raccolti nelle isole del capo Verde, ed ai suoi ricordi classici sulla famosa isola Antilia e sull'Atlantide di Platone. Da queste notizie, venute da tante parti diverse, nacque in lui la certezza che si potesse giungere all'Oriente per le vie dell'Occidente. Checché ne sia, la sua gloria rimane intera; è lui lo scopritore dell'America, e non coloro che il caso dei venti e degli uragani aveva spinti loro malgrado, senza la ferma volontà di giungere alle spiaggie asiatiche, cosa che Cristoforo Colombo avrebbe fatta, se l'America non gli avesse sbarrata la via. Le notizie che daremo sulla famiglia Cortereal, sebbene più complete di tutte quelle che si trovano nei dizionari biografici, sono ancora molto incerte. Bisogna non di meno accontentarsene, giacché finora la storia non ne ha raccolto altre su questa razza d'intrepidi naviganti. Joao Vaz Cortereal era bastardo d'un gentiluomo chiamato Vasco Annes da Costa, che aveva ricevuto, dal re di Portogallo, il soprannome di Cortereal a cagione della magnificenza della sua casa e del suo seguito. Amante al pari di tanti altri

gentiluomini di quel tempo delle avventure di mare, Joao Vaz avrebbe involata, in Galizia, una giovanetta chiamata Maria de Marca, ch'egli sposò. Dopo d'essere stato usciere dell'infante don Fernando, sarebbe stato mandato da lui, con Alvaro Martino Homem, nell'Atlantico settentrionale. I due navigatori avrebbero allora visto un'isola, designata da quel tempo sotto il nome di Terra dos Bacalhaos, terra dei merluzzi, e che sarebbe verosimilmente Terra Nuova. La data di questa scoperta è determinata press'a poco dal fatto che al loro ritorno essi toccarono Terceira, e che, trovando vacante la capitaneria a causa della morte di Giacomo di Bruges, vennero a chiederla all'infante dona Brites, vedova dell'infante don Fernando, che l'accordò loro a patto che se la dividessero; fatto confermato da una donazione datata da Evora il 2 aprile 1464. Senza che si possa garantire l'autenticità di questa scoperta dell'America, vi ha tuttavia un fatto certo, vale a dire che il viaggio di Cortereal dovette essere segnalato da qualche avvenimento straordinario. Non si facevano allora donazioni di quest'importanza se non a coloro che avevano reso qualche gran servigio alla corona. Stabilito a Terceira, Vaz Cortereal si era fatto costrurre, dal 1490 al 1497, nella città d'Angra, un bel palazzo ch'egli abitava co'suoi tre figli. Gaspare, il suo terzo figlio, dopo d'essere stato al servizio del re Emanuele, quando costui non era che duca di Beja, si era sentito attirato per tempo dalle intraprese di scoperte che avevano reso illustre suo padre. Con un atto datato da Cintra, il 12 marzo 1500, il re Emanuele fece dono a Gaspare Cortereal delle isole o della terra ferma ch'egli potesse scoprire, ed il re aggiungeva questa notizia preziosa che «già ed in altri tempi egli le aveva cercate per suo conto ed a sue spese.» Gaspare Cortereal non era dunque allora alle prime prove.

Verosimilmente, le sue ricerche avevano dovuto essere dirette verso i paraggi in cui suo padre aveva segnalata l'isola dei Merluzzi. A sue spese, benché coll'aiuto del re, Gaspare Cortereal equipaggiò due navi al principio dell'estate del 1500, e dopo aver fatto scalo a Terceira, spiegò le vele verso il nordovest. La sua prima scoperta fu quella d'una terra il cui aspetto verdeggiante sembra averlo allettato. Era il Canada. Egli vide colà un gran fiume su cui galleggiavano dei ghiacci, il San Laurent, che alcuni de' suoi compagni presero per un braccio di mare, ed al quale egli diede il nome di Rio Nevado. «Lo sbocco ne è così grande che non è probabile che questo paese sia un'isola, senza contare che deve essere coperto da per tutto da uno strato fittissimo di neve per poter dare origine ad un simile corso d'acqua.» Le case di quella regione erano di legno, coperte di pelliccie e di pelli. Gli abitanti non conoscevano il ferro, si servivano di spade di legno aguzze, e le loro freccie erano armate d'ossa di pesci o di pietre. Grandi e ben fatti, essi avevano la faccia ed il corpo dipinti a vari colori per galanteria, portavano braccialetti d'oro e di rame, e si abbigliavano di vestimenta di pelliccia. Cortereal proseguì il viaggio e giunse al capo dei Bacalhaos, «pesci che si trovano su tutta quella costa in quantità così grande, che non permettono alle navi d'avanzarsi.» Poi, seguì la riva per dugento leghe, dal 56° al 60° grado od anche più, battezzando le isole, i fiumi ed i golfi che incontrava, come lo provano la Terra do Labrador, la Bahia de Conceicao, ecc., sbarcando e mettendosi in rapporto coi naturali. I freddi rigidissimi ed un vero fiume di ghiacci giganteschi impedirono alla spedizione di risalire più in alto, ed essa tornò al Portogallo con cinquantasette indigeni. Nell'anno medesimo del suo ritorno, il 15 maggio 1501, Gaspare Cortereal, stando ad un ordine del 15 aprile, ricevette

delle provviste e lasciò Lisbona colla speranza d'estendere il campo delle sue scoperte. Ma non si udì più parlare di lui da quel tempo. Michele Cortereal, suo fratello, che era primo usciere del re, chiese allora ed ottenne il permesso d'andare alla sua ricerca e di proseguire la sua intrapresa. Con un atto del 15 gennaio 1502, gli fu fatta donazione della metà della terra ferma e delle isole che suo fratello avesse potuto trovare. Partito il 10 maggio di quel medesimo anno con tre navi, Michele Cortereal giunse a Terra Nuova, dove divise la sua piccola squadra affinchè ciascuna delle navi potesse esplorare isolatamente la costa, ed indicò un luogo di ritrovo. Ma, al tempo fissato, egli non riapparve, e le altre due navi, dopo d'averlo aspettato fino al 20 agosto, ripresero la via del Portogallo. Nel 1503, il re mandò due navi per cercare notizie dei due fratelli, ma le ricerche furono vane, ed esse tornarono senza aver nulla appreso. Quando seppe questi tristi avvenimenti, l'ultimo dei fratelli Cortereal, Vasco Annes, che era capitano e governatore delle isole di San Giorgio e Terceira ed alcalde mor della città di Tavilla, risolvette d'armare a sue spese una nave e di partire alla ricerca dei fratelli. Il re dovette opporvisi per timore di perdere l'ultimo di quella razza di buoni servitori. Sulle carte di quel tempo, il Canada è spesso designato col nome di Terra dos Cortereales, denominazione che si estende anzi talvolta molto più in giù ed abbraccia una gran parte dell'America del Nord. Tutto ciò che riguarda Giovanni e Sebastiano Cabot è rimasto immerso fino a questi ultimi tempi in un'incertezza, che non è anzi ancora assolutamente dissipata, non ostante gli studi coscienziosi dell'americano Biddle, nel 1831, del nostro compatriota signor d'Avezac e dell'inglese signor Nicholls, il

quale, approfittando delle scoperte fatte negli archivi dell'Inghilterra, della Spagna e di Venezia, ha eretto un monumento imponente, sebbene discutibile in alcune delle sue parti. È in queste due ultime opere che noi attingeremo gli elementi di questo rapido studio, ma segnatamente nel lavoro del signor Nicholls, che ha, su quello del signor d'Avezac, il vantaggio di narrare la vita intera di Sebastiano Cabot. Non si è certi né del nome, né della nazionalità di Giovanni Cabot, tanto meno del tempo della sua nascita. Giovanni Cabota, Caboto o Cabot sarebbe nato, se non a Genova medesima, secondo il signor d'Avezac, almeno nelle vicinanze di questa città e fors'anche a Castiglione, verso il primo quarto del secolo XV. Alcuni storici ne hanno fatto un inglese, e l'amor proprio nazionale indurrebbe forse il signor Nicholls ad adottare questa opinione; almeno è quanto sembra risultare dalle espressioni che egli adopera. Ciò che si sa, e senza alcun dubbio, è che Giovanni Cabot venne a Londra per occuparsi di commercio e che non tardò a stabilirsi a Bristol, allora la seconda città del regno, in uno dei sobborghi che aveva ricevuto il nome di Cathay, senza dubbio a causa dei numerosi Veneziani che vi abitavano e del commercio che essi facevano coi paesi dell'estremo Oriente. È là che sarebbero nati gli ultimi due figli di Cabot, Sebastiano e Sanche, stando a quanto narra il vecchio cronista Eden: «Sebastiano Cabot mi disse ch'egli era nato a Bristol, che a quattro anni era partito con suo padre per Venezia e che era tornato con lui in Inghilterra alcuni anni dopo, il che aveva fatto credere ch'egli fosse nato a Venezia.» Nel 1476, Giovanni Cabot era a Venezia e vi ricevette, il 29 marzo, delle lettere di naturalizzazione, il che prova che non era originario di quella città, e che doveva aver meritato questo onore con qualche servigio reso alla Repubblica. Il signor d'Avezac inclina a credere ch'egli si fosse dato allo studio della cosmografia e della navigazione,

fors'anche insieme col celebre fiorentino Paolo Toscanelli, di cui avrebbe allora conosciute le teoriche sulla distribuzione delle terre e dei mari alla superficie del globo. Nel medesimo tempo, egli avrebbe potuto udir parlare delle isole poste nell'Atlantico e designate sotto i nomi d'Antilia, di Terra delle Sette Città o di Brasile. Ciò che sembra più certo, è che i negozi del suo commercio lo chiamarono nel levante, alla Mecca, si dice, e che colà egli avrebbe appreso da qual paese venivano quelle spezie che costituivano allora il ramo più importante del commercio dei Veneziani. Checché sia di queste teoriche speculative, Giovanni Cabot, fondò a Bristol un importante stabilimento di commercio. Suo figlio Sebastiano, al quale i primi viaggi avrebbero dato il gusto del mare, s'istruì in tutti i rami conosciuti della navigazione e fece alcune corse sull'Oceano per familiarizzarsi colla pratica di quell'arte, come lo era già colla teorica. «Da sette anni, dice l'ambasciatore spagnuolo in un dispaccio del 25 luglio 1498, a proposito d'una spedizione comandata da Cabot, quelli di Bristol armano, ogni anno, due, tre o quattro navi per andare a cercare l'isola del Brasile e delle Sette Città, secondo la fantasia di questo Genovese.» A quel tempo l'Europa intera era piena del rumore che avevano fatto le scoperte di Colombo. «Mi venne, dice Sebastiano Cabot in un racconto che Ramusio ci ha conservato, un gran desiderio e come un bruciore nel cuore di fare, io pure, qualche cosa di segnalato, e sapendo, dall'esame della sfera, che se navigassi mediante il vento di ovest riuscirei più rapidamente a trovar l'India, feci subito parte del mio progetto a Sua Maestà, che ne fu contentissima.» Il re al quale si rivolse Cabot è quel medesimo Enrico VII che, alcuni anni prima, aveva rifiutato ogni appoggio a Cristoforo Colombo. Si comprende ch'egli abbia accolto con favore il progetto che gli avevano sottoposto Giovanni e Sebastiano Cabot, giacché, sebbene Sebastiano, nel

brano che abbiamo riprodotto, attribuisca a sé solo tutto l'onore del progetto, non è men vero che suo padre fu il promotore dell'intrapresa, come ne fa testimonio la carta seguente che traduciamo abbreviandola: «Noi Enrico… permettiamo ai nostri amati Giovanni Cabot, cittadino di Venezia, e Luigi, Sebastiano e Sanche, suoi figli, di scoprire, sotto la nostra bandiera e con cinque navi del tonnellaggio e dell'equipaggio che essi giudicheranno convenienti, a loro spese e carico… Noi diamo loro, come pure ai loro discendenti ed aventi diritto, licenza d'occupare, possedere…. a patto di pagarci, sui profitti, benefizi e vantaggi risultanti da questa navigazione, in mercanzie od in denaro il quinto del profitto così ottenuto, per ciascuno dei loro viaggi, tutte le volte che essi rientreranno nel porto di Bristol (al qual porto essi saranno costretti ad arrestarsi)… Promettiamo e facciamo garanzia ad essi, loro eredi od aventi diritto, che saranno esenti da qualsiasi diritto di dogana per le mercanzie che porteranno dai paesi cos scoperti… Comandiamo ed ordiniamo a tutti i nostri sudditi, tanto sulla terra quanto sul mare, di dare assistenza al detto Giovanni ed a' suoi figli… Dato a…. il 5 marzo 1495.» Tale è la carta che fu accordata a Giovanni Cabot ed a' suoi figli al loro ritorno dal continente americano, e non già, come hanno preteso certi autori, anteriormente a questo viaggio. Appena la notizia della scoperta fatta da Colombo giunse in Inghilterra, vale a dire verosimilmente nel 1493, Giovanni e Sebastiano Cabot prepararono la spedizione a proprie spese e partirono al principio dell'anno 1494 coll'idea di recarsi al Cathay e poi alle Indie. Non vi può esser dubbio su questo punto, giacché si conserva alla Biblioteca Nazionale di Parigi l'unico esemplare della carta incisa nel 1544, cioè mentre viveva ancora Sebastiano Cabot, che cita questo viaggio e la data esatta e precisa della scoperta del capo Breton. È probabile che si debba attribuire agli intrighi

dell'ambasciatore spa-gnuolo il ritardo subito della spedizione di Cabot, giacché passò tutto l'anno 1496 senza ch'egli avesse compiuto il viaggio. L'anno seguente, egli partì al principio dell'estate. Dopo aver trovata la Terra Prima Vista, egli segui la costa e non tardò ad avvedersi, con suo gran rammarico, che essa correva verso il nord. «Allora, seguendola per assicurarmi se non troverei qualche passaggio, non ne potei scoprire, ed essendomi inoltrato fino al 56", e vedendo che in quel luogo la terra volgeva all'est, disperai di scoprire un passaggio, e virai di bordo per esaminare la costa in questa direzione, verso la linea equinoziale, sempre collo stesso intento di trovare un passaggio alle Indie, e finalmente giunsi al paese oggi chiamato Florida, dove, le provviste incominciando a mancarmi, presi la risoluzione di tornare in Inghilterra.» Questo racconto, di cui abbiamo dato più su il principio, fu fatto da Cabot a Fracastoro, quaranta o cinquantanni dopo l'avvenimento. Perciò non è a meravigliarsi che Cabot vi confonda insieme due navigazioni perfettamente distinte, quella del 1494 e quella del 1497. Aggiungiamo ancora alcune riflessioni a questo racconto: la prima terra vista fu, incontrastabilmente, il capo Nord, estremità settentrionale dell'isola del capo Breton, e l'isola che le sta in faccia è quella del Principe Edoardo, lungamente conosciuta sotto il nome d'isola San Giovanni. Cabot penetrò probabilmente nelLE SPEDIZIONI POLARI. 351

l'estuario del San Laurent ch'egli prese per un braccio di mare, presso al punto in cui sorge oggidi Quebec, e costeggiò la riva settentrionale del golfo finché non vide la costa del Labrador sparire neh" est. Egli prese Terra Nuova per un arcipelago e continuò la sua via al sud, senza dubbio non fino alla Florida, come egli dice, — il tempo consacrato al viaggio non bastandogli per scendere così basso, — ma fino alla baia Cheasapeake. Sono i paesi che gli Spagnuoli chiamarono più

tardi «Tierra de Estevam Gomez.» Il 3 febbraio 1498, il re Enrico VII firmò a Westminster nuove lettere patenti. Egli autorizzava Giovanni Cabot od un suo rappresentante debitamente autorizzato, a prendere nei

porti d'Inghilterra sei navi stazzanti dugento tonnellate e ad acquistare allo stesso prezzo che per la corona tutto ciò che sarebbe necessario all'armamento. Gli permetteva d'imbarcare quei mastri marinai, paggi ed altri, che di loro propria volontà

volessero recarsi con lui alla terra ed alle isole recentemente scoperte. Giovanni Gabot fece allora le spese dell'equipaggiamento di due navi, e tre altre furono armate a spese dei mercanti di Bristol. Secondo ogni verosimiglianza solo la morte — una morte inattesa ed improvvisa — impedì a Giovanni Cabot di prendere il comando di questa spedizione. Suo figlio Sebastiano diresse dunque la flotta, che portava trecento uomini e viveri per un anno. Dopo aver vista la terra a 45°, Sebastiano Cabot seguì la costa fino al 58°, fors'anche più in su; ma allora faceva così freddo, e vi era una tale abbondanza di ghiacci galleggianti, benché si fosse al mese di luglio, che sarebbe stato impossibile avanzarsi più oltre nel nord. I giorni erano lunghissimi e la notte molto chiara, particolare interessante per fissare la latitudine raggiunta, giacché sappiamo che sotto il 60° parallelo i giorni più lunghi sono di diciott'ore. Questi diversi motivi indussero Sebastiano Cabot a virar di bordo, ed egli toccò le isole Bacalhaos, i cui abitanti, coperti di pelli d'animali, avevano per armi l'arco e le freccie, la lancia, il giavellotto e la spada di legno. I naviganti pescarono in quel luogo gran numero di merluzzi; essi erano anzi tanto numerosi, dice una vecchia relazione, che impedivano alla nave d'avanzare. Dopo d'aver seguita la costa d'America fino al 35° grado, Cabot riprese la via d'Inghilterra, dove giunse al principio dell'autunno. In sostanza, questo viaggio aveva un triplice scopo, di scoperta, di commercio e di colonizzazione, come indicano il numero delle navi che vi presero parte e la forza degli equipaggi. Per altro, non pare che Cabot abbia sbarcato nessuno o che abbia fatto qualche tentativo di stabilimento sia al Labrador, sia nella baia d'Hudson ch'egli doveva esplorare più compiutamente nel 1571, sotto il regno d'Enrico VIII, sia anche al disotto dei paraggi delle Bacalhaos, designate col

nome generico di Terra Nuova. In seguito a questa spedizione quasi assolutamente improduttiva, noi perdiamo di vista Sebastiano Cabot, se non del tutto, almeno tanto da essere insufficientemente informati delle sue azioni e de' suoi viaggi fino al 1517. Il viaggiatore Hojeda, di cui abbiamo narrato più su le varie intraprese, aveva lasciato la Spagna nel mese di maggio 1499. Noi sappiamo che, in questo viaggio, egli incontrò un Inglese, a Caquibaco, sulla costa d'America. Sarebbe forse Cabot? Nulla ci ha accertati su questo riguardo; ma si può credere ch'egli non rimase ozioso e che dovette intraprendere qualche nuova spedizione. Sappiamo solo che malgrado gli impegni solenni ch'egli aveva presi con Cabot, il re d'Inghilterra accordò a dei Portoghesi ed a negozianti di Bristol certi privilegi di commercio nei paesi da lui scoperti. Questa maniera poco generosa di riconoscere i suoi servigi offese il navigante e lo indusse ad accettare le offerte che gli erano state fatte molte volte di prender servizio in Ispagna. Dopo la morte di Vespucci, accaduta nel 1512, Cabot era il viaggiatore più rinomato. Per renderselo amico, Ferdinando scrisse dunque, il 13 settembre 1512, 'a lord Willoughby, comandante supremo delle truppe trasportate in Italia, di trattare col navigante veneziano. Fin dal suo arrivo in Castiglia, Cabot ricevette, mediante una cedola del 20 ottobre 1512, il grado di capitano con cinquemila maravedis d'assegnamento. Siviglia gli fu assegnata per residenza fino a che si presentasse l'occasione d'utilizzare i suoi talenti e la sua esperienza. Si trattava per lui di prendere il comando d'una spedizione importantissima, quando Ferdinando il Cattolico morì, il 23 gennaio 1516. Cabot tornò subito in Inghilterra, dopo d'aver ottenuto verosimilmente un congedo. Eden ci apprende che Cabot fu nominato l'anno seguente con sir Thomas Pert, al comando d'una flotta che doveva recarsi in China dirigendosi al nord-ovest. L'11 giugno, egli era

nella baia d'Hudson a 67° 1/2 di latitudine; il mare libero di ghiaccio si estendeva innanzi a lui così lontano, ch'egli contava di riuscire nella impresa, quando la vigliaccheria del suo compagno, la codardia e l'ammutinamento degli equipaggi, che rifiutarono d'andar oltre, vennero a costringerlo a tornare in Inghilterra. Nel suo Theatrum orbis terrarum, Ortelius traccia la forma della baia d'Hudson, quale essa è veramente, ed indica anzi alla sua estremità settentrionale uno stretto che si dirige verso il nord. Come mai il geografo ha potuto essere tanto esatto? Chi gli ha dato le informazioni riprodotte dalla sua carta se non Cabot? dice il signor Nicholls. Al suo ritorno in Inghilterra, Cabot trovò il paese devastato da un'orribile peste, che arrestava perfino le transazioni commerciali. Poco stante, sia che il tempo del suo congedo fosse trascorso, sia che volesse sottrarsi al flagello o che fosse richiamato in Ispagna, il navigatore veneziano tornò in questo paese. Nel 1518, il 5 febbraio, Cabot fu nominato pilota-major con assegnamenti che, aggiunti a quelli ch'egli già riscuoteva, formavano un totale di 125,000 maravedis, ovvero 300 ducati. Egli non esercitò veramente le funzioni della sua carica se non al ritorno di Carlo V dall'Inghilterra. Il suo uffizio principale consisteva nell'esaminare i piloti, ai quali non si permetteva d'andare alle Indie senza aver subito questo esame. Il tempo non era punto favorevole alle grandi spedizioni marittime. La lotta tra la Francia e la Spagna assorbiva tutte le forze d'uomini e di denaro di questi due paesi. Perciò Cabot, che sembra aver avuto per patria la scienza piuttosto che questa o quell'altra regione, fece all'ambasciatore di Venezia, Contarini, alcune proposte per render servizio sulle flotte della Repubblica; ma quando giunse la risposta favorevole del Consiglio dei Dieci, egli aveva già altri disegni e non spinse più in là il suo tentativo. Nel 1524, nel mese d'aprile, Cabot presiede una conferenza

di marinai e di cosmografi, riuniti a Badajoz, per discutere se le Molucche appartenessero, stando al celebre trattato di Tordesillas, alla Spagna od al Portogallo. Il 31 maggio fu deciso che le Molucche erano poste per 20° nelle acque spagnuole. Forse questa risoluzione della giunta, di cui egli era presidente e che rimetteva fra le mani della Spagna una gran parte del commercio delle spezie, non fu senza influenza sulle risoluzioni del consiglio delle Indie. Checché ne sia, nel mese di settembre del medesimo anno, Cabot ebbe facoltà di prendere il comando, col titolo di capitano generale, di tre navi di cento tonnellate e d'una piccola caravella che portavano centocinquanta uomini. Lo scopo annunciato del viaggio era di traversare lo stretto di Magellano, d'esplorare con cura le coste occidentali dell'America e di giungere alle Molucche, dove si troverebbe per il ritorno un carico di spezie. Il mese d'agosto 1525 era stato fissato come data della partenza, ma gli intrighi del Portogallo riuscirono a farla ritardare fino nell'aprile 1526. Varie circostanze poterono da quel momento far augurar male del viaggio. Cabot non aveva che un'autorità nominale, e l'associazione di mercanti, che aveva fatto le spese dell'armamento, non accettandolo di buon grado come capo, aveva trovato modo di contrariare tutti i disegni del viaggiatore veneziano. È così che al posto del secondo comandante ch'egli aveva designato, gliene fu imposto un altro, e che furono consegnate ad ogni capitano istruzioni destinate ad essere dissuggellate in alto mare. Esse contenevano questa sciocca disposizione che in caso di morte del capitano generale, undici persone dovessero succedergli ciascuno alla sua volta. Non era forse un incoraggiamento all'assassinio? Si era appena fuori di vista della terra che il malcontento si manifestò. Si sparse la diceria che il capitano generale non era all'altezza del suo compito; poi, vedendo che queste calunnie

non giungevano fino a lui, si pretese che la flottiglia mancasse già di viveri. L'ammutinamento scoppiò appena si fu a terra, ma Cabot non era uomo da lasciarsi sgominare; egli aveva sofferto troppo della vigliaccheria di sir Thomas Pert per sopportare un simile affronto. Allo scopo di tagliare il male alla radice, s'impadronì dei capitani ammutinati. Non ostante la loro riputazione ed i servigi segnalati che avevano resi pel passato, li fece scendere in una barca ed abbandonare a terra. Quattro mesi dopo, essi ebbero la fortuna d'essere raccolti da una spedizione portoghese, che sembra aver avuto per istruzione di contrabilanciare i disegni di Cabot. Il navigatore veneziano si addentrò allora nel Rio de la Plata, di cui il suo predecessore, de Solis, aveva incominciata l'esplorazione in qualità di pilota-major. La spedizione non si componeva più allora che di due navi, una essendosi perduta durante il viaggio. Cabot risali il Fiume dell'Argento e scopri un'isola che chiamò Francesco Gabriele, e sulla quale costrusse il forte di San Salvador, di cui affidò il comando ad Antonio de Grajeda. Con una delle navi, di cui aveva tolta la chiglia, Cabot, rimorchiato dalle sue barche, entrò nel Parana, costrusse al confluente del Carcarama e del Terceiro un nuovo forte, ed assicurata così la sua linea di ritirata, si addentrò in quel corso d'acqua. Giunto al confluente del Parana e del Paraguay, segui il secondo, la cui direzione s'accordava meglio col suo disegno di giungere all'ovest della regione da cui veniva l'argento. Frattanto, il paese non tardò a mutare aspetto e gli abitanti a modificare la loro attitudine. Fino allora, erano accorsi meravigliati alla vista delle navi; ma sulle sponde coltivate del Paraguay, essi si opposero coraggiosamente allo sbarco degli stranieri, e tre Spagnuoli avendo tentato d'abbattere i frutti d'una palma, s'impegnò una lotta nella quale trecento naturali perdettero la vita. Questa vittoria aveva messo fuori di combattimento venticinque Spagnuoli; era troppo per Cabot, il

quale mandò rapidamente i feriti al forte San Spirito e si ritirò facendo fronte agli assalitori. Già Cabot aveva mandato all'imperatore due de' suoi compagni per metterlo al fatto del tentativo di rivolta de' suoi capitani, fargli conoscere i motivi che lo costringevano a modificare il corso determinato del suo viaggio e chiedergli soccorsi d'uomini e di provviste. La risposta giunse finalmente. L'imperatore approvava ciò che Cabot aveva fatto, gli ordinava di colonizzare il paese nel quale si era stabilito, ma non gli mandava né un uomo né un maravedis. Cabot tentò di procurarsi nel paese le risorse che gli mancavano e fece incominciare dei tentativi di coltura. Nel medesimo tempo, per tenere in esercizio le sue truppe, egli riduceva all'obbedienza le nazioni vicine, faceva costrurre dei forti e, risalendo il Paraguay, giungeva a Potosi ed ai corsi d'acqua delle Ande, che alimentano il bacino dell'Atlantico. In fine, egli si preparava a penetrare nel Perù, da cui venivano l'oro e l'argento che aveva visti fra le mani degli indigeni; ma per tentare la conquista di quest'ampia regione, abbisognavano truppe più numerose di quelle ch'egli poteva riunire. Tuttavia, l'imperatore era nell'impossibilità di mandargliele. Le guerre d'Europa assorbivano tutte le sue forze, le cortes rifiutavano di votare nuovi sussidi, e le Molucche erano state aggiunte al Portogallo. In queste condizioni, dopo aver occupato per cinque anni il paese ed atteso per tutto questo tempo dei soccorsi che non erano mai giunti, Cabot fece evacuare in parte i suoi stabilimenti e tornò in Ispagna con una parte della sua gente. Il rimanente, composto di centoventi uomini lasciati a guardia del forte di San Spirito, dopo molte peripezie che non possiamo narrare qui, perì per mano degli Indiani, o fu obbligato a rifugiarsi sulle coste del Brasile negli stabilimenti portoghesi. Ai cavalli importati da Cabot si deve la meravigliosa razza selvatica che vive oggidì in truppe numerose nelle pampas

della Plata, e questo fu l'unico risultato di quella spedizione. Qualche tempo dopo il suo ritorno in Spagna, Cabot rinunziò alla sua carica e venne a stabilirsi a Bristol, verso il 1548, vale a dire al principio del regno d'Edoardo VI. Quali furono i motivi di questo nuovo cambiamento? Cabot era forse

malcontento d'essere stato abbandonato alle sue proprie forze durante la spedizione? Fu offeso dal modo con cui furono ricompensati i suoi servigi? Non sapremmo dirlo. Ma Carlo V approfittò della partenza di Cabot per togliergli la pensione che Edoardo VI si affrettò a sostituire, facendogli pagare annualmente 250 marchi, ossia 116 lire sterline ed una

frazione, somma grande per quel tempo. Il posto che Cabot occupò in Inghilterra sembra non poter essere designato se non col nome d'intendente della marina, giacché egli sembra aver vegliato a tutti i negozi marittimi sotto l'autorità del re e del consiglio. Egli dà permessi, esamina dei piloti, redige istruzioni, traccia carte, occupazioni molteplici, variate, per le quali egli possedeva, cosa tanto rara, le cognizioni teoriche e pratiche. Nel medesimo tempo, insegnava la cosmografia al giovane re, gli spiegava le variazioni d'una bussola e sapeva interessarlo alle cose della navigazione ed alla gloria che risulta dalle scoperte marittime. Era uno stato altissimo, quasi unico. Cabot se ne servi per mettere ad esecuzione un disegno ch'egli accarezzava da un pezzo. A quel tempo, il commercio non esisteva per così dire in Inghilterra. Tutto il traffico era nelle mani delle città anseatiche, Anversa, Amburgo, Brema, ecc. Queste compagnie di mercanti avevano, in differenti riprese, ottenuto diminuzioni di diritti d'entrata grandi, ed avevano finito col monopolizzare il commercio inglese. Cabot pensava che gli Inglesi avevano tante qualità quanto essi per diventare manifatturieri, e che la marina già potente che possedeva l'Inghilterra potrebbe servire meravigliosamente allo spaccio dei prodotti del suolo e delle fabbriche. Perchè ricorrere a stranieri quando si potevano fare i propri negozi da sé? Se non si era potuto, fino allora, giungere al Cathay ed all'India per il nord-ovest, non si potrebbe tentare di giungervi per il nord-est? E se non si riuscisse, non si troverebbero da quella parte popoli più commercianti, più inciviliti dei miserabili Eschimesi delle coste del Labrador e di Terra Nuova? Cabot riunì un certo numero di notevoli commercianti di Londra, espose loro i suoi disegni, e li costituì in un'associazione di cui egli fu nominato, il 14 dicembre 1551,

presidente a vita. Nel medesimo tempo, egli agiva molto vigorosamente presso il re, ed avendogli fatto conoscere il torto che cagionava a' suoi sudditi il monopolio di cui godevano gli stranieri, ne ottenne l'abolizione il 23 febbraio 1551, ed inaugurava la pratica della libertà commerciale. L'associazione dei mercanti inglesi, che prese il nome di «mercanti avventurieri,» si affrettò a far costrurre delle navi adatte alla difficoltà della navigazione nelle regioni artiche. Il primo perfezionamento che la marina inglese dovette a Cabot, fu il raddoppiamento della chiglia, ch'egli aveva visto fare in Spagna, ma che non era ancora praticato in Inghilterra. Una flottiglia composta di tre navi fu riunita a Deptford. Erano la Buona Speranza, il cui comando fu dato a sir Hugh Willoughby, valoroso gentiluomo che si era acquistato nella guerra una gran riputazione; la Buona Confidencia, capitano Cornil Durforth; ed il Bonaventura, capitano Riccardo Chancellor, abile marinaio, amico di Cabot, che ricevette il titolo di pilota-major. Il sailing master del Bonaventura era Stephen Burroygh, marinaio consumato, che doveva fare numerose corse nei mari del nord e diventar più tardi pilota in capo d'Inghilterra. Se l'età e le importanti funzioni impedirono a Cabot di mettersi a capo della spedizione, egli volle almeno presiedere a tutti i particolari dell'armamento. Egli ha redatto perfino delle istruzioni che ci sono state conservate e che provano la prudenza e l'abilità di questo notevole navigatore. Egli vi raccomanda l'uso del loche, strumento destinato a misurare la velocità della nave, e vuole che il giornale degli avvenimenti di mare sia tenuto con regolarità, che si raccolgano per iscritto tutte le informazioni sul carattere, i costumi, le abitudini, le risorse dei popoli che si visiteranno, come pure sui prodotti del paese. Non si dovrà fare alcuna violenza ai nativi, ma usare con essi cortesemente. Qualsiasi bestemmia deve essere

severamente punita, del pari che l'ubbriachezza. Sono prescritti gli esercizi religiosi, la preghiera deve esser fatta mattino e sera come pure la lettura delle sante Scritture una volta al giorno. Egli termina raccomandando sopra ogni cosa l'unione e la concordia, ricorda ai capitani la grandezza della loro impresa e l'amore che raccoglieranno; finalmente promette di unire le sue preghiere alle loro per la riuscita dell'opera comune. La squadra spiegò le vele il 20 maggio 1558 in presenza della corte, riunita a Greenwich, in mezzo ad un immenso concorso di popolazione, dopo feste ed allegrie alle quali il re, che era malato, non potè assistere. Presso alle isole Loffoden, sulla costa di Norvegia, all'altezza di Wardhöus, la squadra fu separata dal Bonaventura. Trascinate dall'uragano, le due navi di Willoughby toccarono senza dubbio la Nuova Zembla e furono costrette dai ghiacci a ridiscendere al sud. Il 18 settembre, entrarono nel porto formato dalla foce del fiume Arzina nella Laponia orientale. Qualche tempo dopo, la Buona Confidencia, separata da Willoughby da un nuovo uragano, tornò in Inghilterra; quanto a quest'ultimo dei pescatori russi ritrovarono l'anno seguente la sua nave in mezzo ai ghiacci. L'equipaggio intero era morto di freddo, almeno è quanto fa credere il giornale tenuto, fino al mese di gennaio 1554, dal disgraziato Willoughby. Chancellor, dopo d'aver atteso invano i suoi due compagni al ritrovo che era stato fissato in caso di separazione, si credette sorpassato, e doppiando il capo Nord, entrò in un ampio golfo che non è altro che il mar Bianco, poi sbarcò alla foce della Dwina, presso al monastero San Nicola, sul luogo su cui doveva sorgere poco stante la città d'Arkhangel. Gli abitanti di quei luoghi desolati gli appresero che il paese era sotto il dominio del gran duca di Russia. Egli risolvette subito di recarsi a Mosca, non ostante l'enorme distanza che ne lo separava. Era allora sul trono lo czar Ivan IV Wassiliewitch

detto il Terribile. Già da qualche tempo, i Russi avevano scrollato il giogo tartaro, ed Ivan aveva riunito tutti i piccoli principati rivali in un solo corpo di stato, la cui potenza incominciava a diventar grande. La situazione della Russia, esclusivamente continentale, lungi da ogni mare frequentato, isolata dal rimanente dell'Europa di cui faceva ancora parte, tanto i suoi costumi ed i suoi usi erano ancora asiatici, prometteva la riuscita a Chancellor. Lo czar, che fino allora non aveva potuto procurarsi se non per la via della Polonia le mercanzie d'origine europea, e che voleva giungere fino ai mari germanici, vide con piacere gli Inglesi tentar di stabilire un commercio che doveva riuscir vantaggioso per le due parti. Non solo egli accolse Chancellor cortesemente, ma gli fece le offerte più vantaggiose, gli accordò grandi privilegi e lo incoraggiò, coll'affabilità della sua accoglienza, a rinnovare il suo viaggio. Chancellor vendette con benefizio le sue mercanzie, prese un altro carico di pelliccie, d'olio di foca e di balena, di rame e d'altri prodotti, poi tornò in Inghilterra con una lettera dello czar. I profitti che la Compagnia dei mercanti avventurieri aveva ricavati da questo primo viaggio la incoraggiarono a tentarne un secondo. Chancellor fece dunque, l'anno seguente, una nuova corsa ad Arkhangel e condusse in Russia due agenti della Compagnia, che conclusero collo czar un trattato vantaggioso. Riprese poscia la via dell'Inghilterra con un ambasciatore ed il suo seguito che Ivan mandava nella Gran Bretagna. Delle quattro navi che componevano la flotta, una perì sulle coste di Norvegia, un'altra lasciando Drontheim, ed il Bonaventura, montato da Chancellor e dall'ambasciatore, affondò nella baia di Pitsligo sulla costa orientale della Scozia, il 10 novembre 1556. Chancellor annegò nel naufragio, meno fortunato dell'ambasciatore moscovita, che ebbe la fortuna di salvarsi; ma i regali e le mercanzie ch'egli portava in Inghilterra furono perduti.

Tali sono stati i principi della Compagnia inglese di Russia. Molte spedizioni si sono successe in quei paraggi, ma sarebbe escire dal nostro compito il narrarle. Torneremo dunque a Cabot. Si sa che la regina d'Inghilterra, Maria, aveva sposato il re di Spagna Filippo II. Quando costui venne in Inghilterra, si mostrò malissimo disposto verso Cabot, che aveva lasciato il servizio della Spagna e procurava in quel momento medesimo all'Inghilterra un commercio che doveva in breve aumentare singolarmente la potenza marittima d'un paese già formidabile. Perciò non si sarà meravigliati nell'apprendere che, otto giorni dopo lo sbarco del re di Spagna, Cabot fu costretto a rinunciare al suo posto ed alla sua pensione, entrambi statigli dati a vita da Edoardo VI. Worthington fu nominato al suo posto. Il signor Nicholls crede che quest'uomo poco onorevole, che aveva avuto a che fare colla giustizia, avesse per missione segreta di pigliare fra i disegni, le carte, le istruzioni ed i progetti di Cabot, quelli che potessero riuscir alla Spagna. Il fatto è che tutti questi documenti sono oggi perduti, a meno che non si ritrovino negli archivi di Simancas. A partire da questo tempo, la storia perde assolutamente di vista il vecchio marinaio. Lo stesso mistero che regna sulla sua nascita avvolge il luogo e la data della sua morte. Le sue immense scoperte, i suoi lavori cosmografici, i suoi studi delle variazioni dell'ago calamitato, la sua saviezza, la sua umanità, la sua onorabilità assicurano a Sebastiano Cabot uno dei primi posti fra gli scopritori. Figura perduta nell'ombra e nell'incertezza della leggenda fino ai nostri giorni, Cabot deve ai suoi biografi Biddle, d'Avezac e Nicholls d'essere meglio conosciuto e più apprezzato.

II. Giovanni Verrazzano — Giacomo Cartier ed i suoi tre viaggi al Canada — La città di Hochelaga — Il tabacco da fumare — Lo scorbuto — Viaggio di Roberval — Martino Frobisher ed i suoi viaggi — John Davis — Barentz e Heemskerke — Lo Spitzberg — Svernamento alla Nuova Zembla — Ritorno in Europa — Reliquie della spedizione.

Dal 1492 fino al 1524, la Francia si era tenuta, almeno ufficialmente, in disparte delle imprese di scoperta e di colonizzazione. Ma Francesco I non poteva vedere con occhio tranquillo la potenza del suo rivale Carlo V ricevere un grande accrescimento colla conquista del Messico. Egli incaricò dunque il Veneziano Giovanni Verrazzano, che era al suo servizio, di fare un viaggio d'esplorazione. Noi vi ci fermeremo un po' , benché i luoghi visitati siano stati già riconosciuti molte volte, giacché, per la prima volta, la bandiera della Francia sventola sulle spiaggie del Nuovo Mondo. Questa esplorazione, del resto, doveva preparare quelle di Giacomo Cartier e di Champlain al Canada, del pari che le disgraziate esperienze di colonizzazione nella Florida fatte da Giovanni Bibaut e da Laudonnier, il sanguinoso viaggio di rappresaglie di Gourgues ed il tentativo di stabilimento al Brasile di Villegagnon. Non si ha alcun particolare biografico su Verrazzano. In quali circostanze entrò egli al servizio della Francia? Quali erano i suoi titoli al comando d'una tale spedizione? Nulla si sa del viaggiatore veneziano, giacché non si ha di lui se non la traduzione italiana del suo rapporto a Francesco I, pubblicata nella raccolta di Ramusio. La traduzione francese di questa traduzione italiana esiste, in compendio, nell'opera di Lescarbot sulla Nuova Francia e nella Storia dei Viaggi. Partito con quattro navi per fare delle scoperte nell'Oceano, dice Verrazzano in una lettera diretta da Dieppe, l'8 luglio 1524, a Francesco I, egli fu costretto dall'uragano a

rifugiarsi con due delle sue navi, il Delfino e la Normanna, in Bretagna, dove potè riparare le avarie. Di là, egli fece vela verso le coste di Spagna, sulle quali pare che abbia dato la caccia a qualche nave spagnuola. Noi lo vediamo lasciare col Delfino soltanto, il 17 gennaio 1524, un isolotto disabitato nelle vicinanze di Madera, e lanciarsi sull'Oceano con un equipaggio di cinquanta uomini, ben provvisto di viveri e di munizioni per otto mesi di viaggio. Venticinque giorni più tardi, egli ha fatto cinquecento leghe nell'ovest, allorché è assalito da un terribile uragano, e venticinque giorni dopo, vale a dire l'8 od il 9 marzo, avendo percorso circa quattrocento leghe, egli scopre, a 30° di latitudine nord, una terra ch'egli crede non essere stata esplorata fino allora. «Prima d'arrivare, essa ci sembrò bassissima, ma avvicinandoci ad un quarto di lega, riconoscemmo dai gran fuochi accesi lungo i seni del mare, che era abitata, e ripromettendoci di prender terra per aver conoscenza del paese, navigammo più di cinquanta leghe invano, di modo che, vedendo che sempre la costa volgeva al mezzodì, risolvemmo di tornare indietro.» I Francesi, trovando un punto adatto allo sbarco, videro molti indigeni che venivano loro incontro, ma che fuggirono quando li videro prender terra. Ricondotti poco stante dai segni e dalle dimostrazioni amichevoli dei Francesi, essi si mostrarono molto meravigliati dei loro abiti, del loro viso e della bianchezza della loro pelle. Gli indigeni erano affatto nudi, tranne il mezzo del corpo, coperto di pelli di martora, sospese ad una stretta cintura d'erbe gentilmente tessute ed ornate di code d'altri animali che cadevano loro fino alle ginocchia. Alcuni portavano delle corone di penne d'uccelli. «Essi sono bruni di pelle, dice la relazione, ed affatto simili ai Saraceni; i loro capelli sono neri, non troppo lunghi, legati insieme dietro la testa in forma di piccole code. Hanno le membra ben proporzionate, sono di

statura media, sebbene un po' più alti di noi, e non hanno altro difetto che d'avere il viso piuttosto largo; sono poco forti, ma agili e fra i più veloci corridori della terra.» Fu impossibile a Verrazzano il raccogliere dei particolari sui costumi ed il genere di vita di quei popoli, a causa del poco tempo ch'egli rimase con essi. La spiaggia era, in quel luogo, formata di sabbia fina, incurvata qua e là di collinette arenose, dietro le quali erano seminati «boschetti e foreste fittissime così piacevoli alla vista che è una meraviglia.» Vi era in quel paese, per quanto fu possibile giudicarne, abbondanza di cervi, di daini e di lepri, dei laghi e degli stagni d'acqua corrente, come pure gran quantità d'uccelli. Questa terra giace a 34°; è dunque la parte degli Stati Uniti che porta oggi il nome di Carolina. L'aria vi è pura e salubre, il clima temperato, il mare è da per tutto senza scogli e non ostante la mancanza di porti, non è sgradevole ai navigatori. Durante tutto il mese di marzo i Francesi seguirono la costa, che parve loro abitata da popoli numerosi. La mancanza d'acqua li costrinse molte volte a scendere a terra, ed essi poterono accertare che ciò che piaceva più ai selvaggi, erano gli specchi, i sonagliuzzi, i coltelli ed i fogli di carta. Un giorno, essi mandarono a terra una scialuppa con venticinque uomini. Un giovane marinaio saltò nell'acqua, «perchè non poteva pigliar terra a cagione dei fiotti e delle correnti, per dare alcune piccole derrate a quel popolo, ed avendone gettate da lontano, perchè ne diffidava, fu spinto violentemente dalle onde sulla spiaggia. Gli Indiani, vedendolo in questo stato, lo pigliarono e lo portarono molto lontano dalla riva, con gran stupore del povero marinaio, il quale s'aspettava d'essere sacrificato. Avendolo messo al piede d'un poggio sotto i raggi del sole, lo spogliarono completamente, meravigliandosi della bianchezza della sua carne, ed accendendo un gran fuoco, lo fecero tornare in sé e ristorare, e fu allora che, tanto quel

povero giovanotto quanto coloro che erano nella barca credettero che quegli Indiani lo dovessero trucidare ed immolare, facendo arrostire la sua carne in quel gran braciere, per poi cibarsene come è uso dei cannibali. Ma avvenne tutto all'opposto; giacché avendo espresso il desiderio di tornare alla

barca, essi lo ricondussero alla riva del mare, ed avendolo baciato amorosamente, si ritirarono sopra una collina per vederlo rientrare nella barca.» Continuando a seguire la spiaggia verso il nord per più di cinquanta leghe, i Francesi giunsero ad una terra che parve loro

più bella, essendo coperta di fitti boschi. Venti uomini si addentrarono per più di due leghe in quelle foreste, e non

tornarono alla spiaggia se non per paura di smarrirsi. Avendo in quel tragitto incontrato due donne, una giovane ed una

vecchia con dei fanciulli, essi s'impadronirono d'uno di questi ultimi, che poteva avere otto anni, nell'intento di condurlo in Francia; ma non poterono fare altrettanto della giovane, che si mise a gridare con tutte le sue forze, chiamando in aiuto i suoi compatrioti che erano nascosti nei boschi. In quel luogo, i selvaggi erano più bianchi di tutti quelli che avevano visti fino allora; essi pigliavano gli uccelli al laccio e facevano uso d'un arco di legno durissimo e di freccie armate d'ossa di pesci. Le loro barche, lunghe venti piedi e larghe quattro, erano scavate col fuoco in un tronco d'albero. Le viti selvatiche erano numerose e davano la scalata agli alberi in lunghi festoni, come fanno in Lombardia. Con un po' di coltura, esse avrebbero senza dubbio prodotto un eccellente vino, «giacché il frutto ne era soave e dolce, simile al nostro, e noi credemmo che gli indigeni non vi fossero insensibili, giacché da per tutto dove crescevano quelle viti, essi avevano cura di togliere i rami degli alberi circostanti affinchè il frutto potesse maturare.» Delle rose selvatiche, dei gigli, delle viole ed ogni sorta di piante e di fiori odoriferi, nuovi per gli Europei, tappezzavano da per tutto il suolo e spandevano nell'aria profumi balsamici. Dopo d'essere rimasti tre giorni in quei luoghi incantevoli, i Francesi continuarono a seguire la costa verso il nord, navigando di giorno e gettando l'accora di notte. Siccome la terra volgeva all'est, fecero ancora una cinquantina di leghe in quella direzione, e scoprirono un'isola di forma triangolare, lontana dal continente una decina di leghe, simile per grandezza all'isola di Rodi, ed alla quale fu dato il nome della madre di Francesco I, Luigia di Savoia. Poi giunsero ad un'altra isola lontana una quindicina di leghe, che possedeva un porto magnifico ed i cui abitanti vennero in folla a visitare le navi straniere. Due re, segnatamente, erano d'una bella statura e d'una gran bellezza. Vestiti d'una pelle di cervo, colla testa nuda, coi capelli tirati indietro e legati a mazzi, essi portavano

al collo una larga catena, ornata di pietre colorate. Era la nazione più notevole che si fosse incontrata fino allora. «Le donne sono graziose, dice la relazione pubblicata da Ramusio. Le une portano sulle braccia delle pelli di lupo cerviero; la loro testa è ornata dei capelli intrecciati, e lunghe treccie pendono loro dai due lati del petto; altre hanno delle acconciature che ricordano quelle delle donne d'Egitto e di Siria; sono le più attempate e le donne maritate che portano degli orecchini di rame lavorato. Questa terra è situata sotto il parallelo di Roma, a 41° 1/2, ma il clima ne è molto più freddo.» Il 5 maggio, Verrazzano lasciò quel porto e seguì il litorale per centocinquanta leghe. In fine egli giunse ad un paese i cui abitanti non rassomigliavano guari a quelli ch'egli aveva incontrati fino allora. Essi erano così selvaggi, che fu impossibile l'avviare alcun commercio, alcuna relazione continuata. Ciò ch'essi sembravano stimare sopra tutto, erano gli ami, i coltelli e tutti gli oggetti di metallo, non dando valore alcuno a tutti i gingilli che avevano fino allora servito agli scambi. Venticinque uomini armati scesero e s'internarono due o tre leghe nel paese. Essi furono accolti dai naturali a frecciate; dopo di che, costoro si ritirarono nelle immense foreste, che sembravano coprire tutta la regione. Cinquanta leghe più lungi si stende un ampio arcipelago, composto di trentadue isole, tutte vicine alla terra, separate da stretti canali che ricordarono al navigatore veneziano gli arcipelaghi che, nell'Adriatico, seguono le coste della Schiavonia e della Dalmazia. In fine, centocinquanta leghe più lungi ancora, a 50° di latitudine, i Francesi giunsero alle terre scoperte un tempo dai Brettoni. Mancando allora le provviste, ed avendo esplorata la costa d'America per una lunghezza di 700 leghe, essi tornarono in Francia e sbarcarono felicemente a Dieppe nel mese di luglio 1524. Alcuni storici narrano che Verrazzano, fatto prigioniero

dai selvaggi che abitavano le coste del Labrador, fu mangiato — cosa materialmente impossibile, giacché egli diresse da Dieppe a Francesco I il racconto del viaggio che noi abbiamo compendiato. D'altra parte, gli Indiani di quelle regioni non erano antropofagi. Certi autori, non abbiamo potuto scoprire sulla fede di quali documenti né in quali circostanze, narrano che Verrazzano, caduto in potere degli Spagnuoli, fu condotto in Ispagna, e quivi appiccato. È più saggio il confessare che non sappiamo nulla di certo su Verrazzano, e che ignoriamo affatto quali ricompense ha potuto procurargli il suo lungo viaggio. Forse, quando un erudito avrà consultato i nostri archivi, il cui spoglio ed il cui inventario sono lungi dall'essere terminati, si scoprirà qualche nuovo documento, ma, per ora, conviene accontentarci del racconto di Ramusio. Dieci anni più tardi, un capitano maluino chiamato Giacomo Cartier, nato il 21 dicembre 1484, formò il disegno di stabilire una colonia nelle parti settentrionali dell'America. Favorevolmente accolto dall'ammiraglio Filippo di Chabot e da Francesco I, il quale chiedeva di vedere l'articolo del testamento d'Adamo che lo diseredasse del Nuovo Mondo a profitto dei re di Spagna e di Portogallo, Cartier lasciò SaintMalò con due navi, il 20 aprile 1534. La nave che lo portava non stazzava che sessanta tonnellate ed aveva sessantun uomo d'equipaggio. In capo a soli venti giorni tanto la navigazione fu fortunata, Cartier scopri Terra Nuova al capo di Buona Vista. Egli risalì allora nel nord fino all'isola degli Uccelli, che trovò circondata da un ghiaccio rotto e liquefacentesi, ma sul quale egli potè, per altro, fare una provvista di cinque o sei tonnellate di urie, di artiche e di pinguini, senza contare quelli che furono consumati freschi. Egli esplorò poi tutta la costa dell'isola, che aveva in quel tempo una quantità di nomi brettoni, il che prova l'assidua frequenza dei nostri compatrioti in quei paraggi. Poi, penetrando nello stretto di Bell'Isola, che separa il continente

dall'isola di Terra Nuova, Cartier pervenne al golfo di San Laurent. Su tutta questa costa i porti sono eccellenti. «Se la terra corrispondesse alla bontà dei porti, dice il navigatore maluino, sarebbe un gran bene; ma non la si deve chiamar terra, giacché sono piuttosto ciottoli e scogli selvatici, luoghi adatti per le belve feroci: come in tutta la terra verso il nord, io non vidi tanta terra da poterne empire una carriuola.» Dopo aver costeggiato il continente, Cartier fu buttato dall'uragano sulla costa occidentale di Terra Nuova, dove egli esplorò i capi Reale, di Lait, le isole Colombare, il capo San Giovanni, le isole della Maddalena e la baia di Miramichi sul continente. In questo luogo, egli ebbe qualche rapporto coi selvaggi, che mostrarono «una meravigliosa allegrezza d'avere delle ferramenta ed altre cose, danzando sempre e facendo molte cerimonie, tra le altre, quella di buttarsi dell'acqua marina sulla testa colle mani; tanto che ci diedero tutto quanto avevano, non serbando nulla.» Il domani, il numero dei selvaggi fu ancora più grande, ed i nostri marinai francesi fecero ampia raccolta di pelliccie e di pelli d'animali. Esplorata la baia dei Calori, Cartier giunse all'ingresso dell'estuario del San Laurent, dove egli vide dei naturali che non avevano né le maniere né il linguaggio dei primi. «Costoro possono venir chiamati selvaggi, giacché non si può trovar gente più povera al mondo, ed io credo che, tutti insieme, non avessero pel valore di cinque soldi, tranne le loro barche e le loro reti. Essi portano la testa interamente rasa, fuorché un ciuffo di capelli sul sommo del cranio, i quali capelli lasciano crescere lunghi come una coda di cavallo, e legano sulla testa con aghi di cuoio. Essi non hanno altra dimora che le loro barche, che rovesciano per sdraiarvisi sotto sulla terra, senza alcuna coperta.» Dopo aver piantato una gran croce in quel luogo, Giacomo Cartier ottenne dal capo di condur con lui due de' suoi figliuoli, che ricondurrebbe al suo prossimo viaggio; poi, riprese la via di

Francia e sbarcò a Saint-Malò, il 5 settembre 1534. L'anno successivo, il 19 maggio, Cartier lasciò Saint-Malò a capo d'un armamento composto di tre navi chiamate il Grande ed il Piccolo Ermellino e l'Emerillon, sulle quali si erano imbarcati alcuni gentiluomini importantissimi, fra cui convien citare Carlo della Pommeraye e Claudio di PontBriant, figlio del sire di Moncevelles e coppiere del Delfino. Da bel principio, la squadra fu dispersa dall'uragano e non potè riunirsi che a Terra Nuova. Dopo d'aver approdato all'isola degli Uccelli, nel seno del Blanc-Sablon, che è nella baia dei Castelli, Cartier penetrò nella baia di San Laurent. Egli vi scoprì l'isola Natiscotec, che noi chiamiamo Anticosti, e penetrò in un gran fiume chiamato Hochelaga, che conduce al Canada. Sulle sponde del fiume si estende il paese di Saguenay, donde viene il rame rosso, chiamato caquetdazé dai due selvaggi ch'egli aveva preso nel primo viaggio. Ma prima di penetrare nel San Laurent, Cartier volle riconoscere tutto il golfo per vedere se non esistesse qualche passaggio verso il nord. Egli ritornò poi alla baia delle Sette Isole, risali il fiume e giunse poco stante al fiume di Sanguenay, che si getta nel San Laurent sulla sua riva settentrionale. Un po' più oltre, dopo aver sorpassato quattordici isole, egli entrò sulle terre del Canada che mai nessun viaggiatore aveva visitate prima, di lui. «Il domani, il signore di Canada, chiamato Donnaconna, venne con dodici barche presso le navi, accompagnato da sedici uomini. Egli incominciò in faccia alla più piccola delle nostre navi a fare una predica secondo la loro moda, agitando il corpo e le membra in guisa meravigliosa, il che è una cerimonia d'allegria. E quando fu giunto alla nave generale, dove erano i due indiani ricondotti dalla Francia, il detto signore parlò ad essi, ed essi a lui. Ed incominciarono a narrargli ciò che avevano visto in Francia, ed il buon trattamento che avevano ricevuto, del che fu il detto signore

allegrissimo e pregò il capitano di aprirgli le sue braccia per baciarlo, che è il modo di far buona accoglienza nella detta terra. Il paese di Stadacone o di San Carlo è fertile e pieno di begli alberi della natura di quelli di Francia, come quercie, olmi, pruni, faggi, cedri, viti, biancospini, che danno frutti grossi come prugne, ed altri alberi, sotto i quali cresce una canapa buona quanto quella di Francia.» Cartier pervenne poi, colle sue barche ed il suo gallione, fino ad un punto che è il Richelieu d'oggidì, poi fino ad un gran lago formato dal fiume, il lago San Pietro, e giunse finalmente ad Hochelaga o Montreal, vale a dire a dugentodieci leghe dalla foce del San Laurent. In quel luogo vi sono «delle terre coltivate e belle e grandi campagne piene di biada, che è come miglio del Brasile, grossa quanto ceci o più, della quale vivono come noi facciamo del frumento. E fra queste campagne è situata e posta la detta città di Hochelaga presso una montagna che le sta intorno, ben coltivata e piccina, stando sopra la quale si vede molto da lontano. Noi battezzammo quella montagna il Monte Reale.» L'accoglienza fatta a Giacomo Cartier fu cordialissima. Il capo o Aguhanna, che era tutto paralitico nelle membra, pregò il capitano di toccarlo come se ciò potesse guarirlo. Poi dei ciechi, dei monocoli, degli zoppicanti, degli impotenti vennero a sedersi presso Giacomo Cartier, perchè egli li toccasse, tanto pareva un Dio disceso per guarirli. «Il detto capitano, vedendo la pietà e fede del detto popolo, disse l'evangelio di San Giovanni, ossia: In principio, facendo il segno della croce sui poveri infermi, pregando Dio di dar loro cognizione della nostra santa fede e grazia d'ottenere la cristianità ed il battesimo. Poi il detto capitano prese un libro d'ore e ad alta voce lesse la passione di Nostro Signore, in modo che tutti gli astanti potessero udirlo, tutto quel povero popolo facendo un gran silenzio, guardando il cielo e facendo le stesse cerimonie che ci vedevano fare.» Dopo d'aver preso cognizione del paese

che si scopriva a trenta leghe tutt'intorno dall'alto del Monte Reale e d'aver raccolto certe notizie sui salti e le correnti del San Laurent, Giacomo Cartier riprese la via del Canada dove non tardò a raggiungere le sue navi. Noi gli dobbiamo le prime notizie sul tabacco da pipa che non sembra essere stato in uso in tutta l'estensione del Nuovo Mondo. «Essi hanno un'erba, egli dice, di cui fanno una gran raccolta durante l'estate per l'inverno. La stimano molto, e gli uomini se ne servono in questo modo: la fanno disseccare al sole e la portano al collo in una piccola pelle d'animale, in guisa di sacco, con un tubo di pietra o di legno; poi, ad ogni ora, riducono in polvere la detta erba, la mettono ad una delle estremità del detto tubo, poi vi mettono sopra un carbone acceso e soffiano all'altra estremità, fin tanto che si empiono il corpo di fumo, che esce loro dalla bocca e dalle narici come da un fumaiuolo. Noi abbiamo esperimentato il detto fumo; dopo d'averlo messo in bocca sembra di avervi della polvere di pepe, tanto è caldo.» Nel mese di dicembre, gli abitanti di Stadacone furono colpiti da una malattia contagiosa, che non era se non lo scorbuto. «La detta, malattia si diffuse talmente sulle nostre navi che alla metà di febbraio, di centodieci uomini che eravamo, non ve n'erano dieci sani.» Né preghiere, né orazioni, né voti a Nostra Donna di Roquamadour produssero alcun sollievo. Venticinque Francesi perirono fino al 18 aprile, e non ve n'erano quattro che non fossero colpiti da quella malattia. Ma, a quel tempo, un capo selvaggio apprese a Giacomo Cartier che il decotto delle foglie ed il sugo d'un certo albero che si crede sia l'abete del Canada erano molto salutari. Appena due o tre ne ebbero provato gli effetti benefici, «vi fu una tal furia che si voleva ammazzarsi sulla detta medicina per essere il primo ad averne; di guisa che un albero grosso e grande fu consumato in meno d'otto giorni, e produsse un tale benefizio che tutti i medici di Lovanio e di Montpellier, se si fossero messi con tutte le

droghe d'Alessandria, non avrebbero fatto tanto in un anno quanto il detto albero aveva fatto in otto giorni.» Alcun tempo dopo, Cartier, dopo aver notato che Donnaconna cercava di eccitare la sedizione contro i Francesi, lo fece pigliare insieme con nove altri selvaggi e condurre in Francia, dove morirono. Egli spiegò le vele dal porto di Santa Croce il 6 maggio, scese il San Laurent, e dopo una navigazione che non fu segnalata da nessun incidente, sbarcò a Saint-Malò il 16 luglio 1536. Francesco I, in seguito al rapporto che il capitano maluino gli fece del suo viaggio, risolvette di prender possesso del paese. Dopo aver nominato Francesco della Roque, sire di Roberval, viceré del Canada, egli fece armare cinque navi che, cariche di provviste e di munizioni per due anni, dovevano trasportare, nella nuova colonia che si doveva stabilire, Roberval ed un certo numero di soldati, d'artigiani e di gentiluomini. Le cinque navi spiegarono le vele il 23 maggio 1541. Esse furono così contrariate dai venti che ci vollero tre mesi prima che potessero giungere a Terra Nuova. Cartier non toccò il porto se non il 23 agosto. Appena ebbe sbarcato le sue provviste, egli rimandò in Francia due delle navi con lettere al re, rendendogli conto di quanto aveva fatto e dicendo come qualmente il sire di Roberval non si fosse ancora mostrato, e che non si sapeva che cosa fosse accaduto di lui. Poi, fece incominciare dei lavori di dissodamento, costrurre un forte e gettare le prime fondamenta della città di Quebec. Egli prese poi con sé Martino di Paimpont ed altri gentiluomini, andò ad Hochelaga e si recò ad esaminare i tre salti di Santa Maria, della China e di San Luigi. Al suo ritorno a Santa Croce, trovò Roberval che era arrivato, e rientrò nel mese d'ottobre 1542 a Saint-Malò, dove morì probabilmente dieci anni più tardi. Quanto alla nuova colonia, Roberval essendo perito in un secondo viaggio, essa vegetò e non fu più che un magazzino

fino al 1608, epoca della fondazione di Quebec per opera di Champlain, di cui racconteremo più oltre i servigi e le scoperte. Abbiamo visto come Cartier, partito prima alla ricerca del passaggio del nord-ovest, era stato condotto a prender possesso del paese ed a gettare le basi della colonia del Canada. In Inghilterra avveniva un movimento simigliante, alimentato dagli scritti di sir Humphrey Gilbert e di Richards Wills. Essi finirono col trascinare l'opinione pubblica, e dimostrare che non era più difficile trovare quel passaggio di quanto lo era stato lo scoprire lo stretto di Magellano. Uno dei più ardenti partigiani dì questa ricerca era un ardito marinaio, chiamato Martino Frobisher, che, dopo d'essersi rivolto molte volte a ricchi armatori, trovò finalmente in Ambrogio Dudley, conte di Warwick, favorito della regina Elisabetta, un protettore, i cui soccorsi pecuniari gli permisero d'armare una pinazza e due cattive barche di venti o venticinque tonnellate. È con mezzi così deboli che l'intrepido navigante stava per sfidare i ghiacci in paraggi che non erano più stati frequentati dopo i Northmen. Partito da Deptford l'8 giugno 1576, egli riconobbe il sud del Groenland, che prese per il Frisland di Zeno. Poco stante arrestato dai ghiacci, dovette tornare indietro fino al Labrador senza potervi approdare, e penetrò nello stretto d'Hudson. Dopo aver costeggiato le isole Selvaggia e Risoluzione, entrò in uno stretto che ha ricevuto il suo nome, ma vien chiamato anche da alcuni geografi ingresso di Lunley. Egli scese sulla terra di Cumberland, prese possesso del paese in nome della regina Elisabetta, ed annodò qualche rapporto cogli indigeni. Siccome il freddo cresceva rapidamente, fu costretto a tornare in Inghilterra. Frobisher non aveva ricavato che particolari scientifici e geografici piuttosto incerti sulle regioni da lui visitate; egli ricevette non di meno un'accoglienza molto lusinghiera, quando mostrò una pietra nera e pesante in cui si trovò un po' d'oro. Le immaginazioni si accesero subito. Molti

signori, la regina medesima, contribuirono alle spese d'un nuovo armamento, composto d'una nave di dugento tonnellate e di cento uomini d'equipaggio, e di due barche più piccine, che portavano provviste da guerra e da bocca per sei mesi. Sotto i suoi ordini, Frobisher aveva marinai esperimentati: Fenton, York, Giorgio Beste e C. Hall. Il 31 maggio 1577 la spedizione spiegò le vele, tornò al Groenland, le cui montagne erano coperte di neve e la cui spiaggia era difesa dai ghiacci. 11 tempo era pessimo; nebbie eccessivamente intense, isole di ghiaccio d'un circuito di mezza lega, montagne che s'immergevano da settanta ad ottanta braccia nel mare, tali furono gli ostacoli che impedirono a Frobisher di giungere, prima del 9 agosto, allo stretto ch'egli aveva scoperto nella campagna precedente. Si prese possesso del paese e furono inseguiti per terra e per mare alcuni poveri Eschimesi che, feriti «in questo scontro, balzarono disperatamente dall'alto d'una rupe nel mare, dice Forster ne' suoi Viaggi nel nord, il che non sarebbe accaduto se si fossero mostrati più docili, o se avessero potuto comprendere che noi non eravamo nemici.» Fu scoperta in breve una gran quantità di pietre simili a quelle che erano state portate in Inghilterra. Era marcassite d'oro, e se ne raccolsero sollecitamente dugento tonnellate. Nella loro gioia, i marinai inglesi eressero una colonna commemorativa sopra un picco, al quale diedero il nome di Warwick-Mount, e resero solenni azioni di grazia. Frobisher si elevò poi una trentina di leghe nello stesso stretto, fino ad una piccola isola che ricevette il nome di Smith's Island. Gli Inglesi vi trovarono due donne; essi ne presero una col suo piccino e lasciarono l'altra a causa della sua estrema bruttezza. Sospettando, tanto la superstizione e l'ignoranza fiorivano a quel tempo, che quella donna avesse i piedi forcuti, le fecero togliere la calzatura per sincerare la cosa. Poi, Frobisher vedendo che il freddo aumentava e volendo mettere al sicuro i tesori che credeva d'aver raccolto,

rinunciò questa volta a cercare più a lungo il passaggio del nord-ovest. Fece dunque vela per l'Inghilterra, dove giunse, dopo un uragano che disperse la sua flotta, alla fine del mese di settembre. L'uomo, la donna ed il fanciullo, di cui si erano impadroniti, furono presentati alla regina. Si narra in proposito

che il selvaggio vedendo a Bristol il trombetta di Frobisher a cavallo, volle fare altrettanto e si mise a cavallo colla testa rivolta verso la parte della coda dell'animale. Accolti con curiosità, quei selvaggi ottennero dalla regina il permesso di colpire sul Tamigi ogni sorta d'uccelli, anche i cigni, il che era

proibito a tutti sotto le pene più severe. Del resto essi non vissero a lungo, e morirono prima che il fanciullo avesse quindici mesi. Non si era tardato a riconoscere che le pietre portate da Frobisher contenevano veramente dell'oro, una febbre che aveva del delirio s'impadronì subito della nazione, ma soprattutto delle alte classi. Si era trovato un Perù, un El Dorado! La regina Elisabetta, non ostante il suo senso pratico, cedette alla corrente. Essa risolvette di costrurre un forte nel paese nuovamente scoperto, al quale diede il nome di Meta incognita, e di lasciarvi, con cento uomini di guarnigione, sotto il comando del capitano Fenton, Beste e Filpot, tre navi che facessero carico di pietre aurifere. Questi cento uomini furono scelti accuratamente; erano legnaiuoli, fornai, muratori, raffinatori d'oro ed altri appartenenti a tutte le corporazioni di mestieri. La flotta si componeva di quindici navi, che spiegarono le vele da Harwich il 31 maggio 1578. Venti giorni dopo furono scoperte le coste del Frisland occidentale. Le balene a frotte innumerevoli si trastullavano intorno alle navi. Si narra anzi che una delle navi, spinta da un buon vento, urtò così forte contro una balena, che la violenza del colpo l'arrestò d'un tratto, e che questa, dopo d'aver gettato un gran grido, fece un salto fuori dell'acqua e si affondò subitamente. Due giorni più tardi la flotta incontrò una balena morta, che si credette essere quella che era stata colpita dalla Salamandra. Quando Frobisher si presentò all'ingresso dello stretto che aveva ricevuto il suo nome, egli lo trovò ingombro di ghiacci galleggianti. La barca Dennis, di cento tonnellate, dice la vecchia relazione di Giorgio Beste, «ricevette da uno scoglio di ghiaccio un tale urto, che andò a picco in vista di tutta la flotta.» In seguito a questa catastrofe, «un'orribile tempesta si elevò ad un tratto da sud-est, le navi furono circondate da ogni parte di ghiacci, ne lasciarono molti dietro di sé, avendo potuto attraversarli, ne trovarono ancor più innanzi ad esse e fu loro

impossibile attraversarli. Certe navi, sia che avessero trovato un punto meno ingombro di ghiacci ed incontrato uno spazio libero, ammainarono le vele ed andarono alla deriva; delle altre, molte si arrestarono e gettarono l'àncora sopra una grand'isola di ghiaccio. Le ultime furono chiuse così rapidamente in mezzo ad un numero infinito d'isolotti di ghiaccio, che gli Inglesi furono obbligati a mettersi colle navi alla mercè del ghiaccio ed a proteggere i fianchi dei bastimenti con gomone, cuscini, alberi, tavole ed ogni specie d'oggetti, che furono sospesi all'impagliettatura per difenderle dagli urti furiosi e dagli assalti del ghiaccio.» Il medesimo Frobisher fu buttato fuori dalla sua strada. Nell'impossibilità di raggiungere la sua squadra, egli segui la costa occidentale del Groenland per lo stretto che doveva ricevere poi il nome di Davis, e penetrò fino alla baia della Contessa Warwick. Appena egli ebbe riparato le avarie delle sue navi col legname che doveva servirgli alla costruzione dell'abitazione, caricò cinquecento tonnellate di pietre simili a quelle che aveva già portate in Inghilterra. Giudicando allora la stagione troppo inoltrata, considerando pure che le provviste erano state consumate o perdute col Dennis, che i legnami da costruzione erano stati adoperati a riparare le navi, ed avendo perduto quaranta uomini, egli riprese la via d'Inghilterra il 31 agosto. Le tempeste e gli uragani lo accompagnarono fino alle spiaggie della sua patria. Quanto ai risultati della sua spedizione, erano press'a poco nulli come scoperte, e le pietre ch'egli era andato a caricare in mezzo a tanti pericoli non avevano valore. È l'ultimo viaggio artico a cui Frobisher abbia preso parte. Noi lo troviamo, nel 1585, vice-ammiraglio di Drake; nel 1588, egli si segnala contro Armada; nel 1590, fa parte della flotta di Walter Raleigh sulle coste di Spagna; infine, in una discesa sulle coste di Francia vien ferito così gravemente, che non ha se non il tempo di ricondurre la sua squadra a Portsmouth

prima di morire. Se i viaggi di Frobisher non ebbero altro scopo che l'interesse, bisogna pigliarsela non col navigatore, ma colle passioni del tempo. Non è meno vero che, in occasioni difficili e con mezzi la cui insufficienza fa sorridere, egli diede prova di coraggio, d'abilità e di perseveranza. A Frobisher spetta, in una parola, la gloria d'aver additato la via a' suoi compatrioti e d'aver fatto le prime scoperte nei paraggi in cui doveva illustrarsi il nome inglese. Se bisognava rinunciare alla speranza di trovare nelle regioni circumpolari dei paesi in cui l'oro fosse abbondante quanto al Perù, non era certo un motivo per non continuare a cercarvi un passaggio verso la China. Dei marinai abilissimi sostenevano quest'opinione, che incontrò presso mercanti di Londra aderenti abbastanza numerosi. Coll'aiuto di molti personaggi alto locati, furono equipaggiate due navi, il Sunshine, di cinquanta tonnellate e di ventitré uomini d'equipaggio, ed il Moonshine, di trentacinque tonnellate. Essi lasciarono Portsmouth il 7 giugno 1585 sotto il comando di John Davis. Costui scoprì l'ingresso dello stretto che ricevette il suo nome, e dovette attraversare immensi campi di ghiaccio, che andavano alla deriva, dopo d'aver rassicurato il suo equipaggio, spaventato dall'urto e dallo scoppio dei massi di ghiaccio, in mezzo ad una nebbia intensa. Il 20 luglio Davis scoprì, senza potervi approdare, la terra di Desolazione. Nove giorni più tardi egli entrava nella baia Gilberto, dove barattava, con una popolazione pacifica, delle pelli di vitello marino e delle pelliccie contro alcune bagattelle. Questi indigeni vennero pochi giorni dopo in così gran numero, che non vi furono meno di trentasette canotti intorno alle navi di Davis. In quel luogo il navigatore notò la presenza d'un'enorme quantità di legnami galleggianti, fra cui egli cita un albero intero che non sarebbe

stato lungo meno di sessanta piedi. Il 6 agosto gettava l'àncora presso una montagna di color d'oro, che ricevette il nome di Raleigh, in una bella baia chiamata Tottness; nel medesimo tempo dava a due capi di quella terra di Cumberland i nomi di Dyer e di Walsingham. Per undici giorni, Davis fece vela ancora verso il nord, in un mare libero di ghiacci, largamente aperto e la cui acqua aveva il colore dell'Oceano. Già egli si credeva all'ingresso del mare, che comunicava col Pacifico, quando il tempo mutò ad un tratto e si fece così brumoso, ch'egli fu costretto a tornare a Yarmouth, dove sbarcò il 30 settembre. Davis ebbe l'abilità di comunicare ai suoi armatori la speranza ch'egli aveva concepita, e però, il 7 maggio successivo (1586), egli ripartiva colle due navi che avevano fatta la campagna precedente. Furono loro aggiunte la Mermaid, di centoventi tonnellate, e la pinazza North-Star. Quando giunse alla punta meridionale del Groenland, il 25 giugno, Davis mandò il Sunshine e la North-Star verso il nord per cercare un passaggio sulla costa orientale, mentre egli faceva la medesima via dell'anno precedente e si addentrava nello stretto che porta il suo nome fino al 69°. Ma i ghiacci erano molto più numerosi quest'anno, ed il 17 luglio la spedizione incontrò un ice field d'una tale dimensione, che ci vollero tredici giorni per farne il giro. Il vento, dopo d'essere passato su quella pianura di ghiaccio, era così freddo, che gli attrezzi e le vele furono gelati e che i marinai non vollero andar oltre. Bisognò dunque ridiscendere nell'est-sud-est. Colà, Davis esplorò la terra di Cumberland senza trovare lo stretto che cercava, e dopo una scaramuccia cogli Eschimesi, nella quale vi furono tre morti e due feriti, egli riprese, il 19 settembre, la via dell'Inghilterra. Benché, anche questa volta, le sue ricerche non fossero state coronate dalla riuscita, Davis sperava sempre, come ne fa

testimonio la lettera ch'egli scrisse alla Compagnia, nella quale diceva che aveva ridotto il passaggio ad una specie di certezza. Prevedendo, tuttavia, che stenterebbe molto di più a decidere l'invio d'una nuova spedizione, aggiungeva che le spese dell'intrapresa sarebbero ampiamente coperte dal profitto della pesca dei trichechi, delle foche e delle balene che in quei paraggi si trovavano così numerose, da far credere vi avessero stabilito il loro quartier generale. Il 15 maggio 15S7, egli spiegò le vele col Sunshine e l'Elisabeth, di Darmouth, e l'Elena, di Londra. Questa volta risalì ancor più su di quanto aveva fatto per lo innanzi, giacché giunse a 72° 12', vale a dire press'a poco alla latitudine d'Upernavik, e segnalò il capo Handerson's Hope. Arrestato dai ghiacci, costretto a tornare indietro, egli navigò nello stretto di Frobisher, e dopo aver traversato un largo golfo, giunse, a 61° 10'di latitudine, in vista d'un capo al quale diede il nome di Chudleigh. Questo capo fa parte della costa del Labrador e forma l'ingresso meridionale dello stretto d'Hudson. Dopo aver costeggiato le spiaggie americane fino a 52°, Davis riprese la via dell'Inghilterra, dove giunse il 15 settembre. Benché la soluzione del problema non fosse trovata, si erano non di meno ottenuti dei risultati preziosi, ma ai quali non si dava allora gran valore. Pressoché la metà della baia di Baffin era riconosciuta, e si avevano nozioni precise su quelle spiaggie e sui popoli che le abitavano. Erano, dal punto di vista geografico, acquisti grandi, ma non tali certamente da impressionare i mercanti della City. E però i tentativi per il nord-ovest furono abbandonati dagli Inglesi per un lungo periodo di tempo. Un nuovo popolo era nato. Gli Olandesi, appena liberati dal giogo spagnuolo, inaugurarono la politica commerciale, che doveva fare la grandezza e la prosperità della loro patria, coll'invio successivo di molte spedizioni in cerca, seguendo il nord-est, d'una via verso la China; disegno formato

un tempo da Sebastiano Cabot, e che aveva dato all'Inghilterra il commercio della Russia. Col loro istinto pratico, gli Olandesi si erano tenuti al fatto della navigazione inglese. Essi avevano anzi stabilito dei depositi a Kola e ad Arkhangel, ma volevano andar oltre a cercare nuovi sbocchi. Siccome il mare di Kara sembrava loro troppo difficile, risolvettero, dietro i consigli del cosmografo Plancius, di tentare una nuova via al nord della Nuova Zembla. I mercanti d'Amsterdam si rivolsero allora ad un marinaio esperimentato, a Guglielmo Barentz, nato nell'isola di Tersehelling, presso il Texel. Questo navigatore parti dal Texel, nel 1594, sul Mercurio, passò il capo Nord, vide l'isola di Waigatz, e si trovò il 4 luglio in vista della costa della Nuova Zembla a 73° 25'. Egli navigò lungo il litorale, doppiò il capo Nassau il 10 luglio, e fu in contatto coi ghiacci tre giorni più tardi. Fino al 3 agosto, egli cercò d'aprirsi un passaggio, tentando il banco di ghiaccio da diversi lati, risalendo fino alle isole Orange all'estremità della Nuova Zembla, percorrendo mille e settecento miglia e virando di bordo fino ottant'una volta. Non crediamo che fino allora nessun navigatore abbia dato prova di una simile perseveranza. Aggiungiamo ch'egli mise a profitto questa lunga crociera per fissare astronomicamente e con rara precisione la latitudine d'una serie di posizioni. Infine, stanco di questa lotta infruttuosa, l'equipaggio chiese grazia e bisognò tornare al Texel. I risultati ottenuti furono giudicati così importanti che, l'anno successivo, gli Stati d'Olanda confidarono a Giacomo Van Heemsherke il comando d'una flotta di sette navi, di cui Barentz fu nominato pilota supremo. Dopo aver toccato in differenti punti le coste della Nuova Zembla e dell'Asia, questa squadra fu costretta dai ghiacci a tornare indietro, senza aver fatto scoperte importanti, ed a tornare in Olanda il 18 settembre.

In generale, i governi non hanno la perseveranza dei semplici privati. Il grande armamento dell'anno 1595 non aveva prodotto nulla ed era costato una grossa somma; fu abbastanza per iscoraggiare gli Stati di Olanda. I commercianti d'Amsterdam, sostituendo allora la loro azione a quella del governo, che si accontentava di promettere un premio a colui che scoprirebbe il passaggio del nord-est, armarono due navi, di cui affidarono il comando ad Heemskerke ed a Giovanni Corneliszoon-Rijp. Barentz non aveva veramente che il titolo di pilota, ma era lui il vero comandante. Lo storico del viaggio, Gerrit de Veer, era pure imbarcato in qualità di quartiermastro. Gli Olandesi partirono da Amsterdam il 10 maggio 1596, passarono dalle Shetland e dalle Feroe, e, il 5 giugno, videro i primi ghiacci, «di cui furono molto sbalorditi, credendo dapprima che fossero cigni bianchi.» Era al sud dello Spitzberg, nei paraggi dell'isola degli Orsi, che non tardarono a toccare e sulla quale sbarcarono l'11 giugno. Essi vi raccolsero un gran numero d'uova di gabbiani ed uccisero con gran fatica, a qualche distanza dal mare, un orso bianco che doveva dare il suo nome alla terra che Barentz aveva scoperto. Il 19 giugno sbarcarono sopra una gran terra che credettero far parte del Groenland, ed alla quale diedero il nome di Spitzberg a causa delle sue montagne aguzze; esplorarono una buona parte della sua costa occidentale. Costretti dai ghiacci a ridiscendere all'isola degli Orsi, essi si separarono a quell'altezza da Giovanni Rijp, che doveva cercare ancora una volta di dirigersi al nord. L'11 luglio erano nei paraggi del capo Kanin, e cinque giorni dopo erano giunti alla costa occidentale della Nuova Zembla, che portava il nome di Terra di Willoughby. Essi mutarono allora direzione, e risalendo al nord, giunsero il 19 all'isola delle Croci, dove il ghiaccio, ancora attaccato alla riva, sbarrò loro la via. Rimasero in quel punto fino al 4 agosto, e due giorni più tardi doppiarono il capo Nassau. Dopo molte

peripezie, che sarebbe troppo lungo narrare, giunsero alle isole Orange, all'estremità settentrionale della Nuova Zembla. Incominciarono a scendere lungo la costa orientale, ma furono poco stante costretti ad entrare in un seno, dove si trovarono assolutamente bloccati dai ghiacci, e dove «furono costretti, con un gran freddo, colla miseria e la tristezza, a rimanere tutto l'inverno.» Si era al 26 agosto. «Il 30, i ghiacci incominciarono ad ammucchiarsi l'uno sull'altro contro i fianchi della nave con un nevazzo. La nave fu sollevata e circondata, in guisa che tutto quanto stava d'intorno cominciò a scricchiolare ed a spezzarsi. Sembrava che la nave dovesse frantumarsi, cosa

spaventevole a vedere e ad udire, tanto da far drizzare i capelli. La nave fu di poi in simile pericolo, quando il ghiaccio venne disotto, sollevandola e spingendola come se fosse stata sollevata da una leva.» In breve la nave scricchiolò tanto forte che la prudenza comandò di sbarcare delle provviste, delle vele, la polvere da cannone, il piombo, gli archibugi al pari

d'altre armi, e di rizzare una tenda od una capanna per mettersi al riparo della neve ed al sicuro dagli orsi. Alcuni giorni dopo, dei marinai che si erano avanzati due o tre leghe nell'interno del paese, trovarono presso un fiume d'acqua dolce una quantità di legno galleggiante; vi scoprirono inoltre delle

traccie di capriuoli selvatici e di renne. L'11 settembre, vedendo che la baia si era empita di blocchi enormi, ammucchiati gli uni su gli altri e saldati insieme, gli Olandesi compresero che sarebbero obbligati a svernare in quel luogo, e risolvettero «per essere meglio difesi contro il freddo e contro

le belve,» di fabbricare una casa che fosse in grado di contenerli tutti, mentre si abbandonerebbe a sé stessa la nave che diventava tutti i giorni meno sicura e comoda. Fortunatamente, essi trovarono sulla spiaggia degli alberi interi, venuti senza dubbio dalla Siberia e spinti là dalla corrente, in numero tale che bastarono non solo alla costruzione della abitazione, ma anche al riscaldamento per tutto l'inverno. Mai nessun Europeo aveva svernato per lo innanzi in quelle regioni, in mezzo a quel mare pigro ed immobile che, secondo le espressioni così false di Tacito, forma la cintura del mondo, dove si ode il rumore del sole che si leva. E però i diciassette Olandesi non potevano immaginare le sofferenze di cui erano minacciati. Essi le sopportarono del resto con una pazienza ammiranda, senza un mormorio, senza il minimo tentativo d'indisciplina o di rivolta. La condotta di quei bravi marinai, ignoranti di ciò che un avvenire così tenebroso riserbava loro, e che avevano messo con una fiducia meravigliosa «i loro negozi fra le mani di Dio,» potrà sempre essere data come esempio anche ai marinai d'oggidì. Si può dire che essi avevano veramente nel cuore l'œs triplex di cui parla Orazio. È in grazia dell'abilità, della scienza, della previdenza del loro capo e del loro spirito di disciplina, che essi poterono uscire dalla Nuova Zembla, loro tomba probabile, e rivedere le spiaggie della patria. Gli orsi, numerosissimi in quel tempo dell'anno, fecero frequenti visite all'equipaggio. Più d'uno venne ucciso, ma gli Olandesi si accontentarono di scorticarli per prendere la loro pelliccia e non li mangiarono, senza dubbio perchè ne credevano malsana la carne. Sarebbe stato, per altro, un gran supplemento di cibo, che avrebbe loro permesso di non toccare la carne salata e d'evitare più a lungo lo scorbuto. Ma non anticipiamo gli avvenimenti, e continuiamo a seguire il

giornale di Gerrit de Veer. Il 23 settembre, il legnaiuolo morì e fu sepolto il domani nella fessura d'una montagna, giacché era impossibile zappar la terra, tanto il freddo era intenso. I giorni seguenti furono consacrati al trasporto dei legnami galleggianti ed alla costruzione della casa. Bisognò, per coprirla, demolire le camere di prua e di poppa della nave; essa fu montata il 2 ottobre, e vi si piantò, a guisa di majo, un pezzo di neve gelata. Il 31 soffiò un gran vento dal nord-ovest; il mare era interamente aperto e senza ghiacci, fin dove poteva giunger l'occhio. «Ma noi rimanemmo come presi ed arrestati nel ghiaccio, la nave era sollevata ben due o tre piedi sopra il ghiaccio, e non potevamo pensare altra cosa se non che l'acqua era gelata fino al fondo, sebbene vi fosse una profondità di tre braccia e mezzo.» Il 12 ottobre s'incominciò a coricarsi nella casa, benché non fosse terminata. Il 21, la miglior parte dei viveri, i mobili e tutto ciò di cui si poteva aver bisogno fu preso nella nave, giacché si sentiva che il sole stava per sparire. Era stato fatto un fumaiuolo sul tetto della casa; all'interno fu appesa una pendola olandese; dei letti sorsero lungo le pareti, ed una botte fu trasformata in bagno, giacché il chirurgo aveva saviamente raccomandato l'uso frequente dei bagni per mantenere la salute degli uomini. La quantità di neve che cadde durante quell'inverno è veramente meravigliosa. La casa sparve tutta quanta sotto quel fitto mantello, che innalzò del resto sensibilmente la temperatura interna. Ogni volta che avevano bisogno d'uscire, gli Olandesi erano obbligati a scavare un lungo corridoio sotto la neve. Tutte le notti udivano gli orsi dapprima, poi le volpi che passeggiavano sul tetto dell'abitazione e cercavano di togliere qualche tavola del tetto per penetrare nell'interno. E però essi presero l'abitudine di arrampicarsi nel fumaiuolo, donde, come da un casotto,

potevano far fuoco e dar la caccia a quegli animali. Avevano preparato un gran numero di trappole, nelle quali caddero molte volpi azzurre, la cui preziosa pelliccia serviva a difenderli contro il freddo e la cui carne permetteva loro d'economizzare le provviste. Sempre allegri e di buon umore, sopportarono alla meglio la noia della lunga notte polare ed il rigore del freddo. Esso fu tale che, siccome per due o tre giorni non avevano potuto accendere tanto fuoco come prima a causa del fumo respinto dal vento, gelò così forte nella casa, che le pareti ed il suolo furono gelati alla profondità di due dita, anche nelle capanne in cui quella povera gente era coricata. Bisognò far sgelare il vino di Xeres al momento della distribuzione che si faceva ogni due giorni nella misura di mezza pinta. «Il 7 dicembre continuò il brutto tempo con una tempesta violenta, che veniva dal nord-est, e che produsse un freddo orribile. Siccome non conoscevamo mezzo alcuno per difendercene, e deliberavamo insieme su quanto di meglio potessimo fare, uno dei nostri, in quell'estrema necessità, propose d'usare del carbon fossile, che avevamo portato dalla nostra nave nella casa, e di farne del fuoco, perchè la brace ne è ardente e di lunga durata. Verso sera facemmo un gran fuoco di carbon fossile, che produsse un gran calore; ma non badammo a ciò che potesse avvenire, e siccome quel calore ci rianimò interamente, cercammo di trattenerlo un pezzo. A tal fine trovammo ben fatto il chiudere tutti i fori e lo sbocco del camino per mantenere il dolce calore. E così ciascuno andò a dormire nella sua capanna, rianimato da quel calore, e discorremmo lungamente insieme. Ma, infine, ci sentimmo girar la testa, chi più chi meno, e ce ne avvedemmo primieramente da uno dei nostri che era infermo e che, per questa ragione, poteva sopportarlo meno. Ed anche noi lo sentimmo, ed una grande angoscia ci pigliava, di guisa che alcuni, che furono i più robusti, uscirono dalla capanna e

cominciarono dallo stoppare il camino, poi aprirono l'uscio. Ma colui che aprì l'uscio svenne e cadde fuor dei sensi sulla neve, il che vedendo, accorsi e lo trovai a terra svenuto. Me ne andai in fretta a cercare dell'aceto e gli fregai la faccia fintanto che tornò in sé. Poi, quando fummo risensati, il capitano diede a ciascuno un po' di vino per riconfortarci il cuore…… «L'11 continuò il tempo limpido con un gran freddo, tanto che colui che non lo ha provato non vorrebbe crederlo; perfino le scarpe, gelate ai nostri piedi, erano dure come il corno, ed internamente erano coperte di ghiaccio, di guisa che non potevamo più servircene. Le vesti sul nostro corpo erano imbiancate dalla brina e dal ghiaccio.» Il 25 dicembre, giorno di Natale, il tempo fu aspro al pari che nei giorni precedenti. Le volpi facevano un chiasso indiavolato sulla casa, la qual cosa uno dei marinai disse essere di cattivo augurio, e siccome gli si domandava perchè, egli rispose: «Perchè non si poteva metterle in una pentola od allo spiedo, il che sarebbe stato di buon augurio.» Se l'anno 1596 era finito con un freddo estremo, l'incominciamento del 1597 non fu molto più gradevole. Tempeste di neve e geli violentissimi non permisero agli Olandesi d'uscire della casa. Essi vi celebrarono allegramente la festa dei Re, come riferisce l'ingenuo e commovente racconto di Gerrit de Veer. «Perciò noi abbiamo domandato al capitano di poterci divertire un poco in mezzo alla nostra miseria, impiegandovi una parte del vino che doveva esserci distribuito ogni due giorni. Avendo due libbre di farina, facemmo delle frittelle, e ciascuno portò un biscotto di pane bianco che abbiamo bagnato nel vino e mangiato. E ci parve d'essere nella nostra patria, fra i nostri parenti ed amici; e ne fummo tanto ricreati, quanto se avessimo fatto un banchetto d'onore, tanto i cibi ci parvero saporiti. Abbiamo fatto anche un re estraendolo a sorte, e fu il nostro mastro-cannoniere il re

della Nuova Zembla, paese chiuso fra due mari e lungo ben dugento leghe.» Incominciando dal 21 gennaio, le volpi divennero meno numerose, gli orsi riapparvero ed il giorno cominciò a crescere, il che permise agli Olandesi, così lungamente reclusi, d'uscire qualche poco. Il 24, uno dei marinai, da un pezzo infermo, morì e fu sepolto nella neve a poca distanza dalla casa. Il 28, con un tempo bellissimo, tutti uscirono a spasso, si esercitarono a correre, a gettar la palla per dar vigoria alle membra, giacché erano d'un'estrema debolezza e quasi tutti malati di scorbuto. Erano così deboli, che furono obbligati a mettercisi più volte per trasportare alla loro casa la legna necessaria. Finalmente, nei primi giorni di marzo, dopo molte tempeste e nevazzi, poterono notare che non v'erano più ghiacci in mare. Ciò non ostante il tempo era aspro ed il freddo glaciale. Non bisognava ancora pensare a riprendere il mare, tanto più che la nave era sempre impigliata fra i ghiacci. Il 15 aprile le fecero una visita e la trovarono in uno stato abbastanza buono. Al principio di maggio i marinai cominciarono ad impazientirsi e chiesero a Barentz se non contasse di prender presto le disposizioni necessarie alla partenza. Ma costui rispose che bisognava aspettare fino alla fine del mese, e che allora se fosse possibile sgomberar la nave, si piglierebbero le disposizioni necessarie per preparare la scialuppa ed il gran canotto, e renderli adatti a navigare in mare. Il 20 del mese furono incominciati i preparativi della partenza, si può indovinare con quanta gioia ed ardore. La scialuppa fu raddobbata, le vele furono raccomodate, il canotto e la scialuppa tirati in mare, le provviste imbarcate. Poi, vedendo che l'acqua era aperta e che soffiava un gran vento, Heemskerke andò a trovare Barentz, che era stato lungamente infermo, e gli dichiarò «che gli sembrava bene il partire di là ed incominciare, in nome di Dio, il viaggio per abbandonare la

Nuova Zembla.» «Guglielmo Barentz aveva prima scritto un biglietto in cui spiegava come noi eravamo partiti dall'Olanda per andare nel regno di China, e tutto ciò che era avvenuto, perchè se mai qualcuno venisse dopo di noi, potesse sapere ciò che ci era accaduto. Egli ha messo questo biglietto nel fodero d'un moschetto e lo ha appeso al camino.» Il 13 giugno 1597 gli Olandesi abbandonarono dunque la nave, che non si era mossa dalla sua prigione di ghiaccio, e mettendosi sotto la guardia di Dio, le due scialuppe presero il mare. Esse giunsero alle isole Orange e ridiscesero la costa occidentale della Nuova Zembla in mezzo a pericoli di continuo rinascenti. «Il 20 giugno, Nicola Andrieu divenne debolissimo, e noi vedemmo che egli avrebbe dovuto presto spirare. Il luogotenente del governatore venne nella nostra scialuppa e ci disse che Nicola Andrieu stava molto male, e che era chiaro ch'egli finirebbe presto i suoi giorni. Allora Guglielmo Barentz disse: «Mi pare che anche la mia vita non durerà molto.» Noi non credevamo che Barentz fosse così infermo, giacché cianciavamo insieme, e Guglielmo Barentz guardava la piccola carta che io avevo fatto del nostro viaggio. Discorremmo insieme di molte cose; infine egli depose la carta e mi disse: «Gerardo, dammi da bere.» Quando ebbe bevuto, gli sopravvenne una tale debolezza che gli faceva girare gli occhi, e morì così improvvisamente che non avemmo il tempo di chiamare il capitano che era sull'altra barca. Questa morte di Guglielmo Barentz ci rattristò molto, giacché egli era il nostro principale conduttore ed il nostro unico pilota, ed avevamo messo in lui tutta la nostra fiducia. Ma non potevamo resistere alla volontà d'Iddio, e questo pensiero ci calmò alquanto.» Così morì in mezzo alle sue scoperte, come i suoi successori Franklin e Hall, l'illustre Barentz. Nei termini così

misurati e sobri della breve orazione funebre di Gerrit de Veer, si sente l'affezione, la simpatia e la fiducia che questo ardito marinaio aveva saputo ispirare ai suoi disgraziati compagni. Barentz è una delle glorie dell'Olanda, così feconda di bravi e coraggiosi naviganti. Noi diremo, fra poco, ciò che fu fatto per onorare la sua memoria. Dopo d'essere stati obbligati molte volte di vuotare l'acqua delle barche, sul punto d'essere stritolate fra i ghiacci, dopo aver visto più volte il mare aprirsi e rinchiudersi innanzi ad essi, dopo aver sofferto la sete e la fame, gli Olandesi giunsero al capo Nassau. Costretti un giorno a tirare sul banco di ghiaccio il loro canotto che minacciava d'essere sfondato, essi perdettero una parte delle provviste ed arrischiarono d'essere tutti annegati, giacché il ghiaccio si ruppe sotto i loro piedi. In mezzo a tante miserie, avevano talvolta delle buone fortune. È così che, essendo giunti sul ghiaccio all'isola delle Croci, vi trovarono settanta uova d'anitre di montagna. «Ma non sapevano dove metterle per trasportarle. Finalmente uno d'essi si tolse le brache, legandole al basso, ed avendovi messe le uova, le portarono in due sopra una picca ed il terzo portava il moschetto. Essi tornarono così dopo essere stati assenti dodici ore, il che ci faceva temere che fosse loro accaduta qualche disgrazia. Le uova furono le ben venute, e ne mangiammo come signori.» A partire dal 19 luglio, gli Olandesi vogarono sopra un mare, se non libero di ghiacci, almeno sgombro di quei gran banchi che avevano attraversato con tanta pena. Il 28 luglio, entrando nel golfo San Laurent, incontrarono due barche russe a cui non osarono da principio avvicinarsi. Ma quando videro i marinai venire incontro ad essi, senz'armi e con dimostrazioni d'amicizia, bandirono ogni timore, tanto più che li riconobbero per averli incontrati l'anno precedente nei dintorni di Waigatz. Essi ne ebbero alcuni soccorsi, e ripigliarono il viaggio continuando a seguire, quanto più vicino

il ghiaccio lo permetteva, la spiaggia della Nuova Zembla. In una discesa a terra scoprirono la coclearia, pianta le cui foglie e le sementi sono uno dei più potenti antiscorbutici conosciuti. Perciò ne mangiarono a piene mani e ne provarono quasi subito un gran sollievo. Frattanto le loro provviste si consumavano; non avevano più che un po' di pane e quasi punto carne. Si decisero allora a prendere il largo per accorciare la distanza che li separava dalle coste della Russia, dove speravano di trovare qualche barca di pescatori che potrebbero soccorrerli. La loro speranza non fu tradita, sebbene dovessero ancora soffrire molti mali. I Russi si mostrarono molto commossi della loro disgrazia, ed acconsentirono a ceder loro più volte dei viveri, che non li lasciarono morir di fame. Le due barche erano state separate da una fitta nebbia, e non si ritrovarono che molto al di là del capo Kanine, dall'altra parte del mar Bianco, all'isola Kildyn, dove dei pescatori appresero agli Olandesi che a Kola vi erano tre navi della loro nazione, pronte a spiegar le vele per tornare nella loro patria. Essi mandarono dunque uno dei loro, accompagnato da un Lapone, che tornò tre giorni dopo con una lettera sottoscritta Giovanni Rijp. Grande fa lo stupore degli Olandesi alla vista di quella sottoscrizione, e solo paragonando la lettera che avevano ricevuta con molte altre che Heemskerke aveva in poter suo, si persuasero che era proprio del capitano che li aveva accompagnati l'anno precedente. Alcuni giorni dopo, il 30 settembre, Rijp venne in persona, con una barca carica di provviste, per prenderli e condurli nel fiume di Kola, dove era ancorata la sua nave. Rijp fu molto stupito di tutto ciò che gli narrarono e del terribile viaggio di circa quattrocento leghe che essi avevano fatto, e che non era durato meno di centoquattro giorni, dal 13 giugno al 25 settembre. Alcuni giorni di riposo, un nutrimento sano ed abbondante, bastarono per far scomparire le ultime traccie dello scorbuto e ristorare i marinai dagli stenti. Il 17

settembre Giovanni Rijp usci dal fiume di Kola, ed il 1° novembre l'equipaggio olandese giunse ad Amsterdam. «Noi avevamo, dice Gerrit de Veer, le medesime vesti che portavamo nella Nuova Zembla, portando sul capo dei berretti di volpe bianca, e ci recammo al palazzo di Pietro Hasselaer, che era stato uno dei curatori della città d'Amsterdam, incaricato di presiedere all'approntamento delle due navi di Giovanni Rijp e del nostro capitano. Giunti a quel palazzo, fra lo stupore generale, perchè da un pezzo ci si credeva morti e la diceria se n'era sparsa per la città, la notizia del nostro arrivo giunse fino al palazzo del principe, dove sedevano allora a mensa il cancelliere e l'ambasciatore dell'illustrissimo re di Danimarca, Norvegia, dei Goti e dei Vandali. Di modo che noi fummo condotti da loro dal signor L'Écoutets e da due signori della città, ed abbiamo fatto al detto signor ambasciatore ed ai signori borgomastri il racconto del nostro viaggio. Poi ciascuno di noi si è ritirato nella sua casa. Quelli che non erano della città furono alloggiati per qualche tempo in un albergo, finché ricevemmo il nostro denaro, ed allora ciascuno se n'è andato. Ecco i nomi di coloro che tornarono da questo viaggio: Giacomo Heemskerke, commesso e capitano, Pietro Peterson Vos, Gerardo de Veer, mastro, Giovanni Vos, chirurgo, Giacomo Jansen Sterrenburg, Leonardo Enrico, Lorenzo Guglielmo, Giovanni Hillebrants, Giacomo Jansen Hoochwout, Pietro Corneille, Giacomo di Buisen e Giacomo Everts.» Di tutti questi coraggiosi marinai non abbiamo più nulla a dire, tranne che de Veer pubblicò, l'anno successivo, il racconto del suo viaggio, e che Heemskerke, dopo aver fatte molte campagne nell'India, ricevette nel 1607 il comando d'una flotta di 26 navi, a capo della quale egli diede, il 25 aprile, agli Spagnuoli, sotto il cannone di Gibilterra, un aspro combattimento, nel quale gli Olandesi riuscirono vincitori, ma in cui egli perdette la vita.

Non è che nel 1871, circa trecento anni più tardi, che fu riveduto il luogo di svernamento del disgraziato Barentz e dei suoi compagni. Per il primo egli aveva doppiato la punta settentrionale della Nuova Zembla, ed era rimasto il solo fino a quell'anno. Il 7 settembre 1871 il capitano norvegiano Elling

Carlsen, conosciuto per aver fatto molte corse nel mare del Nord e nell'oceano Glaciale, giunse al Porto di Grazia di Barentz, e, il 9, egli scopri la casa che aveva riparato gli Olandesi. Essa sembrava essere stata costrutta la vigilia, tanto era in un meraviglioso stato di conservazione. Tutto si trovava

allo stesso posto come al tempo della partenza dei naufraghi. Soltanto gli orsi, le volpi e gli altri abitanti di quelle regioni inospitali avevano visitato quel luogo. Intorno alla casa erano sparse delle gran botti, dei mucchi d'ossami di foche, di trichechi e d'orsi. Nell'interno tutto era a suo posto. Era la

riproduzione fedele della curiosa incisione di Gerrit de Veer. I letti erano disposti lungo la parete come sono raffigurati nel disegno, come pure l'orologio, i moschetti, le alabarde. Fra gli utensili domestici, le armi ed i diversi oggetti riportati dal capitano Carlsen, citeremo due casseruole marine di rame,

delle tazze, delle canne di fucile, delle sgorbie e delle lime, un paio di stivali, diciannove cartuccie, alcune delle quali ancora piene di polvere, la pendola, un flauto, delle serrature e dei catenacci, ventisei candelieri di stagno, dei frammenti d'incisioni e tre libri olandesi, fra cui una Storia della China, l'ultima edizione di Mendoza, che mostra lo scopo di Barentz in quella spedizione, ed un Manuale detta navigazione, che prova tutta la cura che il pilota metteva nel tenersi al corrente delle cose della sua professione. Al suo ritorno al porto d'Hammerfest, il capitano Carlsen incontrò un olandese, il signor Lister Kay, che comperò le reliquie di Barentz e le trasmise al governo neerlandese. Quegli oggetti sono stati deposti nel museo della marina di la Haye, ed è stata costrutta una casa, aperta sul dinanzi, assolutamente simile a quella riprodotta dal disegno di Gerrit de Veer. Ciascuno degli oggetti o degli strumenti riportati ha preso il posto che già occupava nella casa della Nuova Zembla. Circondate di tutto il rispetto e di tutta l'affezione che meritano, queste preziose testimonianze d'un importante avvenimento marittimo, del primo svernamento nei mari artici, questi commoventi ricordi di Barentz, di Heemskerke e de' suoi coraggiosi compagni, costituiscono uno dei monumenti più interessanti del museo. Accanto all'orologio vi ha un quadrante di rame, in mezzo al quale è tracciato un meridiano. Questo curioso quadrante, inventato da Plancius e che serviva senza dubbio a determinare le deviazioni della bussola, è oggi l'unico modello esistente d'uno strumento nautico, che non ha mai dovuto essere molto comune. Anche a questo titolo, esso è tanto prezioso quanto lo sono, sotto un altro punto di vista, il flauto che serviva a Barentz e le scarpe del povero marinaio morto durante lo svernamento. Non si può vedere senza provare una forte commozione questa curiosa raccolta.

CAPITOLO IV. I VIAGGI D'AVVENTURA E LA GUERRA DI CORSA. Drake — Cavendish — Da Noort — Walter Raleigh.

Una miserabile capanna di Tavistock nel Devonshire fu, nel 1540, il luogo di nascita di Francesco Drake, che doveva, col suo indomabile coraggio, guadagnare dei milioni che perdette con altrettanta facilità, del resto, quanta ne aveva avuta nel guadagnarli. Edmondo Drake, suo padre, era uno di quei sacerdoti che si dedicano all'educazione del popolo. La sua povertà non era eguagliata se non dalla stima che si aveva del suo carattere. Carico di famiglia, il padre di Francesco Drake si vide nella necessità di lasciar abbracciare a suo figlio la professione marittima, per la quale egli aveva del resto una viva passione, e di lasciarlo servire in qualità di mozzo a bordo d'una nave di cabotaggio che faceva il transito coll'Olanda. Laborioso, ostinato, economo, il giovane Francesco Drake acquistò in breve tempo le cognizioni teoriche necessarie alla direzione d'una nave. Quando ebbe fatto alcune economie, ingrossate dalla vendita d'una barca lasciatagli dal suo primo patrono, egli fece alcuni viaggi più lunghi, visitò la baia di Biscaglia, il golfo di Guinea, e spese tutto quanto possedeva per procurarsi un carico che doveva vendere alle Indie occidentali. Ma era appena giunto al rio della Hacha, quando nave e carico furono confiscati, non si sa sotto qual futile pretesto. Tutti i reclami di Drake, che si vedeva rovinato, furono inutili. Egli giurò di vendicarsi d'una tale ingiustizia, e mantenne la parola. Nel 1567, vale a dire due anni dopo quest'avventura, una piccola flotta di sei navi, la più forte delle quali stazzava 700 tonnellate, lasciò Plymouth, coll'approvazione della regina, per

fare una spedizione sulle coste del Messico. Drake comandava una nave di 50 tonnellate. Dapprincipio, furono catturati alcuni negri al capo Verde, specie di prova generale di ciò che doveva accadere al Messico. Poi, si assediò la Mina, dove furono presi altri negri, che si andò a vendere alle Antille. Hawkins, senza dubbio dietro consiglio di Drake, s'impadronì della città di Riode-la-Hacha; poi, egli giunse a San Giovanni d'Ulloa, dopo un terribile uragano. Ma il porto conteneva una flotta numerosa, ed era armato d'una potente artiglieria. La flotta inglese fu disfatta, e Drake stentò molto a giungere alle coste d'Inghilterra nel gennaio 1568. Drake fece poi due spedizioni alle Indie occidentali per studiare il paese. Quando credette d'aver raccolto le cognizioni necessarie, armò a sue spese due navi: lo Swan di 25 tonnellate, che fu comandato da suo fratello John, ed il Pacha di Plymouth, di 70 tonnellate. Le due navi avevano per equipaggio settantatrè lupi di mare, sui quali si poteva fare assegnamento. Dal luglio 1572 all'agosto 1573, ora soli, ora insieme con un certo capitano Rawse, Drake fece una fruttuosa crociera sulle coste del Darien, assalì le città di Vera Cruz e di Nombre-de-Dios e fece grasso bottino. Disgraziatamente, queste escursioni non andarono esenti da molte crudeltà, da atti di violenza di cui oggidì si arrossirebbe. Ma non insisteremo su scene di pirateria e di barbarie, le quali non sono che troppo frequenti nel secolo XVI. Dopo d'aver cooperato alla repressione della rivolta d'Irlanda, Drake, il cui nome cominciava ad essere conosciuto, si fece presentare alla regina Elisabetta. Egli le espose il suo disegno dì recarsi a saccheggiare le coste dell'America del Sud, passando per lo stretto di Magellano, ed ottenne col titolo d'ammiraglio, una flotta di cinque navi, sulla quale furono imbarcati centosessanta marinai scelti. Partito da Plymouth il 15 novembre 1577, Francesco

Drake ebbe dei rapporti coi Mori di Mogador, di cui non ebbe a lodarsi, fece alcune catture di poca importanza prima di giungere alle isole del capo Verde, dove prese dei rinfreschi, ed impiegò cinquantasei giorni ad attraversare l'Atlantico e giungere alla costa del Brasile. Egli la seguì, allora, fino all'estuario della Plata, dove fece provvista d'acqua, si recò alla baia delle Foche, in Patagonia, trafficò coi selvaggi ed uccise un gran numero di pinguini e di lupi marini per l'approvigionamento dei suoi equipaggi. «Alcuni Patagoni che furono visti il 13 maggio, un po' al disotto della baia delle Foche, dice la relazione originale, portavano sulla testa una specie di corno, e quasi tutti avevano per cappelli delle bellissime penne d'uccelli. Avevano pure la faccia dipinta a vari colori, e ciascuno aveva in mano un arco, dal quale, ad ogni colpo che tiravano, scoccavano due freccie. Sono uomini molto agili, e, a quanto abbiamo potuto vedere, abbastanza al fatto delle cose della guerra, giacché mantenevano un buon ordine camminando ed avanzando, e, mentre erano pochi, sapevano farsi credere in gran numero.» Il signor Charton, nei suoi Viaggiatori antichi e moderni, fa notare che Drake non insiste sulla statura straordinaria che Magellano aveva attribuito ai Patagoni. Vi ha per ciò una buona ragione. Esiste in Patagonia più d'una tribù, e la descrizione che Drake ci dà dei selvaggi ch'egli incontrò, non rassomiglia punto a quella che fa Pigafetta dei Patagoni del porto San Giuliano. Se esiste, come pare provato oggidì, una razza d'uomini d'alta statura, il luogo di sua abitazione sembra essere fissato sulle rive dello stretto all'estremità meridionale della Patagonia, e non a quindici giorni di navigazione dal porto Desiderato, dove Drake giunse il 2 giugno. Il giorno successivo, egli giunse al porto San Giuliano, dove trovò una forca rizzata un tempo da Magellano per punire alcuni ribelli del suo equipaggio. Drake, alla sua volta, scelse quel luogo per sbarazzarsi d'uno de' suoi

capitani, chiamato Doughty, accusato da un pezzo di tradimento, e che si era separato molte volte dalla flotta. Alcuni marinai avendo confessato ch'egli li aveva eccitati a congiungersi a lui per mandar a male il viaggio, egli fu convinto del crimine di ribellione e d'insubordinazione, e, secondo le leggi d'Inghilterra, fu condannato da un consiglio di guerra ad aver mozzata la testa. Questa sentenza fu subito eseguita, sebbene Doughty avesse protestato energicamente fino all'ultimo momento della sua innocenza. La colpabilità del capitano Doughty era ben accertata? Se Drake fu accusato, al suo ritorno in Inghilterra, e non ostante la moderazione di cui fece sempre prova verso i suoi uomini, d'aver approfittato dell'occasione per sbarazzarsi d'un rivale ch'egli temeva, è difficile ammettere che i quaranta giudici che pronunciarono la sentenza siano andati d'accordo per obbedire ai segreti disegni del loro ammiraglio e condannare un innocente. Il 20 agosto, la flotta, ridotta a tre navi, in seguito alle avarie sofferte da due navi, in breve distrutte dall'ammiraglio, entrò nello stretto, che non era stato valicato dopo Magellano. S'egli incontrò dei bei porti, Drake notò che era difficile ancorarvisi a cagione della profondità dell'acqua presso la terra, come pure dei venti violenti, soffianti a raffiche improvvise, che rendevano pericolosa la navigazione. In un uragano che lo assalì all'uscita dello stretto nel Pacifico, Drake vide perire una delle sue navi, mentre il suo ultimo compagno era separato da lui, pochi giorni dopo, senza ch'egli potesse rivederlo se non alla fine della campagna. Trascinato dalle correnti, al sud dello stretto fino a 55° l/3, Drake non aveva più che la sua sola nave; ma col male ch'egli fece agli Spagnuoli, mostrò le distruzioni che avrebbe potuto fare se avesse avuto sotto i suoi ordini la flotta colla quale aveva lasciato l'Inghilterra. In uno sbarco nell'isola della Mocha, gli Inglesi ebbero due morti e molti feriti, e Drake medesimo, colpito alla testa da due freccie, si

vide nell'impossibilità assoluta di punire gli Indiani della loro perfidia. Nel porto di Valparaiso, egli s'impadronì d'una nave riccamente carica di vini del Chili e di verghe d'oro valutate 37,000 ducati; poi saccheggiò la città, precipitosamente abbandonata da'suoi abitanti. A Coquimbo, la sua presenza era stata segnalata; perciò egli trovò delle forze grandi che lo costrinsero a tornare ad imbarcarsi. Ad Arica, egli saccheggiò tre piccole barche, in una delle quali furono trovate cinquantasette verghe d'argento valutate 50,160 libbre. Nel porto di Lima, dove erano ancorate dodici navi o barche, il bottino fu grande. Ma ciò che rallegrò di più Drake, fu l'apprendere che un gallione, chiamato Caga-Fuego, riccamente carico, si dirigeva verso Paraca. Egli si slanciò subito al suo inseguimento, catturò, cammin facendo, una barca che portava ottanta libbre d'oro, ossia 14,080 scudi di Francia, e non stentò molto, all'altezza del capo San Francisco, ad impadronirsi del Caga-Fuego, sul quale trovò ottanta libbre d'oro. Ciò fece dire ridendo al pilota spagnuolo: «Capitano, la nostra nave non deve più chiamarsi Caga-Fuego, (sputa fuoco) ma bensì Caga-Plata (sputa argento), è la vostra che deve chiamarsi Caga-Fuego.» Dopo un certo numero d'altre prese più o meno ricche sulla costa del Perù, Drake, apprendendo che si preparava contro di lui un grande armamento, pensò che era tempo di tornare in Inghilterra. Perciò fare, tre vie si aprivano innanzi alla sua nave: ripassare per lo stretto di Magellano, od attraversare il mare del Sud e doppiare il capo dì Buona Speranza per tornare nell'Atlantico, oppure risalire la costa della China e tornare per il mar Glaciale ed il capo Nord. A quest'ultimo partito, come più sicuro, Drake s'attenne. Egli prese dunque il largo, si spinse fino al 38° di latitudine nord e sbarcò nella baia di San Francisco, che era stata vista tre anni prima da Bodega. Si era allora al mese di giugno. La temperatura era bassissima e la terra coperta di neve. I

particolari che Drake dà sull'accoglienza fattagli dagli indigeni sono abbastanza curiosi: «Quando siamo arrivati, i selvaggi hanno mostrata una grande ammirazione nel vederci, e credendo che fossimo degli dèi, ci hanno ricevuti con una grande umanità e riverenza.» «Finché siamo rimasti colà, hanno continuato a venirci a vedere, portandoci ora dei bei pennacchi fatti di penne di diversi colori, ed ora del petun (tabacco), che è un'erba di cui gli Indiani fanno uso di consueto. Ma prima di presentarceli, si arrestavano un po' lontano, in un luogo in cui avevamo rizzate le nostre tende. Poi facevano dei lunghi discorsi a modo d'arringa, e quando avevano finito, lasciavano i loro archi e le loro freccie in quel luogo, e ci si avvicinavano per offrirci i doni. La prima volta che sono venuti, le loro donne si sono fermate al medesimo luogo e si sono graffiate strappando la pelle e la carne delle loro guancie, lamentandosi in modo ammirabile, del che ci siamo meravigliati. Ma abbiamo appreso che era una specie di sacrificio che ci facevano.» I particolari che Drake dà circa gli Indiani della California sono press'a poco gli unici ch'egli ci fornisca sugli usi e costumi delle nazioni da lui visitate. Faremo notare, a questo proposito, quell'abitudine dei lunghi discorsi che il viaggiatore ha cura di notare, e che ritroviamo presso gli Indiani del Canada, come aveva notato Cartier una quarantina d'anni prima. Drake non risali più su nel nord e rinunciò al suo disegno di tornare pel mar Glaciale. Quando egli spiegò le vele, fu per ridiscendere verso l'equatore, toccare le Molucche e tornare in Inghilterra per il capo di Buona Speranza. Siccome questa parte del viaggio si compie in paesi già noti, e siccome le osservazioni fatte da Drake non sono né numerose né nuove, noi la narreremo rapidamente.

Il 13 ottobre 1579, Drake giunse ad 8° di latitudine nord, ad un gruppo d'isole, i cui abitanti avevano le orecchie molto allungate dal peso degli ornamenti che vi erano sospesi; le unghie, che essi lasciavano crescere, parevano servir loro da armi difensive; i denti, «neri come pece di nave,» assumevano

quel colore a causa dell'uso del betel. Dopo d'esservisi riposato, Drake passò per le Filippine, e giunse il 14 novembre a Ternate. Il re di quest'isola si recò a bordo della sua nave con

quattro canotti carichi dei suoi principali ufficiali vestiti dei loro abiti di cerimonia. Dopo uno scambio di garbatezze e di doni, gli Inglesi ricevettero del riso, delle canne da zuccaro, del pollame, del figo, dei chiodi di garofano e della farina di sagù. Il domani, alcuni marinai scesi a terra, assistettero al consiglio.

«Quando il re è arrivato, si portava innanzi a lui un ricco ombrello o parasole tutto ricamato d'oro. Egli era vestito secondo la moda del paese, ma con un vestito magnifico, giacché era coperto dalle spalle fino a terra d'un lungo mantello di drappo d'oro. Aveva in testa per ornamento una specie di turbante tutto lavorato d'oro fino ed arricchito di pietre preziose

e di fiocchi della medesima stoffa. Dal collo gli pendeva una catena d'oro con larghi giri doppiati e raddoppiati. Alle dita aveva sei anelli di pietre preziosissime, ed i suoi piedi erano calzati di scarpe di marocchino.» Dopo essere rimasto per qualche tempo nel paese per ristorare il suo equipaggio, Drake riprese il mare; ma egli si arenò, il 9 gennaio 1580, sopra una roccia, e fu costretto, per rimettersi a galla, a gettare in mare otto cannoni ed una gran quantità di provviste. Un mese dopo, egli giungeva a Baratene, dove riparava la sua nave. Quest'isola produceva in abbondanza argento, oro, rame, zolfo, spezie, limoni, cocomeri, cocchi ed altri frutti deliziosi. «Noi ne abbiamo caricato abbondantemente le navi, potendo confessare che, dalla nostra partenza dall'Inghilterra, non siamo passati in nessun luogo in cui si trovassero maggiori comodità di viveri e di rinfreschi che in questa isola ed in quella di Ternate.» Lasciando quest'isola così ricca, Drake si arrestò a Giava maggiore, dove fu benissimo accolto dai cinque re che si spartivano l'isola e dalla popolazione. «Questo popolo è d'una bella corporatura, è pure curiosissimo e ben fornito d'armi, come spade, daghe e rondaccie, e tutte queste armi sono fatte con arte.» Drake era da poco tempo a Giava, quando apprese che poco lungi di là era ancorata una flotta potente ch'egli sospettò essere una flotta spagnuola. Per evitarla, spiegò precipitosamente le vele, doppiò il capo di Buona Speranza nei primi giorni di giugno, si arrestò a Sierra Leone per provvedersi d'acqua, e rientrò a Plymouth il 3 novembre 1580, dopo un'assenza di tre anni meno pochi giorni. L'accoglienza ch'egli ricevette in Inghilterra fu dapprincio glaciale. I suoi colpi di mano sulle città e le navi spagnuole, mentre le due nazioni erano in piena pace, lo facevano giustamente considerare da una parte della società come un pirata che calpestasse il diritto delle genti. Per cinque mesi, la

regina medesima, trattenuta dalle necessità diplomatiche, finse d'ignorare il suo ritorno. Ma in capo a questo tempo, sia che le circostanze fossero mutate, sia che non volesse tener più a lungo il broncio a quell'abile marinaio, essa si recò a Deptford, dove era ancorata la nave di Drake, salì a bordo e conferì al navigatore il titolo di cavaliere. Incominciando da questo tempo, la sua parte di scopritore è terminata, e la sua vita d'uomo di guerra e di nemico implacabile degli Spagnuoli non ci appartiene più. Carico d'onori, investito di comandi importanti, Drake morì in mare, il 28 gennaio 1596, durante una spedizione contro gli Spagnuoli. A lui spetta l'onore d'avere, per il secondo, passato lo stretto di Magellano e d'aver visto la Terra di Fuoco fino ai paraggi del capo Horn. Egli risalì pure, sulla costa dell'America del Nord, più su dei suoi predecessori e riconobbe molte isole ed arcipelaghi. Abilissimo navigatore, si trasse rapidissimamente dallo stretto di Magellano, e se gli si attribuiscono poche scoperte, è probabilmente perchè egli neglesse di registrarle nel suo giornale, o perchè le designa spesso in modo così inesatto che si stenta a ritrovarle. È lui che inaugurò quella guerra di corsa nella quale gli Inglesi e più tardi gli Olandesi dovevano fare tanto male agli Spagnuoli. I gravi profitti ch'egli ne ricavò incoraggiarono i suoi contemporanei e fecero nascere in essi l'amore delle lunghe navigazioni avventurose. Di tutti coloro che seguirono l'esempio di Drake, il più illustre è, senza dubbio, Thomas Cavendish o Candish. Entrato giovanissimo nella marina militare inglese, Cavendish ebbe una gioventù molto burrascosa, durante la quale dissipò rapidamente il suo piccolo patrimonio. Ciò che il giuoco gli aveva tolto, egli risolvette di riguadagnarlo sugli Spagnuoli. Avendo ottenuto nel 1585 delle lettere patenti egli fece la corsa nelle Indie orientali e tornò in Inghilterra con un gran bottino.

Incoraggiato da questa facile riuscita, egli pensò che acquistare un po' d'onore e di gloria, senza trascurare di fare la sua fortuna, non era cosa da disprezzare. Egli comperò dunque tre navi, il Desiderio di 20, il Contento di 60 e l'Hugh-Gallant di 40 tonnellate, sulle quali imbarcò centoventitrè soldati e marinai. Avendo spiegate le vele il 22 luglio 1586, passò dalle Canarie, scese a Sierra Leone, assalì e saccheggiò la città, poi tornò a spiegar le vele, attraversò l'Atlantico, rilevò il capo San Sebastiano al Brasile, segui la costa di Patagonia e giunse il 27 novembre al porto Desiderato. Egli vi trovò una prodigiosa quantità di cani marini, grossissimi e così forti che quattro uomini stentavano ad ucciderli, ed una folla d'uccelli, ai quali la mancanza d'ali impediva di volare e che si nutrivano di pesci. Essi vengono designati generalmente sotto il nome di pinguini. In questo porto sicurissimo, le navi furono tirate a secco per essere riparate. Durante questa fermata, Cavendish ebbe alcune scaramuccie coi Patagoni «uomini di statura gigantesca ed i cui piedi avevano 18 pollici di lunghezza,» che gli ferirono due marinai con freccie armate d'un ciottolo tagliente. Il 7 gennaio 1597, Cavendish entrò nello stretto di Magellano e raccolse, nella parte più stretta del canale, ventuno Spagnuolo e due donne, soli superstiti della colonia fondata tre anni prima, sotto il nome di Philippeville, dal capitano Sarmiento. Costrutta per impedire il passaggio dello stretto, questa città non contava meno di quattro forti e molte chiese. Cavendish potè vedere la fortezza allora deserta e che cadeva già in rovina. I suoi abitanti, messi dagli assalti continui dei selvaggi nell'impossibilità assoluta di fare il loro raccolto, erano morti di fame od erano periti tentando di giungere agli stabilimenti spagnuoli del Chili. Cavendish, in seguito a questo racconto di miserie, mutò il nome di Philippeville in quello di Porto Carestia, sotto il quale questo luogo è designato ancora

oggidì. Il 21, egli entrò in una bella baia, che ricevette il nome d'Elisabetta e nella quale fu sepolto il carpentiere dell'HughGallant. Poco lungi di là sboccava un bel fiume, sulle sponde del quale abitavano gli antropofagi, che avevano fatto una guerra così aspra agli Spagnuoli, e che tentarono, ma invano, d'attirare gli Inglesi nell'interno del paese. Il 24 febbraio, quando la piccola squadra entrò nel mare del Sud, fu assalita da un violento uragano che la disperse. L'Hugh-Gallatl, rimasto solo, e facendo acqua da tutti ì lati, stentò molto a mantenersi a galla. Raggiunto il 15 dai suoi compagni, Cavendish cercò invano di sbarcare all'isola della Mocha, dove Drake era stato maltrattato dagli Araucani. Questa regione, ricca d'oro e d'argento, gli Spagnuoli non avevano potuto fino allora assoggettarla; ed i suoi abitanti, decisi a tutto per conservare la libertà, respingevano a mano armata qualsiasi tentativo di sbarco. Bisognò dunque andare all'isola Santa Maria, dove gli Indiani, pigliando gli Inglesi per Spagnuoli, fornirono loro del grano turco, del pollame, delle patate, dei porci ed altre provviste in abbondanza. Il 30 dello stesso mese, Cavendish gettò l'àncora a 32° 50' nella baia di Quintero. Dei buoi, delle vacche, dei cavalli selvatici, delle lepri, delle pernici in abbondanza, tali furono gli animali che una trentina di moschettieri incontrarono, internandosi nel paese. Assalito dagli Spagnuoli, Cavendish fu costretto a tornare alle sue navi, dopo aver perduto dodici uomini. Egli devastò poi, saccheggiò o bruciò le città di Paraca, Cincha, Pisca, Paita, e devastò l'isola di Puna, dove fece un bottino di 645,000 libbre d'oro monetato. Dopo aver colato a fondo l'Hugh-Gallant, vista l'impossibilità assoluta in cui era di tenere il mare, Cavendish continuò la sua proficua crociera, bruciò, all'altezza della Nuova Spagna, una nave di 120 tonnellate, saccheggiò ed incendiò Aguatulio, e s'impadronì, dopo sei ore di combattimento, d'una nave di 708 tonnellate,

carica di ricche stoffe e di 122,000 pesos d'oro. Allora, «vittorioso e contento,» Cavendish volle mettere al sicuro da un disastro le spoglie opime ch'egli portava seco; si recò alle isole dei Ladroni, poi alle Filippine ed a Giava maggiore, doppiò il capo di Buona Speranza, si ristorò a Sant'Elena, e si ancorò, il 9 settembre 1588, a Plymouth, dopo due anni di viaggi, di corse e di combattimenti. Un proverbio afferma che è più difficile conservare che acquistare: Cavendish fece il necessario per confermarlo. Due anni dopo il suo ritorno, egli non possedeva più, dell'immensa ricchezza che aveva riportata, se non la somma necessaria all'armamento d'una terza spedizione. Doveva esser l'ultima. Partito con cinque navi, il 6 agosto 1591, Cavendish vide la sua flottiglia dispersa dall'uragano sulla costa di Patagonia, e non potè radunarla di nuovo che al porto Desiderato. Assalito nello stretto di Magellano da terribili uragani, fu costretto a tornar indietro, dopo d'essersi visto abbandonato da tre delle sue navi. La mancanza di viveri freschi, il freddo, le privazioni d'ogni sorta ch'egli dovette subire e che avevano decimato il suo equipaggio, lo costrinsero a risalire il litorale del Brasile, dove i Portoghesi si opposero a qualsiasi tentativo di sbarco. Egli dovette dunque riprendere il mare senza aver potuto approvigionarsi. Cavendish morì, a causa forse più del rincrescimento che delle privazioni, prima d'aver potuto giungere alle coste d'Inghilterra. Un anno dopo il ritorno dei compagni di Barentz, due navi, il Maurizio e l'Enrico Federico, come pure i due yacht Eendracht e Speranza, montati da dugentoquarantotto uomini d'equipaggio, lasciarono Amsterdam il 2 luglio 1598. Il comandante supremo di questa squadra era Oliviero de Noort, che aveva allora trent'anni circa, uomo conosciuto per aver fatto molti viaggi di lungo corso. Egli aveva per secondo, per vice-ammiraglio, Giacomo Claaz d'Ulpenda, e per pilota un

certo Melis, abile marinaio d'origine inglese. Questa spedizione, armata da molti mercanti d'Amsterdam coll'aiuto e col concorso degli Stati d'Olanda, doveva avere un duplice scopo; essa era ad un tempo commerciale e militare. In altri tempi, gli Olandesi si accontentavano di prendere in Portogallo le mercanzie che trasportavano, colle loro navi di cabotaggio, nell'Europa intera; oggidì erano ridotti ad andare a prenderle nel loro centro medesimo di produzione. Perciò, de Noort doveva mostrare a' suoi compatrioti la via inaugurata da Magellano, e fare, per istrada, il maggior male possibile agli Spagnuoli ed ai Portoghesi. In quel tempo, Filippo II, di cui gli Olandesi avevano scrollato il giogo e che aveva riunito il Portogallo a' suoi Stati, aveva proibita a' suoi sudditi qualsiasi relazione commerciale coi ribelli dei Paesi Bassi. Vi era dunque per l'Olanda, se non voleva essere rovinata, e per ciò medesimo ricadere sotto il dominio spagnuolo, un'assoluta necessità di aprirsi una via verso le isole delle spezie. La via meno frequentata dalle navi nemiche era quella dello stretto di Magellano; essa fu dunque prescritta a de Noort. Dopo aver toccato Gorea, gli Olandesi si arrestarono, nel golfo di Guinea, all'isola do Principe. I Portoghesi, fingendo d'accogliere amichevolmente gli uomini scesi a terra, approfittarono d'un'occasione favorevole per gettarsi sopra di essi e trucidarli senza pietà. Nel numero dei morti, vi furono Corniole de Noort, fratello dell'ammiraglio, Melis, Daniele Geerrits e Giovanni di Bremen; soltanto il capitano Pietro Esias potè fuggire. Era una triste entrata in campagna, un funesto presagio che non doveva mentire. Furioso di questo tranello, de Noort sbarcò centoventi uomini; ma egli trovò i Portoghesi così ben fortificati, che dopo una viva scaramuccia, nella quale ebbe ancora diciassette uomini uccisi o feriti, dovette levar l'àncora senza aver potuto vendicarsi dell'indegno e vile tradimento di cui suo fratello e dodici de' suoi compagni erano rimasti

vittime. Il 25 dicembre, uno dei suoi piloti, chiamato Giovanni Volkers, fu abbandonato sulla costa d'Africa a causa della sua condotta sleale, dello scoraggiamento ch'egli cercava di seminare negli equipaggi, e della sua ribellione ben accertata. Il 5 gennaio, fu riconosciuta l'isola d'Annobon, situata un po' al disotto della linea, nel golfo di Guinea, e si mutò via per attraversare l'Atlantico. De Noort si era appena ancorato nella baia di Rio Janeiro, che subito mandò a terra dei marinai per far provvista d'acqua e comperare delle provvigioni ai naturali. Ma i Portoghesi si opposero allo sbarco ed uccisero undici uomini. Allora, cacciati dalla costa del Brasile dai Portoghesi e dagli indigeni, respinti dai venti contrari, avendo tentato invano di giungere all'isola di Sant'Elena, dove contavano di prendere dei rinfreschi, di cui avevano il bisogno più urgente, gli Olandesi, privi del loro pilota, vagano a casaccio sull'Oceano. Essi sbarcano alle isole deserte di Martino Vaz, tornano alla costa del Brasile, al Rio Doce, che essi prendono per l'isola dell'Ascensione, e finalmente sono costretti a svernare nell'isola deserta di Santa Clara. Questa fermata fu segnalata da molti avvenimenti disgustosi. La nave ammiraglia urtò in uno scoglio con tanta violenza che, con un mare un po' agitato, sarebbe stata perduta. Vi furono pure alcune esecuzioni sanguinose e barbare di marinai ribelli, segnatamente quella d'un pover'uomo che, avendo ferito un pilota con una coltellata, fu condannato ad aver la mano inchiodata all'albero maestro. Gli infermi, numerosi sulla flotta, furono sbarcati, e quasi tutti guarirono in capo a quindici giorni. Dal 2 al 21 giugno, de Noort rimase in quest'isola, che non era lontana più d'una lega dal continente. Ma prima di riprendere il mare, egli fu costretto ad incendiare l'Eendracht, perchè non aveva più marinai abbastanza da manovrarlo. Non è che il 20 dicembre, dopo aver subiti molti uragani, ch'egli potè ancorarsi al porto Desiderato, dove l'equipaggio uccise in pochi giorni una quantità di cani e

di leoni marini, nonché più di cinquemila pinguini. «Il generale è andato a terra, dice la traduzione francese del racconto di de Noort, pubblicata da Bry, con un seguito di uomini armati, ma essi non videro nessuno, tranne alcune sepolture nelle quali mettono i loro morti, poste in alte rupi dove mettono molti sassi, tutte tinte di rosso al disopra della sepoltura, ornando in oltre queste sepolture con freccie, ed altri oggetti strani che essi adoperano come armi.» Gli Olandesi videro pure, ma troppo da lontano per poter far fuoco sopra di essi, dei bufali, dei cervi e degli struzzi, e raccolsero, in un sol nido, dieci uova di questo uccello, Il capitano Giacomo Iansz Huy de Cooper morì durante questa fermata e fu sepolto al porto Desiderato. Il 23 novembre, la flotta entrò nello stretto di Magellano. Durante uno sbarco, tre Olandesi erano stati uccisi dai Patagoni, e la loro morte fu vendicata trucidando tutta una tribù d'Enoos. Questa lunga navigazione, attraverso i passaggi ed i laghi dello stretto di Magellano, fu segnalata ancora dall'incontro di due navi olandesi, sotto la condotta di Sebald de Weerdt, che aveva svernato non lungi dalla baia Maurizio, e dall'abbandono del vice-ammiraglio Claaz, che si era, a quanto si dice, reso molte volte colpevole d'insubordinazione. Non vi è forse, negli atti che vediamo commettere così di frequente in questo tempo dai navigatori spagnuoli, inglesi ed olandesi, un segno dei tempi? Ciò che a noi parrebbe oggidì spaventosa barbarie sembrava senza dubbio una pena relativamente dolce a quegli uomini avvezzi a far poco caso della vita umana. E pure, vi ha cosa più crudele dell'abbandonare un uomo, senz'armi e senza provviste, in un paese deserto? Sbarcarlo in una regione popolata di feroci cannibali che devono nutrirsi colla sua carne, non vale forse quanto condannarlo ad una morte orribile? Il 29 febbraio 1600, de Noort sbucò nel Pacifico, dopo aver impiegato novantanove giorni ad attraversare lo stretto.

Quindici giorni dopo, un uragano lo separava dall'Enrico Federico, di cui non s'intese mai più a parlare. Quanto a lui, rimasto solo con uno yacht, sbarcò all'isola della Mocha, e, contrariamente a quanto era accaduto ai suoi predecessori, fu ben accolto dai naturali. Poi, egli seguì la costa del Chili, dove potè procurarsi dei viveri in abbondanza contro lo scambio di coltelli di Norimberga, di scuri, di camicie, di cappelli e d'altri oggetti di poco valore. Dopo aver devastato, saccheggiato e bruciato moltissime città su questa costa e su quella del Perù, dopo aver colato a fondo tutte le navi ch'egli incontrò è raccolto un gran bottino, de Noort, apprendendo che una squadra sotto gli ordini del fratello del viceré, don Luigi de Velasco, era stata mandata ad inseguirlo, giudicò opportuno dirigersi in fretta verso le isole dei Ladroni, dove sbarcò il 16 settembre. «Gli abitanti vennero con più di dugento canotti intorno alla nostra nave, ogni canotto contenendo tre, quattro o cinque uomini, che gridavano tutti insieme: Hierro, hierro! (del ferro, del ferro!) che essi stimano molto. Essi vivono altrettanto bene nell'acqua quanto sulla terra, e sanno tuffarsi destramente, cosa che noi vedemmo gettando in mare cinque pezzi di ferro che un uomo solo andò a prendere.» De Noort potè accertare, a sue spese, che quelle isole meritavano proprio il loro nome. Gli isolani cercarono, infatti, di strappare i chiodi della nave e s'impadronirono di tutto ciò che cadeva loro sottomano. Uno d'essi, essendo riuscito ad arrampicarsi lungo un cordame, ebbe perfino l'audacia di penetrare in un camerino e d'afferrare una spada, colla quale si gettò in mare. Il 14 ottobre seguente, de Noort trovò l'arcipelago delle Filippine, dove fece molti sbarchi e bruciò, saccheggiò o colò a fondo molte navi spagnuole o portoghesi e giunche chinesi. Egli incrociava nello stretto di Manilla, quando fu assalito da due grosse navi spagnuole. Nel combattimento che segui, gli Olandesi ebbero cinque morti e venticinque feriti e perdettero il

loro brigantino, che fu preso coi suoi venticinque uomini d'equipaggio. Gli Spagnuoli perdettero più di dugento uomini, giacché la loro nave ammiraglia s'incendiò e fu colata a fondo. Ben lungi dal raccogliere i feriti e gli uomini validi che cercavano di salvarsi a nuoto, gli Olandesi, «spingendosi col trinchetto attraverso le teste galleggianti, ne attraversarono ancora alcune a colpi di lancia e spararono loro contro perfino il cannone.» In seguito a questa sanguinosa e sterile vittoria, de Noort andò a ripararsi a Borneo, prese un ricco carico di spezie a Giava, ed avendo doppiato il capo di Buona Speranza, sbarcò il 26 agosto a Rotterdam, dopo un viaggio di circa tre anni, non avendo più che una sola nave e quarantotto uomini d'equipaggio. Se i negozianti che avevano fatto le spese dell'armamento approvarono la condotta di de Noort, il quale riportava un carico di molto superiore alle spese, e che aveva mostrato ai suoi compatrioti la via delle Indie, noi dobbiamo, pur lodando le sue qualità di marinaio, fare grandi riserve sul suo modo d'esercitare il comando e gettare un biasimo severo sulle barbarie che ha segnato con una macchia sanguinosa il primo viaggio attorno al mondo compito dagli Olandesi. Noi parleremo ora d'un uomo che, dotato di qualità eminenti e di difetti almeno eguali, si spinse in direzioni diverse, spesso anzi opposte, e che, dopo d'essere giunto al colmo degli onori a cui possa aspirare un gentiluomo, lasciò la testa sopra un patibolo, accusato di tradimento e di fellonia. Si tratta di sir Walter Raleigh. S'egli deve trovar posto in questa galleria dei gran viaggiatori, non è né come fondatore della colonizzazione inglese, né come marinaio, né come scopritore, e ciò che dobbiamo dire di lui non torna a suo vantaggio. Walter Raleigh, essendo rimasto per cinque anni in Francia a guerreggiare contro la Lega, in mezzo a tutti quei Guasconi che formavano il fondo degli eserciti di Enrico di Navarca, perfezionò in tale ambiente le abitudini di millanteria e di

menzogna che gli erano naturali. Nel 1577, dopo una campagna nei Paesi Bassi contro gli Spagnuoli, egli rientra in Inghilterra e prende vivo interesse alle questioni che appassionavano i suoi tre fratelli uterini, Giovanni, Onfroy ed Adriano Gilbert. In quel tempo, l'Inghilterra subiva una crisi

economica gravissima. L'agricoltura si trasformava. Da per tutto il pascolo era sostituito alla coltura, ed il numero degli operai agricoli ne fu singolarmente diminuito. Da ciò, una miseria generale, e per ciò appunto un accrescimento di popolazione che non tardò a diventare inquietante. Nel

medesimo tempo, succedette la pace alle lunghe guerre, pace che doveva durare per tutto il regno d'Elisabetta, di modo che un gran numero d'avventurieri non sapeva più come soddisfare il loro gusto per le commozioni violenti. In questo momento, vi ha dunque necessità d'un'emigrazione, che liberi il paese della

sua popolazione, che permetta a tutti i miserabili morenti di fame di provvedere alla loro sussistenza in una terra vergine, e che aumenti per ciò appunto l'influenza e la prosperità della madre patria. Tutti i buoni spiriti, che seguono in Inghilterra il movimento delle idee, Hackluyt, Thomas Harriot, Carlyle,

Peckham ed i fratelli Gilbert, sono colpiti di questa necessità. Ma è a questi ultimi che spetta l'aver saputo designare il luogo favorevole allo stabilimento di colonie. Raleigh non fece che associarsi a' suoi fratelli, imitare il loro esempio, ma non ha concepito né cominciato, come gliene vien reso troppo spesso l'onore, l'esecuzione di questo fecondo disegno: la colonizzazione delle spiaggie americane sull'Atlantico. Se Raleigh, onnipotente presso la regina Elisabetta, volubile e tuttavia gelosa nelle sue affezioni, incoraggia i suoi fratelli, se spende egli medesimo 40,000 lire sterline nei suoi tentativi di colonizzazione, egli ha però cura di non lasciar l'Inghilterra, giacché la vita di pazienza e di devozione del colonizzatore non può convenirgli. Egli abbandona e vende la sua patente, non dimenticando di riservarsi il quinto dei benefizi eventuali della colonia, non appena si avvede dell'inutilità dei suoi sforzi. Nel medesimo tempo, Raleigh arma delle navi contro i possedimenti spagnuoli; egli medesimo piglia parte poco stante alla lotta ed ai combattimenti che salvano l'Inghilterra dall'invincibile Armada, poi va a sostenere i diritti del priore di Orato al trono di Portogallo. È poco tempo dopo il suo ritorno in Inghilterra ch'egli cade in disgrazia della sua reale padrona, e che dopo la sua uscita da prigione, quando è rinchiuso nel suo principesco castello di Sherborne, egli concepisce il disegno del viaggio in Guyana. Per lui, è un'intrapresa gigantesca, i cui risultati meravigliosi devono attirare gli sguardi del mondo intero e ridonargli il favore della sovrana. Come mai la scoperta e la conquista dell'Eldorado, di questo paese in cui, secondo Orellana, i templi sono coperti di piastre d'oro, in cui tutti gli strumenti, anche i più vili, sono d'oro, in cui si cammina sulle pietre preziose, non procurerebbe «maggior gloria, — sono i termini medesimi che Raleigh adopera nella sua relazione, — che non ne abbiano acquistata Cortes al Messico e Pizarro al Perù? Egli avrà sotto di sé più città, e

popoli, ed oro che non il re delle Spagne, che non il sultano dei Turchi, che non qualsiasi imperatore!» Noi abbiamo parlato delle favole che Orellana aveva spacciate nel 1539 e che avevano dato origine a più d'una leggenda. Humboldt ci svela ciò che aveva loro dato origine, dipingendoci la natura del suolo e delle roccie che circondano il lago Parima, tra il rio Essequibo ed il rio Branco. «Sono, dice questo gran viaggiatore, roccie d'ardesia micacea e di talco brillante che risplendono in mezzo ad una zona d'acqua lucente come specchio sotto i fuochi del sole dei tropici.» Così si spiegano quelle cupole d'oro massiccio, quegli obelischi d'argento e tutte quelle meraviglie che lo spirito entusiastico e millantatore degli Spagnuoli fece loro intravvedere. Credeva Raleigh all'esistenza di questa città d'oro per il cui conquisto stava per sacrificare tante esistenze? Era egli medesimo ben convinto, e non ha egli ceduto alle illusioni del suo spirito avido di gloria? Non si potrebbe dirlo, ma ciò che è indiscutibile, è che, per adoperare le espressioni proprie del signor Filarete Chasles, «nel momento medesimo in cui egli s'imbarcava, non si credeva alle sue promesse, si diffidava delle sue esagerazioni, si temeva del risultato d'una spedizione diretta da uno spirito così arrischiato e d'una moralità così equivoca.» Tuttavia, pareva che Raleigh avesse previsto ogni cosa per quest'opera e che avesse fatto gli studi necessari. Non solo egli parlava della natura del suolo della Guyana, dei suoi prodotti e dei suoi popoli con una sicurezza imperturbabile, ma aveva avuto cura di mandare a sue spese una nave comandata dal capitano "Whiddon, per preparare le vie alla flotta ch'egli stava per guidare in persona sulle sponde dell'Orenoco. Tuttavia, cosa ch'egli si guardò bene dal confidare al pubblico, egli non ricevette dal suo emissario che notizie sfavorevoli all'impresa. Egli medesimo partì da Plymouth, il 9 febbraio 1595, con una piccola flotta di cinque navi e cento soldati, senza contare i

marinai, gli ufficiali ed i volontari. Dopo essersi arrestato quattro giorni a Fuertaventura, una delle Canarie, per farvi provvista di legna e d'acqua, andò a Teneriffa, per aspettarvi il capitano Brereton. Avendolo aspettato invano otto giorni, Raleigh parti per la Trinità dove raggiunse Whiddon. L'isola della Trinità era allora governata da don Antonio de Berreo, che, a quanto si diceva, aveva raccolto sulla Guyana notizie precise. Egli non vide con piacere l'arrivo degli Inglesi e mandò immediatamente a Cumana ed all'isola Margherita emissari incaricati di riunire delle truppe per assalirli. Nel medesimo tempo, egli proibiva sotto pena della vita agli Indiani ed agli Spagnuoli di mantenere alcun rapporto cogli Inglesi. Raleigh, avvertito, risolvette di prevenirlo. Venuta la notte, egli scese segretamente a terra con cento uomini, s'impadronì senza colpo ferire della città di San Giuseppe, alla quale gli Indiani diedero il fuoco, e condusse a bordo della sua nave Berreo ed i principali personaggi. Nel medesimo tempo giunsero i capitani Giorgio Gifford e Knynin, da cui era stato separato sulle coste di Spagna. Egli spiegò subito le vele e si diresse all'Orenoco, penetrò nella baia Gapuri con una grossa galera e tre barche cariche d'un centinaio di marinai e di soldati, si cacciò nel labirinto inestricabile d'isole e di canali che formano la sua foce, e risalì il fiume per ben centodieci leghe. Le notizie che Raleigh dà sulla sua campagna sono tanto favolose, egli accumula colla disinvoltura d'un Guascone trasportato sulle sponde del Tamigi, tante menzogne le une sulle altre, che si sarebbe tentati di mettere il suo racconto nel numero dei viaggi immaginari. Alcuni Spagnuoli che avevano vista la città di Manoa, chiamata Eldorado, gli narrano, egli dice, che questa città sorpassa in grandezza ed in ricchezza tutte le città del mondo e tutto ciò che i «conquistadores» hanno visto in America. «Colà, non vi ha inverno, aggiunge egli, un suolo secco e fertile, selvaggiume, uccelli d'ogni sorta

in grande abbondanza; degli uccelli empivano l'aria di canti sconosciuti, era per noi un vero concerto. Il mio capitano, mandato in cerca delle miniere, vide vene d'oro e d'argento; ma siccome, egli non aveva che la sua spada per istrumento, non potè staccare quei metalli per esaminarli minuziosamente, tuttavia ne portò molti pezzi ch'egli si riservava d'esaminare più tardi. Uno Spagnuolo di Caracas chiamò questa miniera Madre del Oro. Poi, siccome Raleigh sente che il pubblico sta in guardia contro le sue esagerazioni, egli aggiunge: «Si crederà forse che una falsa ed ingannevole illusione mi abbia ingannato, ma perchè mai avrei intrapreso un viaggio così lungo e penoso, se non avessi avuta la convinzione che sulla terra non vi ha paese più ricco d'oro della Guyana? Whiddon e Milechappe, nostro chirurgo, riportarono molte pietre che rassomigliavano molto agli zaffiri. Io mostrai quelle pietre a molti abitanti dell'Orenoco, i quali mi hanno assicurato che ne esisteva una montagna intera.» Un vecchio cacicco di centodieci anni, che tuttavia poteva fare ancora dieci miglia a piedi senza stancarsi, venne a visitarlo, gli vantò la potenza formidabile dell'imperatore di Manoa e gli provò che le sue forze erano insufficienti. Gli dipinse quei popoli come molto inciviliti, portanti degli abiti, padroni di gran ricchezze, segnatamente in lastre d'oro; in fine, gli parlò d'una montagna d'oro puro. Raleigh narra ch'egli volle avvicinarsele, ma, disgustoso contrattempo, essa era in quel momento mezzo sommersa. «Essa aveva la forma d'una torre e mi parve piuttosto bianca che gialla. Un torrente che precipitava, ancora gonfiato dalle pioggie, faceva un gran fracasso che si udiva a molte leghe di distanza e che assordava i nostri uomini. Io mi ricordai la descrizione che Berreo aveva fatta dello splendore del diamante e delle altre pietre preziose disseminate nelle diverse parti del paese; avevo bensì qualche dubbio sul valore di queste pietre; tuttavia, la loro bianchezza straordinaria mi

sorprese. Dopo un momento di riposo sulle sponde del Vinicapara ed una visita al villaggio del cacicco, quest'ultimo mi promise di condurmi al piede della montagna facendo un giro; ma alla vista delle numerose difficoltà che si presentavano, preferì tornare alla foce del Cumana, dove i cacicchi dei dintorni avevano portato diversi doni consistenti in prodotti rari del paese.» Noi faremo grazia al lettore della descrizione di popoli tre volte più grandi degli uomini comuni, di ciclopi, d'indigeni che avevano gli occhi sulle spalle, la bocca sul petto, i capelli piantati in mezzo al dorso, — tutte affermazioni fatte sul serio, ma che danno alla relazione di Raleigh una rassomiglianza singolare con un racconto di fate. La si crederebbe, leggendola, una pagina staccata dalle Mille ed una Notti. Se mettiamo da parte tutte queste narrazioni d'un'immaginazione in delirio, che rimane per il geografo? Nulla, o quasi nulla. Non valeva veramente la pena d'annunciare con tanto chiasso questa spedizione fantastica, e non potremmo forse dire col favolista: Je me figure un auteur Qui dit: Je chanterai la guerre Que firent les Tìtans au maître du tonnerre! C'est promettre beaucoup: mais qu'en sort-il souvent? Du vent.

CAPITOLO V. MISSIONARII E COLONI. COMMERCIANTI E VIAGGIATORI. I. Carattere nettamente distinto del secolo XVII — Esplorazione più ampia dello regioni già scoperte — Alla sete dell'oro succede lo zelo apostolico — I missionari italiani al Congo — I missionari portoghesi in Abissinia — Brue al Senegal e Flacourt a Madagascar — Gli apostoli dell'India, dell'Indo-China e del Giappone.

Il secolo XVII si stacca nettamente da quello che lo ha preceduto, in questo senso che le grandi scoperte sono fatte quasi tutte, e che, in tutto questo periodo, non si fa che compiere le notizie già raccolte. Esso contrasta pure con quello che lo seguirà, giacché i metodi scientifici non sono ancora applicati, come lo saranno cento anni più tardi, dagli astronomi e dai marinai. Sembra, infatti, che i racconti dei primi esploratori, che non hanno, per così dire, potuto farsi che un'idea delle regioni percorse guerreggiando, abbiano esercitato una cattiva influenza su certi lati dello spirito pubblico. La curiosità, nello stretto senso della parola, è spinta all'estremo. Si percorre il mondo per aver un'idea delle abitudini e dei costumi d'ogni nazione, dei prodotti e dell'industria d'ogni regione, ma non si studia. Non si cerca di risalire alle sorgenti, di rendersi conto scientificamente del perchè delle cose. Si vede, la curiosità è soddisfatta, e si passa innanzi. Le osservazioni non sono che superficiali, e pare che si abbia fretta di percorrere tutte le regioni che il secolo XVI ha scoperte. Poi, l'abbondanza delle ricchezze, sparse ad un tratto nell'Europa intera, ha prodotto una crisi economica. Il

commercio, del pari che l'industria, si trasforma e si sposta. Nuove vie sono aperte, sorgono nuovi intermediari, nascono nuovi bisogni, il lusso aumenta, e la voglia di far fortuna rapidamente colle speculazioni fa girare molte teste. Se Venezia è morta sotto il punto di vista commerciale, gli Olandesi stanno per farsi, per usare una felice espressione del signor Leroy-Beaulieu, «i carrettieri ed i fattorini dell'Europa,» e gli Inglesi si preparano a gettar le basi del loro immenso impero coloniale. Ai mercanti succedono i missionari. Essi si dirigono in drappelli numerosi verso le regioni recentemente scoperte, evangelizzando, educando i popoli selvaggi, studiando, descrivendo il paese. Lo sviluppo dello zelo apostolico è uno dei tratti dominanti del secolo XVII, e noi dobbiamo riconoscere tutto ciò che la geografia e le scienze storiche devono a questi uomini istruiti e modesti. Il viaggiatore non fa che passare, il missionario soggiorna nel paese. Quest'ultimo ha evidentemente una facilità ben maggiore d'acquistare una cognizione intima della storia e della civiltà dei popoli che studia. È dunque naturalissimo che noi dobbiamo loro dei racconti di viaggi, delle descrizioni, delle storie ancora consultate con buon frutto e che hanno servito di base ai lavori posteriori. Se vi ha un paese a cui si applichino più particolarmente queste riflessioni, è l'Africa, e segnatamente l'Abissinia. Che si conosceva di questo ampio continente triangolare nel secolo XVII? Null'altro che le coste, si dirà. Errore. Fin dai tempi più remoti l'Astapo ed il Bahr-el-Abiad, i due rami del Nilo, erano conosciuti dagli antichi. Costoro si erano anzi avanzati, stando alle liste di popoli e di paesi trovate a Karnak dal signor Manette, fino ai gran laghi interni. Nel secolo XII, il geografo arabo Edrisi scrive, per Ruggero II di Sicilia, un'eccellente descrizione dell'Africa e conferma questi dati. Più tardi

Cadamosto e Ibn Batutah percorrono l'Africa, e quest'ultimo va fino a Tombuctu. Marco Polo dichiara che l'Africa non è attaccata all'Asia se non per l'istmo di Suez e visita Madagascar. Infine, quando i Portoghesi, in seguito a Vasco da Gama, hanno compiuto il periplo dell'Africa, alcuni si arrestano in Abissinia, e poco stante si stabiliscono fra questa regione ed il Portogallo delle relazioni diplomatiche. Noi abbiamo già detto qualche cosa di Francesco Alvarez; dietro a lui si stabiliscono nel paese molti missionari portoghesi, fra i quali dobbiamo citare i padri Paez e Lobo. Il padre Paez lasciò Goa nel 1588 per andare a predicare il cristianesimo sulla costa orientale dell'Africa settentrionale. In seguito a lunghe e dolorose disgrazie, egli sbarcò a Massaua, in Abissinia, percorse il paese e si spinse nel 1618 fino alle sorgenti del Nilo azzurro, — scoperta di cui Brue doveva più tardi contestare l'autenticità, ma il cui racconto non differisce se non in alcuni particolari senza importanza da quello del viaggiatore scozzese. Nel 1604 Paez, giunto presso il re Za Denghel, aveva predicato con tanto successo, che lo aveva convertito con tutta la sua corte. Egli aveva anzi in breve acquistata sul monarca abissino una tale influenza che costui, avendo scritto al papa ed al re di Spagna per offrir loro amicizia, chiedeva degli uomini che fossero in grado d'istruire il suo popolo. Il padre Jeronimo Lobo sbarcò in Abissinia con Alfonso Meneses, patriarca d'Etiopia, nel 1625. Ma i tempi erano molto mutati. Il re convertito da Paez era stato trucidato, ed il suo successore, che aveva chiamato i missionari portoghesi, non tardò a morire. Avvenne allora una violenta reazione contro i cristiani, ed i missionari furono cacciati, imprigionati o consegnati ai Turchi. Lobo fu allora incaricato d'andare a raccogliere colla questua la somma necessaria al riscatto de' suoi confratelli. Dopo numerose peripezie che lo condussero al

Brasile, a Cartagine, a Cadice, a Siviglia, a Lisbona ed a Roma, dove egli diede al re di Spagna ed al papa particolari precisi e numerosi sulla Chiesa d'Etiopia e sui costumi degli abitanti, egli fece un ultimo viaggio nell'India e tornò per morire a Lisbona nel 1678.

Sulla costa dell'Atlantico, al Congo, il cristianesimo era stato introdotto nel 1489, l'anno medesimo della sua scoperta fatta dai Portoghesi. Da principio vi furono mandati dei domenicani; ma siccome i loro progressi erano quasi nulli, il papa vi mandò dei cappuccini italiani, col consenso del re di

Portogallo. Essi furono Carli da Piacenza nel 1667, Giovan Antonio Cavazzi dal 1654 al 1668, poi Antonio Zucchelli e Gradisca dal 1696 al 1704. Non citiamo che questi missionari perchè essi hanno pubblicato le relazioni dei loro viaggi. Cavazzi esplorò successivamente l'Angola, il paese di

Matamba, le isole di Coanza e Loana. Nell'ardore del suo zelo apostolico, egli non trovava nulla di meglio, per convertire i negri, che bruciare i loro idoli, sermoneggiare i re sull'uso antico della poligamia, sottoporre al supplizio della domanda o far battere a colpi di frusta coloro che ricadevano nell'idolatria.

Ciò non ostante egli acquistò sugli indigeni un grande ascendente che, meglio diretto, avrebbe potuto produrre risultati utilissimi allo sviluppo della civiltà ed al progresso della religione. I medesimi rimproveri possono essere rivolti al padre Zucchelli ed agli altri missionari del Congo. La relazione di Cavazzi, pubblicata a Roma nel 1687, affermava che l'influenza portoghese si estendeva a due o trecento miglia dalla costa. All'interno esisteva una città importantissima, conosciuta sotto il nome di San Salvador, che possedeva dodici chiese, un collegio di gesuiti ed una popolazione di 50,000 anime. Alla fine del secolo XIV Pigafetta pubblicò il racconto di viaggio di Duarte Lopez, ambasciatore del re di Congo presso le corti di Roma e di Lisbona. Una carta, aggiunta a questo racconto, ci rappresenta un lago Zambre al posto occupato dal Tanganyka, e più all'ovest il lago Acque Lunda, da cui usciva il Congo; sotto l'equatore sono indicati due laghi: l'uno, il lago del Nilo, l'altro, più all'est, porta il nome di Colue; sembrano essere l'Alberto ed il Victoria Nyanza. Queste informazioni così curiose furono rifiutate dai geografi del secolo XIX, che lasciarono in bianco tutto l'interno dell'Africa. Sulla costa occidentale d'Africa, alla foce del Senegal, i Francesi avevano fondato degli stabilimenti che, sotto l'abile amministrazione d'Andrea Brue, non tardarono a prendere una grande estensione. Costui, comandante per il re e direttore generale della Compagnia reale di Francia alle coste del Senegal ed altri luoghi d'Africa, — tale era il suo titolo ufficiale, — sebbene sia poco conosciuto e l'articolo che lo concerne sia dei più brevi nelle grandi raccolte biografiche, merita d'occupare uno dei primi posti fra i colonizzatori e gli esploratori. Non contento di estendere la colonia francese fino ai suoi limiti odierni, egli esplorò delle regioni che non furono rivedute se non in questi ultimi tempi dal luogotenente Mage, o

che non sono più state visitate d'allora in poi. Andrea Brue portò i posti francesi: nell'est, al disopra della congiunzione del Senegal e della Faleme; nel nord, fino ad Arguin, ed al mezzodì, fino all'isola di Bissao. Egli esplorò, nell'interno, il Galam ed il Bambuk, così fertile in oro, e raccolse i primi documenti sui Pouls, Peuls o Fouls, sugli Yoloffs e sui Musulmani, che, venuti dal nord, tentavano la conquista religiosa di tutte le popolazioni negre del paese. Le notizie così raccolte da Brue sulla storia e le migrazioni di questi popoli sono preziosissime; esse rischiarano ancora oggidì d'una viva luce il geografo e lo storico. Non solo Brue ci ha lasciato il racconto dei fatti di cui egli è stato testimonio e la descrizione dei luoghi ch'egli ha visitati, ma gli dobbiamo pure molte indicazioni sui prodotti del paese, le piante, gli animali e tutti gli oggetti che possono dar luogo ad un traffico commerciale od industriale. Questi documenti così curiosi, messi in opera abbastanza goffamente dal padre Labat, convien riconoscerlo, hanno fatto l'oggetto, alcuni anni or sono, d'un interessantissimo lavoro del signor Berlioux. Nel sud-est dell'Africa, nella prima metà del secolo XVII, i Francesi fondarono alcuni stabilimenti di commercio a Madagascar, isola lungamente conosciuta sotto il nome di San Laurent. Essi erigono il forte Dauphin sotto l'amministrazione del signor de Flacourt; molti distretti ignoti dell'isola sono riconosciuti del pari che le isole vicine alla costa; le isole Mascaregne sono occupate nel 1649. Se fu saldo e moderato coi suoi compatrioti, de Flacourt non usò gli stessi modi coi naturali; anzi, egli suscitò una rivolta generale, in seguito alla quale fu richiamato. Del resto le corse nell'interno del Madagascar furono rarissime, e bisogna aspettare fino ai di nostri per incontrare un'esplorazione seria. Le sole informazioni giunte in Europa sull'Indo-Cina ed il Thibet durante tutto il secolo XVII, furono dovute ai

missionari. I nomi dei padri Alessandro di Rodi, Ant. d'Andrada, Avril, Benedetto Goes, non possono essere passati sotto silenzio. Si trova nelle loro Lettere annuali un gran numero di notizie, che oggi ancora hanno conservato un vero interesse su quelle regioni così lungamente chiuse agli Europei. Nella Cocincina e nel Tonkin il padre Tachard fece delle osservazioni astronomiche, il cui risultato provò evidentemente quanto fossero erronee le longitudini date da Tolomeo. Esse chiamarono l'attenzione del mondo scientifico sulla necessità d'una riforma nella rappresentazione grafica dei paesi dell'estremo Oriente» e per riuscirvi, sul bisogno assoluto di buone osservazioni, fatte da scienziati speciali o da navigatori famigliari coi calcoli astronomici. Il paese che tentava più particolarmente i missionari era la China, questo immenso impero, così popoloso, che, dopo l'arrivo degli Europei nell'India, applicava con un rigore eccessivo questa politica assurda: l'astensione da ogni rapporto, qualunque si fosse, cogli stranieri. È solo alla fine del secolo XVI che i missionari ottennero finalmente il permesso, tante volte domandato, di penetrare nell'impero del Mezzo. Le loro cognizioni in fatto di matematica e d'astronomia resero più facile il loro stabilimento e permisero loro di raccogliere, sia negli antichi annali del paese, sia durante i viaggi, una prodigiosa quantità d'informazioni preziosissime per la storia, l'etnografia e la geografia del Celeste Impero. I padri Mendoza, Ricci, Trigault, Visdelou, Lecomte, Verbiest, Navarrete, Schall e Martini meritano una menzione speciale per aver portato in China le scienze e le arti dell'Europa, e sparso in Occidente le prime nozioni precise e veridiche sulla civiltà immobile della Terra dei Fiori.

II. Gli Olandesi alle isole delle Spezie — Lemaire e Schouten — Tasman — Mendana. — Queiros e Torres — Pyrard di Laval — Pietro della Valle — Tavernier — Thevenot — Bernier — Roberto Knox — Chardin — De Bruyn — Kæmpfer.

Gli Olandesi non tardarono un pezzo ad accorgersi della debolezza e della decadenza della potenza portoghese in Asia. Essi sentivano con quanta facilità una nazione abile e prudente potesse impadronirsi in poco tempo di tutto il commercio dell'estremo Oriente. Dopo molte spedizioni private e viaggi di ricognizione, essi avevano fondata, nel 1602, quella celebre Compagnia delle Indie che doveva portare ad un si alto grado la prosperità e la ricchezza della metropoli. Nelle sue lotte coi Portoghesi, del pari che nei rapporti cogli indigeni, la Compagnia segui una politica di moderazione abilissima. Anziché fondare delle colonie, riparare ed occupare le fortezze che pigliavano ai Portoghesi, gli Olandesi si mostravano semplici commercianti, esclusivamente intenti al loro traffico. Essi evitavano di costrurre qualsiasi deposito fortificato, tranne all'intersezione delle gran vie di commercio. Così essi poterono in poco tempo impadronirsi di tutto il cabotaggio fra l'India, la China, il Giappone e l'Oceania. Il solo errore commesso dalla potentissima Compagnia fu di concentrare nelle sue mani il monopolio del commercio delle spezie. Essa cacciò gli stranieri che si erano stabiliti o che venivano a prendere dei carichi alle Molucche ed alle isole della Sonda; anzi, per far crescere il valore delle preziose derrate, essa si spinse fino a proscrivere la coltura di certi prodotti in un gran numero d'isole, ed a proibire, sotto pena di morte, l'esportazione e la vendita dei grani e dei germogli degli alberi da spezie. In pochi anni gli Olandesi erano stabiliti a Giava, Sumatra, Borneo, alle Mollicene, al capo di Buona Speranza, punti di fermata benissimo scelti per

le navi che si recavano in Europa. È in questo punto che un ricco mercante d'Amsterdam, chiamato Giacomo Lemaire, concepì, con un abile marinaio il cui nome era Guglielmo Cornelio Schouten, il disegno di andare alle Indie per una via nuova. Gli Stati d'Olanda avevano infatti proibito a qualsiasi suddito delle Provincie Unite, che non fosse al servizio della Compagnia delle Indie, di recarsi alle isole delle Spezie per il capo di Buona Speranza o per lo stretto di Magellano. Schouten, dicono gli uni, Lemaire, secondo gli altri, avrebbe avuto l'idea d'eludere questa proibizione cercando un passaggio al sud dello stretto di Magellano. Certo è che Lemaire fece una metà delle spese della spedizione, mentre Schouten, coll'aiuto di diversi negozianti i cui nomi ci sono stati conservati e che occupavano le prime cariche della città di Hoorn, fece l'altra metà. Essi equipaggiarono una nave di 360 tonnellate, la Concordia, ed uno yacht, che portavano un equipaggio di 65 uomini e 29 cannoni. Certamente, era un armamento poco proporzionato alla grandezza dell'impresa. Ma Schouten era abile marinaio, l'equipaggio era stato scelto accortamente, e le navi erano abbondantemente fornite di viveri e di manovre di ricambio. Lemaire era il commesso e Schouten il capitano della nave. La destinazione fu tenuta segreta; ufficiali e marinai presero l'impegno illimitato d'andare ovunque venissero condotti. Il 25 giugno 1615, vale a dire undici giorni dopo aver lasciato il Texel, quando non vi era più a temere un'indiscrezione, gli equipaggi furono radunati per intendere la lettura d'un ordine in cui si diceva: «che le due navi cercherebbero un passaggio diverso da quello di Magellano per entrare nel mare del Sud e per scoprirvi certi paesi meridionali, nella speranza di farvi immensi profitti, e che, se il cielo non favorisse questo disegno, si andrebbe pel medesimo mare alle Indie orientali.» Questa dichiarazione fu accolta con entusiasmo da tutto quanto

l'equipaggio, animato, come tutti gli Olandesi a quel tempo, dall'amore delle grandi scoperte. La via allora generalmente seguita per andare all'America del Sud rasentava, come forse si è già notato, le coste d'Africa fino al disotto della linea equinoziale. La Concordia non se ne scostò; essa giunse al litorale del Brasile, alla Patagonia ed al porto Desiderato, cento leghe al nord dallo stretto di Magellano. L'uragano impedì per molti giorni alle navi d'entrare nel porto. Lo yacht restò anzi, durante tutta una marea, piegato sul fianco ed a secco, ma il crescere dell'acqua lo rimise a galla, per poco tempo per altro, giacché mentre si riparava la sua carena, il fuoco si attaccò agli attrezzi e la nave fu consumata non ostante gli sforzi energici de' due equipaggi. Il 13 gennaio 1616 Lemaire e Schouten giunsero alle isole Sebaldine, scoperte da Sebaldo de Weerdt, e seguirono la spiaggia della Terra di Fuoco a poca distanza da terra. La costa correva all'est-quarto-sud-est ed era orlata d'alte montagne coperte di neve. Il 24 gennaio, a mezzodì, se ne vide l'estremità, ma all'est si stendeva un'altra terra che parve similmente elevatissima. La distanza fra queste due isole, secondo l'opinione generale, parve essere di otto leghe, e si penetrò nello stretto che le separava. Esso era tanto ingombro di balene, che la nave dovette correre più d'una bordata per evitarle. L'isola situata all'est ricevette il nome di Terra degli Stati, e quella dell'ovest il nome di Maurizio di Nassau. Ventiquattro ore dopo aver imboccato quello stretto, che ricevette il nome di Lemaire, la flottiglia ne usciva, ed incontrava un arcipelago di isolette poste a tribordo, a cui dava il nome di Barnevelt in onore del gran pensionano d'Olanda. A 58°, Lemaire doppiò il capo Horn, così chiamato in ricordanza della città in cui la spedizione era stata armata, ed entrò nel mare del Sud. Lemaire risali poi fino in faccia alle isole di Juan Fernandez, dove giudicò opportuno arrestarsi per ristorare il

suo equipaggio ammalato di scorbuto. Come aveva fatto Magellano, Lemaire e Schouten passarono, senza vederli, in mezzo ai principali arcipelaghi della Polinesia, ed approdarono, il 10 aprile, all'isola dei Cani, dove non fu possibile procurarsi se non un po' d'acqua dolce ed alquanti erbaggi. Si sperava di giungere alle isole Salomon, ma si passò nel nord dell'arcipelago Pericoloso, dove furono scoperte le isole Waterland, così chiamate perchè contenevano un gran lago, e l'isola delle Mosche, perchè una nuvola di questi insetti si posò sulla nave, e non fu possibile sbarazzarsene se non in capo a quattro giorni, in grazia d'un mutamento di vento. Poi Lemaire traversò l'arcipelago degli Amici, e giunse a quello dei Navigatori o di Samoa, quattro isolette del quale conservano ancora i nomi che furono loro dati allora: le isole Goed-Hope, dei Cocchi, di Horn e dei Traditori. Gli abitanti di questi paraggi si mostrarono estremamente inclini al furto; essi s'industriarono di strappare le caviglie della nave e di spezzar le catene. Siccome lo scorbuto continuava ad infierire fra l'equipaggio, si fu lieti di ricevere, come dono del re, un cinghiale nero e delle frutta. Il sovrano, chiamato Latu, non tardò a venire in una gran piroga a vela, della forma delle slitte d'Olanda, scortato da una flottiglia di venticinque barche. Egli non osò salire in persona a bordo della Concordia, ma suo figlio fu più ardito, e si rese conto, con gran curiosità, di tutto quanto vedeva. Il domani il numero delle piroghe era cresciuto sensibilmente, e gli Olandesi, a certi indizi, riconobbero che si preparava un assalto. Infatti, una grandine di sassi piomba sulla nave all'improvviso; le barche si avvicinano, diventano fastidiose, e gli Olandesi sono costretti, per sbarazzarsene, a fare una scarica di moschetteria. Quest'isola ricevette, a buon diritto, il nome d'isola dei Traditori. Si era al 18 maggio. Lemaire fece allora mutar la via e volgere la prua al nord per giungere alle Molucche passando al

nord della Nuova Guinea. Egli passò probabilmente in vista dell'arcipelago di Salomon, delle isole dell'Ammiragliato e delle Mille Isole; poi rasentò la costa della Nuova Guinea dal 143° fino alla baia Geehvink. Egli sbarcò di frequente e diede nome a molti punti: le Venticinque Isole, che fanno parte dell'arcipelago dell'Ammiragliato, l'Haut-Coin, l'Haut-Mont (Hoog-Berg), che sembra corrispondere ad una parte della costa vicino alla baia Kornelis-Kinerz, Moa ed Arimoa, due isole rivedute più tardi da Tasman, l'isola che ricevette allora il nome di Schouten, chiamata oggi Mysore, e che non bisogna confondere con altre isole Schouten situate sulla costa di Guinea, ma più all'ovest, finalmente il capo Goed-Hope, che sembra essere il capo Saavedra all'estremità occidentale di Mysore. Dopo aver veduta la terra dei Papuasi, Schouten e Lemaire giunsero a Gilolo, una delle Molucche, dove ricevettero dai loro compatrioti una premurosa accoglienza. Quando furono ben riposati dalle fatiche e guariti dallo scorbuto, gli Olandesi si recarono a Batavia, dove giunsero il 23 ottobre 1616, tredici mesi soltanto dopo aver lasciato il Texel e non avendo perduto in quel lungo viaggio che tredici uomini. Ma la Compagnia delle Indie non intendeva che i suoi privilegi fossero lesi e che si potesse giungere alle colonie per vie non prevedute dalle lettere patenti che le erano state concesse al tempo del suo stabilimento. Il governatore fece prendere la Concordia ed arrestare ufficiali e marinai che imbarcò per l'Olanda, dove dovevano essere giudicati. Il povero Lemaire, che si aspettava un'altra ricompensa dei suoi lavori, delle sue fatiche e delle scoperte fatte, non potè sopportare questo colpo impreveduto; cadde malato di rammarico e morì vicino all'isola Maurizio. Quanto a Schouten, sembra che non lo abbiano inquietato al suo ritorno in patria, e fece molti altri viaggi alle Indie, che non furono segnalati da nuove scoperte. Egli tornava nel 1625 in Europa, quando il

brutto tempo lo costrinse ad entrare nella baia d'Antongil, sulla costa orientale di Madagascar, dove morì. Tale fu questa importante spedizione, che apriva, per lo stretto di Lemaire, una nuova via meno lunga e meno pericolosa di quella dello stretto di Magellano; spedizione segnalata da molte scoperte in Oceania e da un'esplorazione più attenta dei punti già veduti dai naviganti spagnuoli o portoghesi. Ma è spesso difficile l'attribuire con certezza all'uno od all'altro di questi popoli la scoperta di certe isole, terre od arcipelaghi vicini all'Australia. Giacché parliamo degli Olandesi, lasceremo un po' da parte l'ordine cronologico delle scoperte per narrare, prima di quelle di Mendana e di Quiros, le spedizioni di Giovanni Abele Tasman. Quali furono gli incominciamenti di Tasman, in conseguenza di quali circostanze abbracciò egli la vita del marinaio, come acquistò quella scienza e quell'abilità nautiche di cui dà tante prove e che lo condussero a scoperte importanti? Questo lo ignoriamo. La sua biografia incomincia alla sua partenza da Batavia il 2 giugno 1639. Dopo aver passate le Filippine egli avrebbe visitato con Mathieu Quast, durante questo primo viaggio, le isole Bonin, allora conosciute sotto il nome fantastico d'«isole d'Oro e d'Argento.» In una seconda spedizione, composta di due navi di cui aveva il comando supremo e che partirono da Batavia il 14 agosto 1642, egli giunse all'isola Maurizio il 5 settembre, e si spinse poi nel sudest, in cerca del continente australe. Il 24 novembre, a 42° 25' di latitudine sud, egli scoprì una terra alla quale diede il nome di Van Diemen, governatore delle isole della Sonda, e che è oggi assai più giustamente chiamata Tasmania. Egli vi si ancorò nella baia Federico Enrico, e riconobbe che quella terra era abitata, ma senza però poter scorgere alcun indigeno. Dopo aver seguita questa costa per un certo tempo, fece

vela verso l'est, coll'intenzione di risalir poi nel nord, per giungere all'arcipelago delle Salomon. Il 13 dicembre giunse, a 42° 10' di latitudine, in vista d'una terra montuosa ch'egli segui verso il nord fino al 18 dicembre. Allora gettò l'àncora in una

baia; ma i più arditi dei selvaggi ch'egli v'incontrò non si avvicinarono alla nave se non alla distanza d'un tiro di sasso. Le loro voci erano aspre, la loro statura alta, il loro colore di un bruno che tirava al giallo; i loro capelli neri, lunghi presso a poco quanto quelli dei Giapponesi, erano rialzati sul sommo

del capo. Essi osarono il domani venire a bordo d'una delle navi per fare dei baratti. Tasman vedendo queste disposizioni pacifiche, mandò verso terra una scialuppa per prendere una cognizione più profonda della spiaggia. Dei marinai che la

montavano tre furono uccisi senza provocazione dagli indigeni, e gli altri, mettendosi in salvo a nuoto, furono raccolti dalle barche delle navi. Quando si fu in grado di far fuoco sugli assalitori, essi erano già spariti. Il luogo in cui era accaduto questo funesto avvenimento ricevette il nome di baia degli

Assassini (Moordenaars bay). Tasman, persuaso di non poter entrare in relazione con popoli così feroci, levò l'àncora e risalì le coste fino alla loro estremità, ch'egli chiamò capo Maria Yan Diemen, in onore della sua «dama,» giacché una leggenda vuole che, avendo avuto l'audacia di aspirare alla mano della figlia del governatore delle Indie orientali, costui lo imbarcasse su due navi sconquassate, il Heemskerke e lo Zeechen. La terra così scoperta ricevette il nome di Terra degli Stati, che si mutò poi in quello di Nuova Zelanda. Il 21 gennaio 1643, Tasman scoprì le isole Amsterdam e Rotterdam, dove trovò una gran quantità di porci, di galline e di tratti. Il 6 febbraio, le navi entrarono in un arcipelago di una ventina d'isole, che furono chiamate isole del principe Guglielmo, e dopo aver visto Anthong Giava, Tasman seguì la costa della Nuova Guinea, a partire dal capo Santa Maria, passò per i punti che erano già stati riconosciuti da Schouten e Lemaire, e gettò l'àncora a Batavia il 15 giugno successivo, dopo dieci mesi di viaggio. In una seconda spedizione, Tasman, stando alle sue istruzioni datate del 1664, doveva visitare la Terra di Van Diemen e fare un'attenta esplorazione della costa occidentale della Nuova Guinea, finché fosse giunto al 17° di latitudine sud, per riconoscere se quest'isola appartenesse al continente australe. Non pare che Tasman abbia messo in atto questo programma. Del resto la perdita de' suoi giornali ci riduce ad un'incertezza assoluta sulla via ch'egli segui e sulle scoperte ch'egli potè fare. Da questo tempo, s'ignorano assolutamente gli avvenimenti che segnalarono la fine della sua carriera, del pari che il luogo e la data della sua morte. A partire dalla presa di Malacca fatta da Albuquerque, i Portoghesi compresero che un nuovo mondo si estendeva al sud dell'Asia. Le loro idee furono subito spartite dagli Spagnuoli, e fin d'allora incominciò una serie di viaggi

nell'oceano Pacifico, alla ricerca d'un continente australe, la cui esistenza sembrava geograficamente necessaria per controbilanciare l'immensa estensione di terre conosciute. Giava la grande, designata più tardi sotto i nomi di Nuova Olanda e d'Australia, sarebbe stata veduta, da Francesi forse, o, ed è più probabile, da Saavedra, dal 1530 al 1540, e fu cercata da una folla di naviganti, fra i quali citeremo i Portoghesi Serrao e Meneses, e gli Spagnuoli Saavedra, Hernando de Grijalva, Alvarado, Inigo Ortiz de Retes che esplorarono la maggior parte delle isole al nord della Nuova Guinea e questa grand'isola medesima. In seguito vengono Mendana, Torres e Quiros, sui quali ci tratterremo un po', a causa dell'importanza e dell'autenticità delle scoperte che sono loro dovute. Alvaro Mendana de Neyra era nipote del governatore di Lima, don Pedro de Castro, che appoggiò vivamente presso il governatore metropolitano il disegno concepito da suo nipote di cercare delle nuove terre nell'oceano Pacifico. Mendana aveva ventun'anno quando prese il comando di due navi e di centoventicinque soldati e marinai. Egli partì dal porto di Callao, da Lima, il 19 novembre 1507. Dopo aver vista l'isoletta di Gesù, riconobbe, il 7 febbraio, fra 7° ed 8° di latitudine sud, l'isola di Santa Isabella, dove gli Spagnuoli costrussero un brigantino, col quale fecero la ricognizione dell'arcipelago di cui essa faceva parte. «Gli abitanti, dice la relazione d'un compagno di Mendana, sono antropofagi, si mangiano fra di loro quando possono farsi dei prigionieri di guerra, ed anche senz'essere in aperta ostilità, quando riescono a prendersi a tradimento.» Uno dei capi dell'isola mandò a Mendana un quarto di bambino come cibo saporito; ma il generale spagnuolo lo fece seppellire in presenza dei naturali, che si mostrarono molto offesi di quest'atto che non potevano comprendere. Gli Spagnuoli percorsero l'isola di las Palmas (delle Palme), l'isola di los Ramos, così chiamata perchè fu

scoperta il giorno delle Palme, l'isola della Galera e l'isola Buena Vista, i cui abitanti, sotto dimostrazioni amichevoli, nascondevano intenzioni ostili, che non tardarono a dimostrarsi. Ricevettero la medesima accoglienza all'isola San Dimas, a Sesarga ed a Guadalcanar, dove si trovò del ginepro per la prima volta. Nel viaggio di ritorno verso Sant'Isabella, gli Spagnuoli seguirono una via che permise loro di scoprire l'isola di San Giorgio, dove notarono la presenza di pipistrelli grossi quanto nibbi. Appena il brigantino ebbe toccato il porto di Sant'Isabella, l'àncora fu levata, giacché il luogo era così malsano che cinque soldati morirono e molti altri caddero infermi. Mendana si arrestò all'isola Guadalcanar, dove, di dieci uomini che erano scesi a terra per far provvista d'acqua, un negro soltanto potè sfuggire ai colpi degli indigeni, che avevano visto con estremo dispiacere il rapimento d'uno dei loro fatto dagli Spagnuoli. Il castigo fu terribile. Venti uomini furono uccisi e molte case incendiate. Poi Mendana visitò molte isole dell'arcipelago di Salomon, fra le altre le Tre Marie e San Juan. In quest'ultima, mentre si raddobbavano e si calafatavano le navi, ebbero luogo molte risse coi naturali, ai quali furono fatti alcuni prigionieri. Dopo questa fermata accidentata, Mendana riprese il mare, visitò le isole San Christoval, Santa Catalina e Sant'Anna. Ma, in questo momento, il numero degli infermi essendo grande, i viveri e le munizioni essendo quasi consumati, gli attrezzi imputriditi, si riprese la via del Perù. La separazione dalla nave ammiraglia, la scoperta di un certo numero d'isole, che è difficile identificare, e probabilmente delle isole Sandwich, violenti uragani, durante i quali le vele furono portate via, le malattie cagionate dall'insufficienza e dalla putrefazione dell'acqua e del biscotto, segnalarono questo lungo e penoso viaggio di ritorno, che finì al porto di Colima, in California, dopo cinque mesi di navigazione.

Il racconto di Mendana non eccitò entusiasmo, non ostante il nome di Salomon ch'egli diede all'arcipelago da lui scoperto, per far credere che di là venissero i tesori del re degli Ebrei. I racconti meravigliosi non potevano più nulla sopra quegli uomini che avevano le ricchezze del Perù. Ci volevano delle prove; la più piccola pepita d'oro, il minimo grano d'argento avrebbe fatto molto meglio il loro negozio. Mendana dovette aspettare ventisette anni prima di poter allestire una nuova spedizione. Questa volta, l'armamento era grande, giacché si aveva lo scopo di fondare una colonia nell'isola di San Christoval che Alvaro di Mendana aveva vista nel suo primo viaggio. E però, quattro navi portanti circa quattrocento persone, la maggior parte ammogliate e fra le quali convien citare doña Isabella, moglie di Mendana, i tre cognati del generale, ed il pilota Pedro Fernandez Quiros, che doveva illustrarsi più tardi come comandante d'un'altra spedizione, partirono dal porto di Lima l'11 aprile 1595. Essi non lasciarono definitivamente che il 16 giugno la costa del Perù, dove avevano terminato d'equipaggiarsi. In capo ad un mese d'una navigazione che non fu segnalata da alcun incidente, si scopri un'isola, che, secondo il costume, ricevette il nome del santo che si festeggiava in quel giorno, e fu chiamata Maddalena. Immediatamente, la flotta fu circondata da una folla di canotti, portanti più di quattrocento Indiani quasi bianchi, di bella statura, e che, mentre davano ai marinai dei cocchi ed altri frutti, sembravano indurli a sbarcare. Appena essi furono saliti a bordo si misero a saccheggiare; bisognò tirare un colpo di cannone per sbarazzarsene, ed uno di essi, che era stato ferito nel tumulto, ebbe in breve mutate le loro disposizioni. Si dovette rispondere colla moschetteria alla grandine di freccie e di sassi che essi lanciarono sulle navi. Non lungi da quest'isola, se ne scoprirono altre tre, San Pedro, la Dominica e Santa Christina.

Fu dato al gruppo il nome di las Marquezas de Mendoza, in onore del governatore del Perù. Le prime relazioni erano state tanto amichevoli che un'Indiana vedendo i bei capelli biondi di doña Isabella di Mendoza, gliene aveva chiesto una ciocca; ma per colpa degli Spagnuoli, le relazioni non tardarono a diventare ostili, fino al giorno in cui i naturali, essendosi reso conto dell'enorme inferiorità delle loro armi, chiesero la pace. Il 5 agosto, la flottiglia spagnuola riprese il mare e fece quattrocento leghe nell'ovest-nord-ovest. Il 20 agosto, furono scoperte le isole San Bernardo, chiamate poi isole del Pericolo, poi le isole della Regina Carlotta, sulle quali non si sbarcò, non ostante la penuria dei viveri. Dopo l'isola Solitaria, di cui il vocabolo dice abbastanza la situazione, si giunse all'arcipelago di Santa Cruz. Ma in questo momento, durante un uragano, la nave ammiraglia si separò dalla flotta, e benché si mandasse più volte alla sua ricerca, non se ne ebbero più notizie. Una cinquantina di barche si avvicinarono subito alla nave. Esse erano montate da una folla di naturali dalla tinta arsiccia o d'un nero vivo. «Tutti avevano i capelli arricciati, bianchi, rossi o d'altri colori (giacché erano dipinti); i denti erano del pari tinti di rosso, la testa semirasa, il corpo nudo, ad eccezione d'un piccolo velo di tela fina, il viso e le braccia dipinti di nero, rilucenti, rigati a diversi colori, il collo e le membra carichi di molti giri di cordone di pìccoli grani d'oro o di legno nero, di denti di pesci, di medaglie di madreperla, di perle. Per armi, avevano archi, freccie avvelenate, a punte aguzze, indurite al fuoco od armate d'ossi ed intrise in un succo d'erba, grossi sassi, spade di legno pesante, un bastone diritto con tre punte di rampone, ed in oltre una palma ciascuno. Portavano ad armacollo delle bisaccie di foglie di palma assai ben lavorate, piene d'un biscotto ch'essi fanno con certe radici di cui si nutrono.» Mendana credette dapprima di riconoscerli per gli abitanti

delle isole di cui egli era in cerca, ma non tardò a disingannarsi. Le navi furono accolte da una grandine di freccie. Questi avvenimenti erano tanto più disgustosi in quanto che Mendana, vedendo che non poteva trovare le isole Salomon, si era determinato a stabilire la sua colonia in questo arcipelago. La discordia divise presto gli Spagnuoli a questo proposito; una rivolta, fomentata contro il generale, fu quasi subito repressa, ed i colpevoli furono giustiziati. Ma questi tristi avvenimenti e le fatiche del viaggio avevano così profondamente alterata la salute del capo della spedizione, ch'egli morì, il 17 ottobre, dopo aver avuto il tempo di designare sua moglie per succedergli nella condotta della spedizione. Morto Mendana, le ostilità coi naturali raddoppiarono; molti Spagnuoli erano così sfiniti dalle malattie e dalle privazioni, che una ventina d'indigeni ben determinati ne avrebbe trionfato facilmente. Persistere a voler fondare uno stabilimento in tali condizioni, sarebbe stato pazzia; tutti lo compresero, e fu levata l'àncora il 18 novembre. Il disegno di doña Isabella di Mendoza era di giungere a Manilla, dove si potrebbero reclutare dei coloni per tornare a fondare uno stabilimento. Essa consultò tutti gli ufficiali, che approvarono per iscritto il suo disegno, e trovò in Quiros una devozione ed un'abilità che non dovevano tardare ad esser poste ad un'aspra prova. Si scostarono dapprima dalla Nuova Guinea, per non impacciarsi nei numerosi arcipelaghi che la circondano e per giungere al più presto alle Filippine, come richiedeva lo stato rovinoso delle navi. Dopo essere passati in vista di molte isole circondate di scogliere madreporiche, dove gli equipaggi volevano approdare, permesso che Quiros rifiutò sempre con molta prudenza, dopo essere stati separati da una delle navi della squadra, che non poteva o non voleva seguirli, si giunse alle isole dei Ladroni, che dovevano poco stante prendere il nome d'isole Marianne. Gli Spagnuoli andarono più volte a terra per comperar dei

viveri; gli indigeni non volevano da essi né oro né argento, ma facevano molto conto del ferro e degli utensili di questa metallo. La relazione contiene qui alcuni particolari sul culto dei selvaggi per i loro padri, che sono tanto curiosi da meritare d'essere riprodotti testualmente: «Essi disossano i cadaveri dei loro genitori, ardono le carni ed inghiottono la cenere mista con tuba, che è un vino di cocco. Essi piangono i defunti tutti gli anni per una settimana intera. Vi ha un gran numero di lacrimatrici che vengono noleggiate apposta. Oltre a ciò, tutti i vicini vengono a piangere nella casa del defunto; si rende loro lo stesso servizio quando viene la volta di far la festa da essi. Questi avversari sono molto frequentati, giacché si regalano largamente gli astanti. Si piange tutta notte e si beve fino ad ubbriacarsi tutto il giorno. Si narrano, in mezzo alle lagrime, la vita e le gesta del morto, a partire dal momento della sua nascita, durante tutto il corso della sua vita, rammentando la sua forza, la sua statura, la sua bellezza, in una parola tutto ciò che può fargli onore. Se s'incontra nel racconto qualche azione piacevole, la compagnia si mette a ridere pazzamente, poi subito si beve un sorso e si ricomincia a piangere a calde lagrime. Avviene talvolta che dugento persone siano radunate a questi ridicoli anniversari. «Quando giunse alle Filippine, l'equipaggio spagnuolo non era più che una riunione di scheletri, sparuti, semimorti di fame. Doña Isabella sbarcò a Manilla, l'11 febbraio 1596, allo sparo del cannone, e fa ricevuta solennemente, in mezzo alle truppe sotto le armi. Il resto degli equipaggi, che avevano perduto cinquanta uomini dopo la partenza da Santa Cruz, fu alloggiato e nutrito a spese del pubblico, e le donne trovarono tutte marito a Manilla, salvo quattro o cinque che si fecero monache. Quanto a doña Isabella, essa fu ricondotta qualche tempo dopo al Perù da Quiros, che non tardò a presentare al viceré un nuovo disegno di viaggio. Ma Luigi di Velasco, che era succeduto a Mendoza,

rimandò il navigante al re di Spagna ed al consiglio delle Indie, sotto il pretesto che una simile decisione passava i confini della sua autorità. Quiros si recò dunque in Ispagna, poi a Roma, dove trovò un'accoglienza benevola presso il papa, che lo raccomandò caldamente a Filippo III. In fine, dopo innumerevoli sollecitazioni, egli ottenne, nel 1605, i poteri necessari per armare a Lima le due navi ch'egli giudicasse più convenienti, per andare in cerca del continente australe e continuare le scoperte di Mendana. Quiros partì dal Callao il 21 dicembre 1605 con due navi ed un bastimento leggiero. A mille leghe dal Perù, egli non aveva ancora scoperta alcuna terra. A 25° di latitudine meridionale, ebbe cognizione d'un gruppo d'isolette che appartengono all'arcipelago Pericoloso. Erano la Convercion-de-San-Pablo, l'Osnabrugh di Wallis, e la Decena, così chiamata perchè fu vista per la decima. Benché quest'isola fosse difesa dalle scogliere, si entrò in rapporto coi naturali, le cui abitazioni erano sparse sulla spiaggia, in mezzo alle palme. Il capo di questi indigeni, forti e ben proporzionati, portava in testa una specie di corona di piccole penne nere, così fine e morbide che si sarebbero prese per seta. Una capigliatura bionda, che gli scendeva fino alla cintola, eccitò l'ammirazione degli Spagnuoli. Costoro, non potendo comprendere che un uomo dalla faccia così arsiccia potesse avere una capigliatura d'un biondo così fulgente, «preferirono credere ch'egli fosse ammogliato e che portasse i capelli di sua moglie.» Questo colore bizzarro non era dovuto se non all'uso abituale della polvere di calce, che brucia i capelli e li fa ingiallire. Quest'isola, che ricevette da Quiros il nome di Sagittaria, è, stando a Fleurieu, l'isola di Taiti, una delle principali del gruppo delle isole della Società. I giorni successivi, Quiros riconobbe ancora molte isole, sulle quali non sbarcò, ed a cui diede dei nomi tolti dal calendario, secondo un uso che ha trasformato in una vera litania tutti i vocaboli indigeni

dell'Oceania. Egli toccò, segnatamente, un'isola che fu chiamata della Gente Hermosa, a causa della bellezza de' suoi abitanti, della bianchezza e della civetteria delle donne che gli Spagnuoli dichiararono vincere in grazia ed in attrattive perfino le loro compatriote di Lima, la cui bellezza è tuttavia

proverbiale. Quest'isola era situata, stando a Quiros, sotto il medesimo parallelo di Santa Cruz, dov'egli aveva l'intenzione di recarsi. Egli fece dunque rotta all'ovest, e giunse ad un'isola chiamata Taumaco dagli indigeni, a 10° di latitudine meridionale e ad ottanta leghe all'est di Santa Cruz. Essa

sarebbe dunque una delle isole Duff. Colà, Quiros apprese che, se dirigesse la sua corsa al sud, scoprirebbe una gran terra, i cui abitanti erano più bianchi di quelli che aveva incontrati fino allora. Questa informazione lo indusse ad abbandonare il suo disegno di recarsi a Santa Cruz. Egli fece rotta nel sud-ovest, e dopo aver scoperto molte isolette, giunse, il 1° maggio 1606, in

una baia larga più di otto leghe. Egli diede a quest'isola il nome di Santo Spirito, che essa ha conservato. Era una delle Nuove Ebridi. Quali avvenimenti accaddero durante questa fermata? La relazione è muta in proposito. Ma noi sappiamo, da altra fonte, che l'equipaggio ribelle fece prigioniero Quiros, ed

abbandonando la seconda nave ed il brigantino, riprese, l'11 giugno, la via d'America, dove giunse, il 3 ottobre 1006, dopo nove mesi di viaggio. Il signor Edoardo Charton non rischiarò questo avvenimento. Egli tace sulla rivolta dell'equipaggio e getta anzi tutto il torto della separazione sul comandante della seconda nave, Luigi Vaes de Torres, che avrebbe abbandonato il suo generale lasciando la Terra del Santo Spirito. Ora, si sa, da una lettera stessa di Torres al re di Spagna, — pubblicata da lord Stanley alla fine della sua edizione inglese della Storia delle Filippine di Antonio de Morga, — ch'egli rimase «quindici» giorni ad aspettar Quiros nella baia di San Filippo e di San Giacomo. Gli ufficiali, riuniti in consiglio, risolvettero di levar l'àncora il 36 giugno, e di proseguire la ricerca del continente australe. Ritardato dal brutto tempo, che gl'impedisce di fare il giro dell'isola di Santo Spirito, assalito dai reclami d'un equipaggio sul quale soffiava un vento di rivolta, Torres s'induce a far rotta al nord-est per giungere alle isole spagnuole. Ad undici gradi e mezzo, egli scopre una terra che crede essere il cominciamento della Nuova Guinea. «Tutta questa terra è di Nuova Guinea, dice Torres, essa è popolata da Indiani che non sono bianchissimi e che vanno nudi, sebbene la loro cintura sia coperta di corteccia d'alberi… Essi combattono con giavellotti, scudi e mazzuole di pietra, il tutto ornato di molte belle penne. Lungo questa terra, vi sono altre isole abitate. E vi hanno su tutta la costa molti ed ampi porti con fiumi larghissimi e molte pianure. Al di fuori di queste isole si stendono scogli e bassi fondi: le isole sono tra questi pericoli e la terra ferma, ed un canale corre nel mezzo. Noi prendemmo possesso di questi porti in nome di Vostra Maestà. Avendo corso trecento leghe su questa costa, e visto decrescere la nostra latitudine di due gradi e mezzo, fino a trovarci a nove gradi, trovammo un banco da tre a nove braccia che seguiva la costa a sette gradi e mezzo. Non potendo andar più lungi a

causa dei bassi fondi numerosi e delle forti correnti che incontravamo, risolvemmo di piegare a sud-ovest nel profondo canale di cui si è parlato fin verso l'undecimo grado. Vi ha colà, da un'estremità all'altra, un arcipelago d'isole innumerevoli, pel quale passai. Alla fine dell'undecimo grado, il fondo diventa più basso. Vi erano isole grandissime, e ne apparivano molte altre verso il sud; esse erano abitate da un popolo negro, robustissimo e tutto nudo, avente per armi lunghe e forti lancie, freccie e mazzuole dì pietra mal fatte.» Nei paraggi così designati, i geografi moderni furono concordi nel riconoscere quella parte della costa australiana che termina colla penisola York, e l'estremità della Nuova Guinea, recentemente visitata dal capitano Moresby. Si sapeva che Torres aveva imboccato lo stretto che ha ricevuto il suo nome e che separa la Nuova Guinea dal capo York; ma l'esplorazione recentissima della parte sud-est della Nuova Guinea, dove si è accertata la presenza d'un popolo dalla tinta relativamente chiara, differentissimo dai Papuasi, è Tenuta a dare un grado di certezza inaspettato alle scoperte di Quiros. È perciò che abbiamo voluto arrestarci sovr'esse un poco, riferendoci ad un eruditissimo lavoro del signor E. T. Hamy, pubblicato nel Bollettino della Società di geografia. Dobbiamo dire ora poche parole sui viaggiatori che hanno percorso regioni poco frequentate e che hanno fornito ai loro contemporanei una cognizione più esatta d'un mondo prima interamente sconosciuto. Il primo di questi viaggiatori è Francesco Pyrard, da Lavai. Imbarcato nel 1601, sopra una nave maluina, per andare a commerciare nelle Indie, egli naufragò nell'arcipelago delle Maldive. Questi isolotti, in numero di dodicimila almeno, situati al sud della costa di Malabar, scendono nell'oceano Indiano dal capo Comorin fino all'Equatore. Il buon Pyrard ci narra il suo naufragio, la fuga d'una parte dei suoi compagni di prigionia nell'arcipelago, ed il

lungo soggiorno di sette anni ch'egli fece alle Maldive, soggiorno reso quasi piacevole dalla cura ch'egli aveva avuta d'imparare la lingua indigena. Egli ebbe tutto il tempo d'istruirsi dei costumi, delle abitudini, della religione, dell'industria degli abitanti, come pure di studiare i prodotti ed il clima del paese. E però, la sua relazione è ricchissima di particolari d'ogni fatta. Fino a questi ultimi anni, essa aveva conservato la sua attrattiva, perchè i viaggiatori non frequentano volontieri questo arcipelago malsano, il cui isolamento aveva tenuto lontani gli stranieri ed i conquistatori. La relazione di Pyrard è dunque ancora istruttiva e piacevolissima. Nel 1607, una flotta fu mandata alle Maldive dal re di Bengala, per impadronirsi dei cento o centoventi cannoni che il loro sovrano doveva al naufragio di molte navi portoghesi. Pyrard, non ostante tutta la libertà che gli si lasciava e benché fosse diventato proprietario, voleva rivedere la sua cara Bretagna. Perciò, egli colse con premura quest'occasione di lasciar l'arcipelago coi tre compagni che soli gli rimanevano dell'intero equipaggio. Ma l'odissea di Pyrard non era compiuta. Condotto dapprima a Ceylan, fu trasportato al Bengala, e cercò di giungere a Cochin. Imprigionato dai Portoghesi in quest'ultima città, egli si ammalò e fu curato nell'ospitale di Goa. Non ne uscì che per servire due anni come soldato, in capo al qual tempo, egli fu di nuovo messo in carcere. E solo nel 1611 potè rivedere la sua buona città dì Lavai. Dopo tante traversie, Pyrard dovette senza dubbio provare il bisogno del riposo, e si ha ragione di credere, stando al silenzio della storia sulla fine della sua vita, ch'egli sapesse finalmente trovare la felicità. Se l'onesto borghese Francesco Pyrard fu, per così dire, suo malgrado e per aver voluto arricchirsi troppo rapidamente, lanciato in avventure in cui per poco non lasciò la vita,

circostanze ben altrimenti romanzesche indussero Pietro della Valle a viaggiare. Originario d'una nobile ed antica famiglia, egli è successivamente soldato del papa e marinaio, dando la caccia ai corsari barbareschi. Al suo ritorno a Roma, egli trova preso il suo posto, presso una giovinetta che doveva sposare, da un rivale che ha approfittato della sua assenza. Una sciagura così grande richiede un rimedio eroico. Della Valle giura di visitare, in pellegrinaggio, il sepolcro di Cristo. Ma se non c'è via, dice il proverbio, che non conduca a Roma, non c'è giro così lungo che non conduca a Gerusalemme. Della Valle doveva provarlo. Egli s'imbarca nel 1614 a Venezia, passa tredici mesi a Costantinopoli, giunge per mare ad Alessandria, poi al Cairo, e si unisce ad una carovana che lo conduce finalmente a Gerusalemme. Ma, per via, della Valle aveva senza dubbio preso gusto alla vita di viaggio, giacché visita successivamente Bagdad, Damasco, Aleppo, e si spinge anzi fino alle rovine di Babilonia. Convien credere che della Valle fosse una vittima facile, giacché, al suo ritorno, s'innamora d'una giovane cristiana di Mardin, d'una meravigliosa bellezza, e la sposa. Si potrebbe credere di vedere oramai fissato il destino di questo infaticabile viaggiatore. Niente affatto. Della Valle trova modo d'accompagnare lo shah nella sua guerra contro i Turchi e di percorrere per quattro anni consecutivi le provincie dell'Iran. Egli lascia Ispahan nel 1621, perde sua moglie nel mese di dicembre del medesimo anno, la fa imbalsamare e si fa seguire dalla sua bara per quattro anni ch'egli consacra ad esplorare Ormuz, le coste occidentali dell'India, il golfo Persico, Aleppo e la Siria per sbarcare in fine a Napoli nel 1626. I paesi visitati da quest'uomo bizzarro, spinto da una foga veramente straordinaria, sono descritti da lui con uno stile vivace, allegro, naturale, anche con una certa fedeltà. Ma egli inaugura la pleiade dei viaggiatori dilettanti, dei curiosi e dei

mercanti. Egli è il primo di quella feconda razza che ingombra, ogni anno, la letteratura geografica di numerosi volumi, dove lo scienziato non trova a spigolare se non magre notizie. Tavernier è un curioso insaziabile. A ventidue anni, egli ha percorso la Francia, l'Inghilterra, i Paesi Bassi, la Germania, la Svizzera, la Polonia, l'Ungheria e l'Italia. Poi, quando l'Europa non offre più alimento sufficiente alla sua curiosità, egli parte per Costantinopoli, dove si ferma un anno, e si reca in Persia, dove si mette a comperare dei tappeti, dei tessuti, delle pietre preziose e quei mille ninnoli per i quali la curiosità doveva appassionarsi tanto da pagarli somme favolose. Il benefizio che Tavernier ricavò dal suo carico lo indusse a rifare il viaggio. Ma, da uomo savio e prudente, prima di mettersi in via, egli imparò presso un gioielliere l'arte di conoscere le pietre preziose. Nei quattro viaggi successivi, dal 1638 al 1663, egli percorse la Persia, il Mogol, le Indie, fino alla frontiera della China, e le isole della Sonda. Accecato dall'immensa ricchezza che il suo traffico gli aveva procurata, Tavernier volle farla da gran signore e si vide in breve alla vigilia della rovina. Egli sperava di scongiurarla mandando in Oriente uno dei nipoti con un gran carico; ma esso fu invece consumato da questo giovanotto, che giudicando opportuno l'appropriarsi il deposito che gli era stato affidato, si stabilì ad Ispahan. Tavernier, che era istruito, ha raccolte molte osservazioni interessanti sulla storia, í prodotti, i costumi, gli usi dei paesi da lui visitati. La sua relazione ha certamente contribuito a dare ai suoi contemporanei un'idea molto più giusta di quella che si facevano delle regioni dell'Oriente. Del resto è da questa parte che, durante il regno di Luigi XIV, si dirigono tutti i viaggiatori, qualunque sia lo scopo che si propongono. L'Africa è interamente abbandonata, e se l'America è il teatro d'una vera esplorazione, essa si fa senza l'aiuto del governo.

Mentre Tavernier compiva le sue ultime e lontane escursioni, un archeologo segnalato, Giovanni di Thévenot, nipote di Melchisedecco Thévenot, l'erudito a cui è dovuta la pubblicazione d'un'interessante serie di viaggi, percorreva l'Europa dapprima, poi Malta, Costantinopoli, l'Egitto, Tunisi e l'Italia. Egli ne riportava, nel 1061, un'importante collezione di medaglie, d'iscrizioni di monumenti, oggi di sì poderoso aiuto allo storico ed al filologo. Nel 1664, egli partiva di nuovo per il Levante, visitava la Persia, Bassorah, Surate e l'India, dove vide Masulipatam, Berampur, Aurengabad e Golconda. Ma le fatiche da lui subite gl'impedirono di tornare in Europa, ed egli morì in America nel 1667. Il successo delle sue relazioni, ben meritato dalla cura e dall'esattezza d'un viaggiatore, la cui erudizione in storia, in geografia, in matematiche, passava, di molto, il livello medio dei suoi contemporanei, fu grande. Conviene ora che parliamo dell'amabile Bernier, il «leggiadro filosofo,» come era chiamato nel suo circolo galante. Colà s'incontravano Ninon e La Fontaine, la signora della Sablière, Saint-Évremont e Chapelle, senza contare tanti altri spiriti buoni e gai, refrattari alla solennità brontolona che pesava allora alla corte di Luigi XVI. Bernier non poteva sfuggire alla moda dei viaggi. Dopo aver visto alla lesta la Siria e l'Egitto, egli risiedette dodici anni nell'India, dove le sue speciali cognizioni in medicina gli conciliarono il favore del gran Aureng-Zeb e gli permisero di vedere, minuziosamente e con frutto, un impero allora in tutto il flore della sua prosperità. Al sud dell'Indostan, Ceylan riserbava più d'una sorpresa ai suoi esploratori. Roberto Knox, fatto prigioniero dagli indigeni, dovette a questa disgrazia la sua lunga residenza nei paese, la quale gli permise di raccogliere, sulle immense foreste e sui popoli selvaggi di Ceylan, i primi documenti autentici. Gli Olandesi, per una gelosia commerciale di cui non furono i soli a dar l'esempio, avevano fino allora tenute segrete le notizie

che si erano procurate sopra un'isola di cui cercavano di farsi una colonia. Un altro negoziante, Giovanni Chardin, figlio d'un ricco gioielliere di Parigi, che, geloso del successo di Tavernier, volle, al pari di lui, far fortuna nel commercio dei diamanti. I paesi che attirarono questi mercanti sono quelli la cui rinomanza di ricchezza e di prosperità è diventata proverbiale; sono la Persia e l'India, dalle ricche vesti scintillanti di pietre preziose e d'oro, dalle miniere di diamanti d'una grossezza favolosa. Il momento è ben scelto per visitare questi paesi. In grazia degli imperatori Mogol, la civiltà e l'arte si sono sviluppate; le moschee, i palazzi, i templi si sono elevati, delle città sono sorte di repente. Il loro gusto, — quel gusto così strano, così nettamente caratteristico, così differente dal nostro, — si spiega nella costruzione degli edilizi giganteschi del pari che nella gioielleria, nell'oreficeria, nella fabbrica di quei nonnulla di gran costo per i quali l'Oriente incominciava ad appassionarsi. Da uomo abile, Chardin prende un socio, buon conoscitore al pari di lui. Egli non fa dapprincipio che traversare rapidamente la Persia per giungere ad Ormuz ed imbarcarsi per le Indie. L'anno successivo, egli è di ritorno ad Ispahan e si affretta ad imparare la lingua del paese per trattare gli affari direttamente e senza intermediario. Egli ha la fortuna di piacere allo shah Abbas II. Da quel momento, la sua fortuna è fatta, giacché è ad un tempo cosa di bon ton e da cortigiano astuto d'avere il medesimo fornitore del proprio sovrano. Ma Chardin ebbe un altro merito oltre a quello di far fortuna. Egli seppe raccogliere sul governo della Persia, sui costumi, le credenze, gli usi, le città, la popolazione di questo paese, una gran quantità di notizie che hanno fatto del suo racconto, fino ai nostri giorni, il vademecum del viaggiatore. Questa guida è tanto più preziosa in quanto che Chardin aveva avuto cura di pigliare a Costantinopoli un abile disegnatore chiamato Grelot,

dal quale furono riprodotti i monumenti, le città, le scene, i costumi, le cerimonie che così bene dipingono un popolo. Quando Chardin ritornò in Francia nel 1670, la rivocazione dell'editto di Nantes aveva cacciato dalla loro patria, in seguito a barbare persecuzioni, una folla d'artigiani, che andarono ad arricchire gli stranieri delle nostre arti e della nostra industria. Chardin, protestante, comprese benissimo che la sua religione gli impedirebbe di giungere «a ciò che si chiama onori ed avanzamento.» Siccome, secondo la sua espressione, «non si è liberi di credere ciò che si vuole,» egli risolvette di tornare alle Indie «dove, senz'essere importunato per mutar religione,» doveva necessariamente farsi una posizione onorevole. Così dunque, la libertà di coscienza era allora maggiore in Persia che in Francia. Quest'asserzione, da parte d'un uomo che ha fatto il confronto, è poco lusinghiera per il nipote d'Enrico IV. Ma, questa volta, Chardin non segui la medesima via. Egli passò da Smirne e da Costantinopoli, e traversando il mar Nero, sbarcò in Crimea vestito da religioso. Passando attraverso la regione del Caucaso, egli ebbe occasione di studiare gli Abkasi ed i Circassi. Penetrò poi nella Mingrelia, dove fu spogliato d'una parte dei gioielli ch'egli portava dall'Europa, de' suoi bagagli e delle sue carte. Egli medesimo non potè salvarsi se non in grazia dei teatini, presso i quali aveva ricevuto ospitalità. Non fu per altro che per cadere fra le mani dei Turchi, che lo posero a taglia alla loro volta. Egli giunse, dopo tante disavventure, a Tillis, il 17 dicembre 1072. Siccome la Georgia era allora governata da un principe tributario dello shah di Persia, gli fu facile giungere ad Erivan, a Tauris, e finalmente ad Ispahan. Dopo un soggiorno di quattro anni in Persia ed un ultimo viaggio nell'India, durante il quale egli raccolse una gran ricchezza, Chardin tornò in Europa e si stabili in Inghilterra,

giacché la sua patria gli era chiusa a causa della sua religione. Il giornale del suo viaggio forma un'opera grande, nella quale tutto ciò che riguarda la Persia è segnatamente sviluppato. Il suo lungo soggiorno nel paese ed i suoi frequenti rapporti coi primi personaggi dello Stato gli permisero di

raccogliere documenti numerosi ed autentici. Perciò si può dire che la Persia era meglio conosciuta nel secolo XVII di quanto lo fosse cento anni dopo. Le regioni che Chardin aveva visitate furono rivedute alcuni anni dopo da un pittore olandese, Cornelio di Bruyn, o

Le Brun. Ciò che forma il valore della sua opera, è la bellezza e l'esattezza dei disegni che l'accompagnano, giacché, quanto al testo, non vi si trova nulla che già non si conoscesse, tranne circa i Samojedi ch'egli fu il primo a visitare. Dobbiamo parlare ora del Vestfaliano Kæmpfer, presso che naturalizzato Svedese dal lungo soggiorno da lui fatto nei paesi scandinavi. Egli vi rifiutò lo splendido stato che gli veniva

offerto per accompagnare, in qualità di segretario, un ambasciatore che si recava a Mosca. Potè così vedere le principali città della Russia, paese allora appena entrato nella via della civiltà occidentale; poi egli si recò in Persia, dove abbandonò l'ambasciatore Fabrizio per mettersi al servizio

della Compagnia olandese delle Indie e continuare i suoi viaggi. È così ch'egli vide dapprima Persepoli, Schiraz, Ormuz sul golfo Persico, dove si ammalò gravemente e dove s'imbarcò, nel 1088, per le Indie orientali. L'Arabia felice, l'India, la costa di Malabar, Ceylan, Giava, Sumatra ed il Giappone, tali sono i paesi ch'egli visitò più tardi. Lo scopo di questi viaggi era esclusivamente scientifico. Medico, ma dedicato specialmente agli studi di storia naturale, Kæmpfer raccolse, descrisse, disegnò o disseccò un gran numero di piante allora ignote in Europa, diede, sul loro uso farmaceutico od industriale, notizie nuove, e raccolse un immenso erbario, oggidi conservato colla maggior parte dei suoi manoscritti al British museum», di Londra. Ma la parte più interessante della sua relazione, oggi molto invecchiata, molto incompleta, dacché il paese è aperto ai nostri scienziati, è stata lungamente ciò che essa è relativamente al Giappone. Egli aveva saputo procurarsi i libri che trattavano della storia, della letteratura e delle scienze del paese, quando non aveva potuto avere da certi personaggi, presso i quali era ben accolto, delle notizie che non si aveva l'abitudine di comunicare agli stranieri. In sostanza, se tutti i viaggiatori di cui abbiamo parlato non sono, a parlar propriamente, veri scopritori, se essi non esplorano paesi sconosciuti, hanno tutti, in gradi ineguali e secondo le loro attitudini od î loro studi, il merito d'aver fatto conoscere meglio le regioni che visitarono. In oltre, essi hanno saputo relegare nel dominio delle favole molte dicerie che altri, meno illuminati, avevano accettate ingenuamente, e che erano da quel tempo passate così bene nel dominio pubblico che nessuno pensava a contestarle. Grazie a loro, la storia dell'Oriente era conosciuta un po' meglio; s'incominciava a sospettare le migrazioni dei popoli, ed a rendersi conto delle rivoluzioni di quei grandi imperi, la cui esistenza era stata così lungamente problematica.

CAPITOLO VI. LA GRAN PIRATERIA. I.

GUGLIELMO DAMPIER, OVVERO UN RE DEL MARE NEL SECOLO XVII. Nato nel 1612, ad East Toker, Guglielmo Dampier si trovò fin dall'infanzia abbandonato a sé stesso a causa della morte de' genitori. Nient'affatto appassionato per lo studio, egli preferiva correre i boschi e battagliare co' suoi camerati anziché rimanersene tranquillo sulle panche della scuola. E però egli fu imbarcato di buon'ora in qualità di mozzo sopra una nave mercantile. Dopo un viaggio a Terra Nuova ed una campagna nelle Indie orientali, egli si arruolò nella marina militare, e ferito in un combattimento, tornò a farsi curare a Greenwich. Libero di pregiudizi, Dampier dimenticò gli impegni presi uscendo dall'ospitale militare, e partì per la Giamaica in qualità di gerente d'una piantagione. Non gli bisognò un pezzo per accorgersi che questo mestiere non poteva piacergli; perciò, egli abbandonò i suoi negri in capo a sei mesi, e s'imbarcò per la baia di Campeggio, dove lavorò per tre anni a raccogliere dei legni da tintura. Dopo questo tempo, lo si ritrova a Londra; ma le leggi e gli agenti incaricati di farle rispettare lo impacciano. Egli torna alla Giamaica, dove non tarda a mettersi in rapporto con quei famosi filibustieri che a quel tempo fecero tanto male agli Spagnuoli.

Stabiliti nell'isola della Tartaruga, sulla costa di San Domenico, questi avventurieri, Inglesi o Francesi, avevano giurato un odio implacabile alla Spagna. I loro saccheggi non si limitarono al solo golfo del Messico; essi traversarono l'istmo di Panama e devastarono le coste dell'oceano Pacifico, dallo stretto di Magellano fino alla California. Il terrore esagerava ancora le imprese di questi filibustieri, che pure avevano del meraviglioso. È fra questi avventurieri, allora comandati da Harris, Sawkins e Shays, che Dampier si arruolò. Nel 1680, noi lo vediamo nel Darien. Egli vi saccheggia Santa Maria, cerca invano di sorprendere Panama, e cattura co' suoi compagni, montati sopra cattive barche rubate agli Indiani, otto navi ben armate, che erano all'ancoraggio, non lungi dalla città. In questa occasione, le perdite dei filibustieri furono così grandi nel combattimento ed il bottino fu così magro, che essi si separarono. Gli uni tornano al golfo del Messico, gli altri si stabiliscono nell'isola Juan Fernandez, donde non tardano ad assalire Arica. Ma, anche questa volta, essi furono così maltrattati, che avvenne una nuova scissura, e che Dampier dovette andare alla Virginia, dove il suo capitano sperava di far reclute. Colà, il capitano Cook armava una nave, coll'intenzione di penetrare nell'oceano Pacifico per lo stretto di Magellano. Dampier fa parte del viaggio. S'incomincia dal far la corsa sulla costa d'Africa, alle isole del capo Verde, a Sierra Leone, nel fiume Scherborough, giacché è la via che seguono abitualmente le navi dirette verso l'America del Sud. A 36° di latitudine meridionale, Dampier, che nota sul suo taccuino tutti i fatti interessanti, osserva che il mare è diventato bianco, o meglio pallido, senza potersene spiegare la ragione. S'egli avesse fatto uso del microscopio, se ne sarebbe facilmente reso conto. Le isole Sebaldine sono passate senza incidenti, lo stretto di Lemaire è traversato, il capo Horn è doppiato il 6

febbraio 1GS4, ed appena ha potuto sfuggire agli uragani che assalgono di solito le navi che entrano nel Pacifico, il capitano Cook va all'isola Juan Fernandez dove spera d'approvigionarsi. Dampier si chiedeva se dovesse ritrovarvi un Indiano del Nicaragua, che vi era stato lasciato, nel 1680, dal capitano Sharp. «Questo Indiano aveva abitato solo più di tre anni quell'isola. Egli era nei boschi alla caccia delle capre, quando il capitano inglese aveva fatto imbarcare le sue genti, e si erano spiegate le vele senza accorgersi della sua assenza. Egli non aveva che il suo fucile ed il suo coltello, con un piccolo cartoccio di polvere ed un po' di piombo. Dopo aver consumato il piombo e la polvere, egli aveva trovato modo di segare, col coltello, la canna del suo fucile in pezzetti e di farne dei ramponi, delle lande, degli ami ed un lungo coltello. Con questi strumenti, egli ebbe tutte le provviste che l'isola produceva: capre e pesci. Ad un mezzo miglio dal mare egli aveva una piccola capanna rivestita di pelli di capre. Non gli erano rimasti abiti indosso; una semplice pelle serviva a coprirgli le reni.» Se ci siamo arrestati un po' su questo eremita forzato, è perchè è servito di tipo a Daniele di Foe per il suo Robinson Crosuè, romanzo che ha fatto le delizie di tutti i fanciulli. Non racconteremo qui minuziosamente tutte le spedizioni alle quali Dampier prese parte. Ci basterà dire ch'egli visitò, in questa campagna, le isole Gallapagos. Vedendo fallire la maggior parte delle sue intraprese, il capitano Swan, a bordo della cui nave Dampier serviva nel 1686, andò nelle Indie orientali, dove gli Spagnuoli stavano meno sull'avvisato, e dove si proponeva d'impadronirsi del gallione di Manilla. Ma i nostri avventurieri, giungendo a Guaham, non avevano più viveri che per tre giorni. I marinai avevano disegnato di mangiare successivamente, se il viaggio si prolungava, tutti quelli che si erano dichiarati in suo favore, e d'incominciare dal capitano, che ne aveva fatta la

proposta. Dampier avrebbe avuta la sua volta subito dopo di lui. «Da ciò proviene, dice egli abbastanza scherzosamente, che dopo essersi ancorati a Guaham, Swan gli disse, abbracciandolo: Ah! Dampier, voi avreste fatto far loro un pasto assai magro!» Ed aveva ragione, aggiunge, «perchè ero così magro e scarno quanto egli era grasso e tondo.» Mindanao, Manilla, certe coste della China, le Molucche, la Nuova Olanda e le isole Nicobar, tali furono i punti visitati e saccheggiati da Dampier in questa campagna. In quest'ultimo arcipelago, egli si separò dai compagni e fu raccolto semi-morto sulla costa di Sumatra. Durante questa campagna, Dampier aveva scoperto molte isole fino allora ignote, e segnatamente il gruppo delle Baschi. Da vero avventuriero quale egli era, appena ristabilito, percorse tutto il sud dell'Asia, Malacca, il Tonkin, Madras e Bencoulen, dove entrò in qualità d'artigliere al servizio dell'Inghilterra. Cinque mesi dopo, egli disertava e tornava a Londra. Il racconto delle sue avventure e delle sue corse gli attirò un certo numero di simpatie nell'alto ceto, ed egli fu presentato al conte d'Oxford, lord dell'Ammiragliato. Non tardò a ricevere il comando della nave il Roebuck, per tentare un viaggio di scoperta nei mari da lui già esplorati. Lasciò l'Inghilterra, il 14 gennaio 1699, col disegno di passare lo stretto di Magellano o di fare il giro della Terra di Fuoco, per cominciare le sue scoperte dalle coste del Pacifico, che avevano ricevuto fino allora il minor numero di visitatori. Dopo aver passato l'equatore, il 10 marzo, egli fece vela per il Brasile, dove si rifornì di provviste. Lungi dal poter ridiscendere la costa della Patagonia, si trovò allora respinto dai venti a sedici leghe nel sud del capo di Buona Speranza, donde fece vela per l'estsudest verso la Nuova Olanda. Questa lunga traversata non fu segnalata da alcun incidente. Il 1° agosto, Dampier vide la terra e cercò subito un seno per isbarcarvi. Cinque giorni più tardi,

egli approdava nella baia dei Cani marini, sulla costa occidentale dell'Australia; ma non trovò che una terra sterile, dove non incontrò né acqua né vegetazione. Fino al 31 agosto, seguì quel litorale, senza scoprire ciò che cercava. In uno sbarco, egli ebbe una piccola scaramuccia con alcuni abitanti, che gli sembravano rarissimi nel paese. Il loro capo era un giovanotto di mezzana statura, vivace e svelto; i suoi occhi erano circondati da un solo cerchio di pittura bianca, ed una striscia del medesimo colore gli scendeva dall'alto della fronte fino alla punta del naso; il suo petto e le braccia erano pure strisciati di bianco. Quanto ai suoi compagni, avevano la pelle nera, lo sguardo feroce, i capelli crespi, la statura alta e svelta. Da cinque settimane che seguiva la costa, Dampier non aveva trovato né acqua né viveri; tuttavia, non voleva cedere, ed intendeva di continuare a risalire la costa verso il nord. Pure i bassi fondi ch'egli incontrò di continuo, il monsone di nordovest, che stava per sopraggiungere, lo costrinsero a rinunciare alla sua impresa, dopo aver scoperto più di trecento leghe del continente australe. Si diresse poi verso Timor, dove si proponeva di riposare e di rifare il suo equipaggio sfinito da quel lungo viaggio. Ma conosceva poco quei paraggi, e le sue carte erano affatto insufficienti. Egli fu dunque costretto a farne la ricognizione, come se gli Olandesi non vi fossero stabiliti da un pezzo. È così ch'egli scopri, fra Timor ed Anamabao, un passaggio in un punto in cui la sua carta non indicava che un seno. L'arrivo di Dampier in un porto che essi soli conoscevano, sorprese ed indispettì grandemente gli Olandesi, i quali s'immaginarono che gli Inglesi non avessero potuto giungervi se non per mezzo di carte prese sopra una nave della loro nazione. Tuttavia, finirono coll'uscire dal loro terrore e li accolsero con benevolenza. Benché i preludi del monsone si facessero sentire, Dampier riprese il mare e si diresse verso la costa settentrionale

della Nuova Guinea, dove giunse, il 4 febbraio 1700, presso al capo Mano degli Olandesi. Fra le cose che lo impressionarono, Dampier cita la prodigiosa quantità d'una specie di colombi, dei pipistrelli grossissimi, e dei pettonchii, specie di conchiglie, la cui scaglia vuota non pesava meno di 258 libbre. Il 7 febbraio, egli si avvicina all'isola del Re Guglielmo e corre nell'est, dove non tarda a vedere il capo di Buona Speranza di Schouten e l'isola che ha ricevuto il nome di questo navigatore. Il 24, l'equipaggio fu testimonio d'uno spettacolo bizzarro. «Due pesci, che accompagnavano la nave da cinque o sei giorni, videro un grosso serpente marino e si diedero ad inseguirlo. Essi erano press'a poco dell'aspetto e della grandezza degli sgombri, ma di color giallo e verdognolo. Il serpente, che fuggiva velocissimamente, portava la testa fuori dell'acqua, ed uno dei pesci si sforzava di pigliargli la coda. Appena esso si voltava, il primo pesce rimaneva indietro e l'altro prendeva il suo posto. Essi lo inseguirono un pezzo, ed esso era sempre attento a difendersi fuggendo, finché si perdettero di vista.» Il 25, Dampier diede il nome di San Mattia ad un'isola montagnosa, lunga una decina di leghe, posta al disopra ed all'est delle isole dell'Ammiragliato. Sette od otto leghe più lungi, scopri un'altra isola, la quale ricevette il nome di Burrascosa a causa dei violenti turbini che impedirono di approdarvi. Dampier si credeva allora vicino alla costa della Nuova Guinea, mentre invece seguiva quella della Nuova Irlanda. Egli tentò di scendervi; ma era circondato da piroghe portanti più di dugento naturali, e la spiaggia era coperta d'una folla numerosa. Vedendo che sarebbe imprudente mandare a terra una scialuppa, Dampier fece virar di bordo. Quest'ordine era appena dato, quando la nave fu crivellata di pietre che gli indigeni lanciavano con una macchina di cui egli non potè scoprire la forma, ma che fece dare a questo luogo il nome di baia dei Frombolieri. Un sol colpo di cannone li colpì di

stupore e pose fine alle ostilità. Un po' più lungi, a qualche distanza dalla spiaggia della Nuova Irlanda, gli Inglesi scoprono le isole Dionigi e San Giovanni. Dampier passa per il primo lo stretto che separa la; Nuova Irlanda dalla Nuova Bretagna, riconosce le isole Vulcano, della Corona, G. Rook, Long-Rich e l'isola Ardente. Dopo questa lunga crociera segnalata da scoperte importanti, Dampier riprese la via dell'ovest, si recò all'isola Missory, e giunse in fine all'isola di Ceram, una delle Molucche, dove fece una fermata abbastanza lunga. Andò poi a Borneo, passò per lo stretto di Macassar ed approdò a Batavia, nell'isola di Giava, il 23 giugno. Egli vi rimase fino al 17 ottobre, e fece rotta per l'Europa. Arrivando all'isola dell'Ascensione, il 23 febbraio 1701, la sua nave aveva una falla così grande che fu impossibile accecarla. Sì dovette far arenare la nave e trasbordare a terra l'equipaggio ed il carico. Fortunatamente, l'acqua non mancava, e non mancavano neppure le tartarughe, le capre ed i gamberi di terra. Si era dunque sicuri di non morir di fame, fino al giorno in cui una nave si fermasse all'isola e rimpatriasse i naufraghi. Questo momento non si fece aspettare, giacché, il 2 aprile, una nave inglese li prendeva a bordo e li riconduceva in Inghilterra. Noi avremo ancora occasione di parlare di Dampier, a proposito dei viaggi di Wood Rodgers.

II. Il polo e l'America. Hudson e Baffin — Champlain e La Sale — Gli Inglesi sulla costa dell''Atlantico — Gli Spagnuoli nell'America del Sud — Compendio delle cognizioni acquistate alla fine del secolo XVII — La misura del grado terrestre — Progressi della cartografia — Inaugurazione della geografia matematica.

Se i tentativi per trovare un passaggio al nord-ovest erano stati abbandonati da una ventina d'anni dall'Inghilterra, non si era per altro rinunciato a cercare, per questa via, un passaggio che non doveva venir scoperto se non nei nostri giorni, ed ancora per accertarne l'assoluta impraticabilità. Un abile marinaio, Enrico Hudson, di cui Ellis ha detto che «nessuno mai intese meglio il mestiere del mare, che il suo coraggio era a prova di qualsiasi avvenimento e che la sua applicazione fu infaticabile,» conchiuse un contratto con una compagnia di mercanti per cercare il passaggio per il nord-ovest. Il 1° maggio 1607, egli partì da Gravesend con una semplice barca, l'Hopewell, e dodici uomini d'equipaggio, giunse, il 13 giugno, alla costa orientale del Groenland a 73°, e le diede un nome che rispondeva alle sue speranze chiamandola capo Perseveranza (Hold With Hope). Il tempo era più bello e meno freddo che non 10 gradi più in basso. Il 27 giugno, Hudson era risalito di 5 gradi nel nord, ma il 2 luglio, per uno di quei bruschi mutamenti così frequenti in quelle regioni, il freddo si fece rigido. Tuttavia, il mare rimaneva libero, l'aria era tranquilla, dei legni galleggianti andavano alla deriva in gran numero. Il 14 dello stesso mese, a 33° 23', il quartiermastro ed il bosseman della nave scesero sopra una terra che formava la parte settentrionale dello Spitzberg. Delle traccie di buoi muscati e di volpi, una grande abbondanza d'uccelli acquatici,

due ruscelli d'acqua dolce, e calda in uno dei due, provarono ai nostri navigatori che la vita era possibile, sotto quelle latitudini estreme, in quel periodo dell'anno. Hudson, che non aveva tardato a riprendere il mare, si vide arrestato all'altezza dell'82°, da un banco di ghiaccio che invano si sforzò di traversare o di

girare. Egli dovette tornare in Inghilterra, dove giunse il 15 settembre, dopo aver scoperto un'isola che è probabilmente quella di Giovanni Mayen. La via seguita in questo primo viaggio non avendo potuto dare uno sbocco nel nord, Hudson ne tentò un'altra. In fatti, egli partì il 21 aprile dell'anno

successivo, e si avanzò tra lo Spitzberg e la Nuova Zembla; ma dovette accontentarsi di seguire, per un certo tempo, la spiaggia di questa gran terra, senza poter elevarsi tanto quanto avrebbe voluto. Lo scacco di questo secondo tentativo era più assoluto di quello della campagna del 1607. Perciò, la Compagnia

inglese che aveva fatto le spese dei due viaggi rifiutò di ricominciare. È senza dubbio tale motivo che indusse Hudson a prender servizio in Olanda. La Compagnia d'Amsterdam gli diede, nel 1609, il comando d'una nave, colla quale egli partì dal Tesel al principio dell'anno. Dopo aver doppiato il capo Nord, egli si

avanzò lungo le coste della Nuova Zembla; ma il suo equipaggio, composto d'Inglesi e d'Olandesi, che avevano fatte le campagne delle Indie orientali, fu in breve sfinito dal freddo e dai ghiacci. Hudson si vide costretto a mutar via ed a proporre ai marinai in piena rivolta di cercare il passaggio, sia per lo stretto di Davis, sia per le coste della Virginia, dove doveva trovarsi un'uscita, secondo le informazioni del capitano Smith, che aveva frequentato quelle coste. La scelta di questo equipaggio, poco sottoposto alla disciplina, non poteva essere dubbiosa. Hudson, per non compromettere interamente le spese della Compagnia d'Amsterdam, dovette recarsi alle isole Feroe, scendere verso il sud fino al 44° parallelo, e cercare, sulle coste d'America, lo stretto di cui gli veniva assicurata l'esistenza. Il 18 luglio, sbarcò sul continente per sostituire il suo albero di trinchetto spezzato durante un uragano; egli ne approfittò per barattare delle pelliccio cogli indigeni. Ma i suoi marinai indisciplinati, avendo sollevato colle loro esazioni i poveri selvaggi così pacifici, lo costrinsero a spiegar le vele. Egli continuò a seguire la costa fino al 3 agosto, e prese terra una seconda volta. A 40° 30', egli scoprì una gran baia che risalì per più di cinquanta leghe in barca. Frattanto, le provviste cominciavano a venir meno, e non era possibile procurarsene a terra. L'equipaggio, che in tutta questa campagna sembra aver imposta la propria volontà al suo capitano, si radunò; gli uni proposero di svernare a Terra Nuova per riprendere, l'anno successivo, la ricerca del passaggio, gli altri volevano andare in Irlanda. Si stette a quest'ultimo partito; ma giunti vicini alle coste della Gran Bretagna, la terra esercitò un'attrazione così potente sopra i suoi uomini, che Hudson fu obbligato a fermarsi, il 7 novembre, a Darmouth. L'anno successivo, 1610, non ostante tutte le noie sopportate, Hudson, cercò di rinnovare le trattative colla Compagnia olandese. Ma il prezzo ch'essa mise al suo

concorso lo fece rinunziare al suo disegno e lo indusse ad accettare le esigenze della Compagnia inglese. Questa imponeva ad Hudson il patto d'imbarcare, meglio in qualità d'assistente che come secondo, un abile marinaio chiamato Coleburne, nel quale essa aveva piena fiducia. Si comprende quanto una tale esigenza fosse offensiva per Hudson. Perciò, quest'ultimo approfittò della prima occasione per sbarazzarsi del sorvegliante che gli era stato imposto. Egli non era ancora uscito dal Tamigi, che mandò a terra Coleburne, con una lettera per la Compagnia, nella quale si sforzava di giustificare questo suo modo d'agire per lo meno strano. Nei primi giorni di maggio, quando la nave si fu fermata in uno dei porti dell'Islanda, l'equipaggio fece, in proposito di Coleburne, un primo complotto che fu represso senza stento, e quando lasciò quest'isola, il 1° giugno, Hudson aveva ristabilita la sua autorità. Dopo aver passato lo stretto di Frobisher, Hudson riconobbe la terra di Desolazione di Davis, entrò nello stretto che ha ricevuto il suo nome, e non tardò a cacciarsi in una larga baia, di cui visitò tutta la costa occidentale fino al principio di settembre. A questo tempo, uno dei bassi ufficiali, non cessando d'eccitare alla rivolta contro il suo capo, fu degradato, ma questo atto di giustizia non fece che eccitare i marinai. Nei primi giorni di novembre, Hudson, giunto in fondo alla baia, cercò un luogo adatto allo svernamento, ed avendolo in breve trovato, fece metter la nave a secco. Una risoluzione simile si capisce difficilmente. Da una parte, Hudson non aveva lasciato l'Inghilterra che con viveri per sei mesi, viveri già in gran parte consumati, e non bisognava pensare, vista la sterilità del paese, a procurarvisi un supplemento di cibo; d'altra parte, l'equipaggio aveva dato tanti indizi d'ammutinamento ch'egli non poteva guari contare sulla sua disciplina e sulla sua buona volontà. Tuttavia, benché gli Inglesi abbiano spesso dovuto accontentarsi d'una magra

razione, non passarono un inverno troppo penoso, in grazia dei numerosi passaggi d'uccelli. Ma appena fu tornata la primavera e la nave fu pronta a riprendere la via d'Inghilterra, Hudson comprese che la sua sorte era decisa. Egli prese dunque le sue disposizioni, distribuì a ciascuno la sua parte di biscotto, pagò il soldo ed attese gli avvenimenti, che non tardarono molto. I congiurati s'impadronirono del capitano, di suo figlio, d'un volontario, del carpentiere e di cinque marinai, li imbarcarono in una scialuppa, senz'armi, senza provviste, senza istrumenti, e li abbandonarono alla mercè dell'Oceano. I colpevoli tornarono in Inghilterra, non tutti per altro, giacché due furono uccisi in uno scontro cogli Indiani, un terzo morì di malattia e gli altri furono gravemente provati dalla fame. Del resto, nessun processo fu fatto contro di essi. Solamente, nel 1674, la Compagnia procurò un impiego, a bordo d'una nave, al figlio d'Enrico Hudson, «scomparso nella scoperta del nord-ovest,» che era in una miseria assoluta. Le spedizioni d'Hudson furono seguite da quelle di Button e di Gibbons, a cui si devono, in mancanza di nuove scoperte, serie osservazioni sulle maree, sulle variazioni del tempo e della temperatura e su molti fenomeni naturali. Nel 1615, la Compagnia inglese affidò a Byleth, che aveva preso parte agli ultimi viaggi, il comando d'una nave di 50 tonnellate. Il suo nome, la Scoperta, era di buon augurio. Egli conduceva seco, come pilota, il famoso Guglielmo Baffin, la cui rinomanza ha ecclissata quella del suo capitano. Partiti dall'Inghilterra il 13 aprile, gli esploratori inglesi riconobbero il capo Farewell fin dal 6 maggio, passarono dall'isola Desolazione alle isole dei Selvaggi, dove incontrarono un gran numero di naturali, e risalirono nel nord-ovest fino a 64°. Il 10 luglio, la terra era a tribordo e la marea veniva dal nord; essi ne presero una tale speranza per l'esistenza del passaggio cercato, che diedero al capo scoperto in quel luogo il nome di Conforto.

Era probabilmente il capo Walsingham, giacché essi notarono, dopo averlo doppiato, che la terra volgeva al nord-est ed all'est. È all'ingresso dello stretto di Davis che si arrestarono le loro scoperte per quell'anno. Erano di ritorno a Plymouth il 9 settembre, senza aver perduto un sol uomo. Le speranze concepite da Byleth e da Baffin erano così grandi, che essi ottennero di ripigliar il mare sulla medesima nave l'anno successivo. Il 14 maggio 1616, dopo una navigazione che non ebbe nulla di notevole, i due capitani penetrarono nello stretto di Davis, riconobbero il capo Speranza di Sanderson, punto estremo toccato un tempo da Davis, e risalirono fino a 72° 40', all'isola delle Donne, così chiamata perchè v'incontrarono alcune Eschimesi. Il 12 giugno, Byleth e Baffin furono costretti dai ghiacci ad entrare in una baia della costa. Alcuni Eschimesi portarono loro molti corni, senza dubbio zanne di trichechi, o corna di buoi muscati, il che fece chiamare quello stretto Horn sound (stretto delle corna). Dopo una stazione di alcuni giorni in questo luogo, fu possibile ripigliar il mare. Ad incominciare da 75° 40', s'incontrò un'immensa estensione d'acqua libera di ghiacci, e si penetrò, senza grandi pericoli, fin oltre il 78° di latitudine, all'ingresso dello stretto che prolungava al nord l'immensa baia percorsa, e che ricevette il nome di Baffin. Facendo allora rotta all'ovest, poi al sud-ovest, Byleth e Baffin scoprirono le isole Carey, lo stretto di Jones, l'isola Cobourg, e lo stretto di Lancastro. In fine, scesero tutta la riva occidentale della baia di Baffin fino alla terra di Cumberland. Disperando allora di poter spingere più lungi le sue scoperte, Byleth, che contava nel suo equipaggio un gran numero di scorbutici, si vide costretto a tornare alle coste d'Inghilterra, in cui sbarcò a Douvres il 30 agosto. Se questa spedizione terminava ancora con uno scacco, per ciò che non si era trovato il passaggio del nord-ovest, i risultati

ottenuti erano tuttavia considerevoli. Byleth e Baffin avevano prodigiosamente allargati i confini dei mari conosciuti nei paraggi del Groenland. Il capitano ed il pilota, come scrissero al direttore della Compagnia, assicuravano che la baia da essi visitata era un eccellente luogo di pesca, dove si trastullavano migliaia di balene, di foche e di walrus. Gli avvenimenti non dovevano tardare a dar loro ampiamente ragione. Ridiscendiamo ora sulla costa d'America, fino al Canada, e vediamo gli avvenimenti che vi erano accaduti dopo Giacomo Cartier. Quest'ultimo, convien ricordarlo, aveva fatto un esperimento di colonizzazione, che non aveva prodotto grandi risultati. Tuttavia, alcuni Francesi erano rimasti nel paese, vi si erano ammogliati ed avevano fatto razza di coloni. Ogni tanto, essi ricevevano qualche rinforzo condotto da navi da pesca di Dieppe o di Saint-Malò. Ma la corrente dell'emigrazione stentava a stabilirsi. È in queste circostanze che un gentiluomo chiamato Champlain, veterano delle guerre d'Enrico IV, e che, per due anni e mezzo, aveva corse le Indie orientali, fu impegnato dal commendatore di Chastes insieme col sire di Pontgravé, per continuare le scoperte di Giacomo Cartier e scegliere i luoghi più favorevoli allo stabilimento di città e di centri di popolazione. Non è qui il luogo di occuparci del modo in cui Champlain intese la sua parte di colonizzatore, né de' suoi grandi servigi, che avrebbero potuto farlo soprannominare il padre del Canada. Noi lasceremo dunque, di proposito, tutta questa parte della sua impresa, e non la meno splendida, per occuparci solo delle sue scoperte nell'interno del continente. Partiti da Honfleur il 15 marzo 1603, i due capi dell'intrapresa risalirono dapprima il San Laurent fino al seno di Tadoussac, ad ottanta leghe dalla sua foce. Essi ricevettero una buona accoglienza da quelle popolazioni, che pure non avevano «né fede, né legge, che vivevano senza Dio e senza religione, come bruti.» Lasciando in questo luogo le navi, che

non avrebbero potuto avanzarsi più oltre senza pericolo, andarono in barca fino al San Luigi, dove si era arrestato Giacomo Cartier, si addentrarono anzi un po' nell'interno e tornarono in Francia, dove Champlain fece stampare per il re una relazione di questo viaggio. Enrico IV risolvette di continuare l'impresa. Frattanto, il signor de Chastes essendo morto, il suo privilegio fu trasmesso al signor de Monts, col titolo di vice-ammiraglio e di governatore dell'Acadia. Champlain accompagnò il signor de Monts al Canada e vi passò tre anni interi, sia aiutandolo coi suoi consigli e colle sue cure nei tentativi di colonizzazione, sia esplorando le coste dell'Acadia, ch'egli rilevò fino al di là del capo Cod, sia facendo delle corse nell'interno e visitando le tribù selvaggie che importava conciliarsi. Nel 1607, dopo un altro viaggio in Francia per reclutare dei coloni, Champlain ritornò di nuovo nella Nuova Francia e fondò, nel 1608, una città che doveva essere Quebec. L'anno successivo fu consacrato a risalire il San Laurent ed a farne l'idrografia. Montato sopra una piroga, con due soli compagni, Champlain penetrò, con alcuni Algonchini, presso gli Irocchesi, e rimase vincitore in una gran battaglia data sulle sponde d'un lago che ha ricevuto il suo nome; poi ridiscese il fiume Richelieu fino al San Laurent. Nel 1610, egli fa una nuova incursione presso gli Irocchesi a capo dei suoi alleati gli Algonchini, ai quali stenta molto a far osservare la disciplina europea. Durante questa campagna, egli adoperò delle macchine da guerra che sorpresero grandemente i selvaggi e gli assicurarono facilmente la vittoria. Nell'assalto d'un villaggio, egli fece costrurre un cavaliere di legno che dugento uomini dei più vigorosi «portarono innanzi a quel villaggio alla lunghezza d'una picca, vi fece salire tre archibugieri ben al coperto dalle freccie e dalle pietre che potessero venir loro tirate o lanciate.» Un po' più tardi, noi lo vediamo esplorare il fiume Ottawa ed avanzarsi,

nel nord del continente, fino a settanta leghe dalla baia d'Hudson. Dopo aver fortificato Montreal, nel 1615, egli risalì due volte l'Ottawa, esplorò il lago Huron e giunse per terra fino al lago Ontario, ch'egli attraversa. È difficilissimo il fare due parti della vita così operosa di Champlain. Tutte le sue corse, tutte le sue ricognizioni non avevano per intento che lo sviluppo dell'opera a cui aveva consacrata l'esistenza. Così staccate da ciò che ne forma l'interesse, esse ci sembrano senza importanza, e pure, se la politica coloniale di Luigi XIV e del suo successore fosse stata diversa, noi possederemmo in America una colonia che non la cederebbe certamente in prosperità agli Stati Uniti. Non ostante il nostro abbandono, il Canada ha conservato un fervido amore per la madre patria. Bisogna ora saltare una quarantina d'anni per giungere a Roberto Cavelier de La Sale. Durante questo tempo, gli stabilimenti francesi hanno presa una certa importanza al Canada, e si sono estesi sopra una gran parte del nord dell'America. I nostri cacciatori percorrono i boschi e portano ogni anno, col loro carico di pelliccie, nuove informazioni sull'interno del continente. Sono potentemente secondati in quest'ultima impresa dai missionari, a capo dei quali dobbiamo mettere il padre Marquette, che per l'estensione delle sue corse sui grandi laghi e fino al Mississipi, si addita specialmente alla nostra gratitudine. Due uomini meritano pure d'essere citati per gli incoraggiamenti che essi diedero agli esploratori, essi sono il signor di Frontenac, il governatore della Nuova Francia, e l'intendente di giustizia e di polizia Talon. Nel 1678, giunse al Canada, senza uno scopo ben determinato, un giovanotto chiamato Cavelier de La Sale. «Egli era nato a Rouen, dice il padre Charlevoix, d'una famiglia agiata; ma avendo passato alcuni anni presso i gesuiti, non aveva avuto parte nell'eredità de' genitori. Egli aveva lo spirito colto, voleva segnalarsi e si

sentiva genio e coraggio abbastanza per riuscirvi. Infatti, egli non mancò né di risoluzione per intraprendere, né di costanza per seguire un negozio, né di fermezza per far fronte agli ostacoli, né di espedienti per riparare le sue perdite; ma non seppe farsi amare, né guadagnarsi quelli di cui aveva bisogno, ed appena ebbe dell'autorità, la esercitò con durezza e con alterigia. Con simili difetti, non poteva essere felice, e non lo fu. Questo ritratto del padre Charlevoix ci sembra un po' nero, e non ci pare ch'egli apprezzi al suo giusto valore la gran scoperta che dobbiamo a Cavelier de La Sale, scoperta che non ha la sua simile, non diremo la sua eguale, se non in quella del fiume delle Amazzoni fatta da Orellana, nel secolo XVI, ed in quella del Congo fatta da Stanley nel secolo XIX. Il fatto è che appena giunto nel paese, egli si mise, con un'applicazione straordinaria, a studiare gli idiomi indigeni, a frequentare i selvaggi per mettersi al fatto dei loro costumi e delle loro abitudini. Nello stesso tempo, raccoglieva, presso i cacciatori, una folla di notizie circa la disposizione dei fiumi e dei laghi. Egli fece parte de' suoi disegni d'esplorazione al signor di Frontenac, che lo incoraggiò e gli diede il comando d'un forte costrutto alla foce del lago del San Laurent. Frattanto, giunse a Quebec un certo Jolyet. Egli portava la notizia che col padre Marquette e quattro altre persone, era giunto ad un gran fiume chiamato Mississipi, che scorreva verso il sud. Cavelier de La Sale comprese subito tutto il partito che si potrebbe ricavare da un'arteria di questa importanza, segnatamente se il Mississipì avesse, com'egli credeva, la sua foce nel golfo del Messico. Per i laghi e l'Illinois, affluente del Mississipi, era facile mettere in comunicazione il San Laurent col mare delle Antille. Qual meraviglioso profitto doveva ricavare la Francia da questa scoperta! La Sale spiegò il disegno da lui concepito al conte di Frontenac ed ottenne delle lettere di raccomandazione per il

ministro della marina. Giungendo in Francia, La Sale apprese la morte di Colbert; ma egli rimise a suo figlio, il marchese di Seignelay che gli era succeduto, i dispacci che portava. Questo disegno, che sembrava posare sopra basi serie, doveva piacere

ad un giovane ministro. Perciò Seignelay presentò La Sale al re, che gli fece dare delle lettere di nobiltà, gli accordò la signoria di Catarocuy ed il governo del forte da lui costrutto, col monopolio del commercio nelle regioni che potesse scoprire. La Sale aveva pure trovato modo di farsi favorire dal

principe di Conti, che gli chiese di condur seco il cavalier Tonti, figlio dell'inventore della Tontina, al quale egli s'interessava. Era per La Sale un prezioso acquisto. Tonti, che aveva fatto campagna in Sicilia dove una scheggia di granata

gli aveva portata via una mano, era un coraggioso ed abile ufficiale, che si mostrò sempre fedelissimo. La Sale e Tonti s'imbarcarono alla Rochelle, il 14 luglio 1678, conducendo seco una trentina d'uomini, operai e soldati,

ed un francescano riformato, il padre Hennepin, che li accompagnò in tutti i loro viaggi. Poi, comprendendo che l'esecuzione del suo disegno richiedeva dei mezzi più grandi di quelli di cui disponeva, La Sale fece costrurre una barca sul lago Erié, e consacrò tutto un anno a scorrere il paese, visitando gli Indiani, facendo un vivo commercio di pelliccie, ch'egli raccolse nel suo forte del Niagara, mentre Tonti si comportava nella stessa guisa in altri punti. Infine, verso la metà d'agosto dell'anno 1679, la sua barca, il Grifone, essendo in istato di far vela, egli s'imbarcò sul lago Erié con una trentina d'uomini e tre padri francescani riformati per Machillimakinac. Ebbe a soffrire, nella traversata dei laghi Saint-Clair e Huron, un aspro uragano che cagionò la diserzione d'una parte de' suoi uomini, che il cavalier Tonti gli ricondusse. La Sale, giunto a Machillimakinac, entrò poco dopo nella baia Verde. Ma frattanto i suoi creditori a Quebec facevano vendere tutto quanto era da lui posseduto, ed il Grifone, ch'egli aveva mandato carico di pelliccie al forte di Niagara, si perdeva, oppure veniva saccheggiato dagli Indiani, poiché non lo si seppe mai bene. Quanto a lui, sebbene la partenza del Grifone avesse scontentato i compagni, prosegui la sua via e giunse al fiume San Giuseppe, dove si trovava un accampamento di Miamis e dove Tonti non tardò a raggiungerlo. Loro prima cura fu di costrurre un forte in quel luogo. Traversarono poi la linea di separazione delle acque fra il bacino dei grandi laghi e quello del Mississipi; poi giunsero al fiume Illinois, affluente di mancina di questo gran fiume. Col suo piccolo drappello, sul quale non poteva neppure far molto assegnamento, la situazione di La Sale era critica, in mezzo ad un paese sconosciuto, presso una nazione potente, gli Illinois, che, dapprima alleati della Francia, erano stati prevenuti ed eccitati contro di noi dagli Irocchesi e dagli Inglesi, gelosi dei progressi della colonia canadese.

Pure bisognava, ad ogni costo, guadagnarsi quegli Indiani che, per la loro situazione, potevano impedire qualsiasi comunicazione tra La Sale ed il Canada. Per colpire la loro immaginazione, Cavelier de La Sale si reca al loro accampamento dove più di tremila uomini sono radunati. Egli non ha che venti uomini, ma attraversa fieramente il loro villaggio e si arresta a qualche distanza. Gli Illinois, che non hanno ancora dichiarata la guerra, rimangono stupefatti. Essi si avanzano verso di lui facendo mille dimostrazioni pacifiche. Tanto è versatile lo spirito dei selvaggi! tanto fa impressione sopra di essi qualsiasi indizio di coraggio! Senza tardare, La Sale approfittò delle loro disposizioni amichevoli, e costrusse, sull'area stessa del loro campo, un piccolo forte ch'egli chiamò Crèvecœur, per allusione ai rammarichi provati. Vi lasciò Tonti con tutti i suoi uomini, e quanto a lui, inquieto della sorte del Grifone, tornò, con tre Francesi ed un Indiano, al forte di Catarocuy, che cinquecento leghe separavano da Crèvecœur. Prima di partire, egli aveva mandato col padre Hennequin, uno dei suoi compagni, chiamato Dacan, colla missione di risalire il Mississipi di là dal fiume degli Illinois, e se fosse possibile, fino alla sua sorgente. «Questi due viaggiatori, dice il padre Charlevoix, partirono dal forte di Crèvecœur il 28 febbraio, e, essendo entrati nel Mississìpi, risalirono fino verso il 46° di latitudine nord. Colà furono arrestati da una cascata d'acqua abbastanza alta che occupa tutta la larghezza del fiume, ed alla quale il padre Hennequin diede il nome di Sant'Antonio da Padova. Essi caddero allora, non so per quale incidente, fra le mani dei Sioux, che li trattennero prigionieri abbastanza lungamente.» Nel suo viaggio di ritorno a Catarocuy, La Sale avendo scoperta una nuova area acconcia alla costruzione d'un forte, vi chiamò Tonti, che si pose subito all'opera, mentre egli continuava la sua via. È il forte San Luigi. Al suo arrivo a

Catarocuy La Sale apprese delle notizie che avrebbero abbattuto un uomo di tempra meno salda. Non solo il Grifone, sul quale aveva per 10,000 scudi di pelliccie, era perduto, ma una nave, che gli portava da Francia un carico stimato 22,000 franchi, aveva fatto naufragio, ed i suoi nemici avevano sparsa la diceria della sua morte. Non avendo più nulla a fare a Catarocuy, avendo provato colla sua presenza che tutte le dicerie sparse sulla sua scomparsa erano false, egli tornò al forte Crèvecœur, dove fu stupito di non trovar nessuno. Ecco ciò che era accaduto. Mentre il cavalier Tonti era occupato alla costruzione del forte San Luigi, la guarnigione del forte Crèvecœur s'era sollevata, aveva saccheggiati i magazzini, aveva fatto altrettanto al forte Miani ed era fuggita fino a Machillimackinac. Tonti, rimasto quasi solo in faccia agli Illinois sollevati contro di lui dalle depredazioni de' suoi uomini, e giudicando di non poter resistere nel suo forte di Crèvecœur, ne era uscito, l'11 settembre 1650, coi cinque Francesi che componevano la sua guarnigione, e si era ritirato fino alla baia del lago Michigan. Dopo aver messo una guarnigione a Crèvecœur ed al forte San Luigi, La Sale venne a Machillimackinac, dove ritrovò Tonti. Ne ripartirono insieme verso la fine d'agosto per Catarocuy, dove s'imbarcarono sul lago Erie con cinquantaquattro persone, il 25 agosto 1681. Dopo una corsa di ottanta leghe lungo il fiume ghiacciato degli Illinois, giunsero al forte di Crèvecœur, dove le acque libere permisero loro di servirsi delle barche. Il 6 febbraio 1682, La Sale giunse al confluente dell'Illinois e del Mississipi. Egli scese il fiume, riconobbe la foce del Missuri, quella dell'Ohio, dove eresse un forte, penetrò nel paese degli Arkansas, di cui prese possesso in nome della Francia, traversò il paese dei Natchesi, coi quali fece un trattato d'amicizia, sboccò infine, il 9 aprile, dopo una navigazione di trecentocinquanta leghe sopra una semplice barca, nel golfo del Messico. Le previsioni

così abilmente concepite da Cavelier de La Sale si orano avverate. Egli prese subito possesso solennemente della regione alla quale diede il nome di Luigiana, e chiamò San Luigi il fiume immenso che aveva scoperto. Non ci volle meno d'un anno e mezzo a La Sale per tornare al Canada. Non vi ha luogo a meravigliarsene, quando si pensa a tutti gli ostacoli seminati sulla sua via. Quale energia, qual forza d'animo abbisognarono ad uno dei più grandi viaggiatori di cui la Francia possa andar superba, per condurre a buon fine una simile intrapresa! Disgraziatamente, un uomo, di buone intenzioni, ma che si lasciò prevenire contro La Sale dai suoi numerosi nemici, il signor Lefèvre de La Barre, che era successo al signor di Frontenac, in qualità di governatore del Canada, scrisse al ministro della marina che non si dovevano considerare le scoperte di La Sale come molto importanti. «Questo viaggiatore, egli diceva, è presentemente con una ventina di vagabondi francesi e selvaggi, in fondo alla baia, dove faceva da sovrano, depredava quelli della sua nazione, esponeva i popoli alle incursioni degli Irocchesi, e copriva tutte queste violenze col pretesto del permesso, che aveva da Sua Maestà, di fare solo il commercio nei paesi che potesse scoprire.» Cavelier de La Sale non poteva rimanere sotto queste imputazioni calunniose. Da una parte, l'onore gli comandava di ritornare in Francia per discolparsi, dall'altra, egli non intendeva lasciare ad altri il profitto delle proprie scoperte. Egli parti dunque e ricevette da Seignelay benevola accoglienza. Il ministro non era stato commosso dalle lettere del signor de La Barre; egli aveva compreso che non si possono compiere grandi cose senza ferire l'amor proprio di molti, senza farsi molti nemici. La Sale ne approfittò per esporgli il suo disegno di riconoscere per mare la foce del Mississipi, per aprirne la via alle navi francesi e fondarvi uno stabilimento. Il ministro entrò

in queste vedute e gli diede una commissione che metteva sotto i suoi ordini Francesi e selvaggi dal forte San Luigi degli Illinois fino al mare. Nel medesimo tempo il comandante della squadra che lo trasporterebbe in America sarebbe sotto la sua dipendenza e gli fornirebbe, al suo sbarco, tutti i soccorsi ch'egli volesse, purché non fosse a danno del re di Francia. Quattro navi, fra cui una fregata di quaranta cannoni comandata dal signor di Beaujeu, dovevano portare 280 persone, compresi gli equipaggi, alla foce del Mississipi e formare il nucleo della nuova colonia. Soldati ed artigiani erano stati scelti assai male, lo si capì troppo tardi, e nemmeno uno d'essi sapeva il proprio mestiere. Partita dalla Rochelle il 24 luglio 1684, la piccola squadra fu quasi subito costretta a rientrare in porto, l'albero di bompresso della fregata essendosi spezzato di repente, mentre faceva un tempo bellissimo. Questo accidente inesplicabile fu il punto di partenza del disaccordo fra il signor di Beaujeu ed il signor di La Sale. Il primo non poteva vedersi con piacere subordinato ad un semplice privato e non lo perdonava a Cavelier. Il secondo non aveva la dolcezza di maniere e l'urbanità necessaria per conciliarsi il suo compagno. La ruggine non fece che crescere durante il viaggio, in ragione degli ostacoli che metteva il signor di Beaujeu alla rapidità ed al segreto della spedizione. I dispiaceri di La Sale erano anzi diventati così gravi quando si giunse a San Domingo, ch'egli cadde gravemente malato. Egli guarì per altro, e la spedizione spiegò di nuovo le vele il 25 novembre. Un mese dopo essa era all'altezza della Florida; ma siccome «si aveva assicurato a La Sale che nel golfo del Messico tutte le correnti portavano all'est, egli non dubitò che la foce del Mississipì non gli rimanesse di molto all'ovest; errore che fu la sorgente di tutte le sue disgrazie.» La Sale fece dunque piegare all'ovest e passò senza avvedersene, senza neppure voler far attenzione a certi indizi

che lo si pregava di notare, la foce del Mississipì. Quando si avvide del suo errore e pregò il signor di Beaujeu di tornare indietro, costui non volle più acconsentirvi. La Sale, vedendo che non poteva guadagnar nulla sullo spirito contrariante del suo compagno, s'indusse a sbarcare gli uomini e le provviste nella baia San Bernardo. Ma, fino in quest'ultimo atto, Beaujeu mise una mala volontà colpevole e che fa tanto poco onore al suo criterio quanto al suo patriotismo. Non solo egli non volle sbarcare tutte le provviste, sotto pretesto che alcune essendo in fondo alla stiva egli non aveva il tempo di mutare tutto il suo stivaggio, ma diede anzi asilo a bordo della sua nave al patrono ed all'equipaggio della fiuta carica delle munizioni, degli utensili e degli strumenti necessari ad un nuovo stabilimento, gente che tutto sembra convincere d'aver gettato, di proposito, la loro nave sulla costa. Nel medesimo tempo molti selvaggi approfittarono del disordine cagionato dal naufragio della fiuta per rubare tutto quanto cadde loro fra le mani. Frattanto, La Sale, che aveva il talento di non mostrarsi mai abbattuto dalla mala fortuna e che trovava nel proprio genio espedienti adatti alle circostanze, fece cominciare i lavori di stabilimento. Per dar coraggio a' compagni, egli mise più d'una volta mano all'opera; ma i lavori non progredirono che lentamente a causa dell'ignoranza degli operai. Colpito dalla rassomiglianza del linguaggio e delle abitudini degli Indiani di quei paraggi con quelli del Mississipì, La Sale si persuase di non essere lontano da questo fiume e fece molte escursioni per ravvicinarvisi. Ma s'egli trovava un paese bello e fertile, non era perciò più innanzi in ciò che cercava. Ogni volta egli tornava al forte più tetro e più aspro, e non era questo il modo di rimettere la calma in quegli spiriti inaspriti dalle sofferenze e dall'inanità dei loro sforzi. Erano stati seminati dei grani, ma quasi nulla era spuntato per mancanza di pioggie. Ciò che era spuntato non aveva tardato ad essere saccheggiato dai selvaggi e dalle belve.

I cacciatori che si allontanavano dal campo venivano trucidati dagli Indiani, e le malattie trovavano una preda facile in quegli uomini sfiniti dalla noia, dagli affanni e dalla miseria. In poco tempo il numero dei coloni scese a trentasette. In fine, La Sale risolvette di tentare un ultimo sforzo per raggiungere il Mississipi e, scendendo questo fiume, trovar soccorso presso le nazioni colle quali aveva fatto alleanza. Egli partì, il 12 gennaio 1687, con suo fratello, i suoi due nipoti, due missionari e dodici coloni. Si avvicinava al paese dei Cenis, quando in seguito ad un alterco tra uno de' suoi nipoti e tre de' suoi compagni, costoro assassinarono il giovanotto ed il suo domestico durante il sonno e risolvettero subito di fare altrettanto col capo dell'impresa. De La Sale, inquieto di non veder tornare suo nipote, parti per cercarlo, la mattina del 19, col padre Anastasio. Gli assassini, vedendolo avvicinarsi, si appostarono in una macchia, ed uno d'essi gli sparò nella testa una schioppettata che l'ammazzò di colpo. Così perì Roberto Cavelier de La Sale, «uomo d'una capacità, secondo il padre Charlevoix, di un'estensione di spirito, d'un coraggio e d'una fermezza d'animo, che avrebbero potuto condurlo a qualche cosa di grande se, con tante buone qualità, egli avesse saputo rendersi padrone del suo umore cupo ed atrabiliare, raddolcire la sua severità o meglio la durezza dell'indole sua…» Si erano sparse contro di lui molte calunnie, ma bisogna star tanto più sull'avvisato contro tutte queste dicerie, «in quanto che non è se non troppo frequente l'esagerare i difetti dei disgraziati, l'imputarne loro perfino di quelli che non avevano, segnatamente quando essi hanno dato origine al proprio infortunio e non hanno saputo farsi amare. Ciò che vi ha di più triste per la memoria di quest'uomo celebre, si è ch'egli è stato pianto da pochi, e che la mala riuscita delle sue imprese — dell'ultima soltanto — gli ha data un'aria d'avventuriero presso coloro che giudicano secondo le apparenze. Disgraziatamente

essi sono di solito in maggior numero, e formano in certo modo la voce del pubblico.» Abbiamo poco da aggiungere a queste ultime parole così savie. La Sale non seppe mai farsi perdonare il suo primo successo. Abbiamo detto in causa di qual concorso di circostanze la sua seconda intrapresa sia fallita. Egli morì vittima, si può dire, della gelosia e del mal volere del cavaliere di Beaujeu. È a questa piccola causa che dobbiamo il non aver fondato in America una colonia potente, che si sarebbe in breve trovata in istato di lottare cogli stabilimenti inglesi. Abbiamo raccontato gli incominciamenti delle colonie inglesi. Gli avvenimenti che accaddero in Inghilterra furono loro favorevolissimi. Le persecuzioni religiose, le rivoluzioni del 1648 e del 1688, fornirono gran numero di reclute che, animate d'uno spirito eccellente, si misero al lavoro e trasportarono di là dall'Atlantico le arti, l'industria ed in poco tempo la prosperità della madre patria. In breve le immense foreste che coprivano il suolo della Virginia, della Pensilvania e della Carolina, caddero sotto l'accetta dello «squatter» e furono dissodate, mentre gli scorridori dei boschi, respingendo gli Indiani, facevano conoscer meglio l'interno del paese e preparavano l'opera della civiltà. Al Messico, in tutta l'America centrale, al Perù, al Chili e sulle coste dell'Atlantico, le cose andavano altrimenti. Gli Spagnuoli avevano esteso le loro conquiste; ma anziché lavorare come gli Inglesi, essi avevano ridotti gli Indiani alla schiavitù. Invece di darsi alle colture proprie alla varietà dei climi e delle regioni di cui si erano impadroniti, essi non cercavano che nel prodotto delle miniere la prosperità che avrebbero dovuto domandare alla terra. Se un paese può giungere così rapidamente ad una ricchezza prodigiosa, questo regime tutto fittizio dura poco tempo. Colle miniere non tarda a consumarsi una prosperità che non si rinnova più; gli

Spagnuoli dovevano farne il triste esperimento. Così dunque, alla fine del secolo XVII, una gran parte del Nuovo Mondo era conosciuta. Nell'America del Nord, il Canada, le spiaggie dell'oceano Atlantico e del golfo del Messico, la valle del Mississipi, le coste della California e del

Nuovo Messico orano riconosciute o colonizzate. Tutto il mezzo del continente, a partire dal Rio del Norte fino alla Terra Ferma, era sottoposto, almeno di nome, agli Spagnuoli. Nel Sud, le savane e le foreste del Brasile, le pampas dell'Argentina e l'interno della Patagonia si sottraevano ancora agli sguardi

degli esploratori, e doveva essere lungamente così. In Africa, la lunga linea di coste che si svolge sull'Atlantico e sul mar delle Indie era stata pazientemente seguita e rilevata dai naviganti. Soltanto in alcuni punti, dei coloni o dei missionari avevano tentato di penetrare il mistero di quest'ampio continente. Il Senegal, il Congo, la valle del Nilo e l'Abissinia, ecco tutto quanto si conosceva allora un po' particolareggiatamente e con un po' di certezza. Del pari alcune regioni dell'Asia, percorse dai viaggiatori del medio evo, non erano più state rivedute da quel tempo, ma noi avevamo esplorato con gran cura tutta la parte anteriore di questo continente, l'India ci era rivelata, anzi noi vi fondavamo alcuni stabilimenti, i nostri missionari penetravano in China, ed il Giappone, questo famoso Cipango, che aveva avuto un'attrattiva così potente sui viaggiatori del secolo precedente, ci era finalmente noto. Soltanto la Siberia e tutto l'angolo nordest dell'Asia erano sfuggiti alle nostre investigazioni, e s'ignorava ancora se l'America fosse o no congiunta all'Asia; mistero che doveva essere presto rischiarato. Nell'Oceania, molti arcipelaghi, isole od isolotti solitari rimanevano ancora a scoprire, ma le isole della Sonda erano colonizzate, le coste dell'Australia e della Nuova Zelanda erano state riconosciute in parte, e s'incominciava a dubitare dell'esistenza di quel gran continente australe che si stendeva, secondo Tasman, dalla Terra di Fuoco alla Nuova Zelanda; ma ci volevano ancora le lunghe ed attente ricognizioni di Cook per relegare definitivamente nel paese delle favole una chimera così lungamente accarezzata. La geografia stava per trasformarsi. Le grandi scoperte fatte in astronomia dovevano essere applicate alla geografia. I lavori di Fernel e segnatamente di Picard sulla misura d'un grado terrestre tra Parigi ed Amiens, avevano permesso di sapere che il globo non è una sfera, ma uno sferoide, vale a dire

una palla schiacciata ai poli e rigonfia all'equatore. Era un trovare ad un tempo la forma e la dimensione del mondo che noi abitiamo. Infine i lavori di Picard, continuati da La Hire e da Cassini, furono terminati al principio del secolo successivo. Le osservazioni astronomiche, rese possibili dal calcolo dei satelliti di Giove, permettevano di correggere le nostre carte. Se questa correzione era già stata fatta in qualche luogo, essa diventava indispensabile, dacché il numero dei punti, la cui posizione astronomica era stata osservata, era di molto aumentato. Doveva essere l'opera del secolo successivo. Nel medesimo tempo la geografia storica era più studiata; essa cominciava a prendere per base lo studio delle iscrizioni, e l'archeologia stava per diventare uno degli strumenti più utili della geografia comparata. In una parola, il secolo XVII è un'epoca di transizione e di progresso; esso cerca e trova i potenti mezzi che il suo successore, il secolo XVIII, dovrà poi mettere in opera. L'èra delle scienze si è aperta, e con essa comincia il mondo moderno. FINE

SCOPERTA DELLA TERRA ____________

TAVOLA DELLE CARTE ED INCISIONI RIPRODOTTE IN FAC-SIMILE DA DOCUMENTI ORIGINALI CON INDICAZIONI DELLE FONTI. PARTE PRIMA ____________ Carta. Mondo conosciuto dagli antichi. Dintorni di Costantinopoli. — Anselmi Banduri Impero orientale. — Parisijis, 1711. 2 vol. in-fol. tomo II, pag. 448. Ritratto di Marco Polo. — Dalla prima edizione del suo viaggio. Norimberga, 1477. Carta, del mondo quale doveva imaginarlo Marco Polo. — Pag. 134, vol. I. Edizione di Marco Polo pubblicata dal colonnello Yule, a Londra, 2 vol. in-8. Pianta di Pechino nel 1290. — Pag. 332, vol. I, di Yule. Pianta di Gerusalemme. — Pag. 229, del Discorso del viaggio d'oltremare al Santo Sepolcro di Gerusalemme, di Antonio Regnaut. Lione, 1573, in-4. Ritratto di Giovanni di Béthencourt. — Pag. 1 della Scoperta e Conquista delle Canarie. Parigi, 1630, in-12. Enrico il Navigatore. — Da una miniatura riprodotta nel H. Major. The discoveries of prince Henry the Navigator, — Londra, 1877, ín-8. Cristoforo Colombo. — Tratto da Paul Jove, Vitae illustrium virorum. — Basileæ, Perna, in-fol. Vista immaginaria di Siviglia. — Secondo Th. di Bry. Grandi Viaggi, tavola I, IV parte. Cristoforo Colombo sulla sua nave. — Th. di Bry. Grandi Viaggi, Americæ pars. IV, tavola VI. Costruzione d'una nave. — Th. di Bry. Gran Viaggi, Americæ pars. IV, tavola XIX. Carte delle Aniílle e del Golfo del Messico. — Th. di Bry. Grandi Viaggi, Americæ pars. V. Pesca delle ostriche perlifere. — Th. di Bry. Grandi Viaggi, Americæ pars. IV, tavola XII.

Imbarco di Cristoforo Colombo. — Th. di Bry. Grandi Viaggi, Americæ pars. IV. tavola VIII. Miniere d'oro di Cuba. — Th. di Bry. Grandi Viaggi, Americæ pars. V, tavola I. Vasco da Gama. — Da un'incisione del Cabinet des estampes. Bibl. Naz. Carta di Mozambico. — Bibl. Naz. Estampes. Carta della costa orientale d'Africa dal Capo di Buona Speranza fino al capo del Gado. — Tratta dalla carta francese dell'Oceano orientale, pubblicata per ordine del signor conte di Maurepas nel 1740. La Mina. — Pag. 461, vol. III, della Storia generale dei Viaggi, dell'abate Prevost; 1746. — Anno 10°, 20 vol. in-4. Ricevimento dello Zamorin. — Pag. 39, vol. I, della Storia generale dei Viaggi, dell'abate Prevost; 1746. — Anno 10°, 20 vol. in-4. Veduta di Quiloa. — Da un'incisione del Cabinet des estampes. Topografia (Africa). Carta delle coste di Persia, Gusarat e Malabar. — Tratta dalla carta francese dell'Oceano orientale, pubblicata per ordine del signor conte di Maurepas nel 1740. Isola d'Ormuz. — Pag. 98, vol, 2° della Storia generale dei Viaggi, dell'abate Prevost. PARTE SECONDA Amerigo Vespucci. — Da un'incisione del Cabinet des estampes. Alla Bibl. Naz. Supplizio degli Indiani. — Pag. 17 di Las Casas. — Narratio regionum indicarum per Hispanos quosdam devastatarum… — Francoforti, sumptibus. Th. di Bry. 1698. In-4. Indiani divorati dai cani. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Americæ pars. IV, tavola XXII. Ritratto di F. Cortes. — Da un'incisione di Velasquez del Cabinet des estampes della Bibl. Naz. Piano di Messico. — Secondo Clavigero e Bernal Diaz del Castillo, 2a edizione, traduzione Jourdanet. Carta del Perù. — Secondo Garcilasso de la Vega. — Storia degli Incas. — Amsterdam, Bernard, 1738. In-4. Ritratto di Pizarro. — Da un'incisione del Cabinet des estampes della Bibl. Naz. Atahualpa fatto prigioniero. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Americæ pars. VI, tavola VII. Morte d'Atahualpa. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Americæ pars. VI, tavola XI.

Assassinio di Pizarro. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Americæ pars. VI tavola XV. Magellano sulla sua nave. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Americæ pars. IV, tavola XV. costa del Brasile. —Dalla carta detta di Enrico II. Bibl. Naz., collez. geografiche. Le isole dei Ladroni. — Th. dì Bry. Gr. Viaggi, occidentalis Indiæ, pars. VIII, pag. 50. Ritratto di Sebastiano Cabot. — Da una miniatura riprodotta in Nicholls: The remarquable life, adventures and discoveries of Sebastian Cabot. — London, 1869. In-8. Frammento della carta di Cabot. — Bibl. Naz., collezioni geografiche. Carta di Terra Nuova e della foce del San Laurent. — Pag. 224 di Lescarbot: Storia della Nuova Francia. — Parigi, Perier, 1617. In-12. Ritratto di Giacomo Cartier. — Secondo Charlevoix. — History and general description of New France… Translated… by John Gilmary Shea. — New York. Shea, 1866, 6 vol. in-4, pag. III. Il bastimento di Barentz preso nei ghiacci. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Tertia pars. Indiæ orientalis, tav. 44a. Interno della casa di Barentz. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Tertia pars. Indiæ orientalis, tav. 47a. Carta della Nuova Zembla. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Tertia pars. Indiæ orientalis, tav. 59 a. Veduta esterna della casa. — Th. di Brv. Tertia pars. Gr. Viaggi, Indiæ orientalis, tav. 48a. Combattimento degli Olandesi contro gli Spagnuoli. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, pag. 87, dell': Historiarum novi orbis, partis nonae, liber secundus. La caccia alle foche. — Th. di Bry. Gr. Viaggi, Indiæ occidentalis, pars. 8a, pag. 37. Ritratto di Raleigh. — Da un'incisione del Cabinet des estampes, Bibl. Naz. Raleigh s'impadronisce di Berreo. — Tb. di Bry. Gr. Viaggi, occidentalis Indiæ, pars. VIII, pag. 64 Ritratto di Chardin. — Vol. 1° dei: Viaggi del signor le Chevalier Chardin in Persia… — Rouen, Ferrand, 1723, 10 vol. in-12. Guerriero giapponese. — Da un'incisione giapponese riprodotta da Yule. — Vol. 2, pag. 206. Assalto d'una città indiana. — Pag. 44 dei: Viaggi del sere di Champlain. — Parigi, Collet, 1727. In-12. ____________

AVVERTENZA La storia della scoperta della terra, in grazia delle ultime scoperte, piglierà una grande estensione. Essa comprenderà, non solo tutte le esplorazioni passate, ma anche tutte le nuove esplorazioni che hanno interessato il mondo scientifico in epoche recenti. Per dare a quest'opera, necessariamente ingrandita dagli ultimi lavori dei viaggiatori moderni, tutte le guarentigie che essa comporta, io ho chiamato in mio aiuto un uomo che considero a buon diritto come uno dei geografi più competenti del nostro tempo: il signor GABRIELE MARCEL, addetto alla Biblioteca Nazionale. In grazia della sua cognizione di alcune lingue straniere a me ignote, abbiamo potuto risalire alle sorgenti medesime e non fidarci se non a documenti assolutamente originali. I nostri lettori faranno dunque alla collaborazione del signor Marcel la parte a cui essa ha diritto in quest'opera, che metterà in luce ciò che furono tutti i grandi viaggiatori, a cominciare da Annone ed Erodoto fino a Livingstone e Stanley. GIULIO VERNE.

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