Jules Verne - I Fratelli Kip

December 1, 2016 | Author: fulvix88 | Category: N/A
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Racconto...

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JULES VERNE

I FRATELLI KIP Disegni di George Roux incisi da Yroment e Guérelle Copertina di Carlo Alberto Michelini MURSIA Titolo originale dell'opera LES FRÈRES KIP (1902) Traduzione integrale dal francese di Vincenzo Brinzi

Proprietà letteraria e artistica riservata – Printed in Italy © Copyright 1983 U. Mursia editore S.p.A. 2563/AC – U. Mursia editore – Milano – Via Tadino, 29

INDICE PRESENTAZIONE ________________________________________5

I FRATELLI KIP PARTE PRIMA

_______________________________________________________________________________________________________________ 8

__________________________________________________________________________________________________________________________ 9

Capitolo I ________________________________________________9

La taverna «three magpies» ___________________________ 9 Capitolo II_______________________________________________23

Il brick «james cook»________________________________ 23 Capitolo III ______________________________________________32

Vin mod all'opera ___________________________________ 32 Capitolo IV ______________________________________________46

A wellington_______________________________________ 46 Capitolo V _______________________________________________59

Alcuni giorni di navigazione __________________________ 59 Capitolo VI ______________________________________________71

Si avvista l'isola di norfolk____________________________ 71 Capitolo VII _____________________________________________82

I due fratelli _______________________________________ 82 Capitolo VIII ____________________________________________96

Il mar dei coralli____________________________________ 96 Capitolo IX _____________________________________________108

Attraverso la luisiade _______________________________ 108 Capitolo X ______________________________________________123

Si va a nord ______________________________________ 123 Capitolo XI _____________________________________________134

Port praslin _______________________________________ 134 Capitolo XII ____________________________________________146

Tre settimane nell'arcipelago _________________________ 146 Capitolo XIII ___________________________________________159

L'assassinio ______________________________________ 159 Capitolo XIV____________________________________________169

Incidenti _________________________________________ 169

PARTE SECONDA

_______________________________________________________________________________________________________________ 183

Capitolo I ______________________________________________183

Hobart town ______________________________________ 183 Capitolo II______________________________________________193

Progetti per il futuro________________________________ 193 Capitolo III _____________________________________________204

Ultima manovra ___________________________________ 204 Capitolo IV _____________________________________________215

Dinanzi al tribunale marittimo ________________________ 215 Capitolo V ______________________________________________228

Il seguito del processo ______________________________ 228 Capitolo VI _____________________________________________240

Il verdetto ________________________________________ 240 Capitolo VII ____________________________________________251

In attesa dell'esecuzione _____________________________ 251 Capitolo VIII ___________________________________________261

Port arthur _______________________________________ 261 Capitolo IX _____________________________________________274

Insieme __________________________________________ 274 Capitolo X ______________________________________________285

I feniani _________________________________________ 285 Capitolo XI _____________________________________________297

Il biglietto________________________________________ 297 Capitolo XII ____________________________________________307

Punta saint james __________________________________ 307 Capitolo XIII ___________________________________________317

L'evasione _______________________________________ 317 Capitolo XIV____________________________________________325

Gli sviluppi del caso kip_____________________________ 325 Capitolo XV ____________________________________________336

Il fatto nuovo _____________________________________ 336 Capitolo XVI____________________________________________345

Conclusione ______________________________________ 345

PRESENTAZIONE Può il volto di un uomo ucciso, fotografato subito dopo il delitto, fornire la chiave per la soluzione del crimine stesso? A leggere Verne sembrerebbe di sì, in quanto egli fa propria la convinzione scientifica dell'epoca che la retina del morto conserva per un certo tempo — come una lastra fotografica — le ultime immagini da cui è stata colpita. Anzi, a leggere attentamente questo romanzo, non sembra da escludere che proprio tale convinzione scientifica — cui del resto sono ricorsi in seguito anche noti scrittori di romanzi polizieschi — stia all'origine della macchina narrativa di questo «viaggio straordinario». Che non è soltanto un avventurosissimo viaggio lungo le coste della Nuova Zelanda, ma è anche un viaggio misterioso dentro le zone tenebrose di un delitto, di una accusa ingiusta e infamante, fino alla soluzione finale, affidata a un colpo di scena in tutto degno di un romanzo poliziesco. Ma c'è un altro fatto molto importante da tenere presente. Nel 1897 era morto il fratello amatissimo di Verne, Paul. Lo scrittore aveva annotato tristemente: «Non avrei mai creduto di poter sopravvivere a mio fratello…». E qualche anno dopo, precisamente nel 1902, egli dava alle stampe questo romanzo, I fratelli Kip, che sotto un altro verso, di contenuti morali e di sentimento, pub definirsi il romanzo dell'amore fraterno. Ecco come lo scrittore delinea il ritratto dei due fratelli olandesi, protagonisti dell'opera: «Karl e Pieter erano uniti da una stretta amicizia che nessun disaccordo aveva mai turbato: erano ancor più legati dalla simpatia che dal sangue. Tra di essi non c'era mai stata un'ombra, mai una nuvola di gelosia o di rivalità…». Un ritratto che potrebbe benissimo definire anche i rapporti che intercorsero sempre tra Jules e Paul. Un romanzo avventuroso, dunque, drammatico, che a tratti sfiora l'impianto poliziesco, ma che è anche e soprattutto il romanzo dell'amore di due fratelli, destinato a trionfare contro prove terribili, contro le trame più sottili e i più loschi intrighi dei malvagi.

Il tema di un simile amore non è certo nuovo per Verne. Esso compare ad esempio nel romanzo La sfinge dei ghiacci e domina quella sconcertante novella che si intitola Il destino di Jean Morénas, inclusa nel volume Ieri e domani; ma mai, come in questo romanzo, esso ha trovato la sua più piena e completa celebrazione. Naturalmente — come spesso accade in Verne — non mancano gli aspetti spettacolari ed esotici, come quella sua Nuova Zelanda in preda alla febbre dell'oro, di cui l'autore ci fornisce notizie storiche e geografiche curiose, con quella sua minuziosa e pittoresca precisione. Né manca, anche in questo romanzo, il respiro del mare. Anzi, all'inizio, si è quasi tentati di pensare che il vero protagonista del libro sia il mare, o quel brick inglese, il James Cook, che dal porto di Dunedin muove verso un ignoto destino. Ma questi non sono che gli espedienti di cornice, che preparano la comparsa dei veri protagonisti, due poveri naufraghi, i fratelli Kip… Da questo istante il romanzo prende un andamento diverso. L'attenzione dello scrittore si accentra su di essi, sulle prove e le ingiustizie di cui sono vittime (l'accusa d'aver commesso un orrendo crimine, l'infame processo, la condanna al bagno penale) e appunto su quella fraterna solidarietà che non viene mai meno e che anzi si rafforza sotto i colpi della sventura.

JULES VERNE nacque a Nantes, l'8 febbraio 1828. A undici anni, tentato dallo spirito d'avventura, cercò di imbarcarsi clandestinamente sulla nave La Coralie, ma fu scoperto per tempo e ricondotto dal padre. A vent'anni si trasferì a Parigi per studiare legge, e nella capitale entrò in contatto con il miglior mondo intellettuale dell'epoca. Frequentò soprattutto la casa di Dumas padre, dal quale venne incoraggiato nei suoi primi tentativi letterari. Intraprese dapprima la carriera teatrale, scrivendo commedie e libretti d'opera; ma lo scarso successo lo costrinse nel 1856 a cercare un'occupazione più redditizia presso un agente di cambio a Parigi. Un anno dopo sposava Honorine Morel. Nel frattempo entrava in contatto con l'editore Hetzel di Parigi e, nel 1863, pubblicava il romanzo Cinque settimane in pallone. La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l'impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l'altro – in base a un contratto stipulato con l'editore Hetzel – venne via via pubblicando i romanzi che compongono l'imponente collana dei «Viaggi straordinari – I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L’isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un'ottantina di romanzi o racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica. Con il successo era giunta anche l'agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.

I FRATELLI KIP

PARTE PRIMA CAPITOLO I LA TAVERNA «THREE MAGPIES» 1 NEL 1885, quarantasei anni dopo essere stata occupata dalla Gran Bretagna (che ne aveva fatto una dipendenza della Nuova Galles del Sud) e trentadue anni dopo essere divenuta colonia staccata dalla Corona e con governo autonomo, la Nuova Zelanda era ancora divorata dalla febbre endemica dell'oro. I disordini prodotti da quella febbre non furono però così gravi come lo erano stati in talune province del continente australiano. Ne conseguirono tuttavia agitazioni spiacevoli, che influirono sull'animo della popolazione delle due isole. La provincia di Otago, la quale comprende la parte meridionale di Tawaï-Pounamou, 2 fu invasa dai cercatori d'oro. I giacimenti della Clutha attrassero molti avventurieri: è facile rendersene conto dal fatto che i giacimenti auriferi della Nuova Zelanda resero, tra il 1864 e il 1889, milleduecento milioni di franchi. Australiani e cinesi non furono i soli ad abbattersi, come rapaci, su quei ricchi territori: americani ed europei vi affluirono anch'essi. Ci si stupirà, dunque, se gli equipaggi delle navi mercantili dirette ad Auckland, Wellington, Christchurch, Napier, Invercargill e a Dunedin, non fossero in grado di resistere a quell'attrazione non 1

«Three Magpies »: «Tre gazze». (N.d.T.) Tawaï-Pounamou: nome in lingua indigena dell'isola del Sud. La grafia francese è stata mantenuta perché la traslitterazione del nome originario è stata fatta dall'esploratore francese Dumont d'Urville (o d'Orville). (N.d.T.) 2

appena raggiunto il porto?… I capitani cercavano inutilmente di trattenere i loro uomini, inutilmente le autorità marittime prestavano loro aiuto!… La diserzione infieriva e le rade erano ingombre di bastimenti che non potevano ripartire, per mancanza di marinai. Tra questi bastimenti si notava a Dunedin il brick inglese James Cook. Degli otto marinai che facevano parte dell'equipaggio, solo quattro non avevano abbandonato la nave; gli altri quattro se ne erano andati con il fermo proposito di non imbarcarsi mai più. Dodici ore dopo la loro scomparsa, essi erano certamente già lontani da Dunedin, diretti verso i giacimenti della provincia. In sosta da una quindicina di giorni, a carico ultimato e con la nave pronta a prendere il mare, il capitano non era ancora riuscito a sostituire il personale mancante. Né l'allettamento di salari più alti, né la prospettiva di un viaggio di soli pochi mesi gli avevano fruttato nuove reclute, ed ora egli temeva, per di più, che altri suoi uomini fossero tentati di raggiungere i loro compagni. In tal modo, mentre egli cercava per conto suo, il nostromo della nave, Flig Balt, cercava nelle taverne, presso gli affittacamere e nelle bettole di completare l'equipaggio. La città di Dunedin è posta sulla costa sud-orientale dell'isola meridionale, che lo stretto di Cook separa da quella settentrionale: in lingua indigena, Tawaï-Pounamou e Ika-na-Maoui. Le due isole costituiscono la Nuova Zelanda. Nel 1839, là dove ora sorge la città, Dumont d'Urville 3 aveva trovato poche capanne maore, invece di palazzi, alberghi, piazze, squares verdeggianti, vie solcate da tram, stazioni, depositi, mercati, banche, chiese, collegi, ospedali, quartieri indaffarati e sobborghi che crescono continuamente. Oggi è una città industriale e commerciale, ricca e lussuosa, dalla quale si diramano molte linee ferroviarie in ogni direzione. Conta quasi cinquantamila abitanti e pertanto è meno popolosa della città di Auckland, la capitale dell'isola settentrionale, ma è più popolosa della stessa città 3

Navigatore ed esploratore francese (1790-1842). Tra le altre imprese, contribuì al successo del viaggio scientifico di circumnavigazione destinato ad esplorare, fra il 1822 e il 1825, le coste della Nuova Guinea e della Nuova Zelanda, gli stretti di Torres e di Cook. (N.d.T.)

di Wellington, ove ha sede il governo neozelandese. Ai piedi della città, disposta ad anfiteatro sulla collina, si allarga in semicerchio il porto, nel quale hanno accesso navi di ogni tonnellaggio, da quando è stato aperto un canale che parte da Port Chalmers. Fra le taverne che abbondano in questo miserabile quartiere, la «Three Magpies», di proprietà di Adam Fry, era fra le più rumorose e frequentate. Adam Fry, corpulento, acceso in volto, non valeva più delle bevande che mesceva; valeva si e no quanto i suoi clienti abituali, tutti beoni e furfanti. Quella sera, due consumatori se ne stavano seduti in un angolo della sala, dinanzi a due bicchieri e a una pinta di gin in parte già bevuto, e che avrebbero asciugato fino all'ultima goccia prima d'andarsene. Facevano parte dell'equipaggio del James Cook ed erano per l'esattezza il nostromo Flig Balt e un marinaio di nome Vin Mod. — Hai sempre sete, dunque? — chiese Flig Balt riempiendo il bicchiere dell'invitato. — Sempre, quando non mangio, signor Balt — rispose il marinaio. — Il gin dopo l'whisky, l'whisky dopo il gin! Ma ciò non impedisce di chiacchierare, di ascoltare e di guardare! Gli occhi vedono meglio, l'udito si affina e la lingua si fa più sciolta! Possiamo essere certi che nel marinaio Vin Mod quegli organi funzionavano con meravigliosa scioltezza, nel frastuono della taverna. Sui trentacinque anni, di piccola statura, era magro, flessibile e muscoloso; aveva un viso da furetto, naso affilato, occhi vivi, nei quali sembrava splendere una luce d'alcolizzato, muso aguzzo, si potrebbe dire, denti di topo, fisionomia astuta e intelligente. Perfettamente in grado di mettere a segno un bel colpo, come il suo compagno, che lo sapeva benissimo, essi si equivalevano e potevano ben contare l'uno sull'altro. — Eppure, bisogna pur farla finita — disse Flig Balt con voce aspra, battendo il pugno sulla tavola. — Non c'è che da scegliere nel mucchio! — rispose Vin Mod. E accennò ai crocchi di gente che beveva e cantava,

bestemmiando tra i fumi dell'alcool e del tabacco che appestavano l'aria della sala: c'era da diventare brilli soltanto a respirare! Flig Balt aveva trentotto o trentanove anni; era di statura media, con spalle larghe, testa grossa e membra vigorose. Visto una volta, sarebbe stato impossibile dimenticare il suo viso: aveva una grossa verruca sulla guancia sinistra, occhi che facevano paura per la loro crudeltà, sopracciglia spesse e ricciolute, barbetta rossastra all'americana, senza baffi: in breve, aveva la fisionomia di un uomo astioso, geloso e vendicativo. Era al suo primo viaggio sul James Cook, dov'era stato imbarcato come nostromo alcuni mesi prima. Originario di Queenstown, porto del Regno Unito, nei suoi documenti era dichiarato irlandese di nascita. Percorreva i mari da una ventina d'anni e non si sapeva che avesse parenti. Ma quanti marinai non hanno altra famiglia che i compagni di bordo e altro paese che il bastimento su cui navigano! Sembra che la loro nazionalità muti con quella della nave. Per ciò che riguardava il suo lavoro, Flig Balt lo faceva con scrupolo, puntualmente, e pur non essendo che nostromo esercitava in realtà a bordo le funzioni di secondo. Il capitano Gibson, in questo modo, riteneva di poter contare su di lui per le piccole cose, riservando a se stesso il comando del brick. Flig Balt, a dire il vero, era un farabutto che cercava di fare qualche buon colpo, a ciò continuamente sollecitato da Vin Mod di cui subiva il pessimo ascendente e l'incontestabile superiorità. Chissà se avrebbe avuto l'occasione di porre in atto i suoi progetti criminosi! — Vi ripeto — disse il marinaio — che nella taverna «Three Magpies» non c'è che da prendere a occhi chiusi… Qui ci sono gli uomini che ci occorrono, sempre pronti a esercitare il commercio per conto proprio… — Bisognerebbe sapere, tuttavia, da dove provengono… — disse Flig Balt. — È inutile saperlo, considerato che andranno dove noi vorremo! Dal momento che li reclutiamo tra i clienti di Adam Fry, non c'è che da fidarsene. Tutto sommato, la fama di questa taverna di infimo ordine era fuori discussione. La polizia avrebbe potuto gettarvi le reti senza

correre il rischio di incappare in un galantuomo o in qualcuno che non avesse già avuto da fare con la giustizia. Sebbene il capitano Gibson si trovasse nella necessità di completare in qualsiasi modo l'equipaggio, egli non si sarebbe mai rivolto ai clienti della «Three Magpies». Flig Balt si era ben guardato perciò dal dirgli che egli sarebbe andato a cercare reclute in quella taverna. La sala, con tavole, panche e sgabelli, oltre al bancone dietro cui stava l'oste e alle mensole ingombre di bicchieri e bottiglie, riceveva luce da due finestre chiuse da inferriata che davano su una stretta viuzza terminante sulla banchina. Vi si entrava da una porta munita d'una grossa serratura e di chiavistelli, al di sopra della quale penzolava l'insegna, in tutto degna della taverna: tre gazze dipinte vivacemente che si dilaniavano a colpi di becco. In ottobre, alle otto e mezzo di sera, è già notte, al 45° grado di latitudine sud, anche agli inizi della bella stagione. Alcune lampade di metallo, riempite di petrolio puzzolente, erano accese, sospese al disopra del bancone e delle tavole. Quelle che fumigavano venivano lasciate filare; quelle in cui lo stoppino era quasi completamente consumato sfrigolavano e venivano lasciate sfrigolare. Ma quella poca luce bastava. Quando si tratta di bere non è necessario vederci chiaro. Il bicchiere trova senza difficoltà la strada della bocca. Una ventina di marinai occupavano le panche e gli sgabelli: era gente di tutti i paesi: americani, inglesi, irlandesi, olandesi, per la maggior parte disertori, alcuni pronti a raggiungere i giacimenti auriferi, altri che ne erano tornati e che spendevano senza lesinare le loro ultime pepite. Essi declamavano, cantavano e urlavano a tal punto che, nel chiasso tumultuoso e assordante, non si sarebbero uditi neppure dei colpi di rivoltella. La metà di loro era in quello stato di ubriachezza triste procurata dagli alcolici adulterati che ingozzavano macchinalmente e dei quali essi non sentivano più l'acre bruciore. Alcuni si alzavano in piedi, barcollavano, ricadevano. Aiutato dal garzone – un indigeno vigoroso – Adam Fry li risollevava, trascinandoli via per buttarli in un canto «alla rinfusa», come si direbbe in gergo marinaresco. La porta che dava sulla via cigolava sui cardini; c'erano quelli che uscivano sbattendo contro i muri, urtando contro i paracarri, cadendo lunghi distesi nel rigagnolo,

e c'erano quelli che entravano e andavano a sedersi sulle panche libere. Certe conoscenze venivano rinnovate e ci si scambiavano convenevoli grossolani con strette di mano da spezzare le ossa. Si rivedeva qualche vecchio compagno, dopo una lunga avventura attraverso i giacimenti d'oro dell'Otago. A volte, da un tavolo all'altro, venivano scambiate parole scurrili, facezie volgari, ingiurie e provocazioni. Probabilmente la serata sarebbe finita con qualche rissa privata destinata a degenerare in una battaglia generale. Ma ciò non sarebbe stata una novità per il padrone e per i frequentatori delle «Three Magpies». Flig Balt e Vin Mod non cessavano d'osservare con curiosità quella gente, prima d'avanzare proposte a seconda delle circostanze. — Alla fin fine, di che cosa si tratta? — disse il marinaio, appoggiando il gomito sulla tavola per accostarsi un po' di più al nostromo. — Si tratta di sostituire con altri i quattro uomini che ci hanno lasciato. Ebbene, quelli non dobbiamo rimpiangerli… Non ci avrebbero seguiti! Ve lo ripeto, troveremo qui quello che occorre… E che io sia impiccato, se uno solo di questi lascari4 si rifiuterà mai di impadronirsi di una buona nave per scorrazzare nel Pacifico, invece di far ritorno a Hobart Town… Perché siamo sempre d'accordo, non è vero? — Certamente — rispose Flig Balt. — Facciamo il conto, allora — disse Vin Mod. — Quattro di questi bravi ragazzi, il cuoco Koa, voi ed io, contro il capitano, gli altri tre e il mozzo; siamo in più di quanto occorra per avere partita vinta! Una mattina, entriamo nella cabina del signor Gibson… Non c'è! Si fa l'appello dell'equipaggio: mancano tre uomini! Li avrà portati via un'ondata improvvisa, nella notte, durante il turno di guardia. Capita, qualche volta, anche quando il tempo è calmo… E poi il James Cook non riappare più… È scomparso in pieno Pacifico. E mentre di esso non si parla più, eccolo, sotto altro nome – un nome grazioso, il Pretty Girl, 5 ad esempio – andare da un'isola all'altra, facendo il suo bravo lavoro, con a capo il capitano Flig Balt e il 4

Parola con cui si designavano i marinai dell'India imbarcati su navi europee che battevano l'Oceano Indiano. (N.d.T.) 5 Bella ragazza. (N.d.T.)

nostromo Vin Mod… Completa il suo equipaggio con due o tre robusti ragazzi, come non ne mancano mai nei porti di sosta dell'est o dell'ovest… E ognuno vi fa il suo piccolo gruzzolo invece della magra paga che di solito è già stata bevuta prima d'essere riscossa! Che il chiasso impedisse a volte alle parole di Vin Mod di giungere all'orecchio di Flig Balt, importava poco. Non c'era bisogno che egli le udisse. Ciò che il suo compagno diceva, egli se lo diceva da sé. Presa una decisione, egli non cercava altro che di assicurarne la realizzazione. La sola osservazione che fece fu perciò la seguente: — I quattro nuovi uomini, tu e io, saremmo in sei contro cinque, mozzo compreso… Ma tu dimentichi che a Wellington dobbiamo imbarcare l'armatore Hawkins e il figlio del capitano! — È vero… Ma se si va a Wellington, appena lasciata Dunedin. Se invece non ci andiamo… — E una faccenda di quarantott'ore, con vento favorevole… — disse mastro Balt. — E non siamo neppure sicuri di riuscire a fare il colpo durante la traversata… — E che importa? — esclamò Vin Mod. — Non preoccupatevi se anche il signor Hawkins e il figlio di Gibson saranno a bordo! Avranno fatto un salto sopra il parapetto ancora prima di sapere dove sono! Ciò che importa è di reclutare dei compagni che non tengano conto della vita di un uomo più di quanto non facciano di una vecchia pipa che non si adopera più… Ci vogliono dei coraggiosi che non abbiano paura della corda… E noi dobbiamo trovarli qui! — Troviamoli allora — rispose mastro Balt. Entrambi si misero a esaminare con maggiore attenzione i clienti di Adam Fry, alcuni dei quali già li osservavano a loro volta con qualche insistenza. — Guardate quello! — disse Vin Mod. — È un giovanotto che ha la corporatura di un pugile… con quella testa enorme… Se non ha già fatto dieci volte più del necessario per meritare d'essere impiccato… — Sì, mi piace abbastanza — rispose mastro Balt. — E quell'altro, quello con un solo occhio… E che occhio! L'altro non lo ha perduto in una battaglia combattuta perché aveva ragione! — Parola mia, se accetta…

— Accetterà! — Tuttavia… — fece notare Flig Balt — non è possibile dirglielo prima. — Non glielo diremo. Quando sarà venuto il momento, vedrete che non se ne staranno con le mani in mano! Guardate quello che sta entrando! Dal modo in cui ha fatto sbattere la porta, si direbbe che abbia la polizia alle calcagna. — Offriamogli da bere — disse mastro Balt. — Scommetto la testa contro una bottiglia di gin che non rifiuterà! E poi, laggiù… Guardate quella specie d'orso che porta il berretto di traverso. Mi fa pensare che abbia navigato più spesso in fondo alla stiva che non sul castello di prua, e che abbia avuto più spesso i piedi nei ceppi che non le mani libere! Il fatto è che le quattro persone indicate da Vin Mod avevano l'aspetto di furfanti senza scrupoli. Ecco perché, nel caso che Flig Balt le avesse reclutate, sarebbe stato lecito chiedersi se il capitano Gibson avrebbe consentito a imbarcare marinai di quella fatta! Era inutile, del resto, pretendere di voler esaminare i loro documenti: non li avrebbero mostrati, e non senza motivo. Rimaneva da sapere se quegli uomini erano disposti a contrarre un impegno, o se non avevano proprio allora disertato la loro nave per prepararsi a barattare il camiciotto del marinaio con il giubbetto del cercatore d'oro. Dopo tutto, essi, che non si sarebbero mai offerti spontaneamente, quale accoglienza avrebbero fatto alla proposta d'imbarcarsi sul James Cook? Lo si sarebbe appreso dopo averne parlato e innaffiato il discorso con gin o whisky a loro scelta. — Amico… un bicchiere? — disse Vin Mod chiamando alla sua tavola il nuovo venuto. — Due, se volete — rispose il marinaio, schioccando la lingua. — Tre, quattro, mezza dozzina, e anche una dozzina intera, se ha la gola asciutta! Len Cannon – questo era il suo nome o il nome che si era dato – prese posto senza cerimonie, dimostrando così che sarebbe andato con facilità sino alla dozzina. Poi, avendo capito che nessuno gli avrebbe cavato la sete – ammettendo che ciò fosse stato possibile – per i suoi begli occhi e il suo bell'aspetto, chiese con voce fatta rauca

dall'abuso d'alcolici: — Bene, di che si tratta? Vin Mod spiegò: il brick James Cook doveva partire… buona paga, soltanto pochi mesi di navigazione di cabotaggio da un'isola all'altra, vitto buono; vino abbondante e di buona qualità… Il capitano faceva assegnamento sul nostromo Flig Balt, qui presente, per tutto ciò che riguardava il benessere dell'equipaggio… Porto di attracco Hobart Town… Insomma nulla mancava di ciò che può allettare il marinaio che vuol divertirsi durante le soste, e non c'era da esibire alcun documento al commissario di marina. Si sarebbero spiegate le vele il giorno dopo, all'alba, se l'equipaggio fosse stato al completo. Che se poi qualche amico nei pasticci avesse cercato un imbarco, sarebbe bastato indicarlo, se si trovava a quell'ora nella taverna delle «Three Magpies»… Len Cannon guardò mastro Flig Balt e poi Vin Mod aggrottando le ciglia. Che significava con esattezza quella proposta? Che cosa nascondeva? Poi, per quanto essa sembrasse vantaggiosa, Len Cannon rispose con una sola parola: — No. — Hai torto — disse Vin Mod. — È possibile, ma non posso imbarcarmi. — Perché? — Sto per sposarmi. — Ma no! — È così: sposo Kate Verdax… una vedova… — Amico, se ti dovessi sposare — rispose Vin Mod, battendogli sulla spalla — non sarà con una vedova, ma con una forca! Len Cannon si mise a ridere e vuotò in un sorso il suo bicchiere; ma nonostante le sollecitazioni di mastro Balt insistette nel suo rifiuto. Poi si alzò e raggiunse un gruppetto di persone rumorose che si scambiavano violente provocazioni. — Proviamo con un altro — disse Vin Mod, nient'affatto scoraggiato dal primo scacco. Lasciò mastro Balt e andò a prender posto in un angolo della sala, accanto a un marinaio il cui aspetto non appariva migliore di quello di Cannon; sembrava persino meno comunicativo, quasi che gli

piacesse chiacchierare solo con la bottiglia: conversazione interminabile, ma che pareva bastargli. Vin Mod entrò subito in argomento: — Si può sapere come ti chiami? — Come mi chiamo? — rispose il marinaio, con qualche esitazione. — Sì, come ti chiami. — E tu come ti chiami? — Vin Mod. — Che nome è? — È il nome di un marinaio del brick James Cook, in sosta a Dunedin. — E perché Vin Mod vuol sapere come mi chiamo? — Per il caso in cui si dovesse iscrivere il tuo nome tra quelli dell'equipaggio. — Il mio nome è Kyle — rispose il marinaio — ma me lo tengo per un'occasione migliore. — Se ci sarà, amico mio… — Non ne mancano mai! E Kyle gli voltò le spalle. Quel secondo rifiuto rese Vin Mod un po' meno fiducioso. La taverna di Adam Fry era come la Borsa: le richieste erano sempre superiori alle offerte e ciò lasciava poche speranze di riuscita. Anche con altri due clienti, che disputavano da lungo tempo per il pagamento dell'ultima pinta con il loro ultimo scellino, il risultato fu identico: l'irlandese Sexton e l'americano Bryce sarebbero andati a piedi in America e in Irlanda piuttosto che imbarcarsi, fosse pure sullo yacht di Sua Graziosa Maestà o sul migliore incrociatore degli Stati Uniti. Altri tentativi, fatti con l'appoggio di Adam Fry, sortirono eguale esito. Vin Mod, scornato, fece ritorno alla tavola di Flig Balt. — Non sei riuscito a nulla? — chiese quest'ultimo. — Non c'è nulla da fare, mastro Balt. — Non vi sono altre taverne, qui vicino? — Ce ne sono — rispose Vin Mod. — Ma se non siamo riusciti qui, non riusciremo da nessun'altra parte.

Flig Balt non poté trattenere una bestemmia e volle anche accompagnarla con un forte pugno sulla tavola che fece traballare bottiglie e bicchieri. Il suo progetto sarebbe dunque andato in fumo? Non sarebbe riuscito a reclutare per l'equipaggio del James Cook quattro uomini di sua scelta? Sarebbe stato costretto a completarlo con bravi marinai, che poi si sarebbero schierati dalla parte del capitano Gibson? È vero, i marinai buoni mancavano non meno che i cattivi, e perciò sarebbero certo trascorse alcune settimane prima che il brick potesse riprendere il mare. Bisognava cercare altrove, dunque. Le bettole per marinai non mancano nel quartiere; come diceva Vin Mod, abbondano molto più delle chiese e delle banche. Flig Balt si preparava a pagare le consumazioni, quando un grosso litigio scoppiò a un'estremità della sala. La discussione tra Sexton e Bryce, riguardo al pagamento del conto, assumeva una svolta inquietante. Entrambi avevano certamente bevuto più di quanto la borsa avrebbe loro consentito. Adam Fry non era uomo da far credito neppure di pochi pence. Essi ne avevano per due scellini e avrebbero dovuto pagarli, se non volevano che la polizia intervenisse e li arrestasse, come già altre volte, per percosse, ingiurie e reati di vario genere. Avvertito dal garzone, l'oste stava reclamando ciò che gli era dovuto, ma che Sexton e Bryce non avrebbero potuto pagare, neppure a cercar bene in fondo alle loro tasche, tanto vuote quanto essi erano pieni di whisky e di gin. In un'occasione del genere, l'intervento di Vin Mod, con il denaro in mano, sarebbe forse stato efficace e i due marinai avrebbero finito con l'accettare alcune piastre quale anticipo sulla futura paga… Egli tentò il colpo, ma fu mandato al diavolo. Incerto tra il desiderio di farsi pagare e la prospettiva di perdere due clienti, se essi si fossero imbarcati il giorno dopo sul James Cook, Adam Fry non gli venne in aiuto come egli aveva sperato. Fu allora che mastro Balt comprese che bisognava farla finita e disse a Vin Mod: — Andiamocene! — Non sono neppure le nove — rispose Vin Mod. — Andiamo

all'«Old Brothers» oppure al «Good Seaman». Sono a due passi e voglio che mi si impicchi se torneremo a bordo a mani vuote! Come si vede, l'impiccagione come metafora o come termine di paragone ricorreva spesso nella conversazione dell'onesto Vin Mod; forse egli riteneva che quella fosse la fine naturale dell'esistenza umana, in questo basso mondo! Nel frattempo, Adam Fry era passato dalle richieste violente alle minacce. Sexton e Bryce avrebbero dovuto pagare, se non volevano andare a dormire in guardina! Il garzone ebbe l'ordine di andare a chiamare gli agenti, che non scarseggiavano mai in quel quartiere del porto. Flig Balt e Vin Mod erano dunque in procinto di andarsene insieme con il garzone, quando tre o quattro robusti giovanotti si posero dinanzi alla porta per impedirne l'entrata e l'uscita. Apparve chiaro che quei marinai avevano sposato la causa dei loro compagni. La faccenda non avrebbe tardato a ingarbugliarsi e la serata sarebbe finita con la violenza, come tante altre. Adam Fry e il garzone però non la pensavano così; essi volevano soltanto ricorrere alla forza pubblica, com'erano soliti fare in quelle circostanze. Nel vedere la porta sbarrata cercarono di raggiungere il vicolo che rasentava il cortile. Ma non ne ebbero il tempo. Tutto il gruppo si schierò contro di loro; Kyle e Sexton, Len Cannon e Bryce intervennero. Soltanto una mezza dozzina d'ubriachi fradici, incapaci di reggersi in piedi, non prese parte alla zuffa. Ne seguì che a mastro Balt e a Vin Mod non fu permesso di lasciare la sala. — Eppure bisogna andar via — disse il primo. — Qui non c'è che da prendere dei pugni. — Chi lo sa? — rispose l'altro. — Lasciamoli fare. Forse da questa battaglia uscirà qualcosa di buono per noi! E poiché entrambi volevano trarne i profitti, ma non dividerne le perdite, si tennero in disparte, dietro il bancone. La lotta si svolgeva all'arma bianca, se l'espressione può adattarsi ai piedi e ai pugni dei combattenti. I coltelli senza dubbio non avrebbero tardato a comparire, e non sarebbe stata né la prima volta né l'ultima, quella di veder scorrere il sangue nella sala delle «Three

Magpies». Si sarebbe detto che Adam Fry e il garzone dovessero essere schiacciati dal numero; e sarebbero stati ridotti certamente all'impotenza se alcuni clienti non avessero preso le loro parti. Cinque o sei irlandesi, infatti, nella speranza di assicurarsi un futuro credito, li aiutarono a respingere gli assalitori. Ne venne fuori un baccano infernale. Mastro Balt e Vin Mod, riparandosi alla meglio, fecero fatica a evitare d'essere colpiti quando cominciarono a volare d'ogni parte bicchieri e bottiglie. Si picchiava vociando e urlando. Le lampade, rovesciate, si spensero e la sala rimase rischiarata soltanto dalla luce della lanterna incastrata nell'imposta dell'ingresso. Alla fine i quattro uomini più accaniti – Len Cannon, Kyle, Sexton e Bryce – dopo aver attaccato, dovettero difendersi. L'oste e il garzone non erano alle prime armi nell'esercizio della boxe. Alcuni formidabili pugni avevano abbattuto Kyle e Bryce, con la mascella quasi fracassata; ma essi si rialzarono per soccorrere i compagni che gli irlandesi avevano sospinto in un angolo. La meglio era un po' per gli uni e un po' per gli altri; la vittoria non sarebbe potuta dipendere che da un intervento esterno. Le urla: «Aiuto! aiuto!» dominavano il tumulto, ma i vicini non si preoccupavano di ciò che accadeva nella taverna delle «Three Magpies»: le zuffe tra marinai erano ormai all'ordine del giorno. Era inutile correre dei rischi per intervenire in quelle baruffe; ciò riguardava la polizia, era pagata per questo! Il tafferuglio proseguiva con maggiore accanimento a mano a mano che la collera si tramutava in rabbia. Le tavole erano state rovesciate e ci si picchiava con gli sgabelli. Poi spuntarono dalle tasche i coltelli, le rivoltelle uscirono dalle cinture e, nel fracasso, si udirono alcuni spari. L'oste cercava sempre di raggiungere la porta di strada o quella del cortile, quando una dozzina di agenti fecero irruzione dalla porta posteriore. Non era stato necessario andare a cercarli; non appena informati dai passanti che nella taverna di Adam Fry ci si rompeva la testa, essi vi erano accorsi in buon numero senza troppa fretta, con il passo d'ordinanza che contraddistingue il poliziotto inglese, quando è chiamato ad assicurare l'ordine pubblico. È probabile, del resto, che

tra quelli che attaccavano e quelli che resistevano, essi non avrebbero fatto differenze. Sapevano che gli uni valevano gli altri e che, arrestando tutti, sarebbero stati certi di non sbagliare. Benché la sala fosse quasi al buio, i poliziotti riconobbero subito, tra i più violenti, Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce, per averli altre volte cacciati in prigione. Questi quattro farabutti, prevedendo ciò che li attendeva, cercarono di svignarsela attraverso il cortile. Ma dove sarebbero andati? Sarebbero stati certamente ripresi il giorno seguente… Vin Mod intervenne nel momento migliore: mentre gli altri si accanivano contro i poliziotti nell'intento di favorire la fuga dei più compromessi, egli raggiunse Len Cannon e gli disse: — Al James Cook tutti e quattro! Sexton, Bryce e Kyle lo avevano udito. — Quando parte? — chiese Len Cannon. — Domattina, all'alba. E nonostante l'intervento degli agenti, contro i quali, per comune intesa, tutti si erano scagliati, nonostante l'intervento di Adam Fry, che teneva soprattutto a farli arrestare, Len Cannon e i suoi tre compagni, seguiti da Flig Balt e da Vin Mod, riuscirono a fuggire. Un quarto d'ora dopo, la lancia del brick li trasportava a bordo, al sicuro nell'alloggio dell'equipaggio.

CAPITOLO II IL BRICK «JAMES COOK» IL BRICK James Cook era una nave robusta e ad ampia velatura che stazzava duecentocinquanta tonnellate. Lo scafo ampio ne assicurava la stabilità; la poppa svelta, la prua elevata e l'alberatura poco inclinata gli facevano tenere magnificamente il mare con qualsiasi velocità. Vascello orziero, sottraendosi presto all'onda e sfuggendo così ai colpi di mare, filava con vento favorevole i suoi undici nodi senza intoppi. Come sappiamo dalla conversazione già riferita, il suo equipaggio era composto dal capitano, un nostromo, otto marinai, un cuoco e un mozzo. Batteva bandiera britannica e aveva per porto d'attracco Hobart Town, capitale della Tasmania, la quale, com'è noto, dipende dal continente australiano, una delle più importanti colonie della Gran Bretagna. Già da una decina d'anni, il James Cook esercitava il gran cabotaggio nel Pacifico occidentale, tra l'Australia, la Nuova Zelanda e le Filippine: viaggi fortunati e lucrosi per l'abilità manovriera e commerciale del suo capitano, buon marinaio e buon mercante. Il capitano Harry Gibson, che a quel tempo aveva cinquant'anni, non aveva mai lasciato il brick da quando era uscito dai cantieri di Brisbane. Vi era interessato per un quarto, gli altri tre quarti appartenendo al signor Hawkins, armatore in Hobart Town. I loro affari prosperavano e gli inizi di quel viaggio lasciavano sperare larghi utili. La famiglia del capitano era strettamente unita a quella dell'armatore da lunga data, Harry Gibson avendo sempre navigato per conto della ditta Hawkins. Abitavano entrambi a Hobart Town nello stesso rione. Gli Hawkins non avevano figli; i Gibson avevano un solo figlio di ventun anni che intendeva dedicarsi al commercio.

Le due donne si vedevano ogni giorno e ciò rendeva loro meno penosa la separazione dai rispettivi mariti, perché l'armatore si trovava allora a Wellington dove aveva aperto un ufficio insieme con Nat Gibson, figlio del capitano. Di là, il James Cook avrebbe dovuto riportarli entrambi a Hobart Town, dopo aver completato il carico negli arcipelaghi vicini alla Nuova Guinea, al nord dell'Australia, nei paraggi dell'equatore. È inutile dire ora che cosa fosse e ciò che valesse il nostromo Flig Balt, e quali progetti lo scellerato nutrisse. Agli istinti che lo spingevano al delitto, e alla gelosia per il suo capitano, egli univa un'ipocrisia che aveva ingannato quest'ultimo sin dall'inizio del viaggio. In virtù di alcuni certificati apparentemente autentici, era stato accettato come nostromo a bordo del brick proprio quando Vin Mod vi prendeva imbarco come marinaio. I due uomini si conoscevano da lunga data, avevano corso insieme i mari passando da una nave all'altra, disertando quando non si trovavano nella possibilità di tentare qualche buon colpo; ora speravano di raggiungere il loro scopo nel corso dell'ultima traversata del James Cook, prima di fare ritorno a Hobart Town. Flig Balt ispirava assoluta fiducia al capitano Gibson, ingannato dalle sue dimostrazioni di zelo e dalla sua pretesa devozione. Poiché era in continui rapporti con l'equipaggio, egli aveva cercato di acquistare ascendente sul personale di bordo. Per tutto ciò che riguardava la navigazione e la parte commerciale, Harry Gibson si fidava, invece, solo di se stesso. Peraltro, non avendo mai avuto occasione di dar prova di ciò che valeva, forse Flig Balt non era quel buon marinaio che pretendeva di essere, sebbene dicesse di aver già navigato in qualità di secondo. Si può anche credere che il capitano Gibson nutrisse qualche dubbio al riguardo; dopo tutto, poiché il servizio non lasciava nulla a desiderare, egli non aveva mai avuto motivo di muovere rimproveri al suo nostromo. Il viaggio del brick si sarebbe perciò probabilmente effettuato nelle migliori condizioni se la diserzione di quattro marinai non lo avesse trattenuto a Dunedin da una quindicina di giorni. Gli uomini che non avevano seguito l'esempio dei compagni, e cioè Hobbes, Wickley e Burnes, facevano parte di quella categoria di

brava gente, disciplinata e coraggiosa, sulla quale un capitano può far sempre completo assegnamento. Non ci sarebbe stato motivo di rimpiangere i disertori, se essi non fossero stati sostituiti con i quattro farabutti che Vin Mod aveva reclutato alla taverna delle «Three Magpies». Sappiamo già che gente fosse e li vedremo presto all'opera. L'equipaggio comprendeva ancora, come sappiamo, un mozzo e un cuoco. Il mozzo, di nome Jim, aveva quattordici anni e apparteneva a una famiglia di onesti operai di Hobart Town, la quale lo aveva affidato al capitano Gibson. Era un bravo ragazzo, svelto e servizievole, che amava il mestiere e prometteva di diventare un eccellente marinaio. Il signor Gibson lo trattava come un figlio, ma senza lasciargliene passare mai una, e Jim gli si dimostrava molto affezionato. Quasi per istinto, invece, il ragazzo nutriva una specie di ripugnanza per il nostromo. Flig Balt, che se n'era accorto, cercava sempre di coglierlo in fallo provocando più d'una volta l'intervento del signor Gibson. Il cuoco Koa apparteneva al tipo indigeno che deriva dalla seconda razza dei neo-zelandesi: uomini di statura media, del colore dei mulatti, robusti, muscolosi, agili e con i capelli crespi, dei quali si compone in genere la classe popolana dei maori. Harry Gibson si proponeva di congedare, alla fine di quel primo viaggio che egli faceva a bordo del brick, quest'uomo subdolo, vendicativo e cattivo, oltre che sporco, sul quale rimproveri e punizioni non avevano più efficacia. Flig Balt aveva ragione di collocarlo tra coloro che non avrebbero esitato a ribellarsi contro il capitano. Vin Mod e lui andavano perfettamente d'accordo. Il nostromo lo trattava bene, lo scusava, punendolo soltanto quando non poteva farne a meno. Koa sapeva, da parte sua, che sarebbe stato sbarcato appena il brick fosse giunto a Hobart Town e più d'una volta aveva minacciato di vendicarsi. Flig Balt, Vin Mod e lui, aiutati dai quattro nuovi marinai venuti a bordo, sarebbero stati, quindi, in sette di fronte a Gibson, agli altri tre marinai e al mozzo. È vero che l'armatore e Nat Gibson dovevano imbarcarsi sul brick, a Wellington, e che la partita sarebbe stata allora meno diseguale; ma era sempre possibile che Flig Balt si impadronisse della nave tra Dunedin e Wellington, nel corso della

breve traversata. Se l'occasione si fosse presentata, Vin Mod non se la sarebbe lasciata scappare. Il James Cook, in corso di cabotaggio da quattro mesi, aveva carichi per vari porti, dove aveva sbarcato e imbarcato varie merci, con noli vantaggiosi. Dopo aver toccato successivamente Malikolo, Merena ed Eromanga nelle Nuove Ebridi, e poi Vanua Linon nelle Figi, avrebbe raggiunto nuovamente Wellington, dove il signor Hawkins e Nat Gibson lo aspettavano. Poi avrebbe fatto vela per gli arcipelaghi della Nuova Guinea, ben fornito di roba scadente destinata agli indigeni, per riportarne madreperla e copra per un valore di circa dieci o dodicimila piastre. Di là, avrebbe fatto ritorno poi a Hobart Town, sostando a Brisbane o a Sydney, se le circostanze lo avessero richiesto. Ancora un paio di mesi, dunque, e poi il brick sarebbe stato di ritorno al suo porto di attracco. Si comprende dunque quanto il ritardo subito dalla nave a Dunedin avesse contrariato il signor Gibson. Il signor Hawkins sapeva quel che doveva pensare a tale riguardo, essendone stato informato dalle lettere e dai telegrammi scambiati tra Dunedin e Wellington e aveva sollecitato il capitano a completare nuovamente l'equipaggio. Egli parlava anche di fare una scappata a Dunedin, se necessario, anche se gli affari richiedevano la sua presenza a Wellington. Abbiamo visto che il signor Gibson, premurosamente, non aveva trascurato nulla per accontentarlo e ricordiamoci delle difficoltà incontrate anche per il motivo che molti altri capitani si trovavano nell'identica, imbarazzante situazione. Flig Balt era riuscito alla fine nel suo intento. Quando i quattro marinai della taverna delle «Three Magpies» furono a bordo, egli fece issare prudentemente le imbarcazioni affinché i nuovi venuti non potessero svignarsela durante la notte. La sera stessa, Flig Balt narrò al capitano com'erano andate le cose e come avesse approfittato della rissa per sottrarre Len Cannon e gli altri tre uomini alle ricerche della polizia. Quel che valessero lo si sarebbe visto presto. Il più delle volte, le teste calde si calmano non appena la nave è in alto mare; gli attaccabrighe riescono spesso eccellenti marinai. Il nostromo, insomma, credeva di aver agito per il meglio.

— Li vedrò domani — disse il signor Gibson. — Come volete — rispose mastro Balt. — È molto meglio lasciarli smaltire il loro gin fino a domattina. — D'accordo. Del resto, le imbarcazioni sono sui paranchi e, a meno che non si gettino in mare, scavalcando la falchetta… — Non è possibile, capitano. Li ho cacciati nella stiva e non ne usciranno che al momento della partenza. — Ma quando sarà giorno, Balt?… — Quando sarà giorno, la paura di cadere nelle mani della polizia li terrà a bordo. — A domani allora — disse il signor Gibson. Sarebbe stato inutile, senza dubbio, chiudere a chiave Len Cannon e i suoi compagni: essi non pensavano affatto di fuggire e perciò dormirono rumorosamente tutta la notte il sonno dell'ubriaco. Il giorno dopo, all'alba, il capitano dispose i preparativi per la partenza. Le sue carte erano in regola ed egli non ebbe necessità di tornare a terra. Si rese allora necessario chiamare le nuove reclute sul ponte. Vin Mod aprì il grande boccaporto e i quattro marinai salirono per la manovra. I fumi dell'alcool erano svaniti ed essi non manifestarono nessuna intenzione di abbandonare la nave. Quando gli furono dinanzi, il capitano ne ebbe un'impressione spiacevolissima; solo la padronanza che aveva di se stesso gli permise di celarla. Li osservò attentamente e poi chiese i loro nomi per annotarli tra i membri dell'equipaggio. Nel dare il proprio nome, i nuovi venuti indicarono anche la propria nazionalità: due erano inglesi, uno irlandese, l'altro americano. Non avevano altro domicilio che le taverne del porto, i cui proprietari sono anche affittacamere. Per ciò che riguarda i capi di vestiario e quello che di solito contiene il sacco del marinaio, essi non avevano potuto portare nulla. Del resto, Flig Balt avrebbe messo a loro disposizione gli abiti, la biancheria e gli utensili dei disertori, che certamente non sarebbero più tornati a reclamarli. Non vi era motivo perciò di mandarli a cercare il proprio sacco, né essi lo richiesero. Quando Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce raggiunsero la prua, il

signor Gibson disse a Balt crollando il capo: — Non credo che abbiate avuto la mano felice, Balt. Mi sembrano dei cattivi soggetti. — Si vedrà, capitano… vedremo sul lavoro… — Bisognerà sorvegliarli da vicino! — Certamente, signor Gibson. Ma non sono marinai inesperti, da quanto ha detto un ufficiale del West Pound, qui in sosta. — Li avevate già sott'occhio, dunque? — Già da qualche giorno… — L'ufficiale li conosceva? — Hanno navigato insieme e, a sentir lui, sono buoni marinai. Il nostromo mentiva sfrontatamente. Nessun ufficiale gli aveva parlato di quei quattro marinai, ma ciò che diceva non poteva più essere verificato. Né il signor Gibson aveva motivo di sospettare. — Bisogna evitare di metterli di quarto insieme — disse il capitano. — I due inglesi con Hobbes e Wickley, l'irlandese e l'americano con Burnes e Vin Mod. Sarà meglio… — Ho capito, capitano; vi ripeto, una volta in mare, lavoreranno di buona lena. Soltanto durante le soste, soprattutto a Wellington, sarà necessario sorvegliarli. Se date retta a me, niente permessi: potrebbero non tornare più a bordo. — Comunque, Balt, non mi ispirano nessuna fiducia; a Wellington, se potrò sostituirli con altri… — Li sostituiremo — rispose il nostromo. Flig Balt non volle insistere più del necessario, né aver l'aria di tener troppo a quei marinai d'occasione. — Dopo tutto, capitano, ho fatto del mio meglio — aggiunse. — Non c'era molto da scegliere! Il signor Gibson tornò a poppa, accanto al timoniere, mentre Flig Balt andava a prua per fare issare l'ancora e rizzarla al suo posto, non appena orientate le vele. Il capitano guardò la bussola, nell'abitacolo posto dinanzi alla ruota del timone, poi il segnavento in testa d'albero di maestra, e poi la bandiera britannica, che il vento spiegava sul picco. Il James Cook si dondolava sulla catena in mezzo al porto. Il vento, soffiando da nord-ovest, ne avrebbe favorito l'uscita. Dopo

aver disceso il canale fino a Port Chalmers, avrebbe trovato vento favorevole per risalire la costa orientale della Nuova Zelanda fino allo stretto che separa le due isole. Gli sarebbe convenuto, tuttavia, prendere un po' di largo per evitare alcune navi ancorate all'ingresso del canale e avvicinarsi alla riva destra. Il signor Gibson impartì gli ordini. Furono spiegate la gabbia fissa e la volante, la vela di trinchetto, i fiocchi e la randa di cappa di maestra. Durante la manovra parve proprio che Len Cannon e i suoi compagni conoscessero il mestiere; e anche quando dovettero salire fino al braccio del pennone dei velacci, lo fecero da uomini che non hanno nulla da imparare del servizio dei gabbieri. Poiché era a picco, l'ancora fu issata nel momento in cui le scotte erano tese per mettere il brick nella giusta direzione. Flig Balt e Vin Mod riuscirono a scambiare qualche parola durante la manovra. — Le nostre reclute conoscono il mestiere. — Molto bene, Mod. — Altri tre manigoldi come questi e avremmo l'equipaggio che ci occorre. — E la nave di cui avremmo bisogno! — aggiunse Flig Balt, sottovoce. — E anche il capitano che ci occorre! — disse Vin Mod, portando la mano al berretto, come se fosse dinanzi al suo capo. Flig Balt lo fermò con un gesto, nel dubbio che quelle parole imprudenti potessero essere state udite dal mozzo, intento a dar volta la scotta della trinchettina. Poi, mentre si dirigeva verso la tuga, Vin Mod gli chiese come Gibson avesse giudicato i quattro avventori della taverna delle «Three Magpies». — È parso poco soddisfatto — rispose Flig Balt. — Le nostre reclute non hanno un aspetto rassicurante, infatti — rispose Vin Mod. — Non mi sorprenderebbe se egli volesse sbarcarli a Wellington — disse Flig Balt. — Per sbarcare a Wellington — aggiunse Vin Mod, scrollando le spalle — bisogna prima arrivarci. Io spero di non dover andare a Wellington e di non sbarcarvi nessuno.

— Non commettiamo imprudenze, Mod! — Insomma, il capitano non è contento? — No. — Cosa importa? Lo siamo noi. Il nostromo tornò a poppa. — Tutto è pronto? — gli chiese il signor Gibson. — Tutto, capitano. Il James Cook manovrava in quel momento per accostarsi a riva e fare il giro della punta a meno di mezza gomena. Sulla punta si era formato un gruppetto di marinai e di oziosi, per i quali non è mai priva di interesse la vista di una nave sottovela. Da più settimane, peraltro, quello spettacolo era venuto meno perché i bastimenti non avevano potuto lasciare l'ancoraggio. Ora nel gruppo si distinguevano alcuni poliziotti la cui attenzione pareva rivolta verso il James Cook. Ciò si capiva perfettamente dai gesti e dal loro atteggiamento. Due o tre agenti, anzi, staccatisi dal gruppo, corsero verso l'estremità della riva che il brick non avrebbe tardato a rasentare. Né Flig Balt né Vin Mod si sbagliarono: quei poliziotti facevano parte del gruppo che la sera precedente era intervenuto nella taverna di Adam Fry. Len Cannon e i suoi compagni rischiavano dunque di essere riconosciuti; e forse se il James Cook avesse ricevuto l'ordine di fermarsi sarebbe stato costretto a consegnare i marinai della «Three Magpies». Dopo tutto, il capitano Gibson, soddisfatto di aver deciso d'esercitare un'attenta sorveglianza, aveva il proprio tornaconto nel conservare quei quattro uomini che gli permettevano di riprendere il mare: sarebbe stato in grave imbarazzo se avesse dovuto consegnarli alla polizia. Dopo poche parole dettegli da Flig Balt, egli acconsenti a che Vin Mod facesse scendere sotto coperta Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce prima che fossero scorti dagli agenti. — Giù… giù! — disse loro Vin Mod. Essi lanciarono una rapida occhiata alla riva, compresero tutto e disparvero attraverso il boccaporto. La loro presenza sul ponte, del resto, non era più necessaria e sarebbe bastato il timoniere a dirigere il James Cook verso l'ingresso del canale senza che fosse necessario serrare le vele.

Il brick continuò ad accostarsi alla punta più di quanto non fanno di solito le navi; e ciò per evitare uno steamer americano le cui sirene vigorose squarciavano l'aria. I poliziotti ebbero allora ogni agio di osservare i marinai della nave: certamente, se Len Cannon e gli altri non si fossero nascosti, sarebbero stati riconosciuti e fatti sbarcare immediatamente. Ma gli agenti non li videro e il brick poté inoltrarsi nel canale non appena lo steamer ne ebbe lasciato libero l'accesso. Non c'era più nulla da temere; i quattro marinai risalirono allora sul ponte. La loro opera era ora necessaria; il canale, che va da sud-ovest a nordest, è molto sinuoso e a ogni svolta bisogna allentare o tendere le scotte. Favorito dal vento, il James Cook navigò senza difficoltà tra due rive verdeggianti, cosparse di ville e di cottages, una delle quali è percorsa dalla ferrovia che unisce Dunedin a Port Chalmers. Erano appena le otto quando il brick passò dinanzi al porto per entrare subito in mare aperto. Poi, con le mura a sinistra, risalì lungo costa, lasciandosi a sud il faro di Otago e il capo Saunders.

CAPITOLO III VIN MOD ALL'OPERA LA DISTANZA tra Dunedin e Wellington, attraverso lo stretto che separa le due grandi isole, è inferiore alle quattrocento miglia. Se il vento di nord-ovest fosse durato e il mare si fosse mantenuto calmo lungo costa, il James Cook sarebbe giunto a Wellington due giorni dopo alla media di dieci nodi. Durante questa breve traversata, Flig Balt sarebbe riuscito a realizzare i suoi progetti, a impadronirsi del brick e, dopo essersi sbarazzato del capitano e dei suoi compagni, sarebbe riuscito a portarlo verso quei lontani paraggi del Pacifico dove gli sarebbero state offerte sicurezza e impunità? Sappiamo già come Vin Mod intendesse procedere: il signor Gibson e gli uomini a lui devoti sarebbero stati colti di sorpresa e gettati in mare prima di potersi difendere. Ma prima di tutto bisognava far partecipare Len Cannon e i suoi compagni al complotto (cosa certamente non difficile), tastare il terreno in anticipo e assicurarsi il loro appoggio. Era ciò che Vin Mod contava di fare nel corso di quel primo giorno di navigazione per agire poi la notte seguente. Non c'era tempo da perdere: nel giro di quarantott'ore il brick avrebbe preso a bordo, a Wellington, come passeggeri, il signor Hawkins e Nat Gibson. La notte stessa, dunque, oppure la successiva, era necessario che il brick cadesse nelle mani di Flig Balt e dei suoi complici, altrimenti le probabilità di riuscita sarebbero notevolmente scemate e un'occasione come quella forse non si sarebbe più presentata. A Vin Mod non passava neppure per il capo che individui senza fede e senza legge, privi di coscienza e di scrupoli, come Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce, potessero non essere dalla loro parte, allettati com'erano dalla prospettiva di lucrose campagne in quelle

regioni del Pacifico dove la giustizia non li avrebbe mai raggiunti. L'isola meridionale della Nuova Zelanda, Tawaï-Pounamou, ha la forma di un lungo rettangolo, più largo nella parte inferiore, e si estende un po' obliquamente da sud-ovest a nord-est. L'isola settentrionale, Ika-na-Maoui, si presenta, invece, sotto forma di un triangolo irregolare, terminato da una stretta lingua di terra che si spinge sino alla punta di Capo Nord. La costa che il brick seguiva era molto frastagliata, con rocce enormi dai profili strani, che da lontano sembravano giganteschi mastodonti arenati sulla battigia. Qua e là una successione di archi suggerisce l'idea del colonnato di un chiostro, dove l'onda lunga si avventa furiosamente, anche quando il tempo è bello, con grandissimo frastuono. Una nave che si mettesse di fronte al litorale sarebbe irrimediabilmente perduta: basterebbero tre o quattro ondate per demolirla. Per fortuna, se la nave è sospinta dalla tempesta, sia che venga dall'est o sia che provenga dall'ovest, essa ha molte probabilità di poter doppiare gli estremi promontori della Nuova Zelanda. Vi sono due stretti, comunque, dove è possibile trovare riparo se non si riesce a entrare nei porti: quello di Cook, che separa le due isole, e quello di Foveaux, aperto tra Tawaï-Pounamou e l'isola di Stewart, alla sua estremità meridionale. Bisogna però fare attenzione alle pericolose scogliere delle isole Snares, dove battono le onde dell'oceano Indiano e quelle dell'oceano Pacifico: paraggi troppo fecondi di sinistri marittimi. Di là dalla costa si sviluppa un possente sistema orografico, disseminato di crateri, solcato da cascate che alimentano considerevoli fiumi nonostante la loro breve estensione. Sul versante delle montagne si arrampicano le foreste, i cui alberi sono a volte smisurati: pini alti cento piedi,6 con un diametro di venti; cedri dalle foglie di ulivo, il kudy resinoso, il kaikatea dalle foglie resistenti e dalle bacche rosse, i cui tronchi sono sprovvisti di rami dal piede alla cima. Se Ika-na-Maoui può andare orgogliosa della ricchezza del suolo, della sua possente fertilità, della vegetazione che gareggia in certe 6

Un piede corrisponde a cm 30,480.

zone con le più belle produzioni della flora tropicale, TawaïPounamou deve nutrire meno riconoscenza per la natura. Appena la decima parte del suo territorio può essere coltivata, ma in tali luoghi privilegiati gli indigeni possono ancora raccogliere un po' di mais, varie piante erbacee, patate in abbondanza e, a profusione, quelle radici di pteris esculenta – la felce di cui essi fanno il loro principale nutrimento. Il James Cook a volte si avvicinava tanto alla costa, della quale Harry Gibson conosceva bene gli scandagli, che il canto degli uccelli risultava chiaramente percepibile dalla nave; fra gli altri, quello dell'esotico «pu», uno dei più melodiosi. Vi si mescolava anche il grido gutturale di pappagalli delle varie specie, delle procellarie dal becco giallo e dalle zampe rosso-scarlatte, per non parlare di altre numerose specie acquatiche, i cui rappresentanti più arditi svolazzavano attraverso le sartie della nave. E quando la ruota di prua disturbava i loro giochi, con quale rapidità si disperdevano gli elefanti e i leoni marini, e quelle moltitudini di foche ricercate per il loro grasso oleoso, per la loro pelliccia spessa, duecento delle quali bastano per produrre quasi cento barili di olio! Il tempo si manteneva al bello. Se il vento fosse caduto, ciò non sarebbe avvenuto prima di sera perché, giungendo da terra, nell'abbassarsi avrebbe incontrato l'ostacolo della catena montuosa interna. Sotto l'efficacia di un bel sole, la brezza percorreva le zone alte dell'atmosfera e spingeva rapidamente il brick, il quale aveva issato gli stragli – di maestra, di velaccio e controvelaccio – e le altre vele di taglio. Era già tanto se capitava di mollare le scotte o correggere la rotta. I nuovi membri dell'equipaggio potevano apprezzare così, da marinai, le qualità nautiche del James Cook. Verso le undici, il monte Herbert, un po' prima del porto di Oamarù, mostrò la cima tondeggiante, alta cinquemila piedi sul livello del mare. Nella mattinata, Vin Mod cercò inutilmente di parlare con Len Cannon, che egli riteneva giustamente la più intelligente e la più autorevole delle quattro reclute di Dunedin. Il signor Gibson aveva ordinato, come si sa, che questi marinai non fossero mai insieme di

quarto; ed era meglio, certamente, tenerli separati gli uni dagli altri. Per il resto, non dovendo disporre manovre, il capitano aveva lasciato al nostromo la sorveglianza della nave ed era andato nella sua cabina ad aggiornare la contabilità di bordo. In quel momento Hobbes era al timone. Flig Balt passeggiava dall'albero maestro a poppa, da ogni lato della tuga. Altri due marinai, Burnes e Bryce, andavano e venivano lungo l'impavesata senza scambiar parola. Vin Mod e Len Cannon chiacchieravano insieme sottovento, in modo che la loro conversazione non potesse essere ascoltata da nessuno. Quando si accostava ad essi, il mozzo veniva allontanato sgarbatamente; per prudenza, anzi, mastro Balt lo mandò a lucidare le parti in rame dell'abitacolo. Gli altri due compagni di Len Cannon, Sexton e Kyle, che non erano di quarto, preferivano l'aria aperta all'atmosfera soffocante del posto. Il cuoco Koa, sul castello di prua, li faceva ridere con i suoi scherzi grossolani e le sue smorfie orribili. Bisognava vedere come quell'indigeno andasse fiero dei tatuaggi che aveva sul viso, sul torso e sulle membra, di quei «moko» neo-zelandesi i quali solcano profondamente la pelle invece di scalfirla come è d'uso presso le altre popolazioni del Pacifico. L'operazione del «moko» non si pratica su tutti gli indigeni: i kukis, e cioè gli schiavi, non ne sono degni, né le persone di basso ceto, a meno che non si siano distinte in guerra con qualche atto di valore. Koa, perciò, ne era vanitosamente superbo. Ma ciò che pareva interessare moltissimo Sexton e Kyle erano le spiegazioni che egli intendeva dar loro del suo tatuaggio e raccontava in quali circostanze il suo petto era stato decorato di questo o di quel disegno, indicando quello della fronte, che rappresentava il suo nome inciso in caratteri indelebili e che per nulla al mondo egli avrebbe voluto cancellare. Del resto, presso gli indigeni, la cute, in seguito a queste operazioni che si estendono a tutta la superficie del corpo, guadagna molto in solidità e spessore. Ne deriva una maggiore resistenza al clima freddo dell'inverno e alle punture delle zanzare: quanti europei non sarebbero felici, a tal prezzo, di poter sfidare gli attacchi di

quegli insetti maledetti! Mentre Koa, sentendosi istintivamente spinto da simpatia verso Sexton e il suo compagno, gettava le basi di una stretta amicizia, Vin Mod «lavorava» Len Cannon, il quale, da parte sua, non chiedeva di meglio. — Amico Cannon, eccoti a bordo del James Cook — disse Vin Mod. —-Una buona nave, non è vero? fila i suoi undici nodi senza che sia necessario darle una mano. — È proprio così, Mod. — E con un bel carico nella pancia, vale molto… — Tanto meglio per l'armatore. — Per l'armatore… o per un altro! Frattanto, non c'è che da incrociare le braccia mentre essa cammina. — Oggi tutto questo va bene, ma domani? — rispose Len Cannon. — Nessuno lo sa… — Domani… dopodomani… sempre! — esclamò Vin Mod, battendo sulla spalla di Len Cannon. — Non è forse meglio esser qui che a terra? Dove sareste tu e i tuoi compagni oggi, se non foste qui? — Alla «Three Magpies», Mod. — No. Adam Fry vi avrebbe messo alla porta, per il modo in cui lo avete trattato… E poi, i poliziotti vi avrebbero acciuffati tutti e quattro! E poiché non è la prima volta, immagino, che vi capiti di andare dinanzi al tribunale di polizia, vi avrebbero fatto il favore di mandarvi a riposare per uno o due mesi nella prigione di Dunedin. — La prigione in città o la nave in mare sono la stessa cosa — rispose Len Cannon che non sembrava rassegnato al suo destino. — Possibile? — esclamò Vin Mod. — È un marinaio quello che parla in questo modo? — Non avevamo l'intenzione di navigare… — disse Len Cannon. — Se non fosse stato per la rissa di ieri, noi saremmo già sulla strada di Otago. — A stentare… ad ammazzarvi di fatica… a crepare di fame e di sete, amico mio; e per che cosa? — Per fare fortuna! — rispose Len Cannon. — Fare fortuna nei giacimenti auriferi? — rispose Vin Mod. — Ma non c'è nulla da pescare laggiù. Non hai visto quelli che ne

tornano? Ciottoli, finché ne vuoi, e puoi riempirtene le tasche, per non dire che sono vuote! La raccolta delle pepite è finita ed esse non spuntano più dall'oggi al domani… e neppure da un anno all'altro! — Conosco gente che non rimpiange di aver lasciato la propria nave per i giacimenti della Clutha… — E io ne conosco quattro… che non rimpiangeranno di essersi imbarcati sul James Cook invece di essere fuggiti verso l'interno! — Dici questo per noi? — Per te e per altri due o tre del tuo stesso stampo… — Vuoi farmi credere che un marinaio guadagni di che divertirsi, mangiare e bere per il resto della sua vita, facendo il cabotaggio per conto del capitano e dell'armatore? — Certamente no — rispose Vin Mod. — A meno che non lo faccia per conto suo! — E in qual modo, se non si è proprietari della nave? — Qualche volta si può diventarlo… — Credi che i miei compagni ed io abbiamo denaro in banca a Dunedin, per comprarne una? — No, amico mio. E se mai avete avuto qualche soldo, esso è passato certamente nelle mani di Adam Fry o di altri banchieri della sua specie! — E allora, Mod, niente denaro, niente nave! E io non credo che il signor Gibson ci voglia fare dono della sua… — No, certamente; ma una disgrazia può sempre capitare. Se il signor Gibson sparisse… un accidente… una caduta in mare… capita anche ai capitani più bravi… un'ondata, non ci vuole molto di più per essere portati via. E di notte… senza che nessuno se ne accorga… Poi, al mattino, non c'è più… Len Cannon guardava Vin Mod con gli occhi negli occhi, chiedendosi se aveva capito bene quel linguaggio. L'altro proseguì: — E allora, che accade? Si sostituisce il capitano; e in questi casi è il secondo che prende il comando della nave. E se il secondo non c'è, è il luogotenente… — E se non c'è il luogotenente… — aggiunse Len Cannon, abbassando la voce, dopo aver spinto lievemente con il gomito il suo interlocutore — se non c'è il luogotenente, c'è il nostromo…

— Proprio così, amico… e con un nostromo come Flig Balt, si va lontano. — Non dove bisognava andare? — insinuò Len Cannon, con uno sguardo di sfuggita. — No… ma dove si vuole andare — rispose Vin Mod. — Dove si fanno buoni affari, buoni carichi… madreperla, copra, spezie… e tutto ciò nella stiva della Little Girl. — La Little Girl! — Sarebbe il nuovo nome del James Cook. Un bel nome, non ti pare? Un nome che dovrebbe portare fortuna! Dopo tutto, quel nome o un altro, anche se a esso Vin Mod sembrava tenerci moltissimo, il fatto era che un affare era in vista. Len Cannon era sufficientemente intelligente per capire d'acchito che la proposta era avanzata a lui e ai suoi compagni della taverna delle «Three Magpies». Non erano certamente gli scrupoli a trattenerlo. Tuttavia, prima di impegnarsi, è meglio conoscere le cose a fondo e da che parte stanno le probabilità. Dopo alcuni attimi di riflessione, Len Cannon volse perciò lo sguardo intorno, per essere certo che nessuno potesse udirlo, e disse a Vin Mod: — Parla! Vin Mod lo mise allora al corrente della faccenda concordata con Flig Balt. Disponibilissimo per proposte del genere, Len Cannon non mostrò nessuna meraviglia nel sentirsele fare, né ripugnanza a discuterle, né esitazione ad accettarle. Sbarazzarsi del capitano Gibson e dei marinai che avessero rifiutato di partecipare alla ribellione contro di lui, impadronirsi del brick, cambiarne il nome e, se necessario, la nazionalità, trafficare nel Pacifico, dividendone in parti uguali i profitti, era proprio quel che ci voleva per sedurre quel furfante. Nondimeno, egli voleva qualche garanzia; voleva avere la certezza che il nostromo fosse d'accordo con Vin Mod. — Stasera, dopo il quarto delle otto, mentre sarai al timone, Flig Balt verrà a parlarti. Tu, Len, apri bene le orecchie… — Sarà lui a comandare il James Cooki — chiese Len Cannon, che senza dubbio avrebbe preferito non essere agli ordini di nessuno. — Certamente. Per mille diavoli, un capitano bisogna pure che ci sia! — rispose Vin Mod. — Tu, i tuoi compagni e noi tutti saremo gli

armatori… — D'accordo, Mod. Non appena sarò solo con Sexton, Bryce e Kyle accennerò loro qualcosa della faccenda. — Il fatto è che la cosa urge… — Urge tanto? — Sarebbe per stanotte. Non appena padroni della nave, prenderemmo il largo. E Vin Mod spiegò perché il colpo doveva essere mandato ad effetto prima dell'arrivo della nave a Wellington, dove avrebbero preso imbarco il signor Hawkins e il figlio del capitano. Con due uomini in più, l'esito sarebbe stato meno certo. In ogni caso, se non si poteva fare quella notte, bisognava che fosse fatto in quella successiva. Più tardi, vi sarebbero state meno probabilità di riuscita. Len Cannon ne comprese il motivo. Quella sera stessa egli avrebbe informato i compagni di cui rispondeva come di se stesso. Avrebbero obbedito subito agli ordini del nostromo… ma, prima, Flig Balt doveva confermare ciò che Vin Mod aveva detto. Sarebbero bastate due parole e una stretta di mano per sigillare l'accordo. Per San Patrizio! Len Cannon non chiedeva una firma! Quel che si promette si mantiene! In breve, verso le otto, così come Vin Mod aveva detto, mentre Len Cannon era al timone, Flig Balt usci dalla tuga e si diresse a poppa. Poiché vi si trovava ancora il capitano, bisognava aspettare che egli fosse tornato nella sua cabina dopo aver dato gli ordini per la notte. Il vento di nord-ovest soffiava ancora, sebbene al tramonto fosse un po' scemato. Il mare prometteva di essere buono fino al mattino e perciò non sarebbe stato necessario mutare la velatura; forse ci sarebbe stato da ammainare solo la vela di straglio dell'albero di velaccio di maestra e il velaccio di trinchetto. Il brick sarebbe rimasto allora con le vele di gabbia, le vele basse e i fiocchi. In ogni caso avrebbe stretto il vento meno da vicino, in attesa di mettere la prua a nord-est. Al largo del porto di Timaru, il James Cook avrebbe attraversato, infatti, l'ampia baia che si apre sulla costa, nota con il nome di

Canterbury-Bight. Per doppiare la penisola di Banks che la chiude, la nave sarebbe dovuta giungervi di due quarti e navigare sotto l'andatura a vento largo. Il signor Gibson fece dunque bracciare i pennoni e filare le scotte in modo da seguire quella direzione. Se il vento non fosse caduto del tutto, egli contava di essersi lasciato dietro, appena fatto giorno, i Pompey's Pillars e di trovarsi dinanzi a Christchurch. Quando i suoi ordini furono eseguiti, Harry Gibson, con gran fastidio di Flig Balt, rimase sul ponte fino alle dieci, ora scambiando qualche parola con lui, ora seduto sul coronamento. Pur essendo stato avvisato da Vin Mod il nostromo si vedeva nella impossibilità di avvicinare Len Cannon. A bordo, comunque, ogni cosa andava bene; il brick non doveva mutare rotta che alle tre o alle quattro del mattino, quando sarebbe giunto in vista del porto di Akaroa. Il signor Gibson diede, allora, un'ultima occhiata all'orizzonte e alla velatura e se ne tornò alla sua cabina che prendeva luce sul davanti della tuga. Non ci fu molto da dire tra Flig Balt e Len Cannon. Il nostromo confermò le proposte di Vin Mod. Niente mezze misure: si butterebbe in mare il capitano, dopo averlo sorpreso nella sua cabina, e poiché non si poteva fare assegnamento su Hobbes, Wickley e Burnes, sarebbero andati anch'essi a raggiungerlo in mare. Len Cannon non doveva, perciò, che assicurarsi la collaborazione dei suoi tre compagni, o per meglio dire, avvertirli: da parte loro non sarebbe venuta certamente nessuna obiezione. — E quando? — chiese Len Cannon. — Questa notte — rispose Vin Mod, che aveva preso parte al colloquio, — A che ora? — Tra le undici e mezzanotte — rispose Flig Balt. — A quell'ora, Hobbes sarà di quarto con Sexton, e Wickley sarà al timone. Non ci sarà bisogno, perciò, di tirarlo fuori dal posto; e quando ci saremo sbarazzati di questi marinai… — D'accordo — rispose, senza scrupoli e senza esitazioni, Len Cannon. Poi, lasciato il timone a Vin Mod, andò verso la prua per mettere al corrente della faccenda Sexton, Bryce e Kyle.

Giunto ai piedi dell'albero di trinchetto, cercò inutilmente Sexton e Bryce… Sarebbero dovuti essere di quarto, ma né l'uno né l'altro erano là. Chiese di loro a Wickley, ma questi si limitò ad alzare le spalle. — Dove sono? — chiese Len Cannon. — Nell'alloggio… ubriachi fradici… tutti e due! — Brutte bestie! — mormorò Len Cannon. — Eccoli ubriachi per tutta la notte! Non si può farne nulla! Appena sceso, trovò i suoi compagni avvoltolati nel loro quadro. Li scosse: erano proprio delle bestie! Avevano sottratto una bottiglia di gin dalla cambusa e l'avevano vuotata fino all'ultima goccia. Era impossibile far passare loro la sbornia, prima dell'indomani. Impossibile informarli dei progetti di Vin Mod! Impossibile contare su di essi per la realizzazione di quel progetto, prima dell'alba: senza di loro la partita sarebbe stata troppo diseguale! Quando Flig Balt seppe del contrattempo, ci si può immaginare facilmente quale fu la sua reazione. Vin Mod fece molta fatica a calmarlo, votando anche lui alla forca i miserabili ubriaconi. Ma, dopo tutto, nulla era perduto. Ciò che non si poteva fare quella notte, sarebbe stato fatto la notte seguente. Avrebbero sorvegliato Sexton e Bryce per impedir loro di bere. In ogni caso, Flig Balt non avrebbe denunciato al capitano né il furto della bottiglia né l'ubriacatura seguitane. Il signor Gibson li avrebbe spediti certamente in fondo alla stiva fino all'arrivo del brick a Wellington, li avrebbe consegnati alle autorità marittime e forse avrebbe fatto per di più sbarcare, come aveva fatto notare Vin Mod, Len Cannon e Kyle. E il suo era parlare da saggio. Peraltro, i marinai non si denunciano mai l'un l'altro. Né Hobbes, né Wickley, né Burnes, e neppure il mozzo avrebbero parlato e il capitano non avrebbe avuto motivo di intervenire. La notte trascorse tranquillamente a bordo del James Cook. Quando Harry Gibson montò di buon mattino sul ponte notò che gli uomini di quarto erano al loro posto, e che il brick filava nella giusta direzione per trovarsi dinanzi a Christchurch dopo aver doppiato la penisola di Banks. La giornata del 27 prometteva bene. Il sole si levò all'orizzonte dissipando velocemente le brume. Per un istante parve che il vento

dovesse soffiare dal largo, ma alle sette girò da terra: senza dubbio si sarebbe mantenuto da nord-ovest, come il giorno precedente. Stringendo il vento la nave avrebbe potuto raggiungere il porto di Wellington senza mutare di mura. — Nulla di nuovo? — chiese il signor Gibson a Flig Balt, quando il nostromo uscì dalla cabina, dove aveva trascorso le ultime ore della notte. — Nulla di nuovo, signor Gibson — rispose. — Chi è al timone? — Il marinaio Cannon. — Non avete avuto motivo di riprendere le nuove reclute per il servizio? — Nessun motivo; credo che quella gente sia migliore di quanto non abbia dato a vedere. — Tanto meglio, Balt, perché ritengo che a Wellington, come a Dunedin, i capitani siano a corto di equipaggio. — È probabile, signor Gibson. — Tutto sommato potrei accontentarmi di questi. — Sarebbe tanto di guadagnato — rispose Flig Balt. Risalendo verso il nord, il James Cook rasentò la costa a tre o quattro miglia di distanza. Sotto i raggi infocati del sole, tutti i particolari apparivano nitidi. Le alte catene del Kaikura, che solcano la provincia di Malborough, rivelavano le loro creste capricciose all'altezza di diecimila piedi. Sui loro fianchi s'ergevano fitte foreste, dorate dalla luce del sole, mentre i corsi d'acqua correvano verso il litorale. Ma il vento tendeva a calare e il brick, quel giorno, avrebbe fatto meno strada del giorno prima; con ogni probabilità, quindi, essi non sarebbero giunti quella notte a Wellington. Verso le cinque del pomeriggio erano state avvistate soltanto le alture del Ben More, a sud del porticciuolo di Flaxburne. Ci sarebbero volute ancora cinque o sei ore prima di trovarsi al largo dello stretto di Cook. E poiché questo passaggio è orientato dal sud al nord, non sarebbe stato necessario cambiare la velocità della nave. Flig Balt e Vin Mod erano dunque certi di poter disporre dell'intera notte per realizzare i loro progetti.

È superfluo dire che l'aiuto di Len Cannon e dei suoi compagni era assicurato. Dissipati i fumi del gin, Sexton e Bryce non avevano mosso obiezioni, come Kyle non appena informato. E poiché Vin Mod era già d'accordo con Len Cannon, non restava più che aspettare il momento dell'azione. Ecco in quale modo si voleva procedere. Tra la mezzanotte e l'una del mattino, mentre il capitano sarebbe stato addormentato, Vin Mod e Len Cannon sarebbero entrati nella cabina per imbavagliarlo, caricarselo sulle spalle e gettarlo in mare, prima che avesse il tempo di gridare. In quello stesso momento, Hobbes e Burnes, di quarto, sarebbero stati afferrati da Kyle, Sexton e Bryce e avrebbero subito la stessa sorte. Koa e Flig Balt, da parte loro, avrebbero avuto facilmente ragione di Wickley e del mozzo. Compiuta l'operazione, non sarebbero rimasti a bordo che i soli autori del delitto, senza un solo testimone; e il James Cook, allentando le scotte, avrebbe raggiunto a vele spiegate le acque del Pacifico, a oriente della Nuova Zelanda. Tutte le probabilità erano dunque in favore della riuscita di questo odioso complotto. Prima di giorno, agli ordini di Flig Balt, il brick sarebbe stato già lontano da quei paraggi. Erano circa le sette quando fu segnalato a nord-est il capo Campbell. Questo capo è, per essere precisi, la punta estrema che limita lo stretto di Cook a sud e ha per riscontro, alla distanza di circa cinquanta miglia, il capo Palliser, estremità dell'isola Ika-na-Maoui. Il brick seguiva allora il litorale a meno di due miglia, con tutte le vele spiegate, perché il vento era diminuito con la sera. La costa era netta, orlata di rocce basaltiche, prime propaggini delle montagne dell'interno. La cima del monte Weld spiccava come una punta di fuoco sotto i raggi del sole morente. Sebbene le maree del Pacifico siano poco notevoli, una corrente da terra portava verso il nord e favoriva il cammino del James Cook in direzione dello stretto. Il capitano doveva rientrare nella sua cabina alle otto, dopo aver lasciato il quarto al nostromo. Non c'era che da sorvegliare il passaggio delle navi all'ingresso dello stretto. Per il resto, la notte sarebbe stata chiara; nessuna vela si mostrava all'orizzonte. Prima delle otto, tuttavia, fu segnalato del fumo a destra, a poppa, e non si tardò a vedere uno steamer che doppiava il capo Campbell.

Vin Mod e Flig Balt non se ne preoccuparono; sapevano con certezza che presto avrebbe sorpassato il brick. Era un avviso dello stato che non aveva ancora ammainato la bandiera. Ora, proprio in quell'istante, si udì un colpo di fucile e la bandiera britannica discese dal picco della randa. Harry Gibson era rimasto sul ponte. Vi sarebbe rimasto finché fosse in vista di quell'avviso che faceva la stessa strada del James Cook, sia che fosse sua intenzione attraversare lo stretto, sia che fosse diretto a Wellington? Ecco quello che si chiedevano Flig Balt e Vin Mod, non senza qualche apprensione e anche con qualche impazienza, non vedendo l'ora di restare soli sul ponte. Trascorse un'ora. Seduto vicino alla tuga, il signor Gibson non sembrava che avesse l'intenzione di chiudersi in cabina. Scambiava qualche parola con il timoniere Hobbes, e guardava l'avviso che era a meno di un miglio dal brick. Si pensi alla delusione di Flig Balt e dei suoi complici: una delusione che quasi diventava rabbia. La nave inglese non marciava più che a modesta velocità e il suo vapore sfuggiva dal tubo di scappamento. Si dondolava, cullata dall'onda lunga, turbando appena l'acqua con lo sbattere dell'elica e non lasciando dietro a sé più scia del James Cook. Perché l'avviso aveva rallentato la marcia? Era sopraggiunta qualche avaria alle macchine? Voleva forse evitare di entrare di notte nel porto di Wellington, i cui passaggi sono difficili? Era certamente per una di queste ragioni che lo steamer sembrava volesse avanzare lentamente, fino all'alba, restando quindi in vista del brick. Ciò non poteva non deludere e inquietare Flig Balt, Vin Mod e gli altri. Per dire la verità, Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce ebbero l'idea, in un primo momento, che quell'avviso fosse stato mandato da Dunedin per inseguirli; e che la polizia, avendo saputo del loro imbarco e della loro partenza sul brick, cercasse di riacciuffarli. Timori esagerati e inutili, certamente. Sarebbe stato più semplice, in questo caso, mandare telegraficamente l'ordine di arrestarli al loro

arrivo a Wellington. Non si manda una nave dello stato per arrestare alcuni marinai fracassoni, quando risulti semplice arrestarli all'arrivo in porto. Len Cannon e i suoi compagni non tardarono a tranquillizzarsi. L'avviso non lanciò nessun segnale per mettersi in comunicazione con il brick e non mise imbarcazioni in mare. Il James Cook non sarebbe stato perquisito e gli arruolati alle «Three Magpies» potevano restarsene tranquilli a bordo. Ma se da questo lato fu bandito ogni timore, è facile immaginare la collera del nostromo e di Vin Mod, vedendo l'impossibilità di agire quella notte e sapendo che il giorno dopo il brick sarebbe stato all'ancoraggio di Wellington. Aver ragione del capitano Gibson e dei tre marinai avrebbe comportato un certo chiasso; si sarebbero difesi, avrebbero resistito, e gridato, e le loro grida sarebbero state udite dall'avviso, che si trovava a non più di due o tre gomene da loro. La rivolta non poteva scoppiare in quelle condizioni… Sarebbe stata subito soffocata dalla nave inglese, che con pochi giri di elica avrebbe accostato il brick. — Maledizione! — borbottò Vin Mod. — Non c'è nulla da fare! Ri-schieremmo di essere mandati a penzolare dai pennoni di quel dannato battello… — E domani — aggiunse Flig Balt — l'armatore e Nat Gibson saranno a bordo! Sarebbe stato necessario allontanarsi dall'avviso; probabilmente il nostromo avrebbe cercato di farlo, se il capitano, invece di tornare in cabina, non fosse rimasto sul ponte durante la maggior parte della notte. Era impossibile prendere il largo… Bisognava rinunciare, perciò, al progetto di impadronirsi del brick, quella notte. L'alba giunse di buon'ora. Il James Cook era passato al largo di Blenheim, posta sul litorale di Tawaï-Pounamou, sulla parte occidentale dello stretto; poi si era accostato alla punta Nicholson, che si proietta all'ingresso della baia di Wellington. Finalmente, alle sei del mattino, entrava nella baia insieme con l'avviso e si ancorava in mezzo al porto.

CAPITOLO IV A WELLINGTON LA CITTÀ di Wellington sorge sulla punta sud-occidentale dell'isola del Nord, in fondo a una baia a forma di ferro di cavallo. Ben riparata dai venti del largo, essa offre eccellenti ancoraggi. Il brick era stato favorito dal tempo, ma ciò non capita sempre. La navigazione nello stretto di Cook presenta assai spesso non poche difficoltà, a causa delle correnti che talora raggiungono la velocità di una decina di nodi anche se le maree del Pacifico non sono mai forti. Il marinaio Tasman al quale dobbiamo la prima scoperta della Nuova Zelanda – dicembre 1642 – vi corse gravissimi pericoli: rischiò di incagliarsi e anche di essere attaccato dagli indigeni: da ciò deriva il nome di «Baia del Massacro» che appare nella nomenclatura geografica dello stretto. Il navigatore olandese vi perdette quattro uomini, divorati dai cannibali del litorale; cento anni dopo di lui, il navigatore inglese James Cook lasciava tra le loro mani l'equipaggio di un canotto di scorta comandato dal capitano Furneaux. Due anni dopo, infine, il navigatore francese Marion du Frène e sedici dei suoi uomini vi trovavano la morte in un'aggressione spaventosamente selvaggia. Nel marzo del 1840, Dumont d'Urville, con l’Astrolabe e la Zélée, penetra nella baia d'Otago dell'isola del Sud, visita le isole Snares e l'isola Stewart, all'estremità meridionale di Tawaï-Pounamou; poi soggiorna nel porto di Akaroa senza doversi lamentare dei suoi rapporti con gli indigeni. Il ricordo del passaggio di questo illustre marinaio è tramandato dall'isola che porta il suo nome. Abitata esclusivamente da tribù di pinguini e di albatri,, essa è separata dalla grande terra del Sud dal «French pass», dove il mare è così violento che le navi non si avventurano volentieri all'uscita dello stretto. Oggi, sotto la protezione della bandiera britannica, almeno per ciò

che riguarda i maori, è assicurata ogni sicurezza nei paraggi della Nuova Zelanda. I pericoli che provenivano dagli uomini sono stati scongiurati; rimangono solo quelli del mare, resi meno insidiosi dai lavori idrografici e dal gigantesco faro eretto sopra una roccia isolata dinanzi alla baia Nicholson, in fondo alla quale appare Wellington. Nel gennaio del 1849 la «New-Zealand Land Company» mandò l'Aurora. a sbarcare i primi coloni sul litorale di quelle terre lontane. La popolazione delle due isole non conta meno di ottocentomila abitanti, e Wellington, capitale della colonia, ne possiede da parte sua circa trentamila. La città sorge in un sito ameno ed è costruita con regolarità; le vie sono ampie e pulite. La maggior parte delle case sono di legno per paura dei terremoti, frequenti nella provincia meridionale. Sono di legno anche gli edifici pubblici, tra i quali il palazzo del governo, posto in mezzo a un bel parco, e la cattedrale, che a dispetto della sua natura religiosa non è al riparo dei cataclismi terrestri. Questa città, meno importante e meno industriale e commerciale delle due o tre sue rivali nella Nuova Zelanda, un giorno certamente le eguaglierà grazie all'impulso colonizzatore della Gran Bretagna. In ogni caso, con la sua università, la sua Camera legislativa, composta da cinquantaquattro membri, di cui quattro maori nominati dal governatore, la sua Camera dei deputati nominati direttamente dal suffragio popolare, i collegi, le scuole, il museo, le officine per le carni refrigerate, la prigione modello, le piazze, i giardini pubblici dove l'elettricità si sostituirà al gas, Wellington gode di comodità eccezionali che potrebbero suscitare l'invidia di molte città del vecchio e del nuovo mondo. Se il James Cook non aveva portato i suoi ormeggi sino alla riva era per il motivo che il capitano Gibson voleva rendere più difficile la diserzione dei suoi uomini. La febbre dell'oro recava guai a Wellington come a Dunedin e agli altri porti neo-zelandesi, dove molte navi si trovavano nell'impossibilità di partire. Il signor Gibson doveva prendere, quindi, ogni precauzione per mantenere al completo il suo equipaggio e conservare anche le quattro nuove reclute, che egli avrebbe preferito scambiare volentieri con altre. Del resto, la sosta a Wellington sarebbe stata di brevissima durata:

ventiquattr'ore appena. Le prime persone che ricevettero la sua visita furono il signor Hawkins e Nat Gibson. Il capitano si era fatto portare a terra subito dopo l'arrivo e suonavano le otto quando egli si presentò all'ufficio del signor Hawkins, posto all'estremità di una via che sbocca sul porto. — Babbo!… — … Amico mio! Harry Gibson fu accolto con quelle parole non appena entrato nell'ufficio. Egli aveva preceduto il figlio e il signor Hawkins che si preparavano a scendere sulla riva, come facevano ogni mattina, per vedere se il James Cook fosse stato segnalato dalla vedetta del semaforo. Il giovane si era subito gettato al collo del padre, poi fu l'armatore a stringere il capitano tra le braccia. Il signor Hawkins, a quel tempo sulla cinquantina, era di statura media, con i capelli brizzolati, occhi chiari e dolci, buona salute e sana costituzione. Esperto e attivo nel commercio, era anche molto intraprendente negli affari. Sappiamo già che la sua posizione a Hobart Town gli garantiva un'assoluta tranquillità economica; oltretutto, avendo fatto fortuna, avrebbe anche potuto ritirarsi dagli affari. Ma dopo un'esistenza laboriosa, gli sarebbe mai convenuto starsene in ozio? Per questo motivo, nell'intento di sviluppare il suo armamento, che comprendeva varie navi, aveva fondato uno scagno a Wellington, con un socio, il signor Balfour. Nat Gibson ne sarebbe diventato l'impiegato principale, cointeressato, non appena il James Cook avesse terminato la sua campagna. Il figlio del capitano aveva allora ventun anni. D'intelligenza vivace, serio, nutriva per suo padre e sua madre e anche per il signor Hawkins un affetto profondo. Quest'ultimo e il capitano erano legati da così intima amicizia che Nat Gibson poteva ben unirli nello stesso affetto. Entusiasta, pieno di ardore e amante del bello, egli aveva l'animo dell'artista, pur dimostrando buone capacità negli affari commerciali. Di statura superiore alla media, aveva occhi neri, capelli e barba castani, portamento elegante, fisionomia simpatica e sicurezza di tratto: piaceva subito e non aveva che amici. Non c'era

dubbio che egli non dovesse diventare, con il tempo, risoluto ed energico. Avendo preso dalla madre, era di temperamento più ardito di quello del padre. Nei momenti d'ozio, Nat Gibson si occupava con piacere e con senso artistico di fotografia, quest'arte già così progredita in virtù dei processi di sviluppo che portano le istantanee al massimo della perfezione. Non abbandonava mai il suo apparecchio e si può ben immaginare se egli se ne fosse servito, nel corso di quel viaggio, fotografando luoghi pittoreschi, indigeni e paesaggi d'ogni genere. Durante il suo soggiorno a Wellington, egli aveva fotografato molte vedute della città e dei dintorni. Anche il signor Hawkins era interessato alla fotografia. Spesso la gente li vedeva partire insieme, con il loro corredo fotografico a tracolla, per tornare con nuovi gioielli per la loro raccolta. Dopo aver presentato il capitano al signor Balfour, il signor Hawkins tornò in ufficio, seguito dal signor Gibson e da suo figlio. Per prima cosa, essi parlarono di Hobart Town. Le notizie non mancavano, in virtù del servizio regolare stabilito tra la Tasmania e la Nuova Zelanda. Anche il giorno prima era giunta una lettera della signora Hawkins; quelle della signora Gibson aspettavano già da alcuni giorni l'arrivo del James Cook a Wellington. Il capitano lesse la sua corrispondenza. Laggiù tutti stavano bene; le signore godevano ottima salute. L'assenza sembrava loro lunga, è vero, ma esse speravano che non si sarebbe prolungata ancora tanto. Il viaggio doveva durare ancora solo poco tempo. — Tra cinque o sei settimane — disse il signor Hawkins — saremo di ritorno a Hobart Town. — Cara mamma! — esclamò Nat Gibson. — Sarà felice di rivederci, come lo siamo stati noi, caro babbo, nel riabbracciarti! — E come lo sono anch'io, ragazzo mio! — Amico mio, ho motivo di credere — disse il signor Hawkins — che la traversata del James Cook sarà ora di breve durata… — Sono dello stesso parere, Hawkins. — Anche a velocità media, la navigazione tra la Nuova Zelanda e la Nuova Irlanda è piuttosto breve — riprese l'armatore. — Soprattutto con questa stagione — rispose il capitano. — Il

mare è bello fino all'equatore e i venti regolari; credo, come te, che non subiremo ritardi, se la nostra sosta a Port Praslin non dovrà prolungarsi. — Non sarà necessario, Gibson. Ho ricevuto dal signor Zieger una lettera rassicurante. Il nostro corrispondente dice che nell'arcipelago c'è una grossa partita di merce, madreperla e copra, 7 che il brick potrà caricare senza difficoltà. — Il signor Zieger è sempre pronto a prendere in consegna le nostre merci? — chiese il capitano. — Sì, amico mio; ti ripeto che ho avuto assicurazione che non ci sarà nessun ritardo, da questo lato. — Non dimenticare, Hawkins, che dopo Port Praslin il brick dovrà recarsi a Kerawara… — È una faccenda di ventiquattr'ore, Gibson. — Ebbene, babbo, possiamo essere precisi sulla durata del viaggio — disse Nat Gibson. — Quanto ci fermeremo a Port Praslin e a Kerawara? — Circa tre settimane. — E il viaggio da Wellington a Port Praslin? — Altrettanto. — E il ritorno in Tasmania? — Circa un mese. — Tra due mesi e mezzo, allora, il James Cook potrebbe essere di ritorno a Hobart Town. — Sì, forse prima che dopo. — Bene — rispose Nat Gibson. — Scriverò oggi stesso alla mamma: il corriere per l'Australia salperà domani l'altro. Le chiederò di avere pazienza ancora per due mesi e mezzo; e che la signora Hawkins ne abbia altrettanta, non è vero, signor Hawkins? — Sì, ragazzo mio. — All'inizio del nuovo anno le due famiglie saranno riunite! — Due famiglie che ne formano una sola! — rispose il signor Hawkins. La mano dell'armatore e quella del capitano si strinsero 7

È chiamata copra la mandorla della noce di cocco quando, seccata sulla sabbia dal sole, è pronta per essere macinata onde estrarne l'olio con cui si fa il sapone. (N.d.A.)

affettuosamente. — Mio caro Gibson, mangeremo qui, con il signor Balfour — disse il signor Hawkins. — D'accordo, Hawkins. — Hai da fare qualcosa in città? — No — rispose il capitano. — Bisogna però che torni a bordo. — Andiamo, allora — esclamò Nat Gibson. — Avrò piacere di rivedere il brick, prima di trasportarvi i nostri bagagli di passeggeri. — Ma si fermerà pure a Wellington qualche giorno! — rispose il signor Hawkins. — Ventiquattr'ore, al più — rispose il capitano. — Non ho avarie da riparare, né carico da imbarcare o sbarcare. Debbo soltanto rinnovare le provviste e per fare ciò mi basta un pomeriggio. È quindi necessario che dia qualche ordine a Balt. — Sei sempre soddisfatto del tuo nostromo? — Sì. È pieno di zelo e conosce bene il mestiere. — E l'equipaggio? — Dei vecchi marinai non ho motivo di lagnarmi. — E; di quelli ingaggiati a Dunedin? — Non mi ispirano nessuna fiducia, ma non ho trovato di meglio… — Il James Cook partirà, allora? — Domani, se non ci capita qui quello che ci è accaduto a Dunedin. In questo momento è meglio che i capitani dei mercantili non facciano sosta nei porti della Nuova Zelanda! — Intendi riferirti alla diserzione che decima gli equipaggi? — chiese il signor Hawkins. — Fa peggio che decimarli — ribatté il signor Gibson. — Su otto marinai, io ne ho perduto quattro dei quali non ho saputo più nulla. — Hai ragione, Gibson; bada che non si ripeta a Wellington ciò che è accaduto a Dunedin. — Appunto per questo ho preso la precauzione di non permettere a nessuno di sbarcare per qualsiasi motivo… neppure al cuoco Koa. — È meglio essere prudenti — aggiunse Nat Gibson. — Vi sono in porto parecchie navi che non possono partire per mancanza di marinai.

— Non mi meraviglia — rispose Harry Gibson. — Conto perciò di spiegare le vele non appena imbarcate le provviste. Domattina, di buon'ora, saremo pronti. Quando il capitano aveva pronunciato il nome del nostromo, il signor Hawkins non aveva potuto trattenere un gesto pieno di significato. — Ti ho chiesto di Flig Balt — disse egli allora — perché non mi aveva fatto un'impressione molto favorevole, quando lo abbiamo ingaggiato a Hobart Town. — Lo so, ma le tue prevenzioni — rispose il capitano — non sono giustificate. Egli svolge i suoi compiti con zelo; gli uomini sanno che bisogna obbedirgli e il servizio non lascia affatto a desiderare. — Tanto meglio, preferisco essermi sbagliato sul suo conto; e giacché ti ispira fiducia… — Del resto, Hawkins, quando si tratta della manovra, io mi fido solo di me stesso, tu lo sai; al nostromo lascio volentieri tutto il resto. Dalla partenza a oggi, non ho avuto motivo di muovergli un solo rimprovero, e se vorrà tornare a imbarcarsi sul brick nel suo prossimo viaggio… — Dopo tutto, ciò riguarda te solo, mio caro amico — rispose il signor Hawkins. — Tu sei il migliore giudice di ciò che ti conviene fare. Come si vede, la fiducia che Flig Balt ispirava a Harry Gibson – fiducia assai mal riposta – era assoluta, tanto quel furbo aveva saputo giocare le sue carte, al pari di Vin Mod. Ecco perché, quando il signor Hawkins chiese ancora se il capitano fosse sicuro dei quattro marinai che non avevano disertato, egli rispose: — Vin Mod, Hobbes, Wickley e Burnes sono buoni marinai e quello che non hanno fatto a Dunedin non cercherebbero di farlo qui, certamente. — Ne terremo conto al ritorno — disse l'armatore. — Non è per essi, dunque, che ho proibito ai marinai di scendere a terra, ma per le quattro reclute. E qui il signor Gibson riferì in quali condizioni Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce erano venuti a bordo avendo fretta di sfuggire alla polizia di Dunedin dopo la rissa avvenuta nella taverna delle

«Three Magpies». — Cattivi soggetti… — disse l'armatore. — Senza dubbio, caro amico… Ma tu sai in quale imbarazzo mi sono trovato; in ritardo di una quindicina di giorni, già mi stavo chiedendo se non avrei dovuto aspettare dei mesi per completare l'equipaggio!… ecco perché si finisce per prendere ciò che si trova… — E ci si separa da ciò che si è trovato, non appena possibile… — rispose il signor Hawkins. — È ciò che avrei fatto qui, a Wellington, se le circostanze lo avessero permesso, ed è quello che farò a Hobart Town. — Abbiamo tempo per pensarci, babbo! — disse Nat Gibson. — Il brick resterà bene qualche mese in disarmo, non è così signor Hawkins? E passeremo questo tempo in famiglia, fino al giorno in cui io stesso tornerò a Wellington. — Le cose si aggiusteranno, Nat — rispose l'armatore. Il signor Hawkins, il signor Gibson e suo figlio lasciarono l'ufficio e scesero sulla riva; chiamarono una barca che faceva servizio in porto e si fecero condurre a bordo del brick. Li ricevette il nostromo, sempre rispettoso e premuroso; rassicurato da ciò che gli aveva detto il capitano il signor Hawkins gli fece buona accoglienza. — Vedo che godete buona salute, signor Hawkins — gli disse Flig Balt. — Sì, sto bene… vi ringrazio… — rispose l'armatore. I marinai Hobbes, Wickley e Burnes, che navigavano da più anni sul James Cook senza aver dato motivo di lagnanza, ricevettero le felicitazioni del signor Hawkins. Poi l'armatore baciò Jim sulle guance e il giovanetto dimostrò grande gioia nel rivederlo. — Ho buone notizie da parte di tua madre — gli disse il signor Hawkins. — Essa spera che il capitano sia contento di te. — Contentissimo — dichiarò il signor Gibson. — Vi ringrazio, signor Hawkins — disse Jim. — Mi fa gran piacere saperlo. — Ed io non conto? — disse Nat Gibson, attirandolo a sé. — Per me non c'è nulla?

— Oh! si, signor Nat — rispose Jim, buttandosi al suo collo. — Che buon aspetto hai! — aggiunse Nat. — Se tua madre ti vedesse ne sarebbe felice! Ti farò la fotografia, prima di partire! — Rassomigliante? — Certo, se non ti muovi… — Non mi muoverò, signor Nat! Dopo aver parlato con Hobbes, Wickley e Burnes delle loro famiglie, che abitavano a Hobart Town, il signor Hawkins rivolse alcune parole a Vin Mod, il quale si mostrò molto sensibile a quella cortesia anche perché l'armatore lo conosceva meno dei suoi compagni, considerato che era al suo primo viaggio a bordo del James Cook. Riguardo alle reclute, il signor Hawkins si limitò a salutarle con un semplice buon giorno. Bisogna pur confessare, del resto, che la loro vista non gli fece impressione migliore di quella che esse avevano fatto al signor Gibson. Peraltro, si sarebbe potuto senza rischio permettere loro di scendere a terra. Non avrebbero mai avuto l'idea di disertare, dopo quelle quarantott'ore di navigazione, e sarebbero certamente rientrati prima della partenza del brick. Vin Mod li aveva istruiti e, nonostante la presenza del signor Hawkins e di Nat Gibson, essi ritenevano che qualche occasione si sarebbe certamente presentata per impadronirsi della nave. Sarebbe stato un po' più difficile; ma c'è qualcosa di impossibile per gente senza fede né legge decisa a non indietreggiare nemmeno dinanzi al delitto? Dopo un'ora, durante la quale il signor Hawkins e il signor Gibson esaminarono insieme i conti del viaggio, il capitano annunciò che il brick avrebbe ripreso il mare il giorno dopo, all'alba. L'armatore e Nat Gibson sarebbero tornati in serata per prendere possesso della propria cabina, dopo avervi fatto trasportare i bagagli. Tuttavia, prima di tornare a terra, il signor Gibson chiese a Flig Balt se avesse avuto bisogno di scendere a terra. — No, capitano — rispose il nostromo. — Preferisco restare a bordo… è più prudente… e sorvegliare gli uomini. — Avete ragione Balt — disse il signor Gibson. — Bisogna, in ogni caso, che il cuoco vada per le provviste.

— Lo manderò, capitano, e se necessario manderò con lui anche due uomini… Stabilita ogni cosa, il canotto che aveva condotto l'armatore e i suoi compagni li ricondusse a terra. Tornarono allo scagno dove abitava il signor Balfour e fecero colazione insieme. Durante il pasto si parlò di affari. Fino a quel momento il viaggio del James Cook era stato molto favorito e aveva reso bene. Il grande cabotaggio tendeva invero a svilupparsi notevolmente in quella zona del Pacifico. La presa di possesso degli arcipelaghi vicini alla Nuova Guinea da parte della Germania apriva nuovi sbocchi. Non era senza motivo che il signor Hawkins aveva stretto rapporti con il signor Zieger, suo corrispondente della Nuova Irlanda, ora Neu Meklenburg. L'ufficio che egli aveva allora aperto a Wellington doveva curare particolarmente questi rapporti grazie all'opera del signor Balfour e di Nat Gibson che tra alcuni mesi sarebbe andato a stare con lui. Dopo colazione, Gibson volle occuparsi delle provviste del brick che il cuoco sarebbe venuto a ritirare nel pomeriggio: conserve, pollame, maiali, farina, legumi secchi, formaggio, birra, gin e sherry, caffè e spezie di vario genere. — Babbo, non uscirai di qui se prima non ti avrò fatto il ritratto! — dichiarò Nat. — Ancora! — esclamò il capitano. — Amico mio, noi due siamo posseduti dal demone della fotografia — aggiunse il signor Hawkins — e non diamo requie alla gente finché non abbia posato dinanzi al nostro obiettivo! Bisogna perciò che tu ti sottometta di buona grazia! — Ma a casa ho già due o tre di questi ritratti! — Ebbene, ne avrai uno di più! — rispose Nat Gibson. — E poiché partiamo domani, il signor Balfour si assumerà il fastidio di spedirlo a mia madre col prossimo corriere. — D'accordo — disse il signor Balfour. — Vedi, babbo, il ritratto è come il pesce — riprese il giovane. — Ha valore solo quando è fresco! Pensa che hai dieci mesi di più di quando sei partito da Hobart Town; sono certo che non somigli più a

quella tua fotografia che è sul caminetto della tua camera. — Nat ha ragione! — confermò il signor Hawkins, ridendo. — Ti ho riconosciuto con difficoltà, questa mattina! — Questa, poi… — esclamò il signor Gibson. — Te lo assicuro… Non c'è nulla che trasformi come dieci mesi di navigazione… — Allora fa' pure, ragazzo mio — rispose il capitano. — Eccomi pronto al sacrificio… — Quale posa vuoi prendere? — chiese scherzosamente l'armatore. — Quella del marinaio che parte o quella del marinaio che arriva? La posa del comandante con il braccio teso verso l'orizzonte e la mano che stringe il sestante o il cannocchiale? Quella del padrone, dopo Dio? — Quella che vuoi tu, Hawkins. — E poi, quando sarai dinanzi all'apparecchio, cerca di pensare a qualcosa! Darà più espressione alla fisionomia! A che cosa penserai? — Penserò a mia moglie, a mio figlio e a te, amico mio… — rispose Gibson. — In tal caso otterremo un magnifico negativo! Nat Gibson possedeva un apparecchio portatile assai perfezionato, di quelli che in pochi secondi danno il negativo. Il signor Gibson riuscì molto bene, sembrava, stando a quello che il figlio aveva detto dopo aver esaminato il negativo, il cui sviluppo sarebbe stato affidato alle cure del signor Balfour. Il signor Hawkins, il capitano e Nat Gibson lasciarono lo scagno per andare a procurarsi il necessario per una navigazione d'una decina di settimane. I depositi non mancano a Wellington e vi si trovano provviste marittime di vario genere: prodotti alimentari, dotazioni di bordo, attrezzi, carrucole, cordame, utensili, vele di ricambio, strumenti di pesca, barili di catrame e di pece, utensili da carpentiere e da calafato. Ma tranne poche guglie di cavo da sostituire le necessità del brick si limitavano a ciò che riguardava il vitto dei passeggeri e dell'equipaggio; gli acquisti furono perciò presto fatti, pagati e mandati al James Cook, non appena i marinai Wickley, Hobbes e il cuoco furono giunti. Il signor Gibson sbrigò nel contempo le formalità obbligatorie per

ogni nave che entra o che esce dal porto. Nulla avrebbe perciò impedito al brick di salpare all'alba, più fortunato di altre navi mercantili che la diserzione dei loro uomini costringeva a restare in sosta a Wellington. Durante queste corse attraverso la città, tra gente affaccendata, il signor Hawkins e i suoi compagni incontrarono un certo numero di maori della campagna circostante. La loro importanza numerica è molto diminuita in Nuova Zelanda, come quella degli australiani in Australia, e soprattutto quella dei tasmaniani in Tasmania, essendo gli ultimi esemplari di questa razza quasi scomparsi. Oggi si contano appena una quarantina di indigeni nell'isola del Nord e circa duemila in quella del Sud. I maori si occupano in particolare della coltivazione di ortaggi e soprattutto di alberi da frutto, i cui prodotti sono abbondanti e di ottima qualità. Gli uomini, bei tipi, sono di carattere energico e di robusta costituzione. Le donne sembrano esser loro inferiori. In ogni caso, bisogna abituarsi a vedere il sesso debole andare in giro con la pipa in bocca e fumare più smodatamente del sesso forte. Non ci si stupirà dunque se ciò impedisce lo scambio di cortesie con le signore maore, giacché la loro consuetudine non richiede soltanto di darsi il buon giorno oppure una stretta di mano, ma di strofinare il naso dell'una contro il naso dell'altra. Sembra che questi indigeni siano di origine polinesiana ed è anche possibile che i primi immigranti nella Nuova Zelanda siano venuti dall'arcipelago di Tonga-Tabù posto a circa milleduecento miglia a nord. Vi sono due motivi, insomma, perché questa popolazione diminuisca e sia destinata più in là a sparire. La prima causa di distruzione è la malattia, soprattutto la tubercolosi, che fa grande strage nelle famiglie. La seconda, ancora più terribile, è l'ubriachezza; ed è da notare che le donne occupano il primo posto in questo spaventoso abuso di alcolici. D'altra parte, bisogna osservare che il regime di alimentazione presso i maori si è profondamente modificato. Grazie ai missionari, l'influenza del cristianesimo si è fatta determinante. Un tempo gli indigeni erano antropofago e chi potrebbe dire che questo nutrimento

molto azotato non convenisse al loro temperamento…? Comunque sia, è meglio che essi muoiano piuttosto che mangiarsi a vicenda, «anche se», come poté dire un turista dotato di spirito d'osservazione, «il cannibalismo non ebbe mai che un solo scopo, la guerra: divorare gli occhi e il cuore del nemico, per acquistarne il coraggio e la sagacia». I maori resistettero all'invasione britannica sino al 1875; fino a quando, cioè, l'ultimo re di King Country si sottomise all'autorità della Gran Bretagna. Verso le sei, il signor Hawkins, il capitano e Nat Gibson tornarono in ufficio per cenare; poi, dopo aver salutato il signor Balfour, si fecero condurre a bordo del brick. Il James Cook avrebbe levato l'ancora alle prime luci del giorno.

CAPITOLO V ALCUNI GIORNI DI NAVIGAZIONE ERANO le sei del mattino, quando il James Cook spiegò le vele per lasciare il porto. La nave dovette fare alcune evoluzioni per uscire dalla baia attraverso il canale sinuoso. Dopo aver contornato la punta Nicholson, grazie a numerose virate, si cacciò nello stretto dove il vento contrario soffiava da nord. Quando fu all'altezza di Orokiva, la brezza marina dell'ovest gli permise di attraversare la vasta insenatura che si apre sul litorale di Ika-na-Maoui, tra Wellington e New Plymouth, oltre il capo Egmont. Tagliando obliquamente questa baia, il James Cook si era dunque allontanato dalla terra che doveva poi ritrovare alla latitudine del suddetto capo. La distanza da percorrere lungo la costa occidentale dell'isola del Nord era di circa cento miglia: con vento persistente avrebbe potuto essere superata in tre giorni. Del resto, considerata la direzione del vento, non sarebbe stato possibile restare in vista del litorale di cui Harry Gibson conosceva perfettamente il rilievo idrografico: non vi sarebbe stato nessun pericolo per il brick a starsene un po' lontano. La prima giornata trascorse in piacevoli condizioni. Seduti vicino alla tuga, il signor Hawkins e Nat Gibson si lasciavano cullare dall'impressione deliziosa del procedere della nave. Un po' inclinata a causa del vento, essa sfuggiva rapidamente alle lunghe ondate lasciandosi dietro una scia ondeggiante di spuma. Il capitano andava e veniva, gettando rapidi sguardi all'abitacolo posto dinanzi al timoniere, e scambiando qualche parola con i passeggeri. Metà dell'equipaggio era di guardia a prua; l'altra metà si riposava nell'alloggio dopo aver ricevuto la razione del mattino. Erano state gettate a rimorchio molte lenze, e certo a mezzogiorno, all'ora del pasto, esse non sarebbero state tirate senza portare alcuni di quei

pesci di cui quei mari abbondano. Bisogna anche sapere che i paraggi della Nuova Zelanda sono frequentatissimi dalle balene. Questa pesca si esercita con grande successo. Intorno al brick, in quella vasta baia, apparve un certo numero di balene che sarebbe stato facile catturare. Ciò indusse il signor Hawkins a dire al capitano, mentre insieme guardavano questi enormi mammiferi che giocherellavano in superficie: — Ho sempre desiderato esercitare il cabotaggio e insieme la pesca, Gibson. Credo che si possano trarre buoni guadagni sia dall'uno sia dall'altra. — È possibile! — rispose il capitano. — Le baleniere che visitano questi mari riempiono facilmente la loro stiva di barili di olio, di grasso e di fanoni. 8 — Si diceva a Wellington — fece notare Nat Gibson — che le balene si lascino catturare più facilmente qui che altrove. — È vero — disse il capitano. — Pare che ciò sia dovuto al fatto che il loro udito non sia così addestrato come quello delle altre specie. È perciò possibile accostarle a tiro di fiocina. Si può dire che balena segnalata è balena catturata, a meno che il cattivo tempo non ci si metta di mezzo. Purtroppo i colpi di vento in questi mari sono frequenti e terribili. — D'accordo — rispose il signor Hawkins. — Un giorno o l'altro armeremo un battello da pesca. — Ma con un altro capitano, amico mio! A ciascuno il suo mestiere. Io non sono baleniere. — Con un altro capitano, d'accordo, Gibson, e con un'altra nave. Ci vuole un'attrezzatura particolare che il James Cook non potrebbe avere. — Certo, Hawkins, ci vuole una nave che possa imbarcare duemila barili d'olio nel corso di una campagna di pesca che, a volte, dura anche due anni, e delle piroghe per l'inseguimento degli animali, e un equipaggio di trenta o quaranta uomini, tra fiocinieri, bottai, fabbri, carpentieri, marinai e mozzi, oltre a tre ufficiali, almeno, e a 8

I fanoni venivano soprattutto utilizzati per le stecche dei busti e degli ombrelli. (N.d.T.)

un medico. — Babbo, il signor Hawkins non ometterebbe nulla di ciò che occorre a questo armamento — disse Nat Gibson. — È una grossa faccenda, ragazzo mio — rispose il capitano. — Il mio parere è che in questa parte del Pacifico il cabotaggio dia guadagni più sicuri. Vi sono state campagne di pesca rovinose. Aggiungo che le balene, troppo inseguite, ora tendono ad allontanarsi verso i mari polari. Occorre andare a cercarle fin nei pressi dello stretto di Bering, dalla parte delle isole Kurili, o nei mari antartici: viaggi lunghi e pieni di pericoli, dai quali qualche nave non ha mai fatto ritorno. — Dopo tutto, mio caro Gibson, questa è solo un'idea — disse l'armatore. — Si vedrà, più in là. Stiamo nel cabotaggio, che ha sempre dato buoni risultati, e riportiamo il brick a Hobart Town con un bel carico nella stiva. Verso le sei della sera, il James Cook avvistò la costa dinanzi alla baia Waimah, all'altezza dei piccoli porti di Ohawe. Poiché spuntavano alcune nuvole all'orizzonte, il capitano fece ammainare i velacci e prendere una mano di terzaroli nelle vele di gabbia. Questa precauzione si impone a tutte le navi, in quei paraggi, dove i colpi di vento sono improvvisi e violenti, e ogni sera l'equipaggio diminuisce la velatura per timore di una sorpresa. Il brick, infatti, fu discretamente sballottato fino al mattino e dovette portarsi alcune miglia al largo dopo aver avvistato il faro di capo Egmont. Spuntato il giorno, tornò verso terra, dalla quale il signor Gibson non voleva tenersi lontano, e passò dinanzi all'apertura di New Plymouth, importante città dell'isola del Nord. Il vento, cresciuto durante la notte, ora soffiava forte, rendendo impossibile spiegare i velacci ammainati il giorno prima; il signor Gibson dovette accontentarsi perciò di spiegare i terzaroli delle gabbie. Il brick filava a dodici nodi, piegato a destra, sollevato a lungo dall'ondata proveniente dal largo. A volte le onde, battendo sul bordo, coprivano la prua di spruzzi. Il bompresso si tuffava fino a bagnare la figura di prua per poi risollevarsi subito. I colpi di beccheggio e di rollio non mettevano in imbarazzo né il signor Hawkins né Nat Gibson: avevano già navigato e perciò vi

erano abituati; il mal di mare non lo avrebbero sofferto. Respiravano con soddisfazione l'aria vivificante impregnata di salsedine di cui i polmoni possono ampiamente riempirsi. Nel contempo, i loro sguardi traevano piacere dalla contemplazione dei paesaggi infinitamente vari della costa occidentale. Questa costa è forse più strana di quella dell'isola del Sud. Ika-naMaoui – il nome in lingua polinesiana significa «il pesce di Maoui» – appare più ricca di insenature, baie, e porti di Tawaï-Pounamou, nome che gli indigeni danno al lago nel quale si raccoglie la giada verde. Dal largo, l'occhio abbraccia la verdeggiante catena montuosa dalla quale un tempo sgorgavano le eruzioni vulcaniche. Essa costituisce l'ossatura, o meglio la colonna vertebrale dell'isola, la cui larghezza media è di una trentina di leghe. La superficie della Nuova Zelanda, nell'insieme, non è inferiore a quella delle isole britanniche: costituisce una seconda Gran Bretagna che il Regno Unito possiede ai suoi antipodi, nel Pacifico. Se l'Inghilterra è separata dalla Scozia da quello stretto fiume che è la Tweed, qui invece è un braccio di mare che separa l'isola del Nord dall'isola del Sud. Da quando il James Cook aveva lasciato il porto di Wellington, le probabilità d'impadronirsi della nave erano certamente scemate. Flig Balt e Vin Mod ne parlavano spesso, e quel giorno, nell'ora di colazione, che riuniva nella tuga il signor Hawkins, Nat Gibson e il capitano, essi tornarono a parlarne. Vin Mod reggeva il timone ed essi non correvano il rischio d'essere ascoltati dai marinai di quarto a prua. — Ah! quel maledetto avviso! — non cessava di ripetere Vin Mod. — È quello che ci ha impedito di fare il colpo! Per ventiquattr'ore, quell'accidente di nave ci è rimasta attaccata alle costole! Se il suo comandante dovesse mai pendere dall'alto di un pennone, vorrei esser io a tirare la corda che gli stringerà il collo! Non poteva proseguire la sua rotta invece di filare di conserva con il brick? Senza quell'avviso il James Cook ora non avrebbe più né il capitano né i suoi uomini! Percorrerebbe i mari orientali con un buon carico, diretto alle isole Tonga o alle Figi. — Parole! — disse Flig Balt. — Ci si consola come si può — rispose Vin Mod.

— Si tratta di sapere — riprese il nostromo — se la presenza a bordo dell'armatore e del figlio del capitano non ci obblighi a rinunciare… — Questo mai! — esclamò Vin Mod. — I nostri compagni non ci sentono da quell'orecchio! Len Cannon e gli altri avrebbero ben trovato il modo di svignarsela a Wellington, se avessero pensato che il brick dovesse tornare tranquillamente a Hobart Town! Vogliono navigare per conto proprio e non per conto del signor Hawkins! — Queste sono parole, ripeto… — disse Flig Balt, alzando le spalle. — Possiamo sperare che l'occasione si ripresenti? — Sì! — affermò Vin Mod, che si sentiva invadere dalla rabbia nel vedere lo scoraggiamento del nostromo. — E sapremo ben approfittarne! Se non sarà oggi o domani, sarà dopo… nei paraggi della Papuasia… in quegli arcipelaghi in cui la polizia non dà fastidio! Facciamo una supposizione a mo' di esempio… L'armatore e qualche altro, Nat Gibson e due o tre marinai, non tornano più a bordo, una sera… Non si sa che cosa ne è stato di loro… Il brick riparte, non è così? Vin Mod soffiava questi pensieri criminosi nell'orecchio di Flig Balt. Deciso a non lasciarlo tentennare, risoluto a spingerlo fino agli estremi, egli non poté trattenere una formidabile bestemmia quando il nostromo gli diede, per la terza volta, una risposta poco incoraggiante: — Non sono che parole, queste… nient’altro che parole! Vin Mod lanciò un'altra orribile bestemmia, che fu udita questa volta fin dalla sala della tuga. Il signor Gibson si alzò da tavola e comparve sulla porta posteriore. — Che cosa c'è? — chiese. — Nulla, signor Gibson — rispose Flig Balt. — Una sbandata che per poco non ha buttato sul ponte Vin Mod. — Ho creduto per un momento di essere scaraventato in mare — disse il marinaio. — Il vento è forte e il mare cattivo — disse il signor Gibson, dopo aver esaminato con un rapido colpo d'occhio la velatura del brick. — Il vento tende a spirare da est — fece rilevare Flig Balt. — È vero, ne arriva qualche soffio, Mod… Non c'è pericolo ad

accostarsi alla terra. Dato quell'ordine e vistolo eseguito, il signor Gibson rientrò nella tuga. — Ah! — mormorò Vin Mod. — Se comandaste voi, il James Cook, mastro Balt, invece di poggiare, orzerebbe piuttosto… — Sì, ma io non sono il capitano! — rispose Flig Balt, andando verso prua. — Ma lo sarà, tuttavia — diceva Vin Mod a se stesso. — Bisogna che egli lo sia, a costo di essere impiccato! Quel giorno furono viste meno balene del giorno precedente, la qual cosa spiegava le poche baleniere incontrate in quei paraggi. Di solito si cerca di catturarle lungo il litorale orientale, dalle parti di Akaroa e della baia delle isole di Tawaï-Pounamou. Ma il mare non era deserto. Un certo numero di navi di cabotaggio scendevano o risalivano, al riparo della terra, attraverso e oltre la baia di Taranaki. Nel pomeriggio, favorito sempre dal forte vento, e dopo aver perduto di vista la cima del Whare-Orino, alto duemila piedi, la cui base è bagnata dal mare, il James Cook passò dinanzi ai porti di Kawhia e di Aotea, dove rientrava una flottiglia di battelli da pesca che non potevano più tenere il largo. Il signor Gibson dovette allora prendere un terzaruolo nelle gabbie conservando la vela di mezzana, la grande vela, la randa e i fiocchi. Se il mare fosse diventato cattivo e se il vento si fosse mutato in tempesta, egli avrebbe avuto sempre un rifugio vicino per la notte; verso le sei di sera, infatti, la nave si sarebbe trovata dinanzi ad Auckland. Egli preferì, quindi, non mutare rotta. Supponendo che il James Cook fosse stato costretto a cercare un rifugio contro il maltempo proveniente dal largo, la nave lo avrebbe trovato senza fatica ad Auckland. La baia, di cui questa città occupa il fondo verso settentrione, è una delle più sicure di questa zona del Pacifico. Quando un bastimento ne ha superato la stretta gola tra le rocce di Parera e il «Manukan hafen», esso naviga nell'interno di una rada protetta da tutti i lati. Non c'è necessità di raggiungere neppure il porto: la rada basta a offrire buon ancoraggio a più flotte. Con simili vantaggi per il commercio marittimo, non può destare meraviglia se la città abbia acquistato rapidamente grande

importanza. Se si tiene conto dei suoi sobborghi, essa conta circa sessantamila abitanti. Disposta sulle colline meridionali della baia, essa ha aspetto vario, con le sue piazze, i giardini che la flora tropicale abbellisce, le vie larghe e pulite, contornate da palazzi e botteghe; questa strana città, industriale e commerciale insieme, può suscitare l'invidia di Dunedin e di Wellington. Se il signor Gibson si fosse rifugiato nel porto, vi avrebbe incontrato cento navi in arrivo e in partenza. In questa parte settentrionale della Nuova Zelanda, l'attrazione delle miniere d'oro si faceva sentire meno che non nella parte meridionale di Ika-naMaoui, e ancora meno che nelle province di Tawaï-Pounamou, dove il brick avrebbe potuto sbarazzarsi, senza troppe difficoltà, delle reclute imbarcate a Dunedin sostituendole con quattro o cinque marinai da scegliere tra quelli che il disarmo delle navi lascia liberi da ingaggio. E non c'è dubbio che il capitano si sarebbe deciso a farlo – tanto poca era la fiducia che gli ispiravano Len Cannon e i suoi compagni – con gran dispetto di Flig Balt e di Vin Mod, se egli avesse gettato l'ancora ad Auckland. Ma, per evitare altri ritardi, egli ritenne utile di starsene con poche vele tutta la notte, in mare aperto. Qualche volta, anzi, per far fronte alle onde che provenivano da ovest, si mise alla cappa e si allontanò dalla costa, le cui luci sembravano troppo vicine a dritta. In breve, il James Cook si comportò magnificamente, per l'abile manovra di colui che lo dirigeva. La nave non subì avarie di rilievo, né allo scafo né all'alberatura. Il giorno dopo, 2 novembre, con vento più moderato e mare migliore, il brick passava al gran lasco dinanzi a un'altra rada, più ampia di quella di Auckland: la rada di Kaipara, in fondo alla quale è sorta Port Albert. Infine, ventiquattr'ore dopo, scemato notevolmente il vento, si lasciava dietro, dopo un percorso di settanta od ottanta miglia, le vette dei Mannganni Bluff, la baia di Hokianga, la punta Beef e il capo Van Diemen. A sinistra, si lasciava le scogliere dei Three Kings. Il mare si apriva ora libero dinanzi alla prua fino a quel groviglio di arcipelaghi compreso tra l'equatore e il tropico del Capricorno, e cioè gli arcipelaghi della Tonga, delle Ebridi e delle

Salomone. Non c'era dunque che da mettere la prua a nord-ovest, sulle terre della Nuova Guinea, lontane ancora millenovecento miglia, per avvistare le Luisiadi e, oltre, i gruppi ora diventati domini coloniali della Germania. Se il vento e il mare lo avessero favorito, il signor Gibson contava d'effettuare quella traversata nel più breve tempo possibile. Risalendo verso la linea equinoziale, i periodi burrascosi sono meno frequenti e meno temibili che non nei paraggi dell'Australia e della Nuova Zelanda. D'altra parte, una nave è esposta, come si sa, alle calme che possono ritardare per lunghi giorni la navigazione a vela, mentre rendono rapida e sicura la navigazione a vapore. Ma quest'ultima risulta troppo costosa; quando si tratta di esercitare il grande e il piccolo cabotaggio nei lontani mari del Pacifico, conviene avvalersi della tela piuttosto che sprecare carbone. Comunque sia, il vento debole e intermittente minacciava di ridurre a due o tre miglia all'ora la velocità del brick. Eppure la nave aveva spiegato tutte le vele, comprese quelle di straglio e i velacci. Ma se la calma assoluta fosse sopraggiunta, quando non c'è un soffio d'aria che increspi la superficie del mare e le onde lunghe cullano la nave senza spostarla, tutto quell'apparato di vele non sarebbe servito a nulla. Il signor Gibson avrebbe potuto trarre aiuto soltanto dalle correnti che in quella zona del Pacifico portano generalmente a nord. Tuttavia, il vento non cadde completamente. Un magnifico sole sembrava mettere il mare in ebollizione, come se fosse stato surriscaldato negli strati inferiori. Le vele alte si gonfiavano e il James Cook si lasciava dietro una lieve scia. Nella mattinata, mentre il signor Hawkins, Nat Gibson e il capitano chiacchieravano di cose di cui di solito si parla durante la navigazione, e cioè del tempo che fa e di quello che farà, il signor Gibson disse: — Non credo che questo tempo duri. — Perché? — chiese l'armatore. — Vedo all'orizzonte certe nuvole che presto ci porteranno vento, a meno che non mi sbagli di grosso… — Ma quelle nuvole non si alzano — fece notare il signor

Hawkins. — Se si alzano un poco, si dissipano… — Non importa, amico mio; quelle nuvole finiranno per prendere corpo… e le nuvole significano vento! — Il quale ci sarebbe favorevole… — aggiunse Nat Gibson. — Ma noi non abbiamo bisogno di un vento da tre terzaroli — disse il capitano. — Ci basta quello che occorre per gonfiare i nostri coltellacci e arrotondare le nostre vele basse. — Che cosa dice il barometro? — chiese il signor Hawkins. — Tende ad abbassarsi — rispose Nat Gibson, dopo aver consultato l'apparecchio posto nella sala della tuga. — Scenda pure — disse il capitano — purché scenda lentamente e non faccia salti da scimmia, che si arrampica e ruzzola giù dal suo albero di cocco! Se le calme sono noiose, i colpi di vento sono temibili, ed io credo, tutto sommato, che sia preferibile… — Voglio dirti io ciò che sarebbe preferibile, Gibson — disse il signor Hawkins. — Sarebbe preferibile avere a bordo un motore ausiliario da quindici o venti cavalli. Servirebbe a farci fare della strada quando non c'è più un alito di vento nell'atmosfera e ci aiuterebbe a entrare nei porti e a uscirne… — Finora ne abbiamo fatto a meno e ne faremo a meno ancora per un pezzo — rispose il capitano. — Il fatto è, amico mio, che tu sei rimasto il marinaio della vecchia marina mercantile… — Proprio così, Hawkins; non sono adatto per questo genere di navi miste! Se sono costruite bene per andare a vapore sono costruite male per la vela, e viceversa… — In ogni caso, babbo, ecco laggiù del fumo — disse Nat Gibson — che sarebbe bello se provenisse in questo momento dalla nostra nave. Il giovane indicava con la mano un lungo pennacchio di fumo nerastro che si allungava all'orizzonte verso nord-ovest. Non era possibile scambiarlo per una nuvola: era il fumo di uno steamer che filava rapidamente in direzione del brick. Prima di un'ora i due bastimenti si sarebbero trovati l'uno accanto all'altro. L'incontro in mare con una nave è sempre interessante. Si cerca di indovinarne la nazionalità dalla forma dello scafo e dalla

disposizione dell'alberatura, in attesa che essa abbia issato la bandiera in segno di saluto. Harry Gibson aveva portato il suo cannocchiale all'occhio e una ventina di minuti dopo che lo steamer era stato avvistato credette di essere in grado di dire che era una nave francese. Non si sbagliava; quando il bastimento non fu più che a due miglia dal James Cook, la bandiera tricolore sali sul picco della randa. Il brick rispose subito inalberando la bandiera del Regno Unito. Quello steamer di otto o novecento tonnellate, che molto probabilmente era una carboniera, doveva esser diretto verso un porto della Nuova Olanda. Verso le undici e mezzo era a poche gomene dal brick e gli si faceva ancora più vicino come se avesse l'intenzione di scambiare qualche frase. Del resto, il mare calmissimo favoriva la manovra che, peraltro, non presentava pericoli. A bordo dello steamer non ci si preparava a mettere in mare una scialuppa; domande e risposte sarebbero state scambiate, perciò, per mezzo del megafono, come d'uso. Ecco quel che fu detto, in lingua inglese, tra lo steamer e il brick: — Il nome della vostra nave? — James Cook, di Hobart Town. — Capitano? — Capitano Gibson. — Capito. — E voi? — L'Assomption, di Nantes, capitano Foucault. — Dove andate? — A Sydney, Australia. — Capito. — E voi? — A Port Praslin, Nuova Irlanda. — Venite da Auckland? — No, da Wellington. — Capito. — E voi?

— Da Amboine, nelle Molucche. — Buona navigazione? — Buona… Un'informazione: ad Amboine si è preoccupati per la sorte della goletta Wilhelmina di Rotterdam, che sarebbe dovuta arrivare già da un mese proveniente da Auckland. Ne avete notizie? — Nessuna. — Ho fatto rotta per l'ovest attraverso il Mar dei Coralli — disse il capitano Foucault — ma non l'ho incontrata… Contate forse di cercarla a est della Nuova Irlanda? — È nostra intenzione. — Forse la Wilhelmina è stata disalberata da qualche tempesta… — Possibilissimo… — Vi preghiamo di vigilare nell'attraversare questi paraggi… — Vigileremo. — E ora, buon viaggio, capitano Gibson. — Buon viaggio anche a voi, capitano Foucault! Un'ora dopo il James Cook, che aveva perduto di vista lo steamer, metteva la prua a nord-nord-ovest e si dirigeva verso l'isola di Norfolk.

CAPITOLO VI SI AVVISTA L'ISOLA DI NORFOLK L'ISOLA di Norfolk, posta in quei paraggi del Pacifico a 29°02' di latitudine sud e a 105°42' di longitudine est, ha la figura geometrica di un quadrilatero quasi regolare su tre lati, il cui litorale si incurva, si solleva e modifica verso nord-ovest la sua regolarità. Ai suoi quattro angoli, le punte Howe, Nord-Est, Rocks e Rochy: più eccentricamente un picco, il Pitt Mount, che innalza la sua cima a circa millecento piedi di altezza. Quest'isola, il cui perimetro è di circa sei leghe, è circondata, come tutte le altre di quel vasto oceano, da un anello di corallo che la protegge come una muraglia protegge una piazzaforte. L'onda lunga del largo non eroderà mai la sua base di creta giallastra che una lieve risacca basterebbe a distruggere, perché le onde si rompono contro le rocce coralline prima di raggiungerla. Le navi perciò possono accostarsi soltanto con difficoltà, scivolando attraverso passaggi stretti e pericolosi, esposte alle sorprese dei turbini e dei risucchi. A Norfolk non esistono porti veri e propri. Soltanto a sud, nella baia Sydney, furono creati dei penitenziari. Per la posizione isolata, per la difficoltà di sbarcarvi e per quella di uscirne, sembra infatti che la natura abbia destinato quest'isola a essere una prigione. È opportuno anche notare che al sud, in direzione degli isolotti Nepcan e Philips, che completano il piccolo gruppo, le barriere di corallo si prolungano fino a sei o sette leghe dal litorale. Pur nelle sue piccole dimensioni, l'isola è tuttavia una ricca particella del dominio coloniale della Gran Bretagna. Quando la scoprì, nel 1774, Cook rimase per prima cosa stupito dalla magnifica vegetazione, nel clima mite e caldo insieme dei tropici. La si sarebbe detta un'aiuola staccata dalle campagne della Nuova Zelanda, adorna di identiche piante. Vi cresce in abbondanza un lino di qualità

superiore, il «phormium tenax», e una specie di pino bellissimo appartenente al genere delle araucarie. Poi, a perdita d'occhio, si stendono pianure verdeggianti, dove crescono spontaneamente l'acetosella e il finocchio. Già agli inizi del secolo, il governo britannico aveva trasferito nell'isola una colonia di deportati. Con il lavoro di questi disgraziati furono dissodati terreni e intrapresi lavori agricoli; la resa del granturco giunse a tal punto che i moggi si contarono a migliaia. L'isola era come un granaio ricolmo posto tra l'Australia e la Nuova Zelanda. Ma troppi scogli d'ogni genere la circondano e ne impediscono praticamente l'utilizzo. In presenza di tali ostacoli, la colonia penale dovette essere perciò abbandonata una prima volta. Ma poiché in quest'isola si potevano tenere agevolmente, sotto un pugno di ferro, i criminali più incalliti della Tasmania e della Nuova Galles, la colonia fu riorganizzata. Essa ebbe fino a cinquecento deportati, sorvegliati da centoventiquattro militari e una amministrazione di centocinquanta impiegati. Vi fu fondata e valorizzata una fattoria statale e il raccolto del granturco assicurò il consumo in cereali. L'isola di Norfolk era disabitata all'epoca in cui il grande navigatore ne determinò la posizione geografica. Nessun indigeno maori o malese vi era stato attratto nonostante la ricchezza del suolo. Essa non ebbe mai altra popolazione all'infuori dei condannati deportativi dal governo britannico. Era deserta quando fu scoperta ed è tornata deserta. Nel 1842, per la seconda e senza dubbio per l'ultima volta, l'Inghilterra abbandonò quella colonia penale per trasferirla a Port Arthur, sulla costa meridionale della Tasmania. Quattro giorni dopo aver perduto di vista le estreme punte della Nuova Zelanda, il James Cook avvistò l'isola di Norfolk. Con vento medio, aveva percorso ottanta miglia durante la giornata del 2, centoventi nella giornata del 3, altrettante durante la giornata del 4, e solo settanta il giorno 5, il vento essendo caduto. Verso sera, il brick aveva superato la distanza di circa quattrocento miglia che separa le due isole. Nel pomeriggio, la vedetta segnalò a nord-est una altura. Era la cima del Pitt Mount; verso le cinque, la nave era dinanzi alla punta nord-est dell'isola di Norfolk.

Nel corso di quella navigazione, il signor Gibson aveva fatto attentamente sorvegliare la zona di mare che la nave attraversava. Sulla rotta del James Cook non era stato avvistato nessun rottame: il mistero della scomparsa della nave olandese Wilhelmina era pur sempre da scoprire. A mano a mano che il sole declinava dietro le alture dell'isola, il vento cadeva, il mare assumeva un aspetto lattiginoso e dalla sua superficie, gonfiata dall'onda lunga, sparivano le increspature. L'indomani mattina, il brick sarebbe stato certamente ancora in vista dell'isola. Ne era a due miglia appena e, per prudenza, evitava di accostarvisi di più, i banchi di corallo allungandosi pericolosamente al largo. Il James Cook, – del resto, era quasi immobile, come se avesse lasciato cadere l'ancora. Nessuna corrente lo trascinava e le sue vele ricadevano con i loro imbrogli in larghe pieghe. Se il vento si fosse alzato, sarebbe bastato lasciarle libere per rimettersi in cammino. Il signor Gibson e i suoi passeggeri non avevano dunque che da godersi quella magnifica serata sotto un cielo puro e sgombro. Dopo cena, il signor Hawkins, il capitano e Nat Gibson andarono a sedersi a poppa. — Eccoci nella calma assoluta — disse il signor Gibson. — Purtroppo non vedo segno che possa far presagire il ritorno del vento. — Ciò secondo me non dovrebbe durare — disse il signor Hawkins. — Perché? — chiese il capitano. — Perché non siamo nel pieno della stagione calda, e il Pacifico non gode di fama che giustifichi il nome che gli è stato dato un po' alla leggera… — Ne convengo. Tuttavia, amico mio, anche in questa stagione, le navi rimangono più giorni prese nella calma; e se ciò capitasse al James Cook non ne sarei affatto sorpreso. — Per fortuna — rispose l'armatore — non siamo più ai tempi in cui l'isola di Norfolk aveva una popolazione di briganti. Allora, non sarebbe stato prudente stare fermi nelle sue vicinanze. — È vero; sarebbe stato necessario vigilare molto attentamente.

— Nella mia infanzia ho sentito parlare — disse il signor Hawkins — di quei forsennati che né i castighi né la disciplina delle case di correzione avevano potuto correggere e dei quali il governo aveva ritenuto di trasferire una colonia nell'isola di Norfolk. — Vi dovevano essere ben sorvegliati — disse Nat Gibson. — D'altra parte, come avrebbero potuto evadere da un'isola alla quale le navi non possono neppure accostarsi? — Ben sorvegliati, certo, lo erano, ragazzo mio — rispose il signor Hawkins. — La fuga era difficile, anche! Ma per dei criminali che non indietreggiano dinanzi a nessun delitto, quando si tratta di riacquistare la libertà, tutto è possibile, anche ciò che non sembra esserlo. — Vi sono state frequenti evasioni, signor Hawkins? — Sì, Nat, anche incredibili! A volte i deportati riuscivano a impadronirsi di qualche imbarcazione dello stato, a volte ne costruivano qualcuna di nascosto, con pezzi di corteccia d'albero; e non esitavano a prendere il largo. — Con novanta probabilità su cento di morire — dichiarò il signor Gibson. — Senza dubbio — rispose il signor Hawkins. — E quando incontravano nelle acque dell'isola qualche nave come la nostra, essi facevano presto a saltarvi dentro e a sbarazzarsi dell'equipaggio! Poi se ne andavano a esercitare la pirateria lungo gli arcipelaghi della Polinesia dove non era facile trovare le loro tracce. — Ma ora tutto questo non è più da temere — disse il capitano Gibson. Si noterà che ciò che aveva appena detto il signor Hawkins era vero e coincideva con i progetti formulati da Flig Balt e da Vin Mod. Benché non fossero segregati nell'isola di Norfolk, essi avevano però gli istinti criminali dei deportati: volevano fare ciò che quella gente avrebbe fatto, e cioè mutare l'onesto brick della ditta Hawkins in una nave di pirati, ed esercitare con essa il brigantaggio nei paraggi del Pacifico centrale dove è molto difficile reprimerlo. Se il James Cook non aveva, dunque, più nulla da temere nelle vicinanze dell'isola di Norfolk, il penitenziario essendo stato trasferito a Port Arthur, esso non era però meno minacciato dalla presenza a bordo delle reclute di Dunedin, decise ad assecondare i

progetti di Vin Mod e del nostromo. — Ebbene, poiché non vi è nessun pericolo — disse allora Nat Gibson — mi permetti, babbo, di prendere il canotto? — Che cosa vuoi fare? — Vorrei andare a pescare ai piedi delle rocce. Abbiamo ancora due ore di luce: è il momento migliore e mi terrò sempre in vista del brick. Non c'era motivo per non soddisfare il desiderio del giovane. Due marinai e lui sarebbero bastati per tendere le lenze accanto ai banchi di corallo. Quelle acque erano molto pescose ed essi sarebbero certo tornati dopo aver fatto buona pesca. Del resto, il signor Gibson ritenne di doversi ancorare dov'era; e poiché la corrente portava verso sud-est, egli mandò l'ancora con trentacinque braccia di catena sopra un fondo sabbioso. Preparato il canotto, Hobbes e Wickley si disposero ad accompagnare Nat Gibson. Erano, come sappiamo, due bravi marinai, dei quali il capitano poteva fidarsi. — Allora va', Nat — disse a suo figlio. — Ma non restare fino a notte. — Te lo prometto, babbo. — E portaci una buona frittura per la colazione di domani — aggiunse il signor Hawkins. — E anche un po' di vento, se ne rimane ancora sulla costa! L'imbarcazione scese in mare e sotto la spinta vigorosa dei remi superò in breve le due miglia che separavano il brick dalle prime rocce coralline. Furono buttate le lenze; Nat Gibson non aveva avuto neppur bisogno di lanciare il raffio sugli scogli. Non c'era corrente e neppure risacca. Il canotto rimase fermo non appena disarmati i remi. I banchi si stendevano dalla parte dell'isola fino a circa mezzo miglio e di conseguenza, meno che nel sud, in direzione delle isole Philips. Benché non fosse più illuminata dal sole, celato dalla massa del Pitt Mount, lo sguardo poteva distinguere i particolari della costa: greti ristretti tra rocce di calcare giallastro, insenature chiuse, punte rocciose, e molti fiumiciattoli che scivolavano a migliaia verso il mare attraverso le fitte foreste e le pianure verdeggianti dell'isola. Il

litorale era deserto: non c'era una sola capanna, sotto gli alberi, né filo di fumo che uscisse fuori delle fronde, né una sola piroga ancorata dietro le punte o tratta sulla sabbia. Tuttavia, la vita non mancava nella parte compresa tra la cresta dei banchi e la terra. Ma essa era dovuta unicamente alla presenza di uccelli acquatici che riempivano l'aria con le loro strida discordi: corvi dalla peluria biancastra, cuculi dalle penne verdi, martinpescatori con il corpo color alga marina, storni dagli occhi di rubino, rondinelle di mare, mangiabruchi, pigliamosche, per non parlare delle fregate che passavano sbattendo rapidamente le ali. Se Nat Gibson avesse portato con sé il fucile, avrebbe potuto sparare qualche buon colpo, senza frutto, è vero, perché questo genere di selvaggina non è commestibile. Sarebbe stato meglio, in previsione del prossimo pasto, chiedere al mare ciò che l'aria non poteva dare: e il mare si rivelò generoso. Dopo un'ora trascorsa ai piedi dei banchi il canotto era già in grado di portare a bordo il nutrimento di tutto l'equipaggio per due giorni. Il pesce abbonda in quelle acque chiare i cui fondali sono irti di piante marine, sotto le quali formicolano crostacei, molluschi, conchiglie, granchi, languste, pale-moni, gamberetti, tridaines, scarabei, hélives, ovuli, patelle, e bisogna che esso sia inesauribile se si considera che gli anfibi, foche e altri, ne fanno un enorme consumo. Tra i pesci che essi pescarono con le lenze e che presentavano una straordinaria varietà di specie, gareggianti per lo splendore dei loro colori, Nat Gibson e i due marinai riuscirono a catturare molte coppie di blenni. Il blennio è un animale bizzarro che ha gli occhi in cima alla testa, mascelle iugulate, color gridellino, il quale vive nell'acqua, corre sui greti e salta sugli scogli con mosse di sariga o di canguro. Erano le sette. Il sole era allora scomparso e i suoi ultimi raggi purpurei si spegnevano sulla cima del Pitt Mount. — Signor Nat, non vi pare che sia ora di tornare a bordo? — disse Wickley. — Sarebbe meglio — aggiunse Hobbes. — La sera, a volte, si alza un po' di brezza da terra; se il brick potesse approfittarne, non bisognerebbe farlo aspettare.

— Ritirate le lenze — rispose il giovane. — Torniamo a bordo del James Cook. Temo però di non poter portare al signor Hawkins il… vento che mi ha ordinato. — Non ce n'è neppure tanto da riempire il berretto! — disse Hobbes. — Non vi sono nuvole al largo — aggiunse Wickley. — Andiamo! — ordinò Nat Gibson. Ma prima di allontanarsi dal banco si alzò in piedi a poppa del canotto e percorse con lo sguardo la catena di scogli che si incurvava intorno alla punta di nord-est. Gli tornava alla memoria la scomparsa della goletta di cui non si avevano più notizie. Se avesse potuto scorgere qualche rottame della Wilhelminal Qualche relitto portato dalle correnti verso l'isola! Non poteva darsi il caso che, non essendo andato completamente distrutto lo scafo della nave, parte di esso fosse ancora visibile a nord o a sud della punta? Anche i due marinai scrutarono la costa per una distesa di varie miglia. Tutto fu inutile; essi non videro nessun relitto della goletta segnalata dallo steamer. Wickley e Hobbes stavano per mettersi ai remi, quando, su una roccia staccata dal litorale, Nat Gibson credette di distinguere una forma umana. Poiché era distante circa un miglio e il crepuscolo già cominciava a oscurare l'orizzonte, egli si chiese se si sbagliava o no. Non era per caso un uomo attirato sulla spiaggia dall'arrivo del canotto? E non sembrava che quell'uomo agitasse le braccia per invocare soccorso? Era impossibile dirlo. — Guardate — disse Nat Gibson ai due marinai. Wickley e Hobbes guardarono nella giusta direzione, ma in quell'istante, avendo l'ombra invaso quella parte di litorale, la forma umana, se era tale, disparve. — Non ho visto nulla — disse Wickley. — Io neppure… — affermò Hobbes. — Eppure credo di non essermi sbagliato — disse Nat Gibson. — Un attimo fa, là c'era un uomo… — Credete di aver visto un uomo? — chiese Wickley. — In cima a quella roccia. Faceva dei cenni… forse chiamava, ma la sua voce non poteva giungere fin qui.

— Spesso si incontrano delle foche su questi greti, verso il tramonto — rilevò Hobbes. — Quando una di esse si alza in piedi, è facile scambiarla con un uomo. — Lo so — rispose Nat Gibson. — A questa distanza, è anche possibile che io abbia visto male… — L'isola di Norfolk è forse abitata, attualmente? — chiese Hobbes. — No — rispose il giovane. — Non vi sono indigeni. Ma dei naufraghi potrebbero essere stati costretti a cercarvi rifugio. — E se vi sono naufraghi — aggiunse Wickley — potrebbero essere quelli della Wilhelmina. — A bordo! — esclamò Nat Gibson. — È probabile che domani il brick sia ancora qui; con i cannocchiali scruteremo il litorale, che all'alba sarà in piena luce. I due marinai fecero forza sui remi e venti minuti dopo il canotto raggiungeva il James Cook. Il capitano, che diffidava sempre di una parte dell'equipaggio, ebbe cura di far tirare su il canotto. I pesci ebbero la migliore accoglienza da parte del signor Hawkins e poiché egli si interessava di storia naturale, poté studiare comodamente quei blenni, di cui non aveva mai avuto esemplari tra le mani. Nat Gibson informò suo padre di ciò che credeva di aver visto, nel momento in cui stava per staccarsi dai banchi di corallo. Il capitano e l'armatore prestarono molta attenzione al racconto del giovane. Essi non ignoravano che, dopo l'abbandono dell'isola come luogo di detenzione, essa doveva essere deserta e che gli indigeni dei vicini arcipelaghi (australiani, maori, o papuasi) non avevano mai avuto l'idea di stabilitisi. — È possibile, tuttavia, che ci siano dei pescatori da queste parti — fece notare Flig Balt, il quale prendeva parte alla conversazione. — Può darsi — rispose l'armatore. — Non c'è da stupirsi in questa stagione dell'anno. — Hai forse visto qualche imbarcazione tra gli scogli? — chiese il capitano al figlio. — Nessuna. — Credo, allora, che il signor Nat si sia sbagliato — disse il

nostromo. — La sera era già scura… Secondo me, capitano, faremo bene a prepararci alla partenza nel caso che questa notte si alzi il vento. Si capiva bene che Flig Balt, già contrariato per la presenza del signor Hawkins e di Nat Gibson a bordo del brick, dovesse temere moltissimo l'eventuale imbarco di altri passeggeri. In questo caso, egli sarebbe stato costretto a rinunciare ai suoi progetti, cosa invece che non intendeva fare, deciso com'era a impadronirsi con i suoi complici della nave, prima del suo arrivo alla Nuova Zelanda. — Ma — riprese il capitano — se Nat non si è sbagliato, se su questa costa vi fossero dei naufraghi (e perché non potrebbero essere quelli della Wilhelmina?) bisognerà portar loro aiuto. Mi sembrerebbe di venir meno al mio dovere di uomo e di marinaio se spiegassi le vele prima di esserne certo. — Hai ragione, Gibson — approvò il signor Hawkins. — Ma, ora che ci penso, l'uomo che Nat ha creduto di vedere potrebbe anche essere un deportato fuggito dalla casa di pena e rimasto sull'isola… — Quest'uomo allora dovrebbe essere molto vecchio — rispose il capitano. — L'evacuazione dell'isola risale al 1842 e se a quell'epoca egli era già al bagno, dovrebbe avere più di settantanni, giacché siamo nel 1885. — Hai ragione, Gibson; torno piuttosto all'idea che i naufraghi della goletta olandese possano essere stati buttati qui, sempre che Nat non si sia sbagliato… — No! non mi sono sbagliato — affermò il giovane. — In questo caso quei poveretti si troverebbero là — disse il signor Hawkins — da una quindicina di giorni; è probabile che il naufragio non risalga a data più lontana. — Da ciò che ci ha detto il capitano del'Assomption, sembrerebbe così — rispose il signor Gibson. — Domani faremo perciò quello che si può fare, quello che dobbiamo fare… Se, come asserisce Nat, un uomo si trova su questa parte della costa, vi rimarrà certamente fino a giorno fatto per tener d'occhio il brick; nonostante la distanza, con i cannocchiali riusciremo a vederlo. — Ma, capitano… — insistette il nostromo. — Può darsi che il vento questa notte si alzi, e che sia un vento favorevole…

— Che si alzi o non si alzi, Balt, il James Cook resterà all'ancora e non ci prepareremo a partire senza aver prima mandato un canotto in ricognizione. Non lascerò l'isola che dopo aver visitato i dintorni di East-North-Point, anche se dovessimo spendervi un'intera giornata! — Benissimo, babbo; sono sicuro che non sarà una giornata perduta. — Sei dello stesso parere, Hawkins? — chiese il capitano, rivolgendosi all'armatore. — Senz'altro! — rispose il signor Hawkins. E a dire il vero non c'era neppur motivo di felicitarsi con il signor Gibson per la decisione adottata; agire in quel modo, non era forse un dovere di umanità? Quando fu di nuovo a prua, Flig Balt raccontò a Vin Mod ciò che era stato detto e che si era stabilito di fare. Il marinaio non ne rimase più soddisfatto del nostromo. Dopo tutto, forse Nat Gibson si era sbagliato… forse nessuno dei naufraghi della Wilhelmina si era rifugiato su quella costa. Il problema sarebbe stato risolto prima di dodici ore. Giunse la notte, abbastanza oscura e con la luna nuova. Un'alta cortina di nebbie celava le costellazioni. Tuttavia, all'ovest la terra appariva confusa, come una massa un po' scura, ai piedi di quell'orizzonte. Verso le nove, un lieve venticello suscitò un po' di maretta intorno al James Cook, che si girò di un quarto sull'ancora. Quel venticello sarebbe potuto servire per raggiungere il nord, soffiando da sudovest. Ma il capitano non mutò parere e il brick rimase in ancoraggio. Del resto, si trattava di soffi intermittenti che sfioravano la cresta del Pitt Mount; poi il mare tornò ad essere calmo. Il signor Hawkins, il signor Gibson e suo figlio erano seduti a poppa. Non avendo fretta di rientrare nelle loro cabine, aspiravano l'aria fresca della sera, dopo la calura del giorno. Erano le nove e venticinque quando Nat Gibson si alzò e guardò verso terra; poi fece qualche passo verso sinistra. — Un fuoco! c'è un fuoco! — disse. — Un fuoco? — ripeté l'armatore.

— Sì, signor Hawkins. — In quale direzione? — In direzione della roccia dove ho visto quell'uomo. — È vero! — disse il capitano. — Come vedete, non mi ero sbagliato! — esclamò Nat Gibson. Un fuoco brillava in quella direzione, un fuoco di legna che produceva grandi fiammate, fra turbini di fumo denso. — Gibson, quel fuoco è un segnale fatto a noi — disse il signor Hawkins. — Non vi è dubbio! — rispose il capitano. — Vi sono dei naufraghi nell'isola! Naufraghi o non naufraghi, erano certamente esseri umani quelli che chiedevano soccorso. Quale ansia dovevano provare per il timore che il brick avesse già levato l'ancora! Bisognava tranquillizzarli, e ciò fu fatto immediatamente. — Nat, prendi il fucile — disse — e rispondi a quel segnale! Il giovane entrò nella tuga e tornò a uscirne con una carabina. Tre spari risonarono, dei quali il litorale rimandò l'eco al James Cook. Nello stesso tempo, un marinaio agitò tre volte un fanale, prima di issarlo in cima all'albero di trinchetto. Ora non c'era più che da attendere l'alba; il James Cook si sarebbe allora messo in comunicazione con quell'angolo dell'isola di Norfolk.

CAPITOLO VII I DUE FRATELLI ALL'ALBA, una nebbia assai fitta aveva invaso l'orizzonte occidentale. Del litorale dell'isola si distingueva appena la linea rocciosa. Ma quelle brume non avrebbero certamente tardato a dissiparsi; la cima del Pitt Mount appariva infatti al disopra del nebbione già inondata dai raggi del sole. Del resto, il naufrago o i naufraghi non dovevano essere inquieti. Anche se il brick non era ancora visibile, non avevano essi udito e visto, nella notte, i suoi segnali che rispondevano ai loro? La nave non poteva aver lasciato il suo ancoraggio; tra un'ora, senza dubbio, la sua lancia sarebbe stata mandata a terra. Prima di mettere in mare l'imbarcazione, il signor Gibson avrebbe voluto, e non senza motivo, vedere la punta sgombra di nebbia. Era là che il fuoco era stato acceso ed era là che si sarebbero fatti vedere i naufraghi che avevano chiesto aiuto al James Cook. Era evidente, comunque, che essi non possedevano neppure una piroga, perché, in tal caso, sarebbero già saliti a bordo. Il vento cominciava a soffiare dal sud-est; alcune nuvole, allungate tra cielo e mare, indicavano che la brezza sarebbe aumentata nel corso della mattinata. Se non era per il motivo che lo teneva all'ancora, il signor Gibson avrebbe già impartito gli ordini per la partenza. Poco prima delle sette, la base del banco corallifero lungo il quale spumeggiava la risacca bianchiccia si indovinò nella nebbia. Le volute di vapore si dissiparono un po' per volta e la punta si rese visibile. Salito sulla tuga, Nat Gibson esaminava con il cannocchiale la costa. Egli fu il primo a gridare: — È là! O meglio, sono là!

— Sono in molti? — chiese l'armatore. — In due, signor Hawkins. Il signor Hawkins prese a sua volta il cannocchiale. — Ci fanno dei segnali — esclamò. — Agitano un pezzo di tela attaccato in cima a un bastone. Il cannocchiale passò nelle mani del capitano, il quale notò la presenza di due uomini, in piedi sulle ultime rocce, all'estremità della punta. La nebbia, già dissipatasi, permetteva ora di vederli anche a occhio nudo. Che tra quei due ci fosse quello che Nat Gibson aveva visto la sera prima, era fuor di dubbio. — La grande lancia in mare! — ordinò il capitano. Nello stesso tempo, per suo ordine, Flig Balt issò la bandiera britannica al picco della randa in risposta ai segnali. Il signor Gibson aveva detto di calare in mare la lancia grande per il caso che avesse dovuto imbarcare più di due persone. Era possibile, infatti, che altri naufraghi si fossero rifugiati sull'isola, ammettendo che essi facessero parte dell'equipaggio della Wilhelmina. Bisognava sperare, anzi, che tutti avessero raggiunto quella costa dopo aver abbandonato la goletta. Calata in mare l'imbarcazione, il capitano e suo figlio vi presero posto: Nat si mise al timone e quattro marinai ai remi. Vin Mod, che era tra di essi, nel momento in cui scavalcava il parapetto, fece al nostromo un gesto che manifestava la sua irritazione. La lancia si diresse verso il banco di corallo. Il giorno precedente, pescando lungo quel banco, Nat Gibson aveva notato una stretta apertura che permetteva di superare la barriera degli scogli. Per raggiungere la punta non c'era più che una distanza di sette od otto gomene. In meno di un quarto d'ora, l'imbarcazione raggiunse il passaggio da dove furono allora scorti i resti del fuoco che era stato mantenuto acceso tutta la notte; accanto a quei resti si trovavano i due uomini. A prua della lancia, Vin Mod, impaziente, si voltava spesso a guardarli, tanto da ostacolare l'uso dei remi. — Badate a remare, Mod! — gli gridò il capitano. — Quando saremo a terra potrete soddisfare la vostra curiosità come meglio vorrete!

— Come vorrò! — mormorò il marinaio, che per la rabbia avrebbe spezzato il remo. Il passaggio serpeggiava tra le punte di corallo che sarebbe stato pericoloso abbordare. Le creste aguzze, taglienti come acciaio, avrebbero fatto presto a danneggiare, lo scafo dell'imbarcazione. Il signor Gibson ordinò quindi di moderare la velocità. Non vi fu, del resto, nessuna difficoltà a raggiungere l'estremità della punta. Il mare, che avvertiva il vento del largo, favoriva la marcia. Alla base delle rocce spumeggiava una notevole risacca. Il capitano e suo figlio osservavano i due uomini: si tenevano per mano, immobili, in silenzio; non facevano gesti, né lanciavano richiami. Quando la lancia manovrò per accostarsi alla punta, Vin Mod poté facilmente scorgerli. Uno di essi sembrava avere trentacinque anni, l'altro trenta. Con i vestiti a brandelli e il capo nudo, nulla faceva pensare che fossero marinai. Quasi della stessa statura, essi si somigliavano abbastanza per far pensare che fossero fratelli. Avevano entrambi capelli biondi e barba incolta. Non erano, comunque, indigeni della Polinesia. Fu allora, prima ancora che fossero sbarcati, quando il capitano era ancora seduto a poppa, che il maggiore dei due uomini avanzò fino all'estremità della punta e, in inglese, ma con accento straniero, gridò: — Grazie per esserci venuti in aiuto… grazie! — Chi siete? — chiese il signor Gibson, non appena ebbe accostato. — Siamo olandesi. — Naufraghi? — Naufraghi della goletta Wilhelmina. — Siete i soli scampati? — Soli… comunque, i soli arrivati su questa costa dopo il naufragio. Dall'incertezza manifestata con quelle ultime parole, apparve chiaro che quell'uomo ignorava se avesse trovato rifugio in un continente o in un'isola. Il grappino della lancia fu mandato a terra; dopo che un marinaio lo ebbe fissato a un incavo della rupe, Gibson e i suoi compagni sbarcarono.

— Dove siamo? — chiese il maggiore dei due. — Sull'isola di Norfolk — rispose il capitano. — L'isola di Norfolk… — ripeté il più giovane. I naufraghi appresero allora che si trovavano in un'isola solitaria, nella zona occidentale del Pacifico. Di tutti coloro che la goletta olandese aveva a bordo, essi erano i soli ad avervi trovato rifugio. Che ne era stato della Wilhelmina? Era forse affondata? Essi non furono nella possibilità di rispondere con precisione alle domande del signor Gibson. Ecco che cosa narrarono sulle cause del naufragio. Quindici giorni prima la goletta era stata investita durante la notte; forse a tre o quattro miglia a oriente dell'isola di Norfolk. — Uscendo dalla nostra cabina — disse il maggiore dei fratelli — siamo stati trascinati in un turbine. La notte era scurissima e nebbiosa. Ci siamo aggrappati a una gabbia per polli che, per fortuna, ci passava vicino. Tre ore dopo, la corrente ci portava a questo banco di corallo dal quale a nuoto abbiamo raggiunto la costa. — Allora siete qui da due settimane? — chiese il signor Gibson. — Da due settimane. — Non avete visto nessuno? — Nessuno — rispose il più giovane. — Siamo propensi a credere che qui non ci sia anima viva; almeno, da questa parte del litorale. — Non vi è venuta l'idea di andare verso l'interno? — chiese Nat Gibson. — Si — rispose il maggiore dei fratelli. — Ma sarebbe stato necessario attraversare fitte foreste, rischiando di smarrirvisi, e nelle quali forse non avremmo trovato di che sfamarci. — E poi — disse l'altro — a che sarebbe servito? Ci avete detto or ora che siamo sopra un'isola deserta… Era meglio non lasciare il litorale, per non rinunciare alla speranza di essere scorti, se una nave fosse passata qui vicino, e di venire tratti in salvo, come lo siamo ora… — Avete ragione. — Questo brick come si chiama? — chiese il fratello minore. — È il brick inglese James Cook. — E il suo capitano? — Sono io — rispose il signor Gibson.

— Ebbene, capitano, come vedete — disse il fratello maggiore, stringendo la mano del signor Gibson — abbiamo fatto bene ad aspettarvi su questa punta! Infatti, se avessero voluto contornare la base del Pitt Mount o raggiungerne la cima, i naufraghi, incontrando difficoltà insormontabili, sarebbero caduti sfiniti di stenti e di fatica nelle invalicabili foreste dell'interno. — Ma come avete fatto a vivere, tra stenti e privazioni? — chiese allora il signor Gibson. — Il nostro nutrimento era limitato a pochi prodotti vegetali — rispose il fratello maggiore. — Radici strappate qua e là, cuori di palma tagliati in cima agli alberi, acetosella, cicérbita, finocchio marino, pigne dell'araucaria… Se avessimo avuto una lenza o avessimo potuto fabbricarcela, non sarebbe stato difficile procurarci del pesce che qui abbonda ai piedi delle rocce. — E il fuoco? Come avete potuto accenderlo? — Nei primi giorni, abbiamo dovuto farne a meno — rispose il fratello più giovane. — Non avevamo fiammiferi, o meglio, quelli che avevamo erano inservibili. Per fortuna, risalendo verso la montagna, abbiamo trovato una solfatara che lancia ancora qualche fiamma. Era circondata da strati di zolfo e questo ci ha messo in grado di cucinare radici e ortaggi. — Siete vissuti in questo modo per quindici giorni? — disse il capitano. — In questo modo, capitano. Ma confesso che le forze ci venivano meno… eravamo ormai alla disperazione quando, nel tornare dalla solfatara, ho scorto la vostra nave ancorata a due miglia dalla costa… — Era cessato il vento — disse il signor Gibson. — Poiché la corrente minacciava di portarci a sud-est, sono stato costretto a gettare l'ancora. — Era già tardi — riprese il fratello maggiore. — Rimaneva appena un'ora di luce e noi eravamo ancora a più di mezza lega nell'interno. Dopo aver corso a perdifiato verso la punta, scorgemmo un canotto che si preparava a raggiungere il brick. Ho chiamato, ho invocato aiuto con i gesti…

— C'ero io nel canotto — disse allora Nat Gibson. — Mi è parso di vedere un uomo, un uomo solo, su questa roccia, nel momento in cui cominciava a farsi buio… — Ero io — disse il fratello maggiore. — Avevo preceduto mio fratello… Ma quale non fu la mia delusione quando vidi il canotto allontanarsi senza che io fossi stato visto! Abbiamo creduto che ogni probabilità di salvezza ci abbandonasse. Si alzava un po' di vento; e se il brick fosse partito durante la notte, per essere il giorno dopo al largo dell'isola? — Povera gente! — mormorò il signor Gibson. — La costa era immersa nell'ombra, capitano. La nave non si vedeva più. Le ore passavano. Ci venne l'idea, allora, di accendere il fuoco sulla punta. Portammo bracciate di erbe e di rami secchi e un po' di carbone ardente del focolare che tenevamo acceso sul greto. Presto ne sorse una fiammata magnifica. Se il brick fosse stato sempre all'ancora, gli uomini di quarto avrebbero dovuto vederla. Che gioia quando, verso le dieci, udimmo il vostro triplice sparo! Un fanale brillò dov'era il brick: eravamo stati visti! Ora eravamo certi che la nave avrebbe atteso il giorno, prima di partire, e che all'alba saremmo stati raccolti! Ma era tempo, capitano… Come quando siete arrivato, voglio ancora dirvi: grazie!… grazie! Era evidente che i naufraghi non ne potevano più; erano allo stremo delle forze per l'insufficiente alimentazione di quei giorni. Solo pochi cenci ricoprivano le loro nudità; avevano perciò fretta, com'è facile capire, di trovarsi a bordo del James Cook. — Imbarchiamoci — disse il signor Gibson. — Voi avete bisogno di mangiare e di abiti. Vedremo in seguito ciò che si potrà fare. I superstiti della Wilhelmina non avevano motivo di tornare sul litorale. Avrebbero avuto ciò che era loro necessario, senza bisogno di rimettere piede sull'isola! Non appena il signor Gibson, suo figlio e i due fratelli ebbero preso posto a poppa, fu ripreso il grappino e la lancia riprese la via del ritorno. Il signor Gibson aveva notato, udendoli parlare, che i due giovani si esprimevano come persone appartenenti a una classe sociale

superiore a quella in cui si reclutano di solito i marinai. Tuttavia, aveva voluto aspettare di essere in presenza del signor Hawkins prima di informarsi sulla loro condizione. Da parte sua, Vin Mod si era anche reso conto, con vivissimo rammarico, che essi non appartenevano a quel genere di marinai pronti a tutto, come Len Cannon e i suoi compagni di Dunedin, e che non erano neppure degli avventurieri del tipo che si incontra molto spesso in quei paraggi del Pacifico. I due fratelli non facevano parte dell'equipaggio della goletta; erano dunque dei passeggeri, forse i soli a essere usciti sani e salvi dall'investimento. Vin Mod diventava perciò sempre più irascibile al pensiero che i suoi progetti non avrebbero potuto essere realizzati. La lancia si accostò alla nave e il signor Gibson, suo figlio e i naufraghi salirono sul ponte. Questi ultimi furono presentati subito al signor Hawkins, il quale non celò la propria commozione nel vedere lo stato miserevole in cui essi si trovavano. Dopo aver dato loro la mano, disse: — Siate i benvenuti, amici miei! Non meno commossi, i due fratelli avrebbero voluto gettarsi ai suoi piedi; egli lo impedì loro: — No! — disse. — No! Siamo troppo felici… Le parole venivano meno a quel brav'uomo, ed egli non poté che approvare Nat Gibson quando questi gridò: — Da mangiare! Si dia loro da mangiare! Muoiono di fame… I due fratelli furono condotti nel quadrato dov'era servita la prima colazione, e dove ebbero modo di rifarsi dopo quindici giorni di privazioni e di sofferenze. Poi il signor Gibson mise a loro disposizione la cabina che custodiva gli abiti scelti per il ricambio dei capi di vestiario dell'equipaggio. Terminato di lavarsi e di vestirsi, essi tornarono a poppa, dove in presenza del signor Hawkins, del capitano e di suo figlio, narrarono la loro storia. I due giovani erano olandesi, originari di Groningen. Si chiamavano Karl e Pieter Kip. Karl, il maggiore, era ufficiale della marina mercantile dei Paesi Bassi, aveva già fatto molte traversate, come luogotenente e poi come secondo, a bordo di navi mercantili.

Pieter, il cadetto, era socio in una ditta di Amboine (isola delle Molucche) corrispondente della ditta Kip di Groningen. La ditta esercitava il commercio all'ingrosso e al mezzo-ingrosso di prodotti dell'arcipelago olandese; in particolare di noci moscate e di chiodi di garofano abbondantissimi nella colonia. Se la ditta non era tra le più importanti della città, il suo direttore, se non altro, godeva di eccellente reputazione nel mondo commerciale. Il signor Kip padre, vedovo da alcuni anni, era morto cinque mesi prima. La sua morte era stata un grave colpo per gli affari della ditta e fu necessario prender dei provvedimenti per impedire la liquidazione dell'azienda in condizioni svantaggiose. Prima di tutto occorreva che i due fratelli tornassero a Groningen. Karl Kip aveva allora trentacinque anni. Abile marinaio, in procinto di diventare capitano, aspettava un comando che non avrebbe tardato ad ottenere. Non aveva forse l'intelligenza acuta del fratello; era meno uomo d'affari e meno adatto di lui nel dirigere un'impresa commerciale, ma lo vinceva in risolutezza, energia, forza e resistenza fisica. Il suo più grave rammarico proveniva dal fatto che la situazione finanziaria della ditta Kip non gli avrebbe mai permesso di possedere una sua nave. Se ne avesse avuto una, Karl Kip avrebbe allora esercitato la navigazione di lungo corso per proprio conto. Ma non sarebbe stato possibile sottrarre un centesimo dai fondi impegnati nel commercio e il desiderio del figlio maggiore non aveva potuto essere realizzato. Karl e Pieter erano uniti da una stretta amicizia, che nessun disaccordo aveva mai turbato: erano ancor più legati dalla simpatia che dal sangue. Tra di essi, non c'era mai stata un'ombra, mai una nuvola di gelosia o di rivalità. Ciascuno restava nella propria sfera d'azione; il maggiore aveva i viaggi lontani, le emozioni, i pericoli del mare; l'altro aveva il lavoro d'ufficio, ad Amboine e i rapporti con l'ufficio di Groningen. Ad essi bastava la loro famiglia. Non avevano neppure cercato di farsene una seconda, di stringere nuovi legami che li avrebbero forse separati. Era già troppo che il padre fosse in Olanda, Karl in mare, Pieter alle Molucche. Quest'ultimo, intelligente e con un senso spiccato per gli affari, si dedicava completamente ad essi. Il suo socio, olandese come lui, non faceva che estenderli: non

disperando mai di accrescere la fiducia nella ditta Kip, egli non risparmiava né tempo né fatica. Alla morte del signor Kip, Karl era nel porto di Amboine a bordo di un tre alberi olandese di Rotterdam, sul quale espletava le funzioni di secondo. I due fratelli furono dolorosamente colpiti da quella perdita che li privava del padre, per il quale nutrivano profondo affetto, e del quale non avevano potuto raccogliere le ultime parole, l'ultimo respiro! I due fratelli presero allora questa decisione: Pieter si sarebbe separato dal suo socio di Amboine, per tornare a Groningen a dirigervi la ditta paterna. Ma il tre alberi Maximus, sul quale Karl Kip era venuto alle Molucche (nave già vecchia e in cattive condizioni) fu dichiarato inadatto al viaggio di ritorno. Battuto dal cattivo tempo durante la traversata dall'Olanda alle Isole, ora non poteva essere utilizzato che per la demolizione. Il capitano, gli ufficiali e i marinai dovevano essere rimpatriati in Europa a cura della ditta Hoppers di Rotterdam alla quale esso apparteneva. Il rimpatrio avrebbe richiesto senza dubbio un soggiorno molto lungo ad Amboine per attendere che l'equipaggio potesse imbarcarsi su qualche nave in partenza per l'Europa; i due fratelli invece avevano premura di tornare a Groningen. Karl e Pieter decisero allora di imbarcarsi sulla prima nave in partenza sia da Amboine sia da Ceram o da Ternate che sono altre isole dell'arcipelago delle Molucche. In quei giorni giunse la goletta Wilhelmina di Rotterdam per farvi una brevissima sosta. Era una nave di cinquecento tonnellate che avrebbe raggiunto il suo porto d'attracco facendo scalo, fra l'altro, a Wellington, di dove il suo comandante, il capitano Roebok, avrebbe fatto vela verso l'Atlantico doppiando il capo Horn. Se il posto di secondo fosse stato vacante, non c'è dubbio che Karl Kip lo avrebbe ottenuto. Ma il personale era al completo e nessun membro del Maximus poté essere accettato. Non volendo perdere quella occasione, Karl Kip prese allora una cabina da passeggero sulla Wilhelmina. La goletta parti il 23 settembre. Il suo equipaggio era costituito dal

capitano Roebok, dal secondo Stourn, da due nostromi e da dieci marinai, tutti di origine olandese. La navigazione fu molto favorita lungo il tratto del mare degli Arafura, così strettamente chiuso tra la costa settentrionale dell'Australia, la costa meridionale della Nuova Guinea e il gruppo delle isole della Sonda, a ovest, che lo protegge dall'onda lunga dell'oceano Indiano. A est quel mare non offre altra uscita, oltre lo stretto di Torres, il quale termina con il capo York. All'ingresso di questo stretto, la nave ebbe venti contrari che ritardarono il suo cammino di alcuni giorni. Soltanto il 6 ottobre essa riuscì a districarsi dai numerosi scogli e a sboccare nel Mar dei Coralli. Dinanzi alla Wilhelmina si apriva ora l'immenso Pacifico, fino a capo Horn, che essa doveva raggiungere dopo una breve sosta a Wellington, nella Nuova Zelanda. Il cammino era lungo, ma i fratelli Kip non avevano avuto altra scelta. Nella notte dal 19 al 20 ottobre ogni cosa procedeva bene a bordo; i marinai di guardia erano a prua, quando si verificò un terribile incidente che la più scrupolosa vigilanza non avrebbe potuto evitare. Pesanti, oscure nebbie ricoprivano un mare perfettamente calmo, come del resto accade sempre in tali condizioni atmosferiche. La Wilhelmina aveva i fanali regolamentari, verde a destra, rosso a sinistra; nella fitta nebbia, nessuno purtroppo avrebbe potuto vederli, neppure a mezza gomena di distanza. A un tratto, senza che si udissero i muggiti di una sirena e prima ancora che fosse stato avvistato un fuoco qualsiasi di posizione, la goletta fu investita nel fianco sinistro, all'altezza della tuga dell'equipaggio. Un urto terribile provocò l'immediata caduta dell'albero maestro e dell'albero di mezzana. Nel momento in cui si lanciavano fuori del casseretto, Karl e Pieter Kip intravidero un'enorme massa eruttante fumo e vapore passare come una bomba dopo aver tagliato in due la Wilhelmina. Per un attimo, era apparso un fanale bianco in cima al grande straglio di quel bastimento. Il naviglio investitore era uno steamer; di esso non si sarebbe saputo altro. La Wilhelmina, con la prua da una parte e la poppa dall'altra,

affondò subito. I due passeggeri non ebbero neppure il tempo di raggiungere l'equipaggio. A malapena scorsero alcuni marinai aggrappati alle sartie. Era impossibile utilizzare le imbarcazioni perché già sommerse. Il secondo e il capitano probabilmente non avevano fatto in tempo a lasciare la loro cabina. I due fratelli, seminudi, avevano già l'acqua fino alla cintola. Essi si rendevano conto che ciò che restava della Wilhelmina stava per affondare e che sarebbero stati trascinati nel gorgo che si produceva intorno alla nave. — Non separiamoci! — gridò Pieter. — Conta su di me! — rispose Karl. Erano entrambi buoni nuotatori. Ma c'era una terra nelle vicinanze? Qual era la posizione della goletta nel momento della collisione in quella parte del Pacifico compresa tra l'Australia e la Nuova Zelanda, sotto la Nuova Caledonia, segnalata verso l'est due giorni prima nell'ultima rilevazione del capitano Roebok? È superfluo dire che lo steamer investitore doveva già essere lontano, a meno che non si fosse fermato dopo l'urto. E in questo caso, se aveva messo in mare qualche imbarcazione, come avrebbe fatto questa a ritrovare nella nebbia i sopravvissuti della catastrofe? Karl e Pieter Kip si credettero perduti. Una profonda oscurità avvolgeva il mare; nessun fischio di macchina, nessun richiamo di sirena indicavano la presenza di una nave. Non si udiva neppure quella specie di muggito prodotto dai getti di vapore dello steamer, se questo fosse rimasto sul luogo del sinistro. Nessuna tavola era a portata di mano dei due fratelli. Per circa mezz'ora essi si sorressero, il maggiore incoraggiando il minore, dandogli il braccio quando il giovane si sentiva venir meno. Ma era prossimo il momento in cui entrambi, stremati di forze, dopo un ultimo abbraccio e un supremo addio sarebbero sprofondati nell'abisso. Erano circa le tre del mattino quando Karl Kip riuscì ad afferrare un oggetto che galleggiava accanto a lui: era una gabbia da polli della Wilhelmina, ed essi vi si aggrapparono. L'alba squarciò finalmente le giallastre volute del nebbione; le brume non tardarono a diradarsi e lo sciacquio delle onde ricominciò

al primo soffio del vento. Karl Kip si guardò intorno, fino all'orizzonte. A oriente il mare era deserto. A occidente appariva invece la costa di una terra abbastanza elevata: ecco ciò che per prima cosa egli vide. La costa non era lontana più di tre miglia. Il vento e la corrente lo spingevano verso di essa. Se l'onda lunga non fosse diventata troppo forte,, egli era certo di poterla raggiungere. A qualsiasi terra appartenesse, isola o continente, quella costa assicurava la salvezza ai naufraghi. Il litorale che si vedeva a ovest era dominato da un picco del quale i primi raggi del sole doravano la vetta. — Guarda là! — esclamò Karl Kip. Soltanto da quella parte, in effetti, era la salvezza. Sarebbe stato inutile cercare al largo una vela o i fuochi di una nave. Della Wilhelmina non rimaneva traccia. Era perduta. Non vi era traccia neppure dello steamer investitore, che, certamente sopravvissuto alla collisione, non era più nemmeno a portata d'occhio. Sollevandosi a metà, Karl Kip non vide né i resti dello scafo né i resti dell'alberatura. Galleggiava soltanto quella gabbia da polli, alla quale essi si sorreggevano. Stanco e intorpidito, Pieter sarebbe annegato se suo fratello non gli avesse sollevato il capo. Karl nuotava vigorosamente spingendo la gabbia verso un mucchio di scogli dei quali la risacca imbiancava di schiuma la linea irregolare. Quella prima frangia dell'anello corallifero si prolungava dinanzi alla costa. Non ci volle meno di un'ora per raggiungerla. Sballottati dall'onda lunga, sarebbe stato difficile prendervi piede. I naufraghi scivolarono attraverso uno stretto passaggio, ed erano poco più delle sette quando riuscirono a issarsi sulla punta in cui la lancia del James Cook era venuta a raccoglierli. In quell'isola sconosciuta e disabitata, i due fratelli, vestiti a malapena, senza attrezzi, utensili e arnesi, sarebbero vissuti, miserevolmente, quindici giorni. Questo fu il racconto fatto da Pieter Kip; il fratello ascoltava in silenzio limitandosi a confermarlo con il gesto. Ora si sapeva il motivo per cui la Wilhelmina, attesa a Wellington,

non vi sarebbe mai giunta, e perché la nave francese Assomption non aveva visto rottami sul suo cammino. La goletta giaceva in fondo al mare, a meno che le correnti non ne avessero trascinato qualche rottame più a nord. L'impressione prodotta dal racconto dei naufraghi deponeva interamente a loro favore. Nessuno, naturalmente, avrebbe ritenuto di metterne in dubbio la veridicità. Essi parlavano l'inglese con una scioltezza che denotava buona istruzione e buona educazione. Il loro atteggiamento non era quello degli avventurieri che pullulano in quelle zone del Pacifico, e si avvertiva, in Pieter Kip soprattutto, un'incrollabile fiducia in Dio. Il signor Hawkins non nascose la buona impressione ricevutane. — Amici miei, eccovi a bordo del James Cook — disse — e qui rimarrete! — Vi siano rese grazie, signore — rispose Pieter Kip. — Questa nave non potrà condurvi in Europa — aggiunse l'armatore. — Non importa — rispose Karl Kip. — Abbiamo lasciato, comunque, l'isola di Norfolk in cui eravamo senza risorse: non chiediamo altro. — In qualsiasi luogo si sbarchi troveremo il modo di farci rimpatriare — aggiunse Pieter Kip. — Per parte mia, non mancherò di aiutarvi — disse il signor Gibson. — Qual è la destinazione del James Cook? — chiese Karl Kip. — Port Praslin nella Nuova Irlanda — rispose il capitano. — Quanto tempo vi resterà? — Tre settimane circa. — Tornerà poi in Nuova Zelanda? — No, andrà in Tasmania, a Hobart Town, suo porto d'attracco. — Ebbene, capitano, ci sarà egualmente facile — dichiarò Karl Kip — imbarcarci su una nave tanto a Hobart Town quanto a Dunedin o ad Auckland, o a Wellington. — Certamente — assicurò il signor Gibson. — Se vi imbarcherete sopra uno steamer che per andare in Europa attraverserà il canale di Suez, il vostro ritorno si effettuerà più rapidamente.

— Ciò sarebbe auspicabile — rispose Karl Kip. — In ogni caso, signor Hawkins, e anche voi, capitano — disse Pieter Kip — poiché volete accettarci come passeggeri… — Non come passeggeri, ma come ospiti — disse il signor Hawkins. — Noi siamo felici di offrirvi l'ospitalità del James Cook! Furono scambiate altre strette di mano, poi i due fratelli si ritirarono nella loro cabina per godere un po' di riposo, avendo vegliato tutta la notte vicino al fuoco. Il venticello che aveva dissipato la nebbia cominciava intanto a crescere. La calma sembrava che stesse per finire; a sud-est dell'isola il mare già si tingeva di verde. Bisognava approfittarne; il signor Gibson diede gli ordini per la partenza. Furono spiegate le vele, si tirò su l'ancora e il brick riprese la via del nord-nord-ovest. Due ore dopo la vetta più alta dell'isola di Norfolk era scomparsa e il James Cook metteva la prua a nord-est in modo da poter avvistare le terre della Nuova Caledonia, al limite del Mar dei Coralli.

CAPITOLO VIII IL MAR DEI CORALLI MILLEQUATTROCENTO miglia circa separano l'isola di Norfolk dalla Nuova Irlanda. Dopo averne percorso cinquecento, la prima terra che il James Cook avrebbe dovuto avvistare sarebbe stata la Nuova Caledonia, il possedimento francese che completa all'est il gruppo delle isole Loyalty. Se il vento e il mare avessero favorito il cammino del brick, cinque giorni sarebbero bastati per compiere la prima parte di questa traversata e una decina sarebbe stata sufficiente per la seconda. La vita a bordo procedeva con la solita regolarità. I quarti si succedevano ai quarti con la monotonia delle belle navigazioni che pur non mancano di fascino. Marinai o passeggeri sono interessati a ogni piccolo incidente di bordo: una nave che passa, uno stormo di uccelli che vola intorno alle sartie, cetacei che giocano a frotte nella scia della nave. Il più delle volte, i fratelli Kip, seduti a poppa, facevano lunghe chiacchierate con il signor Hawkins, chiacchierate alle quali il capitano e suo figlio partecipavano volentieri. Essi non potevano celare la loro inquietudine per la situazione della ditta di Groningen. Appariva urgente che Pieter Kip riprendesse la direzione degli affari forse già gravemente compromessi. Né l'uno né l'altro celavano la loro preoccupazione quando ne parlavano con l'armatore. Il signor Hawkins non cessava di incoraggiarli dicendo loro che certamente avrebbero trovato credito, che la liquidazione, nel caso peggiore, si sarebbe effettuata in condizioni migliori di quelle che essi osassero sperare… Ma le inquietudini di Karl e di Pieter Kip erano fin troppo giustificate dal ritardo imposto loro dal naufragio della Wilhelmina. Nessuno avrà dimenticato l'impressione prodotta da Karl e Pieter

Kip nell'animo di Vin Mod. Era evidente che egli non doveva far nessuno assegnamento sulla loro connivenza, per mettere in atto il suo progetto. I naufraghi non erano avventurieri senza scrupoli e senza rimorsi. Appartenendo a una classe superiore a quella in cui si reclutano i marinai, la loro presenza a bordo rendeva irrealizzabile ogni tentativo di rivolta. Si può facilmente immaginare, quindi, quali riflessioni si scambiassero Flig Balt e Vin Mod, nel loro primo colloquio, al quale prese parte Len Cannon. Era opinione del nostromo che i fratelli Kip si sarebbero schierati in caso di necessità dalla parte dell'armatore e del capitano. Len Cannon, che giudicava gli altri da se stesso, non sembrava però dello stesso parere: — Sappiamo con precisione che cosa sono questi olandesi? — disse. — Abbiamo visto le loro carte? No; e allora, perché creder loro sulla parola? E poiché hanno perduto nel naufragio ciò che possedevano essi avrebbero tutto da guadagnare! Ho conosciuto olandesi che avevano aspetto rassicurante ma che non facevano storie quando c'era un buon colpo da fare! — Sarai tu a tastare il terreno? — chiese Flig Balt alzando le spalle. — Io?… No, certamente no! — rispose Len Cannon. — I marinai non hanno mai l'occasione di parlare con i passeggeri… considerato che quei malcapitati sono passeggeri. — Len ha ragione — disse Vin Mod. — Né lui né io potremmo muoverci su quel terreno. — Dovrei farlo io, allora? — chiese il nostromo. — No, voi neppure, Flig Balt. — Chi, allora? — Il nuovo capitano del James Cook. — Il nuovo capitano? — chiese il nostromo. — Che cosa vuoi dire, Mod? — disse Len Cannon. — Voglio dire — rispose Vin Mod — che bisogna essere almeno capitano per parlare con i signori Kip. E allora, bisognerebbe… e finché ciò non sarà possibile… — Parla, dunque! — esclamò Flig Balt, spazientito da quelle

reticenze. — Bisognerebbe che una circostanza… — disse Vin Mod. — Io penso sempre a una mia idea: supponiamo che il signor Gibson una notte cada in mare… una disgrazia… Chi comanderebbe a bordo? Evidentemente mastro Balt: l'armatore e il giovane non sanno niente del mare. E allora invece di portare il brick a Port Praslin, o tanto meno a Hobart Town… insomma, vedremo! Poi, senza insistere oltre, non volendo ancora rinunciare al precedente progetto, il marinaio aggiunse: — Per dir la verità, la sfortuna si è accanita contro di noi! Una prima volta, quando quell'avviso ci stette sempre alle costole! La seconda volta, quando il signor Hawkins e Nat Gibson vennero a bordo! Una terza quando i due olandesi diventarono nostri passeggeri… Quattro uomini di più, giusto quanti ne abbiamo racimolati noi a Dunedin, nella taverna delle «Three Magpies!». Buoni, quelli! Eccoli ora in otto contro noi sei! Otto capestri, io auguro loro! Flig Balt ascoltava, più che non parlasse. Non c'era dubbio, la prospettiva di comandare la nave lo tentava. E, certo, il provocare un incidente che facesse sparire il signor Gibson era sempre meglio che impegnare una lotta contro i passeggeri del James Cook e metà dell'equipaggio. Ma Len Cannon sosteneva a sua volta che sei uomini decisi a tutto avrebbero potuto aver la meglio su otto colti alla sprovvista, sorpresi prima d'aver avuto il tempo di raccapezzarsi. Sarebbe bastato, per prima cosa, sbarazzarsi di due di essi, a caso, per rendere eguale la partita. Egli terminò con queste parole: — Bisogna che il colpo si faccia la notte prossima. Se mastro Balt dice di si io informerò gli altri e domani il brick farà rotta per il largo! — Che cosa rispondete, mastro Balt? — chiese Vin Mod. Il nostromo continuò a tacere anche dinanzi a quell'invito formale. — Siete d'accordo, allora? — insistette Len Cannon. In quel momento il signor Gibson, che si trovava a poppa, chiamò Flig Balt. L'uomo andò a raggiungerlo. — Non sa decidersi, dunque? — chiese Len Cannon a Vin Mod.

— Si deciderà — rispose il marinaio. — Se non sarà per la prossima notte, sarà per quando si presenterà l'occasione. — E se l'occasione non dovesse presentarsi? — La creeremo, Cannon! — Che sia, allora, prima dell'arrivo alla Nuova Irlanda! — disse il marinaio. — I miei compagni e io non ci siamo imbarcati sul brick per stare agli ordini del capitano Gibson. Ti avverto, Mod, che se per allora l'affare non sarà concluso, a Port Praslin taglieremo la corda… — D'accordo, Len. — D'accordo, Mod. Non saremo noi comunque che ricondurremo il James Cook a Hobart Town, dove non abbiamo nessuna voglia di strascicare le zampe. Vin Mod era realmente preoccupato per le esitazioni di Flig Balt. Conosceva la sua prudenza che gli faceva preferire l'astuzia all'audacia. Aveva perciò pensato che bisognasse metterlo con le spalle al muro, un giorno o l'altro, perché non potesse più indietreggiare. Ma egli voleva che tutte le probabilità di riuscita fossero dalla sua parte e immancabilmente tornava sempre all'idea di veder passare il comando del brick nelle mani del nostromo. Si ripromise, quindi, di frenare l'impazienza di Len Cannon che avrebbe potuto compromettere la faccenda. La navigazione proseguì in ottime condizioni; il vento favorevole cresceva alquanto durante il giorno per diminuire la sera. Le notti erano belle e fresche, dopo la calura del giorno che andava crescendo a mano a mano che il brick s'avvicinava al tropico del Capricorno. Il signor Hawkins, il signor Gibson e suo figlio, Karl e Pieter Kip, spesso prolungavano la siesta della sera, chiacchierando e fumando sul ponte fino alle prime luci dell'alba. Anche quando non erano di quarto, la maggior parte dei marinai preferivano l'aria aperta alla temperatura soffocante dell'alloggio. In tali condizioni, sarebbe stato impossibile cogliere di sorpresa Hobbes, Burnes e Wickley. In un attimo, sarebbero stati tutti e tre sulla difensiva. Il tropico fu raggiunto nel pomeriggio del 7 novembre. Quasi subito vennero avvistate l'isola dei Pini e le terre alte della Nuova Caledonia. La grande isola di Balade – è questo il suo nome canaco – non

misura meno di duecento miglia di lunghezza, da sud-est a nordovest, per venticinque o trenta miglia di larghezza. Sono alle sue dipendenze le isole di Beaupré, Botanique, Hohohana, oltre all'isola dei Pini; poi, a oriente, il gruppo delle Loyalty, di cui l'isola più meridionale si chiama Britannia. L'arcipelago della Nuova Caledonia appartiene, come si sa, al dominio coloniale della Francia. È un luogo di deportazione, dove vengono mandati in grande maggioranza i condannati per delitti di diritto comune. Sebbene sia già avvenuto un certo numero di evasioni, non è facile fuggire da questo penitenziario agli antipodi. Per riuscirvi, occorre l'aiuto esterno di una qualche nave appositamente noleggiata, come è stato ripetutamente fatto nell'interesse di qualche deportato politico. In ogni caso, quando i fuggiaschi, privi di imbarcazione, devono raggiungere a nuoto una nave, essi sono esposti al pericolo dei denti dei temibili squali che pullulano tra gli scogli. Del resto, se si eccettua il porto di Numea, capitale dell'isola, è quasi impossibile avvicinarsi a questo arcipelago, difeso com'è da banchi madreporici sui quali l'onda lunga si rompe rabbiosamente. Nel risalire verso nord, il James Cook si tenne dunque al largo della costa. Alla distanza di due o tre miglia, lo sguardo poteva abbracciare l'intero sviluppo della grande isola, oltre alle colline del litorale, disposte ad anfiteatro, ma talmente nude e aride che si sarebbe stati tentati di credere che fossero disabitate. Nel 1774, infatti, quando scoprì queste nuove isole (di cui l'ammiraglio francese d'Entrecasteaux completò il rilievo idrografico nel 1792 e nel 1793), il capitano Cook cadde in un primo momento in questo inganno. Tuttavia, non è così. La popolazione della Nuova Caledonia, ritenuta di circa sessantamila abitanti, ha la vita assicurata dai soli prodotti del ricchissimo suolo: ignamee, canne da zucchero, taro, ibisco, pini in abbondanza, banani, aranci, alberi di cocco, alberi del pane, fichi, zenzero. All'interno si addensano profonde foreste, i cui alberi raggiungono dimensioni prodigiose. Nella giornata del 9 il signor Hawkins, Nat Gibson e i due fratelli poterono osservare, di là dal litorale, l'alta catena che costituisce

l'ossatura dell'isola. Solcata da torrenti, essa è dominata da alcune vette: il monte Kogt, il monte Nu, il monte Arago, l'Homedebua, la cui altezza supera i millecinquecento metri. Venuta la notte, non si videro più i fuochi dei Canachi, accampati in fondo alle piccole baie, che finirono poi con lo spegnersi. Anche Flig Balt, Vin Mod, Len Cannon e i suoi compagni guardavano l'isola, ma con ben altra disposizione d'animo. Avrebbero potuto forse dimenticare che essa conteneva parecchie centinaia di condannati dei quali avrebbero fatto salire volentieri a bordo una mezza dozzina? — Laggiù vi è tanta brava gente — ripeteva Vin Mod — che non chiederebbe di meglio che d'impadronirsi di una buona nave per scorrazzare nel Pacifico! Basterebbe che qualcuno di essi avesse la buona idea di evadere questa notte. Se la loro imbarcazione si accostasse al brick e se si precipitassero sul ponte senza chiederne il permesso né al signor Hawkins né al capitano, faremmo presto a intenderci con essi. — Senza dubbio — rispose Len Cannon. — Ma ciò non accadrà. E infatti, non accadde. D'altra parte, se ciò fosse accaduto, a meno che non fossero saliti a bordo di sorpresa, gli evasi di Numea non sarebbero stati accolti come i naufraghi della Wilhelmina. Una nave onesta non favorisce l'evasione di criminali! Il giorno dopo, 8 novembre, era ancora la parte settentrionale della Nuova Caledonia quella che sfilava sotto i loro occhi; le ultime sue scogliere, che si stendono per un centinaio di leghe verso il nord, furono doppiate nel pomeriggio. Il James Cook entrava ora a vele spiegate nel Mar dei Coralli. Tra una decina di giorni, se favorito dal vento, il brick avrebbe potuto superare la distanza di novecento miglia che separa la Nuova Caledonia dalla Nuova Irlanda. Il Mar dei Coralli è forse, a giudizio dei navigatori, uno dei più pericolosi del globo. Per un'estensione di due gradi in latitudine, sopra e sotto la sua superficie, esso è irto di punte madreporiche, sbarrato da banchi di corallo, solcato da correnti irregolari e poco note. Vi si sono perdute numerose navi e sarebbe stata certamente

una buona cosa se fosse stato scandagliato, come lo erano state le baie d'America e d'Europa. Durante la notte del 10 giugno 1770, nonostante il vento favorevole e un bel chiaro di luna, l'illustre Cook mancò poco che non vi facesse naufragio. Bisognava sperare che il signor Gibson non vi corresse pericoli e che lo scafo del suo bride non urtasse contro una di quelle punte, e che egli non dovesse essere costretto, come aveva fatto il capitano inglese, a collocare una vela sotto la chiglia per chiudere una falla. L'equipaggio tuttavia dovette prestare molta attenzione, giorno e notte, per evitare gli scogli. A quel tempo, gli studi idrografici erano fatti con una certa esattezza e ci si poteva fidare delle carte di bordo. Harry Gibson, inoltre, non era alla sua prima navigazione attraverso il Mar dei Coralli e perciò ne conosceva i pericoli. Anche Karl Kip aveva già frequentato quei difficili paraggi, sia che la sua nave fosse andata a cercare all'est l'ingresso dello stretto di Torres, sia che ne fosse uscita, lasciando il mare degli Alfura, 9 nel corso delle sue campagne in estremo Oriente. La sorveglianza a bordo del brick non sarebbe certamente mancata. Tutto sommato, il tempo favoriva la traversata del James Cook ed esso filava rapidamente sotto il soffiare costante degli alisei del Pacifico senza che gli uomini dovessero occuparsi delle manovre. Quei paraggi sono in genere poco frequentati. Per raggiungere i mari europei la marina mercantile ha notevolmente abbreviato la rotta, tornando dalle Filippine, dalle Molucche, dalle isole della Sonda e dall'Indocina attraverso l'oceano Indiano, il canale di Suez e il Mediterraneo. A meno che non abbiano come destinazione i porti dell'America occidentale, gli steamer non si avventurano mai sul Mar dei Coralli. Questo mare non è frequentato che da velieri i quali preferiscono la via del capo Horn a quella del capo di Buona Speranza, oppure da quelli che esercitano, come il James Cook, il cabotaggio tra l'Australia, la Nuova Zelanda e gli arcipelaghi del nord. È raro perciò che una vela appaia all'orizzonte. Ne consegue una navigazione monotona, alla quale occorre che si rassegnino se 9

Altro nome del mare degli Arafura. Alfura, o meglio Alfuri, significa «gente della foresta ». Il nome indica le genti più primitive (malesi e indonesiane) dell'interno di alcune isole delle Molucche. (N.d.T.)

non gli equipaggi, poco curanti di distrazioni, almeno i passeggeri, ai quali quelle traversate sembrano interminabili. Nel pomeriggio del 9 novembre, Nat Gibson, chino a prua sul parapetto, chiamò il capitano, il quale aveva lasciato allora la tuga, e gli indicò qualcosa che sembrava una massa nerastra, a due miglia a sinistra. — Babbo, sarebbe forse uno scoglio? — gli chiese. — Non credo — rispose il signor Gibson. — Ho fatto un'attenta osservazione a mezzogiorno e sono sicuro della mia posizione. — Nessuno scoglio è segnato sulla carta? — Nessuno, Nat. — Eppure, c'è qualcosa… Dopo aver osservato quella massa scura con il cannocchiale, il capitano rispose: — Non me ne rendo bene conto… Erano intanto sopraggiunti i due fratelli Kip e il signor Hawkins. Guardarono anch'essi, con molta attenzione, la massa di forma irregolare che avrebbe potuto essere scambiata per un banco corallino. — No, non è uno scoglio — disse Karl Kip, dopo aver guardato con il cannocchiale. — Si direbbe che galleggi e che si sollevi con l'onda — disse il signor Hawkins. L'oggetto di cui si parlava non era immobile, sulla superficie del mare; obbediva invece ai movimenti dell'onda lunga. — E inoltre — disse Karl Kip — non si vede nessuna risacca sugli orli. — Si _direbbe anzi che vada alla deriva! — fece rilevare Nat Gibson. Il capitano gridò allora a Hobbes, che era al timone: — Orza leggermente in modo da avvicinarci di più. — Sì, capitano — rispose il marinaio, facendo fare un giro alla ruota del timone. Dieci minuti dopo, il brick si era fatto tanto vicino che Karl Kip poté dire: — È un rottame. — È un rottame — confermò il capitano.

Non c'era più dubbio: era lo scafo di una nave quello che galleggiava a prua del brick. — Sarebbe forse ciò che rimane della Wilhelmina? — chiese il signor Hawkins. Dopo tutto, non era impossibile. Venti giorni dopo la collisione, non c'era da stupirsi per il fatto che i rottami della goletta fossero stati trascinati in quei paraggi. — Capitano, ci permettete di visitare quel relitto? — chiese allora Pieter Kip. — Se proviene dalla Wilhelmina, può darsi che si rintracci qualche oggetto… — E forse anche dei naufraghi — aggiunse il signor Hawkins — da salvare. Non fu necessario insistere; fu dato l'ordine di mettere in panna a due o tre gomene dal relitto. Imbrogliate le vele, ralingando già i suoi contro velacci, il brick corse ancora per pochi minuti. Karl Kip allora gridò: — È proprio la Wilhelmina! Sono i resti della sua poppa e del cassero. Flig Balt e Vin Mod, 1 'uno accanto all'altro, parlavano a bassa voce. — Non ci mancherebbe che imbarcare un altro paio di persone! Il nostromo si limitò ad alzare le spalle: era poco probabile che ci fossero dei naufraghi su quel relitto. E, infatti, nessuno apparve. Se ci fosse stato qualcuno, a meno di non essere mezzo morto di stenti, si sarebbe già fatto vedere da un pezzo, avrebbe fatto qualche segnale al brick. — Il canotto in mare! — ordinò il signor Gibson, rivolgendosi a Flig Balt. L'imbarcazione fu subito staccata dalle gru e tre marinai si posero ai remi: Vin Mod, Wickley e Hobbes. Vi presero posto anche Nat Gibson e i due fratelli olandesi. Karl Kip si mise al timone. Era proprio la poppa della Wilhelmina, il cui casseretto, quasi intatto, aveva galleggiato dopo l'investimento. Mancava la parte anteriore, verosimilmente colata a picco sotto il peso del carico, a meno che la corrente non l'avesse trascinata lontano. Il mozzo Jim, mandato in cima all'albero maestro, gridò che non si vedevano altri

rottami sulla superficie del mare. Nel quadro di poppa, ancora intatto, si leggevano questi nomi: Wilhelmina, Rotterdam. Il canotto attraccò al relitto. Il casseretto, molto inclinato a sinistra, galleggiava al disopra della parte della stiva riservata alla cambusa immersa completamente nell'acqua. Dell'albero di mezzana, che attraversava il quadrato, non restava che un piccolo tronco di due o tre piedi, spezzato all'altezza dei ganci, dal quale penzolavano alcuni brandelli di drizze. Non rimaneva più nulla del ghisso, strappato nella collisione. Sarebbe stato facile, del resto, penetrare nel casseretto. La porta era sfondata e l'onda, gonfiandosi, lo spazzava internamente. Non c'era da far altro che metter piede sul rottame, visitare le cabine del quadrato, tra cui quella dei due fratelli, posta sul fianco. La cabina del capitano e quella del secondo, che occupavano la parte anteriore del casseretto, erano state completamente demolite. Karl Kip accostò il canotto al rottame, in modo da potervi sbarcare, e Vin Mod legò l'ormeggio a un montante del parapetto di destra. Il mare, calmo in quel momento, non inondava il quadrato, ma fluiva e rifluiva all'estremità del ponte. A volte, il beccheggio scopriva la stiva vuota. Karl e Pieter Kip, Nat Gibson e Vin Mod affidarono l'imbarcazione alla custodia dei marinai e penetrarono nel quadrato. Per prima cosa, bisognava esser certi che non vi fossero superstiti della Wilhelmina. Non era forse possibile che qualche membro dell'equipaggio avesse trovato rifugio nel cassero nel momento in cui il resto della goletta si inabissava? Ma su quel rottame non c'erano né vivi né morti. Il capitano e il secondo avevano forse fatto in tempo a uscire dalle loro cabine? Non lo si sarebbe mai saputo, così come non si sarebbe mai saputo se la parte anteriore della nave fosse rimasta a galla, con qualche membro dell'equipaggio. Era probabile, invece, che il James Cook avesse incontrato tutto quello che era rimasto della Wilhelmina. Si comprese facilmente quale fosse stata la violenza dell'urto,

quando lo steamer, lanciato nella nebbia alla massima velocità, si era avventato sulla goletta, attraversandone come un proiettile lo scafo, forse senza neppure averne riportato avarie tali da impedirgli di proseguire la sua rotta. Era riuscito a fermarsi in seguito e a mettere in mare le imbarcazioni per raccogliere qualche naufrago? I due fratelli, Nat Gibson e Vin Mod, con l'acqua a mezza gamba, visitarono il quadrato. Nella loro cabina, Karl e Pieter Kip ritrovarono alcuni oggetti più o meno deteriorati: vestiti, biancheria, oggetti da toletta, due paia di scarpe. Le lettiere a castello contenevano ancora le loro brande, che furono portate nel canotto. Sarebbe stato auspicabile che i due fratelli avessero potuto ritornare in possesso dei documenti, soprattutto quelli che riguardavano l'ufficio di Amboine e la ditta di Groningen. La loro scomparsa avrebbe certamente reso arduo il regolamento degli affari; ma non ve n'era traccia: penetrato nella cabina, il mare aveva compiuto la sua opera di distruzione. La stessa cosa era accaduta alle mille piastre appartenenti a Pieter Kip: l'armadietto, nel quale la somma era conservata, era andato a pezzi nell'urto. — Nulla, non c'è nulla! — disse. Mentre si esaminava il quadrato, Vin Mod – non dobbiamo stupirne – spinto dall'istinto del saccheggio, non cessava di frugare in ogni angolo; senza che nessuno lo vedesse, penetrò nella cabina dei due fratelli. Fu allora che trovò, sotto il quadro inferiore della cabina, dove si apriva il cassetto, un oggetto sfuggito all'attenzione di Karl e di Pieter Kip. Si trattava di un pugnale di fabbricazione malese, un kriss dai denti di sega, scivolato nell'interstizio di due tavole sconnesse. Quest'arma, assai comune presso gli indigeni del Pacifico, non aveva gran valore e non sarebbe potuta servire che a completare la panoplia di un amatore. Impadronendosi dell'arma, Vin Mod agiva per un certo scopo? Comunque sia egli prese il kriss e lo cacciò sotto il camiciotto senza che nessuno lo vedesse: era sua intenzione nasconderlo nel suo sacco non appena a bordo del brick.

Si può star certi che se invece dell'arma avesse trovato il migliaio di piastre di Pieter Kip, egli non si sarebbe fatto scrupolo di farle sue. A bordo del relitto non c'era proprio più nulla da raccogliere. Capi di vestiario, biancheria, lenzuola, furono trasportati nel canotto. Del resto, il rottame non avrebbe tardato a sfasciarsi completamente. Il pavimento del quadrato, eroso dall'acqua, cedeva a ogni passo. Al primo uragano avrebbero galleggiato sul mare soltanto rottami informi. Il brick era in panna dinanzi al relitto e la corrente cominciava ad allontanarlo. Il vento si rinforzava, l'onda cresceva: bisognava tornare a bordo. Più volte si fece udire il megafono del nostromo per sollecitare la gente del canotto. — Ci si ordina di tornare — disse Nat Gibson. — Poiché abbiamo preso quello che c'era da prendere… — Andiamo, allora — disse Karl Kip. — Povera Wilhelmina! — mormorò Pieter Kip. I due fratelli non cercarono di celare la loro commozione… Se avevano sperato di ritrovare una parte di ciò che possedevano, ora dovevano rinunciare a quella speranza! Il canotto allentò l'ormeggio; Nat Gibson si mise al timone, mentre Karl e Pieter Kip, rivolti a poppa, contemplavano ancora il rottame della Wilhelmina. Quando il canotto fu issato a bordo, il brick braccio le vele; servito da un buon vento, al gran lasco, filò rapidamente diretto a nord-ovest. Per cinque giorni, la navigazione non incontrò incidenti; la mattina del 14 la vedetta segnalava le prime alture della Nuova Guinea.

CAPITOLO IX ATTRAVERSO LA LUISIADE IL GIORNO dopo, 15 novembre, il James Cook era riuscito a percorrere appena una trentina di miglia verso nord-est. Al tramonto il vento era cessato. I passeggeri e l'equipaggio trascorsero la notte sul ponte: la calura soffocante non avrebbe reso possibile dormire nelle cabine neppure per un'ora. La nave, per di più, attraversava allora delle zone pericolose e bisognava che la sorveglianza non venisse meno un istante. Il signor Gibson aveva fatto piantare una tenda dinanzi alla tuga, facendola fissare ad alcuni montanti lungo il listone; sotto di essa si consumavano i pasti più piacevolmente che non all'interno del quadrato. Quel mattino, durante la colazione, la conversazione cadde sulle isole delle Luisiadi tra le quali il brick doveva effettuare la parte più pericolosa della traversata. Il punto poneva la nave a quattrocentocinquanta miglia circa dal gruppo della Nuova Irlanda. Fra quattro giorni, se la calma non ne avesse ritardato la marcia – come capita spesso, nel corso della stagione calda, fra il tropico e l'equatore – il brick avrebbe gettato l'ancora a Port Praslin. — Avete percorso molte volte l'arcipelago delle Luisiadi? — chiese Pieter Kip al capitano. — Molte volte, quando andavo a prendere il carico alla Nuova Irlanda — rispose il signor Gibson. — La navigazione è difficile? — chiese Karl Kip. — È difficile, signor Kip. Non avete mai avuto l'occasione di visitare questa parte del Pacifico? — Mai, signor Gibson, e non ho mai attraversato la latitudine della Papuasia. — Un capitano imprudente o disattento, credetemi, rischierebbe di

gettare la nave sulle numerosissime scogliere di questi paraggi. Immaginate banchi madreporici lunghi duecento miglia e larghi un centinaio. Se non si è molto pratici ci si lascia il fasciame e a volte anche lo scafo. — Avete fatto sosta, qualche volta, nelle isole principali? — chiese Pieter Kip. — Mai — rispose il signor Gibson. — Del resto, quale commercio si potrebbe mai esercitare con Rossel, Saint-Aignan, Trobriant ed Entrecasteaux? Tranne che non si voglia riempire la stiva di noci di cocco: queste isole posseggono i più begli alberi di cocco di tutta la terra. — Tuttavia anche se le navi non vanno a fare il carico alle Luisiadi — fece rilevare il signor Hawkins — ciò non significa che l'arcipelago sia disabitato. — È vero, amico mio — disse il signor Gibson. — È abitato da gente selvaggia e crudele, forse anche cannibale, nonostante l'opera dei missionari. — Vi sono state di recente manifestazioni di antropofagia? — chiese Pieter Kip. — Proprio così — disse il capitano. — Manifestazioni spaventose; se le navi non stanno all'erta corrono il rischio d'essere assalite dagli indigeni. — Non soltanto dagli indigeni della Luisiade, ma anche da quelli della Nuova Guinea — dichiarò Karl Kip. — Io credo che i papuani non siano meno da temersi. — Questi selvaggi si equivalgono tutti — rispose il capitano. — Sono furbi e sanguinari! Sono più di trecento anni che queste terre sono state scoperte dal portoghese Serrano; nel 1610 furono visitate dall'olandese Shouten, e nel 1770 da James Cook, il quale vi fu accolto a colpi di chiaverina. 10 Il francese Dumont d'Urville, in occasione del viaggio dell'Astrolabe, nel 1827, dovette rispondere con schioppettate alle dimostrazioni ostili di questi polinesiani. Ebbene, da allora, la civiltà non ha fatto un solo passo avanti presso questa gente. — È così — disse Nat Gibson — in tutta la parte del Pacifico 10

Arma ad asta, di lunghezza di circa un metro. (N.d.T.)

compresa tra la Nuova Guinea e le isole Salomone. Basta pensare ai viaggi di Carteret, di Hunter, dell'americano Morrei che rischiò di perdervi la propria nave Australia! Una di queste isole è chiamata «isola dei massacri»; e molte altre meriterebbero di avere lo stesso nome. — Parola mia, spetta a voi, signori olandesi, di civilizzare questi indigeni — concluse il signor Hawkins. — La vostra bandiera sventola sulle terre vicine. Essa protegge l'arcipelago delle Molucche e tutti vi saranno grati per avere reso sicura la navigazione mercantile. — Il governo di Batavia non cessa di preoccuparsene — rispose Karl Kip. — Non passa anno senza che una nave venga mandata alla baia del Tritone, sulla costa settentrionale della Nuova Guinea, dove abbiamo fondato una colonia. — E cercheremo di fondarne altre — aggiunse Pieter Kip. — Non è forse nostro interesse, da quando la Germania ha messo la mano sugli arcipelaghi del Nord? — In realtà, tutte le potenze marittime avrebbero interesse ad aiutarvi — osservò Nat Gibson. — Quasi tutte hanno un piede in questa zona del Pacifico. Leggete i nomi scritti sulle carte: Nuova Caledonia, Nuova Zelanda, Nuove Ebridi, Nuovo Hannover, Nuova Bretagna, Nuova Irlanda; per non parlare dell'Australia, che si è chiamata Nuova Olanda, ma della quale l'Inghilterra ha il possesso esclusivo. L'osservazione era giustissima; bandiere d'ogni colore sventolavano in questo dominio coloniale il cui incivilimento avrebbe fatto rapidi progressi. Ciò che non era meno esatto era che tali possedimenti risultavano finora insufficientemente protetti. Soprattutto tra le Salomone, le Ebridi, la Papuasia e i gruppi del nord la navigazione si svolgeva con grave rischio. Non farà dunque meraviglia sapere che il James Cook, destinato a tale navigazione, fosse armato di un cannoncino di rame che lanciava palle di quindici libbre a seicento metri di distanza e che la rastrelliera della tuga accogliesse una mezza dozzina di fucili e di rivoltelle. Se qualche piroga sospetta si fosse avvicinata, sarebbe

stato possibile tenerla lontano. I papua, o papù, o negritos, costituiscono una razza intermedia tra malesi e negri. Essi si dividono in Alfakis, che sono montanari, e in papua propriamente detti, i quali occupano il litorale. Questi indigeni, che non sono né agricoltori né pastori, costituiscono tribù isolate al comando di vecchi capi, ai quali è attribuito il nome di «capitani». Essi abitano miserabili capanne e sono a malapena coperti di pelli di animali o di perizomi di corteccia d'albero. Del resto la vita è facile nei territori della Nuova Guinea e delle Luisiadi. L'alimentazione è largamente assicurata: tartarughe, pesci, tari, ignami, molluschi in abbondanza, canne da zucchero, banani, noci di cocco, sagù, cuori di palma. Nelle magnifiche foreste dell'interno, ricche di noci moscate, latanie, bambù, ebani, pullulano maiali, canguri, piccioni kalaos, colombacci commestibili. Vi si incontra per eccellenza il meglio del mondo ornitologico: cacatua, pappagalli, cuculi, lorichetti, cocorite, tortorelle, gure, nicobar, martin-pescatori, menuralira. Bisogna citare in particolare gli esemplari più belli di uccelli del paradiso, otto splendide specie, dal grande smeraldo al manucodia reale, ricercati a ottimi prezzi sui mercati dell'Asia orientale. Per questo motivo, un viaggiatore ha chiamato questa regione l'Eldorado dell'Oceania, al quale non mancano né i boschi preziosi, né l'oro, né le perle di grande valore. Non c'era motivo perché il James Cook visitasse i posti principali della Nuova Guinea, il rifugio Dori, il golfo MacCluer, la baia Geelwink, la baia Humboldt, la baia del Tritone dove gli olandesi hanno qualche stabilimento. Il brick si sarebbe accontentato di doppiare il capo Rodney, all'estremità più orientale della grande isola, tenendosi al largo per evitare i numerosissimi scogli. Ciò fu fatto nella giornata del 15 novembre. Da lontano fu anche possibile scorgere la catena dell'Astrolabe, alta dai tre ai quattromila piedi, e i picchi che la dominano: il Simpson e il Sucking. Poi, con velatura ridotta, rapidamente manovrabile, sempre pronta ad essere serrata o, al contrario, bracciata, il brick si inoltrò in quel mare irto di scogli compreso tra l'arcipelago delle Salomone e la lunga punta che la Papuasia manda verso sud-est. Non era in vista nessuna nave e nessuna imbarcazione indigena si

faceva vedere da quella parte. Durante la notte tutti si imposero la massima vigilanza. Le vele alte erano state ammainate, benché ci fosse poco vento e il brick navigò soltanto con le due vele di gabbia, la vela di trinchetto, il grande fiocco e la randa. Oltre capo Rodney furono visti numerosi fuochi lungo costa, dall'altro lato della punta papuana e sull'isola di Entrecasteaux che uno stretto di alcune miglia separa dal capo. L'oscurità era profonda, il cielo coperto senza una stella. Un'ora dopo il tramonto la mezzaluna era scomparsa dietro le nuvole. Tra le undici e mezzanotte, gli uomini di quarto intravidero, forse, alcune piroghe in prossimità del James Cook: ma non avrebbero potuto affermarlo con certezza. In ogni caso, non ci fu motivo per mettersi sulla difensiva e la notte trascorse senza incidenti. Il giorno seguente, il vento, che all'alba era cresciuto, cessò di colpo. Il mare assunse un aspetto oleoso; e poiché le nuvole verso le dieci si dissiparono, c'era da aspettarsi un rialzo della temperatura, essendo quei luoghi posti a dieci gradi soltanto dall'equatore e corrispondendo il mese di novembre al mese di maggio dell'emisfero settentrionale. Un po' prima di mezzogiorno, dal fianco dell'isola di Entrecasteaux lasciata a sinistra, la vedetta segnalò l'approssimarsi di una piroga. L'imbarcazione proveniva probabilmente dalla grande terra dopo aver contornato il sud dell'isola, e marciava in direzione del brick immobile per la calma. Non appena scorta la piroga, Karl Kip disse al signor Hawkins: — Se non erro, quella imbarcazione viene verso di noi. — Lo credo anch'io — rispose l'armatore. Il signor Gibson, suo figlio e Pieter Kip, usciti dalla tuga, si diressero a prua. La piroga, fatta di corteccia d'albero e non munita di bilanciere, era di piccole dimensioni. Era mossa dalla pagaia, senza fretta, manovrando tra le rocce che si stendono a sud-est dell'isola di Entrecasteaux. Dopo averla osservata con il cannocchiale, il signor Gibson dichiarò:

— È montata solo da due uomini. — Due soli? — ripeté il signor Hawkins. — Se vorranno salire a bordo, non credo che ci sia nulla di male a riceverli. — Mi piacerebbe esaminare un po' più da vicino il tipo papua — disse Nat Gibson. — Lasciamoli avvicinare — rispose il capitano. — Tra dieci minuti la piroga sarà qui e sapremo che cosa vogliono. — Vorranno senza dubbio commerciare — disse il signor Hawkins. — Vi sono altre imbarcazioni in vista? — chiese Pieter Kip. — Nessuna — rispose il signor Gibson, dopo aver esaminato il mare al largo, poi a nord e a sud dell'isola di Entrecasteaux. La piroga avanzava intanto verso il brick spinta dalla doppia pagaia, le cui pale si alzavano e si abbassavano con meccanica regolarità. Quando fu a una cinquantina di piedi dalla nave, uno degli indigeni si alzò in piedi e gridò: — Ebura! ebura! Chino sul parapetto, il capitano si rivolse verso i compagni e disse: — Nel linguaggio degli indigeni della Nuova Irlanda, la parola significa «uccello»; immagino che i papua della Nuova Guinea gli diano lo stesso significato. Il signor Gibson non si sbagliava; il selvaggio teneva infatti nella mano destra un uccello che valeva certamente la pena di apparire in una raccolta di ornitologia. Era un uccello del paradiso del genere manucodia, come si vide subito, un maschio reale dalle piume di un rosso-bruno vellutato, con il capo in parte color arancio, una macchia nerastra all'angolo dell'occhio, gola bronzeo dorata, solcata da una macula brunastra e da un'altra color verde metallico; il resto del corpo era perfettamente bianco, il fianco guarnito di ciuffi di penne, le une rosse, le altre gialle, e dall'estremità color smeraldo a barbe arricciate in punta. Questo uccello, lungo circa sei pollici, si dice che sia di quelli che non si appollaiano da nessuna parte e di cui gli indigeni non hanno mai potuto scoprire il nido. È uno dei più strani e dei più interessanti

del paese dei papua, dove se ne incontrano in gran numero. — Non mi dispiacerebbe proprio — disse il signor Hawkins — procurarmi uno di questi uccelli dei quali Gibson mi ha spesso parlato. — Sarà facile — rispose Pieter Kip. — Questo selvaggio viene certamente per farne oggetto di scambio. — Fatelo salire a bordo — ordinò il capitano. Un marinaio calò la scala di corda; la piroga vi si accostò e l'indigeno, con l'uccello in mano, si lanciò sul ponte, ripetendo: — Ebura… ebura… Il compagno era rimasto nella piroga, la cui bozza fu avvolta a un tacco, ed egli non cessò di guardare attentamente il brick senza rispondere ai segni che i marinai gli facevano. L'indigeno salito a bordo rappresentava il tipo particolare di questa razza di papua malesi che occupano la parte litoranea della Nuova Guinea: statura media, corpo tozzo, costituzione vigorosa, naso grossolanamente schiacciato, bocca larga dalle labbra spesse, tratti angolosi, capelli crespi e dritti, pelle di un giallo sporco, fisionomia truce, ma non priva di intelligenza e anche di astuzia. Quest'uomo, secondo il signor Gibson, doveva essere un capitano, un capo tribù. Era sulla cinquantina, quasi nudo: aveva per vestito una pelle di canguro intorno alle reni e un coprispalle di corteccia d'albero. Poiché il signor Hawkins non era riuscito a frenare un gesto d'ammirazione alla vista dell'uccello, fu a lui che l'indigeno si rivolse per primo. Dopo aver sollevato l'uccello all'altezza del capo lo dondolò e lo rigirò per mostrarlo sotto ogni aspetto. Il signor Hawkins, decisissimo a farne l'acquisto, si chiedeva che cosa avrebbe potuto dare in cambio. Molto probabilmente il papua non sarebbe stato sensibile all'offerta di una piastra di cui senza dubbio non conosceva il valore. Il selvaggio lo trasse subito d'impaccio, ripetendo a bocca spalancata: — Wobba… wobba! Il signor Gibson diede a quella parola il significato di «da bere!» e fece portare una bottiglia di whisky.

Il selvaggio la prese, si assicurò che fosse piena di quel liquido giallastro che conosceva molto bene e, senza stapparla, se la pose sotto il braccio. Poi si mise ad andare su e giù per il ponte del brick, guardando non tanto Vacastilage e gli attrezzi, quanto i marinai, i passeggeri e il capitano. Si sarebbe detto che volesse rendersi conto del numero delle persone che erano a bordo. Così almeno parve a Karl Kip, il quale ne accennò al fratello. A Nat Gibson venne allora l'idea di fotografare l'indigeno, non per fargli dono del suo ritratto, mancandogli il tempo di ricavarne la stampa, ma per arricchire la sua raccolta con l'aggiunta della foto di un vero papua. — È una buona idea — disse il signor Hawkins. — Ma come si può obbligare quel diavolo a stare fermo? — Tentiamo — rispose Nat Gibson. Prese l'indigeno per un braccio, nell'intento di condurlo a poppa. Non comprendendo che cosa si volesse da lui, il selvaggio oppose qualche resistenza. — Assai — gli disse il signor Gibson. Questa parola è il vocativo del verbo «venire» nella lingua papua e il selvaggio gli rispose dirigendosi verso la tuga. Nat Gibson portò a poppa il suo apparecchio e lo sistemò sul treppiede. Poi, prima ancora di inquadrare il selvaggio, cercò di fargli assumere una posa tale che gli consentisse di ottenere un buon negativo. Ma l'indigeno, agitatissimo, cominciò a muovere capo e braccia. Come fare a farlo stare fermo per i pochi secondi necessari all'operazione? Fortuna volle che, quando vide sparire Nat Gibson sotto il telo nero dell'obiettivo, lo stupore lo immobilizzò. Bastò quell'istante per la posa; terminata l'operazione, l'indigeno, con la bottiglia in mano, raggiunse subito la scaletta di destra. Nel passare dinanzi alla tuga la cui porta era aperta, vi entrò come per assicurarsi che non vi fosse nessuno. Lo stesso pensiero lo spinse fino al posto dell'equipaggio, la cui cappa era chiusa. I suoi sguardi si fermarono infine sul cannoncino di rame, del quale evidentemente non ignorava la potenza, perché gridò: — Mera! Mera!

Parola indigena che significa tuono, come la parola ura significa lampo o luce viva. L'occhio del selvaggio brillò per un attimo di una fiamma che si spense quasi subito: il suo viso riassunse la fisionomia atona che contraddistingue i rappresentanti della razza andamana. Tornato infine accanto alla scala, il papua oltrepassò il parapetto, scese nella piroga, volse un'ultima volta lo sguardo da prua a poppa del brick e afferrò una pagaia, mentre il suo compagno prendeva l'altra. Rapidamente manovrata, l'imbarcazione non tardò a sparire dietro l'isola d'Entrecasteaux per raggiungere la punta della grande terra. — Avete visto — disse allora Karl Kip — con quale attenzione quell'uomo osservava il James Cook e soprattutto il suo equipaggio? — Ne sono rimasto sorpreso — rispose il signor Hawkins. Da parte sua il capitano Gibson aveva fatto la stessa osservazione. Tuttavia, sembrava poco credibile la supposizione che il papua fosse venuto a bordo per rendersi conto delle forze di cui il brick disponeva. Egli aveva un uccello da vendere, lo aveva venduto per una bottiglia di whisky, se ne era mostrato soddisfatto e la piroga lo aveva riportato alla terra da dove era venuto. Tra un'ora sarebbe stato ubriaco fradicio e nessuno lo avrebbe più rivisto. Tutto ciò andava bene; era però da lamentare che il James Cook fosse trattenuto dalla calma dinanzi all'isola di Entrecasteaux. Il vento soffiava solo a soffi intermittenti. Le ultime increspature del mare sparivano e la sua superficie si gonfiava appena di un'onda lunga. Il signor Gibson si chiedeva, dunque, se non fosse il caso di ancorarsi con cinquanta braccia di catena. Accostandosi all'isola avrebbe trovato una buona posizione per attendervi il ritorno del vento di sud-est. Ne parlò con il nostromo, il quale non vide nessun inconveniente nel gettare l'ancora. Flig Balt aveva i suoi motivi per condividere l'idea del capitano. Vin Mod gli aveva detto: — Il cielo è coperto, la notte sarà piovosa: sarà una di quelle piogge senza vento che cadono dalla sera fino al mattino. È probabile che il signor Hawkins, i due olandesi e Nat Gibson vadano a dormire

nelle loro cabine. Sul ponte rimarranno il capitano e gli uomini di quarto. Quando verrà il turno di Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce, gli altri si troveranno negli alloggiamenti. È forse l'occasione che ci è mancata finora di sorprendere il signor Gibson e di sbarazzarci di lui. E se non sarà possibile impadronirci del brick avremo se non altro Flig Balt per capitano. Questo era stato l'argomento di una conversazione che Vin Mod aveva avuto con Len Cannon e alla quale avevano preso parte Kyle, Sexton e Bryce. Per prima cosa, era stato detto, bisognava finirla con il capitano Gibson; poi si sarebbe visto. Ora le circostanze sarebbero state favorevoli se il brick avesse gettato l'ancora, invece di trascorrere la notte sotto vela. Il signor Gibson sarebbe rimasto certamente solo a vigilare; un incidente… e sarebbe scomparso! Ciò che mandò a monte i piani di Vin Mod fu il fatto che il capitano volle avere il parere di Karl Kip sull'opportunità di ancorarsi fino all'alba. Karl Kip gli rispose senza incertezze: — Al vostro posto non lo farei, signor Gibson. Questi paraggi non sono sicuri. È sempre da temersi un attacco degli indigeni. Se ciò dovesse capitare, sarebbe meglio non essere all'ancora. E poi, se si alza il vento, non perderemo tempo a issare le vele e a levare l'ancora per allontanarci. Il capitano comprese la bontà di quei motivi e vi si arrese. Con vivo rammarico del nostromo e dei suoi complici, il James Cook dunque mantenne la sua velatura notturna anche quando il sole fu tramontato, e rimase in vista dell'isola d'Entrecasteaux, lontana due o tre miglia. D'altro canto la pioggia, che era cominciata a cadere verso le cinque del pomeriggio, non durò. L'uragano si manifestava con lampi di calore e con tuoni lontani. La temperatura era assai elevata: il termometro Fahrenheit segnava novanta gradi. 11 Né il signor Hawkins, né Nat Gibson, né Karl e Pieter Kip andarono perciò a occupare le loro cabine. Tutti si sdraiarono sul ponte, con i marinai che non erano di quarto. 11

32° 22 centigradi. (N.d.A.)

Ancora una volta la sfortuna si dichiarava decisamente contro Flig Balt, Vin Mod e i loro complici. È superfluo dire che il signor Gibson aveva dato ordine e disposto il necessario perché il mare intorno al brick fosse attentamente sorvegliato. Gli uomini dovettero vigilare a poppa e a prua. Checché ne pensasse il signor Hawkins, il sospetto di Karl Kip poteva essere fondato. L'indigeno era venuto a bordo per barattare l'uccello del paradiso con un oggetto qualsiasi, oppure per accertare quali fossero le forze del James Cook? Dinanzi alla tuga, si parlò prima dell'incidente e poi di altre cose. La tenda era stata levata per dare più aria. Un profondo silenzio regnava intorno alla nave. Nessun fuoco attirava lo sguardo, né al largo né dalla parte dell'isola di Entrecasteaux certamente deserta. Poi la conversazione languì e le palpebre si appesantirono. Il sonno stava per vincere anche i più resistenti, quando si udì una voce: era quella di Jim il quale andava su e giù per la corsia. — Piroghe! Piroghe in vista! — gridava il mozzo. Tutti furono subito in piedi, capitano, passeggeri ed equipaggio e si portarono a sinistra. Era in quella direzione che Jim aveva visto, o creduto di vedere, alcune imbarcazioni che venivano verso il brick. L'oscurità della notte lo aveva forse ingannato? È quello che si pensò in un primo momento. Ma uno sciacquio, come può solo essere prodotto dalla pagaia, rivelò che il mozzo non si era sbagliato. Nat Gibson allora gridò, a sua volta: — Ecco le imbarcazioni! Un marinaio rivolse allora la luce di un fanale in quella direzione e ciò permise di distinguere numerose piroghe, a una trentina di piedi dalla nave. Se Jim non fosse stato vigile, il brick sarebbe stato colto di sorpresa da quell'improvviso attacco e nessuno avrebbe avuto il tempo di porsi sulla difensiva. — Prendiamo rivoltelle e fucili! — ordinò subito il signor Gibson. I marinai corsero verso la tuga e le armi furono distribuite. Ciascuno ebbe un fucile o una rivoltella, con cartucce di ricambio, e andò a collocarsi lungo il parapetto di sinistra, per respingere gli assalitori che avessero tentato di salire sul ponte.

Del resto, nulla si vedeva di sospetto al largo, dall'altro bordo, né si udiva da quella parte uno sciacquio prodotto da pagaie: sulla superficie del mare non si notava la minima agitazione e non sembrava probabile che altre imbarcazioni giungessero dall'est. Vedendo la luce del fanale puntata su di essi, gli indigeni compresero di essere stati scoperti. Non era possibile ormai nessuna sorpresa. E l'attacco ebbe subito inizio. Un volo di frecce e una pioggia di sassi, lanciati dalle fionde, si abbatterono contro i fianchi del brick o attraversarono il ponte, tra le sartie. Nessuno fu colpito, ma dal numero dei proiettili si arguì che gli assalitori erano molto numerosi. Non erano meno di una sessantina, infatti, imbarcati su una decina di grandi piroghe. Il capitano non disponeva, a sua volta, che di una quindicina di uomini, mozzo compreso. — Fuoco! — ordinò. Molti spari risposero all'aggressione e non pochi proiettili raggiunsero certamente il bersaglio: si udirono le grida dei feriti mentre una seconda nuvola di frecce cadeva sulla nave. — Ora aspettiamo — disse il capitano. — Non tirate più che a bruciapelo su quelli che tenteranno di scavalcare il parapetto! La qual cosa non tardò a verificarsi. Un istante dopo, le piroghe urtavano lo scafo del brick e i papua, aggrappandosi alle armature delle sartie, cercarono di issarsi fino al listone, nell'intento di invadere il ponte e di impegnare la lotta a corpo a corpo. Era evidente che in quelle condizioni gli indigeni non avrebbero potuto adoperare né arco né fionda. Ma non sarebbero stati senza armi, perché le loro mani già brandivano quella specie di coltellaccio di ferro, chiamato parang in lingua insulare, che peraltro essi sanno adoperare con vigore e destrezza. Era dunque necessario respingere l'assalto a colpi di fucile, di rivoltella e di coltellaccio e buttare in mare i selvaggi prima che potessero mettere piede sul ponte. All'inizio i papua comparvero all'altezza del listone sostenendosi alle parasartie dell'albero maestro e dell'albero di trinchetto. Subito respinti ricaddero in fondo alle piroghe. Alla luce degli spari era stato riconosciuto l'uomo dell'uccello del

paradiso, capo di tutta la banda, venuto a bordo per preparare l'attacco. Ma il notevole numero di assalitori e le forze sproporzionate rendevano la situazione gravissima. Se i papua avessero invaso il ponte, gli uomini della nave, nonostante la superiorità delle armi, avrebbero finito per soccombere. Costretti a rifugiarsi all'interno della tuga, a poppa, oppure nel posto, a prua, sarebbero stati presto costretti alla resa. Ne sarebbe seguito un massacro senza scampo per nessuno. Era impossibile adoperare il cannoncino; eccellente quando si trattava di tirare lontano, su una piroga, non serviva più a nulla quando le piroghe si trovavano accanto al brick. Ma essi si difesero con energia e coraggio, tutti, passeggeri e marinai. In un primo momento, cinque o sei indigeni erano riusciti a risalire lo scafo. Con i piedi sul listone essi tentarono di scavalcare il parapetto; ma con l'aiuto di rivoltelle e coltellacci furono costretti a ricadere alcuni in mare, altri sulle imbarcazioni. Anche tra gli assaliti, è vero, non tardarono ad esservi dei feriti, tra i quali Pieter Kip e il marinaio Burnes, raggiunti da un colpo di parang, l'uno al braccio, l'altro alla spalla. Quelle ferite, fortunatamente lievi, non li costrinsero ad abbandonare il combattimento. Le armi da fuoco, insomma, produssero tra gli indigeni gravi perdite. La lotta durò una decina di minuti senza che i papua riuscissero a prender possesso del brick. Ci fu un momento in cui il capo e altri due selvaggi furono sul punto di scavalcare il listone con il coltellaccio in mano, mentre due o tre piroghe si dirigevano a poppa. Assecondato da Nat Gibson, Karl Kip si avventò allora sul capo e gli cacciò due palle nel petto mentre il giovane faceva fuoco sulle imbarcazioni. Quando i papua videro sparire in mare il corpo del loro capo rallentarono l'attacco e parvero disposti a rinunciarvi. Non essendo riusciti a sorprendere la nave, si erano resi conto che non sarebbe stato più possibile impadronirsene, sebbene lottassero almeno in quattro contro uno. Quelli che volevano ancora saltare sul ponte sia da prua sia dal coronamento non tardarono a ripiegare. Costretti ora a difendersi tentarono di raggiungere le piroghe. Alcuni, feriti

gravemente, annegarono. A bordo, tranne due o tre marinai, feriti a colpi di parang, non ci fu nessun morto. Erano appena le dieci e un quarto quando le piroghe cominciarono ad allontanarsi dal brick. Gli ultimi colpi di fucile furono allora diretti contro di esse finché fu possibile scorgerle. Fu proprio in questo momento che, senza dubbio per l'errore di un malaccorto (la profonda oscurità sarebbe stata la sua giustificazione), una pallottola sfiorò il capo del signor Gibson, tanto da portargli via il berretto che finì dietro la tuga. Il capitano non se ne preoccupò anche se la palla per un soffio non gli aveva attraversato il cervello; si precipitò verso prua, seguito dal figlio, che aveva chiamato in quell'istante, e insieme misero rapidamente in posizione il cannoncino. A una gomena dalla nave, le piroghe costituivano ancora una massa confusa verso la quale il marinaio Hobbes diresse la luce del fanale. Caricato e innescato, il pezzo fu pronto a far fuoco dal portello aperto da quel lato. Il colpo parti e una serie di urla rispose allo sparo. Senza dubbio, una piroga era stata colpita e affondata con i papua che essa conteneva. Il pezzo fu subito ricaricato, non per servire una seconda volta, ma in previsione d'un eventuale ritorno offensivo degli indigeni, che però non avvenne. Il fascio luminoso del fanale, rivolto a occidente, rischiarava la superficie del mare completamente deserta: le piroghe erano già al riparo, dietro l'isola di Entrecasteaux. Ora il James Cook non aveva più nulla da temere, o almeno, non sarebbe più stato colto di sorpresa. Le precauzioni sarebbero state mantenute e si sarebbe fatta buona guardia sino all'alba con le armi a portata di mano. Vennero quindi esaminate le ferite di Pieter Kip, di Burnes e di altri tre marinai. Il signor Hawkins, che se ne intendeva, assicurò che esse non presentavano nessuna gravità. La farmacia di bordo permise d'applicar loro una prima medicazione e nessuno dei feriti volle tornarsene alla propria cabina o al posto dell'equipaggio.

Quando Flig Balt e Vin Mod si ritrovarono soli, a prua, il marinaio disse a bassa voce: — È andata male… male! E se Flig Balt non rispose, com'era sua abitudine, Vin Mod conosceva perfettamente il significato di quel silenzio. — Che volete, mastro Balt, quando la notte è così scura si mira peggio — aggiunse. — Dopo tutto, pare che non se ne sia nemmeno accorto! Saremo più fortunati un'altra volta. Poi, chinandosi all'orecchio del compagno, mormorò: — È un peccato, però! A quest'ora, Flig Balt sarebbe il capitano del brick e Vin Mod il suo nostromo!

CAPITOLO X SI VA A NORD DISSIPATESI le ultime ombre della notte tutti osservarono il mare. Il James Cook occupava ancora il posto del giorno precedente, tre miglia a oriente di Entrecasteaux, come se vi fosse rimasto all'ancora. Non si avvertiva nessuna corrente e nessun soffio increspava la superficie delle acque appena sollevata da una molle e lunga onda che non riusciva neppure a sommuoverla. Nessuna piroga era in vista; si vedevano galleggiare qua e là solo i rottami di quella che il proiettile aveva fracassato. Gli indigeni che vi erano a bordo o erano stati raccolti dalle altre imbarcazioni o erano stati inghiottiti dalle acque. Il signor Gibson esaminò con il cannocchiale il litorale dell'isola e poi i numerosissimi scogli di corallo che ne circondavano la punta meridionale. Migliaia di uccelli volavano intorno con gran colpi d'ala. Non si vedeva né un canotto né un uomo: nessuno dubitò che gli indigeni non avessero raggiunto di là dallo stretto qualche villaggio rivierasco della Nuova Guinea. Bisognava, nondimeno, allontanarsi da quei paraggi non appena possibile. Da alcuni indizi il signor Gibson comprese che il vento non si sarebbe fatto più aspettare. Questo fu anche il parere di Karl Kip quando il sole spuntò tra i purpurei vapori dell'orizzonte. Da quella parte il mare sembrava presentire qualcosa e faceva udire un lieve sciacquio. — Mi sorprenderebbe assai — disse il capitano — se tra un'ora o due non avessimo un buon vento. — E se il vento durerà soltanto quattro giorni — disse il signor Hawkins — giungeremo a destinazione. — Trecento miglia appena — rispose il signor Gibson — ci separano, infatti, dalla Nuova Irlanda.

Se ciò fosse accaduto e la calma avesse avuto termine nella mattinata, la navigazione della nave sarebbe stata certamente agevolata. Il brick si sarebbe trovato allora nella zona degli alisei del sud-est, che vi regnano da maggio a novembre, e ai quali segue, negli altri mesi dell'anno, il monsone. Il signor Gibson era dunque pronto a issare le vele alte non appena il vento avesse potuto gonfiarle. Non sarebbe stato mai troppo presto per allontanarsi da quella regione pericolosa della Papuasia e della Luisiade. Favorito da un buon vento, con tutta la tela a riva e al gran lasco, non sarebbero state certamente le piroghe spinte dalle pagaie o quelle a bilanciere che sarebbero riuscite a raggiungere il James Cook se gli indigeni avessero voluto rinnovare l'attacco. Ma essi non si fecero vedere e le armi, fucili e rivoltelle, furono riposte nella tuga. Si provvide a ritirare anche il cannoncino dal portello di prua: il brick non doveva più stare sulla difensiva. In quest'occasione il signor Gibson accennò al proiettile maldestro che lo aveva sfiorato nel momento in cui Karl Kip respingeva il capo indigeno e lo buttava in mare. — C'è mancato poco… — disse il signor Hawkins, stupito — che tu… — Sì, amico mio, c'è mancato poco che fossi colpito: appena mezzo pollice e avrei avuto la testa fracassata. — Noi non sapevamo nulla — disse Pieter Kip. — Siete sicuro che fosse un colpo d'arma da fuoco? Non poteva essere per caso una chiaverina o una zagaglia lanciata da un selvaggio? — Ecco il berretto di mio padre! — rispose Nat Gibson. — Come potete vedere, è stato bucato da un proiettile. Dopo l'esame del berretto ogni dubbio sparì. Dopo tutto, non c'era nulla di sorprendente nel fatto che durante la lotta, a causa del buio, un colpo di rivoltella fosse stato mal diretto: non ci si pensò più. Verso le sette e mezzo il vento aveva acquistato forza e regolarità tanto da consentire al brick di riprendere il cammino, con rotta nordovest. Furono issati velacci, controvelacci, coltellacci e vele di straglio che sostengono bene l'andatura a vento largo. Terminati i preparativi, il James Cook riprese la navigazione interrotta da una ventina d'ore.

Prima di mezzogiorno era doppiata l'estremità settentrionale dell'isola di Entrecasteaux. Più oltre apparve ancora per l'ultima volta la grande terra dove si profilava la cresta capricciosa delle alte montagne che dominano la costa orientale della Nuova Guinea. Fin dove giungeva lo sguardo il mare appariva deserto. Era cessato il timore di un'altra aggressione. A oriente si sviluppava l'immensa pianura liquida chiusa nel suo perimetro dal mare e dal cielo. Se mancavano i selvaggi dei quali diffidare bisognava fare i conti però con i colpi di vento improvvisi che affliggono questa parte del Pacifico chiusa tra la Papuasia, le isole Salomone e gli arcipelaghi del nord. Essi non durano e non sono perciò temibili che per i capitani negligenti o inesperti che si lasciano cogliere di sorpresa. Sono chiamati «groppi». Una nave che non sia all'erta rischia di fare scuffia. Durante il giorno e la notte che seguì non fu necessario difendersi da nessuno di questi piovaschi. La direzione del vento non mutò. Dopo aver lasciato a sinistra l'isola di Monyon – arida e disabitata – che sorge in mezzo al suo anello corallifero, il James Cook incontrò un mare meno ingombro di banchi madreporici e poté mantenere la velocità media di dieci miglia. In tali condizioni si capirà bene che l'occasione tanto attesa da Flig Balt, da Vin Mod e dagli altri non si sarebbe presentata. Il signor Gibson, suo figlio, l'armatore, i fratelli Kip non trascorrevano le notti nella loro cabina, né i marinai Hobbes, Wickley, Burnes e il mozzo negli alloggiamenti. Era dunque impossibile sbarazzarsi del capitano simulando un incidente, dal momento che egli non era mai solo. Benché si fosse nel periodo dell'anno in cui il grande cabotaggio può esercitarsi con qualche sicurezza attraverso i mari della Melanesia, il brick non incontrava nessuna nave sulla sua rotta. Ciò dipendeva dal fatto che gli uffici mercantili non erano ancora abbastanza numerosi e abbastanza importanti negli arcipelaghi posti tra l'equatore e la costa settentrionale della Papuasia. Essi non davano luogo perciò a quel traffico continuo che l'avvenire avrebbe sicuramente sviluppato. Arrivato a Port Praslin, il signor Gibson non vi avrebbe probabilmente trovato nessun'altra nave e ne sarebbe

ripartito senza aver scambiato parola con velieri inglesi o tedeschi. Ecco, del resto, come sono distribuiti gli arcipelaghi dal punto di vista politico e geografico. Da molti anni, com'è sua abitudine, l'Inghilterra, più o meno legalmente, estendeva il suo protettorato sulle isole vicine alla Nuova Guinea, quando nel 1884 intervenne un accordo tra la Germania e il Regno Unito. In seguito a tale accordo, tutte le isole che occupavano i paraggi a nord-est della Papuasia, fino al centoquarantunesimo grado di longitudine a oriente del meridiano di Greenwich, furono dichiarate possedimento germanico. Una popolazione di circa centomila anime veniva ad accrescere in tal modo il dominio coloniale della Germania, la cui sola preoccupazione sarebbe stata quella di farvi affluire i suoi emigranti. Occorre ora richiamare particolarmente l'attenzione del lettore, per ciò che riguarda il nostro racconto, sul gruppo principale di queste isole. Le due isole più importanti di questo gruppo sono: Tombara o Nuova Irlanda e Birara o Nuova Bretagna. Entrambe hanno forma arcuata. Birara è separata dalla Nuova Guinea dallo stretto di Dampier. Il canale di San Giorgio si disegna tra la punta sud della prima e la punta nord-est della seconda, tra numerose scogliere coralline. Le carte mostrano poi le seguenti isole di minore estensione: Neu Hannover, York e alcune altre, abitate o deserte, per un'estensione totale di millecinquecentottanta chilometri quadrati. Non ci si meravigli se, dopo il trattato di spartizione tra le due potenze, alle denominazioni inglesi o melanesiane furono sostituite denominazioni tedesche: Tombara o Nuova Irlanda è così divenuta Neu Mecklenburg; Birara o Nuova Bretagna è divenuta Neu Pommem o Nuova Pomerania; York è divenuta Neu Lauenburg. Soltanto Neu Hannover ha conservato il vecchio nome perché era già tedesco. Rimaneva da battezzare l'insieme di queste isole che costituiscono un possesso abbastanza importante in questa parte del Pacifico. Oggi questo gruppo appare sulle carte sotto il nome di arcipelago delle

Bismarck. Quando Pieter Kip chiese al signor Hawkins in quali circostanze e condizioni egli avesse allacciato rapporti commerciali con questo arcipelago, e in particolare con la Nuova Irlanda, l'armatore rispose: — Ero il corrispondente di una ditta di Wellington, nella Nuova Zelanda, che trattava affari con Tombara. — Prima del trattato di spartizione? — Una decina di anni prima, signor Kip. Quando la ditta decise di liquidare i suoi affari, io ho rilevato l'azienda. Poi, dopo l'accordo del 1884 tra Inghilterra e Germania, sono entrato in rapporti di affari con i nuovi uffici aperti dai coloni tedeschi. Il James Cook è stato particolarmente adibito a questi viaggi, i cui utili tendono ad aumentare. — Dopo il trattato, il commercio si è esteso? — Certamente, signor Kip, e si allargherà maggiormente. La razza teutonica emigra volentieri, nella speranza di far fortuna. — Che cosa esporta in particolare l'arcipelago? — La madreperla che vi si trova in abbondanza. E poiché su queste isole si trovano in grande quantità i più begli alberi da cocco del mondo, come potrete rilevare voi stesso, esse forniscono carichi di copra di cui noi dobbiamo imbarcare esattamente trecento tonnellate a Port Praslin. — Come ha fatto la Germania a stabilire il suo dominio su questo arcipelago? — Molto semplicemente — rispose il signor Hawkins. — Ha dato in affitto le varie isole a una compagnia commerciale, investita anche di autorità politica. In realtà, però, il suo potere non è molto esteso e la sua azione sugli indigeni è minima; si limita a garantire la sicurezza degli emigranti e quella delle transazioni commerciali. — Del resto, come ha detto il signor Hawkins — aggiunse Nat Gibson — ogni cosa fa ritenere che la prosperità dell'arcipelago aumenterà. Si è potuto accertare che sono stati fatti grandi progressi, soprattutto a Tombara, la cui scoperta, che risale al 1616, fu fatta dall'olandese Shouten. Un vostro compatriota, signor Kip, che si è avventurato per primo attraverso questi mari pericolosi. — Lo so, signor Nat — rispose Karl Kip. — L'Olanda ha lasciato

la sua impronta nei paraggi della Melanesia e i suoi marinai si sono resi protagonisti di illustri gesta a più riprese. — È esatto — dichiarò il signor Gibson. — Tuttavia, essa non ha conservato tutte le terre scoperte — fece rilevare il signor Hawkins. — No, certamente, ma conservando le Molucche, gliene è rimasta una grossa parte e perciò abbandona volentieri alla Germania l'arcipelago delle Bismarck. Fu infatti il navigatore Shouten che, agli inizi del XVII secolo, aveva avvistato la striscia orientale della Nuova Irlanda. I primi rapporti con gli indigeni non erano stati pacifici; vi erano stati attacchi di piroghe a colpi di fionda e colpi di fucile in risposta. L'inizio della campagna fu segnato dalla morte di una dozzina di selvaggi. Dopo Shouten era venuto un altro olandese, Tasman, colui che avrebbe dato il suo nome alla Tasmania, chiamata anche Diemania, dal nome di un altro olandese, Van Diemen, il quale ne aveva rilevato la costa nel 1643. Dopo di loro erano venuti gli inglesi, tra cui Dampier, il cui nome fu dato allo stretto che separa la Nuova Guinea da Birara. Dampier rilevò la costa dal nord al sud, prese terra in numerosi punti e respinse l'aggressione degli isolani in una baia che egli chiamò baia dei Frombolieri. Nel 1767 Carteret, navigatore inglese, visitò la parte sudoccidentale dell'isola e fece sosta a Port Praslin e poi nel rifugio che porta il suo nome nell'ansa degli inglesi. Nel 1768, nel corso del suo viaggio intorno al mondo, Bougainville si ancorò anche lui a Port Praslin e lo chiamò con questo nome, in onore del ministro della marina, promotore del primo viaggio dei francesi intorno al mondo. Nel 1792 d'Entrecasteaux si diresse verso la parte occidentale dell'isola, fin allora sconosciuta, ne determinò i contorni e trascorse una settimana nel rifugio Carteret. Nel 1823, infine, Duperrey condusse la sua nave a Port Praslin e ne fece il rilievo idrografico. Egli ebbe rapporti frequenti con gli indigeni che le piroghe conducevano dal villaggio di Like Like, posto

nella parte orientale della Nuova Irlanda. La mattina del 18, la rotta del brick dovette essere modificata per alcune ore. Il vento, che soffiava con la solita costanza degli alisei, cessò quasi di colpo. Le vele fileggiarono, batterono contro gli alberi, e il James Cook non si mosse più. Del cambiamento meteorico un capitano prudente tiene sempre conto, ed è ciò che fece il signor Gibson, per non lasciarsi prendere alla sprovvista. In quel preciso momento Karl Kip, guardando l'orizzonte, gli fece notare a occidente una nuvola, una specie di pallone di vapori, dai fianchi arrotondati; doveva avanzare rapidamente, perché ingrossava a vista d'occhio. — Ci piomberà addosso un groppo — disse il signor Gibson. — Non durerà certo a lungo — rispose Karl Kip. — No, ma potrebbe essere violentissimo — aggiunse il capitano. Per ordine suo, l'equipaggio mise mano alla manovra: controvelacci, velacci, coltellacci e vele di straglio furono ammainate in un attimo. Venne imbrogliata la vela di trinchetto, la grande vela e la randa. Il brick rimase con le gabbie e la trinchettina e il secondo fiocco. Era tempo. Non appena la nave si trovò con velatura ridotta, il groppo si abbatté con insolita violenza. Mentre i marinai rimanevano al loro posto e il capitano era dinanzi alla tuga, il signor Hawkins, Nat Gibson e Pieter Kip avevano raggiunto la poppa. Karl Kip si era messo al timone: nelle sue mani il James Cook sarebbe stato ben governato. Come si può facilmente capire, quando il groppo lo assalì con furore, il brick fu scosso come in uno scontro: si piegò talmente a dritta che l'estremità del suo pennone di maestra toccò il mare bianco di schiuma. Un colpo di timone risollevò il brick e lo mantenne diritto. Invece di prendere la cappa per affrontare la raffica, il signor Gibson preferì fuggire dinanzi ad essa sapendo per esperienza che quei groppi passano come meteore e non durano a lungo. C'era da chiedersi però se il brick non sarebbe stato trascinato fino alle Salomone, o almeno fino ad avvistare l'isola di Bougainville, prima del gruppo che si stende a nord-est delle Luisiadi. Non ne era

lontano, allora, che una trentina di miglia. Dopo tutto, era possibile che questa isola potesse risultare visibile, sia pure per un istante. Essa presenta un'alta massa dal lato di nordest, e se ciò fosse accaduto, avrebbe significato che il James Cook era stato trascinato sino al centocinquantatreesimo grado di longitudine est. È probabile che Flig Balt e Vin Mod non si rammaricassero affatto nel vedere la nave spinta fuori della sua rotta. Tutto quello che contribuiva a ritardare l'arrivo della nave alla Nuova Irlanda andava loro bene. L'arcipelago delle Salomone si presta ai colpi di mano. Gli avventurieri vi abbondano e spesso esso è stato teatro di scene criminose. Il nostromo avrebbe potuto incontrare all'isola di Rossel, o in altre, qualche vecchia conoscenza che non si sarebbe rifiutata di assecondare i suoi progetti. E poi, in quali zone del Pacifico Vin Mod non aveva trascinato il suo sacco per non incontrare anche lui qualche vecchia conoscenza disposta a tutto? Del resto, ciò che pungolava il nostromo e la sua anima dannata era il fatto che Len Cannon e i suoi compagni lo incalzavano continuamente. Non era loro intenzione continuare a navigare in quelle condizioni e si intestardivano a ripetere: — Se il colpo non si farà prima di raggiungere Port Praslin, alla partenza noi non ci imbarcheremo. È cosa già decisa! — Ma che farete nella Nuova Irlanda? — chiedeva Vin Mod. — Ci terranno come coloni — rispondeva Len Cannon. — I tedeschi hanno bisogno di braccia. Aspetteremo qualche buona occasione, che non si potrebbe mai presentare in Tasmania. Non andremo mai a Hobart Town! Quella decisione faceva arrabbiare maledettamente Flig Balt e il suo complice. Mancando le quattro reclute essi avrebbero dovuto rinunciare all'impresa. Da quella campagna del James Cook forse non avrebbero più tratto ciò che avevano sperato. A Port Praslin Len Cannon, Kyle, Sexton e Bryce avrebbero disertato, è vero; il capitano si sarebbe trovato in grave imbarazzo non potendo riprendere il mare. Reclutare altri marinai nell'isola di Tombara non era assolutamente cosa da sperare: Port Praslin non era né Dunedin né Wellington, né Auckland, dove pullulano di solito i

marinai in cerca di imbarco. Qui non c'erano che coloni che lavoravano per conto proprio o impiegati di aziende commerciali. Non c'era possibilità, quindi, di completare l'equipaggio. Ma il signor Gibson ignorava quella potenziale minaccia così come ignorava il complotto ordito contro di lui e contro la sua nave. Le reclute non davano motivi di lagnanze. Flig Balt, sempre rispettoso e adulatore, non poteva destare sospetti. Ma se era riuscito a ingannare anche il signor Hawkins non aveva potuto far la stessa cosa con i fratelli Kip; non ispirando loro fiducia essi erano stati sempre con lui molto riservati e lui lo aveva notato. Era stato davvero un brutto affare l'aver salvato i naufraghi dell'isola di Norfolk! Se almeno il James Cook li sbarcasse a Port Praslin! No, doveva condurli anche a Hobart Town! Per tornare a Len Cannon e ai suoi compagni, la speranza che essi avevano concepito d'essere trascinati fino all'arcipelago delle Salomone fu di breve durata. Dopo tre ore, durante le quali si scatenò con violenza inaudita, il piovasco cessò improvvisamente e la girandola posta in cima all'albero maestro non obbedì più che alle scosse dell'onda lunga. Sotto la mano di Karl Kip la nave si era comportata magnificamente e non aveva ricevuto nessuno di quei colpi di mare che sono così pericolosi quando si fugge col vento in poppa. La nave allora non ubbidisce, o ubbidisce male e non c'è nulla di più difficile che di evitare le sbandate che la sballottano di qua e di là. Karl Kip aveva avuto l'occasione di mettere in luce la sua abilità e il suo sangue freddo. Nessun uomo dell'equipaggio avrebbe tenuto meglio di lui il timone durante la tormenta. Il vento cessò di colpo, ma non fu così per il mare spaventosamente sconvolto. Le onde si urtavano tanto da far credere che il brick navigasse in mezzo a scogli a fior d'acqua o a puntelli di banchi madreporici. Tuttavia, la calma regnava nell'aria e, dopo la pioggia torrenziale che aveva accompagnato il piovasco e svuotato le nuvole venute dall'ovest, gli alisei ripresero quasi subito a soffiare nella solita direzione. Il signor Gibson fece allora mollare i terzaroli delle gabbie, ristabilire la vela di trinchetto, la vela di maestra, la randa, i velacci e

i contro velacci. Non furono issati i coltellacci: soffiava vento forte e non si doveva sovraccaricare l'alberatura. Con le mure a destra il brick fece tanta buona strada: il giorno dopo, 19, dopo aver percorso circa centocinquanta miglia oltre l'isola di Bougainville, si trovò dinanzi allo stretto canale San Giorgio inciso tra le doppie alture della Nuova Irlanda e della Nuova Bretagna. Il canale è largo poche miglia e la navigazione non vi è facile perché lungo il suo corso si incontrano pericolose scogliere un po' dappertutto, ma esso accorcia la distanza d'una buona metà. Per le navi che possono raggiungere direttamente l'estremità occidentale di Tombara, invece di seguire la costa meridionale di Birara, allo scopo di cercare il passaggio di Dampier, occorre gente non meno pratica del capitano Gibson. Del resto, non c'era bisogno d'attraversarlo; Port Praslin è posta, infatti, nella parte meridionale della Nuova Irlanda sul litorale che fronteggia il Pacifico, presso il capo di San Giorgio, quasi all'entrata dello stretto. Siccome il James Cook incappò in prossimità della terra quasi nella calma, il signor Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip ebbero la possibilità d'osservare la costa. L'ossatura dell'isola è costituita da una doppia catena di montagne dell'altezza media di seimila piedi che nasce proprio in quel punto del litorale. Le foreste si arrampicano sino alle loro cime. Impenetrabili ai raggi del sole, esala da esse un'umidità costante e la temperatura vi è più sopportabile di quanto non sia in altre terre vicine all'equatore dove l'aria è asciutta e ardente. Questa circostanza attenua per fortuna la calura che regna di solito nell'arcipelago delle Bismarck ed è raro che la colonna del termometro si elevi oltre gli ottantotto gradi Fahrenheit.12 Durante la giornata il brick incontrò soltanto qualche piroga senza bilanciere, munita di vele quadrangolari. Esse filavano lungo la spiaggia e non cercarono affatto di raggiungerlo. Del resto non c'è nulla da temere dagli indigeni della Nuova Irlanda, o, meglio, del Neu Mecklenburg, ora che l'arcipelago è sotto la bandiera della Germania. Nessun incidente turbò la tranquillità della notte. Quando tornò il 12

Trenta gradi centigradi. (N.d.A.)

vento dopo ventiquattr'ore di calma, fu necessario manovrare con poca velatura tra i banchi madreporici e le scogliere coralline, numerose nelle vicinanze di Port Praslin. Una nave deve stare attenta ed evitare le avarie, le quali non potrebbero essere riparate facilmente. Tutto l'equipaggio rimase quindi sul ponte e si rese necessario bracciare spesso i pennoni. È inutile dire che quelle coste non sono ancora illuminate, dal tramonto all'alba, e che nell'oscurità vengono meno i punti di riferimento. Ma il signor Gibson conosceva perfettamente le vicinanze di Port Praslin. All'alba la vedetta segnalò l'ingresso della rada coperta dalle alte montagne di Lanut. Il James Cook si inoltrò nei passaggi navigabili durante l'alta marea. Verso le nove del mattino dava fondo a due ancore in mezzo al porto.

CAPITOLO XI PORT PRASLIN IL PRIMO visitatore che si presentò a bordo del brick fu il signor Zieger, commerciante della Nuova Irlanda, in rapporti di affari con la ditta Hawkins. Da una dozzina d'anni a Port Praslin, il signor Zieger, ancora giovane, aveva fondato la ditta prima ancora che il trattato di spartizione avesse imposto all'isola il nome di Neu Mecklenburg e, al gruppo insulare, quello di arcipelago delle Bismarck. I rapporti del signor Hawkins e del signor Zieger erano stati sempre eccellenti e non si limitavano ai soli scambi di merci tra Hobart Town e Port Praslin; già più volte, infatti, il signor Zieger si era recato nella capitale della Tasmania dov'era stato festosamente accolto dall'armatore. I due commercianti si stimavano reciprocamente moltissimo. Neppure Nat Gibson era un estraneo per il signor Zieger e per la signora Zieger che di solito accompagnava il marito nei suoi viaggi. Tutti sarebbero stati felicissimi perciò di trascorrere insieme il tempo della sosta del brick nella Nuova Irlanda. Il capitano e il signor Zieger erano vecchie conoscenze; da buoni amici, si strinsero affettuosamente la mano come se si fossero lasciati il giorno prima. Il signor Zieger, che parlava benissimo l'inglese, disse all'armatore: — Ci terrei moltissimo, signor Hawkins, se accettaste l'ospitalità che mia moglie e io vi offriamo nella nostra casa di Wilhelmstaf… — Volete dunque che abbandoniamo il nostro James Cook? — rispose l'armatore. — Certamente, signor Hawkins. — A patto però che non vi si dia fastidio… — Nessun fastidio, vi assicuro. La vostra camera è già pronta e ce n'è anche un'altra per Gibson e suo figlio.

L'offerta era fatta con tanta spontaneità che non si poteva rispondere ad essa con un rifiuto. Il signor Hawkins, del resto, poco abituato a vivere nel ristretto quadrato d'una nave, non chiedeva di meglio che di mutare la cabina con una comoda camera da letto. La proposta fu accettata anche da Nat Gibson; il capitano, invece, la declinò, come aveva fatto sempre in passato. — Ci vedremo ogni giorno, caro Zieger — disse. — La mia presenza è necessaria a bordo ed è mia regola non abbandonare mai la nave durante il tempo della sosta. — Come volete, Gibson — rispose il signor Zieger. — Resta inteso, però, che vi avremo a tavola con noi mattino e sera. — D'accordo — disse il signor Gibson. — Oggi stesso andrò a far visita alla signora Zieger, con Hawkins e Nat, e farò colazione con voi. Furono poi presentati i due naufraghi dei quali l'armatore raccontò la storia in poche parole. Il signor Zieger accolse i fratelli Kip con molta simpatia ed espresse il desiderio di vederli spesso a Wilhelmstaf. Egli non poteva offrir loro una camera, ma essi avrebbero potuto trovare a Port Praslin un buon albergo e alloggiarvi, se lo avessero voluto, fino alla partenza del James Cook. Pieter Kip allora rispose: — Non abbiamo un soldo; abbiamo perduto nel naufragio tutto quello che avevamo. E poiché il signor Hawkins ha voluto accettarci come passeggeri è preferibile che si resti a bordo. — Siete a casa vostra amici miei — disse l'armatore. — Il brick è sempre in corso di navigazione. Aggiungerò che, se avete bisogno di abiti e biancheria, io sono a vostra disposizione. — Anch'io, signori — disse il signor Zieger. — Vi ringraziamo — rispose Karl Kip. — Non appena saremo in Olanda, vi faremo mandare… — Non è il caso di parlare ora di queste cose — disse il signor Hawkins. — Ci penseremo dopo, senza che abbiate a preoccuparvene. Il signor Gibson chiese poi al signor Zieger quanto tempo, secondo lui, il brick doveva trascorrere a Port Praslin per scaricare la merce e ricevere il nuovo carico.

— Circa tre settimane — disse il signor Zieger — se ne basterà una sola per scaricare le vostre merci che io mi incarico di collocare vantaggiosamente nella colonia. — Una settimana basterà — disse il signor Gibson. — A patto però che le nostre trecento tonnellate di copra siano pronte. — Ne ho centocinquanta qui, nei magazzini della ditta — disse il signor Zieger. — Le altre centocinquanta le imbarcherete a Kerawara. — D'accordo — rispose il capitano. — La traversata è breve; andremo prima a Kerawara. Il James Cook tornerà poi qui per completare il carico. — Le casse della madreperla sono pronte caro Gibson — disse il signor Zieger. — Da questo lato, non subirete ritardi. — È un piacere trattare con la vostra ditta, signor Zieger — aggiunse il signor Hawkins. — La nostra visita, dunque, non si prolungherà oltre le tre settimane. — Siamo al 20 novembre — concluse il signor Gibson — e poiché il brick non ha avarie da riparare, ritengo che il 14 dicembre sarà in grado di spiegare le vele. — Nel frattempo, signor Hawkins, potrete dare un'occhiata ai dintorni di Port Praslin. Ne vale la pena. Per il resto, la signora Zieger e io faremo del nostro meglio perché non abbiate ad annoiarvi. Il signor Hawkins, i fratelli Kip e Nat Gibson sbarcarono lasciando il capitano al suo lavoro: egli li avrebbe incontrati nella casa di Wilhelmstaf all'ora di colazione. Come aveva supposto il signor Gibson, nessuna nave era all'ancora in quel momento a Port Praslin o attesa prima del nuovo anno. Si vedevano soltanto le imbarcazioni appartenenti alle agenzie commerciali e le piroghe degli indigeni. Le navi battenti bandiera germanica soggiornavano di preferenza nel capoluogo degli arcipelaghi tedeschi, nell'isola di Kerawara, che è posta a sud dell'isola di York, ora isola di Neu Lauenburg. Eppure Port Praslin è molto ben riparata in fondo alla sua baia. Essa offre ottimi ancoraggi ai bastimenti di grosso tonnellaggio. La profondità dell'acqua vi è eguale dappertutto. Per di più, tra Birara e

Tombara, gli scandagli misuravano fino a millequattrocento metri. Il brick aveva potuto ancorarsi a trenta braccia. La tenuta era buona; si trattava di un fondo di sabbia madreporica, seminato di detriti di conchiglie dove le ancore mordono solidamente. Port Praslin conteneva a quel tempo un centinaio di coloni, in gran parte d'origine tedesca, e alcuni emigranti di nazionalità inglese. Essi occupavano abitazioni disseminate a est e a ovest del porto sotto la magnifica vegetazione del litorale. L'abitazione del signor Zieger era stata costruita circa un miglio più a ovest, risalendo la costa. L'ufficio e i magazzini si trovavano, invece, in una piazzetta irregolare in fondo al porto, dove altri commercianti avevano impiantato il loro scagno. Gli indigeni della Nuova Irlanda vivono separatamente dalla popolazione coloniale. I loro villaggi sono semplici agglomerati di capanne, la maggior parte delle quali erette su palafitte. Essi frequentano molto volentieri Port Praslin e gli agenti che rappresentano l'autorità nella Melanesia tedesca. Allo sbarco il signor Hawkins e i suoi compagni ne incontrarono infatti molti. Benché questi indigeni non amino d'istinto il lavoro e passino la maggior parte della giornata a non far nulla, a volte li assale il desiderio di guadagnare qualche piastra. Non è raro il caso che essi si offrano di aiutare nel carico e nello scarico delle navi. Vengono allora accettati volentieri e, a condizione di tenerli sempre d'occhio, essendo inclini al furto, non vi è motivo di lagnarsene. Il neo-irlandese non è di grande statura: è alto in media soltanto cinque piedi e due pollici. Ha la pelle color bruno-giallastro e non nera come quella dei negri. Il ventre è prominente e le membra piuttosto gracili. Ha i capelli lanosi, che egli lascia ricadere sulle spalle in trecce arricciate buffamente a, spire; pettinatura che nei paesi più civili è appannaggio del sesso femminile. È da notare che questi indigeni hanno fronte ristretta, naso schiacciato, bocca larga e denti rosi dall'abuso del betel. Dalle narici e dai lobi delle orecchie bucate pendono bastoncini ai quali sono attaccati denti d'animali e ciuffi di piume, oltre ad altre cose d'uso corrente. Questi indigeni sono a malapena vestiti di perizomi di stoffa in sostituzione di quelli di corteccia. Per completare l'abbigliamento essi si dipingono varie

parti del corpo: con ocra stemperata nell'olio di cocco si tingono le guance, la fronte, l'estremità del naso, il mento, le spalle, il petto e il ventre. Solo pochi di essi non sono tatuati e il tatuaggio è ottenuto non già con punture, ma per mezzo di tagli fatti con pietre e conchiglie affilate. Questi ornamenti non riescono a nascondere però la lebbra che corrode la loro epidermide, nonostante le frizioni oleose alle quali si sottopongono, e neppure le cicatrici delle ferite ricevute nei frequenti combattimenti, soprattutto con i loro vicini di Birara. Non c'è ombra di dubbio sul fatto che gli indigeni di questo arcipelago siano stati antropofagi, e può darsi che all'occasione lo siano ancora. La pratica del cannibalismo, comunque, è diminuita notevolmente grazie all'opera dei missionari che si sono stabiliti nell'isola di Roon, nel sud-ovest del Neu Pommern. Gli indigeni raccolti sulla ripa appartenevano al sesso forte: non c'erano con loro né donne né bambini. Soltanto nei villaggi e nelle campagne, dove le neo-irlandesi lavorano i campi, è possibile incontrarle, venendo esse assai di rado in prossimità degli uffici commerciali. — Faremo qualche gita nell'interno — disse il signor Zieger. — Avrete così la possibilità di studiare queste tribù. — Molto volentieri — rispose il signor Hawkins. — Intanto — aggiunse il signor Zieger — desidero presentarvi subito alla signora Zieger, che dev'essere impaziente… — Vi seguiamo — rispose l'armatore. La strada che costeggiava il litorale in direzione di Wilhelmstaf era molto ombreggiata. Le piantagioni che si stendevano verso l'interno non si arrestavano che al limite della risacca, sulle estreme rocce dell'insenatura. A destra, fitte foreste si arrampicavano sino alle ultime cime della catena centrale, dominata dai due o tre picchi di Lanut. Quando un ostacolo, ruscello o acquitrino, imponeva di scostarsi dalla riva, ci si cacciava sotto i boschi lungo sentieri appena accennati. Qui abbondavano Pareca, i pandani, le barringtonia e altre cicadee, e i ficus. Una rete di liane, alcune d'un giallo splendente come l'oro, circondavano il tronco di questi alberi, si attorcigliavano ai loro rami, si arrampicavano fino alla loro cima. Bisognava badare alle spine pungenti e il signor Zieger non si stancava di ripetere agli

ospiti: — Vi raccomando di fare attenzione, se non volete giungere a casa seminudi; sarebbe indecoroso anche nel Neu Mecklenburg. C'era veramente motivo di ammirare, per la sua diversità e per la sua magnifica crescita, la vegetazione delle foreste neo-irlandesi. Fin dove giungeva lo sguardo, si ammucchiavano gli ibischi, il cui fogliame ricorda quello del tiglio, le palme inghirlandate di infiorescenze, le callophillium, il cui tronco misura fino a trenta piedi di circonferenza, le canne d'India, gli alberi del pepe, le dritte cycas da cui gli indigeni estraggono il midollo per fare una sorta di pane, le lobelie semisommerse nell'acqua, le pancratiums dal fusto ornato di bianche corolle, tra le cui foglie si annida lo scarabo, che non è volatile ma mollusco. Questo ambiente silvestre aveva proporzioni colossali; erano alberi di cocco, di sagù, del pane, di noce moscata, latanie, areche, il cui germoglio terminale si taglia come il cuore di palma, commestibile anch'esso; e poi moltissime piante arborescenti: felci dal fogliame leggero, opidendrons parassiti, inocarpe d'altezza superiore a quella che i loro simili raggiungono in altre isole del Pacifico e le cui radici, che emergono dal suolo, costituiscono capanne naturali in cui cinque o sei persone possono trovar posto. A volte si vedevano radure, chiuse da enormi cespugli, bagnate dalle acque limpide di un ruscelletto, destinate alle coltivazioni; campi di canne da zucchero, di patate dolci, di taro, tenuti con cura, dove lavoravano parecchie donne indigene. Peraltro non c'era da preoccuparsi né delle belve né di altri animali pericolosi, e nemmeno dei rettili velenosi. La fauna era meno varia della flora: non c'erano che maiali selvatici, meno pericolosi dei cinghiali, per la maggior parte addomesticati, e cani indicati con il nome di «pulì» in lingua tombariana, dei cuscu, delle sarighe, dei lacertili, e anche una moltitudine di minuscoli topi. Pullulavano infine le termiti o formiche bianche che sospendono i loro nidi spugnosi ai rami degli alberi, tra i quali sono a volte tese, come reti, le tele intessute da legioni di ragni di color porpora e azzurro. — Mi pare di sentir abbaiare dei cani — fu indotto a dire Nat Gibson nel momento in cui le sue orecchie udirono dei latrati lontani.

— Non sono cani — rispose il signor Zieger — quelli che abbaiano, ma uccelli. — Uccelli? — disse il signor Hawkins, sorpreso. — Si tratta di un corvo particolare dell'arcipelago delle Bismarck. Nat Gibson e il signor Hawkins si erano sbagliati, così come si era sbagliato Bougainville la prima volta che s'era inoltrato nelle foreste neoirlandesi. Questo corvo, infatti, imita i latrati del cane così bene da ingannare chiunque. Del resto, l'ornitologia conta in quelle isole molti strani rappresentanti, dei «men», per usare la parola indigena. Svolazzano da ogni parte dei lorichetti, specie di pappagalli scarlatti, papù dalla voce roca come quella dei papua, cocorite di varia specie, piccioni Nicobar, cornacchie dalla peluria bianca e dalle penne nere che gli indigeni chiamano «coco», lucal, pappagalli di un verde luccicante, colombe pinon con la testina e il collo grigio-rosa e le ali e il dorso verde dorato di sotto, con riflessi di rame e la cui carne è saporitissima. Quando il signor Zieger e i suoi compagni si avvicinavano alla spiaggia, prendevano il volo stormi di Hirundo tahitica, di martinpescatori, di alcioni ai quali gli indigeni hanno dato il nome di «kiùkiù», testa e dorso verde-bruno, ali e coda color acqua marina, lunghi sei pollici; poi si vedevano fuggire le olivastre salangane, i mangiabruchi, i piovanelli, i pigliamosche («conice, tenouri, kine e roukine», secondo la denominazione melanesiana). E mentre le tartarughe strisciavano sulla sabbia, coccodrilli e pescecani si movevano negli specchi d'acqua e le fregate si libravano nell'aria con le ampie ali quasi immobili. Quanto ai greti coperti o scoperti, a seconda dell'ora delle maree, la cui altezza è poco notevole, essi avrebbero fornito ai malacologhi inesauribili ricchezze di crostacei o di molluschi, granchi, palemoni, gamberetti, paqures, ocypodes, coni, spugne, madrepore, tubifori, dischi, caschi, trocheus, tridacnie, hyppopes, porcellane, ovuli, haliondes, murici, patelle, ostriche, mitili e, in fatto di zoofiti, oloturie, attinie, salpas, meduse, acalèphes di una specie molto bella. Ma le conchiglie meritevoli di attirare particolarmente l'attenzione del signor Hawkins e di Nat Gibson furono lo scarabo, che si rifugia

di preferenza tra le foglie umide del Pancrazio sull'orlo delle insenature, il buline e l'hélice, che cercano anch'essi il riparo delle fronde, e una nèrite fluviatile di cui si ritrovano a volte campioni molto lontano dai corsi d'acqua, attaccati ai rami più alti dei pandanus. A proposito di una di quelle conchiglie viaggiatrici, Nat Gibson rispose al signor Zieger: — Credo che ci sia un pesce che potrebbe fare il paio con la nèrite, in queste sue passeggiate sulla terra, e che i signori Kip hanno visto nell'isola di Norfolk, se non erro. — Volete parlare del blennio saltatore? — chiese il signor Zieger. — Esattamente — confermò il signor Hawkins. — Qui non ne mancano — dichiarò il signor Zieger. — Potrete vedere, nella baia di Port Praslin, anfibi che vivono in acque dolci e in acque salate, che corrono sui greti saltando come sarighe e che si arrampicano sugli arbusti come insetti! La casa del signor Zieger apparve alla svolta di un gruppo di alberi di alto fusto. Era una specie di villa costruita in legno, in mezzo a una cinta di siepi vive, nella quale si allineavano aranci, noci di cocco, banani e molti altri alberi. All'ombra del loro alto fogliame, Wilhelmstaf si componeva del solo pianterreno sormontato da un tetto di tela incatramata, reso necessario dalle frequenti piogge che rendono sopportabilissimo il clima di quell'arcipelago posto quasi sotto l'equatore. La signora Zieger aveva circa quarant'anni ed era tedesca come il marito. Non appena aperta la porta del recinto ella s'affrettò ad andare incontro agli ospiti e agli invitati. — Signor Hawkins! — esclamò, porgendo la mano all'armatore. — Sono felice di vedervi. — Anch'io, cara signora — rispose il signor Hawkins, baciando la signora Zieger sulle due guance. — Il vostro ultimo viaggio a Hobart Town risale già a quattro anni fa! — Quattro anni e mezzo, signor Hawkins! — Ebbene, nonostante i sei mesi in più — disse l'armatore — vi trovo sempre la stessa. — Non posso dire la stessa cosa di Nat Gibson — riprese la

signora Zieger. — È cambiato, lui! Non è più un giovinetto, è un giovanotto, ora! — Che vi chiede il permesso di fare ciò che ha fatto il signor Hawkins — ribatté Nat Gibson, baciandola a sua volta. — E vostro padre? — chiese la signora Zieger. — È rimasto a bordo — rispose il signor Hawkins. — Sarà qui però all'ora di colazione. I coniugi Zieger non avevano figli. Abitavano soli nella villa di Wilhelmstaf, con i domestici (una coppia anch'essa tedesca) e una famiglia di coloni che occupava un edificio annesso. Questi coltivatori davano la preferenza al fondo agricolo, nel quale adoperavano anche manodopera femminile indigena. I campi di canna da zucchero, di patate, di taro, di ignami avevano l'ampiezza di un miglio quadrato. Dinanzi alla casa, il terreno era tappezzato di aiuole verdeggianti, cosparso di gruppi di casuarinas e di lataniers, bagnate da un filo di acqua dolce proveniente da un ruscelletto poco lontano. Dietro i locali adibiti ad abitazione, ma anch'essi ben ombreggiati, c'erano il cortile e una voliera che custodiva gli uccelli più belli dell'arcipelago. Il cortile era invece popolato di colombe, piccioni e di quelle galline domestiche alle quali gli indigeni danno il nome di coq per motivi onomatopeici, a causa del loro richiamo gutturale. È superfluo dire che il signor Hawkins e i suoi compagni trovarono dei rinfreschi predisposti nel salone della villa. Karl e Pieter Kip erano stati presentati alla signora Zieger, la quale fu commossa nell'apprendere in quali condizioni i due fratelli erano stati raccolti dal James Cook. La brava donna si mise a loro disposizione per tutto quello che poteva risultare utile all'uno o all'altro dei fratelli, ed essi le espressero la loro gratitudine per la simpatica accoglienza. Il signor Hawkins e Nat Gibson andarono a vedere le camere loro assegnate, ammobiliate semplicemente con robusti mobili di fabbricazione tedesca, comodissimi, come il salone e la sala da pranzo. La signora Zieger si scusò per non poter offrire ospitalità ai due olandesi: come si sa, a loro richiesta, era stato stabilito che avrebbero dormito a bordo del brick.

Il signor Gibson giunse un po' prima di mezzogiorno, accompagnato dal marinaio Burnes, il quale portava vari oggetti offerti dal signor Hawkins alla signora Zieger: stoffe, biancheria, e un bel braccialetto che le fece molto piacere. È inutile dire che anche il capitano fu accolto a braccia aperte. Ci si mise a tavola e il pranzo, ben servito, fu particolarmente gustato dagli invitati, cui non mancava l'appetito. Le portate più sostanziose le avevano fornite il cortile e la baia di Port Praslin. Gli ortaggi e cioè cuori di palma, ignami, patate dolci, laka (succulento prodotto dell'inocarpe) e la frutta: banane, arance, noci di cocco, provenivano dal recinto stesso. Per le bevande fermentate, non c'era stato da far altro che mandarle a prendere dalla cantina, che le navi dirette a Neu Mecklenburg rifornivano di vini francesi e tedeschi. Furono fatti i complimenti alla signora Zieger per la squisitezza della tavola che avrebbe potuto rivaleggiare con le migliori di Hobart Town, e la gentile ospite parve molto sensibile a quei complimenti. — C'è solo un piatto che non posso più offrirvi, cari amici — disse il signor Zieger — perché non si cucina più in paese. — Qual è? — chiese il signor Hawkins. — Si tratta di un pasticcio composto da sagù, noce di cocco e cervella umane. — Era saporito? — chiese Nat Gibson. — Era il re dei pasticci! — Ne avete mangiato? — domandò ridendo il signor Hawkins. — Mai, e non avrò più la possibilità di prepararlo. — Ecco che cosa significa — esclamò il capitano — aver distrutto il cannibalismo nell'arcipelago! — Proprio così, mio caro Gibson — rispose il signor Zieger. Il capitano doveva fare ritorno a bordo del James Cook, al termine del pranzo. Non amava lasciare la nave pur avendo fiducia nel nostromo. Il suo timore più grande era quello di doversi trovare in imbarazzo per nuove diserzioni e faceva poco assegnamento sui marinai reclutati a Dunedin. Di questo fatto parlò quel giorno anche Len Cannon, nel corso di una conversazione che egli e i suoi compagni ebbero con Flig Balt e Vin Mod. Essi tornarono a parlare della loro decisione di sbarcare e

inutilmente Vin Mod impiegò la sua eloquenza, facendo intervenire anche la forca, secondo la sua abitudine. Non riuscii a persuaderli: quegli ostinati insistevano nel voler lasciare la nave. — In fin dei conti — egli disse, a corto di argomenti — è la nave che non vi piace? — È la nave — rispose Len Cannon — dal momento che è comandata dal capitano Gibson. — E se questo capitano sparisse? — Sono venti volte che ci canti lo stesso ritornello, Mod — rispose il marinaio Kyle. — Siamo a Port Praslin e fra tre settimane si ripartirà per Hobart Town. — Dove noi non vogliamo andare — disse Bryce. — Siamo decisi a svignarcela questa sera stessa — disse Sexton. — Aspettate qualche giorno — disse allora Flig Balt. — Almeno fino alla partenza del brick! Non si sa mai quel che può capitare. — Si fa presto a disertare… — rilevò Vin Mod. — Ma, poi, che farete qui? Il mozzo Jim, che diffidava di quei conciliaboli tra il nostromo e le reclute, si accostò al gruppo. Appena lo vide, Flig Balt gli gridò: — Che fai lì, mozzo? — Ero venuto per la colazione… — Farai colazione più tardi. — Sono sicuro — aggiunse Vin Mod — che la cabina dei fratelli Kip non è stata ancora riordinata! Finirai sulla forca, mozzo! — Va' nel quadrato — ordinò il nostromo — e torna al tuo lavoro! Vin Mod guardò il ragazzo che se ne andava e fece a Flig Balt un cenno che quello comprese perfettamente. Poi, la conversazione riprese il suo corso. Jim tornò a poppa senza dir nulla; e poiché aveva l'incarico di occuparsi delle cabine entrò in quella dei fratelli Kip. Il primo oggetto che gli cadde sotto gli occhi fu un pugnale malese deposto sopra una delle brande e che egli non aveva mai visto fin allora. Era il pugnale che Vin Mod aveva portato via dal relitto della Wilhelmina e che i due fratelli non sapevano essere in suo possesso. Era dunque di proposito che quel kriss era stato deposto là, in

modo che il mozzo non potesse non vederlo? Jim prese il pugnale, ne esaminò la lama dentata, l'impugnatura ornata di chiodi di rame, e lo ripose sul tavolinetto della cabina. Pensò che uno dei fratelli avesse portato quel kriss insieme con altri oggetti raccolti sul relitto; senza darvi altra importanza terminò poi il suo lavoro. Nel frattempo, Flig Balt, Vin Mod e gli altri continuavano a discutere, in modo però da non essere uditi né da Wickley né da Hobbes che il nostromo aveva mandato in cima all'alberatura. Burnes, come sappiamo, aveva accompagnato il signor Gibson alla villa Wilhelmstaf. Len Cannon insisteva e Vin Mod cercava di persuaderlo. Se non altro, durante la sosta del brick, lui e i suoi compagni non sarebbero stati privi di nulla… Avrebbero fatto sempre in tempo a sbarcare… Durante la traversata da Port Praslin a Kerawara, per completare il carico, forse si sarebbe presentata l'occasione… Era anche possibile che né il signor Hawkins né Nat Gibson prendessero parte al viaggio… Chissà, forse nemmeno i fratelli Kip… e allora… Len Cannon, Kyle, Sexton e Bryce finirono per acconsentire e decisero di rimanere fino al giorno in cui il brick spiegasse le vele per Hobart Town. Quando Flig Balt e Vin Mod furono soli, quest'ultimo disse: — Ce n'è voluta di fatica! — Non per questo abbiamo fatto un solo passo avanti — rispose l'altro. — Pazienza — concluse Vin Mod, con l'accento di chi ha preso una decisione. — Quando il capitano Balt farà la scelta di un nostromo, spero bene che egli non si dimenticherà di Vin Mod!

CAPITOLO XII TRE SETTIMANE NELL'ARCIPELAGO I GIORNI seguenti furono spesi nelle operazioni di scarico del brick. Len Cannon e i suoi compagni non si rifiutarono di dare una mano e il signor Gibson non ebbe il minimo sospetto di ciò che bolliva in pentola. Una mezza dozzina di indigeni robusti e capaci si unì all'equipaggio e il lavoro si svolse in ottime condizioni. Jim non aveva detto nulla ai fratelli Kip del pugnale malese: essi ignoravano quindi che l'arma si trovava sulla branda nella loro cabina. Vin Mod aveva avuto cura in effetti di riprendere il pugnale prima del loro ritorno a bordo e il kriss era ora nascosto nel suo sacco, dove nessuno sarebbe mai andato a cercarlo. Di certo gli bastava che il mozzo lo avesse visto. Riguardo a ciò che voleva farne forse neppure Flig Balt lo immaginava. Mentre il capitano sorvegliava le operazioni di scarico, il signor Hawkins, Nat Gibson, Karl e Pieter Kip, accompagnati dai coniugi Zieger, trascorrevano il tempo facendo interessanti passeggiate nei dintorni di Port Praslin. Visitarono le principali agenzie commerciali di quella parte della costa: alcune appartenevano a coloni tedeschi, altre, fondate prima del trattato di spartizione, erano ancora in mani inglesi. Le agenzie facevano tutte buoni affari. Il movimento di importazione e di esportazione nell'antica Tombara e nell'antica Birara, si sviluppava con vantaggio della Melanesia tedesca. Gli ospiti del signor Zieger furono bene accolti dappertutto: l'onesto commerciante occupava una posizione di rilievo nella compagnia commerciale che deteneva l'autorità politica. Egli era investito perciò di un certo potere giudiziario che gli indigeni non si

rifiutavano di riconoscere. D'altra parte, non passava mai anno senza che una nave da guerra venisse ad ancorarsi a una delle isole dell'arcipelago delle Bismarck e rendesse alla bandiera tedesca gli onori regolamentari, quando il signor Zieger la faceva issare sull'asta di Port Praslin. D'altra parte il governo imperiale aveva lasciato agli indigeni quasi tutta la loro indipendenza. Le tribù non avevano per così dire capi. Se pur qualche autorità era devoluta ai vecchi, tutti i membri della tribù vivevano tuttavia su un piede di eguaglianza. Non vi erano più schiavi, nemmeno nei villaggi dell'interno, e tutti i lavoratori erano liberi. Come tali, essi lavoravano nelle fabbriche o nei campi per un salario pagato in oggetti o in cibarie. Del resto anche prima della soppressione della schiavitù gli schiavi risultavano godere di un favorevole trattamento da parte dei padroni. Questa civiltà nascente è certamente dovuta allo zelo e alla devozione dei missionari che si sono stabiliti in diversi punti dell'arcipelago che essi continuamente percorrono predicando il Vangelo. A Port Praslin esiste una cappella protestante servita da due pastori, la quale è sufficiente per i bisogni del culto. Fu durante una gita nella parte centrale dell'isola, a circa tre miglia dal porto, che il signor Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip, guidati dal signor Zieger, poterono visitare un villaggio tombariano. Il villaggio consisteva in un agglomerato d'una cinquantina di capanne di legno sorgenti su palafitte, sebbene il suolo non fosse per nulla acquitrinoso. Gli indigeni appartenevano senz'ombra di dubbio alla razza papua e non differivano molto da quelli della Nuova Guinea. Il villaggio ne conteneva circa centosessanta tra uomini, donne, vecchi e bambini ripartiti in famiglie. È inutile dire che essi conoscevano il signor Zieger e che si sottomettevano alla sua autorità, sebbene egli la esercitasse raramente sulle tribù dell'interno. Egli e i suoi compagni furono accolti da due personaggi anziani che manifestavano la loro dignità nel dimostrarsi impassibili e indifferenti. Le donne e i bambini rimasero nelle capanne e fu difficile avvicinarli. In verità, non si sa ancora bene come sia costituita la famiglia e quale sia lo staio sociale delle varie tribù

melanesiane. Non era più il tempo in cui quei selvaggi andavano quasi nudi o appena vestiti di un perizoma di corteccia di vakoi tagliata in lunghe strisce tenute insieme da una cucitura di fibre. Grazie alle cotonine inglesi e tedesche, ora diffuse nel paese, uomini e donne erano vestiti di stoffe a righe: questo fatto dev'essere considerato come l'inizio di riforme civilizzatrici. Il signor Zieger poté fornire precise informazioni sulle abitudini di quegli indigeni i cui sensi della vista, dell'odorato e dell'udito sono insolitamente sviluppati. Essi dimostrano anche un'incomparabile abilità e scioltezza in tutti gli esercizi fisici. Ma per fare un qualunque lavoro bisogna che essi vi siano costretti dal bisogno e dalla necessità di nutrirsi. Di carattere indolente amano sopra ogni altra cosa il riposo. In quel villaggio la maggior parte degli abitanti era sdraiata all'aperto. Abbandonandosi all'indolenza, con le gambe incrociate, le mani raccolte sul petto, guardano senza mai parlare, masticando continuamente il betel, come gli orientali fumano l'oppio e come gli occidentali fumano il tabacco. Il betel è composto di calce ottenuta dalla calcificazione delle madrepore e di un frutto rivestito di un'epidermide rossa, chiamato in lingua melanesiana kamban. È un vigoroso stupefacente le cui sostanze inebrianti hanno sapore alquanto acre e un gusto che non ha nulla di sgradevole. Presenta l'inconveniente di annerire i denti, di corroderli e di far sanguinare le mucose della bocca. Per una tradizione mai violata i giovani non hanno diritto a questo ricercato godimento; solo agli indigeni d'una certa età è permesso masticare il betel. L'industria dei neo-irlandesi si riduce alla tessitura di stuoie di foglie di pandanus e alla fabbricazione di vari oggetti grossolani di vasellame. E per di più, spetta alle donne, meno pigre degli uomini, eseguire questi lavori, per non parlare dei lavori agricoli e della preparazione quotidiana del cibo. L'alimentazione richiede peraltro poca scienza culinaria. Gli indigeni non mangiano a ora fissa o, meglio, mangiano a qualunque ora. Un viaggiatore ha perciò potuto dire: «Qualunque sia l'animale caduto in mano al selvaggio, esso è subito gettato sui carboni ardenti,

arrostito e divorato senza che ci si sia presa la briga di scuoiarlo, se è un quadrupede, o di spennarlo, se è un volatile». Pesci, tartarughe marine, polipi, molluschi d'ogni genere, languste, enormi granchi chiamati kukiavar, rettili, lucertole, insetti poco appetitosi: si nutrono di tutto con appetito da ghiottoni. In quanto a frutti, essi mangiano quelli del mapé e del laka, specie di castagne dell'inocarpe abbondantissime, le noci di cocco o lamacs di cui il larime è il guscio legnoso e il kauro il latte emulsivo, le uni o banane, le nios o igname, le tos o canne da zucchero, il berco o albero del pane. In quanto ai quadrupedi, gli indigeni allevano soltanto porci e non cacciano che cuscù, animali che appartengono al sottogenere dei falangeri. I neo-irlandesi, tuttavia, non sono per nulla refrattari ai tentativi di civilizzazione. I missionari cercano di convertirli alla religione cristiana, ma in essi il paganesimo ha radici profonde e si mescola a credenze musulmane che derivano loro dai rapporti con i malesi. È anche da presumere che questi selvaggi siano poligami. In ogni villaggio è eretto un tambù o capanna pubblica e una casa degli idoli affidata alle cure e alla custodia dei vecchi. Il signor Hawkins e i suoi compagni non incontrarono difficoltà a visitare il tambù, le cui porte, meno chiuse di quelle delle abitazioni, si aprirono dinanzi al signor Zieger. Nell'interno di questa ampia capanna, essi trovarono molte statue di argilla grossolanamente scolpite, dipinte di bianco, di nero e di rosso, i cui occhi, fatti con un pezzetto di madreperla, scintillavano come carboni ardenti. Questi idoli sono chiamati Bakui. Tra gli oggetti deposti intorno ad essi, si notavano due tam-tam, che un indigeno faceva risonare con grande fracasso per ordine di un vecchio dalla lunga barba coperta di polvere d'ocra. Attaccato alle statue c'era anche un ornamento, fatto di legno finemente scolpito: il prapraghan, che di solito orna la prua delle piroghe. Nat Gibson, che aveva portato con sé l'apparecchio fotografico, ottenne, dell'interno e dell'esterno di quel tambu, dei negativi ben riusciti che andarono ad arricchire la raccolta del signor Hawkins. La visita al villaggio tombariano assorbì l'intero pomeriggio. Già si annunciava la sera, quando il signor Zieger e i suoi ospiti ripresero

la via di Wilhelmstaf attraverso la foresta. Se le stelle celesti brillavano a migliaia oltre la volta degli alberi, erano a milioni le stelle terrestri che proiettavano la loro luce fosforescente tra fronde ed erbe. Il sottobosco luccicava di vermi luminosi, chiamati in lingua melanesiana «kallotte». Pareva che i piedi calpestassero un prato luminoso mentre una nuvola di scintille brillava tra i rami. Le giornate trascorrevano in gite interessanti, lungo il litorale o all'interno dell'isola. Un giorno Karl Kip, Nat Gibson e il signor Hawkins guidati da una persona dell'agenzia commerciale fecero anche l'ascensione della montagna che era alle spalle della villa. Sebbene la marcia si effettuasse all'ombra delle foreste ciò rappresentò tuttavia alcune ore di fatica. Quella montagna non è tra le più alte della catena centrale – misura appena cinquemila piedi circa – ma la sua altezza consente all'occhio di spaziare egualmente sul canale di San Giorgio, tra la Nuova Bretagna e la Nuova Irlanda. Più in là appaiono altre alture; a sud, invece, è la Neu Pommern, il cui profilo si rivela a perdita d'occhio. Si comprende perfettamente che i coniugi Zieger, da proprietari che non vi fanno grazia di nessun lembo del loro dominio, non dimenticarono uno dei luoghi più pittoreschi che possano destare l'ammirazione dei turisti, a oriente di Port Praslin ed era la magnifica cascata alla quale il francese Duperrey diede il nome del francese Bougainville. Le acque che la montagna manda al mare cadono da una cinquantina di piedi. Esse sgorgano dal fianco della catena spumeggiando alla superficie di cinque gradini sovrapposti tra le cime verdeggianti. Queste acque, impregnate d'una notevole quantità di sale, orlano di stalattiti calcaree gli strati di calce carbonata lungo i quali scorrono. Non c'è quindi che da constatare l'esattezza della relazione del capitano Duperrey quando parla di quei «gruppi sporgenti, i cui gradini quasi regolari precipitano e diversificano la caduta di questa cascata, e dei vari massicci che formano cento bacini ineguali, ove si raccolgono le acque cristalline, colorite da alberi immensi, alcuni dei quali affondano le radici nel bacino stesso». Quella gita valse al signor Hawkins altre fotografie: le più

belle che fossero state fatte fin allora della cascata di Bougainville. Lo scarico del James Cook ebbe termine nel pomeriggio del 25 novembre. Tutta la robaccia consegnata all'ufficio del signor Zieger era stata subito collocata, composta com'era di oggetti d'uso comunissimo, prodotti dalle manifatture tedesche e inglesi. Il brick avrebbe accolto ora il nuovo carico, il quale consisteva, come già sappiamo, in copra e in casse di madreperla dirette a Hobart Town. Delle trecento tonnellate di copra, centocinquanta dovevano essere consegnate a Port Praslin dalla ditta Zieger e le altre centocinquanta a Kerawara che è un'isoletta posta a sud dell'isola di York o Neu Lauenburg. D'accordo con il signor Hawkins e con il signor Zieger, il capitano decise che di carico di Kerawara fosse imbarcato per primo; la nave perciò sarebbe andata a prenderlo in consegna e avrebbe fatto ritorno a Port Praslin per completare il carico. Se il brick non aveva avarie da riparare, era necessario tuttavia che la sua carena ricevesse una buona ripulita e che le parti superiori fossero ridipinte da prua a poppa. Questo lavoro avrebbe richiesto tre o quattro giorni. L'equipaggio si mise subito all'opera e si sbrigò nel termine previsto. La partenza fu stabilita per il mattino del 29. Nessuno avrà dimenticato che Flig Balt e Vin Mod avevano sperato che i passeggeri del brick rimanessero a Port Praslin durante il viaggio a Kerawara e che il capitano restasse solo a bordo in modo di poter approfittare della circostanza per mettere in atto il loro progetto. Una volta padroni della nave avrebbero fatto rotta a nordest e il signor Hawkins avrebbe atteso inutilmente il ritorno del James Cook nelle acque della Nuova Irlanda. Ma la speranza del nostromo e dei suoi complici doveva andare delusa. Non soltanto il signor Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip avrebbero partecipato alla breve traversata, ma il signor Zieger propose di accompagnarli e la sua proposta fu accettata con gioia. Flig Balt e Vin Mod fecero fatica a dissimulare il loro disappunto. La possibilità di impadronirsi della nave o, quanto meno, l'eventualità sulla quale contavano, sfuggiva loro un'altra volta. — Il diavolo protegge questo capitano della malora! — esclamò Vin Mod, quando seppe di quella decisione.

— Vedrai, Mod, che farà anche ritorno a Hobart Town! — aggiunse il nostromo. — No, mastro Balt — disse Vin Mod. — Se non possiamo disfarci di lui sulla nave, forse potremo… — E gli altri che cosa faranno? — ribatté Flig Balt. Gli altri erano Len Cannon, Sexton, Kyle e Bryce. Avrebbero abbandonato subito la nave? Avrebbero compiuto il viaggio di Kerawara prima di riprendere il loro sacco? Se le cose non fossero maturate durante la traversata, perché continuare a prestare servizio? È pur vero che durante la sosta a Port Praslin avevano capito che non sarebbe stato facile campare la vita sull'isola e ciò aveva dato loro da pensare. Era quello che aveva fatto valere Vin Mod per ottenere che essi venissero a Kerawara, salvo sbarcare al ritorno. Il brick parti la mattina del 29. Ventiquattr'ore per raggiungere l'isola di York, due giorni per caricare le centocinquanta tonnellate di copra, ventiquattr'ore per tornare a Port Praslin: il viaggio non doveva durare più di quattro o cinque giorni. Il capoluogo politico e commerciale dell'arcipelago delle Bismarck era stato, agli inizi, l'isoletta di Mioko, a sud dell'isola di York. Occupava un punto intermedio tra le due grandi isole dell'arcipelago delle Bismarck. Poi, per motivi di insalubrità, esso fu trasferito all'isola di Matupi, sorta in mezzo a un cratere della Baia Bianca, che è posta all'estremità settentrionale di Birara. Ma avendone i terremoti compromesso la sicurezza, il governo aveva stabilito definitivamente il capoluogo nell'isoletta di Kerawara. La navigazione si compì attraverso il canale San Giorgio non senza qualche lentezza, a causa dei venti contrari che investivano l'ampia baia, nella quale gli scandagli accusano fin quattromila piedi di profondità. Essa è formata dalle isole Tombara e Birara che ravvicinano le loro punte sud-est e nord-est. Tuttavia, né il signor Hawkins né Nat Gibson ebbero il permesso di sbarcare, con loro vivo rincrescimento, perché Birara merita d'essere visitata. Circondata da un anfiteatro di coni vulcanici, quali la Madre, la Figlia del Nord e la Figlia del Sud, è l'isola più importante dell'arcipelago, la più montagnosa, la più ricca di foreste e di alberi di cocco. Ha poi particolarità etnologiche che costituiscono un'originalità tutta sua! In

quale altra parte del mondo si troverebbe un'isola in cui il genero non osa rivolgere la parola alla suocera, e che si nasconde, per di più, quando l'incontra? un'isola i cui abitanti si dice che abbiano le dita dei piedi riunite da una membrana? un'isola infine dove la leggenda vuole che esistano indigeni provvisti di un'appendice caudale e chiamati uomini con la coda? Ma se il brick non doveva farvi sosta, doveva se non altro passarvi accanto, attraversando il canale San Giorgio per raggiungere l'isola di York. Fu Carteret che, nel 1707, le impose il nome di York in sostituzione del nome melanesiano di Amakata. Vista da Hunter nel 1791, da Entreca-steaux nel 1792, da Duperrey nel 1823, si conosce con assoluta precisione la sua posizione geografica tra 150° 2' e 150° 7' di longitudine e 4° 5' e 4° 10' di latitudine sud. Si estende per otto miglia dal nord-est al sud-ovest, per cinque miglia di larghezza; la sua altitudine media, al disopra del livello del mare, è considerevole. Per quanto sia popolosa e per sicuri che siano i suoi ancoraggi, essa non ospita tuttavia il capoluogo dell'arcipelago. È circondata da numerosi isolotti: Makada, Burnan, Ulu, Utuan, Kabokon, Muarlin, Mioko, Kerawara. Su quest'ultimo, posto più a sud, è caduta la scelta del governo tedesco. Nelle prime ore del 30 la vedetta segnalò il capo Brown dell'isolotto di Makada. Puntando verso il sud, il James Cook avvistò il capo Makukar della grande isola, puntò al largo del passaggio del nord-ovest tra di essa e l'isola di Uln, avvistò l'isolotto di Kabokon e venne ad ancorarsi a Kerawara. Questo isolotto dalla forma di un serpente non misura più di tre miglia da ovest a est. Dotato di un porto sicurissimo, offre alle navi tutti i vantaggi per un'ottima sosta. L'agente tedesco più importante – il signor Hamburg – che ha le funzioni di governatore dell'arcipelago delle Bismarck, aveva frequenti rapporti con il signor Zieger. Egli era a capo di una delle più note agenzie commerciali del gruppo, e la sua ditta doveva consegnare al James Cook, per conto del signor Zieger, le centocinquanta tonnellate di copra. Questa partita di merce sarebbe stata imbarcata in quarantott'ore e la sosta a Kerawara avrebbe avuto

dunque brevissima durata. Mentre l'equipaggio, sotto la sorveglianza del capitano, si occupava dell'operazione, il signor Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip ebbero il tempo di visitare l'isolotto. Si trattava, in realtà, d'una vasta foresta, dove s'incontrano le diverse essenze della Nuova Irlanda. È dominata dalle colline, la più alta delle quali misura circa ottocento piedi. Questo capoluogo dell'arcipelago contava allora un migliaio di abitanti, un quarto dei quali era europeo e il rimanente di origine melanesiana. Questi indigeni non sono affatto sedentari; la maggior parte di essi, stabiliti sull'isola di York e sugli isolotti vicini, vengono a Kerawara chiamativi dai loro affari. I canali di questo piccolo gruppo di isole, solcati continuamente dalle loro ben costruite piroghe, presentano grande animazione. Il signor Hamburg poté fornire interessanti particolari sul gruppo. La scelta dell'isolotto di Kerawara quale capoluogo politico gli pareva ben giustificata. I rapporti commerciali con la Nuova Bretagna e la Nuova Irlanda erano facili. In quel momento erano in porto due navi mercantili entrambe occupate nelle operazioni di scarico: si trattava di una nave tedesca e di una inglese. In attesa di partire, la prima per Sydney, Australia, e la seconda per Auckland, Nuova Zelanda, dovevano prolungare la loro sosta a Kerawara ancora per tre settimane. I signori Hawkins e Gibson conoscevano il capitano inglese, che avevano visto qualche volta a Hobart Town, e furono perciò felici di stringergli la mano. L'abitazione del signor Hamburg era posta sul fianco della collina, nel folto della foresta attraversata da un largo sentiero orlato di fitti cespugli. Dal suo ufficio al porto c'era circa mezzo miglio. Il governatore aveva invitato a pranzo per il giorno dopo il signor Hawkins, il signor Gibson e suo figlio. Il carico delle centocinquanta tonnellate di copra sarebbe terminato il pomeriggio del 2 dicembre: il giorno 3 il James Cook avrebbe ripreso il mare per far ritorno a Port Praslin. I fratelli Kip erano stati invitati anche loro dal signor Hamburg, ma avevano declinato l'invito con il riserbo di gente che non vuole imporre se stessa. Avrebbero approfittato della serata per compiere

un'ultima passeggiata nei dintorni del porto. L'equipaggio del brick, mancando ogni timore di diserzione, era stato autorizzato a scendere a terra e non avrebbe mancato di fraternizzare con i marinai delle altre navi. La serata sarebbe finita con qualche ubriacatura nella taverna principale di Kerawara. Sarebbe stato difficile impedire ciò e il signor Gibson si limitò a raccomandare di non lasciare andare le cose troppo oltre. Flig Balt disse al capitano che poteva contare su di lui, ma mentre parlava con il consueto rispetto non riusciva a celare il turbamento che lo agitava. Il signor Gibson allora gli chiese: — Che cosa avete, Balt? — Nulla, signor Gibson, nulla — rispose il nostromo. — Sono un po' stanco, ecco tutto. E i suoi occhi si volsero verso Vin Mod che stava a guardarlo. Verso le cinque, il signor Hawkins, Nat Gibson e il signor Zieger si trovavano in casa del signor Hamburg: il pranzo sarebbe stato servito alle sei e mezzo. Trattenuto a bordo per le ultime formalità, il capitano sarebbe arrivato solo a quell'ora, portando con sé duemila piastre in oro, in pagamento del carico ora già sistemato nella stiva del James Cook. Gli invitati del governatore visitarono nell'attesa il podere; tenuto con cura, era uno dei più belli di Kerawara. Nat Gibson fece alcune fotografie della casa e dei dintorni. Lo sguardo si stendeva fino al mare oltre le macchie di alberi. In direzione nord-ovest si vedevano l'estremo promontorio del grande isolotto di Ulu e, verso ovest, l'estrema punta del piccolo isolotto di Kabokon, oltre il quale il sole tramontò in un orizzonte magnificamente imporporato di nuvole, al limite del cielo e del mare. Quando sonarono le sei e mezzo, il capitano non era ancora venuto. Il signor Hamburg e i suoi ospiti rimasero in giardino, spiando il suo arrivo. La sera era bellissima, l'aria più fresca, essendosi levato un po' di vento all'approssimarsi della notte. Si respirava con delizia il profumo delle zagare che impregnava l'atmosfera. Ma il tempo passava. Alle sette il signor Gibson non si era ancora visto.

— Mio padre sarà stato trattenuto all'ultimo momento — disse Nat Gibson. — Non posso spiegare altrimenti il suo ritardo. — Sarebbe dovuto passare dai vostri uffici, forse, signor Hamburg? — chiese l'armatore. — Sì, ma solo per prendere le sue carte. — Forse ciò ha richiesto del tempo. — Pazienza — disse il governatore. — Non sono passati neppure trenta minuti… Dopo la mezz'ora, il signor Hawkins, il signor Zieger e Nat Gibson cominciarono a essere molto inquieti. — Avrà sbagliato strada? — si chiese il signor Zieger. — Non è possibile — rispose il signor Hamburg. — La strada è diritta ed egli la conosce; è venuto più volte qui. — Se gli andassimo incontro? — propose Nat Gibson, alzandosi. — Andiamo — disse il signor Hawkins. Il signor Hamburg chiamò un domestico che si munì di un fanale e accompagnato dagli invitati usci dal recinto per cacciarsi nella foresta. Il buio era già fitto, sotto lo spesso fogliame che faceva da volta al sentiero. Si rimase in ascolto, se mai si udissero dei passi provenienti dal porto. Nessun rumore di passi. Si chiamò. Nessuna risposta. Quella parte della foresta sembrava completamente deserta. Dopo mezzo miglio, sbucarono infine sulla piazza di Kerawara. Dalla taverna principale, vivamente illuminata, proveniva il chiasso dei bevitori. Se una parte dell'equipaggio del brick era già tornata a bordo alcuni marinai, tra i quali Len Cannon e i suoi compagni, erano invece là. Pieter e Karl Kip, tornati appena allora, erano seduti a poppa del James Cook. Poco prima di loro, erano tornati a bordo anche Flig Balt e Vin Mod, dopo un'assenza di circa mezz'ora. Giunto sul greto, Nat Gibson gridò con voce inquieta:

— E il capitano? — Il capitano? — rispose Vin Mod. — Non è in casa del signor Hamburg? — No! — rispose il governatore. — Eppure ha lasciato il brick per andarci — disse il marinaio Burnes. — Quando è partito? — chiese il signor Zieger. — Circa un'ora fa — rispose Vin Mod. — È capitata una disgrazia! — esclamò il signor Hawkins. Ed eccoli affrettarsi tutti per le vie del porto, andare da un ufficio all'altro, cercare nelle taverne… Il capitano non era da nessuna parte. Si rese allora necessario estendere le ricerche anche attraverso la foresta. Forse il signor Gibson aveva raggiunto l'abitazione del governatore facendo un giro più lungo. Fatica inutile. Dopo alcune ore, i signori Hamburg, Zieger, Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip, che si erano uniti a loro, dovettero tornare a bordo. La notte trascorse nell'angoscia; il capitano non tornava. Il sentiero che congiungeva il porto con l'abitazione del signor Hamburg fu percorso e ripercorso, con fanali e con torce. Harry Gibson non fu rintracciato da nessuna parte. Nat Gibson era in preda alla disperazione. Disperato non meno di lui, il signor Hawkins non riusciva a calmare il giovane, sconvolto dal pensiero di non rivedere più suo padre. Il presentimento non lo ingannava. All'alba si sparse la voce che il cadavere del capitano Gibson era stato trovato nella foresta, a mezzo miglio dal porto.

CAPITOLO XIII L'ASSASSINIO Ecco che cosa era accaduto. Dopo aver dato le ultime istruzioni perché il James Cook fosse pronto a partire il giorno dopo, all'alba, il capitano Gibson sbarcò e si recò subito allo scagno. In una piccola borsa che teneva in tasca aveva messo duemila piastre che doveva consegnare al signor Hamburg. Dopo di lui, una parte dell'equipaggio aveva lasciato il brick; i fratelli Kip passeggiavano già nei dintorni del porto. Quando il signor Gibson giunse allo scagno, un impiegato gli consegnò alcune carte di vario genere, la polizza di carico e altri documenti. Ancora per un paio d'ore il sole avrebbe rischiarato le alture dell'isolotto di Kerawara. Il capitano conosceva bene la strada che conduceva alla villa del signor Hamburg e non temeva perciò di smarrirsi. Cacciatosi nel bosco in fondo al porto, il signor Gibson camminò per circa mezzo miglio; si preparava a piegare a sinistra quando fu gettato a terra con violenza. Due uomini si erano precipitati su di lui: uno dei due gli stringeva la gola. Stordito dal colpo violento che aveva ricevuto al petto, egli non la riconobbe avendo quasi perso i sensi. I due uomini lo presero allora per le spalle e per i piedi e lo trasportarono per cinquecento passi attraverso il bosco. Dopo essersi fermati al margine di una radura, i due malfattori lo deposero a terra. Uno di loro disse: — Bisogna finirlo. In quel momento il signor Gibson riaprì gli occhi.

— Flig Balt!… Vin Mod!… — disse. Erano stati il nostromo e Vin Mod ad attuare il gesto criminoso. Liberatosi finalmente di Harry Gibson, Vin Mod avrebbe avuto la fondata speranza che Flig Balt ottenesse il comando della nave. Sotto la direzione del nuovo capitano, invece di far vela per Hobart Town, il brick si sarebbe posto fuori della sua rotta e senza che il signor Hawkins potesse accorgersene, sì sarebbe spinto verso l'est, nei paraggi delle isole Salomone, in attesa di potersi sbarazzare anche dell'armatore, di Nat Gibson, dei fratelli Kip e di quegli altri uomini che non intendessero associarsi alla progettata campagna di pirateria. Quello che non era stato fatto tra la Nuova Zelanda e l'arcipelago delle Bismarck si sarebbe fatto dopo la partenza da Port Praslin. Dopo aver pronunciato il nome degli assassini il signor Gibson sì lasciò sfuggire queste parole: — Miserabili!… miserabili… Tentò di alzarsi per difendersi; ma che cosa poteva fare, inerme, contro due uomini vigorosi e armati? — Aiuto! — gridò. Vin Mod si precipitò sul pover'uomo e gli tappò la bocca con la mano, mentre Flig Balt, con il pugnale rubato dal suo complice a bordo della Wilhelmina, lo colpiva in pieno petto. Harry Gibson emise un ultimo gemito; poi i suoi occhi spalancati si fissarono un'ultima volta, con uno sguardo di terrore, sui suoi assassini: la lama del pugnale lo aveva colpito al cuore. Dopo un attimo d'angoscia, cadde morto. — Capitano Balt… salute! — disse Vin Mod portando la mano al berretto. Il nostromo, atterrito, indietreggiava dinanzi agli occhi della sua vittima che, illuminati da un raggio di sole, lo fissavano immobili. Vin Mod, che aveva conservato il suo sangue freddo, frugò nelle tasche del capitano: vi trovò le carte di bordo e la borsa dalla quale ritirò le duemila piastre. — Piacevolissima sorpresa! — esclamò. Poi batté sulla spalla del nostromo ancora immobile sotto lo sguardo del cadavere e disse: — Filiamo.

Abbandonato il corpo in quel luogo dove non sarebbe stato probabilmente scoperto prima della partenza del brick, tutti e due raggiunsero il sentiero e si diressero in fretta verso il porto. Un quarto d'ora dopo mettevano piede sul ponte del James Cook. Flig Balt rientrò nella sua cabina; Vin Mod discese nell'alloggio dell'equipaggio e nascose in fondo al suo sacco le carte del capitano Gibson, le piastre rubate e il pugnale che era servito ad assassinare il capitano. Era trascorsa mezz'ora, quando Karl e Pieter Kip tornarono a bordo e, in attesa del ritorno degli invitati del signor Hamburg, andarono a sedersi dietro la tuga. Vin Mod risalì invece verso prua, dove, fingendo d'essere molto allegro, si mise a parlare con i marinai Hobbes e Wickley che non erano scesi a terra. Era questo il modo in cui era stato commesso il crimine. Il giorno dopo, l'impiegato di un'azienda commerciale, nell'attraversare la radura, scoprì il corpo del capitano Gibson. Corse in fretta allo scagno e subito dopo si sparse la voce dell'omicidio. La notizia colpi Nat Gibson come un fulmine. Sappiamo già quali legami d'affetto univano padre e figlio. Il signor Hawkins, anche lui terribilmente colpito, non avrebbe potuto offrirgli nessun conforto. I fratelli Kip dovettero trasportarlo nella sua cabina dove in seguito riprese conoscenza. Tutti e due, peraltro, apparivano profondamente addolorati e vivamente indignati. L'equipaggio era sconvolto. Jim piangeva a calde lagrime. Hobbes, Burnes e Wickley non riuscivano a credere alla morte del loro capitano. Flig Balt e Vin Mod si sfogavano vociando violente minacce contro l'omicida. Le reclute di Dunedin mostravano invece assoluta indifferenza. Sappiamo già che Len Cannon e gli altri avevano deciso di sbarcare quel giorno, con il risultato di compromettere e fors'anche di impedire la partenza del brick. Ma con la scomparsa del signor Gibson la loro decisione sarebbe stata senza dubbio modificata. Più volte Len Cannon lanciò a Vin Mod occhiate interrogative, ma quest'ultimo girava il capo dall'altra parte come se non volesse capire.

Non appena tornato in sé, Nat Gibson si slanciò fuori della cabina: — Mio padre! — esclamò. — Voglio rivedere mio padre! Karl Kip tentò di trattenerlo; Nat lo respinse e si precipitò sul ponte. Tornato a casa, il signor Hamburg s'era affrettato ad accorrere non appena saputo del delitto. Giunse a bordo nel momento in cui Nat Gibson cercava di sbarcare e gli disse: — Vengo con voi. Erano le otto. Il signor Hamburg, Zieger, Hawkins, Nat Gibson, i fratelli Kip e alcuni impiegati dell'ufficio si inoltrarono nella foresta: dieci minuti dopo, raggiungevano la radura. Il corpo del capitano era ancora come gli assassini lo avevano lasciato: disteso per terra, con gli occhi sbarrati come se la vita non lo avesse ancora abbandonato. Nat Gibson s'inginocchiò accanto a suo padre. Lo baciò, lo chiamò, e invocò anche sua madre: la signora Gibson sarebbe sopravvissuta a quella terribile disgrazia? Intanto il signor Hamburg, al quale incombeva il compito di condurre l'inchiesta, dopo aver esaminato le tracce di passi recenti lasciate sull'erba credette di capire che il delitto era stato commesso da due uomini. Poi, aperto un poco l'abito del signor Gibson, mise a nudo la ferita prodotta nel petto da una lama dentata: la piaga aveva sanguinato poco. Il denaro e le carte che il capitano aveva con sé erano sparite. Era dunque evidente che il furto era stato il movente del delitto. Ma chi lo aveva commesso? Un colono di Kerawara? A prima vista ciò sembrava assai dubbio. Erano stati gli indigeni, forse? A dire il vero essi potevano dar adito a fondati sospetti. Ma come e dove scoprire gli assassini? Compiuto il delitto, non avevano lasciato subito Kerawara, sulla loro piroga, per tornarsene all'isola di York? In poche ore potevano essersi messi al sicuro d'ogni inseguimento. Era dunque probabile che quel delitto restasse impunito come tanti altri commessi in quella zona che va dalla Nuova Guinea fino all'arcipelago delle Salomone. Ma bisognava trasportare il corpo del capitano allo scagno. Il signor Hamburg aveva fatto portare una barella sulla quale il morto

fu deposto. Poi, tutti ripresero il sentiero del porto: Nat Gibson era sorretto dal signor Hawkins. Il cadavere venne adagiato in una sala dell'agenzia in attesa che il signor Hamburg terminasse l'inchiesta. La triste cerimonia dell'inumazione sarebbe avvenuta il giorno dopo: il clima ardente dei tropici provoca con rapidità la decomposizione del cadavere. Il missionario, che si trovava allora a Kerawara, andò a inginocchiarsi e a pregare accanto alla vittima. Il signor Hawkins ricondusse a bordo Nat Gibson, il quale, in un preoccupante stato di prostrazione, rimase sdraiato sul lettino della cabina. Il signor Hamburg, intanto, non cessava d'assumere informazioni che potessero metterlo sulle tracce degli assassini. Dopo aver ricondotto il signor Hawkins e il signor Zieger allo scagno, parlò con essi della faccenda. Quando gli fu chiesto quali persone potessero essere autori del delitto, rispose: — Degli indigeni, senza dubbio. — Per derubare il povero signor Gibson? — chiese il signor Hawkins. — Credo; avranno saputo che aveva con sé del denaro… Lo avranno spiato e seguito nella foresta, per attaccarlo e spogliarlo. — Ma come scoprirli? — disse il signor Zieger. — Sarà quasi impossibile — dichiarò il signor Hamburg. — Non abbiamo indizi di cui valerci per cominciare le ricerche. — Ci sarebbe una cosa da fare — disse il signor Zieger. — Bisognerebbe fotografare la ferita fatta dall'arma dell'assassino; se riuscissimo a trovare l'arma, si potrebbe scoprire a chi essa apparteneva. — Avete ragione — rispose il signor Hamburg. — Chiedo al signor Hawkins di provvedervi. — Subito — disse il signor Hawkins, la cui voce tremava di commozione. — Questo orribile delitto non deve restare impunito. Il signor Zieger andò a bordo a cercare l'apparecchio e fece ritorno pochi minuti dopo. Messo a nudo il petto del capitano, si tornò a esaminare minuziosamente la ferita. Essa misurava mezzo pollice di larghezza; da un lato, il margine aveva una dentatura, quasi che la

pelle fosse stata segata. Il signor Hamburg allora disse: — Come vedete, il colpo è stato inferto con un'arma indigena, con un kriss a lama dentata, arma solitamente usata dagli indigeni. Due fotografie furono ottenute con estrema precisione: la prima riproduceva il petto di Harry Gibson, l'altra il capo, con gli occhi spalancati che poi il signor Hawkins chiuse. Fu deciso che quelle foto sarebbero state consegnate al signor Hamburg per l'inchiesta. I negativi, in possesso del signor Hawkins, sarebbero serviti per ricavarne altre copie. L'immagine dell'amico morto a Kerawara sarebbe stata riportata nella città dov'era nato. Nel pomeriggio fu necessario richiudere il cadavere nella bara. Le esequie avrebbero avuto luogo la mattina successiva. Fu scelto il luogo di sepoltura, nel piccolo cimitero di Kerawara. Non sarebbe stato possibile aspettare il ritorno del brick a Port Praslin per scavare la fossa destinata ad accogliere il corpo del capitano. Quel triste giorno ebbe termine nel dolore generale. Nat Gibson trascorse la notte singhiozzando, senza riuscire a trovare un istante di riposo. Il giorno dopo tutta la popolazione inglese e tedesca di Kerawara accorse ai funerali. La bandiera del James Cook era a mezz'asta e anche le altre navi issarono la loro a mezz'asta, in segno di lutto. Ricoperta dalla bandiera nazionale la bara fu portata da quattro uomini del brick. Nat Gibson, il governatore, il signor Hawkins e il signor Zieger la seguivano. Dietro di loro venivano Flig Balt e il resto dell'equipaggio; ad essi si erano uniti anche i marinai di altri bastimenti. Il missionario anglicano precedeva la bara recitando le preghiere previste dalla liturgia. Il corteo funebre raggiunse il cimitero dove il signor Hamburg pronunciò, dinanzi alla tomba, poche parole in memoria del capitano Gibson. Il dolore di Nat faceva pena. Il signor Hawkins riusciva a stento a sorreggerlo. Ancora una volta il giovane tentò inutilmente d'abbracciare la bara del padre prima che discendesse nella fossa; sulla fossa il signor Hamburg fece porre una croce di legno con

questa scritta: AL CAPITANO HARRY GIBSON di Hobart Town assassinato il 2 dicembre 1885 il figlio, gli amici, il suo equipaggio e la popolazione di Kerawara Dio accolga la sua anima! Le ricerche fatte dal signor Hamburg non avevano dato alcun esito. Compiuto il delitto, gli assassini s'erano affrettati certamente a lasciare Kerawara per rifugiarsi presso le tribù del Neu Lauenburg. Come poter mai sperare di scoprirli se si considera che le piroghe indigene circolano giorno e notte tra l'isola e l'isolotto? Si sarebbero mai ritrovati l'arma del delitto e il suo proprietario? Soltanto il caso avrebbe potuto intervenire in quella faccenda! Ma, sarebbe intervenuto? La nave non prolungò il suo soggiorno a Kerawara. La mattina stessa in cui si sparse la notizia dell'omicidio il brick era pronto a riprendere il mare per tornare a Port Praslin. D'intesa con il signor Zieger il signor Hawkins fece venire il nostromo nel quadrato e gli disse: — Flig Balt, il James Cook ha perduto il suo capitano… — È una grande disgrazia! — rispose Flig Balt, la cui voce tremava di un'emozione che non era suscitata dal dolore. — So che il mio disgraziato amico aveva molta fiducia in voi; questa fiducia io sono disposto a mantenervela. Il nostromo, a occhi bassi, s'inchinò senza dir nulla. — Domani il James Cook spiegherà le vele — riprese l'armatore — e voi, Flig Balt, lo riporterete a Port Praslin, per completarvi il carico. Terminata l'operazione, lo riporterete a Hobart Town. — Ai vostri ordini, signor Hawkins — rispose Flig Balt. Il signor Hawkins aveva detto che il nostromo avrebbe sostituito il signor Gibson nella direzione della nave, ma non che egli ne fosse il capitano. Forse non pensava neppure di dargli ufficialmente quel titolo e riteneva sufficiente che egli ne facesse le funzioni durante la traversata dall'arcipelago delle Bismarck alla Tasmania. Al nostromo

ciò non era sfuggito. Alcuni istanti dopo, egli ne parlò con Vin Mod. — Che cosa importa? — rispose il marinaio. — Riportiamo per prima cosa il brick a Port Praslin. Che ne siate il capitano o il secondo, non importa, mastro Balt. Non appena in possesso della nave, saremo noi a nominarvi capitano. Voglio essere impiccato se la nostra nomina non varrà quanto quella del signor Hawkins! Del resto, Len Cannon e i suoi compagni, benché ignorassero che Flig Balt e Vin Mod fossero gli assassini del signor Gibson, erano certi ora che il brick non sarebbe più tornato a Hobart Town, e non parlarono più di sbarcare. Il giorno dopo, 5 dicembre, il signor Hawkins prese commiato dal governatore. Il signor Hamburg abbracciò Nat Gibson e gli promise di fare il possibile per scoprire gli assassini di suo padre. Se ci fosse riuscito, la giustizia tedesca non ne avrebbe avuto pietà! Avrebbero pagato con la loro testa l'orrendo crimine. Il signor Hawkins, il signor Zieger, Karl e Pieter Kip fecero i loro saluti — e furono saluti assai tristi! – al governatore e agli agenti degli uffici commerciali di Kerawara. Sotto gli ordini di Flig Balt, la nave si preparò a partire. Un'ora dopo, il brick, uscito dai banchi madreporici, navigava verso sud-est, perdeva di vista il capo Barard, punta più avanzata dell'isola di York, e si dirigeva verso l'entrata del canale San Giorgio. La traversata sarebbe stata breve; non richiedeva più di ventiquattr'ore. Flig Balt non ebbe a lamentarsi dell'equipaggio, che espletò regolarmente il proprio servizio. Del resto, non c'erano manovre da eseguire perché il vento favorevole non richiedeva nessun cambiamento di mure. Che Flig Balt fosse o meno un buon marinaio, non era certamente quella breve navigazione che avrebbe consentito di formulare un giudizio. Bisognava aspettare che egli riconducesse prima la nave a Hobart Town. Peraltro, egli non occupò la cabina del capitano e conservò la sua all'ingresso degli alloggi. Nella notte, quando furono entrambi di quarto, a Len Cannon che lo interrogava, Vin Mod rispose in modo soddisfacente per lui e per i suoi compagni. Il James Cook non avrebbe fatto ritorno in Tasmania. Capitano o no, Flig Balt avrebbe saputo metterlo fuori della sua rotta, e una volta nei paraggi delle Salomone, non sarebbe stato difficile

sbarazzarsi dei passeggeri. Non vi sono forse laggiù bravi marinai in cerca di avventure, che all'occorrenza presterebbero loro man forte? Len Cannon e gli altri non avevano motivo perciò di lasciare la nave, di cui sarebbero presto diventati padroni. Le alture di Lanut furono avvistate nella mattinata del 6 dicembre. Prima di mezzogiorno, il brick si sarebbe ancorato dinanzi allo scagno del signor Zieger. Poiché il James Cook giungeva con la bandiera a mezz'asta, tutti compresero, a Port Praslin, che a bordo era accaduta una disgrazia. Quale dolore ebbero tutti nell'apprendere le circostanze che avevano provocato la morte del signor Gibson! La signora Zieger, accorsa sulla riva, strinse Nat Gibson tra le braccia, nel momento in cui egli metteva piede a terra. I singhiozzi la soffocavano; non appena poté parlare, disse, mentre gli occhi le si colmavano di lagrime: — Mio caro Nat, povero ragazzo, penso a vostra madre… Nat Gibson e il signor Hawkins non poterono rifiutarsi di trascorrere a Wilhelmstaf gli ultimi giorni di sosta. Entrambi quindi rioccuparono le loro camere e sedettero a tavola, in quella casa ospitale in cui il signor Gibson non sarebbe più tornato. Il signor Zieger non volle lasciare ad altri la cura di sorvegliare l'imbarco delle centocinquanta tonnellate di copra a completamento del carico del brick. Fu aiutato peraltro da Karl e da Pieter Kip che non lasciarono la nave neppure per un'ora. Il maggiore dei fratelli si intendeva perfettamente del lavoro di stivamento; ma, del resto, Flig Balt se la sarebbe cavata benissimo coadiuvato com'era dallo zelo dell'equipaggio. Sistemata la copra nella stiva, furono sistemate a poppa e a prua le casse della madreperla destinate a Hobart Town. E poiché il capitano, prima d'andare a Kerawara, aveva fatto procedere al lavoro di pulizia e pitturazione della nave, la partenza non fu ritardata. Nel pomeriggio del 9 ogni cosa era terminata. Quella sera, il signor Hawkins e Nat Gibson, accompagnati dai coniugi Zieger, tornarono a bordo perché il brick potesse spiegare le vele all'alba. All'arrivo furono ricevuti in cima alla scaletta da Flig Balt. Il

signor Hawkins allora gli chiese: — È tutto pronto? — Sì, signor Hawkins. — Allora, Flig Balt, partiremo domani. Avete condotto il brick da Kerawara a Port Praslin; ora conducetelo a Hobart Town! Ormai, siete voi a comandarlo! — Vi ringrazio, signor Hawkins — rispose Flig Balt mentre l'equipaggio lasciava udire un mormorio d'approvazione. L'armatore strinse la mano al nuovo capitano senza però notare che essa tremava nella sua. I coniugi Zieger fecero i loro saluti a Nat Gibson e al signor Hawkins, senza dimenticare i fratelli Kip per i quali mostravano viva simpatia. Poi, promettendo di andare a trascorrere, non appena possibile, alcune settimane in Tasmania, vicino alle due famiglie, tornarono a casa. Il giorno dopo, alle cinque del mattino, il capitano Balt fece i suoi preparativi per partire. Un'ora dopo essere uscito dai passaggi di Port Praslin, il James Cook, che faceva rotta a sud-est, si trovava al largo della Nuova Irlanda.

CAPITOLO XIV INCIDENTI LA DISTANZA tra l'arcipelago delle Bismarck e la Tasmania è ritenuta di circa duemilaquattrocento miglia. Con venti favorevoli, alla media di cento miglia ogni ventiquattro ore, il James Cook non avrebbe impiegato più di tre settimane a percorrerla. Al periodo degli alisei, ora alla fine, sarebbe presto seguito il monsone dei tropici; e, infatti, dopo un breve periodo di calma, il vento regolare non tardò a soffiare da ovest. La nave ne sarebbe stata favorita, dunque, per attraversare i difficili passaggi delle Luisiadi e penetrare nel Mar dei Coralli. Ora non era più il tempo in cui i passeggeri del James Cook, durante un piacevole viaggio, s'interessavano alle cose della navigazione. Essi non si abbandonavano più alle liete prospettive del ritorno che avrebbero certamente provato se la loro permanenza a Kerawara non fosse terminata con una spaventosa sciagura. Quando lasciava la cabina, Nat Gibson andava a sedersi a poppa, accanto al signor Hawkins. Nulla poteva distrarre questi due uomini dal loro dolore. Essi pensavano al prossimo arrivo al porto, alla signora Gibson che attendeva con impazienza il ritorno del James Cook, e al momento in cui la povera donna avrebbe appreso che il brick non riportava a casa il suo capitano. Il più delle volte, i fratelli Kip si tenevano in disparte, desiderosi di rispettare quel dolore che la lontananza non aveva ancora mitigato. Tuttavia, senza averne troppo l'aria, Karl sorvegliava il cammino della nave. Il nostromo non gli aveva mai ispirato fiducia; in ripetute occasioni le qualità che fanno il vero marinaio gli erano parse, in lui, assolutamente inadeguate. Due o tre volte, quando il signor Gibson era nella sua cabina, alcune manovre mal dirette gli avevano fatto dubitare che Flig Balt fosse uomo di mare. Ma ciò in fondo non lo

riguardava e quindi non aveva mai detto nulla. Ma quello che allora non aveva importanza perché era Harry Gibson a comandare la nave, ora che Flig Balt ne era il capitano ne acquistava invece moltissima. Quel giorno Karl Kip partecipò i suoi timori al fratello. — Tu credi, dunque, che Flig Balt non sia all'altezza delle nuove funzioni? — Ho motivo per crederlo, Pieter. Durante il piovasco che ci ha colpito nel Mar dei Coralli, ho avuto la certezza che egli non conoscesse bene il suo mestiere. — Allora, Karl, è tuo dovere sorvegliarlo; se qualche manovra ti sembrerà pericolosa, non esitare a fare le tue osservazioni. — Alle quali Flig Balt replicherà dicendomi di non immischiarmi nella direzione della nave. — Non importa, Karl: lo devi. E nel caso che i tuoi suggerimenti fossero male accolti, rivolgiti direttamente al signor Hawkins. Ha buon senso e ti darà ascolto; ne parlerà con l'ex nostromo, e certamente darà ragione a te e non a lui. — Vedremo, Pieter. Purtroppo, non ho a mia disposizione le carte di bordo e mi è difficile controllare la rotta. — Fa' quello che puoi, Karl; il James Cook ha già subito abbastanza colpi dal destino perché non gliene siano risparmiati altri! Come si vede, Karl Kip non credeva che in Flig Balt ci fosse malafede; lo riteneva soltanto un mediocre marinaio. Senza che quello se ne accorgesse egli perciò lo teneva d'occhio fin dove gli era possibile. D'altra parte la presenza di Karl Kip non mancava di suscitare, nell'animo del nuovo capitano, una certa inquietudine; ecco perché, nonostante l'impazienza di Vin Mod, egli intendeva agire con prudenza, quando avrebbe cercato di cambiare la rotta per raggiungere l'arcipelago delle Salomone. Dopo essere passato al largo del canale San Giorgio, il brick perdette di vista sia le estreme terre della Nuova Irlanda sia quelle della Nuova Bretagna. Per attraversare questo tratto di mare, Flig Balt ebbe ragione di volgere la prua al sud, non volendo accostarsi alla Nuova Guinea. A costo di allungare il percorso di una cinquantina di miglia, era meglio tenersi al largo dell'isola d'Entrecasteaux. Non bisognava esporre la nave al pericolo di un

altro attacco dei papua, che forse non sarebbe stato respinto facilmente, come la volta precedente. Nella giornata del 15, il James Cook raggiunse i confini della Luisiade. La traversata si era compiuta senza incidenti. Dopo essersi lasciato a ovest l'isola di Rossel – la più importante del gruppo – il Mar dei Coralli si spalancò dinanzi al brick sul dodicesimo grado di latitudine meridionale. A partire da quel parallelo, la direzione sarebbe stata mantenuta sempre al sud, fino ad avvistare la costa orientale dell'Australia, all'altezza di Brisbane. Con il vento che soffiava regolarmente da ovest, il James Cook avrebbe ottenuto la massima velocità con l'andatura al gran lasco. Era precisamente al confine con il Mar dei Coralli che Flig Balt doveva mutare la rotta della nave e volgere la prua verso l'est se voleva avvistare l'isola di Mangara, posta in coda alle Salomone. Un mutamento del genere avrebbe comportato, nella rotta del brick, un cambiamento notevole che forse non sarebbe sfuggito agli altri: Flig Balt si limitò quindi a piegare per sud-sud-est. Questo mutamento fu notato tuttavia da Karl Kip, il quale, dopo aver osservato la bussola, disse al capitano: — Vi lasciate trasportare, signor Balt. — Sì, di due quarti. — Eppure avreste mare buono al riparo della costa australiana… — Può darsi — replicò Flig Balt, cominciando a guardare di mal occhio l'olandese. — E allora perché non mantenete la giusta direzione? — disse Karl Kip. — Perché le raffiche di nord-est sono sempre da temersi; non voglio farmi trascinare verso terra. — Oh, c'è tanto spazio! avreste sempre tempo… — lo interruppe Karl Kip. — Non sono del vostro parere — disse seccamente Flig Balt. Quando egli riferì a Vin Mod le poche parole scambiate tra di loro questi disse: — Di che cosa si impiccia il groninghese di Groningen? Quando ci sbarazzeremo una buona volta di tutta questa gente?

Il progetto di buttare in mare i passeggeri del brick non era stato abbandonato e si aspettava soltanto l'occasione favorevole per realizzarlo. Fare la cosa nei paraggi delle Salomone, forse con l'aiuto di malfattori che in quella zona abbondano, avrebbe accresciuto notevolmente le probabilità di successo. Del resto, la lieve modifica di rotta rilevata da Karl Kip non era importante, e anche senza essere assolutamente giustificata si poteva fino a un certo punto accettare. Supponendo, infatti, che un uragano si fosse scatenato al largo, la nave era pur sempre in minore pericolo quando non era in vicinanza della costa, perché aveva sempre la possibilità di «fuggire il tempo» per usare l'espressione marittima. Karl Kip non ritenne dunque di informarne il signor Hawkins. Tuttavia, con dispetto di Flig Balt, che se ne avvedeva, non cessò di sorvegliare la direzione data al timoniere. Ma Flig Balt e i suoi complici non tardarono a essere favoriti dalle circostanze. La sera del 17 il tempo mutò. Il sole era tramontato in un orizzonte carico di spesse nuvole. Il mare, che presentiva qualcosa, cominciava ad agitarsi. Durante il giorno, il caldo era stato opprimente. Più volte, cessato il vento, le vele sbatterono contro gli alberi. Verso le tre del pomeriggio, il termometro Fahrenheit aveva accusato centotré gradi all'ombra 13 e, verso le cinque, il barometro era caduto a 27 pollici. 14 Questo rapido abbassamento della colonnina del mercurio indicava un profondo turbamento atmosferico. Del resto, l'onda lunga, assai mossa, e i cavalloni, che già irrompevano, annunciavano che il vento infuriava dall'ovest. Quella perturbazione atmosferica fu preceduta da un violento temporale. Verso le nove, dopo lontani brontolii di tuono, l'orizzonte si incendiò di numerosissimi lampi, tanto che il mare, riflettendoli, parve sommuovere onde di fuoco. Quando non si scaricavano sulla sua superficie, essi passavano da una nube all'altra, ininterrottamente. Gli scoppi del tuono divennero così insistenti da assordare l'orecchio; 13 14

39° 44 centigradi. (N.d.A.) 730 millimetri. (N.d.A.)

gli occhi rimanevano abbagliati dai lampi accecanti. Verso le undici, il temporale raggiunse la massima intensità. Il fulmine colpì più volte l'estremità dell'alberatura senza causare danni e corse lungo i fili del parafulmine. Si poteva esser certi, ora, che il temporale sarebbe stato seguito da un colpo di vento di grande violenza e bisognava essere pronti ad accoglierlo. Non si correva rischio, attualmente, di essere buttati verso una costa qualsiasi, come aveva detto Flig Balt; ma, al contrario, salvo a correre verso l'arcipelago delle Salomone, il brick, all'est, non avrebbe incontrato nessun ostacolo. Il signor Hawkins, Flig Balt e Karl Kip, in gruppo dinanzi alla tuga, non potevano sbagliarsi sull'imminenza della tempesta. L'armatore disse: — Avremo l'uragano addosso. — Senza alcun dubbio — rispose Flig Balt. — E non sarà, questa volta, uno di quei piovaschi che durano soltanto poche ore! — Lo temo anch'io — rispose il signor Hawkins. — Sarà necessario fuggire al largo — disse Flig Balt. — Perché non affrontare la burrasca? — chiese Karl Kip. — Se ci si mette alla cappa… — Ma sarebbe possibile? — lo interruppe Flig Balt. — Una nave carica come il James Cook, che conserva appena la linea di galleggiamento, riuscirebbe mai a sollevarsi dinanzi all'onda? Non sarebbe invece spazzata via furiosamente? — Il marinaio deve cercare di mantenere sempre la rotta — rispose Karl Kip. — Non fugge che quando non può fare altrimenti. — È anche il mio parere — dichiarò il signor Hawkins. — Potremmo essere spinti molto lontano, verso oriente. — E anche verso il nord-est! — aggiunse Karl Kip. — Le nuvole cominciano a venire da sud-ovest; con il vento in poppa, rischiamo di andare a finire nei paraggi delle Salomone. Era quello che volevano Flig Balt e Vin Mod. Tuttavia, sarebbe stato difficile, per l'ex nostromo, di non riconoscere che l'olandese parlava da uomo di mare. D'altra parte, lasciarsi sfuggire l'occasione di mutare la direzione del brick, gli

dispiaceva. Perciò disse: — Io ho la responsabilità della nave, il signor Hawkins lo capirà: non devo ricevere ordini dal signor Kip! — Non sono ordini, ma consigli, quelli che vi do — rispose Karl Kip, sorpreso per l'ostinazione. — Ordini di cui non ho bisogno — replicò Flig Balt, irritato dalla contestazione che gli veniva mossa. — Signori, desidero che questa discussione finisca — intervenne il signor Hawkins. — Ringrazio il signor Kip del suo consiglio, ma poiché il capitano Flig non ritiene opportuno attenervisi, è bene che egli agisca come meglio crede. Gli ho affidato il comando della nave ed è suo diritto rivendicare la responsabilità di quello che fa. Karl Kip fece un inchino e andò a raggiungere il fratello, al quale disse: — Flig mi sembra un incapace; temo che metta la nave in pericolo! Ma il capitano è lui… In ogni caso, non c'era più da esitare un solo istante. La forza del vento cresceva da un minuto all'altro e le raffiche furiose che piombavano a bordo rischiavano di strappare la velatura. Per ordine di Flig Balt, barra sopravvento, il brick cominciò ad accostare, non senza gravi scosse. Gli alberi cigolavano, le sartie e i paterazzi minacciavano di rompersi. Per ben due volte si temette di non riuscire a compiere l'evoluzione. Alla fine essa fu fatta e il James Cook, con la tormentina a poppa, il parrocchetto inferiore ridotto, prese la fuga con prua a nord-est. Per circa mezz'ora la navigazione proseguì in condizioni quasi normali. L'unica difficoltà consisteva nell'impedire al brick di sbandare a destra o a sinistra. Governava a stento tra le onde che correvano rapide come la nave, la quale a ogni istante rischiava di essere superata o di mettersi al traverso. La sua situazione sarebbe stata gravissima, allora, perché esposta ai pericolosi colpi di mare sul fianco. D'altra parte era impossibile aumentare la velatura. Un fiocco fatto issare da Flig Balt per rendere il timone più sensibile e più efficace, fu fatto a pezzi. La gabbia sbatteva fino a lacerarsi. Vi era motivo di chiedersi se non bisognasse fuggire senza vele, che è come dire che

la nave allora è come smantellata, incapace di seguire una direzione, fatta trastullo delle onde. Un po' dopo mezzanotte il marinaio più ignorante di bordo avrebbe capito che il James Cook non era in grado di mantenere quell'andatura. Le sbandate si susseguivano senza interruzione. Esso era letteralmente in balia del mare. Il brick non governava più perché le onde avevano una velocità doppia della sua. Il signor Hawkins non celava l'inquietudine che lo divorava. Non si trattava solo della nave e del carico che egli avrebbe fatto buttare in mare, se necessario, ma della vita dei passeggeri e dell'equipaggio. Se Flig Balt aveva l'intera responsabilità del comando, egli, armatore, aveva la responsabilità di averlo nominato capitano del James Cook. L'ex nostromo poteva anche non essere all'altezza delle sue nuove funzioni; e se, per sua imperizia, la sicurezza del brick fosse compromessa? Se Karl Kip, che era uomo di mare, avesse avuto in fondo ragione? Questi pensieri e queste incertezze agitavano l'animo del signor Hawkins il quale li comunicava a Nat Gibson che a sua volta ne condivideva le apprensioni e mostrava poca fiducia in Flig Balt. Ogni tanto, quando quest'ultimo gli si accostava, il signor Hawkins gli rivolgeva molte domande alle quali egli rispondeva con frasi incomprensibili o incoerenti, rivelando un profondo turbamento e una grande insufficienza dinanzi ai pericoli presentati dalla situazione. E quando alla luce degli ultimi lampi il signor Hawkins si volgeva verso Karl Kip, egli lo vedeva ritto accanto al fratello al quale parlava a bassa voce nell'atteggiamento di chi è in grande ansietà e teme di non riuscire a controllarsi. Pareva quasi che lui, Karl, stesse per precipitarsi sul timone per rimettere il brick nella giusta direzione. E infatti, ostinandosi su quella rotta, sempre che la nave non ricevesse qualche brutto colpo di mare che la rovesciasse sul fianco e che non perdesse l'alberatura, dove sarebbe andata mai a finire? Nel cuore dei paraggi delle Salomone? Tra isole formicolanti di scogliere contro le quali essa si sarebbe perduta? Flig Balt lo capiva. Vin Mod e gli uomini lo capivano anche. Era

la sicura perdita del brick se la tempesta fosse durata ancora quarantott'ore. La più elementare prudenza richiedeva dunque di tornare a ogni costo verso l'ovest, finché restava ancora un lembo di vela. Flig Balt volle provare. Era una manovra pericolosissima, con il mare in tempesta; forse non sarebbe stato neppure possibile mutare la direzione in senso contrario. La barra fu messa sottovento e fu bordata la randa di cappa di maestra per aiutare il timone. In quel momento il brick si piegò a sinistra e l'estremità del braccio del pennone di maestra si tuffò nella schiuma del mare. Un uomo si slanciò allora verso il signor Hawkins e disse solo queste parole: — Lasciatemi fare. — Fate — rispose l'armatore. Si vide allora di che cosa può esser capace il vero uomo di mare, quello che possiede sangue freddo, e ciò che era capace di fare, a paragone del nostromo. Al comando di Karl Kip, alla sua voce energica, alla chiarezza dei suoi ordini, l'equipaggio manovrò con decisione e unanimità. Il James Cook si rialzò a poco a poco conservando la sua alberatura e approfittando di brevissime calme Karl Kip riuscì a rimetterlo con la prua al mare. I colpi di mare anche se straordinariamente impetuosi furono meno pericolosi perché assalivano la nave da prua invece che da poppa. Venne issato, con grande difficoltà, un fiocco da uragano in grado di resistere alle raffiche. Sotto una trinchettina di fortuna e la piccola gabbia, cui Karl Kip fece dare una mano di terzarolo e che furono ben presto orientate, il brick tenne la cappa, mentre il marinaio Burnes, eccellente timoniere, manteneva imperturbabilmente il James Cook nella giusta direzione. A un certo momento Vin Mod si accostò a Flig Balt e gli disse con rabbia: — Tutto è perduto con Kip capitano al posto del capitano Balt! Il giorno dopo, 21 dicembre, contrariamente a ciò che sembrava probabile, la violenza di quella tempesta si attenuò sensibilmente, in conseguenza del fatto che il vento era risalito di circa cinque quarte e

soffiava ora da ovest-nord-ovest. Era una felicissima circostanza: bisognava che il brick non continuasse a correre verso terra, ma riprendesse la direzione verso il sud. Era ciò che fece Karl Kip non appena il vento glielo permise, mentre faceva spiegare la grande vela di gabbia, il pennone di trinchetto e la randa di cappa di maestra. Sotto questa velatura e con buon vento, il James Cook avrebbe presto riguadagnato il cammino perduto andando verso l'est. Il mare non si sarebbe placato presto, è vero, come aveva fatto il vento: sarebbe rimasto agitato ancora per molte ore, continuando a scuotere il brick terribilmente, con beccheggio e rullio. Verso le dieci, riapparso il sole, Karl Kip prese l'altezza. Il suo punto, completato dall'osservazione di mezzogiorno, gli diede con esattezza la posizione della nave, e cioè 150° 17' di longitudine ovest e 13° 27' di latitudine sud. In quel momento, il signor Hawkins lo raggiunse e gli disse: — Vi ringrazio, signor Kip. Karl Kip fece un lieve inchino, ma non disse nulla. — Vi ringrazio — riprese l'armatore — a nome mio e a nome dell'equipaggio tutto… — Non ho fatto che ciò che qualsiasi marinaio avrebbe fatto al posto mio — rispose Karl Kip. — Non merito nessun ringraziamento e vado a restituire il comando al capitano… — No — dichiarò il signor Hawkins con voce ferma, udita da tutti. — D'accordo con Nat Gibson, vi prego di conservare il comando della nostra nave. E poiché Karl Kip fece un gesto di rifiuto, il signor Hawkins aggiunse: — Spetta guidarla a chi l'ha salvata! Tocca a voi, capitano Kip, riportarla a Hobart Town! Al colmo della collera, Flig Balt protestò allora con il signor Hawkins: — Voi mi avete nominato capitano del James Cook e pretendo di restarlo fino a quando non saremo giunti a destinazione. — Balt, il capitano è quello che io scelgo — rispose il signor

Hawkins, la cui decisione era irrevocabile — quale armatore e proprietario di questa nave. Ho visto che non eravate all'altezza delle vostre funzioni. Ormai a bordo comanderà il capitano Kip, dopo Dio… — Farò valere i miei diritti dinanzi alle autorità marittime a Hobart Town — rispose Flig Balt. — Come vorrete — rispose l'armatore. — Io sono stato regolarmente nominato e… — Basta, Flig Balt — disse Karl Kip. — Non una parola di più! Andate al vostro posto! Marinai, conto sulla vostra devozione e sulla vostra obbedienza! Ebbe così termine il comando della nave da parte dell'ex nostromo e venne meno così anche quell'ultima probabilità di impadronirsi del bastimento. Da quel momento, i marinai compresero che avevano da fare con un capitano energico e risoluto che non avrebbe tollerato nessuna opposizione ai suoi ordini. Il signor Hawkins si rallegrò della risoluzione adottata nell'interesse della nave. Ma Vin Mod, Len Cannon e i suoi compagni si sarebbero ora rassegnati? Avrebbero rinunciato ai loro progetti? Oppure avrebbero tentato di impadronirsi del brick con la forza prima del suo arrivo in Tasmania? In ogni caso, sarebbero stati attentamente sorvegliati. Fattosi diffidente, Karl Kip avrebbe mantenuto a bordo una severa disciplina. Dal 20 al 27 dicembre la navigazione non offrì nulla di particolare. La nave si era avvicinata alla costa australiana. Al riparo delle terre alte essa fu favorita dal vento. A quella data una buona osservazione pose la nave dinanzi a Sydney, un po' al disopra del trentaquattresimo parallelo sud. Faceva agevolmente le cento miglia ogni ventiquattro ore. Nel pomeriggio del 30 si trovò perciò all'ingresso dello stretto di Bass che separa la Tasmania dal continente australiano. Se le circostanze si fossero mantenute favorevoli, fra tre o quattro giorni il James Cook avrebbe avvistato Hobart Town, con vivissimo dispiacere di Flig Balt, di Vin Mod e, soprattutto, di Len Cannon e delle altre reclute di Dunedin.

Sarà facile capire perché mai l'irritazione del nostromo e dei suoi complici fosse ora agli estremi. Un incontenibile spirito di rivolta li dominava; non già una rivolta sorda, che vuol agire di sorpresa, nell'ombra, ma una rivolta aperta, da manifestare prima di entrare in porto e nella quale avrebbero giuocato tutto per tutto! Karl Kip non ignorava che la ribellione serpeggiava in una parte dell'equipaggio; ma egli riteneva di poterne trionfare come aveva trionfato della tempesta. Del resto, per non parlare del signor Hawkins, di Nat Gibson e di suo fratello, Karl Kip poteva fare completo assegnamento sui marinai Hobbes, Wickley e Burnes, onesti e devoti. Riguardo a Vin Mod, grazie alla sua abitudine di incitare gli altri e di ritirarsi in tempo, forse il nuovo capitano provava una certa perplessità. Per contro la sua opinione era già formata riguardo a Len Cannon, Kyle, Sexton, Bryce e al cuoco Koa. Karl Kip non fu dunque sorpreso quando, la sera del 30, scoppiò la rivolta a bordo del brick. Trascinando i suoi complici, Flig Balt volle forzare l'ingresso della tuga per impadronirsi delle armi, lanciarsi poi sui fratelli Kip, e costringere alla resa, dopo essersi sbarazzati di loro, il signor Hawkins, Nat Gibson e i tre marinai. Ma l'atteggiamento di Karl Kip fece fallire il tentativo. Egli si precipitò tra i ribelli, afferrò per la gola Len Cannon, che si gettava su di lui, e lo minacciò con la rivoltella. Un gesto di più e sarebbe stata la sua fine. Nello stesso istante, Nat Gibson, il signor Hawkins, Hobbes, Wickley e Burnes si impadronivano delle altre reclute, mentre Pieter Kip, avendo atterrato Flig Balt, gli strappava di mano il coltellaccio di cui si era provvisto. La lotta non durò neppure un minuto. Sei uomini (Vin Mod si era tenuto prudentemente in disparte) potevano mai sopraffarne sette che non erano stati colti di sorpresa? Karl Kip era in posizione di legittima difesa. Sarebbe stato suo diritto far saltare le cervella al nostromo e forse lo avrebbe anche fatto senza l'intervento del signor Hawkins, il quale glielo impedì, preferendo consegnare Flig Balt alla giustizia marittima, non appena il brick fosse entrato nel porto di Hobart Town.

Flig Balt fu dunque cacciato in fondo alla stiva, dove gli furono messi i ferri, insieme con i due ribelli più violenti: Len Cannon e Kyle. La sicurezza della nave ora era assicurata fino al termine del viaggio. La traversata avrebbe avuto termine, del resto, tra meno di sessanta ore e Karl Kip, verosimilmente, non avrebbe avuto più bisogno delle braccia di quei tre uomini. Quei paraggi poi sono molto frequentati; le piccole navi di cabotaggio navigano di continuo lungo la costa orientale della Tasmania, dove si incontrano spesso flottiglie di imbarcazioni dinanzi allo stretto di Bass. In caso di necessità, dunque, pagandoli alla giornata, sarebbe stato facile trovare alcuni marinai per ricostituire l'equipaggio, qualora Karl Kip fosse stato costretto a infierire contro gli altri compagni di Len Cannon, presi in gran sospetto per la parte avuta nella rivolta. A ogni buon fine, Karl Kip proibì loro ogni contatto con i prigionieri. Questi avrebbero lasciato la stiva della nave solo per essere rinchiusi nella prigione marittima di Hobart Town. Venivano lasciati salire sul ponte per due ore, nel pomeriggio, ed era proibito rivolgere loro la parola. L'incarica di portar loro da mangiare era stato affidato a Jim; del giovane mozzo non c'era affatto da diffidare, affezionato com'era al signor Hawkins e a Nat Gibson. Vin Mod fu perciò nella impossibilità di comunicare con Flig Balt, benché ne avesse vivissimo desiderio, sia per fargli qualche raccomandazione, sia per esporgli qualche piano prima della sua comparsa dinanzi al Consiglio. Si sentiva particolarmente sorvegliato. Al minimo passo falso, sarebbe stata imprigionato e senza dubbio il suo piano richiedeva che egli avesse libertà di agire non appena sbarcato a Hobart Town. La navigazione proseguì in ottime condizioni con vento e mare favorevoli, e Karl Kip non fu neppure costretto ad assumere marinai supplementari per condurre la nave in porto. Il signor Hawkins, insomma, non poté che essere soddisfatto di se stessa per aver messo al posto dell'indegno nostromo un capitano quale Karl Kip aveva dimostrato di essere. Quando il brick ebbe avvistato il capo Pillar, all'estremità meridionale della Tasmania, fu necessario serrare il vento e anche

bordeggiare, per poter doppiare prima quella punta e poi più a ovest il capo Raoul. Ci voliera ventiquattr'ore per raggiungere Storm Bay, che incide profondamente quella parte della costa tasmaniana. La configurazione delle terre alte modifica spesso il senso delle correnti atmosferiche. Il James Cook trovò dinanzi a Storm Bay un forte vento di sud-est. Fu dunque a vele spiegate che esso attraversò la baia da sud a nord, raggiungendo la foce del fiume Derwent. Il 2 gennaio, verso le tre del pomeriggio, il brick gettava l'ancora nel porto di Hobart Town.

PARTE SECONDA CAPITOLO I HOBART TOWN SCOPERTA nel 1642 dall'olandese Abel Tasman, intrisa del sangue del francese Manon nel 1772, visitata da Cook nel 1784 e da Entrecasteaux nel 1793, ci volle l'intervento del signor Bass, chirurgo della colonia australiana, per accertare finalmente che la Tasmania era un'isola. Essa si chiamò inizialmente Terra di Van Diemen, in onore del governatore di Batavia, capoluogo del dominio coloniale dei Paesi Bassi in quella zona dell'Estremo Oriente. Soltanto nel 1804 la Tasmania passò sotto il dominio della Gran Bretagna e cioè quando gli emigranti inglesi fondarono Hobart Town, la sua capitale.. Dopo esser appartenuta al territorio politico della Nuova Galles del Sud, provincia dell'Australia meridionale, dalla quale è divisa dalle centocinquanta miglia dello stretto di Bass, la Terra di Van Diemen se ne distaccò definitivamente. Da allora essa ha conservato la sua autonomia, pur dipendendo dalla Corona come la maggior parte dei possedimenti britannici d'oltremare. Si tratta di un'isola quasi triangolare, attraversata dal quarantatreesimo-parallelo sud e dal centoquarantasettesimo meridiano a est di Greenwich. È grande circa centosettantacinque miglia per centocinquanta ed è fertile perché vi si raccolgono, in abbondanza, tutti i prodotti della zona temperata. Suddivisa in nove distretti, essa possiede due città principali: Hobart Town e Launceston, un tempo Port Dalrympe. La prima sulla costa settentrionale e la seconda sulla costa meridionale, sono entrambe

collegate da una magnifica strada costruita dai deportati australiani. Furono i deportati i primi abitanti della Tasmania, dove vennero fondati importanti penitenziari quale quello di Port Arthur. Il genio colonizzatore dell'Inghilterra ha fatto oggi di essa un paese di uomini liberi, in cui la civiltà ha messo radici profonde e regna là dove un tempo imperava la barbarie. La popolazione indigena è scomparsa del tutto. Nel 1884 è stato possibile esibire, come curiosità etnologica, l'ultimo tasmaniano, o meglio, l'ultima tasmaniana: una vecchia del paese. Di questi negri stupidi e selvatici, posti sul gradino più basso del genere umano, non esiste più neppure un rappresentante. Senza dubbio è questo il destino che attende i loro fratelli australiani, sotto il pugno di ferro della Gran Bretagna. Hobart Town è stata costruita a nove miglia dalla foce del fiume Derwent, in fondo alla piccola baia di Sullivan Cove. Disposta con regolarità (forse sin troppa) sul modello della città americana, tutte le sue vie si incrociano ad angolo retto; i suoi dintorni però sono pittoreschi, con valli profonde e fitte foreste dominate da alte montagne. Del resto la straordinaria frastagliatura del litorale intorno a Storm Bay, le numerose frange di Cookville Island, la capricciosa dentellatura della penisola di Tasmania dicono quale fosse la violenza delle forze telluriche nel periodo plutonico di formazione. Il porto di Hobart Town è ben riparato dai venti del largo. Le acque vi sono profonde e l'ancoraggio sicuro; difeso da una lunga gittata, che rompe l'onda lunga come potrebbe farlo un frangiflutto, il James Cook vi ritrovò il suo solito posto, di fronte agli uffici della ditta Hawkins. Hobart Town non conta più di venticinque o ventiseimila abitanti. Si conoscono tutti in questo mondo di armatori, negozianti e agenti marittimi, che costituisce la parte più cospicua di questa città essenzialmente mercantile. Sebbene la passione per gli studi scientifici, artistici e letterari sia in essa sviluppata, come potrebbe il commercio non occuparvi il primo posto? Il territorio tasmaniano è molto fertile, le foreste di numerose essenze vi sono, per così dire, inesauribili. Posta sotto una latitudine che corrisponde a quella della Spagna, nell'emisfero settentrionale, che cosa non produce il suolo in

fatto di cereali, caffè, tè, zucchero, tabacco, lana, cotone, vino e birra? L'allevamento del bestiame attecchisce in ogni parte dell'isola, ed è tale l'incredibile abbondanza della frutta che essa produce che si è potuto dire: «La Tasmania basterebbe a rifornire di marmellate il resto del mondo». Il signor Hawkins godeva, come si sa, d'una onorevolissima posizione tra i più importanti commercianti di Hobart Town. La sua azienda, della quale il signor Gibson faceva parte in qualità di socio e come capitano per il gran cabotaggio, godeva di generale stima e simpatia. La disgrazia che lo aveva colpito doveva avere, in città, un'eco dolorosa. Prima ancora che il James Cook avesse portato a terra gli ormeggi, tutti avevano la certezza che fosse accaduta una disgrazia a bordo. Tuttavia, non appena il brick fu segnalato all'ingresso di Sullivan Cove, un impiegato dell'ufficio andò ad avvertire la signora Hawkins, la quale, accompagnata dalla signora Gibson, si affrettò ad accorrere al porto. Entrambe volevano essere presenti quando il brick si sarebbe accostato alla riva. Ma già qualcuno dovette dolersene. Non c'era da sbagliarsi, infatti: la bandiera britannica, invece di essere issata all'estremità del picco, ondeggiava a mezz'asta. Sulla gittata, alcuni marinai si scambiavano le impressioni: — È capitata una disgrazia! — Sarà morto qualche marinaio durante la traversata. — C'è stato certamente un decesso in mare. — Purché non si tratti del capitano! — Il James Cook aveva passeggeri? — Sembra di Sì. A ciò che si dice, doveva imbarcare a Wellington il signor Hawkins e Nat Gibson. — Si esporrebbe la bandiera a mezz'asta se si trattasse di un membro dell'equipaggio? — Certamente. La signora Hawkins e la signora Gibson non erano abbastanza al corrente delle consuetudini marittime per rilevare ciò che aveva dato da pensare alla gente del porto; del resto, tutti evitavano di richiamare sul fatto la loro attenzione. Non sembrava il caso di

allarmarle forse senza motivo. Quando il brick fu alla riva la signora Gibson non riconobbe il marito nel capitano che comandava la manovra; e quando non vide suo figlio correre ad abbracciarla, ma lo scorse seduto a poppa, con i tratti del viso tesi, senza osare neppure di guardarla, e, accanto a lui, il signor Hawkins in atteggiamento di dolore, le sfuggì un grido: — Harry! dov'è Harry! Un attimo dopo, Nat Gibson la stringeva a sé e, singhiozzando, la soffocava di baci. Ella comprese allora la terribile disgrazia che l'aveva colpita; mormorò qualche parola, con voce strozzata, e sarebbe caduta se il signor Hawkins non l'avesse sorretta. — Morto! — le disse. — Morto? — ripeté la signora Hawkins, atterrita. — Assassinato! Fu fatta venire una carrozza e vi si adagiò sopra la signora Gibson svenuta, accanto alla signora Hawkins. Il signor Hawkins e Nat Gibson presero posto in faccia ad esse. Poi la vettura si diresse verso l'abitazione, dove faceva ritorno il figlio, ma nella quale il padre non avrebbe più messo piede. La disgraziata vedova fu trasportata nella sua camera senza avere ripreso conoscenza. Trascorse più di un'ora prima che ella potesse rispondere con le lagrime ai singhiozzi del figlio. La ferale notizia fece presto il giro della città. La costernazione fu profonda per la simpatia di cui godeva la famiglia Gibson da parte di tutti. E poi, c'è qualcosa di più triste del ritorno, nel porto di attracco, di un bastimento che non riporta il proprio capitano? Prima d'andar via, l'armatore aveva chiesto a Karl Kip di continuare a esercitare le sue funzioni durante le operazioni di scarico fino al momento di mettere la nave in disarmo. Ciò avrebbe richiesto soltanto pochi giorni e i due fratelli sarebbero potuti rimanere a bordo, cosa che non avrebbe impedito loro di cercare una nave diretta in Europa. Da parte sua, il signor Hawkins li avrebbe informati delle partenze marittime. Karl e Pieter Kip accettarono volentieri la proposta dell'armatore, il quale, sin dal giorno dopo, li avrebbe messi a contatto con la sua ditta.

Per prima cosa, Karl Kip mandò a chiamare l'ufficiale di porto per provvedere a ciò che riguardava Flig Balt e i suoi complici. L'ufficiale non tardò a presentarsi e nell'apprendere che c'era stata una rivolta a bordo della nave, nelle circostante già note, chiese: — Il nostromo è ai ferri? — Insieme con due marinai reclutati a Dunedin — rispose Karl Kip. — E gli altri? — Eccetto tre o quattro che sbarcherò, posso contare su di essi. — Vi manderò allora alcuni agenti di polizia — disse l'ufficiale — perché provvedano a fare rinchiudere i ribelli nella prigione del porto. Un quarto d'ora dopo giungeva un gruppetto di agenti che si disponeva a prua accanto al boccaporto. Flig Balt, Len Cannon e Kyle vennero allora tratti fuori dalla stiva e condotti sul ponte. In silenzio, con i denti serrati, il nostromo si limitò a lanciare a Karl Kip uno sguardo pieno di odio e foriero di vendetta. Len Cannon, invece, lo minacciò con il pugno e lo salutò con una bordata di ingiurie tali da costringere un agente a imbavagliarlo. Nel frattempo Vin Mod, rannicchiato dietro l'argano, sollevandosi fino all'orecchio di Flig Balt, gli disse a bassa voce, per non essere udito dagli altri: — La cosa non è finita. Fate ciò che abbiamo detto: si troveranno carte e denaro. Era evidente che nonostante le precauzioni prese dopo che il nostromo era stato messo ai ferri, egli aveva potuto parlargli e che tra i due era stato studiato un piano al quale Flig Balt doveva soltanto conformarsi. Alle poche parole pronunciate dal suo complice egli rispose quindi con un gesto di assenso. Quando gli agenti stavano per condurre via i tre prigionieri, dal gruppo costituito da Sexton, Bryce e Koa sorse un mormorio, subito represso in seguito all'atteggiamento di Karl Kip, che per poco non mandò le due reclute a raggiungere i compagni. Un istante dopo, Flig Balt, Len Cannon e Kyle mettevano piede a terra e, seguiti dalla folla vociante, erano condotti alla prigione del

porto, dove sarebbero stati rinchiusi fino al giorno della loro comparsa dinanzi al tribunale marittimo. Quasi subito dopo la loro partenza, Karl Kip fece chiamare Vin Mod, Sexton, Bryce e il cuoco, e senza dar loro altre spiegazioni li licenziò, dicendo loro di non rimettere più piede a bordo, per nessun motivo. Potevano recarsi presso gli uffici della ditta Hawkins per il regolamento delle loro spettanze. Vin Mod aveva previsto il licenziamento e mostrò di esserne soddisfatto. Discese nell'alloggiamento e risalì sul ponte con il sacco. Sexton e Bryce, di cui sappiamo in quali condizioni fossero stati imbarcati a Dunedin per sfuggire alla polizia dopo gli incidenti accaduti nella taverna delle «Three Magpies», quello che possedevano lo avevano già addosso. — Venite — disse loro Vin Mod. Essi seguirono il marinaio, il quale li condusse prima presso gli uffici dell'armatore, poi presso un affittacamere di sua conoscenza, dove tutti e tre presero alloggio. Con Hobbes, Wickley, Burnes e Jim, ora Karl Kip non aveva più nulla da temere. Quella brava gente sarebbe bastata per il servizio di bordo. Poi, deposto a terra il carico, il James Cook sarebbe entrato in disarmo. È impossibile descrivere come Nat Gibson trascorse la notte accanto alla madre. La signora Hawkins non aveva voluto allontanarsi dall'amica: quali premure avrebbero potuto essere più devote delle sue? quali attestazioni di amicizia più consolanti? Fu necessario narrarle tutta la penosa storia, e in quali circostanze l'infelice capitano era stato colpito, senza trovare traccia dell'assassino. Bisognò indicarle l'angolo del piccolo cimitero di Kerawara in cui riposava il marito. E fu necessario mostrarle infine la fotografia fatta dal signor Hawkins. Ella volle vederla a ogni costo: come sarebbe stato possibile, peraltro, opporsi al suo desiderio? E quando ella vide il ritratto del capitano, con il petto lacerato dalla lama del pugnale, e gli occhi spalancati, il cui sguardo sembrava fissarsi su di lei, una crisi la colse e fu necessario vegliarla per tutta l'interminabile notte! Il giorno dopo fu chiamato il medico, le cui cure diedero un po' di

calma alla signora Gibson. Ma quale esistenza ormai l'attendeva nella tristezza di quella casa! Trascorsero alcuni giorni. Lo scarico delle merci del brick era stato compiuto, sotto la direzione di Karl Kip: le trecento tonnellate di copra e le casse della madreperla giacevano ora nei magazzini del signor Hawkins. I marinai avevano cominciato intanto le operazioni di disarmo della nave, togliendo i pennoni dagli alberi, sguarnendo le drizze e curando altre normali operazioni, come la completa ripulitura della stiva, della tuga, degli alloggi e del ponte. Sarebbero trascorsi molti mesi prima che il James Cook riprendesse il mare. Poi, dopo che l'equipaggio ebbe ricevuto la paga, il brick fu condotto in fondo al porto dove rimase sotto la sorveglianza di un guardiano. I fratelli Kip dovettero allora prendere alloggio a terra ed è inutile dire che ogni giorno avevano avuto rapporti con l'armatore e che più volte avevano preso posto alla sua tavola. La signora Hawkins, che nutriva per loro gli stessi sentimenti del marito, non cessava di testimoniar loro la propria simpatia. La signora Gibson non riceveva nessuno. Un paio di volte, tuttavia, accolse eccezionalmente i due fratelli, i quali, rispettando il suo dolore, furono verso di lei estremamente riservati. Nat Gibson, da parte sua, si recò spesso a bordo e non poté far altro che aggiungere i suoi ringraziamenti a quelli del signor Hawkins. Il 7 gennaio, prima che Karl e Pieter Kip lasciassero la nave, l'armatore li intrattenne sulla loro situazione e non farà meraviglia sapere che egli fece loro le seguenti proposte: — Signor Karl, io ho avuto solo da lodarmi — disse — della vostra devozione e del vostro zelo nelle tristi circostanze in cui la nave è venuta a trovarsi. Noi vi dobbiamo la salvezza sua e quella del suo equipaggio. Senza di voi, essa sarebbe forse affondata durante la tempesta nel Mar dei Coralli. — Sono felice, signor Hawkins, di esservi stato utile. — Ve ne sono riconoscente — rispose l'armatore. — Se il James Cook fosse dovuto ripartire, vi avrei offerto di conservarne il comando. — Siete troppo buono, signor Hawkins, e sono onoratissimo della vostra proposta, che non avrei esitato ad accettare, se affari gravi e

urgenti non obbligassero me e mio fratello a partire al più presto… — Per dir la verità, signor Hawkins, eravamo in procinto — aggiunse Pieter Kip — di andare a informarci se c'era una nave in partenza per l'Europa. — Vi capisco, signori — dichiarò il signor Hawkins. — E non è senza vivo dispiacere che ci separiamo… forse per non rivedervi mai più… — Non si sa mai, signor Hawkins — disse Karl Kip. — Sistemati 1 nostri affari a Groningen, dov'è necessaria la nostra presenza, perché non iniziare dei rapporti di affari tra le nostre due aziende? — Lo desidero sinceramente — disse l'armatore. — Ne sarei felice! — Anche noi — rispose Karl Kip. — Per ciò che mi riguarda, io spero di trovare imbarco non appena la liquidazione sarà completata a Groningen, ed è possibile che ritorni a Hobart Town. — Dove sarete ricevuto da amico — assicurò il signor Hawkins con grande cordialità. — È inutile dirvi che la mia casa vi è aperta. Nel naufragio della Wilhelmina avete perduto quello che avevate e per tutto quello che vi occorre a Hobart Town… faremo i conti dopo, d'accordo? — Vi ringraziamo della vostra benevolenza, signor Hawkins — rispose Karl Kip. — Spero che non dovremo approfittarne. Può darsi che abbia la possibilità d'esercitare le funzioni di secondo sulla nave che ci riporterà in Europa: la mia paga, in tal caso, servirà a pagare il passaggio di mio fratello. — Come volete, signor Kip; ma se questa probabilità non si presentasse, ricordatevi che io sono a vostra disposizione. I due fratelli gli risposero con una calorosa stretta di mano. — In ogni caso — riprese l'armatore — vi sono dovuti gli onorari di capitano, signor Kip, per l'ultima parte della traversata del James Cook, e non potrei accogliere al riguardo un rifiuto da parte vostra. — Come vorrete signor Hawkins — rispose Karl Kip. — Ma noi non dimenticheremo mai l'accoglienza che ci è stata fatta a bordo della vostra nave. Vi siete comportato da uomo di cuore, dinanzi a due naufraghi. Qualunque cosa accada, noi saremo sempre vostri debitori.

Il signor Hawkins promise allora di aiutare i due fratelli: li avrebbe tenuti informati delle partenze e avrebbe fatto il possibile per procurare un posto di secondo a Karl Kip, consentendogli così di tornare in Europa senza l'aiuto di altri, com'era loro desiderio. Poi l'armatore e i due fratelli si separarono dopo calorose reciproche attestazioni di stima. Karl e Pieter Kip cercarono dunque di scegliere un modesto albergo nel quale soggiornare fino alla loro partenza da Hobart Town. Quest'occasione permise loro di visitare la città in cui il maggiore dei fratelli non era mai stato, pur avendo fatto lunghi viaggi. La capitale della Tasmania merita senza dubbio l'ammirazione dei turisti. È una delle città più graziose dell'Australasia britannica. Ha strade ampie, luminose, pulite, rallegrate dal verde e rinfrescate dal fogliame; le case sono piccole ma piacevolmente disposte. Non manca di piazze ed ha un magnifico parco con una superficie di quattrocento ettari, che il monte Wellington domina da occidente con le cime nevose coperte di nubi. Nel corso delle passeggiate Karl e Pieter Kip incontrarono spesso qualche marinaio del James Cook, tra cui Vin Mod e Bryce: erano in cerca d'imbarco o pensavano di trascorrere qualche tempo a terra? In ogni caso, appariva chiaro che i due uomini non intendevano separarsi, perché erano sempre insieme, in giro per la città. Ma ciò che Karl e Pieter Kip non notarono fu questo: Vin Mod e Bryce non avevano smesso mai di seguirli quando essi cercavano alloggio. I fratelli Kip non avrebbero più dubitato che i due marinai erano interessati alla faccenda del loro alloggio se avessero potuto ascoltare ciò che l'uno ripeteva continuamente all'altro: — Non la finiranno mai? sono proprio esigenti nella scelta dell'albergo! — Eppure hanno le tasche vuote o quasi vuote — faceva notare Bryce. — A meno che quello stupido armatore, che il diavolo lo strangoli, non si sia preoccupato di riempirle. — Purché non offra loro di ospitarli! — diceva Bryce. — No! speriamo di no… — esclamò Vin Mod. — Preferirei

piuttosto pagar loro, in qualsiasi albergo, una bella camera a dieci scellini al giorno! Quelle parole, scambiate tra Vin Mod e Bryce, provavano due cose: prima, che essi si preoccupavano di sapere dove i due fratelli sarebbero andati ad alloggiare; seconda, che se il signor Hawkins avesse loro offerto la propria ospitalità, nella sua casa, ciò non avrebbe mancato di contrastare i loro piani. Quali piani? Essi preparavano certamente contro Karl e Pieter Kip qualche colpo che esigeva, per essere realizzato, la possibilità d'introdursi nella loro camera. Ora, ciò sarebbe stato possibile se essi avessero alloggiato in un albergo, ma non mai se fossero andati ad abitare in casa del signor Hawkins fino al giorno della loro partenza. Era quello dunque il motivo del pedinamento a cui essi sottoponevano i due fratelli, senza affatto preoccuparsi d'essere più o meno notati. Del resto, l'8 gennaio ebbero motivo di dichiararsi soddisfatti. Nella mattinata, il marinaio Burnes, portando la valigia salvata sul relitto della Wilhelmina, la quale conteneva tutto ciò che i due fratelli possedevano, accompagnò Karl e Pieter Kip in una via vicina al porto. Non in un albergo, ma in una locanda di modesta apparenza, tenuta però con pulizia, i due fratelli avevano scelto un'unica camera per tutti e due, al primo piano. Vin Mod se ne assicurò pochi minuti dopo. Raggiunto poi Bryce che lo aspettava sulla ripa, gli disse: — Fleet Street, albergo del «Great-Old-Man». Ora sono nelle nostre mani!

CAPITOLO II PROGETTI PER IL FUTURO LA CATASTROFE che aveva colpito crudelmente la famiglia Gibson avrebbe innanzi tutto avuto per risultato di mutare i progetti del signor Hawkins. Nessuno avrà dimenticato che volendo allargare il suo giro di affari, l'armatore si era recato nella Nuova Zelanda per aprirvi un ufficio insieme con il signor Balfour, noto e rispettato mercante di Wellington. Nat Gibson, che lo aveva accompagnato in quel viaggio, avrebbe dovuto diventare in un secondo momento socio del signor Balfour. Tra breve, rapporti di affari avrebbero avuto inizio in particolare con l'arcipelago delle Bismarck. Il signor Zieger, consultato durante la sosta del James Cook a Tombara, non chiedeva di meglio che di mettersi in corrispondenza con il nuovo scagno, al quale egli avrebbe assicurato un buon giro di affari. Una nave della ditta Hawkins avrebbe esercitato il grande cabotaggio tra Wellington e Port Praslin. Ci si ricorderà anche che il capitano Gibson aveva raggiunto, a Wellington, il figlio e il signor Hawkins per ricondurli a Hobart Town dopo essere andato a prendere il carico alle isole dell'arcipelago delle Bismarck e che soltanto dopo il suo rientro in Tasmania Nat Gibson sarebbe andato a stabilirsi nella capitale della Nuova Zelanda. Scomparso nelle circostanze già riferite il capitano Gibson, non si parlò più di dar seguito a quei progetti. La signora Gibson non avrebbe potuto rassegnarsi all'idea di separarsi da suo figlio; Nat Gibson non avrebbe acconsentito a lasciare la madre sola in quella casa dove la vedovanza aveva creato un gran vuoto. L'amicizia e la devozione dei signori Hawkins non sarebbero certamente bastate alla signora Gibson. Bisognava che suo figlio le fosse vicino e che il suo

affetto e le sue premure l'aiutassero a ricominciare una nuova vita. L'armatore fu il primo a rendersene conto. Si sarebbe messo d'accordo con il signor Balfour e gli avrebbe trovato un nuovo socio. Nat Gibson avrebbe lavorato al suo fianco nell'ufficio di Hobart Town. — Nat, ti ho sempre considerato come un figlio — gli disse abbracciandolo — e ora voglio che tu lo sia per me più di prima. Io non dimenticherò mai il mio disgraziato amico. — Padre mio! mio povero babbo! — mormorò il giovane. — Non so neppure chi ti abbia assassinato! Nel suo dolore c'era sempre quella sete di vendetta che non era riuscito ad appagare. — Miserabili! — aggiunse. — Non si saprà mai chi è stato? L'orribile assassinio rimarrà dunque impunito? — Aspettiamo il prossimo corriere di Port Praslin — rispose il signor Hawkins. — Forse l'inchiesta dei signori Hamburg e Zieger darà qualche risultato. Potrebbero avere raccolto nuovi indizi. Non posso credere che questo crimine rimanga impunito. — E se si troveranno gli assassini, andrò io laggiù! Vi andrò… e… — disse Nat Gibson. Non poté terminare la frase: la voce gli tremava di collera. Ma prima che quell'assassinio fosse sottoposto a giudizio (se lo sarebbe mai stato) un altro processo si sarebbe svolto dinanzi al Consiglio marittimo: quello contro i ribelli del James Cook. Karl Kip, quale capitano del brick, aveva consegnato alle autorità il suo rapporto. Flig Balt, come capo dei rivoltosi, e Len Cannon, quale complice, sarebbero stati condannati a pene gravissime: le leggi inglesi sono estremamente severe in casi del genere che mettono in forse la disciplina a bordo delle navi mercantili. Dal giorno dell'arresto i detenuti non avevano avuto rapporti con i loro compagni. Sexton, Kyle e Bryce apparivano nel processo soltanto in qualità di testimoni. Il rapporto non li considerava responsabili del tentativo di ribellione represso per l'energia mostrata dal nuovo capitano. Forse essi non sarebbero stati più neppure a Hobart Town, allo svolgimento del processo, se nel frattempo avessero trovato da imbarcarsi; e senza dubbio, ciò sarebbe stato

meglio per loro. Riguardo a Vin Mod, che in effetti era stato l'anima della rivolta, bisogna dire che per questo astuto personaggio, del quale il nostromo subiva il pessimo ascendente, la faccenda era ben altra. Egli non cercava di sottrarsi con la fuga alle conseguenze delle sue malefatte, delle quali l'istruzione del processo forse avrebbe fornito le prove. Flig Balt avrebbe finito probabilmente per svelare la complicità di Vin Mod, se, stretto dalle domande, si fosse visto perduto… Del resto, non erano forse legati l'uno all'altro, come forzati alla catena, dal sangue versato per l'assassinio del capitano Gibson? Poiché diffidava della debolezza del nostromo, Vin Mod aveva interesse a toglierlo dai guai e forse sapeva anche come riuscirvi. Molto intelligente e pieno di risorse, sapeva che Flig Balt contava su di lui. Se fosse riuscito, nella faccenda del James Cook, a fuorviare il braccio della giustizia nessuno dei due avrebbe avuto più nulla da temere. Chi avrebbe mai immaginato che fossero loro gli autori di quell'orribile delitto commesso nella Nuova Irlanda? Nell'attesa, Vin Mod poteva rimanere tranquillamente a Hobart Town e, con il denaro rubato al capitano, non aveva bisogno di preoccuparsi per le necessità quotidiane dell'esistenza. Il furbo doveva già aver architettato un piano d'intesa con Flig Balt; quel piano, usufruendo egli di completa libertà, avrebbe tentato di metterlo in esecuzione. Ma, nell'impossibilità di farlo conoscere al nostromo, mentre ruminava la sua idea e studiava il suo progetto, per non lasciare nulla all'imprevisto, egli diceva a se stesso: «Mi avrà capito? Eppure non c'è nulla di più semplice. Questo giustificherebbe la ribellione e la scuserebbe! Ah, se fossi al suo posto! Certo non sarei più al mio, e invece ho bisogno di esserci! Disgraziatamente, non è uomo che capisca le cose a volo! Bisogna cacciargliele bene in capo! Vediamo… Non ci sarebbe modo di giungere fino a lui? io o un altro, sarebbe la stessa cosa… Kyle oppure Sexton, ad esempio… basterà dirgli: È fatto! Ma bisogna che la cosa si faccia soltanto alla vigilia del Consiglio. Se troppo in anticipo, i due fratelli potrebbero accorgersene… Beh, ci penserò. Prima di tutto, bisogna tirarlo fuori di là… poi ci vendicheremo di quel dannato capitano d'occasione. Oh, se potessi vederlo danzare

accanto a suo fratello all'estremità di una corda!» Mentre diceva tra sé queste cose, il viso di Vin Mod si faceva pallido, gli occhi gli si iniettavano di sangue e tutta la sua fisionomia manifestava un odio implacabile. Era evidente che Vin Mod tramava qualche oscura macchinazione contro i fratelli Kip. Ora, riaccostando certi fatti, non c'era dubbio che il crimine di Kerawara fosse stato commesso in modo da poterveli implicare. Dall'arrivo del brick e dal loro sbarco, Vin Mod si era preoccupato soprattutto di ciò che avrebbero fatto Karl e Pieter Kip. Sapeva perfettamente che essi avevano fretta di lasciare Hobart Town per far ritorno in Europa. Ma bisognava trovare una nave pronta a partire e, a meno di avere molta fortuna, occasioni del genere non si presentano da un giorno all'altro. Vin Mod non ignorava che Karl Kip cercava un posto di secondo con l'aiuto del signor Hawkins. Anche questo fatto era causa di difficoltà; i due fratelli non avrebbero certamente preso il largo, prima che il Consiglio marittimo avesse giudicato i ribelli del James Cook; perché in questo caso la loro partenza avrebbe compromesso definitivamente le mene di Vin Mod. Del resto, non era forse necessaria la presenza di Karl Kip al dibattimento del processo? Che si potesse fare a meno di suo fratello era evidente, dal momento che il signor Hawkins, Nat Gibson e i marinai del brick sarebbero stati chiamati a deporre. Ma la deposizione del capitano era la più importante; non gli sarebbe stato possibile esimersi dal presentarsi dinanzi al Consiglio, quale testimonio principale! Vin Mod non intendeva più perder di vista i due fratelli durante il loro soggiorno a Hobart Town. Dopo aver accertato che essi alloggiavano all'albergo del «Great-Old-Man», in Fleet Street, egli si rese irriconoscibile per mezzo d'una barba posticcia e andò a fissarvi una camera per sé. Pagò in anticipo per una quindicina di giorni, e si fece registrare sotto il falso nome di Ned Pat. Diede invece il vero nome, Vin Mod, all'albergo dei «Fresh-Fishes», nel quale avevano preso alloggio Sexton, Kyle e Bryce, in un altro quartiere del porto. Egli ne usciva di buon mattino e vi rientrava tardi, senza prendervi i pasti. Tutto ciò era fatto perché Karl e Pieter Kip non venissero a

sapere quello che egli faceva. E in effetti agì in modo tale che essi non lo incontrarono mai; del resto, i due fratelli non lo avrebbero certamente riconosciuto. Vin Mod aveva avuto cura di scegliere una camera vicino a quella da loro occupata al «Great-Old-Man», le cui finestre si aprivano sopra un balcone comune, dal quale gli sarebbe stato facile penetrare nella loro camera. Poteva anche ascoltare la conversazione dei due fratelli quando, a sera, egli scivolava sul balcone. I due fratelli, ignorando d'essere spiati e parlando solitamente di faccende personali nient'affatto compromettenti, non avevano motivo per discorrere a bassa voce. Spesso, a causa del caldo eccessivo, tenevano la finestra socchiusa dietro le persiane del balcone. Ecco che cosa poté ascoltare, la sera del 13, avendo cura di non farsi vedere. L'oscurità era profonda e la camera era rischiarata soltanto dalla poca luce di un lume a petrolio. Vin Mod aveva la possibilità non solo di ascoltare, ma anche di vedere. La camera conteneva un modesto mobilio: due letti in ferro, accostati l'uno all'altro, un armadio grossolano, una tavola, una toletta a tre piedi, tre sedie di legno. Il focolare del camino era pieno di vecchie ceneri. Sopra uno sgabello era deposta la valigia raccolta sul relitto della Wilhelmina. Essa conteneva tutto ciò che apparteneva ai due fratelli: quello che rimaneva loro dopo il naufragio e quello che si erano procurati a Hobart Town: biancheria e altri oggetti acquistati con il denaro versato loro dalla ditta Hawkins. Alcuni abiti, acquistati con quel denaro, erano appesi a un attaccapanni, a destra dell'ingresso, la cui porta dava in un corridoio comune ad altre camere tra cui quella occupata da Vin Mod. Seduto dinanzi alla tavola, Pieter Kip consultava alcune carte riguardanti l'ufficio di Amboine, quando entrò suo fratello annunciando lietamente: — È andata bene, Pieter: ci sono riuscito! Il nostro ritorno è assicurato. Pieter comprese che quelle parole si riferivano a certi passi fatti da alcuni giorni dal fratello nell'intento d'ottenere il posto di secondo ufficiale sopra una nave olandese, che avrebbe lasciato prossimamente Hobart Town per un porto europeo.

— La ditta Arnemniden ti accetta dunque come secondo dello Skydnam? — disse Pieter stringendogli affettuosamente la mano. — Sì, Pieter, grazie alle vive raccomandazioni del signor Hawkins. — Dobbiamo già tanto a quel brav'uomo! — Mi ha dato una buona spinta, sai… — disse Karl Kip. — Possiamo contare su di lui in ogni circostanza, caro Karl! Se deve esserti grato per quello che hai fatto a bordo del James Cook, che cosa non gli dobbiamo per quello che finora ha fatto per noi? Pensa al modo in cui siamo stati accolti nella sua famiglia e in quella della signora Gibson nonostante la disgrazia che l'ha colpita… — Povero capitano! — esclamò Karl Kip. — Perché doveva toccare a me prendere il suo posto? Il signor Hawkins non sa darsi pace per la morte del suo disgraziato amico. Oh, se si potessero scoprire quei miserabili assassini e punirli! — Saranno puniti, ne sono certo! — rispose Pieter Kip. Vin Mod si limitò a stringersi nelle spalle: quella affermazione gli pareva senza dubbio azzardata. — Certamente saranno castigati e più presto di quanto tu non creda! — mormorò. Pieter Kip poi disse: — Sei stato già presentato al capitano dello Skydnam? — Sì, Pieter, e non posso dirne che bene. È olandese, di Amsterdam. Mi è parso un uomo con cui mi intenderò benissimo. Era al corrente di ciò che era accaduto a bordo del James Cook e sa che ho esercitato le funzioni di capitano, quando Flig Balt ha perduto il comando. — Questo non basta Karl; bisogna che l'ex nostromo sia punito severamente! Dopo che per imperizia faceva quasi perdere la nave, ha voluto consegnarla ai ribelli, mettendosi a capo dei rivoltosi. — Stai tranquillo, Pieter, il Consiglio non lo risparmierà. — Mi chiedo, Karl, se non hai fatto male a far arrestare soltanto Flig Balt e Len Cannon. I compagni di quest'ultimo, reclutati a Dunedin, non valgono più di lui. Il capitano Gibson non aveva nessuna fiducia in essi, lo sai… — È vero, Pieter.

— E aggiungo, Karl, che per conto mio ho sempre diffidato di quel Vin Mod; mi sembra un gran furbo. Il suo comportamento mi è sempre parso più che sospetto, in molte circostanze. Ha evitato di compromettersi, ma doveva essere d'accordo con Flig Balt. Se la ribellione non fosse stata repressa, sono certo che sarebbe diventato il secondo del nuovo capitano. — Possibilissimo — rispose Karl Kip. — Ma non è detto tutto, in questa faccenda, ed è probabile che il dibattimento ci riserbi delle sorprese. I marinai del James Cook saranno chiamati a deporre e noi non sappiamo che cosa ci rivelerà la loro testimonianza. Vin Mod sarà interrogato e gli saranno fatte molte domande. Se era d'accordo con il nostromo, forse quest'ultimo si lascerà sfuggire di bocca la verità. E poi, Hobbes, Wickley e Burnes, che sono dei galantuomini, parleranno e se faranno carico a Vin Mod… «È quel che vedremo!» mormorò Vin Mod, che non si lasciava sfuggire nulla di quella conversazione. «Forse la cosa andrà in tutt'altro modo di come voi sperate, olandesi del diavolo!» In quel momento, Karl Kip si accostò alla finestra e Vin Mod dovette ritirarsi in fretta, per non essere sorpreso. Alcuni istanti dopo, però, aveva ripreso il suo posto. Quella conversazione lo interessava vivamente e desiderava ascoltarla sino alla fine. I due fratelli si erano seduti dinanzi alla tavola, l'uno di fronte all'altro. Mentre Pieter Kip raccoglieva i documenti, esaminandoli, il fratello diceva: — Dunque, Pieter, sono arruolato come secondo sullo Skydnam; non è una buona occasione? Ce n'è un'altra, però, non meno buona… — Tornerà forse la buona sorte dopo tutte le disgrazie che ci sono piovute addosso? Avremmo forse finito con tutte queste traversie? — È probabile; ma ecco, ora, ciò che dovremmo aspettarci nell'avvenire. So che il capitano Fork che comanda lo Skydnam è al suo ultimo viaggio. È anziano e si è già fatto una buona posizione: dovrebbe ritirarsi al suo rientro in Olanda. Ora, se durante la traversata sarò riuscito a soddisfare le esigenze della ditta Arnemniden, non è impossibile che mi chiamino per sostituire il signor Fork nelle sue funzioni di capitano quando lo Skydnam riprenderà il mare. In tal caso sarebbero soddisfatte tutte le mie

ambizioni. — E ciò che sarebbe per te una buona cosa lo sarebbe anche per i nostri affari — rispose Pieter. — Lo credo anch'io — disse Karl Kip. — Non ho peraltro ancora perduto tutte le speranze: le cose potrebbero andare ancor meglio di quanto osiamo sperare. Abbiamo buoni amici a Groningen e nostro padre vi ha lasciato fama di uomo onesto. — Per di più ci siamo creati qui qualche buona relazione — aggiunse Pieter. — L'aiuto del signor Hawkins non ci verrà meno. Potrebbe darsi che, con il suo appoggio, si possano stabilire rapporti commerciali con Hobart Town, con "Wellington per mezzo del signor Hamburg e con l'arcipelago delle Bismarck per mezzo del signor Zieger. — Eccoti in volo verso l'avvenire! — Hai ragione Karl. Spero di non dover ricadere bruscamente nel presente. Non credo di farmi illusioni. C'è una serie di buone prospettive di cui dobbiamo cercare di profittare. La migliore, intanto, è che tu sia secondo sullo Skydnam. Quando sarò di ritorno in Olanda lavorerò con coraggio. Ritroveremo il credito e la ditta Kip di Groningen ritornerà fiorente come non lo è mai stata in passato. — Dio ti ascolti Pieter! — Mi ascolterà perché ho sempre riposto in Lui ogni speranza! Poi dopo un attimo di silenzio aggiunse: — Una domanda, Karl. La partenza dello Skydnam è vicina? — Ho ragione di credere che sarà per il 25 di questo mese. — Tra una dozzina di giorni dunque? — Sì, Pieter; da quanto ho potuto vedere avrà finito di caricare verso quella data. — Quanto durerà la traversata? — Se saremo favoriti dal tempo lo Skydnam non impiegherà più di sei settimane per compiere il tragitto da Hobart Town ad Amburgo. Sei settimane sarebbero dovute bastare a uno steamer di buona andatura che avesse seguito la via dell'ovest, attraverso l'oceano Indiano, il Mar Rosso, il canale di Suez, il Mediterraneo e l'Atlantico. Non avrebbe dovuto avvistare il capo di Buona Speranza,

né doppiare capo Horn dopo aver attraversato l'oceano Pacifico. Pieter Kip chiese allora al fratello se dovesse esercitare subito le sue funzioni di secondo a bordo dello Skydnam. — A partire da domani mattina — rispose Karl Kip. — Ho appuntamento con il capitano Fork, il quale mi presenterà all'equipaggio. — È tua intenzione, forse, di trasferirti subito a bordo? Quella domanda era particolarmente interessante per Vin Mod considerati i suoi piani. Si sarebbe forse trovato nell'impossibilità di metterli in atto se i due fratelli avessero lasciato l'albergo del «GreatOld-Man». — No, le riparazioni dureranno ancora una decina di giorni. Non mi trasferirò a bordo prima del 23. Quel giorno, anche tu, Pieter, potrai venire a prender possesso della tua cabina: è una delle migliori ed è accanto alla mia. — Ti confesso che ne sono felice. Non mi par vero di lasciare questo albergo. E aggiunse ridendo: — Non è degno dell'ufficiale che comanda in seconda lo Skydnam. — E ancor meno — rispose Karl Kip, sullo stesso tono — del capo della ditta Fratelli Kip di Groningen! Erano felici quei due bravi giovani! La fiducia tornava nei loro cuori; e infatti, non era già una fortuna che Karl Kip avesse trovato imbarco a condizioni così vantaggiose? Quella notte, per la prima volta dopo tanto tempo, il loro sonno non sarebbe stato turbato dalle inquietudini destate dall'avvenire. Rintoccarono le dieci ed essi si alzarono per prepararsi ad andare a letto. Essendo finita la conversazione, Vin Mod stava per raggiungere la sua camera attraverso il balcone, quando un'ultima domanda di Pieter Kip lo riportò accanto alla finestra. — Tu dici, Karl, che la partenza dello Skydnam avverrà intorno al 25 del mese? — Tutto sarà pronto per quella data, giorno più giorno meno. — Ma Flig Balt non dev'essere giudicato alcuni giorni prima?

— Lui e Len Cannon saranno condotti dinanzi al Consiglio marittimo il giorno 21. Noi vi compariremo come testimoni, con il signor Hawkins, Nat Gibson, e gli uomini dell'equipaggio. — Benissimo — rispose Pieter Kip. — Ogni cosa va nel migliore dei modi perché, in fin dei conti, la tua presenza al processo è indispensabile. — Certamente. Credo che la mia testimonianza consentirà al Consiglio d'essere senza pietà verso quel nostromo che ha osato indurre i marinai all'ammutinamento! — In casi del genere le leggi inglesi non perdonano affatto. Si tratta di garantire la sicurezza della navigazione mercantile e sarei molto sorpreso se Flig Balt se la cavasse con meno di una decina di anni di bagno nel penitenziario di Port Arthur. Vin Mod digrignò i denti per la collera; poi, mormorò: «Non sono dieci anni di bagno, signori Kip, quelli che vi attendono… Prima d'essere mandato a Port Arthur, se ci dovrà andare, Flig Balt vi avrà visto penzolare tutti e due dalla forca più alta di Hobart Town!» Pieter Kip chiese ancora al fratello: — Il signor Hawkins sa già che sei stato nominato secondo dello Skydnam? — Volevo dirglielo — rispose Karl Kip. — Era tardi e non era più in ufficio. — Andremo da lui domani, Karl. — Di buon mattino. — E ora buona notte. — Buonanotte. Alcuni istanti dopo la camera era immersa nel buio e Vin Mod non dovette far altro che allontanarsi. Non appena rientrato, prima di lasciare, secondo la sua abitudine, l'albergo del «Great-Old-Man» per raggiungere quello dei «FreshFishes», chiuse con cura l'armadio che conteneva le sue carte e diversi altri oggetti tra i quali il kriss da lui trovato a bordo del relitto della Wilhelmina. Poi usci e si diresse verso il porto. Cammin facendo, diceva a se stesso: — Contano di trasferirsi a bordo dello Skydnam non prima del giorno 22… Bene! Flig Balt sarà dinanzi al Consiglio il 21… Bene!

Non facciamo confusione con le date! La sera del 20 la faccenda dovrà essere sistemata… Ma bisogna avvertire in tempo Flig Balt… Come fare?

CAPITOLO III ULTIMA MANOVRA IL GIORNO dopo, il signor Hawkins trasse grande soddisfazione dalla visita che gli fecero Karl e Pieter Kip. Era felice che il suo intervento presso la ditta Arnemniden avesse dato buoni risultati. La cosa non meritava tanti ringraziamenti. Per quel poco che contava, per la stima e la fiducia che la gente gli dimostrava egli era a disposizione dei due fratelli. Non era forse loro debitore? Poi, il brav'uomo espresse le sue felicitazioni a Karl Kip per esser stato nominato secondo dello Skydnam: se ne rallegrò con tanto entusiasmo come se egli non avesse avuto nessuna parte in quella nomina. Nat Gibson, che in quel momento si trovava in casa del signor Hawkins, non mancò di aggiungere le proprie felicitazioni a quelle dell'armatore. Egli era già socio della ditta, ma il lavoro assiduo e il pensiero degli affari non riuscivano ad allontanare da lui i tristi ricordi del recente passato. L'immagine del padre era sempre dinanzi ai suoi occhi e quando tornava a casa non faceva che unire le sue lacrime a quelle della madre. A quel dolore si aggiungeva inoltre l'invincibile orrore per gli ignoti assassini, che non sarebbero forse mai stati presi e puniti. Quello stesso giorno Karl Kip, accompagnato dal fratello, andò ad assumere le funzioni di secondo a bordo dello Skydnam, dove il capitano Fork fece loro la migliore accoglienza. Lo Skydnam, steamer di milleduecento tonnellate e di seicento cavalli, faceva regolari viaggi tra Amburgo e diversi porti del litorale australiano. Portava carbone e riportava grano. Il suo carico giaceva da alcuni giorni sulla banchina. Si lavorava ad effettuare alcune riparazioni e a ripulire stiva e casseretto, a pulire caldaie e macchine, oltre che porre rimedio alle avarie sopraggiunte all'alberatura.

— Alla fine della settimana — disse il capitano Fork — tutto sarà certamente terminato e non avremo che da imbarcare il carico. Sarà un po' affar vostro, signor Kip. — Non perderò né un giorno né un'ora, capitano — rispose il nuovo secondo. — Mi rincresce solo di non poter occupare subito la mia cabina. — Come vedete, siamo nelle mani di operai, falegnami e decoratori — rispose il signor Fork. — Non ci vorrà meno di una decina di giorni prima che abbiano terminato il loro lavoro. Né la vostra cabina né la mia sono in condizioni di accoglierci. — Non importa, capitano — disse Karl Kip. — Sarò a bordo all'alba e vi rimarrò sino a sera. Non dipenderà certo da me se lo Skydnam non sarà pronto per il giorno 24 o per il 25. — D'accordo, signor Kip — rispose il capitano Fork. — Lascio la nave nelle vostre mani e se avrete bisogno di me mi troverete quasi certamente negli uffici della ditta Arnemniden. Da questa intesa derivò il fatto che Karl Kip dovette passare le sue giornate a bordo dello steamer. Da parte sua, Pieter Kip avrebbe cercato di allacciare rapporti sulla piazza di Hobart Town. Si proponeva di visitare i più importanti commercianti utilizzando le referenze del signor Hawkins. Avrebbe seminato sicuro di ricavare un buon raccolto nell'avvenire. Nel frattempo il processo ai ribelli del James Cook seguiva il suo corso. La sua istruzione, affidata al relatore del Consiglio, si svolgeva secondo i regolamenti particolari del codice marittimo. Chiuso con Len Cannon nella prigione del porto, Flig Balt non era rimasto isolato. Comunicava liberamente con gli altri detenuti. Del resto, quella prigione ospitava soltanto marinai arrestati per insubordinazione o per delitti comuni. Vi venivano rinchiusi, inoltre, per la notte, i marinai ubriachi, i rissosi raccolti nelle vie o nelle taverne del quartiere, non meno chiassoso e non meno irrequieto di quello di Dunedin dove Vin Mod aveva reclutato Len Cannon e i suoi compagni. Questi ultimi del resto, e cioè Sexton, Kyle e Bryce, per quanto lo desiderassero, non avevano ancora lasciato Hobart Town. Non volevano partire lasciando Len Cannon nelle mani della giustizia con

quella grave imputazione a carico. Se citati quali testimoni nel processo del James Cook, Vin Mod intendeva dettar loro, all'ultimo momento, una valida testimonianza. Egli li vedeva ogni giorno perché alloggiavano anche loro ai «Fresh-Fishes», un buco orribile nel quale Vin Mod aveva preso alloggio sotto il suo vero nome. Quando i tre marinai avessero finito di mangiarsi e soprattutto di bersi la paga ricevuta all'arrivo del brick, egli sarebbe intervenuto per trarli d'imbarazzo, garantendo già per essi nei confronti del padrone della locanda. Sexton, Kyle e Bryce non si preoccupavano, quindi, di ottenere un imbarco. — Aspettate, aspettate! — ripeteva loro Vin Mod. — Non c'è premura, diavolo! L'amico Balt vi chiamerà a testimoniare e noi chiuderemo il becco a quelli che vorranno accusare lui e il vostro compagno Len Cannon! Non era forse nostro diritto rimandare quel dannato olandese alla sua cabina di passeggero? di ridare il comando del brick al bravo inglese che ne era il capitano? Non vi pare? Questo Flig Balt voleva fare e ora vorrebbero condannarlo! Questo voleva fare Len Cannon e volevamo fare tutti noi! Credetemi, amici miei, il nostromo sarà assolto e Len Cannon uscirà di prigione insieme con lui. — Ma non c'è pericolo che arrestino anche noi? — disse Bryce. — Che ci mandino ad alloggiare insieme con Len Cannon? — No! — disse Vin Mod. — Voi siete testimoni, soltanto testimoni e nient'altro. Quando Len Cannon prenderà imbarco per tornare in Nuova Zelanda o altrove, voi partirete con lui. Vi troverò io la nave, una buona nave… insieme con l'amico Balt. E ci troveremo meglio, forse, che a bordo del James Cook! È così che Vin Mod tratteneva a Hobart Town i compagni di Len Cannon. Forse pensava che essi avessero una parte da recitare nel processo dal quale egli voleva ottenere l'assoluzione del nostromo. Mentre tesseva queste trame sotterranee, che ove fossero riuscite avrebbero rovinato i fratelli Kip, questi ultimi, ignari di tutto, si dedicavano alle loro faccende. Il carico dello Skydnam procedeva con metodo sotto la direzione del secondo; le riparazioni seguivano il loro corso, con l'aiuto degli operai del porto, in maniera che la partenza avvenisse alla data

stabilita. La ditta Arnemniden non poteva non apprezzare lo zelo e la perspicacia dell'ufficiale che aveva scelto. Il capitano Fork non lesinava gli elogi dopo aver compreso che Karl Kip possedeva una completa conoscenza delle complicate minuzie di bordo di competenza del secondo. E a questo riguardo anche il signor Hawkins riceveva abbondanti felicitazioni e ringraziamenti. — Sempre che il vostro protetto sappia ben eseguire le manovre — gli disse un giorno il capitano Fork — io dico che è un marinaio completo! — Non dubitatene capitano — rispose l'armatore. — Non lo abbiamo forse visto a bordo del brick? Non ha forse fatto il suo tirocinio quando ha assunto di sua iniziativa, per istinto, il comando della nostra nave? Ho forse avuto motivo di pentirmi un solo momento, d'averlo nominato al posto del miserabile Flig Balt che ci stava portando al disastro? Avete ragione, Karl Kip è un vero uomo di mare! — Lo vedremo all'opera, signor Hawkins — rispose il capitano Fork. — Se, come non dubito, Karl Kip giustificherà durante questa traversata la buona opinione che abbiamo di lui, la ditta Arnemniden ne terrà conto e il suo avvenire sarà assicurato. — La giustificherà! — dichiarò il signor Hawkins, con tono convinto. Come si vede, l'armatore era, non senza motivo, tutto dalla parte dei due fratelli. Ciò che pensava del maggiore, lo pensava anche del minore, avendo già ravvisato in Pieter Kip una notevole conoscenza degli affari di commercio. Egli era sicuro, perciò, che il giovane avrebbe dato un ottimo sviluppo alla ditta di Groningen, grazie ai rapporti che si sarebbero creati con la Tasmania e la Nuova Zelanda. Si comprende quanta gratitudine nutrissero i due fratelli nei confronti del signor Hawkins che rendeva loro tali servigi. Essi lo vedevano molto spesso e a volte, a fine giornata, si sedevano alla sua tavola. La signora Hawkins condivideva i sentimenti di simpatia del marito per quei giovani intelligenti e sensibili. Amava chiacchierare con loro e parlare dei loro progetti per l'avvenire. Ogni tanto Nat Gibson andava a trascorrere la sera in quella casa ospitale. Egli si

interessava ai passi che Pieter Kip faceva. Tra pochi giorni lo Skydnam avrebbe preso il mare, ma l'anno non sarebbe finito senza che la nave fosse tornata a Hobart Town, e allora sarebbe stata una gioia rivedersi! — Sarà il capitano Kip comandante dello Skydnam, — diceva il signor Hawkins — quello che allora accoglieremo con gioia! Il bravo Fork all'arrivo in Europa ha diritto al riposo. Voi lo sostituirete Karl Kip; nelle vostre mani lo Skydnam sarà ciò che è stato… che era il James Cook! Quel nome, purtroppo, richiamava sempre alla memoria ricordi tristissimi. Il signor Hawkins, Nat Gibson e i due fratelli si rivedevano in Nuova Zelanda, a Port Praslin, a Kerawara, nel cuore della foresta dov'era caduto il povero capitano Gibson, nel modesto cimitero dove egli riposava. E quando veniva fatto il suo nome, Nat impallidiva di colpo. Il sangue gli affluiva al cuore, la voce gli tremava di collera ed egli diceva: — Padre mio! non sarai dunque vendicato? Il signor Hawkins cercava di calmare il giovane: bisognava attendere le notizie che sarebbero giunte dall'arcipelago delle Bismarck con la prima posta… il signor Hamburg e il signor Zieger avevano forse già individuato i colpevoli… le comunicazioni tra la Tasmania e la Nuova Irlanda non sono frequenti e ci sarebbero certamente voluti dei mesi prima di conoscere i risultati dell'inchiesta. Si era al 19 di gennaio. Tra quarantott'ore il processo dei ribelli si sarebbe svolto dinanzi al Consiglio e, salvo imprevisti, il dibattimento sarebbe terminato il giorno stesso. Tre giorni dopo, lo Skydnam avrebbe ripreso il mare e i fratelli Kip avrebbero lasciato Hobart Town per raggiungere Amburgo. Il giorno dopo, nel pomeriggio, Vin Mod s'aggirava vicino alla prigione del porto. Era un po' agitato, benché fosse di solito sempre padrone di se stesso. Camminava con passo svelto, evitando ogni sguardo, lasciandosi sfuggire, accompagnandole con gesti inquieti, frasi smozzicate, che sarebbe stato interessante ascoltare. Che cosa sperava d'ottenere facendo la spola dinanzi alla porta

della prigione? Voleva entrarvi per incontrare Flig Balt? Non poteva pensare a una cosa del genere; gli sarebbe stato certamente impossibile oltrepassare la porta d'ingresso. Bisognava dunque supporre che sperasse di vedere il nostromo dietro qualche alta finestra dell'edificio, l'ultimo piano del quale sovrastava il muro di cinta? Non era probabile, a meno che Flig Balt, sapendo da parte sua che il processo avrebbe avuto inizio il giorno successivo, non avesse pensato che Vin Mod avrebbe in qualche modo tentato di parlargli. E ciò non era forse stato stabilito in anticipo in seguito a un piano concordato tra di loro? Ma stando l'uno dentro e l'altro fuori, avrebbero potuto entrambi comunicare solo con qualche gesto o con un cenno del capo; in tal caso sarebbero riusciti a comprendersi? Comunque sia Vin Mod non vide Flig Balt e Flig Balt non vide Vin Mod. Quest'ultimo, arrivata la sera, gettato un ultimo sguardo sulla buia prigione, se ne tornò lentamente all'albergo. Immerso nelle sue riflessioni, egli diceva a se stesso: — Non c'è altro mezzo per informarlo e se fallisse… Ma, dopo tutto, io sarò chiamato a testimoniare… parlerò… quello che Flig Balt forse non dirà, ebbene, lo dirò io! La vedranno, i fratelli Kip! Non fu ai «Fresh-Fishes» che Vin Mod si recò quella sera, ma all'albergo del «Great-Old-Man». Erano le sette. Da mezzogiorno cadeva una pioggerella sottile e penetrante. Il quartiere era immerso in un'oscurità profonda rotta a stento dalla luce del gas. Senza esser visto Vin Mod seguì il cammino che conduceva alla sua camera, sali le scale, scivolò sul balcone e guardò dalla finestra le cui persiane non erano state ancora chiuse. Dopo esser rimasto un po' in ascolto, non avendo udito alcun rumore, ebbe certezza che la camera in quel momento era vuota. Proprio quella sera, Karl e Pieter Kip cenavano dai signori Hawkins e non sarebbero tornati in albergo prima delle dieci o delle undici. Favorito dalle circostanze, a Vin Mod non sarebbe quindi mancato il tempo d'agire senza il rischio d'essere sorpreso. Egli tornò allora in camera, aprì l'armadio e ne trasse fuori diverse

carte; poi unì ad esse un certo numero di piastre equivalenti a tre o quattro sterline malesi, e il kriss con il quale Flig Balt aveva colpito il capitano Gibson. ' Alcuni istanti dopo Vin Mod entrava nell'alloggio dei due fratelli, senza neppure avere avuto necessità di rompere il vetro della finestra, rimasta socchiusa. Conosceva bene la disposizione della camera per avervi più volte guardato dentro quando veniva ad ascoltare, non visto, la conversazione di Karl e di Pieter Kip. Non ebbe neppure bisogno di farsi luce: ciò avrebbe potuto peraltro tradire la sua presenza. Sapeva com'erano disposti i mobili e dov'erano lo sgabello e la valigia trovata sul relitto della Wilhelmina. Vin Mod non fece altro che allentare le cinghie della valigia e dopo averne sollevato la biancheria che conteneva vi cacciò dentro carte, piastre e pugnale. Poi, la richiuse. — È fatto! — mormorò. Usci dalla finestra di cui richiuse il battente alle spalle, scivolò lungo il balcone e rientrò in camera. Poco dopo, Vin Mod scendeva le scale, usciva dall'albergo e si dirigeva verso la locanda dei «Fresh-Fishes», dove lo aspettavano Sexton, Kyle e Bryce. Suonavano le sette e mezzo quando entrò nella sala e raggiunse i compagni che stavano bevendo. Sexton e Bryce avevano già vuotato un certo numero di bicchieri di whisky e di gin. Ubriachi, non di un'ubriachezza rumorosa e battagliera, ma di un'ubriachezza ebete e triste, non sarebbero più stati capaci di capire ciò che Vin Mod avrebbe loro detto, se egli avesse avuto bisogno della loro opera. Soltanto Kyle, senza dubbio per precedente intesa e con il quale egli parlava di solito volentieri, aveva appena assaggiato il contenuto delle bottiglie. Perciò, quando Vin Mod apparve nella sala egli si alzò per andargli incontro. Vin Mod gli fece cenno di non muoversi e andò a sedersi accanto a lui. V'era una ventina di bevitori, quasi tutti marinai scesi a terra senza

permesso; erano seduti a tavola, sotto i lumi, in un'atmosfera soffocante. A ogni istante, clienti avvinazzati entravano e uscivano dalla sala, dove regnava un tale chiasso da rendere possibile parlarsi all'orecchio senza correre il rischio d'essere uditi dai vicini. La tavola di Kyle si trovava, per di più, nell'angolo più buio della sala. Ecco che cosa Vin Mod disse a bassa voce al compagno: — Siete qui da un'ora? — Ti si aspettava, come d'accordo. — Gli altri non hanno potuto resistere alla voglia di bere? — No; pensa un po'… un'ora di attesa! — E tu? — Ho soltanto riempito il bicchiere, ed è ancora pieno, come vedi… — Non te ne pentirai, Kyle, perché ho bisogno che tu abbia la mente lucida. — Ce l'ho, Mod. — Bene. Se non hai bevuto, ora comincerai a bere. — Alla tua salute! — rispose Kyle, portando alle labbra il bicchiere. Vin Mod gli trattenne il braccio e gli fece posare il bicchiere sulla tavola senza neppure permettergli di bagnarvi le labbra. — Non vuoi che beva? — chiese Kyle. — No. Voglio che tu finga di bere e che tu abbia l'aria di aver bevuto troppo. — E perché, Mod? — Perché, fingendo di essere ubriaco, ti alzerai e andando in giro per la sala cercherai d'attaccar briga con questo e con quello, minacciando di rompere tutto, finché l'oste non chiamerà la polizia e questa non ti cacci in prigione. — In prigione? Kyle non capiva che cosa volesse da lui Vin Mod. Gli piaceva già poco fingere di bere, ma farsi cacciare in prigione gli garbava ancora meno. — Sta' a sentire — gli disse Vin Mod. — Ho bisogno di te per una faccenda che ti renderà parecchio, se riuscirai a recitare bene la tua

parte. — Non c'è nulla da rischiare? — Qualche spintone, forse, ma ci guadagnerai cinque o sei sterline. — Cinque o sei sterline! — ripeté Kyle, entusiasmato dalla proposta. Poi, mostrando i suoi compagni chiese: — E gli altri? — Per gli altri nulla — rispose Vin Mod. — Non li vedi? Non sono più in condizione né di capire né di muoversi! Nessuno di loro, infatti, aveva riconosciuto Vin Mod quand'era venuto a sedersi. Non capivano e non vedevano. La mano sollevava macchinalmente il bicchiere e ricadeva sulla tavola. Sexton farfugliava parole incoerenti; a volte cantava ritornelli d'una canzone marinara accompagnandosi con pugni lanciati in aria. Con il capo chino, spalle curve e occhi socchiusi, Bryce non avrebbe tardato ad addormentarsi come un ghiro. Il chiasso intorno cresceva; si gridava, ci si chiamava da una tavola all'altra e, a volte, ci si provocava per delle sciocchezze. L'oste, abituato a quel genere di clientela, andava e veniva versando all'uno o all'altro le sue schifose bevande. Kyle si accostò un po' di più al suo interlocutore e gli chiese: — Ebbene, che cosa bisogna fare? — Debbo far dire due parole all'amico Flig Balt — rispose Vin Mod. — E poiché Flig Balt è in prigione, bisogna andare a raggiungerlo. — Questa sera? — Questa sera. Domani si riunisce il Consiglio e sarebbe troppo tardi. Non c'è tempo da perdere, perciò. Sono sicuro che ora farai l'ubriaco… — Senza aver bevuto… — Senza aver bevuto, Kyle. Non sarà difficile. Ti alzerai, griderai, urlerai… Litigherai con gli altri bevitori e, se del caso, picchierai. — E se nella confusione riceverò qualche brutto colpo? — Raddoppierò la somma — rispose Vin Mod. Quella risposta parve eliminare le esitazioni di Kyle, il quale non

amava affatto gli spintoni. Egli fece però un'osservazione: — Se è necessario comunicare con Flig Balt, perché debbo andare io a raggiungerlo e non tu? — Non facciamo tante parole, Kyle! — rispose Vin Mod, cominciando a perdere la pazienza. — Ho bisogno di essere libero, d'essere presente quando si farà il processo. Se si entra in carcere, ci si sta almeno ventiquattr'ore; io, invece, debbo essere presente, quando Flig Balt sarà giudicato. Come ultimo argomento, Vin Mod trasse fuori dalla tasca del camiciotto una sterlina e la fece scivolare nelle mani del marinaio. — È un acconto — disse. — Il resto verrà quando sarai rilasciato. — Dove ti troverò quando sarò libero? — Qui, ogni sera. — D'accordo — rispose Kyle. — E ora, un bicchiere di gin, tanto per cominciare. Mi servirà per fare meglio l'ubriaco! Sollevò il bicchiere e lo vuotò di un fiato. — È l'ora — disse Vin Mod. — Ascoltami attentamente. Ciò che debbo dire a Flig Balt avrei potuto scriverlo: un pezzetto di carta da consegnargli da parte mia. Ma se ti trovano quel pezzetto di carta in tasca tutto è perduto. Del resto basteranno poche parole. Te le ricorderai. Non appena la polizia t'avrà cacciato in prigione, cerca di incontrare Flig Balt. Se non ci riesci stasera sarà per domani mattina, prima che vengano a cercarlo per condurlo davanti al Consiglio. — D'accordo, Mod. Che cosa gli dovrò dire da parte tua? — Gli dirai che l'affare è fatto e che può lanciare l'accusa senza timore. — A chi? — Egli lo sa. — Bene; nient'altro? — Nient'altro. — Benissimo — rispose Kyle. — Eccomi ora ubriaco come il suddito più ubriaco della Regina. Kyle si alzò barcollando e fece qualche passo reggendosi ai tavoli per non cadere. Cominciò a lanciare minacce ai bevitori, i quali lo respinsero con vigorosi spintoni, insultò il taverniere che non gli voleva dar da bere, e con una testata in pieno petto lo fece rotolare

fin sulla via, attraverso la porta semiaperta. Fuori di sé — e gettato fuori della propria casa — l'oste chiamò aiuto. Accorsero due o tre agenti di polizia, i quali immobilizzarono Kyle che, del resto, sembrò opporre debole resistenza per non farsi picchiare. Alla fine, arrestato, fu condotto via tra la curiosità e le grida dei passanti, e rinchiuso nella prigione del porto. Vin Mod, che lo aveva seguito, dopo aver visto con i suoi occhi che la porta della prigione si era chiusa alle spalle di Kyle, se ne tornò ai «Fresh-Fishes».

CAPITOLO IV DINANZI AL TRIBUNALE MARITTIMO I FATTI penosi accaduti a bordo del James Cook durante il suo ultimo viaggio, avevano avuto larga eco a Hobart Town e di ciò non dobbiamo meravigliarci. Da una parte l'assassinio del capitano Harry Gibson commesso in circostanze misteriose, dall'altra il tentativo di ribellione fatto da Flig Balt e soffocato da Karl Kip: ce n'era abbastanza per suscitare la commozione di tutti. Dell'assassinio non si sapeva niente di più di quanto s'era appreso il giorno in cui il brick era entrato in porto con la bandiera a mezz'asta. Riguardo alla ribellione, le autorità marittime si sarebbero ora pronunciate sulla colpevolezza di Flig Balt e dei suoi complici. Secondo il parere di tutti il nostromo sarebbe stato severamente condannato: il suo grado costituiva un'aggravante. Non se la sarebbe cavata, perciò, con meno di dieci o quindici anni di bagno penale. I testimoni principali – il signor Hawkins, Nat Gibson, Karl e Pieter Kip, i marinai Hobbes, Wickley, Burnes e il mozzo Jim — erano già stati ascoltati nel corso dell'inchiesta. Quelli citati dall'accusato – Vin Mod, Sexton, Kyle, Bryce e il cuoco Koa – sarebbero stati chiamati come testimoni a discarico. Salvo imprevisti, la faccenda, condotta sollecitamente, si sarebbe conclusa in una sola udienza. Quel giorno nella sala del tribunale marittimo affluì moltissima gente. Fin dalle nove del mattino la folla invase lo spazio a disposizione del pubblico, commercianti, armatori, ufficiali della marina mercantile e giornalisti. In fondo, la sala era affollata di marinai venuti dalle taverne vicine, favorevoli probabilmente agli accusati. All'inizio dell'udienza il signor Hawkins e Nat Gibson presero

posto sulle panche riservate ai testimoni. I fratelli Kip entrarono nella sala pochi istanti dopo e scambiarono con loro cordiali strette di mano. Quel giorno la presenza di Karl Kip a bordo dello Skydnatn non era indispensabile. Il carico delle merci aveva avuto termine il giorno precedente; riguardo alle riparazioni, rimanevano ancora da fare alcuni collegamenti. La carbonaia era colma di carbone; la macchina in ottime condizioni: l'equipaggio aveva già ripreso servizio. Fra tre giorni, all'alba, lo steamer sarebbe stato pronto a salpare. Fin da quella stessa sera, Karl e Pieter Kip si proponevano quindi di occupare le loro cabine, abbandonando la camera dell'albergo del «Great-Old-Man». I marinai Hobbes, Wickley e Burnes avevano preso posto dietro di loro insieme con il mozzo Jim, al quale il signor Hawkins e Nat Gibson avevano fatto un amichevole cenno di saluto. Sopra un'altra panca, avevano preso posto Vin Mod, Sexton, Bryce e il cuoco Koa il cui faccione nero faceva smorfie, meravigliato forse di non apparire tra gli accusati. Mancava Kyle, il quale non sarebbe stato rimesso in libertà prima di quarantott'ore, avendo recitato con troppo entusiasmo la parte dell'ubriaco quando lottava contro gli agenti. La sua deposizione, peraltro, non avrebbe avuto importanza. Vin Mod era preoccupato invece per non esser riuscito a sapere se Kyle avesse potuto mettersi in contatto, in prigione, con Flig Balt e se gli aveva detto da parte sua ciò che era stato incaricato di dirgli. Dopo tutto, ogni preoccupazione sarebbe forse venuta meno, non appena il nostromo e lui si fossero visti. Se Flig Balt fosse stato informato, sarebbe bastato un cenno impercettibile, una sola occhiata, per comprendersi; nel momento giusto, allora, Flig Balt da accusato sarebbe diventato accusatore. In attesa che il giuri del tribunale facesse il suo ingresso, il signor Hawkins parlava con i fratelli Kip e riferiva loro di aver ricevuto notizie dalla Nuova Irlanda quel mattino stesso. — Una lettera del signor Zieger? — chiese Pieter Kip. — No. Un dispaccio inviatomi dal signor Balfour, mio corrispondente. Una nave è giunta ieri a Wellington, proveniente da

Kerawara: una nave inglese che ha lasciato l'arcipelago delle Bismarck dieci giorni dopo il James Cook con una lettera del signor Zieger. Il signor Balfour mi ha subito telegrafato il contenuto della lettera e il telegramma mi è giunto stamane. — Che cosa dice il signor Zieger riguardo all'inchiesta? — chiese Karl Kip. — Nulla — rispose Nat Gibson. — Gli assassini non sono stati ancora scoperti. — Purtroppo è vero! — aggiunse il signor Hawkins. — Il signor Zieger e il signor Hamburg hanno fatto di tutto, con scrupolo, ma senza risultato. — Non hanno raccolto neppure un indizio che consenta di indirizzare le ricerche in una certa direzione, con qualche speranza? — chiese Pieter Kip. — No — rispose il signor Hawkins. — Non si può sospettare di nessuno. È ormai certo che il delitto è stato commesso da indigeni, i quali hanno avuto il tempo di rifugiarsi nell'isola di York, dove ormai sarà difficile individuarli. — Non bisogna però che il signor Gibson perda ogni speranza — disse Karl Kip. — Se le carte sottratte possono essere state distrutte, rimane ancora il denaro, che certo non è scomparso. Se gli assassini volessero spenderlo si farebbero certamente arrestare. — Voglio tornare a Kerawara — disse Nat Gibson. — Voglio tornarci! E chissà che non dovesse mettere effettivamente in atto il suo proposito… La conversazione fu interrotta dall'ingresso dei membri del tribunale marittimo che andarono a prendere posto sugli scranni. Erano: un commodoro, un capitano e un luogotenente, assistiti dal giudice istruttore che aveva redatto l'atto d'accusa. Aperta l'udienza, il presidente diede l'ordine di fare entrare gli accusati. Condotti dagli agenti, Flig Balt e Len Cannon andarono a prendere posto l'uno accanto all'altro sulle panche a sinistra della Corte. Il nostromo sembrava sicuro di sé; aspetto sereno, viso impassibile, sguardo indifferente. Pur riuscendo a frenare i sentimenti che lo agitavano tutta la sua fisionomia rivelava però una

profonda astuzia. Il signor Hawkins ebbe come un lampo nella mente. Gli parve di vedere per la prima volta Flig Balt quale egli era veramente. Come avevano potuto essere così ciechi, lui e il capitano Gibson, da riporre ogni fiducia in quell'uomo, da essersi lasciati conquistare dalle maniere rispettose di quel furbo di tre cotte? Ma ciò che stupiva il signor Hawkins non meravigliava affatto i fratelli Kip, ai quali, come sappiamo, il nostromo aveva sempre ispirato profonda antipatia, cosa di cui quest'ultimo si era perfettamente accorto. L'atteggiamento di Len Cannon non deponeva affatto in suo favore. Guardava a destra e a manca, con fare subdolo, ora verso Vin Mod, ora verso Sexton o verso Bryce: forse si chiedeva perché mai essi non fossero seduti accanto a lui, avendo commesso ciò che veniva imputato a lui. «Se Len Cannon» diceva tra sé Vin Mod «sembra meno tranquillo di Flig Balt vuol dire che Flig Balt non gli ha detto nulla di quello che Kyle gli ha fatto sapere per conto mio. Ma, Kyle gli ha riferito la mia comunicazione, oppure no?» Ecco a che cosa pensava Vin Mod, non senza qualche ansietà. Ma Kyle era riuscito a parlare con Flig Balt. S'erano incontrati quel mattino stesso. Il nostromo poteva ora lanciare la sua accusa. Allo sguardo, con cui Vin Mod lo interrogava, egli rispose con un gesto che non lasciava dubbi. «E ora» disse a se stesso «la miccia è accesa… attenzione alla bomba!» Il presidente concesse la parola al relatore. Il rapporto riassunse brevemente i fatti, indicando le circostanze in cui Flig Balt aveva ricevuto il comando del James Cook, e quelle in cui quel comando gli era stato revocato; come, per motivi di manifesta incapacità, Flig Balt era stato sostituito dal marinaio olandese Karl Kip, passeggero della nave, e come, indotto l'equipaggio a ribellarsi contro il nuovo capitano, si fosse messo a capo dei ribelli, con lo scopo certo di impadronirsi della nave. Riguardo a Len Cannon, era impossibile non vedere in lui un complice di Flig Balt. Era stato lui che, valendosi del suo ascendente,

aveva spinto alla ribellione i compagni reclutati a Dunedin. Sin dall'inizio della rivolta, aveva mostrato particolare inclinazione alla violenza, lanciandosi con il coltello in pugno contro Karl Kip e indietreggiando soltanto quando gli era stata puntata la rivoltella sul petto. Erano fuori discussione, quindi, la sua complicità e la sua colpevolezza. Quando pose termine alla lettura, il relatore chiese per gli accusati il massimo della pena. I testimoni allora lasciarono l'aula e si ritrassero in una sala vicina. Il presidente interrogò allora Flig Balt, chiedendogli che cosa avesse da dire riguardo l'accusa fatta contro di lui. — Nulla — rispose il nostromo con semplicità. — Riconoscete esatti i fatti esposti nel rapporto? — Li riconosco esatti. Quelle parole furono dette con voce chiara, tra la sorpresa dell'uditorio. — Avete qualcosa da dire in vostra difesa? — chiese il presidente. — Neppure una parola — rispose Flig Balt; e considerando terminato il suo interrogatorio si rimise a sedere. Vin Mod guardò il compagno con qualche preoccupazione. Forse Flig Balt aveva perso l'occasione di dire la sua?… Aveva forse frainteso, lui, Vin Mod, il cenno che il nostromo gli aveva fatto?… Forse Flig Balt non aveva compreso, oppure non aveva nemmeno ricevuto la comunicazione di Kyle?… Ma dopotutto che importanza aveva? Se Flig Balt non parlava, avrebbe parlato lui, Vin Mod, una volta chiamato a deporre. Interrogato a sua volta, Len Cannon fornì risposte evasive fingendo di non capire le domande del presidente: senza dubbio Flig Balt gli aveva raccomandato di parlare il meno possibile. A Vin Mod venne allora il sospetto che il nostromo volesse lasciar allargare il dibattito e che venissero prima ascoltati i testimoni e Karl Kip. In previsione dell'accusa che egli si preparava a lanciare contro i due fratelli sarebbe stato meglio che questi si fossero spiegati dinanzi al Consiglio. Vin Mod disse tra sé:

«Flig Balt ha ragione: lancerà l'accusa al momento giusto!» Terminato l'interrogatorio del principale accusato e del suo complice, fu fatto entrare il primo testimone. Era Karl Kip. Quando si presentò alla sbarra un lieve bisbiglio corse tra i presenti. Karl Kip fornì le proprie generalità e precisò la sua nazionalità: era olandese, originario di Groningen. Professione: ufficiale della marina mercantile, anche se per alcune settimane aveva esercitato le funzioni di capitano a bordo del James Cook. Al presente era secondo a bordo dello steamer Skydnam, in partenza per Amburgo. Terminati i preliminari, Karl Kip si espresse nei seguenti termini, con tale accento di verità da non permettere in alcun modo di poter dubitare della sua buona fede: — Mio fratello ed io — disse — passeggeri della Wilhelmina, siamo stati raccolti sull'isola di Norfolk, dov'eravamo scampati dopo il naufragio, dal signor Hawkins e dal capitano Gibson. Voglio qui rendere pubblico omaggio a questi due uomini buoni e generosi che hanno fatto tutto per noi e che meritano la nostra profonda gratitudine. «Durante la traversata del James Cook da Norfolk a Port Praslin, ebbi ripetute occasioni di osservare le maniere del nostromo. Esse suscitarono in me molta diffidenza che gli avvenimenti futuri avrebbero giustificato. Mi stupì che l'armatore e il capitano avessero fiducia in lui. Ma ciò non mi riguardava e non ne parlai mai con loro. Ebbi modo di constatare anche che Flig Balt non era all'altezza delle funzioni che esercitava. Quando il capitano Gibson lasciava a lui la cura di fare certe manovre di competenza del nostromo, esse furono spesso così mal disposte che spesso fui sul punto di intervenire. Tuttavia, poiché quelle manovre non compromettevano la sicurezza della nave, mi astenni dal parlarne al capitano. «Il 20 novembre il James Cook si ancorava a Port Praslin per sbarcarvi il carico e farvi qualche riparazione. La sosta durò nove giorni; poi la nave si recò a Kerawara, capitale dell'arcipelago delle Bismarck. «Fu a Kerawara che lo sfortunato capitano Gibson, la sera del 2 dicembre, cadde sotto i colpi di assassini rimasti fin oggi

sconosciuti.» Da quelle parole traspariva tale dolore che l'uditorio non poté fare a meno di manifestare qualche segno della propria commozione. Fu allora che Flig Balt, il quale ascoltava a capo chino, si alzò, nell'atteggiamento di chi non riesca più a controllarsi. Il presidente gli chiese allora se aveva qualcosa da dire al Consiglio. — Nulla! — rispose il nostromo. E tornò a sedersi, dopo aver lanciato un'occhiata a Vin Mod che, con i nervi a pezzi, cominciava a manifestare viva impazienza. Nello stesso tempo, Karl Kip guardò fissamente Flig Balt fino a costringerlo ad abbassare gli occhi. Karl Kip riprese la sua deposizione. Morto Harry Gibson, bisognava affidare a un altro il comando della nave. Né a Port Praslin né a Kerawara c'era un capitano inglese che potesse prendere il suo posto. Era dunque naturale che quelle funzioni fossero affidate al nostromo, anche se Karl Kip diceva a se stesso che il James Cook veniva affidato a persona incapace e disonesta. — Tuttavia, il signor Hawkins non poteva fare altrimenti — aggiunse — e Flig Balt fu incaricato, per prima cosa, di riportare il brick a Port Praslin. Ultimato il carico a Kerawara, la nave riprese il mare per andare a completare il carico a Port Praslin. «Fu a Port Praslin che le funzioni di capitano furono regolarmente attribuite al nostromo. Il 10 dicembre il brick lasciò l'arcipelago. Durante i primi giorni, nell'attraversare i paraggi delle Luisiadi, la navigazione non presentò nulla di particolare. Il vento era favorevole e non c'erano manovre da eseguire. Rilevai soltanto che il James Cook s'allontanava a poco a poco dalla rotta consueta, andando verso l'est invece di seguire la rotta del sud che è la più diretta. «Il fatto mi sembrò insolito. Ne parlai con mio fratello, il quale mi suggerì di parlarne al signor Hawkins e a Nat Gibson, condividendo anche lui la mia diffidenza per il nuovo capitano. Non sapevo decidermi: le denunce mi ripugnano. Ma non cessai di controllare la direzione del brick con attenzione, almeno per quanto mi era possibile. Flig Balt se ne accorse e forse si rese conto che, ciò facendo, ostacolavo in parte la realizzazione di qualche suo

progetto.» Karl Kip sembrava esitare a manifestare interamente il suo pensiero. Il presidente ritenne allora di dovergli dire: — Avete detto di aver notato, signor Kip, che Flig Balt pareva voler modificare la rotta; ma a che scopo lo avrebbe fatto? — Non saprei dire, con certezza — rispose Karl Kip. — Secondo me, l'intenzione non era dubbia. Flig Balt cercava di portare il brick verso est negli arcipelaghi di dubbia fama dove una nave non è mai al sicuro. Ora, avendo Flig Balt tentato in seguito di provocare a bordo una rivolta, mi chiedo se non fosse nelle sue intenzioni d'impadronirsi della nave. Quel colpo diretto parve, tuttavia, lasciare indifferente l'accusato, il quale si limitò ad alzare le spalle. — Comunque sia, la tempesta che ci investi al limite del Mar dei Coralli — riprese Karl Kip — poteva favorire i suoi progetti spingendo il brick al largo. La mia esperienza di uomo di mare mi diceva che bisognava far fronte al vento furioso dell'ovest tenendo la cappa, ma l'opinione del nuovo capitano fu tutt'altra. Egli cominciò a fuggire verso i pericolosi paraggi delle isole Salomone a un'andatura che comprometteva la sicurezza della nave. Temevo a ogni istante che il brick venisse sommerso; le ondate lo ricoprivano interamente ed esso non rispondeva più al timone. Ebbi la sensazione che la nave fosse perduta e non intervenivo in tempo. Mi precipitai verso la barra. L'equipaggio aveva perduto la testa: Flig Balt dava ordini incoerenti. «Lasciatemi fare!» gridai. Il signor Hawkins mi aveva compreso e senza esitare mi disse: «Fate!». Comandai la manovra… i marinai mi obbedirono. Riuscii a invertire la rotta… Il giorno dopo, diminuita l'intensità della tempesta, non dovemmo far altro che cercare il riparo della terra. «Fu allora che il signor Hawkins mi affidò il comando del James Cook, dopo averlo tolto a Flig Balt. Il nostromo protestò, ma io lo indussi a obbedire. Non era quella per me l'occasione che mi permetteva di pagare il mio debito verso il signor Hawkins, con il mio zelo e la mia devozione? «Non appena possibile, la nave riprese la rotta verso il sud; eravamo al largo di Sydney quando, la sera del 30 dicembre, scoppiò

a bordo la rivolta. L'indegno nostromo era a capo dei ribelli e li guidava verso la tuga nell'intento di impadronirsi delle armi. Len Cannon si precipitò su di me per colpirmi. Poiché avevo afferrato la rivoltella, lo minacciai di spaccargli la testa. Il mio atteggiamento impose a quegli uomini il rispetto. Alcuni bravi marinai si erano schierati al mio fianco, gli altri tornarono a prua. Feci allora afferrare Flig Balt e Len Cannon e li feci mettere ai ferri. «Un altro tentativo non era più da temersi. La navigazione proseguì in circostanze favorevoli. Il 31 dicembre, il James Cook doppiava il capo Pillar e due giorni dopo si ancorava a Hobart Town. «Ecco quello che avevo da dire» aggiunse Karl Kip. «Non ho detto una sola parola che non sia la verità.» Terminata la deposizione egli tornò al banco dei testimoni con la certezza che si prestasse assoluta fede alla sua testimonianza. Quando sedette accanto al signor Hawkins e a Nat Gibson, i due gli strinsero affettuosamente la mano. — Accusato, avete qualcosa da dire? — chiese il presidente. — Nulla — rispose nuovamente Flig Balt. Poi comparvero alla sbarra gli altri testimoni, la cui deposizione confermò quella di Karl Kip. Il signor Hawkins confessò di aver errato nel giudicare le capacità del nostromo, errore condiviso interamente da Harry Gibson che riteneva Flig Balt meritevole di assoluta fiducia. Dopo l'assassinio commesso a Kerawara, egli non aveva esitato, per questo motivo, ad affidargli il comando del brick, per il viaggio di ritorno. La maggior parte dell'equipaggio parve approvare la scelta. Ma quando la tempesta assalì la nave nel nord del Mar dei Coralli, bisognò pur riconoscere che il nuovo capitano non era in grado di esercitare le sue nuove funzioni. Smarrì il sangue freddo e il James Cook sarebbe certamente affondato senza l'intervento di Karl Kip, al quale il signor Hawkins volle testimoniare pubblicamente la sua gratitudine. Chiamato a testimoniare dopo l'armatore, Nat Gibson non poté che confermare quella deposizione. Ma quando dovette parlare di suo padre, tutti si resero conto che il suo cuore ribolliva di collera contro gli assassini. Pieter Kip riprese, abbreviandolo, il racconto fatto dal fratello

dinanzi al Consiglio. Mise nuovamente in luce la diffidenza che il nostromo aveva loro ispirato e i sospetti sorti in loro quando Karl Kip notò che la nave aveva cambiato rotta. Egli riteneva che tutto ciò non fosse stato fatto senza intenzioni criminose svelate in seguito dal tentativo di ribellione. Le deposizioni dei marinai Hobbes, Wickley, Burnes e del mozzo Jim concordarono: si seppe così che essi erano stati sollecitati a ribellarsi, ma furono colti di sorpresa da ciò che accadde il 30 dicembre, prima ancora che avessero avuto il tempo di informare il capitano di ciò che si tramava. È superfluo dire che essi si schierarono dalla sua parte. Il presidente li elogiò per il modo in cui si erano comportati in quella circostanza. La deposizione dei testimoni a carico essendo terminata, si procedette all'interrogatorio degli altri, più o meno compromessi nella faccenda e, quindi, più o meno preoccupati dell'esito che avrebbe avuto per loro il dibattimento. Vin Mod fu il primo a essere interrogato su quello che sapeva. Non c'era da aspettarsi nessuna sincerità da quel furbissimo farabutto. Egli parlò in modo da allontanare da sé ogni responsabilità. Non riteneva che Flig Balt avesse l'intenzione di modificare la rotta del brick, come aveva creduto Karl Kip. Flig Balt era un buon marinaio che aveva fatto il suo tirocinio. Non si poteva che approvare la sua manovra durante la tempesta… ed era stata un'ingiustizia avergli tolto il comando della nave. — Basta così! — disse il presidente, nauseato dal tono e dall'atteggiamento di Vin Mod. Il marinaio tornò al suo posto, dopo aver lanciato uno sguardo significativo a Flig Balt, il quale gli rispose con un gesto impercettibile. Quello sguardo voleva dirgli: «Parla, è il momento!». Le deposizioni di Sexton e di Bryce non ebbero importanza. Ancora con la mente annebbiata dall'ubriacatura della sera precedente, compresero a malapena ciò che veniva loro chiesto. Il presidente ordinò allora a Flig Balt di alzarsi. Il dibattito stava per finire; prima che il Consiglio si ritirasse per deliberare, il nostromo avrebbe potuto prendere la parola per l'ultima volta.

— Sapete di quale colpa siete accusato? — gli chiese. — Avete sentito ciò che è stato detto contro di voi? Che cosa avete da dire a vostra discolpa? Potete rispondere? — Sì — dichiarò il nostromo, con tono assai diverso da quello prima usato per pronunciare la parola «nulla!» delle sue ultime risposte. Nella sala regnò un profondo silenzio. Il pubblico intuì che stava per verificarsi qualcosa: forse una rivelazione che avrebbe modificato l'impostazione del processo. In piedi, rivolto verso i giudici, Flig Balt, con gli occhi bassi e la bocca lievemente contratta aspettava che il presidente gli formulasse una precisa domanda, la quale gli fu rivolta con queste precise parole: — Flig Balt, che cosa avete da dire in vostra difesa? — Accuso a mia volta — rispose il nostromo. Il signor Hawkins, Nat Gibson e i fratelli Kip si guardarono, sorpresi, ma non preoccupati. Nessuno di loro poteva immaginare che cosa intendesse dire Flig Balt con quelle parole, né contro chi intendesse lanciare l'accusa. Flig Balt allora disse: — Io ero il capitano del James Cook, essendone stato regolarmente incaricato dal signor Hawkins. Dovevo riportare il brick a Hobart Town e, checché se ne pensi, ve lo avrei ricondotto, se un nuovo capitano non fosse stato nominato al posto mio. Chi? uno straniero: un olandese! Ma gli inglesi, a bordo di una nave inglese, non possono accettare di navigare agli ordini di uno straniero! Ecco che cosa ci ha spinto alla ribellione contro Karl Kip. — Contro il vostro capitano — disse il presidente — e contro ogni diritto. Occupando egli legalmente quel posto, voi gli dovevate obbedienza. — Sia pure — rispose Flig Balt, con tono più fermo. — Ammetto che da questo punto di vista io sia colpevole. Ma ecco che cosa debbo dire. Se Karl Kip mi accusa di essermi ribellato, se mi accusa – senza prove, del resto – di aver voluto condurre il James Cook fuori della sua rotta per im-padronirmene… io lo accuso, da parte mia, di un crimine di cui non potrà discolparsi!

Quella grave dichiarazione, benché non si sapesse su che cosa fosse fondata, fece balzare in piedi, di colpo, Karl e Pieter Kip, quasi volessero precipitarsi verso il banco dal quale Flig Balt li guardava sfrontatamente. Il signor Hawkins e Nat Gibson li trattennero, impedendo loro di dare sfogo alla collera. Pieter Kip riprese per primo la padronanza di sé. Aveva preso la mano del fratello e, senza lasciarla, disse con voce che riusciva a stento a controllare: — Di che cosa ci accusa costui? — Di assassinio! — rispose Flig Balt. — Assassinio! — esclamò Karl Kip. — Accusa noi di assassinio! — Sì, voi siete gli assassini del capitano Gibson! Sarebbe impossibile descrivere lo sbalordimento dell'uditorio. Un senso di orrore percorse la sala: orrore contro il nostromo che aveva osato formulare quell'accusa contro i fratelli Kip. Tuttavia, come per istinto incontrollabile, giustificato dal suo stato d'animo, Nat Gibson si era subito tratto indietro, invano trattenuto dal signor Hawkins. Paralizzati dallo stupore per quella orribile accusa, Pieter e Karl Kip stavano per prendere la parola, nell'impeto dello sdegno, quando il presidente disse: — Flig Balt, la vostra sfrontatezza supera ogni limite! Voi ingannate la giustizia! — Dico la verità! — Perché non l'avete detta subito, se è la verità? — Perché l'ho appresa durante la traversata del ritorno. All'arrivo del James Cook sono stato arrestato e ho dovuto aspettare il processo per accusare pubblicamente coloro che mi perseguitavano. Karl Kip era fuori di sé; ad altissima voce, come la voce di un capitano che sovrasta le raffiche, gridò: — Miserabile! Calunniatore! Quando si fanno accuse del genere bisogna portare delle prove! — Ne ho! La giustizia potrà averle quando vorrà — rispose Flig Balt. — Quali?

— Si perquisisca la valigia che i fratelli Kip hanno ritrovato sulla Wilhelmina. Vi si troveranno le carte e il denaro del capitano Gibson!

CAPITOLO V IL SEGUITO DEL PROCESSO È IMPOSSIBILE descrivere lo stupore prodotto dalla dichiarazione del nostromo. Il presidente riuscì a stento a reprimere il doloroso e prolungato mormorio sorto allora nell'uditorio. Gli occhi di tutti erano rivolti verso i due fratelli, adesso sotto il peso di un'accusa che comportava la pena capitale. Karl e Pieter Kip, immobili, avevano l'atteggiamento di uomini nei quali la sorpresa eguaglia l'orrore. Il maggiore, di temperamento impetuoso, faceva gesti di minaccia nei confronti dell'odioso Flig Balt. Il più giovane, pallido in viso, gli occhi umidi e le braccia incrociate sul petto, si limitava ad alzare le spalle e a guardare con profondo disprezzo il suo accusatore. Poi, per ordine del presidente, entrambi lasciarono il banco dei testimoni e si recarono ai piedi dello scranno accompagnati dagli agenti incaricati di non perderli di vista. Il signor Hawkins, Hobbes, Wickley, Burnes e il mozzo, dopo un breve mormorio di protesta, rimasero in silenzio, mentre Sexton, Bryce e Koa scambiavano qualche parola a bassa voce. A capo chino, con mani febbrili, il volto contratto, Nat Gibson s'aggrappava al banco. Quando alzava gli occhi verso i fratelli Kip, riluceva in essi uno sguardo d'odio. Era già dunque persuaso della loro colpevolezza? Vin Mod, impassibile, attendeva il risultato della denuncia del nostromo contro Karl e Pieter Kip. Quando l'uditorio, profondamente scosso, riprese un po' di calma, il presidente diede la parola a Flig Balt perché completasse la sua denuncia. Flig Balt la fece con chiarezza e brevità e le sue parole non mancarono di suscitare in tutti una favorevole impressione. Il 25 dicembre, verso sera, quando non aveva più il comando del

brick, egli si trovava nella tuga. La porta della cabina occupata dai fratelli Kip non era chiusa. In quel momento un violento rullio scosse la nave e una valigia rotolò nel quadrato: era quella trovata sul relitto della Wilhelmina. Nel rotolare, la valigia si era aperta e ne erano venute fuori alcune carte e un pugno di piastre che si sparsero sul pavimento. Il rotolio delle monete d'oro aveva attirato l'attenzione di Flig Balt, suscitando in lui stupore. Ognuno sapeva che Karl e Pieter Kip avevano perduto nel naufragio tutto il denaro che possedevano. Dopo aver raccolto le monete, Flig Balt stava per rimetterle nella valigia insieme con le carte, quando riconobbe tra queste i documenti del James Cook, la polizza di carico e il contratto di noleggio che il capitano Gibson aveva con sé il giorno in cui fu ucciso e che non erano più stati trovati. Spaventato dalla scoperta Flig Balt usci dalla tuga. Non poteva più dubitare che i fratelli Kip fossero i colpevoli. Suo primo pensiero fu quello di presentarsi al signor Hawkins per dirgli: «Ecco che cosa ho scoperto»; di raggiungere poi Nat Gibson e di gridargli: «Ecco gli assassini di vostro padre!». Era ciò che il nostromo avrebbe dovuto fare, ma che non fece. Non parlò neppure con altri del segreto di cui era venuto a conoscenza. Ma rimanere agli ordini di un criminale — e cioè dell'assassino del suo capitano — no, non poteva accettarlo. Volle strappargli il comando del quale era stato privato ingiustamente e spinse perciò i marinai alla ribellione. Il suo tentativo non riuscì. Disarmato, ridotto all'impotenza, fu chiuso in fondo alla stiva per ordine del miserabile che aveva tradito la fiducia del signor Hawkins. Decise quindi di non dir nulla di ciò che sapeva, almeno fino all'arrivo della nave a Hobart Town, e di attendere il processo che sarebbe stato fatto contro di lui. Avrebbe allora denunciato pubblicamente, dinanzi al Consiglio marittimo, gli autori del delitto di Kerawara. Dopo tale deposizione, alla quale fece seguito un lungo mormorio da parte degli astanti, il presidente non ritenne opportuno continuare il dibattito. Sospesa l'udienza, gli agenti ricondussero Flig Balt e Len Cannon nella prigione del porto. Si sarebbe visto poi quale seguito

dare alla faccenda. Karl e Pieter Kip, arrestati immediatamente, furono condotti nella prigione della città. Prima di lasciare la sala del Consiglio, Karl Kip, non riuscendo a frenare la propria indignazione, aveva protestato violentemente contro l'uomo che lo accusava. Pieter si era limitato a dirgli: — Lascia correre, mio povero fratello, lascia che sia la giustizia a proclamare la nostra innocenza! Ed erano andati via senza che una mano – neppure quella del signor Hawkins – fosse loro tesa. Karl e Pieter Kip credevano senza dubbio che l'inchiesta non avrebbe potuto stabilire la loro colpevolezza. Non avevano commesso quell'esecrabile delitto… Le piastre e le carte che Flig Balt dichiarava d'aver visto nella valigia, la perquisizione non avrebbe potuto trovarle perché essi non le avevano mai viste. Potevano attendere senza timore, quindi, il risultato della perquisizione che la polizia avrebbe compiuto nella loro camera, all'albergo del «Great-Old-Man». La sola dichiarazione del nostromo non sarebbe mai stata sufficiente a farli condannare per furto e assassinio. Quale non fu quindi il loro stupore e quale il senso di orrore che percorse tutta la città quando, il giorno stesso, si sparse la notizia che la perquisizione aveva confermato le parole di Flig Balt. Gli agenti si erano recati all'albergo del «Great-Old-Man»; la valigia di cui aveva parlato il nostromo era stata aperta e frugata. Sotto la biancheria che vi era contenuta erano state trovate le carte rubate al capitano Gibson e sessanta sterline in piastre d'oro. E inoltre – prova forse ancora più convincente – nella valigia era nascosta un'arma, un pugnale malese, un kriss a lama dentata. Gli accertamenti fatti a Kerawara e la fotografia presa dal signor Hawkins mostravano indubbiamente che la ferita del capitano era stata fatta con un'arma del genere. Contro i fratelli Kip non c'erano più soltanto presunzioni, ma ora esistevano le prove materiali annunciate da Flig Balt all'udienza. E ciò che non consentiva di contestare la veridicità delle dichiarazioni del nostromo era il fatto che egli non avesse detto nulla del kriss malese, come se non sapesse affatto che era in possesso dei due

fratelli: in tal caso ne avrebbe parlato al Consiglio, come aveva fatto per le carte e le piastre di Harry Gibson. Ma Jim aveva visto quel pugnale, il lettore se ne ricorderà, deposto da Vin Mod sopra la tavola della cabina, e dallo stesso Vin Mod subito ritirato, dopo che il mozzo ne era uscito. E se il giovanetto fosse stato chiamato a deporre su questo fatto, aggiungendo questa schiacciante testimonianza a quella del nostromo? Come si vede, la trama ordita dal miserabile Vin Mod era ben congegnata. Tutti i mezzi adoperati per compromettere e far condannare i due fratelli erano riusciti. Avrebbero mai potuto chiarire questa oscura faccenda e cancellare l'accusa che pesava sul loro capo? Quel grave incidente — Vin Mod ne era sicuro — ebbe per risultato, se non altro, l'abbandono del processo contro Flig Balt e Len Cannon. Che cosa rappresentava il tentativo di rivolta a bordo del James Cook di fronte a quella rivelazione? Il nostromo sarebbe apparso dinanzi al Consiglio non più come accusato, ma come testimone! È inutile parlare della foga con cui Nat Gibson si buttò su quella pista. Ora che erano noti, gli assassini di Kerawara sarebbero stati puniti! Non dobbiamo sorprenderci se, nel suo stato d'animo, il disgraziato giovane dimenticò tutto quello che avrebbe potuto essere invocato a discolpa dei fratelli Kip: il loro comportamento dal giorno in cui la nave li aveva raccolti sull'isola di Norfolk e quello tenuto durante l'attacco dei papua della Nuova Guinea; il dolore manifestato per la morte del capitano Gibson; e poi, nel corso della traversata del ritorno, l'intervento di Karl Kip che aveva salvato il brick in procinto di perdersi nel momento più grave della tempesta, la sua energia nel fronteggiare la ribellione suscitata dal nostromo! Nat Gibson non si ricordò più della vivissima simpatia che gli avevano fin da allora ispirato i due naufraghi della Wilhelminal Questi sentimenti scomparvero dinanzi al suo odio per gli assassini che ogni fatto accusava e al suo bisogno imperioso di vendicare la morte del padre! Del resto, bisognerà convenirne, a Hobart Town il mutamento della pubblica opinione fu totale. Ci si era tanto occupati dei fratelli

Kip, nell'aiutarli a trovare un imbarco come secondo per il maggiore, e a predisporre relazioni commerciali con la Tasmania per la ditta di Groningen per l'altro, quanto adesso erano oggetto di pubblica esecrazione. Per contro Flig Balt diventò una specie di eroe. Che carattere! Mantenere il suo segreto fino al giorno della comparizione dinanzi al Consiglio! Non era un motivo, questo, per giustificare, se non altro, il tentativo di ribellione, fatto allo scopo di sottrarre la nave al comando di un assassino e nel quale il nostromo aveva rischiato la vita? Ora, anche i bravi e onesti marinai Hobbes, Wickley e Burnes, trascinati dal generale cambiamento di opinione, non si ricordavano più della stima nutrita per il nuovo capitano e della devozione dimostratagli. Se a Hobart Town nessuno più nutriva delle incertezze, a Port Praslin e Kerawara ogni dubbio sarebbe stato inconcepibile. Né il signor Zieger né il signor Hamburg avrebbero dovuto continuare un'inchiesta ormai diventata inutile. La signora Gibson, immersa nel dolore per la perdita del marito più che nel dispiacere di sapere la sua morte non vendicata, che cosa avrebbe potuto dire a suo figlio per destare in lui qualche perplessità? Per lei, come per tutti, dopo la particolareggiata denuncia del nostromo e le prove prodotte, i due fratelli non erano forse i soli e i veri assassini di Harry Gibson? Per tutti? Forse no; il signor Hawkins non si pronunciava. Benché la sua fiducia in Karl e Pieter Kip fosse scossa, egli non si sentiva affatto convinto della loro colpevolezza. Accettare l'idea che quei due giovani, per i quali nutriva molta stima, fossero gli autori di un simile delitto gli ripugnava. I moventi del delitto gli erano incomprensibili. Bisognava cercarli nel desiderio d'appropriarsi delle poche migliaia di piastre del capitano Gibson o nella speranza di Karl Kip di succedergli nel comando del brick? Tutto ciò non soddisfaceva l'intelligenza limpida del signor Hawkins. Quando la moglie gli ripeteva: — Le prove ci sono: il denaro, le carte di bordo e, infine, anche il pugnale! Si può forse mettere in dubbio che il nostro disgraziato amico non sia stato ucciso con quell'arma? — Lo so — rispondeva il signor Hawkins. — Ci sono prove che

sembrano schiaccianti. Ma in me sorgono molti ricordi. Io dubito, a meno che questi infelici non confessino il loro delitto… — Amico mio, parleresti forse in questo modo dinanzi a Nat? — insisteva la signora Hawkins. — No, perché non mi capirebbe. Nello stato di esasperazione in cui si trova non servirebbe a nulla. Aspettiamo il processo. Può darsi che Karl e Pieter riescano a dimostrare la loro innocenza! Anche se dovessero essere condannati, io direi sempre: aspettiamo l'avvenire! Dopo la perquisizione eseguita nella camera dell'albergo del «Great-Old-Man», il processo doveva seguire il suo corso dinanzi alla giurisdizione criminale. Esso sarebbe stato istruito in fretta, del resto. I testimoni da interrogare soggiornavano a Hobart Town. Le informazioni sulla famiglia dei due fratelli, sulla loro posizione personale e sui loro precedenti, richieste telegraficamente, si sarebbero ottenute in ventiquattro ore. L'inchiesta non necessitava né di ricerche lontane né di larga documentazione. Passarono tre giorni; il 25 lo Skydnam prese il mare dopo che il capitano Fork ebbe scelto un altro secondo. Né Karl né Pieter poterono essere a bordo: il signor Hawkins ebbe una stretta al cuore nell'assistere a quella partenza. Come sarà facile supporre, Flig Balt e Vin Mod erano persuasi di non aver più nulla da temere per il crimine di Kerawara. Chi avrebbe mai potuto immaginare l'orribile macchinazione che coinvolgeva due innocenti, impastoiandoli senza alcuna possibilità di liberazione? Nella realtà delle cose, erano stati il nostromo e il suo complice, loro soltanto, ad architettare il piano delittuoso. Sexton, Bryce e il cuoco non ne avevano avuto il minimo sospetto e non furono meno stupiti degli altri per quel colpo di scena sopraggiunto dinanzi al Consiglio marittimo. Kyle, rilasciato quarantotto ore dopo, pur essendo servito da tramite tra Vin Mod e Flig Balt era lontano dal sospettare che tutti e due avessero commesso il delitto e che i fratelli Kip fossero caduti in un tranello. Anche Len Cannon non ne sapeva più degli altri. Ma quei marinai d'infima classe non potevano che gongolare per la piega assunta dal processo. Flig Balt, tornato libero, avrebbe potuto cercare un imbarco insieme con loro. Se anche ne avessero avuto la possibilità, essi non avrebbero fatto nulla in favore

dei due fratelli. Nella serata del 25, dopo la partenza dello Skydnam, Flig Balt e Vin Mod, passeggiando sulla riva, allora deserta, che chiude il porto a occidente, poterono chiacchierare senza il pericolo d'essere ascoltati. — Buon viaggio allo Skydnam — disse Vin Mod — considerato che non porta in Olanda i due olandesi! Karl Kip aveva preso il vostro posto a bordo del James Cook; come vedete, mastro Balt, egli prende ancora una volta il vostro posto dietro le sbarre d'una prigione i cui chiavistelli non si aprono facilmente… — Il nostro piano è riuscito — riprese il nostromo — forse più facilmente e più appieno di quanto sperassi. — Era stato tutto predisposto da tempo. I due Kip non riusciranno a cavarsela. — Aspettiamo la fine, Mod. — La conosciamo già, mastro Balt! Che faccia debbono aver fatto, quando hanno saputo della valigia! È stata una fortuna averla trovata sul relitto! Sarebbe potuta andare a picco. E che imprudenza! Erano ancora in possesso delle carte e del denaro del capitano. Ho dovuto buttar via un centinaio di piastre, ma non bisogna rimpiangerle… — Quante ce ne rimangono? — chiese Flig Balt. — Quasi duemila. Non avremo difficoltà a svignarcela, quando ne avremo voglia… — Dopo il processo… — È giusto! Non bisogna dimenticare che Flig Balt, già comandante del James Cook, è il testimone principale e spero che egli non si contraddica… — Non temere, Mod. — A proposito, mastro Balt, è stata un'ottima idea quella che nella vostra deposizione vi ha suggerito di parlare soltanto di carte e di piastre! Così, quando è saltato fuori il kriss, avete potuto vedere quale sensazione ha suscitato la sua scoperta! Non si poteva più dubitare! Vedrete! I Kip potranno dire che essi ignoravano che il pugnale era stato raccolto sul relitto, ma non saranno creduti! e poi, dovranno ben confessare che apparteneva a loro! Non dobbiamo dimenticare che sono persone oneste incapaci di mentire!

Vi dico la verità, non mi dispiacerebbe vedere la smorfia che la gente onesta fa quando pende dalla forca. Il miserabile rideva delle sue buffonate senza tuttavia riuscire a distrarre il nostromo, il quale, sempre inquieto, non riusciva a liberarsi da certe preoccupazioni. Il processo era stato senza dubbio condotto bene ma non sarebbe potuto forse sopraggiungere qualche inatteso inconveniente? — Vin Mod, crederò che tutto sia finito bene solo quando avremo lasciato Hobart Town per andare a cercare fortuna lontano da qui, in capo al mondo, all'inferno… — Mastro Balt, siete come al solito… Vi è impossibile mantenere l'animo sereno… È nella vostra natura… — Non dico di no, Mod! — Voi non vedete le cose come sono! Vi ripeto: per ciò che riguarda noi non avete nulla da temere! Se oggi confessassimo che siamo stati noi a fare il colpo, nessuno ci crederebbe. — Nessuno, dimmi, ti ha mai visto — disse il nostromo — all'albergo del «Great-Old-Man»? — Nessuno; né visto, né riconosciuto. Non è Vin Mod che vi ha alloggiato, ma un certo Ned Pat, che non mi somiglia affatto. — Era un rischio ciò che hai fatto. — Affatto. Non potete immaginare come il mio viso cambi se ha la barba. Una bella barba rossiccia che mi arrivava sino agli occhi… e poi, ci andavo soltanto la sera, all'ora di andare a letto, e me ne andavo prima che facesse giorno. — Non hai ancora lasciato l'albergo? — chiese Flig Balt. — Non ancora. È meglio starci qualche giorno di più. Se fossi andato via dopo l'arresto dei fratelli Kip la cosa forse sarebbe apparsa strana… Avrebbero potuto fare delle supposizioni. Per maggior precauzione me ne andrò soltanto dopo la condanna degli assassini del nostro povero capitano Gibson. — Importa, Mod, che tu non sia riconosciuto in seguito. — Non abbiate paura. Quando andavo all'albergo, ho incontrato tre o quattro volte Sexton, Kyle e Bryce: ebbene, non hanno mai immaginato che fossi io che passavo accanto a loro. Non mi avreste riconosciuto nemmeno voi, mastro Balt; non avreste detto: «Toh,

ecco Vin Mod!». Come si vede erano state prese tutte le precauzioni; nulla avrebbe permesso di scoprire che Vin Mod, sotto il nome di Ned Pat, aveva occupato al «Great-Old-Man» la camera accanto a quella dei fratelli Kip. Frattanto il magistrato incaricato proseguiva l'inchiesta. Nessuno, del resto, dubitava della colpevolezza dei due olandesi, chiaramente accusati dalle carte e dal denaro del capitano che erano stati trovati presso di loro. Era evidente che carte e denaro non potevano esser stati rubati che dagli assassini di Harry Gibson, il quale li aveva addosso nel momento dell'omicidio. Inoltre, gli agenti avevano trovato anche un pugnale sotto la biancheria contenuta nella valigia. Ora, ci si chiedeva: era quella l'arma del delitto? Come evitare di rispondere affermativamente? La ferita a dente di sega non poteva provenire che da un kriss malese. Sarebbe stato facile accertarlo, comunque, attraverso la fotografia in possesso del signor Hawkins. In Melanesia quei kriss sono, è vero, di uso comune; gli indigeni di Kerawara e dell'isola di York, quelli della Nuova Zelanda e della Nuova Bretagna se ne servono, di solito, come arma da combattimento, insieme con zagaglie e chiaverine. Ma era sicuro che proprio il kriss appartenente a Karl Kip fosse l'arma del delitto? La certezza di questo fatto non tardò a essere stabilita. La mattina del 15 febbraio un tre alberi inglese, il Gordon di Sydney,-gettò l'ancora nel porto di Hobart Town. Tre settimane prima, la nave aveva lasciato l'arcipelago delle Bismarck, dopo aver fatto sosta, tra l'altro, a Kerawara e a Port Praslin. La posta del Gordon conteneva una lettera accompagnata da un pacchetto postale indirizzato al signor Hawkins. La lettera proveniva da Port Praslin. L'aveva scritta il signor Zieger dopo le notizie giunte a Wellington e trasmesse al signor Hawkins dal signor Balfour, suo corrispondente. Le notizie non riferivano nulla di nuovo riguardo all'inchiesta. La lettera diceva:

Port Praslin, 22 gennaio Caro amico, approfitto della partenza del Gordon per pregarvi, per prima cosa, di rammentarmi alla signora Hawkins e di riferire alla signora Gibson e a suo figlio che la signora Zieger e io partecipiamo sinceramente al loro dolore. Il signor Hamburg a Kerawara, e io a Neu Mecklenburg, abbiamo fatto accuratissime ricerche sull'omicidio e purtroppo senza risultato. Le indagini svolte presso le tribù indigene dell'isola di York non hanno condotto alla scoperta né di carte appartenenti al capitano Gibson né del denaro che egli aveva con sé. Potrebbe quindi darsi che il crimine non sia stato commesso da indigeni dell'isola di York, perché, in tal caso, si sarebbe finito per trovare nelle loro mani una somma in piastre di tanto rilievo da essere di difficile smercio nell'arcipelago. Ma c'è dell'altro. Ieri, per caso, nella foresta di Kerawara, a destra del sentiero che conduce all'abitazione del signor Hamburg, e precisamente nel luogo in cui fu commesso l'omicidio, un impiegato dell'agenzia ha trovato una ghiera di rame, staccatasi probabilmente dal pugnale nel momento in cui l'assassino colpiva il nostro povero amico. Vi mando questa ghiera anche se non penso che essa possa costituire una prova, non essendo stata trovata l'arma del delitto. Credo, tuttavia, di doverlo fare nella speranza che questo odioso delitto non rimanga impunito. Vi rinnovo, caro amico, i migliori saluti per la signora Gibson e per Nat, per la signora Hawkins e per voi. Se saprò qualcosa di nuovo, ne sarete informato. Vi prego, da parte vostra, di tenermi al corrente. Vostro affezionatissimo R. ZIEGER Ora, ciò che ignorava il signor Zieger, era che i magistrati di Hobart Town erano già in possesso dell'arma di cui, verosimilmente,

si erano serviti gli assassini del capitano. Fu costatato che la ghiera che chiudeva l'impugnatura del pugnale mancava dal kriss sequestrato nella camera dei due fratelli. Quando la ghiera fu rimessa in sito si constatò che essa vi si adattava perfettamente. Dopo questa nuova prova, quando Nat Gibson andò dall'armatore gli disse: — Signor Hawkins, dubitate ancora della colpevolezza di quei miserabili? Il signor Hawkins non rispose e chinò il capo.

CAPITOLO VI IL VERDETTO L'INCHIESTA si avviava alla fine; i fratelli Kip erano stati interrogati e c'era stato anche il confronto con il nostromo, fino allora il principale accusatore e il solo ad avere scoperto nella loro cabina, sulla nave, prove schiaccianti. Gli accusati gli avevano risposto negando formalmente tutto. Ma come sperare in un'ordinanza di non luogo a procedere in loro favore, se tanti indizi li accusavano e tante prove si accumulavano a conforto di quegli indizi? I due fratelli non ebbero neppure la possibilità di preparare insieme la loro difesa, di confortarsi e di incoraggiarsi a vicenda, durante le lunghe ore trascorse in carcere: separati l'uno dall'altro potevano soltanto comunicare con l'avvocato scelto per la difesa. Quando il magistrato procedeva al loro interrogatorio, essi non si incontravano neppure alla sua presenza: si sarebbero rivisti il giorno della discussione del processo dinanzi alla corte criminale. La lettera del signor Zieger e il pacchetto che ora l'accompagnava erano noti al pubblico. I giornali di Hobart Town ne avevano parlato; non si poteva più negare che il pugnale trovato nella valigia fosse l'arma del delitto e da ciò discendeva la fondatezza dell'accusa lanciata contro i due fratelli. Il verdetto della giuria sarebbe stato, dunque, quello di condanna alla pena capitale, a causa delle aggravanti del delitto. A mano a mano che si approssimava il giorno dell'udienza, il signor Hawkins sentiva tuttavia di avere le idee sempre meno chiare. I ricordi si destavano in lui. Possibile? Quei due uomini che gli avevano ispirato tanta simpatia avrebbero mai commesso quel delitto orribile? La sua coscienza si rifiutava di crederlo; il suo cuore si ribellava al solo pensarci. Egli scorgeva in quel processo molti punti oscuri, che non erano stati spiegati e che, forse, sarebbero rimasti

inspiegabili! Ma le sue perplessità poggiavano su motivi esclusivamente morali, mentre il dato materiale dei fatti accertati dall'inchiesta si ergeva dinanzi a lui come un muro invalicabile. Il signor Hawkins evitava di parlare del processo con Nat Gibson, la cui convinzione era ormai radicata. Un paio di volte, nel far visita alla signora Gibson, aveva tentato di manifestare qualche impressione riguardo alla innocenza dei fratelli Kip e alla speranza che essi riuscissero a dimostrare la loro estraneità al delitto. La signora Gibson si era chiusa in un ostinato silenzio, mostrando chiaramente di condividere le idee del figlio. Del resto, non aveva mai avuto occasione d'apprezzare il carattere dei naufraghi della Wilhelmina, né di conoscere il loro passato o di interessarsi del loro avvenire. Quasi certamente, la vedova non vedeva in essi che gli assassini di suo marito. La signora Hawkins non poteva non avere, invece, fiducia nella rettitudine e nel giudizio di suo marito. Se non era convinto della colpevolezza dei due fratelli non poteva esserlo neppure lei. Ella partecipava perciò ai suoi dubbi, poiché non si trattava che di dubbi; ed è probabile che a Hobart Town essi fossero i soli a pensarla così. Dal fondo della loro prigione, gli accusati non avrebbero potuto mai immaginare fino a qual punto l'opinione pubblica fosse contro di loro, continuamente sollecitata dalla stampa con articoli di incredibile violenza. Il processo doveva avere inizio il 17 febbraio. Venticinque giorni dopo l'udienza del Consiglio marittimo, nel corso della quale Flig Balt aveva denunciato Karl e Pieter Kip, Vin Mod non ritenne più necessario prolungare il suo soggiorno nell'albergo del «Great-OldMan»; lasciò quindi la camera che vi occupava con il nome di Ned Pat e pagò il conto. Poi, non avendo più bisogno di travestirsi, andò a dividere la camera del nostromo alla locanda dei «Fresh-Fishes», dalla quale i due farabutti avrebbero seguito gli sviluppi della macchinazione così abilmente preparata e la cui conclusione avrebbe assicurato loro l'impunità. Per ciò che riguarda gli altri marinai del brick, possiamo riferire che essi avevano trovato alloggio nelle vicinanze in attesa d'aver l'occasione di imbarcarsi.

Il dibattito processuale ebbe inizio la mattina del 17 febbraio, dinanzi alla Corte criminale di Hobart Town. La Corte era composta dal presidente, assistito da due magistrati e dal procuratore generale. La giuria sarebbe stata sciolta soltanto quando i suoi dodici componenti fossero stati d'accordo sul verdetto. La gente affollò la sala e le strade vicine. Grida di vendetta accolsero gli imputati quando uscirono dal carcere. Soltanto allora essi poterono stringersi la mano, subito divisi dagli agenti che dovevano proteggerli dalla folla durante il tragitto fino al palazzo di giustizia. I due fratelli compresero allora che non avevano nulla da sperare da parte dell'opinione pubblica. I vari testimoni che avevano preso parte al processo svoltosi dinanzi al Consiglio marittimo, ora si ritrovarono nuovamente dinanzi alla Corte: erano, come sappiamo, il signor Hawkins, Nat Gibson e i marinai del James Cook. La curiosità generale si accentrava però su Flig Balt e sulle sue parole, che costituivano il fondamento dell'accusa, oltre che sulle risposte che i due fratelli avrebbero date. Karl e Pieter Kip avevano nominato il loro difensore, il cui compito sarebbe stato molto arduo, non potendo egli opporre altro che dinieghi alle affermazioni del nostromo sorrette da prove materiali. Adeguandosi alla legge inglese, il presidente si limitò a chieder loro se si dichiaravano «colpevoli» o «non colpevoli» 15 — Non colpevoli! — risposero entrambi ad alta voce. Ed essi dovettero allora ripetere la deposizione fatta nel corso del primo processo e dire quale fu la loro condotta durante la navigazione, da quando furono raccolti nell'isola di Norfolk fino allo sbarco a Hobart Town. Entrambi affermarono che la valigia portata a bordo del brick conteneva soltanto un po' di biancheria e qualche vestito; dissero di non aver trovato nessun pugnale malese sul relitto della Wilhelmina e che non sapevano rendersi conto del fatto che il kriss fosse stato rintracciato nella loro valigia. All'affermazione che detta valigia conteneva le carte e il denaro del capitano Gibson, essi opposero 15

È la formula d'uso nei tribunali inglesi. (N.d.T.)

formale smentita. O il nostromo si sbagliava o alterava volutamente la verità. — A quale scopo? — chiese il presidente. — Allo scopo di rovinarci — dichiarò Karl Kip — e di vendicarsi! Quelle parole furono accolte dall'uditorio con un mormorio di protesta. Spettava ora al procuratore generale – era un avvocato a farne le veci – interrogare i testimoni ed esaminare le loro deposizioni; dopo sarebbe spettato al difensore procedere a un controinterrogatorio. Flig Balt, interpellato, rispose: — Durante il viaggio di ritorno ero entrato nel quadrato quando un colpo di mare buttò la valigia fuori della cabina dei fratelli Kip, la cui porta era aperta. Ne sfuggirono delle carte e alcune piastre rotolarono sul pavimento della tuga: le carte erano quelle di bordo scomparse dopo l'assassinio del capitano. Flig Balt non aveva parlato del pugnale perché non lo aveva visto. Ignorava persino che quell'arma appartenesse agli accusati; ora però non si stupiva più del fatto che la polizia l'avesse sequestrata nella camera d'albergo dei fratelli Kip, poiché era quella l'arma del delitto. D'altra parte, se i due fratelli non esitavano a dichiarare d'averla acquistata alle Molucche, ad Amboine, affermavano per contro che il pugnale era scomparso nel naufragio della Wilhelmina. Essi insistevano soprattutto nel dire che né l'uno né l'altro lo avevano mai portato a bordo del James Cook e che non sapevano spiegarsi come mai esso fosse stato ritrovato nella valigia. Pieter si limitò a dire: — Negli arcipelaghi della Melanesia, kriss del genere se ne vendono in gran numero; solo pochi indigeni non ne posseggono uno, perché esso costituisce la loro arma familiare. Potrebbe darsi che quella che voi asserite esser stata l'arma del delitto non sia la nostra: tutti i kriss sembrano uguali, essendo tutti di fabbricazione malese. La risposta suscitò altri mormorii ostili, subito repressi dal presidente. Il procuratore generale fece però osservare che quel pugnale era proprio l'arma del delitto, perché la ghiera mandata dal signor Zieger si adattava ad esso perfettamente, che ne era privo.

— Aggiungerò — disse allora Pieter Kip — che nessuno a bordo ha mai visto quell'arma nelle nostre mani. Se noi l'avessimo trovata, è probabile che l'avremmo mostrata al signor Hawkins e a Nat Gibson. Ma quella argomentazione non serviva a nulla e i due fratelli lo compresero perfettamente. Quel pugnale era il loro, senza alcun dubbio, e la ferita era stata provocata dalla sua lama dentata; la ghiera mancante era proprio quella raccolta sul luogo del delitto nella foresta di Kerawara. Pieter Kip si limitò a fare, perciò, quest'ultima osservazione: — Mio fratello ed io siamo vittime di circostanze assolutamente inspiegabili! Perché avremmo dovuto uccidere l'uomo al quale dovevamo la nostra salvezza e la nostra vita? Questa accusa è ingiusta e odiosa: ad essa non risponderemo più! Pronunciate con voce che non tradiva nessun turbamento, quelle parole parvero suscitare una certa commozione nel pubblico; ma ormai la persuasione di colpevolezza era stata raggiunta e in quella dichiarazione si volle solo vedere un espediente della difesa. Se i fratelli Kip rifiutavano di rispondere ad altre domande non era forse perché non sapevano che cosa dire? Furono poi ascoltati gli altri testimoni: prima di tutti, Nat Gibson, il quale, incapace di controllare i propri sentimenti, inveì contro Karl e Pieter Kip. I due fratelli lo guardarono con compassione; se avessero preso la parola gli avrebbero detto: — Comprendiamo il tuo dolore… e non possiamo fartene colpa. Quando fu chiamato a testimoniare, il signor Hawkins parve sopraffatto dai ricordi. Era mai possibile che i due naufraghi ospiti del James Cook potessero ripagare con un delitto orribile la generosità e la cortesia del capitano? Gli dovevano la vita e lo avrebbero assassinato, invece, per derubarlo, pur sapendo che Harry Gibson e lui, Hawkins, erano ben felici di aiutarli? Accuse schiaccianti, senza dubbio, erano state fatte a loro carico… il signor Hawkins non sapeva rendersene conto… Vinto dalla commozione, non riuscì a dire altro. Nelle testimonianze dei marinai Hobbes, Wickley e Burnes non vi fu nulla da rilevare. Lo stesso si dica per quelle rese da Len Cannon,

Sexton, Kyle, Bryce e Koa. Le risposte che Vin Mod diede al procuratore generale furono sempre affermative per ciò che riguardava Flig Balt. Alcuni giorni prima che scoppiasse il tentativo di rivolta a bordo del brick, il nostromo gli era parso pervaso da una sorda collera. Era forse perché Karl Kip lo aveva sostituito nel comando della nave? Vin Mod aveva sempre creduto che Flig Balt avesse altri gravi motivi. — Non vi ha confidato nulla? — gli chiese il procuratore generale. — Nulla — rispose Vin Mod. Rimaneva pur sempre una considerazione in favore dei due accusati: nessuno aveva mai visto il pugnale nelle loro mani durante la traversata; e ciò risultava anche dalla stessa dichiarazione di Flig Balt. Non senza motivo, Pieter Kip poté quindi dichiarare nuovamente: — Se il kriss fosse stato ritrovato da noi sul relitto, se fossimo stati noi a portarlo a bordo del brick, non lo avremmo certamente nascosto, come non abbiamo mai nascosto gli altri oggetti contenuti nella valigia. C'è forse un solo testimone che possa dire d'aver visto in nostro possesso il pugnale? Neppure uno. Soltanto nel corso della perquisizione fatta nella nostra camera, all'albergo del «Great-OldMan», gli agenti lo hanno sequestrato insieme con le carte e il denaro del capitano. Poiché è stato trovato là, noi affermiamo che qualcuno ce lo aveva messo a nostra insaputa e in nostra assenza! A questo punto del dibattimento, si verificò un gravissimo incidente, di natura tale da distruggere ogni dubbio nell'animo dei giurati, se ne rimaneva ancora qualcuno in favore degli imputati. Jim, il mozzo, fu chiamato a fare la sua deposizione. — Jim, devi dirci tutto ciò che sai — gli disse il presidente — e soltanto quello di cui sei sicuro. — Sì, signor presidente — rispose Jim. Il suo sguardo esitante parve che cercasse quello del signor Hawkins. L'armatore ebbe allora il presentimento che egli stesse per fare un'importante rivelazione; qualcosa che Jim non aveva osato dire fin allora. Quando il procuratore generale lo interrogò, rispose:

— Si tratta del pugnale che nessuno avrebbe visto a bordo… del kriss dei signori Kip… Jim si arrestò: non riusciva a nascondere il proprio turbamento. Esitava a parlare. Incoraggiato dal presidente, finì per dichiarare: — Quel pugnale… io l'ho visto! I fratelli Kip sollevarono il capo. L'ultima tavola di salvezza alla quale si erano aggrappati stava forse per sfuggire loro di mano? Il kriss fu mostrato a Jim. — È questo il pugnale? — gli chiese il procuratore generale. — Sì, lo riconosco. — Affermi di averlo visto a bordo? — Sì. — Dove? — Nella cabina dei signori Kip. — Proprio nella loro cabina? — Sì. — Quando? — Quando il James Cook fece sosta, la prima volta, a Port Praslin! E Jim allora narrò in quale occasione egli aveva visto per la prima volta il pugnale; che l'arma aveva attirato la sua curiosità e che, dopo averla presa in mano, l'aveva poi deposta dove l'aveva trovata. Come sappiamo, il pugnale era stato portato nella cabina da Vin Mod, alcuni istanti prima che Flig Balt vi mandasse il mozzo, appunto perché questi lo vedesse. Subito dopo, Vin Mod lo aveva ripreso per nasconderlo nel suo sacco. La dichiarazione del ragazzo produsse viva sensazione e una commozione alla quale pubblico, giudici e giurati non riuscirono a sottrarsi. Poteva rimanere ancora qualche dubbio? I fratelli Kip affermavano che il kriss non era stato mai portato a bordo, e invece vi era stato visto e poi trovato nella loro valigia, all'albergo del «Great-Old-Man». — Il kriss, quando lo hai preso in mano, aveva la ghiera? — chiese il procuratore al mozzo. — Sì — rispose Jim. — Non vi mancava nulla. Era dunque certo che la ghiera s'era staccata dal pugnale durante

la lotta degli assassini con il capitano, essendo stata raccolta, qualche tempo dopo, nella foresta di Kerawara. Alla deposizione di Jim non c'era nulla da ribattere e nulla dissero gli accusati. Persino il signor Hawkins sentì vacillare le proprie convinzioni; ma come poteva mai immaginare che i fratelli Kip fossero le vittime di un tranello predisposto da Vin Mod? che il miserabile aveva portato il pugnale a bordo di nascosto, per lasciarlo vedere al mozzo per pochi istanti nella cabina degli accusati, prima di adoperarlo per il delitto e che gli assassini del capitano erano Flig Balt e lui, uniti in questa orribile macchinazione ordita per annientare due innocenti? Nat Gibson chiese la parola: voleva richiamare l'attenzione dei giurati su di un fatto del quale non si era parlato, ma che era bene tener presente. Autorizzato a parlare, egli disse: — Signori giudici e signori giurati, voi già sapete che durante la traversata dalla Nuova Zelanda all'arcipelago delle Bismarck il James Cook dovette combattere per respingere l'assalto dei papua all'altezza delle Luisiadi. Ufficiali, passeggeri ed equipaggio concorsero insieme alla difesa del brick, mio padre in prima fila. In quella occasione, fu sparato un colpo durante la mischia, non si sa bene da chi: quella pallottola sfiorò la testa di mio padre. Signori, finora ho sempre creduto che si trattasse di un colpo accidentale, dovuto all'oscurità e all'ardore della difesa; ora ho cambiato idea e penso che si trattasse di un attentato premeditato contro mio padre, che si era già deciso di ammazzare… E da chi, se non da coloro che lo avrebbero assassinato più tardi? La nuova tremenda accusa fece scattare in piedi Karl Kip; con l'occhio acceso e la voce fremente di sdegno gridò: — Noi! Come osate dir questo, Nat Gibson? Karl era fuori di sé. Il fratello gli prese la mano e lo fece sedere, cercando di calmarlo. Ansimava con il cuore gonfio di singhiozzi. Quell'episodio commovente turbò i presenti. Dagli occhi del signor Hawkins sgorgarono le lagrime. Vin Mod toccò con il ginocchio quello del nostromo; poi guardò furtivamente il compagno, come se volesse dirgli:

— A questo non avevo pensato! Il figlio del capitano non se n'è invece dimenticato! Il compito dell'accusatore ora sarebbe stato facilissimo. Furono portati a conoscenza dei giurati i precedenti dei fratelli Kip; la loro situazione economica in difficoltà, la liquidazione che pesava come una minaccia sulla ditta di Groningen. Nel naufragio della Wilhelmina avevano perduto ciò che possedevano. Il denaro portato da Amboine lo avevano certamente ritrovato sul relitto – senza farlo sapere ad altri – insieme con il pugnale, di cui si sarebbero serviti poche settimane dopo. Avevano spogliato inoltre il disgraziato capitano delle poche migliaia di piastre delle quali solo uno sparuto quantitativo era stato trovato nella valigia. Chissà poi se Karl Kip non aveva già pensato di succedere alla sua vittima nel comando della nave come del resto era accaduto… In quali condizioni sarebbe stato commesso il reato? I giurati ora non lo ignoravano più. Quando il signor Harry Gibson era sbarcato per recarsi dal signor Hamburg, i due fratelli non erano più a bordo. Essi lo aspettavano, lo spiavano… Lo avevano seguito nella foresta di Kerawara per assalirlo e trascinarne poi il corpo fuori del sentiero. Dopo averlo spogliato del denaro e delle carte, erano tornati a bordo senza che nessuno potesse sospettare di loro. Il giorno dopo avevano avuto il coraggio di unirsi al corteo che aveva accompagnato il capitano all'ultima sua dimora unendo le loro lagrime a quelle del figlio. L'accusa chiedeva perciò ai giudici di non aver pietà per gli assassini; chiedeva un verdetto di colpevolezza per tutte le imputazioni: era la pena di morte per Karl e Pieter Kip. Il difensore prese poi la parola e non venne meno al suo compito. Ma avrebbe mai potuto sperare che i suoi sforzi sarebbero stati coronati dal successo? Egli capiva che giudici e pubblico s'erano già formati il proprio convincimento; che cosa avrebbe potuto opporre alle prove raccolte contro gli accusati? Null'altro che presunzioni morali, le quali non avrebbero avuto peso sul piatto della bilancia! Parlò del passato dei suoi clienti, della loro vita onorata, nota a tutti coloro che avevano avuto rapporti con loro. Che la ditta di Groningen non fosse in ottime condizioni finanziarie e che essi

avessero perduto le loro ultime risorse nel naufragio della Wilhelmina era verissimo! Ma, attentare alla vita del capitano Gibson per procurarsi qualche migliaio di piastre, cifra modestissima… uccidere colui che aveva salvato loro la vita… No! non era ammissibile! I fratelli Kip erano vittime di una fatalità inspiegabile. Rimanevano molti dubbi che dovevano esser considerati a loro favore e guidare la giuria verso l'assoluzione. Terminato il dibattito, i giurati si ritirarono in camera di consiglio. Nat Gibson rimase al banco dei testimoni con il capo fra le mani. Non si creda, però, che l'avvocato della difesa fosse riuscito a far nascere nel suo animo il più piccolo dubbio. No! per lui, Karl e Pieter Kip erano gli assassini di suo padre. Il signor Hawkins si teneva in disparte; con il cuore infranto guardava il posto vuoto che tra breve gli accusati avrebbero ripreso per ascoltare la sentenza. Il mozzo gli si fece vicino e gli disse con voce tremante: — Signor Hawkins… non potevo testimoniare altrimenti, non è vero? — Non potevi, ragazzo mio… — rispose il signor Hawkins. Il consiglio andava intanto per le lunghe. Forse la colpevolezza degli imputati non appariva a tutti dimostrata a sufficienza? Forse la giuria avrebbe concesso il beneficio delle attenuanti, in relazione al comportamento dignitoso dei due fratelli che nel corso del dibattito aveva impressionato favorevolmente i giudici? Due uomini non riuscivano a dissimulare la loro impazienza: il nostromo e Vin Mod che sedevano in silenzio l'uno accanto all'altro. Non avevano bisogno di parlare per capirsi e per dirsi ciò che pensavano. Quello in cui speravano e che occorreva alla loro impunità era la condanna capitale, l'esecuzione dei fratelli Kip! Una volta morti, sarebbe stato tutto finito. Vivi, anche se cacciati in fondo a un bagno penale, avrebbero protestato sempre la loro innocenza, e forse il caso avrebbe potuto mettere la giustizia sulle tracce dei veri colpevoli… Dopo trentacinque minuti di camera di consiglio, suonò il campanello e i giurati vennero a prendere il proprio posto in sala. Il verdetto aveva dunque raccolto l'unanimità.

Il pubblico rientrò subito, spingendosi e accalcandosi tra il chiasso e la confusione. Riapparsi quasi subito i magistrati il presidente fece annunciare la ripresa dell'udienza. Il capo dei giurati fu invitato a far conoscere il verdetto. Affermativo su tutti i punti, non concedeva agli accusati neppure le circostanze attenuanti. Furono fatti entrare Karl e Pieter Kip. Ripresero il loro posto, ma rimasero in piedi. Il presidente e i giudici deliberarono allora brevemente sulla pena da infliggere agli accusati per il crimine di assassinio con premeditazione. Karl e Pieter Kip furono condannati a morte. All'annuncio della condanna seguirono alcuni applausi. I due fratelli si guardarono con. dolore; si presero per mano, ma poi allargarono le braccia e, senza dir parola, si strinsero l'uno al petto dell'altro.

CAPITOLO VII IN ATTESA DELL'ESECUZIONE I FRATELLI Kip non dovevano dunque attendersi più nulla dalla giustizia degli uomini: essa si era già pronunciata contro di loro, senza neppure ammettere attenuanti per il delitto che veniva loro imputato. Nessun argomento, presentato dalla difesa, era stato accolto dai giurati. L'atteggiamento fermo e dignitoso mantenuto dagli accusati nel corso del dibattimento, lo sdegno che a volte Karl Kip manifestava con parole indignate e le serene spiegazioni di Pieter Kip nulla avevano potuto contro i fatti esposti e contro le imputazioni così malvagiamente accumulate sul loro capo, dopo le dichiarazioni del miserabile Flig Balt, suffragate dall'ultima deposizione del mozzo! Finché Karl e Pieter Kip avevano potuto asserire che l'arma del delitto non era mai stata trovata nelle loro mani; finché avevano potuto sostenere, non senza apparente fondamento, che essendo il kriss l'arma più diffusa presso gli indigeni della Melanesia, il pugnale dal quale la ghiera si era staccata doveva appartenere a un indigeno di Kerawara o dell'isola di York oppure di qualche altro vicino isolotto, qualche incertezza sembrava ammissibile. Ma quel pugnale era proprio quello che essi avevano trovato sul relitto e portato a bordo del James Cook senza mostrarlo a nessuno; com'era dunque possibile mettere in dubbio la dichiarazione del mozzo che l'aveva visto nella loro cabina? La condanna ebbe subito il risultato di dare soddisfazione alla popolazione di Hobart Town. Nell'odio generale per gli assassini, c'era gran parte di quell'egoismo caratteristico dei popoli anglosassoni, che non vuole controprove. L'assassinato era un inglese; e stranieri, olandesi, erano quelli che l'avevano ucciso… In presenza di tale delitto, chi avrebbe mai osato aver pietà per gli

assassini? Nessuno, quindi, del pubblico e neppure uno solo dei numerosi giornali della Tasmania alzò la voce nell'intento di ottenere la commutazione della pena. Non si rimproveri al figlio della vittima l'orrore che suscitavano in lui i fratelli Kip. Credeva nella loro colpevolezza, come credeva in Dio: una colpevolezza non fondata su presunzioni, ma su prove certe. Negazioni, proteste, erano tutto quello che gli accusati avevano potuto opporre a testimonianze concordi e precise. Dopo aver disperato a lungo di riuscire a rintracciare gli assassini di suo padre, ora finalmente li conosceva: erano due mostri che dovevano la loro vita al capitano e che avevano risposto alla sua bontà e alla sua generosità con il più vile assassinio! Dei pochi motivi, più o meno validi, che potevano militare in favore della loro innocenza, egli non voleva veder nulla, non poteva veder nulla a causa dell'indignazione e del dolore che lo accecavano. Il giorno in cui venne emessa la sentenza della Corte criminale, quando tornò a casa disse alla madre: — Madre, pagheranno il loro delitto con la propria testa e mio padre sarà vendicato! — La voce gli tremava di sdegno. — Dio abbia pietà! — mormorò la signora Gibson. — Pietà per quei miserabili? — esclamò Nat Gibson, dando quel significato alla risposta di sua madre. — No, Dio abbia pietà di noi, ragazzo mio! — rispose la signora Gibson, stringendo il figlio tra le braccia. Queste erano le prime parole che Nat Gibson aveva pronunciato, non appena varcata la soglia della casa paterna. Ecco ora ciò che disse l'armatore, quando si ritrovò in presenza della moglie al termine della udienza: — Condannati… — Condannati?… — A morte, poveri giovani!… Voglia il Cielo che la giustizia umana non si sia sbagliata! — Dubiti sempre, amico mio? — Sempre! Come si vede, più per un'oscura intuizione che per un convincimento razionale, il signor Hawkins si rifiutava ancora di

riconoscere la colpevolezza dei fratelli Kip. Non riusciva a crederli colpevoli di un delitto così odioso verso il loro benefattore per il quale avevano sempre mostrato molta gratitudine! Il movente, un movente apparentemente incontestabile, gli sfuggiva. In altri termini, quale vantaggio avrebbero tratto dalla morte del signor Gibson? Alcune migliaia di piastre; e per quanto riguarda la speranza di sostituirlo nel comando della nave, come sarebbe stato possibile realizzarla, considerato che il nostromo che esercitava le funzioni di secondo era quello che avrebbe dovuto sostituire il capitano? Per non tacere nulla, il signor Hawkins era tuttora scosso dalla deposizione resa dal mozzo Jim. Egli era certo che il pugnale, sequestrato nella camera dei due fratelli nella locanda del «GreatOld-Man», fosse stato visto da Jim nella loro cabina, a bordo del James Cook. Karl oppure Pieter Kip lo avevano preso a bordo del relitto della Wilhelmina e se non lo avevano mostrato a nessuno ciò derivava dal fatto che a loro non conveniva farlo vedere. L'accusa ne traeva perciò la conseguenza che l'idea del delitto fosse già germinata nella loro mente. Ebbene no! nonostante tante prove schiaccianti e nonostante il verdetto di colpevolezza emesso da giurati onesti con assoluta indipendenza di giudizio il signor Hawkins non si arrendeva. Quella condanna gli ripugnava. Il processo Kip lo turbava profondamente; se non ne parlava con Nat Gibson, a causa della sua particolare disposizione d'animo, non per questo ne soffriva meno, sapendolo ostile alla sua convinzione. Tuttavia, egli non disperava: un giorno o l'altro la giustizia gli avrebbe dato ragione! In simili occasioni, di solito, le opinioni spesso non sono concordi: alcuni ritengono l'accusato innocente, altri colpevole. Ma a Hobart Town e in altre città della Tasmania ciò non accadeva. Chi avrebbe mai potuto immaginare un mutamento di opinione in favore dei fratelli Kip? Il signor Hawkins sapeva perfettamente che tutti sarebbero stati contro di lui, ma ciò non lo scoraggiava: aveva fede! e che cosa non si può sperare dal tempo, che è spesso il grande correttore degli errori umani? Ma stavolta sarebbe forse mancato il tempo. Il ricorso presentato dai fratelli Kip contro la loro condanna non avrebbe tardato ad essere

respinto. Non c'era motivo per annullare la sentenza e si prevedeva che la sua esecuzione avrebbe avuto luogo nella seconda quindicina di marzo, un mese dopo la condanna. Non si può negare che quell'esecuzione era attesa con un'impazienza veramente feroce da quella parte della popolazione che è sempre pronta alla brutalità e agli eccessi e che altro non chiede che di sostituirsi agli agenti della giustizia; quella insomma che vuol linciare i colpevoli, o quelli che ritiene tali. E forse è ciò che sarebbe capitato a Hobart Town, se i giurati non avessero dato soddisfazione ai malvagi istinti della folla, se non fosse stata pronunciata dalla Corte criminale la condanna capitale che essa attendeva. Il giorno dell'espiazione, quella folla si sarebbe accalcata intorno alla prigione. E non sarebbero mancati, in prima fila, altri spregevoli furfanti, e cioè Flig Balt e Vin Mod, per assicurarsi con i propri occhi che Karl e Pieter Kip avrebbero pagato con la vita il delitto di cui soltanto loro due erano gli autori. Avrebbero potuto allora respirare liberamente e lanciarsi in altre avventure, senza aver più nulla da temere! Dopo l'udienza, i due fratelli erano stati condotti in prigione; e non ci si stupisca se il loro passaggio aveva provocato gli ignobili insulti della plebaglia dalla quale si era reso necessario proteggerli. Agli oltraggi essi avevano opposto un dignitoso e sdegnoso silenzio. Quando la porta della prigione si chiuse alle loro spalle, il capo carceriere non li ricondusse nelle celle che avevano già occupato separatamente, sin dal loro imprigionamento, ma nelle celle dei condannati a morte. Se non altro, tra tante pene, avrebbero avuto la consolazione di essere insieme. In quegli ultimi giorni di vita, avrebbero potuto, con il pensiero, riandare ai ricordi del passato e vivere l'uno vicino all'altro, fino ai piedi del patibolo. In quella cella essi non avevano certo la solitudine che avrebbero voluto godere ardentemente. I guardiani non dovevano lasciarli soli né di giorno né di notte, ma sorvegliarli, ascoltare i loro discorsi. Ai loro sfoghi più intimi sarebbero state presenti altre persone, alle quali, senza dubbio, essi non ispiravano nessuna pietà. Abbiamo avuto occasione di rilevare che se Karl Kip aveva dato più volte ampio sfogo alla propria indignazione, dinanzi all'orrenda ingiustizia che vedeva due innocenti mandati a morte, suo fratello,

invece, che cercava sempre di moderare il suo sdegno, si mostrava tranquillo e rassegnato al suo destino. Del resto, Pieter Kip non si faceva illusioni sul ricorso che entrambi avevano firmato seguendo i consigli del loro avvocato. Se Karl, in fondo al cuore, aveva conservato la speranza che la sentenza venisse annullata, che si dovesse rifare il processo e che il tempo così guadagnato avrebbe permesso alla verità d'emergere in tutto il suo splendore, egli invece non nutriva alcuna speranza. Pensando alla gravità delle accuse che pesavano sulle loro spalle, da dove sarebbe giunto il soccorso? Quale intervento sarebbe stato in grado di salvarli se non quello della Provvidenza? Poi, col pensiero tornavano al passato, ai colpi dell'avversa fortuna che i avevano oppressi e, per cominciare, al naufragio della Wilhelmina, causa di quelle sventure che li avevano condotti al punto in cui erano. Sarebbe stato meglio se il James Cook non fosse venuto a raccoglierli sull'isola di Norfolk! Quanto meglio, se il capitano Gibson non avesse scorto i loro segnali! Sarebbero certamente morti di fame e di stenti in quell'isola deserta; ma non della morte infamante del capestro riservata agli assassini! — Pieter! — diceva Karl Kip. — Se nostro padre fosse ancora vivo… le vedesse il suo nome disonorato! Questa vergogna lo ucciderebbe! — Credi che ci avrebbe creduti colpevoli? — No, fratello mio; mai! E allora cominciavano a parlare di coloro con i quali erano vissuti per alcune settimane, di coloro che li avevano salvati e che avevano mostrato per essi tanta simpatia, e verso i quali avevano un grosso debito di riconoscenza! Che Nat Gibson, nel suo grande dolore, avesse assunto nei loro confronti un atteggiamento accusatore, essi lo capivano… si mettevano nei suoi panni… era il figlio della vittima! Ma com'era possibile perdonargli di credere che fossero gli assassini di suo padre? Riguardo al signor Hawkins, essi avevano compreso, dal riserbo della sua deposizione, che il dubbio aveva lasciato qualche ombra nel suo cuore. Essi dicevano a se stessi che il cuore di quell'uomo onesto

non era forse chiuso del tutto per essi. Alle testimonianze così sicure del nostromo e del mozzo, anche se non aveva potuto opporre che presunzioni morali, egli se non altro le aveva presentate ai giurati secondo i suggerimenti della sua coscienza. E i testimoni avrebbero, forse, potuto deporre altrimenti? Riguardo a Flig Balt, i due fratelli vedevano nel suo miserabile modo di agire soltanto il soddisfacimento del suo odio, una vendetta contro il nuovo comandante del James Cook, contro il capitano che aveva soffocato energicamente la rivolta e inviato il suo capo in fondo alla stiva. Le carte di Harry Gibson e il pugnale che apparteneva a loro, se si trovavano nella loro valigia, voleva dire che ce li aveva messi – nel solo intento di annientare i due fratelli – colui che li aveva rubati! Come avrebbero mai potuto immaginare che uno degli assassini di Kerawara fosse proprio il nostromo? Neppure il signor Hawkins, che cercava nuove piste, riusciva a seguirne una sola con qualche speranza di successo. Egli credeva, del resto, che l'attentato dovesse esser stato commesso da indigeni dell'isola di York: forse le autorità germaniche avrebbero un giorno o l'altro finito per scoprirli… Frattanto si avvicinavano il giorno e l'ora in cui due uomini, due fratelli, avrebbero subito l'estremo supplizio per un delitto che non avevano commesso! Sempre più ossessionato dalla persuasione che Karl e Pieter Kip fossero innocenti, anche se gli era impossibile averne la prova, il signor Hawkins aveva cominciato a fare dei passi in loro favore. Il governatore della Tasmania era ben conosciuto dal signor Hawkins, il quale stimava sua eccellenza sir Edward Carrigan come uomo di senno e di sicuro giudizio. Decise perciò di domandargli subito udienza, e la mattina del 25 febbraio si recò da lui. Fu immediatamente ricevuto. Il governatore non immaginava neppure alla lontana quale motivo avesse condotto il signor Hawkins alla sua presenza. Aveva seguito con interesse, come tutti, il dibattimento del processo Kip e non dubitava affatto della colpevolezza dei condannati. Grande fu perciò la sua sorpresa, quando il signor Hawkins gli manifestò la sua opinione.

E poiché lo ascoltava con molta attenzione, il signor Hawkins parlò con assoluta sincerità e con tanta foga delle due vittime di quell'errore giudiziario, mettendo in evidenza con grande logica i punti oscuri e incerti, o quanto meno inspiegabili, della loro causa, che il governatore ne fu in parte scosso. — Vedo, mio caro Hawkins — disse — che durante la traversata a bordo del James Cook Karl e Pieter Kip hanno saputo acquistarsi la vostra stima, mostrandosene sempre degni. — Li ritenevo e li ritengo ancora dei galantuomini, signor governatore — disse il signor Hawkins con tono convinto. — Non posso fornirvi prove materiali a sostegno della mia persuasione, perché esse finora mi sfuggono, e forse non le avremo mai… Ma nulla di ciò che è stato detto nel corso del dibattito, né una sola delle testimonianze prodotte ha potuto far vacillare la certezza che io ho dell'innocenza di quei due sventurati. Vostra eccellenza avrà notato che le testimonianze si riducono, in fondo, a una sola: a quella del nostromo, che io ora ho motivo di considerare con grave sospetto. Egli ha agito per odio e accusa per vendetta i fratelli Kip di un delitto di cui essi non sono colpevoli, e che io attribuisco, invece, a qualche indigeno di Kerawara… — Ma c'è un'altra testimonianza, oltre a quella di Flig Balt… — La testimonianza del mozzo, signor governatore, che io accetto integralmente perché quel ragazzo è incapace di mentire. Sì, Jim ha visto nella cabina dei fratelli Kip il pugnale che essi non sapevano di avere. Ma è proprio l'arma del delitto? e la storia della ghiera non potrebbe essere frutto di coincidenze fortuite? — Essa ha sempre valore, e bisognava tenerne conto… — Certamente, signor governatore, e perciò ha influito sulla giuria. Tuttavia, ripeto, il passato dei fratelli Kip perora in loro favore. Per parlarvi in questo modo, bisogna che dimentichi il dolore suscitato in me dalla morte del mio povero amico Gibson, che avrebbe potuto mettermi una benda sugli occhi, come è capitato a suo figlio, che io compiango e scuso!… Io invece intuisco la verità, tra le oscurità di questo processo, e sono persuaso che un giorno o l'altro essa verrà a galla! Il governatore era visibilmente scosso dalle dichiarazioni del

signor Hawkins, di cui conosceva l'animo probo e retto. Le sue argomentazioni poggiavano senza dubbio sopra un fondamento morale; ma, dopo tutto, in cause del genere, le prove materiali non rappresentano l'unica argomentazione e bisogna tener conto anche delle altre. Dopo un breve silenzio, sir Edward Carrigan rispose: — Vi capisco, mio caro Hawkins. Mi rendo conto del valore della vostra opinione. Ma, ora, ditemi: che cosa volete da me? — Che vogliate intervenire, se non altro, per salvare la vita di quegli sventurati. — Intervenire? — rispose il governatore. — Voi sapete che il solo modo di intervenire era quello di fare ricorso contro la sentenza. Il ricorso è stato presentato in tempo utile e rimane solo da sperare che sia accolto tra brevissimo tempo. Mentre il governatore parlava, il signor Hawkins non aveva potuto trattenere un gesto di diniego. A sua volta, rispose: — Signor governatore, non mi faccio illusioni riguardo al ricorso. Le formalità giuridiche sono state in questo processo regolarmente seguite. Non c'è nessun motivo che permetta d'annullare la sentenza; il ricorso verrà perciò respinto. Il governatore tacque: sapeva che il signor Hawkins aveva ragione. — Sarà respinto, vi ripeto — riprese il signor Hawkins. — E allora, signor governatore, voi solo potrete tentare un ultimo sforzo per salvare i condannati. — Mi chiedete di sollecitarne la grazia? — Sì, la grazia della regina. Potreste mandare un dispaccio al lord che è a capo della giustizia, affinché la pena sia commutata, la qualcosa ci consentirebbe di avere l'avvenire dinanzi a noi… o quanto meno che si soprassieda all'esecuzione della sentenza. Avrò il tempo, allora, di fare altri passi; tornerò, se necessario, a Port Praslin e a Kerawara, aiuterò nelle indagini i signori Hamburg e Zieger, e finiremo per scoprire i veri colpevoli, senza badare a spese e alla fatica! Se insisto, lo si deve al fatto che mi sento spinto da una forza irresistibile: riconosciuta finalmente la verità, la giustizia non avrà motivo di rimproverarsi, dopo, la morte di due innocenti!

Il signor Hawkins salutò poi il governatore, non senza che quest'ultimo lo invitasse a tornare da lui per parlare ancora della faccenda. Ed è proprio ciò che quell'uomo di cuore fece ogni giorno. In tal modo, per la sua devozione, la causa dei due fratelli guadagnò terreno nell'animo di sua eccellenza che alla fine volle unirsi a lui nell'opera di riparazione. Il segreto di quei passi rimase custodito dal governatore e dal signor Hawkins. Nessuno seppe mai che, senza neppur attendere la decisione relativa al ricorso, Edward Carrigan aveva inviato in Inghilterra un telegramma ufficiale per chiedere la grazia a sua maestà la regina. Il 7 marzo, corse voce in città che il ricorso presentato dai fratelli Kip era stato respinto. La notizia era fondata e non provocò nessuna sorpresa. Dall'inizio del processo, tutti s'aspettavano una sentenza di condanna, anzi la condanna alla pena capitale, e nessuno avrebbe dubitato che essa non dovesse esser seguita dall'esecuzione. Nessuno del resto immaginava che il governatore della Tasmania fosse intervenuto presso la regina, né che il signor Hawkins avesse fatto presso di lui tante sollecitazioni a questo scopo. La popolazione di Hobart Town credeva dunque che l'esecuzione fosse vicina e tutti sanno quale irresistibile e malsana curiosità provochino questi supplizi, sia presso le popolazioni anglosassoni sia presso quelle latine. Secondo le leggi inglesi l'impiccagione dei condannati non viene eseguita sulla pubblica piazza, ma soltanto alla presenza di alcune persone a ciò designate; e questo è già un progresso. La folla però si accalca egualmente intorno alla prigione. Fin dall'alba del 7 marzo, anzi poche ore dopo la mezzanotte, molti curiosi vi affluivano per vedere issare la bandiera nera che indica il momento del supplizio. Desterà meraviglia, forse, che tra di essi fossero anche Flig Balt, Vin Mod, Len Cannon e i suoi compagni, che non avevano ancora lasciato Hobart Town? Il nostromo e il suo complice volevano vedere con i propri occhi ridiscendere la bandiera, dopo l'esecuzione della sentenza, ed essere certi, in tal modo, che altri avevano pagato per loro il debito per il delitto commesso. Non ci sarebbe stato più

motivo, allora, di rifare il processo e i due miserabili avrebbero potuto far ritorno alla loro taverna dove le piastre rubate sarebbero state spese in gin e whisky. La signora Gibson e suo figlio, che non si trovavano a Hobart Town, vi sarebbero rientrati dopo l'esecuzione. Quando Nat ne aveva parlato al signor Hawkins, l'armatore si era limitato a rispondergli: — Hai ragione, Nat… è meglio! Dopo la condanna, il signor Hawkins aveva incontrato più volte i marinai Hobbes, Wickley, Burnes e il mozzo. Quella brava gente non aveva ancora cercato imbarco; forse era loro intenzione attendere che il James Cook ripigliasse il mare con un altro capitano. Essi sapevano, del resto, di poter fare assegnamento sul signor Hawkins, quando egli avesse ricostituito l'equipaggio del brick o di un'altra nave della sua ditta. È inutile dire che avevano rotto ogni rapporto con Flig Balt, Vin Mod e con gli altri compagni del vecchio equipaggio della nave. Il 19 marzo la città cominciava a stupirsi del fatto che non fosse ancora giunto l'ordine dell'esecuzione, la qual cosa preoccupava per motivi personali Flig Balt e Vin Mod. Questi erano fermamente decisi peraltro, se ci fosse stato un rinvio, a lasciare Hobart Town: ciò prevedendo, già cercavano una nave in partenza. Nella giornata del 25 giunse da Londra un dispaccio inviato dal lord responsabile della giustizia a sua eccellenza il governatore della Tasmania. Sua maestà la regina d'Inghilterra e imperatrice delle Indie aveva concesso la grazia: la pena di morte pronunciata contro i fratelli Kip era stata commutata in quella dei lavori forzati a vita.

CAPITOLO VIII PORT ARTHUR UN MESE dopo che i condannati a morte avevano goduto del beneficio della commutazione della pena, due uomini lavoravano nel penitenziario di Port Arthur sotto la sferza degli aguzzini. Questi due forzati non facevano parte della stessa squadra: separati, non potevano scambiarsi l'un con l'altro né uno sguardo né una parola. Non condividevano neppure il capanno o la gavetta. Andavano ciascuno per la propria strada, vestiti dell'ignobile giubbotto del galeotto, oppressi dalle ingiurie della ciurma, in mezzo a quella turba di banditi che la Gran Bretagna manda alle sue colonie d'oltremare. Essi lasciavano il bagno al mattino per rientrarvi la sera, sfiniti dalla fatica, insufficientemente nutriti con cibi grossolani. Si buttavano allora sul lettino da campo, accanto a un compagno di catena, cercando inutilmente l'oblio in poche ore di sonno. Tornato il giorno, nel calore torrido dell'estate e, più tardi, nei terribili freddi invernali, avrebbero ripreso la stessa vita fino all'ora in cui la morte, tanto spesso invocata, non li avesse liberati da quella esistenza orribile. Quei due uomini erano i fratelli Kip, già da tre settimane nel penitenziario di Port Arthur. Fino alla metà del secolo XVII, la Tasmania, come si sa, fu abitata soltanto dalle più misere popolazioni della terra, e cioè da indigeni inselvatichiti quasi come animali. I primi europei che avevano posto piede su quella grande isola non valevano certamente più dei selvaggi. Dopo costoro erano però giunti gli emigranti, i quali, con l'aiuto del tempo e con molta buona volontà, ne avevano fatto una fiorente colonia. A quel tempo la Gran Bretagna aveva già stabilito un bagno penale a Botany Bay, sulla costa orientale dell'Australia, chiamata

allora Nuova Galles del Sud. Ritenendo che i francesi volessero creare un analogo bagno penale in terra tasmaniana, essa si affrettò a precederli, come fece in seguito nella Nuova Zelanda. Verso la fine dell'anno 1803, John Bowin lasciò Sydney con un drappello di truppe coloniali e sbarcò sulla riva sinistra del fiume Derwent, venti miglia sopra la foce, nel luogo detto «Ridens». Bowin conduceva un certo numero di condannati, che assommarono a quattrocento l'anno seguente, sotto il comando del tenente colonnello Collins. Questo ufficiale abbandonò Ridens e gettò le fondamenta di Hobart Town sull'altra riva del Derwent, nel luogo in cui un piccolo fiume fornisce l'acqua dolce, in fondo alla baia di Sullivan Cove, nella quale trovavano ottimo ancoraggio anche le navi di grosso tonnellaggio. La nuova città non tardò a estendersi; uno dei suoi primi edifici civili a essere costruito fu il bagno, chiuso da quattro alte mura di pietra dura come il granito. Tre elementi hanno contribuito a formare la popolazione della Tasmania: gli uomini liberi, e cioè gli emigranti, coloni che hanno abbandonato volontariamente il Regno Unito; gli emancipati, e cioè i deportati ai quali era stato concesso il condono della pena per buona condotta, o perché avevano scontato interamente la pena; i deportati, infine, che non appena a terra passavano immediatamente sotto la sorveglianza del sovrintendente, detto anche commissario delle ciurme. I deportati si dividevano in tre categorie: 1. I condannati alle pene più gravi, ospiti del bagno, che venivano utilizzati, sotto la direzione degli agenti di polizia, nei lavori più faticosi: in particolare, nella costruzione di strade. 2. I condannati per colpe meno gravi (i magistrati inglesi avevano spesso la mano pesante) i quali ottenevano il favore di prestare servizio presso i coloni, senza riceverne salario, ma erano da questi alloggiati e nutriti, secondo la razione regolamentare, e messi in grado di attendere alla domenica ai loro doveri religiosi. 3. I condannati che, per la loro buona condotta, avevano la libertà di lavorare per proprio conto: alcuni di costoro erano riusciti a far fortuna e a essere indipendenti, anche se, nonostante i tentativi fatti

dai governatori, nessuno di essi avrebbe potuto essere ammesso nella società degli uomini liberi. Tali erano stati i primi provvedimenti adottati dalla colonia, agli inizi, per l'ordinamento penale, e tali erano state le categorie dei deportati, sia uomini sia donne. Dumont d'Urville dice che al suo arrivo in Tasmania, verso il 1840, le pene inflitte ai condannati erano distinte a seconda della gravità del delitto nel modo che segue: rimprovero, condanna a far girare la ruota di un mulino per un limitato periodo di tempo, lavori forzati durante il giorno e cella d'isolamento durante la notte, lavori forzati sulle grandi strade, lavori forzati nelle squadre incatenate e, infine, invio al penitenziario di Port Arthur. A proposito di quest'ultimo penitenziario è opportuno ricordare che nel 1768 era stato fondato un penitenziario sull'isola di Norfolk: l'isola in cui erano stati raccolti i due naufraghi della Wilhelmina Karl e Pieter Kip. Ma nel 1805 il governo lo aveva fatto evacuare perché, mancando di un porto, lo sbarco vi era reso difficile. L'isola tuttavia tornò più tardi ad essere sede di colonia penale, dove l'amministrazione deportava i più pericolosi criminali della Tasmania e della Nuova Galles del Sud. Nel 1842 questo penitenziario fu definitivamente abbandonato e sostituito con quello di Port Arthur. 16 Oltre al bagno di Hobart Town, la Tasmania ne possedeva un altro, del quale è opportuno far conoscere la situazione con qualche particolare. Incisa profondamente a sud dalla Storm Bay, la grande isola è limitata a ovest dal litorale molto frastagliato, attraversato dal Derwent, la cui riva destra è occupata da Hobart Town. A oriente ha per frontiera la penisola di Tasman, battuta, dall'altro lato, dalle lunghe onde del Pacifico. Al nord, essa è legata da un istmo molto stretto alla penisola di Forestier, congiunta a sua volta al distretto di Panbroke da una stretta lingua di terra. Al sud, verso il largo, si proiettano le punte aguzze del capo del Sud Ovest e del capo Pillar. Dall'istmo, che congiunge le penisole Forestier e Tasman fino al capo Pillar, corrono circa sei miglia: fu in una piccola baia della 16

Oggi Port Arthur è destinato ad altro uso: la casa di pena in Tasmania non esiste più.. (N.d.A.)

costa meridionale che l'amministrazione fondò il penitenziario di Port Arthur. La penisola di Tasman è ricoperta da fitte foreste, ricchissime di piante idonee alla cantieristica navale, tra cui alberi dal legno durissimo che ha l'apparenza e la qualità del tek. Molti alberi già secolari sono riconoscibili dal tronco gigantesco, spoglio di rami laterali, le cui fronde si stendono soltanto sulla cima. La piccola città di Port Arthur si sviluppa in forma di anfiteatro sulla collina in fondo alla baia. Il suo porto, riparato dalle alture circostanti e ben attrezzato per lo sbarco, offre sicurezza alle navi, alle quali spesso le furiose raffiche del nord-ovest impediscono di penetrare nelle acque della Storm Bay. Del resto, le navi vi si inoltrano, eccezion fatta per i bisogni del penitenziario, soltanto per necessità, non esistendo affatto il commercio, in quel porto al quale l'avvenire potrebbe riservare una certa prosperità se ne fosse mutato l'uso che se ne fa. La popolazione di Hobart Town è composta soprattutto di impiegati governativi, d'agenti di polizia e soldati delle due compagnie di fanteria. Posto agli ordini di un capitano, il personale doveva provvedere a custodire e far funzionare il penitenziario. Il capitano si chiamava allora Skirtle; risiedeva a Port Arthur, ove occupava una comoda abitazione, sopra un'altura del litorale, la cui vista si stendeva sul mare. A quel tempo, il penitenziario era diviso in due parti, destinate a due distinte categorie di deportati. La prima era posta a sinistra, entrando nel porto. Il suo nome – Point Puer – indicava che essa era destinata ai giovani detenuti: ospitava infatti varie centinaia di ragazzi tra i dodici e i diciotto anni. Deportati troppo spesso per delitti non gravi, occupavano delle baracche di legno attrezzate a laboratori e a dormitori. Si cercava in tal modo di ricondurli sulla retta via per mezzo del lavoro, con l'istruzione moralizzatrice che il regolamento imponeva e con le lezioni che i ragazzi ricevevano da un pastore incaricato di provvedere alle pratiche religiose. A volte, ne venivano fuori bravi calzolai, falegnami, carpentieri e buoni operai in altri mestieri manuali che avrebbero potuto assicurar loro una vita onesta. A quei

giovani reclusi la vita però era resa dura dalle minacce delle punizioni, come l'internamento in cella, l'essere posti a pane e acqua e l'uso dello staffile sempre brandito dai guardiani contro i recalcitranti. Una parte di quelli che lasciavano il penitenziario, dopo avere scontato la pena, rimanevano nella colonia per lavorarvi come operai, il resto invece ritornava in Europa. I primi conservavano traccia delle buone lezioni ricevute; i secondi, purtroppo, non tardavano a dimenticarle. Risospinti sulla via del crimine, erano nuovamente condannati alla deportazione, quando non finivano sulla forca, e in tal caso rinchiusi nel penitenziario degli uomini, talora a vita, e sottoposti ai rigori di una ferrea disciplina. La seconda parte conteneva circa ottocento deportati ed è per questo motivo che era stato giustamente detto che essa conteneva la «feccia dei banditi d'Inghilterra», scesi fino all'ultimo gradino della scala della depravazione umana. così erano un tempo i deportati dell'isola di Norfolk, prima che venissero trasferiti in Tasmania. Non ce n'era uno solo che non avesse una fedina penale piena di assassinii o di furti. Quasi tutti erano stati condannati alle pene più gravi, tranne quella determinante: la pena di morte. A Port Arthur era stata presa, ovviamente, ogni precauzione per impedire le evasioni, le quali avevano qualche probabilità di riuscita soltanto se fatte dalla parte del mare e sempre che i fuggiaschi riuscissero a impadronirsi di un'imbarcazione che li trasportasse in un punto del litorale, di là dalla penisola di Tasman. Ma occasioni del genere erano rare. I deportati non avevano accesso al porto, a meno che non vi fossero impiegati per qualche lavoro, e in questo caso erano sempre rigorosamente sorvegliati. Ma se era difficile evadere dal mare, non era forse possibile fuggire via terra, considerato che i deportati non erano più in un'isoletta come lo erano nell'isola di Norfolk? Qualcuno era certamente riuscito a evadere dal penitenziario e a rifugiarsi nei boschi circostanti, sottraendosi a ogni ricerca; ma, così facendo, si era condannato a una vita ancora più terribile di quella del bagno e aveva finito per morire di stenti e di fame. Ma c'erano anche molte probabilità che essi venissero ripresi: nel cuore di quelle foreste, che

le pattuglie percorrevano giorno e notte, erano stati notevolmente aumentati i posti di sorveglianza, nei quali le guardie si davano il cambio ogni due ore! Per evadere, i fuggiaschi avrebbero dovuto poter lasciare la penisola di Tasman, ma ciò non sarebbe stato possibile. L'istmo di Eagle Hawk Neck, e cioè l'istmo dell'Aquila-Sparviero, che la congiunge alla penisola di Forestier, non misura nella parte più ristretta più di cento passi di larghezza. Su questo greto, che non presentava riparo alcuno, l'amministrazione aveva fatto piantare dei pali vicinissimi l'uno all'altro. A questi pali erano legati dei cani, le cui catene avrebbero potuto incrociarsi: erano una cinquantina di mastini, feroci come belve; chiunque avesse tentato di forzare questa linea sarebbe stato sbranato in un batter d'occhio. Nel caso che un evaso vi fosse riuscito, altri cani, chiusi entro canili eretti su palafitte, avrebbero segnalato la sua presenza alle sentinelle scaglionate sul greto. Stando così le cose, sembrava che i deportati dovessero rinunciare a ogni speranza di evasione. Questo era il penitenziario di Port Arthur, riservato ai malfattori più pervicaci e più irrequieti, ed era là che Karl e Pieter Kip erano stati condotti quindici giorni dopo la commutazione della loro pena. Nel corso della notte, un canotto era venuto a prenderli all'estremità del porto e li aveva tratti a bordo del piccolo avviso che prestava servizio per conto dello stabilimento penale. L'avviso aveva attraversato la Storm Bay e, dopo aver doppiato il capo del Sud Ovest, era entrato nel porto e si era accostato al molo. I due fratelli, subito incarcerati, erano rimasti poi in attesa di comparire dinanzi al comandante di Port Arthur. Il capitano Skirtle aveva cinquant’anni, ma possedeva l'energia richiesta dalle sue difficili funzioni; era senza pietà quando occorreva esserlo, ma giusto e buono verso quei disgraziati che mostravano di meritare la sua giustizia e la sua bontà. Se puniva con rigore le gravi colpe contro la disciplina, non tollerava però che gli agenti a lui sottoposti abusassero dei loro poteri. La severità regolamentare che applicava ai deportati, egli l'applicava egualmente agli agenti incaricati di sorvegliarli. Il capitano Skirtle abitava a Port Arthur già da una decina di anni,

con la moglie, che era sui quarant'anni, con il figlio William e con la figlia Belly, rispettivamente di quattordici e dodici anni. Poiché la signora Skirtle abitava nella villa di cui si è detto, ella non aveva mai avuto rapporti con il personale del penitenziario. Il capitano, invece, giungeva ogni mattina, vi trascorreva gran parte della giornata e tornava a casa alla sera. Ogni mese, egli faceva vari giri d'ispezione nell'interno della penisola, fino all'istmo di Eagle Hawk Neck, visitava i posti di sorveglianza, passava in rivista le squadre che lavoravano nella costruzione delle strade. Per ciò che riguarda la sua famiglia, basterà dire che, oltre alle passeggiate fatte nei dintorni di Port Arthur, attraverso le bellissime foreste circostanti, essa si faceva portare dall'avviso a Hobart Town, quando ne aveva voglia, continuando a mantenere così le sue relazioni con la capitale della Tasmania. Quando si recava al penitenziario di Point Puer, il comandante aveva preso l'abitudine di far condurre alla sua presenza i ragazzi che il giorno prima si erano macchiati di qualche colpa per ammonirli e applicar loro le pene previste dal regolamento. Si giudichi fino a qual punto di perversione giungessero, a volte, questi piccoli mostri! Un ragazzo che nutriva rancore verso un agente di polizia, quando gli si fece intravedere la forca, in un prossimo futuro, se non si fosse corretto, rispose: — Che importa? seguirò l'esempio di mio padre e di mia madre! ma prima d'essere impiccato, ammazzerò quell'agente! Dopo aver visitato Point Puer, il signor Skirtle si recò al penitenziario degli uomini. Qui, la mattina del 5 aprile, comparvero per la prima volta dinanzi a lui Karl e Pieter Kip. Il capitano sapeva già del loro processo che aveva fatto scalpore ed era terminato con la condanna a morte degli accusati. Nonostante la grazia concessa dalla regina, il delitto, reso più odioso per il modo in cui era avvenuto, non gravava meno sulle loro spalle. Essi dovevano essere trattati, dunque, con la massima severità, senza concessioni che attenuassero la loro pena. Il comandante non poté non essere stupito, tuttavia, dell'atteggiamento che i due fratelli tennero dinanzi a lui. Dopo avere risposto alle domande che egli aveva loro rivolte, Karl Kip disse con voce ferma:

— La giustizia degli uomini ci ha condannati, signor comandante, ma noi siamo innocenti. Non abbiamo ucciso il capitano Gibson! Si tenevano per mano, come quando si erano trovati dinanzi alla Corte criminale, e fu quella l'ultima volta che si scambiarono una stretta fraterna. Gli agenti li condussero via separatamente: avevano avuto l'ordine di non farli mai rimanere insieme. Furono assegnati a due squadre diverse e non ebbero più la possibilità di parlare tra di loro; a malapena, avrebbero avuto l'occasione di vedersi da lontano. Ebbe allora inizio per loro la terribile esistenza del forzato che indossa la gialla divisa del penitenziario di Port Arthur. Non erano accoppiati, però, come si suol fare in altri paesi, a un compagno legato alla stessa catena. A onore della Gran Bretagna, occorre dire che questa tortura, più morale che fisica, non era stata mai imposta nelle colonie inglesi. Una catena lunga tre piedi circa impacciava le gambe del condannato, il quale, se voleva camminare, doveva sollevarla fino alla cintola. Ma se l'accoppiamento costante a Port Arthur non esisteva, a volte, per motivi disciplinari, i forzati della stessa squadra venivano legati insieme e lavoravano insieme al trasporto di fardelli. I fratelli Kip non erano stati sottoposti all'orribile pena della chain-gang. 17 Per lunghi mesi, senza potersi scambiare una sola parola, essi, in squadre separate, avevano lavorato alla costruzione di strade che il governo faceva aprire attraverso la penisola di Tasman. Il più delle volte, quando la giornata era finita, rientravano nei dormitori del penitenziario, dove i deportati erano rinchiusi in gruppi di quaranta. Quale sollievo, tra tante pene, se avessero potuto incontrarsi e riposare l'uno accanto all'altro, anche quando passavano la notte nel cantiere all'aria aperta! Soltanto alla domenica, Karl e Pieter avevano la gioia di intravedersi, quando i forzati si raccoglievano nella cappella dove un pastore metodista attendeva al servizio religioso. Che cosa dovevano pensare, quei due innocenti, della giustizia degli uomini, nel trovarsi in mezzo a tanti criminali, le cui catene stridevano lamentosamente tra canti e preghiere? 17

Squadra di forzati incatenati tra di loro.

Ciò che spezzava il cuore di Karl Kip, ciò che suscitava in lui moti di ribellione che avrebbero potuto avere gravi conseguenze, era il fatto che suo fratello venisse sottoposto a lavori così faticosi. Egli godeva di una salute di ferro, aveva una robustezza eccezionale e avrebbe potuto sopportarli, anche se la razione di vitto del bagno fosse appena bastata a sostentarlo: tre quarti di libbra di carne fresca, oppure otto once di carne salata, mezza libbra di pane, oppure quattro once di farina e mezza libbra di patate. Ma Pieter, che era di costituzione meno robusta, avrebbe potuto resistere? Dopo gli ultimi calori di un clima quasi tropicale, vestiti soltanto del brutto camiciotto giallo del bagno, avrebbero sofferto il freddo intenso, le raffiche glaciali e le fitte nevicate. Bisognava continuare a fare il lavoro, sotto le minacce delle guardie e la frusta degli aguzzini. Non era consentito nessun riposo, tranne per i brevi momenti del pasto, a metà giornata, in attesa del ritorno al penitenziario. E poi c'erano le punizioni disciplinari che si abbattevano su quei disgraziati alla minima resistenza: la segregazione in cella, il supplizio della chaingang e, infine, la più terribile di tutte le altre, quella che a volte portava alla morte del colpevole: la fustigazione con il gatto a nove code! Un'esistenza del genere non avrebbe potuto non far nascere nei deportati l'irresistibile desiderio di evadere. Alcuni tentavano di fuggire nonostante i numerosi pericoli e le scarse probabilità di riuscirvi. Quando i fuggitivi venivano ripresi nelle foreste della penisola, era il gatto che li castigava dinanzi a tutto il personale del penitenziario. Il gatto a nove code, impugnato da un braccio vigoroso, colpiva le reni nude del paziente e solcava di strisce la carne fino a mutarla in una specie di poltiglia sanguinolenta. Se Karl a volte era in procinto di ribellarsi contro i rigori della disciplina, Pieter invece vi sottostava nella speranza che un giorno la verità sarebbe venuta a galla e che un fatto, un incidente o una scoperta, avrebbe dimostrato la loro innocenza. Per quanto penosa e disonorante fosse, egli accettava dunque la vita del bagno; e se non possedeva la vigoria fisica del fratello, la forza morale gli permetteva di sopportarla, sorretto com'era da una cieca fiducia in Dio. Ciò che più lo tormentava era il timore che Karl non riuscisse a dominarsi e

che si lasciasse andare a qualche atto violento. Karl non avrebbe cercato di fuggire, non lo avrebbe lasciato solo nel penitenziario, dal quale non sarebbero usciti che insieme! Ma in un'ora di grande disperazione, Karl avrebbe potuto eccedere, mentre lui, Pieter, non gli era vicino per calmarlo e trattenerlo. Inquieto e preoccupato Pieter ritenne di dover fare qualcosa. Un giorno, durante l'ispezione del comandante, osò rivolgergli la parola con voce supplichevole. Non gli chiese di essere riunito al fratello, di lavorare cioè nella stessa squadra, ma di concedergli di trascorrere qualche momento con lui. Il capitano Skirtle attese che Pieter finisse di parlare mentre l'osservava con attenzione: pareva che facesse capolino in quell'attenzione un certo interesse per i due fratelli. Ciò era dovuto forse al fatto che Karl e Pieter Kip appartenevano a una classe sociale nella quale si reclutano assai di rado gli ospiti del bagno? O forse perché il signor Hawkins, con l'appoggio del governatore, aveva continuato a interessarsi alla loro sorte? Era mai possibile che dopo aver ottenuto la commutazione della pena quel brav'uomo continuasse a fare il necessario per ottenere che fosse loro mitigata la disciplina del bagno? Il signor Skirtle non lasciò trapelare nulla di ciò che pensava. I fratelli Kip non erano per lui – e non potevano esser altro — che due uomini condannati per assassinio. Era già molto che la pietà della regina avesse risparmiato loro l'estremo supplizio. Più tardi, forse, egli avrebbe potuto accogliere la richiesta di Pieter Kip, ma non ora. Con il cuore gonfio, soffocato dai singhiozzi, Pieter non ebbe l'animo di insistere; ne aveva compreso l'inutilità e rientrò nella fila. Erano trascorsi quasi sei mesi dall'arrivo dei due fratelli nel penitenziario. L'inverno stava per finire. Era stato un inverno duro da sopportare per quei disgraziati che non intravedevano nessuna possibilità di miglioramento della loro condizione. Tuttavia, un cambiamento si verificò, ed ecco in quali circostanze. Una bella mattina – era il 15 settembre – il signor Skirtle aveva compiuto una lunga gita con moglie e figli attraverso la foresta. Giunto all'istmo di Eagle Hawk Neck erano scesi dalla vettura. Poco lontano, alcuni deportati erano intenti a scavare un canale di

irrigazione e il comandante aveva voluto ispezionare i lavori. Le squadre delle quali facevano parte Karl e Pieter Kip lavoravano insieme, ma a qualche distanza l'una dall'altra. I due fratelli non avevano neppure avuto la consolazione di vedersi, separati com'erano da una fitta fila di alberi. Terminata la visita, il signor Skirtle e la sua famiglia si disponevano a salire in carrozza, quando si udirono delle grida provenienti dalla parte della palizzata che chiudeva l'istmo. Quasi subito, si unirono alle grida dei furiosi latrati: erano i cani legati ai pali della spiaggia, a meno di trecento passi, che abbaiavano furiosamente. Spezzata la catena, un cane si era lanciato verso la foresta, tra le grida degli agenti e gli urli di tutta la squadra. Si sarebbe detto che il mastino volesse avventarsi contro i deportati, di cui conosceva bene la divisa. Spaventato dai loro urli, il mastino balzò verso la foresta prima che i guardiani riuscissero a riprenderlo. Non restava al capitano che risalire in vettura e andarsene, prima che il cane spaventasse i cavalli. Disgrazia volle che questi ultimi si impaurirono prima che il cocchiere riuscisse a trattenerli e fuggirono in direzione di Port Arthur. — Venite! — gridò il signor Skirtle alla moglie e ai figli, trascinandoli verso una grande macchia d'alberi, nella speranza di trovarvi rifugio. Ma ecco apparire il mastino con la bava alla bocca e gli occhi che lanciavano fiamme. Emetteva ruggiti da belva. Con un salto, si lanciò sul giovane Skirtle e gli balzò alla gola gettandolo a terra. Si udivano già le grida delle guardie che accorrevano dal bosco. Nel vedere il pericolo corso dal figlio, il signor Skirtle stava per gettarsi sull'animale quando due braccia vigorose lo respinsero. Un istante dopo il giovane Skirtle era salvo, mentre il cane era alle prese con colui che lo aveva salvato e che il mastino aveva addentato al braccio sinistro con le sue poderose zanne, lacerandoglielo furiosamente. Ma l'uomo gli piantò nel corpo il ferro da zappa che teneva in mano; l'animale cadde allora a terra, ansante. La signora Skirtle stringeva intanto il figlio tra le braccia,

colmandolo di tenere carezze. Il capitano si volse allora verso l'uomo: la divisa gialla diceva che egli era un galeotto. Era Karl Kip. Lavorava a un centinaio di passi di distanza, quando aveva udito le grida degli agenti e aveva visto il cane lanciarsi nella foresta. Senza preoccuparsi del pericolo, si era precipitato allora sulle tracce del mastino. Il comandante riconobbe l'uomo. Karl Kip perdeva sangue da un'orribile ferita. Il signor Skirtle stava per andare a ringraziarlo e a fargli prestare le prime cure, ma fu preceduto da Pieter Kip. Nell'udire le grida che provenivano al di qua del margine della foresta, le squadre erano accorse sul posto contemporaneamente agli agenti. Oltrepassati gli alberi, Pieter Kip vide suo fratello a terra, accanto al corpo dell'animale. Corse verso di lui, gridando: — Karl! Karl! Invano i guardiani cercarono di trattenerlo. Del resto, un cenno del capitano, verso il quale la signora Skirtle tendeva le mani e il cui figlio implorava pietà per il suo salvatore, fece arretrare gli agenti. Per la prima volta, dopo sette lunghi mesi di separazione, di pene e di disperazione, Karl e Pieter Kip piangevano nelle braccia l'uno dell'altro.

CAPITOLO IX INSIEME TRASPORTATO al penitenziario nella carrozza del comandante, Karl Kip fu deposto in una sala dell'infermeria, dove suo fratello, autorizzato a stargli vicino, non tardò a raggiungerlo. Quali sentimenti di riconoscenza non dovevano nutrire per quell'uomo i coniugi Skirtle! Il suo coraggio aveva risparmiato al figlio un'orribile morte. In un primo momento, per un irresistibile slancio del cuore, il ragazzo si era gettato ai piedi del padre, ripetendo con voce rotta dai singhiozzi: — Grazia, papà… grazia per lui! La signora Skirtle si era unita al figlio; entrambi supplicavano il comandante, come se egli avesse avuto la facoltà di accondiscendere alla loro richiesta e restituire la libertà a Karl Kip! Ma, era mai possibile dimenticare il delitto per il quale i due fratelli, già condannati alla pena capitale, erano stati rinchiusi per sempre nel bagno di Port Arthur? Nulla sapendo delle trame di Flig Balt e di Vin Mod, come avrebbe potuto il signor Skirde mettere in dubbio la colpevolezza dei condannati? Il fatto che uno di essi, rischiando la vita, fosse riuscito a salvare quella del ragazzo, non escludeva che essi fossero gli assassini di Harry Gibson e puniti come tali. Quel gesto di altruismo, per quanto nobile, avrebbe mai potuto riscattare un orribile delitto? — Amico mio, è possibile far qualcosa in favore di quell'infelice? — chiese la signora Skirtle, non appena il marito rientrò a casa, dopo aver affidato il ferito al medico. — Nulla — rispose il comandante. — Non si può che raccomandarlo: alla benevolenza dell'amministrazione, perché venga trattato meno severamente e sia esentato dai lavori forzati.

— Credo che occorra informare subito il governatore dell'accaduto. — Lo saprà prima di sera — rispose il signor Skirtle. — Si potrà ottenere soltanto una mitigazione della pena, ma non già una riduzione. Karl Kip e suo fratello hanno già ottenuto un grandissimo favore: è stata fatta loro grazia della vita. — Ne ringrazio il Cielo, come ringrazio lui; ha potuto, così, salvare nostro figlio! — Amica mia, farò il possibile per Karl Kip, in segno di gratitudine — rispose il comandante. — Anche perché, da quando sono giunti a Port Arthur, la condotta dei due fratelli è stata esemplare; non è mai capitato di dover applicare nei loro confronti la severità del regolamento. Può darsi che io riesca a ottenere dalla superiore amministrazione che essi non siano più costretti a lavorare fuori del penitenziario (lavoro molto penoso per gente della loro condizione sociale) e che possa occuparli, invece, nei lavori d'ufficio del penitenziario. Sarebbe un gran sollievo per loro. Tu sai per quale crimine sono stati condotti dinanzi alla Corte e su quali indiscutibili prove si è fondata la convinzione dei giurati. — Ma come è possibile — esclamò la signora Skirtle — che un uomo capace di un atto di questo genere possa essere un assassino? — Eppure, non c'è ombra di dubbio. I Kip non hanno mai potuto provare la loro innocenza. — Ma tu sai che cosa pensa il signor Hawkins — insistette la signora Skirtle. — Lo so; egli non li crede colpevoli, ma non ha potuto far nulla per dimostrarlo. Ha potuto ottenere, per mezzo del governatore, soltanto la commutazione della pena. — Pensa, dunque, come la condanna gli sembrerà ancora più ingiusta — riprese la signora Skirtle — quando saprà in quale modo si è comportato oggi Karl Kip… Il marito non rispose; era rimasto turbato da ciò che gli aveva detto il signor Hawkins sul conto dei due fratelli, ma poi, riflettendoci, aveva detto & se stesso: «È lecito aver dei dubbi dinanzi alle prove rappresentate dalle carte di Harry Gibson in possesso di Karl e di Pieter Kip, e dal kriss, arma del delitto, trovato

nella loro valigia?». —- In ogni caso, amico mio, debbo chiederti un favore — disse ancora la signora Skirtle. — Un favore che puoi farmi e che spero non mi rifiuterai. — Vuoi che i due fratelli non siano più separati l'uno dall'altro? — Sì, mi hai capito. Spero che oggi stesso autorizzerai Pieter Kip a rimanere accanto al fratello e a prestargli le sue cure. — Lo farò certamente — disse il signor Skirtle. — Andrò a trovarlo — aggiunse la signora Skirtle — e farò in modo, da parte mia, che non gli manchi nulla. Chissà, forse con il tempo… Nell'attesa il desiderio dei due fratelli sarebbe stato esaudito; non sarebbero stati più divisi come il loro cuore aveva sempre desiderato. Da quel giorno, Karl e Pieter Kip si videro tutti i momenti. Tre settimane dopo, quando, una volta cicatrizzatasi la ferita, Karl Kip dovette lasciare l'infermeria, tutti e due passeggiavano nel cortile del penitenziario. Occupavano ora la stessa sala, dormivano nello stesso dormitorio e lavoravano nella stessa squadra. Alla fine furono addetti ai lavori del penitenziario, con la speranza d'essere utilizzati tra non molto nei lavori d'ufficio. Si può immaginare facilmente che cosa si dicessero i due fratelli, quale fosse l'argomento costante delle loro conversazioni e quali prospettive offrisse loro l'avvenire. Quando il più giovane dei due vedeva il fratello abbandonarsi al timore che la verità non dovesse più venire a galla, egli gli diceva: — Rinunciare alla speranza è una colpa verso Dio! Ci è stata risparmiata la vita: vuol dire che la Provvidenza dispone che gli assassini un giorno saranno scoperti e che la nostra riabilitazione sarà proclamata pubblicamente. — Il Cielo ti ascolti, Pieter — rispondeva Karl Kip. — Invidio la tua fiducia! Ma, infine, chi potrebbe avere ucciso il capitano Gibson? Evidentemente gli indigeni di Kerawara, se non quelli dell'isola di York o di qualche altra isola dell'arcipelago! Come scoprirli, tra tanti melanesiani sparsi un po' dovunque? Pieter Kip ne conveniva, sarebbe stato difficile… Nondimeno, egli aveva fede: forse sarebbe accaduto un fatto inatteso… forse i

signori Zieger e Hamburg avrebbero ottenuto altre informazioni… — Del resto, siamo certi che gli assassini siano indigeni? — disse un giorno, vedendo il fratello in preda alla disperazione. Karl Kip gli aveva preso la mano e, guardandolo negli occhi, aveva detto: — Che cosa vuoi dire? Spiegati! Credi che il delitto possa essere stato commesso da un colono, oppure da un impiegato delle agenzie? — No, fratello mio! — Un marinaio, allora? C'erano alcune navi nel porto di Kerawara. — C'era anche il nostro brick — aveva risposto Pieter. — Il nostro brick! Il James Cook! E nel ripetere quel nome Karl Kip interrogava il fratello con lo sguardo. Fu allora che Pieter gli partecipò i sospetti insinuatisi nel suo animo. L'equipaggio del brick non aveva forse uomini più che mai sospettabili? tra i quali i marinai reclutati a Dunedin che avevano preso parte alla rivolta capeggiata da Flig Balt? E, fra questi uomini, Len Cannon (per citarne uno solo) non poteva forse avere appreso che il capitano Gibson aveva con sé, oltre alle carte di bordo, anche alcune migliaia di piastre, quando si era recato dal signor Hamburg? Quel pomeriggio, Len Cannon e i suoi compagni erano scesi a terra; potevano avere spiato Harry Gibson, averlo seguito nella foresta per assalirlo, ucciderlo e svaligiarlo… Karl ascoltava il fratello con ansiosa attenzione. Gli sembrava che si facesse luce in lui un fatto nuovo: una rivelazione! Non gli era mai venuto in mente che l'assassinio potesse trovare spiegazione anche senza l'intervento degli indigeni. Ed ecco che Pieter ora gli dimostrava che poteva esserne colpevole Len Cannon o un'altra recluta! Dopo qualche attimo di riflessione, disse: — Pur ammettendo che gli assassini possano essere ricercati tra questi uomini, è certo però che il capitano Gibson fu ucciso con un pugnale malese. — Sì, Karl; e io aggiungo: con il nostro! — Il nostro? Ne sei sicuro?

— Sin troppo certo — disse Pieter Kip. — Proprio con il nostro, di cui fu ritrovata la ghiera nel bosco di Kerawara. — Come mai il nostro pugnale potrebbe essere caduto nelle mani degli assassini? — Perché ci è stato rubato. — Rubato? — È stato portato via dal relitto della Wilhelmina, mentre noi lo visitavamo. — Rubato! ma da chi? — Da uno dei marinai che conducevano il canotto e che, come noi, salì sul relitto. — Chi erano quei marinai? Ricordi il loro nome? — Vagamente. C'era con noi Nat Gibson, che aveva voluto seguirci,, ma non ricordo più da quali marinai il capitano ci avesse fatto accompagnare. — C'era il nostromo, forse? — Flig Balt era rimasto a bordo, ne sono sicuro. — E Len Cannon? — Mi sembra di averlo visto sul relitto, ma non ne sono sicuro. Ma, non importa; lui o un altro, è certo che qualcuno è entrato nella nostra cabina, anche se dopo di noi, ha trovato il kriss in qualche angolo, dove noi non lo avevamo visto. In un secondo tempo, quando quei miserabili hanno pensato al delitto, si sono serviti del nostro pugnale per commetterlo, cacciandolo in seguito nella nostra valigia. — Ma noi lo avremmo trovato, Pieter! — No, se ce lo hanno cacciato all'ultimo momento… Pieter Kip si era molto accostato alla verità, come si vede: si sbagliava soltanto sulla identità degli assassini. Se sospettava di Len Cannon o di altre reclute capaci di commettere un delitto, non sospettava però né di Flig Balt né di Vin Mod. Una cosa era certa: il nostromo non faceva parte dei marinai che li avevano accompagnati per recarsi al relitto; non meno certo era il fatto che Vin Mod c'era, cosa di cui i due fratelli non si ricordavano affatto. Noi sappiamo come s'era comportato l'astuto furfante e con quale abilità fosse riuscito a non essere mai sospettato. Ecco quali idee i due fratelli si sarebbero scambiate se non fossero

stati separati sia nella prigione di Hobart Town sia nel penitenziario di Port Arthur. Era pur vero che, non avendo commesso il delitto, quello che per loro era certezza per gli altri risultava presunzione. Avrebbero mai potuto provare che il kriss fosse stato raccolto sul relitto da un marinaio del James Cook per servirsene, poi, a uccidere il capitano Gibson? Le apparenze erano tutte contro di loro: le ipotesi di Pieter Kip, anche se basate su una certa logica, non potevano essere accolte che da loro perché si sapevano innocenti. Era questo il fondamento della loro disperazione, soprattutto della disperazione di Karl Kip, contro la quale Pieter, sorretto da un'incrollabile fede nella giustizia divina, faceva fatica a lottare. Frattanto, in seguito all'interessamento del comandante Skirtle, il governatore e l'amministrazione penale del Regno Unito avevano autorizzato l'ammissione dei fratelli Kip negli uffici di Port Arthur. Il regime di vita, cui erano stati sottoposti fin allora, ne risultò molto mitigato. Non fecero più parte delle squadre occupate nella costruzione di strade e allo scavo di canali, ma lavoravano alla contabilità, oppure, sotto la sorveglianza degli agenti, a predisporre i lavori in vari punti della penisola. A sera, tuttavia, era molto penoso rientrare nei dormitori comuni senza potersi sottrarre alla promiscuità del bagno! La nuova situazione dei due fratelli non mancò di suscitare gelosie furiose. Due assassini condannati a morte, la cui pena era stata commutata, godevano favori del genere! Meritava proprio tanto il servizio reso da Karl Kip alla famiglia del comandante? In fondo, non aveva fatto altro che gettarsi sopra un cane, col rischio di ricevere solo qualche morso: chi non lo avrebbe fatto? I due fratelli dovettero quindi difendersi dalle violenze dei compagni. Per tenerli a bada occorse il vigore fisico di Karl. Tra l'accozzaglia di galeotti, con i quali convivevano nelle sale comuni, due deportati si erano schierati dalla loro parte, difendendoli contro le violenze dei loro compagni. Erano due uomini tra i trentacinque e i quarant'anni, due irlandesi; si chiamavano O'Brien l'uno e Macarthy l'altro. Nessuno dei due aveva mai detto per quale delitto fossero stati condannati. Si

tenevano in disparte il più possibile e, poiché erano dotati di un vigore fisico eccezionale, avevano saputo imporre rispetto. Non erano certamente persone volgari, ma possedevano anzi un'istruzione superiore a quella dei soliti condannati al bagno. Indignati nel vedere una ventina di deportati lanciarsi contro i fratelli Kip, avevano dato loro man forte nel difendersi dalle loro odiose brutalità. Benché scontrosi, fieri e taciturni, era facile prevedere che si sarebbe stabilita una certa intimità tra i due irlandesi e i fratelli Kip; purtroppo una nuova decisione dell'amministrazione lasciò loro poche occasioni per incontrarsi durante il giorno. Il signor Skirtle non aveva tardato a conoscere quale fosse stata la condotta di alcuni deportati più facinorosi. Seppe così che Karl e Pieter Kip erano stati fatti oggetto di attacchi alla loro persona e che avrebbero corso rischi peggiori quando la sera riuniva i deportati nello stesso dormitorio. La signora Skirtle, che non aveva mai cessato di interessarsi alla sorte dei due fratelli, faceva ciò che poteva per alleviare le loro sofferenze. Dopo aver più volte parlato di loro con i signori Hawkins, quando si recava a Hobart Town per far loro visita, ella ora si sentiva assalita da gravi dubbi e, senza spingersi fino ad ammettere che i fratelli Kip potessero essere innocenti del delitto di Kerawara, riteneva se non altro che le prove della loro colpevolezza non fossero decisive. Come avrebbe potuto dimenticare, poi, ciò che doveva al coraggio di Karl Kip? Si deve a questa donna grata e riconoscente, infaticabile nel suo interessamento presso il governatore della Tasmania, se i due fratelli ottennero di occupare, la notte, una cella singola. Prima di prender possesso della cella, Karl e Pieter Kip vollero nuovamente ringraziare O' Brien e Macarthy della loro bontà. Gli irlandesi risposero con freddezza alla loro cortesia. Non avevano fatto, dopo tutto, che il loro dovere difendendo i due fratelli da quei forsennati. Ma quando i due Kip tesero loro la mano per salutarli, prima di separarsi, essi non la presero. Quando furono soli, Karl Kip disse: — Non so per quale delitto quei due siano stati condannati, ma non è certo per assassinio, se non hanno voluto stringere la mano di

due assassini quali ci credono. — Poi aggiunse vinto dalla collera: — Assassini, noi! E non poter provare la nostra innocenza! — Non bisogna disperare, Karl — rispose Pieter. — Un giorno, giustizia ci sarà resa! Un anno dopo, nel marzo del 1887, i due fratelli non avevano più nulla da sperare per un'ulteriore mitigazione del regime penitenziario. Pieter Kip, nonostante la sua fiducia nell'avvenire, cominciava a temere di dover rimanere, insieme con il fratello, definitivamente vittima di quell'errore giudiziario. Eppure non erano stati abbandonati, come credevano. Avevano ancora dei protettori, se non amici, che non avevano cessato di interessarsi vivamente alla loro situazione. Anche se Nat Gibson, fuorviato dal dolore, rifiutava di accettare la presunzione a loro favore, il signor Hawkins continuava egualmente a occuparsi del processo, intrattenendo un fitto scambio di corrispondenza con il signor Zieger e con il signor Hamburg, sollecitando entrambi a proseguire l'inchiesta, a estendere le informazioni sia alla Nuova Irlanda sia alla Nuova Bretagna, per cercar di sapere se non fossero stati dei forestieri, invece degli indigeni, a commettere il delitto: e cioè qualche operaio delle agenzie, oppure qualche marinaio delle navi che si trovavano allora nei porti dell'arcipelago. Imboccata questa via, il signor Hawkins aveva finito con il chiedersi se non bisognasse cercare gli assassini nello stesso equipaggio del James Cook, come già facevano Karl e Pieter Kip. Non era forse il caso di sospettare di Len Cannon e dei suoi compagni? o di altri? A volte affiorava sulle sue labbra il nome di Flig Balt. Si trattava di sole ipotesi, ovviamente, non sorrette da nessuna deposizione testimoniale o da prove effettive. Al signor Hawkins venne allora l'idea di recarsi a Port Arthur. Fu quasi un bisogno irresistibile: voleva rivedere i suoi protetti. Una specie di presentimento istintivo lo conduceva al penitenziario. Si può immaginare la sorpresa e la commozione dei fratelli Kip quando, la mattina del 19 marzo, chiamati nell'ufficio del comandante, vi trovarono l'armatore. Anche il signor Hawkins fu vinto dalla commozione nel rivedere i due naufraghi della Wilhelmina nella divisa del galeotto. Cedendo a

un primo impulso, Karl Kip cercò di buttarsi al collo del suo benefattore: suo fratello lo trattenne. E poiché il signor Hawkins, imponendosi un comprensibile riserbo, non mosse loro incontro, essi rimasero immobili, in silenzio, in attesa che venisse loro rivolta la parola. Il signor Skirde si teneva in disparte, con apparente indifferenza. Voleva che il signor Hawkins fosse libero di dare al colloquio il carattere più opportuno e, all'incontro, il corso che doveva avere. — Signori… — disse l'armatore. Quella parola rappresentò un sollievo morale per i due infelici, ora diventati soltanto dei numeri. — Signori Kip, sono venuto qui per mettervi al corrente di cose che vi interessano e delle quali mi sono occupato. I due fratelli credettero che quella dichiarazione si riferisse all'inchiesta di Kerawara, ma si ingannavano: il signor Hawkins non recava nessuna prova della loro innocenza. Poi continuò: — Si tratta della vostra ditta di Groningen. Mi sono posto in corrispondenza con alcune ditte della vostra città, dove sembra che l'opinione pubblica vi sia stata sempre favorevole. — Noi siamo innocenti! — esclamò Karl Kip, non più in grado di dominare il suo cuore in rivolta. — Poiché non eravate più in condizione di metter ordine nei vostri affari — riprese il signor Hawkins, che riusciva a stento a conservare II suo riserbo — che già soffrivano a causa della vostra assenza, ho preso in mano i vostri interessi. Era necessario por subito in atto la liquidazione della azienda. — Noi ve ne siamo grati — rispose Pieter Kip. — Avete aggiunto un altro grande favore a tutti quelli che ci avete già fatto. — Desidero dunque farvi sapere che la liquidazione — proseguì l'armatore — è stata fatta a condizioni più vantaggiose di quanto non si sperasse. I corsi erano in rialzo e le merci sono state acquistate ad alto prezzo. Ne consegue che il bilancio presenta un saldo a vostro favore. Sul viso pallido di Pieter Kip apparve un lieve sorriso di soddisfazione. Tra i tormenti della sua miserabile esistenza di deportato, quante volte aveva pensato agli affari in sospeso, alla ditta

ridotta al fallimento, alla nuova macchia sul nome del padre. Ed ecco che il signor Hawkins ora li informava che la liquidazione aveva felicemente sistemato i loro interessi. Karl Kip disse: — Signor Hawkins, non sappiamo come manifestarvi la nostra gratitudine. Dopo quello che avete fatto per noi e la stima che ci avete sempre dimostrato e della quale eravamo degni… della quale siamo ancora degni… ve lo giuro! Per merito vostro, l'onore della nostra ditta è salvo! E non saremo noi a infamarlo! Noi siamo innocenti; non abbiamo commesso noi il delitto per cui ci hanno condannati! Non siamo gli assassini del capitano Gibson! E come avevano già fatto dinanzi alla Corte, i due fratelli, tenendosi per mano, invocarono il Cielo. Il signor Skirtle li guardava con attenzione; era commosso, si sentiva conquistato dal loro dignitoso comportamento e dall'accento sincero della loro voce. Fu allora che il signor Hawkins, non riuscendo più a trattenere ciò che aveva nel cuore, si lasciò andare, con commosso calore… No, egli non credeva alla colpevolezza dei fratelli Kip… non li aveva mai ritenuti colpevoli! Purtroppo l'inchiesta fatta a Port Praslin, a Kerawara e nelle altre isole dell'arcipelago non aveva dato risultati. Non c'era traccia degli omicidi fra le tribù indigene. Nondimeno, egli non disperava di riuscire a ottenere la revisione del processo! Revisione! Era la prima volta che questa parola veniva pronunciata dinanzi ai due condannati che più non speravano di udirla! Revisione! cioè un processo dinanzi a nuovi giudici, ai quali portare nuove prove! Ma per i nuovi giudici e per le nuove prove ci voleva un fatto nuovo, indiscutibile, che lasciasse presentire un errore giudiziario, e un altro accusato al posto di quelli che erano stati condannati in sua vece. Sarebbe stato mai possibile trovare il vero autore del delitto e metterlo di fronte ai due fratelli, dinanzi ai giurati di Hobart Town? Il signor Hawkins e i fratelli Kip riesaminarono allora i principali punti dell'accusa: il capitano Gibson era stato assassinato con il pugnale trovato nella camera dei due fratelli, di loro proprietà? Essi non lo avevano «ovato sul relitto della Wilhelmina e quindi non lo

avevano portato a bordo del brick. Se Jim lo aveva visto nella loro cabina, vuol dire che qualcuno ce lo aveva messo, e se vi erano state trovate le carte del capitano, vuol dire che qualche altro ce le aveva portate. Quest'altro non poteva essere che colui che aveva rubato il denaro di Harry Gibson, dopo averlo assassinato! Era quella la verità, anche se ne mancavano le prove! Ciò considerato, i sospetti non potevano ricadere che sui marmai del James Cook. Soltanto uno di essi aveva potuto impadronirsi del kriss, nella cabina del relitto: uno dei marinai che erano nel canotto – Karl Kip allora chiese: — Vi era forse Flig Bah? — No! — rispose Pieter. — La memoria non mi tradisce. Flig Balt non ha messo piede sul relitto. — Non ha lasciato la nave, ricordo benissimo — disse l'armatore. — Chi erano gli uomini del canotto? — chiese Karl Kip. — Hobbes e Wickley — rispose il signor Hawkins. — Ho potuto interrogarli su questo fatto: sono certi di avere imbarcato Nat, Gibson e voi. — Len Cannon vi era, forse? — riprese Pieter Kip. — Hanno detto che non vi era. — Io avevo creduto… — Ma, né Hobbes né Wickley possono esser sospettati… — riprese Karl Kip. — Certamente no — rispose il signor Hawkins. — Sono marinai onesti. Ma c'era un altro marinaio con essi… — Chi, signor Hawkins? — Vin Mod. — Vin Mod! — esclamò Karl Kip. — Vin Mod… un astuto furfante. — Vin Mod! — aggiunse Pieter Kip. — Io ho sempre pensato che fosse l'anima dannata di Flig Balt! Né il nostromo né Vin Mod erano più, a quel tempo, a Hobart Town. Dove mai sarebbe stato possibile, ora, trovare le loro tracce?

CAPITOLO X I FENIANI NEL 1867, nell'intento di strappare l'Irlanda all'insopportabile dominazione della Gran Bretagna, si costituì l'associazione politica del fenianismo. Due secoli prima, i sudditi cattolici della verde Erin avevano sopportato gravi persecuzioni, quando i soldati di Cromwell, intolleranti e feroci, avevano voluto imporre alla popolazione irlandese il giogo della riforma. I perseguitati avevano resistito nobilmente, fedeli alla propria fede religiosa, come alla loro fede politica. Erano passati gli anni, ma la situazione non era migliorata; l'Inghilterra, anzi, aveva fatto sentire con maggior rigore la propria mano brutale. Alla fine del diciottesimo secolo, nel 1798, era scoppiata anche una rivolta, subito repressa, che aveva avuto quale conseguenza la soppressione del parlamento irlandese, difensore naturale della libertà del paese. Nel 1829 aveva fatto la sua comparsa un protettore il cui nome era echeggiato in tutto il mondo. O'Connel era andato a prender posto alla Camera dei Comuni, dove la sua voce possente aveva protestato contro le violenze britanniche in favore di sette milioni di cattolici sugli otto milioni di abitanti che l'Irlanda contava. Per dare un'idea dello stato di miseria in cui il paese era stato ridotto, basterà citare un solo fatto: su cinque milioni di ettari di terre coltivabili, un milione e mezzo di esse rimaneva incolto perché il contadino era privo di mezzi. Non è necessario dilungarci su questo periodo di torbidi che avrebbe suscitato le rappresaglie del fenianismo: lo considereremo soltanto per i suoi rapporti con il nostro racconto. 18 18

Questo periodo della storia d'Irlanda è stato già trattato nella serie dei «Viaggi straordinari » con il romanzo P'tit-Bonhomme, da noi pubblicato con il titolo

O'Connel era morto nel 1847, prima di aver potuto realizzare la sua opera e senza neppure averne intravisto il successo in un avvenire più o meno lontano. Gli sforzi individuali continuarono tuttavia a manifestarsi. Nel 1867 il governo del Regno Unito si trovò, infatti, in presenza di una nuova rivolta, scoppiata questa volta non più in una città irlandese, ma in una città dell'Inghilterra. Fu a Manchester che sventolò per la prima volta, per la causa dell'indipendenza, la bandiera dei feniani, il cui nome deriva senza dubbio dai gaeli dell'antichità. Anche questa rivolta fu repressa, come la precedente, con spietato rigore. La polizia arrestò i suoi capi più importanti: Alien, Kelly, Deary, Laskin, Gorld. Imprigionati e poi tradotti dinanzi alla Corte criminale, i primi tre erano stati condannati alla pena capitale e giustiziati il 23 novembre a Manchester. Risale a quest'epoca un altro tentativo di ribellione, dovuto alla tenacia e all'energia di Burke e di Casey; i quali, arrestati a Londra, erano stati rinchiusi nel carcere di Clerkenwell. I loro amici non li avevano abbandonati; decisi a liberarli, il 13 dicembre avevano fatto saltare in aria le mura del carcere: l'esplosione aveva fatto quaranta vittime tra morti e feriti. Burke, che non era riuscito a fuggire, fu condannato a quindici anni di lavori forzati per alto tradimento. Erano stati arrestati alcuni feniani: William e Timothy Desmond, English, O'Keeffe, Michel Baret e una donna, Anna Justice. Questi ribelli furono difesi dinanzi alla Corte dal celebre Bright che aveva già difeso in parlamento i diritti dell'Irlanda. Il grande oratore fallì in parte nel suo compito: nell'aprile del 1868 gli accusati furono tradotti dinanzi alla Corte criminale centrale, la quale condannò a morte uno di essi, Michel Baret, di ventisette anni, del quale Bright non riuscì a impedire l'esecuzione. Se dopo l'esplosione di Clerkenwell il fenianismo aveva perduto terreno nell'opinione pubblica, le persecuzioni non avevano potuto impedire tuttavia le sue rappresaglie. Era sempre da temersi che la causa dell'Irlanda spingesse coloro che la sostenevano a qualche tentativo disperato. Si deve all'energia dimostrata da Bright davanti alla Camera dei Lords e alla Camera dei Comuni se fu fatto un passo Avventure di un ragazzo.

avanti con la legge del 1869. Tale legge stabilì l'eguaglianza della chiesa irlandese e di quella anglicana, in attesa di una legge riguardante la proprietà fondiaria concepita con spirito di equità, così da poter giustificare il nome di Regno Unito dato a Inghilterra, Scozia e Irlanda. La polizia però non aveva dato tregua ai feniani, che si erano visti braccati senza pietà. Essa era riuscita a sventare molti complotti, i cui autori erano stati processati e condannati alla deportazione. Tra questi ultimi – dopo un tentativo fatto a Dublino – si trovavano gli irlandesi O'Brien e Macarthy. Appartenevano entrambi alla famiglia di quel Farcy che era stato coinvolto nel processo del 1867. Denunciati, i ribelli furono arrestati dalla polizia prima ancora che potessero dare corso ai loro progetti. O'Brien e Macarthy non vollero mai denunciare i loro complici e si assunsero la responsabilità del complotto. La Corte fu eccessivamente severa; condannati alla deportazione perpetua, furono inviati al penitenziario di Port Arthur. Eppure non erano che condannati politici; ma di condannati politici Port Arthur ne contava già, quando Dumont d'Urville lo visitò nel 1840. E sono più che giuste le proteste del navigatore francese contro questo barbaro regime, quando dice: «Le pene inflitte ai ladri e ai falsari non sono state ritenute abbastanza gravi per i condannati politici: ritenuti indegni di vivere con loro, sono stati cacciati tra gli assassini e i furfanti più pericolosi». Era dunque là che nel 1879, dopo otto lunghi anni, erano stati deportati i due irlandesi O'Brien e Macarthy, subendo con il maggiore rigore il regime del bagno, in mezzo a una turba immonda. O'Brien era un anziano capofabbrica di Dublino, Macarthy un operaio del porto. Dotati entrambi di rara energia, avevano ricevuto un po' di istruzione. Legami di famiglia, ricordi ed esempi li avevano indotti ad arruolarsi sotto la bandiera del fenianismo. Avevano rischiato la vita e perduto la libertà. Potevano mai sperare che dopo un certo tempo la condanna avesse termine o che la grazia reale permettesse loro di lasciare il bagno? No, non c'era da sperarlo; senza dubbio, avrebbero trascinato sino alla fine quella orribile esistenza,

se non fossero riusciti a fuggire. Ma come realizzare una simile impresa? Le evasioni dalla penisola di Tasman non sono forse impossibili? No, se l'aiuto giunge da fuori; già da parecchi anni i feniani d'America avevano studiato vari progetti per strappare i loro fratelli agli orrori di Port Arthur. Verso la fine dell'anno, O'Brien e Macarthy erano stati avvertiti che gli amici di San Francisco avrebbero tentato di farli evadere. Al momento opportuno, essi avrebbero ricevuto un altro avviso per tenersi pronti a fuggire. In qual modo erano stati avvertiti? In qual modo il secondo avviso sarebbe stato portato a loro conoscenza? E dato che erano sorvegliati giorno e notte, dentro e fuori del penitenziario, come avrebbero potuto sfuggire alla vigilanza delle guardie? Tra gli agenti di custodia c'era un irlandese che manteneva rapporti con i suoi compatrioti. Per devozione alla causa del fenianismo e per salvare le ultime vittime, questo irlandese di nome Farnham, mandato dall'America in Tasmania, si era fatto assumere quale agente di custodia al penitenziario di Port Arthur, nell'intento di favorire l'evasione dei prigionieri. Il rischio era certamente notevole se il tentativo fosse fallito o se si fosse scoperto che egli era d'accordo con O'Brien e il suo compagno Macarthy. Ma solidarietà del genere ce n'erano state molte, e tra i feniani questa solidarietà giungeva fino al sacrificio della vita. Non erano forse fuggiti dall'Australia, alcuni anni prima, sei deportati politici, grazie ai collegamenti predisposti a una certa distanza l'uno dall'altro, che avevano permesso loro di raggiungere la costa e di imbarcarsi sul Catalpa? Questa nave, dopo un breve combattimento con il battello della polizia, li aveva trasportati in America. Da circa diciotto mesi, Farnham esercitava le sue funzioni di agente con soddisfazione dei suoi superiori; i suoi compatrioti erano invece rinchiusi nel penitenziario già da sei anni. Egli non aveva tardato a farsi accogliere tra i guardiani della squadra, per tenerli sempre sotto la propria sorveglianza e poterli accompagnare anche fuori. Poiché i due reclusi non lo conoscevano, gli era costato fatica ispirar loro fiducia e non essere sospettato di ingannarli. Vi era

riuscito: una perfetta intesa si era allora stabilita fra tutti e tre. Farnham era soprattutto preoccupato di non destare sospetti e, a questo scopo, si era mostrato, con i deportati della sua squadra, non meno spietato degli altri guardiani. Nessuno avrebbe mai detto che egli trattasse O'Brien e Macarthy con più indulgenza degli altri, anche perché i due reclusi sottostavano alla rude disciplina del penitenziario senza protestare, e a Farnham veniva sempre meno l'occasione di infierire contro di loro. In ripetute occasioni, però, non era sfuggito ai fratelli Kip che quel guardiano si comportava in modo meno grossolano degli altri, ma ciò non li aveva indotti a credere che Farnham recitasse una parte. Non appartenevano alla sua squadra e lo vedevano da lontano quando tornavano dall'ufficio. I due fratelli appresero ciò che riguardava O'Brien e Macarthy dai documenti che dovettero consultare, riguardanti la posizione del personale di Port Arthur. Seppero così che la condanna che imponeva ai due feniani la promiscuità con i più repellenti criminali era dovuta esclusivamente a fini politici. Quando Karl Kip apprese di quali colpe si fossero macchiati O'Brien e Macarthy, disse al fratello: — Ecco perché non hanno voluto stringerci la mano… — Me ne rendo conto — rispose Pieter Kip. — Pensano che noi si sia dei condannati a morte, degli assassini a cui è stata commutata la pena… — Poveracci! — riprese Pieter Kip, riferendosi ai due irlandesi. — Siamo qui anche noi, non ti pare? — disse Karl Kip in un impeto incontenibile di collera di cui il fratello temeva sempre le conseguenze. — Senza dubbio — rispose Pieter. — Ma noi siamo vittime di un errore giudiziario che un giorno sarà riparato. I due irlandesi, invece, sono condannati a vita per aver voluto l'indipendenza del loro paese! Ma se le funzioni di Farnham nel penitenziario erano di natura tale da poter facilitare l'evasione dei feniani, non sembrava tuttavia che l'occasione dovesse presentarsi presto. Da oltre un anno, i due irlandesi avevano appreso da lui che gli amici d'America preparavano la loro evasione, ma non avevano ricevuto nessun altro

avviso. O'Brien e Macarthy avevano già cominciato a disperare quando, la sera del 20 aprile, Farnham aveva fatto loro la seguente comunicazione. Mentre tornava al penitenziario era stato avvicinato da una persona che lo aveva chiamato per nome; gli aveva poi dato il suo, Walter, e la_ parola d'ordine stabilita con i feniani di San Francisco. Poi lo aveva avvertito che il tentativo di evasione sarebbe stato fatto presto, nelle seguenti condizioni: prima di una quindicina di giorni, lo steamer Illinois, proveniente da San Francisco, sarebbe entrato nella rada di Hobart Town, in attesa che circostanze favorevoli gli permettessero di attraversare la Storm Bay e d'accostarsi alla penisola. Il giorno e il punto della costa dove avrebbe mandato un'imbarcazione, sarebbero stati segnalati in un secondo momento. Nel caso in cui Farnham e il suo interlocutore, pur vedendosi, non avessero potuto scambiare parola, Walter avrebbe lasciato cadere ai piedi di un albero un biglietto avvolto in una foglia verde, che Farnham avrebbe potuto raccogliere senza farsi notare. Per il seguito, sarebbe bastato seguire le istruzioni contenute nel biglietto. È facile immaginare la commozione e la gioia che quella comunicazione suscitò nel cuore dei due irlandesi. Con quale impazienza avrebbero atteso l'arrivo dell'Illinois nella rada di Hobart Town, sperando che la traversata della nave non fosse ritardata da incidenti di mare! L'aprile, nell'emisfero meridionale, non è ancora il mese in cui le tempeste del Pacifico si scatenano con maggiore violenza. Tra una quindicina di giorni sarebbe arrivato lo steamer, aveva detto Walter; che cosa erano a paragone dei sei anni trascorsi nell'inferno di Port Arthur? Come abbiamo detto, Walter avrebbe dovuto incontrare Farnham per dirgli in quale giorno i due irlandesi sarebbero dovuti fuggire e il punto della costa dove il canotto dell'Illinois sarebbe venuto a cercarli. E poiché non era possibile che egli riuscisse a superare le mura del penitenziario, era evidente che avrebbe cercato di incontrarlo fuori. Forse, quel giorno sarebbe venuto quando la loro squadra, occupata nei lavori esterni, sarebbe stata in procinto di rientrare a Port Arthur; essi, allora, avrebbero raggiunto il litorale… Si sarebbe visto comunque… si sarebbe agito a seconda delle

circostanze… Importava soprattutto che Farnham fosse avvisato tempestivamente… che ricevesse in un modo o nell'altro l'ultimo avviso. Aveva visto Walter una sola volta, ma lo avrebbe riconosciuto con certezza. Durante i giorni seguenti, quindi, avrebbe dovuto rimanere sempre all'erta; e se Walter non fosse riuscito a parlare direttamente con lui, avrebbe dovuto tenerlo d'occhio da lontano e prestare attenzione ai suoi segnali, al biglietto che avrebbe lasciato cadere e alle precauzioni da usare per raccoglierlo, e in seguito farne conoscere il contenuto ai suoi due compatrioti… — Ci riusciremo — aggiunse. — Tutto è predisposto. L'arrivo dell’Illlinois non può destare nessun sospetto. Getterà l'ancora a Hobart Town come per farvi sosta, e quando riprenderà il largo, le autorità marittime non avranno motivo di diffidare. Una volta in mare, poi… — Saremo salvi grazie a te! — esclamò O'Brien. — E tu, Farnham, verrai con noi, in America! — Fratello, avrò fatto per voi ciò che voi avreste fatto per l'Irlanda! Trascorse una settimana. Farnham non aveva più visto Walter, il quale senza dubbio spiava a Hobart Town l'arrivo dello steamer americano. Da parte loro i fratelli Kip non sapevano più nulla del signor Hawkins. Pensavano continuamente alla revisione del processo di cui egli aveva loro parlato; vivevano ormai con quella speranza, senza neppure chiedersi su quali motivi essa avrebbe potuto fondarsi. Ormai erano persuasi della parte che Flig Balt e probabilmente anche il suo istigatore, Vin Mod, avevano recitato nel dramma di Kerawara e del ruolo che avevano avuto nell'assassinio del capitano Gibson. Ma quei due miserabili avevano già lasciato Hobart Town da quasi un anno e nessuno più sapeva dov'erano andati a finire. Nel vedere prolungarsi quella situazione, Karl Kip veniva assalito a volte da una irresistibile impazienza e proponeva al fratello di evadere, sia pure a rischio della vita. Ma senza un aiuto esterno, la fuga sarebbe stata impossibile. Il 3 maggio erano venuti a scadere i quindici giorni annunciati da Walter a Farnham. I due uomini non si erano più rivisti. Salvo ritardi, l’Illinois avrebbe dovuto già trovarsi nella rada di Hobart Town, ma

certamente ancora non vi si trovava se i due irlandesi non erano stati avvertiti. È facile immaginare con quale ansietà questi trascorressero i giorni! Quando la loro squadra si avvicinava al litorale, essi scrutavano avidamente il mare, cercando tra le navi, al largo della Storm Bay, quella che avrebbe dovuto portarli lontano da quella terra maledetta. Se ne stavano, immobili, a guardare qualche voluta di fumo sospinta dal vento di sud-est; quella voluta segnalava l'arrivo di uno steamer prima ancora che la nave apparisse all'estremità del capo Pillar, per dare fondo poi nella baia. — Forse è quella! — diceva O'Brien. — Forse… — rispondeva Macarthy. — Tra quarantott'ore, in questo caso, Farnham sarà avvisato. Rimanevano in silenzio a meditare. La voce del capo dei guardiani li sollecitava al lavoro; e per non destare sospetti, Farnham non si mostrava tenero con loro. Terminato il servizio, Farnham da parte sua lasciava il penitenziario e si recava in città; andava in giro per le vie e per il porto, con la speranza di incontrare Walter. Tutto inutile. Ma, dopo tutto, era a Hobart Town e non a Port Arthur che Walter doveva attendere l'arrivo dell’Illinois; evidentemente, sarebbe riapparso nei dintorni del penitenziario soltanto dopo l'arrivo dello steamer, per poter dare le ultime istruzioni a Farnham. Nel pomeriggio di quel giorno, varie squadre, tra le quali quella di cui facevano parte i feniani, furono mandate cinque miglia lontano, verso sud-ovest, dove al margine della foresta si abbattevano molti alberi per fare posto a una fattoria che l'amministrazione aveva deciso di crearvi a mezzo miglio dalla costa. Poiché occorreva delimitarne l'area, i fratelli Kip, incaricati di sorvegliare lo svolgimento dei piani ai quali avevano lavorato in ufficio, furono uniti alla squadra. Sotto l'occhio vigile d'una ventina di agenti e del loro capo, un centinaio di deportati marciava per raggiungere la foresta. Come al solito, i condannati portavano la catena ribadita al piede e congiunta alla cintola; ma da quando facevano parte dell'ufficio del

penitenziario, Karl e Pieter Kip, esentati dal portare quella grave pastoia, non avevano più del forzato che la divisa gialla. Dal giorno in cui avevano scambiato qualche parola di ringraziamento con O'Brien e Macarthy, essi avevano avuto soltanto poche occasioni di incontrarli; e ora che conoscevano la storia dei due deportati per motivi politici, quasi dimenticavano se stessi per impietosirsi sulla sorte dei patrioti irlandesi. Non appena quel gregge umano raggiunse il luogo in cui doveva sorgere la futura fattoria, i lavori ebbero subito inizio. Sotto la sorveglianza di un guardiano, Karl e Pieter Kip dovevano contrassegnare, sulla base delle indicazioni del disegno, gli alberi da abbattere per l'apertura della radura in quella parte della foresta. Faceva freddo per l'approssimarsi dell'inverno; rami morti e foglie secche già ingombravano il terreno. Soltanto gli alberi a vegetazione perenne, querce e pini marittimi, conservavano il loro fogliame. Il vento di ponente faceva stormire le fronde. Nell'aria pregna del profumo degli alberi resinosi si mescolavano anche i possenti sentori marini. Si percepiva il brontolio della risacca contro le rocce del litorale, al disopra del quale svolazzavano stormi di uccelli notturni. O'Brien e Macarthy ritenevano forse che in quelle condizioni nessun canotto avrebbe potuto accostarsi al litorale. Dopo essersi arrampicato in cima alla scogliera, Farnham, da parte sua, aveva constatato che nessuna nave era in vista in quella zona della Storm Bay. O l’Illinois non era ancora arrivato, oppure si trovava ancora in rada. In previsione dei lavori inerenti alla fattoria, già da alcuni mesi era stata aperta una strada tra Port Arthur e quella parte della penisola. Quella strada era molto frequentata perché serviva altre fattorie agricole; capitava spesso, quindi, che i passanti si fermassero a guardare il lavoro eseguito dai deportati. Venivano tenuti a distanza, naturalmente, e non era loro permesso di parlare con i forzati. O'Brien e Macarthy notarono, tra i passanti, un individuo che era andato più volte su e giù per la strada. Era Walter? Essi non lo conoscevano, ma Farnham lo riconobbe subito ed evitando di commettere imprudenze, non lo perdette più di vista. Nel contempo, fece capire con un cenno ai due feniani che era

quello l'uomo che essi aspettavano. Che cosa era venuto a fare e perché cercava di accostarsi a Farnham, se non per fargli sapere che lo steamer era arrivato e per stabilire il giorno e il luogo della fuga? Il capo guardiano che dirigeva le squadre era uomo brutale, sospettoso e severissimo nell'espletamento del servizio. Farnham non avrebbe potuto rivolgere la parola a Walter senza dar adito a sospetti. Walter lo aveva compreso e, dopo vari inutili tentativi, aveva deciso di procedere com'era stato in precedenza concordato. Trasse di tasca il biglietto nel quale erano contenute le necessarie indicazioni, e dopo averlo mostrato da lontano a Farnham si accostò a un albero che fiancheggiava la strada, una cinquantina di passi lontano, e, raccolta una foglia, vi avvolse il biglietto e la depose ai piedi dell'albero. Dopo aver fatto un altro cenno, che Farham comprese perfettamente, Walter ridiscese in fretta la strada e disparve in direzione di Port Arthur. I feniani avevano seguito con gli occhi tutte le mosse dell'uomo, ma non potevano certamente andare a raccogliere il biglietto senza correre il rischio di essere visti. Spettava a Farnham di agire con grandissima precauzione. Egli dovette quindi aspettare che i deportati terminassero il loro lavoro da quella parte della radura. Il caso volle, purtroppo, che il capo delle guardie vi mandasse una squadra che non era quella sorvegliata da Farnham. La preoccupazione di quest'ultimo e quella dei suoi compatrioti fu enorme, perché essi erano a più di duecento passi dalla strada, di cui gli altri deportati occupavano il margine. Tra costoro c'erano Karl e Pieter Kip che procedevano al lavoro di segnare gli alberi da abbattere, tra i quali era compreso quello presso il quale Walter si era fermato per un istante. C'era motivo di temere dunque che la foglia lasciasse vedere il biglietto in essa avvolto e che qualcuno, raccattatolo, lo consegnasse poi al capo. E allora sarebbe stato dato l'allarme… Al rientro delle squadre a Port Arthur, si sarebbe organizzata una severissima sorveglianza all'interno e all'esterno del penitenziario… I deportati sarebbero stati consegnati e il lavoro ripreso soltanto dopo alcuni giorni. Il tentativo

di evasione sarebbe venuto meno. Il canotto dell'Illinois non avrebbe trovato nel luogo stabilito nessuno da imbarcare e dopo alcune ore di attesa avrebbe raggiunto nuovamente l'alto mare. Il sole intanto cominciava a declinare. A occidente cominciavano ad addensarsi le nubi. Alle sei il capo delle guardie avrebbe dato il segnale della ritirata, in modo che le squadre rientrassero a Port Arthur prima di notte. Non bastava più, ora, che Farnham andasse ai piedi dell'albero: bisognava che ci fosse abbastanza luce per scorgere la foglia in cui il messaggio era stato avvolto. Se non fosse riuscito a raccogliere il biglietto oggi, domani sarebbe stato troppo tardi. Il vento e la pioggia che minacciava di cadere avrebbero bagnato e portato lontano le foglie cadute al suolo. Gli irlandesi non perdevano d'occhio Farnham. — E se i nostri amici avessero già deciso di farci evadere oggi? — mormorava O'Brien all'orecchio del compagno. Oggi? Non era probabile… Non occorreva forse lasciare a Farnham il tempo di predisporre il necessario e agli irlandesi di raggiungere il punto stabilito del litorale? Ma, tra quarantotto ore al più, il canotto dell’Illinois sarebbe stato, senza dubbio, nel luogo convenuto… Gli ultimi raggi del sole strisciavano ora per terra. Se Farnham fosse riuscito a raggiungere l'albero ci sarebbe stata ancora abbastanza luce per raccogliere la foglia. Egli fece in modo allora d'accostarsi al luogo in cui Walter si era fermato. Fece ciò senza che nessuno lo notasse, tranne i due irlandesi, che osavano appena volgere il capo da quella parte. Quando fu vicino all'albero Farnham si chinò: tra le foglie morte che ingombravano il suolo, si vedeva una sola foglia verde, lacera e stropicciata… quella che doveva contenere il biglietto di Walter. Ma il biglietto non c'era più: lo aveva forse portato via il vento? Forse era stato già raccolto da altri e consegnato al capo delle guardie? Quando Farnham raggiunse di nuovo la squadra, O'Brien e Macarthy lo interrogarono con lo sguardo e compresero che qualcosa era andata male… Dopo il ritorno al penitenziario, che cosa non avrebbero dovuto temere quando Farnham avesse loro detto che il

biglietto di Walter era scomparso?

CAPITOLO XI IL BIGLIETTO IL BIGLIETTO DICEVA: Dopodomani, 5 maggio, non appena si presenterà l'occasione durante i lavori esterni, raggiungere tutti e tre la punta Saint James, sulla costa occidentale della Storm Bay, dove la nave manderà il suo canotto. Se le condizioni del tempo non le avranno permesso di lasciare la rada di Hobart Town e di attraversare la baia, bisognerà attendere che essa giunga in vista della punta e vigilare dal tramonto all'alba. Dio protegga l'Irlanda e aiuti i vostri amici d'America! Il biglietto non portava nomi: né quello dei destinatari né quello di coloro che lo avevano compilato in termini così concisi e formali. Non indicava neppure il nome dello steamer venuto dall'America a Hobart Town e la cui destinazione rimaneva ignota. Il nome dell'Irlanda era però scritto chiaramente; nessun dubbio, quindi, che fosse stato mandato ai feniani di Port Arthur. Se fosse caduto sotto gli occhi del comandante del penitenziario, questi non avrebbe avuto nessuna possibilità di sbagliarsi: il progetto di evasione, ormai fallito, riguardava O'Brien e Macarthy. Ma del contenuto di questo biglietto, che forniva indicazioni precise e dava appuntamento ai fuggitivi tra quarantotto ore sulla punta Saint James, quali persone erano venute a conoscenza? Il biglietto era caduto nelle mani dei fratelli Kip. Essi avevano notato gli andirivieni di Walter, lungo la strada, e allora avevano forse pensato che quell'uomo cercasse di mettersi in contatto con qualche deportato. Ciò tuttavia non aveva attirato la loro attenzione, come aveva attirato invece quelle di Farnham e dei suoi

compatrioti. Non avevano visto Walter che staccava una foglia dall'albero per avvolgervi un pezzo di carta e poi gettarla a terra. Se il biglietto era finito nelle loro mani ciò era opera del caso. Le squadre erano intente al loro lavoro, mentre Karl e Pieter Kip andavano di qua e di là per segnare gli alberi da abbattere. Quando Pieter Kip, precedendo il fratello, si trovò vicino all'albero per intaccarne il tronco con l'accetta, gli girò prima intorno. Fu allora che scorse, tra due radici, una foglia verde semiarrotolata, dalla quale faceva capolino un pezzo di carta. Dopo averla raccolta, notò il biglietto con lo scritto. Letto in un batter d'occhio il biglietto e assicuratosi che nessuno lo aveva visto, lo cacciò in tasca. Quando fu raggiunto dal fratello e procedevano entrambi nel loro lavoro, egli lo informò di tutto. — Si tratta senza dubbio di un'evasione — mormorò Karl Kip. — Qualche condannato che anela alla libertà… forse qualche criminale… E noi, invece… — Karl, non si tratta né di assassini né di ladri — rispose Pieter Kip. — Si tratta dei due irlandesi. Alcuni amici hanno preparato la loro fuga. Quel biglietto, infatti, non poteva essere stato mandato che ai due irlandesi. — Ma i feniani sono due — rispose Karl Kip. — Il biglietto, se ho ben capito, parla di tre persone, invece… La cosa era inspiegabile per i due fratelli, che non sapevano e non potevano neppure sospettare la connivenza di Farnham e dei suoi compatrioti. — Tre! — ripeteva Karl Kip. — Chi potrebbe essere il terzo che dovrebbe fuggire insieme con loro? — Il terzo — rispose Pieter — potrebbe essere colui che ha portato il biglietto, e cioè quel tale che abbiamo visto gironzolare qui intorno. Probabilmente, cercava di avvicinare O'Brien e Macarthy… In quel momento Pieter Kip vide che i due irlandesi scambiavano qualche parola con l'agente che dirigeva la loro squadra. Ebbe un lampo. Quell'agente era Farnham, anch'egli irlandese. Sarebbe stato lui, forse, il terzo uomo?

Erano le sei di sera: poiché era stato dato il segnale della ritirata, la colonna tornò a formarsi, sotto la direzione delle guardie, e si mise in marcia, in doppia fila, per tornare a Port Arthur. I fratelli Kip erano in coda; gli irlandesi, invece, marciavano in testa. Dovevano essere molto inquieti e, con loro, anche Farnham. Walter aveva certamente deposto il biglietto e senza dubbio qualcuno lo aveva preso, se non era andato perduto. Sonavano le sette, quando i deportati rientrarono nel penitenziario. Terminato il pasto della sera, Karl e Pieter Kip sarebbero tornati nella loro cella. Al buio, non avrebbero potuto rileggere il biglietto, ma ciò non sarebbe stato neppure necessario: Pieter Kip lo conosceva a memoria, parola per parola. Nessun dubbio, un'evasione era stata preparata! Si trattava con certezza di O'Brien, di Macarthy e dell'agente Farnham, il quale ne doveva preparare la fuga, fornendo loro l'occasione, la sera del 5 maggio, e cioè fra trentasei ore, di raggiungere la punta Saint James, dove, al sopraggiungere della notte, il canotto della nave avrebbe accostato. Se lo stato del mare avesse proibito allo steamer di lasciare la rada, avrebbero dovuto attendere fino al giorno seguente, o anche dopo, forse, con il rischio per i fuggitivi di essere scoperti, ripresi e ricondotti al bagno. — Non importa — disse Karl Kip. — Hanno la speranza di riuscire nella fuga. Non avranno bisogno di nascondersi nella foresta con il rischio di essere inseguiti dalle guardie dei vari posti di sorveglianza! non dovranno valicare le palizzate dell'istmo con il pericolo di essere sbranati dai cani di guardia! La costa è a cinque miglia di distanza, non lontano dal luogo dove lavorano… Giungerà una nave, la quale manderà il suo canotto a cercarli… E poche ore dopo, essa avrà doppiato il capo Pillar… mentre noi… — Tu dimentichi, Karl, che nessuno dei tre sa nulla di ciò che hai detto — disse Pieter Kip. — È vero, poveretti! — Io credo che essi sappiano che il biglietto è stato lasciato cadere ai piedi dell'albero; e ricordo di aver visto Farnham dirigersi dopo di noi da quella parte. Egli non ha più trovato il biglietto e certo

ritiene che sia stato raccolto da qualche agente che, a sua volta, l'avrà consegnato al governatore! e che quindi si provvederà per rendere impossibile qualsiasi fuga. — Ma il biglietto lo hai trovato tu — esclamò Karl Kip — e nessuno ne conosce il contenuto, tranne noi; non c'è nulla che si opponga, quindi, a questo tentativo di fuga. — Certamente. A patto però che O'Brien e Macarthy lo sappiano… Ma essi non lo sanno! — Lo sapranno, Pieter. Noi non dimenticheremo che essi hanno preso le nostre difese e che si tratta di lasciar evadere due patrioti che hanno commesso un solo crimine: quello di sognare l'indipendenza del loro paese! — Domani cercheremo di far loro avere il biglietto — rispose Pieter. — Perché non fuggiamo anche noi con loro? — disse Karl prendendo le mani del fratello. Era la proposta che Pieter si aspettava. Ci aveva pensato anche lui, ma senza rifletterci, senza aver pesato il pro e il contro. Dato il biglietto ai due irlandesi e lasciato loro il tempo di leggerlo e di apprendere che ogni cosa era pronta per la loro evasione – la nave alla punta Saint James e il canotto in attesa sulla costa, la sera del 5 – perché non chieder loro il permesso di accompagnarli nella fuga? Era prevedibile un rifiuto da parte loro? oppure che li respingessero ritenendoli indegni di seguirli? Per i due feniani i fratelli Kip erano criminali che non meritavano pietà; associarli alla loro fuga significava concedere la libertà agli assassini del capitano Gibson! Pieter Kip aveva pensato a ciò e, nello stesso tempo, all'interessamento affettuoso e costante del signor Hawkins per ottenere la revisione del loro processo. Egli non riusciva ad abituarsi all'idea di una possibile fuga. Se egli aveva fiducia nell'avvenire, Karl, da parte sua, ne aveva altrettanta? No; non riusciva neppure a tollerare l'idea di dover aspettare una incerta riabilitazione, lontana nel tempo… Nondimeno, ciò che Pieter allora gli disse lo turbò profondamente. Lo ascoltò con il cuore in tumulto e parve a poco a poco perdere ogni sicurezza.

— Ascoltami, Karl, ho riflettuto molto. Sono sicuro che O'Brien e Macarthy, dopo quello che avremo fatto per loro, non ci negheranno di fuggire con loro, anche se in noi essi vedono sempre due assassini… — Ma noi non lo siamo! — disse Karl Kip. — Lo siamo ai loro occhi e agli occhi di tanti altri… di tutti, tranne il signor Hawkins, forse. Ebbene, se riusciamo a fuggire e a raggiungere l'America, che cosa ci avremo guadagnato? — La libertà, Pieter, la libertà! — Sarà proprio la libertà, se saremo costretti a nasconderci sotto un falso nome, oltre che denunciati alla polizia di tutte le nazioni? se vivremo sempre con il rischio dell'estradizione? Mio povero Karl, se penso a ciò che sarebbe la nostra vita in tali condizioni, mi chiedo se non sia meglio restare qui, se non sia meglio attendere qui che la nostra innocenza venga riconosciuta… Karl Kip non diceva nulla: in lui si combatteva una lotta tremenda. Egli comprendeva le ragioni del fratello e la loro fondatezza. Dopo l'evasione, la loro vita in America sarebbe stata impossibile, con il marchio del delitto sulla fronte… Per i due feniani e per i loro compagni, i fratelli Kip sarebbero sempre stati gli assassini del capitano Gibson! Karl e Pieter parlarono molto a lungo, quella notte, della faccenda e alla fine Karl Kip finì con l'arrendersi. Per tutti, senza dubbio – anche per il signor Hawkins — la fuga sarebbe stata una confessione di colpa. Da parte loro, O'Brien, Macarthy e Farnham erano divorati dall'inquietudine. In fin dei conti Farnham non s'era certamente sbagliato. L'uomo che andava su e giù per la strada era, senza dubbio, Walter, quel Walter dal quale aveva ricevuto il primo avviso. La foglia con il biglietto era stata deposta ai piedi dell'albero, e se il biglietto… Se il biglietto non era stato trovato vuol dire che era stato consegnato al comandante… Il signor Skirtle non sapeva ora che un tentativo di evasione era stato preparato secondo quanto rivelato dall'avviso? che si trattava dei due irlandesi, con la complicità del loro compatriota Farnham? In tal caso, sarebbero seguiti provvedimenti severissimi contro di loro e la rinuncia definitiva alla

speranza di tornar liberi! I due disgraziati irlandesi trascorsero la notte nel timore di veder apparire gli agenti e d'essere rinchiusi nelle segrete del penitenziario. Il giorno dopo era domenica e i deportati non venivano mandati a lavorare fuori: il regolamento li obbligava a seguire le funzioni religiose. Dopo l'ufficio sarebbero rimasti consegnati nel cortile. Quando suonò l'ora di recarsi alla cappella, O'Brien e Macarthy sentirono scemare le loro apprensioni. Poiché nessun provvedimento era stato preso a loro carico ne dedussero che il comandante non sapeva nulla del biglietto. Non appena i deportati ebbero occupato il proprio posto, il pastore celebrò l'ufficio senza che capitasse nulla di particolare. Seduti l'uno accanto all'altro i due irlandesi tenevano d'occhio Farnham, il cui sguardo sembrava dire chiaramente: niente di nuovo. Il signor Skirtle assisteva all'ufficio, come faceva ogni domenica, per ordine della superiore amministrazione. Nel suo atteggiamento non c'era ombra di preoccupazione e così certamente non sarebbe stato se qualcosa della progettata fuga fosse giunta al suo orecchio. Né Farnham, né O'Brien e né Macarthy rilevarono inoltre di essere oggetto di particolare attenzione. C'era dunque da credere che il biglietto fosse stato portato via dal vento e che fosse ormai impossibile trovarne traccia. Quando il pastore ebbe terminato l'allocuzione con la quale poneva fine all'ufficio, i deportati lasciarono la cappella e raggiunsero le sale da pranzo per il primo pasto. Poi si sparsero nei cortili o cercarono riparo sotto i portici perché la pioggia era cominciata a cadere. Pieter Kip s'era proposto d'incontrare O'Brien oppure Macarthy nei cortili dove i detenuti si raccoglievano in gruppetti, e di consegnar loro il biglietto, dicendo: — Ho trovato questo biglietto: nessuno lo ha letto tranne mio fratello ed io. Spetta a voi decidere quello che volete fare! Poi Pieter Kip si sarebbe allontanato. Poiché ai deportati non era proibito chiacchierare tra di loro non sembrava che ciò che egli voleva fare comportasse rischio. Si trattava, dopo tutto, di fare scivolare il biglietto nelle mani di O'Brien

o del suo compagno, indicandone la provenienza. Ma ciò che sarebbe stato facile fare nel cortile, diventava molto meno facile sotto i portici o nelle sale comuni, dove ottocento o novecento prigionieri erano strettamente ammassati sotto la sorveglianza dei guardiani. Fu proprio quello che accadde, purtroppo, prima della fine del pomeriggio in seguito ad alcuni violenti acquazzoni. Le sale furono invase e nessuno dei due fratelli ebbe la possibilità d'avvicinare gli irlandesi. Occorreva però che O'Brien e Macarthy fossero informati quello stesso giorno. Si era al 4 maggio e il biglietto diceva che l'appuntamento era fissato per il giorno seguente, alla punta Saint James dove l'imbarcazione avrebbe atteso gli evasi. Per raggiungere il luogo stabilito, i fratelli Kip ritenevano che ciò potesse avvenire nel modo seguente: il giorno dopo i deportati sarebbero stati impiegati in quella parte della foresta che l'amministrazione faceva diboscare. Il lavoro durava di solito fino alle sei di sera. Senza dubbio, verso quell'ora, prima che le squadre si riunissero per fare ritorno a Port Arthur, Farnham avrebbe trovato un pretesto qualsiasi per accompagnare i due irlandesi al limite della radura. Nessuno avrebbe mai sospettato delle loro intenzioni o se ne sarebbe meravigliato, vedendoli sotto la custodia di un agente. Poi, mossesi le squadre, nessuno avrebbe più notato l'assenza di O'Brien, di Macarthy e di Farnham. Soltanto nel caso che quell'assenza fosse stata segnalata il capo degli agenti avrebbe dato l'allarme; e allora, al buio, sarebbe stato difficile rintracciare i fuggiaschi nel cuore della foresta. Se la loro fuga, invece, fosse stata notata dopo il ritorno delle squadre a Port Arthur, sarebbe stato il cannone a dare l'allarme a tutta la penisola; ma poiché la costa era ad appena mezzo miglio dalla radura i fuggiaschi avrebbero avuto il tempo di raggiungere la punta Saint James. Se il canotto fosse stato già sulla costa ad attenderli, in pochi colpi di remo essi sarebbero stati al sicuro a bordo dell'Illinois. La nave avrebbe avuto dinanzi a sé tutta la notte per uscire dalla Storm Bay; all'alba sarebbe stata quindi a una decina di miglia al

largo di capo Pillar. Bisognava però che gli irlandesi fossero avvertiti subito oppure al più tardi il giorno dopo. Se Pieter Kip non fosse riuscito a parlare con loro prima di sera, sarebbe stato impossibile farlo durante la notte perché essi occupavano una cella a parte dalla quale non era loro permesso di uscire. Questa era dunque la situazione: i feniani erano inquieti per il biglietto scomparso, i fratelli Kip erano impazienti d'avvertire O'Brien e Macarthy! Intanto il tempo passava e s'approssimava l'ora in cui i deportati sarebbero stati rinchiusi nei dormitori. A conti fatti, però, non sarebbe stato sufficiente avvertirli al mattino? Non avrebbero avuto egualmente il tempo per evadere alla fine del giorno? Del resto, per raggiungere la costa era necessario che fossero fuori del penitenziario. Era mai possibile che il giorno seguente, durante il lavoro, non capitasse per i fratelli Kip l'occasione d'avvicinarsi ai due irlandesi, godendo essi di una certa libertà di movimento durante la segnatura degli alberi? Verso le sei pomeridiane, dopo una giornata piovosa, il cielo si rasserenò proprio al tramonto. Un fresco venticello disperse le nuvole. I deportati poterono abbandonare i portici per pochi minuti prima di raggiungere i dormitori: sorvegliati dagli agenti si dispersero nei cortili. L'occasione di avvicinare O'Brien, oppure Macarthy, si sarebbe finalmente presentata? Poiché il biglietto era in possesso di Pieter, spettava a lui tentare di consegnarlo ai feniani. Alle sette, ora regolamentare, i deportati dovevano raggiungere i dormitori, suddivisi in camerate di circa cinquanta posti ciascuna. Fatto l'appello, vi venivano poi rinchiusi fino al giorno dopo; i fratelli Kip venivano rinchiusi, invece, nella loro cella. S'erano formati parecchi capannelli, qua e là, a seconda della simpatia che i condannati reciprocamente si ispiravano. Non era del passato che essi parlavano: a che sarebbe servito?… né del presente, che non sarebbe potuto mutare… ma dell'avvenire! E che cosa intravedevano essi nell'avvenire? Una mitigazione del regime penitenziario? il condono della pena? la possibilità di un'evasione? Sappiamo già che i fratelli Kip e i due irlandesi di solito non

parlavano mai insieme. Dal giorno in cui O'Brien e Macarthy avevano accolto con voluta freddezza i ringraziamenti di Karl e di Pieter Kip, essi non si erano più rivolti la parola. E poiché non facevano parte della stessa squadra di lavoro, non avrebbero potuto incontrarsi se non la mattina e i pomeriggi dei giorni festivi. Il tempo intanto scorreva. Occorreva che gli irlandesi fossero soli nel momento in cui sarebbe stato consegnato loro il biglietto di Walter. Farnham, che gironzolava nelle loro vicinanze, sembrava non staccar loro gli occhi di dosso. C'era, senza dubbio, motivo di credere che Farnham fosse a conoscenza della faccenda e che egli dovesse accompagnare i prigionieri nella fuga. Ma se questa ipotesi si fosse rivelata errata e Farnham avesse sorpreso i fratelli Kip a chiacchierare con i feniani tutto sarebbe stato perduto. Eppure, no! Pieter non si sbagliava… I tre uomini si scambiavano sguardi d'intesa nei quali impazienza e inquietudine lottavano insieme… Erano così turbati da non riuscire a star fermi. Chiamato dal capo delle guardie, ecco che Farnham dovette lasciare il cortile, senza poter dire neppure una parola ai suoi compatrioti le cui apprensioni si accrebbero. Nello stato d'animo in cui si trovavano, ogni cosa appariva loro sospetta. Che cosa si voleva da Farnham? Chi lo aveva fatto chiamare? Forse il comandante, per parlargli del biglietto? La sua complicità era dunque scoperta? O'Brien e Macarthy non riuscirono a celare le loro preoccupazioni e si avviarono verso l'uscita del cortile come per spiare il ritorno di Farnham, chiedendosi se non sarebbero stati chiamati anche loro di lì a poco. Nell'angolo buio e deserto dove si erano fermati, non si correva il rischio d'essere notati o uditi. Pieter Kip andò da loro con passo rapido; afferrò con gesto sollecito la mano di O'Brien che questi istintivamente cercò di ritirare; sentì che una carta gli veniva fatta scivolare tra le dita, mentre Pieter Kip gli diceva a bassa voce: — È un biglietto che vi riguarda… L'ho raccolto ieri ai piedi d'un albero… Nessuno sa nulla, tranne mio fratello ed io… Non ho potuto darvelo prima… ma siete ancora in tempo… È per domani… Voi

sapete quello che dovete fare!… O'Brien aveva capito, ma sorpresa e commozione gli impedirono di rispondere. Karl Kip, che si era avvicinato anche lui, aggiunse sottovoce, parlando ai due irlandesi: — Noi non siamo assassini, signori, e, come vedete, non siamo neppure traditori!

CAPITOLO XII PUNTA SAINT JAMES LA SERA del giorno seguente, un po' dopo le sette, a pochi minuti di intervallo l'uno dall'altro, tre lampi rischiararono le alte mura del penitenziario, seguiti da tre violente detonazioni. L'eco delle tre cannonate propagatasi sulla penisola di Tasman mise tutti in allarme. I posti di sorveglianza si sarebbero subito collegati a mezzo di pattuglie, sarebbero state allungate al massimo le catene dei cani lungo le palizzate dell'istmo di Eagle Hawk Neck. Nessuna macchia d'alberi e nessun fossato della foresta sarebbero sfuggiti alle ricerche delle guardie. Le tre cannonate avevano segnalato che era stata in quel momento accertata un'evasione e che erano stati subito presi gli opportuni provvedimenti per impedire ai fuggiaschi di lasciare la penisola. Il tempo, del resto, era così brutto da rendere impossibile la fuga via mare. Nessuna imbarcazione avrebbe potuto accostarsi al litorale né le navi avvicinarsi alla costa. Nell'impossibilità di superare le palizzate dell'istmo gli evasi sarebbero stati costretti a nascondersi nella foresta e, con ogni probabilità, sarebbero stati presto catturati e ricondotti al bagno. Un forte vento di sud-ovest, infatti, rendeva il mare agitatissimo, sia nella Storm Bay sia al largo della penisola. Quella sera, dopo il rientro dei forzati nel penitenziario, era stata accertata l'assenza di due detenuti della quinta squadra. Mentre li conduceva a Port Arthur, il capo delle guardie, che era in testa alla colonna, non s'era accorto della loro scomparsa, la quinta squadra essendo sotto la sorveglianza dell'insospettabile Farnham. L'evasione era stata in conseguenza accertata soltanto nel corso dell'appello serale e il comandante ne era stato subito informato. Poiché gli evasi erano i due condannati politici O'Brien e Macarthy, era probabile che l'aiuto di amici esterni non fosse loro

mancato. Ma com'era avvenuta la fuga? In quali condizioni era stata effettuata? Avevano gli evasi già lasciato l'isola? oppure erano nascosti in un luogo stabilito? Ora che i tre colpi di cannone avevano dato l'allarme a tutto il personale della penisola, le ricerche lo avrebbero fatto sapere. Per ciò che riguarda Farnham occorre precisare che il giorno precedente era stato chiamato per faccende riguardanti il servizio; nessuno, infatti, sospettava di lui e, anche quando fu notata la sua assenza, il signor Skirtle e il capo delle guardie ritennero che gli irlandesi prima di evadere si fossero sbarazzati di lui. Come abbiamo già detto, a causa del mare agitato non era possibile che O'Brien e Macarthy fossero fuggiti con un'imbarcazione. Per ordine del signor Skirtle un drappello di guardie parti quindi, subito, in direzione dell'istmo che, dopo i tre colpi di cannone, era già sottoposto a sorveglianza. Ci si assicurò che i mastini delle palizzate facessero buona guardia e si sguinzagliarono anche gli altri cani sui greti di Eagle Hawk Neck. Il tentativo d'evasione suscita sempre una vasta eco nel personale dei penitenziari. Ben presto i deportati di Port Arthur non ignorarono più che due compagni erano evasi e che si trattava dei due irlandesi. Quanta invidia quel tentativo doveva suscitare nell'animo di quei miserabili! Essi, condannati per crimini comuni, non si consideravano da meno dei condannati politici! I due feniani non erano, in fondo, come loro? ed erano riusciti ad evadere… Ma erano riusciti a superare le palizzate dell'istmo e a lasciare la penisola? oppure si erano nascosti nella foresta in attesa dell'aiuto esterno? Ciò che si diceva nei dormitori, si diceva anche nella cella dei fratelli Kip. Ma i due fratelli erano al corrente di quello che gli altri ignoravano e cioè che una nave avrebbe raccolto gli evasi e che un canotto sarebbe andato a prenderli sulla punta Saint James… C'era però da chiedersi: l'imbarcazione vi si era trovata all'ora stabilita? — Non è possibile! — disse Karl Kip rispondendo alle domande del fratello. — Nella Storm Bay soffia un vento terribile; un canotto non avrebbe mai potuto avvicinarsi alla costa. Una nave, fosse pure uno steamer, non avrebbe mai osato portarsi in prossimità del litorale!

— Quei poveracci saranno costretti allora a passare la notte sulla punta? — disse Pieter Kip. — Non soltanto la notte, ma anche il giorno seguente: l'evasione non può avvenire di giorno! Non si sa neppure se questa tempesta si placherà tra ventiquattr'ore! In quelle lunghe ore, nessuno dei due fratelli riuscì a chiudere occhio. Tendevano l'orecchio, mentre la tormenta flagellava l'apertura della loro cella, se mai un va e vieni di passi indicasse loro che le guardie avevano catturato e stavano riportando nel penitenziario gli evasi. Ma ecco in qual modo era avvenuta, quel giorno, l'evasione di O'Brien e di Macarthy, con la complicità di Farnham. Erano quasi le sei. Le squadre avevano cessato il lavoro e la foresta già sprofondava nel buio. Tra cinque o sei minuti il capo delle guardie avrebbe dato l'ordine di marcia verso Port Arthur. Fu allora che i due fratelli videro Farnham accostarsi agli irlandesi e dir loro qualche parola a bassa voce. Poi, i due lo seguirono fino al margine della radura, dove si fermarono dinanzi a un albero segnato per l'abbattimento. Il capo delle guardie non ebbe motivo di preoccuparsi nel vederli allontanare in quella direzione, accompagnati dall'agente; e così essi rimasero in quel luogo fino all'ora in cui le squadre ricostituirono la colonna per fare ritorno a Port Arthur. Come abbiamo già detto, nessuno rilevò che O'Brien, Macarthy e Farnham non erano con i loro compagni. Soltanto dopo l'appello, fatto nel cortile del penitenziario, fu accertata la loro assenza. Favoriti dalla crescente oscurità i tre fuggiaschi avevano potuto allontanarsi senza essere visti. Evitarono una pattuglia che tornava al proprio posto, rannicchiandosi in fondo a un fossato e cercando di non farsi tradire dal rumore delle catene che O'Brien e Macarthy portavano al piede e alla cintola. Allontanatasi la pattuglia, tutti e tre si rimisero in cammino, fermandosi ogni tanto e prestando orecchio al minimo rumore finché non raggiunsero la cresta di quel dirupo ai piedi del quale s'allungava la punta Saint James. La penisola di Tasman era avvolta nell'oscurità e l'oscurità era

resa ancora più fitta dalle spesse nuvole che il vento dell'ovest spingeva nello spazio. Erano quasi le sei e mezzo quando i fuggiaschi si fermarono a guardare la baia. — Non si vede nessuna nave — disse O'Brien. La baia sembrava proprio deserta. Anche se invisibile a causa dell'oscurità, la nave sarebbe stata segnalata dai fuochi di bordo, se ci fosse stata. — Farnham, siamo proprio sul dirupo della punta Saint James? — chiese Macarthy. — Sì, ma non credo che il canotto abbia potuto accostare — disse Farnham. Come avrebbero potuto mai sperarlo, udendo i tremendi muggiti del mare e vedendo giungere fino a loro gli spruzzi delle onde sollevati dalle raffiche? Farnham e i suoi compagni piegarono allora a sinistra e poi scesero sul greto, nell'intento di raggiungere l'estremità della punta. Era una specie di capo stretto, ingombro di scogli e pieno di pozze d'acqua; era lungo circa trecento piedi, con una curva che formava una piccola insenatura aperta verso nord. Un canotto vi avrebbe trovato acque molto meno agitate, se fosse riuscito a sottrarsi agli scogli contro i quali il mare si spezzava con incredibile violenza. Pervenuti all'estremità della punta, dopo un'aspra lotta contro la tormenta, i fuggiaschi si misero al riparo di un'alta roccia. Il biglietto portato da Walter prescriveva di trovarsi quel giorno sulla punta Saint James, e loro adesso vi si trovavano, anche se non nutrivano speranza d'esser imbarcati quella sera. Del resto, la comunicazione prevedeva anche un eventuale ritardo: ne sapevano a memoria ogni parola: «Se il tempo non permetterà alla nave di lasciare la rada di Hobart Town e di attraversare la baia, aspettare che essa giunga in vista della punta e vigilare dal tramonto all'alba». Bisognava attenersi a quelle prescrizioni. — Cerchiamo un riparo — disse O'Brien. — Un buco dove poter passare la notte e la giornata di domani. — Senza allontanarci dalla punta — disse Macarthy.

— Venite — disse Farnham. In previsione del cattivo tempo l'irlandese si era preoccupato di ispezionare quella spiaggia selvaggia e deserta durante l'ultima sua uscita festiva. Forse la base della scogliera avrebbe offerto ai tre fuggiaschi qualche anfratto dove celarsi fino all'arrivo del canotto? Farnham aveva scoperto un riparo proprio all'inizio della punta e vi aveva deposto un po' di viveri: biscotti secchi e carne conservata acquistati a Port Arthur, oltre a una fiasca riempita d'acqua attinta da un vicino ruscello. Sferzati da raffiche che li accecavano, non fu facile ritrovare nell'oscurità quel riparo, a cui alla fine pervennero dopo aver attraversato il greto, lievemente in declivio. — È là — disse Farnham. Pochi istanti dopo, tutti e tre si cacciavano in una cavità profonda non più di cinque o sei piedi, dove, se non altro, sarebbero stati al riparo della tempesta. Soltanto durante l'alta marea le onde, sospinte dal vento, forse avrebbero raggiunto l'apertura della cavità. I viveri, sufficienti per due giorni, furono trovati al loro posto. Si erano appena sistemati nell'anfratto, quando uno sparo, tre volte ripetuto, dominò il frastuono della tormenta. Era il cannone di Port Arthur. — La nostra fuga è stata segnalata! — disse Macarthy. — Si sa che siamo scappati — aggiunse O'Brien. — Ma non ci hanno ancora ripresi — disse Farnham. — E non ci lasceremo riprendere! — disse O'Brien. Bisognava per prima cosa che i due irlandesi si liberassero della catena, per il caso che fosse necessario scappare. Farnham si era munito di una lima e si servì di essa per tagliare l'anello del piede. Dopo sei anni trascorsi nel bagno, ora finalmente O'Brien e Macarthy non erano più legati alle pesanti pastoie del galeotto. Era evidente che quella notte nessuna imbarcazione sarebbe approdata sulla costa. Nessuna nave avrebbe corso il rischio di rimanere incagliata sugli scogli che si stendevano dal fondo di Storm Bay al capo Pillar. Ma l'entusiasmo era tale che i fuggiaschi non seppero resistere al bisogno di tener d'occhio le vicinanze della punta. Più volte, senza

preoccuparsi di essere visti, essi abbandonarono il loro rifugio e gironzolarono sulla spiaggia, cercando inutilmente, nell'oscurità, i fuochi di posizione della nave! Rientrati poi nella cavità, essi parlarono della situazione in cui si trovavano e che con la luce del giorno sarebbe diventata certamente più pericolosa. Dopo aver frugato nei dintorni di Port Arthur e nelle foreste, fino all'istmo, le guardie non avrebbero esteso le loro ricerche fino al litorale? Abituati a lanciarsi sulle tracce dei deportati i cani non avrebbero finito per scovare il buco in cui Farnham e i suoi compagni s'erano rannicchiati? Mentre i tre si prospettavano questa terribile eventualità, O'Brien fece il nome dei fratelli Kip. Pensando al servizio che Karl e Pieter avevano reso loro, disse: — No, non sono degli assassini!… Lo hanno affermato recisamente e io lo credo! — Hanno un grande cuore — aggiunse Macarthy. — Se ci avessero denunciati, forse avrebbero potuto sperare di trarne qualche vantaggio… Ma non lo hanno fatto! — Ho sentito parlare di questo processo più volte, a Hobart Town — riprese Farnham. — Si tratta dell'assassinio del capitano Gibson del James Cook. Alcune persone si sono interessate in favore dei fratelli Kip, e tuttavia non si crede che essi siano stati ingiustamente condannati… — Sono innocenti! — ripeté O'Brien. — Quando penso che non ho voluto stringer loro la mano!… Poveracci!… Non sono colpevoli, no; eppure, eccoli qui, in questo penitenziario, in mezzo a tanti criminali… Soffrono ciò che abbiamo sofferto noi! Ma noi sappiamo che abbiamo sofferto per aver voluto strappare il nostro paese agli uccelli da preda d'Inghilterra! e noi abbiamo amici, fuori di qui, che si occupano della nostra liberazione… Ma Karl e Pieter Kip resteranno chiusi lì per tutta la vita! Quando ci sono venuti vicino, e ci hanno dato il biglietto, avrei dovuto dir loro: «Fuggiamo insieme! I nostri compatrioti vi accoglieranno come fratelli!». La notte avanzava, piovosa e glaciale. I fuggiaschi soffrivano il freddo, eppure attendevano il giorno con grande apprensione. A volte

giungevano alle loro orecchie i latrati dei cani sguinzagliati nella penisola. Avvezzi a fiutare i deportati da lontano, e a riconoscere la divisa dei galeotti, non sarebbero riusciti i mastini a scoprire l'anfratto in cui si nascondevano gli evasi? Poco dopo mezzanotte, il greto era stato interamente coperto dalla marea crescente, favorita dai venti occidentali. Il mare si gonfiò tanto che la base della rupe fu battuta dalle onde. Per una mezz'ora i fuggiaschi ebbero l'acqua a mezza gamba. Per fortuna, il suo livello non andò oltre e il riflusso portò via l'acqua, nonostante la resistenza opposta dalle raffiche. Prima dell'alba la tempesta cominciò a scemare. Il vento a poco a poco girò a nord, rendendo la baia quasi praticabile. Farnham, O'Brien e Macarthy potevano dunque sperare che il mare non tardasse a calare. Allo spuntare del giorno, il miglioramento era già sensibile. Se le onde si frangevano ancora oltre gli scogli, un'imbarcazione avrebbe potuto, senza troppa fatica, accostarsi dall'altro lato alla punta Saint James. Ovviamente, bisognava attendere la sera prima di avventurarsi sul greto. Farnham divise in tre parti eguali il pane e la carne secca. Bisognava farli durare, in previsione di ulteriori ritardi, oltre le quarantott'ore, impossibilitati com'erano a procurarsene altri. L'acqua avrebbero potuto attingerla la stessa sera dal ruscello. Parte della mattina trascorse senza incidenti in quelle condizioni. La tormenta ebbe definitivamente termine e il sole riapparve tra le ultime nuvole dell'est. — La nave che è nella rada di Hobart Town — disse allora O'Brien — ora potrà attraversare la Storm Bay: prima di sera avrà raggiunto la penisola. — Ma la costa sarà certamente meglio sorvegliata… — rispose Macarthy. — Vediamo… — riprese O'Brien. — Nessuno sa a Port Arthur che una nave è venuta dall'America per prenderci a bordo, e tanto meno che abbiamo appuntamento qui. Che cosa debbono immaginare? Penseranno che siamo nascosti nella foresta e, almeno per i primi giorni, è là che continueranno a cercare invece che sul

litorale. — E Walter, ora che ci penso? — rilevò Farnham. — Sabato, due giorni fa, lo abbiamo visto sulla strada di Port Arthur. È forse tornato a Hobart Town? Lo credo probabile. Dopo essere tornato a bordo dello steamer, avrà informato il capitano che la sera di lunedì saremmo stati alla punta Saint James. — Se Walter non fosse tornato a Hobart Town, senza dubbio — rispose Macarthy — ci avrebbe raggiunti qui, questa notte. Nel buio, non gli sarebbe stato difficile sfuggire alle pattuglie. — Lo credo anch'io — disse O'Brien. — Walter avrà lasciato Port Arthur domenica, con un vapore che presta servizio nella baia. — Noi siamo sicuri — aggiunse Farnham — che egli solleciterà la partenza dello steamer. Non ci rimane che di aver pazienza. Appena sarà notte, vedrete che il canotto si accosterà alla punta. — Dio lo voglia! — disse O'Brien. Verso l'una del pomeriggio, si verificò un allarme. Sull'orlo della rupe si udirono distintamente alcune voci, a cento passi sopra l'anfratto che ospitava i fuggiaschi. Nello stesso tempo, echeggiarono i latrati dei cani, incitati dai loro padroni. — Gli agenti! I mastini! — esclamò Farnham. — È quanto di peggio potesse capitarci! C'era il rischio infatti che i cani scendessero sul greto, dove gli agenti avrebbero potuto seguirli lungo il sentiero che Farnham aveva percorso il giorno precedente. L'istinto li avrebbe allora guidati ai piedi della rupe, fino a scoprire l'anfratto. Quale resistenza avrebbero potuto mai opporre gli inermi O'Brien, Macarthy e Farnham a una dozzina di uomini armati? Avrebbero fatto presto a ridurli all'impotenza e a ricondurli al penitenziario. E sapevano anche che cosa li attendeva laggiù: la doppia catena e la cella per O'Brien e Macarthy! E la morte per Farnham, che ne aveva favorito la fuga! Tutti e tre rimasero immobili. Non era più possibile uscire dall'anfratto senza essere visti. E dove rifugiarsi, se non sulle ultime rocce della punta? E qui, se non volevano tornare al bagno, non potevano far altro che gettarsi in mare… Sarebbe stato sempre meglio, comunque, che cadere nuovamente nelle mani delle guardie! Un suono di voci giungeva alle loro orecchie; udivano le parole

che venivano scambiate sulla cresta della rupe, le grida di coloro che li cercavano, alle quali si univano i latrati furiosi dei mastini. — Di qua — diceva qualcuno. — Sciogliete i cani — disse un altro. — Guardiamo bene dappertutto, prima di andarcene. — Che sarebbero venuti a fare qui? — rispose il caposquadra, del quale Farnham riconobbe la voce. — Non potevano certo salvarsi a nuoto! Bisogna tornare a cercarli nella foresta. O'Brien aveva afferrato la mano dei compagni: dopo le parole del loro capo, era probabile che le guardie si allontanassero. Una di esse invece rispose: — Si può dare un'occhiata, comunque. Seguiamo il sentiero che conduce al greto. Potrebbero essere nascosti tutti e tre in qualche buco! Tutti e tre? A Port Arthur dunque non si dubitava più che Farnham, complice dei due irlandesi, fosse con essi? Se ora le parole si udivano meno chiaramente, a riprova che le guardie andavano verso il sentiero, i latrati dei cani invece si avvicinarono. Una felice circostanza forse avrebbe impedito che i fuggiaschi venissero scoperti. Il mare, cresciuto nuovamente, ora inondava il greto fino ai piedi della rupe: le ultime ondulazioni della risacca bagnavano già l'anfratto. Sarebbe stato impossibile scorgerne l'ingresso, senza fare da quel lato il giro del contrafforte. La punta Saint James ora mostrava soltanto le rocce estreme sotto un mare di schiuma. Ci sarebbero volute almeno un paio d'ore di riflusso prima che il greto fosse nuovamente praticabile. Non era perciò probabile che le guardie vi si fermassero oltre. Avevano fretta invece di seguire una pista migliore. I cani però abbaiavano con maggior foga; senza dubbio, l'istinto li spingeva lungo la rupe. Un mastino si lanciò persino nell'acqua, ma gli altri non lo seguirono. Il capo delle guardie diede ordine quasi subito di tornare indietro. In breve, il chiasso dei latrati e delle voci scemò: poco dopo non si udiva più che il muggito del mare che batteva con fracasso la base della rupe.

CAPITOLO XIII L'EVASIONE IL PERICOLO si era allontanato ma non era scongiurato: frugata la foresta, le ricerche sarebbero riprese su tutto il litorale. È necessario ripetere qui che se qualche volta le evasioni dal penitenziario di Port Arthur sono riuscite, ciò è dovuto al fatto che esse sono avvenute dalla parte del mare. O i deportati riescono a impadronirsi di una imbarcazione, oppure se la sono costruita riuscendo a raggiungere con questo mezzo un altro punto della baia. Il tentativo di attraversare l'istmo era considerato assurdo, mentre i fuggiaschi nascostisi nei boschi erano stati sempre riacciuffati dopo alcune settimane. Il comandante lo sapeva e la ricerca degli evasi era sempre rivolta verso la foresta quando il cattivo tempo impediva la fuga dal mare. Ora che la tempesta scemava e il litorale della penisola diventava praticabile, il giorno seguente pattuglie di guardie ne avrebbero frugato certamente le insenature. Questo era ciò che dicevano a se stessi O'Brien, Macarthy e Farnham, e si può immaginare con quale apprensione. Le ore del pomeriggio parvero loro interminabili; le trascorsero senza allarmi ma con l'orecchio teso ai rumori lontani, credendo di udire a ogni istante dei passi sul greto o i latrati dei feroci mastini con il timore di vedere a ogni istante un cane avventarsi su di essi. A volte, invece, riacquistavano fiducia. Senza uscire allo scoperto, potevano abbracciare con lo sguardo una vasta distesa della baia e spiare le navi che transitavano al largo. Da quando il vento era calato, si vedevano da lontano alcuni velieri. Parecchi altri rientravano bordeggiando dopo aver doppiato il capo Pillar. Farnham aveva saputo da Walter, nel suo primo incontro, che la nave americana giunta in rada a Hobart Town, era lo steamer Illinois. Era

dunque un fil di fumo quello che i fuggiaschi cercavano di scorgere sul mare: un fil di fumo che annunciasse l'approssimarsi della nave che essi aspettavano tra tanti pericoli. Ma era ancora troppo presto. Ci sono appena una ventina di miglia tra Hobart Town e la punta Saint James: sarebbe bastato che l’Illinois lasciasse la rada verso le sei di sera. Non sarebbe stato certamente così imprudente da accostarsi alla punta, almeno finché l'oscurità della notte non permettesse di mandarvi il canotto per raccogliervi i fuggiaschi. — Sapranno già a bordo che siamo riusciti a fuggire? — chiese Macarthy. — Non dubitatene — rispose Farnham. — Siamo qui, nel luogo stabilito, da ventisei ore; da stamane, la notizia della nostra fuga sarà stata trasmessa a Hobart Town. Il governatore ne sarà stato avvisato telegraficamente. Del resto, io credo che Walter si sia affrettato a raggiungere l'Illinois. Se, a causa del cattivo tempo, lo steamer non è riuscito a partire ieri, oggi non tarderà a fare rotta verso la penisola. — Sono già le cinque — disse O'Brien. — Tra un'ora e mezzo, l'oscurità renderà difficile distinguere la punta Saint James. Potrà il capitano mandarvi il canotto? — Io non ho dubbi — rispose Farnham. — Egli avrà preso certamente le sue precauzioni. Se non conosce il litorale della penisola, lo conoscerà certamente qualche suo marinaio. Anche di notte, non sarà in imbarazzo per… — Ecco il fumo! — esclamò Macarthy. A nord-ovest, dove le nuvole porporine velavano il sole, si vedeva un filo di fumo. — Sarà l'Illinois? — disse O'Brien, che sarebbe corso sul greto, se Farnham non lo avesse prudentemente trattenuto. Di solito la Storm Bay è frequentata da molte navi, soprattutto a vapore. Quella segnalata non avrebbe forse messo la prua a sud-est, per uscire dalla baia e andare al largo? Nulla autorizzava a credere che movesse verso la costa. L'ansia dei fuggiaschi non era stata mai più intensa, neppure quando le guardie percorrevano il sentiero della rupe e i cani minacciavano di precipitarsi sul greto! Mai, d'altra parte, avevano

nutrito tanta speranza! Quel fumo avanzava visibilmente verso sudest. Tra meno di mezz'ora, mentre era ancora chiaro, avrebbero potuto distinguere la nave tra cielo e mare. Dal fumo, non certo scuro, si sarebbe detto che essa non volesse forzare l'andatura. Se era l'Illinois, infatti, perché avrebbe dovuto marciare a tutto vapore? A notte fatta, si sarebbe trovato egualmente a poche gomene dalla punta Saint James e il canotto avrebbe potuto staccarsi dalla nave senza correre il rischio di essere visto. Ma O'Brien lanciò a un tratto un grido disperato: — Non è l’Illinois! — Come fai a saperlo? — Guardate! Lo steamer infatti aveva cambiato direzione e non si avvicinava più alla penisola. Manovrava come fanno di solito le navi che vogliono rilevare il capo Pillar per uscire dalla Storm Bay. Dopo un'intera giornata d'attesa snervante, ecco avanzare la notte! Era svanita la speranza di essere vicini alla salvezza, di poter essere presi a bordo! La nave si allontanava dalla penisola, per raggiungere il largo! Non era dunque l'Illinois annunciato da Walter, lo steamer di cui i fuggiaschi scorgevano il fumo! Lo steamer americano era rimasto, dunque, nella rada di Hobart Town. Ma tutto non era ancora perduto! Sarebbe giunto forse nel cuore della notte? Ebbene, lo avrebbero atteso e spiato! Appena buio, i fuggiaschi avrebbero attraversato il greto per raggiungere l'estremità della punta Saint James e rannicchiarsi tra le rocce. Se uno steamer si fosse avvicinato, avrebbero udito, nell'oscurità, il ronzio delle macchine e il turbinio dell'elica… E se avesse inviato un'imbarcazione, essi l'avrebbero chiamata per invitarla ad accostare, facendo attenzione agli scogli… E infine, se la risacca le avesse impedito di toccare terra, si sarebbero buttati in mare per esservi raccolti e trasportati a bordo! Come aveva detto O'Brien, avrebbero rischiato tutto, a costo di lasciarci la pelle, piuttosto che tornare al bagno! Il sole era tramontato; in quel periodo dell'anno, il crepuscolo era di breve durata; tra breve, baia e litorale sarebbero stati avvolti dall'ombra della notte. La luna, al suo ultimo quarto, non sarebbe

apparsa prima delle tre del mattino. Sotto un cielo senza stelle, velato di nuvole stagnanti, la notte sarebbe stata buia. Un profondo silenzio regnava al largo. Il vento, caduto verso sera, soffiava a tratti. Dal lato della baia, i fuggiaschi avrebbero udito benissimo, anche a distanza di due o tre miglia, l'ansito delle macchine di uno steamer in marcia verso la costa, e a cinque o sei gomene, il rumore prodotto da un canotto spinto dai remi. Incapace di star fermo, O'Brien volle raggiungere a ogni costo la punta Saint James. Era un'imprudenza: faceva ancora un po' chiaro e le guardie avrebbero potuto scorgerlo dall'alto della rupe. Sembrava tuttavia che quella parte del litorale fosse deserta. Strisciando sulla sabbia, O'Brien raggiunse il luogo dove la punta Saint James si salda al greto. Vi si ammucchiavano enormi rocce cosparse di alghe, il cui prolungamento, emergente durante la bassa marea, si inoltrava in mare per circa trecento piedi, descrivendo una curva. La voce di O'Brien giunse in quel momento a Farnham, rannicchiato nell'anfratto, accanto a Macarthy. — Alla punta! — gridava. Aveva forse visto un'imbarcazione? Ne aveva sentito il rumore dei remi? Bisognava raggiungerla senza esitare. Ed è ciò che fecero subito Farnham e Macarthy, strisciando sul greto. Quando tutti e tre furono insieme ai piedi delle prime rocce, O'Brien disse: — Mi è parso… credo… Viene un'imbarcazione… — Da che parte? — chiese Macarthy. — Da questa parte. E O'Brien indicava il nord-ovest. Era la direzione che avrebbe dovuto seguire un'imbarcazione che avesse cercato di penetrare nell'insenatura attraverso la scogliera. Macarthy e Farnham si posero in ascolto: non v'era dubbio, un'imbarcazione proveniente dal largo avanzava lentamente quasi incerta: ne udivano il battere dei remi. — È il rumore dei remi che urtano contro gli scalmi. Una barca viene da queste parti.

— Ed è quella dell'Illinois! — rispose O'Brien. Non poteva essere che la barca inviata dallo steamer nel luogo stabilito. Ma i fuggiaschi cercavano inutilmente di vedere la nave nascosta dalla crescente oscurità. Forse si teneva a un buon miglio al largo, sia per non essere segnalata in prossimità della costa, sia per non accostarsi troppo a quel gruppo di scogli. Non c'era ora da far altro che raggiungere l'estremità della punta e di spiare l'arrivo dell'imbarcazione, chiamarla se necessario, indicare la direzione,, tra gli scogli, per poi saltarvi dentro, non appena vicino alle ultime rocce. Ma ecco echeggiare dei latrati in cima alla rupe, seguiti da grida. La cresta era stata allora occupata da un drappello di guardie accompagnate da una dozzina di cani. Dopo aver seguito il margine della foresta, gli agenti erano tornati verso la costa. Non lontano, le squadre che lavoravano nella radura si preparavano a tornare a Port Arthur. Dalle grida delle guardie, O'Brien, Macarthy e Farnham compresero d'essere stati scoperti: li avevano visti mentre attraversavano il greto. Erano stati traditi, forse, dal richiamo lanciato da O'Brien? Unica speranza di salvezza per loro era l'arrivo dell'imbarcazione; ma non potevano far nulla per affrettarlo. Se non si erano sbagliati e se il canotto realmente si avvicinava, avrebbero potuto essere raccolti prima dell'arrivo delle guardie? E poi: i marinai formanti l'equipaggio dell'imbarcazione avrebbero osato avvicinarsi se avessero udito rumore di lotta? E sarebbero comunque stati in numero adeguato per attaccare le guardie, strappar loro di mano i prigionieri e portarli al sicuro, a bordo dell'Illinois? — I cani! — gridò a un tratto Macarthy. Dopo aver superato il sentiero della rupe i mastini piombarono sul greto: erano quattro o cinque, addestrati a dare la caccia ai deportati. Abbaiavano furiosamente. Quasi subito apparvero anche una dozzina di guardie, con la rivoltella in pugno, gridando: — Di qua! — Sono là, tutti e tre!

— Andiamo sulla punta! — S'avvicina una lancia! O'Brien non si era sbagliato: un'imbarcazione cercava di penetrare nella piccola insenatura. I fuggiaschi non avevano potuto vederla prima, perché essa rimaneva invisibile dai piedi della rupe. L'attenzione delle guardie appostate sulla cresta, invece, era stata attratta dalla lancia, la quale, dopo aver seguito la costa, cercava ora di scivolare tra gli scogli. Essi erano certi che fosse venuta a prendere gli irlandesi. Poi, guardando verso il largo, finirono per scorgere la nave la cui presenza dinanzi alla baia non poteva non apparire più che sospetta. La presenza della nave era stata notata anche da due deportati, i quali, dopo aver lavorato al margine della radura, avevano ora raggiunto la cresta della rupe. Quei due deportati erano Karl e Pieter Kip. È facile immaginare l'ansietà che aveva invaso l'animo dei due fratelli durante l'intero giorno. Sapevano perfettamente che il cattivo tempo del giorno precedente non avrebbe permesso alla nave americana di accostarsi alla penisola. Essi pensavano che i fuggiaschi, raggiunta la punta, avevano dovuto nascondersi in qualche anfratto per trascorrervi la notte e il giorno successivo… Ma avevano potuto procurarsi un po' di cibo? La tempesta era ormai cessata da una quindicina di ore rendendo praticabile la baia; ciò che non era stato possibile fare il giorno precedente sarebbe stato fatto forse quella sera al sopraggiungere dell'oscurità. I fratelli Kip avevano lasciato, come al solito, il penitenziario sin dal mattino. Tornati in prossimità della rupe avevano ansiosamente cercato di scorgere a occidente, o lungo la costa, le volute di fumo che indicavano l'avvicinarsi dello steamer. La giornata era ormai trascorsa quando, dieci minuti prima che fosse dato il segnale della partenza, ecco risuonare alcune grida dalla parte del litorale. — Poveracci! Sono stati scoperti! — esclamò Karl Kip. Fu proprio allora che dieci o dodici guardie, abbandonando la custodia delle squadre ai loro compagni, corsero in quella direzione,

seguiti a loro insaputa dai fratelli Kip. Giunti sulla cresta, i due fratelli si sdraiarono bocconi e guardarono in basso. Una lancia scivolava rasente la costa, verso la punta Saint James! — Non giungerà in tempo! — disse Karl Kip. — Saranno ripresi, poverini! — aggiunse il fratello. — E non poter dare loro aiuto! Appena dette quelle parole, Karl Kip prese il braccio del fratello: — Seguimi! — gli disse. Un minuto dopo, disceso il sentiero, strisciavano sul greto. La lancia dell'Illinois faceva in quell'istante il giro delle rocce dell'insenatura. Pur avendo visto accorrere le guardie, l'ufficiale americano e i suoi marinai non avevano voluto fermarsi, sicuri che i fuggiaschi fossero là ad attenderli, sin dal giorno prima. Facendo forza sui remi e a rischio di fracassare la lancia contro gli scogli, essi fecero un ultimo sforzo per raggiungere la punta prima delle guardie. Ma quando l'imbarcazione toccò terra, era troppo tardi: O'Brien, Macarthy e Farnham, nonostante avessero opposto resistenza, venivano già trascinati verso la rupe. — Avanti! — gridò l'ufficiale. — Avanti! Appena messo piede a terra, i marinai, armati di coltellacci e di rivoltelle, si precipitarono dietro di lui, nell'intento di liberare i prigionieri. La lotta fu accanita. Gli americani erano otto: l'ufficiale, il timoniere e sei uomini. Anche a contare O'Brien, Macarthy e Farnham, essi erano in undici contro una ventina di guardie, essendone sopraggiunte dopo le prime grida altre in loro aiuto. Anche i feroci mastini non sarebbero stati avversari meno pericolosi. Fu perciò ai cani che i marinai cominciarono a sparare. Colpiti da più. proiettili, due mastini caddero uccisi; gli altri fuggirono riempiendo l'aria di urli. I combattenti vennero poi alle prese, al buio, con estrema violenza. Macarthy e Farnham non erano riusciti a divincolarsi e stavano già per essere trascinati via quando due uomini sbarrarono il passo alle guardie.

Karl Kip e suo fratello, avventandosi su di esse, riuscirono a strappare i prigionieri dalle loro mani. Dopo altri spari, alcuni uomini furono gravemente feriti da entrambe le parti. Ma su quella piccola striscia di terra, non era possibile che la lotta durasse a lungo con vantaggio degli americani. Se l'ufficiale e i marinai dell’Illinois fossero stati costretti ad abbandonare la partita, i fuggiaschi sarebbero stati ripresi e forse anch'essi avrebbero pagato con la perdita della libertà, nelle prigioni di Hobart Town, il generoso tentativo fatto in favore degli irlandesi. Per fortuna, se spari, grida e latrati erano stati uditi dalla radura,, erano stati uditi anche dall'Illinois, dove si comprese che un combattimento accanito era in corso tra marinai e guardie: urgeva quindi intervenire! Il comandante si accostò allora a meno di due gomene e fece mettere in mare un'altra imbarcazione con una dozzina di marinai. Pochi istanti dopo, quell'aiuto giunse sulla punta e subito le cose cambiarono. Non essendo più in maggior numero, le guardie dovettero abbandonare i prigionieri e ritirarsi, portando via i loro feriti. All'ufficiale e ai marinai non rimase da far altro che reimbarcarsi nelle due lance, con i tre fuggiaschi* dopo un ultimo scambio di colpi d'arma da fuoco. Fu allora che Karl Kip e suo fratello chiamarono O'Brien e gli dissero :, — Siete salvi! salvi! — Anche voi! — gridò l'irlandese. E prima ancora che avessero avuto il tempo di raccapezzarcisi a un cenno di O'Brien i due fratelli vennero deposti dai marinai sopra una lancia e trasportati sullo steamer. L'Illinois volgeva intanto la prua verso l'ingresso della Storm Bay; doppiato il capo Pillar, al sopraggiungere della notte già navigava a tutto vapore nel Pacifico.

CAPITOLO XIV GLI SVILUPPI DEL CASO KIP GIÀ DA ALCUNI mesi, a Hobart Town si riparlava del processo Kip con vivo interesse. Non era avvenuto nessun mutamento nel modo di pensare della gente, la quale continuava sempre a ritenere Karl e Pieter Kip responsabili dell'assassinio del capitano Gibson: per le due vittime di quell'errore giudiziario l'opinione pubblica non aveva ancora cambiato parere. Si sapeva però che il signor Hawkins credeva nella loro innocenza e nessuno ignorava che egli proseguiva le sue indagini, che moltiplicava le sue visite al governatore della Tasmania e che sua eccellenza sir Edward Carrigan gli prestava orecchio volentieri. Alcuni perciò già dicevano: — E se il signor Hawkins avesse ragione? Tuttavia, bisogna pur dirlo, la maggior parte della popolazione non dubitava affatto della colpevolezza dei due fratelli, e il processo sarebbe stato dimenticato da un pezzo se l'armatore non avesse posto tanta caparbietà nel chiederne la revisione. Sarà facile immaginare che la visita fatta dal signor Hawkins a Port Arthur non aveva fatto altro che rafforzare la sua persuasione. I suoi colloqui con il comandante, la condotta dei due fratelli nel penitenziario, l'atto di coraggio che era valso loro una mitigazione della pena, il loro comportamento dignitoso quando venivano interrogati, il comune pensiero di ricercare i veri autori del delitto tra i componenti l'equipaggio del James Cook, i sospetti che il subdolo atteggiamento di Flig Balt e di Vin Mod autorizzava a concepire e, infine, la profonda gratitudine che gli avevano dimostrato Karl e Pieter ai quali egli aveva lasciato intravedere qualche speranza, tutto aveva contribuito ad accrescere quella persuasione. Come avrebbe potuto dimenticare, del resto, i suoi primi rapporti con i naufraghi olandesi, dopo il loro incontro sull'isola di Norfolk? il

loro aiuto durante l'attacco dei papua? e, infine, ciò che il James Cook doveva a Karl Kip, per averlo salvato dal naufragio e dalle mani di Flig Balt? No, il signor Hawkins non nutriva dubbi: si sarebbe dedicato a quella impresa, anche da solo, pur di strappare al processo il suo ultimo segreto, dimostrare l'innocenza dei condannati e farli rimettere in libertà. La signora Hawkins condivideva la persuasione del marito se non la sua speranza sull'esito dell'impresa. Ella lo incoraggiava anche se sapeva l'opinione pubblica refrattaria. Soffriva nel vederlo fiducioso un giorno e disperato il giorno successivo. Da parte sua non cessava di palesare la sua persuasione ad amici e conoscenti. Ma la maggior parte delle persone non vi credeva: l'orribile assassinio, seguito dalla condanna capitale, aveva turbato profondamente gli animi e convinto anche coloro che durante il processo avevano conservato ancora qualche dubbio. Ma fu proprio nell'animo della signora Gibson che la signora Hawkins fece breccia, grazie all'intimità che le univa. In un primo momento, l'infelice vedova s'era rifiutata di starla ad ascoltare. Nel suo immenso dolore, ella non vedeva che una cosa: chiunque fosse l'assassino, suo marito non c'era più! Ma la signora Hawkins era così sicura riguardo all'innocenza dei fratelli Kip, che ella finì per starla a sentire. Quando le balenò il primo dubbio che potessero non essere loro gli assassini del marito, allora fu pervasa dal timore che fossero due innocenti a scontare la condanna a vita nell'inferno di Port Arthur! — Ne usciranno! — ripeteva la signora Hawkins. — Prima o poi, la verità verrà a galla e i veri assassini saranno puniti! Ma se la signora Gibson subiva l'ascendente della signora Hawkins, il figlio si ostinava a credere, invece, nella colpevolezza dei fratelli Kip. Nonostante il rispetto che nutriva per l'armatore e per il suo sicuro giudizio, non aveva voluto mai arrendersi alle ragioni che gli venivano esposte; le quali, del resto, si basavano soltanto su convincimenti morali. Nat Gibson si atteneva ai fatti materiali provati dall'inchiesta e stabiliti dall'istruttoria, all'unisono con la popolazione di Hobart Town. Quando il signor Hawkins gli parlava

perciò dei suoi sospetti riguardo a Flig Balt e a Vin Mod, egli si limitava a dire: — Signor Hawkins, le carte, il denaro di mio padre e l'arma che lo ha ucciso sono stati trovati nella valigia che era nella loro camera. Bisognerebbe provare, dunque, che Flig Balt e Vin Mod abbiano potuto metterceli, e ciò non sarà mai provato… — Non si sa mai, mio caro Nat — rispondeva il signor Hawkins. E aveva ragione, perché, dopo tutto, le cose erano andate proprio in quel modo! Ma Vin Mod aveva agito con tanta astuzia che sarebbe stato impossibile provare la sua presenza nella locanda del «GreatOld-Man». Il signor Hawkins aveva parlato varie volte con l'albergatore a questo riguardo, ma senza risultati: egli non si ricordava neppure se a quell'epoca la camera accanto a quella dei fratelli Kip fosse occupata o no. Vin Mod, comunque, non era mai venuto nella sua locanda e nessuno poteva dire di avervelo visto. Questa era dunque la disposizione degli animi e questo era l'interessamento che il signor Hawkins continuava a svolgere nell'intento di ottenere la revisione del processo con una tenacia che qualcuno considerava fissazione. La mattina del 7 maggio una inattesa notizia fece il giro della città. Il governatore era stato avvertito telegraficamente che un'evasione era avvenuta a Port Arthur. Due deportati politici – due feniani – e una guardia del penitenziario loro complice erano riusciti a fuggire ed erano stati raccolti da uno steamer mandato certamente dai loro amici d'America. Nello stesso tempo, due altri detenuti, approfittando dell'occasione, erano fuggiti con loro. I due detenuti, condannati per reati comuni, erano gli olandesi Karl e Pieter Kip. Era capitato, infatti, che durante la lotta con i marinai americani, sulla punta Saint James, le guardie avevano riconosciuto i due fratelli nelle persone venute in aiuto dei tre fuggiaschi. Era però accaduto che essi erano stati imbarcati contro la loro volontà. Ma chi avrebbe mai creduto che non fossero già d'accordo con i feniani per evadere anch'essi? Non c'era dubbio: tutto ciò era stato stabilito in anticipo.

Questo è ciò che dichiararono le guardie al loro rientro nel penitenziario, dove era stata già rilevata l'assenza di Karl e Pieter Kip; e questo è ciò che dovette ammettere il comandante quando venne informato della evasione dei cinque uomini, e che riferì nel suo rapporto a sua eccellenza Edward Carrigan. È inutile parlare dell'impressione suscitata dalla notizia a Hobart Town e in tutta la Tasmania. Il signor Hawkins fu tra i primi ad esserne informato dal governatore il quale lo fece mandare a chiamare. Il telegramma esibitogli dal governatore gli cadde di mano non appena avutolo sotto gli occhi. Non poteva credere a ciò che aveva letto; guardava sua eccellenza e balbettava, ripetendo con voce rotta: — Sono fuggiti! — E pare che fossero d'accordo con i due condannati politici, loro complici. — Capisco che i due irlandesi abbiano voluto riacquistare la libertà — esclamò il signor Hawkins, con grande agitazione. — Capisco che amici siano venuti in loro aiuto e abbiano preparato la loro fuga… giungo fino ad approvarli… — Mio caro Hawkins, non dite cose del genere. Dimenticate che sono nemici dell'Inghilterra? — È vero, non dovrei dire queste cose dinanzi a voi! Ma, in fondo, i feniani erano condannati politici e non potevano aspettarsi nessuna grazia! Avrebbero dovuto passare la vita a Port Arthur… ma Karl e Pieter Kip… No, non posso credere che essi fossero d'accordo con i condannati politici, per evadere! Non potrebbe trattarsi di una notizia errata? — No, il fatto è più che certo. — Eppure, Karl e Pieter Kip sapevano ciò che facevo per ottenere la revisione del processo! Sapevano che vostra eccellenza si interessava del loro caso… che avevo fatto mio il loro processo! — Senza dubbio, mio caro Hawkins; ma forse hanno creduto che non sareste mai riuscito a nulla. E allora, presentatasi l'occasione di fuggire… 230 — Bisogna allora ammettere che i due feniani — disse il signor

Hawkins — non li ritenevano, neppure loro, dei criminali. Non avrebbero mai dato aiuto agli assassini del capitano Gibson. Neppure il comandante della nave americana avrebbe accettato a bordo degli assassini! — Non saprei spiegare tutto ciò — rispose sua eccellenza. — Forse ne conosceremo la spiegazione in seguito. Una cosa è certa: i fratelli Kip sono fuggiti da Port Arthur. Ora voi, mio caro, non avrete più bisogno di occuparvi di loro. — Al contrario! — Credete ancora nella loro innocenza, anche dopo l'evasione? — Ci credo, signor governatore — rispose il signor Hawkins con incrollabile convinzione. — Lo so, si dirà che sono matto, che nego l'evidenza, che la fuga è una confessione di colpa, che essi non contavano sul risultato della revisione del processo perché si sapevano colpevoli e che hanno preferito evadere non appena si è presentata l'occasione… — Vi confesso che mi riesce difficile — disse il governatore — interpretare in altro modo la condotta dei vostri protetti. — No; no; questa fuga non è una confessione — riprese il signor Hawkins. — In tutto questo c'è qualcosa di inspiegabile, che l'avvenire spiegherà. Io crederei, invece, che Karl e Pieter Kip siano stati portati via a forza, contro la loro volontà. — Nessuno lo crederebbe mai. — Nessuno, ma io sì! E ciò mi basta. Non abbandonerò la loro causa. Come potrei dimenticare il comportamento di quei due disgraziati quando sono andato a trovarli a Port Arthur? La rassegnazione di Pieter, soprattutto… la loro fiducia nel mio interessamento… Potrei mai dimenticare ciò che sono stati a bordo del James Cook e quello che ha fatto Karl Kip al penitenziario? Non li abbandonerò… sono sicuro che la verità verrà a galla! No, cento volte no! Karl e Pieter Kip non hanno sparso il sangue del capitano Gibson! Non sono assassini! Sir Edward Carrigan non volle insistere oltre e non volle aggiungere nulla che potesse affliggere il signor Hawkins. Si limitò a comunicargli le informazioni ricevute dall'ufficio del porto di Hobart Town.

— Secondo il rapporto che mi è stato fatto — disse — lo steamer americano Illinois, di cui non ci si sapeva spiegare il motivo della sosta, è giunto in rada. Tutto lascia credere, essendo partito nella mattinata di ieri, che abbia raccolto i fuggiaschi in un punto stabilito della penisola. Li condurrà certamente in America. In quel paese, i due feniani e il loro complice hanno ogni sicurezza, perché i trattati internazionali non ammettono l'estradizione per i deportati politici; non è così invece per i due olandesi condannati per reati comuni. Se si riuscirà a mettere le mani sui fratelli Kip, quindi, la loro estradizione sarà richiesta e ottenuta ed essi saranno ricondotti a Port Arthur, di dove non riusciranno più a fuggire. — A condizione, signor governatore, che io non sia riuscito prima a scoprire i veri autori del crimine! A che cosa sarebbe servito discutere contro un tale partito preso? Una cosa era certa: le apparenze davano ragione al governatore, anche se il signor Hawkins non fosse dello stesso parere. E quella fu l'opinione generale. I difensori dei fratelli Kip scarseggiarono sempre più e anzi si ridussero a uno solo. La fuga fu interpretata a loro danno. Era chiaro che essi non speravano nella revisione del processo o almeno nei risultati di quella revisione, considerato che avevano preferito evadere… Tali furono le conseguenze di quella evasione che finì con il costituire un'ulteriore prova della loro colpevolezza. Da parte sua, avendo compreso che il signor Hawkins, invece di essere mortificato per quella fuga, sembrava invece più che mai fermo nella sua convinzione, Nat Gibson evitava con lui ogni discorso sull'argomento. Non riusciva ad abituarsi però all'idea che gli assassini di suo padre fossero fuggiti da Port Arthur, che i deportati politici li avessero accettati per compagni e che l'America consentisse a dar loro asilo. L'estradizione però avrebbe permesso di ricondurli al penitenziario, dove avrebbero scontato la pena con la massima severità. Trascorsero una ventina di giorni. Il Lloyd, nelle sue corrispondenze marittime, non dava notizie dell'Illinois. Nessuna nave lo aveva incontrato durante la sua navigazione nel Pacifico. Non si metteva in dubbio, del resto, che lo steamer americano si

fosse prestato alla fuga degli irlandesi. Dopo l'inchiesta fatta per ordine del governatore una sola nave aveva lasciato la rada dopo la tempesta del 5 maggio: l’Illinois. D'altra parte, i semafori di capo Pillar non avevano segnalato alcuna nave proveniente dal largo e diretta alla Storm Bay. I cinque fuggiaschi dovevano trovarsi dunque a bordo dell'Illinois in viaggio per l'America. Ma verso quale porto degli Stati Uniti si dirigeva lo steamer? dove sarebbero sbarcati i prigionieri fuggiti dal bagno? Nessuno riusciva a saperlo… Come far arrestare i fratelli Kip al loro sbarco nel Nuovo Continente? Il 25 maggio i coniugi Hawkins ebbero la graditissima sorpresa di ricevere una visita annunciata loro già da qualche tempo. I signori Zieger avevano deciso di trascorrere alcune settimane a Hobart Town e si erano imbarcati a Port Praslin sullo steamer tedesco Faust. Dopo una rapida traversata, erano sbarcati nella capitale della Tasmania dove li aspettavano i loro amici. Come già in altre occasioni, i coniugi Zieger furono ospiti del signor Hawkins, nella cui casa una camera era già pronta. La loro prima visita fu per la vedova del capitano e per suo figlio. Nat Gibson e sua madre furono sensibili a quella premurosa attenzione: naturalmente, di che cosa potevano parlare, piangendo, se non del terribile dramma di Kerawara? Il signor Zieger ignorava che i fratelli Kip fossero evasi dal penitenziario di Port Arthur. Quando lo apprese, vide anche lui in quella fuga un'altra prova che la giustizia non s'era sbagliata nel condannarli. Non ci si stupirà tuttavia se fin dai primi giorni il signor Hawkins volle parlare del processo con il suo corrispondente di Port Praslin. Gliene rifece la storia e richiamò alla sua memoria le circostanze misteriose del delitto, aggiungendo: — Mio caro Zieger, quando avete saputo che i due fratelli erano stati accusati di essere gli autori del delitto e avete appreso la loro condanna, avete forse creduto subito alla loro colpevolezza? — Certamente no! Sembrava assurdo pensare che Karl e Pieter Kip fossero due assassini! Li avevo sempre giudicati intelligenti e onesti, pieni di gratitudine per il capitano Gibson e per voi; due persone insomma che non dimenticavano mai di essere i naufraghi

della Wilhelmina, raccolti dal James Cook! Non avrei mai immaginato che potessero essere colpevoli! — E se effettivamente non lo fossero? — disse il signor Hawkins, guardando in viso il signor Zieger. — Avete qualche dubbio, dopo il dibattito che ha chiarito ogni cosa? — Sono persuaso che essi non sono gli autori del delitto, ma non ne ho la prova. Era una dichiarazione formale. Il signor Zieger allora disse: — Ascoltate, mio caro Hawkins: il signor Hamburg a Kerawara, io a Port Praslin e in tutta la Nuova Irlanda, abbiamo svolto un'inchiesta minuziosissima. Non c'è tribù dell'arcipelago dove non abbiamo raccolto informazioni debitamente controllate. Da nessuna parte, neppure nella Nuova Bretagna, si è potuto sospettare che qualche indigeno abbia partecipato all'assassinio del capitano Gibson. — Io non dico che il delitto debba essere attribuito a un indigeno dell'arcipelago delle Bismarck; dico che esso non è stato commesso dai fratelli Kip. — E allora da chi è stato commesso? — chiese il signor Zieger. — Da coloni? da marinai? — Da marinai. — Di quale equipaggio? A quel tempo, c'erano soltanto tre navi nel porto di Kerawara; a Port Praslin nessuna. — Una c'era… — Quale? — Il James Cook. — Pensereste per caso che due uomini del brick possano avere ucciso il loro capitano? — Sì. E sono quelli che hanno trovato sul relitto della Wilhelmina l'arma di cui si è servito l'assassino… quelli che, in seguito, l'hanno cacciata nella valigia dei fratelli Kip, dove avevano anche messo le carte e il denaro di Gibson. — C'erano dunque, nell'equipaggio del brick, uomini capaci… — chiese il signor Zieger. — C'erano! — dichiarò il signor Hawkins. — Tra gli altri, c'erano

gli uomini che mastro Balt aveva reclutati a Dunedin e che si sono ribellati al nuovo capitano. — Sarebbe uno di loro l'assassino? — No. Io accuso Flig Balt del delitto. — Il nostromo? — Sì. Proprio l'uomo che avevo posto al comando del brick, alla partenza da Port Praslin; l'uomo che per la sua imperizia lo avrebbe fatto affondare se Karl Kip non fosse intervenuto in tempo! E aggiunse che Flig Balt doveva aver avuto un complice in Vin Mod. Scosso da quella affermazione, il signor Zieger chiese con interesse altre spiegazioni. Quei sospetti erano avvalorati da prove? O forse poggiavano soltanto su supposizioni di cui nulla permetteva di stabilire la fondatezza? C'era dunque da pensare che il nostromo, aiutato da Vin Mod e deciso a disfarsi del capitano, avesse da tempo preparato quella macchinazione che faceva ricadere il delitto sul capo dei fratelli Kip. Tuttavia, se Flig Balt avesse voluto vendicarsi dei fratelli Kip, avrebbe potuto averne motivo soltanto dopo la nomina di Karl Kip a capitano, oppure quando Karl aveva represso la ribellione suscitata dal nostromo… L'indiscutibile valore di quella deduzione si era presentato certamente alla mente del signor Hawkins; fermo nella sua persuasione egli l'aveva però respinta e la rifiutava ancora. — Mio caro Zieger, quando Flig Balt e Vin Mod hanno avuto l'idea del delitto — gli rispose — essi erano già in possesso del pugnale dei fratelli Kip. Solo allora è venuta loro l'idea di servirsene, perché quei disgraziati potessero essere accusati in seguito di aver assassinato il capitano Gibson. A voi ciò potrà sembrare ipotetico… per me, invece, è certezza! La spiegazione che dava il signor Hawkins era, insomma, la vera. — Purtroppo, Flig Balt e Vin Mod hanno lasciato Hobart Town da più di un anno — aggiunse. — Non ho avuto il tempo di sorvegliarli, di procurarmi prove schiaccianti a loro carico, per giungere alla revisione del processo. Non sono riuscito a sapere neppure che ne è di loro…

— Io lo so! — rispose il signor Zieger. — Lo sapete? — esclamò il signor Hawkins, prendendogli le mani. — Lo so. Ho visto Flig Balt, Vin Mod e le reclute del James Cook… — Dove? — A Port Praslin. — Quando? — Tre mesi fa. — Vi sono ancora? — No. Si sono imbarcati a bordo del tre alberi tedesco Kaiser. Sono partiti dopo una sosta di quindici giorni. — Per dove? — Per l'arcipelago delle Salomone. D'allora, non ne so più nulla. Flig Balt, Vin Mod, Len Cannon e i suoi compagni avevano trovato imbarco, dunque. In quale porto? Si ignorava… ma si sapeva che facevano parte dell'equipaggio del Kaiser. Il tre alberi aveva fatto sosta, alcune settimane prima, a Port Praslin: se dunque il nostromo e Vin Mod erano gli assassini del capitano Gibson, essi non avevano avuto nessun timore a fare ritorno sulla scena del loro delitto, come fece notare il signor Zieger. Ora erano partiti per quei paraggi pericolosi dove volevano portare allora il brick: con l'aiuto dei loro compagni, avrebbero fatto senza dubbio del Kaiser ciò che non avevano potuto fare del James Cook! Era impossibile ritrovare le loro tracce a bordo d'una nave alla quale avrebbero certamente cambiato nome… Era impossibile rimettere le mani su di loro… La loro assenza avrebbe, quasi certamente, reso impossibile la revisione del processo Kip. Le cose erano a questo punto quando, alcuni giorni dopo – il 20 giugno – il Lloyd segnalò, tra le sue notizie del mare, l'arrivo dell'Illinois a San Francisco di California, Stati Uniti d'America. Era il 30 maggio, circa tre settimane dopo la sua partenza da Storm Bay, quando la nave aveva sbarcato O'Brien, Macarthy e Farnham, tra le entusiastiche accoglienze dei loro confratelli politici, nella terra della libertà. I giornali celebrarono con grande chiasso il successo

dell'evasione, come una rivincita del fenianismo e che faceva onore a coloro che l'avevano preparata. Si veniva a sapere, nello stesso tempo, che gli olandesi Karl e Pieter Kip erano scomparsi, subito dopo lo sbarco. Si erano nascosti a San Francisco per non cadere nelle mani della polizia americana? oppure avevano raggiunto le regioni centrali degli Stati Uniti? Come fare a saperlo? La richiesta di estradizione ora sarebbe giunta troppo tardi. Quella notizia confermò sempre più nella loro opinione gli accusatori dei fratelli Kip e ottenne il risultato di porre termine ai dubbi che il processo poteva aver fatto nascere fin allora. Pur conservando le proprie convinzioni, che nulla avrebbe potuto scuotere, anche il signor Hawkins raffreddò un pochino il suo interessamento. A che cosa poteva servire la revisione del processo, ora che i fratelli Kip erano evasi dal penitenziario di Port Arthur per rifugiarsi in America, di dove non sarebbero mai più tornati? Si cominciava già a non occuparsi più del dramma di Kerawara quando, la mattina del 25 giugno, una notizia, alla quale in un primo momento nessuno voleva prestar fede, fece il giro della città. Karl e Pieter Kip, giunti il giorno prima, erano stati arrestati e rinchiusi nella prigione di Hobart Town.

CAPITOLO XV IL FATTO NUOVO NON ERA POSSIBILE! Doveva trattarsi di voci nate chissà dove, che si spargono non si sa come e di cui il buon senso di tutti fa presto giustizia. Era mai possibile che i fratelli Kip, dopo aver avuto l'insperata fortuna di fuggire in America, fossero tornati in Tasmania? Proprio essi, gli assassini del capitano Gibson? Forse che la nave sulla quale si erano imbarcati a San Francisco era stata costretta a fare rotta a Hobart Town? e che allora, riconosciuti, denunziati e arrestati, fossero stati condotti in prigione, in attesa di essere trasferiti nel penitenziario, dove, stavolta, avrebbero saputo impedir loro ogni altro tentativo di fuga? Nessuno riusciva a credere che avessero potuto commettere l'imprudenza di tornare spontaneamente. Comunque sia i più impazienti poterono persuadersi sin dal mattino) Karl e Pieter Kip erano, dal giorno prima, chiusi nuovamente in carcere. Il capo delle guardie si rifiutava di dire in qual modo vi erano stati condotti o come era avvenuto il loro arresto. Se questo fatto appariva inspiegabile, c'era tuttavia un uomo a cui il proprio convincimento suggeriva l'esatta spiegazione. Nel suo animo si verificò una specie di rivelazione, ma sarebbe meglio dire che essa avvenne nel suo cuore. Ed essa fornì la soluzione del problema che egli si era posto sin dal giorno dell'inverosimile fuga dei fratelli Kip. — Non sono fuggiti! — diceva il signor Hawkins. — Sono stati portati via da Port Arthur! E sono poi tornati di loro spontanea volontà… perché sono innocenti… perché vogliono far vedere a tutti che sono innocenti! Era la verità.

Il giorno precedente, infatti, uno steamer americano, lo Standard, di San Diego, aveva gettato l'ancora con un carico destinato a Hobart Town. Vi erano a bordo i passeggeri Karl e Pieter Kip. Nel corso della traversata dell'Illinois tra Port Arthur e San Francisco, i due fratelli avevano tenuto un contegno assai riservato verso i loro compagni di bagno penale. Avevano anche protestato per il loro «rapimento». Peraltro, quando riaffermarono che essi non erano gli assassini del capitano Gibson, né O'Brien, né Macarthy, né Farnham, né altri misero in dubbio la loro parola. E se essi si dolevano di quella evasione non era forse perché temevano che potesse risultare compromessa la revisione del loro processo? D'altra parte, sebbene fosse stato soltanto il caso a condurre i fratelli Kip sulla punta Saint James, essi non avevano esitato a dar loro man forte contro gli agenti. Da quel momento, nulla di più ovvio quindi che i feniani approfittassero della circostanza per trascinarli a bordo della nave americana. Dopo l'aiuto dato agli irlandesi da Karl e Pieter Kip non era stata quella una prova di gratitudine? Potevano essi pentirsi ora di averla compiuta? Certamente no. Insomma, ciò che era fatto era fatto! All'arrivo déll'Illinois al porto di San Francisco, i fratelli Kip si accomiatarono dagli irlandesi i quali tentarono inutilmente di trattenerli. Dove avrebbero trovato rifugio? Essi non lo dissero. Ma poiché erano privi di denaro, accettarono soltanto qualche centinaio di dollari da rimborsare non appena possibile. Dopo un ultimo addio si separarono da O'Brien, da Macarthy e da Farnham. Per loro fortuna nessuna domanda di estradizione era stata ancora rivolta alle autorità americane dal console della Gran Bretagna e la polizia, quindi, non aveva potuto arrestarli al loro sbarco. Da quel giorno in poi, nessuno incontrò più i due fratelli nelle strade di San Francisco; c'era motivo di credere che essi avessero lasciato la città. Quarantott'ore dopo il loro arrivo, infatti, Karl e Pieter Kip andavano ad alloggiare in un modesto albergo di San Diego, capitale della California meridionale, dove speravano di trovare una nave in partenza per un porto del continente australiano. Era loro ferma intenzione di tornare al più presto a Hobart Town e

di consegnarsi a quella giustizia che li aveva ingiustamente condannati. Se la fuga era stata interpretata come confessione di colpevolezza, il ritorno avrebbe proclamato al mondo intero la loro innocenza. No, non avrebbero accettato di vivere all'estero sotto il peso di un'accusa infamante, con il timore continuo d'essere riconosciuti, denunciati e ripresi! Volevano la revisione del processo e la pubblica riabilitazione; ecco che cosa volevano! Di tale progetto e del modo di realizzarlo, Karl e Pieter Kip non avevano smesso di parlare a bordo dell'Illinois. Forse in Karl c'era una specie di istinto di ribellione… Sentirsi libero e rinunciare alla libertà! Affidarsi alla giustizia degli uomini e all'umana fallibilità! Ma poi si era arreso alle osservazioni del fratello. Erano dunque a San Diego, in cerca di imbarco, se possibile, sopra una nave diretta in Tasmania. Le circostanze li favorirono. Lo Standard, con carico per Hobart Town, accettava passeggeri di diverse classi. Karl e Pieter si accontentarono della meno costosa e fissarono due posti con falso nome. Il giorno dopo, lo steamer faceva rotta verso sud-ovest. Dopo una lunghissima traversata, ostacolata dalle burrasche del Pacifico, la nave doppiò l'estrema punta di Port Arthur e gettò l'ancora a Hobart Town. Di tutto quello che viene riferito in poche righe, la città fu informata sin dalle prime ore del mattino. Un cambiamento d'opinione si verificò subito in favore dei fratelli Kip; chi avrebbe potuto stupirsene? Erano dunque le vittime di un errore giudiziario? Non erano fuggiti allora, dal penitenziario, di loro spontanea volontà se, non appena avevano avuto l'occasione di lasciare l'America, erano tornati in Tasmania! Non sarebbe stato possibile ora stabilire la loro innocenza su basi meno fragili delle semplici presunzioni? Non appena apprese la notizia, il signor Hawkins si recò al carcere, le cui porte gli furono subito aperte. Poco dopo, egli si trovava alla presenza dei due fratelli, chiusi nella stessa cella. Nel vedere l'armatore, essi si alzarono, tenendosi per mano. — Signor Hawkins — disse Pieter Kip — non è a voi che il nostro ritorno apporta nuove testimonianze. Voi conoscete la verità da un pezzo e non avete mai creduto alla nostra colpevolezza. Ma questa verità bisognava renderla evidente agli occhi di tutti: ecco perché lo

Standard ci ha riportati a Hobart Town. Il signor Hawkins era commosso: le parole gli venivano meno… Le lagrime gli scorrevano dagli occhi. Infine, disse: — Sì, signori… avete fatto bene. È grande ciò che avete fatto! Qui vi aspetta la riabilitazione, con la simpatia dei galantuomini! Non dovevate essere considerati gli evasi di Port Arthur! Gli sforzi da me fatti e i passi che ricomincerò a fare raggiungeranno lo scopo! Datemi la mano, Pieter Kip! Datemi la vostra, capitano del James Cook! Restituendo quel titolo a Karl Kip, il signor Hawkins non gli restituiva forse tutta la sua stima? Tutti e tre allora parlarono del processo e dei sospetti che il nostromo e Vin Mod avevano ispirato loro. I due fratelli appresero allora che Flig Balt, Vin Mod, Len Cannon e i suoi compagni si erano imbarcati sul Kaiser; che dopo essere passati da Port Praslin erano partiti per l'arcipelago delle Salomone. Nessuno sapeva se, in quel momento, già padroni della nave, non esercitassero la pirateria in quella zona del Pacifico dove non sarebbe stato facile rintracciarli! — Del resto — fece notare Pieter Kip — se fosse possibile trarre Flig Balt e i suoi compagni dinanzi alla Corte criminale, quali prove potremmo mai produrre contro di loro? Tornerebbero ad accusarci e noi non possiamo provare che gli assassini del capitano non siamo noi, ma loro! — Saremo creduti! — esclamò Karl Kip. — Saremo creduti, perché siamo tornati per riaffermare la nostra innocenza! Ma quali fatti nuovi era possibile invocare per ottenere la revisione del processo? È inutile parlare dell'impressione che produsse nelle due famiglie il ritorno di Karl e Pieter Kip. La signora Gibson, assalita da terribili dubbi sulla colpevolezza dei due fratelli, non riuscì a scuotere la convinzione del figlio. E questo non deve far meraviglia; dopo i fatti rivelati nel corso del processo da Flig Balt, gli assassini per Nat Gibson erano i due fratelli e nessun altro! Egli tornava spesso col pensiero sulla scena del delitto… vedeva suo padre assalito nella foresta di Kerawara, colpito dalla mano di quelle stesse persone che egli aveva raccolto nell'isola di Norfolk, assassinato dai due

naufraghi della Wilhelmina! Le prove erano tutte contro di loro. A loro favore c'erano soltanto vaghe e incerte presunzioni riguardanti il nostromo e il suo complice! Tuttavia, essi erano tornati a Hobart Town! e vi erano tornati spontaneamente! È superfluo dire che il signor Hawkins aveva subito chiesto udienza a sir Edward Carrigan. Il governatore, favorevolmente impressionato, decise di fare, da parte sua, il necessario per riparare l'errore giudiziario e provocare una revisione del processo che permettesse di riabilitare i fratelli Kip. E quanta strada si sarebbe fatta su questa via, se fosse stato possibile mettere la mano su Flig Balt, Vin Mod e i loro compagni! Si comprenderà anche il mutamento d'opinione da parte della popolazione di Hobart Town, ora decisamente a favore di Karl e Pieter Kip. Perché meravigliarsi? non c'è nulla di più naturale… Questa volta, del resto, ciò che era accaduto dopo l'arresto dei due fratelli non giustificava il mutamento degli animi? Nel frattempo, un giudice della Corte criminale era stato designato per ricominciare l'inchiesta, interrogare nuovamente i condannati, citare se necessario, altri testi, nella speranza che un fatto nuovo permettesse di presumere l'innocenza dei condannati e portare alla revisione del processo. Se questa inchiesta infatti non fosse riuscita a dimostrare che altri, e non i fratelli Kip, dovessero essere gli assassini del capitano Gibson, sarebbe stato allora necessario considerare il processo precedente ben condotto e non ci sarebbe stato il motivo di procedere alla riabilitazione dei condannati. La giustizia fu dunque regolarmente investita del processo e l'istruttoria avrebbe subito avuto inizio. Ma, in considerazione delle circostanze – lontananza della scena del delitto, difficoltà delle ricerche per ciò che riguardava Flig Balt, Vin Mod, Len Cannon e gli altri imbarcati sul Kaiser – forse la cosa sarebbe andata per le lunghe. Per ovviare in parte a tale inconveniente, sarebbe stato mitigato subito per i prigionieri il regime carcerario. Essi non furono più tenuti in segregazione e fu concesso loro di ricevere la visita delle persone che si interessavano alla loro sorte tra cui il signor Hawkins e il signor Zieger, i cui incoraggiamenti li sorreggevano in quelle

dure prove. Il lord che era a capo della giustizia del Regno Unito era stato informato di questo appassionante processo. Poiché si attribuiva molta importanza alla ricerca del Kaiser, fu impartito l'ordine di rintracciarlo in quella zona del Pacifico che comprende la Nuova Guinea, l'arcipelago delle Bismarck, le Salomone e le Nuove Ebridi. Da parte sua, il governo tedesco aveva dato gli stessi ordini, nella supposizione che il Kaiser fosse caduto nelle mani di pirati, in quella zona di mare dove l'Inghilterra e la Germania estendono la loro duplice protezione. Nel contempo, a Hobart Town il magistrato inquirente, con il concorso ufficioso del signor Hawkins, di cui conosceva i passi già fatti, procedette all'interrogatorio di nuovi testimoni. I due fratelli erano stati interrogati con riferimento al loro soggiorno nell'albergo del «Great-Old-Man». Avevano notato che la camera accanto alla loro era occupata? Essi non avevano potuto rispondere nulla. Lasciavano l'albergo al mattino e vi tornavano soltanto per andare a dormire. Dopo essersi recati in quell'albergo, il magistrato e il signor Hawkins si resero conto che il balcone interno del cortile dava accesso alla camera vicina. Ma l'albergatore, presso il quale erano molti gli ospiti che vi passavano una sola notte, non si ricordava da chi era stata occupata questa seconda camera. D'altra parte, quando il proprietario dei «Fresh-Fishes» fu interrogato dal giudice, egli poté affermare – ed era vero – che Vin Mod e gli altri avevano sempre alloggiato nella sua locanda, sin dall'arrivo del James Cook a Hobart Town, fino al giorno dell'arresto dei fratelli Kip. Si era al 20 luglio. Era trascorso quasi un mese, da quando Karl e Pieter Kip si erano riconsegnati alla giustizia. L'inchiesta non dava risultati di nessun genere. Mancava sempre la base su cui poggiare la revisione del processo. Il signor Hawkins non cedeva; ma quale amarezza non provava nel constatare l'inutilità dei suoi sforzi! Nonostante le parole di conforto del signor Hawkins, anche Karl Kip si lasciava abbattere dallo scoramento, contro il quale suo fratello reagiva a stento. Forse rimproverava a Pieter d'esser voluto

tornare in Tasmania dall'America per presentarsi nuovamente dinanzi a quella giustizia che li aveva già condannati una prima volta? — E che forse ci condannerà una seconda volta! — disse un giorno Karl Kip. — No, fratello mio! — esclamò Pieter. — Dio non lo permetterà! — Ha pur permesso che fossimo condannati a morte come assassini e che il nostro nome fosse infamato! — Abbi fiducia, fratello mio! Pieter Kip non poteva dir altro. Del resto, nessuno avrebbe potuto scuotere la sua fiducia, la quale era tanto assoluta quanto la convinzione del signor Hawkins nella loro innocenza! Nel frattempo, il signor Zieger, il cui soggiorno a Hobart Town non avrebbe dovuto durare più di una quindicina di giorni, cercava un passaggio sopra uno steamer tedesco o inglese diretto a Port Praslin. Le due famiglie avevano trascorso insieme, nell'intimità, quelle poche settimane. Dopo il ritorno dei fratelli Kip essi condividevano insieme idee e speranze. La signora Gibson da parte sua era turbata profondamente dal pensiero che due innocenti potessero esser stati vittime di un errore giudiziario: ella soffriva per il prolungarsi di quella situazione. In realtà, il processo era sempre allo stesso punto per ciò che riguardava la domanda di revisione. Nuove informazioni assunte in Olanda riguardo ai fratelli Kip, avevano confermato quelle precedenti. Nel paese in cui sopravviveva il ricordo della loro famiglia, erano pochi quelli che avevano ammesso, in un primo momento, la loro colpevolezza; ma dopo che a Groningen si era appreso del loro ritorno in Tasmania, nessuno più dubitava dell'errore. Ma tutto ciò faceva parte dei sentimenti, e il magistrato non otteneva nulla di quel che era giuridicamente richiesto per dichiarare accettabile la domanda di revisione del processo. A proposito, infine, della nave tedesca Kaiser, le notizie marittime non ne segnalavano il passaggio – dopo la sua partenza da Port Praslin – né dalle Salomone né dagli arcipelaghi vicini. Era impossibile sapere dove fossero andati a finire Flig Balt, Vin Mod e

quegli altri che potevano essere implicati nel delitto di Kerawara. Con vivo dispiacere del signor Hawkins il magistrato avrebbe finito quindi col rinunciare a continuare l'inchiesta. Sarebbe stata, allora, la condanna definitiva, il ritorno dei due fratelli nel penitenziario di Port Arthur, a meno che la grazia reale non fosse intervenuta per metter fine a tante sofferenze. — Preferisco morire piuttosto che tornare al bagno! — esclamava Karl Kip. — O essere salvati da una grazia che ci disonora! — rispondeva Pieter Kip. La situazione era a questo punto. Si capirà come essa fosse di natura tale da turbare profondamente gli animi fino a suscitare qualche atto di indignazione popolare. La partenza del signor Zieger doveva avvenire il 5 agosto successivo, a bordo di uno steamer inglese diretto all'arcipelago delle Bismarck. Ci si ricorderà che il giorno successivo all'assassinio di Kerawara, il signor Hawkins aveva fatto una doppia fotografia del capitano Gibson, raffigurato con il petto nudo trapassato dal kriss malese. Ora, prima di fare ritorno a Port Praslin, il signor Zieger chiese al signor Hawkins di fargli un ingrandimento fotografico della testa del capitano, che egli intendeva collocare nel salotto della sua abitazione. L'armatore aderì volentieri al desiderio del signor Zieger. Avrebbe stampato più copie da quest'altro negativo, per darle anche alla famiglia Gibson e a quella del signor Hawkins, oltre che al signor Zieger. La mattina del 27 luglio, il signor Hawkins fece quelle fotografie nel suo laboratorio, che era provvisto dei migliori apparecchi che, fin da allora, grazie all'evoluzione dei reagenti, consentivano d'ottenere vere e proprie opere d'arte. Volendo lavorare nelle più favorevoli condizioni, egli si servì del negativo fatto a Kerawara, del quale ritrasse soltanto la testa del capitano Gibson. Dopo aver collocato il negativo nella camera di ingrandimento, regolò l'apparecchio in modo da ottenere una fotografia a grandezza naturale. Poiché la luce era eccellente, bastarono pochi istanti; la nuova

fotografia fu poi sistemata in una cornice e posta sopra un cavalletto, nel centro del laboratorio. Nel pomeriggio, avvertiti dal signor Hawkins, il signor Zieger e Nat Gibson si recarono da lui. Sarebbe difficile descrivere la loro commozione, quando essi si trovarono dinanzi alla fedele immagine di Harry Gibson, ritratto vivente dello sventurato capitano. Era proprio lui, con il viso grave e simpatico invaso da un'angoscia mortale, con l'espressione che aveva al momento in cui gli assassini lo colpivano al cuore, nell'istante in cui egli li guardava con occhi smisuratamente sbarrati. Nat Gibson s'era avvicinato al cavalletto con il petto gonfio di singhiozzi, in preda a un dolore che i signori Hawkins e Zieger condividevano, tanto sembrava loro di avere dinanzi agli occhi il capitano vivo. Poi il figlio si chinò per baciare la fronte del padre. A un tratto si arrestò, si fece ancora più vicino, con gli occhi fissi negli occhi del ritratto… Che cosa aveva visto, o creduto di vedere? Il suo viso era sconvolto, la fisionomia contratta… Era pallido come un morto! Sembrava che volesse dire qualcosa, ma che non potesse. Le sue labbra erano contratte… La voce gli veniva meno… Alla fine si voltò, prese dalla tavola una di quelle fortissime lenti di ingrandimento di cui si servono i fotografi per ritoccare i particolari dei negativi; l'accostò alla fotografia e poco dopo gridò con voce terribile: — Eccoli!… Sono loro!… Sono loro gli assassini di mio padre! In fondo agli occhi del capitano Gibson, sulla retina ingrandita, si vedevano, nel loro aspetto più feroce, i visi di Flig Balt e di Vin Mod.

CAPITOLO XVI CONCLUSIONE GIÀ DA QUALCHE tempo, dopo gli strani esperimenti oftalmologici intrapresi da ingegnosi scienziati e da osservatori di indiscusso merito, risulta dimostrato che gli oggetti esterni che impressionano la retina dell'occhio, possono conservarvisi indefinitamente. L'organo della vista contiene una particolare sostanza, la porpora retinica, sulla quale si fissano le immagini. Si riesce a ritrovarvele, con perfetta chiarezza, anche quando l'occhio, dopo il decesso, viene cavato e immerso in un bagno di allume. Ciò che si sapeva, riguardo a questa conservazione delle immagini, avrebbe ricevuto, in questa circostanza, un'indiscutibile conferma. Nel momento in cui il capitano Gibson rendeva l'ultimo sospiro, il suo sguardo — colmo di spavento e d'angoscia — si era rivolto agli assassini; in fondo ai suoi occhi si erano allora fissati i visi di Flig Balt e di Vin Mod. Per questo motivo, quando il signor Hawkins fotografò la vittima, i minimi particolari della fisionomia del capitano furono riprodotti sulla lastra. Se allora si fosse esaminata la prima foto con la lente di ingrandimento, sarebbe stato possibile rintracciarvi, in fondo all'orbita, i visi dei due assassini che si scorgevano ancora in quel momento. Ma un pensiero del genere, come sarebbe potuto venire in mente allora al signor Hawkins, al signor Zieger, o al signor Hamburg? Era stato necessario il concorso di tante circostanze… e in particolare il desiderio espresso dal signor Zieger di portar con sé a Port Praslin l'ingrandimento fotografico del signor Gibson fatto nello studio dell'armatore! Quando Nat Gibson s'era avvicinato al ritratto del padre per baciarlo, egli aveva creduto di vedere in fondo agli occhi due punti luminosi. Presa una lente di ingrandimento, aveva visto

distintamente e riconosciuto la faccia del nostromo e quella del suo complice. Quelle facce il signor Hawkins e il signor Zieger adesso le avevano viste e riconosciute anche loro. Non erano le immagini di Karl e di Pieter Kip quelle che l'occhio del morto aveva conservato, ma quelle di Flig Balt e di Vin Mod! Esisteva finalmente il fatto nuovo, la presunzione indiscutibile dell'innocenza degli accusati, che avrebbe permesso di ottenere la revisione del processo. Poteva forse essere messa in dubbio l'autenticità del negativo fatto a Kerawara? No: esso faceva già parte degli atti del processo e l'attuale ingrandimento ne era la fedele riproduzione. — Poveri disgraziati! — esclamò Nat Gibson. — Erano innocenti! e mentre voi li consideravate ingiustamente condannati e volevate salvarli, io invece… — Ma sei tu che ora li salvi, Nat! — rispose il signor Hawkins. — Tu, che hai visto quello che nessuno di noi, forse, avrebbe mai visto! Mezz'ora dopo l'armatore si presentava alla residenza del governatore con le due foto, la grande e la piccola, e chiedeva di essere subito ricevuto da sua eccellenza. Sir Edward Carrigan diede ordine di far passare il signor Hawkins nello studio. Non appena informato della faccenda, il governatore dichiarò che dalle foto si ricavava una prova certa assolutamente indiscutibile. L'innocenza dei fratelli Kip, l'ingiustizia della condanna subita, apparivano con estrema evidenza perché il magistrato esitasse ad avanzare la richiesta di revisione del processo. Tale fu anche il parere del magistrato all'ufficio del quale il signor Hawkins s'era recato appena ebbe lasciato la residenza. Aveva voluto far quelle due visite prima di recarsi al carcere con il signor Zieger e con Nat Gibson. Ora non si trattava più di sole congetture ma di certezze. Era un fatto che tutto il passato dei due fratelli contestava la sentenza della Corte criminale! Gli autori del delitto erano ora noti ed era stata la stessa vittima a denunciarli: erano il nostromo del James Cook e il marinaio Vin Mod! Come mai la notizia si era diffusa in tutta la città? di dove aveva tratto origine? Chi era stato il primo a parlare della scoperta fatta

nello studio del signor Hawkins? Nessuno lo sapeva… È comunque certo che la cosa fu risaputa prima ancora che l'armatore si recasse alla prigione. Una folla rumorosa e appassionata si raccolse in breve dinanzi al carcere. Karl e Pieter Kip credettero di udire, dalla loro cella, un gran tumulto; e tra le prolungate grida che venivano lanciate, parve loro di udire i loro nomi, continuamente ripetuti. Si avvicinarono alla finestrella chiusa da sbarre che dava sopra un cortile della prigione e rimasero in ascolto, in preda a viva ansietà. Ma da quella finestra non era possibile vedere che cosa accadeva nelle strade vicine. — Che cosa succede? — chiese Karl Kip. — Vengono a prenderci per portarci al bagno? Piuttosto che riprendere quella vita spaventosa… Pieter Kip questa volta non disse nulla. Nel corridoio risonarono dei passi affrettati, e la porta della cella si aprì. Nat Gibson apparve nella soglia; era accompagnato dal signor Hawkins e dal signor Zieger. Si fermò, a capo chino, e tese le braccia verso i due fratelli. — Karl, Pieter… — esclamò. — Perdonatemi! I due fratelli non capivano, non potevano comprendere… Il figlio del capitano Gibson li supplicava, implorava il loro perdono. — Siete innocenti! — gridò allora per tre volte il signor Hawkins. — Abbiamo la prova, finalmente, della vostra innocenza! — E io che ho potuto credere! — disse Nat Gibson, buttandosi nelle braccia aperte di Karl Kip. La revisione del processo richiese solo il tempo necessario al disbrigo delle formalità legali. Fu quindi facile ristabilire i fatti della causa: sul relitto della Wilhelmina era stato trovato il pugnale malese appartenuto ai fratelli Kip. Vin Mod lo aveva sottratto e portato a bordo di nascosto. Flig Balt e lui si erano serviti di quell'arma per commettere il delitto con l'intenzione di attribuirne la paternità ai due passeggeri del James Cook. Erano stati loro due, dopo, a lasciar vedere il kriss al mozzo nella cabina dei due fratelli. Le carte, il denaro e il kriss sequestrati nella camera dell'albergo del «Great-Old-

Man», vi erano stati deposti la vigilia del giorno in cui Flig Balt sarebbe stato tradotto dinanzi al tribunale marittimo e ciò era stato fatto dal complice del nostromo rimasto libero: dal marinaio Vin Mod. Non rimaneva più alcun dubbio ormai che l'uomo che aveva occupato, in quei giorni, la camera vicina a quella dei fratelli Kip fosse proprio Vin Mod. Sin dall'arrivo del James Cook, dopo essersi assicurato che Karl e Pieter Kip alloggiavano in quell'albergo, egli era venuto ad occuparvi una camera. Probabilmente travestito per non essere riconosciuto, aveva atteso il momento in cui poter dare esecuzione al suo progetto e cacciare carte, piastre e kriss nella valigia, dove la polizia li avrebbe trovati il giorno dopo. Questo era il modo in cui era stata perpetrata quell'abietta macchinazione. Era evidente che i sospetti del signor Hawkins già da tempo erano caduti sul nostromo e su Vin Mod; occorreva però che quei sospetti diventassero certezza. C'era voluta però quest'ultima rivelazione, che il pubblico aveva appreso dai giornali di Hobart Town, per provocare in tutti un unanime e giustificato cambiamento di opinione. Due giorni dopo, i magistrati dichiararono di poter accogliere la domanda di revisione dei processo. Poggiata su un fatto nuovo, essa consentiva di presumere che fosse avvenuto un errore giudiziario; i fratelli Kip furono rimandati quindi dinanzi alla Corte criminale. Al dibattimento di questo secondo processo, la folla fu più numerosa che mai, e questa volta interamente favorevole ai due fratelli. Non mancò certamente l'occasione di rimpiangere che alcuni testimoni non fossero presenti, perché sarebbero passati dal loro banco a quello degli accusati. Dopo tutto Flig Balt e Vin Mod non erano forse là, in fondo agli occhi spalancati della loro vittima? Il processo durò appena un'ora e terminò con la riabilitazione di Karl e Pieter Kip proclamata ad alta voce tra gli applausi dei presenti. Ma non appena rimessi in libertà, quando si trovarono nel salotto del signor Hawkins, con le famiglie Gibson e Zieger, essi furono ripagati di tutte le sofferenze e di tutti gli oltraggi da lungo tempo sofferti. È inutile aggiungere che le offerte di servizio vennero loro non

soltanto dal signor Hawkins ma anche dai suoi amici. Se Karl Kip voleva riprendere il mare, avrebbe trovato un comando a Hobart Town. Se Pieter Kip voleva tornare agli affari di commercio avrebbe trovato i negozianti pronti a venirgli in aiuto. Era certamente quanto di meglio potessero fare, ora che la ditta di Groningen era stata liquidata con profitto. E quando il James Cook fu nuovamente messo in riarmo, esso riparti al comando del capitano Kip e con i bravi marinai del precedente equipaggio. Per concludere questa vicenda, bisognerà dire che trascorsero alcuni mesi prima che la giustizia avesse notizie del Kaiser, sul quale erano imbarcati Flig Balt, Vin Mod e i loro compagni, o meglio, i loro complici. Si seppe allora che la nave, che esercitava la pirateria nei paraggi delle Salomone e delle Nuove Ebridi, era stata catturata da un avviso inglese. I marinai del Kaiser, gente della peggiore risma, si erano difesi come si difendono i miserabili che in caso di sconfitta sanno che li attende la forca. Parecchi malfattori erano stati uccisi tra cui Flig Balt e Len Cannon. Per ciò che riguarda Vin Mod, possiamo dire che riuscì a raggiungere un'isola dell'arcipelago con alcuni suoi compagni e che di lui non si seppe più nulla. Così ebbe fine questa causa celebre; esempio rarissimo di errore giudiziario, ebbe allora grandissima risonanza con il nome di «processo dei fratelli Kip».

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