Johann David Wiss - Il Robinson Svizzero
December 1, 2016 | Author: fulvix88 | Category: N/A
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Racconto...
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Johann David Wyss IL ROBINSON SVIZZERO Illustrazioni di Graziella Sarno U. MURSIA & C. MILANO Titolo originale dell’opera DER SCHWEIZERISCHE ROBINSON Traduzione integrale dal tedesco di CARLA VINCI-ORLANDO
Proprietà letteraria e artistica riservata - Printed in Italy © Copyright 1971 U. MURSIA & C. 1232/AC - U. MURSIA & C. - Milano - Via Tadino, 29
Indice PRESENTAZIONE ________________________________________ 5
IL ROBINSON SVIZZERO ______________________________ 9 Capitolo I _______________________________________________ 10 Racconta il naufragio di un bastimento. - Un padre coraggioso salva la famiglia e trova un'isola di salvezza. — Prime esplorazioni a terra e sulla nave naufragata. __________________________________________________ 10
Capitolo II_______________________________________________ 55 Racconta le esplorazioni di una madre coraggiosa e la costruzione di un ponte e di una casa pensile. — Fritz si rivela un eroe. — Come si festeggia la domenica. — La natura offre ricchi doni.___________________________ 55
Capitolo III ______________________________________________ 93 Il bastimento viene ancora sfruttato. - Si cuoce pane di manioca e si costruisce una lancia armata. — Il babbo prepara delle bolas. — Cattura di un'otarda. Rinvenimento della pianta da cera e dell'albero del caucciù. ____________ 93
Capitolo IV _____________________________________________ 131 Il relitto viene fatto saltare. - L'asino diserta e ritorna con un compagno. - Un bufalo, uno sciacallo e un'aquila vengono catturati e addomesticati. _____ 131
Capitolo V ______________________________________________ 166 La madre fila il lino. - ha casa nella roccia. - La migrazione delle aringhe. — Si trova il cotone. — Si fondano nuove colonie e si costruisce una barca. — Comincia il raccolto dei colombi. — Come si addomesticano i colombi. _ 166
Capitolo VI _____________________________________________ 207 Una tartaruga come rimorchiatore. — Lotta con un serpente boa. — L'asino salva gli altri, ma soccombe. — Viene scoperta una nuova caverna. — Tarabusi, idrocheri e pècari. ____________________________________ 207
Capitolo VII ____________________________________________ 237 Caccia allo struzzo e caccia all'orso. — Si cattura e si addomestica uno struzzo. ____________________________________________________ 237
Capitolo VIII ___________________________________________ 259 Si costruisce un caiak. — Si trebbia all'uso italiano. — Fritz abbatte un tricheco e viene sorpreso dalla tempesta. — I ragazzi si preparano per una grande spedizione. ___________________________________________ 259
Capitolo IX _____________________________________________ 283 Avventura di caccia con una iena. - A che servono i colombi viaggiatori. — Fritz risale il fiume contro corrente col caiak e incontra gli ippopotami. — L'Isolotto del Pescecane diventa una fortezza. ______________________ 283
Capitolo X ______________________________________________ 295 Dieci anni dopo. — Jack ha la peggio nella lotta con un cinghiale. — Si abbattono leoni. — Fritz risolve l'enigma dello scoglio fumante. — Viene salvata la signorina Jenny. _____________________________________ 295
Capitolo XI _____________________________________________ 331 Come Jenny era capitata sullo scoglio fumante. — Finalmente un bastimento. — Nuova Svizzera! __________________________________________ 331
PRESENTAZIONE Un'edizione in due volumi di questo avvincente libro per ragazzi apparve per la prima volta nel 1812 a Zurigo. Il suo autore, il pastore evangelico Johann David Wyss, aveva scritto la storia del Robinson svizzero unicamente per la sua famiglia, armonizzando in modo mirabile la passione per i viaggi e le avventure in terre lontane, tipica della letteratura del suo tempo, con finalità didascaliche, e alternando nel suo lungo racconto la descrizione di straordinarie imprese con insegnamenti scientifici e pratici, senza che l'una delle tendenze prevalesse sull'altra, in sapiente fusione stilistica. Naturalmente, nella ideazione e nella stesura del libro, il Wyss si era ispirato al Robinson Crusoe, il famoso romanzo di "Daniel Defoe, capostipite di tutti i Robinson, ma vi aveva inserito non pochi tratti tipici e originali. Uno dei suoi quattro figli, il poeta e filosofo Johann Rudolf Wyss, curò la pubblicazione del libro, che in centocinquant'anni è stato ristampato innumerevoli volte, ottenendo sempre rinnovato favore. Ma poiché in origine l'opera non era stata destinata alle stampe non sono mancati successivi rifacimenti, limitati per altro all'eliminazione di alcuni tratti di secondaria importanza. L'edizione svizzera del 1962, da me tradotta, è tuttavia l'unica che riproduca integralmente la stesura originale. Nella versione ho cercato di conservare quanto più possibile lo spirito dell'epoca in cui l'opera fu concepita e scritta e soprattutto il tono familiare e discorsivo della narrazione. L'intonazione pedagogica, che risente anch'essa del gusto dell'epoca, non deve intendersi però come sfoggio di erudizione da parte del Wyss, ma soltanto come aspirazione ad una più profonda conoscenza della terra e delle creature che su essa vivono, giacché solo tale conoscenza suscita nell'uomo l'amore per la natura e la forza atta a fronteggiare i fenomeni più sconvolgenti, pur con la piena consapevolezza dei propri limiti. Così soltanto è possibile comprendere quello che a prima vista
potrebbe sembrare quasi miracolistico: il prodigioso moltiplicarsi della vita attorno al piccolo nucleo della famiglia svizzera e il felice prosperare delle sue risorse, perché qui assistiamo semplicemente all'eterno prodigio della natura che erompe prepotente e irresistibile, ma anche si piega docile sotto la guida tenace e intelligente dell'uomo, miracolo che perennemente si ripete e di cui non riusciamo più ad accorgerci. Le vicende del Robinson svizzero e della sua coraggiosa famiglia — il sano ottimismo dei quattro ragazzi che con una fresca risata sanno scrollarsi di dosso ogni angoscia, anche quella di sentirsi soli come nel primo giorno della creazione, affrontando con serenità e ardimento fatiche e pericoli; la semplice saggezza della madre; ma soprattutto l'ingegnosa solerzia del padre, il suo profondo senso di giustizia, l'amore vivo e operante che non indulge nemmeno per un momento a sentimenti di autocompatimento o a facili commozioni — hanno affascinato intere generazioni di ragazzi. Ma non soltanto ai ragazzi questo libro avrà forse qualcosa da dire, perché oggi più che mai ognuno di noi custodisce in fondo al cuore il sogno di un'isola simile a quella in cui il Robinson svizzero ha avuto la ventura di sbarcare, una terra senza precisi confini, libera e scevra da frastuoni e inquinamenti, nella quale si possa ammirare intatto l'azzurro riflesso del cielo in un mondo ancora vergine e «ascoltare» il vocale silenzio del mare e dei boschi, per scoprire in noi stessi il senso della vita. Questa pienezza di vita ritrovano infatti i nostri eroi svizzeri quando, superato lo sgomento di una totale solitudine e lo struggente desiderio di una vicinanza umana, dopo lotte e travagli e conquiste di ogni sorta, sono finalmente in grado di fare liberamente e consapevolmente la propria scelta, non senza aver sostenuto la più difficile delle lotte tra la pungente nostalgia della patria lontana, mai dimenticata, e il vivo attaccamento alla nuova patria così duramente conquistata. Partiranno soltanto due dei figli, Franz, spinto dal desiderio di una più vasta conoscenza del mondo e Fritz, attratto dall'amore per Jenny. Li accompagneranno i sogni e le speranze di quelli che rimangono nella fiduciosa attesa di un sostegno futuro che li aiuterà
a rendere sempre più bella e grande la Nuova Svizzera. Il legame con la vecchia Europa sarà così idealmente e materialmente riallacciato e le ardue imprese e le faticose esperienze dell'animosa famiglia non saranno state sterili e vane, né si risolveranno in una egoistica economia robinsoniana, in se stessa conclusa. E poiché ardimento e sagacia, amor patrio e incrollabile fiducia in Dio, affetti familiari e interesse per il mondo che ci circonda sono valori eterni che spaziano oltre ogni confine — benché talvolta possano sembrare caduti in disuso — penso che anche oggi questo libro possa considerarsi attuale e incontrare lo stesso favore di un secolo e mezzo fa. A proposito del suo successo, è interessante notare che il libro ebbe tra i suoi ammirati lettori uno che se ne intendeva, nientemeno che Jules Verne, il quale, considerando il romanzo di Wyss incompiuto, ne scrisse la continuazione nella gloriosa serie dei suoi «Viaggi straordinari» con il titolo Seconda patria. Era un più che esplicito riconoscimento della vitalità dell'opera. Né qui si ferma la storia delle sue derivazioni, fra le quali ci piace ricordarne qui anche una dì carattere cinematografico. Dal romanzo, infatti, è stato tratto il film di Walt Disney Robinson nell'Isola dei Corsari, il quale, pur discostandosi dal testo originale in alcuni tratti per ragioni evidentemente tecniche e cinematografiche, ne conserva l'impianto, la struttura e talora anche lo spirito sottilmente didascalico. Presentando il libro ai ragazzi del nostro Paese, in una traduzione fedele e integrale, spero che essi possano ricavarne, oltre alle tante non superflue cognizioni, qualcosa di più profondo: una visione più lieta e più forte della vita, dovunque essa si svolga e qualunque vicissitudine comporti. CARLA VINCI-ORLANDO
JOHANN DAVID WYSS nacque il 28 maggio del 1743 a Berna, dove morì l'11 gennaio 1818. Compiuti gli studi e ottenuto il dottorato in teologia, nel 1775 divenne pastore evangelico a Seedorf e dal 1794 fu preposto nella Cattedrale di Berna. Nei momenti lasciatigli liberi dal ministero, scrisse il romanzo Der Schweizeriscke Robinson (Il Robinson svizzero) ispirato al famoso Robinson Crusoe e dedicato ai quattro figli, uno dei quali, Johann Rudolf, diede in seguito forma letteraria al testo (rimasto manoscritto e ad uso dei familiari) e nel 1812 ne curò la pubblicazione. Il merito del libro va dunque ascritto in parte pure a Johann Rudolf Wyss (1782-1830) cui spetta anche un posto eminente nella letteratura svizzera. Dottore in teologia e filosofia, Johann Rudolf Wyss fu professore alla Berner Akademie e bibliotecario alla Berner Stadtbibliothek. Svolse intensa attività politica e con la collaborazione dei migliori poeti svizzeri del suo tempo pubblicò dal 1811 al 1830 l'«Almanacco Alpenrosen». È l'autore dell'inno nazionale «Rufst du, mein Vaterland». Il Robinson svizzero, che qui pubblichiamo integralmente, incontrò subito notevole successo in patria e all'estero per il suo valore letterario e pedagogico.
IL ROBINSON SVIZZERO
CAPITOLO I RACCONTA IL NAUFRAGIO DI UN BASTIMENTO. - UN PADRE CORAGGIOSO SALVA LA FAMIGLIA E TROVA UN'ISOLA DI SALVEZZA. — PRIME ESPLORAZIONI A TERRA E SULLA NAVE NAUFRAGATA. LA TEMPESTA aveva imperversato per sei lunghi, terribili giorni e nel settimo, ben lungi dal placarsi, pareva che volesse infuriare, se possibile, ancora di più. Eravamo stati sbattuti verso sud-est, così lontano dalla nostra rotta, che nessuno sapeva più dove ci trovassimo. Tutti eravamo scoraggiati e sfiniti dal duro lavoro e dal lungo vegliare. Gli alberi della nave erano in parte schiantati e caduti in mare, lo scafo aveva riportato delle falle e l'acqua che vi penetrava cresceva a vista d'occhio. Un marinaio, abituale bestemmiatore, proruppe a un tratto in preghiere rumorose, urlanti, e in voti quasi ridicoli. Ciascuno un po' raccomandava l'anima a Dio e un po' pensava al modo di salvare la propria vita. — Figlioli, — dissi ai miei quattro ragazzi spaventati e piagnucolanti — se il buon Dio vuole la nostra salvezza ci aiuterà certamente; ma se dobbiamo morire è meglio che ci rassegniamo. Ci ritroveremo in cielo. La mia brava moglie si asciugò le lacrime; poi divenne più serena e incoraggiò affettuosamente i ragazzi che si erano stretti a lei. Però mi si spezzava il cuore per la pena e l'angoscia. Infine i poverini si inginocchiarono abbracciandosi insieme e incominciarono a pregare. Mi commosse in modo singolare il sentire le tenere voci in mezzo all'infuriare, al mugghiare, allo scrosciare della tempesta. All'improvviso, tra il rombo dei frangenti, udii una voce gridare: — Terra! Terra! — Ma nello stesso istante avvertimmo uno scossone così violento che ci fece stramazzare e sembrò sconquassare tutto. Uno spaventoso rovinio lo accompagnò e il crescente rumoreggiare
dell'acqua che irrompeva da ogni parte ci dimostrò che ci eravamo arenati e che il bastimento si era spaccato. Accorata risonò in quel momento una voce, forse quella del capitano: — Siamo perduti! Lance a mare! Provai una fitta al cuore. — Perduti! — esclamai. I lamenti dei ragazzi si innalzarono più forti che mai. Allora mi dominai e dissi loro: — Non perdiamoci d'animo! Siamo ancora bene all'asciutto e la terra è vicina! Voglio andare a vedere se ci resta ancora una possibilità di scampare. Così dicendo lasciai i miei e salii in coperta. Un'ondata mi sbatté a terra e mi bagnò da capo a piedi. Lottando contro i marosi sempre incalzanti mi sostenni forte e, quando finalmente potei sollevare lo sguardo, vidi con terrore le lance che, cariche dell'equipaggio, si staccavano a fatica dalla nave, mentre l'ultimo marinaio saltava giù, tagliava il cavo e aiutava i compagni a scappar via. Invano gridai, pregai, li scongiurai di prendere anche me e i miei cari. Il muggire dell'uragano inghiottiva la mia sconsolata supplica e la risacca rendeva impossibile ogni ritorno ai fuggiaschi. Nel frattempo mi ero accorto con un certo sollievo che l'acqua, la quale aveva riempito già una parte del veliero, poteva salirvi soltanto fino a una certa altezza. Infatti la poppa era stata sospinta tra due scogli, abbastanza in alto perché potesse rimanere libera. E proprio nel cassero di poppa un piccolo camerino sopra la cabina del capitano racchiudeva quanto di più caro avessi al mondo. Nello stesso tempo, verso sud, a una certa distanza dalla nave, scorgevo di quando in quando, tra nubi e pioggia, la terraferma e per quanto rocciosa potesse apparire, in quel momento di pericolo divenne la meta di ogni mio impotente desiderio. Naturalmente ero molto avvilito per il dileguarsi di qualunque aiuto umano e tornai dai miei cari pieno d'angoscia, sforzandomi tuttavia di apparire tranquillo. — Coraggio, ragazzi! — esclamai entrando — ancora non è finita per noi! È vero che il bastimento è rimasto incagliato, ma la nostra cabina si trova al di sopra del livello dell'acqua e se domani vento e mare si calmeranno sarà forse possibile giungere a terra. Questa notizia fu per i ragazzi un balsamo ristoratore e, come erano soliti fare, presero subito per sicuro quello che era ancora
lontano e molto incerto. Mia moglie però leggeva più a fondo nel mio animo e ne scoprì subito la pena segreta; capì il cenno con cui le annunciavo che eravamo completamente abbandonati. Tuttavia non perse nemmeno per un attimo la sua incrollabile fiducia in Dio e ciò mi colmò di nuovo coraggio. — Mangiamo qualcosa, — disse — con il corpo si rinforzerà anche lo spirito e forse ci aspetta una dura nottata. Infatti scendeva già la sera. Bufera e marosi continuavano ad infuriare, staccando qua e là, con orribile fracasso, assi e travi dalla nave spaccata e un continuo oscillare rinnovava ad ogni momento il timore che il veliero potesse finire in pezzi. Intanto la mamma aveva pensato a preparare un po' di cibo; i ragazzi mangiarono di buona voglia, mentre noi genitori dovemmo sforzarci. Poi i figlioli si misero a letto e caddero subito in un sonno profondo. Io e mia moglie però restammo in guardia ansiosi, cercando di percepire ogni urto, ogni suono che minacciasse un cambiamento. Fra preghiere, timori e consigli di ogni genere entrambi trascorremmo la più spaventosa notte della nostra vita e ringraziammo Iddio quando infine il giorno nascente baluginò attraverso un finestrino aperto. Allora il vento cominciò a placare la sua furia, il cielo si rischiarò e, pieno di speranza, vidi accendersi all'orizzonte una bella aurora. Con animo sollevato e voce allegra chiamai moglie e figli sul ponte, dove ero salito; i ragazzi si accorsero stupiti che eravamo rimasti soli. — Ma dove sono i nostri compagni? — esclamarono. — Perché non ci hanno portato con loro? — Cari figlioli, — risposi — Colui che ci ha aiutato finora continuerà ad aiutarci ancora, se non ci lasciamo prendere dalla disperazione. Vedete? I nostri compagni, nel cui affetto e soccorso confidavamo così fermamente, ci hanno abbandonato senza pietà nel momento del pericolo. Soltanto Dio non ci ha negato la Sua grazia! Ma ora, all'opera! Dobbiamo lavorare sodo se vogliamo salvarci, ed ognuno deve fare il proprio dovere lietamente, secondo le proprie forze! Vediamo un po' qual è il consiglio più sensato. Fritz proponeva di nuotare fino a terra una volta che il mare si
fosse calmato; ma Ernst obiettò: — Bravo. Ma come faremo noi che non sappiamo nuotare? È meglio costruire una zattera e fare la traversata tutti insieme. — Non sarebbe una cattiva idea, — osservai — se però questo lavoro non fosse superiore alle nostre forze e se una zattera non fosse un galleggiante molto pericoloso. Riflettiamo tutti bene su quello che ci può aiutare e cerchiamo attentamente ogni mezzo per rendere meno pesante la nostra situazione! A queste parole tutti si sparpagliarono per la nave, al fine di scovare le cose che potessero esserci utili. Io mi recai innanzi tutto nella cambusa, dove stavano le vettovaglie e l'acqua, per accertarmi per prima cosa dei mezzi indispensabili per vivere. Mia moglie e il più piccolo dei ragazzi andarono a dare un'occhiata al bestiame che, in condizioni pietose, moriva quasi di fame e di sete. Fritz si diresse di corsa verso il ripostiglio delle armi e munizioni, Ernst verso il laboratorio del carpentiere e Jack verso la cabina del capitano. Aveva appena aperto la porta della cabina che subito due poderosi alani gli saltarono incontro festanti, accogliendolo a modo loro, certo con moltissime buone intenzioni, ma così goffi e maldestri, che il ragazzo ruzzolò a terra urlando come fosse stato infilzato da una lama. Ma la fame aveva ammansito le due bestie che con mugolii affettuosi cominciarono a leccare il piccolo che si dibatteva con tutte le sue forze, fin quasi a soffocarlo. Sentii il chiasso e ridendo accorsi in suo aiuto. Egli balzò svelto in piedi e afferrò il più grosso dei due cani per le orecchie mozze, scrollandolo ben bene. — Lascia andare, — lo ammonii. — Certo, è bene non aver paura, ma con cani così grossi bisogna stare sempre in guardia. Da un momento all'altro la loro natura selvaggia può prorompere e causare guai che non possiamo prevedere. A poco a poco tutti tornarono a riunirsi attorno a noi, ognuno portando con sé quello che in quel frangente gli pareva più necessario. Fritz si trascinava appresso due fucili da caccia, con polvere, piombo minuto e pallottole, parte in fiaschette, parte in corni e sacchetti. Ernst aveva in mano un cappello pieno di chiodi, un'accetta e un martello, mentre un paio di tenaglie, qualche scalpello e trapani facevano capolino dalle sue tasche. Perfino il piccolo Franz
portava una scatola abbastanza grande sotto il braccio, dalla quale cominciò a trarre fuori con zelo «piccoli gancetti puntuti», come ci disse. Con piacere vidi che erano ami da pesca, che potevano esserci molto utili. — Io, — disse allora mia moglie, — non vi porto nient'altro che buone notizie; spero però di essere ugualmente bene accetta. Vi posso dire che ci sono ancora vivi una mucca, un'asina, due capre, sei pecore col montone e una scrofa gravida; abbiamo dato loro da mangiare e da bere giusto in tempo per tenerli in vita. — Tutti i vostri doni e preparativi vanno bene, — conclusi finalmente io — ma ora come riusciremo a giungere a terra? — Ehi, — propose Jack — non potremmo prendere dei grandi mastelli e partire? Quando stavo dal mio padrino, navigavo magnificamente in questo modo tutt'intorno allo stagno. — Guarda, guarda, — risposi — un buon consiglio, anche se viene dalla bocca dei più piccoli, è sempre bene accetto. Presto, figlioli, datemi chiodi, sega, trapani! Scendiamo nella stiva e vediamo se si può fare qualcosa! Mia moglie e i ragazzi, oltre Jack, mi seguirono subito con gli utensili e ripescammo quattro botti vuote che galleggiavano nell'ampio locale. Le trascinammo felicemente in coperta, che sfiorava appena il livello dell'acqua, e osservammo con gioia che erano tutte ancora solide, di ottimo legno e cerchiate di ferro. Trovai che facevano al caso mio e cominciai a segarle con l'aiuto dei miei, dividendole a metà, nel punto vicino allo zaffo. Dopo un lungo e duro lavoro raggiunsi il mio scopo e mi misi a esaminare soddisfatto i miei otto mastelli, uno dietro l'altro, meravigliato di vedere mia moglie tutta depressa. — Non oserò mai arrischiarmi in questi arnesi! — sospirò. — Nessuna precipitazione, mammetta! — replicai. — La mia opera non è affatto finita e riuscirà sempre più confortevole della nave sconquassata che non può più muoversi. Dopo di che scelsi due lunghe tavole flessibili e le sistemai in modo che i miei mastelli vi potessero stare sopra ritti in fila e che tuttavia, davanti e dietro, delle due assi avanzasse quanto occorreva per piegarle all'insù come la chiglia di una nave. Poi inchiodammo i
mastelli al sostegno di base e nello stesso tempo ognuno alla fiancata dell'altro. Infine, lungo ciascun lato venne applicata un'altra tavola flessibile e sporgente davanti e dietro. Alle due estremità il fondo venne curvato verso l'alto e sostenuto da una grossa traversa che veniva a poggiare sulle due assi laterali, aumentando lo slancio del fondo verso l'alto. Tutto fu assicurato nel migliore dei modi, le assi laterali furono inchiodate insieme davanti e dietro, in modo da finire a punta e finalmente ne venne fuori un'imbarcazione che, almeno con mare calmo e per un breve tratto di navigazione, pareva promettere tutto il possibile. Ma purtroppo alla fine la mia meravigliosa costruzione risultò così grossolana e pesante che tutte le nostre forze riunite insieme non riuscivano a smuoverla di un sol pollice. 1 Chiesi se ci fosse un argano; Fritz ricordò di averne visto uno e lo trascinò subito da me. Intanto avevo segato da un pennone alcuni rulli; con l'argano sollevai in alto la prua della mia imbarcazione, mentre Fritz vi poneva sotto uno dei tondi di legno. Subito dopo legai una lunga fune alla nostra barca-tinozza e l'altro capo della stessa fune a una trave fissa, ma in modo che la fune, del tutto allentata, pendesse sul ponte. Dopo di che, con un secondo e un terzo rullo, la mia imbarcazione, a furia di spinte e di spostamenti con l'argano, fu varata felicemente e si allontanò con tanta velocità dall'ormeggio, che soltanto la fune, da me fissata per prudenza, le impedì di scivolare parecchi piedi 2 lontano da noi. Tuttavia vedevo bene che un viaggio in quelle condizioni sarebbe stato troppo rischioso, poiché al minimo movimento la barca-tinozza poteva capovolgersi. Per rimediare a tale inconveniente pensai ai bilancieri con cui i popoli primitivi proteggono dal ribaltamento le loro imbarcazioni. Mi misi ancora una volta all'opera, per migliorare in ogni modo, con i mezzi a mia disposizione, quel natante provvidenziale per la salvezza dei miei. Due aste della stessa lunghezza, ricavate da un pezzo di pennone, vennero fissate una davanti e l'altra dietro mediante un perno di legno, in modo che potessero ruotare su se stesse ed eventualmente non ci impedissero di 1 2
Unità di misura di lunghezza pari a cm 2,5 circa. (N.d.T.) Unità di misura di lunghezza pari a cm 30 circa. (N.d.T.)
uscire dalla nave alla quale la mia imbarcazione era ancora legata. Ciascuna estremità delle aste venne infilata nel foro di un barilotto d'acquavite vuoto, che venne poi ben tappato in modo che l'acqua non vi potesse penetrare. Così fui abbastanza sicuro che, quando avessi girato le mie aste di traverso sulla barca, i barilotti le avrebbero impedito, con sufficiente efficacia, di ribaltare tanto a destra quanto a sinistra. — Ecco, — dissi, quando la bizzarra imbarcazione fu pronta — questo l'abbiamo imparato dai signori polinesiani: essi applicano alle loro barche bilancieri simili a questi per evitare che si capovolgano e la nostra barca-tinozza, così sistemata, ci farà lo stesso servizio che fa ai polinesiani il loro katamarang. — Come si chiama quel «coso»? — esclamò Jack divertito ed anche il piccolo Franz scoppiò in un'allegra risata. — Katamarang. — Magnifico! Dunque abbiamo costruito qualcosa di esotico! Katamarang! D'ora in poi chiamerò la nostra barca soltanto così! Ormai non ci restava che trovare come raggiungere, dalla stiva del relitto, il mare aperto. Perciò salii nella barca-tinozza e la spinsi in modo che la prua potesse arrivare alla falla apertasi nella murata sfondata che offriva una via d'uscita per la partenza. Segai ed abbattei, a dritta e a sinistra, quel tanto di tavole e travi sporgenti necessario per ottenere un passaggio comodo e, quando anche questo fu fatto, ci disponemmo a procurarci i remi per l'imminente traversata. Durante tutto questo lavoro si era fatto molto tardi e poiché non c'era alcuna probabilità di arrivare a terra prima di notte, risolvemmo, anche se molto a malincuore, di passare anche una seconda notte a bordo della pericolante carcassa. Ci rifocillammo con un buon pasto, poiché per tutto il giorno, tra l'entusiasmo e lo zelo, avevamo avuto appena il tempo di prendere di quando in quando un pezzo di pane e un bicchiere di vino. Tutti però ci coricammo infinitamente più sereni del giorno precedente e rinfrancammo le forze esaurite con un benefico sonno. Allo spuntare del giorno eravamo già svegli e pronti, poiché la speranza, come l'angoscia, non fa dormire a lungo. Dopo aver preso
un boccone ci rimettemmo all'opera. — Prima di tutto date da mangiare e da bere alle povere bestie — dissi, — e dategliene a sufficienza per alcuni giorni. Forse, quando saremo riusciti a metterci in salvo, potremo venire a prenderle. Se siete pronti, raccogliete tutto l'indispensabile da portare per le più immediate necessità. Secondo le mie intenzioni il primo carico della nostra imbarcazione doveva consistere in un barilotto di polvere, tre fucili di piccolo calibro, tre fucili da caccia grossa, assieme a pallini, piombo e munizioni, quanto potessi portare con me, due paia di pistole da tasca e un paio più lunghe, con gli stampi occorrenti per le palle. A tutto questo si aggiungeva, per ognuno dei ragazzi e per la madre, un tascapane ben fornito, che trovammo fra quelli lasciati dagli ufficiali di bordo. Presi inoltre una cassa di tavolette di estratto di carne ed un'altra di galletta, assieme ad una pentola di ferro e ad una canna da pesca a bastone, ed infine un barilotto con chiodi, martelli, tenaglie, seghe, accette, trapani e la tela da vela necessaria per una tenda. Ammassammo tanto materiale che dovemmo rinunciare a qualcosa, benché avessi sostituito l'inutile zavorra della piccola imbarcazione con attrezzi utilizzabili. Ci accingevamo ad imbarcarci, quando inaspettatamente udimmo il chicchirichì dei galli dimenticati e abbandonati, come se le povere bestie, rattristate, volessero dirci addio; osservai che avremmo certo potuto portarli con noi, insieme con oche, anatre, colombe. — Poiché — aggiunsi — se non riusciremo a nutrirli, forse saranno loro a nutrire noi. Il mio consiglio fu seguito. Dieci galline, un gallo adulto ed uno di primo canto, furono stivati in uno dei grandi mastelli o mezze botti, che chiudemmo alla svelta con una graticciata di legno. Il resto dei volatili fu lasciato libero e trovò da sé, per aria o per acqua, la rotta verso terra. Aspettavamo mia moglie, che pensava sempre a tutto e che finalmente arrivò con un voluminoso sacco sotto il braccio. — Questo è ora il mio contributo, — disse gettando il sacco nel mastello del figlio più piccolo per farvi stare più comodamente seduto il piccino, almeno così pensai. E finalmente ci imbarcammo tutti
allegri. Nella prima mezza botte prese posto mia moglie, affettuosa, devota e intelligente sposa e madre. Nella seconda, proprio davanti a lei, sedette Franz, un piccino che non aveva ancora compiuto dieci anni, di ottimi sentimenti, ma dal carattere non ancora ben definito. Nella terza stava Fritz, testa ricciuta di sedici anni, svelto e bravo. Nella quarta il barilotto con le polveri, i polli e la tela per la tenda; nella quinta le nostre vettovaglie; nella sesta Jack (Jakob), ragazzotto di dodici anni, un po' sventato ma servizievole e intraprendente. Nella settima Ernst, giudizioso quattordicenne, soltanto un tantino almanaccone e pigro. Nell'ottava io stesso, con il più tenero cuore di padre e con il grave compito di governare la barca per la salvezza dei miei cari. Ognuno di noi aveva accanto a sé attrezzi utili; ognuno teneva in mano un remo; davanti ad ognuno c'era una cintura di salvataggio, per il caso disgraziato che si dovesse andare a picco ed a ciascuno era stato insegnato come servirsene senza indugio. La marea aveva già raggiunto il suo livello medio quando ci staccammo dal relitto e vi avevo fatto conto, perché essa avrebbe aiutato le nostre deboli forze di rematori. Girammo nel senso della lunghezza le aste del bilanciere e, attraverso la spaccatura apertasi nello scafo, uscimmo felicemente in mare. I miei figli divoravano con gli occhi la terra rocciosa e Fritz col suo occhio di lince poté scoprirvi già degli alberi tra cui, a suo dire, distingueva anche delle palme. Ernst pregustava già il piacere di mangiare noci di cocco, che dovevano essere più grandi e migliori di quelle comuni. Remavamo verso la terra con forza ma, per un pezzo, senza alcun costrutto. L'imbarcazione continuava a descrivere dei larghi cerchi, finché all'ultimo riuscii a darle la giusta direzione. Allora proseguimmo più agevolmente. Quando i due cani, dalla nave, si accorsero che ci allontanavamo, balzarono in mare uggiolando e ci raggiunsero subito a nuoto. Erano troppo grandi per la nostra barca, giacché Turk era un alano inglese e Bill una cagna danese della stessa razza. Ne provai compassione, temendo che non riuscissero a nuotare a lungo. Ma essi si arrangiarono abilmente e quando erano troppo stanchi appoggiavano le zampe anteriori sulle aste del bilanciere che avevamo girato di
nuovo trasversalmente alla barca. In tal modo il loro corpo avanzava senza eccessivo sforzo. Jack veramente voleva impedirglielo, ma io non permisi. — I cani — gli dissi, — possono servirci per difesa o, come tu stesso hai osservato, per la caccia. La nostra traversata procedeva felicemente anche se con lentezza; ma quanto più ci avvicinavamo alla terra, tanto più squallida essa ci appariva e le rocce nude ci predicevano fame e angustie. Il mare era calmo e si increspava dolcemente verso la riva; il cielo splendeva sereno e dalla nave squarciata galleggiavano verso di noi fusti, balle, casse. Nella speranza di portare viveri sulla costa deserta, mi diressi verso due barili, rasentandoli, e raccomandai al mio Fritz di tenersi pronto con una fune, un martello e chiodi. Gli riuscì di agganciarli così bene che potemmo rimorchiarli e proseguire la traversata con maggior fiducia. Quando fummo più vicini alla terra, questa perdette a poco a poco il suo aspetto scabro. Ora distinguevo anch'io le palme, che si slanciavano snelle verso l'alto coronate da vasti ventagli di fogliame. Mi rammaricavo ad alta voce di non aver preso dalla cabina del capitano il grosso cannocchiale, quando Jack tirò fuori dalla sua borsa un piccolo cannocchiale da campagna, felice di poter soddisfare il mio desiderio. Con quello strumento potevo fare ora le necessarie esplorazioni e dirigere un po' più esattamente la rotta. Notai infatti che la sponda davanti a noi appariva desolata e selvaggia, mentre quella a sinistra aveva un aspetto migliore. Solo che, quando volli virare a sinistra, una forte corrente mi spinse di nuovo verso la costa brulla e sassosa. Presto apparve una stretta imboccatura verso cui si diressero a nuoto anatre e oche, facendoci da battistrada. Nelle vicinanze un torrente grosso e impetuoso, spumeggiando per il suo letto profondamente incassato tra pietre e ciottoli, precipitava dalle cupe rocce verso il mare: spettacolo di grave e maestosa bellezza, che ammirammo per qualche momento con muta commozione. Seguendo l'imboccatura raggiungemmo una piccola baia dove l'acqua era straordinariamente calma ed in molti punti né troppo fonda né troppo bassa per la nostra imbarcazione. Con cautela mi accostai a un tratto della riva che aveva l'altezza delle nostre
tinozze e dove tuttavia l'acqua era sufficiente a tenerci a galla. Il luogo del nostro approdo era una piccola superficie scoscesa, di forma triangolare, il cui vertice si spingeva in alto tra i crepacci, mentre la base si stendeva lungo il mare. Tutti quelli che poterono farlo saltarono svelti a terra e perfino il piccolo Franz tentò di arrampicarsi per uscire dal suo mastello, nel quale era stato disteso come un'aringa salata: ma nonostante tutto il suo arrabattarsi e puntellarsi non ci sarebbe riuscito se sua madre non gli fosse venuta in aiuto. I cani che avevano raggiunto la terra un po' prima di noi ci accolsero con affettuosi mugolii e con mille salti di gioia, le oche con incessante schiamazzare, le anatre con l'allegro strombettare del loro becco color di cera. Quando ci trovammo sulla riva sicura, tutti indistintamente ci inginocchiammo e ringraziammo con cuore commosso il benevolo e potente Salvatore per l'aiuto concessoci. Poi con prontezza ci demmo a disfare il carico e come ci sentimmo ricchi per quel poco che avevamo messo in salvo! I polli vennero lasciati liberi fino a ulteriore decisione, giacché mancava una gabbia in cui rinchiuderli. Poi cercammo con cura un posto adatto per rizzare la tenda e preparare un comodo alloggio notturno. La tenda fu montata subito, perché avevamo tela e pali. Il palo per il tetto fu infilato in una fessura della roccia e sul davanti venne sorretto da un pezzo di pennone piantato a terra. La tela vi venne stesa sopra, poi tirata giù ai due lati e fissata per bene a terra con dei paletti. Per maggior precauzione assicurammo meglio l'orlo inferiore ponendovi sopra la cassa dei viveri e gli utensili pesanti, e attaccammo dei pezzi di corda ai lembi che pendevano davanti per poter chiudere bene l'ingresso durante la notte. Infine ordinai ai ragazzi di strappare tutt'intorno erba e musco, quanto più potessero, e di stenderli ad asciugare al sole, per evitare di dormire sulla dura terra. Mentre eseguivano l'incombenza, io con alcune pietre allestii un focolare ad una certa distanza dalla tenda, vicino allo scrosciante torrente. Ammassammo dei sarmenti che giacevano sulla riva, portati dal mare e disseccati dal sole e presto il lieto fuoco, risorsa dell'uomo, divampò con alte fiamme crepitanti
verso il cielo. Una pentola con acqua e tavolette di estratto di carne vi fu posta sopra e con tutte le formalità il compito della cucina venne affidato alla mamma ed a Franz, in qualità di piccolo sguattero. Il piccino chiese che cosa volesse mai attaccare il babbo con quella colla che si stava sciogliendo al fuoco. La mamma lo informò che voleva cuocere una zuppa di carne. — Bene, — osservò lui, — ma dove andremo a trovare la carne? Qui non c'è né macellaio né mercato per comprarne. — Appunto! — ribatté la mamma, — quelli che ti sembrano pezzetti di colla sono tavolette di carne, o, meglio, di gelatina resa solida con la cottura e preparata con buona carne, per poterla consumare a bordo: nei viaggi per mare è impossibile infatti portarsi appresso carne e bestiame a sufficienza, poiché andrebbero a male molto presto. Intanto Fritz aveva caricato i fucili e, preso il suo, si allontanò verso il torrente. Ernst osservò che non era piacevole stare in quella costa desolata e se ne andò alla chetichella, dirigendosi a destra, verso il mare, mentre Jack andò in cerca di conchigliette a sinistra, tra la parete rocciosa e l'acqua. Io invece tentai di trarre a riva i due barili rimorchiati, ma mi accorsi subito che il nostro approdo, se era comodo per la barca, era troppo basso per portare a terra i barili. Mentre dunque mi affaticavo invano, cercando con gli occhi un posto migliore, Jack un po' più in là proruppe in terribili urla. Afferrai la mia accetta e spaventato mi affrettai ad accorrere in suo aiuto. Quando lo scorsi, il ragazzo stava in un fondale basso, con l'acqua fino alle ginocchia; un grosso gambero marino gli si era attaccato alla gamba con le sue chele. L'ometto si dimenava pietosamente, tentando invano di liberarsi. Scesi in acqua senza indugio: l'ospite inatteso, appena notò che si avvicinavano rinforzi, volle retrocedere e scappare via più rapidamente possibile. Ma io intendevo lo scherzo diversamente; con prudenza afferrai la bestia, tenendola da dietro e la portai in fretta a terra, fra le grida di gioia del ragazzo subito consolato; ansioso di portare egli stesso a sua madre la bella preda, per quanto pesante fosse, la afferrò precipitosamente. Ma l'aveva appena presa in mano, che ricevette dalla bestia un colpo di coda così violento, che lo costrinse a lasciarla cadere subito, con aria afflitta. E
poiché la sua sfortuna mi strappava in quel momento una sonora risata, il ragazzo, preso da una violenta rabbia, afferrò con furia una pietra e fracassò la testa crostacea del nemico. — Questa è stata una bravata! — lo redarguii indignato, — non bisogna vendicarsi nemmeno dei propri nemici! Avresti dovuto essere invece più prudente e non prenderti tanta confidenza. Allora Jack afferrò di nuovo il crostaceo privo di vita e lo portò tutto allegro e soddisfatto verso la cucina da campo. — Mamma, un gambero di mare! Ernst, un gambero di mare! Dov'è Fritz? Guarda qua, Franz, ti morde! — Tutti allora si radunarono intorno a lui ed osservarono attentamente lo straordinario animale, stupiti più per la grandezza veramente insolita che per il suo aspetto, abbastanza comune. Ernst diede subito il suo parere: si doveva cuocere il gambero e se lo si fosse gettato subito nel brodo bollente, avremmo avuto un'ottima zuppa di gambero. Ma la mamma rispose che ringraziava tanto, ma non avrebbe fatto una zuppa secondo quella ricetta estemporanea, e che innanzi tutto avrebbe finito di cuocere la prima portata del nostro pasto. Io intanto tornai nel punto in cui Jack era stato attanagliato dal gambero, per utilizzare quel bassofondo e trarvi a riva i nostri barili, mettendoli poi ritti, in modo che non potessero più rotolare indietro. Tornato nel gruppo, lodai Jack che aveva fatto la prima fortunata scoperta e gli promisi come giusta ricompensa l'intera pinza del gambero che l'aveva afferrato al polpaccio. — Oh! — esclamò Ernst, — anch'io ho visto qualcosa di commestibile, che non ho potuto prendere perché era nell'acqua e mi sarei dovuto bagnare. — Ne vale proprio la pena! — disse Jack, — anch'io l'ho visto. Sono molluschi schifosi; io almeno non potrei mangiarne. Allora è meglio il mio gambero! — Però, — osservò Ernst, — potrebbero essere magari ostriche; stanno in un posto non molto profondo. — Bene, signor flemmatico, — ammonii, — se ti ricordi bene dove sono, puoi tornarci e prenderne qualcuna per prova, dato che potrebbero farci comodo per il prossimo pranzo. Nelle nostre misere condizioni ognuno deve adoperarsi per il bene comune e non avere
tanta paura dei piedi bagnati. Vedi bene che il sole ha già quasi asciugato me e Jack. — Allora andrò a prendere nello stesso tempo anche del sale, — rispose Ernst, — ne ho visto a mucchi fra le fessure della roccia. Deve provenire dall'acqua di mare fatta evaporare al sole. A giudicare dal sapore era precisamente sale. — Già, già, eterno filosofo! — lo criticai. — Sarebbe stato meglio che ne avessi preso subito un sacco, invece di rimuginarci su a lungo. Se non vogliamo mangiare una minestra scipita, corri e portaci quello che hai scoperto. Era veramente sale quello che Ernst ci portò, ma sporco, misto a sabbia e a terra, sicché stavo per gettarlo via, sgridando il ragazzo che non lo aveva raccolto con cura. Tuttavia la mamma trovò il modo di rimediare, sciogliendo il sale in un recipiente di latta pieno d'acqua dolce e filtrandolo poi attraverso una tela sottile, dopo di che potemmo metterlo nella minestra. — Ma non potevamo prendere senz'altro acqua di mare? — chiese Jack. — Oh, no! — rispose Ernst. — È davvero troppo amara, a parte il suo sapore salato; quasi vomitavo dopo averla provata. Presto la mamma assaggiò la minestra con una bacchettina che aveva usato per rimestarla e la giudicò ottima. — Però — disse, — manca ancora Fritz e inoltre come mangeremo la nostra pietanza? Non è assolutamente possibile che ognuno accosti alla bocca questa grande pentola rovente e peschi le gallette con le mani. Ce ne restammo sbigottiti intorno al fuoco, come la volpe della favola quando la cicogna le presentò la brocca dal collo lungo, ma alla fine ridemmo di cuore delle angustie in cui ci trovavamo. — Oh! — disse allora Ernst, — però potremmo usare delle conchiglie. — Giustissimo — approvai, — direi che è davvero una buona idea! Va' e portaci delle conchiglie. Però non dobbiamo fare gli schizzinosi; intingeremo anche le dita nella zuppa, perché non avremo manici per quei cucchiai. Jack filò via di corsa; Ernst lo seguì placidamente e Jack stava già con l'acqua fino ai malleoli, prima che l'altro arrivasse. Solerte, Jack
raccoglieva e gettava a volo interi mucchi di ostriche al fratello che continuava ad aver paura di bagnarsi. Con noncuranza Ernst si infilò in tasca una grossa conchiglia vuota e finalmente i due tornarono con i fazzoletti pieni. In quel momento udimmo Fritz chiamare da lontano e gli rispondemmo con voce allegra. Egli arrivò col viso gioiosamente animato e ci raccontò di essere andato oltre il torrente. — Quanti barili, — esclamò, — quante casse, legname ed altre cose sono di là! Vogliamo ripescarle? Perché non andiamo domani sulla nave a mettere qualcosa in salvo? Andiamo a prendere il bestiame! Perché non ricuperiamo almeno la mucca? Le gallette non sarebbero così dure, inzuppate nel latte! Di là c'è erba per pascolare e un boschetto dove staremmo all'ombra! Perché rimanere ancora qui nella costa arida e brulla? — Calma, calma! — risposi. — Ogni cosa a suo tempo, amico Fritz! Domani è un altro giorno e ad ogni giorno la sua pena. Innanzi tutto, dimmi: hai scoperto qualche traccia dei nostri compagni di viaggio? — Nemmeno la minima traccia, di nessuna persona, — rispose, — né in terra né in mare. Mentre parlavamo così, Jack si sforzava di aprire un'ostrica col coltello; ma con tutte le smorfie che faceva e con tutta la forza che ci metteva, non riusciva ad averne ragione. Ridendo feci mettere tutte le conchiglie sulla brace, dove si aprirono subito da sole. — Su, ragazzi! — dissi, — assaporiamo uno dei più pregiati e ghiotti bocconi per palati raffinati! Intanto mangiavo la prima, non senza ripugnanza. Stupiti i ragazzi esclamarono: — Ma le ostriche di solito hanno un sapore squisito, delizioso! Replicai che non contestavo a nessuno il proprio gusto; quanto a me, solo in caso di estremo bisogno avrei potuto mangiarne; ma quando i ragazzi guardarono più attentamente il disgustoso aspetto dei molluschi cominciarono ad averne davvero ribrezzo. Tuttavia ognuno doveva finire la sua parte, se voleva ricavarne un cucchiaio. Così Jack per primo osò l'atto eroico e ingoiò la sua ostrica come una medicina, rabbrividendo. Subito gli altri seguirono il suo esempio, definirono le ostriche un cibo cordialmente cattivo e tuffarono svelti i
gusci vuoti nella pentola piena di minestra. Ma tutti si scottarono le dita e ognuno col proprio tono di voce gridava il suo ohi! e il suo ahi! Allora ecco che Ernst trasse di tasca il grosso guscio, attinse con cautela una buona porzione e cominciò a canzonare gli altri, dato che egli avrebbe potuto avere subito la sua minestra non più bollente. — Niente male, aver pensato per te, — osservai, — solo che avresti dovuto procurare anche a noi dei piatti simili. — Già, — ammise lui, — là intorno ce n'erano ancora a sufficienza. — Ma è appunto questo che debbo rimproverarti, — gli dissi, — che tu pensi sempre solo a te stesso. Meriti che il tuo egoismo sia punito e che la tua zuppa sia data ai nostri domestici, intendo dire ai due alani. Tu puoi aspettare finché anche noi, comuni mortali, possiamo mangiare tutti insieme. Il mio rabbuffo toccò il cuore al ragazzo che, tutto remissivo, depose la sua scodella davanti ai cani che spolverarono tutto in un battibaleno. Subito dopo il nostro pasto, il sole cominciò a declinare. Il pollame si raccolse a poco a poco intorno a noi, beccando le briciole cadute. Mia moglie se ne accorse, tirò fuori il suo misterioso sacco e cominciò a spargere veccia, piselli e avena. Mi mostrò anche altri semi di ortaggi portati con sé. Elogiai la sua premura e le raccomandai soltanto di usare con parsimonia tutte quelle provviste che potevano servirci per la semina: sarebbe stato meglio adoperare come becchime le gallette avariate, che ancora dovevamo ricuperare dal bastimento. Le colombe volarono via nelle spaccature delle rocce, i polli si posarono in fila sul tetto della tenda; le oche e le anatre, schiamazzando, andarono a rifugiarsi tra i cespugli della riva acquitrinosa. Anche noi ci preparammo a riposare, ma per prudenza caricammo prima i fucili e le pistole, ponendoli a portata di mano. Poi recitammo insieme la nostra preghiera della sera e con l'ultimo raggio di sole ci infilammo nella tenda, dove ci coricammo l'uno accanto all'altro, riconfortati. Diedi ancora una volta un'occhiata fuori, per assicurarmi che tutto fosse tranquillo e poi strinsi bene le corde che chiudevano l'entrata. Il
gallo, svegliato dalla luna che sorgeva, ci fece la serenata ed io mi distesi. Ma, tanto caldo era stato il giorno, altrettanto fredda diventava la notte e per scaldarci eravamo costretti a stringerci forte a vicenda. Un dolce sonno cominciò a scendere sui miei cari e per quanto io volessi seriamente star sveglio, almeno finché la madre non si fosse destata dal primo sopore, anche le mie palpebre stanche si chiusero rapidamente e tutti quanti dormimmo in pace la nostra prima notte sulla terra della fortunata salvezza. Era appena spuntata l'alba, quando il canto del gallo mi risvegliò e subito destai mia moglie, soprattutto per consigliarci insieme con tutta tranquillità sul da farsi. Presto fummo d'accordo nel pensare che, prima di prendere qualsiasi decisione di fondamentale importanza, dovevamo ancora cercare là intorno i nostri compagni ed esplorare la natura del terreno che ci circondava. Mia moglie però si persuase bene che non si poteva fare una spedizione di tal genere con tutta la famiglia ed accettò la mia proposta: Ernst ed i piccoli sarebbero rimasti con lei e Fritz, il più robusto, sarebbe partito con me nel giro di ricognizione. Le raccomandai intanto di prepararci la colazione e lei si accinse a farlo, avvisandomi che ci sarebbero stati ben magri bocconi, poiché non avevamo nient'altro che la provvista per una zuppa. Fritz dovette approntare fucile, bisaccia ed un'accetta; gli ordinai anche di infilarsi nella cintura un paio di pistole corte con le munizioni, mentre anch'io cominciavo ad equipaggiarmi nello stesso modo; pensai anche alle gallette e ad una borraccia piena d'acqua. Subito dopo la madre ci chiamò per la colazione. Nel frattempo aveva cucinato il gambero di Jack; ma tutti lo trovammo così tiglioso e di sapore tanto cattivo che ne avanzò una buona parte per il nostro viaggio e nessuno ci guardò di traverso quando infilammo i resti nelle nostre sacche. Però ci eravamo tutti saziati, perché il crostaceo era molto più grande dei gamberi di fiume e la sua polpa era più sostanziosa e nutriente. Fritz mi esortò a partire presto, prima che il sole cominciasse ad ardere. Ordinai a tutti i ragazzi di badare alla mamma e di ubbidire in ogni cosa. Poi ricordai loro di tenere in ogni caso i fucili a portata di mano e di rimanere sempre nelle vicinanze della barca, che offriva il
più valido mezzo di difesa o di fuga. Così ci separammo in fretta, non senza pena e con grande apprensione, giacché non potevamo conoscere i pericoli a cui forse andavamo incontro in quella terra sconosciuta. Per nostra difesa personale prendemmo con noi il fedele Turk, come valida scorta. La riva del torrente era così dirupata ai due lati che soltanto in basso, alla foce, offriva un angusto passaggio, proprio nel punto in cui fino allora eravamo andati a prendere l'acqua. Mi rallegrai constatando in tal modo che i miei cari erano abbastanza al sicuro anche da questa parte, giacché dall'altra gli alti scogli offrivano tutto il riparo che si poteva desiderare. Per oltrepassare il torrente dovemmo arrampicarci fino al punto in cui esso sgorgava dalle rocce e dove, qua e là, dal fondo del suo letto sporgevano grosse pietre; sopra queste, con rischiosi salti, riuscimmo finalmente a varcare il torrente senza bagnarci troppo. Con dura fatica ci arrampicammo allora sulla riva opposta, attraverso l'erba alta e mezzo seccata dal sole, sforzandoci di scendere di nuovo verso la sponda del mare, dove speravamo di trovare minori ostacoli sul nostro cammino. In realtà riuscimmo così ad avanzare rapidamente avendo vicino, alla nostra sinistra, il mare; a destra però, circa ad una mezz'ora di distanza da noi, l'ininterrotta impervia parete si prolungava dal punto del nostro approdo sempre nella medesima direzione. La sua sommità sfoggiava un verde ridente con grande varietà di alberi. Lo spazio tra rupe e mare era ricoperto in parte da erba alta e mezzo secca, ed in parte da piccoli boschetti che spesso si estendevano in alto fino alla roccia e in basso fino al mare. Noi ci tenevamo con cura presso la riva e guardavamo costantemente verso il mare, come per deliziarci della bellezza del paesaggio, mentre in cuor nostro speravamo soltanto di poter scorgere le lance con i nostri compagni. Non trascuravamo però di scrutare lungo il lido, se ci fossero pedate o altre tracce umane, ma non scoprimmo la minima orma. In silenzio, ognuno chiuso in se stesso, continuammo a camminare finché, dopo una marcia di due ore buone, raggiungemmo un boschetto piuttosto distante dal mare. Là ci fermammo all'ombra fresca, per ristorarci ad un limpido ruscello che scorreva vicino a noi.
Tutt'intorno volavano, giocavano, frullavano svariate specie di uccelli a noi sconosciuti, che si facevano notare più per lo splendore dei colori che per l'armonia delle voci. Fritz sostenne di aver avvistato tra foglie e rami qualcosa che sembrava una scimmia e infatti Turk, quasi a conferma di ciò, cominciò a diventare inquieto e ad abbaiare, facendo risonare bosco e radura. Fritz si aggirò pian piano tutt'intorno, per verificare la sua supposizione e infine, mentre guardava in alto, cercando di cogliere il minimo fruscio, finì con l'incespicare così forte su qualcosa di rotondo, che a momenti finiva faccia a terra. Indispettito afferrò l'oggetto che lo aveva fatto inciampare e me lo portò, osservando che doveva essere un nido di uccelli. — Ma no! — gli dissi, — è una noce e precisamente una noce di cocco. — Però ci sono uccelli che costruiscono nidi rotondi, — osservò il ragazzo. — Senza dubbio, — ribattei — solo che non dovresti scambiare a prima vista un oggetto rotondo e fibroso per un nido. Non ricordi che abbiamo letto come la noce di cocco è avvolta in una massa di fili tenuti insieme da una sottile e fragile rete? Qua nella tua, la rete si è disgregata e perciò vedi i fili venire fuori tutti arruffati. Ora la toglieremo via del tutto e dentro vi troveremo la dura noce. Così accadde: la noce fu spaccata e dentro non vi trovammo nient'altro che un nocciolo guasto, assolutamente immangiabile. — Ma papà, — chiese Fritz, — avevo pensato che nelle noci di cocco ci fosse un succo dolce da potersi bere come latte di mandorla! — Ed infatti è così, quando le noci non sono ancora mature, proprio come nei nostri alberi di noce. Ma via via che il frutto matura, il succo si solidifica fino a diventare seme, che alla fine si secca completamente. Se la noce matura cade in un terreno buono, il seme germoglia e infrange il guscio. Se invece finisce in un posto non adatto, rimane soffocato e va a male per fermentazione interna, come appunto la tua noce. Io credo che questa sia stata portata fin qui dalle scimmie, perché non può essere caduta da nessuno degli alberi qua intorno. In entrambi però si era destata la voglia di una noce di cocco
buona e ci mettemmo a cercare attivamente. Dopo lungo rovistare ne trovammo finalmente una che non era guasta e che ci consenti di risparmiare le nostre provviste, tanto che conservammo una buona parte di essa per il pasto del mezzogiorno; era infatti ancora troppo presto per pranzare. In realtà, sebbene la noce fosse un tantino rancida, ci aveva soddisfatto abbastanza e così raccogliemmo le nostre forze per riprendere il cammino. Per un tratto ci inoltrammo nella boscaglia, ove spesso eravamo costretti ad aprirci la strada con le accette, perché era intricata da un'indescrivibile quantità di liane. Finalmente giungemmo di nuovo alla riva, guadagnando una libera visuale e un sentiero accessibile. Il bosco si prolungava alla nostra destra, a circa un tiro di schioppo da noi, e qua e là si vedevano anche piante isolate di una specie particolare. Fritz, che con il suo sguardo acuto esplorava incessantemente dappertutto, ne osservò subito alcune di aspetto tanto caratteristico che ne fu colpito ed esclamò: — Ma papà, che razza di piante sono quelle là con i gozzi lungo il fusto? Ci avvicinammo e riconobbi con lieto stupore le cucurbitacee, che producono zucche. Fritz ne trovò subito una caduta a terra ed io gli spiegai come si poteva adoperare il frutto svuotato ed essiccato per farne ciotole, scodelle e fiasche. — Per i popoli primitivi, — aggiunsi, — sono assolutamente indispensabili: essi infatti conservano le loro bevande e se ne servono perfino per cuocervi i cibi. — Impossibile, — osservò Fritz, — la scorza si brucerebbe, messa sul fuoco. — Certo, — replicai, — ma la scorza non viene messa direttamente sul fuoco. Quando si vuol cuocere qualcosa nelle zucche, queste vengono tagliate a metà e svuotate, dopo di che vi si versa dell'acqua come in una pentola; poi vi si mette carne, granchi ed in genere quello che si vuol cuocere. Si lasciano quindi spegnere nell'acqua a poco a poco delle pietre arroventate, finché l'acqua bolle e il cibo che ci sta dentro è cotto. La scorza rimane intatta. — Ehi! Ma allora facciamo subito un po' di scodelle e piatti, — propose Fritz, — la mamma sarà contenta se le portiamo delle stoviglie da cucina.
Così dicendo prese il suo coltello e cominciò a trafficare attorno a una zucca. Sbrigò prontamente il suo esperimento, ma aveva anche rovinato del tutto la zucca, perché il coltello ora andava troppo in fondo, ora gli sfuggiva di mano, lasciando tagli sghembi e sbocconcellati. — Ma è proprio una disperazione! — esclamò; — non avrei mai creduto che una cosa tanto semplice potesse essere tanto difficile. Il mio lavoro non vale un fico secco! — E con queste parole gettò via la zucca. — Sei sempre precipitoso, vecchio mio! — gli dissi. — Perché ora getti via tutto quanto? Dai pezzetti più piccoli puoi ancora ricavare dei cucchiai e mentre lo farai, voglio provare a fare due scodelle. Fritz raccolse i pezzi e ricominciò a tagliare; io presi invece uno spago, lo legai per il lungo, più in alto che potei, attorno a una zucca e tirando lo serrai il più possibile; vi battei sopra leggermente col manico del coltello, facendolo penetrare nella buccia piuttosto tenera; poi lo strinsi più forte e continuai a battervi su, finché la scorza non fu tagliata. Allora mi fu facile far passare lo spago da parte a parte attraverso la polpa acquosa e dividere la zucca in due parti diseguali che però avevano una buona forma e un orlo regolare. — Come diamine ti è venuto in mente? — esclamò Fritz. — Ecco una magnifica zuppiera e anche un piatto! — Vedi, — risposi, — a che cosa serve leggere un pochino? L'ho imparato dai libri di viaggi; selvaggi e negri, che per lo più non hanno coltelli, fanno con le zucche quello che tu hai visto fare or ora. Posammo le nostre stoviglie a terra affinché il sole le essiccasse, ma prima le riempimmo accuratamente di sabbia perché l'eccessivo calore non le restringesse troppo. Non mancammo nemmeno di far bene attenzione al posto in cui le avevamo lasciate, per poterle ritrovare facilmente al ritorno. Subito dopo proseguimmo il nostro cammino; Fritz continuava ad armeggiare intorno a un cucchiaio di zucca, mentre io, dal frammento di una noce di cocco che avevo messo in tasca, cercavo di ricavarne un altro. Ma devo confessare che riuscirono entrambi molto mediocri. — Quando si tratta di lavori di artigianato, — dissi, — si deve
riconoscere la superiorità degli indigeni nella fabbricazione di oggetti di consumo. Il mio cucchiaio non è molto migliore del tuo e per poter introdurre in bocca sia l'uno sia l'altro bisognerebbe averla larga fino alle orecchie. — Lo credo bene! — replicò Fritz, — se li avessimo fatti più piccoli sarebbero stati poco fondi ed è ancora più difficile mangiare la zuppa con palette, anziché con gusci di ostriche. Intanto per me questo va bene, finché non ne avrò uno migliore. Così chiacchierando e intagliando cucchiai non avevamo trascurato di guardare intorno attentamente in tutte le direzioni, in cerca dei nostri compagni; ma purtroppo tutto fu vano. Finalmente, dopo una marcia di quattro ore buone, arrivammo a una punta di terra che si prolungava nel mare e sulla quale si innalzava una collina piuttosto alta. Ci sembrò il posto più adatto da cui poter estendere in lontananza le nostre ricerche, senza dover vagare ancora. Non senza sudore e fatica salimmo sull'altura, che ci offrì un'ampia, splendida vista. Ma pur guardando intorno col nostro eccellente cannocchiale dovunque e per quanto tempo ci piacesse, non potemmo scoprire in nessun luogo la minima traccia d'uomo. La bella natura però ci stava davanti in tutta la sua semplice grazia e nonostante la mancanza dell'opera dell'uomo era estremamente incantevole. La riva ricca di vegetazione della pittoresca baia - la cui sponda opposta si perdeva nell'azzurra lontananza come un promontorio - racchiudeva con leggiadria la superficie increspata del mare in cui si specchiava il sole. Ne saremmo stati certo deliziati se il nostro struggente desiderio di trovar gente in quel paradiso non fosse rimasto insoddisfatto. Ma la vista di quella terra fertile mi tranquillizzò perché ero certo che almeno non avremmo patito né fame né carestia, perciò dissi: — Ebbene, Fritz! È andata diversamente da come pensavamo! Del resto avevamo scelto noi stessi una vita da colonizzatori e se ora ci sono un paio di persone di più o di meno, la nostra pace e fiducia non dovranno esserne turbate. Ci sforzeremo di essere anche in queste condizioni buoni e sereni il più possibile. Così dicendo scendemmo decisi verso un ameno boschetto di
palme che avevamo adocchiato dall'alto. Prima di giungervi fummo costretti a passare attraverso un fitto canneto, spesso così folto e intricato da impedirci il cammino. Solo con molta cautela e lentamente ci spingemmo avanti, perché ad ogni passo temevo il morso mortale di un serpente nascosto; questi animali infatti amano stabilirsi in luoghi simili. Turk doveva perciò precederci sempre affinché avvisati dal cane, potessimo prevenire meglio il pericolo. Per ogni eventualità tagliai anche una solida canna, nella speranza di potermi difendere meglio con essa anziché col fucile da un nemico strisciante. Non senza sorpresa mi accorsi subito di un succo vischioso che scaturiva dal gambo reciso e quando ne assaggiai una goccia la trovai così dolce che non potei dubitare di aver scoperto la più bella piantagione naturale di canne da zucchero. Assaggiando ripetutamente fui ancora più sicuro del fatto mio e mi sentii straordinariamente ristorato dal meraviglioso succo. Tuttavia non volli ancora comunicare al mio Fritz la felice scoperta, ma preferii procurargli la gioia di farla da sé. Gli gridai allora, poiché mi precedeva di qualche passo, di tagliarsi anche lui una canna come difesa. Egli fu pronto a farlo e, senza accorgersi di altro, si servì della canna come di un bastone; con questo, per scacciare eventuali serpenti, batteva a dritta e a manca davanti a sé nel canneto con tale energia che alla fine il bastone si spaccò e ne uscì il succo appiccicoso che eccitò la curiosità del giovane. Con aria circospetta cominciò ad assaggiarlo e d'un tratto eccolo saltare e ridere, consumandosi quasi le dita a furia di leccarle, e gridare: — Papà, papà! Canna da zucchero! Oh, assaggia dunque! Canna da zucchero! Magnifico! Splendido! Pensa che gioia per i ragazzi e per la mamma, quando gliene porterò a casa! — Intanto tagliava pezzo per pezzo la canna e la succhiava così avidamente che il nettare gli colava lungo il mento ed io dovetti frenare la sua ingordigia. — Prendi dunque fiato una buona volta e non essere così avido! — Ma avevo tanta sete ed ha un sapore così buono! — Ti scusi esattamente come gli ubriaconi: anch'essi bevono smodatamente perché hanno sete e perché amano il vino. Ma per quanto validi siano i loro pretesti, tuttavia essi ne risentono danno nell'anima e nel corpo.
— Allora voglio almeno portare a casa una bella provvista di canne da zucchero, così per strada ci rifocilleremo di tanto in tanto e la mamma e i fratelli potranno rallegrarsene. — Certo, non ho niente in contrario, — risposi, — però non farne un carico troppo pesante: dobbiamo portare già molta roba e ancora per un bel tratto di strada. Avevo ben predicato; il ragazzo tagliò per lo meno una dozzina delle canne più belle; le ripulì delle foglie, le legò insieme e se le mise sotto braccio, mentre continuavamo ad andare avanti. Finalmente uscimmo dall'intrico e giungemmo al palmeto. Vi entrammo per riposarci e consumare il resto del pranzo, quando all'improvviso diverse scimmie piuttosto grandi, spaventate dal nostro arrivo e dall'abbaiare del cane, si arrampicarono rapidamente sugli alberi e con tale agilità che potemmo a malapena scorgerle, finché non si appollaiarono sulle corone delle palme, digrignando i denti e salutandoci ostilmente con orribili grida. Osservai subito che gli alberi erano palme da cocco ed attinsi la speranza di ottenere con l'aiuto delle scimmie alcuni frutti non ancora maturi e ricchi di latte. Cominciai perciò con tiri bene assestati a scagliare sassi in alto contro le scimmie e, benché fossi ben lungi dal raggiungere anche soltanto la metà dell'altezza delle palme, le scimmie andarono ugualmente in collera e, nel loro istinto di imitazione, incapricciate a rifare i miei gesti, strappavano noci su noci dai loro piccioli e ce le gettavano giù, al punto che dovevamo continuare a saltare per non esserne colpiti ed in breve una massa di frutti giaceva per terra intorno a noi. Fritz rise di cuore vedendo che il tiro mi era riuscito e, quando finalmente la gragnola fu terminata, raccolse quante più noci poteva portare. Ci cercammo un posticino sicuro per assaporare il nostro raccolto e rompemmo i gusci a colpi di accetta. Prima però attraverso i punti meno duri, che allargavamo col coltello, bevemmo il succo che c'era e ci meravigliammo di non trovarlo di nostro gusto. Però ci piacque la crema più solida che rimaneva attaccata ai gusci e che raschiavamo con i cucchiai da poco fabbricati, addolcendola con lo zucchero delle nostre canne e così banchettammo da signori. Mastro Turk ricevette perciò i resti del gambero, che ora disdegnavamo
orgogliosamente, ed un po' di gallette, dopo di che, ancora insoddisfatto, cominciò a masticare canna da zucchero e a mendicare noci di cocco. Finalmente legai insieme alcune noci che avevano ancora i piccioli e Fritz riprese in mano il fascio di canne; ci caricammo e ci mettemmo in cammino, continuando rinfrancati la via del ritorno. Ma non durò a lungo; Fritz cominciò a lamentarsi. Le canne, sulle spalle, gli pesavano molto e le passava di continuo da una parte all'altra; presto le prese sotto braccio, poi si fermò, sospirò, sbuffò forte. — No, — esclamò infine, — non avrei mai pensato che un fascio di canne fosse così terribilmente pesante; eppure vorrei portarle a casa, perché anche la mamma ed i fratelli ne prendano. — Basta aver pazienza e coraggio, mio caro Fritz! — gli dissi. — Non ti ricordi più della cesta di pane di Esopo, che all'inizio del viaggio era la più pesante e alla fine diventava la più leggera? Anche il peso delle tue canne da zucchero diminuirà poiché potremo servircene ancora abbondantemente prima di tornare a casa tra i nostri cari. Fin d'ora puoi darmene un'altra come bastone da pellegrino e come fonte ambulante di nettare, ed anche tu puoi tenerne in mano una nuova. Lega poi le altre insieme e appenditele sulla schiena in modo che s'incrocino col fucile: così le porterai più facilmente e potrai sopportare il peso più a lungo. In verità ora dobbiamo imparare ad usare il cervello, se l'abbiamo al posto giusto. Riflessione e capacità inventiva dovranno spesso supplire alla mancanza di forze fisiche. L'opprimente calura ci infastidiva parecchio; per calmare la sete incoraggiai Fritz a succhiare, come me, dalla canna da zucchero. Ma presto notammo che il dolce succo cominciava a diventare asprigno. Spiegai allo stupito ragazzo che lo zucchero, fermentando, si trasformava a poco a poco in alcool. — Ora bisogna essere sobri, Fritz, se non vogliamo tornare a casa come due ubriachi. Ma ci ristorammo lo stesso e continuammo ad andare avanti rianimati, conversando del più e del meno finché, quasi all'improvviso, arrivammo al posto in cui, durante il viaggio d'andata, avevamo lasciato sulla sabbia la zuppiera e il piatto di zucca per farli
essiccare. Li trovammo tutt'e due in ottimo stato e duri come l'osso, così che potemmo portarli con noi senza difficoltà. Ma avevamo appena attraversato il boschetto in cui avevamo fatto colazione la mattina, che Turk ci lasciò di furia, piombando su una frotta di scimmie che si divertivano a giocare per terra al limite della macchia e non avevano notato affatto il nostro arrivo. Esse furono colte assolutamente di sorpresa e, prima che potessimo accorrere, il sanguinario alano aveva già raggiunto, ghermito e abbattuto una scimmia adulta e ora si saziava delle sue carni ancora palpitanti. Uno scimmiottino che fino allora era stato aggrappato al dorso di essa e che probabilmente le aveva impedito una rapida fuga, stava accovacciato in disparte sull'erba e assisteva digrignando i denti al cruento spettacolo. Fritz era accorso a precipizio per prevenire la brutta scena. Saltando perse il cappello e gettò lontano da sé fiaschetta e canne da zucchero, ma tutto invano. Arrivò troppo tardi per evitare l'uccisione, ma giusto in tempo per provocare un nuovo spettacolo, veramente comico. Infatti non appena lo scimmiotto lo ebbe avvistato, immediatamente gli balzò sulla schiena fino alle spalle e con le zampette si attaccò così saldamente ai suoi capelli ricciuti che né le grida, né i salti, né gli strappi dello spaventato ragazzo riuscivano a staccarlo. Benché le risate mi impedissero di fare più in fretta, mi slanciai per rassicurare il povero Fritz, poiché capivo bene che non c'era alcun pericolo e il timor panico del ragazzo contrastava in modo decisamente ridicolo con le boccacce dello scimmiottino. — Questo è un vero tratto di genio da parte del cucciolotto! — dissi quando li raggiunsi. — Ha perduto la madre ed ora ti assume semplicemente come padre adottivo. Ma che genere di affinità familiare avrà mai fiutato in te? — Si sarà accorto che sono un bravo ragazzo, il birbante, — rispose Fritz bonariamente, — e che non potrei torcere un capello ad un animale che si mette sotto la mia protezione. Ma intanto mi tira terribilmente i capelli; ti prego, toglimelo di dosso! Con dolcezza e con un po' di abilità riuscii finalmente a staccare l'ospite non invitato; lo presi in braccio come un bambino piccolo, lo guardai bene e davvero fui costretto ad averne compassione, perché
era appena più grande di un gattino e non sarebbe stato affatto in grado di cavarsela da solo. — Ma che cosa posso fare per te, — esclamai, — povero orfanello, e come potremo mantenerti, miseri come siamo? Abbiamo già troppe bocche da sfamare e troppo poche braccia per lavorare. — Oh, papà! — mi pregò Fritz, — dai pure a me questo piccolo, ci penserò io. Gli darò del latte di cocco, finché non avremo il latte della mucca e delle capre che ora stanno sulla nave. Forse un giorno la sua sagacia ci aiuterà a distinguere i frutti buoni da quelli velenosi. — Bene, — gli dissi, — in tutta questa tragicomica vicenda ti sei comportato da bravo ragazzo, solo che il ribrezzo ti ha fatto perdere la bussola. Però sono soddisfatto di te, specialmente perché non hai sfogato la tua rabbia. Quindi ti lascio prendere il tuo protetto. Dipenderà dal modo con cui lo educherai se un giorno ci potrà essere di giovamento, con il suo istinto, o di danno con la malignità, costringendoci a disfarcene. Mentre discutevamo, Turk divorava con gusto la scimmia sbranata e poiché il misfatto era ormai avvenuto, tollerammo il suo pasto, tanto più che ci saremmo esposti noi stessi a gravi pericoli, se ci fosse saltato in mente di impedirglielo. Tutto quello che aveva avuto da noi durante il giorno non era stato niente per la sua enorme voracità. Tuttavia, senza stare ad aspettare che Turk si degnasse di essere sazio, ci mettemmo di nuovo in cammino. Lo scimmiottino riprese il suo posto sulla schiena di Fritz ed io in cambio mi caricai delle canne da zucchero. Avevamo camminato così per circa un quarto d'ora, quando Turk ci raggiunse a trotto serrato, leccandosi ancora a destra e a sinistra il muso insanguinato con aria compiaciuta. Lo accogliemmo con faccia arcigna, rimproverandogli la sua crudeltà; ma Sua Altezza Serenissima non se ne curò affatto e procedette tutto calmo dietro Fritz. Lo scimmiotto però, reso inquieto dalla temibile vicinanza, cominciò ad arrampicarsi sul petto di Fritz e a infastidirlo. Allora lo spirito inventivo del ragazzo si ridestò: egli legò svelto Turk a una cordicella e gliene allacciò un'altra attorno al collo, cercando di sistemargli sul dorso lo scimmiotto; nello stesso tempo redarguiva il cane in tono patetico: — Dato che hai ammazzato sua madre, ora
devi portare tu stesso il piccolo. — Ma Turk capì il gioco a modo suo: ringhiò, tentò di afferrare la tremante bestiolina e infine cominciò a rotolarsi per terra, sicché Fritz per il momento dovette rinunciare ai suoi tentativi di ammaestramento e riprendere in braccio il suo protetto. Fra tali occupazioni il cammino volò, per così dire, sotto i nostri piedi e ci trovammo vicino al grande torrente e ai nostri cari quasi senza accorgercene. Bill, la cagna danese che era rimasta con loro, diede l'avviso abbaiando a tutto spiano e Turk, l'alano inglese, le rispose: anzi, a poco a poco cominciò a riconoscere il luogo e corse avanti per salutare la compagna e annunciare il nostro arrivo. Subito i nostri cari apparvero sulla sponda opposta, uno dopo l'altro, facendoci cenno, ridenti ed esultanti, e ci vennero incontro risalendo la riva del torrente, finché da ambedue le parti giungemmo al guado che la mattina avevamo attraversato; ripassammo felicemente sull'altra sponda e corremmo tra le braccia dei nostri. Ma appena i ragazzi ci ebbero esaminato ben bene, ecco che incominciarono a gridare tutti insieme: — Una scimmia, una scimmia! Dove l'hai presa? Oh, possiamo darle qualcosa da mangiare? Ma che cosa ci fai con quei bastoni? E che razza di noci sono queste che porta il babbo? Si levò così un coro di domande e di esclamazioni a cui noi non sapevamo né porre argine né dare risposta. Alla fine, quando si cominciò a ristabilire la calma, presi la parola: — Dunque, ancora una volta, affettuosamente salve, ragazzi! Vi portiamo un sacco di cose buone. Purtroppo però non abbiamo potuto trovare ciò che soprattutto cercavamo, i nostri compagni di viaggio; nemmeno un'anima, da nessuna parte. — In nome di Dio, — rispose la mamma, — accontentiamoci e ringraziamo il cielo almeno di ritrovarci di nuovo tutti insieme sani e salvi! Quanto ho supplicato e sospirato che poteste tornarmi a casa illesi! Ed ora raccontateci come è andata la spedizione e alleggeritevi del vostro carico. Jack allora mi tolse il fucile, Ernst le noci di cocco, il piccolo Franz le scorze di zucca e la mamma la bisaccia. Fritz distribuì le sue canne da zucchero e offrì il suo fucile al pigro Ernst che, sebbene
preoccupato di caricarsi di un così eccessivo peso, non poté sottrarsi alla gentile preghiera del fratello. Presto però la mamma si impietosì, gli tolse di mano le noci di cocco così proseguimmo il cammino. — Però, — cominciò ad un tratto Fritz, — se Ernst soltanto sapesse quello che ha consegnato, certo avrebbe voluto tenerselo con sé. Sono noci di cocco, Ernst, le tue care noci di cocco! — Oh, perbacco! Noci di cocco! — gridò questi; — mamma, presto, voglio portarle io e terrò lo stesso il fucile! — No, no! — rispose la mamma, — non voglio sentire i sospiri che non tarderesti a fare. — Ma posso gettare via i bastoni e tenere il fucile in mano! — Guardatene bene! — gridò allora Fritz; — quei bastoni sono canne da zucchero. Vieni qua! Voglio insegnarti a succhiarle. — Ehi, ehi! — esclamarono ora tutti. — Canne da zucchero! — E ognuno si precipitava da Fritz per farsi spiegare e per prendere istruzioni sulla grande arte del succhiarle. Anche mia moglie, al sentire cose tanto insolite, cominciò ad interrogarmi eccitata. Con piacere le raccontai come avevamo fatto le nostre scoperte e le mostrai quante cose utili avevamo trovato. Nulla però le piacque più della zuppiera e del piatto di zucca, di cui avevamo grandissimo bisogno. Così arrivammo finalmente alla cucina da campo e con piacere notammo i preparativi per una robusta cena. A un lato del fuoco, su uno spiedo di legno che poggiava su due forcelle pure di legno infisse nel terreno, stavano infilzati pesci di ogni genere. All'altro lato veniva arrostita un'oca e il grasso gocciolante finiva in una grossa conchiglia posta sotto di essa. In mezzo, sulla fiamma, stava la pentola di ferro da cui emanava il profumo di un sostanzioso brodo di carne. Dietro il fuoco, infine, uno dei barili rimorchiati giaceva aperto davanti ai miei occhi e mi mostrava le sue viscere, sotto forma dei migliori formaggi olandesi, tutti custoditi in involucri di stagnola. Il tutto eccitava al massimo la nostra fame, più sopita che soddisfatta dai succhi che avevamo trangugiato. La mamma del resto ci chiamò subito a tavola. Ci sdraiammo tutti per terra ed ella cominciò a servire il pasto, durante il quale le nostre stoviglie di zucca ci resero un servizio straordinario. I ragazzi
vuotarono intanto un paio di noci spaccate, le trovarono proprio eccellenti e conservarono i pezzi di guscio come cucchiai. Anche lo scimmiottino ebbe la sua parte. I giovani tuffarono a turno la punta dei fazzoletti nel latte di cocco e provarono un'indescrivibile gioia quando la bestiolina accettò di succhiare con vera soddisfazione le pezzuole inzuppate, facendoci così sperare che saremmo riusciti ad allevarla. I ragazzi stavano per spaccare ancora un paio di noci con l'accetta, quando a un tratto ordinai: — Alt, alt! — Nella tanto sentita mancanza di scodelle, avevo pensato a un buon espediente. — Datemi qua, ragazzi! — esclamai, — facciamoci delle stoviglie! Uno di voi vada a prendere la sega. Jack, il più svelto, me ne portò subito una ed io mi diedi da fare finché ognuno di noi ebbe una scodella per sé e a ognuno la mamma poté servire la sua porzione di zuppa. La brava donna era tutta soddisfatta che non dovessimo più pescare poco igienicamente con le conchiglie nella pentola comune. Consumammo quindi la nostra cena e benché i pesci fossero un po' asciutti e l'oca sapesse un tantino di bruciato, pure cominciai a dare il buon esempio e la gioventù mi seguì bravamente. Ci raccontarono allora che i pesci erano stati procurati da Jack e dal piccolo Franz e che la mamma aveva scoperchiato il barile dei formaggi con le proprie mani per assicurarci un delizioso dessert. Ognuno ricevette la meritata lode. La mamma aveva avuto la premura di raccogliere dell'erba ancora più secca e di farla distendere nella tenda, così potevamo sperare in un giaciglio più soffice di quello del giorno precedente. I polli ci lasciarono e andarono a posarsi, come la notte precedente, sulla sommità della tenda; le oche e le anatre scomparvero anch'esse, ritirandosi nel loro alloggio notturno e anche noi sentimmo di tutto cuore il bisogno di dormire; perciò, finito il nostro pasto, scivolammo nella tenda. Con noi venne anche lo scimmiottino: Fritz e Jack, che si dividevano la sua amicizia e la cura del suo sostentamento, lo presero teneramente in mezzo a loro, coprendolo con attenzione affinché non soffrisse il freddo. Tutti ci coricammo nell'ordine solito ed io per ultimo mi chiusi la tenda alle spalle. Come
gli altri, dopo le fatiche di quella giornata, cedetti presto e volentieri al sonno ristoratore. Ma non ne avevo ancora gustato a lungo la dolcezza, che fui svegliato dall'agitazione dei polli sul tetto della tenda e dal violento abbaiare dei cani che vigilavano. Raccolsi le mie energie per accorrere subito in loro aiuto. Anche Fritz e la mamma erano già svegli. Tutti e tre afferrammo i fucili e uscimmo dalla tenda. Con orrore scorgemmo ben presto alla luce della luna una lotta spaventosa. Una decina di sciacalli aveva accerchiato i nostri alani e quei due valorosi campioni avevano già steso sul campo di battaglia tre o quattro nemici; gli altri ululavano a rispettosa distanza tutt'intorno, spiando il momento buono per coglierli alla sprovvista. Ma le due prudenti bestie tenevano duro, si rivoltavano da tutte le parti e non permettevano al nemico di accostarsi. Io e Fritz mirammo immediatamente e subito due dei nottambuli giacquero sulla sabbia vicino agli altri, mentre un altro paio dovette trascinarsi a fatica, con le gambe sfracellate, dietro il gruppo dei compagni in fuga. Turk e Bill raggiunsero i feriti e li fecero a pezzi; poi, quando il combattimento fu finito, si buttarono a divorare, come veri animali dei Caraibi, la carne dei loro fratelli, dimostrandoci quanto poco ancora conoscessimo la loro voracità, tanto più che di solito i cani non divorano facilmente la carne di volpi o di lupi, perché di razza simile alla loro. La mamma ci esortò, dato che tutto ormai era calmo, a tornare nella tenda; ma Fritz ci pregò di lasciargli prendere il suo sciacallo, per mostrarlo l'indomani ai fratelli. Ottenuto il consenso, trascinò faticosamente all'accampamento l'animale, grande quanto un cane di notevoli dimensioni, anche se non della ragguardevole mole dei nostri alani. Feci notare allo zelante ragazzo che, se Turk e Bill non fossero tornati del tutto sazi dal campo di battaglia, anche quell'ultimo sciacallo doveva essere loro concesso come giusto compenso per la vigilanza e il coraggio dimostrati. Ci rimettemmo allora al caso, legammo la bestia alla roccia presso la tenda e ci coricammo di nuovo vicino ai piccoli; nessuno di loro era stato svegliato dal trambusto e così riprendemmo a dormire al loro fianco, sinché non spuntò il giorno e il gallo non mi destò col suo canto
squillante. Il mio primo pensiero fu di svegliare anche la mamma per combinare insieme il piano di lavoro della giornata. — Moglie mia! — cominciai, — prevedo tanto lavoro e tanti pensieri che non so quasi come cavarmi d'impaccio. Una corsa alla nave naufragata è strettamente necessaria, se non vogliamo far morire di fame il bestiame che vi è rimasto; e di là c'è ancora una quantità di cose utili da ricuperare. Ma, d'altra parte, anche qui ci sarebbe tanto da fare e soprattutto dovremmo prepararci un'abitazione migliore. — Con pazienza, ordine e costanza, — rispose lei, — un po' alla volta avremo ogni cosa, mio caro! È vero che non penso con piacere ad un ritorno sulla nave, ma è indispensabile per il nostro benessere e lo faremo come prima impresa. Il resto verrà da sé, a mano a mano. — Ebbene, faremo come mi consigli! Tu rimarrai, direi, di nuovo qua con i piccoli; Fritz, il più forte ed il più abile, verrà con me. Così dicendo mi alzai e chiamai ad alta voce: — Su, ragazzi, su! Il giorno si leva e oggi avremo molto da fare. Il mattino ha l'oro in bocca! I bravi ragazzi si risvegliarono a poco a poco, sbadigliando e rivoltandosi per un certo tempo, finché non riuscirono a scacciare definitivamente il sonno dai loro occhi. Soltanto Fritz, balzando dal suo posto e scavalcando gli altri, era volato dalla tenda verso il suo sciacallo, che durante la notte era diventato perfettamente rigido. Collocò l'animale bene in vista davanti all'ingresso e rimase là, a sentire che cosa ne avrebbe detto la giovane truppa. Ma appena i cani videro il loro nemico di nuovo in piedi, gli balzarono contro ringhiando e abbaiando col pelo spaventosamente irto, così che Fritz poté placarli solo a stento. E lo fece con tanta tranquilla sicurezza che dovetti rallegrarmene. Tutti nella tenda erano curiosi di sapere che cosa mai avesse provocato quell'allarme dei cani. Uno alla volta i ragazzi vennero fuori e anche lo scimmiottino si affacciò guardandosi timoroso tutt'intorno. Scorto però lo sciacallo, scappò nell'angolo più lontano del giaciglio e si rimpiattò tra musco e fieno, che a malapena si vedeva ancora il suo musetto. I ragazzi fecero le più alte meraviglie, chiedendosi di dove fosse venuto quello sconosciuto che stava là di guardia. Ernst lo scambiò per una volpe,
Jack per un lupo e il piccolo Franz per un cane giallo. Fritz li canzonò, i fratelli si arrabbiarono un pochino, ma alla fine si rappacificarono e cominciarono a chiedere la colazione. Alcuni trovarono rimedio da sé e si gettarono su una cassa di gallette, ma nonostante ogni sforzo, a stento riuscivano a stritolare fra i denti quella roba secca. In tale frangente Fritz capitò dietro il barile di formaggio, mentre Ernst con occhio indagatore scivolava intorno all'altro barile ripescato. D'improvviso sbucò fuori con viso lieto, gridando: — Papà, oh se avessimo del burro per le nostre gallette! In verità, le manderemmo giù dieci volte meglio. — Già, se! se!, col tuo eterno se! — dissi. — Un pezzo di galletta col formaggio è sempre molto meglio di un'intera scodella di se. — Potessi soltanto scoperchiare il barile! — Quale barile e perché? — Ma sì, per avere il burro; quello, il barile grosso. Là dentro ce n'è di sicuro, perché da una giuntura è colato fuori qualcosa di grasso che ha proprio l'odore del burro. — Bene, sia lodato il tuo naso, se hai indovinato giusto. In premio avrai il primo pezzo di burro. Insieme ci avvicinammo al barile ed ebbi la conferma di quanto Ernst supponeva. Ero però in imbarazzo, giacché dovevo ancora trovare il modo più adatto per arrivare al burro. Fritz, che nel frattempo si era accostato a noi, suggerì precipitosamente di staccare il primo cerchio e scoperchiare la botte. Ma gli feci osservare che così le doghe si sarebbero allentate e che col crescente calore del giorno il prezioso grasso presto si sarebbe liquefatto e sarebbe colato via dalle fessure. Alla fine decisi di fare un buco nel barile con un grosso trapano e di cavarne fuori con una grande spatola di legno quanto serviva per il momento. Così avvenne e in pochi minuti avevamo riempito fino all'orlo un guscio di noce di cocco con dell'ottimo burro salato e vi stavamo sdraiati tutt'intorno con vero piacere. Nonostante il burro, le gallette erano sempre maledettamente dure, ma infine le abbrustolimmo sul fuoco, cosparse di burro e allora le trovammo eccellenti; solo che i ragazzi nel loro cieco entusiasmo ne bruciarono
alcuni bei pezzi che poi dovettero gettar via. Durante tutte queste faccende i cani rimasero sdraiati vicino a noi, digerendo il loro pasto notturno e non diedero alcun segno di voler partecipare alla nostra colazione. Però solo allora notammo che non erano usciti del tutto indenni dal sanguinoso combattimento, giacché avevano in diversi punti, e particolarmente sul collo, morsicature e ferite. Ben presto cominciarono a leccarsi a vicenda le ferite, specie al collo, dove non riuscivano a farlo da soli. — Certo sarebbe bello, — disse Fritz, — se sulla nave ci fossero dei collari chiodati per i nostri animali, dato che gli sciacalli, come sono già capitati una volta sulle nostre tracce, potranno ancora tornare e avere il sopravvento sui cani inermi. — Oh! — propose Jack, — farò io stesso i collari e proprio per bene! Solo che la mamma voglia aiutarmi! — Ti sia concesso, piccolo spaccone! — assicurò mia moglie; — vedremo che cosa saprai escogitare! — Sì, sì, ometto, — aggiunsi io, — esercita pure la tua capacità inventiva. Se verrà fuori un lavoro fatto con giudizio, ne avrai lode e onore. Ora però è tempo che ognuno di noi vada al proprio lavoro: e perciò, Fritz, preparati! Io e la mamma crediamo necessario che tu ritorni con me sul relitto per salvare quello che c'è rimasto. Voi ragazzi, rimanete di nuovo qui con la mamma. Siate ubbidienti e solleciti! Imbarcandoci nella nostra barca-tinozza stabilimmo che quelli che restavano a terra avrebbero rizzato un'asta con della tela a mo' di bandiera, che noi avremmo potuto vedere col cannocchiale dalla nave. L'abbassarsi di essa, seguito da tre spari di allarme, sarebbe stato il segnale perché tornassimo subito a terra. Potei perfino indurre la madre alla coraggiosa risoluzione di passare la notte da sola con i piccoli - sempre che non avesse notato alcunché di pericoloso - nel caso che la grande quantità di lavoro ci avesse tenuto impegnati troppo a lungo sul relitto. Non portammo con noi nient'altro che i nostri fucili con gli accessori, perché sulla nave dovevano esserci ancora viveri a sufficienza, ma alla fine ci decidemmo a prendere anche lo scimmiottino perché Fritz voleva rifocillarlo il più presto possibile
col latte di capra. In silenzio ci staccammo dalla riva; Fritz remava con forza, mentre io cercavo di governare la barca come meglio potevo. Quando fummo abbastanza lontano dalla terra, quasi nel mezzo della baia, mi accorsi che questa, oltre l'imboccatura per la quale eravamo entrati per la prima volta, ne aveva un'altra e che il torrente, che sfociava nella baia non lontano da noi, vi passava attraverso fluendo nel mare aperto con impeto ininterrotto. Approfittare di quella corrente per risparmiare in tal modo le nostre forze, fu subito il mio obiettivo principale e, per quanto fossi un cattivo timoniere, pure la manovra mi riuscì. Fummo sospinti dolcemente per tre quarti del viaggio verso il relitto e avemmo soltanto il fastidio di mantenere dritta l'imbarcazione: poi la corrente cominciò a diminuire e allora, con rinnovata energia, percorremmo a remi l'ultimo tratto della traversata ed entrammo nello scafo squarciato della nave, dove la nostra barca fu immediatamente ormeggiata. Eravamo appena usciti dai mastelli che Fritz, preso in braccio il suo scimmiottino, senza dire una parola, correva già a rotta di collo su in coperta dove stavano tutti gli animali. Lo seguii contento di vedere la sua impazienza di porgere aiuto alle creature bisognose. Oh, con quali muggiti, belati, grugniti ci accolsero le bestie abbandonate! Non tanto il bisogno di nutrimento, quanto l'ansioso desiderio di una presenza umana pareva strappare tutti quei toni di gioia, giacché foraggio e acqua erano ancora là a sufficienza. Lo scimmiottino fu subito attaccato alle mammelle di una capra e cominciò a succhiare rumorosamente, ingoiando il latte per lui inconsueto con buffe smorfie e crescente piacere, il che ci diverti non poco. Dopo aver dato alle bestie foraggio fresco e nuova acqua, pensammo anche a noi e mangiammo quello che potemmo trovare a bordo senza lunghe ricerche. La nostra prima cura fu quella di applicare alla nostra imbarcazione un albero con la vela, affinché potessimo raggiungere più facilmente la terra, sospinti dalla fresca brezza marina. Innanzi tutto scelsi un pezzo di pennone che mi sembrò adatto a farne un albero, ed un altro più sottile a cui poter inferire la vela.
Fritz con uno scalpello rotondo doveva praticare intanto un buco in una tavola, per infilarvi l'albero. Poi mi recai nel deposito delle vele e ritagliai da un grosso rotolo di tela una vela triangolare che sistemai come meglio seppi. Presi anche un bozzello per disporlo in testa al mio albero, così da poter issare o ammainare la vela a volontà. Nel frattempo Fritz aveva compiuto il suo lavoro abbastanza bene; la tavola forata fu messa trasversalmente sulla barca, nel senso della larghezza e il bozzello fu attaccato a un anello, in testa d'albero, per poterlo muovere a nostro piacere; nella sua gola fu passato un cavo, serrato strettamente all'angolo di penna della vela e finalmente l'albero fu calato, attraverso la scassa della tavola, fino a toccare il fondo della mezza botte, così che per il momento rimase ritto magnificamente. Dovette naturalmente essere ancora fissato alla base, ma anche questo fu fatto senza perder tempo. La mia vela era a forma di triangolo rettangolo, un lato del quale pendeva lungo l'albero, cui venne accuratamente inferito. Il lato più corto fu inferito, sotto, a un'asta sottile che dall'albero sporgeva fuori della barca. Ad un'estremità essa era congiunta all'albero, mentre all'altra estremità fu dato volta un lungo cavo che arrivava fino al timone rendendomi così possibile un certo governo della vela o, in caso di necessità, il suo allentamento. Nella barca furono fatti dei fori, a prora e a poppa, per potervi fissare il cavo e manovrare la vela in duplice direzione senza essere costretti a girare ogni volta tutta l'imbarcazione. Mentre ero così affaccendato, Fritz aveva guardato col cannocchiale verso terra. Recò la notizia che da quella parte tutto sembrava in ordine e nello stesso tempo mi portò una banderuola. Per accontentarlo dovetti issarla in testa d'albero, affinché la nostra imbarcazione si presentasse secondo tutte le regole. Questa vanità, nella nostra miseria, mi fece ridere. Ma per far piacere al bravo ragazzo fissai la banderuola, anzi mi ci divertii io stesso. Ma poi cercai anche di provvedere la nostra barca di un vero timone. Subito dopo furono infissi verticalmente sul lato di dritta e su quello di sinistra dell'imbarcazione due robusti cavicchi per parte, per servire di appoggio e di sostegno ai remi durante la vogata.
Mentre lavoravamo si era avvicinata la sera e compresi chiaramente che avremmo dovuto pernottare sul relitto, se non volevamo tornare a casa con la barca vuota. Avevo stabilito con i miei che, se avessimo avuto l'intenzione di rimanere sul bastimento, avremmo issato una bandiera; ed infatti così fu deciso e compiuto. Il resto del giorno lo passammo a gettar via dalla barca-tinozza l'inutile zavorra di pietre e a sostituirla con un bel carico di attrezzi e di roba che potesse servirci. Perciò saccheggiammo il relitto come vandali e riempimmo la nostra navicella a più non posso. E prevedendo molto probabile il più completo isolamento, la nostra attenzione si rivolse principalmente alle polveri e al piombo, per avere più a lungo possibile i mezzi per la caccia e per la difesa contro bestie feroci. Tutti gli utensili e gli attrezzi - e ce n'erano una gran quantità - mi sembrarono altrettanto indispensabili. Il bastimento era stato destinato alla fondazione di una nuova colonia nei mari del Sud e perciò conteneva moltissime merci che di solito non si caricano affatto, o solo in piccola quantità, nei comuni viaggi per mare. Mi fu difficile, tra la massa di cose necessarie e utili che si trovavano a bordo, fare una giusta scelta. Dopo aver dato però la precedenza agli oggetti che ho già menzionato, presi anche coltelli, forchette, cucchiai e stoviglie da cucina, di cui avevamo bisogno. Nella cabina del capitano si trovarono posate d'argento e altra argenteria, piatti di peltro, vassoi e scodelle, insieme con una ricca scorta di bottiglie. Tutto venne impaccato. In cucina ci caricammo inoltre di griglie, mestoli, padelle, paioli, casseruole e pentole, tra cui scelsi quello che mi sembrava il meglio e l'indispensabile. Infine, dalle provviste del capitano furono presi alcuni prosciutti di Westfalia, con qualche sacchetto di grano, di granoturco e di altra semente. E, siccome Fritz mi ricordò quanto duro e freddo fosse il nostro giaciglio sotto la tenda, aumentai ancora il mio carico con un buon numero di amache e di coperte di lana, che del resto potevano servirci anche per altri scopi. Fritz, che non vedeva mai armi a sufficienza, si trascinò ancora dietro un paio di fucili ed una bracciata di spade, sciabole e coltelli da caccia. Per ultimo furono caricati un
barilotto di zolfo e una quantità di cavo e di gherlino, assieme ad un rotolo di tela da vela. Lo zolfo era destinato a sostituire in futuro i nostri stoppini per accendere il fuoco. Così la nostra piccola imbarcazione fu caricata fino all'orlo e scendeva tanto sotto la linea d'acqua che, se il mare non fosse stato perfettamente calmo, avrei dovuto alleggerirla. Tuttavia aggiunsi due giubbetti di sughero, da indossare in ogni caso nel viaggio di ritorno, per poterci salvare più facilmente se l'imbarcazione fosse colata a picco. Come si può bene immaginare, durante tali preparativi annottò e non vi fu più alcuna possibilità di tornare a riva. Sarebbe stato fin troppo facile incagliarsi in uno scoglio o incorrere in qualche altro guaio nell'oscurità! Un allegro fuoco a terra ci assicurò che i nostri stavano bene e anche noi, con quattro grandi fanali accesi, ci ingegnammo di informarli che stavamo bene e tranquilli. Due spari ci diedero tonante conferma che il nostro segnale era stato visto e compreso. Non senza apprensione per i nostri cari rimasti a terra, ci sdraiammo finalmente, affaticati e anche piuttosto scomodi, nella barca-tinozza, in modo da essere subito pronti a una rapida fuga se il relitto si fosse sfasciato o se ci fosse stato qualche altro pericolo. L'indomani all'alba, col primo chiarore che a malapena mi permetteva di discernere la costa, ero già sulla coperta della nave e puntavo il mio grosso cannocchiale verso la tenda che custodiva i miei cari. Fritz intanto preparò alla svelta una sostanziosa colazione e ci sedemmo in modo da poter rivolgere di continuo lo sguardo verso la riva. Dopo non molto tempo credetti proprio di scorgere la madre che usciva dalla tenda. Immediatamente agitammo nell'aria una bandierina bianca e in risposta ricevemmo un triplice sventolare della bandiera che era stata innalzata sulla riva. Mi si sollevò un peso dal cuore, quando mi convinsi che i miei cari continuavano a star bene. — Dunque, Fritz, — cominciai, — pensavo che oggi non avremmo perso nemmeno un istante per tornare subito a terra. Ma ora, grazie a Dio, vedendo che i nostri cari stanno bene, si risveglia in me la compassione per le povere creature costrette a campare così stentatamente qui sulla nave, in continuo pericolo di morte. Vorrei
proprio portare a terra un paio di capi di bestiame. — Ehi! non potremmo costruire una zattera e traghettare subito le bestie tutte insieme? — Ma pensa un po', anche senza parlare delle difficoltà della costruzione, pensa dunque, come potremmo mai portare la mucca, l'asina e la scrofa gravida, sempre pronta a mordere, su un galleggiante simile, e tenerle buone durante la traversata? — Allora possiamo semplicemente gettare la scrofa in mare. Col suo pancione nuoterà magnificamente e potremo tirarcela dietro con un cavo. — Questo è un rimedio addirittura eroico che, del resto, andrebbe bene solo per la scrofa. Ma io preferisco di gran lunga le capre e le pecore. — Bene, allora possiamo mettere il salvagente al bestiame minuto; nuoteranno come pesci e ci faranno pure divertire. — Oh, mio caro Fritz! Questo tuo buffo consiglio mi ha dato un'idea! Benissimo! Benissimo! Su, proviamo! Ci precipitammo sul ponte. Con prontezza allacciammo a un vispo agnello un giubbetto di sughero e buttammo in mare la bestiola. Pieno di timore, speranza e curiosità seguii con lo sguardo la povera creatura. L'acqua la sommerse rumorosamente e sembrò dapprima che volesse ingoiarla; ma poi la bestiola spaventata riemerse, sbruffando e dibattendosi pietosamente; nuotava che era un piacere e continuò a nuotare ancora, finché esausta lasciò penzolare le zampe, perdendosi d'animo, e non oppose più alcuna resistenza all'acqua. Saltai dalla gioia. — Ora sono nostri! Sono nostri! — esclamai ripetutamente. — Anche per il bestiame grosso troverò una soluzione! Purché ora ricuperiamo l'agnello! Fritz comprese bene che non potevamo lasciare l'animale in acqua, nell'attesa che avessimo equipaggiato gli altri ed era già pronto a tuffarsi per riprenderlo. Gli allacciai il giubbetto di sughero e lo feci saltare in mare. Egli aveva preso con sé un laccio e lo lanciò sulla testa dell'agnello che trasse poi a sé, nuotando verso l'apertura della nave spaccata, dove portammo all'asciutto la bestiola, ponendo fine alla sua paura. Allora raccolsi, cercandoli qua e là, quattro barili d'acqua, li vuotai
e li tappai di nuovo. Quindi li legai insieme a due a due, ad una certa distanza l'uno dall'altro e vi inchiodai, nel senso della loro lunghezza, della robusta tela di vela, stendendola tra l'uno e l'altro barile. La tela era destinata a passare sotto il corpo dell'asino e della mucca, in modo che i due barili stessero loro ai fianchi come due corbe. Quando entrambi gli animali furono pronti, i barili vennero fissati loro sul dorso, ogni spazio intermedio fu riempito di paglia, affinché nessuna pressione danneggiasse il corpo dell'animale e finalmente assicurai tutto l'apparecchio con una cinghia attraverso il petto in modo che non scivolasse indietro sulle zampe posteriori. Così in un'ora e mezzo mucca e asino furono attrezzati e pronti per il nuoto e si passò al bestiame minuto. Con la scrofa dovemmo tribolare molto e solo dopo averle legato il grugno con cui tentava di mordere potemmo allacciarle un salvagente sotto la pancia. Le capre e le pecore furono meno ricalcitranti e così alla fine riunimmo insieme tutto il gregge sotto coperta, pronto per il viaggio. Ora a ogni capo di bestiame fu legata anche una corda attorno alle corna o attorno al corpo; all'altra estremità della corda fu fissato un pezzo di legno, da potersi afferrare nell'acqua per rimorchiare in tal modo l'animale. Poi cominciammo a spaccare la fiancata della nave, nel punto in cui stavano le bestie, finché non ottenemmo un'apertura, per poterle lanciare in acqua. Per fortuna vento e marosi ci avevano preparato il lavoro, sicché in breve tempo potemmo staccare una quantità di traverse e di tavole. Alla fine il varco fu pronto secondo il nostro desiderio e fu fatto un primo tentativo con l'asino. Lo portammo proprio sull'orlo, collocandolo di fianco e con un energico spintone lo gettammo in mare. Cadde violentemente nell'acqua che lo sommerse subito, tanto da strapparci un vero e proprio applauso. Poi fu il turno della mucca e poiché per me essa era infinitamente più preziosa dell'asino, ero anche più preoccupato del risultato del mio apparecchio nautico. Non meno felicemente dell'asino che l'aveva preceduta, la mucca si resse a galla mediante i barili vuoti e nuotò tranquilla, sulla superficie del mare, con tutta la flemma della sua razza. Un po' alla volta gettammo poi in acqua anche il bestiame minuto e tutti stavano nelle vicinanze della nave, nuotando pacificamente.
Solo la scrofa si infuriò terribilmente e remigava con le zampe qua e là, con tanta energia che andò a finire molto lontano dagli altri, ma per fortuna proprio in direzione della terra. A questo punto non indugiammo più nemmeno un momento, indossammo i nostri giubbetti di sughero e saltammo nel katamarang. Presto uscimmo dalla stiva del relitto in mare aperto, giusto in mezzo allo strano gregge nuotante. A poco a poco, per mezzo dei pezzi di legno, tutte le corde furono ripescate, il bestiame tirato verso di noi e assicurato saldamente all'orlo dell'imbarcazione, finché tutti gli animali furono raccolti e così, con la vela spiegata e gonfia per il vento favorevole, fummo sospinti verso la riva. Sedemmo soddisfatti nei nostri barili e consumammo una specie di pranzo. Fritz scherzava col suo scimmiottino e io, con un po' del mio cuore sempre vicino ai miei cari, guardavo col cannocchiale, cercandoli, giacché stando sulla nave avevo notato che dovevano essere partiti per qualche escursione e invano avevo tentato, da allora, di rintracciarli. Poiché il vento ci portava direttamente verso la baia, manovrai con prudenza attraverso l'imboccatura, feci ammainare la vela e dopo alcune virate diressi l'imbarcazione verso un punto in cui il bestiame potesse toccare il fondo e reggersi sulle zampe. Poi lasciai libere le corde, il bestiame arrivò a terra da sé e dopo qualche momento il nostro piccolo veliero fu ormeggiato nel suo vecchio approdo. Però non mi sentivo tranquillo non vedendo spuntare subito la mia gente, perché già calava la sera e non sapevo dove cercarli. Eravamo appena scesi sulla spiaggia e ci accingevamo a liberare gli animali dalla loro attrezzatura nautica, che alte grida festose ci giunsero agli orecchi. Saltando e ballando i ragazzi ci vennero incontro; subito dopo apparve anche la madre, sana e lieta. Quando il primo trambusto di gioia si fu acquietato, cominciai a raccontare da cima a fondo, sdraiato sull'erba, le nostre avventure. La mamma era meravigliata che la traversata del bestiame fosse riuscita così bene. — Mi ero tanto scervellata, — diceva, — sul modo di portare le bestie qui a terra, eppure non mi veniva in mente proprio nulla. — Certo, — intervenne Fritz, — stavolta il sottoscritto consigliere
ha messo in opera la sua bravura. — Questo è vero, — ammisi, — spetta a lui il merito di avermi messo sulla buona strada. — Dobbiamo essere grati a entrambi, — rispose la madre, — perché avete messo in salvo quanto di meglio si potesse sperare nella nostra condizione. — Macchè, — osservò il piccolo Franz; — la bandiera là sulla barca è qualcosa di meglio dello stupido bestiame! Guardate come sventola allegra! Ernst e gli altri si lanciarono allora verso la barca e ammirarono l'albero e la vela e la banderuola, facendosi spiegare come fosse stato fatto tutto ciò. Nel frattempo cominciammo a scaricare la roba ed avemmo un gran da fare; a Jack però questo lavoro non garbava e sgattaiolò via; si avvicinò al bestiame, liberò pecore e capre dai giubbetti di sughero, ridendo della bardatura dell'asinello che stava ancora tutto mesto tra i due barili e infine tentò di allargargli un po' le cinghie. Visto però che non ci riusciva, balzò tranquillamente in groppa all'animale, in mezzo ai due barili, ostentando un atteggiamento maestoso, da vero pagliaccio, sull'onesta bestia bigia, che incitava a più non posso, con la voce, le mani e i piedi, a muoversi e a trottare. Fummo costretti a ridere non poco della buffa scena e più di tutti io quando, sollevando il monello dall'asino, lo vidi munito di una cintura di pelle giallastra e pelosa, nella quale erano infilate un paio di pistole corte. — Dove diamine hai preso questa tenuta da contrabbandiere? — chiesi. — Tutta opera mia! — ribatté lui. — E guarda un po' i cani! In quel momento mi accorsi che ognuno degli alani aveva un collare della stessa specie, solo che dal cuoio sporgeva minacciosamente un gran numero di chiodi, che ne faceva una terribile arma di difesa. — Bravo davvero! — osservai, — solo però se hai ideato ed eseguito tutto da te! — Tutto da me! La mamma mi ha aiutato soltanto quando c'era da cucire qualcosa.
— Ma dove avete preso la pelle, — domandai, — e dove tenete filo ed aghi? — La pelle l'ha fornita lo sciacallo di Fritz, — rispose la mamma, — e di filo e aghi una brava donna di casa deve essere sempre provvista. Voi uomini pensate certo alle cose importanti, ma perdete di vista le piccole, che pure ci cavano mille volte dall'imbarazzo. Perciò nel mio sacco magico ho portato tante coserelle che spero possano aiutarci ancora molte volte. Fritz guardava un po' di traverso Jack che aveva profanato il suo sciacallo, tagliuzzandone la pelle per farne cinghie; tuttavia nascondeva quanto più possibile il suo malumore. Jack del resto non si curava affatto di lui, ma si pavoneggiava in giro con la sua cintura, tutto tronfio come un tacchino. Ma poiché i resti dello sciacallo cominciavano a mandare un odore sospetto, ci affrettammo a prenderli e a gettarli in mare, per non esserne più nauseati. Vedendo intanto che non si era ancora fatto alcun preparativo per la cena, ordinai a Fritz di andare a prendere «quelli della Westfalia», che stavano ancora nella mezza botte. Tutti mi guardarono meravigliati, chiedendosi che cosa mai volessi dire, quando Fritz arrivò d'un salto con un magnifico esemplare. — Benvenuto! — gridarono tutti; — un prosciutto, un prosciutto! Ma è splendido! — Oh! — ammonì la mamma, — non vi fate venire l'acquolina in bocca per quel ghiotto boccone: se volete aspettare che sia ben cotto e preparato in modo che possa piacervi, potete star lì seduti sino a domani, senza nulla da mettere sotto i denti. Invece ho qui due dozzine di uova, portate con noi dalla nostra escursione e, se è vero quello che sostiene Ernst, sono uova di tartaruga. Con queste farò presto una frittata, giacché grazie a Dio non ci manca più il burro. — Ma certo che sono uova di tartaruga, — affermò Ernst, — perché sono delle palle bianche, tutte membranose come cartapecora bagnata e le abbiamo trovate nella sabbia, sulla spiaggia. — Bene, allora è sicuro, mio caro Ernst, — dissi; — però, come avete fatto a scoprirle? —- Ecco, il come è strettamente collegato con tutta la storia della
nostra giornata, — rispose mia moglie; — se sarai disposto ad ascoltarmi una buona volta, verrai a sapere tutto. — Bene, mammetta, — risposi, — allora comincia con il cucinare la tua frittata. Mentre mangeremo, ci faremo servire le vostre gesta come ottimo contorno di legumi e ce ne nutriremo da principi. Quanto ai nostri prosciutti, posso assicurarti che sono mangiabilissimi anche crudi, come abbiamo constatato di persona sulla nave; però sono pronto a credere che cotti saranno doppiamente gustosi. Intanto, finché la nostra cena non sarà pronta, andrò a liberare la mucca, l'asino e la scrofa dal loro equipaggiamento nautico, visto che Jack non ne è ancora venuto a capo e spero che i ragazzi mi aiutino. Così dicendo mi alzai; tutti mi seguirono allegri verso la riva e la faccenda fu prontamente sbrigata. Nel frattempo la mamma aveva finito di cuocere la frittata e ci chiamò invitante. Questa volta potemmo servirci comodamente di piatti, cucchiai, forchette e stoviglie varie e pranzammo con raddoppiato piacere, parte in piedi attorno al barile di burro che stava lì accanto, parte seduti a terra. Prosciutto, formaggio e gallette ci fornirono, assieme alle uova, un ottimo pasto e i cani, i polli, le colombe, le pecore e le capre si radunarono tutt'intorno con egoistica curiosità, da vivaci spettatori. Le oche e le anatre, benché stessero nelle immediate vicinanze, non accettarono di far parte della compagnia. Forse si trovavano meglio nel liquido elemento, tanto più che di là c'era una grande quantità di vermi e certi granchiolini di mare che offrivano loro un più ghiotto nutrimento. A me del resto conveniva veder diminuire il numero dei commensali, perché prevedevo che in futuro non avremmo avuto né tempo né mezzi per governare tutti gli animali. Dopo aver cenato feci servire da Fritz una bottiglia di vino delle Canarie, recuperata dalla cantina privata del capitano e finalmente pregai la mamma di raccontarci per filo e per segno tutto quello che aveva fatto durante la nostra assenza.
CAPITOLO II RACCONTA LE ESPLORAZIONI DI UNA MADRE CORAGGIOSA E LA COSTRUZIONE DI UN PONTE E DI UNA CASA PENSILE. — FRITZ SI RIVELA UN EROE. — COME SI FESTEGGIA LA DOMENICA. — LA NATURA OFFRE RICCHI DONI. — PER LA VERITÀ, — cominciò la mamma, — non mi sembri affatto ansioso di starmi a sentire, giacché per tutta la sera non mi hai lasciato aprir bocca. Ma l'acqua, quanto più a lungo si raccoglie, tanto più a lungo scorre: così adesso parlerò finché ne avrò voglia. «Mi ero alzata di buon mattino e, visto che non potevate tornare tanto presto, feci subito il mio piano. Volevo cercarmi un posto in cui stare più comodi, perché qui sulla spiaggia durante il giorno il caldo è quasi insopportabile. Intanto i ragazzi si erano già svegliati e si erano messi subito a scuoiare lo sciacallo di Fritz; con le strisce ricavate dalla pelle confezionavano, non senza una certa abilità, la cintura di Jack e il collare di Turk, che stasera avete ammirato. «Comunicai loro il mio programma e tutti lo approvarono con gioia. Senza indugio si prepararono, verificarono i loro fucili, li caricarono, scelsero dei coltelli da caccia e si sistemarono in spalla la roba da mangiare. A me toccò la fiasca dell'acqua e, invece del coltello da caccia, un'accetta. Perciò presi il fucile leggero di Ernst e gli diedi in cambio un fucile più grosso che poteva essere caricato a palla. Poiché il vostro ritorno si protraeva ancora, ci mettemmo in cammino, così bene equipaggiati e con la scorta dei cani, e ci dirigemmo verso il torrente. «Turk, che era stato con voi durante la prima spedizione, sembrò capire immediatamente che cercavamo di prendere la stessa strada e si attribuì subito le funzioni di guida. Dietro di lui arrivammo presto al punto in cui voi due avevate guadato il torrente e anche noi passammo dall'altra parte felicemente, anche se non senza fatica.
«Dopo aver riempito la borraccia con l'acqua del torrente, riprendemmo il cammino. Non appena avemmo raggiunto l'altura sull'altra sponda, il paesaggio prese un aspetto davvero incantevole, proprio come voi ce l'avevate descritto, e per la prima volta dopo tanto tempo, il mio cuore si riaprì alla speranza. «Ci tenevamo sulla sinistra, verso la spiaggia, per poter proseguire senza intoppi. Trovammo le vostre orme dell'altro ieri e le seguimmo finché giungemmo all'altezza di un boschetto. Allora abbandonammo di nuovo la spiaggia e volgemmo a destra verso il boschetto. Ma presto fummo costretti ad inoltrarci fra l'erba alta, il che era estremamente faticoso e ci stancò parecchio. «Incontrammo un gran numero di uccelli sconosciuti che cantavano allegramente, svolazzandoci davanti. I ragazzi li mangiavano con gli occhi avidamente e già si preparavano a sparare, ma io non lo permisi, tanto più che gli . alberi erano così alti che difficilmente anche un solo colpo avrebbe raggiunto il bersaglio. «Però, che alberi erano quelli! No, non puoi fartene nemmeno un'idea. In vita tua non puoi aver mai visto alberi di tale grandezza! Quello che da lontano ci era sembrato un intero boschetto, visto da vicino era soltanto un gruppo di dieci, quindici alberi; e la cosa più strana era che in alto si stagliavano netti, mentre in basso erano come puntellati saldamente da grandi pilastri: le forti radici, molto estese, avevano per così dire sostenuto fino in alto il tronco, enormemente grosso; questo era profondamente radicato al suolo nel mezzo, ma nella parte inferiore era molto più sottile che in alto, dove le radici si confondevano in esso, rendendolo grosso il doppio. «Toccò a Jack arrampicarsi su uno dei piloni di sostegno per misurare di lassù con una cordicella la circonferenza del tronco: questa risultò di undici metri. Per girare tutt'intorno alle radici, dove esse uscivano dal terreno, dovetti fare quaranta passi. L'altezza dell'albero, dal suolo fino all'inizio dei rami, può essere di ventidue metri circa. Fogliame e rami sono fitti e fanno un'ottima ombra. Le foglie sono pressappoco come quelle dei nostri alberi di noce, ma frutti non ne ho visti. Sotto quei magnifici alberi infine la terra è ricoperta di erba pulita, senza cespugli né spine, così che tutto concorda per farne un luogo di riposo bellissimo e ameno.
«Mi piacque tanto che decisi di mangiare là al fresco. Così ci sistemammo tutti in quella verde dimora silvestre, tirammo fuori le vettovaglie, un ruscelletto ci offrì la sua fresca acqua e ci rifocillammo a sazietà. Intanto ci si avvicinarono anche i due cani, che erano rimasti sulla riva e, con mio stupore, non cercarono affatto i nostri avanzi, ma si sdraiarono placidamente ai nostri piedi a pancia piena, così mi parve, e subito si addormentarono. «In quello splendido posto non mi stancavo di guardarmi attorno e pensavo che se avessimo potuto abitare su uno di quegli alberi dal tronco tanto alto, ci saremmo sentiti straordinariamente al sicuro. Per di più, guardando in lontananza, non riuscii a scoprire tutt'intorno un altro luogo più ridente di quello e così decisi di non cercare oltre, ma di tornare alla tenda; volevo soltanto, se il tempo lo permetteva, ripescare ancora qualcosa del nostro relitto che fosse stato sospinto a riva. «Sulla spiaggia però trovammo poco da mettere in salvo, perché la maggior parte della roba rigettata dal mare era troppo pesante per le nostre forze. Tuttavia trascinammo a riva tutto quello che riuscimmo a trasportare, finché ci sembrò al riparo dalla prossima marea. Durante quest'operazione vidi ciò che i nostri cani avevano mangiato poc'anzi. Mi accorsi infatti che, nei punti più secchi e scogliosi della riva, essi puntavano i granchi marini, che poi tiravano soddisfatti all'asciutto con le zampe, o che acchiappavano con destrezza perfino sott'acqua. Così capimmo dove i nostri mangioni avevano trovato poco prima il loro nutrimento. «Mentre proseguivamo il cammino ed eravamo già in procinto di allontanarci dalla spiaggia, mi accorsi che Bill scavava dalla sabbia qualcosa di rotondo, che subito inghiottiva in fretta. Anche Ernst se ne accorse e disse tutto calmo: "Quelle devono essere uova di tartaruga". «"Oh!" esclamai, "in questo caso mettiamone in salvo il più possibile, giacché le potremo mangiare anche noi". «Certo ci volle del bello e del buono per distogliere il ghiottone dalla gustosa preda. Finalmente riuscimmo a conquistare circa due dozzine di uova ancora intatte e a riporle nelle nostre borse. «Mentre eravamo intenti a quell'occupazione, guardando per caso
verso il mare, scorgemmo con meraviglia una vela che si avvicinava veloce alla costa. Non sapevo proprio a che pensare. Ernst sosteneva che erano il babbo e Fritz, ma il piccolo Franz cominciò ad aver paura che potessero arrivare i selvaggi e che ci divorassero. Nel frattempo, però, si avvalorò la supposizione di Ernst e corremmo svelti verso il torrente, saltando di pietra in pietra; presto arrivammo all'approdo, dove volammo fra le vostre braccia, pieni di gioia. «Ecco, caro marito, il resoconto della nostra spedizione e ora, se vuoi farmi un piacere, andiamocene di qui domani stesso e stabiliamoci fra i miei magnifici alberi.» — Ehi, mammetta! — dissi, — dunque quello che hai escogitato per la nostra futura comodità e sicurezza è tutto qui? Un albero alto ventidue metri, sul quale dovremmo appollaiarci come le galline sul palo, seppure avremo la fortuna di arrivare fin lassù! Se non ci procuriamo un aerostato sarà ben difficile riuscirvi. — Oh, prendimi pure in giro! — ribatté la mamma. — La mia idea non è poi tanto assurda. Almeno di notte saremmo al sicuro dagli sciacalli e da ospiti simili e inoltre mi ricordo bene di aver visto nel nostro paese dei tigli, sui quali si saliva per mezzo di una scala; fra i rami c'era un grazioso chioschetto con un solido tavolato per pavimento. Chi ci impedisce di costruire allo stesso modo una camera là sugli alberi? — Be', vedremo quello che si potrà fare! Nel frattempo avevamo finito il nostro pasto e si era fatto buio, così che decidemmo di andare a riposare. Dopo aver recitato le preghiere, ci coricammo nell'ordine solito al riparo della tenda e dormimmo come marmotte fino a giorno chiaro. — Senti, donnina, — dissi allora a mia moglie quando entrambi ci svegliammo di buon'ora, — ieri sera mi hai proposto un compito difficile sotto ogni aspetto: ora dobbiamo discuterci sopra un po' più attentamente. In fondo mi pare che la Provvidenza ci abbia condotti fin da principio nel punto più adatto di questa costa per garantirci nel miglior modo possibile tanto la sicurezza quanto il sostentamento. Proprio come se tutto il bottino del bastimento naufragato dovesse toccarci di diritto, abbiamo una comoda via per arrivare al relitto e gli scogli qua tutt'intorno ci proteggono tanto bene che dobbiamo
rivolgere tutta la nostra vigilanza soltanto verso il lato del torrente, che del resto permette il passaggio solo in pochissimi punti. Perché quindi per il momento non abbiamo un po' di pazienza e resistiamo, almeno fino a quando saremo in possesso di tutto quello che si può trasportare dal relitto? E perché non destinare il boschetto scelto da te come abitazione e questo posto qui, tra le rocce, come deposito e fortezza? Se con l'andar del tempo faccio saltare con la polvere da sparo in qualche punto la sponda del torrente, nemmeno un gatto potrà passare senza il nostro volere. Prima di tutto però, se vogliamo andarcene con armi e bagagli, dobbiamo pensare a costruire un ponte. — Oh, ma allora ci vorrà un'eternità prima di poter sloggiare da qui! — oppose lei. — Non potremmo invece far fagotto e passare a guado il torrente? L'indispensabile potrebbe essere caricato sul dorso dell'asino e della mucca! — Questo si dovrà certamente farlo in ogni caso, — dissi, — però occorrono subito sacche e bisacce e mentre tu le preparerai, gli altri possono darmi un valido aiuto nella costruzione del ponte. Una volta che l'avremo costruito, ci servirà sempre. Il torrente può anche ingrossare e rendere impossibile il passaggio. Inoltre non mi piace esporre le pecore e le capre al pericolo di morire affogate e perfino i ragazzi e noi stessi non sempre possiamo essere così fortunati come siamo stati finora nel guado del torrente. — Allora bene, in nome di Dio! — esclamò mia moglie, — mi arrendo. Però adesso bisogna lavorare senza interruzione in modo da sbrigarci e poi spero che lascerai qui la polvere da sparo, perché sono continuamente in ansia al pensiero di tutto quell'esplosivo così vicino a noi. — Col tempo la divideremo, — la tranquillizzai, — e la sotterreremo fra le rocce in modo da preservarla dal pericolo del fuoco e dell'umidità. Certamente è il nostro nemico più pericoloso, se non la custodiamo con cautela, ma è anche il nostro amico più utile se sappiamo averne cura. Così l'importante questione del nostro trasferimento fu risolta e immediatamente stabilimmo il lavoro da fare in quel giorno. Svegliammo i ragazzi e li informammo del nostro piano. Lo
trovarono splendido; solo avrebbero fatto a meno volentieri della costruzione del ponte, per poter volare all'istante a capriole verso l'ameno boschetto che cominciavano già a chiamare «la terra promessa». Tutti per il momento stavano a guardare la loro alacre madre che a turno mungeva prima la mucca e poi le capre, facendo assaggiare il latte a destra e a sinistra ai ragazzi, che sorridevano soddisfatti. Il resto fu versato parte in una pentola sul fuoco per preparare una zuppa di gallette e parte nella borraccia, per tenerlo in serbo. Nel frattempo allestii la barca-tinozza per andare al relitto a procurarmi le tavole per il costruendo ponte. Facemmo colazione e subito dopo mi imbarcai con Fritz e con Ernst; per sbrigare più in fretta il mio lavoro, mi sembrò infatti necessario prendere con me doppio aiuto. Ernst era addirittura in estasi che gli fosse stato permesso di partecipare alla traversata e con gioia vedeva la vela gonfiarsi superba e la banderuola svolazzare allegra. Ma stavolta non ci fu affatto bisogno di arrivare fino al relitto. Quando la nostra piccola imbarcazione, sospinta dalla corrente, uscì dalla baia, scorsi un isolotto non molto lontano dalla riva e con piacere vidi là intorno una gran quantità di travi e tavole che il mare vi aveva trasportato a poco a poco e che ci risparmiarono la fatica di andare a cercarne nel relitto. Scelsi quindi quelle che mi sembrarono adatte per la costruzione del ponte, portai a galla, con l'aiuto della leva e di un argano, quelle che stavano in secco e feci una zattera congiungendo le travi; vi caricai poi le tavole e attaccai il tutto alla poppa della nostra imbarcazione così che, quattro ore dopo aver lasciato i nostri cari, eravamo già pronti a tornare da loro e potevamo giustamente vantarci di aver ben concluso tutto. Non passò molto ed ecco che rientravamo felicemente nella piccola baia e ammainavamo la vela, attraccando al solito approdo. Dei nostri non c'era nessuno là intorno, però la loro assenza non ci spaventò come la volta precedente; alzammo invece la voce, gridando in coro un potente «oho! oho!» finché sentimmo echeggiare un sonoro grido di risposta e la mamma comparve con i due piccoli. Venivano dal torrente, la cui sponda li aveva nascosti ai nostri occhi.
Ognuno aveva in mano un fazzoletto gonfio e ricolmo e Franz portava la piccola rete da pesca, fissata a un lungo bastone di legno biforcuto. Quando i miei cari si furono fermati vicino a noi, abbastanza meravigliati del nostro rapido ritorno, Jack non poté più trattenersi e, alzato il suo fazzoletto, lo scrollò, rovesciandoci davanti un gran numero di bellissimi gamberi di fiume. La mamma e il piccolo Franz seguirono il suo esempio e ben presto venne a formarsi un mucchio pullulante e brulicante. Ma i gamberi, cominciando a sentirsi liberi, presero a muoversi a tentoni in ogni direzione e i ragazzi ebbero un bel da fare per trattenere i fuggiaschi. Allora ci fu un saltare, raccattare, rimbrottare e ridere veramente ineguagliabile. — Visto, babbo? — chiese Jack, — ora ne abbiamo di quelli buoni! Ce n'erano a bizzeffe, certo più di mille e ne abbiamo presi almeno duecento. Ma guarda quanti ce ne sono di grossi! E che pinze hanno! — Ma chi è stato l'autore di questa magnifica scoperta? — chiesi. — Tu, immagino. — No, no, — rispose lui, — è stato questo piccolo golosone a fare il colpo maestro. Però, chi è corso subito dalla mamma e glielo ha detto e ha preso la rete con la forca ed è stato con l'acqua fino ai ginocchi e ha ripescato a dozzine questi compari… lo so io chi è stato! E ora vi voglio raccontare come sono andate le cose: mentre la mamma era occupata a cucire, io me ne sono andato verso il torrente con lo scimmiottino di Fritz sulle spalle e con il piccolo Franz per vedere un po' dove si poteva montare il ponte. — Bene, bene! — l'interruppi, — ecco che la tua testolina sventata ha concepito una volta tanto un pensiero serio. Dunque, il giovane signor capomastro è andato a prendere visione e adesso noi, suoi assistenti ed apprendisti, sentiremo quale può essere il posto più adatto. — Già, dammi ascolto — continuò il ragazzo, — ti spiegherò tutto! Andavo dunque sempre verso il torrente, mentre il piccolo Franz raccoglieva pietruzze variopinte e, tutte le volte che ne trovava una più lucente, correva da me gridando: «Questa è splendida! Guarda, oro! Voglio pestarla e farne sabbia da scrittoio!». Infine,
dato che aveva trovato pochissima roba sull'orlo più alto della riva, è sceso giù per il crepaccio fino all'acqua ed è stato allora che mi ha chiamato tutt'a un tratto: «Jack, vieni subito e guarda quanti, quanti gamberi si sono attaccati allo sciacallo di Fritz!». Sono sceso scavalcando la sponda e ho visto con stupore che lo sciacallo era rimasto incagliato in un punto poco fondo ed era coperto da una miriade di magnifici gamberi. Immediatamente sono corso ad annunciarlo alla mamma che ha tirato fuori una rete con la forca che non avevo mai veduto e allora un po' con quell'arnese, un po' con le mani, ne abbiamo acchiappati a volontà e ne avremmo presi ancora di più se non avessimo sentito che ci chiamavate. Però, non è vero che sono terribilmente tanti? — Certo, — risposi, — se anche lasciamo scappar via i più piccoli saranno sempre tanti da farne il più abbondante dei pranzi per tutti noi e così ancora una volta abbiamo scoperto inaspettatamente una dispensa che ci promette cibo per parecchi giorni. Sia ringraziato Iddio che ci fa trovare l'abbondanza dappertutto! Dopo aver sentito anche il resoconto del nostro breve viaggio, la mamma si accinse a cucinare una buona parte dei gamberi; noi intanto eravamo occupati a sciogliere le travi e le tavole traghettate e a trasportarle a riva. Certo dovemmo arrangiarci per portare a termine una faccenda in fondo tanto semplice, giacché mancavamo di finimenti con cui poter attaccare gli animali; però io feci alla svelta quello che fanno i lapponi quando attaccano le loro renne alle slitte. Feci un cappio a un'estremità di una lunga fune e poi lo passai attorno al collo dell'asino, mentre l'altro capo passava tra le zampe dell'animale, indietro, per venire strettamente legato al legname da trasportare. La mucca fu costretta a farsi aggiogare alla stessa maniera e così, pezzo per pezzo, portammo la nostra zattera fino al torrente, nel punto che il piccolo capomastro durante il suo sopralluogo aveva scelto per gettarvi il ponte e che anche a me, dopo attenta osservazione, sembrò il migliore. In quel punto infatti le due sponde del torrente erano abbastanza erte, salde, compatte e di uguale altezza. Inoltre dalla nostra parte c'era anche il troncone di un vecchio albero, a cui potevo appoggiare le travi maestre, mentre dall'altra parte un paio di alberi robusti mi facevano sperare in un
punto d'appoggio altrettanto valido. L'unica difficoltà stava nel trovare il modo di far giungere oltre il torrente le travi grosse e pesanti, che dovevano avere almeno otto metri di lunghezza; un problema da tenerci occupati durante l'imminente pasto, che era già stato ritardato di un'ora. Ci recammo dunque tutti insieme alla cucina da campo, dove la mamma aveva fatto cuocere gamberi in quantità e ci aspettava. Innanzi tutto però mi mostrò i lavori di cucito con i quali aveva occupato l'intera mattinata e mi meravigliò molto con due bisacce per l'asino, di tela da vela faticosamente cucita insieme con lo spago. Infatti, non avendo aghi grossi e forti, era stata costretta a preparare con un chiodo volta per volta i fori per la sua modesta opera di artigianato; solo con rara pazienza e perseveranza aveva dunque potuto compiere il suo lavoro, il che le procurò anche una lode triplicata, che veniva proprio dal cuore. Stavolta il pranzo procedette rapidamente; parlammo del lavoro che ci aspettava e ci eravamo appena rifocillati che subito saltammo in piedi e andammo di buona lena a costruire un ponte a regola d'arte. La prima cosa che feci fu la seguente: appoggiai una trave alla parte posteriore del troncone d'albero, parallela alla riva; la fissai al troncone a circa cinque piedi da una delle estremità, in modo che potesse ruotare facilmente attorno ad esso e che la sua parte più corta potesse eventualmente fare da contrappeso alla parte più lunga, quando quest'ultima avesse toccato l'altra sponda. Quindi fissai all'altra estremità della trave una fune di adeguata lunghezza, un capo della quale, legato ad una pietra, fu lanciato oltre il torrente. Visto che non c'era alcuna possibilità di far passare l'asino o la mucca di là dal torrente, presi un bozzello e un'altra corda, li portai sull'altra sponda, saltando di pietra in pietra, fissai il bozzello a un albero, vi feci passare la fune che avevo gettato prima e tornai, tenendo in mano l'altro capo, sulla nostra sponda. Ora tutto era più facile. La mucca e l'asino furono attaccati a questo capo della fune ed energicamente incitati. La trave cominciò a girare pian piano attorno al troncone e si mantenne ben salda, mentre la sua estremità più lunga e più pesante cominciava già a librarsi sul torrente. Presto la trave toccò la sponda opposta e là rimase
immobilizzata dal suo stesso peso. A questo punto Jack e Fritz saltarono sulla trave e audacemente, ma con straordinaria agilità, passarono dall'altra parte. Posta la prima trave, la difficoltà della nostra impresa diminuì molto. Una seconda e una terza trave furono trasportate in modo che, mentre un'estremità di esse rimaneva posata sulla nostra sponda, l'altra, appoggiata sulla trave già fissata, scivolava fino alla sponda opposta; dopo di che le travi furono collocate alla debita distanza, parallelamente alla prima. Presto non ci rimase null'altro da fare che stendere tavole e assi trasversalmente sulle travi di sostegno; la faccenda fu sbrigata in un baleno ed il ponte fu là, pronto davanti ai nostri occhi. Con sfrenata allegria i ragazzi si misero a ballarvi sopra e a momenti anch'io avrei fatto un paio di salti dalla gioia. Il ponte era largo circa tre metri ed era riuscito abbastanza bene; però non volli fissare le tavole trasversali, anzi mi sembrò prudente lasciarle mobili, in modo che si potessero togliere a volontà per rendere più difficile il passaggio del ponte. Il lavoro ci aveva spossato non poco e quando scese la sera eravamo così stanchi da non desiderare altro che cibo e riposo. Il mattino seguente i ragazzi ricevettero l'ordine di raccogliere il gregge e di approntare l'asino e la mucca per il carico. Entrambi dovettero addossarsi il peso delle bisacce preparate dalla mia brava moglie ed entrambi lo sopportarono pazientemente. Le bisacce consistevano in una lunga striscia di tela poggiata sul dorso degli animali, notevolmente rimboccata alle due estremità e ben ricucita ai lati con lo spago. Cominciammo subito a imballare tutto ciò che poteva esserci necessario nei prossimi giorni: vettovaglie, attrezzi, utensili da cucina, funi e altri oggetti. Non furono dimenticate la provvista di bottiglie del capitano e una piccola riserva di burro. Stavo per gettare sui sacchi le nostre coperte e le amache, per completare il carico, quando la mamma si avvicinò svelta e frenò di colpo il mio zelo. — I polli! — mi disse. — Non possiamo assolutamente lasciarli soli questa notte, altrimenti è finita per loro. E poi avevo anche pensato di mettere a sedere Franz sull'asino, poiché mi ricordo fin
troppo bene quanto mi ha impicciato nel camminare; e poi devo portare con me anche il mio sacco magico, perché chissà che non debba servirci anche presto! — Oh, — esclamai, — ma quante cose ci sono da caricare! Vedremo se sarà possibile esaudire i tuoi desideri; però, tanto meno roba ci portiamo appresso stavolta, tanto più presto torneremo qui. Per fortuna avevo risparmiato un po' l'asino nel carico e previsto già la possibilità di mettergli in groppa durante il viaggio il più piccolo dei ragazzi. A Franz fu dunque fatta una specie di spalliera con il sacco magico e in un momento era già in sella fra i tre sacchi, così ben sistemato che in caso di bisogno avrebbe potuto anche galoppare, tanto più che per evitare ogni pericolo l'avevo legato bene. Intanto i ragazzi rincorrevano polli e colombi, senza riuscire ad acchiapparne nemmeno uno. I volatili si erano sparpagliati in tutte le direzioni e i ragazzi tornarono indispettiti a mani vuote. — Su, lasciate andare! — disse la mamma. — Li prenderemo lo stesso. — Già, — osservarono loro, — sarà proprio qualcosa di ingegnoso. Vogliamo pur vederlo! — Lo vedrete subito qui sul posto, — replicò mia moglie, — e imparerete che chi sa adoperare il cervello arriva spesso più lontano di chi corre o si precipita, affidandosi ciecamente alla propria forza e sveltezza. Così dicendo cominciò a chiamare con voce gentile polli e colombi e a spargere intorno un po' di ceci e di chicchi di avena, che prima aveva preso dal suo sacco magico. Presto i volatili si avvicinarono. La mamma gettò il resto del mangime nella tenda aperta, i pennuti zampettarono un po' alla volta là dentro e quando tutti insieme furono sul più bello del loro becchettare, lei si avvicinò di soppiatto e chiuse repentinamente i lembi della tenda, così che tutti quei mangioni furono felicemente catturati. — Ebbene, — esclamò rivolta ai ragazzi, — miei sapientissimi signori, ho mantenuto la parola? Avete finito di scrollare le spalle? Jack dovette infilarsi subito nella tenda, come la volpe nel pollaio e porgerci uno dopo l'altro i prigionieri, dopo di che legammo loro le zampe e li ammucchiammo sul carico della mucca, come meglio si
poteva fare nella fretta. Al di; sopra dei volatili vennero posti due mezzi cerchi di botte, su cui appoggiammo un paio di coperte, affinché il buio tenesse buoni gli animali e così anche questa faccenda fu sbrigata con successo. Tutto ciò che dovevamo lasciare sul luogo del nostro primo approdo e che poteva essere rovinato dal sole o da un'eventuale pioggia, fu trasportato nella tenda, il cui ingresso fu imbastito e strettamente legato ai paletti fissati in terra. Per ulteriore salvaguardia collocammo i barili, pieni e vuoti, intorno alla tenda come baluardo ed affidammo poi il tutto tranquillamente alla protezione della natura e alla custodia del cielo benigno. Finalmente iniziammo il nostro passaggio, tutti quanti armati di fucili e di pistole, grandi e piccoli, giovani e vecchi, ognuno con la propria sacca sulla schiena, allegri e di buon animo. Fritz e la mamma aprivano la marcia; la mucca e l'asino cavalcato da Franz li seguivano; le capre guidate da Jack formavano la terza linea; lo scimmiottino sedeva con aria buffa in groppa a una capra; dietro di loro veniva Ernst come guida delle pecore e dietro le pecore, vigile retroguardia, io stesso. Sui fianchi trottavano, agili aiutanti di campo, i due cani. L'intero corteo avanzava lentamente e pensavo che dovesse avere più o meno l'aspetto della carovana del patriarca Abramo o di quella di Giacobbe, che con famiglia e greggi emigravano di terra in terra. Attraversammo felicemente il ponte e solo allora anche la scrofa fece onore al nostro imponente corteo. Fino a quel momento si era comportata in modo così riottoso che non eravamo stati capaci di condurla via con l'altro bestiame, ma ora, vedendoci partire tutti insieme, si uni volontariamente al gregge, pur manifestando chiaramente la sua disapprovazione con grugniti. Frattanto però cominciava un altro guaio. L'erba rigogliosa sull'altra riva del torrente allettò talmente le nostre bestie, che si precipitarono tutte a brucare, staccandosi dal gruppo a destra e a sinistra. Non saremmo mai riusciti a riportare in ordine quel goloso branco se i nostri cani non avessero fatto del loro meglio e non avessero riportato tutti al loro posto, con balzi e latrati paurosi. Per non ripetere una seconda volta la stessa storia, ordinai di voltare a sinistra, verso la spiaggia, perché sapevo che là non c'era
erba che ci potesse far perdere tempo. Fritz ci precedeva sempre col fucile già pronto, sperando di procurarsi della selvaggina. Noialtri lo seguivamo con comodo e senza incidenti arrivammo in breve tempo al nuovo domicilio. — Perbacco, che alberi! — esclamò Ernst, — terribili, enormi! — Effettivamente, — ammisi, — non avevo idea di niente di simile. Faccio onorevole ammenda, cara moglie, sarà piacevole abitare qua! Se riusciamo a salire su un albero e a stabilirci lassù saremo davvero sicuri dalle belve, come meglio non si potrebbe desiderare, perché nemmeno l'orso, che di solito è un buon arrampicatore, riuscirà mai ad inerpicarsi su questi tronchi enormi e privi di rami. Allora tutto venne scaricato; a tutti gli animali, tranne la scrofa, furono legate le zampe anteriori con delle funi, affinché non si smarrissero, allontanandosi; lasciammo invece polli e colombi in libertà. Poi ci sedemmo soddisfatti sull'erba, tenendo consiglio sul modo in cui ci saremmo sistemati. Ero in pensiero specialmente per la notte, a causa delle bestie feroci, alle quali eravamo esposti, così, sulla nuda terra e senza alcun riparo in tutta la zona circostante. Si doveva tentare qualcosa per arrivare su in alto, pensavo, e mentre cominciavo a discuterne con la mamma, Fritz sgattaiolò via di nuovo; un attimo dopo echeggiò uno sparo, seguito subito da un altro, proprio dietro le nostre spalle. — Colpito, colpito! — gridò il giovane cacciatore e con un balzo ci raggiunse giubilante: — Papà, papà, che meraviglioso gattopardo! Alzò orgogliosamente in aria la preda, tenendola per le zampe posteriori e mostrandola da tutti i lati. — Bravo, bravo, signor capocaccia! — dissi. — Hai davvero reso alle colombe e ai polli un servizio cavalleresco. Stanotte stessa questo amicone ci avrebbe risparmiato per sempre gli arrosti di pollo e di colombo. Bada bene che da queste parti non si aggirino ancora simili pirati. Sarebbe un brutto affare se una tale genia si fosse annidata qui. Dovremmo sterminarla col ferro e col fuoco. Ora devi però raccontarci come l'hai abbattuto. — Ecco, l'ho ucciso con la pistola, — rispose Fritz. — Ma non era sull'albero, per caso?
— Questo veramente no, — ribatté il ragazzo; — avevo notato che là, in mezzo agli alberi, qualcosa si moveva; quindi mi sono alzato, mi sono avvicinato di soppiatto, ho riconosciuto il gattopardo, ho sparato col fucile e ho visto cadere la bestia ai miei piedi. Ma in un baleno eccola balzare di nuovo in piedi, benché ferita, e tentare di arrampicarsi nuovamente sul tronco dell'albero. Allora le ho dato il colpo di grazia con la pistola ed è caduta per la seconda volta e per sempre. — In verità puoi dirti fortunato che non ti sia saltata addosso inferocita, — osservai; — belve simili, quando sono ferite, non scherzano. — Già, babbo, — replicò Fritz, — ora però vorrei pregarti di non farmi rovinare da Jack questa bella pelle, come ha fatto con lo sciacallo. Guarda un po' come spiccano bene le macchie e le strisce brune sul fondo giallo dorato! Ma veramente, che genere di gatto sarà questo? — Per il momento puoi rimanere al nome che gli hai dato e chiamarlo gattopardo, — risposi, — benché non mi sembri precisamente della specie che al Capo di Buona Speranza viene designata con questo nome. Piuttosto potrebbe essere il margay, che vive di solito nell'America meridionale: un gatto selvatico straordinariamente feroce, molto temuto dai volatili e da ogni altro essere indifeso, così che, in nome delle pecore e delle capre, io devo ringraziarti per l'eliminazione di un così terribile nemico. — Però è vero, carissimo paparino, — pregò Fritz, — che posso conservare per me la pelle? Se soltanto sapessi che cosa ricavarne di veramente utile! — Se vorrai scuoiarlo tu stesso, — gli dissi, -— e se nel farlo baderai a lasciare intatta la pelle delle cosce, ti suggerirò qualcosa che potrebbe essere abbastanza utile, anche se in fondo non proprio indispensabile. Per ora non abbiamo bisogno di nessuna pelle per vestirci, dato che abbiamo la tela da vela; invece una cintura è sempre utile e qui puoi trasformare la coda nella più splendida delle cinture. Le quattro zampe sono adattissime per farne guaine per appendere in cintura coltelli, cucchiai, forchette. Infine non sarebbe affatto male tagliare la pelle che avanza in quattro pezzi ed
adoperarla come eleganti foderi per le guaine. Fritz e Jack non mi diedero pace, finché non mi alzai, inchiodai le zampe posteriori della preda a un'alta radice e diedi loro istruzioni sul modo di staccare la pelle senza lacerarla. I piccoli cacciatori si misero al lavoro con entusiasmo; Ernst fu mandato frattanto in cerca di grosse pietre per il focolare, mentre il piccolo Franz raccoglieva rami secchi, affinché la mamma potesse preparare il pranzo. Presto Ernst fu così fortunato da portare a termine il proprio compito e ci mettemmo alacremente al lavoro per sistemare, sotto la direzione della mamma che ci spiegava le esigenze della sua cucina, le pietre che il ragazzo ci aveva portato. Mentre eravamo all'opera, tornò finalmente anche il Piccolino con le braccia piene di legna minuta e le guance gonfie: mangiava rumorosamente con gran gusto e gridava alla mamma in modo quasi incomprensibile: — Com'è buono! Proprio buonissimo! — Ehi tu, golosaccio! — gli gridò mia moglie spaventata, — che cosa mi combini? Per l'amor di Dio non inghiottire tutto quello che ti piace! Potresti anche avvelenarti! Sputa fuori ciò che hai ancora in bocca e non ingoiarne nemmeno una briciola! Così dicendo, si slanciò ansiosa sul ragazzino, gli ficcò le dita in bocca e non senza fatica ne trasse fuori l'avanzo di un piccolo fico. — Da dove l'hai preso? — chiesi io. — Ringraziamo Iddio che la nostra paura è stata infondata! Non credo che esistano fichi velenosi. — Là sull'erba, — raccontò il piccolo Franz, — ce ne sono a migliaia ed ho pensato che siccome sono buoni non possono essere velenosi; poi i colombi e i polli e la scrofa là dietro ne mangiano a crepapelle e allora ho detto: neanche a me faranno male! — Così ora sappiamo, moglie, — dissi, — che i nostri imponenti alberi sono fichi, è meraviglioso! Però in quest'occasione debbo ammonirvi seriamente, figlioli; d'ora in poi non mangiate alcuna specie di frutti che io non abbia prima visto e dichiarato innocua. E in particolare non lasciatevi per esempio tentare puerilmente dal sapore gradevole, e non credete innocuo e salutare tutto ciò che vi piace, come ha fatto Franz. Comunque, quando non avete la possibilità di interrogarmi, vi può servire almeno la regola che si segue di solito nei paesi stranieri: cioè che si possono mangiare senza
pericolo soltanto quei frutti di cui si nutrono gli uccelli o in ogni caso le scimmie. — Però qua ci sono le noci di cocco, — obiettò Ernst, — che a noi piacciono moltissimo, eppure nessun uccello le mangia. — Ehi, anche la gatta furba si è lasciata scappare un topo! — ribattei ridendo. — Se le noci di cocco non fossero così pesanti, grosse e dure troverebbero amatori anche fra gli uccelli. Del resto non voglio affatto sostenere che non ci siano anche dei frutti magari innocui all'uomo, ma velenosi per alcune specie di uccelli; ad esempio, si dice che le mandorle amare siano micidiali per i polli e i pappagalli. Tuttavia questo caso pare sia molto raro e in generale dubito che allo stato di natura un uccello mangi un frutto nocivo, ragion per cui la mia regola, tanto per cominciare, ci potrà servire con sufficiente sicurezza. Solo che farei più attenzione agli uccelli di questo paese anziché ai polli e ai colombi che abbiamo portato con noi, poiché in questi ultimi l'istinto naturale è già piuttosto soffocato dall'allevamento. Ma qui, dal nostro scimmiottino, possiamo aspettarci il meglio. A questa dichiarazione i ragazzi saltarono tutti insieme attorno a Franz, cercando premurosamente se nella sua tasca ci fossero ancora fichi; se li fecero dare, con preghiere e lusinghe varie, e poi li portarono trionfalmente allo scimmiottino che, accoccolato sulla radice di un albero, aveva assistito digrignando i denti al disgustoso spettacolo dello scorticamento. I fichi furono offerti per l'assaggio al buffoncello che li afferrò svelto svelto, li annusò da tutte le parti e poi si cacciò in bocca tranquillamente la dolce sorpresa, facendo le più comiche smorfie, mentre i ragazzi cominciavano ad applaudire il piccolo pagliaccio e a gridargli «bravo!». Intanto la mamma aveva acceso il fuoco sul focolare già pronto, vi aveva posto sopra il paiolo con l'acqua e cominciava diligentemente a preparare il pranzo, mentre io davo una mano nel loro lavoro ai ragazzi inesperti. Il gatto selvatico fu scuoiato del tutto e le sue carni furono gettate ai cani, che vi si precipitarono affamati. Mentre aspettavamo il pranzo ordinai ai ragazzi di provare a lanciare pietre e bastoni verso i rami inferiori dell'albero più bello e
più alto, che avevo prescelto come futura abitazione. Anzi, alla fine, provai io stesso; ma, poiché non avevamo mai fatto un tal genere di esercizi e siccome anche i rami più bassi erano sempre a una considerevole altezza, non riuscimmo a colpirne nemmeno uno. Dovevo escogitare qualcos'altro, giacché era importante per me trovare un mezzo per far arrivare una scala di corda fino a uno dei rami. Non curandomi dello scarso successo di quel primo tentativo, andai con Fritz ad immergere nel vicino ruscello la pelle dell'animale, che coprimmo di sassi; poi la mamma ci chiamò per mangiare e ci presentammo di corsa per consumare con gran gusto il semplice pasto. Quando ci fummo saziati, dissi a mia moglie: — Provvisoriamente dovremo sistemare per terra il nostro alloggio notturno, perché non vedo proprio come potremo riuscire a salire oggi stesso sull'albero. Intanto prepara subito tirelle e robusti pettorali, affinché la mucca e l'asino possano trascinare fin qui tavole e assi e così, una volta che avrò trovato il modo di giungere felicemente lassù, potremo costruirci un'abitazione sull'albero. Scuotendo la testa, la brava donna si accinse a tagliare e a cucire e io a fissare le nostre amache in modo da avere, in ogni modo, un letto per la notte. Fu facile attaccare alle alte ricurve radici dell'albero i nostri giacigli aerei in intima vicinanza; in tal modo potei coprirli tutti insieme con un grande telone disteso sopra di essi, per avere un tetto ed evitare la pericolosa rugiada notturna. Presa questa precauzione, andai in fretta con Fritz ed Ernst alla riva, per esaminare il legname che il mare vi aveva trasportato e cercare innanzi tutto qualcosa di adatto a farne dei solidi pioli per una scala di corda. Sulla riva c'era veramente legname a iosa, che tuttavia avrebbe richiesto una lunga e noiosa preparazione per farne quello che desideravo e la mia faccenda si sarebbe arenata se, con mia grande gioia, Ernst non mi avesse mostrato per combinazione un buon numero di canne di bambù, ricoperte da un denso strato di sabbia e fango. In un attimo fui sul posto, le trassi fuori del tutto, cominciai a ripulirle con l'aiuto dei ragazzi liberandole dai residui delle foglie
mezzo marcite, le saggiai e le trovai così salde e resistenti da corrispondere perfettamente al mio scopo. Cominciai allora a tagliare con un'accetta le canne in bastoni della lunghezza di un metro o un metro e mezzo circa e li feci legare dai ragazzi in tre fasci di adeguata grossezza, affinché ognuno potesse portare il proprio fascio sino al nostro bivacco. Subito dopo cercai un po' di canne più sottili, con le quali volevo fabbricare delle frecce, perché pensavo di usarle come mezzo per raggiungere il poderoso albero. Ad una certa distanza scorsi ben presto un verde canneto che pareva fatto apposta per i miei desideri e che tuttavia doveva essere esaminato più attentamente. Secondo la nostra abitudine eravamo tutti armati di fucile e poiché per caso anche Bill era venuta pian piano con noi verso la riva, marciammo difilato verso l'intrico di canne come se si trattasse di una spedizione punitiva. Ma ci eravamo appena avvicinati ad esso, che Bill vi si precipitò dentro come una furia, facendo alzare un branco di bellissimi fenicotteri rosa che si levarono subito in aria con un frullo d'ali repentino. Fritz, sempre pronto a sparare, prese rapido la mira, sparò dietro al fitto stormo e riuscì ad abbattere due dei fuggiaschi. Il primo giacque morto nel canneto, l'altro invece, ferito solo leggermente ad un'ala, si rialzò presto e scappò via con tutta la forza delle sue lunghe zampe, come su trampoli, attraverso la palude e le canne. Ma Bill fu ancora più rapida: con impeto si aprì un varco tra palude e canne e afferrò in tempo il fenicottero per l'ala, finché io li raggiunsi e potei finalmente aver ragione dell'uccello, che con l'altra ala si dibatteva con tutte le sue forze. Lo presi sotto il braccio e tornai dai ragazzi. La loro gioia fu grandissima quando videro che il fenicottero era ancora vivo, perché speravano di poterlo addomesticare. Nel frattempo cominciai a scegliermi delle canne che avevano già cessato la fioritura, perché sapevo che i popoli primitivi delle Antille ricavavano le loro frecce soprattutto dalla punta di tali canne. Recisi pure alla base due delle canne più alte, lasciandole lunghe quant'erano per misurare possibilmente col loro aiuto l'altezza del nostro albero, giacché ero davvero curioso di sapere a quanto
arrivasse. I ragazzi però mi presero in giro, dicendo che se anche avessi legato una all'altra dieci di quelle misere canne, sarei giunto appena ai rami inferiori. Li pregai allora di avere un po' di pazienza e ricordai loro l'astuzia della mamma nella cattura dei polli e dei colombi e come in quell'occasione i motteggiatori avessero avuto la peggio. Carichi del bottino, tornammo rapidamente dai nostri, accolti affettuosamente con curiosità e interesse. La vista dello splendido fenicottero rallegrò tutti più di ogni altra cosa, soltanto la mamma domandò dove avremmo preso il mangime per tutte le bestie che portavamo a casa: tuttavia questo problema non mi trattenne dall'esaminare con più cura la ferita del povero animale. Mi accorsi che il colpo gli aveva fracassato l'estremità di un'ala e che anche l'altra era stata stritolata dai denti di Bill: nonostante le mie scarse nozioni di medicina pensai che il mezzo migliore e più rapido fosse quello di mozzare del tutto le due punte con un grosso paio di forbici. Vedendo che le ferite sanguinavano copiosamente, presi dal focolare un carbone ardente e bruciai le due estremità delle ali, così che il sangue ristagnò di colpo; poi la parte ferita fu cosparsa di burro, l'uccello fu legato con un lungo spago per la zampa ad un palo vicino al ruscello e per il momento rimase affidato al suo destino. Intanto avevo cercato di valutare l'altezza dell'albero destinato ad abitazione e dopo esatto ed accurato calcolo ritenni che dovesse essere alto circa dodici metri. Ora si trattava di vedere se tra le nostre riserve avevamo venticinque metri di solida fune, in modo da poter fabbricare una scala di corda per salire sull'albero. Ordinai a Fritz e ad Ernst di misurare la corda che avevamo, intanto mi sedetti sull'erba e cominciai in tutta fretta a costruire un arco con un pezzo di bambù e una mezza dozzina di frecce con le punte delle canne che avevamo portato con noi. Lasciai queste ultime mozze sul davanti e le riempii di sabbia umida, perché non fossero troppo leggere; di dietro le munii di penne di fenicottero, perché potessero volare ben dritte; portai così a termine felicemente la mia opera. Avevo appena finito che i miei ragazzi mi saltarono addosso, circondandomi e gridando tutti allegri: — Un arco! Un arco!
Perdinci! Ed anche le frecce! Che cosa vuoi farne? Oh, lasciami tirare! Anche a me! Anche a me! — Calma, ragazzi, calma! — dissi. — Stavolta pretendo la precedenza, perché ho fabbricato lo strumento non precisamente per giocare, ma per servirmene e per usarlo subito. Moglie, se hai un filo grosso e forte, tiralo fuori! — Vediamo, vediamo, — rispose lei, — di che cosa è capace il mio sacco magico. Dunque, mio caro sacco, consegna ciò che custodisci! Mio marito vuole del filo e lo vuole forte e saldo. Ehi! guarda un po'! Ecco che un intero gomitolo, proprio di quello che tu desideravi, mi è cascato fra le mani! — Uh, che grande magia, — rise Ernst, — tirar fuori da un sacco quello che ci si mette prima! — Veramente non ci vuole un'arte particolare, — ribatté sua madre; — ma pensarci a tempo giusto e metter dentro ciò che può servirci in caso di bisogno, questa si che è una mezza magia perché, anche se una cosa accade in modo del tutto naturale, per certa gente balorda o sventata è quasi un miracolo vedere più in là del proprio naso. Ci sono infatti dei selvaggi che la mattina vendono il letto perché non pensano affatto che la sera possano servirsene di nuovo. In quel momento tornò Fritz che aveva finito di misurare la fune e mi portava la buona notizia che ce n'erano circa cinquanta metri. Legai allora il filo che mi aveva dato la mamma ad una freccia, ne svolsi una certa quantità dal gomitolo, adattai la freccia all'arco e la scoccai in alto a casaccio, finché dopo alcuni tentativi potei farla passare al di sopra di un forte ramo dell'albero prescelto; la freccia cadde giù dall'altro lato, mentre il filo pendeva dall'alto, davanti ai nostri occhi. Immediatamente fu passato sul ramo un pezzo di corda, perché il filo mi pareva troppo debole per reggere una scala di corda. Misurammo poi la lunghezza del filo e trovammo esattamente i dodici metri che avevo calcolato prima. A questo punto cominciammo a costruire la scala con più sicurezza ed entusiasmo. Dapprima tagliai circa trenta metri della corda, grossa circa un pollice e la divisi in due parti uguali; subito dopo distesi a terra le due metà l'una accanto all'altra nel senso della lunghezza, lasciando uno spazio intermedio di mezzo metro. Feci
allora tagliare da Fritz le canne di bambù in bastoni lunghi sessanta centimetri, che Ernst via via mi porgeva; intanto avvolgevo un tratto della fune dalle due parti, a destra e a sinistra, e sempre continuando a scorrere di trenta centimetri alla volta, infilavo nel tratto attorcigliato il bastone di bambù ed ogni volta vi facevo conficcare da Jack un chiodo ad ognuna delle due estremità. Ottenni così i quaranta pioli della scala in brevissimo tempo e non senza il divertito stupore della madre che ci stava a guardare. Finalmente il nuovo rudimentale manufatto fu fissato saldamente ad un capo della corda penzolante dal ramo dell'albero e per mezzo dell'altro capo lo tirammo su, così che la scala arrivò fino in alto; la via per giungere all'albero era aperta ed un grido di gioia dei ragazzi fu la conclusione dell'opera. Ognuno di loro voleva subito salire e correva verso la scala; ma io scelsi Jack, il più leggero ed agile fra i tre più grandi, perché non mi fidavo ancora della solidità della scala e pensavo che c'era meno pericolo che si rompesse con Jack, anziché con uno dei fratelli maggiori. Il ragazzo del resto si arrampicò ardito e svelto come un gatto ed arrivò in cima sano e salvo. Poiché eravamo ormai convinti della robustezza della scala, anche Fritz salì e la fissò in alto così abilmente che potei salirvi anch'io per renderla completamente sicura ed accessibile per ogni necessità. Tirai su il bozzello e lo fissai al primo dei rami alti che potei raggiungere, in modo che l'indomani, quando avessi deciso di trasportare lassù tavole e travi, tutto fosse pronto. Con quest'ultima operazione, compiuta al chiarore della luna, conclusi la mia fatica quotidiana e soddisfatto ridiscesi la magnifica scala di corda. La mamma mi consegnò le tirelle e i pettorali per l'asino e la mucca e già prevedevo che il giorno seguente ci sarebbe stato possibile trasferirci sull'albero. Frattanto il nostro bestiame si era radunato vicino a noi e perfino i volatili si erano ripresentati; spargemmo allora un po' di mangime, affinché essi si avvezzassero a tornare da noi ogni sera; ci accorgemmo con piacere che mentre i colombi si alzavano subito in volo verso i rami più alti del grande albero, anche i polli si dirigevano verso l'alto e schiamazzando si inerpicavano piolo per
piolo, lungo la scala, per cercare lassù il loro rifugio notturno. Il gregge fu legato sotto le ricurve radici dell'albero, vicino alle nostre amache e si sdraiò a terra, ruminando tranquillamente. Nemmeno il fenicottero fu dimenticato, anzi lo rifocillammo col latte e lo legammo saldamente in un angolo, vicinissimo al tronco dell'albero; subito ficcò il capo sotto il moncone dell'ala destra, tirò in alto la gamba sinistra e si arrese fiducioso alla dolcezza del sonno. Infine anche per noi giunse l'ora sospirata del cibo e del sonno. Mentre la mamma preparava la cena, avevamo accatastato dei mucchi di rami secchi tutt'intorno all'albero, giacché avevo l'intenzione di accenderne un paio non appena si fosse fatto buio; nel corso della notte poi, giacché mi proponevo di dormire solo un pochino, avrei appiccato il fuoco un po' alla volta anche agli altri mucchi, per spaventare ogni eventuale nemico. Così dunque tutto fu predisposto per la maggior sicurezza possibile e quando la mamma ci disse che la cena era pronta accorremmo con entusiasmo e ci sedemmo subito a consumare il benedetto pasto, che ci aveva fatto venire l'acquolina in bocca già da un pezzo. Come dessert i ragazzi tirarono fuori ancora altri fichi che avevano raccolto durante il giorno e mangiarono con gran gusto quella roba insipida e dolciastra. Ma non passò molto che uno dopo l'altro cominciarono a sbadigliare e dopo una breve preghiera tutti insieme andarono a dormire. Lo stesso feci anch'io, dopo aver acceso le prime cataste ed aver fatto un giro di perlustrazione attorno alle altre. Durante la prima metà della notte fui molto inquieto, perché non mi fidavo affatto della sicurezza di noi tutti e ogni foglia frusciarne destava in me apprensione. Di tempo in tempo, appena vedevo che un mucchio di legna era bruciato e ridotto in cenere, mi alzavo e ne accendevo un altro. Da principio mi alzavo facilmente, ma dopo la mezzanotte divenni più fiacco e mi contentavo soltanto di stare a guardare ed ascoltare attento, se tutto fosse in ordine, finché verso la mattina il sonno mi vinse, tanto che mi svegliai quasi troppo tardi per la giornata di lavoro che mi aspettava. Svegliai i miei e subito, fatta colazione, ci mettemmo all'opera. La mamma, dopo aver munto le bestie e dato loro un po' da mangiare, si avviò con Ernst, Jack ed il piccolo Franz assieme
all'asino, dirigendosi verso la riva, per prendere assi e legname; il mare ne aveva trasportato tanto che poterono ricavare più di un carico. Nel frattempo io salii con Fritz sull'albero e feci i preparativi necessari per sistemarci comodamente. Trovai tutto secondo i miei desideri; i rami erano folti a sufficienza e i più robusti si staccavano dal tronco quasi orizzontalmente verso l'esterno. Alcuni che non mi parvero adatti allo scopo furono segati o recisi senz'altro con la scure. Lasciai invece quelli più bassi, che si protendevano fitti l'uno accanto all'altro, per fissarvi sopra il mio pavimento. All'altezza di qualche metro sopra di questi ne risparmiai degli altri, per attaccarvi le amache e, ancora più in alto, una fila più fitta di rami frondosi fu destinata a sostenere il tetto del nostro palazzo pensile che per il momento doveva essere costituito semplicemente da un ampio telone. Questi allestimenti procedevano piuttosto lentamente, così che nel frattempo due carichi completi di assi e travi furono trasportati dalla madre; allora, con l'aiuto del bozzello, cominciai a portare su pezzo per pezzo tutto ciò che mi serviva e per prima cosa sistemai una piattaforma che fu subito raddoppiata per ovviare al pericolo che una singola trave scivolando o spostandosi provocasse una disgrazia. Subito dopo, attorno a questo tavolato, fu costruito un parapetto di robuste assi contro il pericolo di rovinose cadute dall'alto. Questi lavori ed il trasporto di un altro carico di legname ci occuparono tutta la mattinata, tanto che nessuno poté pensare a preparare il pranzo e per quella volta ci dovemmo accontentare di cibo freddo. Dopo aver mangiato ci mettemmo di nuovo al compimento della nostra casa pensile, che cominciava ora ad assumere l'aspetto piacevole ed invitante di un'abitazione estiva. Staccammo le amache e il telone dalle radici dell'albero e per mezzo del bozzello li tirammo su, arrotolati, nella nuova casa. Con pesante fatica il telone fu disteso sui rami di copertura e poiché dalle due parti pendeva giù un bel pezzo della sua lunghezza, mi venne in mente di inchiodarlo al parapetto a destra e a sinistra, ottenendo così oltre al tetto anche due pareti. La terza parete ci veniva fornita posteriormente dal tronco dell'albero, giacché avevo costruito il nostro rifugio solo su un lato
del gigantesco vegetale e così soltanto il quarto lato dell'abitazione rimaneva aperto per la libera vista e per il comodo ingresso. Senza indugio e senza alcuna difficoltà appendemmo infine le amache e quella sera stessa il nuovo meraviglioso alloggio era già finito e pronto per tutti noi. Scesi soddisfatto dall'albero con Fritz e, trovando alcune assi avanzate, mi accinsi a fabbricare in fretta un tavolo e due panche tra le radici dell'albero, per avere così durante il giorno un posticino comodo per mangiare e compiervi ogni sorta di faccende. Certo il lavoro fu un po' abborracciato, perché ero assai stanco; però tutto quanto riuscì abbastanza bene. Mentre occupavo in tal modo il resto del giorno, la mamma preparava la cena e i ragazzi dovettero raccogliere alacremente tutto il legname minuto che avevamo tagliato dall'albero, affastellarlo perché potesse essere usato in seguito e accatastarlo ad una certa distanza dal nostro focolare, in modo che stesse al sole per tutto il giorno e potesse essiccare in breve tempo. Segai in ciocchi i rami più grandi o li spaccai in due e i ragazzi aggiunsero anche questi alla catasta. Veramente spossato dalle molteplici fatiche di quella giornata, mi gettai finalmente su una panca, asciugandomi lentamente la fronte grondante di sudore, sospirai forte e, dopo una breve pausa, dissi: — In verità, moglie mia, oggi ho lavorato come un cavallo, ma domani voglio concedermi un po' di riposo. — Puoi farlo, mio caro marito e devi farlo, — mi rispose lei — perché, a dire il vero, ho fatto bene i conti ed ho scoperto che domani è domenica e che purtroppo in questa costa ne abbiamo già trascurata una. — È vero, anima coscienziosa, tu pensi sempre a tutto! Domani celebreremo il giorno festivo! So bene di aver trascurato la precedente domenica, però credo che, tra le angustie del nostro salvataggio e i primi urgenti lavori per la nostra sistemazione, ciò sia perdonabile. Ora invece che siamo già a posto e, come spero, al sicuro per i prossimi mesi, faremo male a non celebrare il bel giorno di festa come di consueto, con qualcosa di più che una breve preghiera! — Io per conto mio mi rallegro con tutto il cuore all'idea di
potermi dedicare indisturbata per tutto il giorno al migliore e più nobile dei pensieri. Domani faremo ai ragazzi una vera sorpresa, annunziando la domenica, ma adesso cerchiamo di andare a riposare il più presto possibile. Devo dirti, mio caro, che con il castello in aria sull'albero mi hai dato una grandissima gioia e voglio avventurarmi a dormire la prima notte lassù con voi tutti, perché vedo che hai allestito ogni cosa in modo così adeguato che possiamo sperare non solo di abitarvi senza pericolo, ma di potervi trascorrere la notte molto più sicuri che sulla nuda terra, dove gli sciacalli ed altri animali feroci potevano aggredirci. Ora però è tempo di cenare, — concluse, — chiama i ragazzi, mentre apparecchio. Non passò molto tempo che i giovani furono tutti presenti e la mamma portò dal focolare una pentola di coccio; tutti eravamo ansiosi di scoprirne il segreto. Quando fu alzato il coperchio, apparve il fenicottero ucciso da Fritz: la mamma osservò che non lo aveva arrostito, ma aveva preferito farlo cuocere a fuoco lento, come uno stufato, perché Ernst le aveva detto che era un animale adulto e tiglioso. Ridemmo della sollecitudine del ragazzo che si era impicciato nelle incombenze culinarie della madre, ma in realtà poi trovammo che non aveva avuto torto. Attaccammo lo stufato, spolpammo coscienziosamente ogni ossicino e trovammo il tutto squisito. Dopo la cena fu acceso un gran fuoco che in qualche modo doveva proteggere il bestiame e finalmente cominciammo a salire sull'albero. In un batter d'occhio i tre ragazzi più grandi furono su. Li seguì la madre che, non senza timore e solo lentamente, ma felicemente, si arrampicò in alto. Infine anch'io salii sulla scala, anzi prima ne staccai da terra l'estremità inferiore, così che ora essa pendeva oscillando nell'aria e mi rendeva molto difficile la salita, tanto più che mi ero caricato il piccolo Franz sulle spalle, giacché non osavo farlo arrampicare da solo sulla scala malsicura. Alla fine arrivai anch'io nell'alloggio pensile e mi tirai dietro la scala di corda, con gran divertimento dei ragazzi che si sentirono come in una rocca in cui, dopo aver alzato il ponte levatoio, si fosse al sicuro contro tutti i nemici del mondo. Visto che la prima notte era trascorsa in perfetta tranquillità, decisi
di non tormentarmi più sorvegliando il fuoco; preparai soltanto il fucile per averlo a portata di mano nel caso che qualche pericolo apparisse da terra, in modo da poter sparare in soccorso dei vigilanti cani. Poi mi coricai di buon umore e la stanchezza generale fece gustare a tutti la dolcezza del sonno fino all'alba del giorno seguente. L'indomani tutti si svegliarono allegri e di buon animo. — Che cosa c'è da fare oggi? — chiesero i ragazzi quasi ad una voce. — Niente, proprio niente, — risposi; — oggi non si deve lavorare nemmeno un po'. — Ma tu vuoi scherzare, caro papà, lo vediamo bene! — gridarono i miei figli. — No, figli miei, non scherzo. Oggi è domenica e vogliamo festeggiarla come si deve. — Oh, domenica, domenica! — esclamò contento Jack; — magnifico! Allora voglio tirar frecce e andare a spasso e oziare, che sarà un vero piacere. — Per il momento non se ne parla nemmeno, piccolo mio! — dissi. — La domenica è il giorno del Signore ed è destinata a farci pensare al buon Dio in tutto raccoglimento. — Io credevo, — osservò Ernst, — che il servizio divino consistesse nell'andare in chiesa, ascoltare la predica e cantare gli inni sacri. Come possiamo celebrare dunque la domenica? — Davvero, papà, — l'interruppe il piccolo Franz, — qua non ci sono chiese, come potremmo allora andare a sentire la predica e l'organo che suona? — Proprio come se il babbo non potesse farci lui stesso il sermone, — disse Jack, — e come se non fosse bello anche all'aperto e non si potesse cantare anche senza l'organo. Non lo sai dunque? Da noi quando i soldati sono al campo non vanno nemmeno loro in chiesa e non hanno neppure l'organo, però hanno il sermone. — Certo, figlioli, — cominciai allora io, — Dio è dappertutto. Dovunque si pensi a Lui con sincerità di cuore, là si celebra l'ufficio divino. In questo senso ogni luogo del mondo può diventare un tempio. E alla fin fine la splendida natura e il magnifico cielo azzurro sono certo più belli e danno più gioia al cuore di una casa di pietra
costruita dall'uomo. Così i ragazzi compresero che avevamo buoni motivi per festeggiare la domenica anche nella nostra isola. Sbrigammo dunque soltanto le faccende indispensabili, come avevo predisposto, e dopo aver anche provveduto agli animali, ci sedemmo finalmente sull'erba soffice. Mentre tutti mi ascoltavano attenti, spiegavo loro come il Signore avesse disposto ogni cosa per il nostro bene, facendoci capitare in quell'isola meravigliosa che ci offriva tutto per vivere. Li esortai a sottomettersi alla saggia guida di Dio, che sicuramente anche con quella vita dura e piena di fatiche voleva arrecarci soltanto del bene. I miei ragazzi rimasero per un po' tutti assorti e composti; ma presto, non essendo più trattenuti da me, ognuno se ne andò per conto proprio. E poiché credevano che non fosse lecito intraprendere un qualsiasi lavoro, mi sembrò che si sforzassero, è vero, di occupare il tempo solo meditando, ma che il loro spirito fosse ancora troppo debole perché potessero trascorrere il resto del giorno senza occupazioni esteriori o senza uno svago. Siccome non intendevo sommergerli tutto in una volta con dottrine morali, li esonerai da una troppo rigida inattività ed allora si sentirono sollevati. Jack desiderava il mio arco con le frecce e voleva provarsi a munire di punte queste ultime. Fritz aveva voglia di lavorare attorno ai suoi foderi e aveva bisogno del mio consiglio. Franz mi pregò insistentemente di costruire un arco e delle frecce anche per lui, dato che non poteva ancora sparare col fucile. Dovetti accondiscendere e per prima cosa consegnai a Jack le mie frecce e gli spiegai come doveva estrarne di nuovo la sabbia e infilare le punte nelle canne. — Il tutto, — conclusi, — va poi ben legato con lo spago e per una maggiore stabilità dovrebbe essere intinto nella colla. — Già, — osservò Jack, — dici bene; se solo sapessi dove abitano in questo paese i fabbricanti di colla, ne comprerei certamente! — Ebbene, — disse il piccolo Franz, — fatti dare dalla mamma una tavoletta di estratto di carne: quella roba sembra proprio colla. — Figurati! — replicò Jack, — tu piccolotto vuoi saperne più di noi!
— Eppure, — osservai, — l'idea non è poi tanto cattiva. Accetta il buono dovunque si trovi! Molte famose invenzioni sono scaturite da idee che sul principio non sembravano per niente più sagge. Va', portaci qui una tavoletta di estratto di carne, mettila sul fuoco in un guscio di noce di cocco e fa' almeno un tentativo. Mentre Jack si dava da fare per il suo lavoro, venne anche Fritz, chiedendo schiarimenti per i suoi foderi. Gli dissi di portarmi innanzi tutto la pelle e mi sdraiai intanto sull'erba per ricavare un arco dall'avanzo di una canna di bambù. «È bene», pensavo, «che i ragazzi imparino per tempo a trarsi d'impaccio anche con quest'arma. Prima o poi la nostra provvista di polvere finirà, anzi, se accadesse una disgrazia, potremmo perderla tutt'a un tratto. Sarà dunque bene che ci procuriamo il più presto possibile qualche altro mezzo di caccia e di difesa; e come i ragazzi dei Caraibi, fin da piccoli, arrivano a colpire con una freccia un bersaglio non più grande di un piccolo tallero da una distanza di trenta o quaranta passi e ad uccidere gli uccelli sugli alberi, così certamente i miei figli impareranno, esercitandosi assiduamente, a fare lo stesso.» Guardandomi intorno in cerca dei nostri volatili, vidi con piacere che colombi e polli, parte sugli alberi, parte in terra, si saziavano allegramente di fichi selvatici. Ancora prima dell'ora di pranzo Jack aveva finito di allestire le sue frecce e si esercitava bravamente a scoccarle. Anche per il piccolo Franz arco e frecce furono pronti ed ero contento del mio lavoro; ma, se volevo aver pace, dovevo anche trovare il modo di fare una faretra, poiché il piccino si era intestardito nella convinzione che un arciere ha bisogno della faretra proprio come il fuciliere ha bisogno della cartucciera. Alla fine mi arresi, presi la scorza di un ramo, la incollai di nuovo insieme, la fornii di un fondo e di una cordicella per tenerla appesa e riuscii a farne un arnese abbastanza presentabile. Avevo appena finito e anche Fritz aveva appena ripulito la pelle del suo gattopardo, che la mamma ci chiamò per il pranzo e ci sedemmo lietamente. Durante il pasto mi venne in mente una proposta da fare ai ragazzi, sapendo già che sarebbe stata di loro gradimento.
— Che ne direste, — dissi, — se cominciassimo finalmente a dare dei nomi veri e propri alla nostra abitazione e alle diverse contrade di questa terra, almeno a quelle che conosciamo finora? Magari lasceremo da parte la costa, perché chi sa che non sia stata già da lungo tempo registrata dai nostri dotti signori conterranei, i geografi europei, e battezzata cristianamente col nome di un santo o di qualche navigatore. Invece daremo un nome ai vari luoghi in cui soggiorniamo o a quelli che ci sembrano degni d'attenzione, affinché in seguito possiamo intenderci in modo più spiccio e più facile parlando fra noi; inoltre avremo la piacevole illusione di vivere in un paese popolato, tra località che ci sembreranno già note da molto tempo. — Magnifico! Stupendo! — gridarono tutti con gioia. Jack però propose subito: — Allora inventeremo anche noi nomi strambi e complicati come quelli che ci sono sulle carte geografiche, così la gente poi dovrà rompersi il capo quando imparerà la geografia di quest'isola. Io ho sudato abbastanza con i loro Monomotapa e Zanzibar e Coromandel. — Certo, figliolo, — osservai sorridendo, — ammesso che la gente venga un giorno o l'altro a sapere qualcosa di questa nostra terra e dei nomi che le daremo. In fondo più che altro saremmo puniti noi stessi, se ci torturassimo la lingua con nomi stravaganti. — E allora, come faremo? — Faremo come hanno fatto tutti gli altri popoli, — risposi, — daremo un nome a questi luoghi nella nostra lingua madre, o per le loro caratteristiche più notevoli, o per la somiglianza con altre cose, o per gli avvenimenti che vi sono accaduti, o secondo le persone, cioè nel nostro caso, preferibilmente a modo nostro. — Sì, sì, sarà molto meglio — ammise lui, — però da dove cominciamo? — Direi dalla baia dove siamo sbarcati per la prima volta, — dissi. — In segno di gratitudine per il nostro felice salvataggio mi piacerebbe chiamarla d'ora in poi Baia della Salvezza, — propose la mamma. Il nome piacque a tutti e fu accettato subito. Poi chiamammo
anche gli altri luoghi che erano diventati memorabili per noi, con nomi che ci ricordavano qualche evento importante. Così il nostro primo alloggio vicino alla baia fu chiamato Rifugio della Tenda, perché il nostro primo rifugio era stato appunto una tenda; l'isolotto che stava all'imbocco della Baia della Salvezza fu battezzato Isola del Pescecane, perché Fritz sosteneva di avervi visto un pescecane, ed una seconda isola fu chiamata per contrapposto Isola della Balena. Chiamammo la palude in cui avevamo tagliato le canne per le frecce Palude del Fenicottero, per l'uccello che vi avevamo abbattuto; il nostro castello sull'albero ebbe il poetico nome di Nido dei Palchi: — Perché voi siete una specie di giovani animali da preda, di nobile razza, spero, pronti a imparare e ad obbedire, lesti e animosi come falchi, — dissi ai ragazzi. Proposi poi di chiamare il promontorio, dal quale con Fritz avevo cercato invano i nostri compagni di viaggio, Capo della Speranza Delusa e la collina su cui stavamo semplicemente La Vedetta. Infine battezzammo il torrente dal quale gli sciacalli si erano spinti fino al nostro rifugio Torrente degli Sciacalli. Così passammo piacevolmente il tempo chiacchierando e, mentre mangiavamo, gettammo le basi per una toponomastica della nostra nuova patria, anzi decidemmo, ridendo, di spedirla in Europa con la prima posta. Dopo il pranzo ognuno tornò al proprio lavoro. Fritz finì i suoi foderi; Jack, Ernst e Franz si esercitavano a scoccare le frecce e di tanto in tanto davano un po' di aiuto al fratello maggiore. Si avvicinava intanto la sera e l'afa più opprimente del giorno era ormai passata, tanto da invogliare ad una passeggiata; invitai allora l'intera famiglia. — Dove si potrebbe andare? — chiesi. — Io direi al Rifugio della Tenda, — esclamò Jack. — Domani infatti dobbiamo avere una buona scorta di polvere e piombo per sfoltire un pochino le schiere degli uccelli che stanno in gran numero sugli alberi di fico e mettere da parte così una riserva di carne saporita. — Anch'io sono d'accordo per il Rifugio della Tenda, — disse la mamma, — perché il burro è finito; Fritz mi ha impiastricciato quello
che avanzava con la sua conciatura e i signori che predicano sempre cibi semplici e cucina parsimoniosa sono però contenti tutte le volte che viene presentata una pietanza ben condita e ben cucinata. — Certo, — osservò Ernst, — dovremmo andare a prendere anche un paio di anatre e di oche; starebbero molto bene qui nel ruscello. — Dato che avete tutti dei validi motivi, aderisco volentieri alla vostra proposta; però stavolta non prenderemo la solita strada lungo la spiaggia, ma ne cercheremo un'altra. Saliremo lungo il ruscello fino alla parete rocciosa e passeremo dall'altra parte, all'ombra fresca della roccia, fino al punto in cui sgorga il Torrente degli Sciacalli. Allora, traversando il torrente sulle pietre, arriveremo al Rifugio della Tenda e torneremo qui carichi, passando per il ponte e rifacendo la solita via vicino alla riva; così al ritorno avremo il sole alle spalle, se ancora non sarà tramontato. Questa nuova strada può farci sperare in nuove scoperte e vantaggi. La mia idea fu approvata e presto tutti furono pronti a mettersi in cammino sotto la mia guida. Fritz aveva intorno alla vita la coda del gattopardo; i suoi foderi invece non erano ancora pronti per essere usati. Tutti avevamo armi e cartucciere, perché non sapevamo che cosa si potesse incontrare. Perfino il piccolo Franz impugnava arco e freccia, con la faretra ben rigonfia sulle spalle, all'erta. Soltanto la mamma non era armata, ma portava la fiasca del burro, per poterla riempire dalla provvista del barile. Allo scimmiottino saltò il grillo di accompagnarci: balzò senza tanti complimenti sulle spalle di Fritz, pensando di viaggiare così nel modo consueto. Ma a lungo andare la cosa riuscì un po' troppo fastidiosa al ragazzo. Quel cosino non stava fermo un minuto, ma saltellava continuamente come un funambolo da una spalla all'altra, da un braccio all'altro. — Stammi bene a sentire, — disse infine Fritz, — così non si può continuare. Non posso certo servirti sempre da albero. Dobbiamo provare seriamente ancora una volta con un'altra cavalcatura. Bill, qua! Bill naturalmente s'indignò alla proposta di fare da cavallo da circo al piccolo cavallerizzo. Ma Fritz stavolta poteva sprecare più tempo e pazienza della volta precedente, quando tornavamo a casa dopo la faticosa escursione, e non cedette, continuando a fare sempre
nuovi tentativi. In ciò gli fu molto utile la pronta comprensione del nostro scimmiottino. Appena il piccolo capì che sulla schiena di Bill poteva stare comodamente seduto, si aggrappò con tutta la forza delle sue quattro zampette prensili. Non servì più a niente che la cagna si gettasse a terra, il cucciolo stava saldo come fosse inchiodato; Bill si sfregò contro un albero per scrollarsi di dosso quel fantino, ma inutilmente: il birbante fece una smorfia e si spostò un tantino di fianco. I ragazzi assistevano ridendo a tutto quel maneggio.' Alla fine Fritz prese Bill con delicatezza per il collo, le carezzò la testa, esortandola bonariamente: — Vieni, Bill, vieni, bella mia, fai vedere che sei una flemmatica inglese. Sei anche il mio più caro, il mio più bel cane, il più saggio. Lo sai, no? Ed ora, vieni qua. Intanto aveva legato una corda al collare di Bill e si era avvolto l'altro capo più volte attorno alla mano, per prevenire eventuali velleità di diserzione. Ma Bill rimase ferma, guardando tutta mesta davanti a sé. Capiva bene che il suo destino era segnato, ma certo non ne provava piacere. Dopo rinnovate esortazioni finalmente si decise a trotterellare accanto a noi col suo imperterrito cavaliere in groppa. — Vedi, figlio mio, — dissi a Fritz, — mi è piaciuto molto osservare come sei riuscito a sistemare la faccenda con calma e pazienza. Così Bill si abituerà nel modo migliore e col tempo farà il proprio dovere senza ringhiare. Il cammino lungo il ruscello era molto piacevole perché per un bel tratto era coperto dall'ombra dei grandi alberi e il suo fondo era erboso, soffice e senza dislivelli, perciò non ci affrettavamo, ma camminavamo pian piano, a nostro agio, guardandoci intorno comodamente. I ragazzi vagabondavano a destra e a sinistra, sottraendosi ogni tanto al mio sguardo; arrivammo così alla fine del boschetto e allora mi proposi di chiamarli di nuovo per continuare la strada tutti in gruppo compatto. Voltandomi però vidi i ragazzi che stavano correndo velocemente verso di noi, anzi, questa volta erano preceduti dal flemmatico Ernst che, ansante, a momenti mi travolgeva nella sua corsa. Per la gioia e la furia non riusciva a spiccicare una parola e mi teneva davanti agli occhi tre palle verde chiaro.
— Patate, babbo, patate! — gridò infine, quando ritrovò la voce. — Come, che cosa, dove? — chiesi lieto. — Saresti stato davvero così fortunato? Qua, ragazzi, venite qua! Fammi vedere, figliolo! Non oso ancora credere che tu abbia trovato i tuberi di quella benedetta pianta; eppure sembrano proprio patate, lo sembrano davvero! — Ma certo papà, sono patate, — affermò Fritz, — è una vera benedizione per noi. Ernst è stato davvero fortunato! — Macché, — interloquì Jack petulante — anch'io le avrei trovate, se avessi fatto la stessa strada che ha fatto lui. Bella bravura! — Ehi! — lo sgridò la mamma, — non sminuire l'importanza di questa magnifica scoperta! Anche se fossi passato in mezzo alle piante di patate, chissà se le avresti riconosciute, perché sei troppo precipitoso. Ernst con la sua calma presta sempre più attenzione a tutto e quando scopre qualcosa non è per caso o per fortuna. Ma io temo ancora che ci sbagliamo, poiché il forte desiderio rende talvolta creduloni. Ci potrebbero essere alcune piante che producono frutti ugualmente rotondi e lisci. Accorremmo tutti sul posto in cui Ernst aveva raccolto i tuberi e con immensa gioia vedemmo che dalla fine del nostro boschetto sino alla parete rocciosa il suolo era ricoperto di piante di patate, che nella loro modestia ci sembrarono più belle di tutte le rose di Persia. Alcune erano già germogliate, altre disseccate, altre ancora in fiore e qua e là spuntavano sempre nuove piantine. Jack esclamò: — Magnifico! Certo che sono patate! Ora le raccoglieremo subito! — Così dicendo si gettò immediatamente in ginocchio e cominciò con tutt'e dieci le dita a raspare e a scavare per terra. Trascinato dal suo entusiastico esempio, anche lo scimmiotto era subito saltato dalla sua cavalcatura sulle piante e si era messo a strapparne alcune: scavava così in fretta che molto prima di Jack aveva tratto fuori le più splendide patate mature; dopo averle annusate e gettate da parte, prese a scavarne sempre delle altre e in breve ne aveva raccolto un bel mucchio, dato che il piccolo Franz si era precipitato dietro le patate gettate via dallo scimmiottino, ammucchiandole. Intanto anche noi non rimanevamo in ozio. Parte con le mani, parte con coltelli e coltellacci, ognuno scavava in cerca
di patate con la maggiore alacrità possibile; riempimmo avidamente del delizioso cibo borse e carnieri a più non posso. Solo dopo un certo tempo ci rimettemmo in cammino alla volta del Rifugio della Tenda e Bill non batté ciglio quando Fritz le rimise lo scimmiottino sul dorso. Veramente qualche goloso aveva consigliato di tornare subito al Nido dei Falchi per mangiare di gusto un bel piatto di patate, ma poiché motivi più urgenti ci spingevano verso il Rifugio della Tenda continuammo la passeggiata intrapresa, allegri e contenti, anche se impacciati dall'inaspettato carico. — Ragazzi, — osservai mentre camminavamo, — la scoperta delle patate ha un valore quasi inestimabile per noi. — Sì, è vero, — disse Fritz, — abbiamo motivo di ringraziare Iddio con tutto il cuore. Parlando del più e del meno eravamo arrivati alle rocce da cui il nostro ruscello sgorgava con un dolce fruscio, come una leggiadra cascatella. Ci dirigemmo allora lungo le rocce verso il Torrente degli Sciacalli e dovemmo aprirci un varco attraverso l'erba alta. La parete rocciosa a sinistra e, ad una certa distanza, la riva del mare a destra, ci offrivano due stupende vedute, ugualmente belle, ma assolutamente dissimili tra loro, che ci davano non poca gioia. Le rocce specialmente offrivano uno spettacolo talmente pittoresco da potersi appena immaginare. Si presentavano come una serra aperta dove, invece dei vasi di fiori, i piccoli risalti, le fenditure e le sporgenze della rupe erano adorni delle piante più rare e svariate. In maggior numero apparivano le piante grasse, irte di aculei, che di solito si coltivano nelle serre, i cosiddetti fichi d'India, gli aloe, quelle splendide cactacee indiane dal fusto a candela più alte di un uomo, le convolvulacee e, qua e là, perfino l'ananas, il coronato re dei frutti, che maggiormente ci attrasse. Tutti ci avvicinammo avidi ai frutti deliziosi, perché li conoscevamo bene e soprattutto perché potevano essere mangiati subito, senza alcuna cottura. La scimmia precedette i ragazzi e dopo il suo lodevole esempio ne gustarono tutti, che era un piacere. Mi parve quindi necessario ammonire i ragazzi di non mangiare smodatamente di quella leccornia, perché correvano il pericolo di buscarsi la dissenteria con quel frutto troppo fresco, che non mancava anche di una certa
asprezza, e temevo che dovessero poi scontare il godimento con dolori e malesseri. Infine scopersi tra le svariate piante a foglie spinose anche alcune karatas, una specie di aloe o di agave; alcune in piena fioritura, altre già sfiorite, erano slanciate verso l'alto come giovani alberelli e furono per me una visione oltremodo gradita. — Guardate qua, figlioli, — esclamai, — ecco una scoperta migliore di quella degli ananas, per quanto possano deliziarvi quei frutti! Il fogliame inferiore di queste piante è quasi uguale all'ananas; osservate però il fusto dritto e slanciato che s'innalza nel mezzo ed in alto assume l'aspetto di un grazioso alberello! Guardate la bella fioritura! Tutti risposero ad una voce: — Per noi non vale niente, se i suoi frutti non si possono mangiare! L'ananas supera ogni pianta; ti lasciamo volentieri questo misero alberello, se abbiamo l'ananas. — Oh, ghiottoni! — risi; — fate proprio come tante migliaia di persone! Trascurate un vantaggio vero e duraturo per una fuggevole seduzione dei sensi. Voglio mostrarvelo tangibilmente e sul posto. Ernst, prendi il mio acciarino e la pietra focaia e accendi il fuoco! — Chiedo scusa, — rispose questi, — mi occorre anche l'esca. — Certo, amico! — continuai. — Ma posto che non ne avessimo o che la nostra esca fosse esaurita, con che cosa dovremmo accendere il fuoco? E senza fuoco il nostro benessere qui sarebbe presto finito. — Oh, potremmo fare come i selvaggi, — disse Ernst, — e strofinare due diversi pezzi di legno finché non prendano fuoco. — Grazie tante! — risposi. — Per noi che non siamo abituati sarebbe una bella fatica. Scommetto che nessuno di voi, anche se sfregasse per tutto il giorno, riuscirebbe ad ottenere una sia pur piccola scintilla. Mai e poi mai potremmo accendere il fuoco con tanta sicurezza e comodità come facciamo con l'esca. — Allora dovremo aver pazienza, — osservò Ernst, — finché non avremo trovato un fungo commestibile adatto. — Questo poi no! — ribattei. — Potremmo servirci della tela, facendola bruciare in un recipiente chiuso. Ma la tela è destinata ad altri usi; senz'altro la soluzione migliore è trovare la nostra esca già bell'e pronta.
Con queste parole presi da una karatas uno stelo secco, ne tolsi la scorza esterna, estrassi un pezzetto del midollo asciutto e spugnoso, lo appoggiai alla pietra focaia, vi battei l'acciarino e in un batter d'occhio quell'esca di nuovo tipo si accese. I ragazzi mi guardarono meravigliati e fecero un salto di gioia, gridando: — Benissimo, benissimo! Evviva l'alberello accendifuoco! — Ecco, — dissi, — e questo è il numero uno! Ora la mamma ci deve informare con che cosa pensa di rattoppare i buchi dei nostri vestiti o con che cosa ne cucirà di nuovi, quando il filo sarà finito! — È vero, — interruppe mia moglie, — è già da un pezzo che ci penso con apprensione e per questo mi guardo intorno dappertutto, cercando con ogni cura lino selvatico o piante di canapa. — Ora puoi tranquillizzarti, — replicai io, — perché nelle foglie di karatas hai il filo migliore che potevi augurarti nelle nostre condizioni. Certo non è più lungo della foglia che lo contiene, ma è senz'altro lungo quanto deve essere di regola una gugliata. Così dicendo spaccai una foglia davanti agli occhi di tutti e ne estrassi una quantità di fili belli e robusti che consegnai subito alla mamma facendoli osservare ai ragazzi. — Vedete? — dissi, — la karatas che mi lasciavate con tanto disprezzo può prestarci in fondo diversi servizi migliori del pregiatissimo ananas, che solletica soltanto il palato! — Certo, — osservò mia moglie, — ora ci tornano molto utili tutte quelle cose interessanti che ci leggevi a casa, poiché noialtri, col nostro semplice modo di giudicare, dovevamo per forza preferire l'ananas. Però ci vorrà molto tempo per estrarre i fili così, ad uno ad uno, da ogni foglia. — Oh, sapremo ben rimediarvi, — le risposi, — perché se si lasciano seccare bene le foglie al sole o al fuoco e si fanno scorrere leggermente attraverso una fune annodata, per liberarle dal midollo, si ottiene presto una quantità di fili che si possono poi ripulire del tutto con pochissima fatica. Del resto potremmo anche provare a pestare le foglie come si fa con la canapa, in modo che se ne stacchi il superfluo e rimangano soltanto le fibre utilizzabili. — Sì, certo, — esclamò Fritz, — vedo già che la karatas soppianterà l'ananas; essa ci promette un'utilità dieci volte maggiore.
Subito dopo giungemmo al Torrente degli Sciacalli e lo varcammo con cautela, arrivando finalmente alla tenda. Tutto si trovò in ordine proprio come l'avevamo lasciato ed ognuno si mise a fare il lavoro per cui era venuto. Fritz andò difilato verso la polvere e i proiettili facendone un'abbondante scorta. Io, col piccolo Franz e la mamma, mi diressi subito verso il barilotto di burro per riempire la nostra fiasca. Ernst e Jack infine andarono a catturare le anatre e le oche. Ma poiché ormai le bestie si erano un po' straniate da noi e potevano provvedere da sé al proprio sostentamento, non si lasciavano acchiappare e i ragazzi riuscirono a prenderle soltanto con l'astuzia. Ernst aveva un pezzo di formaggio nella borsa; ne legò qualche briciola a uno spago e la gettò in pasto alle nuotatrici. Appena il formaggio veniva inghiottito da una delle bestiole affamate, i ragazzi la tiravano dolcemente a riva, per mezzo dello spago, tra risate represse e in breve radunarono per benino i pennuti che avevo loro richiesti. — Guarda, papà, — gridava Jack con un'oca sotto il braccio, torcendosi dalle risa — devi proprio ammetterlo, un pesce così non l'avevi mai visto. — Certo, certo, — dissi ridendo, — la faccenda ha un aspetto abbastanza buffo; però ora, nel togliere di nuovo lo spago dalla gola degli abbindolati ghiottoni, dovete farlo con molta cura per non far male agli animali. In effetti i ragazzi furono così attenti che nessuno di quelli soffri il minimo danno. Ad ognuno dei catturati fu allora avvolto un fazzoletto intorno al corpo, in modo che ne venissero fuori solo collo e testa; poi le bestie, quattro in tutto, due anatre e due oche, furono legate sopra le sacche e i tascapani in modo che potessimo portarle senza troppo fastidio. Infine prendemmo anche del sale, ma meno di quanto avevamo pensato prima, poiché un sacchetto che avremmo voluto riempire con esso era già stato stipato di patate durante la via e perciò dovemmo limitarci a riempire di sale gli spazi intermedi. Ma poiché in tal modo il sacchetto divenne troppo pesante, lo caricammo sul poderoso dorso di Turk. Quando tutti quanti fummo abbondantemente caricati, diedi il
segnale di partenza con un fischio. Per la verità eravamo molto buffi, tanto più che le anatre e le oche con il continuo schiamazzare e con i loro contorcimenti offrivano un bizzarro spettacolo. In compenso, ridendo sul nostro strano corteo, sentivamo meno il peso del nostro carico e ci lamentammo di esso soltanto quando ormai eravamo quasi a casa e ogni motivo di lamento era finito. Ma anche la gioia fu raddoppiata, perché la mamma prese subito la pentola e mise immediatamente sul fuoco la sospirata pietanza di patate. Anzi, munse anche all'istante mucca e capre, perché il latte contribuisse a rendere il nostro pasto ancora più saporito; i ragazzi festosi saltavano affettuosamente intorno a lei, aiutandola come meglio potevano. Intanto io misi in libertà i volatili che avevamo portato, usando solo la precauzione di strappare loro dalle ali le penne maestre più robuste, affinché non potessero scappare tanto facilmente e si avvezzassero un po' alla volta al posto nuovo. Finalmente il delizioso pasto a base di patate fu consumato tra le più calde lodi, non senza un sincero ringraziamento rivolto al generoso Datore di ogni bene; poi salimmo stanchi e insonnoliti nel nostro castello pensile e fino al mattino seguente godemmo un buon sonno ristoratore.
CAPITOLO III IL BASTIMENTO VIENE ANCORA SFRUTTATO. - SI CUOCE PANE DI MANIOCA E SI COSTRUISCE UNA LANCIA ARMATA. — IL BABBO PREPARA DELLE BOLAS. — CATTURA DI UN'OTARDA. RINVENIMENTO DELLA PIANTA DA CERA E DELL'ALBERO DEL CAUCCIÙ. TORNANDO a casa avevo osservato lungo la spiaggia, fra tanto materiale, anche dei legni ricurvi che mi sembravano adattissimi alla costruzione di un traino; con quello avrei potuto trasportare il barile di burro e tante altre cose necessarie dal Rifugio della Tenda al Nido dei Falchi. Subito mi ero proposto di tornare alla spiaggia il giorno appresso, prima ancora che i miei si fossero svegliati, per prendere le misure necessarie. Avevo deciso di portare come aiuto Ernst, perché la sua indolenza aveva bisogno, come antidoto, di una buona camminata mattutina ed anche perché Fritz mi sembrava più bravo per un'eventuale difesa di quelli che rimanevano. Perciò al primo chiarore dell'alba, appena sveglio, chiamai Ernst che sbadigliava ancora; scendemmo dall'albero senza che nessuno se ne accorgesse e lasciammo i nostri cari immersi nel sonno. L'asino dovette venire con noi e perché non facesse il viaggio a vuoto gli feci tirare un grande ramo d'albero, che pensai di portare con me per utilizzarlo in occasione del primo trasporto. Arrivammo presto ai legni ricurvi, meta della nostra escursione, e lì decisi di caricarli sul ramo che l'asino aveva trascinato e che per il momento poteva servirmi da slitta, essendo ancora pieno di ramoscelli. Per completare il carico disincagliammo una cassa che stava a riva mezzo insabbiata e rotolammo anche questa sul ramo, dopo di che riprendemmo lentamente la via del ritorno e, quando occorreva, aiutavamo l'asino nel traino con un paio di stanghe che avevamo raccolto e che usavamo a mo' di leva.
Già da lontano udimmo spari e schioppettate al Nido dei Falchi; la caccia ai piccioni che dimoravano sull'albero era al suo inizio. Ma quando i nostri cari ci sentirono venire, lanciarono grida di gioia e ci vennero incontro di corsa salutandoci. Dovetti aprire subito la cassetta che avevamo portato e lo feci con la «chiave del soldato», cioè con una brava accetta. Però non vi trovammo nulla d'importante; era una comune cassetta di marinaio che conteneva soltanto capi di vestiario e stoffe, il tutto zuppo d'acqua di mare. Dovetti poi giustificarmi con mia moglie, perché l'avevo lasciata in asso con i tre ragazzi senza avvertirla e senza darle il buon giorno; ma la vista dei bei legni ricurvi e la speranza di un comodo traino con cui poter effettuare in un prossimo futuro il trasporto del barile di burro placarono immediatamente ogni rimprovero e ci affrettammo a far colazione in santa pace. Quando avemmo finito di mangiare diedi uno sguardo al bottino di tordi e colombi uccisi dai ragazzi e vidi che ne avevano messi insieme quattro buone dozzine. Però tanto Fritz che Jack avevano sprecato il primo tiro, perché entrambi avevano dimenticato di caricare i loro fucili a pallini, adoperando invece pallottole; ma, anche dopo, avevano a volte colpito, a volte mancato e nell'insieme avevano consumato tanta polvere e tanti proiettili che, quando vollero ricominciare la caccia, la mamma intervenne pronta, rammentando loro che non bisognava sprecare così le munizioni e che d'altro canto per quel giorno c'erano abbastanza uccelli da spennare e da mettere in serbo. Mi dichiarai pienamente d'accordo con la giudiziosa donna e raccomandai ai ragazzi di non essere tanto sciuponi con polvere e pallottole perché tutta la nostra difesa e in gran parte il nostro stesso nutrimento dipendevano da quel patrimonio. Consigliai la più grande economia, almeno finché non fossimo tornati al relitto per aumentare in modo adeguato le nostre riserve. Ordinai perciò ai ragazzi di preparare dei lacci e di appenderli in alto ai rami degli alberi per prendere con l'astuzia tordi e colombi; raccomandai pure di fare i laccioli con i fili delle karatas che avevamo trovato di recente e che mi parevano molto adatti a tale uso, perché rigidi come crini di cavallo.
Il mio consiglio non fu gettato al vento. Dovetti subito spiegare ai ragazzi come dovevano esser fatti i laccioli e quando l'ebbero capito, lasciai che il piccolo Franz e Jack si occupassero di questa faccenda, dato che Fritz ed Ernst dovevano essermi di valido aiuto nella costruzione del traino. Mentre tutti quanti ci mettevamo all'opera, tra il nostro pollame si levò un chiasso terribile. Il gallo lanciava acuti chicchirichì e l'intero stuolo schiamazzava tutt'intorno come se ci fosse stata la volpe. Volgemmo tutti lo sguardo verso di essi e la mamma si alzò per vedere se per caso qualcuna delle galline avesse fatto l'uovo. Ernst, che per combinazione aveva sott'occhio lo scimmiottino, si accorse allora che questo guardava attentamente i polli e quando i volatili all'arrivo della mamma si sparpagliarono in tutte le direzioni, esso si cacciò fulmineamente sotto una delle radici dell'albero; Ernst corse dietro alla piccola sentinella e riuscì a sorprenderla mentre cavava fuori un uovo fresco fresco, lo batteva leggermente a terra e lo succhiava subito golosamente. Lo scimmiottino, avido di quel cibo, filò immediatamente sotto un'altra radice e poi di nuovo sull'erba; ma Ernst che, vigile, gli stava alle calcagna, riuscì ad impadronirsi di quattro uova, che furono contemplate dalla madre con la più viva gioia. L'atto piratesco dello scimmiottino non gli fruttò altro che il soprannome di «Pizzichino» e la perdita della libertà, ogni volta che ci sembrava che le galline avessero fatto l'uovo o stessero per farlo. Se poi avevamo tempo, lasciavamo il prigioniero di nuovo libero e ci facevamo indicare dove fossero nascoste le uova. Presto la mamma ne mise da parte una buona quantità ed aspettava con impazienza che le galline divenissero da cova per poter poi allevare il più presto possibile una bella nidiata di pulcini, di cui sognava già splendidi vantaggi. Nel frattempo Jack era salito sull'albero e aveva appeso ai rami alcuni lacci per i pennuti divoratori di fichi. Scendendo dall'albero ci portò la gradita notizia che lassù i nostri colombi domestici avevano fatto preparativi per covare e riprodursi. A maggior ragione proibii allora ogni schioppettata sull'albero, affinché le graziose bestiole non venissero ferite o cacciate via dalla paura; raccomandai anche ai
ragazzi di badare sempre ai laccioli già appesi, perché i nostri colombi non vi si impigliassero anch'essi e, dibattendosi, non si strozzassero. Veramente avrei soppresso volentieri i lacci, se non li avessi io stesso consigliati poco prima: non mi sembrò quindi opportuno contraddirmi così presto. Intanto trasformavo i miei legni ricurvi in una slitta, o traino, semplicissima e che perciò fu costruita in brevissimo tempo. Due legni ricurvi, uniti davanti nel mezzo e dietro da traverse e collocati in modo che la curvatura rimanesse rialzata nella parte anteriore, costituirono tutta l'opera d'arte e bastava soltanto che le tirelle dell'asino fossero fissate alle due punte rialzate perché il tiro fosse completo. Non avevo ancora alzato gli occhi dal mio lavoro, ma quando il traino fu finito mi guardai intorno e mi accorsi che nel frattempo la mamma, assieme ai ragazzi, aveva spennato gli uccelli ed era in procinto di infilarne due buone dozzine nella lunga spada spagnola di un ufficiale di bordo, adoperandola come uno spiedo. La spada mi sembrò bene utilizzata, ma la quantità degli uccelli mi parve uno spreco e mossi qualche appunto. La madre però mi fece una bella ramanzina, osservando che non si trattava dell'allestimento di un lauto banchetto ma che, proprio secondo le mie disposizioni, stava preparando, nell'attesa del burro che dovevamo portarle, gli uccelli che poi, semiarrostiti e spalmati di burro, sarebbero stati opportunamente conservati. Non c'era nulla da obiettare e decisi senz'altro che avremmo pranzato in fretta per partire subito dopo per il Rifugio della Tenda. La madre decise di celebrare durante la mia assenza la festa delle pulizie assieme ai ragazzi, sottoponendo corpi e vestiti ad un'energica lavatura. L'idea mi sembrò degna di plauso e mi proposi di attuarla anch'io, con Ernst; quest'ultimo mi avrebbe infatti accompagnato ancora una volta da solo e Fritz sarebbe rimasto di nuovo a casa a difesa degli altri. Perciò, appena finito di mangiare, ci preparammo alla partenza e, oltre al necessario equipaggiamento, ognuno di noi ricevette in dono da Fritz un bel fodero già pronto, da appendere alla cintura, ingegnosamente confezionato in modo da poter reggere, oltre che cucchiaio, forchetta e coltello, anche un'accetta, ed in realtà mi
sembrò molto utile. Con le tirelle attaccammo al traino tanto l'asino che la mucca, ci munimmo di un bastone di bambù come frusta e, dopo aver ordinato a Bill di venire con noi e a Turk di rimanere, ci congedammo, incitando energicamente le nostre tarde bestie da tiro. Ovviamente il traino si poteva trascinare meglio sulla sabbia compatta della riva anziché attraverso l'erba alta e folta e perciò prendemmo la solita strada della spiaggia fino al ponte sul Torrente degli Sciacalli arrivando presto senza alcuna avventura al Rifugio della Tenda. Là staccammo immediatamente gli animali e li lasciammo pascolare, mentre noi a fatica caricavamo sul traino non solo il barile di burro, ma anche un barilotto di polvere, la botte di formaggi olandesi già cominciata, diversi utensili e proiettili di vario tipo. Eravamo talmente presi dal nostro lavoro che solo più tardi ci accorgemmo che i due animali da tiro, avidi del buon foraggio della sponda opposta, si erano allontanati verso il ponte sul torrente, sottraendosi alla nostra vista. Incaricai Ernst di cercarli con l'aiuto di Bill, mentre io mi dirigevo dall'altra parte del Rifugio della Tenda in cerca di un posticino dove poter fare un buon bagno e un po' di bucato. Ben presto raggiunsi il limite estremo della baia; mi accorsi allora che essa finiva in una palude piena di splendide canne d'India e che dietro era limitata da una cinta di rupi inaccessibili che si estendevano in parte nel mare. Là c'era un punto che mi sembrò fatto apposta per prendervi un bagno. Chiamai allora Ernst con voce lieta e per passare il tempo aspettando che venisse, recisi alcune canne, mentre mi balenava già in mente l'utile uso che ne avrei fatto. Ma poiché Ernst non compariva ancora, tornai indietro per vedere dove fosse andato e, guarda un po', lo scoprii lungo disteso all'ombra della tenda, che dormiva come un ghiro, mentre il bestiame incustodito si aggirava là intorno, brucando a proprio agio. — Su, su, poltrone! — gridai allora al sonnacchioso ragazzo. — Perché non sorvegli gli animali, che non passino il ponte alla chetichella? — Macchè, quelli se ne guardano bene, — rispose placidamente
Ernst, — ho già tolto un paio di assi; ora fra le travi c'è un vuoto e sono certo che quei paurosi compari non vi salteranno sopra. — E va bene! — ammisi. — La tua pigrizia ti ha reso ingegnoso. Però non avresti dovuto sprecare tempo prezioso dormendo: potevi cominciare qualche lavoretto utile. Per esempio potevi prendere il sale. Non sta bene rimanere in ozio proprio nelle ore di lavoro e fintanto che si ha forza. Ma, poiché sei stato qua sdraiato senza far niente, ora puoi riguadagnare il tempo perduto e raccogliere sale in questo sacchetto. Che sia ben pulito, però, che si possa dare senza pensiero almeno alle bestie. Quando il sacchetto sarà pieno, lo vuoterai nella grossa bisaccia dell'asino, finché non sarà piena anche quella. Nel frattempo io farò il bagno di là, dietro quel promontorio di rocce. Così dicendo mi allontanai per spogliarmi ed anche perché non volevo continuare a mortificare il ragazzo; arrivai svelto alle rocce e mi lavai e rinfrescai quanto più in fretta potei. Infine mi rivestii e mi diressi verso il posto del sale per vedere a che punto fosse Ernst. In realtà aveva già quasi riempito il sacco di sale; lo mandai quindi a lavarsi e continuai io il suo lavoro. Quando anche lui si fu rinfrescato, potemmo finalmente caricare, attaccare e prendere la via del ritorno, non senza aver rimesso al loro posto, naturalmente, le assi del ponte. Felicemente, anche se un po' tardi, arrivammo al Nido dei Falchi, dove trovammo l'abituale festosa accoglienza. Con tanto d'occhi guardammo però la stravagante parata dei nostri congiunti che ci veniva incontro. Il primo era avvolto in una lunga camicia bianca da marinaio e ne trascinava per terra l'orlo, simile a un fantasma. L'altro era infilato in un paio di pantaloni che cominciavano sotto le spalle e pendevano sulle magre gambette come due campane sui batacchi. Al terzo era stata allacciata una giacca che gli arrivava fino ai malleoli e nella quale egli appariva proprio come una sacca ambulante: un gruppetto incredibilmente comico. Dopo averli canzonati abbastanza, chiesi alla mamma quale fosse il motivo di quella carnevalata. Allora venni informato che la piccola squadra veniva proprio allora dal bagno e, siccome la mamma aveva lavato, durante quello, tutti i vestiti che per asciugare avevano
richiesto più tempo di quanto si pensasse, i ragazzi impazienti si erano gettati sulla cassetta di marinaio e ognuno si era acconciato secondo il suo gusto. Il bizzarro abbigliamento era sembrato a tutti così buffo che avevano deciso generosamente di procurare anche al padre e ad Ernst lo spasso della loro mascherata. A questo punto anche noi facemmo il nostro rapporto. Via via che procedevamo nel racconto, burro, carne e sale venivano mostrati a turno a mo' di illustrazioni del testo e ogni cosa era ammirata dai ragazzi secondo il suo merito, mentre noi ne facevamo il particolareggiato commento. Tutti erano allegri e animati, tranne Fritz. Capii che in certo modo il fatto di non esser venuto con noi l'aveva indispettito. Si strinse a me con fare insinuante e confidenziale, dicendomi: — Certo, avete trovato molte cose nuove; però, paparino, la prossima volta mi porterai con te, se ci sarà un'altra escursione, vero? Qui, al Nido dei Falchi, non c'è mai niente da fare. Non abbiamo preso altro che un po' di colombi e di tordi con i nostri laccioli, e io mi annoio. — Però, vecchio mio, — risposi, — non sempre le cose più divertenti sono anche le migliori. Ma poiché hai combattuto da bravo il tuo spirito di intraprendenza, ti prometto che nella prossima spedizione verrai con me, dovesse pure essere domani stesso, sul relitto. Del resto, rimanendo qui a protezione della mamma e dei fratelli, hai fatto anche tu il tuo dovere e ciò deve riempirti di soddisfazione. Concludemmo la giornata con le solite faccende e con la distribuzione del sale al bestiame, che l'accolse come una vera festa. Cenammo in fretta perché avevamo tutti bisogno di riposo e subito fummo in braccio al sonno. L'indomani mattina diedi a Fritz l'incombenza di preparare tutto per il viaggio verso il bastimento; Ernst e Jack dovevano accompagnarci per un tratto di strada. Senza pensieri mi misi quindi in cammino. A mia moglie, lasciai Bill come difesa; le raccomandai di essere forte e di aver fiducia, perché anche stavolta saremmo tornati sani e salvi dal relitto e provvisti di molte cose utili. Ma giunti al Rifugio della Tenda, rimandai Ernst e Jack dalla
mamma con un'ambasciata: infatti non avevo avuto il coraggio, congedandomi da lei, di annunciarle una separazione di due giorni, poiché mi aveva spesso pregato di non farlo mai più, senza un estremo bisogno. Ora, però, mandandole a dire tramite i due ragazzi che avesse pazienza e ci permettesse di pernottare sul bastimento, da un lato non potevo essere rimproverato di subdolo inganno, e dall'altro mi risparmiavo le obiezioni e le preghiere di quella donna troppo apprensiva. Perciò spiegai bene ai ragazzi che cosa dovessero dire alla mamma e raccomandai loro di essere ubbidienti e servizievoli. Poi, affinché la camminata mattutina servisse a qualcosa, ordinai loro di raccogliere un po' di sale e di tornare a casa prima di mezzogiorno, perché la mamma non stesse in pena. Anzi, a questo scopo pregai Fritz di prestare a Ernst il suo orologio d'argento, in modo che i due fratelli non facessero tardi. La speranza di un orologio d'oro, che forse avremmo trovato a bordo, rese Fritz più pronto al sacrificio di quanto non sarebbe stato in altra occasione. Sempre per la solita via, arrivammo velocemente al relitto. Appena sbarcati e dopo aver ormeggiato la nostra imbarcazione, mi guardai intorno in cerca di buon materiale per costruire una zattera: volevo realizzare finalmente la prima idea di Ernst, perché il katamarang non aveva né lo spazio sufficiente né la solidità necessaria per trasportare un carico considerevole. Presto fu trovata una quantità di barili d'acqua che mi sembrarono adatti. Li vuotammo, li richiudemmo accuratamente e li spingemmo in acqua. Ne allineammo circa una dozzina in un rettangolo un po' allungato, fissandoli insieme saldamente con grappe, corde ed assi. Infine vi inchiodammo sopra un robusto piano di tavole e circondammo poi tutto quel tavolato con un bordo alto trenta centimetri circa, così da ottenere un natante capace di trasportare comodamente un carico almeno tre volte maggiore di quello che portava la nostra barcatinozza. Trascorremmo l'intero giorno in questo lavoro, concedendoci soltanto qualche momento per rifocillarci con un po' di cibo freddo portato con noi nei nostri tascapani, giacché non avevamo avuto nemmeno il tempo di guardarci intorno sul bastimento in cerca di altra roba da mangiare. La sera, quindi, siccome ci sentivamo molto
stanchi e non avremmo potuto assolutamente, così spossati, vogare fino alla costa, decidemmo subito di rimanere sul relitto e, dopo aver preso le misure necessarie per il caso che scoppiasse una tempesta, ci coricammo nella cabina. Là ci addormentammo cullati dolcemente dai materassi elastici, tanto diversi dalle scomode amache e dormimmo così bene che il nostro impegno di vegliare a turno per sorvegliare vento e mare fu completamente dimenticato. Il mattino seguente ci alzammo dal letto soddisfatti e con febbrile attività ci mettemmo a caricare in modo opportuno la zattera, la nostra opera d'arte. Innanzi tutto saccheggiammo il camerino riservatoci prima che il bastimento naufragasse, poi passammo di nuovo nella cabina del capitano dove non risparmiammo nemmeno le serrature delle porte e i paletti dei finestrini, con tutte le guarnizioni metalliche. Le cassette ben fornite degli ufficiali di bordo furono per noi un rinvenimento graditissimo. Ma quasi più gradita ci fu la cassetta del carpentiere e quella dell'armaiolo. Un bauletto del capitano era colmo di chincaglierie, ma conteneva in parte anche oggetti preziosi che ci abbagliarono quasi. C'erano orologi d'oro e d'argento, tabacchiere, fermagli, bottoni da camicia, collane, anelli e un sacco di altre meraviglie dello stesso genere; probabilmente il capitano aveva destinato tutto ciò a regali, o aveva in mente di farne vantaggiosi traffici. Apparve perfino un forziere ben ferrato pieno di monete d'oro e d'argento ed a momenti ci veniva la voglia di cominciare da lì a far piazza pulita. Ma presto altri oggetti ci attrassero con netta superiorità, per esempio le semplici posate che potevano servirci in futuro al posto di quelle d'argento del capitano e alcune dozzine di giovani piante da frutto europee, accuratamente imballate per il trasporto. Riconobbi fra esse peri, meli, aranci, mandorli, peschi, albicocchi, castagni, viti e tanti altri che tempo prima ci avevano rallegrato nella nostra cara patria. Trovammo poi un gran numero di barre di ferro e grandi blocchi di piombo, qualche pietra da affilare, ruote per carri e per veicoli in genere, tutti gli arnesi del fabbro al completo, zappe e badili, vomeri per l'aratro, catene, fil di ferro e di rame, sacchi pieni di mais, piselli, avena e veccia, e perfino una macina a mano e ancora altra roba
analoga, in una parola, una provvista quasi inesauribile di mezzi che potevano servire alla fondazione o al mantenimento di una colonia europea nei più lontani Paesi del mondo. Che cosa dovevo portare ora con me di tutti questi tesori, e che cosa dovevo lasciare? Era impossibile trasportare quell'enorme quantità di oggetti e tuttavia mi premeva, per la crescente precarietà del relitto, di salvare quanto ancora si poteva. — Ehi! — disse Fritz, — innanzi tutto lasciamo qua l'inutile denaro, che per noi non vale un fico secco! — Bene! — replicai, — tu parli poco gentilmente dell'idolo di tutto il mondo. Sarà per me una gioia se non imparerai mai ad adorarlo, assieme alla massa! Lasceremo anche il bauletto con la chincaglieria e per questa volta ci limiteremo a scegliere lo stretto indispensabile, cioè polvere, ferro, piombo, cereali, alberi da frutto e attrezzi di vario tipo. Prendiamone quanti più possiamo e se poi rimarrà un posticino libero, potremo portar via anche qualcosa di superfluo, come concessione speciale. Quanto a te, però, hai già il permesso, come ti avevo promesso, di prendere dal bauletto dei preziosi un orologio d'oro. Fedeli alla regola stabilita, caricammo la zattera nel modo più conveniente e per quella volta facemmo passare nel carico, come oggetti utili, anche una nuova rete da pesca e la grossa bussola del bastimento con il suo abitacolo. Si arrivò fino al pomeriggio prima che avessimo finito di caricare e riempimmo completamente non soltanto la zattera, ma anche la nostra piccola imbarcazione. Finalmente, venuto il momento di partire, attaccammo alla barcatinozza la zattera mediante un grosso cavo saldamente inchiodato a uno dei suoi angoli e in tal modo la rimorchiammo lentamente verso la costa, non senza il timore di una disgrazia e con dura fatica. Il vento fu tanto benigno da alleviarci lo sforzo, spirando fresco nella vela; il mare era calmo e presto procedemmo molto più velocemente, senza che ci accadesse il minimo incidente. Dopo qualche lieve rimprovero della mamma che ci rinfacciò di averla lasciata di nuovo sola di notte con i piccoli, raccontammo quali tesori avessimo trovato ancora.
Pregai mia moglie di portarmi dal Nido dei Falchi, assieme a qualcuno dei ragazzi, il traino con gli animali da tiro, affinché ponessimo al sicuro almeno una parte della roba traghettata. Nel frattempo, siccome la marea era ancora in fase decrescente e le nostre imbarcazioni stavano per toccare il fondo, anzi erano già quasi in secco, approfittai del momento per ormeggiarle come meglio potevo, in mancanza di ancore. A questo scopo, servendomi della leva di ferro, rotolai giù dalla zattera, verso terra, due grossi blocchi di piombo e li collegai per mezzo di cavi alla zattera e alla barcatinozza, così che entrambe non potessero sfuggirci tanto facilmente. Durante quest'operazione era arrivato il traino e lo riempimmo ben bene, dando la precedenza soprattutto ai materassi e agli alberelli. Per poterlo scaricare più presto, fummo costretti a scortarlo tutti quanti; marciammo perciò in allegro corteo fino al Nido dei Falchi. Strada facendo i ragazzi mi chiesero eccitatissimi se per caso il forziere e il bauletto pieno di magnifica chincaglieria si trovassero sulla zattera, giacché Fritz aveva già chiacchierato un po' sull'argomento ed ognuno avrebbe voluto avere in regalo qualcosa di bello. — Del resto, pensa un po' — raccontò mia moglie durante il cammino, — il piccolo Franz ha fatto una nuova scoperta. Frugando con un bastoncino in una cavità dell'albero, ha scovato uno sciame di api. Naturalmente le api disturbate hanno punzecchiato il piccolo in modo pietoso e così per il momento, il poverino ha dovuto pagare con dolori una scoperta che forse ci sarà molto utile in futuro. — Quando saremo arrivati, — cominciò a dire allora Ernst, — ti voglio mostrare le radici che ho trovato oggi; sono già piuttosto appassite. Non capisco se si tratta di una varietà di rape o di ramolaccio. La pianta è più arbustiva che erbacea e non mi sono arrischiato ad assaggiarle, benché vedessi che la scrofa ne mangiava a crepapelle. — Hai fatto bene, ragazzo mio, — approvai, — perché tante cose non fanno male ai maiali mentre per l'uomo sono più o meno nocive. Ma fammi vedere un po' le tue radici. Come le hai trovate? — Stavo girando un po' qua intorno, — rispose lui, — quando a un tratto mi sono imbattuto nella scrofa che scalzava con furia un piccolo arbusto e inghiottiva voracemente qualcosa che aveva
scavato da terra. L'ho cacciata via e ho trovato questo mazzo di grosse radici. — Se la mia supposizione è esatta, — dissi, — hai fatto una magnifica scoperta che, assieme a quella delle patate, ci proteggerà per sempre dal pericolo della fame, finché rimarremo qui; perché credo che le tue radici siano manioca, con cui nelle Indie occidentali si fa una specie di pane chiamato cassava. Se ricordi bene il posto in cui hai trovato la pianta e se ne troviamo ancora molte, proveremo almeno a preparare del pane e credo che il risultato sarà discreto. Così parlando, avevamo scaricato il traino e immediatamente mi rimisi in cammino per andare a prendere un altro carico prima che annottasse. La madre rimase invece con Franz per prepararci un pasto ristoratore. Quando fummo arrivati di nuovo alla zattera, mettemmo sul traino tutto quello che si poteva trasportare; innanzi tutto qualcuna delle cassette che avevamo con noi sul bastimento, poi quattro ruote di carro e la macina a mano che, dopo la scoperta della manioca, mi sembrava doppiamente importante, e infine svariati piccoli oggetti, dovunque potessero trovare un po' di posto. Tutta quella ricchezza aveva provocato in noi una disposizione d'animo allegra, quasi euforica, e ne approfittai per portare al nostro castello pensile alcuni materassi. Con l'aiuto del bozzello riuscii anzi a tirarli tutti, uno dopo l'altro, nella nostra abitazione, dove presto cademmo nelle braccia di un sereno riposante sonno. Ancor prima che spuntasse il giorno mi alzai per andare in fretta alla riva e vedere in che stato fossero le due imbarcazioni. I miei cari non si svegliarono e li lasciai dormire volentieri, perché è giusto che i giovani dormano più a lungo degli adulti. Facendo il minimo rumore possibile scesi la scala e a terra trovai già vita e animazione. I due alani mi vennero incontro saltando di gioia e capirono a volo che avevo l'intenzione di partire; il gallo sbatté le ali cantando e alcune capre belarono festosamente. Ma l'asino, che in quel momento mi interessava più di tutti gli altri, sonnecchiava ancora placidamente, dondolando tra i suoi sogni mattutini il capo pensieroso e pareva che non avesse una gran voglia di fare la gita che gli avevo riservato.
Allora lo svegliai e lo attaccai al traino; lasciai invece la mucca, che non era stata ancora munta; ordinai ai cani di venire con me e mi diressi di buon trotto verso la riva, mosso da speranza e timore. Con gioia vidi allora tanto la zattera che la barca-tinozza felicemente al loro posto e mi accorsi che, sebbene l'alta marea le avesse entrambe portate a galla durante la notte, le barre di ferro e i blocchi di piombo a cui le avevo ancorate erano stati in grado di trattenerle. Senza indugio salii sulla zattera e raccolsi un po' di roba da portare a casa. Stavolta però fui più clemente nel caricare l'onesto bigio, in modo da poter arrivare più in fretta al Nido dei Falchi. Anzi, incitai l'asino e me stesso, in gran sudore, per arrivare dai miei prima di colazione. Quando fui arrivato, mi stupii molto che nemmeno un'anima, di tutta la famiglia, si facesse vedere e sentire, benché il sole si fosse già levato da un'ora buona. Allora mi misi a fare un chiasso e uno strepito, come se ci fosse da dar battaglia. Mia moglie si svegliò subito, saltò dal letto e si meravigliò non poco che fosse così tardi. — In verità, — disse, — è stato il potere magico dei materassi che mi ha fatto dormire così profondamente e non mi ha lasciato svegliare. Pare che lo stesso potere tenga ancora avvinti pesantemente i nostri poveri ragazzi. Infatti i figlioli non potevano quasi strapparsi il sonno dagli occhi, sbadigliavano, si stiravano e si riaddormentavano subito dopo. — Su, su! — chiamai ancora una volta a voce alta. — Brutti poltroni! I bravi ragazzi devono saltare dal letto alla prima chiamata! Fritz fu il primo a svegliarsi ed Ernst naturalmente l'ultimo a scivolare dal letto. Dopo aver recitato le preghiere e fatto colazione andammo in fretta verso la spiaggia per scaricare completamente la zattera ed essere pronti a staccarci da riva con l'alta marea del mezzogiorno. Con sufficiente rapidità trasportammo così due carichi a casa. Durante il secondo viaggio di ritorno il flusso cominciò a raggiungere le nostre imbarcazioni; mi congedai perciò dagli altri, per aspettare con Fritz nella barca-tinozza, finché non fossimo bene a galla. Però, vedendo che Jack continuava ad aggirarsi attorno alla barca, permisi infine anche a lui di salire con noi.
Presto la marea ci sollevò e potemmo salpare; ma, anziché andare senz'altro verso la Baia della Salvezza per mettere al sicuro le nostre imbarcazioni, mi lasciai tentare dal bel tempo e pensai di tornare di nuovo al bastimento. Nonostante l'alta marea e la fresca brezza mattutina riuscimmo però solo con dura fatica a entrare nella corrente che doveva poi spingerci verso la meta. E quando arrivammo era troppo tardi perché si potesse fare qualcosa d'importante; mi proposi quindi di imballare in tutta fretta le prime cose che si presentavano. Percorremmo perciò il bastimento cercando ogni sorta di oggetti piccoli che si potessero trasportare senza troppa fatica. Jack arrivò subito, tirando con terribile strepito una carriola; era tutto lieto di aver trovato qualcosa con cui poter trasportare in seguito al Nido dei Falchi patate in quantità. Fritz mi portò invece la lieta notizia che in uno scomparto speciale del bastimento aveva trovato una lancia smontata, assieme a tutti gli accessori e perfino un paio di piccoli cannoni per armarla. Ne fui così contento che piantai in asso ogni cosa per correre verso la lancia. Vidi che il ragazzo non si era ingannato, ma mi accorsi anche che ci aspettava una bella massa di lavoro, se volevamo rimontare l'imbarcazione e portarla in mare. Per quel giorno lasciai quindi le cose come stavano e racimolai un po' di suppellettili e quanto altro pensavo che ci potesse servire nei prossimi giorni, per esempio una grande caldaia di rame, qualche piastra di ferro, alcune raspe da tabacco nuove, due pietre per affilare, un barilotto di polveri e finalmente un barile pieno di pietre focaie che mi fu molto gradito. Si capisce che non fu dimenticata nemmeno la carriola di Jack, anzi ne feci caricare anche delle altre, assieme ad alcune cinghie che trovammo là intorno. Tutto fu imballato alla svelta, ci concedemmo appena il tempo di prendere un boccone ed ecco che salpavamo di nuovo, per non essere sorpresi dalla brezza di terra, che di solito si leva verso sera. Una volta a riva cominciammo a sbarcare la roba che avevamo portato con noi, ma il sole già al tramonto non ci faceva, sperare di poter finire prima di sera. Allora ognuno di noi riempì una carriola, per poter portare a casa almeno qualcosa del nostro bottino, tra cui le raspe e le piastre di ferro.
Giunti presso il Nido dei Falchi mi fece molto piacere sentire come le nostre vigili guardie del corpo annunciavano il nostro arrivo con latrati che echeggiavano fin da lontano. Appena però ebbero riconosciuto gli ignoti visitatori, furono anche i primi a correrci incontro festosamente. L'effusione del loro entusiasmo fu così vivace da travolgere, naso a terra, il piccolo ometto che con la sua carriola stentava a mantenere l'equilibrio. Il ragazzotto ricambiò la cortesia ricevuta a suon di pugni, facendo ridere non poco noialtri e la mamma, che in quel momento si avvicinava assieme ad Ernst e Franz. Naturalmente tutti e tre furono molto contenti delle carriole e del loro contenuto, scrollarono soltanto un tantino le spalle alla vista delle raspe da tabacco e delle piastre di ferro, mentre io ridevo sotto i baffi della loro spallucciata. Subito dopo la mamma mi mostrò una Bella provvista di patate, raccolte durante la mia assenza e anche una buona quantità di radici di manioca, ed io elogiai molto la sua solerzia e sollecitudine. — Vero, papà? — esclamò allora il piccolo Franz. — E che cosa dirai allora quando tra poco vedrai anche mais, meloni, avena, zucche? La mamma ne ha piantato e seminato ogni volta che strappavamo un fusto di patate. — Chiacchierone! — gridò sua madre, — perché hai svelato tutto? Mi hai tolto una grande gioia, perché volevo fare una sorpresa al babbo con le mie semine, quando tutto fosse spuntato. — Allora mi spiace per te, mammetta cara! — dissi io, — però sono ugualmente contento della tua idea. Dimmi, però, da dove hai preso le sementi? E chi ti ha messo in mente quest'ottimo pensiero? — Sementi ne avevo naturalmente nel sacco magico, — ribatté lei, — e l'idea mi è venuta per la vostra mania di saccheggi e il vostro eterno andirivieni dal relitto: allora ho pensato che, finché non avrete sgombrato tutto di là, difficilmente vi prenderete la briga di coltivare un orto o un campicello e in tal modo si sarebbe perduta la stagione adatta. Perciò ogni volta che scassavamo il terreno per raccogliere le patate, seminavo qualcosa, ed ho anche lasciato dentro la terra le patate più piccole, così a suo tempo, quando tutto sarà cresciuto, avremo un ottimo raccolto.
— È stata un'idea eccellente, cara moglie! Però anche la nostra mania di saccheggi ha il suo lato buono, perché ci ha fatto scoprire oggi una lancia armata che si trova, ancora smontata, nel bastimento e che in futuro ci potrà forse rendere servizi di essenziale importanza. — Ahimé, questo non mi fa molto piacere, — ribatté la mamma; — perché non vorrei mai più avventurarmi sul mare! Certo, se una volta vi sarò costretta, sarà sempre meglio affidarmi ad un'imbarcazione ben solida, anziché ad un mezzo rudimentale e fragile come la nostra barca-tinozza. Dimmi, però, a che cosa ci serviranno le raspe da tabacco che hai portato con te? Spero che non penserai al nutrimento del naso, finché non saremo sicuri di quello delle nostre bocche. — Non preoccuparti, cara moglie! — dissi. — Non mi passa neppure per la mente di introdurre qua da noi la ridicola e poco pulita abitudine di fiutar tabacco. Le raspe sono destinate a procurarci al più presto il primo pane fresco che mangeremo su questa costa. E dunque puoi guardare con rispetto questi arnesi che diventeranno indispensabili per noi. — Beh! — ribatté lei, — non riesco a capire che cosa abbia a fare la raspa da tabacco col pane fresco. E inoltre dov'è il forno, che senza dubbio sarebbe più indispensabile? — Ci faranno da forno le piastre di ferro che hai guardato tanto di traverso, — affermai; — si capisce che non otterremo un pane rotondo e ben lievitato, ma delle focacce basse che mangeremo certo con altrettanto gusto. Possiamo fare fin d'ora un esperimento con le radici di Ernst. Il sole non è ancora tramontato e forse prima di andare a letto potremo rallegrarci con una focaccia fresca. Però innanzi tutto mi devi cucire un robusto sacchetto di tela. La mamma fece senza indugio quello che le avevo detto; ma, dubitando della mia abilità di panettiere, mise contemporaneamente sul fuoco nella caldaia di rame una buona porzione di patate, affinché ci fosse in ogni caso qualcosa da mettere sotto i denti se il mio tentativo fosse fallito. Intanto distesi un grosso telo per terra e chiamai a raccolta i ragazzi per intraprendere tutti insieme, senza perder tempo, la preparazione del pane. Ciascuno ricevette la propria raspa e un mucchietto di manioca, che era stata lavata a dovere dalla
mamma. Al mio comando tutti cominciarono a grattugiare energicamente le radici, così che sul telone si raccolse una specie di segatura umida che in realtà non aveva ancora un aspetto appetitoso. Però il lavoro era piacevole e i ragazzi si divertivano un mondo. Finalmente Ernst gridò ridendo: — Certo, avremo un eccellente pastone di crusca se si dovrà fare il pane con un simile tritello. E Jack aggiunse: — Però è la prima volta che sento dire che si può fare pane dalle rape. In ogni modo non ha davvero un profumo molto invitante! — Ma quante cose trovate da ridire, signori miei, su questa nobile pianta! — gridai loro. — La manioca che ora abbiamo davanti dà un pane davvero eccellente che in Brasile è il nutrimento principale di molti indigeni; pare che non di rado venga preferito al comune pane di grano dagli stessi europei che vi abitano. Del resto la manioca è una pianta che ha diverse varietà. Una cresce molto in fretta e le sue radici sono subito mature, un'altra cresce più lentamente ed una terza può avere radici ben sviluppate soltanto nel secondo anno. Le prime due varietà sono velenose se mangiate crude, la terza invece pare che sia del tutto innocua anche cruda. Tuttavia le altre due sono preferite perché più fruttifere e perché giungono a maturazione più rapidamente. — Però, che sciocchezza, scegliere giusto quelle velenose! — osservò Jack. — Grazie tante, ma non mangio pane velenoso! Infatti, come potremo sapere se le nostre radici sono proprio quelle innocue? — È per lo meno probabile, — dissi, — perché quest'ultima specie, se ricordo bene, è particolarmente arbustiva e dunque simile alla nostra, mentre le altre due devono essere piuttosto fornite di viticci. Intanto, per essere proprio sicuri, dobbiamo ancora pigiare il nostro tritello. — Perché poi pigiare, papà? — chiese Ernst. — Perché nella specie velenosa, — risposi, — è pericoloso soltanto il succo delle radici, mentre il midollo asciutto è edule ed estremamente nutriente. Tuttavia per prudenza, prima di mangiarne noi, faremo una prova, dando la focaccia ai polli e allo scimmiotto. Se non farà male a loro, non farà male nemmeno a noi. Tutti furono contenti di questa proposta e ripresero alacremente il
lavoro, giacché il timore del veleno aveva quasi paralizzato per un attimo le loro mani. Presto tutta la provvista di manioca fu grattugiata e un mucchio considerevole della strana poltiglia giaceva davanti a noi sul telo. La mamma intanto aveva cucito il sacco richiestole, che venne riempito con le radici triturate, rimpinzato a dovere e legato ben stretto, in modo che da tutte le parti il succo filtrava attraverso la tela. Ma non bastava ancora, bisognava procurarsi una specie di torchio e allora iniziai sul momento i preparativi necessari. Tagliammo un lungo ramo, ben dritto e robusto, che fu poi ripulito e sgrossato opportunamente. Subito dopo, accanto a una radice bassa del nostro albero-casa accostammo un sostegno di tavole, su cui ponemmo il sacco; disponemmo sul sacco altre tavole e trasversalmente su di esse il lungo ramo, che nella sua parte posteriore si incastrò sotto una solida radice, mentre all'altra estremità, molto sporgente, poté essere rinforzato da pesi. Vi legammo infatti diversi blocchi di piombo, incudini e barre di ferro, finché il sacco fu premuto da un enorme peso e il succo di manioca scaturì da ogni parte, colando a terra. — Ma è davvero estremamente comodo e semplice! — esclamò Fritz. — Dimmi un po', ora, — proseguì la mamma, — non vorrai cuocere la manioca pressata tutta in una volta? In tal caso domani non potremo fare nient'altro che infornare per tutto il giorno. — Niente affatto! — risposi. — Quando la farina sarà completamente asciutta, la potremo mettere nei barili e allora si conserverà bene anche per anni. Solo che se ne consuma tanta durante la cottura, che senz'altro non devi preoccuparti per la sovrabbondanza. Nel calore si fonde, per così dire, e da una grande quantità di farina si ricava soltanto una sottile stiacciata. — Babbo, — chiese Fritz, — non pensi che ora ne dovremmo infornare una in fretta? Non cola più nemmeno una gocciolina di succo dal nostro torchio e quello che era colato prima si è completamente disperso. — È vero, — risposi, — però è prudente frenare la nostra ingordigia sino a domani e per oggi fare soltanto una stiacciata di
prova per i polli e la scimmia. Poi vedremo che effetto farà loro il nostro pasticcio e se è consigliabile avviare la panificazione anche per noi. Il sacco venne subito aperto, ne cavammo fuori alcune manciate di farina e quella rimasta fu rimestata ben bene con un bastone, scossa e rimessa sotto il torchio. Subito dopo una delle piastre di ferro, rotonda e un pochino concava, fu posta ad arroventarsi su alcune pietre; appena fu ben calda, con una pala di legno vi distendemmo una parte della farina, la stiacciammo e la lasciammo stare finché il fondo diventò tutto dorato; allora rivoltammo la focaccia, facendola cuocere anche dall'altra parte. — Oh, che buon profumo! — esclamò Ernst. — Peccato che anche noi non possiamo mangiare subito questo pane fresco! — Ehi, possiamo provarlo almeno io e il piccolo Franz! — propose Jack. — Io dico che voi due siete sempre i più scriteriati! — lo sgridai. — Magari non vi farebbe proprio male, però è più prudente aspettare fino a domani. Non voglio nemmeno esporre al pericolo tutti i nostri polli, ma al massimo due soltanto, e poi mastro Pizzichino, il ladro di uova, ci renderà in questo caso ottimo servizio. Appena la focaccia si fu un po' raffreddata, la sbriciolammo ai nostri assaggiatori che la divorarono avidamente, guardati con invidia dai vogliosi ragazzi. L'indomani mattina corremmo subito dalle galline e dallo scimmiottino per vedere che effetto avesse fatto la stiacciata di manioca e avendo trovato tutti in perfetta salute ci accingemmo con entusiasmo alla grande infornata. La farina di manioca fu tolta dal torchio e fu acceso un gran fuoco per ottenere molto carbone ardente. Però ponemmo sul fuoco anche una caldaia piena di patate, perché la fiamma non si sprecasse inutilmente. Appena la legna divenne tutta brace, a ciascuno dei ragazzi fu affidato il proprio focolare, con una piastra di ferro sopra e a ciascuno fu assegnata la sua parte di farina in un guscio di cocco, perché potesse preparare per benino da sé il proprio pane e si procedesse alla svelta. Tutti erano disposti in semicerchio attorno a me, per poter
osservare ed imitare ogni movimento delle mie mani. Nell'insieme riuscimmo a compiere l'operazione niente affatto male, anche se di quando in quando ci scappava un pezzetto di focaccia mezzo o del tutto bruciacchiata. Ma questo era il minore dei nostri pensieri perché polli, colombi e cani, intorno a noi, ne gradivano ogni volta di vero cuore. Anche da parte dei ragazzi durante il lavoro fu un continuo assaggiare, spilluzzicare e leccarsi le dita, così che per un bel pezzo non riuscimmo a metterne da parte che molto poco. Inoltre qualcuno dei ragazzi procedette con tanto esemplare pulizia che preferii lasciare ad ognuno il suo pasticcio per proprio uso e consumo. Una grande scodella di latte diede l'avvio alla colazione e mangiammo da principi, come disse uno dei ragazzi, o da lupi, come disse un altro. Ora però sentivo in me l'irresistibile bisogno di tornare al relitto e di tornarci con tutta la truppa per conquistare, se possibile, con tutte le forze riunite, la lancia scoperta il giorno prima. Tuttavia la mia buona moglie non si lasciava convincere in nessun modo ad avventurarsi sull'infido mare e solo a fatica e con spreco di parole la potei persuadere ad affidarmi tutti i ragazzi, tranne il più piccolo, per la traversata prevista. In ogni caso dovevo prometterle di tornare a riva la sera e soprattutto di non passare più nemmeno una notte sul relitto. Certo acconsentii solo a malincuore, ma alla fine diedi la mia parola e così ci congedò in pace, anche se sospirando angosciata. I ragazzi, come sempre quando si intraprendeva qualcosa di nuovo, erano vivaci e pieni di buon umore. Ernst specialmente sorrideva tutto soddisfatto all'idea di poter venire un'altra volta con noi. Eravamo armati al completo e ben forniti anche di vettovaglie, cioè di patate e focacce di manioca. Ci dirigemmo verso la Baia della Salvezza, dove arrivammo senza alcuna avventura; là ci allacciammo per precauzione le cinture di salvataggio e, dopo aver distribuito un po' di cibo alle oche e alle anatre, saltammo nella barca-tinozza, rimorchiando anche la zattera e salpammo speranzosi. Appena arrivati al bastimento caricammo un po' le due imbarcazioni, per non tornare a terra a mani vuote. Poi la lancia fu ispezionata ancora una volta. Due punti presentavano insormontabili difficoltà: innanzi tutto il posto in cui essa si trovava e poi le sue notevoli dimensioni, cosa questa molto
importante. Lo scomparto era situato a poppa, sotto l'alloggio degli ufficiali, proprio nella stiva della nave; la murata esterna era contro il mare e diversi tramezzi lo separavano dal nostro solito luogo di ormeggio, nel centro del relitto. Non c'era nemmeno la metà dello spazio sufficiente per rimontare la lancia sul posto e vararla, come avevamo fatto per la barca-tinozza. E d'altronde i singoli pezzi erano troppo pesanti perché potessimo trasportarli con le nostre limitate risorse e forze fino ad un posto più comodo. Mi sedetti per riflettere indisturbato sul modo di attaccare l'opera per il suo giusto verso. Nel frattempo i ragazzi rovistavano il relitto da cima a fondo, trascinando sulla zattera tutto quello che potevano portar via. Nello scomparto in cui stava la lancia, attraverso qualche spiraglio, filtrava un po' di luce, rischiarandolo abbastanza perché potessi guardarmi intorno. Allora notai con piacere che tutti i singoli pezzi dell'imbarcazione erano stati disposti con tale accortezza e numerati, per giunta, con tale esattezza, che potevo presumere senza alcuna temerarietà di poterli rimontare, solo che avessi avuto il coraggio di impiegare il tempo necessario per farmi più spazio intorno, nel bastimento. In quel momento la mia determinazione fu presa ed il lavoro ebbe inizio senza indugio; ma certamente progredì con una lentezza che forse ci avrebbe fatto perdere d'animo se il desiderio di un'imbarcazione solida, sicura ed estremamente facile da guidare, un'imbarcazione che ci prometteva mille comodità e che un giorno avrebbe potuto perfino contribuire alla nostra salvezza, non ci avesse spronati a rinnovare i nostri sforzi. Giunse la sera senza che si fosse fatto alcun notevole progresso e dovemmo senz'altro pensare al ritorno. La mattina seguente ci trovò di nuovo al lavoro. Vivemmo in questo modo più di una settimana, finché la lancia non fu completamente rimontata. Ogni giorno partivamo regolarmente di buon mattino e tornavamo a casa la sera sempre carichi. Alla fine la lancia fu pronta e in grado di tenere il mare; ora si trattava soltanto di trovare il modo di liberarla, dato che rinchiusa nella stiva del relitto non poteva certo servirci. Era molto bella a
vedersi, imponente e nello stesso tempo elegante. A poppa aveva un piccolo castello ed era attrezzata a brigantino; faceva anche sperare che sarebbe stata un buon veliero, perché aveva linee affinate e sembrava che non dovesse pescare molto. Del resto avevamo calafatato accuratamente ogni commessura, cioè le avevamo tappate con stoppa e rivestite di uno strato di pece o catrame perché tutto fosse in ordine anche sotto questo aspetto. Anzi avevo fatto perfino qualcosa di più, mettendo sul cassero due piccoli cannoni a palle da una libbra che fissammo, come si suol fare, con le catene occorrenti. Con tutto ciò, l'elegante imbarcazione stava sempre immobile all'asciutto e invano aspirava a raggiungere il mare aperto e ad essere attrezzata completamente di albero e vele. Le maggiori difficoltà si prospettavano per il necessario sfondamento della murata della nave. Allora, in mancanza di un rimedio razionale, l'impazienza mi fece prendere una decisione audace e arrischiata. Trovai infatti un grosso mortaio di ferro, di quelli che si adoperano nelle cucine e mi sembrò facesse proprio al caso mio. Preparai allora una spessa tavola di quercia e vi fissai dei ganci di ferro. Poi, aiutandomi con una sgorbia, scavai una scanalatura nella tavola e così il primo allestimento fu pronto. Subito dopo i ragazzi dovettero procurarmi della miccia dalla quale tagliai un pezzo lungo tanto da poter bruciare per due ore di seguito. La miccia fu adattata nella scanalatura, il mortaio fu riempito di polvere e sulla sua imboccatura fu posta la tavola con la miccia; attaccammo saldamente i ganci ai manici del mortaio e, nei punti in cui questo veniva a contatto con la tavola, tutte le commessure furono impeciate e catramate. Infine il tutto fu fissato da ogni parte, per maggior sicurezza, con catene ben tese e strette; ottenni così un petardo, o mina, dal quale potevo ripromettermi il massimo rendimento. Appesi rapidamente il terribile ordigno alla murata del relitto, nello scomparto in cui si trovava la lancia, ma con le maggiori precauzioni, in modo che il contraccolpo non la danneggiasse, anzi procurando che il petardo potesse esplodere molto al di sopra di essa, almeno con un po' di fortuna. A questo punto diedi fuoco alla miccia che, lungo la scanalatura, scorreva fin sotto il mortaio e salii con tutta calma a bordo della
barca-tinozza che stava già pronta. Avevo infatti mandato avanti i ragazzi, mentre stavo per accendere la miccia. Allora remammo, rimorchiando la zattera carica, fino al Rifugio della Tenda e là, sbarcando il carico, aspettammo tranquilli l'esplosione. E infatti ecco che presto dal mare si fece sentire uno scoppio fragoroso. Ci guardammo appena l'un l'altro, saltammo di furia nella barca e più velocemente che potemmo uscimmo dalla baia, giacché la curiosità dei ragazzi accelerava le remate. Quando il bastimento apparve ai nostri occhi, vidi con piacere che esso conservava immutato il suo consueto aspetto. Non c'era nemmeno un filo di fumo, che potesse destare la nostra apprensione; col cuore sollevato continuai a remare e, anziché entrare nella stiva della nave, come il solito, dalla parte rivolta verso la costa, girai attorno alla prua per arrivare alla parte opposta, dove avevo collocato il mio petardo. Subito scorsi allora un'incredibile rovina, poiché la murata era quasi completamente fracassata; i rottami galleggiavano nell'acqua innumerevoli, dappertutto c'era scompiglio, e lo scomparto della lancia si spalancava davanti a me, completamente squarciato. Ma la lancia mi sembrò intatta, solo appena piegata da una parte ed io scoppiai in un tonante grido di gioia che meravigliò non poco i miei figli, profondamente turbati dalla devastazione che vedevano intorno a loro. — L'abbiamo conquistata! — esclamai. — È nostra, la splendida lancia! Adesso è facile spingerla in mare. Andiamo su e vediamo se non ha subito danni nell'esplosione. Entrammo allora attraverso lo squarcio e al primo sguardo vidi che la lancia era sana e salva e che da nessuna parte si vedeva traccia di fuoco o fiamme. Il mortaio rimbalzato e i pezzi di catena spaccata si erano profondamente conficcati nella murata opposta e l'avevano in parte fracassata. Subito dopo studiai un po' più attentamente la situazione e vidi che la lancia poteva essere spinta in mare per mezzo di argani e leve di ferro, tanto più che fin da principio avevo usato la precauzione di impostare la chiglia su rulli, così che con vigorose spinte l'imbarcazione si sarebbe certo spostata. Però, prima di intraprendere questa operazione, legai un lungo cavo a poppa e assicurai l'altra
estremità del cavo, in modo che potesse trattenere la lancia se questa, ricevuta la spinta, si fosse allontanata troppo sul mare. Dopo di che ci puntellammo contro di essa, spingendo con tutta la forza del nostro peso e lavorando in parte con leve di ferro, così che l'imbarcazione cominciò presto a muoversi e infine, non senza impeto, filò in mare, frenata tuttavia ancora dal cavo. Con poca fatica la guidammo allora attorno al relitto, verso il punto in cui di solito veniva ormeggiata la zattera e dove un paranco, che era stato applicato ad una trave sporgente per il carico, ci sarebbe stato di aiuto per attrezzare la nostra recente conquista. In realtà con l'aiuto del paranco, albero e vele furono issati in breve tempo e, nei limiti della mia competenza nel campo delle costruzioni e attrezzature navali, furono montati in modo veramente efficace. A questo punto si destò improvvisamente lo spirito bellicoso dei miei ragazzi che non ebbero più pace. Un'imbarcazione armata di due cannoni e per di più piena di fucili e pistole sembrava loro addirittura invincibile e discorrevano con spavalda baldanza di attacchi e difese contro intere flotte di selvaggi, con conseguente annientamento degli stessi. Assicurai loro che dovevamo augurarci di non essere mai posti nella necessità di fare uso cruento dei nostri mezzi bellici, né di dar prova di un eroismo nuovo di zecca. Il completo allestimento ed equipaggiamento del magnifico veliero aveva richiesto ancora qualche altro giorno e poiché lo tenevamo sempre nascosto dietro il bastimento e tutti insieme ci eravamo proposti di fare una sorpresa alla mamma e al piccolo Franz, eravamo riusciti a mantenere la dovuta segretezza e a sfuggire con successo anche alla possibilità di un esame più attento, mediante un cannocchiale, del nostro continuo affaccendarci sul bastimento. Quando tutto fu completo e pronto non potei assolutamente rifiutare ai ragazzi, come ricompensa per il loro silenzio, il permesso di annunciare solennemente il nostro arrivo alla madre con una salva di cannone. Detto fatto, i due cannoni furono caricati e ad ognuno di essi si piazzò uno dei ragazzi con la miccia accesa, bramoso di fare fuoco. Il terzo aveva preso posto presso l'albero maestro per assumere il comando ed anche per badare alla velatura, benché l'essenziale fosse stato già fatto e le vele fossero spiegate. Finalmente
mi misi al timone per governare l'imbarcazione e tra grida di gioia salpammo verso la costa. Il vento ci era favorevole e soffiava vivacemente, così che sfioravamo la superficie dell'acqua come uccelli e la velocità mi dava quasi un senso di vertigine. Con noi volava anche il katamarang che avevamo ormeggiato a poppa a rimorchio. Quando ci avvicinammo all'imboccatura della Baia della Salvezza ammainammo la vela maestra perché potessi pilotare meglio l'imbarcazione, a poco a poco ammainammo anche le altre vele, perché la forza del vento non ci sbattesse contro le rocce né ci facesse arenare. Rallentammo in tal modo la nostra corsa e potemmo iniziare la grande impresa del saluto e dell'ormeggio. — Numero uno, fuoco! Numero due, fuoco! — comandò Fritz con entusiasmo; Jack ed Ernst spararono impavidi, i colpi rimbombarono, la costa rocciosa rimandò un'eco grave e risonante; Fritz sparò ancora due colpi di pistola e alla fine prorompemmo in fragorosi urrà. Con tutti i segni dello stupore e della meraviglia sul volto, la mamma ci fece un affettuoso cenno di benvenuto, mentre il piccolo Franz al suo fianco, con gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, non sapeva ancora se doveva ridere o piangere. Quando infine attraccammo abilmente ad una piccola sporgenza della roccia che poteva servirci da banchina e dove la nostra lancia pescava ancora abbastanza, la madre venne in fretta verso di noi, gridando tutto d'un fiato: — Oh, cara detestabile gente! Quanta gioia e quanta paura mi avete dato! Non sapevo da dove mai venisse quel magnifico veliero e chi potesse esserci dentro. Mi sono nascosta dietro le rocce e quando ho sentito il cannone ho sobbalzato per la paura. Se alla fine, per mia consolazione, non avessi riconosciuto le vostre voci, sarei scappata via, lo sa il Cielo quanto lontano! Però che graziosa, elegante imbarcazione! Navigare con un mezzo come questo, ecco, è già un'altra cosa, allora ci starei anch'io! Ne avremo certo piacere e utilità! Piena d'entusiasmo salì a bordo della lancia e si meravigliò sempre più che fossimo riusciti a montarla così bene e lodò di cuore la nostra abilità e tenacia. — Però non dovete pensare, — soggiunse,
— che noi due, io e il piccolo Franz, siamo rimasti in ozio durante la vostra assenza! Oh, no! Abbiamo lavorato sodo anche noi nel frattempo e se oggi non possiamo dimostrarlo con gli spari, lo faremo in seguito con le pietanze. Venite dunque con me! Svelti e incuriositi saltammo a riva. La mamma ci condusse più avanti verso la parete rocciosa, nel punto in cui sgorgava il Torrente degli Sciacalli e mostrò ai nostri sguardi meravigliati un orto impiantato a regola d'arte, già a buon punto di coltivazione. — Guarda — disse, — il frutto del mio sudore! Il terreno era abbastanza molle perché potessi lavorarlo. Là ci sono belle e buone patate, affidate alla madre terra; qui ho piantato manioca; di là ho seminato lattuga e insalata. Qua vicino ho lasciato posto per canne da zucchero e se tu in seguito, con l'aiuto del bambù, vorrai incanalare un po' d'acqua dalla cascata qua vicino, avrò anche linfa e ristoro per ogni vivaio e tutto potrà prosperare a meraviglia. Ma ancora non abbiamo finito! Laggiù sui gradini più bassi della roccia ho trapiantato per te alcuni ananas con tutte le loro radici e con la terra a cui erano attaccati e qua e là ho piantato semi di melone che con i suoi viticci rivestirà gradevolmente la roccia. Qua è previsto il posto per le fave e là dell'altro posto per vari tipi di cavoli. Attorno ad ogni coltura abbiamo seminato dei chicchi di granturco, affinché le pannocchie crescendo diano un po' di ombra, secondo il bisogno, così il sole cocente non brucerà ciò che dovrà spuntare in ogni pezzetto di campo. — Mammetta, — esclamai, — sei davvero una donna eccezionale! Non avrei mai supposto che tu e il piccolo Franz con le vostre deboli forze foste capaci di compiere un'opera tanto faticosa e soddisfacente, e per di più in così breve tempo e del tutto a mia insaputa! Allegri e felici per le lodi date e ricevute tornammo al nostro solito luogo di riposo davanti alla tenda. La mamma mi rammentò che con i miei viaggi al relitto avevo trascurato completamente e forse troppo a lungo gli alberelli da frutta al Nido dei Falchi; aggiunse che all'aria aperta si erano disseccati e se non li avesse spruzzati di tanto in tanto con acqua e non li avesse prudentemente protetti con rami, nemmeno una pianta sarebbe stata
più utilizzabile. — Ne ho sotterrate alcune, distendendole nel terreno fresco, — soggiunse la brava donna, — e avrei fatto lo stesso anche con le altre se il tempo e i lavori del mio orto me lo avessero permesso. — Hai fatto quanto di meglio si poteva fare in simili casi, — le assicurai, — e andremo subito al Nido dei Falchi perché gli alberelli mi stanno molto a cuore. — È appunto quello che dico, — affermò lei; — dobbiamo tornare tutti insieme al nostro castello pensile, perché là c'è molto da fare. Le cose più importanti ed essenziali del relitto adesso sono in salvo, ma al Nido dei Falchi c'è ancora tanta roba allo scoperto che ora soffre per il sole e più tardi soffrirà per la pioggia, se non la ripareremo. Ed alla fin fine ormai sono rimasta abbastanza in questo calderone di Rifugio della Tenda, dove dall'alba al tramonto non si finisce mai di sudare. — Manimetta! — risposi, — hai perfettamente ragione e purché tu non mi proibisca del tutto il mare, trovo anche giusto adeguarmi ai tuoi desideri e tornare a casa. Però fammi prima scaricare la nostra imbarcazione per mettere tutto al sicuro, come al solito. Così l'ultimo bottino del relitto fu collocato con le altre provviste e ricoperto accuratamente con tela che poi assicurammo come meglio si poteva con i paletti. La lancia fu ancorata e la sua prua venne ormeggiata a un palo. Poi iniziammo il ritorno a casa, portando con noi tutto quello che poteva servirci là e tanto noi che gli animali fummo caricati sino all'eccesso. Il giorno seguente coincise con la domenica, che festeggiammo nel solito modo. Nel pomeriggio, mentre i ragazzi si esercitavano in arrampicate e tiri con l'arco, io avevo fissato due palle di piombo ai due capi di uno spago lungo un paio di metri circa. — Che ne farai? — esclamarono i figli, appena se ne furono accorti. — A che cosa può servire? Come si usa? — Dovete sapere, — dissi loro, — che qui, in piccolo, vedete l'arma da caccia e da guerra di tutto un popolo valoroso, dedito alla caccia e precisamente dei famosi e un tempo giganteschi Patagoni, che vivono nell'estremo sud dell'America. Solo che essi, al posto
delle palle, legano grosse pietre con cinghie di cuoio, certamente più solide e anche molto più lunghe di questo spago. Secondo i loro bisogni, partono equipaggiati in questo strano modo e pare che si servano con incredibile abilità del rudimentale strumento chiamato boia. Quando si tratta di ferire o di uccidere, scagliano con tutta la loro forza soltanto una delle pietre verso chi vogliono colpire e la tirano immediatamente a sé, per mezzo delle cinghie e della seconda pietra, che tengono stretta nell'altra mano, per ripetere subito il lancio, se necessario. Se invece vogliono prendere viva la selvaggina, fanno volteggiare una delle pietre sul proprio capo, perché ottenga un potente impulso e poi di colpo la lanciano insieme con l'altra contro la bestia e con tale sicurezza da prendere al laccio anche un animale fuggente al galoppo, poiché le pietre continuano a girare attorno alla cinghia e, quando questa circonda il collo o i piedi dell'animale, le pietre avvinghiano col loro slancio l'animale impigliato e così fulmineamente e saldamente che nella maggior parte dei casi esso non può più andare avanti o ne è molto impedito, cadendo in tal modo nelle mani del cacciatore che l'insegue. La descrizione della caccia dei Patagoni diverti moltissimo i ragazzi e dovetti dare subito una dimostrazione pratica dello strumento appena fatto, lanciandolo da una certa distanza contro un piccolo tronco d'albero, indicatomi da loro. Il tiro mi riuscì e la fune con le palle si avvolse così strettamente attorno all'albero, che i vantaggi della destrezza patagonica divennero chiari e lampanti. Ognuno dei ragazzi pretese sul momento la sua boia e Fritz si mise subito in movimento, per imparare a perfezione il nuovo esercizio. Fu anche il primo dei quattro ragazzi che, dopo instancabili prove, raggiunse un certo successo, poiché, se da un lato era il più abile, dall'altro aveva più forza fisica e più maturità di giudizio. Il giorno successivo a quella domenica così lietamente trascorsa, scesi di buon'ora dal castello pensile e notai subito che il mare era molto mosso e che il vento aveva cominciato a soffiare impetuosamente. Fui molto contento di trovarmi di nuovo al Nido dei Falchi e di aver destinato quel giorno alle faccende da sbrigare a terra. Infatti, se per autentici marinai e gente di mare quella era tutt'al più una brezzolina frizzante e sana, per noi principianti la traversata
verso il relitto sarebbe stata una temerità e quel po' di vento altrettanto pericoloso quanto una vera tempesta per valenti marinai. Più di ogni altra cosa mi preoccupavano gli alberelli da frutto, perché indubbiamente parevano volersi disseccare completamente. Decisi di ovviare innanzi tutto a quel malanno e di andare in un secondo tempo al boschetto delle zucche per rifornirci, nella necessaria quantità e misura, di recipienti adatti ad ogni sorta di usi e di provviste. Mi accinsi quindi con tutta la brigata a mettere a dimora gli alberelli e il vivo desiderio di una bella camminata, quale da un pezzo non facevamo, ci spronò talmente che il lavoro fu finito prima di quanto si pensasse. L'indomani allo spuntar del giorno tutti erano già in piedi in ansiosa attesa e gli ultimi preparativi per la partenza furono fatti con eccezionale rapidità. L'asino attaccato al traino aveva stavolta un ruolo principale, essendo stato destinato a trascinare a casa gli utensili di zucca e, occorrendo, a prestare anche il suo servizio di trasporto dei ragazzi più deboli. Per il momento portava soltanto le vettovaglie e un po' di polvere e di pallottole. Turk, come il solito, apriva il corteo. Dietro di lui venivano i ragazzi in completo assetto di caccia. Li seguivamo io e mia moglie e finalmente, un po' depressa, con mastro Pizzichino sulla groppa, Bill a passo lento faceva da retroguardia. Questa volta portavo un fucile da caccia a due canne, di cui la prima era caricata a pallini per la selvaggina, mentre l'altra era validamente caricata a palla, per difesa. Così partimmo allegri ed animosi dal Nido dei Falchi, girammo attorno alla Palude del Fenicottero e arrivammo presto alla splendida zona di là dalla palude. La mamma e i ragazzi più piccoli, che non c'erano mai stati, non si stancavano di ammirarla. Fritz, avido di nuove avventure, lasciò la riva e attirò Turk in disparte; ambedue si inoltrarono, poi attraverso l'erba alta, scomparendo di quando in quando ai nostri occhi. Presto Turk con i suoi latrati fece levare un poderoso uccello e fulmineo Fritz, con tiro felice, lo abbatté. Ma il colpito era tutt'altro che morto, anzi se la svignò subito, con incredibile velocità e con tutta la forza delle zampe robuste. Turk l'inseguì furioso; Fritz gridava come un pazzo correndo ansante dietro di loro; quando Bill, sempre vigile, se ne
accorse, gettò a terra con uno scarto la scimmietta-fantino e come un falco seguì cacciatori e selvaggina: attaccò la preda di fianco, riuscendo ad afferrarla e a trattenerla energicamente finché Fritz non li ebbe raggiunti. Ma stavolta la lotta fu del tutto diversa da quella sostenuta col fenicottero, che aveva becco e zampe più deboli. L'uccello ferito era grande e forte, aveva zampe vigorose che sapeva adoperare bravamente, tirando colpi potenti. Fritz, scoraggiato, si aggirava a piccoli passi tutt'intorno al campo di battaglia, non sapendo da che parte prendere la bestia, perché perfino Turk che si era fatto avanti coraggiosamente, era stato intimidito o stordito da un paio di zampate sulla testa, tanto che non osava più accostarsi. Dovettero così aspettare bellamente che arrivassi io e questo non avvenne proprio in fretta, a causa dell'erba alta e del mio pesante carico. Ma appena arrivato sul posto, fui felice di vedere una magnifica otarda che stava là, già mezzo sopraffatta dalla mia truppa bellicosa! Per impadronirmene senza ammazzarla presi il fazzoletto, colsi il momento buono e lo gettai con tanta abilità sulla testa della gagliarda combattente che questa non poté più vedere né svincolarsi. Immediatamente le impastoiai con un forte laccio le zampe, che si dibattevano pericolosamente, liberai Bill che si era attaccata con i denti all'ala ferita e legai le due ali ben strette al corpo con una fune girata tutt'intorno. Così alla fine la bestia ribelle, nonostante tentasse ancora di darmi qualche zampata, fu completamente domata e addirittura impacchettata per il trasporto. L'imponente preda mi rallegrava molto e la destinai all'incremento del nostro piccolo allevamento di polli, a cui era rivolta la mia costante attenzione. Senza perder tempo portammo la prigioniera verso il resto della comitiva, che aspettava con curiosità. Nel frattempo tutti si erano sdraiati un po' sulla spiaggia ed Ernst e Jack balzarono subito in piedi, gridando da lontano: — Ma è magnifica! Ero anch'io dello stesso parere; feci quindi legare l'otarda sul traino e di buon umore continuammo a camminare verso il bosco delle scimmie, dove Fritz dovette raccontare di nuovo alla madre e ai fratelli incuriositi l'accaduto tragicomico che aveva dato il nome al boschetto. Ernst invece si tirò in disparte e, tutto preso dallo splendore degli alberi circostanti, si piantò davanti ad una palma da
cocco che stava in un angolo un po' isolata. Sbalordito dall'enorme altezza, il ragazzo alzava meditabondo gli occhi lungo l'interminabile tronco su fino ai bei grappoli di cocchi che pendevano sotto la corona delle foglie, e che suscitavano nel suo cuore la più tenera commozione. Inosservato mi ero messo dietro di lui e mi divertivo all'espressione del suo stupore, finché il ragazzo si animò, esclamando con un sospirone: — Ma è terribilmente, terribilmente alto! — Vero? — dissi. — E le noci di cocco ti ridono amabilmente in faccia, che è un vero piacere! Oh, se potessero volarci in bocca! — Perdinci, questo no! — fu la sua risposta. — Mi farebbero dei finestrini tra i denti, il che non sarebbe certo piacevole e potrebbe pure capitarmi di peggio. Aveva appena finito di dirlo, ed ecco che una massiccia noce cadde pesantemente dall'albero sull'erba davanti a noi e mentre Ernst sbalordito saltava da una parte, guardando in alto, di colpo un'altra noce cadde accanto alla prima. A questo punto anch'io dovetti meravigliarmi. — Ehi, — disse il ragazzo, — capita quasi come nelle fiabe. Appena si manifesta un desiderio, eccolo già esaudito. — Certo, — ribattei, — ma probabilmente il mago che ci serve con tanta premura potrebbe starsene accovacciato sulla cima dell'albero sotto le sembianze di una scimmia e potrebbe avere piuttosto l'affettuoso desiderio di cacciarci via a sassate, anziché quello di fornire il nostro desco di lauti bocconi. Ernst si arrischiò a raccogliere i due frutti e notammo che non erano del tutto maturi né tanto meno disseccati o andati a male, così che non c'era alcun motivo perché fossero caduti da soli. Girai quindi con Ernst intorno all'albero, guardando in alto per scoprire che cosa diamine avesse causato la loro caduta. Intanto anche Fritz con la mamma e gli altri ragazzi si erano avvicinati a noi. Ci sparpagliammo tutt'intorno guardando più attentamente in alto quando, con nostra meraviglia, due frutti perfettamente sani si staccarono dai peduncoli, cadendo riverenti ai nostri piedi. — In ogni caso è uno stregone molto cortese e giudizioso, quello che esercita la sua magia lassù! — disse Ernst. — Quando qua sotto
c'eravamo soltanto noi due, ci ha gettato due noci; ora invece, visto che gli ospiti sono aumentati, si appresta ad apparecchiare la tavola un po' più generosamente, come si vede, ed allora mostriamoci riconoscenti, apriamo subito una noce e beviamo alla salute del mago con tutta la debita gratitudine. — Sì, sì, — disse Jack, guardando allegro le noci in alto, — questo «mastro Hemmerli» 3 sa fare le cose a modo. E se adesso vuol regalare ancora un paio delle sue noci a me e al piccolo Franz, gli faremo tutti un caloroso evviva! — Ecco, ecco! — gridò Fritz in quel momento, — l'ho scoperto, babbo! È una bestia proprio orrenda, piatta, rotonda, grande quanto l'interno del mio cappello e con due orribili pinze di gambero; eccolo che scende lungo il tronco. A questa notizia il piccolo Franz si nascose in fretta dietro la mamma. Ernst si guardò intorno, per vedere dove poteva mettersi in salvo all'occorrenza; Jack alzò minacciosamente il calcio del fucile e tutti guardammo incuriositi l'albero che aveva alloggiato un ospite tanto insolito. La brutta bestia scivolava lentamente, con comodo verso di noi; quando fu arrivata a una distanza raggiungibile, Jack attaccò battaglia col suo fucile, ma mancò il colpo e la bestia cadde improvvisamente a terra con un sol balzo. Veloce e con le pinze spalancate si diresse ora contro il suo aggressore. Il mio ometto si difendeva certo valorosamente, ma con un ardore tale che non riuscì ad assestare nemmeno una botta, tanto più che il suo avversario sapeva scansare abilmente ogni colpo; infine, stanco di picchiare a vuoto e ricordando forse come le pinze dei granchi sapevano bene attanagliare i polpacci, Jack fece dietro-front e scappò via. I fratelli scoppiarono in sonore risate. Istantaneamente il ragazzo si fermò, posò a terra borsa e fucile, si tolse la giacca e tenendola allargata con entrambe le mani, corse di nuovo contro il suo nemico. 3
In Svizzera un uomo destro, e specialmente un giocoliere o qualcuno a cui si attribuiscono poteri di stregoneria, viene chiamato talvolta mastro Hemmerli, probabilmente dal famoso dotto Felix Hemmerlein, canonico di Zurigo vissuto prima della Riforma. Perfino il diavolo è chiamato qualche volta in questo modo, che è abbastanza curioso. (N. d. A.)
In modo del tutto inaspettato la lanciò sull'animale, vi si gettò sopra con tutto il peso del suo corpo, avvoltolò la giacca tutt'intorno e cominciò a tempestare furiosamente di pugni il bizzarro fagotto. — T'insegnerò io, mostro sciagurato! — gridava; — t'insegnerò io a comportarti bene! Che modi sono questi, di salutare con le tenaglie? Ridevo tanto, che per un pezzo non riuscii nemmeno ad aiutare il ragazzo; infine però balzai su e, afferrata l'accetta, picchiai così sodo sull'involto che mi sembrò potesse bastare; allora lo svolsi e come mi aspettavo, trovai la bestiaccia morta, ma con l'aspetto ancora più minaccioso che da viva. — Dio! Ma è proprio una bestia orribile, schifosa! — affermò Jack. — Se non fosse stata così ripugnante non mi sarei infuriato tanto. Ma paura non ne avevo. Che razza di animale è questo? — È un granchio, — risposi, — o, se preferisci, un granciporro e visto che vai avanti di questo passo, ti nominerò, secondo le regole, Cavaliere del granchio, perché questa volta ti sei comportato in modo diverso da quell'altra, sulla riva del mare, quando le tue gambette furono abbrancate pietosamente. Guarda bene, però, questo temerario qua mi pare un cosiddetto granchio del cocco e se si è così incapricciato delle noci di cocco, deve avere certo forza e furberia sufficienti per poter aprire i gusci e perciò è anche un avversario notevole per un ragazzo. Così dicendo caricai granchio e noci di cocco sul traino. Per un pezzo ancora dovemmo inoltrarci a fatica attraverso il boschetto, finché uscimmo di nuovo all'aperto e allora, un po' a destra davanti a noi, in direzione della riva, scorgemmo la macchia delle cucurbitacee e presto raggiungemmo il bel posticino in cui qualche tempo prima mi ero riposato. Tutti si meravigliarono delle belle piante e dei bizzarri frutti così stranamente ingrossati; cominciai subito a cercare attentamente zucche di forma e grandezza differenti, per poterne lavorare alcune là sul posto per le nostre svariate necessità e portar via le altre. In breve tempo se ne ammucchiò un buon numero e cominciammo a tagliare, segare, incidere, che era un piacere. Per prima cosa fabbricai un grazioso canestro per le uova, lasciando attaccata alla metà inferiore
di una zucca, già svuotata, la parte superiore sagomata ad arco. Subito dopo pensai ad una quantità di recipienti per il latte e per la panna, con i relativi coperchi; la metà superiore di ogni zucca, dopo esser stata ripulita, veniva riappoggiata su quella inferiore, ugualmente preparata. Ricavai poi i fiaschi per l'acqua, che in alto avevano un'imboccatura rotonda, larga circa un dito; in questi però dovemmo raschiare fuori la polpa con pallini di piombo e sabbia. Finalmente fabbricammo piatti piani e scodelle più fonde e perfino arnie per le api e nidi artificiali per i colombi e per i polli. Questi ultimi riuscirono così bellini, ricavati dalle zucche più grandi e con l'imboccatura per scivolarvi dentro, che Franz avrebbe voluto essere soltanto un pochino più piccolo per potersi concedere una casetta simile. I nidi di colombi erano destinati ad essere inchiodati qua e là sui rami del nostro castello pensile e pensavo di disporre poi alcuni dei nidi più grandi, che oltre ai polli erano destinati alle anatre e alle oche, sotto le imponenti radici dei nostri alberi e in riva al ruscello, così da farne quasi dei villaggetti o delle piccole fattorie. Naturalmente riuscimmo a fare tutti questi oggetti solo in modo mediocre ed irregolare, ma abbastanza passabile, così che in ogni caso potemmo portarci a casa una gran quantità di utensili fatti da noi. Nel frattempo il piccolo Franz e la mamma avevano arrostito un po' di patate raccolte strada facendo; mi mostrarono anche una strana specie di mele deliziosamente profumate, ma non osammo mangiarne, perché non le conoscevo. Intanto attratto dalla loro vista, mastro Pizzichino, zitto zitto, si era avvicinato e poiché da vero ladro ne aveva afferrato qualcuna, divorandola con evidente piacere, l'appetito dei ragazzi cominciò ad esserne fortemente stuzzicato; anche l'otarda, che avevamo legato ad un albero con un lungo spago attaccato alle zampe, ingoiò senza esitazioni alcune mele lanciatele; potei dunque dare il permesso di mangiarne. Le trovammo molto saporite e con qualche sicurezza potei presumere che si trattasse delle cosiddette goyave, frutti eduli delle Indie occidentali. Ma questo spilluzzicare, anziché soddisfare la nostra fame, l'aveva stimolata, risvegliandola, quasi, e poiché non avremmo certo avuto il tempo di ammannire lì sui due piedi il granciporro, fummo costretti ad accontentarci dei cibi freddi portati con noi dal Nido dei Falchi.
Come dessert potemmo assaggiare qualche patata mezzo arrostita. Ma eravamo appena un po' rinforzati e rianimati da questo pasto, che già la mamma ci raccomandava con viva insistenza di iniziare il viaggio di ritorno, perché si avvicinava la sera. Anche a me il crepuscolo sembrava prossimo e pensai che fosse meglio non riportare a casa il traino; decisi quindi di lasciarlo nella macchia sino all'indomani e di caricare sul nostro asino bigio soltanto le solite bisacce, cariche di stoviglie di zucca perfettamente secche e il più piccolo dei figli; equipaggiai infine la grande otarda con delle funi, senza stringerla troppo, ma togliendole la possibilità di darsela a gambe. Tutti questi preparativi furono fatti rapidamente. Passammo per un maestoso bosco di querce, piacevolmente interrotte qua e là da alberi di fichi. Il suolo era quasi tutto ricoperto di innumerevoli ghiande e con esse l'otarda si ristorò a sazietà. Arrivammo infine al Nido dei Falchi ancora prima che annottasse, così che ci rimase tempo a sufficienza per scaricare l'asino, governare le bestie e preparare la cena. Mangiammo con gran gusto il granchio, arrostito alla griglia e come contorno furono messe sulla brace patate e ghiande; il piccolo Franz si era assunto l'incarico di apprendista cuoco ed aveva acceso un bel fuoco allegro che ci fu molto gradito, anche perché il fresco della sera cominciava ad essere pungente. Si capisce che il giorno successivo, senza perdere tempo, ci recammo a riprendere il traino nella macchia delle cucurbitacee. Mi misi perciò in cammino senza indugio con Fritz e con l'asino, e ordinai agli altri di rimanere con la loro madre, perché mi proponevo di tentare un'escursione molto più oltre le rocce e non volevo essere intralciato dai ragazzi più deboli e timorosi. Quando giungemmo alle querce sempreverdi trovammo sotto di esse la scrofa che si rimpinzava di ghiande. Osservai con piacere che si lasciava accostare con più confidenza di prima e pareva che avesse mitigato i suoi modi selvatici. Camminando per il bosco raccogliemmo una provvista delle ghiande cadute e siccome ci aggiravamo senza far rumore, gli uccelli anch'essi occupati nella loro colazione diventarono piuttosto audaci e noncuranti, tanto che Fritz poté acchiappare dai rami più bassi una ghiandaia e due pappagalli. La prima mi sembrò una grande
ghiandaia azzurra americana, riconoscibile per il ciuffo sulla testa; dei pappagalli, il più bello era una magnifica ara rossa, mentre l'altro era un comune pappagallo con penne verdi spruzzate di giallo. Caricammo gli uccelli sull'asino e ci rimettemmo in cammino, finché arrivammo al traino, nella macchia delle cucurbitacee, dove con grande soddisfazione trovammo tutto in ottimo stato. E poiché era ancora presto, iniziammo senz'altro l'esplorazione della parete rocciosa per giungere, se possibile, alla fine delle rocce e vedere se offrissero in qualche punto un passaggio e una possibilità di arrivare all'entroterra o se cingessero tutta la costa in cui ci trovavamo. Ogni tanto s'incontravano ruscelli come quello del Nido dei Falchi, che ci davano un gradito ristoro. Dopo aver attraversato il boschetto in cui la mamma aveva trovato le goyave, fummo costretti ad aprirci faticosamente un varco in mezzo ad un'enorme quantità di arbusti di manioca e piante di patate, che ci impedivano il passo; ma eravamo ripagati dalla libera vista, consentita dalla bassa vegetazione. Presto ci trovammo in una macchia nuova e folta di piante sconosciute, i cui rami quasi penzolavano, sovraccarichi di bacche assai curiose: erano come ricoperte di cera e quando noi, ignorandone ancora la qualità, ci affrettammo a coglierne alcune, si appiccicarono alle nostre dita. Ora io sapevo che in America esiste una pianta che produce cera e che i botanici chiamano «Mirica cerifera» e perciò la scoperta fatta mi rallegrò moltissimo. Fritz si accorse della mia gioia e mi chiese che cosa si poteva ricavare da quelle bacche. — Ci renderanno un ottimo servizio, — gli risposi; — si fanno bollire in acqua abbondante e si ritirano poi con la schiumarola. Subito dopo si filtra l'acqua attraverso una tela e si lascia raffreddare. Alla sua superficie si forma allora uno strato più o meno spesso di cera verde, che certamente è più grossolana di quella delle api, ma che serve ottimamente a far candele, anzi pare che bruciando mandi un odore piacevole. Allora Fritz raccolse tante bacche quante ne poté stipare in una delle sacche dell'asino e lo aiutai volentieri, sicché la sacca fu presto ricolma e pensammo che fosse giusto riprendere il cammino. Avevamo già fatto un bel pezzo di strada e di nuovo incontrammo un boschetto di alberi molto strani, simili a fichi selvatici, che
avevano un frutto rotondo dalla polpa succosa, piena di piccoli semi e dal sapore un po' asprigno; osservandoli meglio, notammo in alcuni una specie di resina o di gomma che sembrava trasudata dai tronchi attraverso qualche casuale spaccatura coagulata e indurita dall'esposizione al sole e all'aria aperta. La nuova scoperta attrasse immediatamente Fritz, perché la somiglianza di quella gomma con la resina degli alberi di ciliegio - che egli aveva spesso raccolto nella nostra patria e che aveva usato come gomma arabica per attaccare ed incollare - era troppo seducente perché all'istante non si affrettasse a raschiarne una buona scorta per il medesimo uso. Continuando a camminare Fritz volle sciogliere un pezzetto della sua nuova conquista, aiutandosi con un po' di saliva tra le dita. Ma per quanto si desse da fare, non riusciva ad ammollare la gomma e probabilmente il ragazzo avrebbe buttato via di nuovo il suo tesoro se quella roba, ammorbidita a poco a poco dal calore della mano, in un movimento del tutto fortuito, non si fosse allungata stranamente tra le sue dita, ritraendosi poi con scatto elastico. Questo inaspettato fenomeno colpì Fritz. — Guarda, guarda dunque, babbo! — esclamò, — credo che la resina di questi fichi sia autentico caucciù o gomma elastica, perché posso stenderla molto e di colpo essa riprende la sua forma! — Davvero? — gridai pieno di gioia. — Questa sarebbe una meravigliosa, incomparabile scoperta, che può servire a molti eccellenti usi. Il caucciù — gli spiegai, — è infatti una specie di latice che sgorga da certi alberi e specialmente dall'autentico albero della gomma, per mezzo di incisioni provocate nella sua scorza. Da noi questa resina si importa per lo più dal Portogallo o dalla Francia, perché viene coltivata nei paesi sudamericani come il Brasile, la Guiana e la Caienna. Di solito appare in forma di fiaschette nerastre, perché gli indigeni, che sono i primi a ricavarla, ne spalmano piccole fiasche di terracotta, fino al giusto spessore, mentre la resina è ancora fresca e fluida. Questi vasi vengono poi esposti al fumo, finché la resina si asciuga completamente, prendendo il suo colore scuro; a questo punto, o talvolta un po' prima, si incidono o si imprimono nella gomma le diverse figure e linee con cui sono di solito decorate le fiaschette. Infine la fiaschetta di terracotta viene schiacciata e
frantumata, dentro il suo rivestimento di resina; i cocci sono estratti dall'imboccatura e rimane un vaso di caucciù perfetto, elastico e comodo, facilmente trasportabile, infrangibile e adatto ai più diversi usi. Del resto gli si può dare, come puoi ben capire, ogni forma possibile e così, se anche noi sapremo trovare il giusto verso, spero di poterne fare perfino scarpe e stivali. Nel frattempo eravamo arrivati all'orlo del boschetto di cocco e riconoscemmo, ampia davanti a noi, la grande baia e a sinistra il Capo della Speranza Delusa, che tempo prima era stato l'estremo limite della nostra spedizione. Senza fermarci, ci accingemmo a proseguire quella fortunata escursione, a cui però un fitto intrico di canne di bambù, nel quale non osammo entrare, sembrò presto opporre un limite naturale. Volgemmo quindi a sinistra verso il Capo della Speranza Delusa, dove le allettanti canne da zucchero che crescevano fino a metà del promontorio, facevano sperare in un bottino troppo gradevole, perché potessimo rassegnarci a tornare a casa a mani vuote. Un grosso fascio della leccornia fu quindi caricato sull'asino, sopra il sacco delle bacche di cera, e non mancammo di tagliarci dei rifocillanti bastoni da passeggio. In breve tempo tornammo alla macchia delle cucurbitacee, dove il traino ci aspettava pazientemente. Là scaricammo l'asino; le canne da zucchero furono poste sul traino e mastro Bigio dovette adattarsi a tirare con pazienza quello che fino allora aveva portato con mansuetudine. Senza altre avventure tornammo così abbastanza presto dai nostri cari, che si rallegrarono molto dei tesori conquistati e della minuziosa descrizione del viaggio; ma per i ragazzi il piacere più grande fu la vista del pappagallo verde. Dopo una squisita cena, salimmo finalmente sul far della notte sul nostro superbo castello tra i fichi, ritirammo la scala e ci abbandonammo al riposo di cui avevamo tanto bisogno.
CAPITOLO IV IL RELITTO VIENE FATTO SALTARE. - L'ASINO DISERTA E RITORNA CON UN COMPAGNO. - UN BUFALO, UNO SCIACALLO E UN'AQUILA VENGONO CATTURATI E ADDOMESTICATI. — FACCIAMO le candele! Facciamo le candele! — gridavano tutti, madre e figli, la mattina seguente e non mi lasciarono in pace finché non ebbi loro promesso di mettermi subito all'opera, accingendomi seriamente a fabbricare candele di cera con le bacche della «Mirica cerifera». Facemmo bollire nella più grande delle nostre caldaie tutte le bacche che essa poteva contenere e ottenemmo così una considerevole quantità di bella cera verde e profumata; ancora allo stato fluido la travasammo in un altro recipiente e cominciammo subito a lavorarla. Infatti, mentre le bacche bollivano, da una tela sfilacciata avevamo ricavato, attorcigliandoli, un buon numero di lucignoli; questi vennero ripetutamente inzuppati con cura nella massa di cera, tanto da prendere l'aspetto di buone candele, che furono appese al fresco, affinché asciugando si indurissero. Naturalmente le candele non riuscirono ben tornite, levigate e regolari come quelle fatte dal candelaio, ma quando al calar della sera accendemmo per prova la prima, essa bruciò e rischiarò così bene che nel nostro castello pensile potemmo spogliarci comodamente e metterci a letto alla sua luce. Il successo riportato ci mise straordinariamente di buon umore e ci diede il coraggio di attuare subito un'altra impresa, desiderata ardentemente dalla mamma. Infatti, poiché avevamo una certa scorta di panna, bisognava decidersi a farne del burro e dovevo perciò preparare l'attrezzatura necessaria. Il mio piano fu presto fatto; una grande zucca bislunga, già scavata, fu riempita di panna; il coperchio fu ben richiuso e legato
con cura in modo che il liquido non potesse colarne; subito dopo il recipiente fu posto sopra un telone, le quattro punte furono appese ad altrettanti pali e la parte centrale caricata della zucca, come una specie di sacco, fu lasciata libera per poterla muovere a volontà; a questo punto ognuno dei quattro ragazzi cominciò a tirare su e giù dolcemente una delle cocche, imprimendo alla tela un movimento oscillatorio e poiché questo lavoro si poteva fare con estrema facilità e perfino stando seduti, in breve i ragazzi, tra ogni sorta di scherzi e di chiassose cantilene, avevano tanto dondolato che potei sperare di vedere la panna già solidificata e effettivamente, aprendo la zucca tra la gioia generale, vi trovai dell'ottimo burro. Notevolmente più difficile fu invece per me un altro lavoro che già da molto tempo mi sembrava quasi indispensabile. Infatti spesso avevo osservato che il traino era troppo pesante per i nostri animali da tiro e soprattutto troppo scomodo e perciò da un pezzo mi ero proposto di costruire un piccolo carro con le ruote trovate a bordo del relitto. Ora avvenne che prima di iniziare il lavoro mi pareva di aver osservato così bene tutte le forme e varietà di carri del nostro paese, da poter fabbricare con successo un vero e proprio veicolo. Ma quando ebbi messo insieme ascia e sega, legno e ferro, trapano e martello, chiodi e viti, a dire il vero, a malapena sapevo come incominciare e molto meno come continuare e completare l'opera; e così capii quanto sia difficile poter dire di aver osservato a sufficienza qualcosa e quanto sia giusta l'affermazione «conoscere bene una cosa come se l'avessimo fatta con le nostre mani». Alla fine, dopo molta fatica e numerosi sbagli, affastellai e misi su alla meglio una specie di carro-rastrelliera a due ruote, che in seguito ci fu molto utile per trasportare a casa il raccolto. Siccome intanto il Rifugio della Tenda doveva servirci effettivamente più che altro come asilo in caso di pericolo, poiché oltre alle provviste vi erano custodite anche armi e munizioni, badammo principalmente a renderlo più sicuro, piantandovi intorno una fitta siepe di piante spinose contro l'irruzione di animali feroci e perfino contro l'assalto di qualche turba di selvaggi, se mai si verificasse un'eventualità del genere. Anche le adiacenze del ponte, che del resto si poteva render intransitabile togliendo alcune tavole,
furono fortificate e per prudenza piazzammo i due cannoni della lancia dietro una piccola trincea. Fra tante stancanti occupazioni sentivamo però di nuovo la necessità di tornare ancora una volta al relitto, poiché soprattutto i nostri vestiti avevano bisogno di essere rinnovati e sapevo che nel bastimento ce n'erano ancora alcune casse piene. A ciò si aggiungeva il desiderio di salvare possibilmente qualche altro cannone, per poter difendere a dovere, in caso di necessità, il nostro trinceramento da attacchi di mare e di terra. Il primo giorno favorevole partii dunque con i tre ragazzi più grandi alla volta del relitto, dove trovammo ancora tutto in ordine; solo che vento ed acqua avevano già allentato e spaccato in molti punti la carcassa. Le cassette dei marinai e il materiale bellico furono abbondantemente sfruttati; ci limitammo però a una batteria da quattro libbre, non potendo spostare i grossi calibri ed essendo in grado di trasportare a terra solo un po' per volta anche la batteria. Per questo scopo tornammo ripetutamente al relitto ed ogni volta caricavamo la lancia e la barca-tinozza con tutte le casse, finestre, porte, ferramenti ed altra merce preziosa, che potevamo trasportare. Alla fine, dopo aver fatto piazza pulita di ogni cosa utilizzabile, decisi di far saltare il relitto, nella speranza che vento e mare portassero a riva una gran parte del legname, che avremmo potuto in seguito ripescare facilmente e conservare per qualsiasi costruzione. Rotolammo perciò nella stiva del bastimento un barile di polvere che avevamo lasciato di proposito; con ogni cautela infilammo un bastone con un pezzo di miccia accesa nel fondo della paurosa bocca spalancata e ripartimmo in fretta, a vele spiegate, verso i nostri cari. Siccome avevo calcolato che l'accensione della polvere non sarebbe avvenuta prima di sera, ci portammo la cena su una piccola lingua di terra, da dove potevamo osservare liberamente il relitto. Si era fatto appena buio, che un rombo cupo e un'immensa colonna di fuoco annunciarono l'esplosione del barile e la distruzione del bastimento. In quell'attimo il legame che ci teneva uniti alla patria amata sembrò più che mai spezzato, per sempre e inesorabilmente. Ci recammo in silenzio nella tenda e invece delle solite manifestazioni di gioia, credetti di udire sospiri e singhiozzi repressi, che anch'io del resto
potevo soffocare solo a fatica. Col bastimento ci era stato strappato quasi un vecchio amico fidato e benefico. La pace della notte attenuò tuttavia i nostri sentimenti di pena e il giorno seguente sentimmo di nuovo la voglia di andare a vedere nelle vicinanze le tracce della terribile esplosione. Il relitto era scomparso; la riva era piena di legname e sul mare galleggiavano rottami di ogni sorta, tra cui scoprii con piacere anche i barili galleggianti a cui avevo attaccato grandi caldaie di rame, pensando di adoperarle per raffinare lo zucchero. Per il momento credemmo di poterle utilizzare con massima tranquillità per la custodia delle polveri, coprendo con quelle i barili di polvere e otturando accuratamente con terra e musco lo spazio rimanente. Per parecchi giorni fummo occupati a ripescare tutte le stanghe, i legni ricurvi, le assi e le tavole, e ad accatastarle a riva. La mamma era particolarmente contenta che la pericolosa polvere fosse così ben custodita e fu ancora più contenta quando scoprì che proprio là vicino due anatre e un'oca avevano covato e ora nuotavano al largo, schiamazzando impaurite, circondate da uno stuolo di anatroccoli e paperine. Non mancammo di richiamare i graziosi animali, gettando loro briciole e gallette, e durante questa piacevole occupazione si risvegliò in noi una tanto struggente nostalgia di tornare di nuovo al nostro bestiame e a tutte le comodità del Nido dei Falchi, che stabilimmo subito di tornare l'indomani stesso in quel ridente luogo. Lungo la via notammo che gli alberi da frutto, piantati di recente in duplice filare, non erano abbastanza forti per crescere dritti senza un sostegno; decidemmo quindi di fare il più presto possibile una puntatina al Capo della Speranza Delusa, per procurarci le canne di bambù necessarie e puntellare con quelle i nostri alberelli. Inoltre la provvista di candele stava per finire e finalmente c'era una chioccia per la quale speravamo di trovare uova da covare. Un bel mattino dunque partimmo di buon'ora con tutta la famiglia al completo. Per andare più svelti attaccammo il carro invece del traino e fissammo sul carro un po' di tavole a mo' di sedili per i meno resistenti alla fatica. Ogni genere di strumenti per le faccende da sbrigare, vettovaglie, una bottiglia di vino della riserva del capitano, un paio di recipienti per l'acqua ed infine le necessarie munizioni,
furono in parte disposti sul carro ed in parte, secondo il bisogno, portate a mano. Senza esitazione condussi i miei cari per la nuova via che attraverso le piante di patate e di manioca e lungo il boschetto di goyave, giungeva fino alle piante di Mirica cerifera e agli alberi della gomma, perché tutti erano curiosi di vedere finalmente con i propri occhi e di saccheggiare quelle piante di cui io e Fritz avevamo tanto parlato. Non trascurammo nemmeno di fare abbondanti provviste: furono riempiti due sacchi di bacche cerifere che per il momento nascondemmo in un cantuccio riparato, per riprenderli al nostro ritorno. Arrivati agli alberi della gomma, facemmo in alcuni dei tronchi più robusti tante incisioni quante ciotole avevamo portato con noi per la raccolta del latice. Collocammo le ciotole in modo che potessero raccogliere il liquido che stillava da tali tacche, affidandole poi tranquillamente al loro destino. Il nostro corteo si rimise in cammino e arrivammo al boschetto delle noci di cocco; ci dirigemmo allora un po' a sinistra verso il posto delle canne da zucchero per poterci accampare all'orlo del boschetto, alla stessa distanza dal canneto dello zucchero e da quello di bambù. Questo accorgimento riuscì così bene che uscendo dal palmeto ci trovammo a sinistra il primo e a destra il secondo; in mezzo ad essi godevamo la vista della meravigliosa baia e del Capo della Speranza Delusa che si allungava sul mare. Da quel punto lo spettacolo era tanto incantevole che stabilimmo di scegliere quel luogo così ben situato come sosta abituale delle nostre escursioni; anzi poco mancò che non decidessimo di trasferirvi addirittura la nostra abitazione. Ma ponderando bene la sicurezza che ci offrivano gli alti alberi del Nido dei Falchi e le svariate comodità che vi avevamo già impiantato, lasciammo all'antico domicilio il suo privilegio. Subito staccammo le due bestie da tiro e le lasciammo libere tra l'erba folta e grassa, cresciuta all'ombra delle varie specie di palme: ci preparammo nell'ombroso boschetto un pasto frugale con le provviste che avevamo portato e poi cominciammo a tagliare, a ripulire e a riunire in grossi mazzi le canne di bambù e le canne da
zucchero, per trasportarle comodamente col carro fino a casa. Dopo un'oretta e mezzo il lavoro risvegliò nei giovani, anche a causa del desinare troppo scarso, un certo appetito e benché per un po' essi si contentassero di succhiare le canne da zucchero, infine cominciarono a guardarsi intorno in cerca di cibo più robusto. E siccome la mamma non voleva sacrificare le provviste portate dal Nido dei Falchi prima dell'ora di cena, i figli rivolsero la loro attenzione alle noci di cocco che ci invitavano qua e là dall'alto delle palme. Ma invano i ragazzi cercarono per terra qualche frutto mangiabile già caduto, e il tentativo di Fritz e Jack di arrampicarsi sui poderosi tronchi riuscì altrettanto inutile. Di malumore e indispettiti si fermarono infine sotto le inespugnabili palme, fissando con stizza i ciuffi di noci che ci ammiccavano di lassù. — Alt! — gridai ad un tratto, — che idea mi è venuta! Ma dove l'avrò mai visto! Eppure dev'essere stato in qualche illustrazione. Ma certo! Figli miei, ho trovato! Arriverete fin lassù e comodamente, per giunta! I ragazzi erano tutt'orecchi. — Comodamente? — osservò Jack dubbioso. — Ma io non ho nemmeno tale pretesa. Se potessi arrivare lassù anche con gran fatica, griderei lo stesso di gioia. — Allora attenzione, signori miei. Fritz, va' a prendere delle funi dal carro. Così, bene, ora vieni qua, comincerai tu per primo. Lo legai allora ai malleoli, ma con un nodo lento, che gli permettesse di fare dei piccoli passi. Poi allacciai con cura una corda robusta intorno ai suoi fianchi e all'albero, in un cerchio abbastanza largo, in modo che il ragazzo potesse facilmente puntarsi, rimanendo staccato obliquamente dall'albero. — Ecco, ora si può incominciare, — dissi allora. — Già, ma come? — chiese Fritz sbalordito; — con i piedi legati insieme? E come potrei aggrapparmi al tronco? — Ma non devi nemmeno farlo, figlio mio. Devi salire lungo di esso come gli Indiani. Attento. Metti i piedi in fuori proprio rasente al tronco. Ora afferra la fune allentata con la quale sei allacciato all'albero e spingila più in alto possibile lungo il tronco, così che arrivi ad agganciarsi su una delle sporgenze nodose. Reggiti ora bene e salì a poco per volta e nello stesso tempo punta le piante dei piedi
al tronco, capisci come? Se non fossero legati non potresti puntarli. Ora tirati su di nuovo con la corda fino a un altro nodo, tendila e sali un altro poco. Appoggiati bene indietro contro la fune che ti cinge, hai capito? Devi stare dritto, puntare i piedi sotto e appoggiarti alla fune sopra; riposati un po'. Beh, che ne dici? Va bene ora? Lo vedi? Che ti avevo detto? Fritz era raggiante. Aveva capito e s'inerpicò, tirò, si puntellò, e procedette lentamente ma costantemente su quell'albero che un momento prima gli era sembrato inaccessibile. Gli altri ragazzi stavano intorno, guardando fisso a bocca aperta, il fratello che a poco a poco saliva per aria. Jack fu il primo a riprendersi. — Perbacco! — gridò, — è un divertimento enorme! Anch'io debbo salire! Papà, ti prego, fa' anche per me un attrezzo indiano! Qua c'è un altro albero ugualmente bello. In pochi minuti il ragazzotto fu equipaggiato come il suo predecessore e la grande impresa ricominciò. Mi piacque vedere che Jack, anche se più lentamente del fratello tanto più forte di lui, saliva senza difficoltà e alla fine giunse in cima, proprio come Fritz. Entrambi attaccarono vigorosamente con le accette i grappoli delle noci di cocco, che caddero giù come grandine, dandoci appena il tempo di scansarci d'un salto per non prenderle sulla testa. I ragazzi ridiscesero sani e salvi e tutti ci abbandonammo all'entusiasmo per il felice esito della grande acrobazia. — Ora potremmo però mangiarci un paio di queste noci — propose Franz. — Ne rimarranno sempre tante da portare a casa. — Certo che possiamo, piccolo mio. Dammene un po'. — Già, ma che succede? — esclamò dopo qualche minuto Fritz, che si era subito messo a spaccarle. — Questa roba filamentosa rimane terribilmente attaccata al guscio. Le altre non erano così. — Ah! — dissi, — ci siamo. Queste sono noci tagliate di fresco e l'involucro esterno non si è ancora disseccato. Non sono ancora del tutto mature e perciò sono molto resistenti. Ma aspettate. So io come si fa. I bravi Indiani ci verranno di nuovo in aiuto. Rallegratevi, che la mia buona memoria è come un libro da sfogliare. Ricordo un arnese che si chiamava spiedo di cocco. Era descritto ed illustrato,
per di più. Venite qua, lo faremo tale e quale. Cercatemi un solido palo di legno. — Dopo qualche minuto il bastone richiesto era già pronto. — Ecco qui un ceppo forato: inseriamovi questo bastone. Vedete, l'ho appuntito all'estremità superiore; ora state bene attenti. — Con tutt'e due le mani afferrai la noce e la cacciai energicamente contro il bastone, rompendone in tal modo il guscio con facilità. I ragazzi erano rapiti. — Stupendo! — gridavano. — Si fa così in fretta! I pezzi volano via da soli! Ognuno spaccò allora in quella nuovissima maniera una delle noci ribelli e perfino la mamma dovette battere alcuni colpi. Nel frattempo il pomeriggio era già passato da un pezzo e poiché avevamo stabilito di passare la notte in quel luogo tanto piacevole, decidemmo di comune accordo di costruirci una piccola capanna di rami e frasche, per proteggerci alla meglio dalla rugiada e dalle correnti d'aria fredda. Mentre eravamo così occupati e proprio quando il lavoro, con nostra soddisfazione, volgeva al termine, fummo disturbati all'improvviso dall'insolita eccitazione del nostro asinello, che fino a quel momento aveva pascolato placidamente nelle vicinanze. Ora invece sembrava in preda a fuoco e fiamme, alzava il muso in aria, emettendo atroci ih! ah! e scalciando in modo buffo. Prima che potessimo spiegarci se tutti quegli strani segni preludessero a qualcosa di buono o di cattivo, l'animale aveva preso la fuga a gran galoppo. Sfortunatamente in quel momento i cani si erano allontanati verso le canne di bambù, così che vedemmo l'asino scomparire nel folto prima che potessimo richiamarli. Per un po' seguimmo le sue orme, ma poi le perdemmo del tutto, e per quel giorno dovemmo abbandonare le ricerche. Questo avvenimento mi causò una doppia preoccupazione; per prima cosa rimpiangevo la perdita del somaro, indispensabile nei nostri giri; e poi credevo di poter attribuire il suo improvviso adombrarsi alla vicinanza di una bestia feroce. Perciò feci preparare un gran fuoco davanti alla nostra capanna e poiché pensavo che la provvista di legna non sarebbe bastata per tutta la notte, mi venne l'idea di supplire con un buon numero di fiaccole; a questo scopo
legai insieme con liane parecchie canne da zucchero e siccome non ne avevo spremuta nemmeno una, le presi ancora piene, pensando ben a ragione che così avrebbero dovuto bruciare ancora meglio e più lentamente, dando per di più un luminoso chiarore. Alcune decine di fiaccole della lunghezza di cinque o sei piedi furono piantate a terra a destra e a sinistra, davanti all'ingresso della capanna. Nel mezzo accendemmo il fuoco, che servì innanzi tutto alla mamma per preparare la cena e che dopo ci protesse ottimamente dalla fresca aria della notte. Vestiti, e con i fucili carichi a portata di mano, ci coricammo sul soffice musco che i ragazzi avevano raccolto e disteso nella capanna e poiché tutti erano molto stanchi, presto il sonno vinse i miei cari. Io cercai di tenermi sveglio mantenendo vivo il fuoco, poi accesi anche le fiaccole, che diffusero un chiaro splendore e allora, ritenendo di essere al sicuro da ogni attacco di bestie feroci, mi arresi come gli altri al placido sonno fino al mattino seguente. L'indomani durante la colazione fu preparato il piano per la giornata di lavoro che ci aspettava. Invano avevo sperato che la notte e il calore del fuoco vicino alla capanna richiamassero l'asino scappato. Decisi perciò di andare con uno dei ragazzi e con i due cani in cerca del fuggitivo, passando per il canneto dei bambù. Verso sera saremmo però tornati alla capanna, dove la mamma nel frattempo ci avrebbe aspettato con gli altri ragazzi, raccogliendo canne da zucchero e noci di cocco, in modo che il giorno dopo si potesse rientrare finalmente al Nido dei Falchi. Poiché credevo necessario portare con me in quella spedizione entrambi i cani, mi sembrò più prudente che mi accompagnasse solo Jack e che gli altri rimanessero a difesa della madre e del piccolo Franz. Jack si preparò felice; bene armati e provvisti di cibo entrammo nell'intrico delle canne di bambù, dove per qualche tempo seguimmo a fatica, con l'aiuto dei cani, le tracce dell'asino. Giungemmo infine in una vasta pianura in riva alla grande baia; in quel punto sfociava un fiume di notevole ampiezza, la cui sponda era limitata da un alto rilievo montuoso. C'era soltanto uno stretto passaggio, ricoperto di sassi, che durante il periodo della piena doveva essere intransitabile. La supposizione che l'asino avesse preferito mettersi in salvo per la strada malagevole, anziché per il fiume impetuoso, e la speranza di
trovare dietro la rupe qualcosa di nuovo e interessante, ci fecero arrischiare a spingerci in quel punto, sfruttando al massimo il basso livello dell'acqua. Quindi proseguimmo arrampicandoci e arrivammo presto a uno scrosciante torrente che sgorgava a destra da una forra e sfociava a sinistra nel fiume; ma esso sì era scavato un letto tanto profondo ed era talmente tumultuoso che trovammo un unico punto per poterlo guadare e raggiungere felicemente la sponda opposta. Ma, poiché dall'altra parte il suolo era di nuovo costituito da sabbia e terra, anziché da nuda roccia, osservammo con piacere le orme dell'asino, chiaramente riconoscibili dall'impronta degli zoccoli ferrati. Con nostro stupore però questa traccia correva confusa tra molte altre impronte simili, a forma di zoccolo, ma più deboli e leggere, evidentemente lasciate da un branco di animali selvatici; cominciammo allora a seguirle alacremente. La catena montuosa a destra si dileguò gradatamente e ci vedemmo davanti a perdita d'occhio una pianura, chiusa solo nel fondo da qualche collina; in essa magnifica erba e boschetti sparsi qua e là offrivano una piacevole immagine di serena pace e di fertilità. Molto in lontananza ci parve di scorgere dei branchi di grossi animali che a momenti mi sembravano simili alle mucche e a momenti simili a cavalli, ma che dovevano essere quadrupedi selvatici, anziché di specie conosciuta e domestica. Poiché avevamo perduto di nuovo tra l'erba le orme dell'asino, e d'altra parte non volevamo ancora perdere la speranza di rintracciarlo, decisi di avvicinarmi, possibilmente inosservato, a uno dei branchi più vicini a noi, per vedere se l'asino si fosse accompagnato a quegli animali. A questo scopo dovevamo girare attorno ad un boschetto di altissime canne di bambù; quando, spingendoci tra bassi cespugli e voltato l'angolo del canneto, ci imbattemmo, a quaranta passi di distanza appena, in un branco di bufali selvatici dall'aspetto terribile i quali, benché in piccolo numero, sarebbero bastati ad annientarci di colpo. Mi spaventai tanto che riuscii a malapena ad alzare il cane della mia doppietta e poi rimasi lì, come impietrito. Per fortuna i cani erano rimasti un po' indietro e ai bufali la vista dell'uomo non doveva
essere per nulla familiare; infatti rimasero tranquillamente al loro posto, fissandoci con occhi meravigliati; tutt'al più qualcuno di essi si alzò da terra, mentre gli altri rimasero sdraiati, senza mostrare minimamente l'intenzione di difendersi o di attaccare. Questa circostanza ci salvò forse la vita, perché avemmo tutto il tempo di farci un po' indietro e di caricare i fucili. Non avevo assolutamente voglia di attaccare briga con quelle poderose bestie e pensavo soltanto ad una prudente ritirata, quando Turk e Bill ci raggiunsero in modo maldestro e furono subito notati dai bufali. Istantaneamente gli spaventosi animali cominciarono a muggire così terribilmente, che ci sentimmo gelare il sangue nelle vene. Come inferociti, scalpitavano, sbuffavano, rivoltavano la terra con le corna; con terrore vedevo avvicinarsi il momento che si sarebbero scagliati contro di noi e, insieme con i cani che certo scambiavano per sciacalli o lupi, ci avrebbero gettato a terra, calpestandoci e annientandoci. In quel pericolo tuttavia i cani rimasero imperturbabili; invano li richiamammo indietro: aggredirono essi stessi il branco e, secondo la loro abitudine, si attaccarono alle orecchie di un giovane bufalo che ci stava un po' più vicino degli altri, tirandolo a forza verso di noi. Ora bisognava fare sul serio e, se non volevamo sacrificare i nostri valorosi difensori ai bufali che avanzavano furibondi, dovevamo arrischiare una lotta che appariva una vera temerarietà. Potevamo riuscire a vincere solo se le nostre armi da fuoco, che non potevano certo colpire tutti gli animali, li avessero spaventati tanto da farli scappare. Tirammo col cuore trepidante e per fortuna le terribili bestie allo scoppio, fuoco e fumo, balzarono indietro come colpite dal fulmine e si buttarono con incredibile rapidità in una fuga che dovette certo durare delle ore. Una di esse però, probabilmente la madre del bufalotto aggredito dai cani, era rimasta ferita dal mio sparo e per il dolore divenne così furiosa che, invece di voltarsi indietro, con rabbia triplicata si precipitò contro gli alani e avrebbe certamente fatto loro la festa, se non l'avessi centrata così bene con un secondo colpo, che si abbatté al suolo; accorsi rapidamente e le diedi il colpo di grazia con la pistola. Allora soltanto emettemmo un sospiro di sollievo, poiché ci
eravamo vista davanti, inevitabile, la morte. Però ci rimaneva ancora molto da tribolare perché il bufalotto si agitava impetuosamente tra i due cani, scalciando con rabbia; temendo che quei vigorosi morsicatori si buscassero qualche brutta ferita, mi parve necessario accorrere in loro aiuto. Per fortuna Jack ebbe l'idea di usare la sua boia che scagliò col debito slancio attorno alle zampe posteriori del riottoso bufalotto. Il colpo riuscì tanto bene che la bestia cadde, rimanendo impigliata finché noi, arrivando in fretta, potemmo legarla saldamente con una fune più solida, staccando i cani dalle sue orecchie. Ormai era completamente in nostro potere e Jack pregustava la gioia di mostrare la preda alla madre e ai fratelli. Ma non sarebbe stato tanto facile smuovere la bestia anche di un solo passo. Infatti, anche se per il momento giaceva indifesa ai nostri piedi, i suoi grossi occhi divampavano di una così selvaggia ribellione che avevamo tutti i motivi di agire con prudenza. Riflettei a lungo, finché mi venne in mente un procedimento piuttosto crudele ma sicuro, che pare sia in uso in Italia. Assicurai cioè ad un albero la fune con cui avevamo legato le zampe del bufalo e feci attaccare nuovamente i cani alle sue orecchie per tenergli ferma la testa; poi afferrai la membrana fra le narici, la forai con un coltello affilato e appuntito e vi passai dentro una corda sottile che pensavo di utilizzare come briglia. L'operazione riuscì benissimo e l'animale, dopo l'abbondante perdita di sangue, sembrò per il momento più arrendevole, forse per il dolore che la corda gli causava ad ogni movimento brusco. Naturalmente tentò ancora ripetutamente di ribellarsi a quell'insopportabile tirannia, ma ogni volta uno strattone alla corda nel naso tormentato riportava subito la bestia a più miti consigli. Del resto i cani non si staccavano dal suo fianco, ringhiando e abbaiando; però vedevamo chiaramente che ci sarebbe costata una bella fatica addomesticare quel tipo infido e selvaggio. Ci rimaneva ancora da sventrare alla bell'e meglio la bufala abbattuta, ma non avevamo i mezzi necessari; mi limitai perciò a tagliarle la lingua e qualche bella striscia di carne, che strofinammo energicamente col sale e poi stendemmo al sole ad asciugare; il resto fu concesso ai due alani, che vi si gettarono sopra affamati. Andammo avanti di buon passo e presto ci trovammo di nuovo
allo stretto valico, dove all'improvviso vedemmo rifugiarsi uno sciacallo; ma ancora prima che avesse raggiunta la sua tana, fu afferrato dai nostri alani e sbranato dopo dura lotta. Era una femmina e supponemmo che nel covo ci fossero i suoi piccoli; Jack era già pronto ad entrare nella tana, ma temendo che dentro potesse trovarsi anche il maschio, sparai prima un colpo di pistola. Nulla si mosse e allora lasciai che Jack strisciasse nel covo; i cani lo seguirono curiosi e in un batter d'occhio si gettarono su una nidiata di cuccioli che stavano rimpiattati in un angolo. A stento Jack riuscì a salvarne uno, che non poteva avere più di dieci, dodici giorni e che riusciva appena a tenere gli occhi aperti. Non era più grande di un gattino e così grazioso col suo pelame giallo dorato, che Jack mi pregò insistentemente di lasciarglielo portare a casa, per poterlo allevare. Lo accontentai volentieri, un po' in ricompensa del suo coraggioso comportamento, ma anche nella speranza di poter addomesticare l'animale e addestrarlo alla caccia. Ci rimettemmo in cammino, guadammo il torrente e arrivammo infine verso sera dai nostri cari che ci accolsero con gioia. Tutti si accalcarono pieni di meraviglia attorno al giovane bufalo e al cucciolo di sciacallo e le domande si susseguivano. Jack non si fece pregare molto per raccontare le nostre avventure, ma come il solito peccò un tantino di esagerazione; seppe avvincere così a lungo l'interesse dei suoi ascoltatori, che giunse l'ora di cena e non avevo ancora trovato il tempo di chiedere ai miei cari che cosa avessero intrapreso e compiuto durante la nostra assenza. Seppi allora che anch'essi erano stati attivi e solerti, erano saliti sul Capo della Speranza Delusa ed avevano raccolto legna e legato nuove fiaccole per la notte. Come preda più notevole della giornata Fritz mi portò sul pugno un giovane uccello di rapina dal magnifico piumaggio, che aveva preso da un nido sulla roccia, vicino al Capo della Speranza Delusa, approfittando dell'assenza degli uccelli adulti. Sebbene le penne non mostrassero ancora il loro colore definitivo, capii subito che l'uccello non apparteneva a nessuna delle varietà note di aquile europee, ma che si trattava invece della cosiddetta aquila del Malabar. Per la sua bellezza, ma soprattutto per la speranza di poterla addomesticare e
addestrare alla caccia come un falco, tollerai la sua compagnia. Del resto Fritz aveva bendato e impastoiato con una funicella quel compare, ancora troppo selvatico e rabbioso. Ma quando il ragazzo gli tolse il cappuccio, il rapace rivelò improvvisamente tanta selvaggia fierezza che ne rimanemmo stupiti; il suo aspetto era così terribile che alla sua vista tutti i volatili si diedero alla fuga. Fritz era perplesso, non sapendo come domarlo e pensava già di ucciderlo. Ma Ernst, che se ne stava là vicino tutto assorto, trovò il sistema per salvarlo e utilizzarlo. — Fritz, — disse, — dallo a me; ci penserò io ad insegnargli la creanza. Lo ridurrò mansueto e docile come un cagnolino. — Olà, — ribatté Fritz, — questo è mio e non lo regalo con tanta facilità né lo do via per niente; però dovresti ben dirmi come si può addomesticarlo, e se non lo fai sei davvero un invidioso. — Calma, calma, — intervenni allora, — il mio buon Fritz dovrebbe essere più ragionevole e non parlare dell'invidia degli altri, mentre ne è affetto lui stesso. Ernst ti ha chiesto un uccello che non sai domare e proprio nel momento in cui pensavi di ucciderlo; ma, che è che non è, ora vuoi tenerti di nuovo l'animale e accusi di invidia tuo fratello, che non vuole insegnarti l'arte senza una qualche ricompensa. — Hai ragione papà, — rispose Fritz un tantino mortificato; — gli darò in cambio la scimmia, se la vuole. L'aquila è più eroica e devo tenerla io! Che ne dici, Ernst? — Io sono contentissimo, perché non ho nessuna mania di eroismo, — ribatté il ragazzo. — A me importa di più diventare un bravo letterato; descriverò anche le tue gesta, quando avrai compiuto avventure cavalleresche con la tua aquila. — Vedremo! — disse Fritz. — Ma per il momento, come devo addomesticarla? O almeno, come posso renderla più mansueta? — Beh, non posso affermarlo con certezza assoluta, — rispose Ernst, — però credo che potrai sottometterla come fanno i Caraibi con i pappagalli. Soffiale nel becco fumo di tabacco finché non l'avrai stordita, e allora la sua selvatichezza non durerà a lungo. Fritz rise incredulo, ma Ernst iniziò subito l'esperimento. Prese pipa e tabacco dalla cassetta di un ufficiale di bordo e Fritz dovette di
nuovo incappucciare e legare strettamente l'uccello; subito dopo Ernst gli tolse il cappuccio e si avvicinò al catturato quanto era necessario per soffiargli sul becco adunco dense nuvole di fumo. Effettivamente il rapace divenne a poco a poco più calmo così che potemmo facilmente rimettergli il cappuccio. Tutto mortificato Fritz consegnò la scimmia al fratello e anche in seguito l'affumicatura si dimostrò così efficace che l'aquila divenne ogni giorno più mansueta e parve assuefarsi un po' per volta all'ambiente. Quando tutti avemmo finito di raccontare le nostre avventure, feci accendere il fuoco con legna particolarmente verde affinché se ne sprigionasse un gran fumo per affumicare i pezzi di carne della bufala, il che fu subito fatto, infilzando la carne in alte forcelle drizzate vicino al fuoco. Per la notte facemmo gli stessi preparativi della sera precedente, ma in modo che la carne rimanesse sempre esposta al fumo. Il giovane bufalo, che aveva divorato con gusto una porzione di patate tritate con latte, fu legato vicino alla mucca e con piacere notammo che stavano pacificamente insieme. I cani presero il loro posto di guardia. Finalmente anche noi ci coricammo e benché ci fossimo proposti di accendere di nuovo le fiaccole a tempo debito, ci addormentammo tutti e dormimmo così saporitamente e profondamente che ci svegliammo soltanto al levar del sole. Già di buon mattino ci preparammo a compiere quello che da tempo avevamo stabilito: munire cioè i nostri alberelli dei necessari pali di sostegno. Partimmo quindi di buon animo col carro pieno di canne e con un'asta di ferro per praticare i fori nel terreno; lasciammo a casa soltanto il piccolo Franz e la mamma, con l'incarico di tenerci pronto un buon pranzo e di bollire anche le bacche cerifere per ottenerne la cera. Il giovane bufalo rimase nella stalla perché volevo che le sue narici guarissero completamente. La mucca del resto era abbastanza forte per trascinare il carro, tanto più che dovevamo fermarci spesso. Tuttavia prima di partire demmo al bufalo una buona manciata di sale per assuefarlo un po' per volta alla nostra compagnia e il buon bocconcino gli piacque tanto che per la prima volta ci seguì con lo sguardo mentre ci allontanavamo. Il nostro lavoro incominciò nelle vicinanze del Nido dei Falchi,
all'inizio del viale che portava al Rifugio della Tenda, con gli alberi di noce, di castagno e di ciliegio disposti su due file regolari, che in parte erano stati inclinati dal vento. Io, che ero il più robusto, reggevo l'asta di ferro e, piantandola con forza nel terreno, preparavo il foro per i pali di canna. I ragazzi erano occupati a scegliere e ad appuntire le canne; tutti insieme poi legavamo i pali appena collocati ai giovani alberelli, mediante liane o rampicanti sottili e resistenti, che pensavo fossero mibi. Il lavoro durò a lungo e ci procurò il mal di schiena; a mezzogiorno tornammo affamati come lupi al Nido dei Falchi, dove la mamma ci aveva preparato un ottimo pranzo e ci aspettava da un pezzo con vivo desiderio. Mangiammo bene e molto, e ci concedemmo il riposo necessario, mentre discorrevamo di una faccenda che già da diverso tempo stava molto a cuore a me, e forse ancora di più alla mamma. Ad entrambi infatti il salire e scendere dal nostro castello pensile per mezzo della scala di corda sembrava troppo faticoso, anzi rischioso, tanto che salivamo sull'albero soltanto la sera per andare a letto ed ogni volta col grave timore che uno o l'altro dei ragazzi, che si arrampicavano di corsa lesti e spensierati come gatti, potesse per un passo falso precipitare e rimanere infortunato. Questi timori mi avevano spinto a riflettere di continuo se non ci fosse una possibilità di costruire un accesso più sicuro alla nostra fortezza. Ero giunto infine alla convinzione che dall'esterno non si poteva impiantare assolutamente nulla di più efficace della scala di corda e che dovevo tentare in qualche modo di arrivare fino alla nostra abitazione attraverso l'interno del tronco. — Non mi avevi detto, moglie, — dissi infine, — che nel tronco dell'albero c'è una cavità nella quale pare si sia annidato uno sciame d'api? Si tratterebbe soltanto di esplorare quanto sia profonda e che dimensione abbia questa cavità e ciò agevolerebbe molto il nostro piano. Tale dichiarazione accese immediatamente un ardente zelo nei nostri ragazzi. Saltarono in piedi, subito pronti, si arrampicarono come scoiattoli lungo le arcate delle radici fin dove potevano arrivare, tutt'intorno al cavo delle api, per cercare di sentire,
picchiandovi sopra, quanto fosse marcito il legno sotto la corteccia; ma l'irriflessivo battere e martellare ebbe uno spiacevole risultato per la curiosa brigata, perché lo sciame, molestato, sbucò furioso fuori dalla spaccatura e circondò, ronzando a tutta forza, i ragazzi; le api cominciarono a pungere, rimanendo in parte attaccate ai loro capelli e ai loro abiti, cacciandoli spaventati e feriti in così rapida fuga che i poverini, gridando «Aiuto! aiuto!» ci passarono davanti quasi senza vederci e sarebbero giunti fin chissà dove, se non li avessimo trattenuti per ricoprire di terra fresca le punture procurando loro in tal modo un po' di sollievo. Jack, che si era avventato con più precipitazione degli altri sull'alveare, era il più conciato di tutti e si guadagnò addirittura una maschera di terra umida sul viso infiammato; Ernst, invece, grazie alla sua lentezza, se la cavò con un'unica puntura, perché era stato l'ultimo ad arrampicarsi e il primo a battere in ritirata senza pensarci due volte, non appena si era accorto della mischia. Ci volle un'ora buona prima che i ragazzi si fossero ripresi dai loro dolori, tanto da poter intraprendere qualcosa a dovere. Ma erano talmente infuriati contro le api battagliere che dovetti fare senza indugio i miei preparativi per affrontare le nostre ospiti, per non sentire fino a notte inoltrata i gemiti e le lamentele degli incauti figlioli. Mentre dunque le api ronzavano ancora irritate attorno all'albero, preparai tabacco, argilla, pipa, scalpello, martello e tante altre cose ancora che ritenevo necessarie. Con parecchie grosse zucche che munii di fori per lo sciame, costruii delle graziose arnie; decisi che le avrei sistemate su un robusto ramo del nostro albero, dove inchiodai una lunga tavola; vi attrezzai pure una tettoia di paglia per ripararle dal sole e dalla pioggia. Questi preparativi, però, durarono più di quanto avessi supposto e dovetti rimandare all'indomani l'assalto prestabilito. Con ogni cautela cominciai allora otturando con argilla il cavo dell'albero che serviva alle api per entrare ed uscirne e vi riuscii così bene da potervi infilare soltanto il cannello della pipa. Con essa affumicai tanto le api, che temetti morissero soffocate. Da principio dal tronco si alzò un rombo e un ronzio, come se vi regnassero turbine e tempesta, poi a poco a poco tutto si acquietò e infine non si
sentì più nulla, così che potei estrarre il cannello e proseguire nella mia operazione. Jack si era arrampicato accanto a me e allora con ascia e scalpello cominciammo a staccare con cura dall'albero un pezzo di corteccia alto circa tre piedi e largo due, che rimase attaccato solo per un angolo. Poi ripetei l'affumicatura con tutte le regole perché temevo che lo stordimento provocato dalla prima potesse essere già passato; finalmente la finestra che avevamo intagliata fu strappata del tutto e l'interno del tronco venne alla luce. Un enorme stupore ci colse quando vedemmo il meraviglioso regno e l'incredibile lavoro della comunità delle api. Ci apparve una tale provvista di cera e di miele che non sapevamo da che parte incominciare e dovevamo soltanto chiedere che si portassero ciotole e vasi per contenere tutta quella dovizia. Estrassi i favi uno dopo l'altro e appena ebbi fatto un po' di posto feci scivolare le api tramortite nelle arnie già pronte, che dovevano servire loro da alveari e il cui interno avevo già spalmato di miele. Il resto dei favi lo collocai nei recipienti che mi avevano procurato i ragazzi. Quando ebbi finito scesi dall'albero, feci lavare a fondo un barilotto e lo feci riempire del bottino, lasciandone tuttavia un pochino per l'assaggio e per il pranzo. Il barilotto pieno fu poi rotolato da una parte e coperto con tela, tavole e frasche, affinché le api, svegliandosi, non lo scoprissero e non lo prendessero d'assalto. Alla fine salii di nuovo nel nostro palazzo pensile, fissai le arnie alla tavola inchiodata, gettai sopra di esse il tetto di paglia già preparato, scesi di nuovo e cominciai a ristorarmi con le primizie dello squisito miele, tanto che non sapevo più smettere e dovetti frenare quasi a forza sia me stesso sia la mia cara famigliola, per non ammalarci o almeno impigrirci per tutto il resto del giorno. Riuscii a metter fine al banchetto senza tante obiezioni soltanto con l'avvertimento che presto le api si sarebbero riprese dal loro stordimento e che, se avessero scoperto sia pure una gocciolina di miele in giro, avrebbero intrapreso senza pietà la più furiosa delle battaglie contro i loro rapinatori. Quest'accenno fu sufficiente per far passare immediatamente ogni voglia di miele ai ragazzi, che si affrettarono a portare i resti nel nascondiglio più riposto. Mi venne però in mente che senza dubbio le bestiole risvegliandosi si
sarebbero dirette immediatamente verso l'antico alveare e vi si sarebbero presto annidate di nuovo, se non le avessi opportunamente prevenute. Presi allora qualche manciata di tabacco e una tavoletta spalmata d'argilla, salii di nuovo fino al cavo, vi fissai dentro la tavoletta, accesi il tabacco in diversi punti e nuovamente vidi sprigionarsi tanto fumo e vapore da sperare che le api avrebbero perduto del tutto la voglia di ritornare nel loro regno, lasciandomi così libero campo per un più attento esame dell'interno del tronco. La mia premura fu efficace; infatti, sebbene le api appena riavutesi cercassero di avvicinarsi al vecchio alveare, ogni volta il fumo le ricacciava indietro e quando fu sera si erano già abituate assai bene a considerare le arnie di zucca come la loro nuova casa. Noi, ladri di miele, decidemmo intanto di rinviare al giorno successivo l'ispezione dell'interno dell'albero. Nel frattempo ci sembrò opportuno depurare al più presto il miele conquistato e separarlo dalla cera e poiché non potevamo farlo in quel momento a causa delle api che sciamavano intorno, ci coricammo per dormire un po' fino a sera inoltrata, in modo che durante la notte, ben svegli e riposati, fossimo in grado di disporre del miele, al riparo dalle sue antiche padrone. Perciò, scesa la notte, mentre le api costrette dall'oscurità e dal freddo riposavano nelle loro zucche, ci alzammo dal letto e ci mettemmo all'opera. Tutti i favi vennero nuovamente tolti dal barilotto, gettati in una caldaia e, misti ad acqua, furono messi a fondere a fuoco lento, finché si ottenne tutta una massa fluida. Questa fu pressata attraverso un sacco grezzo per liberarla dalle impurità e poi versata di nuovo nel barilotto, dove venne lasciata raffreddare per il resto della notte. Il mattino seguente la cera si era rappresa alla superficie in un grosso strato denso e potemmo toglierla facilmente. Il miele puro rimase nel barilotto che, accuratamente chiuso e sotterrato accanto a quello del vino, ci prometteva per il futuro ogni desiderabile dolcezza e bontà. Appena sotterrato il barilotto e prima ancora che le api fossero svegliate dal calore del sole, ci apprestammo ad esplorare il tronco dell'albero e la sua cavità che già a priori giudicavamo considerevole. Con una stanga giunsi fino in alto, oltre la finestra che avevamo
praticato, mentre una cordicella, che calammo giù con legata una pietra, servì a farci conoscere la profondità del tronco già marcio. Con mio stupore risultò allora che tanto verso l'alto, fin dove noi avevamo costruito la nostra abitazione, che verso il basso, fin quasi alle radici, il tronco aveva perduto il suo midollo e molta parte del suo durame, così che non ci sembrò molto difficile sfruttare quell'imponente cavità per impiantarvi una scala a chiocciola che salisse verso l'alto, offrendoci ogni sicurezza e comodità. Decisi dunque di cominciare subito a costruirla; nello stesso tempo ero contento di dare ai ragazzi una nuova occupazione, perché nel lavoro riconoscevo la più durevole fonte di benessere per noi tutti. Innanzi tutto, alla base dell'albero, dalla parte del mare, fu praticata una grande apertura, tale da potervi adattare la porta della cabina del capitano e da metterci in grado di sbarrare comodamente e facilmente l'ingresso almeno agli animali. Subito dopo ripulimmo accuratamente il cavo dagli avanzi del legno marcio; le pareti interne, fin dove si poté arrivare, furono ben levigate e nel mezzo fu piantato un piccolo tronco d'albero, alto circa dodici piedi e di un piede circa di diametro, attorno al quale avremmo costruito la scala a chiocciola. Rapidamente incidemmo a spirale sull'alberello, in corrispondenza, nella parete interna della cavità del grande tronco, le intaccature necessarie per incastrarvi (a una distanza regolare e costante di mezzo piede uno dall'altro) i piani degli scalini, finché non ebbi raggiunto la sommità dell'alberello. L'apertura precedentemente praticata per snidare le api servì ottimamente a far passare la luce durante il lavoro. A giusta distanza dalla prima venne aperta una seconda finestra e quando la scala arrivò più in alto, anche una terza, attraverso la quale ottenemmo un luminoso accesso al nostro castello pensile. A questo punto in alto fu sfondato il pavimento della nostra abitazione per poter completare più comodamente la parte superiore della scala. Un secondo tronco d'albero già preparato venne allora issato dentro la cavità e fissato al primo. Anch'esso venne debitamente munito di tacche nelle quali furono incastrate delle tavole a mo' di scalini, finché la nostra scala a chiocciola fu felicemente collegata in cima con l'apertura del vano pensile risultando per il momento sufficiente, anche se poco conforme alle
regole dell'architettura e dell'estetica. La costruzione della scala ci tenne occupati per due settimane intere, ma non di rado venne interrotta da svariati avvenimenti e occupazioni. Pochi giorni dopo l'inizio del nostro lavoro, Bill partorì sei cuccioli che mi sembravano tutti alani danesi di purissima razza. Essi ci fecero molto piacere, tuttavia sarebbe stato preoccupante lasciare in vita l'intera cucciolata e ordinai di togliere alla cagna tutti i cuccioli, tranne un maschio e una femmina; permisi però a Jack, come compenso, di mettere nella cuccia il suo piccolo sciacallo, il che egli fece subito con pieno successo senza che la cosa dispiacesse minimamente né al poppante né alla sua balia. Quasi nel medesimo tempo anche le nostre due capre partorirono due capretti ognuna e le pecore quattro agnellini, così che vedemmo con gioia il soddisfacente accrescersi del nostro gregge. Ma affinché nessun animale sfuggisse più alla nostra custodia, seguendo il vergognoso esempio dell'asino, feci legare ad ognuno degli animali adulti una campanella al collo; ne avevamo infatti trovate in gran numero sul relitto, destinate a servire di scambio con gli indigeni. Oltre che alla scala a chiocciola la mia attenzione fu rivolta al giovane bufalo catturato, la cui ferita era già perfettamente guarita; potei passargli attraverso le narici un bastoncino che sporgeva un po' dalle due parti, come il morso dei cavalli, per poterlo guidare per mezzo di esso a mio piacere, secondo il modo degli Ottentotti. Dopo una serie di vani tentativi eravamo finalmente riusciti ad aggiogarlo al carro, ma solo in compagnia della mucca. L'imperturbabile calma di quest'ultima mitigava la furia del bufalo. Ma assoggettarlo alla soma e ad essere cavalcato sarebbe stato pretendere troppo: non potevo iniziare quel nuovo addestramento senza una paziente preparazione. Per prima cosa sulla groppa dell'ombroso e collerico animale venne posta una grande striscia di tela che, mediante una solida cinghia ricavata dalla pelle della bufala abbattuta, veniva allacciata sempre più stretta. Per alcuni giorni ci contentammo di questo, finché l'allievo desistette dallo sbattere la testa qua e là, muggendo, soffiando e sbuffando contro la sgradita bardatura. Poi di tanto in
tanto legavamo un carico leggero sulla copertura di tela e dopo due settimane circa potemmo porvi sopra le bisacce dell'asino col carico completo. Naturalmente la prova più difficile rimaneva sempre montare la bestia. Ma per me era tanto importante ottenere anche tale prestazione dal robusto e promettente animale, che non volevo risparmiarmi nessuna fatica. Lo scimmiottino fu il primo a cavalcarlo, giacché mastro Pizzichino era così leggero e nello stesso tempo così abile nell'aggrapparsi che, nonostante tutti i salti del bufalo offeso, non cadde a terra nemmeno una volta. Jack, il più svelto, fece poi il primo tentativo fra tutti i ragazzi e di fronte alla sua agilità felina, il bufalo dovette infine darsi per vinto. Gli altri ebbero buon giuoco con l'animale già mezzo domato, che alla fine sembrò pensare «il più furbo cede» e si rassegnò al suo destino. Fritz si era occupato molto dell'aquilotto, uccidendo ogni giorno per il suo pasto un buon numero di uccelletti che gli porgeva a volte tra le corna sporgenti del bufalo o tra quelle di una capra, a volte sul dorso dell'otarda o del fenicottero, ma sempre su una tavoletta, per abituarlo, come si fa con i falchi, ad incontrarsi con gli altri animali con più garbo e confidenza. Un po' alla volta l'uccello si avvezzò ad accorrere docile ad ogni richiamo del ragazzo e specialmente al suo fischio; mancava soltanto che si facesse una prova all'aperto, per vedere se ci riuscisse il tipo di caccia col falcone, solo che non avevamo ancora il coraggio di sciogliere del tutto l'aquilotto dal suo guinzaglio, perché temevamo che il suo istinto fiero e audace l'avrebbe presto allontanato da noi per riportarlo allo stato naturale di assoluta libertà. Anche Ernst fu contagiato dalla febbre di addestramento che si era diffusa tra noi e cercò il successo ammaestrando lo scimmiottino cedutogli da Fritz. Era buffo vedere come il flemmatico, lento, ma attento maestro si arrabattava attorno al suo agile allievo lesto e scapato, nella speranza di renderlo più docile. Allo sfaticato ragazzo stava molto a cuore farsi aiutare dall'animale in qualsiasi lavoro e dopo parecchi tentativi falliti, Ernst aveva deciso di abituare mastro Pizzichino al trasporto di carichi. Con l'aiuto di Jack cominciò dunque a intrecciare una specie di paniere o gerla di canne e, portato
a termine questo lavoro, vi attaccò due cinghie e lo sistemò sul dorso del suo pupillo, affinché per il momento si abituasse a portarlo. Per il capriccioso animale quell'arnese era insopportabile: digrignava i denti, si rotolava per terra, faceva salti di mezzo metro, mordeva le cinghie come un pazzo, tentando ogni astuzia e ogni violenza, pur di liberarsene. Ma non servì a nulla; alla fine, a furia di botte e di buoni bocconi, la bestiola fu messa in grado di portare con cura notevoli fardelli, naturalmente proporzionati alle sue forze. Infine anche Jack cominciò a darsi da fare in materia di allevamento e prese sotto la sua tutela il piccolo sciacallo a cui aveva dato il nome di Cacciatore, cercando di insegnargli, se possibile, a puntare e riportare la selvaggina. Quanto al puntare però nei primi sei mesi, per quanto i tentativi potessero essere ripetuti, non si ottenne un bel niente; potemmo invece addestrare facilmente il cucciolo a riportare ogni sorta di oggetti che lanciavamo lontano, il che ci faceva sperare in notevoli vantaggi per l'avvenire. Tutte queste occupazioni richiedevano di solito un paio d'ore della giornata, quando volevamo prenderci un po' di riposo durante la costruzione della scala o semplicemente distrarci un po'. La sera poi ci riunivamo abitualmente nell'intimità familiare e sbrigavamo insieme qualche faccenda necessaria, secondo i suggerimenti della mamma. Mi venne così la voglia di mostrare nel suo maggior splendore la mia capacità artistica e inventiva in una nuova importante impresa, la confezione cioè di un paio di stivali di gomma; contemporaneamente spinsi i ragazzi a provare la loro abilità con fiaschette per la caccia e suppellettili simili. A questo scopo riempii di ruvida sabbia un paio di mie vecchie calze, le ricoprii di un sottile strato di argilla e così conciate le lasciai provvisoriamente all'ombra e poi al sole, perché asciugassero completamente. Ritagliai poi un paio di suole della misura delle mie scarpe, utilizzando per esse la pelle di bufala, che prima avevo battuto forte con un martello e conciato per ogni necessità. Dopo aver fissato le suole alle calze, feci un pennello di peli di capra, con cui le spalmai di caucciù quanto più uniformemente possibile. Quando uno strato
cominciava a rapprendersi ne aggiungevo subito un altro, finché mi sembrò che gli stivali avessero raggiunto lo spessore necessario e bastasse soltanto farli seccare, per cui li lasciai appesi. Appena furono sufficientemente duri li presi, li vuotai del contenuto sabbioso, estrassi con fatica e trepidazione anche le calze, schiacciai la crosta di argilla, scossi per benino la polvere e i pezzetti rimasti attaccati e ottenni così un paio di stivali morbidi, lisci e impermeabili, che era un piacere vederli. Mi stavano a pennello e i ragazzi ne furono così entusiasti che mi pregarono tutti perché fabbricassi anche a loro delle calzature identiche. Una mattina ci eravamo appena alzati per dare l'ultima mano alla scala a chiocciola, quando da lontano si fecero udire due voci insolite che echeggiavano come un terribile rugliare di bestie feroci, misto ad uno strano ansare e ronfare e a strani suoni che a tratti si affievolivano. Non riuscivo a spiegarmi di che si trattasse ed ero ansioso di sapere da dove quei rumori provenissero; anche i cani erano diventati inquieti e pareva che si accingessero a digrignare i denti per affrontare nel debito modo un temibile nemico. Ci mettemmo quindi anche noi in allarme, caricammo fucili e pistole e ci piazzammo nel castello pensile, preparandoci a respingere valorosamente ogni attacco da lassù. Tuttavia quando i ruggiti cessarono, scesi armato dalla nostra fortezza, munii i fedeli custodi dei loro collari chiodati, radunai nelle vicinanze il bestiame per tenerlo sott'occhio e risalii per osservare attentamente se il nemico che aspettavamo fosse già in vista. Stavamo così in ansiosa attesa, quando dopo qualche minuto il rugliare si fece sentire di nuovo e stavolta proprio da vicino. Fritz stette un momento ad ascoltare con gli orecchi tesi, poi tutt'a un tratto gettò il suo fucile da una parte e gridò tutto allegro, ridendo e saltando: — L'asino, l'asino! È l'asino che ritorna a casa e intona un canto di gioia! Ne fummo così sorpresi che a momenti ci stizzivamo di non vedere arrivare una bestia feroce e di avere avuto tanta paura per nulla. Però ci riprendemmo subito e quando un nuovo rugghio sembrò in realtà avere un suono del tutto asinino ed innocente, la nostra tensione si sciolse improvvisamente in fragorose risate e in
scherzi vari con i quali ci canzonavamo a vicenda. Non passò molto ed ecco che riuscimmo a scorgere tra gli alberi, benché ad una certa lontananza, il nostro vecchio onesto bigio che veniva verso di noi fermandosi spesso, però, forse per brucare o per guardarsi intorno. Con nostra grande gioia vedemmo trottare al suo fianco un imponente compagno della sua stessa specie che presto individuai come un magnifico quaggua 4 o un onagro e subito l'idea che entrasse nella nostra stalla mi fece struggere di desiderio. Senza indugio scesi quindi dall'albero con Fritz, raccomandai alla mia gente di rimanere lassù nel maggior silenzio possibile e mi sforzai di escogitare il modo di catturare il gradito ospite. Preparai perciò alla svelta un nodo scorsoio con una fune abbastanza lunga, fissando l'altro capo della fune ad una radice dell'albero. Il laccio fu attaccato alla punta di una stanga e tenuto aperto da una bacchetta trasversale: gettandolo sulla testa dell'animale la bacchetta sarebbe saltata via e il laccio avrebbe stretto il collo della bestia, catturandola. Inoltre preparai un bastone di bambù lungo circa due piedi, lo spaccai in due nella parte inferiore, stringendolo in alto con lo spago, affinché non si spaccasse del tutto e nello stesso tempo potesse servirmi subito da tenaglia. Fritz stava a guardare curioso il mio lavoro e divenne un tantino impaziente, perché non ne vedeva l'utilità; infine si offrì di gettare la sua boia sull'animale selvatico per catturarlo più rapidamente. Ma questa volta non volli concedere libero campo alla caccia patagonica perché temevo che il lancio potesse fallire e facesse scappare per sempre, spaventandolo, il meraviglioso onagro. Perciò trattenni il ragazzo, finché l'ospite si fu avvicinato un altro po' e nel frattempo gli diedi le necessarie spiegazioni sull'uso del mio nodo scorsoio. Quando i due vagabondi furono abbastanza vicini, Fritz con la stanga e il laccio uscì pian piano da dietro l'albero dove ci eravamo nascosti e di soppiatto si avvicinò all'asino selvatico, fin quanto lo permetteva la lunghezza della fune che, come già detto, era assicurata ad una radice dell'albero. Quando l'onagro si vide davanti all'improvviso una figura umana si fermò di botto, ombroso, poi saltò indietro di alcuni passi per 4
Specie di zebra ormai estinta. (N. d. T.)
esaminare meglio con occhio indagatore quell'essere che pareva gli fosse del tutto sconosciuto. Ma poiché Fritz si comportò con estrema calma, il forestiero ricominciò a pascolare tranquillamente; Fritz si avvicinò allora adagio al nostro vecchio compagno, nella speranza di ammansire più facilmente l'onagro mediante la nostra confidenza con l'asino. Perciò, per allettarlo, gli tese una manciata di avena mista a sale; senza esitazioni il nostro somaro si avvicinò per ricevere subito il suo foraggio preferito. L'onagro ne sembrò colpito; si avvicinò, alzò la testa, annusò leggermente, fiutò il bocconcino ghiotto che c'era da brucare, venne ancora più vicino e infine resistette così poco alla curiosità, alla voracità e al pericoloso esempio del suo compagno, che si accostò del tutto a Fritz e questi poté gettargli sulla testa e attorno al collo la fune attaccata all'estremità della stanga. Il catturato si accorse con spavento di quella mossa e quando avvertì lo scabro e ruvido contatto, divenne all'improvviso diffidente e volle battersela a precipizio. Ma invano! Il laccio attorno al collo si strinse subito per il brusco movimento, togliendo il fiato al poverino e costringendolo a cadere a terra con un palmo di lingua fuori, umile e quieto. A questo punto saltai fuori dal mio nascondiglio, allentai quanto occorreva il laccio perché il bell'animale non soffocasse e gli gettai rapidamente sulla testa la cavezza dell'asino; presi poi la canna spaccata, con cui gli strinsi forte la membrana fra le narici, legai insieme in basso quella specie di nasiera, affinché non si staccasse ed ecco che avevo domato l'amico, come fanno i maniscalchi quando devono ferrare un cavallo selvatico. Subito dopo gli tolsi il nodo scorsoio dal collo e mentre gli attaccavo la cavezza, a destra e a sinistra, con due lunghe funi a due radici vicine, aspettai che l'animale si riavesse per vedere come reagiva e che cosa si dovesse ancora fare per sottometterlo del tutto. Nel frattempo anche i miei erano scesi in fretta dall'albero e con lieta meraviglia stavano tutti attorno al bellissimo animale selvatico, la cui slanciata corporatura, superando di gran lunga le forme dell'asino, si avvicinava quasi alla nobiltà del cavallo. Dopo un po' il tormentato animale balzò di nuovo in piedi e parve che avesse velleità di fuga;
ma il dolore al naso attanagliato smorzò subito la sua vivacità e il poverino pensò bene di comportarsi civilmente, tanto che potei arrischiarmi a guidarlo pian piano tra due barriere di radici, dove una delle funi della cavezza era stata già attaccata; anche l'altra fu allora legata corta così da privare quasi del tutto l'animale della libertà di muoversi e tanto meno di allontanarsi. Potemmo in tal modo accostarlo con sufficiente sicurezza e soltanto allora, essendo già in possesso della nobile preda, pensammo a mettere sotto custodia il nostro disertore e a rendergli difficile una nuova fuga anche in futuro. Anch'esso fu legato saldamente con un'altra cavezza e attaccato leggermente per le zampe anteriori vicino all'onagro per rendere quest'ultimo più incline a rimanere in nostro potere, poiché era chiaro che era stata la differenza di sesso a spingere l'onagro ad accompagnarsi con il nostro asino, che per la verità era un'asina. Potevamo quindi sperare che lo stesso motivo avrebbe contribuito ancora a familiarizzare l'animale sempre di più con noi. Il nostro primo pensiero fu quello di addomesticare il nuovo venuto e addestrarlo sia al trasporto di pesi sia ad essere cavalcato. Certo ci costò non poca fatica, ma finalmente riuscimmo a renderlo docile. Dopo qualche settimana l'onagro era già tanto mansueto che potevamo cavalcarlo con una certa sicurezza; soltanto dovevamo ancora legargli le zampe anteriori con una corda, perché non se la battesse. Però ora si doveva anche pensare al modo di guidarlo e in mancanza di un solido morso, cercai di costruirmene uno modificando un cavezzone, col quale si poteva facilmente, con un leggero tocco delle orecchie, ottenere ciò che con il cavezzone vero e proprio non si riusciva a fare: indurre cioè l'animale ad andare a destra o a sinistra, come si voleva. Durante tali avvenimenti tre covate di pulcini si erano schiuse ed ora uno stuolo di circa quaranta galletti e pollastre razzolava pigolando intorno a noi con grande gioia di mia moglie. Questo incremento del pollame ci richiamò ad un'altra comodità che già da un pezzo avevamo progettato ed il cui allestimento non volevamo più differire. Già da qualche tempo eravamo in pensiero per l'inizio della
stagione delle piogge o dell'inverno che, in quella terra, non si sarebbe fatto molto attendere; dovevamo perciò pensare a un riparo per il bestiame e per i volatili, giacché non potevamo lasciarli esposti alle intemperie. A questo scopo cominciammo a stendere un traliccio sulle radici ricurve del nostro albero, ponendovi sopra, tra una radice e l'altra, canne di bambù che fissammo e puntellammo qua e là, intrecciandole con canne più sottili e che finalmente ricoprimmo di musco e argilla. Le rendemmo quindi impermeabili con una colata di catrame, ottenendo così una copertura sulla quale si poteva comodamente camminare e che, munita all'esterno di un parapetto, pareva quasi una terrazza. Sotto, tra le radici dell'albero, al sicuro dalla pioggia e dal sole, ogni sorta di locali divisi secondo il bisogno servivano da dispensa per i cibi, da deposito per il latte e da stalle di varia grandezza, dove il bestiame era protetto e dove potevamo custodire con ogni comodità, anche nel periodo delle piogge, fieno asciutto e foglie secche per foraggio e lettiere degli animali. Fornire abbondantemente la dispensa di ogni tipo di provviste per l'inverno fu la nostra prima cura e ogni giorno uscivamo per procurarci qualcosa di utile, che ci sembrasse desiderabile o come cibo o come mezzo per una pratica attività. Una sera, mentre tornavamo a casa dal raccolto delle patate, col carro carico di sacchi tirato dalla mucca, dal bufalo e dall'asino, mi venne in mente di mandare avanti la mamma con i piccoli per la solita via dritta al Nido dei Falchi; nel frattempo io con Ernst e Fritz, allungando il cammino, sarei passato per il querceto per raccogliere un paio di sacchi di ghiande e rendere così più abbondante il raccolto della giornata. Ernst aveva con sé la scimmia e Fritz cavalcava l'onagro domato. Portavamo con noi qualche sacco vuoto per le ghiande che, come prova, l'animale avrebbe dovuto trasportare sulla groppa al Nido dei Falchi. Poiché non voleva farsi assolutamente sfruttare per il tiro, doveva almeno cominciare a fare il proprio dovere per il bene comune, anziché servire soltanto per il divertimento della cavalcata. Quando giungemmo sul posto, l'onagro a cui avevamo dato il nome di Pie'' Veloce fu legato a un arbusto e ci mettemmo
alacremente a raccogliere ghiande; il lavoro procedeva rapidamente data la grande quantità delle ghiande cadute, ma eravamo ancora ben lontani dall'aver finito il nostro compito quando ne fummo distolti dallo scimmiottino. Questo all'improvviso saltò nel cespuglio più vicino, che già da qualche tempo sbirciava di soppiatto e da cui si alzarono ad un tratto acute strida d'uccello e un frullare d'ali che facevano pensare ad una vivace lotta tra la scimmia e qualche abitante del cespuglio. Mandai Ernst, più vicino in quel momento al campo di battaglia, a vedere che cosa mai accadesse e quando il ragazzo si fu arrampicato un po' meglio, ci gridò tutto contento: — Papà, un nido pieno di uova! Lo scimmiotto si azzuffa con la gallina! Fritz può prenderla mentre io qua trattengo lo scimmiotto! A quell'invito Fritz accorse con un balzo ed infatti dopo qualche minuto mi portò la bella vivace femmina di un tetraone canadese che egli aveva ucciso qualche tempo prima. Fui molto contento di quella scoperta e legammo subito con uno spago ali e zampe della gallina per impedirle di scappare. Nel frattempo Ernst, rimasto nel cespuglio, ne aveva cacciato fuori la scimmia e veniva ora pian piano verso di noi portando con cautela il cappello in mano; alla sua cintura erano infilate delle foglie che ne sporgevano aguzze come spade e a prima vista mi sembrarono foglie di iris. Il ragazzo sollevò con cura il fazzoletto che fino allora aveva coperto il contenuto del cappello ed esclamò tutto allegro: — Guarda, papà, sono uova di tetraone dal collare! Le uova giacevano in un nido affastellato alla meglio in mezzo a molte foglie di iris e non le avrei mai trovate se la gallina non si fosse difesa così furiosamente dalla scimmia e le foglie non si fossero scompigliate in modo che le uova mi cadessero sotto gli occhi. Penso che la mamma ne sarà felice. Invece le foglie che ho infilato qui serviranno al piccolo Franz, perché sembrano spade e saranno per lui un bel giocattolo, per tirar di scherma e dare sciabolate. Dopo aver riempito di ghiande i sacchi, li caricammo sulla schiena dell'onagro. Fritz balzò in sella tra i sacchi e riprendemmo il cammino per tornare a casa; Ernst portava pazientemente le uova ed io la gallina canadese.
La mamma fu molto lieta del nostro bottino; ebbe tanta cura della gallina che questa continuò a covare le uova e ci regalò qualche giorno dopo quindici pulcini, e presto divenne del tutto domestica assieme alla sua nidiata. Un paio di giorni dopo il nostro ritorno dal querceto le iris di Franz, ormai appassite, erano sparse per terra. Fritz allora ebbe un'idea, le raccolse e chiamò il piccolo, dicendogli: — Guarda, fratellino, ora faremo una bella frusta con le tue spade, così non marciranno inutilmente e potrai tenere meglio la disciplina fra pecore e capre. I ragazzi si sedettero uno accanto all'altro; il piccolo Franz tagliava le foglie in lunghe strisce sottilissime che Fritz intrecciava insieme e presto fu fatta una robusta sferza. Osservando il lavoro dei ragazzi mi accorsi, non senza un lieto presentimento, con quanta facilità quelle foglie tenaci ed elastiche si lasciassero avvolgere e intrecciare. Cominciai allora ad esaminare più attentamente una striscia. Vidi così che le foglie erano costituite da lunghi fili forti e flessibili, congiunti insieme da una mucillagine verdognola. Ciò mi fece pensare che le presunte iris fossero in realtà qualcos'altro e precisamente le piante di lino della Nuova Zelanda, il Phormium tenax, scoperta che, nelle nostre condizioni, giudicai preziosissima; perciò, anche come semplice supposizione, la comunicai subito a mia moglie. — Dio, che cosa magnifica! — gridò lei, addirittura in visibilio. — La migliore che abbiate portato a casa! Procuratemi subito tutte le foglie che potete. Ne faremo calze, camicie, vestiti, fili e funi, e tutto quello che si può desiderare! L'entusiasmo di mia moglie mi fece quasi ridere, eppure era proprio il sentimento della brava massaia, che si sente balzare il cuore in petto quando si parla di canapa e lino. Mentre cercavo di moderare l'entusiasmo della mamma, giacché il passaggio dalle foglie alla tela era troppo difficile e lungo, Fritz e Jack, senza dirmi nulla, balzarono inosservati uno in groppa all'onagro, l'altro al bufalo, dirigendosi così rapidamente alla volta del bosco che presto li perdemmo di vista. Dopo un quarto d'ora i nostri cavalieri tornarono a casa di buon
trotto. Avevano appeso, come due ussari foraggieri, ai fianchi delle loro cavalcature enormi fasci di piante di lino e ce li gettarono ai piedi tra grida generali di gioia. Dissi ai ragazzi di mettersi subito agli ordini della mamma e di aiutarla senza indugio nella lavorazione del lino e principalmente nel macero delle piante. A questo scopo immergemmo prima di tutto le piante nel ruscello; nell'acqua la parte più molle della foglia sarebbe marcita, mentre la fibra più forte doveva resistere. Dopo due settimane circa la mamma ritenne che il lino fosse abbastanza macerato e andammo a toglierlo dal macero per distenderlo al sole. Fu sparso sulla sabbia nelle vicinanze e in un solo giorno era tanto asciutto che potemmo ammassarlo sul carro la sera stessa e portarlo senza difficoltà al Nido dei Falchi per l'ulteriore lavorazione. In quel momento però non c'era il tempo per costruire scapecchiatoi, maciulle e tanto meno aspi e filatoi; dovevamo invece prepararci sempre più seriamente all'avvicinarsi della stagione delle piogge e, nell'incertezza di quanto potesse durare, bisognava provvedere sollecitamente perché ci fossero viveri a sufficienza per noi e per tutti gli animali domestici. Già di quando in quando avevamo avuto qualche acquazzone, il tempo che fino allora era stato costantemente caldo e sereno divenne fosco e variabile; spesso il cielo si rannuvolava, il vento soffiava impetuoso e tutto ci incitava a sfruttare ogni attimo per completare i lavori all'aperto. Miravamo soprattutto a scavare patate e radici di manioca, perché quel cibo era il nostro preferito e nello stesso tempo si poteva conservare più facilmente. Non trascurammo però di raccogliere noci di cocco e ghiande a bizzeffe, per avere una certa varietà nella nostra mensa invernale. Scavando patate e manioca ci sembrò tuttavia consigliabile piantare nel terreno soffice e smosso vari tipi di cereali europei, giacché non ci eravamo ancora organizzati per una regolare aratura e d'altra parte, nonostante tutti gli squisiti frutti del clima meridionale, apprezzavamo troppo, per varie ragioni, il grano e la farina della nostra patria perché non avessimo il fermo proposito di mantenerli e di moltiplicarli. Oltre tutto eravamo nel periodo più adatto alla seminagione, perché l'imminente pioggia ci prometteva l'umore necessario allo
sviluppo delle piante e preparava il terreno alle radici, che altrimenti non avrebbero potuto attecchire in un suolo riarso. Ci affrettammo perciò a trapiantare un buon numero di giovani piante di cocco al Rifugio della Tenda e vi piantammo vicino una gran quantità di canne da zucchero per avere sotto mano in quel luogo comodo e fortificato tutto ciò che ci potesse essere utile e gradito anche in futuro. Ma nonostante l'esemplare attività con cui ci disponevamo a fronteggiare l'assalto dell'inverno, il periodo delle grandi piogge scoppiò molto prima di quanto pensavamo, cogliendoci alla sprovvista in modo molesto e addirittura pericoloso. Venivano giù rovesci tali che il piccolo Franz mi chiedeva tra le lacrime se ci fosse il diluvio universale e non potevo affatto prevedere come avremmo potuto, a lungo andare, proteggerci dall'umidità. La necessità più urgente, ed anche la più fastidiosa, fu il nostro pronto trasferimento dall'allegra abitazione pensile al pianoterra, tra le radici e sotto il tetto di canne; infatti lassù, un po' per il vento impetuoso e un po' per la pioggia, ormai era impossibile vivere. Dovemmo trascinarci appresso tutto quello che poteva essere deteriorato dall'umidità e i vani al pianoterra furono così stipati di masserizie di ogni sorta, di letti e di esseri viventi che potevamo muoverci a malapena. Per di più il tanfo del bestiame vicino, il suo schiamazzo, ed il fumo, quando accendevamo il fuoco, erano quasi insopportabili. Tuttavia a poco per volta si rimediò anche a tali inconvenienti, restringendo di più gli animali domestici e accatastando diversi arnesi sulla scala a chiocciola; dopo qualche tempo avevamo ottenuto tanto spazio da poter lavorare durante il giorno e distenderci e riposare la notte. Rinunciammo volentieri a cucinare, tutte le volte che era possibile, anche a spese della nostra ghiottoneria. Del resto la legna asciutta ci mancava quasi del tutto e ringraziammo il cielo che non fosse molto freddo, perché altrimenti non avremmo saputo come fare. Il peggio era che non avevamo raccolto abbastanza fieno e fogliame per tutte le bestie, né eravamo in grado di compensarne la mancanza con patate, ghiande o qualcosa del genere; ci trovammo allora nella necessità di far uscire dal chiuso la maggior parte del
bestiame, anche sotto la pioggia, perché si cercasse il foraggio da sé. Quando poi scendeva la sera, a volte Fritz, a volte io stesso, dovevamo deciderci ad uscire sotto la pioggia per far rientrare le bestie e quasi sempre tornavamo fradici sino all'osso e mezzo intirizziti dal freddo. Ciò spinse la mamma a suggerirci un indumento che ci proteggesse efficacemente quando uscivamo. Prendemmo da una cassetta una camicia di marinaio e vi attaccammo un cappuccio di panno che si poteva tirare comodamente sulla testa, offrendo un ottimo riparo. Il tutto fu impregnato di caucciù, avanzato dalla fabbricazione degli stivali ed ottenemmo così una specie di corazza che non lasciava penetrare l'acqua e che ci fu di straordinaria utilità. Nonostante il cattivo tempo ora potevamo uscire all'aperto senza pericolo per i nostri vestiti e soprattutto per la nostra salute. Del resto cercavamo in tutti i modi di rendere utile e gradevole il soggiorno nel nostro quartiere d'inverno. Decisi di passare il tempo scrivendo minuziosamente la storia della nostra vita in quella terra straniera per fissarne durevolmente il ricordo, un po' per ammaestramento, un po' per divertimento. Anche in questa occupazione mia moglie e i ragazzi mi aiutarono volentieri e con il contributo di tutti la descrizione dei mesi trascorsi fu fatta così fedelmente, che meglio non si poteva desiderare. L'ultimo e forse il più utile dei miei lavori invernali fu la fattura di una maciulla e di due pettini, uno più grosso e l'altro più fine, per canapa e lino. A questo scopo presi dei lunghi chiodi, che limai in modo che risultassero tutti egualmente rotondi e appuntiti. Li piantai poi alla dovuta distanza uno accanto all'altro in una grande lamiera di ferro, larga quasi un pollice e mezzo, così che tutt'intorno rimanesse un orlo ininterrotto che rialzai formando una specie di scatoletta. Subito dopo sciolsi del piombo e lo colai fino all'orlo della cavità ottenuta, per dare un solido sostegno ai chiodi ritti, che sporgevano dieci centimetri buoni, affinché offrissero la giusta resistenza nella scapecchiatura del lino e potessero nello stesso tempo infilarsi bene tra le fibre della pianta. Infine saldai alla lamiera alcuni occhielli per poterla assicurare con le viti e per inchiodarla ad un supporto. L'intera macchina riuscì di tale praticità e stabilità che la mamma
ardeva dal desiderio di provarla subito e non faceva che augurarsi il pronto ritorno della buona stagione, affinché fosse possibile accendere di nuovo un bel fuoco all'aperto per fare asciugare il lino che si era nuovamente inumidito e per iniziare finalmente, con maciulla e pettini, il proficuo tentativo destinato ad allietare e a confortare il suo cuore di brava madre di famiglia.
CAPITOLO V LA MADRE FILA IL LINO. - HA CASA NELLA ROCCIA. - LA MIGRAZIONE DELLE ARINGHE. — SI TROVA IL COTONE. — SI FONDANO NUOVE COLONIE E SI COSTRUISCE UNA BARCA. — COMINCIA IL RACCOLTO DEI COLOMBI. — COME SI ADDOMESTICANO I COLOMBI. NON È FACILE raccontare come ci sentimmo lieti e fortunati quando, dopo le lunghe malinconiche settimane di maltempo, il cielo cominciò a rischiararsi, il sole tornò a splendere e il clima cominciò a farsi più mite e sereno. Con viva gioia sbucammo dai locali intanfiti, uscimmo all'aria fresca, rallegrando i nostri occhi con il gaio tenero verde che spuntava dappertutto. La natura stessa pareva rinascere. Ogni creatura aspirava con delizia il nuovo soffio vitale. Tutte le pene dell'inverno furono dimenticate e pieni di fiducia andavamo incontro ai lavori e alle fatiche dell'estate, come se fossero un gioco di ragazzi. Tutte le nostre coltivazioni erano in pieno rigoglio. I semi affidati alla terra germogliavano a meraviglia, gli alberi erano adorni di foglie appena spuntate e di nuove gemme; il suolo era ricoperto di splendide varietà di fiori multicolori e dell'erba più grassa che avessi mai visto. Gli alberi in fiore impregnavano l'aria di profumi balsamici e il canto degli uccelli dalle piume variegate, che appena desti si affrettavano ad uscire dai loro nascondigli per partecipare alla gioia comune, completava lo spettacolo di una ridente primavera e di una fiorente creazione. Pieni di rinnovato coraggio cominciammo col ripulire e raggiustare il castello pensile nei punti danneggiati dalla pioggia; dopo pochi giorni potevamo abitarvi di nuovo, liberare la scala a chiocciola, rimettere a posto nei locali fra le radici le comodità che ne avevamo portato via e dedicarci infine a qualche occupazione
utile. Alla mamma, naturalmente, stava a cuore più di ogni altra cosa il suo amato lino. Perciò, mentre i ragazzi pascolavano il bestiame fra l'erba fresca, io portavo all'aperto i fasci di lino che si erano di nuovo inumiditi e aiutavo mia moglie a costruire il sostegno per un essiccatoio provvisorio, affinché tutto il lino potesse asciugarsi completamente. Poi cominciammo a maciullarlo e a scapecchiarlo. I ragazzi furono impegnati a collaborare in ogni senso, ma specialmente a battere i fasci di lino su un tavolo, con solidi bastoni, prima della maciullatura, in modo da separare le fibre tessili dal superfluo. La mamma si occupava della maciullatura, mentre io facevo il pettinatore e fornivo della merce così pregiata che tutti ne furono entusiasti. — Ora però devi farmi anche un fuso, mio caro marito, — mi pregò mia moglie, tutta rossa per il fervore, — così potrò cominciare subito a filare. Con abilità e costanza costruii un fuso e perfino un aspo. Da quel momento l'industriosa donna si dedicò alla sua prediletta occupazione con tanto entusiasmo che non sentiva nemmeno il bisogno di concedersi il piacere, di cui era stata così a lungo priva, di una passeggiata o di un'escursione. Anzi era contenta quando ce ne andavamo, lasciandole tutt'al più uno dei ragazzi, perché così poteva preparare tranquillamente il materiale per i nostri futuri bisogni di tela, calze, filo, cordoncini. Noi intanto facemmo subito una spedizione al Rifugio della Tenda per vedervi gli effetti dell'inverno e per esaminare se anche là ci fosse da rappezzare e rimettere in ordine, come era stato necessario fare nel nostro palazzo pensile. Purtroppo trovammo il Rifugio della Tenda colpito e rovinato molto più duramente dell'arioso Nido dei Falchi. Vento e pioggia insieme avevano abbattuto la tenda e una parte della tela da vela era stata completamente divelta; tutte le provviste erano talmente deteriorate che si rivelarono in gran parte addirittura inservibili e il resto poteva essere salvato soltanto se avessimo provveduto a farlo asciugare subito. Per fortuna però la lancia solida e ben costruita era stata
risparmiata dalla rovina generale. La nostra barca-tinozza invece pareva terribilmente danneggiata e così pericolante che non mi sarei mai arrischiato a riadoperarla per una traversata. Esaminando meglio le provviste notammo in particolare un notevole danno nella polvere da sparo; ne avevo lasciato tre barilotti nella tenda invece di portarli nel grande deposito sotto la volta della rupe, dietro le rocce sporgenti. Due di questi barilotti erano stati talmente rovinati dall'acqua che vi era penetrata, che dovetti gettar via la polvere, senza rimedio. Questa grave e purtroppo irreparabile perdita fu per me uno stimolo a pensare il più presto possibile ad un futuro quartiere d'inverno, dove simili guai non dovessero più verificarsi e dove tanto noi che tutta la nostra roba, durante i mesi delle piogge, potessimo stare al sicuro. Tuttavia non osavo affatto sperare di poterci insediare dentro la roccia, secondo il grandioso progetto di Fritz, poiché per attuare una impresa del genere con le nostre limitate forze sarebbe bastato a malapena il lavoro di tre o quattro estati. Eppure il desiderio di un'abitazione spaziosa e resistente alle piogge non mi dava pace, almeno finché non avessi fatto un tentativo per vedere in che modo si potesse trattare la roccia e finché non avessi scavato provvisoriamente una grotta per la polvere, dove questo preziosissimo tesoro fosse in avvenire riparato dalle intemperie nel modo più sicuro. Prima ancora che la mamma avesse portato a termine il suo lavoro di filatura e dopo aver passato un paio di giorni al Rifugio della Tenda per fare asciugare bene tutto, un bel mattino partii dal Nido dei Falchi, alla testa dei miei assistenti, questa volta Fritz e Jack. Ci eravamo muniti di picconi, leve e scalpelli, col fermo proposito di tentare la sorte con la roccia o almeno di riuscire a scavare una grotta per qualche barilotto di polvere. Scelsi un punto adatto della rupe, dove essa era liscia, ripida, quasi a picco e la posizione, migliore di quella della tenda, permetteva senza difficoltà una completa visuale della Baia della Salvezza e di tutta la riva compresa tra il Torrente degli Sciacalli a destra e il promontorio roccioso a sinistra. In quel punto tracciai col carbone il contorno dell'apertura che pressappoco
volevo ricavare e col sudore della fronte incominciai subito assieme ai ragazzi la dura fatica dello spaccapietre. Il primo giorno si progredì così poco che, nonostante l'iniziale lena, rimanemmo proprio scoraggiati e quasi disperavamo di poter scavare anche soltanto una modesta cantina prima della successiva stagione delle piogge. Ma l'indomani ripresi nuovamente fiducia e coraggio, accorgendomi che la durezza della pietra, via via che procedevamo, diminuiva gradatamente; anzi alla fine la roccia divenne così friabile che si poteva spaccare e scavare con pochissima fatica. Ci eravamo inoltrati di qualche metro. Jack, che era il più piccolo, stava rannicchiato nel fondo della cavità e lavorava a tutt'andare, ansando e sbuffando, con la sua leva. Ad un tratto lanciò un grido e mi chiamò affannato: — Papà, sono passato, sono passato! — Già, ma dove sei passato? — risposi, — non sarai passato mica attraverso la roccia! — Ma certo, attraverso la roccia! — gridò il ragazzo, — evviva, evviva! — Davvero, — esclamò Fritz, che si era precipitato subito dietro il fratello, — vieni un po' qui, papà, è stranissimo! Pare che la leva passi al di là della pietra e finisca nel vuoto. Guarda qua, la si può voltare e girare come si vuole. Accorsi stupito e afferrai il manico dell'arnese, ancora infilato nella roccia. Un'idea mi balenò, riempiendomi di gioia. In fretta e furia, eccitato, staccai con fatica, pezzo per pezzo, parte della massa rocciosa; dopo appena un quarto d'ora avevo spalancato un foro abbastanza grande perché ci passasse dentro una persona. I due ragazzi volevano naturalmente entrarci subito; ma li trattenni perché dall'apertura si sprigionò un'aria soffocante, che mi mozzò quasi il fiato. — Via, via! — gridai loro, mentre indietreggiavo rapidamente all'aria aperta. — Guardatevi bene dall'entrare in quella pericolosa spelonca. Là dentro l'aria è venefica. — Come? Perché? — gridarono entrambi. — Perché è corrotta e irrespirabile. — E come mai?
— Capita, — dissi, — quando essa si impregna di esalazioni nocive o quando contiene gas combustibili o acido carbonico che rende difficile la respirazione, tanto che l'uomo ne rimane asfissiato. — Ma allora che facciamo? — domandarono i ragazzi, profondamente delusi. — Dobbiamo tentare di purificare l'aria della caverna. — Beh, certo sarà difficile, — osservò Jack. — Forse perfino impossibile, perché non sappiamo ancora per quale ragione l'aria sia inquinata. Comunque dobbiamo fare tutto il possibile. La posta è molto importante. Innanzi tutto, la prova del fuoco. Presto, portatemi un bel fascio d'erba secca. In pochi minuti l'erba fu pronta. L'accesi e gettai nella caverna il mucchio ardente, che però in un amen si era già spento. Quindi ci voleva un mezzo più efficace. Ci sedemmo, guardandoci in faccia. — Se si potesse accendervi della polvere! — propose Jack. — Alt, — gridai, balzando in piedi. Mi ricordai improvvisamente di una cassa piena di razzi e di granate che avevamo messo in salvo, destinandola a segnali notturni. Corsi subito alla tenda, seguito dai ragazzi incuriositi. La cassa era intatta. Presi alcuni pezzi pirotecnici, ne diedi qualche altro ai ragazzi e ci disponemmo di nuovo davanti a quella che pareva la bocca spalancata degli inferi. — Ora affronteremo come si deve gli spiriti maligni, — dissi allegramente, cominciando ad accendere la prima granata. La detonazione nell'orrenda voragine fu fragorosa; le sostanze luminose schizzavano come meteore raggianti fino alla parete di fondo, rimbalzavano in alto, scoppiavano con rombo cupo, cacciando fuori dell'imboccatura della caverna una corrente di vapori mefitici. Dopo aver tirato e sparato per un pezzo fuochi d'artificio, feci un secondo tentativo col fieno acceso. Stavolta il fascio bruciò lentamente riducendosi in cenere dentro la caverna; capimmo allora che, almeno riguardo all'aria, l'ingresso era assicurato e non c'erano altri pericoli all'infuori di quello di sbattere al buio o di venire inghiottiti da acque che vi si fossero infiltrate. Perciò non volli inoltrarmi ancora nella grotta e ordinai a Jack, il nostro svelto caposcarico, di fare immediatamente una corsa fino al
Nido dei Falchi, annunciare la lieta notizia a quelli che erano rimasti e tornare assieme a loro con tutte le candele che c'erano a casa, affinché potessimo accingerci subito insieme, comodamente, all'ispezione della portentosa caverna, in tutta la sua vastità. Nel frattempo cominciai con Fritz a rendere più larga e alta l'apertura dell'antro, portando via tutti i detriti e aprendo un comodo varco, affinché i nostri cari potessero entrare senza trovare ostacoli nella grotta straordinaria. Dopo un paio d'ore la mamma arrivò felicemente sul carro assieme ad Ernst e al piccolo Franz. Senza perder tempo furono accese le candele e in solenne corteo ci addentrammo nella buia spelonca. Ognuno portava una candela accesa nella destra, qualche arnese nella sinistra, un'altra candela in tasca come riserva e l'occorrente per accendere nella cintura, nel caso che la candela si spegnesse all'improvviso. Procedevamo con gravità sostenuta: io davanti, i ragazzi mezzo impauriti e mezzo incuriositi dietro di me, la mamma in coda e ai due lati i cani, nei quali l'insolita scena sembrava destare timore e inquietudine. Quando fummo nella grotta uno spettacolo meraviglioso, incantevole, si offrì ai nostri occhi. Tutt'intorno a noi le pareti brillavano come il cielo stellato; dalla volta della caverna pendevano innumerevoli cristalli scintillanti, molti ne scaturivano anche dalle pareti. Dappertutto la fiamma delle candele sfavillava moltiplicata, come se ci trovassimo nella sala di un palazzo reale riccamente illuminata o in un duomo gotico durante la messa mattutina, quando da ogni parte brillano i lumi e col rifrangersi dei raggi luminosi tutti i colori e le gradazioni della luce a tratti si diffondono intorno e a tratti si concentrano in un unico punto di abbagliante splendore. Il suolo della caverna era compatto, piano per lo più, e cosparso di finissima sabbia, come fosse stato fatto apposta, e così asciutto che non potei scoprirvi la minima traccia di umidità, il che fu per me ancora più gradito; a ragione quindi potevo dedurre che come luogo di abitazione la caverna sarebbe stata perfettamente salubre. Con indicibile gioia scoprii, in parte per la forma dei cristalli, in parte per la friabilità della roccia, ma soprattutto per il sapore di un frammento staccato dalla parete, che ci trovavamo in una caverna di
salgemma cristallizzato, la cui ganga era un comune spato gessoso. Tale rinvenimento ci fece molto piacere perché offriva a noi e al bestiame una sorprendente quantità di sale, già quasi pronto per l'uso, che ci lasciava solo l'incomodo di doverlo pestare, un'inezia di fronte alla fatica di raccogliere il sale fra le rocce in riva al mare. Entusiasti, felici, facevamo progetti su progetti sul modo di utilizzare la splendida grotta e da quel momento, trascurando ogni altra occupazione, rivolgemmo tutta la nostra assiduità e capacità di invenzione a quel campo di attività, appena dischiuso, che già si presentava estremamente vantaggioso. Naturalmente per quell'estate il Nido dei Falchi continuò ad essere la nostra casa, dove passavamo regolarmente la notte; ma durante l'intero giorno stavamo vicino al Rifugio della Tenda, costantemente occupati a fare i necessari adattamenti nel nuovo castello di roccia per trasformarlo in un solido e funzionale alloggio d'inverno. Innanzi tutto mi dedicai esclusivamente a procurare luce e aria fresca e salubre alla nostra caverna salina; cominciai dunque con l'aprire una serie di finestre. Si capisce che a questo scopo la parete rocciosa dovette essere assottigliata, perché, se avessi voluto sfondare le aperture delle finestre con lo stesso sistema della porta, avremmo ottenuto parecchie feritoie profonde cinque o sei piedi, ma aria e luce ne avremmo avuta ben poca. Naturalmente cominciammo ad assottigliare e a ripulire dall'interno, nei punti dove la roccia, rimosso lo strato di sale, era meno compatta. Tuttavia fu sempre un lavoro pesante e faticoso e, quando finalmente le finestre dell'alloggio ufficiali, in misura delle quali avevamo intagliato i fori, sfavillarono al sole con le lastre di vetro nitide e lustre, ci concedemmo un giorno di riposo straordinario. L'ingresso della caverna fu aperto con le stesse dimensioni della porta che avevamo prima al Nido dei Falchi e che trasportammo ora al Rifugio della Tenda, giacché mi proponevo di sostituirla nel castello pensile con una nuova di semplice scorza d'albero, in modo che l'accesso alla scala a chiocciola fosse almeno mimetizzato, nel caso di un improvviso assalto di selvaggi, per evitare facili saccheggi. Siccome la caverna era estremamente spaziosa, fu divisa per il momento in due parti, separate da un largo corridoio che portava
dritto sino in fondo, parzialmente limitato da pali. L'ala destra, vicino all'ingresso, fu destinata ad abitazione, quella sinistra a cucina e laboratorio. Nel fondo, dove non si poteva più praticare alcuna finestra, avremmo sistemato la cantina, un deposito e le stalle; il tutto doveva essere a mano a mano separato da pareti divisorie, chiuso da porte e allestito a regola d'arte, secondo le esigenze di una comoda abitazione. Il grandioso lavoro preliminare della natura, che ci aveva risparmiato le maggiori difficoltà di costruzione e richiedeva da noi soltanto l'opera di rifinitura dell'interno, ci incoraggiava e ci invogliava ad applicarci con perseveranza e vi dedicammo un'operosità e una tenacia come in nessuno degli altri lavori fino allora eseguiti in quella terra deserta. La parte destinata ad abitazione venne successivamente divisa in tre stanze separate: la prima, accanto alla porta, camera per me e mia moglie, la seconda sala da pranzo e la terza camera da letto per i ragazzi. La prima e l'ultima avevano finestre a vetri, per quella di mezzo ci dovemmo contentare di una semplice inferriata. In cucina, nella parte anteriore fu costruito un focolare fra due condotti d'aria e questi poi furono traforati a giorno in alto e forniti di una cappa che, sporgendo sul focolare, doveva raccogliere il fumo e convogliarlo all'esterno. Il laboratorio fu lasciato particolarmente spazioso e con una larga porta d'uscita, affinché d'inverno vi potessimo compiere utili faccende e occorrendo vi trovassero posto anche il carro e il traino. In questa stanza e nella camera dei ragazzi collocammo inoltre alcuni armadi a muro tanto in voga nella nostra madrepatria. Le stalle furono suddivise e si estendevano lungo le pareti laterali e nel fondo della caverna, vicino al deposito delle polveri e alla dispensa. Ricevevano l'aria, anche se indirettamente, dalle finestre scavate nella roccia, poiché è chiaro che le pareti divisorie occupavano soltanto una minima parte in confronto all'enorme altezza della volta. Inoltre, tenendo conto dei vani situati in fondo, avevamo creato a una notevole altezza rispetto alla prima fila di finestre, un'altra serie di aperture che però furono munite soltanto di inferriate. Davanti ad esse passava una passerella larga parecchi piedi, sorretta da robusti pali. Dalle due parti i gradini di una scala
rozzamente scavata nella pietra portavano in alto. Delle corde saldamente assicurate sostituivano la ringhiera lungo la parete rocciosa. Quell'alto ballatoio interno ci serviva ottimamente come vedetta per scrutare in lontananza. Comunque, la posizione delle stalle, obbligata dalla distribuzione dello spazio, era anche un richiamo alla più scrupolosa e puntuale pulizia nella cura degli animali e nella manutenzione degli ambienti. Una mattina, camminando non lontano dalla riva, dal Nido dei Falchi verso la casa nella roccia, scorgemmo con stupore una scena che non avevamo mai osservato, benché avessimo fatto quella strada almeno cento volte. Lontano, in alto mare, una considerevole estensione dell'acqua sembrava quasi in tumulto come se, sollevata da un fuoco abissale, ribollisse spumeggiando e gorgogliando in un calderone. Sopra di essa si libravano in volo innumerevoli uccelli marini di ogni specie: gabbiani, aquile di mare, chiurli, albatri e tanti altri ancora, stridendo e gracchiando in modo orribile e assordante. Lo stuolo dei pennuti era in continua agitazione. Interi stormi di uccelli ora si precipitavano contro la superficie dell'acqua, ora si alzavano in volo, girando vorticosamente, ora si inseguivano in tutte le direzioni, lasciandoci nell'incertezza se lo scopo di tutto quel trambusto fosse un semplice gioco o una lotta sanguinosa. In mare il tratto fluttuante offriva uno spettacolo altrettanto strano. Qua e là, nello splendore dell'aurora, emergevano piccoli bagliori come fiammelle che si spegnevano subito nelle increspature delle onde per rinnovarsi centuplicate e guizzanti quasi ad ogni momento. Tutta la massa vorticosa avanzava dal mare aperto verso la riva e si dirigeva precisamente verso la Baia della Salvezza. Presi da stupore e interesse, anche noi accorremmo con la maggiore celerità possibile alla volta della baia. Strada facendo ognuno cercava di spiegarsi lo straordinario fenomeno; la mamma pensava che fosse un banco di sabbia a cui fino allora non avevamo fatto caso; Fritz invece supponeva che fosse un vulcano sottomarino che iniziava la sua eruzione; Ernst infine credeva che si trattasse di uno spaventoso mostro marino oscillante sulle onde. Questa spiegazione fu accolta dalla maggioranza perché dava alla vicenda un aspetto fantastico. Io però, dopo qualche
riflessione, giunsi all'idea che si trattava di un banco di aringhe, anzi di un'enorme migrazione di aringhe, accompagnata da uccelli e foche marine, avidi di preda. Bisognava dunque agire con prontezza. Difficilmente eravamo arrivati così in fretta al Rifugio della Tenda e avevamo appena staccato gli animali dal carro che già il banco di aringhe arrivò scrosciando nella baia e avanzò così di furia che di tanto in tanto un pesce saltava su un altro o si rivoltava, dibattendosi e mostrando il ventre. Ci accorgemmo allora che in tal modo dalle squame bagnate delle bestiole si riverberavano vivaci luccichii, provocando lo strano scintillio che avevamo notato in alto mare. In quel momento però non avevamo tempo da perdere in oziose contemplazioni del suggestivo spettacolo; si trattava piuttosto di approfittare della occasione e prendere quanti più pesci possibile, poiché non c'era al mondo un modo più facile e rapido per provvedere alle nostre provviste invernali e sapevamo anche troppo bene quanto cibo fosse necessario per noi e per le nostre bestie nella lunga stagione delle piogge. Perciò assegnai a ciascuno, secondo la propria forza e abilità, i diversi compiti da svolgere nell'impresa. A Fritz toccò di andare in acqua per raccogliere i pesci nelle ceste e porgerceli; Ernst e Jack furono adibiti allo sventramento; la mamma pestava il sale; il piccolo Franz faceva da aiutante a tutti, mentre io dovevo salare le aringhe e disporle a strati nei barili, perché mi sembrava che per tale compito fosse necessaria la maggiore cura. Innanzi tutto cosparsi di sale il fondo dei barili, vi posi sopra una fila di aringhe con la testa rivolta verso il centro, quindi le ricoprii nuovamente di sale, disposi un altro strato di pesci con la testa rivolta verso l'esterno e continuai a sistemarli in tal modo, con notevole economia di spazio, finché ogni barile fu pieno e vi rimase, in alto, soltanto uno spazio dell'altezza di un pollice circa per sistemarvi un'adatta copertura. Vi appoggiammo grandi foglie d'albero e un pezzo di tela da vela tagliato a disco; sulla tela disponemmo dei semicerchi di tavola che combaciavano perfettamente e il tutto fu pressato forte con grosse pietre e messo per un po' di tempo al fresco nella nostra caverna, finché la massa non si fosse un po' posata, in
attesa di chiudere definitivamente i barili per la perfetta conservazione. L'intera operazione prese quattro giorni interi, legandoci completamente al Rifugio della Tenda, perché anche lavorando dalla mattina fino a tarda sera non riuscivamo a mettere in salamoia più di due barili di aringhe al giorno e tuttavia non volevamo smettere finché non ne avessimo riempiti almeno sette o otto. Il nostro consueto lavoro per la sistemazione della casa nella roccia continuava intanto a progredire tranquillamente senza interruzioni ed era l'occupazione di maggiore o di minore importanza, secondo che ci fosse qualcosa di più o di meno urgente da fare. Dal momento in cui avevo scoperto nella grotta lo spato di gesso come ganga dei cristalli di sale, gli davo letteralmente la caccia, perché speravo di utilizzarlo in molti modi nella costruzione. Ma poiché la caverna era già abbastanza grande, preferivo cavare quell'utile pietra da qualche altro luogo; esaminavo perciò tutta la parete di roccia per vedere se essa apparisse anche altrove. Presto riuscii a trovare nel deposito delle polveri, dietro la sporgenza delle rocce e precisamente in direzione del canneto, un posto in cui il suolo era particolarmente friabile e si poteva scavare facilmente. Ne trasportammo una buona scorta nella cucina da campo vicino al Rifugio della Tenda e ogni volta che la madre cucinava, ne facevo calcinare alcuni pezzi; quando si erano raffreddati li pestavamo riducendoli in polvere e mettevamo la polvere ottenuta in un posto asciutto per tenerla in serbo, finché l'interno della caverna fosse stato ulteriormente sistemato: avevo deciso infatti di fare un esperimento di lavorazione del gesso, per risparmiare in tal modo una quantità di tavole, che altrimenti sarebbero state necessarie per rivestire le pareti delle nostre camere. Circa un mese dopo il grande passaggio delle aringhe, che già da un pezzo si erano dileguate dalla baia, comparve in questa e nelle zone limitrofe della riva una grande quantità di storioni, di salmoni e di storioni reali, che seguendo il corso delle acque dolci si spingevano nell'entroterra, risalendo il corso d'acqua sino alla sorgente per deporre le uova, come è loro abitudine, in mezzo alle
pietre e ritornare poi in alto mare. La maggior parte dei pesci era di tale grandezza che Jack, che ci portò la lieta notizia dell'arrivo dei forestieri, li aveva scambiati per giovani balene. Ci promettevano gradito cibo e provviste per l'inverno, ma non sapevamo ancora quale fosse il modo migliore per affrontarli, per cui ognuno di noi prese l'arma che credeva più adatta. Fritz afferrò le fiocine con la corda e il verricello. Io, novello Nettuno, presi un tridente adatto per fiocinare i pesci. Ernst si munì di grossi ami e Jack preparò la freccia, fissando a una lunga fune alcuni galleggianti che dovevano impedire al pesce colpito di rituffarsi in acqua. Così equipaggiati tornammo presto alla riva. Ernst gettò nelle onde l'amo con un po' di esca ricavata dalle interiora del primo pesce catturato, e aspettò che qualcuno degli ospiti abboccasse. Jack mancò un paio di tiri, ma finalmente la sua freccia rimase infilzata e con gran fatica il ragazzo tirò a riva un grosso pesce. Anch'io fiocinai con successo due animali, ma dovetti spingermi molto nell'acqua per impadronirmene completamente. Pure Ernst riuscì a trarre a riva un giovane storione attaccato all'amo e Franz e la madre furono costretti a prestargli aiuto. Le maggiori difficoltà furono cagionate da Fritz, che aveva infilzato un enorme storione reale proprio dietro la testa e a stento era riuscito a bloccarlo aiutandosi con il cavo dato volta al verricello. Accorsi in suo aiuto e solo scagliando altre due fiocine nel corpo del bestione riuscimmo a spossarlo tanto da poterlo trascinare su un fondale basso; allora gli gettammo al collo un nodo scorsoio dietro le branchie e potemmo infine alarlo definitivamente a terra, con l'aiuto del bufalo. Tutti quei magnifici pesci vennero sventrati. Tagliai la carne in grossi pezzi, ne salai una parte, disponendola a strati, come avevo fatto con le aringhe e provai poi a preparare e mettere in conserva l'altra parte, pressappoco come si usa fare col tonno nel Mediterraneo. La ricoprii cioè di olio, dopo averla fatta bollire in acqua salata. Le vescichette natatorie, invece, furono ripulite e cotte, schiumammo poi dall'acqua la gelatina, che lasciammo raffreddare ed essiccare, ottenendo in tal modo una colla limpida e trasparente
che speravo di utilizzare in seguito non solo per incollare ma, meglio ancora, in sostituzione dei vetri nelle finestre. L'orto accanto al Rifugio della Tenda, proprio vicino a noi, era in pieno rigoglio e senza richiedere eccessive cure ci offriva ricchi contorni di legumi di ogni specie, dallo squisito sapore. Con particolare piacere notavamo che in quei luoghi le piante non sembravano legate esclusivamente ad una determinata stagione; durante tutta l'estate, per esempio, avevamo a nostra disposizione piselli e fagioli, parte in fioritura, parte in piena maturazione. Ogni nostra lieve fatica era compensata ad usura, perché oltre a svariati ortaggi, avevamo anche cetrioli, meloni e una gran quantità di granturco di straordinario sviluppo. Anche le canne da zucchero crescevano rigogliose e infine la maggior parte degli ananas trapiantati sulle sporgenze della parete rocciosa aveva messo radici, promettendoci per il futuro una magnifica provvista degli squisiti frutti. Il felice prosperare delle piante seminate nelle nostre vicinanze ci dava ottime speranze anche per le piantagioni più lontane; ci preparammo quindi a farvi una capatina e un mattino partimmo di buon animo dal Rifugio della Tenda. Andammo prima alla volta del Nido dei Falchi, per munirci di tutto l'occorrente. Prima di arrivare però passammo per il grande campo in cui la mamma al posto delle patate aveva seminato generosamente ogni sorta di cereali e di leguminose. Vi trovammo una gran quantità di piante europee, in gran parte in piena maturazione. C'erano orzo, grano, segale, avena, ceci, miglio, fagioli, lenticchie e altro ancora. Ero veramente sbalordito, chiedendomi da dove la mamma avesse preso tutte quelle sementi. Più ricca di ogni altra riuscì la messe del granoturco. Ne avevamo piantato un po' per prova nell'orto, ma qui ne era stato seminato un piccolo campo. In compenso però, anche una massa di ospiti importuni e scrocconi si era autoinvitata nel nostro campo, recando con le sue ruberie un sensibile danno al raccolto. Appena ci avvicinammo al campo di mais una mezza dozzina di otarde che in quel momento si ingrassava a nostre spese, prese immediatamente la fuga sbattendo rumorosamente le ali e quando i due cani, avidi di
caccia, si precipitarono davanti a noi tra le spighe, un altro grande stormo di uccelletti si alzò in volo con acute strida, mentre altri volatili vari se la svignarono altrettanto velocemente al modo delle quaglie, rasentando il suolo. Fritz fu pronto in un baleno. Senza indugio strappò il cappuccio dagli occhi dell'aquila, che in ogni spedizione portava con sé sulla bisaccia, le indicò con la mano le otarde fuggiasche che in quel momento spiccavano il volo, e la lanciò dal pugno dietro ad esse; poi balzò subito sull'onagro, sfrecciando a rotta di collo all'inseguimento del rapace. Vedemmo allora svolgersi nell'aria uno spettacolo che eccitò al massimo il nostro interesse. Presto l'aquila ebbe sott'occhio la sua preda, si alzò in volo molto più in alto delle otarde, minacciando di piombare da un momento all'altro su di esse. Le poverette, appena l'ebbero scorta, cominciarono a spaventarsi e, agitate, cercarono di sfuggirle in mille modi; ora si radunavano tutte insieme, ora si disperdevano di nuovo, ogni tanto si abbassavano fino a terra in cerca di un qualsiasi nascondiglio, per sottrarsi all'occhio acuto e ai terribili artigli del rapace nemico. Ma l'aquila non perse di vista le fuggiasche nemmeno per un momento; aveva fatto la sua scelta e senza posa dava la caccia alla più bella e più grossa delle otarde, che si vide costretta a scendere a terra, nella speranza di guadagnare un po' di tempo, correndo davanti alla feroce persecutrice. Ma subito l'aquila riuscì a raggiungere l'uccello corridore e ad aggrapparsi al suo dorso; gli si avvinghiò con le ali per impedirne la fuga e di tanto in tanto con un vigoroso colpo di rostro rendeva sempre più debole e spaurito l'animale. A briglia sciolta Fritz saltò allora dai cespugli, scese dal suo Pie'' Veloce, gettò il fazzoletto sulla testa dell'otarda e le impastoiò le zampe; poi rimise il cappuccio all'aquila, la staccò dall'otarda, la posò al solito posto, sulla sua bisaccia e finalmente lanciò trionfanti grida di gioia che ci fecero accorrere tutti. Il resto del giorno lo trascorremmo a ripulire e mettere in serbo i cereali che avevamo raccolto. Facemmo poi i preparativi necessari per poter ripartire l'indomani, allo spuntar del giorno. Tra l'altro, scegliemmo con cura una schiera di galline e qualche gallo che avevamo deciso di lasciare scorrazzare in libertà, in un luogo
piuttosto distante dalla nostra abitazione, come colonizzatori, affinché si moltiplicassero e trovassero da sé il loro sostentamento. In seguito potevano servirci da selvaggina. Ad essi aggiungemmo ancora quattro porcellini e quattro capre, poiché il nostro bestiame era aumentato notevolmente e bisognava alleggerire le molteplici difficoltà dell'allevamento. L'indomani dunque, dopo aver caricato il carro, lasciato sufficiente foraggio agli animali ed esserci bene armati ed equipaggiati, partimmo tutti insieme dal Nido dei Falchi. La mucca, il bufalo e il vecchio bigio dovevano tirare il carro, l'onagro era invece cavalcato, come il solito, dal nostro agile Fritz che galoppava allegro all'avanguardia, per osservare dove si potesse passare più facilmente e se non ci fossero pericoli in vista per la nostra carovana. Anche stavolta prendemmo una strada nuova che passava fra la riva e le rupi, per conoscere infine perfettamente tutta la zona compresa tra il Nido dei Falchi e la grande baia, al di là della Vedetta e del Capo della Speranza Delusa. Dopo una marcia abbastanza faticosa ci inoltrammo fino al margine estremo della macchia e là ai nostri occhi si offrì una piccola pianura, cosparsa per lo più di bassi cespugli, che ci colpì con uno spettacolo davvero sorprendente. Il piccolo Franz trovò per primo le parole che rivelavano il suo stupore e la profonda impressione che gli dava l'insolita scena. — Oh, buon Dio, neve! — gridò. — Guardate dunque, neve! Ma è meraviglioso! Un vero inverno e non quell'orribile eterna pioggia! Fummo costretti a ridere dell'idea del piccolo, ma in realtà su tutti gli arbusti e a terra giaceva una bianca vaporosa copertura di fiocchi, splendenti come neve. Ebbi però la rapida intuizione di che cosa si trattava e il pronto spirito d'osservazione di Fritz confermò presto quanto avevo supposto. Ci trovammo cioè davanti ad un'enorme distesa di piante di cotone, i cui frutti o capsule, spaccati per la completa maturazione, lasciavano uscire il contenuto fioccoso, così che dappertutto grossi bioccoli di soffice cotone, in parte con i semi ancora attaccati, pendevano qua e là dagli arbusti o giacevano a terra, portati dal gioco dei venti; altri ancora appesi alle loro capsule parevano ammiccarci dai rametti frondosi, come le tonde palle di
neve dei nostri giardini. La gioia per questa scoperta fu viva e generale, ma in particolare ne fu felice la mamma, la quale cominciò subito ad enumerarmi la quantità di cose che avrebbe potuto confezionare e per le quali, a suo tempo, avrei dovuto fornirle macchine e utensili. Nel frattempo strappavamo, raccoglievamo, ripulivamo alla svelta tutto il cotone che i nostri sacchi potevano contenere, lieti della gradita sorpresa e la mamma raccolse perfino una borsa piena di semi per spargerli nel terreno intorno al Rifugio della Tenda e avere nelle vicinanze anche quella preziosa pianta. Subito dopo arrivammo a un'altura da cui si godeva un'incantevole vista. Alberi d'ogni tipo coprivano i fianchi della collinetta che da un lato si confondeva con la pianura fertile, bagnata da un ruscello. Tutti furono d'accordo, quando manifestai l'intenzione di fondare la nuova colonia proprio in quel punto. Mentre gli altri si accomodavano alla meglio, io perlustrai attentamente la zona circostante. Presto trovai un gruppo di alberi disposti a giusta distanza uno dall'altro e pensai di utilizzarli, senza alcuna modifica, come pilastri principali della nostra piccola fattoria: bastava soltanto eliminare alcuni piccoli inconvenienti. Nei tre alberi frontali, a dieci piedi d'altezza da terra furono praticati degli incavi, in cui vennero appoggiate due traverse del diametro di cinque pollici circa. Dietro, all'altezza di otto piedi fu fatto lo stesso incavo in altri tre alberi. Dopo di ciò vennero collocate due grosse stanghe che passavano dagli alberi anteriori d'angolo a quelli posteriori e le due stanghe, data l'ineguale altezza degli incavi, avevano una pendenza di due piedi circa. Poi da albero ad albero, con la stessa pendenza delle stanghe laterali, disponemmo a mo' di travicelli, sopra le traverse anteriori e posteriori, delle tavole sottili che furono saldamente fissate a queste con cavicchi di legno, formando così una grande graticciata sulla quale collocammo ed inchiodammo uno accanto all'altro diversi pezzi di corteccia d'albero, che dovevano avere funzione di tegole, dopo averli fatti seccare al sole. Dopo aver mangiato riprendemmo la costruzione del casolare e per diversi giorni di seguito continuammo a lavorare con grande zelo.
Costruimmo le pareti laterali della capanna intrecciando fittamente liane o altre piante rampicanti con ramoscelli flessibili e le montammo fino all'altezza di cinque piedi. Lo spazio che rimaneva fino al tetto fu chiuso da un arioso graticolato in modo che vento e aria vi circolassero liberamente e, occorrendo, si potesse guardare fuori dall'interno. Naturalmente nella facciata principale del casolare lasciammo aperta una porta rivolta verso il mare. Attrezzammo l'interno come meglio si poteva, senza eccessivo dispendio di tempo e di legname. Un tramezzo che giungeva fino a metà altezza del casolare, lo separava in due parti disuguali; la più grande, con la porta d'ingresso, fu destinata a ovile, la più piccola a stanza da letto per noi, nel caso che avessimo voluto trascorrere qualche giorno nella capanna. Nell'ovile sistemammo uno scomparto per i polli, recinto da uno steccato in modo che potessero passarvi attraverso soltanto i polli, ma non le capre. Tanto nell'ovile quanto nel pollaio furono fatti gli opportuni allestimenti per governare il bestiame; nel tramezzo che divideva l'ovile dalla stanza da letto collocammo una porta intrecciata come le pareti, che durante la nostra assenza sarebbe rimasta chiusa. Durante il lavoro però facevamo anche delle spedizioni nei dintorni, un po' per procurarci patate o noci di cocco e un po' per il desiderio di esplorare meglio la zona circostante. Perciò salivamo sempre lungo il ruscello, avvicinandoci gradatamente alla parete rocciosa, con l'intenzione di arrivare alla vecchia strada che già conoscevamo. Presto capitammo in una grande zona paludosa, nei pressi di un grazioso laghetto. Con piacevole meraviglia vidi che tutto il terreno paludoso sino al laghetto era ricoperto di riso selvatico, in parte appena germogliato, in parte giunto a mezza maturazione e qua e là in pieno sviluppo, tanto che aveva attratto una quantità di ghiotti predoni, sotto forma di uccelli, i quali al nostro avvicinarsi si alzarono a volo con un frullo d'ali. Riuscimmo ad abbattere quattro o cinque tetraoni dal collare, ma la nostra abilità sarebbe rimasta infruttuosa senza il giovane sciacallo che per fortuna era venuto con noi e che con tanta rapidità appena vedeva piombare dal cielo un capo di selvaggina, balzava nella
palude in mezzo al riso e ce lo consegnava all'istante. Non mancammo nemmeno di raccogliere una bisaccia piena di piccole spighe di riso. Mastro Pizzichino fu obbligato a trasportarle a casa dalla mamma lietamente sorpresa, il che provocò un sacco di boccacce da parte dello scimmiotto, con gran divertimento di noi tutti. L'indomani, dopo aver provvisto di foraggio capre, pecore e polli che dovevano rimanervi, lasciammo il nuovo cascinale, che avevamo battezzato Waldegg. 5 Giungemmo presto in una macchia dove un'incredibile quantità di scimmie ci accolse con orribili strida e con una grandine di grosse pigne; solo con qualche colpo a pallini ben aggiustato potemmo finalmente farci largo. Fritz raccolse qualcuna delle pigne con cui le scimmie ci avevano bersagliato e mi accorsi subito che erano i frutti dei pinastri. Le apprezzai molto, non solo per il loro squisito sapore, ma principalmente perché in futuro mi ripromettevo di spremerne l'olio. Perciò ordinai ai ragazzi di raccoglierne quanto più possibile. Continuammo la nostra marcia e presto arrivammo al boschetto delle scimmie, che oltrepassammo senza fermarci, giungendo così in breve nelle vicinanze del Capo della Speranza Delusa. Uscendo dal boschetto scorsi una collinetta che pareva promettere un'ottima visuale, per cui non esitai a salirvi, seguito da tutti. Quando raggiungemmo la cima del colle trovammo che la realtà superava l'aspettativa, tanto splendido era il paesaggio che si offriva ai nostri occhi tutt'intorno. Decisi allora di impiantare anche in quel punto una colonia e, appena ci fummo riposati un poco, cominciammo a darci da fare iniziando la costruzione di un casolare. Il lavoro, dopo l'esperienza fatta a Waldegg, progredì così in fretta che in sei giorni avevamo già finito. Su proposta di Ernst alla nuova colonia fu dato il risonante nome di Hohentwiel. 6 Avevo intrapreso quella spedizione principalmente per cercare un albero con la cui scorza si potesse costruire una barca leggera, ma 5
Nome di una località svizzera. (N.d.T.) Località del Württemberg particolarmente nota per motivi geologici e storici. (N.d.T.)
6
non troppo piccola. Fino allora le mie esplorazioni erano state vane, ma non avevo ancora perduto del tutto la speranza e dopo che avemmo terminato la costruzione della nuova capanna cominciai a girare tutt'intorno con i ragazzi per quella zona, così ricca di piante rare. Dopo lunghe e molteplici prove, fatte solo a mano o con l'ascia, trovai finalmente alcuni poderosi alberi d'alto fusto che somigliavano alle querce; avevano frutti simili alle ghiande, soltanto un po' più piccoli, e una corteccia che pareva quasi sughero, ma si distingueva da questo per la maggior tenacità; mi sembrò dunque del tutto rispondente al mio scopo. Dopo aver cercato quello che pareva facesse proprio al caso nostro, fissammo a uno dei rami inferiori la scala di corda che avevamo portato con noi. Fritz vi si arrampicò e con la sega a mano cominciò a incidere in alto la corteccia tutt'intorno al tronco fino al durame, mentre io facevo la stessa operazione verticalmente dall'alto al basso, con la massima cura. Subito dopo staccammo una sottile striscia della corteccia lungo il tronco, poi con scalpelli da legno la scorza fu staccata a poco a poco tutt'intera e, poiché l'albero era nel suo pieno vigore e la corteccia abbastanza elastica, il lavoro ci riuscì a perfezione. Però, quando avemmo portato la scorza scortecciata e intatta sull'erba, ci accorgemmo che il nostro lavoro era appena a metà. Mi sembrò opportuno iniziare immediatamente l'ulteriore lavorazione perché la corteccia, per la naturale umidità e flessibilità che ancora manteneva, in quel momento avrebbe potuto prendere molto più facilmente la forma che volevo darle per ricavarne un'imbarcazione. A questo scopo tenni allargati con un grosso cuneo i fianchi laterali della corteccia, che tendevano a richiudersi, praticai alle due estremità (davanti e dietro) un'incisione lunga circa cinque piedi, proprio al culmine della convessità, e riunii poi insieme i lembi divisi, in modo che, dal punto in cui aveva inizio l'incisione, combaciassero gradualmente sempre di più, terminando infine a punta. Essi furono fissati saldamente in tale posizione con alcuni chiodi, perché non potessero più staccarsi l'uno dall'altro e formassero i due speroni dell'imbarcazione: così rialzati, avrebbero certamente facilitato il fendere delle onde. Tuttavia in questo modo la
mia barca era diventata troppo piatta nel mezzo; costrinsi allora le fiancate a prendere una posizione più verticale, tirandole energicamente con l'aiuto di alcuni cavi, ma mi mancavano gli arnesi necessari per poter dare l'ultima mano all'opera. Con Fritz e Jack mandai a prendere al Rifugio della Tenda il traino, a cui avevo applicato le piccole ruote dei cannoni di bordo, per poter trasportare con quello la barca e completarla in un posto più comodo. Nel frattempo cercai in tutti i boschetti e le fratte dei dintorni dei rami curvi e a gomito, parte per rinforzare, parte per rialzare le fiancate della barca. Assieme ad Ernst, fui tanto fortunato da trovare una quantità di alberi dai rami incurvati naturalmente, come pinastri, ontani e acacie, che mi offrirono diverse ottime coste di sostegno per lo scafo. Per l'occasione scoprimmo anche in un tronco d'albero una nuova resina che asciugandosi si rivelò straordinariamente tenace; ne facemmo raccogliere subito una buona provvista dalla mamma e dal piccolo Franz, perché mi ripromettevo di ricavarne grandi vantaggi per il futuro impeciamento della barca. Era già sera quando i miei due figli tornarono con il traino e poiché, data l'ora avanzata non si poteva iniziare nessun altro lavoro, andammo tutti a riposare. La mattina seguente ci mettemmo di buon'ora all'opera. Caricammo la barca sul traino, assieme ai legni ricurvi e ad altre cose occorrenti, e iniziammo subito il viaggio di ritorno. Presto giungemmo alla grande palude e con le accette ci facemmo largo a fatica tra le canne per aprirci un varco sufficiente, soprattutto per l'asino che portava le vettovaglie. Ci imbattemmo in bambù dai fusti così alti, come non ne avevo ancora trovati nella regione al di qua del valico; ne abbattei uno per utilizzarlo come albero della nuova barca. Dopo un certo tempo uscimmo finalmente dall'intrico delle canne e alla nostra sinistra, anziché il mare, trovammo il grande fiume, mentre a destra la lunga catena di rocce indietreggiava un poco, lasciando soltanto uno stretto passaggio, che da quel momento chiamammo la Chiusa. Nel punto più stretto, a pochi passi dal torrente che, sgorgando impetuosamente da un crepaccio, là accanto, si gettava nel grande fiume, costruimmo un solido argine che doveva
anche servirci da trincea e consentire il libero transito verso il torrente e verso le pianure erbose dell'entroterra soltanto attraverso un angusto passaggio. Lo spazio intermedio fu ricoperto abbondantemente di palme nane, fichi d'India e piante spinose, in modo da lasciare soltanto una tortuosa strada carrabile che doveva passare su una bocca di lupo 7 nascosta e che in futuro, una volta che le diverse piante spinose fossero cresciute e irrobustite, avremmo potuto sbarrare con un ponte levatoio tanto sul torrente che sui fossati del trinceramento. In tal modo il passo sarebbe stato al sicuro da ogni attacco di bestie feroci. Al di là della Chiusa avevamo condotto anche i maialetti e si era contrassegnato il luogo in cui tutto ciò era avvenuto col nome di Guado del Cinghiale; dopo alcuni giorni di faticoso lavoro potemmo finalmente riprendere il cammino. Ci fermammo al Nido dei Falchi solo qualche oretta per desinare, sbrigare qualche faccenda necessaria e soprattutto per dare il becchime ai polli. Subito dopo proseguimmo per il Rifugio della Tenda, dove arrivammo senza intoppi e non troppo tardi, ma stanchi ed esausti. Dopo aver fatto alcuni lavori domestici ed esserci riposati un poco, ci rimettemmo a tutto spiano alla costruzione della barca, che fu completata in una sola tirata. Aveva una solida ossatura di legni ricurvi; davanti e dietro un pezzo a gomito per maggiore rinforzo delle punte rialzate; sotto, per tutta la lunghezza dell'imbarcazione, una chiglia ed infine in alto, lungo tutto l'orlo, un bordo di tavole flessibili a cui furono attaccati anche alcuni anelli di ferro per potervi passare attraverso, all'occorrenza, il sartiame dell'albero. Sul fondo formai quasi un selciato di pietre pesanti, come zavorra stabile, legate insieme a tenuta stagna con argilla. Su di esse posai un pagliolato di assi su cui si poteva stare in piedi o distesi, comodamente e all'asciutto. Trasversalmente, sul bordo, vennero gettati dei banchi mobili, in mezzo fu piantato l'albero di bambù con una vela triangolare e a poppa fissai con dei cardini di porta il timone, che si poteva governare abbastanza agevolmente per mezzo di una lunga 7
Trappola per le belve costituita da una fossa coperta da frasche e munita di paletti verticali aguzzi. (N.d.T.)
sbarra che finiva dentro la barca. A questo punto devo tornare indietro, raccontando qualcosa che a suo tempo avevo tralasciato. Durante la stagione delle piogge la nostra mucca aveva partorito un vitello e nei primi giorni, per ammansirlo, gli avevo traforato il setto nasale, come al bufalo, per passarvi attraverso un anello di ferro o una bacchetta di legno a cui assicurare la briglia per la guida. Ora che il vitello era un po' più robusto e già divezzato dal latte materno, pensai fosse giusto abituarlo gradatamente al lavoro a cui era destinato. Una sera proposi ai ragazzi di decidere a che cosa in effetti dovevamo addestrarlo. Fritz pensava di farne un bue da sella di grande utilità, come quelli degli Ottentotti. Tutti fummo dello stesso parere e offrimmo la nuova cavalcatura al piccolo Franz. Con nostra meraviglia il ragazzetto si dichiarò senz'altro d'accordo e aggiunse che avrebbe allevato ed addomesticato il vitellino per i suoi scopi. Gli chiesi allora come dovesse chiamarsi l'animale e gli proposi ogni sorta di nomi presi dai canti popolari dei bovari svizzeri. Ma nessuno di essi piacque al ragazzo, che affermò: — Chiamerò il vitellino Brontolone o solamente Brumm, perché finché non l'avrò domato dovrà brontolare e rugliare, almeno penso. Tutti trovarono il nome appropriato e immediatamente i ragazzi, presi dall'entusiasmo, vollero mettere nomi adatti anche al bufalo e ai due cuccioli di Bill. Jack non si trovò in imbarazzo nel proporre lui stesso il nome per il suo amatissimo bufalo e disse che dovevamo chiamarlo Tempesta, così sarebbe stato meraviglioso poter dire che veniva a cavallo della tempesta. Quell'innocente vanità mi fece ridere: — Certo, certo, — esclamai, — sarà uno spettacolo maestoso vedere il nostro minuscolo millantatore che cavalca sulle ali della tempesta. Ai due cuccioli furono imposti brevemente i nomi di Bruno e Fulvo, per il colore predominante del loro pelame. Così per quel giorno l'allegra operazione battesimo ebbe fine. La scoperta del cotone non aveva portato alla sua utilizzazione nella nostra economia domestica così alla svelta come avevamo
pensato perché la fibra raccolta era tutta mescolata ai semi, ancora attaccati ai soffici fiocchi. Il tentativo di scartare i semi con le dita si rivelò talmente faticoso che fui costretto ad escogitare un mezzo meccanico per tale operazione. Sapevo che anche le popolazioni primitive dell'Asia e del Nord Africa si servivano di una macchina di questo genere, la cosiddetta «ciurka», come la chiamano gli abitanti dell'India, della Persia e di Buchara. Mi accinsi dunque ad imitarli con un certo ottimismo, perché a Londra avevo visto un arnese simile nel Museo della Compagnia delle Indie orientali. Due sottili rulli, grossi quanto un dito e lunghi poco più di un piede, furono incastrati in due sostegni verticali che in precedenza avevo fissato a una pesante tavola. I due rulli furono collocati uno sull'altro in modo che sporgessero all'esterno ancora circa un palmo. Il rullo superiore fu lasciato quadrangolare ad una delle estremità, per potervi fissare un braccio girevole; alle estremità che sporgevano dall'altra parte del supporto furono posti degli ingranaggi che dovevano trasmettersi reciprocamente il movimento rotatorio. Così li avevo visti a Londra in quella collezione. Né i ragazzi né mia moglie capirono a che doveva servire la mia strana macchinetta. Quando però dopo due giorni di sudato lavoro ebbi introdotto le biette per regolare la posizione della macchina e montato il mio congegno al suo posto, davanti alla casa nella roccia, gridai: — Ed ora portatemi pure del cotone! Jack volò verso la provvista del cotone e ne portò una bella massa. — E adesso forza con i rulli! — esclamai. Con la destra girai la manovella, mentre con la sinistra accostavo un po' alla volta ai rulli la bianca massa fioccosa. Ed ecco che i fiocchi di cotone furono presi dai rulli e portati nell'ingranaggio, mentre i semi rotondi si staccavano e cadevano sulla tavola di sostegno. Un urrà dei ragazzi premiò la mia fatica. La mamma si apprestò subito piena di entusiasmo a girare anche lei la manovella, ma nella foga del lavoro la azionava un po' in un senso e un po' in un altro, e Jack che, con le mani sulle ginocchia, stava di guardia, là vicino, più di una volta dovette gridare: — Mammina! Ma è tutto al contrario! Così giri all'indietro!
«Certo la mia macchinetta ha un aspetto rudimentale ed arrangiato», pensavo «comunque, sarà sempre utile quanto quelle che gli Indù e i Persiani fabbricano nelle loro capanne». La gioia della mamma rallegrava davvero il cuore. Già prevedeva ogni soddisfazione per la sua solerzia di filatrice e subito, davanti ai nostri occhi, dopo aver preparato una conocchia con una canna spaccata in alto a metà e avervi infilato un grosso bioccolo di cotone ripulito, fece prillare svelta il fuso, che era un piacere starla a guardare. D'allora in poi lavorammo per circa due mesi nella nostra grande caverna salina, per completare provvisoriamente, con tramezzi di tavole o di canne intrecciate e con i necessari soffitti, la suddivisione principale delle stanze e delle stalle. Poi, nella lunga stagione delle piogge, avremmo eseguito come passatempo il resto delle indispensabili comodità e delle decorazioni interne. Certo il nostro lavoro fu pesante, ma poiché avevamo una bella provvista di tavole, travi e assi del relitto e non ci mancavano nemmeno le canne e le liane per i graticci, potemmo effettuare, innalzando e incastrando con cura il materiale da costruzione, la maggior parte degli impianti principali, almeno quelli che ci sembravano essenziali per l'inverno. Facemmo inoltre graziosi lavori di stuccatura o, per meglio dire, passabili abborracciamenti nella nobile arte del gesso. Infatti, per risparmiare il tavolame, ricoprivamo di gesso impastato le pareti divisorie delle stanze, formate in prevalenza di canne intrecciate, sia perché prendessero un aspetto più pulito e allegro, sia perché potessero ripararci un po' meglio dall'aria fredda e dalle eventuali esalazioni sgradevoli delle stalle vicine. Il pavimento dell'abitazione fu ricoperto con uno strato abbastanza spesso di argilla fortemente pigiata, come talvolta si usa fare nell'aia per la trebbiatura e, come le pareti di gesso, per il completo essiccamento fu affidato al calore dei rimanenti mesi estivi. Facemmo pure, un po' per il gran caldo, un po' per amore della pulizia, un esperimento provvisorio: con la lana delle pecore e col vello delle capre confezionammo un tappeto di feltro che doveva essere disteso a terra nella stanza da pranzo e di soggiorno. L'operazione riuscì abbastanza bene; dopo aver accuratamente
lavato, asciugato e sfioccato la lana assieme al vello delle capre, ne ponemmo uno strato piuttosto sottile e completamente regolare su un telone della grandezza del tappeto che volevamo confezionare. Inzuppammo il tutto di acqua bollente, nella quale avevamo sciolto una certa quantità di colla di pesce, arrotolammo il telone e cominciammo a battere il fagotto a più non posso con grossi randelli; bagnammo ancora una volta lo strato di pelo, lo pigiammo con i piedi e lavorammo tutto l'impasto con tanta forza e così a lungo che infine, ormai trasformato in una pratica coperta di feltro, lo potemmo staccare dal telone e lasciare asciugare al sole, in attesa della futura utilizzazione. Poco tempo dopo arrivò per noi il «raccolto dei colombi», come lo chiamavamo da quando, l'anno prima, avevamo abbattuto al Nido dei Falchi un enorme numero di colombi migratori, che poi la mamma aveva mezzo arrostiti e posti in conserva nel burro. La precedente provvista ci aveva procurato di tanto in tanto, durante il corso dell'anno, una squisita pietanza; non volevo perciò perdere l'occasione di rinnovarla nel modo più opportuno. Trovammo in realtà che sugli alberi del Nido dei Falchi cominciava a presentarsi una specie di avanguardia di quegli uccelli. Subito la nostra passione per la caccia si destò in tutta la sua intensità e lo zelo per le costruzioni passò svogliatamente in seconda linea. Tutti insieme scendemmo dunque in campo contro i colombi al Nido dei Falchi. Riflettendo sul modo di risparmiare stavolta la nostra polvere da sparo, mi ricordai di aver letto di una popolazione delle Indie occidentali o degli abitanti delle isole Palati nelle Caroline, che preparavano con caucciù ancora allo stato fluido, mescolato con olio, una pania tanto tenace da poter catturare con essa perfino pavoni e tacchini. Allora feci partire Fritz e Jack perché raccogliessero tutto il caucciù che si poteva prendere nello spazio di un giorno, per metterne subito da parte una buona scorta. La sera, quando eravamo già tutti a letto, i ragazzi tornarono con una sufficiente quantità di gomma. — Cari miei, oggi bisogna alzarsi con il sole, — esclamai ai miei figli, appena il cielo cominciò a rischiararsi, — perché abbiamo
molto da fare! Subito fummo tutti in piedi e dopo aver sbrigato le solite faccende mattutine ci mettemmo seriamente all'opera. Per prima cosa i ragazzi furono mandati a raccogliere delle bacchette da trasformare in panioni. Io intanto ero occupato a preparare la pania, mescolando a fuoco lento una sufficiente dose di olio col caucciù ancora fluido. A tale miscuglio aggiunsi di mia iniziativa un po' di olio di trementina e sbattendo e mescolando ottenni una bella massa omogenea che divenne davvero una pania molto viscosa e tenace. Subito dopo insegnai ai ragazzi, che nel frattempo erano ritornati, come dovevano spalmare quella roba appiccicosa sulle bacchette raccolte e andai in cerca dei posti più adatti in cui infilare le panie preparate. Capii presto che l'anno precedente dovevamo essere arrivati senza dubbio proprio alla fine, come dire insieme con i ritardatari, della grande migrazione dei colombi, giacché ora si precipitava sugli alberi vicini una massa di uccelli talmente incredibile, che perfino un cieco avrebbe difficilmente mancato il tiro. In particolare essi andavano in cerca delle dolci ghiande del vicino querceto e la quantità di sudiciume per terra faceva supporre che avessero già scelto quel posto come alloggio notturno e che probabilmente avevano intenzione di pernottarvi una seconda volta. Lieto di questa scoperta mi proposi, se le panie non ci avessero procurato abbastanza selvaggina, di organizzare anche una caccia notturna e di catturare i colombi alla luce delle fiaccole, come i colonizzatori americani della Virginia. A questo scopo raccolsi ancora un po' di legna leggera e di rametti secchi. Quando tornai al Nido dei Falchi trovai già una sufficiente scorta di bacchette impaniate. Allora Jack dovette salire sul nostro grande albero e fissarle ai rami. Aveva appena infilato una decina di quelle panie ed era sceso per munirsi di nuove bacchette, che già i colombi volavano a stormi e si posavano sui pericolosi rami senza il minimo timore. Ecco che uno o l'altro rimaneva impaniato, si dibatteva, svolazzava, finché la bacchetta si staccava dal ramo e il colombo precipitava con essa, diventando nostra facile preda; dopo di che le panie, liberate alla svelta, rifacevano lo stesso servizio una seconda e una terza volta.
Presto i ragazzi capirono così bene il procedimento che potei affidare loro il lavoro, mentre la mamma con il piccolo Franz cominciavano a spennare a tutta velocità, per quanto lo permettessero le loro forze riunite. Intanto io preparavo fiaccole per la notte seguente, per eseguire l'uccellagione più in grande e senza dispendio di caucciù. In ciò mi furono di grande aiuto la legna raccolta e, in mancanza di pece, l'olio fresco di trementina. Mentre ero assorto nel mio lavoro, Jack mi portò una colomba; era molto graziosa e il ragazzo ne provò compassione, a preferenza di tante altre. — Guarda, papà, — esclamò, — come è grande e bella! Mi pare quasi di conoscerla! Ernst, che era accorso subito, osservò: — Eh, lo credo bene! È una delle nostre colombe domestiche, che abbiamo lasciato in libertà. Non dobbiamo ucciderla finché la specie non si sia moltiplicata. Approvai tale precauzione, presi la bestiola in mano e riconobbi che la supposizione di Ernst era esatta. Allora ripulii con un po' di cenere le penne maestre impiastricciate, strappai le penne più piccole a cui era rimasta attaccata un po' di pania e portai la vivace bestiola sotto la gabbia dei polli preparata da Jack, dopo di che raccomandai ai ragazzi di prendere, se possibile, alcuni gentili compagni per questa prima ospite. La cattura riuscì felicemente e la sera stessa avevamo già due coppie di colombi europei, una accanto all'altra. Ma il nostro barilotto non era ancora pieno dei colombi di passo a cui davamo la caccia. Infatti il nostro traffico sull'albero li aveva intimiditi. Quando scese la sera partimmo, come stabilito, per una nuova uccellagione; ci dirigemmo verso il querceto dove pensavo che avremmo trovato il maggior numero di colombi nel loro quartiere notturno. Il nostro equipaggiamento era molto strano, poiché consisteva in lunghe canne di bambù, fiaccole e sacchi; i ragazzi si meravigliarono parecchio, non vedendo come si potesse organizzare una cattura di colombi con quegli attrezzi. Eravamo appena arrivati nei pressi del luogo prescelto che l'oscurità scese improvvisamente, come avviene nei climi
meridionali, subito dopo il calar del sole. Allora accendemmo le fiaccole e capimmo senz'altro di averla indovinata proprio bene. Tutt'intorno sui rami degli alberi era posato un enorme stuolo di colombi. Svegliati e abbagliati dall'improvviso chiarore delle fiaccole, gli uccelli divennero inquieti e cominciarono ad agitarsi qua e là, saltellando e svolazzando confusamente tra foglie e rami. Non pochi si spaccarono la testa o si ferirono, precipitando a terra, e furono acchiappati a volo e infilati nei sacchi. Per di più, per affrettare la caccia, battevamo con i bastoni qua e là sui rami, il che aumentò notevolmente non solo il tumulto, ma anche la caduta dei volatili. A malapena la mamma e il piccolo Franz riuscivano a raccogliere e insaccare tutti quelli che starnazzavano intorno sull'erba. Finalmente quando vidi che avevamo messo insieme abbastanza selvaggina per i nostri bisogni, posi fine alla strage e, prima ancora che le torce si estinguessero, ordinai di tornare a casa. Appendemmo i sacchi carichi dello splendido bottino a due stanghe legate insieme parallelamente a poca distanza l'una dall'altra e ci alternammo a due per volta nel trasporto, mentre gli altri, precedendoci con le fiaccole, ci facevano luce; pareva quasi un corteo funebre notturno della Santa Feme. 8 Arrivammo felicemente al Nido dei Falchi, ponemmo una rapida fine alle sofferenze dei nostri colombi e quindi, stanchi, ci infilammo a letto. Per quasi tutta la giornata seguente avemmo il nostro bel da fare a spennare, bollire, arrostire e stufare, come avviene in una trattoria molto frequentata alla vigilia di un grande banchetto. Mentre eravamo così affaccendati, per tre volte di seguito, una dopo l'altra, qualcosa piombò al suolo con un tonfo dagli alberi vicini: erano tre splendidi uccelli, rimasti impaniati sulla cima degli alberi a qualcuna delle bacchette che vi erano state poste. Dopo un attento esame mi accorsi di aver catturato delle magnifiche prede. Erano tutt'e tre della razza dei colombidi e identificai con sufficiente certezza nel primo un colombo gigante delle isole Molucche, nel 8
Tribunale regio del Medioevo, funzionante in Westfalia, che si uniformava a una procedura misteriosa. (N.d.T.)
secondo un autentico diduncolo della noce moscata e nel terzo un colombo delle Nicobare. Mi rallegrai del meraviglioso bottino e decisi subito di tenere gli uccelli con noi e possibilmente di addomesticarli; ma per questo bisognava costruire una colombaia adatta. Poiché Fritz osservò che sarebbe stato molto difficile addomesticare i colombi, gli risposi con voce solenne, senza per altro concedere ulteriori spiegazioni: — Con un po' di magia si possono ottenere molte cose! Appena tutto fu messo in ordine nel miglior modo possibile, ci mettemmo nuovamente in cammino e senza altre avventure arrivammo al Nido dei Falchi. Anche la mamma fu contenta degli splendidi colombi e acconsenti premurosamente che si tornasse subito al Rifugio della Tenda per iniziare la costruzione della colombaia, oltre a qualche altro lavoro. Per tale motivo furono caricate sul carro le necessarie vettovaglie assieme agli attrezzi indispensabili e partimmo col proposito di rimanere al Rifugio della Tenda per qualche tempo. In quello stesso giorno scelsi il posto adatto per la colombaia, che volevo scavare nella roccia, al di sopra dell'ultima stanza a destra, verso il Torrente degli Sciacalli. Il lavoro, subito iniziato, proseguì per qualche settimana con poche interruzioni e fu completato abbastanza presto per la grande friabilità della roccia. Infatti fu necessario sfondare la roccia solo in minima parte e là fu collocato un opportuno ingresso con tre fori per il passaggio degli uccelli; un po' più in alto fu applicata una finestrella per l'ingresso della luce. Infine collocammo all'esterno alcuni pioli di lancio e uno sportello che si poteva alzare e calare dal basso; per far questo mi fu molto utile la scala di corda che avevamo appeso alla finestrella. Nell'interno, in corrispondenza del vuoto e fino alla grande caverna, dovetti costruire non senza fatica una parete laterale provvista di porta, una parete di fondo e un pezzo di solaio: per la verità questi lavori furono fatti piuttosto alla meglio. Ma l'interno della colombaia riuscì grazioso e quasi perfetto con pioli di sostegno, stanghe e scomparti di legno; in questi ultimi furono costruiti provvisoriamente con un po' di graticcio i nidi per le
colombe, accuratamente separati uno dall'altro. Quando il tutto mi sembrò almeno passabile per accogliervi il vecchio e il nuovo gruppo di colombi, un mattino dissi a Fritz, mentre il resto dei miei era stato mandato a sbrigare un altro lavoro: — Ora, mio bravo aiutante, cominceremo a fare i nostri incantesimi per avvincere i nuovi ospiti al loro nido e forse potremo procurare loro delle compagne. E poiché a queste parole il ragazzo mi guardava meravigliato, non sapendo che pensare, continuai sorridendo: — Voglio tentare un trucco da mercante di uccelli, e vedrai che con quello non solo riusciremo a rendere fedeli al loro nido i nostri colombi, ma attireremo anche dei colombi forestieri, che si accompagneranno spontaneamente ai nostri. Avremo bisogno soltanto di un po' di anice e di sale, per mettere insieme un impasto che pare sia molto gradito ai colombi, al punto che, solo con l'odore, ne riesce a richiamare moltissimi. — Oh, ma allora è tutto facile! — esclamò Fritz. — Abbiamo proprio appena trovato la pianta dell'anice! Voglio procurarti subito il necessario. — E l'espediente me l'ha suggerito proprio la scoperta dell'anice, — ribattei; — però abbiamo bisogno anche di un po' di olio essenziale di anice per spalmarne le aperture della colombaia: i colombi, passandovi attraverso, saranno obbligati a sfiorarlo e le penne ne prenderanno l'odore. Esso è tanto allettante che le colombe selvatiche finiranno col seguire i colombi così profumati sino al loro nido. Per ottenere l'olio di anice occorrente, pestammo nel mortaio un po' di semi di anice, vi versammo sopra dell'olio, mescolammo ogni cosa insieme, filtrammo il liquido ottenuto mediante una tela fine e quindi pressammo bene nella stessa tela l'anice pestato, torcendola forte. Il nuovo prodotto non aveva certo un'essenza molto penetrante, ma poteva mantenere il profumo per qualche giorno. Anche la massa argillosa fu impastata con anice e sale e quando fu abbastanza lavorata, l'indurimmo un pochino sul fuoco e in più la spruzzammo con l'olio di anice; quindi la collocammo nella colombaia e finalmente passammo i colombi nel nuovo alloggio.
Versammo poi il resto dell'olio su semi freschi di anice e lo ponemmo in un angolo appartato, al fresco, per circa due giorni, perché si impregnasse maggiormente di profumo. Quando la famiglia tornò a casa ci vantammo soltanto di aver completato la colombaia e di aver insediato i colombi nella nuova residenza. Immediatamente tutti vollero salire con noi, uno dopo l'altro, e guardarono con compiaciuta curiosità attraverso uno spioncino della porta, largo un palmo, in cui avevo collocato uno sportello scorrevole. Si vide allora che i colombi svolazzavano e saltellavano vispi tutt'intorno, becchettando a loro agio il becchime che avevamo sparso per loro, e andando di tanto in tanto anche a beccare allegramente il pastone di argilla. Perfino se qualcuno di noi entrava nella colombaia, le bestiole si mostravano docili e mansuete, come se si fossero familiarizzate con noi da lungo tempo. Per due giorni lasciai le cose come stavano; ma ero troppo curioso di provare l'effetto dei miei incantesimi, per poter aspettare ancora a lungo. Il terzo giorno perciò mi alzai presto, svegliai soltanto Fritz e lo feci salire lungo la scala di corda che pendeva sempre dalla colombaia, per spalmare di nuovo abbondantemente con l'olio di anice, ormai bene impregnato di essenza, le aperture e i pioli esterni di sostegno; gli feci anche sistemare la funicella con cui poter aprire e chiudere la colombaia dal basso. Fatto questo, ci infilammo di nuovo in casa e svegliammo i quattro dormienti come se non ci fossimo mai allontanati da loro. Tutti balzarono in piedi e si affrettarono a far colazione, appena ebbi annunciato loro che subito dopo avrei fatto volare i colombi all'aperto, in piena libertà. Presto fummo tutti fuori, di fronte alla colombaia; cominciai allora a simulare delle operazioni magiche: feci il misterioso, mormorai qualcosa fra me e me, tracciai qualche segno nell'aria con una bacchetta e infine a mezza voce declamai: — Ora questi amici impareranno a non sfuggirmi. Subito dopo ordinai a Jack di aprire la colombaia con la cordicella già preparata. Non passò molto ed ecco che i prigionieri si affacciarono fuori. Dapprima mostrarono soltanto la testina, spiando il mondo che si apriva davanti a loro, poi si mossero un poco sulla tavoletta di lancio
e sui sostegni esterni. Ora tornavano dentro, ora uscivano di nuovo, sbattendo le ali; poi le spiegarono e si alzarono in volo, librandosi nell'aria. Infine udimmo un gran fruscio e l'intero stormo parti impetuosamente, arrivando talmente in alto, che i ragazzi proruppero in grida di spavento e anche la mamma pensò che esso fosse ormai perduto per noi. Ma i colombi fecero si e no un paio di giri nel cielo, come se avessero voluto osservare, come si suol dire, a volo d'uccello cielo e mare, poi frullarono di nuovo verso la loro casetta e sembrarono soddisfatti del primo volo ben riuscito, posandosi tranquillamente. Soltanto allora potei vantarmi dei miei sortilegi ed esclamai: — Lo sapevo bene che non potevano scappar via, anche se volavano così in alto! — Già, — ribatté Ernst, — ma come potevi saperlo con tanta certezza? — Perché li ho avvinti alla colombaia, — fu la mia risposta. — Allora autentica magia, papà? — chiese Jack con un sorriso incerto. — Me, non m'intrappoli con i tuoi sortilegi! — interruppe di nuovo Ernst. — Come se uno potesse fare veramente magie! — E invece è così, — intervenne Fritz, — e ne vedrai ancora delle belle, incredulo Ernst! Dopo qualche minuto i colombi cominciarono ad agitarsi con una strana vivacità e, come portati via dal turbine, i tre stranieri, staccandosi dalle quattro colombe nostrane, spiccarono alto il volo in direzione del Nido dei Falchi, ma poi volarono oltre, finché io stesso, munito del mio buon cannocchiale, li persi completamente di vista. — Adieu, signori miei! — esclamò Jack, facendo agli scomparsi un beffardo saluto e una profonda riverenza. — Ah, ah! — rise Ernst, — l'incantesimo ha funzionato, papà! Però l'ho sempre detto che era soltanto uno scherzo. Apparentemente non me ne curai affatto, anzi mi piazzai lì con aria ostinata, soffiai misteriosamente sulla mia mano in direzione dei colombi e, come se parlassi a un folletto, declamai: — Va' e sbrigati, riportami i fuggiaschi, domani al più tardi. Ascolta bene, piccolo, e spicciati!
Poi mi voltai di nuovo verso i ragazzi, dicendo: — Miei cari, per gli stranieri tutto è in regola; vediamo ora che fanno i nostri quattro conterranei. Osservammo attentamente i colombi, che per qualche tempo avevamo trascurato; ma questi si mantennero buoni nelle nostre vicinanze; fecero soltanto qualche evoluzione nell'aria, come se volessero inseguirsi per gioco, si posarono a terra, beccando qualche chicco e tornarono a volo verso la colombaia, mostrandosi già del tutto assuefatti al loro nido. — La cosa va bene per questi paurosi, — osservò Jack, — che sono tutti contenti di avere un tetto sicuro in una regione tanto sconosciuta, ma a quegli altri forse abbiamo dato troppo presto la libertà. — Ehi! — ammonì Fritz con l'aria di confidargli un segreto, — ma allora non hai visto che il babbo ha mandato dietro a loro qualcuno che ce li ricondurrà alla base? Quello è uno Spiritus familiaris, invisibile, che dipende da lui. E dunque calma! — Bah! — fece Jack con faccia estremamente incredula, scrollando le spalle. Anche Ernst scosse la testa, tacendo. Da quel momento per tutto il giorno non facemmo altro che aspettare il ritorno dei fuggiaschi, che tenevano impegnati quasi tutti i nostri pensieri e speranze. Perciò non iniziammo altri lavori se non quelli che si potevano eseguire senza perdere di vista la colombaia, e ogni momento alzavamo gli occhi verso i pali di sostegno o su nell'aria, se per caso i tre forestieri non si facessero vedere da qualche parte. Ma scese la sera senza che nessuno dei fuggitivi fosse ritornato. Cominciai allora a dubitare in cuor mio, ma non volevo far capire nulla. Passammo la serata piuttosto depressi. L'indomani non li nominavamo nemmeno, per un inconfessato malumore e ci ostinammo a lavorare assiduamente dentro la caverna di roccia fin quasi a mezzogiorno. Jack però, che di soppiatto si era allontanato un momento, tornò d'un tratto, battendo le mani, saltando allegramente e gridando: — È arrivato, è arrivato, è arrivato veramente! — Chi? — chiesero tutti. — Chi? Chi? — Il colombo azzurro! — gridò Jack ancora più forte. — Il
colombo azzurro, evviva, urrà! — È uno scherzo! È uno scherzo! — replicò Ernst, — noi non ci lasciamo attirare così facilmente fino alla colombaia vuota. — Macchè scherzo! — ribattei io, — lo sapevo bene che l'amico sarebbe tornato. E anche gli altri due adesso saranno certo sulla via del ritorno. Uscimmo allora di furia dalla caverna e con lieta meraviglia vedemmo non solo il colombo azzurro appollaiato su un piolo esterno della colombaia, ma anche una sua compagna ed entrambi si scambiavano tenerezze col becco. Presto il colombo volò sulla tavoletta, tubando e, quasi invitando con la testina, scivolò dentro l'apertura della colombaia, ritornò fuori zampettando e ripeté infine i suoi inviti in modo così pressante che la ritrosa colomba si arrischiò ad entrare, benché esitante, nel nostro palazzo. I ragazzi volevano chiudere la colombaia, per assicurarsi definitivamente l'ospite appena arrivata. — Niente affatto! — gridai loro, — non fareste altro che impaurire quella gentile creaturina. Inoltre oggi aspetto ancora gli altri due fuggiaschi e non voglio certo chiudere loro la porta in faccia. La mamma mi guardò con un sorriso di meraviglia. — Quasi quasi comincio a credere, mio caro, che la sai lunga! Questa storia ha davvero un certo sapore di stregoneria. — Ma è accaduto tutto per combinazione! — osservò Ernst. — Ciò che il babbo ha soffiato sulla mano è stato soltanto un lieve alito che non poteva servire a nulla. — Però ammetterai, — ribattei, — che doveva trattarsi di qualcosa di più di un semplice caso, se ora anche gli altri due colombi torneranno al nido. — Certo, ne sarei quasi costretto, — ammise lui, — dato che è incredibile che nello stesso giorno si verifichi, senza un motivo, per tre volte di fila il medesimo caso. Mentre discorrevamo e scherzavamo ancora, Fritz che col suo occhio di lince aveva sempre scrutato in lontananza, gridò all'improvviso: — Vengono, vengono!
E in realtà, pochi minuti dopo, riconoscemmo un altro dei nostri disertori seguito da una compagna. Tutta la brigata proruppe in tali grida di gioia che le povere bestiole ne furono palesemente sorprese e forse sarebbero fuggite via un'altra volta, se non glielo avesse impedito la stanchezza, facilmente riconoscibile dal fiacco batter d'ali. Imposi allora silenzio generale, i due viandanti si posarono su una delle aste della colombaia; quasi subito il colombo e, dopo lunga esitazione, anche la colomba dietro di lui zampettarono dentro, infilandosi per una delle aperture. — Ebbene, — chiesi ad Ernst, — che ne dici? Anche la seconda coppia è arrivata. — Mi sembra strano, — dichiarò Ernst, — molto strano! Magico o soprannaturale, comunque, non lo ritengo. Sarà soltanto un'inconcepibile fortuna. — Bene, figlio mio! — gli dissi, — almeno sei perseverante e, siccome hai ottimi motivi per sostenere le tue idee, non posso certo accusarti di ostinazione. Però, se prima di sera anche la terza coppia sarà tornata, come vi ho annunciato, dovrai riconoscere che non si tratta soltanto di caso e fortuna e non mi priverai della giusta gloria. Poiché ormai avevamo interrotto il lavoro, la mamma col piccolo Franz si accinse a preparare la cena. Ma presto il piccolo tornò di nuovo con aria solenne, tutto gonfio e pettoruto e col tono squillante di un araldo esclamò: — Eccellentissimi signori e non signori! Vi sia annunciato e notificato da parte della amatissima signora madre che abbiamo avuto or ora l'onore di vedere il bel colombo d'oro delle isole Molucche con la sua amabile consorte entrare sano e salvo nella qui presente residenza e prendere alloggio nel nuovo albergo «Alla colomba». Ridendo accorremmo tutti sul posto, e trovammo di fronte alla colombaia la mamma che con un cenno ci confermò tutto. Infatti i due magnifici volatili erano posati sulle aste esterne ed era sorprendente vedere come gli altri colombi li invitassero, accennando con la testina e tubando, finché tutt'e tre le coppie, una dopo l'altra, scivolarono nella casetta, come se si sentissero perfettamente a loro agio. — In verità, babbo, devo arrendermi! — dichiarò Ernst. — Il mio
povero comprendonio è allo stremo. Però, ammesso anche che tu abbia fatto qualche incantesimo, che mezzi hai adoperato? — Che domanda! — ribattei. — Non hai sentito dunque quando ho pronunciato le formule magiche? E non hai visto come ho soffiato il mio alito dietro ai fuggiaschi? — Ohe! Servo vostro, signore! Servo umilissimo! Ma servo credulone, no! — replicò lui. Fui contento che il ragazzo si fidasse più del suo buon senso che delle apparenze e che non si lasciasse abbindolare facilmente. Gli manifestai la mia approvazione e gli spiegai finalmente quali mezzi, del tutto naturali, avessi impiegato per avvincere i colombi selvatici alla loro abitazione. Per tutta la sera e il giorno seguente osservammo attentamente la colonia dei colombi nel loro nuovo alloggio e notammo che essi diventavano mansueti e domestici ogni giorno di più. Ancora per qualche settimana la colombaia attirò la nostra attenzione, perfino mentre eravamo occupati altrimenti. I tre forestieri con le nuove compagne si assuefacevano sempre più al nido; però, come avevano fatto questi, anche le due coppie europee attrassero a poco a poco i loro antichi compagni e addirittura l'intera genia dei colombi, per cui i nostri preferiti correvano il rischio di venir scacciati dall'alloggio; oltre a ciò dovevamo dar da mangiare a tanti scrocconi, che finimmo per essere in imbarazzo riguardo il loro mantenimento. Bisognava perciò cercare di tener lontani nuovi ospiti. Attuammo il nostro piano, parte con le panie che mettevamo fuori la mattina presto, prima di aprire la colombaia, parte catturando gli intrusi nella stessa colombaia, quando il nostro stormo era sui campi e un colombo selvatico si infilava dentro. Allora calavamo lo sportello e lo avevamo in nostro potere. Questa caccia ci forniva più arrosto di piccione di quanto ci garbasse e la nostra sazietà sì rivelò molto opportuna per l'aquila di Fritz che godette di un periodo indimenticabile. Finalmente l'invadenza degli scrocconi cessò e rimasero soltanto le cinque coppie, alle quali volevamo limitarci per il momento. Nel frattempo un altro lavoro mi impegnava seriamente. Feci tagliare da Jack un fascio di canne nella Palude del Fenicottero, ne
scelsi due belle dritte, grosse circa un dito e pressappoco della stessa misura; le divisi esattamente a metà e poi le legai di nuovo insieme, affinché non si storcessero asciugandosi. Mi proponevo di fare con esse un tentativo lungimirante, impiegandole come sostegno di un pettine da tessitore, poiché pensavo sempre di offrire a mia moglie un telaio che le permettesse di utilizzare una buona volta il suo filato. Perciò tagliai subito anche un legnetto come modello per i denti del pettine e mi feci preparare dai ragazzi un gran numero di legnetti uguali. I miei figli chiedevano con curiosità per che cosa pensassi di adoperare quegli «stuzzicadenti», e poiché non volevo parlare, avendo deciso di fare una gradita sorpresa a mia moglie, alla fine, imbarazzato, risposi per una specie di buffa disperazione: — Faremo uno strumento musicale ottentotto, che si chiama gom-gom e, se verrà suonato a dovere, perfino la mamma dovrà battere i piedi al suo ritmo, e fare il viso allegro. In breve ebbi una sufficiente quantità dei cosiddetti stuzzicadenti; li presi sorridendo misteriosamente e misi al sicuro l'occorrente per il telaio fino al momento opportuno in cui, non visto dalla mamma, avrei montato il pettine. In quei giorni l'asina partorì un piccolo di ottima razza, che speravamo di allevare non solo come utile animale domestico, ma come magnifica cavalcatura. All'unanimità fu subito assegnato a me, affinché anch'io avessi il mio bravo cavallo. Come buon augurio gli diedi il nome di Folgore, che in breve tempo si rivelò appropriato non solo per i modi selvaggi, quasi turbolenti, del puledro, ma anche per il trotto veloce e gli agili ed eleganti movimenti. A mano a mano raccogliemmo nella caverna fieno e altro foraggio per poter tenere con noi durante il periodo delle piogge qualcuno degli animali domestici. Del resto tutti i quadrupedi erano abituati a presentarsi svelti quando li chiamavamo o a voce o col suono di una grossa conchiglia e perfino con un colpo di fucile, perché ogni volta venivano compensati con sale e altro cibo a loro gradito. Solo i maiali non si curavano molto del nostro richiamo, poiché trovavano quasi dappertutto bocconi migliori di quelli che potevamo o volevamo
offrire loro; ma in fondo potevamo farli facilmente acchiappare dai cani in qualsiasi momento ce ne fosse stato bisogno. A poco a poco il tempo cominciò a farsi molto incostante. Spesso si ammassavano all'orizzonte nuvoloni pesanti che, spinti da venti burrascosi, ci scaricavano addosso violenti piovaschi. Talvolta scoppiavano improvvisi temporali accompagnati da furiose raffiche di vento, provenienti dalla zona rocciosa, così che non potevamo accorgerci del loro arrivo; ci atterrivano con tuoni e lampi e ci ricacciavano nell'angolo più fondo della caverna, minacciando di travolgere ogni cosa. Anche il mare partecipava allo sconvolgimento della natura, la forza dell'uragano lo sollevava quasi dai più profondi abissi ed enormi marosi, grandi quanto una casa, si frangevano spumeggiando e rombando contro gli scogli e la rupe. In breve, tutto annunciava l'inizio delle grandi piogge, scrosciando e infuriando come un minaccioso preludio per il più serio spettacolo di tutto il corso dell'anno. Avevo calcolato che quella variazione dovesse avvenire ai primi di giugno, ma essa incominciò alcuni giorni prima e con tale violenza che prevedemmo di dover rimanere per tre mesi circa nell'alloggio invernale. La pioggia non si riversava certo tutti i giorni con uguale intensità, ma il tempo rimaneva cattivo e incostante. Per il momento trattenemmo con noi nella caverna soltanto la mucca e l'asina, assieme a Pie'' Veloce e a Tempesta: la mucca per il latte, l'asina perché aveva figliato da poco, e l'onagro e il bufalo per poter mandare quanto più spesso possibile, approfittando dei momenti favorevoli, qualcuno dei ragazzi al Nido dei Falchi. Là infatti erano custoditi tutti gli altri animali e una parte del pollame, oltre al fieno e alle frasche per le bestie, così che per governare gli animali e per prendere qualche provvista, quasi ogni giorno qualcuno doveva recarvisi, anche per conservarci amiche le bestie con qualche manciata di sale, di mais o altri buoni bocconi. I cani, lo sciacallo, la scimmia e l'aquila rimasero con noi e, nonostante qualche inconveniente, ogni tanto ci procuravano un po' di svago durante le lunghe sere di pioggia. Per parecchi giorni fummo occupati a mettere in ordine le stanze della caverna. Ernst e il piccolo Franz dovevano pensare alla
biblioteca, che avevamo ricavato dalla grande e lunga camera dei figli. I due ragazzi montarono una leggera scaffalatura di tavole e vi disposero sopra i libri, tutti bene in fila. La mamma e Jack rassettarono il locale di soggiorno e la cucina, dove c'era molto da fare; io e Fritz infine ci curammo del laboratorio, perché là era necessario un maggiore dispendio di energia. Innanzi tutto collocammo nell'angolo più luminoso il tornio di ferro del capitano, di ottima fattura e provvisto di una cassa di attrezzi; gli utensili furono appesi alle pareti. In un piccolo vano attiguo che avevo destinato a officina, costruimmo il focolare di pietra necessario per la fucina. Infine nel laboratorio furono trasportati anche un banco da falegname e tutti gli strumenti, tanto quelli del carpentiere che quelli del bottaio. Avevamo appena eseguito i lavori più pesanti e preliminari che subito ci furono una quantità di piccole cose da sistemare ed attrezzare. Qua ci voleva un sostegno o un'impalcatura; là panche e tavoli; ed ancora, piccole rastrelliere, scalette portatili e cassetti vari; eravamo sempre pieni di nuovo entusiasmo per i bellissimi armadi a muro, collocati a suo tempo. Fuori della caverna, per tutta la lunghezza delle stanze e degli ingressi, col materiale ottenuto dallo sfondamento della roccia e con ogni sorta di detriti e rottami portati via dall'interno, fu spianato a poco a poco una specie di terrazzo che, fornito di una tettoia di canne di bambù, fu destinato a diventare un portico atto a proteggerci dal sole e dalla pioggia. Ernst e il piccolo Franz, intanto, si erano dedicati a una sistemazione veramente lodevole dei nostri mezzi di cultura. Avevamo un buon numero di libri, in parte nostri, in parte trovati nelle cabine del capitano e degli ufficiali di bordo, soprattutto opere di storia naturale e libri di viaggi. Molti volumi erano riccamente illustrati e costituivano per noi un vero tesoro, da cui potevamo ricavare utili insegnamenti. C'erano inoltre molte carte nautiche, parecchi strumenti matematici ed astronomici, e un mappamondo aggiornatissimo. Infine mi ripromettevo di consultare utilmente i vocabolari e le grammatiche presi dalla biblioteca di bordo, per aiutarmi in qualche modo se per caso fossimo venuti in contatto con
gente o bastimenti di diverse nazioni. Riprendemmo con assiduità lo studio delle lingue, da tempo interrotto. Tutti dovevamo esercitarci nel tedesco e nel francese. L'inglese e l'olandese furono assegnati alla mamma e ai due ragazzi più grandi. Soltanto Ernst, che a suo tempo a scuola aveva avuto ottime basi di latino, doveva continuare ad impegnarsi in tale studio, particolarmente adatto alla comprensione delle opere di storia naturale e di alcuni trattati di medicina lasciati dal medico di bordo. Quanto a me, io mi ero riservato lo studio del malese, perché pensavo che probabilmente una volta o l'altra gli indigeni delle Indie orientali, specie quelli delle isole, avrebbero finito per scovarci e in tal caso, secondo me, tale lingua, tanto diffusa in quelle terre, ci sarebbe stata di grandissimo aiuto. Così nella nostra piccola cerchia familiare formavamo una piccola Babele e talvolta frammenti di lingue diverse ci ronzavano negli orecchi con il più grande spasso. Solo ora trovammo finalmente tempo e modo di togliere dalle casse il resto dei tesori trovati nel relitto e di assegnare ad ogni oggetto il suo giusto posto. C'erano specchi, cassettoni, qualche consolle dal levigato piano di marmo, un certo numero di poltrone (più o meno comode) e perfino due scrittoi molto graziosi. Trovammo poi svariati orologi: alcuni a ripetizione, di finissimo gusto (uno dei quali provvisto di carillon) e perfino un orologio nautico che permetteva di stabilire con precisione la longitudine geografica che, a dire il vero, non sapevo maneggiare molto bene. In breve, ci ritrovammo molto più ricchi di quanto avessimo mai creduto. Naturalmente c'era anche molto da ripulire, raggiustare, riparare, ma tutto questo ci aiutò a distrarci durante le dieci o dodici settimane della stagione delle piogge, tanto che potei costruire soltanto un giogo per i buoi e qualche carda per districare il cotone, oltre ad un filatoio per la mamma, che me lo richiedeva continuamente. In compenso stavamo da principi e ci sentivamo molto orgogliosi della nostra magnifica abitazione. Quando tutto l'arredamento fu completo, i miei familiari vollero cambiare il vecchio nome di Rifugio della Tenda con uno più adatto; e, benché fossi affezionato alla vecchia denominazione, in ricordo
del primo giorno della nostra salvezza, pure cedetti alle insistenze dei miei ragazzi; infine, dopo lunghi ripensamenti, fu scelto il nome di Rifugio di Roccia. Verso la fine del mese di agosto e dunque della stagione delle piogge, come almeno speravo, il tempo parve divenire ancora più burrascoso; il mare sferzava la riva con cavalloni enormi e mugghiava paurosamente. Pioggia, lampi e tuoni accompagnavano lo spaventoso tumulto dell'oceano e pareva che minacciassero di devastare l'intera natura. Allora ci sentivamo ben fortunati nella nostra solida casa, pensando che al Nido dei Falchi sarebbe stato impossibile resistere a tali uragani. Finalmente a poco a poco, il cielo si rasserenò, le tempeste si acquetarono e potemmo arrischiarci ad uscire dal nostro ben riparato asilo, di nuovo all'aria aperta.
CAPITOLO VI UNA TARTARUGA COME RIMORCHIATORE. — LOTTA CON UN SERPENTE BOA. — L'ASINO SALVA GLI ALTRI, MA SOCCOMBE. — VIENE SCOPERTA UNA NUOVA CAVERNA. — TARABUSI, IDROCHERI E PÈCARI. ALLEGRI e soddisfatti, una mattina, salutammo il caldo splendore del sole e, poiché eravamo tutti di buon umore, accogliemmo festosamente la proposta della mamma di fondare una nuova colonia sull'isolotto, che fosse al riparo dai danni delle scimmie e di altri animali di rapina. I ragazzi volevano saltare senz'altro sulla barca per mettersi subito all'opera, ma mi accorsi che per quel giorno avevamo già abbastanza da fare al Rifugio di Roccia e perciò rimandai la spedizione. In compenso promisi per l'indomani una traversata alla volta del Capo della Speranza Delusa e della piccola colonia di Hohentwiel, per esaminare le condizioni del casolare e degli animali che vi avevamo lasciato. La mia proposta fu accolta con entusiasmo generale; preparammo armi, vestiario e viveri e ci coricammo presto per poter partire per tempo la mattina seguente. Infatti l'indomani eravamo già tutti in piedi di primo mattino e mettemmo in ordine la casa per poterla lasciare per un giorno intero. Salpammo di buon animo dal Rifugio di Roccia; senza perder tempo diressi la barca nella corrente del Torrente degli Sciacalli, che ci trasportò speditamente dalla Baia della Salvezza nel mare aperto e tranquillo. Presto avemmo alle nostre spalle l'Isola del Pescecane e, nonostante il pesante carico, il mio baldo equipaggio si diede tanto brillantemente da fare che in breve avvistammo Hohentwiel. Mantenevo la barca sempre a qualche centinaio di passi dalla riva per non correre il rischio di dare in secca; avevamo quindi una più
libera visuale della costa, che gli alti alberi del Nido dei Falchi e il querceto rendevano straordinariamente pittoresca. Sullo sfondo si estendeva una terrazza o altopiano che, ricoperto della più lussureggiante vegetazione, pareva superare in bellezza perfino il nostro piccolo Eden ai piedi della rupe. A sinistra, vicino a noi, emergeva l'Isolotto della Balena che col suo splendido verde interrompeva l'uniformità dell'oceano maestoso, ma pure cupo e terribile. Fummo lieti di vedere che, nella parte rivolta verso Hohentwiel, l'isolotto aveva già qualche boschetto e degli alberi che, a causa delle alte rocce dominanti, non avevamo notato nelle nostre traversate precedenti. Arrivati all'altezza del boschetto di cocco o delle scimmie, virai sulla dritta e approdai, per raccogliere noci di cocco fresche. Allegri chicchirichì e chioccolii di galline ci accolsero all'arrivo: erano i nostri colonizzatori di Waldegg. L'illusione mi trasportò all'improvviso nella mia cara patria, quando nelle passeggiate o nei viaggi, di giorno o di notte, spesso l'allegro canto del gallo mi rivelava, invitante, l'abitato che ancora non vedevo. Tuttavia, soprattutto per risparmiare a mia moglie un senso di pungente nostalgia, mi guardai bene dal manifestare ad alta voce le mie impressioni. Caricammo sulla barca le noci raccolte e puntammo direttamente su Hohentwiel; approdammo in una piccola baia nelle vicinanze, dove ero sicuro di trovare una quantità di alberi di mangrovia o mangle, che prosperano molto facilmente in riva al mare e sono molto utili perché proteggono la terra dall'azione erosiva e disgregatrice dei frangenti. La scorza, per di più, fornisce dell'ottimo tannino da concia. Raccogliemmo in fretta alcune decine fra gli esemplari più grossi di quelle piante con tutte le radici e li legammo in piccoli fasci, avvolgendoli con foglie umide. Poi ci arrampicammo dall'approdo lungo il pendio piuttosto erto di Hohentwiel. Trovammo tutto in perfetto ordine, solo che pecore, capre e polli erano diventati più selvatici di quanto ci avesse fatto sperare l'invitante saluto udito da lontano; del resto il numero degli animali era notevolmente aumentato e c'erano agnelli, capretti e pulcini di ogni grandezza e in
grande abbondanza. I ragazzi manifestarono subito una gran voglia di uova fresche e di latte; ma, mentre potevano raccogliere dall'erba uova in quantità, non ebbero la stessa facilità nel catturare le capre lattifere, a causa della loro selvatichezza. Tuttavia essi seppero ingegnarsi bene, tirando fuori le bolas e dopo qualche minuto alcune capre giacevano qua e là sull'erba con le zampe legate; i ragazzi furono pronti a far lambire alle bestie un po' di sale e presto ci riportarono due gusci di noci di cocco colmi di latte appena munto e profumato; uno fu destinato per il pranzo e l'altro vuotato in una fiasca di zucca dal lungo collo, che mettemmo da parte per portarla a casa. Poi la mamma distribuì un po' di riso e di avena ai polli, finché riuscimmo ad impadronirci anche di alcuni di essi, che mettemmo da parte, con le zampe legate, per portarli via con noi. Mentre la mamma era occupata a sistemare le provviste, mi affrettai a raccogliere con Fritz alcuni fasci di canne da zucchero per piantare anche queste sull'Isolotto della Balena. Carichi di ricco bottino ci staccammo dalla riva; cercai di aggirare il Capo della Speranza Delusa per esplorare meglio la grande baia e specialmente la sponda opposta. Ma il nome del promontorio si rivelò ancora una volta appropriato; invano avevamo sperato di poterlo superare costeggiando, poiché fin lontano nel mare si allungava un bassofondo sabbioso troppo largo perché si potesse oltrepassarlo con la bassa marea che aveva inizio proprio allora. Per di più il banco di sabbia finiva tra scogli e massi di roccia nascosti; notai infatti in quel punto una certa risacca e in nessun caso avrei voluto esporre tutta la famiglia al pericolo di un naufragio. Un venticello fresco e favorevole si levò da terra e gonfiando le nostre vele ci risospinse rapidamente verso l'Isolotto della Balena, che raggiungemmo molto più in fretta che nel viaggio di andata. Mi misi subito all'opera per collocare a dimora le piante ancora fresche portate con noi. Ma i ragazzi, sul cui aiuto avevo contato, trovarono il lavoro piuttosto noioso; infatti i monelli in breve tempo si allontanarono uno dopo l'altro in cerca di nuove conchiglie e di coralli, così che io e mia moglie fummo costretti a scaricare la barca da soli.
Non era passato molto, che Fritz riapparve gridando a squarciagola: — Papà, papà! Una tartaruga enorme! Vieni, vieni dunque! Sta già tornando in mare e non siamo capaci di rivoltarla sul dorso! Accolsi con piacere l'invito e mi affrettai ad andare in loro aiuto, munito di due remi; presto scorsi una testuggine di insolita grandezza che arrancava verso l'acqua e, benché Ernst l'avesse afferrata per una zampa, si trovava già ad una decina di passi dal mare. Immediatamente diedi un remo a Fritz, in un paio di salti scendemmo dall'altura e cominciammo senza indugio a usare i remi come fossero leve, per rivoltare sul dorso la tartaruga. Non senza una bella fatica riuscimmo a rovesciare la bestia, che mi sembrò la cosiddetta testuggine gigante, della lunghezza di cinque piedi, che poteva pesare circa trecento o quattrocento libbre. L'animale era ormai abbastanza al sicuro per noi, data la sua incapacità a rivoltarsi sulle zampe, e potemmo quindi tornare tranquillamente al nostro lavoro nel nuovo vivaio, dove ci occupammo dei preparativi per la messa a dimora degli alberelli, riservandomi di tornare all'isolotto qualche giorno dopo. Solo verso sera mi preparai a tornare a casa; diressi la barca là dove l'enorme tartaruga giaceva ancora sul dorso: non avevo nessuna intenzione di lasciarla lì, tuttavia rimasi a lungo indeciso sul modo di portarla con noi. — Beh! — esclamai infine, — in fondo potrà nuotare da sé fino al Rifugio di Roccia: queste bestie sanno remigare meglio di noi! Così dicendo saltai verso la barca, vuotai allo scopo il barile d'acqua che avevamo portato con noi, lo richiusi di nuovo accuratamente e vi avvolsi attorno un robusto canapo; diedi volta poi un capo del cavo alla prua dell'imbarcazione e annodai l'altro capo con la dovuta cautela attorno al collo e alle zampe anteriori del grosso anfibio. Riunendo le nostre forze rivoltammo di nuovo sulle zampe l'enorme tartaruga, che cominciò subito ad arrancare verso l'acqua; le rotolai dietro il barile, finché anch'esso giunse a galleggiare in mare, dopo di che, alla svelta, saltai con moglie e figli nella barca. Presi posto a prua, tenendo l'accetta a portata di mano per poter
tagliare il cavo al minimo segno di pericolo, ma il barile vuoto impediva alla tartaruga di immergersi e questa dovette limitarsi a nuotare energicamente trascinandosi dietro anche l'imbarcazione. I ragazzi gridavano di gioia ed Ernst ridendo paragonò il nostro nuovo veicolo al carro di Nettuno tirato dai delfini. Intanto, ad ogni buon conto, avevo dato di piglio al lungo gancio d'accosto e con esso dirigevo la rotta della testuggine verso la Baia della Salvezza, schioccando nell'acqua ora a destra ora a sinistra non appena la bestia pareva volesse deviare dalla nostra direzione. Approdammo felicemente al posto consueto, nei pressi del Rifugio di Roccia e dopo aver staccato la tartaruga dal barile, la legammo saldamente con alcune corde robuste. L'indomani stesso però le facemmo la festa, perché non ero ben sicuro di poterla tenere a lungo, ed anche perché volevo utilizzare la sua corazza, lunga quasi cinque piedi e larga tre, come vasca per una fontana davanti alla nostra casa nella roccia. Per il momento la feci ripulire e asciugare al sole, il che ci costò una certa fatica. Sapevamo già quanto fosse saporita la sua carne che perciò fu salata e accuratamente messa in serbo perché ci procurasse delle sostanziose minestre. Mi ero anche proposto di arare, subito dopo il periodo delle piogge, un pezzo di terreno per farne un vero e proprio campo e seminarvi svariati cereali, affinché in futuro si potesse contare per una epoca determinata sulla maturazione del raccolto; ma ne ero stato impedito da svariate faccende che capitavano via via all'improvviso, e d'altra parte il mio bestiame da tiro non era ancora abbastanza assuefatto al giogo per poter lavorare a dovere un campo seminativo. Rimandai perciò ad un altro momento i lavori agricoli e mi accinsi con impegno alla costruzione del telaio da lungo tempo promesso a mia moglie. Il mio lavoro riuscì abbastanza funzionale, anche se non era per nulla raffinato, e mi giovò molto l'aver visitato spesso con attenzione, nei primi anni della mia giovinezza, le botteghe dei tessitori, come del resto quelle di molti artigiani. L'ottima riuscita dell'opera mi incoraggiò a conquistarmi un'altra gloriosa decorazione al merito familiare. Prestai finalmente ascolto al desiderio, ripetutamente manifestato dai miei figli, di far loro una
buona volta selle e finimenti e, siccome già in precedenza avevo intagliato - anche se in modo rudimentale — assieme ai due gioghi i necessari legni arcionati, riuscii a compiere il lavoro piuttosto facilmente. In questo lavoro ebbero un importante ruolo alcune pelli di animali che ci fornirono il rivestimento, mentre per imbottire le selle mi fu molto utile la lunga barbula. 9 Ne feci dapprima alcune trecce lunghe e grosse, le avvolsi attorno a vari bastoni e le impregnai a dovere con acqua mista ad un po' di cenere e olio di pesce, per evitare che il musco, continuando ad asciugarsi, divenisse troppo friabile e con i sobbalzi e le scosse del cavalcare si riducesse presto in polvere. Il ranno saponoso servì ottimamente al mio scopo, poiché quando la barbula fu ben secca si rivelò cresputa ed elastica, tanto da sostituire a perfezione il crine di cavallo che ci mancava. Riempii ben bene di musco non solo le selle, ma anche alcuni cuscinetti e le imbottiture del giogo; la mamma eseguì con piacere tutte le robuste cuciture occorrenti e i ragazzi l'aiutarono solleciti in qualità di apprendisti. Confezionammo anche un buon numero di finimenti per le nostre bestie da tiro: sottopancia, groppiere, staffili, cinghie per il giogo e tirelle; a causa della mia scarsa esperienza fui costretto addirittura a prendere ogni tanto le misure sulle stesse bestie, come fanno i sarti. Durante queste occupazioni i ragazzi mi avevano spesso pregato di organizzare per loro un'altra partita di caccia; prima però volevo cimentarmi nella lodevole arte del cestaio, poiché specialmente la mamma, durante le nostre frequenti assenze, sentiva spesso la mancanza di ceste per raccogliere, portare a casa e conservare separatamente frutti, radici e sementi. Raccogliemmo perciò una buona scorta di vimini, dato che per i primi esperimenti non volevo assolutamente ricorrere ancora alle belle strisce di canna già preparate da Jack; non dovetti pentirmi di tale precauzione, perché i primi tentativi riuscirono del tutto sgraziati e inservibili; dopo, però, riuscimmo a confezionare alcune grosse ceste da imballaggio e panieri per l'imminente raccolto dei cereali che non erano affatto male, benché avessero piuttosto l'aspetto di gabbioni da trincea. Nella parte superiore erano forniti di un robusto orlo e ad ognuno dei lati 9
Genere di muschi delle Pottiacee. (N.d.T.)
avevano un manico altrettanto robusto, saldamente intrecciato, in modo da potervi infilare una stanga per trasportarli comodamente. Il primo era stato appena portato a termine, tra sudori e sospiri, che già i ragazzi vi si precipitavano sopra, per divertirsi un pochino. Due canne di bambù furono infilate nei manici, e il piccolo Franz vi fu messo dentro e portato in trionfo da Jack ed Ernst. — Ehi, babbo! — esclamò infine Fritz, — dovremmo costruire con lo stesso sistema una portantina per la mamma, così ci potrebbe accompagnare nelle nostre gite più comodamente che sul carro o sull'asino. La proposta fu accolta con gioia dagli altri e anche mia moglie rise; osservò soltanto che le sarebbe sembrato molto strano starsene là rannicchiata come un misero fagotto a far capolino col naso sull'orlo. La tranquillizzai, promettendole di dare alla portantina una forma conveniente; il vero problema, però, era il come far trasportare la portantina con tutto il suo contenuto, giacché i ragazzi non avevano certo voglia di portarla sulle spalle come gli schiavi delle Indie orientali e del resto sarebbero stati troppo deboli per poterlo fare anche per un piccolo tratto. A questo punto Jack ebbe l'idea di sfruttare per tale scopo il suo Tempesta e il Brumm del piccolo Franz e mi pregò subito di permettergli una prova. — Certo, — gli risposi, — prova pure. Anch'io ero curioso di vedere come i figlioli avrebbero portato a termine quell'impresa ancora improvvisata. Immediatamente Tempesta e Brumm furono requisiti per essere convenientemente equipaggiati. Si capisce che prima di tutto mettemmo agli animali le nuove selle, benché non vi fossero ancora avvezzi. Ogni cosa però andò a meraviglia e quando le cinghie furono ben strette, i ragazzi fecero alla svelta un paio di nodi nelle corregge delle staffe per passarvi dentro le stanghe che portavano la cesta e legarono queste strettamente con robusti spaghi affinché non scivolassero se gli animali si fossero mossi troppo in fretta o in modo disuguale. Tutto procedette senza inciampi perché tanto Jack che Franz avevano addestrato gli animali a sdraiarsi per terra al loro comando e
a non rialzarsi senza nuovo ordine. Jack balzò in groppa al suo bufalo, il piccolo Franz al vitello ed Ernst entrò con una certa impacciata lentezza nel cestone che provvisoriamente era ancora posato a terra tra le due stanghe laterali. Subito i due cavalieri ordinarono un allegro «Su!» e i due animali, ancora un po' incerti nel nuovo ruolo di portantini, si rialzarono adagio e avanzarono pian piano. In verità il palanchino era splendido: stava saldamente appeso e dondolava piacevolmente come una carrozza su elastiche molle d'acciaio. Non passò molto che i due cavalieri trovarono piuttosto noiosa la passeggiata e incitarono le loro cavalcature al trotto serrato. Perfino il pauroso Ernst prese gusto alla corsa, applaudì calorosamente i fratelli, stringendo soltanto un pochino i denti ogni tanto, quando riceveva uno scossone più forte e puntellandosi come meglio poteva con mani e braccia ai lati della cesta. La faccenda si svolse quindi senza inconvenienti. Assieme a Fritz e alla mamma, ero intento ad intrecciare un'altra cesta sotto il portico, quando Fritz a un tratto si alzò e fece qualche passo avanti, scrutando attentamente il filare d'alberi che dal ponte sul Torrente degli Sciacalli giungeva fino al Nido dei Falchi. — Che diavolo vedo là in lontananza, che si muove così stranamente? — esclamò. — Pare che si avvicini sempre più e spostandosi fa sollevare nuvoloni di polvere tutt'intorno! — Non so immaginare davvero che cosa possa essere, — risposi, — perché parte del nostro bestiame grosso è stato portato qui per l'esperimento della portantina e gli altri animali stanno tranquillamente nella stalla. — Qua succede certo qualcosa di particolare, — ribatté Fritz, — a momenti pare una grossa gomena che venga trascinata per terra tutta attorcigliata, a momenti un piccolo albero di nave che si innalzi dalla polvere; ho l'impressione che questo «coso», quando striscia descrivendo cerchi per terra, si avvicini sempre più e invece, quando si impenna in alto, si fermi. A tale descrizione la mamma si spaventò molto e rientrò a casa di corsa. Chiamai in casa anche i ragazzi perché preparassero le armi. Io andai in fretta a prendere il mio cannocchiale da tasca per raccapezzarmi meglio in quell'affare e,
mentre Fritz rimaneva al mio fianco, feci salire gli altri figlioli sul ballatoio, perché stessero di vedetta, armati, dietro le finestre più alte. — Papà, che ne dici? Che cosa può essere? — mi chiese Fritz in tono ansioso. — Suppongo che sia un enorme serpente, — risposi, — anzi lo vedo proprio chiaramente. Ci troveremo in una situazione critica. — Allora non sarò certo l'ultimo ad attaccar battaglia, — esclamò il coraggioso giovanotto, — vado subito a prendere i nostri fucili più grossi e qualche scure. — Purché tu sia prudente, figlio mio! — l'ammonii. — Questa specie di animali ha la pelle dura e una terribile forza. Piuttosto va' su con gli altri e prepara il mio fucile da caccia grossa! Vengo subito anch'io e insieme faremo tutto il necessario. Fritz mi lasciò malvolentieri; intanto continuavo a spiare l'orribile rettile. Senza dubbio si trattava di un serpente boa che si avvicinava voltolandosi e mi sembrò già troppo vicino perché potessi ancora tentare di abbattere il ponte per impedirgli l'accesso nel nostro territorio. Pareva che il serpente si dirigesse di filato sul ponte; di tanto in tanto però tendeva in alto la parte anteriore del corpo fino a otto-dieci piedi, e girava intorno la testa con lentezza guardinga, facendo vibrare vivacemente la lingua, come volesse esplorare con diffidenza il luogo o fosse in cerca di preda. Avevo osservato abbastanza e nell'attimo in cui il mostro strisciava rotolandosi sul ponte, alla svelta battei in ritirata. Salii di corsa la scala fin sul ballatoio, dove la mia truppa stava appostata in pieno assetto di guerra, come la guarnigione di una fortezza dietro i merli delle mura, senza però dimostrare una particolare velleità bellicosa e nemmeno un eccessivo ardimento, finché la mia presenza non rianimò nei ragazzi la perduta fiducia nelle proprie forze. Fritz mi porse il fucile e col batticuore prendemmo posto dietro le aperture già fornite di inferriate, dalle quali potevamo guardare fuori senza essere notati troppo facilmente. Il mostro si era ormai lasciato dietro il ponte e sembrava di nuovo esplorare sospettoso, come se per la prima volta avvertisse con stupore le tracce di una presenza umana. In modo alterno continuava a rizzarsi e a strisciare per terra in grossi anelli; fosse per caso, fosse
per una certa sensazione dell'insicurezza del luogo, il rettile si teneva abbastanza lontano da noi, nello spiazzo davanti alla caverna e a circa cento passi parve volesse attraversarlo, quando all'improvviso Ernst, forse più per segreta paura che per un particolare desiderio di caccia, sparò un colpo; immediatamente anche Jack e il piccolo Franz fecero fuoco e con mio stupore perfino la mamma fece uso del suo fucile che, nel momento del pericolo, aveva caricato col coraggio di un'amazzone per lottare valorosamente al nostro fianco. I quattro spari però non giovarono che ad affrettare in modo incredibile i movimenti del mostro, appena spaventato. Del resto sembrava illeso e anche i colpi che gli spedimmo in aggiunta io e Fritz dovettero fallire o non furono molto efficaci, poiché il serpente scomparve in un baleno nella palude, tra l'intricato canneto a sinistra della nostra casa. Un sospiro di sollievo sfogò la nostra tensione e parve che ci si togliesse un peso dal cuore. Riacquistammo tutti la favella e per prima cosa ognuno sosteneva di aver mirato bene e dopo matura riflessione; ciononostante pareva che nessun colpo avesse ferito il serpente. Tutti erano d'accordo nel meravigliarsi della mostruosità e grandezza del rettile, grosso circa un piede e lungo forse trenta. Si avanzavano le ipotesi più disparate sul colore, sulla forma degli occhi e del muso della bestia e con leggerezza i giovani si diffondevano in spensierate chiacchiere sull'argomento, mentre io mi sentivo nella più grave angustia per i colpi mancati e per la pericolosa vicinanza di un simile mostro. Per il momento quindi credetti opportuno proibire a tutti nel modo più assoluto di uscire, specie per quella sera, e ordinai anche che nessuno si allontanasse di casa nei prossimi giorni senza il mio esplicito permesso. Per tre lunghi, angosciosi giorni la paura del rettile, domiciliato nella Palude delle Anatre, ci tenne come assediati, poiché mantenevo rigorosamente il divieto di lasciare la nostra fortezza; facevo eccezione per me stesso e per mia moglie, ma soltanto per le incombenze più urgenti e, anche in tal caso, solo per brevi spostamenti. Il nemico frattanto non dava il minimo segno di vita e avremmo potuto credere che se la fosse svignata dall'altra parte della palude
per qualche crepaccio, se non avessimo notato una continua agitazione nelle anatre semiselvatiche che si erano insediate nel pantano. Tutte le sere infatti, quando tornavano dalle loro incursioni sul mare o sulle coste vicine, si libravano a lungo volando ad una certa altezza intorno al loro antico domicilio nel canneto, rivelando col precipitoso battere delle ali e col confuso schiamazzare un'inquietudine del tutto insolita e poi volavano via, con evidente esitazione, oltre la Baia della Salvezza, per passare la notte nell'Isola del Pescecane. Il mio disagio aumentava di giorno in giorno. Non avevamo alcun mezzo abbastanza sicuro per poter vincere il nemico in agguato nel fitto canneto dell'inaccessibile pantano, né mi pareva prudente esporre noi e le nostre bestie a un tale pericolo. D'altro canto però quell'essere condannati a stare in perpetua ansietà, tagliati fuori, per così dire, da ogni altro luogo e oggetto delle nostre attività e confinati solo nei lavori domestici era anche straordinariamente molesto e scomodo. Da quella penosa situazione ci salvò finalmente, proprio quando il fastidio cominciava a diventare troppo grave, il nostro vecchio asinello, il balordo grigiotto, ma soltanto per la sua sciocca baldanza che lo privò perfino di quel merito che le sempliciotte ma vigili oche del Campidoglio si sono notoriamente conquistate nella storia romana. Quel po' di fieno che avevamo ancora nella caverna, avanzatoci dalla stagione delle piogge, era stato smaltito sino all'ultimo filo dalle bestie la sera del terzo giorno e dovevamo quindi pensare al loro foraggio, se non volevamo che alla fine divorassero anche le nostre provviste, con grave danno del bilancio domestico. A questo scopo decisi di condurre all'aperto il bestiame, affinché si procurasse il cibo da sé. Tuttavia, per non attrarre l'attenzione del serpente in agguato né su di noi né sulle bestie, avevo stabilito di non farle passare per il ponte, ma di far loro guadare il torrente in alto, alla sorgente, poiché quel punto non si poteva scorgere dalla Palude delle Anatre e dunque un inseguimento del serpente era meno probabile. Subito dopo colazione, la quarta mattina del nostro assedio, legammo tutte le bestie una alla coda o alla zampa posteriore
dell'altra; Fritz, che fra tutti i ragazzi era il più coraggioso e pronto, doveva, a cavallo del suo Pie'' Veloce, condurre per la cavezza con cautela l'animale che stava in testa alla fila, poiché c'era da sperare che tutti gli altri avrebbero trottato pazientemente dietro al primo. Per il caso però che l'orribile rettile si fosse mostrato e minimamente avvicinato al corteo, Fritz aveva ricevuto l'ordine di darsi bravamente alla fuga a cavallo del suo onagro e comunque di rifugiarsi al Nido dei Falchi. Ordinai agli altri ragazzi di mettersi all'erta sul ballatoio assieme alla mamma, come la prima volta e di sparare attraverso le inferriate, per ricacciare il boa se l'avessero visto sbucare dal nascondiglio e minacciare il bestiame. Infine mi scelsi un punto d'osservazione dietro una sporgenza della roccia da dove, non visto, abbracciavo con lo sguardo la palude e nello stesso tempo potevo battere in ritirata abbastanza in fretta in caso di pericolo, facendo poi del mio meglio tra il generale fuoco di fila della nostra caverna, perché speravo che stavolta i nostri spari avrebbero avuto migliore esito. Feci caricare a palla tutti i fucili e poi aiutai a legare insieme il bestiame nel modo stabilito. Ma i tre giorni di riposo passati nella stalla e l'ottimo e regolare nutrimento avevano dato al nostro vecchio asino forza inconsueta e perfino maligni ghiribizzi, tanto che, preso da un'improvvisa petulanza, si liberò con uno strattone dalla cavezza, precipitandosi goffamente fuori dal portone che la mamma aveva aperto forse troppo presto. Lo stolto animale faceva dei salti così bizzarri da costringerci a ridere rumorosamente. Fritz, già a cavallo dell'onagro, volle richiamare all'ordine il disertore ma, balzando fuori impetuosamente, portò l'agitazione fra le altre bestie; prima che ce ne accorgessimo alcuni capretti se l'erano data a gambe, saltando allegramente dietro la loro guida asinina, che si dirigeva a balzi verso la palude. Agguantai per un braccio Fritz che voleva corrergli dietro. — Rimani qui! — gli gridai spaventato. — Che ti salta in mente? — Guardate, guardate dunque! — gridò in quel momento Jack. Qualcosa si agitava, si sollevava nel canneto. Un brivido di orrore ci colse. Ecco che il mostro si alzò, dritto come una colonna. I suoi occhi sfavillanti fissavano la preda che si avvicinava
spontaneamente. L'aguzza lingua biforcuta vibrava su e giù con cupidigia. L'asino si fermò atterrito e rimase di sasso assieme al suo baldanzoso seguito. In un attimo il serpente scattò avanti fulmineo, avvinghiò uno dei capretti e gli si attorcigliò attorno, avviluppandolo stretto. La povera bestiola si dibatteva tra le orribili spire. Gli altri tre capretti schizzarono via con acuti belati, l'asino fece un potente balzo e nello slancio stramazzò all'indietro nel pantano. — Cielo! — mormorò Jack, — affogherà e non possiamo fare nulla per salvarlo! Queste parole sciolsero l'agghiacciante tensione del nostro gruppo riunito. — Babbo — sussurrarono premurosamente i ragazzi, — vogliamo avvicinarci, sparare. Alla fin fine possiamo ancora salvare il povero capretto! Frenai gli aggressivi figlioli. — Lasciate andare, ragazzi, non ci guadagneremmo niente e ci esporremmo soltanto ad un terribile pericolo. Chi ci garantisce infine che un colpo mancato non renda furibonda quella pericolosa bestia? Ormai non possiamo più salvare il capretto dalla stretta mortale e anche il nostro asinello sarà certamente già affogato nel fondo melmoso della palude. Non si scorge più alcun movimento là sulla superficie e neppure nell'intrico di canne. Dobbiamo aspettare finché il serpente comincerà ad inghiottire la sua vittima. Allora i suoi denti saranno occupati e potremo affrontarlo senza pericolo. — Quell'assassino non ingoierà mica il capretto tutto in un boccone? — chiese Jack senza distogliere dall'orribile spettacolo gli occhi spalancati. — Sarebbe spaventoso! — D'altra parte i serpenti non hanno denti molari per masticare, ma soltanto zanne per afferrare, — osservai, — e dunque come potrebbero nutrirsi se non trangugiassero ogni volta la loro preda tutta intera? In fondo la cosa non è più raccapricciante a vedersi dello sbranamento sanguinoso delle tigri e dei lupi; è solo di proporzioni molto maggiori e perciò fa più impressione, specie in animali così possenti. — Ma ingoiandolo così tutto intero, come potrà staccare la carne dalle ossa della bestiola? — chiese il piccolo Franz con voce ancora
sommessa e tremante. — E poi sarà un serpente velenoso? — No, figlio mio, — gli risposi, — velenoso non è affatto; ma in compenso è forte e feroce. E non spolpa minimamente le ossa delle sue vittime; manda giù tutto assieme: pelle e pelo, carne e ossa e le interiora per giunta. Vedrete, vedrete! — Però non riesco ancora a capire, — disse Jack, — come possano passare per la gola di quel mostro le costole e le ossa dure delle cosce. — Guarda un po' che sta facendo il serpente! — sussurrò Fritz; — guarda come avvinghia e comprime stretto, sempre più stretto il povero piccolo animale! Lo acciacca e lo schiaccia proprio a dovere! Mostruoso! Forse lo sistema così per poterlo ingoiare meglio! Oh, la sciagurata bestia! La mamma, scossa dal crudele spettacolo, non volle stare a vedere più a lungo e scappò in casa col piccolo Franz; ne fui contento perché quello spettacolo era sempre più spaventoso, quasi insopportabile anche per me. Proprio come Fritz, pieno di raccapriccio, aveva previsto, il serpente adattava la bestiola alle sue fauci con lenta e paurosa precisione. Con la coda si attorcigliò a un masso obliquo di considerevole grandezza, per avere un solido punto di appoggio contro la resistenza del capretto; per un attimo il poverino scalciò con le zampe posteriori, momentaneamente libere; poi anche queste furono avvinghiate dal terribile rettile. A questo punto il serpente rialzò la testa con la gola spalancata e fumante, scattò in avanti e azzannò il muso dell'ansante bestiola. Ancora alcuni sussulti, poi la creaturina soffocata, pestata, dovette soggiacere al nemico, accasciandosi senza vita. Il suo uccisore però non la lasciò nemmeno per un attimo, anzi ora più che mai cominciò a maciullare e a stritolare ogni osso della sua preda. Niente rimase di riconoscibile in essa, tranne la testa, ma anche questa ferita e sanguinante. A quella crudele scena ne seguì immediatamente un'altra, ancora più brutta e disgustosa. Il potente stritolatore si staccò dall'animale morto, gli strisciò lentamente attorno, quasi assaporando il suo trionfo e poi cominciò a ricoprirlo dappertutto di una bava viscosa che scaturiva in abbondanza dalle terribili fauci; dopo di che il mostro, sempre spingendo e aggiustando col muso con una certa
abilità il boccone ricoperto di bava, dispose all'in-dietro, strette l'una all'altra le zampe posteriori del povero capretto fracassato, stendendo vicino alla testa quelle anteriori; subito dopo si distese a terra, per tutta la sua lunghezza, in modo da arrivare col muso proprio davanti agli zoccoli posteriori e allora finalmente la sua bocca si dilatò di nuovo, succhiando, per così dire, adagio adagio, lentamente, gli zoccoli con tutte le zampe, a cui seguirono con un potente scossone anche le cosce. Per i fianchi e il dorso tuttavia le difficoltà furono maggiori e la belva ingoiava a fatica, strangolandosi quasi, finché anche questa parte a poco a poco scivolò dentro. Del resto a mano a mano che le difficoltà crescevano, anche la bava sgorgava più copiosamente dalle fauci del serpente, rendendo più scivolosa tanto la gola che lo stesso grosso boccone, e così l'ingoiamento fu eseguito con pieno successo. In quella ripugnante maniera il nostro povero capretto fu infilato nella sua tomba vivente finché dalle fauci estremamente dilatate del mostro non spuntò niente altro che la testina. Pareva che il rettile fosse ormai completamente esausto o che il cranio della vittima non fosse stato stritolato abbastanza per poter scivolare lungo la gola dell'uccisore. E del resto l'orripilante scena si era protratta dalle sette del mattino fin quasi a mezzogiorno. Avevo aspettato con ansiosa tensione l'attimo più propizio per attaccare il rettile. Non ci eravamo mossi dal posto in cui stavamo come paralizzati, stregati dal raccapriccio. Ora però si presentava il momento lungamente atteso e con impeto gioioso gridai ai ragazzi: — Avanti, amici, ora possiamo vincere! Il nemico è fuori combattimento. Rapido, col fucile spianato e il cane alzato, uscii per primo dal nostro angolo di osservazione e mi avvicinai all'impotente divoratore, rigidamente disteso ai margini della palude. Fritz mi stava alle calcagna, anche lui col fucile spianato; Jack invece rimase dieci passi indietro e tradiva una comprensibile paura. Ernst infine non osò affatto abbandonare la sua posizione. Quando arrivai proprio vicino al rettile, io stesso fui colto dall'orrore alla vista del mostro. Con certezza credetti allora di poter affermare, anche per il disegno delle squame, che si trattava del
Constrictor constrictor, comunemente detto serpente boa. In quel momento la parte anteriore del suo corpo somigliava ad un blocco informe o a un duro rigonfiamento, alla cui rigidità facevano contrasto ancora più pauroso gli occhi sfavillanti e roteanti, mentre la coda guizzava in un leggero e quasi convulso movimento oscillatorio. Alla distanza di diciotto-venti passi io e Fritz facemmo fuoco; le due palle fracassarono distintamente il cranio della bestia. Gli occhi si spensero, le fauci e il tronco rimasero immobili come prima, mentre la parte posteriore si arrotolò, sbattendo alla cieca a destra e a sinistra. Ci affrettammo a dare con una pistolettata il colpo di grazia al mostro; subito la lunga parte posteriore si distese vibrando convulsivamente finché, dopo qualche minuto, rimase là allungata come il timone di un grosso carro da fieno. Allora, felici, in coro, prorompemmo in grida di trionfo, così che quelli che se ne stavano lontani si avvicinarono; in un attimo Ernst fu sul campo di battaglia, mentre la mamma e il piccolo Franz uscirono più lentamente dal Rifugio di Roccia, dove nel frattempo avevano liberato di nuovo il bestiame dai legami che lo allacciavano in catena. — Che orribili urla di vittoria avete lanciato! — ci gridò contro la mamma. — Quasi come i selvaggi canadesi quando tornavano a casa dal combattimento! — Ma guarda anche il tremendo nemico che giace ai nostri piedi! — risposi. — Non è degno di un giustificato grido di trionfo? Se non fossimo riusciti ad averne ragione saremmo diventati semplicemente dei profughi e avremmo dovuto rinunciare a tutti i vantaggi della nuova abitazione al Rifugio di Roccia. — Vi confesso, — disse Fritz, — che mi sentivo davvero avvilito quando il mostro ci teneva assediati; solo ora posso respirare di nuovo liberamente e godere con gioia la vita; è abbastanza strano però che dobbiamo tutto ciò all'avventatezza del povero asinello affogato. È finito nella voragine come un tempo il cavaliere romano Curzio, per i suoi compagni. — Ma che diavolo ce ne faremo, — chiese Jack, — di questo brutto arnese? — Direi, — propose Fritz, — che potremmo scuoiarlo e
impagliarlo come una rarità. — Magnifico! — gridò Jack tutto contento. — Poi lo piazzeremo con le fauci spalancate davanti alla nostra caverna, così ci farà da sentinella, se arriveranno i selvaggi. — Prosit! Grazie tante! — esclamò Fritz. — E le nostre povere bestie? Figurati come scapperebbero a gambe levate davanti a quello spauracchio! No, non va. Penso invece che a quest'eccezionale trofeo spetti a buon diritto un posto nella biblioteca o nel museo di scienze naturali, e precisamente tra i coralli e le conchiglie che abbiamo trovato di recente. Rimanemmo un pezzo ad osservare il terribile mostro e solo dopo un certo tempo di distensione, di cui tutti avevamo estremo bisogno dopo le ore di spavento, di ansietà e di lotta, pregammo la mamma di tornare a casa con Fritz e Jack, per prepararci qualcosa di buono da mangiare, che ci risollevasse lo spirito. I ragazzi dovevano poi tornare con la coppia dei buoi giovani, il giogo e le tirelle, mentre io, Ernst e Franz montavamo la guardia d'onore al rettile per impedire che avvoltoi o animali da rapina lo sbranassero. Aspettammo quindi seduti all'ombra di un grande masso, dopo aver ricaricato pistole e fucili. Dopo qualche tempo la famiglia riapparve con la roba da mangiare e col bestiame da tiro. Subito dopo il pasto freddo, consumato in fretta, ci demmo da fare attorno al serpente. Innanzi tutto, con l'aiuto degli animali aggiogati, estraemmo dalle fauci del divoratore la testa del povero capretto, subito seguita dalla pelle con tutto lo scheletro maciullato in modo raccapricciante. Gettammo immediatamente l'orribile resto nella più vicina fossa del pantano e vi rotolammo sopra alcuni dei massi sparsi là intorno, per essere certi di non vederlo mai più. Poi i due buoi furono attaccati come meglio si poteva alla coda del serpente boa e tirarono la bestia fino alla nostra caverna salina, mentre noi reggevamo a turno la testa con una specie di cappio, affinché non fosse troppo danneggiata e sfigurata dal trascinamento. — Che dobbiamo fare ora, papà, per scuoiare questo bel tomo? — chiesero qui i ragazzi. — Dovreste una buona volta cavarvela da soli, invece di fare continue domande! — ribattei. — Comunque, penso che riuscirete
bene, se appenderete il serpente alto per la testa nel nostro macello, che è stato attrezzato per questo. Uno di voi dovrà collocarsi al di sopra della bestia, ficcare con forza il coltello nel collo in modo che il taglio sia rivolto verso il basso e premere forte sempre verso il basso, mentre la bestia viene tirata in alto con l'argano. Mettetevi subito all'opera, perché ci vorrà parecchio lavoro. Fritz che è il più forte maneggerà il coltello. Naturalmente dopo dovrete togliere le ossa del cranio come meglio potrete. La pelle, poi, dev'essere salata ben bene e cosparsa di cenere. Infine la ricucirete, imbottita di barbula o di cotone. I ragazzi iniziarono subito il lavoro, anche se con un certo timore. Fritz si dava da fare con molta abilità anche senza il mio aiuto materiale. Ma tutti erano molto contenti che stessi vicino a loro e non fossi avaro di consigli e di suggerimenti. Dopo qualche giorno si poté iniziare la grande impresa dell'impagliatura. Il serpente, ricucito a metà, fu legato per la testa ad un palo alto parecchi piedi per evitare che sdrucciolasse. Jack si mise a cavalcioni di quella specie di otre aperto, una gamba di qua, una di là, la schiena rivolta all'estremità della coda; prendeva il musco che i fratelli gli porgevano, lo spingeva dentro a mucchi, lo premeva ben bene, lo stipava, sempre pigiando forte il fascio nuovo su quello precedente, dentro il grosso budello. Il ragazzotto era proprio buffo a vedersi, così chinato in avanti, con le gambe allargate, mentre continuava a lavorare alacremente, con la fronte madida di sudore. Di tanto in tanto si rialzava, ricacciandosi indietro col dorso della mano i capelli dalla fronte bagnata. — Che ne dici, papà? — esclamava raggiante. — Non è un lavoro da maestro? Tuttavia passò ancora un altro giorno prima che il serpente fosse perfettamente impagliato e ricucito fino alla gola, ma allora cominciarono le difficoltà maggiori, per conservare all'animale il suo aspetto caratteristico, il che, d'altra parte, doveva costituire l'elemento più divertente dell'operazione. Volentieri quindi mi misi al lavoro anch'io perché il risultato desse un'immagine così accurata, da rendere onore a tante fatiche e preparazioni. Una robusta base di assi incrociate, assieme ad un forte palo saldamente collegato da cavicchi servivano da sostegno. Sulla base
posava la coda in una spirale piuttosto ampia, che si avvolgeva poi sempre più stretta tutt'intorno al palo fino all'altezza di otto piedi circa. A questo punto il tronco del rettile si appoggiava sulla parte smussata del palo, così che il collo e la testa sporgevano quasi orizzontalmente chinandosi quel tanto sufficiente a dare l'impressione che il mostro minacciasse dall'alto una persona di statura normale. Si capisce che la bocca era stata spalancata e la lunga lingua tirata fuori; avevamo verniciato l'una e l'altra di color rosso sangue col succo dei fichi d'India. In mancanza del vetro occorrente, al posto degli occhi furono applicate due palle di gesso ugualmente tinte di rosso e verniciate con colla di pesce trasparente, che rendeva a perfezione il sinistro scintillio dello sguardo. Effettivamente l'opera risultò così naturale da poter trarre in inganno, tanto che i nostri cani vedendola non potevano fare a meno di ringhiare ed evitavano sempre di passarvi vicino. Il bestiame da tirò si inferociva quasi alla vista della terribile figura che avevamo rizzato davanti alla nostra caverna perché si asciugasse al sole. Destinammo perciò l'esemplare al nuovo museo e lo piazzammo proprio di fronte alla porta. Sull'ingresso i miei spavaldi figlioli fissarono una grossa tavola di gesso su cui, in gigantesche lettere rosse, stava la seguente frase a doppio senso: — Ingresso vietato a tutti gli asini! Il peggior pericolo da parte del serpente boa era ormai felicemente passato, ma rimaneva sempre il timore non infondato che nelle vicinanze si aggirassero altri compagni del rettile ucciso. Inoltre, essendo una femmina, temevamo che il maschio si potesse avvicinare nottetempo o che fosse rimasta una nidiata che poteva essere perniciosa in un prossimo futuro. Decisi quindi di fare due spedizioni, una verso la Palude delle Anatre vicino a noi, l'altra oltre la strada del Nido dei Falchi, di dove era venuto il serpente. Avremmo esteso quest'ultima fino alla Chiusa, poiché solo da quel punto poteva arrivare fino a noi, dall'entroterra, un animale di quella specie. Naturalmente volli cominciare con la spedizione verso la palude; solo che né Jack né Ernst mostrarono una gran voglia di accompagnarmi. — Davvero, — diceva Jack, — mi vengono i brividi solo se penso
al mostro, come a momenti mi gettava a terra quando agitava la coda. Ma, poiché un simile esempio mi sembrava dannoso anche per gli altri, li esortai a non essere, di fronte ad una semplice probabilità di pericolo, più timorosi di quanto non fossero stati nel pericolo vero e proprio, quando tutti avevamo attaccato il serpente. — Fermezza e perseveranza, — dissi, — di regola devono completare ciò che l'istintivo impeto di coraggio o forse addirittura la disperazione può suggerire. Fare qualcosa a metà è spesso altrettanto male che non farla per niente. Se il serpente boa ha lasciato nella palude i suoi piccoli, questi potranno un giorno coglierci di sorpresa ancora più della madre, che è arrivata di pieno giorno e per una via aperta. Ci armammo quindi con i nostri migliori fucili da caccia e ci munimmo anche di alcuni grossi bastoni di bambù, di parecchie tavole e di otri gonfi d'aria, che all'occorrenza dovevano mantenerci a galla, se ci fosse stato pericolo di sprofondare nel pantano. Arrivati sul posto, posammo le canne di bambù e le tavole sul fondo palustre, disponendole una davanti all'altra: via via che procedevamo, toglievamo a mano a mano le tavole dietro di noi per rimetterle davanti. In tal modo, anche se lentamente, superammo la palude con sufficiente sicurezza, finché non giungemmo sul terreno solido della parte opposta. Qua e là nel pantano avevamo scoperto le tracce inconfondibili del serpente, ma con grande gioia non scorgemmo da nessuna parte alcun indizio di piccoli o di uova della bestia. Perfino al limite estremo della palude, dove il serpente doveva aver dimorato più a lungo, non trovammo nient'altro che prato piuttosto pestato e parecchie piante palustri schiacciate, che formavano una specie di nido. Un po' oltre invece, scoprimmo una grotta di dimensioni non trascurabili, che si addentrava per circa venti passi nella rupe e da cui sgorgava un limpido ruscello. L'intera caverna era adorna di stalattiti e stalagmiti delle più svariate forme che scendevano anche lungo le pareti: alcune sembravano sostenere la volta come superbe colonne, mentre altre per la loro bizzarra struttura offrivano alla fantasia ampia materia per
ogni sorta di immagini. Ricercammo intanto le sorgenti del ruscello che scaturiva da una grossa spaccatura della roccia, piuttosto in alto da terra. Allargando la fenditura notammo che la roccia era molto tenera, perciò continuammo a scavare, finché Fritz poté strisciare nell'imboccatura e mi gridò dall'altra parte che il passaggio pareva ampliarsi gradatamente e forse finiva addirittura in una grande grotta interna. Siccome mi stava molto a cuore accertarmi del tutto che non ci fosse un'eventuale covata del nostro nemico, strisciai anch'io dentro in fretta, finché trovai tanto spazio da poter star dritto in piedi accanto a Fritz. Jack ed Ernst erano rimasti intanto nella grotta esterna. Per prima cosa sparammo davanti a noi nell'oscurità un colpo di pistola e il suo cupo, lungo rimbombo ci provò che la volta doveva avere un'imponente estensione. Subito allora accendemmo due candele, giacché nelle nostre borse da caccia portavamo sempre qualche candela e il materiale per accenderla. Del resto volevo piuttosto provare la salubrità dell'aria che illuminare a sufficienza l'ampio spazio intorno, ma poiché le candele bruciarono senza vacillare potemmo inoltrarci tranquillamente nella caverna, tanto più che in essa era entrata abbastanza aria dall'esterno e non poteva più contenere gas venefici. Tuttavia procedevamo con grande cautela e ci guardavamo intorno dappertutto fin dove poteva rischiarare il raggio delle nostre misere candeline. A un tratto Fritz esclamò tutto allegro: — Papà, un'altra caverna di sale! Guarda come scintilla, guarda i magnifici blocchi di sale, che emergono splendenti come cristalli dal suolo e dalle pareti! — Non possono essere cristalli di sale, — risposi, — perché l'acqua vi scorre sopra e attorno, senza intorbidarsi e senza prendere alcun sapore; penso piuttosto che siamo penetrati in una caverna di autentico cristallo di rocca. — Sarebbe magnifico! — esclamò allegro Fritz; — allora avremmo scoperto un grande e prezioso tesoro! — Certamente! Solo se ci potesse essere utile in qualche modo, — osservai, — ma nelle nostre condizioni ci servirà esattamente come
al buon Robinson Crusoe il suo blocco d'oro. — Comunque, ne stacco un pezzetto per poterlo esaminare più attentamente. Guarda, papà, che magnifico esemplare; non è sale, ma proprio cristallo, solo un po' appannato e quasi opaco. — Certo, se non fossi stato così precipitoso avresti avuto il tuo pezzo limpido come quelli che stanno ancora attaccati! Tutti questi splendidi massi di cristallo poggiano - come altrettanti prismi esagonali che terminano in molteplici piramidi esagonali - su una solida roccia microcristallina, mescolata (per così dire) con la fine argilla del suolo e perciò opaca. Questa è chiamata ganga del cristallo e in realtà si può vedere ad occhio nudo un fine tessuto di una specie di sottili aghi che in un certo senso sono soltanto piccolissimi cristalli. Un pezzo di ganga con parecchie piramidi attaccate insieme si chiama drusa e porta un aggruppamento di diversi cristalli più o meno grossi impiantati con l'estremità più larga al supporto roccioso. Se si vuol staccare a forza un cristallo dalla matrice, esso diventa improvvisamente opaco e appannato; il fenomeno è causato probabilmente da una quantità di piccolissime crepe che, in seguito alla scossa provocata dal colpo avuto, si sono formate nell'interno della massa. — Ma come si deve fare allora, — chiese Fritz, — per poter staccare dalla matrice un cristallo perfettamente limpido e trasparente? — Si deve togliere il cristallo con delicatezza contemporaneamente alla ganga ed in ogni caso battere col martello soltanto quest'ultima, non lo stesso prisma. Così parlando avevamo continuato a percorrere in lungo e in largo la caverna e Fritz non ebbe pace finché non ebbe staccato per il nostro museo una drusa di circa dieci libbre adorna di leggiadre piramidi. Le nostre candele erano ormai ridotte ad un piccolissimo mozzicone, e perciò decisi di tornare in fretta alla luce del sole; Fritz sparò ancora un secondo colpo in direzione della cupa gola e di nuovo il lungo rimbombo ci rivelò la considerevole distanza della parete di fondo. Passando per l'imboccatura accanto al ruscello, tornammo di nuovo all'aperto e scorgemmo subito il nostro Jack che piangeva e
singhiozzava; appena ci vide, ci balzò incontro con un grido di gioia: il bravo ragazzo era fuori di sé dalla contentezza perché aveva pensato che non saremmo mai più tornati dalla buia voragine. Mentre Fritz mostrava i cristalli al fratello subito consolato e gli parlava della caverna, io camminavo adagio davanti a loro e presto trovai Ernst ai margini della palude. L'accorto ragazzo aveva infilato in cerchio alcune canne lunghe e sottili, le aveva intrecciate con strisce di canna spaccata a metà, in modo che nella parte superiore convergessero a forma di imbuto, finendo in un'apertura di circa tre pollici, oltre la quale i bastoncini appuntiti sporgevano ancora un poco. Secondo la spiegazione del ragazzo, quella cesta a forma di imbuto doveva essere fissata in un'altra cesta lunga e panciuta, ma completamente chiusa all'estremità, in modo che l'imboccatura più stretta dell'imbuto venisse a finire pressappoco nel centro della cesta chiusa, così che un pesce che vi fosse scivolato dentro non avrebbe potuto trovare facilmente la via d'uscita, tanto più che nel passaggio ne sarebbe stato impedito dalle punte di canne che sporgevano internamente. Approvai senz'altro la destinazione di quella nassa e lodai il ragazzo. — Nel frattempo però ho anche ammazzato un piccolo serpente boa, — mi disse Ernst soddisfatto. — È disteso qui, vicino al mio fucile, l'ho ricoperto di canne. Sarà lungo circa quattro piedi e grosso quasi quanto il mio polso. — O piuttosto una bella anguilla! — dissi ridendo, quando ebbi tolto la copertura di canne; — bella, grande e grassa, che questa sera ci fornirà un ottimo arrosto. Gli altri due ragazzi, che d'un salto si erano accostati a noi, si unirono alle mie risate, canzonando Ernst che aveva scambiato un'anguilla per un serpente boa, ma questi rispose senza scomporsi: — Ebbene, avevo creduto che fosse un serpente perché tutti pensavamo che qui ce ne fossero e li abbiamo anche cercati. Prendemmo con noi la nassa, l'anguilla di Ernst e i cristalli di Fritz e riprendemmo la via del ritorno attraverso la palude; stavolta ci tenevamo un po' più vicino alla roccia, dove il terreno era molto più asciutto che nella strada percorsa all'andata.
Dalla parte della Palude delle Anatre credevamo ormai di essere sicuri dal pericolo di altri serpenti; decisi perciò di fare la seconda spedizione fino alla Chiusa, che pensavo di fortificare un po' meglio. Tuttavia prevedevo che quel lavoro avrebbe richiesto per alcune settimane le nostre forze riunite. Furono quindi imballati viveri e munizioni per un periodo di tempo corrispondente; preparammo inoltre la tenda da viaggio ed il carro, delle torce per tenere lontano le bestie feroci durante la notte, candele per illuminare la tenda ed infine recipienti ed utensili; in breve, tutto il necessario fu raccolto insieme e caricato sul carro. Fino allora non ci eravamo mai preparati per nessun'altra impresa con tanta scrupolosa precisione. Il giorno stabilito partimmo tutti insieme bene equipaggiati dal Rifugio di Roccia. La mamma si era sistemata un posto sul carro da trasporto. Tempesta e Brumm lo tiravano aggiogati insieme e contemporaneamente portavano in sella i loro due cavalieri, Jack e il piccolo Franz. La mucca era attaccata all'altro carro, Fritz, in sella al suo Pie' Veloce, trottava circa cento passi avanti, in avanscoperta, mentre io, come al solito, camminavo accanto alla mucca ed Ernst accanto al carro, riservandoci di montare a cavallo o di salire sul carro se ci fossimo sentiti stanchi. I fianchi del corteo infine erano protetti da tutt'e quattro i cani, assieme allo sciacallo Cacciatore. Ci dirigemmo dapprima alla volta di Waldegg e del campo di zucchero; sul cammino si trovarono parecchie tracce del serpente boa che, nel soffice terreno, parevano i solchi lasciati dal passaggio di un obice. Al Nido dei Falchi, come di consueto quando partivamo, mettemmo in libertà tutti i volatili, le capre e le pecore e spargemmo intorno mangime affinché le brave bestie si tenessero sempre nei dintorni. Poi proseguimmo verso Waldegg dove pensavamo di passare la notte per riempire di cotone, se possibile, alcuni cuscini e per esplorare un po' meglio il laghetto e l'adiacente palude del riso. Ma quanto più ci allontanavamo dal Nido dei Falchi, tanto più perdevamo ogni traccia del serpente e anche le orme delle scimmie andavano scomparendo; solo il canto dei galli e i belati di Waldegg animavano la quiete profonda e la nostra piccola fattoria aveva un aspetto così grazioso e lindo, che pareva quasi ce ne fossimo da poco
allontanati lasciando in ordine ogni cosa. Al nostro richiamo pecore e capre, galli e galline si presentarono saltando e svolazzando festosamente, con versi di gioia; in fretta li compensammo con qualche manciata di becchime e di sale. Subito ci disponemmo a passare tutta la giornata in quella ridente zona; mentre la mamma si occupava della cucina, noi andammo intorno per raccogliere gli avanzi del cotone, poiché volevamo riempire i cuscini per l'imminente viaggio. Dopo il pranzo ci accingemmo a esplorare più attentamente il luogo; presi con me Franz come compagno e per la prima volta gli affidai un fucile leggero, insegnandogli a caricarlo e maneggiarlo con prudenza. Ci proponevamo di. percorrere la riva sinistra del laghetto dei cigni, mentre Fritz e Jack camminavano sulla riva destra. Ernst rimase con la mamma all'estremità superiore del lago, nella palude del riso, per raccogliere eventualmente qualche spiga matura. Ogni gruppetto aveva con sé, come scorta, una parte della nostra guardia fedele. La mamma ed Ernst presero con sé Bill e mastro Pizzichino, la scimmia; Turk e Cacciatore marciavano sotto il comando di Fritz e noi eravamo accompagnati da Bruno e da Fulvo. Andavo dunque lentamente col piccolo Franz lungo la riva sinistra e, a causa del terreno palustre e ricoperto di canne, dovevamo tenerci ad una certa distanza dal lago. I nostri amici quadrupedi preferivano invece rovistare per il canneto e ogni tanto facevano alzare in volo qualche airone o alcune beccacce, che però si dirigevano generalmente sull'acqua, così che mi pareva si mantenessero fuori tiro. Un gran numero di anatre e di cigni che vedevamo muoversi sulla superficie dell'acqua ci rendevano intanto ancora più vogliosi e il piccolo Franz era tutto impaziente di fare il suo primo tiro su di essi o addirittura su un tarabuso di cui sentivamo venire dalla palude la voce sgraziata, simile al raglio dell'asino. Richiamai perciò i cani e indicai loro il posto da cui sentivamo giungere il grido, mentre il piccolo Franz ai margini della palude stava all'erta col fucile pronto: anch'io guardavo in alto, aspettando la selvaggina levata per sparare nel caso a mia volta un colpo bene assestato.
In quel momento sentimmo frusciare qualcosa tra le canne, presso la riva; Franz tirò e udii il suo grido di gioia: — Preso, preso! — Che cosa hai preso? — chiesi al piccolo, ancora ad una certa distanza. — Un cinghiale! — esclamò lui. — Addirittura! — ribattei. — Magari avrai abbattuto soltanto un maialetto di quelli che abbiamo lasciato in libertà e che ora scorrazzano dappertutto allo stato brado! Nel frattempo mi ero avvicinato al ragazzo e in realtà vidi che l'animale ucciso, disteso a terra davanti a lui, somigliava in certo modo ad un maialino dal pelo bruno-rossastro e setoloso; mi accorsi subito però che non era di razza europea e tanto mi bastava. Il ragazzo era fuori di sé dalla gioia. Dopo un esame più attento vidi che il maiale era lungo circa tre piedi e mezzo, con i denti come quelli del coniglio, col labbro superiore profondamente inciso, senza coda e con le zampe fornite di dita, che negli arti posteriori erano ricoperte di una membrana. Da tutto ciò compresi di avere davanti a me un idrochero, o capibara. Potei perciò concedere al ragazzino la gioia di aver abbattuto un maiale selvatico e alle sue ripetute domande circa il nome della bestia, gli spiegai che non era nemmeno un cinghiale comune, ma di una specie per noi molto più rara, un idrochero sudamericano, della stessa classe dei porci di mare, dell'aguti e del paca. Ora però era tempo di rimetterci in cammino; il piccolo tentava invano di trascinare la sua preda, ma dopo qualche minuto di riflessione saltò di gioia, gridando: — Ho trovato! Sventrerò la bestia e così diventerà molto più leggera, poi riuscirò forse a portarla, almeno fino alla capanna di Waldegg. — Puoi farlo senz'altro, — gli dissi, — tanto più che non mangeremmo le interiora! E del resto i nostri assistenti di caccia si meritano bene una ricompensa, dato che ti hanno scovato la selvaggina. Il ragazzo si mise subito a sventrare l'animale e si sbrigò più in fretta di quanto avessi pensato. I due alani ebbero la loro parte e presto riprendemmo la strada; ma il ragazzo ricominciò a sbuffare, finché ad un tratto gli venne un'idea: — Attaccherò la selvaggina ad
uno dei cani: potrà certo portarmela. — Tanto più che entrambi sono stati effettivamente addestrati al trasporto di carichi! — aggiunsi io. — Ecco che la fatica di averli addomesticati ci viene ripagata dal sollievo che possono darci. Senza indugio sganciai la sacca che portavo di solito a tracolla quando andavamo a caccia. Vi mettemmo dentro la bestia e la legammo sul dorso di Bruno che trotterellò davanti a noi, orgoglioso del suo carico. Subito dopo giungemmo alla pineta, dove ci fornimmo di belle pigne, e tornammo a Waldegg, senza aver scoperto la minima traccia che rivelasse la presenza di un serpente boa o della sua covata. Incontrammo invece le orme delle scimmie e dovetti purtroppo convincermi che i molesti animali, ghiotti devastatori, non avevano sgombrato i paraggi della nostra colonia; solo che la maggior parte di essi doveva essersi spostata verso Hohentwiel. Notai però che i ragazzi, stanchi degli strapazzi della giornata, avevano bisogno di riposo; perciò ci coricammo senza perder tempo nell'accogliente casolare di Waldegg sui sacchi di cotone e dormimmo tranquillamente fino al mattino seguente. Al primo biancore dell'alba proseguimmo il viaggio passando per la Cima dello Zucchero, nostro consueto luogo di sosta in quella regione, tra la piantagione di zucchero e la Chiusa, dove una volta avevamo costruito una capanna o meglio, una specie di cupolino di canne, pensando di impiantarvi in futuro una nuova fattoria. La graticciata della capanna era ancora piuttosto solida e in quel clima mite sarebbe bastato soltanto gettarvi sopra il telone, per avere un ottimo alloggio. Ma poiché non avevamo l'intenzione di fermarci oltre l'ora di pranzo, cominciammo subito ad esplorare le immediate adiacenze e particolarmente l'intrico delle canne da zucchero per cercare le eventuali tracce del serpente abbattuto o della sua prole. Per fortuna non ne trovammo in nessun posto; tanto più in pace ci godemmo allora le fresche canne da zucchero di cui eravamo stati privi da qualche tempo. Eravamo da poco assorti in tale piacevole occupazione, quando i nostri cani all'improvviso si fecero sentire e per il canneto si levò uno schiamazzo e un violento stormire, come se fosse arrivata la tregenda
o il cosiddetto Cacciatore selvaggio con la sua schiera infernale. Non sapevamo da che parte andare e meno che mai osavamo avventurarci nel fitto delle canne, per vedere che cosa provocasse tanto scompiglio; con i ragazzi uscii dal canneto in tutta fretta e mi appostai con loro a semicerchio a circa cinquanta passi. Dopo qualche minuto vidi un intero branco di maiali di piccola taglia sbucare dall'intrico e prendere il largo a tutta forza. Dapprima credetti di avere davanti a me il gruppetto dei porcellini lasciati in libertà; ma il gran numero, il colore grigiastro sempre uniforme, e il meraviglioso ordine, tutto particolare, con cui gli animali effettuavano la loro fuga, mi fecero capire che non si trattava di maiali del nostro allevamento europeo. Immediatamente scaricai sui fuggitivi il mio fucile da caccia a due canne e ogni colpo abbatté un capo di selvaggina. La caduta dei due compagni non turbò tuttavia gli altri, che in schiera quasi interminabile continuarono a correre appena ad un passo di distanza dai due caduti anzi, sempre di trotto serrato, procedevano uno dietro l'altro in modo buffo, come fossero tutti attaccati allo stesso filo e nessuno di loro sembrava voler correre avanti o saltare di fianco. Fritz e Jack stavano vicini a me e avevo appena abbassato il fucile per caricarlo di nuovo, che: bang! bang!, ecco altri maiali cadere al suolo: ma anche allora la fila si interruppe solo per lo spazio di un secondo e tanto meno cambiò direzione. Mi sembrò probabile che ci fossimo imbattuti in una schiera di maiali muschiati, chiamati anche taiassu e mi ricordai di aver letto che quando si abbatte uno di questi animali la cosa più urgente è l'asportazione della grossa ghiandola sul dorso, altrimenti l'umore appiccicoso contenuto in essa comunica alla carne il suo odore sgradevole. Mi affrettai quindi ad intraprendere l'operazione, come meglio potevo, su tutte le bestie uccise ed anche in questo mi prestarono aiuto Fritz e Jack. Subito dopo sentimmo echeggiare in lontananza, dalla parte della capanna, altri due colpi, che attribuimmo ad Ernst e alla mamma; pensai che, uscendo dal canneto, entrambi si fossero diretti verso la capanna e senza indugio mandai Jack ad aiutarli in caso di bisogno; gli ordinai anche di portarmi il carro, per trasportare più facilmente la
selvaggina alla capanna. Nel frattempo io e Fritz trascinammo gli otto maiali muschiati che avevamo abbattuto, facendone un mucchio, che ricoprimmo alla svelta con canne da zucchero, aspettando il carro. Su di esso apparve Ernst con la notizia che tutta la fila dei fuggiaschi era passata di galoppo davanti alla nostra capanna e si era rifugiata nell'intrico delle canne di bambù non lontano da noi; tuttavia con l'aiuto di Bill, il ragazzo era riuscito ad abbattere altri tre animali. Per alleggerire il carico decidemmo di sventrare le bestie immediatamente. Ernst pensava che i maiali fossero i cosiddetti pecari, viventi in Guiana e in tutta l'America e trovai giusta la sua osservazione. Il lavoro ci tenne occupati più a lungo di quanto avessi pensato e ci reputammo fortunati di poter placare di tanto in tanto fame e sete con le canne da zucchero. I cani ebbero invece uno squisito pranzo con tutte le interiora che gettammo loro, togliendone soltanto la rete che avvolgeva gli intestini. Così fu più facile portare sul carro gli animali sventrati, giacché nessuno di essi poteva pesare più di cinquanta libbre. I ragazzi avevano adornato di fiori, foglie e rami se stessi e la preda e finalmente partimmo, tra canti e grida festose. Jack e il piccolo Franz cavalcavano i due buoi da tiro, Fritz ed Ernst salirono nel carro, mentre io procedevo di buon trotto sulla mia cavalcatura, con i cani accanto. Arrivammo infine trionfalmente dalla mamma, che ci aspettava con impazienza. Dopo un breve pranzo, tipo rancio, ci accingemmo alla lavorazione dei maiali. Innanzi tutto furono bruciate le setole, subito dopo tagliai i cosciotti e staccai dal tronco gli altri pezzi da utilizzare. Le carcasse, assieme alle teste, furono date ai cani e all'aquila. La carne venne lavata accuratamente, strofinata con sale e infilata in un sacco aperto in alto, che appendemmo ad alcuni rami d'albero. Vi ponemmo sotto un recipiente di zucca per raccogliere l'acqua salata che ne sgocciolava e che di tanto in tanto versavamo di nuovo sulla carne, finché non fu pronto l'affumicatoio che Fritz e i fratelli più piccoli dovettero costruire. Ciò avvenne però soltanto il giorno seguente e per di più verso sera, perché prima avevamo voluto arrostire un capo della nostra selvaggina.
I nostri sforzi riuniti permisero la realizzazione della capannina che serviva da affumicatolo; essa riuscì tanto spaziosa da potervi appendere dentro l'intera provvista di carne di maiale. Nel focolare, sistemato nella parte inferiore, accendemmo subito il fuoco che coprimmo di erba umida e foglie fresche, così da sprigionare un potente fumo per tutta la capannina, chiusa in alto nel miglior modo possibile contro le correnti d'aria. Il fumo fu mantenuto a lungo con cura finché la carne non fu del tutto secca e affumicata. L'affumicatura richiese tre giorni di tempo e fu eseguita dalla mamma e, a turno, da uno dei ragazzi, mentre io con gli altri percorrevo in lungo e in largo tutta la zona. Non trovammo più in nessun posto alcuna traccia di serpenti ed ogni volta tornavamo a casa carichi di ricco bottino. Scoprimmo così nell'intrico dei bambù alcune canne isolate lunghe da cinquanta a sessanta piedi e larghe in proporzione, che si potevano adoperare come recipienti, tini e brocche, solo che si segassero all'altezza dei relativi nodi. Intorno ai nodi sporgevano lunghi e robusti aculei, duri come chiodi di ferro, che apprezzai grandemente. Durante un'ispezione a Hohentwiel trovammo purtroppo, come qualche tempo prima a Waldegg, che la brutta genia delle scimmie aveva fatto parecchi danni. Anche lì pecore e capre si erano sparpagliate per i dintorni, i polli erano del tutto inselvatichiti e il casolare apparve così sporco e rovinato che non si poteva riattarlo in un sol giorno; rimandammo quindi ad altro tempo tale lavoro. Ancora per qualche giorno fummo occupati ad aprire una strada e a mettere in serbo la selvaggina, che ormai ci sembrava bene affumicata. Prendemmo con noi soltanto alcuni cosciotti, lasciando il resto nell'affumicatoio che cercammo di preservare come meglio si poteva dagli attacchi di scimmie, di animali di rapina e di uccelli rapaci; rivestimmo perciò la capannina di zolle erbose sul tetto e tutt'intorno, così che il tutto sembrava quasi un tumulo, che per di più munimmo di spine e di cardi per ripararlo dai saccheggi. Ed infine un bel giorno, di buon mattino, togliemmo allegramente le tende e partimmo, prendendo la nuova strada appena aperta nel fitto canneto, verso la nostra meta più importante, la Chiusa.
CAPITOLO VII CACCIA ALLO STRUZZO E CACCIA ALL'ORSO. — SI CATTURA E SI ADDOMESTICA UNO STRUZZO. DOPO UNA MARCIA di due ore arrivammo alla meta del nostro viaggio e ci fermammo con tutto il seguito ai margini di un boschetto, all'imbocco della Chiusa. Il posto era abbastanza fresco e riparato, poiché a destra il boschetto confinava con un'alta parete rocciosa, mentre a sinistra, nei pressi del Guado del Cinghiale, la foce del fiume che si riversava nella grande baia ci prometteva altrettanta sicurezza. Scaricammo prontamente i bagagli e disponemmo il necessario per un soggiorno piuttosto lungo. A circa un tiro di schioppo da noi c'era la Chiusa vera e propria, o meglio, lo stretto valico tra fiume e rocce, che portava nell'interno della terra a noi ancora ignota. Il giorno seguente di buon'ora ero già pronto per partire; questa volta avevo scelto come compagni i tre figlioli più grandi poiché, come osservai sorridendo, credevo opportuno «scendere in campo col grosso delle forze». La mamma rimase col piccolo Franz per sorvegliare carri, utensili, tenda e bestiame, perché tutta quella roba ci avrebbe intralciato in una lunga escursione. Dopo una robusta colazione ci congedammo, allegri scorridori circondati dalla truppa dei quadrupedi, e ci mettemmo in cammino verso l'interno. Appena oltrepassata la Chiusa, ecco che ai nostri occhi si offrì la nuova terra. A sinistra di là dal fiume che per il momento chiamammo Fiume dell'Est si stendeva, fino all'estremo limite dell'orizzonte, un lungo dorso montuoso ricoperto di begli alberi latifogli e di splendide palme che svettavano alte sul crinale. A destra, e dalla nostra parte, si innalzavano invece rocce aspre e brulle che parevano toccare il cielo,
ma che a poco a poco si ritraevano, per così dire, davanti alla sterminata vastità della pianura, così che ad ogni passo anche a destra e davanti a noi la superficie si allargava in una sempre crescente dimensione, conclusa dallo sfondo caliginoso che non permetteva di discernere se all'orizzonte ci fossero nuvole, montagne o soltanto il cielo. Al Guado del Cinghiale varcammo il torrente le cui rive avevano ancora un aspetto ridente e mostravano verso il monte molte fratte e boschetti pittoreschi. Ma quanto più ci inoltravamo, tanto più la terra appariva squallida e sterile. Per fortuna ognuno di noi aveva riempito nel torrente la sua fiasca di zucca, perché le tracce di umore andavano sempre più scomparendo, l'erba era stenta, le poche piante più alte erano completamente secche e soltanto rigide piante spinose facevano bella mostra di sé sul terreno riarso. Qua e là c'era anche qualche pianta grassa che con le sue bollicine acquose contrastava stranamente con l'aridità della zona circostante. Finalmente dopo un paio d'ore di marcia estremamente faticosa arrivammo esausti alla meta della nostra escursione e ci gettammo all'ombra di una roccia sporgente, su una piccola altura, poiché il caldo e la stanchezza non ci consentivano una vera arrampicata per cercare un punto migliore di osservazione. In silenzio guardavamo nella vasta lontananza. Azzurri, altissimi monti chiudevano l'orizzonte ad una distanza di quindici o venti ore di cammino. Il Fiume dell'Est si snodava nell'immensa pianura davanti a noi e le sue rive verdi spiccavano ridenti sulla brulla e piatta uniformità della superficie. Quando fummo abbastanza rinfrancati per poter riprendere il cammino, Fritz balzò in piedi, lo sguardo fisso lontano e dopo qualche minuto esclamò: — Ma che diavolo vedo laggiù? Mi sembrano due uomini a cavallo, un terzo si avvicina a loro di gran galoppo, ora li raggiunge, tutt'e tre vengono di furia verso di noi. Che siano arabi del deserto? — Questo forse no, — dissi; — però sarà bene stare in guardia. Prendi il mio cannocchiale e dimmi che cosa vedi effettivamente. — Sembrano animali che corrono, o mucchi di fieno che si spostino, oppure… no, non mi raccapezzo affatto, è troppo strano.
Il cannocchiale passò di mano in mano e anche Jack ed Ernst credettero di vedere uomini in sella a poderosi cavalli. Infine presi anch'io il cannocchiale e capii subito che le minacciose figure altro non erano che struzzi colossali. — Perbacco! — esclamai, — questa sarebbe finalmente una vera caccia! Magari si riuscisse ad acciuffare uno di quei magnifici esemplari! Come, però? Come? È un'impresa difficile. — Certo papà, — gridarono Fritz e Jack, — sarà bellissimo avere uno struzzo da addomesticare e poi non sarebbe mica male procurarci dei bei pennacchi per i nostri cappelli. Nel frattempo gli struzzi si erano avvicinati e avevamo appena il tempo per decidere il nostro piano d'attacco. Ma a noi, poveri viandanti appiedati quali eravamo, rimaneva soltanto una possibilità: tentare di assalirli di sorpresa, quando fossero abbastanza vicini. Notai quattro femmine e un solo maschio, che si distingueva per le penne bianche; raccomandai ai ragazzi di puntare di preferenza sul maschio nell'imminente tentativo di caccia. — La faccenda è molto difficile, — dissi, — e in realtà non so come attaccare questi rapidissimi uccelli. Alla fin fine la parte migliore dovrà farla forse Fritz con la sua aquila, perché nemmeno un cavallo a briglia sciolta può raggiungere lo struzzo che vola sulle ali del vento. Cominciammo con il separarci e, nascondendoci come meglio potevamo dietro piccoli rilievi del terreno, ci avvicinammo ai fiduciosi e innocenti animali che però a un tratto si accorsero di noi, rimasero interdetti e sembrarono tradire una certa inquietudine. Ci fermammo subito e cercammo per quanto possibile di tenere indietro i cani; gli struzzi allora si rassicurarono un po' e avanzarono perfino di qualche passo verso di noi, osservando curiosi col collo teso in avanti l'insolito oggetto della loro attenzione. Ma per sfortuna i cani impazienti ci sfuggirono e si avventarono furiosi sul magnifico maschio che arditamente si era ancora avvicinato. Come piume colte da un'improvvisa folata, gli struzzi si sparpagliarono in tutte le direzioni e parvero sfiorare appena il suolo. Le ali poco aperte ma completamente rialzate, sembravano vele gonfie che sfruttassero la forza del vento per affrettare la corsa.
L'incredibile velocità con cui i fuggitivi si dileguarono non permetteva una lunga osservazione, infatti in un baleno si erano allontanati chissà quanto, sottraendosi quasi del tutto alla nostra vista. Non meno velocemente però Fritz aveva tolto il cappuccio all'aquila e l'aveva lanciata dietro agli struzzi. Con indescrivibile velocità il rapace raggiunse in volo il maschio e piombò su di esso con tanta violenza da spezzargli quasi il collo. Il bellissimo uccello rotolò nella polvere. Molto più in fretta di noi, nonostante la nostra corsa, i cani erano già arrivati sul campo di battaglia. Lo sciacallo cominciò subito a sbranare il corpo dell'uccello caduto, mentre l'aquila gli dava colpi di rostro sulla testa e i cani leccavano il sangue sgorgato dalle ferite. Era troppo tardi per salvare la bestia. Aquila e sciacallo furono strappati a viva forza; ci impadronimmo delle belle penne della coda e delle migliori delle ali, con cui guarnimmo i nostri cappelli, poiché potevano servire tanto per ornamento quanto per darci fresco e ombra e, oltre tutto, in tal modo potevamo portarle a casa più facilmente. — Peccato però che questo magnifico animale sia morto, — esclamò Fritz rattristato, — avrebbe potuto portare senza fatica due ragazzi della mia statura. Scommetto che dalle zampe al dorso misura cinque piedi e soltanto il collo è lungo tre piedi. Mentre compiangevamo ancora il bell'animale, Ernst e Jack erano sgattaiolati via dietro lo sciacallo che pareva quasi far loro da guida. Presto si fermarono non lontano da un arbusto secco e con i cappelli ci fecero segno di seguirli. — Un nido di struzzi! Un nido di struzzi! — gridarono tutti allegri, gettando in aria i loro cappelli. In un attimo anche noi fummo sul posto e in un leggero avvallamento del suolo scorgemmo un nido, senza alcuna intrecciatura di protezione, ma con una trentina di uova grosse quanto la testa di un bambino. — Benissimo! — esclamai con entusiasmo. — Però non toccate le uova e non scompigliatele, altrimenti la femmina covaticcia si terrà lontana. Non possiamo certo trascinarle fino a casa perché sono troppo pesanti e il cammino è lungo. Sarà meglio lasciarle così come
stanno sino a domani ed eventualmente tornare a prenderne un buon numero col carro o, meglio ancora, caricarle su qualcuna delle nostre bestie. Ma i ragazzi non si accontentarono e fui costretto a permettere loro di prenderne uno o due ciascuno. Presto però furono in grande imbarazzo sul modo di portare il loro fardello e dovetti aiutarli con i miei buoni consigli. Mi feci dare da ognuno il suo fazzoletto in cui fu legato un uovo, che restava così mezzo sospeso come un sasso nella fionda; in tal modo le uova si potevano portare comodamente in mano. Ma dopo poco tempo i ragazzi trovarono gravoso anche tale sistema e, siccome proprio in quel momento vedemmo alcuni fusti di robuste eriche, consigliai loro di reciderli e di appendervi le uova, come fanno le lattaie olandesi con i loro secchi; il suggerimento fu subito seguito. Arrivammo presso una piccola palude dove, come si vedeva dalle chiare orme, i nostri cani si erano già rinfrescati. Pareva alimentata da sorgenti sotterranee e finiva in un ruscelletto che serviva da emissario. In tutta la zona rinvenimmo molte peste vecchie e nuove di antilopi, bufali, onagri o quagga; non trovammo invece nemmeno stavolta alcuna traccia di serpenti boa, il vero oggetto della nostra esplorazione. Poiché il ruscelletto ci offriva il refrigerio di cui sentivamo estremo bisogno, ci sdraiammo, mangiammo qualcosa e rifornimmo di acqua fresca le fiasche. Presto fummo di nuovo in piedi per riprendere la scorribanda. Entrammo in una valle ricca di vegetazione, ricoperta di ridente verde e di boschetti romantici che ci allietavano la vista e facevano un piacevolissimo contrasto con l'arido, monotono aspetto della savana che fino allora avevamo faticosamente attraversato. Di buon animo e al riparo dai raggi del sole percorremmo la bella vallata a cui attribuimmo concordemente il nome di Valleverde. In lontananza si vedevano qua e là diversi branchi, all'apparenza bufali e antilopi, che pascolavano tranquillamente; ma già da lontano, alla semplice vista dei nostri cani che trotterellavano sempre a cento passi davanti a noi, si sparpagliarono in tutte le direzioni come pula al vento, disperdendosi immediatamente nei diversi anfratti che a sinistra conducevano verso la savana.
Insensibilmente però tutta la vallata si stendeva verso sinistra e ora si apriva in direzione di un'altura; non senza un certo disappunto riconoscemmo in essa la collinetta, sul pendio opposto della quale ci eravamo seduti per riposare quella stessa mattina. Benché per tutto il giorno non avessimo preso nemmeno un capo di selvaggina, pure decisi, per via delle uova, di tornare alla capanna, non rinunciando ancora alla speranza di trovare qualcosa lungo la strada del ritorno. Ma poiché avevo notato che i cani, correndo sempre avanti a noi, facevano scappare ogni animale, stabilii che ognuno di noi ne tenesse uno al guinzaglio, mentre Bill, cavalcata dal suo capitano Marten, altrimenti detto mastro Pizzichino, trottava davanti a noi e per amore del suo cavaliere pareva aver abbandonato ogni velleità venatoria. Avevamo camminato per circa un'altra mezz'ora fino alla grotta dello sciacallo, e stavolta decisi di entrarvi, per riposarci un pochino nella caverna ombrosa. Ernst ci aveva preceduti addentrandosi con Fulvo, forse per godersi per primo il fresco della grotta; ma non passò molto che udimmo venire da dentro pietose grida d'aiuto, violenti latrati e un cupo, minaccioso brontolio. Accorremmo tutti, mentre il ragazzo pallido come un morto, senza cappello, ci corse incontro, gridando: — Dio mio! Papà! Un orso, un orso! Eccolo che viene, viene! Così dicendo il ragazzo mi abbracciò stretto stretto e mi accorsi che tremava come una foglia. — Olà! Qui ci vuole coraggio e decisione! — gridai. Con ferma risoluzione, il fucile carico, pronto a sparare, avanzai in aiuto dei cani che nel frattempo si erano liberati dal guinzaglio e avevano attaccato coraggiosamente il nemico. Non fu poco il mio sbigottimento quando scorsi un orso gigantesco e subito dopo un secondo orso sbucare dalla caverna verso di noi. Con calma virile Fritz prese immediatamente di mira quest'ultimo, io l'altro. Jack stava un po' indietro, mezzo intimorito, ma pronto a sparare. Ernst invece, da cui mi ero appena svincolato, perduta la testa per la paura, scappò ancora più lontano. In quell'istante echeggiarono i nostri due colpi che purtroppo non furono mortali. Infatti, siccome i cani incalzavano i due orsi da ogni parte, scansando abilmente con rapidi scatti le potenti zampate e i paurosi abbracci dei
due bestioni, non eravamo riusciti a centrare il bersaglio, temendo di ferire o addirittura di uccidere nel tumulto uno dei nostri agguerriti compagni di lotta. Tuttavia il colpo aveva fracassato la mandibola di una delle belve, così che non avevo più da temere il suo morso; Fritz dal canto suo aveva paralizzato all'altra una zampa all'altezza della spalla e nemmeno questa avrebbe più avuto la forza di soffocare un avversario. Sembrò che i cani si accorgessero subito del loro vantaggio e si spinsero avanti audaci e sicuri, addentando rabbiosamente dovunque riuscivano ad afferrare il nemico; gli orsi però difendevano bravamente la loro pelle e lottavano, ora rizzandosi sulle zampe posteriori, ora accovacciandosi, ora ricadendo sulle quattro zampe e ruggendo spaventosamente per il dolore e la rabbia. D'altra parte non mi arrischiavo a sparare una seconda volta da lontano perché l'agitazione dei cani era troppo grande e un colpo mancato o una leggera ferita avrebbe esposto i nostri poveri aiutanti di battaglia ad una sicura morte o ai più gravi danni, poiché i due compari sembravano addirittura inferociti. Rapidamente perciò estrassi una pistola e, avvicinatomi alla bestia più grossa, gliela scaricai nella testa, mentre Fritz nell'attimo seguente atterrava con un colpo al cuore l'altra bestia che proprio allora si era rizzata sulle zampe. — Sia ringraziato Iddio! — esclamai, quando entrambi con un cupo tonfo si abbatterono al suolo. — È stata un'impresa dura, molto dura! I cani mordevano e giravano ancora attorno alle due belve cadute e affinché una morte apparente non ci mettesse inaspettatamente in pericolo, mi avvicinai ancora di più e infersi ad entrambe un colpo di punta per dissanguarle completamente. Soltanto allora Jack tutto allegro, gridò: — Vittoria! — e tornò indietro per riportare sul campo di battaglia anche Ernst che, bianco come un cencio per la paura, se ne stava lontano e anche ora osava appena avvicinarsi. — Guarda, papà! — esclamò Fritz con un sospiro di sollievo, — che razza di animali! Uno misurerà certo i suoi buoni sette piedi e l'altro è di poco più piccolo! — Certo, — risposi, — magari non abbiamo trovato serpenti, ma abbiamo fatto molto per la sicurezza della nostra casa, giacché queste
due bestie avrebbero potuto darci del filo da torcere. Solo allora i ragazzi proruppero in grida di gioia per la nostra «incredibile fortuna venatoria». Baldanzosi si avvicinarono ai poderosi animali, esaminando le ferite, le forti zanne, i potenti artigli; ammirarono la poderosità delle spalle e della nuca, il corpo massiccio, la bellezza della pelliccia folta e argentata. In realtà il pelo, di solito bruno-scuro o bruno-grigio, era spruzzato di bianco alle punte e quasi brillante e mi ricordai allora dei cosiddetti orsi argentati che il capitano Clarke e i suoi compagni di viaggio avevano incontrato sulle coste nord-occidentali dell'America. — Che ce ne faremo di questa preda colossale? — chiesi infine ai ragazzi. — Innanzi tutto bisogna scuoiare i due compagni, — disse Fritz; — ne faremo bellissime pellicce. Ma poiché bisognava pensare al ritorno, per il momento non era possibile perder tempo con quel lavoro. Trascinammo gli orsi nella loro caverna, li ricoprimmo di rami e li circondammo con una specie di steccato leggero per ripararli dagli sciacalli e da altri animali rapaci. Per poter camminare più agevolmente, lasciammo anche le uova di struzzo che sotterrammo nella sabbia, contrassegnando il posto in cui le mettevamo. Al tramonto arrivammo dalla mamma e dal piccolo Franz. Per fortuna trovammo sbrigato ogni lavoro e fummo doppiamente contenti che la mamma avesse già pensato alle cataste di rami secchi per i fuochi di bivacco e ci avesse preparato un buon pasto. Un po' prima che spuntasse il giorno fui di nuovo in piedi, non senza aver lottato con la dolce sonnolenza e chiamai la famiglia che dormiva ancora. Appena fatta colazione preparammo il bestiame da tiro e ci mettemmo in marcia verso la caverna degli orsi, alla quale giungemmo senza altre avventure. Davanti alla caverna scacciammo numerosi avvoltoi che erano stati attratti dal tanfo degli animali morti; il nostro steccato li aveva però tenuti abbastanza lontani, infatti erano riusciti soltanto a divorare la lingua di un orso. Un colpo sparato da Fritz parve aver centrato un uccello, ma lo stormo si allontanò con pesante battito d'ali, portando con sé il ferito, sicché non riuscimmo a prenderlo.
Mi apprestai allora a sventrare gli orsi e questa faccenda mi diede molto da fare, tanto che dovetti impiegarvi anche il giorno seguente. In ultimo però riuscii ad asportare per bene ad entrambi anche la pelliccia. Staccai poi le cosce dal tronco per farne dei bei prosciutti, dopo aver tagliato i piedi che pensavo di consumare subito. Sapevo infatti che, secondo il parere dei buongustai, gli zamponi dell'orso costituiscono un boccone squisito. Il resto della carne fu tagliato in lunghi pezzi e a strisce larghe circa un dito, come pare che facciano gli abitanti delle Indie occidentali; infine il tutto fu ben salato e appeso ad affumicare. Misi insieme accuratamente tutto il grasso e raccomandai a mia moglie di farlo struggere e di conservarlo bene, ricordandole che nei paesi nordici esso viene adoperato per la cucina e si mangia anche col pane, come il burro fresco. Dalle due bestie e dai pecari già affumicati ricavammo cento libbre di purissimo strutto che fu versato in un barilotto ricavato da una grossa canna di bambù. Quando lo strutto si fu freddato, chiudemmo bene il recipiente per poterlo trasportare e per conservarne più a lungo il contenuto. Feci trascinare dal bestiame da tiro le carcasse e le interiora e le lasciammo in un luogo un po' lontano, in balia degli uccelli di rapina che presto si gettarono a stormi sulla mensa gratuita e, assieme ad ogni sorta di insetti, si affrettarono in breve tempo a spolpare ogni avanzo di carne, così che potemmo portare con noi i due crani ripuliti e completamente sbiancati dal sole, destinandoli al nostro museo. Le due pellicce, dopo essere state ripulite e raschiate il più possibile col coltello, furono messe sotto sale per due giorni e quindi lavate, cosparse di cenere e riasciugate. A casa furono infine conciate perfettamente, anche se con dura fatica. L'affumicatura della carne ci tenne occupati tre giorni interi e fummo costretti a rimanere nella caverna degli orsi. Ma l'esperienza fatta con i due compari ci aveva reso prudenti. Ogni sera, dopo la cena, accendevamo i fuochi di bivacco e preparavamo le fiaccole per riaccenderli nel caso che si spegnessero. Solevamo mantenere sempre due fuochi accesi, un po' perché temevamo realmente un'aggressione di bestie feroci, un po' perché l'affumicatura della carne d'orso doveva continuare giorno e notte, se non volevamo
rimanere troppo a lungo nella caverna. Per altro dormivamo lo stesso saporitamente e, grazie a Dio, senza la minima molestia. All'alba del quarto giorno cacciai giù dal letto i ragazzi perché dovevamo prepararci per tempo al viaggio di ritorno. Il nostro lavoro alla Chiusa, infatti, era ormai quasi finito, la carne d'orso già affumicata e sufficientemente secca e lo strutto pronto e chiuso nel grosso pezzo di canna di bambù come in un barilotto. Del resto la stagione delle piogge era ormai alle porte e non avevamo nessuna voglia di stare ad aspettarla alla Chiusa, lontani da ogni mezzo di sostentamento e da tutte le nostre comodità. Non volevo però lasciar perdere le uova di struzzo da noi scoperte e, nonostante la lontananza, avevo l'intenzione di andarle a prendere, tanto più che a cavallo avrei impiegato la metà del tempo altrimenti occorrente. Proprio per quest'impresa avevo svegliato così presto i figlioli quella mattina e in breve fummo tutti ben equipaggiati per iniziare ancora una volta la nostra spedizione verso la steppa. Fritz mi aveva ceduto il suo onagro ed essendo più leggero di me cavalcava il mio asinello. Stavolta con la mamma rimase Ernst, perché poteva proteggerla molto meglio del piccolo Franz. Lasciammo con loro anche i cani giovani, Bruno e Fulvo, come guardie del corpo. Passammo nuovamente per Valleverde, però in direzione opposta a quella dell'ultima volta, quando ci eravamo imbattuti nella caverna degli orsi con i suoi orrori. Presto ci trovammo nella palude della testuggine dove riempimmo le fiasche con provvista d'acqua fresca e ci rimettemmo senz'altro in cammino per la Vedetta degli Arabi, come scherzosamente chiamavamo quell'altura da cui avevamo abbracciato con lo sguardo tutta la savana che si stendeva davanti a noi e avevamo scambiato gli struzzi che correvano lontano per arabi a cavallo. Jack e il piccolo Franz galoppavano davanti a noi e glielo permettevo volentieri perché in quella vasta e piatta estensione di terra non potevo perderli di vista. Io e Fritz andavamo un po' più lentamente sulle nostre cavalcature dietro gli spavaldi ragazzi. Entrambi si erano inoltrati da un pezzo nella steppa con impeto
audace e, benché non li distinguessimo bene, ci accorgemmo che avevano già sorpassato il nido degli struzzi ed erano in procinto di attaccarlo dalla parte opposta, per poter cacciare nella nostra direzione gli struzzi che eventualmente vi si trovassero. Fritz che si era proposto di catturare vivo, sperabilmente con migliore risultato della volta precedente, il primo struzzo che gli fosse venuto a tiro, aveva per prudenza avvolto del cotone attorno al rostro dell'aquila, imbacuccandolo fino al tegumento ceroso vicino alle narici, affinché le potenti beccate non mettessero in pericolo la vita dell'animale in fuga. In cambio di Folgore gli avevo lasciato di nuovo l'onagro perché potesse, galoppando più velocemente, inseguire lo struzzo incalzato dai fratelli. Così equipaggiati ci appostammo con grande impazienza ad una certa distanza l'uno dall'altro, al di qua del nido. Non aspettammo molto: dagli arbusti nelle immediate vicinanze del nido si alzarono dei mucchi viventi che, quasi librandosi nel vento, si precipitarono verso di noi con incredibile velocità. Ma noi ci mantenemmo così immobili che i poveri uccelli (così mi parve) si accorsero appena di noi o almeno non ci considerarono pericolosi quanto i cani che li rincorrevano già da vicino. Intanto dalla parte opposta sopraggiungevano i ragazzi e i poveri struzzi si affrettarono talmente che presto potemmo riconoscere perfino un maschio che forse faceva già parte del gruppo anche prima, o che solo dopo la sconfitta dell'altro maschio abbattuto ne aveva preso il posto: questo divenne subito l'oggetto della nostra caccia più accanita. Le femmine erano tre e galoppavano a rotta di collo verso di noi, dietro al maschio, quando esso giunse a un tiro di schioppo da noi. Immediatamente gli lanciai addosso le mie bolas, ma poiché non ero ancora molto abile in quel particolare tipo di caccia, anziché le zampe a cui avevo mirato, colsi la parte anteriore del corpo e la boia si avvolse attorno alle ali, ma servì molto poco a rallentare la fuga dell'animale che anzi, per l'improvviso spavento subito, affrettò la corsa, prendendo un'altra direzione. Le femmine dal canto loro si sparpagliarono immediatamente a destra e a sinistra e noi le abbandonammo alla loro sorte. Inseguimmo invece il maschio a spron battuto e Jack e il piccolo
Franz arrivarono dall'altra parte proprio nel momento giusto per ricacciare il fuggitivo verso Fritz in agguato. Questi gli lanciò contro l'aquila, che da principio, a causa del suo rostro impastoiato non seppe raccapezzarsi bene e cominciò più che altro a svolazzare attorno allo struzzo, senza buttarglisi addosso. Tuttavia la vista del nuovo nemico venuto dall'aria, che per fargli paura si teneva ad una certa altezza sulla sua testa, confuse completamente il povero struzzo che scattò disordinatamente di qua e di là; in tal modo potemmo guadagnare tempo e avvicinarci ancora di più. Proprio in quel momento l'aquila si abbassò tanto da raggiungere con un violento colpo d'ala la testa dell'uccello spaventato, stordendolo del tutto. Jack si avvicinò al corridore quanto bastava per gettargli addosso abilmente le sue bolas. In un batter d'occhio il laccio si attorcigliò attorno alle zampe dell'uccello che stramazzò al suolo. — Urrà — gridammo tutti e ci precipitammo in gran fretta, poiché bisognava impedire che i cani e l'aquila facessero del male allo struzzo e d'altronde non volevamo dar tempo allo sconfitto di liberarsi di nuovo dal laccio. Lo struzzo si dibatteva e scalciava paurosamente con le zampe mezzo impastoiate e ci faceva temere che alla fine potesse strappare il laccio e sfuggirci di nuovo. Non osavamo accostarlo da quella parte, ma dall'altra sbatteva le poderose ali con altrettanta energia, nonostante fosse rimasto impacciato dal primo laccio gettatogli da me. Per un po' ci trovammo a mal partito. Poi mi balenò chiara in mente una felice scappatoia che fino a quel momento era stata per me solo un confuso ricordo, gettare cioè la mia giacca sulla testa dello struzzo e allacciargliela in fretta attorno al collo. Riuscimmo subito ad averla vinta perché, perduto l'uso della vista, l'uccello si lasciò legare e impastoiare dove e come volevamo. Prima di tutto gli legammo le zampe in modo che potesse alzarsi e camminare senza che gli fosse più possibile dibattersi né correre. Poi gli allacciai attorno al corpo una larga striscia di pelle di foca che avevo portato con me per ogni eventualità; praticai in essa due lunghi tagli al posto giusto e vi infilai dentro dalle due parti le ali, così che il catturato con quella cinghia avvolta intorno sembrava un fringuello di richiamo messo in barca sul paretaio; in tal modo potevamo guidarlo molto
facilmente. Fritz veramente manifestò il dubbio che si riuscisse a domare del tutto la vigorosa bestia e ad addestrarla per un qualsiasi uso. — Non lo sai, — gli chiesi, — come gli Indù e i Cingalesi domano un elefante appena catturato? — Certo, — rispose il giovane, — legano l'animale selvatico tra due elefanti domestici con cinghie di cuoio molto robuste e gli avvincono anche la proboscide perché non possa sbatterla; quello allora deve ubbidire per amore o per forza, perché se ricalcitra i capifila cominciano a picchiarlo di santa ragione con la sua stessa proboscide, mentre i due cornac, dal loro posto sul collo degli animali addomesticati, lo punzecchiano dietro le orecchie con i loro uncini d'acciaio con tanto poco garbo che esso diventa ben presto mansueto. — Allora dovremmo avere due struzzi domestici, — esclamò Jack, — per richiamare al dovere il nostro prigioniero; dato che non credo che a questo signore qui farebbe molta impressione se, per esempio, tu lo volessi legare fra me e Fritz. — Certamente no, — risi, — però occorrono proprio un paio di struzzi per domare uno struzzo? Non abbiamo forse altri due robusti animali? Non abbiamo Tempesta e Brumm per tenere testa al nostro amico? Abbiamo perfino due valenti cornac, te e il piccolo Franz, che con le vostre lunghe fruste insegnerete la disciplina all'allievo, tanto più che le sue zampe, cioè i suoi più temibili mezzi di difesa, sono impastoiate o legate come la proboscide dell'elefante da addomesticare. — Già, davvero! — gridarono tutt'e tre pieni di gioia, — magnifico! Andrà benone! La spunteremo certamente! Fissai allora a destra e a sinistra della cinghia, proprio sotto le ali della nuova preda, un'altra robusta correggia, così lunga che, tenendone fermo il capo, si stava abbastanza discosti dallo struzzo per evitare il pericolo di venire raggiunti e feriti in qualche modo da esso. L'estremità di una cinghia venne attorcigliata e fissata per bene attorno alle corna di Brumm, quella dell'altra attorno alle corna di Tempesta. Subito dopo i miei due giovani guidatori dovettero montare in sella sulle loro cavalcature e stare bene in guardia, perché
ora mi accingevo a sciogliere dall'animale ancora disteso a terra le due bolas che lo paralizzavano e a sollevare la giacca che gli avevo gettato sulla testa. Riuscii a farlo senza incontrare la minima resistenza. Irritato e diffidente lo struzzo rimase ancora per un bel po' disteso a terra senza muoversi e pareva voler soltanto godersi la libertà dei suoi sguardi; poi inaspettatamente saltò in piedi credendo di poter scappare dritto davanti a sé, dove vedeva via libera. Però il suo balzo era stato troppo impetuoso e cadde di nuovo all'improvviso sulle ginocchia. Si rialzò tuttavia mostrandosi più cauto e cercò ancora di prendere il largo un po' da una parte, un po' dall'altra. Ma i due quadrupedi domatori di struzzi ai suoi fianchi erano troppo pesanti e vigorosi per lasciarsi minimamente spostare. L'uccello cercò allora di dibattersi con le ali e con le zampe; ma le ali erano corte e impedite dalla cinghia e le zampe trovavano tanta resistenza nelle pastoie che alla fine il povero struzzo a causa del suo violento agitarsi perse l'equilibrio e si abbatté pesantemente al suolo. Al movimento brusco le due pastoie si spostarono in alto fin sotto le penne e la riottosità dell'animale ci rese impossibile sistemarle meglio, ciononostante le cinghie fecero il loro servizio. Un paio di frustate fecero rialzare lo struzzo, che cercò di voltarsi indietro e darsela nuovamente a gambe; ma poiché i ragazzi tenevano tese le cinghie alla maggior distanza possibile, anche quel tentativo fallì. In breve, il povero animale non trovando alcuna via d'uscita si rassegnò finalmente a correre dritto nella giusta direzione. I due capifila lo accompagnarono al galoppo. Il coro dei ragazzi scoppiò giubilante e lo struzzo parve esserne spronato ancora di più; ma presto i due cornac si stancarono e a poco a poco frenarono il corridore con alcune tirate di cinghia, finché l'animale tormentato dalle insolite pastoie un po' alla volta moderò da sé il passo. Frattanto andai con Fritz verso il nido degli struzzi, che riconoscemmo subito da un segno appostovi in precedenza. Mi ero attrezzato a tempo debito per quel bottino, portando con me i sacchi necessari con del cotone per avvolgere bene le uova e appendere il carico in groppa ai nostri animali da sella. Eravamo già a qualche passo dal nido quando all'improvviso ne saltò fuori una
femmina, così inaspettatamente che non riuscimmo a prenderla in nessun modo; era la prova che il nido non era stato abbandonato dopo la nostra ultima visita e che la cova continuava indisturbata. Allora prendemmo soltanto una decina di uova, lasciando le altre intatte perché, come speravamo, potessero essere ancora covate. Imballammo il bottino con la massima cautela, l'appendemmo con la medesima cura sul dorso degli animali e ritornammo verso i due domatori di struzzi. Poiché ci sentivamo abbastanza carichi e ricchi di preda prendemmo senza perder tempo la via del ritorno - lo struzzo con i suoi accompagnatori sempre un bel tratto davanti a noi - e scendendo per Valleverde fino alla grotta degli orsi arrivammo felicemente dai nostri cari. — Per l'amor del cielo, — esclamò la mamma, — che razza di animale vorace mi avete portato? Adesso bisogna che facciate al più presto la scoperta di una miniera di ferro, perché si dice che questi divoratori mangino perfino il ferro. Ma come potremo mai mantenere un simile mangione? E a che cosa potrà servirvi, poi? — Cavalcherò questo splendido corridore super rapido — dichiarò Jack, — e se il nostro pezzetto di terra è collegato per terraferma con l'Asia o con l'Africa forse in futuro potrò andare a prendere aiuti nella più vicina colonia europea, impiegando soltanto pochi giorni. Come buon augurio lo chiamerò d'ora in poi Turbine; cederò ad Ernst con piacere il mio bucefalo Tempesta, appena questo novellino sarà scozzonato. — Ma papà! — esclamò il piccolo Franz quasi piangendo. — Jack pretende già tutto per sé lo struzzo, sebbene abbia partecipato anch'io alla caccia e Fritz con l'aquila abbia contribuito non poco alla sua cattura. — Ebbene, — replicai io, — allora sarà meglio dividere l'uccello della discordia secondo il merito. A me tocca il corpo che è stato avviluppato dalla mia boia, a Fritz la testa perché la sua aquila lo minacciava dall'alto sulla testa e, come si suol dire, lo teneva in scacco. A Jack toccheranno le cosce e le zampe che sono state impigliate nelle sue bolas. E finalmente tu, piccolino mio, ti prenderai a buon diritto un paio di penne della coda, con le quali
tiravi l'uccello, quando finalmente è stramazzato al suolo. I ragazzi risero e capirono la lezione. — Certamente, — aggiunsi, — Jack non avrebbe dovuto attribuirsi con tanta avventatezza la proprietà dell'animale. Però la sua sfacciataggine non gli frutterà soltanto un vantaggio, ma anche un fastidio, perché d'ora in poi la custodia e l'allevamento dello struzzo saranno affidati unicamente alla sua coscienza, anziché a noi tutti. E poiché il giorno era ormai troppo inoltrato perché si potesse pensare ancora a partire per il Rifugio di Roccia, dovemmo naturalmente staccare Tempesta e Brumm, i due domatori di struzzi, e mettere al sicuro per la notte il catturato. Quest'ultima impresa fu effettuata legando saldamente l'animale tra due alberi nei pressi della caverna degli orsi. Passammo il resto del giorno ad imballare le nostre suppellettili e la roba da poco conquistata che non avevamo alcuna intenzione di lasciare lì, perché le cose possedute da poco tempo e di cui si pregusta già il godimento sono proprio quelle da cui non ci si staccherebbe a nessun costo. Il giorno seguente partimmo per tempo, ma ci volle non poca fatica e ponderazione per mettere in moto il nostro struzzo che era ridiventato terribilmente selvaggio e furioso. Potemmo sopraffarlo soltanto gettandogli sulla testa un pezzo di stoffa che gli legammo stretto attorno al collo. Assicurai inoltre anteriormente una tirella alle corna di Tempesta, mentre un'altra tirella, legata alle corna di Brumm, passava dietro, in modo che lo struzzo così vincolato non poteva scappare né davanti né dietro, ma doveva rimanere da bravo in fila tra l'animale che lo precedeva e quello che lo seguiva, entrambi montati al solito dai loro cavalieri. Le tre bestie furono poi attaccate alle stanghe del carro con una lunga fune; fra le stanghe marciava la mucca, in qualità di cavallo da tiro. Ernst sedeva comodamente sulla mucca, la mamma sul carro, io cavalcavo Pie' Veloce e infine veniva Fritz a cavallo di Folgore, così che tutti insieme formavamo una carovana piuttosto insolita, ma ben fornita di cavalcature, e a poco a poco avanzammo con una certa celerità. Volevamo raggiungere in ogni caso il casolare di Waldegg prima che annottasse, tuttavia passando per la Cima dello Zucchero
caricammo i prosciutti di pècari che trovammo in ottimo stato nell'affumicatoio. Finalmente arrivammo piuttosto tardi e molto stanchi; dopo aver staccato il bestiame e legato lo struzzo fra due alberi, cenammo in fretta con cibi freddi, ci coricammo nella capanna sul giaciglio di cotone e dormimmo magnificamente fino al giorno seguente. Allo spuntar dell'alba ci sbrigammo a far colazione e ci incamminammo per il Rifugio di Roccia, di cui sentivamo una specie di nostalgia dopo la lunga lontananza. Senza fare alcuna sosta seguimmo la strada più breve e arrivammo nella mattinata, piuttosto spossati dalla rapida marcia e con l'intenzione di non allontanarci per un bel pezzo da casa. Presto anche lo struzzo, che sempre furioso si guardava intorno con aria disperata, fu liberato dai suoi aguzzini e legato sotto il portico della nostra abitazione tra due colonne di bambù che sostenevano il tetto del porticato. Decisi di lasciarlo lì finché non fosse del tutto domato ed addomesticato, dopo di che si sarebbe passati all'addestramento vero e proprio. Le uova di struzzo furono sciacquate in acqua tiepida e quelle in cui pareva ci fosse ancora vita furono disposte sopra uno strato di cotone nella stufa essiccatrice. Cercavo di mantenere di continuo il calore necessario all'incubazione e sorvegliavo di tratto in tratto col termometro che la temperatura si mantenesse sempre allo stesso grado. Ma la mia cura principale fu rivolta all'aratura di un campo e a tutti gli altri lavori che ne conseguivano. Tuttavia anche l'addomesticamento dello struzzo, l'incubazione delle uova e la conciatura delle pelli d'orso ci tennero occupati perché mi pareva che queste faccende non tollerassero alcun rinvio. Il lavoro del campo risultò molto duro e ci fece realmente sentire quanti sforzi ed esortazioni dovettero occorrere nei tempi antichi per indurre le popolazioni nomadi, dedite alla caccia e alla pastorizia, ad intraprendere tale faticoso lavoro e a diventare sedentarie. Del resto per quella volta arammo al massimo due iugeri di campo proprio accanto alla piantagione di zucchero della mamma e il terreno fu poi seminato a frumento, granturco e orzo, in tre zone
separate. Per il momento spargemmo anche qua e là, come avevamo fatto prima, altre specie di cereali in pezzi di terra occasionalmente smossa, perché ci sembrava che in quel clima volessero attecchire molto meno delle tre colture prima menzionate. Di là dal Torrente degli Sciacalli piantammo altri due campi, uno di patate e l'altro di manioca, per avere sempre a portata di mano questi mezzi di nutrimento tanto preziosi per la facilità della coltivazione e in modo da poterli anche proteggere dai maiali che scorrazzavano dappertutto. I buoi erano stati abbastanza avvezzati al giogo fin da prima della nostra spedizione alla Chiusa e l'aratura per l'orzo procedette molto bene perché, data l'ottima qualità del terreno, fu necessario dissodare per una profondità di solo quattro dita circa. Invece per le altre due colture, per cui bisognava fare solchi più profondi, la fatica fu molto più dura e capimmo bene il significato delle parole della Bibbia: «Mangerai il tuo pane col sudore della fronte». Tuttavia dedicavamo alle fatiche dell'agricoltura al massimo due ore, durante il fresco del mattino e della sera. Negli intervalli il povero Turbine, come ormai Jack chiamava lo struzzo, aveva quasi sempre molto da patire. Come a suo tempo si era fatto con l'aquila di Fritz nel periodo del suo tirocinio, anche lo struzzo fu stordito col tabacco fino a che, istupidito e forse preso dalle vertigini, non riusciva più a reggersi sulle zampe e ci lasciava fare quello che volevamo. Mentre stava accovacciato per terra, tutto intontito, veniva montato a turno come un cavallo dai ragazzi, affinché si abituasse in tempo alla manovra più importante. Gli avevamo fatto una bella lettiera di paglia e le corde che lo tenevano legato erano così lunghe che poteva comodamente posarsi sul petto calloso, rialzarsi e perfino girare con solenne gravità attorno alle colonne di bambù. Pensavamo anche a dargli da mangiare a sufficienza, con la debita scelta di tutto ciò che potesse piacergli; ma per tre giorni interi il povero animale, probabilmente in preda allo sconforto per la sua cattività, non volle assaggiare nemmeno la minima parte degli allettanti bocconi e divenne così debole che cominciammo a temere il peggio. A questo punto la mamma, sempre pratica ed esperta, preparò con chicchi di
granturco tritato e burro fresco le cosiddette polpette del cappone che infilavamo nel becco del paziente, spingendole con delicatezza giù lungo la gola. Dopo averlo ingozzato appena un paio di volte in questo modo, si era già ripreso a vista d'occhio; d'allora in poi anche la sua selvatichezza parve scomparire del tutto e al suo posto si manifestò un curioso atteggiamento, goffo e un tantino buffo. Ora mangiava ogni sorta di cibi e quasi tutti sembravano piacergli moltissimo. Mentre prima avevamo cercato ogni leccornia per eccitare il suo appetito, presto fummo presi da spavento per la voracità dell'amico; perfino i ciottoli venivano ingoiati alacremente dal divoratore, come fossero state pillole per la digestione. In modo particolare però mastro Turbine pareva preferire granturco e ghiande con cui potevamo ammansirlo come meglio volevamo: una circostanza per noi doppiamente gradita, perché almeno queste ultime non ci sarebbero mai mancate. Nello spazio di un mese circa lo struzzo era così bene addestrato che potevamo già pensate al suo completo equipaggiamento. Più di ogni altra cosa mi diedero da fare briglia e morso; nessun oggetto conosciuto poteva infatti servirmi da modello, perché la barra del morso non poteva certo adattarsi al becco di uno struzzo. Ma poiché sapevo che era possibile esercitare una notevole influenza sull'animale limitandogli più o meno la luce, confezionai un cappuccio di pelle, simile a quello dell'aquila, che però scendeva più lungo sul collo; lo munii nel mezzo di due leggeri anelli di ottone. Ai lati feci dei tagli per gli occhi e le orecchie. Vicino ai fori per gli occhi applicai due risvolti di pelle che stavano abbassati; ad essi furono attaccate le corazze di due testuggini, con la parte concava rivolta in dentro, così che, chiudendo i risvolti, nella parte superiore del cappuccio, scorrevano, attraverso anelli più piccoli, delle cordicelle e un congegno di stecche di balena premeva a molla sui risvolti in modo che questi stessero calati, se non si tiravano di proposito le cordicelle. Queste furono poi fissate a due cinghie più robuste che, ben cucite al di sopra degli anelli più grossi e passando attraverso gli anelli, finivano dietro come briglie o redini. Così, se si tirava la briglia a destra, anche leggermente, il risvolto destro rimaneva aperto, e lo stesso accadeva a sinistra. Tenendo quindi le
due briglie in mano senza sforzo i risvolti rimanevano contemporaneamente aperti, mentre si chiudevano di botto se allentavamo le redini. Ora, se lo struzzo aveva luce da tutt'e due gli occhi, di solito correva dritto davanti a sé, se invece facevamo calare il risvolto da una parte, l'animale si dirigeva subito dal lato opposto, mentre se entrambi i risvolti erano chiusi si fermava immediatamente e non osava fare più un passo. Il meccanismo non era certo dei più semplici e per un pezzo non funzionò nemmeno così bene come mi ero aspettato; in seguito però con qualche piccolo accorgimento e con lievi modifiche riuscimmo a metterlo in carreggiata abbastanza bene, benché ci volesse una bella fatica per abituarci noi stessi alla guida. E siccome per i cavalli è giusto il contrario, cioè bisogna tirare le redini perché si fermino, accadeva spesso che facessimo lo stesso con l'afflitto struzzo e, non accorgendoci lì per lì dello sbaglio, ci stizzivamo insensatamente contro la vittima. A questo punto però bisognava fare anche una sella, che richiese anch'essa i suoi speciali congegni; se l'avessi confezionata al Capo di Buona Speranza mi sarei certo meritato il diploma inglese di sellaio di struzzi. Tuttavia non tenterò nemmeno di descrivere qui per filo e per segno il piccolo portento. Dirò soltanto che la sella fu fissata con cinghie attorno al petto e dalle due parti agli anelli della cintura sotto le ali dello struzzo. Sul davanti, a causa della curva rientrante tra collo e dorso dell'uccello, essa fu imbottita per bene; tanto nella parte anteriore che in quella posteriore aveva inoltre un orlo rigido e rivolto verso l'alto come un'antica sella da torneo, perché per me era molto importante che chi cavalcava fosse al sicuro da precipitose cadute. Certo ci volle tempo e fatica per assuefare lo struzzo alla sua nuova bardatura, ma già l'addestramento precedente aveva in certo modo fiaccato la resistenza dell'animale che si dimostrò abbastanza arrendevole nel suo nuovo ruolo di cavallo da corsa, e diede in esso prove tanto splendide da aggiudicarsi ormai a buon diritto il nome di Turbine. Andava e tornava dal Nido dei Falchi in un terzo del tempo impiegato dalla rapida corsa di un uomo. Una velocità che mi faceva
sperare in moltissimi vantaggi per il futuro. Ci volle anche del bello e del buono per conservare il possesso dello struzzo al suo presunto padrone, il vivace Jack, poiché i fratelli con l'andar del tempo ne erano quasi invidiosi. Dovetti far valere la mia autorità di padre perché la mia precedente disposizione fosse rispettata. D'altra parte Jack per agilità e spigliatezza aveva il vantaggio su Fritz ed Ernst, come lo aveva su Franz per maturità, forza e indipendenza; per di più si era dimostrato particolarmente solerte nell'addestramento dello struzzo. Decisi quindi che di regola gli fosse lasciato l'animale come cavalcatura, ma che in casi eccezionali, sempre per mio ordine, lo struzzo fosse tenuto a disposizione mia o degli altri ragazzi. Molto prima che avessimo portato a termine la lunga faccenda dell'addomesticamento e della bardatura dello struzzo, Fritz mi aveva già consegnato a diverse riprese tre piccoli struzzi appena usciti dalla nostra incubatrice, giacché il ragazzo si era preoccupato di mantenervi costantemente il necessario calore. Le altre due uova fallirono e uno dei tre piccoli visse soltanto un giorno. Erano creature alquanto informi, quasi ridicole, che somigliavano a piccole oche, ricoperte di un piumino grigiastro, con lunghe e goffe zampe sulle quali andavano barcollando con comica solennità. Li allevammo con chicchi di granoturco tritato e bollito e con ghiande dolci, dopo averli felicemente nutriti per i primi giorni con uova sode schiacciate e con gallette di cassava inzuppate nel latte.
CAPITOLO VIII SI COSTRUISCE UN CAIAK. — SI TREBBIA ALL'USO ITALIANO. — FRITZ ABBATTE UN TRICHECO E VIENE SORPRESO DALLA TEMPESTA. — I RAGAZZI SI PREPARANO PER UNA GRANDE SPEDIZIONE. I FATTORI climatici condizionano spesso l'attività dell'uomo. Così avveniva anche per noi; eravamo infatti solo a metà della stagione delle piogge e avevamo già sbrigato non poche faccende; nemmeno l'addestramento dello struzzo, a cui ci dedicavamo nelle ore in cui non pioveva, bastava a riempire le nostre giornate e presto i ragazzi si sarebbero abbandonati all'ozio e alla poltroneria, nonostante le buone regole della nostra famiglia, se non mi fossi affrettato a proporre l'esecuzione di qualche nuova impresa di una certa utilità. Subito tutti furono ripresi dallo spirito d'iniziativa, specialmente Fritz, che manifestò energicamente il desiderio di costruire un caiak groenlandese. — Con Turbine abbiamo un fantastico corriere espresso per via terra, ora è necessario averne uno anche per via mare; così potremo andare in breve tempo a prendere notizie fino agli estremi confini del nostro regno e chissà se non faremo anche qualche altra scoperta oltre gli stessi confini. La proposta di Fritz fu approvata e accettata all'unanimità e pieni di buon umore ci mettemmo senza indugio all'opera, per completare almeno l'ossatura della nuova imbarcazione prima che finisse la stagione delle piogge. Mi ero proposto anche stavolta di seguire un mio proprio sistema – come già avevo fatto nella costruzione della barca – sia per la struttura sia per l'allestimento del caiak, perché presumevo che un abile europeo avrebbe certo superato l'abilità costruttiva dei poveri groenlandesi. Preparai perciò prima di tutto due chiglie. Ognuna era costituita da due legni leggermente ricurvi, congiunti in direzione opposta, in
modo che i due archi sporgessero in alto alle due estremità come le stanghe di una slitta. La giuntura fu poi bene incastrata e spianata perché la chiglia non risultasse in quel punto più spessa che nelle altre parti; spalmai inoltre la giuntura con la stessa resina forte e tenace con cui avevamo impeciato l'altra barca. Le punte alle due estremità risultarono distanti dodici piedi circa l'una dall'altra. Sotto ogni chiglia feci, nel verso della lunghezza, due intaccature per incastrarvi le rotelle metalliche di una vecchia carrucola, che dovevano sporgere dall'intaglio circa due pollici e sarebbero servite eventualmente a spingere in mare o ad alare con facilità l'imbarcazione sulla riva. Le due chiglie, finite e disposte parallelamente alla distanza di un piede e mezzo circa l'una dall'altra, furono collegate trasversalmente con pezzi di canne di bambù sicché, a parte le due estremità ricurve, avevano la struttura di una scala a pioli. Entrambe vennero poi strette insieme alle due estremità e fissate saldamente in modo da finire in due punte uguali davanti e dietro; fra i corni di ogni punta però avevo collocato anche un pezzo di osso di balena in posizione verticale per collegare le fiancate rialzate del caiak. Fissai inoltre degli anelli di ferro alla fascia di rame con cui avevo congiunto le punte delle chiglie, per poter tirare o assicurare a volontà l'imbarcazione. Le assi o tavole occorrenti per le fiancate del caiak furono approntate con canne di bambù spaccate, tranne le ultime due in alto, costituite da intere canne d'India, dato che nella Palude delle Anatre se ne trovavano di ogni lunghezza. Per i legni ricurvi invece, che dovevano darmi la convessità, presi delle canne spaccate in due, che per la loro flessibilità erano adatte allo scopo e si piegavano più facilmente nella forma da me desiderata. Tale forma infatti aveva una sporgenza di tre piedi o poco più nella parte centrale e diminuiva poi di nuovo verso l'alto e verso il basso. A prua e a poppa infine le fiancate si rastremavano gradatamente; una copertura chiudeva sotto il caiak lasciando soltanto una stretta imboccatura nel mezzo per infilarcisi e sedercisi dentro. Questa copertura, allestita col legno più leggero che si poté trovare, fu munita di un'intaccatura nella quale doveva infilarsi il risvolto del giubbotto salvagente del vogatore che, in tal modo, avrebbe formato per così dire una cosa sola con la sua imbarcazione, e nessun colpo
d'onda avrebbe potuto far penetrare l'acqua attraverso l'imboccatura del sedile. Nella barca, sotto l'imboccatura, fu collocato un panchetto su cui il vogatore poteva sedere, il che non avviene nella struttura del caiak groenlandese, dove il vogatore è costretto a stare piegato sulle ginocchia. Il fasciame del caiak fu completato in modo soddisfacente — forse soltanto un paio di pollici troppo alto a causa del comodo sgabello — e prometteva, grazie all'elastico materiale di costruzione, un ottimo rendimento. Infatti, quando per prova lo gettai con tutte le mie forze sul terreno pietroso, rimbalzò quasi come un pallone di cuoio e in acqua galleggiava così facilmente che anche quando provammo a caricarlo di pesi abbastanza notevoli non calò di un millimetro. A questo punto dovetti procedere all'allestimento, che si protrasse per diversi giorni. A tale scopo scelsi due pelli di bestie molto grandi che avevo scuoiato senza tagliarle per il lungo, ma tirandole dalla testa; dopo essere state conciate a dovere, le pelli furono tese come un sacco elastico sull'ossatura del caiak; nel mezzo, dove esse combaciavano, ed anche alle due estremità, furono cucite insieme nel miglior modo possibile, dopo di che ricoprii di caucciù le cuciture per renderle del tutto impermeabili. Tuttavia, prima che questo rivestimento venisse sistemato, avevamo, per così dire, tappezzato di pelli l'interno; rinforzato il fondo tra le due chiglie, con la corteccia di quegli alberi simili al sughero; impeciato e calafatato le commessure perché anch'esse fossero impermeabili. Infine fu la volta della copertura; le numerose traverse di bambù furono ricoperte di pelli ben tese, in modo che ai lati le canne d'India, che facevano da falchetta nelle due fiancate, formassero un piccolo bordo e nello stesso tempo offrissero un solido punto d'appoggio per poter fissare meglio la fodera. Anche questa fu ricoperta di caucciù, diventando così molto più resistente. A ragion veduta l'apertura del sedile era stata praticata un po' più verso poppa, perché speravo di poter utilizzare in seguito la parte anteriore del caiak per montarvi una piccola vela; per il momento però l'imbarcazione doveva essere spinta da un remo a due pale, o pagaia, che però costruimmo un po' più lungo del solito, con aste di bambù. Munimmo una delle due pale di una grande vescica gonfiata
e bene impeciata, per poter adoperare il remo, volendo, come un bilanciere; infatti - qualora l'imbarcazione avesse fatto scuffia - il vogatore poteva, per così dire, appoggiarsi con il galleggiante sulla superficie dell'acqua. Fin qui si era pensato all'allestimento del caiak; ora fu richiesta la capacità artistica della mamma per confezionare qualche giubbotto salvagente, in mancanza del quale non avrei mai fatto entrare nel caiak nessuno dei ragazzi, perché altrimenti un'ondata, irrompendo attraverso l'imboccatura del sedile, avrebbe colmato d'acqua l'imbarcazione e in tal caso il vogatore, anche con una comune cintura di sughero addosso, avrebbe corso il pericolo di non potersi staccare dall'apertura e per conseguenza sarebbe andato a picco con tutta la barca. Secondo le mie istruzioni, i giubbotti dovevano essere costituiti innanzi tutto da una fodera aderente al corpo, aperta soltanto in alto e in basso, che poteva essere indossata dalla testa, a braccia alzate, e infilata poi nella cintura dei pantaloni. Sulla fodera fu cucito un rivestimento molto largo che formava una specie di sacco lento attorno al dorso, al petto e al ventre del vogatore; nell'apertura delle maniche e del collo poteva essere stretto con cordoni. Feci cucire tutt'intorno ai fianchi un orlo rivoltato, il quale (quando il vogatore prendeva posto) doveva essere infilato nell'intaglio esistente attorno all'imboccatura e quindi allacciato a perfetta tenuta d'acqua, così che il vogatore per mezzo del suo giubbotto rimaneva strettamente unito, tutt'intorno alla vita, con la copertura dell'imbarcazione, formando con essa praticamente un corpo unico in modo che l'acqua non potesse penetrare da nessuna parte. Poiché la fodera era cucita perfettamente anche sotto le braccia, sul petto e sui fianchi del giubbotto e poiché avevo ricoperto bene di caucciù tutte le cuciture, ne risultò fra petto e fianchi una camera d'aria a cui fu applicato un cannellino, ricavato da un budello, che in alto aveva un tappo ermetico e poteva essere tirato comodamente fino alla bocca. Questo congegno era destinato, ad un uso facoltativo del vogatore che, stando in mare, poteva soffiare attraverso il cannellino, riempire d'aria lo spazio intermedio tra fodera e rivestimento del giubbotto, tappare di nuovo il cannello e rimanere in
tal modo a galla anche in caso di un ribaltamento del caiak. Lavorammo così con assiduità e con grande soddisfazione per tutta la stagione delle piogge, alternando il lavoro con la lettura di buoni libri, con lo studio delle lingue e con qualche altra faccenda domestica. Appena però il tempo cominciò a migliorare uscimmo di nuovo all'aperto, sbrigando ogni sorta di faccende all'aria libera. Il primo giubbotto salvagente fu destinato a Fritz e una bella mattina venne collaudato. Il caiak groenlandese, nato al Rifugio di Roccia, fu perciò portato in acqua e Fritz si infilò nel suo strano costume di vogatore. Tutti gli spettatori scoppiarono in rumorose risate quando il giovane cominciò a gonfiarsi d'aria, fino a che davanti e dietro gli spuntarono due imponenti gibbosità come quelle dei tre famosi gobbi della favola. Con solenne gravità, munito delle sue caratteristiche di cammello, Fritz si diresse nell'acqua, che via via diventava sempre più alta; ma anche quando non toccò più il fondo con i piedi, l'acqua gli giungeva al massimo fino al principio del petto. Il giovane continuò a muovere i piedi allegramente agitando l'acqua come nel nuoto; non passò molto che raggiunse un banco di sabbia, una cinquantina di passi lontano da noi. Con un grido di gioia, appena toccato di nuovo il fondo, si voltò verso di noi, ci fece cenno gridando, ridendo, saltando e spruzzando acqua tutt'intorno. Gli altri ragazzi facevano salti di un metro, prendendosi spasso del gibboso camminatore acquatico e tutt'e tre tempestavano di suppliche la mamma, perché terminasse anche i loro giubbotti. Ma prima che ciò avvenisse, ci capitò tra capo e collo intempestivamente un lavoro pesante e inevitabile, poiché proprio in quel periodo si avvicinava la migrazione delle aringhe e il passaggio delle foche che sempre le seguivano. Oltre a ciò la mamma si lagnava parecchio perché noi volevamo raccogliere, catturare, preparare, salare e trebbiare tutto in una volta e nella foga del discorso, con voce lamentosa, parlava della marinatura del riso, della raccolta delle foche e della trebbiatura delle aringhe. Alla fine si ricordò anche del raccolto, certo necessario, delle sue dilette patate e delle radici di manioca. Ma io la consolai dicendole che specialmente queste ultime parevano mantenersi bene anche nella terra e che le
patate in quel terreno soffice non richiedevano, per essere dissotterrate, il faticoso lavoro che è necessario in Svizzera, dove il suolo è in parte sassoso e in parte zolloso. Le rammentai anche che per il momento non era necessaria una nuova semina delle patate e della manioca, perché sarebbe bastato certamente lasciare indietro le piantine più piccole per la successiva produzione. — Del resto, — così conclusi il mio discorsetto rassicurante, — raccoglieremo e trebbieremo i cereali alla maniera italiana, che forse non sarà proprio economica, ma è quella che richiede meno spreco di tempo e di attrezzature. In fondo, con la consolante previsione di due raccolti all'anno, non ci crucceremo troppo se con questo sistema si perderà qualcosa. Subito spianai proprio davanti alla nostra abitazione un considerevole tratto di terreno, che per sua natura era piuttosto sodo e argilloso, facendone una specie di aia, che bagnammo copiosamente col concime liquido dei recipienti di scarico del nostro bestiame; feci poi pestare fortemente il terreno dagli animali, costringendoli a girare tutt'intorno, e contemporaneamente aiutavamo anche noi, battendo a più non posso con remi, pale e tavole. Il calore del sole asciugò rapidamente il concime, ma ne versammo sempre di nuovo, calcando, impastando e battendo, finché la terra ne fu così rassodata che alla fine, quando fu ben secca, non mostrò più alcuna screpolatura e apparve compatta come le aie del nostro paese. Senza perder tempo partimmo muniti di falce per la mietitura, accompagnati dai portatori di palanchino, Brumm e Tempesta, che trasportavano in mezzo, per la raccolta dei cereali, la stessa grossa cesta in cui una volta si era seduto Ernst. Arrivati sul posto la mamma chiese a un tratto, un po' interdetta, dove fossero i vimini per legare i covoni e anche i ragazzi cercarono i rastrelli per ammucchiare le spighe mietute. — Niente di tutte queste sottigliezze! — esclamai, — oggi faremo proprio all'italiana e gli Italiani non sciupano il denaro per certi attrezzi agricoli e tanto meno per i vimini; e nemmeno vogliono accollarsi la fatica di torcere questi ultimi per farne flessibili legacci. — Accipicchia, e come faremo allora ad affastellare i covoni? E come li porteremo a casa? — chiese Fritz.
— Molto facilmente, — risposi, — perché non faremo affatto covoni e in parte trebbieremo sul campo stesso. — Ah, ecco! — disse Fritz, ma appariva un po' imbarazzato, perché non sapeva da che parte incominciare. Gli mostrai allora come fosse facile afferrare con la mano sinistra un bel numero di spighe e falciare con la destra un buon palmo sotto la spiga, legare il fascio con un gambo e gettarlo nella cesta. In tal modo si aveva anche il vantaggio di non dover chinare troppo la schiena in quel lavoro altrimenti assai duro. Il sistema piacque molto ai ragazzi e in breve il campo rimase cosparso di lunghe stoppie recise, completamente saccheggiato, mentre la grossa cesta era stata riempita un paio di volte di abbondanti fasci di spighe. Tra canti campestri e grida festose portammo a casa l'ultima cesta colma di grano e subito fu preparata ogni cosa per la trebbiatura all'italiana. Ernst e il piccolo Franz, sotto la guida della madre, allargavano in ampio cerchio sull'aia i manipoli, che noi avevamo prima affastellato ordinatamente in mucchi separati secondo le diverse specie di cereali. Cominciò allora una nuova festa, davvero spassosa, perché ognuno dei ragazzi montò la propria cavalcatura e perfino lo struzzo fu utilizzato per il lavoro agricolo, senza tanti riguardi. I quattro ragazzi trottavano tutt'intorno, pestando le spighe tra scherzi e buffonerie di ogni sorta, facendo levare nuvoloni di polvere e pula; intanto io e la mamma, muniti di forconi di legno, eravamo occupati a rimestare senza posa i fasci pestati e sparpagliati e a gettarli di nuovo nella pista dei trebbiatori che correvano in tondo. Veramente accaddero un paio di incidenti che a tutta prima non avevo previsto, perché gli animali fecero cadere del sudiciume sul raccolto ed ogni tanto ingoiavano mucchi interi di grano trebbiato, al che i ragazzi mi chiesero maliziosamente: — Anche questo è all'italiana, papà? La mamma invece sorrise con aria canzonatoria: — Bene, bene, se la voracità delle bestie non si può dire precisamente economica, è però certo un procedimento sbrigativo, che abbrevia notevolmente la fatica di mettere a posto le granaglie.
Tuttavia mi giustificai come meglio potevo, osservando che in quel clima torrido il sudiciume si disperdeva rapidamente e d'altro canto bisognava concedere al bestiame la sua parte, poiché la Sacra Scrittura dice espressamente: «Non legare il muso al bue che sta trebbiando». — In un raccolto così abbondante, — continuai, — non sarebbe giusto essere spilorci e di tanto in tanto una manciata di buon cibo manterrà i nostri aiutanti più forti ed alacri, Quando i cereali furono abbastanza calpestati procedemmo alla mondatura. Le spighe e i chicchi con la loppa, che erano stati trebbiati, o meglio, pestati, vennero raccolti in mucchio col rastrello e poi gettati al vento con i badili, così che la pula veniva soffiata via assieme alla polvere e al sudiciume, mentre i chicchi, grazie al loro peso, cadevano immediatamente a terra. Durante quell'operazione bocca e naso dovettero veramente soffrire non poco per la gran polvere, per cui facevo avvicendare spesso i ragazzi, cercando inoltre di proteggerli il più possibile con i cappucci già adoperati una volta per le api. Mentre lavoravamo, anche i volatili vennero di corsa gracchiando e schiamazzando sull'aia e si misero a beccare a tutto spiano, tanto che la mamma si vide costretta a porre un freno al malanno. Ma quando anche i ragazzi cominciarono a cacciar via gli sbafatori, li trattenni, dicendo: — Lasciate pure qualche chicco alle povere bestie. Ci ripagheranno in seguito con arrosti più grassi. La mia intercessione fu accolta e da quel momento soltanto gli scrocconi più sfacciati furono richiamati ai limiti della decenza con una leggera bacchettata. Infine misurammo il ricavato complessivo del raccolto e trovammo che, nonostante tutti i saccheggi nel campo e sull'aia, la semente si era moltiplicata almeno sessanta o settanta volte; potemmo così riporre nelle grandi ceste della nostra dispensa più di cento misure di frumento e oltre duecento misure di orzo. Il granoturco richiese invece un trattamento un po' diverso. Le grandi pannocchie furono recise dal fusto, scartocciate sullo stesso campo e poi distese ad asciugare sull'aia. Quando furono completamente secche, le battemmo a dovere con lunghe verghe; in tal modo i granelli saltarono via dai tutoli e in breve tempo fu pronta
la provvista di mais che, con nostra meraviglia, da una misura sola che ne avevamo seminato, fruttò più di ottanta misure. Capimmo allora chiaramente che quella qualità di graminacea era la coltura più adatta al clima e al terreno della nostra costa. Tuttavia, per godere di un secondo raccolto nello stesso anno, dovevamo anche ricominciare a coltivare il campo immediatamente e perciò le lunghe stoppie furono falciate sino alla base e gli steli scapezzati di mais furono portati a casa per il fuoco. La paglia fu poi affastellata vicino al Rifugio di Roccia attorno a un palo, in un grosso cumulo di forma conica, per essere consumata a poco a poco come foraggio. Con le brattee delle pannocchie riempimmo i pagliericci dei letti, perché ci sembrarono molto più elastiche e resistenti della paglia comune. I fusti bruciati, infine, ci fornirono una cenere che per la sua abbondanza di sali alcalini fu conservata con particolare cura dalla mamma per i suoi futuri bucati. Dopo aver lavorato il campo scelsi per la semina (anche per un opportuno avvicendamento delle colture) segale, spelta e avena che avrebbero dovuto procurarci un nuovo raccolto prima della prossima stagione delle piogge. Tali gravosi lavori erano quasi a termine quando cominciò la migrazione delle aringhe; questa volta però non ci affannammo troppo poiché avevamo ancora tanta riserva di generi alimentari sia per noi sia per le nostre quadrupedi guardie del corpo, che ci contentammo soltanto, giusto per avere una certa varietà di cibo sulla nostra tavola, di due barilotti, uno di aringhe salate e l'altro di aringhe affumicate. Riempimmo però tutti i vivai di animali catturati vivi, per poter gustare ogni tanto pesce fresco. Approfittammo invece con molto zelo delle foche, che sopraggiunsero subito dopo. Il caiak allora venne allestito completamente col suo rivestimento di pelli di foca; sulla copertura dell'imbarcazione venne aggiunto un recipiente perfettamente impermeabile a chiusura ermetica, che poteva essere slacciato e lasciato a casa. Sarebbe servito a portare in viaggio un po' di munizioni e di viveri, oltre ad una vescica piena d'acqua dolce e a un paio di pistole. Costruimmo anche due robusti arpioni, a cui appendemmo vesciche di foca gonfie d'aria, e li disponemmo lungo
le due fiancate del caiak in un sostegno opportunamente sospeso con cinghie, che avevo sistemato prima. Quando tutto ciò fu messo a punto, ebbe luogo la vestizione di Fritz per la prova generale, che in un primo momento doveva svolgersi sulla terraferma. Ciascuno dei ragazzi si fece avanti come scudiero d'onore, per armare e passare in rassegna a dovere l'eletto cavaliere dei mari. Pantaloni da nuoto fatti con budella di foca, il già molto elogiato giubbotto salvagente, e un cappuccio da bagno groenlandese, confezionato con robuste vesciche di foca, rappresentavano in quell'equipaggiamento i mezzi di difesa. Come mezzo d'offesa invece il nostro eroe prese il remo a due pale e le fiocine, che brandì con gesto teatrale come il tridente di Nettuno, minacciando tutti i mostri del mare col famoso motto virgiliano: «Quos ego!». Subito dopo si accovacciò nel caiak già pronto, collocò a dritta e a sinistra gli arpioni nei loro sostegni, assicurò il risvolto del suo giubbotto nell'incavo attorno all'imboccatura del sedile e si gonfiò come un rospo gigantesco. Immediatamente Ernst e Jack presero ad alare sul cavo a prora, mentre il piccolo Franz spingeva il caiak da poppa con tutta la forza della sua personcina, poiché l'imbarcazione, grazie alle sue rotelle, si poteva spostare facilmente sul suolo compatto della riva. Due grosse conchiglie pestate dalle ruote intonarono uno stridente inno di trionfo e Fritz, cacciatore di balene, proruppe in suoni gracchianti e chioccianti che potevano essere presi benissimo per un canto di pescatore groenlandese. Ridevamo a crepapelle della buffa, panciuta figura del piccolo dio dei mari, foderato di cuoio e riuscimmo a strappare un sorriso perfino alla mamma che stava a guardare con molta apprensione il nuovo equipaggiamento. Io invece ero abbastanza tranquillo perché Fritz aveva fatto grandi progressi nel nuoto e soprattutto potevo fidarmi di lui quanto ad abilità e forza anche nelle imprese più difficili. Tuttavia, per rassicurare sua madre, allestii senza perder tempo la nostra barca in modo da poter correre in aiuto del ragazzo in caso di pericolo. Il caiak fu poi portato in un luogo scosceso della riva e spinto giù nell'acqua navigabile tra allegri evviva e urrà; si staccò rapidamente dalla riva, scivolando allegramente sul verde specchio della
superficie del mare. Allora Fritz cominciò sul serio a manovrare la pagaia alla maniera groenlandese, eseguendo ogni sorta di acrobazie col suo caiak. Ora lo spingeva rapido come una freccia in linea retta, ora virava a dritta e poi bruscamente di nuovo a sinistra, ora indietreggiava e alla fine, mentre sua madre gridava di spavento, si rovesciò da una parte dimostrando così che l'imbarcazione non poteva colare a picco e il giubbotto impediva che il vogatore affondasse. Infatti il giovane con un abile colpo di remo si drizzò di nuovo e continuò a vogare sano e salvo. Tutti seguivamo con indescrivibile gioia l'avvicendarsi delle evoluzioni, manifestando tanto calorosamente la nostra approvazione che il giovane, incitato a maggiori audacie, si avventurò fino alla corrente che fluiva dal Torrente degli Sciacalli, ma subito fu da questa trasportato in alto mare con incredibile velocità. La cosa naturalmente non mi piacque affatto e credetti opportuno salire immediatamente, accompagnato da Jack e da Ernst, sulla barca già pronta, per correre dietro all'involontario fuggitivo. Ma quando dalla baia giungemmo al mare aperto e potemmo guardarci intorno liberamente in cerca di Fritz, questi era scomparso. Anche noi tuttavia con la nostra barca filavamo sulla superficie del mare come gabbiani e arrivammo abbastanza presto alla scogliera, dove a suo tempo si era incagliata la nave e dove probabilmente la corrente aveva trasportato Fritz. In quel punto grandi scogli affioravano appena a pelo dell'acqua, altri emergevano con la punta o del tutto sulle onde che, spinte dalla forte risacca, vi si frangevano schiumando. Cercammo subito un passaggio attraverso la scogliera e trovammo piuttosto facilmente un punto in cui potemmo avventurarci con una certa sicurezza, perché l'acqua era abbastanza fonda; finimmo presto in un labirinto di scogli e piccole isole rocciose che si estendevano fino ad un promontorio remoto e selvaggio, rendendo impossibile qualsiasi visuale più ampia. Tuttavia non eravamo rimasti a lungo a scrutare e cercare là intorno, quando all'improvviso, a considerevole distanza, vidi salire una piccola spirale di fumo e sentii una debole detonazione, che mi sembrò un colpo di pistola. — Ecco Fritz! — esclamai con un sospiro di sollievo.
— Dove, dove? — chiesero i ragazzi rialzando la testa, rinfrancati; nello stesso momento si innalzò di nuovo un'altra lieve colonna di fumo, a cui seguì un altro colpo e finalmente potei assicurare ai ragazzi che Fritz non era lontano da noi. Sparammo allora un colpo di segnalazione verso il luogo da cui avevamo visto salire i vortici di fumo e non passò molto che un altro colpo risonò in risposta. Manovrammo allora allegramente, anche se con prudenza, in direzione dello sparo di risposta ed Ernst calcolò il tempo col suo orologio d'argento. In dieci minuti circa riuscimmo a scorgere Fritz e cinque minuti dopo ci trovammo insieme, scambiando festosi saluti e rumorose acclamazioni marinaresche. Avemmo anche la bella sorpresa di un imponente, anche se non adulto, tricheco che il giovane eroe dei mari aveva non soltanto ferito, ma ucciso con i suoi due ramponi, e che ora giaceva su uno scoglio piuttosto sporgente, dove potemmo approdare comodamente con la barca. Innanzi tutto però rimproverai il neogroenlandese perché si era allontanato da noi così fulmineamente e gli feci osservare come ne fossimo rimasti sorpresi ed angosciati. Ma egli si scusò dicendo che non si era potuto districare dal flusso impetuoso del Torrente degli Sciacalli. — Poi, — continuò il giovane, — ho visto alcuni trichechi che nuotavano al largo e non ho pensato che al modo di raggiungerli e di catturarne uno. Alla fine mi è riuscito anche di scagliare con successo un arpione sul dorso dell'ultimo dei fuggitivi. «La vescica natatoria fissata al manico impediva all'animale di immergersi, la ferita lo indeboliva palesemente. Allora l'ho inseguito, spinto dal desiderio di prenderlo, finché ho potuto lanciargli il secondo arpione, al che il tricheco, tentando di rifugiarsi tra questi scogli, si è incagliato in un fondale basso e finalmente è morto. Certo la risacca qua intorno mi piaceva poco, ma il mio caiak saltava come un uccello marino fra gli scogli e perfino quando finiva in secca nei punti in cui le rocce emergevano fin quasi alla superficie dell'acqua o quando urtava in qualche scoglio, l'imbarcazione non ne risentiva alcun danno, ma rimbalzava intatta, grazie all'elasticità del suo rivestimento; è davvero un magnifico arnese! Finalmente sono
riuscito ad approdare qui e ho dato al tricheco ancora due pistolettate per essere perfettamente sicuro.» — Hai compiuto un'impresa rischiosa, Fritz, — gli dissi allora, — meno male che tutto è finito felicemente. Ma se solo sapessi che farne ora del tricheco! Sarà forse lungo tre metri, benché non mi sembri ancora adulto. — Oh, babbo! — mi pregò Fritz, — se proprio non potremo rimorchiare questo pesante animale attraverso gli scogli, permettimi almeno di portare a casa la testa con le due zanne bianche come la neve. Mi piacerebbe fissarla alla prua rialzata del caiak, che così potrà avere subito il suo nome: Tricheco. — Ma certo, figlio mio! Non ho alcuna intenzione di lasciare qui le belle zanne, — replicai; — magari non sono proprio lunghe due piedi, come quelle dell'animale adulto, ma comunque sono la cosa più pregevole del tricheco. I trichechi vengono di solito cacciati proprio a causa della bianchezza delle due zanne, più smaglianti e resistenti di quelle dell'elefante. La carne invece pare che valga poco e ora per noi sarebbe solo un sovraccarico; in compenso però voglio ritagliarmi alcune buone tirelle dalla sua pelle spessa; vale sempre la pena portarle via e mentre scortico l'animale tu puoi staccargli la testa. Sbrigati però, perché l'aria comincia a diventare afosa, come se dovesse addensarsi un temporale. — Non possiamo assolutamente lasciare in asso la testa del tricheco! — esclamò Jack; — starà a meraviglia sul tuo caiak e sarà come se tu stesso filassi sul mare a cavallo del tricheco. — Però, — osservò Ernst, — quando la testa sarà in via di putrefazione, non puzzerà un po' troppo per il vogatore? — Ebbene, rimedieremo anche a questo! — replicò Fritz; — concerò, svuoterò, ripulirò e farò disseccare la testa, finché diventerà dura e legnosa come quella del museo della nostra città natale, che non aveva nessun odore. Durante tali discorsi eravamo affaccendati a ricavare dal tricheco il nostro bottino e frattanto Fritz osservò che in futuro sarebbe stato opportuno munire il caiak anche di una lancia, di un'accetta e di una piccola bussola; quest'ultima si sarebbe potuta collocare in una cassetta con coperchio di vetro davanti all'imboccatura del sedile,
affinché il rematore potesse orientarsi durante il viaggio, anche se sbalestrato lontano da una tempesta. Trovai il triplice consiglio tanto giusto che promisi di seguirlo, poiché pensavo che lancia ed accetta sarebbero state molto utili per finire e squartare gli animali marini più grossi e per di più in tal modo avremmo risparmiato polvere. Sbrigata infine la nostra operazione, volevo prendere con noi nella barca grande Fritz con tutto il suo caiak, tuttavia consentii alla sua preghiera di lasciargli fare da solo anche la via del ritorno, per annunciare con buon anticipo alla mamma, come corriere marittimo, la notizia del nostro arrivo. Senza perder tempo il giovane parti e anche noi lo seguimmo con la barca, anche se un po' più lentamente. Le nuvole nere che avevamo notato prima intanto erano diventate sempre più minacciose e avevo appena finito di dirlo che una paurosa burrasca ci colse all'improvviso con vento e pioggia. Purtroppo Fritz era già così lontano che non riuscimmo a vederlo tra i rovesci d'acqua, né tanto meno riuscivo più a chiamarlo, a causa del rumore del vento e delle onde, sicché ormai non potevo più prenderlo con noi nella barca, né servirmi del suo aiuto. Ordinai immediatamente ai ragazzi di allacciarsi le cinture di sughero e di legarsi stretti alla barca con le cinghie ad essa attaccate, in modo da non essere abbattuti e spazzati via dai marosi che si riversavano nell'imbarcazione. Essi riuscirono a farlo, ma solo a fatica; anch'io ricorsi a quel rimedio, dopo di che ci raccomandammo al buon Dio e, nell'impossibilità di governare l'imbarcazione, l'affidammo al suo destino, tra paura e speranza. Il fortunale aumentava sempre più, benché sembrasse quasi impossibile che la sua furia potesse ancora accrescersi. Come montagne, le onde si ammassavano su, fino alle nere, dense nubi che calavano dal cielo. Vividi lampi balenavano nell'oscurità, gettando una livida luce ora sulla cresta delle onde, ora negli abissi che si spalancavano all'improvviso nel mare. Dall'orizzonte ottenebrato un turbine dopo l'altro si scatenava sul mare spumeggiante, agitandolo fino nelle più profonde voragini. Pareva che le acque degli abissi si innalzassero schiumando sino alla volta celeste, rimbalzando poi come frammenti di nuvole. A momenti eravamo sulla cima di una
montagna d'acqua, a momenti precipitavamo in un gorgo con la velocità del lampo, mentre le ondate si rovesciavano di continuo su di noi, riempiendo d'acqua la barca e si accavallavano dietro di essa con furia paurosa, minacciando un improvviso annientamento e dopo un attimo si ritiravano, come scivolando sotto l'imbarcazione. Tuttavia, quanto più spaventosamente aveva infuriato la tempesta, quanto più violentemente si era riversata su di noi, tanto più in fretta si dileguò. Pareva che tra nuvole e vento ci fosse stata una gara di corsa e che il vento finalmente fosse riuscito a vincerla; ma i nuvoloni scuri sopra di noi e gli alti marosi sotto durarono ancora a lungo, angosciandoci parecchio. Nella nostra angustia tuttavia avevo la soddisfazione di constatare che la barca resisteva magnificamente, dato che nessuna forza dei cavalloni riusciva a farle far scuffia; il sovrappeso della chiglia la raddrizzava sempre e perfino le ondate che vi si rovesciavano dentro non riuscivano a farla colare a picco, perché trovavamo sempre il tempo di vuotarla di nuovo e di alleggerirla con un paio di robuste pompate. Riuscivo anche, benché i marosi ci trascinassero nella loro direzione, a dare di tanto in tanto un colpo di timone che ci riportava sulla nostra rotta. Tutto ciò se non poteva propriamente rasserenarmi, pure non mi faceva perdere il coraggio e la calma. Più di tutto mi preoccupava la sorte di Fritz che doveva essere stato sorpreso come noi dalla burrasca; un po' immaginavo il mio caro figliolo sfracellato su uno scoglio, un po' sbalestrato nell'immenso oceano, un po' vittima di qualche altro disastro e con angoscia mortale aspettavo le prossime ore. Infine mi trovai all'altezza della nostra baia; respirai a lungo, profondamente, come un palombaro che emerga dagli abissi, remai con tutte le mie forze e raggiunsi felicemente il ben noto passaggio fra gli scogli dell'imboccatura. Quasi istantaneamente burrasca e marosi, sbuffando forte dietro di noi, ci spinsero in un tratto d'acqua navigabile appena increspato e potemmo abbandonarci alla consolante sensazione della sicura salvezza. E che vedemmo là sulla riva? La mamma fra le braccia di Fritz. — Figliolo! — gridai, e gli occhi mi si riempirono di lacrime. Con
alcune poderose vogate volammo a terra. Saltai dalla barca, ancor prima che fosse ferma, Fritz mi corse incontro e senza una parola ci tenemmo stretti, affettuosamente abbracciati. Ma c'erano anche gli altri. Ognuno di noi era stato in pena per l'altro; la mamma si aggirava in silenzio, con le labbra tremanti, attorno ai suoi ragazzi e per lungo tempo nessuno ebbe l'animo di chiacchierare. — Mammetta, — dissi finalmente, mettendole un braccio attorno alle spalle, — non ci sgridi per averti dato tanta angoscia? Mia moglie scosse la testa, con gli occhi pieni di lacrime. — Purché siate qui, — disse poi, — purché siate qui, questo è l'importante. — Però, sapete una cosa? — osservò Jack che per primo aveva ritrovato il suo incrollabile buon umore, — vestiti asciutti e qualcosa di caldo da mettere sotto i denti non sarebbero proprio da disprezzare. — Ma certo, — esclamò la mamma, — poverini, siete tutti bagnati! Andate a cambiarvi, intanto vi cucinerò una minestra davvero coi fiocchi! Una mezz'oretta dopo sedevamo soddisfatti attorno al desco e col compiacimento del pericolo superato raccontavamo la nostra avventura. — In verità posso affermare, — disse Fritz, — di non aver avuto nemmeno un attimo di paura, appena mi sono reso conto che il mio caiak reggeva il mare. Quando un'ondata mi si rovesciava addosso, trattenevo un momento il respiro e in un amen stavo di nuovo sulla cresta dell'onda successiva. Temevo soltanto di perdere la pagaia nell'impeto dei flutti perché allora le cose si sarebbero messe male per me. Del resto vento e marosi mi hanno spinto con incredibile rapidità verso la nota zona navigabile, sulla corrente in direzione del vecchio relitto. Ogni volta però che stavo sulla sommità dell'onda guardavo attentamente verso la terra, che di nuovo scompariva quando l'ondata mi scagliava in una delle mille voragini che si spalancavano e si richiudevano continuamente intorno a me. Nello stesso tempo riuscivo ad intervalli a governare in certo modo l'imbarcazione con la pagaia ed ecco che sono potuto entrare nella Baia della Salvezza, mentre dietro le mie spalle si rovesciava l'ultimo violento acquazzone; così mi è stato possibile aspettare al sicuro,
assieme alla mamma e al piccolo Franz, che quella pioggia torrenziale cessasse. Eravamo appena tornati sulla riva per cercare di avvistarvi quando siete arrivati. — Per me è stato terribile, — esclamò la mamma, — sedevo là agghiacciata, impietrita dallo spavento. — Povera mamma, — dissi, — credo realmente che fra noi tutti tu sia stata nelle peggiori condizioni. Ma in verità, ora che pericolo e paura sono passati, non sono per niente scontento di aver fatto questa esperienza, poiché sono così pienamente convinto della stabilità e perfetta tenuta d'acqua della nostra barca che andrei tranquillamente in aiuto di un bastimento in pericolo, anche col mare burrascoso. — Oh, ma anche il mio caiak ha superato la stessa dura prova non meno brillantemente — esclamò Fritz, — e non sarò l'ultimo ad accompagnare la tua barca per una traversata di questo genere. Anzi sarebbe forse meglio aiutare già da prima, in mare aperto, i bastimenti in pericolo. — Certo, — osservò Jack, — solo che si potessero afferrare per il bompresso con un uncino o qualcosa del genere lungo mille braccia, per tirarli poi nella nostra tranquilla Baia della Salvezza. — Si capisce che è impossibile, — rise Fritz, — però potremmo piazzare sulla cima dell'Isola del Pescecane un piccolo cannone per segnalazioni, assieme a un pennone con bandiera. Così col tempo nuvoloso o nelle grosse bufere, con i nostri colpi di cannone segnaleremmo alle imbarcazioni in pericolo la nostra esistenza e il favorevole approdo nella baia, e lo stesso potremmo fare col bel tempo per le navi di passaggio, sventolando la bandiera. — Come sarebbe bello! Sarebbe davvero magnifico! — gridarono tutti. — Senza dubbio, — intervenni a questo punto, — solo se avessi il cappellino dei desideri del famoso Fortunatus; 10 allora prenderei semplicemente due cannoni sotto braccio e volerei con essi sull'isolotto come faceva l'uccello Rock11 con un elefante o un rinoceronte tra le zampe. Ma che fantasia dimostrate per fare 10
Personaggio di una vecchia favola, che possedeva un sacchetto di monete d'oro inesauribile e un cappellino che esaudiva tutti i suoi desideri. (N.d.T.) 11 Favoloso uccello gigantesco delle fiabe arabe. (N.d.T.)
intraprendere qualche nuova impresa a vostro padre! — I piani di questo genere, — disse allora la mamma facendomi una carezza, — vengono sempre escogitati con la più ferma fiducia nella tua abilità tante volte sperimentata, caro marito, e ti fanno dunque molto onore, sicché dovresti apprezzarli e accoglierli volentieri. — Può essere! — ribattei inchinandomi sorridente, — e anche questa volta non mi sottrarrò alla loro esecuzione, appena uno di noi sarà capace di arrivare in cima a quell'isolotto. Dopo che ci fummo ristorati, alammo a riva la barca che con tutto il suo carico, la testa del tricheco e le strisce di pelle, fu trascinata dalle bestie da tiro, con l'aiuto dei rulli che avevamo messo sotto la chiglia, fino alla caverna, dove fu collocata accanto al caiak che Ernst e Fritz avevano sistemato nella stanza delle provviste. La testa del tricheco e le strisce di pelle furono subito portate nel laboratorio, dove queste ultime furono conciate e rese flessibili, mentre la testa venne imbalsamata e disseccata così che veramente potemmo fissarla, secondo il desiderio di Fritz, a prua del suo caiak, che assunse un aspetto maestoso. Tra queste e altre simili occupazioni avevamo trascorso parecchi giorni in perfetta tranquillità. Ma una bella notte di luna, mentre dormivo saporitamente, fui svegliato all'improvviso dal violento abbaiare delle nostre vigili guardie del corpo, misto a un confuso calpestio, a un ronfare e a uno stridere che mi richiamarono alla mente tutte le paure di quella notte in cui eravamo stati assaliti dagli sciacalli. Pareva che il Cacciatore selvaggio facesse la sua cavalcata notturna nel nostro cortile. La mia immaginazione si riempì di centinaia di immagini spaventose, in cui oltre agli sciacalli avevano una parte importante bufali, orsi e serpenti boa; tuttavia non mi lasciai impaurire troppo a lungo da congetture e supposizioni, ma balzai in piedi, mi gettai addosso qualcosa per coprirmi e, afferrata la prima arma che mi capitò sottomano, mi affrettai verso la porta di casa, la cui metà inferiore, come al solito nelle notti estive, era chiusa con la maniglia, mentre la parte superiore stava completamente aperta per il fresco. Appena però sporsi fuori la testa per spiare, vidi che già dalla
finestra vicina spuntava la testa di Fritz e udii la sua domanda: — Sei già sceso, babbo? Che diavolo sta succedendo? Risposi che mi ero preparato al peggio, ma mi stavo accorgendo che si trattava ancora una volta di una beffa di nuovo genere degli sciagurati maiali. — Mi pare però, — aggiunsi, — che i cani prendano in mala parte lo scherzo; sono già alle calcagna, se non addirittura alle costole di quegli sfacciati. Vieni presto fuori, così impediremo un putiferio. Fritz saltò senz'altro mezzo vestito dalla finestra e insieme accorremmo verso l'arena in cui si era trasferito lo spettacolo. Riconoscemmo subito tutto il gruppetto ancora superstite dei nostri maiali inselvatichiti, che avevano oltrepassato il ponte sul torrente e stavano per irrompere nelle colture di mia moglie. Ma i cani facevano buona guardia e mentre due di essi si erano attaccati alle orecchie del maschio, tenendolo fermo, gli altri due inseguivano la scrofa che assieme ai suoi cinghialetti fuggiva per il ponte in cerca del primo cespuglio che le capitasse a tiro. La cosa più urgente per me fu di liberare la povera bestia dai suoi due sbirri, mentre Fritz inseguiva il resto della caccia per richiamare indietro gli altri due cani. Tuttavia entrambe le operazioni ci costarono parecchia fatica perché solo servendomi di una stecca riuscii ad aprire il muso dei nostri vecchi campioni e a liberare così le orecchie del maschio, il quale senza il minimo ringraziamento, grugnendo e sbuffando, si lanciò a trotto serrato dietro alla scrofa, verso il Torrente degli Sciacalli. Allora cominciai ad inveire contro la sbadataggine, gridando che le tavole del ponte non erano state tolte come al solito durante la notte. Ma quando mi avvicinai per esaminare la situazione, mi accorsi che in realtà le tavole erano state sollevate e che i maiali, con una destrezza che non avrei mai supposto in loro, avevano attraversato il torrente sulle tre assi che sostenevano le tavole e rimanevano fisse anche di notte. Ciò mi indusse subito a trasformare il vecchio ponte in un ponte levatoio da sollevare ogni sera, per evitare in futuro nuove visite importune. Allo spuntare del giorno seguente, fra le più vive manifestazioni
di consenso da parte della mamma e dei ragazzi più giovani, iniziammo l'opera che doveva garantire la nostra sicurezza. Preparai a questo scopo due robuste travi che furono collegate in alto e in basso con due traverse, così da formare un rettangolo. In diversi punti conficcai dei pioli corti, per potere all'occorrenza salire e scendere. Ogni trave aveva inoltre un'intaccatura in alto, in cui doveva essere inserito un braccio del ponte levatoio. Il rettangolo venne poi piantato su un altro simile, che fu posto orizzontalmente a terra e posteriormente fu saldamente assicurato con cavicchi a dei pali, per poter sopportare il peso delle travi; questa base sporgeva inoltre per un piede oltre la sponda del torrente, in modo che il ponte, calando giù, venisse ad appoggiarvisi sopra. Il legname del vecchio ponte fu poi tanto digrossato e segato che solo l'estremità della grande tavola sollevabile poteva appoggiarvi sopra per circa otto o dieci pollici. Subito dopo si passò ai due bracci della leva che furono montati nelle intaccature in alto con perni di ferro per poter giocare agevolmente in alto e in basso. All'estremità interna i due bracci furono uniti ancora con una robusta traversa, affinché si alzassero e abbassassero sempre con un movimento simmetrico; quindi puntellai ulteriormente nella parte posteriore le travi con pali di sostegno, perché il movimento in su e in giù del ponte non le facesse smuovere. Così il mio ponte levatoio fu costruito in modo del tutto soddisfacente per proteggerci almeno dalle bestie. Contro un assalto di predoni avremmo potuto premunirci alla svelta, se fossimo stati in casa, con un paio di catene, arrampicandoci sui pioli delle travi che costituivano la porta e fissando con esse il ponte alla traversa, oppure avremmo potuto semplicemente legare con le catene i bracci della leva alle travi, dopo aver alzato il ponte. A tale scopo applicai anche un congegno adatto. Ecco dunque il magnifico ponte che, nonostante la rudimentalità e pesantezza della sua costruzione, ci dava il senso di sicurezza di una eccellente opera di fortificazione, anche se un solo colpo di cannone sarebbe bastato ad abbattere ogni cosa e, del resto, il torrente non aveva né l'ampiezza, né la profondità sufficienti ad impedire in qualche modo il passaggio a un avversario risoluto. Ad ogni modo
speravamo di migliorare sempre più quell'impianto che, in rapporto alle nostre forze, ci sembrava per il momento davvero notevole. Mentre eravamo intenti a questa grande impresa i ragazzi, sia per divertimento, sia per i necessari lavori di rifinitura, si arrampicavano spesso sulle due travi della nuova porta del ponte e non di rado scorgevano dall'altra parte, in lontananza, antilopi e gazzelle, cacciate da loro, in una fortunata occasione, nel parco della riva opposta. Talvolta le graziose bestie pascolavano isolatamente, talvolta a gruppi, ai margini del bosco o della grande boscaglia verso il Nido dei Falchi. Qualche volta giocavano e saltavano vivaci tutt'intorno nello spiazzo aperto ma sempre, al minimo rumore, balzavano indietro spaventate e si rifugiavano con la rapidità del vento nel folto della macchia. — Peccato però, — disse un giorno Fritz, — che queste gentili creature non siano domestiche come il resto del nostro bestiame! Come sarebbe bello se venissero al torrente per l'abbeverata, mentre noi qua pialliamo, sgrossiamo e martelliamo! — Davvero, papà! — aggiunse Ernst, — dovremmo mettere un'esca di sale e allora le gazzelle verrebbero qui. — Che cosa è poi un'esca di sale, papà? — chiese Fritz. — È costituita da una grande cassa di tavole o di travi, alta circa quattro piedi e di considerevole ampiezza. Si colloca sulla terra libera, in un posto fuori mano del bosco o del parco, in cui si voglia cacciare. La cassa viene riempita di argilla a cui di proposito si aggiunge del sale e il tutto viene ben compresso; per trarre meglio in inganno le bestie, vi si infilano anche rami verdi di pino. La selvaggina allora comincia a presentarsi e ad assaggiare con gusto l'argilla; intanto nelle vicinanze il cacciatore sta in agguato, pronto a sparare; oppure si può costruire un capanno di graticci per poter sorvegliare comodamente la selvaggina e ciò potrebbe essere molto opportuno anche per un pittore di animali. — Oh, babbo! — gridarono tutti ad una voce, — bisogna davvero collocare una di queste esche di sale! Allora verranno cervi, gazzelle, zibetti, bufali, insomma, un intero giardino zoologico pieno della più splendida selvaggina da abbattere o catturare. — Giusto, insaziabili cacciatori, — dissi, — voi vedete bene che
un'esca di sale nelle nostre condizioni e con tutta la terra che abbiamo qui intorno si potrebbe preparare con un certo successo. Ma dove potrei trovare il tempo e la forza sufficienti per eseguire tutto quello che vi passa per la mente e che piace a voi, che avete l'argento vivo addosso? — Ehi! Ma noi aiuteremo, lavoreremo, ti procureremo tutto quello che ci chiedi, papà, — risonò in risposta da tutte le bocche; — e poi il mestiere di cacciatore è salutare e adatto alla nostra situazione. — Va bene, se la faccenda vi attrae tanto, vedremo! — risposi; — ma bisognerà andare di nuovo lontano per procurarci tutto. Perciò fate in modo che si possa partire al più presto. — Grazie, grazie, caro papà! Mille grazie! — gridarono tutti con gioia. — Ci sarà ancora da camminare, andare a caccia, scoprire cose nuove, e tutto ciò è molto più bello delle due settimane spese per la costruzione del ponte. — Io scoverò il posto, — riprese a dire Ernst, — in cui potremo mettere l'esca di sale con il miglior risultato. — Ed io voglio preparare il pemmican per il viaggio, — osservò Fritz. — Abbiamo ancora tanta carne d'orso, che altrimenti non vale gran che. — Ed io voglio scegliere alcuni colombi e tenerli pronti per portarli con noi, — aggiunse Jack; — so già perché, però è ancora segreto di Stato. — Ed io penserò ai carriaggi, — intervenne il piccolo Franz, — e se Fritz lo permette metterò nel carico anche il suo caiak, così potremo una buona volta traversare il lago di Waldegg. Tutte quelle dichiarazioni mi rivelarono che già da un pezzo i figlioli si erano messi d'accordo fra loro per organizzare una nuova gita ed in fondo non avevo nulla di importante da opporre, poiché la bella stagione invogliava alla partenza e avvicendare il monotono lavoro del Rifugio di Roccia con le svariate e molteplici imprese fuori dell'ambito domestico mi sembrava molto opportuno nelle nostre condizioni, così che lasciai i ragazzi liberi di seguire i loro desideri. Subito Fritz corse dalla mamma che, non molto lontano da noi, si affaccendava nelle sue piantagioni e la pregò gentilmente di dargli
alcuni pezzi di carne d'orso per confezionare il pemmican. — Prima di tutto però, mio caro, — rispose lei, — devi dirmi che cosa è il pemmican e a che serve. — È un tipico cibo nord-americano, — spiegò Fritz, — che i mercanti canadesi di pellicce portano con loro nei lunghi viaggi d'affari. È costituito da carne d'orso o di capriolo pestata in polvere ed ha uno straordinario potere nutritivo anche in piccole porzioni, tanto che difficilmente si potrebbe trovare un cibo più concentrato e comodo da portarsi in viaggio. — Ma a che serve tutta questa storia? — continuò la mamma. — Ecco, abbiamo combinato una magnifica spedizione, — rispose Fritz, — e non vogliamo lasciar marcire o disseccare inutilmente a casa la nostra bella provvista di carne d'orso. La mamma, in genere non molto propensa alle gite, in principio mosse qualche obiezione ma infine, come al solito, si lasciò convincere a dare il suo consenso e fu anche di molto aiuto nella preparazione del pemmican, che procedette subito alacremente. La carne venne tagliata a strisce, battuta, tritata e pestata nel mortaio; poi fu nuovamente disseccata e passata allo staccio. Era tanta che pareva dovesse servire almeno a venti uomini in viaggio per un'intera estate, e il secondo giorno, visto che avevamo già raccolto una mezza misura di pemmican, frenai quell'eccessivo zelo. Per altro trovai il cibo abbastanza buono. Subito dopo i ragazzi si scelsero parecchi sacchi in cui infilarono delle ceste rotonde, di quelle che si usano per trasportare piccoli volatili vivi. Poi prepararono diversi laccioli o calappi di sottile filo metallico per la cattura degli uccelli, ma soprattutto si equipaggiarono come per una vera scorreria. Io li lasciavo fare sorridendo. Per il trasporto di tutte quelle magnifiche provviste fu ripristinato il vecchio traino che già da un pezzo era stato elevato al rango di carro grazie alle ruote dei cannoni di bordo e veniva ora preferito all'altro carro perché si poteva caricare più agevolmente. I ragazzi lo ingrassarono, lo raccomodarono e la sera prima della partenza vi caricarono i viveri, le munizioni, la tenda e il caiak, oltre a una quantità di altre cose utili. Finalmente spuntò il sospirato giorno e ognuno era già in piedi di
buon'ora; notai allora che Jack con una certa segretezza portava verso il carro l'una dopo l'altra due coppie di colombi europei e le infilava con cautela in una delle ceste dentro i sacchi. Erano grossi colombi scuri brevirostri, con un cerchio rosso attorno agli occhi, del tipo che, se non sbaglio, il Buffon 12 chiama colombi turchi. «Guarda, guarda!» pensai; «pare che i ragazzi pensino abilmente a premunirsi nel caso che il pemmican non debba incontrare il loro gusto. Buon pro gli faccia il bocconcino che i vecchi colombi forniranno con la loro carne tigliosa.» Frattanto però esortavo i figlioli a prepararsi sollecitamente alla marcia. A questo punto, contro ogni mia aspettativa, la mamma manifestò il desiderio di rimanere a casa per quella volta, per amore di tranquillità, al che Ernst, che già da un pezzo aveva parlottato con Fritz e Jack, ridacchiando in modo misterioso, dichiarò che anche lui avrebbe preferito non partecipare alla spedizione. Tutto ciò mi indusse infine a rinunciare io stesso alla gita e ad utilizzare meglio il tempo, costruendo con l'aiuto di Ernst la macina o meglio la pressa da tanto tempo desiderata da mia moglie per estrarre lo zucchero dalle canne. Congedammo i tre impetuosi capiscarichi con ogni sorta di ammonimenti e raccomandazioni, che per la verità non furono presi molto sul serio, e già Fritz e Franz galoppavano sulle loro cavalcature, e Jack sullo struzzo, oltre il ponte levatoio. Bruno, Fulvo e Cacciatore correvano accanto a loro abbaiando a tutto spiano e tutta la parete rocciosa ne riecheggiava, mentre parecchia selvaggina balzava dalla tana, spaventata. Senza perder tempo mi dedicai allora alla macina per lo zucchero che, costituita da tre cilindri dritti, doveva rappresentare una specie di torchio e che pensavo di mettere in moto con l'aiuto dei cani o di Tempesta e Brumm. Siccome nell'insieme il mio procedimento non differiva sostanzialmente da quello consueto per la costruzione delle cosiddette macine da zucchero, non lo descriverò minuziosamente; dirò soltanto che per alcuni giorni la nuova impresa non mi concedette un attimo di respiro, benché Ernst mi facesse da assistente e persino la mamma ci venisse in aiuto di quando in quando. 12
Celebre naturalista francese. (N.d.T.)
CAPITOLO IX AVVENTURA DI CACCIA CON UNA IENA. - A CHE SERVONO I COLOMBI VIAGGIATORI. — FRITZ RISALE IL FIUME CONTRO CORRENTE COL CAIAK E INCONTRA GLI IPPOPOTAMI. — L'ISOLOTTO DEL PESCECANE DIVENTA UNA FORTEZZA. IL LUNGO loquace rapporto a tre voci fatto dal vivace gruppetto di esploratori si può qui riassumere in un racconto piuttosto conciso. Appena superato il ponte, il viaggio procedette rapidamente. In breve tempo i ragazzi raggiunsero la zona di Waldegg dove volevano fermarsi per i primi due giorni. Ma quando si avvicinarono alla fattoria udirono sbigottiti una risata quasi umana che risonava ripetutamente; nello stesso tempo i buoi mostrarono un'agitazione del tutto insolita sbuffando, muggendo e rizzando la testa. I cani cominciarono a ringhiare col pelo irto e si ritirarono guardinghi vicino ai ragazzi. Lo struzzo addirittura, senza la minima esitazione, fece dietrofront e se la diede a gambe con il suo cavaliere in groppa verso la palude di riso, nei pressi del laghetto. Frattanto l'orribile risata si ripeteva a tratti e ogni volta le bestie davano segni di inquietudine e di paura; alla fine i due ragazzi non riuscirono a tenere a freno i buoi e credettero opportuno saltare giù per essere padroni dei loro movimenti. — Qui c'è qualcosa che non va, — disse Fritz, — le due bestie si comportano come se sentissero la vicinanza di un leone o di una tigre. Si riesce a stento a trattenerle; io cercherò ancora di calmarle, se mi riesce, mentre tu, Franz, ti spingerai un po' avanti con i cani per spiare che razza di predone possa esserci qua intorno. Torna però di corsa se noti qualcosa di sospetto, perché allora balzeremo di nuovo in sella e scapperemo in un baleno. I buoi volgono già il muso indietro. Peccato che Jack se la sia svignata; non si sente più nulla di lui.
Il piccolo Franz caricò le sue pistole e il fucile a palla, chiamò sommessamente i cani vicino a sé e strisciò poi acquattato nella boscaglia verso il luogo da cui si era sentita venire la sinistra risata. Poteva essersi inoltrato un'ottantina di passi quando, all'improvviso, attraverso un'apertura nell'intrico degli arbusti, si trovò a faccia a faccia, a trenta o quaranta passi di distanza, con una terribile iena che proprio in quel momento aveva gettato a terra un montone. Il ragazzo si arrestò inorridito. Il mostro sollevò le fauci insanguinate dal corpo della sua vittima, fissando con occhi sfavillanti il povero piccolo cacciatore, ma invece di passare all'attacco si chinò di nuovo sulla preda ricominciando con tutta calma la sua colazione. Soltanto per un attimo un lampo dei suoi occhi maligni sfiorò Franz e la sua raccapricciante risata, doppiamente terribile udita da vicino, lo fece rabbrividire per tutto il corpo. Ancora un profondo respiro ed ecco che il bravo ragazzo si era ripreso; alzò rapidamente il fucile, appoggiò a un albero il braccio ancora tremante, per prendere meglio la mira, e scaricò l'arma. La belva scoppiò in violenti ululati. Una delle zampe anteriori era fracassata; allora i cani le si scagliarono contro inferociti e un attimo dopo si rotolavano al suolo col loro nemico in un unico groviglio. Una terribile lotta, alla quale il piccolo Franz dovette assistere confuso e sconvolto, perché un nuovo colpo sparato a casaccio in quel viluppo di membra convulse, contorte e guizzanti avrebbe potuto colpire tanto il nemico quanto gli amici. Fritz, che nel frattempo era riuscito a gran fatica a legare i due buoi a dei tronchi d'albero, arrivò in quel momento di corsa col fucile spianato per aiutare il fratello. Ma anche lui non osò tirare. Per fortuna l'esito della lotta non era più incerto; i due alani si dimostravano impareggiabili campioni e dopo qualche altro minuto di angosciosa tensione la belva, che urlando e stridendo si era difesa a morsi, stramazzò con un pauroso gemito: Bruno le aveva squarciato la gola con i denti. Fritz allora accorse d'un balzo e cacciò una pallottola nell'occhio della iena, proprio da vicino. — Vittoria! — gridò, — vieni, Franz! — Il mostro non si moveva più. A forza, e soltanto aprendo loro il muso con le bacchette dei fucili, i due ragazzi poterono staccare i cani dal loro avversario:
Fulvo stava appeso coi denti serrati alla collottola della belva. Entrambi gli animali poterono essere calmati solo a stento: giravano attorno al corpo del nemico ringhiando furiosi e digrignando i denti. Solo le carezze dei ragazzi riconoscenti che non si stancavano di lisciarli, di dar loro colpettini, di lodarli, riuscirono finalmente a distoglierli dalla iena e allora si fecero lavare ed ungere pazientemente le ferite. Non passò molto e tornò anche Jack, che aveva sentito gli spari e le grida di trionfo dei fratelli e a stento era riuscito a cavarsi d'impaccio nella palude e a riportare lo struzzo sul campo di battaglia. Subito dopo i tre ragazzi trasportarono i bagagli a Waldegg, nei cui pressi già si trovavano, e, dopo aver scaricato e messo al sicuro tutto quanto, andarono a prendere col carro anche la iena abbattuta. Si accinsero subito a sventrare e a scorticare la poderosa bestia; il faticoso lavoro li tenne abbastanza impegnati per tutto il resto del giorno, tranne qualche sosta di cui approfittarono per tirare a qualche volatile sugli alberi vicini. Quando ebbero finito, i monelli si coricarono sulle due belle pelli d'orso che avevano portato con loro a tale scopo. Di sera, pressappoco alla stessa ora, noi genitori stavamo seduti con Ernst al Rifugio di Roccia sotto il portico e parlavamo dei tre audaci escursionisti, Ernst con qualche allusione piuttosto misteriosa, la mamma non senza apprensione, mentre io esprimevo completa fiducia nel giudizio, nell'accortezza e nel risoluto coraggio di Fritz. Madre e figlio chiacchieravano ancora confidenzialmente sulla partita di caccia, quando li interruppi a un tratto: — Ma guardate dunque questo ritardatario che sta volando verso la colombaia! Con l'oscurità che va calando non posso nemmeno vedere se si tratta di uno dei nostri uccelli o no. Ernst balzò in piedi. — Bene, allora devo andare subito ad abbassare lo sportello. Domani vedremo che cosa si troverà. L'ora insolita fa infatti pensare a qualcosa di insolito. Poi fece qualche altra enigmatica allusione, di cui non riuscii a decifrare il significato nemmeno più tardi, dopo essere andato a letto. L'indomani però Ernst sollevò il velo del mistero. Mentre eravamo
ancora seduti a far colazione, il ragazzo si avvicinò a noi con una lettera che i giovani cacciatori avevano spedito la sera prima per mezzo del colombo viaggiatore. Naturalmente volevo leggere la lettera, ma egli me lo impedì con aria solenne. — Ascolterai subito, — disse, — ti leggerò la lettera parola per parola, proprio come è stata scritta: «Carissimi genitori e caro Ernst! Una potente iena ha sbranato due pecorelle e un montone; ma i nostri cani l'hanno attaccata, il piccolo Franz l'ha ferita gravemente e alla fine è stata uccisa. Abbiamo passato quasi tutto il giorno a toglierle la pelle che è molto bella. Il pemmican vale poco. Vi auguriamo di star bene, al pari dei vostri figlioli e fratelli! Affettuosi baci a voi tutti. Da Waldegg, il 15 di questo mese. Vostro FRITZ». — Ah, ah! un'autentica lettera da cacciatore! — risi. — Ringraziamo Iddio che la faccenda con la iena, a quanto pare, è felicemente finita! Ma come avrà fatto quella belva ad arrivare nella nostra regione? Evidentemente deve aver forzato il passaggio vicino alla Chiusa solo da qualche giorno, altrimenti avrebbe già fatto da un pezzo piazza pulita delle nostre pecore e capre. — Dio mio, purché i ragazzi siano prudenti! — osservò la mamma; — vorrei poterli richiamare a casa. Non sarebbe più consigliabile andare subito da loro, oppure è meglio pazientare ancora un po'? — Credo che quest'ultima cosa sia la migliore, cara mamma! — rispose Ernst; — stasera stessa arriverà di nuovo la posta aerea e potremo decidere meglio il da farsi. E realmente verso sera, un po' più presto del giorno precedente, vedemmo arrivare un secondo colombo viaggiatore che con rapido volo si infilò nella colombaia. Ernst abbassò subito lo sportello e in un attimo salì sulla colombaia, tornando qualche minuto dopo con un biglietto trovato sotto l'ala del nuovo arrivato. Immediatamente lesse il seguente laconico rapporto:
«Nottata tranquilla. Mattino sereno. Gita col caiak sul lago di Waldegg. Animale palustre sconosciuto in rapida fuga. Domani si va a Hohentwiel. State tutti bene! I vostri FRITZ, JACK e FRANZ». Il biglietto rassicurò non poco me e la mamma e poiché ci comunicava una nottata tranquilla, potemmo dedurne che non c'era nessun'altra iena nei dintorni, altrimenti con ogni probabilità essa si sarebbe fatta sentire durante la notte. Veramente il resto del biglietto era per il momento incomprensibile, ma la spiegazione che più tardi i ragazzi mi diedero a voce mise in chiaro ogni cosa. I cacciatori avevano fatto una gita in caiak sul lago di Waldegg; in quell'occasione Fritz era riuscito a raggiungere e a catturare alcuni giovani cigni che in seguito sarebbero stati portati alla Baia della Salvezza, di cui per lungo tempo dovevano costituire l'ornamento. Mentre continuavano a cacciare, un pesante scuro animale palustre si fece largo fra la macchia; i ragazzi gli tirarono alcune pallottole ma non lo colpirono; comunque le loro descrizioni mi fecero supporre che si trattasse di un tapiro sud-americano. Le lettere ricevute ci davano intanto la piena certezza che i nostri ragazzi stavano bene e anche una terza ci confermò le rassicuranti notizie, sicché stabilimmo di aspettare a casa con calma il loro ritorno o un nuovo biglietto. Tuttavia la nostra decisione cambiò improvvisamente, allorché nel pomeriggio arrivò del tutto inaspettato un altro corriere sulle ali del vento. Già di per sé il suo arrivo imprevisto era destinato a suscitare la nostra apprensione, ma a metterci ancor più in ansia fu il contenuto della nuova lettera. In essa si leggeva quanto segue: «Il passaggio della Chiusa è stato sfondato e preso d'assalto; ogni cosa è devastata fino alla Cima dello Zucchero. L'affumicatoio è distrutto. Le canne da zucchero sono in parte sradicate e in parte scapezzate o schiacciate; il campo di miglio è stato divorato; sul terreno si notano orme poderose. Presto, caro papà, vieni ad aiutarci! Non osiamo avventurarci né avanti né indietro e, sebbene sani ed illesi, non ci sentiamo affatto in grado di fronteggiare il danno e il pericolo».
È facile immaginare come quella notizia mi mettesse le ali ai piedi; senza perder tempo corsi a sellare l'onagro e dissi a mia moglie di venire alla Chiusa il giorno seguente, accompagnata da Ernst, e di portare con il carro tutto l'occorrente per un lungo soggiorno. Ordinai di far tirare il carico dalla mucca e da Folgore, il giovane asino. Balzai in sella all'onagro e partii a gran galoppo. Feci il percorso in un tempo molto più breve delle sei ore di solito occorrenti e fui accolto con gran gioia dai ragazzi che non mi aspettavano così presto. Immediatamente esaminai i danni e con spavento trovai la più assurda devastazione che, a giudicare dalle enormi tracce, poteva essere stata causata soltanto da elefanti. Le grosse stanghe di sbarramento, che con tanta fatica avevamo apposto al valico della Chiusa, giacevano a terra come fuscelli di paglia spezzati e gli alberi ai lati erano stati sfrondati fino in alto. Ma la rovina appariva con più terribile evidenza nella piantagione di canne da zucchero, in cui tutto ciò che non era stato divorato giaceva al suolo pestato e distrutto. Del resto anche il graticciato della capanna vicino alla Cima dello Zucchero e l'affumicatolo erano completamente demoliti. Durante tutta l'ispezione esaminai attentamente ogni traccia per indagare se si fossero addentrate altre bestie feroci, ma, di sospetto, non trovai altro che delle peste simili a quelle di un cane o di un grosso lupo e notai che la loro direzione andava inconfondibilmente dalla Chiusa verso la zona costiera, mentre in senso inverso non ce n'erano. Supposi perciò che dovesse essere il cammino percorso dalla iena uccisa dai ragazzi e in certo modo mi rassicurai. Subito rizzammo tutti insieme la tenda da campo e accatastammo una buona quantità di legna per accendere durante la notte un gran fuoco che ci potesse proteggere a sufficienza da un attacco dei potenti elefanti. Per altro la nottata, almeno da parte nostra, non fu precisamente una delle più tranquille. Io e Fritz trascorremmo il tempo in angosciosa tensione vicino al fuoco parlando principalmente di elefanti; tuttavia ci fu risparmiata ogni aggressione. Verso il mezzogiorno dell'indomani arrivarono Ernst e la mamma sul carro tirato dalla mucca e dall'asino e cominciammo subito a
sistemarci per una permanenza piuttosto lunga. Prima di ogni altra cosa iniziammo la riparazione e il rafforzamento, estremamente necessari, di tutte le opere di fortificazione della Chiusa: per un mese intero lavorammo senza respiro. Anche dopo che la fortificazione del valico fu ultimata ci rimase ancora molto da fare nelle vicinanze; dovevamo infatti pensare anche ad un'abitazione fissa in quella zona e secondo il desiderio già manifestato da Fritz, essa fu costruita su quattro pali come le capanne estive dei Camciadali, 13 solo che al posto dei pali avevamo scelto quattro begli alberi alti che trovammo in un punto adatto, già disposti in un quadrato quasi regolare, alla distanza di dodici o tredici piedi l'uno dall'altro. All'altezza di venti piedi circa, i quattro tronchi furono collegati con grosse traverse di canne di bambù, sulle quali fu costruito un solido pavimento, chiuso da tutt'e quattro i lati da una parete di canne più sottili, alta otto piedi. Nella parte rivolta verso la Chiusa furono aperte alcune finestre strette come feritoie. Il tetto fu costruito a piramide e ricoperto da corteccia d'albero in modo che la pioggia non potesse penetrare. Come scala sistemammo una trave con i gradini intagliati alle due parti, pressappoco come quelle che si trovano nelle stive delle navi, nei granai e nei fienili di campagna. La trave così intaccata però poteva essere montata verticalmente su un'altra trave dritta che era stata collocata e fissata saldamente nel mezzo della parete posteriore. Infatti dietro aveva degli incavi, in cui si incastrava una ruota dentata che poteva essere azionata per mezzo di un congegno a manovella. Potevamo così tirare su o giù la trave con gli scalini, con un sistema simile a quello che si vede nelle leve dei comuni verricelli. Se la scala veniva spinta ancora più in su attraverso il vano della stanza, allora sollevava con l'urto una botola, per mezzo della quale potevamo salire allo scoperto e scrutare intorno per un largo raggio; se invece si voleva farla scendere fino a terra, ci si serviva di un'altra botola aperta nel pavimento della stanzetta. 13
Indigeni della parte meridionale della penisola di Camciatca, paleoasiatici di razza siberide. (N.d.T.)
Al di sotto della stanza i quattro tronchi d'albero furono poi collegati insieme con pertiche di legno di cocco lunghe da quattro a cinque piedi, così che ne risultava un pianterreno ben chiuso dove potevamo alloggiare qualche capo di bestiame o i volatili; a tale scopo collocammo una rastrelliera e un trogolo di fronte alla porta d'ingresso. Coprimmo lo spazio vuoto tra il parapetto inferiore e le pareti della stanza del piano superiore con assi di bambù spaccate sottili e fissate una sull'altra trasversalmente in modo da formare la cosiddetta «grata del prete», come in un chiosco o in un padiglione da giardino. Il tutto fu poi abbellito con vari ornamenti di gusto cinese e siccome avevamo lasciato intatti tutti i rami degli alberi sporgenti verso l'esterno, stavamo quasi nascosti in mezzo al verde e l'abitazione aveva l'aspetto molto leggiadro di un bersò, mentre nella parte inferiore pareva una piccola stalla d'emergenza o un'uccelliera. Mentre eravamo così occupati Fritz fece da solo una gita col caiak risalendo la corrente del fiume e tornò con un ricco bottino di caccia. Mi fece particolare piacere un pollo sultano 14 catturato vivo che fu consegnato alla mamma per l'allevamento. Fra i prodotti vegetali invece suscitarono il nostro interesse specialmente i semi di cacao portati dal giovane. In seguito egli ci parlò delle cose più notevoli osservate durante la sua escursione, dalla straordinaria ubertosità della terra sulla sponda opposta, fino alle pendici dei monti vicini, e del maestoso aspetto dei fitti boschi davanti ai quali era passato col caiak. Il continuo gorgogliare dei tacchini e l'incessante chiocciare, stridere e gracchiare delle galline faraone, di pavoni e di altri volatili gli aveva dato quasi il capogiro. Aveva risalito il corso del fiume fino alla Palude dei Bufali, oltre la Chiusa, e là con un cappio di metallo appeso a una stanga aveva catturato il magnifico pollo sultano. Aveva visto inoltre alla sua destra un intero bosco di mimose e in esso alcuni branchi di elefanti, di dieci o venti animali ciascuno, che a loro agio ora strappavano grossi fasci di rami di cui facevano un solo boccone, ora si rotolavano nei punti poco profondi dell'acquitrino, ora si immergevano nell'acqua fino alla pancia, 14
Nome volgare del Porphyrio porphyrio, genere Rallidi. (N.d.T.)
giocando e annaffiandosi a vicenda con le proboscidi a mo' di pompa da incendio, per procurarsi un po' di fresco nella terribile calura del giorno. Pare tuttavia che non si curassero affatto né del giovane marinaio né del suo caiak. — Certo per un attimo mi venne voglia, — raccontava Fritz, — di provare la mia fortuna venatoria con uno di quei tipi, ma poi ritenni che fosse troppo pericoloso per me, solo com'ero, e presto fui colto da una tale paura che cominciai a pensare al più rapido ritorno, tanto più che quasi nello stesso momento ne fui spinto da un'altra causa. Vidi cioè tutt'a un tratto che, alla distanza di circa due tiri di schioppo davanti a me, l'acqua in uno dei punti meno fondi del fiume si agitava e spumeggiava come se dal basso stesse per scaturirne gorgogliando una sorgiva bollente. Ma poi ne emerse, lenta e massiccia, un'orribile bestia grigio-scura che mi guardò sbadigliando con uno spaventoso urlo simile a un nitrito, mostrandomi un'enorme bocca piena di terribili denti. Aveste visto come mi sbrigai a squagliarmela! Fianco destro-destr! e via come una freccia in cerca di migliori acque! Remavo così forte che il sudore mi scorreva a rivoli per la schiena e non mi fermai finché non fui lontano, molto lontano dalla vista del mostro. Sempre con la paura di quell'enorme animale, col cuore che mi batteva forte, sono tornato per la strada più breve e questa volta credo di aver avuto una lezione molto dura di scienze naturali, tanto più che in questa avventura non c'era nessuno al mio fianco, nemmeno uno dei nostri bravi cani. Il racconto di Fritz ci diede molto da pensare, convincendoci della vicinanza di numerosi e terribili animali; infatti nel mostro che emergeva così paurosamente dalle acque non era difficile riconoscere, senza possibilità di sbagli, l'ippopotamo. Del resto, durante la giornata che Fritz aveva trascorso nell'escursione, anche noi eravamo stati attivamente occupati a preparare ogni cosa per ripartire il mattino seguente e avevamo raccolto, impacchettato e caricato tutto quello che non era strettamente necessario per l'ultima notte e l'ultima cena. Fritz mi pregò di lasciargli fare il ritorno per mare nel suo caiak, per costeggiare remando il Capo della Speranza Delusa e dirigersi poi al Rifugio di Roccia lungo la riva. Lo accontentai volentieri, perché si
era dimostrato un capace marinaio e anche perché mi stava molto a cuore esplorare meglio il promontorio e accertare la navigabilità delle acque che lo circondavano. L'indomani di buon'ora ci mettemmo in cammino. Fritz aveva già raggiunto il promontorio, che dopo la grande baia gli apparve straordinariamente aspro, con erte rupi interrotte da fenditure profonde, crepacci e anfratti, dove pareva dimorassero uccelli acquatici e rapaci in enorme quantità. Senza alcuna avventura anche noi seguimmo la via del ritorno; ci affrettammo poi a scaricare e aprire i fagotti; nel frattempo mi colpì in modo inquietante l'accresciuto numero dei nostri volatili. Era facile immaginare che l'allegro stuolo avrebbe costituito un pericolo per il raccolto durante le nostre ripetute assenze. Ordinai perciò una pronta ripartizione, per trasferire nelle due vicine isolette specialmente i nuovi arrivati, nonché i galli cedroni, il tetraone canadese dal collare e le gru, queste ultime però con le ali un po' impedite. I cigni invece, il pollo sultano appena catturato e l'airone reale furono portati nei pressi della Palude delle Anatre e allettati là di nuovo di tempo in tempo con qualche buon bocconcino. Lasciammo alle vecchie otarde il loro antico privilegio di restare vicino a noi e di fare perfino, quando mangiavamo all'aperto, la parte degli scrocconi. Queste ed altre faccende mi occuparono un paio d'ore circa mentre la mamma preparava un robusto desinare e nel frattempo arrivò anche Fritz col caiak. Nei giorni successivi attuammo finalmente l'idea che Fritz ci proponeva di continuo e che mi pareva molto giusta per la nostra sicurezza. Fu intrapresa cioè la costruzione di una guardiola e l'installazione di un cannone da quattro libbre in cima all'Isola del Pescecane e, in verità, per trasportare fin lassù il grosso pezzo d'artiglieria per mezzo di un argano, dovetti sudare e stillarmi abbastanza il cervello. A poco a poco portammo sulla roccia tutto ciò che era necessario per il nostro scopo e il cannone fu piazzato con la bocca rivolta verso il mare. La guardiola, costruita nel modo più semplice possibile con tavole e canne di bambù, fu innalzata immediatamente dietro il
cannone e a fianco, a un paio di passi di distanza, fu issato un pennone munito di un cavo scorrevole su cui inalberare una bandiera, che sarebbe stata bianca, se dal mare si fosse vista apparire qualche imbarcazione amica, rossa invece per l'approssimarsi di pericoli o di qualcosa di sospetto. Dopo aver portato a termine il faticoso lavoro, che ci costò un paio di mesi, festeggiammo l'avvenimento inalberando la bandiera bianca e sparando sei colpi di cannone che riecheggiarono maestosamente dagli scogli e dalle rupi del Rifugio di Roccia.
CAPITOLO X DIECI ANNI DOPO. — JACK HA LA PEGGIO NELLA LOTTA CON UN CINGHIALE. — SI ABBATTONO LEONI. — FRITZ RISOLVE L'ENIGMA DELLO SCOGLIO FUMANTE. — VIENE SALVATA LA SIGNORINA JENNY. DOPO LUNGA, lunga pausa, dopo l'assoluto silenzio di quasi otto anni riapro il nostro diario. Sfogliando i capitoli già scritti ripenso a quelli che sarebbero seguiti e che non ho scritto. Somigliano ai primi, come un anno è stato uguale all'altro. Escursioni e caccia si sono alternate con ore di pesante lavoro; scoperte e successi si sono avvicendati con delusioni. Sguardo acuto e mano ferma, sangue freddo nel momento del pericolo, lieta fiducia nelle avversità e sempre viva gratitudine per tutti i doni della generosa madre natura; ecco i frutti che ci ha elargito il nostro insolito destino. In verità una messe benedetta. Dieci anni ci sono volati via, dieci anni di solitudine, di severo faticoso operare, dieci anni di pace, di felicità. Hanno lasciato anche le loro tracce, fili d'argento sono mescolati ai miei capelli, le mani avvezze al lavoro sono ruvide, scabre, callose. La mammina è quasi tutta bianca. La sua delicata costituzione è stata molto scossa dalle intemperie e dagli strapazzi talvolta eccessivi della nostra operosa vita di gente isolata dal mondo. Alcuni attacchi di febbre cocente ci hanno fatto a tratti temere per la sua vita. Oggi però i suoi occhi buoni si posano su di me con il consueto sguardo di gioia serena. — Mammetta, — le dico, — hai un aspetto magnifico! Come stanno bene i tuoi capelli bianchi sul viso abbronzato dai colori della salute! In verità, una vista che riconforta, specie se penso come stavi male l'anno scorso, dopo l'ultima malattia. — Beh! — risponde lei, — l'anno scorso non ero davvero molto in gamba, ma oggi posso ancora competere con voi tutti!
I miei quattro ragazzi sono diventati quattro giovanotti. La lotta per l'esistenza - che nel nostro caso non può essere intesa in senso figurato, ma proprio alla lettera - ha sviluppato anzitempo le loro capacità fisiche fino a una rara compiutezza. Il continuo contatto con la natura che in un vivo avvicendarsi si è lasciata strappare con la forza i suoi doni o li ha prodigati spontaneamente con dovizia, ha conservato loro l'animo onesto e allegro, gli occhi vigili. La loro traboccante vitalità, che in queste eccezionali condizioni avrebbe potuto facilmente trasformarsi in brutalità, è stata moderata e addolcita dalla presenza della loro madre, la migliore amica di un adolescente. Il rispetto affettuoso con cui i miei quattro selvaggi si sono sempre sottomessi, anche nei loro estri più contraddittori, al tenero, grave sguardo della mamma mi dà la certezza che il profondo rispetto verso la nobile autentica femminilità ha messo radici nei loro cuori, come un seme ben custodito, e li accompagnerà più avanti nella loro vita come una memoria protettrice. Un efficace contrapposto all'attività puramente fisica è stato inoltre per noi fin dai primi anni lo studio delle scienze. Il nostro splendido patrimonio bibliografico è divenuto nel corso degli anni sempre più un'autentica miniera di soddisfazioni e di ammaestramenti. Il lavorare insieme, il fondersi o il competere delle diverse intelligenze nella nostra piccola società sono stati particolarmente adatti a vivificare il nostro studio e a mantenere sempre desto l'interesse. Il piccolo museo di storia naturale mostra oggi una serie di collezioni e di rarità che più di un professore europeo potrebbe invidiarci. Anche la formazione religiosa dei miei figli, compiutasi nel silenzio, vicino al generoso cuore della natura, lontano dal traffico e dal frastuono del mondo – i cui buoni o cattivi influssi non sono potuti giungere fino a noi – si è sviluppata in modo particolarmente profondo. Essi sono stati in un certo senso sempre più vicini al buon Dio delle centinaia dei loro compagni cresciuti nella polvere e nel brulichio dei casamenti, nell'affannoso agitarsi delle grandi città. In nessun altro luogo Dio parla ai suoi figli in modo più amoroso e vivo, grave e commovente, che nella sommessa o impetuosa voce della natura. Al suo fascino, alla sua maestosa bellezza si schiude il
cuore; al suo minaccioso aspetto, ai suoi orrori, si inchina tremante lo spirito. Dappertutto è l'Onnipotente, l'Essere infinitamente buono, giusto, di cui avvertiamo la presenza e accettiamo l'immensa sapienza. Anche in un altro senso l'assoluta solitudine in cui sono cresciuti ha influito sullo sviluppo dei miei figli. Non sono diventati dei «signorini», nel senso che comunemente si dà a questa parola. Non sanno ballare il valzer, non sanno fare l'inchino, né dire frasi brillanti. Non sanno neppure quello che in società può essere talvolta necessario, per esempio come si può costruire su un nonnulla una lunga conversazione. Quando non hanno nulla da dire, tacciono. Il loro modo di fare ha conservato assieme alla freschezza di una fiorente virilità anche l'inconfondibile profumo della fanciullezza. Sono più vigorosi e robusti ma, come è facile capire, anche più indocili e fieri di quanto sarebbero diventati in Europa. I tempi in cui mi chiedevano il permesso per ogni escursione sono ormai passati da un pezzo. Spesso non so per mezze giornate o per giorni interi dove vadano a scorrazzare specialmente i due grandi, perché anche Ernst sa essere svelto parecchio, quando viene eccitata la sua avidità di apprendere. Ha combattuto energicamente la pigrizia e l'amore per i comodi e adesso, quanto a sangue freddo, è in gamba come Fritz che, con i suoi ventisei anni, i baffi neri e la capigliatura scura e ondulata, sotto cui lampeggiano i suoi occhi castani, è una perfetta immagine della forza virile. Il biondo Ernst, sebbene di due anni più giovane, l'ha già superato in altezza. La sua corporatura è più snella, più longilinea, più smilza. La sua resistenza fisica non raggiunge nemmeno lontanamente quella del fratello. In Jack invece, ventiduenne, si ritrova di nuovo la statura non molto alta di Fritz in un corpo però più sottile, fatto più per la destrezza e il dinamismo che per le fatiche vere e proprie. In Franz infine, che ora ha vent'anni, c'è una certa mescolanza delle diverse caratteristiche fisiche e spirituali dei fratelli. Ha molta sensibilità come Fritz e come Ernst, ma la scaltrezza di Jack è diventata in lui prudenza, poiché essendo il più piccolo si è spesso dovuto difendere dai tiri mancini dei fratelli. Essendo il più giovane, è anche l'unico a cui per il momento –
«ovviamente» secondo il giudizio di Jack – è negato l'onor del mento. Jack accarezza con non poco orgoglio il suo «mascolino ornamento» che sino ad ora è costituito soltanto da una modesta lanugine, però inconfondibilmente nera. Almeno non deve stare più a guardare oziosamente quando Ernst liscia con le dita i suoi bei baffi morbidi e biondi. Quanto alla nostra economia agricola, essa ha pienamente mantenuto il suo intrinseco carattere, solo che nel corso degli anni sono stati apportati a poco a poco abbellimenti e migliorie di ogni genere. Il Rifugio di Roccia è sempre la nostra residenza invernale o, se si vuole, il palazzo governativo, mentre il Nido dei Falchi ci serve come abitazione estiva o villa di campagna. Le ampie stalle per ogni sorta di bestiame, gli alveari che abbiamo molto ingrandito, l'impianto di una serie di colombaie per l'allevamento di animali europei, sono gli oggetti a cui si rivolge la nostra principale attenzione. Al Rifugio di Roccia ci sono, parecchie nuove comodità. Lungo tutta la facciata dell'abitazione, adesso, corre un portico coperto da una tettoia che, scendendo dalla parete rocciosa, poggia su quattordici imponenti colonne di tronchi d'albero. Attorno ad esse si attorcigliano piante di vaniglia e di pepe che si arrampicano fin sopra la tettoia, ricoprendola. Un tentativo fatto con la vite non è riuscito bene, a causa del caldo riverbero del sole. Di solito, per riposarci dal lavoro, specie la sera all'ora di cena, ci sediamo sotto il portico vicino ad una fontana zampillante che riversa le sue acque nella famosa corazza della grande tartaruga. Anche nell'altra ala del loggiato, che potremmo chiamare anche pergola, è stata collocata una frusciante fontana che temporaneamente versa il suo getto in una vaschetta di bambù. Per mezzo di tubi fatti con canne di bambù possiamo all'occorrenza utilizzare il deflusso delle due fontane per irrigare le colture più vicine. Abbiamo anche costruito alle due estremità del porticato, sulla tettoia che ricopre le fontane, un altro tetto più alto di foggia cinese, sicché le due ali chiudono ora il loggiato con un effetto molto leggiadro. Due larghe rampe lungo questo loggiato conducono dentro la casa. Nel mezzo, davanti alla porta principale sono interrotte, com'è naturale, da un ingresso in leggero declivio. Dell'asperità della costa, che ci spaventava tanto all'inizio del
nostro soggiorno al Rifugio della Tenda, oggi non c'è più traccia. Il nostro instancabile lavoro, favorito dal magnifico clima e dalla buona qualità del terreno, nel corso degli anni ha fatto di questo pezzo di terra, una volta selvaggio e brullo, un piccolo paradiso che, cinto a destra dallo scrosciante Torrente degli Sciacalli e a sinistra dalle rocce inaccessibili e dall'estesa Palude delle Anatre, offre la perfetta beatitudine di un delizioso rifugio per uomini e animali. Anche l'Isolotto del Pescecane di fronte alla baia non è più da un pezzo lo scoglio deserto che una volta, con la sua vista desolata, rendeva sgradevole il soggiorno al Rifugio di Roccia. Palme di cocco e pini dondolano dolcemente le verdi cime al vento marino; grandi alberi di manghi lungo la riva proteggono il suolo sabbioso dall'azione erosiva delle onde e la guardiola tra il cannone piazzato minacciosamente e il pennone della bandiera occhieggia sull'immensità dell'Oceano. Tra l'abitazione nella roccia e il Torrente degli Sciacalli su fino alle sorgenti di esso, ci sono le nostre piantagioni, diventate ora veramente notevoli, oltre ai giardini e a un piccolo campo. Il campo più grande, oltre il torrente, si trova anch'esso sotto i nostri occhi. Una stecconata di bambù assieme ad una fila di fichi d'India si estende in linea retta con le colonne del loggiato verso il Torrente degli Sciacalli; serve a proteggere le piantagioni nella parte in cui la parete rocciosa e il torrente non offrono abbastanza sicurezza. Lo spazio interno di questo triangolo è riempito, oltre che dal piccolo campo di cereali e da una coltivazione ancora più limitata di cotone, anche da un gran numero di erbaggi, da un riquadro di canne da. zucchero, da un'aiuola di opunzie cocciniglifere e dal ben noto frutteto di alberi europei. Questi ultimi in fondo hanno allignato veramente bene, specialmente gli alberi del pistacchio, mandorlo, noce, pesco, arancio e limone, mentre con la vite abbiamo ottenuto soltanto una piccolissima produzione, di mediocre qualità per giunta. Il duplice filare, che dal Rifugio di Roccia arriva al Nido dei Falchi, ha prosperato a meraviglia perché qui gli alberi sono più discosti gli uni dagli altri e ricevono dall'aria marina il refrigerio indispensabile. Devo però confessare che coltiviamo e curiamo con amore una parte degli alberi da frutto europei principalmente per attaccamento alla nostra madrepatria, poiché il clima torrido è così
sfavorevole ai meli, ai peri, ai ciliegi e ai susini che ne ricaviamo soltanto poca frutta e di scarso valore. Tuttavia gli aranci, i limoni, gli ananas e le anone 15 ci ripagano copiosamente dell'insuccesso. Si capisce che nel corso degli anni è aumentato anche il numero degli attrezzi e strumenti per lo sfruttamento delle svariate qualità di raccolto. Tutti quanti lasciano ancora molto a desiderare, ma dobbiamo accontentarci e del resto adempiono pienamente alla loro funzione. Innanzi tutto c'è il torchio per le canne da zucchero, di cui abbiamo faticosamente messo insieme le parti che stavano riposte tra gli oggetti ricuperati dal relitto, e che ora viene azionato attaccando uno degli animali da tiro. Quattro caldaie di rame destinate alla raffineria dello zucchero, che inizialmente avevamo adoperato per custodire la polvere da sparo e che col tempo erano rimaste vuote, sono state murate una accanto all'altra in una specie di stufa costruita a regola d'arte. Una macina a torchio per ottenere l'olio delle noci, mandorle e olive, sostituisce ora il vecchio noioso torchio da farmacia col quale non volevamo più a lungo infastidirci. Un'altra macchina ci serve per parecchi usi; in primo luogo per maciullare il lino, mediante una rotonda pietra da macina, invece di batterlo come facevamo una volta; in secondo luogo per spremere mediante un rullo di legno i grappoli d'uva dopo la sospirata vendemmia, e infine per frantumare i semi di cacao per mezzo di una pietra piatta che gira lentamente. La base o vasca della macina è una grande pietra di steatite un po' incavata che appena presa dal suo giacimento si lasciava lavorare molto facilmente, ma che asciugata all'aria e opportunamente lavorata al fuoco ha acquistato una straordinaria durezza. Questa pietra ha un bordo alto nove pollici circa e poggia su un forno costruito a terra per cui, all'occorrenza, può essere riscaldata, A poco a poco, ammaestrati dall'esperienza, abbiamo protetto con tettoie e pareti gli impianti all'aperto sicché anche durante la stagione delle piogge possiamo lavorarvi intorno senza fastidio. Tutti gli allestimenti che producono sporcizia o cattivo odore, come la concia delle pelli o la preparazione delle candele di sego, vengono eseguiti come prima nell'Isolotto della Balena. Il laboratorio per tali faccende 15
Frutto tropicale originario delle Antille. (N.d.T.)
è stato ricavato facendo saltare la roccia al di sotto di una sporgenza naturale e così è sufficientemente protetto dai danni delle intemperie. A Waldegg è stata creata una regolare piantagione di cotone e la palude del riso è stata trasformata in una risaia vera e propria, che ci compensa delle fatiche spese con splendidi raccolti. Non abbiamo trascurato nemmeno Hohentwiel, da' cui ricaviamo regolarmente considerevoli scorte di capperi che conditi col pepe vengono conservati sott'aceto per essere consumati più tardi. Ogni anno subito dopo la stagione delle piogge spuntano anche le nuove foglie delle piante da té che vengono raccolte con ogni cura, seccate e conservate in vasi a chiusura ermetica. Immediatamente prima del periodo delle piogge invece partiamo animosamente per il raccolto delle canne da zucchero mature e del miglio palustre. Da Hohentwiel naturalmente di tanto in tanto facciamo anche una piccola escursione verso la Chiusa per vedere se elefanti o altri animali pericolosi si sono aperti un varco o se qualcuno è rimasto preso nei lacci o nelle bocche di lupo. I nostri animali domestici, volatili e quadrupedi, si trovano in ottime condizioni e si sono moltiplicati. Ciò vale specialmente per i colombi e i polli; questi ultimi sono diventati una vera popolazione, perché con l'aiuto dei magnifici volatili indigeni la razza si è migliorata. Il nostro pranzo non manca mai di squisiti galletti o di piccioni arrosto e più di un proprietario terriero potrebbe invidiare la nostra scorta di uova sempre fresche. Dei vitelli che nascono tutti gli anni ne abbiamo allevati due, un toro di gran coraggio e straordinaria forza e una graziosa brava mucca che si chiama Bianca per il colore chiaro del suo pelame, mentre il toro per i suoi ruggiti minacciosi è stato chiamato Bruii. Entrambi sono stati addestrati, si capisce, tanto alla sella quanto al tiro e al trasporto carichi, esattamente come Freccia e Rapido, due giovani asini, regalatici da Folgore. Naturalmente anche il numero dei maiali è aumentato enormemente e già da un pezzo siamo stati costretti a trasferire le bestie più vecchie dalla zona costiera alla steppa dell'entroterra. Anche il bestiame minuto si è moltiplicato allo stesso modo e ora possiamo non solo macellarne senza pensieri - infatti sulla nostra tavola si alternano piacevolmente agnelli e selvaggina - ma ne abbiamo lasciato andare
una parte allo stato brado nei luoghi incolti ed ora nelle nostre partite di caccia ne ritroviamo ogni tanto qualche capo confuso con le gazzelle. Con particolare amore alleviamo e curiamo nell'Isola del Pescecane alcune delicate, leggiadre antilopi che si riproducono solo lentamente. Poco tempo fa ne abbiamo portato una giovane coppia nel cortile del Rifugio di Roccia, ricco di cespugli, per rallegrarci alla vista delle graziose creature e dei loro divertenti balzi. Dei cani abbiamo lasciato in vita per il momento soltanto un cucciolo del bravo Cacciatore e anch'esso promette di diventare un ottimo segugio. Jack lo ha chiamato Coco. È un nome breve che pure risuona da lontano, destando un'eco magnifica nei boschi e nei crepacci. Dopo questo sguardo retrospettivo riprendo il filo del mio racconto. Come ho già detto, i miei figli, per quel che riguardava la libertà dei loro movimenti, si erano abbastanza affrancati dall'autorità paterna. In generale questo mi faceva piacere; non erano più ragazzetti e dovevo stare attento ad assicurare loro tempestivamente l'autonomia. Chi poteva mai sapere che cosa ci riservava ancora la vita e per quanto tempo avrebbero potuto chiedere consiglio al padre e alla madre? Così una volta Fritz era sparito fin dal mattino dal Rifugio di Roccia. Solo verso sera capimmo dall'assenza del caiak che doveva aver fatto una gita per mare. Ci recammo quindi sull'alta guardiola dell'Isola del Pescecane per scrutare il più lontano possibile alla ricerca del nostro fuggiasco; facemmo svolazzare al vento anche la bandiera e caricammo il cannone per le segnalazioni. Per un pezzo non vedemmo nulla; infine però scorgemmo un piccolo punto nero sulla superficie del mare, ancora rischiarata dalla luce del sole e non passò molto che potevamo già discernere col cannocchiale il nostro signor groenlandese nel suo caiak. Vogava ritmicamente sullo specchio d'acqua e si avvicinava alla costa del Rifugio di Roccia, benché più lentamente di quanto mi aspettassi. — Numero uno, fuoco! — comandò allora Ernst, come ufficiale di guardia e Jack fece fuoco rapidamente. Poi tutti prorompemmo in un lieto urrà e ci affrettammo a scendere dall'altura fino a riva per
arrivare, se possibile, prima di Fritz ed accoglierlo sulla spiaggia. Avevo appena raggiunto la Baia della Salvezza che subito vidi che cosa aveva rallentato la sua corsa; una pesante preda galleggiava infatti legata al fianco del suo caiak. Dietro l'imbarcazione veniva rimorchiato un altro sacco di ragguardevoli dimensioni che doveva essere ugualmente d'impaccio. — Benvenuto, Fritz, benvenuto! — gli gridai ancora da lontano. — Da quale terra o da quale mare? Hai fatto buona caccia a quanto pare perché ti vedo carico come un carro da trasporto. Dove sei stato a gironzolare, birbante? Beh, la cosa più importante è riaverti qui di nuovo sano e salvo. — Certo, — rispose Fritz, — sto benone. Ho fatto un ricco bottino e scoperte… scoperte, vi dico, che ci richiameranno là molto presto. Il caiak era appena approdato e già gli altri fratelli tra grida festose lo alavano in secco con il rematore dentro e lo trascinarono fino alla nostra abitazione; subito dopo furono trasportati su una barella un informe gonfio animale marino simile a un grosso rospo e un sacco pieno di grandi conchiglie piatte e spesse. Poi ci sedemmo tutti intorno a Fritz che si era disteso per riposarsi, avidi di sentire il resoconto del suo viaggio che già sembrava quasi uscirgli spontaneamente dalle labbra. — Non ti sarai arrabbiato, spero, caro papà, se sono partito senza salutarti — cominciò Fritz. — Avevo infatti una gran voglia di esplorare una buona volta la zona oltre gli scogli in cui ho abbattuto il tricheco. Non ero affatto sicuro del tuo consenso, poiché l'esito della gita era molto incerto, e così decisi di svignarmela alla chetichella e di rabbonirti in seguito col racconto del mio successo. Di nascosto munii perciò il caiak di viveri, acqua da bere, munizioni e ogni sorta di arnesi per la pesca, aspettando con impazienza l'occasione buona per partire. «Oggi la bella mattinata e il mare calmo mi hanno spinto irresistibilmente ad attuare il mio piano. Me ne sono andato quatto quatto mentre eravate ancora occupati in casa, ho preso all'ultimo momento una buona accetta, ho chiamato l'aquila e quindi mi sono imbarcato abbandonandomi alla corrente del Torrente degli Sciacalli, che in poco tempo mi ha portato fuori della vostra vista. Osservavo
però con attenzione l'ago della bussola per ritrovare facilmente la via del ritorno. Quando sono giunto oltre il posto in cui tanto tempo fa abbiamo fatto saltare il vecchio relitto, ho avvistato in una zona, che non doveva essere molto profonda perché l'acqua era particolarmente limpida e calma, molti dei nostri cannoni più grandi, sbarre di ferro, palle e tanta altra roba che giaceva sul fondo. Peccato che ci manchino gli attrezzi adatti a ricuperarli! «Da lì mi sono diretto di nuovo diagonalmente ad ovest verso la costa, passando tra le scogliere che parevano frammenti di un grosso promontorio distrutto. Qua si accatastavano lastre e blocchi di pietra, là emergevano dal mare o stavano proprio a pelo dell'acqua scogli isolati e pezzi di roccia. Sulle rocce più inaccessibili si erano insediati uccelli marini in quantità, che dovevano avervi il loro nido e svolazzavano intorno stridendo furiosamente. Dove invece c'era qualche scoglio più piatto ed accessibile si vedevano grossi animali marini; parte Tonfavano distesi al sole, parte squittivano, stridevano, sbuffavano, urlavano. Per lo più stavano distesi a branchi, ognuno secondo la propria razza, otarie, orsi marini, foche elefantine, ma soprattutto trichechi. Vi confesso che fra tutti quegli animali giganteschi non mi sentivo precisamente a mio agio e perciò cercavo di sgattaiolare inosservato tra gli scogli, anziché passare in mezzo ad essi cavallerescamente a viso aperto. «Solo dopo un'ora e mezzo circa mi sono sentito del tutto al sicuro e mi sono trovato davanti a un magnifico arco di roccia, che la natura sembra aver costruito nel superbo stile gotico o antico germanico. Si apre come l'arcata a sesto acuto di un enorme ponte; dall'altra parte però la roccia si prolunga sul mare come un promontorio di considerevole altezza. «Sono passato con cautela attraverso quell'arco naturale senza trovare nulla di notevole e, uscito finalmente dall'altra parte, mi sono trovato in una magnifica baia, formata dalla riva bassa e ridente di una steppa sterminata, interrotta qua e là da diversi incantevoli boschi, chiusa a sinistra da enormi rocce e percorsa e irrigata a destra da un largo placido fiume. Di là dal fiume pareva estendersi una vasta zona paludosa, e un denso bosco di cedri impediva infine ogni altra vista.
«Vogando lungo quella bella riva sul mare liscio come uno specchio, ho notato a profondità diverse, soprattutto sul fondo sassoso, banchi più o meno estesi di grosse conchiglie della specie dei bivalvi, come le ostriche. "Sarà un cibo più saporito e più ricco" ho pensato "delle piccole ostriche che troviamo alla Baia della Salvezza". Perciò con l'arpione del caiak ho staccato alcune conchiglie dal fondo scoglioso, le ho raccolte nella rete a sacco, mi sono accostato a riva e, senza nemmeno scendere dal caiak, le ho gettate a terra e sono tornato subito indietro per fare un secondo carico, che avevo deciso di portare al Rifugio di Roccia; per conservarle meglio le ho rimorchiate per mare dietro il canotto, chiuse nella solita sacca da viaggio. «Quando sono tornato al posto in cui poco prima avevo gettato le conchiglie e mi sono guardato intorno per cercarle, le ho trovate sulla riva tutte sciupate dal sole cocente e completamente aperte, il che mi ha tolto ovviamente la voglia di mangiarne. Tuttavia ero curioso di osservare un po' meglio le ostriche. Ho fatto allora diversi tagli nella polpa dei molluschi e l'ho trovata dappertutto così tigliosa che dubito parecchio che si possano mangiare, anche se cotte. Qua e là anzi il taglio incontrava qualcosa di duro, ho continuato a frugare e, guarda un po', presto con la punta del coltello ne ho tratto fuori un paio di chicchi più o meno grandi che sembravano proprio di madreperla tornita. Ho esaminato allora una per una tutte le ostriche. I graziosi pisellini si trovavano per lo più tra il mantello e la valva e uno di essi era grosso perfino quanto una nocciola mezzo matura. «Ho raccolto qui insieme nel mio astuccio di bambù tutte le palline che ho potuto trovare nelle ostriche. Guardale bene, babbo, e se queste non sono le più belle perle orientali, potete chiamarmi pulcinella.» — Fa' vedere, Fritz, fa' vedere! — esclamarono i fratelli. — Perbacco, come sono belle, come splendono! Ma questa è una magnifica scoperta! — Certo, — dissi, — hai trovato un vero tesoro, caro figliolo, che popoli interi ci invidierebbero, se venissero a saperlo. Ma senza rapporti commerciali in verità queste meraviglie ci servono poco. Tuttavia visiteremo al più presto il luogo in cui hai trovato le
ostriche; la scoperta potrebbe essere in avvenire molto proficua per noi. Ora però, va' avanti! — Quando mi sono un po' ristorato, mangiando e bevendo qualcosa, — continuò Fritz, — ho proseguito il viaggio a casaccio, costeggiando la riva bassa, via via sempre più frastagliata da parecchie piccole insenature. Ma a causa della sacca piena di ostriche che mi rimorchiavo appresso, non avanzavo gran che. Sono passato davanti al fiume osservato prima; aveva un salto irrilevante ed era ricoperto di bellissime piante acquatiche. Pareva quasi un prato ricco d'erba, tanto più che svariati uccelli marini, soprattutto palmipedi, vi correvano sopra come su un terreno asciutto. Dopo aver rinnovato la mia provvista d'acqua dolce nel fiume, mi sono affrettato a continuare l'esplorazione dei confini della grande baia, che ho deciso di chiamare Grande Baia delle Perle. Presto ho raggiunto il promontorio opposto, che sta dirimpetto quasi simmetricamente all'arco gotico. Considerata in linea retta, la distanza dall'arco al promontorio può essere forse di un'ora e mezzo o due ed entrambi si prolungano molto sul mare; all'interno delle loro punte una scogliera congiunge un capo all'altro, separando la baia dal mare aperto, tranne in un punto che rimane libero, offrendo un comodo passaggio. Il resto mi è sembrato completamente riparato dagli scogli e dai banchi di sabbia e rappresenta dunque un magnifico porto naturale a cui manca soltanto una città. «Ho tentato di sfruttare subito l'accesso appena scoperto anche per uscire dalla baia, ma il flusso della marea, in quel momento appunto nella sua fase ascendente, mi contrastava con tanta violenza che, per non fare scuffia, ho dovuto rinunciare senz'altro al mio proposito. Per conseguenza ho vogato lungo la scogliera verso il promontorio esterno finché non l'ho raggiunto e poi ho proseguito costeggiando di nuovo l'imponente parete rocciosa, senza incontrare più alcun arco come quello della parete opposta. Presto ho avvistato invece una quantità di quadrupedi che mi sembravano grandi quanto una comune foca. Un po' li vedevo aggirarsi sugli scogli, un po' giocare nell'acqua, stuzzicarsi a vicenda, inseguirsi, immergersi e quindi uscire nuovamente dall'acqua. Avevo una gran curiosità di osservarli da vicino, meglio sarebbe stato ucciderne uno e portarlo via con me.
Ma erano anche troppo lontani perché potessero capitarmi a tiro e inoltre temevo di non poter avvicinarmi abbastanza inosservato o di ferire soltanto la preda che poi mi sarebbe sfuggita immergendosi. Ho immobilizzato quindi il mio canotto dietro una sporgenza della roccia e presa Lampo, la mia aquila, l'ho lanciata in aria verso il branco degli animali. Come una freccia l'aquila è piombata su una bella bestia adulta e quasi in un attimo l'ha accecata. Saltando di scoglio in scoglio mi sono precipitato sul campo di battaglia ed ho ucciso la bestia col gancio d'accosto; con stupore mi sono accorto allora che non c'era più alcuna traccia delle altre, sparite tutte come per incanto.» — Ma come hai fatto, — gli chiesi a questo punto, — a riportare a casa così abilmente la tua preda? Perché è davvero troppo pesante per un'imbarcazione leggera come la tua. — Certo, c'è voluta abbastanza fatica e riflessione, — rispose Fritz, — poiché a nessun costo l'avrei lasciata indietro e benché mi fosse venuto in mente di attuare l'accorgimento dei groenlandesi, cioè di gonfiare d'aria la bestia (che era una lontra marina), non potevo certo mettere la bocca tra pelle e carne dell'animale ucciso e d'altra parte non prevedevo un risultato favorevole; con me non avevo nemmeno qualcosa che fosse simile a un tubo e non avrei potuto trovare sulla nuda roccia né canne né uncini. «Mentre me ne stavo così a guardarmi intorno, come inebetito, mi sorprese la gran quantità di uccelli marini che mi frullavano attorno sempre più vicino. Gabbiani, rondini di mare, albatri, aquile di mare ed altri ancora mi venivano quasi addosso sfacciatamente, tanto che alla fine, persa la pazienza, ho cominciato a menar colpi alla cieca col gancio d'accosto. Per fortuna ho preso un grosso uccello così bene da gettarlo a terra stordito, con le ali distese. Era un magnifico albatro che, almeno credo, i marinai chiamano "pecora" o "nave da guerra". Mentre l'uccello giaceva così davanti ai miei occhi, mi sono caduti sotto lo sguardo all'improvviso i cannelli delle sue penne remiganti, che potevano servire ottimamente allo scopo. In fretta ne ho strappate alcune delle più grandi e me ne sono servito per gonfiare la lontra marina in modo che potesse mantenersi a galla. Ma era anche tempo di pensare al ritorno; quindi ho tirato il caiak oltre il lato
esterno della scogliera, ho legato con ogni cura i tesori che avevo appena conquistati sopra e dietro il caiak e, passando felicemente con l'aiuto di Dio attraverso la risacca sino al mare aperto, mi sono trovato in breve tempo di nuovo in acque conosciute. Già da lontano ho visto sventolare la nostra bandiera e dopo un po' ho udito anche il rombo del cannone, segno della vostra gradita vicinanza.» Questo fu il racconto di Fritz e appena ebbe finito i miei si diedero da fare attorno al suo bottino. Allora Fritz, vedendo tutti gli altri, non esclusa la mamma, così alacremente affaccendati, mi fece cenno di seguirlo di nascosto in disparte. Lo seguii curioso fino ad una panca piuttosto discosta. — Immagina un po', babbo, immagina che cosa strana mi è capitata oggi con l'albatro! Mentre lo tenevo in braccio, mi sono accorto all'improvviso con stupore che una delle sue zampe era avvolta da una striscia di lino. L'ho svolta subito e, osservandola attentamente, ho notato che vi era stato scritto qualcosa con una specie di lacca porporina e ho letto distintamente le seguenti parole in lingua inglese: «Salvate la sfortunata inglese dello scoglio fumante!». — Che cosa dici mai? — proruppi. Fritz mi prese per un braccio. — Nevvero? — mi chiese con voce repressa, quasi rauca, guardandosi intorno in cerca degli altri. — Oh, che cosa ho provato, babbo! Come fossi stato colpito dal fulmine. Leggevo e rileggevo continuamente quelle parole! «Dio mio» pensavo, «è verità o illusione? C'è ancora un'anima viva in questa sconfinata solitudine? Da dove può esser venuta? Ma certo», pensavo ancora, «come siamo finiti qui anche noi, per tempesta o naufragio! Oh, se potessi trovare quell'infelice e salvarla o almeno portarle conforto e speranza! Povera creatura!» «Agitato da quei pensieri cercavo intanto di far rinvenire il povero uccello; ho bagnato rapidamente una penna, così mozza com'era, nella ferita insanguinata della lontra e ho scritto prima sulla striscia di stoffa trovata, ma poi anche su un pezzo di tela strappata dal mio fazzoletto, le seguenti parole in inglese: "Confidate in Dio! Forse la salvezza è vicina!". «Subito dopo ho legato le due pezzuole attorno alle zampe
dell'albatro affinché la povera inglese – se mai riuscirà a rivedere l'uccello – possa subito accorgersi, vedendo due strisce anziché una, che l'albatro è stato in mani estranee. Ho infatti pensato: "La naufraga avrà certo addomesticato almeno in parte l'albatro e questo ritornerà prima o poi da lei sullo scoglio fumante, che forse non è molto lontano da qui". «Con un po' di idromele corroborante sono riuscito a far rinvenire l'uccello stordito, che si è mosso incerto sulle zampe, ha disteso le ali e, dopo un timido tentativo, tutt'a un tratto è volato via precipitosamente verso ovest. Sono rimasto sbalordito e deluso, giacché avevo sperato di poterlo seguire remando. Ma in un baleno l'avevo già perduto di vista. «Ora però, babbo, mi tormenta di continuo il pensiero: arriverà mai il messaggio alla sfortunata inglese? Dove sarà mai rifugiata? Riuscirò a trovarla e a trarla in salvo?» — Mio caro figliolo, — gli dissi, — questo è certamente l'avvenimento più straordinario di tutti quelli che ci sono accaduti finora e mi rallegro dell'accortezza con cui ti sei comportato. Hai fatto bene a confidarti per il momento solo con me. Una tale notizia causerebbe soltanto un'agitazione generale senza alcun giovamento, tanto più che non possiamo sapere esattamente quando la striscia sia stata scritta. Potrebbe essere accaduto parecchio tempo fa, e in tal caso l'inglese potrebbe essere già morta; non sappiamo nemmeno se la donna non sia stata sbattuta dalla tempesta in un luogo tanto lontano da rendere impossibile il suo ritrovamento. Infatti, come è noto, l'albatro è un potente volatore, capace di percorrere enormi distanze volando e aiutandosi con le correnti aeree e potrebbe esser giunto da molto lontano impiegando solo pochi giorni fino al luogo in cui tu l'hai preso. Ora però torniamo dagli altri, debbo fare una dichiarazione che ti riguarda. Tenendoci per mano ci avvicinammo al cerchio dei nostri cari che, presentendo qualcosa di particolare, si disposero in silenzio come per un solenne ricevimento; alzai la voce e dissi in tono grave: — Ecco, madre, presento a te tuo figlio e a voi, figlioli, il vostro fratello maggiore, col riconoscimento ufficiale che egli già da lungo tempo, ma soprattutto in quest'ultima occasione ora descrittaci, si è
dimostrato così attivo, coraggioso e saggio da essere considerato da me d'ora in avanti come un giovane assolutamente indipendente; desidero che anche voi tutti lo rispettiate come tale. Da questo momento in poi starà al mio fianco come un amico. Può agire secondo la propria volontà e il proprio giudizio; lo dichiaro quindi formalmente libero dalla mia autorità paterna. Fritz era molto commosso dalla scena solenne. La mamma con le lacrime agli occhi per la gioia lo trasse a sé, gli diede un bacio affettuoso e si allontanò in fretta per preparare, come disse lei stessa, un pasto particolarmente sontuoso per festeggiare la giornata. I fratelli si congratularono di cuore con Fritz per la sua emancipazione e tutti quanti celebrammo l'avvenimento con canti di gioia e seri conversari, sino a notte inoltrata. L'indomani, appena le solite faccende della mattinata furono in qualche modo sbrigate, i quattro giovanotti mi tempestarono di preghiere affinché si partisse senza indugio per la pesca delle perle. — Piano, piano! — fu la mia risposta. — Perché il lavoro proceda bene, bisogna anche provvedersi degli strumenti adatti. Se mi lasciate predisporre con cura l'operazione e se ognuno di voi procura qualcosa di utile per la gita, anch'io verrò volentieri con voi. Ci mettemmo senz'altro all'opera tutti insieme; io stesso forgiai due rastrelli di ferro più grandi e due più piccoli e li munii di robusti manici di legno. Ai due rastrelli più grandi fissai degli anelli di ferro, per legarli alla barca per mezzo di cavi; in tal modo vogando nella barca, li avremmo tirati lungo il fondo, dove potevano trovarsi le ostriche perlifere. Franz aiutò la madre a confezionare lunghe reti a sacco che, fissate ai rastrelli più grandi, dovevano servire a raccogliere immediatamente le conchiglie, via via che venivano asportate dal fondo marino. Fritz era molto solerte, ma anche molto taciturno e se ne stava sempre in disparte affaccendato in un lavoro di sua iniziativa che consisteva nel praticare nella copertura del caiak un'altra imboccatura per un secondo sedile, il che mi svelava abbastanza chiaramente la sua segreta speranza. I fratelli invece trovarono naturale che egli pensasse a preparare un posticino accanto a sé per uno o l'altro di loro e Fritz lo lasciò loro credere senza contraddirli.
Perfettamente equipaggiati di viveri e attrezzi, una mattina che vento e mare ci sembrarono particolarmente favorevoli, partimmo pieni di ansiosa speranza accompagnati dagli auguri affettuosi della mamma e di Franz che rimasero al Rifugio di Roccia. Percorremmo in breve tempo il cammino che Fritz ci aveva precedentemente descritto e arrivammo prima di sera alla Baia delle Perle. Ci preparammo subito per la notte. I cani rimasero a riva vicino al fuoco acceso, dove si trovarono perfettamente a loro agio. Noi invece dormimmo nella barca che avevamo ancorato ad una certa distanza dalla riva, ma sempre in modo da poter proteggere con i fucili, in caso di pericolo, la nostra truppa di terra. Dormimmo anche al caldo e placidamente, benché da principio l'ululato di alcuni sciacalli sulla costa ci avesse un po' preoccupati. Allo spuntar del giorno eravamo già tutti svegli; sbarcammo e, dopo aver fatto una sostanziosa colazione calda, ben presto remavamo senza perder tempo verso il banco delle ostriche, dove con i rastrelli, le reti e gli altri attrezzi pescammo in poco tempo una grande quantità di conchiglie. Il buon esito ci diede la voglia di perseverare in quel lavoro monotono, tanto quel giorno che nei due giorni successivi e raccogliemmo così un imponente mucchio, che disponemmo poi sulla riva in una massa compatta come un cubo un po' allungato. Ogni sera, circa un'ora prima che si apparecchiasse la cena, solevamo fare un giro nei dintorni della costa e tornavamo sempre con qualche bel capo di selvaggina, pernici, piccoli calandri, o altri animali del genere. L'ultima sera della pesca delle perle ci prese una gran voglia di addentrarci un po' più del solito nel bosco vicino, dove ci sembrava di aver sentito gridare tacchini o pavoni, di cui sentimmo subito un gran desiderio. Nello stesso tempo però speravamo di scovare eventualmente anche selvaggina di pelo. Ernst era andato un po' più avanti col bravo Fulvo; Jack, ad una certa distanza dietro di lui, bighellonava tra l'erba alta col suo Cacciatore, mentre io e Fritz ancora sulla riva volevamo prima mettere un po' in ordine i nostri attrezzi di lavoro. In quella si sentì improvviso uno sparo subito seguito da un grido di spavento e da un
secondo colpo. Immediatamente Bill e Bruno scattarono in direzione degli spari. — Qui c'è qualcuno in pericolo — gridò Fritz, correndo con altrettanta rapidità verso il luogo da cui si levava il frastuono, e nello stesso tempo tolse all'aquila il suo cappuccio. Poi la lanciò in alto davanti a sé e sparò un colpo di pistola; immediatamente dopo, anziché il precedente grido d'allarme, sentii il grido di gioia: — Vittoria! Vittoria! Si capisce che stavo già correndo verso il presumibile campo di battaglia; pensai allora di poter moderare il mio passo di carica. Tuttavia non passarono nemmeno due minuti ed ecco che scorsi fra i tronchi d'albero Jack che, sorretto da Ernst e da Fritz, mi veniva incontro vacillando come un paralitico. «Dunque, grazie a Dio, sta ancora in piedi» pensai «e non gli è andata poi così male come avevo temuto». Perciò non gli dissi nulla, ma richiamai i cacciatori e provvidi a farli riposare nel solito posto vicino alla riva, dove avevamo rizzato per le nostre necessità un tavolo, in verità piuttosto miserello, e un paio di panche. Quando i tre giovanotti mi si furono accostati, Jack cominciò a gemere, a lamentarsi, a piagnucolare pietosamente, tastandosi spaventato tutto il corpo e dicendomi, mentre mi indicava più di venti punti diversi: — Ecco, mi fa male qui, e qui, e qui, e qui. Sono tutto pesto come un chicco di pepe nel mortaio. Tuttavia esaminandolo più attentamente non trovai nient'altro che ecchimosi, di quelle che appaiono dopo un urto violento e dopo una percossa; in breve, tutto si riduceva a un indefinibile dolore nei muscoli. — Via, via! — esclamai, — a giudicare dall'apparenza, il dolore non dovrebbe essere così insopportabile. Qualche ammaccatura, non vedo niente altro; questo non deve far perdere la testa a un giovane cacciatore valente come te. Ma che cosa è stato? — Altro che ammaccature! — ribatté Jack. — Pestato, schiacciato, quasi maciullato sono; per un pelo quella bestiaccia non mi ha sbudellato e allora, adieu giovane cacciatore! Ma i bravi cani e Lampo, l'aquila di Fritz, hanno mostrato alla belva dove il diavolo tiene la coda.
— Su, parla una buona volta! Che genere di belva ti ha dunque massaggiato? — Oh! — esclamò Ernst, — era un orribile cinghiale d'Africa con mostruose escrescenze di carne sotto gli occhi e alle tempie, con le zanne lunghe mezzo piede e un grugno largo un palmo col quale rivoltava il terreno scavando solchi veri e propri, come fa il vomere dell'aratro. — Beh! Allora il pericolo c'è stato davvero. Ora cureremo e ristoreremo un pochino il povero Jack. Intanto la paura è passata. Diedi al paziente un bicchiere di spumante di nostra produzione e gli lavai con quello anche le contusioni, lo portai poi nell'alloggio notturno della barca, dove il giovanotto si addormentò così presto e pacificamente che non ebbi più alcun timore per la sua salute. — Ora però, — dissi a Ernst, appena tornato a riva, — raccontami la storia del cinghiale d'Africa, perché non ho ancora ben capito come si è svolta la vicenda. — Ero entrato per primo nel boschetto assieme a Fulvo, — cominciò Ernst, — quando il cane si è staccato da me all'improvviso, precipitandosi nella macchia. La bestia doveva stare rintanata là, perché tutt'a un tratto è uscita di furia dall'intrico, soffiando e stronfiando paurosamente. Mi sono spaventato non poco, poiché il mostro aveva un aspetto poco rassicurante, quando si è fermato ad una certa distanza, affilando le zanne ad un albero. Nel frattempo anche Jack era entrato nel bosco e appena Cacciatore ha fiutato da vicino la selvaggina si è slanciato ululando e girando attorno al cinghiale, assieme a Fulvo, per scoprirne il lato debole. Mi sono avvicinato con prudenza alla bestiaccia, nascondendomi dietro ogni albero per arrivare non visto a una buona distanza e sparare con sicurezza. Frattanto Cacciatore si è fatto avanti in modo piuttosto avventato, buscandosi dalla bestia che rinculava una zampata tale da farlo vacillare mugolante. Jack se ne è indispettito, è saltato fuori, ha fatto fuoco e ha mancato, o almeno ha preso solo di striscio, superficialmente, il cinghiale. Si capisce che a questo punto la bestia si è infuriata sul serio e gli si è scagliata contro. Jack è scappato via subito; ho tirato per venirgli in aiuto, ma ho colpito male, facendo inferocire la bestia ancora di più. Il nostro ragazzo correva come un
ottentotto e sarebbe certo riuscito a farla franca se non avesse inciampato in una radice d'albero. Nell'attimo in cui la belva si gettava su di lui, Fulvo e Cacciatore sono riusciti ad attaccarla da dietro sicché, per difendersi dai suoi nuovi aggressori, la bestiaccia non ha più potuto fare nessun danno serio a Jack. In quel momento sono arrivati anche Bill e Bruno, che l'hanno afferrata per le orecchie, mentre l'aquila piombava su di essa come un lampo, come dice il suo nome, e così Fritz ha potuto avvicinarsi senza pericolo per darle il colpo di grazia con la pistola. Allora abbiamo aiutato il dolorante Jack a tirarsi su ed eccoci qua, come eroi coperti di ferite che tornano da una battaglia. Fui costretto a ridere, tanto più che gli eroi gravemente feriti durante il racconto si erano messi bravamente a preparare la cena. Del resto il calar della notte ci spingeva con una certa urgenza a cenare e a riposare regolarmente. Avremmo voluto che i cani rimanessero vicino alla riva ma, senza che ce ne fossimo accorti, erano rimasti presso il cinghiale abbattuto e ci sembrò troppo tardi per andarli a prendere. Accendemmo quindi alla svelta il solito fuoco di guardia, mangiammo un po' di cibo freddo e ci ritirammo infine nella barca dove passammo la notte tranquillamente, senza che nulla di particolare turbasse i nostri sonni, come fossimo stati al Rifugio di Roccia. L'indomani per tempo, ben equipaggiati, ci mettemmo in cammino verso il campo di battaglia per esaminare il cinghiale caduto e vedere il modo di utilizzarlo. Lasciammo però a letto il povero Jack che dopo la sua paurosa avventura aveva certo bisogno di riposare più a lungo. Appena ci avvicinammo alla macchia, Cacciatore saltando di gioia ci venne incontro con gli altri cani che, incolumi, avevano fatto la veglia funebre al cinghiale. Presto fummo sul posto e veramente le dimensioni della belva uccisa, e soprattutto il suo aspetto mostruoso, mi riempirono di stupore. Mi parve che la spaventosa bestia avrebbe potuto reggere il confronto col bufalo selvatico e perfino col potente leone. Mentre in silenzio guardavo fisso il cinghiale, Fritz esclamò tutto allegro: — Perbacco, che bella occasione per sostituire i prosciutti
della Westfalia che abbiamo digerito già da un bel pezzo! Davvero, qui si possono ricavare dei cosciotti ancora più grossi di quelli. — E non dobbiamo dimenticare nemmeno la testa, — osservò Ernst, — che Jack ha diritto di esporre al museo. Prima, però, sarebbe necessario portare questo corpo massiccio di là, a riva, per squartarlo con ogni comodità come meglio ci pare. — Certo, — affermò Fritz, — anche questo si potrebbe fare. — Allora avanti, — dissi, — però temo che un cinghiale d'Africa adulto dia un arrosto poco saporito, esattamente come un cinghiale europeo adulto. Fritz intanto aveva abbattuto un gran numero di rami da un albero folto e frondoso. I rami furono legati insieme, distesi per terra e muniti delle funi occorrenti, di cui avevamo portato una buona scorta per ogni eventualità. Fu poi stabilito che ci saremmo accontentati della testa, delle quattro zampe, delle cosce e delle spalle. La bestia fu dunque squartata sul posto. Con i fasci dei rami preparammo cinque traini; davanti a tre di essi attaccammo i nostri tre cani; io presi il quarto, Ernst e Fritz il quinto. Ogni cane trascinava uno degli arti e lo stesso facevo io, mentre i due fratelli trasportavano la colossale testa con cui pensavamo di far piacere a Jack. Ci volle certo una bella fatica per far avanzare ordinatamente quel bestiame da tiro di nuovo genere, tuttavia giungemmo a riva senza perdere troppo tempo. Staccammo allora dai traini i cani ringhianti che in un baleno scapparono via tornando di filato nel boschetto; evidentemente avevano capito che avevamo abbandonato loro, come giusta preda, i resti del cinghiale, con cui si rifocillarono abbondantemente. In fretta Fritz prese in mano la vanga e cominciò a scavare una fossa con l'aiuto di Ernst. — Vogliamo fare una sorpresa a Jack, — disse, — e preparare la testa del cinghiale come un arrosto thailandese, il che tornerà anche a nostro profitto. Presto un bel fuoco allegro divampò nella fossa che i giovanotti avevano finito di scavare; per sfruttare le alte fiamme vi esponemmo le grosse zampe del cinghiale, allo scopo di eliminarne le setole; lo stesso facemmo con la testa, aiutandoci con una barra di ferro arroventata.
Jack nel frattempo si era ripreso abbastanza bene e aiutava validamente i fratelli a ripulire a dovere, per prima cosa, la testa del cinghiale. Intanto io toglievo alle quattro zampe le setole bruciacchiate, il che francamente non mi divertiva molto. Mentre eravamo intenti a questi lavori era già calato il crepuscolo. All'improvviso un terribile, risonante ruggito squarciò il silenzio. Rimanemmo agghiacciati e il cuore per un momento cessò di battere. Che cos'era? Ecco, di nuovo! Rimbombante, minaccioso, a brevi intervalli, ora più basso e cupo, ora più forte come una spaventosa sfida. Puntammo lo sguardo nella crescente oscurità. Veniva di là, dal bosco. Per qualche minuto regnò un silenzio sepolcrale, poi di nuovo il ruggito, profondo, tonante, che pareva erompere da un petto gigantesco. Fritz accanto a me stava rigido, gli occhi fiammeggianti. — Dev'essere… dev'essere… ma è un leone! — proruppe. Afferrò il fucile da caccia e in un salto fu nel suo caiak. — Ravvivate il fuoco, — gridò deciso, energico, — ritiratevi nella barca! Fucili pronti! Io mi allontanerò a remi e cercherò di giungere dall'altra parte. Veloce come una freccia filò verso la foce del torrente e scomparve in un baleno. Meccanicamente obbedimmo in fretta agli ordini rapidamente lanciatici. Tutto quello che si poté afferrare nella furia fu gettato nel fuoco come legna da ardere. Agguantammo i fucili, ci gettammo a tracolla i coltelli da caccia e saltammo nella barca, tenendoci pronti con ansia affannosa a sparare verso terra o a fuggire a tutta forza per mare. In quel momento anche i cani, Cacciatore e mastro Pizzichino si precipitarono come furie dal bosco, correndo verso il fuoco. La scimmia saltava qua e là lungo la riva digrignando i denti, poiché non poteva raggiungere la barca senza fare un bagno. I cani e lo sciacallo rimasero dietro il fuoco col pelo irto, le orecchie tese, guardando fisso verso i margini del bosco e alternando furiosi latrati a lamentosi guaiti. Nel frattempo il terribile ruggito si era ripetuto a brevi intervalli. Si avvicinava sempre più e veniva chiaramente dal luogo in cui era stato ucciso il cinghiale. Probabilmente l'invisibile regale nemico aveva sentito al fiuto la carogna e ne era stato attratto. Ma si trattava in realtà del leone? Non osavo più dubitarne. Veramente fino a quel momento non ci eravamo
mai imbattuti in un leone, ma quella voce non poteva essere di un animale meno possente. Ecco! Che c'era là, all'estremo orlo del cerchio luminoso? Qualcosa che fino a un momento prima non avevamo scorto… ed ora… un nuovo furibondo ruggito da far gelare il sangue nelle vene e in due, tre enormi balzi un vigoroso animale si slanciò verso di noi. Era proprio il leone! Un brivido ci passò per il corpo. Ed ora, che sarebbe accaduto? Per qualche secondo la belva rimase immobile di là dal fuoco, ancora ad una certa distanza. Poi si sdraiò, acquattandosi con mossa felina, mentre il suo sguardo lampeggiante andava senza posa dai cani ai cosciotti di cinghiale appesi al fuoco. Poi si rialzò lentamente, cominciò ad andare su e giù a passi misurati, si fermò, emise un ruggito breve, violento e ricominciò a percorrere il semicerchio attorno al fuoco. Un paio di volte si diresse verso il torrente con rapidi balzi, bevve, tornò indietro in fretta. Ogni volta si avvicinava di più al fuoco, i suoi balzi divenivano più elastici, ogni nuovo ruggito risonava più minaccioso. I cani stavano dietro al fuoco con i muscoli contratti, mugolando. La nostra tensione si acuiva sino a diventare insopportabile. Non osavo sparare; il guizzante bagliore delle fiamme, gli imprevedibili movimenti del leone non permettevano una mira sicura. Ecco, si fermava, si rannicchiava, accovacciato, la testa tra le zampe distese, gli occhi sfavillanti, mentre la coda sferzava la terra a destra e a sinistra. Respirando profondamente alzai il fucile. In quell'attimo dall'oscurità risonò vicinissimo uno sparo. Trasalii. Era Fritz! Il leone scattò in alto con un terribile penetrante ruggito, rimase rigido per qualche attimo, vacillò, poi crollò stramazzando e rimase là disteso, immobile. — Salvi! — gridai ancora mezzo soffocato dall'emozione, — pare colpito al cuore! Un colpo da maestro! Per il momento rimanete nella barca, pronti a sparare, non si può mai sapere. Andrò io a vedere. Dopo alcune vogate saltai in un fondale basso e mi arrampicai in fretta fino a riva. I cani mi accolsero con mugolii di gioia, ma si appostarono subito di nuovo allontanandosi da me, spiando la zona buia da dove era venuto il leone. Dunque l'aria non era ancora sgombra? Il pericolo non era passato? Rimasi dietro il fuoco col fucile spianato. Ed era vero! Di nuovo dall'oscurità si avvicinava a
noi a lunghi e terribili salti una possente bestia, appena un po' più piccola dell'animale caduto, la leonessa! Si fermò di botto per un attimo davanti al fuoco, ma poi non si curò né di esso né dei cani, si aggirò inquieta, con brevi ruggiti che sonavano quasi come un richiamo, intorno al cerchio esterno della zona di luce. Era chiaro che cercava il suo compagno. Che fortuna che non fossero arrivati entrambi contemporaneamente! Ecco, lo aveva scoperto. In due balzi fu al suo fianco, lo annusò, lo tastò con le zampe anteriori, leccando la ferita insanguinata; poi si rizzò in alto prorompendo in un lungo terribile ululato di dolore che ci fece rabbrividire per tutte le membra. — Bang! — Un nuovo colpo risonò e la zampa destra della belva si abbassò paralizzata; mirai alla testa – ne ebbi appena il tempo – e feci fuoco. Un nuovo orribile ruggito: la mascella inferiore era fracassata. In quell'attimo tutti i cani si slanciarono avanti come impazziti e aggredirono la belva addentandola in vari punti. Ed allora cominciò una paurosa lotta. Un confuso groviglio di corpi che scattavano, si rotolavano, si torcevano, a malapena rischiarati dalla debole vacillante luce del fuoco piuttosto distante, giù a riva; un miscuglio di strida e di ruggiti infuriati della leonessa, di guaiti e dell'ansito dei cani. Non osavo sparare un secondo colpo per timore di uccidere uno dei nostri cani. In quel momento il terribile animale diede una potente zampata a Bill, che temerariamente gli aveva azzannato la gola, e le squarciò il ventre. Fuori di me balzai avanti e cacciai il coltellaccio nel petto della leonessa: troppo tardi. Anche Fritz uscì troppo tardi dal buio della macchia, col fucile spianato, pronto a sparare. Il nemico era morto, ma la sua morte era stata pagata a caro prezzo. Chiamati ad alta voce da noi, anche Ernst e Jack vennero di corsa nella barca. Muti e commossi ci abbracciammo. Avevamo vissuto una terribile mezz'ora. — Venite, — dissi infine. — Prendete dei tizzoni. Voglio osservare più attentamente il campo di battaglia. Così fu fatto e, come del resto ci aspettavamo, trovammo la povera Bill morta, le mascelle ancora strette convulsamente alla gola della leonessa, ma crudelmente dilaniata, vittima della sua fedeltà e
del suo coraggio. — Oh, Ernst! — disse Fritz dopo un profondo silenzio, — dovresti scrivere un bell'epitaffio in suo onore. Se lo è veramente meritato, penso. — Certo, — rispose Ernst, — ma la mia fiacca musa è ancora agghiacciata dallo spavento patito. Guardate però che razza di animali, che fauci, che artigli! In verità, poteva andare a finire diversamente. — Certo, — esclamai, — senza il magistrale tiro di Fritz la faccenda sarebbe stata ben peggiore. I miei complimenti, figliolo! Ti sei comportato egregiamente! Fritz arrossì di gioia. — Domani, penso, scorticheremo le belve, tirando la pelle dalla testa, — disse, — però Bill dovrebbe essere seppellita subito, al lume delle fiaccole, per la sua meritata pace. Subito Fritz e Jack prepararono la fossa, che in quel terreno leggero poté essere scavata in fretta. Io intanto staccai dalla gola della leonessa i denti della nostra fedele compagna, dopo di che esaminai gli altri cani, Bruno e Fulvo, e anche Cacciatore e mi accorsi che c'erano da curare alcune ferite, anche se non gravi. Poi deponemmo l'eroina caduta nella sua tomba, che colmammo di terra, ripromettendoci di innalzarvi un giorno un imponente tumulo. — E quando avrà il suo epitaffio? — chiese Fritz. — È già pronto, — rispose Ernst, e cominciò in tono sommesso: — Qui, dopo lunga attività operosa Tranquillamente, come voi vedete, Cane o amazzone, Bill or si riposa. Da viva errò con noi per mille mete Lottò, cacciò, vegliò con grande onore Fu mite in pace e nelle ore liete Soffri la morte per il nostro amore: Audace in gran pericolo, i padroni Protesse, dando prova di valore. Gloriosamente soggiacque a due leoni. Non trovi eroe che come lei fedele Affrontasse il destino dei campioni. — Molto bene, vecchio mio, — disse Jack, dopo un breve silenzio, stringendo la mano al fratello. Fu subito stabilito che l'epitaffio sarebbe stato collocato al più presto vicino alla fossa, in modo che durasse il più possibile per il futuro.
— A momenti, però, avremo passato in piedi tutta la santa notte! — disse a questo punto Jack. — La faccenda dei leoni ci ha impegnati davvero a lungo e ho l'impressione che la brezza mattutina mi soffi dentro! Sono vuoto come una canna d'organo, poiché nel mio stomaco non è entrato più nulla da un pezzo. Speriamo che la brace non abbia consumato nella fossa la magnifica testa del cinghiale, mummificandola! Immediatamente anche in noi tutti si fece sentire lo stesso bisogno. A un tratto ci sentimmo gelare per la fame e senza perderci in chiacchiere trottammo con una certa fretta verso il fuoco da campo, dove la fossa fu subito ventilata e ripulita. Ma l'arrosto di selvaggina tanto desiderato aveva in realtà un aspetto non più invitante di quello che potrebbe offrire un ceppo di quercia carbonizzato. I tre fratelli sedevano là intorno indispettiti e non avevano nemmeno l'animo di cominciare a infilzarlo o a tagliarlo. Io però penetrai coraggiosamente col coltello attraverso la poco rassicurante apparenza esterna e presto, sotto lo strato carbonizzato, il grugno del cinghiale si rivelò così saporito da offrirci il più gradevole e rifocillante pasto. Appena sparecchiato ci coricammo nella barca, per le tre o quattro ore di notte che ancora ci rimanevano, e fummo costretti a proteggerci dal freddo pungente. Il clima torrido è spesso molto pericoloso per l'aria gelida della notte e tale freddo può forse spiegare perché non pochi animali della zona torrida, come la iena e lo stesso leone, siano forniti di folto pelame. Allo spuntar del sole ci mettemmo di buon animo al lavoro che la nottata precedente ci aveva apportato, cioè la scuoiatura dei due leoni, ma l'operazione fu felicemente compiuta in un paio d'ore. Si capisce che lasciammo a terra i due corpi, e presto, da distanze incalcolabili, proprio come se fossero spuntati all'improvviso dal nulla, i più svariati uccelli divoratori di carogne si precipitarono in innumerevole quantità. Ne riconobbi solo qualche specie e del resto non avevo nessuna voglia di esaminarli meglio. Quanto più il sole che andava alzandosi arroventava l'aria, tanto più aumentavano le putride esalazioni delle ostriche accatastate e presto il puzzo fu così insopportabile che subito dopo la scuoiatura
della coppia di leoni affrettammo con piacere i preparativi per il ritorno. Jack osservò che la splendida pelle del leone poteva diventare un superbo mantello e se la mise sulla testa e sulle spalle, mentre i fratelli canzonandolo lo chiamavano secondo Ercole. Stavolta Jack non volle aver niente a che vedere col caiak; affermò di avere le mani ancora piagate per aver vogato con la pagaia e di non essersi ancora ripreso del tutto dalle ammaccature del cinghiale. Fritz caricò allora alcuni viveri nell'imbarcazione groenlandese e non si lasciò dissuadere dal prendervi posto, anche se da solo. Presto levammo l'ancora, dopo aver preso a bordo con noi i cani da caccia e ci accingemmo a lasciare la Baia delle Perle. L'attraversammo in linea retta verso l'imboccatura già descritta che, attraverso un punto meno riparato della scogliera, la collegava col mare aperto. Impiegammo quasi un'ora e mezzo prima di entrare nell'imboccatura; del resto Fritz, fidato pilota, ci aveva indicato la rotta col suo caiak. Giunti all'imboccatura però egli accostò un momento la sua imbarcazione, salì in barca e mi consegnò una lettera che, secondo la sua asserzione, doveva essere arrivata con la posta del mattino, mentre dormivo ancora. Ormai abituato agli scherzi che i miei giovanotti facevano con la posta e le lettere, mi prestai anche questa volta all'ormai usuale commedia; presi la lettera con aria grave e mi ritirai sotto la tenda che ci faceva da cabina per leggerla attentamente da solo. Scoprii allora con stupore che il cavalleresco giovane aveva ancora la testa piena delle sue idee avventurose e voleva correre in soccorso della sventurata inglese che col pressante invito affidato all'albatro pareva implorare il suo aiuto. Naturalmente l'impresa che, almeno secondo il mio modo di vedere, ritenevo fantasiosa mi rese perplesso e per qualche momento meditai sul modo di distoglierne il bravo ragazzo. Uscii di nuovo dalla cabina, ma Fritz nel frattempo aveva preso il largo e vogava allegramente già lontano in direzione opposta alla nostra. Non c'era quindi nient'altro da fare che gridargli dietro col megafono: — Buona fortuna, Fritz! Sii prudente e torna presto! Ma egli parve non aver nemmeno sentito il mio richiamo; non
diede alcun segno di risposta e scomparve ben presto dietro quel promontorio che, dirimpetto al Capo della Rupe Gotica, chiudeva la pittoresca Baia delle Perle e che stabilii di chiamare d'allora in avanti Capo di Buona Fortuna. Piuttosto preoccupati e di malumore proseguimmo la rotta verso est, poiché nell'attesa del ritorno di Fritz credevo opportuno non tenere in apprensione la mamma con la nostra prolungata assenza e così verso sera entrammo felicemente nella Baia della Salvezza. La gioia di rivederci fu molto turbata per mia moglie dall'assenza di Fritz e per Franz dalla morte di Bill, gloriosamente caduta. Furono invece molto graditi i superbi prosciutti e le due pelli di leone. Io cominciai con l'occuparmi delle pelli e fin dal giorno seguente le portai nel laboratorio di conciatura sull'Isola del Pescecane, dove le misi a macerare nella tinozza degli acidi, poiché avevo l'intenzione di prepararle in modo che si mantenessero soffici, conservando intatto il pelo. Cinque giorni trascorsero tra queste ed altre simili faccende, senza che si avesse la pur minima notizia di Fritz; i nostri pensieri erano continuamente rivolti a lui sicché ottenni i più vivi consensi quando proposi di andargli incontro o almeno di tornare fino alla Baia delle Perle, dove molto probabilmente il giovanotto ci avrebbe potuto trovare prima e con più certezza. Perfino la mamma ci spronò ad attuare senza indugio la proposta e il suo cuore affettuoso la indusse a partire senz'altro con noi, quando le promisi di allestire per il viaggio l'imbarcazione più grande, la lancia, che di solito non veniva usata. Senza ulteriori ritardi ci mettemmo all'opera. Spostando il centro di gravità, abbattemmo in carena l'imbarcazione, la levigammo internamente, calafatammo a perfezione i suoi fianchi, raddobbando in diversi punti la chiglia; in tali lavori mi davano una mano due dei figlioli. Il terzo aiutava la mamma indaffarata, che provvedeva ora ad aggiustare la velatura, ora a confezionare grossi sacchi per il nuovo raccolto del cotone e altri sacchi più piccoli per custodire la potassa che avevo intenzione di preparare, e infine a predisporre il necessario e svariato vettovagliamento, specialmente le gallette. Quando dopo qualche giorno tutto fu finalmente pronto, almeno in modo passabile,
ci imbarcammo un mattino di buon'ora, col bel tempo e un favorevole vento di levante. Tra urrà di gioia a cui si unì il festoso abbaiare dei cani, lasciammo la pacifica Baia del Rifugio di Roccia, raggiungemmo la zona della fresca brezza che ci prese per così dire sulle sue ali e presto fummo portati attraverso il mare aperto fino all'altezza del Capo della Rupe Gotica che con le sue alte punte aguzze era in vista già da lontano. A poco a poco raccogliemmo le vele, accostando a dritta. Solo con estrema cautela potemmo guidare l'imbarcazione, piuttosto grande, attraverso l'imboccatura della scogliera. Raggiungemmo la baia e presto potemmo scivolare, sospinti da un venticello tranquillo, sulla superficie dell'acqua liscia come uno specchio. Stavamo tutti alle murate e assistevamo ai vivaci giochi di alcuni delfini che nuotavano attorno alla lancia, quando all'improvviso uno strano oggetto richiamò in modo insolito la nostra attenzione. Molto in lontananza infatti mi sembrò di distinguere un indigeno in una canoa che, sbucato da dietro alcuni scogli, si fermò per un bel pezzo, sembrò sorvegliarci attentamente e scomparve di nuovo rapido dietro un piccolo promontorio della riva. Spaventato, ordinai di caricare i cannoni, di preparare tutti i fucili e di innalzare sul ponte il più velocemente possibile un robusto riparo con i numerosi fasci dei fusti di granoturco che avevamo portato con noi per preparare la potassa. Dietro di essi saremmo stati al sicuro da frecce, giavellotti o sassi scagliati con le fionde. Dopo poco tempo si mostrò un'altra canoa; anche questa, come la prima, portava un unico rematore che ancora una volta ci spiò di soppiatto, anzi più a lungo. A questo punto ritenni opportuno alzare la bandiera bianca di bordo per dimostrare in tal modo, ad un'eventuale turba di selvaggi nascosti, le nostre pacifiche intenzioni. Tuttavia l'uomo scomparve di nuovo. Se ne mostrò però un altro dopo breve tempo, dietro una punta di terra; avevo l'impressione che si avvicendassero per osservarci meglio e che ognuno singolarmente dovesse comunicare il proprio rapporto. Ci avvicinammo un poco allo scoglio da cui avevamo visto spuntare l'ultimo osservatore. Afferrai il megafono e gridai un paio di saluti in lingua malese che avevo imparato con cura, proprio per una tale eventualità, dai libri di
viaggi. Ma anche i saluti non ebbero alcun risultato e Jack affermò che sarebbe stato meglio far volare qualcuna delle sue espressioni più colorite in lingua inglese. Intanto si era impadronito alla svelta del megafono che avevo deposto e scagliava un paio di robuste imprecazioni marinaresche che sembrarono molto efficaci perché il selvaggio riapparve subito con un ramo verde in mano, vogando velocemente verso di noi. Dopo qualche minuto Jack si mise a gridare, ridendo: — Perbacco, ma è Fritz! Che diavolo di buffonerie combina quel bel tomo? E davvero ora lo riconoscemmo bene, mentre si avvicinava nel suo caiak dalla testa di tricheco, con le mani e il viso tinti di nero, bizzarramente travestito. Annuiva, faceva cenni con le mani, ci gettava baci, comportandosi, come assicurava Jack, «da vero matto». Presto lo raggiungemmo e lo prendemmo a bordo col suo caiak. Come conseguenza dello scambio di saluti oltremodo affettuosi, anche noi in breve tempo eravamo conciati quasi come il nostro giovane finto negro, solo in modo un po' più irregolare e ciò fu nuovo motivo di spasso. — Giovanotto, ma che razza di travestimento è questo? — esclamai infine. Egli riusciva appena a riprender fiato fra gli abbracci e le manifestazioni di gioia. — Vi metterò al corrente di tutto, — promise, — datemi solo un po' di tempo. Lo presi in disparte. — Hai raggiunto lo scopo del tuo viaggio? — gli chiesi in fretta. — Per il momento questo è l'importante. — Sì, — rispose, — sono stato fortunatissimo. — Bene, e che cosa significa la tua stravagante mascherata? Fritz rise. — Ora devo confessarvi che vi avevo preso semplicemente per pirati malesi e con ogni sorta di finte cercavo di tenervi lontani dall'isolotto in cui probabilmente mi avete visto la prima volta. Stanotte però sarei andato a prendere l'inglesina che ho felicemente trovato e me la sarei svignata di soppiatto attraverso l'arco della Rupe Gotica dirigendomi al Rifugio di Roccia. Avrei voluto chiedergli subito tutti i particolari, ma la mamma che avevo segretamente messo al corrente sullo scopo del viaggio di Fritz, soffocò ogni curiosità per amore della pulizia e dichiarò che
nemmeno per un momento di più voleva vedersi davanti quel viso nero. Con l'aiuto di diversi mezzi, esso fu tanto strofinato e stropicciato che in breve tempo l'europeo riapparve alla luce e poté presentarsi per ogni ulteriore informazione. Ma non avevamo tempo da perdere perché, prima che l'alta marea ci spingesse con forza a riva, dovevamo aver trovato un ancoraggio conveniente. Fritz ci raccomandò allora con molta premura la piccola isoletta in cui aveva lasciato l'inglesina. Approvai con piacere la sua proposta, poiché mi batteva forte il cuore al pensiero di accogliere come compagna della nostra profonda solitudine una creatura sconosciuta e abbandonata. Scambiai uno sguardo d'intesa con Fritz. Il bravo ragazzo cadde allora in uno stato di agitazione indescrivibile. Saltava sull'albero maestro, virava di bordo, tesava i cavi, li mollava di nuovo, mi gridava in che modo dovessi governare, e infine si gettò in un baleno dal ponte giù nel suo canotto che nel frattempo avevamo di nuovo calato sullo specchio d'acqua. Subito ci diede la rotta necessaria, precedendoci come pilota, e ci guidò dietro una piccola romantica isoletta della grande Baia delle Perle, dove una sottile lingua di terra chiudeva una tranquilla comoda insenatura; ci accostammo perciò alla riva grazie al fondale abbastanza alto e, servendoci di un grosso cavo, potemmo ormeggiare la lancia ad un albero vicino. Immediatamente Fritz saltò fuori dal suo caiak; senza voltarsi indietro, né attardarsi in parole o cenni verso di noi, si precipitò a spron battuto verso un grazioso boschetto vicino dove, in mezzo ai tronchi, all'ombra di alte palme e di altri alberi frondosi, vedemmo far capolino una capanna costruita con alcuni arbusti, quasi alla maniera ottentotta. Naturalmente anche noi trottammo dietro al veloce giovanotto e presto scorgemmo davanti alla capanna anche un focolare fatto di grossi ciottoli. Nel centro del focolare, al posto di una pentola o di una casseruola brillava davanti ai nostri occhi la più bella tridacna 16 che avessi mai visto. Fritz non si era ancora accorto di essere stato seguito. Scrutava nel boschetto e gridava a piena gola un «Ohoh!» dopo l'altro. In quella lo 16
Genere di molluschi Lamellibranchi bivalvi cui appartiene la gigantesca Tridacna gigas dell'Oceano Indiano. (N.d.T.)
raggiungemmo; egli si voltò a guardarci e arrossì violentemente. Quasi nello stesso tempo udimmo un fruscio sulla vetta di un albero vicino; una slanciata figura giovanile in costume da marinaio scivolò agilmente giù per il tronco e restò dritta ai piedi dell'albero, timida, indecisa. E noi? Noi stavamo là come di sasso divorando con gli occhi il portento: una creatura umana! Dopo dieci lunghi anni di silenzio un messaggero del vasto mondo lontano! L'emozione di una felicità assolutamente sconosciuta ci serrava le labbra, mentre la giovane forestiera, scossa dallo stesso profondo sentimento stava ferma al suo posto come incantata. Fritz, che con gli occhi sfavillanti volgeva incessantemente lo sguardo da noi alla sua protetta, ruppe improvvisamente il silenzio, si strappò il cappello dalla testa e lo lanciò in aria gridando festosamente: — Evviva il giovane lord Montrose dello scoglio fumante; sia il benvenuto, come amico e fratello nella nostra cerchia familiare! Di colpo la tensione si sciolse e l'ospite fu circondata con tumultuosa gioia. Trattenni i miei impetuosi e sbrigliati giovanotti, poiché dalle acclamazioni di Fritz avevo subito capito che in un primo momento non voleva far sapere ai fratelli che il nuovo compagno era una ragazza. Scambiai un rapido sguardo d'intesa con mia moglie, poi presi la delicata creatura per mano e la condussi da lei che già le veniva incontro con le braccia aperte, sorridendo e piangendo al tempo stesso. — Benvenuto tra noi, mio caro figliolo, — dissi profondamente commosso. — Vieni qui, — esclamò la mamma; attrasse a sé la fanciulla e la baciò affettuosamente. Scoppiando in lacrime l'incantevole straniera nascose il viso nel suo petto. Fritz, palesemente combattuto tra gioia e commozione, guardava di lato, mordendosi il labbro inferiore. Mi rivolsi agli altri tre fratelli piuttosto sbalorditi e feci loro intendere che non dovevano ancora chiedere nulla, ma preparare prima di ogni altra cosa un sostanzioso pranzo. Dissi loro che bisognava concedere al giovane straniero il tempo di ritrovarsi nella sua nuova situazione: in quel momento il primo dovere di cortesia era lasciarlo in pace. — Sarà difficile però, — osservò Jack, — sono così terribilmente
felice che non so addirittura da che parte incominciare. Ma pretendere che ci si mostri tranquilli e ben educati, è troppo! — Vieni, — disse Ernst, — facciamo un salto alla lancia a prendere qualcosa da mangiare e da bere. Quando fame e sete saranno calmati, anche a Fritz verrà forse la voglia di raccontare. — Certo, — esclamò Franz, — facciamo presto. Brucio di curiosità. Così dicendo i giovani corsero verso la nostra imbarcazione e presero prima di tutto un tavolo da campo oltre alle sedie, stoviglie e biancheria da tavola, perché il pasto imminente doveva essere celebrato con la solennità di un vero e proprio banchetto. Appena la mamma si accorse di quei preparativi, si mise al lavoro con zelo per imbandirci un pranzo raffinato. Non furono economizzati pistacchi, uva passa, mandorle, zucchero e focaccia di cassava. Secondo il giudizio di Jack fu un «autentico banchetto degli dei». Ma la destrezza e la premura con cui il presunto giovane lord accorse in aiuto della mamma nelle faccende di cucina per poco non rivelò ai tre giovani ancora inconsapevoli il suo vero essere, poiché tutt'e quattro i fratelli, nonostante l'esercizio per lungo tempo necessario, avevano mostrato a poco a poco sempre minore voglia e capacità nella nobile arte culinaria. Allo squisito pranzo non mancarono nemmeno boccali del nostro migliore idromele e un paio di bottiglie di vecchio spumante delle Canarie, che resero fin troppo vivaci i miei quattro giovanotti: accadde loro quello che così facilmente capita ai giovani che per la prima volta siedono in compagnia di una persona alla quale desiderano piacere. La loro petulanza aumentava, scoppiava in ogni sorta di discorsi scherzosi e infine cominciarono a punzecchiare la taciturna e riservata straniera in modo tale che giudicai opportuno sciogliere la compagnia, tanto più che Fritz, in uno strano stato di affettuosa allegrezza e ad un tempo di prudente gelosia, mi sembrò troppo eccitabile perché potessi lasciarlo ancora più a lungo esposto in quel modo. Ordinai perciò: — A letto! — e senza indugio si fecero i preparativi necessari. Il sedicente sir Edward voleva salire difilato sull'albero dalla cui cima era sceso tra noi come piovuto dal cielo; ma
la mamma non lo permise assolutamente e insistette perché accettasse un comodo posto nella lancia, affermando che anche per obbligo di cortesia dovevamo offrire un letto al graditissimo ospite. — Oh, — disse Fritz, prendendo l'occasione, — il nostro amico non è affatto abituato male; infatti, qui ha sempre dormito sui nodosi rami d'albero, mentre io riposavo nella capannina ottentotta e durante il nostro viaggio fin qui abbiamo sopportato parecchi disagi e scomodità, perché pernottavamo sempre sugli scogli in mezzo al mare per essere al sicuro da improvvisi attacchi di bestie feroci. Allora alavamo il caiak all'asciutto sugli scogli, scivolavamo nell'imboccatura dei sedili come meglio si poteva e ci coprivamo con mantelli di canne, proteggendoci con essi anche la testa, tenendo a portata di mano le armi caricate a palla. In quest'isoletta invece ci siamo trattenuti un paio di giorni perché il mio caiak aveva bisogno di una buona riparazione. A questo punto la mamma raccomandò con insistenza che almeno il nostro nuovo compagno andasse a letto: disse che gli si leggeva sul viso la stanchezza. L'inglese si congedò allora da noi e si fece mostrare da mia moglie il suo posto nella lancia. I fratelli invece, che il pranzo aveva reso svegli e vivaci più che mai e che erano stati incuriositi dai frammenti del racconto di Fritz, rimasero ancora a lungo vicino al fuoco; fecero spaccare e scoppiettare alcune pigne e ne spilluzzicarono i pinoli, conversando piacevolmente, mentre i tre più giovani cercavano di far chiacchierare Fritz sul suo viaggio e sulle cause che l'avevano determinato. Fritz rispondeva di buon animo a tutte le loro petulanti domande, poi cominciò a raccontare la sua avventura con l'albatro, compiacendosi non poco del romantico argomento e in ultimo continuò a chiacchierare così ingenuamente che presto sostituì al sir Edward una signorina Jenny e alla fine parlava ogni momento della povera inglesina e di quanto aveva fatto e sofferto. I fratelli scoprirono abbastanza presto il suo segreto, si fecero cenno a vicenda in modo espressivo senza che Fritz se ne accorgesse, ma fecero finta di nulla e nelle loro domande continuarono a parlare del giovane inglese e di sir Edward. Quando però infine Jack gli
chiese se avesse capito il saluto in lingua malese, Fritz rispose: — Altro che! Ma sono scappato tanto più in fretta perché avevo la testa piena di pirati malabarici; sir Edward infatti mi aveva raccontato che corseggiano di frequente i mari in cui è avvenuto il suo naufragio. Ma quando ho sentito le parole inglesi, — continuò il giovanotto, — benché si trattasse di sguaiate espressioni marinaresche, ho pensato che fosse arrivata una nave che veniva a cercare la cara signorina Jenny e allora… — Ah, ah, ah! — proruppe a questo punto da tutte le bocche, — tradito, tradito! Ci sei cascato, signor Friedrich! In realtà sir Edward si è cambiato in una signorina Jenny e il futuro fratello in una graziosa futura sorella. Evviva e ancora evviva! Per un momento Fritz rimase confuso, accorgendosi di essersi imbrogliato così palesemente, poi però fece buon viso a cattivo gioco, si unì all'allegria dei fratelli e li aiutò a gridare più volte evviva, fino a che tutti si furono coricati e poco dopo un benefico sonno li cullò dolcemente. Il giorno seguente tuttavia i tre giovanotti non seppero più trattenersi dal rendere nota la loro scoperta e con atteggiamento tra bonario e malizioso salutarono la piccola inglese sottolineando ostinatamente il suo nome, signorina Jenny, sicché la ragazza, arrossendo, non osò per un pezzo alzare gli occhi; infine però risolvendosi rapidamente offrì sorridendo la mano ad ognuno dei motteggiatori e scherzando si raccomandò vivamente al loro fraterno affetto presente, oltre che futuro. La colazione fu consumata subito dopo tra la crescente allegria di tutti i partecipanti e consistette principalmente in una cioccolata preparata da Fritz che sembrò piacere in particolare alla giovane signorina e ricordarle gli agi della propria casa. Durante il pasto del mezzogiorno discutemmo i piani futuri. Decidemmo di tornare al Rifugio di Roccia, soprattutto perché la nostra nuova compagna potesse familiarizzarsi meglio con noi. Il pomeriggio fu dedicato ai preparativi per il viaggio di ritorno. Tutti i beni di Jenny erano stati ben imballati e pronti per il trasporto in una specie di mastello che Fritz aveva costruito appositamente sullo scoglio fumante. Ma Jenny aveva potuto salvare ben poco dal naufragio. La maggior parte del
suo patrimonio era costituita da oggetti confezionati da lei stessa con straordinario senso artistico e con molta abilità, servendosi del materiale di cui poteva disporre nella sua segregazione. Solo con l'aiuto di un robusto coltello, che fortunatamente portava con sé, aveva fabbricato nei due anni e mezzo del suo isolamento una sorprendente quantità di utensili e di oggetti utili. Ossa, penne, becchi, zampe, intestini e pelli di diversi animali, di cui si era impadronita un po' con l'astuzia, un po' con la forza, le avevano fornito il materiale per le suppellettili domestiche e per il vestiario. A graziose treccioline fatte con i propri capelli aveva attaccato ami di madreperla per la pesca. Da forti lische di pesce, bucate con una punta rovente, aveva ottenuto aghi di svariata grossezza. Una grande conchiglia Cuore di mare, 17 munita di uno stoppino ricavato da una sciarpa di cotone, le serviva da lampada; una conchiglia più grande dello stesso genere, da paiolo. Ammirammo anche un paio di graziosi pennelli di peli di foca incastrati nei cannelli delle penne d'uccello, ed una conchiglietta piena di bellissima porpora per scrivere, fornitale da una speciale qualità di licheni. Da pelli di foca e anche da pelli di uccelli, scorticati con tutte le penne, si era confezionata giubbe, cinture, calze; aveva perfino fatto due paia di sandali con pelle di foca piegata doppia. Per il momento ogni cosa fu esaminata solo sommariamente e portata subito nella nostra imbarcazione, dove venne riposta con cura nella stiva. Di buon mattino Jenny fu la prima a svegliarsi e, guarda un po', la piccola maestra delle sorprese aveva ancora qualcosa in serbo che non ci aspettavamo. Dietro alcuni cespugli, un po' in disparte dal luogo del nostro approdo, aveva infatti tenuto nascosto un cormorano addomesticato, legato con una robusta cordicella, ma in modo che potesse nuotare liberamente nell'acqua vicina. Ce lo portò, spiegandoci che lo aveva tenuto in disparte solo a causa del suo cattivo odore, ma che era un compagno utile, addestrato alla pesca alla maniera cinese. Finalmente ci imbarcammo, dirigendoci verso la Baia delle Perle a cui avevamo riservato una breve visita prima del ritorno al Rifugio di Roccia. 17
Nome volgare di molluschi marini bivalvi del genere Cardio. (N.d.T.)
CAPITOLO XI COME JENNY ERA CAPITATA SULLO SCOGLIO FUMANTE. — FINALMENTE UN BASTIMENTO. — NUOVA SVIZZERA! FRITZ che era salito di nuovo nel caiak ci fece da guida e col suo aiuto passammo felicemente tra gli scogli e le rocce che limitavano l'apertura della Baia delle Perle. Arrivammo subito a riva, dove potemmo ancorare la lancia. A terra trovammo tutto a posto, proprio come l'avevamo lasciato. Tavolo e panche erano in piedi e la fossa thailandese per l'arrosto era ancora intatta; l'aria intorno si era purificata, le conchiglie perlifere non mandavano più cattivo odore e le salsole erano asciutte; infine le carcasse dei leoni e del cinghiale africano erano già quasi imbiancate dal sole e ripulite completamente della carne. Per prima cosa rizzammo la nostra tenda da bivacco affinché sulla spiaggia aperta fossimo riparati dal sole e dall'aria fredda della notte. Poi ci mettemmo ad aprire alacremente, con furia ed avidità, le ostriche perlifere. Niente fu trascurato, niente fu lasciato da parte. Che grida di gioia si levavano quando, ora la quantità, ora la grandezza e l'armoniosa rotondità o la regolarità della forma delle perle ci ripagava della nostra fatica! Eppure, a che ci serviva in fondo quell'incomparabile tesoro? La signorina Jenny sembrò dimostrare più accortezza di noi, badando di più ai sottili filamenti o fibre attaccati ai gusci delle conchiglie e raccogliendone in quantità maggiore delle stesse splendenti palline. Quando la mamma andò verso il vecchio focolare per preparare il pranzo, la ragazza le corse dietro. — A mezzogiorno avremo un bel piatto di pesce — ci gridò, voltandosi verso di noi e sorridendo, — e stasera uccellame arrosto! La mamma sorrise piuttosto incredula per quanto riguardava il
primo punto e osservò che sarebbe stato piuttosto difficile trovare in così poco tempo del pesce per sette persone. Ma Jenny non se ne curò, continuò a correre, si infilò nel caiak e, preso il cormorano, vogò nella baia fino a due tiri di sasso di distanza. A questo punto mise un anello attorno al collo dell'abile pescatore, in modo che non potesse ingoiare la preda catturata, poi lo lasciò libero sul bordo del canotto e smise di vogare. Fu bellissimo allora vedere l'uccello già addestrato tuffarsi di quando in quando nell'acqua per riemergerne subito con qualche pesce scintillante come l'argento, un'aringa, un piccolo salmone o un merluzzo, che portava alla padrona, rituffandosi subito dopo in cerca di altra preda. In breve tempo la signorina Jenny aveva mantenuto la sua promessa più che abbondantemente, mettendo insieme tanti pesci che sarebbero bastati almeno per due copiosi pranzi, dopo di che liberò dal collare il suo benemerito allievo pennuto e per ricompensa gli gettò in pasto qualcuno dei pesci più piccoli, che furono ingoiati avidamente in un battibaleno. — In verità, — esclamò la madre quando la ricca sorpresa le fu deposta ai piedi con un sorriso — la fortuna ci ha dato per compagna una autentica fata! Dopo la cena giunse finalmente il momento di ascoltare il racconto di Fritz. Jenny andò a letto; a lei la narrazione non offriva nulla di nuovo; noialtri invece, seduti tutt'intorno al tavolo, stemmo ad ascoltare il nostro giovane eroe, che incominciò: — Vi ricorderete certo come abbandonai la barca più grande e partii sul mio fragile caiak per il grande Oceano. «Il mare era calmo, ma nel mio animo c'erano tempesta e marosi, perché da un lato mi passava per la mente ogni sorta di fantasie, nella speranza che mi fosse riuscito di scoprire lo scoglio fumante e la naufraga inglese; dall'altro si agitavano in me parecchi timori: correvo incontro a cento pericoli e forse, sbattuto dal mare lontano da voi tutti, potevo finire in un luogo abbandonato e non trovare più la via del ritorno, facendovi piombare nel più profondo dolore. «Da principio vogavo con forza verso il mare aperto, ma un vento leggero mi fece capire quanto sarebbe stata pericolosa quella direzione se si fosse levato da terra un vento più forte. Avevo appena
attraversato la Baia delle Perle quando scoppiò una violenta burrasca. Ogni momento la risacca minacciava di frantumare la mia leggera imbarcazione contro gli scogli; tuttavia non osavo avventurarmi nel mare aperto, perché forse sarei stato ingoiato, con la stessa facilità, dalle violente ondate. Verso sera però il vento parve calare e respirai più liberamente. Certo, quando scese la notte, mi trovai ben poco avvantaggiato poiché avevo dovuto seguire tutte le insenature e le sporgenze della riva e siccome non osavo pernottare sulla spiaggia, non avendo proprio nessuna voglia di affrontare un'altra coppia di leoni, mi diressi verso uno scoglio in mezzo al mare che, distante da terra un quarto d'ora circa, emergeva dall'acqua come un elevato informe mucchio di sassi. Fra le rocce trovai un angolo abbastanza riparato e nonostante la scomodità dormii magnificamente, raggomitolato nella mia coperta. La cena, come del resto la colazione del mattino seguente, fu costituita da cibi freddi, noci e roba simile, perché non osavo accendere il fuoco per non espormi a un possibile attacco di indigeni. «L'indomani mattina, con l'animo più rinfrancato del giorno precedente, proseguii alla ricerca dello scoglio fumante e, pur tenendomi in generale vicino alla riva, mi dirigevo verso ogni roccia che sporgesse in modo piuttosto rilevante sullo specchio del mare. La costa era diventata piatta e sabbiosa ma ad una certa distanza si vedevano densi boschi con fitto sottobosco e numerose piante rampicanti che si attorcigliavano lungo i tronchi e i rami più alti. Pensai che per la maggior parte fossero piante di pepe, perché vidi svolazzarvi intorno una quantità di tucani o uccelli del pepe. «Poi non vidi più nessuno scoglio nel mare libero, c'era invece una profonda insenatura nella riva che a tutta prima scambiai per un sottile braccio di mare, attraverso il quale sarei riuscito a giungere in più breve tempo, e con minori pericoli del mare aperto, molto più lontano. Vi entrai di buon animo e non notai alcuna corrente fluviale perché proprio allora c'era l'alta marea; avanzai perciò quasi senza un colpo di remo, ma dopo circa un quarto d'ora mi accorsi con profonda delusione che stavo navigando in un fiume. «La regione però era così bella che non potei fare a meno di continuare a vogare. I delicati e variopinti intrecci di liane, di pepe e
di altre piante consimili che con i loro viticci si abbarbicavano ai forti rami o si stendevano sino agli alberi incurvati della sponda opposta erano particolarmente pittoreschi. Ogni sorta di bestiole, topi arboricoli, scimmiette, cercopitechi, si arrampicavano su e giù lungo quei ponti aerei. Anche degli uccelli saltellavano tutt'intorno; buffissima era soprattutto una varietà di uccelli marini che si dondolavano a loro agio come su una corda da equilibrista e che vedendomi avvicinare piombavano di colpo nell'acqua come morti. Ma l'avevano appena sfiorata che rianimatisi all'improvviso sfrecciavano via, allungando però di tanto in tanto la testa sul collo lungo e sottilissimo per accertarsi che non volessi far loro del male. «Dopo un certo tempo giunsi in una piccola ansa del fiume e, poiché la zona era aperta e difficilmente qualcosa di pericoloso poteva aggredirmi di soppiatto dalla macchia vicina, decisi di approdare per un quarto d'ora con l'intenzione di procurarmi almeno qualche uccello per la mia aquila. Così avvenne infatti: sparai su un tucano a due passi dall'approdo e saltai dal caiak per prendere l'uccello caduto. Ma, apriti cielo! Che terribile concerto di garriti, fischi, gracchi e schiamazzi si levò al mio colpo! Pareva quasi che tutti gli uccelli volessero piombarmi addosso e farmi a pezzi, sicché afferrai di furia il mio tucano e balzai di nuovo verso il caiak. Ma, com'è noto, tra gli animali, come del resto succede anche tra gli uomini, raramente quelli che gridano più forte sono anche bravi lottatori e nessuno osò attaccarmi. All'improvviso però proprio vicino a me si alzò dal canneto urlando e soffiando un'enorme massa scura. Sbigottito afferrai la pagaia e scappai via. Il mio canotto filò via come una freccia. Che cos'era? Un orribile ippopotamo che attraversava il fiume a nuoto col suo piccolo. Una bella conoscenza davvero! Per fortuna però i due mostri erano palesemente spaventati dal mio sparo almeno quanto lo ero io dalla loro improvvisa apparizione. E così scappammo contemporaneamente in direzioni opposte. Non osai nemmeno avventurarmi oltre, ma mi sbrigai a sfruttare la corrente per scendere nella baia aperta, ritirandomi verso l'unica roccia che vedevo emergere a picco sull'acqua come un'isola. Una cena costituita da alcune ostriche che trovai a fatica, oltre a qualche boccone della mia provvista di viveri, concluse la giornata e
benché l'ora non fosse inoltrata decisi di rimanere là per quella notte, più che altro per il timore di non trovare un posto altrettanto sicuro. «Del resto, essendomi addormentato insolitamente presto, tanto più presto ripresi il viaggio all'alba del giorno seguente; mi accostai come di consueto alla riva, navigai verso ovest e presto ebbi al mio lato una zona che superava in bellezza e opulenza tutte quelle che avevo visto fino allora. Nello sfondo del paesaggio si vedevano numerose cascate scaturire dalle possenti pareti rocciose e serpeggiare poi come ruscelli lungo un suolo collinoso e vario dove, su diverse alture, scorsi piccoli branchi di animali che, a giudicare dalle dimensioni, potevano essere lama o vigogne e che un giorno forse potranno diventare un prezioso acquisto per noi. Approdai con piacere a quella bella costa e poiché avevo abbattuto nell'acqua un paio di uccelli del genere delle anatre, scesi dal caiak, accesi un focherello con dei rami secchi caduti e mi accinsi con tutto comodo a preparare un pasto un po' più sostanzioso per me e per l'aquila. «Ma avevo appena infilzato i due uccelli ad uno spiedo di legno sul fuoco che notai, guardandomi intorno per caso, dietro alcuni cespugli, un paio di teste estremamente sospette che un po' si rialzavano, un po' si riabbassavano e sembravano osservarmi con attenzione. Non potei distinguere nulla chiaramente, però vi confesso che mi sentivo molto a disagio e me la svignai alla svelta nel canotto per sorvegliare dall'acqua, a sicura distanza, gli sconosciuti nemici. Mi ero appena allontanato che due tipi dal pelo rosso bruno, di considerevoli dimensioni, vennero fuori balzelloni dalla macchia. Nello stesso istante compresi che si trattava di una coppia di poderose scimmie, quasi certamente orang-utan. Indagarono incuriositi che cosa avessi fatto là intorno, rimestarono le penne strappate dagli uccelli, annusarono il coltello che avevo lasciato per terra, girarono e rigirarono la balestra e infine si accovacciarono ad una certa distanza dal fuoco, contemplando tutti assorti le due anatre che sfrigolavano sulla brace. Passò così un buon quarto d'ora. Naturalmente non avevo affatto paura, giacché le Loro Signorie non si curavano affatto di me, né potevano aggredirmi. Ma avevo sempre più timore per le mie anatre; se i due zii si ostinavano là a fare da padrini, potevo dire addio al mio sospirato pranzo. Alla fine il fuoco
si spense e la faccenda cominciò a diventare noiosa per gli stessi animali che se la squagliarono. Aspettai ancora un poco, poi mi avvicinai vogando lentamente e, visto che non c'era nulla da temere, mi recai difilato verso il mio temporaneo bivacco. Aveste visto il mio povero arrosto! Da una parte carbonizzato, dall'altra mezzo crudo: immangiabile! «Dovetti accontentarmi che l'aquila mangiasse la squisita pietanza ormai rovinata. Ma, poiché era necessario risparmiare le provviste portate con me, fui costretto a sparare ad altri volatili che si trovavano nelle vicinanze; fui costretto però ugualmente a spennarli ed arrostirli e così trascorse gran parte del pomeriggio, sicché la levataccia del mattino fu pressoché inutile per il progresso delle mie ricerche e solo con gran stento potei raggiungere prima che scendesse l'oscurità un'isoletta di rocce per passarvi la notte, come solevo fare, a sicura distanza dalla costa. «Non molto riposato mi alzai di buon'ora e mi stimai fortunato di poter scappar via sano e salvo da quella stupida costa delle scimmie; tuttavia un paio di sorsi di spumante delle Canarie dovettero prima risarcirmi delle tante interruzioni di sonno che mi avevano affaticato. «La riva lungo la quale dovevo navigare quel giorno era forse la più brulla e monotona di quelle viste fino allora; era percorsa, è vero, da un paio di fiumiciattoli, ma nello squallido terreno sabbioso pareva che non potesse allignare niente di buono. Perciò il mio stupore non fu poco quando, dopo aver aggirato una piccola punta di terra, vidi all'improvviso a circa tre o quattro tiri di schioppo di distanza un piccolo branco di elefanti rotolarsi nel fango in una larga zona paludosa del fiumicello più vicino. Un boschetto di mimose lì presso animava l'abbandono del luogo e pareva destinato al foraggio dei giganteschi animali. Ancora più lontano credetti di sentire urlare e sbuffare ippopotami e in fondo, molto lontano, in un nuvolo di polvere mi parve che un branco di antilopi o di zebre corresse come il vento verso le montagne. «Nonostante il mio vivo desiderio di scoprire lo scoglio fumante, fui curioso di esaminare più attentamente quel territorio così nuovo per me, e decisi di farlo, tanto più che proprio in quel momento gli elefanti, stufi del loro affaccendarsi a riva, attraversavano con
insospettata rapidità il punto più largo del fiumiciattolo, che però era anche più profondo di quanto non avessi pensato. Per altro nel guadarlo gli elefanti procedevano in modo singolare: camminavano o nuotavano nell'acqua uno dietro l'altro in una lunga fila e, per facilitare il respiro, di volta in volta l'animale che stava dietro appoggiava la proboscide sul dorso di quello che stava davanti. Giunti alla sponda opposta però si sparpagliarono di nuovo per afferrare con le proboscidi gli arbusti di mimose, infilando quindi con destrezza nella loro grande bocca i rami strappati. «Quando mi sembrò che si fossero allontanati abbastanza, continuai a risalire il corso del fiumicello, che era largo al massimo venti o trenta piedi e che non avrebbe potuto permettere, senza frequenti interruzioni, la navigazione a una barca che non fosse stata leggera come il mio caiak. «La zona divenne a poco a poco più sabbiosa e pareva che una parte delle acque del fiume si perdesse nel fondo fangoso lungo il quale scorreva. «Particolarmente interessante durante il viaggio fu la scoperta di alcuni rinoceronti che se la spassavano allegramente a considerevole distanza, dietro grandi piante di cactus; laceravano ad uno ad uno, come se giocassero, i fusti col corno che avevano sul naso e li infilavano poi a pezzi nelle gigantesche fauci, servendosi del labbro superiore dotato di grande forza e mobilità, senza curarsi minimamente dei numerosi e pungenti aculei. Dapprima ebbi la voglia di provare l'effetto di una fucilata sulle colossali creature, ma il cielo mi preservò dal realizzare un'idea così puerile perché avrei messo sicuramente in pericolo la mia vita se quegli enormi animali, accorgendosi di me e infuriandosi, mi si fossero avventati contro. «La faccenda mi sembrò sempre più preoccupante. La mia barchetta era così leggera che una bestia di quel genere la poteva comodamente demolire e allora sarei stato perduto, senza alcuna speranza di salvezza. Perciò non mi fidai più della sicurezza del luogo, feci dietro-front e senza incertezze mi diressi giù per la corrente, verso il mare aperto, fuori del regno dei despoti marini. Mi parve anche di scorgere al di sotto del fiume, fra le canne palustri, un paio di caimani o alligatori che probabilmente stavano in agguato
aspettando i pesci; naturalmente non ebbi alcuna voglia di offrirmi loro in pasto. Nel mare libero invece, quando mi sentii di nuovo al sicuro, cominciai a provare il desiderio di un piatto di pesce e, accorgendomi che interi branchi di una sorta di salmoni o di altri compagni della stessa specie convergevano verso il fiume, approfittai della buona occasione, ne fiocinai un paio e li portai con me su una piccola scogliera poco distante, dove per quella notte bivaccai su uno scoglio abbastanza alto sull'acqua banchettando con un saporito arrosto di pesce. «Tuttavia nemmeno quella notte fu molto più tranquilla della precedente, perché a parte il letto freddo e duro, anche nel sogno dovetti lottare incessantemente con alligatori grandi come alberi e mi svegliai più volte per la violenza dei miei stessi movimenti. Perciò fui contento quando la luce del giorno mi permise di proseguire il viaggio e non rimandai la partenza nemmeno di un momento. Ancora una volta navigai alla distanza di un tiro di sasso dalla riva e desideravo solo di trovare un posto favorevole per scendere e poter offrire alla mia aquila qualche buon bocconcino per colazione. Finalmente approdai in un punto poco lontano da un piccolo gruppo di alberi piuttosto spogli, dove supponevo che potesse trovarsi qualche uccello. In quel punto la sabbia era nerastra e mista a sottilissime lamelle dorate e scintillanti; rimasi in dubbio se fosse comune mica oppure oro prezioso; tuttavia, non essendo avido di quest'ultimo, rimandai la soluzione della questione a un successivo viaggio. «Mi diressi invece verso gli alberi e, avendo avvistato per combinazione alcuni pappagalli, colpii senz'altro il primo che mi capitò a tiro. Solo che dovetti pagare il piccolo guadagno con un terribile pericolo e con una tale paura che non credo di averne mai provata una uguale. Infatti, guardando tranquillamente l'aquila che divorava il pappagallo, ero rimasto per un po' inerte, trascurando di ricaricare il fucile, mentre in quella costa sconosciuta non avrei certo dovuto indugiare nemmeno per un momento. «Ad un tratto sentii dietro di me un lieve fruscio nella sabbia; mi voltai con una certa indifferenza, pensando che un granchio marino o una tartaruga si avvicinasse strisciando e caddi quasi a terra per la
paura vedendomi davanti una grossa tigre striata, a soli dieci o quindici passi di distanza, che forse nello spazio di un secondo con un solo balzo mi avrebbe raggiunto, gettato al suolo e sbranato. «Devo esser rimasto per un attimo immobile, quasi in stato di incoscienza; poi mi resi conto confusamente che mi appoggiavo pesantemente al mio fucile da caccia e nello stesso tempo sentii il frullo d'ali dell'aquila. Davanti ai miei occhi era calato un assoluto buio, ma improvvisamente mi accorsi che l'aquila con indicibile furia svolazzava attorno alla testa della tigre, beccando senza posa gli occhi della belva, sicché questa, costretta a difendersi dai furibondi continui attacchi, non badava più a me o forse non osava addirittura aggredirmi. Allora gettai il fucile e trassi dalla cintura una pistola. In quella la tigre balzò in alto sollevando il tronco e le zampe anteriori, afferrò l'aquila con gli artigli, la schiacciò paurosamente e la gettò morta a terra. Mi si spezzò il cuore ad assistere alla morte violenta della mia povera compagna di caccia: ma non c'era un minuto da perdere. Scaricai la mia pistola contro la tigre, che a tutta prima crollò. Stavo già per chinarmi su di lei, quando si levò nuovamente di scatto e con un paio di poderosi salti scappò via. Col batticuore rimasi all'erta sul campo di battaglia con l'altra pistola che avevo estratto rapidamente: ci poteva essere anche un compagno nelle vicinanze. Ma nulla si mosse. Lentamente, camminando a ritroso, tornai al caiak per potermi salvare in mare nel caso di una nuova aggressione. «Per fortuna però non ci fu nessun attacco; raccolsi finalmente da terra il fucile, lo caricai a palla e mi affrettai a battere in ritirata. Spero che non avrete bisogno di particolari assicurazioni per credere che non ho lasciato marcire ignominiosamente sul campo la mia aquila, la più fida di tutto il Malabar. «La legai alla prua del mio caiak proponendomi di impagliarla oppure di seppellirla con tutti gli onori non appena avessi trovato un luogo adatto e tranquillo a cui approdare. In fondo era stata il mio angelo protettore nel mortale pericolo! «Presto tuttavia il mio stato d'animo doveva mutare del tutto. Aggirando alcuni scogli vicini, scorsi all'improvviso una piccola isoletta di rocce a una certa distanza e vidi… vidi… innalzarsi una
colonna di fumo! Proruppi in un grido di gioia, battendo per l'entusiasmo la pagaia sull'acqua. Quello doveva essere lo scoglio fumante! Là doveva esserci la naufraga inglese! Quasi senza fiato per l'emozione e la fatica, mi misi a vogare a tutta forza. Il cuore mi balzava fino in gola. Non mi passò per la mente nemmeno per un momento che con altrettanta probabilità pirati o selvaggi potessero dimorare in quell'isola. Certo, se ci rifletto adesso, devo ammettere di aver agito in modo impulsivo e sconsiderato, dirigendomi così alla svelta verso lo scoglio, senza prendere la minima precauzione. «Giunsi finalmente tanto vicino allo scoglio fumante che avrei potuto riconoscere distintamente una persona, solo che il fumo saliva da dietro, dall'altra parte della roccia; credevo già di dover fare il giro, quando scorsi un po' in disparte una lastra di terra a cui potei accostarmi. Veloce come Guglielmo Tell, saltai a terra; alcune pietre disposte una sull'altra da mano umana mi condussero in alto come i gradini di una stretta scala e in un baleno ero su, giravo attorno a una larga concavità della roccia ed ecco che laggiù, molto in basso, qualcuno sedeva vicino al fuoco, da cui si levava una colonna di fumo: una snella figura giovanile in abiti maschili. Se in quel momento la giovane non avesse gettato indietro sulle spalle una lunga treccia bionda che, stando chinata a quel modo, le era scivolata davanti, alla fine sarei stato tratto in inganno. Premetti i pugni sulla bocca… avrei quasi urlato di gioia!… ma mi dominai. Rapidamente dissi a me stesso: "Non spaventarla! Non è più avvezza alla gente! Piano! Piano! ". «Allora spinsi col piede un sassolino che rotolò giù veloce per la china. Allo sgretolio, ella girò la testa, vide il sassolino, seguì con lo sguardo il cammino che doveva aver percorso e scoprì me, che ero rimasto di proposito là in alto. Si sbiancò in viso, saltò in piedi e rimase immobile, guardandomi fisso. Preso dalla più profonda commozione mi avvicinai lentamente e mi fermai a pochi passi da lei. Riuscivo a malapena a parlare per il turbamento. «"Sono venuto a salvarvi," dissi. La voce mi tremava, potete credermi. "Ho catturato l'albatro," continuai, "ho trovato il messaggio legato alla sua zampa. Ed ora ho trovato anche lo scoglio fumante".
«Allora, tutta rossa in viso, mi tese entrambe le mani. «"Benvenuto," esclamò, ridendo e piangendo insieme. «Il mio inglese non è certo ottimo, ma Jenny mi comprese immediatamente, benché più tardi qualche volta non riuscisse a raccapezzarsi in quella mia lingua storpiata. Mi risparmierete certo il racconto della mezz'ora che seguì, non saprei davvero descrivervi come mi sentivo, come ci riprendemmo a poco a poco, riacquistando coscienza della realtà. «Dapprima non pensammo a mangiare o a bere, né alla barca o a un tetto, e neppure alla gente o a un ritorno tra gli uomini. Ognuno si diffondeva in racconti, domande, esclamazioni, eppure nessuno di noi due badava veramente a quello che diceva l'altro. Jenny riprese molto prima di me il dominio di se stessa e si mise a preparare la cena in silenzio, mentre io non riuscivo a frenare la mia loquacità e le mie domande, ripetendo le stesse cose cento o mille volte. «Per farla breve, il pranzo fu pronto, fu consumato in buona armonia e ci diede occasione di capirci a vicenda molto meglio di prima, in uno stato d'animo un po' più sereno. «Scesa la notte la signorina Jenny si ritirò nel fondo della grotta, che era separato dallo spazio anteriore mediante una specie di tenda di canne intrecciate con fili d'erba. Io invece mi distesi nella parte anteriore, dove tuttavia passai la notte più come un paladino davanti alla tenda della sua principessa che come uno stanco rematore bisognoso di sonno. «L'indomani Jenny sbucò fuori proprio nel momento in cui il sonno mi aveva vinto e solo il suo invito a far colazione, accompagnato da scherzi e risate, mi svegliò dal profondo sopore. «Quel giorno il mare era piuttosto agitato e siccome avevo convinto Jenny che la cosa più saggia era venire con me al Rifugio di Roccia, portando tutta la sua roba, passammo l'intero giorno a predisporre l'occorrente per caricare nel caiak i suoi bagagli e gli straordinari utensili, frutto delle sue abili mani. Ad ogni istante avevo motivo di manifestare la mia meraviglia e ammirazione per la grande capacità artistica con la quale nello spazio di poco più di due anni o di due e mezzo l'ingegnosa ragazza aveva creato tante cose. Jenny invece affermava che in Europa, con mezzi e attrezzi di lavoro
europei, qualunque ragazza avrebbe fornito in così lungo periodo di tempo il doppio o il triplo di quel lavoro. «Tutto quello che mi fu raccontato da Jenny in quei due giorni e in seguito, durante il viaggio: la sua permanenza nelle Indie orientali dove era arrivata ancora bambina, l'inizio del viaggio per tornare in Europa, il naufragio, la salvezza e la sua vita da Robinson sullo scoglio fumante, tutto ciò fornirebbe davvero materiale per un lungo e bel libro, se il babbo volesse accingersi a scriverlo durante la stagione delle piogge. «In breve, il terzo giorno tutto era pronto per la partenza: lasciammo soltanto una cassetta piena di conchiglie e un barile di carne affumicata che, sbattuto sullo scoglio dalla tempesta, aveva efficacemente contribuito, con buona parte del suo contenuto, al nutrimento di Jenny. Il mare era di nuovo navigabile anche per il mio fragile caiak e il ritorno a casa sarebbe avvenuto abbastanza rapidamente, se una grave avaria del caiak, come vi ho già detto, non ci avesse trattenuto nell'Isoletta della Felicità e del resto vi ho raccontato già parecchie cose del nostro viaggio, che ora non è necessario ripetere». Il racconto di Fritz era durato almeno fino a mezzanotte e tutti i suoi ascoltatori, me compreso, erano rimasti svegli ed attenti. Finalmente diedi ordine di andare a letto. Per la verità pareva che nessuno potesse prendere sonno e in realtà anche a me si aprivano tante prospettive di un nuovo avvenire, sia per l'accrescersi della mia cara gente, sia per le promettenti scoperte di Fritz, che il mio spirito rimase a lungo agitato e non riuscii ad addormentarmi sul serio. Avevamo stabilito di trascorrere ancora un paio di giorni nella Baia delle Perle, ma poi si presentarono imprese così attraenti che non riuscimmo a prendere una decisione sulla partenza. Intanto l'indomani ci svegliammo presto, facemmo colazione e trascorremmo un'oretta a discorrere familiarmente, poiché tutti eravamo eccitati dal racconto di Fritz e così incuriositi dalla storia della piccola amabile signorina, che non la lasciammo in pace finché non ebbe narrato almeno l'essenziale. Dal suo racconto, spesso interrotto, si ricavava quanto segue. Jenny era l'unica figlia di un colonnello inglese che aveva prestato
servizio militare in India. Il colonnello aveva impartito alla figlia una perfetta educazione. Jenny aveva imparato non solo tutti i lavori femminili, ma anche equitazione, scherma, tiro e caccia. Qualche anno prima il colonnello aveva ricevuto l'ordine di accompagnare in Inghilterra un certo numero di soldati in congedo, su una nave da guerra. Egli stesso si era congedato e pensava di condurre anche la figlia in Inghilterra. Ma Jenny non poté essere accolta a bordo della nave che riportava in patria il colonnello e fu quindi costretta a viaggiare accompagnata soltanto da una fida governante sul trealberi Dorcas, che salpava anch'esso per l'Inghilterra. Ma il trealberi fu colto da una serie di burrasche che lo deviarono completamente dalla sua rotta, al punto che il capitano non seppe più orientarsi. In una cupa notte di tempesta il bastimento naufragò, l'equipaggio saltò nella lancia di salvataggio e nel canotto, che però furono subito inghiottiti dal fortunale. Un'ondata provvidenziale spinse Jenny a terra dove rimase distesa, tramortita. Non aveva notato il minimo segno di vita né dell'equipaggio né dell'accompagnatrice. Per due giorni restò nell'isola, mezzo morta di paura e di angoscia, incapace di prendere qualsiasi iniziativa; si nutriva a stento con alcune uova prese dai nidi di uccelli marini che dimoravano sulla costa. Il terzo giorno riapparvero finalmente bel tempo e sole. Il sereno le aveva immediatamente fatto sperare che i marinai della lancia, forse scampati al naufragio, avrebbero approfittato del mare calmo per ricercare assiduamente la barca piccola o gli eventuali superstiti a riva. In quella confortante aspettativa la naufraga – come cosa più urgente da fare – aveva pensato ad accendere un fuoco. E poiché sul trealberi aveva indossato la divisa di cadetto di marina e come tale portava sempre con sé un coltello, acciarino, esca, pietra focaia e simili, si trovò molto meno sprovveduta di quanto sarebbe stata senza quel ruolo che in realtà aveva assunto per un pizzico di spavalderia, ma che le era stato permesso dal padre. Aveva tenuto acceso il fuoco giorno e notte, in parte per economizzare la scarsa esca e per risparmiare acciarino e pietra focaia, in parte nella speranza di richiamare l'attenzione di eventuali bastimenti di passaggio. Per lungo tempo lo aveva alimentato con
ogni sorta di legname della corvetta naufragata e in seguito con erba secca e con alghe brune. La sfortunata ragazza non aveva avuto in sorte né una cassetta di marinaio né qualche attrezzo utile della corvetta ed era riuscita a malapena a strappare un paio di chiodi da alcune tavole. Le erano però venuti tra le mani un barilotto di birra e soprattutto un barile di carne. Ma con ricca e felice capacità inventiva aveva subito incominciato a confezionare, preparare e intraprendere tutto quello che le era stato possibile e che poteva servire al suo sostentamento, rendendole sopportabile la sua desolata dimora. Mai però la benedetta creatura aveva dubitato che Iddio l'avrebbe finalmente liberata da quella roccia solitaria. Tutti i Robinson dei libri – era stato questo curiosamente il suo principale conforto – sono sempre tornati a casa felicemente, e il buon Dio sa fare molto meglio di uno scrittore di romanzi. La signorina aveva trovato lavoro e distrazione nell'allevamento e addomesticamento di alcuni uccelli presi dal nido nei luoghi più accessibili dello scoglio fumante. Però qualche incidente le aveva sempre fatto perdere gli animali o questi le erano scappati via all'improvviso. Così era accaduto anche con l'albatro che Fritz aveva ferito e rilasciato libero con la sua risposta a quell'invito carico di conseguenze. — Chissà dove starà volando adesso — disse Jenny sorridendo. — Alla fine qualcuno l'avrà catturato di nuovo ed ora legge i due messaggi a cento miglia da qui. Come sarei stata felice se fosse tornato con la risposta! Ma in fondo ogni cosa si è svolta poi in modo meraviglioso! — Così dicendo tese la mano a Fritz, sorridendo felice, e abbracciò teneramente la mamma. — Ancora una volta ti do il benvenuto tra noi, mia cara figliola, — esclamai con voce seria e commossa. — Il buon Dio ha voluto il nostro bene e ci ha salvati uno per l'altro. Continuiamo a vivere con amore e fedeltà uno per l'altro. L'indomani la lancia fu ben equipaggiata e volgemmo la prua verso il Rifugio di Roccia. Jenny ardeva dalla curiosità di vedere la tanto decantata «casa nella roccia», «l'arioso profumato castello pensile» e le «ville di campagna» alla Chiusa, a Hohentwiel e a Waldegg. I giovanotti si
profondevano in racconti e promesse di tutto quello che avevano in animo di mostrare, organizzare, migliorare e perfino di offrire in omaggio alla signorina Jenny, solo che questa si fosse degnata di vedere e accettare. Già nel viaggio di ritorno, che procedeva nel modo più rapido e felice, i giovani non si saziavano mai di allusioni, vanterie, spiegazioni. Tra i fratelli sorse una gara quasi buffa, a chi poteva prima, nel modo più attraente e convincente, indicare e descrivere ogni nuovo oggetto. Entrammo nel mare aperto, scapolammo il Capo della Rupe Gotica e quello del Naso Camuso, e raggiungemmo nel primo pomeriggio Hohentwiel, dove decisi di pernottare a causa di svariate faccende. Fritz e Franz però dovettero proseguire col caiak per il Rifugio di Roccia e predisporvi ogni cosa per accoglierci. Mi fece piacere che Fritz – pur dichiarando sommessamente che avrebbe preferito rimanere – dimostrasse subito di essere un uomo, imbarcandosi sul suo caiak e lasciando l'incantevole Jenny, vicino alla quale di solito rimaneva tanto volentieri, da far credere che non potesse distaccarsene. Quando entrammo nella Baia della Salvezza udimmo tuonare i cannoni dell'Isola del Pescecane, in segno di festoso saluto; poi vedemmo i nostri bellicosi ragazzi saltare nel caiak e vogare con la rapidità di un lampo verso la riva, dove giunsero prima di noi. Là ci diedero il benvenuto in tono fra il grave e l'affettuoso e ci aiutarono a sbarcare. Quando anche ciò fu fatto, andammo pian piano verso la nostra bella abitazione fittamente incorniciata dai rampicanti. Jenny non finiva di meravigliarsi e rallegrarsi del pittoresco paesaggio e anche a noi il nostro amato cantuccio sembrò in un certo senso trasfigurato e come offertoci nuovamente in dono; e quando da ogni parte si fece sentire tra il fogliame un vivace cinguettio e un fruscio d'ali e le belle e rare creature alate del nostro allevamento si strinsero attorno a noi, miti e curiose al tempo stesso, allora davvero gli occhi della buona ragazza si bagnarono di lacrime. Si appoggiò affettuosamente al mio braccio esclamando: — Dio, com'è bello qui da voi! Nel portico arioso e ben ombreggiato davanti all'ingresso principale della casa vedemmo allora con lieta meraviglia una tavola
apparecchiata; con colorita bizzarria vi era riunito sopra tutto il vasellame che possedevamo, vecchio e nuovo, europeo e fatto in casa. Porcellane fabbricate al Rifugio di Roccia, stoviglie di bambù, vassoi di cocco, calici di uova di struzzo, si accompagnavano ai bicchieri, alle bottiglie e ai piatti del bastimento arenato e l'aspetto fantastico era accresciuto ancor di più da alcuni uccelli del nostro museo posati sulla tavola o sospesi nell'aria per mezzo di sottili cordicelle, che offrivano la gradevole illusione di una paradisiaca convivenza di tutte le creature. Infine, una grande placca di legno, rivestita di carta e inghirlandata di fiori variopinti, stava appesa al di sopra della festosa mensa e in grossi caratteri dipinti in rosso si poteva leggere: «Viva la signorina Jenny Montrose! Sia benedetto il suo arrivo nel romitaggio del Robinson svizzero!». Per altro i recipienti di ogni sorta non rappresentavano soltanto uno sfoggio inutile. Tutto quello che si era potuto scovare nella fretta era stato posto sulla tavola. Idromele, spumante delle Canarie e saporito latte invitavano a spegnere la sete. Frutti di ogni qualità offrivano un gradito rinfresco. I fichi, le arance dorate, gli aromatici ananas facevano capolino tra il fresco verde delle foglie; altra frutta era raccolta in piccole piramidi. Un piatto caldo di pesce e un magnifico arrosto, tenuto in caldo su un braciere, arricchivano il banchetto. Dissi sorridendo, rivolto a Fritz: — Un mago vi avrà assistito e ha certamente pronunciato per voi la formula magica: «Tavola mia imbandisciti!». Poiché egli si strofinava gli occhi con aria espressiva, capii che i due bravi giovanotti avevano lavorato di notte, rubando le ore al sonno per organizzare quel solenne ricevimento che ci sorprendeva tanto piacevolmente. Alla signorina Jenny toccò il posto d'onore, tra me e la mamma, alla tavola riccamente imbandita. Anche Ernst e Jack si sedettero con noi; Fritz e Franz invece non vollero rinunciare ad occuparsi del servizio con tutte le forme: correvano qua e là con i tovaglioli sul braccio come camerieri, trinciavano la carne, cambiavano i piatti e attendevano al proprio lavoro con una tale abilità che spesso dimenticavamo di mangiare e bere per starli a guardare, senza però trascurare di recitare la parte di distinti commensali avvezzi ad un
accurato servizio. Il pomeriggio fu una nuova festa sempre più varia e Jenny non riusciva quasi a prender fiato, perché a destra e a sinistra, davanti e dietro, si sentiva ripetere continuamente: — Oh, cara Jenny, venite qui! — Salite quassù! — Guardate questo! — Prima però guardate quest'altro! — o comunque risonassero gli inviti dei quattro giovanotti. Ci volle la spigliatezza della fanciulla per accontentare tutti e dare ogni volta convenientemente il desiderato segno di plauso, di interesse, di ammirazione. In casa e nella grotta, nel vestibolo e nel giardino, non rimase nemmeno un angolo che non fosse mostrato e contemplato, tranne la povera cucina che pure era il nucleo essenziale della prospera vita domestica. Ma infine la signorina Jenny si prese gioco di tutt'e quattro, corse accanto alla mamma e la pregò di condurla finalmente là dove era il suo abituale posto di lavoro. La mamma accolse la preghiera con molta soddisfazione e si diresse verso la cucina, lasciando in disparte, piuttosto confusi, i quattro servizievoli signorini, così che Jack, con le dita allargate sul naso fece marameo, si girò con un salto e corse via a cercarsi qualcosa da fare altrove. Il giorno seguente tutti ci svegliammo per tempo per organizzare una gita al Nido dei Falchi e mi sembrò opportuno andare tutti insieme per ispezionare a fondo la residenza da un pezzo abbandonata, e riattarla se ce ne fosse stato bisogno. In realtà essa ci apparve alquanto trascurata e passammo dei giorni piuttosto faticosi finché tutto fu più o meno rimesso in ordine. Mai però nel passato le più grosse difficoltà erano state affrontate con tanto zelo e allegria come ora che avevamo l'aiuto di Jenny e una sua chiara lieta risata bastava a sollevarci l'animo. I fratelli facevano a gara per riceverne le lodi. Ma avevamo appena concluso al Nido dei Falchi, che già Waldegg e Hohentwiel richiesero il nostro lavoro. Intanto i giorni passavano, Jenny era sempre al nostro fianco e ci eravamo tutti così abituati alla compagnia della cara ragazza che non sapevamo nemmeno immaginare come si potesse fare senza di lei. E quando finalmente arrivò la stagione delle piogge, quanto più bello fu per noi quel periodo di solito tanto grigio! Imparammo parecchie cose da Jenny, ma anche lei imparò molto da noi. Era poi buffo vedere come
i miei giovanotti si sforzavano di correggere il loro contegno goffo, spesso quasi rustico, per mostrare modi più gentili. Così il periodo delle piogge quell'anno passò molto più in fretta di prima e fummo quasi sorpresi dalla bella stagione. Ma non per questo provammo meno gioia al suo arrivo; sbucammo fuori all'aria aperta come colombi dalla colombaia, stirando e distendendo le membra, ammirando il luminoso cielo azzurro; ci sparpagliammo per il giardino, verso le piantagioni o verso la spiaggia, o dovunque ci attirasse il piacere di muoverci di nuovo liberamente e incominciammo a proporci ogni sorta di imprese per il prossimo periodo. Naturalmente a Fritz venne subito l'idea di andare in barca fino all'Isola del Pescecane per guardare dal nostro osservatorio se per caso il mare in tempesta della stagione invernale non avesse trasportato qualche oggetto meritevole della nostra attenzione. Jack lo accompagnò. Io ero affaccendato sulla spiaggia, e alzavo di tanto in tanto lo sguardo verso di loro, compiacendomi dell'agilità con cui si arrampicavano come scimmie sulla roccia per mezzo della scala di corda; avevamo stabilito che avrebbero sparato due colpi, come del resto solevamo fare ogni tanto per attrarre l'attenzione di eventuali bastimenti di passaggio o per indicare la rotta a quelli in pericolo. Sospesi il lavoro e, facendomi solecchio con la mano, guardai verso l'alto, ridendo fra me della fanciullesca soddisfazione con cui i figlioli si divertivano ogni volta a far sputare le loro bocche da fuoco. Dopo il secondo colpo essi rimasero ancora immobili. Le loro figure si stagliavano nitidamente nell'azzurro. Ad un tratto uno di loro — non potei distinguere chiaramente quale - fece un movimento impetuoso con le braccia, l'altro diede un balzo, poi ancora un balzo - doveva essere certamente Jack - poi si precipitarono l'uno nelle braccia dell'altro, si abbracciarono stretti e rimasero così per qualche minuto. «Chissà che avranno mai?» pensai. Intanto la scena muta si animava di nuovo. I due ragazzi corsero giù per il pendio, cacciarono con furia preoccupante la scala di corda dentro il caiak e filarono a terra, dritti verso di me. Frr… di volo furono sulla spiaggia. Fritz saltò fuori per primo; era sbiancato, nonostante lo sforzo del vogare.
— Che c'è? — chiesi sbalordito. — Babbo — disse con voce rauca, ansante, — non hai sentito niente? — Ma non hai proprio sentito niente? — gridò Jack; il suo viso era rigato di lacrime. — Che cosa dovevo sentire, oltre ai vostri spari? — Qualcuno ha risposto! Hanno sparato dal mare! — È assurdo! — esclamai, — non ho sentito nulla. Era certo l'eco dei vostri stessi colpi. — Ma babbo! Sapremo bene distinguere l'eco da uno sparo di risposta. Abbiamo sparato dall'osservatorio almeno altre cinquanta volte! La detonazione è giunta troppo tardi perché potesse essere l'eco, e poi, tre colpi su due, sarebbe certo molto strano! — Ma non avete visto nulla? Nessun bastimento? Nessuna barca? Nemmeno fumo? — Niente, proprio niente! Ma è proprio per questo! Pare che abbiano sparato ad ovest della baia. Ma il suono può ingannare. Babbo, che facciamo? In verità non sapevo che dire. La cosa mi sorprendeva ed emozionava molto più di quanto avessi mai pensato poiché — anche se con le mie segnalazioni avevo sempre mirato ad accertare una vicinanza umana — non mi ero mai soffermato a pensare chiaramente quale sarebbe stato il mio comportamento nel caso che qualcuno si fosse avvicinato davvero. Fui preso perciò da cento timori e mi persi in un mare di dubbi. Erano europei? O corsari malesi capitati nei dintorni? Erano poveri naufraghi sbattuti dalla burrasca o fortunati esploratori? Dovevamo mostrarci apertamente o rimanere in guardia e, non visti, spiare prudentemente prima di svelare la nostra presenza? Radunai la mia gente e tenni consiglio perché la faccenda mi pareva troppo seria perché potessi sbrigarla solo con Fritz e Jack, a insaputa degli altri. Nel frattempo giunse la notte; stabilimmo di rimandare all'indomani la decisione e ordinai ai tre figlioli più grandi di far la guardia, alternandosi con me di ora in ora nel loggiato davanti alla caverna, per ascoltare attentamente se nel silenzio della notte si potesse percepire di nuovo un segno di vicinanza umana. Ma la notte
non fu così silenziosa come ci eravamo aspettati; anzi vento e tempesta si levarono di nuovo, concludendo la stagione delle piogge, che credevamo già passata, con un finale così fragoroso che non potemmo udire null'altro che l'urlio del turbine, lo scroscio incessante della pioggia e lo spumeggiare dell'Oceano. Per due giorni e due notti di seguito quello strascico dell'inverno continuò a infuriare e nei pochi momenti di tregua eravamo così indaffarati a porre un riparo alla violenza del maltempo, che non pensavamo affatto ad ascoltare o spiare. Solo il terzo giorno, benché il mare fosse ancora grosso e le nubi continuassero a darsi la caccia nel cielo, si affacciò la possibilità di uscire in esplorazione e, come si può immaginare, non mancai di recarmi di persona nel nostro osservatorio. Presi con me Jack per compagno e portammo con noi una bandierina che, secondo gli accordi presi, doveva dare ai miei cari che rimanevano a casa un segno di buone nuove o di pericolo in vista. Se avessi sventolato tre volte la bandiera e l'avessi gettata subito dopo in mare, mia moglie, i figli e Jenny avrebbero dovuto ritirarsi in tutta fretta al Nido dei Falchi, portando là tutto il bestiame finché io non li avessi seguiti. Se invece avessi sventolato la bandiera solo due volte e l'avessi piazzata vicino alla guardiola, inalberando anche la bandiera dell'osservatorio, allora voleva dire che le apparenze erano favorevoli o almeno non decisive fino a nuovo avviso. Con terribile ansietà i miei cari seguivano e sorvegliavano i nostri movimenti; noi intanto approdammo col batticuore all'Isolotto del Pescecane, scalammo la roccia e sulla cima ci guardammo intorno con sguardi di lince, senza tuttavia scorgere nulla di nuovo. Decisi dunque di sparare tre colpi di cannone per sentire che cosa ne sarebbe seguito, perché in me sorgeva di nuovo il dubbio che i due giovanotti si fossero sbagliati o che avessero sentito soltanto qualche suono del tutto naturale, come il boato sotterraneo di un terremoto vicino. Caricai abbondantemente, Jack fece fuoco e lasciammo una pausa di due minuti tra un colpo e l'altro, in modo da avere giusto il tempo di ricaricare tra il secondo e il terzo sparo. Ora però tendemmo gli orecchi con grande attenzione e, … ecco! … un rombo cupo! Una volta! … pausa di un paio di minuti … due
volte! … tre volte! Sette colpi uno dopo l'altro si susseguirono distintamente! Esultai, Jack ballava come un ubriaco. Rapidamente rizzai la bandiera sulla grande asta e sventolai due volte la bandierina portata con noi. Ma come risvegliandomi da un delirio febbrile mi battei la fronte col pugno, esclamando: — Che pazzo sono stato! Innalzare così i segnali di gioia, senza sapere ancora se nelle vicinanze ci sono amici o nemici! Immediatamente caricammo di nuovo i cannoni, ordinai a Jack di tenersi pronto per un'oretta con la miccia accesa, di stare in guardia e sparare non appena avesse scorto un'imbarcazione straniera. Senza indugio mi recai poi dai miei verso il Rifugio di Roccia, per dare le opportune disposizioni. Trovai la mia gente in uno stato di straordinaria agitazione. Fritz fu d'un balzo accanto a me nel canotto, prima ancora che approdassi e tutti mi gridarono incontro confusamente a precipizio: — Dove sono? Dove sono? Che genere di bastimento è? Sono europei? Sono inglesi? Veramente i sette colpi di risposta erano stati sentiti estremamente lontani così come gli altri tre di qualche giorno prima e capimmo in tal modo che le rocce a sinistra della nostra abitazione probabilmente trattenevano il suono che veniva da quella parte, ma i miei segnali di gioia erano bastati a far perdere alla mia gente il dominio di sé, nell'impaziente attesa. Tuttavia dovetti pur dire la verità e lasciare insoddisfatto il pungente desiderio di saperne di più; tutti però furono d'accordo con me, quando annunziai che sarei partito in ricognizione e se possibile avrei cercato di scoprire, vogando con Fritz lungo la riva, dove avesse gettato le ancore il supposto bastimento, che forse era vicino a noi. Jenny, di solito tanto posata, pareva aver perduto addirittura la testa. Correva intorno affaccendata, canticchiava più di venti canzoni assieme e assicurava ad ogni momento che certamente era arrivato suo padre, per venirla a prendere. Sfruttai allora l'idea del travestimento attuata da Fritz l'anno precedente e mi feci portare ogni sorta di pelli, di penne e di tutto ciò che potesse servire alla mascherata. — Come selvaggi, si cureranno ben poco di noi — spiegai, — e
non verranno a cercarci nella nostra dimora. Ed anche il nostro spiare da lontano, la nostra scontrosità, e la nostra scomparsa — nel caso ci accorgessimo di non aver niente da guadagnare, cioè se i nuovi arrivati non ci ispireranno fiducia - desteranno molto meno impressione che se ci facessimo conoscere come europei. Intanto guadagneremo tempo per prendere nuove precauzioni e, benché speri il meglio, pure desidero che teniate tutto pronto per una ritirata al Nido dei Falchi, dove provvisoriamente Jack e Franz possono portare il bestiame domestico. Inoltre desidero che la mamma e Jenny si vestano da guardiamarina e che siate tutti armati. Da una qualsiasi posizione favorevole potremo ancora tener testa ai pirati, se non saranno molto numerosi. Era quasi mezzogiorno quando finalmente mi staccai da riva nel caiak assieme a Fritz. La mamma ci seguì con gli occhi pieni di lacrime. Jenny la tranquillizzava affettuosamente, ridendo dei «due selvaggi». Jack e Franz erano già partiti con il bestiame e con alcuni oggetti preziosi. Eravamo già d'accordo sulla parte da recitare. Se per caso ci avessero scoperto, chiamato o catturato, avremmo parlato il più stretto svizzero-tedesco, con la certezza che nessun navigante, di qualunque nazionalità fosse, sarebbe riuscito a comprenderci. Del resto eravamo armati, solo che tenevamo nascosti fucili, sciabole e pistole per il caso di un estremo pericolo, e portavamo le fiocine come lance. In silenzio, in una sorta di lieta trepidazione, uscimmo dalla Baia della Salvezza, dirigendoci a sinistra, lungo il promontorio di rocce che dalla Palude delle Anatre si allungava sul mare finendo in una punta piuttosto arrotondata. Vogammo felicemente per un'ora e un quarto; in linea retta avremmo impiegato per lo stesso percorso appena venticinque minuti, se non ci fossimo tenuti così vicini alla riva, a causa della fragilità della nostra imbarcazione. Ma a questo punto il contorno della costa impervia ci spinse di nuovo verso il mare aperto e fummo costretti a tentare la navigazione attorno al promontorio, poiché secondo ogni previsione il bastimento che cercavamo doveva trovarsi subito al di là di esso, altrimenti sarebbe stato molto difficile sentire i colpi di cannone. Prima però ci fermammo ancora un poco, esaminando il nostro
travestimento, prendemmo un cordiale, di cui sentivamo il bisogno e vogammo con nuova lena verso il Capo Roccioso, ai cui piedi per fortuna la risacca non era violenta, perché attorno ad esso numerosi scogli rompevano l'impeto delle onde. Arrivammo infine alla punta estrema; per combinazione là c'erano alcuni scogli, al riparo dei quali potevamo avanzare a poco per volta per osservare la situazione con sufficiente sicurezza. Ma quale fu la nostra emozione, come si dileguò ogni angoscia, quando nella piccola baia, davanti a una riva coperta di cespugli e non molto ripida, ma cinta da pareti rocciose come quella del Rifugio di Roccia, scorgemmo una nave europea! Sembrava in parte disattrezzata, ma all'albero di mezzana si poteva riconoscere la cara bandiera inglese e, come prova che la nave non era stata abbandonata, proprio in quel momento vedemmo staccarsi da essa una lancia che si dirigeva verso la riva. A malapena potei trattenere Fritz dal lanciarsi senza tanti complimenti in acqua per nuotare verso la nave. Ma tornai a riflettere giusto in tempo e frenai tanto lui che me stesso, osservando che fino a quel momento non ci eravamo assicurati d'altro che d'aver visto un bastimento europeo. Però era anche facile che corsari asiatici avessero abbordato e catturato l'imbarcazione e facessero sventolare la bandiera inglese come esca o per pura spavalderia. Era anche possibile che una ciurma inglese ammutinata avesse trucidato gli ufficiali – come accade non di rado – e ora si aggirasse a bella posta in quelle acque ignote, fuori delle abituali rotte navali. Ci fermammo dietro un grosso masso e riuscimmo ad arrampicarci tanto da poter osservare comodamente col cannocchiale l'oggetto della nostra ardente curiosità. Mi sembrò una nave da diporto attrezzata alla leggera, ma armata con otto o dieci cannoni di medio calibro. Vele e sartie erano ammainate e così pure le antenne. La nave era alla fonda e pareva che fosse in raddobbo. A terra si vedevano tre tende e un fumo invitante annunciava i preparativi di un pranzo. Secondo ogni apparenza però l'equipaggio non poteva dirsi numeroso e non teneva neppure un atteggiamento preoccupante; tuttavia a bordo ci sembrò di vedere due sentinelle; le cannoniere erano aperte e i cannoni ne sporgevano, pronti ad accogliere
eventuali ospiti. Alla fine ritenni che non fosse troppo rischioso farsi vedere, comunque ci proponemmo di non abbandonare in nessun caso il caiak e di non far capire per il momento che eravamo europei. La scena fu abbastanza buffa: sbucammo da dietro gli scogli, vogando pian piano verso la baia, fingendoci meravigliati ed esitanti; ora ci fermavamo, ora avanzavamo di nuovo con alcune pagaiate, gesticolando come marionette verso la nave. Il comandante e alcune persone che si vedevano attorno a lui ci osservarono con attenzione e con i fazzoletti ci fecero cenno di avvicinarci, alzando alternativamente le mani vuote, come per dimostrarci che erano disarmati. Fui particolarmente contento che la lancia avesse nel frattempo raggiunto la spiaggia e che il suo equipaggio non avesse affatto l'aria di venire verso di noi, perché avrei temuto molto un simile incontro. Perciò ci avvicinammo alla nave e notammo allora dall'altra parte, che riuscimmo a vedere girando attorno alla poppa, tutti i preparativi per un importante raddobbo, il che ci garantiva in ogni caso che non avevamo ragione di temere per l'immediato futuro una visita da parte della grande imbarcazione. Finalmente il comandante ci chiamò per mezzo del megafono e ci chiese chi eravamo, donde venivamo e come si chiamava quella costa, ma io risposi ripetutamente, più forte che potevo, con le tre parole: «Englishmen, good men!», senza impegnarmi in altri discorsi. Intanto ci accostavamo sempre di più alla nave per osservare bene tutto quanto. La gente attorno al comandante sembrava trattarlo con ogni riguardo e non c'era alcuna traccia di disordine, di ubriachezza o di ribellione che potesse far pensare ad una ciurma ammutinata. Ci mostrarono stoffa rossa, accette, chiodi e altri simili oggetti, preziosi nel baratto con i selvaggi, ma io mostrai le mie fiocine e feci segno che non potevo offrire proprio nulla in cambio, ma che non avevo affatto l'intenzione di abbandonare le armi. In ultimo gli ufficiali di bordo mi chiesero se avessi patate, noci di cocco, fichi e altra frutta, al che finalmente cacciai fuori con voce strangolata un «Sì, sì, molto, molto!» in inglese. Fritz riusciva a stento a soffocare le risa. — Presto, andiamo via ora — gli sussurrai. A questo punto
facemmo un'autentica pantomima con teneri gesti di commiato, gracchiando una volta dopo l'altra «Englishmen! Englishmen!» e vogammo a tutta velocità per uscire di nuovo dalla baia e tornare a casa. Ma. appena aggirato il grosso scoglio e fuori vista, ci gettammo a vicenda le braccia al collo, ridendo di gioia. — È proprio possibile! — gridai. — Uomini! Una nave! Europei, amici! La salvezza! La patria! — Babbo, ma tu piangi, — esclamò Fritz commosso. Anche lui però aveva gli occhi pieni di lacrime. — Andiamo a casa più presto che possiamo — gli dissi, dominandomi; — la mamma! Che ne dirà la mamma? Con tutte le nostre forze vogammo verso il Rifugio di Roccia. Appena la Baia della Salvezza fu in vista scaricammo le pistole, secondo quanto stabilito, come segno che tutto si era concluso felicemente. La risposta giunse immediata, nella stessa moneta, e giubilanti, eccitati, i miei cari si radunarono nel luogo dell'approdo, sventolando i fazzoletti. Veramente la signorina Jenny non fu particolarmente soddisfatta del mio racconto e, convinta che fosse arrivato proprio suo padre, ci rimproverava non poco di aver tirato in lungo la commedia fino al termine dell'incontro, osservando che bastava annunciare la sua presenza perché tutto andasse per il meglio. La mamma invece approvò la nostra prudenza, affermando che l'imponente corteo di tutti noi sarebbe stato accolto meglio di due tipi strani in un misero caiak, che si fossero presentati come naufraghi. Accolse con gioia anche la proposta di recarci fiduciosamente incontro ai nuovi arrivati con la nostra imbarcazione più grande per mostrarci nell'aspetto più decoroso possibile. La proposta trovò del resto il consenso generale e fu stabilito che per il momento non avremmo svelato la nostra posizione, finché io non avessi creduto opportuno farlo al momento giusto. Non saprò mai descrivere l'animazione di noi tutti, giovani e vecchi, al Rifugio di Roccia, via via che discutevamo il nuovo avvenimento sotto tutti i suoi aspetti e con tutte le possibili conseguenze. I progetti più stravaganti venivano architettati in un baleno e respinti con altrettanta rapidità. Si voleva questo, si sperava
quest'altro; si desiderava una cosa, se ne eseguiva un'altra e ognuno pareva presupporre che tutti, da un momento all'altro, armi e bagagli, uomini e donne, saremmo partiti a vele spiegate per l'Europa. Tuttavia di volta in volta, quando volavano in giro tali enfatiche previsioni, la mamma mi rivolgeva uno sguardo indagatore e pareva attendere da me uria conferma o una ricusa. La mia posizione di premuroso padre di famiglia e patriarca mi rendeva straordinariamente difficile ogni decisione. L'amore per la madrepatria ci chiamava con struggimento verso l'Europa, eppure forti legami ci incatenavano alla ridente nuova patria che nel corso di lunghi anni ci era diventata assai cara. E quanto cara fosse, lo sentivo per la prima volta con piena chiarezza ora, che il problema della separazione assumeva un aspetto vivo e palpitante. Sebbene desiderassi vedere i miei figli trasferiti nelle attività organizzate del vasto mondo, affinché imparassero a vivere assieme agli altri, pure mi coglieva una strana angoscia di doverli poi sapere esposti ad influssi che nella silenziosa solitudine del nostro amato e piacevole eremo non avrebbero mai avuto nessun potere su di loro. Tuttavia l'assurdità di quel pensiero mi era ben chiara. L'uomo è destinato a vivere fra i suoi simili. Come potrebbe mai una pietra perdere i suoi spigoli e le sue asprezze se prima non viene levigata? Per altro, con rapida decisione, mi liberavo da ogni tormentoso almanaccare, dicendo a me stesso che alla fine non sapevo affatto come si sarebbero svolti i nostri rapporti con gli stranieri e nemmeno se avremmo avuto voglia di partire assieme a loro, sempre nel caso – ancora da accertare – che avessero avuto l'intenzione di portarci via. Passammo tutto il giorno seguente ad allestire la lancia, a riordinare il vestiario e le armi e infine a imballare frutta fresca e legumi per poter soddisfare in ogni caso il pressante desiderio che il comandante della nave aveva manifestato ai «due selvaggi». Anzi, anche il giorno successivo a quello, il tempo volò tra vari preparativi e solo dopo il pasto del mezzogiorno salimmo nella nostra imbarcazione che, considerata la fretta con cui avevamo lavorato, era molto bene attrezzata. Fritz, come pilota, ci precedeva di nuovo nel suo caiak, stavolta però nell'uniforme di un ben equipaggiato ufficiale di marina.
Presi il mare con cinque persone a bordo, vestite da marinai e armate alla leggera, i pezzi d'artiglieria ben carichi e la stiva abbondantemente fornita in parte di fucili e in parte di generi di ristoro ed iniziammo di buon animo la traversata che con ogni probabilità avrebbe determinato per sempre ciò che il futuro ci riservava: la fortuna e i contatti col mondo, oppure la rovina e il rimpianto di una speranza nuovamente perduta. Attraversammo con cautela la baia dietro la Punta delle Anatre con le vele mezzo imbrogliate e aumentammo la velocità quando fummo nel mare più aperto, finché non arrivammo all'altezza del Capo Roccioso ed allora potemmo virare verso il luogo in cui stava ancorato il bastimento inglese. Fu un momento molto importante per me, quando la nave fu di nuovo in vista, Fritz salì a bordo con noi e la mia gente cominciò a fissare con toccante meraviglia quell'apparizione apportatrice di speranze e di timori insieme. Non lasciai però spazio a oziose meditazioni, ma diedi i comandi con voce stentorea; feci issare la bandiera inglese e governai il timone in modo da poterci tenere a sicura distanza dalla nave e potere, nello stesso tempo, comunicare comodamente con l'equipaggio. Indescrivibile fu lo sbalordimento degli uomini sul bastimento e a riva quando, pieni di fierezza, entrammo nella baia. Sono certo che se fossimo stati corsari travestiti, la nave, a un primo attacco di sorpresa, sarebbe stata facile preda, dato che questa volta era in disarmo ancora più della volta precedente. Segni di pace, interesse, gioia, succedettero presto all'inquieto stupore. Demmo fondo all'ancora alla distanza di circa due tiri di schioppo e salutammo con alte grida di urrà che ci vennero contraccambiate dal ponte della nave e, ancora più calorosamente, dalla riva vicina. Subito dopo presi posto con Fritz nel piccolo canotto che rimorchiavamo e vogammo inalberando una bandiera bianca verso il bastimento per rendere gli onori al comandante nella sua sede ufficiale. Egli si trovava a bordo; ci accolse con semplice, marinaresca schiettezza, ci invitò nella sua cabina e fece portare del vecchio vino del Capo. Poi ci chiese cortesemente a che cosa dovesse la fortuna di poter salutare la bandiera inglese su una riva deserta, del tutto
sconosciuta, dove avrebbe a malapena supposto di trovare qualche sprovveduto indigeno. Raccontai quel tanto che per il momento mi sembrò opportuno e diedi rilievo soprattutto alla presenza della signorina Jenny, perché pensavo che il nome di suo padre, il colonnello Montrose, avrebbe potuto destare in un comandante inglese molto più interesse che una famiglia svizzera priva di importanza e pressoché sconosciuta. Ed infatti non mi ero sbagliato; il comandante mi chiese insistentemente della giovane e mi assicurò di aver parlato nella sua ultima visita in Inghilterra con il comandante della nave sulla quale il colonnello Montrose, partendo dalle Indie Orientali, era arrivato felicemente a Portsmouth. Egli stesso si chiamava Littlestone, era tenente della Marina inglese, comandante della nave Unicom, diretta verso il Capo di Buona Speranza, dove doveva consegnare dispacci provenienti da Sidney-Cove, in Australia. Infine venimmo a sapere che gli era stato dato l'incarico di mantenere, durante il viaggio verso il Capo, la rotta in direzione est, per esplorare le coste dove circa tre anni prima era colata a picco la corvetta Dorcas. Infatti, dopo singolari vicende e indicibili sofferenze, tre marinai e un nostromo dell'equipaggio della corvetta erano riusciti a spingersi fino a Sidney-Cove e le loro dichiarazioni avevano fatto sorgere una certa speranza che qualche altro superstite dell'equipaggio potesse essere ancora rintracciato nella zona del naufragio. Il comandante Littlestone si stimava felice di aver raggiunto, incontrando la signorina Jenny, uno degli scopi della sua missione e raccontava come fosse mancato poco che egli lasciasse per sempre quella riva squallida e scogliosa. Per quattro giorni la tempesta lo aveva tenuto come incatenato a quella costa, fra gravi pericoli ed egli non aveva trovato nessun posto favorevole che gli garantisse un sicuro rifugio, finché aveva scoperto la baia, in cui la nave stava ancora alla fonda. Si era rifornito di acqua e di un po' di legna, quando del tutto inaspettati si erano uditi due colpi di cannone a cui egli aveva replicato con gioia con altri tre colpi, credendo di poterne dedurre che buona parte dell'equipaggio della Dorcas scampato al naufragio dimorasse ancora su quella riva. Immediatamente tutto era stato predisposto per cercare i
naufraghi. L'Unicorn era uscita dalla baia, ma l'improvviso scatenarsi di una nuova burrasca l'aveva colta di sorpresa così vicino alla costa che una murata aveva sbattuto contro uno scoglio aguzzo e sporgente e solo con terribili sforzi l'equipaggio era riuscito a riportare la nave nella baia dove la vedevamo ancorata per il raddobbo. Anche i successivi colpi di cannone erano stati uditi e ricambiati con lieto interesse. Il comandante Littlestone si era proposto di esplorare in seguito la costa in cerca dei probabili superstiti del trealberi Dorcas, ma il duro lavoro era stato così spossante per i suoi uomini che alcuni di essi si erano gravemente ammalati e perciò erano stati trasportati a terra sotto le tende. Tra essi si trovava il signor Wolston, un ingegnere meccanico molto abile, che con la moglie e le figlie viaggiava come passeggero a bordo dell'Unicorn e in quel momento stava tanto male che per altri otto giorni almeno non sarebbe stato possibile fargli riprendere il viaggio. Succintamente avevo appreso i punti più essenziali di queste vicende; invitai allora con i dovuti riguardi il comandante a venire a bordo della lancia per conoscere i miei; subito mi assicurò gentilmente che sarebbe venuto e nello stesso tempo mi pregò con molta cortesia di annunciare io stesso la sua visita alle signore che si trovavano a bordo della mia imbarcazione. Naturalmente ciò fu fatto con lieta prontezza. Con Fritz tornai indietro a forza di remi. I miei cari erano stati piuttosto inquieti e trepidanti, ma subito si rianimarono e si prepararono a ricevere decorosamente il comandante. Immediatamente fu cambiata la carica dei nostri pezzi di artiglieria, per poter sparare la doverosa salva dì benvenuto, non appena il comandante fosse apparso. Tuttavia questo avvenne soltanto mezz'ora dopo, perché la barca di bordo assieme a qualcuno dell'equipaggio della nave dovette essere prima richiamata da riva, mediante segnalazioni; ma infine il comandante in compagnia del pilota signor Willis e del guardiamarina Dunsley, salì a bordo della nostra imbarcazione, addobbata come meglio si poteva, dove mia moglie e la signorina Jenny offrirono premurosamente agli ospiti i più prelibati rinfreschi delle nostre provviste. Insomma, presto si strinse un legame di reciproca cordialità e fiducia da cui non potevo aspettarmi niente altro che vantaggi. Fu
stabilito che avremmo passato la serata nella baia e che saremmo scesi a terra per visitare i malati nelle loro tende; decidemmo anzi di pernottare sulla riva, dove il comandante Littlestone ordinò subito di rizzare tre nuove tende, che fece poi fornire di amache. La conoscenza del povero Wolston e della sua amabile famiglia fu particolarmente interessante. Una madre dolce e comprensiva e due attraenti figliole, una di quattordici e l'altra di dodici anni, erano del resto fatte proprio per suscitare al massimo grado la simpatia di noi tutti. In particolare, tra Jenny e le due graziose ragazze nacque nel più breve tempo una tenera amicizia. Tutt'e tre gareggiavano nella preparazione di una raffinata e squisita cenetta alla cui buona riuscita contribuirono soprattutto la frutta e le altre buone cose portate da noi. Quella serata trascorsa in compagnia fu oltremodo benefica per tutti, temperando negli uni l'ebbrezza della gioia e cancellando negli altri ogni apprensione. In tutti si rischiarò la prospettiva del futuro e la reciproca fiducia che lega gli animi nobili nacque spontaneamente e con rara intensità, considerata la brevità del tempo. Era tardi quando andammo a riposare. Ma ancora più tardi, fino a notte inoltrata io e mia moglie continuammo a lungo a consultarci a vicenda, a bassa voce. Il comandante Littlestone, da uomo accorto, pareva voler attendere in silenzio le nostre proposte o preghiere. D'altra parte noi non volevamo imporgli subito in modo indiscreto la nostra compagnia. Ma quanto più a lungo discutevamo, tanto più chiaro era che entrambi non avevamo ormai nessun altro desiderio se non quello di rimanere nella nostra nuova patria, nella dolce e serena solitudine, e che in realtà non sentivamo la minima nostalgia per la vita movimentata del mondo europeo. Che cosa dovevamo cercare ancora, alla nostra età? Qui, nei lunghi anni della nostra felice vita solitaria, ogni pietra aveva preso il suo volto, ogni albero il suo linguaggio. Mia moglie soprattutto si dichiarò fermamente decisa a chiudere in pace i suoi giorni su questa costa; solo avrebbe desiderato che vicino a lei rimanessero almeno due dei figli e, com'è naturale, anch'io. Invece avrebbe voluto, per così dire, restituire gli altri due al continente natio, purché essi si fossero impegnati a mandarci per nave delle brave persone disposte ad unirsi a noi per fondare una prospera colonia che, secondo il suo desiderio, doveva chiamarsi
Nuova Svizzera. Approvai la sua idea con tutto il cuore e decidemmo di parlarne col comandante Littlestone e nello stesso tempo di consegnargli da quel momento in poi il paese, come spontanea rimessione all'Inghilterra che ne assumesse il possesso come potenza protettrice. Grave imbarazzo e preoccupazione però ci dava il pensiero della scelta tra i nostri figli. Chi dovevamo lasciare andare? E chi tenere con noi? Cuore e cervello ci dolevano a furia di considerare la questione. In realtà non potevamo fare a meno di nessuno dei nostri cari, grandi, grossi e selvatici birbanti! Eppure bisognava decidere! Poiché, anche solo considerando la situazione di Jenny, che ne sarebbe stato? Come sarebbe stato difficile per lei staccarsi da Fritz! E lui stesso? L'avrebbe lasciata partire da sola? Alla fine ci proponemmo di pazientare ancora due o tre giorni e poi, se possibile, di sistemare le cose in modo che due dei figli rimanessero con noi spontaneamente, e che gli altri due partissero definitivamente per l'Europa, sempre che il capitano Littlestone volesse accoglierli a bordo della sua nave. E, guarda un po', il giorno seguente portò con sé la decisione. Fu infatti stabilito durante la colazione che il comandante, assieme al pilota e al guardiamarina, sarebbe venuto a farci una visita al Rifugio di Roccia; nello stesso tempo anche l'ingegnere ammalato sarebbe stato trasportato a casa nostra, accompagnato dalla famiglia, per poter godere di tutti gli agi di una scrupolosa assistenza, e soprattutto dell'aria balsamica che potevano a buon diritto promettergli i dintorni del Rifugio di Roccia, tanto simili a giardini. La traversata fu una vera gita di piacere, perché in consolante pienezza ci accompagnavano le speranze e le liete aspettative che noi tutti, ciascuno a suo modo, portavamo nel cuore. Fritz e Jack ottennero il permesso di precederci e partirono esultanti nel veloce caiak. E quale stupore si impadronì dei nostri ospiti quando, scapolata la Punta delle Anatre, apparve fra poderose rocce la nostra baia, il nostro Rifugio di Roccia, illuminato dal chiaro splendore mattutino, in tutto il suo leggiadro incanto! La meraviglia arrivò al massimo grado quando dall'Isolotto del Pescecane rimbombarono uno dopo
l'altro undici colpi di cannone e la grande bandiera inglese sventolò maestosa nella brezza mattutina. — Qui è bello vivere; fateci costruire delle capanne! — gridò Wolston, il malato, e sembrò rivivere nel presentimento di una pronta guarigione. — Gente felice, felice! — continuava ad esclamare la signora. — Mamma, era qui il paradiso? — chiese raggiante la figliola più piccola. — No, non era, è, è! — rispose sua madre estasiata. Insomma, sorpresa e gioia, commozione e beatitudine regnavano in tutti i cuori e splendevano su ogni viso. L'approdo rinnovò l'entusiasmo. Ogni luogo brulicava confusamente di uomini e di animali. Si discorreva ininterrottamente di mille cose che venivano mostrate, afferrate, esaminate, riposte. Tuttavia io e il flemmatico pilota provvedemmo a trasportare il povero Wolston nella mia camera, dove senza perder tempo mia moglie gli procurò ogni comodità, preparando anche un letto da campo per la buona signora Wolston affinché potesse dedicarsi incessantemente all'assistenza del marito. Il pranzo fu di breve durata perché gli ospiti dovevano ancora visitare il Nido dei Falchi e soprattutto perché nessuno aveva la necessaria serenità d'animo richiesta da ogni buongustaio per un lauto pasto. Pareva di stare in una fiera di paese e tutta la gioventù girellava qua e là in modo così irrequieto che talvolta ci sembrava che le persone presenti fossero in numero triplo di quello che erano in realtà. Anche se la lingua e la comprensibilità dei discorsi parecchie volte incespicavano, parlavano in loro vece i gesti, gli sguardi, gli oggetti stessi che venivano mostrati un po' ridendo, un po' con seria importanza. Solo verso sera si ristabilì un po' di calma nella piccola rumorosa società e allora il buon Wolston mi pregò a nome suo e della moglie di lasciarlo rimanere con noi fino alla completa guarigione e di permettergli di tener presso di sé anche la figlia maggiore, piuttosto gracilina. La più piccola invece doveva andare dal fratello, residente a Città del Capo, col quale, a suo tempo, sarebbe tornata a riprendere il padre. Mi disse anche che si trovava molto bene da noi e che
sperava, quando si fosse ristabilito, di poter ricambiare la mia ospitalità con qualche buon consiglio. — È davvero una fortuna — aggiunse sorridendo, — che io sia un esperto di meccanica e non un pianista, così qui potrete servirvi di me magnificamente. Acconsentii di tutto cuore e dopo di ciò cominciai a parlare del nostro vivo desiderio, mio e di mia moglie, di non lasciare mai più la Nuova Svizzera. — Nuova Svizzera! Nuova Svizzera! — gridò a un tratto festosamente tutta la compagnia e i calici tintinnarono in ripetuti brindisi. — Che la Nuova Svizzera fiorisca e prosperi per sempre, sempre, sempre! — E prosperi felicemente anche chi vuol restare, vivere e morire qui! — aggiunse con mia sorpresa Ernst e tese il suo bicchiere prima a me, poi a sua madre, poi all'onesto Wolston, che comodamente sdraiato non si era privato della piccola festa; infine, in un improvviso irresistibile impulso, lo alzò anche verso la giovane Betty Wolston che si rifugiò dietro la madre arrossendo lievemente, ma volgendo uno sguardo niente affatto ostile verso l'impertinente giovanotto. — E come fioriranno e prospereranno allora quelli che vogliono partire dalla Nuova Svizzera? — chiese a questo punto la signorina Jenny con aria birichina. — A noi ragazze piace moltissimo fiorire — continuò, — e poiché mi attrae rimanere qui e mi attrae anche partire, dovrò abbracciare il partito più fiorente. Pronto Fritz prese la parola: — Prosperità anche a chi va via da qui! Felice ed immutabile prosperità! — Gliene venne in cambio uno sguardo di Jenny che mi svelò come la cara ragazza fosse stata compresa da Fritz e come, nonostante ogni suo attaccamento alla mia casa, a poco a poco avesse sentito la nostalgia della patria e del padre. — Dunque — intervenni allora, — qualcosa attrae Fritz lontano da qui. Veramente è anche doveroso che egli riconduca a nome mio al padre la figlia ritrovata e che durante il viaggio la protegga con cavalleresco senso del dovere da ogni possibile pericolo, che del resto egli è ben in grado di affrontare. Ernst invece rimarrà con noi e
assumerà la carica di primo professore di Storia Naturale della Nuova Svizzera. Che cosa deciderà ora Jack, dato che in Europa c'è pure la commedia, così adeguata alle sue doti? — Jack rimane qui — fu l'arguta risposta. — Qui egli sarà il migliore cavaliere, il migliore scalatore, il migliore tiratore, una volta che Fritz sarà andato via. Ho anch'io le mie ambizioni, perbacco! E qui si sta allegri. Non voglio più sentir parlare dell'Europa. Se mi provassi ad andarci, quelli sarebbero capaci di cacciarmi ancora dentro una scuola. Brr! — Ma giusto in una buona scuola vorrei andare io! — osservò a questo punto Franz. — In una società più vasta si può certo diventare qualcosa di più che fra una mezza dozzina di Robinson. Nella vecchia Svizzera spero di fare un giorno onore alla scuola di addestramento della Nuova Svizzera. Forse sarà bene che un membro della nostra famiglia si stabilisca in patria. Io sono il più giovane e mi abituerei più facilmente. Però desidero seguire in tutto il consiglio del babbo. — Desiderio giudizioso e legittimo! — approvai. — Puoi partire, figlio mio! Che Iddio benedica le decisioni e i proponimenti di noi tutti! Dove sarete buoni e utili, là sarà la vostra patria. Ed ora, parlando seriamente, miei cari ragazzi, confermo queste prime spontanee attestazioni dei vostri desideri e dei vostri pareri. Rimane però una grande essenziale questione, se cioè il capitano Littlestone può generosamente conciliare i suoi doveri e le sue determinazioni con i desideri di alcuni giovani stranieri. Tutti tacquero; sul volto di qualcuno si leggeva un grande imbarazzo, su tutti gli altri ansiosa attesa. A questo punto il comandante prese la parola con molto garbo. — A me pare un cenno del Cielo — disse, — che tutto ciò che accade o viene progettato qui coincida poi in modo tanto portentoso. Avevo ricevuto l'ordine di cercare dei naufraghi e ho trovato dei naufraghi, anche se diversi da quelli che mi aspettavo. Devo lasciare qua tre passeggeri che vogliono rimanere e son liberi di farlo, ed ecco che se ne presentano altri tre che desiderano venire con noi e che sono altrettanto liberi. La mia nave non potrebbe accogliere molte persone, non è nemmeno abbastanza provvista di viveri e, guarda un po', quattro persone che
pure potrebbero farlo, non mi chiedono di essere prese a bordo. Tutto si dispone in modo così meraviglioso da sembrare quasi incredibile. In breve, sono disposto a portare con me quelli che il bravo predicatore svizzero mi raccomanderà e mi rallegro con tutto il cuore di diventare così lo strumento della divina Provvidenza, di poter riportare in seno alla società i membri di una cara famiglia e perfino di aver forse guadagnato all'Inghilterra le basi per una prospera colonia. Ancora una volta, viva la Nuova Svizzera! Evviva i Nuovi Svizzeri! Con la più profonda commozione ci alzammo dai nostri posti. La mamma abbracciò con affettuosa tenerezza i figli, particolarmente i due che cominciavano a muovere le ali per spiccare il volo verso il mondo lontano. A me si era tolta una montagna dal cuore e ringraziavo il Cielo per la facilità con cui si era sciolto un viluppo, che con tanta apprensione avevo visto intricarsi. Che si può dire ancora? Chi non immagina come trascorsero i giorni nei preparativi per la prossima e lunga separazione? Il bravo comandante ci raccomandava la fretta, perché il raddobbo del suo bastimento gli aveva fatto perdere già parecchi giorni. Inoltre temeva che nuove burrasche potessero trattenerlo ancora e non voleva assolutamente mancare al termine fissato per la consegna dei suoi dispacci. Tuttavia ci lasciò tutto il tempo di cui poteva in qualche modo disporre e portò perfino la sua nave già riparata nella Baia della Salvezza perché potessimo imbarcare comodamente ogni cosa. Nello stesso tempo ebbe per noi il provvidenziale riguardo di proibire all'equipaggio ogni sosta a terra affinché non fossimo disturbati da gente oziosa o curiosa. Ci diede soltanto, qualora lo richiedessimo, l'aiuto del pilota, del carpentiere e del guardiamarina. Ma avevamo poco bisogno di loro perché lo spirito dell'operosità si era impadronito dei miei cari e ognuno si sforzava coscienziosamente di assicurarsi l'affettuoso ricordo dei partenti; sorse anzi una gara di generosità fra noi per tutte le cose offerte da quelli che rimanevano e rifiutate da quelli che partivano. Eppure tanto gli uni che gli altri potevano certo averne un gran bisogno. Alla fine anche in quel caso fui io a decidere. Si capisce che alla nostra cara Jenny fu ridato tutto quello che aveva portato con sé dallo
scoglio fumante. Non senza lacrime di commozione la ragazza guardava ora quei muti testimoni del suo lungo e triste isolamento. A Fritz e Franz provvidi con tutta la ponderazione possibile; lasciai però che al vestiario e agli oggetti personali pensasse l'affettuosa madre, che con orgoglio preparava i suoi figli al viaggio in Europa. Consegnai invece ad entrambi la loro parte, giustamente proporzionata, di tutto ciò che di meglio possedevamo per il commercio internazionale: perle, coralli, noce moscata, vaniglia, rarità naturali e quanto mi sembrava di maggior valore pecuniario. Una parte di simili merci e di oggetti preziosi fu loro consegnata anche in conto dei prodotti europei che, a suo tempo, ci avrebbero portato e spedito in cambio. Per il momento barattai col comandante alcuni fucili quasi nuovi e tutta la polvere di cui poteva privarsi. Naturalmente in compenso gli donai, di tutta la roba trovata nel relitto, quello che poteva servire ad un uomo di mare. Gli consegnai anche alcune carte e una cassa con denaro contante e preziosi, destinati agli eventuali eredi dello scomparso capitano della nave naufragata; lo pregai anche di informarsi se fosse ancora in vita qualche parente prossimo dei nostri vecchi compagni di viaggio. Un breve resoconto del sinistro e una lista dell'equipaggio trovata nella cabina del capitano furono pure consegnati all'onesto Littlestone. Per altro fornimmo l'Unicorn di tutto quello di cui potevamo disporre: qualche capo di bestiame, carne salata, pesce, legumi, cereali, frutta; insomma trasportammo sul bastimento quanto credevamo utile o gradito all'equipaggio. La gioia è sempre generosa. Più di ogni altra cosa mi stava a cuore congedare i miei figli con tutto l'amore e la dignità che ero in grado di esprimere. Tra l'altro raccomandai a Fritz di presentarsi senza perder tempo al colonnello Montrose e di aspettare solo il suo paterno consenso il compimento della sua felicità: prendere Jenny in moglie. Ogni ora, ogni momento portavano con sé un nuovo pensiero, un consiglio, un'occasione per una parola d'amore e d'intima comunicazione che dedicavamo ai nostri cari pronti alla partenza. Tutti eravamo malinconici per l'imminente distacco e tuttavia pieni di fiducia in un fausto avvenire che già cominciava a rivelarsi così bello.
Oh, se gli uomini si lasciassero sempre con tali considerazioni e si rivedessero sempre dopo aver sentito veramente la mancanza dei propri cari! La parte migliore del nostro animo si estrinseca in quei momenti, recando gioia e commozione. Ma perché siamo così riservati quando viviamo tranquillamente insieme? Forse che il nostro cuore potrebbe esaurirsi se fossimo più generosi nel manifestare il nostro amore? No, di certo! L'amore autentico, fedele, è sconfinato, inesauribile. La sua fonte non si dissecca; quanto più amore ne sgorga, tanto più fresca e ricca essa continua a scaturire. Possiamo forse sapere se il sole continuerà a splendere domani per colui che stasera abbiamo baciato? Di fronte al grave distacco dai miei cari figli, io dico a voi tutti: amatevi ogni giorno come se fosse l'ultimo. Nell'ultima sera piena di gioia e di dolore che passavamo ancora insieme, nessuno volle cedere a debolezze e perciò invitammo il comandante e tutti gli ufficiali di bordo ad una confidenziale cena d'addio. In quell'occasione consegnai solennemente a Fritz il diario delle nostre vicende sulle coste della Nuova Svizzera, perché lo desse alle stampe in Europa. — Spero che la mia vita e quella dei miei cari su queste coste remote non siano perdute per il mondo — dissi, — se nella mia cara patria questa semplice narrazione cadrà almeno sotto gli occhi dei giovani. Ciò che ho annotato, soprattutto per istruire e migliorare i miei figli, potrebbe essere utile anche ad altri, specie ai ragazzi, poiché i giovani generalmente si somigliano tutti e i miei quattro giovanotti sono forse l'immagine di innumerevoli altri che vivono e crescono dappertutto. Mi stimerò fortunato se il mio racconto richiamerà l'attenzione di qualcuno sulle felici conseguenze di ogni cosa giusta e buona, sui benefici frutti della riflessione, delle cognizioni acquisite, della perseverante diligenza e della pacifica collaborazione nell'armonia familiare, nell'ubbidienza dei figli e nel vicendevole amore e soccorso dei fratelli. «Sarei felice se lontano da noi, specialmente nella mia cara madrepatria, di quando in quando un cuore paterno o materno si compenetrasse nella situazione mia e di mia moglie e potesse trovare nella mia modesta narrazione una qualunque parola di conforto. Non
ho scritto con la presunzione di un dotto educatore; ho detto schiettamente proprio quello che accadeva a noi e di noi: il mio libro non avrà niente a che vedere con un libro di testo. Eravamo in una condizione alla quale nessuna scuola può preparare. Mi pare tuttavia che tre cose ci hanno soprattutto aiutato, tre cose che si adattano in effetti ad ogni condizione di vita: in primo luogo la fiducia devota nel Padre di ogni bene, in secondo luogo la pronta operosità, in terzo luogo le molteplici cognizioni, anche se talvolta racimolate per caso, che tuttavia non sono mai state apprese con lo sfiduciato piagnucolio: "A che cosa potrà mai servirmi?". «A voi ragazzi che leggete il mio libro vorrei dire ancora un paio di parole che vengono dal cuore: «"Imparate! Imparate, figlioli! Sapere è potenza, sapere è libertà, sapere è fortuna. Aprite gli occhi e guardatevi intorno nel bel creato. Non immaginate nemmeno che cosa può entrare in una giovane testa attraverso un paio di occhi puri e aperti. Ma dovete spalancarli, non socchiuderli soltanto. E conosco anche un collirio col quale di buon mattino potete scacciare dagli occhi il vecchio pigro sonno: è la gioia di vivere, la buona fresca volontà con cui direte 'Oggi voglio essere un tipo in gamba!'. E così ogni giorno, così ogni santa mattina. E vorrei poi sapere se ciò non formerà dei giovani che saranno la fortuna e l'orgoglio dei genitori e la benedizione di tutti quelli a cui la vita li avvincerà in futuro, sia nella gioia sia nel dolore"». È già notte alta. Domattina anche questo capitolo sarà consegnato al mio primogenito. Con lui e con tutti sia Dio, senza il quale noi siamo niente. Salve, Europa! Salve vecchia Svizzera! Possa la Nuova Svizzera prosperare un giorno forte e felice come tu fiorivi nel tempo della mia giovinezza: pia, lieta, libera!
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